Ivan Illich, Lavoro-Ombra

May 8, 2017 | Author: Simone Ticciati | Category: N/A
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Ivan Illich

LAVORO-OMBRA

Introduzione Sono qui raccolte nove conferenze da me tenute, tra il 1974 e il 1981, davanti a un pubblico ogni volta diverso. Vorrei considerare questo volume un contributo a quella serie di libri dedicati alla pace, che sono stati pubblicati nella collana di attualità della Rowohlt Verlag a cura di Ingke Brodersen. Il tema dei presenti saggi è "Il diritto alla comunanza". Come altri parlano di "Minnie" (1) per designare qualcosa per cui non esiste più un termine appropriato, io qui mi servo della parola "Gemeinheit", sostantivazione dell'aggettivo "gemein" corrispondente al latino "comunis" che deriva dalla radice indoeuropea "mei", "scambiare, barattare". In origine, "mei" significava "ciò che è di scambievole spettanza di parecchi", senso che oggi ancora si ritrova in "Alm", pascolo, e in "All-me(i)nde", pascolo comunale, beni comuni, (2) che esprime il diritto di una comunità o collettività a una propria forma di fruizione dell'ambiente circostante. Ne è derivata l'accezione ""gemeinsam" (comune), "gemeinschaftlich" (comunitario, solidale), "allgemein" (generale)". Fino agli inizi del Diciassettesimo secolo, il vocabolo "Gemeinheit" (oggi, trivialità, volgarità) indicava esclusivamente questi diritti alla fruizione e i loro soggetti; (3) solo alla fine del secolo esso ha acquisito un secondo significato derogatorio, quello appunto che s'è detto, nonché profano, empio, banale, rozzo, basso, vile, eccetera. Il significato iniziale è andato smarrito, e la parola è sopravvissuta a tutt'oggi solo nel suo secondo significato. Nel mutamento di accezione che "Gemeinheit" ha subito nel periodo in questione, si riflette la trasformazione della condizione esistenziale. Non saprei trovare un'altra parola tedesca corrente, con la quale denotare la base ambientale dell'economia di sussistenza in modo da render chiaro, per contrasto, lo sfruttamento a fini produttivi. Non trovo nessun termine che mi permetta di contrapporre la strada che tu e io percorriamo all'autostrada sulla quale viaggiamo o siamo trasportati. In inglese, posso in questo caso contrapporre "the commons" alle "public Utilities", e in italiano, ancora più esattamente, parlare di "usi civici", grosso modo equivalente dell'inglese "commons". Preferisco non forzare allo scopo il tedesco "Allmende" che designa, è vero, una sorta di comunanza, ma con riferimento specifico a una forma agricola di fruizione, boschiva e

campestre. Parlare di diritto alle "comunalia", quando si tratti di recuperare null'altro che i diritti d'uso di relitti contaminati, stravolti, sfruttati di comunità, sarebbe troppo limitante: inevitabilmente richiamerei, se lo facessi, associazioni di tono romantico. I vari termini tecnici designanti la "proprietà socializzata" e simili, tratti dal vocabolario sociologico e di economia politica, sono del pari inutilizzabili dal momento che obnubilano tutti quanti la differenza tra la "nostra via" e "l'autostrada", tra il nostro sentiero e la pista aeroportuale, vale a dire tra "commons" e "public Utilities". Resto pertanto fedele a "Gemeinheit". Il riconoscimento di questa contrapposizione sta oggi a fondamento della pace. I primi due saggi del presente volume sono conferenze da me tenute alla Columbia University davanti a insegnanti di bambini portoricani. In essi contrappongo alla lingua comune ("gemerne Sprache") la lingua effettiva, vale a dire l'idioma che oggi viene definito lingua materna. Nel testo inglese del saggio, "gemein" è tradotto con "vernacular", derivante da "vernaculum", bella parola latina che in senso giuridico indica la comunità locale e che, tramite la grammatica, è passata in retaggio a tutte le lingue europee, comprese quelle di ambito germanico. In tedesco, il termine "gemein" ha maggior vigore dell'inglese "common" ed è più diffuso di quanto non sia "vernacular" in inglese. Le due successive conferenze, tenute originariamente in tedesco, trattano della soppressione di una "comune immagine del mondo", e sono state lette a un pubblico di pedagoghi: la prima, da me scritta con la collaborazione di Angelika Groeneveldt, per l'inaugurazione dell'assemblea della Deutsche Gesellschaft für Erziehungswissenschaften (Società Tedesca di Scienze Pedagogiche) a Gottinga (1980); la seconda, alla quale ha collaborato Franka Rasmussené per un congresso di insegnanti d'arte a Rotterdam nel 1981. Se la distruzione della comunità rende indispensabile la produzione di generi alimentari, impone d'altra parte la necessità dell'istruzione. In entrambi i saggi indico nell'istruzione il sostituto di una crescita significativa, la conseguenza della perdita di comunanza semantica frutto dello sviluppo economico. Lo scambio e la produzione di merci distruggono, non soltanto vie percorribili che esse interrompono con strade sopra le quali non passano ponti, ma alterano, restringono, devastano e fanno a pezzi anche vitali ambiti espressivi. Il posto della crescita e accoglimento in un mondo ricco di significati, è inevitabilmente preso dall'iniziazione alla valenza, semanticamente ed esteticamente opaca, di

prodotti industriali e meccanismi amministrativi. I due saggi successivi trattano di lavoro, occupandosi entrambi delle trasformazioni conseguenti alla soppressione e distruzione della comunità, per cui il "lavoro" diviene alcunché di storicamente inedito. Sia il moderno lavoro salariato, sia l'altrettanto moderno "lavoro-ombra" non retribuito possono venire in essere soltanto allorché gli specifici ambiti sessuali di cui consiste ogni comunità, scompaiono in una con la comunità stessa. Né l'assorbimento di forme di attività determinate dalla cultura nella forza lavoro sessualmente neutra, né la loro espropriazione e trasformazione in lavoro salariato, sono qui oggetto del mio interesse diretto, che va piuttosto all'odierno lavoro non remunerato e alla differenza tra esso e attività inerenti all'economia di sussistenza e mantenimento. Distinguo pertanto tra assegnazione di compiti utili alla comunità, in essa inseriti e sempre sessualmente specifici, e il loro contrario, il lavoro salariato da una parte, e dall'altra le prestazioni produttive non retribuite nel sistema industriale, imposte in misura maggiore e più sgradevole alle donne rispetto agli uomini. Il saggio sul lavoro-ombra riprende una conferenza da me tenuta alla Evangelische Akademie di Loccum; in esso contrappongo la mia analisi alla discussione, in corso in Germania, sul "lavoro autonomo" ("Eigenarbeit"). Il saggio è frutto di conversazioni con Christine von Weizs„cker. Mi servo dell'espressione "lavoro autonomo" ("Eigenarbeit") esclusivamente con riferimento all'ipotesi di una forma di attività nuova, non ancora comprovatamente impossibile, vale a dire una moderna e quindi sessualmente neutra creazione di mezzi di sussistenza a partire da una riconquistata comunità. Il testo che viene poi è un contributo a una discussione con Werner Simpferd”rfer e Heinrich Dauber, nel quale mi sforzo di chiarire quanto difficile risulti dare espressione, nel linguaggio odierno, a tradizionali concetti teologici circa la comunità, in particolare l'ecclesiastica. Il saggio prende le mosse da riflessioni linguistiche sulla prima persona plurale, il "noi". Nel "noi" appiattito e sviante di cui ci serviamo oggi, è pressoché impossibile portare a espressione quell'esigenza di comunanza obiettiva, che in molte altre lingue è offerta già dalla diversità grammaticale dei rispettivi "noi". Il saggio mi era stato richiesto dal Consiglio ecumenico delle Chiese. Come possano strutturarsi politicamente le aspirazioni comunitarie, costituisce il tema del saggio successivo, che riprende il mio principale intervento alla Società per le Scienze dello sviluppo economico a Colombo nel 1979. In esso, ho cercato di individuare tre fattori collettivi, non

riducibili l'uno all'altro, della configurazione di una società postindustriale. Il recupero del diritto alla comunità non può diventare senz'altro il compito di partiti elettivi, né costituire il programma di quei movimenti che puntano su maggioranze assolute e referendum, e il cui obiettivo principale consiste nel metter freni alla tecnica o alla burocrazia. All'aspirazione comunitaria risponde logicamente una terza modalità di organizzazione democratica, di cui ho cercato in questo saggio di indicare la struttura base. Quanto all'ultimo saggio, lo si deve all'insistenza della curatrice del volume, Ingke Brodersené Perché aggiungessi agli altri il testo della conferenza inaugurale da me tenuta alla prima riunione plenaria dell'Asian Peace Research Association (Associazione Asiatica per la Ricerca sulla Pace). In esso opero una distinzione tra "pacificazione delle comunità" e armistizio sotto la violenza del dominio. Spero che la definizione qui proposta possa contribuire a una discussione capace di far luce sulla differenza tra disarmo, rinuncia unilaterale alle armi nucleari e smilitarizzazione della pace. Tutti questi saggi sono venuti in essere in Germania, anche se nella stesura originaria sono stati parzialmente compilati in inglese e tradotti da Thomas Lindquist, al quale sono già debitore di molte, perspicaci versioni. Il signor Gauger mi ha aiutato nella traduzione tedesca dei passi di Nebrija, eseguita mentre compivo le ricerche propedeutiche a una "Storia della scarsità" durante il mio soggiorno a Gottinga per commentare, su invito di Ernst Ulrich von Weizs„cker, testi dell'inizio del Dodicesimo secolo nel corso di due semestri invernali a Kassel. Devo ringraziare anche il professor Vierhaus che in quel periodo mi ha messo a disposizione l'"hortus conclusus" della biblioteca del Max Planck Institut für Geschichte di Gottinga. A Kassel ho stretto amicizia con giovani tedeschi della cerchia dei miei ascoltatori, e ad essi dedico questi testi. Con loro ho vissuto il cambiamento di atmosfera verificatosi in Germania da due anni a questa parte: la transizione da un sentimento di diffusa impotenza e mancanza di sbocchi a un movimento per la pace pluralistico e di tipo nuovo, la cui diffusione ad altri paesi è ormai temuta da più d'un fautore del riarmo. Ringrazio di cuore il signor Weizs„cker, e con lui il signor Wapnewski per avermi invitato in Germania, dandomi così modo di aver nuovamente parte nei destini di questo paese. Ivan Illich

Università di Berlino novembre 1981

1. Il diritto alla lingua comune Tabù è ciò che non può essere fatto; ma tabù è, ancor di più, ciò che non può essere pensato. L'impensabile è un tabù di secondo ordine. Una storia araba narra di un pio musulmano che avrebbe preferito morire piuttosto che mangiare carne di maiale; e pativa la fame, con accanto il cane accovacciato a guardarlo. La carne di maiale avrebbe insozzato la sua fede, e all'idea di mangiare il cane tutto il suo essere si ribellava. La buona carne di maiale era proibita, mentre carne di cane, argilla o begonie semplicemente non erano per il musulmano, e non sono per noi, un alimento. Gli antichi messicani, invece, li apprezzano come tali. Attenti alle vostre begonie, se invitate un contadino messicano a prendere il tè: gli piacciono. Ogni società opera una distinzione tra cibo, veleno e cose che non possono servire come alimenti, e così noi distinguiamo tra i problemi legittimi, problemi che preferiamo lasciare ai fascisti, e altri che sono improponibili. Non che questi ultimi siano illegittimi, ma chi li pone rischia di essere considerato mentecatto o insopportabilmente presuntuoso. La differenza tra valori vernacolari e valori industriali è un problema di questo tipo. In questo saggio mi propongo di ascrivere la differenza in questione all'ambito del non-tabù. Dal 1973, la festa dello Yom Kippur ci ricorda, ogni anno, la guerra alla quale ha fatto seguito la crisi energetica, guerra che ha avuto un effetto di lunga durata sul pensiero economico, nel senso che gli economisti hanno cominciato a mangiare carne di maiale e quindi a infrangere un tabù della tradizionale dottrina di economia politica: adesso inseriscono, nel calcolo del P.N.L., anche quei beni e servizi per i quali non viene versato un salario né stabilito un prezzo. Uno dopo l'altro, eccoli dare la buona notizia che un terzo, metà o addirittura due terzi di tutti i beni e servizi delle società tardoindustriali vengono prodotti al di fuori del mercato, vale a dire grazie al lavoro domestico, allo studio in proprio, al pendolarismo, agli acquisti e ad altre attività non remunerate. Gli economisti capiscono solo le cose che possono misurare, e hanno bisogno di nuovi metri di misura per scorrerie fuori dal mercato. Perché il loro pensiero continui a proporsi anche laddove il denaro non sia il corrente metro di misura coniano appositi concetti. Onde evitare che nella

loro scienza ci siano fratture, le nuove categorie non devono essere in contraddizione con le vecchie. Una di tali categorie è, secondo Pigou, quella dei prezzi-ombra, che equivale alla quantità di denaro necessario per rimpiazzare, con una mercé o servizio, qualcosa che oggi vien fatto senza retribuzione. Il non pagato, fors'anche impagabile, è reso così indirettamente misurabile; ed è ascritto all'ambito della gestionalità, dell'amministrazione, della rivendicazione politica e della valutazione scientifica. Non solo nessun'azione, ma anche nessun apprendimento o pensiero sfugge così alla presa dell'economista. Come un tempo l'occhio di Dio, così ora il metro della produttività penetra in ogni recesso dell'esistenza. Ma questo neoscoperto regno-ombra della produzione non remunerata va distinto dai contributi non economizzabili all'esistenza. Un'analisi attenta rivela che l'economia-ombra è lo specchio dell'economia convenzionale. I due settori sono sinergici e formano un tutto unico. L'economia-ombra costituisce uno spettro completo di attività parallele che fanno da contorno a quell'ambito, tutto in luce, in cui lavoro, prezzi, bisogni e mercati sono sempre più soggetti a gestione a mano a mano che la produzione industriale aumenta. E ci si rende allora conto che il lavoro domestico di una donna moderna è qualcosa di radicalmente nuovo, altrettanto nuovo del lavoro salariato di suo marito. Altrove ho affermato che le nuove cognizioni di certi economisti, permettendo loro di analizzare questa zona d'ombra, costituiscono ben più di una semplice dilatazione dell'analisi economica convenzionale: è la scoperta di una nuova terra resasi visibile, per la prima volta nella storia, solo durante gli ultimi due decenni. Cosa, questa, che sfugge ai neoeconomisti i quali hanno le limitazioni di Cristoforo Colombo. Grazie alla bussola, alla nuova caravella costruita allo scopo di percorrere le rotte rese accessibili appunto dalla bussola, e al suo istinto di uomo di mare, Colombo riuscì a toccare una terra insospettata, ma morì senza rendersi conto di essere incappato per caso in un nuovo emisfero e con la ferma convinzione di aver trovato la via per le Indie. In un mondo industriale, il regno dell'economia-ombra è paragonabile alla faccia nascosta della luna, anch'essa ora per la prima volta esplorata. E questa realtà tutta quanta è antitetica a quel rilevante settore che definisco realtà "vernacolare", il comune ambito della sussistenza. Secondo l'economia classica del Ventesimo secolo, sia l'economia-ombra sia l'ambito vernacolare si situano al di fuori del mercato, entrambi essendo caratterizzati dal lavoro non remunerato; vengono inoltre attribuiti

al cosiddetto settore informale, ed entrambi ugualmente considerati un contributo alla "riproduzione sociale". Ma ciò che soprattutto ostacola l'analisi, è il fatto che il complemento non retribuito del lavoro salariato, caratteristico, dal punto di vista della struttura, delle sole società industriali, viene spesso erroneamente interpretato quale una sopravvivenza delle attività di sussistenza. Ci sono evidenti accenni di revisione del malinteso. La distinzione tra l'economia di mercato e la sua ombra s'attenua. La sostituzione delle merci alle attività di sussistenza non è necessariamente vista come un progresso. Le donne si chiedono se il consumo senza guadagni che inerisce al lavoro domestico sia un privilegio o se esse in realtà non siano costrette a un lavoro degradante dalle forme dominanti del consumo coatto. Gli studenti si domandano se a scuola vanno per imparare o per collaborare al proprio istupidimento. I pazienti lamentano che il sistema mutualistico sia vantaggioso più per la professione medica che per la loro salute. Il tormento del consumo eclissa sempre più il sollievo che il consumo stesso prometteva. La scelta tra consumi ad alta intensità di lavoro e la ricerca di forme moderne di sussistenza sono compiute personalmente da un crescente numero di uomini e donne, e sono il corrispettivo della differenza tra espansione dell'economia-ombra e recupero della sfera vernacolare. Ma è proprio questa scelta il più resistente punto cieco dell'economia, inappetibile per lo scienziato non meno della carne di cane o dell'argilla. Mi propongo di far luce sulla questione mediante un esame del linguaggio quotidiano, e lo tenterò contrapponendo il carattere economico di questo linguaggio nella società industriale con il suo contraltare non economizzabile di epoche preindustriali. Come mostrerò, l'origine di questa distinzione va vista in un evento poco noto, verificatosi in Spagna alla fine del Quattrocento. Nelle prime ore del 3 agosto 1492, Cristoforo Colombo salpò da Palos. Il vicino e assai più importante porto di Cadice quell'anno era inaccessibile, essendo l'unico dal quale gli ebrei fossero autorizzati a partire dalla Spagna. Granada era stata riconquistata e i servigi degli ebrei non erano più richiesti per la lotta contro l'Islam. Colombo era in rotta per il Cipango, nome con cui era stato noto il Cathay, cioè la Cina, durante il breve regno di Tamerlano, morto ormai da un pezzo. Colombo aveva calcolato che un grado della terra misurasse quarantacinque miglia, e ne derivava che l'Asia era situata duemilaquattrocento miglia a ovest delle

Canarie, grosso modo dalle parti delle Andile, nel Mar dei Sargassi. Il genovese aveva insomma ridotto l'oceano al raggio d'azione delle navi che sapeva governare; aveva a bordo un interprete arabo che avrebbe dovuto dargli modo di parlare con il gran Khan. Partiva per scoprire una rotta, non già una nuova terra o un nuovo emisfero. Un progetto, questo suo, alquanto insensato. Nessun uomo colto del primo Rinascimento dubitava del fatto che la terra fosse un globo; molti continuavano a ritenerla situata al centro dell'universo, altri invece la pensavano già nuotante nelle sfere celesti. Ma dai tempi di Aristotele nessuno ne aveva sottovalutato le dimensioni quanto Colombo, tant'è che nel 255 Eratostene di Cirene aveva calcolato in cinquecento miglia la distanza tra la grande biblioteca, da lui diretta ad Alessandria, e Siene (dove oggi sorge la diga di Assuan), conclusione alla quale era giunto usando come "metro di misura" l'andatura notevolmente costante delle carovane di cammelli dall'alba al tramonto. Aveva notato che il giorno del solstizio d'estate a Siene i raggi del sole cadevano verticalmente, mentre ad Alessandria deviavano di sette gradi dalla verticale. Su questa base, aveva calcolato la circonferenza della terra con uno scarto del cinque per cento circa rispetto alle sue dimensioni reali. Quando Colombo le si rivolse chiedendo appoggio per la sua spericolata impresa, la regina Isabella incaricò il dotto Hernando de Talavera di valutarne la realizzabilità. Una commissione di esperti da questi presieduta concluse che il proposito di raggiungere l'Oriente passando per l'Occidente mancava di solide fondamenta. Le autorità competenti ritenevano impossibile la circumnavigazione di mezzo mondo: sarebbero occorsi tre anni, ed era dubbio persino che la caravella, nave nuova, concepita per lunghi viaggi di esplorazione, potesse farne ritorno. Gli oceani non erano né così ristretti né così navigabili come sosteneva Colombo, ed era assai improbabile che Dio avesse voluto tener nascoste tanto a lungo, al suo popolo eletto, terre disabitate di effettivo valore. In un primo momento, quindi, la regina oppose un rifiuto; in seguito, influenzata da zelanti frati francescani, ritornò sulle sue decisioni e firmò con Colombo le "stipulazioni". Lei, che aveva sloggiato l'Islam dall'Europa, non poteva certo opporre un "no" al suo ammiraglio che voleva piantare la croce di là dal Mare Oceano. Come vedremo, dalla decisione della conquista coloniale derivò anche una guerra di nuovo tipo - l'invasione dell'ambito vernacolare del suo stesso popolo, l'inizio di un conflitto durato cinque secoli contro la vita della sussistenza vernacolare, le cui devastazioni solo

oggi cominciamo a valutare. Per cinque settimane, Colombo veleggiò per acque già note. Gettò l'ancora alle Canarie per riparare il timone della "Pinta", sostituire la vela latina della "Niña" e dedicarsi a una misteriosa relazione con Doña Beatriz de Peraza. Solo il 10 settembre, due giorni dopo aver lasciato le Canarie, incappò negli alisei orientali che lo portarono rapidamente oltre oceano. In ottobre avvistò terra, cosa che né lui né i consiglieri della regina si aspettavano. Nel suo diario, in data 13 ottobre 1492, Colombo fornisce una splendida descrizione del canto dell'allodola che lo salutò a Santo Domingo. Ai Caraibi, però, di allodole non ce ne sono mai state. Colombo era e rimase "gran marinero y mediocre cosmografo": fino all'ultimo giorno di vita restò convinto di aver trovato ciò che aveva cercato - un'allodola spagnola sulle rive della Cina. Mi si permetta ora di passare da cose ovviamente ben note, ad altre, sempre volutamente trascurate - da Colombo, che subito viene associato alla data 1492, a Elio Antonio de Nebrija, pressoché dimenticato fuori Spagna. Mentre Colombo navigava verso ovest per acque e approdi portoghesi, in Spagna veniva presentata alla regina la nuova architettura della realtà sociale. E mentre Colombo veleggiava verso terre straniere a cercarvi cose familiari -oro, sudditi, allodole -, in Spagna Nebrija preparava ai sudditi della regina un tipo di dipendenza del tutto nuovo. Offriva infatti alla sovrana una nuova arma, la grammatica, destinata ad essere adoperata da un mercenario di nuovo tipo, il "letrado". E' stata per me una forte emozione prendere in mano la "Gramatica sobre la lengua castellana" di Nebrija - un volume in quarto di cinque segnature composto in caratteri gotici. L'epigrafe è stampata in rosso; segue una pagina bianca, indi la dedica: "A la muy alta e assi esclarecida princesa dona Isabela la tercera deste nombre Reina i senora natural de espana e las islas de nuestro mar. Comienza la gramatica que nuevamente hizo el maestro Antonio de Nebrixa sobre la lengua castellana, e pone primero el prologo. L‚elo en buena hora". (4) La conquistatrice di Granada riceve una petizione simile a tante altre. Ma, a differenza dell'istanza di Colombo che chiedeva appoggio per tracciare una nuova rotta verso la Cina, quella di Nebrija sprona la regina a conquistare un nuovo regno in patria. Nebrija offre a Isabella uno

strumento per colonizzare il linguaggio parlato dei suoi stessi sudditi; vuole sostituire la parlata del popolo con l'imposizione della "lengua" di Castiglia - il linguaggio "della regina", il "suo" idioma. Tradurrò e commenterò adesso alcuni passi delle sei pagine d'introduzione alla grammatica di Nebrija. Il colofone della "Cromatica sobre la lengua castellana" rivela, lo si tenga presente, che il libro uscì dai torchi di Salamanca il 18 agosto, solo quindici giorni dopo la partenza di Colombo. Ogniqualvolta, illustre regina, tra me rifletto e contemplo l'antichità di tutte le cose messe per iscritto a nostra memoria e meditazione, mi sembra chiara e certa una conclusione, ed è che la lingua sempre è stata la consorte del dominio, e l'accompagna sì che insieme sorgono, crescono, fioriscono e pur anche cadono. Per capire che cosa significasse "lengua" (lingua) per Nebrija, è necessario sapere chi egli fosse. Antonio Mart¡nez de la Cala, "converso", cioè discendente di ebrei convertiti, nativo di Nebrija (è detto anche il Nebrissense), aveva deciso a diciannove anni che il latino, almeno nella penisola iberica, si era talmente corrotto che si poteva considerarlo defunto per incuria. Sicché, la Spagna era priva di una "lengua" degna di tal nome. I "linguaggi" delle Scritture - greco, latino, ebraico - erano evidentemente qualcosa di diverso dall'"idioma del popolo". Nebrija andò quindi in Italia, dove, a suo parere, il latino era pochissimo corrotto, per riportarlo in patria; e, al suo ritorno in Spagna, il suo contemporaneo Hernan Nuñez scrisse di lui che era come se Orfeo avesse riportato Euridice dall'Ade. Nei vent'anni successivi, Nebrija si dedicò al rinnovamento della grammatica e della retorica classiche. Il primo libro degno di tal nome stampato a Salamanca, fu la sua grammatica latina del 1492. Quando, superata la quarantina, a suo stesso dire cominciò a invecchiare, Nebrija scoprì di poter plasmare una lingua "vera" partendo dalle locuzioni in cui s'imbatteva quotidianamente in Spagna: di poter costruire una lingua, di poterla sintetizzare chimicamente, onde sostituire, con quest'"artificium", le locuzioni "sfrenate, senza regola", della Spagna. Compilò pertanto una grammatica castigliana, la prima di tutte le lingue europee moderne. Il "converso" si avvale della sua formazione classica per estendere al campo linguistico la categoria giuridica della "consuetudo

Hispaniae". In tutta la penisola iberica, folle che parlano idiomi diversi si assembrano in pogrom contro l'estraneo giudeo, e in quell'ora stessa il "converso" cosmopolita offre alla corona i propri servigi, sotto specie di creazione d'una lingua atta a essere imposta ovunque la porterà la spada. Mentre lavorava alla grammatica, Nebrija compilò anche un dizionario, a tutt'oggi di gran lunga la miglior fonte dello spagnolo antico. I due tentativi, compiuti nella nostra epoca, di superarlo, sono entrambi falliti. Il "Tesauro lexico-grafico" di Gili Gaya, iniziato nel 1947, è naufragato alla lettera E, e il "Tentative Dictionary of Medieval Spanish" di E. e R.S. Boggs rimane, dal 1946, un mero abbozzo. Il dizionario di Nebrija fu dato alle stampe l'anno dopo la sua grammatica, già con apporti dal Nuovo Mondo, come la parola "canoa", primo americanismo. Vocabolari e grammatiche non erano, in s‚ e per s‚, una novità ai tempi di Nebrija. Già gli antichi avevano descritto le loro lingue, dando ordine al greco, al latino e, grazie all'opera di Panini, più completa di altre, al sanscrito. A Nebrija erano note le grammatiche medioevali usate quale strumento di apprendimento della lingua dotta; ma mai in precedenza la grammatica era stata intesa quale mezzo di insegnamento della lingua d'ogni giorno, quale veicolo perle conquiste d'oltremare ed espediente per la repressione nella madrepatria. Vediamo ora che cosa pensa Nebrija del castigliano: "La lingua castigliana... era ancora allo stato infantile ai tempi dei giudici e dei re di Castiglia e Leon; ha cominciato a dar prova di vigore ai tempi dell'eccellentissimo ed eternamente degno di lode re Alfonso il Savio, per volere del quale furono compilate le "Siete Partidas" e la "Grande e general Estoria", nonché tradotti, nel nostro idioma castigliano, molti libri latini e arabi". In effetti, Alfonso Decimo (1221-1284) fu il primo monarca europeo a imporre come lingua cavalieresca il volgare ovvero vernacolo degli scrivani. Suo intento era di dimostrare che non era un re romano, latino. Al pari di un califfo, ordinò ai suoi cortigiani di compiere pellegrinaggi tra i libri cristiani e islamici e di estrarne tesori da offrire ai sudditi, lasciandoli in prezioso retaggio al suo regno. Tra parentesi, gran parte dei suoi traduttori erano ebrei di Toledo, il cui idioma era l'antico castigliano e che preferirono tradurre le lingue orientali nel loro vernacolo anziché in latino, lingua sacra della Chiesa. Nebrija spiega alla regina che Alfonso aveva lasciato una solida base di

spagnolo antico, oltre ad aver contribuito alla trasformazione della parlata in una lingua vera e propria, servendosene a scopi legislativi e storiografici e per la traduzione di classici. E così prosegue: "La lingua si diffuse fino all'Aragona e alla Navarra al seguito degli infanti che mandammo a governare quei regni. Ed essa crebbe ulteriormente, fino a essere anche di quel dominio e di quella pace onde godiamo, in primo luogo grazie alla bontà e provvidenza divine, e poi grazie alle cure attente e solerti di Vostra Maestà. Le disperse membra e parti della Spagna vennero così integrate in un corpo nell'unità di un reame". Nebrija illustra poi alla regina il nuovo patto tra spada e libro. Propone un'alleanza tra due ambiti, entrambi compresi nella sfera laica della Corona, un'alleanza però alquanto diversa dal patto medioevale tra Impero e Papato: propone cioè un patto non più tra spada e croce, corona e stola, bensì tra spada e libro, arma e scienza, soldato e dotto, l'uno e l'altro al servizio della regina. A tale scopo bisogna impadronirsi della lingua: Nebrija intende gestire, regolamentare la consorte del dominio, quella che a guisa di vivandiera s'accompagna agli accampamenti militari. E sa benissimo a chi si rivolge: alla moglie di Ferdinando d'Aragona, alla donna che aveva una volta esaltato come "il più illuminato degli uomini". Sa benissimo che essa ha letto per il proprio piacere Cicerone, Seneca e Livio nell'originale, e che possiede una sensibilità in cui fisico e spirituale si sposano in quello che lei stessa chiama "buon gusto". Insieme con Ferdinando, Isabella cercava di dare una fisionomia alla caotica Castiglia che avevano avuto in retaggio; e insieme crearono uno stato effettivamente amministrabile. Nebrija li richiama a un concetto che a tutt'oggi influenza il pensiero spagnolo: "armas y letras". Parla del matrimonio tra imperio e lingua, e lo fa rivolgendosi a una sovrana che ha appena sottratto, purtroppo solo per breve tempo, l'Inquisizione alla Chiesa per usarla come strumento secolare del potere regio. La monarchia se ne serviva per sottoporre a controllo economico i Grandi e sostituire negli organismi di governo del regno i nobili con i "letrados" di Nebrija. Era quella la monarchia che aveva trasformato i vecchi organismi consultivi in organizzazioni burocratiche di pubblici funzionari, istituzioni adibite esclusivamente all'attuazione della politica regia. A codesti ministeri formati da "esperti" sarebbero spettati in seguito, nel contesto del cerimoniale di corte degli Asburgo, compiti ritualisti ci nel corso di processioni e ricevimenti, senza paragoni con quelli di ogni altra

burocrazia dai tempi di Bisanzio. Con molta acutezza, Nebrija richiama la regina al fatto che una nuova unione tra "armas y letras", diversa da quella tra Chiesa e Stato, costituisce una premessa essenziale per raccogliere e fondere i "disiecta membra" della Spagna in un'unica monarchia assoluta, "la cui struttura e coesione saranno tali da farla durare per secoli, senza che il tempo né la spezzi né la frammenti. Ora che la cristiana religione è stata depurata, e grazie a essa noi amici di Dio ci siamo con Lui riconciliati [evidentemente Nebrija si riferisce all'Inquisizione]; e ora che i nemici della nostra fede sono stati soggiogati dalla forza delle armi, quei nemici per mano dei quali i nostri hanno subito tanti danni e ancor maggiori ne avrebbero subiti [riferimento al culmine della Reconquista, la presa di Granada]; ora che regnano il diritto e quelle leggi che ci permettono di vivere assieme in perfetta uguaglianza in quella grande comunità che chiamiamo regno, ovvero "res publica" [forse l'accenno è qui alle corporazioni in fase di espansione], non resta che portare a fioritura le arti pacifiche. E tra le arti in primo luogo quella che insegna a parlare la lingua che ci distingue dalle bestie, la favella che ci è propria e che nella visione di Dio costituisce il nostro più degno operare..." In questo passo è esplicito l'appello dell'umanista al principe, spronato a difendere il mondo dei cristiani civilizzati da quello selvaggio, la cui incapacità a parlare è parte integrante del Mito del Selvaggio, appunto, in cui di continuo ci si imbatte durante il Medioevo; e in un mondo moralmente ordinato, essere selvaggio significa essere incomprensibilmente muto, peccaminoso e maledetto. Se un tempo il pagano doveva essere accolto nel gregge mediante il battesimo, d'ora in poi lo sarà tramite la lingua. E la lingua ha adesso bisogno di custodi. Continua Nebrija: "Sinora la nostra lingua è rimasta sbrigliata e indisciplinata, e di conseguenza nel giro di pochi secoli è cambiata al punto da diventare irriconoscibile. Se potessimo paragonare quella che oggi parliamo con la lingua parlata cinquecento anni fa, noteremmo una differenza e una diversità che non potrebbero essere maggiori se fossero due favelle estranee l'una all'altra". Nebrija descrive quindi l'evoluzione e la diffusione nel tempo degli idiomi vernacolari, la "lengua vulgar", richiamandosi alla favella non controllata della Castiglia, diversa da quella dell'Aragona e della Navarra, dove i soldati avevano di recente introdotto il castigliano, ma differente anche da quel castigliano antico in cui i monaci di Alfonso e gli ebrei

avevano tradotto i classici greci a partire dalle loro versioni arabe. Nel Quattrocento la gente sentiva e viveva la propria lingua in modo diverso da come la viviamo e la sentiamo noi oggi. Le ricerche di Menendez Fidai sulla lingua di Colombo ci permettono di farcene un'idea più esatta. Il navigatore, in origine mercante di stoffe a Genova, aveva come lingua madre il genovese, un dialetto ancor oggi non standardizzato, e imparò a scrivere lettere commerciali in latino alquanto barbarico. Dopo aver fatto naufragio in Portogallo, sposò una portoghese e probabilmente dimenticò quasi del tutto l'italiano. Il portoghese lo parlava, ma non ne scrisse mai una parola. Nei nove anni trascorsi a Lisbona, prese l'abitudine di scrivere in spagnolo, ma non usò mai la sua pur brillante intelligenza per impararlo a fondo. Il suo spagnolo non è il castigliano, ma abbonda di parole semplici raccolte un po' dovunque nel Mediterraneo. A parte certe mostruosità sintattiche, Colombo maneggiava questa sua lingua in maniera vivace, espressiva e precisa. Scriveva dunque in due lingue che non parlava e parecchie altre ne parlava, situazione che non era certo fonte di problemi né per lui né per i suoi contemporanei. Agli occhi di Nebrija, però, questo non rientrava in ciò che egli intendeva per "lingua". Continuando nella petizione, il dotto affronta a questo punto l'argomento cruciale: "la lengua suelta y fuera de regia", la lingua parlata, senza regola né legge, con cui la gente vive e organizza la propria vita, è diventata un pericolo per la Corona. Nebrija trasforma così un fatto storico non problematico in un problema per gli architetti di un'organizzazione di tipo nuovo - lo stato moderno. "E' sempre stata mia aspirazione e costante desiderio di render grande la nostra nazione e fornire finalmente agli uomini della mia lingua libri degni del loro otium, che adesso sprecano con romanzi e storie tutti menzogne ed errori." Nebrija propone di regolamentare il linguaggio Perché la gente smetta di sprecar tempo con letture frivole, come "cuando la emprenta aun no informaba la lengua de los libros". E non è il solo che nel tardo Quattrocento si preoccupi dello "spreco" di tempo libero reso possibile dall'invenzione della carta e dei caratteri mobili. Ignazio di Loyola, ventinove anni dopo, mentre giaceva a Pamplona con una gamba fracassata da una palla di cannone, giunse alla conclusione che aveva sprecato la propria giovinezza. A trent'anni vedeva la sua vita riempita delle "vanità del mondo", ozi di cui era parte integrante la lettura di robaccia profana.

Nel 1793, esattamente trecento anni dopo Nebrija, l'abb‚ Gr‚goire per incarico della Rivoluzione francese tentò al pari di sacrificare i vernacoli sull'altare della patria ("sacrifier les patois sur l'autel de la patrie"). Ma anche allora, e ancora adesso, in tempi di politica dello sviluppo, la meta di siffatta standardizzazione è rimasta espressamente l'opposto di quella tentata da Nebrija. I nostri contemporanei ritengono che una lingua standardizzata costituisca la necessaria premessa per insegnare agli esseri umani a leggere, cosa indispensabile alla diffusione dei libri a stampa. Nel 1492, l'argomentazione era di tutt'altro segno: Nebrija si preoccupa del fatto che gli esseri umani, che parlano decine di vernacoli, cadano vittime di un'epidemia di lettura, che sprechino il loro tempo su libri circolanti senza il minimo controllo burocratico. Un manoscritto era talmente costoso e raro, che le autorità potevano mettere al bando l'opera di un autore semplicemente sequestrandone, alla lettera, tutte le copie. A volte i manoscritti potevano essere estirpati, per così dire, alla radice. Non però i libri. Persino con una tiratura di duecento-mille copie - tipica per la prima generazione di opere a stampa - mai sarebbe stato possibile confiscare l'intera edizione. L'Indice serviva a proscrivere, non già a distruggere i libri. Ma la proposta di Nebrija precedette di cinquant'anni la pubblicazione dell'Indice, avvenuta nel 1559; e Nebrija voleva addivenire a un controllo della parola scritta a un livello più profondo di quello raggiunto in seguito dalla Chiesa mediante veti: suo intento, sostituire i vernacoli del popolo con la lingua dei grammatici. L'umanista propone la standardizzazione della lingua di scambio onde sottrarre la nuova tecnica della stampa all'ambito vernacolare, e in tal modo impedire che si stampi e si legga in vari idiomi, quelli fino allora parlati. Grazie a tale monopolio della lingua ufficiale, della lingua insegnata dai maestri, Nebrija mira dunque a sopprimere la "selvaggia" lettura vernacolare. Per afferrare appieno il peso dell'argomentazione di Nebrija - la tesi che l'istruzione obbligatoria in una lingua nazionale standardizzata sia necessaria per distogliere la gente da letture frivole nel loro idioma, fonte di un piacere a buon mercato - bisogna tener presente la situazione della stampa all'epoca. Nebrija era nato prima della comparsa dei caratteri mobili. Aveva tredici anni quando si cominciò a utilizzarne le prime serie. La sua vita di adulto consapevole coincise con gli incunaboli. Quando l'arte della stampa contò venticinque anni, pubblicò la sua grammatica latina; quando essa ne ebbe trenta, Nebrija pubblicò la sua grammatica

castigliana. Egli poteva ricordare i tempi antecedenti la stampa, come io ricordo quelli prima della televisione. Caso volle che il testo di Nebrija cui mi riferisco sia stato pubblicato l'anno stesso della morte di Thomas Caxton. E l'opera di Caxton ci aiuta a capire il libro vernacolare. Thomas Caxton era un mercante di stoffe inglese che viveva in Olanda. Si mise a tradurre e imparò l'arte tipografica. Dopo aver pubblicato alcuni libri in inglese, nel 1476 trasferì la propria stamperia in Inghilterra. Al momento della morte, avvenuta nel 1491, aveva dato alle stampe quaranta traduzioni, in inglese e quasi tutto ciò che era disponibile nell'inglese vernacolare - con la rilevante eccezione del "Piers Plowman" di William Langland. Mi sono spesso domandato se non abbia tralasciato quest'importante opera Perché poteva far concorrenza a uno dei suoi bestseller: "The Art and Grafìe to Knowe Well to Dye" (Arte e mestiere del ben morire), volume della sua Westminster Press che appartiene alla primissima serie dei manuali del far-da-s‚. Tutto ciò che poteva preparare alla vita in una società istruita e raffinata, tutto ciò che poteva condurre a un "comportamento cortese e devoto", veniva raccolto in piccoli in-folio e in-quarto stampati con eleganti caratteri gotici, riguardanti gli argomenti più disparati, dal maneggio di un coltello al modo di condurre una conversazione, dall'arte di piangere a quella degli scacchi e a quella di morire. Prima del 1500 erano già apparse almeno cento ristampe di quest'ultimo testo, un manuale che insegna a prepararsi al decesso con dignità, senza interventi di medici o preti. Quattro furono le categorie di libri che comparvero per primi nelle lingue popolari: letteratura vernacolare indigena, traduzioni dal latino e dal francese, libri di preghiere e manuali pratici di apprendimento senza insegnanti. Si calcola che prima del 1500 le oltre millesettecento tipografie situate in quasi trecento città d'Europa avessero già stampato almeno un libro ciascuna. Nel Quindicesimo secolo furono pubblicate circa quarantamila edizioni, per un totale da quindici a venti milioni di copie, di cui un terzo nelle varie lingue vernacolari europee. Era questa percentuale di libri stampati a preoccupare Nebrija, che voleva fare della nuova tecnica un mezzo d'istruzione, consapevole com'era che, più di ogni altra, l'arte della stampa poteva rendere pressoché superfluo l'insegnante. Per renderci meglio conto delle sue preoccupazioni circa la libertà di lettura, dobbiamo tener presente che a quel tempo la lettura non era silenziosa, essendo questa un'invenzione recente. Agostino era già un grande autore e vescovo di Ippona quando ne scoprì la possibilità. Egli

stesso lo riferisce nelle "Confessioni". Nottetempo, la carità gli vietava di disturbare gli altri monaci con il borbottio delle sue letture, e d'altro canto la curiosità lo induceva a immergersi nei libri. Imparò così a leggere in silenzio - arte che aveva visto praticare solo dal suo maestro, Sant'Ambrogio, il quale vi faceva ricorso Perché altrimenti la gente gli si sarebbe radunata attorno, disturbandolo con domande relative al testo, essendo la lettura ad alta voce il nesso tra erudizione classica e cultura popolare. L'abitudine di leggere ad alta voce comporta conseguenze sociali. E' un modo straordinariamente efficace di insegnare l'arte in questione a coloro che guardano da dietro le spalle del lettore; anziché esaurirsi in una forma sublime o sublimata di autosoddisfazione, favorisce gli scambi di idee in seno alla comunità; porta all'elaborazione e al commento collettivi dei brani letti. In quasi tutte le lingue dell'India, il verbo che noi traduciamo con "leggere" ha il significato di "far risuonare": lo stesso verbo definisce dunque la lettura del libro e del pizzicare le corde della "vina", leggere e suonare uno strumento musicale essendo considerate attività parallele. La semplicistica definizione corrente dell'alfabetismo, accettata ormai in tutto il mondo, mette in ombra un diverso modo di accostarsi al libro, alla stampa e alla lettura. Se quest'ultima fosse intesa anzitutto quale attività sociale, come lo è per esempio il saper suonare la chitarra, un minor numero di lettori comporterebbe un più ampio accesso ai libri e alla lettura. La lettura a voce alta era diffusissima in Europa già prima dell'epoca di Nebrija, e grazie alla stampa ben presto assunse andamento epidemico. Il confine tra cultura e scrittura era diverso da quello a noi oggi noto. Leggere significava aver nozioni di latino. La gran massa, ampiamente al corrente della letteratura vernacolare della propria regione, per lo più non sapeva leggere né scrivere, e chi era in grado di farlo lo aveva probabilmente imparato per proprio conto, oppure si trattava di scrivani o di persone che avevano gettato la tonaca alle ortiche. Alla regina, l'impresa proposta da Nebrija dovette sembrare ancor più improbabile del progetto di Colombo. Ma alla lunga si rivelò, ai fini della nascita dello stato nazionale, ben più decisiva del Nuovo Mondo. Nebrija indicava con chiarezza la via per impedire il libero, anarchico sviluppo della tecnica della stampa e per trasformarla in uno strumento di controllo a opera del potere statale e della burocrazia. Oggi noi partiamo in genere dal presupposto che i libri non potrebbero

