Italia Occulta Giuliano Turone

July 7, 2022 | Author: Anonymous | Category: N/A
Share Embed Donate


Short Description

Download Italia Occulta Giuliano Turone...

Description

 

L’autore

Giuliano Turone, giudice emerito della Corte di cassazione e già docente di

Tecniche dell’investigazione all’Università Cattolica di Milano, è stato il giudice istruttore che, prima di occuparsi delle inchieste su Michele Sindona e sulla Loggia P2, ha indagato sulla presenza di Cosa nostra a Milano negli anni Settanta arrivando all’incriminazione del capomafia di allora, Luciano Liggio. Negli anniantimafia. Novanta ha parte delcon primo staff di magistrati nazionale Hafatto collaborato il Consiglio d’Europa,della per laProcura redazione della convenzione di Strasburgo del 1990 sul riciclaggio, e con le Nazioni Unite, svolgendo attività di pubblico ministero presso il Tribunale penale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia e contribuendo alla redazione dell’Oxford University Press Commentary sullo statuto della Corte penale internazionale (2002). Tra i libri che ha scritto: Il scritto: Il caffè di Sindona (con Sindona (con Gianni Simoni, Garzanti 2009),  Il caso Battisti (Garzanti Battisti (Garzanti 2013), Il 2013), Il delitto di associazione associ azione mafiosa (Giuffré mafiosa (Giuffré 2015) e, insieme con Antonella Beccaria, Il Beccaria, Il boss. LucianoLiggio: da Corleone a  Milano, una storia di mafia e complicità (Castelvecchi complicità (Castelvecchi 2018).

 

 Inchieste e reportage

 

www.chiarelettere.it

facebook.com/chiarelettere

@chiarelettere @chiarel ettere

www.illibrai www.illi braio.it o.it © Chiarelettere Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: corso Sempione, 2 - Milano ISBN 978-88-3296-175-1 Copertina Art director: Giacomo Callo Graphic designer: Marina Pezzotta Foto: © stockeurope / Alamy Stock Photo Prima edizione digitale: gennaio 2019

 

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

 

Sommario L’autore Pagina di copyright Frontespizio Frontespi zio Prefazionee di Corrado Stajano Prefazion Premessa I. Il triennio triennio 1978-1980. La presenza incombente incombente della loggia massonica P2 1. I tre fattori fattori storici peculiari alla base dell’Italia dell’Italia occulta 2. Il percorso percorso verso la scoperta della loggia P2 3. Il memoriale memoriale del maresciallo Francesco Carluccio sulla perquisizione sulla perquisizione dell’ufficio dell’uffi cio di Gelli a Castiglion Fibocchi 4. La deposizione deposizione del generale Vincenzo Bianchi sulla perquisizione perquisizione dell’ufficio dell’uffi cio di Gelli a Castiglion Fibocchi 5. La messa messa in sicurezza della documentazione sequestrata e il problema il problema dell’informativa al Governo della Repubblica 6. Un’estate Un’estate movimentata movimentata e ricca di sorprese 7. Il «Piano «Piano di rinascita democratica» democratica» della loggia P2 8. Una prima attuazione attuazione del «Piano di rinascita democratica»: la conquista della casa casa editrice Rizzoli Rizzoli e l’occupazione del «Corriere della Sera». L’ombra lunga della della giunta giunta militare argentina 9. Le conclusioni della Relazione Anselmi sui meccanismi di funzionamento del Sistema P2 II. Il caso Moro: lo scontro fra carabinieri fedeli alla Repubblica e carabinieri fedeli alla loggia P2 1. Dalla tragica mattina del 16 marzo 1978 alla scoperta del covo di via Monte Nevoso 2. I carabinieri piduisti della divisione Pastrengo e il ruolo del generale Giovanbattista Palumbo 3. Carlo Alberto dalla Chiesa e Giovanbattista Palumbo, due personaggi opposti 4. Anno 1976. La trappola della domanda di affiliazione alla loggia P2 firmata dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa 5. Le quattro lettere fittizie apparentemente indirizzate da Gelli a Dalla Chiesa

 

III. Altri aspetti del caso Moro 1. Insidie e problemi connessi alla scoperta della base brigatista milanese di via Monte Nevoso 2. I contrasti e le anomalie che hanno compromesso l’esito della perquisizione di via Monte Nevoso: il colpo di scena del 5 luglio 1982 3. I veleni ulteriori e l’inerzia investigativa e giudiziaria dopo il 5 luglio 1982 4. Infondatezza dei sospetti e delle insinuazioni contro il generale dalla Chiesa e i suoi uomini. Le responsabilità del Sistema P2 e dei settori dell’arma a esso legati 5. La Relazione Anselmi e la massiccia presenza di piduisti nel Comitato di coordinamento. Le intromissioni di Gelli tramite il generale Grassini 6. Una calunnia postuma ai danni di dalla Chiesa, trait d’union fra il caso Moro e il caso Pecorelli. La vicenda Incandela IV. Pecorelli. Il giornalista che «disturbava politicamente» 1. Il delitto Pecorelli e la prima inchiesta sull’omicidio 2. La seconda inchiesta sull’omicidio e le rivelazioni dei collaboratori di giustizia: le prime indicazioni sui mandanti 3. Le indicazioni sugli autori materiali dell’omicidio e il singolare connubio tra Cosa Nostra e Banda della Magliana 4. Gli imputati chiamati in causa dai collaboratori di giustizia 5. I diversi gradi di giudizio e l’esito finale. La sentenza di primo grado come fonte essenziale del caso Pecorelli 6. Un inconsueto deposito d’armi e un’eloquente risultanza balistica 7. Una cena molto riservata e certi «assegni del presidente» 8. Dalla fonte inesauribile dell’Italcasse ai percettori mafiosi degli «assegni del presidente» V. Giulio Andreotti riconosciuto penalmente responsabile, ancorché prescritto, di complicità con Cosa Nostra 1. La sentenza della Corte d’appello di Palermo del 2 maggio 2003 2. L’incontro L’incontro tra Andreotti e Bontate a Catania nell’estate nell’es tate 1979. L’irritazione dei mafiosi per le iniziative del presidente della Regione Piersanti Mattarella 3. Il secondo incontro fra Andreotti e Bontate a Palermo nella primavera 1980. L’uomo politico arriva in macchina con i cugini Salvo 4. Andreotti e i cugini Salvo atterrati a Trapani con un aereo messo a disposizione dai mafiosi 5. Un piccolo favore di Bontate ad Andreotti… 6. … e un grosso favore di Andreotti a Badalamenti

 

7. La parola definitiva della Corte suprema sulla «mafiosità» di Andreotti VI. Il rapporto triangolare fra Andreotti, Cosa Nostra e Sindona 1. I due schieramenti di Cosa Nostra e i due poli (anzi tre) della finanza d’avventura. Il ruolo della P2 2. Il rapporto preferenziale (e surreale) tra Michele Sindona e i mafiosi «moderati» di Cosa Nostra 3. Il rapporto tra Andreotti e Sindona VII. Il dissesto della banca di Sindona e l’assassinio di Ambrosoli su mandato di Sindona 1. Le pesanti minacce telefoniche degli amici mafiosi di Sindona a Giorgio Ambrosoli e a Enrico Cuccia 2. Una pagina buia nella storia del paese: l’attacco giudiziario romano alla Banca d’Italia 3. L’assassinio di Giorgio Ambrosoli, la condanna di Sindona all’ergastolo e il suo 4. Lasuicidio responsabilità politica e morale di Giulio Andreotti per l’assassinio di Giorgio Ambrosoli VIII. L’attacco giudiziario alla Banca d’Italia e il ruolo di Giulio Andreotti 1. Un’incriminazione palesemente pretestuosa 2. Come rendere inoffensivo il servizio di vigilanza di una banca centrale 3. Due incontri molto riservati tra Andreotti e il giudice Alibrandi: l’inedita e originale spiegazione che ne dà Andreotti 4. La posizione dei magistrati Infelisi e Alibrandi, segnalata alla Procura di Perugia e archiviata senza alcun accertamento IX. Dalla seconda guerra di mafia alle stragi di Capaci e di via D’Amelio 1. La vittoria della fazione corleonese di Cosa Nostra e la scelta di Buscetta e Contorno di collaborare con lo Stato 2. Il maxiprocesso di Palermo da Falcone e Borsellino alla sentenza del 30 gennaio 1992 della Corte di cassazione 3. La reazione di Cosa Nostra e la fase finale del maxiprocesso: il sacrificio di Falcone e Borsellino non gioverà agli assassini X. L’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile e i dodici anni della tormentata vicenda giudiziaria 1. Le circostanze dell’assassinio di Emanuele Basile e l’istruttoria del giudice

 

Paolo Borsellino 2. Un processo di primo grado quantomeno sconcertante 3. Le due condanne in appello, annullate dalla Cassazione, e il verdetto finale del 1992 4. La gestione del caso Basile da parte della prima sezione della Corte di cassazione e l’accusa a Carnevale di complicità con Cosa Nostra XI. Dall’istruttoria del maxiprocesso a Cosa Nostra all’istruttoria sugli omicidi politico-mafiosi di Palermo 1. Lo stato dell’arte alla fine del 1985 e le riflessioni di Falcone 2. La centralità della figura di Pippo Calò nell’evoluzione del fenomeno mafioso 3. Le intuizioni di Falcone e Borsellino e il ruolo di «frontiera» di Pippo Calò tra mafia, servizi, destra eversiva e trame occulte. La strage di Natale del rapido 904 4. L’isolamento di Giovanni Falcone e lo smembramento del pool antimafia da parte nuovo consigliere Antonino 5. La del caduta nella qualità delistruttore lavoro degli ufficiMeli giudiziari inquirenti di Palermo nel quadriennio 1988-1991 XII. L’omicidio di Piersanti Mattarella 1. La dinamica del delitto e la questione delle targhe 2. Le presumibili cause del delitto 3. Una pista mafiosa anomala: il patto perverso tra Cosa Nostra e i Nar di Valerio Fioravanti 4. Le dichiarazioni di Cristiano Fioravanti e la figura di Francesco Mangiameli 5. Le confidenze di Francesco Mangiameli al suo camerata e amico Alberto Volo 6. Il riconoscimento del killer in Valerio Fioravanti da parte della vedova Mattarella e le rivelazioni di Stefano Soderini 7. La targa camuffata dell’auto del delitto e i pezzi di targa in un covo di Terza posizione 8. La posizione di Fabrizio Zani, rapinatore e magazziniere della destra eversiva 9. L’importanza probatoria dei «due pezzi di targa» di via Monte Asolone XIII. Il senso della strategia della tensione e il suo evolversi sino all’alba del triennio 1978-1980 1. Quando l’antistato si annida nello Stato

 

2. Ordine nuovo, Avanguardia nazionale e la guerra non ortodossa 3. La strategia della tensione dalla strage di piazza Fontana sino al 1977 4. L’omicidio di Vittorio Occorsio di Pierluigi Concutelli. Il 1977 come anno spartiacque: tra spontaneismo armato, il mito di Concutelli e il carisma nascente di Fioravanti XIV. I prodromi della strage maggiore e l’assassinio del giudice Mario Amato 1. I Nar e Tp dalla fine del 1977 ai primi mesi del 1980. Il tragico destino del giovane Antonio Leandri 2. La solitudine e la morte annunciata del sostituto procuratore Mario Amato a Roma XV. 2 agosto 1980: l’eccidio della stazione di Bologna XV. 1. La notizia della strage 2. Una vicenda giudiziaria lunga e tormentata 3. Le anticipazioni anticipazi oni di Luigi Vettore Presilio 4. La Le telefonata rivelazionididiCiavardini, Massimo Sparti 5. il «baratto» e la girandola degli alibi 6. L’omicidio L’omicidio di Francesco Mangiameli XVI. I depistaggi sulla strage di Bologna. Il ruolo della loggia P2 e dei servizi segreti 1. Il grande depistaggio di matrice P2: la falsa pista libanese e il ruolo di Gelli, di Pazienza e dei servizi 2. Le incertezze sul movente del depistaggio di matrice P2 3. La pista Kram: un nuovo depistaggio o una suggestiva coincidenza? XVII. la strage Bologna 1. La Il P2Sistema secondoP2il dopo «Corriere delladiSera» fra la strage di Bologna e la perquisizione di Castiglion Fibocchi 2. Gli eventi successivi alla perquisizione di Castiglion Fibocchi e alla caduta del governo Forlani 3. Epilogo. Licio Gelli si congeda Appendice Dimenticati dallo Stato di Antonella Beccaria Fedeli alla Repubblica italiana Tutti contro il generale Giorgio Manes Guerra nera al commissario Pasquale Juliano

 

Fuoco incrociato sul giudice Giancarlo Stiz Le interferenze occulte nel caso Moro di Stefania Limiti Il momento giusto La campagna di primavera delle Br La P2 e il caso Moro Una montagna di soldi per Moro Quale interferenza praticò l’Anello nel caso Moro? La giustizia a Perugia. Gli anni Ottanta di Sergio Materia Perché ricordare quegli anni I magistrati di Perugia L’omicidio di Mario Amato. L’indagine mancata su Giovanni De Matteo Wilfredo Vitalone Le accuse ai vertici della Banca d’Italia L’istruttoria Infelisi Elisabetta Cesqui e le accuse di Costantino Belluscio Epilogo Il Lo casoscandalo ItalcasseItalcasse di Beniamino A. origini Piccone fin dalle L’ispezione all’Italcasse del 1977 La Procura di Roma: il porto delle nebbie o il porto delle follie? I crediti di Italcasse verso il gruppo Caltagirone I legami tra l’Italcasse e l’omicidio Pecorelli Bibliografia Ringraziamenti Indice dei nomi Seguici su IlLibraio

 

Prefazione di Corrado Stajano

Una storia nera. Una storia purtroppo vera questa di Giuliano Turone, Italia Turone, Italia occulta, dove occulta,  dove tutto è minuziosamente documentato da atti di giustizia, sentenze, ordinanze, confessioni, interrogatori, testimonianze, perizie balistiche, verbali magari a suo tempo sottovalutati o non compresi, qui invece analizzati con la furia certosina delloNon scrittore che spesso, come magistrato, è statoi fatti al centro di quel che racconta. è un’autobiografia. Se non si conoscono ci si può render conto della presenza e della funzione dell’autore solo da una minuscola nota a piè di pagina, l’opposto dell’esibizione. Protagonista delle vicende narrate è un paese malato, spesso moribondo, una palude non prosciugata dove negli anni Settanta-Ottanta del Novecento, dall’indomani di piazza Fontana all’uccisione di Moro al massacro della stazione di Bologna, è accaduta l’iradiddio, stragi, assassinii, complotti, tentati colpi di Stato. In un connubio, esso sì romanzesco, tra politica e criminalità spuntano da queste pagine i personaggi più diversi, ministri, banditi, frati, presidenti del Consiglio, presidenti della Repubblica, avventurieri, terroristi, provocatori, capimafia, giudici corrotti, agenti segreti, doppiogiochisti, killer, generali infedeli che non hanno certo reso onore alla loro uniforme. Un Trionfo della dell a morte da morte  da far invidia a Pieter Bruegel il Vecchio. Poi c’è l’altra Italia che ha retto, anche se con fatica, alla quale il libro è dedicato, rappresentata qui da Tina Anselmi, la presidente della Commissione d’inchiesta sulla Loggia P2, dal colonnello della guardia di finanza Vincenzo Bianchi, dal commissario di polizia Pasquale Juliano, dal generale dei carabinieri Giorgio Manes, dal giudice Giancarlo Stiz, «Servitori della Repubblica», semplicemente. I fatti, nel libro di Turone, non posseggono un’apparente continuità temporale. Italia temporale.  Italia occulta è occulta è costruita a frammenti: la Loggia P2; Michele Sindona, bancarottiere assassino, già definito daper Giulio Andreotti «il salvatore della lira»;il Giorgio Ambrosoli, l’avvocato ucciso la sua onestà; Piersanti

 

Mattarella e il suo omicidio a Palermo; le stragi dei treni; il processo Pecorelli. Questi frammenti e tanti altri si ricompongono naturalmente in un disegno complessivo sulla strategia pensata e messa in atto dai nemici della Repubblica: cancellare la Costituzione, distruggere la democrazia costata tanto sangue e tanto dolore. «Quante storie. La P2 non fu nient’altro che un club di gentiluomini» disse più volte l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (tessera 1816 della Loggia). E Gelli, anni dopo, nel 2008, ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, ricambiò il favore e rivendicò con orgoglio alla Loggia P2 la paternità del Piano di rinascita democratica con queste parole: «Peccato non averlo depositato alla Siae per i diritti, tutti ne hanno preso spunto: l’unico che può portarlo avanti è l’attuale presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi». Gli allora giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo, responsabili dell’inchiesta sulla P2, erano arrivati a Gelli dopo l’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso dalla mafia vicino alla chiesa di San Vittore, nel centro di Milano. Su un’agendina sequestrata nel 1979 a Sindona, negli trasmessa poi non in Italia, erano tuttigli glialtri indirizzi di Licio Gelli,Stati uomoUniti, d’affari di Arezzo ignoto alla annotati polizia. Fra il recapito sconosciuto di una ditta di abbigliamento maschile, la Giole, del gruppo Lebole, di Castiglion Fibocchi, nell’aretino, dove il 17 marzo 1981 avvenne la famosa perquisizione del Nucleo regionale di polizia tributaria della guardia di finanza. A insospettire, mesi prima, era stata anche la clamorosa intervista di Maurizio Costanzo (tessera 1819 della Loggia) pubblicata dal «Corriere della Sera» il 5 ottobre 1980. Titolo: Parla, Titolo: Parla, per la prima volta, il «Signor P2». Un manifesto pubblicitario. Una presa di possesso zeppa di messaggi in codice. Un avvertimento minaccioso. Nel suo libro Turone è attento anche ai particolari più minuti, utili per far capire il clima del tempo. Come il verbale della perquisizione alla Giole scritto dal maresciallo Francesco Carluccio: la segretaria di Gelli, la signora Carla Venturi, che cercò di far sparire la chiave della cassaforte, lo stupore del sottufficiale quando l’aprì e trovò registri, documenti, carte e, in una valigia, le cartellette con nomi inimmaginabili, ministri, generali e ammiragli, capi dei Servizi segreti, prefetti, parlamentari, editori, direttori di grandi giornali e di telegiornali affiliati alla Loggia segreta con un giuramento. Che avevano già fatto, in molti, ma alla Repubblica. Tra loro anche il comandante della guardia di finanza Orazio Giannini e il capo di stato maggiore Donato Lo Prete. La colonna di auto che riporta a Milano i materiali sequestrati, con le liste dei 963 nomi uomini di con cui molti ai verticimarcia della Repubblica, sembra un’azione guerra. LadiFiat Ritmo, i documenti, in mezzo a due Alfetta fatte di

 

venire dal comando: a bordo di ciascuna, quattro soldati armati di mitra. Non molti sanno, anche se la notizia comincia a trapelare. Gelli, il gran custode – Turone, che ama Dante, scrive che potrebbe essere Cerbero, il mostro a tre teste, Gerione, la fiera con la coda aguzza, Pluto con la sua voce chioccia –  preoccupato, passa subito al contrattacco e fa ritrovare, poco dopo, malamente occultato nel fondo di una valigia della figlia, all’aeroporto di Fiumicino, il Piano di rinascita democratica. Un piano eversivo. Minaccia e monito. Golpismo strisciante. Perché tanto spazio alla Loggia P2 nella prefazione a questo libro di Turone, ricco di fatti e di personaggi? Perché la P2 è «la metastasi delle istituzioni», il cuore, la matrigna maligna, portatrice di quasi tutte le nequizie di quegli anni. Salta fuori di continuo come un misirizzi coi suoi nomi di potenti e di subalterni ubbidienti a ordini anche criminali. La caduta della dignità e del rispetto civile sono la norma. Colpiscono certi fatti che possono sembrare minori. Gelli che convoca nella sua Villa Wanda un alto magistrato, Carmelo Spagnuolo, procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, il generale Giovanbattista Palumbo, comandante della divisione carabinieri Pastrengo di Milano, il generale Franco Picchiotti, comandante della divisione carabinieri di Roma, il generale Luigi Bittoni comandante della brigata carabinieri di Firenze, due colonnelli. Il venerabile ha fretta e gli uomini della Repubblica accorrono proni ad ascoltare l’oracolo. Siamo nel 1973 – scrive la Relazione Anselmi – il pericolo è l’avanzata del Pci dopo le elezioni del 1976, i referendum, il divorzio, l’aborto. Si ventila allora l’ipotesi di un governo presieduto da Carmelo Spagnuolo. Gelli sembra un capo di stato maggior generale che dà gli ordini ai sottoposti pregandoli di trasmetterli a loro volta ai minori di grado. I loro nomi sono tutti nelle liste della P2 e tornano in molte occasioni. Quello del generale Giovanbattista Palumbo fa usare a Giuliano Turone, sempre misurato, attento ai significati del linguaggio, gli aggettivi «temibile e francamente malvagio». (Partì dalla «Pastrengo», nel 1973, «l’ignobile crimine dello stupro dell’attrice Franca Rame, ideato e commissionato dalla mente perversa del generale Palumbo».) La sua biografia è un sordido archetipo italico. Fascista convinto, ammiratore del nazismo, cavaliere dell’Ordine dell’Aquila tedesca senza spade, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aderisce alla Repubblica di Salò e raccomanda ai suoi uomini di fare altrettanto. Poi, quando il vento cambia, si costruisce un inesistente passato partigiano, diventa persino Governatore militare alleato della provincia di Cremona. Il suo nome, nei quadri di avanzamento, galoppa. Nel 1964, per non smentire troppo il suo vero passato, è al fianco del generale De

 

Lorenzo nell’organizzazione del piano Solo. Il comando della divisione Pastrengo, in via Marcora, a Milano, nei dintorni di piazza della Repubblica, è in quegli anni un luogo sinistro. Tutti gli uomini dello stato maggiore del generale sono iscritti alla P2. Un vero e proprio gruppo di un potere malsano, riferisce il colonnello Nicolò Bozzo, una persona retta, fedele alla Repubblica. Il generale Palumbo è un appassionato cacciatore di adesioni alla Loggia, gli piace assistere alle iniziazioni dei nuovi fratelli all’Hotel Excelsior, a Roma. È in stretto contatto, scrive la Relazione Anselmi, con il generale Musumeci, segretario generale del Sismi, il servizio segreto militare. È anche un acerrimo nemico del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Probabilmente geloso, lo teme e lo danneggia come può. Dalla Chiesa è un ufficiale assai abile, ha partecipato alla Resistenza, poi, nel 1948, capitano in Sicilia, ha arrestato gli assassini di Placido Rizzotto, il segretario della Camera del lavoro di Corleone, che hanno agito su ordine di Luciano Liggio. Di nuovo in Sicilia negli anni Settanta, al comando della legione di Palermo, fa arrestare e inviare al Torna soggiorno obbligato mafiosi del rangodella di Frank Coppola e Gerlando Alberti. al Nord, generale, al comando brigata di Torino. Sono gli anni del terrorismo, Dalla Chiesa è designato dal ministro Taviani a costituire uno speciale reparto di polizia giudiziaria antiterrorismo. Nel 1974, un gran colpo: arresta Renato Curcio e Alberto Franceschini, capi storici delle Brigate rosse. Nonostante i successi ottenuti, forse per questi, viene messo in disparte. Palumbo è diventato vicecomandante dell’Arma dei carabinieri e – il legame è evidente – il reparto antiterrorismo di Dalla Chiesa viene sciolto. I piduisti della divisione Pastrengo hanno vinto la partita. Povera Italia. Dalla Chiesa viene messo «a disposizione», a far nulla. Mentre il sangue del terrorismo scorre nelle strade, viene impiegato come responsabile del coordinamento dei servizi di vigilanza per gli istituti di prevenzione e pena di massima sicurezza.  Italia occulta racconta occulta racconta con minuzia la vicenda del tentativo fatto allora dai capi della P2 di affiliare alla Loggia Carlo Alberto dalla Chiesa, uomo in crisi. È una trappola per rendere ricattabile il generale che dà fastidio ai piduisti. Il piano fallisce. Il libro di Turone, che talvolta nella sua ricerca torna a essere il giudice istruttore del passato, è ricco di notizie, di osservazioni, di giudizi su quegli anni di conflitti scientificamente verificati. Non offre rivelazioni, la novità è nell’analisi complessiva e comparata di un cumulo di fatti atroci, maturati in un mondo occulto e rimasti il più delle privi di giustizia; occulti,delappunto. È interessante analizzare quel chevolte allora accadde con l’occhio presente, in

 

una società come la nostra, distratta, passiva. Gli esempi di allora non mancano. La Sezione speciale anticrimine della divisione Pastrengo è pilotata dagli uomini della P2. Poi, nel 1978, per merito del ministro Virginio Rognoni che crea un nucleo speciale antiterrorismo, ricompare il generale dalla Chiesa. L’Italia pulita, quella volta, vince sull’Italia fedele al «fascino discreto del potere nascosto». Il primo ottobre di quell’anno, l’anno di Moro, il generale irrompe nel covo brigatista milanese di via Monte Nevoso dov’è custodito l’archivio delle Br. In una cartellina azzurra vengono trovati 49 fogli dattiloscritti del Memoriale Moro. (Nel 1990, da un nascondiglio sotto una finestra di quella casa spuntano –  fotocopie – 245 fogli del Memoriale Moro). Un gran garbuglio. Turone fa da guida. Di continuo ci s’imbatte nella P2. Tutti o quasi i consiglieri del ministro Cossiga, ai tempi del sequestro Moro, sono iscritti alla Loggia. E poi, i misteri anche piccoli si accumulano. Come mai una stampatrice del Sismi viene usata da Mario Moretti, l’ambiguo capo delle Br, in una tipografia romana per stampare i volantini dell’organizzazione? Come mai un arsenale di armi della banda della Magliana usate per viene custodito in unocorrotti? scantinato del ministero della Sanità? Soltanto peruccidere la responsabilità di impiegati Ma ci sono casi ben più gravi ricordati nel libro. Andreotti e la mafia. È un luogo comune secondo il quale il sette volte presidente del Consiglio sia stato assolto nel processo di Palermo del 1995. Accusato di associazione mafiosa, è stato invece assolto per i fatti successivi al 1980 e fino allora prescritto, che non significa certo assoluzione, ma il contrario – condanna –, responsabile il passare del tempo. Perché durò così a lungo la sua connivenza con la mafia, pronubi Lima, il luogotenente, e i cugini Salvo, e perché la connivenza finì? Perché probabilmente Andreotti era legato alla famiglia di mafia Bontate-Inzerillo che negli anni Ottanta perdono potere e vengono assassinati dai corleonesi di Liggio, i vincenti delle guerre di mafia. E Andreotti è legato invece ai perdenti. Cose di Cosa nostra. Sono infiniti i casi loschi raccontati dal libro di Turone. L’omicidio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia che stava cercando di pulire le lordure dell’isola e fu ucciso il 6 gennaio 1980 dalla mafia che per il delitto usò giovani della destra eversiva; l’annullamento della sentenza, in Cassazione, dei tre sicari del capitano Emanuele Basile per vizio di forma: «L’annullamento consiste nel fatto che ai difensori dei tre imputati non è stato spedito, a suo tempo, l’avviso della data dell’udienza pubblica destinata all’estrazione a sorte dei giudici popolari». Ahi, serva Italia, patria del diritto.  Italiaancora occulta occulta è  è un passato da torbido non dellibro tuttoimportante. conosciuto.Documenta È arricchito,con tranettezza l’altro, inunappendice,

 

quattro saggi che approfondiscono i sordidi eventi di quegli anni: Antonella Beccaria, Dimenticati Beccaria,  Dimenticati dallo Stato; Stato; Stefania Limiti, Le Limiti, Le interferenze occulte nel caso Moro; Moro; Sergio Materia, La Materia, La giustizia a Perugia. Gli anni Ottanta; Ottanta; Beniamino A. Piccone, Il Piccone, Il caso Italcasse. La P2 sembra ed è un’ossessione. Spunta e rispunta. Un fantasma travestito da diavolo, burattinaio di fatti che sembrano tra loro lontani e invece nascono dalla stessa radice, contigui. Chi sono veramente stati i capi della P2? Chi ha manovrato la giostra? Andreotti e Cossiga, si è detto, i più sospettati, i più coinvolti, vicini e amici di quei traditori della Repubblica. Si pensava che alla loro morte si sarebbero rotti i muri del silenzio. Non è accaduto. Mancano le prove, non bastano gli indizi politici. I famosi scheletri sono rimasti negli armadi con i loro segreti, le piaghe non si sono sanate. Al Senato, durante la XII legislatura, quasi un quarto di secolo fa, Andreotti sedeva al suo posto, sempre lo stesso, vicino al corridoietto, sulla sinistra entrando nell’aula. Cossiga si spostava di qua e diSinistra là secondo umorichiese balzani. Una volta prese posto in un seggio della e coni suoi solennità di parlare. Rivolgendosi chiaramente ad Andreotti, sull’altro lato dell’aula, non togliendogli mai gli occhi di dosso, indicandolo con il gesticolio delle mani: fu un discorso ben strano, sanscrito politico che soltanto i due potevano capire. Si poteva intuire soltanto che Cossiga stava rinfacciando ad Andreotti cose fatte, gravi, dal tono della voce e dai moti del volto. Lo insultava, compostamente irato, come un buon democristiano. Un capitolo teatrale – perché in quell’aula? –  di una resa di conti. Andreotti, immobile, sembrava una maschera di piombo fuso. Per tentare di avere qualche conferma sugli uomini al vertice della Loggia resta soltanto la relazione finale della Commissione inquirente sulla P2 presieduta da Tina Anselmi, donna di grande coraggio e forza morale che ha subito minacce, intimidazioni, insulti di ogni genere, vilipesa, emarginata anche dal suo partito, la Dc. La relazione ricorre a una metafora celebre, quella della «doppia piramide», l’una sull’altra, così da prendere, nell’insieme, la forma di una clessidra. Il venerabile Gelli, il notaio, l’amministratore, il praticone, a capo del quartier generale della Loggia viene collocato in cima alla piramide inferiore, «punto di collegamento tra le forze e i gruppi che nella piramide superiore identificano le finalità ultime». Ma chi troneggia nella piramide superiore? La relazione si arrende e conclude amaramente: «Quali forze si agitino nella struttura a noi

 

ignota non è dato conoscere […] al di là dell’identificazione del rapporto che lega Licio Gelli ai servizi segreti».

 

 A Tina Tina Anselmi, Vincenzo Bianchi,  Pasquale Juliano, Giorgio Manes, Giancarlo Stiz, Servitori della Repubblica

 

ITALIA OCCULTA

 

Partiti politici, stampa e sindacati costituiscono oggetto di sollecitazioni possibili sul piano della manovra di tipo economico finanziario. La disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi sembra sufficiente a permettere a uomini di buona fede e ben selezionati di conquistare le posizioni chiave necessarie al loro controllo. «Piano di rinascita democratica della loggia P2», 1976

Tornando poi a Lei, on. Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del paese a capo del governo, non è mia intenzione rievocare la sua grigia carriera. Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, on. Andreotti, è questo che a Lei manca.  Aldo Moro a Giulio Andreo Andreotti, tti, dal «Memoriale Mor Moro», o», maggio 1978

 

 Nota dell’autore I fatti ricostruiti in questo libro sono descritti negli atti giudiziari e nelle fonti d’archivio richiamati nel testo. Alcuni di essi potrebbero non essere stati definitivamente accertati in sentenze passate in giudicato, sicché con riferimento ai protagonisti, in linea generale, prevale la presunzione di non colpevolezza e, ove neppure ripresi in provvedimenti definitivi, di totale estraneità. Ciò non toglie che, essendo quei fatti riconducibili alle fonti citate, è legittima la facoltà di citarli, quanto meno sul piano della ricostruzione storica, il cui accertamento è sempre soggetto a progressivi e spesso imprevedibili aggiustamenti e revisioni. Allo stesso modo, le valutazioni, argomentate e basate su circostanze ritenute accertate o logicamente verosimili, rimangono valide anch’esse sul piano storico e soggette, a loro volta, a revisione, al mutare dei fatti di riferimento.

 

Premessa

Questo è un libro di stori storia contemporanea basato in netta prevalenza su fonti giudiziarie. Riguarda un periodo piuttosto breve della storia del nostro paese, a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento, ma si tratta di un periodo terribile, ricco di misteri e di delitti efferati. Un tratto di storia così profondamente legato a fenomeni criminali e anti-istituzionali di devastante pericolosità, da mettere a rischio lo stesso È stato osservato, non a torto, che l’Italia è laequilibrio nazione incostituzionale cui l’intrecciodelfraPaese. politica e criminalità, fra istituzioni e illegalità, fra potere ufficiale e potere occulto è stato talmente stretto «che probabilmente non esiste in Europa e nel cosiddetto “primo mondo” un altro paese in cui questo intreccio sia stato altrettanto costante e radicato». 1 Questo pezzo di storia, inoltre, è stato volutamente reso il più possibile oscuro, sibillino, indecifrabile ai cittadini «normali»; costellato da una quantità esorbitante di segreti e di vere e proprie bugie, per opera di ambienti e personaggi che, in modo interessato e cinico, hanno perpetrato quel mastodontico furto di consapevolezza ai danni della popolazione. Questo libro si rivolge a chiunque si senta parte lesa di quel furto. Particolarmente danneggiate da quella sottrazione di coscienza storica sono le nuove generazioni. Chi frequenta i ventenni di oggi sa bene quanto essi siano disorientati di fronte ai misteri della storia recente del loro paese e quanto siano desiderosi di conoscere e di capire il senso di certi eventi sconvolgenti accaduti vent’anni prima che loro nascessero. Questo libro è dedicato in modo particolare a loro ed è stato scritto, quindi, con un particolare sforzo di chiarezza espositiva, senza mai dare per note circostanze che i ventenni di oggi è invece ben possibile che non conoscano. Del resto, solo se le nuove generazioni avranno preso conoscenza di quegli eventi nefastila– conoscenza e ne avrannoe la colto il significatoalle storico – potranno a loro volta trasmetterne comprensione generazioni future. Il che è

 

importante, perché «la Memoria, custodita e tramandata, è un antidoto indispensabile contro i fantasmi del passato». 2 Proprio per venire incontro ai lettori più giovani e meno «attrezzati», senza nulla togliere, però, alla completezza della trattazione, sì è ritenuto di collocare nelle note talune parti che, se collocate nel testo, lo avrebbero appesantito eccessivamente. Inoltre, sempre per lo stesso motivo, sono state introdotte brevi note esplicative immediatamente riconoscibili come pensate proprio per i lettori più giovani e contrassegnate dal simbolo asterisco (*), riguardanti certe nozioni che essi potrebbero non avere ancora acquisito. L’utilizzo delle fonti giudiziarie è molto importante per la ricostruzione del passato di un paese, ma lo è in modo particolare, come si è visto, per l’Italia. Sono fonti preziosissime anzitutto le sentenze, cioè gli atti conclusivi dei processi, ma sono molto utili anche gli atti giudiziari contenenti il materiale probatorio, per esempio l’interrogatorio di un imputato, la dichiarazione di un testimone, oppure una perizia balistica. Le sentenze sono efonti privilegiate perchélaoffrono una sintesi del materiale probatorio perché rappresentano verità ufficiale su meditata determinate vicende. Ma se noi ci limitassimo a considerare le sentenze saremmo costretti a fermarci alle conclusioni che si sono imposte in sede giudiziaria e questo mortificherebbe la ricerca critica dello storico. Il punto è che lo scopo della decisione giudiziaria è diverso da quello dello storico. La decisione del giudice ha la finalità di verificare se una certa accusa diretta a un imputato è fondata al di là di ogni ragionevole dubbio oppure è infondata; di verificare quindi se un certo imputato deve essere dichiarato responsabile del reato o assolto. Inoltre, in ambito giudiziario vi sono delle regole rigorose sull’ammissibilità dei mezzi di prova, sull’utilizzabilità della prova, sulla valutazione delle prove, sulla nullità degli atti, sui limiti delle impugnazioni, e così via, proprio perché, per poter applicare una pena all’imputato, l’accusa deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio e nel rispetto di tutte le garanzie previste dalla legge. Viceversa, lo storico, ripercorrendo una vicenda processuale che presenta un interesse storico, storico, non  non deve applicare sanzioni, non deve stabilire se la decisione del giudice sulla posizione di questo o quell’imputato sia condivisibile o no, tanto meno deve dare giudizi di colpevolezza o non colpevolezza su determinate persone. Lo storico può e deve solamente ricostruire circostanze di fatto, che fatto, che non siano state sufficientemente chiarite in un determinato processo, ma che possano essere chiarite in base altri elementi di fattoal disponibili, o in quello stesso processo, o in un altro ad processo ricollegabile primo.

 

Situazioni di questo tipo si presenteranno più volte nelle pagine seguenti. Per esempio, relativamente al grave attacco giudiziario subito dalla Banca d’Italia nel marzo 1979, chi legge troverà un’inedita ricostruzione storica ottenuta collegando tra loro alcuni dati contenuti nelle agende di Giulio Andreotti, acquisite al processo di Perugia per l’omicidio Pecorelli, e talune risultanze del 3

processo Sindona.

 

I Il triennio 1978-1980. La presenza incombente della loggia massonica P2

1. I tre fattori storici peculiari alla base dell’Italia occulta Alcuni fattori storici piuttosto singolari hanno reso questo nostro paese sensibilmente diverso da tutte le altre democrazie dell’Europa occidentale. Anzitutto le mafie storiche. Secondo alcuni studiosi, tra cui Nicola Tranfaglia, esse hanno una matrice comune che si è sviluppata lentamente a partire da diversi secoli fa, quando il Mezzogiorno era formalmente dominato da potenze straniere le cui capitali erano molto distanti e i cui domini territoriali erano molto estesi: i bizantini, gli arabi, gli spagnoli. Anche questi Stati assoluti del passato avevano una loro legalità ed erano più o meno in grado di far rispettare le leggi. Però con notevoli eccezioni: avendo domini così estesi, riuscivano a esercitare l’autorità e a far rispettare le leggi solo nei territori più facilmente raggiungibili, e non nelle aree geografiche lontane dalla Capitale. 1 La Sicilia e latipo Calabria, in particolare, sono trovateche, per per lunghi periodi tempo in questo di situazione. Con la siconseguenza molti secoli,dinon c’è stata nelle due regioni nessuna autorità statale che fosse capace di tenere sotto controllo il territorio. 2 In questo lunghissimo vuoto di potere legale, sono nati gruppi spontanei dotati di un potere di fatto, che hanno preso il posto dell’autorità statale assente, imponendo la propria legge personale basata su intimidazione, violenza e sopraffazione. Da questo seme è germogliato e si è sviluppato gradualmente il potere illegale delle mafie storiche. La situazione è stata poi ereditata dai Borboni del Regno delle Due Sicilie, che non hanno saputo farvi fronte e che anzi hanno aggravato la situazione, tra l’altro delegando funzioni di ordine pubblico alla camorra, che in origine era semplicemente un fenomeno di delinquenza urbana dei bassifondi di Napoli. In

 

questo modo la camorra si è consolidata e sviluppata, ottenendo a poco a poco la promozione a terza mafia del nostro paese. Il radicamento di mafie storiche dure a morire e la commistione di fatto, durata troppo a lungo, tra potere formale e potere criminale hanno avuto per il nostro paese conseguenze devastanti, senza pari in nessun altro luogo dell’Europa occidentale. Questa è la prima differenza sostanziale tra l’Italia e gli altri paesi europei. La seconda grande peculiarità del nostro paese è il fatto di avere avuto mille anni di papa re. Lo Stato della Chiesa ha avuto certamente il pregio di contribuire a far sì che Roma diventasse una delle più belle città del mondo, se non la più bella, ma ha contribuito anche a ritardare di molto il momento in cui i sudditi acquisiscono la consapevolezza che consente loro di diventare cittadini, attenti agli interessi della collettività e dotati di un proprio senso delle istituzioni. È forse una conseguenza di questa peculiarità storica il fatto che in Italia l’educazione civica nelle scuole sia sempre stata una Cenerentola. Inoltre – va detto con franchezza – il millennio pontificio ha prodotto altri lasciti ingombranti che hanno influito in modo determinante, attraverso la presenza dello Stato-Città del Vaticano nel cuore di Roma, sul percorso storicopolitico del nostro paese dal 1870 sino a oggi. Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, ma basterà qui menzionare il ruolo deleterio (su cui questo libro avrà modo di soffermarsi) che ha assunto nella storia italiana del secondo Novecento lo Ior (Istituto per le opere di religione), la banca vaticana di cui l’arcivescovo Paul Marcinkus è stato presidente dal 1971 al 1989. 3* È stato accertato infatti che lo Ior ha intrattenuto rapporti intensi con il sistema di potere occulto della loggia massonica Propaganda 2 (P2) di Licio Gelli e del suo cervello finanziario Umberto Ortolani; con la finanza d’avventura di Michele Sindona e Roberto Calvi, affiliati alla loggia P2; nonché – attraverso i massicci riciclaggi di denaro mafioso gestiti da questi ultimi – con la Cosa Nostra siciliana e siculoamericana. Anche su tutto ciò questo libro avrà modo di soffermarsi. Terza importante peculiarità italiana è quella di avere avuto, proprio sul confine determinato determi nato a Yalta, Yalta, 4* il più grande Partito comunista del mondo occidentale. Anche questa è stata una peculiarità carica di conseguenze. Dopo Yalta – e quindi dopo la caduta del fascismo – la presenza in Italia di un Partito comunista così forte (e che nei primi lustri guardava in effetti con simpatia al blocco sovietico) ha suscitato gravissime preoccupazioni negli ambienti della Nato. 5* In quel contesto, paradossalmente, le mafie storiche e altri fenomeni di antistato, nemici della nuova Costituzione, si son visti attribuire – e si sono attribuiti un ruolo di gli prezioso baluardo anticomunista. Hanno– cominciato americani, benemeriti per averci aiutato a liberarci

 

dalla dittatura, che però, dopo lo sbarco in Sicilia, hanno contribuito a consegnare vari comuni siciliani e calabresi nelle mani di sindaci che erano i boss mafiosi locali, per evitare il più possibile il rischio di aprire la strada a sindaci comunisti. 6 È stato un fatto che ha conferito alle mafie storiche una tremenda forza di inserimento nei gangli del nuovo Stato, che già nasceva in un paese messo a dura prova dal ventennio fascista e dalle pesanti conseguenze belliche. Successivamente, come si vedrà, sono nati altri meccanismi destinati a prolungare il più possibile l’isolamento e la lontananza dal potere del temuto Partito comunista italiano (Pci). Meccanismi che hanno variamente continuato a esistere e operare, per mantenere in vita il cosiddetto fattore K (dal russo  Kommunizm),  Kommunizm ), 7 anche quando ormai, a partire dai tempi della Primavera di Praga, 8* il Pci aveva preso le distanze dal blocco sovietico. 9 Inoltre si sono prodotte spinte che, a prescindere dal pericolo sovietico, provenivano da ambienti interessati a mantenere invariati gli equilibri politici e a non perdere i vantaggi che traevano dal permanere di una strategia della tensione: mafie storiche, ambienti vari di malaffare e di eversione che non disdegnavano mezzi estremi come lo stragismo, ma anche ambienti politici che, per mantenersi al potere, erano interessati a continuare a sventolare la bandiera del pericolo comunista. Ecco allora Gladio, la Rosa dei venti, l’Anello, la P2. E poi il golpismo, la strage di piazza Fontana, la strage di Brescia e ancora la P2 con il famigerato «Piano di rinascita democratica» di cui si dirà tra breve (e siamo a metà degli anni Settanta). Poi il trauma del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, altre stragi – la stazione di Bologna – e i depistaggi organizzati da Gelli e Pazienza, il faccendiere per antonomasia, e dai servizi segreti piduisti. Di tutto ciò questo libro si occuperà. Come si vede, questo excursus ci porta di nuovo al tema della loggia segreta P2, che raggiunge il massimo del suo potere proprio nel triennio maledetto 19781980, periodo che abbiamo definito dell’«Italia occulta». La centralità, o comunque il manifestarsi del fenomeno P2 in tutte le vicende che ci apprestiamo a raccontare fa sì che questa esposizione debba prendere le mosse proprio da tale argomento.

2. Il percorso verso la scoperta della loggia P2 Il sistema di potere P2 contemporaneamente è stato scoperto attraverso la i recapiti perquisizione del 17occulto marzo della 1981,loggia eseguita in tutti

 

conosciuti di Licio Gelli e disposta nell’ambito del procedimento penale milanese contro il bancarottiere Michele Sindona, relativo all’omicidio di Giorgio Ambrosoli (11 luglio 1979). I due giudici istruttori titolari di questo procedimento penale erano l’autore di questo libro e il suo collega Gherardo Colombo. Il decreto di perquisizione è stato emesso 12 reso marzo, con delega alla guardia di finanza di Milano per l’esecuzione. Esso siilera necessario in quanto erano emersi rapporti rilevanti tra Sindona e Gelli nel periodo che Sindona aveva trascorso clandestinamente a Palermo (agosto-ottobre 1979), fingendo di essere stato rapito da un preteso e improbabile Comitato proletario di eversione per una giustizia migliore. Inoltre Gelli era uno dei personaggi che si erano maggiormente spesi a favore dei «piani di salvataggio» truffaldini che, se accolti, avrebbero ripianato la voragine finanziaria della banca di Sindona, accollandone il peso alla collettività. Egli era anche uno dei firmatari degli affidavit  (dichiarazioni  (dichiarazioni giurate) trasmessi all’autorità giudiziaria degli Stati Uniti a fine 1976 per cercare di evitare a Sindona l’estradizione verso l’Italia. Nel suo affidavit, affidavit, Gelli  Gelli aveva dichiarato, fra l’altro, che Sindona era un perseguitato politico anticomunista e che un suo rientro in Italia avrebbe avuto come conseguenza un processo non imparziale contro di lui e un grave pericolo per la sua stessa vita. Infine, dopo che l’avventura del finto rapimento era fallita e aveva portato al definitivo arresto di Sindona a New York, le autorità americane avevano trasmesso a quelle italiane, nel novembre del 1979, un’agendina sequestrata a Sindona poco tempo prima, dove il finanziere aveva annotato tutti i recapiti di Licio Gelli. Nel momento in cui è stata presa la decisione di aprire un’indagine giudiziaria sul personaggio di Licio Gelli – decisione maturata non a caso nel Palazzo di giustizia di Milano, dove le vicende sindoniane ne fornivano lo spunto – si era già percepito abbondantemente che questi doveva essere il gestore superprotetto di un centro occulto di potere, mascherato all’interno della misteriosa loggia massonica. Quella impressione si era fatta particolarmente netta quando sul «Corriere della Sera» era comparsa, il 5 ottobre del 1980, un’inquietante e lunga intervista rilasciata da Licio Gelli al giornalista Maurizio Costanzo (al momento non lo si sapeva, ma Maurizio Costanzo sarebbe poi risultato iscritto alla loggia P2, così come Franco Di Bella, direttore del quotidiano). Già il titolo dell’intervista era estremamente significativo: Il significativo: Il fascino discreto del potere nascosto – Parla, per la prima volta, il «signor P2»; P2»; per non parlare poi del lungo occhiello, cui riportiamo le massonica, prime righe:ha«Licio Gelli, capo indiscusso della più di segreta e potente solo loggia accettato

 

di sottoporsi a un’intervista esponendo anche il suo punto di vista –  L’organizzazione: “un Centro che accoglie e riunisce solo elementi dotati di intelligenza, cultura, saggezza e generosità per rendere migliore l’umanità”». Pertanto, poiché correva voce che il «maestro venerabile» Licio Gelli avesse un gran numero di fratelli di loggia fidatissimi, dislocati un po’ dappertutto nelle pubbliche istituzioni, di finanza incaricatisono delle perquisizioni delgli 17uomini marzo della (tutte guardia da compiersi fuorididalMilano loro territorio) stati formalmente vincolati dai magistrati inquirenti a una particolarissima misura di cautela: astenersi dal seguire la prassi consueta che, per ragioni di cortesia istituzionale, avrebbe richiesto di preavvertire i comandi locali delle operazioni che si andavano a eseguire. Tra gli indirizzi di Licio Gelli contenuti nell’agendina di Sindona trasmessa dalle autorità americane ce n’era uno che – almeno per gli inquirenti milanesi – era del tutto nuovo e inaspettato: quello di una ditta di abbigliamento maschile, la ditta Giole, del gruppo Lebole, di Castiglion Fibocchi, provincia di Arezzo. 10 Aveva tutta l’aria di Infatti esseresarebbe un recapito particolarmente interessante. statoparticolarmente proprio a questo«coperto» indirizzo,e un ufficio riservatissimo del «venerabile», che la perquisizione del 17 marzo 1981 avrebbe avuto effetti decisamente dirompenti. Tutte le altre perquisizioni – quella a Villa Wanda, abitazione aretina di Gelli, e quelle da eseguire a due indirizzi rispettivamente di Roma e di Frosinone – avrebbero avuto invece esito negativo. Come capo della pattuglia destinata a perquisire l’ufficio di Castiglion Fibocchi venne designato Francesco Carluccio, un energico quarantatreenne salentino, tra gli investigatori più abili della guardia di finanza di Milano. Non era un ufficiale, bensì un maresciallo maggiore, ma per la sua grande abilità professionale e la sua assoluta affidabilità godeva della piena fiducia dei due ufficiali superiori che coordinavano le operazioni di quel giorno: il colonnello Vincenzo Bianchi e il maggiore Vincenzo Lombardo. Francesco Carluccio ha redatto una sorta di memoriale sulla perquisizione –  effettivamente memorabile – di Castiglion Fibocchi. 11

 3. Il memoriale del maresciallo maresciallo France Francesco sco Carluccio Carluccio sulla erquisizione er quisizione dell’ufficio di Gelli a Castiglion Fibocchi «L’operazione di polizia giudiziaria doveva essere eseguita presso varie sedi da pattuglie al comando di un ufficiale e coordinate dal comandante del Nucleo

 

regionale di polizia tributaria di Milano, colonnello Vincenzo Bianchi, coadiuvato dal maggiore Vincenzo Lombardo, comandante della Prima sezione speciale di cui io facevo parte. «I due ufficiali si sarebbero trasferiti presso il Gruppo della guardia di finanza di Arezzo e a loro le pattuglie si sarebbero dovute rivolgere per qualsiasi esigenza nel che corso delviservizio. «Sembra non fossero ufficiali a sufficienza, per cui il maggiore Lombardo propose il mio nome garantendo la mia provata competenza per i passati impieghi in analoghe operazioni. «Il 14 marzo del 1981 (sabato) fui convocato nell’ufficio del comandante del nucleo, presente anche il maggiore Lombardo. Nell’atrio vi erano alcuni ufficiali. Fummo ricevuti uno alla volta. Il colonnello Bianchi mi informò che il lunedì successivo mi sarei dovuto recare ad Arezzo per eseguire un’operazione di polizia giudiziaria, senza specificare né il luogo né i soggetti nei confronti dei quali si dovesse agire: le disposizioni erano contenute in una busta chiusa che mi fu consegnata (non ricordo bene se in quella circostanza o il lunedì mattina prima di partire per Arezzo) con l’ordine di aprirla nella prima mattinata del 17 marzo. «“Non fate telefonate, salvo che per stretti motivi di servizio” mi fu raccomandato. «Da un elenco esibitomi dal maggiore Lombardo scelsi i due sottufficiali collaboratori, nelle persone del maresciallo ordinario Concezio De Santis e del brigadiere Salvatore Polo, con i quali avevo già lavorato e di cui mi fidavo ciecamente. Mi misero a disposizione una Fiat Ritmo guidata dal finanziere Luigi Voto. «Io avevo il grado di maresciallo maggiore. «Partimmo per Arezzo nel primo pomeriggio del 16 marzo e alloggiammo all’hotel Intercontinental. «Ritornando alle cautele di riservatezza con cui i miei superiori istruivano i capipattuglia, appena mi dissero che sarei dovuto andare ad Arezzo capii che l’operazione era da farsi nei confronti di Licio Gelli, questo perché io ero impiegato, fin dal 1974, nelle indagini per l’insolvenza della Banca privata italiana da cui erano scaturite tutte le vicende giudiziarie che riguardavano Michele Sindona. È chiaro che nel corso delle indagini sulla banca, nei contatti tenuti dai componenti della pattuglia con i magistrati – sia i titolari dell’inchiesta sull’insolvenza che i titolari del procedimento sul delitto Ambrosoli – si accennava più volte a Licio Gelli e ad altri soggetti probabili amici di Sindona, anche per allertare i militari nell’esamedel della documentazione «Nessun altro dei colleghioperanti aveva cognizione perché andassimo adbancaria. Arezzo

 

e, soprattutto, di chi fosse Licio Gelli. «Mi preoccupai di informarli in tarda serata in albergo (probabilmente l’indomani non avrei avuto tempo per istruirli a dovere), precisando loro di fare molta attenzione – perché Licio Gelli, gran maestro della massoneria, era un uomo potente – e di essere scrupolosissimi, sia che l’operazione di polizia giudiziaria fosse stata negativa o positiva. L’obiettivo stato quello di trovare prove di contatti tra Sindona e Gelli, specie persarebbe il periodo 1978-1980, quando Sindona risultava essere “sparito”. «La sera del 17 marzo 1981, nella mia agenda appuntavo: «Non ho dormito molto bene. Alle 6.30 mi sono svegliato. Siamo arrivati a Castiglion Fibocchi alle ore 8.30 circa, abbiamo individuato anche la sede della Socam [altra ditta da perquisire all’interno dello stesso stabilimento]. Alle 9.00 io e De Santis ci siamo presentati alla Giole, Polo e Voto Voto alla Socam. Gelli non c’era. La perquisizione l’abbiamo fatta alla presenza della segretaria, Carla Venturi. Venturi. Ho avuto subito la sensazione che la documentazione fosse importante, specialmente quella chiusa in buste sigillate.

«Questo proprio perché quest’ultima documentazione sembrava cosi accuratamente tutelata. Ovviamente le buste non furono aperte ma le annotazioni sulle stesse erano per me di assoluto interesse. «Il servizio si sviluppò nel seguente modo. «Ero convinto che Licio Gelli fosse l’amministratore unico della Giole per cui, una volta entrati nell’androne dello stabilimento relativo agli uffici, chiesi subito al portiere di accompagnarmi nell’ufficio dell’amministratore, Licio Gelli. Egli mi rispose che il soggetto non rivestiva nessuna carica nella società, non aggiungendo altro. «Ci fu un attimo di smarrimento (eppure se il decreto indicava i locali della Giole doveva essere implicito che Gelli dovesse avere almeno un recapito). Chiesi lo stesso di essere accompagnato nell’ufficio di Gelli. Il portiere mi indicò una donna che scendeva dalla scalinata del piano superiore dicendomi che era la segretaria del commendatore. La chiamò per presentarcela. «La signora disse di chiamarsi Carla Venturi, che era la segretaria di Licio Gelli e precisò che l’amministratore delegato della Giole era il signor Attilio Lebole. 12 Lei era, comunque, a libro paga della società. «Riservatamente le feci presente che avevo un mandato di perquisizione nei confronti di Licio Gelli e la invitai ad accompagnarmi nell’ufficio da lui occupato e nel suo e di indicarmi l’esistenza di altri eventuali locali o recapiti a loro disposizione presso lo stabilimento o in altri luoghi. «Salimmo la scalinata la Venturi unne locale normale ampiezza dicendo che era el’unico a usocidiintrodusse Gelli, noninve eranodialtri né presso

 

la Giole né altrove da lei conosciuti. Specificava che la sua attività di collaboratrice veniva esercitata in detto ufficio. «Appena iniziata la perquisizione, dopo la notifica del relativo decreto alla Venturi, giungeva nel locale l’amministratore della Giole, signor Lebole Attilio. La signora si consultava con il medesimo sull’opportunità di farsi assistere da un legale persona di fiducia. Decisero di con non una farecerta intervenire «A oquesto punto, la signora Venturi autoritànessuno. invitava il signor Lebole ad allontanarsi perché la perquisizione in quell’ufficio non riguardava la Giole ma Gelli. Egli, con un certo imbarazzo, lasciava il locale. Rimasi perplesso. “Che strano” pensai, “non vuole il difensore di fiducia e rifiuta anche di essere assistita dal suo amministratore, che allontana con un tono tale da non ammettere repliche… ci sarà un perché…” «Preliminarmente la Venturi era stata invitata a indicare se il locale fosse munito di cassaforte. Rispondendo positivamente e indicandola precisava di non essere in possesso della chiave. «Premetto che al momento in cui eravamo entrati nell’ufficio, la Venturi aveva appoggiato la sua borsa su una sedia. Mi riservavo di perquisirla durante l’operazione di polizia giudiziaria. Dissi, però, al maresciallo De Santis di tenerla d’occhio e se la signora si fosse allontanata prendendo la borsa stessa, di seguirla e, nel caso si fosse recata in posti dove non potesse essere sorvegliata (esempio alla toilette), di bloccarla immediatamente e verificare il contenuto della borsa. «Nel corso del servizio era stata aperta una grossa valigia posta vicino alla scrivania di Gelli. «Conteneva varia documentazione e varie buste sigillate con scotch e firmate agli estremi della chiusura. Erano intestate in relazione al loro contenuto (per esempio: “Patto tra … e …”, “Accordo …”, “Gruppo …”). «Una vampata di emozione mi assalì quando su alcune buste lessi riferimenti al Gruppo Rizzoli, a Tassan Din (direttore della Rizzoli), a Rizzoli/Calvi, a Rizzoli/Caracciolo/Scalfari, insomma il gotha dell’informazione in Italia. «Mi sorpresi a sussurrare fra me e me: “Ah!… Cantore… Cantore… aveva ragione…”. «Perché Cantore? E chi era? «Romano Cantore era un notissimo giornalista, fra l’altro frequentava il tribunale ed era molto attivo nelle informazioni su scandali finanziari, per cui era ben aggiornato sul caso Sindona. In questo contesto aveva conosciuto tutti i militari della guardia di finanza13addetti alle indagini sull’insolvenza della Banca privata italiana, me compreso.

 

«Di tanto in tanto egli passava dalla banca (non sovente) dove noi avevamo gli uffici per salutarci, per cercare di scambiare opinioni e notizie oppure per prendere un semplice caffè. «Qualche tempo prima della perquisizione a Gelli, era appunto venuto in banca. Sembrava agitatissimo e, per quanto mi ricordi, subito esordiva più o meno “Tassan Din… la massoneria… Calvi… la Centrale… Stannocosì: dando l’assalto al ‘Corriere’… C’è inGelli… atto una manovra per concentrare tutta la stampa e l’informazione in un unico soggetto… è gravissimo che nessuno possa fare niente! È passato di mano già ‘Il Piccolo’ di Trieste… (fece il nome di altre testate che non ricordo) e stanno arrivando anche capitali stranieri…” e via così, su questo tono e su questo argomento. «Più parlava e più si infervorava. A me quelle notizie non dicevano assolutamente nulla, anzi mi sembrava normale che si facessero delle transazioni commerciali anche in quel settore. Timidamente lo dissi a Cantore e lui, lapidario, mi rispose con rabbia: “Non capisci niente… non arrivi a pensare che chi controlla i giornali e l’informazione è in grado di controllare il paese e di farne quello che vuole?”. «Immediatamente recepii il messaggio e rimasi piuttosto scosso. Nel tempo le parole di Cantore mi sono rimaste in testa… una specie di assillo. «Presi all’istante la decisione di sequestrare tutto. Solo i successivi sviluppi del servizio mi avrebbero liberato da una responsabilità così pesante. «Istruii il maresciallo De Santis sull’impostazione del verbale e gli dissi di iniziare a elencare la documentazione sino ad allora rinvenuta nella valigia e nella scrivania di Gelli, ritenuta interessante ancorché – in apparenza – non proprio attinente al decreto. «Intanto i due militari che si erano recati presso la Socam erano rientrati. «A questo punto, la signora Venturi chiedeva di potersi recare nell’atrio per incontrare una persona per motivi di lavoro. Prese la borsa e uscì. Opportunamente sospendemmo la perquisizione e uscimmo dall’ufficio insieme a lei per poi continuare al suo ritorno. «La segretaria aveva già chiesto prima una o due volte di uscire per telefonare o andare in bagno senza prendere la borsa. Invitata da me a usare il telefono dell’ufficio rispondeva che era quello del commendatore, doveva essere tenuto sempre libero e preferiva non usarlo. «Sta di fatto che questa volta la borsa era in suo possesso e De Santis si attivò. La seguì nell’atrio dove la vide parlare con un signore al quale cercò di passar dalla borsa. Il che maresciallo, della cui presenza lei non si era accorta,qualcosa la bloccòpreso subito e l’oggetto stava consegnando passò direttamente

 

nelle sue mani. Erano le chiavi della cassaforte. Eccitato, il militare invitò i due nell’ufficio di Gelli, che riaprimmo appena arrivarono. «Il signore fu identificato (risultò essere il direttore di una vicina banca), fu da me redarguito e lasciato andare in quanto si era giustificato dicendo di non essere a conoscenza del perché la signora Venturi avesse voluto incontrarlo e di non«Telefonai sapere chealcosa gli volesse consegnare. maggiore Lombardo per aggiornarlo sul ritrovamento della chiave della cassaforte accennandogli che probabilmente c’era da sequestrare della documentazione. Mi rassicurò dicendomi più o meno: “Vedi tu, sai quello che devi fare e stai tranquillo”. «Aprimmo la cassaforte. «Altre buste sigillate, alcune ancora con riferimenti al Gruppo Rizzoli. «Conteneva, fra l’altro, una specie di registro su cui erano annotati i nominativi degli iscritti alla loggia P2 e un certo numero di cartelle settoriali intestate (finanza, carabinieri, polizia, banchieri eccetera) con i relativi nomi e cognomi. «È chiaro che la mia attenzione fu subito rivolta alla cartella “Finanza” che conteneva molti nominativi di alti ufficiali. Constatai con sollievo che né il colonnello Bianchi né il maggiore Lombardo ne facevano parte. C’erano invece, tra gli altri, i nomi del comandante generale della guardia di finanza, generale di corpo d’armata Orazio Giannini, e quello del capo di stato maggiore, che mi sembra fosse il generale Donato Lo Prete. «Rimasi impressionato. Anche nelle altre cartelle erano evidenziati i vertici delle rispettive amministrazioni o settori di appartenenza e incominciai a preoccuparmi. Non avevo mai immaginato un tale concentramento di poteri. Comunque dissi al maresciallo De Santis di continuare l’elencazione della documentazione compresa quella della cassaforte. «Successe un fatto strano. Avevo detto al finanziere V Voto oto di aiutare i colleghi nell’ordinare la documentazione in questione: la signora Venturi si oppose energicamente dicendo che lui era solo un finanziere e non poteva accedere alle notizie contenute nelle carte perché non qualificato. «Rimasi meravigliato, mi chiesi che cosa mai avevamo nelle mani, non ero in condizioni, per formazione professionale e culturale, di valutare il tutto. Certo, immaginavo che la massoneria fosse potente, leggendo i nominativi non c’era certo da stare allegri e noi militari operanti eravamo solo dei semplici sottufficiali. «Incominciai a preoccuparmi seriamente, ma sempre determinato a sequestrare «Ribadii tutto. alla signora Venturi che il finanziere poteva benissimo attivarsi

 

perché agiva sotto la mia responsabilità, e io ero un ufficiale di polizia giudiziaria nonché il responsabile della conduzione della perquisizione. «Le dissi anche che la documentazione sarebbe stata sequestrata e che, quindi, la protesta era del tutto inutile. «Rimase scossa e replicò più o meno così: “Non potete portare fuori da qui questa documentazione, sono preoccupata per attento come ilacommendatore prenderà. Le dico che è un uomo potente, stia quello che fa”.laErano parole senza astio, più di consiglio che di avvertimento o di minaccia. «Le risposi semplicemente che io ero ben tutelato per la fiducia che avevo nei miei superiori diretti e, soprattutto, nei magistrati titolari del procedimento, “altrimenti, Dio ci aiuti”. «Visto che la signora era piuttosto smarrita, le consigliai di alleggerire la sua responsabilità facendo intervenire un legale, certamente più qualificato a interloquire nel servizio in corso. «Lei accettò il suggerimento e telefonò dal locale stesso. L’avvocato intervenne circa due ore dopo. «Anch’io sentii il bisogno di alleggerire la mia responsabilità e telefonai al comando. Mi rispose ancora il maggiore Lombardo, al quale dissi di aver aperto la cassaforte e che ritenevo opportuno che egli stesso o il colonnello venissero sul luogo. Mi ribadì che erano molto occupati, di stare tranquillo e di procedere secondo le mie valutazioni. Chiesi allora di passarmi il colonnello Bianchi, al quale dissi semplicemente: “Non posso dirle di più… per favore… deve venire lei stesso”. Nessuna esitazione: “Agisci secondo coscienza, fra dieci minuti arrivo” rispose. «Potevano essere le ore quattordici e mi sentii veramente sollevato. «Il comandante arrivò poco dopo, accompagnato dal maggiore. Gli andai incontro e gli dissi che tra la documentazione emergevano nomi di personaggi importanti tra cui anche quello del nostro comandante generale. «Entrati nell’ufficio gli sottoposi il registro con i vari iscritti alla loggia e, ovviamente, le cartelle settoriali e tutta l’altra documentazione. «Stavamo in piedi, il registro aperto sulla scrivania. Il colonnello scorreva i nomi e a un certo punto cominciò a dire: “Carluccio… tutti ci sono… tutti ci sono… tutti ci sono…”. Non capivo e gli chiesi se fosse cosa importante. “Importantissima” rispose. Insistei: “Ma chi sono questi tutti?”. “I servizi segreti” replicò. «In quel momento venne il suo autista per avvisarlo che lo cercavano al telefono (la sua auto ne era munita). Si assentò per pochi minuti. Seppi in seguito che«Il a chiamarlo stato ilche comandante generale della guardia di finanza. colonnelloera Bianchi, aveva assunto la direzione del servizio, prese

 

contatti con i magistrati i quali disposero di sequestrare la documentazione senza procedere ad alcun esame di merito. «Mentre noi sottufficiali procedevamo al completamento della compilazione degli atti e a repertare la documentazione, il colonnello, sempre nello stesso locale, discuteva con l’intervenuto avvocato Giacomo Boniver, il quale contestava procedura sequestro documentale ed espresse anche la decisione dilanon firmaredel il verbale. «Fui io a suggerire al legale di annotare in calce all’atto, e di suo pugno, il proprio dissenso e firmare per la conferma di tale divergenza. «Così fece. «L’operazione di polizia giudiziaria era da considerarsi conclusa. «Il colonnello Bianchi mi chiamò da parte e mi diede i seguenti ordini: «– telefonare a suo nome all’ufficiale di servizio presso il nucleo regionale di polizia tributaria di Milano e dirgli di inviare due Alfette con quattro militari armati in ciascuna; «– la pattuglia che aveva eseguito la perquisizione, a bordo della Fiat Ritmo con la documentazione sequestrata, doveva fare ritorno a Milano viaggiando in mezzo alle due Alfette; «– una volta giunti presso la caserma del nucleo a Milano, trasmettere il suo ordine all’ufficiale di servizio affinché la documentazione venisse custodita nella cella di sicurezza (o in un armadio blindato), sorvegliata a vista da un militare armato di mitra. «Rimasi meravigliato e impressionato. Il comandante se ne accorse e replicò: “Fidati… è necessario”. «Tutto fu eseguito a puntino.»

4. La deposizione del generale Vincenzo Bianchi sulla perquisizione dell’ufficio di Gelli a Castiglion Fibocchi Circa un anno dopo, il 9 marzo 1982, il colonnello Vincenzo Bianchi – ormai promosso generale di brigata – viene sentito come testimone dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, nel frattempo costituita per legge. 14 Il suo racconto sulla giornata del 17 marzo 1981 completa quello reso dal maresciallo Carluccio ed è altrettanto avvincente. 15 «Sono giunto ad Arezzo nelle prime ore del giorno 17 e mi sono recato al locale comando del corpo della guardia di finanza. Insieme a me c’era il tenente

 

colonnello Lombardo. 16 Alle nove sono iniziate le operazioni di polizia giudiziaria sulla base del decreto emesso dal giudice istruttore Turone e sulla base della preparazione che era stata fatta per questa incombenza. Solo a operazioni iniziate ho detto ai colleghi di Arezzo qual era lo scopo della nostra missione. Intorno alle dieci ho dato notizia di queste operazioni, in estrema sintesi, ai mieicolonnello superiori ediretti e al[…]. comando generale, parlando consono il generale Farnè, allora collega Sino alle ore tredici non vi state novità di rilievo […]. «Verso le ore quattordici sono stato raggiunto da una comunicazione, portatami a mano da un sottufficiale: avevano telefonato dal comando generale dicendo che il comandante generale mi cercava. «Subito dopo questa comunicazione mi sono recato a Castiglion Fibocchi, in quanto il maresciallo maggiore Carluccio, che dirigeva quell’operazione di polizia giudiziaria (era un sottufficiale, ma da anni trattava il caso Sindona e ne conosceva la vicenda processuale), ci aveva avvertito che c’era la necessità della nostra presenza. Infatti c’erano stati dei problemi con la signora Carla Venturi, la segretaria di Gelli, che aveva tentato di uscire dalla stanza con la borsa dove c’erano le chiavi della cassaforte, era stata bloccata, le chiavi della cassaforte erano state trovate, ma c’erano delle difficoltà da superare. «Ho deciso, unitamente al collega Lombardo, di andare anzitutto lì. E lì mi sono reso conto della situazione in brevissimo tempo, in quanto era stata aperta la valigia che era vicina alla scrivania ed era stata aperta la cassaforte. Nella valigia c’erano trentatré plichi sigillati – che sono rimasti sigillati – e nella cassaforte c’erano le carte della loggia massonica P2. «Intorno alle 15.30 ho telefonato dalla mia automobile, dove c’era il radiotelefono, anzitutto al collega Farnè […]. Mi ha detto: “Ti vuole il comandante generale. Lo puoi chiamare verso le quattro, perché sarà al comando generale”. «Subito dopo, dalla stessa macchina, ho telefonato al giudice istruttore Turone, per essere confortato in una decisione abbastanza delicata. Ero già sicuro dentro di me della decisione che doveva essere presa, data la pertinenza dei documenti rispetto al decreto di perquisizione e sequestro. 17 C’era, secondo me, la possibilità di sequestrare in blocco tutta la documentazione reperita, in base al decreto che era stato emesso. Gli ho descritto sommariamente per telefono il contenuto – come emergeva dalle intestazioni – delle buste sigillate, e quel che c’era nel carteggio della P2. E ho ricevuto l’ordine di sequestrare tutto –  da me condiviso pienamente – atteso che c’era anche documentazione riflettente in pieno il caso […]. «Subito dopoSindona questa telefonata, sempre dalla macchina, ho chiamato il

 

comandante generale della guardia di finanza. Sarà stato, io penso, poco prima delle sedici. L’ho informato che stavo chiamando dalla macchina e lui mi ha detto: “Non mi puoi chiamare da un altro telefono?”. Io ho detto: “Guardi, sono alla periferia di un piccolissimo paese e non posso chiamare da un telefono”. […] Ha risposto: “Va bene, appena puoi mi richiami da un altro telefono” […]. proseguite le operazioni perquisizione di 18 Alledi cui «Dalle è stato sedici redattoalle un diciotto verbale sono abbastanza dettagliato. diciotto le operazioni sono terminate. «Dopo mi sono portato alla caserma di Arezzo del corpo della guardia di finanza e ho chiamato nuovamente il comandante generale […], il quale mi ha detto: “So che stai lì e hai trovato degli elenchi. 19 Ti comunico che ci sono anch’io negli elenchi. […] Statti accorto, che ci sono i massimi vertici”. (Io ho capito “dello Stato”, non ho inteso che si riferisse al corpo […].) Dopo di che aggiunse queste testuali parole: “Stai attento, che il corpo si inabissa”. Risposi: “Eccellenza, stia pur certo che il corpo non si inabissa”. Aggiunse: “Mi raccomando la riservatezza”. Risposi: “Stia tranquillo: per quanto riguarda me e gli ufficiali che partecipano a questa operazione, la riservatezza sarà assicurata al massimo”.»

5. La messa in sicur sicurezza ezza della documentazione sequestrata e il roblema roble ma dell’informativa al Governo della Repubblica La mattina del 18 marzo 1981, nel Palazzo di giustizia di Milano, appena si aprono i plichi, le buste sigillate, le cartellette sequestrate, ci si rende conto subito di quanto quei documenti siano infuocati. Le carte svelano l’esistenza di un’associazione segretadella in cuiDifesa, sono coinvolti ministri dellailRepubblica, capo di stato maggiore i capi deitre servizi segreti, segretario il generale del ministero degli Esteri, ventiquattro generali e ammiragli delle tre armi, nove generali dei carabinieri, cinque della guardia di finanza compreso il comandante generale, un centinaio di ufficiali superiori, due generali della polizia di Stato, cinque prefetti, vari diplomatici, sessantatré alti funzionari dei ministeri e poi il segretario nazionale del Psdi (Partito socialdemocratico), il capogruppo socialista alla Camera dei deputati, parlamentari, segretari particolari di leader governativi, imprenditori, editori, giornalisti, il direttore del «Corriere della Sera», il direttore del Tg1, professori universitari, dirigenti di società pubbliche, banchieri e diciotto magistrati. I documenti conservati nelle trentatré buste sigillate sono altrettanto

 

stupefacenti: riguardano un gran numero di attività e operazioni di enorme rilievo nazionale, svolte o controllate da quel sistema insidioso di potere occulto, che trova nella loggia segreta il suo apparato motore e che d’ora in avanti chiameremo Sistema P2. Inoltre, questi documenti sbalorditivi rendono di tutta evidenza che il Sistema P2 è straordinariamente capace di condizionare pesantemente meccanismi istituzionali del paese, tanto la sua attività sotterranea ha iportato al dominio della loggia segreta sul che «Corriere della Sera», sul gruppo Rizzoli, sul Banco Ambrosiano e ha consentito numerose altre azioni di estrema rilevanza, gestite o controllate attraverso percorsi opachi, antiistituzionali e non conformi al pubblico interesse. Lo si intuisce chiaramente anche solo leggendo le intestazioni di quelle buste sigillate: «Calvi Roberto –  vertenza con Banca d’Italia»; «Gelli Licio – telex segreto dell’ambasciata argentina alla Cancelleria»; «On. Claudio Martelli»; «Copie progetto definizione Gruppo Rizzoli-Ambrosiano»; «Tassan Din – movimento fondi Ortolani»; «Calvi e Anna Bonomi»; «Accordo finanziario Flaminio Piccoli-Rizzoli»; «Accordo Gruppo Rizzoli-Caracciolo-Scalfari»; «Documentazione per la definizione del Gruppo Rizzoli»; «Tassan Din Bruno – lettera al dott. Calvi»; «Accordo Eni-Petromin» e così via. Quella mattina del 18 marzo ci si rende immediatamente conto anche della necessità di garantire una corretta e sicura custodia del materiale sequestrato e una totale trasparenza circa la riconoscibilità dell’autenticità di ogni singolo reperto. A questo scopo, ogni singolo foglio sequestrato viene numerato, siglato (da uno dei magistrati e dal cancelliere), descritto minuziosamente in un apposito verbale e fotocopiato in triplice copia autenticata. I tre pacchi di copie autentiche vengono conservati in armadi blindati situati in posti diversi e custoditi con cura quasi maniacale. Uno dei tre pacchi verrà trasmesso alla Commissione parlamentare P2 subito dopo la sua costituzione. 20 La notizia della perquisizione a Castiglion Fibocchi comincia a trapelare. La dà il telegiornale la sera del 20 marzo, venerdì. Sabato 21 marzo, sul «Giornale Nuovo» esce una notizia fasulla e preoccupante: «Nell’ambito delle indagini per l’affare Sindona, stasera s’è appreso di una doppia operazione compiuta dalla magistratura di Milano e da quella di Roma, nella villa aretina di Licio Gelli, “venerabile maestro” della loggia massonica P2. Per conto dei giudici milanesi l’intervento sarebbe stato operato dalla guardia di finanza mentre Roma avrebbe partecipato agli accertamenti attraverso il sostituto procuratore della Repubblica Sica». 21 Si comincia così a percepire che gli uffici giudiziari romani si stanno preparando a far sì che tutto il materiale sequestrato a Castiglion Fibocchi venga sottratto di Milanoattraverso e venga convogliato nella Capitale. in effetti all’ufficio avverrà ai istruzione primi di settembre, una sentenza della sezioneCiò

 

feriale della Corte di cassazione. A Milano, intanto, gli avvocati di Gelli inoltrano all’ufficio istruzione ripetute istanze (per non dire intimazioni) volte a ottenere il dissequestro e la restituzione di tutto quanto. Le istanze vengono respinte e parte della documentazione sequestrata (in particolare quella inerente a Roberto Calvi e alla sua banca) viene invece separata dal resto trasmessa allapenale locale separato, Procura della determinerà l’inizio di uneprocedimento che siRepubblica: concluderà anni dopo con la condanna di diverse persone (inclusi Licio Gelli e Umberto Ortolani) per la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano. Inoltre, gli inquirenti milanesi si pongono un interrogativo assillante. La presenza nelle liste P2 di ministri, sottosegretari, capi dei servizi segreti, prefetti, generali eccetera, non suggerisce forse, o addirittura impone, di informarne i vertici dello Stato? La risposta è decisamente sì. Poiché il presidente della Repubblica Sandro Pertini si trova all’estero, si ritiene quindi di dover informare il presidente del Consiglio dei ministri Arnaldo Forlani (tra l’altro, nell’elenco degli affiliati c’è anche il nome del suo capo di gabinetto, prefetto Mario Semprini). Il presidente Forlani fissa un appuntamento con i due giudici istruttori milanesi a Roma per mercoledì 25 marzo. L’incontro verrà descritto da Gherardo Colombo in un libro di memorie da lui pubblicato nel 1996, al quale sembra opportuno attingere. «Arriviamo a Palazzo Chigi, ci accompagnano in anticamera e qui chi ci riceve? Il prefetto Mario Semprini, segretario particolare dell’onorevole Forlani, che dall’elenco della P2 risulta titolare della tessera d’iscrizione n. 1637. Non siamo nemmeno tanto stupefatti, sapevamo che il segretario particolare di Forlani risultava nella lista della P2. Pensavamo però che avesse il buon gusto di non venire ad aprirci la porta. «Semprini ci fa accomodare in anticamera, e sparisce […]. Sappiamo che il suo nome compare nella lista, ma facciamo finta di niente: oltretutto siamo convinti che lui sappia che noi sappiamo, e ciononostante faccia finta di niente. Probabilmente non gli siamo simpatici, perché la nostra scoperta lo mette nei guai, e tuttavia ci riceve con il più affabile dei sorrisi. […] Torna dopo interminabili minuti e ci introduce nello studio dell’onorevole Forlani. «Il minuetto continua. Il presidente ci fa sedere e si informa del motivo della nostra visita. Come se non lo sapesse! Sino a quel giorno siamo riusciti a non far trapelare nulla all’esterno, la stampa ancora non ha pubblicato alcunché sul contenuto ma visto comeche puòsono il presidente deliConsiglio deiministri ministridel non essernedella statoscoperta, informato, stati trovati nomi di tre

 

suo governo, dei capi dei servizi, di una dovizia di parlamentari – molti dei quali del suo partito – e del suo segretario particolare? «Forlani ci chiede il motivo della visita e quando gli diciamo che si tratta della P2, di un’organizzazione segreta che potrebbe mettere in pericolo le istituzioni, cade dalle nuvole. O meglio, cerca di dirci qualcosa, ma per un paio di minutiebuoni non l’impressione, riesce ad articolare parola. Dallache suaprovi boccaa svilire escono suoni gutturali abbiamo non confermata, l’argomento senza tuttavia riuscire a dominare il linguaggio. «Dopo un po’ si riprende, e finalmente parla. “Ma sono sicuri, lorsignori, dell’importanza della vicenda?” E noi a spiegargli cosa riteniamo di dover pensare sulla base di quel che si è scoperto. “Ma sono sicuri che non si tratti di documenti falsi, creati apposta per generare confusione?” E noi a riferire dell’assoluta imprevedibilità della perquisizione. «“Ma non si tratta di fotocopie, fotomontaggi, insomma, siamo sicuri che si tratti di documenti originali?” «“Signor presidente, riteniamo che il materiale sia affidabile. Se desidera può cercare di verificare lei stesso. Abbiamo portato la fotocopia della lista degli iscritti, e di qualche altra carta. Tra queste c’è la domanda di iscrizione del suo ministro di Grazia e giustizia. Avrà, credo, a portata di mano qualche atto sottoscritto dal ministro, che come guardasigilli controfirma ogni atto del governo.” «“Eh sì, qualche cosa firmata da Sarti dovrei averla qui. Ma fatemi vedere, fatemi vedere questa domanda di iscrizione.” Gliela mostriamo, è un foglio a quattro facciate, tipo foglio protocollo. Lui la prende, la gira, la rigira, guarda la firma, la riguarda. «“No, non mi pare che sia la sua. Non credo, non mi sembra, la sua è diversa. C’è qualche somiglianza ma la sua è diversa.” E dopo un momento di riflessione: “Comunque, da qualche parte devo avere una firma autografa di Sarti. Fatemi cercare…”. E si avvia verso un armadio, lo apre, rovista, torna a sedersi alla scrivania con alcune carte in mano. “Ecco qua, questa è una firma di Sarti. Possiamo confrontarle… Sì… si assomigliano, ma… Eh, si assomigliano, si assomigliano proprio… Sembrano fatte dalla stessa mano. Ma quella che mi avete portato è una fotocopia!” «“Sì, presidente, questa è una fotocopia, ma abbiamo sequestrato l’originale che conserviamo in ufficio.” «Si convince, o comprende che non è più possibile insinuare dubbi sull’autenticità delle carte, e ci prende sul serio. “Lasciatemi le carte che mi avete portato, le studio, le vedo. Devo vedere cosa fare, devo trovare una soluzione.”

 

«“Non vorremmo essere impertinenti, presidente. Le carte… il suo segretario, il prefetto Semprini risulta nella lista…” «“Ho capito, me le porterò a casa, e le studierò là. Qualunque cosa intendiate comunicarmi chiamatemi direttamente.”» 22

6. Un’estate movimentata e ricca di sorprese Due mesi dopo l’incontro del 25 marzo il presidente Forlani decide di pubblicare gli elenchi degli affiliati alla P2. Lo scandalo è enorme e determina la caduta del governo. Per il sistema di potere P2 l’inatteso smascheramento segna l’inizio di un periodo di grave crisi, che peraltro non durerà a lungo. Nasce così il governo di Giovanni Spadolini – primo a guida non democristiana – che si insedia il 28 giugno del 1981 e che ben presto promuoverà un disegno di legge per lo scioglimento della loggia P2, come associazione segreta avente finalità eversive e criminali. 23 Nel frattempo la Procura della Repubblica di Roma, in persona del già citato sostituto procuratore Domenico Sica, ha aperto un procedimento penale per il reato di cospirazione politica mediante associazione (articolo 305 del codice penale) dichiarando la propria competenza territoriale su tutto ciò che attiene alla documentazione sequestrata a Castiglion Fibocchi. La Procura milanese solleva conflitto di competenza, ma nel corso dell’estate la Cassazione – sezione feriale  – dà ragione a Roma. 24 Gli uffici giudiziari milanesi (non potendo fare diversamente) fanno buon viso a cattivo gioco, si inchinano alla decisione della Corte suprema e spediscono nella Capitale i documenti sequestrati, o meglio, vi spediscono uno dei pacchi fotocopie che erano stati saggiamente predisposti per al tempo. Gli di originali nonautenticate si muoveranno mai da Milano e oggi sono conservati sicuro nell’archivio di Stato del capoluogo lombardo, insieme con gli atti dei procedimenti penali sulle vicende di Michele Sindona, ai quali essi appartengono. Del procedimento penale romano, rimasto fermo per anni, si dirà in seguito. Appena sei giorni dopo il giuramento del governo Spadolini, il 4 luglio 1981, il «maestro venerabile» della P2 reagisce al colpo che gli è stato inferto con una mossa da par suo, facendo in modo che il testo del «Piano di rinascita democratica», l’inquietante manifesto programmatico politico della loggia, venga sequestrato dalla polizia giudiziaria con modalità tali da suscitare un sicuro clamore mediatico e trasformando così il documento, originariamente destinato a rimanere segreto, in un documento di dominio pubblico riportato

 

dalla stampa nazionale. Quel giorno, infatti, la figlia di Gelli, Maria Grazia, sbarcata a Fiumicino da un volo proveniente da Nizza, viene controllata in dogana e il «Piano» viene trovato nella sua valigia, malamente occultato in un rudimentale sottofondo insieme ad altri documenti. La mossa di Gelli è evidentemente destinata a serrare le fila scompaginate dei suoi disorientati fratelli di loggia e anche a richiamare all’ordine tutti quei personaggi politici altolocati che sono legati a filo doppio alle logiche e ai ricatti del Sistema P2. Il messaggio implicito e vagamente minaccioso che scaturisce dal sequestro pilotato del «Piano» è piuttosto trasparente: nessuno pensi di otersi defilare, il progetto va avanti e verrà realizzato. Si realizzato. Si vedrà nel seguito di questo libro se e in che misura il progetto contenuto nel «Piano» verrà effettivamente portato avanti. 25

7. Il «Piano di rinascita democratica» della loggia P2 Secondo la Commissione P2, 26 il «Piano di rinascita democratica» venne elaborato tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976, vale a dire – non a caso –  quando il governo italiano era guidato da Aldo Moro, le cui aperture nei confronti della sinistra e dell’eurocomunismo 27* di Enrico Berlinguer non furono mai accolte con entusiasmo né dagli ambienti della Nato (ivi comprese le relative propaggini occulte), né dall’ala destra della Democrazia cristiana (Dc), rappresentata da Giulio Andreotti. Questo è probabilmente il motivo per cui i due governi Moro di metà anni Settanta (Moro IV e Moro V) sono stati gli ultimi a essere diretti dallo statista pugliese, mentre i tre governi successivi sono stati guidati continuativamente proprio da Giulio Andreotti. 1976, il Partito socialista fece mancare la fiducia Quando, nella primavera all’ultimo governo Moro, si andò alle elezioni anticipate del 20 giugno, che si conclusero con una crescita impressionante del Partito comunista, mentre la Democrazia cristiana riuscì a rimanere il partito di maggioranza relativa solo per pochi voti. Nella premessa del «Piano» si precisa che l’aggettivo «democratico» sta a significare che si intende escludere qualsiasi progetto di golpe di tipo tradizionale, dato il mutato atteggiamento americano che si è manifestato dopo il 1974, quando lo scandalo Watergate ha provocato l’allontanamento di Nixon e unaNiente sostanziale modifica delle modalità intervento dellatipo CiaGrecia in Europa. più progetti golpisti, insomma,diniente più cose dei

 

colonnelli. Però, sia ben chiaro, pur sempre tenendo alta la guardia «di fronte alla prospettiva, che continua a rimanere sgradita, di un pieno coinvolgimento del Pci nel governo del paese». 28 In sostanza – con un linguaggio qua e là oscuro, tra il burocratese e il militaresco – si sostiene che non è più il caso di perseguire il rovesciamento rovesciamento del  del sistema, bensì semplicemente la sua rivitalizzazione. E come si ottiene la rivitalizzazione del sistema? La si ottiene – ecco la risposta – «attraverso la sollecitazione sollecitazione di  di tutti gli istituti che la Costituzione prevede e disciplina, dagli organi dello Stato ai partiti politici, alla stampa, ai sindacati, ai cittadini elettori». Il che comporterà necessariamente – si aggiunge subito dopo – «alcuni ritocchi alla Costituzione successivi al restauro delle istituzioni fondamentali». Se si legge con attenzione il «Piano», facendo il possibile per decrittarne il linguaggio contorto e nebuloso, si osserva che il sostantivo «sollecitazione» e il verbo «sollecitare» vi compaiono ben otto volte, sempre assumendo un curioso valore semantico, simile a quello che assumono in ingegneria meccanica, dove, con il termine «sollecitazioni», si intendono le azioni esterne che, agendo su una struttura o su un sistema, ne modificano lo stato provocandone una deformazione. Ebbene, le modalità delle sollecitazioni sollecitazioni che  che il «Piano» intende esercitare su «tutti gli istituti che la Costituzione prevede e disciplina», con la pretesa di determinarne la rivitalizzazione rivitalizzazione e  e il restauro, restauro, sono  sono descritte nelle pagine successive del testo in termini tali da metterne in risalto – al contrario di quel che si vuole far credere – la natura decisamente eversiva. Si può convenire che il fine non è quello di rovesciare il sistema attraverso un golpe di tipo tradizionale, ma l’intenzione è certamente quella di svuotare il sistema costituzionale dall’interno attraverso operazioni occulte, che ben possono definirsi di golpismo strisciante. 29 Ecco, ad esempio, come viene esplicitato il primo obiettivo del «Piano»: «Partiti politici, stampa e sindacati costituiscono oggetto di sollecitazioni possibili sul piano della manovra di tipo economico-finanziario. La disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi [di lire] sembra sufficiente a permettere a uomini di buona fede e ben selezionati di conquistare le posizioni chiave necessarie al loro controllo». I partiti politici da controllar cont rollaree attraverso questi improbabili uomini di buona fede vengono fede  vengono elencati così: «i partiti politici democratici, dal Psi al Pri, dal Psdi alla Dc al Pli (con riserva di verificare la Destra nazionale)». Il Pci, nel «Piano», nonColpisce viene mai in menzionato. questo documento – sia detto per inciso – il linguaggio tronfio,

 

grottesco e penosamente maschilista e sussiegoso che viene impiegato e che denota, tra l’altro, la totale assenza di senso del ridicolo in chi l’ha redatto. Poche righe più sotto si afferma che «indispensabile presupposto dell’operazione è la costituzione di un club […] ove siano rappresentati, ai migliori livelli, operatori, imprenditoriali e finanziari, esponenti delle professioni liberali, pubbliciche amministratori magistrati nonché pochissimi e selezionati uomini politici, non superi ilenumero di trenta o quaranta unità». Le prospettate dimensioni ridotte di questo «club» dimostrano che non si sta parlando dell’intera loggia P2, ma di un organismo ben più ristretto di uomini, uomini, di  di cui vengono pomposamente indicate le caratteristiche irrinunciabili: «debbono essere omogenei per modo di sentire, disinteresse, onestà e rigore morale». Segue l’indicazione dei compiti e della stessa ragion d’essere del suddetto «club». Esso dovrà operare come «un vero e proprio comitato di garanti rispetto ai politici che si assumeranno l’onere dell’attuazione del piano e nei confronti delle forze amiche nazionali e straniere che lo vorranno appoggiare». E dovrà inoltre «stabilire subito un collegamento valido con la massoneria internazionale». In altri termini, gli uomini del «club» dovranno avere la caratura necessaria per vigilare autorevolmente sull’evoluzione delle sollecitazioni sollecitazioni (o  (o golpe strisciante)) e per garantirne il buon esito, mantenendo anche i necessari contatti strisciante ad alto livello con gli ambienti nazionali e internazionali disposti e idonei ad appoggiare utilmente tale sofisticato progetto eversivo. Nella parte successiva il «Piano» entra nei particolari dei procedimenti da adottare per ottenere i risultati desiderati. Così, relativamente al mondo politico, occorre anzitutto «selezionare gli uomini […] ai quali può essere affidato il compito di promuovere la rivitalizzazione di ciascuna rispettiva parte politica». Dopo di che sarà necessario «affidare ai prescelti gli strumenti finanziari sufficienti […] a permettere loro di acquisire il predominio nei rispettivi partiti». Subito dopo l’attenzione si sposta sulla stampa. Anzi, sui giornalisti, dato che «la stampa […] va sollecitata a livello di giornalisti attraverso una selezione». Più precisamente, anche nei confronti dei giornalisti il «Piano» prevede un’oculata selezione così concepita: «Occorrerà redigere un elenco di almeno due o tre elementi, per ciascun quotidiano o periodico, in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio, o, meglio, a catena, da non più di tre o quattro elementi che conoscono l’ambiente». Ovviamente il controllo della stampa si ricollega direttamente al controllo del mondo politico:per «Aigligiornalisti dovrà sopra essereprescelti». affidato il compito di “simpatizzare” esponentiacquisiti politici come

 

Ed ecco, subito dopo, tre imperativi categorici: 1) acquisire alcuni settimanali di battaglia; 2) coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso una agenzia centralizzata; 3) coordinare molte tv via cavo con l’agenzia per la stampa locale; 4) dissolvere la Rai in nome della libertà di antenna. Nel medio e lungo termine, infine, il «Piano» prevede riforme radicali in materia di ordinamento giudiziario, tali da minacciare l’indipendenza della del magistratura: responsabilità del guardasigilli verso il parlamento sull’operato pm, riforma del Consiglio superiore della magistratura che deve essere responsabile verso il parlamento.

8. Una prima attuazione del «Piano di rinascita democratica»: la conquista della casa editrice Rizzoli e l’occupazione del «Corriere «Corriere della Sera». L’ombra lunga della giunta militare ar argentina gentina La prima erealizzazione delverifica «Pianogià di rinascita democratica» riguarda proprio l’editoria la stampa e si tra il 1976 e il 1977, quando si inizia ad avvertire il peso di Licio Gelli sul gruppo Rizzoli, proprietario del «Corriere della Sera» fin dal luglio 1974, e quindi sul quotidiano stesso. Il 17 settembre 1976, sull’«Europeo» diretto da Gianluigi Melega, esce un articolo su Gelli dal titolo Massone? titolo  Massone? No, fascista. Sommario: fascista. Sommario: «Destre eversive, corpi separati, sequestri organizzati: su questi temi la magistratura romana ha voluto ascoltare il venerabile maestro della loggia Propaganda 2». Seguono altri articoli di analogo contenuto finché, il 2 febbraio del 1977, Gianluigi Melega viene licenziato in tronco da Andrea Rizzoli per «divergenze con l’editore». 30 Il gruppo Rizzoli si trasforma ben presto in un feudo della loggia P2. Il presidente del gruppo editoriale, Angelo Rizzoli, e il direttore generale Bruno Tassan Din sono entrambi affiliati alla loggia. Il «Corriere della Sera» viene letteralmente occupato: il 30 ottobre del 1977 diventa direttore del quotidiano Franco Di Bella, tessera P2 numero 1887. Nel frattempo, il 24 marzo 1976, si è concluso a Roma il XIII congresso della Democrazia cristiana, con l’affermazione delle correnti di sinistra di Aldo Moro e Benigno Zaccagnini su quelle di destra di Giulio Andreotti, Amintore Fanfani e Arnaldo Forlani. In quel momento, in Italia, l’ultimo governo Moro è ancora in piedi, ma cade nel giro di qualche settimana a seguito dell’uscita del Partito socialista dalla maggioranza. Di lì a poco l’esito delle elezioni anticipate del 20 giugno, che vedono una crescita consistente del Partito comunista, non fa che alimentare ulteriormente le preoccupazioni degli ambienti della Nato, già

 

risvegliate dall’esito del congresso democristiano. E le spinte piduiste, in questo clima, si alimentano a loro volta. Proprio nella stessa giornata del 24 marzo 1976, a Buenos Aires, i generali piduisti amici di Licio Gelli realizzano il loro golpe militare. È l’inizio di una dittatura sanguinaria, che dominerà l’Argentina per cinque anni con la repressione violentadella di qualunque forma di dissidenza, praticatalacon metodi in come la privazione libertà senza procedimenti giudiziari, detenzione luoghi segreti, le torture più agghiaccianti, gli omicidi (oltre duemila) e le sparizioni di persone (circa trentamila desaparecidos desaparecidos). ). Pochi sanno, sia in Italia che in Argentina, che in quel 1976 i due paesi hanno un grosso problema in comune: il potere occulto della loggia P2, presente e vitale sia nell’uno che nell’altro. Il versante italiano del Sistema P2 comincia a dare una mano al suo omologo argentino proprio mettendo il bavaglio al corrispondente da Buenos Aires del «Corriere della Sera», Giangiacomo Foà, che a partire dall’autunno 1976 viene invitato a non scrivere più dall’Argentina. 31 È questo il primo segnale dello stupro piduista inferto al «Corriere della Sera», che va di pari passo con altre squallide vicende politiche italo-argentine di quel periodo. Non va dimenticato che i maggiori membri della giunta militare – tra cui Massera, López Rega, Suárez Mason e altri – compariranno nelle liste degli affiliati alla loggia P2. Risulterà anche che Licio Gelli (sin dal 1974 consigliere economico dell’ambasciata argentina a Roma) ha avuto un ruolo nella preparazione di quel golpe militare. C’è un carteggio tra lui, Massera e Suárez Mason, in cui si parla di una sua partecipazione a una riunione preparatoria del gennaio 1976 e, subito dopo il golpe, Gelli scrive a Suárez Mason e Massera complimentandosi per il buon esito dell’operazione e perché tutto si è svolto «secondo i piani prestabiliti». C’è grande affiatamento tra Gelli e la giunta piduista argentina. Ben presto, attraverso l’acquisto della Editorial Abril, la P2 estende il controllo su varie testate della stampa argentina. 32 In Italia, dal 29 luglio 1976, si è insediato il governo Andreotti III, con Arnaldo Forlani ministro degli Esteri. Sottosegretario agli Esteri è Franco Foschi, tessera P2 numero 1913. Il «Corriere della Sera», Sera», controllato  controllato dalla P2, contribuisce a occultare la violazione dei diritti umani in Argentina. Il corrispondente da Buenos Aires Giangiacomo Foà viene definitivamente allontanato. Intanto la giunta militare argentina ha informato l’ambasciata d’Italia della sua decisione di non riconoscere lo status di rifugiati a coloro che fossero riusciti aprontamente entrare nel recinto delledei ambasciate. L’ambasciata italiana risponde per installando tornelli d’accesso comandati a distanza,

 

prevenire l’ingresso di eventuali richiedenti asilo. I rapporti tra il nostro governo e i generali argentini sono cordiali. Il 24 ottobre del 1977 l’ammiraglio Emilio Massera – forse il maggior responsabile della tragedia dei desaparecidos desaparecidos –  – si reca in Italia per trattare l’acquisto di armi (notizia destinata ovviamente a rimanere segreta). Il presidente Andreotti lo riceve e annota soddisfatto nel suo un diario: «Vedo l’ammiraglio argentino Massera che è sulla via di fondare movimento politico tale da fare pacificamente superare il regime militare». 33 Tuttavia, nonostante le intenzioni pacifiche, due giorni dopo, Massera viene accompagnato da Gelli ai cantieri della Oto Melara di La Spezia per contrattare l’acquisto di fregate Lupo. Doveva essere una missione clandestina, ma forse qualcosa trapela, sta di fatto che proprio allora i sindacati proclamano uno sciopero generale contro la dittatura argentina. Gli operai rompono le uova nel paniere di un Massera di pessimo umore. Lui e il suo “venerabile” fratello fuggono da La Spezia a gambe levate. Neanche un anno dopo, il 3 settembre del 1978, il presidente del Consiglio Andreotti riceve a Palazzo Chigi il generale Videla. Anche qui, grande manifestazione di protesta nei confronti dell’ospite, organizzata in questa occasione dagli esuli argentini a Roma.

9. Le conclusioni della Relazione Anselmi sui meccanismi di funzionamento del Sistema P2 Sul funzionamento della loggia P2 come strumento sofisticato della gestione del potere occulto nel nostro paese ha indagato, dal dicembre 1981 al luglio 1984, la già menzionata Commissione ciò demandata e presieduta dall’onorevole Tinaparlamentare Anselmi. Le d’inchiesta conclusioniadella Relazione finale di questa Commissione, scritta dalla stessa presidente Anselmi, si aprono con una riflessione che si riallaccia alle linee guida del «Piano di rinascita democratica», con particolare riferimento al programma di controllo massiccio sugli organi di informazione sul quale quel testo si era soffermato: Abbiamo […] riscontrato che la loggia P2 entra come elemento di peso decisivo in vicende finanziarie, quella Sindona e quella Calvi, che hanno interessato il mondo economico italiano in modo determinante. Non si è trattato in tali casi soltanto del tracollo di due istituti di credito privati di interesse nazionale, ma di due situazioni finanziariamente rilevanti in un contesto internazionale, che hanno sollevato, con particolare riferimento al gruppo Ambrosiano, serie difficoltà non meno che economico italiano. […]editoriale In questoitaliano contesto finanziariodilaordine loggiapolitico P2 ha altresì acquisito il controlloallo del Stato maggiore gruppo

 

mettendo in atto, nel settore di primaria importanza della stampa quotidiana, una operazione di concentrazione di testate non confrontabile ad altre analoghe situazioni pur riconducibili a preminenti centri di potere economico. Queste operazioni […] si sono accompagnate a una ragionata e massiccia infiltrazione nei centri decisionali di maggior rilievo sia civili che militari e a una costante pressione sulle forze politiche […]. V Vaa infine ricordato che la loggia P2 è entrata in contatto con ambienti protagonisti di vicende che hanno segnato in modo tragico momenti determinanti della storia del paese. 34

La Relazione finale descrive inoltre la loggia e il suo funzionamento ricorrendo a una metafora divenuta celebre, quella della doppia piramide: ci invita, cioè, a considerare il Sistema P2 come l’insieme di due piramidi collocate l’una sull’altra, in modo da assumere nell’insieme la forma di una clessidra. Il vertice della piramide sottostante è costituito da Licio Gelli, circondato dai suoi servizi segreti. Quindi Gelli non è il fantomatico grande capo di tutto il sistema di potere occulto: lui è solo il custode, il notaio di questa piramide inferiore, dove si trovano tutti gli affiliati degli elenchi e tutti i segreti relativi ai meccanismi del potere occulto e alle grandi operazioni da esso gestite e controllate. In sostanza, quella che la perquisizione di Castiglion Fibocchi ha disvelato è soltanto la piramide inferiore, con l’esercito degli iscritti e la documentazione degli affari inconfessabili. Al di sopra di questa prima piramide, prosegue la Relazione, «è giocoforza ammettere l’esistenza […] di un’altra piramide che, rovesciata, vede il suo vertice inferiore appunto nella figura di Licio Gelli. Questi è infatti il punto di collegamento tra le forze e i gruppi che nella piramide superiore identificano le finalità ultime, e quella inferiore, dove esse trovano pratica attuazione». Dopo di che la Relazione conclude amaramente: «Quali forze si agitino nella struttura a noi ignota [quella superiore, n.d.a n.d.a], ], non ci è dato conoscere […], al di là 35

dell’identificazione del rapporto cheAnselmi lega Licio servizi Così scriveva la presidente Tina nelGelli 1984:ainon ci è segreti». dato conoscere le forze che si agitano nella struttura a noi ignota. Oggi, ignota. Oggi, trentacinque anni dopo, si conosce qualcosa di più. E nel corso di questo libro si proverà a identificare qualcuno degli occupanti di quella piramide rovesciata. In ogni caso, però, Gelli è e rimane solo un custode, un punto un punto di collegamento. Volendo collegamento.  Volendo fare un parallelo con l’Inferno dantesco, Gelli potrebbe essere Pluto, Cerbero, o al massimo Gerione. Anzi, a pensarci bene potrebbe essere proprio Gerione, ma niente di più. Niente di paragonabile a Lucifero, che invece sarebbe – quello sì – il dominus dominus della  della piramide superiore rovesciata.

 

II Il caso Moro: lo scontro fra carabinieri fedeli alla Repubblica e carabinieri fedeli alla loggia P2

1. Dalla tragica mattina del 16 marzo 1978 alla scoperta del covo di via Monte Nevoso All’inizio del marzo 1978 Giulio Andreotti sta per varare il suo quarto governo, che sarà un nuovo, contrastatissimo governo monocolore. In quei giorni, in una tempestosa assemblea dei gruppi parlamentari democristiani, Aldo Moro e alcuni altri deputati e senatori perorano la costituzione di una nuova maggioranza di «solidarietà nazionale» alla quale non resti estraneo il Pci. Tuttavia, la maggioranza della Dc si esprime contro qualsiasi accordo politico con i comunisti, sostenuta in questo da un’esplicita dichiarazione del dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America. La mattina del 16 marzo 1978 Andreotti si reca alla Camera dei deputati per esporre il suo programma di governo e per chiedere la fiducia, ma prima che inizi la seduta arriva in aula, poco dopo le nove, la notizia dirompente della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro. 1 La situazione di emergenza prodotta da questo evento (a cui seguirà dopo cinquantacinque giorni l’uccisione di Moro da parte delle Brigate rosse) determina l’immediata fiducia votata dal parlamento al governo Andreotti IV. IV. Prosegue così indisturbato quello che passerà alla storia come il «triennio andreottiano» (luglio 1976-luglio 1979), che sostanzialmente coincide, sul versante del potere occulto piduista, con il periodo di frenetica attività sotterranea di cui si è detto nel capitolo precedente. Parallelamente allo scenario dell’iperattività occulta degli ultimi anni Settanta epolitico dell’inizio degli Ottanta, sistorico», compie quel anchetentativo l’archiviazione dell’esperimento del «compromesso di avvicinamento tra Dc e Pci

 

vagheggiato da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Ciò avviene nonostante la forte determinazione di quest’ultimo nel sottolineare sempre più decisamente l’indipendenza dei comunisti italiani dall’Unione Sovietica, ma anche con una inquietante coincidenza temporale con l’eliminazione fisica dello statista democristiano, che quel compromesso storico aveva sostenuto sino all’ultimo. Aldo Moro Roma il49abbandonata maggio 1978. corpo viene fatto ritrovare nelviene bauleucciso di unaaRenault in Ilviasuo Caetani. Chi scrive ritiene che sul caso Moro ci sia ancora moltissimo da scoprire, ma ritiene anche che alcune ipotesi, più o meno suggestive, che vengono considerate verosimili anche da studiosi di tutto rispetto, siano in realtà destituite di fondamento e possano anzi essere frutto di disinformazioni e depistaggi insidiosi, volti a gettare fango su persone sgradite all’establishment piduista, persone tra le quali va annoverato anche il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. In particolare, si allude a talune interpretazioni che ruotano intorno al covo delle Brigate rosse di via Monte Nevoso, a Milano, sia con riferimento all’irruzione che vi fecero i carabinieri del generale dalla Chiesa il 1° ottobre 1978 (quando fu trovata in una cartellina azzurra una versione parziale e dattiloscritta in quarantanove fogli del cosiddetto «Memoriale Moro»), sia con riferimento all’evento di dodici anni dopo, quando il 9 ottobre 1990, durante i lavori di ristrutturazione dell’appartamento ormai dissequestrato, fu rinvenuta da un operaio una versione più ampia del medesimo memoriale. Quest’ultima era composta da 245 fogli – fotocopie di manoscritti vergati sicuramente dalla mano dello stesso Moro – ed era nascosta dentro un’intercapedine artificiosamente creata con un pannello di gesso sotto il davanzale di una finestra. Nello stesso nascondiglio c’erano anche armi e una borsa contenente 50 milioni di lire in contanti, in banconote ormai fuori corso, poi risultati parte del riscatto pagato la liberazione Brigate rosse a per Genova nei primi dell’imprenditore mesi del 1977. Pietro Costa, rapito dalle I fogli dattiloscritti del 1978 risulteranno essere una trascrizione parziale del testo manoscritto recuperato dodici anni dopo. Il cosiddetto «Memoriale Moro» è in realtà una lunga memoria difensiva scritta a mano dallo statista durante i cinquantacinque giorni della sua prigionia, allo scopo di difendersi dalle accuse che gli erano state mosse nel processo proletario avviato contro di lui. 2 Infatti, il giorno stesso del rapimento, era pervenuto agli organi di informazione il primo comunicato delle Brigate rosse con l’annuncio del processo al quale Moro sarebbe stato sottoposto «da un Tribunale del Popolo». Alcuniera giorni dopo, nel era Comunicato 2, i brigatisti avevano aggiunto che il processo iniziato e che «in corso n. l’interrogatorio ad Aldo Moro».

 

Lo stesso Comunicato n. 2 precisava che l’interrogatorio aveva come oggetto principale «le strutture internazionali e le filiazioni nazionali della controrivoluzione imperialista», vale a dire, secondo le teorizzazioni brigatiste, il sistema dei cosiddetti Sim (Stati imperialisti delle multinazionali), con particolare riguardo al Sim italiano e alla sua «strategia imperialista, diretta 3 esclusivamente dalladiDc e dalerasuo governo». L’interrogatorio Moro condotto da Mario Moretti, capo riconosciuto delle Br, e il prigioniero rispondeva per iscritto. Molte domande vertevano proprio sul Sim, ma è molto probabile che Moro, nel 1978, non avesse chiaro che cosa le Br intendessero davvero con quella sigla. Per questo motivo le sue risposte scritte, pur seguendo la traccia delle domande di Moretti sul Sim, se ne erano a poco a poco allontanate «trovandosi nella necessità di giustificare un trentennio di scelte politiche e dando inevitabilmente un’interpretazione differente degli elementi che i brigatisti leggevano come i chiari sintomi della presenza del Sim nella penisola». 4 Di conseguenza, le risposte scritte di Aldo Moro hanno infine assunto l’aspetto «di un insieme di riflessioni sviluppate […] sulla base di una traccia solamente di massima», 5 sino a presentarsi come una memoria difensiva organica, ormai nota come «Memoriale Moro». La vicenda tormentata della scoperta del covo di via Monte Nevoso e del ritrovamento in due diversi momenti – a distanza di dodici anni l’uno dall’altro –  del «Memoriale Moro» ha fatto sì che intorno a questi eventi si sia prodotta una cortina di nebbia che è opportuno tentare di diradare.

Dopo un’incredibile stasi nelle indagini sul caso Moro, il 10 settembre 1978 venivano assegnate al generale Carlo Alberto dalla Chiesa le funzioni di coordinamento «fra le forze di polizia e gli agenti dei servizi informativi» per la lotta al terrorismo, con la clausola di riferire direttamente al ministro dell’Interno. 6 Venti giorni dopo, il generale aveva già messo a segno l’operazione milanese di via Monte Nevoso, con impiego di un gruppo di uomini fidati, che avevano individuato e pedinato il brigatista Lauro Azzolini. Quel 1° ottobre del 1978 Carlo Alberto dalla Chiesa sapeva già, o aveva comunque ampiamente percepito, di avere dei nemici potenti negli alti comandi territoriali dell’Arma dei carabinieri, vale a dire nei ranghi della legione carabinieri di Milano e della divisione Pastrengo, il comando interregionale dei carabinieri allora competente sull’Italia settentrionale con sede nell’omonima caserma di Milano. Invece, la notizia dirompente divisionepiduista Pastrengo (già comandata, ma ancora pesantemente condizionatache dallagenerale Giovanbattista Palumbo)

 

e la legione di Milano (diretta dal colonnello piduista Rocco Mazzei) erano graniticamente controllate dalla loggia massonica P2 (ed erano parte integrante del suo sistema di potere occulto) diverrà di dominio pubblico soltanto nella primavera del 1981, dopo l’esito clamoroso della perquisizione operata il 17 marzo di quell’anno nell’ufficio segreto di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. Da quella perquisizione emergerà infatti, tra l’altro, l’appartenenza alla loggia un numero assai considerevole di alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri che,P2 di prestando il giuramento di fedeltà a quella loggia massonica segreta, in contrasto con il giuramento di fedeltà prestato alla Repubblica e alle sue leggi, si erano legati a un’inammissibile doppia obbedienza. Questo rende necessario anticipare, nelle prossime pagine, talune nozioni che nel 1978 erano completamente ignote ai più. Sarà inoltre opportuno soffermarsi su certi avvenimenti accaduti prima del 1978, ma diventati noti e interpretabili soltanto nel 1981.

2. I carabinieri piduisti della divisione Pastr Pastrengo engo e il ruolo del generale Giovanbattista Palumbo Secondo la Relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, già all’inizio degli anni Settanta la loggia Propaganda 2 è «contrassegnata da una connotazione di accentuata riservatezza che confina […] con una situazione di vera e propria segretezza». Ebbene, Licio Gelli, «maestro venerabile» di quella loggia, tende ben presto ad accentuare sensibilmente tale caratteristica, operando peraltro «in piena intesa con la Gran Maestranza del Grande Oriente». 7 Ciò emerge dalla circolare dell’11 dicembre 1971, con la quale il gran maestro Lino Salvini comunica iscritti che è stata adeguatamente ristrutturata in base alle esigenze delagli momento, […]«la perP2rafforzare ancor più il segreto di copertura indispensabile per proteggere tutti coloro che, per determinati motivi particolari inerenti al loro stato, devono restare occulti». 8 Altra caratteristica che emerge già nella loggia P2 dei primi anni Settanta è la sua forte attenzione verso le vicende politiche del paese, che sfocia in un «progetto politico», nel quale viene attribuita una «posizione di rilievo […] a elementi di spicco della gerarchia militare». Questi ultimi – che non a caso devono restar restaree occulti occ ulti –  – diventano così destinatari e a loro volta divulgatori di «discorsi politicamente contraddistinti in modo univoco tenuti nelle riunioni di loggia». Questi messaggi politici sono piuttosto rozzi, ma facilmente interpretabili, come dimostra il verbale di una di queste riunioni di loggia agli

 

atti della Commissione P2. Leggendolo, si apprende che, tra gli argomenti dibattuti, vi sono «la minaccia del Partito comunista italiano, in accordo con il clericalismo, volta alla conquista del potere» e «la nostra posizione in caso di ascesa al potere dei clerico-comunisti». 9 Con questo linguaggio grossolano, per «ascesa al potere dei clerico-comunisti» si intende l’eventuale vittoria elettorale del progettoe di compromesso storico, 10 sostenuto nel 1978 da 16 Enrico Berlinguer Aldo Moro e tragicamente naufragatoancora la mattina di quel marzo. È in questo contesto che si colloca il ruolo della divisione Pastrengo come potente avamposto piduista nell’Arma dei carabinieri. Particolarmente significativa è una riunione di loggia avvenuta nel 1973 nella casa di Arezzo di Licio Gelli (Villa Wanda), alla quale partecipano – oltre a Gelli – sei personaggi, tutti iscritti alla P2: sono un alto magistrato e cinque alti ufficiali dei carabinieri appartenenti alla divisione Pastrengo o gravitanti intorno a essa. Ecco che cosa si legge a questo proposito nella Relazione Anselmi: Partecipano a tale riunione il generale Giovanbattista Palumbo, comandante la divisione carabinieri Pastrengo di Milano, il suo aiutante colonnello Antonio Calabrese, il generale Franco Picchiotti, comandante la divisione carabinieri di Roma, il generale Luigi Bittoni, comandante la brigata carabinieri di Firenze, l’allora colonnello Pietro Musumeci, il dottor Carmelo Spagnuolo, procuratore generale presso presso la Corte d’appello di Roma. Licio Gelli si rivolse agli astanti affermando che la situazione politica era molto incerta; esortandoli a tenere presente che la massoneria, anche di altri Stati, è contro qualsiasi dittatura di destra e di sinistra e che la loggia P2 doveva appoggiare in qualsiasi circostanza un governo di centro. Il Vener Venerabile abile invitava infine i presenti a operare a tal fine con i mezzi a loro disposizione e pertanto a ripetere il discorso ai comandanti di brigata e di legione alle loro dipendenze. In questo contesto di discorsi fu altresì ventilata l’ipotesi di un governo presieduto da Carmelo Spagnuolo. 11

La Relazione Anselmi non manca di rilevare la scarsa dignità di quei cinque generali della Repubblica che convocati, per giunta con brevissimo preavviso, da un individuo come Gelli, accorrono premurosamente alla sua villa aretina per ascoltare da questi, «alla stregua di un capo di stato maggiore ombra, concioni sullo svolgimento delle loro delicate mansioni, facendosi destinatari dell’ordine di trasmetterle ai propri quadri». 12 D’altro canto, le gravi anomalie della divisione Pastrengo, comandata dal generale piduista Giovanbattista Palumbo, sono state rivelate all’autorità giudiziaria milanese in un verbale testimoniale del 25 aprile 1981 dal tenente colonnello Nicolò Bozzo. È questi un ufficiale che ha prestato servizio per alcuni anni, a partire dal 1972, proprio presso la divisione Pastrengo svolgendovi funzioni prevalentemente amministrative, venendo a conoscenza – proprio per la sua posizione – delle varie vicende inerenti ai reparti facenti capo a quella divisione:

 

Nel 1972 prestavo servizio presso l’ufficio Oaio [Ordinamento, Addestramento, Informazioni Informazioni e Operazioni, n.d.a. n.d.a.]] del comando divisione di Milano, all’epoca comandata dal Gen. Giovanbattista Palumbo. Sin dai primi giorni del mio servizio in quell’ufficio avvertii la presenza di un vero e proprio gruppo di potere al di fuori della gerarchia. Questo gruppo di potere era personalizzato da due maggiori e cioè Antonio Calabrese e Giovanni Guerrera, attualmente il primo comandante della legione CC di Bologna, il secondo comandante del II Reparto del Comando Generale dell’Arma. In sostanza qualsiasi decisione di servizio non passava attraverso i canali gerarchici, nel senso che questi due si frapponevano tra il capo di Stato Maggiore e il Comandante della divisione creando un diaframma non istituzionale. Naturalmente di questo gruppo di potere, che aveva una matrice comune nella provenienza per servizio dalla Tosc Toscana, ana, 13 faceva parte anche il Comandante della divisione.

Tra i cinque alti ufficiali della storica riunione di Villa Wanda del 1973, il generale Franco Picchiotti – uno dei più diretti collaboratori di Gelli, 14 allora comandante della divisione carabinieri di Roma e di lì a poco vicecomandante generale dell’arma – spicca per essere un abilissimo e appassionato cacciatore di adesioni alla loggia P2. Va da sé che la sua riserva di caccia è costituita prevalentemente dall’ambiente degli alti ufficiali dell’arma (fu lui a indurre a aderire il generale Romolo dalla Chiesa, fratello del più noto Carlo Alberto), ma non disdegna gli altri corpi militari. Ha presentato un gran numero di nuovi adepti e gli piace assistere regolarmente alle iniziazioni. 15 Picchiotti, classe 1911, è solo di qualche mese più giovane di Palumbo e lo frequenta assiduamente presso la caserma Pastrengo, operando a strettissimo contatto con lui. Tra i due il soggetto dominante – temibile e francamente malvagio – è senz’altro Giovanbattista Palumbo, mentre Franco Picchiotti, singolare figura di piduista apparentemente mite e dimesso, è il gregario. E così – per impulso o comunque con il placet del comandante Palumbo – nel 1976 Picchiotti si mobilita allo scopo di indurre anche il generale Carlo Alberto dalla Chiesa a iscriversi alla P2.

