Introduzione Verga
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GIOVANNI VERGA
OPERE a cura di Francesco de Cristofaro illustrazioni di Mimmo Paladino
ISTITUTO DELLA
ENCICLOPEDIA ITALIANA FONDATA DA GIOVANNI TRECCANI ROMA
INTRODUZIONE
I. Doppio sogno
Ci sono alcuni luoghi canonici, nel corpus dei testi che è consuetudine presentare come «soglie» preparatorie alle opere narrative di Giovanni Verga (e in particolare ai suoi romanzi piú maturi e originali), che sembrano oggi, osservati da una maggiore distanza storica e ideologica, altrettante armi a doppio taglio: sono capaci, certo, di dar conto di un laboratorio artistico e del suo malcerto bricolage, della concezione estetica che lo innerva e delle pratiche di invenzione che lo animano; e tuttavia, emanano una luce fredda, forse abbacinante. Quasi Verga – proprio lui, il propugnatore per eccellenza dell’opera che «sembrerà essersi fatta da sé» – ecceda nella disseminazione di dichiarazioni autotrasparenti, di prove testimoniali, di protocolli e di ricette da propinare col «cucchiaio»1 al lettore, finanche a quello di secondo grado; e quasi spinga il critico verso un esercizio un po’ troppo servile, di piatta descrizione di quanto si ingenererebbe e si dispiegherebbe nella storia delle forme senza scarti, senza faglie, al limite senza processo. Ma cosa ha ancora da dire al lettore del XXI secolo, e ad un’Italia vecchia ormai centocinquant’anni, un Verga dall’autocoscienza cosí granitica? Un Verga che non farebbe altro che sottoporre a verifica, in modo magari non lineare ma comunque coerente, le tecniche di cui fa parallelamente dottrina? Quali sono, se ve ne sono, le strategie per sprigionarne la modernità e per produrre un senso ulteriore, verso i terreni limacciosi della comprensione storica, magari anche al di là della letteratura, dei suoi artifici e dei suoi teoremi? Pensiamo, com’è ovvio, alla lettera programmatica a Salvatore Paola, alla novella Fantasticheria, alla dedicatoria a L’amante di Gramigna, alla prefazione dei Malavoglia. Soglie (epistolari, paratestuali, saggistiche) di cui si son fatti altrettanti monumenti; ed era fatale, perché il «caso Verga», con le sue onde e i suoi riflussi, necessitava piú del normale di qualche puntello di sicura conoscenza obiettiva, ribollente com’era di insepolti furori risorgimentali – e per giunta additato da tante parti come colpevole obliquo dei mali oscuri della letteratura italiana novecentesca, dal paternalismo al pauperismo, passando naturalmente per il populismo2. In quegli scritti l’ideale dell’ostrica, il metodo della regressione, la prescrizione di una mano invisibile e di un’adaequatio ortottica, l’etica del pugno chiuso, il progetto di una fantasmagoria in cui rappresentare il «gran grottesco umano» configurano una serie organica di petizioni di principio, che sono a un tempo retoriche e concettuali; e nonostante il superamento, in virtú di schiaccianti prove biografiche e bibliografi1 Il cucchiaio è un oggetto – o piuttosto un “ferro del mestiere” – per il quale Verga mostra, a piú riprese, una singolare affezione: lo troviamo ad esempio in una sulfurea corrispondenza con Salvatore Di Giacomo (10 dicembre 1889), tra l’altro ripresa da L. Russo nel suo classico Giovanni Verga, Ricciardi, Napoli 1920, p. 225. 2 Cfr. A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma 1965. Appena pochi anni dopo, lo stesso critico coordinò l’importante ripensamento collettivo a cui si allude qui (Il caso Verga, a cura di A. Asor Rosa, Palumbo, Palermo 1972): vi parteciparono critici di diversa formazione, da G. Petronio a V. Masiello.
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che, del luogo comune critico della “conversione”, nonostante anche l’enfasi sull’idea di un «Verga moderno» e di un «altro Verga»3, resiste ancora l’idea che la conchiusa poetica lí sviluppata si riverberi nella relativa e conseguente poietica. Inoltre, i ritardi e le occasioni perse nella partita ecdotica non aiutano certo una lettura piú spregiudicata: a tutt’oggi, I Malavoglia, universalmente riconosciuti come il ‘caposaldo’ dell’opera verghiana – che ne costituiscano anche il capolavoro, è antico assioma sempre piú di frequente messo in crisi, a vantaggio del Mastro-don Gesualdo – non dispongono di edizione nazionale, a causa della scomparsa del curatore Francesco Branciforti, che ha spezzato un lavoro decennale4. Abbiamo però un’edizione critica del primo romanzo dei Vinti, allestita da Ferruccio Cecco5, che offre al critico-filologo le cicatrici di un peculiare travaglio compositivo: luoghi testuali in cui la lettera del testo sembra incrinarsi, divenire drammaticamente polisensa; attuare, entro la sua vita dialettica, censure e transfert. È proprio da uno di questi luoghi – un brano refoulé, quasi ricettacolo di quel «controlinguaggio notturno» di cui scrisse una volta Michel de Certeau – che si può ripartire, per provare a istituire un paradigma, prima ancora di avviare quella ricognizione sistematica e diacronica che è d’uopo. Si tratta della cosiddetta “prefazione rifiutata”: rifiutata (sappiamo ormai) non solo dall’editore, ma dall’autore stesso, dopo che l’aveva pensata, redatta, firmata e persino datata6. Cospicuamente piú lunga di quella giunta sotto i torchi, essa differisce in modo sensibile anche nella dispositio, con l’effetto di essere molto meno asciutta e diretta dell’altra nell’illustrazione del topic e delle finalità, e di gran lunga piú “estetica” che “etica” nella chiusa. Quel ‘cartone’ alternativo ospita poi, in maniera esclusiva, alcuni brani dalla scrittura assai raffinata, e dalla notevole ricaduta estetica. Ciò vale soprattutto per la scena incipitaria, che – sebbene attraversata, come vedremo piú avanti, dalle ombre di alcune narrazioni brevi precedenti – costituisce un unicum nella scrittura dei Malavoglia, sia per l’ambientazione metropolitana, sia per il tono confidenziale e idiosincratico, sia infine per la modernità del «sogno dentro un sogno» in cui s’avviluppa: Quando vi siete trovati di notte nelle vie deserte di una grande città, davanti al fanale spento e col sigaro in bocca, non vi ha colpito l’impressione straordinaria che produce in voi quella calma? Allora forse avete cercato dietro le finestre chiuse le vaghe forme indistinte di persone ancora deste, o il capo sull’origliere che cerca il sonno con occhi spalancati, o il pallido volto chino sulle pagine di un libro, o il passo ebbro dell’uomo che ha giuocato l’ultimo suo denaro, o il respiro pesante dell’operaio che riprenderà col giorno il lavoro, un’espressione qualsiasi della vita che sentite in voi, e che vi tace intorno. Di fantasticheria in fantasticheria tutta questa gente che vi travaglia ancora col pensiero, che si agita e vive, vi sfila davanti, per le vie buie, come in un giorno di festa, in una proces3
Cfr. R. Luperini, Verga moderno, Laterza, Bari-Roma 2005 (ma si veda almeno, entro la ricchissima produzione di Luperini intorno allo scrittore siciliano, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, Il Mulino, Bologna 1989); e C. A. Madrignani, L’altro Verga, Introduzione a G. Verga, Drammi intimi, Sellerio, Palermo 1989. 4 Cfr. però F. Branciforti, Lo scrittoio del verista, in I tempi e le opere di Giovanni Verga, Firenze, Le Monnier 1985, pp. 59-170, durevole punto di riferimento della filologia verghiana. 5 G. Verga, I Malavoglia, a cura di F. Cecco, Il Polifilo, Milano 1995. Il testo stabilito, che usa come testimone di riferimento la princeps (Treves, Milano 1881), è stato ripreso anche nel pregevole commento che lo stesso Cecco ha contemporaneamente allestito (Einaudi, Torino 1995), e da cui si citerà. 6 Si veda F. Branciforti, La prefazione dei ‘Malavoglia’, «Annali della Fondazione Verga», I, Catania 1984, pp. 7-39.
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sione fantasmagorica in cui passano tutti gli appetiti, tutte le febbri, tutte le avidità, tutte le aspirazioni grandi e piccine; le cure che devono trambasciare quei sonni, le ansie che vegliano, le preoccupazioni che si agitano nell’incubo7.
Dietro il narratore che parla al passato prossimo e ad un “voi” generico (cercando retoricamente una comunione di esperienze), dietro il viandante, trasognato e vagamente baudelairiano, per le «deserte» e «buie» strade della notte, non facciamo fatica a indovinare, in filigrana, una sorta di smagato autoritratto verghiano. Insomma, una controfigura d’autore, qui nei panni di compiaciuto flâneur «col sigaro in bocca», pronto a farsi catturare – piú simile allo spettatore della folla di Poe che a quello di Valera, ossia piú incline alla identificazione dei soggetti che all’impressione delle masse – dal richiamo delle apparenze: ecco allora che dinanzi ai suoi occhi, «davanti alle scintille del sigaro» e «al fanale spento» (si faccia particolare caso al tratteggio dei chiaroscuri) sfila una «processione fantasmagorica», composta da fisionomie per lo piú umili e disforiche e da «visi pallidi e accesi, che cercano qualche cosa, sempre». In questa teoria di simulacri còlti in una sorta di tensione fiacca, si fa largo anche una figura di lettore: che viene ritratto «chino sopra le pagine di un libro» – forse proprio quel libro che va ora a iniziare. Tuttavia, sottigliezze metaletterarie a parte, il narratore verghiano è inghiottito, senza la possibilità di un autentico discernimento morale, da quella fantasia, e dalle fantasie al quadrato che in essa s’ingenerano; è travolto da una «folla nera che popola le vie buie, cammina, cammina tutta verso un punto solo, pigiandosi, accalcandosi, sorpassandosi brutalmente»8. L’«altro» prefatore dei Malavoglia ha compreso soprattutto qualcosa, qualcosa che ci dice, per speculum in aenigmate, alla fine del primo capoverso. Ha compreso, come tutti i suoi allocutori fittizi devono aver compreso, che quella vita, quel movimento continuo e apparentemente esterno al soggetto, in realtà si svolge tutto dentro di lui («esiste attorno di voi ed in voi stesso»); sa, come tutti sanno, che esso «vi accompagnerà a casa, e nei sogni, perché l’indovinate dietro quelle finestre chiuse, accanto a voi, dappertutto». Vi accompagnerà a casa: lo spettacolo che s’è istallato in quella zona piú interna, «oltre le finestre chiuse», non è che l’Unheimliche. Il sentimento inquietante e ambivalente che finisce per assediare uno scrittore allorché si accinge a raccontare la sua prima grande storia-biologia di una famiglia di pescatori di un villaggio, eppure ne gira la scena inaugurale nelle vie buie di una città. Con una sorta di modernissimo giro di vite, quell’abbandono contemplativo sta tramutando Verga nell’oggetto stesso della rappresentazione, mentre lo sorprende nella sua reale, sicura, distante cabina continentale, nella posizione borghese a cui è pervenuto e nella visione del mondo che ha conseguito. E allora lui scrive e riscrive, e poi cancella. 2. Fuga dalle tenebre L’immagine della moltitudine che «cammina, cammina tutta verso un punto solo» ci sembra di conoscerla già; ma non è cosí. Se la scrutiamo con attenzione, non somiglia né al 7 8