essere stampati e letti dalle grandi masse se fossero scritti in un idioma vernacolare, libero dalle costrizioni di una grammatica ufficiale. Diamo anche per scontato che la gente non potrebbe imparare a leggere e a scrivere nella propria lingua, se questa non le venisse insegnata allo stesso modo con cui viene da sempre impartito l'insegnamento del latino. Ascoltiamo ancora Nebrija: "Grazie alla mia grammatica, impareranno artificialmente il castigliano, cosa nient'affatto difficile, fondato com'è su una lingua che già conoscono; e allora il latino sembrerà loro facile..." Nebrija considera il vernacolo una materia prima da cui ricavare il suo castigliano artificiale, una risorsa da sfruttare non diversamente dal legno di Fernambuco e dal bestiame da lavoro umano che, come concludeva rattristato Colombo, erano le sole materie prime d'un certo valore o importanza reperibili a Cuba. Nebrija non intende insegnare la grammatica Perché la gente impari a leggere e a scrivere ciò che sa dire. Implora Isabella di dargli il potere e l'autorità di arginare anzi, con l'ausilio della sua grammatica, la diffusione anarchica della lettura. "Attualmente sprecano il loro agio con romanzi e racconti fantastici pieni di menzogne. Ho quindi concluso che il mio compito più urgente è di trasformare la parlata castigliana in un artefatto, per modo che tutto ciò che d'ora innanzi in codesta lingua verrà scritto possa essere d'un unico tenore." Nella sua qualità di esperto linguista della Corona, Nebrija intende trasformare la consorte dell'imperio in schiava dello stato. Vuole privare il popolo delle sue abitudini, del suo idioma, e fare, delle parole che esso usa, un nuovo strumento di dominio. Per primo formula la pretesa dello stato al diritto esclusivo di coniare la lingua, di fissarne il tenore. La transizione dall'idioma vernacolare a una lingua materna ufficialmente insegnata è forse il momento più insidioso - e quindi il meno studiato della nascita di una società ad alta intensità di merci. Il passaggio radicale dal vernacolo alla lingua burocratica insegnata preannuncia il passaggio dal seno al biberoné dalla sussistenza all'assistenza, dalla produzione per uso proprio alla produzione per il mercato, da un mondo in cui la speranza è equamente suddivisa tra stato e Chiesa a un mondo dove la Chiesa è marginale, la religione è privatizzata e lo stato assume quelle funzioni

materne precedentemente rivendicate dalla Chiesa. Se prima non c'era salvezza fuori dalla Chiesa, ora non ci sarà più né lettura né scrittura, e se possibile neanche lingua, fuori dall'ambito didattico. La gente doveva rinascere dal seno della sovrana, e al suo seno nutrirsi. Sia il cittadino dello stato moderno, sia la lingua impartitagli dallo stato, compaiono qui per la prima volta, privi entrambi di precedenti storici. Nebrija si rifa a un'antica tradizione ermetica, laddove propone di trasformare il castigliano in artefatto indispensabile, ai sudditi della regina, quanto la fede ai cristiani. Nella lingua dell'epoca sua, i due termini qui da lui impiegati, "reducir" e "artificio", acquistano un significato sia idiomatico che tecnico, e in questa seconda accezione appartengono al linguaggio dell'alchimia. Stando al vocabolario di Nebrija, "reducir" nello spagnolo del Quindicesimo secolo vuoi dire "trasformare", "rendere soggetto", "civilizzare", significato quest'ultimo in cui saranno intese più tardi, dai gesuiti, le "Reductiones de Paraguay". Ancora, "reductio" per tutto il Quindicesimo e il Sedicesimo secolo sta a indicare uno dei sette gradi della trasformazione dei comuni elementi naturali in pietra filosofale, in panacea, al tocco del quale tutto diviene oro. "Reductio" designa, nel caso specifico, il quarto dei sette gradi della sublimazione, precisamente la prova cruciale che la materia "grigia" deve superare per passare dal primo al secondo grado "dell'illuminazione". Nei primi quattro gradi, la sostanza naturale grezza viene successivamente liquefatta, purificata ed evaporata. Nel quarto, quello della "reductio", viene arricchita dal latte filosofale e, qualora assorba codesta sostanza - il che può avvenire solo se i primi tre processi hanno completamente annullato la sua natura grezza e indisciplinata -, diventa possibile estrarre il chiro-sperma, il germe dell'oro nascosto nelle sue profondità. Questa è l'"educatio". Nelle tre fasi successive, l'alchimista può coagulare il suo "alumnus" - la sostanza che ha nutrito col proprio latte - in pietra filosofale. Il linguaggio in cui questo procedimento è espresso, appartiene, a rigor di termini, a un periodo di poco successivo a Nebrija. L'ho ripreso quasi alla lettera da Paracelso, nato lo stesso anno della pubblicazione della "Gram tica sobre la lengua castellana". Ma torniamo ora al testo. Nebrija continua il suo ragionamento: "Mi sforzo effettivamente di trasformare questa nostra lingua castigliana in un artificio, in un'opera a regola d'arte, per modo che tutto quanto d'ora innanzi in essa verrà scritto abbia valore unitario che perduri nei tempi a venire. Vediamo che lo stesso è stato fatto con il greco e il latino:

poich‚ entrambe le lingue sono state assoggettate a regola, ecco che sono sopravvissute ai secoli. E se non si farà altrettanto con la nostra lingua, i cronisti e gli storici di Vostra Maestà invano avranno scritto: il ricordo delle Vostre grandi imprese invano sarà stato affidato all'eternità. Che, allorquando tentiamo di mettere per iscritto in castigliano il transitorio e il raro, ciò può essere per pochi giorni soltanto. Onde per cui è necessario scegliere tra due possibilità: o la memoria delle Vostre imprese gloriose scomparirà con la lingua, o essa dovrà peregrinare per nazioni straniere, poich‚ non ha una casa propria in cui trovar sede". L'impero romano poteva essere governato con il latino della sua ‚lite. Ma i particolari linguaggi tradizionali ed elitari, impiegati negli antichi imperi per redigere gli atti ufficiali, mantenere i rapporti internazionali e promuovere il sapere - si trattasse del persiano, dell'arabo, del latino o del franco -, sono insufficienti ad attuare le aspirazioni delle monarchie nazionali. Il nuovo stato nazionale ha bisogno di un "artificio", che non può essere né il tradizionale latino della diplomazia né il labile castigliano di Alfonso il Sapiente. La nuova "res publica" esige una lingua unitaria, compresa da tutti coloro che sono soggetti alle sue leggi e ai quali sono destinati i "detti" compilati per volere del sovrano (vale a dire la propaganda). Tuttavia, Nebrija non intende abolire il latino. Al contrario, la rinascita neolatina in Spagna era dovuta in gran parte alla sua grammatica, al suo dizionario e ai suoi manuali latini, ma l'importante innovazione di Nebrija consistette nel gettare le fondamenta di una società senza precedenti, nella quale i burocrati, i soldati, i mercanti e i contadini del sovrano universale aspirassero a parlare tutti "un'unica" lingua, lingua che anche i poveri comprendessero e alla quale dovessero anche obbedire ("ob-audire"). Nebrija fonda il concetto di una lingua di scambio sufficiente di per s‚ a collocare ogni essere umano nel posto che gli è destinato nella piramide necessariamente eretta dall'insegnamento nella lingua materna di tutti. Nella sua argomentazione sottolinea che l'aspirazione di Isabella alla fama storica dipende dal fatto che dia vita a una lingua di propaganda universale e cristallizzata come il latino, e tuttavia capace di penetrare in ogni villaggio, in ogni fattoria, sì da tramutare ("reducir") i sudditi in cittadini moderni. Com'erano cambiati i tempi rispetto a Dante! Per Dante, una lingua che bisognasse imparare e parlare secondo le regole di una grammatica era inevitabilmente una lingua morta. A suo avviso, una lingua siffatta era

adatta solo agli eruditi, che il poeta definiva sprezzantemente "inventores gramaticae facultatis". Ciò che per Dante era morto e inutile, Nebrija lo raccomanda invece come valido strumento. All'uno interessavano gli scambi vitali dei pensieri, all'altro l'assudditamento a opera di una lingua regolamentata, le cui parole fossero coniate e commesse come le pietre d'un palazzo, a gloria di Sua Maestà. "In questa sede ho voluto porre la prima pietra e fare, per la nostra lingua, ciò che Zenone ha fatto per il greco e Cratete per il latino. Uomini più grandi sono venuti dopo di essi. Ma al par di loro noi potremo gloriarci di essere stati gli scopritori e inventori ["primeros inventores"] di un'arte tanto necessaria." L'esperto ha sempre fretta, ma la fede nel progresso gli suggerisce il linguaggio della modestia. L'avventuriero accademico sprona il proprio governo ad accettare "seduta stante" le sue idee. Il momento è adesso! "In verità, la nostra lingua proprio ora è pervenuta ad altezze tali, da farci temere che possa decadere più che sperare che possa salire vieppiù." L'ultima parte dell'introduzione di Nebrija è gonfia di eloquenza. Evidentemente, il professore di retorica conosceva bene quel che insegnava. Nebrija ha esposto il suo progetto; ha fornito alla regina ragioni logiche per accettarlo; le ha fatto balenare, sgomentandola, ciò che accadrebbe se non gli desse retta; infine, come Colombo, ha fatto appello al suo sentimento della Provvidenza. "Ed ecco ora il terzo beneficio che potete trarre, Maestà, dalla mia grammatica... allorché a Salamanca ho presentato a Vostra Maestà un abbozzo di quest'opera, e Vostra Maestà mi ha chiesto allora a quale scopo potesse servire, ecco l'illustre vescovo di Avila togliermi la parola di bocca così rispondendo in mia vece: "Ben presto la Maestà Vostra avrà sottomesso al Suo giogo popoli barbari, nazioni che parlano lingue straniere, e con tale vittoria si porrà per costoro la necessità di una legiferazione, di norme e di una lingua che il vincitore deve al vinto. E potranno apprenderla grazie alla mia grammatica... e non soltanto i nemici della nostra fede, ma anche le genti di Biscaglia, Navarra, Francia e Italia"." Possiamo tentare di ricostruire ciò che accadde a Salamanca quando Nebrija consegnò alla regina un abbozzo del suo futuro libro. La sovrana elogiò l'umanista per aver fornito al castigliano ciò che era stato fino a quel momento riservato alle lingue delle Scritture - l'ebraico, il greco e il latino. (E' sorprendente e significativo che il "converso", nell'anno di Granada, non accenni neppure all'arabo del Corano!) Ma Isabella, se era in grado di

comprendere l'impresa del suo "letrado" - la trasposizione di una lingua viva nelle regole della grammatica -, non poteva vederne i fini pratici. Per lei la grammatica era uno strumento utile solo all'istruzione di preti e scrivani, e d'altro canto riteneva che il vernacolo non potesse essere insegnato. Nella sua concezione regia della linguistica, ogni suo suddito era stato dotato dalla natura della capacità di pervenire "per proprio conto", nel corso dell'esistenza, alla perfetta padronanza della propria lingua. Secondo tale "linguistica regia", il vernacolo è terreno del suddito, intoccabile quanto i pascoli comunali, quanto "los fueros", cioè il tribunale spagnolo degli scabini, e altre forme "comunitarie". Alla sovrana sembra che il vernacolo sfugga all'autorità del monarca iberico. La regina tradizionale, che vuole creare lo stato nazionale, non è ancora in grado di cogliere la logica insita nella proposta di Nebrija; ma è proprio la sua prima reazione a sottolinearne l'originalità. La discussione in merito al progetto di Nebrija relativo alla necessità di imparare a parlare la propria lingua materna, deve aver avuto luogo intorno al marzo del 1492, nello stesso periodo cioè in cui Colombo illustrava il proprio piano alla regina. In un primo momento, Isabella disse di no a Colombo, seguendo il parere dei suoi consiglieri tecnici: il genovese aveva infatti calcolato erroneamente la circonferenza del globo. Ma la proposta di Nebrija fu da lei respinta per un motivo diverso: il regio rispetto per l'autonomia linguistica dei propri sudditi. Questo rispetto della Corona per l'autonomia di ogni villaggio, per il "fuero del pueblo", per il giudizio dei propri pari, era considerato dal popolo e dal sovrano la libertà fondamentale dei cristiani impegnati nella "Reconquista" della Spagna. Nebrija contesta questo pregiudizio tradizionale e tipicamente iberico di Isabella - l'idea che la Corona non possa violare le diverse consuetudini dei suoi regni - ed evoca l'immagine di una nuova missione universale per una Corona "moderna". Alla fine, Colombo la spuntò Perché i suoi amici francescani lo dipinsero alla regina quale uomo ispirato da Dio a realizzare la missione mistica della regina stessa. Non diversamente procede Nebrija. Conclude la sua petizione facendo appello allo "spirito di Granada", vale a dire al fatale destino della regina, che è di conquistare non solo l'Andalusia, ma il mondo intero, e di assoggettarlo alla Fede. Sia Colombo sia Nebrija offrono i propri servigi a una fondatrice di imperi di tipo nuovo. Ma Colombo propone soltanto di spingere le caravelle, da poco inventate, sino ai limiti delle loro possibilità, per

estendere il potere regio a quella che diverrà poi la Nuova Spagna. Nebrija va più a fondo - propone l'introduzione della sua grammatica per imporre lo spirito del futuro stato nazionale alla lingua della nazione, e così dominare le forme di pensiero, il modo di vivere e la carne e le ossa dei popoli della regina. Uomini e donne non avranno più un modo proprio di esprimersi semplicemente Perché cresciuti ognuno in una diversa vallata. No, d'ora in poi dovranno tutti esprimersi con le parole che la regina metterà loro in bocca per mezzo dei maestri di scuola. La regina sa di essere la padrona dei suoi popoli, dotati dell'uso della parola e che costituiscono le fondamenta del regno. Nebrija le indica la strada verso un dominio nuovo, astratto, su esseri umani privi di parola. Una guerra, durata cinquecento anni, contro la sussistenza, ha quindi inizio con l'abolizione delle comunità dei parlanti e con l'imprigionamento linguistico, travestito da istruzione, dei futuri cittadini dello stato.

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2. La lingua materna come mercé Gli storici hanno scelto il viaggio di Colombo in partenza da Palos come la data che segna il passaggio dal Medioevo all'epoca moderna, termine comodo per i vari curatori di manuali scolastici. Ma il mondo di Tolomeo non si trasformò in un anno nel mondo di Mercatore, e il mondo del vernacolo non divenne l'era del pedagogo da un giorno all'altro. Al contrario, la cosmografia tradizionale fu solo un po' alla volta adeguata alla crescente vastità delle esperienze. A Colombo seguì Cort‚z, a Copernico Keplero, a Nebrija Comenio. A differenza delle concezioni personali, il mutamento della visione del mondo che ha portato alla dipendenza da prodotti e servizi ha richiesto cinquecento anni. La frequenza di spostamenti della lancetta dell'orologio dipende dal numero delle cifre sul quadrante. I cinesi parlano di cinque tappe dello sviluppo, e per gli arabi arriva in sette fasi. Se dovessi descrivere l'evoluzione dell'"homo oeconomicus" da Mandeville a Galbraith passando per Marx, perverrei a una suddivisione per epoche diversa da quella che otterrei se volessi segnare le fasi attraverso le quali l'ideologia dell'"homo educandus" si è svolta da Nebrija a Comenio passando per Radke. Occorse un decennio e più Perché ci si convincesse che Colombo aveva scoperto, non soltanto una nuova rotta, bensì un nuovo emisfero. E assai di più è occorso per coniare la designazione di "Nuovo Mondo" per il continente della cui esistenza Colombo nulla sapeva. Oltre un secolo e mezzo passa tra Nebrija e Jan Amos Comenio, tra la "Gramatica, che voleva insegnare "soltanto" a parlare, e la "Didactica", che voleva insegnare "tutto". Nel 1492, Nebrija dovette ancora imporsi, lottare con la regina, Perché perfino per i sovrani era cosa inaudita che volesse dotare i sudditi di una lingua di scambio. Jan Amos Komensky (nome latinizzato in Comenius, e italianizzato in Comenio) nacque nel 1592. Lui vivente - morì nel 1670 - le cose non stavano più così, nel Vecchio come nel Nuovo Mondo, e risulta evidente da un episodio verificatosi allo Harvard College. A centocinquant'anni dalla pubblicazione della grammatica di Nebrija, John Winthrop junior era in viaggio per l'Europa, alla ricerca di un teologo e pedagogo disposto ad accettare il rettorato di Harvard. Una delle prime persone con cui si intrattenne fu il moravo Comenius, pastore e poi

vescovo della setta protestante dei "Fratelli Moravi". Winthrop lo trovò a Londra, dove Comenius stava organizzando la Royal Society e forniva consigli al governo in merito alle Public Schools. In "Didact¡ca Magna, vel Ars Omnibus Omnia Omnino Docendi", Comenius aveva compendiosamente definito le finalità della sua professione. L'istruzione comincia nell'utero e finisce solo con la morte. Tutto ciò che vai la pena di conoscere merita anche di essere insegnato con un particolare metodo appropriato al soggetto. Il mondo ideale dovrebbe essere organizzato in modo tale da funzionare come scuola per tutti. Solo allorché l'apprendimento sia il frutto dell'insegnamento, gli individui possono raggiungere la piena umanità. Coloro che crescono senza essere istruiti sono più animali che uomini. E il sistema scolastico deve essere organizzato in maniera che tutti, vecchi e giovani, ricchi e poveri, nobili e plebei, uomini e donne, imparino effettivamente e non solo in maniera simbolica e ostentata. Queste le idee messe per iscritto dal potenziale rettore di Harvard. Il quale tuttavia non attraversò mai l'Atlantico: quando Winthrop lo incontrò, aveva già accettato l'invito del governo svedese di creare un sistema scolastico nazionale per la regina Cristina. A differenza di Nebrija, Comenius non dovette mai comprovare l'utilità dei propri servigi, che erano sempre assai richiesti. Le comunità considerate intoccabili da Isabella, erano divenute riserva di caccia dei "letrados" spagnoli, gesuiti ed ecclesiastici cechi. La lingua materna insegnata in modo formale, secondo regole astratte, aveva cominciato a competere con il vernacolo e a limitarne il campo. La lingua regolamentata dai sovrani diviene così l'unico "mezzo di produzione" della "comunicazione" politica, e pertanto la parola vernacolare viene a essere spodestata; la "pubblicità" imposta dallo stato dissolve una a una le comunità. Il termine "vernacolo" deriva da una radice indogermanica che indica "radicamento" e "insediamento". In latino, "vernaculum" designava tutto ciò che nasceva, veniva tessuto, cresciuto e fatto in casa, in contrapposizione a ciò che ci si procurava con scambi formali. Il figlio della propria schiava, l'asino nato dalla propria giumenta, erano creature vernacolari, come i beni provenienti dall'orto o prodotti dai servi. "Vernacolo" fu usato in quest'accezione generica dall'epoca preclassica alle formulazioni teoriche come quelle reperibili nel Codice teodosiano. Fu Varrone a introdurre il termine. Per lui, l'idioma "vernacolare" consiste di parole e strutture sorte dal "letame proprio" del parlante e successivamente

trasmesso. Varrone distingueva "verbo vernacula" e "verbo peregrina". E siccome la sua autorità era ovunque accettata, la definizione si impose. Varrone fu il bibliotecario di Cesare e di Augusto, e il primo romano ad aver tentato un approfondito studio critico della lingua latina, tanto che il suo "De lingua latina" fu per secoli una fonte fondamentale. E Quintilliano, il maestro d'origine spagnola dei futuri senatori romani, che riteneva Varrone il più colto dei latini, viene tuttora presentato ai futuri insegnanti quale uno dei fondatori della loro professione. Tuttavia, né l'uno né l'altro può essere paragonato a Nebrija. Sia a Varrone che a Quintilliano interessava dar forma alla eloquenza dei senatori e degli scrivani, alla lingua del foro; Nebrija invece aveva di mira l'idioma quotidiano dell'uomo della strada, capace di leggere e di prestare orecchio alla lettura. Insomma, Nebrija proponeva di sostituire il vernacolo con una lingua materna. Nell'inglese, la parola "vernacolo" è stata accolta nell'unica accezione alla quale Varrone aveva confinato il suo significato; vorrei però restituirle in parte l'antica significazione. Abbiamo infatti bisogno di una parola semplice, chiara, che designi le attività umane in quanto non motivate da atti di scambio, una parola che denoti azioni autonome, senza alcun rapporto con il mercato, mediante le quali la gente soddisfa bisogni quotidiani - quelle azioni che per loro natura sfuggono al controllo burocratico, soddisfacendo bisogni ai quali, proprio in questo processo, conferiscono connotazione specifica. "Vernacolo" appare quale una vecchia, buona parola atta allo scopo e accettabile da molti contemporanei. Ci sono termini tecnici che indicano la soddisfazione di quei bisogni che gli economisti non sono in grado di misurare - la produzione sociale contrapposta alla produzione di merci, l'economia domestica contrapposta all'economia di mercato. Ma sono tutti termini specialistici, colorati da pregiudizi ideologici, e tutti, ciascuno a suo modo, zoppicanti. Inoltre, ognuno dei due termini antitetici favorisce dal canto suo la confusione, assimilando le attività "vernacolari" all'attuale lavoro-ombra non remunerato. E' proprio questo l'equivoco che intendo eliminare. Abbiamo bisogno di un semplice aggettivo che designi quelle attività che vanno difese dalle manipolazioni o misurazioni dei "Chicago Boys" di Milton Friedman. E "vernacolo" può rispondere allo scopo in inglese, francese, spagnolo, italiano, anche se in tedesco sarebbe preferibile l'uso del termine "gemein", comune, che però, come afferma Jacob Grimm, "da antico, importante, nobile termine, è ora scaduto". Quando parlo di

linguaggio vernacolare e delle possibilità di recuperarlo, tento di richiamare l'attenzione sulle caratteristiche di un modo di vivere, agire e fare vernacolare, e di indurre a discuterne: un modo che potrebbe colorare di s‚ l'esistenza in un'auspicabile società futura. Il termine "lingua materna", dacché è in uso, non ha mai designato il vernacolo, bensì il suo comune opposto. La parola fu usata da monaci cattolici per indicare una particolare lingua che essi adoperavano al posto del latino parlando dal pulpito. In precedenza, nessuna cultura indogermanica aveva visto nella madre la fonte della lingua. In sanscrito il termine venne introdotto solo nel Diciottesimo secolo come traduzione dall'inglese, ed esso non ha radici in nessuna delle altre grandi famiglie linguistiche tuttora parlate che ho avuto modo di esaminare. Il solo popolo classico che considerasse la propria patria una sorta di madre fu il cretese, tanto che secondo Bachofen in questa cultura sopravvivevano tracce di un antico ordine matriarcale. Tuttavia, neppure a Creta esisteva un equivalente della lingua "materna". Per poter risalire all'associazione che sta all'origine della denominazione, sarà opportuno soffermarsi su ciò che accadde alla corte di Carlo Magno e su ciò che si verificò in seguito nell'abbazia benedettina di Gorze, in Francia. L'idea che gli esseri umani siano nati in condizioni tali da aver bisogno di servizi istituzionali forniti da esperti organizzati, per accedere a quell'umanità alla quale per nascita tutti sono destinati, è reperibile a partire dall'epoca carolingia. Fu allora che, per la prima volta nella storia, si scoprì che esistono bisogni fondamentali, esigenze comuni a tutta l'umanità, che pretendono soddisfazione secondo modalità estranee alla vernacolarità: scoperta da ricollegarsi alla riforma della Chiesa avvenuta nell'Ottavo secolo. Il monaco scozzese Alcuino (circa 735-804), direttore della scuola di York e divenuto filosofo di corte di Carlo Magno, ebbe parte di primo piano nella riforma in questione. In precedenza, la Chiesa aveva considerato i propri ministri anzitutto come preti, vale a dire uomini selezionati e investiti di particolari poteri atti al soddisfacimento di necessità liturgiche e pubbliche. Predicavano in occasioni rituali e guidavano i cortei funebri; fungevano da pubblici funzionari, analogamente a quelli grazie ai quali lo stato provvedeva all'amministrazione della giustizia o, in epoca romana, alle opere pubbliche. Considerare funzionari del genere alla stregua di "esperti" sarebbe un'anacronistica estensione di categorie contemporanee. Poi però, a partire dall'Ottavo secolo, il sacerdote di tipo classico,

rispondente a modelli romani ed ellenistici, cominciò ad assumere la fisionomia di precursore dell'"esperto", vale a dire dell'insegnante, dell'assistente sociale o del pedagogo. I ministri della Chiesa cominciarono a provvedere alle necessità personali dei parrocchiani e a munirsi di una teologia sacramentale e pastorale atta a definire e stabilire la necessità di regolari prestazioni. L'assistenza istituzionalmente definita come destinata al singolo, alla famiglia e alla comunità di villaggio, venne così in primo piano. L'espressione "Santa Madre Chiesa" cessò in pratica di indicare la concreta assemblea dei fedeli il cui amore per impulso dello Spirito Santo genera nuova vita nell'atto stesso del riunirsi. Il termine "madre" designa d'ora in poi la Chiesa gerarchica, la sola capace di garantire i servigi assolutamente indispensabili per la salvezza, e l'accesso alle buone grazie di questa madre da cui dipende la redenzione universalmente necessaria è in tutto e per tutto controllato da una gerarchia di individui di sesso maschile insigniti degli ordini. Quest'interpretazione delle gerarchie maschili quali madre intermediaria dell'accesso alla fonte istituzionale della vita, è senza precedenti nella storia; solo tra il Nono e l'Undicesimo secolo prese forma l'idea che certi bisogni, comuni a tutti gli esseri umani, potessero essere soddisfatti esclusivamente grazie ai servigi di agenti professionali. La determinazione dei bisogni in termini di merci professionalmente definite nel settore dei servizi, precede dunque di un intero millennio la produzione industriale di prodotti di base universalmente necessari. Trentacinque anni fa, Lewis Mumford tentò di chiarire questa situazione. Quando lessi per la prima volta la sua affermazione, che la riforma monastica del Nono secolo aveva creato alcuni dei presupposti fondamentali su cui si basa il sistema industriale, non mi lasciai convincere da qualcosa che mi pareva più un'intuizione che una riprova. In seguito, però, ho scoperto una quantità di elementi convergenti, per lo più neppure sospettati da Mumford, che permettono di far risalire all'epoca della rinascita carolingia l'ideologia dell'epoca industriale. L'idea che non vi sia salvezza senza i servigi personali forniti da esperti in nome di una Madre Chiesa istituzionale costituisce uno di quegli sviluppi, fin qui trascurati, senza i quali la nostra epoca sarebbe impensabile. Certo, per elaborare il concetto in questione occorsero cinque secoli di teologia medioevale: solo alla fine del Medioevo si giunse a definire compiutamente l'immagine pastorale che la Chiesa si faceva di s‚; e solo con il Concilio di Trento (1545) l'immagine della Chiesa come madre allattante le gerarchie clericali ebbe formale definizione. Nel caso specifico, il punto cruciale è l'idea che

il clero possa definire i propri servigi in termini di esigenza della natura umana, e fare di questo bene-servizio qualcosa di talmente necessario che sia impossibile farne a meno senza mettere in pericolo la vita stessa. E' in quest'attribuzione di poteri spirituali a un'‚lite non ereditaria che vanno individuate le fondamenta in assenza delle quali il moderno stato di servizi, ovvero assistenziale, sarebbe inconcepibile. E' forse lecito affermare che ciò che distingue l'Europa e l'Occidente da altre epoche e luoghi, è la dipendenza del singolo da mammelle istituzionalmente provvidenziali, prima della Chiesa e poi dello stato. allorché l'Europa cominciò a prender forma come idea e come realtà politica, vale a dire tra l'epoca merovingia e l'alto Medioevo, l'idioma parlato non costituiva un problema, e veniva chiamato "romanzo" o "theudisk", cioè popolaresco. Solo più tardi la "lingua vulgaris" divenne il denominatore comune che distingueva l'idioma popolare dal latino dell'amministrazione statale e della dottrina ecclesiastica. A partire dall'epoca romana, il primo idioma di una persona era il "patrius sermo", la lingua del maschio capofamiglia. Ognuno di questi "sermones", ognuno di questi linguaggi parlati, era considerato una lingua a s‚. né nell'antica Grecia né nel Medioevo si faceva distinzione tra dialetti mutualmente comprensibili e lingue differenti, e lo stesso vale ancor oggi per gli idiomi popolari dell'India. Le comunità monolinguistiche erano e sono eccezioni. Dai Balcani alle frontiere occidentali della Indocina è tuttora raro trovare un villaggio in cui per farsi capire non occorra conoscere almeno due o tre lingue. Si suppone che ogni persona abbia il suo "patrius sermo" ereditato dal genitore, ma si da anche per scontato che quasi tutti parlino diverse lingue "volgari", ognuna appresa in maniera vernacolare, spontanea. Così la lingua comune, contrapposta alla lingua colta, specialistica - il latino per la Chiesa, il franco per la corte - rimase alcunché di ovvio, nella sua molteplicità, non meno del sapore dei vini e delle vivande, della forma locale di case e attrezzi, e ciò fino all'Undicesimo secolo. Poi, però, ecco all'improvviso comparire il concetto di lingua materna, precisamente nelle prediche di certi monaci dell'abbazia di Gorze. Era questa un'abbazia della Lorena, non lungi da Verdun. I monaci benedettini avevano fondato il monastero nell'Ottavo secolo sulle presunte ossa di San Gorgonio. Nel Nono secolo, epoca di generale decadenza della disciplina ecclesiastica, anche Gorze conobbe un palese declino. Ma tre generazioni più tardi, l'abbazia divenne il centro di irradiazione della riforma monastica nelle regioni germaniche dell'impero. La rinascita ivi

attuata della vita cistercense ha un preciso parallelo nell'opera svolta dall'abbazia riformatrice di Cluny. Nel giro di un secolo, furono fondate da Gorze centosessanta abbazie filiali nel settore nordorientale dell'Europa centrale. A quanto pare, Gorze era allora il punto di diffusione di una nuova tecnologia destinata poi a diventare indispensabile per l'espansione imperiale delle potenze europee: la trasformazione del cavallo in una macchina da traino fruibile a piacimento. Quattro invenzioni asiatiche - il ferro da cavallo, la sella ad arcione con cinghia e staffe, il morso e il collare - permisero cambiamenti di vasta portata. Un solo cavallo poteva sostituire sei buoi; pur garantendo la stessa trazione a una velocità maggiore, per nutrirsi aveva bisogno di una superficie erbosa minore di quella necessaria a una coppia di buoi; grazie alla sua rapidità permetteva inoltre una più estesa coltivazione delle umide terre del nord, e ciò nonostante la brevità delle estati, rendendo inoltre possibile una più frequente rotazione delle colture. Ma, cosa di ancor maggiore importanza, il contadino poteva ora provvedere a campi situati in un raggio due volte più ampio della sua abitazione. Ne derivò una nuova organizzazione della vita consociata. Mentre un tempo si viveva in piccoli raggruppamenti di capanne e case, si poté ora riunirsi in villaggi sufficientemente ampi per mantenere una chiesa parrocchiale e, più tardi, una scuola. In una con la ristrutturazione dei moduli d'insediamento, si estesero a tutta quella parte dell'Europa, tramite decine di abbazie, la cultura e la disciplina monastiche. Gorze sorge nei pressi dello spartiacque che separa i vernacoli di tipo franco da quelli di tipo romanzo, e alcuni monaci di Cluny cominciarono a varcarlo. In tali circostanze, i frati di Gorze fecero della lingua, il loro idioma vernacolare, un punto fermo a difesa delle proprie aspirazioni territoriali di contro ai monaci francesi. Cominciarono a predicare in franco, sottolineando il valore di tale lingua; e presero a servirsi del pulpito come di un foro per accentuare l'importanza della lingua in quanto tale, e forse anche per insegnarla. Da quel poco che ne sappiamo, risulta che si avvalsero di due elementi. In primo luogo, il fatto che il franco era la lingua parlata soprattutto dalle donne, persino nelle zone in cui gli uomini cominciavano già a usare un vernacolo romanzo; in secondo luogo, che esso nel frattempo era divenuto la lingua assunta dalla madre Chiesa. Fino a che punto, nella religiosità del Dodicesimo secolo, l'immagine della maternità fosse impregnata di significati sacrali, lo si può dedurre

dall'osservazione delle coeve immagini della Vergine o dalla lettura delle sequenze liturgiche, le composizioni poetiche dell'epoca. Il termine "lingua materna" fin dall'inizio del suo impiego strumentalizzò il linguaggio quotidiano al servizio di una realtà istituzionale. La parola venne tradotta dal franco in latino con l'espressione "lingua materna". Rimase poi per secoli in incubazione quale raro termine latino, finché nei decenni antecedenti Lutero la "lingua materna" acquistò improvvisamente un significato particolarmente pregnante, passando a indicare il linguaggio creato da Lutero per tradurre la Bibbia ebraica, quello insegnato dai maestri di scuola per dar modo di leggere il Libro, e successivamente la lingua che contribuiva a giustificare l'esistenza degli stati nazionali. La lingua materna si contrappone dunque alla lingua comune, intendendo con la prima, non già l'espressione collettiva di una comunità, bensì lo strumento linguistico che una società razionalmente organizzata crea per s‚, mantenendolo, difendendolo e imponendolo a tutti i propri membri. Sicché, la "lingua materna" designa, a differenza della lingua comune vernacolare, anche un programma di prestazione lavorativa. Le parole costituiscono oggi una delle due principali categorie di valori negoziabili che compongono il prodotto nazionale lordo (P.N.L.). Il denaro decide per di più che cosa verrà detto, a chi lo si dirà, quando e a quali persone sono destinati i messaggi. Quanto più è alto il costo di ogni parola pronunciata, tanto più forte è l'eco che ce ne si aspetta. A scuola la gente impara a parlare come si deve. Si spendono quattrini per far sì che i poveri parlino come i ricchi, i malati come i sani, le minoranze come le maggioranze. Noi paghiamo per migliorare, correggere, arricchire, aggiornare il linguaggio dei bambini e dei loro maestri. E ancora di più spendiamo per i gerghi professionali insegnati nelle università, e più ancora per dare agli studenti delle medie un'infarinatura dei gerghi in questione: già sufficiente, tuttavia, a dar loro il sentimento della dipendenza dallo psicologo, dal farmacista o dal bibliotecario che padroneggiano un linguaggio specializzato. E ci spingiamo più in là ancora: innanzitutto, permettiamo che la lingua standardizzata degradi la lingua etnica, quella del sottosuolo e delle foreste vergini, e poi spendiamo quattrini per insegnarne le contraffazioni come materie accademiche. Amministratori e gente di spettacolo, pubblicitari e giornalisti, politici rappresentanti delle minoranze ed esperti "radicali" creano potenti gruppi d'interesse, ognuno dei quali si batte per una fetta sempre più grossa della torta del linguaggio.

Non so quanto si spenda negli Stati Uniti per fabbricar parole, ma prima o poi qualcuno ce ne fornirà le indispensabili tabelle statistiche. Oggi si può facilmente scoprire quante "unità energetiche" si consumano per coltivare, mietere, imballare, trasportare e mettere in vendita una caloria commestibile sotto forma di pane. La differenza tra il pane che si produce e si mangia in un villaggio della Grecia e quello reperibile in un supermercato statunitense è enorme: ogni caloria di quest'ultimo contiene circa quaranta volte più energia. Andare in bicicletta in città permette a una persona di spostarsi quattro volte più rapidamente che a piedi, spendendo un quarto di energia, mentre le auto, per lo stesso percorso, richiedono per ogni chilometro-passeggero un numero di calorie centocinquanta volte maggiore. Informazioni del genere erano già disponibili dieci anni fa, ma nessuno ci faceva caso; oggi se ne tiene conto, e presto porteranno a un cambiamento di atteggiamento generale circa il problema dei combustibili. E sarebbe interessante sapere quale aspetto assumerà una quantificazione del linguaggio, Perché una analisi linguistica del linguaggio contemporaneo non potrà dirsi completa finché non conosceremo, per ogni gruppo di parlanti, la quantità di denaro spesa per formare il discorso del cittadino medio. Come le quantificazioni dell'energia sociale sono soltanto approssimative e ci permettono, nella migliore delle ipotesi, di identificare non più degli ordini di grandezza entro i quali si collocano i valori relativi, così una quantificazione del linguaggio ci fornirebbe soltanto dati sulla prevalenza in una popolazione di un linguaggio standardizzato e insegnato - sufficienti tuttavia ai fini delle mie ulteriori considerazioni. Ma la mera spesa pro capite per formare il linguaggio di un gruppo di parlanti non ci dice abbastanza circa l'economia della lingua. Apprenderemmo sicuramente che ogni parola pagata destinata ai ricchi costa, sempre pro capite, assai più di quelle destinate ai poveri, Perché la lingua insegnata è offerta in qualità assai diverse. Ai poveri, per esempio, vengono distribuiti linguaggi assai più a buon mercato di quelli dei ricchi che possono comprarsi gli insegnanti e, cosa ancor più importante, proteggere il loro aristocratico vernacolo pagando per il silenzio. Il pedagogo, il politico e l'uomo di spettacolo arrivano ora con un altoparlante a Oaxaca, a Trevancore, nella comune cinese, ed essere povero significa oggi non potersi salvare dall'altoparlante e dall'insegnante. mercé e rivoluzione, educazione e sviluppo soffocano quel silenzio collettivo che costituisce il terreno di coltura della lingua comune. Come il traffico elimina il valore d'uso dei piedi, almeno per la maggioranza, così l'altoparlante toglie la parola di bocca ai più.

Tuttavia, pur senza apporre al silenzio il cartellino col prezzo, e anche in mancanza di un'esauriente economia del linguaggio, di cui comunque mi piacerebbe disporre, posso concludere che i dollari spesi per alimentare i motori della nazione sono poca cosa se paragonati a quelli che ora si spendono per prostituire la lingua in bocca a parlanti retribuiti. Nei paesi ricchi, la lingua è diventata incredibilmente spugnosa, capace di assorbire enormi investimenti. Generosi investimenti per coltivare il linguaggio del mandarino, dello scrittore, dell'attore o dello stregone sono sempre stati segno di alta civiltà; ma si trattava di sforzi volti a insegnare alle ‚lite codici particolari. Persine il costo del necessario per insegnare, in società tradizionali, il latino o l'arabo quali linguaggi segreti, è incomparabilmente inferiore alla capitalizzazione della lingua nelle società industriali. Nei paesi poveri, le persone continuano pur sempre a parlare tra loro senza l'esperienza di una lingua capitalizzata, anche se in ciascuno di tali paesi non manca mai una piccola ‚lite che riesce ad accaparrarsi una parte sempre maggiore del reddito nazionale per il proprio linguaggio di prestigio. Ma mi domando: che cosa c'è di diverso tra il parlare quotidiano di coloro la cui lingua assorbe, sopporta, sperimenta, soffre, gode di grossi investimenti, a quella di individui che sono rimasti fuori dal mercato? Confrontando questi due mondi linguistici, intendo appuntare l'interesse su una sola delle questioni che si pongono in tale contesto. La struttura e la funzione di una lingua cambiano con il volume degli investimenti a essa destinati? E queste alterazioni sono di tale natura che tutte le lingue le quali assorbono capitali mostrano mutamenti affini? In questa prima indagine sul tema mi riesce impossibile comprovarlo, ma ritengo che le mie argomentazioni siano tali da rendere entrambe le asserzioni assai plausibili, dimostrando che varrebbe la pena di dedicarsi a una linguistica a orientamento strutturale. L'insegnamento del linguaggio quotidiano non ha precedenti nelle culture preindustriali. L'attuale dipendenza da insegnanti pagati e da modelli di linguaggio corrente è una caratteristica esclusiva dell'economia industriale, al pari della dipendenza dai combustibili fossili. La necessità dell'insegnamento di una lingua materna è stata scoperta già quattro secoli fa, ma solo durante la nostra generazione lingua ed energia sono state effettivamente trattate come bisogni universali che possono essere soddisfatti per tutti mediante una produzione e una distribuzione pianificate e programmate. Ciò Perché, diversamente che nel caso del vernacolo, possiamo a buon diritto affermare che la lingua capitalizzata è

frutto della "produzione". Le culture tradizionali dovevano la propria sussistenza alla luce del sole, captata soprattutto dall'agricoltura. La zappa, il canale di irrigazione, il giogo, erano i principali mezzi di utilizzazione del sole. Grandi pale e ruote ad acqua erano conosciute ma raramente impiegate. Le culture in questione conducevano un'esistenza sostanzialmente fondata su valori vernacolari; in tali società gli utensili erano di fatto prolungamenti delle braccia, delle dita e delle gambe. Non occorreva produrre energia in impianti centralizzati per distribuirla alla clientela, così come non c'era bisogno di una produzione linguistica. La lingua veniva attinta da ciascuno dal proprio ambito culturale, dall'incontro con altri individui che si potevano annusare e toccare, amare o odiare. Il vernacolo si diffondeva allo stesso modo con cui venivano per lo più ripartiti cose e servizi, e cioè attraverso forme molteplici di reciprocità, non già diventando clienti di un insegnante o di un professionista appositamente incaricato. Come non si distribuiva il combustibile, così non si insegnava la lingua. C'erano, sì, lingue che venivano insegnate, ma erano rare. Facile costatare che in quasi tutte le culture l'idioma era frutto di conversazioni integrate nella vita quotidiana, dell'ascolto di litigi e ninnananne, chiacchiere, fiabe e sogni. Ancor oggi, nei paesi poveri la maggior parte delle persone accumulano l'intero loro patrimonio linguistico senza docenti retribuiti e senza che si faccia alcun tentativo di insegnar loro a parlare come si deve. E arrivano a esprimersi in modo neppure lontanamente paragonabile a quelle imbarazzate, presuntuose e incolori ciarle che sempre mi orripilano quando metto piede in un'università americana dopo un lungo soggiorno in villaggi dell'America del Sud o dell'Asia sudorientale. Mi fanno pena quegli studenti che l'insegnamento ha reso sordi dal punto di vista espressivo, che hanno perso la facoltà di cogliere la differenza tra le asserzioni devitalizzate del linguaggio televisivo standardizzato e il vivace linguaggio dei non scolarizzati. Ma che altro aspettarsi da persone che non si sono alimentate al seno materno, bensì a inerti prodotti, latte condensato se vengono da famiglie povere, una miscela confezionata sotto la tutela di Ralph Nader se hanno visto la luce nella cerchia degli illuminati? Per chi sia stato abituato a scegliere tra prodotti artificiali, il seno materno non è che una delle opzioni possibili. Allo stesso modo, per chi è stato intenzionalmente "istruito" ad ascoltare e a parlare, il vernacolo acquisito senza un maestro sembra soltanto uno dei tanti modelli disponibili, e per di più meno sviluppato di altri.