 3. Carlo Alberto dalla dalla Chiesa e Giov Giovanbattista anbattista Palumbo, due ersonaggi opposti Carlo Alberto dalla Chiesa, classe 1920, durante la Seconda guerra mondiale combatte nel Montenegro come sottotenente. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 presta servizio nell’Arma dei carabinieri ad Ascoli Piceno con il grado di tenente. Qui viene avvicinato da un partigiano comunista che gli domanda: « Lei sta, tenente, con l’Italia la Germania?». Germania? ». Da si quel collabora con ichi partigiani. Quando la cosa otrapela, Dalla Chiesa dà momento alla macchia insieme

 

ad altri patrioti e diventa un responsabile delle trasmissioni radio clandestine di informazioni per gli americani. La guerra si chiude per lui con una promozione e varie onorificenze tra cui due croci al merito di guerra e il distintivo della guerra di liberazione. Dopo il 25 aprile 1945 Dalla Chiesa arriva in Sicilia con il grado di capitano. È l’epocaLuciano della mafia agraria di Don Calogero Vizzini,undipatto Genco e del giovane Liggio, quando Cosa Nostra stringe di Russo ferro con i più retrivi latifondisti, che temono le lotte e le rivendicazioni contadine guidate dai sindacalisti comunisti e socialisti. Per Luciano Liggio il segretario della Camera del lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, rappresenta una spina nel fianco. Va eliminato. Il boss affida il compito ai suoi fedeli picciotti, Bagarella, Provenzano e Riina. Il 10 marzo 1948 Rizzotto viene caricato su una macchina, portato in luogo sicuro, torturato e ucciso. Il suo cadavere viene gettato in una forra e verrà trovato solo sessantun anni dopo. Nonostante il clima di totale omertà che regnava allora, Dalla Chiesa, che è ufficiale molto abile, riesce con i suoi colleghi a individuare e arrestare gli autori materiali dell’omicidio Rizzotto –  Vincenzo Collura e Pasquale Criscione – e a mandarli sotto processo (rei confessi) con il loro mandante Luciano Liggio. 16 Dalla Chiesa viene promosso e trasferito. Da ufficiale superiore presta servizio a Roma, a Torino e a Milano. Torna nell’isola a metà degli anni Sessanta dove, con il grado di colonnello, comanda la legione di Palermo sino al 1973. Cosa Nostra si è adeguata rapidamente ai tempi nuovi, spostando i propri interessi dall’agricoltura all’imprenditoria, specialmente nel campo dell’edilizia e dei lavori pubblici. I tradizionali rapporti di «strusciamento» con le istituzioni amministrative e politiche si sono rafforzati. Il colonnello realizza un vero e proprio censimento degli uomini d’onore. Mafiosi come Frank Coppola e Gerlando Alberti1973 vengono mandati al soggiorno obbligato. Nell’ottobre Dallaarrestati Chiesa, eormai promosso generale, risale nel Nord e assume il comando com ando della brigata brigat a di Torino, con giurisdizione su Piemonte, V Val al d’Aosta e Liguria, dove deve dedicarsi perlopiù alla lotta contro il terrorismo. L’anno seguente, il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani decide di costituire un reparto speciale di polizia giudiziaria antiterrorismo inserendolo nel quadro organico della legione di Torino, onde assegnarne il comando al generale Dalla Chiesa. La nomina ministeriale giunge a quest’ultimo per via gerarchica, transitando inevitabilmente e fatalmente dal superiore comando interregionale della divisione Pastrengo retta dal generale Palumbo. Questo nuovo reparto speciale, unico nella storia dell’arma, dà ben presto risultati lusinghieri: l’8 settembre 1974 gli uomini di Dalla Chiesa mettono a segno un colpo sensazionale con l’arresto di Renato Curcio e Alberto

 

Franceschini, fondatori e capi storici delle Brigate rosse, e altri successi si registrano nel corso del 1975. Ma tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976 la fortuna sembra voltare le spalle al generale piemontese e al suo nuovo reparto. Giovanbattista Palumbo, classe 1911, 17 negli anni 1942-1943 aveva il grado di capitano la compagnia carabinieri di Gorizia. Era un fascistacontro convinto.eSicomandava era guadagnato alcuni encomi relativi a operazioni condotte le formazioni partigiane e gli era stata conferita l’onorificenza nazista di Cavaliere dell’ordine dell’aquila tedesca senza spade. 18 Dopo l’8 settembre 1943, Palumbo aveva giurato fedeltà alla Repubblica di Salò e ordinato ai suoi uomini di fare altrettanto («Domani c’è la cerimonia, mi raccomando dovete giurare, e giurare in modo perfetto, in modo che serva di esempio anche per il personale dipendente!»). In seguito non esitò a denunciare per diserzione –  esponendolo al rischio di fucilazione – uno dei suoi tenenti che, la notte prima della cerimonia di giuramento, aveva raggiunto Roma per unirsi alla Resistenza. 19

Nonostante ciò, qualcheungiorno prima della Liberazione, Palumbo aveva strategicamente contattato reparto partigiano non garibaldino e vi era entrato spacciandosi per un «combattente della libertà». 20 Si predispose così la documentazione di un suo inesistente passato partigiano, che ritroviamo nel suo fascicolo matricolare: l’adesione tardiva e di comodo alla formazione partigiana Brigata Rosselli, il provvido riconoscimento del Cln di Cremona (12 maggio 1945), quello del comandante supremo alleato H.R. Alexander (25 luglio 1945) e persino la nomina a governatore militare alleato della provincia di Cremona per il «sincero e intelligente servizio prestato quale vicequestore della provincia di Cremona dal giorno dell’occupazione». 21 Sappiamo però che il lupo perde il pelo ma non il vizio. Così, nel 1964, Giovanbattista Palumbo è uno degli uomini al fianco del generale Giovanni de Lorenzo nell’organizzazione del piano Solo, il primo tentativo di golpe della storia della nostra Repubblica. 22 Nonostante ciò, Palumbo continua a fare una brillante carriera sino ad assumere, dal 1971, il comando della divisione carabinieri Pastrengo di Milano. In questo periodo di comando, nel 1973, si verifica la sua partecipazione alla famosa riunione dei generali convocata da Gelli a Villa Wanda. Nello stesso anno si verifica l’ignobile crimine dello stupro dell’attrice Franca Rame, ideato e commissionato proprio dalla mente perversa del generale Palumbo. 23 Nella primavera del 1974 il generale Palumbo viene avvicinato da Edgardo 24

Sogno, *da cheluiglie da propone di partecipare al cosiddetto bianco» progettato Randolfo Pacciardi per l’agosto di«golpe quell’anno. Palumbo

 

raccoglie l’idea con un entusiasmo talmente sproporzionato e fuori luogo da lasciare perplesso e contrariato persino il suo aristocratico interlocutore, che racconta così l’incontro: Un altro incontro importante, su suggerimento del vicecapo dell’Arma dei carabinieri, generale Picchiotti, lo ebbi a Milano con il comandante della divisione Pastrengo, generale Palumbo. Palumbo. Questi andò al di là del segno, chiedendomi di ottenere dalla marina il lancio di missili contro il carcere di Alessandria dove, secondo lui, erano detenuti molti comunisti pericolosi. Palumbo assicurava il concorso di tutti i carabinieri dell’Italia settentrionale, ma, quando le cose volsero in senso a noi contrario, si buttò dall’altra parte, e, invece di tacere, per proteggere se stesso se ne uscì rinnegandomi e insultandomi. 25

Sempre nel 1974 giunge alla divisione Pastrengo il provvedimento del ministro dell’Interno che affida al generale dalla Chiesa il comando del nuovo reparto di polizia giudiziaria antiterrorismo. Il generale Palumbo, che evidentemente non ha in simpatia il collega piemontese, lo legge, provvede obtorto collo collo alle disposizioni di sua competenza, dopo di che, almeno per il momento, lo archivia con l’annotazione «non serve a un cazzo». 26 Dopo qualche mese, nel maggio 1975, Palumbo ottiene l’incarico di vicecomandante generale dell’Arma dei carabinieri: la sua influenza e importanza in ambiente militare è evidentemente molto alta, tanto da indurre il mite generale Picchiotti, detentore di quell’incarico e anch’egli piduista, a dimettersi per lasciargli libero il posto. Nel frattempo, nel febbraio 1975, il comando della divisione Pastrengo è stato affidato al generale Edoardo Palombi, personaggio totalmente diverso da Palumbo ed estraneo al suo gruppo di potere piduista. 27 Tuttavia, la gestione del nuovo comandante viene ben presto «contrastata con il trasferimento a Milano di due ufficiali, il tenente colonnello Giancarlo Panella e il tenente colonnello Rocco Mazzei, che risultano iscritti alla loggia P2». 28 Mazzei, che assume il comando della legione di Milano, e Panella, che assume il comando del gruppo Milano I, sono uomini di Palumbo, la cui longa manus continua manus continua quindi a esercitare la propria pesante influenza sulla divisione Pastrengo. All’alba del 1976 il potere del generale Giovanbattista Palumbo risulta cresciuto a dismisura.

4. Anno 1976. La trappola della domanda di affiliazione alla loggia  P2 firmata dal generale generale Carlo Alber Alberto to dalla Chiesa L’inizio del 1976 trova invece il generale Carlo Alberto dalla Chiesa afflitto da una certa amarezza. Infatti, nonostante i successi ottenuti, il reparto speciale antiterrorismo che gli è stato affidato nel 1974 gli viene inaspettatamente tolto e

 

gli uomini che ne hanno fatto parte vengono distribuiti fra i principali reparti dell’Italia settentrionale. È lo stesso generale dalla Chiesa a parlarne, nella deposizione resa nel 1981 all’ufficio istruzione del tribunale di Milano. Lo fa in termini rispettosi nei confronti dei suoi superiori gerarchici, ma al tempo stesso senza nascondere la delusione e il disappunto di fronte ostilità che avverte da parte degli ambienti milanesi dell’arma, vale aalla direpalese da parte del centro di potere piduista rappresentato dalla divisione Pastrengo, tuttora sotto l’influenza del generale Palumbo, e dalla legione di Milano comandata dal colonnello Mazzei, pure lui piduista: Venne determinato lo scioglimento di questo nucleo speciale di polizia giudiziaria che in un primo tempo doveva essere trasferito per intero a Milano ma che su mio suggerimento, di fronte al patrimonio culturale acquisito da tutti i suoi componenti, venne invece frazionato presso le città più sensibili al fenomeno dell’eversione di sinistra onde garantire intorno ai singoli nuclei la formazione di reparti via via più efficienti. Con lo scioglimento di questo nucleo io rimasi un po’ senza strumenti […]. In effetti al tempo in cui ebbi alle dipendenze il nucleo speciale di cui ho parlato avvertii dapprima un minor sostegno e talvolta anche una minor comprensione per la mia fatica e per il rischio cui andavo incontro, sino a farmi pensare che non fosse pienamente riconosciuta la mia attività nell’ambito degli ambienti milanesi dell’Arma dei carabinieri […]. 29

Dalla Chiesa ritiene quindi (non a torto, secondo chi scrive) che nell’abolizione del suo nucleo antiterrorismo ci sia stata anche l’influenza dei piduisti della Pastrengo e della legione di Milano. Il generale continua a impegnarsi nel suo lavoro di comandante della brigata di Torino, spaziando dalla destra eversiva al clan dei marsigliesi, ma per lui non è un periodo entusiasmante. Tanto più che nell’autunno del 1976 gli viene data un’altra notizia poco gradita direttamente dal comandante generale dell’arma, Enrico Mino. Dalla Chiesa ha dichiarato, nella sua deposizione, che il generale Mino lo aveva raggiunto per telefono («Giungendomi una chiamata telefonica da parte del comandante generale»), e gli aveva comunicato che nel febbraio del 1977 avrebbe dovuto lasciare anche il comando della brigata di Torino per poi restare per qualche tempo «a disposizione». Ecco il racconto di Dalla Chiesa, sempre rispettoso verso le decisioni dei superiori, ma tale da lasciar trasparire, sia pure molto alla lontana, il suo stato d’animo turbato: Nel mese di febbraio 1977 venni avvicendato nel comando della brigata rimanendo per circa due mesi senza alcuna attività da svolgere in quanto solo nel maggio successivo fui impiegato quale responsabile del coordinamento dei servizi di vigilanza per gli istituti di prevenzione e pena di massima sicurezza. È pur vero che l’avvicendamento nel mese di febbraio non era nelle mie attese in quanto sarei stato proposto al grado superiore soltanto alla fine del 1977, 31 dicembre, ma accettai la soluzione. 30

 

È il colonnello Bozzo – da sempre molto vicino al generale dalla Chiesa – a descrivere in termini più espliciti quale sia realmente lo stato d’animo di quest’ultimo nell’autunno 1976 (dopo la telefonata del comandante Mino), avendone raccolto le confidenze: «Queste parole che dico io me le ha dette il generale dalla Chiesa». Bozzo conferma anzitutto l’arrivo a Dalla Chiesa della telefonata del comandante «Gli telefona il comandante generale, che 31 e gli dice “Guarda, era il generale Mino, moltogenerale: vicino all’ambiente gelliano, Dalla Chiesa, ho pensato di trasferirti”». Dopo di che Bozzo aggiunge che Dalla Chiesa, essendo a Torino da quasi tre anni, «capisce che è il momento di andare, e dice “Ma dove mi mandate?”», al che» continua Bozzo, «il generale Mino risponde «“No, tu rimani a disposizione poi se si libera un posto…”». Ed ecco allora – è sempre Bozzo che racconta –  che Dalla Chiesa cerca di obiettare: «“Ma io sono in avanzamento!”». Non è dato sapere che cosa abbia risposto il generale Mino a questa obiezione, ma è logico ritenere che non abbia dato alcuna soddisfazione al suo interlocutore, come è facile arguire dal seguito del racconto del colonnello Bozzo, dove egli spiega che «andare in avanzamento a disposizione significa essere messo in ultimo… dietro l’ultimo, a distanza. E allora Dalla Chiesa capisce che per lui è finita». L’epilogo di questa vicenda dell’autunno 1976 consiste nell’episodio conclusosi con la firma apposta da Carlo Alberto dalla Chiesa in calce a una domanda di iscrizione alla P2, sapientemente offertagli da Picchiotti. L’episodio ci viene reso noto sia dallo stesso Dalla Chiesa (come diremo tra poco) sia – in termini più coloriti – dal colonnello Bozzo nel seguito della deposizione già citata. Quest’ultimo dichiara che alcuni giorni dopo la deprimente telefonata del comandante generale, il generale Picchiotti si era presentato inaspettatamente al generale dallale ufficio di giù». Torino, lo aveva guardato e aveva esordito con l eChiesa parole:nel «Tisuo vedo un po’ Era seguito un colloquio, tra Picchiotti e Dalla Chiesa, che Bozzo ha riferito (a mo’ di siparietto) nel tipico linguaggio parlato di una deposizione registrata dal vivo e successivamente sbobinata e trascritta: «Ti vedo un po’ giù…» «Mi hanno dato questa notizia, per me è finita, me ne vado via.» «Ma no, perché ti preoccupi, ti possiamo dare una mano noi.» «Voi chi?» dice. «Noi, hai mai sentito parlare della massoneria?» «No, io sono cattolico praticante, non voglio sentirne parlare.» «No, guarda, questa è una massoneria particolare, ha dei collegamenti anche internazionali, stai tranquillo.» «No, no, io assolutamente…»

 

«Io te la lascio [la domanda da compilare, n.d.a. n.d.a.], ], poi pensaci. Io ripasserò tra una settimana.» 32

E così Franco Picchiotti offre il boccone avvelenato a Carlo Alberto dalla Chiesa. Lui oppone resistenza, ma l’altro insiste e torna all’attacco una seconda volta, una decina di giorni dopo, portandogli stavolta la domanda già in parte compilata. Alla fine il generale cede, firma e cade nella trappola. 33 È il 28 ottobre del 1976. Ecco come lui stesso racconta la vicenda nell’audizione resa il 23 febbraio del 1982 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro: Nell’ottobre del 1976 mi trovai a ricevere nel mio ufficio a Torino il generale Picchiotti che era stato vicecomandante dell’arma. Non l’ho mai avuto come superiore diretto, non ci siamo mai conosciuti nella lunga carriera percorsa dall’uno e percorsa dall’altro e devo dire che vi era sempre da parte mia una specie di soggezione come poteva esservi tra un generale di brigata di periferia e un vicecomandante che ormai era generale di corpo d’armata. Ebbene, lo ricevetti per un’ora e mezzo e mi parlò di questa massoneria, dicendomi che oramai era giusto che anche io vi facessi parte. Io ovviamente resistetti all’infinito dicendo che non mi interessava, che mio padre era sempre stato lontano da questi concetti. Insisteva. Allora io ho detto che ero cattolico, praticante e lui mi disse che vi erano anche dei cardinali. Alla fine, risposi che non era il caso e dopo un’ora e mezzo se ne andò senza che io avessi fatto un minimo gesto di assenso. […] Dopo circa quindici giorni, verso il 28 ottobre, quello tornò […] per portarmi la domanda a stampa. Allora a quel punto mi dissi che volevo vedere fin dove andavamo a finire. Non si può pensare che dopo che un argomento era stato così risolutamente rigettato venisse un ex vicecomandante dell’arma a portare una siffatta domanda! 34

La domanda di iscrizione di Dalla Chiesa datata 28 ottobre 1976 verrà ritrovata più di quattro anni dopo nel corso della perquisizione eseguita nell’ufficio di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. È conservata nella cassaforte dell’ufficio, in una cartellina intitolata SOSPESI contenente, tra l’altro, le copie di quattro lettere piuttosto curiose, firmate da Licio Gelli e apparentemente spedite a Dalla Chiesa, 35 ma che quest’ultimo dichiarerà di non avere mai ricevuto. 36 Così come dichiarerà di non avere mai più visto né sentito Picchiotti dopo quel 28 ottobre. 37

5. Le quattro lettere fittizie apparentemente indirizzate da Gelli a  Dalla Chiesa Il tenore di queste quattro lettere (quasi di certo fittizie e comunque mai ricevute da Dalla Chiesa) dimostra chiaramente che l’insistenza di Picchiotti – e di chi per lui – per ottenere quella domanda di affiliazione firmata dal generale piemontese non era dovuta all’ansia di conquistare alla causa massonica un personaggio di grande rilievo e prestigio. Al contrario, era dovuta alla volontà di procurare agli ambienti dell’arma legati alla P2 un’utile carta compromettente

 

che potesse rendere ricattabile quell’alto ufficiale dei carabinieri così diverso da loro. Il generale dalla Chiesa, per la sua indipendenza, la sua professionalità, la sua estraneità alle logiche di potere per il potere e per la sua indiscussa fedeltà ai principi costituzionali, stava acquistando un prestigio sempre maggiore e quindi era pericoloso: sia perché poteva seriamente intralciare le loro carriere pilotate dalla P2, sia perché con larestare sua determinazione avrebbe potuto scoprire cose che dovevano assolutamente segrete. L’allarme era scattato con probabilità nel 1974, quando, per iniziativa del ministro Taviani, era stato affidato a Dalla Chiesa quel primo nucleo speciale antiterrorismo che non a caso gli era stato poi tolto poco più di un anno dopo. La prima lettera è del 22 febbraio 1977. Sono passati circa quattro mesi da quando Dalla Chiesa ha firmato la domanda di affiliazione alla loggia P2 ed è proprio il periodo in cui gli viene tolto (in anticipo) il comando della brigata di Torino, tenendolo «a disposizione» (eufemismo per non dire in ozio forzato) per due mesi. In questa lettera Gelli scrive che «è stata presa in esame la Sua posizione che è stata accolta all’unanimità. Per quanto riguarda l’incontro per il perfezionamento della Sua posizione, provvederò a darle comunicazione in tempo utile». Poi una lunga pausa che dura nove mesi e mezzo. Nel frattempo Dalla Chiesa, nel mese di maggio, è stato dirottato al coordinamento dei servizi di vigilanza per gli istituti di prevenzione e pena. La seconda lettera, in cui Gelli gli si rivolge con il più familiare tu, tu, è  è del 9 dicembre 1977. Dalla Chiesa è sempre relegato a occuparsi degli istituti di prevenzione e pena. Ma nel frattempo anche il generale Edoardo Palombi, pure lui preso di mira dal gruppo di potere piduista di Palumbo e compagni, naviga in cattive acque: i successi riscossi a cavallo tra il 1976 e il 1977 dalla sezione speciale divisione lungi dal giovargli, scatenanoanticrimine una sorda della reazione controda di lui lui comandata, e contro i suoi ufficiali da parte del gruppo contrapposto. Viene così deciso, nel novembre del 1977, su iniziativa dello stato maggiore dell’arma, «il distacco […] della sezione speciale anticrimine, che si era segnalata per i brillanti risultati ottenuti specie nella lotta al terrorismo, dal comando di divisione a quello della legione di Milano e quindi alle dipendenze del Mazzei e del Panella». 38 Operazione, come vedremo, semplicemente devastante. Ma torniamo alla seconda lettera – o meglio, pseudolettera – della cartellina SOSPESI. Il 9 dicembre 1977 Gelli scrive: «Ti informo che, per impegni imprevedibili che ci impongono di partecipare a una serie di riunioni in paesi esteri, il perfezionamento della nota pratica avverrà tra il 25 e il 27 gennaio 1978».

 

La terza lettera è datata 23 gennaio 1978. Gelli scrive: «A causa di sopraggiunti imprevisti, mi trovo costretto a rinviare l’incontro ad altra data che preciserò con mia successiva». Altra pausa di cinque mesi. Nella quarta (e ultima) lettera, datata 28 giugno 1978, Gelli torna a un registro più formale prega «di farmi conoscere – attraverso l’amico Gen. Franco Picchiotti – ile giorno, compreso nella seconda quindicina del prossimo mese di settembre, in cui Ella potrà essere disponibile per poter concludere il perfezionamento della Sua pratica». Sarà bene che ci soffermiamo sulla data di quest’ultima lettera: 28 giugno 1978. Era passato poco più di un mese e mezzo dall’assassinio di Aldo Moro, seguito immediatamente dalle dimissioni da ministro dell’Interno di Francesco Cossiga, che aveva occupato ininterrottamente il Viminale per oltre due anni. Dopo un breve interim del presidente del Consiglio Andreotti, era diventato ministro dell’Interno Virginio Rognoni a partire dal 13 giugno 1978. Mentre Cossiga era piuttosto legato agli ambienti della P2 (era stato lui a insediare a capo dei servizi segreti due personaggi i cui nomi risulteranno ricompresi negli elenchi degli affiliati alla loggia segreta), 39 Rognoni non aveva nessun legame di quel tipo, per cui c’è da ritenere che i suddetti ambienti non abbiano gradito la sua nomina a ministro dell’Interno. Tanto più che nei circoli bene informati (a partire dai servizi e dal milieu milieu circostante)  circostante) si percepì subito l’intenzione del nuovo ministro di restituire il non gradito generale dalla Chiesa a compiti di antiterrorismo, più adatti alle capacità di cui aveva dato ampia prova. Di qui, molto probabilmente, deriva la decisione di Licio Gelli di inserire SOSPESI la quarta e ultima lettera, per arricchire il «dossier-spada nella cartellinadedicato di Damocle» al generale e gelosamente custodito in cassaforte per ogni evenienza. L’intento è ormai chiaro: non si voleva affatto accogliere il pericoloso generale nella loggia P2, ma lo si voleva soltanto legare a un dossier compromettente costruito ad hoc con hoc con una cura davvero degna di miglior causa. Quanto al dossier, dopo quel 28 giugno 1978 esso rimase custodito nella cassaforte di Gelli per altri due anni e quattro mesi fino alla perquisizione di Castiglion Fibocchi. 40 Già nel corso di quell’estate 1978, su iniziativa del ministro Rognoni, viene affidato a Dalla Chiesa un nuovo nucleo speciale antiterrorismo di cui il generale assume il comando il 10 settembre 1978, con funzioni di coordinamento fra le forze di polizia e gli agenti dei servizi informativi per la lotta al terrorismo. Come abbiamo anticipato all’inizio di questo capitolo, di lì a venti giorni, il 1°

 

ottobre, gli uomini di Dalla Chiesa mettono a segno l’operazione milanese di via Monte Nevoso.

 

III Altri aspetti del caso Moro

1. Insidie e problemi connessi alla scoperta della base brigatista milanese di via Monte Nevoso Torniamo un attimo al novembre la sezione sottratta speciale alla anticrimineper della divisione Pastrengo 1977, viene quando improvvisamente divisione e, quindi, al controllo dell’onesto generale Edoardo Palombi e viene inquadrata all’interno della legione carabinieri di Milano, venendo a trovarsi alle dipendenze dei due piduisti del gruppo Palumbo, colonnello Mazzei e tenente colonnello Panella. 1 A quel tempo ben pochi si accorgono che si tratta di un’operazione sciagurata e finalizzata a far sì che le indagini sulle vicende criminali più sensibili possano essere più adeguatamente controllate e pilotate dagli ambienti della P2 e dai relativi servizi. Ciò accade proprio il 1° ottobre 1978 quando, con l’irruzione dei carabinieri di Dalla Chiesa nel covo milanese di via Monte Nevoso, si produce una sorta di cortocircuito tra i carabinieri ivi legittimamente operanti – quelli del nucleo speciale antiterrorismo creato un mese prima per il generale dalla Chiesa – e i loro colleghi piduisti del gruppo Palumbo-Mazzei-Panella, che dispongono ormai della sezione speciale anticrimine. Come dire, uno scontro fra due galli nel pollaio, che ha certamente influito negativamente sull’esito della perquisizione di via Monte Nevoso. Ma andiamo con ordine. Nella primavera del 1975, quando ancora non era controllata dalla P2, la sezione speciale anticrimine di Milano si era organizzata in modo da svolgere la sua attività con personale che lavorasse senza esporsi. Si era quindi deciso che gli di polizia giudiziaria – comesedi rapporti e verbali – dovessero firmati dai atti nuclei operativi delle rispettive territoriali, in modo tale cheessere fossero poi

 

chiamati a deporre come testimoni nelle udienze dibattimentali i militari di quei nuclei territoriali e non già gli uomini della sezione speciale anticrimine, i quali dovevano invece evitare ogni esposizione. 2 Tuttavia è chiaro che un sistema di questo genere (di per sé discutibile sotto il profilo della documentazione degli atti) poteva mantenere un’affidabilità sufficiente solo caso di totale accordo, e grande affiatamento traini carabinieri delle singoleperfetto sezioni coordinamento speciali anticrimine, gli uomini del nucleo antiterrorismo comandato da Dalla Chiesa (tutti destinati a operare fianco a fianco senza esporsi) esporsi) e i militari dei singoli nuclei operativi territoriali destinati a firmare rapporti e verbali. Condizione che a Milano era evidentemente venuta meno a partire dal novembre 1977, essendo caduta la relativa sezione anticrimine sotto il controllo della P2. 3 Il generale Nicolò Bozzo tende a essere piuttosto esplicito nelle sue dichiarazioni sul punto. Sentito dalla Commissione stragi, Bozzo conferma la metodica seguita dalle sezioni anticrimine: «Noi non facevamo rapporti, non svolgevamo attività burocratiche di polizia giudiziaria, perché altrimenti ci identificavano. Avremmo dovuto andare a deporre davanti al magistrato e se ci vedevano in aula era finita. I rapporti e gli atti di polizia giudiziaria venivano redatti dal reparto investigativo [territoriale] al quale ci appoggiavamo». E subito aggiunge, in modo tutt’altro che velato, che «in quel periodo, purtroppo, si è verificata una frattura tra l’arma di Milano e i reparti di Dalla Chiesa; una frattura che poi è quella che porta all’inconveniente della perquisizione fatta male in via Monte Nevoso». 4 A questo punto Bozzo addita senza mezzi termini come iniziativa assurda, e responsabile dell’inconveniente, proprio l’operazione deleteria effettuata nel novembre 1977: Una cosa assurda, perché [le sezioni speciali anticrimine] sono reparti che hanno una loro competenza territoriale: territoriale: come si può mettere sotto il comando provinciale di Milano una sezione speciale anticrimine che opera su tutta la Lombardia? Noi ci siamo trovati, in occasione del sequestro Moro, in questa tragica situazione e io, che ero il coordinatore, non coordinavo più niente, perché c’erano ben quattro livelli tra me e la periferia, le notizie pervenivano frammentate, soppesate, ma soprattutto ritardate, questo è il punto. Quindi l’arma, dai primi di novembre 1977, ha cambiato la struttura ordinativa antiterrorismo: e ciò è stato terribile. 5

Bozzo ribadisce poi il concetto sottolineando che, mentre sotto la direzione del generale Edoardo Palombi non c’era stata alcuna difficoltà almeno sino a dopo l’estate del 1977, successivamente, invece, «di difficoltà ce ne sono state», sia perché «Palombi stava per essere trasferito», sia perché, per l’appunto, era 6 «cambiato Ed ecco,l’ordinamento». sempre nel racconto di Bozzo alla Commissione stragi, la

 

descrizione del conseguente cortocircuito che si era scatenato nel corso della perquisizione dell’ottobre 1978 in via Monte Nevoso, e che ne aveva compromesso gravemente l’esito. Cosa è successo a Milano nell’ottobre 1978? In quell’appartamento c’era un mare di materiale: mai vista una cosa del genere! C’era tutto l’archivio delle Brigate rosse, dietro una tenda nascosta da un finto armadio a muro, con tutti i faldoni allineati quasi si trattasse di una ditta di spedizioni. Per eseguire la verbalizzazione di tutto il materiale repertato e poi iniziare la perquisizione dei mobili e dei muri sarebbero stati necessari non meno di quindici giorni, ma noi siamo rimasti cinque giorni soltanto. Infatti, il giorno 2 ottobre sono venuto a conoscenza che il comando della legione di Milano stava redigendo un rapporto disciplinare contro l’operato mio e dei miei collaboratori. Io ho chiamato il generale dalla Chiesa a Roma, dove egli era rientrato la sera del 1° ottobre, e gli ho detto cosa stava succedendo; lui mi ha risposto di ritirare tutto il personale nelle nostre basi. Noi avevamo delle basi di copertura al di fuori delle caserme perché, così come noi pedinavamo i brigatisti loro potevano pedinare noi: se continuavamo a entrare e uscire da una caserma potevamo essere facilmente individuati. Quindi il generale dalla Chiesa disse di ritirarci in queste basi e di portare con noi tutto il materiale da cui si potevano trarre immediati spunti operativi, lasciando tutto il resto in mano all’arma territoriale. Io non ho potuto eseguire l’ordine tempestivamente, anche perché il magistrato si è opposto; poi ha dato il consenso quando gli è stato detto che era stato fatto tutto, mentre non era del tutto vero: non era stata fatta, infatti, la perquisizione come era solito farsi, perché dopo cinque giorni abbiamo dovuto abbandonare il covo. Purtroppo, dietro quel maledetto termosifone c’era una finta parete e c’era tutto quel materiale; c’erano anche 58 milioni del sequestro Costa, c’erano armi e munizioni. Purtroppo è andata così. Parliamoci chiaro: le difficoltà che noi dei reparti speciali abbiamo incontrato all’interno delle istituzioni non sono state di gran lunga inferiori a quelle che abbiamo trovato all’esterno, perché la nostra era una struttura malvista da tutti (o quasi). […] Siamo venuti via prima del tempo, perché l’ordine era quello di venire via e lasciare tutto al reparto territoriale per evitare che la tensione esistente potesse provocare ripercussioni sul servizio in quel momento assolutamente inopportune. 7

Era inevitabile che, in una situazione decisamente negativa come quella descritta da Bozzo, il metodo di lavoro basato sulla distinzione e sul coordinamento tra militari gli operanti mantenere non esposti)sie trasformasse militari verbalizzanti (destinati a firmare atti e (da a deporre in dibattimento) in un meccanismo perverso con conseguenze di assoluta mancanza di trasparenza nella documentazione degli atti di indagine. Ed è esattamente ciò che si è verificato nella delicatissima operazione anticrimine di cui stiamo parlando. Prova ne sia che il verbale di perquisizione e sequestro dell’operazione di via Monte Nevoso  – steso fra il 1° e il 5 ottobre 1978 e chiuso prematuramente in fretta e furia –  non consente affatto di ricostruire in maniera trasparente ciò che effettivamente accadde. Il verbale – di cui si trova copia agli atti della Commissione parlamentare sul caso Moro – è composto da sessanta fogli ed è firmato foglio per foglio da un capitano e da tre sottufficiali della legione carabinieri di Milano (Gruppo Milano I, nucleo operativo): sono il capitano Giovanni Mango, il maresciallo Enzo

 

Allegretti, il maresciallo Giovanni Scirocco e il brigadiere Giuseppe Nicastro. 8 Questi militari svolgevano le loro mansioni di verbalizzazione nell’appartamento durante le ore diurne, mentre i loro colleghi del reparto speciale di Dalla Chiesa li sostituivano nelle ore notturne, il che evidentemente non favoriva un coordinamento ottimale tra i due gruppi. 9 Colpisce,non allacilettura del verbale di perquisizione sequestro, che nel documento sia nessuna seria ricostruzione dei ediversi momenti dell’operazione di polizia giudiziaria, dall’individuazione e dall’irruzione nell’appartamento sino al momento in cui si è iniziata l’elencazione dei reperti. Infatti, l’elencazione dei 210 oggetti sequestrati inizia immediatamente dopo pochissime righe di apertura, in cui si dà atto solo dell’avvenuto arresto dei brigatisti Lauro Azzolini e Nadia Mantovani, nonché di «un giovane non ancora identificato». Ciò significa che i quattro verbalizzanti non erano stati informati dai loro colleghi che il terzo arrestato era stato subito identificato in Franco Bonisoli. Quindi si intuisce chiaramente che i verbalizzanti non solo non hanno vissuto le prime fasi dell’evento che dovevano documentare, ma non hanno nemmeno avuto modo di coordinarsi adeguatamente con gli operanti del reparto speciale, in modo da evitare lacune nel verbale. Un verbale di nome, ma non di fatto, visto che si presenta, sostanzialmente, solo come un mero elenco degli oggetti sequestrati. La spiegazione la fornisce ancora Bozzo, nella sua audizione alla Commissione stragi, quando afferma che i carabinieri dell’arma territoriale di Milano «riferiscono solo quello che risulta loro in quanto chiamati a collaborare con noi». In sostanza – aggiunge Bozzo – questi uomini, graziosamente mandati dall’arma territoriale a collaborare con il reparto speciale di Dalla Chiesa, «sono entrati nell’operazione quando Azzolini era già stato localizzato e individuato difatti riferiscono solamente quello, pur sapendo come sono andate le cose. Ciòe perché i loro superiori [avevano detto loro] che il resto non li doveva interessare e [avevano detto loro] di riferire solamente quanto gli risultava». 10 Tutto ciò sembra significare, in buona sostanza, che i quattro verbalizzanti appartenenti al Gruppo Milano I dei carabinieri si trovavano costretti ad attenersi a direttive-barriera diramate dalla coppia Mazzei e Panella, i quali ovviamente, da bravi piduisti, la trasparenza non la vedevano affatto di buon occhio. Purtroppo, la grave mancanza di chiarezza e di trasparenza che caratterizza il verbale 1-5 ottobre 1978 ha suscitato una serie di interrogativi, di dubbi, di sospetti, di ipotesi e controipotesi le più disparate circa la correttezza o non correttezza dell’operazione di via Monte Nevoso e del comportamento di chi la condusse o vi partecipò. Ciò sia nel periodo immediatamente successivo alla

 

perquisizione, sia dodici anni dopo, nel 1990, quando – come è stato anticipato –  venne scoperto da un operaio il famoso nascondiglio, con il suo contenuto, durante i lavori di ristrutturazione dell’appartamento ormai dissequestrato. Le conseguenze negative di quella grave mancanza di chiarezza e di trasparenza si sono moltiplicate anche a causa della successiva inerzia degli inquirenti, sia esaminato giudiziari sia parlamentari, i quali,Omissione tra l’altro,davvero non hanno mai convocato ed i quattro verbalizzanti. inspiegabile. Specialmente quando – dopo il colpo di scena di cui diremo al paragrafo seguente – l’audizione dei quattro si presentava come ancor più ineludibile.

2. I contrasti e le anomalie che hanno compromesso l’esito della erquisizione er quisizione di via Monte Nevoso: il colpo di scena del 5 luglio 1982 Come si è già detto, il nascondiglio ricavato nell’intercapedine sotto una finestra di via Monte già Nevoso verràquindi scoperto casualmente dalaunperquisizione, operaio solo nel 1990. In verità, nel 1982, quattro anni dopo ci sarebbero tutte le premesse perché quel nascondiglio possa essere scoperto dagli inquirenti. Infatti, in una delle udienze del primo processo Moro, il 5 luglio 1982 davanti alla prima Corte d’assise di Roma, l’imputata Carla Maria Brioschi rende la seguente dichiarazione: Abbiamo preso visione degli atti processuali e ci siamo accorti che manca del materiale attinente a questo processo. Si tratta: 1) di una cartelletta di cartone marrone contenente le fotocopie di tutti i manoscritti di Aldo Moro nel periodo in cui è stato nostro prigioniero; 2) di una borsa di finta pelle nera contenente 50 milioni in banconote da 50 e 100 mila lire da noi espropriati alla multinazionale Costa. Questo materiale era in nostro possesso e tenuto nella base di via Monte Nevoso a Milano, ed è passato in vostro possesso dopo l’operazione dei carabinieri che portò alla caduta di tale base e alla cattura di alcuni militanti. Di questo materiale, però, non si fa cenno né sul verbale di perquisizione redatto dai carabinieri, né da nessun’altra parte […]. L’operazione di cui si parla fu eseguita il 1° ottobre 1978 dagli uomini del nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri […] e fu diretta dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa, uomo fidato di Andreotti. […]. L’intera L’intera operazione fu completamente centralizzata dall’esecutivo che […] aveva istituzionalizzato per la prima volta un filo diretto ed esclusivo tra il generale dalla Chiesa e la presidenza del Consiglio. Presidente del Consiglio era a quel tempo, guarda caso, l’onorevole Andreotti, che Aldo Moro aveva ripetutamente e duramente attaccato nel corso dei suoi interrogatori. Arrivati a questo punto, chiediamo dove si trova il materiale mancante e perché non è stato acquisito agli atti. Per ora non ho altro da dire. 11

La dichiarazione in aula di Carla Maria Brioschi suscita, com’è ovvio, un certo scalpore. Il primo a prendere la parola è il difensore di parte civile delle famiglie degli agenti di scorta trucidati in via Fani, l’avvocato Fausto Tarsitano, il quale non esclude – unico tra i difensori di parte civile – che quel che ha detto la

 

brigatista possa essere un elemento importante e non, come sospettano le altre parti civili, una provocazione volta a invalidare le prove raccolte. Tarsitano percepisce subito, infatti, quanto sia impellente l’urgenza di ascoltare i verbalizzanti di via Monte Nevoso e lo stesso generale dalla Chiesa. L’avvocato esprime così il proprio parere: Io credo che la Corte debba immediatamente disporre che coloro che hanno partecipato alla perquisizione del 1° ottobre 1978 nel covo di via Monte Nevoso siano convocati. È stato affermato che a noi mancherebbe questa cartella con alcune lettere, alcuni manoscritti dell’onorevole Moro. Dobbiamo accertare la verità, accertare se realmente questi documenti sono stati sequestrati e dove si trovano. Poi dobbiamo accertare se realmente i 50 milioni contenuti in una borsa c’erano e chi eventualmente li ha in mano. Dobbiamo andare, come la Corte ha già fatto, alla ricerca di tutta la verità. Non possiamo lasciare spazio a nessuna speculazione. 12

La richiesta dell’avvocato Tarsitano viene sostenuta solo dai difensori dei brigatisti, fatto che probabilmente non aiuta. Quanto al pubblico ministero d’udienza, Nicolò Amato, egli riconosce che l’avvocato Tarsitano ha posto in evidenza «un’esigenza giusta», cioè che sulle affermazioni della brigatista sia opportuno che «si svolgano delle indagini e si accerti la verità», ma prospetta una diversa soluzione, ritenendo che la sede naturale per gli accertamenti del caso sia la Procura della Repubblica. Chiede quindi alla Corte di trasmettere copia del verbale d’udienza al suo ufficio, impegnandosi «a svolgere queste indagini […] nel più breve tempo possibile». 13 Sulle due richieste il presidente Severino Santiapichi dichiara che «la Corte si riserva di provvedere» dopo le audizioni delle parti offese e prima di procedere all’esame dei testimoni (vale a dire dopo tre o quattro udienze). 14 Sennonché, nei giorni immediatamente successivi, il tasso di intossicazione che già affligge gli esiti della perquisizione di via Monte Nevoso sale ulteriormente. Oggi, col classico senno di poi, sappiamo (fin dal 1990) che quella di Carla Maria Brioschi non è stata un’insidiosa provocazione, bensì una segnalazione esatta, ma in quel luglio del 1982 nessuno poteva saperlo con sicurezza, tanto più che la dichiarazione della Brioschi è effettivamente costellata di allusioni provocatorie, dalla definizione di Dalla Chiesa come «uomo fidato di Andreotti», al punto in cui si sottolineano gli attacchi di Moro nei confronti dell’allora presidente del Consiglio. Ebbene, un duro attacco di Moro ad Andreotti era già presente nelle quarantanove pagine dattiloscritte sequestrate in via Monte Nevoso il 1° ottobre 1978. Al momento dell’udienza del 5 luglio 1982 queste pagine, rese pubbliche già alcune settimane dopo la perquisizione, sono quindi ben note a tutte le parti in causaEd e aètutti coloro nota, che stanno seguendo con attenzione il dibattimento penale. altrettanto di conseguenza, la severa invettiva di Moro contro

 

Andreotti contenuta in quelle carte, di cui si riporta qui un breve passaggio: Dispiace che si parli di democratici cristiani […], per i giorni oscuri della strage di Brescia, come coloro che talune correnti di opinione in città non consideravano, in qualche misura, estranei […]. Non piace che, a proposito di strategia della tensione, si parli […] di connivenze e indulgenze dell’autorità e di democratici cristiani […]. Ma è naturale che un momento di attenzione sia dedicato all’austero regista di questa operazione […] di assoluta indifferenza per quei valori umanitari, i quali fanno tutt’uno con i valori umani. Un regista freddo, imperscrutabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. È questi l’On. Andreotti […]. Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita? 15

La sera di quel 5 luglio 1982, alla chiusura dell’udienza, gli interrogativi scomodi e senza risposta sono molteplici. Uno di essi è il seguente: se già la cartellina azzurra sequestrata nel 1978 conteneva quell’anatema impressionante, quali altri duri e ripetuti attacchi di Moro contro Andreotti potrà mai contenere quella misteriosa e fantomatica cartelletta di cartone marrone di cui ha parlato la brigatista Brioschi? Oggi si saMoro». che la cartelletta marrone la versione del «Memoriale Quella versione delconservava «Memoriale» in realtà più nonampia contiene nessun altro attacco ad Andreotti. È soltanto il testo completo, vergato a mano da Moro, della medesima invettiva già nota sin dal 1978 grazie alla parziale trascrizione contenuta nella cartellina azzurra. 16 Ma tutto questo, il 5 luglio del 1982, nessuno lo poteva sapere.

 3. I veleni ulteriori ulteriori e l’inerzia l’inerzia investigativa e giudiziaria dopo il 5 luglio 1982 La mattina del 6 luglio il servizio del «Corriere della Sera» sull’udienza del giorno prima reca questo titolo: Incredibili titolo: Incredibili accuse dei brigatisti contro cont ro i carabinieri: «Fecero sparire da un covo lettere di Moro e 50 milioni». A milioni». A sua volta il redattore del maggiore quotidiano di Roma, «Il Messaggero», scrive che i carabinieri di Dalla Chiesa avrebbero sequestrato «gli scritti estorti all’On. Aldo Moro durante la prigionia», ma che «qualcuno avrebbe fatto tempestivamente sparire quelle carte perché certe affermazioni del leader democristiano non sarebbero state gradite all’On. Giulio Andreotti». A quel punto, il clima sempre più invelenito attorno alla vicenda Moro e al relativo processo dovrebbe indurre la Corte d’assise – e in primis il primis il suo presidente – a provvedere sulla richiesta dell’avvocato Tarsitano (convocare comeimmediatamente testimoni Dalla Chiesa e i quattro verbalizzanti di via

 

Monte Nevoso) o almeno su quella del pubblico ministero (trasmettere con urgenza al suo ufficio copia del verbale del 5 luglio). Invece, tra il 5 e il 22 luglio, si svolgono ben dieci udienze – in cui si inizia a sentire testimoni – senza che venga emesso alcun provvedimento su quelle richieste. Solo al termine dell’udienza del 22 luglio 1982 la Corte lascia l’aula ed entra in camera consiglio deliberareNe finalmente sulleora svariate avanzate dalle parti di nelle udienzeper precedenti. esce qualche dopo istanze con un’ordinanza che sembra accogliere, sia pure in ritardo, l’istanza di convocazione di Dalla Chiesa e dei verbalizzanti: «La Corte […] ordina la citazione dei verbalizzanti della perquisizione e sequestro eseguiti a Milano l’1.10.1978 nell’appartamento di via Montenevoso […] ordina la citazione per l’audizione nelle forme di legge […] del gen. Carlo Alberto dalla Chiesa […] rinvia il dibattimento all’udienza del 20 settembre 1982». 17 Sennonché, tutte queste citazioni rimangono lettera morta. Per Carlo Alberto dalla Chiesa ormai è troppo tardi: quando il dibattimento riprenderà dopo l’estate, con l’udienza del 20 settembre, sarà già stato assassinato da diciassette giorni. Per quanto riguarda invece i quattro verbalizzanti, per qualche misteriosa ragione non vengono mai convocati, né a seguito dell’ordinanza del 22 luglio 1982 (rimasta ineseguita, almeno per questa parte), né successivamente, in nessuno dei processi Moro che si sono susseguiti nel tempo. Né, tantomeno, in alcuna delle varie Commissioni parlamentari d’inchiesta – Moro e stragi – che si sono succedute sino a oggi.

4. Infondatezza dei sospetti e delle insinuazioni contr controo il generale dalla Chiesa e i suoi uomini. Le responsabilità del Sistema P2 e dei settori dell’arma a esso legati Si è visto come la mancanza di trasparenza nella verbalizzazione del 1978 abbia generato interrogativi, dubbi, sospetti e ipotesi malevole di ogni sorta, che hanno finito col puntare l’indice accusatore contro i carabinieri comandati da Dalla Chiesa lasciando invece indenni gli ambienti dell’arma legati alla P2, che avevano volutamente creato le premesse degli inconvenienti che si erano prodotti. Quella mancanza di trasparenza, insieme agli effetti della dirompente dichiarazione Brioschie all’anomalia del 1982 (totalmente ignorata dalleavvenuti autoritàinche dovuto occuparsene) dei due ritrovamenti viaavrebbero Monte

 

Nevoso a distanza di dodici anni l’uno dall’altro, hanno fatto sì che si sia avanzato da più parti un sospetto molto inquietante. Il sospetto, cioè, che le carte uscite da quell’intercapedine nel 1990 fossero già state trovate nel 1978, e poi manipolate, al fine di tener nascoste parti del «Memoriale» ritenute troppo compromettenti per l’assetto di potere del momento, o comunque sgradite a qualche personaggio influente. E che esse fossero state poi rimesse nel nascondiglio (lasciandovi anche le armi e il denaro), limitando così il sequestro ai quarantanove fogli dattiloscritti, considerati meno compromettenti. 18 Si tratta però di un sospetto infondato. Anzitutto le perizie sui materiali da costruzione relativi al nascondiglio hanno stabilito che esso fu creato intorno al 1977 e che non c’era traccia di movimentazioni intermedie tra quell’epoca e l’apertura del 1990, così da escludere che il nascondiglio sia stato aperto e richiuso nel frattempo. 19 In secondo luogo, è vero che le carte trovate nel 1990 hanno un contenuto più esteso di quelle del 1978, ma «qualitativamente la differenza non è significativa», tanto che in sede giudiziaria «i legali di Andreotti ebbero buon gioco nel sostenere che il loro assistito usciva dalla versione 1990 non peggio che da quella 1978». 20 Del resto si è visto che la dura invettiva di Moro nei confronti di Andreotti è contenuta in termini identici in entrambe le versioni, senza che la versione del 1990 presenti ulteriori attacchi al medesimo o ad altri personaggi influenti. In verità il «Memoriale Moro», sia nell’una che nell’altra versione, non contiene «nulla di veramente compromettente per nessuno». 21 Anzi, a leggerlo con attenzione si deve concludere che Aldo Moro non ha dato grande soddisfazione ai suoi rapitori brigatisti, non avendo detto loro assolutamente «nulla di eclatante», come ha ammesso uno di loro, Germano Maccari, in sede di 22

Commissione parlamentare. 23 hanno osservato che un motivo plausibile per tenere occultata Alcuni autori la versione del «Memoriale» del 1990 poteva essere il brano – non riprodotto nella versione dattiloscritta del 1978 – in cui Moro si soffermava sul tema dei «reparti antiguerriglia». 24 E ciò sul presupposto che in quel brano si riferisse all’organizzazione Gladio, 25 che nel 1978 era ancora coperta dal segreto. In realtà Moro, in quel brano, non si riferiva affatto a Gladio, bensì rispondeva a una domanda dei suoi carcerieri circa un tema a loro molto caro, non a caso da loro stessi illustrato, nell’usuale e suggestivo linguaggio guerrigliero, nel Comunicato n. 2 del 25 marzo 1978. 26 In quella sede, dopo aver premesso che «è in corso l’interrogatorio ad Aldo Moro» al fine di «chiarire le politiche imperialiste e antiproletarie di cui la Dc è portatrice» e al fine di individuare «le strutture internazionali e le filiazioni nazionali della

 

controrivoluzione imperialista», i brigatisti fissano così l’argomento della domanda in questione: IL TERRORISMO IMPERIALISTA E L’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO – A livello militare è la Nato che pilota e dirige i progetti continentali di controrivoluzione armata nei vari Sim europei. I nove paesi della Cee hanno creato L L’ORGANLZZAZI ’ORGANLZZAZIONE ONE COMUNE DI POLIZIA chehanno è unagià vera e proprialecentrale internazionale terrore. Sono i paesi più forti dellail catena e che collaudato tecniche più avanzate del della controrivoluzione ad assumersi compito di trainare, istruire, dirigere le appendici militari nei paesi più deboli che non hanno ancora raggiunto i loro livelli di macabra efficienza […]. ECCOLA QUI L’INTERNAZIONALE DEL TERRORISMO. Eccoli qui i boia imperialisti massacratori dei militanti dell’Ira, della Raf, del popolo palestinese, dei guerriglieri comunisti dell’America Latina […].

Ecco dunque il tema della domanda ad Aldo Moro. In sostanza i brigatisti interrogano il prigioniero in merito alla sua implicazione – data per scontata –  nell’internazionale nell’ internazionale imperialista del terrorismo antiproletario, ovviamente antiproletario, ovviamente pilotata dalla Nato e dai suoi membri che hanno raggiunto alti «livelli di macabra efficienza». 27 Tuttavia Aldo Moro, dopo aver interpretato a modo suo il dei suoi li disorientail con abilità spostandosi su unlinguaggio terreno diverso dalinterlocutori, loro. Ignora totalmente temagrande del terrorismo imperialista antiproletario, evoca i suoi ricordi di quando era ministro degli Esteri e le sue reminiscenze sull’organizzazione militare alleata (che peraltro non poneva «nessuna particolare enfasi sull’attività antiguerriglia») e parla di collaborazione intergovernativa, di collaborazione intereuropea e intercomunitaria, con varie ripetizioni e con divagazioni sulla Svizzera e sull’Irlanda. In sostanza si fa beffa dei suoi interlocutori, disquisendo sapientemente senza dire nulla. Ed è persino probabile che i brigatisti abbiano poi omesso di ricopiare a macchina quelle disquisizioni, considerandole inutili. In conclusione, tutti i sospetti e le insinuazioni che hanno coinvolto il generale dalla Chiesa e i suoi uomini, a proposito della gestione dell’operazione di via Monte Nevoso, sono totalmente ingiustificati e infondati. Si tratta di sospetti e insinuazioni che hanno pesato per anni su uomini dell’arma fedeli alla Repubblica e alle sue istituzioni, osteggiati, quando non mortificati e danneggiati, da altri uomini dell’arma, potenti in quanto asserviti al potere occulto della loggia P2. A questi stessi individui – e all’insieme del Sistema P2 –  va addebitato anche l’ulteriore disagio che possono avere subito quegli uomini dell’arma fedeli alla Repubblica, dal dibattito che – in perfetta buona fede – si è inevitabilmente prodotto, su quei sospetti e su quelle insinuazioni, tra studiosi di storia contemporanea, giornalisti, politologi, sociologi e altri osservatori.

 

5. La Relazione Anselmi e la massiccia presenza presenza di piduisti nel Comitato di coordinamento. Le intromissioni di Gelli tramite il generale Grassini A proposito degli effetti nefasti esercitati dal Sistema P2 sulla tragica vicenda Moro e sull’efficienza delle relative indagini – sia nei cinquantacinque giorni del rapimento, sia dopo l’assassinio dello statista – lasciamo l’ultima parola alla Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi, la cui Relazione finale ha condotto l’analisi più autorevole sul tema di quella loggia segreta: La Commissione, analogamente a quanto rilevato dalla Commissione di inchiesta sulla strage di via Fani e sull’uccisione dell’onorevole Moro, non ha potuto non prospettarsi il problema del significato della presenza di numerosi elementi iscritti alla loggia P2 che rivestivano, in quel periodo e in ordine a quella vicenda, posizioni di elevata responsabilità. Sono questi interrogativi che emergono dalla testimonianza, ad esempio, del sottosegretario Lettieri, che di fronte a quella Commissione ha rilevato come le riunioni al Viminale del Comitato di coordinamento tra le forze dell’ordine vedevano presente intorno allo stesso tavolo una maggioranza di iscritti alla loggia P2, tra gli organi tecnici di ausilio ai responsabili politici. Dagli appunti del sottosegretario Lettieri risultano infatti presenti a queste riunioni, oltre ai ministri interessati i nteressati e ai vertici della polizia e dei carabinieri, i seguenti affiliati alla loggia P2: i generali Giudice, Torrisi, Santovito, Grassini, Lo Prete, nonché, a una di esse, il colonnello Siracusano. Questa constatazione pone il quesito se l’inadeguatezza degli apparati informativi e di polizia dello Stato, sulla quale si è registrato un ampio consenso tra le forze politiche, abbia avuto a suo fondamento motivazioni di ordine esclusivamente tecnico, o sia invece da riportare ad altro ordine di considerazioni. Questa problematica non ha trovato nel corso dell’indagine ulteriori riscontri, fatta eccezione per la deposizione del commissario di Pubblica sicurezza Elio Cioppa, vice del generale Grassini al Sisde, 28 il quale ha confermato la testimonianza resa di fronte al magistrato di aver successivamente ricevuto dal suo superiore, all’epoca del suo arrivo al Servizio, l’incarico di effettuare ricerche nell’ambito dell’ambiente della sinistra, sulla base di informazioni e valutazioni, e tra queste valutazioni relative vicendasaltuariamente, Moro, che il suo superioreseaveva recepito direttamente da anche Licio Gelli con il quale si alla incontrava nell’interes nell’interesse esclusivo del Servizio. La testimonianza non viene smentita dal generale Grassini il quale, dichiarando di non ricordare l’episodio riferito dal Cioppa, afferma peraltro che, se lo aveva riferito Cioppa –  funzionario serio e competente – doveva essere senz’altro vero. Aggiunge che, se aveva ricevuto informazioni da Gelli, ciò era avvenuto non in occasione di una riunione alla quale Gelli era presente, ma in un incontro fra lui e lo stesso Gelli. […] Queste considerazioni […] vanno pertanto a porsi in aggiunta alle osservazioni ricordate sulla insufficienza dimostrata dagli apparati apparati e lasciano aperti, in un più ampio contesto, gli interrogativi da più parti sollevati. Interrogativi in ordine ai quali la Commissione non è in grado di fornire risposte certe ma che peraltro, attesa la delicatezza della materia e il suo preminente rilievo politico, non ritiene, alla luce soprattutto dell’ambiguo rapporto identificato tra Licio Gelli e i servizi segreti, di poter sottacere. 29

 

6. Una calunnia postuma ai danni di dalla Chiesa, trait d’union fra il caso Moro e il caso Pecorelli. La vicenda Incandela Le speculazioni e i veleni intorno al «Memoriale Moro» rimarranno sotto traccia  – ma pur sempre in circolo – per diversi anni, a nni, per riemergere poi in maniera m aniera dirompente nel giugno 1994, intrecciandosi con le vicende giudiziarie riguardanti Giulio Andreotti. Una di esse è quella di Perugia, relativa all’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli, direttore del settimanale politico «OP» e assassinato a Roma il 20 marzo 1979, nella quale Andreotti viene indicato come mandante del delitto. L’altra indagine su Andreotti è quella di Palermo, relativa all’accusa di complicità con Cosa Nostra. Accade che il 27 giugno 1994 il maresciallo Angelo Incandela, già comandante degli agenti di custodia del supercarcere di Cuneo, viene convocato dal pubblico ministero di Palermo per essere interrogato sul contenuto di un libro di sue memorie, pubblicato poche settimane prima a cura del giornalista Pino 30

 In quell’udienza, in quelle successive svoltesi nel del mese di Nicotri. luglio, Incandela rende delleedichiarazioni che confermerà poi corso nell’udienza dibattimentale del 15 gennaio 1997 del processo di Palermo a carico di Andreotti. Il maresciallo Incandela dichiara di avere avuto un rapporto di fiducia e collaborazione con il generale dalla Chiesa e di avere avuto occasione, tra l’altro, di partecipare a un incontro avvenuto nei primissimi giorni di gennaio del 1979 –  a tarda sera – con il generale e il giornalista Carmine Pecorelli. Carmine Pecorelli, ucciso ben quindici anni prima delle dichiarazioni di Incandela, era stato iscritto alla loggia P2 (tessera n. 1750), ma era stato un piduista piuttosto anomalo. Infatti, da un lato era stato «a lungo sodale di Gelli e del generale Mino», ma negli ultimi anni, sul suo periodico «OP», era stato molto spesso «assai critico nei confronti della P2 e di molti affiliati». 31 Incandela racconta che l’incontro tra lui, Dalla Chiesa e Pecorelli si era svolto, con modalità riservate, alla periferia di Cuneo (località Pantalera) all’interno di un’auto. In quell’occasione Dalla Chiesa e un uomo a lui allora sconosciuto, e che solo successivamente avrebbe saputo essere Pecorelli, gli avevano spiegato che nel carcere di Cuneo si trovavano, nascosti da qualche parte, «documenti riguardanti il sequestro Moro» che erano stati introdotti clandestinamente. I documenti erano destinati al detenuto Francis Turatello e lui  – Incandela – doveva assolutamente assolut amente trovarli e consegnarli consegna rli al generale dalla Chiesa. Tre giorni dopo quell’incontro a tre, Incandela aveva nuovamente incontrato

 

il generale, il quale gli aveva ribadito l’urgenza di recuperare quelle carte relative al sequestro Moro, specificando ora che si trattava di «documenti che facevano parte del memoriale di Moro». Dopo un paio di settimane di ricerca, Incandela riferisce di aver trovato un involucro avente la forma di un «salame», avvolto con nastro isolante da imballaggio e contenente circa un centinaio di fogli. L’aveva quindi consegnato al generale dalla Chiesa, il quale però non era rimasto soddisfatto e aveva continuato a sollecitarlo perché si impegnasse a ritrovare altri documenti concernenti l’onorevole Andreotti, che egli era sicuro fossero occultati all’interno del carcere di Cuneo: Devo dire in proposito che il generale dalla Chiesa teneva moltissimo ad avere informazioni sull’onorevole Andreotti. Tante Tante volte nel corso degli anni mi chiese con insistenza di riferirgli notizie apprese dai detenuti sul conto dell’on. Andreotti. Egli era convintissimo che l’on. Andreotti era una persona estremamente pericolosa […]. È certo che l’on. Andreotti era per il generale dalla Chiesa un chiodo fisso. 32

Questo strano racconto viene analizzato e valutato con grande attenzione dalla sentenza Tribunale di Palermo del 23delottobre 1999, a carico di Giulio Andreotti,del e viene giustamente ritenuto tutto inattendibile. Osserva la sentenza che il presunto incontro notturno sarebbe avvenuto a inizio gennaio 1979, mentre l’omicidio del giornalista è stato commesso neanche tre mesi dopo, il 20 marzo successivo. Orbene, il teste Incandela, dopo aver riconosciuto nel Pecorelli – dalle foto della vittima pubblicate sui giornali – lo sconosciuto di quella sera, «non ha ritenuto per oltre quindici anni di dover riferire ad alcuna autorità ciò che gli risultava e che poteva essere indubbiamente utile per le indagini». Non solo, ma Incandela ha continuato a serbare il suo incredibile silenzio anche dopo l’assassinio dello stesso Carlo Alberto dalla Chiesa, avvenuto a Palermo il 3 settembre 1982. Mentre «proprio la tragica fine del generale dalla Chiesa – tre anni dopo la morte di Pecorelli – avrebbe dovuto sollecitare ulteriormente il maresciallo a riferire ciò di cui era a conoscenza sulle due vittime e sui loro rapporti». Son dovuti passare altri dodici anni prima che Incandela decidesse di divulgare quelle sue rivelazioni, nel maggio 1994, ma sotto forma di un libro di memorie, cosa che inevitabilmente avrebbe – e ha –  suscitato l’interesse degli inquirenti. 33 Questo suo prolungato silenzio è stato contestato a Incandela, nel corso del processo Andreotti, e lui ha risposto che no, che aveva parlato della cosa «ai suoi superiori» subito dopo l’omicidio Pecorelli. Tuttavia costoro, sentiti come 34

testimoni, hanno decisamente smentito. del generale dalla Chiesa, il Inoltre, lo uno dei più stretti collaboratori

 

colonnello Angelo Tateo, «addetto alla sua segreteria dal maggio 1977 al gennaio 1980 […], in ordine ai rapporti tra il generale e il giornalista Pecorelli […], ha escluso in maniera netta e inequivoca l’esistenza di incontri che, ove fossero realmente avvenuti, non avrebbero potuto svolgersi senza che egli ne fosse a conoscenza». 35 La sentenza si sofferma poi su ulteriori particolari che inducono a ritenere semplicemente falso il racconto di Incandela e conclude rilevando come quel racconto «sia rimasto privo di ogni necessario utile riscontro atto a confermarne l’attendibilità, risultando per contro, oltre che ripetutamente confuso e contraddittorio, anche smentito in maniera decisiva e inequivoca dal complessivo esito di ogni indagine svolta». 36 Non rimane che da chiedersi come mai Angelo Incandela abbia inventato una storia simile e l’abbia inventata proprio nel 1994, quando – tra l’altro – i tre personaggi chiamati in causa (il generale dalla Chiesa, il giornalista Pecorelli e il bandito Turatello) erano morti, tutti e tre assassinati, da un bel po’ di anni. 37 Ebbene, si è trattato, con tutta probabilità, di un altro dei frutti perversi maturati a seguito degli inconvenienti illustrati nelle pagine precedenti. La diffusa falsa opinione che una copia del «Memoriale Moro» scoperto nel 1990 in via Monte Nevoso fosse già in circolazione sin dal 1978 (grazie a qualcuno che avrebbe sin da allora trovato quel famoso nascondiglio) può avere indotto qualcuno a creare quella falsa verità per il Tribunale di Palermo nel caso Andreotti. Lo scopo? Azzardiamo un’ipotesi. Far apparire Andreotti, proprio nell’ambito di quel processo, come vittima di una persecuzione. Una persecuzione talmente accanita da aver trovato un interprete persino nel generale dalla Chiesa, dipinto come un uomo senza scrupoli, agli antipodi di quel personaggio rigorosamente istituzionale, comenel tale1993 da tutti. Non va dimenticato che Andreotti era riconosciuto stato incriminato sia per l’omicidio Pecorelli (autorizzazione a procedere del 29 luglio) che per la complicità con Cosa Nostra (autorizzazione a procedere del 13 maggio) e che nel 1994 fervevano le indagini nei suoi confronti sia a Perugia sia a Palermo. In altri termini, la pendenza di quei due procedimenti penali in parallelo faceva sì che il biennio 1993-1994, per Andreotti e per gli ambienti di potere che facevano capo a lui, non fosse affatto un bel periodo. Ed è davvero singolare che Incandela si sia deciso a fare il suo strano racconto proprio nel 1994, tra l’altro gettando un’altra buona dose di fango sulla memoria del generale dalla Chiesa, dovendo descriverlo velenosamente – per ragioni di copione – come una persona disponibile a sottrarre, manipolare e gestire illegalmente reperti appartenenti a una delicatissima inchiesta giudiziaria

 

come quella relativa al caso Moro.

 

IV Pecorelli. Il giornalista che «disturbava politicamente»

1. Il delitto Pecorelli e la prima inchiesta sull’omicidio Roma, 20 marzo 1979, ore 20.30. Carmine Pecorelli, detto Mino, direttore del 1

* lascia la redazione via Tacito settimanale Politico»), insieme con«OP» i suoi («Osservatore due collaboratori Franca Mangiavacca e Paolo di Patrizi. Raggiunge la sua auto parcheggiata nella vicina via Orazio, sale e accende il motore. Subito un individuo si avvicina al finestrino e gli spara un colpo di pistola attraverso il vetro. Lo colpisce al labbro superiore, poi apre la portiera e spara altri tre colpi. Quattro proiettili calibro 7,65. Sul terreno due bossoli marca Fiocchi e due marca Gevelot. Un carabiniere ausiliario che sta passando in via Orazio allerta la sala operativa dell’Arma. In breve arriva sul posto il colonnello Antonio Cornacchia, comandante del reparto operativo dei carabinieri, il quale già si trovava nelle vicinanze di via Orazio in borghese per ragioni di servizio (al processo rifiuterà di specificare di che servizio si trattasse). Giunge sul luogo del delitto anche il magistrato di turno, Eugenio Mauro, ma il colonnello Cornacchia (il cui nome comparirà due anni dopo negli elenchi degli iscritti alla loggia P2) ipotizza subito che il delitto sia opera delle Brigate rosse e fa intervenire sul posto anche il sostituto procuratore Domenico Sica. 2 La prima istruttoria sul delitto Pecorelli, protrattasi stancamente e senza alcun risultato dal 1979 al 1991, è scandita da gravi omissioni. Tra l’altro, nelle agende di lavoro di Pecorelli ricorrono nominativi – ripetuti decine e decine di volte – di personaggi di assoluto rilievo che potrebbero fornire elementi importanti per le indagini, ma che in tutti quegli anni vengono assolutamente ignorati. Per esempio, tra il marzo 1978 e il marzo 1979 Pecorelli ha segnato in agenda 106

 

volte il nome di Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio affari riservati (Uar) del ministero dell’Interno (iscritto alla P2), 56 volte quello di Vito Miceli, capo del Sid 3 (iscritto alla P2), 42 volte quello del colonnello Antonio Varisco, ufficiale dei carabinieri e grande amico nonché informatore di Pecorelli. 4 Nessuno di loro viene sentito. Per quanto riguarda, in particolare, il colonnello Varisco, gli inquirenti hanno avuto a disposizione questo potenziale e prezioso testimone per quasi quattro mesi, ma non lo hanno convocato. Purtroppo, il 13 luglio 1979 Antonio Varisco viene ucciso a Roma in un attentato. Impegnato a indagare personalmente sull’uccisione del suo amico giornalista, Varisco si era dimesso dall’Arma dei carabinieri pochi giorni prima di essere assassinato. Del resto, le piste da battere non erano poche: in diversi anni, grazie al giro di relazioni e rapporti nell’ambito della loggia P2, Pecorelli aveva pubblicato molti servizi scottanti e si era fatto parecchi nemici. 5 Invece, le indagini sull’omicidio Pecorelli, gestite stancamente dal pm romano Domenico Sica, saranno chiuse a carico di ignoti con la sentenza istruttoria del 15 novembre 1991, dopo dodici anni e otto mesi di sostanziale inattività. 6

2. La seconda inchiesta sull’omicidio e le rivelazioni dei collaboratori di giustizia: le prime indicazioni sui mandanti L’omicidio Pecorelli torna all’attenzione della magistratura inquirente a partire da circa un anno dopo, quando Tommaso Buscetta, il primo grande collaboratore di giustizia di Cosa Nostra, rende importanti dichiarazioni su quel delitto. Dopo di lui renderanno dichiarazioni rilevanti sull’argomento altri cinque collaboratori di giustizia, uno di Cosa Nostra (Salvatore Cancemi), e quattro della Banda della Magliana, la compagine criminale della Capitale che vanta rapporti sia con Cosa Nostra sia con la destra eversiva: si tratta di Antonio Mancini, Fabiola Moretti, Maurizio Abbatino e Vittorio Carnovale. 7 Il 26 novembre 1992 Tommaso Buscetta riferisce ai magistrati di Palermo di avere appreso separatamente dai boss mafiosi Stefano Bontate (nel 1980) e Gaetano Badalamenti (nel 1982) che l’omicidio Pecorelli l’avevano fatto eseguire loro due su richiesta dei cugini Ignazio e Nino Salvo, i potenti esattori siciliani della famiglia mafiosa di Salemi, 8* perché Pecorelli era «un giornalista che disturbava politicamente». Alcuni mesi dopo, il 6 aprile 1993, Buscetta viene nuovamente sentito dai magistrati e – sciogliendo finalmente le riserve che

 

in passato gli avevano suggerito di non affrontare certi temi troppo delicati –  indica in Giulio Andreotti il «referente politico nazionale» al quale Cosa Nostra si rivolgeva per le questioni di suo interesse che andavano sistemate a Roma. I canali di cui disponeva Cosa Nostra per raggiungere Andreotti – spiega Buscetta – erano appunto Nino e Ignazio Salvo, oltre che il politico siciliano Salvo Lima, capo indiscusso della corrente andreottiana di Palermo. Nel quadro di questo nuovo approccio collaborativo Buscetta rivela che, secondo la versione coincidente di Badalamenti e Bontate, «quello di Pecorelli era stato un delitto politico voluto dai cugini Salvo, in quanto a loro richiesto dall’onorevole Andreotti». 9 Il verbale con le dichiarazioni di Buscetta viene trasmesso alla Procura della Repubblica di Roma che riapre le indagini sull’omicidio Pecorelli. Il pm titolare della nuova inchiesta non è più Domenico Sica, ma è Giovanni Salvi, che il 14 aprile del 1993 iscrive Giulio Andreotti nel registro degli indagati. Il successivo 29 luglio il Senato concede l’autorizzazione a procedere a carico dell’ex presidente del Consiglio. Il nuovo pubblico ministero romano si attiva rapidamente e interroga a sua volta Tommaso Buscetta, il 2 giugno del 1993, il quale ribadisce che a detta di Bontate «la ragione dell’omicidio Pecorelli era nel fatto che Pecorelli dava fastidio ad Andreotti, in quanto stava appurando cose che gli erano di ostacolo». 10

In base alle dichiarazioni di Buscetta, il pm Giovanni Salvi indaga anche Gaetano Badalamenti. Non indaga invece né Stefano Bontate (assassinato nel 1981), né Ignazio Salvo (assassinato nel 1992), né Nino Salvo (l’unico a morire nel suo letto nel 1986). Il 27 agosto 1993 il giudice istruttore di Roma, titolare di una delle istruttorie relative alla Banda criminosa, della Magliana, interroga il primo collaboratore quell’associazione Vittorio Carnovale, il quale coinvolgedi giustizia di drasticamente nell’omicidio Pecorelli due esponenti di rilievo della Banda della Magliana (Enrico De Pedis, detto Renatino, e Danilo Abbruciati), nonché il magistrato romano Claudio Vitalone: «Sapevamo che il De Pedis fosse in credito di favori con il Sen. Vitalone» dichiara Carnovale «dal momento che erano stati lui e Danilo Abbruciati a interessarsi per l’esecuzione dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli». 11 Gli indagati per l’omicidio salgono così da due a tre: Andreotti, Badalamenti e il magistrato romano Claudio Vitalone. Non sono invece indagati né De Pedis (assassinato nel 1990), né Abbruciati (morto nel 1982 in un conflitto a fuoco). Ulteriore conseguenza del colpo di scena è il passaggio dell’inchiesta sul delitto Pecorelli dalla Procura della Repubblica di Roma a quella di Perugia,

 

competente a indagare sui magistrati di Roma. 12 Il passaggio avviene il 17 dicembre 1993.

 3. Le indicazioni sugli sugli autori materiali de dell’omicidio ll’omicidio e il singolar singolaree connubio tra Cosa Nostra e Banda della Magliana Sentito nuovamente dai magistrati di Perugia il 7 aprile del 1994, Carnovale aggiunge che gli autori materiali dell’omicidio erano stati tale Angelo il siciliano, detto anche Angelo il biondo (che di lì a poco verrà identificato in Michelangelo La Barbera, uomo d’onore del mandamento di Boccadifalco), e Massimo Carminati, 13 ambiguo personaggio originariamente legato alla destra eversiva (in particolare all’ambiente dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari) e divenuto a poco a poco organico alla Banda della Magliana. Ma sul ruolo di Carminati e La Barbera come autori materiali del delitto saranno più precisi gli altriAntonio collaboratori di giustizia della Mancini, esaminato daibanda. magistrati perugini l’11 marzo del 1994, afferma di avere appreso da Renato De Pedis e da Danilo Abbruciati che l’omicidio del giornalista era stato effettivamente eseguito da Massimo Carminati e da Angiolino il biondo e riconosce con sicurezza quest’ultimo in Michelangelo La Barbera. 14 Aggiunge che il delitto era stato voluto sia dalla mafia sia dalla Banda della Magliana e precisamente dal mafioso Pippo Calò –  capo del mandamento di Porta Nuova e uomo del boss Stefano Bontate nella Capitale – e da Danilo Abbruciati. Mandante del delitto era stato il magistrato Claudio Vitalone e il gruppo politico-finanziario nel quale questi era inserito. Ecco i passaggi principali della dichiarazione di Mancini: […] De Pedis e io parlavamo del più e del meno […]. In una di queste occasioni gli chiesi perché Massimo Carminati fosse tenuto in così alta considerazione da lui, da Abbruciati e cioè da tutti quelli che contavano nel gruppo. De Pedis mi rispose confidandomi che Carminati era quello che aveva ucciso il giornalista Pecorelli insieme ad Angiolino il biondo, siciliano. E quasi a riprova di questa sua affermazione mi mostrò la pistola che aveva con sé dicendomi che era proprio quella l’arma con la quale Carminati e l’Angiolino avevano ucciso il giornalista. La stessa notizia ebbi qualche tempo dopo da Danilo Abbruciati. Ho già detto dei miei rapporti con Abbruciati, aggiungo ora che non era raro che passassimo la notte a discutere. E proprio in una di queste occasioni egli mi disse […] che era stato Massimo Carminati a sparare insieme ad Angiolino, […] ma aggiunse che il delitto era servito alla Banda della Magliana per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari e finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere […]. Disse che l’eliminazione di Pecorelli era stata fatta nell’interesse della mafia siciliana e di gruppi di potere massonico ed era stata ordinata da Vitalo Vitalone, ne, il magistrato […]. Quando Abbruciati mi parlò della mafia con riferimento a questo episodio, mi parlò di […] Pippo Calò […]. Mi spiegò che [… a Pippo Calò] non interessava nulla direttamente di Pecorelli,

 

ma che lui [… aveva agito] nell’interesse di quel gruppo politico e finanziario del quale ho parlato. Abbruciati […] mi disse […] che Pecorelli era venuto in possesso o a conoscenza di documenti o fatti riguardanti il sequestro dell’on. Moro che avrebbero arrecato danno al magistrato Vitalone Vitalone e al gruppo politico e finanziario a cui lui faceva riferimento. 15

Estremamente rilevante, ai fini della ricostruzione dei fatti, si rivelerà la precisa descrizione che farà del dibattimento primodigrado della pistola utilizzata per Mancini il delitto nel checorso lui stesso ha visto nelledimani De Pedis: «Una pistola particolare tutta cromata, dove era possibile inserire il silenziatore. Una pistola 7,65, la particolarità è che sul calcio della pistola c’erano dei ghirigori, dei disegnini». Fabiola Moretti, che è stata per molti anni la compagna di Danilo Abbruciati, conferma a sua volta che Carminati è stato uno dei due autori materiali dell’omicidio. La donna dichiara ai magistrati perugini di avere spesso parlato a Danilo della sua spiccata antipatia nei confronti di Massimo Carminati, perché era un fascista, ma di averne ricevuto a un certo punto una risposta che confermava come quest’ultimo fosse diventato, a partire dalla metà degli anni Settanta, sostanzialmente organico alla Banda della Magliana, tanto da venir considerato uno di loro dai loro dai membri storici del sodalizio: Danilo sbottò dicendomi di «non rompergli i coglioni» perché Massimo era stato utilizzato in un’azione delicata, dimostrando di essere un uomo valido. Mi spiegò in quella occasione che Massimo Carminati aveva ucciso Pecorelli in modo magistrale […], dunque venni a sapere che erano stati Massimo Carminati e un altro a uccidere Pecorelli e che era stato Danilo Abbruciati a dargli l’incarico. 16

L’ultimo collaboratore di giustizia della Banda della Magliana da menzionare è Maurizio Abbatino, il quale coinvolge nell’omicidio Pecorelli un altro membro della sua stessa banda, Franco Giuseppucci: Ero con Giuseppucci quando la televisione trasmise alcune immagini, comunque un servizio, sul delitto Pecorelli. Giuseppucci esclamò che quella, alludendo all’omicidio Pecorelli, era opera di Danilo Abbruciati […]. Mi disse che era stato lui a fornire le persone che avevano ucciso Pecorelli, su richiesta di Danilo Abbruciati […]. Dopo qualche tempo rispetto a questo episodio, […] in un bar di via Enrico Fermi mi presentò […] Massimo Carminati. In quella occasione, dopo che i predetti si erano allontanati, Giuseppucci mi disse che Massimo Carminati era quello che aveva ucciso Pecorelli e, conversando, spiegò [… che] l’omicidio del giornalista Pecorelli era stato richiesto dai «siciliani» (esponenti di Cosa Nostra). Non disse se la richiesta era stata fatta a lui personalmente o a Danilo Abbruciati, ma certamente tale richiesta era stata fatta da Pippo Calò, che era l’esponente di Cosa Nostra in contatto con Danilo Abbruciati e lui. Aggiunse Giuseppucci che Pecorelli era un giornalista e che era stato eliminato perché aveva fatto troppe indagini e stava ricattando un personaggio politico […]. A Giuseppucci quello che interessava era di fare un favore a Cosa Nostra e a queste personalità politiche per poterne poi avere dei vantaggi, essenzialmente per gli «aggiustamenti» dei processi […]. Abbruciati e Giuseppucci erano coloro che potevano disporre su Roma di persone idonee a eseguire un delitto simile. 17

 

Ed ecco che gli indagati per l’omicidio del giornalista salgono da tre a sei, aggiungendosi ai precedenti Pippo Calò, Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera. Non vi si aggiunge Franco Giuseppucci, perché muore assassinato nel 1980. Non rimane ora che soffermarci sul secondo collaboratore di giustizia di Cosa Nostra, Salvatore Cancemi, il quale chiude il cerchio delle rivelazioni sull’omicidio Pecorelli. Cancemi conferma gli ormai noti rapporti esistenti tra Pippo Calò e la Banda della Magliana e riconosce fotograficamente in Danilo Abbruciati uno dei maggiori esponenti di quell’associazione criminosa. Cancemi descrive Abbruciati come particolarmente amico di Pippo Calò, a tal punto che lo stesso Calò l’aveva definito come una persona a lui molto vicina e che «aveva nel cuore». Ricorda inoltre di aver visto una volta Danilo Abbruciati insieme a Pippo Calò nella casa che quest’ultimo aveva in via Resuttana a Palermo, dove Cancemi, titolare di una macelleria, andava spesso a portare al boss della carne. Ecco, in sintesi, le altre dichiarazioni sull’omicidio Pecorelli tratte dagli interrogatori resi ai magistrati di Perugia da Salvatore Cancemi, tra marzo e luglio del 1994: Ribadisco […] che seppi da Pippo Calò che a operare per l’omicidio Pecorelli era stata la «decina romana» di Stefano Bontate. […] In secondo luogo ribadisco ancora che, quando Calò mi disse che a operare era stata la decina di Stefano Bontate, egli intendeva dire […] che l’omicidio di Pecorelli fu ordinato dallo stesso Bontate e affidato per l’esecuzione a suoi uomini. Non so chi abbia materialmente commesso l’omicidio perché Calò non me lo disse. Però non mi stupirei se venissi a sapere che a eseguirlo fu Michelangelo La Barbera (da noi conosciuto e chiamato Angeluzzu), perché so che costui era uomo molto vicino a Salvatore Inzerillo e quindi anche a Stefano Bontate. Era un uomo «valido» e capace ed è quindi ben possibile che a lui sia stato affidato un compito tanto delicato […]. Quando dico che era un uomo «valido», intendo dire che sapeva maneggiare bene le armi, era freddo nella esecuzione dei delitti e totalmente affidabile per Stefano Bontate. Sono noti anche a me gli stretti rapporti tra Pippo Calò e i più grossi esponenti della Banda della Magliana, tra i quali l’Abbruciati di cui ho parlato. Per altro verso ho già chiarito i buoni rapporti che esistevano all’epoca tra Pippo Calò e Stefano Bontate. Ciò mi consente di affermar affermaree con assoluta certezza che, dovendosi eseguire un omicidio come quello di Pecorelli, Calò abbia messo a disposizione di Stefano Bontate le sue conoscenze, i suoi rapporti con la malavita locale romana e cioè con la Banda della Magliana. Per questo ritengo assolutamente certo che il supporto logistico all’omicidio Pecorelli sia stato dato all’uomo o agli uomini di Stefano Bontate da esponenti della Banda della Magliana per il tramite di Pippo Calò. 18

Come si vede, Cancemi coinvolge nell’omicidio Pecorelli anche Salvatore Inzerillo, che però non viene indagato, essendo stato assassinato nel 1981. Va detto che Salvatore Inzerillo e Stefano Bontate erano molto legati tra loro. Di un incontro piuttosto significativo tra i due e Giulio Andreotti si dirà successivamente.

 

4. Gli imputati chiamati in causa dai collaboratori di giustizia Ricapitolando, dalle dichiarazioni rese dai sei collaboratori di giustizia si può ricostruire una sorta di organigramma dei personaggi da loro indicati, che sarebbero variamente responsabili dell’omicidio Pecorelli. Al primo posto c’è Giulio Andreotti, il quale, più o meno implicitamente, manifesta a Claudio Vitalone e ai due cugini Nino e Ignazio Salvo il desiderio, o comunque l’auspicio, di vedersi liberato dalla presenza dello scomodo giornalista, che sta pubblicando e minaccia di pubblicare su «OP» rivelazioni estremamente pericolose per il suo futuro politico. I due cugini Salvo, avendo recepito la richiesta, più o meno implicita, di Andreotti, e desiderosi di fare cosa a lui gradita, si rivolgono ai due boss mafiosi Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti. Questi due, a loro volta desiderosi di fare cosa gradita ai due potenti esattori mafiosi siciliani, si assumono l’impegno di organizzare l’omicidio del giornalista e si attivano a tal fine. In particolare si mobilita Bontate insieme a Salvatore boss mafioso a lui molto vicino, da un latoche, designa come uno degliInzerillo, esecutorialtro materiali dell’omicidio il suo uomo Michelangelo La Barbera, dall’altro incarica il suo luogotenente a Roma, Pippo Calò, di prendere contatto con i suoi sodali della Banda della Magliana, perché provvedano loro a procurare il secondo esecutore materiale. Calò è la persona più indicata per mettere efficacemente a disposizione di Bontate i suoi rapporti approfonditi con la malavita romana; ed essendo grande amico di Danilo Abbruciati, prende contatto con lui. Nel frattempo si mobilita anche il magistrato romano Claudio Vitalone – da sempre molto vicino ad Andreotti e suo fedelissimo collaboratore – il quale conosce Abbruciati e lo contatta a sua volta. Così Abbruciati, avvicinato sia da Vitalone, sia da Calò per conto di Bontate, prende in mano la situazione e, insieme con Giuseppucci, incarica Massimo Carminati di affiancare Michelangelo La Barbera nell’esecuzione materiale dell’omicidio Pecorelli. Infatti, secondo uno dei collaboratori di giustizia, solo Abbruciati e Giuseppucci possono disporre su Roma di persone idonee a eseguire un delitto di quel genere. E così l’organigramma tracciato dai collaboratori di giustizia si conclude con Carminati e La Barbera che uccidono il giornalista Pecorelli. Naturalmente, per esporre quanto sopra sarebbe stato d’obbligo il condizionale, ma avrebbe appesantito l’esposizione. D’altro canto, quello che qui è stato presentato come un organigramma ha costituito, durante il processo in aula, il fondamento delle tesi della pubblica accusa, le quali non sono mai date

 

per provate a priori essendo sempre destinate a misurarsi con le tesi della difesa degli accusati, nel quadro della cosiddetta dialettica processuale.

5. I diversi gradi di giudizio e l’esito finale. La sentenza di primo grado come fonte essenziale del caso Pecorelli Il 20 luglio 1995 la Procura della Repubblica di Perugia chiude la fase delle indagini ed esercita l’azione penale – vale a dire apre il processo – nei confronti di Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò, Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati per il delitto di omicidio volontario di Pecorelli. Il 5 novembre il gip (giudice per le indagini preliminari) ha disposto il rinvio a giudizio degli imputati. 19 L’11 aprile 1996 comincia formalmente il processo, che si conclude oltre tre anni dopo con l’assoluzione di tutti gli imputati: sentenza della Corte d’assise di Perugia delsentenza 24 settembre Il pubblico ministero ricorre d’appello in appello.riconosce Con la del 171999. novembre 2002 la Corte d’assise colpevoli gli imputati Andreotti e Badalamenti (in concorso con il defunto Bontate) mentre conferma l’assoluzione di Vitalone, Calò, Carminati e La Barbera. Sentenza decisamente destinata a essere annullata dalla Corte di cassazione per manifesta illogicità. Infatti l’accusa nei confronti di Andreotti non può reggersi in piedi una volta caduta l’accusa nei confronti di Calò e di Vitalone. In secondo luogo la Corte d’appello ignora totalmente le tesi contrapposte sostenute in primo grado dall’accusa e dalla difesa e si sottrae così al suo preciso dovere di valutarle e di sciogliere i nodi di quel confronto dialettico. Ma questo ancora non basta. Invece di analizzare i termini di quel confronto dialettico secondo le corrette regole di valutazione della prova, la Corte arbitrariamente decide di sottoporre a verifica un suo proprio teorema accusatorio alternativo, affermando apoditticamente che «parteciparono alla perpetrazione del delitto sicuramente tre persone, Andreotti, Badalamenti e Bontate, e almeno una quarta persona quale esecutrice, mentre [le risultanze] non consentono di ritenere che altre persone abbiano partecipato al delitto». 20 Il fatto stesso che i giudici d’appello accantonino, senza discuterlo, lo scenario oggetto del lungo confronto dialettico del primo grado di giudizio –  sostituendolo con il loro teorema – è molto grave. Un’anomalia di questo genere, ad avviso ma di chi scrive, faabnorme. sì che la Va conseguente sentenza sia non soltanto sbagliata, addirittura abnorme. V a detto che la cosiddetta «abnormità» «abnor mità» è un

 

concetto giuridico che la giurisprudenza ha definito con una certa precisione: È affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. L’abnormità dell’atto processuale può [sussistere sia quando] l’atto, la sua si ponga al dinormativo, fuori del sistema organico legge processuale, [sia] quandoper esso, pursingolarità, non estraneo al sistema determini la stasidella del processo e l’impossibilità di proseguirlo. 21

Sta di fatto però che, dopo questa sentenza d’appello, mentre le difese di Andreotti e Badalamenti fanno poi ricorso alla Corte di cassazione contro le rispettive condanne, il pubblico ministero ricorre solo contro le quattro assoluzioni, senza denunciare l’abnormità della sentenza, il che è stato molto probabilmente un errore. Un errore comprensibile, data la rarità del caso, ma pur sempre un errore, perché un processo d’appello che si conclude con una sentenza abnorme, radicalmente contraria ai principi base della valutazione delle prove, merita solo di essere annullato per intero e ripetuto per intero. Quindi il pm avrebbe fatto bene a impugnare anche le due condanne, in quanto sostenute da una motivazione talmente illogica da sfociare, appunto, in un’abnormità; e avrebbe dovuto chiedere alla Corte suprema l’annullamento della sentenza con rinvio a un’altra sezione di Corte d’appello – per rifare il processo di secondo grado – non solo nei solo nei confronti dei quattro imputati assolti, ma anche nei anche nei confronti di Andreotti e Badalamenti, in quanto dichiarati colpevoli con una motivazione illogica e gravemente viziata. Del resto, la Corte di cassazione, nelle considerazioni conclusive della sua sentenza del 30 ottobre 2003, stronca letteralmente la sentenza d’appello con parole molto dure, di cui si riporta in nota un brano significativo. 22 Lo stesso rappresentante accusa, durante Tuttavia l’udienzalainCassazione, Cassazione,indefinisce quella sentenzadella comepubblica «infedele al processo». mancanza di una specifica richiesta del pubblico ministero, non ha il coraggio di dichiarare d’ufficio l’abnormità della sentenza d’appello, cosa che determinerebbe il rifacimento del processo di secondo grado. Viceversa, rilevando comunque la grave contraddittorietà di quella sentenza, l’annulla, ma senza rinvio, rendendo rinvio, rendendo così definitiva la sentenza assolutoria di primo grado. A ben vedere, forse, la Corte di cassazione avrebbe potuto decidere diversamente, se avesse anticipato un principio giuridico affermato alcuni mesi dopo in un’altra sentenza: il principio secondo il quale l’abnormità di un provvedimento è sempre dichiarabile dal giudice, anche d’ufficio, in qualsiasi momento, e ne determina automaticamente la nullità. 23 Ma ciò non è avvenuto.

 

A questo punto, l’unica fonte di conoscenza a nostra disposizione per tentare di ricostruire gli eventi che hanno portato all’omicidio di Carmine Pecorelli è la sentenza di primo grado della Corte d’assise di Perugia del 24 settembre 1999, che ha assolto in primo grado tutti gli imputati considerando insufficienti le  Vaa comunque riconosciuto prove portate nel processo dalla pubblica accusa. 24 V che, al di là dell’esito assolutorio, la sentenza espone ed esamina con grande chiarezza tutte le risultanze processuali, sia a favore sia contro gli imputati, così da consentirne una valutazione – su un piano meramente storico storico –  – che permette di portare a una ricostruzione degli eventi, o di una parte di essi, in un’ottica diversa da quella che si è imposta sul piano giudiziario. È notevole il fatto che la sentenza, pur considerando non sufficientemente provata la responsabilità penale dei singoli imputati (Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Giuseppe Calò, Gaetano Badalamenti, Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera), considera tuttavia attendibili sia i collaboratori di giustizia esaminati nel processo (Tommaso Buscetta, Salvatore Cancemi, Antonio Mancini, Fabiola Moretti, Maurizio Abbatino e Vittorio Carnovale), sia i fatti ricostruiti attraverso le loro dichiarazioni. 25

6. Un inconsueto deposito d’armi e un’eloquente risultanza balistica Piuttosto rilevante ai fini delle indagini sull’omicidio Pecorelli è stato il singolare ritrovamento a Roma di un deposito clandestino di armi della Banda della Magliana, scoperto dalla polizia il 27 novembre del 1981 nel corso delle indagini su quella banda, occultato negli scantinati del ministero della Sanità. 26 In particolare, tra le armi e le munizioni recuperate da quel nascondiglio segreto, c’era anche un certo numero di cartucce Gevelot calibro 7,65 identiche alle due della stessa marca utilizzate per uccidere Pecorelli. Come vedremo tra poco, i periti hanno acclarato che le due cartucce utilizzate per il delitto appartenevano allo stesso stock di quelle sequestrate negli scantinati ministeriali. Hanno anche precisato che la Gevelot è un’azienda francese poco diffusa in Italia e che le cartucce di quella marca sequestrate in quel nascondiglio erano certamente di non recente produzione. Il deposito della Banda della Magliana era frequentato dagli uomini di rilievo di quel gruppo criminale, tra cui Maurizio Abbatino, Franco Giuseppucci, Danilo Abbruciati, Antonio Mancini e Massimo Carminati. Sappiamo che quest’ultimo era un uomo della destra eversiva «prestato» alla banda, ma anche lui era autorizzato ad accedere al deposito, sia per il suo rapporto privilegiato con i capi del sodalizio, sia per il suo notevole prestigio criminale.

 

In quel deposito, oltre a esserci le armi abitualmente utilizzate dal gruppo della Banda della Magliana (di calibro 9 e 38), erano conservate anche delle armi calibro 7,65 (come quella usata per uccidere Pecorelli), che potevano essere state depositate lì da Danilo Abbruciati e Massimo Carminati. 27 Infatti, questi due avevano stretti rapporti con ambienti della destra eversiva, dove l’uso di armi calibro 7,65 era molto comune, mentre la Banda della Magliana non usava, per le sue azioni delittuose, pistole di quel tipo. In altri termini, si era instaurata una sorta di «osmosi di armi» 28 tra Danilo Abbruciati e Massimo Carminati da un lato e i camerati della destra eversiva dall’altro. 29 Ecco come Maurizio Abbatino spiega questa situazione ai pubblici ministeri perugini il 27 maggio 1994: Le munizioni marca Gevelot calibro 7,65 rinvenute all’interno del deposito del ministero della Sanità potevano provenire o […] da Danilo Abbruciati […] oppure […] da Massimo Carminati. A quanto mi risulta, solo quest’ultimo, tra gli esponenti della destra eversiva, aveva accesso a quel deposito […]. Noi della Banda della Magliana preferivamo utilizzare pistole di calibro 9 o 38. […]. L’unica L’unica spiegazione plausibile al rinvenimento presso quel deposito di vecchi proiettili calibro 7,65 marca Gevelot è che a portarveli siano stati […] o Danilo stesso o Carminati […]. 30

Sta di fatto che Pecorelli è stato colpito da quattro colpi di pistola. Sul posto, nelle vicinanze dell’auto del giornalista, sono stati trovati quattro bossoli, due di marca Gevelot e due di marca Fiocchi, e dal suo corpo sono stati estratti i quattro proiettili corrispondenti. Le perizie hanno accertato che i bossoli sono stati esplosi da un’unica pistola automatica o semiautomatica calibro 7,65. Munizioni e pistole dello stesso calibro e delle stesse marche sono state trovate nei sotterranei del ministero della Sanità. 31 Sempre dalle perizie balistiche è risultato che vi è compatibilità tra i bossoli Fiocchi rinvenuti sulla scena del crimine e il tipo di proiettili Fiocchi sequestrati nello scantinato ministero. entrambi Corrisponde infatti, oltre alla marca, anche l’anello rosso chedelcaratterizza i reperti. Ma decisamente più pregnante è il raffronto tra i bossoli Gevelot trovati sul luogo del delitto e i proiettili della stessa marca sequestrati negli scantinati del ministero, perché la loro comparazione porta a un giudizio di identità tra gli uni e gli altri, in quanto provenienti dallo stesso stock. Sia gli uni sia gli altri presentano infatti le stesse imperfezioni di punzonatura e di stampaggio del marchio di fabbrica sul fondello, e tali imperfezioni identificano uno specifico lotto di fabbricazione dei bossoli, perché impresso dallo stesso punzone. Il perito Bruno Levi ha dichiarato alla Corte: Con certezza puòPecorelli affermarsi che il punzone che impresse i marchi sui fondelli delle cartucce esplose nel fatto e quello che impresse i marchi sulle cartucce oggi esaminate – perché mi si dice sequestrate al ministero della Sanità – si identificano in uno stesso, unico e solo. Tale

 

certezza si ritrova su particolarità singolari di irregolarità di stampaggio ripetute e copiate con perfezione e non attribuibili ad altra causa se non a quella di una matrice unica e sola.

Inoltre i periti hanno affermato che i reperti rinvenuti sul luogo del delitto e i proiettili sequestrati presso il ministero della Sanità presentano particolarità molto vicine, come lo stato di usura della matrice imprimente del punzone. 32 Va infine ribadito che i proiettili Gevelot, di fabbricazione francese, non sono affatto comuni in Italia, e che il loro reperimento sul mercato illegale è ancora meno comune. Tanto che il perito Antonio Ugolini, esaminato in dibattimento, ha dichiarato che nella sua attività professionale, malgrado le migliaia di casi trattati, non ha mai constatato l’uso di proiettili Gevelot nelle azioni delittuose sottoposte al suo giudizio. Ma questo ancora non basta. È estremamente significativo che un’apposita indagine mirata – relativa a tutte le repertazioni di munizionamenti calibro 7,65 effettuate dalle forze di polizia – ha accertato che soltanto in un altro caso è caso è stato repertato un proiettile di quelsulcalibro di marca Gevelot: un caso di omicidio avvenuto a Ladispoli nel 1982 quale,enelle sentenze del caso Pecorelli, non vengono forniti altri dati. Tuttavia, da un diverso procedimento penale (relativo alla Banda della Magliana), si apprende che quel caso di Ladispoli riguardava l’omicidio di tale Massimo Barbieri, uomo di quella banda, che era stato assassinato proprio da Danilo Abbruciati. 33 Tutto ciò fa ritenere che i proiettili usati per commettere l’omicidio di Carmine Pecorelli provengano dallo stesso lotto (per non dire dalla stessa scatola) dei proiettili sequestrati nello scantinato del ministero della Sanità. La qual cosa, anche alla luce delle dichiarazioni di Antonio Mancini e di Maurizio Abbatino, si riflette inevitabilmente sulle posizioni di Abbruciati e Carminati. È questo infatti il convincimento implicito della Corte stessa, anche se poi non se la sentirà di ritenere tale convincimento «al di là di ogni ragionevole dubbio». Ed è singolare come la Corte affermi anche di trovare conforto – in questa sua pur trattenuta conclusione – nel dettato della Corte suprema di cassazione, che nel decidere sulla misura cautelare emessa nei confronti di Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera era giunta alle stesse conclusioni. 34

7. Una cena molto riservata e certi «assegni del presidente» Il primo degliricollegabili eventi individuati dalla Corte d’assise Perugia come teoricamente a un possibile movente perdil’omicidio in capo ai

 

soggetti incriminati (in particolare a Giulio Andreotti e al suo fedelissimo Claudio Vitalone) è una cena in un circolo esclusivo della Capitale a fine gennaio 1979. L’iniziativa dell’incontro è stata di Claudio Vitalone e si ricollega a certi «assegni del presidente», oggetto di una campagna di stampa organizzata contro Andreotti da Carmine Pecorelli, per il suo periodico «OP». Il tema ha un precedente che risale a circa quindici mesi prima della cena in questione. Sul numero di «OP» del 14 ottobre 1977 Carmine Pecorelli aveva pubblicato gli estremi (ma non le immagini) di quindici assegni circolari che ammontavano complessivamente a 144 milioni di lire, intestati a nomi di fantasia e datati tra gennaio e giugno 1976. L’elenco degli assegni era sovrastato da una domanda: «Presidente Andreotti, questi assegni a lei chi glieli ha dati?». Seguiva una succinta spiegazione: «Questo è un primo elenco di assegni bancari [rectius [rectius circolari, n.d.a. n.d.a.]] rappresentanti un pagamento effettuato personalmente, brevi manu, dal manu,  dal presidente Andreotti per un ammontare complessivo che supera i due miliardi di lire. Dall’esame dei titoli bancari risulta che tra le firme di girata manca quella illustre dello statista ciociaro». 35 Roma, mercoledì 24 gennaio 1979. Cinque uomini si incontrano molto riservatamente per una cena d’affari al circolo privato La famiglia piemontese. Sono il giornalista Carmine Pecorelli, i magistrati Claudio Vitalone e Carlo Adriano Testi, il generale della guardia di finanza Donato Lo Prete (affiliato alla loggia P2) e il gestore del circolo Walter Bonino, organizzatore della serata. 36 Di questa cena, risalente a neanche due mesi prima dell’assassinio di Pecorelli, gli inquirenti non vengono a sapere nulla sino al 2 maggio 1980, quando Franco Evangelisti, uomo politico democristiano molto vicino ad Andreotti e suo sottosegretario presidenza Consiglio,riferisce viene interrogato dal pubblico ministero romano alla Domenico Sica.del Evangelisti di essere stato subito informato della cena da Claudio Vitalone (che confermerà poi la circostanza) e di avere contattato già il giorno successivo Pecorelli, che ben conosceva avendo talvolta sovvenzionato la sua rivista. Pecorelli, dopo essersi lamentato dell’esiguità delle sue sovvenzioni, gli aveva detto che avrebbe attaccato Andreotti sul suo settimanale e due giorni dopo, sabato 27 gennaio, gli aveva fatto recapitare due copie della «copertina con lo strillo relativo agli assegni del presidente», 37 che lui aveva subito mostrato ad Andreotti. Quest’ultimo confermerà la circostanza. È quindi in occasione di questo interrogatorio che Evangelisti, con riferimento ai suoi rapporti con Carmine Pecorelli, rivela al magistrato inquirente titolare dell’indagine sull’omicidio il contenuto di quello che è stato

 

detto durante la cena, lo informa della copertina del numero di «OP» destinato a essere distribuito a fine gennaio e dell’intenzione di Carmine Pecorelli di sferrare un attacco al presidente del Consiglio Giulio Andreotti. «Ma, anche dopo tali dichiarazioni» si legge nella sentenza «tutto tace sul fronte investigativo perché nessuno dei partecipanti viene chiamato dall’autorità giudiziaria procedente per avere delucidazioni». 38 Il 17 novembre 1980, mentre l’inchiesta sul delitto Pecorelli sembra completamente arenata, un articolo del settimanale «Panorama» fa scalpore rivelando alcuni dettagli sulla cena al circolo La famiglia piemontese, come la battuta rivolta con nonchalance da Pecorelli a Vitalone («Ecco che cosa ho preparato contro Andreotti») mentre gli mostra una copertina già stampata del settimanale «OP», dove campeggiavano la foto del presidente e il titolo Gli assegni del presidente. «Si presidente. «Si trattava» prosegue l’articolo di «Panorama», «di assegni che, secondo Pecorelli, l’industriale Nino Rovelli [proprietario del gruppo chimico Sir, Società italiana resine, il terzo gruppo chimico italiano dopo Eni e Montedison, n.d.a. n.d.a.]] aveva versato alla corrente democristiana facente capo a Giulio Andreotti». Il giorno dopo, 18 novembre 1980, la cena alla Famiglia piemontese è già diventata oggetto di una vivace campagna giornalistica che le attribuisce un certo rilievo per le indagini sull’omicidio. Per questo sia Claudio Vitalone sia Carlo Adriano Testi vanno spontaneamente dal pm per dare la loro versione sui fatti accaduti quella sera. Vitalone presenta anche una memoria scritta. Il giorno dopo viene interrogato anche Walter Bonino, mentre nessun interrogatorio viene disposto per Donato Lo Prete. Della cena alla Famiglia piemontese torna a parlare Claudio Vitalone, quando ormai l’inchiesta sull’omicidio è gestita dalla Procura della Repubblica di  A seguitoadiintercettazione queste sue Perugia, nel suo 18 gennaiovengono 1994. 39sottoposti dichiarazioni, cheinterrogatorio modificano ledelprecedenti, i telefoni degli altri partecipanti alla cena, i quali vengono poi interrogati e anche sottoposti a confronto, date le loro divergenti versioni. Ecco come la sentenza di primo grado ricostruisce i fatti, sulla base delle dichiarazioni rese da tutti i partecipanti e facendo propria l’ultima versione fornita da Walter Bonino, Carlo Adriano Testi e Donato Lo Prete. L’antecedente storico della cena alla Famiglia piemontese va individuato negli attacchi giornalistici che Carmine Pecorelli aveva già lanciato sulla sua rivista – in particolare dal 1977 – nei confronti del gruppo politico facente capo a Giulio Andreotti (gruppo nel quale spiccava e spicca Claudio Vitalone, sostituto procuratore della Repubblica di Roma) e nei confronti dei vertici della guardia di finanza, generali Raffaele Giudice e Donato Lo Prete. Per porre fine a questi

 

attacchi il gruppo andreottiano, e nello specifico Claudio Vitalone, ritiene di dover entrare in contatto con Carmine Pecorelli; e l’occasione viene fornita da Walter Bonino attraverso l’organizzazione dell’incontro conviviale nei locali del circolo privato da lui gestito. Le motivazioni dell’incontro vengono ampiamente indicate da Walter Bonino, il quale riferisce che Claudio Vitalone era angustiato perché non sapeva a chi rivolgersi per entrare in contatto con Pecorelli. Al che Bonino gli aveva rivelato che Franco Evangelisti non solo conosceva Pecorelli, ma ne era addirittura un finanziatore, suscitando lo stupore di Vitalone che della cosa non era assolutamente a conoscenza. Di qui la decisione di organizzare la cena, anche allo scopo di «far venire alla luce, per bocca dello stesso Carmine Pecorelli, il fatto che Franco Evangelisti era un finanziatore» del medesimo. Bonino precisa anche che la presenza di Carlo Adriano Testi (magistrato di un certo prestigio e membro del Consiglio superiore della magistratura) era stata richiesta da Claudio Vitalone perché assolvesse a una funzione di moderatore. L’esattezza di quanto riferito da Walter Walter Bonino trova tr ova conferma nell nellee dichiarazioni di Carlo Adriano Testi e di Donato Lo Prete nei loro interrogatori del 23 febbraio 1994. Essi, dopo avere ritrattato le dichiarazioni precedenti, affermano che l’incontro era propiziato dallo stesso Pecorelli, il quale non rifiutava l’idea di avere uno scambio di vedute sia con Claudio Vitalone sia con il generale Donato Lo Prete, che egli aveva fatto bersaglio di attacchi sulle colonne del suo settimanale. Tra gli argomenti trattati durante la cena, quelli che rivestono interesse ai fini delle indagini sull’omicidio riguardano le lamentele di Pecorelli per l’inaridirsi dei finanziamenti a «OP» da parte di Franco Evangelisti e l’imminente pubblicazione, sul numero in preparazione, di un articolo contro Giulio Andreotti, sarebbe stato anche lo strillo della L’annuncio copertina relativa a taluni assegni cheche lo stesso Andreotti avrebbe ricevuto. di quella prossima pubblicazione aveva particolarmente colpito i presenti, tanto più che Pecorelli aveva detto di essere già in possesso delle fotocopie di quegli assegni. Dalle dichiarazioni rilasciate dai quattro commensali emerge che questi argomenti avevano interessato solo Claudio Vitalone, il quale aveva cercato di persuadere Pecorelli perché soprassedesse alla pubblicazione, nell’attesa che lui ne parlasse «in alto loco». Ma Pecorelli aveva dato solo vaghe assicurazioni. Carmine Pecorelli, la sera della cena alla Famiglia piemontese, aveva effettivamente l’intenzione di scrivere un articolo sugli assegni ricevuti dal presidente del Consiglio Andreotti. In realtà era ancora in attesa di attesa di mettere le mani sulle fotocopie di quegli assegni, ma aveva già predisposto il bozzetto della copertina con il relativo strillo. La circostanza è provata dalla testimonianza resa

 

dai suoi due collaboratori: Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi. Franca Mangiavacca ricorda che Carmine Pecorelli aveva iniziato la ricerca degli assegni in questione due o tre settimane prima della famosa cena. Paolo Patrizi, a sua volta, ricorda che alcuni giorni prima della preparazione del bozzetto sugli «assegni del presidente» aveva ricevuto da Carmine Pecorelli l’incarico di scrivere l’articolo relativo. A questo scopo aveva recuperato il vecchio materiale già pubblicato nel 1977 in attesa che arrivassero le fotocopie degli assegni, che però, a suo dire, non erano mai giunte. Infatti l’articolo non era più stato scritto. 40 Dichiarazioni di rilievo sono poi quelle di Ezio Radaelli, noto organizzatore di eventi musicali e personaggio vicino alla Democrazia cristiana, che permettono di affermare che l’interesse di Carmine Pecorelli per quegli assegni era ancora attuale, anche perché egli era in possesso di notizie nuove rispetto a quelle già pubblicate e aveva nel frattempo appreso che gli assegni erano stati dati a Giulio Andreotti da Nino Rovelli. 41 Le indagini su questi assegni circolari permettono di risalire ai nomi di coloro che li avevano richiesti in banca. Ed emerge così che essi facevano parte di un più ampio numero di assegni, tutti richiesti da soggetti che facevano capo alle società del gruppo di Nino Rovelli. Le indagini successive, volte a individuare i reali beneficiari degli assegni, vengono condotte in un procedimento a sé stante, separato da quello per l’omicidio Pecorelli. In quest’ambito Ezio Radaelli viene nuovamente convocato dal magistrato – il pm Orazio Savia – perché risulta che alcuni di quegli assegni sono stati ricevuti proprio da lui. L’udienza è fissata per il 20 novembre 1983. Però Ezio Radaelli, su richiesta espressa di Giulio Andreotti, prima dell’udienza del 20 novembre incontra Nino Rovelli. Ed ecco come la sentenza di primo grado del processo Pecorelli descrive i termini di questo base di un’audizione di Radaelli  a quella davanti al pmincontro, Savia: sulla successiva a successiva [Nino Rovelli] gli aveva chiesto [a Radaelli] se per la storia degli assegni fosse stato possibile tenere fuori Giulio Andreotti, e che se fosse stato interrogato doveva riferire che [si trattava di] un contributo ricevuto direttamente dalla Sir per una manifestazione e che gli assegni gli erano stati dati dall’amministratore della Sir, Wagner Wagner,, il quale non poteva smentirlo in un eventuale confronto per essere deceduto; in cambio Nino Rovelli doveva mettere a disposizione di Ezio Radaelli un appartamento per uso ufficio e abitazione per il quale non avrebbe dovuto pagare affitto per due anni. Precisa Ezio Radaelli che la testimonianza avanti al pm Orazio Savia era consistita praticamente nella sottoscrizione del verbale perché il pm sapeva già degli assegni dati da Wagner Wagner e dettava le risposte alle domande che egli stesso faceva. 42

La sentenza aggiunge che Giulio Andreotti, interrogato su questa circostanza, risposto di non ricordarla. Tuttavia, «il particolare relativo all’indicazione del ha

 

nome dell’amministratore della Sir [Wagner] e quello della sua morte al momento dell’incontro sono risultati veri», ragion per cui, tenendo conto del fatto che effettivamente gli assegni erano stati emessi dal gruppo Sir ed erano stati consegnati a Giulio Andreotti, si rende «oltremodo credibile quanto riferito da Ezio Radaelli». Nove anni dopo, il 23 ottobre 1992, Ezio Radaelli viene nuovamente sentito, stavolta da ufficiali di polizia giudiziaria della Direzione investigativa antimafia (Dia), i quali gli mostrano gli assegni che egli aveva ricevuto da Giulio Andreotti. In questo caso Radaelli riconosce che gli assegni gli erano stati effettivamente dati da Andreotti nel lontano 1976. Passano altri sei mesi ed Ezio Radaelli riceve la quarta convocazione per riferire sugli stessi argomenti. Dovrà comparire il 28 maggio 1993 davanti al pm Giovanni Salvi, nuovo titolare delle indagini sull’omicidio Pecorelli che sono state riaperte presso la Procura della Repubblica di Roma dopo che Tommaso Buscetta, il 6 aprile 1993, ha reso dichiarazioni che coinvolgono Giulio Andreotti nel delitto. 43 Sennonché, il 26 maggio 1993, cioè due giorni prima dell’udienza fissata per l’audizione, si verifica un episodio del tutto analogo a quello che si era verificato (tra Rovelli e Radaelli) nel novembre 1983. Solo che al posto di Nino Rovelli troviamo stavolta Carlo Zaccaria. Costui è il segretario particolare di Giulio Andreotti e, su incarico dello stesso Andreotti, va a trovare Ezio Radaelli a casa sua, senza preavviso, e insiste per vederlo subito malgrado questi sia indisposto. Quello che Zaccaria ha da dire urgentemente a Radaelli viene poi riferito da quest’ultimo al magistrato nel corso dell’udienza di due giorni dopo e riportato nella sentenza di primo grado. In sostanza Carlo Zaccaria aveva detto a Radaelli che il senatore Andreotti desiderava ricordargli «la faccenda degli assegni Wagner», al chea Radaelli lo in aveva con una rispostadatranchant  : «Zaccaria, non continuate prendermi giro,gelato gli assegni vengono Andreotti». E aveva aggiunto che intendeva dire al magistrato la verità, tanto più che l’aveva già detta mesi prima agli ufficiali di polizia giudiziaria della Dia. 44 Dopo queste nuove dichiarazioni rese da Radaelli, viene nuovamente sentito dal pm, sullo stesso punto, anche Giulio Andreotti. Questi – ormai costretto a riconoscere che quegli assegni gli erano stati dati da Nino Rovelli e che lui li aveva poi dati a Ezio Radaelli senza apporre la firma di girata – dichiara «che l’invio di Carlo Zaccaria da Ezio Radaelli era dovuto solo al fatto di essere stato interrogato pochi giorni prima e di non aver ricordato l’episodio degli assegni ricevuti da Rovelli». La tesi – commenta la Corte – non è convincente. Infatti «appare strano che Giulio Andreotti, il quale ha dichiarato […] di non avere mai contribuito alla

 

ricerca di risorse finanziarie per la attività di partito […], non ricordi nulla di una contribuzione così cospicua, se rapportata al valore della moneta italiana al tempo della elargizione, anche in considerazione che sicuramente quella elargizione era un illecito». Risulta quindi chiaramente che alla vicenda degli assegni emessi dalla Sir nel 1976 Giulio Andreotti era direttamente interessato ed era altresì interessato a tenere celato quel suo coinvolgimento. Di qui le conclusioni della pubblica accusa, secondo la quale Mino Pecorelli sarebbe stato ucciso perché minacciava di rivelare con il suo settimanale la storia degli «assegni del presidente» e quindi di smascherare la presenza di fondi neri che finanziavano la corrente di Andreotti.

8. Dalla fonte inesauribile dell’Italcasse ai percettori percettori mafiosi degli «assegni del presidente» A questo punto la domanda è: qual è l’origine di quel fiume di denaro che Rovelli rovesciava su Giulio Andreotti e che quest’ultimo distribuiva riservatamente a destra e a manca? La risposta è: l’origine sta nell’Italcasse. La funzione ufficiale dell’Italcasse (Istituto centrale delle casse di risparmio italiane, Iccri) sarebbe dovuta essere quella di investire – secondo la normativa in vigore e secondo le regole della buona amministrazione – la liquidità in eccesso raccolta dal sistema delle casse di risparmio presenti sul territorio italiano. Investire, per esempio, concedendo finanziamenti più o meno agevolati al mondo delle imprese, ovviamente con le dovute garanzie e attraverso procedure trasparenti e conformi alla legge. Sennonché l’istituto avrà magari anche fatto talvolta qualche finanziamento scrupolosamente regolare, ma sta di fatto che per anni ha svolto «il ruolo di cassa di compensazione degli affari loschi, il luogo dove i boiardi di Stato regolavano i conti delle loro pattuizioni». 45

Da sempre gli organi amministrativi dell’Iccri venivano selezionati con metodi discutibili dal partito di maggioranza relativa e così era accaduto anche per il direttore generale Giuseppe Arcaini, nominato nel lontano 1958 e non a caso definito «l’elemosiniere della Democrazia cristiana». Arcaini fu costretto a dimettersi il 22 settembre del 1977 perché accusato di peculato e di interesse privato per una serie interminabile di fondi neri e di mutui concessi a imprenditori amici e a partiti di governo, in particolare alla Democrazia cristiana e più precisamente alla corrente politica di Giulio Andreotti. Questa enorme erogazione occulta di fondi neri era diventata una prassi del

 

tutto normale. Era la prassi vergognosa che Aldo Moro, nel suo «Memoriale», aveva definito «lo sconcio dell’Italcasse», nel quale le banche vengono «lasciate per anni senza guida qualificata, con la possibilità di esposizioni indebite, delle quali non si sa quando ritorneranno e anzi se ritorneranno». 46 Ecco come la sentenza di primo grado sull’omicidio Pecorelli descrive i meccanismi di questo «sconcio» dell’Italcasse: [Gli] imprenditori si rivolgevano ai gruppi politici a cui essi erano legati sapendo che necessariamente le persone alla guida delle aziende di credito – stante il legame inscindibile tra potere politico e potere economico derivante dal potere di nomina delle cariche sociali delle seconde in capo al primo – avrebbero concesso il credito. Ciò si era verificato puntualmente per la Italcasse, che era la «CASSA» di alcuni gruppi politici per cui era sufficiente rivolgersi a tale «CASSA» per essere sicuri del finanziamento senza necessità di previ accordi, essendosi questi concretizzati a monte tra i gruppi politici e quegli imprenditori a essi facenti riferimento. 47

Va detto che il gruppo Sir di Nino Rovelli aveva ricevuto da Italcasse finanziamenti per una cifra enorme – 216 miliardi di lire – senza preventivo accertamento tecnico istruttorio, senza garanzia alcuna e facendo risultare come operazioni di breve termine quelle che erano in realtà di medio termine. Una volta stabilito così che la grande quantità di assegni trasmessi da Rovelli ad Andreotti era alimentata dai finanziamenti occulti e illegittimi di Italcasse al gruppo Sir, resta da stabilire a chi Andreotti abbia a sua volta fatto avere gli assegni in questione. Non è ben chiaro quanti dei destinatari finali degli assegni siano stati identificati, ma diversi di essi sono stati individuati, tra cui, come si è visto, Ezio Radaelli. Altri assegni «del presidente» sono giunti anche nella disponibilità del personaggio Giuseppe Arcaini, direttore dell’Italcasse, e tramite Arcaini sono giunti alle società facenti capo alla sua famiglia. In questo modo l’«elemosiniere» hanumero recuperato unaassegni parte delle suenelle «elemosine». Si è accertato anche che un certo di tali è finito mani di personaggi politici, tra cui Franco Evangelisti e il senatore Italo Viglianesi, spesso in cambio di favori per avere facilitato l’autorizzazione a finanziamenti agevolati, come si è ricavato da un’annotazione riservata rinvenuta negli archivi della polizia valutaria a firma del capitano Manlio D’Aloia. 48 Vi sono poi assegni «del presidente» che sono pervenuti a personaggi vicini a Pippo Calò, l’uomo del boss di Cosa Nostra Stefano Bontate a Roma, o che riportano comunque ad ambienti mafiosi. Alcuni sono stati negoziati da Gennaro Cassella, amministratore delegato della società Sofint S.p.A., che di fatto era gestita da Domenico Balducci, uomo di fiducia di Pippo Calò. Gli assegni, come riferirà al magistrato l’amministratore stesso, erano stati materialmente messi all’incasso da Balducci. È inoltre sintomatico che uno di questi assegni sia stato

 

rinvenuto addirittura nelle tasche del cadavere di Giuseppe Di Cristina, capo mandamento della famiglia mafiosa di Riesi, ucciso nel maggio 1978 nel corso della guerra di mafia di quel periodo. 49 Tutto ciò ci riporta al tema dei rapporti fra il presidente Giulio Andreotti e Cosa Nostra, che è l’oggetto del capitolo seguente.