G. Verga, I Malavoglia, cit., p. 377. Ibid.
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Quarto Stato, il cruciale dipinto con cui di lí a pochi anni Pellizza da Volpedo avrebbe riplasmato e rifondato l’immagine “mitologica” del popolo9, su basi certo verghiane (a partire dal titolo originario, che recitava appunto La fiumana: singolare coicidenza di destini con il ciclo dei Vinti, inizialmente battezzato La Marea); né al celeberrimo seguito del brano in questione, che la prefazione edita e quella inedita condividono in modo pressoché identico. In quelle rappresentazioni, una luce vivida – interna o esterna, non importa – poteva rischiarare ogni oggetto, ogni sagoma, ogni gesto: un fulgore «glorioso», quasi mistico, che rendeva tutto intelligibile, conferendo al movimento complessivo un senso che coincideva poi, né poteva essere altrimenti, con quello del progresso. Si trattava, in modo evidente, di una chimica piú provvidenzialistica che naturalistica, in virtú della quale dall’«attrito» delle «contraddizioni» poteva virtuosamente sortire «la luce della verità»: in termini fotografici, una sorgente di chiarore tesa a solarizzare o persino a virare in bianco le immagini, piuttosto che ad aumentarne la trasparenza. Al contrario, c’era qualcosa di scandalosamente moderno nell’idea – fermata nel testo inedito e autocensurata per la stampa – di una scansione degli oggetti da eseguire in due fasi distinte, con inverse condizioni di luce e con scale metriche sfalsate e non suturabili: dapprima un’analisi capace di vedere elementi ma non sistemi e poi, contrapposta in una sorta di chiasmo, una sintesi incapace di distinguere figure, e tuttavia atta a comprendere direttrici, masse, sovradeterminazioni. Per quanto condannata all’aporia di una conoscenza scissa e infine metafisica, quella ipotesi di una visione del mondo bifocale e chiaroscurale appariva, almeno nelle premesse, intellettualmente piú onesta, piú fedele ai tanto idoleggiati «colori del vero»10. Si torni però a Verga e alla sua lotta con l’angelo. Se riprendiamo, in un sol colpo, il microscopio e il cronografo, scopriamo che tutta questa ampia giunta poi rinnegata, tutto il brano cioè che rappresenta gli spettri della viandanza, compare e scompare nello strettissimo giro di tre giorni: 19 gennaio 1881, prefazione edita; 22 gennaio 1881, prefazione inedita. Come a dire che lo scrittore – come peraltro testimoniano anche alcune lezioni della seconda prefazione infine preferite nella stampa11 – fino all’ultimo non sa se dare o meno vita a quella fantasmagoria già formata; fino al ‘si stampi’, e probabilmente anche dopo, quei simulacri formicolanti sono lí, bussano alla sua porta, riemergono davanti alle incandescenze del suo sigaro borghese, finché egli non decide, alla lettera, di rimuoverli. Con quest’approdo denegativo pare chiudersi la personale, diciamo cosí, ‘dialettica dell’illuminismo’ inscenata attorno al pronao dei Malavoglia: col risultato che il lettore-modello del romanzo potrà vedere solo un bagliore pienamente irradiato, e non il corteo delle larve (che per contro sciamerà, spesso proprio in forma equorea, in tante pagine del Verga politicamente piú agro: grossomodo, la linea Libertà-Gesualdo); potrà consolarsi di quella vista indistinta eppure provvista di un significato trascendentale, senza lasciarsi toccare dalle figure della part maduite. Si provi a pensare per un attimo a quanto la forbice del senso si sia divaricata nel momento in cui lo scrittore, sull’orlo della noluntas, dovette compiere la 9
Cfr. C. Ossola, Symboles et destins du peuple, in L’Avenir de nos origins. Le copiste et le prophète, Millon, Grenoble 2004, pp. 259 ss. 10 Il riferimento corre al fondamentale R. Bigazzi, I colori del vero. Vent’anni di narrativa (1860-1880), Nistri-Lischi, Pisa 1969. 11 Cfr. F. Branciforti, La prefazione dei Malavoglia, cit., passim.
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scelta, e a quanto la selezione finale abbia influito sulla ricezione del testo, sulla sua tradizione ermeneutica, sul suo carisma storico-letterario; e non si potrà trattenere un brivido. Il fatto è che la posta in gioco era troppo alta: ne andava del mandato dell’artista, della sua tavola di valori. Verga lo adombra in tanti luoghi ‘deputati’, ma non lo fa capire mai cosí chiaramente – per quanto preterintenzionalmente – come tra le righe e gli apparati di questa prefazione bifida, la cui «patologia testuale» risulta, anche nella verticalità dell’autografo infine prescelto, straordinariamente indiziaria. Si pensi alla duplice correzione che riguarda l’immagine «Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via»12: immagine potentissima, che marca nella sua carriera una vera e propria mutazione di paradigma, in quanto ora la fiumana travolge tutti, e la visuale dall’alto e immunizzata di Fantasticheria è solo un ricordo remoto. Ebbene, questa frase nel testo autografo presenta lezioni alternative sia per il soggetto («osservatore»/«artista») che per il predicato verbale («ha il diritto»/«deve»). Supponendo la co-implicazione tra le varianti, ne deriverebbe nulla di meno che il tratteggio di due paesaggi etici agli antipodi: da un lato un osservatore generico che gode di un diritto, dall’altro un costruttore di immagini che soggiace a un dovere. È qui, nei gangli, nelle incrinature e nelle polarizzazioni d’una prefazione-manifesto e del suo ‘doppio’ allucinato, che germina, destinato a tanta fortuna, il populismo della nostra cultura letteraria: perché anche se, in extremis, Verga optò per la cancellazione di ciò che aveva in origine designato come compito esclusivo dell’artista, quell’attitudine ideologica e formale non poté non depositarsi al fondo nella sua scrittura. La fluttuazione di cui abbiamo appena detto, peraltro, è la marca testuale, in forma di variante d’autore, di un rovello che si ingenera, ancora una volta, nella stesura rifiutata: dove, proprio mentre la scrittura verghiana s’accendeva in un affresco di souffrance universale e radiosa, la distinzione tra viandante generico e artista veniva ben altrimenti articolata, conferendo al secondo quel privilegio di cui la forma definitiva del testo lo avrebbe del tutto deprivato. L’artista, e solo lui, non doveva, bensí aveva il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via: visto che «certamente in mezzo a quella calca, i viandanti frettolosi anch’essi, non hanno il tempo di guardarsi attorno, per esaminare gli sforzi plebei, le smorfie oscene, le lividure e la seta rossa degli altri»13. Lo scrittore invece, inspiegabilmente o anzi per qualcosa che somiglia a un colossale lapsus, quel tempo sembrava poterlo detenere; e perfino governare. Di piú, egli era tenuto ad averlo: perché – ed ecco che la prosa verghiana s’inarcava e si torceva – «il grottesco di quei visi anelanti, non deve essere eminentemente artistico per un osservatore? non deve dare a seconda dell’aspetto che loro impronta l’ambiente che attraversano nei luoghi e nell’età, la fisonomia storica? e quest’osservatore meno frettoloso degli altri, chinandosi sui caduti per esaminarne le convulsioni, sostando un momento dinanzi alle verità che la folla si lascia indietro nella fretta di correre avanti, o agli affetti che gemono invano, o alle febbri che si scambiano per passioni, o alla giustizia su cui si mettono i piedi, non ha il diritto di esclamare: – Che peccato!»14. L’ambiguità tonale del periodo, tra interrogativa retorica e interiezione conativa, pareva 12
G. Verga, I Malavoglia, cit., p. 379. Ibid., p. 378. 14 Ibid. 13
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rincarare l’ambiguità della scrittura e delle sue professioni morali; un’ambiguità ostinata, se si ricorda che addirittura nella decisiva chiusa della prefazione edita si sarebbe registrato, fra autografo e stampa, un capovolgimento essenziale (un «errore polare», di distrazione; o forse no) circa lo «studio» di spettanza del narratore-scienziato: da «con passione» a «senza passione»15. Né parrà strano, a questo punto, che il narratore (l’autore) dei Malavoglia si sia infine risolto a fuggire dalle tenebre e dai barlumi di storia che – vagabondando e fantasticando, chissà perché, per le vie della metropoli invece che tra i campi dell’isola – aveva figurato in quella prefazione seconda, caduco ricettacolo o libro a venire. 3. Preistoria di un’immagine Un caminetto dalla fiamma scoppiettante; dinanzi ad esso, un uomo dagli occhi socchiusi e dalla coscienza intermittente, proprio come quel sigaro acceso a metà che gli casca dalla bocca, mentre carezza il sogno di un provvisorio oblio del presente, di un abbandono in un’altra dimensione, lontana e sconosciuta. Questa scena, questa combinazione di posture di uomini e di combustioni di cose, non era nuova a Verga; non solo perché riprendeva qualcosa che era già cristallizzato nell’immaginario letterario, grazie alle flâneries metropolitane dei suoi autori (specie in terra di Francia) e dei suoi sodali; ma anche, e piú specificamente, perché si trattava in realtà di un’immagine insepolta di Nedda, il bozzetto nel cui segno, sette anni prima, egli aveva intrapreso la sua fuga dai salotti cittadini. Lo aveva fatto, come è noto, ritagliando la silhouette di una contadina sfiancata dal lavoro, una silhouette ripresa da quella stirpe russa e tedesca degli «umiliati e offesi» che nel pieno Ottocento cominciava a brulicare anche da noi16: un falso movimento, questo da lui intrapreso dalla città alla campagna, se è vero che solo pochi mesi piú tardi lo scrittore si sarebbe ritrovato di nuovo alle prese con le raffinatezze alto-borghesi di Eva. Eppure quella figurina, che molti hanno voluto caricare di soverchie responsabilità, trasformandola nell’emblema stesso d’una “conversione” semplicemente indimostrabile, può servire qui per comprendere qualcosa di piú dei Malavoglia: non tanto del nostos all’origine e all’isola, quanto della rimozione di cui s’è detto. È il 1871. Verga ha già portato a termine la sua formazione di scrittore ‘scapigliato’ e galante, con un buon riscontro di pubblico. Decide allora di cambiare registro; lo fa, si badi bene, per prova. Sceglie di raccontare la storia di una figura semplice e priva di sofisticherie, al di qua di quella «menzogna delle convenzioni sociali» che avrebbe teorizzato Max Nordau dodici anni dopo. Incagliato in un incipit di inedita asperità, lo scrittore prova a partire con una posa affabilmente autoriale e un pedale assai intellettualistico, parlando al lettore di una sua recente scoperta, in apparenza tutta compresa nella sfera del quotidiano. Da sempre persuaso che il «focolare domestico» fosse «una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti piú miti e sereni», egli ne ha finalmente colto le virtú cordiali e insieme spettacolose: la «voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma», i «bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole», le «faville fuggenti che folleggiano co15 16
Ibid., p. 7. Cfr. G. Debenedetti, Verga e il naturalismo, Garzanti, Milano 1995, p. 254.