Ma non è affatto così. Il linguaggio che sfugge all'insegnamento razionale costituisce un fenomeno sociale ben diverso dalla lingua deliberatamente insegnata. Quando una lingua non insegnata serve a designare le cose di un mondo condiviso, il mondo è padroneggiato. Tramite la lingua prodotta, viene invece consegnata la realtà propria dei produttori: il parlare non colloca più il parlante al centro del suo mondo, ma ne fa il prigioniero di una lingua. Uno dei modi in cui si palesa questa differenza è il sentimento di dominio della lingua nel corso della sua acquisizione. Ancora oggi i poveri dei paesi non industrializzati di tutto il mondo sono poliglotti. Il mio amico orafo di Timbuctu parla songhai a casa, ascolta la radio in bambara, cinque volte al giorno dice devotamente, e almeno in parte comprendendole, le sue preghiere in arabo, nel "souk" riesce a farsi capire con due idiomi commerciali e conversa nel discreto francese che ha captato da militare e nessuna di queste lingue gli è stata insegnata in modo formale. Non si è mai proposto di impararle. Ognuna di esse è qualcosa di simile a uno stile secondo cui rammentare determinate esperienze inserite nel contesto di quella lingua. Le comunità prevalentemente monoglotte sono rare, se non in tre precise situazioni: comunità tribali che non abbiano ancona superato la fase del neolitico recente; comunità che abbiano subito a lungo forme eccezionali di discriminazione; cittadini degli stati nazionali che abbiano goduto per più generazioni dei "benefici" della scolarizzazione obbligatoria. Dare per scontato che la gente sia per lo più monoglotta, è tipico degli appartenenti alla classe media. La meraviglia di fronte al poliglotta vernacolare rivela infallibilmente l'arrampicatore sociale. Nel corso della storia ha sempre avuto il predominio la lingua non insegnata, che però non è quasi mai stata l'unico tipo di lingua nota. Nelle culture tradizionali si captava una certa quantità di energia con mulini a vento e canali, e i possessori di imbarcazioni di grandi dimensioni o quanti si trovavano in punti favorevoli lungo un corso d'acqua potevano servirsi delle loro attrezzature ai fini di un vantaggioso trasferimento di energia; allo stesso modo, certuni si sono sempre valsi di una lingua frutto di apprendimento per assicurarsi privilegi. Ma codesti codici sussidiari rimanevano casi particolari o rispondevano soltanto a finalità limitatissime. La lingua del popolo sino a Nebrija fu prevalentemente vernacolare e, che si trattasse dell'idioma corrente, di una lingua commerciale, di quella della preghiera, del gergo di un mestiere, della contabilità, dell'intimità o di una particolare età (per esempio, il balbettio

infantile), veniva appresa incidentalmente, quale parte integrante di una vita quotidiana ricca di significato. Certo, si insegnavano formalmente il latino o il sanscrito ai sacerdoti, e le lingue di corte come il francese, il persiano o il turco ai futuri scrivani. I neofiti venivano formalmente iniziati al linguaggio dell'astronomia, dell'alchimia o, più tardi, della massoneria. E ovviamente la conoscenza di una di cedeste lingue formalmente insegnate innalzava un individuo al di sopra degli altri, così come la sella eleva l'uomo libero al di sopra dei servi della gleba formanti la fanteria o il ponte di comando il capitano al di sopra della ciurma. Ma anche quando l'iniziazione permetteva l'accesso a un linguaggio elitario, ciò non significava necessariamente che esso venisse insegnato. Molto spesso, il processo dell'iniziazione formale non trasmetteva all'iniziato una nuova competenza linguistica, ma si limitava a esentarlo da un tabù che vietava ad altri di usare certi termini o di prendere la parola in certe occasioni. L'iniziazione dei maschi al linguaggio della caccia o della sessualità è probabilmente l'esempio più diffuso di tale detabuizzazione ritualmente selettiva della lingua. Ma, indipendentemente dall'entità e diffusione dell'insegnamento, la lingua che ne era il frutto ben di rado sostituiva il vernacolo. né la presenza, in tutte le epoche, di un certo insegnamento della lingua, né la diffusione di certe lingue pel tramite di predicatori o attori professionali infirma la sostanza della mia argomentazione: all'infuori di quelle società, che oggi chiamiamo moderne ed europee, mai si è tentato di imporre a intere popolazioni un linguaggio quotidiano sottoposto al controllo di insegnanti o dicitori retribuiti. Sino a poco tempo fa, il linguaggio quotidiano non era mai il prodotto di un preciso progetto; mai era pagato e distribuito come una mercé. E se lo storico che si interessi alle origini degli stati nazionali non può non prestare attenzione anche all'imposizione di una lingua nazionale, gli economisti trascurano in genere il fatto che questa lingua materna insegnata è stata la prima mercé specificamente moderna, il modello di tutti i futuri "bisogni fondamentali". Prima di passare al contrasto tra lingua corrente insegnata e vernacolo, tra lingua costosa e lingua gratuita, devo far rilevare un'altra differenza. La linea di demarcazione tra lingua materna insegnata e vernacolo, a mio giudizio non coincide con quella dei linguisti che distinguono tra lingua superiore di un'‚lite e dialetto parlato dalle classi inferiori, né con la frontiera che separa lingue regionali e superregionali, e nemmeno con la distinzione tra codice rigoroso e codice permissivo oppure con la

differenziazione tra lingua del letterato e quella dell'analfabeta. Una lingua può essere vernacolare (nell'accezione in cui uso qui il termine) oppure insegnata, indipendentemente dal fatto che sia costretta entro limiti geografici, tipica di uno strato sociale, specializzatamente destinata a un ruolo sessuale o a una casta. La lingua elitaria, la lingua commerciale, la seconda lingua, l'idioma locale, non sono nulla di nuovo. Ma ognuna di esse può essere formalmente insegnata e il fantasma insegnato del vernacolo è fornito come una mercé - e questa sì che è cosa affatto nuova. Il contrasto tra queste due forme complementari acquista la massima evidenza e incidenza nel linguaggio insegnato quotidiano, cioè nella lingua corrente insegnata, nell'idioma d'ogni giorno insegnato e standardizzato. Ma anche qui dobbiamo evitare equivoci. Non tutte le lingue correnti sono insegnate o costrette nei vincoli di una grammatica. Nel corso della storia è sempre accaduto che un dialetto comprensibile a tutti abbia avuto la tendenza a predominare in una determinata regione. E tale forma di dialetto predominante è stata spesso accettata come lingua corrente. Trovava anche, più spesso di altri dialetti, espressione nella scrittura, ma non per questo lo si insegnava. La diffusione avveniva di solito mediante un processo più complesso e sottile. L'inglese delle Midlands, per esempio, emerse lentamente come seconda lingua corrente nella quale persone parlanti un qualsiasi dialetto inglese potevano egualmente comunicare tra loro. All'improvviso, la lingua delle orde mongole (l'urdu) prese forma nell'India settentrionale e nel giro di due generazioni divenne l'idioma corrente dell'Industané la lingua commerciale di un vasto territorio e il veicolo di deliziose poesie scritte in caratteri arabi o sanscriti. E non solo per molte generazioni non venne insegnata, ma i poeti che volevano perfezionare la loro arte si astenevano esplicitamente dallo studio dell'hindi-urdu, esplorando invece le fonti persiane, arabe o sanscrite che alla sua formazione avevano contribuito. In Indonesia, nel corso di una mezza generazione di resistenza ai giapponesi e agli olandesi gli slogan militanti di solidarietà e di lotta, i manifesti e le trasmissioni clandestine dei combattenti per la libertà diffusero il malese in ogni villaggio, con risultati ben più efficaci degli sforzi compiuti in seguito dal Ministero per la pianificazione della lingua istituito dopo l'indipendenza. Certo, la posizione dominante della lingua elitaria o standardizzata ha sempre potuto valersi del sostegno della tecnica della scrittura. La stampa ha moltiplicato la forza colonizzatrice della lingua elitaria; ma affermare che, in seguito all'invenzione della stampa, la lingua delle ‚lite fosse

senz'altro destinata a soppiantare le vernacolari, è solo frutto di miopia mentale ed equivale a dire che, dopo la bomba atomica, a essere sovrane saranno soltanto le superpotenze. Il monopolio storico delle burocrazie pedagogiche sulla stampa non significa che le tecniche tipografiche non possano essere usate per conferire nuova vitalità all'espressione scritta e nuove occasioni letterarie a migliaia di forme vernacolari. Il fatto che la stampa fosse in grado di incrementare la diffusione e la forza della lettura vernacolare non regolamentata, costituiva la massima preoccupazione di Nebrija, donde il suo accanimento "contro" il vernacolo; e che la stampa sia stata usata dall'inizio del Cinquecento (ma non nei primi quarant'anni della sua storia) soprattutto per imporre un idioma corrente standardizzato, non significa che il linguaggio stampato debba sempre essere insegnato. Lo statuto commerciale della lingua materna insegnata, la si chiami lingua nazionale, espressione letteraria standardizzata o linguaggio televisivo, si fonda in larga misura su assiomi mai verificati, ad alcuni dei quali ho già accennato. Che la stampa presupponga forme letterarie standardizzate; che i libri scritti in lingua standardizzata non possano essere letti se non da chi è stato scolarizzato in quella lingua; che la lettura sia per sua natura un'attività silenziosa, cui dedicarsi di norma da soli e in privato; che l'imposizione di una capacità universale di leggere alcune frasi e di metterle per iscritto garantisca a una popolazione non più proficuo accesso ai contenuti delle biblioteche: queste e altre illusioni sono coltivate allo scopo di aumentare il prestigio degli insegnanti, la vendita delle rotative, la classificazione dei cittadini secondo il loro codice linguistico e, a tutt'oggi, il prodotto nazionale lordo. Il vernacolo si diffonde con il suo uso pratico; viene appreso da persone che pensano ciò che dicono e dicono ciò che pensano a coloro con cui hanno a che fare nel contesto della vita quotidiana. Non così avviene col linguaggio insegnato. Colui dal quale lo apprendo non è una persona per cui provo simpatia o antipatia, bensì un insegnante professionista. Il modello della lingua corrente insegnata non è un individuo che dice ciò che pensa, bensì uno che recita cose inventate da altri. In questo senso un venditore ambulante che decanta i pregi della propria mercé con un linguaggio rituale non è un parlatore professionista, mentre ne sono i prototipi l'araldo del re o il comico che si esibisce alla televisione. La lingua insegnata è quella dell'annunciatore che si attiene a un testo imposto a un redattore da un pubblicista al quale un consiglio d'amministrazione h^ chiarito ciò che bisognava dire. La lingua insegnata è la morta, impersonale retorica di persone pagate per declamare, con finta convinzione, testi compilati da altri, a loro volta di solito pagati soltanto

per mettere assieme i testi stessi. Coloro che parlano codesta lingua insegnata imitano l'annunciatore del telegiornale, l'autore di sketch comici, l'insegnante che espone il contenuto del manuale seguendo un filo conduttore, il cantante di versi pre-scritti o il presidente che pronuncia discorsi redatti da un "negro". E' un linguaggio implicitamente menzognero allorché me ne servo per dire pubblicamente qualcosa a un altro, Perché destinato allo spettatore che assiste alla scena. E' il linguaggio della farsa, non del teatro; del gigione, non del vero artista. Il linguaggio dei media si rivolge sempre a quel determinato tipo di pubblico che l'inserzionista vuoi raggiungere, e raggiungere esattamente. Mentre il vernacolo è generato in me dal rapporto tra persone complete, impegnate nella conversazione, la lingua insegnata è in sintonia con altoparlanti che hanno il compito di chiacchierare a vuoto. Vernacolo e lingua materna insegnata sono in un certo senso i due estremi della gamma del linguaggio corrente. Una lingua sarebbe del tutto inumana se fosse esclusivamente insegnata. Questo intendeva Humboldt dicendo che la vera lingua può essere promossa ma non insegnata come la matematica. Essa è infatti ben più che non comunicazione, e solo le macchine possono comunicare senza riferimenti a radici vernacolari. A New York, il loro ciangottio monopolizza attualmente circa i tre quarti delle linee di cui dispone la società dei telefoni in virtù di una concessione che dovrebbe permettere conversazioni senza intoppi tra gli esseri umani. In parecchi stati oggigiorno la conversazione telefonica serale a tariffa ridotta è diventata impossibile Perché le linee sono bloccate da scambi di dati a tariffe ancora più basse. Si tratta dell'evidente pervertimento di un privilegio legale, frutto di arroganza politica e della degradazione del vernacolo a mercé di seconda categoria. Ma ancor più preoccupante e deprimente di questo abuso di un foro della libertà di parola da parte dei robot, è la frequenza di frasi fatte, degne di un robot, che infestano le rimanenti linee mediante le quali, almeno in teoria, le persone dovrebbero "parlare". Una crescente percentuale di questi scambi è, per stile e contenuto, puro insieme di vuote formule. In tal modo la lingua corrente nello spettro linguistico sempre più si allontana dal vernacolo spostandosi verso la "comunicazione" ad alta intensità di capitale, quasi fosse soltanto la variante umana dello scambio che ha luogo tra api, balene e computer. Certo, alcuni elementi o aspetti vernacolari continuano a sopravvivere - ma ciò vale anche per moltissimi programmi di computer. Non voglio dire, con questo, che il vernacolo muore, ma semplicemente che si inaridisce. Le lingue correnti americana, francese o tedesca sono diventate un

miscuglio composto da due tipi di idiomi: un cicaleccio insegnato e che ha tutta l'aria di una mercé, e uno zoppicante, rozzo e inceppato vernacolo che si sforza di sopravvivere. La lingua materna insegnata ha stabilito un ben radicato monopolio sul linguaggio parlato, come i mezzi di trasporto sulla mobilità o, più generalmente, le merci sui valori vernacolari. Una resistenza, a volte forte come un tabù sacrale, impedisce, a chi è condizionato dalla vita in una società industriale, di riconoscere la differenza di cui ci stiamo occupando -quella tra lingua capitalizzata e vernacolo ottenibile senza costi economicamente misurabili. E' lo stesso tipo di inibizione che rende difficile, per chi sia cresciuto entro un sistema industriale, avvertire la distinzione di fondo tra l'allattamento al seno e quello artificiale, tra letteratura e libro di testo, tra il chilometro percorso con le proprie gambe e il chilometro del passeggero - altrettante voci sotto le quali ho dibattuto in anni passati questo stesso problema. I più sarebbero probabilmente disposti ad ammettere che c'è un'enorme differenza, in fatto di sapore, significato e soddisfazione, tra un pasto cucinato in casa e uno spuntino preconfezionato da consumarsi davanti al televisore. Ma il riconoscimento e la comprensione di questa differenza sono facilmente impediti, soprattutto in chi si impegna nella battaglia per l'eguaglianza dei diritti, l'equità e l'assistenza ai poveri. Costoro sanno quante madri non hanno latte al seno, quanti bambini del South Bronx soffrono di carenza proteica, quanti messicani, che pure vivono circondati da alberi da frutto, sono rachitici per deficienza vitaminica. Ma, non appena accenno alla distinzione tra valori vernacolari e valori suscettibili di misurazione economica e quindi di gestione burocratica, c'è sempre qualcuno, autonominatosi paladino del proletariato, che mi accusa di evitare il problema cruciale dando importanza eccessiva a quisquilie non economiche. Non si dovrebbe piuttosto mirare a un'equa distribuzione delle merci indispensabili a soddisfare i bisogni fondamentali degli esseri umani? La poesia e la pesca sportiva potranno poi aggiungersi senza troppe preoccupazioni o sforzi. Così suonano Marx e il Vangelo secondo Matteo letti dalla teologia della liberazione. Una lodevole intenzione si avvale, nel caso specifico, di un ragionamento che sarebbe stato riconosciuto illogico nel Diciannovesimo secolo e che innumerevoli esperienze hanno dimostrato falso nel Ventesimo. A tutt'oggi, ogni singolo tentativo di sostituire un valore vernacolare con una mercé universale ha portato, non già all'eguaglianza, bensì a un ammodernamento gerarchico della povertà. Con il nuovo

ordinamento distributivo, i poveri non sono più quelli che sopravvivono grazie alle loro attività vernacolari in quanto hanno solo possibilità di accesso marginali, o addirittura nulle, al mercato. No, i poveri modernizzati sono quelli che vedono maggiormente restringersi, nella parola e nell'azione, il proprio ambito vernacolare - coloro che traggono scarsissime soddisfazioni dalle poche attività vernacolari cui possono ancora dedicarsi. Il secondo tabù che mi propongo di infrangere non si fonda sulla distinzione tra vernacolo e lingua madre insegnata, e neppure sulla distruzione dei valori vernacolari a opera dell'assoluto monopolio della lingua madre sull'idioma, e neanche sulla sclerosi del vernacolo accentuato da pregiudizi di classe. Questi tre aspetti, anche se oggi si è ben lungi dal comprenderli appieno, sono stati oggetto di ampie discussioni in tempi recenti. Il punto essenziale, che viene così pervicacemente ignorato, è affatto diverso: la lingua materna viene sempre più insegnata, non da agenti retribuiti, bensì da genitori non retribuiti, i quali privano i propri figli dell'estrema possibilità di prestare orecchio ad adulti che abbiano qualcosa da dire l'uno all'altro. Situazione che mi è risultata evidente qualche tempo fa, quando a New York ho rimesso piede in un quartiere che pochi decenni prima avevo conosciuto bene. Il South Bronx. Ci ero andato su invito di un giovane professore universitario sposato con una collega, il quale voleva che io apponessi la mia firma in calce a una petizione a favore di un programma compensatorio di addestramento pre-asilo infantile all'uso della lingua per gli abitanti di uno slum di grandi casamenti in parte distrutti da un incendio. Già due volte, con molta decisione ma anche con molti scrupoli di coscienza, avevo opposto un rifiuto. Per vincere la mia resistenza a quest'espansione dei servizi pedagogici, il giovane professore mi portò a visitare genitori bianchi, neri e colorati, in sedicenti famiglie di solito con la sola madre o il solo padre. Vidi così decine di bambini che scorazzavano per inabitabili pianerottoli di cemento, esposti per tutta la giornata a frastornanti trasmissioni radiofoniche e televisive in inglese, in spagnolo e persine in yiddish, e che sembravano sperduti nella lingua come nel paesaggio. Il mio amico insisteva Perché firmassi, io invece cercavo di fargli capire la necessità di proteggere quei bambini da un'ulteriore castrazione e dall'incarceramento nella sfera pedagogica. Parlavamo di cose diverse, non potevamo intenderci. E poi la sera, mentre cenavo a casa del mio amico, all'improvviso ho capito il Perché. Quell'uomo per il quale nutrivo profondo rispetto Perché aveva scelto di vivere in quell'inferno, aveva

cessato di essere un genitore per diventare esclusivamente un insegnante. Nei confronti dei propri figli, lui e sua moglie agivano "in loco magistri". I loro figli erano ridotti a crescere senza genitori Perché quei due adulti, con ogni parola che rivolgevano ai due maschi e alla femmina, non facevano che "educarli": durante tutta la cena mostrarono di essere perennemente consapevoli di dover formare la lingua dei loro rampolli e a me chiedevano di fare altrettanto. Per i genitori professionali che generano figli che professionalmente amano, che offrono gratuitamente i propri consigli semiprofessionali alle organizzazioni di quartiere, la distinzione tra il loro contributo non remunerato alla società burocratica e quello che potrebbe essere al contrario un recupero di ambiti vernacolari, rimane inafferrabile. Costoro sono vittime di un nuovo tipo di ideologia orientato verso lo sviluppo: la pianificazione e l'organizzazione di un'economia-ombra in espansione, l'ultima frontiera dell'arroganza dell'"homo oeconomicus".

3. Lavoro in proprio Prima del 1975, il termine "Eigenarbeit", (5) lavoro in proprio, nel tedesco non esisteva, mentre oggi comincia a farvi capolino. I media, che trasformano la lingua in mercé, hanno sete di nuove parole, ed ecco che è diventato facile inserire termini di nuovo conio nel tesoro della lingua moderna, mentre è difficile conservare, alla parola o alla locuzione in tal modo coniate, il significato desiderato. E' così accaduto che il termine "Eigenarbeit" sia diventato una sorta di Poltergeist linguistico. C'è chi rilutta il suo uso, altri ne sostengono l'utilità. Per me e per certi miei amici è triste costatare che i suoi contorni siano rimasti nebulosi, dal momento che mi piacerebbe potermene servire come di una categoria analitica. E' una parola che scandalizza più d'uno: i funzionari delle imposte, Perché è un invito a un lavoro alternativo che sfugge alle maglie dei loro controlli, a quel lavoro nero che non rientra nei loro schemi interpretativi. Il sindacalista vorrebbe cancellare il termine Perché pallia lo sfruttamento del salariato. Gli esperti vi vedono un espediente inteso a legittimare l'uso improprio di conoscenze specifiche ottenute in maniera illegale. Per il medico puzza di ciarlataneria, per il ginecologo di femminismo, per il consulente di dilettantismo. Per il pianificatore e l'ideologo, è una minaccia di anarchia. Per altri, soprattutto gli uomini politici, il termine torna opportuno, e ciò Perché le promesse di posti di lavoro più numerosi, di redditi più alti e di servizi migliori cominciano a suonare vuote. Ed ecco pertanto l'utilità di una parola che permette di gettare nello stesso calderone lavoro nero, sfruttamento, prestazioni autonome e il lavoro casalingo motivato dal cosiddetto amore. Per gli uomini politici, l'espressione "lavoro autonomo" potrebbe servire da slogan per tutte quelle attività che, a loro giudizio, le persone "oneste" dovrebbero svolgere volentieri. Un terzo gruppo preferirebbe interdire qualsiasi manifestazione del nuovo Poltergeist, per destinare la parola a un ambito in cui oggi siamo muti. Per le cose d'importanza vitale, quelle che non potevano essere commercializzate, i giuristi romani avevano a disposizione il termine "vernaculum"; nella lingua tedesca moderna manca un equivalente privo di ambiguità.

La parola "Eigenarbeit" è potente e bella, ed è quindi sorprendente che prima di Christine von Weizs„cker nessuno l'abbia esplicitamente coniata. E' una parola che può esistere solo in tedesco, unica lingua che ponga una distinzione fra "eigen" (proprio) e "selbst" (stesso, autonomo). Nel neoaltotedesco, "eigen" designa una forma paleogermanica dell'avere, del prendere e del possedere, che non esiste più dall'alto Medioevo; e, insieme con questa condizione giuridica prefeudale e superindividuale, è scomparsa anche la parola che la designava. Solo in tedesco si ha dunque un termine che si possa contrapporre al "selbst", stesso, autonomo, e precisamente "eigen", proprio, cosa questa che appare importante per il fatto che la parola "Selbsthilfe" (letteralm., autoaiuto; termine che designa l'assistenza) nel corso di due decenni è cresciuta ben al di là del suo stadio infantile, quand'era dettata dalla moda, per assurgere a etichetta di programmi sociali. Si tratta di un ricalco tedesco del "self-help" dell'epoca dei Piani Marshall, quando dal proverbio "Help yourself and God will help you" è derivato il motto base del miracolo economico: "Help yourself and Uncle Sam will help you". In tempi kennediani, il termine è assurto a riscatto dei sottosviluppati. In seguito, dopo il Vietnam, è diventato il cavallo di battaglia del movimento alternativo, e contemporaneamente ha fatto la propria comparsa nei programmi degli addetti ai servizi. I pedagoghi sociali spingono allo "Selbsthilfe", i medici propagandano l'autopalpazione ("Selbst-betastung") mensile alla ricerca di sintomi cancerogeni, gli psicologhi organizzano gruppi di autoliberazione ("Selbstbefreiung") mediante psicodramma e autocoscienza. Spediamo architetti tedeschi a Giacarta e in Indocina Perché forniscano consigli circa la costruzione con mezzi autonomi ("Selbstbau") di slum. E Perché questi non deturpino l'immagine della città, ecco che gli indonesiani sono autorizzati, sì, a costruire le loro case pagandole di tasca propria, ma solo in base a concetti europei. L'impiego di mano d'opera non retribuita ai fini della realizzazione di piani stilati da esperti, ecco la nuova ricetta, grazie alla quale il montante esercito dei senzalavoro viene posto, in nome dello "Selbsthilfe", al servizio di una crescente statalizzazione dell'esistenza. Spacciare codesto "Selbsthilfe" così ricco di futuro per "lavoro in proprio" è una deformazione non diversa da quella del Diciannovesimo secolo, quando lo sfruttamento tramite il lavoro salariato veniva mascherato con la "gioia del lavoro" allora inventata. Lo "Selbsthilfe" in questione scinde il soggetto agente in un produttore e

un consumatore. I termini "Selbstunterricht" (autoistruzione, autodidattica) e "Selbstpflege" (mutualità) proiettano il sistema industriale nel singolo. "Selbsthilfe" è, a rigor di termini, un concetto masturbatorio. La parola masturbazione deriva dal latino, ed è composta da "manu" (con la mano) e "stuprum", è cioè stupro compiuto con la mano. E l'autostupro che viene predicato scinde il soggetto agente, si tratti del singolo o di un gruppo, in uno che aiuta ("hilft") e uno che viene aiutato ("geholfen wird"). La "selfmedication" (in inglese, autoterapia) mi scinde in un medico e nel paziente del medico stesso. La parola di per s‚ fa di me un collega del medico e insieme il suo cliente. Lo "Selbsthilfe" diviene così un mezzo per soddisfare, anche con indici di produzione in calo, bisogni mercificati mediante una produttività introiettata. E così l'ideologia dello "Selbsthilfe", inteso in senso masturbatorio, impartisce nuovo slancio al sistema industriale, poich‚ autorizza i vari specialisti del terziario a controlli di qualità di una produzione di merci introiettata. Il medico può intendere quale proprio assistente l'autoterapeuta che munisce della competenza di curare il suo unico paziente. Non desta quindi meraviglia il fatto che il prefisso "selbst" negli anni Sessanta sia diventato, da espressione di moda, una voce capitale della politica sociale progressista. Al pari del focolare domestico, il "Selbst" è borghesemente accettabile. Entrambi sono ambiti in cui l'attività produttiva di una parte "soddisfa" l'altra parte; entrambi presuppongono la divisione industriale della prestazione lavorativa economica. Come la casalinga è il contraltare di chi la mantiene, il "Selbst" domestico fa da contraltare alla parte produttiva del "Selbst". E, se da un lato l'accoppiamento è col lavoro salariato, nel caso dello "Selbsthilfe" lo è con il lavoro-ombra disciplinato. A quest'uso retrogrado del "Selbst", noi in tedesco possiamo contrapporre la parola "eigen". Semprech‚ non venga troppo stiracchiato, "eigen" non permette una simile socializzazione mercificata. Un uomo come me, al quale in vita non è stato dato di parlare con molta frequenza il tedesco, sa bene quanto sia preziosa questa possibilità di contrapposizione. Soltanto in tedesco risulta evidente l'antitesi frutto di semplici parole. Ed ecco così che in tedesco posso parlare, decidere, sentire, agire, "eigenh„ndig" (letteralm., di proprio pugno, cioè in maniera che appartiene soltanto a me), "auf Grund eigener Meinung" (letteralm., sulla scorta della propria opinione, vale a dire nella convinzione della propria indipendenza), "aus eigenem Antrieb" (di propria iniziativa) e "in meiner

eigentümlichen Art" (letteralm., al modo mio proprio, vale a dire nella maniera che mi caratterizza). Automatiche ("selbstt„tig"), anzi perfino autoregolantisi ("selbstpassend"), possono essere anche le macchine; ma soltanto gli uomini sono capaci di "Eigenarbeit" (lavoro autonomo). Vorrei pertanto tentare di sottrarre la parola "Eigenarbeit" al consumo politico. Dal punto di vista politico, essa acquista una colorazione soggettiva, quella di promessa di attività che vengono svolte o dovrebbero essere svolte volentieri. Propongo invece di usare la parola quale categoria analitica di un'attività per indicare la quale manchiamo di altre parole. Definisco "Eigenarbeit" soltanto quello con cui gli esseri umani del nostro tempo si distaccano dal consumo e dalla produzione mediante attività sociali. Si tratta dunque di qualcosa di impensabile nella maggior parte dei periodi storici. Qui non c'entra Diogene nella sua botte, e neppure Francesco d'Assisi, a parte il fatto che questi, a differenza del primo, è già rampollo di rapporti borghesi. La sua povertà "volontaria" è il rifiuto della produzione e la rinuncia al consumo. Quello che intendo definire "Eigenarbeit" non è necessariamente altrettanto sublime. L'"Eigenarbeit" è rinuncia attiva al consumo e alla produzione, motivato da illuminato edonismo. Si contrappone dunque chiaramente allo "Selbsthilfe" gerarchicamente gestito, come io definisco il lavoro-ombra. L'espressione "Eigenarbeit" designa pertanto una forma di attività storicamente nuova. E sempre esistita, ed esiste tuttora, un'economia di sussistenza. Gran parte delle società, descritte da storici o da etnologi, mirano in sostanza al mantenimento, alla sussistenza, assicurata nell'ambito di piccoli gruppi. Lo sviluppo - quello di cui hanno tanto blaterato tutte le generose persone per bene della mia generazione - mira invece alla distruzione dell'economia di sussistenza, mira a sostituire ciotole di legno con recipienti di plastica. Mira a sostituire il complesso tessuto di una tradizionale assegnazione di compiti, specifica di una società, con la moderna divisione del lavoro. La liquidazione della sussistenza dovrebbe permettere lo sviluppo delle cosiddette "forze produttive". Quelle mille e mille diverse attività, per indicare le quali la lingua ricorre ad altri verbi, dovrebbero chiamarsi tutte quante "lavoro", retribuite o meno che siano. E dovrebbero essere sostituite dal lavoro salariato, ma più ancora dallo "Selbsthilfe".

Sarebbe romantica illusione parlare di "Eigenarbeit" dei contadini dell'alto Medioevo, degli aztechi o degli abitanti delle Trobriand. E' indicativo il fatto che in gran parte delle lingue antiche manca un termine corrispondente a "lavoro"; e parlare, nel loro caso, di "Eigenarbeit", sarebbe pura pedanteria, dal momento che in tali società tutte le attività sono proprie soltanto di "quella" società. In ciascuna di esse crescono esseri d'ambo i sessi destinati a diventare uomini e donne propri soltanto di quella società. E ogni attività possibile in una società del genere è quella di un uomo o di una donna appunto di quella particolare società. L'attività sessualmente neutra è, per le società preindustriali, non meno atipica della suddivisione dell'attività in produzione e consumo. La nostra quotidianità è oggi sempre più determinata da attività pensate, anche se non proprio vissute, quali economiche e insieme sessualmente neutre. Per attività che consapevolmente sfuggano a questo contesto, senza per ciò ridursi a vano folklore, non abbiamo un termine che le designi. I "chiconos" dei quartieri meridionali della Chicago vecchia hanno coniato il termine "unplugging", "sconnesso". Ma di tali personali distacchi e altri simili, finora ce ne sono stati pochi, sufficienti tuttavia a delimitare ciò che non proviene dal passato. Ecco Perché sono per il termine "Eigenarbeit". Il quale equivale a un: "Grazie, no!", a spingere lo sguardo al di là della società a forte intensità di merci: in avanti, non all'indietro. Sviluppo ha significato, da qualche decennio a questa parte, sostituzione dell'economia di sussistenza mediante merci. "Eigenarbei"t deve significare sostituzione delle merci mediante attività in proprio. "Eigenarbeit" è una parola pregnante, di cui possiamo ben servirci per designare questa possibilità coperta da tabù.

4. Pedagogia in soffitta? Non sono un pedagogo, né voglio esserlo. A me interessa proprio il contrario della pedagogia, la difesa di quelle condizioni sociali e tecniche che fanno della "pedagogia" una cosa secondaria rispetto all'"esperienza". Io vorrei invitare anzi alla ricerca di quelle condizioni che permettono di nutrire e favorire il libero esercizio della sensibilità, dello stile e della competenza. Vorrei porre interrogativi circa i liberi ambiti della crescita senza istruzione, e questo proprio là dove da ormai una generazione cuscinetti a sfera ed elettronica, penicillina e televisione sono cose d'ogni giorno. Ci si sforza di educare a un'esistenza umanamente degna nel casamento, nell'esercito oppure nella scuola. Ciò che oggi si intende per pedagogia implica il vicolo cieco costituito da uno sviluppo economico senza fine. A me interessano l'opposto dello sviluppo e i limiti dell'istruzione. E chiedo la vostra collaborazione per poter comprovare che la soffitta è inabitabile Perché nessun "quantum" di istruzione può controbilanciare l'insensatezza di un'esistenza così esule e derelitta. Il linguaggio in cui è compilato il catalogo di questo congresso mi è estraneo. Il mio soggetto non si presta ad essere trattato nel linguaggio specialistico dei pedagoghi e tanto meno nel latinorum dei pedanti. Il mio tema non rientra nel catalogo; è anzi un'interrogazione sul senso di questo. Non intendo parlare di "istruzione", buona o cattiva che sia, né di educatori, remunerati o meno. E neppure di "diseducazione", vale a dire di quell'involontario corso d'istruzione che aderisce come un'ombra a ogni pedagogia, anche la migliore. Intendo parlare dell'esatto opposto dell'istruzione ("Erziehung") e di quel processo in cui l'istruzione aiuta scienza e tecnica a "sottrarre" ("entziehen") al mondo la sua enigmatica significanza. Voglio far brillare di luce piena quelle pre-gnanze che ancora baluginano nel sistema industriale. Intendo proteggere dalla riduzione a strame a opera dei tecnici e dalla mediazione di pedagoghi statali, ecclesiastici o alternativi, il contesto di significati della vita d'ogni giorno che abbia ancora carattere di immediatezza.

Il modello di sviluppo della produzione di energia mi riesce altrettanto estraneo del modello di sviluppo pedagogico. Altra energia ancora? Grazie, no; altra istruzione ancora? Grazie, no. E questo mio atteggiamento di ripudio di fronte alla "na‹vet‚" della corrente smania pedagogica, sarà il punto di partenza delle considerazioni che seguono. So benissimo che l'estraniazione può costituire un rischio per il pensatore; Perché essa può facilmente trasformarsi in freddo distacco. Come il "pharmakon" per i greci, e partecipazione può essere, per il pensatore, un mortale veleno o un medicamento risanatore. Il distacco raggiunto attraverso la ricerca è tossico qualora conduca alla chiusura narcisistica in se stessi, si tratti del simbiotico isolamento nel seno di un'ideologia oppure dello scambio di frasi fatte in un gruppo di terapeuti. Ma estraniazione può avere anche un effetto positivo sulla riflessione, qualora se ne abbia piena consapevolezza. La si può accettare come un destino, sorte comune di un'epoca, la si può sopportare "responsabilmente", come un lutto - senza piagnistei -, la si può persino coltivare. E se qualcuno riesce a perseverare nell'essere pensatore, uomo di cultura, dovendo sopportare l'estraniazione - non senza riluttanza ma con dignità, con ostinazione ma anche con serenità -, ecco che essa gli permette un personale distacco, tale da sbarazzarsi sia di dogmi, sia - cosa ancor più difficile - di lealtà. Per siffatti individui senza pastoie, il distacco costituisce il primo passo al di là della sorpresa e meraviglia della scoperta, quello che permette di inventare un nuovo paradigma e poi di comprendere criticamente quest'invenzione poetica. La programmatica estraniazione - durante l'alto Medioevo spesso si discuteva di "paupertas spiritus" - diviene così una valida premessa di ciò che è stato descritto da filosofi come Kuhn e Popper, Lakatos e soprattutto Feyerabend. Già, Perché non dovrei restare sbalordito anche da questo catalogo? Come potrei descriverne il contenuto al vecchio Jan Amos Comenius? Non c'è dubbio: la sua definizione dell'alchimia come "ars omnia omnibus omnino", arte di portare tutto a tutti, e di farlo fino in fondo, costituiva un programma fino a poc'anzi inedito; i suoi metodi pedagogici sono stati lo strumento di cui si sono serviti dotti capitalisti protoindustriali, e non desta

meraviglia che il banchiere John J. Whitney si sia recato da Boston a Londra, nel 1642, per indurre Comenius ad accettare la nomina a rettore di Harvard. Ma ciò che dal vostro catalogo si ricava, ben poco ha a che fare con l"ars" di Comenius: esso parla quasi esclusivamente di gestione di un esercizio che esige una natura tecnicamente e completamente dominata. Quella forma di disumanità che è specifica della nostra società industriale, nel vostro catalogo è intesa quale sfida pedagogica, e si ricercano i metodi con cui educare esseri umani, giovani e anziani, ad accettare questa condizione disumana. A me interessa l'esatto opposto. Mi piacerebbe mobilitare pedagoghi e, a partire dal loro punto di vista, identificare quelle situazioni produttive, quelle forme di consumo, quelle attività di riproduzione, sovente domestica, educare alle quali costituisce una violenza che nessuna finalità può santificare e nessuna buona fede giustificare. Quella bella, energica formula, il "danke nein" (grazie no), che in Germania viene usata dai "verdi" a proposito di energia atomica, e che suona rifiuto anche a tanta parte della medicina quale viene attualmente praticata, ebbene, io vorrei estenderla all'ambito pedagogico: "Istruzione per un maggior controllo amministrativo?" Grazie no! -"Istruzione per l'incremento della produttività?" Grazie no! - "Istruzione per una vita in soffitta?" Grazie no! Centocinquant'anni prima del tentativo compiuto dal banchiere Whitney di reclutare Comenius, un "grazie no" del genere era stato pronunciato da un sovrano. Il 18 agosto 1492, comparve a Salamanca la "Gramatica sobre la lengua castellana" di Martines de Cala y Hinojosa, passato alla storia come Elio Antonio de Nebrija. Si tratta di una grammatica umanistica di una nuova lingua corrente europea. Il libro uscì neppure due settimane dopo che Colombo era salpato dal porto di Palos. Può darsi che il genovese e Nebrija si siano conosciuti quando pochi mesi prima entrambi, quasi allo stesso tempo, si erano personalmente rivolti alla regina Isabella di Castiglia per ottenere il consenso all'attuazione dei loro propositi. Quello di Colombo era, a ben guardare, banale. Voleva semplicemente servirsi del nuovo strumento di ricerca, la caravella, per raggiungere finalmente, andando verso occidente, le Indie note da tempi remoti.

Durante quel primo incontro, la regina gli oppose un rifiuto, e ciò Perché i suoi consiglieri avevano richiamato la sua attenzione sugli errori commessi da Colombo nel calcolo della circonferenza terrestre. La richiesta dell'altro postulante, Nebrija, fu respinta dalla regina per tutt'altri motivi: la riteneva disdicevole per una sovrana. Nebrija infatti le aveva proposto qualcosa che nessuno aveva mai prima concepito, per lo meno quale realizzabile programma statale: voleva convincere la regina ad adottare la sua grammatica per l'insegnamento di una lingua artificiale, allo scopo di reprimere, mediante codesta "lingua corrente da lui sintetizzata", le parlate degli spagnoli. Nebrija disse alla regina che aveva scavato, negli idiomi della penisola, come in una miniera, per ricavare quei tesori che egli era in grado di "ridurre" ad "artificio", a opera d'arte. La grammatica era, ai suoi occhi, una sorta di pietra filosofale, capace di tramutare il vernacolo in preziosa lingua. Se la regina respinse il progetto, fu Perché riteneva che i suoi sudditi erano destinati dalla natura a esprimersi nel corso della loro esistenza, e con pieno diritto, nella propria lingua. La Spagna della Reconquista era fiera della sua libera competenza giuridica in ogni campo, indipendentemente dal re. E da questo stesso patrimonio ideale derivava la fierezza della regina che si sentiva, e voleva essere, sovrana di una folla variopinta di sudditi dotati di favella. L'intervento di missionari francescani alla fine persuase la regina a cambiar parere nei confronti di Colombo: contro ogni logica, Isabella gli permise di far vela per il Cipango alla ricerca di pagani da convertire. E anche Nebrija riuscì a indurre la sovrana a mutare atteggiamento. L'argomentazione culminante dell'introduzione della sua grammatica suona: "Tra breve le nostre navi torneranno in porto con la notizia che i nuovi sudditi aspettano Voi, per ricevere da Voi ciò che il vincitore deve al vinto: diritto e lingua. Ecco Perché Voi avete bisogno della mia grammatica". Nel "grazie no" della regina e nel "ma devi farlo!" del suo consulente linguistico, si delinea l'esordio dell'era moderna. La regina si vede ancora quale sovrana vecchio stampo; ha i suoi sudditi, sovrabbondante riserva di buon sangue con cui costruire la nuova Spagna.