 

V Giulio Andreotti riconosciuto penalmente responsabile, ancorché prescritto, di complicità con Cosa Nostra

1. La sentenza della Corte d’appello di Palermo del 2 maggio 2003 Nei primi anni Ottanta la città di Palermo era stata insanguinata da una feroce guerra di mafia tra due fazioni contrapposte. La faida si era conclusa con la vittoria della fazione corleonese e con la sconfitta della cosiddetta fazione «moderata» (in quanto vagamente meno sanguinaria di quella corleonese) di Cosa Nostra. Quest’ultima fazione era costituita dalle cosche palermitane che facevano capo, tra gli altri, a Stefano Bontate, a Gaetano Badalamenti, a Salvatore Inzerillo, ai cugini Ignazio e Nino Salvo, vale a dire ai personaggi con i quali Andreotti risultava essere stato in contatto. Successivamente la Corte d’appello del capoluogo siciliano, con la sua ormai famosa sentenza del 2 maggio 2003, ha dichiarato Giulio Andreotti responsabile di complicità con Cosa Nostra, giudicando particolarmente rilevanti e significative in tal senso talune vicende avvenute in epoca precedente alla guerra di mafia. In particolare, la Corte ha ritenuto provata la complicità di Andreotti con Cosa Nostra solo sino alla primavera 1980 e 1980 e solo relativamente a rapporti intrattenuti da lui con soggetti appartenenti a quella compagine mafiosa «moderata», risultata poi perdente e che d’ora in poi chiameremo «gruppo Bontate-Inzerillo». Sta di fatto che il reato associativo riconosciuto come commesso da Andreotti entro quei limiti temporali è stato dichiarato estinto dalla Corte per prescrizione, essendo passato un tempo eccessivo (ventitré anni) tra la consumazione del reato e la sentenza. In primo grado, nel 1999, il Tribunale di la Palermo aveva deciso diversamente, assolvendo Andreotti su tutta linea, sia pureinvece per insufficienza di

 

prove. Ma sarà la Corte di cassazione, nel 2004, a mettere la parola fine a questa vicenda giudiziaria, confermando la sentenza d’appello del 2003: la complicità di Giulio Andreotti con Cosa Nostra sino alla primavera 1980 è stata quindi affermata da una sentenza divenuta definitiva, anche se il reato da lui commesso si è estinto per prescrizione. 1 Cinque sono le circostanze che i giudici hanno ritenuto dimostrate e sulla cui base essi hanno reputato provata la complicità di Andreotti con Cosa Nostra. Illustriamo ciascuna di esse nei cinque paragrafi seguenti.

2. L’incontro L’incontro tra Andreotti Andreotti e Bontate a Catania nell’estate 1979.  L’irritazione  L’ir ritazione dei mafios mafiosii per le iniziati iniziative ve del presidente presidente dell dellaa Regione  Piersanti Mattarella Mattarella La Corte d’appello di Palermo ha esaminato in primo luogo due episodi particolarmente rilevanti, connessi all’assassinio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella – uomo politico di rilievo del partito della Democrazia cristiana – compiuto a Palermo il 6 gennaio 1980. Si tratta di due distinti incontri avvenuti nel 1979 e nel 1980 tra Giulio Andreotti, Stefano Bontate e altri vertici di Cosa Nostra. Il primo incontro è fra Andreotti e Bontate è dell’estate del 1979. Erano presenti anche Salvo Lima (il maggior rappresentante della corrente andreottiana in Sicilia), i potenti esattori siciliani Ignazio e Nino Salvo e altri esponenti di spicco di Cosa Nostra. L’incontro era stato voluto dai vertici mafiosi, decisamente irritati dalla linea politica, fortemente contraria a Cosa Nostra, assunta da Piersanti Mattarella dopo la sua elezione a presidente della Regione, avvenuta l’anno prima. La riunione, tenutasi nei pressi di Catania nella tenuta La scia, appartenente ai costruttori catanesi Costanzo, ha costituito oggetto delle dichiarazioni – dalla Corte considerate attendibili – dei collaboratori di giustizia Francesco Marino Mannoia e Angelo Siino. Il motivo dell’incontro, che nella ricostruzione di Marino Mannoia aveva comportato una vera e propria convocazione di Andreotti a Catania da parte dei mafiosi, era quello di fare intervenire l’importante uomo politico su Piersanti Mattarella, allo scopo di fargli mutare la sua linea di condotta politica e amministrativa. Infatti Mattarella, dopo avere intrattenuto rapporti amichevoli con i cugini Salvo e con Bontate, successivamente aveva mutato la propria linea di condotta ecristiana intendeva unacontro azionegli di interessi rinnovamento della Democrazia in intraprendere Sicilia, andando di Cosa Nostra.

 

Bontate raccontò a Mannoia che tutti i capimafia presenti in quell’occasione si erano lamentati con Andreotti del comportamento di Mattarella e gli avevano chiesto di intervenire su quest’ultimo. 2

 3. Il secondo incontro incontro ffra ra Andr Andreotti eotti e Bontate a Palermo nella rimavera 1980. L’uomo politico arriva in macchina con i cugini Salvo Anche il secondo incontro fra Andreotti e Bontate è ricollegabile all’omicidio di Piersanti Mattarella: si è verificato nella primavera del 1980, probabilmente in aprile, quindi circa tre mesi dopo l’uccisione del presidente della Regione Sicilia. L’incontro si è svolto a Palermo in una villa di Salvatore Inzerillo che si trova nel rione di Altarello di Baida, dove quel giorno Stefano Bontate giunse accompagnato proprio dal futuro collaboratore di giustizia Marino Mannoia, il cui racconto è stato poi ritenuto pienamente attendibile dalla Corte d’appello. Mannoia ha riferito che alla villa, lui e Bontate avevano trovato Salvatore Inzerillo e qualche altro mafioso di spicco, tra cui Salvo Lima, Giuseppe Albanese e Girolamo Teresi. Circa un’ora dopo era arrivata un’Alfa Romeo blindata con a bordo Andreotti e i cugini Salvo, provenienti da Trapani, dove erano atterrati con un aereo di cui disponevano gli stessi Salvo. I colloqui si erano svolti all’interno della villa tra Andreotti, Bontate, i Salvo, Inzerillo, Lima, Albanese e Teresi. Mannoia era rimasto in giardino con altri di guardia al cancello. Durante i colloqui, durati circa tre quarti d’ora, Mannoia dall’esterno aveva udito «le grida e il tono alterato del Bontate». Al termine della riunione Andreotti e i Salvo erano risaliti a bordo della loro vettura e si erano allontanati. Dopo di che Bontate aveva riferito a Mannoia «che Andreotti era “sceso” per avere chiarimenti sull’omicidio di Mattarella e che lui gli aveva risposto: “In Sicilia comandiamo noi, e se non volete cancellare completamente la Dc dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale”. Bontate aveva aggiunto che aveva diffidato Andreotti dall’idea di adottare interventi o leggi speciali, poiché altrimenti si sarebbero verificati altri fatti gravissimi». La Corte d’appello ha anche appurato che altre risultanze processuali confermavano le indicazioni fornite da Marino Mannoia. Per esempio, un altro collaboratore giustizia, Antonino Giuffrè, dichiarato di aver appreso dall’autorevoledicapomafia Michele Greco di ha incontri che sarebbero appunto

 

avvenuti tra Andreotti e Stefano Bontate, ma anche di contrasti che sarebbero intervenuti fra i due, nel contesto dei quali il secondo aveva addirittura ammonito il presidente Andreotti ricordandogli che in Sicilia «comandava la mafia». Dichiarazioni del tutto convergenti, del resto, sono state rese anche da Giuseppe Lipari, un geometra amministratore di beni per conto dei corleonesi, la cui fonte d’informazione era stata nientemeno che Bernardo Provenzano. A questo proposito troviamo nella sentenza della Corte un interessantissimo argomento logico, considerato utile a riscontrare le convergenti dichiarazioni di Giuffrè e Lipari: «Il diretto rapporto fra Bontate e uno dei più eminenti uomini politici nazionali costituiva un fatto idoneo a solleticare la vanità di un capomafia [appunto il Bontate] e a indurlo ad accrescere il suo prestigio parlandone ai consociati di vertice e vantandosi di non aver avuto remore a puntualizzare all’illustre interlocutore chi comandasse in Sicilia». Con la conseguenza che non c’è da meravigliarsi che fossero a conoscenza dell’episodio anche «gli esponenti mafiosi di spicco appartenenti a fazioni diverse». 3 D’altro canto, come osservato la Corte della riunione nella villahadipure Altarello di Baida dellad’appello, primaveraquesto 1980 èepisodio certamente una dimostrazione plateale dell’esistenza di relazioni di Andreotti con Cosa Nostra (in particolare con il gruppo che faceva riferimento a Bontate), ma ha anche rappresentato un momento di crisi di quelle torbide relazioni. Va ricordato anche che di lì a poco i membri più autorevoli di quel gruppo hanno perso ogni influenza nell’organizzazione criminosa e sono stati pressoché sterminati a seguito della cosiddetta guerra di mafia. Lo stesso Stefano Bontate fu assassinato nell’aprile del 1981. 4

4. Andreotti e i cugini Salvo atterrati a Trapani con un aereo messo a disposizione dai mafiosi La Corte d’appello ha poi affermato che il racconto di Marino Mannoia è riscontrato anche là dove il collaboratore ha riferito che Andreotti, per incontrare Bontate a Palermo nella primavera del 1980, era atterrato all’aeroporto di Trapani Birgi a bordo di un aereo privato, messogli a disposizione dai cugini Ignazio e Nino Salvo. La ricerca di un riscontro dell’atterraggio a Trapani nella primavera del 1980 di un aereo con a bordo Andreotti è stata ostacolata dal fatto che, al momento delle indagini, nonInfatti, esisteva più laalle documentazione relativalaall’aeroporto militare di Trapani Birgi. in base norme allora vigenti, documentazione sui

 

voli veniva distrutta dopo novanta giorni. Quello di Trapani è un aeroporto militare, ma aperto al traffico civile. Ci sono una zona militare e una zona civile. Ovviamente la regola di distruggere la documentazione sui voli riguardava solo la zona militare. Però può verificarsi anche il caso di voli privati che atterrano nella zona militare. In particolare, nella zona riservata ai militari, invisibile al personale civile, era consentito, almeno allora, l’atterraggio di aerei privati che trasportavano personalità politiche. La distruzione, prevista per legge, di tutti i documenti di registrazione dei voli militari (o anche privati ma atterrati nella zona militare) ha dunque precluso ogni possibile ricerca. Però il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Sta di fatto che a quella distruzione è sfuggito casualmente un prospetto statistico di tutti gli atterraggi e i decolli che hanno interessato quella zona militare, limitato proprio ad alcuni mesi del 1980 e dovuto a ragioni tecniche non strettamente militari. Si tratta di un prospetto in cui è riportato solo il modello dell’aereo, per esempio DC9. Ebbene, dal prospetto apprende di La aprile del 1980 risulta atterrato a Birgi anche un siaereo civile che del nel tipomese DA20. registrazione di questo tipo di volo avrebbe dovuto essere comunque segnalata al personale civile, per l’annotazione nei registri aeroportuali civili, tanto più che lo stato maggiore dell’aeronautica ha espressamente escluso di avere mai avuto in uso aerei di quel tipo. Tuttavia, da una verifica nei registri civili si è accertato che di quel volo non vi è alcuna traccia. Sta di fatto che la sigla DA20 identifica l’aereo tipo Mystère 20, ovvero lo stesso utilizzato sovente dai cugini Salvo e talora anche da Andreotti. 5

5. Un piccolo favore di Bontate ad Andreotti… Vi è un ulteriore episodio che la Corte d’appello ha valutato come conferma dell’esistenza di relazioni inconfessabili tra Andreotti e taluni capi di Cosa Nostra, ed è l’intervento benevolo – secondo la Corte dimostrato – che il capomafia Stefano Bontate ha attuato, su richiesta di Andreotti, in favore di uno dei grandi elettori laziali di quest’ultimo: l’imprenditore petrolifero Bruno Nardini, che verso la fine degli anni Settanta era stato raggiunto da pretese estorsive provenienti da esponenti della ’ndrangheta calabrese. 6

6. … e un grosso favore di Andreotti a Badalamenti

 

Considerazioni analoghe attengono al benevolo intervento cui si prestò Andreotti per aggiustare il processo a carico di Filippo e Vincenzo Rimi su richiesta di Gaetano Badalamenti, che ai Rimi era molto legato essendo tra l’altro cognato di Filippo. Anche questo intervento, secondo la Corte, è dimostrato. Vincenzo Rimi, capomafia incontrastato della famiglia di Alcamo, e suo figlio Filippo erano stati condannati in primo grado e in appello all’ergastolo per un omicidio commesso negli anni Sessanta. Nel 1971 la condanna fu annullata dalla Cassazione con rinvio per un nuovo processo, il quale si era poi concluso il 13 febbraio del 1979 con l’assoluzione dei due Rimi per insufficienza di prove (ma nel frattempo il vecchio Rimi era morto). La vicenda dell’aggiustamento del processo Rimi per interessamento di Andreotti era stata riferita da Tommaso Buscetta, la cui fonte era proprio Badalamenti. Il collaboratore aveva riferito dell’apposito incontro avvenuto tra Andreotti, Gaetano Badalamenti, Filippo Rimi e uno dei cugini Salvo prima dell’auspicata assoluzione e quindi a cavallo tra il 1978 e il 1979. La Corte d’appello ha ritenuto attendibile il racconto di Buscetta, in quanto volte riscontrato da Marino altre dichiarazioni di pentiti che sull’episodio si sonopiù soffermati (Francesco Mannoia, Vincenzo Sinacori, Salvatore Cucuzza, Giovanni Brusca, Francesco Di Carlo e Salvatore Cancemi). 7

7. La parola definitiva della Corte suprema sulla «mafiosità» di ndreotti Come si è anticipato, la Corte di cassazione, con la sentenza del 15 ottobre 2004, ha confermato totalmente la sentenza della Corte d’appello. La Corte suprema, nelle sue conclusioni, ha anche ribadito che la disponibilità e la collaborazione manifestate da Andreotti nei confronti di alcuni vertici di Cosa Nostra sono state tali da rafforzare l’associazione criminosa nel suo complesso, essendo sufficiente ricordare, a questo proposito, «le opinioni di Bontate e di altri uomini d’onore sul rafforzamento della loro posizione personale e dell’intera organizzazione, per effetto delle amichevoli relazioni intrattenute con Andreotti, e per contro il disappunto di Totò Riina, di Leoluca Bagarella e degli altri corleonesi per non essere riusciti a instaurare rapporti analoghi». La Corte suprema ha anche apprezzato come la Corte d’appello abbia opportunamente sottolineato gli intensi rapporti che legavano Andreotti ai suoi maggiori referenti siciliani – Salvo Lima, i cugini Ignazio e Nino Salvo, l’ex sindaco democristiano di Palermo Vito Ciancimino – e come essa abbia

 

giustamente ritenuto Andreotti compartecipe dei rapporti sicuramente intrattenuti da costoro con lo schieramento di Cosa Nostra facente capo a Bontate e Inzerillo. Rapporti coltivati del resto anche direttamente e personalmente da Andreotti stesso (in particolare con Badalamenti e con Bontate) e che lo hanno portato persino a omettere di denunciare fatti penalmente gravissimi di cui era venuto a conoscenza (quali le notizie specifiche circa le responsabilità mafiose nell’omicidio Mattarella). Possiamo quindi concludere tranquillamente, confortati dal verdetto della Corte suprema, che i vertici del gruppo Bontate-Inzerillo, nel corso degli anni Settanta e sino alla primavera del 1980, erano riusciti a legare a sé, in un rapporto associativo penalmente rilevante, un uomo politico del calibro di Giulio Andreotti che, proprio in quel periodo, era stato a capo del governo per tre anni consecutivi (luglio 1976-agosto 1979). Ciò aveva scatenato il disappunto del gruppo mafioso contrapposto, quello dei corleonesi, che da quel rapporto privilegiato si erano trovati esclusi. 8 È qui, probabilmente, cheinvaparticolare individuatoa partire uno deidal focolai della in guerra di imafia immediatamente successiva, momento cui tra corleonesi si diffuse la notizia della riunione di Altarello di Baida, dove Bontate aveva avuto l’ardire di alzare la voce con Andreotti, dicendogli senza mezzi termini che in Sicilia comandava la mafia. A quel punto la contrarietà era montata a sordo rancore, non certo perché i corleonesi apprezzassero particolarmente Andreotti, ma semplicemente perché il prestigio di Bontate in Cosa Nostra, dopo quell’episodio, sarebbe potuto crescere in modo eccessivo e incontrollabile. In ogni caso possiamo dire che la guerra di mafia di inizio anni Ottanta ha segnato nettamente e drammaticamente la divisione e quindi lo scontro tra il gruppo Bontate-Inzerillo – detto «moderato» forse proprio per avere aperto un dialogo perverso con Andreotti e la sua corrente politica – e il gruppo corleonese facente capo a Luciano Leggio, detto Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano, estranei a quel tipo di dialogo. Prima di allora i due gruppi, pur essendo già distinguibili (non fosse altro perché si avvalevano di canali finanziari diversi per l’investimento e il riciclaggio dei loro soldi sporchi), operavano senza particolari contrasti nelle varie attività criminose e, in particolare, nei grandi traffici di stupefacenti. Sappiamo che i vertici del gruppo mafioso dialogante con Andreotti uscirono sconfitti (per non dire sterminati) dalla guerra di mafia. Ciò determinò inevitabilmente la fine di quella particolare relazione tra il politico democristiano e Cosa Nostra. Bisogna quindi riconoscere che, sul piano giuridico, la decisione della Corte d’appello di considerare dimostrata la complicità di Andreotti con

 

Cosa Nostra solo sino alla primavera del 1980 presenta una sua ragionevolezza.

 

VI Il rapporto triangolare fra Andreotti, Cosa Nostra e Sindona

1. I due schieramenti di Cosa Nostra e i due poli (anzi tre) della finanza d’avventura. Il ruolo della P2 Come già accennato, prima che scoppiasse la guerra di mafia di inizio anni Ottanta i due distinti schieramenti di Cosa Nostra si erano avvalsi di canali finanziari diversi per l’investimento e il riciclaggio delle loro ricchezze illegali. Due canali diversi, ma strettamente collegati tra loro, in quanto gestiti rispettivamente da due finanzieri organicamente inseriti nel medesimo sistema di potere occulto: Michele Sindona e Roberto Calvi, entrambi membri della P2, gestita e amministrata da Licio Gelli e Umberto Ortolani. Quest’ultimo era la mente finanziaria di quel sistema, nonché il trait d’union con d’union con la finanza vaticana dello Ior e del suo presidente Paul Marcinkus. Sindona e Calvi sono stati, sino all’inizio degli anni Ottanta, i due maggiori esponenti della «finanza d’avventura», di quella finanza, cioè, che non rifugge da operazioni avventurose e spregiudicate e non disdegna rapporti più o meno diretti con mafie e ambienti criminali in genere. Lo schieramento mafioso che faceva capo ai corleonesi di Liggio, Riina e Provenzano (i «duri» che sarebbero usciti vincenti dalla successiva guerra di mafia) si era avvalso dei canali di riciclaggio facenti capo al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, il quale era stato introdotto negli ambienti di Cosa Nostra nei primi anni Settanta da Michele Sindona. Già all’inizio del 1973 la cosca di Luciano Liggio, che a Milano era nota come Anonima sequestri, aveva riciclato poco meno di un miliardo di lire proprio attraverso il Banco Ambrosiano di Calvi. Si trattava di una parte dell’enorme riscatto del sequestro dell’industriale 1 Pietro Torielli, il primodella commesso in Lombardia. Anche la sentenza Corte d’assise di Roma sull’omicidio Calvi accenna

 

di sfuggita a questa circostanza. Vi si legge infatti che Gaspare Mutolo ha rivelato come i profitti mafiosi riciclati attraverso il Banco Ambrosiano provenissero non solo dal traffico di eroina, ma anche dai sequestri di persona, e come proprio Sindona avesse dato a Calvi i primi rudimenti su come manovrare quel denaro. 2 Ciò si ricollega, del resto, a quanto riferisce Francesco Marino Mannoia sul conto di padre Agostino Coppola, il prete mafioso membro della suddetta Anonima sequestri e condannato con sentenza definitiva, il quale pure aveva riciclato cospicue somme di denaro attraverso il Banco Ambrosiano di Calvi. 3 Ciò per quanto riguarda i riciclaggi dello schieramento mafioso dei corleonesi. Per quanto riguarda invece i vertici dello schieramento facente capo a Stefano Bontate e a Salvatore Inzerillo, le sentenze sul caso Andreotti hanno dimostrato che le ingenti attività di riciclaggio dei loro guadagni illeciti erano state svolte dal banchiere Michele Sindona attraverso le sue due banche: la Banca unione e la Banca privata finanziaria, poi unificate nella(Francesco Banca privata italiana. Ciò è stato affermato da diversi collaboratori di giustizia Marino Mannoia, Francesco Di Carlo, Gaspare Mutolo, Angelo Siino). Nell’estate del 1973 però, le banche sindoniane registrano una gravissima crisi di liquidità e Sindona decide di rimediare con un vertiginoso aumento di capitale della sua società Finambro (che è sostanzialmente una scatola vuota) elevandolo da un milione di lire alla cifra astronomica di 160 miliardi. Si tratterebbe di emettere nuove azioni per quella cifra per tentare di rastrellare un ammontare analogo di risparmio pubblico. Per fortuna, a questa operazione dissennata, si oppone drasticamente il ministro del Tesoro Ugo La Malfa, persona accorta e onesta. Nell’autunno del 1974 il dissesto dell’ormai unificata Banca privata italiana è inevitabile. Sindona viene incriminato per bancarotta fraudolenta e la sua banca viene messa in liquidazione, con la conseguenza che i suoi clienti mafiosi rischiano gravemente di perdere – e in effetti perderanno – il loro ingente malloppo. Un altro importante collaboratore di giustizia, Antonino Giuffrè, ha reso dichiarazioni preziose circa i rapporti di Cosa Nostra con la finanza d’avventura, collocando il ruolo ricoperto prima da Sindona e poi da Calvi – in veste di grandi riciclatori di profitti delittuosi – in un «contesto a tre» nel quale Cosa Nostra siciliana, la loggia P2 di Gelli e Ortolani e lo Ior di Marcinkus si sarebbero relazionati costantemente tra loro per utilizzare il più proficuamente possibile prima l’uno e poi l’altro dei due banchieri, rendendoli apparentemente molto potenti, ma in realtà stringendoli in un abbraccio mortale. 4

 

2. Il rapporto preferenziale (e surreale) tra Michele Sindona e i mafiosi «moderati» di Cosa Nostra Venerdì 3 agosto 1979, verso le nove e mezzo del mattino, la segretaria di Sindona a parlando New York ufficio una italiano, telefonataleanonima. maschile, in riceve ingleseincon accento comunicaUna che voce Sindona è stato rapito: «Michele Sindona è nostro prigioniero» precisa la voce, «presto riceverete altre notizie». È il primo atto di una ciclopica messinscena orchestrata dal finanziere siciliano in combutta con un folto stuolo di mafiosi e di faccendieri di varia estrazione. Infatti, nel preciso istante in cui la segretaria riceve la telefonata dell’ignoto interlocutore, Michele Sindona si trova a Vienna, dove è appena atterrato con un volo proveniente da New York. Su quel volo Sindona si è imbarcato per libera scelta la sera prima, camuffato da una barba finta e da un parrucchino, e utilizzando false generalità e un falso passaporto. La sentenza del Tribunale di Palermo sul caso Andreotti ha giustamente ritenuto che Sindona, durante il finto rapimento da lui inscenato nell’estate 1979, avesse voluto premere sull’allora presidente del Consiglio (minacciando di rivelare segreti compromettenti) per indurlo a condurre in porto al più presto i piani di salvataggio delle sue banche dissestate. Ciò anche per la necessità di assicurare ai membri dello schieramento «moderato» di Cosa Nostra il recupero degli ingenti capitali che avevano investito nelle sue banche. Infatti, per quanto «moderati» potessero essere i suoi amici mafiosi, Sindona temeva la loro reazione nel caso in cui quel recupero si fosse rivelato impossibile, come in effetti poi si rivelò. Il suo collega Roberto Calvi, quando tre anni dopo si troverà in una situazione analoga con i mafiosi amici suoi (decisamente meno moderati), verrà ucciso e appeso sotto un ponte senza tanti complimenti. I vari Bontate, Inzerillo, Gambino, Spatola e compagni, invece, non hanno reagito con violenza nei confronti del loro riciclatore dissestato, nonostante gli avessero affidato – e abbiano poi visto sfumare – un’autentica montagna di denaro costituita dai loro proventi del narcotraffico e di altre attività illecite. Sindona, nel 1986, potrà provvedere tranquillamente da solo a mettere fine ai suoi giorni, nel carcere di Voghera, con una dose di cianuro che si è procurato chissà come. Ebbene, tornando all’estate 1979, è noto che Bontate, Inzerillo e compagni non rifuggono certamente dalle soluzioni cruente. 5 Ma sta di fatto che molti di loro, e instrategie particolare il loro leader, sono propensi, in certe situazioni delicate, a seguire più meditate e meno bestiali di quelle generalmente privilegiate

 

dai cugini corleonesi. Ed ecco allora che essi, soppesando le maggiori o minori possibilità di recuperare i capitali che hanno a suo tempo investito nelle fantasiose iniziative finanziarie di Sindona, decidono che vale la pena, in quel momento, di assecondare il finanziere di Patti e il suo progetto diabolico: scomparire fingendo di essere stato rapito da un gruppo terrorista di sinistra che lo sta interrogando per sapere tutti i segreti compromettenti per l’establishment; riparare a Palermo e soggiornarvi clandestinamente sotto la protezione di Cosa Nostra; organizzare da lì il grande ricatto con cui conta di risolvere tutti i suoi problemi; coltivare da lì i suoi contatti con Licio Gelli attraverso il medico massone italoamericano Joseph Miceli Crimi, che per quello scopo fa più volte la spola tra Palermo e Arezzo. Sindona intraprende questa sua nuova avventura una ventina di giorni dopo che un killer prezzolato venuto dall’America ha provveduto, su suo preciso incarico, ad assassinare a Milano (l’11 luglio del 1979) l’avvocato Giorgio Ambrosoli, l’onesto e coraggioso liquidatore delle sue banche. Ormai prigioniero suoi deliri funesti, Sindona è convinto che, con la scomparsa Ambrosoli, dei sia venuto meno l’unico vero ostacolo all’approvazione dei pianididi salvataggio delle sue banche. Si tratta ovviamente di piani truffaldini (dato che farebbero gravare l’enorme dissesto sulle spalle dei contribuenti) che il suo entourage sta però cercando di portare avanti con una solerzia prudente, con l’appoggio accorto e premuroso del Sistema P2 e di Giulio Andreotti e attraverso manovre sottili e sofisticate, che avrebbero forse sortito l’effetto voluto se Sindona non avesse nel frattempo interferito, muovendosi in quel delicatissimo contesto in modo grossolanamente teatrale. Sindona è convinto che il finto rapimento gli servirà per lanciare messaggi ricattatori a destra e a manca, attraverso le lettere che lui stesso scriverà, simulando di essere prigioniero di un gruppo terrorista e di essere obbligato a scrivere ciò che i suoi rapitori gli dettano. Egli conta, in questo modo, di infrangere ogni ulteriore resistenza alla realizzazione dei suoi piani di salvataggio. Quanto ai suoi amici mafiosi «moderati», il miraggio di un possibile recupero delle loro ricchezze andate in fumo fa sì che essi decidano di spalleggiare il loro banchiere – ormai bancarottiere – assistendolo durante tutto il periodo di quell’avventura. Lo affiancheranno numerosi: tanto per fare qualche nome, ci sarà Salvatore Inzerillo (quello che circa sei mesi dopo parteciperà alla riunione di Altarello di Baida con Andreotti), ci sarà ovviamente il boss Stefano Bontate, e ci saranno molti altri, tra cui Angelo Siino, noto come il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, e il cognato di Bontate, Giacomo Vitale, autore delle terribili telefonate minatorie ricevute intorno al capodanno del 1979 da Giorgio Ambrosoli.

 

La messinscena iniziata la mattina del 3 agosto 1979 prosegue, dopo una breve sosta del bancarottiere a Vienna, attraverso un viaggio tortuoso che porta Sindona a Palermo, dove soggiornerà clandestinamente per oltre due mesi. Qui il sedicente Comitato proletario di eversione per una giustizia migliore (in realtà Sindona stesso) produce una serie numerosa di lettere ricattatorie, allo scopo di far pensare che il «rapito» stia per rivelare segreti tali da compromettere irrimediabilmente tutti quei personaggi di rilievo dell’establishment, che avrebbero in effetti interesse a salvarlo, ma dai quali Sindona pretende di essere salvato in tempi più rapidi e decisi da lui. I suoi amici mafiosi lo aiutano con entusiasmo, anche perché Sindona, con la sua dialettica, è riuscito a convincerli di una fola strampalata ma allettante: di lì a poco la potente massoneria americana porterà finalmente a compimento l’agognato golpe separatista siciliano, facendo intervenire una portaerei statunitense, che già staziona al largo di Palermo, e una nave piena di patrioti al comando del valoroso comandante Edgardo Sogno, la qual cosa porterà all’indipendenza dell’isola, con quel che segue in terminil’entusiasmo di grandi vantaggi per tutti. Sennonché lascia spazio a poco a poco a una crescente perplessità. A inizio settembre ancora non si vede nessuna nave all’orizzonte. Bontate e compagni si riuniscono allora in una sorta di summit per fare il punto della situazione (sarà il collaboratore di giustizia Angelo Siino a raccontare l’episodio ai giudici di Palermo), quando inaspettatamente compare Licio Gelli, gran maestro della loggia P2, il quale gela i convenuti bocciando l’idea del golpe separatista come follia pura e dando degli allocchi a Bontate e compagni, che ci hanno creduto. È un segno inequivocabile che ormai, agli occhi di quell’establishment piduista che pure si era speso molto per salvarlo, Sindona era diventato inaffidabile, proprio a causa delle sue iniziative di quell’estate 1979: l’omicidio Ambrosoli e, subito dopo, la penosa messinscena del finto rapimento, due autentiche entrate a gamba tesa dalle quali anche Cosa Nostra era meglio che prendesse le distanze. Dall’estate 1979 Sindona cade quindi in disgrazia, come referente finanziario del Sistema P2, a tutto vantaggio di un Roberto Calvi che è invece, per il momento, ancora in auge. Sta di fatto che la sceneggiata del finto rapimento si conclude miseramente il 9 ottobre, quando il «messo dei rapitori», Vincenzo Spatola, viene arrestato dalla polizia mentre sta per recapitare l’ennesimo messaggio ricattatorio all’avvocato di Sindona, perché questi a sua volta lo diffonda a chi di dovere. Il bancarottiere lascia l’Italia in fretta e furia e torna negli Stati Uniti, dove viene arrestato il 16 ottobre 1979. Anche i suoi amici mafiosi escono dall’avventura traumatizzati e delusi.

 

Qualche mese dopo il fallimento dell’impresa, parlando con il futuro collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, Stefano Bontate definisce Sindona «un pazzo vivente» che gli ha provocato «una serie di guai». E giura di non volerlo più vedere. 6 In sostanza, se il rapporto dei mafiosi «moderati» con Andreotti si conclude nella primavera del 1980, quello dei medesimi con Sindona naufraga addirittura qualche mese prima. Ma c’è anche il terzo lato del triangolo delle complicità, costituito dal rapporto inquietante tra Giulio Andreotti e Michele Sindona, che si sviluppa e si esaurisce più o meno nello stesso arco temporale degli altri due.

 3. Il rapporto tra Andreotti Andreotti e Sindona Sia le sentenze di Palermo sul caso Andreotti, sia le sentenze di Milano sul caso Sindona a fondo il per temaSindona dei rapporti tra i due. In esse si afferma che Andreottitrattano ha rappresentato un costante punto di riferimento, anche durante il periodo di latitanza di quest’ultimo. Esse rivelano anche che Sindona –  durante gli anni Sessanta e Settanta e sino alla sua definitiva caduta in disgrazia  – ha costituito il polmone finanziario di quell’amplissimo e variegato var iegato reticolo di potere (che è riconducibile alla P2 di Licio Gelli) nel quale Andreotti e la sua corrente politica sono pienamente inseriti. Come finanziere, Sindona è sempre stato una sorta di abile prestigiatore e ha applicato sistemi ingegnosi e fraudolenti, che gli hanno consentito di diventare un mago della finanza d’avventura, ma anche di essere considerato – dagli osservatori meno attenti e specialmente meno scrupolosi – come un mago della finanza tout court. Uno di questi osservatori poco scrupolosi è stato proprio Andreotti, il quale, in un celebre ricevimento organizzato in suo onore da Sindona a New York nel dicembre 1973, ha salutato in Sindona il «salvatore della lira», suscitando i calorosi applausi degli eterogenei commensali, tra i quali figuravano molti banchieri americani. Meno di un anno dopo, il «salvatore della lira» sarebbe crollato, travolto dalla bufera, dopo aver abbondantemente sovvenzionato le casse del partito di Andreotti. Infatti, dall’ispezione fatta nella seconda metà del 1974 dalla Banca d’Italia presso la banca di Sindona, è emerso che il finanziere aveva elargito a favore Democrazia tra l’inizio del 1973 e l’aprile del 1974, 2 miliardidella e 220 milioni di cristiana, lire.

Un legame intenso e compromettente, quindi, quello tra Sindona e Andreotti,

 

che ha portato quest’ultimo, tra il 1974 e il 1980, ad assumere iniziative favorevoli a Sindona in diverse occasioni. Infatti, per tutti quegli anni Andreotti ha mantenuto frequenti contatti con persone che operavano per conto del bancarottiere e ha manifestato più volte un intenso interessamento per i suoi più rilevanti problemi, sia di ordine economico, sia di ordine giudiziario. In verità non sono stati pochi i personaggi disponibili a muoversi a favore di Michele Sindona e disposti a guardare con benevolenza ai suoi famigerati progetti di salvataggio, ma Andreotti emerge al di sopra di tutti. L’entourage di Sindona ha avuto la possibilità di mantenere frequenti contatti con il presidente del Consiglio dapprima – dal 1976 al luglio 1978 – tramite Fortunato Federici (un uomo del Banco di Roma) e poi tramite l’avvocato Rodolfo Guzzi, difensore del bancarottiere. In particolare, come risulta dalle agende del legale, gli incontri fra l’avvocato Guzzi e Andreotti sono stati ben nove e hanno avuto luogo tra il luglio 1978 e il maggio 1980, quasi tutti nel periodo in cui quest’ultimo era presidente del Consiglio. Andreotti si dava effettivamente da fare. Anzitutto, secondo processo di Palermo, risulta dimostrato con un sufficiente gradoledisentenze certezza del che, già nel periodo in cui i contatti tra lui e il cerchio magico di Sindona avvenivano tramite l’uomo del Banco di Roma Federici, aveva incontrato Sindona in America mentre questi era latitante e lui presidente del Consiglio. L’avvocato Guzzi ha infatti riferito di avere appreso da Sindona che lo stesso aveva incontrato a Washington, tra il 1976 e il 1977, il presidente del Consiglio insieme al congressman congressman Mario  Mario Biaggi. E lo stesso Andreotti, del resto, nei suoi Diari suoi Diari 1976-1979, parla 1976-1979,  parla di un suo incontro a Washington con alcuni italoamericani, tra cui Biaggi, avvenuto il 27 luglio del 1977. 7 Successivamente, il 25 luglio 1978, una nuova versione del progetto di salvataggio (ritoccata, ma rimasta sostanzialmente identica) viene consegnata dall’avvocato Guzzi al presidente Andreotti, il quale chiede all’onorevole Gaetano Stammati (iscritto alla P2 e ministro dei Lavori pubblici) di valutare il progetto e di farlo valutare alla Banca d’Italia, anche se essa lo aveva già giudicato inaccettabile nelle versioni precedenti. Tuttavia si è in piena estate e l’ormai settantenne Stammati tarda a muoversi sicché, a fine agosto, un impazientissimo Sindona – che poco prima ha incontrato a New York Franco Evangelisti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio – costringe Guzzi a riprendere contatto con Andreotti, per chiedergli di affidare la cosa a Evangelisti. Guzzi telefona ad Andreotti il 1° settembre e ne ottiene l’assenso. Il giorno successivo Evangelisti ha già in mano lo schema del progetto e convoca per il 5 settembre Mario Sarcinelli per sottoporgli quel documento. Sarcinelli ne prende visione e lo giudica immediatamente

 

improponibile. Nei giorni successivi si muove anche Stammati, che sottopone il progetto a Francesco Cingano, amministratore delegato della Banca commerciale italiana, e a Carlo Azeglio Ciampi, direttore generale della Banca d’Italia. Entrambi lo restituiscono al mittente, bocciandolo come impraticabile. Gli incontri tra l’avvocato Guzzi e il presidente Andreotti proseguono anche nel corso del 1979. Il legale continua a trasmettergli i suoi memorandum, per sollecitare interventi a favore del suo assistito. Le agende di entrambi registrano un incontro l’8 gennaio e un altro il 23 febbraio, allorché Guzzi espone ad Andreotti un quadro generale della situazione. In quell’incontro, Guzzi gli riferisce anche che ci sono state minacce mafiose nei confronti sia del liquidatore Ambrosoli sia di Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca, che continua a negare a Sindona qualsiasi appoggio per condurre in porto i suoi piani di salvataggio. Deponendo davanti ai giudici di Palermo, Guzzi riferirà che Andreotti, di fronte a questa rivelazione, si è mostrato «freddo e disinteressato». 8

Un terzo incontro fra Guzzi e il presidente del Consiglio si verifica il 22 marzo del 1979, cioè non appena si apprende la notizia allarmante dell’incriminazione di Sindona in America per il dissesto della Franklin Bank, la banca newyorkese che aveva controllato tra il 1972 e il crac del 1974. Successivamente si registrano altre due occasioni in cui Andreotti accetta di incontrare l’avvocato Guzzi. Per quanto incredibile possa sembrare, entrambe sono successive all’omicidio Ambrosoli e al finto rapimento inscenato da Sindona. La prima si verifica il 5 settembre del 1979, quando è ormai chiaro che Sindona ha simulato un sequestro di persona inesistente per mandare messaggi estorsivi a destra e a manca, e la seconda il 21 maggio del 1980, non fosse altro per prendere atto della decisione di Guzzi di rinunciare finalmente al mandato difensivo.

 

VII Il dissesto della banca di Sindona e l’assassinio di Ambrosoli su mandato di Sindona 1

1. Le pesanti minacce telefoniche degli amici mafiosi di Sindona a Giorgio Ambrosoli e a Enrico Cuccia Il 27 settembre 1974 viene disposta la liquidazione coatta amministrativa della Banca privata italiana e l’avvocato Giorgio Ambrosoli ne viene nominato commissario liquidatore. Inizia immediatamente il suo scrupolosissimo lavoro. Nel mese di ottobre viene dichiarato il dissesto della banca e Sindona viene incriminato per bancarotta fraudolenta. Egli però ha già lasciato l’Italia ed è riparato negli Stati Uniti. La magistratura emette il mandato di cattura e la pratica di estradizione viene iniziata tempestivamente, ma prenderà tempi lunghi. Nel 1976, per opporsi alla richiesta di estradizione dagli Stati Uniti, la difesa di Sindona deposita al Tribunale una serie di affidavit   di varisostengono personaggiche autorevoli, cui il deusdiexManhattan machina della machina della P2 Licio Gelli, i di quali Sindona tra sarebbe vittima di una persecuzione politica gestita dai comunisti e che la sua stessa vita, in Italia, sarebbe in pericolo. Ben presto Ambrosoli inizia a subire attacchi minacciosi provenienti da Sindona e dagli ambienti a lui vicini, sia per il rigore e la precisione impiegati nella sua indagine, sia per la sua decisa opposizione ai cosiddetti «piani di salvataggio» con i quali il banchiere e i suoi sodali pretendono di far gravare i costi della voragine finanziaria sulle spalle della collettività. L’opposizione granitica di Ambrosoli agli indecenti piani di salvataggio di Sindona e del suo entourage è condivisa da poche altre persone altrettanto rigorose, tra le quali è il caso di ricordare il governatore e il responsabile del servizio di vigilanza di Banca d’Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, il

 

presidente di Mediobanca Enrico Cuccia e, tra gli uomini politici, Ugo La Malfa. A questo punto Sindona chiede ai suoi amici mafiosi (quelli del noto gruppo Bontate-Inzerillo) di attuare un deciso salto di qualità negli attacchi contro Giorgio Ambrosoli, ed ecco che il commissario liquidatore riceve ben otto telefonate anonime minatorie, tra gli ultimi giorni del 1978 e la prima metà di gennaio 1979, da parte di un uomo che parla in italiano con accento siciliano: si tratta di Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontate, che sarà poi tra coloro che affiancheranno Sindona nell’avventura del finto rapimento. Le telefonate sono state tutte registrate. Il «picciotto», come lo definirà Ambrosoli, si fa vivo la prima volta il 28 dicembre 1978 accusando l’avvocato di avere detto cose false agli inquirenti americani e ordinandogli di tornare subito a New York per ritrattare, «perché se viene concessa l’estradizione tu non camperai». 2 Questa prima telefonata minatoria al commissario liquidatore è estremamente significativa, perché fa riferimento al viaggio a New York che Ambrosoli ha compiuto due settimane prima, per conferire con di il procuratore che1979, si stadopo altre occupando della pratica estradizione distrettuale di Sindona.americano L’8 gennaio telefonate analoghe concentrate nei primi giorni dell’anno, Ambrosoli presenta denuncia, nella quale riassume così il succo del discorso dello sconosciuto: Oggetto delle telefonate è ancora il viaggio a New York per depositare documenti di cui disporrebbe Michele Sindona, ma soprattutto l’avvertimento che ambienti di Roma imputavano al sottoscritto la mancata chiusura della vicenda Sindona. In particolare l’anonimo affermava che l’onorevole Andreotti aveva telefonato direttamente a New York York dicendo a Michele Sindona che il sottoscritto non voleva collaborare alla sistemazione del caso. Ha affermato pure che il direttore generale della Banca d’Italia, dottor Ciampi, avrebbe dovuto telefonare al sottoscritto, e si meravigliava che tale telefonata non fosse qui pervenuta. Concludeva ripetendo che a Roma e Milano diversi amici di Michele Sindona, compreso il dottor Cuccia, attribuivano al sottoscritto la colpa della mancata definizione del caso Sindona. 3

Ambrosoli non si lascia intimidire e il 12 gennaio 1979 riceve l’ultima telefonata minatoria che si conclude con queste parole: «Io la volevo salvare, ma da questo momento non la salvo più, perché lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto!». 4 Sempre tra il 1978 e il 1979, riceve analoghe telefonate minatorie anche Enrico Cuccia, per il fatto di non avere mai accolto le richieste insistenti di Sindona volte a ottenere il suo autorevole sostegno ai famosi piani di salvataggio, da lui sempre respinti sdegnosamente e persino definiti «papocchietti». 5

 

2. Una pagina buia nella storia del paese: l’attacco giudiziario romano rom ano alla Banca d’Italia Il 26 marzo del 1979 è una giornata nefasta. Muore quel galantuomo di Ugo La Malfa, la cui presenza nel nuovo governo Andreotti V, in veste ministro Bilancio, preoccupava inevitabilmente Sindona. In quello stessodigiorno gli del uffici giudiziari romani, e precisamente il pubblico ministero Luciano Infelisi e il giudice istruttore Antonio Alibrandi, portano a compimento un’oscura operazione che comporta l’arresto del vicedirettore generale e capo del servizio di vigilanza della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, e l’incriminazione – a piede libero per ragioni di età – del governatore Paolo Baffi. Baffi e Sarcinelli vengono evidentemente colpiti per la loro fermezza e il loro rigore nella vigilanza sugli istituti di credito. Subiscono un procedimento penale pretestuoso e strumentale, con accuse destinate poi a rivelarsi destituite di ogni fondamento (verranno prosciolti in istruttoria due anni dopo), ma tali da compromettere il loro futuro professionale. Sarcinelli viene rimosso dal servizio di vigilanza con un provvedimento che verrà revocato solo quando egli sarà ormai passato ad altro incarico, mentre Baffi, amareggiato per l’ingiusta incriminazione, preferirà dimettersi da governatore della Banca centrale già nell’agosto 1979. Da parte sua, alla data del 24 marzo 1979, Giorgio Ambrosoli registra nella sua agenda-diario l’avvenuto arresto di Sarcinelli. Nei giorni successivi vi registra anche un commento che attribuisce a Mario Barone, amministratore delegato del Banco di Roma: «Barone dice che il rifiuto a Michele Sindona è stata la goccia che ha fatto traboccare il calice». Mario Sarcinelli resterà in carcere dodici giorni prima di vedersi concedere la libertà provvisoria. Quanto alle parole attribuite a Mario Barone, questi riferirà, in una sua deposizione del 1983, che l’annotazione di Ambrosoli potrebbe riflettere effettivamente un suo commento, anche se, aggiungerà, «fra le ipotesi più probabili io allora ero portato a fare quella che Sarcinelli pagasse il fio per aver mandato l’ispezione al Banco Ambrosiano». 6 Qualunque opinione si abbia circa l’ipotesi ventilata da Mario Barone, sembra comunque del tutto logico concludere che la messa fuori gioco di Baffi e Sarcinelli e la contemporanea uscita di scena di Ugo La Malfa siano state obiettivamente, per il finanziere siciliano, due boccate di ossigeno. Da quel momento in avanti, Sindona e i suoi amici possono concentrarsi sull’esigenza di piegare una volta per tutte l’ostinato di iCuccia e Ambrosoli neicondizione confronti del progetto di salvataggio, ovvero dirifiuto mettere due residui nemici in

 

di non nuocere. Ma sull’episodio inquietante dell’attacco a Bankitalia torneremo più diffusamente nelle prossime pagine.

 3. L’assassinio L’assassinio di Gior Giorgio gio Ambr Ambrosoli, osoli, la condanna di Sindona all’ergastolo all’er gastolo e il suo suicidio Una volta sgomberato il campo dalla scomoda presenza in Bankitalia del governatore Baffi e del vicedirettore Sarcinelli, Giorgio Ambrosoli diventa, agli occhi di Sindona, l’unico vero ostacolo irremovibile alla realizzazione dell’indecente progetto di salvataggio della Banca privata italiana. A questo punto Sindona, sempre più dissennato, tramite il criminale americano di basso rango Robert Venetucci, Venetucci, cerca e trova un killer, William Joseph Aricò, lo assume e lo spedisce in Italia, anzitutto per togliere di mezzo definitivamente Giorgio Ambrosoli, ma anche per cercare di liberarsi dell’opposizione di Cuccia ai suoi progetti. Aricò uccide Giorgio Ambrosoli a Milano la notte tra l’11 e il 12 luglio 1979. Enrico Cuccia sfugge alla morte perché, per sottrarsi alle continue e crescenti minacce, cambia provvidenzialmente casa e il killer non riuscirà a rintracciarne il nuovo indirizzo. Passano pochi giorni dall’assassinio di Giorgio Ambrosoli e Sindona, come si è visto, mette in scena il finto rapimento, ultima sua avventura a piede libero. Infatti, una volta smascherato definitivamente – nell’ottobre 1979 – torna in fretta e furia a New York, viene arrestato e non vedrà più la libertà. Il 13 giugno 1980 Sindona viene condannato negli Stati Uniti, per il crac della Franklin Bank, a venticinque anni di reclusione. Nel 1984 viene estradato in Italia e rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Voghera. Nel 1985 subisce un’ulteriore condanna per la bancarotta della Banca privata italiana: altri quindici anni di reclusione, che si sommano ai venticinque della condanna americana. A sessantacinque anni, Sindona si ritrova con quarant’anni di carcere sulle spalle e la sua vita può considerarsi sostanzialmente conclusa. L’inferno è arrivato. Nell’ultimo girone Michele Sindona precipita l’anno seguente, quando la Corte d’assise di Milano, il 18 marzo, lo condanna all’ergastolo per l’omicidio dell’avvocato Ambrosoli e per una serie di reati minori. Il mattino del 20 marzo 1986 Sindona si toglie la vita con una dose di cianuro, mettendo in scena un suicidio da omicidio. Morirà due giorni dopo all’ospedale civile di 7 Voghera.mascherato

 

4. La responsabilità politica e morale di Giulio Andreotti per l’assassinio di Giorgio Ambrosoli Sia dopo l’assassinio di Ambrosoli, sia dopo la condanna all’ergastolo di Sindona come mandante del delitto, più voci si sonodella levate per contestare a Giulio Andreotti la responsabilità politica e morale morte dell’integerrimo commissario liquidatore. Così scrive, per esempio, Marco Vitale su «il Giornale» del 15 luglio 1979, allora diretto da Indro Montanelli: L’assassinio di Ambrosoli è il culmine di un certo modo di fare finanza, di un certo modo di fare politica, di un certo modo di fare economia. I magistrati inseguano gli esecutori e i mandanti. Ma dietro a questi vi sono i responsabili, i responsabili politici. E questi sono tutti coloro che hanno permesso che la malavita crescesse e occupasse spazi sempre più larghi nella nostra vita economica e finanziaria; questi sono gli uomini politici che definirono Sindona «salvatore della lira» e si comportarono di conseguenza.

E così scrive Massimo Riva, alla notizia della condanna di Sindona all’ergastolo, su «la Repubblica» del 20 marzo 1986: [Sindona] ha affascinato autorevoli e smaliziati uomini politici, ha elargito favori, ha goduto di importanti protezioni, è stato vezzeggiato, corteggiato e idolatrato su entrambe le sponde del Tevere […]. Come può essere successo all’astuto e prudentissimo Andreotti di assegnargli la patente di «salvatore della lira»? […] Mentre il Va Vaticano ticano gli spalancava le porte, mentre la Dc gli sollecitava prestiti e Andreotti lo gratificava di meriti patriottici, la figura di Michele Sindona era già al centro di severe accuse e di pesanti sospetti […]. Chiunque l’avesse voluto, avrebbe potuto vedere quale marcio si nascondeva dietro le [sue] braverie finanziarie.

Dietro la morte di Giorgio Ambrosoli c’è dunque sicuramente la grave responsabilità morale, oltre che politica, di molti, e in particolare di Giulio Andreotti. Con il vuoto creato intorno alla persona del commissario liquidatore, Andreotti e gli ambienti di potere occulto e palese a lui omogenei, ubicati su entrambe le sponde del Tevere («su quella “eterna” dei palazzi vaticani non meno che su quella “secolare” dei governanti democristiani» scrive Massimo Riva), hanno implicitamente trasferito a Sindona un messaggio criminale e criminogeno: cioè che l’unica ragione per cui il suo piano di salvataggio non riusciva a essere realizzato era l’ostinata intransigenza di Giorgio Ambrosoli. Qual è stata la reazione di Andreotti di fronte ad attacchi così pesanti rivolti alla sua persona e alla sua immagine di uomo politico? Si direbbe nessuna: solo indifferenza e distacco. Nel suo libro  Diari 1976-1979, 1976-1979, pubblicato  pubblicato nell’aprilespendesse 1981, ci siqualche sarebbeparola aspettati chelibro Diari Giulio Andreotti menzionasse Ambrosoli,

circa il suo efferato omicidio, e ribattesse anche in qualche modo all articolo di

 

Marco Vitale. Invece il nome di Ambrosoli nel libro non compare proprio. Sotto la data del 12 luglio 1979, quando tutti i telegiornali e i notiziari radio dedicano ampio spazio all’omicidio avvenuto la notte prima, Andreotti lo ignora e si limita a registrare un suo incontro con il presidente della Tanzania. Il giorno successivo, di nuovo, nessuna menzione dell’assassinio: Andreotti annota soltanto di aver ricevuto il primo ministro dell’Alto Volta e di avere avuto un colloquio con l’ambasciatore Usa alle Nazioni Unite sull’imminente conferenza Fao. Sotto la data del 14 luglio, giorno del funerale di Ambrosoli (disertato da tutti gli uomini delle istituzioni, a eccezione del governatore Baffi e di qualche magistrato), Andreotti registra l’avvenuto omicidio del colonnello dei carabinieri Varisco, dopo di che annota di avere avuto un colloquio con il presidente del Bangladesh circa le prospettive di maggiori rapporti commerciali bilaterali: all’omicidio Ambrosoli ancora nessun accenno. 8 Passano anni, Andreotti pubblica diversi altri libri, ma solo nel settembre 1995 esce un suo volume che reca nell’indice analitico sia il nome di Giorgio Ambrosoli quello di Michele Sindona.alIl processo titolo è Cosa Loro. Mai visti da vicino. vicino. Nel  Nel sia libro Andreotti fa riferimento di Palermo, in corso in quel periodo nei suoi confronti per complicità con Cosa Nostra siciliana. Anche in questo libro, però, non ritiene di dover replicare a coloro che hanno chiamato in causa una sua responsabilità politica responsabilità politica proprio  proprio con riferimento all’omicidio. Andreotti si limita a qualche battuta superficiale e non argomentata, come quando, dopo aver negato di avere stimolato lui l’interessamento di Evangelisti al piano di salvataggio, aggiunge questa frase vagamente enigmatica: «A rendere fosca tutta la vicenda sopravvenne l’assassinio del povero avvocato Giorgio Ambrosoli con il quale non avevamo avuto, ed è comprensibile, alcun rapporto». O come quando – riferendosi a una delle telefonate minatorie del «picciotto» ad Ambrosoli, esaminate anche nel processo palermitano a suo carico – si lamenta della Procura del capoluogo siciliano, che «con dubbia correttezza va a ricercare un anonimo, che avrebbe telefonato al povero Ambrosoli che io ce l’avevo con lui». 9 Non c’è da meravigliarsi, quindi, se Umberto Ambrosoli rinnova la denuncia della responsabilità politica responsabilità politica per  per l’uccisione di suo padre nel suo libro Qualunque cosa succeda. Egli succeda. Egli scrive infatti che nel processo penale relativo alla responsabilità di Michele Sindona per l’omicidio di suo padre viene messo in evidenza l’isolamento che Giorgio Ambrosoli e i suoi collaboratori – primo fra tutti il maresciallo della guardia di finanza Silvio Novembre – hanno percepito quotidianamente: «Elainprotervia quel vuoto, in quell’isolamento, sottobosco politico, dell’interesse partitico, elail pusillanimità potere occultodeldella

P2 hanno trasferito a Sindona il messaggio che l unica ragione per cui il suo

 

piano di salvataggio non riusciva a essere realizzato era l’ostinata intransigenza di papà». 10 Il 9 settembre del 2010, intervistato da Giovanni Minoli nella puntata de La de La storia siamo noi dedicata noi dedicata alle vicende di Sindona, alla domanda «Secondo lei perché Ambrosoli è stato ucciso?» Andreotti ha dato questa incredibile risposta: «Non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che, in termini romaneschi, se l’andava cercando». 11

 

VIII L’attacco giudiziario alla Banca d’Italia e il ruolo di Giulio Andreotti

1. Un’incriminazione palesemente pretestuos pretestuosaa A questo punto è opportuno fare un passo indietro e riandare all’episodio dell’attacco insidioso e destabilizzante alla Banca d’Italia avvenuto il 24 marzo 1979, quando furono incriminati il governatore Paolo Baffi e il vicedirettore generale Mario Sarcinelli, che fu persino arrestato. 1 La notizia suscita molto scalpore ed è seguita da un gran numero di dichiarazioni di solidarietà provenienti da numerosi rappresentanti della più autorevole cultura economica e giuridica. Tra questi, Arturo Carlo Jemolo, 2* autore di un duro e appassionato articolo pubblicato il 26 aprile del 1979 sulla prima pagina del quotidiano «La Stampa». 3 Un editoriale altrettanto duro è quello di Eugenio Scalfari, pubblicato il 6 aprile dello stesso anno sul quotidiano «la Repubblica», il quale, tra l’altro, chiama in causa aspramente il silenzio «assai strano» del presidente del Consiglio Giulio Andreotti: «La Banca d’Italia ha promosso negli ultimi tempi azioni ispettive nei confronti di alcuni “santuari” del potere. In particolare le ispezioni hanno avuto per oggetto l’Italcasse e il Banco Ambrosiano. Il silenzio della presidenza del Consiglio è forse motivato da quelle ispezioni e dal desiderio di sgombrare il campo da vigilanze troppo meticolose?». Nell’immediato, Giulio Andreotti tace enigmaticamente, però dissemina con puntiglio annotazioni e chiose nei suoi diari a futura memoria. Si tratta di diari che l’autore scrive avendo l’intenzione di pubblicarli, come in effetti avverrà due anni dopo. Il primo commento sulla vicenda Bankitalia che troviamo nei suoi  Diari è  Diari  è datato 2 aprile e non è meno enigmatico del silenzio: «Per reagire contro l’arresto di Sarcinelli e l’avviso a Baffi, gruppo di professori firma dichiarazione-manifesto. Temo che non un giovi a trovare una rapida via una d’uscita».

4

 

Andreotti appone però anche altre annotazioni nelle sue agende private, le quali non sono destinate alla pubblicazione, ma che anni dopo gli verranno sequestrate nell’ambito del procedimento penale per l’omicidio Pecorelli. Ed ecco allora che un certo numero di glosse andreottiane – sia pubbliche sia private  – sono a nostra disposizione disposi zione e possono consentirci di tentare una definizione definizi one e un’interpretazione della posizione assunta da Giulio Andreotti a fronte della vicenda inquietante dell’attacco a Bankitalia, analisi alla quale è dedicato questo capitolo. Sta di fatto che Baffi e Sarcinelli vengono pretestuosamente incriminati per interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento: sono accusati di non aver trasmesso all’autorità giudiziaria le notizie contenute in un rapporto ispettivo dell’8 giugno 1978, redatto dall’ispettorato di vigilanza sulle aziende di credito. Il rapporto aveva come oggetto l’attività del Credito industriale sardo, banca che aveva finanziato largamente il gruppo chimico Sir dell’imprenditore Angelo Rovelli, oggetto di indagine da parte della magistratura. Va detto che l’inchiesta di cui èdititolare il giudice istruttore Antonio Alibrandi,giudiziaria concerne in unargomento, numero notevole finanziamenti pubblici ritenuti irregolari e riguarda diverse decine di imputati. 5 Tuttavia, nello specifico, per quanto concerne Baffi e Sarcinelli, l’obbligo di trasmettere quel rapporto ispettivo all’autorità giudiziaria non sussisteva affatto e quindi non potevano sussistere neppure i reati contestati. Cosa che alla fine dovranno riconoscere anche i due magistrati inquirenti, come emergerà dalla sentenza di proscioglimento con formula ampia emessa dallo stesso giudice istruttore Alibrandi oltre due anni dopo, il 9 giugno del 1981, su richiesta dello stesso pubblico ministero Infelisi. 6 In realtà, già un anno e sette mesi prima di quella sentenza di proscioglimento un altro e ben più autorevole provvedimento giudiziario aveva sostanzialmente e chiaramente dimostrato l’infondatezza e la pretestuosità di quella incriminazione. Si tratta del provvedimento emesso il 6 novembre 1979 dalla Corte d’appello di Roma, sezione istruttoria, che aveva dichiarato Mario Sarcinelli «scarcerato per mancanza di indizi», anziché per libertà provvisoria come aveva disposto l’ordinanza del giudice istruttore. Infatti Sarcinelli, per una comprensibilissima ragione di principio, aveva fatto appello contro quell’ordinanza di libertà provvisoria e aveva ricevuto piena soddisfazione (sia pure dopo alcuni mesi). In sostanza – si legge nel provvedimento della Corte d’appello – quel rapporto ispettivo, conformemente ai Commissione regolamenti interni della Banca centrale,di era stato regolarmente trasmesso alla interna avente il compito

proporre l archiviazione o l inizio della procedura sanzionatoria, era poi stato

 

regolarmente valutato dalla Commissione e ritenuto non suscettibile di sviluppi sanzionatori ed era passato al vaglio del parere tecnico-giuridico dell’avvocato capo, secondo il quale le conclusioni della Commissione «non si prestavano a osservazioni o rilievi di sorta». Successivamente il segretario della Commissione aveva scritto «un appunto per il governatore con acclusi il verbale riportante le conclusioni della Commissione nonché il parere dell’avvocato capo. Su tale appunto Sarcinelli aveva apposto la propria sigla e la data del 15 gennaio 1979. Il giorno successivo il governatore dichiarava in calce alla relazione ispettiva di condividere “l’avviso espresso dalla Commissione”». È quindi ormai chiaro che l’incriminazione del governatore Baffi e del vicedirettore Sarcinelli, operata nella primavera 1979, altro non fu che una subdola manovra, come scrisse già nel 1990 Giovanni Spadolini, riconducibile «all’intreccio di trame e di cospirazioni contro la Repubblica». Una manovra finalizzata ad allontanare i due rigorosi e quindi scomodi dirigenti dai loro incarichi all’interno della Banca centrale e, in particolare, ad allontanare Sarcinelli dal settore della vigilanza sulle aziende di credito.

2. Come rendere rendere inoffensivo il servizio di vigilanza di una banca centrale Questa triste e kafkiana vicenda può essere seguita lungo un duplice binario vagamente surreale, costituito dal procedere in parallelo delle annotazioni che troviamo nei diari di due protagonisti. Si tratta di due uomini che più diversi tra loro non potrebbero essere: il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e il presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Annotazioni affrante, a tratti indignate, ma sempre estremamente dignitose quelle che il primo affida alla Cronaca breve della breve della sua vicenda giudiziaria. 7 Fredde, accorte, sibilline, sfuggenti e a tratti velatamente beffarde quelle che il secondo registra nei suoi  Diari.  8  Diari. L’allontanamento di Mario Sarcinelli dal settore della vigilanza sulle aziende di credito, attività cui egli è preposto per delega del governatore, si verifica il 17 aprile del 1979 in base a un’ordinanza emessa dal giudice istruttore Alibrandi, su richiesta del pubblico ministero Infelisi. In realtà, poiché l’ordinamento interno di Bankitalia non consente la sospensione da un singolo ufficio della banca, il provvedimento è ancora più penalizzante: l’ordinanza sospende Sarcinelli da tutte le sue funzioni di della vicedirettore dell’istituto. Come che, purcosì di allontanare dal settore vigilanzagenerale sulle aziende di credito queldire dirigente

 

poco malleabile, valeva la pena anche di lasciare la Banca centrale priva di uno dei due vicedirettori generali presenti in organico. Il 19 aprile Baffi annota: «La sera incontro Andreotti. Per ottenere la revoca dell’ordinanza di sospensione, ritiene che occorrerà passare per qualche tempo la vigilanza a Ciampi». Ed ecco arrivato dall’alto il primo segnale: se volete la revoca della sospensione, Sarcinelli, come responsabile del settore della vigilanza, ve lo dovete scordare. Il 20 aprile Andreotti annota: «Abbiamo deciso in Consiglio la reintegrazione di Sarcinelli (come da proposta della Banca d’Italia) e porto il decreto alla firma del presidente. A evitare polemiche con il Palazzo di giustizia, Pertini telefona direttamente al giudice Alibrandi, che ne è compiaciuto». Annotazione davvero sapiente questa di Andreotti, scritta in modo da far pensare che il clima si stia improvvisamente e gaiamente rasserenando: Pertini che telefona al giudice… Il giudice che è compiaciuto… Astuta anche la mossa di far sì che sia nientemeno che il presidente della Repubblica a telefonare ad Alibrandi. Quello stesso aprile Baffi annota: Consigliosuperiore dei ministri avalla9.la reintegrazione di 20 Sarcinelli deliberata dal«Il Consiglio il giorno Vengono fatte salve le competenze della magistratura: dunque anche la successiva sospensione del giorno 17». Passano alcuni giorni. Il 24 aprile Baffi registra nella sua Cronaca breve che breve che «Alibrandi ha convocato in massa al Palazzo di giustizia gli economisti che hanno firmato il manifesto di solidarietà» e «li ha trattati male». Baffi cita i nomi degli illustri accademici convocati, non si capisce a che titolo, dal magistrato e riporta alcune delle frasi scortesi indirizzate da quest’ultimo ad alcuni di loro, tipo «levi i gomiti dal tavolo, qui il professore sono io». Il giorno successivo, 25 aprile, festa della Liberazione, un Paolo Baffi sempre più provato sembra non riuscire più a opporre resistenza alcuna: «Su consiglio degli avvocati» annota «invio ad Andreotti una lettera in cui lo prego di definire il conflitto tra sospensione di Sarcinelli e suo reintegro da parte del Consiglio superiore. Nella lettera è espresso il proposito di affidare per qualche tempo la vigilanza al direttore generale [Ciampi]». Evidentemente questa lettera è una dichiarazione di resa. Baffi e Sarcinelli si arrendono a coloro che li hanno sconfitti e di conseguenza ne accettano le pesanti condizioni: mai più Sarcinelli al settore della vigilanza. Ma l’aspetto paradossale e surreale di tutto ciò è che i due alti funzionari sconfitti non si arrendono davanti a una decisione giudiziaria assunta a norma di legge – infatti il–trattamento che essidavanti stanno subendo ha,oscuro, di giudiziario, turpe parvenza bensì si arrendono a un potere ambiguosolo e una

soverchiante, non a caso rappresentato da Giulio Andreotti. Infatti proprio in

 

quegli anni, e in particolare in quel terribile biennio 1978-1979, Andreotti è complice di Cosa Nostra (come sarà dimostrato anni dopo) e si sta spendendo, in combutta con gli ambienti della P2 di Licio Gelli, per condurre in porto i piani di salvataggio dell’impero sindoniano, destinati a far gravare sul paese il peso di quel rovinoso dissesto. Ecco come Andreotti registra tutto ciò nei suoi Diari suoi Diari alla  alla data del 28 aprile: «Il governatore Baffi mi propone di scrivere una lettera al giudice istruttore Alibrandi per chiedergli di revocare la sospensione dall’ufficio da lui disposta per Sarcinelli (sino a questo momento la reintegrazione deliberata in Consiglio è inoperante). Baffi mi prega di aggiungere che al dottor Sarcinelli, qualora riammesso in servizio, sarebbe affidato un settore diverso da quello cui si collega l’indagine giudiziaria in corso. Aderisco senz’altro». Il fatto che Andreotti aderisca senz’altro, senza senz’altro, senza domandarsi minimamente se scrivere una lettera del genere a un giudice istruttore faccia parte dei compiti di un presidente del Consiglio, e non invece dell’avvocato difensore della persona interessata legaleedella Banca è decisamente sintomatico(odimagari quantodell’ufficio anomala, oscura deviante siad’Italia), questa vicenda apparentemente giudiziaria. Così come è significativo che sia personalmente Andreotti a garantire il rispetto della pesante e ricattatoria condizione imposta alla banca: mai più Sarcinelli al settore della vigilanza. Sta di fatto che Alibrandi, con provvedimento del 4 maggio 1979, esegue fedelmente quanto richiesto dal presidente Andreotti, sottolineando per ben due volte la condizione imposta alla banca e da essa subita (escludere Sarcinelli dal settore della vigilanza) e sostenendo capziosamente che «il governatore si è spontaneamente autolimitato ai fini del futuro esercizio del proprio potere discrezionale». Ecco il testo, che vale la pena di riportare per intero: Il giudice istruttore, letta la propria ordinanza in data 17 aprile 1979 con cui Sarcinelli Mario veniva provvisoriamente sospeso, ex art. 140 c.p., dall’esercizio dell’ufficio di vicedirettore generale della Banca d’Italia; letta la nota 28 aprile 1979 del presidente del Consiglio dei ministri, con cui si fa presente che il governatore della Banca – attesa la difficoltà di distribuire tra il direttore generale e l’unico vicedirettore generale in servizio gli innumerevoli e delicati compiti spettanti al direttorio – aveva chiesto al presidente del Consiglio dei ministri di prospettare all’autorità giudiziar giudiziaria, ia, qualora non sussistessero più pressanti esigenze istruttorie, l’opportunità di revocare l’ordinanza di cui sopra, precisando altresì che, qualora il dr. Sarcinelli fosse stato riammesso in servizio, gli sarebbe stato affidato il settore monetario e valutario; considerato chelimitatamente il pm aveva aalsuo tempovigilanza chiesto la sospensione del Sarcinelli dall’eserc dall’esercizio izio delle sue funzioni settore […] e che tale richiesta non aveva potuto

essere accolta in quanto, stante l ordinamento interno della Banca d Italia (accentramento di tutte

 

le funzioni istituzionali operative nel governatore, con facoltà di delega di talune di esse ai componenti del direttorio), così facendo si sarebbe interferito in senso penetrante nell’esercizio di un potere discrezionale del governatore, limitandolo; che, con la precisazione fornita dal governatore della Banca d’Italia al presidente del Consiglio dei ministri di preporre il Sarcinelli, qualora riammesso in servizio, al settore monetario e valutario, il governatore si è spontaneamente autolimitato ai fini del futuro esercizio del proprio potere discrezionale; che, pertanto, stante quella assicurazione e autolimitazione, può essere disposta la revoca della ordinanza di sospensione di cui sopra; visto il parere conforme del pm; visto l’art. 140 c.p.; revoca la propria ordinanza in data 17 aprile 1979 di cui alle premesse. Roma, 4 maggio 1979

Alla data del 5 maggio Andreotti registra nei suoi Diari suoi Diari la  la nuova tappa della vicenda: «Il giudice Alibrandi aderisce alla richiesta mia e di Baffi e revoca il provvedimento sospensivo per Sarcinelli». Paolo Baffi si dimetterà da governatore della Banca d’Italia il 16 agosto 1979. Mario Sarcinelli non tornerà mai più a occuparsi di vigilanza sugli istituti di credito.

 3. Due incontri molto molto riservati tra Andreotti Andreotti e il giudic giudicee Alibrandi: l’inedita e originale spiegazione che ne dà Andre Andreotti otti Nei Diari di Nei Diari  di Andreotti pubblicati nel 1981 non troviamo altre annotazioni circa la vicenda di Bankitalia, ma va ricordato che quei diari si fermano al 5 agosto 1979. 9 Troviamo invece due annotazioni interessanti nell’agenda privata del 1979, acquisita agli atti del processo per l’omicidio Pecorelli quando, nel 1993, il nome di Giulio Andreotti viene iscritto nel registro degli indagati. Dall’agenda risultano infatti due incontri tra il presidente del Consiglio e il giudice Alibrandi, avvenuti il 17 giugno e il 24 dicembre 1979. Si tratta evidentemente di due incontri piuttosto riservati. Anzitutto perché avvengono entrambi in giornate festive: il primo di domenica, il secondo alla vigilia di Natale (un lunedì ma in pieno ponte natalizio). Inoltre, il primo dei due incontri, che è avvenuto nel triennio coperto dai Diari, dai Diari, nel  nel relativo volume non viene assolutamente citato (né viene citato alcunché, in quel volume, alla data di domenica 17 giugno). Andreotti verrà però interrogato su questi due incontri con il giudice Alibrandi. Ciò accadrà il 2 novembre 1995 nell’ambito dell’udienza preliminare

del processo per l omicidio Pecorelli, quando lui stesso, in veste di indagato,

 

chiederà di essere sentito. L’udienza è presieduta dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Perugia, Sergio Materia, il quale – agenda di Andreotti alla mano – chiede spiegazioni circa i due incontri. La risposta di Andreotti, registrata su nastro e poi riversata in una trascrizione allegata al verbale di udienza, sembra sofferta e imbarazzata, come si può desumere dalle frequenti esitazioni e dai numerosi anacoluti che vi compaiono. 10 Eccone la fedele trascrizione, nella quale si è intervenuto solo sulla punteggiatura, per renderla più facilmente comprensibile: Io ebbi questi incontri su una richiesta precisa che mi aveva fatto il governatore Baffi. Anzi, devo dire… (ed è una buona occasione per chiarirlo, siccome si cerca di fare un collegamento tra provvedimenti che erano stati presi nei confronti di Sarcinelli e di Baffi e la questione di Sindona, che non è così)… e quindi può essere sentito il giudice Alibrandi… il quale aveva avuto per suo conto, nel contesto di un altro processo… aveva avuto degli scontri con la Banca d’Italia, perché riteneva che la Banca d’Italia, non solo non fosse stata riguardosa… (non nel senso di cerimoniale, ma nel senso sostanziale)… verso di lui come magistrato… ma che anzi avessero cercato, così, di aggirarlo e di negligerlo… aveva ritenuto di adottare questi provvedimenti, che certamente ci colpirono molto, perché colpivano il governatore della Banca d’Italia e il capo della vigilanza. Io devo dire anche con… non voglio dire umiliazione, perché sarebbe una parola esagerata… ma con un certo disagio… perché fare un passo presso il magistrato, pregandolo di volere valutare anche i danni di carattere generale che questo comportava… quindi senza entrare nelle sue valutazioni… pregandolo vivamente… (forse l’unico caso in cui ho cercato di aggiustare una procedura giudiziaria)… Insomma, il mio incontro fu volto… (perché ero stato pregato, anche da Baffi)… a chiedere al dottor Alibrandi poi… di andare avanti come lui riteneva nelle procedure… ma possibilmente di valutare… e per una cosa di cui mi facevo carico formalmente come governo… governo… di valutare la gravità di tenere ai vertici della Banca d’Italia una situazione non solo di incertezza, ma anche di presunta colpevolezza, che ci danneggiava anche esteriormente…

Ebbene, questa risposta di Andreotti non può essere considerata attendibile per più ragioni. Quanto all’incontro di domenica 17 giugno 1979, non è plausibile che sia stato Baffi a pregare Andreotti di organizzarlo. Infatti, non c’è nessuna annotazione di Baffi – nella sua Cronaca breve – breve – che possa far propendere per un’ipotesi del genere. In quelle pagine c’è invece un’annotazione di Baffi riferita al giorno dopo, lunedì dopo, lunedì 18 giugno, nella quale si precisa che proprio quella mattina «sono arrivati due questurini (un commissario e un maresciallo) a ritirarmi il passaporto. Non hanno manifestato la benché minima simpatia, anzi hanno ripetutamente insistito (di fronte alle mie risposte negative) per sapere se avevo altri documenti di viaggio». Dunque, è ben difficile credere che l’incontro Andreotti-Alibrandi del giorno precedente a quella visita sia stato organizzato da Andreotti per venire cortesemente incontro a una richiesta Baffi. Andreotti di Altrettanto implausibile è che possa essere stato Baffi a di pregare

incontrarsi con Alibrandi a fine dicembre 1979. Baffi era ormai in pensione dal

 

16 agosto e non aveva certamente nessun motivo per desiderare incontri di sorta tra il presidente del Consiglio e quel giudice istruttore. Tanto più che l’unico fatto nuovo intervenuto nelle settimane precedenti, riferibile alla vicenda Bankitalia, era stato il provvedimento della Corte d’appello di Roma del 10 novembre, che era favorevole alla posizione di Sarcinelli e che, di conseguenza, era tranquillizzante anche per Baffi. Suscita poi persino un certo stupore il fatto che Andreotti, forse preso in contropiede da quella domanda inaspettata del giudice istruttore Materia sui due incontri con Alibrandi, abbia sostenuto che quest’ultimo avrebbe incriminato Baffi e Sarcinelli perché «aveva avuto per suo conto, nel contesto di un altro processo, degli scontri con la Banca d’Italia», la quale era stata «non riguardosa verso di lui come magistrato». Si tratta di una tesi talmente bizzarra ed evanescente che non è proprio il caso di indugiare su di essa. Del resto, ipotizzare che il terremoto in Bankitalia del 1979 possa essere stato determinato dalla ripicca nevrotica di un giudice istruttore permaloso è semplicemente come sarebbe ipotizzare chepossa l’impegno profuso in quellaassurdo. vicendaCosì dal presidente del assurdo Consiglio in persona essersi verificato per condiscendenza verso Alibrandi.

4. La posizione dei magistrati Infelisi e Alibrandi, segnalata alla  Procura  Pr ocura di Perugia e arc archiviata hiviata senza alcun accertamento Milano, 17 luglio 1984. Il giudice istruttore 11 titolare del procedimento penale contro Michele Sindona firma l’ordinanza di rinvio a giudizio del bancarottiere e dei suoi sodali per l’omicidio Ambrosoli. Dispone anche che venga inviata alla Procura generale della Repubblica di Roma una copia sia dell’ordinanza sia di tutta la documentazione attinente alla vicenda giudiziaria Baffi-Sarcinelli, «per quanto di eventuale competenza». Spetta infatti a quell’ufficio valutare se il comportamento tenuto dai magistrati romani Infelisi e Alibrandi vada segnalato alla Procura della Repubblica di Perugia, competente per i procedimenti penali riguardanti i magistrati in servizio nel Lazio. La Procura generale di Roma trattiene l’incartamento per sei mesi senza assumere alcun provvedimento. Poi lo iscrive a ruolo, vale a dire lo registra in cancelleria, solo il 16 gennaio 1985 e lo trasmette il giorno stesso al procuratore della Repubblica di Perugia. Nel capoluogo umbro si apre un procedimento penale, «Attidei relativi a indagini su fatti cheepotrebbero integraredel ipotesi di reato intitolato nei confronti magistrati Luciano Infelisi Antonio Alibrandi

 

distretto di Roma». 12 Passano tre mesi di inerzia totale. Il 16 aprile 1985 il pubblico ministero di Perugia, senza aver disposto alcun accertamento di istruttoria preliminare «sommaria», come invece prevedeva il Codice di procedura penale allora in vigore, trasmette il tutto al giudice istruttore con richiesta di archiviare il caso. Va detto che il vecchio Codice di procedura penale consentiva al pubblico ministero di acquisire documenti e di svolgere accertamenti di «istruttoria sommaria», senza particolari formalità, prima formalità, prima di  di rivolgere al giudice istruttore la sua richiesta (di istruttoria «formale» oppure di archiviazione del caso). 13 Viceversa, questi accertamenti «informali» non erano consentiti al giudice istruttore, il quale, se non fosse stato d’accordo con una richiesta di archiviazione proveniente dal pubblico ministero, avrebbe potuto solo aprire autonomamente l’istruttoria «formale», portandola poi avanti nel rispetto delle formalità previste per quel tipo di istruttoria e, tra l’altro, trovandosi nella posizione scomoda di dover procedere contro la volontà dell’organo dell’accusa 14 pubblica. Nel caso Baffi-Sarcinelli, il giudice istruttore di Perugia, Sergio Materia, di fronte all’inerzia del pubblico ministero e alla sua richiesta di chiudere il caso senza alcun approfondimento, ha ritenuto di non poter fare altro che accogliere la richiesta, ma non senza aver prima aver prima elencato  elencato puntigliosamente tutti gli accertamenti che il pubblico ministero avrebbe dovuto svolgere e aveva invece omesso. 15

 

IX Dalla seconda guerra di mafia alle stragi di Capaci e di via D’Amelio

1. La vittoria della fazione corleonese di Cosa Nostra e la scelta di Buscetta e Contorno di collaborare con lo Stato Se la guerra di mafia venuta a maturazione nel 1980 viene usualmente menzionata come «seconda», ciò si deve al fatto che una mattanza di circa vent’anni prima – il conflitto tra i La Barbera e i Greco di Ciaculli passato alla storia appunto come «prima guerra di mafia» – aveva insanguinato Palermo e i comuni limitrofi tra la fine del 1962 e l’estate del 1963. Ma va detto che, a voler sottilizzare, una guerra di mafia ancora precedente (tutta interna alle cosche corleonesi) era esplosa già nel 1958 con l’omicidio dell’allora capomafia di Corleone, il medico Michele Navarra, per opera del trentatreenne Luciano Liggio, ed era proseguita nei primi anni Sessanta quando lo stesso Liggio, affiancato dai più giovani Riina e Provenzano, aveva sterminato i seguaci del dottor Navarra diventato il «boss dei nata boss»appunto di Corleone. In ogni casoed la era seconda guerra di mafia, nel 1980, esplode virulenta il 23 aprile del 1981, quando Stefano Bontate a Palermo sta rincasando dopo aver festeggiato il suo compleanno. I killer mandati da Totò Riina e Michele Greco lo individuano alla guida della sua Alfa Romeo e lo massacrano a colpi di kalashnikov. Passano appena due settimane e la stessa sorte tocca anche a Salvatore Inzerillo. Gli altri due boss della fazione palermitana, Buscetta e Badalamenti, riescono a evitare la morte, probabilmente solo perché in quei giorni si trovano all’estero. Riina organizza un vero e proprio esercito per continuare la mattanza. Nei due anni che seguono, vengono uccise un centinaio di persone ritenute vicine alle famiglie Bontate e Inzerillo. Alcuni cercano di fuggire dalla Sicilia e di

trovare riparo negli Stati Uniti, ma i corleonesi hanno contatti importanti anche

 

oltreoceano, e quando Riina e i suoi non riescono a uccidere un boss, cominciano a perseguire e a colpire familiari e amici. È quello che accade a Tommaso Buscetta, che si vede uccidere ben dodici parenti, e anche a Salvatore Contorno. Quest’ultimo è stato per anni al servizio di Stefano Bontate e, dopo l’uccisione del suo capo, è consapevole di essere in pericolo. I corleonesi organizzano un’imboscata, ma lui sfugge miracolosamente alla morte. Allora Provenzano e i suoi sodali cominciano a uccidere tutti i suoi parenti. Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno reagiscono decisamente, avviando una collaborazione pressoché totale con lo Stato, 1 iniziata per entrambi nel 1984, e diventano due importantissimi collaboratori di giustizia. Le loro dichiarazioni, raccolte dai giudici istruttori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, saranno fondamentali nell’ambito del primo maxiprocesso di mafia, il cui dibattimento pubblico si svolgerà nell’aula bunker di Palermo dal febbraio 1986 sino al 16 dicembre 1987, giorno in cui sarà emessa la sentenza di primo grado, dopo trentacinque giorni continuativi di camera di consiglio.

2. Il maxiprocesso maxiprocesso di Palermo da Falcone e Borsellino alla sentenza del 30 gennaio 1992 della Corte di cassazione La fase istruttoria del maxiprocesso, cioè il periodo della precedente attività investigativa coordinata dai due giudici istruttori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – operanti nell’ufficio istruzione diretto magistralmente dal giudice Rocco Chinnici – è iniziata già nel luglio 1982 con un voluminoso rapporto di polizia inerente proprio alle vicende della seconda guerra di mafia. Il rapporto un numero di omicidi un centinaio), partire da quelliriguarda di Stefano Bontateenorme (23 aprile 1981) e (circa di Salvatore Inzerilloa (11 maggio 1981). Inoltre, riguarda anche il reato di associazione per delinquere e un gran numero di traffici internazionali di stupefacenti. Quasi tutti gli imputati appartengono o sono vicini allo schieramento «vincente» di Cosa Nostra, cioè a quello facente capo ai corleonesi di Totò Riina. Successivamente arrivano altri rapporti di polizia inerenti ad altri omicidi, alcuni dei quali hanno colpito valenti uomini dello Stato, come il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (ucciso il 21 luglio 1979) e il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa (ucciso il 3 settembre 1982, poco dopo la sua nomina a prefetto di Palermo). Per semplificare la trattazione si prenderanno in considerazione, per il momento, solo i quattro omicidi appena menzionati: quelli dei due boss mafiosi

 

ai vertici dello schieramento «perdente», Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, e dei due alti ufficiali dello Stato, Boris Giuliano e Carlo Alberto dalla Chiesa. Per questi quattro omicidi vengono incriminati, tra gli altri, i vertici dello schieramento dei corleonesi: Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca e Giuseppe Calò, vale a dire i cinque membri della «cupola» (l’organismo direttivo di Cosa Nostra, detto anche «commissione») che ha deciso le quattro uccisioni. Questa importantissima inchiesta giudiziaria palermitana viene ben presto funestata dall’orribile strage di via Pipitone Federico, a Palermo, del 29 luglio 1983, nella quale viene barbaramente ucciso il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Con lui muoiono i due uomini della scorta e il portiere dello stabile. 2 La morte di Rocco Chinnici è una perdita molto grave per l’ufficio istruzione di Palermo. Grazie a una delle (non frequenti) scelte felici operate dal Consiglio superiore della magistratura, viene nominato nuovo consigliere istruttore Antonino Caponnetto, di grandedispessore umano e professionale, nato siciliano a Caltanissetta uomo ma fiorentino adozione, che giunge nel capoluogo nel novembre 1983 e che guiderà con grande efficienza il pool antimafia dell’ufficio istruzione – creato dal suo valoroso predecessore – sino alla fine del 1987. La fase istruttoria del maxiprocesso prosegue quindi senza sosta e viene conclusa dai giudici istruttori Falcone e Borsellino con un provvedimento di dimensioni impressionanti datato 8 novembre 1985: una sentenza-ordinanza di quasi novemila pagine. 3 In questo provvedimento, fra l’altro, viene dimostrato il carattere unitario e verticistico di Cosa Nostra con argomentazioni che reggeranno al vaglio dibattimentale sino al verdetto della Corte suprema. Gli imputati rinviati al giudizio della Corte d’assise di Palermo sono ben 476. 4 Con la sentenza di primo grado del 16 dicembre 1987 la Corte d’assise di Palermo conferma il riconoscimento del carattere unitario e verticistico di Cosa Nostra, così come argomentato dai giudici istruttori, e condanna 346 imputati assolvendone 114; vengono irrogati ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. 5 Tre degli ergastoli sono quelli di Michele Greco, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, tre membri della cupola, che vengono condannati per un gran numero dei delitti contestati, compresi i quattro omicidi Bontate, Inzerillo, Giuliano e Dalla Chiesa. 6 L’inizio del processo di secondo grado, davanti alla Corte d’assise d’appello di Palermo, viene fissato per il 22 febbraio 1989. Il magistrato destinato a presiedere il processoper d’appello è Antonino Saetta, il quale si èdimostrato messo in luce negli anni precedenti il coraggio e l’assoluto rigore morale in altri

processi di mafia, tra i quali quello a carico dei mandanti e degli autori

 

dell’omicidio Chinnici. Ma purtroppo Saetta viene ucciso da Cosa Nostra a colpi di pistola, insieme con il figlio Stefano, il 25 settembre 1988. 7 Otto anni dopo, per questo duplice omicidio, verranno individuati e condannati all’ergastolo gli autori, tra cui, di nuovo, Salvatore Riina. Il dibattimento d’appello del maxiprocesso inizia comunque il 22 febbraio 1989, presieduto dal magistrato Vincenzo Palmegiano, e dura un anno e nove mesi. Si conclude con la sentenza del 10 dicembre 1990, che mette fortemente in dubbio il carattere unitario e verticistico di Cosa Nostra. Di conseguenza l’esito è piuttosto deludente sia per gli inquirenti, sia per l’opinione pubblica e per la maggior parte dei mezzi di informazione, tanto che sull’esito del processo non mancheranno le polemiche. Le condanne sono infatti ridotte in maniera cospicua, gli ergastoli diminuiscono di numero, le pene detentive vengono sensibilmente ridotte e molto numerose sono le nuove assoluzioni. In particolare, vengono assolti dall’accusa per gli omicidi di Boris Giuliano e di Carlo Alberto dalla Chiesa tutti coloro che per quei due delitti erano stati condannati in primo grado (quindi tuttie eInzerillo tre i capimafia di cui sopra), mentre per i due omicidi–aiviene danni di Bontate il verdetto di condanna – e quindi l’ergastolo confermato solo per Greco e Riina e non per gli altri. Al contrario, la successiva sentenza della Corte di cassazione, emessa il 30 gennaio 1992, ribadisce e rende definitivo il riconoscimento del carattere unitario e verticistico di Cosa Nostra ed è molto severa nelle sue decisioni: le condanne vengono tutte confermate, mentre la gran parte delle assoluzioni pronunciate in appello viene annullata. Per gli imputati viene disposto un nuovo giudizio davanti a una diversa sezione della Corte d’assise d’appello di Palermo.

 3. La reazione reazione di Cosa N Nostra ostra e la fase ffinale inale del maxiprocesso: maxiprocesso: il sacrificio di Falcone e Borsellino non gioverà agli assassini Per Cosa Nostra, la svolta imposta al maxiprocesso dalla Cassazione con la sentenza del 30 gennaio 1992 è un colpo molto duro. La sua reazione non si fa attendere. Poco più di un mese dopo, il 12 marzo, Salvo Lima, uomo cuscinetto tra Cosa Nostra e Giulio Andreotti, viene ucciso a Palermo a colpi di pistola. È la punizione riservata alla corrente andreottiana della Dc per non aver saputo evitare a Cosa Nostra una simile batosta. Seguono a breve distanza la strage di Capaci (23 maggio) e quella di via D’Amelio (19 luglio), nelle quali vengono uccisi da Cosa Nostra rispettivamente

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

 

Tuttavia, il corso della giustizia non subisce contraccolpi. Nel nuovo dibattimento d’appello del maxiprocesso, iniziato nel novembre 1993, tutti gli imputati condannati all’ergastolo in primo grado vengono di nuovo condannati all’ergastolo, ivi compresi i boss accusati di quei quattro omicidi di cui sopra. Dunque, l’esito finale del maxiprocesso è che la totalità delle pesanti condanne pronunciate in primo grado viene confermata e diventa definitiva. Ma non solo. La sentenza finale, emessa il 17 marzo del 1995 dalla seconda Corte d’assise d’appello di Palermo, è ancor più severa della sentenza di primo grado del 1987, in quanto infligge la condanna all’ergastolo anche a Pippo Calò e a Bernardo Brusca, giudicandoli parimenti coinvolti negli omicidi addebitati alla cupola di Cosa Nostra, tra cui quelli di Bontate, Inzerillo, Giuliano e Dalla Chiesa. Da quegli omicidi, infatti, la sentenza di primo grado aveva assolto Calò e Brusca per insufficienza di prove, assoluzioni che il pubblico ministero aveva tempestivamente impugnato trovando soddisfazione solo otto anni dopo. 8 Tra la seconda metà degli anni Novanta e i primi anni del terzo millennio, per le stragi didivenute Capaci definitive, e di via D’Amelio, condannato all’ergastolo, sentenze un grandeverrà numero di boss mafiosi tra cuicon Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò e Michelangelo La Barbera, gli ultimi due già implicati, come abbiamo visto, nella vicenda giudiziaria dell’omicidio Pecorelli. 9 Per l’omicidio di Salvo Lima verranno condannati all’ergastolo, con sentenza definitiva, lo stesso Salvatore Riina più altri diciassette boss dello schieramento corleonese, tra cui, di nuovo, la coppia Giuseppe Calò e Michelangelo La Barbera.

 

X L’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile e i dodici anni della tormentata vicenda giudiziaria

1. Le cir circostanze costanze dell’assassinio di Emanuele Basile e l’istruttoria del giudice Paolo Borsellino Monreale, sera del 3 maggio 1980, festa del Santissimo Crocifisso, patrono della città. La tradizionale processione con la venerata immagine del Cristo si è dipanata a lungo per le vie dei vari quartieri urbani e si ferma per un’ultima volta davanti alla cattedrale quando è ormai passata l’una di notte. Nelle sale del comune si è appena concluso il ricevimento ufficiale con la presenza delle locali autorità civili e religiose, al quale ha partecipato anche il capitano della compagnia dei carabinieri di Monreale, Emanuele Basile. Il capitano lascia il municipio mentre la folla si sta a poco a poco diradando e si avvia lentamente verso casa, accompagnato dalla moglie Silvana e dalla figlia di quattro anni,inBarbara. Il giovane ufficiale colpito da cinque di pistola esplosi rapida successione. I killer viene sono tre e Silvana Basilecolpi li vede chiaramente. Uno è giovane, alto e magro. Gli altri due – uno basso e tarchiato, l’altro con lineamenti vagamente asiatici – vengono visti anche da alcuni testimoni mentre, a bordo di una A112 beige, si allontanano a grande velocità. L’appuntato Giuseppe Di Giovanni e il metronotte Giovanni Caruso sparano verso l’auto in fuga, ma invano: solo uno dei colpi va a segno, danneggiando il faro sinistro dell’auto. L’orologio del campanile segna l’una e quaranta. Emanuele Basile morirà in ospedale dopo quattro ore di agonia. 1 Immediatamente i carabinieri cingono d’assedio Monreale e la zona circostante. Verso le quattro del mattino, in contrada Aquino di Monreale,

vengono fermati due uomini a bordo di una Renault R5 bianca, ferma in aperta

 

campagna con il muso rivolto verso Palermo. Uno dei due è seduto davanti, accanto al posto di guida, e viene identificato per Armando Bonanno, classe 1941. Il secondo, basso e tarchiato, è seduto dietro e viene identificato per Vincenzo Puccio, classe 1945. Al volante non c’è nessuno. I due – noti all’Arma dei carabinieri come uomini di Cosa Nostra – sostengono di avere avuto un appuntamento galante con due donne sposate di cui non intendono fare i nomi e che si sono appena allontanate su una Fiat 128 verde. Sotto il tappetino della Renault vengono trovati una carta d’identità e un foglio rosa intestati a Giuseppe Madonia, classe 1954 (che risulterà essere il proprietario dell’auto), figlio di quel Francesco Madonia noto all’Arma dei carabinieri per essere l’indiscusso boss della famiglia mafiosa di Resuttana. Tre quarti d’ora dopo il fermo di Puccio e Bonanno, anche Giuseppe Madonia viene rintracciato a circa mezzo chilometro di distanza. Vedendo avvicinarsi i carabinieri, il giovane cerca di scavalcare una rete metallica per allontanarsi tra i campi, ma si ferisce alle mani. I suoi stivaletti di cuoio sono decisamente infangati, così Giuseppe da far ritenere che egli già provenga da un un percorso a piedi tra i campi. Anche Madonia sostiene di avere avuto appuntamento galante con una donna sposata di cui non intende fare il nome e che si è appena allontanata su una Fiat 126 bianca. Subito dopo il fermo dei tre, Puccio viene mostrato alla moglie della vittima, la quale lo indica come uno dei possibili autori del delitto, precisamente quello basso e tarchiato che aveva esploso un colpo di pistola contro di lei, senza colpirla. Successivamente i tre fermati, incriminati come autori materiali dell’omicidio Basile, presenteranno degli alibi per cercare di rendere credibili i rispettivi appuntamenti galanti, ma gli alibi si riveleranno palesemente falsi. Un paio d’ore dopo, i carabinieri trovano in località Pioppo di Monreale un’auto A112 abbandonata, che risulta essere stata rubata alcuni mesi prima. Uno dei due fari anteriori è rotto e sul cofano c’è il foro d’entrata di una pallottola. È l’auto usata per la fuga di due dei killer di Emanuele Basile, presumibilmente Puccio e Bonanno. Dentro la A112 viene rinvenuta una rivoltella Smith & Wesson caricata con sei pallottole a espansione, proiettili uguali a quelli che hanno ucciso il comandante della compagnia di Monreale. Il 9 maggio 1980 il giudice istruttore Paolo Borsellino, titolare dell’inchiesta giudiziaria sull’omicidio Basile, raccoglie le dichiarazioni di due testimoni oculari di rilievo: l’appuntato dei carabinieri Ponfino Buttazzo e sua moglie Carla, i quali sostengono che,dicirca un’ora prima stata dell’omicidio, davanti a unhanno bar che si affaccia su quella che lì a poco sarebbe la scena del crimine,

visto un ragazzo alto e magro, un uomo basso e tarchiato e uno «con la faccia da

 

cinese», mai visti a Monreale prima di quel momento. La loro attenzione –  spiegano – si era soffermata sui tre uomini perché, quando i due coniugi erano entrati nel bar per prendere una granita (Buttazzo era in divisa), la moglie aveva sentito uno dei tre dire agli altri due: «Andiamocene via, stiamo alla larga dalle divise». Carla Buttazzo aveva subito riferito la cosa al marito ed entrambi avevano rivolto lo sguardo verso l’uscita del bar, vedendo chiaramente il viso del più giovane dei tre. La mattina seguente alla loro deposizione, i due testimoni entrano all’Ucciardone per fare la ricognizione e, attraverso un finto specchio, riconoscono entrambi con sicurezza Giuseppe Madonia – vedendolo a fianco di altri tre giovani della stessa corporatura e altezza – come il ragazzo alto e magro che avevano notato e che, secondo la donna, aveva pronunciato quella frase. I due testimoni non sono altrettanto precisi nel riconoscere Puccio e Bonanno: «Non possiamo giurarlo, non siamo sicuri». Il 23 maggio 1980 giunge sulla scrivania del giudice Borsellino anche la perizia balistica, la qualeBasile ha datoprovengono un risultatotutti inequivocabile: i proiettili hanno ucciso il capitano dalla rivoltella Smith &che Wesson trovata dai carabinieri sull’auto A112 abbandonata dai sicari in località Pioppo di Monreale. Paolo Borsellino chiude l’istruttoria il 6 aprile del 1981 ed emette l’ordinanza con cui rinvia a giudizio Giuseppe Madonia, Vincenzo Puccio e Armando Bonanno per rispondere come autori materiali dell’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Rimane invece aperto, in istruttoria, il procedimento relativo alla ricerca dei mandanti, che più tardi verranno riconosciuti, come si vedrà, in Totò Riina e Francesco Madonia. Paolo Borsellino ha già individuato il movente del delitto nel fatto che Basile, ai primi di gennaio del 1980, aveva scoperto una traccia che lo portava agli assassini di Boris Giuliano, proprio riprendendo le indagini che quest’ultimo stava compiendo quando venne ucciso nell’estate del 1979. Il capitano Basile, in sostanza, era stato condannato a morte da Cosa Nostra quando, seguendo quella traccia, aveva firmato due rapporti sulla mafia di Altofonte, i quali avevano condotto, il 6 febbraio e poi il 16 aprile, all’arresto di numerosi mafiosi appartenenti al clan dei corleonesi. Anni dopo, alcuni di costoro (tra cui, di nuovo, Totò Riina e Francesco Madonia) verranno condannati come mandanti dell’omicidio di Boris Giuliano, materialmente compiuto da Leoluca Bagarella.

2. Un processo di primo grado quantomeno sconcertante

 

Il processo penale di primo grado per l’omicidio Basile si apre il 7 ottobre del 1981 davanti alla Corte d’assise di Palermo presieduta da Carlo Aiello. Si svolge lungo una cinquantina di udienze, alla presenza dei tre imputati detenuti, in una calma solo apparente. Dietro le quinte, infatti, il clima è tutt’altro che sereno. Cosa Nostra vuole assolutamente che i tre sicari vengano assolti. Saranno i collaboratori di giustizia degli anni Novanta, nell’ambito del processo di Palermo a carico di Giulio Andreotti, a descrivere quel clima. Gaspare Mutolo, in particolare, rivelerà che «il presidente Aiello, essendo di Bagheria, fu avvicinato tramite dei bagheresi suoi conoscenti, che gli chiesero di assolvere gli imputati e lo minacciarono pure di morte se non avesse aderito a questa richiesta […]. Al presidente Aiello non fu chiesto un semplice occhio di riguardo, ma fu tassativamente imposto di assolvere gli imputati». 2 Il 17 novembre il pubblico ministero pronuncia la sua requisitoria e chiede alla Corte tre condanne all’ergastolo. La parola passa alla difesa ed ecco l’inaspettato colpo di scena che consente di fermare il processo, facendo così cosaIl gradita anche al presidente Aiello. difensore di Giuseppe Madonia rileva che sulla suola di uno degli stivaletti sequestrati al suo assistito la notte dell’omicidio c’è una strana macchia biancastra e chiede che sia disposta una perizia per stabilirne la natura. È di tutta evidenza che una perizia del genere è totalmente inutile e spudoratamente dilatoria, ma il presidente della Corte ne approfitta per sospendere il dibattimento ordinando che l’intero l’intero processo  processo Basile torni al giudice istruttore Paolo Borsellino. Anni dopo, durante il procedimento penale di Palermo a carico di Andreotti, Gaspare Mutolo ricollegherà tutto ciò all’avvicinamento all’avvicinamento del  del magistrato da parte dei suoi conoscenti bagheresi: «Il presidente Aiello quando fu contattato rispose di sì, poi trovò il modo di rinviare la trattazione del processo […] noialtri capimmo che era stata una scusa per liberarsene». 3 La perizia sulla macchia biancastra dura più a lungo del previsto, ben quindici mesi, e non accerta nulla di rilevante. Il processo Basile, che i giornali chiameranno «Basile bis», presieduto ora da Salvatore Curti Giardina, ricomincia l’8 febbraio del 1983. Viene subito rinviato di tre settimane e si conclude, dopo pochissime udienze, la mattina del 31 marzo, quando la Corte si ritira in camera di consiglio. Ne esce nel pomeriggio e assolve i tre imputati per insufficienza di prove. La motivazione della sentenza è incredibilmente contraddittoria e sfiora spesso il paradosso, come si può notare da alcuni passaggi particolarmente emblematici:

La Corte rileva di non potere fare sicuro affidamento sul riconoscimento dell’imputato Madonia

 

da parte dell’appuntato dei carabinieri Ponfino Buttazzo e di sua moglie Carla, pur escludendo in costoro qualsiasi malafede o qualsiasi proposito di collusione con gli organi inquirenti […]. Il faro sinistro dell’automobile A112 abbandonata a Pioppo non è stato affatto messo fuori uso dal proiettile dell’appuntato Di Giovanni. La documentazione fotografica evidenzia solo un piccolo foro e, in mancanza di specifica prova contraria […]. Non potrebbe escludersi, in ipotesi, che la presenza degli imputati in luogo prossimo a quello del delitto fosse stata originata da motivi non collegabili a questo, anche se innegabilmente poco chiari e poco limpidi […]. Paradossalmente bisogna concludere, quindi, che meno problematico, se non addirittura certo, sarebbe stato il convincimento di colpevolezza della Corte in presenza di un più ristretto numero di indizi […]. 4

La Corte ordina l’immediata scarcerazione di Vincenzo Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia. Il giudice istruttore Borsellino, a sua volta, ordina immediatamente l’accompagnamento coatto dei tre imputati, a cura della polizia di Stato, in tre distinti comuni della Sardegna dove dovranno rimanere al soggiorno obbligato come elementi socialmente pericolosi. Dispone anche che i tre lascino il territorio siciliano entro la mezzanotte di quel 31 marzo. I tre arrivano alle rispettive destinazioni il 2 aprile del 1983 e vengono affidati dalla polizia di Stato ai competenti comandi locali dei carabinieri. La notte fra il 13 e il 14 aprile 1983 Madonia, Puccio e Bonanno scompaiono dalle rispettive località di soggiorno obbligato e si rendono latitanti. Il giudice istruttore Borsellino spicca tre mandati di cattura per associazione per delinquere. 5

 3. Le due condanne in appello, annullate dalla C Cassazione, assazione, e il verdetto finale del 1992 Il processo d’appello contro la sentenza assolutoria di primo grado si svolge di fronte alla prima sezione della Corte d’assise d’appello di Palermo – nella contumacia dei tre imputati ancora latitanti – e si conclude il 24 ottobre del 1984. Dopo sette ore di camera di consiglio la Corte, presieduta da Antonio Dell’Aira, emette una sentenza di condanna all’ergastolo per tutti e tre gli imputati. La motivazione della sentenza denuncia impietosamente «l’assurdità logica» delle argomentazioni contenute nel verdetto dei primi giudici. Gli avvocati di Bonanno, Madonia e Puccio presentano ricorso alla Corte di cassazione. L’udienza si svolge il 23 febbraio del 1987 davanti alla prima sezione, presieduta da Corrado Carnevale, giornalisticamente noto come «il giudice ammazzasentenze» per l’altissimo numero di sentenze d’appello – molte

relative a processi di mafia – da lui annullate per vizi di forma. Ebbene, questa

 

sorte tocca anche alla sentenza d’appello che ha condannato nel 1984 i tre sicari del capitano Basile. In questo caso il vizio di forma che determina l’annullamento consiste nel fatto che ai difensori dei tre imputati non è stato spedito, a suo tempo, l’avviso della data di quella particolarissima udienza pubblica destinata all’estrazione a sorte dei nomi dei giudici popolari. Di conseguenza, gli atti del processo Basile vengono ritrasmessi alla Corte d’assise d’appello di Palermo per un nuovo giudizio. Il secondo processo d’appello sull’omicidio Basile si apre la mattina dell’8 giugno 1988. La Corte d’assise d’appello di Palermo è presieduta da Antonino Saetta, il giudice che tempo prima aveva presieduto più che dignitosamente il processo di Caltanissetta per l’omicidio del consigliere istruttore di Palermo Rocco Chinnici. Gli imputati Giuseppe Madonia e Vincenzo Puccio sono presenti in aula, essendo stati nel frattempo nuovamente arrestati, mentre non c’è Armando Bonanno, misteriosamente scomparso e probabile vittima di lupara bianca. Di nuovo Cosa Nostra cerca di intervenire sul caso Basile per evitare una condanna dei suoi sicari. Sarà il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, nel novembre 1989, a rivelarlo a Giovanni Falcone, allora procuratore della Repubblica aggiunto a Palermo: «La giuria popolare della Corte presieduta dal giudice Saetta fu contattata per aggiustare aggiustare il  il processo. Me lo disse Puccio, in quel periodo io ero detenuto con lui nella stessa cella dell’Ucciardone. Mi disse che c’erano notevoli possibilità di assoluzione». 6 Cosa Nostra resterà delusa. La mattina del 23 giugno 1988 la Corte si ritira in camera di consiglio e ne esce a tarda sera con un verdetto di ergastolo per i tre imputati. «Quando ci fu quella sentenza» dirà ancora Mannoia a Falcone, «Puccio mi disse anche che la colpa era solo del presidente Saetta, che si era imposto alla giuria popolare, pretendendo un giudizio di colpevolezza […]. Diceva Puccio: “I giurati popolari ci hanno avvertito che Saetta voleva la nostra condanna a tutti i costi”.» La motivazione della sentenza viene depositata in cancelleria il 16 settembre 1988. È una motivazione ben scritta e molto chiara, di cui vale la pena riportare un passaggio particolarmente significativo: Passando a esaminare in particolare gli indizi emersi a carico degli odierni imputati, va subito rilevato che l’accertata loro presenza in tempo di notte in località Aquino […], vicina al luogo in cui poco più di due ore prima era stato consumato un grave delitto, è certo sintomatica della loro partecipazione al delitto stesso, specie ove si considerino le concrete modalità del loro ritrovamento. Il Puccio e il Bonanno vennero infatti trovati seduti all’interno dell’autovettura del

Madonia, il cui posto di guida era stato lasciato libero in evidente attesa del proprietarioconducente.

 

Il Madonia venne trovato a circa seicento metri dalla R5 e catturato mentre, nell’evidente intento di sottrarsi agli accertamenti dei carabinieri, tentava di scavalcare una recinzione metallica di circa due metri di altezza protetta in cima da un filo spinato. Già questo disperato tentativo del Madonia dimostra chiaramente quanto grande fosse il suo interesse di sottrarsi agli accertamenti per non far constare la sua presenza in loco. Non sfugge il carattere indiziante di questo comportamento, ma ben più indiziante appare l’interesse che sostiene il Puccio e il Bonanno da una parte, il Madonia dall’altra, di dimostrare che non si conoscono, e quello infine di negare, cosa che continuano a fare ancora oggi contro ogni evidenza, che essi erano insieme quella notte. Preme rilevare che le indagini dei carabinieri e l’istruzione probatoria hanno consentito di accertare il collegamento fra i tre imputati. Invero, il fatto stesso che il Puccio e il Bonanno siano stati trovati seduti all’interno dell’autovettura in attesa della persona che si ponesse al posto di guida lascia presumere che essi erano insieme al proprietario dell’auto, che è risultato essere appunto il Madonia rinvenuto, nella descritta modalità, ad appena seicento metri di distanza. Sotto il tappetino dell’auto si rinvennero infatti la carta d’identità e il foglio rosa del Madonia e tale circostanza toglie ogni parvenza di credibilità all’assunto difensivo degli imputati, peraltro formulato con ritardo e in contrasto con le precedenti dichiarazioni, secondo il quale l’auto sarebbe stata dal Madonia prestata al Bonanno la mattina del giorno precedente. 7

Antonino Saetta pagherà con la vita il suo coraggio e la sua fedeltà alle istituzioni. giorni dopo depositodidella sentenzaM12 in cancelleria – lae notte tra il 25 e ilDieci 26 settembre – treilraffiche mitraglietta uccidono lui suo figlio Stefano mentre stanno rientrando in macchina da Canicattì a Palermo. Anni dopo la Corte d’assise di Caltanissetta condannerà autori e mandanti del duplice omicidio. I mandanti saranno identificati, anche in questo caso, in Totò Riina e Francesco Madonia. L’ultima parola tocca ancora una volta alla Corte di cassazione, prima sezione penale, udienza pubblica del 7 marzo 1989. Questa volta il collegio non è presieduto da Corrado Carnevale, bensì da Roberto Modigliani. Relatore è il consigliere Umberto Toscani. La sentenza di condanna pagata con la vita da Antonino Saetta viene annullata, stavolta per un vizio logico, sul quale però la motivazione della Corte suprema si mantiene estremamente generica e ben lontana dallo spendersi in una critica chiara, argomentata ed esauriente sui contenuti del verdetto palermitano, che sarebbero a suo giudizio censurabili. In un linguaggio paludato, ma in un’ottica piuttosto astratta e indeterminata, la sostanza del concetto generale che la Cassazione intende affermare sta nel brano seguente: In ordine alla censura dedotta con riguardo alla violazione dei fondamentali canoni di ermeneutica in tema di prova indiziaria, va richiamato il principio che nei processi indiziari non basta enunciare nella motivazione, sic et simpliciter, i simpliciter, i vari elementi di fatto posti a base del giudizio, ma si deve riprodurre chiaramente il procedimento logico dei diversi sillogismi probatori, coordinandoli in modo che il giudizio conclusivo appaia una sintesi completa e armonica di tutti

gli elementi indizianti e si presenti come la logica e naturale conseguenza delle premesse poste. Orbene, nel caso in esame, la Corte di secondo grado è pervenuta a tale giudizio conclusivo

 

senza che il procedimento logico seguito per illustrare il valore probatorio o meno di ogni singolo elemento sia stato completato dalla eliminazione di tutti i motivi infirmanti e dal coordinamento di tutti gli indizi tra loro in una trama serrata di argomentazioni ineccepibili, atta a esprimerlo in una sintesi compiuta e convincente […]. La sentenza impugnata deve perciò essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello, che procederà, con la più ampia libertà di indagine e di valutazione, a un nuovo esame di tutti gli elementi probatori già acquisiti e di quegli altri che eventualmente riterrà opportuno acquisire. 8

Il terzo processo d’appello sul caso Basile si svolge all’inizio del 1992 davanti alla seconda sezione della Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Salvatore Scaduti. Dei tre killer, l’unico ancora vivo è Giuseppe Madonia, dato che Vincenzo Puccio è stato assassinato in carcere nel 1989. Per la prima volta Giuseppe Madonia viene giudicato insieme con coloro che sono accusati di essere i mandanti del delitto, la cui posizione è stata nel frattempo stralciata dal maxiprocesso e riunita al filone processuale sugli autori materiali dell’omicidio. Ancora una volta Cosa Nostra tenta di avvicinare il presidente del collegio giudicante per pilotare nuovamente il processo verso l’assoluzione, un da notaio palermitano molto vicino a Totò Riina, ma Salvatore Scaduti tramite non è tipo farsi intimidire e denuncia il fatto attraverso una relazione particolareggiata trasmessa al primo presidente della Corte d’appello. La sentenza, emessa il 14 febbraio del 1992, condanna all’ergastolo sia Giuseppe Madonia sia – come mandanti – suo padre Francesco e il boss Totò Riina. Si tratta finalmente di una condanna irrevocabile, dal momento che essa viene confermata dalla Corte di cassazione con sentenza del 14 novembre 1992. Un dettaglio non senza importanza: la sezione della Corte suprema che emette questa sentenza non è più quella presieduta da Corrado Carnevale, ma è la sezione quinta, presieduta da Antonio Catalano. 9

4. La gestione del caso Basile da parte della prima sezione della Corte di cassazione e l’accusa a Carnevale di complicità con Cosa  Nostra Le due sentenze della sezione I della Corte di cassazione che nel 1987 e nel 1989 hanno annullato i primi due verdetti di condanna del caso Basile hanno costituito il cardine dell’incriminazione per concorso esterno in associazione mafiosa subita dal presidente Corrado Carnevale nel 1998. Quell’anno, con un decreto emesso il 7 aprile dal giudice dell’udienza preliminare, Carnevale viene rinviato

a giudizio su richiesta della pubblica accusa per rispondere, appunto, di quel

 

grave reato. Carnevale verrà assolto in primo grado con sentenza dell’8 giugno 2000 del Tribunale di Palermo, ma verrà dichiarato colpevole e condannato a sei anni di reclusione con sentenza del 29 giugno 2001 della Corte d’appello di Palermo. Questa condanna sarà infine cancellata dall’annullamento senza rinvio disposto dalla Corte di cassazione a sezioni unite con la sentenza del 30 ottobre 2002. Cionondimeno, l’interesse storico rivestito dall’insieme delle due complesse vicende giudiziarie – il caso Basile e il caso Carnevale – induce a ripercorrerne in questa sede l’iter tutt’altro che lineare. Negli anni Novanta Corrado Carnevale viene accusato di avere contribuito in maniera non occasionale alla realizzazione degli scopi di Cosa Nostra, strumentalizzando le sue funzioni di presidente della prima sezione penale della Corte di cassazione e assicurando l’impunità agli esponenti di vertice e ad altri membri dell’organizzazione mafiosa in numerosi procedimenti penali, determinando criminosa. così il mantenimento e il rafforzamento di quell’associazione Nel capo d’imputazione vengono elencate e descritte le specifiche condotte di reato che vengono contestate all’alto magistrato con riferimento a diversi processi penali, precisando che il reato è stato commesso «in Palermo e in altre località del territorio nazionale sino al 1992». Tra le varie condotte di reato contestate a Carnevale vi sono anche quelle inerenti alle due sentenze di legittimità, rispettivamente del 1987 e del 1989, riguardanti il caso Basile. Di particolare rilievo sono certe circostanze di fatto emerse dalle indagini relative alla seconda seconda delle  delle due sentenze, quella del 7 marzo 1989: circostanze attinenti all’udienza di quel giorno, ai minuti che l’hanno preceduta e persino alla relativa camera di consiglio. Ciò che rende peculiari queste circostanze è il fatto che esse, pur trovando pieno riscontro nelle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, emergono direttamente dalle deposizioni rese sotto giuramento da due dei cinque magistrati membri del collegio giudicante di legittimità: Mario Garavelli e Antonio Manfredi La Penna, che si erano battuti invano perché la sentenza di condanna emessa sull’omicidio Basile il 23 giugno 1988 dalla Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Antonino Saetta, non venisse annullata. Il collegio giudicante della prima sezione penale della Corte di cassazione, quella mattina del 7 marzo 1989, era composto come segue: Roberto Modigliani presidente, Umberto Mario ToscaniGaravelli relatore,consigliere. Antonio La Penna consigliere, Lucio Del Vecchio consigliere,

Particolarmente interessante è la testimonianza resa, nell’aula del processo a

 

carico di Carnevale, dal consigliere La Penna, il quale, a differenza di Garavelli, ha potuto riferire anche su un episodio piuttosto singolare di cui era stato testimone e che si era verificato quella mattina, prima mattina, prima dell’udienza,  dell’udienza, nell’ufficio del presidente Carnevale. Si riportano qui di seguito i brani più rilevanti in proposito,10tratti dalla sentenza del 29 giugno 2001 della Corte d’appello di Palermo: All’udienza del 23 giugno 1999 si è proceduto all’esame del dottor Antonio Manfredi La Penna, al momento di tale deposizione presidente della Corte di appello di Catanzaro, il quale aveva esercitato le funzioni di consigliere presso la prima sezione penale della Corte di cassazione nel periodo giugno 1987-febbraio 1991. Interrogato sui rapporti intrattenuti, in tale arco di tempo, con l’imputato, il dottor La Penna ha dichiarato che questi, in un primo tempo, erano stati «ottimi, cordialissimi…» […]. L’episodio che aveva incrinato il suo rapporto con il dottor Carnevale andava, però, soprattutto ricercato ricercato nei «fatti precedenti all’udienza in cui fu celebrato il processo per l’uccisione del capitano dei carabinieri», vicenda che lo lasciò «traumatizzato, essendosi trattato della giornata più brutta dei suoi quarantatré anni di carriera». Di tale episodio egli, essendo stato esentato dal rispetto del segreto della camera di consiglio, era pronto a parlare ora davanti ai giudici e sotto il vincolo del giuramento. Non aveva parlato prima al pm dell’episodio della mattina del 7 marzo 1989, peraltro opponendo il segreto di ufficio e chiedendo che venisse messa a verbale la sua volontà di parlare soltanto davanti ai giudici di quanto verificatosi nella camera di consiglio, in quanto, stante la particolare delicatezza della questione, di tale fatto egli voleva parlare solo «sotto giuramento» e davanti ai giudici […]. Il teste ha così riferito […]: «C’è un fatto increscioso che io sinora ho taciuto, [… accaduto] la mattina del processo per l’uccisione del capitano Basile. Arrivai irritato perché l’automobile di servizio venne a rilevarmi in ritardo […]. Entrai in camera di consiglio e c’erano […] il presidente Modigliani, Umberto Toscani e Garavelli […]. Appena entrato il presidente ebbe a dirmi: “Il dottor De Cato, dirigente della cancelleria della prima sezione penale, ti sta cercando, è una cosa urgente”. […] T Toscani oscani mi disse: “Deve essere una cosa seria e urgente, perché c’è stato già due volte”. […] «Mi allontanai, guardai nei corridoi, raggiunsi l’ascensore e scesi nel mezzanino […]. Quando imboccai il corridoio mezzanino,e vidi che il“Il cancelliere Cato era sulla porta dell’ufficio; mi venne subito incontrodel salutandomi, mi disse: presidenteDeCarnevale le vuole parlare d’urgenza”;; “Che è successo?”; “Ah, non lo so.” d’urgenza” «Da lì a dieci metri raggiunsi l’ufficio del presidente Carnevale. Le porte erano a vetro. Prima ancora di bussare, la donna delle pulizie […] mi disse: “È occupato, è da tanto tempo che c’è dentro una persona”. Ma era tardi per l’udienza, mi desiderava d’urgenza e io non potei fare a meno di bussare. “Avanti”. «Io aprii la porta e di fronte al presidente Carnevale c’era seduta una persona sui cinquanta, sessant’anni, colorito, vestito a festa; l’avrei definito un massaro vestito col costume della festa. Si alzarono tutti e due e il presidente Carnevale mi venne incontro: “Ecco il nostro La Penna”. L’altro mi fa: “I miei rispetti”. Intanto il presidente Carnevale dice a quest’ultimo di allontanarsi, di favorire fuori, e ancora una volta quest’uomo passa davanti a me: “I miei rispetti”. Dall’accento  – posso sbagliarmi, attenzione attenzione – lo avrei definito un un siciliano. «Non mi fece accomodare, il presidente […] si avvicinò verso la porta e cominciò con una captatio benevolentiae che benevolentiae che tutto fu per me meno che una captatio benevolentiae, casomai benevolentiae, casomai una

captatio di diffidenze.  diffidenze.  Lo sai che ti ho sempre stimato. […] La dimostrazione della stima testuali parole “sta nel fatto che ti sto assegnando i processi di omicidio più delicati della Calabria

 

e della Sicilia. Ti devo dire una cosa importante, ti prego di fare attenzione. Oggi si discuterà il processo contro gli imputati dell’omicidio Basile. Processo delicatissimo, processo difficile; relatore è Toscani. Toscani. Mettici tutta l’attenzione di questo mondo, Toscani ha arato bene gli atti del processo, io ho letto la relazione, un po’ lunga, sì, però esauriente sotto ogni punto di vista. Toscani è d’accordo con me, come del resto anche il presidente, per l’annullamento della sentenza, perché la motivazione fa acqua. Te ne convincerai anche tu prestando la dovuta attenzione.” «Non finisce qui il discorso, continua, affermando: “Io ti conosco per la tua capacità di contrasto in camera di consiglio. Dai manforte a Toscani, perché sta succedendo questo: Toscani e Garavelli hanno a lungo discusso sulla soluzione di questo processo, e Garavelli si è lasciato andare a dire il suo no all’annullamento, non so in base a quali conoscenze, e poi ancora si è lasciato andare in apprezzamenti poco lusinghieri verso il cosiddetto garantismo della nostra sezione, in particolare nei miei riguardi, e di questo mi darà un giorno conto”. «Intelligente e sensibile com’è, non poté rilevare il mio disappunto. Io lì per lì non risposi, dissi: “Vedremo”; “Vedremo”; con quel “vedremo” volevo dire “starò a sentire tutto”, ma il mio era un disappunto, un momento di ribellione. Era la prima volta – e sarà l’ultima volta nei miei quarantatré anni di carriera – che mi succedeva una cosa del genere. «“E allora?” Ho detto ancora una volta: “Vedremo”. “Va bene.” Mi ha stretto la mano e me ne sono andato. «Quando sono uscito, portaparte; del solito ufficio della cancelleria c’era ancorafavore De Cato, questa volta rivolto sulla da questa mi viene incontro e mi dice: centrale “Mi faccia l’ultimo […], quando arriverà Del Vecchio [Del Vecchio era il quinto componente del collegio] gli dica per cortesia che De Cato, a nome del presidente Carnevale, lo desidera urgentemente”. Io non mi ero fermato, continuai a camminare, mi girai bruscamente e lo guardai credo severamente, e dissi: “A questo punto!” e proseguii; e lui mi gridò dietro […]: “Si ricordi, consigliere, che l’ambasciatore non porta pena”. «T «Tornai ornai in camera di consiglio. Il collega Del Vecchio stava indossando la toga e io gli riferii esattamente a voce chiara quello che mi aveva incaricato di fare De Cato: “De Cato mi dice che il presidente Carnevale la desidera”; “Che vuole?”; “Non lo so.” […] «Andiamo in camera di consiglio, dopo una lunga ed estenuante udienza… effettivamente la relazione di Toscani Toscani fu lunghissima […]. Ah, la camera di consiglio fu la più tempestosa di tutta la mia funzione di consigliere della Corte di cassazione. Arrivarono le ore piccole, tornai a casa che era quasi mezzanotte se non di più, e io riferii la prima e l’ultima volta a mia moglie tutto quello che era accaduto. «Il giorno dopo andai in Cassazione per parlare con [il primo presidente] Brancac Brancaccio, cio, volevo andar via, volevo trasferirmi a un’altra sezione […].» Orbene, qualche preliminare considerazione appare opportuno fare in ordine al «fatto increscioso» che aveva traumatizzato il dottor La Penna. Dalla circostanziata dichiarazione del teste si evince, innanzitutto, che la persona che egli aveva trovato nella stanza del presidente Carnevale, intenta a parlare con questi, non era mai stata in precedenza da lui notata nell’ambiente della Corte di cassazione. È certo che non si trattava di un magistrato, né di un avvocato né di persona comunque addetta ai lavori, che non aveva mai più rivisto dopo quell’episodio. Quel po’ che era in grado di ricordare dell’aspetto dell’aspetto fisico di tale soggetto è che si trattava di «una persona sui cinquanta, sessant’anni, colorito». Lo aveva colpito, peraltro, il modo con cui questa persona era vestita, che si capiva non essere per essa abituale («vestito a festa… un massaro costume della festa») e anche esteriore («teneva in mano il cappello,vestito quandocol uscì dalla stanza fece una speciel’atteggiamento di inchino») lo caratterizzava in modo

particolare. Tale soggetto tradiva, in altri termini, un modo di comportarsi sicuramente sopra le righe e per

 

lui non abituale, reso ancora più manifesto dall’affettata deferenza che dimostrava (mezzo inchino seguito dalla frase «I miei rispetti» pronunciata due volte: non appena La Penna era entrato nella stanza di Carnevale – e questi aveva pronunciato la frase «Ecco il nostro La Penna» – e poi quando era stato invitato a uscire). Dall’accento, sulla base della frase che, per due volte, aveva pronunciato, a La Penna era sembrato che l’ignoto visitatore fosse un «siciliano». Al momento in cui egli aveva fatto il suo ingresso nella stanza del Carnevale, questi si era rivolto al «massaro» con la frase «Ecco il nostro La Penna…», la quale chiaramente denunciava che la conversazione intrattenuta dal presidente con lo sconosciuto avesse avuto a oggetto la sua persona. Dopo aver invitato lo sconosciuto ad accomodarsi fuori, il presidente Carnevale chiese a La Penna di sostenere l’orientamento del dottor Modigliani e del dottor Tosc Toscani ani che era nel senso dell’annullamento della sentenza di condanna degli imputati del processo Basile. Con riguardo al Toscani gli disse anche che questi aveva scritto una lunga, dettagliata ed esaustiva relazione della causa, sicché avrebbe fatto bene […] a votare per l’annullamento della sentenza di condanna degli imputati del processo Basile e a contrastare il prevedibile orientamento contrario del dottor Garavelli. Questi, infatti, si era permesso di avere uno scambio di idee con il dottor Toscani, facendogli capire che avrebbe votato per la conferma della sentenza impugnata ed esprimendo altresì «apprezzamenti poco lusinghieri verso il cosiddetto garantismo della nostra sezione» e nei riguardi del suo presidente, fattoildiCarnevale, cui, primaanziché o poi, sarebbe stato chiamato a rendere conto. Lo aveva colpito il fatto che rimanere seduto alla sua scrivania, si era alzato e si era fermato a parlare con lui davanti alla porta a vetri della stanza, attraverso la quale era chiaramente visibile la sagoma dello sconosciuto che era rimasto ad attendere fuori («esattamente di fronte, seduto di fronte alla porta […], tanto che io feci questo rilievo: ma perché non ci siamo trattenuti vicino alla scrivania? Invece ci siamo avvicinati alla porta e si parlava ad alta voce. Poteva aver sentito, quel tizio lì, perché si vedeva la sagoma, ho detto che si trattava di porta a vetri») […]. Dopo mezzogiorno, il collegio era entrato in camera di consiglio per l’inizio della discussione e della deliberazione e subito era intervenuto il consigliere Toscani, dicendo chiaramente che, dopo la relazione da lui svolta, vi era davvero ben poco da discutere in quanto la sentenza impugnata andava annullata («Credo che ci sia poco da dire» mi disse Toscani «dopo che ho fatto una simile relazione; c’è poco da fare, avete sentito, mi pare che quella motivazione faccia acqua e quindi bisogna riparare.»). Egli però non aveva affatto raccolto l’invito del dottor Toscani e gli aveva detto che invece tutto era ancora da rimettere in discussione, non avendo, ai fini della decisione, la relazione il benché minimo valore («Io lo interruppi e immediatamente, intervenne anche Garavelli, noi dobbiamo arare di nuovo tutto ciò che risulta dagli atti […]»). Il presidente Modigliani, non appena il Toscani ebbe a sostenere la superfluità della discussione […], era immediatamente intervenuto aderendo alla proposta di annullamento di Toscani […]; quando poi era iniziata la discussione vera e propria, lo stesso Modigliani non aveva manifestato alcuna particolare conoscenza della causa, limitandosi soltanto a dar ragione al relatore. Nel corso della discussione La Penna e Garavelli avevano richiesto che si desse lettura dei passaggi motivazionali della sentenza impugnata maggiormente rilevanti […]. La discussione era pertanto proseguita e, a questo punto, il consigliere Del Ve Vecchio cchio si era avvicinato molto alle posizioni di coloro che sostenevano la tesi del rigetto dei ricorsi. A seguito di ciò era però intervenuto il netto rifiuto del dottor Toscani, Toscani, sostenuto dal presidente Modigliani, di redigere le motivazioni della sentenza: Toscani Tosca ni “non scriveròModigliani la sentenza” […]. Ci fu uno scontro tremendo, volarono parole «“Io” grosse,disse perché immediatamente disse: “Ha

ragione Toscani” Toscani” […]. E allora le cose si ribaltarono da un momento all’altro, quando la soluzione proposta fu che fra noi tre della maggioranza dovevamo sorteggiare chi dovesse poi scrivere la

 

sentenza. A questo punto uno di noi… non fui certamente io… […] … e allora si rimane in due per il rigetto del ricorso e tre prevalsero, punto e basta, non mi fate dire altro, perché…». La maggioranza La Penna-Garavelli-Del Vecchio Vecchio che, nel corso della discussione, si stava delineando, era pertanto durata assai poco, in quanto quest’ultimo, persona sofferente, temendo forse di poter essere «sorteggiato» da Modigliani, aveva mutato improvvisamente idea […]. 11

Nelle pagine successive l’estensore della sentenza di Palermo, tornando sulla figura del misterioso visitatore, osserva che il presidente Carnevale «venne sicuramente messo in stato di grande agitazione dalla comparsa del massaro massaro», », di qui la fretta di «dimostrare al suo ospite che stava facendo di tutto per evitare che il processo seguisse il suo corso naturale e che accadimenti dell’ultima ora lo facessero deviare». In altri termini, si legge ancora nella sentenza, «la visita del massaro (rimasto massaro  (rimasto purtroppo fisicamente ignoto, ma non per questo non identificabile col «volto della mafia», pronta a ricordare al presidente i suoi «impegni») aveva indotto l’imputato a dare prova della sua disponibilità disponibilità nei  nei confronti dell’organizzazione, uscendo dai normali schemi comportamentali». 12 La difesa di Corrado Carnevale ricorre alla Corte suprema contro la sentenza che lo ha dichiarato colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa. La causa viene assegnata alle sezioni unite penali, che decidono il 30 ottobre del 2002 annullando senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. L’annullamento senza rinvio viene ricollegato, nella motivazione della sentenza, esclusivamente alla norma che prevede il «segreto della camera di consiglio» (art. 125 c.p.p.), una forma di segreto d’ufficio che le sezioni unite, in questa loro sentenza, sembrano considerare alla stregua di un segreto assoluto e insuperabile, mentre invece la legge prevede che esso debba cedere il passo all’obbligo che hanno i pubblici ufficiali (quindi anche i magistrati) di riferire determinate notiziediall’autorità giudiziaria (art. 201 c.p.p.), in c.p.p.). particolare quando essi hanno notizia un reato perseguibile di ufficio (art. 331 Lascia quindi decisamente perplessi il principio giuridico affermato in questa sentenza, un principio sulla cui base sono state dichiarate drasticamente inutilizzabili le testimonianze rese in aula sotto giuramento dai consiglieri Garavelli e La Penna. Questo anomalo principio di diritto è stato così enunciato dall’ufficio del massimario della Cassazione: Il giudice penale che abbia concorso, in camera di consiglio, alla deliberazione collegiale non può essere richiesto – trattandosi di attività coperta da segreto di ufficio – di deporre come testimone in merito al relativo procedimento di formazione (e, se richiesto, ha l’obbligo di astenersi), limitatamente alle opinioni e ai voti espressi dai singoli componenti del collegio […]. Ne consegue che la testimonianza eventualmente resa, poiché acquisita in violazione di un divieto 13

stabilito dalla legge, è inutilizzabile.