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me farfalle innamorate», persino «il linguaggio del cepperello che sospetta dispettoso»17. Questa sinfonia petulante e sussultoria delle molle e del mantice, questo allegretto del fuoco amico conquista rapisce il narratore in pantofole: ne riscalda il sangue e i nervi, ne libera le immagini e insieme ne sopisce il principio di realtà, finanche predispone la sua mente a quella che è già una “resurrezione della memoria”. Di piú: la sinfonia che si svolge al cospetto di chi dice “io” è in grado di fare, con la sua durata soggettiva, qualcosa di assolutamente moderno e sconcertante. Per un verso, può riportarlo a un remoto cronotopo idillico: quando, alle falde dell’Etna, gli ululati del vento agitavano una grande fiamma che asciugava le povere vesti delle raccoglitrici di olive. Per l’altro verso, può invecchiarlo in pochissimo tempo, facendo scorrere nel teatro della sua mente le scene del mondo a una velocità tale da incanutirgli i capelli e solcargli di rughe la fronte. È una visione potentissima, questa di una fiamma magica, quasi segno impazzito d’un tempo fuori di sesto, che insieme avanza infinitamente e indefinitamente muove a ritroso; fugge dentro i furori della storia e nel bagliore degli ideali, e si rintana nella poetica delle radici e di un passato ritrovato. E proprio cosí – ce lo fanno intuire gli atti linguistici del narratore, i suoi lapsus, i suoi rincari di figuralità, nonché le autocensure e i cambiamenti di rotta intervenuti sia nella stesura di Nedda che nella stesura della seconda prefazione ai Malavoglia – proprio cosí, scardinato e scentrato, dovè essere anche il tempo interiore di Verga in quel ’71 e in quell’81 di avvertimenti prima, e di esecuzioni poi della nuova forma: malsicuro com’era fra la ricerca di una modernità naturale e la rigenerazione di antichi artifici. Per paradosso, la sua forma nuova era quella che parlava della natura, mentre ciò su cui si era formato e battezzato consisteva piuttosto nel racconto della mondanità, della politica, dell’ideologia. Se si perde di vista questo elemento, questa sorta di inversione verghiana del percorso organico dalla complessità alla semplicità, si rischia di non cogliere l’essenziale, e di non comprendere neanche il motivo dell’irreversibilità dell’itinerario. Basti, come controprova di tale singolare condizione, un ulteriore e malnoto esercizio, perfettamente sincrono ai Malavoglia: un testo d’occasione, I dintorni di Milano, contributo dello scrittore catanese a Milano 1881, una frettolosa collettanea allestita in occasione dell’Esposizione nazionale industriale e artistica18. Il titolo dell’impresa collettiva, che annoverava collaboratori del calibro di Neera e di Capuana, faceva subito intuirne l’inscrivibilità, a pieno titolo, nella voga fin-de-siècle delle descrizioni. Il pezzo di bravura di Verga si compaginava, in questo caso, come una formazione di compromesso lunga una manciata di pagine, impiegate a parlare della «città piú città del mondo»19 e a giustificarne l’idea urbanistica e il senso spaziale e prossemico, costringendola a un impari e asimmetrico duello turistico con la circostante “santa campagna”. In questo testo illuminante – giacché ancora una volta sorprende il narratore sul limine tra l’origine e l’esilio, tra l’isola e il continente, tra la natura e l’artificio – si possono incontrare «metafore pazze», o quantomeno spericolate, come quella che designa la città di Milano come «il piú bel fiore di quella campagna 17
G. Verga, Nedda, in Le novelle, a cura di G. Tellini, Salerno, Roma 1980, t. I, p. 130. Si può leggere – opportunamente chiosato, e ribattezzato Malinconica pianura – nell’antologia in L. Clerici (a cura di), Il viaggiatore meravigliato. Italiani in Italia (1714-1996), Il Saggiatore, Milano 2001, pp. 167 ss. Ringrazio molto Giancarlo Alfano per questa ed altre suggestioni. 19 Ibid., p. 168. 18
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ricca ma monotona […], un prodotto in cui l’uomo ha fatto piú della natura»20. Un miscuglio astratto fra urbano e rurale che non spiazza affatto il lettore, dal momento che di quella stessa esitazione si erano già fatti carico alcuni brani che, se letti entro un «paradigma testuale»21, configurano una sequenza di spostamenti arbitrari sopra quello che in semiologia viene detto «asse timico». Ma cerchiamo di vedere meglio. Va innanzitutto chiarito come il ‘chiodo fisso’ del narratore di queste pagine non sembri avere troppo a che fare con la morale, con lo scandaglio sociologico o con l’indagine economica, né tantomeno con l’elaborazione di modelli culturali e antropologici. Tutto è molto piú naïf e leggero: il vero punto, per questo scrittore-paesaggista, consiste nel comprendere dove risieda l’allegria e dove la tristezza, dove la vita e dove la pace; per giunta, non è dato di sapere cosa per lui sia valore, e cosa disvalore. Ecco cosí, dapprima, la visione – anzi, l’impressione – sghemba e complessiva che si riceve prospettiva sopra il treno: «L’impressione che si riceve dal paesaggio prima di arrivare a Milano, per quaranta o cinquanta chilometri di ferrovia, è malinconica. La pianura vi fugge dinanzi verso un orizzonte vago, segnato da interminabili file di gelsi e di olmi scapitozzati uniformi, che non finiscono mai; cogli stessi fossati diritti fra due file di alberelli, colle medesime cascine sull’orlo della strada, in mezo al verde pallido delle praterie. Verso sera, allorché sorge la nebbia, il sole tramonta senza pompa, e il paesaggio si vela di tristezza»22. Poco dopo, la prosa si accende nell’esplorazione della «vita allegra della grande città, in mezzo alla folla che si pigia sui marciapiedi, davanti ai negozi risplendenti di gas, sotto la tettoia sonora della Galleria, nella luce elettrica del Gnocchi, nella fantasmagoria di uno spettacolo alla Scala, dove sboccia come in una serra calda la festa della luce, dei colori e delle belle donne»; ma piú avanti, dal duomo, «l’impressione che si riceve è grandiosa ma calma»; infine, il narratore si spinge ad ascrivere, incongruamente, tutto il movimento dell’insieme all’«allegria chiassosa e bonaria» che si crea nelle feste campestri, perché «il milanese ha la passione della campagna»23. Che uno dei paesaggi forse piú mossi e indefiniti nella letteratura della nuova Italia sia stato disegnato da un “naturalista” con una simile schizofrenia, e che per quegli i medesimi segni siano permutabili tra soggetti diversi, è molto di piú di un’astuzia della storia letteraria. Bisogna prendere estremamente sul serio quest’incertezza della rappresentazione, fatta di furore macchiaiolo e di effetti di sfocatura: Verga sta cercando nulla di meno di una dimora abitabile, per sé e per la sua arte. C’era però ancora un altro testo che, quasi come un negativo allucinato, insisteva sulla Prefazione alternativa ai Malavoglia, e lo faceva con la cogenza di un forte rapporto intertestuale oltre che ideologico. Innanzitutto perché la novella cui si sta alludendo, Fantasticheria, componeva insieme a Nedda un ineludibile dittico dell’inquadratura e della messa a fuoco della miseria; poi, perché quei due brevi testi furono altrettanti punti di svolta e di innesto nella poetica verghiana. Se il bozzetto aveva aperto nella carriera dello scrittore il decennio del medio cabotaggio, del buon mestiere e di un esercizio interamente risolto en20
Ibid., p. 171. Cfr. F. Orlando, Dodici regole per la costruzione di un paradigma testuale in Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 19962. 22 Il viaggiatore meravigliato, cit., p. 169. 23 Ibid., p. 170. 21
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tro il campo borghese, Fantasticheria inaugurava la stagione del nuovo paradigma. E difatti in quel caso Verga individuava con esattezza il lettore modello, trasfigurandolo nei panni di una nobildonna francese di passaggio, in treno, per Aci Trezza, a cui il narratore regalava la chiave d’accesso al mondo dei diseredati; sicché, come il borghese col sigaro in bocca avrebbe visto attraverso il rettangolo vetrato di una finestra i suoi simulacri perturbanti, cosí la signora poteva ‘oggettivare’ entro il medesimo dispositivo scopico il piccolo borgo isolano. Ma, di là da questo simile principio di fondazione (e di primo esitante incorniciamento) dell’oggetto, in sé foriero – lo vedremo piú avanti – di decisive implicazioni teoriche, importa anche la seconda visualizzazione che interviene nel testo, questa volta non frontale ma verticale, non vaga ma puntuale; e tesa a sfondare il piano dei referenti, nella direzione di una metaforica assai cara a Verga: Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. - Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; - ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall’altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà24.
Rispetto a quanto sarebbe accaduto, di lí a poco, nella prefazione ai Malavoglia, qui l’assiologia pare tutta sociale, e tra osservatore generico e artista non si produce oscillazione, ma una sorta di divisione dei ruoli. Verga escogita un callido dialogismo tra una signora bene, dapprima refrattaria al calore del popolo, e un letterato che si propone come ‘ammortizzatore’ e mediatore fra i gradini della scala sociale. E anche qui troviamo una visione telescopica, dall’alto e perversamente indifferente, pronta però a farsi microscopica, a traguardare l’«orizzonte tra due zolle», e a ravvisare nell’organizzazione umana qualcosa di simile a «un esercito di formiche». Come si diceva piú sopra, quello che è inscenato o meglio alluso è un rituale populista, un autentico «naufragio con spettatore»25. L’insistenza del narratore sui senhal di eleganza e di vezzosità (il ballerino, l’ombrellino…) non lascia spazio a dubbi: sotto la corteccia figurale, quella donna non è un umano rispetto a insetti, ma un padrone rispetto ai servi. Come accade spesso nelle scritture del naturalismo, il diverso di classe si nasconde (male) dietro il diverso di specie. Il romanziere vede e non vede, a quest’altezza del suo «vagabondaggio» di iniziazione agli umili, il loro universo creaturale, ciò che avrà appunto a definire, nella seconda Prefazione, come «grottesco di quei visi anelanti». Ma, tra Nedda e Fantasticheria, tra treno e focolare, tutto sembra pronto per quella scena madre, nonché per la sua fatale autocensura.
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G. Verga, Fantasticheria, in Le novelle, cit., t. I, p. 164. Cfr. H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, trad. it. di C. Gentili, Il Mulino, Bologna 1985. 25
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4. Verga siciliano L’idea di un Verga sagittale, la cui scrittura veicolerebbe teoremi estetici e credi ideologici, è sbagliata soprattutto in quanto non rispetta un percorso che appare polimorfo nel tempo e nello spazio. Si può legittimamente sostenere che ci sia un Verga mondano e un Verga verista (e non solo); che ci sia un Verga romanziere e un Verga novelliere (e non solo); infine, che ci sia un Verga siciliano e un Verga italiano (e non solo). E si può provare a ripartire, dopo questo largo preludio su alcune «soglie» e sulla loro rete segreta, da quest’ultima antinomia, citando l’emblematico incipit di uno fra i testi piú dibattuti della intera sua produzione: «Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: – Viva la libertà!»26. I piú avranno riconosciuto l’attacco di Libertà, la bellissima e ambigua novella rusticana che Verga dedicò nell’82 alla sommossa contadina e alla repressione garibaldina di Bronte, offrendo di quel «massacro che i libri di storia non hanno raccontato»27 una visione che stava tra l’elegia pauperista e la condanna reazionaria. Su questa novella, da sempre la critica si divide. Ci si chiede, in buona sostanza, se Verga – questo Verga che sta parlando, nello stesso tempo, della Sicilia e dell’Italia, del passato e del futuro – stia con il popolo che realizza un episodio fuori tempo massimo di jacquerie, o non si schieri piuttosto, sotto la pelle del testo, coi «galantuomini». È anche noto che fu Leonardo Sciascia, piú di chiunque altro, a mettere in epoché, documenti d’archivio alla mano, la solidarietà di Verga nei confronti dei rivoltosi28; mentre toccò a Giancarlo Mazzacurati, in un libro programmaticamente intitolato Forma & Ideologia – un libro che ormai ha quasi quarant’anni ma ha ancora tanto piú smalto e capacità di presa di tanti esercizi attuali – provare a censire, su sorta di statera ideologica, gli elementi filo- e anti-popolari presenti nel testo29. Che si tratti d’una narrazione insicura, metastabile, è d’altro canto l’impressione che si ricava anche da un esame delle varianti d’autore presenti nella riedizione licenziata da Verga nel 1920, all’indomani dei fatti bolscevichi, per la collezione della «Voce». Il fazzoletto tricolore che veniva brandito nel testo di trenta e piú anni prima, era adesso diventato rosso30. E l’ingresso tronfio e goffo di Nino Bixio era assolutamente in tinta: se nella edizione originaria non v’era alcuna menzione alla sua divisa garibaldina, adesso Verga sentiva di dover sottolineare il dato cromatico e súbito, com’è ovvio, politico della “camicia rossa”31. Grida vendetta il silenzio della critica verghiana attorno a questa inedita isotopia del rosso instaurata dal vecchio e ormai (per sua stessa ammissione) «codino» Verga: un’isotopia tonale che indica, sin troppo trasparentemente, come i medesimi ideali di par26
G. Verga, Libertà, in Le novelle, cit., t. I, p. 520. Come si ricorderà, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato è un film di Florestano Vancini del 1972. 28 Cfr. L. Sciascia, Verga e la libertà, in La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Torino, Einaudi 1970, pp. 79-94. 29 Cfr. G. Mazzacurati, La bilancia di ‘Libertà’ ovvero della rotazione imperfetta, in Forma & Ideologia, Liguori, Napoli 1974, pp. 176-216. 30 Cfr. G. Verga, Libertà, cit., p. 409. 31 Ibid., p. 415. Sul legame figurale tra l’eroismo risorgimentale e quel peculiare cromatismo, assai ricco di spunti è A. Di Grado, L’ombra dell’eroe. Il mito di Garibaldi nel romanzo italiano, Bonanno, Acireale 2011. 27
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tenza muovano quei soldati e quei contadini, ma che alla fine – di un sogno di egualitarismo condiviso alla radice – non resterà nulla: nulla, se non il rosso del sangue versato. È anche cosí, con modificazioni e sfumature della trama dei colori, che i narratori fanno immaginario del Risorgimento; perché anch’essi si son dotati, a loro volta, di una tavolozza, se tengono davvero a far vedere i loro eroi e la “scena reale” in cui sono campiti. Nè tale scandalo figurale era il solo che la versione tardiva riservasse. Torniamo con la mente all’ingresso di Nino Bixio: in origine chiosato con un «Questo era l’uomo» di spettanza della voce narrante, veniva ora accompagnato da un piú ostico, a livello di senso e di responsabilità elocutiva, «Questo era generale»32: che può significare tanto – avvertono i commentatori – una denotazione quanto una connotazione; ovvero, tanto un mero riconoscimento da parte degli attanti (‘Costui doveva essere generale’), quanto un brachilogico elemento di satira e di straniamento da parte del narratore (‘Ciò voleva dire essere generale’). Mentre non si modificavano i suoi primi atti di giustizia criminale, mutava invece la ratio di quel tribunale sommario: se nell’82 venivano elimiminati «i primi che capitarono», nell’edizione del ’20 a essere fucilati sono «i primi della lista»33. Il tempo non era passato invano per l’antico narratore della vita dei campi, ormai agiato possidente terriero e onoratissimo senatore del Regno d’Italia: adesso c’era una lista dei colpevoli. E chi era il primo sulla lista, il simbolico capro espiatorio della rivolta? Verga ci dice che era Pippo il nano, e qui la variante non riguarda piú il passaggio da una redazione all’altra, ma quello dalla realtà storica alla sua rappresentazione in chiave figurale. Gli archivi registrano infatti, come primo condannato, un altro genere di reietto, la cui menomazione non è fisica ma mentale. Si tratta di certo Nunzio Ciraldo Fraiunco, “pazzo” di Bronte, «soltanto colpevole – spiegherà Sciascia – di aver vagato per le strade del paese con la testa cinta di un fazzoletto tricolore profetizzando, prima che la rivolta esplodesse, sciagura ai galantuomini»34. Lo scambio di persone realizzato da Verga è forse un atto a discarico di Bixio e della sua rappresaglia: serve ad attenuare le sue pesanti responsabilità etiche, anche in virtú della tradizione folclorica che associa il ‘pazzo’ al sacro, mentre il ‘nano’ abita i territori del male. Siamo davvero alle prese con «una sorta di ausilio recato alle esigenze di una piú generale e collettiva mistificazione risorgimentale»35. Comunque sia, che si tratti di un alienato - homo sacer o di un mostro da camera, che cioè si tratti di deficit somatico o di alienazione mentale, risulta senz’altro interessante, proprio per la sua perfida sottigliezza, questa trasfigurazione verghiana, segno di un disagio che riguarda certo l’ideologia, ma anche, e prima, la forma della rappresentazione. Forse qualcosa che accade in un’altra, ma comunicante sfera dell’arte può gettare una luce su questa storia di microvarianti. Nel 1880, alla quarta Mostra Nazionale di Torino, lo scultore napoletano Achille d’Orsi espose un gesso, dal titolo Proximus tuus, che provocò molte reazioni36. Nella polemica si intrecciavano valutazioni estetiche e interpretazioni eti32
Cfr. ibid., p. 415 e, contra, p. 523. Cfr. ibid., p. 415 e, contra, p. 523. 34 L. Sciascia, Verga e la libertà, cit., p. 88. 35 Cfr. il commento di G. Tellini a G. Verga, Le novelle, cit., p. 415. 36 Su cui si veda I. Valente, Scultori a Napoli al tempo di Renda. Un viaggio fra le tendenze artistiche di fine Otto e inizio Novecento, in Giuseppe Renda 1859-1939, tra tradizione e rinnovamento, a cura di D. Esposito, catalogo della mostra di Napoli 2007-08, Electa, Napoli 2007, pp. 11-47. 33
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co-sociali. Era ritratto un contadino, abbandonato a terra, con la zappa tra le mani. Il gesso venne innanzitutto considerato un’opera di protesta, intrisa di contenuti politici: vi era rappresentato, come si scrisse, «uno zappaterra stanco morto», la cui «espressione non era di una miseria che ti fa versare una pietosa lacrima e asciugarla dolcemente»; si trattava piuttosto della «dichiarazione energica di un peccato sociale orribile, di un’ingiustizia colossale»37. Ma di là da questo precocissimo populismo (come si è già detto, Pellizza da Volpedo ‘vedrà’ il suo quadro mitico, Il Quarto Stato, solo quindici anni dopo, con la realizzazione del relativo ‘cartone’, La fiumana), e di là anche dalla straordinaria potenza empatetica e fàtica del titolo latino, intriso di ecumenismo cattolico, c’è un ulteriore elemento su cui occorre soffermarsi. La linea scultorica meridionale fin-de-siècle, tanto all’avanguardia quanto trascurata nelle ricostruzioni storiche, presenta negli anni ’80 due tendenze dominanti: da un lato il «naturalismo estremo, scevro da ogni bellezza formale», rappresentato appunto da Proximuus tuus, e dall’altro «un nuovo indirizzo della scultura teso a mediare tra le reminescenze dell’antico e le nuove esperienze veristiche, fondandosi sull’idea di un bello coniugato al vero, non senza esprimere significazioni ideali tout court»38. Ora, in un simile contesto era congruo che Proximus tuus fosse definito «orrendamente brutto», e che nel contempo se ne lodasse l’esecuzione. L’accusa che veniva rivolta a D’Orsi, da piú parti, era quella di aver preso a modello un contadino, non solo stremato dalla fatica fisica, ma anche ammalato di pellagra. L’arte moderna riservava dello spazio per questo?