Ma regna su esseri umani padroni della propria lingua e della propria esistenza, capaci di provvedere alla loro sussistenza. Ciò che è necessario alla vita dei sudditi, cioè alla loro sussistenza, essi se lo procurano da soli anzi in "eccesso" - un eccesso tale da contribuire all'arricchimento del sovrano. Isabella è regina di comunità autonome sottoposte alla sua sovranità. In questa prospettiva preindustriale, il suddito non viene mai inteso come essere carente, al quale bisogna provvedere. Al sovrano può spettare la regolamentazione dell'economia dei sudditi, egli può fungere da protettore, essere fonte del diritto, costruttore dei canali d'irrigazione, ma mai interpreta se stesso quale sostentatore che provvede alle quotidiane necessità. Questa concezione della sovranità, Nebrija la contesta. Nel suo appello alla regina Perché si avvalga della sua grammatica, egli fa non soltanto degli abitanti della Spagna, ma anche dei non ancora scoperti sudditi dell'Asia, altrettanti esseri linguisticamente carenti, descrive alla regina il loro fondamentale bisogno di una lingua che può essere soddisfatto solo da un'istruzione scientificamente concepita; e indica nello stato la fonte dell'unica lingua corrente degna di uomini. Sette sono gli argomenti cui fa ricorso per dimostrare alla regina che il suo nuovo dominio all'alba di una nuova era necessita, come "compañera" (vale a dire compagna, consorte e persino - posto che Nebrija parli il linguaggio dell'esercito - vivandiera), di una nuova lingua corrente, non derivante dalla vita bensì dall'istruzione. E la pretesa di integrare il vernacolo mediante l'insegnamento a opera dello stato, trova espressione l'anno stesso della cosiddetta scoperta dell'America, quello con cui le grandi opere storiografiche fanno cominciare l'era moderna. Mi sembra significativo che questo simbolico taglio sia collegato per lo più a Colombo, e mai a Nebrija. Ma Perché Colombo è celebrato e Nebrija dimenticato? Forse Perché la scoperta e conquista di nuove terre mette in ombra il richiamo di Nebrija all'impotenza linguistica dell'uomo dell'era nuova. Nella caravella prende corpo il sogno della tecnica dominatrice della natura, nella grammatica l'incubo della gestione dell'esistenza, che ne viene resa indispensabile, mediante la costrizione linguistica. Colombo ci da modo di comprendere l'era nuova quale irruzione in

nuove regioni del mondo, quale illimitato arricchimento. Nebrija esige, quale mezzo per raggiungere il suo fine, una limitazione mai prima concepita della sussistenza: la sostituzione del "parlato" con una "lingua materna insegnata", la svalutazione della "lingua vernacularis" e l'obbligatorietà di una "lingua corrente" degna di tal nome, regolamentata, "amministrata". Attraverso Colombo, l'era nuova è interpretabile quale subitaneo schiudersi delle forze produttive; nella prospettiva di Nebrija, l'aumento produttivo è al servizio di una guerra, durata cinquecento anni, contro la sussistenza dei sudditi. Scorrendo il vostro catalogo, mi sono reso conto dell'ingenuità almeno apparente con cui i pedagoghi accettano codesta perdita di sussistenza, quasi si trattasse di una necessità naturale. E lo storico non può non restare stupito dalla costatazione che in questo catalogo non si accenni mai al fatto che la concezione dell'uomo come essere carente, bisognoso di istruzione, come "homo educandus", è venuta in essere con l'evo moderno, e con esso è destinata a scomparire. Non può non stupire che l'idea della creatura carente, bisognosa di istruzione, sia stata imposta e mantenuta per quattrocento anni. Nel 1492, essa venne esplicitamente formulata nei confronti di selvaggi bisognosi di una lingua. Nel 1642, centocinquant'anni più tardi, era l'essere umano in s‚ e per s‚ a venire inteso, da Jan Amos Comenius, quale una creatura bisognosa di istruzione da ogni punto di vista. E non vi stupisce, come stupisce me, la sicumera con cui i nostri umanisti oggi vorrebbero persuaderci che già i greci o addirittura i cinesi intendevano l'essere umano quale "alumnus" (che letteralmente vuoi dire "lattante") tale dalla nascita, intento per tutta la vita a poppare alle mammelle, sottoposto alla vigilanza dei maestri, di un'Alma Mater, come prima per secoli ai seni, sottoposti alla vigilanza clericale, di una Madre Chiesa. Almeno per me, è stata fonte di sorpresa la constatazione, alla quale sono lentamente approdato, che l'ideologia dell'essere umano bisognoso di istruzione è sorta ancor prima che la teoria della scarsità di tutti i valori portasse alla genesi della moderna concezione scientifica dello stato e dell'economia.

Mi ha meravigliato costatare come l'ideologia dell'"homo educandus" fosse in tutto e per tutto una derivazione del dogma dell'"homo oeconomicus", l'immagine cioè di un essere umano i cui bisogni fondamentali possono essere soddisfatti soltanto dal prodotto del lavoro salariato. La sua riduzione, avvenuta nel periodo che va da Nebrija a Comenius, a individuo bisognoso di istruzione, era già in atto prima della riduzione dell'uomo a essere carente e cupido. Già con la svalutazione del vernacolo era stata dichiarata la guerra mondiale contro la sussistenza plebea: prima cioè che essa trovasse espressione economica nel sistema mercantilistico e preindustriale. Se la guerra contro la sussistenza è cominciata con l'era moderna nell'ambito del vernacolo, del modo di vivere, della concezione del mondo e dell'arte della sopportazione, può darsi che giunga alla fine con l'era in questione e con quel genere di pedagogia che favorisce questa guerra. Se esseri umani prima di Nebrija non sottoposti - salvo poche eccezioni a indottrinamento, cioè all'azione dei pedagoghi, hanno potuto crescere, è pensabile che possano tornare a farlo in un mondo in cui una economia di sussistenza assicuri condizioni di vita comunitarie. La domanda, come si possa demolire l'istruzione con mezzi moderni, onde rimettere in auge una sussistenza formativa, e dunque l'opposto dell'indottrinamento, a questa luce appare di fondamentale importanza non solo per i pedagoghi. Per antitesi dell'indottrinamento intendo quella sussistenza sociale quanto a esperienza, conoscenza e sopportazione del presente, che Heinrich Dauber contrappone all'istruzione quale compenso di una mancanza di futuro. E io dunque contrappongo lo spontaneo assorbimento di significati, stili e competenze, alla qualificazione che è il risultato di un trattamento pedagogico, sia questo demandato a gente del mestiere o ad ausiliari profani. Di proposito, non parlo dell'"apprendimento" giorno per giorno, dell'"apprendimento" che è frutto dell'esperienza: da un lato, Perché sono diventato prudente, dall'altro Perché la colonizzazione della quotidianità e la manipolazione dell'esperienza a opera della pedagogia sociale hanno fatto grandi passi avanti. L'insegnamento della lingua materna oggi non ha luogo soltanto a scuola, ma anche per mezzo della televisione e dei "genitori consapevoli dei loro doveri". Ci stiamo avviando verso un mondo in cui un numero

sempre maggiore di pedagoghi ufficiali gratuitamente reclutano, formano e sorvegliano un numero sempre minore di donne - oltre che di uomini disoccupati - in funzione di ausiliari pedagogici. E ciò che viene appreso nel settore-ombra di quest'istruzione non remunerata, ha punto o poco a che fare con l'odierno assorbimento spontaneo. Si tratta di una preparazione, effettuata tramite insegnamento non remunerato, al futuro lavoro-ombra disciplinato. In un mondo in cui non solo la madrelingua insegnata ha sostituito e soffocato la lingua corrente non ammministrata, ma altre merci hanno preso il posto, distruggendola, della corrispondente attività di sussistenza, sono scomparse le condizioni che la rendono possibile nel campo dell'esperienza, della conoscenza e della sopportazione del presente. Quanto più questo modo di educare si diffonde, tanto più evidente diviene che il grande privilegio consiste in quella fase della crescita sottratta agli interventi o ai suggerimenti pedagogici. Permettetemi di proporvi un esempio. Il figlio di genitori ricchi della mia generazione ancora imparava a leggere, ed era tipico, frugando nella biblioteca del nonno, e giocando sotto la tavola da pranzo apprendeva quelle risposte che con l'esame di maturità facevano di lui uno studente privilegiato. Ben più della scuola, a farlo tale era il crescere in ambienti e periodi non inquinati dal pedagogismo. E ciò vale ancora per quei giovani con i quali ho a che fare in Messico da un ventennio. Il fatto di aver frequentato ben poco le scuole ha reso loro impossibile l'ottenimento di certificati, ma li ha preservati dall'istruzione e insieme dalla deformazione, abituandoli rapidamente all'autoaccettazione. Agli occhi di molti giovani tedeschi e americani, la formazione e il modo di vivere di costoro sono il risultato di una invidiabile marginalità. Ben diversamente stanno le cose con il tipico rampollo dell'odierna pedagogia, sul quale giorno per giorno padre e madre "in loco magistri" gravano con l'intento di perfezionare, mediante un'attività didattica non remunerata, l'istruzione scolastica e colmarne le carenze, sia essa affidata allo stato, a un municipio rurale o all'asilo. La casa è un luogo in cui stoviglie, giocattoli, lo stesso letto dei genitori, divengono veicolo d'insegnamento, usati non meno metodicamente dello strumento costituito dal maestro di scuola. Quando mi capita di venir invitato in uno di questi istituti di educazione domestica, mi sento sempre a disagio. A tavola,

infatti, i genitori pretendono da me che io limiti contenuto e forma dei miei discorsi per amore della prole presente al pasto. E se non lo faccio si offendono. Se lo faccio, ecco che divento coadiutore della educazione domestica, cosa che mi sembra un tradimento dei giovani esseri umani, in quanto li privo di una delle ultime occasioni di "apprendimento non didattico", rifiuto loro il diritto di aver parte in una conversazione non fatta per loro. Ho parlato di istruzione "domestica" allo scopo di distinguere il lavoro di riproduzione non remunerato da quello remunerato. E dico "domestica" anziché "casalinga", uso il termine "non remunerato" ovvero informale, per rifarmi a certi antichi registri della città di Lipsia (1472) in cui si faceva distinzione tra prostituta "valente", ovvero ufficiale, e prostituta domestica: la prima faceva ciò che si conveniva alla prostituzione, lavorava cioè in una casa di piacere pubblica sottoposta alla sorveglianza del consiglio municipale e pagando le debite imposte; la seconda, invece, lavorava in casa propria, ragion per cui era "domestica". Anche l'istruzione può essere demandata a insegnanti ufficiali, con tanto di diploma, oppure a madri che lavorino in casa: gli uni e le altre "producono" istruzione. Ci fa difetto una parola che designi esattamente il contrario di queste due forme di insegnamento, quasi più di quanto ci faccia difetto un termine che indichi il contrario di prostituzione. Nel corso degli ultimi decenni, per influenza della pedagogia sociale, della "conscientization" politica, della psicologorrea e della "liberazione", l'ambito dell'insegnamento gratuito è andato allargandosi assai più rapidamente di quello ufficiale. Autocontrollo, autoinquadramento, autoinserimento, autointegrazione, autoistruzione e altre forme di onanismo pedagogico oggi s'aggiungono, a completarlo, al carissimo sistema didattico, di cui ben presto ridurranno i costi. E quest'intervento del settore informale nell'economia didattica è già oggetto di esatte descrizioni e critiche. Ma ciò che troppo spesso si trascura è la capacità, che l'istruzione domestica ha, di minare l'autonomia dell'esperienza e della conoscenza. Essa distrugge quanto ancora resta di sussistenza, con ben maggior efficacia dell'istruzione ufficiale. Questa crescita dell'istruzione domestica, e dell'autoistruzione, che coinvolge bambini, coniugi e vicini, è lo specchio di un processo

costatabile in tutti i settori economici degli anni Ottanta: il contributo gratuito, burocraticamente gestito e obbligatorio, alla produzione, quello che chiamo lavoro-ombra, cresce assai più rapidamente di quanto, almeno per il momento, non diminuisca il volume del lavoro salariato. Accade così che, per la prima volta dacché il sistema industriale esiste, il lavoro-ombra divenga un problema cruciale. Se il lavoro-ombra non fosse venuto in essere, non ci sarebbe stata industrializzazione. Il lavoro salariato non avrebbe mai potuto distinguersi, quale tipica attività dell'uomo moderno, dell'attività di sussistenza dell'epoca preindustriale, se contemporaneamente a esso anche il lavoroombra non si fosse costituito quale tipo di attività propria del sistema industriale, e solo di questo. E il lavoro salariato non sarebbe mai assurto al rango di faticosa produzione di tutti i beni e servizi necessari all'esistenza, se in pari tempo l'analisi del lavoro-ombra non fosse stata coperta da un duplice tabù, in primo luogo in quanto lavoro domestico, corrispondente alla "natura" della donna scoperta agli esordi del Diciannovesimo secolo, e in secondo luogo quale residuo dell'attività di sussistenza. Entrambi i tabù sono ideologici, insensati. A tutt'oggi, solo il primo di essi è stato chiaramente riconosciuto come non-senso. E' bastato un decennio Perché la storia delle donne fornisse la riprova che la natura femminile è stata inventata e utilizzata in maniera inedita, per obbligare le donne al lavoro domestico e tenerle lontane dal ben remunerato lavoro salariato. Tuttavia, il fatto che tale lavoro domestico si ponga in antitesi all'attività di sussistenza preindustriale, come nota con grande perspicuità Claudia von Werlhof (6) di Bielefeld, è rimasto "la zona buia nella critica dell'economia politica". Infatti, ciò che si fa nella casa, nell'"home" dell'uomo industriale, non procura - o procura solo marginalmente sussistenza. Non è un'economia di sussistenza, bensì lavoro di riproduzione non remunerato a pro dell'economia industriale. Ma le categorie che sarebbero indispensabili alla distinzione tra attività di sussistenza e lavoro-ombra per il processo di produzione industriale, a tutt'oggi non sono state elaborate. Cosa invece ormai necessaria, e ciò per due motivi convergenti: da un lato, Perché il lavoro salariato si rarefa; a un numero sempre maggiore di uomini viene attribuita quella "naturale" disposizione al lavoro-ombra che

dai primi dell'Ottocento è stato un privilegio riservato al sesso debole. Dall'altro lato, sono sempre più numerosi gli individui che, per il tramite del progresso tecnico, minano il monopolio del sistema industriale. Per un numero via via crescente di individui, acquista importanza un ricorso alternativo alla tecnica: tecnica al servizio di valori d'uso immediato in sostituzione della tecnica al servizio della produzione o della riproduzione a pro della prima. Accade così che sempre più chiaramente si distinguano due forme fondamentali di attività non remunerata: il lavoro-ombra non pagato e l'"Eigenarbeit". (7) Fino a poco tempo fa, la contrapposizione di produzione (remunerata o meno) e di "Eigenarbeit" era messa al bando. Nulla poteva sottrarsi alla produzione: persine i bambini, la lingua, il sapere, l'amore, i rapporti tra individui, dovevano essere "produttivi". E in tale prospettiva, tutte le attività non remunerate venivano gettate nello stesso calderone; lavoroombra e "Eigenarbeit" erano entrambi definiti residui di una modalità di produzione primitiva oppure, dagli economisti liberali, relegati nel "settore informale", il "quarto settore dell'economia". Oggi, più d'uno sono i pensatori che hanno rifiutato questa "na‹vet‚" ideologica. Sotto molti punti di vista si opera una chiara distinzione tra modalità di produzione e modalità di sussistenza, due forme di esistenza che oggi sono vicendevolmente complementari in ogni società. Il trasporto non elimina l'andare a piedi, la medicina non toglie di mezzo l'arte della sopportazione, la lingua materna insegnata non soffoca mai del tutto il vernacolo. Là dove la produzione distrugge effettivamente la sussistenza, l'appagamento cessa di esistere. E in tutti i settori della produzione, oggi accade che il soddisfacimento coatto dai bisogni minacci l'appagamento significativo. L'ambiente rischia di ridursi a sede della produzione, dove non c'è più posto per autonome attività di sussistenza. L'ambiente distrutto spesso non è più percorribile né abitabile, soprattutto per i meno abbienti. In un mondo fittamente percorso da reticoli pedagogici, ristrettissime sono le maglie in cui può inserirsi la creatività. Con la scomparsa del vernacolo scompaiono anche innumerevoli capacità, sostituite da sistemi adeguati all'universo tecnico. E questa sostituzione della sussistenza mediante valori economici, esattamente come avviene con la sostituzione del vernacolo a opera della lingua materna insegnata, oggi è imposta sempre più da forze-lavoro non

remunerate e tuttavia ben disciplinate. A differenza di altri movimenti alternativi, nell'ambito dei quali la prestazione d'opera non remunerata alla "pedagogia" è assurta senza difficoltà a ideale, il "movimento femminista" nel caso specifico ha assunto un atteggiamento critico. Numerose storiche, sociologhe e insegnanti di scienze hanno richiamato l'attenzione sul fatto che le nuove modalità con le quali le madri vengono indotte a dare, tramite l'istruzione, prove di amore qualificato, cogente e controllato, comportano statalizzazione e ulteriore spersonalizzazione del lavoro domestico non remunerato. Da questa critica derivano a mio giudizio tre considerazioni. "Primo": il lavoro remunerato delle donne, compreso il pedagogico, nel sistema industriale costituisce un'attività sostanzialmente diversa da quella tipica della donna nella "casa globale" del Medioevo, dove in una con la sussistenza veniva creata anche l'atmosfera in cui crescevano i bambini, senza essere istruiti. "Secondo": il lavoro salariato non sarebbe stato concepibile, quale fonte di soddisfazione dei bisogni vitali mediante merci, se contemporaneamente non si fosse creato e idealizzato il lavoro-ombra vuoto di sostanza della donna di casa. "Terzo": è terribilmente difficile, con il linguaggio disponibile, parlare di concreti obiettivi di una lotta per la sussistenza in una società moderna. Il lavoro-ombra, ottenuto mediante l'esclusione del lavoro salariato e con la richiesta d'amore, ha minato, non meno del lavoro salariato, le condizioni sociali dell'economia di sussistenza in ogni sua forma. Tutti coloro, fra noi, che hanno tentato di creare un ambito vitale per i bambini, tale che in esso la pedagogia divenga cosa secondaria rispetto all'esperienza non dottrinale del presente quotidiano, sanno quanto indicibilmente difficile, anzi quasi inconcepibile, ciò risulti per i meno abbienti. La critica che attualmente viene mossa, da una parte del movimento femminista, al reclutamento delle madri per compiti pedagogici non remunerati, può servire da esempio per la critica, oggi di importanza assolutamente fondamentale, al sistema industriale, possibile da parte di un numero via via crescente di uomini disoccupati, ai quali negli stati

industrializzati si offrono sempre più spesso riqualificazioni a lavori sociali e del tempo libero non remunerati. E ne può derivare anche una critica di tipo nuovo ai progetti di sviluppo dei ricchi nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Infatti nel Sudamerica, la cui situazione mi è abbastanza nota, sempre più numerose sono le forze non remunerate, uomini e donne che vengono sottoposti a un processo di "educazione" inteso a sottrarre un numero via via crescente di individui alla loro sussistenza per indurii a piccoli lavori salariati e a un lavoroombra sempre più diramato. In che termini dunque parlare dell'alternativa? In spagnolo, esisteva un termine all'uopo: "el foro", con il quale ancora all'epoca di Isabella si designava la libera, autonoma competenza giuridica di ogni vallata, che ogni località era pronta a difendere anche contro il re. L'alternativa alla pedagogia è, in questo senso, l'aspirazione a un "forum" da parte di una comunità: la decisione di demolire, in una con il consumismo, la pedagogia e di rimettere in auge la sussistenza. Quanto più, in un'economia di sussistenza eretta sulla tecnica moderna, la pedagogia (e con essa altre forme di economia di produzione e consumo) diventa accessoria, tanto più preziosa l'alternativa può diventare.

5. L'arte di vivere e il produttore d'arte Qualche anno fa, il caso mi ha fatto capitare nel momento giusto in un remoto villaggio di Bali. Si era d'agosto con la luna piena, nella settimana in cui la terra veniva "ripulita": uomini rivoltavano le sepolture alla ricerca di cadaveri di antenati non ancora bruciati, e questi trovava un lembo di carne putrida, quegli un paio di ossa fradice. Le donne se ne stavano in disparte: prendevano le ossa, le lavavano col rum, le avvolgevano in fasce di cotone, legavano i fastelli con nastri colorati. E sembrava che tutti partecipassero a una festa. Alloggiavo nella casa della seconda moglie del più anziano del luogo, che dava il giusto tono alla festa. Durante il bagno di sangue del 1967, aveva personalmente fatto uccidere duecentosette persone; e adesso, a dieci anni di distanza, si dedicava con molta serietà al compito della cremazione rituale dei suoi nemici. E mi esibiva tutto fiero le balle di stoffa e i sacchi di zucchero che aveva destinato allo scopo, alcuni dei quali ancora sul loggiato da cui partono i gradini d'accesso al villaggio: a Bali occorrono infatti molti panni mortuari e molti dolci di riso per bruciare degnamente un cadavere sulla pira. Dalla veranda della casa si godeva il panorama delle terrazze coltivate a riso nella valle a forma di imbuto, e si scorgeva la strada che dalle tombe portava al luogo dove avveniva la cremazione e da qui al villaggio, continuando poi oltre il guado sull'altra riva del fiume. E lungo quella strada, un morto dopo l'altro veniva condotto alla pira, quindi le ceneri, dopo una breve sosta alla casa del defunto, erano versate nel fiume. Nel giro di pochi giorni, tre dozzine di resti esumati mi passarono davanti, tutti portati a passo di danza al ritmo ondeggiante del "gàmelan gong". Ma in pochissimi casi erano musicanti a suonarlo: quasi sempre si trattava di musiche trasmesse da un altoparlante. Solo una mezza dozzina di processioni erano accompagnate da un'orchestra. Con passi aggraziati, cinque uomini si dirigevano al catafalco, ognuno con un gong. Le donne circondavano i musici danzando e reggendo sul capo una pila di torte di riso policrome. Impossibile separare il passo di un danzatore dall'ondeggiare della schiera o del ritmo della musica: ciascuno di quei cortei sembrava un tutto vivente, e

s'integrava senza residui nel mondo affollato di dèi delle risaie, in cui quel giorno ogni idolo di pietra era ornato di un perizoma a quadretti. Un passo può elevarsi a incedere, un canto diventare cantico; e ciascuno di quei piccoli cortei aveva il proprio senso in se stesso, erano tutti senza eccezione un evento "intransitivo", in cui non si produceva né consumava. Le due parole con cui voi, signore e signori, avete sintetizzato il tema del vostro congresso di insegnanti d'arte, "processo" e "prodotto": ecco due termini assolutamente inutilizzabili anche solo come accenno a un evento a tal punto intransitivo. Il fare e il fatto, il vivere e il vissuto, nel caso specifico non possono essere contrapposti, indicandoli rispettivamente come processo e prodotto. Chi riuscisse a parlare, in questo contesto, di danza, musica e dolci ricorrendo a quei termini, avrebbe fatto proprio lo scarto mortifero dell'analista dei sistemi. So benissimo che nel corso di due decenni le due parole in questione sono state estrapolate dal linguaggio burocratico, per assurgere a parole chiave della lingua corrente munite di orpelli filosofici. Ma queste espressioni specialistiche, appartenenti all'uniforme gergo internazionale, non hanno corrispondenza alcuna nel linguaggio corrente con cui una festa del genere può essere convissuta dai partecipanti a essa. Le parole "processo" e "prodotto", che voi volete erigere a tematica, sono tuttavia indispensabili per descrivere ciò che caratterizzava la maggiore di quelle piccole processioni. E lo sono per dar ragione del capovolgimento a mio giudizio apportato dall'altoparlante. Per lo più, i partecipanti passavano danzando, sì, ma non al ritmo del proprio respiro, non al suono dei gong. Un prodotto li spronava alla danza, e quel prodotto era fornito dall'altoparlante. Due ragazze reggevano l'enorme tromba grigioazzurra, ornata di ghirlande e collegata mediante un cavo a un vecchio in sarong, il quale teneva in mano un mangianastri, sede di un processo elettronico, e la musica tradizionale che usciva dallo strumento meccanico era il prodotto che impartiva il ritmo. Diversamente dal "gàmelan", il nastro non si fermava mai. Quando i musicanti giungevano alla casa del defunto, si davano subito a ingoiare alcolici, e nella pausa di silenzio intervenuta l'orecchio poteva cogliere il rumore del vento, il gorgoglio delle risaie. A differenza dei musicanti, la continua produzione di suoni stendeva sul paesaggio come uno smog denso di echi. Non potrei certo indicare lo stesso termine, "prodotto", la musica dei suonatori e quella dell'altoparlante, come mi sarebbe impossibile definire processo produttivo la confezione dei dolci usati come offerta. Non riesco, ecco

tutto, a identificare il far musica della processione con il produr musica per la registrazione su nastro. Se ho esordito con un'esperienza toccatami a Bali, è Perché quelle seconde esequie mi sono parse, allora, un doppio funerale: traslazione delle ceneri dalla pira al fiume, e segno della morte di un'arte di vivere intransitiva, per far posto alla produzione di moderne condizioni di vita. E sentendomi la pelle d'oca, per qualche giorno sono vissuto accanto a quel nobile balinese così amabile e così tranquillamente sanguinario. Volevo sapere da dove provenissero i nastri per le doppie esequie, e le mie supposizioni si rivelarono esatte: per lo più erano stati ricavati da un registratore facente parte del programma di aiuti allo sviluppo, che il nuovo maestro di scuola aveva portato con s‚ al villaggio. Avvalendosi del programma scolastico, costui intendeva non soltanto conservare l'antica tradizione, ma anche proteggerla dall'importazione di musica rock. E parlava dei suoi nastri come di una musica che poteva conservare a scuola quasi si trattasse di cibi in scatola: la sua dispensa, insomma. né mancava di accennare a un testo in due volumi, una tesi di laurea sulle danze tradizionali di quella regione, nella cui compilazione aveva avuto parte. Non tutti i nastri avevano però la stessa origine. Mentre davanti a noi passava, sull'alto catafalco a forma di trono, un altro pacchetto di ceneri, il mio anfitrione mi raccontò una storia diversa. La musica, a suo dire, proveniva da un'orchestra defunta: l'intero gàmelané cioè l'insieme di gong, campane e uomini, era stato distrutto in un incidente automobilistico avvenuto qualche anno prima al ritorno da un funerale. E la musica, poc'anzi registrata su nastro, ecco che veniva prodotta ora per accompagnare la traslazione dei resti appunto di uno di quei suonatori. Era una sorta di prestito dal capitale culturale depositato nella biblioteca scolastica, una "commemorazione" elettronica. Il passato di vite defunte non era richiamato in vita nella musica dei sopravvissuti; brani di vita del morto si svolgevano imprigionati nella plastica, durante le sue esequie. Ed era al loro suono che si danzava. La conversione della vita a processo produttivo è, nel complesso, tutt'uno con ciò che da trent'anni a questa parte si designa col nome di "sviluppo", termine che indica quel processo produttivo il cui prodotto è l'"era nuova". Avevo avuto modo di osservare come avviene lo sviluppo da molti punti di vista, ma mai prima, credo, ne avevo riconosciuto con tanta chiarezza il carattere, destinato ad avere influenza decisiva sugli anni Ottanta. Assistevo alla morte di un'arte di vivere, non più per essere

vicariata, come ancora dieci anni prima, da un modello importato, bensì dal ricalco del suo stesso passato. Quel che avevo sottocchio non era la sostituzione del "gàmelan" da parte della chitarra elettrica: qui accadeva che il capolavoro di una tradizione vivente fosse surrogato dalla programmazione e produzione della sua stessa moltiplicazione. E non era all'opera il missionario di una chiesa, partito o media, bensì un maestro di scuola nazionalista che voleva fare, delle potenzialità tradizionali di una vallata, l'oggetto di un insegnamento pianificato. Quella cui assistevo era davvero una danza funebre, ma l'arte di vivere che lì stava morendo non finiva in fumo come le ossa nel boschetto di bambù. Magneticamente imprigionata, essa diventava uno spettrale prodotto, per essere a sua volta impiegata come mezzo di produzione, come mezzo didattico. La precedente generazione locale aveva ancora potuto crescere danzando e facendo musica -la nuova non farà che consumare addottrinamento alla danza e alla musica. Ed eccomi dunque lì, a guardare le sottostanti risaie. Era verso sera, le oche venivano spinte su una delle terrazze a coltura Perché beccassero quanto vi restava del raccolto. Le autorità del villaggio avevano a cuore non soltanto la conservazione di passi e suoni tradizionali, ma in pari misura, pareva, anche l'agricoltura tradizionale. Il"paddi-Bali", il riso di qualità variabilissima che qui era cresciuto, in una con la cultura locale, per oltre due millenni, nelle vallate circostanti era già stato sostituito da un ibrido assai più fruttifero. Il mio autoritario anfitrione per il momento aveva impedito l'irruzione della varietà sintetica; e le sue argomentazioni ecologiche ed economiche in merito erano ben fondate. Parlava con la stessa sicumera di riso straniero e degli esseri umani che la pensavano da stranieri e che egli aveva sterminato. Circondato da villaggi che accoglievano con entusiasmo gli emissari del ministero dell'Agricoltura e del Turismo, si vedeva in veste di maestro della tradizione modernizzata. Non solo la musica tradizionale, ma anche la coltura alternativa del riso doveva diventare oggetto dell'insegnamento. E io pensavo al plauso che quell'uomo avrebbe trovato ben presto presso ecologi, neomaoisti, spiriti romanticheggianti, fautori dello sviluppo alternativo e tanti altri portavoce degli anni Ottanta. Un'autonomia locale modernizzata, dotata di nastro magnetico e di alchimia agraria, avrebbe risposto all'ideale di questa nuova, pluralista e "dolce" ondata di sviluppo, il cui obiettivo continua ad essere la crescita, ma con precauzioni d'ordine ecologico. Oggi, a qualche anno di distanza da quella mia visita, il mio anfitrione di allora mi sembra un assai più efficace simbolo del carattere di lama a doppio taglio, proprio

dei progetti di sviluppo, di quanto non sia il famigerato Khomeini. Perché lì, a Bali, non è una religione di stato, non è il nazionalismo indonesiano, non è l'ideologia di un partito: è il rappresentante della tradizione popolare, che impone le costumanze locali allo scopo di sostituire l'arte di vivere con un sistema di produzione da lui gestito ed ecologicamente adeguato. Sotto il profilo tipologico, l'artista si contrappone al produttore, colui che coltiva l'arte di vivere è l'opposto del produttore d'arte. Ciò che il primo fa della sua vita e grazie alla sua stessa presenza, è sempre un contributo a una configurazione sociale che resta trasparente. L'arte di vivere, come quella dei musici e dei danzatori durante le esequie, è un attività intransitiva in quanto si esaurisce nella plasmazione di quella vita e dell'ambiente di questa, che dai componenti la società è intesa quale parte integrante della realtà, non già quale opera d'arte. Esattamente l'opposto di quanto si verifica con il produttore d'arte il quale per concepirsi come tale deve contrapporre il proprio prodotto ad altri prodotti che sono non-arte. Il processo produttivo dell'arte estrae questa dal tutto esistenziale, pone il valore arte in antitesi ad altri valori, in tal modo facendo sia del processo di produzione dell'arte, sia del prodotto artistico, un valore limitato e pertanto potenzialmente scarso. Per un mondo di "artisti del vivere", l'arte non può essere scarsa, Perché la creazione artistica non è scissa dalla vita. Nell'arte di vivere uno cresce, laddove dev'essere "educato" all'arte. Ciascuno cresce nell'arte di vivere del suo mondo, sia pure collocandosi in un altrove; al contrario, l'educazione esige sempre un dispendio di mezzi scarsi e ha pertanto il carattere di una mercé che viene introiettata dagli allievi. Essa è rara per natura. Il tentativo di rendere la capacità di vivere dipendente dall'"educazione", è alcunché di nuovo che però ben di rado viene inteso come tale dai pedagoghi. Voi, che in questa sede costituite il mio pubblico, siete insegnanti di disegno, pittura o ceramica di ogni parte del mondo. Ora, la mia esperienza mi dice che è proprio del pedagogo sentirsi rappresentante di un'antichissima professione. I pedagoghi tendono alla convinzione di essere in grado di fare, solo assai meglio, proprio ciò che mamma e papa hanno sempre fatto. Ma così non è. Mai genitori hanno insegnato ai figli a parlare il vernacolo o a camminare; danzare, far musica, cucinare o coltivare l'orto, sono cose che si apprendono incidentalmente, sia pure entro un ambito esattamente definito, diverso per ogni società. L'arte di vivere che è alla base di quelle molteplici possibilità, sulle quali si fonda la sussistenza delle culture preindustriali, è troppo complessa per essere il

risultato di procedimenti pedagogici e corpi di insegnanti. Di maestri che espongano i mantra, ce ne sono sempre stati. Ma questo non ne fa altrettanti pedagoghi, educatori, produttori. E ciò Perché, a quanto mi è dato di capire, pedagogia significa apprendere soltanto a patto che cognizioni, comportamenti o capacità, di cui la società fa uso, siano scarsi. L'insegnamento della tessitura, della danza, del far da mangiare, piantare, costruire terrazzamenti agricoli e far musica, diventa compito dei pedagoghi solo laddove si riesca a trasformare in utopia il domani di una società, quando cioè non si "impara" più l'oggi dall'ieri, bensì per il domani. Tutti i sistemi pedagogici generalizzati, dai quali voi qui presenti ricavate i vostri onorari, non ci sarebbero se contribuenti e governanti non fossero persuasi che i giovani non possono adattarsi al loro mondo se il loro adattamento non venisse guidato razionalmente e con la consapevolezza del futuro. E le imposte per questo costosissimo processo non potrebbero esser esatte, se non fosse divenuta verità incontestabile una singolare ipotesi, precisamente l'idea che il sapere e il potere d'importanza vitale sono scarsi e producibili mediante prestazioni remunerate di servizi. Venti anni fa, ai piedi di monte Agung non c'era scarsità di suonatori. Dal vulcano in questione era sempre uscita una colonna di fumo, e non meno antiche erano state, nel villaggio, le orchestre di "gàmelan". Di musici c'era abbondanza come di donne che piantavano il riso o di uomini ottimi ebanisti. Il diritto all'uso dell'acqua ha qui radici che si estendono in tre direzioni per migliaia di chilometri verso l'India, fino al Vietnam. E ha potuto sopravvivere per duemila anni soltanto Perché le cognizioni relative non sono state delegate a esperti, ma erano proprie delle comunità di villaggio. Un ambiente e un mondo d'uomini di complessità letteralmente "indicibile" ha plasmato genti e terra, e in ogni istante ogni esistenza era contesta di questa arte di vivere. Ciò non significa affatto che non ci fossero competenze specifiche. Solo pochissimi uomini avevano imparato a respirare in modo che il loro ritmo fosse conforme al suono del grande gong. E non tutti al gong si accostavano: era cosa ereditaria come il "kris", il pugnale a foggia di fiamma. Non a tutti nel villaggio veniva attribuita l'arte di vivere corrispondente alla loro età - e gli esclusi erano definiti "ndumng orane Bali", "uomini non di Bali". Solo a pochi era demandato l'apprendimento di formule magiche e della gestualità della danza sacra. Ma tutto questo non autorizza a dedurre che il nostro concetto di "istruzione" in vista del futuro sarebbe stato anche solo lontanamente pensabile per quegli uomini e donne. E sarebbe dunque stato impossibile del pari distinguere processo e produzione artistica, posto anche che la

lingua agglutinante dell'Indonesia fosse utilizzabile ai fini di tale differenziazione. La separazione del processo pedagogico dal suo risultato, sulla quale si fonda la possibilità stessa di esistenza di un sistema didattico, è figlia del nostro pensiero occidentale postmedioevale. L'antitesi di arte di vivere preeconomica e produzione artistica in una società produttiva, nulla ha a che fare con romantiche fantasie. Non intendo, insomma, contrapporre un passato augurabile a un presente deprecabile: tento soltanto di mettere in rilievo lo iato tra due forme contraddittorie del fare artistico. L'esaltazione della Arcadia mi è altrettanto estranea della pianificazione dell'utopia. L'esistenza plasmata dall'arte di vivere vernacolare non è, ai miei occhi, un mondo perfetto, libero da miseria, malattia e crudeltà: non sono il propugnatore del sogno di nuove alte culture che dovrebbero nascere, nelle rispettive nicchie ecologiche, dal proprio riso, dal proprio ritmo e rituale. Chi vuoi tornare indietro, a mio giudizio è un corruttore agli occhi del quale le nuove crisi degli anni Ottanta appariranno sempre più benefiche. Ma sono anche lontanissimo dalle convinzioni degli utopisti per i quali oggi, dopo il peccato originale sul quale ogni utopia si fonda, non è più neppure immaginabile l'abolizione della istruzione. Vorrei riuscire a risparmiare, ai giovani, la pedagogia futura non meno della fuga nel passato. Per amore dei giovani con i quali avete a che fare, ai quali fornite esempi nel campo della pittura, della tessitura, della ceramica, del disegno, dell'ebanisteria, vorrei caldissimamente pregarvi di astenervi dall'istruire i vostri allievi, di desistere dalla pedagogia. Cosa che però potete fare solo a patto che comprendiate chiaramente il carattere proprio dell'istruzione, suppletiva al pari della prostituzione in tutte le sue forme: la prostituzione commerciale va di pari passo con le repressioni, la medicina con condizioni di vita malsane, i trasporti con l'urbanesimo, l'edilizia con la incapacità degli esseri umani di avere davvero una dimora, i media con la perdita di significato e interesse. Il compito fondamentale della scuola consiste oggi nel compensare i danni provocati, negli allievi, dall'ambiente in cui vivono. La maggior parte dei vostri colleghi prendono sul serio questa funzione suppletoria, nel senso che offrono agli allievi, mediante la pedagogia, un sostituto della crescita. Voi, insegnanti d'arte, siete dei privilegiati. Non siete costretti alla pedagogia: voi, tra tutti i pedagoghi, potete mostrare a giovani prigionieri dell'obbligo scolastico, la gioia che a voi viene dall'abilità manuale, fornire un esempio dell'arte di vivere nella scuola-penitenziario.

La differenza tra esperienza diretta e istruzione, tra coloro che coltivano l'arte di vivere e i produttori d'arte, risulta facilmente comprensibile facendo ricorso al linguaggio dei tessitori. L'"ikat" è una particolare stoffa che un tempo veniva usata, dalla Cambogia a Timor, per i sarong festivi, mentre oggi c'è forse un solo villaggio di Bali dove viene tessuta. Per fabbricarla, si tingono i fili, legati in piccole matasse, con il giallo, l'azzurro e la porpora ricavati da molluschi e piante; i multicolori fili di seta e cotone servono a comporre trama e ordito, e in fase di tessitura ne risulta il disegno tipico dell'"ikat", ogni pezza della quale è pertanto unica quanto un volto. E tuttavia ogni "ikat" rivela, al conoscitore, il villaggio e l'epoca in cui è venuta in essere. Arte tessile e arte del vivere si riflettono nella sua singolarità. I loro vari aspetti si corrispondono e sono contesti come trama e ordito: asimmetricamente complementari, non già processo e prodotto. Solo una volta avulsa dal contesto, l'"ikat" può diventare prodotto sul mercato dell'arte. L'arte di vivere si serve di seta e riso per assumere forma nel divenire esistenziale, non già nel prodotto. Come marginale, come osservatore, come pensatore, ritengo che questa differenza renda esplicita la duplice funzione dell'insegnante d'arte: circondato da colleghi che, in quanto pedagoghi, sono produttori di sapere, di arte e di esistenza, l'insegnante d'arte può fare della sua aula lo spazio di libertà in cui resuscitare l'arte di vivere oppure rendersi uguale al pedagogo. In quest'ultimo mese ho avuto ampia occasione di intrattenermi con Franka, unica insegnate d'arte che mi sia vicina. Franka insegna da più di quarantanni, e gran parte dei suoi allievi, maschi e femmine, sono adulti. E anche lei parlava, con accento di meraviglia, dei bambini capaci di dar libero sfogo alla fantasia a patto che l'insegnante procuri loro lo spazio indispensabile, astenendosi dalla pedagogia. Ma questa arte di vivere di ragazzi e ragazze, mi dice rattristata Franka, nella nostra società si spegne quando s'avvicinano alla pubertà. E Franka parla di isterilimento, di inaridimento, di perdita della fiducia in se stessi; e mi ha pregato di affrontare qui proprio quest'argomento. Ma a tale proposito devo dire qualcosa di più in merito a ciò che oggi viene definito pubertà, qualcosa che ha a che fare con lo spegnersi, legato all'età, dell'attività intransitiva. All'inizio del mio discorso ho contrapposto due modalità di esumazione a Bali: la processione "intransitiva" al suono di una musica direttamente eseguita, e l'altra processione, accompagnata da musica di origine estranea, cioè da un prodotto. Il passaggio dall'evento intransitivo all'evento

transitivo l'ho identificato con lo sviluppo socioeconomico e con le esequie dell'arte di vivere. La pubertà moderna può essere vista quale un passaggio alla vita individuale, parallelo a questo processo sociopolitico. In una certa fase, che si verifica sempre più precocemente nell'esistenza, il gioco intransitivo del bambino si trasforma in produttività transitiva, e questa frattura mi sembra assai più gravida di conseguenze, per l'insegnante d'arte, del passaggio alla maturità sessuale. Per rendere esplicita tale transizione, una volta di più mi rifarò alla differenza tra attività intransitiva e transitiva, nota a tutti dalla linguistica. Dicendo "io vado" designo, con questo verbo, una mia attività intransitiva. L'andare grammaticalmente esclude, dal punto di vista semantico, ogni oggetto. Non è infatti possibile dire "io vado "la" mia strada", trattandosi di un doppione semantico, dal momento che ciò che percorro è sempre e comunque la mia strada. Non posso dire "io vado me" né "vengo andato", e neppure "vado le mie gambe" Perché il mio andare è intransitivo. E' un'attività che non crea un prodotto, ma è l'essere dell'agente che plasma dinamicamente se stesso. Non così nel caso del transitivo. Trasportare significa muovere qualcosa, me, te, oppure un sacco di riso. E' un processo produttivo. Lo sviluppo economico nei paesi ricchi ha ormai cancellato in larga misura il senso di questa differenza, bench‚ essa sopravviva nel linguaggio. La confusione di attività transitive e intransitive sta a fondamento di ampie zone del pensiero moderno. Per esempio, non so di nessuna indagine di pianificazione del traffico in cui l'andare a piedi e in bicicletta non sia tecnicamente interpretato quale una forma di autotrasporto, che viene contrapposto, in quanto "primitivo", "più economico" e "più sano", al trasporto in auto. Ma è un puro nonsenso. Se vado da qui a là, non sono un trasportatore che provvede a se stesso, non mi tratto alla stregua di un'automobile priva di ruote. Faccio qualcosa di profondamente diverso, in quanto vado, come respiro e vivo, intransitivamente. Quando interviene lo sviluppo, ecco che quest'autoplasmazione intransitiva viene ad essere ostacolata. Se mi guardo attorno in una grande città, noto che tutte queste attività -l'andare, il respirare, il vivere stesso - sono diventate faticose. Le strade destinate al trasporto mi rendono difficile l'andare a piedi, i motori viziano l'aria, i veicoli minacciano la mia vita. Il trasporto istituisce ostacoli che rendono pericoloso, e spesso impossibile, l'andare a piedi e dilatano a tal punto le distanze, da rendermi impossibile il percorrerle come se fossero la mia strada. La produzione di trasporto ha in larga

misura impastoiato il movimento. Siamo diventati qualcosa di nuovo: passeggeri. A differenza dei nostri progenitori, ci muoviamo soprattutto stando saldamente legati a un sedile. E da questa prospettiva della cintura di sicurezza che facciamo nostra quando, per trasferirci da un luogo all'altro, siamo chiusi in una capsula, il pedone diviene il nostro nemico: lui o il ciclista ci impediscono di procedere in fretta. Coloro i quali siano divenuti dipendenti dal veicolo compatiscono i pedoni sottosviluppati, soprattutto quando siano per di più costretti a portare pesi. Lo stesso vale per l'apprendimento: gli individui scolarizzati dimenticano che la pedagogia, cioè la produzione di cognizioni, è soltanto una stampella. Così come, in un mondo urbanizzato, divengono indispensabili, ai fini degli spostamenti, processi produttivi, e dunque automobili, ascensori, scale mobili, che rispondono a "bisogni", lo stesso aumento della produzione porta a un mondo impermeabile allo sguardo, dal momento che l'insegnamento è condizione dell'apprendimento. Questo è inteso quale risultato o prodotto dell'istruzione. Il passeggero abituale vede nell'andare in bicicletta una modalità meschina di autotrasportarsi, e allo stesso modo l'accademico considera la crescita e il diventare adulti null'altro che un "insegnamento" di secondaria importanza a opera dell'ambiente e dei propri simili. Fuori dalla società industriale, gli esseri umani vanno per la loro strada, e solo raramente accade che siano spinti o trasportati come animali; crescono nell'arte di vivere e solo di rado, per compiti particolarissimi, vengono "istruiti". Ancora oggi, e persino in paesi ricchi, ai bambini è lecito, per qualche anno, semplicemente crescere, soprattutto se i loro genitori non si sentono ancora pedagoghi dei propri figli, e se la T.V. ancora non li raggiunge. Solo quando questi bambini divengono, a scuola, consumatori di istruzione, accade che siano indirizzati alla produzione, ad attività in larga misura transitive. La loro arte di vivere infantile viene sostituita dalla padronanza e competenza in fatto di processi produttivi. Questa transizione da un modo d'essere preeconomico a uno sempre più economico, corrisponde appunto a quella che Franka sperimenta quale dolorosa frattura, e ciò Perché appartiene a quella categoria di colti artigiani che sarebbero ben lieti di mostrare come si fa a tessere, in pari tempo accuratamente sottraendosi a ogni pedagogismo. Per altri insegnanti d'arte, a differenza di Franka, questa frattura non costituisce una dolorosa perdita, ma al contrario un segno di progresso, e ciò Perché sono nella scuola per fare dei bambini, a partire dall'asilo, altrettanti individui

produttivi, servendosi a tale scopo dell'arte e dell'insegnamento di essa. Senza istruzione, non ci sarebbero "individui" del genere. L'istruzione è una bardatura imposta al divenire umano, ed è esattamente l'opposto di ciò che comporta crescere nell'arte di vivere. La quale non è arte "genericamente umana", non è mai e in niente un'arte esercitata da uomini e donne allo stesso modo. L'arte di vivere è l'arte di essere uomo o donna, asimmetricamente complementari. Al di fuori della nostra società industriale e produttiva, non si da arte asessuata. In società non industriali, agli uomini non è mai dato di fare lavori femminili, esercitare le arti delle donne, come queste non possono svolgere lavori maschili. Non esiste società preindustriale in cui lo strumento sia sessualmente neutro. Crescere, farsi adulti, significa diventare capaci delle attività corrispondenti al proprio sesso. Non si può diventare "individui" in una cultura preindustriale: si diventa uomo o donna. Arte di vivere e sessualità determinata storicamente da condizioni locali: ecco le due indispensabili facce della stessa realtà di cui è contesta la vita preindustriale. Come, nel caso dell'"ikat", solo in fase di tessitura viene in essere il disegno, per l'esattezza quello che è tipico esclusivamente di questo o quell'altro villaggio, così la fisionomia di una cultura tradizionale viene in essere soltanto tramite la reciproca connessione di uomini e donne. La crescita specificamente sessuale, entro la quale si forma la presa, specificamente sessuale, sulla realtà, e la comprensione della realtà per tutta una vita, si situa dunque al polo opposto dell'istruzione sessualmente neutra, il cui scopo è la gestione di una produzione, concepita come sessualmente neutra, di quanto è necessario all'esistenza. L'istruzione si prefigge dunque di formare individui produttivi, nei quali la sessualità è conformata quale caratteristica secondaria della loro individualità; di conseguenza, essa è sostanzialmente volta alla distruzione della bisessualità di tutte le forme tradizionali di vita e di arte. Nella maggior parte delle culture preindustriali, ci si imbatte in una serie di fasi, ritualmente fissate, passando per le quali il ragazzo o la ragazza crescono. In corrispondenza con ognuna di queste fasi, essi divengono più uomo o più donna, e la linea divisoria tra ciò che a entrambi è lecito fare, dire o pensare, si fa sempre più netta. Maturità significa allora padronanza dell'arte di vivere sessualmente specifica. Ciò che noi oggi intendiamo per pubertà, è qualcosa d'altro: è, innanzitutto, il riconoscimento sociale della raggiunta funzionalità di certe ghiandole, dopodiché la "pubertà" diviene il passaggio dall'infanzia alla individualità produttiva. La conclusione

dell'infanzia, che un tempo portava al definitivo inserimento in mansioni maschili o femminili, dovrebbe adesso, tale l'aspirazione dei pedagoghi, fare di ciascun individuo un essere umano sessualmente neutro: un essere umano, al quale la specializzazione sessuale appartiene esattamente quanto l'uguaglianza in fatto di occasioni di accesso a questa o quella professione. Egregi colleghi, prima dell'apertura di questo congresso ho avuto modo di dare un'occhiata alle migliaia di dipinti, sculture e tessuti che avete portato da ogni parte del mondo per esperii in questa sede. Dalla mostra, ho prelevato e qui portato tre cose: quest'autoritratto di un'egiziana diciannovenne, questa bambola, opera di un insegnante d'arte canadese, e questa gabbia. La bambola simboleggia l'insegnante d'arte munito, come vedete, di due paia d'occhi: i suoi, incassati e ciechi, mentre il secondo paio è inserito nell'elmetto e proietta una visione meccanica del mondo: un elmo che l'insegnante si toglie per piantarlo sulla testa dei suoi allievi. E guardate adesso la gabbia che reggo con la sinistra. E' di lucente metallo, e dentro stanno una decina di figure anch'esse metalliche. Nella destra, ho una calamità, la cui attrazione è irresistibile; essa è come l'insegnante d'arte che fa ballare a suo piacimento gli allievi dentro una prigione di lusso. Una amica dell'insegnante d'arte, alla quale si deve questa gabbia, me ne ha chiarito la genesi: l'autrice desidera che serva a rammentarle di continuo che lei non vuole affatto, con la sua arte, istruire, cioè traviare.