 

Tanto più stupisce che le sezioni unite della Corte di cassazione abbiano coinvolto nella loro dichiarazione di inutilizzabilità anche la parte della testimonianza del consigliere La Penna riguardante l’episodio avvenuto la mattina del 7 marzo 1989, prima 1989, prima dell’udienza,  dell’udienza, non già in camera di consiglio, bensì presidente Carnevale. In nell’ufficio conclusione,del è significativo che quel principio giuridico anomalo che determinò l’annullamento della condanna di Carnevale sia stato poi giustamente superato dalla giurisprudenza successiva della Corte di cassazione. Il nuovo principio di diritto sarà formulato, nel 2009, nei termini seguenti: L’esame testimoniale dei componenti di un collegio giudicante, nel caso in cui l’imputazione attenga a un fatto intimamente connesso con quanto si è detto e deciso nella camera di consiglio, si estende legittimamente ai giudizi formulati e ai voti espressi in quella sede, posto che l’obbligo di denuncia che grava sul pubblico ufficiale, in tal caso i componenti del collegio, fa venire meno il vincolo del segreto. 14

 

XI Dall’istruttoria del maxiprocesso a Cosa Nostra all’istruttoria sugli omicidi politico-mafiosi di Palermo

1. Lo stato dell’arte alla fine del 1985 e le riflessioni di Falcone A questo punto occorre fare un passo indietro e ritornare al momento in cui i due giudici istruttori, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, hanno concluso la loro maxi istruttoria: l’8 novembre del 1985. Dopo questa data le loro strade divergeranno: Borsellino andrà a Marsala a dirigere la locale Procura della Repubblica, mentre Falcone continuerà il suo lavoro di giudice istruttore a Palermo seguendo le istruttorie ulteriori del maxi bis e bis  e del maxi ter per ter per tutto il 1986 e il 1987. Quegli anni saranno scanditi dalle dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia Antonino Calderone: Falcone le raccoglierà e svolgerà la consueta attività investigativa minuziosa, dalla ricerca dei riscontri alle indagini patrimoniali e così via. Ma già nella dell’8 novembre 1985 Falcone delinea le prospettive delstessa futurosentenza-ordinanza lavoro – sempre più difficoltoso – che dovrà portare avanti la magistratura inquirente misurandosi con un fenomeno mafioso sempre più agganciato a determinati ambienti della politica, della finanza e dell’imprenditorialità d’avventura, nonché a oscuri ambienti di potere occulto. Ecco il brano relativo: Non si è ancora sufficientemente scavato su tanti gravissimi e sconcertanti episodi criminosi che ancora restano avvolti nel mistero e che fanno intuire quali tremendi segreti ancora restino inesplorati. Omicidi come quelli di Michele Reina, segretario provinciale della Dc di Palermo, di Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana e autorevolissimo esponente della Dc isolana, di Pio La Torr Torre, e, segretario regionale del Pci, e, per certi versi, anche di Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto sono le fondatamente da di ritenere di natura mafiosa, ma al anche se contempo sono delitti di chePalermo, trascendono finalità tipiche una organizzazione criminale,

del calibro di Cosa Nostra.

 

Nella requisitoria del pm si fa riferimento alla «contiguità» di determinati ambienti imprenditoriali e politici con Cosa Nostra. E indubbiamente questa contiguità sussiste […]. Ma qui si parla di omicidi politici, di omicidi, cioè, in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi e oscuri interessi attinenti alla gestione della Cosa Pubblica; fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente «voltare pagina». Passi avanti nell’accertamento nell’accertamento della verità ne sono stati fatti, ma si è riusciti sinora a strappare soltanto piccoli brandelli di verità, tra mille difficoltà […]. Lo stesso Buscetta si è mostrato piuttosto restio a parlare di certi fatti e di certi personaggi, come ad esempio dei cugini Ignazio e Nino Salvo; e ciò […] per il timore che il coinvolgimento dei Salvo in un processo di mafia potesse sollevare un «polverone» nocivo all’accertamento della verità sui misfatti di Cosa Nostra. Ma intanto – a prescindere dalla mafiosità o meno dei cugini Salvo – sono un dato certo il loro coinvolgimento attivo […] e il loro intenso rapporto con Stefano Bontate, il capo, cioè, di una delle più importanti «famiglie» mafiose di Palermo e uno dei «vertici» carismatici dell’intera organizzazione organizzaz ione mafiosa. E ci si chiede se questo già di per sé non sia sintomatico di un atteggiamento complessivo di una certa classe sociale, di cui i Salvo erano autorevolissimi esponenti, nei confronti del fenomeno mafioso. […] Le inconfutabili risultanze processuali e le stesse parziali ammissioni di Antonino Salvo dimostrano che essi erano al centro di un formidabile «gruppo pressione» che per lunghi anni ha notevolmente influenzato la vita pubblica quanto menodiregionale. Se non si riconoscono queste verità […] non si potranno mai comprendere le ragioni profonde di tanti gravissimi fatti criminosi e sarà impossibile tentare di individuarne i mandanti. Non si può tacere poi […] di Vito Ciancimino, uno dei maggiori responsabili del «sacco» edilizio di Palermo, che è riuscito ad accumulare un’enorme quantità di danaro liquido, con oscure interessenze in attività edilizie di privati, occultandola fra i meandri del sistema bancario; l’uomo che, sulla base di espliciti riferimenti di Tommaso Buscetta, è «nelle mani» dei corleonesi […]. Va infine qui ricordato un altro oscuro personaggio, Pippo Calò, il sedicente Mario Aglialoro. Già gli inquirenti palermitani, nel rapporto del 13 luglio 1982, avevano segnalato l’estrema pericolosità del Calò e la sua alleanza coi corleonesi. T Tommaso ommaso Buscetta poi ne aveva rivelato appieno la statura criminale accusandolo, fra l’altro, di essere coinvolto nell’omicidio del procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, Scaglione, nei sequestri di persona più gravi e, a Roma, in oscure trame fra cui il caso Calvi. Grazie alle dichiarazioni di Buscetta era stato possibile identificare in Pippo Calò un personaggio enigmatico, siciliano, vero deus ex machina di machina di torbide vicende e di oscure manovre, venuto alla ribalta nel corso dell’istruttoria per l’omicidio di Domenico Balducci; ed era stato altresì accertato che, in ville contigue messe a disposizione dall’imprenditore siciliano Luigi Faldetta, avevano alloggiato contemporaneamente, un’estate, il Calò e il noto Francesco Pazienza. 1* È notizia recentissima che in una villa di Poggio San Lorenzo (Rieti), acquistata da Guido Cercola nell’interesse del Calò, sono stati rinvenuti dalla squadra mobile di Roma, oltre a 6,5 chilogrammi di eroina, saponette di esplosivo, mine anticarro, detonatori, un fucile a pompa, rivoltelle e relativo munizionamento, mentre nelle abitazioni romane del Calò e del coimputato Fiorini Virgilio sono state sequestrate sofisticate apparecchiatur apparecchiaturee elettroniche, sicuramente utilizzabili per attentati, realizzate da un cittadino tedesco su incarico proprio di Guido Cercola […]. Gli interrogativi suggeriti da questi sono tanti e inquietantidiestrutture bisognerebbe meditare attentamente sull’ipotesi – avanzata dalfatti Buscetta – dell’esistenza segretissime,

all’interno di Cosa Nostra, con finalità ancora ignote ma certamente di enorme portata. 2

 

2. La centralità della figura di Pippo Calò nell’evoluzione del fenomeno mafioso Sul personaggio di Giuseppe Calò, detto Pippo, la sentenza-ordinanza del 1985 si sofferma lungamente e con grande attenzione, definendolo «una delle figure più importanti e, sino a poco tempo addietro, meno conosciute della mafia siciliana […], mandante di tanti efferati assassini e vera e propria cerniera fra gli affari tipicamente mafiosi e la criminalità dei colletti bianchi». 3 Calò entra a far parte di Cosa Nostra in età giovanile prestando il giuramento davanti a Buscetta. Già negli anni Sessanta diventa «rappresentante» della famiglia di Porta Nuova, proprio nel periodo più caldo della prima guerra di mafia. Tuttavia, per molti anni, riesce a vivere nell’ombra e a rimanere sempre ai margini delle indagini di polizia e magistratura, dimostrando eccezionali doti di astuzia. Già negli anni Settanta Calò comincia a gravitare su Roma, dapprima come uomo ombra di Stefano Bontate nella Capitale, tuttavia mantenendo sempre strettissimi i legami con Palermo. Questo suo apparente allontanamento da Palermo fa sì che gli organi investigativi trascurino di seguirne le mosse, così che egli può operare tranquillamente per oltre un decennio nell’ombra, diventando uno dei membri più autorevoli di Cosa Nostra e trasformandosi acrobaticamente – da uomo di Bontate – in uno dei più fidi alleati dei corleonesi. Tutto ciò senza che gli organi investigativi si occupino granché di lui, nonostante sia latitante. 4 La svolta nei confronti di Pippo Calò si ha in seguito alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno, che consentono di identificare in lui il sedicente Marionelle Aglialoro, un personaggio misterioso di grandel’omicidio statura di mafiosa, emerso complesse indagini istruttorie concernenti Domenico Balducci, avvenuto a Roma il 16 ottobre del 1981. 5 Balducci, imprenditore e membro della Banda della Magliana, era appunto uno dei tramiti fra la banda e Calò. Era dedito all’usura e al riciclaggio e, nel quadro di questa sua attività, aveva reinvestito capitali mafiosi per conto dei corleonesi di Pippo Calò. Aveva però commesso l’errore di trattenere per sé una parte del denaro destinato a Calò: 150 milioni di lire provenienti dalla cosiddetta Operazione Siracusa, che avrebbe dovuto garantire alla mafia enormi proventi da una grande speculazione edilizia. Balducci era stato ucciso da Danilo Abbruciati, Renato De Pedis e Raffaele Pernasetti – membri «testaccini» della Banda della 6

Magliana nel quadro di uno scambio di favori con Pippo Calò. L’Operazione Siracusa ci consente di introdurre un altro personaggio

 

particolarmente interessante per la ricostruzione e la comprensione delle multiformi attività di Pippo Calò: Luigi Faldetta, mafioso della famiglia di Porta Nuova, prestanome di Pippo Calò in numerose operazioni di riciclaggio e definito da Buscetta come «il rappresentante degli interessi economici del suo capo Lamandamento». figura di Luigi Faldetta, costruttore edile, emerge per la prima volta nelle indagini giudiziarie sull’omicidio di Giuseppe Di Cristina, 7 capo mandamento della famiglia mafiosa di Riesi, avvenuto a Palermo il 30 maggio 1978. Nelle tasche dell’ucciso erano stati trovati due assegni circolari e l’indagine bancaria sulla loro origine aveva portato all’individuazione di numerosi altri assegni circolari della stessa origine, emessi per importi cospicui e provenienti quasi sempre dalla conversione di denaro contante. Ebbene, tutti gli assegni risultavano utilizzati da personaggi gravitanti nell’orbita di Pippo Calò, tra i quali spiccava appunto Luigi Faldetta, che aveva negoziato assegni per oltre trecento milioni e che per questo era stato arrestato per il delitto di ricettazione. Altri assegni risultavano negoziati da individui legati a Tommaso Spadaro (altro uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova), ovvero a persone come il già citato Domenico Balducci ed Ernesto Diotallevi, entrambi esponenti della Banda della Magliana e legatissimi a Calò. 8 Riferisce inoltre Buscetta che Luigi Faldetta aveva realizzato delle ville in Sardegna in società con Pippo Calò e con Tommaso Spadaro e aggiunge di avere appreso dallo stesso Calò che Faldetta, nel 1980, stava realizzando un fabbricato nella zona di Brancaccio in società con Tommaso Spadaro. Circa l’attività e il ruolo svolto da Luigi Faldetta in Sardegna, è stato accertato l’interessamento suo e di Pippo Calò in due società (Mediterranea S.r.l. e Agroedil Olmo S.r.l.) che hanno realizzato immobili a Porto Rotondo su terreni originariamente appartenenti a una società controllata da Flavio Carboni. 9 Quanto all’Operazione Siracusa, rimasta per fortuna allo stato di progetto, essa riguardava una gigantesca speculazione edilizia, mascherata da semplice restauro del centro storico di Siracusa (che in realtà, essendo bellissimo, dovrebbe essere solo amorevolmente conservato). A questa operazione agghiacciante erano interessati, appunto, Pippo Calò e Luigi Faldetta, insieme con il noto faccendiere Flavio Carboni e il braccio destro di quest’ultimo Emilio Pellicani. Pellicani e Carboni, sentiti come testimoni dai giudici istruttori Falcone e Borsellino, hanno dichiarato che erano iniziati dei contatti e dei finanziamenti da

parte di un gruppo di del siciliani a Pippo Calò) per del eseguire, oltre che il cosiddetto restauro centro(facenti storico,capo anche l’ampliamento porto di Siracusa. Inoltre, da un appunto consegnato da Carboni, risultava che tra gli

 

imprenditori che avrebbero dovuto occuparsi di queste opere c’era anche l’impresa edile di Andrea Notaro, cognato di Michele Greco, detto il Papa. Ecco come Falcone e Borsellino commentano tutto ciò: Sono proprio questi rapporti tra finanzieri senza scrupoli, come Flavio Carboni, e personaggi legati alla mafia, come il Faldetta, che pongono in evidenza i collegamenti fra attività criminale vera e propria e la cosiddetta delinquenza dei colletti bianchi. Carboni e Pellicani non hanno avuto esitazioni ad ammettere che erano abbondantemente finanziati finanziati da un gruppo di usurai che facevano capo a Pippo Calò e che i prestiti venivano effettuati, spesso, consegnando pietre preziose di ingente valore ma, comunque, molto sopravvalutate rispetto all’effettivo valore intrinseco delle stesse. Circa l’origine di queste pietre preziose non è difficile avanzare ipotesi, ove si consideri che Antonio Rotolo, capo mandamento di Pagliarelli e strettissimo collaboratore di Calò, si proclama un esperto della materia. 10

 3. Le intuizioni di Falcone Falcone e Borse Borsellino llino e il ruolo di «frontiera» «frontiera» di  Pippo Calò tra mafia, servizi, des destra tra eversiv eversivaa e trame oc occulte. culte. La strage di Natale del rapido 904 Un altro personaggio chiave in stretto contatto con Pippo Calò, e tale da chiarirne ulteriormente le «multiformi attività», è il già menzionato Guido Cercola. Costui è un criminale romano vicino alla Banda della Magliana, ma anche agli ambienti della destra eversiva, il quale ha aiutato Calò a vivere a Roma nel più completo anonimato e sotto il falso nome di Mario Aglialoro. È stato lui, in base a quanto accertato dalla magistratura, ad acquistare per conto di Calò una villa in provincia di Rieti, nella quale la squadra mobile di Roma ha trovato una vera e propria santabarbara nel maggio del 1985. Qualche mese prima c’era del ritrovamento di quel deposito di armi il 23 del 1984, stato l’attentato al treno rapido 904, ed cheesplosivi, percorreva unadicembre galleria nella tratta Bologna-Firenze: la cosiddetta strage di Natale, che ha ucciso sedici persone e causato un gran numero di feriti. Per quella strage Pippo Calò e Guido Cercola sono stati condannati all’ergastolo mentre Friedrich Schaudinn, il tecnico tedesco che aveva prodotto i dispositivi elettronici usati per l’attentato, è stato condannato a ventidue anni di reclusione. La sentenza, emessa dalla Corte d’assise d’appello di Firenze, è divenuta definitiva nel 1992. Nel novembre del 1985, quando l’istruttoria sulla strage è ancora in pieno svolgimento, la sentenza-ordinanza di Falcone e Borsellino torna sull’argomento

del rapporto Cercola Calò, nel paragrafo dedicato alla posizione di quest ultimo. Subito dopo la descrizione dei traffici di droga che legavano tra loro Pippo Calò,

 

Antonio Rotolo e Guido Cercola, nel documento si legge: Ma – fatti, questi, ancora più gravi – si accertava che, su incarico di Guido Cercola, un personaggio coinvolto nelle vicende romane del Calò, il tedesco Friedrich Schaudinn aveva realizzato sofisticate apparecchiature elettroniche, sicuramente utilizzabili in attentati dinamitardi e rinvenute nelle abitazioni di Calò e del coimputato Fiorini Virgilio; Virgilio; si accertava altresì che in una villa di Poggio San Lorenzo (Rieti), acquistata dal Cercola nell’interesse del Calò, erano accuratamente nascosti […] saponette di esplosivo, mine anticarro, detonatori, un fucile a pompa, rivoltelle e il relativo munizionamento. Non ci vuole molto per rendersi conto del significato della disponibilità, da parte del Calò e dei suoi accoliti, di questi micidiali strumenti di morte. 11

La magistratura fiorentina ha ritenuto che lo scopo della strage fosse quello di distogliere l’attenzione degli apparati dello Stato dalla lotta alla criminalità mafiosa – che in quel tempo subiva una decisa offensiva di polizia e magistratura  – per rilanciare l’immagine l’i mmagine del terrorismo terrorism o come unico reale nemico. nemic o. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi, nella relazione del presidente Giovanni Pellegrino del dicembre 1995, ha però ritenuto di mettere in discussione tale lettura della strage, argomentando nei termini seguenti: L’accertata matrice mafiosa dell’episodio parrebbe in qualche misura separare la strage del 904 dalle precedenti e configurarla quasi come una anticipazione degli attentati di Roma, Milano e Firenze che hanno segnato l’estate del 1993 e in ordine ai quali indagini giudiziarie già abbastanza avanzate sembrano su solide basi orientate nell’individuare una responsabilità del vertice mafioso. […] E tuttavia è la stessa personalità del principale responsabile individuato per la strage del 904 [Pippo Calò] a fornire spunti di rilievo opposto, nella prospettiva generale di indagine che la Commissione si è proposta. Risultanze processuali da tempo consolidate […] consentono, infatti, di individuare uno specifico «ruolo di frontiera» svolto da Giuseppe Calò nell’organizzazione mafiosa. E infatti il Calò, già capo mandamento di Porta Nuova e vicino dapprima a Stefano Bontate, ma in seguito legato al gruppo emergente dei corleonesi, corleonesi, si trasferisce e diviene operativo in Roma sin dagli inizi degli anni Settanta dove, prevalentemente sotto la falsa identità di Mario Aglialoro, stringe rapporti con la criminalità romana e in particolare con la Banda della Magliana, consentendo alla stessa un salto di qualità e di pericolosità in un intreccio di interessi politici e finanziari che le indagini tendono a rendere sempre più chiaro. Né sfugge […] come già verso la metà degli anni Ottanta […] il sedicente Mario Aglialoro fu individuato come un deus ex machina di machina di torbide vicende e di oscure manovre nell’ambito di […] una singolare convergenza di interessi mafiosi e oscuri interessi attinenti alla gestione della Cosa Pubblica […]. La Commissione attribuisce rilievo all’affermata responsabilità di Pippo Calò per la strage del 904 […] nella ragionevole certezza che l’emersione della matrice mafiosa nell’ultima delle grandi stragi – che chiude il quindicennio 1969-1984 – offre una pista che conduce in una zona grigia caratterizzata da rapporti incrociati tra mafia, servizi segreti, criminalità politica e comune, il cui ruolo appare ormai innegabile in molte delle vicende anche anteriori al 1984, che hanno caratterizzato il periodo […]. Emerge quindi «un nodo siciliano» che lungi dal chiudersi nel

contesto periferico della storia dell isola, merita di essere approfonditamente scandagliato per la sua ben [maggiore] incidenza nella storia del paese. 12

 

4. L’isolamento L’isolamento di Giovanni Falcone e lo smembramento del pool antimafia da parte del nuovo consiglier consiglieree istruttore Antonino Meli Alla fine del 1987 Falcone conclude l’istruttoria del maxi ter, pressoché ter, pressoché in concomitanza con la sentenza di primo grado del maxi uno che uno che tanto allarme ha creato nelle file di Cosa Nostra e degli ambienti variegati a essa contigui. 13 Ed ecco allora che, in quelle stesse settimane, parte un sordo attacco ai giudici palermitani, Falcone in testa. L’occasione è propizia, perché proprio alla fine del 1987 Antonino Caponnetto decide di tornare nella sua Firenze, sicuro che il Consiglio superiore della magistratura manderà al suo posto proprio Giovanni Falcone. Ma ciò non accade. Il 19 gennaio del 1988, dopo un finto dibattito nel corso del quale tutti i consiglieri sembrano concordare sulla superiorità di Giovanni Falcone, il Csm fa prevalere il metro dell’anzianità su quello dell’idoneità e nomina consigliere istruttore Antonino Meli, un magistrato che – a parte la maggiore anzianità di servizio – non ha particolari meriti professionali e, in particolare, non ha esperienza in materia di mafia. Meli ha inoltre una mentalità burocratica e non riesce neanche a cogliere il senso del pool antimafia. Non si domanda come mai esso sia stato creato e poi mantenuto dai suoi due predecessori. Smembra quindi il pool in quattro e quattr’otto senza tanti complimenti, distribuisce i procedimenti penali tra i vari giudici istruttori senza tener conto delle connessioni, assegna alcuni procedimenti a se stesso delegando gli atti a questo o quel giudice istruttore e quanto a Falcone lo emargina decisamente. Le conseguenze, sulla qualità del lavoro dell’ufficio, si sentiranno. tace e reagisce facendo domanda di trasferimento allaFalcone Procurasubisce, della Repubblica come soltanto procuratore aggiunto. Da Marsala è Borsellino che si ribella, e lo fa nel luglio di quel 1988, quando in un intervento pubblico e poi in un’intervista al giornalista Attilio Bolzoni denuncia che all’ufficio istruzione di Palermo la lotta al crimine organizzato è stata azzerata e i processi si perdono in mille rivoli. Per tutta risposta il Csm apre un procedimento contro Borsellino per quell’intervista. Tuttavia, il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli manda un’ispezione all’ufficio istruzione di Palermo e a metà settembre l’ispettore ministeriale conferma che, nel corso della prima metà del 1988, Meli ha sostanzialmente distrutto il pool antimafia. La conseguenza è una lunghissima seduta notturna del Csm, che non decide nulla, 14

ma che rinuncia a punire Borsellino per l intervista. Il 21 giugno del 1989 Falcone subisce un attentato all’Addaura, un sobborgo

 

marinaro di Palermo, fortunatamente andato a vuoto. Nel settembre del 1989 viene nominato procuratore aggiunto, ma nel giugno del 1990 arriva il nuovo procuratore della Repubblica, Pietro Giammanco. Falcone viene emarginato anche da lui, passa un ulteriore periodo infernale che prosegue sino a quando, il 13 marzogenerale 1991, non si trasferisce a Roma, al ministero della Giustizia, come direttore degli affari penali.

5. La caduta nella qualità del lavoro degli uffici giudiziari inquirenti di Palermo nel quadriennio 1988-1991 I quattro anni 1988-1991 segnano un sensibile calo di efficienza sia nella Procura della Repubblica sia nell’ufficio istruzione del capoluogo siciliano. In proposito, l’esempio più eclatante è il procedimento penale relativo ai tre omicidi politico-mafiosi palermitani ai danni rispettivamente di Michele Reina (1979), Piersanti Mattarella (1980), e Pio La Torre (1982), quest’ultimo ucciso insieme con il suo autista Rosario Di Salvo. Soltanto nel 1984, grazie alla collaborazione di Buscetta e Contorno, si è potuto fare un po’ di luce su questi omicidi, i cui tre procedimenti vennero trasmessi all’ufficio istruzione e riuniti al maxiprocesso nell’ottobre 1984, quando vennero anche emessi, in relazione a essi, i mandati di cattura nei confronti dei membri della cupola di Cosa Nostra: Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci. Dopo il rinvio a giudizio del primo maxiprocesso (novembre 1985) i tre omicidi politiciestremamente rimasero in istruttoria trattati pool antimafia. Un’istruttoria complessaformale, e raffinata, nel dal corso della quale, in particolare relativamente all’omicidio di Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), emergeva a poco a poco una realtà che presentava tracce di rapporti fra Cosa Nostra e l’eversione di destra (in particolare i Nuclei armati rivoluzionari), tanto da determinare l’incriminazione di Valerio (detto Giusva) Fioravanti e Gilberto Cavallini, esponenti di quel gruppo, quali possibili autori materiali del delitto. Su questa pista – ricollegabile a quel ruolo di «frontiera» che abbiamo visto essere stato svolto da Pippo Calò – si impegnò, in particolare, proprio Giovanni Falcone. Però, già dai primi mesi del 1988, a seguito delle iniziative disastrose assunte

dal nuovo consigliere istruttore Meli, l istruttoria sui quattro omicidi, non più affidata alla squadra efficiente del passato, procede con grande difficoltà e non

 

riesce più ad approfondire le indagini, inevitabilmente complesse, che si imporrebbero. Di conseguenza, il 31 dicembre del 1990 gli atti dell’istruttoria formale sui quattro omicidi vengono trasmessi al pm per le richieste definitive senza taluni approfondimenti che sarebbero stati indispensabili. A questo utile citare un esempio. l’estate del 1989, quandoproposito, Falcone èpuò già essere procuratore aggiunto, pervieneDopo all’ufficio istruzione una relazione sull’omicidio Mattarella datata 8 settembre e redatta dal magistrato Loris D’Ambrosio, allora in servizio presso l’ufficio dell’alto commissario antimafia. 15 Questa relazione verrà qua e là menzionata sia nella requisitoria definitiva sia nella successiva sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio, ma senza prendere in considerazione talune circostanze specifiche che la relazione stessa raccomandava vivamente di approfondire. In particolare, senza sottoporre a esame determinati reperti di estremo interesse (dei pezzi di targhe rinvenuti in un covo dei Nar) che, secondo la relazione, e anche oggettivamente, sarebbe stato importantissimo esaminare. La requisitoria definitiva viene redatta dai pubblici ministeri nei primi due mesi del 1991 e viene trasmessa all’ufficio istruzione il 9 marzo di quell’anno. È firmata da alcuni sostituti ed è controfirmata dai due procuratori aggiunti (Falcone e Spallitta) e dal procuratore capo Giammanco. Quella requisitoria Falcone non avrebbe voluto affatto controfirmarla, perché la considerava del tutto carente e superficiale. Una requisitoria che, come disse a Paolo Borsellino, «non avrebbe firmato neanche sotto tortura. Ma che alla fine firmò. Per non venire triturato dall’ennesima polemica tra giudici palermitani. Per non riproporre lo stesso scontro sostenuto con Antonino Meli. Per sfinimento. Per senso del dovere». 16 La sentenza-ordinanza del giudice istruttore, che riporta integralmente la requisitoria del pubblico ministero, porta la data del 9 giugno 1991. Per gli omicidi Reina, Mattarella e La Torre vengono rinviati a giudizio i membri della cupola di Cosa Nostra. Per l’omicidio Mattarella vengono rinviati a giudizio (di malavoglia, se ci si passa l’espressione) anche Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, entrambi appartenenti all’organizzazione di estrema destra Nar. Con la sentenza di primo grado (12 aprile 1995), sostanzialmente confermata in appello (19 ottobre 1998), vengono condannati all’ergastolo i membri della cupola mafiosa. Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini vengono assolti dall’omicidio Mattarella per non aver commesso il fatto.

In tutti e quattrodella i provvedimenti (del pubblico ministero, colpisce del giudice istruttore, Corte d’assisegiudiziari e della Corte d’assise d’appello) la totale sottovalutazione, per non dire omissione, dei molteplici argomenti

 

contenuti nelle centoventi pagine della Relazione D’Ambrosio dell’8 settembre 1989, la quale sottolineava – con riferimento particolare al caso Mattarella –  l’importanza di Pippo Calò quale punto di collegamento e di incontro, attraverso la Banda della Magliana, fra gli esponenti dell’eversione di destra e Cosa Nostra. E indicava agli inquirenti, relativamente caso Mattarella, talune piste precise da seguire nel corsoproprio dell’istruttoria, piste al che sono state totalmente ignorate. 17

 

XII L’omicidio di Piersanti Mattarella

1. La dinamica del delitto e la questione delle targhe Palermo, via della Libertà, 6 gennaio 1980, ore tredici circa. Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, viene assassinato a colpi di arma da fuoco sotto casa sua. Il killer è un giovane che lo attende nei pressi del passo carraio del garage dal quale egli si appresta a uscire alla guida della sua auto. Accanto a lui siede la moglie, Irma Chiazzese. Il killer esplode numerosi colpi su Mattarella attraverso il finestrino. Subito dopo si avvicina a una Fiat 127, su cui si trova un complice dal quale riceve un’altra arma con la quale torna a sparare contro Mattarella, già colpito a morte, ferendo a una mano anche la moglie. Poi i due si allontanano a bordo della Fiat 127. La perizia balistica stabilirà che per l’omicidio sono stati utilizzati due revolver calibro 38. L’auto assassini viene trovatadel circa un’ora dopo abbandonata in viaPAdegli Orti, degli a breve distanza dal luogo delitto. È apparentemente targata 546623, ma subito gli agenti constatano che in realtà le targhe sono state contraffatte in un modo particolare: a) la targa anteriore si compone di due pezzi, rispettivamente: 54 e 6623PA; b) la targa posteriore si compone di tre pezzi, rispettivamente: PA, 54, 6623; c) questi ultimi tre pezzi «presentano superiormente del nastro adesivo di colore nero verosimilmente posto per meglio trattenerli alla carrozzeria». 1 Quella Fiat 127 è stata rubata la sera prima del delitto, sempre nella stessa zona di Palermo, e la sua targa autentica (PA-536623) era quasi uguale a quella poi contraffatta, dato che differiva da quest’ultima solo relativamente alla

seconda cifra, che originariamente era 3 anziché 4. Indagando sull’auto con la targa contraffatta si è scoperto che, sempre la sera

 

prima del delitto, sono state rubate anche le targhe (anteriore e posteriore) di un’altra auto – una Fiat 124 – parcheggiata sempre nella stessa zona e targata PA-540916. È risultato evidente che la contraffazione è avvenuta semplicemente asportando lo spezzone 53 dalle targhe autentiche della Fiat 127 e sostituendolo conNon lo spezzone 54 prelevato targhe dalla 124.della viene trovata traccia, dalle almeno per ilasportate momento, deiFiat residui contraffazione, vale a dire degli spezzoni avanzati dalla frammentazione delle targhe utilizzate (gli (gl i spezzoni PA, PA, 53 e 0916). 0 916). Su questi particolari torneremo più avanti, perché se si fossero approfonditi a quel tempo gli accertamenti su quelle targhe, sarebbe stato possibile ricostruire in modo completo le dinamiche dell’omicidio Mattarella, anche relativamente agli aspetti che invece sono rimasti purtroppo oscuri. 2 Il killer, che ha agito a volto scoperto, è stato descritto concordemente e con una certa precisione sia dalla signora Irma Chiazzese, sia da cinque testimoni oculari presenti sulla scena del crimine (compresa la colf di casa Mattarella, che ha assistito alla scena dalla finestra). Si trattava di un giovane di bella presenza, di circa venticinque anni, alto all’incirca un metro e settanta, corporatura robusta e capelli castani. Indossava una giacca a vento celeste tipo k-way e occhiali scuri. Quando si muoveva procedeva con passo elastico e ondeggiando leggermente le spalle, dando l’impressione di una andatura ballonzolante. Il giovane aveva agito con grande calma e freddezza e tutti i testimoni hanno osservato che aveva sulle labbra un accenno di sogghigno. In particolare la signora Mattarella era rimasta colpita dal contrasto tra i lineamenti del volto, che erano gentili, da ragazzo per bene, e lo sguardo, che era invece spietato, così come era glaciale il suo comportamento. 3

2. Le presumibili cause del delitto Come si può leggere nel rapporto giudiziario del 23 dicembre 1980, Piersanti Mattarella nel suo operato politico si era battuto per sradicare i vincoli di reciproco condizionamento tra politici, forze imprenditoriali e organizzazioni mafiose. Egli aveva disposto, infatti, accurate ispezioni in materia di appalti, tra cui una in particolare, volta a verificare presunte irregolarità sulle procedure seguite dal Comune di Palermo nelle gare di appalto per la costruzione di sei

edifici scolastici. Ciò deve essere stato enormemente sgradito a Cosa Nostra, soprattutto a quella fazione facente capo a Bontate, Spatola, Inzerillo e Gambino  – specificamente interessata inter essata a quelle gare – che ch e abbiamo visto confrontarsi confrontar si

 

addirittura con il presidente del Consiglio Andreotti in persona sul «problema» Mattarella, sia prima sia dopo l’omicidio. Pertanto non sembra casuale che, appena due giorni dopo l’omicidio Mattarella, il Comune di Palermo si sia affrettato a sostenere la regolarità delle gare d’appalto, contestando così i risultatiprodell’ispezione l’impegno, che aveva assunto il sindaco tempore con eilcontraddicendo presidente dellaanche Regione, di annullare le procedure sino a quel momento formalizzate. Piersanti Mattarella era da tempo angosciosamente preoccupato per la crescente aggressività di Cosa Nostra e anche per le possibili reazioni mafiose alle sue iniziative, che avrebbero potuto minacciare la sua stessa incolumità fisica. Questo stato d’animo di Mattarella traspare dalle deposizioni del suo capo di gabinetto Maria Grazia Trizzino e dell’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni, che aveva avuto un colloquio con il presidente della Regione nell’ottobre 1979. 4 In particolare, in base alla deposizione del ministro Rognoni, veniamo a sapere che in quel colloquio Mattarella:  – si era ricollegato agli omicidi del com commissario missario Boris Giuliano e del giudice Cesare Terranova (rispettivamente luglio e settembre 1979) per sottolineare che la mafia stava privilegiando nuove forme criminose e creando inquietanti legami con la politica;  – aveva aggiunto che il suo s uo sforzo era quello di recidere proprio tali legami, facendo riferimento agli interventi volti a fermare la procedura di alcuni «appalti concorso» 5* e ad altri interventi simili, senza nascondersi che potevano provocare ostilità nei suoi confronti e anche un clima di grave intimidazione;  – aveva espresso chiaramente chiarament e il suo vivo dissenso e la sua grande preoccupazione per le notizie sulle pressioni che l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino – uomo di «discussa, ambigua e dubbia personalità» – stava mettendo in atto per ottenere «un reinserimento a un livello di piena utilizzazione politica all’interno del partito della Democrazia cristiana». Un’altra deposizione rilevante, circa le preoccupazioni che tormentavano il presidente della Regione Sicilia, è quella del suo successore, Mario D’Acquisto, secondo il quale Mattarella «era particolarmente preoccupato anche perché temeva che il terrorismo potesse cercare nuove aree di espansione nel Sud aggiungendosi al fenomeno della mafia […]. Il presidente ucciso paventava che la mafia siciliana potesse offrire al terrorismo killer e aiuti di altro genere, ove il terrorismo politico avesse deciso l’alleanza con la mafia». 6

 3. Una pista mafiosa anomala: il patto perv perverso erso tra Cosa Nostra Nostra e i

 

 Nar di Valerio Valerio Fioravanti L’ipotesi di un’alleanza di Cosa Nostra con il terrorismo politico – segnatamente con la destra eversiva dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) e di Terza posizione (Tp) è quella sulla quale stava lavorando Giovanni Falcone negli palermitani. anni 19861987,–prima di venire emarginato dai capi dei due uffici inquirenti Il suo lavoro viene proseguito nel biennio 1988-1989, come si è già accennato, dal collega Loris D’Ambrosio, grande esperto di eversione di destra, il quale sta allora operando però all’interno dell’alto commissariato antimafia, che non ha certo la stessa incisività investigativa di un ufficio giudiziario inquirente. Ciò malgrado, il risultato del lavoro – la Relazione dell’8 settembre 1989 – è davvero un testo estremamente interessante. Nella Relazione si osserva anzitutto come dalle indagini svolte sull’omicidio di Piersanti Mattarella non sia emersa nessuna pista investigativa volta a individuare gli autori materiali materiali del  del fatto in soggetti gravitanti nelle organizzazioni mafiose. I collaboratori di giustizia di estrazione mafiosa hanno infatti dichiarato di non sapere chi fossero i due killer, né a quale famiglia appartenessero. Inoltre, la signora Chiazzese non ha ravvisato nessuna somiglianza tra lo sparatore e le immagini di soggetti mafiosi che le sono state sottoposte. Va detto, però, che l’inesistenza di piste mafiose riconducibili agli autori  del crimine non implica affatto l’esclusione della matrice mafiosa materiali del materiali dell’omicidio Mattarella. Del resto, come si è visto nel paragrafo precedente, le presumibili motivazioni del delitto si ricollegano proprio alle logiche di Cosa Nostra e non hanno nulla di sia pur larvatamente eversivo. Certamente non con riferimento all’eversione di sinistra, ma neanche con riferimento all’eversione di destra. In particolare, per quanto riguarda il terrorismo di destra, se ci soffermiamo sulle «espressioni rivoluzionarie» che esso poteva presentare a quel tempo, dobbiamo riconoscere che il fatto criminoso di cui ci stiamo occupando non è riconducibile al cosiddetto terrorismo spontaneista (emulativo di quello di sinistra) schierato contro il sistema capitalistico e borghese, ovvero «contro una società massificante che soffoca le avanguardie “elitarie” chiamate a condurre il popolo alla rivoluzione e alla restaurazione eroica della spiritualità olimpicosolare». Né l’omicidio Mattarella è riconducibile «alle azioni esemplari in se stesse, dirette e punitive, capaci di disarticolare il sistema, e che qualunque

camerata di fede è in grado di compiere». 7 Ecco allora che nella Relazione l’omicidio Mattarella viene rappresentato

 

come un omicidio del tutto anomalo: Maturato in quel composito ambiente umano e politico che, al fine di accrescere il proprio potere economico, affaristico e istituzionale […], si presta a gestire gli interessi pubblici secondo schemi e principi tipicamente delinquenziali […]. Non si tratta, allora, di un omicidio di mafia, ma di un omicidio di politica mafiosa: mafiosa: nel quale, cioè, la riferibilità alla mafia come «organizzazione «organizzazione»» deve necessariamente stemperarsi stemperarsi attraverso una serie di passaggi mediati, di confluenze «operative» e «ideative» apparentemente disomogenee disomogenee ma in grado di dare, nel loro complesso, il senso 8 compiuto dell’antistato. dell’antistato.  

È questo – osserva ancora la Relazione – uno dei motivi, se non il motivo principale, per il quale l’esecuzione dell’omicidio non viene affidata ai killer delle organizzazioni mafiose: tanto più che, in tal modo, si ottiene anche l’effetto di «disorientare l’opinione pubblica e l’apparato investigativo» e si dà agli stessi affiliati mafiosi «l’impressione di quanto devastante ed estesa sia la capacità di espansione e controllo che l’antistato l’antistato è  è in grado di esercitare». 9

4. Le dichiarazioni di Cristiano Fioravanti e la figura di Francesco  Mangiameli Tra il 1982 e il 1983 cominciano ad arrivare alla magistratura inquirente dichiarazioni di collaboratori di giustizia provenienti dalla destra eversiva, che indicano in Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, militanti dei Nuclei armati rivoluzionari, gli autori materiali dell’omicidio Mattarella. Il primo a fare questa rivelazione, sia pure in maniera ancora nebulosa, è Cristiano Fioravanti, fratello minore di Valerio, anch’egli militante dei Nar, ma dal 1981 collaboratore di giustizia. Già in unMattarella verbale dell’ottobre 1982 Cristiano comincia a collegare l’omicidio di Piersanti a suo fratello Valerio, precisando che quest’ultimo, nei giorni in cui fu commesso l’omicidio, si trovava a Palermo ospite di Francesco Mangiameli, uno dei dirigenti di Terza posizione. Cristiano aggiunge che anche prima di quel delitto (e pure successivamente, come vedremo) suo fratello aveva fatto «frequenti viaggi in Sicilia insieme a Gilberto Cavallini» e che lì entrambi erano da tempo in contatto con Mangiameli. 10 In Sicilia, Francesco Mangiameli, detto Ciccio, era il capo riconosciuto di Terza posizione, un gruppo dello spontaneismo armato di estrema destra la cui storia ha incrociato in più punti, non sempre pacificamente, quella dei Nar.

Quando Cristiano Fioravanti inizia a fare le sue rivelazioni agli inquirenti, Mangiameli in realtà è già morto da circa due anni, essendo stato assassinato il 9 settembre 1980 proprio dai due fratelli Fioravanti – sul punto ampiamente

 

confessi – con il concorso della compagna di Valerio, Francesca Mambro, e di altri due camerati (Giorgio Vale e Dario Mariani), tutti condannati con sentenza definitiva. Le assidue frequentazioni tra Valerio Fioravanti e Ciccio Mangiameli si collocano tra il 1979 e l’estate 1980, quando i Nar e Tp si concentrano su undi comune progetto «eroico», quello cioè di organizzare l’evasione dal carcere Pierluigi Concutelli, il killer neofascista che sta scontando l’ergastolo per avere assassinato il magistrato Vittorio Occorsio nel 1976. Ciascuno ha i suoi miti, si sa, e anche per ragioni generazionali il giovane Mangiameli e l’ancor più giovane Fioravanti si appassionano all’idea di liberare il loro «eroe» Concutelli. Il progetto non verrà realizzato, ma il dipanarsi dei suoi tentativi falliti finirà per riflettersi sulle indagini relative sia all’omicidio Mattarella, sia all’omicidio Mangiameli, sia – addirittura – alla strage di Bologna del 2 agosto 1980, per la quale Francesca Mambro e Valerio Fioravanti sono stati condannati all’ergastolo con sentenza definitiva. In un interrogatorio del 22 marzo 1985 Cristiano Fioravanti dichiara con maggior precisione che gli autori materiali dell’omicidio Mattarella sono suo fratello Valerio e Gilberto Cavallini, «coinvolti in ciò dai rapporti equivoci che Mangiameli stringeva in Sicilia». Cristiano osserva che la stessa uccisione di Mangiameli «richiama quei collegamenti», e precisa che in quei giorni, intorno all’Epifania del 1980, c’era a Palermo presso Mangiameli, con Valerio e Gilberto, anche Francesca Mambro. 11 Le dichiarazioni in cui Cristiano Fioravanti accusa suo fratello Valerio dell’omicidio Mattarella sono sempre piuttosto sofferte, ma in quelle rese tra marzo e dicembre del 1986 a Giovanni Falcone e agli altri giudici istruttori del pool di Palermo egli appare sempre meno combattuto. Queste sono, riportate fedelmente, le parti più rilevanti del suo racconto: Della partecipazione di mio fratello all’omicidio Mattarella appresi da lui stesso dopo l’omicidio del Mangiameli [9 settembre 1980] e precisamente il giorno successivo, di mattina. Io infatti avevo partecipato a quell’omicidio senza conoscerne, né previamente chiederne, i motivi. Successivamente,, specie perché mio fratello insisteva che era necessario uccidere anche la Successivamente moglie e la figlia del Mangiameli, chiesi spiegazioni sul perché di tali delitti. Eravamo in auto in giro per Roma e credo fosse presente anche Francesca Mambro. Mio fratello mi disse che il Mangiameli aveva fatto delle promesse circa aiuti e appoggi che doveva ricevere in Sicilia e che queste promesse non erano state mantenute. In particolare aveva promesso che, grazie a determinati appoggi che si era procurato, sarebbe riuscito a propiziare l’evasione di Concutelli, previo trasferimento di costui in un ospedale o in un carcere meno sorvegliato di quello ove si trovava. Quanto a questi appoggi e aiuti sarebbero venuti al Mangiameli e al nostro gruppo, come

mi disse mio fratello, in cambio di un favore fatto a imprecisati ambienti che avevano interesse all’uccisione del presidente della Regione siciliana. All’uopo era stata fatta una riunione a Palermo in casa del Mangiameli, in periodo che non so di quanto antecedente all’omicidio del

 

Mattarella, e nel corso di essa erano intervenuti, oltre al Mangiameli, mio fratello Valerio, Valerio, la moglie del Mangiameli, e una persona della Regione (non so se funzionario o politico). Quest’ultimo avrebbe dato «la dritta», cioè le necessarie indicazioni per poter programmare l’omicidio. Aggiunse mio fratello che l’omicidio era stato poi effettivamente commesso da lui e dal Cavallini, mentre una collaborazione era stata prestata da Gabriele De Francisci [altro membro dei Nar, n.d.a. n.d.a.], ], il quale aveva procurato una casa di appoggio, sempre necessaria allorché si procede ad azioni armate […]. Faccio ancora presente che l’episodio dell’uccisione del Mattarella narratomi da mio fratello non mi meravigliò, nonostante fossi certo che l’uccisione di un politico siciliano era estranea ai fini politici delle nostre azioni. Infatti rientrava nella nostra filosofia di azione procedere anche ad azioni criminose per procurarci favori, a condizione però che ciò non comportasse un legame stabile con diversi ambienti e gruppi. Invero azioni criminose siffatte furono commesse anche a Milano e a Roma. 12

Per quanto riguarda invece il movente dell’omicidio di Francesco Mangiameli, Cristiano lo ricollega al timore, esternato da Valerio Fioravanti, che Mangiameli potesse rivelare ciò che sapeva sull’uccisione di Mattarella e sulla riunione che ne aveva preceduto l’assassinio. Poiché a quella riunione avevano assistito anche la moglie di Mangiameli e la sua bambina, Valerio avrebbe voluto uccidere anche queste ultime prima che venisse ritrovato il cadavere di Mangiameli, che era stato affondato in un laghetto. Fortunatamente l’ulteriore orrendo massacro è stato sventato perché il corpo del malcapitato è riaffiorato ed è stato ben presto ritrovato. Ecco come conclude Cristiano Fioravanti: Sono sicuro che Valerio Valerio mi abbia detto la verità nel confidarmi le sue responsabilità nell’omicidio dell’uomo politico siciliano. Egli doveva convincermi dell’utilità, dopo l’uccisione di Mangiameli, anche dell’uccisione della moglie e della figlia di quest’ultimo e, pertanto, doveva presentarmi una reale esigenza; e mi disse che la moglie aveva partecipato alla riunione in cui si era decisa l’uccisione ed era ancora più pericolosa del marito. 13

Tuttavia il è stata avanzata un’altra ipotesi, forse piùnel plausibile, peresso quanto riguarda movente dell’omicidio di Mangiameli, senso che sia in realtà ricollegabile al timore che quest’ultimo potesse rivelare ciò che certamente sapeva sulla strage della stazione di Bologna. Ma di questo si dirà nel capitolo relativo.

5. Le confidenze di Francesco Mangiameli al suo camerata e amico lberto Volo Oltre a essere il più autorevole militante di Terza posizione in Sicilia, Francesco

«Ciccio» Mangiameli era anche professore di Lettere in un liceo di Palermo ed era ovviamente in contatto con altri esponenti del mondo della scuola. Tra questi

 

vi era Alberto Volo, che gestiva una scuola privata nel capoluogo siciliano –  l’istituto Manara Valgimigli – ed era anch’egli vicino a Terza posizione. I due si erano conosciuti un paio di mesi prima dell’omicidio Mattarella e tra loro era nata una grande amicizia e confidenza, su cui Volo si sofferma nelle dichiarazioni rese ai giudici istruttori del pool di Palermo tra marzo e aprile 1989: Circa l’omicidio di Piersanti Mattarella, posso dire quanto segue. Tutto è partito dalla mia conoscenza con Francesco Mangiameli, avvenuta […] nell’ottobre-novembre 1979 […]. Simpatizzammo subito data la nostra comune ideologia e così, in breve tempo, fui coinvolto dal Mangiameli in un progetto per far evadere Pierluigi Concutelli […]. Per quanto attiene più precisamente all’omicidio di Piersanti Mattarella, io posso riferire quanto mi è stato confidato dal Mangiameli [… il quale] mi confidò che a uccidere Piersanti Mattarella erano stati Riccardo e il prete e cioè Valerio Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, della cui appartenenza ai Nar egli mi rese edotto […]. Ricordo peraltro che il Mangiameli si diceva certo che a uccidere Mattarella era stata la massoneria che si era avvalsa dei due suddetti […]. Il Mangiameli […] mi confidò che egli sapeva soltanto, inizialmente, che egli doveva dare appoggio logistico ai due per una azione importante […]. Mi riferì anche che i due, prima e dopo l’omicidio, avevano trovato rifugio nella sua villa di Tre Fontane che, specialmente allora, e in quella stagione, costituiva rifugio ideale per chi volesse nascondersi, essendo molto isolata. 14

6. Il riconoscimento del killer in Valerio Fioravanti da parte della vedova Mattarella Mattarella e le rivelazioni di Stefano Soderini Sin qui, gli elementi d’accusa a carico di Valerio Fioravanti e di Gilberto Cavallini sono fondamentalmente due: le dichiarazioni di Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, e la presenza a Palermo di quest’ultimo e di Cavallini proprio nei giorni in sia cui da Mattarella viene da Cristiano Alberto Volo. V olo. ucciso, circostanza rivelata concordemente sia Un altro elemento di accusa nei confronti dei due è costituito dall’identificazione di Valerio Fioravanti da parte di Irma Chiazzese, la vedova di Piersanti Mattarella, che aveva visto in faccia lo sparatore, il quale «indossava un k-way azzurro con cappuccio in testa». Il riconoscimento avviene a quattro anni di distanza dal fatto, quando diventano di pubblico dominio le accuse mosse al leader dei Nar da suo fratello Cristiano. Il 19 marzo del 1984, la signora Chiazzese dichiara di avere provato «una forte sensazione nel vedere le fotografie di Giusva Fioravanti» e precisa che Valerio Fioravanti «è quello che più corrisponde all’assassino che ho descritto nell’immediatezza dei fatti». 15

Due anni dopo, in sede di ricognizione formale, articola meglio la sua valutazione: «Quando dico che è probabile che nel Fioravanti si identifichi l’assassino intendo dire che è più che possibile che lo stesso sia autore

 

dell’omicidio, ma che non sono in grado di formulare un giudizio di certezza». Infine, nel luglio del 1986, aggiunge un particolare. Racconta di aver incrociato il killer poco prima che aprisse il fuoco e di aver notato, tra l’altro, il suo strano modo di camminare, che definisce «un’andatura ballonzolante». Che Valerio muovesse così lo poi racconta anche il di suogiustizia. camerataIn Stefano Soderini,Fioravanti esponentesi dei Nar diventato collaboratore un interrogatorio reso al giudice istruttore Falcone nel luglio del 1986 Soderini, dopo aver affermato che «la descrizione del killer riferita dalla vedova Mattarella si attaglia a Valerio Fioravanti», rivela anche un soprannome («l’orso») affibbiato al leader dei Nar proprio per quella sua caratteristica. «Il Fioravanti» precisa Soderini «si muoveva così in ogni circostanza, anche quando era in azione. Anzi, questo suo modo di comportarsi, quasi giocherellone, spiazzava le persone contro cui agiva che non si accorgevano delle sue reali intenzioni se non quando era troppo tardi». 16 In quello stesso interrogatorio del luglio 1986 Stefano Soderini fornisce a Giovanni Falcone un ulteriore oggettivo riscontro probatorio allorché dichiara quanto segue: «So per certo che, fin quando il Cavallini non ha procurato il macchinario per fabbricare targhe di autovetture false, il Fioravanti mi diceva che per alterare le targhe delle vetture era solito usare più targhe, che tagliava per ricostruirne un’altra con i numeri, conseguentemente, “modificati”». 17 Si tratta dell’elemento probatorio cui si è accennato all’inizio di questo capitolo – quello della targa falsa montata sulla Fiat 127 dagli assassini di Mattarella – che aveva suscitato l’interesse di Giovanni Falcone e poi quello di Loris D’Ambrosio, ma che è stato sostanzialmente ignorato dagli inquirenti palermitani dopo l’avvenuta emarginazione di Falcone. Ce ne occupiamo nel prossimo paragrafo.

7. La targa camuffata dell’auto del delitto e i pezzi di targa in un covo di Terza posizione Nella sua Relazione dell’8 settembre 1989 Loris D’Ambrosio precisa che l’affermazione di Stefano Soderini, secondo cui Giusva Fioravanti «era solito usare più targhe che tagliava per ricostruirne un’altra con i numeri conseguentemente “modificati”», riflette una prassi molto diffusa negli ambienti della destra eversiva, specialmente tra gli esponenti di Terza posizione e dei Nar.

Più volte, nei relativi covi, si sono trovate targhe tagliate e/o modificate in quel modo.

 

La Relazione si riferisce in particolare alle targhe – in gran parte tagliate –  rinvenute a Roma l’8 ottobre del 1982 in occasione dell’arresto di tre membri di Terza posizione. Una di queste targhe era «composta da due parti trattenute da nastro adesivo», proprio come quella della Fiat 127 del caso Mattarella. 18 I tre arrestati risultavano collegati a Enrico Tomaselli, ill’ambiente giovane luogotenente Francesco Mangiameli, «chiamato a ricompattare “tercerista” di siciliano dopo la morte di quest’ultimo» (tercerista (tercerista è  è un’espressione ispanica con cui i membri di Tp designano se stessi). Non si tratta quindi – prosegue la Relazione – di soggetti del tutto estranei all’ambiente dei Nar, dato che all’epoca del loro arresto i Nar «operavano congiuntamente al gruppo dei terceristi terceristi e  e disponevano anche di “covi” e “basi” comuni dove confluivano quasi indifferentemente armi, documenti, targhe, procurati dall’uno o dall’altro gruppo». Inoltre, data la frequentazione continuativa tra gli uni e gli altri, non può certo sorprendere «il reciproco scambio di esperienze, fra cui ben potevano rientrare, insieme alle modalità di falsificazione dei documenti […], quelle concernenti le modalità di falsificazione delle targhe». 19 A questo punto la Relazione si sofferma sull’esito di una perquisizione di notevole rilievo, operata dal nucleo operativo dei carabinieri di Torino il 26 ottobre del 1982 (quindi pochi giorni dopo l’operazione romana di cui sopra) in un covo di Terza posizione che si trovava in un appartamento di via Monte Asolone, nel capoluogo piemontese, affittato sotto falso nome a Fabrizio Zani, uno dei leader di quella formazione. La Relazione suggerisce agli inquirenti di Palermo di svolgere accertamenti accurati su «due pezzi di targa» lì rinvenuti, che hanno tutto l’aspetto di una «targa virtuale» componibile proprio con i pezzi residuati dal camuffamento di targa operato dagli assassini di Mattarella sulla Fiat 127:

Va pertanto sottoposto ad accurato accertamento quanto rinvenuto il successivo 26.10.1982 in Torino, nel c.d. covo di via Monte Asolone (v. RR. GG. 21.10.1982 dei CC Rep. Op. Torino, all. 14) già in uso a Zani Fabrizio, da tempo latitante, aderente a Terza posizione e particolarmente vicino a Enrico Tomaselli. Nel covo vengono rinvenuti – fra l’altro – due pezzi di targa, uno comprendente la sigla PA e l’altro contenente la sigla PA e il numero 563091. Non si precisa, nel verbale, se si tratta di parti di targa o di targa intera. La circostanza merita di essere accertata poiché, oltre che della stessa sigla PA, PA, la targa rinvenuta a Torino risulta composta con gli stessi numeri (pur se diversamente collocati) rimasti […] in possesso degli autori dell’omicidio dell’on. Mattarella dopo la alterazione della targa della vettura utilizzata per commettere il fatto (PA - 5.3.0.9.1.6; targa rinvenuta in Torino: PA - 5.6.3.0.9.1.). 20

 

FIGURA 1. Incipit del verbale di sequestro del 26 ottobre 1982.

FIGURA 2. Dettaglio del verbale di sequestro del 26 ottobre 1982.

 

Nell’intestazione del verbale di sequestro di via Monte Asolone (figura 1) l’appartamento preso in affitto da Fabrizio Zani viene definito, non a caso, come una base a disposizione di elementi della destra eversiva appartenenti indifferentemente ai Nar o a Terza posizione. Il materiale sequestrato è copiosissimo comprende moduli in bianco per dei costruire documenti falsi, segnatamente etesserini di appartenenti all’Arma carabinieri, nonché divise della stessa Arma e di altri corpi di polizia. Ma vediamo anzitutto chi è Fabrizio Zani e quali sono i suoi rapporti con Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini. Cavall ini.

8. La posizione di Fabrizio Zani, rapinatore e magazziniere magazziniere della destra eversiva Fabrizio Zani, già esponente di Terza posizione, noto anche per avere fondato il periodico di impronta neonazista «Quex», viene arrestato una prima volta nel 1974 per alcuni attentati dinamitardi. Torna libero nel 1978 e continua la lotta armata con il gruppo dei Nar che fa capo a Valerio Fioravanti (che verrà arrestato nel febbraio 1981), nonché a Pasquale Belsito, Gilberto Cavallini e Stefano Soderini. Zani è uno degli autori materiali della sanguinosa rapina commessa a Roma la mattina del 5 marzo 1982, da alcuni esponenti dei Nar e di Terza posizione, all’agenzia n. 2 della Banca nazionale del lavoro di piazza Irnerio. Tra i rapinatori c’è Francesca Mambro, la compagna inseparabile di Valerio Fioravanti, che proprio in quell’occasione viene arrestata. Ai preparativi, pur senza parteciparvi, ha contribuito anche Gilberto che antiproiettile il giorno prima dell’operazione ha fornito al gruppo di fuoco unoCavallini, dei giubbotti e un mitra M3, utilizzati nel corso della rapina e del successivo scontro a fuoco con le forze di polizia. 21 È il caso di aggiungere che nell’appartamento di via Monte Asolone è stata rinvenuta anche una pistola Beretta calibro 9 mod. 1934, risultata poi sottratta a un militare dell’Arma dei carabinieri proprio nel corso della rapina di piazza Irnerio. 22 Successivamente, il 26 novembre del 1982, Fabrizio Zani, Pasquale Belsito e Stefano Soderini, unitamente ad alcuni altri camerati dei Nar, organizzano un’importazione di armi e munizioni da guerra, tra cui una bomba a mano di

fabbricazione francese, tentando di introdurle in Italia di notte dal valico di Ventimiglia, a bordo del treno internazionale Les Arcs. Nell’involucro

 

contenente le armi, intercettato da un ferroviere francese, viene trovato anche un timbro di plastica con la dicitura ANTONIO SERICOLI, che riconduce a Gilberto Cavallini, dato che l’impronta di quel timbro è stata a suo tempo rilevata su uno dei documenti falsi di cui egli si era servito. Le vicende dell’autunno (in particolare materialecon sequestrato Torino in via Monte Asolone1982 e il borsone di armiildiricco Ventimiglia il timbro adi Cavallini) fanno sì che l’attenzione degli inquirenti si appunti sulle figure di rilievo, appunto, di Gilberto Cavallini e di Stefano Soderini, che insieme a Pasquale Belsito sono tra i pochi componenti ancora in libertà dei Nar, o quanto meno della cosiddetta banda Cavallini. Il primo a essere arrestato, nell’aprile del 1983, è proprio Fabrizio Zani. Il 12 settembre dello stesso anno tocca a Cavallini e Soderini, che vengono fermati insieme in un bar di Milano. Stefano Soderini diventa poi collaboratore di giustizia e fornisce agli inquirenti importanti rivelazioni. Si è già ricordata quella circa la tecnica seguita da Giusva Fioravanti per il camuffamento delle targhe d’auto. Ma non meno importante è la rivelazione secondo la quale Fabrizio Zani, circa tre mesi prima del tentativo d’importazione d’armi di Ventimiglia, aveva acquistato una bomba a mano da un camerata francese. 23

9. L’importanza probatoria probatoria dei «due pezzi di tar targa» ga» di via Monte solone Nell’elenco degli oggetti sequestrati in via Monte Asolone, i reperti su cui ora dobbiamo soffermarci compaiono al n. 42: «Due pezzi di targa di cui uno comprendente la sigla PA epiù unosotto, contenente la risulta sigla PA e il numero inoltre osservato che poco al n. 46, repertata anche563091». «Una Va confezione di pasta per modellare di marca “DAS”». La scarsa accuratezza con cui è stato redatto il verbale di sequestro fa sì che la descrizione dei due reperti indicati al n. 42 risulti piuttosto sibillina: si parla di «due pezzi di targa». Ma mentre il primo – costituito solo dalla sigla PA – è indubbiamente un pezzo un pezzo di  di targa, il secondo reperto sembrerebbe avere l’aspetto di una targa intera, dato che il verbale dice che contiene la sigla di Palermo più le sei cifre che contrassegnavano, negli anni Settanta e nei primissimi anni Ottanta, le targhe automobilistiche (intere) del capoluogo siciliano. D’altra parte, l’ipotesi che il secondo reperto fosse in realtà una targa

autentica e intatta, appartenente a un veicolo realmente e regolarmente targato PA-563091, è inconciliabile con l’espressione «pezzo di targa» con cui il

 

verbalizzante vi si riferisce. È quindi maggiormente plausibile l’ipotesi che il poco accorto verbalizzante abbia inteso designare con quell’espressione imprecisa una targa (evidentemente falsa) costruita assemblando tra loro «pezzi» di targhe diverse. Più precisamente, che i pezzi di targa residuati dopo il camuffamento operato sulla Fiat 127dato del delitto Mattarella erano PA, 53 e 0916, l’ipotesi concreta è quella di una targa fasulla, costruita utilizzando proprio quei pezzi: precisamente, ritagliando la cifra 6 finale e inserendola tra la cifra 5 e la cifra 3. Il «dilemma» si sarebbe potuto risolvere molto agevolmente, fin dal settembre 1989, se solo l’ufficio istruzione di Palermo avesse seguito il suggerimento contenuto nella Relazione D’Ambrosio («Va pertanto sottoposto ad accurato accertamento quanto rinvenuto») e avesse richiamato ed esaminato con attenzione il secondo reperto del corpo di reato n. 42 di via Monte Asolone. In questo modo gli inquirenti avrebbero accertato senza margini di dubbio se il reperto in questione fosse una targa palermitana autentica (quindi irrilevante ai fini dell’inchiesta in corso e approdata chissà come nel covo Nar di Torino), oppure se si trattasse – ipotesi ben più probabile – di una targa falsa assemblata nel modo anzidetto (per i Nar piuttosto usuale) con i pezzi residuati dal camuffamento operato sulla Fiat 127 dell’omicidio. Se fosse stata constatata la fondatezza di questa seconda ipotesi, sarebbe stato inevitabile domandarsi come mai i residui del noto camuffamento di targa dell’omicidio Mattarella fossero finiti proprio in quel covo dei Nar e di Terza posizione, gestito da un esponente non secondario – quale era Zani – proprio del gruppo Fioravanti-Cavallini-Soderini. Questa circostanza avrebbe costituito un ulteriore importante elemento di prova a carico di Fioravanti e Cavallini quali autori quell’omicidio. Mamateriali c’è di più.diUna volta che quel reperto si fosse rivelato una targa assemblata, sarebbe stato opportuno sottoporla a un accertamento tecnico per verificare se, nella sua parte sottostante, ci fossero tracce di componenti di quella «pasta per modellare di marca “DAS”», una confezione della quale è stata pure trovata nell’appartamento di via Monte Asolone (reperto n. 46). Quel tipo di materiale poteva servire egregiamente a tenere uniti i diversi pezzi di targa durante le operazioni di assemblaggio onde far sì che, a lavoro ultimato, il tutto si presentasse come un pezzo unico ben mimetizzato. Invece nulla di tutto ciò è mai stato fatto. Quando la Relazione D’Ambrosio giunse, dall’ufficio dell’alto commissario

antimafia, sulla scrivania del consigliere istruttore di Palermo Antonino Meli, nel settembre del 1989, il pool antimafia era già stato smantellato da tempo, Giovanni Falcone – ormai emarginato dalla nuova dirigenza – si era appena

 

trasferito alla Procura della Repubblica come procuratore aggiunto (sarà emarginato anche lì) e Paolo Borsellino era a Marsala. Non è dato sapere se Antonino Meli abbia letto la Relazione, ma è certo che l’unica iniziativa che prese fu quella di rinviare il documento al mittente per un presunto vizio di forma: firma dell’alto commissario Domenico Sica. 24Essa è Nonmancava sappiamolaquando la Relazione fu ritrasmessa a Palermo. comunque citata – con riferimento solo ad aspetti marginali – sia nella requisitoria finale del procedimento riguardante l’omicidio Mattarella (firmata dai pubblici ministeri il 9 marzo del 1991) sia nella successiva sentenzaordinanza di rinvio a giudizio emessa dal giudice istruttore il 9 giugno 1991. Ma la parte determinante della Relazione, quella relativa alla necessità di disporre accertamenti sui «pezzi di targa» di via Monte Asolone, è stata totalmente ignorata. Che ne è oggi dei reperti di via Monte Asolone? Sequestrati il 26 ottobre del 1982, sono rimasti a Torino custoditi per qualche mese presso quel nucleo operativo dei carabinieri, dopo di che sono stati trasmessi a Roma e sono approdati al locale ufficio corpi di reato nel giugno 1983 per essere uniti al processo dei Nar lì pendente a carico di Pasquale Belsito e altri. 25 Chi scrive ha tentato di rintracciarli ed esaminarli, ma ha trovato solo il verbale di distruzione dell’ufficio corpi di reato del Tribunale di Roma, il quale attesta che, dopo vent’anni dalla presa in consegna, i reperti di via Monte Asolone sono stati ritualmente distrutti. Precisamente il 15 giugno del 2004 (corpo di reato n. 110116 1101 16 comprendente «due pezzi di targa»). La conseguenza è che, per quanto riguarda la soluzione del «dilemma» di cui sopra, a noi non resta che accontentarci di una ricostruzione in via di logica probabilistica. Ricostruzione, del resto, eche può rivestire soloormai un interesse meramente storico, dato che Fioravanti Cavallini sono stati assolti con sentenza definitiva dall’accusa di concorso nell’omicidio Mattarella e, per il principio costituzionale del ne bis in idem, non idem, non possono comunque essere processati una seconda volta per il medesimo reato. Va anche detto che il suddetto «dilemma» non è privo di una sua ragion d’essere. Infatti, chi scrive ha consultato il pubblico registro automobilistico e ha rilevato che l’auto regolarmente targata PA-563091 (che ovviamente esisteva ed era una Renault) era stata immatricolata a Palermo il 3 marzo 1980 con quel numero di targa, ma era stata poi ritargata, ritargata, sempre  sempre a Palermo, in data 28 aprile 1982, perché la targa PA-563091 era stata denunciata come «smarrita» (ironia

della sorte!) in quella data. Ragion per cui, teoricamente, ci sarebbe una sia pur remota possibilità che quella targa quella  targa smarrita, pur contenendo le medesime cifre dei residui del noto

 

camuffamento, sia misteriosamente finita proprio nel covo Nar di Torino e sia stata – altrettanto misteriosamente – definita «pezzo di targa» dal verbalizzante di via Monte Asolone. Tuttavia, il fatto che la targa autentica PA-563091 sia stata smarrita a Palermo, in una situazione che non relazione alcuna con l’ambiente rende estremamente improbabile chehaessa sia andata a finire a più di dei Nar, millecinquecento chilometri di distanza, proprio in quel covo Nar di Torino. Mentre è ben più probabile – tanto più tenendo conto dei rapporti esistenti tra il Nar Zani del covo di Torino e i Nar Fioravanti e Cavallini presenti a Palermo nei giorni intorno all’Epifania del 1980 – che il reperto 563091-PA di via Monte Asolone fosse una targa fasulla, assemblata con i residui del camuffamento di targa del caso Mattarella. Abbiamo interpellato un autorevole matematico, il professor Marco Abate dell’università di Pisa, circa la possibilità di eseguire scientificamente questo calcolo probabilistico. La risposta è stata che un simile calcolo matematico non è scientificamente possibile se non tenendo conto di fattori effettivamente riconducibili a dati numerici. È numerici. È però possibile – e può fornire un risultato comunque interessante che può dare un’idea di massima – un calcolo desumibile dai dati relativi al numero dei veicoli immatricolati mese per mese nel capoluogo siciliano. Il risultato è, all’incirca, una probabilità su millequattrocento. In nota si possono trovare i singoli passaggi del calcolo matematico. 26 La nostra conclusione ha trovato una conferma concreta quando siamo riusciti a entrare in possesso di una copia del rapporto di polizia giudiziaria del 9 febbraio 1980 relativo all’omicidio Mattarella. Sono infatti allegate al rapporto le fotografie delle false targhe montate sulla Fiat 127 (figura 3 e figura 4) nonché le fotografie degli spezzoni targa – ripresi fronte retro dopo rimozione con cui gli assassini avevanodicomposto la falsa targae montata su laquella vettura–  (figura 5 e figura 6). 27 Nella facciata retrostante degli spezzoni (figura 6) è evidente la presenza di una materia bianca, che ben potrebbe essere proprio il Das impiegato per tenere uniti i pezzi. Inoltre appare evidente, dalle due fotografie, che lo scopo reale del nastro adesivo nero era solo quello di mascherare le cesure tra i singoli pezzi per evitare che si intravedesse il colore bianco della materia sottostante (figura 5). Informato delle circostanze illustrate in questo capitolo, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Franco Roberti, il 30 agosto del 2017 ha trasmesso al procuratore della Repubblica di Palermo un «atto d’impulso», come

previsto dall’articolo 371-bis del Codice di procedura penale, con richiesta di riaprire le indagini preliminari sull’omicidio Mattarella e di accertare se gli spezzoni della falsa targa PA-546623, montata sull’autovettura Fiat 127

 

utilizzata per quell’omicidio, presentino tracce della pasta per modellare marca Das. Il 4 gennaio 2018 la Procura della Repubblica di Palermo ha riaperto il caso. 28 Al momento in cui questo libro va in stampa non è dato sapere se l’atto d’impulso della Procura nazionale abbia avuto qualche effetto. 29

FIGURA 3. Vista della targa falsa anteriore.

FIGURA 4. Vista della targa falsa posteriore.

 

FIGURA 5. Gli spezzoni delle targhe - fronte.

FIGURA 6. Gli spezzoni delle targhe - retro.

 

XIII Il senso della strategia della tensione e il suo evolversi sino all’alba del triennio 1978-1980

1. Quando l’antistato si annida nello Stato Sui Nar di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e relativi camerati sarà necessario tornare tra non molto, per soffermarci sulle vicissitudini del loro movimento (sia anteriori sia successive al delitto Mattarella) e per occuparci, tra l’altro, della loro posizione relativamente a un crimine perpetrato sette mesi dopo quel delitto: la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Un evento terribile, che sarebbe tuttavia riduttivo e semplicistico attribuire soltanto alla destra eversiva, la quale è invece solo una delle componenti di componenti di quello che abbiamo definito antistato antistato:: quest’ultimo ha infatti gestito tutti gli eventi della strategia della tensione, compresi tensione, compresi i progetti – per fortuna non realizzati – che erano previsti per i mesi successivi all’estate 1980. Per introdurre questi argomenti dobbiamo però fare un ulteriore passo indietro. Non certo per ricostruire diffusamente la storia della strategia della tensione dagli anni Sessanta in poi – cosa che esula dai limiti di questo lavoro –  ma soltanto per dar conto di alcune circostanze fondamentali che, pur anteriori al triennio 1978-1980, vanno tenute in considerazione per meglio cogliere il senso degli eventi di quel periodo. Quella che noi comuni mortali chiamiamo «strategia della tensione», nel linguaggio dei vertici militari viene chiamata – con un’espressione vagamente cinica – «guerra a bassa intensità» o anche «guerra non ortodossa». Ebbene, in questa «guerra» i soldati semplici sono i terroristi della destra eversiva. Uno di questi è stato Vincenzo Vinciguerra, un uomo che ha fatto parte

di Ordine nuovo, che ne conosce bene i segreti, ma che se ne è allontanato perché, essendo lui un «purista» del terrorismo nero, a un certo punto si è reso

 

conto che quel movimento politico, pur professandosi rivoluzionario, era invece manovrato dai servizi segreti e dai poteri occulti. Vinciguerra non è propriamente un pentito, ma non è neanche alieno dal fornire informazioni agli organi dello Stato, se ciò serve a marcare le differenze tra lui e i falsi rivoluzionari. Ecco quanto dichiara al giudice istruttore di Bologna nel 1984: Tutte le stragi che hanno insanguinato l’Italia a partire dal 1969 appartengono a un’unica matrice organizzativa […]. Le direttive partono da apparati inseriti nelle istituzioni […]. Si tratta del gruppo che dette vita o aderì successivamente al centro studi Ordine nuovo di Pino Rauti. Tale gruppo ha il suo baricentro nel V Veneto, eneto, ma naturalmente ha agito anche a Roma e a Milano. 1

Oggi, grazie anche ai non pochi collaboratori di giustizia che hanno confermato le parole di Vinciguerra, tutti gli elementi acquisiti indicano che da diversi decenni ha operato in Italia un’organizzazione eversiva e terroristica trasversale, la quale ha accomunato i gruppi dell’estrema destra al di là delle loro diverse denominazioni. Di questa organizzazione trasversale,Questa «Ordine Nuovo, in particolar modo gruppo veneto, era il fulcro operativo». organizzazione era inoltre «alil centro di una rete di rapporti articolati, solidi e duraturi […] con apparati istituzionali italiani istituzionali  italiani e stranieri, che le fornivano protezione, supporto e direttive». Come dire, una sorta di antistato antistato annidatosi  annidatosi nello Stato. Tutte le stragi, realizzate o tentate, «sono state opera di questa organizzazione e, nella loro fase più esecutiva, di un numero molto ristretto di persone, che hanno continuato a operare indisturbate o quasi». Infine, risulta ormai chiaramente, come si vedrà tra breve, che tutte le stragi «erano inserite in piani più vasti con finalità golpistiche o di condizionamento antidemocratico del quadro politico». 2

2. Ordine nuovo, Avanguardia nazionale e la guerra non ortodossa Nato alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso come un «ordine di credenti e combattenti», intriso di ideologie neonaziste e neopagane, Ordine nuovo (On) abbracciò ben presto la nuova teoria della «guerra non ortodossa» elaborata nel frattempo dalla Nato. La novità di questa teoria «era che, siccome i comunisti si stavano avvicinando al potere per vie legali e democratiche, non era più sufficiente una strategia di controinsorgenza, ma ne occorreva una di

provocazione e attacco». Si trattava appunto della «strategia delladitensione che,E per essere attuata, necessitava dell’attività clandestina di gruppi civili […]. chi meglio dei neofascisti per questo compito?». 3

 

È il caso di precisare che le linee di questa teoria, nei primi anni Sessanta, sono state addirittura messe per iscritto nei piani delle nostre forze armate: «È in atto, da parte del comunismo italiano, una guerra psicologica tendente a conquistare il potere per le vie legali […]. Oggi quindi è imperativo […] mettere in atto un piano di operazioni a carattere non solo difensivo[…] mache anche 4 E ancora: «Bisogna creare gruppi di attivisti possano usare offensivo». tutti i sistemi, anche quelli non ortodossi: quelli dell’intimidazione, della minaccia, del ricatto, della lotta di piazza, dell’assalto, del sabotaggio, del terrorismo». 5 Fu così che Pino Rauti, fondatore di Ordine nuovo, divenne consigliere del generale Giuseppe Aloja, massimo vertice delle forze armate, e il suo camerata Guido Giannettini fu messo nel libro paga del Sid. L’altro gruppo neofascista, ne ofascista, Avanguardia nazionale (An), fu pparticolarmente articolarmente efficiente nell’infiltrazione di suoi militanti nei gruppi dell’estrema sinistra (Mario Merlino, infiltrato tra gli anarchici, fu il più noto). Questo gruppo, fondato e capeggiato da Stefano Delle Chiaie, allacciò rapporti stretti con l’ufficio affari riservati (Uar), il «servizio segreto» del ministero dell’Interno, diretto dal potente Federico Umberto D’Amato, da cui ebbe aiuti finanziari e protezione. «Delle Chiaie era di casa negli uffici dell’Uar, come ha ammesso lo stesso Federico Umberto D’Amato, […] eminenza grigia della guerra segreta al comunismo in Italia» e «intoccabile tessitore di trame per oltre vent’anni». 6 Numerose le testimonianze in proposito, tra cui quella del generale Gianadelio Maletti, già capo del reparto D (controspionaggio) del Sid: «La protezione era assicurata a Delle Chiaie […] dall’ufficio affari riservati e specie dal suo capo, dottor D’Amato». 7 Ordine nuovo, in particolare, era in stretto contatto con i servizinelle informativi americani condibattimento l’intelligencedeldelle basi Nato. Lo stesso Pino Rauti, dichiarazioni reseenel processo per piazza Fontana del 2000, lo ha ammesso: «È possibile che in Ordine nuovo si siano verificati episodi di contiguità e collaborazione con gli americani della Cia». E sul punto vi sono anche le deposizioni di alcuni alti ufficiali delle nostre forze armate, come il generale Emanuele Borsi: «Ordine nuovo era una struttura sorretta dai servizi di sicurezza della Nato con compiti di guerriglia e informazione»; e il generale Umberto Nardini: «Noi sapevamo dell’esistenza di una organizzazione paramilitare, Ordine nuovo, sorretta dai servizi di sicurezza della Nato». 8 Particolarmente significativa, a questo proposito, è l’intervista rilasciata nel 2000 a «la Repubblica» da Gianadelio Maletti, il già citato generale del Sid

condannato per depistaggi e favoreggiamenti personali nell’ambito del processo relativo alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969:

 

Generale, avrà saputo della relazione di minoranza della Commissione stragi. Si afferma che la strategia della tensione fu di stampo atlantista. Lei cosa ne pensa? Era una necessità della Nato raccogliere notizie ed elaborarne il più possibile […]. Avevo Avevo personalmente rapporti con la Cia. Eravamo in contatto per motivi di controspionaggio. La Cia voleva creare, attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell’estrema destra, Ordine nuovo in particolare, l’arresto di questo scivolamento verso sinistra. Questo è il presupposto di base della strategia della tensione […].  E i nostri servizi ne erano consapevoli consapevoli o addirittura complici? complici? Non c’era piena consapevolezza. Ma esisteva un orientamento nei servizi favorevole a questo progetto.  In che modo la Cia utilizzò Ordine Ordine nuovo? Con i suoi infiltrati e con i suoi collaboratori. In varie città italiane e in alcune basi della Nato: Aviano, Napoli. La Cia aveva funzioni di collegamento tra diversi gruppi di estrema destra italiani it aliani e tedeschi e dettava le regole di comportamento. Fornendo anche il materiale.  Esplosivi, armi? Numerosi carichi di esplosivo arrivavano dalla Germania via Gottardo direttamente in Friuli e in Veneto. Veneto. […] Lo segnalammo a livelli più alti.  E cosa accadde? Niente. Ma scoprimmo e segnalammo anche che l’esplosivo usato a piazza Fontana proveniva da uno di questi carichi. Quindi è logico sostenere che il mandante di piazza Fontana sia la Cia? Non ci sono le prove dirette, ma è così.  Ma come poteva continuare continuare ad av avere ere i co contatti ntatti con la Cia, generale, pur sap sapendo endo cosa tramava? Non si può dire che la Cia avesse un ruolo attivo e diretto nelle stragi. Ma che sapessero e conoscessero obiettivi e autori è vero.  La loro strategia, strategia, che puntava a fr fronteggiare onteggiare il pericolo pericolo comunista, era talme talmente nte cinica da  passare sopra centinaia centinaia di morti innocenti? La Cia ha cercato di fare ciò che aveva fatto in Grecia nel ’67 quando il golpe mise fuori gioco Papandreu. In Italia, le è sfuggita di mano la situazione. 9

 3. La strategia della della tensione dalla strage di piazza Fontana sino al 1977  Il 12 dicembre del 1969 è un venerdì, giorno di mercato. Per questo nel salone della Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana, a Milano, l’unica ancora aperta dopo le 16.30, c’è una gran folla. Sono clienti che arrivano soprattutto dalla provincia e che, alle 16.37, vengono investiti da un’esplosione provocata da una bomba. Sette chili di tritolo che lasciano a terra diciassette vittime. Ottantotto i feriti. Ma l’ordigno di piazza Fontana non è l’unico, quel giorno. A Roma ne

scoppiano uno sull’Altare nel sottopassaggio dellaInBanca lavoro, in viama i San Basilio,tre:e due della patria. questonazionale caso nondel ci sono morti, feriti sono sedici. Una quinta bomba viene ritrovata di nuovo a Milano. È

 

inesplosa, è stata lasciata dentro una borsa nella Banca commerciale di piazza della Scala e viene fatta brillare facendo così perdere elementi preziosi per le indagini. L’allora prefetto di Milano, Libero Mazza, telegrafa al presidente del Consiglio Mariano Rumor: «Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza 10 Ma fin da subito c’è chi nutre dubbi. Eppure indagini verso gruppi anarcoidi». questa pista è l’unica su cui si indaga. Tra il 12 e il 16 dicembre del 1969, a Milano vengono fermate ottantaquattro persone, la maggior parte anarchici e il resto militanti di sinistra. L’avvocato Luca Boneschi, un legale a cui i militanti di quell’area si rivolgono, lamenta l’infondatezza degli arresti e denuncia il fatto che il pubblico ministero, Ugo Paolillo, è stato tenuto all’oscuro dalla polizia dell’imponente numero dei fermati. Già qui ci sono tutti gli elementi per affrontare il tema del periodo definito con l’espressione di «strategia della tensione», coniata dal giornalista britannico Leslie Finer dell’«Observer». Lo fece in un articolo, pubblicato il 14 dicembre 1969, in cui puntava il dito verso «l’intero schieramento di destra» e verso chi si era dato da fare per «incoraggiare l’estrema destra a passare al terrorismo». L’eccidio alla Banca nazionale dell’agricoltura è il momento in cui è diventata evidente la pratica stragista che avrebbe dovuto condurre a un governo autoritario. Ma non è stato il primo: tutto il 1969 è attraversato da bombe che esplodono, seppur con conseguenze molto meno gravi. È accaduto tra l’8 e il 9 agosto, quando dieci ordigni artigianali vengono piazzati su altrettanti treni diretti in tutto il paese. Otto esplodono e provocano dodici feriti. Ma ancora prima, il 25 aprile, qualcosa del genere era successo alla fiera di Milano, nel padiglione della Fiat, e alla stazione Centrale. Venti persone riportano lesioni. E quando, dieci giornidel prima, unadell’università carica esplosiva viene messa dentro un libro lasciato nell’ufficio rettore di Padova, Enrico Opocher, essa provoca danni unicamente a mobilio e oggetti solo perché la deflagrazione avviene in tarda serata. L’episodio più inquietante, prima di piazza Fontana, si registra a Trieste il 4 ottobre del 1969, quando una cassetta militare con quasi sei chili di un esplosivo chiamato gelignite viene messa sul davanzale dei bagni di una scuola materna slovena. La bomba è programmata per scoppiare a mezzogiorno e ciò non accade solo per un difetto tecnico, risparmiando i bambini che frequentano quelle aule. Il clima, insomma, è incandescente ed è il risultato di un processo politico

che si prepara da tempo, almeno dagli anni Cinquanta, e che raggiunge un picco con i fatti del luglio 1960, quando il Movimento sociale italiano, il cui appoggio è stato determinante per la formazione del governo monocolore democristiano di

 

Fernando Tambroni, deve rinunciare al suo congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Ne seguono manifestazioni in tutto il paese, con cinque vittime a Reggio Emilia e quattro in Sicilia, tra Palermo, Catania e Licata. Il fronte dell’anticomunismo montadidal dopoguerra con è sempre inquieto e la formazione dei primiche governi centrosinistra, la loropiù carica di riforme progressiste, non favorisce alcuna distensione. Lo dimostrano già i fatti dell’estate 1964, quando avrebbe dovuto essere attuato il cosiddetto piano Solo, un progetto golpista che chiamava in causa «solo» l’Arma dei carabinieri e che fu attribuito a lungo a un’unica mente, quella del generale Giovanni de Lorenzo, già capo del Sifar un decennio prima. 11 In realtà il piano, plausibilmente un tentativo di condizionare gli esecutivi di centrosinistra contenendone la portata riformista, lasciava intravedere responsabilità ben più ampie e compromissioni a livelli più elevati. Nonostante golpe successivi siano riusciti in altri paesi, come quello avvenuto in Grecia il 21 aprile del 1967, nelle gerarchie militari italiane si parla sempre più insistentemente di una nuova forma di guerra, la «guerra non convenzionale», o «non ortodossa», da condurre non con modalità tradizionali, schierando gli eserciti per le strade, ma conducendo azioni psicologiche con finalità rivoluzionarie. O, meglio, nazional-rivoluzionarie. La formalizzazione di questa strategia risale al 1965, quando a Roma, all’hotel Parco dei principi, si tiene un convegno dal 3 al 5 maggio: in occasione di quell’evento, organizzato dall’Istituto Alberto Pollio, vengono gettate le basi per la strategia della tensione. Vi partecipano personaggi i cui nomi attraversano la storia di quel periodo. Per citarne solo alcuni, troviamo il tenente colonnello Adriano Magi-Braschi, a capo del nucleo guerra nonpolitico ortodossa dello statoPino maggiore il fondatore del Movimento ordine nuovo Rauti,dell’esercito, l’ex partigiano monarchico Edgardo Sogno, il giornalista al soldo dei servizi segreti Guido Giannettini e l’ex ufficiale delle SS italiane Pio Filippani Ronconi. Ma non solo. Scorrendo l’elenco degli invitati, si trova un uomo di Avanguardia nazionale, Mario Merlino, che si fingerà sodale dell’anarchico Pietro Valpreda, accusato ingiustamente della strage di piazza Fontana. 12 Ci sono poi il capo di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie e Carlo Maria Maggi, nel 2017 condannato definitamente all’ergastolo per la strage di Brescia. Il convegno dell’Istituto Pollio è stato il momento in cui è diventato innegabile che circoli reazionari e neofascisti, ambienti economici e militari,

esponenti dell’ultratradizionalismo cattolico e di un certo mondo intellettuale si sono confrontati per dare vita a una fase con dichiarate finalità eversive. Il suddetto Filippani Ronconi, non a caso, parla della creazione di «nuclei scelti di

 

pochissime unità addestrati a compiti di controterrore». 13 Nell’ottica della strategia della tensione, non si può fare una storia della destra eversiva che prescinda dagli apparati di sicurezza. Il magistrato Pietro Calogero, uno dei di primi a ipotizzare la pista per piazza Fontana insieme al giudice Treviso Giancarlo Stiz, neofascista a lungo minacciato e nel 1980 divenuto bersaglio di un attentato poi non attuato, porta a titolo di esempio tre episodi. Il primo ha per protagonista un bidello che lavorava in una scuola per non vedenti di Padova, tale Marco Pozzan, che è in realtà uno strettissimo collaboratore di Franco Freda, poi ritenuto responsabile della strage di piazza Fontana. 14 Nel 1972 il bidello sembra disposto a parlare, ma gli uomini del Sid lo portano a Roma, in via Sicilia, dove ci sono gli uffici di una società cinematografica di copertura, la Turris, e lo interrogano fornendogli infine un passaporto falso con cui espatriare in Spagna. Ulteriore esempio è quello di Giovanni Ventura, altro uomo di Ordine nuovo coinvolto nella strage di piazza Fontana, che, a inizio 1972, detenuto, potrebbe non reggere alla detenzione e collaborare con la giustizia. Allora viene raggiunto da un agente del Sid che gli propone un piano di fuga dal carcere di Monza con tanto di chiavi che aprono le celle e due bombolette narcotizzanti da usare contro gli agenti di custodia. 15 C’è anche il caso del già citato Giannettini che, alla fine del 1972, sparisce, di nuovo con il supporto dei servizi, riparando in Francia, dove continua a percepire regolare compenso da parte del Sid. Insomma, una parte dei servizi segreti – ma anche delle forze dell’ordine – ha continuato a operare per far sì che la pista nera delle stragi fosse ignorata il più a lungo possibile. Si pensi ancora a piazza Fontana e a un episodio poco conosciuto ai più. A Padova, città centrale nella storia dell’eversione sino alla metà degli anni Settanta, la commessa di un negozio di borse confida al titolare, Fausto Giurati, un fatto inquietante. La borsa ritratta dai giornali dopo l’esplosione del 12 dicembre 1969 è identica alle quattro da lei stessa vendute due giorni prima. Il commerciante racconta tutto alle forze dell’ordine e poi non succede niente. Solo due anni più tardi nel suo negozio si presenta un maresciallo mandato dal giudice Stiz. Giurati sbotta: «Era anche ora che qualcuno venisse a chiedermi qualcosa». Fa una brutta fine un brigadiere di polizia che, in un’inchiesta su Avanguardia nazionale, scopre ad Aurisina, in provincia di Trieste, un deposito che, si saprà

più avanti, è un «nasco» di Gladio, cioè un nascondiglio di armi ed esplosivi a disposizione dei gruppi che fanno parte dell’esercito segreto d’ispirazione atlantica. È l’inizio del 1972 e il sottufficiale si chiama Nicola Pezzuto. Dopo

 

un’interrogazione parlamentare del Msi, Pezzuto viene ricoverato in un ospedale psichiatrico, con una diagnosi curiosa: mania di persecuzione fascista e logorrea irrefrenabile. Quando viene dimesso, reintegrato e promosso, si uccide sparandosi alla tempia. 16 Pezzuto, un atto della Commissione del 2001, vienestati ricordato accanto a uninaltro nome, quello di Pasqualestragi Juliano. I due sono accostati perché non hanno goduto della «conclamata protezione [fornita] ai depistatori», ma furono bersaglio della «simmetrica persecuzione contro gli agenti e funzionari leali nei confronti della Repubblica». 17 Per chiarire il ruolo di Juliano, occorre tornare al 15 aprile del 1965, quando esplode il già citato libro riempito di esplosivo nell’ufficio del rettore Opocher di Padova. Pasquale Juliano è un commissario di pubblica sicurezza che, a trentotto anni, è a capo della squadra mobile di Padova. Non spetterebbe a lui occuparsi di un reato a sfondo innegabilmente terroristico come questo, ma risulta più efficace dei funzionari dell’ufficio politico della questura. Infatti, nel giro di due mesi, Juliano ha compreso la minaccia costituita dai gruppi ordinovisti della città e ordina l’arresto di alcuni suoi esponenti. Peccato che, appena dopo, una serie di fatti distrugge la carriera del commissario: i neofascisti lo accusano di aver fabbricato le prove contro di loro, Juliano viene sospeso dal servizio e dallo stipendio e alla fine finisce sotto processo. Nel 1979, dieci anni dopo la strage di piazza Fontana, il funzionario viene assolto da tutte le accuse. Intanto, però, la violenza della strategia della tensione è proseguita e nessuno ha ascoltato l’appello che, nel settembre del 1969, Pasquale Juliano ha rivolto all’autorità giudiziaria: attenzione perché 18

«sono degli in attentati». Sinoimminenti al 1996, anno cui morirà, Pasquale Juliano, congedatosi dalla polizia e intrapresa la carriera di avvocato, continua a girare per procure e aule di corti d’assise per raccontare la carica eversiva di Ordine nuovo e delle formazioni nere che hanno operato contestualmente. In qualche modo, ha avuto un po’ più di fortuna del brigadiere Nicola Pezzuto e anche di un altro uomo dello Stato, che ha pagato con la vita. Quest’ultimo è Giorgio Manes, il generale dei carabinieri autore di un importante rapporto sul piano Solo del 1964. Il 15 giugno del 1969, per lui, è un giorno importante: deve deporre davanti alla Commissione parlamentare che si occupa dei fatti di cinque anni prima. Con sé ha la borsa con la sua relazione

integrale, senza omissis. omissis. Fatto  Fatto sta che, appena prima di raccontare la ricostruzione a cui ha lavorato, va alla buvette buvette della  della Camera dei deputati e muore d’infarto mentre beve un caffè. Neanche a dirlo, la sua borsa sparisce. 19

 

Dinamiche analoghe non sono mancate neanche per la strage di Brescia, quella avvenuta in piazza della Loggia. 20 Qui, il 28 maggio del 1974, esplode una bomba durante una manifestazione indetta dal Comitato permanente antifascista e dalle segreterie provinciali della Cgil, Cisl e Uil, e poco dopo viene lavata cancellando le prove dell’esplosione avvenuta. A dare la l’ordinela èpiazza, il vicequestore vicario Aniello Diamare e laappena decisione, presa perché piazza era un «macello», è stata definita dal giudice istruttore Gianpaolo Zorzi come una «congiura contro la verità». 21 Sono tanti gli episodi che si potrebbero citare ancora e ci limitiamo a quelli che chiamano in causa apparati dello Stato, neofascisti e addirittura uomini di partito. In un caso di quest’ultimo tipo, si è agito anche in anticipo: diciannove giorni prima della strage dell’ Italicus, avvenuta  Italicus, avvenuta il 4 agosto del 1974 sulla linea ferroviaria Firenze-Bologna e che provoca dodici morti e quarantotto feriti, trapela la notizia preventiva di un imminente attentato contro il treno Palatino, treno Palatino, in partenza dalla stazione Tiburtina di Roma. La matrice, prosegue la notizia raccolta dal segretario del Msi Giorgio Almirante e trasmessa alle autorità competenti, è di estrema sinistra. La fonte del politico, indirettamente, è un altro bidello, Francesco Sgrò, le cui dichiarazioni vengono raccolte da un avvocato missino, Aldo Basile, poi espulso dal partito. Ma il 12 agosto del 1974, otto giorni dopo la bomba dell’ Italicus, Sgrò  Italicus, Sgrò confessa che si è inventato tutto per denaro. 22 È l’ennesima prova della macchina del depistaggio, che dà una notizia corretta – l’attentato a un treno – ma mescola informazioni false e vere, il  Palatino al  Palatino  al posto dell’ Italicus, indirizzando  Italicus, indirizzando poi le responsabilità verso gli ambienti dell’extraparlamentarismo rosso, come nel caso di piazza Fontana, ma non solo, anche con spalla delVinciguerra, segretario delper Msi. Il nome Almirante tornerà nell’inconsapevole 1982, quando Vincenzo la strage di di Peteano, lo accuserà di aver favorito la fuga di un altro neofascista responsabile di quell’eccidio, dandogli trentacinquemila dollari. 23 La vicenda, per Almirante, si estingue per amnistia. 24 Perché mai i neofascisti si prestano a questo gioco – letteralmente – al massacro? I gruppi dell’extraparlamentarismo di destra accusano il Movimento sociale italiano di complicità con la Repubblica parlamentare e l’idea da cui muovono è che l’avanzata del comunismo debba essere arrestata dai militari con il supporto di leve civili opportunamente addestrate. Nella costruzione ideologica

dell’estrema destra stragista, il pensiero di riferimento è quello del filosofo ed esoterista francese René Guénon e di Julius Evola. Soprattutto il secondo parla di un concetto largamente condiviso, quello per cui «gli uomini del nuovo

 

schieramento saranno sì antiborghesi, ma per via di una superiore concezione eroica e aristocratica dell’esistenza». 25 Nel secondo dopoguerra l’influenza di Evola è stata notevole e per uno dei leader di Ordine nuovo, Clemente Graziani, il suo pensiero è il «vangelo politico 26 L’impostazione della nazional-rivoluzionaria». ’impostazione è quellafredda. di un’Europa un’ Europa come gioventù terza forza nello scacchiere bipolare  L congelato dalla Guerra Proprio in quest’ottica nasce Terza posizione, divenuta in seguito un serbatoio che alimenterà i gruppi appartenenti alla seconda generazione dell’eversione neofascista, come i Nar. Per raggiungere i loro obiettivi, gli stragisti sono dunque disposti a interloquire con gli apparati. Lo storico Aldo Giannuli, consulente di diverse procure, ne ha ricostruito gli incroci. 27 Inizia citando Rauti e prosegue con il suo segretario personale Armando Mortilla, la longeva «fonte Aristo» dei servizi. Tra gli ordinovisti legati agli apparati compaiono ancora, per limitarsi ai più celebri, Massimiliano Fachini, indagato per piazza Fontana e la stazione di Bologna e poi assolto, i colpevoli della strage di Brescia Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi, e altri «principi» neri del calibro di Delfo Zorzi, Marcello Soffiati e Nico Azzi, quest’ultimo del gruppo la Fenice di Milano. C’è poi un’altra realtà che si innesta su questo. È quella dei golpe che, nella prima metà degli anni Settanta, si sono succeduti chiamando in causa, per buona parte, ancora una volta gli stessi ambienti. Il 30 maggio del 1970, a Biumo di Varese, si riunisce una trentina di ex partigiani autonomi, quelli che non avevano fatto parte delle principali formazioni contro i nazifascisti. A organizzare l’incontro c’è il noto Edgardo Sogno, che dopo l’8 settembre del 1943 aderisce alla Resistenza e inizia a collaborare con i servizi segreti alleati. 28

Egli è tra icon primi ad caratteristiche auspicare la trasformazione in una presidenziale forti anticomuniste,dell’Italia e nel 1972, per ilRepubblica suo cosiddetto «golpe bianco», si apre un’istruttoria che si chiude a Roma con un proscioglimento perché il fatto non sussiste. Ma questo tentato progetto eversivo c’è stato o no? «Il segreto di Stato» si legge nella sentenza su Sogno «ha impedito al giudice di conoscere e verificare le notizie in possesso del Sid.» 29 Quella del golpe è una storia che rischia di ripetersi. A Roma, la sera del 7 dicembre 1970 inizia l’operazione Tora Tora. La scelta del nome e della data è un omaggio all’attacco giapponese contro gli Stati Uniti a Pearl Harbor, avvenuto nella stessa data del 1941. Alla guida c’è il principe Junio Valerio Borghese, già capo della X Mas durante la Repubblica di Salò. Dopo essere stato

brevemente presidente del Msi, nel 1968 Borghese fonda il Fronte nazionale. Gli obiettivi principali dell’operazione Tora Tora – ovvero golpe Borghese – sono il ministero della Difesa e dell’Interno, la Rai, le centrali telefoniche e dei telegrafi.

 

Risultano coinvolti esponenti di Ordine nuovo, Terza posizione, Avanguardia Avanguardia nazionale ed Europa e civiltà. La mafia siciliana, come sosterrà molto più avanti, tra gli altri, il pentito di Cosa Nostra Tommaso Buscetta, e la ’ndrangheta calabrese prestano la propria collaborazione. Sono presenti – come attesta anche la Commissione presieduta da Tina Anselmi – esponenti della P2, a iniziare da Licio parlamentare Gelli. Ma l’operazione Tora Tora viene interrotta. Arriva il contrordine, per alcuni determinato dal fatto che il golpe non doveva arrivare a conclusione, come nel caso del piano Solo, ma serviva solo allo scopo per il quale la strage di piazza Fontana aveva fallito, e cioè alla formazione di un governo autoritario. Il principe Borghese, per evitare l’arresto, ripara all’estero. E qui tornano in scena ancora una volta gli stessi personaggi che si rintracciano nelle carte giudiziarie delle stragi. Per i golpe, emergono i nomi del tenente colonnello Amos Spiazzi, di cui si dirà tra breve, chiamato in causa per gli apparati paramilitari e per le stragi e poi assolto, e il generale Vito Miceli del Sid. Quest’ultimo, indagato a Roma per favoreggiamento del golpe del 1970 e poi uscito indenne da quella vicenda, il 31 ottobre del 1974 viene arrestato su ordine del giudice di Padova Giovanni Tamburino, che lo accusa di aver organizzato un’altra struttura eversiva, la Rosa dei venti. Si tratta di un’organizzazione definita come espressione dei servizi segreti, in rapporto con ambienti della Nato e di cui fanno parte ufficiali in servizio e in congedo, estremisti di destra e imprenditori con ruolo di finanziatori. «L’obiettivo» si legge in uno dei proclami della Rosa dei venti «è abbattere gli sbruffoni politici, sindacali e governativi e tutti coloro che cooperano a sostegno dei camaleonti di questa putrida 30

 In seguito saràcontinuano comunqueaprosciolto. democrazia.» Tutto ciò avviene mentreMiceli in Italia esplodere bombe. Oltre a quelle già citate, solo per limitarsi alle più note, il 22 luglio del 1970 a Gioia Tauro un ordigno collocato sul direttissimo Palermo-Torino causa sei morti e sessantasei feriti sulla scia delle rivolte calabresi dei «boia chi molla» a cui partecipano elementi della ’ndrangheta e di Avanguardia nazionale. Il 17 maggio del 1973, invece, a Milano si consuma una strage davanti alla questura (quattro morti e cinquantadue feriti). Anche stavolta, come per piazza Fontana, c’è di mezzo un neofascista travestito da anarchico, Gianfranco Bertoli, che ha agito su impulso dell’ordinovista Carlo Digilio.

4. L’omicidio di Vittorio Vittorio Occorsio di Pierluigi Concutelli. Il 1977 

 

come anno spartiacque: tra spontaneismo armato, il mito di Concutelli e il carisma nascente di Fioravanti Già all’inizio del 1976 il controllo militare di Ordine nuovo – ormai formalmente disciolto ma sopravvissuto come gruppo clandestino – è saldamente nelle mani di Pierluigi Concutelli, il quale ben presto assume un’iniziativa che gli procurerà il favore di tutti gli ambienti della destra eversiva. Il 10 luglio di quell’anno Concutelli uccide a raffiche di mitra il sostituto procuratore romano Vittorio Occorsio, colui che aveva messo sotto processo Ordine nuovo e Avanguardia nazionale per ricostituzione del disciolto partito fascista, determinandone lo scioglimento. Nei mesi successivi Ordine nuovo, per ragioni impellenti di autofinanziamento, avvia un’attività di delinquenza comune che comprende la realizzazione di qualche sequestro di persona. A questo scopo il gruppo di Concutelli entra in contatto con la avviene malavitaalla milanese in particolare, con la banda di Renato Vallanzasca. Ciò fine die,gennaio del 1977, pochi giorni dopo che il bandito della Comasina ha portato a compimento il sequestro della giovane Emanuela Trapani riscuotendo un ricco riscatto. La riunione tra elementi della banda di Vallanzasca e appartenenti a Ordine nuovo si tiene presso lo studio dell’avvocato Giorgio Arcangeli – un fascista, ex legale di Stefano Delle Chiaie – con lo scopo di concordare un comune programma delittuoso, 31 cosa che non avrà alcun seguito, perché di lì a qualche giorno sia Concutelli sia Vallanzasca vengono arrestati. arr estati. Concutelli, fermato il 13 febbraio, viene trovato in possesso del mitra con il quale ha ucciso il giudice Occorsio. Per questo delitto sarà condannato all’ergastolo con sentenza definitiva. In un certo senso l’arresto di Concutelli fa sì che si possa riconoscere nel 1977 una cesura nella storia del terrorismo nero in Italia. Tanto più che il 1977 è anche l’anno in cui comincia a manifestarsi sulla scena, soprattutto romana, la nuova generazione dei giovani fascisti del cosiddetto «spontaneismo armato», che ben presto utilizzano le sigle Nar (Nuclei armati rivoluzionari) e Tp (Terza posizione) e di cui ci siamo già occupati nei capitoli precedenti. Sappiamo che dietro queste due sigle «si muoveranno gruppi diversi e mutevoli, che troveranno in Valerio Fioravanti un nuovo punto di riferimento carismatico sotto il profilo militare» 32 e che, come si è visto, vedranno in Pierluigi Concutelli un mito da

idealizzare e un eroe da vendicare.

 

XIV I prodromi della strage maggiore e l’assassinio del giudice Mario Amato

1. I Nar e Tp dalla fine del 1977 ai primi mesi del 1980. Il tragico destino del giovane Antonio Leandri Il gruppo originario dei Nuclei armati rivoluzionari nasce alla fine del 1977 a Roma, attorno alla sede del Movimento sociale italiano del rione Monteverde, su iniziativa dei fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti e del loro camerata Alessandro Alibrandi, figlio del noto giudice istruttore romano Antonio Alibrandi. 1 Subito dopo le prime azioni si unisce a loro anche Francesca Mambro. La prima azione di rilievo del gruppo avviene a Roma il 28 febbraio del 1978, quando i due fratelli Fioravanti, Alibrandi e alcuni altri camerati tendono un agguato a un piccolo gruppo di militanti comunisti e uccidono l’operaio Roberto Scialabba. Seguono, nel corso del 1978 e lungo l’arco del 1979, altre azioni tra cui la rapina a un’armeria, l’assalto alla sede romana di Radio città futura e quello alla sezione del Pci dell’Esquilino. Terza posizione nasce invece nel 1978 su iniziativa di tre attivisti neofascisti romani, Gabriele Adinolfi, Giuseppe Dimitri e Roberto Fiore, ma già nel 1979 la voglia di alzare il livello dello scontro con i rappresentanti dello Stato porta diversi dei suoi membri, come Giorgio Vale, Stefano Soderini, Pasquale Belsito e il giovanissimo Luigi Ciavardini a sdoppiare la propria militanza e, pur mantenendo la propria adesione a Tp, a unirsi ai Nar di Valerio Fioravanti nel loro progetto di lotta armata. 2

Si arriva così agli ultimi mesi quando un gruppo congiunto di militanti di Terza posizione e dei del Nar1979, pianifica un agguato ai danni dell’avvocato Giorgio Arcangeli, colui che era stato il tramite degli incontri romani di fine

 

gennaio 1977 tra Concutelli e Vallanzasca e che i Nar e Tp accusano di essere la spia che ha fatto arrestare il loro leggendario Concutelli. È proprio Valerio Fioravanti a farsi carico di eseguire la condanna a morte del legale, il 17 dicembre. Sbaglia però l’obiettivo e, al posto del legale, uccide un giovane passante, Antonio Leandri, scambiandolo per Arcangeli. Per l’omicidio 3 Giusva Fioravanti sarà condannato all’ergastolo con sentenza definitiva.Leandri, Subito dopo l’omicidio, Fioravanti fugge in Veneto e raggiunge il suo nuovo camerata Gilberto Cavallini, un neofascista milanese conosciuto poco tempo prima, gravitante nell’orbita ordinovista di Massimiliano Fachini e aduso a fare la spola tra Roma e il Veneto. Come si è visto in precedenza, tre settimane più tardi sono entrambi – Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini – a Palermo insieme con Francesca Mambro e in compagnia di Francesco Mangiameli. Il 6 gennaio del 1980, come sappiamo, viene ucciso Piersanti Mattarella. Un mese dopo, il 6 febbraio, Valerio Fioravanti è di nuovo a Roma dove, insieme con Giorgio Vale, uccide il poliziotto diciannovenne Maurizio Arnesano per disarmarlo e impadronirsi del suo mitra. Il 30 marzo Giusva Fioravanti è a Padova, insieme con Cavallini e Mambro: i tre assaltano il distretto militare, feriscono un sottufficiale e si impadroniscono di un cospicuo bottino di armi tra cui quattro mitragliatrici e cinque fucili automatici. Fioravanti, Cavallini e la Mambro approdano poi nuovamente a Roma, dove il 28 maggio, insieme con Giorgio Vale e Luigi Ciavardini, quest’ultimo appena diciassettenne, aggrediscono e tentano di disarmare alcuni poliziotti in servizio di vigilanza davanti a un liceo, sennonché la reazione degli agenti scatena un conflitto a fuoco, che si conclude con l’uccisione dell’appuntato Francesco Evangelista. Neanche un mese dopo uccideranno Mario Amato, il pubblico ministero romano che aveva ereditato tutti i procedimenti di terrorismo nero che erano in carico a Vittorio Occorsio.