Achille D’Orsi, Proximuus tuus (Roma, Galleria d’Arte Moderna, 1880)
Secondo Camillo Boito, il contadino non è affatto ammalato, ma «cretinizzato dal lavoro»: «è un contadino seduto a terra affranto. Non ha deposto la vanga. Tiene sulle ginocchia le mani callose dalle vene turgide. Ha le gambe nude, e grosse scarpe ai piedi. La camicia lascia vedere il petto magro, ansante. Una pezzuola gli stringe il capo. Naso grande, bocca socchiusa, occhi infossati, spenti; non pensa, suda… l’esecuzione giova al concetto: è vera ma ruvida»39. Nessuna malformazione, quindi, nessuna menomazione. In altre paro37
A. Cecioni, Opere e scritti. Con pagine e lettere inedite dell’autore a Giosuè Carducci, a cura di E. Somare, L’esame, Milano 1932. 38 I. Valente, Scultori a Napoli al tempo di Renda. Un viaggio fra le tendenze artistiche di fine Otto e inizio Novecento, cit., p. 20. 39 C. Boito, Gite di un artista, Hoepli, Milano 1884, p. 79.
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le, i critici dell’opera, affannandosi nella diagnosi della malattia, sembrano denunciare lo stesso disagio, le stesse aporie dell’arte sociale che traspaiono nella scrittura verghiana in quegli anni, allorché deve rappresentare il “diverso”; gli uni e l’altro si preoccupano di dargli un nome che sia sussumibile nel codice convenzionale degli umani, alla voce “patologico” piuttosto che “anomalo”. Pellagra contro cretinismo, nanismo contro follia: le assiologie appaiono esattamente parallele, e cosí le modulazioni del tabú sociale, che diviene un bando vigliacco e inesorabile nei confronti dell’anormalità naturale e somatica, e al contrario prevede una sorta di immunità se si tratta di patologia mentale. Come si accennava sopra, simili rappresentazioni non coinvolgono solo l’estetica e l’ideologia, ma anche l’antropologia e la scienza positiva, nella misura in cui tendono a istituire, lungo la duplice assiologia tracciata dall’evoluzionismo, un nesso tra «diverso sociale» e «diverso biologico». Tale correlazione si verifica, ad esempio, allorché una figura reca iscritto, nella bestialità del nome e del soma, o nelle sue pose abituali (quelle istantanee di parole che sono insieme simboli e allegorie: si pensi al Rocco Spatu dei Malavoglia, e a quel finale dentro la prosa del mondo e l’eterno ritorno dell’uguale), un destino di emarginazione, di superstizioso abbandono. V’è ad esempio un luogo, ancora nel primo romanzo dei Vinti, in cui si trova la traccia piú significativa d’una teoria del «marchio a fuoco» (non remota da coevi assunti scientifici) mai scritta da Verga, e tuttavia immanente in molte sue pagine. Essa compare in uno degli ultimi capitoli dell’opera, quasi a volere apporre un sigillo apodittico a una diversità, quella del personaggio di Piedipapera, già espressa lungo il corso della narrazione. È don Michele a parlare a Lia, stigmatizzando, con toni sinistri, le frequentazioni di ’Ntoni: «Di Piedipapera solo questo rammentategli: – Gli disse Gesú Cristo a San Giovanni, “degli uomini segnati guàrdatene!”. Lo dice pure il proverbio»40. Soltanto adesso il segno diabolico, che introietta nel corpo di Piedipapera un principio morale, un’innata malvagità (ed è contenuto, a sua volta, nell’ingiurioso soprannome del personaggio, secondo una circolarità tipica delle comunità primitive), ‘esplode’ testualmente, dopo che alcune connotazioni diaboliche, come il «piede del diavolo»41, avevano fatto registrare un’oscillazione di statuto, fra un demonismo propriamente detto ed una caratterizzazione, in fin dei conti, già bloccata in una struttura tropica. Quello che tuttavia si rivela decisivo per il nostro discorso è la formulazione retorica in cui la sentenza – alla cui radice sta, naturalmente, il biblico «cave signatum» – cade. La critica non ha omesso di segnalare come si tratti non di un puro «motto degli antichi», come ne proliferano nell’opera, ma di quello che si definisce un «wellerismo», ovvero una sentenza attribuita dal locutore ad un personaggio, storico o immaginario, con carattere ironico oppure solenne42. Già lo statuto di quest’escogitazione retorica, ambiguo in vari sensi (oltre che in quelli ora esposti, anche in un altro senso, che in parte li comprende: 40
Cfr. G. Verga, I Malavoglia, cit., p. 306. Ibid., p. 45 e p. 137 (e cfr. anche l’espressione, di nuovo analogica, «zoppo come il diavolo»: p. 325). Nel primo luogo si noterà anche, sulla scorta di Cecco, che proprio Piedipapera vi è responsabile di un atto che nella superstizione popolare (cfr. S. Salomone-Marino, Costumi ed usanze dei contadini in Sicilia, Sandron, Palermo 1897, pp. 287 ss.) si carica di valenze demoniache, se compiuto da un agonizzante: l’uccisione di un gatto grigio. 42 Cfr. ad es., da una specola antropologica, A.M. Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, Einaudi, Torino 1986, pp. 18 ss. 41
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l’attribuzione della sentenza è vera o falsa?), viene subito a dire che stiamo addentrandoci in territori estremamente piú complessi di quelli sigillati da un atavico logos, da una sapienza popolare e proverbiale ontologizzata una volta per tutte: e malgrado lo stesso Verga – che si serve qui della summa approntata da Pitré43 – si affretti ad apporre al segmento, tanto nel brano citato quanto nella susseguente ripresa44, la duplice etichetta di «proverbio» e di «detto dell’antico», andrà pur osservato che, mentre il secondo sintagma presenta un’essenziale variazione rispetto alla formula (paradigmatica nell’idioletto verghiano) di «motto degli antichi», il primo termine sacrifica alle ragioni, stavolta esteriori, della variatio la maggiore esattezza della lezione originaria45. Inoltre, ad uno sguardo che si sforzi di traforare la forma ultima del testo, ripercorrendone la stratigrafia, non sfuggirà il particolarissimo tipo di lavorío espressivo che si svolge in questo luogo: un lavorío tanto piú significativo nella portata esegetica, in quanto consegnato infine ad un restauro minuto. «È un “wellerismo” parzialmente camuffato dal discorso; le virgolette evidenziano infatti, a differenza della versione dell’autografo piú fedele alla trascrizione di Pitré, solo una parte del proverbio, come se la restante rientrasse nel discorso del personaggio»46. Cosa insomma fa don Michele? O meglio, che cosa compie Verga in questa singolare, e tuttavia esemplare, fattispecie di «regressione»? Cercheremo di ricostruire minuziosamente la sequenza: anzitutto, egli estrapola dal consueto repertorio paremiologico una diceria (una «sentenza» priva di ufficiale attestazione) che s’era ormai proverbializzata, a tutto detrimento del potenziale destabilizzante della bestemmia che vi era racchiusa; poi, di fatto la de-proverbializza, rendendole per intero il suo statuto primario, di «detto», e recuperandone, mediante la semplice dislocazione al di fuori della citazione della frase principale, l’energia eretica; infine la ri-proverbializza, adducendovi sí l’intrinseca autorità della forma apoftegmatica, ma soltanto a mo’ di rincalzo di un assunto in sé già forte («Lo dice pure il proverbio»). La prima domanda sarà, allora, perché Verga, nel medesimo momento in cui fornisce un’icona straordinariamente efficace della sua concezione del «segnalato» e del «diverso», si risolva ad utilizzare – ed è un caso unico, nella complessiva scrittura del ciclo – una figura dallo statuto cosí sfuggente e ambiguo, a cominciare da quella forma d’idolatria, verso un surrettizio principio d’autorità, che in essa alligna. Ancora una volta, dinanzi a questo ulteriore «interno» del testo, non potremo che rispondere, a partire dalla specifica qualità del processo genetico sopra illustrato, con una esitante ipotesi di lettura: che il wellerismo non costituisca, alla fine, null’altro che un tipo particolare di «formazione di compromes-
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G. Pitré, Proverbi siciliani, raccolti e confrontati con quelli degli altri dialetti d’Italia, Pedone Lauriel, Palermo 1880: vi si veda il vol. I, p. 165: «Cci dissi Gesú Cristu a San Giuvanni: Di li sengaliati guardatinni»; cfr. anche, alla pagina successiva della medesima raccolta, quest’altro proverbio: «Diu ti guardi d’omu chi mina lu pedi, e di fimmina chi neu ’n faccia teni», che viene però scartato da Verga, a causa certo di un’eccessiva ‘frontalità’. 44 G. Verga, I Malavoglia, cit., p. 305: stavolta sarà Mena a parlare, facendosi latrice presso ’Ntoni del monito di don Michele. 45 E si tratta di una correzione estrema, da apparato evolutivo: è nelle bozze, infatti, che Verga si determina a cassare l’espressione «detto dell’antico», che campeggiava precedentemente anche qui. 46 Cfr. il commento cit. di Cecco, ad loc.