6. Lavoro-ombra In forma profetica, nel fascismo ha preso corpo quello che è alla base dell'esistenza di ogni sistema industriale, vale a dire l'inevitabile scissione sociale che nel Sudafrica vien detta apartheid. "Il lavoro rende liberi" stava scritto sul portone d'ingresso di Auschwitz. Il sistema industriale non potrebbe reggersi senza subumani: ebrei, donne o negri. Quanto più fragorosamente uno stato industriale proclama la menzogna che la ragion di stato è al servizio dei suoi subumani, tanto più sicuro e stabile esso diviene. Mi avete invitato a parlare contro l'apartheid sudafricana: da me vi aspettate dunque che, approfittando dell'immunità di cui godo, tuoni contro i fatti di Soweto, Perché così bisogna fare. Senza inferni come il gulag o Auschwitz, senza la loro rituale rievocazione, non potremmo praticare quella dorata apartheid in cui viviamo in quanto uomini e donne industriali. Teologo, so che l'odio è mortale - a parte quello per l'inferno. Intendo dunque parlare dell'odio infernale che sta a fondamento del sistema industriale. Approfitterò dell'occasione, offertami da quest'invito in Sudafrica, che già sapete che la vostra polizia ostacolerà, per infrangere un tabù: non parlerò degli inferni del fascismo, bensì dell'infernale fondamento del sistema industriale. Quando ho cominciato ad abbozzare questo testo, avevo sulla scrivania il romanzo di Nadine Gordimer, "Burger's Daughter". Con rara maestria, l'autrice coglie il riflesso dell'arroganza progressista della nostra epoca nello specchio brillante e spudorato della sua patria, lo stato poliziesco del Sudafrica. La sua protagonista soffre di una "malattia": ha smarrito i principi di una vita sana e normale, vale a dire la capacità di ignorare la sofferenza altrui. Ora, signore e signori, la capacità in questione è qualitativamente nuova: nonostante pestilenze, saccheggi e tortura, era ignota a precedenti generazioni. Un accenno a questa moderna facoltà, che attiene alla cosiddetta "salute" degli uomini e donne industriali, l'ho trovato anche in Ann Douglas, la quale parla di questa stessa malattia come di perdita della sentimentalità, il cui costituirsi è da lei definito "femminilizzazione dell'America". E' la sentimentalità in questione a dar modo, a uomini e donne dell'industria, di rendersi conto che proprio i valori che vengono spietatamente distrutti da ogni società industriale sono quelli in nome dei quali si dovrebbe favorire il progresso, la crescita, la

fabbricazione di armi. Secondo Ann Douglas, in una società industriale non si darebbe nessun compenso di questa malafede, della quale del resto in una società industriale non si dovrebbe mai parlare: infrangere il tabù significa mettere a nudo le fondamenta comuni a tutti gli ideali dell'era industriale. Ma chi alla propria sentimentalità abbia rinunciato, è al corrente dell'universale cogenza dell'apartheid, la quale sta alla base di ogni accoppiamento economico. Che cosa ciò significhi, è il tema del mio discorso. Intendo dirvi Perché un sistema industriale non possa sussistere senza apartheid, Perché una politica economica non possa riuscire senza la degradazione diagnostica di una maggioranza, che questa sottovalutazione trovi espressione in un documento d'identità, in un diploma scolastico, nell'anamnesi medica oppure nel sesso del nome. E, per giungere alla radice di questa discriminazione tipicamente moderna, dovrò parlarvi del lavoro "umano". Infatti, dacché esiste l'ideologia della forza lavoro sessualmente neutra, e dunque concretamente "umana", la divisione sociobiologica del lavoro, che trova espressione nel sessismo o nel razzismo, si rende possibile e necessaria. Per parlare di questa divisione del lavoro e del tabù che la copre, ho scelto come tema l'ombra dell'economia, più specificamente la parte in ombra del lavoro. Per lavoro-ombra intendo il moderno complemento non retribuito del lavoro salariale, cosa che un tempo semplicemente non esisteva. Certo, gran parte delle attività non erano retribuite - il lavoro salariato costituiva l'eccezione. Ma la mancata retribuzione non trasformava la fatica in lavoro-ombra. Nell'ambito della famiglia, uomini e donne creavano assieme quanto serviva al mantenimento della famiglia stessa, dal quale veniva spremuto e schiumato quanto ne risultava, e in tal modo trasformato in prodotto. Ma non è questo faticare e creare a costituire l'oggetto della mia ricerca. Mi interessa invece ciò che oggi vien fatto in seno alla famiglia e altrove, che deve esser fatto - e che non viene pagato. Il mio tema è quel lavoro che è necessario - a volte d'importanza vitale - per rendere utilizzabili a pro della famiglia merci preconfezionate. E' un tipo di lavoro che non poteva esistere prima che la famiglia, il luogo della sussistenza, diventasse una "home" che oggi è il luogo del consumo; prima, dunque, che l'esistenza fosse resa dipendente dal consumo di merci. Intendo mettere in chiaro la differenza tra questo contributo moderno, non retribuito, economicamente indispensabile, all'economia di mercato, il lavoro di sussistenza e il lavoro salariato. Perché, e non credo di

sbagliarmi, l'apartheid della vita nell'era delle merci trova il proprio fondamento appunto nella duplice natura del lavoro che crea e valorizza merci. Tale complemento del lavoro salariato, che definisco "lavoro-ombra", comprende gran parte dei lavori domestici fatti dalle donne nelle proprie case e appartamenti, le attività connesse col fare la spesa, portare i figli a scuola, attendere con loro nel gabinetto medico, vigilarli sul campo giochi, sgobbare con loro per gli esami, ma anche l'andare e venire del padre dal posto di lavoro; comprende lo stress del consumo forzato, la resa, ormai introiettata, a pedagoghi e terapeuti l'acquiescenza ai burocrati, e non da ultimo le attese ai semafori - in una parola gran parte di ciò che viene etichettato come vita privata o vita in famiglia. Nelle culture tradizionali, il lavoro-ombra è un fenomeno marginale come il lavoro salariato, e spesso difficile da identificare. Nelle società industriali, è a tal punto routine da restare senza nome. Ci sono eufemismi che ne fanno cose da nulla: "attività del tempo libero", "attività consumistiche", "volontariato", "shopping". Rigidi tabù impediscono di vedere, in questo fare non retribuito, economicamente costrittivo, qualcosa di coerente con la realtà quotidiana. Le ideologie sostengono che dev'esser fatto, in quanto componente indispensabile della riproduzione della forza lavoro e dei rapporti di produzione. Ciò che nella società industriale, a est come a ovest, è cogente e non retribuito, a quanto sembra non può essere definito "lavoro" senza aggettivi. Per comprendere bene la natura del lavoro-ombra, dobbiamo evitare due equivoci. Non si tratta di attività di sussistenza: le relative prestazioni non retribuite costituiscono la premessa Perché i salari possano essere pagati. Il lavoro-ombra non assicura la sussistenza della famiglia ma trasforma, senza retribuzione, merci preconfezionate in beni di consumo. La sua cogenza è la condizione Perché, in una società a intensità di merci, possano venire versati i compensi per la cosiddetta "produzione" di merci di scarso valore. Mentre ci si deve dar da fare per ottenere un lavoro salariato, nel lavoro-ombra si è ficcati a forza. Ci si qualifica per il lavoro salariato; al lavoro-ombra si è destinati da una diagnosi. Il tempo, la fatica e la perdita di dignità che esso comporta, vengono posti senza retribuzione al servizio dell'indispensabile creazione di plusvalore. E oggi che il lavoro salariato diviene sempre più rapidamente superfluo, i microprocessori possono produrre merci sempre più scadenti per disoccupati che vengono costretti a un crescente lavoro-ombra in nome del moderno "self-help".

L'autodisciplina non retribuita frutto del lavoro-ombra diviene sempre più importante del lavoro salariato ai fini della futura crescita economica. Nelle economie industriali progredite, codesti contributi non retribuiti alla crescita economica sono divenuti il "locus" sociale della forma più diffusa, meno contestata e più deprimente di discriminazione. Il lavoro-ombra, per ora innominato e inindagato, è diventato quel settore in cui oggi in ogni società industriale la maggioranza, soprattutto le donne, subiscono una dolorosa discriminazione. Quest'apartheid strutturale in seno al "lavoro", sulla quale resta ogni esistenza industriale, non può più essere ignorata. Il relativo gravame del lavoro-ombra oggi imposto a un settore della popolazione, costituisce un metro di misura della discriminazione cui il settore stesso è sottoposto, assai più esatto della relativa disoccupazione o delle limitazioni in fatto di carriera. La fatica, non solo di sopravvivere con introiti di gran lunga insufficienti, ma di dover permettere alla "famiglia" di condurre un'esistenza corrispondente alla sua immagine ideale, ecco dunque la caratteristica del lavoro-ombra. Per poterne cogliere la natura, ritengo opportuno scavare nella sua storia, Perché solo così mi sarà possibile delucidarlo quale rovescio della medaglia lavoro salariato e insieme sua fonte. "Lavoro" e "impiego" sono oggi parole chiave. Appena cent'anni fa, nessuna delle due aveva il significato attuale. Entrambe sono tuttora intraducibili in gran parte delle lingue extraeuropee, le quali possiedono, sì, parole per designare attività per cui si esige un pagamento, ma sono espressioni che indicano prestazioni cui corrispondono corruzione, bustarelle, elemosine, tasse, estorsione e pagamento di interessi. Nessuna di esse potrebbe riferirsi a quello che noi chiamiamo "lavoro". Per trent'anni, il ministero del Lavoro di Giakarta ha cercato di imporre al malese il termine "bekerdja", in monopolistica sostituzione di tutti quelli in uso per indicare i lavori produttivi, secondo Sukarno tappa necessaria per la creazione di una classe operaia locale. I programmatori linguistici trovarono volenterosi complici tra certi giornalisti e sindacalisti, per tacere dei funzionari di partito. Ma la gente non assimilò il vocabolo differenziale e continuò a usare la parola giusta per attività piacevoli o degradanti, noiose o burocratiche - retribuite o meno che fossero. Anche in America latina sussiste pur sempre uno iato semantico fra ciò che funzionari, vescovi e bonzi di partito vorrebbero nobilitare come "trabajo", e ciò che intende Jos‚ quando se ne serve lui. In Messico, per "desempleado" si

intende tuttora il perdigiorno che non fa niente in un posto di lavoro ben retribuito, e nient'affatto ciò che intendono gli economisti quando parlano di disoccupati. Che il lavoro "produttivo" debba avere dignità e dar gioia, un tempo riusciva non meno incomprensibile del diritto al lavoro e al godimento dell'istruzione che qualifica al lavoro. Per i greci e i romani, il lavoro svolto con le mani, in obbedienza a ordini o faticoso, era lasciato agli schiavi e alla plebe. In ambito mediterraneo, soltanto gli ebrei hanno elaborato un'etica nonclassista del lavoro, sopravvissuta fino al paleocristianesimo: "Chi non lavora non mangia". Ma poi questo messaggio di ispirazione egualitaria al lavoro non sopravvisse al fatto che, sotto Costantino, le ‚lite si fecero battezzare: il classico ripudio del lavoro di sacerdoti e aristocratici assurse a regola nel Cristianesimo. Soltanto i monaci d'occidente, soprattutto se obbedienti alla regola benedettina, vedevano nel "labor" la vocazione cristiana alla completezza. Ma anche nei conventi occidentali i monaci interpretavano - a parte ondate riformistiche di breve durata - il motto di san Benedetto "ora et labora", come una sollecitazione a sovrintendere al lavoro dei fratelli laici o dei contadini e a compiere l'opera di Dio con la preghiera. Comunque, né greci né romani, e neppure il Medioevo, conobbero un termine anche lontanamente simile al nostro "lavoro" o "impiego". Ciò che intendiamo oggi per "lavoro", e cioè il lavoro salariato, durante tutto il Medioevo fu segno di miseria. Si contrapponeva nettamente ad almeno tre forme di fatica quotidiana: le attività domestiche, l'attività manuale e la mendicità. In via di principio, la società del Dodicesimo secolo assegnava a ciascuno il proprio posto: il suo modello strutturale era tale da escludere sia la disoccupazione sia la totale dipendenza dal lavoro salariato. E se qualcuno di questo doveva vivere - non occasionalmente o in parte, ma come unica fonte di sostentamento - era non semplicemente un povero, bensì uno che in miseria viveva. Al pari della vedova abbandonata o dell'orfano, era uscito dal contesto della comunità, e aveva quindi bisogno dell'assistenza pubblica. Nel settembre del 1330 morì a Firenze un ricco mercante di stoffe che legò i propri beni ai bisognosi; esecutrice testamentaria, la confraternita di Orsanmichele. All'epoca, Firenze era molto più avanti del resto d'Europa: non soltanto un centro commerciale, ma una delle prime sedi di produzione tessile protoindustriale. Diciassettemila persone vennero riconosciute abbastanza miserabili da ricevere ciascuna una moneta d'oro.

A mezzanotte furono chiuse nelle chiese e fatte uscire una a una, per avere la rispettiva eredità. Ma come si arrivò alla scelta di questi indigenti? Lo sappiamo Perché abbiamo accesso agli archivi delle attività benefiche della confraternita di Orsanmichele, e siamo dunque al corrente delle categorie che valsero da metro di misura della loro miseria: orfani, vedove, capifamiglia interamente dipendenti da un lavoro salariato o persone costrette a pagare un affitto per avere un tetto sulla testa. Dover provvedere alle necessità della vita mediante un lavoro salariato, fu segno di assoluta impotenza fino al termine di un'epoca in cui "povertà" aveva designato più un comportamento apprezzabile che una condizione economica. Durante l'alto Medioevo, il "pauper", il povero, era l'antitesi del "potens", il potente, non già del "dives", del ricco. E fino a ben addentro il Dodicesimo secolo, per "povertà" si intese esplicitamente l'interiore distacco dalle cose effimere anziché la mancanza del necessario. Doversi guadagnare da vivere con un lavoro salariato era il sintomo della sconfitta e della perdita, proprio di quanti fossero troppo miserabili per essere inclusi nell'enorme folla di sciancati, pellegrini, pazzi, senzatetto, esuli e raminghi che, in contrapposizione ai potenti e ai loro pochi servitori, costituivano il mondo dei poveri. La dipendenza dal lavoro salariato equivaleva alla confessione che il lavoratore non aveva un focolare al cui mantenimento contribuire, né altro posto nel contesto sociale che lo autorizzasse a prender parte al convito, a godere dell'ospitalità o della carità. Onde chiarire il diritto alla mendicità, mi sia concesso rifarmi a una predica di Raterio da Verona che precede di circa mezzo millennio l'esempio fiorentino. Fu tenuta nell'834, ed è un richiamo ai diritti e ai doveri del mendicante. "Voi vi lamentate della vostra debolezza. Ringraziate piuttosto Dio, non lamentatevi e pregate per coloro che vi tengono in vita. E voi, laggiù, voi che siete ancora sani, vi lamentate del fardello della vostra prole numerosa. Astenetevi dunque dalla vostra donna, ma non senza aver prima ottenuto il suo consenso, e lavorate con le vostre mani sì da poter nutrire voi stessi e altri. Voi dite che non ne siete in grado. Piangete allora sulle vostre debolezze, che costituiscono il vostro gravame. Mendicate con moderazione ciò che è necessario, astenetevi da tutto quanto è superfluo... Visitate i malati, state accanto ai moribondi e lavate i morti." Raterio parla di un diritto alla mendicità che rimane incontestato per mille anni. L'avversione al lavoro salariato è tuttora viva, solo che alla lingua

mercificata dei tempi moderni mancano le parole per esprimere tale ripugnanza. In una lettera inviatami da Miguel, un messicano ventitreenne, risulta evidente lo stupore provocato in lui da quanti dipendono in tutto e per tutto da un lavoro salariato. Miguel è figlio di una vedova che ha tirato grandi quattro rampolli vendendo i suoi ortaggi al mercato. E, oltre ai figli, ha sempre sfamato estranei che trovavano asilo in casa sua. Miguel mi ha scritto dalla Germania, dove ha trascorso un anno presso un maestro elementare che aveva aggiunto, alla sua vecchia casa, una stanza per gli ospiti, e che lo aveva invitato per dargli modo di apprendere i rudimenti della fotografia tecnica e poter così documentare le tecniche di tessitura tradizionali. Senza le pastoie dell'insegnamento scolastico di una lingua straniera, Miguel ha imparato in fretta il tedesco. Ma gli riusciva difficile, mi scrive, capire la gente. Sì, il suo anfitrione lo capiva, si comportava come "lodo un señor" (un signore da capo a piedi), ma i tedeschi per lui si comportano da poveracci con troppi soldi. "Nessuno ti aiuta. Nessuno ha posto per altri in casa propria. Aiutare qui significa, nel migliore dei casi, costituire un ente che provveda ai bisognosi." Nelle osservazioni di Miguel si avverte un'eco tipica di millenni passati: le persone che vivono di salario sono impotenti nei confronti degli altri, incapaci di provvedere al proprio mantenimento e a quello di altri. Per la maggior parte degli europei, il valore sociale del lavoro salariato ha subito un capovolgimento tra il Seicento e l'Ottocento. Solo lentamente, infatti, il salario è divenuto, da segno di carenza, pretesa legale. Solo lentamente, il supplemento della sussistenza, spesso indispensabile, si è trasformato in mezzo per soddisfare tutte le esigenze vitali. L'idea che la totale dipendenza dal lavoro salariato possa eliminare la miseria, anzi arricchire il lavoratore, era impensabile prima della Rivoluzione francese. Nel 1777, l'Accademia di Chƒlons-sur-Marne nella Francia nordoccidentale bandì un concorso per la miglior dissertazione sul tema: come venire a capo della mendicità dilagante in modo che giovasse alla Corona e tornasse a vantaggio dei poveri? Il primo premio fu assegnato a un saggio le cui frasi iniziali compendiano la tesi: "Gli uomini hanno cercato per secoli la pietra filosofale. Noi l'abbiamo trovata. E' il lavoro. Il lavoro salariato è la naturale fonte d'arricchimento del povero". Chi all'epoca scriveva questo, certamente non era mai vissuto del lavoro delle sue braccia: era un chierico o un umanista, apparteneva cioè a uno strato elevato del pitoccume che mai avrebbe attribuito, al proprio lavoro

intellettuale, così straordinari poteri di metamorfosi. Ecclesiastico o dotto, aveva dunque il diritto di ottenere o carpire benefizi. Non era ancora un moderno accademico che, considerandosi "lavoratore intellettuale", si guadagna un salario per il fatto di essere intellettualmente produttivo. Ma, sia nel caso dei signori dell'Accademia di Chƒlons che di coloro i quali oggi discettano di lavoro salariato, vale l'affermazione che chi scrive sul lavoro, sul suo valore, dignità, gioia, scrive sempre del lavoro fatto da altri. Che il lavoro possieda la virtù di trasformare in valore ciò che di valore è privo, rispecchia l'influsso delle idee ermetiche e alchemiche sulle teorie sociali prerivoluzionarie. Il lavoro è qui spacciato per pietra filosofale, panacea universale, elisir magico che cangia in oro tutto quel che tocca. Questa misteriosa facoltà del lavoro, di trasformare la natura dei valori, almeno in via di principio è stata sussunta dall'economia politica, con l'unica differenza che il rimando prescientifico all'alchimia è sostituito dai civettamenti marxisti col lessico scientifico della chimica. Il saggio premiato nel 1777 è degno di nota anche Perché comprova che ancora a quell'epoca la politica consistente nell'obbligare i poveri a un lavoro utile era considerata, in Francia, una novità. Fino alla metà del Settecento, gli ospizi francesi rispondevano pur sempre al presupposto cristiano medioevale che vedeva nel lavoro forzato una punizione del peccato o del delitto. Nell'Europa protestante e in certe città dell'Italia settentrionale già paleoindustriali, questa concezione era stata abbandonata ormai da un secolo, e lo rivelano chiaramente gli innovatori metodi introdotti negli ospizi neederlandesi, organizzati in modo da bandire la pigrizia e spronare al lavoro disciplinato; avevano insomma lo scopo di trasformare inutili mendicanti, orfani e prostitute, in lavoratori produttivi, ed erano quindi l'esatto opposto degli ospizi medioevali: non già luoghi di accoglimento, bensì istituzioni in cui sottoporre a trattamento individui raccolti dalla polizia. Per parecchi decenni, compito precipuo di quella neocostituita burocrazia armata che in seguito venne chiamata polizia, fu appunto di catturare e rinchiudere mendicanti. Qualche digiuno e una razione accuratamente dosata di frustate quotidiane ammorbidivano i nuovi arrivati. Seguiva l'addestramento al tornio o alla lima, per le donne al ricamo, al tombolo o al fuso, fino al giorno in cui, almeno in teoria, il mendicante diveniva un lavoratore. Il regolamento dell'ospizio di Amsterdam prevedeva persine trattamenti intensivi. Onde guarire fannulloni pressoché irrecuperabili, li si gettava in una fossa costantemente inondata, dove riuscivano a non annegare solo a patto di pompare

incessantemente da mane a sera. Per scopi e ordinamenti, anche se non per l'indirizzo pedagogico, cedeste "case di lavoro" possono ben considerarsi le antesignane delle scuole dell'obbligo. Il progetto alchemico di trasformare uomini e donne in lavoratori produttivi non trovò eco negli strati inferiori fin ben dentro al Diciannovesimo secolo. La guerra contro la cultura popolare e la sussistenza in nome del nuovo stato nazionale distrusse, sì, la sottile rete dell'economia di sostentamento, e i pascoli comunali e altri diritti d'uso collettivo vennero brutalmente espropriati, ma fino all'Ottocento non si ebbe la formazione di un proletariato. Gli storici parlano sempre più spesso di una vasta plebe che è tipica della transizione dalla cultura popolare alla società di massa. E quei plebei si ribellavano. Insorgevano in nome del loro diritto di contribuire alla fissazione del prezzo delle granaglie e della qualità del pane, contro l'esportazione di cereali, a difesa degli incarcerati per debiti. I tumulti delle plebi del Diciassettesimo secolo e soprattutto del Diciottesimo, dall'Inghilterra alla Prussia, in sostanza ebbero per obiettivo la costrizione al lavoro, cosa questa che li distingue sia dalle sollevazioni contadine sia dai successivi scioperi. Il popolaccio paleoindustriale difendeva quella che E.P. Thompson ha definito "economia morale". I plebei reagivano all'attacco portato contro le basi sociali di codesta economia: contro la perdita dei pascoli comunali in seguito alle recinzioni e contro la costrizione al lavoro con la reclusione dei mendicanti. Ma come avvenne che le plebi tumultuanti si trasformassero in proletariato scioperante? In che modo si riuscì a ottenere ciò che non avevano potuto fare le leggi sui poveri e le case di lavoro? Quale, in senso etnologico e antropologico, l'evento in forza del quale il lavoro salariato, da incomprensibile arbitrio del nuovo stato divenne un diritto del cittadino? In sostanza, si trattò di una nuova divisione, che ebbe luogo nel Diciannovesimo secolo, del lavoro secondo i sessi, in attività produttiva e non produttiva, con il connesso trasferimento del lavoro fuori dalla casa e la reclusione domestica della donna nell'ambito del lavoro-ombra. Una divisione economica dei sessi senza precedenti, un'economizzazione inedita della famiglia sotto forma di accoppiamento di lavoro salariato e lavoro-ombra, e una contraddizione inaudita tra sfera domestica e sfera pubblica, fecero dell'apartheid di lavoro salariato e lavoro-ombra il fondamento dell'esistenza. La reclusione della donna nell'ambito, sottratto alla sussistenza, del lavoro-ombra, ha così ottenuto ciò che non si era riusciti a fare con la recinzione dei pascoli e l'internamento dei mendicanti.

L'economia politica scoprì la produttività asessuata, demandata soprattutto agli uomini, e la ginecologia scoprì la femminilità della donna, da essa destinata elettivamente a matrice della società. L'uomo venne tolto alla casa Perché quivi il "lavoro" non era abbastanza produttivo, e la donna vi venne stabbiata Perché l'economia di sussistenza era crollata. La teoria del valore-lavoro ebbe per effetto di far apparire la forza lavoro dell'uomo quale mero catalizzatore del denaro, degradando la casalinga a massaia economicamente dipendente e mai come prima improduttiva. Da allora, essa fu il bel possesso e il fedele sostegno dell'uomo, e venne assegnata, per il suo "lavoro amoroso", alla protezione del focolare. La guerra contro la sussistenza pot‚ godere di un sostegno di massa solo quando il popolaccio si trasformò in classe operaia che conduceva una vita come si deve, composta di uomini e donne economicamente separati. Come membro di questa classe, l'uomo si ritrovò complice del proprio datore di lavoro, entrambi essendo ugualmente interessati all'espansione economica e alla soppressione della sussistenza. Tuttavia, questa sostanziale collusione tra capitale e lavoro nella guerra contro la sussistenza venne mistificata dal rituale della lotta di classe. In pari tempo l'uomo, in quanto capofamiglia sempre più dipendente dal proprio salario, era indotto a vedersi quale il portatore gravato del peso di tutto il legittimo lavoro della società, tale anche per il continuo ricatto di una donna improduttiva. Nella famiglia e tramite la famiglia si amalgamavano così le due forme complementari del lavoro industriale: lavoro salariato e lavoroombra. Uomo e donna, effettivamente alienati dalle attività di sussistenza, divennero l'uno per l'altra il movente dello sfruttamento, a fini di profitto, da parte dell'imprenditore e ai fini dell'investimento in beni-capitale. In misura via via crescente, il plusvalore nel secolo successivo, il Ventesimo, non è stato più investito soltanto nei cosiddetti mezzi di produzione. Lo stesso lavoro-ombra è divenuto a sempre più alta intensità di capitale. Gli investimenti nella casa, nel garage e nella cucina, riflettono la scomparsa dell'economia domestica indirizzata alla sussistenza, e contrassegnano il crescente monopolio del lavoro-ombra. Il quale tuttavia è stato costantemente mistificato. E oggi hanno corso ancora quattro modalità di mistificazione. La prima si traveste da richiamo alla biologia. Fa della relegazione della donna al ruolo di madre-moglie-massaia una condizione universale necessaria per permettere agli uomini di andare a caccia del posto di lavoro; quattro sono le moderne discipline che sembrano legittimare tale

presupposto. Gli "etologi" descrivono le scimmie femmine come casalinghe che montano la guardia al nido mentre i maschi vanno a caccia tra gli alberi. Da codesta proiezione nella scimmia dei ruoli familiari, deducono che la protezione del nido costituisce il ruolo specificamente sessuale della femmina, mentre il lavoro vero e proprio, cioè la conquista di risorse scarse, è compito del maschio. Il mito del possente cacciatore è quindi definito una costante transculturale, un fondamento comportamentale degli umanoidi, derivante da un qualche substrato biologico dei mammiferi superiori. Gli "antropologi" che studiano la famiglia non sanno resistere alla tentazione di riscoprire nei selvaggi i tratti delle proprie mamme e dei propri babbi e trovano in tende, capanne e grotte tracce degli appartamenti in cui sono essi stessi cresciuti. Da centinaia di culture desumono prove del fatto che le donne sono sempre state handicappate dal proprio sesso, atte più a scavare che a cacciare e da sempre guardiane del focolare. I "sociologi" come Talcott Parsons partono dalle funzioni che credono di individuare nella famiglia e poi studiano tutte le altre strutture sociali alla luce dei ruoli sessuali endofamiliari. Infine, i "sociobiologi" di destra come di sinistra verniciano a nuovo l'antico mito illuministico dell'adeguamento del comportamento femminile a quello dell'uomo. Tutte queste teorie hanno in comune una confusione di fondo tra suddivisione specificamente sessuale dei compiti, propria di ogni cultura, e la scissione economica, esclusivamente moderna, propria dell'ideologia del lavoro ottocentesca che prescrive un'inedita apartheid tra "esseri umani" teoricamente dotati di uguali diritti: lui, soprattutto produttore; lei, soprattutto casalinga nel suo privato. Questa differenziazione economica dei ruoli sessuali non sarebbe stata possibile in condizioni di sussistenza, ed essa si avvale di una tradizione mistificata per legittimare la crescente separazione tra produzione e consumo, in quanto "definisce non-lavoro ciò che fanno le donne". La seconda maschera del lavoro-ombra lo confonde con la "riproduzione sociale", termine che è un'infelice etichetta con cui, da Marx in poi, si disegna un coacervo di attività che non rientrano nell'ideologia del lavoro, ma che qualcuno deve pur svolgere - per esempio condurre la casa per il salariato. Lo si applica avventatamente a tutto ciò che la maggior parte degli individui facevano per la maggior parte del tempo nella maggior parte delle società, vale a dire le attività di sussistenza. E poi è servito a designare attività che nel tardo Ottocento, per esempio in Marx, erano

ancora considerate lavoro salariato improduttivo, come quelle degli insegnanti o degli assistenti sociali. Il termine riproduzione sociale indica inoltre gran parte di ciò che oggi tutti fanno nelle proprie case e immediati dintorni. L'etichetta vanifica dunque qualsiasi tentativo di cogliere la differenza tra il vitale, fondamentale contributo della donna a un'economia di sussistenza e il suo reclutamento non retribuito alla riproduzione del lavoro industriale: "le donne improduttive vengono insomma compensate con la "ri-pro-duzione"". Il terzo trucco che maschera il lavoro-ombra è l'applicazione di metri di misura economici a comportamenti estranei al mercato monetario. Tutte le attività non retribuite vengono gettate nel calderone di un sedicente "settore informale". Mentre i vecchi economisti edificavano le proprie teorie sulla costatazione che ogni consumo di beni implica la soddisfazione di un bisogno, i nuovi economisti si spingono oltre: per loro, ogni decisione umana è la riprova di una scelta appagante. Ed ecco i Chicago Boys costruire modelli economici del crimine, del tempo libero, dell'apprendimento, della fertilità, della discriminazione e del comportamento elettorale. Non ne resta escluso neppure il matrimonio. Gary S. Becker, per esempio, parte dal presupposto di un mercato sessuale in equilibrio, e ne deriva formule che descrivono la "divisione degli "outputs" tra i partner". Altri calcolano il valore aggiunto dalla casalinga a uno spuntino televisivo, costituito dalle sue attività non retribuite di sceglierlo, scaldarlo e servirlo. Questa terza maschera permette di descrivere il lavoro-ombra come una forma di produzione economica non compiuta in maniera abbastanza razionale e produttiva da giustificare una pretesa di remunerazione. "Ciò che soprattutto le donne fanno, anche se fatto dall'uomo, non è degno di salario". Una quarta maschera è imposta al lavoro-ombra dalle femministe. Esse sanno che è un lavoro duro, e fanno il diavolo a quattro Perché non è retribuito. Diversamente dalla maggioranza degli economisti, valutano di forte entità, anziché trascurabili, i salari non corrisposti. Inoltre, alcune di esse ritengono che il lavoro femminile sia "improduttivo" e tuttavia costituisca la fonte principale del "mistero dell'accumulazione primitiva", una contraddizione che aveva sconcertato già Marx. Applicano insomma paraocchi femministi ai loro occhiali marxisti. Maritano la casalinga a un patriarca salariato che, a loro giudizio, sfrutta la propria moglie esattamente come il datore di lavoro sfrutta lui. Accade così che la

congiura dei nemici di classe al servizio della crescita, escogitata nel Diciannovesimo secolo, venga ad essere rafforzata da una guerra dei sessi nell'ambito di ciascuna famiglia. Le femministe sembrano però non essersi accorte che la nuova definizione della natura femminile, formulata dopo la Rivoluzione francese, è andata di pari passo con la nuova definizione dell'uomo. L'uguaglianza in seno al sesso astratto, non più la questione di chi porta veramente i pantaloni, ecco la posta di questa guerra familiare. E, sebbene la loro prospettiva a orientamento femminile abbia permesso nuove aperture su realtà in precedenza nascoste, il loro specifico impegno movimentista ha per conseguenza di obnubilare la questione cruciale, e cioè il fatto che le donne moderne sono menomate Perché costrette a un'attività gravosa che, oltre a non essere retribuita in termini economici, è infruttuosa in termini di sussistenza. "La riduzione del lavoro-ombra a "lavoro femminile" e a "lavoro domestico" è la quarta maschera con cui esso viene deformato e celato, e ciò a precipuo svantaggio delle donne". Una cosa tuttavia dovrebbe esser chiara, ed è che nell'attuale fase del sistema industriale la cogenza del lavoro-ombra cresce proprio Perché diminuisce il volume del lavoro salariato. Il lavoro-ombra, che già verso la metà del nostro secolo aveva perduto il suo carattere specificamente sessuale, diviene altrettanto sessualmente neutro del lavoro salariato. E, come la discriminazione sessuale nel lavoro salariato diventava sempre più degradante quanto più ogni lavoro salariato, ogni posto di lavoro, almeno in via di principio, doveva essere accessibile a uomini e donne, così l'effettiva discriminazione nel lavoro-ombra si trasforma, da mezzo di esclusione delle donne, in un nuovo "locus" della subordinazione. Di recente, tuttavia, alcune storiche del lavoro femminile si sono spinte al di là delle categorie e dei metodi convenzionali, rifiutandosi di contemplare il loro soggetto attraverso occhiali professionali calati loro dall'alto, per esaminarlo invece "da sotto in su". Studiano cose come il parto, l'allattamento, le pulizie domestiche, la prostituzione, lo stupro, la biancheria sporca, i discorsi osceni, l'amore materno, l'infanzia, l'aborto, la menopausa. Hanno rivelato in che modo ginecologi, architetti, farmacisti e titolari di cattedre di storia rovistino in questa confusa urna del lotto per fabbricare di sana pianta sintomi e smerciare nuove terapie. Alcune di loro descrivono la vita familiare delle donne del terzo mondo negli slum e la contrappongono alla vita nel "campo" o nel "kampung". Altre indagano sul "lavoro amoroso" inventato per le donne nei quartieri, nelle cliniche e nei

partiti politici: il volontariato. Le innovatrici che osano spingere lo sguardo nel fondo ombroso e sudicio della società industriale, illuminano e anatomizzano forme d'oppressione sinora ignorate, e quel che ne riferiscono nulla ha a che fare con gli -ismi e le -logie correnti. Poiché non contemplano gli effetti dell'industrializzazione dall'alto, i loro reperti risultano alquanto diversi dalle vette del progresso decantate dai manager, e diversi anche dalle bassure che condizionano la visuale proletaria, nonché dalla storia sociale degli ideologi. Questa ricerca femminile anticonvenzionale infrange un duplice tabù, scientifico e politico, l'ombra che cela la duplice natura del lavoro industriale e del suo fratello siamese, il divieto di cercare nuovi concetti per descriverlo. A differenza delle suffragette delle scienze sociali, ossessionate dal progresso che la reclusione ha loro "ingiustamente" negato, le storiche dell'intimità femminile riconoscono che il lavoro domestico è un lavoro "sui generis". Fanno risalire la propagazione di una nuova esistenza-ombra al periodo tra il 1780 e il 1860, secondo ritmi diversi da un paese all'altro; parlano di una nuova vita le cui frustrazioni non sono meno dolorose, anche se a volte bellamente indorate; spiegano come questo lavoro "sui generis" sia stato esportato, in una con il lavoro salariato, fuori dai confini dell'Europa. E costatano che, ovunque le donne siano divenute di seconda scelta sul mercato del lavoro, al loro lavoro, nella misura in cui non sia retribuito, è profondamente cambiato. Parallelamente al lavoro salariato di seconda categoria istituito per le donne, alla macchina per cucire prima, alla macchina per scrivere poi, e infine al telefono, ha avuto luogo la reclusione nella casa di lavoro non remunerato. Questa totale metamorfosi del lavoro domestico risulta particolarmente evidente negli Stati Uniti, Perché lì si è verificata con subitanea immediatezza. Nel 1810, la normale unità produttiva del New England era ancora la famiglia rurale. Produzione e conservazione di alimenti, fabbricazione di candele e sapone, filatura, tessitura, preparazione di calzature, coperte e tappeti, allevamento di animali domestici e orticoltura erano tutte cose che venivano fatte in ambito domestico. Anche qualora ricavasse un reddito monetario dalla vendita dei prodotti agricoli e qualche somma in più grazie a salari occasionalmente percepiti dai suoi membri, la famiglia tipo statunitense era in larga misura autosufficiente. La compravendita, anche qualora comportasse un trasferimento di denaro, assai spesso si basava sul semplice baratto. Le donne avevano parte attiva