2. La solitudine e la morte annunciata del sostituto pr procurator ocuratoree Mario mato a Roma

Quando Mario Amato prende servizio presso la Procura della Repubblica di Roma, nel luglio del 1977, non ha ancora quarant’anni. Ben presto si trova a essere l’unico magistrato della Procura a doversi occupare di eversione di destra,

 

per la decisione irresponsabile del procuratore, Giovanni De Matteo, di affidare esclusivamente a lui tutti i procedimenti di quel tipo rimasti senza magistrato affidatario. Mario Amato si rende conto che, essendo lui il solo a conoscere i risultati delle investigazioni destra eversivaper romana, la sua oggetto eliminazione rappresenterebbe unsulla enorme vantaggio i neofascisti di indagine. Chiede ripetutamente e per iscritto al procuratore di essere affiancato da altri colleghi nelle indagini condotte in solitudine. Invano. Chiede di essere protetto. Invano. Si rivolge inutilmente anche al Consiglio superiore della magistratura, dove rende la sua testimonianza il 25 marzo del 1980: «Recentemente ho molto insistito per avere un aiuto, sia perché sono stato bersagliato da accuse e denunce, in quanto vengo visto come la persona che vuole “creare” il terrorismo nero, sia perché le personalizzazioni tornano a discapito dello stesso ufficio». Si rivolge nuovamente al Csm il 13 giugno, dieci giorni prima di essere ucciso, stavolta con un accorato appello che va al di là delle preoccupazioni per la sua posizione personale, quasi una commovente orazione civile: Vi sono un sacco di ragazzi o addirittura ragazzini, che sono come i miei o i vostri figli, […] che vengono armati o comunque istigati ad armarsi e che poi ci troviamo che ammazzano. Ne troviamo con armi, con silenziatori, o colti nel momento in cui stanno ammazzando. Si tratta quindi di un fenomeno grave anche sotto questo profilo che non può essere trascurato, perché il problema non si può risolvere prendendo i ragazzini e mettendoli in galera, […] teniamo presente il gravissimo danno sociale di questa massa di giovani che vengono travolti da vicende di questo tipo. Si tratta di un danno che noi pagheremo. Sono tutte questioni che da troppo tempo sto macerando e che mi hanno messo in difficoltà e, non vi nascondo, mi hanno un po’ traumatizza traumatizzato. to. 4

La mattina di lunedì giugno 1980, a Roma, fascistimentre, dei Narsolo uccidono con un colpo di revolver alla23 nuca il magistrato Mario iAmato e indifeso, sta aspettando un autobus per recarsi in ufficio. Il processo di primo grado si svolge davanti alla Corte d’assise di Bologna e si conclude con la sentenza –  definitiva – del 5 aprile 1984, che condanna all’ergastolo Gilberto Cavallini (esecutore materiale del delitto), Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Luigi Ciavardini, minorenne, che ha accompagnato Cavallini in moto sul luogo del delitto, viene condannato a dieci anni e sei mesi di reclusione. Nel corso del dibattimento, Cavallini, Fioravanti e la Mambro ammettono l’addebito, o meglio, rivendicano spavaldamente l’omicidio.

Cavallini: «Ammetto l addebito, ammetto i fatti così come mi sono stati contestati […]. La decisione di uccidere Amato fu presa da me [e] dal Fioravanti […]. Il giudice Amato era particolarmente odiato nell’ambiente di destra e fu per

 

questo che fu presa la decisione». Fioravanti: «Confermo quanto dichiarato dal Cavallini. Io sono stato uno di coloro che hanno pensato e deciso l’uccisione di Amato […]. La Mambro partecipava ed era a conoscenza delle decisioni». Mambro: «Rivendico il mio ruolodell’obiettivo attivo all’interno del movimento, rivendico l’omicidio Amato, ero a conoscenza politico-militare dell’omicidio». 5 Quanto al procuratore Giovanni De Matteo, questi viene incriminato a Perugia per omissione di atti d’ufficio per avere colpevolmente mancato di assicurare protezione al suo sostituto. Tuttavia la gestione di quel procedimento da parte della Procura generale perugina sarà scandalosamente lacunosa e il procuratore De Matteo non subirà nessuna sanzione per il suo inaccettabile comportamento. 6

 

XV 2 agosto 1980: l’eccidio della stazione di Bologna

1. La notizia della strage Così apre il telegiornale della terza rete Rai poco dopo l’orribile attentato del 2 agostosi 1980: Qui Bologna, vi parliamo da una città in lutto, ferita da una delle più immani tragedie che abbiano colpito questo nostro paese in questo dopoguerra. Erano le 10.25 questa mattina quando una terrificante esplosione ha distrutto l’ala sinistra della stazione ferroviaria di Bologna. L’ala sinistra della stazione di Bologna è quella che ospitava le sale di aspetto di prima e seconda classe e la tavola calda. Raramente un verbo è stato adoperato all’imperfetto tanto pertinentemente: questi locali non esistono più e le macerie hanno travolto decine e decine di persone. I soccorritori accorsi immediatamente, vigili del fuoco, militari, volontari… poi i medici sono stati richiamati da ogni parte… hanno cominciato a estrarre, lavorando tra le rovine, il fumo, la polvere, in una situazione se non di panico certamente di dramma per le migliaia di viaggiatori che affollavano i marciapiedi, i binari, i sottopassaggi, la piazza antistante, e in una temperatura da estate d’eccezione, hanno cominciato a estrarre morti e feriti. Al momento i morti dissepolti sono una ottantina, i feriti circa duecento.

2. Una vicenda giudiziaria lunga e tormentata In sede giudiziaria, al termine di una serie di processi che si susseguiranno sino al 2007, gli unici imputati riconosciuti responsabili come autori materiali della strage alla stazione di Bologna (oltre che responsabili del delitto di banda armata) saranno Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e il giovane Luigi Ciavardini, ancora diciassettenne ai tempi della strage. I primi due saranno

condannati all’ergastolo, il terzo trent’annidegli di reclusione. Il processo di primo grado neiaconfronti imputati maggiorenni inizia davanti alla Corte d’assise di Bologna il 19 gennaio del 1987. Le persone

 

rinviate a giudizio con l’accusa di concorso nei delitti di strage e omicidio plurimo sono sei, ma nel corso dell’iter processuale quattro di questi imputati saranno assolti da quei delitti per insufficienza di prove. 1 Il processo di primo grado si chiude con la sentenza dell’11 luglio 1988. È appunto questa la sentenza che condanna all’ergastolo la coppia Fioravanti e Mambro, pena che diventerà definitiva nel 1995. Questa sentenza contempla anche i gravi depistaggi delle indagini sulla strage, gestiti da uomini dei servizi segreti controllati dalla loggia P2. In questo contesto vengono condannati, per il delitto di calunnia pluriaggravata, Licio Gelli, Francesco Pazienza, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. Anche questa condanna diventerà definitiva nel 1995, ma di ciò si dirà nel capitolo seguente. Il processo d’appello sulla sentenza del 1988 viene avviato nell’ottobre del 1989 e si conclude il 18 luglio del 1990 con una sorprendente sentenza di assoluzione pressoché totale. Tuttavia, il 12 febbraio del 1992, le sezioni unite penali della Corte di cassazione annullano quest’ultima sentenza perché ritenuta totalmente priva di coerenza logica. Il nuovo processo d’appello inizia nell’ottobre del 1993 e arriva a sentenza il 16 maggio del 1994, con la conferma, in massima parte, di quanto aveva stabilito la sentenza di primo grado. La sentenza definitiva arriva il 22 novembre del 1995, quando le sezioni unite penali della Corte di cassazione confermano la seconda sentenza d’appello, rendendo irrevocabile la condanna di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. Fioravant i. Quanto all’imputato minorenne Luigi Ciavardini, la sentenza di primo grado del Tribunale per i minorenni di Bologna, del 30 gennaio 2000, lo condanna solo per il reato di banda armata assolvendolo dall’accusa di strage e omicidio plurimo. sentenza d’appello, il 9 marzo del 2002, dichiara invece colpevoleLa anche per quei delitti eemessa lo condanna a trent’anni di lo reclusione. Il verdetto viene annullato l’anno successivo dalla Cassazione (sentenza del 17 dicembre 2003), che pone ai giudici di merito alcuni quesiti attraverso cui definire meglio la partecipazione dell’imputato all’esecuzione della strage. Il secondo appello inizia il 29 novembre del 2004 e si conclude con la sentenza del 13 dicembre 2004, stabilendo che anche Luigi Ciavardini è uno degli esecutori della strage e ribadendo la sua condanna a trent’anni di reclusione. Quest’ultima sentenza diventerà definitiva l’11 aprile del 2007, quando la Corte di cassazione dichiarerà inammissibile il ricorso presentato dai legali dell’imputato. 2

 3. Le anticipazioni di Luigi Vettor Vettoree Pr Presilio esilio

 

Pochi giorni dopo la strage, il 6 agosto, arriva al procuratore della Repubblica di Bologna una prima segnalazione di un certo rilievo da parte del giudice di sorveglianza di Padova, Giovanni Tamburino. Secondo questa segnalazione, circa tre settimane prima della strage di Bologna, precisamente il 10 luglio, un detenuto di quel carcere, tale Luigi Vettore Presilio, ha riferito al giudice di sorveglianza Tamburino che un suo compagno di detenzione, esponente di un’organizzazione di estrema destra, gli aveva parlato di un progetto di attentato omicida ai danni del giudice Giancarlo Stiz di Treviso. L’attentato avrebbe dovuto compiersi di lì a poco con un’Alfetta truccata da autovettura dei carabinieri e da uomini travestiti con divise dell’Arma. Non solo. L’omicidio del giudice Stiz sarebbe stato preceduto da un altro attentato a opera della medesima organizzazione, di eccezionale gravità, tanto che avrebbe «riempito le pagine dei giornali». Nella serata dello stesso 6 agosto Vettore Presilio conferma le sue dichiarazioni al pm di Bologna e dopo qualche giorno rivela che il detenuto autore della rivelazione fattagli è Roberto Rinani, personaggio della destra eversiva che mantiene assidui contatti con la cellula veneta già facente capo a Franco Freda e Giovanni Ventura, di cui all’epoca era principale esponente Massimiliano Fachini. 3 Qualche mese dopo, il 13 novembre del 1980, Luigi Vettore Presilio viene sentito anche dal giudice istruttore e ribadisce le dichiarazioni già rese, con qualche particolare in più: In effetti agli inizi dell’estate, giugno-luglio 1980, si costituì in carcere un certo Rinani, da me conosciuto come estremista di destra. Poiché anch’io ho fatto parte della sezione del Msi dell’Arcella e sono stato un attivista politico, avendo possibilità di muovermi agevolmente all’interno del carcere quantomilavorante in lavanderia, ebbi modo di parlare con il suddetto Rinani, il quale pure daintempo conosceva. Si parlò così del più e del meno e lui mi accennò di essersi costituito perché contava di avere al più presto la libertà provvisoria. Col passare dei giorni Rinani appariva sempre più scosso e nervoso poiché quanto gli era stato promesso dall’avvocato, cioè una pronta liberazione, non si verificava […]. Ciò spiega perché il Rinani, forse in un momento di crisi, si sia lasciato andare ad affermazioni affermaz ioni e confidenze nei miei confronti riguardanti cose così compromettenti che io non ne avrei parlato nemmeno a un mio familiare. Ripeto alla s.v. quello che appresi dal Rinani. Egli mi disse che era rimasto sempre in contatto con l’ambiente dell’estrema destra padovana e in particolare con la cellula veneta già facente capo a Freda e V Ventura entura e di cui è attualmente principale esponente a Padova Fachini Massimiliano. Commentando poi il fatto che era stato fissato il processo d’appello per la strage di Catanzaro mi disse che tuttavia Stiz non avrebbe avuto il piacere di conoscere l’esito del processo e, alla mia domanda di spiegarmi perché, disse

che stavano preparando un attentato nei confronti del suddetto magistrato. […] Rinani mi precisò che in realtà l’attentato sarebbe stato fatto da persone travisate da carabinieri a bordo di una macchina camuffata che era già in corso di preparazione presso una carrozzeria. Alcuni giorni dopo questa confidenza, mi pare una settimana dopo, incontrai nuovamente Rinani […]. Era completamente sconvolto […]. Secondo lui non vi era motivo perché la libertà

 

provvisoria non gli fosse concessa […] e, furente per la situazione in cui si trovava, mi disse che pensava che la colpa poteva essere […] del giudice che aveva il suo processo. E dopo aver pronunciato diverse bestemmie disse più o meno testualmente la seguente frase: «Potranno pure trattenermi in galera, ma vedrai che nella prima settimana di agosto succederà qualche cosa di grosso di cui parlerà l’opinione pubblica nazionale e mondiale e allora ne rideremo insieme». 4

Ricordo benissimo la frase «ne rideremo insieme», perché mi è rimasta impressa.

4. Le rivelazioni di Massimo Sparti Massimo Sparti è un pregiudicato romano legato alla Banda della Magliana. La sua specialità è la falsificazione di documenti, o meglio, il traffico di documenti materialmente contraffatti da suoi collaboratori. Viene arrestato il 9 aprile del 1981, a Roma, nell’ambito di un procedimento penale per associazione sovversiva. Sin dal primo interrogatorio, che si svolge l’11 aprile del 1981, Sparti decide di collaborare con la giustizia, parla dei suoi rapporti con diversi personaggi della destra eversiva, tra cui Valerio Fioravanti, e diventa il principale accusatore di quest’ultimo e della sua compagna Francesca Mambro, che indica come esecutori della strage di Bologna. In particolare, Sparti riferisce al pm di Roma quanto segue: Due giorni dopo la strage di Bologna […] V Valerio alerio si presentò a casa mia con la Mambro, che io non conoscevo, e mi parlò di questa in termini elogiativi dicendo che aveva trovato la donna della sua vita e che si trattava di una ragazza decisa e coraggiosa. […] Riferendosi alla strage mi disse testualmente: «Hai visto che botto» e aggiunse che a Bologna si era vestito in modo da sembrare un turista tedesco, mentre la Mambro poteva esser stata notata per cui aveva bisogno urgentissimo di documenti falsi e le aveva anche fatto tingere i capelli. Pretendeva che in giornata gli facessi avere unache patente e una carta d’identità di cui miFeci fornìpresente le generalità ma non i di numeri, per cui presumo si trattasse di generalità inventate. l’impossibilità procurare documenti in giornata e Valerio si infuriò dicendomi che dovevo spezzarmi ma darglieli in fretta. In questa occasione io, spaventato dalla enormità della cosa, lo pregai di non parlarmi neppure di queste cose, lui replicò che io dovevo comunque stare zitto in quanto se a lui fosse successo qualcosa ci sarebbe stato qualcuno che me l’avrebbe fatta pagare e aggiunse precisamente «T «Tee lo faccio piangere io Stefanino tuo» alludendo a mio figlio. Riuscii a procurarg procurargli li […] i documenti per il giorno dopo e lui venne a ritirarli verso le dieci di mattina a casa mia, dicendomi che doveva andare in Sicilia con la Mambro. 5

Sparti, sentito successivamente come testimone dal giudice istruttore di Bologna, conferma le dichiarazioni già rese al pm di Roma e precisa che, dopo la visita di Fioravanti del 4 agosto 1980, lui è andato immediatamente da Fausto De Vecchi,

suo abituale fornitore di documenti contraffatti, gli ha consegnato le due foto della Mambro che Fioravanti gli aveva dato ed è riuscito a ottenere i due documenti per la ragazza nelle prime ore del mattino seguente. Sparti aggiunge

 

che il falsificatore materiale dei documenti non era personalmente il De Vecchi, ma un falsario di sua fiducia, Mario Ginesi, che lui aveva visto spesso nel garage di De Vecchi, Vecchi, intento a falsificare targhe: «De Vecchi Vecchi mi ha sempre detto di essersi rivolto per le falsificazioni al Ginesi […]. È innegabile però il fatto che io ho sempre pagato nelle mani del De Vecchi e che in nessuna occasione ho ricevuto documenti falsi dal Ginesi». 6 Fausto De Vecchi viene a sua volta sentito dal magistrato e conferma di aver fornito i documenti allo Sparti in una data che poteva coincidere con i primi giorni d’agosto. Aggiunge che i documenti erano due e che due erano le foto che Sparti gli aveva consegnato. Successivamente, essendovi incertezza tra i due circa il sesso della persona effigiata sulle due foto, si procede a un confronto tra Sparti e De Vecchi, il quale afferma infine di non poter escludere «che le foto consegnatemi da Sparti e i relativi documenti fossero per una donna». Sulla base delle prime dichiarazioni di Massimo Sparti, si risale dunque a Mario Ginesi quale possibile falsificatore materiale dei documenti, ma la circostanza risulta essere frutto di un equivoco che si chiarisce mettendo di nuovo a confronto Sparti, De Vecchi Vecchi e Ginesi. In effetti il De Vecchi, Vecchi, nuovamente sentito dal magistrato il 17 giugno del 1983, dichiara che a fornirgli i documenti in questione era stato, in quel caso, non Mario Ginesi, bensì Giuseppe Carlostella, detto Zibibbo, che Ginesi gli aveva presentato in precedenza come possibile suo sostituto. Dal canto suo Giuseppe Carlostella, pure sentito dal magistrato, conferma di avere svolto attività di falsificatore e dichiara di non poter escludere d’aver fornito due documenti al De Vecchi. 7 Sia Valerio Fioravanti sia Francesca Mambro riconoscono di essersi trovati a Roma nei giorni 4 e 5 agosto 1980, per organizzare il giorno 4 e compiere il giorno 5 una rapina all’armeria Fabrini di piazza Menenio Agrippa. D’altro canto Francesca Mambro, interrogata dal giudice istruttore di Bologna, ammette espressamente che lei e Fioravanti si sono rivolti a Massimo Sparti per ottenere due documenti falsi, ma sostenendo che essi erano destinati non a lei, bensì ad altri. 8 Sta di fatto, tuttavia, e risulta documentato, che Francesca Mambro, mentre nei giorni precedenti alla strage non aveva alcun motivo per tenere celate le proprie generalità (così da pernottare il 14 luglio all’hotel Politeama di Palermo esibendo un documento autentico), dopo la strage di Bologna aveva invece buoni motivi per tenerle celate. Infatti, la notte fra il 4 e il 5 agosto la Mambro ha passato la notte a Roma con Fioravanti in una casa

privata (quella di Stefano Soderini), mentre la notte fra il 5 e il 6 agosto ha pernottato con Fioravanti all’hotel Cicerone di Roma, esibendo per la prima volta un documento falso a nome Caggiula. Documento di cui evidentemente

 

non disponeva la notte precedente. 9 Ed ecco come conclude sul punto la sentenza della Corte d’appello di Bologna del 1994: È facile, a questo punto, rilevare che il racconto dello Sparti – secondo cui egli ricevette la richiesta il giorno 4, ma fu in grado di consegnare il documento solo la mattina del 5 – collima perfettamente con l’accertato comportamento tenuto dall’imputata il 4 e 5 agosto. Invero, la Mambro scelse di trascorrere la notte del 4 nella casa di un amico (dove, ovviamente, non doveva mostrare alcun documento) e si fidò ad andare in un albergo (ove era necessar necessario io esibire una carta di identità) solo la notte del 5, una volta acquisito il documento falso. Il comportamento tenuto dall’imputata il 4 e il 5 agosto rappresenta, allora, un riscontro – l’ennesimo – delle dichiarazioni di Sparti. Nello stesso tempo, la circostanza della avvenuta richiesta di documenti si configura come un dato che è in nesso causale diretto, sia logico sia temporale, con la necessità di sfuggire alle ricerche per la strage. Si tratta, all’evidenza, di un elemento indiziario autonomo e ulteriore rispetto a quello che scaturisce dalle ammissioni e dalle allusioni del Fioravanti riferite da Sparti. 10

5. La telefonata di Ciavardini, il «baratto» e la girandola degli alibi Gli elementi a carico dei tre esponenti dei Nar non si limitano a quanto raccontato sino a qui. A questi si aggiunge una telefonata che Luigi Ciavardini fece alla fidanzata, Elena Venditti, che il 1° agosto del 1980 avrebbe dovuto prendere il treno da Roma a Venezia insieme a un’amica e al compagno di quest’ultima. In quei giorni, Ciavardini si trovava in provincia di Treviso con la Mambro e Fioravanti e, dalla fine di luglio, i tre alloggiavano in una casa messa a disposizione da Gilberto Cavallini, anche lui presente. Il neofascista minorenne avvertì la ragazza di non partire sino al 3 agosto, giorno in cui la coppia in effetti si riunì anon Venezia. ragionedirettamente era vaga, presunte telefono, peraltro avendoLaparlato con lei, difficoltà ma con loche, zio al della sua amica, Ciavardini non chiarì. Quando venne arrestato, affermò che quelle difficoltà erano legate al reperimento di documenti falsi. Ma in realtà lui i documenti falsi – e utilizzabili  – li aveva. Uno lo «bruciò» «bruci ò» solo tra il 4 e il 5 agosto, dopo un pi piccolo ccolo incidente stradale avuto a Treviso, 11 mentre una patente di guida contraffatta fu in suo possesso dall’inizio della latitanza sino al momento dell’arresto. 12 Nei giorni successivi alla strage Valerio Fioravanti si innervosì molto con Ciavardini, perché aveva riferito «alcuni particolari» di troppo a Elena Venditti. 13

 Inoltre il giovane aveva trasgredito agli ordini: dopo la strage, gli era stato intimato di rimanere nascosto in Veneto, mentre lui, il 6 agosto, era tornato a Roma incontrando alla stazione Termini, per un caso poco fortunato, un paio di suoi sodali, tra cui Gilberto Cavallini. Per queste ragioni – disse Valerio

 

Fioravanti al fratello Cristiano – Luigi andava punito, non escludendo la sua eliminazione fisica, perché aveva commesso troppi errori e ormai era considerato una «mina vagante». 14 Oltre al fratello Cristiano, hanno confermato il progetto di Fioravanti di uccidere Ciavardini sia Elena Venditti sia lo stesso Ciavardini. Il quale, indubbiamente preoccupato, reagì però in modo tale da rendere palese che era in grado di difendersi e che aveva amici pronti ad affiancarlo. Così, quando a metà settembre del 1980 venne convocato dai suoi camerati, si presentò con amici armati e pronti a reagire a un’eventuale aggressione. 15 È evidente, del resto, che l’intenzione di uccidere Ciavardini non poteva essere dovuta semplicemente alla circostanza dell’ordine trasgredito. In realtà, come si legge nella sentenza d’appello del 1994, il movente era un altro: «Ciavardini, essendo a conoscenza di cose che riguardavano un delitto gravissimo come la strage, aveva dimostrato di essere un inaffidabile chiacchierone e, quindi, un uomo irrimediabilmente pericoloso […] per gli autori del crimine medesimo». 16 Ciò nonostante Fioravanti si convinse, dopo la reazione di Ciavardini, che era opportuno soprassedere all’omicidio e trovare una strada alternativa e meno cruenta per cercare di renderlo meno pericoloso. Ed ecco la soluzione, come la si legge ancora nella stessa sentenza d’appello: L’effica ’efficace ce alternativa si risolse in una sorta di baratto, che si articolava nei termini seguenti: «Tu, Ciavardini, taci su quello che sai circa la strage di Bologna e noi – Fioravanti e soci – copriamo la tua responsabilità in ordine all’omicidio Amato». In proposito, va notato che la partecipazione del Ciavardini a quest’ultimo delitto sarà effettivamente sempre negata dai fratelli Fioravanti, dalla Mambro e dal Cavallini e solo i «pentimenti» di Soderini nel 1986 e di Cristiano Fioravanti nel 1987 apriranno una breccia nel muro di dinieghi opposto dal gruppo. 17

Dove dichiarato di trovarsi i treFrancesca neofascistiMambro, alle 10.25 2 agosto quandohanno a Bologna la bomba esplose? findel dalle prime 1980, dichiarazioni, disse di aver trascorso quella giornata a Padova con Valerio Fioravanti, ma non seppe fornire indicazioni precise sul mezzo utilizzato per arrivare in quella città. Il suo futuro marito, invece, affermò che erano a Treviso, sempre insieme, e solo anni dopo si sarebbe omologato alle parole della donna. Le loro versioni differivano anche sulla presenza di Ciavardini: secondo lei c’era; secondo lui, al contrario, era assente. Non più affidabili furono le parole del neofascista minorenne, che in un primo momento disse di essere stato a Palermo, a casa di Francesco Mangiameli,

e poi si corresse spostando la sua presenza a Padova. Solo più avanti, nell’interrogatorio del 24 ottobre 1984, confermò Padova e aggiunse i nomi di chi era con lui: oltre alla Mambro e a Fioravanti, c’era anche Gilberto Cavallini, il quale confermò soltanto dopo aver prospettato un tortuoso percorso nel

 

ricordare gli spostamenti di quel giorno. Di fatto, sarebbe stato rilevato dai giudici, si era di fronte a un «allineamento progressivo» delle versioni degli imputati che «si era verificato nella fase conclusiva del processo, quando, per esplicita ammissione dei protagonisti della vicenda, nel corso di un colloquio, era stata messa a punto la ricostruzione di quanto era avvenuto» 18 il giorno della strage. Poi ci sono gli spostamenti successivi all’eccidio alla stazione. Dopo la tappa a Roma per procurarsi i documenti falsi, già raccontata in questo capitolo, Fioravanti dice di avere proseguito in treno per Taranto. La Mambro afferma invece che, insieme al suo uomo, erano tornati nel Nordest, di nuovo a Treviso. Solo in un secondo tempo, di nuovo, allineano le versioni a quella di lui, senza riuscire a spiegare un errore di quella portata nei ricordi di quei giorni. La sentenza d’appello del 1994 conclude la sua analisi sugli alibi sostenendo che «gli elementi qui esaminati sono indicativi di una costruzione artificiosa che integra gli estremi dell’alibi falso»; 19 e trae questa conclusione ricollegandosi alla singolare dichiarazione fatta da Fioravanti a proposito della rapina che lui, la Mambro e Cavallini decisero di compiere a Roma, in piazza Menenio Agrippa, tre giorni dopo la strage di Bologna: Poiché la strage di Bologna era stata attribuita […] ai Nar, […] io e Cavallini e Francesca pensammo fosse necessario dimostrare a tutti che la strage era un’azione che esulava […] dal tipo di attività attribuibile ai Nar Nar.. Pensammo che era […] indispensabile compiere un’azione che rientrasse nella linea classica dei Nar […]. Così organizzammo la rapina. 20

Ecco che cosa scrivono in proposito i giudici d’appello: Da ultimo, gli imputati hanno utilizzato la rapina del 5 agosto, da loro effettivamente commessa, per costruire una sottile quanto contorta tesi con cui hanno preteso di accreditare la rapina medesima di un valore simbolico che dovrebbe essere inequivocabile nel senso di dimostrare la incompatibilità di quel delitto con la strage. Ebbene, si è visto che tale pretesa univocità è totalmente insussistente e che lo scopo accampato, che necessariamente si sarebbe potuto conseguire solo attraverso una chiara rivendicazione, rivendicazione, è stato smentito dai fatti nel suo stesso 21 presupposto.

Come dire che, se i tre neofascisti fossero innocenti, avendo essi saputo subito della strage di Bologna e avendo temuto subito di poter finire tra gli indiziati, avrebbero conservato una memoria granitica di ciò che avevano fatto a ridosso dell’attentato.

6. L’omicidio di Francesco Mangiameli

 

Prima di approdare nel Trevigiano alla fine del luglio 1980, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro erano tornati verso la metà di luglio in Sicilia. Qui erano stati ospiti per una quindicina di giorni del leader palermitano di Terza posizione, Francesco «Ciccio» Mangiameli, alloggiando nella casa di quest’ultimo a Tre Fontane, una località balneare a un’ora e mezzo di auto da Palermo. Tra Fioravanti e Mangiameli c’erano da tempo rapporti di proficua collaborazione, la cui esistenza era dimostrata dal fatto che sia Fioravanti sia la Mambro, durante il soggiorno siciliano, erano latitanti. Dunque, essendo ricercati, non si sarebbero messi per due settimane nelle mani di qualcuno di cui diffidavano. Quando il 30 luglio i due neofascisti lasciarono Tre Fontane per spostarsi in Veneto, il legame con Mangiameli era ancora saldo. Ma pochi giorni dopo la strage accadde un fatto nuovo: il 18 agosto del 1980 il colonnello Amos Spiazzi, incaricato dal Sisde di indagare e riferire sui movimenti all’interno della galassia dell’estremismo nero, aveva parlato di un tale Ciccio in un’intervista rilasciata al settimanale «l’Espresso». Dall’intervista traspariva che Ciccio, cioè Francesco Mangiameli, era probabilmente un confidente del colonnello e che quindi «era pericolosamente disponibile a parlare di cose concernenti il terrorismo di cui era a conoscenza». 22 Il neofascista siciliano rimase sconvolto leggendo quell’intervista e ne parlò con la moglie, Rosaria Amico, manifestando il proprio disappunto. «Questi mi vogliono incastrare» le disse. 23 Era preoccupato per la sua incolumità e temeva anche per quella della consorte, presente a Tre Fontane durante i giorni di luglio 1980, cioè proprio quando si stava concludendo la preparazione di quanto sarebbe avvenuto a Bologna poco più tardi. Così Mangiameli da casa sua fuggendo Ciavardini, cui aveva datodiriparo dopo la strage, e prese con cacciò sé moglie e figlia in aUmbria, a casa una sua vecchia conoscenza. Lo fece perché ormai aveva preso coscienza di una decisione di Fioravanti risalente alla seconda metà di agosto: Mangiameli andava tolto di mezzo. La fuga di Mangiameli non gli salvò la vita. La sua esecuzione avvenne il 9 settembre del 1980, presenti i fratelli Fioravanti, Francesca Mambro, Giorgio Vale e Dario Mariani, tutti rei confessi e condannati con sentenza definitiva. 24 Il movente, cercò di sostenere il capo dei Nar nei suoi interrogatori, era da attribuire al fatto che Mangiameli avrebbe sottratto fondi destinati all’evasione di

Pierluigi Concutelli. Questa affermazione è però chiaramente insostenibile. Infatti, Cristiano Fioravanti ha dichiarato ai magistrati che suo fratello «riteneva ugualmente necessario procedere alla soppressione anche della moglie e della figlia del

 

Mangiameli. E […] si deve arguire che, durante le due settimane trascorse da Fioravanti e dalla Mambro a Tre Fontane, la moglie e la bambina siano state, quanto meno, presenti a colloqui o a incontri da cui era facile risalire alla imminente strage. Solo così può spiegarsi una determinazione omicida […] che, riguardata sotto qualsiasi altro profilo, appare del tutto inspiegabile e gratuita». Del resto, tre giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Mangiameli –  zavorrato e gettato nelle acque del bacino artificiale di Tor De’ Cenci, a Roma, da cui riemerse l’11 settembre – i militanti siciliani di Terza posizione avevano reagito alla notizia dell’omicidio del loro camerata con una dichiarazione precisa, riportata da un volantino: «L’ignobile strage di Bologna, che tanto da vicino ricorda… quelle di piazza Fontana, di Brescia, di Peteano, del treno  Italicus, ha  Italicus,  ha forse fatto la sua ottantacinquesima vittima?». 25 L’aver zavorrato il cadavere, chiaro segno che il delitto doveva restare segreto per un po’, 26 è anche indice di una vendetta più ampia dei Nar verso Terza posizione, dato che nei propositi del gruppo di Fioravanti e della Mambro c’erano anche gli omicidi degli altri due leader di Tp, Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi.

 

XVI I depistaggi sulla strage di Bologna. Il ruolo della loggia P2 e dei servizi segreti

1. Il grande depistaggio di matrice P2: la falsa pista libanese e il ruolo di Gelli, di Pazienza e dei servizi Con le stesse sentenze che condannano Fioravanti e la Mambro per la strage di Bologna, vengono condannati, pure in via definitiva, anche i quattro personaggi accusati di calunnia – aggravata dalla finalità di terrorismo e di eversione – per avere svolto una serie di gravi e variegate attività di depistaggio, al fine di nuocere alle indagini sulla strage e impedirne il buon esito. Si tratta di Licio Gelli, del generale Pietro Musumeci (funzionario del Sismi, tessera P2 numero 1604), del colonnello Giuseppe Belmonte (funzionario del Sismi e braccio destro di Musumeci) e del faccendiere internazionale Francesco Pazienza. Tutti in concorso con il capo del Sismi, generale Giuseppe Santovito, tessera P2 numero 1630, anch’egli dichiarato colpevole, ma defunto nel 1984. 1 Musumeci e Belmonte, peraltro, erano già stati condannati in precedenza –  anche in quel caso con sentenza definitiva – per avere detenuto illegalmente e portato in luogo pubblico delle armi, tra cui un mitra Mab e un quantitativo notevole di esplosivo, identico a quello impiegato per la strage di Bologna. Si era trattato di un’azione svolta per realizzare una messinscena che aveva costituito parte integrante e momento culminante all’interno di quell’attività di depistaggio articolata e durata diversi mesi. Infatti quelle armi e quelle otto lattine di esplosivo erano state sistemate, insieme con altri oggetti, in una valigia che Belmonte e Musumeci avevano poi collocato o fatto collocare nella toilette

2di

un treno in servizio sulla tratta ferroviaria Taranto-Bologna e diretto a Milano. La messinscena, nota come operazione Terrore sui treni, era stata compiuta

 

nell’arco di cinque giorni: tra il 9 e il 13 gennaio del 1981. È il primo pomeriggio del 9 gennaio 1981. Nella sala vip dell’aeroporto di Ciampino, il generale Pasquale Notarnicola, capo del servizio controspionaggio del Sismi, è in attesa del generale Giuseppe Santovito, capo del Sismi di ritorno da una missione a Parigi. Arriva in aeroporto anche il generale Pietro Musumeci. A differenza di Musumeci, Notarnicola non è affiliato è affiliato alla P2. L’aereo atterra. Ne scende Santovito accompagnato dal faccendiere Francesco Pazienza. Alla presenza del generale Santovito e di Pazienza, Musumeci consegna a Notarnicola un appunto, nel quale si parla della progettata operazione Terrore sui treni e si prevede un imminente attentato sanguinoso a bordo di un treno. Nei giorni successivi una fonte, fonte, nota  nota solo al colonnello Belmonte e mai rivelata al generale Notarnicola, fa arrivare frammenti di notizie, sino a una segnalazione della notte tra il 12 e il 13 gennaio. Alla stazione di Bologna, dove il treno arriva quel mattino alle nove e mezzo, la valigia viene rintracciata. 3 Il ritrovamento era legato al tentativo, in buona parte riuscito, di inquinare le indagini sulla strage della stazione di Bologna, sia per le caratteristiche dell’esplosivo, sia per la presenza nella valigia di documenti fuorvianti, destinati a indirizzare le indagini verso false piste internazionali. L’operazione Terrore sui treni, quindi, viene ripresa in esame, com’è ovvio, nelle sentenze relative alla strage di Bologna e, in modo particolarmente esauriente, nel capitolo XI della sentenza d’appello del 1994, dove la vicenda del depistaggio viene ripresa in esame sotto il profilo del reato di calunnia, commesso nei confronti dei soggetti verso i quali i depistatori hanno inteso indirizzare sospetti e indizi. Il reato viene attribuito, oltre che a Belmonte e Musumeci, anche Gelli,premette a Pazienza defunto Santovito. La sentenza dela1994 cheelaalcollocazione della valigia sul treno Taranto-Milano è stata preceduta e seguita da una complessa azione di depistaggi, «articolata in informative contenenti notizie vere frammiste ad altre volutamente false». Inoltre la sentenza precisa che c’è stata una «saldatura» tra le azioni informative precedenti e quelle successive, entrambe riferibili, secondo gli stessi Musumeci e Belmonte, a un’unica «fonte confidenziale» (quella che avrebbe tra l’altro condotto al ritrovamento della valigia sul treno il 13 gennaio 1981), fonte rivelatasi in realtà del tutto inesistente e costruita addirittura a posteriori.

Solo nei mesi successivi, infatti, il colonnello Giuseppe Belmonte ha preso contatto con un maresciallo dei carabinieri suo amico, Francesco Sanapo, inducendolo a inventare una fonte confidenziale alla quale attribuire la notizia della valigia: «Al Sanapo veniva fatto credere che ciò fosse necessario per

 

coprire la figura eminente di una persona al centro di una rete spionistica internazionale». Tuttavia, successivamente, il maresciallo Sanapo, sentito dagli inquirenti, ha reso una testimonianza chiarificatrice, rivelando l’inesistenza di quella fonte confidenziale. Gli stessi Belmonte e Musumeci hanno poi finito col rendere ampia confessione sul punto. 4 La sentenza sottolinea anche la stretta coordinazione delle condotte di Belmonte, Musumeci e Santovito «al fine di conseguire il fine unico della complessa azione deviante», attraverso la trasmissione agli inquirenti bolognesi di informative intese ad alimentare una fantomatica «pista libanese» e a far ricadere la responsabilità della strage su elementi appartenenti a gruppi della destra internazionale, accreditando «informazioni che gli stessi vertici dei servizi sapevano essere destituite di serio fondamento». La sentenza ricostruisce poi il massiccio intervento di Francesco Pazienza nei depistaggi. Va detto che, nelle prime settimane dopo la strage, il Sisde collaborava attivamente con gli inquirenti bolognesi. Pazienza e Gelli, però, avevano poi dato un forte contributo a Santovito per far cessare questa collaborazione del Sisde e per favorire al massimo l’attività depistante del Sismi. Ai primi di settembre del 1980 Pazienza avvicina il giornalista Andrea Barberi di «Panorama» e lo accompagna nello studio del generale Santovito, il quale consegna all’ospite un dossier dal quale il giornalista trae appunti da utilizzare per scrivere un articolo, dal titolo La titolo La grande ragnatela, a ragnatela, a proposito di «un rapporto preparato dal Sismi sui collegamenti internazionali del terrorismo». 5 Pazienza viene presentato da Santovito come un «collaboratore esterno» del Sismi, o come il «consigliere personale» o il «braccio destro» del direttore del servizio militare. Precedentemente, a fine agosto, Pazienza ha indotto il giornalista Lando Dell’Amico a pubblicare sul sempre suo notiziario «Agenzia Repubblica» del 1° settembre 1980 un articolo «nel quale si affermava che quella del Sisde era una “aureola provvisoria” e immeritata, perché il servizio segreto civile si era limitato a trasferire dalla Capitale a Bologna vecchie pratiche sul neofascismo eversivo». Quest’articolo rappresenta la risposta all’iniziativa assunta pochi giorni prima dalla magistratura bolognese che, in una conferenza stampa, «in occasione della emissione dei mandati di cattura della fine di agosto 1980, aveva pubblicamente elogiato il contributo dato alle indagini dal Sisde». Ciò che disturba il Sismi, secondo la sentenza, è il fatto che «i mandati di cattura emessi

dalla Procura di Bologna, e oggetto di quella conferenza stampa, avevano colpito esponenti della destra neofascista italiana» e non avevano nulla a che fare con ipotetici collegamenti internazionali. 6 D’altro canto, alcuni autorevoli testimoni appartenenti a settori dei servizi

 

segreti estranei al Sistema P2 7 hanno riferito che Pazienza sarebbe stato un «agente di influenza» degli Stati Uniti, vale a dire che egli sarebbe stato inserito, per conto di ambienti statunitensi vicini a quei servizi, presso i corrispondenti ambienti italiani. Quello che la sentenza sottolinea è che, nel periodo intorno al 1980, Pazienza esercita un vero e proprio «ascendente condizionante» su Santovito e svolge, all’interno del Sismi, ruoli di concreta propulsione e di effettiva direzione, che erano assolutamente antitetici a una mera consulenza esterna o a un semplice ausilio ad personam.  personam. 8 Quanto alla posizione di Licio Gelli, la sentenza parte dalla Relazione Anselmi e svolge argomentazioni documentate, attraverso le quali i giudici concludono che il controllo esercitato da Licio Gelli e dalla loggia P2 sui servizi era decisamente determinante. Gelli aveva un rapporto speciale con Elio Cioppa, che nell’estate del 1980 era il capo del centro Sisde II di Roma. Anche Cioppa era affiliato alla P2 (tessera n. 1890). Questo testimone, il 13 ottobre del 1981, ha riferito al magistrato quanto Gelli gli disse nel corso di un incontro che i due ebbero all’hotel Excelsior di Roma all’inizio di settembre del 1980: «Gelli mi disse che avevamo sbagliato tutto e che gli autori dell’attentato dovevano essere ricercati in campo internazionale». 9 Ecco, sul punto, come commenta la sentenza: «Le parole di Gelli possono intendersi appieno se si pone mente al fatto che […] il Sisde aveva dato la sua aperta collaborazione agli inquirenti durante quel mese di agosto». È stato il Sisde, infatti, ad acquisire e trasmettere alla Procura di Bologna le dichiarazioni importantissime del detenuto Giorgio Farina, il quale aveva riferito di avere ricevuto da Dario Pedretti, qualche mese prima della strage, «la richiesta di un ingenteQualche quantitativo di dopo esplosivo (150 Pedretti, chili) da accompagnato utilizzare per attentati terroristici». tempo lo stesso da Sergio Calore, gli aveva detto «che l’attentato avrebbe dovuto celebrare, nel successivo mese di agosto, la strage del treno Italicus treno Italicus»; »; e che «per il luogo dell’attentato, era stato fatto esplicito riferimento alla stazione ferroviaria di Bologna e per la data a quella del sabato subito precedente il 4 agosto». 10* Dopo avere proceduto all’esame testimoniale di Giorgio Farina, il pm di Bologna ha emesso l’ordine di cattura del 26 agosto 1980, accusando di banda armata e detenzione di esplosivo vari esponenti delle organizzazioni eversive sorte sulle ceneri di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, tra cui Paolo

Signorelli, Francesca Mambro, Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi, nonché Pedretti e Calore, questi ultimi anche per il delitto di strage. 11* Ancora, è stato il Sisde ad aprire, sempre in agosto, un’altra pista di indagine coerente con quella del Farina: una pista tratta dal cosiddetto «appunto Spiazzi»,

 

12 che

si soffermava sulla persona di Francesco «Ciccio» Mangiameli, 13 coordinatore delle attività terroristiche dei Nar romani e impegnato nel reperimento di armi ed esplosivo. 14 Sta di fatto che, dopo il colloquio tra Gelli e Cioppa degli inizi di settembre, la pista Spiazzi e la pista Farina venivano abbandonate completamente dal Sisde. Ed è sintomatico che anche le iniziative di Pazienza, nei confronti dei giornalisti Barberi e Dell’Amico, si collochino tra fine agosto e inizio settembre. In particolare, a proposito della pista Spiazzi, il centro Sisde II di Roma (quello di Elio Cioppa) inviava alla direzione del Sisde un appunto datato 25 settembre 1980 così concepito: «Gli accertamenti svolti in merito al contenuto dell’appunto […] non hanno fin qui fornito utili elementi di conferma, né di valutazione. In proposito sono state opportunamente sensibilizzate alcune fonti di settore, ma con esito negativo». Sotto la dicitura «Il Capo Centro», si leggeva la firma «E. Cioppa». D’altro canto, si infittivano invece le iniziative depistanti, volte a indurre gli inquirenti ad abbandonare la pista interna per seguire la fantomatica e inesistente pista libanese. A questo proposito la sentenza conclude sottolineando che sia la pista Farina sia la pista Spiazzi videro il coinvolgimento di Elio Cioppa, ma che la sua missiva del 25 settembre «fu tale da azzerare la rilevanza delle notizie che provenivano sia da Farina che da Spiazzi e da soffocare ogni utile sviluppo al riguardo». Tanto più che il successivo 9 ottobre pervenne alla Procura bolognese una nota del Sisde, firmata dal direttore, generale Grassini, inerente a «rivelazioni di stampa» circa la «presenza di cittadini italiani in campi di addestramento falangisti in Libano». In tal modo Grassini avallava la pista libanese presso la magistratura, ma aggiungendo prudentemente che «non era 15 stato la lista dei nominativi» misteriosi italiani. Lapossibile sentenzaottenere sottolinea poi che, dopo la nota dei di Grassini delcittadini 9 ottobre, il Sisde era rimasto «totalmente silente» e che il suo «radicale cambiamento di rotta» era coinciso cronologicamente con il colloquio tra Cioppa e Gelli. Questo induce a pensare «che, da un lato, Cioppa abbia ritenuto che consultare Gelli fosse assolutamente imprescindibile, e che, dall’altro, l’opinione di Gelli altro non sia stata che una vera e propria direttiva». Tanto è vero che quell’opinione «ebbe una puntuale, immediata e irrevocabile traduzione in atto». Del resto, lo stesso Cioppa ha testimoniato nel processo che «era prassi del Sisde che il generale Grassini ricevesse da Gelli […] sia direttive circa i temi di indagine da

sviluppare (nel caso citato dal teste, certi settori delle Brigate rosse), che valutazioni su determinati eventi (il sequestro Moro)». 16 In sostanza – sottolineano puntigliosamente i giudici della Corte d’assise d’appello bolognese – «Santovito e Musumeci nel Sismi, Grassini e Cioppa nel

 

Sisde, erano tutti affiliati alla P2». Belmonte non lo era, ma era legato strettamente a Musumeci tanto da esserne «il reale alter ego». ego». Inoltre, nell’ambito del Sismi, per far sì che potesse occuparsi delle indagini sulla strage e sull’operazione Terrore sui treni un piduista fidato e gradito a Gelli come Musumeci, questi «dovette ingerirsi in modo anomalo e illegittimo nei compiti di altro settore» che non gli competeva, appunto per garantire che il depistaggio potesse essere gestito efficacemente. Infatti Musumeci era il capo della Quarta divisione, che aveva compiti di vigilanza interna sulla regolarità degli atti, mentre il controspionaggio e le investigazioni erano compito – scrivono i giudici  – «della Prima divisione divisi one diretta dal generale Notarnicola dove, è bene sottolinearlo con il massimo vigore possibile, non vi erano uomini della P2». Di qui la conclusione che la sentenza ritiene di dover trarre dall’insieme delle circostanze accertate: «La valutazione unitaria del complesso indiziario delineato rivela la presenza di coincidenze e sincronismi tanto numerosi e precisi […], da indicare univocamente in capo a Licio Gelli un ruolo di artefice delle deviazioni esaminate». 17

2. Le incertezze sul movente del depistaggio di matrice P2 Che il Sistema P2 sia stato – attraverso il suo controllo quasi assoluto sui servizi  – l’autentico dominus dominus del  del grande depistaggio della pista libanese è quindi provato al di là di ogni ragionevole dubbio. La P2 voleva voleva depistare  depistare gli inquirenti, voleva allontanare voleva  allontanare la verità sulla strage di Bologna. Tuttavia bisogna anche ammettere che non è affatto chiaro lo scopo ultimo ultimo che  che si prefiggevano gli artefici di questo depistaggio. Allontanare i sospetti da determinati soggetti? O alimentare dei alimentare  dei sospetti su altri, o magari su quegli stessi soggetti? O forse i protagonisti della macchinazione perseguivano uno scopo del tutto diverso, che nessuno è ancora riuscito a individuare? Questi dubbi sono stati avanzati, già una decina di anni fa, da uno dei più attenti studiosi della strage di Bologna: Un fatto è indiscutibile, nelle tormentate indagini sulla strage di Bologna: i vertici dei servizi segreti italiani hanno fatto il possibile per nascondere la verità. Se i mandanti non sono stati scoperti, insomma, è anche perché pezzi di Stato hanno ripetutamente ingannato i giudici. Per proteggere chi? Chi muoveva dall’alto i fili dei vari Grassini e Santovito? In che misura il piduista Licio Gelli e la sua loggia coperta hanno gestito la partita? E qual è stato il ruolo del faccendiere

Francesco Pazienza? Pazienza? Risposte non ce ne sono, e visto come sono andate le cose difficilmente ce 18 ne saranno futuro. Le indagini infatti sono state subito intossicate, e dai depistaggi è emerso ogni sorta diinretroscena.

Già è piuttosto strano il fatto che, nelle settimane immediatamente successive

 

alla strage, il Sisde di Grassini e il Sismi di Santovito (entrambi piduisti) abbiano avuto due approcci diversi relativamente al possibile coinvolgimento della destra eversiva interna – in particolare dei Nar – nella vicenda della strage di Bologna: schierato con i pm bolognesi il Sisde, decisamente sul versante opposto il Sismi. Ma è ancor più singolare l’atteggiamento altalenante tenuto dallo stesso Sismi. Un altro studioso della tragica vicenda, infatti, ha osservato che «sommando le evidenze richiamate dagli innocentisti e dai colpevolisti, 19 il comportamento di Santovito e del Sismi riguardo a Fioravanti e ai Nar appare ambiguo». 20 Un esempio evidente di questa ambiguità viene messo in evidenza dalla stessa sentenza d’appello del 1994, nella quale si riferisce che il 19 agosto del 1980 un agente del Sismi aveva intervistato Mario Guido Naldi, uno dei promotori della rivista nazifascista «Quex», sulla strage della stazione di Bologna. Naldi aveva risposto così: Ritengo che la matrice dell’attentato è senza dubbio di destra […]. Gli attentatori sono persone che vengono fuori Bologna,nazionale. quasi certamente Roma e oserei dire organizzazioni diè Ordine nuovodae Avanguardia Sono piùda che mai convinto chedalle l’attentato terroristico opera di una delle due organizzazioni Ordine nuovo o Avanguardia Avanguardia nazionale.

In un rapporto del 14 ottobre 1980 a firma del generale Santovito la tesi sostenuta da Naldi viene esposta, ma viene drasticamente falsata: Naldi aveva ipotizzato la responsabilità di Ordine nuovo e di Avanguardia nazionale, mentre il rapporto Santovito «tace completamente il nome dei due movimenti e vi sostituisce quello dei Nar: “Secondo tale tesi la strage di Bologna sarebbe sicuramente di matrice neofascista; si innesterebbe nella faida in atto tra diversi movimenti dell’estrema destra; molto probabilmente è attribuibile ai Nar romani”». Tuttavia, nella seconda metà di gennaio del 1981, cioè a ridosso dell’operazione Terrore sui treni, il Sismi si contraddice palesemente rispondendo a una richiesta di chiarimenti proveniente dagli inquirenti: Al quinto quesito formulato dal giudice istruttore di Bologna («Che parte hanno avuto i Nar; se sono compartecipi del programma gli attuali imputati della strage Calore Sergio, Pedretti Dario, Furlotti Francesco, Semerari Semerari Aldo, Signorelli Paolo») il Sismi risponde: «È stato escluso il legame con i Nar, come è stata esclusa la partecipazione alla strage dei nominativi segnalati». 21

È molto probabile, quindi, che il fine ultimo dell’impegno, davvero impressionante, profuso dal Sistema P2 nelle sue accanite attività di depistaggio,

sia stato qualcosa di ben diverso dalla semplice volontà di giovare oppure di nuocere ai Nar di Fioravanti, Mambro e Ciavardini. E non è escluso che la risposta al dilemma la si possa anche trovare, esaminando con attenzione i messaggi cifrati che Licio Gelli ci ha trasmesso, negli ultimi anni della sua vita,

 

grazie alla sua irresistibile voglia di parlare, di rilasciare interviste e di diramare, appunto, informazioni cifrate. 22

 3. La pista Kram: un nuovo depistaggio o una sugge suggestiva stiva coincidenza? Secondo una pista alternativa – la cosiddetta pista palestinese, ovvero pista Kram  – la strage alla stazione st azione ferroviaria di Bologna Bolog na sarebbe stata un brutal brutalee atto terroristico organizzato dal Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), come ritorsione per la violazione, da parte dello Stato italiano, di un accordo segretamente intercorso con le organizzazioni militari palestinesi. Questo accordo segreto, denominato lodo Moro, sarebbe consistito nel consentire il transito sul territorio italiano di armi ed esplosivi destinati al Fronte palestinese, in cambiodidimantenere una salvaguardia e militari italiani e della garanzia il nostrodegli paeseinteressi al riparopolitici da possibili attentati di matrice islamica. Questo gravissimo atto ritorsivo sarebbe logicamente e storicamente ricollegabile a un evento risalente a nove mesi prima della strage di Bologna. Il 7 novembre del 1979 il leader di Autonomia operaia Daniele Pifano e due suoi compagni erano stati arrestati a Ortona, perché trovati in possesso di due missili Sam 7 Strela. Una settimana dopo, il 13 novembre, era stato arrestato anche Abu Anzeh Saleh, cittadino giordano residente a Bologna, il cui indirizzo era risultato annotato in un foglio in possesso dei tre italiani. Le armi erano effettivamente destinate al Fronte palestinese. Il processo a carico dei quattro imputati, davanti al Tribunale di Chieti, si era concluso il 25 gennaio del 1980 con la loro condanna. Abu Anzeh Saleh era stato condannato alla pena di sette anni di reclusione, ma veniva poi scarcerato il 14 agosto del 1981 per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Saleh risultava avere un ruolo politico e militare, essendo il responsabile in Italia del Fplp, e risultava avere rapporti con l’organizzazione terroristica capeggiata da Carlos. 23* Inoltre risultava essere in contatto con il colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone del servizio segreto militare italiano, all’epoca di stanza a Beirut. In effetti non mancarono proteste e minacce di ritorsioni da parte del Fplp, per il sequestro dei missili e per l’arresto del loro agente in Italia.

Il 18 aprile del 2001 la Procura della Repubblica di Bologna ricevette una nota della direzione centrale della polizia di prevenzione, a firma del capo della

 

polizia Gianni De Gennaro, relativa alla presenza a Bologna, proprio il 2 agosto del 1980, giorno della strage, del cittadino tedesco Thomas Kram. Si trattava del direttore di una libreria politica della città tedesca di Bochum, militante dell’organizzazione terroristica di ultrasinistra Rz, ovvero Revolutionäre ovvero Revolutionäre Zellen, Cellule rivoluzionarie. 24 La nota del capo della polizia sottolineava l’opportunità di svolgere accertamenti sui motivi della presenza di Kram a Bologna in quel giorno. La Procura bolognese aprì un procedimento designato come «Atti relativi alle Cellule rivoluzionarie tedesche», ma solo nel 2005, a seguito di un’interpellanza urgente del deputato Vincenzo Fragalà, le copie di questi atti confluirono in un nuovo procedimento volto ad approfondire l’ipotetica pista Kram con riferimento alla strage di Bologna. Le indagini relative tardarono però molto a iniziare, tanto che lo stesso Kram seppe solo nel 2008 di essere sospettato della strage. Sostanzialmente, le indagini iniziarono nel 2011 (quando Kram seppe di essere stato iscritto nel registro degli indagati) e si protrassero per quattro anni. L’esito è stato un decreto di archiviazione emesso il 9 febbraio del 2015 dal giudice per le indagini preliminari di Bologna, su richiesta della Procura del 30 luglio 2014. In questo paragrafo si tenterà di ricostruire la vicenda sulla base di questi due provvedimenti e degli atti del procedimento che è stato possibile consultare. 25 Su almeno due punti sembra che non ci sia nulla da aggiungere alle argomentazioni, del tutto condivisibili, svolte dal gip nel decreto di archiviazione: 1) non è mai esistito un accordo internazionale segreto tra Italia e Fplp denominato lodo Moro; 2) non c’è alcun rapporto tra Thomas Kram e il terrorista internazionale Carlos. Per con quanto riguarda il primo punto, delne tutto evidente che il cosiddetto lodo Moro, le caratteristiche descritte daèchi sostiene l’esistenza, è semplicemente irreale. Infatti, un patto del genere – illegittimo in radice – non avrebbe mai potuto essere ufficializzato. Ma anche ammesso che fosse esistito qualcosa del genere, si sarebbe trattato di «un patto stipulato da soggetti privi di rappresentanza politica democratica e senza la ratifica parlamentare», un patto, quindi, che non avrebbe mai potuto «dissuadere nessun pubblico ufficiale dalla denuncia dei delitti accertati sul territorio nazionale». Tanto è vero che le dichiarazioni degli imputati del processo di Chieti e la lettera prodotta in udienza, proveniente dal Fplp, «non hanno invocato esplicitamente alcun patto

[…] internazionale, né hanno collegato il sequestro e gli arresti di Ortona alla violazione di un accordo precedentemente stipulato». 26 Sul secondo punto basti dire che non è stato mai acquisito nessun indizio di un ruolo di Thomas Kram «nel “quadro di comando” del Gruppo Carlos». Il

 

procuratore di Karlsruhe, in risposta a una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale, ha riferito che la magistratura tedesca «non ha mai proceduto nei confronti di Kram per la militanza nell’organizzazione terroristica di Carlos». Infine, per quanto può valere, lo stesso Carlos, detenuto in Francia e sentito per rogatoria internazionale, «ha negato qualunque rapporto personale con Kram». 27 Sta di fatto, comunque, che il 2 agosto del 1980 Thomas Kram era sicuramente a Bologna. Vi era giunto la sera del giorno precedente, venerdì 1° agosto, e aveva preso una stanza nell’albergo Centrale di Bologna, dove era stato identificato con la sua patente di guida tedesca, autentica. Veniva da Milano, dove era arrivato il giorno prima in treno dalla Germania, con un sensibile ritardo rispetto ai suoi progetti. L’indagine ha quindi tentato di ricostruire i movimenti del giovane tedesco (a quel tempo trentunenne) in quei due giorni. Il 1° agosto 1980, alle ore 12.08, Thomas Kram era stato identificato e perquisito dalla polizia ferroviaria italiana al valico di frontiera di Chiasso, sul treno 201 partito da Karlsruhe e diretto a Milano. Aveva esibito alla polizia ferroviaria la sua carta di identità tedesca, autentica, così come era autentica la patente che aveva con sé e che avrebbe esibito il giorno dopo, nell’albergo di Bologna. Il 25 luglio 2013 (trentatré anni dopo quel terribile 2 agosto) Thomas Kram è stato interrogato dai magistrati della Procura della Repubblica di Bologna, ai quali si era presentato spontaneamente consegnando loro una memoria scritta. Egli non ha voluto rispondere a domande degli inquirenti, né aggiungere alcunché al racconto che aveva messo per iscritto. I magistrati gli hanno chiesto di leggere ad alta voce il suo testo in tedesco, in modo che l’interprete traducesse in italiano e dettasse a verbale la traduzione di ciò che Kram leggeva. Il tutto veniva nastro e la registrazione veniva sua voltaregistrato, trascritta etratto messa agli atti.registrato È quindisu opportuno riportare qui il testo delaracconto dal verbale di udienza, dando così la parola allo stesso Thomas Kram. […] Nell’estate del 2011 con mio grande stupore ho appreso dai giornali che la Procura della Repubblica di Bologna aveva avviato contro di me un procedimento di indagini preliminari. Io non so in base a quali nuove indagini o quali nuove risultanze la mia posizione si sia aggravata. A questo punto, dal momento che non posso vedere gli atti, non ho accesso agli atti, posso soltanto fare delle ipotesi. Non mi posso però immaginare che soltanto il fatto che io mi trovavo nel posto sbagliato, all’ora sbagliata, possa essere sufficiente per un’accusa. A questo punto, in seguito a ciò, sono stato consigliato di non fare altre dichiarazioni, di non rilasciare dichiarazioni. Il 1° agosto sono venuto in Italia col treno provenendo dalla Repubblica federale di Germania.

Lo scopo di questo viaggio era visitare conoscenti e amici che avevo conosciuto a un corso a Perugia l’anno precedente. E essere poi volevo visitare La prima stazione doveva Milano, doveFirenze. avevo un appuntamento con Elisabeth Schmölz, una conoscente di Perugia che nel frattempo lavorava come docente di tedesco a Varese. Volevo pernottare lì e il giorno successivo continuare il mio viaggio verso Firenze e Perugia.

 

Durante un controllo dei viaggiatori al valico di Chiasso sono stato fermato. Degli agenti italiani mi hanno rivolto la parola mirando proprio a me e mi hanno chiesto di scendere dal treno, di lasciare il treno. Le autorità di frontiera hanno esaminato il mio bagaglio e me. Alcuni documenti e scritti sono stati fotocopiati, tra l’altro lettere della signora Schmölz e di una signora di nome Heidi. Heidi era un’amica della signora Schmölz, di Elisabeth Schmölz, di cui avevo l’indirizzo La sostaaèVarese. durata circa due ore. Poi ho ripreso il mio treno per Milano. Ma per l’appuntamento io sono arrivato troppo tardi. Dato che la signora Schmölz non era raggiungibile telefonicamente, non potevo prendere alcun altro appuntamento per incontrarmi con lei. Invece mi sono preso qualcosa in un bar della stazione e ho cominciato a pensare in merito al controllo a Chiasso e anche in merito all’ulteriore svolgimento del viaggio. Dato che il i l 2 agosto mi dovevo incontrare… ero atteso da un mio conoscente a Firenze, da cui potevo pernottare, ho deciso spontaneamente di fare una tappa a Bologna, diretto a Firenze. Durante il pomeriggio sono arrivato a Bologna e mi sono diretto verso il centro per cercarmi una pensione economica. È possibile che sia stato l’albergo Centrale in via della Zecca. Dopo essermi regolarmente registrato e aver preso possesso della camera, ho fatto un piccolo giro della città, ho mangiato in un ristorante per la cena e poi sono tornato in hotel. Sono certo di aver passato la serata da solo. La mattina dopo sono andato dall’hotel alla stazione. Nei pressi dell’hotel ho fatto colazione. […] devo ringraziare, diciamo, questa situazione, perché se no sarei arrivato alla stazione prima! Poi ho percorso una strada molto grande che conduce alla stazione. Nel tragitto c’erano molti mezzi della polizia e mezzi di soccorso che correvano con le sirene e i lampeggianti. Più mi avvicinavo alla stazione e più grande era il caos. Mi era chiaro che doveva essere successo qualcosa di molto… qualcosa di terribile, senza che io però potessi giudicare o valutare che cosa. Date le mie esperienze con la polizia italiana il giorno prima, volevo evitare possibilmente di finire di nuovo dentro un controllo di polizia. Quindi sono tornato indietro e mi sono allontanato dalla zona. Mi sono allontanato da quella zona ancor prima di essere arrivato nelle immediate vicinanze della stazione. Oggi non so più dire con certezza come ho lasciato Bologna e come sono arrivato a Firenze. A Firenze ho appreso che alla stazione era esplosa una bomba che aveva ucciso molte persone. E ancora di più ne aveva ferite. A quel punto ho deciso di interrompere il viaggio e non andare più a Perugia. […] Un’amica che in quel tempo abitava nel Sud della Francia mi ha raccontato in un secondo momento che io alcuni giorni dopo il 2 agosto ero andato da lei e che le avevo riferito abbastanza sconvolto del mio soggiorno a Bologna. Non ricordo il particolare riferito alla mia amica che si trovava in Francia; ho rivisto questa mia amica nel 2009 e lei mi ha ricordato che dopo… ero andato da lei. La mia amica mi ricordò questo episodio, avendo da me appreso che dovevo essere interrogato dai magistrati bolognesi. […] Sono assolutamente sicuro che sino al momento in cui io sono sceso dal treno a Bologna, nessuno poteva sapere che io avrei passato la notte tra l’1 e il 2 agosto 1980 a Bologna; perché io mi sono deciso a fare questo soltanto dopo che era andato a monte l’appuntamento a Milano, senza che ne avessi parlato con nessuno.

Nel periodo tra l’arrivo al confine a Chiasso e il mio arrivo a Firenze non ho incontrato nessuno, se non persone a me totalmente sconosciute, come i controllori del treno eccetera eccetera… alla reception, i camerieri… o tassisti. […]

 

Il decreto di archiviazione del giudice per le indagini preliminari riconosce che il racconto di Thomas Kram è, almeno per certi versi, decisamente plausibile e che lo scambio di lettere tra lui ed Elisabeth Schmölz è sostanzialmente incompatibile con l’ipotesi che Kram possa essere coinvolto nel terribile massacro del 2 agosto 1980. Scrive infatti il gip, in particolare, che «la corrispondenza con [Elisabeth Schmölz] e le due affettuose lettere del 14 e 22 luglio 1980 potrebbero avere giustificato il viaggio in Italia o almeno l’iniziale destinazione a Milano di Kram». Argomenta ancora che «l’attuale ritrosia della donna, parsa molto evasiva nelle risposte alla polizia giudiziaria, potrebbe, a sua volta, essere giustificata con il voluto oblio di quella relazione giovanile». Ammette che è ben possibile «che il controllo di polizia a Chiasso possa aver impedito l’incontro convenuto a Milano». Conclude infine che la repentina partenza di Kram da Bologna verso Firenze «potrebbe pure giustificarsi per il timore di ulteriori controlli di polizia, dopo quello di Chiasso». 28 Tuttavia, il gip bolognese – pur accogliendo la richiesta del pm di archiviazione dell’ipotesi di accusa – lascia aperti alcuni dubbi. In particolare, trova «incomprensibile che Kram, dopo avere mancato l’appuntamento con la signora Schmölz, che sembrava entusiasta e impaziente di incontrarlo, al pari dello stesso Kram, non si sia comunque fermato a Milano –  piuttosto che proseguire per Bologna – per incontrare la donna». Inoltre, il gip si domanda perché mai Kram e Schmölz non avessero «stabilito un luogo, un giorno e un orario precisi» e perché mai, nella sua lettera del 14 luglio, Schmölz «non avesse indicato un proprio domicilio o un proprio recapito milanese». Ancora, trova incomprensibile anchela«la prosecuzione viaggio sino a Bologna, dove Kram avrebbe trascorso sola notte del 1°del agosto 1980, invece di dirigersi direttamente a Firenze»; e solleva qualche dubbio anche «sulle modalità della riferita partenza di Kram da Bologna verso Firenze», dal momento che, come riportato dalla Digos, «dopo l’esplosione alla stazione ferroviaria […] nessun tassista aveva effettuato trasporti di persone alla stazione delle autocorriere e nessuna autocorriera era partita alla volta di Firenze». Conclude infine il gip che, pur imponendosi l’archiviazione, il silenzio opposto da Kram alle domande che gli sono state rivolte nell’udienza del 25 luglio 2013 «non marca un’estraneità netta dell’indagato rispetto a un così grave

fatto criminale». 29 A ben vedere, però, l’estraneità l’estraneità netta di netta di Thomas Kram alla strage di Bologna emerge pienamente da un’analisi attenta di una lettera della signora Schmölz a Kram, acquisita agli atti e datata 14 luglio 1980. È una lettera scritta in tedesco,

 

che può essere studiata in maniera approfondita solo se si ha padronanza della lingua oppure se si dispone di una traduzione molto accurata, che gli inquirenti di Bologna, in realtà, non avevano. Si tratta di una lettera fondamentale, che si riporta qui integralmente nella traduzione fatta, per chi scrive, da una gentile signora madrelingua. Se ne riporta anche, in nota, il testo nella lingua originale. 30 Milano, 14 luglio 1980 Caro Thomas, sono quasi svenuta, quando finalmente ho sentito notizie di te. Non ti scrivo la mia opinione sui tuoi tentennamenti, altrimenti ti arrabbi. Quando quel giorno sono partita da Perugia, ho passato tutto il pomeriggio cercando di spremere notizie da un sacco di persone, per scoprire dove potesse essersi cacciato Thomas. Poi uno mi ha detto che tu eri tornato a casa, ma nessuno sapeva dove abitassi. Poi ho chiesto a Heidi di informarsi su dove tu potessi essere. Zero, 0, niente. Quando poi ho dato l’esame di lingua a Monaco di Baviera, ho incontrato di nuovo uno di Perugia. Ho chiesto anche a questo ragazzo, se gli fosse capitato di rivederti. Ma non son riuscita amessa cavare da tu nessuno. in niente testa che fossi diNessuno Berlino).sapeva niente di Thomas, «l’insegnante di Berlino» (mi ero Il fatto che tu ti sia deciso a scrivermi è per me quasi un miracolo. In ogni caso è un motivo per lasciarmi andare a un’euforica esplosione di gioia. Ora, per quanto riguarda la fine di luglio: al 99,999999% sarò qui a Milano o a V Varese. arese. Perché attualmente insegno tedesco a Varese. Varese. Lì è più facile che tu possa venire a sapere qualcosa su dove alloggio. Perché con Marzio, il mio fidanzato, è finita, e quindi adesso sto vagabondando in giro tra Milano e V Varese, arese, onorando della mia presenza tutti i miei cari amici finché non avrò trovato una sistemazione definitiva. L’indirizzo L’indirizzo della scuola è il seguente: E.S. c/o Inligua School via Fiume 46 21100 Varese (Va) Italia Telefono 0332242750 Quello è il posto da dove è più facile rintracciarmi. Se prima della fine di luglio ti viene ancora un prurito alle dita e ti viene voglia di scrivere una lettera, non ti trattenere: sarei molto contenta di sentire qualcosa dall’«insegnante di Berlino». Sai, ora mi viene in mente che con te sono già stata una volta allo stesso tavolo. Al bar dell’Uni, dove oltre a «buongiorno» e «ciao» non ci siamo detti una parola. E ora ci scriviamo. Lo trovo davvero «forte» [in italiano nell’originale]. Allora… Un abbraccio [in italiano nell’originale]. Elisabeth Ps. Come vedi sono già abbastanza italianizzata!!! 31

Da questa lettera emerge chiaramente che Kram, dopo avere mancato l’appuntamento con Elisabeth Schmölz, non aveva nessuna possibilità di rintracciarla (allora non c’erano i cellulari), dato che la ragazza, in quel periodo, non aveva una stabile dimora ed era temporaneamente ospitata in casa di amici

di Milano o di Varese. Essendo arrivato alla stazione di Milano con grave ritardo, con un treno di oltre due ore successivo a quello con cui sarebbe dovuto arrivare, non vi aveva più trovato Elisabeth e non sapeva proprio dove andare a cercarla. È vero che la ragazza era «entusiasta e impaziente di incontrarlo, al pari

 

dello stesso Kram», ma non c’era modo di rimediare a quella delusione bruciante, che era certo condivisa da entrambi i giovani. Quanto a Kram, già contrariato dall’inconveniente di Chiasso, non poteva certo essere di buon umore nel veder naufragare il progetto, a lungo accarezzato e programmato per tempo, di una gradevole serata con una ragazza che stravedeva per lui e della quale lui stesso, prima di scomparire da Perugia insalutato ospite (e al di là della sua scontrosità e dei suoi «tentennamenti»), si era pur sempre prudentemente procurato l’indirizzo dove poterle scrivere, quando fosse stato il caso. Ora, una volta sfumata la serata milanese, che ci faceva Kram lì a Milano il 1° agosto, tutto solo e per giunta frustrato? Andare direttamente a Firenze? No, perché i suoi amici di Firenze lo aspettavano solo per il giorno 2. Di qui la decisione, anche per distrarsi un po’, di avvicinarsi a Firenze facendo tappa a Bologna. Ecco che così i dubbi residui del gip di Bologna vengono totalmente fugati. E non è neanche il caso di meravigliarsi del fatto che Kram non si ricordi come abbia raggiunto Firenze da Bologna il 2 agosto, visto che, quando ha rilasciato le sue dichiarazioni, il 25 luglio 2013, erano passati più di trent’anni da quel giorno. Del resto, Kram non aveva motivo di annotare mentalmente un dettaglio secondario come quello, cosa che avrebbe invece fatto certamente se avesse potuto pensare che, di lì a trent’anni, quel dettaglio secondario sarebbe diventato rilevante. Un’ultima argomentazione. Dal racconto fatto da Kram emerge chiaramente che la mattina del 2 agosto, quando lui fece colazione nel bar nei pressi dell’albergo, l’esplosione alla stazione non si era ancora verificata. Infatti egli uscì dal barinecittà cominciò a incamminarsitranquilla. verso la stazione quando ancoradopo, la situazione era apparentemente Solo qualche minuto mentre era in cammino, iniziò il caos scandito da un numero crescente di sirene. Questo significa che, quando Kram fece inversione di marcia, la bomba era appena scoppiata. A quel punto i taxi non erano ancora stati «requisiti» tutti per rispondere alla situazione di emergenza, quindi è ben probabile che il giovane tedesco abbia proprio preso un taxi. Tanto più che, nelle ultime righe del suo interrogatorio sopra riportato, egli stesso non esclude affatto di avere incontrato tassisti «tra l’arrivo al confine a Chiasso e il mio arrivo a Firenze». Vogliamo fare un’ipotesi? Kram fa dietrofront e torna verso l’albergo, ferma

un taxi, dice al tassista che deve andare a Firenze, il tassista, che sicuramente sa già quello che è successo, lo porta a una delle prime stazioni sulla linea ferroviaria per Firenze (per esempio Bologna San Ruffillo) da dove Kram, non più perseguitato dalla malasorte, raggiunge Firenze con uno dei treni locali

 

diretti verso sud che, nel primo pomeriggio di quel giorno, hanno ripreso a funzionare.

 

XVII Il Sistema P2 dopo la strage di Bologna

1. La P2 secondo il «Corriere della Sera» fra la strage di Bologna e la perquisizione di Castiglion Fibocchi All’indomani della strage di Bologna, nella seconda metà del 1980, il sistema di potere occulto della loggia P2 è ulteriormente consolidato e ormai pronto a celebrare con grande evidenza la conquista del «Corriere della Sera». Il quotidiano è ancora diretto dal piduista Franco Di Bella e la celebrazione avviene attraverso l’ormai famosa e sibillina intervista-fiume a Licio Gelli, firmata dal giornalista Maurizio Costanzo (tessera P2 numero 1819) e pubblicata il 5 ottobre del 1980. L’intervista contiene messaggi in codice. Sono diretti a coloro che – essendo organici o contigui al Sistema P2 – sono in grado di comprenderli. Diventeranno comprensibili a chiunque una volta resa pubblica, mesi dopo, la documentazione sequestrata a Castiglion Fibocchi e, ancora di più, quando sarà pubblicato, successivamente, il testo del «Piano di rinascita democratica». Si tratta di un’intervista-proclama con cui il sistema di potere P2 – attraverso il principale quotidiano italiano divenuto cosa sua e attraverso la voce del suo «maestro venerabile» nonché suo portavoce e grande archivista – si presenta e si qualifica come sistema di «potere nascosto» (espressione testuale contenuta nel titolo dell’intervista), ma lo fa attraverso circonlocuzioni volutamente e marcatamente ambigue. Per esempio, alla domanda se egli sia «un esponente del potere occulto», o addirittura il capo «del potere più grosso della Repubblica», Gelli

risponde: «Io non ho mai ritenuto di avere un potere occulto come mi viene attribuito. D’altra parte, non impedire cheingli altri lo suppongano».perché E aggiunge che comunque «c’èposso un fondo di vero queste affermazioni», «sono riuscito ad accattivarmi la stima e la simpatia di molti».

 

Poi Gelli consegna all’intervistatore alcune affermazioni che lasciano intendere una sua effettiva posizione di non trascurabile potere, del resto rispondendo a domande che tale posizione sembrano dare per scontata. Si tratta, inoltre, di affermazioni audaci di natura politico-costituzionale che si ritroveranno sviluppate proprio nel testo del «Piano di rinascita». Così, quando gli viene chiesto se egli si sia mai «espresso a favore di una repubblica presidenziale», Gelli risponde affermativamente, aggiungendo di averlo fatto «anche in una relazione che inviai al presidente Leone». E, quando gli viene chiesto «se manterrebbe la Costituzione» nel caso in cui «fosse nominato presidente della Repubblica», risponde che il suo primo atto «sarebbe una completa revisione della Costituzione» che oggi è «un abito liso e sfibrato» e «risulta inefficiente e inadeguato». A proposito del legame tra P2 e servizi segreti, è interessante notare che nell’intervista esso viene evocato esplicitamente, ancorché nella solita modalità sibillina. Maurizio Costanzo chema della parteinalti esponenti dei servizi segreti. domanda: Lei adesso«Sembra lo negherà, nonP2lefacciano sembra che Italia i servizi segreti abbiano spesso sofferto di deviazioni e omissioni?». Anche in questo caso Licio Gelli dà una risposta ambigua e sfuggente: «A prescindere dal fatto che non ricordo chi fa parte dell’istituzione, per quanto riguarda l’efficienza dei servizi segreti non sta a me giudicarla». È poi suggestiva quanto significativa la frase finale dell’intervista: a domanda diretta del suo fidato intervistatore, Gelli dice che da piccolo, quando gli si domandava che cosa volesse fare da grande, lui soleva rispondere «il burattinaio». 1 Sempre nell’autunno 1980per non sono infrequenti articolididiloggia» matricediP2 apparsi sul «Corriere della Sera» rendere omaggio aigli «fratelli Buenos Aires. L’ossequio stucchevole ai carnefici argentini raggiunge il culmine con l’articolo uscito il 4 ottobre, un ritratto del capo di stato maggiore, generale Roberto Eduardo Viola, vale a dire di colui che sarà di lì a poco il successore del generale Jorge Rafael Videla alla presidenza della giunta militare argentina. Titolo: Sarà Viola (oriundo italiano) il nuovo presidente argentino. Esponente liberale delle forze armate, avrà il compito di riportare il paese alla democrazia. L’articolo non è né firmato né siglato. «Il testo deve averlo scritto direttamente la P2 imponendolo tramite il direttore. L’esaltazione è massima.

Nemmeno i giornali del regime militare sarebbero infatti arrivati a definire come «“un nuovo San Martín, l’eroe dell’indipendenza argentina”, [colui] che con il golpe del 26 marzo 1976 aveva portato Videla e i generali al potere». 2 Tra gli altri articoli pubblicati in omaggio alla giunta militare spicca quello

 

del 14 novembre, che racconta «il miracolo economico argentino» attraverso l’intervista a Martínez de Hoz, ministro dell’Economia del regime militare di Buenos Aires. 3 Nello stesso periodo il «Corriere» pubblica una serie di articoli decisamente favorevoli alle reti televisive dell’imprenditore Silvio Berlusconi (tessera P2 numero 1816) nella disputa con la Rai per la teletrasmissione delle partite del  Mundialito. Si  Mundialito.  Si tratta del torneo internazionale di calcio in programma a Montevideo, dal 30 dicembre 1980 al 10 gennaio 1981, tra squadre nazionali che nella loro storia hanno vinto almeno un titolo mondiale. La serie di articoli viene preceduta da una lunga intervista a Berlusconi, datata 14 settembre 1980 e firmata dal giornalista Roberto Gervaso (tessera P2 numero 1813). Gervaso è un giornalista «che ha un contratto singolare: non è obbligato a concordare gli articoli con i redattori responsabili delle pagine». L’intervista viene pubblicata con grande rilievo, «di spalla» in terza pagina ed è intitolata Cosa farei se fossi senza casa. A colloquio con l’imprenditore milanese Silvio Berlusconi.  Berlusconi. 4 Gli articoli sulla disputa televisiva del Mundialito del Mundialito sono  sono otto e sono compresi tra il 22 novembre e il 22 dicembre. Il primo ha l’aria di essere il tipico ballon d’essai volutamente d’essai  volutamente provocatorio: «La Rai ha perduto l’asta per il Mundialito, il Mundialito, teletrasmesso da un consorzio di tv private. Le sette partite del torneo, in programma a Montevideo fra la fine del 1980 e l’inizio del 1981, dovrebbero essere irradiate in diretta via satellite da una vasta rete di emittenti, coprendo quasi tutto il territorio nazionale». Segue il 26 novembre un vistoso trafiletto su due colonne in una delle pagine sportive e in carattere grassetto. Non reca spetta nessuna sigla ed Ma è intitolato La intitolato commissione di vigilanza: «Il Mundialito «Il Mundialito alla Rai». Canale La 5 non si arrende. In arrende.  In calce compare, in carattere corsivo, questa postilla altrettanto vistosa: Gli appassionati del calcio desiderano vedere in televisione le partite del Mundialito. del Mundialito. Logico,  Logico, quindi, che abbiano accolto con simpatia la recente iniziativa del pool privato pronto ad assicurare le trasmissioni. Ora non vorremmo che, naturalmente a danno del pubblico, il Mundialito il  Mundialito finisse  finisse nel cestino per la discutibile e tardiva sensibilità della tv di Stato e le assurde leggi di monopolio che la proteggono.

Il 22 dicembre, infine, compare la notizia (non firmata) dell’intesa raggiunta, che

«riconosce all emittente di Berlusconi l uso del satellite per la trasmissione in diretta in Lombardia degli incontri Uruguay-Olanda, Argentina-Germania, Argentina-Brasile e Germania-Brasile. La rete privata milanese diffonderà inoltre in differita su tutto il territorio nazionale i match degli azzurri». Nell’articolo si sottolinea che «Silvio Berlusconi è riuscito dunque a vincere la

 

sua battaglia in modo totale […]. La lunga vertenza si è risolta definitivamente, grazie all’intervento del ministro Di Giesi, ma bisogna riconoscere che il successo riportato dall’uomo d’affari milanese è di vaste proporzioni». Un mese dopo, il 20 gennaio del 1981, un articolo di coronamento rende nuovamente omaggio all’imprenditore e alle sue reti televisive. Titolo: In Titolo: In arrivo via satellite altri spettacoli sportivi per Canale 5. Sottotitolo: 5. Sottotitolo: Dopo  Dopo il successo anche finanziario del Mundialito del Mundialito (un miliardo di utile) l’emittente privata si è assicurata in esclusiva una ricca serie di competizioni: calcio, tennis, football americano e golf.  golf. 5

2. Gli eventi successivi alla perquisizione perquisizione di Castiglion Fibocchi e alla caduta del governo Forlani L’enorme provocato– dalla delle liste P2, avvenuta maggio delscandalo 1981, determina comepubblicazione si è detto nel primo capitolo di questoil 21 volume – la caduta del governo Forlani, anche in ragione dell’imperdonabile ritardo con cui quelle liste sono state rese pubbliche. Infatti, durante i due lunghi mesi intercorsi tra la perquisizione e la pubblicazione, il tasso di «nervosismo istituzionale» è cresciuto pericolosamente, anche in virtù del continuo stillicidio di indiscrezioni incontrollabili circa l’appartenenza alla loggia di questo o quel personaggio di rilievo politico. Di questo clima di continua fibrillazione approfitta Licio Gelli, proprio il giorno prima della pubblicazione delle liste, per mandare messaggi in codice ai suoi affiliati avvalendosi di un suo fidato giornalista, Franco Salomone (tessera P2 numero 1911), redattore del quotidiano romano «Il Tempo». Questi lo intervista e – servizievole – gli domanda: «Come si comporterebbe lei dinanzi a un giudice che la interrogasse su una sua eventuale appartenenza alla P2, se il suo nome fosse stato fatto subdolamente?». Al che Gelli risponde: «Prima di tutto negherei», dando così precisi suggerimenti operativi ai suoi soci, i cui nomi stavano per essere resi noti. 6 Il governo di Giovanni Spadolini, primo a guida non democristiana, si insedia il 28 giugno del 1981. Per il sistema di potere P2 l’inatteso smascheramento segna l’inizio di un periodo di grave crisi, che peraltro non durerà a lungo.

Il governo Spadolini procede senza gravi ostacoli per alcuni mesi. In settembre la legge della sotto Commissione parlamentare d’inchiestaviene sulla promulgata P2, che inizia i lavoriistitutiva in dicembre la presidenza di Tina Anselmi. 7 Nel gennaio del 1982 Spadolini vara la legge in materia di

 

associazioni segrete, che introduce nella legislazione penale il relativo delitto associativo e che dichiara lo scioglimento della loggia P2. 8 Le difficoltà iniziano nella primavera del 1982 e vengono dal Psi di Bettino Craxi e Gianni De Michelis. Questi insistono vanamente perché il craxiano Leonardo Di Donna (tessera P2 numero 2086) venga nominato presidente dell’Eni. Craxi, il 31 marzo a Rimini, critica pesantemente Spadolini. De Michelis, che è ministro delle Partecipazioni statali, pretende le dimissioni del presidente democristiano dell’Eni Alberto Grandi, succeduto a Giorgio Mazzanti (travolto dallo scandalo Eni-Petromin), 9* per fare spazio al piduista Di Donna. Spadolini non ne vuole assolutamente sapere ed è così che il suo governo cade una prima volta in agosto, ma si rinnova subito grazie alla promessa di astensione da parte del Pci di Berlinguer. Nel settembre del 1982, l’ambasciata d’Italia a Buenos Aires consegna l’elenco dei desaparecidos desaparecidos italiani  italiani a Giangiacomo Foà che (ormai siamo a oltre un annoche dasiCastiglion ne ottiene pubblicazione sul «Corriere della Sera», sta ormaiFibocchi) riavendo dal traumaladello stupro piduista. L’opinione pubblica italiana reagisce con costernazione e sdegno di fronte alle proporzioni del fenomeno, sino a quel momento passato sotto silenzio. In particolare, Giangiacomo Foà pubblica sul «Corriere», il 31 ottobre, una prima lista con i nomi di 297 desaparecidos desaparecidos con  con passaporto italiano, che il giornalista dichiara essere stata per anni sigillata nella cassaforte dell’ambasciata d’Italia a Buenos Aires. Foà pubblica anche le fotografie di bambini rubati dai militari alle madri fatte scomparire. Enorme l’indignazione dell’opinione pubblica. 10 Il governo Spadolini cade definitivamente l’11 novembre del 1982, dopo che il premier ha nuovamente rifiutato la nomina di Di Donna alla presidenza dell’Eni. Gli subentra un governo guidato da Amintore Fanfani, dal quale De Michelis, confermato ministro, ottiene l’assenso alla nomina di Di Donna, venendo però gelato dall’opposizione del presidente Pertini: «Mai cariche pubbliche a chi è implicato nella P2». 11 È chiaro, comunque, che la P2 ha recuperato terreno. Sono illuminanti in proposito le annotazioni che si leggono nei diari di Tina Anselmi dopo la caduta del governo Spadolini: Basta cambiare Spadolini con Fanfani perché la P2 rialzi la testa? Troppi segnali lo dimostrano: la sicurezza dei piduisti, molti che collaboravano hanno oggi paura e diminuisce la collaborazione.

(30 novembre 1982) Vedo Spadolini a Palazzo Chigi. […] Mi dice che la caduta del suo governo si può datare al 30 ottobre quando lui si è rifiutato di nominare subito Di Donna. Pertini pensa che ci sia stato un  pactum sceleris fra sceleris fra Fanfani e Craxi, per spiegare la soluzione alla crisi di governo. […] Ho detto a Spadolini dei fatti che evidenziano una ripresa della P2.

 

(1° dicembre 1982) Mi telefona a Castelfranco Spadolini. […] Mi riferisce che ha parlato con Pertini di questa ripresa della P2. (3 dicembre 1982) 12

Estate 1983. Sono passati quasi due anni e mezzo da Castiglion Fibocchi e la P2  – o comunque l’ambiente tuttora vitale che in quel sistema si riconosce ri conosce – si è in buona misura già riavuto da quella grave batosta. Il 4 agosto, al governo Fanfani V, subentra il primo governo affidato al leader socialista Bettino Craxi, il quale –  non va dimenticato – è stato il maggior responsabile della caduta del governo Spadolini, reo di non aver voluto il piduista Di Donna alla presidenza dell’Eni. Nel governo Craxi tornano Giulio Andreotti, nel ruolo prestigioso di ministro degli Esteri, e Arnaldo Forlani, il «temporeggiatore del 1981», 13 come vicepresidente. Ancor più significativa è la presenza nel governo del leader del Partito socialdemocratico Pietro Longo (tessera P2 numero 2223), cosa che colpisce più o meno come la nomina del socialista Silvano Labriola (tessera P2 numero 2066) a presidente della commissione Affari costituzionali della Camera. Come se non bastasse, pochi giorni dopo il giuramento dei ministri, Licio Gelli evade dal carcere di Ginevra, dove è detenuto in attesa di estradizione, grazie a ignote e solide complicità. 14 Nove mesi dopo, al termine dei lavori della Commissione parlamentare, Tina Anselmi scrive: «Visita a Pertini. Mi ringrazia per quello che ho fatto per l’Italia. Mi conferma la sua stima e la sua amicizia, per il coraggio che ho. Annota che nel Palazzo non si avrà la volontà di andare a fondo e di accogliere la mia relazione» (10 maggio 1984, ore 18.30). 15 Parole profetiche, quelle del presidente Pertini, come dimostrano gli eventi successivi alla caduta del governo Spadolini e il graduale, ma inesorabile, ricomporsi delle logiche e dei meccanismi di potere occulto. Nel frattempo, il procedimento romano sulla loggia P2 – quello scaturito dalla perquisizione di Castiglion Fibocchi e trasferito d’imperio da Milano a Roma dalla sentenza del 2 settembre 1981 della Corte di cassazione 16 – è rimasto sostanzialmente immobile negli uffici giudiziari della Capitale per circa due anni. Quel procedimento si chiude poi con una sentenza di proscioglimento generale datata 17 marzo 1983, emessa dal capo dell’ufficio istruzione del

Tribunale di Roma, Ernesto Cudillo, su richiesta della Procura della Repubblica, rappresentata dal procuratore caporomano Achilletenta Gallucci e dal sostituto Domenico Sica. Così il «porto delle nebbie» di liberarsi dello scomodo problema P2 seppellendolo sotto una pietra tombale dopo due anni di oblio

 

totale. Tuttavia, essendo l’Italia – per fortuna – un paese ricco di contraddizioni, l’ufficio della Procura generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma insorge e impugna la sentenza di proscioglimento, appellandosi alla sezione istruttoria della Corte d’appello, 17 alla quale chiede di contestare il delitto di attentato contro la costituzione (art. 283 Codice penale) a un certo numero di affiliati alla P2. Purtroppo la sezione istruttoria impiega un anno e nove mesi per svolgere, con ben scarsa diligenza, il suo supplemento di indagini e restituisce gli atti alla Procura generale il 18 dicembre del 1984, perché essa formuli le sue richieste definitive. Un paio di mesi dopo, il 22 febbraio del 1985, la Procura generale della Repubblica deposita la sua requisitoria finale, 18 che la sezione istruttoria accoglie, sia pure solo in parte, nella sua sentenza del 26 marzo 1985. Quest’ultima sentenza dispone la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale Roma l’eventuale penale a carico di Licio Gelli e di degli altriper imputati per il esercizio delitto di dell’azione cospirazione politica mediante associazione, finalizzata anche all’attentato contro la Costituzione, nonché per alcuni reati minori. Tra questi ultimi – a carico di Licio Gelli – il reato previsto dall’art. 256 del codice penale, «per essersi procurato notizie destinate a rimanere segrete nell’interesse della sicurezza dello Stato, contenute in carteggi dei servizi di sicurezza», 19 a loro volta rinvenuti nella casa di Gelli a Montevideo e trasmessi dalle autorità uruguayane a quelle italiane. Nei mesi immediatamente successivi arrivano alla Procura della Repubblica anche gli atti della Commissione parlamentare P2, per iniziativa della presidente Tina Anselmi, che inevitabilmente confluiscono in questo risorto procedimento romano sulla P2. È quindi soltanto nella primavera del 1985 che questo tormentato procedimento penale ritorna – con un ritardo di quattro anni spesi nella pressoché totale inattività – alla Procura della Repubblica di Roma. Lì il clima è un po’ cambiato. Il procuratore capo non è più Achille Gallucci e l’incartamento approda sul tavolo del procuratore aggiunto Michele Coiro, personaggio di ben diversa caratura. Ha preso inoltre servizio nella Procura una schiera di nuovi sostituti. Tra questi ultimi c’è Elisabetta Cesqui. Il procuratore Coiro affida a lei il

procedimento, che si rimette in moto verso la metà del 1985 per i reati già menzionati (tra cui la cospirazione politica e l’attentato alla Costituzione) e nella stessa posizione precedente, vale a dire davanti al giudice istruttore che è ancora Ernesto Cudillo, il capo dell’ufficio istruzione. Quest’ultimo, invece di assegnare il procedimento a uno dei magistrati del

 

suo ufficio, come sarebbe consuetudine, lo tiene per sé. Solo che, lungi dall’impegnarsi diligentemente, come sarebbe suo dovere, in «tutti […] quegli atti che […] appaiono necessari per l’accertamento della verità», 20 fa sostanzialmente da freno all’istruttoria, prolungandone la durata, svolgendo gli atti istruttori senza il dovuto approfondimento e spesso respingendo le specifiche richieste di indagini formulate dal pubblico ministero. 21 Il pubblico ministero Elisabetta Cesqui cerca di supplire alle inerzie del consigliere istruttore, riceve minacce attraverso uno strano furto in appartamento avvenuto nel dicembre del 1986 e subisce anche un’incriminazione strumentale per interesse privato in atti di ufficio, derivante da un esposto contro di lei datato 26 luglio 1985 e firmato da Costantino Belluscio (tessera P2 numero 1710). L’incriminazione viene artificiosamente tenuta in piedi per due anni e viene archiviata, in quanto totalmente infondata, solo nell’agosto 1987. 22 Elisabetta Cesqui, dal canto suo, procede imperterrita nel suo lavoro. L’istruttoria procedimento P2 requisitoria si protrae faticosamente alla fine del 1990. Elisabettadel Cesqui firma la sua il 31 gennaiosino del 1991 chiedendo il rinvio a giudizio di Licio Gelli e di altri quindici imputati. I reati più gravi sono la cospirazione politica e l’attentato alla Costituzione, entrambi ricompresi nel capo 1 dell’imputazione. A questo punto il consigliere istruttore Cudillo delega per la decisione il giudice istruttore Francesco Monastero, che emette la sua ordinanza di rinvio a giudizio il 18 novembre del 1991 accogliendo le richieste del pm. Il dibattimento si svolge davanti alla Corte d’assise di Roma a partire dal 12 ottobre 1992. Si conclude il 16 aprile del 1994, giorno in cui viene emessa la sentenza. Tutti gli imputati vengono assolti dal capo 1 dell’imputazione perché il fatto non sussiste (il pm Cesqui aveva chiesto per tutti la condanna). Vengono invece irrogate delle condanne per alcuni reati minori. Licio Gelli, in particolare, viene condannato (per calunnia, 23 per millantato credito e per procacciamento di notizie destinate a rimanere segrete nell’interesse della sicurezza dello Stato) alla pena complessiva di diciassette anni di reclusione. Nei successivi gradi di giudizio il riconoscimento della responsabilità penale degli imputati – e in particolare di Gelli – sarà confermato, ma tutti i reati saranno dichiarati estinti per prescrizione.

Si potrà anche dire che la montagna ha partorito il topolino, ma l impegno totale e defatigante profuso per nove lunghi anni da un’unica persona (Elisabetta Cesqui), tra l’altro in una situazione così gravemente compromessa come quella che si è descritta, trasforma quel topolino in qualcosa che non può che suscitare ammirazione. Chapeau.

 

L’inesorabile e graduale ricomporsi delle logiche e dei meccanismi di potere occulto si realizza spesso attraverso vicende contorte e contraddittorie. Emblematica, in questo senso, è la vicenda del dibattito alla Camera sulla Relazione Anselmi, avvenuto tra la fine del 1985 e i primi mesi del 1986. Quando la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2 conclude i propri lavori, nel luglio del 1984, approvando a grande maggioranza la relazione finale firmata dalla presidente Tina Anselmi, non si può dire che le forze politiche sentano immediatamente l’impulso di occuparsi di quel documento. Passano infatti diciassette mesi prima che il dibattito sulla Relazione prenda l’avvio alla Camera dei deputati. La data fissata è quella del 18 dicembre 1985. Quella mattina la seduta si apre con una sorpresa: i presidenti dei gruppi parlamentari, arrivando in ufficio, trovano sulle loro scrivanie una busta senza indicazione del mittente, contenente la copia di una lunga lettera scritta due settimaneGelli primachiede da Licio al presidente della Repubblica Francesco Cossiga. che Gelli il presidente intervenga perché la Relazione Anselmi venga «bollata per quello che è: un atto deviante e destabilizzante, posto in essere in dispregio di tutte le norme di uno Stato democratico». Inoltre la lettera si chiude con parole oscure e minacciose che sembrano alludere a imprecisate punizioni bibliche: «Che quanto è accaduto […] non ricada sull’intero paese. Perché anche una nazione richiama il giudizio del cielo». In ogni caso la discussione sulla P2 prende il via e si protrae per l’intera giornata, in un’aula piuttosto sguarnita, per poi proseguire il giorno dopo in un’aula pressoché deserta. I lavori vengono quindi sospesi per le vacanze di fine anno. Il dibattito riprende l’8 gennaio del 1986, sempre in un’aula semideserta. Così lo descrive la cronista parlamentare Sandra Bonsanti: «A mezzogiorno […] in aula ci sono dodici deputati del Pci, c’è il demoproletario Gorla, ci sono cinque radicali, c’è Tina Anselmi, c’è il ministro Martinazzoli […]. Mancano del tutto: missini, democristiani, socialisti, liberali, socialdemocratici, repubblicani». 24 Nella seduta del 9 gennaio, quando Tina Anselmi pronuncia il suo discorso politico sulla democrazia «controllata» e «condizionata», l’aula è di nuovo semideserta e «le ultime parole della presidente, una sorta di accorato appello alle forze politiche per non uscire “tutti perdenti” dalla vicenda P2, sono accolte

dagli applausi di otto compagni di partito, di sei comunisti, di qualche indipendente di sinistra». 25 Una volta conclusa stancamente la discussione sulla Relazione, il voto sulle relative mozioni presentate dai vari gruppi parlamentari viene rinviato al 6 marzo 1986, quando si verifica un fatto nuovo: la maggioranza che ha firmato la

 

Relazione Anselmi (comunisti, democristiani, socialisti e repubblicani) presenta un documento comune di conferma di ogni giudizio contenuto nella Relazione. Sembrerebbe quindi profilarsi un ampio schieramento, unito nella condanna della P2 e nella volontà di impegnare il governo ad assumere le iniziative prospettate dalla Commissione parlamentare. Tanto più che, al termine della seduta del 6 marzo, il documento comune viene messo ai voti a scrutinio segreto e viene approvato dall’assemblea a larghissima maggioranza, con 322 voti favorevoli e 45 voti contrari. 26 Tuttavia questa «Risoluzione», teoricamente importantissima, verrà immediatamente accantonata, rigorosamente passata sotto silenzio e sepolta per sempre nell’oblio, proprio a opera dei governi che si sono avvicendati dal marzo 1986 in avanti. Una situazione estremamente contraddittoria che si spiega con il deciso ritorno alle logiche di potere occulto. Infatti, da un lato la Risoluzione parlamentare conferisce alle conclusioni della Commissione P2 un rilevantissimo «crismaun ufficiale» e – neidisette punti del suo dispositivo – impegna il governo a governo a svolgere certo numero compiti (evidentemente intesi come vincolanti) in cui si articola il dispositivo della impegni del  del governo vi sono: Risoluzione. 27 Tra questi solenni impegni  – assumere le iniziative iniziat ive necessarie per garantire garanti re il controllo parlamentare parl amentare sui criteri di nomina dei vertici dell’amministrazione pubblica e degli enti pubblici, «contrastando la formazione di incrostazioni di potere»;  – assumere iniziative per la «revisione della legislazione sull’editoria», sull’edit oria», per assicurare «l’effettiva trasparenza proprietaria» e i relativi «controlli»;  – rafforzare l’azione degli organi competenti compet enti per il «controll «controlloo sul sistema bancario e finanziario»;  – vigilare perché sia garantito «il rispetto rispett o assoluto del principio della trasparenza» del sistema democratico e del suo ordinamento, così da rendere «possibile e concreto il controllo democratico dei cittadini» sulla vita delle istituzioni. D’altro lato, si deve prendere atto che i governi succedutisi dagli ultimi anni Ottanta in poi ignorano totalmente la Risoluzione parlamentare del 6 marzo 1986, così come i compiti che, da quella Risoluzione, sono stati loro assegnati. Ciò in un clima di rinnovato vigore delle logiche occulte, culminato poi – a metà degli anni Novanta e più ancora negli anni Duemila – nell’avvento pernicioso

dell epoca berlusconiana. 28 Non a caso, nel corso dell’ultimo governo Berlusconi, in una conferenza stampa televisiva del 31 ottobre 2008, Licio Gelli rivendica con orgoglio alla loggia P2 la paternità del «Piano di rinascita democratica» con queste parole: «Peccato non averlo depositato alla Siae per i diritti, tutti ne hanno preso spunto:

 

l’unico che può portarlo avanti è l’attuale presidente del Consiglio Silvio Berlusconi». I giornali riportano la notizia con un certo risalto. 29 Ma il diretto interessato (tessera P2 numero 1816), destinatario di quello scomodo complimento, non si scompone e non lascia trapelare nessun commento.

 3. Epilogo. Licio Gelli Gelli si congeda La tendenza di chi esercita una qualsiasi forma di potere a non lasciarsi vedere è irresistibile. Elias Canetti ha scritto in forma lapidaria: «Il segreto sta nel nucleo più interno del potere». Irresistibile, perché il potente sa che è tanto più sicuro di raggiungere i propri scopi quanto più i luoghi in cui si muove sono inaccessibili e i suoi movimenti sono impercettibili. Complessa e sinora poco studiata è la fenomenologia del potere invisibile. Vari Vari sono i modi con cui si ottiene la invisibilità, ma due sono i principali, strettamente intrecciati fra loro: nascondersi nascondersi e nascondere (coprirsi o coprire). Nascondersi: non mostrarsi mai in pubblico oppure mostrarsi con una maschera che renda il proprio viso irriconoscibile. Nascondere: Nascondere: usare sistematicamente la menzogna per ostacolare la conoscenza dell’azione compiuta o da compiere. Intrecciati strettamente fra loro, perché il primo favorisce l’uso del secondo, e il secondo crea le migliori condizioni per assicurare il successo del primo. Che ogni forma di terrorismo eversivo non possa svolgersi se non nelle modalità del potere occulto, è evidente. Il gruppo terroristico ha e non può non avere tutti i caratteri della setta segreta: esso si costituisce nel momento in cui, con espressione che ci è diventata purtroppo familiare, un insieme di militanti di un movimento estremistico, quando si rende conto di non potere perseguire il proprio obiettivo con un’azione pubblica, perché sarebbe considerata illecita, decide di «scendere in clandestinità». Il che significa, da un lato, non riunirsi più in luogo pubblico, non esprimere la propria opinione servendosi dei mezzi di comunicazione protetti ma nello stesso tempo limitati dalle leggi stabilite dai pubblici poteri, in genere rifiutare tutti i vantaggi ma insieme anche gli oneri che derivano dall’esercizio dei diritti di libertà caratteristici di uno Stato diritto; quello dall’altro dietro la maschera delladifalsa identità, non democratico essere più in di pubblico chelato, si è nascondersi in privato, usare tutti quei processi «mimetizzazione» che debbono consentire, consentire, giacché non è possibile cancellarsi del tutto, di non farsi identificare. Meno evidente, e per quel che riguarda la sanità delle nostre istituzioni democratiche ben più allarmante, il continuato e pervicace, ormai per tante prove irrefutabile, esercizio dell’altra modalità del potere occulto, che consiste nell’uso sistematico dell’occultamento attraverso il mendacio, e tutte le forme di simulazione e dissimulazione, con cui chi avrebbe il dovere di scoprire la verità contribuisce a coprirla. Così, accanto alle forme di nascondimento oggettivo, come il luogo segreto, la carta d’identità falsa, la scrittura in codice, vi è, non meno pericoloso e in un certo senso ancor più insidioso, perché trae in inganno, svia, confonde, il nascondimento che dipende dall’uso perverso della comunicazione, sia essa linguistica o mediante segni, segnali e

simboli, di cui ci si serve non per informare ma per disinformare, non per aiutare la ricerca della verità ma per ostacolarla, non per fornire dati certi ma per contraffarli e per fare loro significare il contrario di quel che significano in realtà. Quest’opera di occultamento è stata compiuta sistematicamente e ripetutamente nel nostro paese da settori dei servizi segreti che appartengono non all’anti-Stato ma allo Stato, e il cui compito statutario è quello non già di favorire la sovversione, ma di offrire i mezzi di cui solo

 

un’attività segreta può disporre per combatterla. L’ostacolo L’ostacolo alla ricerca della verità può avvenire in vari modi, che appaiono tutti quanti praticati, compresi quelli più perfidi, da questo o quel settore dei servizi segreti nei processi contro l’eversione di destra (anche se qualche sospetto, perlomeno di inerzia, sia stato avanzato anche per quel che riguarda l’eversione di sinistra): la mancata trasmissione d’informazioni, l’informazione non tempestiva, ad arte ritardata, la disinformazione, la notizia manipolata, e addirittura l’informazione intenzionalmente falsa o falsificata, o, come si dice in gergo, il «depistaggio». Il caso più scandaloso e moralmente abbietto è rappresentato da tutte quelle azioni che mirano consapevolmente e con un disegno politico preciso a spostare le indagini dall’uno all’altro gruppo eversivo per salvare i colpevoli e far ricadere la colpa su innocenti politicamente invisi. Si tenga anche presente che sinora questo sviamento è avvenuto soltanto in una direzione: mentre vi sono prove che in alcuni casi sia stato fatto il tentativo di attribuire a gruppi di sinistra attentati compiuti dalla destra, non è mai accaduto il contrario.

Questo testo si deve alla penna magistrale di Norberto Bobbio ed è parte della sua prefazione alla pubblicazione in volume dell’atto di rinvio a giudizio per la strage di Bologna, emesso il 14 giugno del 1986 dai giudici istruttori bolognesi Vito Zincani e Sergio Castaldo. 30 Quello di Norberto Bobbio è un testo ideale per introdurre un epilogo come questo, che intende soffermarsi sulle modalità del tutto peculiari con cui Licio Gelli – depistatore sino all’ultimo respiro – si congeda da noi disseminando un po’ di interviste con rivelazioni varie, in parte veritiere e in parte no. 31 A partire dalla già citata intervista del 31 ottobre 2008, Gelli comincia a manifestare un’inedita loquacità e a vantarsi sempre più apertamente di quanto lui e la sua loggia P2 fossero potenti e proiettati ineluttabilmente verso il governo del paese: L’effettivo capo della P2 ero io. Il generale Miceli, il generale Santovito, l’ammiraglio Martini, tutti i capi dei servizi segreti che si sono succeduti si nominavano noi. Si suggerivano i nomi e dovevano esser quelli […]. Il capo di stato maggiore dell’esercito si nominava noi, il comandante generale carabinieri nominava noi, il generale guardia finanzaavere si nominava capo delladei squadra dellasimarina si nominava noi […].della Perché la P2didoveva i migliorinoi, di iltutti i settori. Perché se avevamo i migliori di tutti i settori potevamo eventualmente governare bene il paese. 32

Gelli si vanta anche, in un’intervista piuttosto importante del 2011, di quanto fosse legato a Giulio Andreotti e a Francesco Cossiga, non soltanto da stima e amicizia, ma anche da rapporti di collaborazione, che sino a qualche anno prima avrebbe considerato decisamente inconfessabili. Inoltre, in questa stessa intervista (come già in quella del 2008), vanta di nuovo l’assoluta genialità del suo «Piano di rinascita democratica», ma in questa occasione ci fornisce anche

un’informazione grossolanamente falsa, con l’intento di trarci in inganno e di fuorviare l’opinione pubblica circa il fine ultimo che stava perseguendo il Sistema P2 alla vigilia della perquisizione di Castiglion Fibocchi. Ecco il brano dell’intervista rilevante a questo proposito:

 

 La P2 è davvero davvero scomparsa o ci sono anc ancora ora uomini che stanno portando avanti avanti il vostro «Pia «Piano no di rinascita»? Il «Piano di rinascita» […] lo avremmo attuato noi se avessimo avuto quattro mesi. A noi sono mancati quattro mesi, perché c’erano da fare dei movimenti di ufficiali, trasferimenti. Se avessimo avuto quattro mesi ancora di tempo lo avremmo attuato.  In base a un colpo di Stato? Un colpo di Stato, ma senza colpo ferire […]. Venivano eliminate delle persone, che già sapevamo di destinare giù in Sardegna, dove ci sono seicento villette che appartengono al servizio. Erano stati destinati lì. Avevamo trecento taxi per potere andare a prendere le persone a casa la sera. Si portavano a Ciampino e da Ciampino, con un aereo […], venivano concentrati tutti in Sardegna […]. Questo era il piano Solo del 1964? Il piano Solo era quello del generale Bittoni […].  Ma questo momento in cui cui si è arrivati a quattr quattroo mesi dal golpe era più tar tardi. di. Quando? Nel 1974? Ma no! Quattro mesi a noi ci mancava! Era previsto nell’81.  Ah, nell’81? Eh… dunque, dunque, per quattro me mesi, si, la scoperta delle liste ha im impedito pedito questa soluzione? Sì.  Lei dice che volevate volevate portarli in Sar Sardegna, degna, ma non ho ben ccapito. apito. A chi si riferisce riferisce?? Questi funzionari, che erano al governo, anche dei ministri, che venivano eliminati. Dico eliminati non fisicamente, ma moralmente, dai loro incarichi. Venivano Venivano appoggiati lì, per il momento. E tenuti in custodia. Quindi se mancavano quattro mesi, c’è stato tutto un lasso di tempo in cui siete riusciti… Quattro mesi. In quanto eravamo già pronti. […] Cioè, chi potrebbe essere portato in Sardegna oltre a questi funzionari e ministri? C’erano anche pericolosi comunisti, immagino. Eh, certamente. Lì c’era la Gladio, che era comandata da Cossiga, l’Anello, che era diretto da Andreotti, e la P2 che era diretta da me.  E tutti alleati, dunque… Può darsi. 33

Questo racconto fantasioso circa un ipotetico golpe «classico» (pressoché identico al piano Solo fallito diciassette anni prima), che sarebbe stato programmato per il mese di luglio del 1981, è totalmente inverosimile. Infatti, a partire dal 1976, il sistema di potere occulto della loggia P2 disponeva di uno strumento – il cosiddetto «Piano di rinascita democratica» – ben più sofisticato ed efficace, per conquistare surrettiziamente il controllo totale dell’Italia, di quanto non sarebbe stato un colpo di Stato di tipo tradizionale. Tanto più che la P2 aveva già abbondantemente cominciato a estendere i suoi tentacoli per dominare tutti i gangli vitali e tutte le istituzioni del paese, proprio seguendo le

indicazioni di quel piano diabolico: per esempio aveva già soggiogato alcuni giornali importanti, come il «Corriere della Sera», «Il Mattino» di Napoli e «Il Tempo» di Roma, senza che i relativi giornalisti (non piduisti) nemmeno lo sospettassero. 34 L’idea che una sera dell’estate 1981 alcune migliaia di brutti ceffi potessero

 

irrompere in casa di seicento personaggi politici, tra cui anche membri del governo (per giunta del governo Forlani!), per deportarli e rinchiuderli in altrettante villette in Sardegna è un’idea talmente peregrina che non varrebbe nemmeno la pena di spendere tante parole per dimostrarlo. Del resto, Gelli si contraddice vistosamente quando afferma che il rapimento e la deportazione in Sardegna di seicento personaggi di rilievo (dal segretario del Pci Berlinguer al ministro dei Trasporti Formica, tanto per fare un paio di esempi ipotetici) sarebbe stato un modo come un altro per attuare il «Piano di rinascita» («Il “Piano di rinascita” lo avremmo attuato noi se avessimo avuto quattro mesi»). Gelli mente sapendo di mentire, perché sa benissimo che il «Piano» prevedeva modalità di conquista del potere ben più sottili, che non avevano niente a che fare con quelle assurde deportazioni. Basti rammentare come veniva formulato il primo obiettivo di quel documento: «Partiti politici, stampa e sindacati costituiscono oggetto di sollecitazioni possibili sul piano della manovra di tipo economico-finanziario. La disponibilità di cifre anon superiori a 30 fede o 40 e miliardi [di lire n.d.a. n.d.a.]] sembra sufficiente a permettere uomini di buona ben selezionati di conquistare le posizioni chiave necessarie al loro controllo». 35 Resta da stabilire il motivo di una così grossolana invenzione. L’ipotesi più plausibile è che Licio Gelli abbia voluto, con quella rivelazione, ingannare l’opinione pubblica e suscitarne un’indignazione artificiosamente pilotata verso un obiettivo inesistente (il fantomatico colpo di Stato con tanto di deportazioni), per distoglierne l’attenzione dal vero e prezioso strumento di dominio a disposizione della P2 (il «Piano di rinascita»). Salvo la possibilità, una volta che la notizia avesse suscitato indignazione e scandalo, di farne emergere la falsità, così da ridicolizzare il tutto e tornare a sostenere che la P2 non era una cosa seria. Tuttavia, tra le rivelazioni di Gelli contenute nella lunga intervista del 2011, ci sono anche notizie attendibili. Tra queste, particolarmente significativa è la frase finale della conversazione sopra riportata, dove Gelli accenna ai suoi stretti rapporti con Andreotti e Cossiga e al legame di questi ultimi con le propaggini più clandestine dei servizi di sicurezza controllati dalla P2 o comunque a essa ricollegabili, Gladio e l’Anello. Una frase che suona un po’ come uno slogan, se vogliamo, ma che rende l’idea del rapporto oscuro che i due uomini politici certamente avevano con le due rispettive entità di riferimento.

Sull’organizzazione Gladio ci si è già soffermati nelle pagine precedenti. 36 Quanto al cosiddetto Anello, o Noto Servizio, esso è stato definito come «un servizio segreto parallelo e clandestino fondato nel 1944 per i “lavori sporchi” –  che non dovevano coinvolgere direttamente uomini dei servizi – e la cui storia si incrocia con molte delle vicende più oscure della storia del nostro paese». 37 Ma

 

sull’una e sull’altra entità sembra opportuno un approfondimento, anche per meglio esplorare il significato e l’attendibilità dell’aforisma gelliano: «C’era la Gladio, che era comandata da Cossiga, l’Anello, che era diretto da Andreotti, e la P2 che era diretta da me». L’11 gennaio del 1992 il presidente della Repubblica Francesco Cossiga è a Chicago per ricevere una laurea honoris causa in causa in giurisprudenza da parte della Loyola University e approfitta della presenza dei giornalisti italiani per togliersi l’ennesimo sassolino dalla scarpa. Lo fa difendendo a spada tratta Gladio e descrivendola come una struttura patriottica destinata a difendere l’Italia da possibili colpi di stato di matrice comunista: Io sono uno di quei ragazzi che ha il coraggio di dire che il 18 aprile [1948 n.d.a. n.d.a.]] 38* faceva parte di una formazione armata, come ce n’erano tante nelle città d’Italia. Facevo parte di una formazione di giovani democristiani, armati dall’Arma dei carabinieri, per difendere le sedi dei partiti nel caso che i comunisti, perdute le elezioni, avessero tentato un colpo di Stato. Andai personalmente dai carabinieri di Sassari a prendere il mio mitra Sten e le bombe a mano, e nel sottosuolo di Sassari fui addestrato da un sottufficiale del battaglione San Marco […]. È ora che parte della Dc la smetta di fare finta che Francesco Cossiga sia l’unico responsabile, non in senso colpevole ma in senso tecnico del termine, della politica estera, della difesa e della dura confrontazione politica, militare, ideologica all’interno e all’esterno con il comunismo. Io unico responsabile di Gladio, responsabile del Patto Atlantico, responsabile della discriminazione che si è operata per trent’anni contro gli esponenti del Pci […]. Non mi costringano gli altri amici della Democrazia cristiana a fare i nomi degli altri che si trovavano nelle mie stesse identiche condizioni e oggi fanno gli amici del Partito comunista, specialmente in Emilia Romagna. 39

Questa dichiarazione dirompente di Cossiga viene fatta poco più di un anno dopo che l’esistenza dell’organizzazione segreta Gladio è stata rivelata all’opinione pubblica dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, su sollecitazione parlamento. Infatti, il 18del ottobre del 1990, Andreotti invia alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi una relazione intitolata «Il cosiddetto Sid Parallelo –  Operazione Gladio. Le reti clandestine a livello internazionale», con la quale rivela che da quasi quarant’anni esiste in Italia una struttura armata, composta sia da civili sia da militari, destinata a difendere il territorio nazionale nel caso di un’invasione da parte di un esercito straniero. La rivelazione di Andreotti suscita un enorme clamore, viene ripresa da tutti gli organi di informazione e diventa oggetto di continui dibattiti e scontri politici. Già nei giorni successivi Cossiga reagisce provocatoriamente affermando di considerare «un grande privilegio» il

fatto di essere stato per diversi anni uno dei referenti politici di Gladio, 40 fomentando ulteriormente le polemiche che, sempre più accese, culminano nel dicembre del 1991 in una richiesta di impeachment  contro  contro l’allora capo dello Stato.

 

L’impeachment  non  non ci sarà, ma le indagini condotte dalla magistratura – sia ordinaria sia militare – e le inchieste parlamentari, pur senza aver raggiunto conclusioni certe né condanne penali, inducono a ritenere che le finalità «patriottiche» di Gladio siano svanite quanto meno verso la metà degli anni Settanta, quando il fantasma del pericolo comunista è a sua volta svanito, per sopravvivere solo nella mente di persone come Sindona e Berlusconi. E gli studi successivi condotti da vari autori inducono a ritenere che la sopravvivenza di una struttura occulta come Gladio – addirittura sino alla fine del 1990 (il ministro della Difesa Virginio Rognoni ne decreta lo scioglimento solo il 27 novembre di quell’anno) – abbia avuto finalità coerenti con le logiche oscure imperanti nel periodo di maggior potere del Sistema P2. Non è casuale, del resto, che sia Andreotti sia Cossiga si siano limitati a parlare esclusivamente del ruolo svolto da Gladio, come strumento di difesa, nei primi lustri della Repubblica. La relazione di Andreotti «ha stabilito solo i 41

 Quanto a confini il resto «eroico» fu lasciatodegli alle anni interpretazioni». Cossiga,della egli verità alludedicibile: solo al periodo Quaranta e Cinquanta, soffermandosi in particolare sul 1948: il Cossiga «ragazzino», appena diciannovenne e armato sino ai denti. Sta di fatto, però, che nel tempo Gladio ha cambiato pelle. Chi lo afferma autorevolmente è Paolo Emilio Taviani, ministro della Difesa dal 1953 al 1958: «Bisogna capire che la cosiddetta Gladio ha avuto stagioni diverse. Una cosa era la struttura degli anni Cinquanta e Sessanta, una cosa è stata quella degli anni Settanta e un’altra ancora quella del decennio appena concluso [degli anni Ottanta n.d.a. n.d.a.]». ]». 42 Ancor più significativa è l’affermazione fatta dal generale Gerardo Serravalle (al vertice di Gladio dal 1971 al 1974) in una deposizione resa nel 1991 al giudice istruttore di Bologna nel procedimento Italicus bis: Mi domando se la struttura [Gladio n.d.a. n.d.a.]] abbia avuto qualche rapporto con il cosiddetto piano Solo o comunque con attività eversive. Non vorrei che Gladio avesse rappresentato una specie di coperchio per qualcosa di ben diverso. Che cioè vi fosse una struttura presentabile, appunto la Gladio, e un’altra, al di sotto, impresentabile, con finalità illecite. Ebbi a un certo punto la sensazione che Gladio fosse una realtà che serviva a coprire qualcosa di diverso e di pericoloso, qualcosa che doveva rimanere segreto. 43

Lo stesso generale Serravalle, inoltre, nell’audizione del 20 novembre 1990 davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, ha riferito che

lui avrebbe voluto sciogliere Gladio già nel 1972, perché c’erano troppe armi in giro e temeva «che potessero finire nelle mani sbagliate», ma che l’ipotesi dello scioglimento era avversata dagli Stati Uniti. «Temevo – prosegue Serravalle – di diventare il capo di una banda armata, visto che una parte consistente dei “gladiatori” aveva un concetto della propria funzione ben diverso da quello

 

ufficiale. Vedeva nel Partito comunista italiano una quinta colonna dell’Urss in Italia e sosteneva la necessità di agire in anticipo, cioè di colpire i comunisti italiani prima che potessero organizzare o agevolare l’ipotetica invasione». 44 Tutto induce a ritenere, quindi, che l’accanimento, con cui Cossiga, ancora negli anni Novanta, cerca di far passare Gladio per una struttura «patriottica», in pieno contrasto con le dichiarazioni ben più attendibili del generale Serravalle e dello stesso Taviani, finisce col convalidare quella sorta di lapidaria «chiamata di correo» fatta da Gelli nei suoi confronti: «c’era la Gladio che era comandata da Cossiga […] e la P2 che era diretta da me». L’affermazione di Gelli circa il legame privilegiato fra Giulio Andreotti e la struttura dell’Anello, ovvero Noto Servizio, trova conferma nelle dichiarazioni rese agli inquirenti dai testimoni Michele Ristuccia e Giovanni Pedroni, personaggi interni a quella struttura. Costoro dipingono in particolare padre Enricoinfluente, Zucca, noto come «il cappellano dell’Anello», come unAndreotti, personaggio molto tanto da essere «in condizione di convocare» essendo «in grado di orientare l’enorme e influente bacino elettorale lombardo della Dc», 45 e avendo egli «addentellati in tutta Italia e un notevole ascendente su alti personaggi della vita politica ed economica del paese». 46 Tra i lavori sporchi sbrigati dall’Anello c’è stata, nel 1977, la fuga in Germania del nazista Herbert Kappler, condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Una fuga vergognosa organizzata per conto della presidenza del Consiglio (governo presieduto appunto da Giulio Andreotti), in cambio di un cospicuo versamento di denaro da parte della Germania. Per giunta, si è fatto credere agli italiani che Kappler fosse evaso rocambolescamente dall’ospedale militare del Celio aiutato da sua moglie, donna molto robusta che, usando delle funi, avrebbe calato da una finestra il marito chiuso in una valigia. 47 In realtà fu aiutato sì dalla moglie, ma uscì dall’ospedale con le sue gambe e raggiunse l’isola Tiberina dove ad attenderlo c’era Adalberto Titta, un ex pilota repubblichino, secondo alcuni il capo dell’Anello, 48 che lo trasportò presso una clinica di Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo. Qui Kappler venne visitato dal professor Giovanni Pedroni, noto come «il medico dell’Anello», che era però anche il medico personale dello stesso Titta e dell’influente padre Zucca.