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so», anzi la figura eletta di precipitazione del «ritorno del regresso»47, del riaffiorare di un livello di Weltanschauung che si pretende superato: in questo caso, una superstizione demonistica, un sordido tabú, la cui responsabilità elocutiva è attribuita alla stessa voce del Cristo. Un ritorno del regresso che, proprio in quanto s’innesca nel vivo d’un ulteriore artificio regressivo, scatena il radicale scandalo di un attrito gnoseologico48. A questo punto, però, conviene porsi un ulteriore interrogativo. Quanto sono universali e quanto sono siciliane queste immagini? Ci parlano di una diversità assoluta o di un’alterità relativa? O forse sono l’espressione straniata di quella che Sciascia, nel solco gramsciano, designerà come «sicilitudine»49? In Libertà come nei Malavoglia, Verga ci parla di una terra che, nel sistema dello nuovo Stato unitario, non è piú isola, ma periferia50: i suoi testi non avrebbero capacità simbolica né di introspezione storica se non fossero scritti da un uomo che ha conosciuto, esistenzialmente e artisticamente, la vita del continente, tanto da mettere a punto un dispositivo linguistico ibrido, in grado di restituire questa compresenza e questa complessità. Ciò che rappresenta non è mai avulso dai ‘rapporti di forza’ operanti, sul piano culturale ed ancor piú su quello sociale, nel contesto della nazione, mai lascia cadere nell’oblio il fatto che la gente di Bronte o di Aci Trezza sia l’anello debole di un sistema, innanzitutto economico, mirante alla perpetuazione di strutture di potere cristallizzate, se non incancrenite. In tal senso, il racconto profondamente «creaturale» delle disillusioni post-risorgimentali e dell’immobilismo isolano consegnati a questi testi narrativi (e a molti altri, da Cos’è il Re a La chiave d’oro, per citare alcuni tra i piú dimenticati), pur riscattando la sua cifra particolaristica in una forma universalistica e persino mitografica, non smette mai di essere una rappresentazione, tanto piú efficace in quanto riverberata ed effettuale, dell’Italia unita, delle sue contraddizioni, delle sue miserie, dei suoi perduranti ricatti e delle sue nuove mafie. E anche su questo versante politico e storiografico, come ci era accaduto di osservare per la selezione delle tematiche, il passaggio verghiano dall’Italia alla Sicilia non sarà affatto una deminutio, ma l’occasione di un rilancio analitico, dai margini al centro. Ma per comprenderlo dobbiamo adesso fare un balzo indietro, nella prima formazione scolastica e nel timido, paludato apprendistato del giovanissimo Verga. 5. Verga italiano Come nasce un romanziere? Nella fattispecie: cosa scriveva Verga mentre accadevano i fatti di Bronte che avrebbe raccontato, e demistificato, venti anni piú tardi? In effetti, su47
Cfr. F. Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Torino, 19972, pp. 15 ss. A. M. Cirese, Wellerismi e microracconti, «Lingua e stile», 2 (1970), pp. 283-92, effettua una descrizione di quell’espediente, nonché una sua tripartizione non schiacciata sulle mere ‘funzioni’, anzi protesa a sondarne i rapporti di forza ed a formalizzarne i tratti pertinenti. Nel discuterla, M. Del Ninno (cfr. la voce, da lui stesa, Proverbi, in Enciclopedia Einaudi, XI, Torino, 1980, pp. 385-400) ha concluso che il «salto di isotopia» caratteristico del wellerismo condurrebbe ad un effetto destabilizzante simile a quello che distingue il Witz. 49 Cfr. L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in La corda pazza, cit., pp. 4 ss. 50 Come è periferia, prima che isola, la Sicilia di Tomasi di Lampedusa: cfr. l’interpretazione, in termini rigorosamente matteblanchiani, di F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del “Gattopardo”, Einaudi, Torino 1998. 48
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scita un po’ di sgomento la constatazione che il primo cimento narrativo dello scrittore – prescindendo dall’inedito Amore e patria, scritto nella minore età e, caso unico di esotismo verghiano, dedicato alla guerra d’indipendenza americana – risalga proprio al 1860; e che, pur ambientandosi mezzo secolo prima e al di là dello stretto di Messina, esibisca le cicatrici degli eventi coevi e le crepe di un’ideologia in (disorganica) formazione. Potrebbe trattarsi d’un caso di “eterogenesi dei fini”, ma tanto Libertà quanto I carbonari della montagna parlano di complotti e voltafaccia, frange sociali permeabili, esecuzioni sommarie; e di un Risorgimento che, nel momento della sua aurora grigia come nel tempo delle gloriose vittorie, induce il testimone alla stessa sospensione del giudizio, allo stesso disincanto. L’esordio verghiano, intriso di oratoria patriottica e dozzinale, di omaggi (per non dire plagi) ai Dumas e a Walter Scott, a Guerrazzi e ad una gloria locale come Domenico Castorina, era agitato, anzi esagitato da una tesi forte, che all’improvviso balenava sopra la coltre degli amori corrivi, degli spiritelli vaganti e delle figurine popolari e schizzate secondo un manicheismo di classe fin troppo scoperto. La tesi, che induceva lo scrittore novizio a ingaggiare una «battaglia morale» e aspramente antifrancese, era che nel 1810 i Borboni, in malafede e a tradimento, avessero inviato in Calabria gentaglia senza scrupoli per farla confondere con i Carbonari e inimicare questi ultimi al popolo: Quando si parlò di briganti, i Carbonari per una strana coincidenza, ci tornarono in mente. Quando questo brigantaggio assunse caratteri tanto terribili da fare illudere anche spiriti elevati, italiani irreprensibili sulle vere aspirazioni di quel popolo, ebbimo la nostra ultima maledizione da lanciare a questa razza perversa, che tale avevamo conosciuto sempre. Al 1861, come al 1810, i Borboni avevano sparso il sangue a torrenti51.
Come si vede, è di nuovo una poco nota soglia di Verga, la Prefazione ai Carbonari, a lasciar scorgere, in modo sorprendente, uno strato sommerso del suo metodo conoscitivo. Alla luce di quel paratesto, cioè, possiamo affermare che lo scrittore catanese da sempre parli del passato per parlare del presente: come per una sorta di storicismo irriflesso. Col Mastro-don Gesualdo, quel gesto mentale diverrà addirittura fondativo, plasmante; ma già adesso, al debutto sulla scena letteraria, si può cogliere, a motivare e innervare la scrittura, una sorta di petizione eziologica, indiziaria, retrospettiva; in ultima analisi, revisionista. Per contro, non stupirà, considerata la giovane età e il magistero stimolante ma senz’altro provinciale di don Antonio Abate, qualche didascalismo e qualche impaccio di troppo nello stile, viziato dal romanesque della tradizione e dalle propagande del presente: tanto che a un certo punto il narratore consegna la sua idea politica al personaggio di Corrado, Gran Maestro della Carboneria e incarnazione del Bene (un capitolo del romanzo si intitola «L’angelo custode»…), mettendogli in bocca una battuta di smaccata trasparenza: «il giorno in cui i Borboni hanno voluto percuotere la Carboneria e le speranze d’Italia l’hanno fatto col mandarci questi aiuti dalle galere. Io avevo un triste presentimento e ne avevo parlato alla regina… La regina ha promesso… Ora fa pace col Bonaparte, la Carbo-
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Cfr. G. Verga, I carbonari della montagna. Sulle lagune, a cura di C. Annoni, Vita e Pensiero, Milano 1975, p. 11.
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neria le è d’impaccio e la distrugge»52. È una sagoma, quella del protagonista, ritagliata con l’accetta: «misterioso ed imperativo»53, «di mezzana statura, snello e piuttosto magro, quantunque di un taglio svelto ed elegante, egli sembra di una debolezza tale da contrastare vivamente col suo gesto, il suo accento, la sua natura di sovranità e d’intero con l’energia del suo carattere, con la risoluzione indomabile che brilla nel suo occhio potente»54; in grezzo contrasto con il diabolico deuteragonista, il traditore Gaston Guiscard, dalla pelle «di una bianchezza sí pallida da sembrare che nessuna goccia di sangue vi scorresse di sotto» e dall’iride trasparente, che «ora si faceva bianca come quella di uno spettro; ora prendeva un riflesso verdognolo come lo sguardo del vampiro»55. Sul piano della felicità formale, siamo insomma lontani anni luce dalla «bilancia» di Libertà, da quella figuralità allegorica e disgiunta che rende cosí sospesa e indecibile la narrazione matura. È che Verga si sta facendo le ossa come affabulatore, e se da un lato sbircia nel feuilleton d’oltralpe, dall’altro il suo canone, tematico e stilistico, è tutto italiano, per la precisione foscoliano e manzoniano. Cosí, per un verso struggimenti ortisiani (e ideali politici coniugati ad amori altrettanto ideali), per l’altro temerarie panoramiche e sondaggi nel guazzabuglio del cuore umano, entro il solco sicuro dei Promessi sposi. Basti la maniacale orografia dell’incipit, scimmiottatura del modello piú carismatico del nostro Ottocento (a sua volta debitore, anche nella costruzione dell’‘attacco’, all’Ivanhoe di Scott), non senza qualche effetto d’involontaria comicità: L’estrema diramazione degli Appennini che si prolunga fino alle ultime spiagge della Calabria assume dei caratteri particolari; non è piú quella catena superba, figlia delle Alpi, che si copre di nevi perenni; e dalla riviera di Genova sino ai confini dell’Abruzzo mostra ai suoi mari le sue cime ghiacciate al di sopra delle tempeste del cielo; poiché accostandosi alle parti piú meridionali d’Italia sembra sentire l’influenza di questo cielo d’Oriente. I suoi gioghi […] prendono delle forme meno dure piú arrotondate.. una vegetazione di boschi che ai tempi di cui scriviamo formavano delle vere foreste impenetrabili, coprivano le coste ancora selvaggie di questi monti, che si spiegano sino alle spiagge del mare56.
Eccetera, eccetera. Con ogni evidenza, è di scena un narratore alle prime armi, che non a caso impasterà il suo fluviale racconto di amori a buon mercato e di occultismo d’accatto, e non riuscirà a rattenere la sua idiosincratica (e un po’ fanatica) visione storico-politica nemmeno dietro gli scenari altamente codificati e cristallizzati che vorrà allestire. Analogamente, potremmo sostare a lungo sulla rigida suddivisione di registri – gentiluomini contro popolani – che lo scrittore dei Carbonari opera, secondo una stilizzazione meccanica e sull’orlo del melodramma. Egli sembra incapace di conseguire soluzioni stilistiche ibride, sperimentali compromessi o invenzioni lungo gli assi diastratico e diafasico. O forse, piú ancora della imperizia mimetica, gli fa velo una mentalità ancien régime, che impedisce
52
Ibid., p. 441. Ibid., p. 185. 54 Ibid. 55 Ibid., p. 414. 56 Ibid., p. 88. 53
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al popolo di assurgere a soggetto storico, restando alla stregua di «massa di manovra»57: tanto è vero che le stesse tavole fisiognomiche operanti nel testo appaiono bloccate secondo un modulo schematico e deterministico, che, a questo stadio dell’apprendistato verghiano, ancora vieta agli umili l’accesso agli attributi della bellezza. Ma piuttosto che indugiare in un fatalmente impietoso giudizio di valore, è ora opportuno sforzarsi di ascoltare il basso continuo “nazionalistico” che accomuna tutte le pagine fin qui discusse, sul piano della realizzazione formale come su quello dei modelli ideologici. Perché sta di fatto che, a dispetto della prima formazione, schiettamente insulare, e delle letture europee che con rimarchevole precocità coltiva, Verga, almeno nella maggior parte delle stazioni della sua carriera, si sente italiano. Pertanto, egli avverte l’ostacolo politico e quello linguistico come la sfida essenziale, il primo indifferibile mandato per sé e per la classe cui sente, con orgoglio, di appartenere. E infatti, anche se l’anno dopo I carbonari della montagna si verifica per lui un incongruo passaggio a Nord-Est, il ‘centro lirico’ della sua prosa resta quell’endiadi nel cui segno aveva battezzato l’inedito: amore e patria. E ancora una volta, esattamente come nelle prime due prove, l’italianità può fondarsi solo in virtú dell’attrito con l’alterità. Se Amore e patria era un episodio del Settecento americano, e se i Carbonari si sviluppavano (per ben quattro tomi) negli anni del dominio francese nel Regno delle Due Sicilie, l’azione di Sulle lagune, infarcita di fanciulle perseguitate e di anime nere, è ambientata a Venezia, nei giorni dell’occupazione asburgica. Si tratta di un romanzo, balzachianamente, di “storia contemporanea”, scritto in sincronia con gli eventi che ne costituiscono l’ossatura, quindi: è il 1861. L’unità d’Italia non è stata ancora completata, e le lagune sono state e continuano ad essere il paesaggio degli estremi impeti risorgimentali e delle efferate repressioni austriache. Stefano, un ufficiale magiaro ostile all’Impero, figlio di un ribelle giustiziato ad Arad nel ’49, poi disertore, poi soldato sabaudo, infine arruolato nelle file della polizia austriaca, si innamora di Giulia, veneziana, appartenente a una famiglia di patrioti irredentisti, protetta e insieme insidiata da un aristocratico austriaco. Nel romanzo i temi del villain respinto, del duello d’onore, della fuga in barca riciclano ed esasperano, ancora, il prestigioso ‘formato’ manzoniano; e il sogno di una Venezia libera suggella la narrazione, facendo conflagrare gli impulsi patriottardi. Ma questa vicenda di un Verga italiano non finiva qui, anzi probabilmente non era ancora cominciata. Vent’anni dopo, quando si tratterà ormai di “fare gli Italiani” anche culturalmente, Verga si porrà il problema tecnico e insieme politico della lingua con inedito e risoluto impegno; e il frutto di questa ricerca costituirà forse il piú decisivo tra i suoi lasciti. Una lingua modernissima e stratificata, strumento di comunicazione e di conoscenza duttile e insieme prensile, in grado di dare espressione al conflitto sociale come alle Weltanshauungen piú immobilistiche, di rappresentare i moti convettivi del linguaggio e i conflitti a cui essi rispondono. L’espediente artistico che rende possibile questo miracolo è, come ben noto, il «discorso vissuto» (coi suoi corollari sintattici e stilistici, dall’éternel imparfait agli effetti di nenia o di lassa), che Verga aveva appreso alla scuola dei realisti francesi, e che nel Novecento appassionerà linguisti del calibro di Leo Spitzer e di Giacomo Devo-
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C. Annoni, Introduzione a G. Verga, I carbonari della montagna. Sulle lagune, cit., p. 12.