non meno degli uomini nella creazione dell'autosufficienza familiare. E quando si trattava di "lavoro", non di rado portavano a casa quanto gli uomini. Questo non significava che salari femminili e salari maschili fossero equiparati: di rado, anche nel caso del lavoro salariato, le donne facevano le stesse cose degli uomini. Significa soltanto che l'attuale, unidirezionale discriminazione della donna nel lavoro salariato e nel lavoro-ombra, allora non era neppure pensabile. Tra il 1800 e il 1880, il divario tra salari maschili e femminili si è ingrandito in tutto il mondo, per poi restare per un secolo, fino a oggi, sostanzialmente inalterato. Sotto il profilo economico, e a paragone del secolo successivo, immediatamente dopo la guerra di liberazione le donne negli USA erano equiparate agli uomini. Nel 1810, nel Nordamerica ventiquattro metri di lana su venticinque erano d'origine familiare, situazione che mutò nel 1830, allorché l'agricoltura commerciale cominciò a sostituire la fattoria autosufficiente, la "homestead". Vivere di un salario divenne quasi all'improvviso la norma, e il lavoro occasionale indice di povertà. Nel corso di una generazione, la donna da conduttrice di un'azienda divenne custode di un'abitazione dove i bambini erano ospitati prima di cominciare a lavorare, dove il marito riposava e dove si spendevano i suoi guadagni: se non realtà, questo divenne l'ideale. Ann Douglas parla di esautorazione ("disestablishment") della donna americana, avvenuta parallelamente a quella del clero coloniale. Persino il diritto di voto fu allora, e soltanto allora, negato alle donne, le quali scomparvero dalle professioni tradizionali: le levatrici furono sostituite da ginecologi di sesso maschile, le carriere dei nuovi settori propri della classe media vennero precluse alle donne. E questa espulsione della donna dall'economia politica è il riflesso dell'apartheid su cui resta il lavoro nuovo, il lavoro dell'era industriale. Il nuovo essere umano e cittadino è divenuto un neutro economico di entrambi i sessi, e allo stesso modo il lavoro si è trasformato in androgino in teoria almeno sessualmente neutro. Dobbiamo la scoperta della natura androgina del moderno lavoro economico alle storiche del lavoro femminile che ci hanno fornito la prima cronaca diretta dal campo delle sconfitte nella guerra contro la sussistenza: un rapporto su quel "lavoro" senza precedenti che viene svolto nell'ombra della moderna economia politica; ed è un'ombra che però copre ben di più che non soltanto il lavoro casalingo e che rende invisibile non solo l'esistenza economica della donna. Inesorabilmente, quest'ombra si allarga e si allunga sulla scia della crescita economica, coprendo una porzione sempre più vasta della vita anche degli uomini: il lavoro casalingo è

semplicemente la zona su cui l'ombra si è posata per prima. L'esistenza nella società industriale, dove la disoccupazione è in continuo aumento, sempre più si svolgerà nell'ambito di quest'ombra. La casalinga rimarrà probabilmente per sempre l'icona di questa vita nell'ombra, come l'uomo in tuta sopravviverà ben addentro all'epoca del microprocessore, quale icona del "lavoratore dell'industria". Ma vedere nella metà in ombra dell'esistenza industriale il lavoro femminile "tout court", sarebbe la quinta e ultima mistificazione dell'apartheid dell'era industriale, equivarrebbe a velare definitivamente la realtà personale delle donne con un carattere sessuale inventato a garanzia del controllo economico. Per questo insisto testardamente a usare l'espressione "lavoro-ombra" per designare una realtà sociale il cui prototipo è il moderno lavoro domestico. La coazione a tale lavoro-ombra va vista nella sorte dei "disoccupati" dell'epoca postindustriale, quale che ne sia il sesso biologico. E la discriminazione nell'ambito del lavoro-ombra (e non più la destinazione "naturale" a esso) costituisce la forma ventura dell'esclusione decretata a donne e altri cittadini scientificamente diagnosticati come subumani. Lavoro-ombra e lavoro salariato sono nati assieme. Entrambi alienano nella stessa misura, ancorch‚ paralizzino secondo modalità diversissime l'attività di sussistenza. La perdita dei comuni valori d'uso obbliga il capofamiglia al lavoro salariato e i suoi familiari al lavoro casalingo non remunerato per la trasformazione e il miglioramento dei generi alimentari frutto del salario. La possibilità di tale scissione dell'attività umana in produzione e consumo è stata inizialmente imposta dalla separazione economica dei sessi e codificata dall'accoppiamento economico eterosessuale della famiglia nucleare. La famiglia del lavoratore nel socialismo reale ancora più che altrove - consiste di un uomo e di una donna sulla cui cooperazione si fonda in ultima analisi la società. E l'accoppiamento economico in questione lega la "femina domestica" a un "vir laborans" nella schiavitù di un'impotenza complementare. L'"homo oeconomicus" è, da questo punto di vista, un androgino destinato per lo più al lavoro-ombra dal colore della pelle, dagli organi sessuali o da inferiorità psichica. Di decennio in decennio, l'economia industriale sempre più dipende dalla capacità della sua ideologia di destinare al lavoro-ombra crescenti maggioranze. Nelle società europee, accade che semplicemente non ci siano abbastanza donne e negri per assicurare l'auspicata crescita; e a decidere chi destinare al lavoro-ombra sono oggi sostanzialmente forze sociali autorizzate a formulare diagnosi. Diagnosi significa, letteralmente "riconoscere separatamente", cioè discriminare. E oggi questa parola serve soprattutto a

designare l'atto mediante il quale una categoria di esperti procura clienti per quelle prestazioni sulle quali esercita un monopolio. E ciò che permette a una corporazione del genere di creare un bisogno di dipendenza dai propri servizi, è anche ciò che serve a imporre al cliente il corrispettivo lavoro-ombra. Medici e pedagoghi sono esempi tipici di queste corporazioni di esperti esercitanti una tutela. Esse impongono ai loro clienti il lavoro-ombra del consumo dei propri servizi e vengono pagate col reddito dei clienti stessi, direttamente o indirettamente attraverso le imposte. In tal modo, i moderni terapeuti fanno compiere un altro passo avanti al modulo della famiglia attuale asservita al lavoro: la creazione di lavoro-ombra sottoposto a vigilanza professionale nell'ambito dell'apprendimento e della cura medica, nonché dell'assistenza, è ormai la principale occupazione del residuo lavoro salariato. Coloro che sono remunerati per creare lavoro-ombra costituiscono l'odierna ‚lite del lavoro. Come quello domestico è soltanto la punta più visibile dello iceberg lavoro-ombra, così la pianificazione ginecologica della casalinga è solo la maschera più spudorata di una diagnostica estesa a tutta la società. Per esempio, i sedici livelli di degradazione che definiscono le varie categorie di "dropouts" del sistema didattico impongono eccessivi carichi di lavoroombra alle moltitudini più o meno umili della società, e lo fanno in maniera più efficace di quanto sia mai stato possibile con discriminazioni sessuali o "razziali". La scoperta del lavoro-ombra potrebbe essere non meno importante, per lo storico, di quella - avvenuta una generazione fa - dei contadini, delle plebi e delle culture popolari come oggetto di indagine appunto storiografica. Allora i grandi francesi riuniti attorno alle "Annales" inaugurarono lo studio delle forme di vita, dei sentimenti e delle Weltanschauungen e culture materiali di poveri, bambini e analfabeti. Puntarono sulle modalità di sussistenza, le feste, le proteste dei "plebei" i riflettori storiografici il cui raggio in precedenza illuminava soltanto i potenti, le celebrità, le loro imprese e opere. Ma la nuova storia della mentalità restò non meno asessuata di quella ufficiale che si occupava di dinastie, battaglie e leggi: rimase la storia di esseri umani, scritta da storici i quali supponevano acriticamente che il lavoro fosse pur sempre lavoro umano. Non si può pertanto accettare senza meno la nuova storiografia femminile, ambito dal quale si levano voci per lo più sgomente, spesso lacrimose oppure piene di aggressiva amarezza, le quali testimoniano di

una realtà sociale che non concorda con l'immagine del mondo fornita dalla storiografia qual è stata finora: nuovi resoconti che si possono considerare teste di ponte nella terra di nessuno della storia. Essi comportano la scoperta della sessualità quale fondamentale categoria storica. La storia delle donne, che vuoi essere ben di più che non storia degli esseri umani di segno femminista, scopre che il "ruolo" delle donne viene in essere soltanto tramite la scissione economica dei sessi, e che il lavoro-ombra della casalinga a sua volta è stato reso possibile dal fatto che la "donna" è stata ridotta a un potenziale "ruolo" per gli esseri umani. Codesta forma di storiografia femminile offre la possibilità di compilare una storia della sessualità economica e coincide con la storia della moderna discriminazione biologica, vale a dire sessismo e razzismo sociobiologici. E in questa prospettiva, ecco che la storia della casalinga assurge a storia dell'apartheid sociobiologico. Il tentativo di interpretare l'emarginazione economica della donna o dei negri quale un prolungamento di forme tradizionali di controllo sociale, è altrettanto vano di quello volto a individuare, nelle società di sussistenza, ciò che oggi definiamo lavoro. Entrambi i tentativi sono al servizio della stessa mistificazione. Chi oggi pretenda di spiegare quel che viene fatto alle donne tramite un'economia in cui esse sono in stato di effettiva inferiorità, nei termini di un proseguimento del patriarcato e dell'imposizione del velo alle donne, maschera e indora la ingiustizia non meno, signore e signori, del vostro governo che crede di poter applicare a "homelands" sudafricane la politica coloniale di epoche perente. La categoria dell'emarginazione, che riguarda sia donne che negri, è storicamente nuova, il concetto di capacità produttiva esige logicamente un complemento improduttivo o riproduttivo. Nel sistema industriale, la biologia serve ad ascrivere individui di preferenza a questo o a quel complemento. Chi veda, nel detenuto del gulag, in primo luogo uno schiavo, vuoi dire che non ha occhi per il motto che Hitler osò far iscrivere sul portone di Auschwitz: "Il lavoro rende liberi". E costui non capirà mai una società nella quale il lavoro non remunerato dell'ebreo nel Lager gli veniva estorto come contributo obbligatorio alla sua stessa soppressione. La moderna recinzione che ha nome apartheid non è mai semplicemente orrenda o degradante: le inerisce sempre anche una dimensione demoniaca, esprimibile solo entro certi limiti in termini prosastici. Per afferrarla, dobbiamo prestare orecchio a un poeta come Paul Celan: "... una sie

schaufeln ein Grab In den Lüfìené sie schaufeln una schaufelné da liegt man nicht eng". (8) Le forme più sottili di apartheid possono obnubilare la nostra visione del "mysterium iniquitatis" in esse sempre insito, come è reso manifesto dal fascismo di ieri in Germania o da quello odierno nel Sudafrica. La società industriale non può rinunciare alle sue vittime. Le donne del Diciannovesimo secolo sono state recluse, "disestablished", ferite. E inevitabilmente hanno esercitato un'influenza corruttiva ("corrupting", dice A. Douglas) sulla società tutta quanta, alla quale hanno offerto un oggetto di sentimentalistica compassione. L'oppressione costringe sempre le proprie vittime ai lavori sociali più sporchi. La nostra società le costringe a diventare, tramite l'assistenzialismo, oggetti cooperanti alla repressione. La condizione che essa pone per una normale felicità è la preoccupazione sentimentale per quanti dovrebbero essere aiutati, salvati o liberati. Questa è la storia che Nadine Gordimer mi ha raccontato, non già circa le donne, bensì sul conto dei negri. Me l'ha raccontata con "quell'ingannevole casualità cui ricorrono le persone abituate alle angherie poliziesche parlando con i non iniziati", un atteggiamento che essa attribuisce alla sua protagonista, la figlia di Burger. Per lei una felicità normale non esiste, dal momento che è malata. E la malattia descritta è la perdita di quel sentimentalismo da cui oggi la normale felicità dipende. Ann Douglas ha assai ben descritto questo sentimentalismo per quanto riguarda l'America. E' un fenomeno complesso che nelle società industriali fa da sostrato alle ideologie e alle religioni, fornendo la conferma che i valori oggi attribuiti alla sussistenza - una sussistenza ineluttabilmente distrutta dalla crescita economica - sono proprio quelli in nome dei quali la crescita deve continuare. Fatto, questo, che metamorfosa la sussistenza in ombra dell'economia. Il sentimentalismo riesce a venire a capo dell'apartheid implicita nella contrapposizione di produzione e consumo, manipolando la nostalgia per una vita di sussistenza. La sentimentalistica glorificazione delle vittime dell'apartheid - donne, pazienti, negri, analfabeti, sottosviluppati, drogati, derelitti, proletari - è un modo di protestare solennemente contro un potere davanti al quale si è già capitolato. Tale sentimentalismo è un atto di disonestà a cui una società, la quale ha violentato l'ambiente che ne garantiva la sussistenza, non può rinunciare. Una società siffatta si fonda sulla diagnosi continuamente rinnovata di coloro cui deve provvedere. E questa paternalistica disonestà permette ai rappresentanti degli oppressi di aspirare al potere per attuare

sempre nuove oppressioni.

7. Il "noi" ecumenico Oggi, il termine "ecumene" comporta sempre connotazioni di tipo settario, e ciò si verifica anche quando lo si intenda in senso profondamente cristiano. Se questo accade, è Perché oggi "ecumene" significa un "noi" di ordine superiore, una fusione di "noi" alla quale nessun altro termine si attaglia con altrettanta esattezza. La costituzione del "noi", che continua a collocarsi nel futuro e che oggi è designata dalla parola "ecumene", riesce comprensibile solo alla luce della storia della Chiesa occidentale, anche se la storia ecclesiastica del pronome "noi" sarebbe difficile da scrivere, dal momento che il "noi" europeo mondano, dal quale bisogna prendere le mosse, esiste forse soltanto in quelle lingue che sono state in larga misura compenetrate dalla fede e dalla volontà di dominio cristiane. Qui, non tenterò di abbozzare una storia del genere, limitandomi ad accennare alla possibilità di essa, e muovendo, per farlo, dalla comparazione tra strutture linguistiche fondamentali. Non bisogna dimenticare che anche il "noi" ha una storia, e che il pronome svolge oggi un ben altro ruolo che non nel Diciannovesimo secolo, e ancora più chiaramente, il "noi" odierno si distingue da quello della Guerra dei Trent'anni o da quello della guerra contro i sassoni di Carlo Magno. Nel corso degli ultimi due secoli, in tutte le lingue europee il "noi" si è fatto più univoco, uniforme e povero. L'essere umano industriale non ha più idea della vivida molteplicità dei soggetti che, in un altro ambito linguistico, si prestavano a una differenziazione all'interno della prima persona plurale. La storia sociale di questa, che ha portato alla costituzione del "noi" odierno, costituirebbe una valida premessa allo studio di ciò che al giorno d'oggi è celato nell'ecumenismo; in questa sede, devo limitarmi a sfiorare il significato di tale storia. Con "noi" designo una categoria linguistica, appunto un pronome, per l'esattezza personale, con il quale il parlante allude alla prima persona plurale. Ma che cos'è, a ben guardare, la prima persona? Al singolare, è facile distinguere l'una dall'altra tre persone: "io", la prima persona, parlo a un "tu", la seconda persona; e al "tu" al quale mi rivolgo, dico qualcosa di una terza persona, la quale non interviene nel dialogo né a essa ci si rivolge. Proprio per il fatto che io parlo a un tu, isolo dal mondo circostante questa persona, distinguendola da altre, terze persone e cose. Il

"tu" è un unico, quasi altrettanto unico dell'"io" parlante; e unico resta anche quando sia comandato da un superiore oppure venga onorato quale padrone e signore. Al contrario del "tu", la terza persona ha una dimensione ben più vasta, dal momento che può comprendere tutto ciò che costituisce il contenuto del pensiero e della volontà della prima persona, tutto quanto la prima persona comunica alla seconda. Nel "tu" è sempre presente il germe della risposta; non così nella terza persona. La prima persona, la persona parlante, di solito non indica se stessa mediante un nome, bensì con un pronome, una parola che il parlante usa al posto del proprio nome. Questo pronome, mediante il quale il parlante indica la propria persona, esiste in tutte le lingue, sebbene il gesto con cui la designazione può essere articolata vari da lingua a lingua. In armeno o in irochese, nella designazione dell'"io" ha maggiore importanza il dimostrativo, per così dire l'indice rivolto a se stessi. Anche in gran parte delle lingue semitiche, nel pronome della prima persona singolare ha ancora oggi molta importanza la connotazione indicativa, mentre in altre lingue l'"io" è più chiuso in se stesso, si tratta di un sostantivo mediante il quale il parlante si isola da tutto ciò cui si rivolge o di cui parla. L'"io" corrisponde a un gesto di autodistanziamento. La parola che designa la prima persona può essere scoperta, come nel caso di "io"; ma può anche apparire a prima vista quale una mascheratura. Dal punto di vista ideologico, il giapponese deve dire "wata(ku)si-domo", che significa grosso modo "inchino" ed equivale al "servitor suo" di un domestico vecchia maniera. Ma dal punto di vista semantico, ambedue gli eufemismi sono un chiaro "io". Dal punto di vista etimologico, nella stessa lingua l'"io" può suonare, in un contesto, orgoglioso, e in un altro contesto umile, ma dal punto di vista semantico rimane, di tutte le parole, la più univoca. In tutte le lingue, il pronome della prima persona singolare ha un diritto di primogenitura tra tutte le parole: esso indica il parlante semplicemente in quanto tale. L'unica eccezione a me nota, una lingua in cui non esista un "io" comune per gli uomini e le donne, mi sembra anzi confermare la sincerità semantica dell'"io": nell'Hadramaut, a quanto ne so, si fa uso di un dialetto semitico in cui le donne indicano se stesse, in quanto parlanti, con un altro pronome indicativo rispetto a quello usato dagli uomini; se cerco di darmi ragione dell'esperienza linguistica degli abitanti dell'Hadramaut, avverto che con quest'inevitabile rimando a una limitazione sessuale l'"io" rinuncia al proprio diritto di primogenitura. L'esatta percezione dell'unità, anzi dell'unicità, dell'"io" parlante,

costituisce la premessa alla comparsa delle forme plurali, e ciò Perché quasi con la stessa immediatezza con cui tutte le lingue contrappongono all'"io" parlante un tu al quale l'"io" parla, gli contrappongono anche un "noi". Questo "noi", il plurale della prima persona, esiste anche in quelle lingue in cui non si danno forme plurali altrettanto chiare. Agli indogermanici non riesce immediatamente comprensibile l'affermazione che la fonte del plurale vada cercata nel noi, dal momento che per gli europei la forma plurale delle "cose" di cui si parla, vale a dire la terza persona plurale, costituisce alcunché di ovvio. Ai turchi, quest'ovvietà è estranea. Per essi, il sostantivo designa una caratteristica, una forma di esistenza, ed esso indica in primo luogo e chiaramente più una qualità che non un oggetto. In turco, il sostantivo diviene designazione di un oggetto soltanto mediante l'aggiunta di un numerale. Per i turchi, è soprattutto importante la differenza tra una caratteristica designata (per esempio il domicilio in quanto tale) e gli oggetti enumerati, le case, che partecipano di questa caratteristica. La differenza tra la cosa essenziale e la cosa corollaria per il turco, quando allude a cose della terza persona, è più importante che non quella tra il singolare e il plurale, che invece ha tanto spicco nelle lingue occidentali. Ma anche in turco, la differenza tra l'"io" e il "noi" è di inequivocabile chiarezza, e ciò vale anche per altre lingue in cui il contrasto tra singolare e plurale nella terza persona non si sia cristallizzato appieno. L'inglese d'oggi ad esempio fa senza il "tu e...": il "you" può infatti indicare sia il tu sia un certo numero di interpellati. Allo stesso modo, non mancano lingue che astraggono da un "egli e...", ma è degno di nota il fatto che in nessuna lingua manchi un chiaro "io e...". Il "noi" può contrapporsi all'"io" in maniera assai diversa. Il contrasto non è necessariamente, come nelle lingue semitiche e indoeuropee, tra un "io" e un "noi" derivanti, dal punto di vista morfologico, da radici affatto diverse, come nel caso di "ego" e "nos", di "I" e "we", di "ja" e "mi". In molte parti del mondo si parlano lingue in cui all'io si contrappone la propria forma plurale - all'io gli "ii", al'"ich" gli "iche". Di lingue del genere ci si serve dall'Estremo Oriente e dall'Asia meridionale alla Finlandia, dalla Lapponia all'Alaska e alle grandi praterie del Nordamerica; e in alcune di esse si sono conservate entrambe le forme del plurale. A partire da questo doppio plurale, in un grandissimo numero di lingue si instaura una possibilità fondamentale, che dagli indogermanici spesso deve essere faticosamente appresa: la differenza tra l'"io e tu", vale

a dire quel "noi" che congloba anche il tu, colui al quale in questo momento ci si rivolge, e quel "noi" di tutt'altro genere, che esclude esplicitamente il tu. Molte lingue malesi, per esempio, ignorano il plurale che escluderebbe me, e conoscono solo la differenza tra "tu" e "voi". Ma fondamentale per ogni idioma è la precisa differenza tra i due plurali nei quali l'"io" è inglobato, tra le due forme del "noi": "Io sono con te - oppure con voi" e "io insieme con colui colei gli altri - ma con esclusione di te e di voi". In "kwakutl", a quanto sembra esiste un particolare "noi" che esclude il voi, in quanto è comprensivo dei defunti e degli spiriti. La necessità di un "noi" polimorfo è sopravvissuta, in alcune lingue creolizzate, alle corrispondenti parole. Ne può valere da esempio il neomelanesiano, quello che un tempo veniva chiamato pidgin english, una lingua che ha perduto le parole tradizionali disegnanti il "noi" polimorfo, trasferendone però la funzione su parole di nuovo conio riprese dall'inglese. "Mi" sono "io", e "yu" sei "tu", "yu-pela", "tu" e "compagno", siete "voi". "Mi-pela" sono io e i miei simili contrapposti a "yupela", tu e i tuoi simili. "Yumi" siamo io e tu insieme, e ci si serve dello yumi soprattutto allorché vi si ingloba, sì, i "voi", senza tuttavia voler rinunciare a un certo distacco nei confronti dei voi; in caso contrario, si direbbe "yumipela", che grosso modo significa "noi tutti insieme". L'inclusione e l'esclusione nel e dal noi, in alcune lingue vengono espresse in maniera ancora più raffinata. U"io e..." può essere sessualmente specifico. "Yumitripela" designa l'inclusione di te e dell'ascoltatore, non però dei voi. In altre lingue, il pronome "noi" è preciso nella sua portata e limitazione, ed è anche storico. Le lingue bantù, come per esempio il nkosa, distinguono il "noi già venuto in essere" da quello che viene allargato in quanto adesso arrivi "tu", con o senza aggiunta di altri. I mongoli e anche gli ewe del Dahomey sono in grado persino di esprimere con il pronome la speranza che un "tu" venga al più presto accolto nel "noi". Il "tu" che chiamo a me, è destinato a un "noi" diverso da quello al quale il "tu" in questione non apparterrà mai. Nel primo caso, il "tu" è già un noi in fieri. Questa quasi metafisica sensibilità della lingua bantù ha tenuto sulla corda già da tre generazioni i traduttori della Bibbia. Dunque, l'"essere "noi"" a quanto pare in innumerevoli società viene inteso, volta per volta, in forme perfettamente distinguibili, e lo stesso si può dire del duale della prima persona, noto agli antichi greci e oggi ancora alle lingue slave ("noi due entrambi"). Ma mi riservo di parlarne in un'introduzione alla storia del moderno rapporto di coppia; qui mi limito al "noi" e ai suoi rapporti con l'ecumene.

Il noi delle lingue europee è povero di significati, di una sconsolante povertà, anzi, come risulta chiaro da un semplice esempio. In compagnia del signor Rossi e signora mi imbatto, a un angolo di strada, nei signori Bianchi. E il signor Bianchi se ne esce a dire: "Questa sera siamo invitati dai Verdi!". Questa sua frase è per me fonte di imbarazzo, ho la sensazione di aver dimenticato completamente un appuntamento. Chi è stato invitato: solo i Bianchi? Oppure io e i due mariti, oppure tutti quanti? O ancora, i Bianchi e colui al quale si è rivolto il signor Bianchi? Certo, questi avrebbe dovuto avere la cortesia di servirsi di una diversa formulazione. Se avessimo parlato in pidginé la lingua stessa lo avrebbe costretto a una maggiore chiarezza. Il "noi" europeo non dice quasi nulla circa la coesione interna del plurale delle persone che formano il soggetto; soltanto in spagnolo, le donne si distinguono dagli uomini usando il "nosostras", mentre gli uomini includono le donne nel loro "nosostros". In questo caso, il "noi" non chiarisce se il nostro numero è limitato oppure illimitato, se siamo un paio di individui o molti, e il nostro "noi" non rivela neppure, a quegli cui ci si rivolge, quale sia il nostro atteggiamento nei suoi confronti, se appartiene o meno al nostro gruppo. Infine, il "noi" non specifica neppure se ciascuno deve essere singolarmente inteso anche quale soggetto della frase, oppure se tutti assieme formano un soggetto grazie alla loro reciproca appartenenza. Questo "noi" povero di significati è reperibile anche altrove, ma io sospetto che il suo predominio in Europa sia collegato al fatto che concetti che altrove avrebbero fatto violenza alla lingua, qui da noi hanno potuto imporsi senza difficoltà. Infatti, questa modalità plastica, ameboide, del "noi", è quanto mai adatta a creare soggetti a piacimento e a favorire l'identificazione con essi. La propaganda richiede questo "noi", che a farla siano umanisti, missionari o venditori. Questo "noi" così povero mi permette di disporre del "ci" o del "noi" accusativo. Infatti, affermando che "noi" oggi diciamo questo o quest'altro, la pensiamo in questo modo, abbiamo queste o quelle sensazioni, significa che "io" posso affermare di essere credibile Perché mi ritengo "normale" in rapporto a un metro di misura da me scelto o addirittura creato. Ciò permette di dire "noi" e di inglobare altri gruppi, la cui modalità di dire "noi" mi è estranea, solo compiendo un atto di violenza; permette l'autoidentificazione ma ingenerando enorme confusione, cosa questa che dovrebbe tenere presente chiunque voglia occuparsi di questioni ecumeniche. "Oikumene" è un participio sostantivato. Per i greci, la parola rievoca

sempre la terra, "ghè", la terra abitata contrapposta al deserto disabitato: un concetto in primo luogo dunque geografico. Fin dall'inizio, il mondo culturale greco non è che un ritaglio dell'ecumene, e soltanto con il formarsi di una coscienza ellenistica il concetto acquista connotazioni anche culturali e politiche. Con l'idea di un'umanità onnidominante, per la quale il greco è ovviamente il metro di misura, il concetto di "oikumene" diviene cosmopolita. Anche ciò che originariamente non è ellenistico, sotto Alessandro Magno viene inteso come universalmente umano e quindi intimamente assimilato all'ellenistico. Esso può tuttavia dire noi soltanto nella misura in cui sia razionale, e allorché accada che l'estraneo dica noi all'umano, significa che è già accolto nella sfera dell'ellenistico ideale. In tal modo, l'ellenistico ideale rinuncia alla sua naturale limitazione all'ambito linguistico greco per imporre il dominio all'ecumene in nome del suo "noi" (esseri umani). Il greco noi, sostanzialmente limitato in un primo tempo alla polis, successivamente agli elleni, designa adesso l'"oikumene" (al posto degli antichi "nomai" subentra quindi il "nomos koinos", ovvero "logos orthos", al posto della costumanza la legge). In epoca imperiale romana, l'idea dell'"oikumene" ellenistica cosmopolita si fonde con l'immagine politico-giuridica dell'impero romano. La esistenza di coloro che non appartengono al noi dell'umanità, viene sospinta ai margini dell'"oikumene", la quale si identifica con la volontà di dominio di Roma. Nel Secondo secolo d.C., la parola è già sbiadita. Paolo non se ne serve mai, mentre Luca sembra averla cara per designare il mondo intero, che egli contrappone all'impero. Chi parla dell'impero, dice "io" come nessun altro; in questo "io vi dico" è riconoscibile l'Egli, la più univoca delle parole che "io" dice. Il giorno della Pentecoste è compreso ugualmente da ciascuno, sia parto, medo o elamita. Mi è lecito alludere al fatto che la Sua Parola è appunto l'unica che possa essere assunta in ogni forma del "noi"? Se questa mia supposizione è vera, l'ecumenicità sarebbe quella scienza sociale nell'ambito della teologia che si occupa dello studio della molteplicità del "noi" in tutta la terra. Ma, dall'esame della situazione attuale, mi sembra di poter dedurre che ecumenismo oggi significhi esattamente il contrario, che indichi cioè la volontà di portare in qualche modo individui assertori di un noi confessionale sotto il manto di un noi superiore: la Chiesa. E in questo, nel messaggio di un "farsi noi" teologico, estraneo, va vista la radice da cui è derivato il noi dispotico, di cui oggi ci serviamo. L'umiltà

oggi comincia con esperimenti cauti, esitanti, riguardosi, di pronunciare il noi.

8. La dimensione comune della politica Solo dieci anni fa di solito si aveva, dello sviluppo, un'idea che oggi sembra ingenua. Obiettivo dello sviluppo era ritenuto l'instaurazione di un sistema equilibrato di strutture in una società che non disponesse ancora di un sistema del genere: scuole, ospedali, strade, fabbriche, centrali elettriche e il personale relativo. Oggi sono ormai pochi coloro che hanno una simile concezione strumentale di una società alla quale valga la pena di tendere: molti hanno cambiato punto di vista, almeno per due motivi. In primo luogo, Perché i deprecabili effetti secondari minacciano di superare l'utilità delle strutture in questione; in secondo luogo, la controproduttività delle istituzioni moderne (intendendo con questo le specifiche antitesi allo scopo che ci si ripropone, insite in ogni settore economico sebbene non apertamente riconosciute dagli economisti) ha un effetto costantemente frustrante sulla maggioranza degli utenti delle istituzioni stesse: un'esperienza quotidiana, anche se nuova. Gran parte delle persone hanno ricevuto, dalla scuola, solo una conferma ufficiale delle loro relative carenze innate. Nell'ambito di grandi gruppi della popolazione, la medicina ha posto in essere un crescente bisogno di prestazioni che supera di gran lunga le esistenti possibilità, ed essa ha minato la capacità di venire a capo dell'esistenza, di sopportare se stessi, gli altri e il mondo circostante, in altre parole ciò che comunemente viene definita salute. I mezzi di trasporto, l'uso dei quali è per la maggior parte limitato alle ore di punta, hanno moltiplicato il tempo in cui si è costretti alla schiavitù del traffico, oltre ad aver ridotto la mobilità liberamente scelta nonché il suo contraltare, la percorribilità. Lo sviluppo delle istituzioni pedagogiche, mediche e sociali d'altro tipo, ha in pratica scisso la maggior parte degli individui dagli scopi per cui queste istituzioni sono state progettate e finanziate. Effetti collaterali, che esigono un aumento dei servizi di pulizia e depurazione, e specifiche antitesi agli scopi delle istituzioni stesse, in esse insite e che derivano dalla fondamentale priorità dei prodotti istituzionalizzati rispetto all'attività personale (quella che chiamo controproduttività paradossa), concorrono a danneggiare singoli individui e collettività in alcuni paesi industrializzati, e sono danni legati

specificamente a una classe. Questa frustrazione, quest'impedimento, screditano il tentativo di descrivere le società alle quali vale la pena di aspirare nei termini di capacità produttive installate; e l'assicurazione contro danni frutto dello sviluppo è diventata un nuovo privilegio. Dieci anni fa, distinguevamo soprattutto tra possibilità di scelte politiche compiute nel settore pubblico, e possibilità di scelte tecniche, da lasciare allo specialista. Le prime avrebbero dovuto riguardare gli obiettivi, le seconde i mezzi. Le opzioni in vista di una società alla quale valesse la pena di aspirare costituivano uno spettro continuo dalla sinistra alla destra; oggi, il cittadino vuole decidere anche in merito ai "mezzi", ma accade che la topografia unidimensionale delle opzioni pubbliche si riveli impercorribile. E, se alle controversie pubbliche si aggiunge solo "una" nuova dimensione, la situazione non costituisce uno specchio adeguato di ciò che nel corso del decennio si è verificato in fatto di alternative bloccate. Oggi, almeno due nuove dimensioni di scelta sono disponibili, e nessuna di esse rientra nello schema sinistra-destra. Considero ognuna di queste nuove opzioni alla stregua di un asse indipendente, concependo i tre assi intersecantisi di opzioni pubbliche quale un sistema di coordinate tridimensionali. Lungo l'"asse X" colloco la dimensione dei conflitti che si incentrano sulla gerarchia, il potere politico, il possesso di mezzi di produzione e la distribuzione delle risorse, quelli cioè che di solito vengono ricollegati ai concetti di destra e di sinistra. Sull'"asse Y" colloco le alternative tecniche dell'"hard" e "soft", estendendo però il significato di questi concetti al di là di un semplice e sciocco sì o no pro o contro l'energia atomica. Un'alternativa "soft" riguarda non soltanto beni, bensì anche servizi; combustibili fossili possono essere sostituiti da energie rinnovabili, il posto di servizi assistenziali assicurati da istituzioni a fini di lucro può essere preso da organizzazioni comunitarie e attività di mutua assistenza. Una terza opzione coincide con l'"asse Z" della mia topologia, una dimensione che astrae sia dalla proprietà che dalla tecnica, per riguardare soltanto la natura dell'appagamento umano. Erich Fromm direbbe, se non mi sbaglio, che l'"essere" è d'importanza suprema, l'"avere" d'importanza infima. Al di sotto sta, a mio giudizio, una società che è il risultato del massimo sviluppo della produzione intensiva di merci, con la conseguenza che i bisogni trovano sempre più espressione in articoli preconfezionati o in servizi standardizzati, progettati e prescritti da specialisti e prodotti sotto il loro controllo: ideale sociale che corrisponde all'immagine di un'umanità

composta da individui ognuno dei quali mosso da considerazioni di utilità marginale - una immagine che, a partire da Mandeville passando per Smith e Marx, è andata sviluppandosi fino a Keynes, e che da Dumont è stata designata con il termine di "homo oeconomicus". All'estremità opposta, sulla cima dell'asse Z, colloco l'immagine di una società moderna fondata su attività di sussistenza, dove pertanto merci e produzione industriale abbiano valore soltanto nella misura in cui siano fonti ausi-liarie ovvero strumenti di attività di sussistenza, e in questo caso l'immagine della società è quella dell'"homo vernacularis" munito di utensili moderni aventi un valore d'uso. Sviluppando le idee di Polanyi, la cima dell'asse Z rappresenta il tentativo sociale di reinserire la sfera economica in una matrice culturale consapevolmente scelta e limitata; e corrisponde pertanto all'immagine di un essere umano per il quale è fonte di maggior soddisfazione fabbricare cose destinate all'uso immediato, che non prodotti o macchine. Essenza, scopo e suddivisione del lavoro costituiscono le principali problematiche lungo quest'asse. Dalla scelta pro o contro la concezione dell'essere umano come bramoso di sviluppo dipende se la mancanza di lavoro è vista quale disgrazia e maledizione oppure come utile e anzi come un diritto. In una società a produzione intensiva di merci, le merci stesse e i servizi intesi al soddisfacimento dei bisogni fondamentali vengono prodotti da lavoratori salariati; in una società del genere, l'etica del lavoro attribuisce il massimo valore a quelle attività che vengono ricompensate mediante denaro, mentre attività non remunerate sono, non soltanto svalutate, ma per di più suddivise in due categorie: le attività di sussistenza tradizionali, che rimangono escluse dal mercato e che continuano a dar da vivere ad alcune persone (e sono considerate residui marginali di un modo di vivere in via di sparizione), e una nuova forma di attività non remunerata, di cui la schiavitù domestica della donna costituisce l'esempio più noto. Il lavoro domestico in casa del salariato non viene retribuito; e d'altra parte esso non è un'attività di sussistenza nel senso in cui lo era un tempo gran parte del lavoro eseguito da donne, quando l'ambito domestico per gli uomini e per le donne costituiva la cornice e il tramite per la creazione dei loro mezzi di sussistenza. Il moderno lavoro domestico è standardizzato tramite merci di origine industriale orientate all'incremento della produzione, e viene imposto alle donne secondo modalità sessualmente

specifiche, sì che esse contribuiscano alla riproduzione, alla rigenerazione e alle motivazioni delle forza-lavoro non remunerata. Il lavoro domestico, bestia nera delle neofemministe, è però soltanto "una" forma tipica di quella vasta economia-ombra che ovunque si sviluppa quale necessaria integrazione del lavoro salariato in fase di espansione, e ovunque viene trascurata dal momento che i concetti analitici elaborati per il settore dell'economia formale non sono applicabili a essa. A mano a mano che le attività di sussistenza scompaiono, tutte le attività non remunerate fanno propria la stessa struttura del lavoro casalingo: il trasferimento dei pendolari verso e dal luogo di lavoro, la preparazione a esami scolastici e soprattutto i recentissimi tentativi di estendere i controlli burocratici allo stile di vita e ad attività informali, che vengono compiuti sotto l'egida dei Chicago Boys (la scuola economica di Milton Friedman) oppure dai seguaci di Mao. Il lavoro che abbia come stella polare lo sviluppo, comporta inevitabilmente standardizzazione e manipolazione delle attività umane, che siano o meno remunerate. Una concezione antitetica del lavoro ha corso invece in una società volta alla sussistenza. In essa, l'obiettivo è la sostituzione dei beni di consumo mediante l'attività personale; e sia il lavoro salariato che il lavoro-ombra in essa si annullano, Perché i prodotti - beni e servizi - vengono intesi soprattutto quali mezzi di attività creative, non già quali mezzi finalizzati al consumo. E allora la chitarra è tenuta in maggior considerazione del disco, la biblioteca è valutata più dell'aula scolastica, il proprio orto più della scelta al supermercato; alla mancanza di lavoro si plaude, e il lavoro salariato è tollerato ai margini. La forma dell'ideale sociale in futuro dipenderà dalle scelte lungo questi tre assi indipendenti. La credibilità di una comunità sarà misurata col grado di partecipazione pubblica a ciascuna di tali opzioni. L'esempio fornito da questo ideale sociale diverrà, è da sperarlo, il fattore decisivo del peso internazionale di una società. Per la prima volta nella storia, società povere e società ricche si troverebbero a essere davvero sullo stesso piano. Ma, Perché ciò diventi realtà, è indispensabile che venga superata l'attuale concezione dei rapporti internazionali tra Nord e Sud in termini di sviluppo. Il paradigma dello sviluppo viene respinto più facilmente da quelli tra

noi che il 10 gennaio 1949 erano già adulti. Quel giorno, moltissimi tra noi hanno udito per la prima volta il termine "sviluppo" usato nel suo significato attuale, Perché fu allora che il presidente Truman rese noto il suo programma in quattro punti. In precedenza, avevamo parlato di "sviluppo" nell'ambito della biologia, dell'edilizia e del gioco degli scacchi, ma da quel momento se ne parlò a proposito di esseri umani, paesi e strategie economiche. Da allora c'è stata una vera e propria inondazione di teorie dello sviluppo, le cui etichette oggi sono curiosità da collezionisti. Si pensi per esempio a "crescita, raggiungimento, modernizzazione, imperialismo, dualismo, indipendenza, bisogni fondamentali, trasferimento di tecnologie, sistema mondiale, industrializzazione autoctona e disaccoppiamento temporaneo". Ognuna delle ondate si è articolata in due fasi: dapprima i pragmatici, laudatori della libera iniziativa e dei mercati internazionali, seguiti dai politici che ponevano l'accento sull'ideologia e la rivoluzione. Le teorie accumulavano montagne di rapporti e di vicendevoli caricature, e sotto quelle carte, sotto quegli spaventapasseri, finivano per essere sepolte le ipotesi comuni a tutte le teorie. Ma ormai è venuta l'ora di riesumare gli assiomi nascosti sotto l'idea di sviluppo. Lo sviluppo implica al fondo la sostituzione di tutta una serie di capacità e di numerose attività di sussistenza con l'uso e il consumo di merci, e nello sviluppo è implicita la preminenza del lavoro salariato su ogni altra forma di lavoro, nonché l'interpretazione dei bisogni in termini di beni e servizi, prodotti in massa secondo programmi specialistici. Infine, nel concetto di sviluppo è insita una trasformazione dell'ambiente tale che spazio, tempo e materiali favoriscano produzione e consumo, d'altro canto degradando o paralizzando attività che abbiano come orientamento valori d'uso, che servano cioè alla diretta soddisfazione di bisogni. E tutte queste trasformazioni e processi omogenei e planetari vengono ritenuti inevitabili e buoni. I muralisti messicani (Rivera, Siqueiros) hanno rappresentato con forza drammatica le figure tipiche di questo divenire, ancor prima che i teorici ne delineassero le singole fasi. Nei murales, l'uomo ideale ha l'aspetto di operaio in tuta che lavora a una macchina oppure di tecnico in camice bianco chino su un microscopio, di addetto allo scavo di gallerie, alla guida di trattori, all'alimentazione di fumanti ciminiere. Donne lo partoriscono, si prendono cura di lui, lo istruiscono. In netto contrasto con l'economia di sussistenza azteca, Rivera e Orozco vedevano nel lavoro industriale l'unica fonte di tutti i beni necessari alla

vita e al progresso. Ma codesto ideale dell'uomo industriale comincia a impallidire. I tabù perdono forza, le parole d'ordine della dignità e della gioia del lavoro salariato suonano ormai vuote. Nella disoccupazione, espressione coniata solo nel 1898 per designare gli individui privi di introiti fissi, si riconosce oggi una condizione che è propria di gran parte degli abitanti del mondo, e ciò persine nelle fasi culminanti dei periodi di congiuntura industriale. Nell'Europa orientale ma anche in Cina, oggi ci si rende conto che l'espressione "classe operaia" a partire dal 1950 serve principalmente da copertura dei privilegi di una nuova borghesia e dei suoi manager che ha preso il posto della vecchia. La necessità di creare posti di lavoro e di stimolare lo sviluppo, alla quale si richiamano di continuo i sedicenti paladini dei più poveri per vanificare qualsiasi suggerimento di sviluppo alternativo, oggi sembra assai meno realistica di un tempo. La rinuncia all'ideologia dello sviluppo assume numerose forme. Nella sola Repubblica Federale Tedesca sono migliaia i gruppi che, ciascuno a modo suo, sperimentano alternative allo stile di vita industriale, e la maggior parte dei loro membri non considera affatto dignitoso guadagnarsi da vivere mediante il lavoro salariato. Al pari di numerosi abitanti degli slum di Chicago, costoro cercano di "disconnettersi" dal consumo. Negli Stati Uniti, almeno quattro milioni di persone fanno parte di piccole comunità altamente differenziate del genere, e sono almeno sette volte tanti coloro che fanno propri modi di vivere simili: donne in cerca di alternative alla ginecologia, genitori che cercano alternative alla scuola, costruttori della propria casa che cercano alternative al W.C. A Trivandrum, nell'India Meridionale, ho visto una delle più riuscite soluzioni alternative a una speciale forma di dipendenza dalle merci, vale a dire la frequentazione scolastica coronata dalla consegna di un diploma quale forma privilegiata dell'apprendimento. Millesettecento villaggi hanno creato biblioteche, ognuna delle quali comprende almeno mille titoli, ciò che costituisce la dotazione minima per rimanere membri del Kerala Shastra Shahitya Pari-shad, e tali rimangono solo se prestano almeno tremila volumi l'anno. Per me è stata una grande gioia constatare che, almeno nell'India meridionale, biblioteche di villaggio autofinanziate hanno trasformato le scuole in appendici delle biblioteche stesse, mentre altrove queste negli ultimi anni sono sempre più divenute semplici depositi di materiale didattico usato sotto la supervisione di insegnanti