Dalla clinica, Kappler venne portato, sempre da Titta, al Brennero, dove fu consegnato a due ufficiali medici tedeschi che lo condussero in Germania. A raccontarlo sono stati gli stessi uomini del Noto Servizio che hanno reso dichiarazioni agli inquirenti, come Giovanni Pedroni e Michele Ristuccia, stretto collaboratore di Adalberto Titta. 49

 

Dalla fuga di Kappler alla strage di via Fani passano esattamente sette mesi, dopo di che, nei cinquantacinque giorni del rapimento Moro, gli uomini dell’Anello entrano nuovamente in azione. Essi si trovano però ad agire in un contesto estremamente contraddittorio e non è facile ricostruire come si siano mossi. In ogni caso, dalle dichiarazioni di Ristuccia, risulta che Titta riuscì a entrare in contatto con le Br e fu in grado di sapere con immediatezza che il Comunicato n. 7 del 18 aprile 1978 (che annunciava l’uccisione di Moro e invitava a cercarne il cadavere nel lago della Duchessa) era un falso. 50 L’uomo del Noto Servizio che si diede da fare per ottenere la liberazione di Aldo Moro fu proprio il cappellano dell’Anello, padre Enrico Zucca, priore dell’Angelicum di Milano. Lui stesso raccontò poi al settimanale «l’Espresso», pochi giorni dopo l’uccisione di Moro, la tormentata vicenda delle trattative che aveva pazientemente messo in piedi e che erano fallite inspiegabilmente a un passo dalla fine. 51 TramiteinlaSvizzera Fondazione un’organizzazione che gestiva lascitidi depositati dallaBalzan, omonima famiglia, padre Zucca era ini grado ottenere un’ingente somma di denaro che avrebbe permesso di pagare un riscatto alle Br in cambio della libertà di Moro. La sua influenza gli consentiva inoltre di rivolgersi direttamente al presidente del Consiglio Giulio Andreotti, al quale scrisse più volte. L’ultima lettera porta la data del 3 maggio 1978: Signor Presidente, sono sempre privo di risposte alle mie numerose precedenti istanze e mi permetto di sollecitarle ancora una volta. Con la presente desidero comunicarLe che, con formale deliberazione unanime, questa Fondazione ha deciso di dare il suo aiuto incondizionato per salvare la vita dell’on. Moro […]. Questa Fondazione ha deliberato, fra l’altro, di mettere a disposizione la somma di due milioni di dollari come contributo a un maggior fondo di riscatto […]. Mi permetto di pregarLa, Signor Presidente di informare di quanto sopra gli organi e uffici competenti. La ringrazio della Sua attenzione

Padre Zucca non ricevette mai alcuna risposta dal presidente Andreotti. Il suo tentativo di salvare Aldo Moro fallì, così come fallirono tutti i tentativi analoghi intrapresi da altri ambienti e da altre persone. Come mai? Una spiegazione plausibile la si trova nelle rivelazioni dell’americano Steve Pieczenik, l’esperto del dipartimento di Stato Usa (noto come «l’uomo di

Kissinger») che affiancò in veste di consulente l’unità di crisi del ministero dell’Interno (quella pienadel di piduisti) neilafamosi cinquantacinque giorni dichiarò, in un’intervista 1998, «che sua missione in Italia era statae che coronata da pieno successo». All’obiezione di chi gli rammentava che in realtà Moro era stato ucciso, Pieczenik rispondeva che «l’obiettivo non era la salvezza

 

di Moro, ma scongiurare il crollo del sistema politico italiano, però senza dimostrare che ci fosse effettivamente quel pericolo». 52 Anni dopo, Pieczenik chiariva ulteriormente il concetto in un libro scritto con un giornalista francese e pubblicato con un titolo tanto eloquente quanto inquietante: Abbiamo inquietante:  Abbiamo ucciso Aldo Moro. Lì Moro. Lì si spiega quale sia stata la missione dell’esperto americano: evitare che l’Italia cadesse nel caos, come sarebbe accaduto, dal punto di vista di Washington, se Moro fosse stato rilasciato vivo. 53 Pieczenik partiva dal presupposto che Moro potesse rivelare ai brigatisti segreti molto compromettenti, magari proprio sui servizi e le loro propaggini più occulte. Temeva che le rivelazioni di Moro potessero diventare una spada di Damocle sulla testa della Dc per anni e anni, cosa che avrebbe dato ai brigatisti un enorme potere contrattuale. Occorreva quindi, secondo lui, ritorcere l’arma del ricatto sulle Br e metterle in trappola: ingannarle attraverso la simulazione di una trattativa e condizionarne il comportamento nel senso da lui voluto. «Possiamo allora capire – spiega Giannuli – come Pieczenik abbia brigatisti a uccidere Moro, spingendoli su una strada dalla quale essicostretto non i potevano tornare indietro e lasciandogli credere, con un abile gioco di specchi, che la liberazione dell’ostaggio da parte loro sarebbe stata letta come un segnale di loro sconfitta e di resa allo Stato». 54 Del resto, è lo stesso Pieczenik a descrivere la sua strategia esattamente in quei termini: «Ho messo in atto la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro […]. La mia strategia era: […] “Sono io a decidere che dovete ucciderlo e a vostre spese”». Pieczenik precisa anche che c’era il rischio che i brigatisti «si rendessero conto dell’errore che stavano commettendo e che liberassero Moro, mossa che avrebbe fatto fallire il mio piano [e che] sarebbe stata una grossa vittoria per loro». 55 È chiaro che la strategia di Pieczenik – evidentemente vincente – rifletteva i desideri del dipartimento di Stato Usa ed era di conseguenza condivisa, o comunque subita, da chi deteneva il potere in Italia: un governo fortemente controllato dal binomio Andreotti-Cossiga e fortemente condizionato dal Sistema P2 nel pieno della sua potenza. E tutto ciò spiega come mai Giulio Andreotti non abbia degnato di alcuna risposta le lettere di padre Enrico Zucca, le quali invece riflettevano un’iniziativa isolata del religioso. Del resto Steve Pieczenik, ancora nel settembre 2013, ha ulteriormente

confermato in tutto e per tutto il suo racconto in un’intervista rilasciata al giornalista Giovanni Minoli, su Radio24, affermando tra l’altro di essere stato al corrente «dell’iniziativa del Vaticano volta a ottenere la liberazione di Moro attraverso un riscatto» e aggiungendo questa eloquente ammissione: «Fui proprio io a bocciarla: in quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili

 

canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato». 56 In altri termini, sia nella vicenda Kappler sia nella vicenda Moro l’Anello ha agito conformemente alle decisioni di Andreotti e Cossiga: nel primo caso portando a compimento la squallida impresa della procurata evasione del criminale nazista, nel secondo caso dando campo libero alla strategia di Pieczenik, abbandonando padre Zucca alla sua generosa solitudine e determinando così la morte di Aldo Moro. 57 È il caso di aggiungere che l’Anello di Adalberto Titta e compagni agì conformemente alle decisioni di Andreotti anche tre anni dopo, nell’aprile del 1981, relativamente al caso di Ciro Cirillo, l’assessore campano della Democrazia cristiana rapito dalla colonna napoletana delle Br di Giovanni Senzani. Quella volta la Dc volle che le trattative si aprissero subito e Cirillo fu liberato previo pagamento di un cospicuo riscatto. 58 Trova così conferma l’aforisma di Licio Gelli, anche nella parte in cui egli sostiene che l’Anello era un’entità clandestina controllata da Giulio Andreotti. A questo punto la mente torna all’ormai famosa metafora della doppia piramide, con cui la Relazione Anselmi descrive la loggia P2 e il suo funzionamento. 59 Una metafora che considera il Sistema P2 come l’insieme di due piramidi collocate l’una sull’altra, in modo da assumere la forma di una clessidra. Licio Gelli, custode e notaio di quel sistema, occupa il vertice della piramide sottostante. In quest’ultima si trovano tutti i segreti svelati dalla perquisizione di Castiglion Fibocchi: l’esercito degli affiliati, la documentazione degli affari inconfessabili, i segreti relativi ai meccanismi del potere occulto e le grandi operazioni da esso controllate. Questa prima piramide è sovrastata da una seconda piramide capovolta, che vede il suo vertice inferiore pure collocato sulla figura di Gelli. Questi è infatti il punto di collegamento tra le forze, i personaggi e i gruppi che, nella piramide superiore, stabiliscono e perseguono le finalità ultime, e le forze che operano nella piramide inferiore, dove quelle finalità trovano pratica attuazione. Nel 1984 la presidente Anselmi scriveva, nella sua relazione finale, che non era possibile sapere quali forze si agitassero nella piramide superiore rovesciata. Oggi, invece, sappiamo qualcosa di più. E non sembra azzardato visualizzare nella piramide superiore proprio Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, i due

protagonisti dell’aforisma gelliano, i quali, tra l’altro, a differenza di Gelli, i loro segreti se li sono portati nella tomba. Peraltro, nella piramide superiore, la posizione di Cossiga appare un po’ defilata, mentre ad Andreotti va invece riconosciuta una posizione decisamente dominante. 60 Volendo tornare ai parallelismi con l’Inferno dantesco, potremmo affiancare al Gelli-Gerione un

 

Cossiga-Pluto e un Andreotti-Lucifero. Aldo Moro, però, non avrebbe riconosciuto ad Andreotti la statura, a suo modo maestosa, di un Lucifero. Infatti, nel suo «Memoriale», Moro ha dipinto in tutt’altro modo la figura dello statista ciociaro: «Tornando poi a Lei, on. Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del paese a capo del governo, non è mia intenzione rievocare la sua grigia carriera. Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, on. Andreotti, è questo che a Lei manca». 61

 

Appendice

 

ANTONELLA BECCARIA,

giornalista e scrittrice, collabora con testate nazionali e trasmissioni televisive, tra cui quelle ideate e condotte da Carlo Lucarelli. Ha firmato vari libri che si occupano di terrorismo, strategia della tensione e criminalità politica, tra i quali Il quali Il faccendiere. Storia di Elio Ciolini, Ciolini , l’uomo che sapeva tutto (Il tutto (Il Saggiatore, 2013) e, insieme a Giorgio Gazzotti, Gigi Marcucci, Claudio Nunziata, Roberto Scardova, Alto Scardova, Alto tradimento. La guerra segreta agli italiani da piazza Fontana alla strage della stazione di Bologna (Castelvecchi, Bologna (Castelvecchi, 2016). STEFANIA LIMITI,

giornalista e scrittrice, ha collaborato tra l’altro con «Gente», «l’Espresso» e «il Fatto Quotidiano». Si è dedicata alla ricostruzione delle pagine ancora oscure della recente storia italiana, svolgendo inchieste giornalistiche attraverso l’analisi delle sentenze giudiziarie e interviste ai protagonisti. Ha pubblicato diversi libri, tra i quali, per Chiarelettere, L’Anello Chiarelettere, L’Anello della Repubblica (2009), Repubblica (2009), Doppio  Doppio livello: come si organizza o rganizza la destabilizzazione in Italia (2013), Italia (2013), Complici. Caso Moro. Il patto segreto tra Dc e Br (con Br (con Sandro Provvisionato, 2015), La 2015), La strategia dell’inganno (2017), dell’inganno (2017), nonché, per Rubbettino,  Poteri occulti (2018). occulti (2018). Ha inoltre curato per Nutrimenti Il Nutrimenti Il complotto di complotto di James Hepburn (2012). SERGIO MATERIA è

stato giudice istruttore e poi giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Perugia, dove si è occupato, tra l’altro, del procedimento penale per l’omicidio di Mino Pecorelli. È stato giudice nella Corte d’appello di Bologna e, successivamente, in quella di Firenze. Lasciata la magistratura, ha aderito all’associazione Libertàgli e Giustizia entrando a far parte del Consiglio di presidenza. Dal 2010 incontra studenti delle scuole della provincia di Arezzo sui temi della legalità, della Costituzione e dei diritti. Dal 2017 ha assunto le funzioni di Garante dell’Università di Firenze. BENIAMINO ANDREA PICCONE,

storico dell’economia, insegna Sistema finanziario presso l’Università Carlo Cattaneo LIUC di Castellanza. Ha lavorato a Milano e Londra in banche d’investimento e società di gestione del risparmio. Collabora con «la Repubblica», è l’animatore di Faust e il Governatore, apprezzato blog di

economia, finanza e spirito civico. Per Nino Aragno editore ha curato, con Sandro Gerbi, alcuni volumi di Paolo Baffi: Parola Baffi: Parola di governatore (2013), governatore (2013), Anni  Anni del disincanto (2014) disincanto (2014) e Servitore dell’interesse pubblico (2016). pubblico (2016).

 

Dimenticati dallo Stato Dimenticati di Antonella Beccaria

 Fedeli alla Repubblica Repubblica italiana C’è una formula, essenziale nella sua solennità e per questo difficilmente equivocabile. Per i militari, carabinieri compresi, recita così: «Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana, di osservarne la Costituzione e le leggi e di adempiere con disciplina e onore a tutti i doveri del mio stato per la difesa della patria e la salvaguardia delle libere istituzioni». Più in generale, chi si mette al servizio dello Stato deve – o dovrebbe – attenersi a questi principi, a iniziare dal rispetto della Costituzione e della Repubblica, nata dopo il referendum istituzionale del 2 e 3 giugno 1946. Nonostante ciò, dal dopoguerra, sono stati molteplici gli esempi di chi ha violato quel giuramento. Uomini delle istituzioni che hanno agito in senso contrario all’impegno assunto e che, anche nelle pagine che precedono questa appendice, si incontrano. Più in generale, sono uomini che, nelle ricostruzioni giudiziarie, giornalistiche, storiche e politiche, hanno spesso trovato più spazio di chi, invece, ha continuato a vivere con coerenza la promessa pronunciata in un determinato momento della propria vita. Il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, il generale della guardia di finanza Vincenzo Bianchi e la presidente della Commissione P2 Tina Anselmi ne sono degli esempi. In un altro lavoro svolto insieme, il libro Il libro Il boss. Luciano Liggio: da Corleone a Milano, una storia di mafia e complicità, ne complicità, ne abbiamo ricordato un

altro, l allora (nel 1974) maggiore delle Fiamme gialle Vincenzo Lombardo, che contribuì all’arresto di Luciano Liggio. Nell’epigrafe che apre volume sono citati ulteriori nomi che su di compaiono nel corso dellaquesto storia raccontata dall’autore. In coda proprio loro vogliamo soffermarci perché, dalla memoria dei più, sono scomparsi,

 

cancellati dal tempo e soprattutto dalla scarsa rilevanza attribuita loro, nonostante i meriti indubbi del loro operato. Non si può concludere senza aver dedicato spazio e attenzione a Giorgio Manes, il generale dei carabinieri che contribuì a scoperchiare le responsabilità dell’Arma dei carabinieri in un progetto golpista, a Pasquale Juliano, commissario di pubblica sicurezza che provò a fermare i piani per la strage di piazza Fontana, e a Giancarlo Stiz, il giudice istruttore di Treviso che, tra i primissimi, intuì le responsabilità neofasciste dietro le bombe della strategia della tensione. Difficilmente oggi si incontrano piazze, vie, aule o sedi istituzionali a loro intitolate. Nonostante siano stati tra i baluardi della tenuta democratica delle istituzioni in anni buissimi della recente storia italiana, sono stati pressoché cancellati. Ecco perché ogni occasione, a maggior ragione questo libro, deve essere colta per rinnovarne il ricordo.

Tutti contro il generale Giorgio Manes Era stato un ufficiale tutto d’un pezzo, fedele solo al suo giuramento alla Repubblica. Si dimostrò insensibile alle lusinghe e anche ai tentativi di corruzione così come non si lasciò intimidire dalle minacce, dai pedinamenti e dal telefono controllato vai a sapere da chi. «Continui così e gliene verranno grossi dispiaceri» gli dissero. Ma lui niente, andò fino in fondo, nonostante le denigrazioni pubbliche e anche le più piccole vendette private, come l’alloggio di servizio tolto quando era ricoverato in ospedale a causa di condizioni di salute sempre più precarie. Giorgio Manes era nato nel 1906 in provincia di Campobasso, a Montecilfone. Ancora ragazzo era entrato all’Accademia militare di Modena da cui era uscito nel 1927 con il grado di sottotenente. Intensa era stata la sua carriera militare, che lo aveva portato a prestare servizio in Croazia ed Eritrea negli anni della Seconda guerra mondiale, prima di aderire alla Resistenza. Poi, nell’Italia liberata, aveva trascorso un periodo nei servizi segreti e, rientrato nei ranghi dell’Arma, era stato destinato a Venezia, Bologna, Roma e, già con i gradi di generale, in Sicilia.

La consacrazione di una vita dedicata alla divisa era arrivata nel 1963, con la nomina a vicecomandante ma accadde appena dopo il ridimensionamento di quelgenerale, ruolo a compiti che raramente andavano oltre la pura rappresentanza. Così aveva voluto il comandante generale, Giovanni de Lorenzo, e Manes, poco tempo prima di morire, se ne sarebbe lamentato: chi occupava la

 

sua posizione «non doveva sapere niente, meno sapeva e meglio era, come se io fossi l’amico del giaguaro». 1 Del resto, dopo la sua nomina l’alto ufficiale era stato accolto con una frase poco beneaugurante: «Caro vicecomandante, stai lì a cuccia e non scocciare». 2 Uomo vicino a Ferruccio Parri e al Partito d’azione negli anni della guerra di Liberazione, Manes era trattato con gentile diffidenza dai suoi colleghi perché ritenuto «un’anima vagamente selvaggia» e nella seconda metà degli anni Sessanta andrà molto peggio perché la «colpa» contestatagli era precisa: aver osato indagare sugli ambienti dell’Arma a proposito del cosiddetto piano Solo. In realtà il piano golpista, troppo a lungo scaricato unicamente sul generale Giovanni de Lorenzo, plausibilmente fu un tentativo di condizionare gli esecutivi di centrosinistra contenendone la portata riformista e aveva responsabilità ben più ampie, che andavano dalla presidenza della Repubblica alla Banca d’Italia passando attraverso ampi settori della Confindustria. di scavare su«l’Espresso» quella vicenda a Manes il 19 maggio del L’incarico 1967. Sul settimanale era venne uscita conferito poco prima un’inchiesta firmata dai giornalisti Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi proprio sui fatti di tre anni prima, fino a quel momento rimasti sconosciuti. De Lorenzo sporse querela e ne scaturì un serrato processo che iniziò l’11 novembre del 1967 e si concluse l’8 febbraio del 1968. Prima dell’inizio del dibattimento, però, il nuovo comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Carlo Ciglieri, 3 volle sapere chi fossero le fonti dei cronisti. In meno di un mese, Manes consegnò il suo rapporto. Contro di esso furono molteplici le forze che si scatenarono perché provava che, nell’estate di tre anni prima, erano state davvero predisposte misure straordinarie senza informare nessuno, a iniziare dalla pubblica sicurezza. Il generale corredò il suo lavoro con sette allegati. Erano le dichiarazioni di altrettanti ufficiali, tre dei quali sarebbero risultati poi iscritti alla P2 di Licio Gelli, e il quadro che ne emergeva era così delicato che il rapporto Manes fu subito segretato. Gli omissis,  nonostante le reiterate richieste di trasparenza, omissis, nonostante ressero a lungo e solo all’inizio degli anni Novanta la Commissione stragi lo pubblicò in versione integrale, dopo la rimozione del segreto di Stato dal rapporto stesso e da altra documentazione sul piano Solo. Ai tempi in cui il generale aveva terminato il suo lavoro, però, divenne oggetto di una persecuzione vera e propria, come se l’eversore fosse lui, e si

aggiunse anche una furiosa campagna di stampa portata avanti dai giornali di 4 e nel frattempo destra, settimanale «Il Borghese». In 1968 contemporanea fu costretto a lasciarealainiziare carica dal di vicecomandante il 2 luglio del preparò la propria difesa. Contro di lui, oltre agli ambienti dell’Arma, si schierarono anche governo e

 

sostanziose fette del parlamento. Ne è un esempio la stroncatura del suo lavoro da parte di una commissione d’inchiesta che indagava sui fatti del 1964, la Commissione Lombardo. «Il generale» si legge nella relazione «si era diffuso in illazioni non tutte fondate, aveva presentato alcuni eventi […] in forma da creare dubbi e sospetti su qualche iniziativa presa dal generale De Lorenzo e aveva formulato anche accuse […] risultate poi infondate». 5 Anche per questo motivo era finito sotto procedimento disciplinare il 23 giugno del 1968 e gli accertamenti si erano protratti per mesi, in forza di una serie di richieste di rinnovo dell’istruttoria. Ma il militare, cardiopatico da tempo e per questo impossibilitato a più riprese a essere ascoltato, non sopravvisse fino alla fine di questa storia perché, a sessantatré anni, morì il 25 giugno del 1969 mentre si trovava a Montecitorio. Successe davanti alla commissione presieduta dall’onorevole Giuseppe Alessi, che sempre dei fatti del 1964 si occupava, colpito da un infarto appena prima di essere ascoltato. La mogliesuo di marito Giorgioaveva Manes, Maria una Froglia, che, prima di recarsi parlamento, radunato seriesostenne di documenti, compreso uno in che attestava l’esistenza di un piano contra legem di legem di richiamo dei carabinieri in congedo, che aveva infilato nella sua borsa di vilpelle marrone chiusa da una cerniera. 6 Ma quando questa fu restituita alla famiglia, il materiale più scottante era sparito. Nei decenni successivi, poi, nulla ha tolto dalla testa alla signora Manes – sottoposta con il figlio Renato a numerose pressioni dopo la morte del marito – che Giorgio fosse stato assassinato perché, deponendo, avrebbe potuto smentire le menzogne e colmare i vuoti lasciati dalle reticenze di tanti uomini dello Stato. «Ci sono molti modi per uccidere» diceva la signora ancora a fine 1990, «non ci sono solo veleni e pistole. Mio marito fu ucciso dalle ingiurie, dalle calunnie, dal fango che gli rovesciarono contro dopo la stesura del rapporto. Lo stremarono. In quel lavoro di verità, Giorgio si era inesorabilmente logorato il fisico e il sistema nervoso nella lunga, estenuante lotta che aveva dovuto combattere con un gruppo di potere spregiudicato: prima per difendere la dignità e il prestigio dell’Arma, poi per difendere se stesso, tutti noi, da una catena inaudita di sopraffazioni e vessazioni. Se avesse fatto marcia indietro, se si fosse fermato sul ciglio di quel nero abisso che scoprì, avrebbe avuto – glielo promisero – un posto al Consiglio di Stato. Non si lasciò blandire». 7

Guerra nera al commissario Pasquale Juliano Pasquale Juliano 8 è stato colui che, forse, avrebbe potuto fermare gli autori

 

dell’attentato di piazza Fontana mesi prima dell’esplosione nella Banca nazionale dell’agricoltura. Tuttavia a essere fermato fu lui. Quando nel 1996 fu intervistato dal quotidiano «Avvenire» e gli fu chiesto se riteneva, a tanti anni di distanza, di aver in effetti avuto la possibilità di bloccare i preparativi stragisti del 12 dicembre 1969, Pasquale Juliano rispose: «Non lo so. Magari il progetto l’avrebbe portato avanti qualcun altro. O magari no. Ma se devo riflettere, mi pare evidente che stavo andando nella direzione giusta. E questo non andava bene [… perché scattarono] protezioni politiche provenienti anche dall’estero». Cioè dagli ambienti atlantici. Lasciato solo dai suoi superiori e bersagliato dagli uomini dell’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, a quasi trent’anni dalla sua inchiesta Pasquale Juliano nutriva ancora un desiderio: «Non voglio certo quel monumento che mi promise il ministro Restivo» disse, «ma almeno qualcuno potrebbe ricordarsi di me e dirmi: “Ci scusi, lei aveva ragione”». Per iniziare a raccontare questa storia occorre partiredidal 15 aprile Pasquale Juliano, nato nel 1932 a Ostuni, in provincia Brindisi, era 1969. il capo della squadra mobile di Padova. Aveva trentasette anni e fino a quel momento si era occupato solo di criminalità comune, mai di quella politica. Ma tutto cambiò quando Padova fu teatro di un nuovo attentato, quello già raccontato da Giuliano Turone, avvenuto nell’ufficio del rettore dell’università, Enrico Opocher. Il lavoro investigativo svolto dall’ufficio politico prima di questo evento non sembrava bastare al questore, che affidò il caso al commissario Juliano. Il quale iniziò a darsi da fare e, qualche giorno più tardi, ricevette una telefonata. A chiamare era tale Nicolò Pezzato, una vecchia conoscenza del poliziotto. Questi, frequentatore degli ambienti della destra padovana con piccoli precedenti per reati comuni, disse di essere disponibile a fare da confidente sull’attentato all’università in cambio di denaro. Denaro che il questore autorizzò a versargli. Nel corso delle settimane, gli incontri tra i due si infittirono e Pezzato, poco dopo affiancato da un’altra «gola profonda», rivelò che azioni come quella nell’ufficio di Opocher erano riconducibili a un certo Massimiliano Fachini, leader di estrema destra. Le informazioni – che Juliano verificava una per una –  lo portarono a tracciare uno scenario di massima dell’eversione cittadina, che arrivava a comprendere un procuratore legale, Franco Freda, e un libraio trapiantato a Padova, Giovanni Ventura.

Per quanto, nella primavera del 1969, al commissario non fosse ancora del tutto chiarainlaluiportata del fenomeno su cui che destarono un’apprensione sempre piùlavorava, profonda.c’erano Il puntoelementi di non ritorno coincise con la morte di Arturo Michelini, il segretario del Msi. I suoi informatori gli avevano detto che, in vista dei funerali, era arrivato a Padova un

 

carico di esplosivo per preparare «fragorose sorprese». La situazione precipitò e, nonostante ci fossero ancora elementi da approfondire, si procedette con una serie di arresti. A questo punto, però, lo scenario cambiò e prese corpo l’attacco a Juliano, che si ritrovò bersaglio anche dei suoi confidenti. Accadde soprattutto all’alba dell’11 luglio 1969. Pezzato, nel frattempo finito in manette a propria volta, aveva trascorso la notte precedente in cella con i camerati che aveva accusato per un ordine, tanto assurdo quanto misterioso, di un non meglio identificato maresciallo. Risultato: modificò la sua versione e sostenne di aver detto il falso perché condizionato dal commissario, ossessionato dall’idea di organizzare un «trappolone» ai danni degli estremisti fabbricando le prove della loro colpevolezza. In realtà, venne sostenuto dal fronte nero, non sarebbe mai esistita alcuna cellula terroristica, se non nei desideri del poliziotto, zelante fino all’estremo. Pasquale Julianolesimani ritrovò incastrato. A Padova si precipitarono uomini dell’Uar a mettere nelle indagini del commissario, che primaglivenne posto in congedo, poi incriminato e infine sospeso dal servizio e dallo stipendio. Costretto a lasciare Padova, riparò con la famiglia a Ruvo di Puglia, in provincia di Bari, pur continuando a dichiararsi innocente, e nel settembre 1969 scrisse due memoriali. In essi ribadì il suo monito agli inquirenti: prestate attenzione perché «sono imminenti degli attentati». Nessuno, però, sembrò credergli e «provvidenzialmente» morì l’unica persona che poteva confermare la sua ricostruzione. Si chiamava Alberto Muraro, era un ex carabiniere a riposo e faceva il portinaio in uno stabile di Padova che si trova in piazza Insurrezione 15. Era un edificio degno di nota per due caratteristiche: lì, al terzo piano, viveva Massimiliano Fachini e proprio all’ingresso di quel palazzo, a metà giugno del 1969, sotto gli occhi di Muraro venne arrestato dagli uomini di Juliano il primo dei neri su cui indagava. Il portinaio confermò in un primo momento il racconto del commissario, ma quando questi finì nei guai ritrattò. Poi, nonostante le intimidazioni e minacce che dichiarava di aver subito, Muraro cambiò idea e il 15 settembre avrebbe dovuto presentarsi ai magistrati padovani per rendere una nuova deposizione in cui tornava a dar ragione a Juliano. Non arrivò vivo a quell’appuntamento. «Va a

finire che mi troverete precipitato dentro la tromba dell’ascensore o delle scale 9

 disse a un1969, amicosua e, moglie quasi fosse un dopo che mi hanno dato unadellegnata in del testa» vaticinio, intorno alle sette mattino 12 settembre Onorina lo trovò proprio lì: nella tromba delle scale, con la testa spaccata, volato dal terzo piano.

 

All’inizio si parlò di morte accidentale, ma nel 1973, quando la pista nera dello stragismo italiano aveva preso corpo, i magistrati di Milano Emilio Alessandrini e Gerardo D’Ambrosio riaprirono le indagini per la morte di Muraro accusando Massimiliano Fachini e Franco Freda di omicidio premeditato. I due, però, furono prosciolti in istruttoria nel febbraio 1977: non c’erano abbastanza elementi per mandarli a processo. Nonostante ciò, l’ex carabiniere Alberto Muraro oggi viene ricordato come una vittima «preventiva» di piazza Fontana. Con la fine del portinaio, la posizione del commissario Pasquale Juliano si aggravò e il poliziotto impiegò dieci anni per dimostrare la correttezza della propria condotta venendo assolto in via definitiva il 23 maggio del 1979 per non aver commesso il fatto, come scrisse il giudice Giovanni Palombarini. Ma già nel 1971, nel 1974 e poi ancora nel 1976, le indagini sul suo operato non avevano portato a nulla. Non era emersa alcuna prova che potesse suffragare anche solo del lontanamente le accuse rivoltegli neofascisti. Intanto,dieci dallaanni, un primavera 1969 a quella del 1979, questadai storia si era mangiata arco di tempo in cui Juliano vide tornare i nomi dei neri su cui aveva indagato, prima sporadici e poi sempre più insistenti. «Dottor Juliano, ora che finalmente è stato riconosciuto innocente, cosa farà?» gli chiesero una volta assolto. «Ora che si sa che sono un poliziotto onesto» rispose, «cambio lavoro, smetto di indossare la divisa. Mi congedo e vado a fare l’avvocato. Forse così avrò modo di essere più utile alla giustizia». 10 Pasquale Juliano si dedicò alla professione forense e in questa veste non smise mai di contribuire alle indagini sulle stragi per il resto della sua vita, finita il 15 aprile del 1998, quando morì a Matera. Aveva sessantasei anni e nel 2001, dopo la condanna in primo grado degli imputati per il massacro di piazza Fontana nel processo istruito dal giudice di Milano Guido Salvini, il magistrato disse del commissario fatto professionalmente a pezzi nel 1969: «Dobbiamo rendere omaggio alla memoria del magistrato Emilio Alessandrini e del commissario di polizia Pasquale Juliano che, assassinato da terroristi il primo e abbandonato dai suoi superiori il secondo, non hanno potuto assistere al riconoscimento della validità della pista d’indagine cui si erano dedicati». 11

 Fuoco incrociato incrociato sul giudice G Giancarlo iancarlo Stiz Il confine tra la storia di Juliano e quella di un altro autentico uomo dello Stato è sottilissimo. È quello che divide la provincia di Padova da quella di Treviso, unite prima e dopo la strage di piazza Fontana dalle primissime indagini sulla

 

pista nera per la bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura. Ma unite anche dalla sorte vissuta da un magistrato, Giancarlo Stiz, dopo l’avvio delle sue indagini. «Anche Stiz, come Juliano» scrisse il giornalista Marco Nozza, «era stato oggetto di vere e proprie persecuzioni da parte dei suoi superiori. Anche Stiz era stato mandato sotto processo». 12 Figlio di un generale degli alpini pluridecorato per il servizio prestato durante la Prima guerra mondiale, il futuro giudice istruttore era cresciuto respirando in casa il senso dello Stato. Quando anni dopo gli capitarono sotto mano le parole pronunciate da un insegnante democristiano di Maserada sul Piave, Guido Lorenzon, che per primo indicò in Giovanni Ventura uno dei possibili attentatori del 12 dicembre 1969, capì che non c’era niente da archiviare, come richiesto dalla procura. Il 12 aprile del 1971 fece così arrestare Franco Freda, poco dopo emise numerosi mandati di cattura per ricostituzione del partito fascista e per questo lo accusarono essere un comunista, un sovversivo. Nele 1972 Giannettini, il giornalistadiche lavorava anche come agente segreto che fuGuido presente al convegno del 1965 sulla guerra non ortodossa, redasse per il Sid un rapporto, emerso nel 1974, in cui faceva proprie le opinioni dei neofascisti veneti arrivando a ipotizzare l’esistenza dell’«operazione Stiz [spinta] da tre ambienti diversi: l’ambiente governativo, l’interesse socialista e un terzo ambiente direttamente manipolato dai servizi sovietici». 13 Il giudice, un uomo distinto che amava indossare sobrie giacche di fustagno e che nutriva la passione per la caccia, andò avanti senza remore anche quando si imbatté nel nome del figlio di un collega, amico di Freda, e si presentò in tribunale, a Bologna, per essere processato (e assolto) quando proprio dal collega fu denunciato. Poi, nel settembre del 1972, Stiz fu trasferito al tribunale civile, fatto che, un po’ come per Manes quando fu rimosso da vicecomandante dell’Arma, suonò come una ritorsione. A voler il peggio per lui, da un lato c’erano i neofascisti di Ordine nuovo e dall’altro certa magistratura, ma anche apparati dello Stato, come l’onnipresente ufficio affari riservati che si rifece vivo a Treviso. A casa Stiz, a rendere irrespirabile l’atmosfera a qualsiasi ora del giorno e della notte, iniziò un profluvio di telefonate anonime, alcune delle quali – si sarebbe scoperto – partivano dal centralino della Camera dei deputati. Ma non

solo. «Arrivavano anche sacchi di lettere di minacce» 14 avrebbero ricordato molto tempo dopo i due figli. Per posta gli arrivarono anche accompagnati da una frase inequivocabile: «Il prossimo è perproiettili, il tuo cranio». 15 La figlia maggiore di Stiz, Ada, divenuta notaio, in quegli anni andava all’università e non si accorgeva della discreta sorveglianza di agenti di polizia

 

che la seguivano da Treviso, dove viveva, a Padova, la città in cui studiava giurisprudenza. Il figlio minore, Michele, oggi commercialista, aveva meno di dieci anni ai tempi e frequentava ancora le elementari. Il padre, che a casa cercava di non portare ulteriori preoccupazioni, non voleva allarmarlo e così gli mise dietro un poliziotto che lo proteggesse mentre andava a scuola. Il piccolo, però, si accorse a un certo punto di essere seguito da uno sconosciuto e, spaventato, all’uscita riuscì a seminare l’agente che dovette presentarsi dal giudice confessando quanto accaduto. Fu il terrore, ma poco dopo Michele tornò a casa, sbigottito dal trovare proprio l’uomo da cui era fuggito. A quel punto, non fu più possibile tacergli quanto stava accadendo e spiegargli che qualcuno gli sarebbe stato accanto per evitare che chiunque gli facesse del male. 16

Ad avere la peggio fu la signora Stiz, che anche a causa di quel clima ebbe un grave malore e rimase paralizzata. Il giudice non l’abbandonò mai né volle aiuto per occuparsi di lei, alle cui esigenze provvedeva personalmente. Intanto continuò a lavorare, rifiutando a propria volta la protezione delle forze dell’ordine. Se gli avessero sparato, sosteneva, avrebbero potuto farlo in qualsiasi momento, ovunque, e non voleva che a rischiare fossero altri al suo posto. Così non modificò mai le sue abitudini e in tribunale continuò ad andarci in bicicletta. Come le abitudini, non modificò mai nemmeno le convinzioni su cui aveva basato il suo lavoro, prima che l’indagine fosse trasferita altrove. A quarant’anni di distanza, dell’inchiesta sulla pista nera, Stiz, scomparso a ottantasette anni il 25 ottobre del 2015, diceva che gli era rimasto «l’orgoglio di aver scoperto la verità». 17 E ribadì, a proposito delle responsabilità ordinoviste, che «la mia non è un’idea: io ho raccolto e portato delle prove contro Freda e Ventura riguardanti piazza Fontana. Prove legittimamente acquisite in quegli anni». 18

 

Le interferenze occulte nel caso Moro di Stefania Limiti

 Il momento giusto Il caso Moro è il paradigma, il miglior modello della destabilizzazione. L’archetipo, direbbe lo psicanalista. Il delitto politico più importante del Novecento italiano, infatti, porta i segni di un’azione perfetta per deviare il corso degli eventi: nella scelta dell’obiettivo, nelle sue modalità di realizzazione, nella scenografia, nei personaggi principali e nelle comparse. Tanto che Leonardo Sciascia nella sua insuperabile e immediata analisi ( L’affaire  L’affaire Moro, ottobre Moro, ottobre 1978) pensa al cadavere del presidente della Dc citando Elias Canetti: «La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto “al momento giusto”». giusto”». Moro  Moro è stato ammazzato proprio quando la democrazia italiana stava sperimentando nuove strade verso il futuro, per superare una impasse  che il partito popolare più impasse che policentrico e articolato dell’Occidente, la Dc, non sapeva più affrontare. Una sfida che il partito comunista più forte d’Europa, il Pci, aveva raccolto. Giuliano Turone in questo lavoro si propone di far conoscere anche alle giovani generazioni quella faccia del potere occulto che ha potuto osservare più da vicino di tutti noi, e ci ricorda che il «Piano di rinascita democratica» democratica» venne elaborato tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976. Vale a dire proprio quando il governo italiano era guidato da Aldo Moro, le cui aperture nei confronti della sinistra e dell’eurocomunismo di Enrico Berlinguer non furono mai accolte con entusiasmo né dagli ambienti della Nato (e dalle loro propaggini occulte) né

dalla destra della Democrazia cristiana, rappresentata da Giulio Andreotti. Mentre matura l’assassinio politico di Aldo Moro, tra la fine del 1976 e l’inizio del 1977, si ha notizia della ricostituzione in forma articolata «risvegliata» già nel dicembre del 1971, come prova una circolare deldella granP2, maestro Lino Salvini, «per rafforzare ancor più il segreto di copertura

 

indispensabile per proteggere tutti coloro che, per determinati motivi particolari inerenti al loro stato, devono restare occulti». 1 A metà degli anni Settanta la società italiana è in gran movimento e le prospettive di una modifica degli equilibri politici verso orizzonti progressisti sono molto concrete. La P2 irrompe clandestinamente nella scena con l’obiettivo di trasferire nelle sedi occulte i centri decisionali del potere. La loggia del «maestro venerabile» di Arezzo, in effetti, riesce a imporsi quando è il momento di ridisegnare tutti gli organici dei servizi segreti appena ristrutturati dalla recente legge di riforma. Nella P2 si ritrovano poi anche alti ufficiali dell’esercito, dell’aeronautica, della marina e dei carabinieri, ministri, parlamentari e politici di vari partiti (Dc, Psi, Psdi, Pli, Msi), alti magistrati (tra cui il procuratore generale di Roma Carmelo Spagnuolo), giornalisti, finanzieri come Roberto Calvi e Michele Sindona, imprenditori come il futuro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. La loggia finanzia i terroristi ma nella nessuna autoritàfinale giudiziaria politica ha mai accoltoanche la precisa accusaneri, rivolta relazione della o Commissione parlamentare sulla P2 della presidente Tina Anselmi, che esplicitamente indica nella loggia di Licio Gelli il motore finanziario di coloro che hanno eseguito la strage sul treno Italicus treno Italicus (agosto  (agosto 1974). 2 Inoltre, la loggia finanzia gli stessi governi: Roberto Calvi, il finanziere a capo del Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri di Londra, raccontò a sua moglie che i soldi della P2 erano stati utilizzati per convincere i socialisti a entrare nel governo Cossiga dell’aprile del 1980, con tre ministri e cinque sottosegretari iscritti alla loggia. Esisteva una entità superiore – il vertice della piramide più volte ricordata nelle pagine di questo volume – che proteggeva lo stesso Gelli: infatti, in una riunione del 5 marzo 1971, dopo aver elencato gli argomenti all’ordine del giorno, nel riassunto del dibattito il «venerabile» scrive: «Nell’impossibilità di poter rispondere, giriamo questo quesito alla Sede centrale affinché, se lo riterrà opportuno, possa illuminarci a riguardo». 3

 La campagna di primavera primavera delle Br

Quando le Brigate rosse, perseguendo la loro strategia rivoluzionaria di assalto allo Stato imperialista delle multinazionali, il Sim, avviano la Campagna di primavera ossia l’insieme delle azioni armate la Democrazia cristiana che incarna–totalmente e unicamente il Sim, dal contro loro punto di vista – Aldo Moro era già da tempo sotto i riflettori dell’attenzione internazionale. Da oltre un decennio, cioè da quando aveva tentato l’esperimento del centro-sinistra

 

portando i socialisti nel governo e, soprattutto, portando al centro del Mediterraneo l’idea di Enrico Mattei e un protagonismo italiano che suscitavano irritazione e aperta ostilità nel mondo anglosassone. Ma le Br vanno per la loro strada, seguono il loro rigido schema ideologico, sembra non importargli chi sia Moro, cosa faccia Moro, chi siano i suoi amici e i suoi nemici. Avrebbero dovuto rapire Giulio Andreotti, se non avesse avuto una scorta rafforzata grazie ai suoi incarichi istituzionali. Scelgono Moro, l’unico tra i grandi leader della Democrazia cristiana mai sfiorato da sospetti di collaborazionismo con gli uomini della strategia della tensione. Il lavoro politico di Aldo Moro, invece, la sua originale visione della sovranità italiana e del nostro futuro, rendono l’Operazione Frezza, così la chiamavano le Br per il ciuffo bianco sulla testa dell’obiettivo, un incrocio di interessi politico-strategici, un nodo gordiano nella prospettiva degli equilibri di tutta l’area atlantica. Un momento terribilmente decisivo, nel quale la presenza brigatista diventa la sola ma non più sola né centrale. Scriveva lucidamente Giuseppe Devisibile Lutiis che il significato dell’operazione di via Fani è andato ben oltre i confini italiani: tra il 1963 e il 1995 cadono, in circostanze diverse, i due Kennedy, Lumumba, Luther King, Allende, monsignor Romero, Sadat, Olof Palme, Indira Gandhi, Rabin. Questi delitti eccellenti sono stati decisi «in ambienti prossimi all’establishment internazionale, ambienti che possono scegliere l’esecutore materiale nell’area dell’estremismo politico o in quello della criminalità professionale, o addirittura in settori vicini a servizi segreti o a corpi speciali. Questo tipo particolare di delitto è difficilissimo da chiarire». 4 Tanto che il caso Moro, il groviglio di notizie certe e notizie false, indizi, piste finte o costruite ad arte, indagini non fatte per sciatteria o con più malizia, suggestioni e quant’altro, è così costellato di interferenze, di presenze invisibili, come lo sono i poteri occulti, da diventare inestricabile, un luogo simbolico in cui affogano tutti i lati irrisolti della nostra storia. Perché i fatti impressi nel nostro immaginario collettivo – la fuga delle auto dopo l’agguato, gli spari, la prigione, le ultime ore di vita di Moro, la dinamica della morte – sono una rappresentazione della realtà ma non la realtà: realtà: essi sono stati mediati dalla narrazione scritta dal brigatista Valerio Morucci su un tavolo al quale sedevano

anche uomini politici e i servizi segreti. Il suo memoriale è una traslazione traslazione dei  dei fatti, come ormai ha definitivamente accertato la Commissione d’inchiesta che ha svolto lavori nella legislatura. Nel quarantennale strage di via Fani sii èsuoi sentita solo unaXVII timida voce a sussurrare finalmentedella una parola che potrebbe aprire uno squarcio: è quella di Adriana Faranda che dice a Ezio Mauro: «Avevamo discusso i dettagli, certo non il colpo di grazia» 5 inflitto poi

 

agli agenti della scorta di Moro secondo un rituale assassino completamente estraneo alla pratica delle organizzazioni armate rosse.

 La P2 e il caso Moro È particolarmente illuminante quel che spiega Giuliano Turone a proposito del «Piano di rinascita democratica» e del suo obiettivo di rivitalizzazione rivitalizzazione del  del sistema: non è più tempo di golpe, a pochi passi dagli anni Ottanta, ma di interventi (apparentemente) leggeri leggeri per  per «sollecitare» tutti gli istituti che la Costituzione prevede e disciplina, dagli organi dello Stato ai partiti politici, alla stampa, ai sindacati, ai cittadini elettori. Magari si dovrà pensare necessariamente, in seguito, anche ad «alcuni ritocchi alla Costituzione successivi al restauro delle istituzioni fondamentali». Ma dopo che la «sollecitazione» – termine mutuato dall’ingegneria meccanica dove indica l’azione esterna messa in pratica per raggiungere un certo scopo, come opportunamente spiega Turone – è andata a buon fine, agendo su una struttura o su un sistema, insiste Turone, e ne ha modificato lo stato provocandone una deformazione. La P2 rinasce e si struttura per evitare un cambiamento politico indesiderato, per orientare le scelte del paese verso lidi più rassicuranti per gli equilibri atlantici. Cosa c’entra con il caso Moro? Intanto, non dimentichiamo quel che Licio Gelli disse nel 2011 nel corso di una intervista, e cioè che Moro era stato portato in un luogo vicino a via Fani e tenuto per almeno una decina di giorni in un garage di «quelli che vanno sottoterra». 6 Il riferimento è molto circostanziato. Solo la Commissione d’inchiesta sul caso Moro della XVII legislatura ha svolto una accurata indagine che ha messo in evidenza l’importanza cruciale, per il sequestro e il rilascio delle auto usate nell’agguato, di una palazzina, dotata di garage sotterranei dai quali era possibile accedere agli appartamenti, situata in via Massimi 91 e di proprietà dello Ior. È vero che già il giornalista di «OP» Mino Pecorelli aveva fatto riferimento in un famoso pezzo dal titolo Vergogna buffoni (16 buffoni  (16 gennaio 1979) a «un garage compiacente che ha ospitato le macchine servite nell’operazione», e che una informativa della guardia di finanza

nell immediatezza dei fatti parlava di una sede «extraterritoriale», vicina al luogo dell’agguato, come possibile punto di primo riparo. Ciononostante, l’affermazione Gelli resta una testimonianza notevole se non inquietante. Del resto, il di capo della guardia di finanza dell’epoca, Raffaele Giudice, era della P2 (tessera 1634). E poi ben undici dei dodici membri del cosiddetto Comitato di crisi, varato per direttiva dell’allora ministro dell’Interno Francesco

 

Cossiga, sono della loggia massonica dell’aretino Gelli. Tra loro il criminologo Franco Ferracuti (tessera 2137), il direttore dell’ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato (tessera 1620), il numero uno del Cesis Walter Pelosi (tessera 754), il capo di stato maggiore della marina Giovanni Torrisi (tessera 631), il numero due del Sismi Pietro Musumeci (tessera 487). Il Comitato non era un guscio vuoto, ebbe un ruolo fondamentale nel congelamento delle indagini, paralizzando la macchina investigativa, nel destituire la Procura di Roma durante i cinquantacinque giorni del sequestro e nel far passare per pazzo Aldo Moro. Non può essere Moro a scrivere, si disse delle sue lettere dove argomentava e proponeva una soluzione politica al sequestro. E gli amici dissero che era vero, non poteva essere lui. Il Comitato non chiuse le porte in faccia al mediatore, mediatore, l’uomo  l’uomo inviato dal dipartimento di Stato per evitare il caos, il criminologo Steve Pieczenik, che spiegherà dopo tanti anni di essere venuto non per salvare Moro ma per creare il panico tra i rapitori, 7 Ci riuscì. disorientarli. Tutti i tentativi di intermediazione, infatti, tutte le possibilità di avviare una trattativa falliscono inspiegabilmente. Anzi, neanche iniziano. E le Br volevano trattare. Uno dei comunicati diffusi in quei giorni, il numero 6, reso noto il 15 aprile, annunciava la fine del processo a Moro e la sua condanna a morte, ma in realtà conteneva forti segnali di indirizzo opposto a quella conclusione apparentemente inappellabile. Tanto da affermare in modo diretto di aver preso la decisione di non diffondere pubblicamente il contenuto degli interrogatori, rimettendo all’avversario la scelta della strada da intraprendere: una chiara disponibilità a trattare, sia sulle carte sia sull’ostaggio. In una drammatica telefonata fatta qualche giorno prima del 9 maggio (giorno della tragica conclusione del sequestro), Valerio Morucci dice a don Antonello Mennini, parroco amico di Aldo Moro: «Dica alla signora Moro che non riusciamo ad aprire quel contatto! Ha capito? Le dica che non siamo stati contattati da nessuno!». A metà aprile Francesco Cossiga, il ministro dell’Interno, sfuggendo alla supervisione del criminologo, chiese al suo amico Giuseppe Zamberletti di incontrare insieme al colonnello Varisco (poi ucciso dalle stesse Br) esponenti dissidenti delle Brigate rosse con i quali era entrata in contatto l’Arma dei carabinieri di Milano. Non si è mai capito, né Zamberletti,

più volte richiesto dall autrice, ha mai saputo spiegare perché l incontro non si fece, chi diede lo stop. Così fu per un altro esponente della Dc, Guido Bodrato, che attese pomeriggio avviare uninvano dialogouncon i rapitori. presso la sede della Caritas una telefonata per

 

Una montagna di soldi per Moro E come poté abortire la più potente iniziativa, quella di Paolo VI, il papa amico di Moro? C’erano tanti soldi in ballo. a questa scena, raccontata dei da monsignor Fabio Fabbri, segretario di Pensate don Cesare Curioni, responsabile cappellani carcerari; siamo a Castelgandolfo, residenza pontificia, 6 maggio 1978. Aldo Moro è prigioniero delle Brigate rosse da oltre cinquanta giorni. In una di quelle stanze Paolo VI parla con monsignor Cesare. D’improvviso il papa, dice Fabbri che era lì, si avvicina a una consolle coperta con un panno di ciniglia azzurra e solleva un lembo: compare una montagna di soldi, mazzette di dollari, con fascette di una banca ebraica, del valore di circa 10 miliardi di lire, messi a disposizione per il riscatto. Da dove provenivano tutti quei soldi? E, rimasti inutilizzati, dove finirono? Nessuno lo sa. Don Curioni è morto nel 1996 senza che quel mistero fosse svelato, monsignor Fabbri ha detto di non saperlo. Fabbri ha però detto che non provenivano dallo Ior. E poi ci fu il tentativo del «confessionale», quello di padre Enrico Zucca, il cappellano dell’Anello, il servizio segreto clandestino più volte richiamato da Giuliano Turone. All’epoca del sequestro Moro, padre Zucca era un vecchio frate con nostalgie per il Ventennio. Non molto tempo dopo sarebbe morto, il 15 luglio del 1979. La sua salute era malferma ma avrebbe fatto volentieri un favore al suo papa. Raccontò lui stesso a un settimanale, 8 pochi giorni dopo il 9 maggio, delle trattative avviate e fallite inspiegabilmente a un passo dalla fine. La personale storia di relazioni e conoscenze consentì a padre Zucca di tentare una via per la salvezza di Aldo Moro, informando del suo progetto anche la famiglia del rapito. Il frate era in grado di ottenere un’ingente somma di denaro che avrebbe permesso di pagare un riscatto in cambio della vita di Moro: tramite la Fondazione Balzan, un’organizzazione che gestiva i lasciti depositati in Svizzera dalla omonima famiglia, stimati all’epoca in circa 70 miliardi di lire, assicurava di raccogliere, tra imprenditori di spicco – tra cui si fecero i nomi di Nando Peretti, presidente dell’Api, Armando Piaggio e Carlo Pesenti –, 50 milioni di dollari da offrire alle Brigate rosse in cambio della libertà di Moro. La sua influenza gli consentiva inoltre di rivolgersi direttamente al presidente del Consiglio Giulio Andreotti, al quale scrisse almeno un paio di lettere. L’incontro

rivelato da padre Zucca avvenne a Milano nella prima fase del sequestro, il 28 marzo. Ma anche duranon sconfitta forse, affrettò avvenuta quasiluiunfallì. annoUna dopo, prima che, di aver rivelato tuttela lesua suedipartita, mosse, dettaglio per dettaglio, in quei due articoli che hanno svelato l’intraprendenza del

 

priore. E non è tutto qui. I contatti tra padre Zucca e i brigatisti vennero monitorati dai servizi segreti, 9 ma nessuna indagine venne fatta sugli emissari dei rapitori. Quell’informazione fu invece taciuta e, dunque, mai utilizzata: solo un anno dopo il Sisde sollecitò il proprio centro di Milano ad acquisire notizie sul religioso e sui suoi contatti con i rapitori di Moro. Un intervento decisamente tardivo. Nessun organo inquirente, mai nessun magistrato, mai nessuna commissione parlamentare d’inchiesta sono stati informati ufficialmente delle trattative che sarebbero nate dalla intermediazione del priore dell’Angelicum, nessuno poté mai chiedergli spiegazioni finché era in vita, né indagare subito dopo. La circostanza è così irragionevole che possiamo legittimamente ritenere che l’emersione pubblica della fallita trattativa di padre Zucca avrebbe comportato il rischio che venisse svelato l’Anello. Ma l’esistenza di questa agenzia clandestina era un segreto che apparteneva ai sottofondi della Repubblica. Nessuno l’aveva mai stata usata sempre per i lavori i suoi membri eranoufficializzata, ex fascisti o era informatori mercenari, gente «nonsporchi, presentabile» la quale, tuttavia, entrava e usciva dalle stanze del potere restando sempre invisibile.

Quale interferenza praticò l’Anello nel caso Moro? Questa struttura aveva una capacità altissima di raccogliere informazioni, grazie a una consolidata rete di persone legate da un patto postfascista sottoscritto all’alba della Repubblica. La assoluta informalità del gruppo non impedì mai l’alto livello informativo, tanto che Adalberto Titta, una specie di coordinatore del servizio, fu in grado di assicurare a un suo membro, Michele Ristuccia, che il Comunicato numero 7 delle Brigate rosse – «Lo abbiamo ammazzato, andate a prendere il cadavere del presidente sul fondo del lago della Duchessa» – era falso. 10 E lo fece appena fu reso noto, tanto che Ristuccia, a sua volta, disse al segretario generale della Fiera di Milano, dove egli lavorava, di non sospendere nulla, quel giorno non c’erano lutti da onorare. Intanto il ministero dell’Interno, è bene ricordarlo, inviava sul luogo decine di uomini, sommozzatori, cani poliziotto, elicotteri e dava ordine di bucare lo strato di ghiaccio che copriva il

lago e tutto il paese stette ore e ore con il fiato sospeso. Afferma lo stesso Ristuccia che Titta gli aveva detto prima del 16 marzo che Moro correva seri rischi di sequestro. era certo ad aver quella soffiata: sappiamo che l’allarme per laNon sicurezza del l’unico presidente dellaavuto Dc era giunto a diverse orecchie, come racconta ogni antologia del caso. Di certo sono interessanti due circostanze: il 15 marzo arrivò al centro dei servizi segreti di

 

Bari, tramite un detenuto, Salvatore Senatore, la notizia di un’azione contro Moro, ma la segnalazione fu congelata, restò nel cassetto; e proprio in quella città, Bari, stando alle parole dello stesso Ristuccia, 11 già nel 1977, intorno a settembre, nella lussuosa villa di un politico, si sarebbe svolta una riunione segretissima fra Titta, alcuni suoi fidati collaboratori e importanti funzionari dell’amministrazione statunitense e italiana. L’oggetto dell’incontro era la supervisione della situazione italiana e, in particolare, delle mosse politiche di Aldo Moro, considerato notoriamente e da tempo non affidabile e pericoloso per la stabilità degli interessi statunitensi. Purtroppo molte di queste piste investigative, scoperte pubblicamente molto tardi, non sono mai state perseguite. L’Anello, potremmo dire con una metafora, ha attraversato tangenzialmente i cinquantacinque giorni. Raccolte le informazioni, svolto il monitoraggio della situazione, non fu attivato per liberare Moro: l’iniziativa di padre Zucca risulta essere stata personale e solitaria. Una inerzia perfettamente quella di tuttiaigli organisegnali investigativi durante cinquantacinque giorniallineata – e del atutto aderente diversi di stop –dati ai i vertici di Cosa Nostra, ’ndrangheta e camorra, pronti a barattare grandi benefici in cambio dell’aiuto nelle ricerche di Aldo Moro. È inaudito che i vertici del Sismi abbiano creato un team speciale per la gestione del caso Moro completamente segreto 12 e che nessuno abbia mai avuto nulla da dire nel corso degli anni, a parte il deputato di Democrazia proletaria Luigi Cipriani che lo denunciò. Si chiamava ufficio controllo e sicurezza e aveva sede a Roma, precisamente a Forte Braschi, all’interno del palazzo del Sismi, dove Titta era di casa. La direzione era stata affidata al generale piduista Pietro Musumeci, nel gruppo c’era il colonnello Camillo Guglielmi che non era all’epoca ufficialmente negli organici del Sismi ma operava a Modena nella Quarta brigata dei carabinieri: quest’ultimo, come è noto, si trovò a passare in via Fani proprio in prossimità dell’agguato. Il gruppo «scelto» era stato voluto dal capo del Sismi Santovito, altro piduista, e il vicedirettore era Abelardo Mei, amico d’infanzia di Titta. Anche il colonnello Belmonte era della squadra. Solo poco tempo dopo, nell’aprile del 1981, Titta, Mei, Belmonte e Musumeci entrarono in azione per liberare l’assessore campano della Democrazia cristiana Ciro Cirillo, rapito dalla colonna napoletana delle Br di Giovanni Senzani.

Quella volta le trattative si aprirono subito e divennero una fogna a cielo aperto, dove servizi segreti, camorra e brigatisti strinsero patti mai resi noti con una impressionante sciadidiAdalberto morti ammazzati. Anche il cuore Titta saltò subito dopo, il 27 novembre di quell’anno (chissà se la sua morte è su quella scia). Nell’ospedale della città di Orvieto dove venne ricoverato accorsero subito ufficiali di vari ordini e gradi. La

 

sera prima aveva cenato con il colonnello Federigo Mannucci Benincasa, ufficiale dei carabinieri che entrò a far parte del Sifar nel giugno del 1965 e che assunse la direzione del Centro controspionaggio di Firenze il 16 giugno del 1971. Lasciò quell’incarico nel marzo del 1991, dopo diciannove anni e nove mesi, caso forse unico nel servizio segreto, divenuto nel frattempo dapprima Sid e poi Sismi. Benincasa non disse di quella cena agli investigatori del Ros che cercavano di mettere insieme il puzzle dell’Anello, struttura che mostrò di non conoscere. Forse, parlando dell’incontro serale, l’alto ufficiale avrebbe poi dovuto inesorabilmente spiegare altri dettagli. Ma non lo fece. Sull’esistenza dell’Anello ora non ci sono dubbi ma di certo avremmo capito molto di più da una leale collaborazione di molti uomini dello Stato. Anche del caso Moro. Invece siamo fermi alle parole di Sciascia, che pasolinianamente scrive: «In Italia, di ogni mistero criminale molti conoscono la soluzione, i colpevoli, ma mai la soluzione diventa ufficiale e mai i colpevoli vengono, come si suol dire, assicurati alla giustizia».

 

La giustizia a Perugia. Gli anni Ottanta di Sergio Materia

 Perché  Per ché ricor ricordare dare quegli anni In un’opera di ricostruzione degli angoli più oscuri della storia giudiziaria italiana come quella di Giuliano Turone, rievocare oggi le vicende della magistratura di Perugia negli anni Ottanta può sembrare a prima vista fuori luogo. Ma non è così. Il piccolo Palazzo di giustizia di Perugia rappresentava nel sistema giudiziario italiano un tassello apparentemente secondario. Ma quelle vicende, nel loro complesso, sono utili per comprendere fin dove arrivava la strategia di controllo delle istituzioni da parte dei poteri illegali e occulti che, anche dopo e nonostante la scoperta del ruolo della loggia P2, erano all’opera per condizionare la democrazia. relazioni cui matrice molto al dideviare là del iruolo deglipolitici aderenti allaUna P2 –rete eradinelle finalitàla dello «Stato –parallelo»: processi e istituzionali verso obiettivi graditi. Sono drammaticamente emblematiche le fotografie ufficiali della firma della Costituzione del 1948 da parte del presidente Enrico De Nicola. È il 27 dicembre 1947. Da un lato Umberto Terracini, presidente dell’assemblea costituente. Dall’altro Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio. Dietro, in piedi, c’è un giovane funzionario, segretario particolare del capo provvisorio dello Stato. È Francesco Cosentino, che poi risulterà iscritto alla P2 (tessera numero 1618) con

un ruolo di assoluto rilievo ed è ritenuto il principale autore del «Piano di rinascita democratica». È l’immagine di una ipoteca in embrione. La magistratura penale di Perugia negli anni Ottanta era uno snodo decisivo del sistema giudiziario italiano: aveva competenza in via esclusiva per i processi riguardanti i magistrati del distretto della Corte d’appello di Roma. Poteva essere

 

la chiave di ingresso in tanti misteri della Repubblica, grandi e piccoli, noti e meno noti, recanti il segno del potere occulto e parallelo. L’occasione però è andata perduta. Sono stato giudice a Perugia dal 1981. È per questo che, inevitabilmente, il contributo al lavoro di Giuliano Turone assumerà anche le connotazioni di testimonianza personale. Sono stati anni amari. Comprendevamo già allora che ci era affidato il compito estremamente difficile di far luce nel porto delle nebbie: gli uffici giudiziari romani. Per non cadere in ingiuste generalizzazioni: si trattava di individuare le responsabilità penali di chi tra i magistrati di Roma, a volte in modo organico, a volte in modo occasionale, non di rado quasi automaticamente per una sorta di riflesso darwiniano che rende funzionali al sistema (i non colpevoli, li avrebbe definiti Primo Levi) si era messo al servizio del potere. Non del potere tout court, e court, e sarebbe già grave, ma di un potere illegale e occulto, non di francamente criminale, in grado Di di deviare non sololail magistratura corso dei processi marado la stessa democrazia costituzionale. questa strategia romana in quegli anni fu strumento decisivo. È l’inizio del decennio quando i giudici istruttori di Milano Giuliano Turone e Gherardo Colombo scoprono a Castiglion Fibocchi gli elenchi della loggia P2 che dimostreranno l’estensione e la rilevanza politica e criminale di una entità della quale fino ad allora si percepiva solo confusamente l’esistenza. Gli anni successivi, attraverso le indagini penali e soprattutto il lavoro della Commissione parlamentare presieduta da Tina Anselmi, condurranno alla ricostruzione del ruolo della P2 nella strategia di condizionamento delle istituzioni e nella stagione stragista degli anni Settanta, fino alla bomba del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Presto è chiaro il ruolo di apparati segreti delle istituzioni, di centri di potere finanziario e professionale, della malavita organizzata e, non ultimo per importanza, del potere giudiziario. Soprattutto – per forza di cose – di una parte, numericamente forse insignificante ma strategicamente decisiva, della magistratura romana. Chi persegue obiettivi e strategie occulte, violente o no, si serve di esecutori a vari livelli, spesso di veri e propri delinquenti. Per costoro i

servigi resi e i segreti appresi sono un capitale da far fruttare. Vanno ricompensati, anche in termini di nuovo e maggiore potere. Per osmosi l’illecito permea le istituzioni, quelle giudiziarie dalle quali non la si chiave può di prescindere quando sicomprese verifichino incidenti di percorso. È questa lettura di molti dei fatti che vedono coinvolti magistrati degli uffici giudiziari di Roma.

 

Spesso indagando su reati di corruzione ci si imbatte in un contesto eloquente, in relazioni di magistrati con personaggi e ambienti legati alla eversione. Gli ambiti – corruttivo, criminale ed eversivo – sono contigui e interagiscono. Gli apparati pubblici diventano teatro di scorribande alla caccia di potere e di denaro. Ed è probabilmente questa una delle origini della pervasiva diffusione della corruzione a ogni livello nel paese e a Roma in particolare. Una rete di ricatti grandi e piccoli: un favore ricevuto obbliga alla riconoscenza, un favore fatto lega per il futuro. Tutto questo è drammaticamente chiaro in base ai lavori della Commissione di indagine sulla loggia massonica P2 presieduta da Tina Anselmi. In quegli anni l’iceberg romano delle corruzioni, delle collusioni, delle complicità, dell’affarismo e dell’arrivismo fu intuito, riconosciuto, decifrato in buona parte. Ma non fu nemmeno scalfito dalle indagini e dai processi perugini. L’ex presidente del Senato Pietro Grasso ha detto che il maggior dramma professionale e personale uncertezza, magistrato di intuire la verità,nel di conoscerla e afferrarla finoper alla maèdiquello non poterla dimostrare processo. Noi non potevamo, come Pier Paolo Pasolini, dire solo: «Io so». Le ragioni di questa sconfitta sono molte. Eravamo uno sparuto gruppo di giovani magistrati. Abbiamo pagato la nostra inesperienza, la mancanza di una vera cultura investigativa, la inesistenza di adeguate strutture di polizia giudiziaria. Mancò la collaborazione con i migliori tra i colleghi romani. Mancò in pieno il ruolo dei capi degli uffici. Mancò il ruolo di autogoverno del Consiglio superiore della magistratura e dell’Anm, l’Associazione nazionale magistrati: inerti, neutrali, silenti. Non colpevoli. Ma soprattutto la controparte era troppo forte per noi. La fortezza romana si fece beffe del nostro lavoro. Certo, non sono storie drammatiche di violenza e di morte ma di ordinari stenti di una democrazia malata. Vicende minori, processi di poco conto, notizie degne di cronaca ma non di rievocazione storica? È possibile, ma non se le si valuta nel loro complesso. Se fossero state individuate in sede giudiziaria, quelle connessioni occulte avrebbero potuto indirizzare diversamente forse non il percorso politicoistituzionale, ma almeno in parte la cifra etica del paese. Avremmo potuto far del bene alla democrazia. Non è accaduto. La tela del ragno funzionò.

 I magistrati di Perugia Perugia Arrivai a Perugia nel settembre del 1981 come giudice istruttore. La presenza e il ruolo della massoneria nella realtà perugina erano evidenti. Esisteva un

 

problema di influenze nelle istituzioni umbre in generale e all’interno della magistratura. L’allora vescovo di Assisi Sergio Goretti definì pubblicamente la massoneria come un’entità che agisce in modo nascosto e dunque è difficile da conoscere e contrastare. Per ricostruire il clima di quegli anni non si può prescindere dalla figura di Alfredo Arioti, sostituto procuratore generale a Perugia. In quegli anni la Procura generale aveva una posizione molto più incisiva rispetto a oggi nella gestione dei processi. Era molto più ampio e discrezionale soprattutto il potere di avocazione. Il procuratore generale in pratica poteva agire come una sorta di superiore gerarchico del procuratore della Repubblica e dei suoi sostituti. Il ruolo di Arioti dunque era di per sé in grado di incidere in modo rilevante sulla sorte dei processi. Naturalmente questo potere poteva essere impiegato in modi molto diversi. Descrissi la figura di Alfredo Arioti nella seduta della prima Commissione del superiore della magistratura del a22suo febbraio dellaConsiglio procedura di incompatibilità ambientale carico.1994. Si discuteva È un personaggio molto particolare, che ha una personalità notevole e una giovialità di rapporti con cui è riuscito a catalizzare tutta una serie di colleghi che hanno avvertito questa sua posizione di importanza all’interno del Palazzo di giustizia. Hanno avvertito che si trattava di un personaggio di rango. […] Era in stretto collegamento con le autorità locali […].

Quando poi all’inizio degli anni Novanta la questione morale esplose a seguito delle inchieste milanesi di Mani pulite, il ruolo di Arioti fu messo a fuoco da un’ispezione ordinata dal ministro della Giustizia che riguardò la complessiva situazione del Palazzo di giustizia di Perugia. Furono esaminati episodi e processi. Nediderivarono percarriera) Arioti una disciplinare di condanna (perdita di due anni anzianità di e unsentenza trasferimento di ufficio per incompatibilità ambientale con la sede di Perugia. La sentenza della sezione disciplinare del Csm del 28 aprile 1995 ritenne fondata l’incolpazione relativa all’appartenenza di Arioti alla massoneria per un lungo periodo di tempo (dal 1976 al 1992). Per i magistrati, si legge nella sentenza, è inconciliabile l’appartenenza al sodalizio massonico in ragione della inammissibilità della «doppia obbedienza» all’ordine massonico e ai principi costituzionali e repubblicani; incompatibilità ancora più netta dopo l’emersione

di degenerazioni del fenomeno massonico, ivi comprese le affiliazioni di personaggi legati alla mafia e alla criminalità organizzata. Provata (e da lui ammessa) l’appartenenza alla massoneria, la condotta di Arioti fu analizzata ripercorrendo gli episodi di cui si tratterà più avanti: Si tratta di episodi per i quali non si è provata alcuna strumentalizza strumentalizzazione zione dell’ufficio da parte del

 

dottor Arioti in conseguenza della sua appartenenza all’associazione all’associazione massonica; vi è sicuramente stato però un appannamento dell’immagine di indipendenza del magistrato Arioti in conseguenza della sua militanza nella massoneria, appannamento provato dal modo con cui taluni provvedimenti di Arioti venivano percepiti dai suoi stessi colleghi […].

La Procura della Repubblica era diretta da Nicola Restivo, non invischiato in rapporti massonici né illeciti. La sua gestione dell’ufficio però era tutt’altro che incisiva. In generale, la Procura della Repubblica non si distingueva per una capacità di iniziativa che andasse oltre l’ordinario. Espressi queste valutazioni anche davanti al Consiglio superiore della magistratura nella audizione della prima Commissione del 22 febbraio 1994. Parlai della presenza incombente, continua di Arioti nella vita giudiziaria di Perugia. Ricordai i suoi rapporti di stretta amicizia con Nicola Restivo. Dissi di non credere che Restivo avesse fatto cose discutibili o peggio, ma che a giudizio di molti il procuratore dirigeva l’ufficio con un atteggiamento di tipo burocratico, non incisivo. Aggiunsi: Aggiunsi:

Questo è un giudizio […] condiviso da molti colleghi e anche dagli attuali sostituti che definiscono il loro capo […] come un magistrato che non scoraggia né ostacola le indagini ma che neanche le incoraggia. Ogni fascicolo viene trattato allo stesso modo, si tratti di un grande processo o di un reato di piccolo calibro.

Altri colleghi si espressero nello stesso senso davanti al Csm confermando le dichiarazioni davanti all’ispettorato del ministero. Tra gli altri Giuseppe Severini, in quegli anni sostituto procuratore della Repubblica di Perugia. Dal verbale del Csm del 21 settembre 1994: Il dottor Severini […] ha confermato che a Perugia e in Umbria, per la forte concentrazione di massoni, il funzionamento pubbliche istituzioni condizionato da ingerenze esterne che la sensazione dell’uomodelle della strada è quella di unappare ambiente caratterizzato da una sorta di e convenzione spartitoria in cui parte molto significativa è riservata alla massoneria e altre, non meno significative, ai partiti egemoni in loco. Alcune delle ingerenze si riferiscono anche al mondo giudiziario. […] Rispetto a tale condizionamento in particolare il dottor Severini ha riferito che, quando era in Procura, avvertiva, di fronte ai reati dei «colletti bianchi» e contro la pubblica amministrazione, l’assoluta vanità dell’impegno profuso e che non ha mai notato un particolare comportamento del procuratore, dottor Restivo, diretto a rimuovere tali effetti. Ha anche aggiunto che Restivo era buon amico del dottor Arioti da cui aveva l’impressione che si facesse trascinare in manifestazioni, tipo quelle delle cene, che era meglio evitare.

Perugia non era attrezzata per contrastare il porto delle nebbie romano, intendendo con questo termine non solo la Procura e l’ufficio istruzione ma l’ambiente romano in genere dovenoti spadroneggiavano magistrati discutibilie centri se non francamente devianti. Erano i collegamenti tra alcuni magistrati di potere politico, anzi con ben individuati personaggi politici. Lì si sono decisi in quegli anni gli esiti non solo giudiziari di fatti corruttivi, eversivi, criminali, in

 

cui un ruolo di rilievo era svolto dal potere politico, affaristico, bancario, finanziario. Il Palazzo di giustizia era impotente o inerte. I magistrati perbene erano in difficoltà. Non pochi avvocati di Roma si distinguevano per la loro capacità di manovra e di tessere relazioni improprie più che per le loro capacità professionali. Il compito della magistratura di Perugia era chiaramente indicato. Ma dagli ambienti romani che avrebbero avuto motivi per rivolgersi all’autorità giudiziaria le segnalazioni utili erano rare. Spesso anzi ci si rendeva conto che l’intervento di Perugia era soprattutto uno strumento di pressione verso la controparte, e che la vera partita si giocava altrove. E la reputazione della magistratura di Perugia non sempre incoraggiava gli onesti. Chi conosceva fatti illeciti non aveva la stessa fiducia del mugnaio di Potsdam.

 L’omicidio di Mario Amato. L’indagine  L’omicidio L’indagine mancata su Giovanni Giovanni De  Matteo Il magistrato Mario Amato, sostituto procuratore a Roma, fu assassinato il 23 maggio del 1980 dai fascisti dei Nar. Dopo l’omicidio, come ricorda Giuliano Turone, fu denunciata la assoluta inerzia del procuratore della Repubblica Giovanni De Matteo di fronte alle implorazioni di aiuto da parte di Amato, che sapeva di essere in pericolo e lo aveva dichiarato in modo accorato anche al Consiglio superiore della magistratura. Ne derivò un’indagine che fu trasmessa a Perugia dalla Procura generale di Roma e fu trattata da Alfredo Arioti. Arioti mise formalmente molte persone (ilche, questore Roma, il capo di gabinetto del ministrosotto dellaindagine Giustizia e altri ancora) comediera chiaro, non avevano avuto nessun ruolo nella mancata protezione del magistrato ucciso. Lasciò fuori dall’indagine il solo De Matteo ignorando che proprio la sua posizione e gli indizi a suo carico avevano determinato lo spostamento dell’inchiesta a Perugia. I difensori di parte civile glielo fecero presente con memorie molto esplicite: si stava sollevando un polverone che dilatava l’indagine molto al di là dei suoi giusti confini e poteva avere un solo risultato: produrre gran confusione. Conclusa l’indagine, infatti, Arioti chiese al giudice di

archiviare tutto, nemmeno nominando il procuratore De Matteo. Il giudice istruttore Nicola Miriano decise di proseguire le indagini in istruzione formale solo nei confronti di De Matteo con un’ordinanza che Arioti considerò abnorme: il giudice non poteva procedere di ufficio contro chi non era mai stato indagato dal pubblico ministero. Miriano mise a fuoco le responsabilità

 

di De Matteo che d’altra parte erano evidenti, ma il processo si concluse con un proscioglimento in istruttoria per l’amnistia del 1981. Il reato di omissione di atti di ufficio finì nel nulla. Miriano non poteva fare di più. Era impossibile dimostrare che la protezione di Mario Amato sarebbe sufficiente a impedire l’omicidio. L’accusa di omicidio colposo sarebbe statastata senza via d’uscita. E in ogni caso la decisione di Arioti di non procedere contro De Matteo e quindi di non chiedere l’archiviazione della sua posizione metteva il procuratore al riparo da qualsiasi iniziativa del giudice istruttore.

Wilfredo Vitalone Le difficoltà non provenivano solo dall’interno del Palazzo di giustizia di Perugia. Le istruttorie perugine nei confronti di Wilfredo Vitalone lo dimostrano. Non interessa qui il merito dei processi, tutti conclusi con assoluzioni, ma la tortuosità del loro percorso. L’avvocato Wilfredo Vitalone nella prima parte degli anni Ott Ottanta anta fu una presenza costante a Perugia. La prima istruttoria è del 1982. Vitalone era imputato di millantato credito per avere chiesto e ottenuto 2 miliardi di lire da Roberto Calvi con il pretesto di dover corrompere i giudici romani che investigavano sul presidente del Banco Ambrosiano. Il processo era complicato dal feroce contrasto tra Vitalone e il pubblico ministero Domenico Sica, che aveva raccolto a verbale le dichiarazioni accusatorie di Maurizio Mazzotta, braccio destro del faccendiere Francesco Pazienza, e il 26 giugno del 1982 aveva emesso ordine di cattura a carico di Wilfredo Vitalone. Il giudice istruttore Nicola Miriano si occupò dell’istruttoria e mi confidò che Alfredo Arioti lo aveva messo in guardia dalle reazioni di Vitalone e del suo giro, consigliandogli di fare attenzione. Wilfredo Vitalone era fratello di Claudio, sostituto procuratore della Repubblica, in seguito senatore della Democrazia cristiana e ministro, notoriamente vicinissimo a Giulio Andreotti. Wilfredo Vitalone fu rinviato a giudizio da Miriano l’8 febbraio del 1983. Il

Tribunale di Perugia si dichiarò incompetente per territorio e trasmise gli atti a Roma, e lì Vitalone fu assolto con formula piena. Un altro processo a carico di Wilfredo Vitalone ci racconta una storia emblematica, soprattutto per quello che accadde durante l’istruttoria. I tre fratelli Caltagirone (Gaetano, Camillo, Francesco) erano accusati a Perugia di avere calunniato, in blocco, i giudici della sezione fallimentare del

 

Tribunale di Roma che aveva dichiarato il fallimento del loro gruppo immobiliare. Avevano presentato un esposto alla Procura di Roma in cui sostenevano che la sentenza di fallimento era un attacco politico; che i magistrati avevano agitoalla in quanto a Magistratura ostili alla parte politica quale icomunisti, Caltagironeiscritti facevano riferimento:democratica, la Democrazia cristiana e, come è noto, in particolare la corrente di Giulio Andreotti. Interrogai due dei fratelli (il terzo era latitante) i quali dichiararono di ignorare nel modo più assoluto quello che era esposto nella denuncia e di aver firmato su richiesta del loro legale Wilfredo Vitalone un atto già pronto e confezionato per la firma. Vitalone, mi dissero i Caltagirone, aveva detto che vista la difficile situazione un esposto contro i giudici era il solo modo per uscirne. Una tesi credibile: nessuno dei tre Caltagirone frequentava il Tribunale di Roma. Oltretutto uno dei fratelli in quel periodo era latitante all’estero e un altro era detenuto. Trasmisi gli atti al procuratore della Repubblica Restivo. Mi sembrava inevitabile un mandato di comparizione nei confronti di Vitalone per concorso nella calunnia. La risposta fu: procedere secondo giustizia. Emisi il mandato di comparizione. Immediatamente fu presentata una dichiarazione di ricusazione nei miei confronti. La motivazione ricalcava il cliché usato per i giudici romani: il giudice è comunista e mi considera un nemico politico. Non può processarmi. Trasmisi gli atti alla Corte d’appello che doveva decidere e segnalai che questa accusa di parzialità poteva rappresentare una calunnia. Chiesi che la Corte valutasse se investire la Procura della Repubblica di Firenze, competente per territorio. La Corte respinse la dichiarazione di ricusazione e mi restituì gli atti. Dall’ordinanza non risultava nessuna trasmissione di atti a Firenze. Mi informai sulla trasmissione per altra via delle mie deduzioni alla Corte d’appello di Firenze. Giorgio Battistacci, presidente del collegio e dell’intera Corte come facente funzioni, mi rispose negativamente. Proseguii nell’istruttoria. Qualche tempo dopo si presentò l’avvocato di Vitalone, beffardo, depositando un’istanza con cui chiedeva la mia astensione dal processo perché la mia «denuncia contro Vitalone» era stata archiviata. Capii solo quando l’avvocato mi

mostrò un decreto di archiviazione del giudice istruttore di Firenze. In pratica, era stata effettivamente archiviata l’ipotesi di reato che avevo segnalato alla Corte d’appello. come erano dalla arrivati gli atti a Firenze? Chiesi al copia degli atti e trovai una nota Ma di trasmissione Corte d’appello di Perugia pm di Firenze. Era firmata da Giorgio Battistacci. Trasecolai, perché Giorgio era al di sopra di ogni sospetto e aveva escluso di

 

avere trasmesso gli atti a Firenze. Giorgio Battistacci è stato in quegli anni la nostra guida morale e un nostro importante punto di riferimento. Era un cattolico democratico di grande cultura, un uomo mite ma fermo, coautore delTina Codice di procedura penale minorile 1988. Soprattutto, era stato scelto da Anselmi come consulente della del Commissione parlamentare sulla P2 e non aveva certo deluso le attese. Mostrai a Giorgio la lettera con la sua firma. Giorgio lesse, mi guardò smarrito e quasi balbettando mi confermò che lui non aveva trasmesso nulla. Ma la firma era sua, e Giorgio lo confermò. Dovetti fermarmi, perché chiedere accertamenti sull’accaduto voleva dire, quanto meno, mettere in difficoltà Giorgio Battistacci. Ma qualcosa era successo e c’era una sola possibilità: Giorgio era in quel periodo presidente facente funzioni della Corte e firmava ogni giorno una gran quantità di note e lettere di ogni tipo. Qualcuno, per forza di cose, aveva inserito quella per la Corte di Firenze. La tela del ragno: l’obiettivo era l’archiviazione della mia «denuncia». Fatto sta che la situazione consigliava l’astensione, cosa che feci. Vitalone fu prosciolto in istruttoria da un altro giudice istruttore. L’estensione del porto delle nebbie si può cogliere da un’altra istruttoria a carico di Wilfredo Vitalone. Sempre per calunnia, anche stavolta nei confronti di un magistrato romano. Qui entra in ballo un altro protagonista: la Corte di cassazione. Una volta informato dell’istruttoria di cui si occupava il sottoscritto, Vitalone mi ricusò, poté così avere copia del fascicolo e lo allegò a un esposto alla Procura di Roma con il quale segnalò che l’autorità giudiziaria di Perugia non era competente e chiese che la Procura di Roma sollevasse conflitto. Sarebbe stata la Cassazione a decidere se la competenza era di Perugia o di Roma. Il procuratore capo Marco Boschi respinse la richiesta richiedendo e ottenendo l’archiviazione: stava già procedendo Perugia secondo le regole sulla competenza. Poi Boschi si ammalò e lasciò l’ufficio. Vitalone allora ripresentò la sua richiesta e questa volta ebbe successo: il sostituto Margherita Gerunda chiese al giudice istruttore di sollevare il conflitto. Il giudice Claudio D’Angelo agì di

conseguenza. Stando alla precedente, categorica giurisprudenza della Cassazione, il conflitto proposto senza speranza sul piano del diritto. Sembrava. prima sezione dellasembrava Cassazione (il cui presidente era Corrado Carnevale che La però in quel caso non fece parte del collegio) emise una sentenza brevissima e manoscritta, sostanzialmente priva di motivazione: il conflitto fu risolto a favore

 

dell’autorità giudiziaria di Roma. Reagii in modo quasi provocatorio. Trasmisi per competenza a Roma i tanti processi per calunnia in danno di magistrati romani, allegando la sentenza della Cassazione Vitalone. Ricordo nel unacaso telefonata del giudice istruttore De Cesare che mi diede quasi del matto. Risposi proponendo che i giudici di Roma sollevassero a loro volta conflitto di competenza e così – giustamente – avvenne. La stessa prima sezione della Cassazione, stavolta presieduta da Carnevale, senza citare la sentenza relativa a Vitalone, ritornò alla sua precedente giurisprudenza e confermò per tutti i processi e per tutti gli imputati la competenza di Perugia. E così, l’unico imputato processato a Roma e non a Perugia per calunnia in danno di magistrati romani fu Wilfredo Vitalone. Che fu poi prosciolto dal giudice istruttore di Roma. La tela del ragno funzionò una volta di più.

 Le accuse ai vertici della Banca d’Italia Il 24 marzo del 1979 il giudice istruttore di Roma Antonio Alibrandi, su richiesta del pubblico ministero Luciano Infelisi, ordinò l’arresto di Mario Sarcinelli, capo del servizio di vigilanza della Banca d’Italia. Lo accusava di favoreggiamento personale e interesse privato in atti di ufficio per la mancata trasmissione all’autorità giudiziaria (in realtà allo stesso Alibrandi) di un rapporto ispettivo relativo ai finanziamenti erogati dalle banche di diritto pubblico a favore del gruppo industriale presieduto da Angelo Rovelli. Per le stesse imputazioni Alibrandi, che istruiva un processo riguardante un gran numero di persone compresi i vertici di vari istituti di credito, emise mandato di comparizione nei confronti del governatore Paolo Baffi, cui solo l’età evitò il carcere richiesto da Infelisi. Baffi e Sarcinelli, come Giuliano Turone illustra in modo diffuso nel capitolo VIII, si erano fermamente opposti ai tentativi e alle pressioni da parte di ambienti legati al banchiere Michele Sindona (che come è noto risulterà iscritto alla P2) affinché la Banca d’Italia e in particolare Sarcinelli nella sua veste di

capo della vigilanza dessero il loro assenso ai cosiddetti piani di salvataggio della Banca privata italiana. Sarcinelli piùtramite volte si era detto contrario ai progetti di Sindona Banca centrale potenti appoggi politici di ambienti vicini aproposti Giulio alla Andreotti. Era proprio Sarcinelli il principale ostacolo a questi progetti. Anche il direttore generale Carlo Azeglio Ciampi, chiamato in causa, aveva risposto che

 

per statuto la decisione spettava al capo della vigilanza. La presenza di Sarcinelli in quel ruolo chiave rappresentava dunque un insormontabile ostacolo alla riuscita dei tentativi di Sindona di scaricare sulla collettività i debiti della Le imputazioni mossesua da banca. Infelisi e Alibrandi sembrarono subito pretestuose e strumentali. Anche perché, dopo avergli concesso la libertà provvisoria, il 17 aprile del 1979 il giudice sospese Sarcinelli non dalle funzioni nel loro complesso ma solo dall’esercizio delle funzioni di capo della vigilanza. L’accusa mossa a Baffi non considerava che sia la commissione consultiva interna a Bankitalia sulla posizione di Rovelli sia l’avvocato capo della Banca centrale avevano dato parere negativo alla trasmissione del rapporto ispettivo all’autorità giudiziaria, pur essendo a conoscenza dell’esistenza dell’istruttoria di Alibrandi. Ma né l’avvocato capo né i membri della commissione furono coinvolti nell’imputazione. Quanto a Sarcinelli, lo si accusava solo in base a una sigla da lui apposta in calce alla relazione ispettiva: un visto che certo significava condivisione delle conclusioni, ivi compresa la proposta di non informare l’autorità giudiziaria; ma perché allora accusare solo Sarcinelli e non tutti coloro che avevano espresso un parere identico? La sezione istruttoria della Corte d’appello di Roma il 6 novembre del 1979 dichiarò la totale mancanza di indizi a carico di Sarcinelli perché – in ogni caso  – il compito di trasmettere t rasmettere gli atti all’autorità giudiziaria giudizia ria spettava solo al governatore secondo l’articolo 10 della legge bancaria, e dunque il capo della vigilanza non aveva nessun obbligo o potere in materia. Il 9 giugno del 1981 Alibrandi prosciolse Baffi e Sarcinelli «perché il fatto non costituisce reato». Puntigliosamente il giudice ripropose la sua tesi di una colpevole omissione da parte degli imputati ma li scagionò perché, sostenne nella sentenza, in realtà avevano intenzione di coprire non le responsabilità di Rovelli e dei banchieri ma le proprie, le precedenti omissioni sulle esposizioni delle società in questione. I giudici istruttori di Milano Giuliano Turone e Gherardo Colombo si occuparono del caso di Baffi e Sarcinelli nel corso della loro istruttoria a carico di Michele Sindona e altri per l’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli,

liquidatore della Banca privata. Anche l’avvocato Ambrosoli, come ricordato da Giuliano Turone, si era opposto al salvataggio della banca di Sindona spese dell’erario. stato pesantemente minacciato. L’11 luglio del 1979a fu ucciso a MilanoEra da William Aricò su mandato di Michele Sindona, poi condannato all’ergastolo. Nessun esponente delle istituzioni fu presente al funerale a eccezione di Paolo Baffi.

 

Giulio Andreotti nel 2010 dirà che Ambrosoli «se l’andava cercando». Oltre alla inconsistenza delle accuse mosse ai vertici della Banca d’Italia, dimostrata del resto dal successivo proscioglimento, c’erano dati di fatto eloquenti: le pressioni Ambrosoli e sullaallo Banca d’Italia, entrambi di ostacolo agli interessi illeciti di su Sindona, risalivano stesso periodo di tempo. E uno dei portavoce di Sindona, nell’uno e nell’altro caso, era stato l’avvocato Rodolfo Guzzi. I giudici istruttori di Milano trasmisero alla Procura di Perugia per competenza gli atti riguardanti Infelisi e Alibrandi. Il pubblico ministero Federico Centrone chiese l’archiviazione in base al principio di insindacabilità del merito delle decisioni giudiziarie. Ma non si trattava di questo. Si trattava di capire se i due magistrati romani, anche indirettamente e per interposta persona, si fossero fatti a loro volta strumento degli interessi di Michele Sindona. Si trattava di mettere insieme i frammenti della vicenda e accertare se la giustizia fosse stata strumentalizzata a tutela di interessi privati e illeciti. C’erano probabilmente, senza incriminazioni formali, gli estremi per un approfondimento da parte del pubblico ministero prima che il giudice istruttore fosse investito del caso. Alcuni aspetti della vicenda forse potevano essere chiariti. Ma anche il sottoscritto, giudice istruttore, alla fine dovette condividere le conclusioni di Centrone. Non c’erano alternative. Per procedere oltre, sarebbe stata necessaria a norma di codice l’apertura di una istruzione formale: sarebbe stato necessario incriminare formalmente Infelisi e Alibrandi e formulare un’accusa, non generica ma descritta e precisata in un capo di accusa. Ma un’imputazione non può precedere, deve essere conseguente all’acquisizione delle prove di accusa. E poi dove, come cercare la prova degli ipotetici collegamenti tra gli ambienti che proteggevano Sindona e i due magistrati? Quali indagini fare? Chi sarebbe stato in grado di dare indicazioni che andassero oltre la condivisione di sospetti e dubbi, ovviamente irrilevanti in un procedimento penale? Era lecito e possibile, in quel momento, muovere da un pregiudizio negativo

su Infelisi e Alibrandi? Era corretto subire l’influenza delle campagne di stampa, pur serie e documentate, che parlavano di «attacco alla Banca d’Italia»? Certamente no. ottenere un quadro più completo, e in altri termini cercare di Era possibile capire in base a quali dati di fatto il pubblico ministero e il giudice istruttore avessero deciso che Baffi e Sarcinelli erano responsabili di favoreggiamento e

 

interesse privato in atti di ufficio? Elencai le possibili indagini nel decreto del 24 maggio 1985. Dagli atti non si comprendeva per quali vie i magistrati di Roma e in particolare Alibrandi avessero conosciuto rapporto ispettivo non trasmesso magistratura romana.l’esistenza Alibrandi del aveva nominato un collegio di periti alla che aveva lavorato sugli stessi documenti, fianco a fianco con gli ispettori autori del rapporto. La perizia non era negli atti di Perugia. Il giudizio dei periti era stato uguale o diverso da quello degli ispettori, soprattutto sulla rilevanza penale dei fatti oggetto della loro indagine e comunque sul fatto che si trattasse di fatti di interesse del giudice penale? L’esistenza del rapporto ispettivo e le sue conclusioni risultavano già dalla perizia? Se sì, perché considerare la mancata trasmissione come un intenzionale ostacolo all’accertamento dei fatti? Accertare tutto questo sarebbe stato utile per capire meglio l’origine della notizia di reato, per cogliere le contraddizioni del percorso investigativo e per dimostrare, al massimo, le peculiarità della conduzione dell’istruttoria. Il pubblico ministero prima di orientarsi per la richiesta di archiviazione avrebbe potuto acquisire quei documenti senza particolari formalità. Ma il giudice no. Oltretutto, quei documenti non avrebbero mai dimostrato la fondatezza di una ipotesi di devianza a carico dei due magistrati. La distanza sarebbe rimasta troppo lunga e di fatto incolmabile. Il 24 maggio del 1985 archiviai.

 L’istruttoria  L’is truttoria Infelisi Il 28 novembre del 1983 Clara Canetti, vedova del banchiere Roberto Calvi, fu interrogata dal giudice istruttore di Milano. Il cadavere del marito, presidente del Banco Ambrosiano e iscritto alla P2, era stato trovato a Londra il 18 giugno del 1982, impiccato sotto il ponte dei Frati neri. La signora Canetti parlò di Luciano Infelisi, pubblico ministero a Roma. Ricordò che Calvi poco prima della morte era stato coinvolto in un’indagine di Infelisi sul fallimento del gruppo immobiliare romano di Mario Genghini (anche lui iscritto alla P2) e che aveva

scelto i suoi difensori su suggerimento e consiglio proprio di Infelisi. Si trattava degli avvocati Pietro Moscato e Giorgio Gregori, quest’ultimo amico di Infelisi. Poi laegli signora aggiunse: quantoInfelisi mi è stato da mio marito, per il Canetti Natale 1981 aveva«Sempre regalatoper al dottor una riferito autovettura, mi pare una BMW computerizzata». 1 I giudici di Milano verificarono che effettivamente Infelisi era proprietario di

 

una BMW 520 immatricolata nel maggio 1982. Trasmesso il fascicolo a Perugia, il sostituto Wladimiro De Nunzio accertò che la BMW era stata venduta a Infelisi da un autosalone di Velletri per 15.600.000 lire più la valutazione dell’usatodeldato in in permuta ed(cioè era stata pagata di trabanca) il 14 dicembre del importo. 1981 e il 6 gennaio 1982 contanti in biglietti per l’intero Ma il lavoro di De Nunzio fu interrotto. Il procuratore generale Alfredo Arioti il 22 ottobre del 1984 avocò a sé il processo. L’avvocato Adolfo Gatti per conto di Infelisi aveva presentato due istanze di avocazione. La prima, per asserite esigenze di rapidità, era troppo debole e rimase agli atti senza che fosse decisa in un senso o nell’altro. Ne fu presentata un’altra, che denunciava violazioni del diritto di difesa del tutto inesistenti. La seconda istanza fu accolta. De Nunzio sollevò un conflitto di competenza e, persa la partita in Cassazione, decise di lasciare la Procura e di trasferirsi in Tribunale in polemica con il procuratore Restivo, che di fronte all’invasione di campo da parte di Arioti non aveva preso posizione. Secondo De Nunzio, il procuratore non aveva difeso la dignità dell’ufficio e del suo sostituto e non aveva smentito la tesi di Infelisi circa violazioni del diritto di difesa. Non fu disponibile, De Nunzio, a passare per magistrato superficiale, sbrigativo e – si direbbe oggi – troppo giustizialista. Non accettò che la Procura fosse di fatto commissariata dall’esterno. De Nunzio è stato a lungo parte attiva dell’Associazione nazionale magistrati, principale esponente della corrente di Unicost a Perugia e punto di riferimento di tanti colleghi. È stato segretario nazionale dell’Anm e poi presidente della Corte d’appello. A suo merito l’iniziativa di un affollato e burrascoso dibattito pubblico sui rapporti tra massoneria e magistratura, al quale partecipai con lui e con due dichiarati esponenti della massoneria locale. L’istruttoria Infelisi passò dunque nelle mani di Arioti, il quale il 13 novembre del 1985 chiese l’archiviazione. A carico di Infelisi non era stato accertato nessun elemento in più. C’erano però troppi buchi nella tesi difensiva, troppe contraddizioni e troppe circostanze da chiarire. Come giudice istruttore, con un’ordinanza del 5 febbraio 1986, decisi di contraddire la richiesta di archiviazione e di aprire un’istruttoria formale per corruzione a carico di Luciano Infelisi. Nel corso della quale non

mancò una dichiarazione di ricusazione nei confronti del sottoscritto, respinta dalla Corte d’appello di Perugia. Effettivamente Infelisi, neldelperiodo cui avevaRoberto comperato la BMW, istruiva il processo per la bancarotta gruppoinGenghini. Calvi, diversamente da molti altri imputati (accusati però di reati diversi) non era stato arrestato. Difensori di fiducia di Calvi erano gli avvocati Gregori e Moscato.

 

Infelisi doveva spiegare perché avesse pagato la macchina in contanti, e chiamò in causa il suo amico Mario Trementozzi, commercialista. Raccontò che Trementozzi gli aveva chiesto in prestito 20 milioni e poi li aveva restituiti in contanti. Le banconote erano state utilizzate per acquistare la BMW. Trementozzi, che sentii come testimone, non riuscì però a spiegare perché avesse chiesto il prestito a Infelisi. Avevo controllato: sui suoi conti correnti c’erano in quel periodo somme molto elevate, i conti di Infelisi erano modestissimi. Come detto, il 22 febbraio del 1994 fui sentito dalla prima Commissione del Csm nel procedimento che poi si concluse con il trasferimento di ufficio di Arioti ad altra sede. Mi fu chiesto del processo Infelisi. La mia risposta risulta dal verbale di udienza. Nel corso di queste indagini Arioti mi chiese espressamente di essere presente a tutti gli atti istruttori, compresa l’audizione dei testimoni. È una richiesta, sia pure non frequentissima, assolutamente corretta e legittima. Posso riferire un episodio del quale sono testimone soltanto io e un’altra persona che sicuramente non se ne ricorderà. Un pomeriggio dovevo ascoltare come testimone il prof. Zilletti [già vicepresidente del Csm, iscritto alla loggia P2, n.d.a. n.d.a.]] circa i rapporti tra lui, il dottor Infelisi e l’avvocato Gregori, difensore di Calvi. Avevo fissato questo atto istruttorio alle 15.30, avvisando nei giorni precedenti Arioti. Qualche minuto prima dell’arrivo di Zilletti, alle 15.15/15.20, scesi in Procura generale da Arioti – con il quale sono sempre stato in rapporti estremamente cordiali sul piano personale – per avvertirlo che stava per arrivare Zilletti […]. Davanti alla porta di Arioti c’era l’usciere […] al quale chiesi se il dottor Arioti fosse in ufficio. L L’usciere ’usciere mi rispose: «Sì, è occupato. C’è il prof. Zilletti». 2

Il 12 marzo del 1988 prosciolsi Infelisi. Unica prova di accusa erano le dichiarazioni in istruttoria della signora Canetti, che però poteva solo riferire le poche parole del marito e che, interrogata a Londra dal sottoscritto, dichiarò che mai sarebbe venuta a Perugia per testimoniare in tribunale. Un solo indizio riguardava lo specifico episodio della BMW: la documentata amicizia tra il titolare dell’autosalone che aveva venduto la macchina e l’avvocato Pietro Moscato. Non poco, ma non sufficiente. Per il resto erano ragionamenti relativi al contesto e all’ambiente, di scarsa o nessuna efficacia in un dibattimento. Molti nomi, molte circostanze rimandavano alle vicende della loggia P2. C’era un quadro di verosimiglianza ma non la prova

della corruzione.

 Elisabetta Cesqui e le accuse di Costantino Belluscio Belluscio Pesò molto a carico di Arioti nei procedimenti a suo carico davanti al Csm la sua

 

condotta nel caso che riguardò Elisabetta Cesqui, allora sostituto procuratore della Repubblica di Roma. Ne parlai nella seduta del 22 febbraio 1994. Anche in questo caso il protagonista è un appartenente alla P2: Costantino Belluscio P2 numeroSaragat. 1710), deputato del Psdi, già segretario del presidente(tessera della Repubblica Il 26 luglio del 1985 Belluscio presentò al procuratore generale di Roma un esposto contro Elisabetta Cesqui. Sosteneva che il 17 luglio il magistrato l’aveva interrogato come testimone e gli aveva chiesto notizie su alcuni numeri di telefono, compresi quelli dello stesso Belluscio. Il magistrato durante l’esame testimoniale aveva consultato atti processuali che, sosteneva l’esposto, contenevano sicuramente i risultati di intercettazioni telefoniche. Belluscio affermava di essere sicuro dell’illegittimità delle intercettazioni, opera dei servizi di sicurezza (Belluscio anzi precisava con sicurezza: del Sismi). Elisabetta Cesqui, sosteneva l’esposto, usava illecitamente questi atti per colpire un avversario politico, tanto che l’interrogatorio si era svolto su fatti totalmente irrilevanti da un punto di vista penale ma in base a valutazioni di carattere politico relative alla presidenza della Repubblica Saragat: «Valutazioni certamente precluse al magistrato quando, poggiando su fatti assolutamente inesistenti o comunque penalmente non rilevanti, manifestano l’obiettivo di una strumentalizzazione politica della funzione giudiziaria». 3 La dottoressa Cesqui quindi era accusata di avere surrettiziamente sentito come teste un deputato senza la necessaria autorizzazione a procedere, in violazione di ogni norma di procedura penale e calpestando le prerogative dei parlamentari. La prova della malafede del magistrato? La sua appartenenza a una formazione politica di estrema sinistra. Belluscio alludeva all’appartenenza del magistrato alla corrente di Magistratura democratica. Il 1° agosto successivo Belluscio scrisse anche al procuratore generale e al consigliere istruttore di Roma Ernesto Cudillo: i fatti sui quali Elisabetta Cesqui lo aveva sentito (come testimone) erano gli stessi sui quali era stato già sentito (come testimone) da Cudillo. Belluscio non spiegava perché, stando così le cose, se l’era presa con Elisabetta Cesqui e non con Cudillo, il quale – sosteneva trascurando la contraddizione – si era comportato esattamente allo stesso modo. Era, in realtà,

una prova in più della strumentalità dell’esposto. Elisabetta Cesqui alla Procura generale di Roma spiegò infatti che le cose stavano in modo diverso rispettonotizie alle categoriche di Belluscio. documenti su cui ben erano state chieste erano staticertezze sequestrati a Firenze Ia Luciano Donnini, genero di Licio Gelli: si trattava di schede e appunti contenenti nomi, recapiti e numeri di telefono. Gelli all’epoca era latitante all’estero e si

 

investigava su possibili condizionamenti e pressioni (insomma, su possibili ricatti) in vista di un rientro in Italia. Nessun intervento dei servizi, nessun uso illecito di intercettazioni, nessuna violazione delle prerogative dei parlamentari. Un Trasmessi chiarimento non lasciava spaziodella a dubbi di nessunchiese genere. glitotale atti a che Perugia, il procuratore Repubblica e ottenne l’archiviazione nei confronti di Elisabetta Cesqui. Come previsto dal codice, il procuratore generale di Perugia vistò il decreto. Come dire: sono d’accordo. Poi però Arioti cambiò idea e il 29 novembre del 1985 comunicò che avrebbe trattenuto gli atti per ulteriori indagini. Il 3 febbraio del 1986 inviò a Elisabetta Cesqui una formale comunicazione giudiziaria per interesse privato in atti di ufficio (ovvero per avere perseguito interessi politici di parte); chiese e ottenne la copia di tutti gli atti dell’indagine svolta a Roma sulle agende sequestrate a Luciano Donnini; sentì Belluscio; più volte chiese a Elisabetta Cesqui notizie sullo stato del procedimento, che infine il 6 aprile del 1987 fu archiviato dal giudice istruttore di Roma. Arioti, l’11 agosto del 1987, chiese a sua volta l’archiviazione nei confronti di Elisabetta Cesqui. Al sottoscritto, leggendo le carte dell’«indagine» perugina di Arioti, sembrò evidente che si fosse trattato di un’iniziativa strumentale. Come, del resto, era l’esposto di Costantino Belluscio. Quando gli atti erano stati trasmessi a Perugia, infatti, era già chiarissimo che nell’indagine del sostituto Cesqui non c’erano risvolti da chiarire, che non erano stati commessi illeciti, e che Belluscio lo sapeva bene. La Procura generale di Roma aveva escluso, al di là di ogni dubbio, ipotesi di reato a carico di Elisabetta Cesqui. E d’altra parte qual era l’argomento usato? Il magistrato Cesqui è iscritto a Magistratura democratica e dunque, senza necessità di altre prove, è inaffidabile e fazioso. Un cliché abusato in quegli anni, un argomento preconfezionato in mancanza d’altro. In realtà, l’iniziativa di Belluscio nei confronti di Elisabetta Cesqui era una reazione degli ambienti piduisti al tentativo del magistrato di portare avanti l’istruttoria a carico di alcuni dei principali esponenti della P2 per il reato di cospirazione politica e per altri reati. Il processo era stato sottratto ai giudici di Milano e trasferito a Roma per

decisione della Cassazione, ed era stato istruito con lentezza e senza nessun approfondimento utile da altri magistrati, tra cui lo stesso Cudillo. Elisabetta Cesqui tentò sostanziale di riprendere fila dell’istruttoria ma non riuscì a del impedire l’insuccesso delleprocesso, concluso con la sentenza 16 aprile 1994 che escluse per gli imputati i reati più gravi. Nel dicembre del 1986 il magistrato subì anche uno strano furto nel suo

 

appartamento. Sul terrazzo fu lasciato un proiettile, ed è un po’ difficile non pensare a un minaccioso avvertimento. A quel periodo risale l’esposto di Belluscio. Si voleva da un lato intimidire la dottoressa e soprattutto – siIlvoleva sapere quegli atti. Cesqui, Il primodall’altro risultato –non fu raggiunto. secondo sì. cosa c’era in L’indagine di Arioti, durata dal 29 novembre 1985 all’11 agosto 1987, in realtà non c’era stata. Tanto tempo era stato usato soltanto per avvisare di reato Elisabetta Cesqui, mantenere ferma la comunicazione giudiziaria per un anno e mezzo, ottenere e leggere gli atti del fascicolo romano e poi attendere la notizia dell’archiviazione del giudice istruttore di Roma. Notizia che, è chiaro, non poteva avere comunque nessun nesso con l’eventuale responsabilità di Elisabetta Cesqui. Sarebbe arrivato in seguito il momento di essere espliciti davanti al Consiglio superiore della magistratura, di segnalare quale contesto era dietro questa vicenda, di chiarire quali collegamenti avevano guidato la condotta di Alfredo Arioti. Per il momento, l’unico strumento a disposizione era un dettagliato decreto di archiviazione. Archiviando ripercorsi la vicenda, soprattutto chiarendo che quando il fascicolo era stato trasmesso a Perugia la dottoressa Cesqui aveva già spiegato tutto davanti alla Procura generale di Roma. La relativa relazione era agli atti. Non c’era altro da chiarire, e infatti nulla di più fu accertato a Perugia. Il decreto fu comunicato al Consiglio come dovuto. Non successe nulla. Anche per il Consiglio superiore fu necessaria la non contrastabile spinta successiva agli avvenimenti giudiziari del 1992-1993. Solo allora si incrinò l’inerzia delle istituzioni di autogoverno rispetto alla questione morale interna alla magistratura. Il 22 febbraio del 1994 davanti alla prima Commissione del Consiglio parlai dell’episodio, fino ad allora ignoto a tutti i consiglieri presenti. Ricordo bene lo sconcerto. Poi, nella delibera di trasferimento di ufficio, l’episodio fu inserito tra quelli più pesanti a carico di Alfredo Arioti.

 Epilogo Esplosa nel 1992 la stagione di Mani pulite, la questione morale non poteva non riguardare anche la magistratura di Perugia. Si susseguirono attacchi da varie parti ai magistrati perugini, accusati senza distinzioni di collusione con ambienti massonici e, in sostanza, di inaffidabilità.

 

La stampa e alcuni esponenti politici (tra i quali il deputato dei Verdi Gianni Mattioli) chiedevano che si facesse chiarezza, soprattutto perché dai magistrati di Perugia dipendeva un’operazione di pulizia nei confronti della magistratura romana, allora necessaria che mai. Guidata da De Nunzio,più la magistratura di Perugia attraverso l’Anm reagì chiudendosi a riccio, respingendo le accuse di collusione e inaffidabilità, proclamando la propria probità professionale. Senza distinzioni e senza eccezioni. Non ero di questo avviso e lo dissi in più di un’assemblea dell’Anm. Non era possibile limitarsi a respingere le accuse, occorreva fare chiarezza completa, era necessario che ciascuno si assumesse le proprie responsabilità. Chiesi che l’Anm locale si facesse portavoce di una richiesta di ispezione sugli uffici perugini. Fui accusato di muovermi per secondi fini, ovviamente mai specificati. Ma ormai gli sviluppi erano segnati. Le polemiche politiche condussero comunque all’ispezione ministeriale. Il resto è noto. Arioti davanti al Csm negò di avere mai tenuto condotte scorrette ma ammise la sua passata appartenenza alla massoneria. In seguito, nonostante fossi tra quelli che lo avevano accusato, parlandomi in privato ha poi riconosciuto le proprie responsabilità. Tutto cambiò. Il rinnovamento fu rapido e radicale. Nuovi magistrati arrivarono in procura. Fausto Cardella, Michele Renzo, Alessandro Cannevale, Dario Razzi. La procura fu diretta per un lungo periodo da Fausto Cardella come reggente, poi da un galantuomo come Nicola Miriano. Un primo, forte segnale di svolta furono le condanne per usura a seguito di indagini condotte da Cardella nei confronti di Augusto De Megni, imprenditore e finanziere perugino, massone, sovrano gran commendatore del rito scozzese antico e accettato. Le indagini contro rappresentanti della politica umbra furono numerose e di gran livello investigativo. Ancora di più lo furono le indagini romane, con una cultura della prova estremamente attenta e rigorosa. Da allora in poi la magistratura di Perugia ha svolto egregiamente il proprio ruolo. Anche nel Palazzo di giustizia di Roma fu la fine di una lunga e buia stagione. Incisero non poco l’attività di indagine della Procura di Perugia e

l accertamento giudiziario del ruolo deviante di alcuni magistrati. Una nuova reputazione per la magistratura perugina, ottenuta però non con la difesa miope e corporativa di tutti, ma con il lavoro e l’impegno professionale.

 

Il caso Italcasse di Be Beniamino A. Piccone

 Lo scandalo Italcasse fin dalle origini Nell’estate del 1982 Giovanni Spadolini, presentando in parlamento il suo secondo governo – che seguiva il primo non guidato da un democristiano dalla nascita della Repubblica, formatosi nel 1981 subito dopo la scoperta delle liste della P2 e la caduta del governo Forlani –, disse che «prima ancora che con la lotta giudiziaria ai grandi truffatori finanziari, ai concussori, ai profittatori, agli evasori, i valori morali si difendono con un sistema di interventi normativi capaci di dare trasparenza alle istituzioni finanziarie, al maneggio del pubblico danaro, alle situazioni fiscali. […] La lotta contro i centri di potere occulti, inquinanti e corruttori è una costante di questo governo». 1 Erano passati i terribili anni Settanta, che avevano visto nell’Italcasse un centro nevralgico di corruzione e clientelismo al servizio di undinefasto modello di sviluppo. L’Iccri (Istituto di credito delle casse risparmio italiane), comunemente denominato Italcasse, svolse per anni il ruolo di cassa di compensazione degli affari più loschi, il luogo dove i boiardi di Stato regolavano i conti delle loro pattuizioni. Nelle parole della vedova del giornalista Mino Pecorelli, Franca Mangiavacca, l’Italcasse «è stata il cuore e la centralina di smistamento di ogni perversione e di ogni abuso. Più democristiana della Dc in quanto istituto esponenziale delle democristiane casse di risparmio, l’Italcasse ha custodito e

custodisce tuttora i più inconfessabili segreti politico-economici del partito che per quarant’anni ha occupato larga parte del potere alimentandosi dei profitti di ogni possibile centro d’affari». 2 In tutte le vicende politico-giudiziarie di quegli anni emerge sempre l’Italcasse, dai cui conti correnti – anche intestati a personaggi di fantasia – saltavano fuori le risorse necessarie per la corruzione. L’Italcasse aveva la funzione di investire la liquidità in eccesso raccolta dal

 

sistema delle casse di risparmio presenti sul territorio italiano. Fin dalla sua fondazione gli organi amministrativi venivano selezionati con metodi discutibili dal partito di maggioranza relativa, la Democrazia cristiana. Il direttore generale 3

Giuseppe definito l’elemosiniere dopocoinvolto vent’anniappunto di direzione fu costrettoArcaini, a dimettersi il 22 settembre deldella 1977Dc, perché nello scandalo Italcasse, accusato di peculato e di interesse privato per una serie di fondi neri e mutui concessi a imprenditori amici e a partiti di governo, in particolare alla Democrazia cristiana e alla corrente politica di Giulio Andreotti. Successivamente, il 16 dicembre del 1977, fu spiccato contro di lui un mandato di cattura internazionale, ragion per cui si rese irreperibile fino al 29 settembre del 1978, quando, in attesa di consegnarsi ai carabinieri, fu colpito da un ictus. Ricoverato all’ospedale di Bergamo, si sarebbe spento ventiquattro ore dopo. Fa notare lo storico Miguel Gotor nel suo Memoriale suo Memoriale della Repubblica: Repubblica: «Con la vicenda Italcasse si entra, quindici anni prima di Tangentopoli, dentro le dinamiche di funzionamento del sistema di potere nazionale, vale a dire l’intreccio endemico tra politica e mondo imprenditoriale, dimensione privata e funzione pubblica, cricca e libero mercato». Così pure Aldo Moro, dal carcere brigatista: «E lo sconcio dell’Italcasse? E le banche lasciate per anni senza guida qualificata, con la possibilità di esposizioni indebite, delle quali non si sa quando ritorneranno e anzi se ritorneranno. È un intreccio intollerabile nel quale si deve operare con la scure». 4 Alla metà degli anni Settanta viene alla luce la vicenda Caltagirone, dal nome dei tre fratelli Gaetano, Francesco e Camillo che sono a capo di un impero edilizio tra i maggiori di Roma. Nel 1975 essi controllano ben 158 società, con 140 cantieri aperti. Il maggiore finanziatore del gruppo, manco a dirlo, è l’Italcasse guidata da Arcaini che è anche presidente dell’Associazione bancaria italiana (Abi). Il connubio Caltagirone-Italcasse funziona a meraviglia per anni. Con i finanziamenti bancari i fratelli Caltagirone costruiscono grandi immobili prevalentemente nella Capitale che poi vendono a prezzi vantaggiosi ai maggiori istituti di previdenza, Inps e Inpdap. Il circuito di costruzione con capitali presi a prestito e vendita degli immobili va avanti per anni senza intoppi grazie a una

rete collaudata di amicizie politiche, soprattutto con la corrente democristiana guidata da Giulio Andreotti. Nella sentenza della Corte d’assise di Perugia del 1999 sull’omicidio del giornalista Carmine (detto Mino) Pecorelli si legge: L’erogazione del credito [dall’Italcasse, n.d.a. n.d.a.]] per somme ingentissime senza preventivo accertamento tecnico istruttorio, senza garanzia alcuna e mascherandole per operazioni di breve termine, come previsto dallo statuto, anziché di medio termine come esse erano in realtà, ruotava

 

intorno alla figura del direttore generale e ai membri del consiglio di amministrazione che erano espressione di quei gruppi di potere che potevano determinare la nomina di cariche sociali.