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to58: una rivoluzione dei codici prosastici analoga a quella prodotta dal verso libero in poesia. Perché, come lo sfondamento della gabbia metrica consentirà di svincolare e di conseguenza potenziare il significante, cosí la spaccatura d’ogni legame cogente tra sintassi e registro dà modo alla narrazione verghiana di modulare la diversità evitando a un tempo un antistorico e irreale schiacciamento verso l’alto e un folkloristico stile-pastiche. È ingeneroso ritenere, come ancora molti fanno, che l’ideologia di Verga non abbia reali negozi con questa vera e propria “politica” formale, pensando ai suoi artifici come a esperienze da laboratorio, pratiche estetiche avulse dal credo politico e dalla soggiacente tavola etica: l’erlebte Rede è il ‘medio’ del suo messaggio, ma anche il suo messaggio stesso. Nell’avvicinarsi alle genti umili della sua Sicilia, il romanziere decide di adottare non una lingua parlata nazionale, di fatto inesistente; non la lingua regionale, che avrebbe costretto il libro in un ambito ristretto; bensí una lingua italiana intessuta di espressioni e vocaboli locali, adatta a caratterizzare i personaggi ed a nascondere l’autore, costruita sulla stessa semplice struttura sintattica della lingua siciliana, al fine di semplificarne la lettura da parte di persone poco istruite e di restituire la trama della realtà. Probabilmente, l’«identità italiana» di Verga e la sua lettura ideologica della vita nazionale risiedono piú a questo livello morfologico che nelle tante rappresentazioni e narrazioni della Storia, del Risorgimento e delle sue radici malate, che ci ha consegnato: tanto contraddittorie, scisse e sfuggenti queste ultime, quanto rivoluzionaria, coerente, «soda» la forma che le contiene. Postulare la coerenza di una forma non significa, tuttavia, escludere i punti di incrinatura: solo che essi non andranno ricercati tra i gangli e i puntelli della narrazione, cioè sul piano delle tecniche e dei procedimenti, bensí nell’impianto generale, al livello del sistema. Proprio a questo livello, la scrittura di Verga può serbare ancora, nelle sue articolazioni piú frastagliate, sorprese e dilemmi. Si pensi al diario dell’Isabellina, nel Mastro-don Gesualdo: un atollo di bovarismo in un romanzo di satira sociale, o meglio di grottesco sociale. A rileggerlo oggi, si resta colpiti da una di quelle sincronie storico-letterarie in grado forse di diffondere luce su motivazioni e significati reconditi del testo. La coincidenza a cui si allude è il destino parallelo che andava compiendosi all’altro polo della pratica narrativa ma dentro la stessa temperie di «crisi del romanzo», ovvero la ricerca della forma romanzo ad opera di Gabriele D’Annunzio: che esattamente in quel 1889, toccava un apice di sperimentalismo e di narcisismo introiettato, col journal di Maria incastonato nel Piacere59, quasi un punto di rotazione e di incrinatura del suo capolavoro narrativo. Ebbene, fra tali romanzi radicalmente diversi si dà un isomorfismo che meriterebbe una piú precisa analisi comparativa, sia delle decisioni estetiche di fondo che delle peculiari soluzioni stilistiche. In ambedue le opere il punto di vista subisce infatti, nel bel mezzo dello svolgimento finzionale, un repentino slittamento, e con esso risultano alterati il passo e lo statuto stesso del racconto. Da Andrea a Maria, da Gesualdo a Isabella: dal romanzo dell’artista al diario intimo, in un caso; dal romanzo «di prove» ad un saggio di Erziehungroman, nell’altro. Siamo di fronte a due scrittori affermati che nello stesso momento storico e 58
Cfr. L. Spitzer, L’originalità della narrazione dei ‘Malavoglia’, in Studi italiani, Vita e Pensiero, Milano 1976; e G. Devoto, I “piani del racconto” in due capitoli dei “Malavoglia”, in Nuovi studi di stilistica, Firenze, Le Monnier, 1962. 59 Cfr. G. D’Annunzio, Il piacere, a cura di F. Roncoroni, Mondadori, Milano 1995, pp. 188 ss.
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nella stessa letteratura nazionale optano autonomamente, ad un punto mediano dell’esecuzione narrativa, per un’eversione del patto comunicativo, riservando a una tessera formale un falsetto, un controcanto muliebre e bovaristico, una diversa istanza diegetica. Benché una sinossi di quelle microstrutture faccia balzare agli occhi soprattutto le differenze (a cominciare da quella, capitale, per cui mentre in D’Annunzio in fondo varia la voce e non il codice, nell’interludio verghiano avviene l’esatto contrario), a un grado maggiore di astrazione, e di inchiesta indiziaria, esse appaiono in grado di precisarsi vicendevolmente. La discontinuità che provocano nella serie letteraria è sintomatica d’un disagio rispetto al partito preso di stampo organicistico in cui quelle scritture, in modo diametralmente opposto, allignano. Come se i due romanzieri prendessero coscienza della scarsa adeguatezza alle moderne concezioni antropologiche e gnoseologiche di quell’affabulazione rettilinea, coesa, interamente e univocamente filtrata attraverso un personaggio a tutto tondo, che pure essi avevano abbracciato in partenza; come se nessuna Erlebnis, nessun “giogo” tragico, nessun modello di “formazione” si rivelassero ormai capaci di polarizzare e di incanalare la complessità delle trame e la diaspora dei codici; come se fossero necessari una proiezione esterna e un principio dialogico, affinché l’itinerario del soggetto non si rapprendesse sotto la coltre delle stereotipe mitografie dell’io, delle sterili tautologie, delle ipostasi gloriose. Il fatto è che D’Annunzio e Verga s’incontrano in quel territorio insieme retrivo e reattivo, di un flaubertismo reso ormai fiacco dall’uso, dopo aver battuto sentieri agli antipodi: e non si correrà il rischio di forzare i termini del problema, qualora si vedrà nel paradigma risultante da quelle enclaves una sorta di ‘sezione aurea’ tra le rispettive carriere. L’autore del Piacere, dopo aver conosciuto le asperità congenite all’ipotesi di connubio fra psicologia e naturalismo, fa del diario di Maria una cassa di risonanza interna e un’ansa narcisistica; del romanzetto edulcorato d’Isabella, lo scrittore del Gesualdo mette invece a profitto le virtualità contrastive, stranianti, parodiche, proprio nell’atto di esperire l’intrinseca difficoltà di modulare il rapporto tra «natura» e «cultura» in cima alla scala sociale. Sotto il profilo prettamente funzionale, mentre il primo (scavando dentro il trauma già inferto alla compagine narrativa dall’interpolazione dei versi di Sperelli, e non solo suoi) integra il racconto principale con un’anacronia di tipo eterodiegetico e misto, il secondo predispone il mancato incontro dell’epilogo, ma soprattutto fa da tessera di domino per la progettata, e mai realizzata, continuazione del ciclo. Entrambi, nondimeno, procurano un effetto di scomposizione prospettica, oltre che una crepa teoretica: il sogno verghiano dell’«opera che sembrera essersi fatta da sé» e quello dannunziano del «vivente organismo d’opera d’arte» vacillano, nell’istante in cui le due simmetriche scritture s’impennano di fronte alla barriera delle censure sociali, delle «mezze tinte dei mezzi sentimenti», delle emozioni alienate. Malgrado la difformità delle tecniche di focalizzazione adottate, il “troppo pieno” dannunziano e il “troppo vuoto” verghiano, il monocorde psicologismo e il verismo polifonico cercano cosí una modalità di applicazione nel medesimo ambito morfologico, dove regnano i tropi dell’idillio e i riti dell’«educazione sentimentale», di un soliloquio effusivo ed enfatico. Infine, le due carriere divergono una volta per tutte: l’una nutrendosi di quel troppo pieno, l’altra sfinendo in quel troppo vuoto.