professionisti. Sempre in India, nel Bihar, "Medico International" rappresenta un tentativo di "demedicalizzare" le basi stesse dell'assistenza sanitaria, senza d'altra parte cadere nella trappola dei "medici scalzi" cinesi che sono stati relegati al più basso livello di una gerarchla di biocontrollo statale, di cui sono i lacchè. Accanto a queste forme sperimentali, il rifiuto dell'ideologia dello sviluppo fa ricorso anche a mezzi giuridici e politici. In un referendum tenutosi in Austria il 5 novembre 1978, l'assoluta maggioranza ha votato contro l'entrata in funzione di un impianto nucleare già terminato. In misura crescente, i cittadini fanno ricorso al voto e ai tribunali, in aggiunta alle tradizionali pressioni esercitate da associazioni d'interesse, per richiamare l'attenzione sugli aspetti negativi delle tecnologie produttive. Si tratta di nuove opzioni che dieci anni fa non erano prevedibili, e molti detentori del potere continuano a non volerle ritenere legittime. Tutte queste iniziative di base mettono in discussione non soltanto l'attuale concetto di sviluppo, bensì anche la più ampia, fondamentale idea di progresso, una concezione che caratterizza la società occidentale da duemila anni a questa parte, condizionando, a partire dal crollo dell'impero romano, i rapporti dell'Occidente con il resto del mondo. Le società si rispecchiano nei loro dèi trascendenti ma anche nella idea che si fanno dello straniero che vive al di là dei loro confini. Lo sviluppo è il veicolo di esportazione della dicotomia, tipica della società industriale, di "noi" e "loro", e questa diffusione al mondo intero di un nuovo atteggiamento verso il "noi" e gli altri costituisce il trionfo di una missione che ha avuto il via in Occidente due millenni orsono. Una nuova definizione del concetto di sviluppo non farebbe che portar acqua al mulino di quest'aspirazione egemonica dell'Occidente, e a mio giudizio, come cercherò di dimostrare, il predominio occidentale nella sfera dell'economia formale è integrato dalla colonizzazione professionale del settore informale all'interno e all'estero. Se si vuole scansare questo pericolo, bisogna in primo luogo afferrare la metamorfosi in sei fasi del concetto odierno di sviluppo. Descriverò brevemente queste sei fasi. Ogni comunità ha un atteggiamento che le è caratteristico nei confronti delle altre. Così a esempio, il cinese non è in grado di parlare degli stranieri se non con l'aggiunta di un contributo derogatorio. Per i greci, lo straniero era un ospite proveniente da una polis vicina oppure un barbaro,

vale a dire un essere non completamente umano. A Roma, i barbari potevano diventare cittadini dell'Urbe, la quale però non considerò mai proprio dovere quello di integrarli. La concezione dello straniero come un fardello è diventata costitutiva della società occidentale, al punto che, senza questa missione universale nei confronti del mondo esterno, mai sarebbe venuto in essere quello che noi chiamiamo Occidente. La percezione dello straniero come un essere da redimere fa parte integrante di una nuova visione dei compiti delle istituzioni. Il fatto che lo straniero sia ritenuto bisognoso di aiuto, è conseguenza dell'attribuzione alla Chiesa di funzioni materne; mai in precedenza un'istituzione formale era stata chiamata "madre", e mai prima i servigi di una istituzione erano stati considerati assolutamente indispensabili all'esistenza. Ma nel Quarto secolo era in questi termini che si vedeva la Chiesa: senza l'accesso al latte della fede, che scorre solo dalle mammelle della Chiesa, impossibile la redenzione degli esseri umani. L'istituzione ecclesiastica costituisce il prototipo delle istituzioni oggi decisamente sovrabbondanti dell'Occidente, ognuna delle quali fornisce un servigio ritenuto di importanza vitale e viene sostenuta da un proprio clero professionista e specializzato. L'attribuzione di funzioni come la redenzione, l'istruzione, l'alimentazione, l'assistenza e la protezione delle donne a istituzioni in gran parte guidate da individui di sesso maschile, e la trasformazione di bisogni in domanda di prestazioni istituzionali, è lo specifico della storia dell'Occidente. L'appercezione dell'estraneo come un umano che deve essere aiutato, in corso di tempo ha assunto forme diverse. Durante la tarda antichità classica, il barbaro si è tramutato in pagano. Venne definito quale non battezzato, e tuttavia destinato dalla natura a diventare cristiano. Compito dei credenti era di portare nel seno della Chiesa i pagani mediante il battesimo che li rendeva cristiani. Durante l'alto Medioevo, gran parte degli abitanti dell'Europa erano battezzati, ancorch‚ non tutti convertiti. Vennero poi i musulmani i quali, a differenza di goti e sassoni, erano monoteisti e con ogni evidenza pii credenti, decisamente riluttanti alla conversione. Per tale motivo, non abbisognavano soltanto del battesimo, ma dovevano anche essere assoggettati e indottrinati. I pagani si trasformarono in fedeli. Durante il tardo Medioevo, l'immagine dello straniero subì un'altra mutazione. I mori erano stati espulsi da Granada, Colombo aveva attraversato l'Atlantico, la corona spagnola aveva fatto proprie molte

funzioni che erano state della Chiesa. E a questo punto, ecco il selvaggio, che costituiva una minaccia per la funzione civilizzatrice dell'umanista, prendere il posto dell'infedele, che costituiva una minaccia per la fede. In quel torno di tempo accadde anche che, per la prima volta, lo straniero venisse definito in termini economici. Dai molti studi sui selvaggi, apparsi dall'inizio dell'era moderna fino al tardo barocco, apprendiamo che lo straniero non aveva bisogni, carenza questa che era, sì, nobile, ma che in pari tempo costituiva un pericolo per il colonialismo e il mercantilismo in ascesa. Per imporre bisogni al selvaggio, bisognava farne un indigeno. Dopo lunghe elucubrazioni, i tribunali spagnoli approdarono alla convinzione che per lo meno il selvaggio del Nuovo Mondo possedeva un'anima ed era pertanto un essere umano. A differenza del selvaggio, l'indigeno aveva bisogni, diversi però da quelli del civilizzato: bisogni determinati dal clima, dalla razza, dalla religione e dalla Provvidenza. Ancora in Adam Smith si trovano considerazioni sull'elasticità dei bisogni degli indigeni. Come nota Myrdal, l'attribuzione di specifici bisogni agli indigeni era indispensabile per giustificare il colonialismo e amministrare le colonie. Per quattro secoli, l'uomo bianco si è assunto il fardello di provvedere agli indigeni con il governo, l'istruzione e il commercio. Ogniqualvolta l'Occidente imponeva allo straniero la maschera di nuovi bisogni, quella precedente veniva accantonata, dal momento che si era ridotta a essere null'altro che la caricatura di un autoritratto scaduto. Il pagano con la sua anima naturalmente cristiana doveva cedere il posto al testardo infedele, in modo che la cristianità potesse avviare le crociate; e il selvaggio era necessario per giustificare il fabbisogno di un'istruzione mondano-umanistica. A sua volta, l'indigeno giustificava l'instaurazione del dominio coloniale. All'epoca del Piano Marshall, le multinazionali si stavano imponendo, e le ambizioni di pedagoghi, terapeuti e pianificatori transnazionali non conoscevano più confini, i modesti bisogni degli indigeni in fatto di beni e servizi avrebbero ostacolato l'espansione e il progresso. Sicch‚, la decolonizzazione può essere intesa anche quale un processo di conversione: l'accettazione a carattere mondiale dell'immagine di s‚ dell'occidentale quale "homo oeconomicus" nella sua forma estrema, quella di "homo industrialis", con bisogni definiti esclusivamente in termini di merci. Bastò meno di un ventennio per ottenere che due miliardi di esseri umani si considerassero sottosviluppati. Mi ricordo del carnevale

di Rio de Janeiro del 1963, l'ultimo prima della presa del potere da parte della Junta: "sviluppo" fu allora il tema del samba primo classificato nonché il grido dei ballerini che danzavano al ritmo dei grandi tamburi. Lo sviluppo inteso quale alto consumo energetico pro capite e assistenza professionale intensiva, individuale, a una considerazione retrospettiva appare quale la più perniciosa delle missioni che l'Occidente si sia mai assunto. Gli investimenti per questo progetto hanno a fondamento una concezione, dal punto di vista ecologico irrealizzabile, del controllo umano sulla natura, e rispondono a un tentativo, dal punto di vista antropologico perverso, di sostituire i nidi e gli anfratti della cultura mediante sterilizzati reparti di assistenza professionale: ospedali che sfornano neonati e assorbono moribondi; scuole che tengono occupati i disoccupati prima, durante e dopo l'impiego; falansteri in cui gli esseri umani sono confinati tra una corsa e l'altra al super-mercato; strade che portano da un parcheggio all'altro e che durante le brevi euforie dello sviluppo tracciano un tatuaggio sul paesaggio. Queste istituzioni, destinate a lattanti tali per tutta la vita e che bisogna condurre da una mammella all'altra, cominciano ad apparire altrettanto "demod‚es" delle cattedrali, senza tuttavia possederne il fascino estetico. Il realismo ecologico e antropologico è diventato essenziale. Ma bisogna stare bene attenti: "soft" è un termine ambiguo, sia la destra che la sinistra se ne sono appropriate ed esso può servire, lungo l'asse Z, a due diverse possibilità, l'una quella di un alveare pieno di miele, l'altra quella di un attivo pluralismo con i duri rischi della libertà. La scelta del "soft" potrebbe facilmente provocare un'ulteriore metamorfosi della società materialistica all'interno, e un'ulteriore trasformazione dell'ideale missionaristico all'estero. Amory Lovins sostiene che la possibilità di ulteriore crescita dipende ormai da un rapido passaggio alla strada del "soft", unico modo, a suo giudizio, Perché nel corso di una generazione il reddito reale dei paesi ricchi si raddoppi e si triplichi quello dei paesi poveri. Soltanto mediante il trapasso dai combustibili fossili all'energia solare, i costi aggiuntivi della produzione potrebbero ridursi al punto da permettere che i mezzi, oggi impiegati per la produzione di scorie e per retribuire il personale addetto alla depurazione, vengano destinati invece a scopi utili. Concordo in pieno: se ci deve essere crescita, Lovins ha ragione, e il nostro denaro è meglio investirlo in impianti eolici anziché in trivellazioni petrolifere.

La Banca Mondiale fa propri argomenti simili per quanto riguarda i servizi. Solo se si opta per forme di produzione industriale ad alta intensità di lavoro, a volte meno efficienti, l'istruzione può essere integrata nell'apprendistato. Impianti più efficienti richiedono enormi costi aggiuntivi per l'istruzione formale che presuppongono, mentre non sono in grado di fornire alcuna istruzione sul posto di lavoro. L'Organizzazione Mondiale della Sanità pone attualmente l'accento sulla prevenzione e l'educazione al "self-help": solo così le condizioni di salute della popolazione possono essere elevate, mentre si potrà rinunciare a costose terapie, per lo più di non provata efficacia e che tuttavia continuano a essere le preferite dei medici. L'utopia liberal-egalitaria del Diciottesimo secolo, che dai socialisti dell'Ottocento è stata assunta a ideale della società industriale, oggi sembra realizzabile soltanto lungo la strada della tecnologia "soft" e del "self-help". E su questo punto, destra e sinistra convergono. Wolfgang Harich è un coltissimo comunista che durante otto anni trascorsi nell'isolamento carcerario ha avuto modo di raffinare e temprare le sue convinzioni; è l'unico portavoce esteuropeo della via "soft". Ma, mentre secondo Lovins il passaggio alla produzione decentralizzata dipende dal mercato, per Harich la necessità di una transizione del genere è un argomento a favore di un'ecologia stalinista. Per le destre come per le sinistre, per i democratici come per i totalitari, le tecniche e le energie "soft" divengono il mezzo decisivo per soddisfare, mediante la produzione standardizzata di beni e servizi, i bisogni crescenti di un numero sempre maggiore di esseri umani. La via "soft" potrebbe condurre direttamente a un nuovo limite, vale a dire alla presa di possesso del settore informale da parte di pianificatori e pedagoghi. Abbiamo infatti avuto modo di constatare che, ovunque il lavoro salariato si espande, cresce anche la sua ombra, la schiavitù industriale. Il lavoro salariato quale forma dominante di produzione e il lavoro domestico, sessualmente specifico, quale tipo ideale di prestazione non remunerata, sono, l'uno e l'altro, forme di attività che nella storia umana non hanno precedenti. Entrambi sono venuti in essere soltanto con la modalità di produzione industriale, entrambi fanno proprio il presupposto che l'essere umano è avido e invidioso, entrambi postulano, per il lavoro, una specificità sessuale che in epoche precedenti sarebbe stata ritenuta immorale. Il "vir oeconomicus" e la "femina domestica" sono i due sessi che, uniti

assieme, formano l'"homo industrialis", prosperando solo là dove lo stato assolutista prima e lo stato industriale poi hanno distrutto le fondamenta sociali dell'economia di sussistenza. E si moltiplicano nella misura in cui piccole comunità diversificate, vernacolari, vengono rese impossibili sotto il profilo sociologico e legale, in un mondo cioè in cui gli esseri umani dalla nascita alla morte possono vivere solo grazie alla dipendenza da scuole, strutture sanitarie, mezzi di trasporto e altri prodotti finiti, provenienti dalle mammelle delle istituzioni industriali. L'analisi economica convenzionale si è focalizzata solo su una di queste due forme di attività complementari dell'era industriale, vale a dire sul cittadino quale produttore remunerato. Le attività, altrettanto indirizzate alla produzione, compiute dai non occupati, a tutt'oggi sono rimaste nell'ombra dei riflettori economici, situazione che però sta rapidamente mutando. Si comincia infatti a notare il contributo delle attività non remunerate. Le femministe esigono un salario per il lavoro domestico; gli scienziati studiano le comunità popolari cinesi e i volontari di Castro, per vedere in che misura il lavoro non remunerato contribuisca alla crescita; gli allievi di Milton Friedman scoprono l'economia del comportamento sessuale. In un'epoca in cui la disoccupazione strutturale coincide con la rapida diminuzione dei posti di lavoro nel settore terziario, in cui esseri umani vengono sostituiti da microprocessori e la via "soft" rende possibile la suddivisione della produzione a piccole unità, il contributo del settore informale all'economia nel suo insieme acquista importanza primaria. La produzione e la distribuzione di quelli che Ignacy Sachs definisce "pseudovalori d'uso" divengono la fascia estrema della crescita. La differenza, fatta da Sachs, tra valori d'uso veri e fasulli, in generale viene trascurata Perché le attività da cui derivano gli uni e gli altri vengono riunite, dall'economia tradizionale, nella generica categoria del "settore informale". Io preferisco limitare la definizione di "settore informale" all'economiaombra della schiavitù industriale, e dunque per esempio ai corsi di studio non remunerati, all'altrettanto non remunerato pendolarismo, al "self-help" paraprofessionale e al lavoro domestico delle donne. E contrappongo, a quest'economia-ombra non remunerata, le economie vernacolari, del pari non remunerate, che contribuiscono alla sussistenza resistendo però a ogni analisi condotta con i concetti dell'economia formale. Queste attività le definisco "vernacolari", non essendoci nessun altro termine corrente che

mi permetta di mettere a fuoco la differenza in questione. "Vernacolare" è una parola latina, usata a Roma per milleduecento anni a designare valori autoprodotti, fatti in casa, frutto di attività collettiva, valori che un individuo può difendere e proteggere, sebbene né li comperi né li venda al mercato. Poich‚ noi non possediamo nessun termine semplice per indicare il contrario di merci e della loro ombra, ci converrà servirci di questo che permette di distinguere tra l'espansione del settore informale dell'eco-nomia-ombra e il suo opposto, l'espansione dell'ambito vernacolare. I due possono sostenersi a vicenda solo se sono in equilibrio. La loro incidenza relativa costituisce il problema chiave nella terza dimensione delle opzioni, distinta dalla sinistra e dalla destra in senso politico e, in senso tecnico, da "soft" e "hard". La scelta a pro dell'una o dell'altra dipende da dove si collochi l'essenza della soddisfazione dei bisogni umani e da come si intenda il lavoro. Si deve insomma scegliere tra lavoro gerarchicamente organizzato, standardizzato, che può essere remunerato o meno, volontario oppure coatto, e forme, di continuo elaborate, di attività di sussistenza semplici, integrate, i cui esiti non possano essere previsti dai burocrati né organizzati dalle gerarchie e abbiano come punto di orientamento i valori delle singole comunità. Si deve scegliere tra due diverse concezioni dell'essere umano, dei suoi bisogni e del soddisfacimento di essi. Per coloro i quali, da Locke a Leontiev, da Karl Marx a Milton Friedmané ritengono che l'essere umano possa produrre con il lavoro salariato tutto quanto gli occorre per vivere, l'organizzazione industriale del lavoro avrebbe liberato l'umanità dalla mediocrità della sussistenza, come afferma Marx nel Ventiquattresimo capitolo del "Capitale". Costoro non hanno occhi per la sussistenza modernizzata, la cui scelta è dettata dal piacere, non hanno occhi per il rifiuto di quell'arricchimento industriale che, come nessun altro prima, privilegia i potenti e impone dolorose frustrazioni alla stragrande maggioranza. Tuttavia, per coloro i quali non condividono la fede cattolica secondo cui tutti gli esseri umani hanno bisogno in equal misura delle stesse mammelle produttive, l'idea di assicurare uguali possibilità a diverse forme di sussistenza implica limitazioni della produzione industriale ben maggiori di quelle postulate dalla soluzione "soft".

Se l'economia si espande, cosa che l'opzione "soft" può permettere, l'economia-ombra non può non espandersi ancor più rapidamente, e l'ambito vernacolare ulteriormente ridursi. In caso di aumento della disoccupazione, coloro che ne sono colpiti vengono integrati in attività utili neoorganizzate del settore informale. Uomini privi di lavoro ottengono il cosiddetto diritto al lavoro in quei settori di attività non remunerati che favoriscono la produzione e che, a partire dalla nascita del lavoro domestico nel Diciannovesimo secolo, sono stati cavalierescamente assegnati al "sesso debole" - una designazione che del pari è venuta in essere in quel periodo in cui il compito delle donne veniva ritenuto essere più la schiavitù industriale che non la sussistenza. Quest'opzione permette il mantenimento dello sviluppo internazionale. La standardizzazione internazionale del settore informale rifletterà allora la domesticazione non retribuita e divenuta sessualmente neutra dei disoccupati in patria. Già adesso i nuovi esperti, quelli che esportano tecnologie alternative e metodi di "self-help", affollano aeroporti e sale di riunione. L'ultima speranza dei burocrati dello sviluppo di conservare la propria legittimità, risiede in questa nuova modalità di consulenza missionaristica: essi monopolizzano l'esportazione di lavori che prima erano riservati alla "femmina domestica", mentre ora sono assegnati a individui di sesso maschile nelle "colonie". Molti rappresentanti delle nuove ‚lite dissenzienti di cui ho parlato in precedenza, riluttano a tutto questo, non vogliono saperne dell'uso di tecnologie "soft" a scopo di riduzione dell'ambito vernacolare e di rafforzamento dei controlli professionali sul settore informale. Queste nuove ‚lite vedono nel progresso tecnico il mezzo per vivere in armonia con un nuovo tipo di valori: valori che non sono né tradizionali né industriali, bensì indirizzati alla sussistenza e in pari tempo frutto di scelta razionale. Costoro forniscono un esempio, più o meno riuscito, di come si possa vivere secondo valori che esprimono un senso critico della bellezza, una particolare esperienza del piacere, una visione della vita peculiare, condivisa da un piccolo gruppo mentre per un altro può essere del tutto insignificante. Costoro credono che gli strumenti moderni permettano di mantenersi grazie ad attività che consentano tutta una gamma di forme di vita diversificate e mutevoli, in pari tempo rendendo in gran parte inutili le tormentose fatiche che in tempi antichi erano legate alla sussistenza. Ed

essi lottano per la libertà di espandere l'ambito vernacolare delle loro vite, in pari tempo però avendo attenta cura di non sfruttare le risorse del mondo al di là di quella piccola parte che è di loro legittima spettanza. Oso affermare che le forme di vita autosufficienti delle ‚lite d'avanguardia, da Trevancore al Galles, possono, già solo con il loro esempio, persuadere ben presto quella maggioranza che da decenni è cattivata dal "modello dimostrativo" dell'arricchimento stupefacente, nauseante e paralizzante. Ma Perché l'esempio in questione sia efficace, devono realizzarsi due condizioni: in primo luogo, il nuovo stile di vita, risultato di un nuovo rapporto tra essere umano e strumenti, deve far propria un'immagine dell'essere umano stesso quale appartenente alla specie "homo vernacularis", non già alla specie "homo industrialis". In secondo luogo, le forme di vita indipendenti dalle merci devono diffondersi secondo modelli che i destinatari possano cercarsi da soli, anziché essere diffusi da evangelizzatori missionaristici e docenti. Per concludere, vorrei ancora richiamare l'attenzione su un pericolo, quello della ricaduta in opzioni unidimensionali. Gli attivisti politici molto spesso lamentano il disinteresse politico degli ecologisti: critica giustificata, e d'altra parte gli attivisti debbono essere loro stessi pronti a prendere posizione contro le tecniche "hard" che richiedono un così alto controllo da parte degli esperti, da rendere vana la partecipazione politica, di sinistra o di destra che sia. Se l'opzione della società deve essere il risultato della partecipazione dei cittadini, e non già di decisioni prese da esperti, bisogna distinguere chiaramente fra tre forme di partecipazione, alle quali ciascuno di noi è chiamato: scelta di rappresentanti del popolo per l'attuazione di programmi politici, resistenza contro la tecnocrazia nella specie di partecipazione personale a movimenti che mirino a referendum; ricorso alla giustizia e alle leggi per l'affermazione del diritto di ciascun gruppo a una propria concezione dell'essenza dell'uomo, e dunque al proprio ambito vernacolare.

9. La pace comune Professor Sakamoto, l'invito da lei rivoltomi di tenere l'intervento introduttivo alla seduta inaugurale dell'Asian Peace Research Association mi ha reso perfettamente consapevole della povertà del mio linguaggio. Devo far ricorso alla "koinè" della mia generazione - e affrontare un tema che si sottrae al moderno uso della lingua. La violenza è insita nelle parole chiave delle lingue correnti europee. Già il presidente Kennedy conduceva una "guerra" contro la povertà, e oggi i pacifisti progettano "strategie" - letteralmente: piani di guerra - a pro della pace. Nella lingua in cui si esprime un violento sistema industriale, devo dunque parlare della pace dei non violenti, pur essendo perfettamente conscio della mia incapacità di parlare il giapponese, e dunque del mio doppio mutismo. Di conseguenza, ogni parola che oggi pronuncerò sarà per me un memento della difficoltà di mettere la pace in parole, e ciò Perché la pace di un popolo mi sembra qualcosa di non meno particolare della poesia di quel determinato popolo. La traduzione della pace è un compito altrettanto faticoso della traduzione di composizioni poetiche. Il professor Takeshi Ishida ci ha ricordato che la pace ha un significato diverso in ogni epoca e per ogni ambito culturale. Anche all'interno di ogni cultura, la pace ha un significato diverso al centro e ai margini. Al centro, l'accento cade sul mantenimento attivo dell'ordine ("peace keeping"), mentre ai margini uomini e donne sperano "di esser lasciati in pace" ("to be left in peace"). Durante i tre decenni del cosiddetto sviluppo, tale seconda accezione di pace, quella della pace come "tranquillità", è andata perduta. Ed ecco dunque la mia tesi di fondo: con il pretesto dello sviluppo, è stata condotta una guerra mondiale contro la pace dei poveri, contro la pace del popolo, contro la pace "comune" ("people's peace"). Nelle regioni sviluppate ben poco è rimasto della pace del popolo. Sviluppo e pace in questa seconda accezione sono antitetici. Da sempre la cultura ha dato un proprio significato alla pace. Ogni "ethnos" - popolo, comunità o cultura - si è riflesso, rappresentato e riconosciuto nella propria pace: nei suoi miti, leggi e divinità. La pace è altrettanto vernacolare della lingua. Basti pensare ai patriarchi ebraici che levano le braccia a benedire la famiglia e i greggi. Il patriarca pronuncia lo "shalom", che noi traduciamo con "pace", parola con la quale il patriarca

intende la grazia che piove dal cielo "a guisa di olio che scorre per la barba, quella del capostipite Aronne". Per il padre semita, la pace è la benedizione della giustizia che l'unico vero Dio fa scendere sulle dodici tribù di pastori divenuti stanziali. Agli ebrei, l'angelo annuncia "shalom" e non la "pax romana". E quando il governatore romano drizza lo stendardo della sua legione, piantandolo nella terra palestinese, non è al cielo che rivolge lo sguardo, bensì alla lontana Urbe, la cui legge e ordine impone ai popoli. "Shalom" e "pax romana" non hanno nulla in comune, e tuttavia sussistono entrambe nello stesso luogo e nello stesso tempo. Nel tempo nostro, sono entrambe scomparse. "Shalom" è confinato nella regione, "pax" ha conquistato il mondo quale "peace", "paix" oppure "pace". Dopo duemila anni di uso da parte di ‚lite dominanti, la "pax" si è degradata a polemico concetto buono a tutti gli usi. L'imperatore Costantino si serviva della "pax" per erigere la Croce a ideologia; Carlo Magno se ne avvaleva per giustificare il genocidio dei sassoni. "Pax" era la parola alla quale si richiamava Innocenzo Terzo per anteporre la spada alla Croce ovvero, per dirla in termini moderni, per assicurare al partito il controllo sull'esercito. Dal momento che una parola come "pax" poteva venire adoperata sia da san Francesco che da Clemenceau, vuoi dire che non ha più limiti: è divenuta una parola missionaristica, che risuoni nella bocca dell'establishment o di un settario, che ricavi la propria legittimità dall'Ovest oppure dall'Est. "Pax" ha una storia; ma pochissime sono le ricerche sulla storia della "pax", mentre gli scaffali delle biblioteche sono pieni di trattati sulla guerra e sulle sue tecniche. Lo "Huo'ping" dei cinesi e lo "Shanti" degli indù conservano ancor oggi significati che non si diversificano completamente da quelli del passato, e tuttavia designano qualcosa di completamente diverso: non sono affatto equivalenti tra loro. Lo "Huo'ping" cinese significa dolce, tranquilla armonia entro la gerarchia celeste, mentre lo "Shanti" indiano indica un risveglio intimo, personale, cosmico, non gerarchico. Non esiste "identità" in fatto di pace. Nel suo significato concreto, la pace colloca l'io nel corrispettivo "noi". In ogni comunità linguistica, questa corrispondenza è diversa: ogni "noi" è storico. La parola "pace" conferisce al "noi", la prima persona plurale, il suo significato concreto. In quanto pace definisce il "noi esclusivo", il "kami" delle lingue malesi-polinesiane, in tanto essa costituisce la base sulla quale può sorgere il "noi comprensivo", il "kita". Nell'Asia

sudorientale, la differenza tra "kami" e "kita" è corrente: una differenziazione che fa difetto alla "pax" occidentale. Il noi non differenziante dell'Europa moderna è semanticamente aggressivo. Il "noi" moderno è avocante: chi devono essere i "noi", lo stabilisce il parlante, e coloro che da lui non sono nominati sono banditi nel "voi". Gli studi asiatici sulla pace non possono dunque non essere oltremodo sospettosi nei confronti di una "pax" che si fonda su una siffatta concezione del noi. Qui in Oriente dovrebbe riuscire più facile che non in Occidente fondare le ricerche sulla pace su quello che dovrebbe esserne l'assioma fondamentale: "La guerra tende a uniformare le culture, laddove la pace è quella condizione in cui ogni cultura fiorisce al modo che le è incomparabilmente proprio". Ma ciò significa che la pace non può essere esportata. L'esportazione inevitabilmente mina la pace. E, se le ricerche sulla pace ignorano quest'ovvietà etnologica, si riducono a essere mera tecnologia del mantenimento della pace, degradandosi a riarmo morale oppure a polemologia negativa degli stati maggiori. La pace rimane irreale, mera astrazione, se non risponde a una realtà etnoantropologica. Ma resterebbe altrettanto irreale se non tenessimo conto della sua dimensione storica. Fino a tempi recentissimi, la guerra non ha potuto distruggere completamente la pace Perché il proseguimento della guerra dipendeva dal mantenimento delle culture di sussistenza che la nutrivano. La tradizionale condotta della guerra era demandata alla perpetuazione della pace del popolo. Troppi storici hanno trascurato questa realtà, compilando storiografie quali saghe della guerra, e ciò vale in ogni caso per gli storici classici, i quali riferiscono quasi esclusivamente l'ascesa e caduta dei vincitori. Purtroppo, però, ciò vale anche per molti dei nuovi storici, che si vedono in veste di reporter nel campo degli sconfitti e che raccontano le favole dei vinti, destinate a tener desto il ricordo degli scomparsi. Costoro riferiscono della resistenza - ammutinamenti, sollevazioni, rivolte e insurrezioni di schiavi, contadini, minoranze e gruppi marginali - e, in tempi più recenti, delle lotte di classe dei proletari e della guerra dei sessi delle donne. Anche questi nuovi storici si interessano più alla violenza dei poveri che non alla loro pace. Rispetto agli storici del potere, i nuovi storici della cultura popolare hanno un arduo compito. Gli storici delle culture di ‚lite e delle loro guerre scrivono dei centri delle regioni culturali; ricavano storie delle rovine di palazzi e canali, da tavole delle leggi e da autobiografie dei re; seguono le

tracce incancellabili di eserciti in marcia. Gli storici che stanno nel campo dei perdenti di rado dispongono di materiali del genere; essi danno notizia di uomini e donne che sono scomparsi dalla faccia della terra, di popoli le cui tracce sono state cancellate dai loro nemici o disperse dal vento. Gli storici dei popoli agricoltori e nomadi, gli storici della cultura di villaggio e della vita domestica, delle donne e di chi non ha voce in capitolo, trovano ancor meno tracce da seguire: devono ricostruire il passato a partire da intuizioni, devono captare dalla lingua allusioni tramandate in proverbi, indovinelli e canti. E sovente accade che gli unici documenti lasciati dai poveri, dai marginali e dalle donne siano le risposte estratte mediante tortura a streghe e criminali. La moderna storia antropologica (la storia delle culture popolari, l'"histoire des mentalit‚s") ha elaborato tecniche intese a rendere visibili codeste tracce. E tuttavia, questa nuova storiografia è fin troppo pronta a focalizzarsi sulla guerra; essa ritrae i poveri nella loro lotta con coloro contro i quali scendono in campo; racconta episodi di resistenza e quindi solo indirettamente vicende della pace del passato. Il conflitto rende tra loro comparabili gli avversari; il conflitto comporta la semplificazione del passato, alimenta l'illusione che tutto quanto è accaduto possa esprimersi nello "uniquack", il "discorso" uniforme del Ventesimo secolo. E' questo il motivo per cui la guerra, che uguaglia le culture, fin troppo spesso non può che servire, agli storici, da intelaiatura dei loro racconti. Ciò di cui hanno oggi bisogno le ricerche sulla pace è una storia della pace, infinitamente più variegata della storia della guerra. Quel che oggi si intende per "ricerca sulla pace", molto spesso manca d'i prospettiva storica. L'oggetto della nuova ricerca sulla pace è la "pace" depurata delle sue connotazioni culturali e storiche. Paradossalmente, la pace è stata elevata a settore di studi accademici in quanto è stata ridotta a un equilibrio tra potenze economiche sovrane. La ricerca sulla pace, dacché esiste, parte dalla premessa della scarsità, in tal modo però riducendosi a una ricerca sull'armistizio tra rivali giunti a una situazione di stallo. Una simile ricerca sulla pace permette, nel migliore dei casi, di scoprire ingiustizie nella distribuzione della scarsità; alla luce dei suoi riflettori, il godimento pacifico di ciò di cui non c'è penuria finisce in una zona di ombra fitta. La premessa della scarsità costituisce il fondamento di ogni economia, la quale è lo studio di valori a partire dalla premessa appunto della penuria. Ma questa, e di conseguenza ciò che, con l'aiuto dell'economia formale,

sarebbe da sottoporre a seria indagine, nella vita di gran parte degli esseri umani in ogni epoca ha avuto importanza solo marginale. Il fatto che la scarsità prolifichi in tutti gli aspetti dell'esistenza ha anch'esso una storia; la storia della penuria è la storia della civiltà europea a partire dal Medioevo, e la dilatazione della premessa ha conferito alla pace un nuovo significato, di cui non esiste esempio al di fuori dell'Europa: oggi, pace significa "pax oeconomica", equilibrio tra formali potenze "economiche". La storia di questa nuova realtà, la "pax oeconomica", merita un più attento esame. Ma di particolare importanza è la tendenza della "pax oeconomica" a monopolizzare la pace. "Pax oeconomica" è il primo significato di pace che abbia avuto portata universale: un monopolio che dovrebbe essere fonte di gravi preoccupazioni. Vorrei quindi istituire un paragone tra la "pax oeconomica" e il suo opposto, la "pace del popolo", la pace comune. Dalla fondazione delle Nazioni Unite in poi, "pace" sempre più è stata accoppiata a "sviluppo", un abbinamento che in precedenza sarebbe stato impensabile. Individui di meno di quarantanni difficilmente possono rendersi conto di quanto nuovo esso sia; diversamente stanno le cose con coloro che, al pari di me, il 10 gennaio 1949 erano già adulti: quel giorno il presidente Truman ha reso noto il suo programma in quattro punti, e quel giorno la maggior parte di noi ha udito per la prima volta la parola "sviluppo" nel suo significato attuale. In precedenza, parlavamo di "sviluppo", riferendoci a specie animali, all'edilizia oppure a mosse sulla scacchiera. Solo da allora lo sviluppo riguarda anche essere umani, nazioni e strategie economiche. Ma, in meno di una generazione, siamo stati sommersi da teorie dello sviluppo contradditorie, la maggior parte delle quali si sono ridotte a essere nel frattempo curiosità da collezionisti. Immagino che vi rammentiate, forse con imbarazzo, della spensieratezza con cui si cercasse di trasformare gli esseri umani in cavie di programmi d'ogni genere, tutti intesi a incrementare il "reddito pro capite", a "raggiungere i paesi progrediti" a "eliminare condizioni di dipendenza", eccetera. E' sorprendente costatare quante cose erano considerate allora degne di esportazione: "orientamento produttivo", "energia atomica per la pace", "posti di lavoro", e oggi: "forme di esistenza alternative" e "selfhelp" sotto la guida di esperti. Ognuna di queste offensive teorie si è sviluppata per tappe; dapprima sono apparsi sul proscenio i sedicenti pragmatici che sui loro vessili recavano scritto "libera iniziativa"; è stata poi la volta degli aspiranti politici che si sforzavano di "dare

consapevolezza ideologica" oppure di "risvegliare le coscienze". Gli uni e gli altri concordavano però sulla necessità della crescita economica, gli uni e gli altri peroravano l'incremento della produzione e una crescente dipendenza dal consumo. E ogni campo, ogni setta di esperti, ogni banda di redentori collegava sempre il proprio piano di sviluppo alla pace, facendone un punto programmatico del proprio partito. L'aspirazione alla pace attraverso lo sviluppo divenne un assioma onnicomprensivo e mai comprovato. Chiunque si opponesse alla crescita economica - non a questo o a quel sacerdote della crescita, bensì alla crescita economica in quanto tale -, rischiava ormai di essere denunciato quale nemico della pace. A Gandhi venne appiccicata l'etichetta del folle, del romantico, dello psicopatico; e, quel che è peggio, le sue massime furono stravolte, trasformate in cosiddette "strategie di sviluppo"; anche la sua pace, anche il suo arcolaio vennero accoppiati allo sviluppo. Il khadi divenne "home spun", ridefinito mercé, e la non violenza tramutata in arma economica. La promessa degli economisti, secondo i quali non vai la pena di difendere valori che non siano scarsi, ha fatto della "pax oeconomica" una minaccia per la pace del popolo. L'accoppiamento di pace e sviluppo rende difficile mettere in discussione il secondo, cosa che tuttavia costituisce oggi una precondizione alle ricerche sulla pace. E' evidente che ciascuno intende, per "sviluppo", qualcosa d'altro. Per i manager di una multinazionale, significa qualcosa di diverso che per i ministri del Patto di Varsavia, e qualcosa d'altro ancora per gli architetti del Nuovo Ordine Economico Internazionale. Tutti però concordano sulla necessità dello sviluppo, cosa che conferisce allo sviluppo stesso una dimensione nuova. Lo sviluppo è divenuto così l'indispensabile premessa dell'uguaglianza e della democrazia, gli ideali del Diciannovesimo secolo - comunque a loro volta limitati dalla premessa della scarsità. Nelle dispute circa il "chi deve ricevere che cosa", gli inevitabili costi dello sviluppo economico sono stati trascurati; e durante gli anni Settanta, una parte dei costi in questione è divenuta incalcolabile; ciò che prima appariva ovvio, all'improvviso è divenuto controverso. Sotto l'etichetta dell'"ecologia" scientifica, i limiti delle risorse e la questione dell'ulteriore tollerabilità di inquinamento e stress sono stati elevati a problematiche politiche. La violenta aggressione contro il "valore d'uso dell'ambiente", al contrario, a tutt'oggi non è stata invece sufficientemente posta in rilievo. Svelare la violenza contro le condizioni della vita di sussistenza, indissolubilmente legata al proseguimento della crescita e perennemente mascherata dalla "pax oeconomica", ecco il compito della ricerca radicale sulla pace.

Nella teoria e nella prassi, lo sviluppo significa sempre trasformazione di culture indirizzate alla sussistenza e loro integrazione in un sistema economico. Che cosa è infatti lo sviluppo se non espansione della sfera economica a spese della vita di sussistenza? E che cosa significa sviluppo se non introduzione di un tipo di mercato in cui lo scambio ha come premessa un gioco a somma zero? E codesta espansione si compie a spese di tutte le altre forme tradizionali di scambio. Ne consegue che lo sviluppo implica una scarsità in continua crescita: dipendenza da beni e servizi indispensabili, ritenuti insufficienti. Ma ogni nuova scarsità di quanto è indispensabile alla vita implica nuove ostilità, nuove lotte. La produzione intensiva di merci, quella che noi chiamiamo sviluppo, comporta sempre nuove violenze. Lo sviluppo significa dunque inevitabilmente l'imposizione della "pax oeconomica" a spese di qualsiasi forma di pace popolare. Per rendere evidente l'antitesi tra la comune pace del popolo e la "pax oeconomica", converrà rifarsi al Medioevo europeo. Non mi interessa tuttavia il ritorno al passato: me ne servo semplicemente per mettere in luce la contrapposizione dinamica tra forme di pace complementari. A differenza dei programmi e degli ideali, il passato non è qualcosa che deve ancora venire; a differenza delle teorie, non è qualcosa che dovrebbe essere. Il passato è stato, ed esso mi permette di guardare il presente nello specchio di ciò che è stato. "Pax" nel Dodicesimo secolo non significava l'assenza di guerra tra i sovrani. La "pax" che la Chiesa e l'imperatore intendevano garantire, non era la mancanza di scontri armati tra cavalieri, ma significava la difesa dei poveri e dei loro mezzi di sussistenza dalla violenza della guerra, era intensa a risparmiare al contadino e al monaco le conseguenze delle ostilità tra baroni. Questo era il significato della "tregua Dei", la pace in terra, a difesa di specifici tempi e luoghi. Per quanto sanguinosa potesse essere la guerra tra sovrani, la pace faceva da scudo ai buoi e al grano sui campi; proteggeva i granai, le sementi, risparmiava il raccolto. In senso generale, la pace in terra proteggeva il valore d'uso dei beni comuni da aggressioni e violenze; proteggeva l'accesso all'acqua e al pascolo, al bosco e al campo da parte di coloro che derivavano immediatamente la loro sussistenza da questi comuni possessi. La pace così intesa era dunque qualcosa d'altro dell'armistizio tra parti in guerra; questo suo significato di pace intesa alla sussistenza andò perduto col Rinascimento. Il sorgere dello stato nazionale diede origine a un mondo affatto nuovo,

comportò un nuovo tipo di pace e una nuova forma di violenza. In luogo della protezione dei beni comunali al servizio della loro utilizzazione, intervenne la recinzione dei beni comunali al servizio della produzione. E se prima la pace aveva significato difesa di quel minimo di sussistenza da cui traevano alimento anche le guerre tra i sovrani, da allora la sussistenza stessa fu vittima di un'aggressione presuntamente "pacifica". I beni comunali furono vittima dei mercati in espansione. La nuova pace aveva di mira l'utopia. La pace comune preservava dal crollo comunità concrete sempre minacciate; la nuova pace puntò a un ideale astratto. Essa è tagliata su misura dell'"homo oeconomicus", dell'essere umano universale destinato dalla natura a procurarsi da vivere mediante il consumo di merci altrove prodotte da altri. Se la "pax populi" aveva protetto la comunità, la "pax oeconomica" protegge la produzione. "Pax oeconomica" significa guerra contro l'uso, contro i possessi comunali e la "casa globale". Innazitutto, la "pax oeconomica" convalida l'idea che l'essere umano sia impotente e irresponsabile, in tal modo autorizzante una nuova ‚lite a rendere la sopravvivenza del cittadino dipendente dall'accesso all'istruzione, alla terapia, alla protezione da parte della polizia, all'alloggio e al supermarket. La "pax oeconomica" mette l'etichetta dell'"improduttività" sulla vita di sussistenza, classifica "sottosviluppato" l'individuo autonomo, indirizza la propria violenza contro tutti gli usi locali che non si lascino inserire in un gioco a somma zero gestito da esperti. In secondo luogo, la "pax oeconomica" favorisce violenza e sfruttamento a spese dell'ambiente. La nuova pace garantisce ai produttori di merci la manomissione dell'ambiente, da essi sfruttato quale risorsa al servizio della produzione e che può essere occupato quale ricettacolo di merci. La nuova pace muove guerra alle proprietà comunali. La pace del popolo protegge l'ambiente comune, assicura l'accesso del povero ai pascoli e ai boschi, garantisce alla comunità la libertà del fiume, concede alle vedove il diritto alla spigolatura, ai pellegrini il diritto all'asilo, ai mendicanti il diritto all'elemosina, mette l'ambiente al servizio dei deboli. La "pax oeconomica" concede l'ambiente al produttore, allo stato, alla società anonima, lo rende scarso e lo recinta. E' questo appunto che sempre significa "sviluppo": dalla chiusura delle pecore in un recinto a opera del padrone passando per l'asfaltatura del paesaggio a pro dell'automobile per giungere alla delimitazione del lavoro cui valga la pena di aspirare.