L’Italcasse era diventata la «“CASSA” di alcuni gruppi politici per cui era sufficientedirivolgersi a tale “CASSA” per essere sicuri del finanziamento senza necessità previ accordi». Per evitare situazioni di questo genere il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi invocava nelle «Considerazioni finali» per il 1976 il cambio delle regole nelle nomine dei vertici bancari: «Sembra giunto il momento di por mano a una revisione dei meccanismi per le designazioni e per le nomine bancarie che assicuri maggiormente il rispetto dell’esigenza di difendere l’autonomia delle funzioni creditizie». Si possono immaginare i volti corrucciati di alcuni politici, pronti alla ritorsione, nel sentire questi moniti. In particolare, sul fronte delle vendite immobiliari dei Caltagirone, annota Baffi l’8 aprile del 1978 nella sua Cronaca breve di una vicenda giudiziaria: giudiziaria: «Gli attuali direttori dei due maggiori istituti di previdenza sono stati imposti dal Palazzo per facilitare le vendite dei Caltagirone». A tenere i contatti con la corrente andreottiana è il primo dei tre fratelli, Gaetano, amico personale di Franco Evangelisti, l’uomo di fiducia di Andreotti –  più volte sottosegretario alla presidenza del Consiglio e ministro. Nel 1980, in una memorabile intervista rilasciata a Paolo Guzzanti, Evangelisti ammetterà di aver ricevuto finanziamenti illeciti da Gaetano Caltagirone.  Ministro, lei ha preso preso dei soldi dai Caltagir Caltagirone? one? Sì, da Gaetano. Quanti soldi? E chi se lo ricorda, ci conosciamo da vent’anni e ogni volta che ci vedevamo lui mi diceva: «A Fra’, che te serve?». Così? Caltagirone tirava fuori e scriveva? Sì, è così. E senza nessuna malizia. Chi ci pensava a questi scandali? Chi ci pensava di fare qualcosa di male? Non le pare? 5

Per le conseguenze economiche negative del primo shock petrolifero del 1973, combinato con la crisi del settore edilizio e il rialzo dei tassi di interesse, il gruppo Caltagirone inizia a trovarsi in difficoltà. La situazione si aggrava a seguito dell’ispezione operata dalla Banca d’Italia presso l’Italcasse nell’estate

del 1977, quando i funzionari rilevano ingenti irregolarità sia nella fase di erogazione del credito – che non segue in alcun modo i criteri di merito – sia sul fronte contabile, poiché le operazioni conti intestati a personaggi di fantasia.«in nero» sono numerosissime, così come i

 

 L’ispezione  L’is pezione all’Italcas all’Italcasse se del 1977  Il 19 agosto del 1977 gli ispettori della Banca d’Italia entrano all’Italcasse. E ci rimangono oltre sette mesi, fino al 31 marzo del 1978. Le irregolarità trovate sono gravi eper numerose. Di particolare interesse è il rapporto ispettivo interlocutorio – a ispezione ancora in corso – del 4 gennaio 1978 redatto dall’ispettorato di vigilanza sulle aziende di credito della Banca d’Italia, che fa emergere in maniera inequivocabile l’anomala condotta operativa dell’Iccri, in palese violazione delle leggi ordinarie e speciali, delle norme statutarie e di ogni principio di sana e corretta conduzione aziendale. L’ispettore Vincenzo Desario illustra in via preliminare la complessità e la difficoltà delle indagini «principalmente a causa di un ordinamento contabile rivelatosi di scarsa utilità e attendibilità in quanto fondato su scritture generalmente non suffragate da valida documentazione probatoria e per di più quasi sempre prive degli essenziali elementi di valutazione, indispensabili per determinare con certezza natura, condizioni e condizioni e termini dei singoli fatti di gestione (sicura identificazione del cliente, causale effettiva delle operazioni, indicazione precisa dei valori versati o ritirati ecc.)». Si evidenzia in particolare il peso delle spese sostenute e non documentate, che «hanno assunto nel gergo aziendale la classificazione di “costi invisibili” [voce esistente sin dal 1958, n.d.a. n.d.a.]. ]. Ribadiamo, costi che esistono, ma che non possono essere, per motivi facilmente intuibili, dimostrati con pezze di appoggio, ma che, ribadiamo, costituiscono la vera spinta alla produzione e all’espansione». 6 Specifica Desario:

La struttura «contabile-amministrativa» dell’Iccri si è confermata manchevole, disorganica e caotica. Sono stati trascurati i più elementari principi di organizzazione aziendale che, se applicati in modo nitido e razionale, avrebber avrebberoo potuto costituire fonte indiscussa di pronto e sicuro accertamento dei singoli fatti aziendali e di eventuali irregolarità e delle connesse singole responsabilità. […] Si era fatto frequente ricorso a «frenetici» movimenti contabili, interni o in contropartita con altre aziende di credito, allo scopo di far disperdere ogni traccia di operazioni irregolari, di cui ovviamente non si rinveniva in atti alcuna documentazione probante probante.. […] Incredibilmente estesa e ricorrente è risultata l’emissione di assegni Iccri o la richiesta di circolari

all ordine di nominativi di «pura fantasia» per corrispondere immotivatamente a terzi somme di pertinenza dell’Istituto. […] La voce «sofferenze», che normalmente raccoglie le operazioni di credito in contenzioso e quindi meritevoli di maggior cura e attenzione, costituiva invece presso l’Iccri un depuratore – silenzioso e riservato – attraverso il quale venivano sublimate tutte quelle partite antistatutarie poste in essere su abusive iniziative della direzione generale o che, comunque, riguardavano clienti dietro i quali si intravedevano interessi non certo conciliabili con le finalità istituzionali. 7

 

Arcaini cerca di giustificarsi in modo maldestro, scrivendo un appunto per gli ispettori in cui definisce i movimenti intervenuti nei fondi interni come «operazioni da me ordinate nell’interesse dell’Istituto e senza alcun onere per lo 8

stesso».  Ulteriore dimostrazione il consiglio di amministrazione aveva subito e avallato supinamente tutteche le iniziative dello stesso direttore generale dell’Italcasse. Scrive ancora Desario: «Emergono tutte le irregolarità e gli abusi che si sono concretizzati in un danno a carico dell’Iccri a tutto vantaggio di terzi». 9 I nomi di fantasia dei conti che servono per i traffici del direttore generale sono indicativi del pressapochismo e della scarsa immaginazione del medesimo e dei suoi collaboratori: Pentola Vecchia, Pentola Calda, Francis, Mario Ferrari, Carlo Sassi, Taddeo Villa, Silvio Colli, Primo Landi, Micheli Rivelli, Luigi Fantozzi. Forse neanche il ragioniere cinematografico Ugo Fantozzi sarebbe riuscito a provocare danni così ingenti. Aggiunge Desario: «Si evince con immediatezza che, in un arco di tempo pari a poco più di due anni (1972-1974), l’Iccri ha erogato – mediante artifizi contabili – notevoli disponibilità a persone e organizzazioni che formalmente non avevano alcun titolo per introitare le somme ricevute». In un altro passaggio relativo ai collaboratori dell’Italcasse si legge che «sono stati erogati per cassa L. 270 milioni a persona “non individuata né individuabile”». 10 Si pagavano così oboli o tangenti a soggetti sconosciuti che non hanno reso alcun servizio all’istituto. Diverse furono le transazioni arbitrariamente autorizzate dal direttore Arcaini senza che il consiglio di amministrazione ne fosse informato, neppure a posteriori. In assenza di qualsivoglia normativa antiriciclaggio 11 era possibile aprire un deposito a risparmio al portatore che serviva perfettamente per pagamenti illeciti. Scrive infatti Desario nella sua relazione: «Deve essere evidenziato che assegni per L. 490 milioni risultano incassati presso il “Banco di Roma – Filiale di Roma” il 9 gennaio ’74, data in cui presso la medesima azienda venne costituito il deposito a risparmio al “portatore” intestato “Pentola Vecchia” n. 169645 in base a distinta di versamento non sottoscritta da alcuno e priva della indicazione dei valori versati». 12

Gli ispettori della Banca d Italia scoprono anche come alcuni flussi di denaro a favore del conto «Democrazia cristiana – Conto movimento (Segretario amm.vo on. Filippo Micheli)» indichino quale fonte di provenienza l’Iccri, ossia la bancai che accredita alcun titolo Pecorelli – somme «foche direttamente al partito–che nomina vertici apicali––senza definiti da Mino ammaestrate» della banca stessa. La relazione ispettiva prospetta fatti di possibile rilevanza penale, per cui con

 

procedura d’urgenza il 16 gennaio del 1978 la commissione consultiva della Banca d’Italia delibera di inviare gli atti alla magistratura che, nelle persone dei sostituti procuratori Enrico Di Nicola e Luigi Ierace, aveva in agosto e poi in 13

ottobre richiestodella informazioni alla Banca d’Italia. 14 l’Iccri Su proposta Banca d’Italia viene posto in amministrazione straordinaria – con relativo scioglimento del consiglio di amministrazione, guidato da Edoardo Calleri di Sala – con decreto del ministro del Tesoro in data 21 febbraio 1978. Come commissari vengono nominati Renato De Mattia, Giovanni Colli e Cesare Rossini i quali, dopo i controlli effettuati, confermano le irregolarità dell’esposizione creditizia dei Caltagirone verso l’Italcasse. Infatti, per i fidi eccedenti il quinto del patrimonio di un istituto di credito, era necessario – al fine di contenere il rischio dell’affidante – chiedere l’autorizzazione in deroga alla Banca d’Italia. E quest’obbligo, fin dal 1975, non era stato ottemperato, sia sulla posizione Caltagirone, sia su quella Rovelli-Sir. Si scoprì inoltre che centinaia di miliardi presi in prestito dai fratelli Caltagirone – e mai restituiti – per costruire immobili erano stati solo in parte investiti nelle loro società. Diversi miliardi sarebbero finiti tra i beni personali di Gaetano, Francesco e Camillo, oppure in bustarelle ai politici a loro vicini. Alla fine del 1979 i commissari dell’Iccri presentano istanza di fallimento verso ventitré società dei Caltagirone. A fronte di 402 miliardi di lire di crediti del sistema bancario – compresi gli interessi sul debito – l’attivo si ferma a 300 miliardi anche nella valutazione più ottimistica. Nel 1980 il Tribunale di Roma certifica lo stato di insolvenza e decreta il fallimento delle società. Al contempo la Procura di Roma emette tre mandati di cattura per i fratelli Caltagirone – già fuggiti all’estero – per bancarotta fraudolenta. La relazione del curatore fallimentare Pasquale Musco del 1981 sottolinea che «il finanziamento Iccri, pur essendo stato concesso alle singole società, è stato gestito per la gran parte direttamente dai fratelli Caltagirone». 15 A conti fatti, mancheranno all’appello 135,5 miliardi di lire di allora, circa 70 milioni di euro di oggi.

 La Procura Procura di Roma: il porto delle nebbie o il porto delle folli follie? e? Nella sentenza sul delitto Pecorelli si racconta come (mal)funzionasse la Procura di Roma e il ruolo giocato dal sostituto procuratore Claudio Vitalone, 16 vicinissimo a Giulio Andreotti e al contempo – come si scoprirà successivamente – consulente per la difesa dei fratelli Caltagirone, già difesi da suo fratello Wilfredo e dall’avvocato di Michele Sindona, Rodolfo Guzzi.

 

Ecco allora spiegati gli appunti di Mino Pecorelli, il quale si chiedeva cosa ci facesse Claudio Vitalone insieme al capo dell’ufficio istruzione Gallucci nella stanza del giudice istruttore Giuseppe Pizzuti, ossia i giudici che si occupavano dell’inchiesta e che avevano interrogato ildivicedirettore della il Banca d’ItaliaItalcasse Mario Sarcinelli. La testimonianza quest’ultimogenerale – interrogato 13 e 14 aprile del 1978 (dalle 18 alle 24) – indusse i giudici della Corte d’assise di Perugia a pensare che «sotto inchiesta non fosse la gestione dell’Italcasse, ma la stessa Banca d’Italia». 17 E lo stesso Sarcinelli fu accusato da Pizzuti di porre eccessive condizioni sospensive per la sistemazione dei debiti Caltagirone. I magistrati della Procura di Roma accusarono inoltre la Banca d’Italia di non aver voluto sottoporre a ispezione l’Italcasse prima del 1977. Sarcinelli fece presente che l’Italcasse era stata ispezionata nel 1977 in relazione al completamento del piano di ispezioni riguardanti le grandi istituzioni creditizie come il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. 18 Vale la pena di citare integralmente un passaggio della testimonianza di Sarcinelli, vicedirettore generale della Banca d’Italia e dal settembre 1976 delegato dal governatore Baffi agli affari di vigilanza: Il Gi Pizzuti ha fatto riferimento anche al crac Sindona e implicitamente all’insufficienza o inefficienza dei controlli. Ho risposto dicendo che nonostante le ingenti forze di polizia in Italia pur si commettono reati. Egli ha replicato: «Ma la polizia è inefficiente!». Dinanzi a un’affermazione un’afferma zione a dir poco sorprendente ho aggiunto che pur somministrando tutti i medicamenti possibili non è detto che si riesca a prevenire l’insorgere di un male. 19

Sarcinelli, nel riferire a Baffi, scrive: «La posizione di Gallucci è stata molto dura sino a ricordarmi il mio dovere di testimone e fino a farmi intendere che era possibile configurare il reatoindirelazione concorsoalinprestito peculatodell’Italcasse da parte miaverso e dellaministro del Tesoro», evidentemente Sgi. 20 Gallucci pare dunque dimenticare che la gestione degli istituti bancari spetta agli organi amministrativi. Sembra proprio che i magistrati abbiano pervicacemente voluto mettere sotto pressione la Banca d’Italia. Il «duo inafferrabile» BaffiSarcinelli deve quindi pagare come Pinocchio, il quale finisce in galera al posto del Gatto e la Volpe Volpe che hanno rubato le monete d’oro. Baffi, interrogato in qualità di testimone il 1° marzo 1979, scrive: «Sul finire

dell’incontro il pubblico ministero Ierace è uscito dal silenzio […] per affermare con energia che nell’affare Italcasse “la Banca d’Italia c’è dentro” perché i contatti erano frequentissimi». Eccoci di fronte a magistrati che non conoscono nulla, o peggio, in malafede, attaccano i veri servitori dello Stato. Baffi fa notare l’ovvio: «Per l’esercizio delle funzioni di banca centrale, l’Istituto necessariamente mantiene contatti, sia in sede bilaterale che collegiale, con i

 

massimi esponenti del sistema bancario tra cui erano l’allora direttore dell’Italcasse e presidente dell’Abi». 21

 I crediti crediti di Italcasse verso il gruppo Caltagirone Caltagirone Forte dei rapporti in essere con la presidenza del Consiglio, i fratelli Caltagirone  – dopo essere stati finanziati f inanziati dall’Italcasse dall’Italcass e in modo illegittimo, illegitti mo, e in alcuni casi senza neanche prestare garanzie – fanno di tutto per scaricare il salvataggio sulla collettività. Come nel caso Sindona, in cui le pressioni sull’avvocato Giorgio Ambrosoli – non disponibile al salvataggio – e sulla Banca d’Italia sono state fortissime, 22 così nel caso Italcasse la politica invade il terreno di gioco. È in questo clima che Paolo Baffi scrive la Cronaca breve di una vicenda giudiziaria, documento vivido e angosciante, di eccezionale interesse storico, che racconta le trame ciniche del potere, pubblicato per la prima volta da Massimo Riva sulla rivista «Panorama» il 12 febbraio del 1990, sei mesi dopo la scomparsa dell’ex governatore della Banca d’Italia. Annota dunque Paolo Baffi il 7 febbraio del 1978: «Un alto esponente dell’amministrazione finanziaria [qualche anno dopo il suo nome si troverà fra quelli affiliati alla P2] viene a chiedermi con una incredibile insistenza di approvare la sistemazione del debito dei Caltagirone verso l’Iccri prima che venga nominato il commissario all’Iccri. Non sa produrre ragioni per la “comprensione” che mi chiede. Dice che ne dipende la sorte del governo in formazione. Se ne va insoddisfatto». distanza dichiama due settimane Baffi aggiunge che «Evangelisti (sottosegretario allaApresidenza) Sarcinelli a Palazzo Chigi, sempre per sollecitare la sistemazione della posizione Caltagirone». La copertina di «OP» – il settimanale diretto da Mino Pecorelli – del 14 ottobre 1977 titolava: Presidente titolava: Presidente Andreotti, Andreotti, questi assegni a lei chi glieli ha dati?, pubblicando dati?,  pubblicando all’interno l’elenco completo di una serie di assegni incassati, secondo Pecorelli, da Andreotti in cambio di finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto che l’Italcasse aveva elargito, tra gli altri, al gruppo chimico Sir

di Nino Rovelli, ai fratelli Caltagirone e alla società Nuova Flaminia facente capo a Domenico Balducci, organico alla Banda della Magliana e uomo di fiducia del cassiere di Cosa Nostra Pippo Calò. Un anno dopo, nel numero di «OP» del 17 ottobre 1978, Pecorelli scrive: «Morto il grande elemosiniere Arcaini, i grandi elemosinati sono usciti dall’incubo». E ventila l’ipotesi che lo stesso Arcaini abbia lasciato «in mani sicure un lungo memoriale per difendere il suo onore e quello dei figli. Che

 

succederebbe se nei prossimi giorni alle lettere di Moro si aggiungesse la voce di questo secondo sepolcro?». Proprio Aldo Moro, nei manoscritti autografi redatti durante la prigionia, aveva rivelato la nomina a direttore generale dell’Italcasse deldelegata successore di Arcaini fossecome un evento inquietante perché la scelta sarebbe stata da Andreotti al sodale Gaetano Caltagirone, cosicché questi avrebbe potuto sistemare agevolmente la propria posizione debitoria scegliendo un nuovo direttore dell’Italcasse a lui favorevole. Come emerge dalle carte della Banca d’Italia, al 31 dicembre 1977 l’Iccri vantava un credito nei confronti delle società del gruppo Caltagirone pari a 276 miliardi di lire più gli interessi. Alla stessa data il patrimonio dell’Iccri era di 375,6 miliardi. Non sbagliava dunque Sarcinelli a sostenere che «l’importo è tale da mettere in pericolo l’esistenza dell’istituto ove l’operazione andasse a finire male». 23 Una volta che ben ventitré società del gruppo Caltagirone – composto da oltre centocinquanta società – vennero dichiarate fallite nel 1980, i fratelli Caltagirone iniziarono una controffensiva giudiziaria coronata da successo. Una perizia raddoppiò di colpo, da 600 a 1200 miliardi, il valore del loro patrimonio, importo più che doppio rispetto alla stima delle banche coinvolte. Nel 1983 furono assolti in istruttoria penale dal reato di bancarotta fraudolenta. Il 24 ottobre del 1989 una sentenza della prima sezione civile della Cassazione prosciolse definitivamente i Caltagirone dalla bancarotta annullando il fallimento in proprio dell’imprenditore controllante una holding. Nella motivazione fu attribuita grande importanza al pactum al pactum de non petendo stipulato petendo stipulato tra i Caltagirone e le banche, che prevedeva il recupero dei crediti al completamento delle costruzioni delle abitazioni. Non contenti, i Caltagirone ottennero anche un risarcimento da parte dell’Iccri, cornuto e mazziato. Giuseppe D’Avanzo, su «la Repubblica» dell’8 agosto 2003, scriverà un duro articolo ipotizzando per il caso Caltagirone le stesse corruzioni in atti giudiziari presenti nei casi Imi-Sir e Mondadori: Il fallimento dei Caltagirone, la loro riabilitazione per via giudiziaria e il risarcimento ottenuto dall’Iccri possono essere la pentola ancora coperta delle «baratterie romane». Non fosse altro per i

nomi di chi vi è coinvolto. Pasquale Musco (sodale di Attilio Pacifico) fu curatore fallimentare dell’impero di Gaetano, Francesco e Camillo Caltagirone. I tre fratelli furono difesi da Cesare Previti, Giovanni Acampora. […] Il giudice relatore della prima sezione civile della Corte d’appello di Roma, che ha revocato il fallimento, cancellato il crac, dichiarandone responsabile l’Iccri e condannando l’istituto al risarcimento danni (si parlò di 1500 miliardi) fu Vittorio Metta. 24 Inutile ricordare quanto cari fossero i fratelli Caltagirone al presidente Giulio Andreotti, nel 1991 ancora in sella al suo quarantennale potere. 25

 

 I legami tra l’Italcasse l’Italcasse e l’omicidio l’omicidio Pecorelli Pecorelli Carmine (Mino) Pecorelli – avvocato civilista con specializzazione in diritto fallimentare, delsiministro tosto–giornalista investigativo già che portavoce non sempre avvalevaFiorentino di fonti diSullo, primapoi qualità viene assassinato il 20 marzo del 1979. Come è scritto nella sentenza di primo grado della Corte d’assise del 24 settembre 1999 per quel delitto, «Pecorelli ha partecipato con fervore alla vita sociale e politica del paese… un vero giornalista». giornalista ». Scomodo, interessato a raccontare verità anche spiacevoli per molti esponenti del potere economico e politico. Come si legge nella sentenza, un giornalista viene ucciso o per il timore della pubblicazione di una notizia potenzialmente dannosa per l’assassino, o per vendicare colui che è stato danneggiato da una notizia pubblicata. «Il principale testimone dell’accusa è proprio Pecorelli, con i suoi scritti» dirà nel processo di Perugia il pm Alessandro Cannevale. Per comprendere appieno le vicende legate all’Italcasse come cassa di compensazione della corruzione pubblica e privata, torna utile la sentenza della Corte d’assise di cui sopra, poiché proprio Pecorelli diede sul suo giornale «OP» il massimo risalto al caso. Nella sentenza vi è un passaggio interessante. Oltre ai Caltagirone e al gruppo Sir-Rumianca di Nino Rovelli – che ricevette un finanziamento di 216 miliardi senza istruttoria della pratica né documentazione alcuna –, vi era anche la Nuova Flaminia che, oltre a essere tra i beneficiari dell’erogazione illegittima del credito da parte dell’Italcasse, era nelle mani di Pippo Calò, il quale operava attraverso un uomo di fiducia, Domenico Balducci, suo prestanome e che a sua volta si serviva di prestanomi. La Corte d’assise conclude scrivendo che «la vicenda Italcasse al momento dell’uccisione di Carmine Pecorelli era materia di interesse vivo e attuale», alla quale erano interessati sia Claudio Vitalone – allora sostituto procuratore al Tribunale di Roma – sia Giulio Andreotti. Secondo l’accusa, infatti, Mino Pecorelli sarebbe stato ucciso perché minacciava di rivelare con il suo settimanale la storia degli «assegni del presidente» e quindi di smascherare la

presenza di fondi neri che finanziavano la corrente di Andreotti. Gli elementi che portarono i magistrati a valutare il ruolo giocato da Vitalone e Andreotti nella vicenda Italcasse sono quattro. 1. Gli assegni emessi dalla Sir di Nino Rovelli nel 1976 a favore di Giulio Andreotti. Nel gennaio 1976 l’Italcasse erogava un credito di 20 miliardi di lire a favore della Siron (gruppo Sir). Dopo un vorticoso giro di operazioni nella

 

contabilità delle società del gruppo Sir, parte di tale somma venne usata per pagare le cedole su obbligazioni emesse. Le società Sir, Opt e Rumianca trasformarono le cedole su titoli di loro proprietà in assegni circolari di varia entità nomi di fantasia per un totale di 1,4 miliardi di lire (oltre 7 milioniintestati di euroad’oggi). Tra i beneficiari vi erano anche Giuseppe Arcaini ed Ezio Radaelli, patron del Cantagiro, che riferirà di avere ricevuto gli assegni da Giulio Andreotti per organizzare serate musicali nel corso di una campagna elettorale. Altri assegni erano stati negoziati da Domenico Balducci, uomo di fiducia del mafioso Pippo Calò. Da segnalare che uno di tali assegni fu rinvenuto nelle tasche di Giuseppe Di Cristina, capo mandamento della famiglia mafiosa di Riesi, ucciso nel corso della cosiddetta seconda guerra di mafia. I magistrati scriveranno poi che «Andreotti ha cercato in ogni modo di negare un suo coinvolgimento nella vicenda degli assegni Sir, dovendolo poi ammettere solo di fronte all’evidenza della prova, e ha cercato di non apparire come il reale beneficiario di tali assegni». 26 Gli assegni non erano stati versati nelle casse del partito, ma erano rimasti nella disponibilità personale di Andreotti. Per i giudici era evidente che gli assegni erano il corrispettivo per la concessione del credito agevolato alle società di Rovelli. 2. Il tentativo di soluzione della posizione debitoria assai critica del gruppo Caltagirone, a rischio di fallimento. Non è casuale che Andreotti utilizzi le stesse persone e lo stesso modus operandi seguiti operandi seguiti per il tentativo di salvataggio delle banche di Michele Sindona. Sarà lo stesso avvocato del banchiere-bancarottiere di Patti, Rodolfo Guzzi, a perorare la causa dei fratelli Caltagirone, di cui era il legale per gli aspetti civilistici. Lo stesso Guzzi testimonierà di aver dovuto rimanere in attesa nello studio di Andreotti prima di essere ricevuto: lo precedevano Nino Rovelli e Gaetano Caltagirone, ossia i rappresentanti dei due gruppi più indebitati con l’Italcasse. Claudio Vitalone, benché sostituto procuratore della Repubblica, si interessava alle sorti dei fratelli Caltagirone in qualità di consulente per la difesa, con il vantaggio di parlare con i colleghi Pizzuti e Ierace, titolari dell’inchiesta Italcasse. 3. La nomina di Giampaolo Finardi a successore di Giuseppe Arcaini nella

carica di direttore generale dell’Italcasse. Nel suo memoriale Aldo Moro definisce inquietante la nomina di Finardi perché sarebbe stata delegata dal potere politico – impersonato al momento da Giulio Andreotti – al debitore Caltagirone, in modo che l’Italcasse. questi potesse 27 comodamente sistemare la propria posizione debitoria verso 4. La cena al circolo privato La famiglia piemontese. Il 14 ottobre del 1977 Mino Pecorelli mandò in edicola «OP» con in copertina Giulio Andreotti e il

 

titolo a tutta pagina Gli assegni del presidente. Sebbene presidente. Sebbene avesse rintracciato i nomi di fantasia presenti tra i beneficiari di quegli assegni – non esistevano ancora le norme antiriciclaggio – come Luigi Margari, Antonio Rossini, Piero Carlotti, Mario Pucci eSolo Nicola Ferrè,del Pecorelli non sapeva chi avesse dato gli assegni ad Andreotti. all’inizio 1979, ancora a caccia degli assegni, Pecorelli scopre che il mandante è Nino Rovelli della Sir e decide di approntare un numero di «OP» sugli assegni ricevuti dal presidente del Consiglio (in attesa di ricevere le fotocopie degli assegni stessi). Durante una cena alla Famiglia piemontese – cui partecipano Walter Bonino (imprenditore vicino a Nino Rovelli, organizzatore della serata), Donato Lo Prete (generale piduista della guardia di finanza), Carlo Adriano Testi (magistrato) – il 24 gennaio del 1979, Pecorelli informa Claudio Vitalone della propria intenzione di sferrare un attacco all’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Vitalone cerca di persuaderlo a desistere dal pubblicare l’articolo in attesa di parlarne «in alto loco», e cioè con il diretto interessato Andreotti. 28 Quel numero di «OP» non uscirà mai. La sera del 20 marzo 1979 Mino Pecorelli viene assassinato a Roma in via Orazio, mentre sta salendo in auto, con quattro colpi sparati da distanza ravvicinata.

 

Note al capitolo Pre capitolo Premessa messa 1 Giovanni

Tamburino, Ricerc Tamburino,  Ricercaa storica e fonti giudiziarie, giudiziarie, in  in Cinzia Venturoli (a cura di), Come studiare il terrorismo e le stragi. Fonti e metodi, Marsilio, metodi,  Marsilio, Venezia 2002, p. 75. 2 Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo Intervento alla celebrazione del «Giorno della Memoria», Roma, Palazzo del Quirinale, 25 gennaio 2018 (www.quirinale.it/... (www.quirinale.it/... ). 3 Infra, cap.  Infra, cap. VIII, § 3. Per approfondire il tema delle differenze tra prova storica e prova giudiziaria, si veda G. Tamburino, Ricerca Tamburino, Ricerca storica e fonti giudiziarie, giudiziarie, cit.,  cit., pp. 75-81; nonché Angelo d’Orsi, Piccolo d’Orsi,  Piccolo manuale di storiografia, Bruno storiografia, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 49-53.

 

Note al capitolo I. capitolo I. Il triennio 1978-1980. La presenza presenza incombent incombentee della loggia massonica P2 1 Nicola

Tranfaglia, La Tranfaglia,  La mafia come metodo metodo nell’Italia contemporan contemporanea, ea, Laterza,  Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 11 segg. e 23, ripubblicato da Mondadori, Milano 2012. Sull’origine comune delle mafie storiche concorda anche Isaia Sales, Storia dell’Italia mafiosa. Perché le mafie hanno avuto successo, Rubbettino, successo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015 2015, pp. 64-71, il quale ritiene però che l’origine comune non risalga a epoca così remota. 2 In altre aree geografiche, come la Lombardia sotto la dominazione spagnola e l’Andalusia sotto la dominazione araba, la situazione di sostanziale assenza dell’autorità statale fu di più breve durata, il che può spiegare come mai non sia nata una mafia locale in quelle due regioni. 3* L’Istituto L’Istituto per le opere di religione è un istituto pontificio di diritto privato che ha sede nella Città del www.ior.va)) è questa: «Un ente della Vaticano. La definizione che dà di sé e dei suoi scopi nel sito ufficiale ((www.ior.va Santa Sede, eretto con Chirografo di Sua Santità Pio XII il 27 giugno 1942. Le sue origini risalgono alla “Commissionee ad pias causas” istituita dal Sommo Pontefice Leone XIII nel 1887. La missione dell’Istituto “Commission […] consiste nel “provvedere alla custodia e all’amministrazione dei beni mobili e immobili trasferiti o affidati all’Istituto medesimo da persone fisiche o giuridiche e destinati a opere di religione e di carità. L’Istituto può accettare depositi di beni da parte di enti e persone della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano”». Vaticano”». L’ L’arcivescovo arcivescovo statunitense Paul Casimir Marcinkus (1922-2006), presidente dello Ior negli anni presi in considerazione da questo libro, ha avuto intensi rapporti con Gelli, Ortolani, Sindona e Calvi. 4* La Conferenza di Yalta fu un vertice tenutosi dal 4 all’11 f ebbraio 1945 nel quale i capi politici dei tre principali paesi Alleati (Roosevelt per gli Stati Uniti, Churchill per il Regno Unito e Stalin per l’Unione Sovietica) presero alcune decisioni importanti sul proseguimento della Seconda guerra mondiale, sull’istituzionee dell’Organizzazion sull’istituzion  dell’Organizzazionee delle Nazioni Unite e sull’assetto postbellico dell’Europa dopo la sconfitta della Germania nazista. 5* La Nato ( North  North Atlantic Treaty Treaty O Organization, rganization, ovvero  ovvero Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del  in sigla  sigla Otan) è un’organizzazione internaziona internazionale le per la collaborazione nel settore della difesa,  Nord, in  Nord, istituita con il Patto Atlantico firmato da Stati Uniti, Canada e vari paesi dell’Europa occidentale nel 1949. La Nato ha rappresentato, nel corso della Guerra fredda, il cosiddetto blocco occidentale contrapposto al blocco sovietico. 6 «Gli alleati, gli americani, soprattutto, sono stati determinanti nella ricomposizione della mafia, l’hanno politicamente avallata, se ne sono serviti con cinismo. Ma mancano certi riscontri, difettano, non per caso, fonti e particolari» (Corrado Stajano, Patrie Stajano, Patrie smarrite. Racconto Racconto di un italiano, italiano, Il  Il Saggiatore, Milano 2018, p. 82). Lo storico siciliano Rosario Mangiameli ha invece ridimensionato la responsabilità americana nelle nomine di sindaci mafiosi in Sicilia, sostenendo che queste «non erano avvenute per volontà dei comandi americani […], ma erano state ispirate da interlocutori locali» (Rosario Mangiameli, In Mangiameli, In guerra con la storia.  La mafia al cinema e altri altri racconti, racconti, «Meridiana»,  «Meridiana», 87, 2016, pp. 231-243). 7 L’e  L’espressione spressione «fattore K» venne utilizzata per la prima volta dal giornalista Alberto Ronchey (1926-

2010) in un editoriale del «Corriere della Sera» del 30 marzo 1979, per spiegare il mancato ricambio delle forze politiche governative nei primi cinquant’anni dell’Italia repubblicana. In primo luogo, al Partito comunista era interdetta la partecipazione al governo a causa dello stretto legame con l’Unione Sovietica. In secondo luogo, in Italia il Pci era la seconda forza politica in parlamento: ciò impediva ai socialisti o ai socialdemocratici raggiungerecome un numero di consensi per«la rappresentare l’alternativa. ativa. Anche un autorevolissimodiosservatore Norberto Bobbio hasufficiente ritenuto che persistenzal’altern della strategia sovversiva, e l’accanimento che non ha conosciuto tregua con cui è stata perseguita, dipendano dal fatto che l’Italia è il paese d’Occidente in cui esiste il più forte Partito comunista, l’unico Partito comunista in grado se non di conquistare il potere, di condizionarlo, e di diventare partito di governo». (Norberto Bobbio,

 

 Prefazione, in Giuseppe De Lutiis (a cura di), La  Prefazione, in di),  La strage. L’atto L’atto d’accusa dei giud giudici ici di Bologna, Bologna, Editori  Editori Riuniti, Roma 1986, pp. XVII-XVIII). 8* La Primavera di Praga fu un periodo di liberalizzazione politica avvenuto in Cecoslovacchia durante la dominazione sovietica e iniziato il 5 gennaio 1968, quando salì al potere il riformista Alexander Dubček, a seguito della sua elezione a segretario generale localeunPartito L’esperimento L’edell’Unione sperimento durò poco più sette mesi e cessò traumaticamente il 20 agosto,del quando corpocomunista. di spedizione Sovietica e deidi suoi alleati del Patto di Varsavia invase il paese. L’occupazione durò a lungo, Dubček fu costretto a dimettersi e il suo successore, imposto dall’Unione Sovietica, ne annullò quasi tutte le riforme. Seguirono grandi proteste, tra cui le proteste-suicidio dello studente Jan Palach (16 gennaio 1969) e di altre persone che lo emularono. Le manifestazioni di solidarietà verso la Cecoslovacchia occupata furono numerose in tutta l’Europa occidentale. 9 Particolarmente significative, in ordine a questa presa di distanze, sono le affermazioni fatte dal segretario del Pci, Enrico Berlinguer, nel 1976, in una celebre intervista rilasciata al giornalista Giampaolo Pansa (Berlinguer (Berlinguer conta «anche» sulla Nato per mantenere l’autonomia da Mosca, «Corriere Mosca, «Corriere della Sera», 15 giugno 1976, p. 2): « Non teme che Mosca Mosca faccia fare a Berlinguer e al suo eur eurocomunismo ocomunismo la stessa fine di di Dubček e del suo “socialismo dal volto umano”? «No. Noi siamo in un’altra area del mondo. E, ammesso che ce ne sia la voglia, non esiste la minima possibilità che la nostra via al socialismo possa essere ostacolata o condizionata dall’Urss. Si può discutere se c’è volontà di egemonia da parte dell’Urss sui paesi che le sono alleati. Ma non esiste un solo atto che riveli l’intenzione dell’Urss di andare al di là delle frontiere fissate da Y Yalta. alta. « Lei, dunque, si sente più tranquillo proprio pe perché rché sta ne nell’area ll’area occ occidentale. identale. «Io sento che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento. Ma questo non vuol dire che nel blocco occidentale non esistano problemi: tanto è vero che noi ci vediamo costretti a rivendicare all’interno del Patto Atlantico, patto che pure non mettiamo in discussione, il diritto dell’Italia di decidere in modo autonomo del proprio destino. « Insomma, il Patto Atlantico può essere anc anche he uno scudo utile per ccostruire ostruire il socialism socialismoo nella libertà… «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico “anche” per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia». 10

 Suiscandali rapporti del di Gelli il gruppo cfr. Mario Guarino, Fedora Rauge  Licio Vita, Vita, misteri, capocon della Loggia Lebole, P2,  Edizioni P2, Edizioni Dedalo, Bari 2006, pp.Raugei, 50-54.i, Licio MarioGelli. Lebole, il capitano d’industria del gruppo, risulterà essere iscritto alla P2. 11 Francesco Carluccio ha redatto il memoriale su richiesta dell’autore di questo libro, il 4 ottobre 2017. Per avere notizie su Vincenzo Bianchi (1928-2010) si veda il sito www.gdf.gov.it/... www.gdf.gov.it/... Per  Per notizie su Vincenzo Lombardo (1932-2007) si veda Antonella Beccaria, Giuliano Turone, Turone, Il  Il boss. Luciano Liggio: da da Corleone a Milano, una storia di mafia e complicità, Castelvecchi, complicità, Castelvecchi, Roma 2018, pp. 74-83 e passim. e  passim. 12 Figlio di Gianni Lebole, cofondatore dell’azienda insieme con suo fratello Mario. Quest’ultimo, suicidatosi nel 1983, era l’unico della famiglia iscritto alla P2. 13 Romano Cantore (1931-2015) è stato, in particolare negli anni Ottanta, un giornalista di rilievo del

settimanale «Panorama», che ha seguito con grande attenzione le principali vicende giudiziarie di quel periodo. La sua audizione davanti alla Commissione parlamentare sulla Loggia P2 (vedi nota seguente), avvenuta il 9 giugno 1982, si trova nel volume 009 degli atti di quella Commissione, alle pp. 105-124. 14 La Commissione parlamentare sulla P2 (d’ora in poi Commissione P2) è stata istituita con la legge n. 527 del 23 settembre 1981 e ha iniziato i suoi lavori nel successivo mese di dicembre, presieduta dall’onorevole Tina Anselmi, uno dei personaggi più limpidi del panorama politico italiano del Novecento. L’intero materiale della Commissione è stato reso pubblico ed è raccolto in 118 volumi cartacei, dal volume 000 che contiene la Relazione finale redatta dalla presidente (d’ora in poi Relazione Anselmi) al volume 119 contenente gli indici. L’intera L’intera documentazione è accessibile in rete al sito

 

www.fontitaliarepubblicana.it www.fontitaliarepubblicana.it,, dove il materiale scannerizzato è classificato numerando i volumi cartacei con numeri arabi da 000 a 119. Il numero arabo è spesso seguito da uno o due numeri romani, che il lettore può ignorare: per esempio, la deposizione testimoniale menzionata nella nota precedente, che si trova in vol. 009/IV p. 105, andrà ricercata semplicemente alla pagina 105 del volume 9. ulteriori approfondimenti sul tema dellaAnna Loggia P2 si(asuggeriscono i libri seguenti: AA.VV., ., Loggia  Loggia  P2.Per Il Piano e le sue regole, regole, Giuseppe  Giuseppe Amari, Vinci cura di), Castelvecchi, RomaAA.VV 2014; Gianni Simoni, Giuliano Turone, Il Turone, Il caffè di Sindona. Un finanziere finanziere d’av d’avventura ventura tra politica, V Vaticano aticano e mafia, Garzanti, Milano 2011; AA.VV., Dossier AA.VV., Dossier P2, Sergio P2, Sergio Flamigni (a cura di), Kaos edizioni, Milano 2008; M. Guarino, F. Raugei, Licio Raugei, Licio Gelli, cit. Gelli, cit. A proposito della presidente Tina Anselmi (1927-2016) si veda: Tina Anselmi, Anna Vinci, Storia di una passione politica, Sperling politica, Sperling & Kupfer, Milano 2006. Sul rapporto tra P2 e sistema politico si veda: Giorgio Galli, La Galli, La venerabile trama. La vera storia di Licio G Gelli elli e della P2, Lindau, Torino Torino 2007; nonché una pregevole tesi di laurea, inedita ma reperibile in rete: Alberto Gemelli,  Rapporti tra la loggia P2 e il sistema politico italiano, italiano, Università  Università degli Studi di Torino a.a. 1994-1995, relatore Nicola Tranfaglia, consultabile al link www.tesionline.it/... 15 La parte qui riportata della deposizione del generale V Vincenzo incenzo Bianchi è pubblicata negli atti della Commissione P2, vol. 7, pp. 866-869. 16 Anche il maggiore V Vincenzo incenzo Lombardo è stato promosso, nel frattempo, al grado di tenente colonnello. 17 Il decreto di perquisizione domiciliare emesso il 12 marzo 1981 è pubblicato negli atti della Commissione P2, vol. 22, pp. 297-298. 18 Il verbale di perquisizione e sequestro di Castiglion Fibocchi, in effetti piuttosto dettagliato, è pubblicato negli atti della Commissione P2, vol. 22, pp. 302-308. 19 Il generale Orazio Giannini è stato sentito dalla Commissione P2 il 9 marzo 1982 e gli è stato domandato come avesse saputo, il giorno della perquisizione, che l’allora colonnello Bianchi si trovava a Castiglion Fibocchi e aveva trovato gli elenchi della P2. Ha risposto di averlo saputo da una telefonata anonima (atti della Commissione P2, vol. 7, pp. 757-758). 20 Tutti i verbali e gli elenchi sono pubblicati nel volume 22 degli atti della Commissione P2, alle pagine 293-344. Le copie autentiche dei documenti sequestrati sono pure pubblicate integralmente nei volumi 22, 23 e 24. 21 Cfr. Corrado Stajano, in Giovanna Borgese, Un Paese in tribunale. Italia 1980-1983, Mondadori, 1980-1983, Mondadori, Milano 1983, pp. 3031. 22 Gherardo Colombo, Il Colombo, Il vizio della memoria, Feltrinelli, memoria, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 57-59. 23

 Lo scioglimento dall’art. legge del 25 gennaio 1982,inche agli articoli e2 ha anche introdotto nelè stato nostrosancito sistema penale5ildella nuovo reaton.di17associazione segreta, base all’art. 181della Costituzione che, al comma 2, proibisce quel tipo di associazione. L L’articolo ’articolo 1 della legge considera associazioni segrete «quelle che, anche all’interno di associazioni palesi, occultando la loro esistenza ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali ovvero rendendo sconosciuti, in tutto od in parte ed anche reciprocamente, i soci, svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale». 24 Si tratta della sentenza n. 1228 del 2 settembre 1981 (depositata il 26 ottobre 1981), Gelli, della sezione feriale della Corte di cassazione, pubblicata in Cassazione penale, 1982, penale, 1982, pp. 256, 296-315. Questa

sentenza è stata duramente stroncata da Franco Cordero, che l’ha paragonata a un «privilegio reale» degno della monarchia francese del Settecento: «Forse esistono persone dal foro penale precostituito: dovunque delinquano, Roma delinquano,  Roma loquitur; forse loquitur; forse Gelli è un bourgeois du Roi; nella Roi; nella Francia ancien régime si régime si chiamavano Committimus le Committimus  le lettere grazie a cui date persone, schivando le solite giurisdizioni, adivano una corte sovrana». (Franco Cordero, Proced Cordero, Procedura ura Penale, Penale, IX  IX edizione, Giuffrè, Milano 1987, p. 299.) 25 Tutta la documentazione e le audizioni relative al sequestro del «Piano di rinascita democratica» in possesso di Maria Grazia Gelli, eseguito il 4 luglio 1981 nel settore doganale dell’aeroporto di Fiumicino, si trovano negli atti della Commissione P2, vol. 87, pp. 1-282. Il testo originale del «Piano di rinascita democratica della loggia P2», sequestrato a Maria Grazia Gelli, si trova alle pagine 195-209. È diffusissimo

 

in rete l’errore di data circa il rinvenimento del «Piano di rinascita democratica», errore che compare anche nella relativa voce di Wikipedia, ove si colloca il sequestro del documento al 1982 anziché al 1981. 26 Nella Relazione Anselmi il «Piano di rinascita democratica» viene esaminato nel § III del cap. IV IV,, pp. 146-152. 27

* L’eurocomunismo L’comunista eurocomunismo a metà degli annie Settanta comecomunisti corrente ideologica e progetto politico del Partito italianonasce di Enrico Berlinguer di altri partiti dell’Europa occidentale occidentale, , in attrito con l’ideologia e la politica dell’Unione Sovietica. Affermava la possibilità di una società socialista nei paesi a capitalismo avanzato, attraverso l’attuazione di riforme economiche e sociali nel rispetto delle regole previste dalle democrazie parlamentari. 28 Andrea Di Michele, Storia dell’Italia repubblicana (1948-2008), Garzanti, (1948-2008), Garzanti, Milano 2008, pp. 212-14. 29 «La P2 si è impadronita delle istituzioni, ha fatto un colpo di Stato strisciante». Così si è espressa Tina Anselmi in un’intervista rilasciata al settimanale «Famiglia Cristiana» del 24 maggio 1984. Il concetto è espresso in termini meno diretti, ma sostanzialmente equivalenti, nella Relazione finale della Commissione P2 (cap. IV, IV, §§ II e III), dove si riconosce nel «Piano» una filosofia di fondo «predemocratica» ed «eversiva» e una «visione politica che tende a situare il potere negli apparati e non nella comunità dei cittadini politicamente intesa» (Relazione Anselmi, pp. 147, 149). 30 Raffaele Fiengo, Il Fiengo, Il cuore del del potere. IIll «Corriere de della lla Sera» nel racconto di un su suoo storico giornalista, Chiarelettere, giornalista,  Chiarelettere, Milano 2016, pp. 130-131. 31 Ivi, pp.  Ivi, pp. 132 sgg. 32 Ivi, pp.  Ivi, pp. 117-210. Nel suo libro, Raffaele Fiengo racconta la vicenda del «Corriere» occupato dalla P2 vista dall’interno del quotidiano stesso. Una visuale inedita e interessante. 33 Giulio Andreotti, Diari Andreotti, Diari 1976-1979. Gli anni della della solidarietà, solidarietà, Rizzoli,  Rizzoli, Milano 1981, p. 142. 34 Relazione Anselmi, cit., pp. 152-153. 35 Ivi, p.  Ivi, p. 154.

 

Note al capitolo II. capitolo II. Il caso Moro: Moro: lo sc scontro ontro fra carab carabinieri inieri fedeli alla  Repubblica e carabinieri carabinieri fedeli alla loggia P2 1 Nella strage di via Fani perdono la

vita i cinque uomini della scorta di Moro: i carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci e i poliziotti Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. 2 Lo scritto di Aldo Moro viene definito «memoria difensiva» da Marco Clementi, Clementi, La  La pazzia di Aldo  Moro, Rizzoli,  Moro,  Rizzoli, Milano 2006, pp. 285 sgg., e da Vladimiro Satta, I Satta, I nemici della Repubblica. Repubblica. Storia degli anni di piombo, Rizzoli, piombo, Rizzoli, Milano 2016, pp. 543 sgg. 3 Il Comunic Comunicato ato n. 2 delle Brigate rosse, del 25 marzo 1978, è accessibile in rete alla pagina www.archivio900.it/... 4 M. Clementi, La Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Moro, cit.,  cit., pp. 285-286. 5 V. Satta, I  Satta, I  nemici della Repubblica, Repubblica, cit.,  cit., p. 543. 6 Decreto del presidente del Consiglio in data 30 agosto 1978. 7 Il Grande Oriente d’Italia (abbreviato in Goi) è la più numerosa comunione massonica italiana, istituita nel 1805, nel cui ambito nacque nel 1877 la loggia Propaganda massonica, antenata della loggia P2 che conosciamo oggi e che ha avuto il massimo fulgore – come centro di potere occulto – negli anni Settanta del Novecento. 8 Commissione P2, Relazione Anselmi, cit., p. 16. Va sottolineato che tra le 963 persone inserite negli elenchi degli iscritti alla P2 vi erano i nomi di 44 parlamentari, 2 ministri del governo in carica, 12 generali dei carabinieri carabinieri, 5 generali della guardia di finanza, 22 generali dell’esercito italiano, 4 dell’aeronautica militare, 8 ammiragli, ammiragli, divers diversii magistrati e funzionari pubblici, i direttori e molti funzionari dei servizi segreti, nonché diversi giornalisti e imprenditori. 9 Ivi, pp.  Ivi, pp. 16-18. 10 Linguag  Linguagggio pressoché identico è quello usato da Giulio Andreotti in un’intervista rilasciata nel 1973 a Oriana Fallaci, quando dichiarò che il compromesso storico «risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e  e il collettivismo comunista» (Oriana Fallaci, Intervista Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli, storia, Rizzoli, Milano 1974). 11 Commissione P2, Relazione Anselmi, cit., p. 17. Questi sei personaggi (diciamo pure pirandelliani, ci si passi la facile battuta) riappariranno qua e là nelle prossime pagine di questo libro. In particolare, i cinque alti ufficiali sono in un certo senso la «crema» della presenza piduista nell’Arma dei carabinieri, presenza che trova nella divisione Pastrengo di Milano la sua centrale clandestina. E infatti fanno riferimento alla Pastrengo anche ufficiali ufficiali dell’arma membri della P2 che non sono di stanza nel territorio di quel comando. La Relazione Anselmi indica l’esempio della stretta frequentazione che il generale Musumeci, segretario generale del servizio segreto militare (Sismi), teneva con il generale Palumbo, pur senza dipendere dalla divisione Pastrengo: «Il contatto tra il Palumbo e il Musumeci […] denota una consuetudine di legami e di interessi comuni che […] segnala alla nostra attenzione una rete di interessi e di legami che corre parallela ai normali vincoli gerarchici» (ivi, (ivi, p.  p. 81). 12 Ivi, p.  Ivi, p. 82.

13 Commissione P2,

vol. 025/I/IV 025/I/IV,, deposizione testimoniale di Nicolò Bozzo al giudice istruttore (d’ora in poi g.i.) di Milano del 25 aprile 1981, p. 169. Consultabile al link www.fontitaliarepubblicana.it/... 14 Ivi, deposizione  Ivi, deposizione testimoniale di Carla V Venturi enturi (segretaria di Licio Gelli) al g.i. di Milano del 7 aprile 1981, p. 67. Le circostanze della riunione di loggia del 1973 a casa di Gelli sono emerse dalle deposizioni testimoniali rese dal generale Palumbo e dal generale Picchiotti al giudice istruttore di Milano rispettivamente il 22 e il 28 aprile 1981 (Commissione P2, vol. 025/I/IV 025/I/IV,, pp. 76 sgg. e 118 sgg.) 15 Tribunale di Roma, g.i. Monastero, sentenza-ordinanza 18 novembre 1991, proc. pen. 1575/81, Gelli + 28, pp. 185s. 16 Collura e Criscione confessarono di essere gli autori del rapimento di Rizzotto in concorso con

 

Luciano Liggio. Le dichiarazioni rese da Collura consentirono di ritrovare alcune tracce del sindacalista, ma non il corpo. Criscione e Collura, insieme con Liggio che rimase latitante sino al 1964, furono assolti dopo avere ritrattato la loro confessione in sede processuale. 17 Molti dati biografici relativi alla persona di Giovanbattista Palumbo sono reperibili nel faldone G/a135 deglidella atti giudiziari relativi alla strage del 28strage maggio 1974 (processo penale dellain Procura Repubblica di Brescia, d’oradiinBrescia avanti «Atti di Brescia»), ma sono statin.a 91/97 loro volta buona parte acquisiti dagli atti giudiziari della Corte d’assise di Venezia relativi alla strage di Peteano del 31 maggio 1972 (procedimento penale n. 343/87-A, cosiddetto «Peteano-bis», faldone n. 21). Negli atti del procedimento veneziano i faldoni dedicati al generale Palumbo erano due, il n. 20 e il n. 21, ma un’annotazione agli atti di Brescia (faldone G/a-135, p. 29) segnala che a V Venezia enezia «non è stato possibile esaminare una parte del carteggio relativo al fascicolo matricolare del generale Giovanbattista Palumbo in quanto è risultato mancante il faldone n. 20. L’assenz L’assenzaa del carteggio è stata comunque segnalata alla cancelleria della Corte d’assise di Venezia». 18 Atti strage di Brescia, faldone G/a-135, p. 31. 19 Deposizione di Nicolò Bozzo nel corso del dibattimento per la strage di Brescia, udienza del 21 aprile 2009, ivi, p. 102. 20 Ibidem.  Ibidem. 21 Atti strage di Brescia, loc. ult. cit. 22 Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964, Relazione di maggioranza (rel. Giuseppe Alessi) più tre relazioni di minoranza, Roma 1971. Il testo delle relazioni è accessibile in rete alla pagina www.senato.it/... 23 Un appunto redatto dal generale Gianadelio Maletti rivelò che dalla Pastrengo di Palumbo partì l’ordine in seguito al quale giovani neofascisti aggredirono vigliaccamente e violentarono l’attrice Franca Rame il 9 marzo 1973: «La notizia in caserma fu accolta con euforia, il comandante era festante come se avesse fatto una bella operazione di servizio» (intervista del generale Nicolò Bozzo a «la Repubblica» dell’11 febbraio 1998). Sulla vicenda dello stupro di Franca Rame, e sul comportamento di Palumbo, Nicolò Bozzo – che dal 1972 prestava servizio proprio presso la Pastrengo – ha deposto nel dibattimento per la strage di Brescia (udienza 21 aprile 2009, pp. 104s.). Cfr. anche Giorgio Gazzotti, Quelli che mettevano le bombe, in bombe, in AA.VV., Alto AA.VV., Alto tradimento, Paolo tradimento, Paolo Bolognesi (a cura di), Castelvecchi, Roma 2016, p. 177: «Fu Palumbo a suggerire ad Angelo Angeli di violentare Franca Rame». 24* Edgardo Sogno (1915-2000) è stato un diplomatico, politico, militare e agente segreto italiano. Ha partecipato alla Resistenza antifascista in unche gruppo di partigiani di fede monarchica e liberale. Quella di Edgardo Sogno è una biografia controversa tuttora suscita valutazioni discordi. Per le sue iniziative politiche di tipo presidenzialista, come appunto il «golpe bianco», fu accusato di attività cospirative volte a sovvertire l’ordinamento democratico, ma venne prosciolto. 25 Edgardo Sogno, Aldo Cazzullo, Testamento di un anticomunista. Dalla Resistenza al golpe bianco: storia di un italiano, Sperling italiano, Sperling & Kupfer, Milano 2010, p. 154. 26 Deposizione di Nicolò Bozzo nel corso del dibattimento per la strage di Brescia, cit., pp. 110s.: «Quando il comando generale ha disposto, su richiesta del ministro della Difesa [rectius [ rectius dell’Interno,  dell’Interno, n.d.a. n.d.a.]] Taviani, la costituzione di questo reparto presso il comando della Prima brigata di Torino, comandata da Dalla Chiesa, la lettera è arrivata prima a noi della divisione che eravamo il comando superiore, e ricordo

che […] è arrivata sul mio tavolo […]. E c’era una annotazione, il mio capo ufficio mi dice “Leggi la annotazione del comandante”, scritta di pugno con l’inchiostro rosso, con la penna rossa, dice: “Non serve a un ca…” puntini puntini, i “puntini” li ho messi io». 27 In quel momento il governo al potere è il Moro IV e il ministro dell’Interno è Luigi Gui. 28 Commissione P2, Relazione Anselmi, cit., p. 79. Cfr. anche Commissione P2, vol. 025/I/IV 025/I/IV,, deposizione testimoniale Bozzo del 25 aprile 1981, cit., p. 171: «Inizia la riconquista della piazza di Milano da parte del gruppo: arrivano infatti il T. Col. Panella Giancarlo, da Livorno, al comando del gruppo Milano I, e il Col. Mazzei, che da Firenze viene a comandare la legione di Milano». 29 Commissione P2, vol. 025/I/IV 025/I/IV,, cit., deposizione testimoniale di Carlo Alberto dalla Chiesa al g.i. di

 

Milano del 12 maggio 1981, pp. 140, 145. 30 Ivi, p.  Ivi, p. 144. 31 Che il generale Mino fosse molto vicino all’ambiente gelliano viene confermato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2: «Per quanto riguarda i carabinieri il generale Enrico Mino, che ne ècome comandante generale dal 1973Pannella, al 1977, non tra gli iscritti alla loggia P2, a essa lo indicanoLeone. appartenente l’onorevole nellafigura sua audizione in Commissione, e ilma senatore Giovanni Il maggiore Umberto Nobili ha dichiarato che Gelli affermò di essere riuscito a determinarne la nomina a comandante generale dell’arma; ed è comunque provato che il generale Mino conosceva bene Gelli ed era con lui in stretti rapporti. È altresì documentato in atti che Licio Gelli si interessò alla nomina del successore del generale Mino prima ancora della sua naturale scadenza». (Commissione P2, Relazione Anselmi, cit., p. 88). 32 Deposizione di Nicolò Bozzo nel corso del dibattimento per la strage di Brescia, cit., pp. 111-1 111-112. 12. 33 Parla di «trappola» anche Andrea Galli, Galli, Dalla  Dalla Chiesa. Storia del generale generale dei carabinieri che sconfisse sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia, Mondadori, mafia,  Mondadori, Milano 2017, pp. 246 sgg. 34 Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, audizione di Carlo Alberto dalla Chiesa, 23 febbraio 1982, vol. 009, pp. 247-250. Gli atti della Commissione Moro sono accessibili in rete all’indirizzo www.fontitaliarepubblicana.it www.fontitaliarepubblicana.it.. 35 La cartellina SOSPESI costituisce il reperto 15/C del materiale sequestrato a Castiglion Fibocchi il 17 marzo 1981. Il suo contenuto sta in Commissione P2, vol. 024/I/III, pp. 669 sgg. In particolare, la domanda a firma Carlo Alberto dalla Chiesa e le quattro lettere allegate stanno alle pp. 832-842 (www.fontitaliarepubblicana.it/DocTrace/ ). 36 «Prendo visione di quattro copie di missive a firma Gelli e a me indirizzate all’indirizzo di T Torino orino via Valfrè rispettivamente in data 22 febbraio 1977, 9 dicembre 1977, 23 gennaio 1978 e 28 giugno 1978. Escludo di aver mai ricevuto le lettere in questione. Preciso che successivamente al mese di marzo 1977 la mia sede è sempre stata a Roma sino alla fine del 1979» (Commissione P2, vol. 025/I/IV 025/I/IV,, cit., deposizione testimoniale di Carlo Alberto dalla Chiesa al g.i. di Milano, cit., p. 147). 37 Ivi, p.  Ivi, p. 144. 38 Commissione P2, Relazione Anselmi, cit., p. 79; Deposizione Bozzo 25 aprile 1981, loc. ult. cit. Si cit. Si veda anche Guido Passalacqua, Così gli uomini di Licio Gelli guidarono la divisione Pastrengo, «la Pastrengo, «la Repubblica», 15 dicembre 1985. 39 Si tratta del generale Giuseppe Santovito e del generale Giulio Grassini, nominati comandanti rispettivamente del servizio (Sismi) e del servizio segreto civile (Sisde), gennaio 1978, dal governo Andreotti III su segreto propostamilitare del ministro dell’Interno Cossiga. Ciò risulta dalle nel audizioni rese alla Commissione P2 dagli stessi interessati, rispettivamente in Commissione P2, vol. 007/II, pp. 631 sgg. (Santovito) e in Commissione P2, vol. 018/XIII, pp. 441 sgg. (Grassini). Anche l’audizione del generale Picchiotti sottolinea i rapporti piuttosto stretti esistenti fra Gelli e Cossiga e altri politici di grande rilievo: «Gelli […] telefonava spesso all’onorevole Andreotti, all’onorevole Cossiga, era di casa al Quirinale […] quando era presidente l’onorevole Saragat […]» (Commissione P2, vol. 007/II, p. 840). 40 Nel diario personale tenuto dal generale dalla Chiesa a partire dalla fine degli anni Settanta – sotto forma di lettere alla sua defunta moglie – si legge quanto segue in data 30 aprile 1981: «Ricordi tesoro quando il Picchiotti per mesi e mesi insistette venendo da Roma a Torino perché vi aderissi [alla P2 n.d.a. n.d.a.]? ]?

E ricordi che dopo avermi “estorto” un modulo, immediatamente dissi che non ne volevo sapere e che volevo continuare a camminare senza il presunto aiuto di alcuno? Te ne misi al corrente perché la cosa mi aveva profondamente turbato e non ne potevo digerire i risvolti. Ebbene, invece di distruggere il modulo e benché non fosse stato seguito da alcun fatto, quel… di Picchiotti lo ha passato ad altri che lo hanno custodito per cinque anni! Ho una rabbia in corpo che non ti dico […]» (Nando dalla Chiesa, Chiesa, In  In nome del  popolo italiano, Rizzoli, italiano, Rizzoli, Milano 1997, p. 284).

 

Note al capitolo III. capitolo III. Altri aspetti del caso Mor Moroo 1 L’op  L’operazione erazione viene compiuta su iniziativa del

capo di stato maggiore dell’arma, generale Mario De Sena, ovviamente col consenso del governo, presieduto da Giulio Andreotti con Francesco Cossiga ministro dell’Interno. Il generale Mario De Sena era uno dei generali più accanitamente ostili a Carlo Alberto dalla Chiesa ed era annoverato da quest’ultimo tra gli alti ufficiali «moralmente estranei alla tradizione dell’arma» (N. (N. dalla Chiesa, Chiesa, In  In nome del popolo italiano, cit., italiano, cit., pp. pp. 283-285 e 323). 2 Audizione del capitano Umberto Bonaventura, comandante della sezione speciale anticrimine di Milano, alla Commissione parlamentare stragi, 23 maggio 2000, pp. 4, 9. Le audizioni rese alla Commissione stragi sono accessibili in rete e rintracciabili attraverso il relativo indice collocato alla pagina web www.parlamento.it/... 3 «Nell’agosto del 1978» racconta Bonaventura alla Commissione parlamentare stragi, «Dalla Chiesa ebbe il decreto [attraverso il quale] tutte le sezioni speciali anticrimine che dipendevano dalle rispettive divisioni sono passate sotto di lui.» Qui Bonaventura sorvola sull’eccezione anomala anomala di Milano, dove la sezione specia speciale anticrimine aveva cessato da tempo di dipendere dalla divisione, e si limita a fare un’aggiunta un po’ sibillina: «So che il generale Bozzo ha riferito alcune cose. Ci sono stati contrasti e questioni» ( Ivi, p.  Ivi, p. 10). 4 Audizione di Nicolò Bozzo alla Commissione parlamentare stragi, 21 gennaio 1998, p. 12. Il testo dell’audizione è accessibile in rete (supra, ( supra, nota  nota 2). 5 Ivi, p.  Ivi, p. 19. 6 Ivi, p.  Ivi, p. 20. 7 Ivi, pp.  Ivi, pp. 16-17, 32. Sulle tensioni esistenti tra i reparti speciali e il reparto territoriale, Bozzo si era già soffermato nella sua deposizione del 25 aprile 1981 davanti al giudice istruttore di Milano, sottolineando che il concentr concentramento di tutta l’organizza l’organizzazione zione antiterrorismo dell’arma agli ordini del generale dalla Chiesa aveva provocato «il deteriorarsi dei rapporti già difficili esistenti tra l’arma territoriale e detti reparti speciali», e che i risultati dell’operazione del 1° ottobre 1978 avevano provocato «il risentimento del colonnello Ma Mazzei, che quel giorno era assente per motivi privati, tanto da ordinare una operazione di risposta al comandante del gruppo tenente colonnello Panella sulla scorta di elementi informativi forniti da fonte confidenziale» (deposizione Bozzo al g.i. di Milano, cit., p. 174). In proposito si veda anche V V.. Satta, Satta, I   I  nemici della Repubblica, cit., Repubblica, cit., p. 546. 8 Gli atti della Commissione Moro sono accessibili in rete all’indirizzo www.fontitaliarepubblicana.it www.fontitaliarepubblicana.it e  e il verbale della perquisizione e sequestro di via Monte Nevoso, datato 1-5 ottobre 1978, si trova nel volume 122, pp. 149-207. Come vedremo tra breve, nessuno dei quattro verbalizzanti è mai stato sentito come testimone nell’ambito dei processi sul caso Moro, né in sede di commissione parlamentare. Sono stati sentiti (rispettivamente il 24 e il 29 novembre 1993) solo Mango e Allegretti, ma unicamente in un processo minore nel quale essi erano parti lese del reato di calunnia (Tribu (Tribunale nale di Roma, procedimento n. 2413/92 Rg, Perrelli, sentenza 2 aprile 1998). Il capitano Mango e il maresciallo Allegretti risultano ormai defunti,

del maresciallo Scirocco non si hanno notizie, mentre il maresciallo in pensione Giuseppe Nicastro, alla richiesta di un’intervista con l’autore di questo libro, ha preferito declinare l’invito. 9 Su queste tematiche si veda, diffusamente, Miguel Gotor, Il Gotor, Il memoriale della Repubblica. Repubblica. Gli scritti di  Aldo Moro dalla dalla prigionia e l’anatomia del pote potere re italiano, italiano, Einaudi,  Einaudi, Torino 2011, pp. 57ss, 126n, 127n, 138ss, 159s, 185n, 186n, 188n, dove l’autore cita alcuni brani delle deposizioni rese dal capitano Mango e dal maresciallo Allegretti nel processo Perrelli (v. supra, supra, nota  nota precedente), rilevanti solo ai fini di quel processo. 10 Audizione di Nicolò Bozzo, 21 gennaio 1998, cit., p. 12. Bozzo ha aggiunto di avere incaricato lui stesso della verbalizzazione il capitano Giovanni Mango, di cui si fidava: «So che hanno lavorato in

 

pessime condizioni e che il verbale non è stato molto ponderato per motivi proprio di tempo, perché io facevo pressioni, che a mia volta ricevevo, di sgombrare e di dedicarsi ad altre attività. Purtroppo abbiamo sbagliato» (ivi, (ivi, p.  p. 32). 11 Prima Corte d’assise di Roma, processo Moro, n. 31/81 Rg, udienza registrata del 5 luglio 1982, pp. 23. Ieverbali delle udienze del processoparlamentare Moro, n. 31/81 Rg, sono ma in gran pubblicati nei–volumi 077,Non 078 079 della relativa Commissione d’inchiesta, – nonparte sappiamo perché non tutti. è pubblicato, tra l’altro, il verbale dell’udienza del 5 luglio 1982, che non è certamente un’udienza secondaria. 12 Ivi, pp.  Ivi, pp. 3-5. 13 Ivi, pp.  Ivi, pp. 6-7. 14 Ivi, p.  Ivi, p. 10. 15 Il testo del «Memoriale Moro», nella versione parziale dattiloscritta rinvenuta nel covo di via Monte Nevoso il 1° ottobre 1978, è allegato alla Relazione di minoranza Franchi-Marchio Franchi-Marchio della Commissione parlamentare d’inchiesta d’inchiesta sul caso Moro: vol. 002, Roma 1983, pp. 125-179. Per leggere l’intera invettiva si veda alle pp. 152-154. Il brano qui riportato è tratto dalle pp. 152 e 153. 16 Il testo completo del «Memoriale Moro», nella versione più ampia recuperata nel covo di via Monte Nevoso nel 1990, è pubblicato in Francesco M. Biscione (a cura di), Il di),  Il memoriale di Aldo Moro Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano, Coletti Milano,  Coletti editore, Roma 1993. L’invettiva di Moro contro Andreotti, in questa versione, si trova alle pp. 136-139. I frammenti sopra riportati sono reperibili alle pp. 136 e 137. Va detto che, in questa versione più ampia del «Memoriale», le parti non ricomprese nella versione dattiloscritta del 1978 vedono il nome di Andreotti citato quindici volte, ma in nessuna di queste occasioni si rilevano critiche al personaggio che già non compaiano nella versione dattiloscritta. Fa eccezione un accenno all’elezione di Giuseppe Medici a presidente della Montedison (1977), indicata come un «caso eclatante di compromesso» risolto a vantaggio di Andreotti e classificato da Moro tra «le cose che sa fare Andreotti con immensa furberia, la quale però aggrava sempre di più la crisi d’identità morale e politica di cui soffre acutamente la Dc» (ivi, (ivi, p.  p. 86). Ma questa notazione non può certo considerarsi un duro attacco che abbia potuto turbare lo stomaco robusto dello statista ciociaro. 17 Prima Corte d’assise di Roma, processo Moro, n. 31/81 Rg, ordinanza del 22 luglio 1982 pp. 8-9. L’ordinanza non è reperibile in rete nel faldone 077 della Commissione Moro (v. supra, supra, nota  nota 11), dove si trova solo il verbale dell’udienza di pari data, ma è consultabile esclusivamente nell’archivio cartaceo della Corte, dove è contenuta nel faldone n. 158. 18 M. Satta, I Gotor, Gotor, Il memoriale della Repubblica, Re pubblica, cit., 19 Cfr.  Cfr. V. Satta,  I Il nemici della Repubblica, Repub blica, cit.,  cit., p. cit., 547.pp. 434-435. 20 Ivi, p.  Ivi, p. 544. 21 Così Francesco M. Biscione, Il Biscione, Il delitto Moro, Moro, Editori  Editori Riuniti, Roma 1998, p. 31. 22 Audizione di Germano Maccari alla Commissione parlamentare stragi, 21 gennaio 2000, p. 8, citata da

V. Satta, I Satta, I nemici della Repubblica, Repubblica, cit.,  cit., p. 547. 23 Cfr. Sergio Flamigni, Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Moro, in  in AA.VV., Il AA.VV., Il sequestro sequestro di verità, verità, Kaos  Kaos edizioni, Milano 2008, pp. 121-122 e 146. 24 Il brano si trova in F F.M. .M. Biscione (a cura di), di), Il  Il memoriale di Aldo Moro, Moro, cit.,  cit., pp. 90-92. 25 Gladio era un’organizzazione paramilitare clandestina italiana di tipo stay-behind («stare in

 Gladio era un organizzazione paramilitare clandestina italiana di tipo stay behind ( behind ( stare in retroguardia») promossa dalla Nato per contrastare una ipotetica invasione dell’Europa occidentale da parte dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia, attraverso atti di sabotaggio, guerra psicologica e guerriglia dietro le linee nemiche. Dopo la fine della Guerra fredda sono state fatte molte ipotesi sulle relazioni intrattenute da questa organizzazione organizzazione con la destra eversiva, con attentati o con tentativi di colpo di Stato avvenuti in Italia. 26 Si veda, in proposito, V. Satta, I Satta, I nemici della Repubblica, Repubblica, cit.,  cit., pp. 544-545. Il generale Paolo Inzerilli, ex capo di Gladio, ha precisato che quest’ultima era un’organizz un’organizzazione azione anti-invasione e non antiguerriglia (M. Clementi, La Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Moro, cit.,  cit., pp. 290292, citato da V. Satta, I Satta,  I nemici della Repubblica, Repubblica, cit.,  cit., p. 544). Il Comunicato n. 2 delle Brigate rosse del 25 marzo 1978 è accessibile in rete alla pagina

 

www.archivio900.it/... 27 È stato giustamente osservato che Mario Moretti, il brigatista che stava interrogando Aldo Moro, «stava cercando qualcosa di diverso da Gladio; appunto, un’organizzazione europea antiguerriglia antiguerriglia in grado di coordinare su scala internazionale la lotta alle Br e agli altri gruppi rivoluzionari» (M. Clementi, Clementi, La  La  pazzia di Aldo Moro, Mordi o, cit.,  cit., p. Moretti 291). Vanon detto ogni tentativo degliPersonaggio inquirenti diambiguo, ottenere sospettato utili informazioni dagli interrogatori Mario ha che avuto alcun successo. di avere legami con i servizi, ha sempre rifiutato di fornire i chiarimenti che gli si chiedevano su circostanze oscure che lo riguardavano, ivi compresa, per esempio, la circostanza relativa alla stampatrice portata dallo stesso Moretti nella tipografia romana delle Br di via Pio Foà 31. Quella stampatrice era appartenuta al Rus (Raggruppamento unità speciali), una divisione del Sismi, e non si è mai saputo come fosse finita nelle mani di Moretti: «Durante il processo Moro, la ricostruzione dei vari passaggi di proprietà ha messo in evidenza una serie di testimonianze inattendibili che secondo alcuni erano finalizzate a nascondere un imbroglio di carattere commerciale, fatto da un colonnello del Sid in servizio» (Stefania Limiti, Sandro Provvisionato, Complici. Caso Moro. Il patto segreto tra Dc e Br, Chiarelettere, Br,  Chiarelettere, Milano 2015, pp. 130-131). 28 Sisde è l’acronimo del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, cioè il servizio segreto civile italiano, che dal 2007 ha preso la denominazione di Agenzia informazioni e sicurezza interna interna (Aisi). 29 Commissione P2, Relazione Anselmi, cit., pp. 103-104. 30 Pino Nicotri, Agli Nicotri, Agli ordini del del generale dalla Chiesa. Il pe pentimento ntimento di Peci, il caso Moro Moro e altri miste misteri ri degli anni ’80 nel racconto dell’agente segreto maresciallo Incandela, Marsilio, Incandela, Marsilio, Venezia 1994. 31 M. Guarino, F. Raugei, Licio Raugei, Licio Gelli, cit., Gelli, cit., p. 162. 32 Le dichiarazioni rese da Angelo Incandela al pubblico ministero di Palermo tra giugno e luglio del 1994 sono pubblicate in un libro contenente una voluminosa memoria prodotta dalla Procura palermita palermitana na al collegio giudicante: Silvestro Montanaro, Sandro Ruotolo (a cura di), di), La  La vera storia d’Italia: interrogatori, testimonianze, riscontri, analisi: Giancarlo Caselli e i suoi sostituti ricostruiscono gli ultimi vent’anni di storia italiana, Tullio italiana, Tullio Pironti, Napoli 1995, pp. 554-557, 561-567. Sull’incontro della Pantalera si veda M. Gotor, Il Gotor,  Il memoriale della Repubblica, Repubblica, cit.,  cit., pp. 250-258. Si veda anche la sentenza della Corte d’assise di Perugia del 24 settembre 1999 sull’omicidio Pecorelli, pubblicata in Sergio Flamigni (a cura di), di), Dossier  Dossier  Pecorelli,  Pecore lli, Kaos  Kaos edizioni, Milano 2005, pp. 150-159. Si veda infine, alle pagine 858-947 e 1451 sgg., la sentenza del Tribunale di Palermo 23 ottobre 1999, n. 3538/94, Andreotti, accessibile in rete alla pagina www.genovaweb.org/... 33 Tribunale di Palermo, sentenza del 23 ottobre 1999, Andreotti, cit., p. 864. 34   Ivi, pp. 35 Ivi, pp.  Ivi, Ivi, pp.  pp. 867-868. 902-903. 36 Ivi, p.  Ivi, p. 905. 37 Francis Turatello fu ucciso nel carcere di Nuoro il 17 agosto 1981.

 

Note al capitolo IV capitolo IV.. Pecor Pecorelli. elli. Il giornalist giornalistaa che «disturbava oliticamente» 1* Fondato a Roma alla fine degli

anni Sessanta come agenzia quotidiana stampata in ciclostile, «OP» emerse sin da  da subito per l’incisività dei suoi articoli, riguardanti politici, militari e magistrati. Nonostante non sempre si basasse su fonti solide e talvolta rasentasse la diffamazione, alcuni pezzi risultava risultavano no particolarmente attendibili e per questo il giornale era temuto. 2 Cfr. Giann Gianni Flamini, Flamini, La  La Banda della Magliana, Kaos Magliana, Kaos edizioni, Milano 2002, citato in Mario Guarino, Fedora Raugei, Licio Raugei, Licio Gelli. Vita, Vita, misteri, scandali del cap capoo della Loggia P2, P2, Edizioni  Edizioni Dedalo, Bari 2006, p. 163. 3 Il Sid (Servizio informazioni difesa) è il servizio segreto militare così come denominato tra il 1965 e il 1977. In precedenza si chiamava Sifar (Servizio informazioni forze armate). Dal 1977 al 2007 si chiamerà Sismi (Servizi (Servizio informazioni sicurezza militare). Dal 2007 in poi si chiamerà Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna). 4 Sulle sue agende il giornalista segnava meticolosamente telefonate, appuntamenti, pranzi e cene. Altri esempi: Licio Gelli è menzionato 46 volte; il capitano Antonio Labruna (Sid, P2) 53 volte; il generale Gianadelio Maletti (Sid, P2) 46 volte; Egidio Carenini (deputato Dc, P2) 62 volte; Tommaso Addario (Italcasse) 64  64 volte; Franco Evangelisti (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) 84 volte; Giuseppe Ciarrapico (editore andreottiano) 86 volte; Giancarlo Elia Valori Valori (P2) 91 volte (cfr. Sergio Flamigni [a cura di], Dossier di],  Kaos edizioni, Milano 2005, p. 51).  Dossier Pecorelli, Pecorelli, Kaos 5 M. Guarino, F. Raugei, Licio Raugei, Licio Gelli, cit., Gelli, cit., p. 163. 6 La sentenza ha prosciolto tutti coloro che erano stati indiziati dell’omicidio nella prima istruttoria: Massimo Carm Carminati, Cristiano Fioravanti, Valerio Fioravanti, Licio Gelli e Antonio Viezzer. 7 Le dichiarazioni rilevanti rese dai sei collaboratori di giustizia sono riportate in modo chiaro, sintetico ed esauriente nella richiesta di rinvio a giudizio firmata dai pubblici ministeri di Perugia il 20 luglio 1995, al termine delle nuove indagini scaturite da quelle dichiarazioni. Il provvedimento della Procura perugina (d’ora in avanti «Pm Perugia 1995») è pubblicato in Franca Mangiavacca (a cura di), Memoriale di), Memoriale Pecorelli Pecorelli dalla Andreotti alla Zeta, International Zeta, International E.I.L.E.S., Roma 1996, vol. I, pp. 421-578. 8* I cugini Ignazio e Nino Salvo, affiliati alla cosca mafiosa di Salemi e appoggiati da Salvo Lima, a partire dal 1962 ottennero l’appalto per la riscossione delle tasse a Palermo, riuscendo per altro a sottrarre alla Regione Sicilia, attraverso le aziende da loro fondate, enormi cifre provenienti da contributi europei stanziati per l’agricoltura. 9 Pm Perugia 1995, pp. 430 sgg. Buscetta precisa che l’omicidio Pecorelli era stato «un omicidio “personale” di Badalamenti e Bontate, quindi non era stato deliberato dalla Commissione di Cosa Nostra». 10 Ivi, p.  Ivi, p. 432. 11 Ivi, p.  Ivi, p. 448. 12 La legge prevede espressamente che, quando un magistrato in servizio viene sottoposto a un

procedimento penale, le indagini e il processo non possono essere condotti dall’ufficio giudiziario dove quel magistrato presta servizio, ma passano al distretto giudiziario più vicino. 13 Pm Perugia 1995, pp. 448-450. 14 Ivi, pp.  Ivi, pp. 477-478. Mancini ha riconosciuto La Barbera sia da un primo album contenente trentadue fotografie tra cui quella di La Barbera al tempo dell’omicidio, sia da un secondo album di settantotto fotografie tra cui una diversa foto di La Barbera, scattata cinque o sei anni dopo. 15 Ivi, pp.  Ivi, pp. 441-442. 16 Ivi, pp.  Ivi, pp. 443-444. 17 Ivi, p.  Ivi, p. 446.

 

18 Ivi, pp.  Ivi, pp. 436-437. 19 Più precisamente, a carico di Massimo Carminati e su sua

richiesta si procede con rito immediato a norma degli artt. 453 comma 3 e 419 commi 5 e 6 del Codice di procedura penale, avendo l’imputato rinunciato all’udienza preliminare. A carico carico degli altri cinque imputati si procede con rito ordinario e con udienza preliminare a norma degli artt. 416 e seguenti dello stesso Codice. 20 Corte d’assise d’appello di Perugia, sentenza del 17 novembre 2002 n. 2/2002, Calò + 5, inedita, pp. 354-355. 21 Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza n. 26/2000 del 24 novembre 1999 (dep. 26 gennaio 2000), Magnani, massima n. 215094, in Cassazione penale, 2001, penale, 2001, p. 1175. 22 «Il momento genetico di quello che il procuratore generale, nella sua requisitoria, ha definito “un caso di infedeltà del testo al processo” va individuato nelle premesse logico-giuridiche della motivazione della sentenza impugnata, laddove la Corte d’assise di appello, disancorandosi consapevolmente dalle ipotesi antagoniste prospettate dall’accusa e dalla difesa ed esimendosi dall’obbligo istituzionale di sciogliere i nodi del confronto dialettico sviluppatosi, sia sulle ipotesi che sulle prove, nel corso del giudizio di merito, ha deciso di sottoporre a verifica giudiziale un proprio “teorema” accusatorio, da essa formulato in via autonoma e alternativa, in violazione sia delle corrette regole di valutazione della prova che del basilare principio di terzietà della giurisdizione, anche rispetto ai problemi implicati nel caso giudiziario» (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza n. 45276/03 del 30 ottobre 2003, Calò, pp. 74-75, consultabile in rete al link www.fontitaliarepubblicana.it/...). ). 23 Corte di cassazione, sez. I, sentenza n. 33965/04 del 17 giugno 2004 (dep. 9 agosto 2004), Gurliaccio, in Cassazione penale, 2005, penale, 2005, p. 3383, con nota di Oliviero Mazza, Mazza, La  La controversa controversa rilevabilità d’ufficio dell’abnormità. 24 Corte d’assise di Perugia, sentenza n. 3/99 del 24 settembre 1999 a carico di Calò Giuseppe + 5 (omicidio Pecorelli), d’ora in avanti «Assise Perugia 1999». La sentenza è accessibile in rete al link www.archivioantimafia.org/... 25 Assise Perugia 1999, pp. 274-296. 26 Il deposito di armi era stato realizzato grazie alla complicità di un custode che lavorava al ministero della Sanità. In cambio di un milione di lire al mese, il custode si impegnò a tenere celato l’arsenale in un magazzino dismesso dell’edificio (ivi, (ivi, pp.  pp. 264 sgg.). 27 Ivi, pp.  Ivi, pp. 264-266. 28 Così si esprime la sentenza di Perugia del 1999 ((ivi, ivi, p.  p. 266). 29

 La sentenza 1999 alludeil ache rapporti di Abbruciati e Carminati anche con delinquenza e laGevelot destra eversiva di originedel marsigliese, può ben avere attinenza con la presenza di la cartucce francesi nel deposito di armi della Banda della Magliana (ivi, ( ivi, pp.  pp. 355-356). 30 Pm Perugia 1995, p. 445. 31 I periti balistici hanno concluso che la pistola automatica 7,65 che aveva ucciso Pecorelli non era tra le armi sequestrate nel deposito del ministero della Sanità. 32 V  Vaa ancora tenuto presente che i proiettili di origine estera vengono importati in quantità non rilevanti e vengono venduti in confezioni al dettagliante. 33 Su questo punto ha riferito in dibattimento il colonnello dei carabinieri Enrico Cataldi che si era

occupato dell indagine mirata sui reperimenti di proiettili. Gli autori dell omicidio Barbieri erano stati scoperti grazie alle rivelazioni fatte dal fratello di uno degli altri complici (Ivo Fiorani), secondo il quale «le armi appartenevano alla destra eversiva e cioè a persone che erano vicine a Danilo Abbruciati e che, tramite questi e Massimo Carminati, avevano accesso al ministero della Sanità» (Assise Perugia 1999, p. 273n). L’omicidio di Massimo Barbieri è uno dei delitti contemplati dalla sentenza della Corte d’assise di Roma emessa il 21 gennaio 1988 nel processo penale n. 80/86 a carico di Andreini + 152, inedita. L’omicidio Barbieri è trattato alle pp. 602-644, dove si ricostruisce come Danilo Abbruciati abbia torturato a lungo Barbieri in un appartamento di Ladispoli, lo abbia poi trasportato a Roma e qui, in un campo incolto del quartiere Ostiense, lo abbia finito con due colpi di pistola. Questa sentenza non contemplava Abbruciati come imputato solo perché questi era morto nell’aprile 1982, ma riguardava i sodali imputati di averlo

 

assistito nell’impresa, che sono stati tutti inspiegabilmente assolti. Altrettanto inspiegabile è il fatto che, agli atti di quel processo, non sia più reperibile la perizia balistica. 34 Assise Perugia 1999, pp. 267-273. 35 Pubblicato in F. Mangiavacca (a cura di), Memoriale di), Memoriale Pecorelli Pecorelli dalla Andr Andreotti eotti alla Zeta, Zeta, cit.,  cit., vol. I, pp. 198-199. L’opera L’opera di Franca Mangiavacca (in due volumi) contiene tutti gli articoli pubblicati nel periodico di Carmine Pecorelli suddivisi per argomento. 36 Assise Perugia 1999, pp. 209-250. La data e il luogo della cena (Roma, corso Vittorio Emanuele, 24) figurano annotati nell’agenda personale di Pecorelli, allegata agli atti del procedimento. 37 Ciò è compatibile con quanto affermato da Franca Mangiavacca, secondo cui le copertine erano state ritirate dalla tipografia venerdì 26 gennaio. 38 Così Assise Perugia 1999, cit., p. 211, che anche altrove non manca di criticare severamente severamente le gravi manchevolezze della prima istruttoria condotta dalla Procura romana, senza alcun risultato apprezzabile, sino alla sentenza di proscioglimento del 15 novembre 1991. Sempre a proposito delle indagini sulla cena alla Famiglia piemontese, la Corte osserva che esse «rientrano in uno dei tanti buchi investigativi di cui è pieno il processo nella prima fase delle indagini per l’uccisione di Carmine Pecorelli» e lamenta che «nessun interrogatorio veniva disposto per Donato Lo Prete […] quanto meno dopo il suo rientro in Italia» (ibidem ibidem e  e p. 212). 39 Si rammenta che la competenza per il procedimento relativo all’omicidio Pecorelli è passata dalla Procura della Repubblica di Roma a quella di Perugia dopo che, il 27 agosto 1993, il collaboratore di giustizia della Banda della Magliana Vittorio Carnovale ha coinvolto nell’omicidio la persona di Claudio Vitalone, Vita lone, magistrato in servizio a Roma, essendo Perugia competente per tutti i procedimenti penali in cui siano coinvolti magistrati in servizio nel distretto di Roma. 40 Assise Perugia 1999, cit., p. 220. 41 Ivi, p.  Ivi, p. 221. La sentenza di primo grado osserva a questo punto che Carmine Pecorelli, durante la cena alla Famiglia piemontese, ha parlato della copertina e dell’articolo sugli assegni del presidente perché, sapendo di parlare a persone vicine a Giulio Andreotti, ha voluto «lanciare un’esca, con la consapevolezza che le sue parole sarebbero arrivate al vero destinatario, cosa puntualmente verificatasi» ((ivi, ivi, pp.  pp. 222-223). 42 Ivi, pp.  Ivi, pp. 245-246. 43 V  Vaa rammentato che le indagini precedenti sull’omicidio, gestite dal pm romano Domenico Sica, erano state chiuse a carico di ignoti con la sentenza istruttoria di proscioglimento del 15 novembre 1991 (imputati Massimo Carminati e altri). 44 Perugia 1999, cit., 45 Assise  Beniamino A. Piccone, Il Piccone,  Il pp. caso247-248. Italcasse, appendice al presente volume, testo a cui rinviamo per Italcasse, appendice

ulteriori informazioni sullo scandalo che sconvolse l’Istituto nella seconda metà degli anni Settanta. 46 Il brano si trova in Francesco M. Biscione (a cura di), Il di), Il memoriale di Aldo Moro Moro rinvenuto in via  Monte Nevoso a Milano, Coletti Milano, Coletti editore, Roma 1993, p. 60. 47 Assise Perugia 1999, cit., p. 80. 48 Ivi, pp.  Ivi, pp. 91-93 e 245. Su questa annotazione, che non era mai stata trasmessa alla magistratura, ha riferito al pm lo stesso D’Aloia. Sempre a proposito degli assegni giunti alle società facenti capo alla famiglia Arcaini, si è accertato che l’uscita era formalmente portata nella contabilità delle società, ma che

non vi era alcuna indicazione dei percettori del pagamento. Non erano state fatte ulteriori indagini e il fascicolo, su richiesta del pm Orazio Savia, era stato archiviato. Orazio Savia è stato arrestato a fine maggio 1997 per corruzione in atti giudiziari e false comunicazioni sociali dall’autorità giudiziaria di Perugia ed è rimasto per diversi mesi in custodia cautelare in carcere. Ha poi patteggiato la pena e ha restituito somme molto alte come condizione per il patteggiamento. 49 Ivi, p.  Ivi, p. 92, dove si precisa che la Sofint S.p.A. è successivamente intervenuta nel tentativo di salvataggio del gruppo Caltagirone. A proposito di Domenico Balducci e dei suoi rapporti con Pippo Calò e con Giuseppe Di Cristina, si veda infra, infra, cap.  cap. XI, § 2.

 

Note al capitolo V. Giulio Andreotti riconosciuto penalmente responsabile, ancorché prescritto, di complicità con Cosa Nostra 1 Giulio Andreotti era stato iscritto nel

registro degli indagati per complicità con Cosa Nostra nel 1993 su iniziativa della Procura di Palermo retta da Giancarlo Caselli. Ecco gli estremi delle tre sentenze: Tribunale di Palermo, sentenza del 23 ottobre 1999, dep. 16 maggio 2000, Andreotti, inedita; Corte di appello di Palermo, sentenza del 2 maggio 2003, Andreotti, inedita; Cass., Sez. II Penale, sentenza n. 49691 del 15 ottobre 2004, dep. 28 dicembre 2004, Andreotti, in Diritto in Diritto penale e processo, processo, 2005,  2005, fasc. 5, p. 593. Le tre sentenze sono accessibili in rete attraverso il link www.archivioantimafia.org/... 2 Corte d’appello di Palermo, sent. 2 maggio 2003, pp. 111 11111 sgg. 3 Si intende diverse da quella, sterminata dalla successiva guerra di mafia, che faceva capo allo stesso Bontate. I boss mafiosi Greco e Provenzano, rispettivamente fonti di Giuffrè e di Lipari, erano infatti esponenti dello schieramento opposto a quello di Bontate, Badalamenti eccetera. 4 Corte d’appello di Palermo 2003, cit., pp. 1072 sgg. 5 Ivi, pp.  Ivi, pp. 1074 sgg. 6 Ivi, pp.  Ivi, pp. 1098 sgg. 7 Ivi, pp.  Ivi, pp. 1086 sgg. 8 Cass., sez. sez. II, sent. 15 ottobre

2004, pp. 29-31, 38-41.

 

Note al capitolo VI. Il rapporto triangolare fra Andreott Andreotti,i, Cosa Nostra e Sindona 1 In proposi proposito si veda

Antonella Beccaria, Giuliano Turone, Turone, Il  Il boss. Luciano Liggio: da Corleone a  Milano, una storia di mafia e complicità, complicità, Castelvecchi,  Castelvecchi, Roma 2018. Le sentenze del processo penale milanese alla Anonima sequestri di Luciano Liggio sono accessibili in rete al sito www.fontitaliarepubblicana.it: www.fontitaliarepubblicana.it: Tribunale di Milano, g.i., n. 991/73-A, sentenza-ordinanza 7 gennaio 1976, Guzzardi + 42; Tribunale di Milano, sez. VII, sentenza n. 4797 del 13 novembre 1976, Guzzardi + 31; Corte d’appello di Milano, sez. III, sentenza n. 6332 del 19 dicembre 1979, Guzzardi + 31; Cassazione, sez. II, sentenza n. 1637 del 2 aprile 1982, dep. 24 febbraio 1983, Guzzardi + 15. 2 Corte d’assise di Roma, 6 giugno 2007, cit., pp. 85 e 101. 3 Cfr. Requisitoria della Procura della Repubblica di Roma pronunciata nel marzo 2007 nel processo relativo all’omicidio Calvi, pubblicata in volume con il titolo Dossier titolo  Dossier delitto Calvi, Kaos Calvi, Kaos edizioni, Milano 2008, p. 65. Mannoia dichiara anche che Pippo Calò – quel Pippo Calò che abbiamo visto coinvolto nel caso Pecorelli  Pecorelli  –– aveva «somme di de denaro naro investite a Roma aattraverso ttraverso Licio Gelli», aggiungendo che par parte te di questo denaro era stato riciclato attraverso il Banco Ambrosiano con l’intermediazione di don Agostino Coppola. 4 Corte d’assise di Roma, 6 giugno 2007, cit., pp. 100-101. 5 Basti pensare al modo orribile in cui Gaetano Badalamenti – che a quel gruppo apparteneva – ha fatto assassinare il 9 maggio del 1978, a Cinisi, il giovane Giuseppe Impastato, per gli amici Peppino. Questi aveva coraggiosamente abbandonato la famiglia mafiosa in cui era nato e dalla sua radio libera denunciava le malefatte delle famiglie mafiose di Cinisi e Terrasini e in particolare di Badalamenti, capomafia di Cinisi. Peppino Impastato è stato assassinato con una carica di tritolo posta sotto il corpo adagiato sui binari della ferrovia Trapani-Palermo. Trapani-Palermo. Le indagini sulla morte di Giuseppe Impastato vennero subito orientate e a lungo mantenute – dal reparto operativo dei carabinieri e dalla Procura di Palermo – verso l’ipotesi, chiaramente infondata, che  che Impastato si fosse ucciso o fosse perito in un fallito attentato dinamitardo ai danni delle ferrovie. Solo negli anni Ottanta, grazie ai nuovi dirigenti dell’ufficio istruzione palermitano retto da Rocco Chinnici poi da Antonino Caponnetto, venne la matrice mafiosa Infine, mae solo all’alba del nuovo millennio, la riconosciuta Commissionee dimostrata parlamentare antimaf antimafia ia ha datodel undelitto. giudizio assai severo sull’iniziale depistaggio delle indagini: «Da questa inchiesta parlamentare può essere avanzata l’ipotesi che l’aprioristica esclusione della pista mafiosa abbia potuto trovare una ragione in rapporti tra la cosca di Cinisi e segmenti delle istituzioni con essa compromessi» (Comm. Parl. Antimafia, XIII Legislatura, Relazione sul caso Impastato, relatore Giovanni Russo Spena, 6 dicembre 2000, p. 149). 6 Per maggiori particolari circa il finto rapimento di Sindona, il suo soggiorno clandestino a Palermo e il suo «grande ricatto», si veda Gianni Simoni, Giuliano Turone, Il Turone, Il caffè di Sindona. Un finanziere finanziere d’avventura tra politica, Vaticano e mafia, mafia, Garzanti,  Garzanti, Milano 2011, pp. 7-31. 7

 Giulio Andreotti, Diari Andreotti, Diari 1976 1979. Gli anni della della solidarietà, solidarietà, Rizzoli,  Rizzoli, Milano 1981, p. 122. 8 Tribunale di Palermo, sentenza 23 ottobre 1999, cit., p. 695.

 

Note al capitolo VII. Il dissesto della banca di Sindona e l’assassinio di Ambrosoli su mandato di Sindona 1 Le fonti gi giudiziarie di questo capitolo sono gli atti

del processo milanese relativo a diversi reati attribuiti a Michele Sindona e al suo entourage (tra cui, appunto, l’omicidio in danno di Giorgio Ambrosoli) commessi tra il 1977 e il 1980. Si è attinto principalmente al provvedimento istruttorio di rinvio a giudizio e alla sentenza di primo grado, le cui risultanze sono state poi sostanzialmente confer confermate mate in grado di appello e nel giudizio di Cassazione. Più precisamente si tratta: a) della sentenza-ordinanza del 17 luglio 1984 del giudice istruttore del Tribunale di Milano (Sindona + 25), pubblicata con il titolo Sindona. Gli atti d’accusa dei giudici di Milano, a Milano, a cura di Maurizio De Luca, Editori Riuniti, Ri uniti, Roma 1986; b) della sentenza del 18 marzo 1986 della Prima Corte d’assise di Milano (Sindona + 25), inedita. La vicenda di Giorgio Ambrosoli è trattata ampiamente nel libro, divenuto ormai un classico, di Corrado Stajano, Un eroe borghese, Einaudi, borghese, Einaudi, Torino 1991 (ripubblicato da Il Saggiatore, Milano 2016). Sulla vicenda si veda anche Sandro Gerbi (a cura di), Giorgio Ambrosoli. Ambrosoli. Nel nome di un’Italia pulita, pulita, Nino  Nino Aragno editore, Torino 2010. 2 Tribunale di Milano, g.i., sentenza-ordinanza del 17 luglio 1984, cit., p. 41. 3 Ivi, pp.  Ivi, pp. 41-42. 4 Ivi, p.  Ivi, p. 43. 5 Si veda, pi più diffusamente, Giuliano Turone, Turone, L’inchie  L’inchiesta sta sull’omicidio, sull’omicidio, in  in S. Gerbi (a cura di), Giorgio  Ambrosoli. Nel nome nome di un’Italia pulita, pulita, cit.,  cit., pp. 77 e 88-92. 6 Tribunale di Milano, g.i., sentenza-ordinanza del 17 luglio 1984, cit., pp. 48 sgg. 7 Per quanto attiene alla morte di Michele Sindona, essa è stata determinata da un caffè avvelenato da lui bevuto, due giorni dopo la sentenza di primo grado, nel carcere di massima sicurezza di Voghera. L’inchiesta sul decesso è stata condotta dalla Procura generale della Repubblica di Milano e ha dimostrato che Sindona si è suicidato simulando un omicidio. Le argomentazion argomentazionii che sostengono la conclusione sono contenute in una requisitoria di 141 pagine datata 15 luglio 1986, integralmente recepita nel provvedimento di archiviazion archiviazione del giudice istruttore di Voghera datato 3 novembre 1986. Tali argomentazioni sono esposte e illustrate in G. Simoni, G. Turone, Turone, Il  Il caffè di Sindona, cit., Sindona, cit., pp. 73-119. Unanella Prefazione definizione sintetica e calzante dellaGli vita avventuriero di Sindona è quella che Maurizio Luca nella  Prefazione al  al volume Sindona. attidad’accusa dei giudici di Milano, Milano, cit.,  cit., p.dà VII: «BruttaDe la sua storia, popolata di mafiosi e piduisti, ministri osannanti e procuratori generali compiacenti, cardinali, cardinali, ladri, massoni, spie, assassini di mestiere, ricatti, speculazioni, miliardi alla Democrazia cristiana, intrighi vaticani. Brutta storia, ma esemplare di quella mala Italia che da anni è in battaglia contro gli onesti e che dal sottosuolo minaccia di soffocare la democrazia intaccandone intaccandone le radici». 8 Giulio Andreotti, Diari Andreotti, Diari 1976-1979. Gli anni della della solidarietà, solidarietà, Rizzoli,  Rizzoli, Milano 1981, pp. 347-348. Del resto, anche il nome di Sindona compare nel libro solo una volta, sotto la data del 12 novembre 1977, in un paio di righe ove si registra solo l’esistenza di una «polemica su un elenco di depositanti della banca

svizzera di Sindona» (ivi, (ivi, p.  p. 148). 9 Giulio Andreotti, Cosa Loro. Mai visti da vicino, Rizzoli, vicino, Rizzoli, Milano 1995, pp. 80, 172. 10 Umberto Ambrosoli, Qualunque cosa succeda, Sironi, succeda, Sironi, Milano 2009, pp. 295-296. Va detto che, per il suo eccezionale spirito di servizio a fianco di Ambrosoli, al maresciallo Novembre è stata conferita l’onorificenza di Commendatore dell’ordine dell’ordine al merito della Repubblica il 2 giugno 1998. 11 Dichiarazione disponibile in rete al link

www.youtube.com/...

 

Note al capitolo VIII. L’attacco L’attacco giudiziario alla Banca d’Italia e il ruolo di Giulio Andreotti 1 Sulla vicenda giudiziaria che ha colpito Baffi e Sarcinelli si veda Corrado Stajano, Un eroe borghese,

Einaudi, Torin Torino 1991 (ripubblicato da Il Saggiatore, Milano 2016); Umberto Ambrosoli, Qualunque cosa succeda, Sironi, Milano 2009; Sandro Gerbi, Beniamino A. Piccone (a cura di), Paolo succeda, Sironi, di), Paolo Baffi. Parola di di governatore, Nino governatore,  Nino Aragno editore, Torino 2013; Beniamino A. Piccone (a cura di), di), Paolo  Paolo Baffi servitore servitore dell’interesse dell’intere sse pubblico. Lettere 1937-1989, 1937-1989, Nino  Nino Aragno editore, T Torino orino 2016. 2* Arturo Carlo Jemolo (1891-1981) è stato un giurista e storico cattolico liberale, impegnato in sostegno della laicità dello Stato e autore del fondamentale saggio Chiesa e Stato in Italia negli ultimi centro anni, Einaudi, Torino 1948. 3 L’a  L’articolo rticolo è riportato in C. Stajano, Un eroe borghese, cit., borghese, cit., pp. 202 sgg. Assai severo sarà anni dopo anche il giudizio di Giovanni Spadolini (presidente del Consiglio da giugno 1981 a dicembre 1982), secondo cui «Baffi non era stato scelto a caso dagli autori del complotto del quale egli era rimasto vittima: egli simbolegg simboleggiava quell’altra Italia che si opponeva in quelle ore drammatiche all’intreccio di trame e di cospirazioni contro la Repubblica» (Giovanni Spadolini, Paolo Spadolini, Paolo Baffi servitore servitore dello Stato, Stato, in  in AA.VV.,  Paolo Baffi. Il ricordo ricordo della sua università, università, Università  Università Commerciale Luigi Bocconi, Milano 1990, p. 16). 4 Giulio Andreotti, Diari Andreotti, Diari 1976-1979. Gli anni della della solidarietà, solidarietà, Rizzoli,  Rizzoli, Milano 1981, p. 324. 5 Si tratta del procedimento penale n. 2911/77-r.g.g 2911/77-r.g.g.i. .i. del Tribunale di Roma a carico di Giorgio Cappon +79, sorto a se seguito di un’interrogazione parlamentare presentata presentata il 13 luglio del 1977 dal senatore democristiano Vincenzo Vincenzo Carollo (il cui nome verrà poi rinvenuto negli elenchi della loggia P2), per reati vari tra cui fal falsi in bilancio e truffe aggravate ai danni dello Stato. Con la sentenza del 9 giugno 1981, emessa dallo stesso giudice istruttore Alibrandi, tutti gli imputati sono stati prosciolti con formula ampia. 6 Colpiscono gli apprezzamenti negativi gratuiti contenuti nella sentenza di Alibrandi, che Paolo Baffi commenta così nel suo diario: «Alibrandi emana la sentenza di proscioglimento per tutti gli imputati del caso Sir. Quan Quando ne leggiamo il testo, Sarcinelli e io rimaniamo colpiti dalla pesantezza delle accuse di incompetenza nella gestione del credito e dei controlli e di negligenza nei rapporti con la giustizia, che il giudice rivolge: la nostra chiaro prima reazione è di ricorrere appello e in tal senso parliamo agli avvocati.pur Maci[…] è abbastanza che il giudice ci muoveinquelle contestazioni pernegiustificare la pesantezza con cui ha proceduto soprattutto nei riguardi di Sarcinelli […]. Con la nostra rinuncia […] il caso si chiude e diventa materia di storia» (in S. Gerbi, B.A. Piccone, Paolo Piccone, Paolo Baffi. Parola di di governatore governatore,, cit., p. 233). 7 Per «diario» di Paolo Baffi intendiamo la sua Cronaca breve breve di una vicenda giudiziaria, giudiziaria, pubblicata  pubblicata nel numero del settimanale «Panorama» dell’11 febbraio 1990 (con il titolo Cronaca di un’infamia), un’infamia), e ripubblicata in S. Gerbi, B.A. Piccone, Piccone, Paolo  Paolo Baffi. Parola Parola di governator governatore, e, cit.,  cit., pp. 197-233. 8 Alludiamo anzitutto alle osservazioni contenute nei già citati Diari citati Diari 1976-1979, dove 1976-1979, dove diverse

osservazioni sulla vicenda della Banca d Italia si leggono alle pp. 321 sgg., ma anche a talune annotazioni contenute nelle agende private dell’uomo politico – agli atti del processo per l’omicidio Pecorelli – sulle quali Andreotti fu sentito dal giudice per l’udienza preliminare il 2 novembre 1995. 9 È singolare che Andreotti abbia deciso di dare alle stampe i suoi suoi Diari  Diari 1976-1979 solo 1976-1979 solo un paio di anni dopo la data finale. Infatti il volume risulta «finito di stampare nel mese di aprile 1981». 10 Tribunale di Perugia, ufficio del giudice per le indagini preliminari, udienza preliminare del procedimento per l’omicidio di Carmine Pecorelli, verbale dell’udienza 2 novembre 1995, ff. 100-103. 11 Quel giudice istruttore si identifica nell’autore di questo libro. 12 Procedimento penale n. 6/1985-R.G. della Procura generale di Roma e procedimento penale n. 161/1985-C della Procura della Repubblica di Perugia.

 

13 Il Codice di procedura penale del 1930 è

rimasto in vigore, sia pure con numerose e importanti modifiche, sino al 1989 ed è ancora consultabile in rete. Gli atti preliminari all’istruzione erano disciplinati dagli artt. 219-234; l’istruttoria sommaria del pubblico ministero era disciplinata dagli artt. 389-397, 400, 401; l’istruttoria formale del giudice istruttore era disciplinata dagli artt. 295-388. 14 Art. 74 del vecchio codice: «Il giudice istruttore, se non ritiene di accogliere la richiesta [di archiviazione], dispone con ordinanza l’istruttoria formale». 15 A questo proposito si veda il contributo di Sergio Materia, La Materia, La giustizia a Perugia. Gli anni Ottanta, Ottanta, in  in appendice al presente volume.

 

Note al capitolo IX. capitolo IX. Dalla seconda guerra di mafia alle stragi di Capaci e di via D’Amelio 1 Non proprio

totale, in quanto Tomma totale, in Tommaso so Buscetta, nel corso della sua collaborazione, ha avvertito con franchezza il giudice istruttore Giovanni Falcone, suo interlocutore privilegiato, che si sarebbe astenuto «per il momento» dal rivelargli alcune circostanze particolarmente particolarmente delicate inerenti ai rapporti di Cosa Nostra con la politica. Buscetta ha sciolto questa riserva, rivelando agli inquirenti anche quelle circostanze, solo dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. 2 I processi per il delitto Chinnici saranno numerosi e l’iter giudiziario sarà lungo e complesso. Si concluderà con dodici condanne definitive all’ergastolo: tra i responsabili dell’attentato Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Antonino Madonia e Giuseppe Calò. 3 Il provvedimento viene designato come «sentenza-ordinanza», secondo il linguaggio giuridico di allora, perché contien contiene sia dei proscioglimenti, che si decidono con «sentenza», sia dei rinvii a giudizio, che si decidono con «ordinanza». 4 Tribunale  Tribunale  di Palermo (ufficio del giudice istruttore), 8 novembre 1985, Abbate Giovanni + 706, provvedimento provvedime nto suddiviso iinn 40 volumi di complessive 8608 pagine, interamente accessibile in rete al link www.wikimafia.it/...  Una sintesi della sentenza-ordinanza è stata parzialmente pubblicata con il titolo  Mafia. L’atto L’atto d’accusa dei giudici di Palermo, Palermo, a  a cura di Corrado Stajano, Editori Riuniti, Roma 1986. 5 La sentenza del 16 dicembre 1987 della Corte d’assise di Palermo è accessibile in rete nel sito del Consiglio supe superiore della magistratura, in una sezione contenente un certo numero di provvedimenti giudiziari di rilievo storico e raggiungibile attraverso il link www.csm.it/... 6 Come si di dirà, a questi tre membri della cupola si aggiungeranno anni dopo anche gli altri due –  Bernardo Brusca e Giuseppe Calò – che verranno anch’essi condannati all’ergastolo all’ergastolo solo nel 1995, con la seconda sentenza d’appello. 7 Tre mesi prima di essere ucciso, Antonino Saetta aveva presieduto il processo d’appello relativo all’assassinio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, avvenuto a Monreale il 4 maggio del 1980, di cui si dirà nel prossimo capitolo. Il processo si era concluso con la condanna – come autori materiali dell’omicidio – di Giuseppe Madonia, Vince Vincenzo nzo Puccio e Armando Bonanno, condanna definitiva solo il 14 novembre 1992. Sono stati condannati come mandanti dell’omicidio Totò Riinadivenuta e Francesco Madonia, padre di uno dei sicari. Basile aveva pagato con la vita il fatto di avere proseguito un’indagine avviata dal capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano su un traffico di droga gestito dalla famiglia di Altofonte, stretta alleata dei corleonesi di Riina. 8 Cfr., su questo punto, Alfonso Giordano, Giordano, Il  Il maxiprocesso maxiprocesso venticinque anni ddopo. opo. Memoriale del  presidente,, Bonanno editore, Acireale-Roma 2011, p. 325.  presidente 9 Supra, Supra, cap.  cap. IV, IV, § 4. Il tragico periodo compreso tra la primavera e l’estate del 1992, e la breve distanza temporale intercorsa fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, sono oggetto del complesso

procedimento penale tuttora in corso relativo alla cosiddetta «trattativa Stato-mafia», vale a dire un patteggiamento occulto che si sarebbe svolto in quel periodo tra i capi di Cosa Nostra (in particolare Riina e Provenzano) e alcuni esponenti delle pubbliche istituzioni, proiettato verso uno scambio tra le due parti: niente più stragi di mafia a fronte di un trattamento penale e penitenziario meno rigoroso nei confronti dei mafiosi. La sentenza di primo grado di questo procedimento è stata emessa di recente e ha condannato otto persone per il reato di minaccia a un corpo politico dello Stato (art. 338 c.p.). Ne riportiamo qui un brano particolarmente significativo: «L «L’unico ’unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l’organizzazione l’organizza zione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo – e in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito

 

Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio. Ora, ove anche non si volesse pervenire alla conclusione prospettata dalla pubblica accusa, che Riina abbia deciso di uccidere il Dott. Borsellino temendo la sua opposizione alla “trattativa”, conclusione che, peraltro, trova una qualche convergenzaa nel fatto che, secondo quanto riferito dalla moglie […], il Dott. Borsellino, pochi giorni prima convergenz di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi […], in ogni caso non v’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio del Dott. Borsellino con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente da istituzioni dello Stato e di lucrare vantaggi […]. In altre parole […], è logico ritenere che Riina, compiacendosi dell’effetto dell’effetto positivo per l’organizzaz l’organizzazione ione mafiosa prodotto dalla strage di Capaci, possa essersi determinato a replicare, con la strage di via D’Amelio, […] per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato e ottenere benefici sino a pochi mesi prima […] assolutamente per lui impensabili» (Corte d’assise di Palermo, sez. II, sentenza 19 luglio 2018, ud. 20 aprile 2018, pp. 1237-1239).

 

Note al capitolo X. capitolo X. L’omicidio L’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Emanuele Basile e i dodici anni della tormentata vicenda giudiziaria 1 Per una ric ricostruzione fedele ed esauriente della vicenda umana e

professionale del capitano Emanuele Basile, del suo suo barbaro assassinio e dei processi che ne sono seguiti, si veda Attilio Bolzoni, Giuseppe D’Avanzo, La D’Avanzo,  La giustizia è Cosa Nostra. Il caso Carnevale Carnevale tra delitti e impunità, Mondadori, impunità, Mondadori, Milano 1995, ripubblicato da Glifo Edizioni, Palermo 2018. 2 Dichiaraz  Dichiarazio ione ne di Gaspare Mutolo al pm di Palermo, inserita nella domanda di autorizzazione a procedere del 23 marzo 1993 nei confronti di Giulio Andreotti. 3 Ibidem.  Ibidem. 4 Corte d’assise di Palermo, sentenza del 31 marzo 1983, Madonia, brano citato in A. Bolzoni, G. D’Avanzo, La D’Avanzo,  La  giustizia è Cosa Nostra, Nostra, ed.  ed. 2018, cit., pp. 70 e 220. 5 Due mesi dopo, il 13 giugno 1983, viene ucciso a Monreale anche il capitano Mario D’Aleo, che aveva preso il posto di Emanuele Basile alla compagnia carabinieri di quella città. Con lui vengono uccisi anche l’appuntato Gi Giuseppe Bommarito e il carabiniere Pietro Morici. Il capitano D’Aleo aveva continuato le indagini del suo predecessore estendendole estendendole,, in particolare, alla famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, molto legata a Totò Riina e al clan dei corleonesi. Mario D’Aleo, come già Emanuele Basile, è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile alla memoria. 6 Dichiaraz  Dichiaraziione di Francesco Marino Mannoia al procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone, 19 novembre 1989. 7 Corte d’assise d’appello di Palermo, sez. I, sentenza n. 29 del 23 giugno 1988, depositata il 16 settembre 1988, Bonanno + 2, pp. 46-47. 8 Corte di ca cassazione, sez. I, sentenza n. 8516 del 7 marzo 1989, depositata il 14 giugno 1989, Bonanno e altri, pp. 67-70. 9 Corte di cassazione, sez. V V,, sentenza n. 2381/93 del 14 novembre 1992, depositata l’11 marzo 1993, Madonia e altr altri. La Corte d’appello aveva dichiarato colpevole, come mandante dell’omicidio, anche Michele Greco, ma la posizione di quest’ultimo è stata annullata con rinvio e si è poi risolta iinn un’assoluzione. 10 Corte d’appello di Palermo, sezione promiscua penale, sentenza n. 2247/01 del 29 giugno 2001, presidente Vincenzo Vincenzo Oliveri, estensore Biagio Insacco, imputato Carnevale. Il testo della sentenza (1062 pagine in pdf) è pubblicato nel sito Archivio Antimafia ed è accessibile in rete all’indirizzo www.archivioantimafia.org/... 11 Corte d’appello di Palermo, 29 giugno 2001, Carnevale, cit., pp. 721-734. 12 Ivi, pp.  Ivi, pp. 742, 772. 13 Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza n. 22327/03 del 30 ottobre 2002, depositata il 21 maggio 2003, presidente Nicola Marvulli, estensore Renato Luigi Calabrese, imputato Corrado Carnevale, massima

n. 224182, pubblicata in Rivista in Rivista italiana di diritto e procedura procedura penale, penale, 2004,  2004, pp. 322 sgg. Per un approfondimento critico su questo principio di diritto si veda Giuliano Turone, Il Turone, Il delitto di associazione mafiosa, terza mafiosa,  terza edizione, Giuffrè, Milano 2015, pp. 537-552, e autori ivi ivi citati.  citati. 14 Corte di cassazione, sez. V V,, sentenza n. 37095 del 22 aprile 2009, depositata il 23 settembre 2009, imputato G. [nome oscurato], massima n. 246579.

 

Note al capitolo XI. capitolo XI. Dall’istruttoria Dall’istruttoria del maxipr maxiprocesso ocesso a Cosa N Nostra ostra all’istruttoria sugli omicidi politico-mafiosi di Palermo 1* Ci soffermeremo più avanti in questo libro sulla figura di

Francesco Pazie Pazienza, nza, ex agente segreto e faccendiere di di grosso calibro, noto per il suo coinvolgimento in vari episodi oscuri di terrorismo e stragismo. 2 Trib. Palermo (g.i.), 8 novembre 1985, Abbate cit., vol. 5, pp. 978-985. 3 Ivi, vol.  Ivi, vol. 23, pp. 4636, 4640. 4 Ivi, p.  Ivi, p. 4644 4644. 5 Ivi, p.  Ivi, p. 4646. 6 Sulla vicenda di Domenico Balducci e sui suoi rap rapporti porti con Calò si veda la la sentenza  sentenza principale sulla Banda della Magliana: Corte d’assise di Roma, 23 luglio 1996, Angelotti + + 67,  67, pp. 220 sgg. La sentenza è accessibile in r in rete ete nella sezione «atti giudiziari» del sito del Csm: www.csm.it/... 7 Cfr. supra supra,, cap. IV, § 8. 8 Trib. Palermo (g.i.), 8 novembre 1985, Abbate cit., vol. 25, pp. 5233 sgg., dove leggiamo, per esempio, che «tre assegni circolari da 10 milioni di lire li re ciascuno, emessi dalla Banca d’America e d’Italia di Napoli nel settembre 1976, sono stati negoziati a Palermo da Luigi Faldetta e che altri assegni, contestualmente richiesti dal medesimo cliente e sicuramente attinenti al contrabbando di tabacchi, erano stati versati in libretti di deposito al portatore di pertinenza di Tommaso S Spadaro». padaro». 9 Ivi, pp.  Ivi, pp. 5240 sgg. 10 Ivi, pp.  Ivi, pp. 5252 sgg. 11 Ivi, p.  Ivi, p. 465 4656. Virgilio Fiorini non è stato ritenuto responsabile della strage. 12 Commis  Commisssione stragi, Relazione Pellegrino, 1995, pp. 7-8, www.fisicamente.net/... www.fisicamente.net/... Si  Si veda anche Alexander Höbel, La Höbel, La strage del rapido 904, accessibile www.memoria.san.beniculturali.it, Roma 2012. 904, accessibile in www.memoria.san.beniculturali.it, 13 Una volta esaurita, nel 1985, l’istruttoria del primo maxiprocesso (il cosiddetto maxi uno), uno), i magistrati di Palermo ne  ne hanno istruiti un secondo e un terzo, chiamati rispettivamente maxi bis e bis e maxi ter. 14 Cfr. Nando dalla Chiesa, Una strage semplice, Melampo semplice, Melampo editore, Milano 2017, pp. 92 sgg. 15

 Poiché tra Giovanni Falconenon e Loris vi non erano stati rapporti intensi che di collaborazione nelle indagini sul crimine organizzato, è daD’Ambrosio escludere (ma è possibile accertarlo) sia stato Falcone, qualche mese prima di trasferirsi dall’uffic dall’ufficio io istruzione alla Procura, a suggerire all’ufficio dell’alto commissario, e segnatamente a D’Ambrosio, di fare uno studio approfondito sugli atti dell’omicidio Mattarella. 16 N. dalla Chiesa, Una strage semplice, cit., semplice, cit., p. 106. In proposito si veda anche Attilio Bolzoni, Uomini soli, Melampo soli,  Melampo editore, Milano 2012, pp. 145 sgg. Si noti che Falcone controfirmò la requisitoria quattro giorni prima di partire definitivamente per Roma. 17 È stato acutamente osservato, in una memoria dei legali di parte civile, che se si dà una scorsa alle

indagini e alla sequela degli atti istruttori «si ricava la sensazione di una certa passività, di un procedere di rimessa rispetto all’emergere sempre più netto delle responsabilità di Valerio Fioravanti, la cui figura sembra essere più subita come contraddizione all’interno di una tesi di partenza, che sviluppata come possibile anello verso ulteriori e più elevate responsabilità» (Memoria 30 maggio 1991, Avv. Avv. Armando Sorrentino e Avv. Giuseppe Zupo).

 

Note al ca capitolo pitolo XII.  XII. L’omicidio L’omicidio di Pie Piersanti rsanti Mattarella Mattarella 1 Queste tre

caratteristiche della contraf contraffazione, fazione, originariamente indicate nel rapporto di polizia giudiziaria, le ritroviamo anzitutto nella «Relazione sull’omicidio dell’On.le Mattarella del 6 gennaio 1980», pp. 3-4 3-4 e 79, redatta in data 8 settembre 1989 da Loris D’Ambrosio – allora distaccato presso l’ufficio dell’alto commissario antimafia – e allegata agli atti del procedimento penale relativo ai tre omicidi «politici» (Mic (Michele Reina, Piersanti Mattarella, Pio La Torre). Sono poi riportate nei provvedimenti cardine di quello stess stesso procedimento: requisitoria del 9 marzo 1991 della Procura della Repubblica di Palermo c/ Michele Greco Greco e altri, p. 140; sentenza-ordina sentenza-ordinanza nza del giudice istruttore di Palermo del 9 giugno 1991, p. 182; sentenza del 12 aprile 1995 della Corte d’assise di Palermo, p. 19; sentenza del 17 febbraio 1998 della Corte d’assise d’appello di Palermo, p. 176. Come si vedrà, a queste circostanze relative alla contraffazione delle targhe si ricollega un elemento probatorio fondamentale, che purtroppo non è stato adeguatamente coltivato. 2 Nel suo rapporto, la polizia giudiziaria evidenzia la singolarità della circostanza secondo la quale i luoghi dell’agguato, metri l’uno dall’altro.dei furti e del rinvenimento della Fiat 127 dopo il delitto distano poche centinaia di 3 A proposit proposito dell’omicidio di Piersanti Mattarella si veda Giovanni Grasso, Piersanti Grasso, Piersanti Mattarella. Mattarella. Da solo contro la mafia, Edizioni mafia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2014; Gigi Marcucci, Generazione senza rimorso, in rimorso,  in AA.VV., Alto AA.VV., Alto tradimento, Paolo tradimento, Paolo Bolognesi (a cura di), Castelvecchi, Roma 2016. 4 Deposizione Trizzino 10 aprile 1981 e deposizione Rognoni 11 giugno 1981, in Tribunale Paler Palermo, mo, g.i., sentenza-ordinanza sentenza-ordinan za 9 giugno 1991, pp. 210-214. 5* Il cosiddetto «appalto concorso» viene adottato quando, per l’esecuzione di lavori che presentano caratteristiche tecniche particolari, particolari, le ditte vengono invitate a presentare, a fianco delle offerte economiche, anche i relativi progetti tecnici. 6 Questa dichiarazione di D’Acquisto, resa al giudice istruttore il 16 febbraio del 1981, viene riportata solo nella Relazione D’Ambrosio dell’8 settembre 1989 (p. 9), ma assume un certo rilievo alla luce delle emergenze, di  di cui si dirà, circa il collegamento tra Cosa Nostra e ambienti della destra eversiva. 7 Così la Relazione D’Ambrosio, pp. 11-12, che riporta espressioni tipiche del linguaggio della destra eversiva spontaneista dell’epoca. 8 Ivi, p.  Ivi, p. 12. 9 Ivi, pp.  Ivi, pp. 12-13. 10 Interrogatori di Cristiano Fioravanti rispettivamente del 28 ottobre 1982 e del 25 gennaio 1983, in Trib. Palermo, g.i., 9 giugno 1991, cit., pp. 355 sgg. 11 Interrogatorio di Cristiano Fioravanti del 22 marzo 1985, dove il dichiarante aggiunge che «quando furono pubblicati degli identikit degli autori materiali dell’omicidio Mattarella sui giornali, ricordo che mio padre esclamò per la somiglianza degli identikit con mio fratello e Cavallini – somiglianza che io stesso avevo rilevato immediatamente – “Hanno fatto anche questo!”» (ivi, (ivi, p.  p. 365).