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6. Verga europeo Dalla Sicilia all’Italia, dall’Italia all’Europa: un siffatto diagramma biografico, riposante sull’ipotesi critica di una progressiva sprovincializzazione di Verga, è di per sé fin troppo approssimativo; nel caso della carriera del letterato catanese, poi, viene clamorosamente contraddetto da una miriade di prove controfattuali. Qui se ne ricorderà in special modo una, a nostro avviso esemplare dell’intreccio – che c’è sempre, ma in questo caso si fa inestricabile – tra le anime e le patrie dello scrittore. Si tratta della vicenda di una relazione a tre: fra Verga, un suo auctor francese e un “altro” Verga. Ma prima di provare a considerare le relazioni (ed eventualmente la regola del funzionamento) dell’intertestualità attiva fra due novelle italiane e un romanzo-fiume francese, è bene cercare di ricostruire per sommi capi il contesto complessivo in cui si verifica l’innesto. Siamo verso la metà degli anni Ottanta, e Verga sta sulla scena letteraria italiana come una specie di enigma: è emigrato nel continente da un decennio, ha avuto la sua stagione scapigliata ma alquanto idiosincratica, ha pubblicato le sue due cruciali raccolte di novelle, Vita dei campi e Novelle rusticane; e soprattutto ha già dato alla luce quei Malavoglia che le istituzioni culturali hanno accolto in modo non unanime, ma in ogni caso riconoscendone i caratteri (almeno sul piano morfologico) di originalità. Singolarmente, nonostante cioè quella sicura capacità di smuovere l’orizzonte delle forme e gli statuti fondamentali del racconto, l’itinerario dello scrittore catanese procede però in modo tutt’altro che lineare: tanto che quel romanzo, che ha costituito il culmine di un esemplare apprendistato, appare piuttosto come una ferita aperta nella sua carriera di poligrafo, di «testimone scisso», di fabulatore irrequieto, sempre in bilico tra ricerca e documento, tra tipico e diverso, tra la sperimentazione piú ardita e il ‘mestiere’ di scrivere, quasi un impulso a restituire senza accomodamenti, perfino in modo irriflesso, la prosa del mondo. Si prenda – giusto alle origini della sua ricerca formale – il dittico fiorentino composto da Una peccatrice e da Storia di una capinera: due romanzi nei quali la passione e il tormento, la disillusione e la malattia, il parossismo e l’emarginazione erano stati declinati secondo una mise en scène debitrice tanto, ancora, al modello manzoniano (soprattutto il secondo testo, con quell’eroina in gabbia, un po’ Ermengarda e un po’ Gertrude), quanto alle piú avanzate formalizzazioni d’oltralpe, da Chateaubriand a Musset alla Sand, ora acclimatate in un’amalgama piuttosto raro nel panorama delle lettere italiane. Oppure, si consideri Eva, opera di ponte tra Firenze e Milano, in cui Verga non si era limitato ad incastonare un suo alibi nella figura dell’artista siciliano (né per la verità era nuovo a narcisismi di grado zero: il protagonista di Una peccatrice era precisamente uno scrittore siciliano), ma aveva istradato il lettore, mediante la celebre introduzione sulla crisi dei valori e l’emarginazione dell’arte, verso una fruizione moralmente e socialmente ‘forte’ ed engagée. Proprio Eva, inoltre, aveva aperto l’estremo tris di donne fatali e di amori impossibili, alla vigilia della svolta verista: e se Tigre reale – scritto, come si ricorderà, negli stessi mesi in cui era in cantiere anche Nedda – si aggirava sempre nei dintorni della Scapigliatura, con isteriche psicomachie e vieti connubi tra amore e morte, con Eros Verga avvicinava a un piú sofisticato campione di estetico seduttore e di eterno marito: tra Dostoevskij e Flaubert, e naturalmente verso D’Annunzio. E con questo personaggio affacciato sul Novecento – nel segno, quindi, di un’educazione sentimentale fallita, troppo compromessa dalle cattive lettu-
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re e dall’infinito desiderare – si chiudeva per Verga la stagione delle passioni totalizzanti e triangolari: la vena non era affatto esausta, ma lo scrittore si sentiva sempre piú attratto dalla sfida delle «mezze tinte dei mezzi sentimenti», ingredienti e non piú sostanza lirica del quadro complesso che aveva in mente. Nell’inedito paesaggio di forme che Verga traguarda intorno all’80, la narrativa breve sembra offrirglisi soprattutto come una formidabile risorsa di supporto e di lavorío quotidiano, quasi il terreno eletto per un libero giuoco tra passato e futuro: un’officina dove far brillare sperimentazioni di letteratura mezzana, dove sviluppare idee e progetti ancora appartenenti alla vecchia maniera, o piuttosto mettere a punto prototipi di nuovi stili. Chi conosce l’esito dei Vinti sa anche come andò a finire questo artigianato minore, e nondimeno febbrile; sa che quel laboratorio del futuribile fu soprattutto luogo di ibridazioni, di conati e di tentativi impossibili: al punto che la grande costellazione delle novelle verghiane, se viene considerata nel suo insieme, esibisce qualcosa di eccessivo e di profondamente ambiguo, e nella sua ipertrofia di segni diffratti e discordi risulta quasi l’inverso algebrico dei difetti, delle ellissi e delle tracce di non-finito che il narratore-maratoneta del ciclo dissemina lungo la sua malcerta, ingolfata corsa. Ma proprio per questo, le novelle vanno osservate con un occhio tanto piú clinico e sospettoso: non forniranno mai le risposte alle nostre domande, ma ci aiuteranno a renderle meno pressanti e, forse, piú laiche. Prima metà degli anni Ottanta, dicevamo: per l’esattezza, 1884. È giusto dentro questo guado tra vecchio e nuovo, tra breve e lungo, che Verga mette a segno una brevissima e sconcertante narrazione, che sarà negletta dai recensori e pressapoco dimenticata dal pubblico: Tentazione!. Racconto di uno scherzo goliardico degenerato in stupro e in omicidio, quel testo sembra quasi lo “specchio scuro” di un’altra sua precedente, e viceversa immediatamente canonica, prova novellistica. Se cioè nella celebre La Lupa, prodotta all’inizio di quel decennio di fuoco della non lunghissima stagione verista, veniva raccontata la ‘leggenda’ al nero di una donna-mantide – una sorta di demone incube che brutalizza i personaggi senza qualità di una comunità ancora totemica, ricattata da una religio ctonia60 – , Tentazione! si presentava come il referto scabroso di una violenza fatale ai danni di una giovane: un «guaio» commesso da una brigata pervertitasi in branco61. Da un lato, quindi, un tempo ciclico, quasi assoluto (già Capuana, che pure vedeva nel racconto del bando e dell’impossibile redenzione della Lupa soprattutto il resoconto di un episodio di cronaca vera, non poteva fare a meno di ravvisarne l’origine leggendaria e la trasfigurazione mitografica62), dall’altro lato l’accadimento puntuale, fatale, irripetibile di 60
Cfr. G. Mazzacurati, Scrittura e ideologia in Verga ovvero le metamorfosi della ‘Lupa’, in Forma & Ideologia, cit., pp. 142-175. 61 La novella, che al suo primo apparire in rivista destò polemiche per i contenuti osceni e per un paio di bestemmie, confluí poi in Drammi intimi: il che valse a rincararne l’ambiguità. La silloge si presentava infatti come una tipica erma bifronte: vi erano combinati due trittici, l’uno di ambiente borghese-aristocratico, e l’altro di ambiente rusticano. Per la prima volta, la tipologia «documento umano» e quella «studio dell’uomo interiore» sembravano coabitare: un dato certamente casuale, che certo ha piú a vedere con gli ingranaggi dell’industria culturale e con i suoi meccani posticci che con una presunta volontà “organicistica” e totalizzante da parte di Verga – quella volontà che concerne invece la tensione compositiva del ciclo. 62 Cfr. L. Capuana, Verga e D’Annunzio, a cura di M. Pomilio, Bologna, Pàtron, pp. 73-82 (la recensione cui si fa riferimento era originariamente apparsa in Studi sulla letteratura contemporanea, nel 1882).
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un «fatto diverso»; da un lato una carnefice divenuta ostia della comunità, dall’altro una vittima tout court; da un lato una scrittura stratificata e ossessiva, alla quale Verga sarebbe ancora tornato, senza requie, in chiave sia di riscrittura ‘interna’ che di transcodificazione teatrale, dall’altro una scarica isolata di energia e di desiderio narrativo, sin troppo rappreso in quel testo destinato a esser tralasciato dallo stesso autore (che lo avrebbe infine espunto dal corpus novellistico riconfluito ne I ricordi del capitano d’Arce). Eppure, è forte l’impressione che sotto la pagina di Tentazione! si agiti ancora il fantasma della Lupa; di piú, che dietro l’apparente nemesi di Lupa e del suo omonimo archetipo francese – Cecily, la «Louve» degli amati Mystères de Paris di Sue – ci sia qualcosa di radicalmente irrisolto. Il cortocircuito fra i due racconti verghiani parla infatti di una segreta tensione ideologica, fatta di formazioni di compromesso e di riscatti simbolici imperfetti e, a un diverso livello, di debiti scoperti, ma non per questo meno angosciosi, con tradizioni del romanzo europeo: siamo alle prese con un Verga ombelicalmente legato alla sua terra, ma al contempo proiettato con indefessa curiositas verso i modelli d’oltralpe. Ripartiamo dalla prima, e piú famosa, novella. Nelle pagine già citate, Capuana ebbe a sottolineare la realtà delle «fosche figure di quel dramma fosco»: un dramma incentrato, com’è ben noto, sulla passione di una madre snaturata, e ispirato a un fatto di cronaca, l’omicidio di una contadina da parte del genero in seguito a una incestuosa passione amorosa. Già la descrizione del personaggio, nell’essenzialità del suo tratteggio, si offriva come un fascio di sintomi, ed era in questo senso un perfetto paradigma del metodo verista: Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure non era piú giovane – era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi cosí, e delle labbra fresche e rosse che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai – di nulla63.
La magrezza sembrava indicare non fragilità e delicatezza, ma voracità, avidità famelica; il seno «fermo e vigoroso da bruna» alludeva a una sensualità forte, mediterranea, a contrappunto di quella magrezza “vampiresca”; l’aura mitica veniva rincarata dalla segnalazione dell’età avanzata; il pallore alludeva alla malattia, sintesi del decadimento fisico e della degradazione morale del personaggio. Infine, gli «occhi grandi cosí» e le «labbra fresche e rosse che vi mangiavano», elementi iterati e particolarmente erotici del ritratto (oltre a introdurre una sinistra particella pronominale di seconda persona plurale) conferivano una connotazione stregonica e medusea. Quanto al soprannome, esso, come spesso in Verga, è un marchio a fuoco, in cui il punto di vista della comunità si reifica. Simbolo diabolico e trasgressivo, il personaggio trasgredisce alle regole morali che tutta la società cerca di rispettare, ed è questo che determina il suo bando. E che si tratti di una figura sospesa tra dimensione ferina e dimensione stregonico-leggendaria, lo si vede in espressioni come «andare randagio e sospettoso della lupa affamata» o «sola come una cagnaccia»64, che stavolta non sono attribuite dagli uomini del villaggio, bensí dalla voce narrativa.
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Verga, La Lupa, in Le novelle, cit., t. I, p. 67. Ibid., p. 124.
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A quest’imagerie zoomorfo-misogina, che grazie soprattutto a Balzac si era cristallizzata in un sistema di topoi, si aggiunge un’ulteriore connotazione, legata alle superstizioni e alle paure popolari: «Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare», i mariti e i figli ammaliati anche se «fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina», fino all’ironia blasfema e accumulativa di una frase come «Padre Angiolino di Santa Maria di Gesú, un vero servo di Dio, aveva persa l’anima per lei»65. Verga indugia su forme di esorcismo collettivo e quasi ritualizzato, che non riescono però a garantire quell’ordine sacro che la Lupa, non allineata al conformismo pagano-religioso, sovverte: chiudendosi in una volontaristica auto-emarginazione dal sistema sociale. Perché solo nella natura selvaggia e riarsa dei luoghi riesce a integrarsi perfettamente, manifestazione estrema di una sensualità panica e demoniaca: non dea che incanta e seduce, ma essere maledetto il cui potere terribile ha i caratteri del maleficio stregonesco da esorcizzare. La trama della novella è troppo nota per essere qui ripercorsa nei dettagli: la passione per il soldato, l’eros devastante che conduce all’incesto, la calma eroica e fatale della protagonista, il sacrificio della figlia pur di soddisfare la propria bramosia carnale, l’atteggiamento esitante dell’amato, fatto di attrazione e di rimorso; e poi la denuncia al brigadiere, il ricorso al parroco, e infine la sfida della Lupa alla stretta estrema di amore e morte, resa con un cromatismo a tinte piatte, di straordinaria efficacia: «lo vide venire [...] e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri»66. «La vittima è già tanto conscia della fine (appunto, come un animale intrappolato e senza piú scampo) che il suo cammino verso la carneficina appare una volontaria eutanasia, una scelta liberatoria, un suicidio»67: la morte, quindi, da un lato come elemento catartico per porre fine alle tentazioni dell’inferno, dall’altro sorte inevitabile in quanto connaturata al maledetto destino. Ora, è proprio da questa uscita di scena della Lupa che Verga riparte, allorché dove posare nello scenario en plein air di Tentazione! la figura del successivo ‘caprio espiatorio’ designato dalla comunità. Sarà utile prestare attenzione ai gradi attraverso i quali si compie la metamorfosi della protagonista della seconda novella: comparsa in scena come una sorta di Nedda oleografica, latrice nel corso della narrazione di un pizzico di malizia molto dignitosa, in parte difensiva e in parte offensiva (ma di un’offesa il cui solo responsabile è il sottilmente misogino Verga: essendo la narrazione puntellata di viscide connotazioni che equivalgono ad altrettanti capi d’accusa), finirà per tramutarsi in un’estrema, insospettabile variante della Lupa. Nel finale ‘a precipizio’ della novella, la contadina si rialza «come una bestia feroce [...], con quegli occhi spalancati dove c’erano i carabinieri e la forca. Diventava livida, con la lingua tutta fuori, nera, enorme, una lingua che non poteva capire piú nella sua bocca»68. È soprattutto qui, in questo finale a tinte piatte, che al lettore sembra di rivedere, a tradimento, il fantasma di quell’altro personaggio verghiano. Certo, la Lupa non era divenuta nel tempo diabolica, ma lo era stata, anche fisiognomicamente, sin dal principio. Il delitto finale era l’effetto quasi logico della sua hybris di 65
Ibid. Ibid., p. 129. 67 G. Mazzacurati, Scrittura e ideologia in Verga ovvero le metamorfosi della ‘Lupa’, cit., p. 158. 68 G. Verga, Tentazione!, in Le novelle, cit., II, p. 35. 66
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strega, mentre qui il delitto non è castigo: è una disperata, inane soluzione per sfuggire alla giustizia. Ad ogni modo, nonostante nelle due novelle una trasgressione sessuale si dia come cedimento ad una «tentazione» e susciti poi la minaccia della «forca» (termini, questi, che ricorrono in entrambi i testi), i rapporti fra i personaggi appaiono ribaltati: la Lupa è null’altro che la colpevole punita, in modo congruo a quel contesto marcatamente folklorico, legato a radici ctonie; mentre la contadina del secondo testo – quasi il referto di un episodio di cronaca nera – è una vittima doppiamente sacrificata. Parimenti asimmetrico risulta, per cosí dire, l’ordine cognitivo dei due testi: si pensi al finale gnomico di Tentazione!, che repentinamente – in una chiusa ch’è poi tutta interna alla topica della narrazione «di prove» – trasforma l’aneddoto in apologo («ripensavano […] come si può arrivare ad avere il sangue nelle mani cominciando dallo scherzare»69). Si tratta di un movimento contrario a quello della Lupa: lí, un «fatto diverso» serviva a informare, desanctisianamente, un archetipo, un «universale», un mitema; qui, per contro, è una massima didascalica a rendere universale parabola quella “microstoria” di una brigata tramutatasi in branco. Se il finale de La Lupa esso era nel segno di una natura fiorita e trionfante, nella Spannung della seconda novella Verga fa in modo che una povera contadina stuprata e destinata a soccombere si tramuti per pochi istanti, con una sorta di recrudescenza ferina, in una belva selvaggia: come a dire che un testo non costituirebbe solo l’imperfetto negativo ideologico dell’altro, ma anche una sorta di suo inquietante hýsteron próteron. Quella Lupa che si reincarna in un’umile vittima senza nome, mentre quest’ultima si metamorfosa in lei, è il segno della labilità della «freccia del tempo» dove s’incardina, o almeno vorrebbe incardinarsi, questo segreto dittico dell’eros e della morte; e della bi-logica, in senso pieno mitica, che sembra abitarlo in profondità. Una simile filiera genealogica, in sé tutt’altro che lineare, non esaurisce però la questione che si è posta; anzi, rischia di restituire ancora l’immagine, decisamente datata, di un Verga schiacciato sul suolo dell’isola, sotto il giogo dei suoi demoni e delle sue ambivalenti figure. Invece, lo si è detto, Verga è scrittore europeo, attirato e appassionato da ciò che accade in Francia, che segue personalmente l’esportazione e l’acclimatazione delle sue opere, che acquista e legge di tutto. Non stupirà, allora, il fatto che, se dietro la contadina violata in Tentazione! c’è probabilmente la gnà Pina (col suo rapporto contrastivo con la figlia), alle spalle della gnà Pina ci sia, con evidente decalcografia onomastica, Cecily (col suo rapporto contrastivo con Fleur-de-Marie). Basti allegarne la canonica prosopografia: La Louve était une grande fille de vingt ans, leste, virilement découplée, et d’une figure assez régulière; ses rudes cheveux noirs se nuançaient de reflets roux; l’ardeur du sang couperosait son teint; un duvet brun ombrageait ses lèvres charnues; ses sourcils châtains, épais et drus, se rejoignaient entre eux, au-dessus de ses grands yeux fauves; quelque chose de violent, de farouche, de bestial, dans l’expression de la physionomie de cette femme; une sorte de rictus habituel, qui, retroussant surtout sa lèvre supérieure lors de ses accès de colère, laissait voir ses dents blanches et écartées, expliquait son surnom de la Louve70.