Sicch‚, terzo, la nuova pace favorisce una guerra tra i sessi. La diatriba che essa comporta circa chi porti i pantaloni e tenga la borsa, in Europa è già antica: uomo e donna stanno l'uno di fronte all'altra, entrambi, anche se in forma diversa, coinvolti nella gestione di un'economia di sussistenza. La nuova guerra è la conseguenza di un apartheid assicurato da una nuova pace e conseguenza del monopolio del lavoro volto alla produzione di merci su tutte le altre attività. Il monopolio della produzione significa aggressione. Tutte le società non industriali, per quanto diverse tra loro, hanno pur sempre una fondamentale caratteristica in comune, ed è il fatto che i compiti volti alla sussistenza sono assegnati senz'eccezione in base alla specificità sessuale: agli uomini o alle donne secondo necessità. I compiti concreti, necessari e culturalmente definiti, variano da una società all'altra, ma ciascuna di esse attribuisce ciascuno dei suoi possibili compiti agli uomini oppure alle donne, e ciascuna di queste società lo fa conformemente al modello che è esclusivamente suo. Non esistono due culture in cui la suddivisione dei compiti sia la stessa, per cui in ciascuna di tali culture "diventare adulti" significa raggiungere la capacità di compiere certe attività che lì, e soltanto lì, sono caratteristiche dell'uomo o della donna. In una società preindustriale, essere un uomo non è una caratteristica secondaria, aggiunta a un individuo altrimenti privo di sesso: è il contrassegno fondamentale di ogni singola attività. Diventare adulti non significa essere "istruiti", bensì giungere a quel modo di vivere che è inteso come maschile o femminile. La pace dinamica tra uomini e donne consiste appunto in questa suddivisione di compiti concreti, la quale non significa affatto uguaglianza; essa però pone freni alla vicendevole oppressione. Sicch‚, anche nell'ambito dell'intimità la pace del popolo pone limiti all'ostilità e al predominio. Il lavoro salariato distrugge questa struttura. Il lavoro industriale, il lavoro produttivo, è neutro e come tale vissuto e definito, e ciò indipendentemente dal fatto che sia remunerato o meno, che il ritmo ne sia determinato dalla produzione o dal consumo. Ma, sebbene il lavoro sia inteso come sessualmente neutro, l'accesso a quest'attività sessualmente neutra è condizionato da pregiudizi. Gli uomini hanno accesso soprattutto a quei compiti remunerati che sono considerati desiderabili, le donne agli altri. E le donne sono costrette soprattutto al "lavoro-ombra" non retribuito che però oggi, col crescere della "disoccupazione", viene sempre più spesso affidato anche a uomini. In conseguenza di questa neutralizzazione del lavoro, lo sviluppo

inevitabilmente richiede una nuova forma di apartheid tra i sessi, una concorrenza tra individui teoricamente uguali, la metà dei quali è handicappata dal proprio sesso: una concorrenza per il lavoro salariato che è diventato scarso e una lotta per sottrarsi al lavoro-ombra che non è remunerato né atto a contribuire alla sussistenza. La "pax oeconomica" fa da scudo a un gioco a somma zero, ne assicura l'indisturbata continuazione, costringe i partecipanti al gioco a comportarsi secondo le regole dell'"homo oeconomicus". Coloro i quali si rifiutano di inchinarsi a quest'unico modello, vengono esclusi dal gioco o educati finché vi si adattino. Secondo le regole del gioco a somma zero, sia l'ambiente che il lavoro umano sono poste del gioco stesso: quel che uno guadagna, l'altro lo perde. E la pace è pertanto l'illusione che, almeno in economia, un giorno due più due possa far cinque ovvero che si abbia stallo armato tra i giocatori, patta. Sviluppo è il nome che si da alla dilatazione di questo gioco, al coinvolgimento di un numero sempre maggiore di giocatori e delle loro risorse. La "pax oeconomica" non è pace tra esseri umani, bensì tra merci, ed è per questa ragione che il monopolio della "pax oeconomica" non può che essere mortale.

Bibliografia commentata Il saggio intitolato "Lavoro-ombra" è il testo di una conferenza tenuta in un'occasione particolare, ma il cui contenuto è venuto in essere nel quadro di un più lungo seminario sulla progressiva scarsità del lavoro a partire dal Medioevo. Il saggio è stato pubblicato inizialmente nel luglio 1980 sul periodico "Tecno-Politica", a cura di Valentina Borremans, Apd 479, Quernavaca, Messico, accompagnato da una bibliografia destinata a un numero limitato di collaboratori, la quale non voleva essere una serie di note al testo né un'introduzione sistematica alla letteratura su singoli temi, bensì un semplice accenno a scritti che erano stati letti nella nostra cerchia. Il testo nell'inverno del 1980-81 è servito a certi lettori da filo conduttore per l'organizzazione di seminari, e nel corso del 1981 ho avuto lunghe conversazioni con alcuni di questi gruppi. In base all'esperienza che ne ho ricavato, e su consiglio della curatrice Ingke Brodersené ho rielaborato e abbreviato la bibliografia originaria per la presente edizione Rowolth, Collana "rororo aktuell". Altro materiale e commenti più precisi sono reperibili in un manoscritto da me compilato in inglese nel novembre 1981 che, con il titolo di "Genus", la signora Ruth Kriss Rettenbeck (con la quale ci si può mettere in contatto presso il Bayerisches Nationalmuseum di Monaco di Baviera) usa come testo di lettura per un seminario da lei organizzato presso l'università di Monaco di Baviera. Tema del suo seminario: "La divisione del lavoro secondo la specificità sessuale in società a economia di sussistenza". Sullo stesso tema, si veda anche, sempre di Ruth Kriss Rettenbeck, "Am Leitfaden des weiblichen Leibes" in "Bayerische Bl„tter für Volkskunde", 8, 3, sett. 1981, pp. 163-182.

Genesi del concetto di "lavoro-ombra" Negli anni Settanta mi sono dedicato a quattro consecutive ricerche sulla controproduttività delle istituzioni dell'era industriale. In una con collaboratori volta a volta diversi, ho tentato di descrivere la scomparsa, causata dallo sviluppo, del valore d'uso e il prevalere della specifica antifinalità nella produzione di merci, servendomi come esempi della scuola, della viabilità e della medicina (si veda, a tale proposito, "Die Nemesis der Medizin", Reinbek [Rowohlt], 1981, e "Technologie und Politik", 2, Reinbek [Rowohlt], 1975). Un po' alla volta siamo riusciti a individuare una controproduttività specifica quale indicatore sociale e monopolio assoluto della mercé sulla soddisfazione di un presunto bisogno fondamentale. Sotto la guida di Jean-Pierre Dupuy (Rue d'Arcole 11, Parigi 4) e in collaborazione con Jean Robert (Apd 698, Quernavaca, Messico), decidemmo di compiere un'indagine, ciascuno di noi a modo suo, sulla genesi di quella "scarsità" la cui esistenza deve essere presupposta Perché si possa addivenire all'economia, vale a dire alla scienza dei valori scarsi. In questo volume della collana "rororo aktuell" ho raccolto alcune relazioni venute in essere durante i miei lavori propedeutici a una storia della scarsità. Una prima domanda che ho dovuto pormi è stata: come si è giunti all'ideologia della "forza-lavoro"? Infatti, solo laddove il "lavoro" sia inteso quale forza lavoro concretamente impiegata, si può supporre che il lavoro umano sia "scarso" nel senso proprio dell'economia. Nel corso di riflessioni di carattere storico sulla forza lavoro (e sulla cosiddetta "disoccupazione"), mi è risultata evidente una tendenza nell'ambito specialistico delle scienze economiche durante gli anni Settanta, e cioè il tentativo di rendere gestibile per principio, mediante analisi economica, il lavoro non remunerato. Mi è risultata evidente la necessità di una chiara distinzione tipologica tra le attività non remunerate degli esseri umani attuali, per principio gestibili, e altre che per loro natura non si prestano a gestione professionale o burocratica. In questa fase delle mie ricerche, mi sono imbattuto nel saggio di Gisela Bock e Barbara Dudené "Arbeit aus Liebe - Liebe als Arbeit", in "Frauen und Wissenschaft", Courage-Verlag, Berlino, 1976, pp. 118-199; e vi ho trovato convincente ancorch‚ appena abbozzata, la dimostrazione di una discontinuità storica tra le attività della donna di casa nelle società a economia di sussistenza e nel sistema industriale. L'attività della donna di

casa risulta qui essere per essenza tipica dei tempi nuovi non meno del lavoro remunerato in fabbrica e in ufficio; essa consiste nella creazione di valori collegati alla mercé, per lo più nella trasformazione di merci in beni di consumo. Il saggio di Claudia von Werlhof, "Der blinde Fleck in der Kritik der politischen ™conomie", in "Beitr„ge zur feministischen Theorie und Praxis", 1,1978, pp. 18 sgg., descrive lo stesso genere di attività e giunge alla conclusione che dal punto di vista macroeconomico essa richiede più tempo e fatica che non il lavoro salariato, e almeno nei paesi in via di sviluppo, non soltanto donne ma anche un numero di uomini vi sono costretti. Per questo lavoro non remunerato, ma economicamente indispensabile e cogente, mi è sembrato opportuno coniare un termine che, al pari di "lavoro salariato", fosse avulso da connotazioni sessuali. Solo così, infatti, si può fornire la riprova che questo "lavoro", caratteristico soltanto del sistema di produzione industriale, è altrettanto inedito del "lavoro salariato" Perché al pari di questo viene vissuto quale valore scarso. Inoltre, soltanto se l'attività non remunerata mediante la quale vengono prodotti valori economici è concepita come sessualmente neutra, per esempio quale "lavoro-ombra", è possibile dimostrare che le donne sono discriminate sia nel lavoro salariato che nel lavoro-ombra: nel primo, Perché vi sono ammesse solo in misura limitata e come se non bastasse sottopagate, nel secondo Perché devono sopportarne il peso maggiore e di anno in anno sempre più vengono escluse dalle forme privilegiate del lavoro-ombra stesso.

Storia della scarsità L'economia è la scienza dei valori scarsi. Ciò che non è scarso, non può essere computato. Non soltanto beni e servizi, ma anche il lavoro è reso computabile dalla sua scarsità. Il postulato di essa è quel fondamento delle istituzioni moderne che conferisce loro l'impronta propriamente moderna: la produzione pedagogica esiste solo a patto che il sapere auspicabile sia scarso, la salute deve essere intesa come bene scarso Perché si giunga alla moderna medicina, ci deve essere scarsità di tempo Perché si possa conferire valore economico alla rapidità, i sindacati sussistono solo nella misura in cui il lavoro sia scarso o tale sembri. La scarsità sta alla base della struttura familiare del nostro tempo e dell'accoppiamento di un salariato e della sua lavoratrice-ombra a formare un'unità sociale, nulla di corrispondente alla quale si trova in altre società. Affermazioni, tutte queste, che hanno senso solo a patto che la parola "scarso" abbia a sua volta un senso riconducibile al concetto di "rarità" e "mancanza". Ci sono uccelli rari e, ovunque questi volatili servano a scopi alimentari, sarà legittimo parlare di una carenza di uccelli. I polli diventano scarsi solo una volta che siano diventati mercé, vale a dire qualora siano concepiti quali poste di un gioco a somma zero. Il pollo è scarso solo in quanto oggetto di contesa. Sicch‚, l'economia è la scienza dei polli che ambedue vorremmo e che io non posso avere Perché te li prendi tu. Il pensiero e l'azione moderni sono profondamente condizionati dal fatto che la scarsità è attribuita in misura via via crescente a tutto ciò che ha valore; ed essa, che in altre epoche veniva ascritta solo a determinati beni in circostanze particolari, come a esempio il grano in primavera e durante la guerra, il pepe o gli schiavi, sembra oggi costituire il principio stesso di tutti i valori sociali. La scarsità ha una storia che aspetta ancora di essere scritta, e da questo punto di vista la storia dell'economia tradizionale rappresenta spesso un ostacolo, Perché viene compilata per lo più a partire dal presupposto che concetti attinenti alla scarsità possono essere applicati ovunque e in ogni tempo al comportamento umano. La storia dell'esperienza, del concetto e della produzione sociale di scarsità, in altre parole la storia della genesi della scarsità, si contrappone alla storia che si basi sul presupposto della scarsità. Un passo importante in questa direzione è compiuto da due saggi firmati

separatamente da Paul Dumouchel e da Jean-Pierre Dupuy, contenuti in "L'Enfer des choses", Seuil, Parigi, 1979, nei quali gli autori si rifanno a "Mensonge romantique et V‚rit‚ romanesque" di René Girard, Grasset, Parigi, 1961. Stando a Girard, i grandi scrittori romantici del secolo scorso avrebbero descritto una rivoluzione psicologica che sarebbe sfuggita ai critici della società dell'epoca; i romanzieri in questione illustrano una mutazione "du d‚sir humain et de l'envie". Certo, sempre secondo Girard, alla nuova modalità del desiderio si alluderebbe già nel "Don Chisciotte" di Cervantes, ma essa è raffigurata appieno solo in Balzac e Dostoevskij i quali, sempre secondo Girard, erano consapevoli che la brama, quando diviene borghesemente accettabile, non è più rivolta a un oggetto, ma acquista carattere "mimetico": si può bramare di aver di più soltanto di ciò che anche altri vogliono. I personaggi di romanzo vivono dunque in un mondo in cui il desiderio di un oggetto non è più possibile qualora esso non sia bramato anche da altri, degni di invidia proprio a causa di tale oggetto. Il differimento di codesta brama mimetica comporta una metamorfosi dell'invidia in virtù borghese. Obbiettivamente il desiderio mimetico identifica i soggetti; solo se l'invidia viene palliata del mantello della virtù borghese, il soggetto invidiante può interpretare la propria brama mimetica quale manifestazione della propria identità. Dupuy e Dumouchel riprendono tale analisi per giungere allo specifico delle istituzioni dell'era industriale. Dal punto di vista strutturale, la moderna caratteristica di tali istituzioni consiste nella loro capacità di sviluppare programmaticamente desideri mimetici, in tal modo producendo istituzionalmente l'esperienza della scarsità. Il mio desiderio di lavorare a una storia della penuria, deriva in buona parte dal dialogo che per anni ho intrattenuto con Dupuy.

Il desiderio mimetico e la modernizzazione dell'invidia Che cosa viene sentito come invidia, a che cosa essa miri, come l'invidioso venga raffigurato graficamente e in metafora, quale significato venga attribuito all'invidia, ecco altrettanti temi di una storiografia sull'argomento. Nella Repubblica Federale Tedesca, esso è stato affrontato mediante un libro antistorico e politicamente discutibile, "Der Neid und die Gesellschaft" di Helmut Schoeck, pubblicato da Herder (Friburgo, 1971). Un'utile introduzione all'etnologia dell'invidia è George M. Poster, "The anatomy of envy: A study in symbolic behaviour", in "Current Anthropology", vol. XIII, aprile 1972, pp. 165-202. Trenta su circa cinquanta sociologi ai quali l'articolo è stato inviato prima della sua pubblicazione, ne forniscono una breve critica nell'appendice che comporta anche una buona bibliografia. Per la storia del concetto di invidia durante l'antichità classica, si veda Svend Ranulf, "The Jealousy of the Gods and criminal Law at Athens", Williams and Norgate, Londra, 193334, 2 voll. Per la hubris quale sfida alla nemesi, e dunque all'invidia degli dèi, si veda David Greene, "Greek political Theory: The Image of Man in Thucydides and Plato", University of Chicago Press, Chicago, 1965. Per rendersi conto delle difficoltà che ostano a una piena ricostruzione di che cosa fosse per i greci l'esperienza dell'invidia, si veda il secondo cap. di E. R. Dodds, "The Greeks and the Irrational", Berkeley, 1951, trad. it. "I greci e l'irrazionale", Firenze, 1978. Mireille Vincent-Cassy a Parigi è intenta alla compilazione di una vasta tesi di specializzazione sulla storia dell'invidia durante il Medioevo; si veda anche il suo contributo ai rapporti tra invidia e povertà nel Quattordicesimo secolo, "Quelques r‚flexions sur l'envie et la jalousie en France au Quatorzième siecle" in Michel Mollai, "Etudes sur l'Histoire de la Pauvret‚: Moyenne age-Seizième siecle", Pubblications de la Sorbonne, Parigi, 1974, vol. II, pp. 487-504, nonché lo studio iconografico sulla raffigurazione dell'invidia dal Dodicesimo al Quattordicesimo secolo, in "L'Envie au Moyen age", in "Annales, ESC", 35, 2,1980, pp. 253-271. Come nell'alto Medioevo l'invidia sia divenuta un peccato mortale, è il tema di M.W. Bloomfield, "The Seven Deadly Sins", University of Michigan Press, East Lansigné 1952. La struttura del desiderio è rivelata spesso ancor più chiaramente da ciò che all'invidia viene contrapposto. R. A. Gauthier, "Magnanimit‚: L'ideal de la grandeur dans la philosophie pa‹enne et dans la th‚ologie chr‚tienne",

Vriné Parigi, 1951, comporta un ampio confronto tra la concezione della magnanimità nella filosofia classica e nei padri della Chiesa. Magistrale, sullo stesso tema, Gerhard Ladner, "Greatness in mediaeval history", in "The Catholic Historical Review", aprile 1964, pp. 1-26. Sulla concezione e lo studio dell'invidia in teologia, si veda Eduard Ranwez, voce "Envie" in "Dictionnaire de Spiritualit‚", col. 774-785.

Per la critica della forma di vita ad alta intensità di merci In ogni epoca è dato trovare esempi di valori che, giunti da lontano, espellono e sostituiscono valori locali. Ciò che viene scambiato può essere una mercé, vale a dire un valore determinato dalla sua scarsità, ma non è detto che sia per forza di cose una mercé. A esempio, si può esser a tal punto affezionati alla terra da non farne mai mercato. Si possono scambiare doni, regali, donne, senza che per questo divengano oggetti dell'economia in senso stretto, e ciò vale ancora di più per il lavoro nel villaggio e nell'ambito della famiglia. Per la differenza tra i vari tipi di scambio, si veda Karl Polanyi, "The Great Transformation. Politische und ”konomische Ursprünge von Gesellschaften und Wirtschaftssystemen", Suhrkamp, Francoforte s.M., 1978. Un tantino invecchiato, ma ancora molto utile come contributo all'atteggiamento scientifico dell'antropologia economica, è G. Daltoné "Theoretical issues", in "Current Anthropology", voi. 10, n. 7, 1969, pp. 63-102. Solo negli anni Settanta ha cominciato ad apparire una letteratura scientifica di carattere economico di critica alla presente situazione ad alta intensità di merci, vale a dire a uno stile di vita in cui lo scambio economico esercita un monopolio quasi assoluto su tutte le altre forme di scambio. Oggetto di ampie discussioni in merito sono stati Robert Heilbroner, "Niedergang des Kapitalismus", Campus, Francoforte s.M., 1977; Stewart Ewené "Captains of Consciousness: Advertising and the social Roots of the Consumer Culture", MacGraw Hill, New York, 1976; Tibor Scitovsky, "Psychologie des Wohlstandes. Die Bedürfnisse des Menschen und der Bedarf des Verbrauchers", Campus, Francoforte s.M., 1977; Fred Kirsch, "Die sozialen Grenzen des Wachstums", Rowohlt, Reinbek, 1980, tr. it. "I limiti sociali allo sviluppo", Milano 1981, nonché l'antropologia critica di Marshall Sahlins, "Kultur und praktische Vernunfì", Suhrkamp, Francoforte s.M. 1981, trad. it. "Cultura e utilità", Milano 1982. Il lettore interessato può trovare una guida a questi autori in William Leiss, "The Limits to Satisfaction", Boyars, Londra, 1978; dello stesso si veda anche "Die Grenzen der Bedürfnisbefriedigung", in "Technologie und

Politik", 12, Rowohlt, Reinbek, 1978, pp. 128-151. Per la storia dell'ideologia della dipendenza dalle merci, è ancora di grande valore Elie Hal‚vy, "La Formation du radicalisme philosophique", Felix Alcané Parigi, 1900-1903, 3 voll.; l'opera non è mai stata ristampata nell'originale, e se ne può trovare solo un'edizione ridotta in inglese, "The Growth of Philosophical Radicalism", Faber and Faber, Londra, 1928, ristampata nel 1972. Essa contiene una brillante analisi dell'utilitarismo di Bentham e dell'ambiguità politica che gli inerisce, tema ripreso da Louis Dumont, "Homo aequalis", Gallimard, Parigi, 1977, che con grande acutezza analizza testi fondamentali di Mandeville, Quenais, Locke, Adam Smith e Marx, per chiarire come si sia imposta un'immagine dell'uomo prima impensabile, vale a dire la moderna definizione della natura umana come di "homo oeconomicus". Secondo tale ideologia, l'essere umano è un produttore sociale di valori scarsi, dal cui consumo e uso dipende la sua sopravvivenza. E a questo neocostituito soggetto dell'economia basata sulle merci vengono di solito attribuite due caratteristiche: l'"homo oeconomicus" è un individuo (cfr. C.B. Macphersoné "Die politische Theorie des Besitzindividualismus", Suhrkamp, Francoforte s.M., 1967); e l'"homo oeconomicus" è un "neutrum" economico, metà del quale è composta da donne economicamente subordinate; cfr. Ivan Illich, "Vernacular Gender and Economie Sex", Boyars, Londra, 1982, comparso abbondantemente riveduto e ampliato con il titolo di "Genus" da Rowohlt alla fine del 1982. In questo volume sulla storia della scarsità, illustro il processo che, secondo una prospettiva socio-centrica, viene descritto, nel migliore dei casi, quale il trionfo del capitalismo nei Diciannovesimo e Ventesimo secoli, mentre nella prospettiva di una storia delle culture popolari appare quale la perdita del "genus", vale a dire di una separazione di compiti, iniziative e concetti secondo la specificità sessuale.

La genesi della moderna definizione di "lavoro" J. Knobloch, "Europ„ische Schlüsselw”rter", vol. II, Max Huber, "Kurzmonographien", Monaco di Baviera, 1964, contiene contributi di Meta Krupp, "Wortfeld Arbeit", pp. 258-286; Hartmut Graach, "Labour and work", pp. 287-316, e Walter Meurers, "Job", pp. 317-354. Raymond Williams, "Keywords: A Vocabular of Culture and Society", Oxford University Press, New York, 1976, ripercorre, in una delle sue sintetiche monografie, il cambiamento di significati subito nel Diciannovesimo secolo dal termine che dapprima ha designato contributi individuali alla produzione, e solo in un secondo tempo rapporti sociali. Il libro, che in edizione tascabile costa solo due sterline, non sarà mai abbastanza raccomandato. Di vasta portata è il saggio "Arbeit", in "Geschichtliche Grundbegriffe", a cura di V.O. Brunner et al., Klett, Stoccarda, 1979, voi. I, pp. 154-243. Per la storia del vocabolario sociale nel campo del "lavoro", si veda Arthur E. Bestor jr., "The evolution of the socialist vocabulary", in "Journal of the History of Ideas", 9, 3,1948, pp. 259-303. John A. Garrathy, "Unemployment in History: Economie Thought and Public Policy", Harper and Row, New York, 1978, è un tentativo di delineare la storia dell'atteggiamento sociale verso il disoccupato; nonostante l'utile documentazione che contiene, l'opera può dirsi un tentativo non riuscito, dal momento che l'autore parla spesso proprio del lavoro in termini nient'affatto storici. Per la definizione del "lavoro" nell'Indonesia d'oggi, di cui si parla nel testo, si veda J. Ledere, "Vocabulaire social et r‚pression politique: Un exemple indonésien", in "Annales ESC", 28, 1973, pp. 407-428, nonché Ben Andersoné "The language of Indonesian politics" in "Indonesia", Cornell University, aprile 1966, pp. 89-116.

L'atteggiamento verso il lavoro e la povertà nel Medioevo La problematica è quella dell'atteggiamento verso il povero e la povertà, non già la questione della fame e della sua distribuzione all'interno della società. Trentasei studi sul tema sono contenuti in Michel Mollat, "Etudes sur l'Histoire de la pauvret‚", Sèrie Etudes, t. VIII, Publications de la Sorbonne, Parigi, 1974, 2 voll. Sull'argomento lavora, presso l'Accademia delle Scienze di Varsavia, Bronislav Geremek, di cui si veda "Le salariat dans l'artisanat parisien au XIIe siecle", Moutoné Parigi, 1968, e "Criminalit‚, vaganbondage, paup‚risme: la marginalit‚ a l'aube des temps modernes", in "Revue d'histoire moderne et contemporaine", 21,1974, pp. 337-375, nonché "Les marginaux parisiens aux XIVe et XVe siècles", Flammarioné Parigi, 1976. Per le oscillazioni cicliche dell'atteggiamento in questione, si veda Georges Duby, "Les pauvres des campagnes dans l'Occident medieval jusqu'au XIIIe siecle", in "Revue d'histoire de l'Eglise de France", 52, 1966, pp. 25-33 e, sempre di Georges Duby, "Le origini dell'economia europea. Guerrieri e contadini del Medioevo", tr. it., Bari 1978. Un'importante raccolta di studi sulla tematica dell'atteggiamento verso la povertà è Convegni del Centro di Studi sulla Spiritualità medioevale, vol. 3, "Povertà e ricchezza nella spiritualità del secolo XI-XII", Todi, 1969. Per i diritti dei poveri nel Medioevo, si veda G. Couvreur, "Les pauvres ont-ils des droits? Recherches sur le voi en cas d'extrème necessit‚ depuis la concordia de Gratiené 1140, jusqu'à Guillaume d'Auxerre, mort en 1231", Università Gregoriana, Roma, 1961; B. Tierney, "Medieval Poor Law: A Sketch of Canonical Theory and Its Applications in England", University of California Press, Berkeley, 1959. Circa la contrapposizione di poveri e potenti, cfr. Karl Bosl, "Potens und Pauper: Begriffsgeschichtliche Studien zur gesellschaftlichen Differenzierung im frühen Mittelalter und zum Pauperismus im Hochmittelalter", Festschrift O. Brunner, Gottinga, 1963, pp. 601-687. G. Ladner, "Homo viator: medieval ideas on alienation and order", in "Speculum", 42,1967, pp. 233259, descrive il pellegrino che si muove tra "ordo" e "abalienatio" quale ideale del Dodicesimo secolo. Un libro straordinario è Emmanuel Le Roi Ladurie, "Montaillou, village occitan de 1294 a 1324", Gallimard, Parigi, 1975 (trad. it. "Storia di un paese: Montaillon", Milano 1977): in esso, dalle risposte fomite a un cancelliere di tribunale da circa cento abitanti di

quel piccolo villaggio dei Pirenei che dovettero sottoporsi all'inquisizione di un giovane vescovo, in seguito divenuto papa Benedetto Dodicesimo, apprendiamo, quasi parola per parola, cosa ne pensassero l'uno dell'altro uomini e donne appartenenti a diversi strati sociali. Si veda anche Heltmuth Stahleder, "Arbeit in der mittelalterlichen Gesellschaft", Neue Schriftenreihe des Stadtarchivs Munchené Monaco di Baviera, 1972; Paul Wilpert, a cura di, "Beitr„ge zum Berufsbewusstsein des mittelalterlichen Menschen", Miscellanea medioevalis, t. III, Berlino, 1968; Otto Neurath, "Beitr„ge zur Geschichte der Opera Servilia", in "Archiv für Sozialwissenschaften und Sozialpolitik", voi. 51, 2, 1915, pp. 438-465. Per la nuova concezione del lavoro nella Riforma tedesca, si veda il fondamentale studio di Hildeburg Geist, "Arbeit, die Entscheidung eines Wortwertes durch Luther", Luther-Jahrbuch, 1931, pp. 83-113.

Mutamento del rapporto tra lavoro e povertà dopo il Sedicesimo secolo Per la storia della civiltà materiale nel periodo in cui si è imposto il sistema di produzione capitalistico, si veda l'enciclopedica opera di Fernand Braudel, "Civilisation mat‚rìelle, economie et capitalisme, XVeXVIIIe siecle", voll. 1-3, Parigi, 1979. Per l'espropriazione della comunità di villaggio, e più genericamente per la distruzione delle comunità (in inglese, "the commons"), si vedano il settimo e l'ottavo capitolo di Karl Polanyi, "The Great Transformation", tr. it. "La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca", Torino 1974. Gli studi e le controversie sulla tematica della comunità, compilati con grande abbondanza nella seconda metà del Diciannovesimo secolo, sono adesso largamente rappresentati in "Comunità di villaggio e comunità familiari nell'Europa dell'Ottocento", voll. 1-3, Jaka Book, Milano, 1977-1979. L'imporsi dello stato nazionale produttivo viene visto come guerra contro l'organizzazione della sussistenza tradizionale per esempio in Robert Muchambled, "Culture populaire et culture des ‚lites dans la France moderne du XVe au XVIIIe siecle", Flammarioné Parigi, 1978. Yves Castané "Honnˆtet‚ et relations sociales en Languedoc, 17151780", ricostruisce, sulla scorta di atti giudiziari, la decadenza delle tradizionali forme di autoregolamentazione della sussistenza per influenza del nuovo ordinamento statale. Per il nuovo atteggiamento nei confronti dei poveri, si veda, per la Francia, O. Huftoné "The Poor in 18th Century France", Claredon Press, Oxford, 1974; per l'Inghilterra, Edward P. Thompsoné "Plebeische Kultur und moralische èkonomie, Aufs„tze zur englischen Sozialgeschichte des 18 una 19. Jahrhunderts", Ullsteiné Berlino 1980. Per una critica all'opera principale di Thompsoné "The Making of the English Working Class", 1962, si veda John Brewer e John Styles, "Ungovernable People: The English and their Law in the 17th and 18th Centuries", Rutgers University Press, 1979. Conserva piena validità l'indagine sull'inizio del nuovo atteggiamento verso lavoro e povertà in R.M. Tawney, "Religion und Fruhkapitalismus", Francke, Berna, 1949, trad. it. "La religione e la genesi del capitalismo", Milano 1977; Tawney ritiene che già alla fine del Diciassettesimo secolo sia costatabile, in Inghilterra, un mutamento dell'atteggiamento verso i poveri, che si fa più

duro nel senso che per la prima volta vengono cancellati i confini tra povertà e viziosa oziosità. Ne critica la tesi Dorothy Marshall, "The English Poor in the 18th Century: A Study of Social and Administrative History", Londra, 1962, per la quale la povertà diviene un vizio solo all'inizio del Settecento. Per la storia della crescente costrizione al lavoro, nel mio testo mi sono rifatto a Thomas Adams, "Mendicity and moral alchemy: work as rehabilitation" in "Studies on Voltaire and the 18th Century", vol. 151,1976, e a J.F.E. Lotz, "Ideen über ”ffentliche Arbeitsh„user und ihre zweckm„ssige Organisation", Heidelberg, 1810; inoltre a Militzer e Schwenger, "Armenerziehung durch Arbeit am Beispiel des württembergischen Schwarzwaldkreises, 1806-1914", Tübinger Verlag für Volkskunde, Tubinga, 1979. Per quanto riguarda la letteratura tedesca, un'introduzione allo studio dell'argomento è P. Kriedte, H. Medick e J. Schlumbohm, "Industrialisierung vor der Industrialisierung. Gewerbliche Warenproduktion auf dem Land in der Formationsperiode des Kapitalismus", G”ttingené 1978, tr. it. "L'industrializzazione prima dell'industrializzazione", Bologna 1984. Per i tumulti dei contadini contro la costrizione al lavoro salariato e la dipendenza da merci, si veda R. Mousinier, "Fureurs paysannes. Les paysans dans les rivoltes du XVIIe siecle", Parigi 1967; Y.-M. Berc‚, "Histoire des Croquants. Etudes des soulevements populaires au XVIIe siecle dans le Sud-ouest de la France", Ginevra 1974, e la raccolta commentata di documenti che correda l'opera, "Croquants et nu-pieds", Parigi, 1974. Per materiale bibliografico, si veda C.S.L. Davies, "Peasant revolt in France and England, a comparison", in "Agricultural History Review", 21,1973, pp. 122-134.

L'antitesi tra la casa globale e la casa come semplice abitazione Una semplice, chiara introduzione al tema è Otto Brunner, "Das ganze Haus und die alteurop„ische Okonomik", in Otto Brunner, "Neue Wege zur Verfassungs- und Sozialgeschichte", Gottinga, 1968. Per la divisione del lavoro secondo la specificità sessuale della casa globale, si veda Yvonne Verdier, "Fa‡on de dire, fa‡on de faire: la laveuse, la couturière, la cuisinière", Gallimard, Parigi, 1979: Manine Segalené "Mari et femme dans la societ‚ paysanne", Flammarioné Parigi, 1980.

La cosiddetta divisione del lavoro Dopo Smith, e soprattutto dopo Marx, "divisione del lavoro" è un termine che con burbanzosa serietà viene usato per rafforzare un equivoco. In merito, si veda Barbara Duden e Karis Hausené "Gesellschafìliche Arbeit-Geschlechtsspezifische Arbeitsteilung", in A. Kuhn e G. Schneider, a cura di, "Frauen in der Geschichte", Schwanné Düsseldorf, 1980; Ann Oakley, "Woman's Work: The Housewife, Pastand Present", Vintage Books, New York, 1976, e, della stessa autrice, "Soziologie der Hausarbeit", Roter Sterné Francoforte s.M., 1978. Con pochissime eccezioni, il termine è stato finora usato sempre per designare la scissione, caratteristica delle economie di sussistenza; tra il campo di attività e i compiti delle donne e degli uomini, quale un caso particolare della divisione del "lavoro" produttivo. Nelle società preindustriali, la forza lavoro "produttiva", che può essere sfruttata sia col ricorso a uomini che col ricorso alle donne, esiste solo eccezionalmente e per di più solo nell'ambito della schiavitù. La forza lavoro genericamente "umana" è non meno nuova della sua suddivisione in lavoro salariato e lavoro-ombra. Per una panoramica dei compiti, e della divisione di attività e strumenti tradizionalmente legati alla specificità sessuale, si veda Michael Roert, "Sickness and Scythes: Women's Work and Men's Work at Harvest Time", in "History Workshop", 7, 1979, pp. 3-28; Judith Browné "A Note on the Division of Labour by Sex", in "American Anthropologist", 72, 1970, pp. 1073-1078; Günther Wiegelmanné "Erste Ergebnisse der A.D.V.-Umfrage zur altenb„uerlichen Arbeit", in "Rheinische Vierteljahresbl„tter", 33, 169, pp. 208-262; dello stesso, "Zum Problem bauerlicher Arbeitsteilung in Mitteleuropa" in "Aus Geschichte una Landeskunde", Festschrift für Franz Steinbach, Bonné 1970; si veda anche lo scritto di Ritteringham apparso su "Phantome", 156. Per informazioni bibliografiche, si veda S.C. Robers, "Women's Place: A Criticai View of Anthropological Theory", in "Comparative Studies of Society and History", 20, 1978, pp. 123-167; Karin Hausené "Die Polarisierung der Geschle-chtscharaktere: eine Spiegelung der Dissoziation von Erwerbs- und Familienleben", in Werner Gonze, a cura di, "Sozialgeschichte der Familie in der Neuzeit Europas", Neue Forschung, Stoccarda, 1976, pp. 367-393.

Diagnostica della femminilità economica La divisione del lavoro in tutte le moderne società ad alta produttività, dal punto di vista empirico si basa sull'inferiorità economica delle donne. Per un uguale lavoro a tempo pieno, a parità di preparazione, le donne in tutti gli stati industriali guadagnano sensibilmente meno degli uomini, e i paragoni tra singoli stati nazionali negli ultimi cento anni comprovano che l'inferiorità economica della donna in fatto di lavoro salariato è prossima alla sezione aurea già scoperta dai greci. Infatti, l'inferiorità femminile oscilla ovunque da una proporzione di 3 : 5 a una proporzione di 5 : 8. Rispetto al livello di salari degli uomini, negli Usa tra il 1945 e il 1975, il valore medio del lavoro salariato femminile a parità di mansioni è pari al 59-69%. Si veda Ratner, "Ronnie Steinberg. Equal Employment Policy for Women: Strategies for Implementation in USA, Canada and West Europa", Temple University Press, Philadelphia, 1980, dove nell'introduzione si da notizia della tuttora immutata scissione tra i sessi per quanto riguarda i redditi, mentre nelle ventiquattro monografie che seguono si illustrano i "progressi" compiuti lungo la strada della parificazione economica nel campo del lavoro. Il saggio intitolato "Lavoro-ombra" è stato da me scritto in vista di un seminario nel Sudafrica, al quale però non ho potuto partecipare. Esso mira a mettere in evidenza che a tutt'oggi nessuna società a me nota è divenuta dipendente dal lavoro salariato e dalla produzione di merci senza con questo svalutare una maggioranza della popolazione mediante una diagnostica sociobiologica e sociopsicologica, destinandola precipuamente al lavoro-ombra. In diverse società sono state dichiarate segno di inferiorità economica diversissime caratteristiche fisiologiche: in Sudafrica, per esempio, il colore della pelle, ma ovunque la "femminilità". L'appartenenza al sesso femminile costituisce il sintomo di gran lunga più diffuso di inferiorità economica, e basandosi su esso è possibile il più efficace paragone tra numerose nazioni per quanto riguarda l'intimo nesso di lavoro e discriminazione sociobiologica, un legame frutto dell'industria e che diviene sempre più saldo. A partire dalla seconda metà del Diciannovesimo secolo, l'inferiorità della donna viene spiegata sostanzialmente con il suo relativamente maggior bisogno di assistenza, che deriverebbe dalla sua stessa natura. Lo studio della medicalizzazione di questa, grazie alla quale le donne a partire dall'Ottocento sono state

confinate, dallo stato e dalle professioni, in un lavoro non retribuito, fornisce pertanto un paradigma, indipendente dai concreti rapporti di potere politici, della svalutazione sociobiologica che comprovatamente procede di pari passo con lo sviluppo economico: costatazione, questa, che permette di affrontare il problema, se sussista la possibilità di demolire il sessismo e/o razzismo economico senza contemporaneamente abbattere i rapporti economici. Sulla medicalizzazione della natura femminile, esiste una vasta letteratura femminista. Per il processo di medicalizzazione ginecologica quale diagnostica sociobiologica dell'inferiorità economica femminile, si veda G.J. Barker-Benfiel, "The Horrors of the Half-known Life: Male Attitudes toward Women and Sexuality in the 19th Century America", Harper and Row, New York, 1976; Gianna Pomata, "Madri illegittime tra Ottocento e Novecento: Storie cliniche e storie di vita", in "Quaderni storici", 44,1980, pp. 487-542; Rosalind Rosenberg, "In search of woman's nature", 1850-1920, in "Feminist Studies", 3, 1975; Carroll SmithRosenberg, "The hysterical woman: sex roles in 19th century America", in "Social Research", 39, 1972, pp. 652-678; Y. Knibiehler, "Les m‚decins et la nature f‚mmine au temps du Code civil", in "Annales" 31, 4, 1976, pp. 824-845. Per la storia sociale del matrimonio quale istituzione economica, si veda l'opera collettanea di Werner Gonze, a cura di, "Sozialgeschichte der Familie in der Neuzeit Europas", Neue Forschung, Stoccarda, 1976; Jacques Donzelot, "Die Ordnung der Familie", Suhrkamp, Francoforte s.M., 1980; Edward Shorter, "Die Geburt der modernen Familie", Rowohlt, Reinbek, 1977. Per il processo che ha portato all'esigenza di servizi, e dunque alle possibilità di controllo all'interno della famiglia, si veda in generale, Burton J. Bledsteiné "The Culture of Professionalism", Nortoné New York, 1976, e, specificamente per le donne, Barbara Ehrenreich e Deirdre English, "For Her Own Good: 150 Years of Expert's Advice to Women", Anchor Books, New York, 1978. Per quanto attiene al problema del come la natura della donna sia stata scientificamente ridotta a lavoratrice ombra nella cornice del costituirsi del matrimonio moderno, mi è stato di particolare utilità M.O. M‚tral, "Le mariage. Les h‚sitations de l'Occident", prefazione di Philippe Ariès, Aubier, Parigi, 1977. Sia all'inizio che alla conclusione del mio saggio, mi riferisco a un romanzo di Nadine Gordimer, "Burger's Daughter", e ad Ann Douglas,

"The Feminization of American Culture", Avoné New York, 1970.

Fonti La prima stesura del saggio "Il diritto alla lingua comune" mi è servita per una conferenza che ho tenuto nell'aprile 1979 alla Columbia University, ed è stata successivamente pubblicata sul "Columbia teacher's College Record". "La vera lingua materna" è stata del pari una conferenza da me tenuta nell'aprile del 1979 alla Columbia University, New York. "Pedagogia in soffitta?" è una conferenza da me pronunciata durante la seduta inaugurale del congresso della Deutsche Gesellschaft für Erziehung und Wissenschaft a Gottinga nel 1980, su invito del suo presidente, professor Tiersch. "L'arte di vivere e il produttore d'arte" è stato l'intervento di apertura del Congresso mondiale dell'International Society for Education through Art, Rotterdam, agosto 1981. "Lavoro in proprio (Eigenarbeit) " è stata una conferenza da me tenuta alla fine di novembre del 1980 all'Evengeli-sche Akademie di Loccum. Sul tema del "lavoro-ombra", avrebbe dovuto tenersi in Sudafrica, nel 1980, un seminario al quale avrei dovuto partecipare, ma ne sono stato impedito dalla mancata concessione del visto d'ingresso. Il saggio è stato successivamente letto da professori a studenti all'università di Città del Capo. L'argomento della "Formazione del noi ecumenico", è stato trattato nel corso di un incontro, in vista di un programma di studi per il Consiglio Mondiale delle Chiese di Ginevra, tra l'autore, Werner Sumpfend”rfer e il professor Heinrich Dauber, che ha avuto luogo a Kassel nell'inverno 198081. Il saggio che ne ho ricavato è stato successivamente raccolto in

volume. "La dimensione comune della politica" è il testo di una conferenza da me tenuta a Colombo nell'agosto del 1978 alla Society for Economie Development. "La pace comune" è una conferenza pronunciata nel dicembre 1980 a Tokio alla Asian Peace Research Association.

NOTE Nota 1. Amore in senso grosso modo stilnovistico, oggetto della lirica dei "Minnesanger" del Dodicesimo-Tredicesimo secolo. "Minnie" va inteso, nella cornice della cultura cavalieresca medioevale, quale il complesso dei rapporti ideali e convenzionali tra il poeta e la dama. [N.d.T.] Nota 2. In Liguria, vige ancor oggi un termine affine, di origine medioevale, quello di "comunalia", per indicare appunto il pascolo comune. [N.d.T.] Nota 3. In tedesco, si usa attualmente il termine "Gemeinschaft" per designare la comunanza (di beni), mentre "Gemeinheit" è usato quasi esclusivamente, come s'è detto, nel senso di triviale, volgare (appartenente al "vulgus"). [N.d.T.] Nota 4. All'altissima e chiarissima principessa donna Isabella terza di tal nome, regina e naturale signora di Spagna e delle isole del nostro mare. Comincia qui la grammatica di recente compilata dal maestro Antonio di Nebrija circa la lingua castigliana, che esordisce col prologo. E buon pro ne faccia la lettura. [N.d.T.] Nota 5. Preferisco conservare il termine tedesco, pur dandone una approssimativa traduzione italiana "adsensum", dal momento che l'autore si riferisce specificamente a un ambito germanofono. [N.d.T.] Nota 6. Si veda il suo saggio "Frauenarbeit: Der blinde Fleck in der Kritik der polilischen Okonomie" in "Beitr„ge aus feminist:scher Theorie und Praxis", I, 1978, pp. 18 sgg. Nota 7. Si veda, più sopra, il capitolo "Lavoro in proprio". [N.d.T.] Nota 8. "E scavano una fossa nell'aria; e scavano e scavano, non ci si sta stretti. [N.d.T.]

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