12 Relazione D’Ambrosio, pp. 18-19; Trib. Palermo, g.i., 9 giugno 1991, cit., pp. 373 sgg. 13 Ivi, p.  Ivi, p. 33; ivi, ivi, pp.  pp. 384 sgg. 14 Ivi, pp.  Ivi, pp. 35-37; ivi, ivi, pp.  pp. 623-658. 15 Trib. Palermo, g.i., 9 giugno 1991, cit., pp. 587-588. La teste Chiazzese aggiunge inoltre quanto segue:

«La nostra collaboratrice domestica, Saletta coniugata Sampino, mi riferì avere assistito all’assassinio di mio marito, essendo Giovanna lei affacciata a una finestra di casa nostra […]. di Quando le mostrai, peraltro in modo quasi incidentale e senza voler dare peso alla cosa, una fotografia del suddetto Giusva Fioravanti, fotografia pubblicata sui giornali, la ragazza ebbe quasi una crisi e affermò che per lei non c’erano dubbi che l’uomo ritratto fosse l’assassino di mio marito. La ragazza fra l’altro ignorava che

 

Fioravanti fosse ritenuto implicato nell’omicidio. Quando vide la foto essa non era più al nostro servizio». Va detto comunque che la successiva ricognizione di persona effettuata dalla teste Sampino ha avuto esito negativo. 16 Ivi, pp.  Ivi, pp. 587-594. 17 Ivi, pp. Ivi, pp. 594-595. 18  Tribunale di Roma, proc. pen. 3017/82-A rr.g.g.i., .g.g.i., rapporto giudiziario del 10 ottobre 1982. 19 Relazione D’Ambrosio, pp. 78-79. 20 Ivi, p.  Ivi, p. 79. 21 Tribunale di Roma, procedimento penale n. 15768/81 pm e n. 3017/82 g.i. a carico di Belsito Pasquale

+ 68, requisitoria del pm del 27 aprile 1984, pp. 325-356 e segnatamente 344-345. È questa la requisitoria in cui Loris D’Ambrosio ha approfondito lo studio dei reperti torinesi sequestrati in via Monte Asolone, prima ancora che ci si avvedesse dell’importanza dei «due pezzi di targa» indicati al n. 42 del verbale di sequestro, importanza emersa solo nel 1989. 22 Ivi, p.  Ivi, p. 353. La pistola è stata rinvenuta con il numero di matricola cancellato, il quale però si è potuto ricostruire attraverso una perizia tecnica. 23 Corte d’assise di Milano, sentenza n. 84/86 del 6 novembre 1986, Addis Mauro + 31, pp. 36, 42, 46, 188-193, 228-233. 24 Daniele Mastrogiacomo, C’è la firma del Supersismi dietro tutti i delitti eccellenti, «la eccellenti, «la Repubblica», 15 settembre 1989. 25 Agli atti del processo (v. supra, supra, nota  nota 23) vi è la missiva di trasmissione dei reperti, datata 3 febbraio 1983, dal Nucleo operativo CC di Torino al reparto omologo di Roma. 26 In particolare, al professor Marco Abate, ordinario di Geometria presso il dipartimento di Matematica dell’università di Pisa, è stato domandato se fosse possibile calcolare scientificamente le probabilità che il reperto torinese 563091-PA, 563091-PA, sequestrato a Torino il 26 ottobre del 1982, fosse la targa autentica smarrita a Palermo in data anteriore e prossima al 28 aprile del 1982, a fronte delle probabilità che esso fosse invece una targa falsa assemblata con i pezzi residuati dal camuffamento operato a Palermo, ai primi di gennaio del 1980, dagli autori dell’omicidio Mattarella. La risposta è stata che un simile calcolo matematico non è possibile, dato che la soluzione al quesito dipende da troppi fattori non riconducibili a dati numerici (il luogo e il tempo dello smarrimento della targa, il luogo e il tempo del suo ipotetico ipotetico ritrovamento,  ritrovamento, la distanza tra le due località, il rapporto esistente o non esistente tra chi ha operato nel luogo dello smarrimento e chi ha operato nel luogo dell’ipotetico dell’ipotetico ritrovamento  ritrovamento e altri possibili fattori rilevanti). L’unico L’unico calcolo possibile (interessante, insufficiente per risolvere insufficiente il quesito in argomento) è quello che si puòmese desumere dai dati, ricavabiliancorché dal sito www.targheitaliane.com, www.targheitaliane.com , relativi al numero dei veicoli immatricolati per mese nelle singole province d’Italia. Riportiamo qui di seguito il calcolo in argomento, che è una stima della probabilità astratta che il numero di una targa presa a caso a Palermo sia ottenibile come permutazione delle cifre presenti nei pezzi avanzati dalle targhe per l’omicidio Mattarella. Supponiamo che a ottobre 1982, nella provincia di Palermo, circolino solo auto immatricolate dal settembre 1967, corrispondente alla targa PA-200000, PA-200000, sino al 22 settembre 1982, corrispondente alla targa PA-665680: sono 465.680. Invece, i numeri di targhe che si possono comporre usando i pezzi avanzati, e che possono corrispondere

ad auto in circolazione nella provincia di Palermo secondo l’assunzione precedente, sono 336. Infatti, devono cominciare con 3, 5 o 6; non possono cominciare con 2 o 4 perché queste cifre non sono presenti nei pezzi di targa, e non possono cominciare con 0, 1 o 9 perché targhe inizianti con 9 non c’erano e targhe inizianti con 0 o 1 sono precedenti al settembre 1967. Inoltre, combinazioni che cominciano con 6 sono accettabili solo se precedenti alla targa PA-665680. Quindi la probabilità che una targa presa a caso nella provincia di Palermo a settembre 1982 sia ottenibile anche ricomponendo i pezzi di targa relativi al caso Mattarella è circa 336/465680 (pari a circa lo 0,07%). Vale a dire, all’incirca, una probabilità su millequattroc millequattrocento. ento. 27 Rapporto giudiziario congiunto del 9 febbraio 1980 della squadra mobile di Palermo e del nucleo operativo carabinieri di Palermo, affoliazione 615068-615103 degli atti giudiziari. Le fotografie della Fiat

 

127 si trovano all’affoliazione 615286-615297. 28 Attilio Bolzoni, Salvo Palazzolo, Dopo Palazzolo, Dopo 38 anni targa targa d’auto riapre la pista neofascista per l’omic l’omicidio idio di Mattarella, «la Mattarella, «la Repubblica», 5 gennaio 2018, pp. 1, 6 e 7. 29 Alcune recentissime rivelazioni sulla tormentata vicenda delle targhe di via Monte Asolone non ne hanno risolto i nodi, ma ne hanno se mai infittito il mistero. V Verso erso la metà del mese di maggio del 2018 è uscito un libro di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza ((Ombre Ombre nere. nere. Il delitto Mattarella tra mafia, neofascisti e P2, Rizzoli, P2, Rizzoli, Milano 2018), che costituisce il più recente saggio di giornalismo d’inchiesta sul tema dell’omicidio Mattarella. Nel libro si riferisce di un atto istruttorio del 2 novembre 1989 attraverso il quale il giudice istruttore di Palermo, alla presenza del pm, avrebbe formalmente e materialmente acquisito  – presso l’autorità giudiziaria giudiziaria romana – i due reperti, tra cui «la targa P PA-563091», A-563091», la quale sa sarebbe rebbe stata «integra e non ricomposta». Da quel momento, proseguono i due autori, «i due reperti vengono collocati nell’ufficio corpi di reato di Palermo, da dove misteriosamente spariscono: non si sa quando, non si sa come. Scompaiono nel nulla» (ivi, (ivi, pp.  pp. 113 sgg.). Sennonché, di questa acquisizione formale dei reperti (e tanto meno della loro scomparsa) non vi è alcuna traccia né nella requisitoria definitiva del 9 marzo 1991, né nella sentenza-ordinanza del successivo 9 giugno, né nella sentenza di primo grado del 12 aprile 1995, né nella sentenza di secondo grado del 19 ottobre 1998. Inoltre, nel libro si riporta anche uno stralcio del verbale di consegna (dai magistrati romani a quelli palermitani) dei reperti, dove questi ultimi sono descritti in maniera contraddittoria e divergente rispetto ai «due pezzi di targa» menzionati al n. 42 del verbale di via Monte Asolone: «Due targhe automobilistiche, una anteriore, l’altra posteriore relative al numero PA563091. Si dà atto che le due targhe sono integre e che quella posteriore è costituita da due pezzi ((sic sic), ), una (sic sic)) con la sigla PA e l’altra col numero anzidetto» (ivi, ( ivi, pp.  pp. 241 sgg.). Gli stessi autori del libro rilevano, in questa vicenda, alcune anomalie non da poco, che verranno probabilmente approfondite nell’ambito del nuovo processo di Bologna a carico di Gilberto Cavallini per la strage della stazione del 2 agosto 1980, iniziato il 21 marzo 2018 e ancora in corso davanti alla Corte d’assise del capoluogo emiliano al momento in cui questo libro va in stampa.

 

Note al capitolo XIII. capitolo XIII. Il senso della strategia della tensione e il ssuo uo evolversi sino all’alba del triennio 1978-1980 1 Dichiarazione resa da Vincenzo Vinciguerra Vinciguerra al giudice istruttore di

Bologna Leonardo Grassi il 9 agosto del 1984 nell’ambito dell’inchiesta-bis relativa all’attentato al treno Italicus treno  Italicus del  del 4 agosto 1974. 2 Giorgio Gazzotti, Quelli che mettevano le bombe, in bombe,  in AA.VV., Alto AA.VV., Alto tradimento, Paolo tradimento, Paolo Bolognesi (a cura di), Castelvecchi, Roma 2016, pp. 162-163. 3 Ivi, pp.  Ivi, pp. 163-164. 4 Documen  Documento to del  del 1962 elaborato dal colonnello Adriano Magi-Braschi, capo del Nucleo guerra non ortodossa del Sifar, citato in ivi, ivi, p.  p. 259. Sino al 1965 si designava con la sigla Sifar (Servizio informazioni forze armate) il servizio segreto militare, che poi assunse la denominazione di Servizio informazioni difesa (Sid). 5 Documento del 30 settembre 1963 del Sifar, Sifar, Ibidem.  Ibidem. 6 Ivi, p.  Ivi, p. 164. Gazzotti conclude che «i capi dell’estremismo nero erano stati inseriti nella cabina di comando della della guerra non ortodossa». 7 Memoriale del 10 giugno 2002 alla Corte d’appello di Milano. A proposito di Federico Umberto D’Amato e dell’ufficio affari riservati si veda Giacomo Pacini, Il Pacini, Il cuore occulto occulto del poter potere. e. Storia dell’ufficio affari riservati del Viminale (1919-1984), (1919-1984), Nutrimenti,  Nutrimenti, Roma 2010. 8 Tribunale  Tribunale  di Ve Venezia, nezia, Processo Argo 16, sentenza istruttoria del giudice Carlo Mastelloni dell’11 dicembre 1998. 9 Daniele Mastrogiacomo, Maletti, Mastrogiacomo, Maletti, la spia latitante: la Cia dietro dietro quelle bombe, bombe, «la  «la Repubblica», 4 agosto 2000. 10 Guido Cr Crainz, ainz, Il  Il paese mancato. Dal Dal miracolo economico aagli gli anni Ottanta, Ottanta, Donzelli  Donzelli Editore, Roma 2003, p. 364. 11 A proposito del piano Solo si veda Antonella Beccaria, Beccaria, Dimenticati  Dimenticati dallo Stato, in Stato, in appendice al presente volum volume. 12 Milanese, Pietro Valpreda, Valpreda, accusato di concorso nella strage del 12 dicembre 1969, è un ballerino di fila in una compagnia di avanspettacolo. Nele un 1969 si èAndrea, trasferito Roma e ha iniziato a frequentare un il circolo, il Bakunin, dove conosce Merlino, certo unainfiltrato della polizia. Con loro fonda gruppo XXII marzo. A Milano, Valpreda Valpreda arriva alle 6.30 di venerdì 12 dicembre perché deve presentarsi al giudice istruttore Antonio Amati a causa di un’accusa di diffamazione contro papa Paolo VI commessa attraverso un volantino. Alle undici di quel giorno incontra i suoi avvocati e poi, influenzato, va a casa della zia, Rachele Torri, Torri, dove si mette a letto per tutto il giorno. La donna conferma l’alibi del nipote. Nonostante ciò, c’è una persona che lo riconosce come un cliente che trasportò alla Banca nazionale dell’agricoltura appena prima dell’esplosione. È un tassista, Cornelio Rolandi, che al momento del riconoscimento a Roma, dove avviene uno strano confronto all’americana all’americana,, afferma con pesante cadenza milanese: «È lui. Se non è

lui, qui non c’è». Già arrestato per la strage, Valpreda sarà assolto molti anni dopo. 13 Marco Nozza, Il Nozza, Il pistarolo. Da piazza piazza Fontana, trent’ trent’anni anni di storia raccontati da un grande cronista, cronista, Il  Il Saggiatore, Milano 2011, p. 74. 14 La sentenza della Cassazione che lo afferma è del 2005 ed estende la responsabilità anche a Giovanni Ventura. Ma i due non possono più essere processati perché assolti in via definitiva nel 1987 per insufficienza di prove. 15 Cfr. Pietro Calogero, Carlo Fiuman, Michele Sartori, Terrore rosso. Dall’autonomia al partito armato, Laterza, Roma-Bari 2010. 16 Procedimento penale n. 1/89 A g.i., sentenza del giudice istruttore Felice Casson, 29 gennaio 1993, p. 22.

 

17 XIII legislatura, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della

mancata individuazione dei responsabili delle stragi, decisioni adottate dalla Commissione nella seduta del 22 marzo 2001 in merito alla pubblicazione degli atti e dei documenti prodotti e acquisiti, p. 25. 18 Per approfondire questa vicenda, si veda il libro di Antonella Beccaria e Simona Mammano, Mammano, Attentato  Attentato imminente. Piazza Fontana, una strage che si poteva evitare. Pasquale Juliano, il poliziotto che nel 1969 tentò di bloccare la cellula neofascista veneta, veneta, Stampa  Stampa Alternativa, Viterbo 2009. In proposito si veda anche, sempre di Antonella Beccaria, Dimenticati Beccaria, Dimenticati dallo Stato, contributo Stato, contributo in appendice a questo libro. 19 Sulla vicenda del generale Manes si rinvia al contributo di Antonella Beccaria di cui alla nota che precede. Cfr. anche Mario Guarino, Fedora Raugei, Licio Raugei,  Licio Gelli. Vita, Vita, misteri, scandali del capo ddella ella Loggia  P2, Edizioni  P2,  Edizioni Dedalo, Bari 2006, p. 173 e Mimmo Franzinelli, Franzinelli, Il  Il piano Solo. I servizi segreti, segreti, il centr centroosinistra e il «golpe» del 1964, Mondadori, 1964, Mondadori, Milano 2014. 20 Per questa strage, in cui muoiono otto persone e ne restano ferite centodue, il 20 giugno del 2017 sono stati condannati definitivamente Carlo Maria Maggi, l’ispettore per il Triveneto di Ordine nuovo, e l’ex fonte Tritone dei servizi segreti, al secolo Maurizio Tramonte. 21 Cfr. Mirco Dondi, L’ec Dondi, L’ecoo del boato. Storia della strategia de della lla tensione 1965-1974, Laterza, 1965-1974, Laterza, RomaBari 2015. 22 Anni dopo, Francesco Sgrò sarà coinvolto in un tentativo di depistaggio sui delitti della banda della Uno bianca, composta da sei uomini, di cui cinque poliziotti in servizio, che in sette anni e mezzo di «carriera» criminale, criminale, dal giugno 1987 al novembre 1994, uccise ventiquattro persone e ne ferì centodue. I capi della banda sono Roberto e Fabio Savi, condannati all’ergastolo all’ergastolo.. 23 Procedimento penale 316/80 A g.i., sentenza-ordinanza del giudice istruttore Felice Casson del 4 agosto 1986, pp. 23-24. 24 Ivi, p.  Ivi, p. 181. 25 Julius Evola, Gli uomini e le rovine, Edizioni rovine, Edizioni Mediterranee, Roma 2001, p. 275. 26 Gianfranco De Turris, Elogio Turris, Elogio e difesa di Julius Evola. Il barone e i terroristi, terroristi, Edizioni  Edizioni Mediterranee, Roma 1997, p. 126. 27 Si veda il volume di Aldo Giannuli, Elia Rosati, Storia di Ordine nuovo, Mimesis nuovo, Mimesis edizioni, Milano 2017, pp. 143-146. 28 In quel periodo, Sogno compie operazioni di una certa rilevanza: tenta invano di far evadere Ferruc Ferruccio cio Parri dalla sede milanese della Gestapo, ci riesce con Piero Mentasti, leader cattolico a capo del Comitato di liberazione nazionale veneto, e a Torino scambia undici prigionieri con la figlia del console generale di Germania. 29 Camera dei deputati, richiesta di deliberazione in materia di insindacabilità ai sensi dell’art. 68, comma primo, doc. IV-ter, n. 70-A, 30 aprile 1997, p. 2. 30 Cfr. Sergio Zavoli, La Zavoli, La notte della Repubblica, Repubblica, Mondadori,  Mondadori, Milano 2014. 31 Dichiarazioni dell’ordinovista Paolo Bianchi al giudice istruttore di Bologna Leonardo Grassi, sentenza-ordinanza sentenza-ordinan za Italicus bis del 3 agosto 1994, pp. 21, 50, 338-339, 421. Cfr. Claudio Nunziata Nunziata,, La democrazia violentata, in violentata, in AA.VV., Alto AA.VV., Alto tradimento, cit., tradimento, cit., pp. 116 sgg. 32 Così Gazzotti, in ivi, ivi, p.  p. 200.

 

Note al capitolo XIV capitolo XIV.. I prodrom prodromii della strage maggior maggioree e l’assassinio del giudice Mario Amato 1 Supra, Supra, capp.  capp. VII, § 2 e VIII. 2 Cfr. Giovanni Bianconi, A Bianconi, A mano armata. Vita Vita violenta di Giusva Fioravan Fioravanti, ti, Baldini  Baldini & Castoldi, Milano

2007, p. 177. 3 Corte d’assise d’appello di Roma, sentenza del 30 maggio 1985. Per concorso nell’omicidio Leandri sono stati condannati, a pene inferiori, anche Bruno Mariani, Sergio Calore e Antonio Proietti. Su questo argomento si veda G. Gazzotti, in AA.VV., Alto AA.VV., Alto tradimento, Paolo tradimento, Paolo Bolognesi (a cura di), Castelvecchi, Roma 2016, p. 206; C. Nunziata, ivi, ivi, p.  p. 118. 4 Achille Melchionda, Piombo Melchionda, Piombo contro contro la giustizia. Mario Amato e i ma magistrati gistrati assassinati dai terroristi, terroristi, Pendragon, Bologna 2010, p. 181. 5 Ivi, pp.  Ivi, pp. 302-306. 6 In proposito si veda il contributo di Sergio Materia, Materia, La  La giustizia a Perugia. Gli anni Ottanta, Ottanta, in  in appendice al presente volume.

 

Note al capitolo XV capitolo XV.. 2 agosto 1980: l’ec l’eccidio cidio della stazione di Bologna 1 Si tratta

di Paolo Signorelli, Massimiliano Fachini, Roberto Rinani e Sergio Picciafuoco, che verranno assolti anche dal delitto di banda armata. Diventerà invece definitiva la condanna, per il solo delitto di banda armata, irrogata in primo grado a Gilberto Cavallini e al suo sodale Egidio Giuliani. 2 Tutte le sentenze relative alla strage di Bologna del 2 agosto 1980 – da quella del 1988 a quella del 2007 – sono accessibili in rete al sito www.fontitaliarepubblicana.it www.fontitaliarepubblicana.it.. Va detto che, tardivamente, la Procura della Repubblica di Bologna ha esercitato l’azione penale per il delitto di strage anche a carico di Gilberto Cavallini. La prima udienza di quest’ultimo filone processuale si è svolta il 21 marzo del 2018 e il processo è tuttora in corso davanti alla Corte d’assise del capoluogo emiliano. Inoltre, l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna ha presentato alla Procura bolognese un’istanza, motivata diffusamente, per l’apertura di un nuovo procedimento penale finalizzato alla ricerca dei mandanti di quella strage. La Procura ha ritenuto di chiedere l’archiviazion l’archiviazione, e, l’Associazione ha fatto opposizione e la Procura generale, in data 26 ottobre 2017, ha avocato a sé il fascicolo relativo e ha accolto l’istanza dell’Associazione aprendo il nuovo procedimento, attualmente in fase di indagini preliminari. 3 Corte d’assise di Bologna, sentenza n. 4/88 dell’11 luglio 1988, Ballan + 20, pp. 28-30. Rinani e Fachini, quest’ultimo particolarmente versato nel confezionamento di esplosivi, verranno incriminati per banda armata e per concorso nella strage di Bologna (ivi, pp. 43, 49), ma verranno entrambi assolti per insufficienza di prove. 4 Ivi, pp.  Ivi, pp. 89-93. Roberto Rinani, interrogato dal giudice istruttore di Bologna il 9 dicembre del 1980 sulle dichiarazioni di Vettore Vettore Presilio, ha negato di avere mai parlato con lui, affermand affermandoo di non conoscerlo neppure (ivi, (ivi, p.  p. 119). 5 Assise Bologna, sent. 11 luglio 1988, cit., pp. 124-127. La stessa sentenza argomenta che Sparti «era persona idonea a ricevere confidenze tanto compromettenti: sodale dei fratelli Fioravanti, per i quali costituiva un sicuro punto di riferimento, era già stato messo a parte di altre imprese criminose. Nello stesso verbale dell’11/4/81 si fa cenno del furto delle bombe a mano consumato da V Valerio alerio in Pordenone, durante il servizio militare. parte delAlessandro verbale lo Sparti riferisce: dell’omicidio di lo [Mario] Amato, chiesi a Valerio ValeInrioaltra se era stato [Alibrandi]. Per“… tuttaQuando rispostaappresi mi disse ‘Questa volta abbiamo stanato, hai visto che mira?’ sen senza za specificarmi chi fosse l’autore materiale del delitto”. Orbene, in seguito fu accertata la penale responsabilità del Fioravanti sia per il furto delle bombe a mano che per il delitto Amato. Per quanto riguarda, in particolare, quest’ultimo crimine, il Fioravanti, all’epoca, non era ancora confesso; e soltanto nello stesso mese di aprile del 1981 venne indicato come uno dei responsabili dal fratello Cristiano» (ivi, (ivi, pp.  pp. 632-633). 6 Ivi, pp.  Ivi, pp. 193-195. 7 Ivi, pp.  Ivi, pp. 195-197. Si veda anche ivi, ivi, pp.  pp. 630-722, dove la Corte tratta l’infondatezza delle

argomentazioni e la non veridicità delle prospettazioni in punto di fatto con cui le difese hanno tentato di argomentazioni contrastare le accuse basate sulle dichiarazioni di Massimo Sparti. 8 Corte d’assise d’appello di Bologna, sentenza n. 13/94 del 16 maggio 1994, Belmonte + 10, pp. 40, 131-132; Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza n. 2110/96 del 23 novembre 1995 (depositata il 23 febbraio 1996), Fachini + 9, pp. 87-89. 9 Interrogatori di Francesca Mambro resi il 25 agosto 1984 e il 21 dicembre 1985 (Assise appello Bologna, sent. 16 maggio 1994, cit., pp. 122-123, 151-152; Cass., sezioni unite, 23 novembre 1995, loc. ult. cit.). cit. ). 10 Assise appello Bologna, sent. 16 maggio 1994, cit., pp. 151-152. Va Va aggiunto che la difesa degli imputati ha opposto vari argomenti allo scopo di infirmare il quadro probatorio che trae origine dalle

 

dichiarazioni di Sparti, De Vecchi, Vecchi, Ginesi e Carlostella, sostenendo, tra l’altro, che Sparti non fosse a Roma il 4 agosto del 1980, ovvero che i documenti richiesti fossero destinati ad altri. Tuttavia, le tesi difensive dirette a screditare e a smentire tale quadro probatorio sono tutte cadute, anche sulla base di alcune precise dichiarazioni rese da Cristiano Fioravanti (ivi, ( ivi, pp.  pp. 137-147). 11 Ivi, p.  Ivi, p. 41. 12 Ivi, p.  Ivi, p. 61. 13 Cass., sezioni unite, 23 novembre 1995, cit., p. 92. 14 Ivi, p.  Ivi, p. 93. 15 Assise appello Bologna, sent. 16 maggio 1994, cit., p. 166. 16 Ivi, p.  Ivi, p. 167. 17 Ivi, pp.  Ivi, pp. 168-169. 18 Cass., sezioni unite, 23 novembre 1995, cit., p. 101. 19 Assise appello Bologna, sent. 16 maggio 1994, cit., p. 219 20 Così Fioravanti, interrogato il 24 febbraio del 1981 (Assise Bologna, sent. 11 luglio 1988, cit., pp. 121-

123). In termini analoghi la Mambro, interrogata il 25 agosto del 1984 ((ivi, ivi, pp.  pp. 652-653). 21 Assise appello Bologna, sent. 16 maggio 1994, cit., p. 218 22 Ivi, p.  Ivi, p. 182. 23 Ibidem. L  Ibidem. L’intervista ’intervista apparve su «l’Espresso» del 24 agosto 1980, già in edicola il 18 agosto. 24 Cfr. supra, supra, cap.  cap. XII, § 4. 25 Assise appello Bologna, sent. 16 maggio 1994, cit., p. 187. I morti della strage alla stazione sono ottantacinque, ma il 12 settembre 1980, quando fu scritto il volantino di Tp, l’ultima vittima era ancora in vita e sarebbe deceduta solo alcune settimane dopo. 26 Di fatto il cadavere rimase occultato solo per due giorni e la scoperta del corpo fu determinata da un fatto imprevedibile per gli assassini: il bacino in cui avevano gettato Mangiameli fu svuotato per attività di manutenzione.

 

Note al capitolo XVI. capitolo XVI. I depistaggi sulla sulla strage di Bologna. IIll ruolo della loggia P2 e dei servizi segreti 1 Licio Gelli viene condannato a dieci anni di

reclusione; Musumeci a otto anni e cinque mesi; Belmonte

a sette anni e undici mesi; Pazienza a dieci anni. 2 La sentenz sentenza di condanna di quel primo filone di indagine sul depistaggio è stata emessa il 29 luglio del 1985, e depositata il 4 settembre, dalla Corte d’assise di Roma. Si trova pubblicata sul sito internet delle vittime della strage di Bologna: www.stragi.it/depistaggi1. www.stragi.it/depistaggi1. La condanna di Musumeci e Belmonte, confermata dalla sentenza del 14 marzo 1986 della Corte d’assise d’appello di Roma, è divenuta definitiva a seguito della sentenza della Corte di cassazione n. 5752 del 10 marzo 1987, depositata l’8 maggio del 1987. 3 Assise appello Bologna, sent. 16 maggio 1994, cit., pp. 89-90. 4 Ivi, pp.  Ivi, pp. 405 sgg. 5 «Panorama», 15 settembre 1980. 6 Assise appello Bologna, sent. 16 maggio 1994, cit., pp. 390-393. 7 Tra cui il generale Ninetto Lugaresi, il generale Demetrio Cogliandro e il generale Pasquale Notarnicola. 8 Cfr. Assise appello Bologna, sent. 16 maggio 1994, cit., p. 402. 9 Ivi, pp.  Ivi, pp. 421-422. 10* Ivi,  Ivi, pp.  pp. 422 sgg. Dario Pedretti, già leader del Fuan (Fronte universitario d’azione nazionale) di Roma, è passa passato poi alla lotta armata unendosi ai Nar e partecipando a una serie di azioni sino al suo arresto, avvenuto alla fine del 1979. Sergio Calore, già militante di Ordine nuovo e arrestato nel maggio 1979 per iniziativa del pm Mario Amato, fu poi di nuovo arrestato il 17 dicembre dello stesso anno, mentre cercava di fuggire a seguito dell’omicidio dell’omicidio di Antonio Leandri, da lui commesso insieme con Valerio Fioravanti (v.  (v. supra,  cap. XIV, § 1, nota 3). supra, cap. 11* Ibidem.  Ibidem. Paolo  Paolo Signorelli (1934-2010), ideologo della destra radicale e dell’antagonismo nazionale, ha militato prima nel Movimento sociale italiano, dirigendone la corrente movimentista, nella quale si era formata politicamente, durante gli anni del liceo, la giovane Francesca Mambro. Successivamente Signorelli è stato deinota massimi esponenti di eOrdine nuovo, ma èsono statogià sempre assolto da ogni accusa (cfr (cfr.. supra, cap. XVuno XV, , § 2, 1). Roberto Fiore Gabriele Adinolfi stati citati nelle pagine precedenti come fondatori di Terza posizione. 12 Si tratta di un appunto redatto dal generale Amos Spiazzi (1933-2012), ufficia ufficiale le di carriera dal 1952 al 1991 con incarichi nei servizi segreti. L’appunto L’appunto in questione riguarda l’incarico, che il Sisde aveva affidato a Spiazzi, di indagare nell’ambiente della destra eversiva, in particolare nell’ambiente dei Nar, con riferimento alla strage di Bologna (cfr. supra, supra, cap.  cap. XV, § 6). 13 Cfr. supra, supra, cap.  cap. XII, §§ 4 e 5. 14 Assise appello Bologna, sent. 16 maggio 1994, cit., pp. 423-424.

15 Ivi, pp.  Ivi, pp. 425-427. 16 Ivi, pp.  Ivi, pp. 427-430. 17 Ivi, pp.  Ivi, pp. 434-436. 18 Riccardo Bocca, Tutta un’altra strage, strage, Rizzoli,  Rizzoli, Milano 2007, p. 136. 19 Si intende «innocentisti» e «colpevolisti» con riferimento ai tre condannati in via

definitiva: Fioravanti, Mambro e Ciavardini. Vi Vi è infatti un movimento di opinione che ritiene i tre condannati estranei alla strage di Bologna e che ha costituito il comitato E se fossero innocenti?. Gli argomenti sostenuti dal comitato sono esposti nel volume del giornalista Andrea Colombo, Storia nera. Bologna, la verità di  Francesca Mambro Mambro e V Valerio alerio Fioravanti, Fioravanti, Cairo  Cairo editore, Milano 2007, dove si sostiene che l’attentato sia di matrice palestinese (la cosiddetta pista Kram, alla quale è dedicato il prossimo paragrafo).

 

20 Vladimiro Satta, I Satta, I nemici della Repubblica. Repubblica. Storia degli anni di piombo, piombo, Rizzoli,  Rizzoli, Milano 2016, p. 698. 21 Assise appello Bologna, sent. 16 maggio 1994, cit., pp. 252, 266-268. 22 Dopo il fallimento dell’operazione Terrore Terrore sui treni ci fu un altro depistaggio in odore di P2.

Protagonista ne fu Elio Ciolini, un personaggio di origine fiorentina che nel novembre del 1981 era detenuto nel carcere svizzero di Champ-Dollon per reati comuni. Da qui fece sapere di avere informazioni sulla strage di Bologna, che ricondusse a un tentativo di «distrazione di massa» per operazioni finanziarie su società di Stato. Artefice della macchinazione sarebbe stata la cosiddetta loggia di Montecarlo, una specie di super P2 al vertice della quale ci sarebbe stato sempre Licio Gelli, che aveva incaricato l’organizz l’organizzazione azione terroristica guidata da Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, di attuare la strage. La versione che dà Ciolini, ritenuto da sempre vicino ai servizi segreti italiani, francesi e belgi, non è del tutto incompatibile con le ricostruzioni a cui stanno lavorando gli inquirenti (P2, neofascisti), i quali sono quindi indotti a seguirne le piste perdendo così qualche anno in accertamenti inutili. Infatti si scoprirà poi che si tratta dell’ennesima attività di intossicazione delle indagini. Osservando nel dettaglio le dichiarazioni di Ciolini sembra che egli abbia tentato di far saltare le indagini aumentando a dismisura il ruolo delle persone che cita. Ciolini, alla fine, sarà condannato a propria volta per calunnia, ma prima sparirà riparando in America Latina. Ricomparirà a Firenze nel dicembre del 1991 e sarà arrestato. Dal carcere di Sollicciano, all’inizio del marzo 1992, «profetizza» l’omicidio di Salvo Lima, l’uomo di Giulio Andreotti in Sicilia, e le stragi di quell’anno e di quello successivo. A tutt’oggi non si sa come abbia ottenuto quelle informazioni e con quali scopi le abbia anticipate facendo finire in una bolla di sapone anche un allarme antiterrorismo lanciato dopo le sue parole. Per approfondire questa vicenda, rimasta per molti versi misteriosa, si veda il libro di Antonella Beccaria, Il Beccaria, Il faccendiere. faccendiere. Storia di Elio Ciolini, l’uomo che sapeva tutto, tutto, Il  Il Saggiatore, Milano 2013. 23* Carlos, al secolo Ilich Ramírez Sánchez, è un venezuelano al vertice di un’organizzazione terroristica ramificata in Europa e in Medio Oriente legata ai servizi segreti dei paesi dell’ex blocco sovietico. Terrorista e mercenario, marxista-leninista e filo-islamico, è a oggi detenuto nelle carceri francesi, dove sta scontando una condanna all’ergastolo. 24 Le Cellule rivoluzionarie tedesche erano un’organizz un’organizzazione azione di estrema sinistra, attiva nella Germania occidentale fra il 1973 e il 1995, che si richiamava al movimento dell’Autonomia. Stando all’ufficio del procuratore federale tedesco, durante la loro campagna, le Rz si sono dichiarate responsabili di 186 attacchi, 40 dei quali furono portati a segno a Berlino Ovest. Sulle Revolutionär Sulle Revolutionäree Zellen Zellen si  si veda Guido Ambrosino,  La guerriglia diffusa delle Cellule Cellule rivoluzionarie, rivoluzionarie, pubblicato  pubblicato in rete in «il manifesto di Bologna» (www.ilmanifestobologna.it), www.ilmanifestobologna.it 26 luglio 2013. 25 Procedimento penale n.),13225/11 r.g.n.r – 8757/12 r.g.g.i.p., Kram, richiesta di archiviazione del 30 luglio 2014 del procuratore della Repubblica di Bologna Roberto Alfonso e del sostituto Enrico Cieri, decreto di archiviazione del 9 febbraio 2015 del gip di Bologna Bruno Giangiacomo. 26 Decreto di archiviazione 9 febbraio 2015, cit., pp. 8-9. 27 Ivi, p.  Ivi, p. 16. 28 Ivi, pp.  Ivi, pp. 17-18. 29 Ibidem.  Ibidem. 30

 Milano, 14 Juli 80 Lieber Thomas, Ich bin fast umgefallen, als ich endlich was von dir hörte. Meine Ansicht über dein Zaudern schreib ich dir gar nicht. Sonst wirst noch böse. Als ich damals in Perugia abfuhr, hatte ich den ganzen Mittag damit verbracht alle möglichen Leute auszuquetschen, wo denn der Thomas stecken könnte. Dann hat mir einer gesagt du wärst nach Hause gegangen, aber wo du wohnst wusste niemand. Dann hab ich Heidi aufgetragen sich nach dir zu erkundigen… Zero, 0, Nichts. Als ich dann in München die Sprachprüfung ablegte, traf ich wieder einen aus Perugia. Den Typ hab ich auch gefragt ob er dich noch gesehen habe. Aber da war bei niemand nichts zu holen. Keiner wusste was von Thomas „dem Lehrer aus Berlin“ (ich hatte nämlich die fixe Idee, du wärst aus Berlin).

 

Dass du dich entschieden hast mir zu schreiben ist für mich schon fast ein Wunder Wunder.. Auf jeden Fall ein Grund in Freudentaumel auszubreche auszubrechen. n. Jetzt zu Ende Juli: Zu 99,999999% bin ich hier in Mailand oder in V Varese. arese. Ich unterrichte nämlich Deutsch in Varese. Varese. Dort kannst du auch am ehesten was über meine Bleibe erfahren. Mit Marzio, meinem Freund, ist’s nämlich vorbei und jetzt vagabundiere ich in Mailand und V Varese arese herum und beehre alle meine lieben Freunde bis ich was endgültiges gefunden hab. Die Adresse der Schule ist folgende: […] Dort bin ich am ehesten aufzufinden. Wenn dich noch vor Ende Juli ein Fingerkitzeln überkommt und du Lust hast einen Brief zu schreiben, tu dir ja keinen Zwang an: Ich würd mich wahnsinnig freuen, was vom „Lehrer aus Berlin“ zu hören. Weißt Du, jetzt fällt mir grad ein, dass ich mit dir schon an einem Tisch gesessen hab. In der Unibar, und wir ausser „guten Morgen“ und „Ciao“ keinen Ton zueinander gesagt haben. Und jetzt schreiben wir uns. Ich find das echt „forte“. Also… Un abbraccio Elisabeth Ps. Du siehst, ich bin schon recht italienisiert!!!] 31 Agli atti vi è anche una lettera di risposta di Thomas Kram a Elisabeth Schmölz, datata 22 luglio 1980, nella quale il giovane chiarisce timidamente le ragioni dei suoi tentennamenti: «Il fatto che noi là, nell’arco di due mesi, non siamo andati oltre un “buongiorno” e “ciao”, dipende, da parte mia, dalle stesse ragioni che spiegano anche il mio esitare» [ Dass wir dort innerhalb von von zwei monaten nicht über ein “guten  Morgen” und “ciao” hinausgek hinausgekommen ommen sind, hat von me meiner iner Seits aus dieselben G Gründe ründe aus denen heraus sich jetzt mein Zaudern erklärt ]. ]. Subito dopo Thomas dichiara alla ragazza l’attrazione che in quei due mesi aveva sentito nei confronti di lei: «Tu mi piacevi» [ich [ ich mochte dich]. dich]. Va detto che la polizia giudiziaria tedesca (Bka di Wiesbaden) aveva sequestrato a Kram anche una seconda lettera spedita a lui da Elisabeth Schmölz, datata 6 settembre 1980. Questa seconda lettera, peraltro, non si è potuta esaminare.

 

Note al capitolo XVII. capitolo XVII. Il Sistema Sistema P2 dopo la strage di Bologna 1 «L’in  «L’intervista tervista merita di restare nella

storia del giornalismo italiano come esempio massimo di abilità nel servilismo. Comitato di redazione e capiservizio del giornale riferirono poi che alla titolazione del pezzo e alla scelta delle illustrazioni (significative: i ritratti di Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro) aveva provveduto direttamente la direzione, contro ogni consuetudine. Gelli poté lanciare tutti i suoi messaggi mimetici ed esprimere, senza la minima obiezione critica da parte dell’intervistatore, le sue opinioni politiche» (Sergio Turone, Corrotti e corruttori dall’Unità d’Italia alla P2, Laterza, P2, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 265-266). L’intervista L’intervista di Maurizio Costanzo a Licio Gelli è reperibile in rete al link www.box.net/ ... www.box.net/. 2 Raffaele Fiengo, Il Fiengo, Il cuore del potere potere.. Il «Corriere ddella ella Sera» nel racconto di un suo storico giornalista, Chiarelettere, Milano 2016, p. 134. 3 Ibidem.  Ibidem. 4 Ivi, pp.  Ivi, pp. 146-147. Va detto che il «Corriere della Sera» ha dedicato ampio spazio a Silvio Berlusconi fin dal 1978, ospitando, aprile e agosto di quell’anno, ben quattro dell’imprenditore. primo, datato 10 aprile 1978,traè intitolato Un piano per l’industria che noneditoriali darà frutti frutti e  e critica la leggeIl675 del 1977 (Provvedimenti per il coordinamento della politica industriale), in quanto essa comporterebbe «tutti gli inconvenienti del dirigismo». Osserva Raffaele Fiengo che l’articolo, stranamente, «non compare come Tribuna aperta, […] aperta, […] ma come un normale testo del “Corriere” sotto la rubrica Osservatorio. Osservatorio. E  E anche la collocazione ri rivela la volontà di dare peso al nuovo collaboratore». Infatti il testo dell’articolo e la firma dell’autore sono collocati «proprio sul box della gerenza, appena sopra il nome del direttore, Franco Di Bella». Va aggiunto, aggiunto, inf infine, ine, che un’altra intervista encomiastica a Berlusconi compare su «La Domenica del Corriere» diretta da Paolo Mosca (tessera P2 numero 2100) dell’11 aprile 1980. L’intervista L’intervista è la prima di una serie sui Nuovi sui Nuovi numeri uno dell’Italia dell’Italia ’80 ’80 e  e Berlusconi – il «signor Milano 2» – viene definito come «il creatore della prima “città senza automobili”» e come «l’uomo nuovo dell’imprenditoria italiana, che a soli quarantatré anni controlla cento società» ( Ibidem  Ibidem). ). 5 È il caso di ricordare un’ultima circostanza singolare e riconducibile al dominio del Sistema P2 sul «Corriere della Sera» e sulla casa editrice Rizzoli, in termini, peraltro, non facilmente decifrabili. Una delle buste sigillate sequestrate a Castiglion Fibocchi, recante la scritta «Rizzoli - lettera Brigate rosse» e siglata da Gelli, conteneva una copia del volantino di rivendicazione dell’omicidio di W Walter alter Toba Tobagi, gi, stimato giornalista del «Corriere della Sera» e presidente del sindacato giornalisti lombardi, commesso a Milano il 28 maggio del 1980 da terroristi di estrema sinistra appartenenti alla cosiddetta Brigata XXVIII marz marzo. o. La busta stava nella valigia che conteneva anche documentazione finanziaria riguardante la ricapitalizzaz ricapitalizzazione ione del gruppo Rizzoli, come se, secondo Gelli, quel farneticante volantino avesse qualcosa a che vedere con quei piani finanziari, tra l’altro guardati con sospetto da talune componenti sindacali. «Forse» scrive Benedetta Tobagi Tobagi «quel documento tra gli incartamenti Rizzoli tradisce il progetto di

utilizzare i dubbi suscitati da quella morte provvidenziale per intimidire un po’ quel sindacato rosso così poco governabile […]. Poteva essere funzionale far cadere sui sindacati l’ombra di un’accusa infamante: aver istigato, assistito, o quantomeno ispirato, l’omicidio Tobagi», come sembrerebbe sottendere «la drammaturgia innescata innescata da Franco Di Bella attorno ai mandanti», e come se i pretesi mandanti fossero, quantomeno per il direttore piduista, «da ricercare proprio dentro il gruppo del “Corriere”, tra gli avversari sindacali di Tobagi» mi battediforte il tuo cuore, cuore, Einaudi,  Einaudi, 271273). La busta siglata(Benedetta da Gelli e Tobagi, la copia Come del volantino rivendicazione del delittoTorino Tobagi2009, sono pp. pubblicate in Commissione P2, vol. 022/I/I, pp. 433-440. 6 In proposito cfr. S. Turone, Corrotti e corruttori, cit., corruttori, cit., pp. 274-275; Mario Guarino, Fedora Raugei, Licio Raugei, Licio Gelli. Vita, Vita, misteri, scandali del capo della loggia P2, P2, Edizioni  Edizioni Dedalo, Bari 2006, pp. 238-239.

 

7 Tina Anselmi annota l’evento nel suo diario alla data del 30

ottobre 1981: «Ore 17.15 sono convocata dall’onorevole Iotti. Mi propone di assumere la presidenza della Commissione inquirente sulla P2. È d’accordo anche Fanfani. Fanfani. Mi parla della storia dei vari tentativi. Chiedo quindici minuti di riflessione. Sento per telefono Leopoldo Elia, e mi consiglia di accettare. T Torno orno dalla Iotti alle 17.30 e accetto». In Anna Vinci (a 8cura di), La di), La P2 nei diari segreti segreti di T Tina ina Anselmi, Anselmi, Chiarelettere,  Chiarelettere, Milano 2011, pp. 14 sgg.  Legge 25 gennaio 1982, n. 17. 9* Giorgio Mazzanti, chimico e accademico, fu travolto dallo scandalo Eni-Petromin quale presidente dell’Eni nel biennio 1979-1980. Lo scandalo si collega a una tangente del 7 per cento pagata dall’Eni nel 1979 all’ente petrolifero statale dell’Arabia Saudita per un vantaggioso contratto con quella società. Dopo lo scandalo il contratto andò a monte e Mazzanti fu sospeso e costretto a dimettersi, ma fu successivamente prosciolto da ogni accusa. Sulla vicenda il governo Cossiga pose il segreto di Stato. Documentazione sul contratto Eni-Petromin sarà poi rinvenuta nel 1981 in una delle buste sigillate sequestrate nell’ufficio di Gelli a Castiglion Fibocchi. Per una ricostruzione completa della vicenda Eni-Petromin si veda Donato Speroni, L’intrigo Speroni,  L’intrigo saudita. saudita. La strana storia della maxitange maxitangente nte Eni-Petr Eni-Petromin, omin, Cooper,  Cooper, Roma 2009. 10 Per approfondimenti sul tema del versante italo-argentino del Sistema P2 si veda Claudio Tognonato (a cura di), Affari di), Affari nostri. Diritti umani e rapporti Italia-Argentina Italia-Argentina 1976-1983, 1976-1983, Fandango  Fandango Libri, Roma 2012; in particolare, in quel volume, si segnala, alle pp. 54-90 il contributo di Enrico Calamai, Calamai, Rapporti  Rapporti tra Italia e  Argentina come come prese presentati ntati dal ministero ddegli egli Affari esteri. esteri. Enrico  Enrico Calamai, già console d’Italia a Buenos Aires, fu l’unico diplomatico italiano che cercò di reagire e di proteggere le vittime del regime militare e fu ben presto allontanato da quella sede. 11 La vicenda è ricostruita da Alberto Statera, Statera, In  In manette Di Donna tangentista tangentista degli anni ’80, ’80, «la  «la Repubblica», 26 ottobre 2005, p. 40. 12 A. Vinci (a cura di), La di), La P2 nei diari segreti segreti di T Tina ina Anselmi, Anselmi, cit.,  cit., pp. 283, 292, 293. 13 Così lo definisce Sergio Turone, Corrotti e corruttori, cit., corruttori, cit., p. 283. 14 Cfr. S. Turone, Corrotti e corruttori, cit., corruttori, cit., pp. 283-284, che riporta anche i giudizi implacabili di alcuni commentatori di quegli anni, come Enzo Biagi: «Come si fa a inseguire Gelli con convinzione quando alcuni suoi “fratelli” stanno in parlamento o siedono addirittura a Palazzo Chigi?» («la Repubblica», 1° settembre 1983); e Giorgio Bocca, che critica severamente Giulio Andreotti: «Questo Mazarino della Ciociaria che […] apriva ai comunisti mentre era il riferimento politico dei Sindona, Caltagirone, Calvi e quanti altri preparavano un golpe più o meno strisciante» («l’Espresso», 18 settembre 1983). 15 A. Vinci (a cura di), La di), La P2 nei diari segreti segreti di T Tina ina Anselmi, Anselmi, cit.,  cit., p. 407. 16 Supra, Supra, cap.  cap. I, § 6. 17 La sezione istruttoria era un organo giudiziario previsto dal vecchio Codice di procedura penale, che

era tra l’altro competente a decidere sugli appelli contro i provvedimenti del giudice istruttore. 18 Il merito di avere ostacolato l’affossamento completo del processo romano sul tema della P2 va riconosciuto, nell’ambito della Procura generale della Repubblica presso la Corte d’appello della Capitale, ai sostituti procuratori generali Enrico De Nicola e Salvatore Vecchione. Vecchione. 19 Corte d’appello di Roma, sezione istruttoria, sentenza 26 marzo 1985. 20 Così si legge nell’art. 299 (Doveri del giudice istruttore) del Codice di procedura penale allora in

vigore. 21 Interviste rilasciate da Elisabetta Cesqui all’autore il 13 giugno 2017 e il 20 febbraio 2018. 22 Sulla vicenda scaturita dall’esposto di Costantino Belluscio contro il pubblico ministero Elisabetta Cesqui si veda il contributo di Sergio Materia, Materia, La  La giustizia a Perugia. Gli anni anni Ottanta, Ottanta, in  in appendice al presente volume. 23 Il reato di calunnia contestato a Gelli nel processo di Roma non ha nulla a che fare con il reato di calunnia contestato allo stesso Gelli nel processo di Bologna, relativamente al grande depistaggio operato ai danni delle indagini su quella strage (supra, ( supra, cap.  cap. XVI, § 1). La calunnia contestata nel processo di Roma vedeva come parti lese i giudici istruttori di Milano che avevano ordinato la perquisizione di Castiglion Fibocchi, e che Gelli aveva accusato di comportamenti penalmente illeciti. Con la condanna penale per calunnia, Gelli venne condannato civilmente al risarcimento del danno e, venticinque anni dopo il fatto, il

 

risarcimento arrivò ai due magistrati sotto forma di tredici dei lingotti d’oro che erano nascosti nella villa di Gelli e che furono sequestrati nel corso di una perquisizione del 1998. I tredici lingotti d’oro vennero dati in beneficenza, metà all’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna, metà all’associazione delle Abuelas de Plaza de Mayo di Buenos Aires (Cfr. Alessandra Coppola, Desapare Coppola, Desaparecidos cidos e strage di Bologna. A Alle lle vittime i lingotti d’oro d’oro di Gelli. Colombo e Turone vincono la causa per calunnia, in beneficenza il risarcimento, «Corriere risarcimento, «Corriere della Sera», 17 novembre 2006, p. 24). 24 Sandra Bonsanti, Solo venti deputati in aula seguono il dibattito sulla P2, «la P2, «la Repubblica», 9 gennaio 1986, p. 10. 25 Sandra Bonsanti, Sopra Gelli resta il buio, «la buio, «la Repubblica», 10 gennaio 1986, p. 9. 26 Si tratta della Risoluzione 6-00075 presentata e sottoscritta dai deputati Virginio Rognoni, Tina Anselmi, Giorgio Napolitano, Rino Formica, Aldo Rizzo e Adolfo Battaglia (Camera dei deputati, IX legislatura, atti parlamentari, discussioni, seduta del 6 marzo 1986, pp. 39.707, 39.751-39.752). 27 Nella stessa seduta parlamentare del 6 marzo 1986 vi è stata anche una formale accettazione della Risoluzione da parte del governo allora in carica, rappresentato in aula dal ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro (ivi, (ivi, pp.  pp. 39711-39712 39711-39712). ). 28 Alla data del 6 marzo 1986 è presidente del Consiglio Craxi, che rimane a Palazzo Chigi sino all’aprile del 1987. Seguono tre governi rispettivamente presieduti da Fanfani, Goria e De Mita (aprile 1987-luglio 1989). Seguono due governi Andreotti (luglio 1989-giugno 1992) e un governo Amato (giugno 1992-aprile 1993). Quindi, dopo un anno di governo Ciampi (aprile 1993-maggio 1994), arriva un primo assaggio di era berlusconiana (primo governo Berlusconi, maggio 1994-gennaio 1994-gennaio 1995). Nel mese di maggio del 1996, quando la Risoluzione parlamentare sulla P2 è sepolta nell’oblio da ormai dieci anni, subentra il primo governo Prodi, che dura sino a ottobre 1998. Seguono due governi D’Alema (1998-2000) e un governo Amato (2000-2001). Dopo di che si torna nel pieno dell’era berlusconiana, berlusconiana, con i cinque anni dei governi Berlusconi II e III (giugno 2001-maggio 2006), nonché – dopo i due anni del governo Prodi II – con i tre anni e mezzo del governo Berlusconi IV (maggio 2008-novembre 2011). 29 Cfr. Mariateresa Conti, Gelli al contrattacco: «Io in tv? C’è di peggio…», peggio…», «il  «il Giornale», 1° novembre 2008; Franca Selvatici, Gelli in tv: Berlusconi può attuare il piano P2, «la P2,  «la Repubblica», 1° novembre 2008. 30 Giuseppe De Lutiis (a cura di), La di),  La strage. L’atto L’atto d’accusa dei ggiudici iudici di Bologna, Pr Prefazione efazione di  di Norberto Bobbio, Editori Riuniti, Roma 1986, pp. XIV-XV. 31 Licio Gelli è morto ad Arezzo il 15 dicembre del 2015. 32 Brano tratto dall’intervista del 2011 di cui alla nota seguente, andata in onda parzialmente sulla rete televisiva La7 il 18 dicembre del 2015 all’interno del programma Bersaglio mobile, condotto mobile, condotto da Enrico Mentana, accessibile al link www.youtube.com/... 33 Conversazione tratta da una lunga intervista di Gelli realizzata nel novembre 2011 per il filmdocumentario Berlusconi, la genesi: genesi: un’inchiesta sulle origini del potere politico ed economico di Silvio Berlusconi, per la regia di Giorgia Pietropaoli e Giulia Migneco. Un estratto particolarmente significativo di questa intervista è accessibile in rete al link www.youtube.com/... 34 «Il giorno in cui arrivarono […] Gelli e la P2 al “Corriere” non ce ne accorgemmo neanche noi

giornalisti. Il pieno del coming out  nella  nella strategia di Gelli, padrone occulto del Corriere in maniera crescente dalla fine del 1976, rimanda alla famosa intervista di Maurizio Costanzo al “venerabile” […]. Ma i contenuti più subdoli, incanalati da fuori segretamente, sono stati messi sulla prima pagina del “Corriere” più di un anno prima, nel gennaio e febbraio del 1979. Quattro editoriali, uno ogni quattro giorni, più altri tre, uno al mese, oltrepassarono di parecchio la soglia della normalità di linguaggio di un giornale serio […]. Che ci voleva di più per capire? Eppure, nessuno se n’è accorto. Né dentro, né fuori dal “Corriere” […]. Questi editoriali, nella loro gravità, li abbiamo capiti solo a scandalo esploso» (R. Fiengo, Fiengo, Il  Il cuore del del  potere, cit.,  potere,  cit., p. 9; si veda anche alle pp. 41, 148). 35 Cfr. supra, supra, cap.  cap. I, § 7. 36 Cfr. supra, supra, cap.  cap. III, § 4, nota 25. A proposito di Gladio si veda Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri, Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Moro, Einaudi,  Einaudi, Torino 2000; Sandra

 

Bonsanti, Il gioco grande del potere. Bonsanti, Il potere. Da Ge Gelli lli al caso Moro Moro,, da Gladio alle stragi di mafia, mafia, Chiarelettere,  Chiarelettere, Milano 2013, pp. 175-189; Giacomo Pacini, Le Pacini, Le altre Gladio. Gladio. La lotta segr segreta eta anticomunista in Italia. 1943 1943-1991, Einaudi, 1991,  Einaudi, Torino 2014; Stefania Limiti, Doppio Limiti, Doppio livello: come si organizza la destab destabilizzazione ilizzazione in  Italia, Chiarelettere,  Italia,  Chiarelettere, Milano 2013; Ernesto De Cristofaro (a cura di), Le di), Le verità nascoste. Da Da Aldo Moro a  Piersanti Mattarella Mattarella e Pio La T Torre, orre, Edizioni  Edizioni La Zisa, Palermo 2017. 37 La definizione è dello storico Aldo Giannuli, già consulente della Commissione stragi, che ha scoperto il Noto Servizio nel 1998, nel corso dell’ultima inchiesta sulla strage di Brescia. Fondato nel 1944 dal generale Mario Roatta (già capo del Sim, il servizio segreto militare di epoca fascista), questo organismo clandestino subì diverse trasformazioni e si sciolse definitivamente intorno al 1990. A proposito del Noto Servizio e dei suoi rapporti con Andreotti, si veda Aldo Giannuli, Giannuli, Il  Il Noto Servizio. Le spie di Giulio  Andreotti, Castelvecchi,  Andreotti,  Castelvecchi, Roma 2013; Stefania Limiti, L’Anello Limiti, L’Anello della Repubblica, Repubblica, Chiarelettere,  Chiarelettere, Milano 2014. 38* Domenica 18 aprile 1948 è stata la giornata in cui si sono svolte nella neonata Repubblica italiana le prime libere elezioni politiche a suffragio universale. 39 Dichiarazione riportata da Marzio Breda, Cossiga: il mio ’48 col mitra. Esternazione da Chicago: il 18 aprile i carabinieri armarono noi Dc contro il possibile golpe del Pci, «Corriere Pci,  «Corriere della Sera», 12 gennaio 1992, e da Barbara Palombelli, Palombelli, Ave  Avevo vo mitra e bombe a ma mano, no, «la  «la Repubblica», 12 gennaio 1992. 40 Alberto Stabile, Cossiga: basta con il passato, «la passato, «la Repubblica», 28 ottobre 1990. 41 S. Limiti, Doppio Limiti, Doppio livello, cit., livello, cit., p. 174. 42 Paolo Emilio Taviani, Quella struttura ha avuto tre stagioni, «Corriere stagioni, «Corriere della Sera», 7 novembre 1990. 43 V  Verbale erbale della deposizione resa da Gerardo Serravalle il 24 aprile del 1991 al giudice istruttore di Bologna Leonardo Grassi. 44 Giovanni Maria Bellu, Comunisti? Attacchiamoli subito, «la subito, «la Repubblica», 21 novembre 1990; Giuseppe De Lutiis, I Lutiis, I servizi segreti segreti in Italia. Dal fascismo all’inte all’intelligence lligence del XXI secolo, secolo, Sperling  Sperling & Kupfer,, Milano 2010, p. 359; S. Limiti, Doppio Kupfer Limiti, Doppio livello, cit., livello, cit., pp. 180-182. 45 Michele Ristuccia, verbale di interrogatorio davanti ai carabinieri del Ros, 23 marzo 1999, in atti del processo per la strage di Brescia. 46 Giovanni Pedroni, verbale di interrogatorio davanti ai carabinieri del Ros, 5 aprile 2000, in atti del processo per la strage di Brescia. 47 Cfr. S. Limiti, L’Ane Limiti, L’Anello llo della Repubblica, Repubblica, cit.,  cit., pp. 153 ss; Aldo Giannuli, Il Giannuli, Il Noto Servizio, cit., Servizio, cit., pp. 267 sgg. 48 Secondo Aldo Giannuli ( Il  Il Noto Servizio, cit., Servizio, cit., p. 140) Adalberto Titta, un ex ufficiale dell’aeronautica militare, non era propriamente il capo dell’Anello, ma semplicemente «una sorta di “direttore operativo” che attuava linee politiche stabilite da altri». 49 Cfr. S. Limiti, L’Ane Limiti, L’Anello llo della Repubblica, Repubblica, cit.,  cit., pp. 160-161; A. Giannuli, Giannuli, Il  Il Noto Servizio, cit., Servizio, cit., p. 268. La fuga di Kappler avviene la mattina del 15 agosto 1977. Sotto quella data, Giulio Andreotti annota puntigliosamente nei suoi Diari suoi Diari già  già più volte citati: «Sono da tre giorni a Merano e ho potuto dormire e riflettere un po’ più del solito. Tutto sembra andare liscio in questo ferragosto altoatesino. Ma non è così. A mezzogiorno […] mi telefona Cossiga che dal Celio è evaso il colonnello Kappler. Sembra che sia fuggito

nascosto in un valigione, con la macchina della moglie, autorizzata a entrare e uscire dall ospedale militare romano. Non è escluso che la giornata festiva abbia allentato la sorveglianza […]. Né è facile, in un giorno di traffico come questo, bloccare l’uscita dall’Italia dello scomodo prigioniero» (p. 127). Il fatto che il 15 agosto Andreotti fosse a soli settanta chilometri dal Brennero può essere una suggestiva coincidenza, ma colpisce che in quei giorni di riposo e di riflessione egli non abbia mai registrato null’altro nel suo diario al di fuori di quella dettagliatissima annotazione – quasi un’excusatio un’ excusatio non petita – petita – sulla fuga di Kappler. 50 Inchiesta della Procura di Brescia sulla strage di piazza della Loggia, deposizioni di Michele Ristuccia alla polizia giudiziaria dell’8 ottobre e del 9 dicembre 1998. 51 Mario La Ferla, Se Curcio gradisse un po’ di miliardi, «l’Espresso», miliardi,  «l’Espresso», 28 maggio 1978; Id., Padre Id., Padre Zucca Zucca non fa colpi di testa, «l’Espresso», testa, «l’Espresso», 4 giugno 1978. Si veda, su questo tema, il contributo di Stefania Limiti,  Le interferenze interferenze occulte nel ccaso aso Moro, Moro, in  in appendice al presente volume. Relativamente ai due articoli

 

dell’«Espresso» colpisce la modalità peculiare – e a tratti beffarda – con cui Andreotti utilizza i suoi diari per lanciare messaggi al pubblico. I due articoli, che hanno suscitato grande scalpore e che sono estremamente virulenti nei suoi confronti, vengono da lui totalmente ignorati, ma in quegli stessi giorni «l’Espresso» viene nominato per ben tre volte nei suoi già citati citati Diari  Diari (pp.  (pp. 229-231) su fatti francamente irrilevanti: «Leone è molto adirato per gli attacchi dell’“Espresso” circa pretese sue pressioni economiche» (4 giugno); «Continua la campagna dell’“Espresso” contro Leone» (7 giugno); «Ho visto Medici chiedendogli notizie su alcuni passi dell’“Espresso” [su] affari con l’Indonesia» (8 giugno). 52 A. Giannuli, Il Giannuli, Il Noto Servizio, cit., Servizio, cit., pp. 272-273. 53 Emmanuel Amara, Abbiamo Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Moro. Dopo tr trent’anni ent’anni un pr protagonista otagonista esce dall’ombra, Cooper, Roma 2008. Si tratta dell’edizione italiana di Nous di  Nous avons tué Aldo Moro, Moro, Patrick  Patrick Robin éditions, Paris 2006. 54 A. Giannuli, Il Giannuli, Il Noto Servizio, cit., Servizio, cit., p. 295. 55 E. Amara, Abbiamo Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro, Moro, cit.,  cit., pp. 170-171. Qualche autore ha messo in dubbio l’attendibilità del racconto di Pieczenik (cfr (cfr.. Vladimiro Satta, Satta, I  I nemici della Repubblica. Repubblica. Storia degli anni di  piombo, Rizzoli,  piombo,  Rizzoli, Milano 2016, pp. 538-540), ma giustamente Giovanni Pellegrino, nella sua Introduzione sua  Introduzione al  al libro di Amara, ha ricordato che Pieczenik, già in un’intervista rilasciata a «Italy Daily» il 16 marzo del 2000, aveva detto che il suo compito era stato quello «di stabilizzare l’Italia in modo che la Dc non cedesse. La paura americani la erasituazione che un cedimento dellaV Dc avrebbe portato al Pci Con Moro dava segnidegli di cedimento, era a rischio. Venne enne pertanto presaconsensi la decisione di […]. non trattare […].che Questo però significava che Moro sarebbe stato giustiziato». Di conseguenza Pellegrino, ponendosi egli stesso il problema della veridicità del racconto di Pieczenik, conclude nel senso della sua affidabilità, sia perché Cossiga «non ha mai smentito quanto già nel 2000 l’esperto americano dichiarò nell’intervista a “Italy Daily”», sia in considerazione della «assenza di contrasto tra quanto dichiarato da Pieczenik e quanto più volte nel tempo sottolineato sul proprio ruolo» dallo stesso Cossiga (pp. 8-12). 56 È il caso di riportare per intero le dichiarazioni rese da Steve Pieczenik nel settembre 2013 a Radio24 ): «Quando sono arrivato in Italia, per le strade c’erano continui disordini, (www.radio24.ilsole24ore.com/...): si sparava contro i procuratori, contro i giudici, c’erano morti in continuazione. Erano tutti concordi sul fatto che se i comunisti fossero arrivati al potere, e se la Dc avesse perso, si sarebbe verificato un effetto valanga e gli italiani non avrebbero più controllato la situazione. Gli Usa avevano un preciso interesse per quanto riguardava la sicurezza nazionale, soprattutto relativamente all’Europa del Sud. La mia preoccupazione era estremamente estremamente concreta. Mi dicevo: di cosa ho bisogno? Di ciò che in un esercito definiamo Schwerpunkt  (il  (il centro di gravità, il punto essenziale). Qual è il punto essenziale che, al di là di tutto, sarebbe stato necessario per stabilizzare l’Italia? A mio giudizio quello Schwerpunkt  si  si sarebbe creato sacrificando Aldo Moro. L’obiettivo L’obiettivo di Moro era restare vivo e per questo era pronto a minacciare lo Stato, il suo stesso partito e i suoi stessi amici. Quando mi resi conto che questa era la sua strategia dissi: “Nel quadro di questa crisi quest’uomo si sta trasformando in un peso e non in un bene da salvaguardare”. Sapevo dell’iniziativa del Vaticano Vaticano volta a ottenere la liberazione di Moro attraverso un riscatto. Fui proprio io a bocciarla: in quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Le ripeto, non era per Aldo Moro in quanto uomo. La posta in gioco erano le

Brigate rosse e il processo di destabilizzazione dell’Italia». A proposito di questa intervista, si veda Simona Zecchi, La Zecchi,  La criminalità servente nel caso Mor Moro, o, La  La nave di Teseo, Milano 2018, pp. 281-287. 57 Questo modo estremamente cinico di giocare con la vita di Aldo Moro è stato colto e descritto con lucidità da suo figlio Giovanni, in un’intervista rilasciata di recente: «È una scelta precisa. Quando un sistema politico non vuole gestire un problema, mette in campo un sistema di valori, riti, procedimenti, attori che hanno come obiettivo quello di non prendere la decisione. È la decisione di non decidere […]. La “non decisione”, in questo caso, portava da un lato a non intavolare una trattativa con i sequestratori e dall’altro a non cercare di prenderli» (Ezio Mauro, Giovanni Moro: «È mio padre il fantasma di questa  Italia senza pace», «la pace», «la Repubblica», 12 marzo 2018). La riflessione di Giovanni Moro trova riscontro nel fatto che, durante i cinquantacinque giorni del sequestro, Valerio Valerio Morucci e Adriana Faranda, i due «postini» delle Br, pranzavano sempre tranquillamente insieme nel loro ristorante preferito di Trastevere,

 

dove Lanfranco Pace (l’autonomo che faceva faceva la spola tra loro e i dirigenti del Partito socialista interessati a una trattativa) sapeva di poterli trovare (Stefania Limiti, Sandro Provvisionato, Complici. Caso Moro. Il  patto segreto tra tra Dc e Br Br,, Chiarelettere, Milano 2015, pp. 74-76). 58 Francesco Pazienza, il faccendiere legato ai servizi segreti che aveva trattato per salvare la vita di Ciro Cirillo, richiesto di spiegare come mai ad Aldo Moro fosse toccata una sorte così diversa, ha dato questa risposta: «Per Moro fu assai diverso, lì decisero il dipartimento di Stato e la Cia […]. Da quel che so, la Dc voleva salvare Moro, ma poté muoversi entro precisi e rigidi binari che naturalmente erano stati stabiliti oltreoceano» (loc. (loc. ult. cit., pp. cit., pp. 149-150). 59 Cfr. supra, supra, cap.  cap. I, § 9, nonché Relazione Anselmi, cit., p. 154. 60 Si pensi che in questo libro il nome di Andreotti ricorre 305 volte a fronte delle 207 di Gelli. Cossiga arranca nelle retrovie, arrivando appena a una trentina di citazioni. 61 Francesco M. Biscione (a cura di), Il di), Il memoriale di Aldo Moro Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a  Milano, Coletti  Milano,  Coletti editore, Roma 1993, p. 138.

 

Note al ca capitolo pitolo Dimenticati  Dimenticati dallo Stato 1 Commiss  Commissio ione ne Lombardi, audizione del generale Giorgio Manes del 30 gennaio 1968. 2 Mimmo Franzinelli, Il Franzinelli, Il piano Solo. I servizi segreti, segreti, il centro centro-sinistra -sinistra e il «golpe» del 1964, 1964, Mondadori,  Mondadori,

Milano 2014, p 2014, p.. 46. 3 Già coman comandante del quarto corpo d’armata in Alto Adige e presente nei soccorsi dopo il disastro del Vajont del 9 ottobre 1963, anche Ciglieri fece una fine da alcuni ritenuta strana perché morì in un incidente stradale il 27 aprile del 1969, una settimana prima di essere ascoltato dalla Commissione parlamentare sul piano Solo. Meno di due anni addietro, il generale aveva consegnato consegnato al ministero della Difesa un primo rapporto sulla vicenda, seguito da uno successivo più completo, ma venne duramente attaccato alla Camera perché – si sos sostenne – aveva informato poco e male il governo. A quel punto fu promosso generale di corpo d’armata, ma dovette lasciare il comando dei carabinieri. Intanto aveva sollecitato un’approfondita discussione in parlamento dei fatti del 1964. Se non fosse accaduto, minacciò appena dopo la metà dell’aprile 1969, si sarebbe dimesso e avrebbe raccontato da comune cittadino tutta la verità. Qualche giorno dopo morì a Curtarolo, in provincia di Padova, cittàdiinPadova, cui erama stato trasferitogiunse per comandare la Terza Terza armata. Nell’immediato, sull’incidente indagò la Procura l’inchiesta ad archiviazione qualche mese più tardi. A inizio anni Novanta la figlia del generale, Annarosa Ciglieri, chiese la riapertura delle indagini sulla morte del padre, ma anche in questo caso il fascicolo finì con un nulla di fatto. 4 Ufficialmente Manes fu sostituito in seguito a una sentenza del Consiglio di Stato che aveva indicato un altro ufficiale come più titolato per questioni anagrafiche a ricoprire la carica di vicecomandante. Di fatto, l’avvicendamento fu letto da molti come un atto punitivo. 5 Senato della Repubblica, V legislatura, doc. XXIII, n. 1, Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964, relazione comunicata alle Camere il 15 dicembre del 1970, p. 86. 6 Ivi, pp.  Ivi, pp. 543-544. 7 Giuseppe  Giuseppe  D’Avanzo, Così uccisero il generale Manes, «la Manes, «la Repubblica», 17 novembre 1990. 8 La ricostruzione della vicenda di Pasquale Juliano è contenuta nel libro di Antonella Beccaria e Simona Mammano, A Mammano,  At t ttentato entato imminente. Piazza Fontana, una strage che si poteva evitare evitare.. Pasquale Juliano, il  poliziotto che nel 1969 tentò di bloccare la cellula neofascista vene veneta, ta, Stampa  Stampa Alternativa, Viterbo 2009. 9 Simona Mammano, Antonella Beccaria, Attentato Beccaria, Attentato imminente. Piazza Fontana, una strage che si poteva poteva evitare. Pasquale Juliano, il poliziotto che nel 1969 tentò di bloccare la cellula neofascista veneta, Stampa veneta, Stampa Alternativa, Viterbo Viterbo 2009, p. 145. 10 Antonio Maria Mida, «Salvini? Cercheranno di fermarlo», «L’Avvenire», fermarlo», «L’Avvenire», 23 giugno 1996. 11 Simona Mammano, Antonella Beccaria, Attentato Beccaria, Attentato imminente, cit. imminente, cit. p. 185. 12 Marco Nozza, Il Nozza, Il pistarolo. Da piazza piazza Fontana, trent’ trent’anni anni di storia raccontati da un grande cronista, cronista, Il  Il Saggiatore, Milano 2011, p. 109. 13 Atti parlamentari, XIII legislatura, p. 139.

14 Dialogo con Ada e Michele Stiz del 16 settembre 2017. 15 M. Nozza, Il Nozza, Il pistarolo, cit., pistarolo, cit., p. 184. 16 Dialogo con Ada e Michele Stiz, cit. 17 Andrea Pasqualetto, Il Pasqualetto, Il giudice di piazza Fontana Giancarlo Giancarlo Stiz: «A «Avevamo vevamo tutte le pr prove ove per arrivar arrivaree

alla verità», «Corriere verità», «Corriere della Sera», 15 aprile 2012. 18 Ibidem.  Ibidem.

 

Note al capitolo Le capitolo Le interferenze interferenze occulte nel caso Moro Moro 1 Commissione P2, Relazione Anselmi, p. 16. 2 «Gli accer accertamenti compiuti dai giudici bolognesi […], quando vengano integrati con ulteriori elementi

in possesso della Commissione, [consentono di] affermare: 1) che la strage dell’ Italicus è  Italicus è ascrivibile a una organizzazione organizzaz ione terroristica di ispirazione neofascista o neonazista operante in Toscana; 2) che la loggia P2 svolse opera di istigazione agli attentati e di finanziamento nei confronti dei gruppi della destra extraparlamentare extraparlamenta re toscana; 3) che la loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell’ Italicus e  Italicus e può ritenersene anzi addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici, quale essenziale retroterra economico, organizzativo organizzativo e morale. […] Già nella sentenza-ordinanza bolognese di rinvio a giudizio si leggeva: “Dati, fatti e circostanze autorizzano l’interprete a fondatamente ritenere essere quella istituzione [la loggia P2 n.d.a. n.d.a.], ], all’epoca degli eventi considerati, il più dotato di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale” […] Più puntualmente nella sentenza pur assolutoria d’Assise si legge: “[…] La tesi ha trovato nel processo, soprattutto con riferimento alla ben nota loggia massonica P2, gravi e sconcertanti riscontri […].evidenti Risultapropensioni adeguatamente dimostrato: a) come loggia P2, eaiutasse per essae il suo capo Gelli Licio […], nutrissero al golpismo; b) come talelaformazione finanziasse non solo esponenti della destra parlamentare […], ma anche giovani della destra extraparlamentare, extraparlamenta re, quanto meno di Arezzo (ove risiedeva appunto il Gelli); c) come esponenti non identificati della massoneria avessero offerto offerto alla dirigenza di Ordine nuovo la cospicua cifra di L. 50 milioni al dichiarato scopo di finanziare il giornale del movimento (si vedano sul punto le deposizioni di Marco Affatigato, il quale ha specificato essere stata tale offerta declinata da Clemente Graziani); d) come nel periodo ottobre-novembre 1972 un sedicente massone della ‘loggia del Gesù’ ([…] poi fusasi con quella di Palazzo Giustiniani), […] avesse cercato di spingere gli ordinovisti di Lucca a compiere atti di terrorismo, promettendo a Tomei e ad Affatigato armi, esplosivi e una sovvenzione di L. 500.000, [… essendo probabile] che anche tale fantomatico massone appartenesse alla loggia P2” […]. Concludono peraltro malinconicamente i giudici bolognesi con la constatazione di un limite invalicabile alla loro indagine, costi costituito dal fatto che “l’imputazione riguarda solo esecutori materiali e non, ahimè, lontani mandanti”» (Commissione P2, Relazione Anselmi, pp. 93-95). 3 Atti dell’inchiesta sul traffico d’armi del giudice Carlo Palermo, in Antonio Cipriani e Gianni Cipriani, Ci priani, Sovranità limitata. Storia dell’eversione atlantica in Italia, Edizioni Italia, Edizioni associate, Roma 1991, p. 188. 4 Giuseppe De Lutiis, Il Lutiis, Il golpe di via Fani. Protezioni Protezioni occulte e co connivenze nnivenze internazionali dietr dietroo il caso  Moro, Sperling  Moro,  Sperling & Kupfer Kupfer,, Milano 2007. 5 Intervista di Ezio Mauro a Adriana Faranda per lo speciale andato in onda il 16 marzo del 2018 su Rai Tre. 6 Intervista del 2011 di Giancarlo Feliziani a Licio Gelli, trasmessa dal canale La7 il 18 dicembre 2015. 7 Emmanuel Amara, Abbiamo Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Moro. Dopo tr trent’anni ent’anni un pro protagonista tagonista esce dall’ombra,

Cooper, Roma 2008. 8 Mario La Ferla, Se Curcio gradisse un po’ di miliardi, «l’Espresso « l’Espresso», », 28  28 maggio 1978; Id., Padre Id., Padre Zucca Zucca non fa colpi di testa, «l’Espresso «l’Espresso», », 4  4 giugno 1978. 9 Come prova un appunto del 4 aprile 1978, indirizzato al dottor Silvano Russomanno – il pupillo del potente Umberto Federico D’Amato, all’epoca vicecapo del servizio informazioni interno – secondo cui il 31 marzo del 1978 padre Zucca avevaa fare confidato a un amico di essere statocon avvicinato darosse, una persona gli aveva chiesto se fosse stato disposto da tramite per trattative future le Brigate e che ilche frate era disponibile a svolgere l’arduo e doveroso compito e a seguire l’evolversi della vicenda. 10 «Ricordo che lo stesso giorno in cui si seppe che nel lago della Duchessa sarebbe stato trovato il cadavere di Moro, il Titta mi disse in tempo reale che si trattava di una “bufala”. Ciò, ovviamente, me lo

 

disse prima che ci fosse la smentita. Lui abitava in via Mussi che era a due passi dalla Fiera ove io quel giorno mi trovavo. Ricordo che era aprile e c’era la Fiera aperta. Ricordo molto bene questo particolare perché, quando i media dettero la notizia, il segretario generale della Fiera, Franci, aveva manifestato l’intenzione di sospendere l’evento e di proclamare il lutto. Io allora telefonai a Titta che venne a trovarmi subito e mi disse: “Di’ a Franci di non farsi problemi, è tutta una bufala”» (Inchiesta della Procura di Brescia sulla strage di piazza della Loggia, dichiarazione di Michele Ristuccia al Ros, 9 dicembre 1998). 11 Stefania Limiti, L’Anello Limiti, L’Anello della della Repubblica, Repubblica, Chiarelettere,  Chiarelettere, Milano, Premessa all’edizione del 2014. 12 Ivi, p.  Ivi, p. 183.

 

Note al capitolo La capitolo La giustizia a Perugia. Gli anni Ottanta 1 Sentenza del giudice istruttore Sergio Materia del 12 marzo 1988, in mio possesso. 2 V  Verbale erbale 22 febbraio del 1994, audizione del giudice Sergio Materia prima Commissione del Csm. 3 Esposto di Costantino Belluscio del 26 luglio 1985, riportato testualmente nel mio decreto di

archiviazione.

 

Note al ca capitolo pitolo Il  Il caso Italcasse 1 Intervento del presidente del

Consiglio Giovanni Spadolini in occasione della presentazione del programma all alle Camere, Roma, 7 luglio 1982. 2 Franca Mangiavacca (a cura di), Memoriale di), Memoriale Pecorelli Pecorelli dalla Andre Andreotti otti alla Zeta, Zeta, International  International E.I.L.E.S., Roma 1996. 3 Il giornalista Mino Pecorelli, un vero segugio, scoprì tra l’altro che Giuseppe Arcaini era stato nominato direttore generale a seguito di uno scandalo analogo relativo all’Italcasse, scoppiato nel 1958, quando ministro del Tesoro era Giulio Andreotti e sottosegretario Arcaini stesso che, accusato di omissione nei controlli, prese il posto come successore di Costantino Tessarolo, coinvolto nello scandalo (sentenza della Corte d’assise di primo grado di Perugia sull’omicidio Pecorelli, p. 88). 4 Miguel Go Gotor, tor, Il  Il memoriale della Repubblica. Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro Moro dalla prigionia e l’anatomia del del  potere italiano, italiano, Einaudi,  Einaudi, Torino 2011, p. 225. 5 Paolo Guzzanti, in «la Repubblica», 28 febbraio 1980. A seguito di questa intervista Evangelista sarà costretto a dim dim ettersidella da ministro della Marina il 4Monte marzoOppio, 1980. cart. 119, fasc. 2. 6 Archivio storico Banca d’Italia (Asbi),Mercantile Carte Baffi, B affi, 7 Ibidem.  Ibidem. 8 Ibidem.  Ibidem. 9 Ibidem.  Ibidem. 10 Ibidem.  Ibidem. 11 Il reato di di riciclaggio viene introdotto nel nostro ordinamento nel 1978 attraverso l’art. 648 bis del Codice penale. 12 Asbi, Carte Baffi, Monte Oppio, cart. 119, fasc. 2. 13 Luigi Ierace, giudice istruttore titolare dell’inchiesta penale su Italcasse, aveva scritto alla Banca d’Italia il 19 ottobre del 1977, a un mese dall’inizio dell’ispezione, per avere una relazione sull’attività svolta dagli ispettori presso Italcasse. A sua volta Di Nicola aveva chiesto di conoscere quanto emerso in fase ispettiva in relazione a «reati finanziari e societari di aziende petrolifere nazionali in connessione con finanziamenti a partiti politici». 14 Nella sua lettera al ministro del Tesoro Gaetano Stammati del 19 gennaio 1978, Baffi evidenzia «lo scalpore derivante dalla “sistemazione” della creditoria “Caltagirone” per il prevedibile danno riveniente al conto economico dell’istituto nell’esercizio 1977 e in quelli successivi» (Asbi, Carte Baffi, Monte Oppio, cart. 119, fasc. 2). 15 Nota di Tino Oldani alla Cronaca breve breve di una vicenda giudiziaria giudiziaria di  di Paolo Baffi, pubblicata su «Panorama» l’11 febbraio 1990. 16 Claudio Vitalone nel 1979 venne candidato ed eletto senatore nelle liste della Democrazia cristiana. Sarà senatore per quattro legislature nonché ministro del Commercio estero nel governo Amato (1992-

1993). 17 Sentenza della Corte d’assise di primo grado di Perugia del 24 settembre 1999 sull’omicidio Pecorelli, p. 106. 18 Se nel 1974, sotto la direzione di Guido Carli, le ispezioni furono 86, per una quota controllata del sistema bancario pari al 4,5 per cento, nel 1976, con Paolo Baffi sulla plancia di Bankitalia, le ispezioni totali furono che raddoppiate, conlascia una copertura del 13,7eper L L’economista ’economista d’impresa Marco Vitalepiù scrive: «Quando nelben 1975192, Carli la Banca d’Italia, allacento. sua guida subentra Baffi, la linea della Banca d’Italia cambia. Recupera la sua volontà di guida del potere bancario, sia sul fronte della gestione della moneta, che sul fronte della vigilanza sulle aziende di credito e sulla corretta amministrazione delle stesse. In un certo senso, ritornando a fare severamente il proprio mestiere, la Banca d’Italia di Baffi e

 

Sarcinelli accetta il rischio di essere considerata, per usare la terminologia di Carli, “sovversiva” ed è per questo che va punita. […] Il nuovo corso della Banca d’Italia dava fastidio». Cfr. M. Vitale, Riflessione pubblica in occasione del decennale dell’attacco politico-giudiziario alla Banca d’Italia, Circolo società civile, Milano, 15 maggio 1989. 19 Asbi, Carte Baffi, Monte Oppio, cart. 119, fasc. 2. 20 La Procura di Roma, nella persona del pm Luigi Ierace, non soddisfatta, convocò Mario Sarcinelli anche l’antivigilia di Natale del 1978 per avere chiarimenti sul finanziamento da parte dell’Italcasse alla Società generale immobiliare (Sgi). Sarcinelli Sarcinelli illustrò il suo ruolo nella vicenda Sgi, spiegando le conseguenze di un eventuale fallimento della Sgi stessa, multinazionale a base italiana, fallimento che, in un anno in cui vi erano state tre crisi valutarie, avrebbe contribuito a compromettere ulteriorm ulteriormente ente il credito nazionale all’estero ( Ibidem).  Ibidem). 21 Ibidem.  Ibidem. 22 Corrado Stajano, Un eroe borghese, Einaudi, borghese, Einaudi, Torino 1991 (ripubblicato da Il Saggiatore, Milano 2016). 23 In Asbi, Carte Baffi, Monte Oppio, cart. 119, fasc. 2. 24 Nel processo Imi-Sir, dopo le condanne in primo e secondo grado, la Cassazione ha condannato a sei anni Cesare Previti, a tre anni e otto mesi Giovanni Acampora. Confermata la condanna a sei anni per l’altro giudice coinvolto, Vittorio Metta, e per l’avvocato Pacifico. 25  Giuseppe D’Avanzo, D’Avanzo, Le  Le sentenze aggius tategrado dellasull’omicidio lobby Pr Previti, eviti, «la  «la Repubblica», 8 agosto 2003. 26 Cfr. Sentenza della Corte d’assise aggiustate di primo Pecorelli. 27 Cfr. M. Gotor, Il Gotor, Il memoriale della Repubblica, Repubblica, cit.,  cit., p. 225. 28 Nella sentenza della Corte d’assise di primo grado di Perugia si legge: «Sia consentito […] alla Corte

[…] dare sfogo, anche se le affermazioni non sono funzionali alla decisione, alla indignazione e allo stupore per il comportamento di due alti magistrati [Claudio Vitalo Vitalone ne e Carlo Adriano Te Testi, sti, n.d.a. n.d.a.]] della Repubblica italiana, di cui uno membro del Consiglio superiore della magistratura [Testi, [Testi, n.d.a. n.d.a.]] e l’altro uno dei più brillanti sostituti procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Roma, [che] non abbiano sentito il bisogno, per dare il loro contributo all’accertamenti dei fatti, seppure piccolo, di andare a riferire l’accadimento e il contenuto della cena» (p. 232).

 

Bibliografia

AA.VV., Alto tradimento, Bolognesi, AA.VV., Alto tradimento, Bolognesi, Paolo (a cura di), Castelvecchi, Roma 2016. AA.VV., Dossier AA.VV.,  Dossier delitto Calvi, Kaos Calvi, Kaos edizioni, Milano 2008. AA.VV., Il AA.VV.,  Il sequestro di verità, Kaos verità, Kaos edizioni, Milano 2008. AA.VV., Loggia AA.VV.,  Loggia P2. Il Piano e le sue regole, Amari, regole, Amari, Giuseppe, Vinci, Anna (a cura di), Castelvecchi, Roma 2014. AA.VV., Paolo AA.VV.,  Paolo Baffi. Il ricordo della sua università, univer sità, Università  Università Commerciale Luigi Bocconi, Milano 1990. Amara, Emmanuel, Abbiamo Emmanuel, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo trent’anni un  protagonista esce dall’ombra, Cooper, dall’ombra, Cooper, Roma 2008. Ambrosoli, Umberto, Qualunque cosa succeda, Sironi, succeda, Sironi, Milano 2009. Andreotti, Giulio, Cosa Loro. Mai visti da vicino, Rizzoli, vicino, Rizzoli, Milano 1995. Andreotti, Giulio, Diari Giulio, Diari 1976-1979. Gli anni della del la solidarietà, Rizzoli, solidarietà, Rizzoli, Milano 1981. Tina, Vinci, Anna, Storia di una passione politica, Sperling Anselmi, politica, Sperling & Kupfer, Milano 2006. Beccaria, Antonella, Il Antonella, Il faccendiere. Storia di Elio Ciolini, Cioli ni, l’uomo che sapeva tutto, Il tutto,  Il Saggiatore, Milano 2013. Beccaria, Antonella, Mammano, Simona, Attentato Simona, Attentato imminente. Piazza Fontana,

una strage che si poteva evitare. Pasquale Juliano, il poliziotto che nel 1969 tentò di bloccare la cellula neofascista veneta, Stampa veneta, Stampa Alternativa, Viterbo 2009. Beccaria, Antonella, Turone, Giuliano, Il Giuliano, Il boss. Luciano Liggio: da Corleone a  Milano, una storia di d i mafia e complicità, Castelvecchi, complicità, Castelvecchi, Roma 2018. Bianconi, Giovanni, A Giovanni, A mano armata. Vita Vita violenta di Giusva Fioravanti, Baldini Fioravanti, Baldini & Castoldi, Milano 2007. Biscione, Francesco M., Il M., Il delitto Moro, Editori Moro, Editori Riuniti, Roma 1998. Biscione, Francesco M. (a cura di), Il di), Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via vi a

 

 Monte Nevoso a Milano, Coletti Milano, Coletti editore, Roma 1993. Bobbio, Norberto, Prefazione, Norberto, Prefazione, in  in De Lutiis, Giuseppe (a cura di), La di), La strage.  L’atto d’accusa dei giudici di Bologna, Editori Bologna, Editori Riuniti, Roma 1986. Bocca, Riccardo, Tutta un’altra strage, Rizzoli, strage, Rizzoli, Milano 2007. Bolzoni, Attilio, Uomini soli, Melampo soli, Melampo editore, Milano 2012. Bolzoni, Attilio, D’Avanzo, D’Avanzo, Giuseppe, La Giuseppe, La giustizia è Cosa Nostra. Il caso Carnevale tra delitti e impunità, Mondadori, impunità, Mondadori, Milano 1995, ripubblicato da Glifo Edizioni, Palermo 2018. Bonsanti, Sandra, Il Sandra, Il gioco grande del potere. Da Gelli al caso Moro, da Gladio alle stragi di mafia, Chiarelettere, mafia, Chiarelettere, Milano 2013. Borgese, Giovanna, Un Paese in tribunale. Italia 1980-1983, testi 1980-1983, testi di Corrado Stajano, Mondadori, Milano 1983. Calamai, Enrico, Rapporti Enrico, Rapporti tra Italia e Argentina come presentati dal ministero degli Affari Esteri, in Esteri, in Tognonato, Claudio (a cura di), Affari di), Affari nostri. Diritti Diritt i umani e rapporti Italia-Argentina 1976-1983, Fandango 1976-1983, Fandango Libri, Roma 2012. Calogero, Pietro, Fiuman, Carlo, Sartori, Michele, Terrore rosso. ross o.  Dall’autonomia al partito armato, Laterza, armato, Laterza, Roma-Bari 2010. Clementi, Marco, La Marco, La pazzia di Aldo Moro, Rizzoli, Moro, Rizzoli, Milano 2006. Colombo, Andrea, Storia nera. Bologna, la verità di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, Cairo Fioravanti, Cairo editore, Milano 2007. Colombo, Gherardo, Il Gherardo, Il vizio della memoria, Feltrinelli, memoria, Feltrinelli, Milano 1996. Commissione Stragi, Relazione Pellegrino, 1995, in www.fisicamente.net/... Cordero, Franco, Procedura Franco, Procedura Penale, IX Penale, IX edizione, Giuffrè, Milano 1987. Crainz, Guido, Il Guido, Il paese mancato. Dal miracolo miracol o economico agli anni Ottanta, Donzelli Editore, 2003. Dalla Chiesa, Nando,Roma Nando, In  In nome del popolo italiano, Rizzoli, italiano, Rizzoli, Milano 1997. Dalla Chiesa, Nando, Una strage semplice, Melampo semplice, Melampo editore, Milano 2017. De Cristofaro, Ernesto (a cura di), Le di), Le verità nascoste. Da Aldo Moro a Piersanti  Edizioni La Zisa, Palermo 2017.  Mattarella e Pio La Torre, Torre, Edizioni De Luca, Maurizio (a cura di), Sindona. Gli atti d’accusa dei giudici di Milano,

Editori Riuniti, Roma 1986. De Lutiis, Giuseppe, I Giuseppe, I servizi segreti in Italia. Dal fascismo all’intelli all’intelligence gence del  XXI secolo, Sperling secolo, Sperling & Kupfer, Milano 2010. De Lutiis, Giuseppe, (a cura di), La di), La strage. L’atto d’accusa dei giudici di Bologna, Editori Bologna,  Editori Riuniti, Roma 1986. De Turris, Gianfranco, Elogio Gianfranco, Elogio e difesa di Julius Juli us Evola. Il barone e i terroristi, Edizioni Mediterranee, Roma 1997. Di Michele, Andrea, Storia dell’Italia repubblicana (1948-2008), Garzanti, (1948-2008), Garzanti, Milano 2008.

 

Dondi, Mirco, L’eco Mirco, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, Roma-Bari 2015. D’Orsi, Angelo, Piccolo Angelo, Piccolo manuale di storiografia, storiograf ia, Bruno  Bruno Mondadori, Milano 2002. Evola, Julius, Gli uomini e le rovine, Edizioni rovine, Edizioni Mediterranee, Roma 2001. Fallaci, Oriana, Intervista Oriana, Intervista con la storia, st oria, Rizzoli,  Rizzoli, Milano 1974. Fasanella, Giovanni, Sestieri, Claudio, Pellegrino, Giovanni, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Moro, Einaudi, Torino 2000. Fiengo, Raffaele, Il Raffaele, Il cuore del potere. Il «Corriere della Sera» nel racconto di un suo storico giornalista, Chiarelettere, giornalista, Chiarelettere, Milano 2016. Flamigni, Sergio (a cura di), Dossier di), Dossier Pecorelli, Kaos Pecorelli, Kaos edizioni, Milano 2005. Flamigni, Sergio (a cura di), Dossier di), Dossier P2, Kaos P2, Kaos edizioni, Milano 2008. Flamigni, Sergio (a cura di), Via Gradoli 96 e il deli delitto tto Moro, in Moro, in AA.VV., Il AA.VV., Il sequestro di verità, Kaos verità, Kaos edizioni, Milano 2008. Flamini, Gianni, La Gianni, La Banda della Magliana, Kaos Magliana, Kaos edizioni, Milano 2002. Franzinelli, Mimmo, Il Mimmo, Il piano Solo. I servizi s ervizi segreti, il centro-sinistra e il «golpe» del 1964, Mondadori, 1964, Mondadori, Milano 2014. Galli, Andrea, Dalla Andrea, Dalla Chiesa. Storia del generale dei carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia, Mondadori, mafia, Mondadori, Milano 2017. Galli, Giorgio, La Giorgio, La venerabile trama. La vera storia di Licio Gelli e della P2, Lindau, Torino 2007. Gazzotti, Giorgio, Quelli che mettevano le bombe, in bombe, in AA.VV., Alto AA.VV., Alto tradimento, Bolognesi, Paolo (a cura di), Castelvecchi, Roma 2016. Gemelli, Alberto, Rapporti Alberto, Rapporti tra la loggia P2 e il sistema politico italiano, tesi italiano, tesi di laurea, Università studi di Torino a.a. 1994-1995. Gerbi, Sandro (a curadegli di), Giorgio Ambrosoli. Nel nome di un’Italia pulita, Nino pulita, Nino Aragno editore, Torino 2010. Gerbi, Sandro, Piccone, Beniamino A. (a cura di), Paolo di), Paolo Baffi. Parola di  Nino Aragno editore, edi tore, Torino 2013. governatore, Nino governatore, Giannuli, Aldo, Il Aldo, Il Noto Servizio. Le spie spi e di Giulio Andreotti, Castelvecchi, Andreotti, Castelvecchi, Roma

2013. Giannuli, Aldo, Rosati, Elia, Storia di Ordine nuovo, Mimesis nuovo, Mimesis edizioni, Milano 2017. Giordano, Alfonso, Il Alfonso, Il maxiprocesso venticinque anni dopo. Memoriale del  presidente, Bonanno  presidente,  Bonanno editore, Acireale-Roma 2011. Gotor, Miguel, Il Miguel, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla  prigionia e l’anatomia del potere italiano, Einaudi, italiano, Einaudi, Torino 2011. Grasso, Giovanni, Piersanti Giovanni, Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia, Edizioni mafia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2014.

 

Guarino, Mario, Raugei, Fedora, Licio Fedora, Licio Gelli. Vita, misteri, scandali del capo della loggia P2, Edizioni P2, Edizioni Dedalo, Bari 2006. Limiti, Stefania, Doppio Stefania, Doppio livello: come si organizza la destabilizzazione destabil izzazione in Italia, Chiarelettere, Milano 2013. Limiti, Stefania, L’Anello Stefania, L’Anello della Repubblica, Chiarelettere, Repubblica, Chiarelettere, Milano 2014. Limiti, Stefania, Provvisionato, Sandro, Complici. Caso Moro. Il patto segreto tra Dc e Br, Chiarelettere, Br, Chiarelettere, Milano 2015. Lo Bianco, Giuseppe, Rizza, Sandra, Ombre nere. nere. Il delitto delitt o Mattarella tra mafia, neofascisti e P2, Rizzoli, P2, Rizzoli, Milano 2018. Mangiameli, Rosario, In Rosario, In guerra con la storia. La mafia al cinema e altr altrii racconti, «Meridiana», racconti,  «Meridiana», 87, 2016. Mangiavacca, Franca (a cura di), Memoriale di), Memoriale Pecorelli dalla Andreotti alla Zeta, 2 voll., International E.I.L.E.S., Roma 1996. Marcucci, Gigi, Generazione senza rimorso, inRoma rimorso, in AA.VV., AA.VV., Alto  Alto tradimento, Bolognesi, Paolo (a cura di), Castelvecchi, 2016. Melchionda, Achille, Piombo Achille, Piombo contro la giustizia. Mario Amato e i magistrati assassinati dai terroristi, Pendragon, terroristi, Pendragon, Bologna 2010. Montanaro, Silvestro, Ruotolo, Sandro (a cura di), La di), La vera storia d’Italia: interrogatori, testimonianze, riscontri, analisi: Giancarlo Caselli e i suoi sostituti ricostruiscono gli ultimi vent’anni di storia italiana, Tullio italiana, Tullio Pironti, Napoli 1995. Nicotri, Pino, Agli Pino, Agli ordini del generale dalla Chiesa. Il I l pentimento di Peci, il caso Moro e altri misteri degli anni ’80 nel racconto dell’agente segreto maresciallo Incandela, Marsilio, Incandela, Marsilio, Venezia 1994. Nozza, Marco, Il Marco, Il pistarolo. Da piazza Fontana, trent’anni di storia raccontati da un grande cronista, Il cronista, Il Saggiatore, Milano 2011. Nunziata, Claudio, La Claudio, La democrazia violentata, in violentata, in AA.VV., Alto AA.VV., Alto tradimento, Bolognesi, Paolo (a cura di), Castelvecchi, Roma 2016. Pacini, Giacomo, Il Giacomo, Il cuore occulto del potere. Storia dell’ufficio affari af fari riservati del Viminale (1919-1984), Nutrimenti, (1919-1984), Nutrimenti, Roma 2010.

Pacini, Giacomo, Le Giacomo, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. Ital ia. 19431991, Einaudi, 1991,  Einaudi, Torino 2014. Piccone, Beniamino A. (a cura di), Paolo di), Paolo Baffi servitore dell’interesse pubblico.  Lettere 1937-1989, Nino 1937-1989, Nino Aragno editore, edito re, Torino Torino 2016. Sales, Isaia, Storia dell’Italia mafiosa. Perché le mafie hanno avuto successo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015. Satta, Vladimiro, I Vladimiro, I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo, Rizzoli, Milano 2016. Simoni, Gianni, Turone, Giuliano, Il Giuliano, Il caffè di Sindona. Un finanziere d’avventura

 

tra politica, politica , Vaticano Vaticano e mafia, Garzanti, mafia, Garzanti, Milano 2011. Sogno, Edgardo, Cazzullo, Aldo, Testamento di un anticomunista. Dalla  Resistenza al golpe bianco: bianco : storia di un italiano, itali ano, Sperling  Sperling & Kupfer, Milano 2010. Spadolini, Giovanni, Paolo Giovanni, Paolo Baffi servitore dello Stato, in Stato, in AA.VV., Paolo AA.VV., Paolo Baffi. Il ricordo della sua università, Università università, Università Commerciale Luigi Bocconi, Milano 1990. Speroni, Donato, L’intrigo Donato, L’intrigo saudita. La strana storia della maxitangente Eni Petromin, Cooper,  Petromin,  Cooper, Roma 2009. Stajano, Corrado (a cura di), Mafia. di), Mafia. L’atto d’accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, Roma 1986. Stajano, Corrado, Un eroe borghese, Einaudi, borghese, Einaudi, Torino 1991, ripubblicato da Il Saggiatore, Milano 2016. Stajano, Corrado, Patrie smarrite. Racconto di un italiano, Il italiano, Il Saggiatore, Milano 2018. Corrado, Patrie Tamburino, Giovanni, Ricerca Giovanni, Ricerca storica e fonti giudiziarie, in giudiziarie, in Venturoli, Cinzia (a cura di), Come studiare il terrorismo e le stragi. Fonti e metodi, metodi, Marsilio,  Marsilio, Venezia 2002. Tobagi, Benedetta, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Einaudi, Torino 2009. Tognonato, Claudio (a cura di), Affari di), Affari nostri. Diritti Diritt i umani e rapporti ItaliaItal ia Argentina 1976-1983, Fandango 1976-1983, Fandango Libri, Roma 2012. Tranfaglia, Nicola, La Nicola, La mafia come metodo, Laterza, metodo, Laterza, Roma-Bari 1991. Turone, Giuliano, Il Giuliano, Il delitto di associazione assoc iazione mafiosa, terza mafiosa, terza edizione, Giuffrè, Milano 2015. Turone, Giuliano, L’inchiesta Giuliano, L’inchiesta sull’omicidio, in sull’omicidio, in Gerbi, Sandro (a cura di), Giorgio  Ambrosoli. Nel nome di un’Italia pulita, Nino pulita, Nino Aragno editore, edi tore, Torino 2010. Turone, Sergio, Corrotti e corruttori dall’Unità d’Italia alla P2, Laterza, P2, Laterza, RomaBari 1984. Venturoli, Cinzia (a cura di), Come studiare il terrorismo e le stragi. Fonti e

metodi, Marsilio, Venezia 2002. metodi, Marsilio, Vinci, Anna (a cura di), La di), La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere, Anselmi, Chiarelettere, Milano 2011. Zavoli, Sergio, La Sergio, La notte della Repubblica, Mondadori, Repubblica, Mondadori, Milano 2014. Zecchi, Simona, La Simona, La criminalità servente nel caso Moro, La Moro, La nave di Teseo, Milano 2018.

 

Ringraziamenti

Ringrazio i miei colleghi magistrati che mi hanno dato un valido aiuto nel reperimento, spesso estremamente laborioso, delle fonti giudiziarie necessarie per questo lavoro: Vittorio Borraccetti, Elisabetta Cesqui, Francesco Del Bene, Otello Lupacchini, Sergio Materia, Claudio Nunziata, Franco Roberti e Armando Spataro. Altri, che mi hanno comunque aiutato a ricostruire vicende giudiziarie particolarmente complesse: Giancarlo Caselli, Enrico De Nicola, Mario Garavelli e Salvatore Vecchione. Un grazie a Sergio Flamigni, che mi ha messo a disposizione il suo archivio, a Ilaria Moroni, che mi ha assistito nelle relative ricerche, a Corrado Stajano e a Benedetta Tobagi, per il loro prezioso sostegno, a Franco Fracassi e a Enrico Mentana, che mi hanno consentito di rintracciare e utilizzare la registrazione di un’importante intervista di Gelli. Ringrazio infine Antonella Beccaria per la sua continua assistenza, Marco Abate per la sua consulenza in materia di calcolo delle probabilità, nonché Barbara Fässler per le sue traduzioni dal tedesco.

 

Indice dei nomi

Abate, Marco Abbatino, Maurizio, Abbruciati, Danilo Acampora, Giovanni Addario, Tommaso Adinolfi, Gabriele Affatigato, Marco Aiello, Carlo Albanese, Giuseppe Alberti, Gerlando Alessandrini, Emilio Alessi, Giuseppe Alexander, Harold Rupert Alfonso, Alibrandi,Roberto Alessandro Alibrandi, Antonio Allegretti, Enzo Almirante, Giorgio Aloja, Giuseppe

Amara, Emmanuel Amari, Giuseppe Amato, Giuliano Amato, Mario Amato, Nicolò Ambrosino, Guido Ambrosoli, Giorgio Ambrosoli, Umberto Amico, Rosaria

 

Andreotti, Giulio Angeli, Angelo Anselmi, Tina Arcaini, Giuseppe Arcangeli, Giorgio Aricò, William Joseph Arioti, Alfredo Arnesano, Maurizio Azzi, Nico Azzolini, Lauro Badalamenti, Gaetano Baffi, Paolo Bagarella, Calogero Bagarella, Leoluca Balducci, Domenico Barberi, Andrea Barbieri, Massimo Barone, Mario Basile, Aldo Basile, Emanuele Basile, Silvana Battaglia, Adolfo Battistacci, Giorgio Beccaria, Antonella Bellu, Giovanni Maria Belluscio, Costantino Belmonte, Giuseppe Belsito, Pasquale Berlinguer, Enrico

Berlusconi, Silvio Bertoli, Gianfranco Biaggi, Mario Biagi, Enzo Bianchi, Paolo Bianchi, Vincenzo Bianconi, Giovanni Biscione, Francesco M. Bittoni, Luigi

 

Bobbio, Norberto Bocca, Giorgio Bocca, Riccardo Bodrato, Guido Bolognesi, Paolo Bolzoni, Attilio Bommarito, Giuseppe Bonanno, Armando Bonaventura, Umberto Boneschi, Luca Bonino, Walter Bonisoli, Franco Boniver, Giacomo Bonomi, Anna Bonsanti, Sandra Bontate, Stefano Borgese, Giovanna Borghese, Junio Juni o V Valerio alerio Borsellino, Paolo Borsi, Emanuele Boschi, Marco Bozzo, Nicolò Brancaccio, Antonio Breda, Marzio Brioschi, Carla Maria Brusca, Bernardo Brusca, Giovanni Buscetta, Tommaso Buttazzo, Carla Buttazzo, Ponfino

Calabrese, Antonio Calabrese, Renato Luigi Calamai, Enrico Calderone, Antonino Calleri di Sala, Edoardo Calogero, Pietro Calò, Giuseppe (Pippo) Calore, Sergio

 

Caltagirone, fratelli Caltagirone, Gaetano Caltagirone, gruppo Calvi, Roberto Cancemi, Salvatore Canetti, Clara Canetti, Elias Cannevale, Alessandro Cantore, Romano Caponnetto, Antonino Caracciolo, Carlo Carboni, Flavio Cardella, Fausto Carenini, Egidio Carli, Guido Carlostella, Giuseppe (Zibibbo) Carlos (v. Ramírez Sánchez) Carluccio, Francesco Carminati, Massimo Carnevale, Corrado Carnovale, Vittorio Carollo, Vincenzo Caruso, Giovanni Caselli, Giancarlo Cassella, Gennaro Casson, Felice Castaldo, Sergio Catalano, Antonio Cataldi, Enrico Cavallini, Gilberto

Cazzullo, Aldo Centrone, Federico Cercola, Guido Cesqui, Elisabetta Chiazzese, Irma Chinnici, Rocco Churchill, Winston Ciampi, Carlo Azeglio Ciancimino, Vito

 

Ciarrapico, Giuseppe Ciavardini, Luigi Cieri, Enrico Ciglieri, Annarosa Ciglieri, Carlo Cingano, Francesco Ciolini, Elio Cioppa, Elio Cipriani, Antonio e Gianni Cipriani, Luigi Cirillo, Ciro Clementi, Marco Cogliandro, Demetrio Coiro, Michele Colli, Giovanni Collura, Vincenzo Colombo, Andrea Colombo, Gherardo Concutelli, Pierluigi Conti, Mariateresa Contorno, Salvatore Coppola, Agostino Coppola, Alessandra Coppola, Frank Cordero, Franco Cornacchia, Antonio Cosentino, Francesco Cossiga, Francesco Costa, Pietro Costanzo, fratelli

Costanzo, Maurizio Crainz, Guido Craxi, Bettino Criscione, Pasquale Cuccia, Enrico Cucuzza, Salvatore Cudillo, Ernesto Curcio, Renato Curioni, Cesare

 

Curti Giardina, Salvatore D’Acquisto, Mario D’Alema, Massimo D’Aleo, Mario Dalla Chiesa, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Nando Dalla Chiesa, Romolo D’Aloia, Manlio D’Amato, Federico Umberto D’Ambrosio, Gerardo D’Ambrosio, Loreto (Loris) D’Angelo, Claudio D’Avanzo, D’A vanzo, Giuseppe De Cato, Mario De Cristofaro, Ernesto De Francisci, Gabriele De Gasperi, Alcide De Gennaro, Gianni Dell’Aira, Antonio Dell’Amico, Lando Delle Chiaie, Stefano De Lorenzo, Giovanni De Lutiis, Giuseppe Del Vecchio,Giovanni Lucio De Matteo, De Mattia, Renato De Megni, Augusto De Michelis, Gianni De Mita, Ciriaco

De Nicola, Enrico (Capo dello Stato) De Nicola, Enrico (magistrato) De Nunzio, Wladimiro De Pedis, Enrico De Santis, Concezio Desario, Vincenzo De Sena, Mario De Turris, Gianfranco De Vecchi, Fausto

 

Diamare, Aniello Di Bella, Franco Di Carlo, Francesco Di Cristina, Giuseppe Di Donna, Leonardo Di Giesi, Michele Digilio, Carlo Di Michele, Andrea Dimitri, Giuseppe Di Nicola, Enrico Diotallevi, Ernesto Di Salvo, Rosario Dondi, Mirco Donnini, Luciano D’Orsi, Angelo Dubček, Alexander, Elia, Leopoldo Evangelista, Francesco Evangelisti, Franco Evola, Julius Fabbri, Fabio Fachini, Massimiliano Falcone, Faldetta, Giovanni Luigi Fallaci, Oriana Fanfani, Amintore Faranda, Adriana Farina, Giorgio

Farnè, Guglielmo Fasanella, Giovanni Federici, Fortunato Feliziani, Giancarlo Ferracuti, Franco Fiengo, Raffaele Filippani Ronconi, Pio Finardi, Giampaolo Finer, Leslie

 

Fiorani, Ivo Fioravanti, Cristiano Fioravanti, Valerio (Giusva) (Gius va) Fiore, Roberto Fiorini, Virgilio Fiuman, Carlo Flamigni, Sergio Flamini, Gianni Foà, Giangiacomo Forlani, Arnaldo Formica, Rino Foschi, Franco Fragalà, Vincenzo Franceschini, Alberto Franchi, Franco Franzinelli, Mimmo Freda, Franco Froglia, Maria Furlotti, Francesco Galli, Andrea Galli, Giorgio Gallucci, Achille Gambino, John Garavelli, Mario Gatti, Adolfo Gazzotti, Giorgio Gelli, Licio Gelli, Maria Grazia Gemelli, Alberto

Genghini, Mario Geraci, Nenè Gerunda, Margherita Gervaso, Roberto Giammanco, Pietro Giangiacomo, Bruno Giannettini, Guido Giannini, Orazio Giannuli, Aldo

 

Ginesi, Mario Giordano, Alfonso Giovannone, Stefano Giudice, Raffaele Giuffrè, Antonino Giuliani, Egidio Giuliano, Boris Giurati, Fausto Giuseppucci, Franco Goretti, Sergio Goria, Giovanni Gorla, Massimo Gotor, Miguel Grandi, Alberto Grassi, Leonardo Grassini, Giulio Grasso, Giovanni Grasso, Pietro Graziani, Clemente Greco, famiglia Greco, Michele Gregori, Giorgio Guarino, Mario Guénon, René Guerrera, Giovanni Guglielmi, Camillo Gui, Luigi Guzzanti, Paolo Guzzi, Rodolfo

Ierace, Luigi Impastato, Giuseppe Incandela, Angelo Infelisi, Luciano Insacco, Biagio Inzerilli, Paolo Inzerillo, Salvatore Iotti, Nilde Iozzino, Raffaele

 

Jannuzzi, Lino Jemolo, Arturo Carlo Juliano, Pasquale Kappler, Herbert Kissinger, Henry Kram, Thomas La Barbera (famiglia) La Barbera, Michelangelo Labriola, Silvano Labruna, Antonio La Ferla, Mario La Malfa, Ugo La Penna, Antonio Manfredi La Torre, Pio Leandri, Antonio Lebole, Attilio Lebole, Gianni Lebole, gruppo Lebole, Mario Leonardi, Oreste Leone, Giovanni Leone XIII Lettieri, Nicola Levi, Bruno Levi, Primo Liggio, Luciano Lima, Salvo Limiti, Stefania

Lipari, Giuseppe Lo Bianco, Giuseppe Lombardo, Vincenzo Longo, Pietro López Rega, José Lo Prete, Donato Lorenzon, Guido Lugaresi, Ninetto

 

Maccari, Germano Madonia, Antonino Madonia, Giuseppe Madonia, Francesco Maggi, Carlo Maria Magi-Braschi, Adriano Maletti, Gianadelio Mambro, Francesca Mammano, Simona Mancini, Antonio Manes, Giorgio Manes, Renato Mangiameli, Francesco (Ciccio) Mangiameli, Mangiavacca,Rosario Franca Mango, Giovanni Mannoia, Francesco Marino Mannucci Benincasa, Federigo Mantovani, Nadia Marchio, Michele Marcinkus, Paul Casimir Marcucci, Gigi Mariani, Bruno Mariani, Dario Martelli, Claudio Martinazzoli, Mino Martínez de Hoz, José Alfredo Martini, Fulvio Marvulli, Nicola Massera, Emilio

Mastelloni, Carlo Mastrogiacomo, Daniele Materia, Sergio Mattarella, Piersanti Mattarella, Sergio Mattei, Enrico Mattioli, Gianni Mauro, Eugenio Mauro, Ezio

 

Mazza, Libero Mazza, Oliviero Mazzanti, Giorgio Mazzei, Rocco Mazzotta, Maurizio Medici, Giuseppe Mei, Abelardo Melchionda, Achille Melega, Gianluigi Meli, Antonino Mennini, Antonello Mentana, Enrico Mentasti, Piero Merlino, Mario Metta, Vittorio Miceli Crimi, Joseph Miceli, Vito Micheli, Filippo Michelini, Arturo Migneco, Giulia Mino, Enrico Minoli, Giovanni Miriano, Nicola Modigliani, Roberto Monastero, Francesco Montanaro, Silvestro Montanelli, Indro Moretti, Fabiola Moretti, Mario Morici, Pietro

Moro, Aldo Moro, Giovanni Mortilla, Armando Morucci, Valerio Mosca, Paolo Moscato, Pietro Muraro, Alberto Musco, Pasquale Musumeci, Pietro

 

Mutolo, Gaspare Naldi, Mario Guido Napolitano, Giorgio Nardini, Bruno Nardini, Umberto Navarra, Michele Nicastro, Giuseppe Nicotri, Pino Nixon, Richard Nobili, Umberto Notarnicola, Pasquale Notaro, Andrea Novembre, Silvio Nozza, Marco Nunziata, Claudio Occorsio, Vittorio Oliveri, Vincenzo Opocher, Enrico Ortolani, Umberto Pacciardi, Randolfo Pace, Lanfranco Pacifico, Attilio Pacini, Giacom Palach, Jan Palazzolo, Salvo Palermo, Carlo Palmegiano, Vincenzo

Palombarini, Giovanni Palombelli, Barbara Palombi, Edoardo Palumbo, Giovanbattista Panella, Giancarlo Pannella, Marco Pansa, Giampaolo Paolillo, Ugo Paolo VI

 

Papandreu, Georgios Parri, Ferruccio Pasolini, Pier Paolo Pasqualetto, Andrea Passalacqua, Guido Patrizi, Paolo Pazienza, Francesco Pecorelli, Carmine (Mino) Pedretti, Dario Pedroni, Giovanni Pellegrino, Giovanni Pellicani, Emilio Pelosi, Walter Pernasetti, Raffaele Perrelli, Demetrio Pertini, Sandro Pezzato, Nicolò Pezzuto, Nicola Picchiotti, Franco Picciafuoco, Sergio Piccoli, Flaminio Piccone, Beniamino Pieczenik, Steve Pietropaoli, Giorgia Pifano, Daniele Pio XII Pizzuti, Giuseppe Polo, Salvatore Pozzan, Marco Previti, Cesare

Prodi, Romano Proietti, Antonio Provenzano, Bernardo Puccio, Vincenzo Radaelli, Ezio Rame, Franca Ramírez Sánchez, Ilich (Carlos) Raugei, Fedora

 

Rauti, Pino Razzi, Dario Reina, Michele Renzo, Michele Restivo, Franco Restivo, Nicola Ricci, Domenico Riina, Salvatore (Totò) (Totò) Rimi, Filippo Rimi, Vincenzo Rinani, Roberto Ristuccia, Michele Riva, Massimo Rivera, Giulio Rizza, Sandra Rizzo, Aldo Rizzoli, Andrea Rizzoli, Angelo Rizzoli, gruppo Rizzotto, Placido Roatta, Mario Roberti, Franco Rognoni, Virginio Rolandi, Cornelio Ronchey,, Alberto Ronchey Roosevelt, Franklin Delano Rosati, Elia Rossini, Cesare Rotolo, Antonio Rovelli, Angelo (Nino)

Rumor, Mariano Ruotolo, Sandro Russo, Genco Russomanno, Silvano Russo Spena, Giovanni Saetta, Antonino Saleh, Abu Anzeh Sales, Isaia

 

Salomone, Franco Salvi, Giovanni Salvini, Guido Salvini, Lino Salvo, Ignazio Salvo, Antonino (Nino) Sanapo, Francesco Santiapichi, Severino Santovito, Giuseppe Saragat, Giuseppe Sarcinelli, Mario Sarti, Adolfo Sartori, Michele Satta, Savia, Vladimiro Orazio Savi, Fabio e Roberto Scaduti, Salvatore Scaglione, Pietro Scalfari, Eugenio Scalfaro, Oscar Luigi Schaudinn, Friedrich Schmölz, Elisabeth Scialabba, Roberto Sciascia, Leonardo Scirocco, Giovanni Selvatici, Franca Semerari, Aldo Semprini, Mario Senatore, Salvatore

Senzani, Giovanni Serravalle, Gerardo Sestieri, Claudio Severini, Giuseppe Sgrò, Francesco Sica, Domenico Signorelli, Paolo Siino, Angelo Simoni, Gianni Sinacori, Vincenzo

 

Sindona, Michele Siracusano, Giuseppe Soderini, Stefano Soffiati, Marcello Sogno, Edgardo Spadaro, Tommaso Spadolini, Giovanni Spagnuolo, Carmelo Spallitta, Elio Sparti, Massimo Spatola, Vincenzo Speroni, Donato Spiazzi, Amos Stajano, Corrado Stalin, Iosif Stammati, Gaetano Statera, Alberto Stiz, Ada Stiz, Giancarlo Stiz, Michele Suárez Mason, Carlos Sullo, Fiorentino Tambroni, Fernando Tamburino, Giovanni Tarsitano, Fausto Tassan Din, Bruno Tateo, Angelo Taviani, Paolo Emilio Teresi, Girolamo

Terracini, Umberto Terranova, Cesare Tessarolo, Costantino Testi, Carlo Adriano Titta, Adalberto Tobagi, Benedetta Tobagi, Walter Tognonato, Claudio Tomaselli, Enrico

 

Tomei, Mauro Torielli, Pietro Torri, Rachele Torrisi, Giovanni Toscani, Umberto Tramonte, Maurizio Tranfaglia, Nicola Trapani, Emanuela Trementozzi, Mario Trizzino, Maria Grazia Turatello, Francis Turone, Giuliano Turone, Sergio Ugolini, Antonio Vale, Giorgio Vallanzasca, Renato Valori, Giancarlo Elia Valpreda, Pietro Varisco, Antonio Vassalli, Giuliano Vecchione, Salvatore Venditti, Elena Venetucci, Robert Ventura, Giovanni Venturi, Carla Venturoli, Cinzia Vettore Presilio, Luigi Videla, Jorge J orge Rafael

Viezzer, Antonio Viglianesi, Italo Vinci, Anna Vinciguerra, Vincenzo Viola, Roberto Eduardo Vitale, Giacomo Vitale, Marco Vitalone, Claudio Vitalone, Wilfredo

 

Vizzini, Calogero Volo, Alberto Voto, Luigi Wagner, Nicola Zaccagnini, Benigno Zaccaria, Carlo Zamberletti, Giuseppe Zani, Fabrizio Zavoli, Sergio Zecchi, Simona Zilletti, Ugo Zincani, Vito Zizzi, Francesco Zorzi, Delfo Zorzi, Gianpaolo Zucca, Enrico

 

www.illibraio.it

Il sito di chi ama leggere Ti è piaciuto piaciuto questo libro? Vuoi scoprire nuovi autori? Vieni a trovarci trovar ci su IlLibraio.it, dove potrai: scoprire le scoprire  le nov noviità edi editorial torialii e sfogliare le prime pagine in anteprima generi letterari che preferisci seguire accederei a contenuti gratuiti : racconti, articoli, interviste e approfondimenti leggere la trama dei libri, conoscere i dietro le quinte dei casi editoriali, guardare i booktrailer iscriverti alla nostra nostra newsl newsletter etter settimanale unirti a migliaia di appassionati lettori sui nostri account facebook, twitter, google+

«La vita di un libro non finisce con l’ultima pagina.»

View more...

Comments

Copyright ©2017 KUPDF Inc.
SUPPORT KUPDF