69 70
Ibid., p. 36. E. Sue, Les mystères de Paris, Gosselin, Paris 1843, X, p. 149.
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L’immagine che Sue trova permette «di riconoscere facilmente una parte integrante del patrimonio iconografico della donna fatale»71, un serpente che insinua a poco a poco la sua vittima soffocandola in un abbraccio letale che, prolungando l’ardente desiderio mai appagato, la conduce a una delirante morte. Il personaggio di Cecily è immerso negli abissi della società, in cui il corpo femminile diviene oggetto di emanazioni intollerabili e forze misteriose che suscitano morbose curiosità nella bigotta borghesia: la sua bellezza e perfidia di mulatta fanno parte di un armamentario esotico/erotico di estrazione romantica costruito su un luogo comune popolare ormai acquisito; il vizio incallito e l’audacia del suo comportamento la rendono una creatura affascinante il cui segreto spinge gli uomini di ogni specie e rango ad abbandonarsi ad appetiti brutali repressi dalle convenzioni morali. È una Circe che trasforma gli uomini in maiali, provoca mutazioni o meglio metamorfosi facendo leva su quella libido che fa soccombere nella piú squallida voluttà. Era insomma in prove narrative risalenti a prima ancora della metà del secolo che Verga poteva trovare, fra i contes des mille et une nuits (anzi tra le «comptes des mille et une nuits», come scherza il solito Balzac in Illusions perdues), vicende di donne fatali e letali, concrezioni semiotiche di retorica dell’eros, di colpe e di espiazioni, di bandi e di delitti. Resta però da comprendere cosa realmente avessero da spartire, oltre alla ’ngiuria affibbiata da una comunità propensa alla demonizzazione, queste due Lupe. Se è vero che la gnà Pina, esito “classico” della cultura verista, e Cecily, prodotto “manieristico” del romanticismo francese, condividendo tratti fisiognomici e funzioni attanziali, sono caratterizzate entrambe da un côté demoniaco e trasgressivo, oltre che delle generiche convenzioni sociali, anche dell’imperativo maschilista; se è vero, cioè, che l’assiologia maschio/femmina funge da cardine ideologico e da campo di conflitto di entrambe le narrazioni (non è un caso che di fronte alla rivalsa della donna-lupa, l’uomo, sia che si chiami Nanni e stia per uccidere, sia che si chiami Ferrand e stia per morire, balbetti), va però chiarito che le costanti sembrano arrestarsi qui. Di fatto, la Lupa è il negativo della Louve: al contempo carnefice e vittima dei suoi sortilegi, la gnà Pina è un essere irrazionale opposto alla crudele meticcia che si nasconde nei misteriosi sobborghi parigini, e la cui bellezza è capace d’incantare con il bagliore degli occhi e il colore opaco della pelle. Da una parte la Lupa, madre snaturata che non rispetta l’ordine costituito e sovverte le regole imposte dalla società, è un’esclusa, una reietta che il mondo contadino non può comprendere né accettare; dall’altra la Louve, meticcia fedifraga che si macchia dei piú orrendi peccati meritando il carcere a vita, racchiude in sé il mistero di quel fascino a cui nessun uomo può resistere, una volta caduto nella sua trappola. Pur essendo affine nell’aspetto, nelle arti seduttive, nella passione che l’anima e la distrugge, la creola di Sue è molto piú crudele e fredda della siciliana di Verga: quest’ultima è una madre che vive sulla sua pelle i segni di una deleteria passione per il genero al punto da farsi uccidere in una volontaria morte liberatoria, mentre l’altra è una moglie che cede alle piú turpi lusinghe senza mai pentirsi della sua condotta viziosa. La “lupa di campagna” e la “lupa di città” costituiscono esiti figurali assai diversi; ma ciò non modifica il dato ineludibile che la stirpe antropologica e per cosí dire mitografica sia la stessa: quella «donna fatale» che rappresenta «la paura causata dallo strappo tra na71
M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze 1930, p. 149.
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tura e progresso, la ribellione della ciclicità naturale e di tutto ciò che è ancestrale contro il mondo votato al progresso, un mondo privo di sentimenti: la donna fatale non è che la paura di se stessi»72. Tale carattere sinistro degli “idoli di perversità”, insieme all’osmosi contraddittoria di genealogie che le storie incrociate della Louve e della Lupa testimoniano in modo saliente, è cruciale. Nelle mani prima di Sue e poi di Verga, un segno di per sé inquietante era come impazzito: quel topos appariva, all’altezza cronologica della fin-desiècle, già esausto, poiché l’esplorazione delle sue possibili articolazioni narrative e concettuali poteva dirsi compiuta. Se un topos esplode da un capo all’altro della morale, l’effetto culturale e figurale è che viene deprivato di valenze e vettori ideologici: quell’immagine sta lí, come una pietra dello scandalo, di nuovo vergine, disponibile a inediti investimenti di senso – anche paranoici, anche indecidibili. Da questo punto di vista la propaggine di Tentazione!, con la sua nemesi e il suo autoreverse, non aveva davvero nulla di sorprendente. 7. Le lacrime degli uomini Il contenzioso immaginario fra quelle due figure e l’approdo a una contro-riscrittura profondamente autocensoria, oltre a illuminare uno strato carsico, retrivo e misogino dell’etica verghiana, ci parla anche, a un superiore livello estetico, di un conflitto irrisolto fra la mimesi e la convenzione. Come se Verga non riuscisse a scegliere, ancora una volta, tra il “diverso” (che era, si ricordi, l’aggettivo pertinentizzato nello stesso paradigma goncourtiano del fait divers) e il “tipico”, quella categoria che, dopo aver attraversato obliquamente il secolo serio e le codificazioni eroiche del realismo, era ora al centro di un decisivo scambio epistolare tra due intellettuali al centro del sistema letterario. Nell’aprile del 1888, mentre lo scrittore catanese si apprestava a pubblicare la prima edizione del Mastro-don Gesualdo, Engels scriveva a una narratrice di ispirazione socialista, Margaret Harkness, una lettera che ancora oggi – piú di sessant’anni dopo la celebre discussione di Lukács – ha il potere di far vacillare le «idee ricevute» della storiografia letteraria. Dopo aver adombrato un personale apprezzamento per l’ultima opera della sua corrispondente, il grande ideologo vi dava una definizione del realismo assolutamente antitetica a quella che, specie nei romanzi “impegnati”, sembrava trionfare, dentro il guado di quell’epoca: «Realismo significa, secondo il mio modo di vedere, a parte la fedeltà dei particolari, riproduzione fedele di caratteri tipici in circostanze tipiche»73. Per questa via Engels, nell’atto di elevare a potenza la categoria del tipico, si spingeva a stigmatizzare esplicitamente ogni scrittura narrativa che perseguisse i faits divers, mentre segnalava, come idolo positivo, nientemeno che il Balzac della Comédie humaine. Nel farlo, non sorvolava sul legittimismo di questi e sulle sue simpatie per la nobiltà, ma anzi li adduceva come paradossali argomenti a favore: se era vero che Balzac aveva dipinto l’aristocrazia con tratteggi impietosi, d’una «satira pungente» e di una «ironia amara», stimolando riso e stillando lacri-
72
Ibid., p. 193. F. Engels – K. Marx, Sull’arte e la letteratura, a cura di V. Gerratana, Universale Economica, Milano 1954, p. 26. 73
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me, insomma traendo effetti d’arte dallo sfacelo che si compiva dinanzi ai suoi occhi; senza fingere di non vederlo, quello sfacelo. Il capitale snodo teorico da cui siamo ripartiti rivela innanzitutto l’insospettabile preferenza accordata, dal ‘vecchio leone’ carismatico e militante, al narratore borghese (nonché grandioso gaffeur) di metà secolo, anziché alle pratiche di marca socialisteggiante proliferanti in quella infiammatissima stagione; anziché a Zola, in particolare, addirittura evocato da Engels come antimodello, col vizio di far sgorgare troppo direttamente dalla propria pagina gli ideali politico-sociali. Il suo giudizio ci appare oscillante fra un’indicazione di strategia (passare alla denuncia, smettendo i panni dello sperimentatore e del diagnostico, e quindi economizzando sui segni del diverso) e una valutazione di gusto, la consapevolezza di un’avvenuta saturazione delle forme della devianza: ecco perché l’idea di un ritorno ai tipi, alle maschere sociali, su cui il narratore positivista avrebbe dovuto esercitare la propria arte, trovando, grazie a quella universalità di forme, una piú alta universalità di sentimenti. Questo di Engels è un segnale importante, anche se si prescinde dal pulpito da dove proviene; e nasce il dubbio che, a scavare al di sotto di molti dei monumenti e dei documenti lasciatici dai narratori di quella stagione – cominciando da coloro che dichiararono di essere «non realisti, ma veri»: come, appunto, Giovanni Verga – potrebbe rinvenirsi, al di là di tante sprezzature ed esorcismi, quella stessa idea, tra autoreferenziale e convenzionale, di rappresentazione. Per esempio, nell’istante in cui Engels elaborava quel ragionamento, in cima a qualche cassetto di casa Verga doveva ancora giacere una carta autografa di micidiale esattezza: una carta che, strano a dirsi, la filologia ha portato alla luce non molti anni fa. Era uno schema del Mastro-don Gesualdo in cui lo scrittore aveva abbozzato i caratteri di quella grottesca pantomima: dal protagonista, «faccia di cane laborioso, avido», al padre Nunzio, «faccia di mulo austero, dispotico»; da Speranza, «faccia di volpe avara, dispotica, maligna, scroccona, pettegola, piccola, magra, verde», a Fortunato, «faccia di bue pacifico, dispotizzato dalla moglie, erculeo, pletorico, sentenzioso, testa fina»; da Ferdinando Trao, «faccia di gufo asmatico, istupidito, nasuto, occhi grigi, magro, raso», a don Diego, «faccia d’uccello tisico, vano, sciocco, nervoso». E ancora, il canonico Lupi, «faccia di furetto, barba folta, furbo, attivo, mitigante, arbitriante, mani e viso da contadino»; la serva Diodata, «faccia di gatta nera, piccola, occhi stupendi, smorta, timida, povera, laboriosa»; la gnà Grazia, «faccia di chioccia magra, panciuta, la faccia a punta, piagnucolona»74… Chi si ritrovi oggi di fronte a quell’avantesto, non potrà non restare colpito dalla coerenza di una progettualità d’autore – solo parzialmente rispettata, nei fatti – volta alla rappresentazione degli uomini non tanto nei termini di una generica, e in se stessa prevedibile, «estetica del brutto», quanto nella chiave di uno zoomorfismo tipologico di marca assai dissimile da ciò che contraddistingueva le coeve sperimentazioni del romanzo europeo (benedette, giusto un decennio prima, da Francesco De Sanctis in persona): dissimile dalla 74
Cfr. l’appendice dell’edizione critica del Mastro-don Gesualdo. Redazione «Nuova Antologia», a cura di C. Riccardi, Le Monnier, Firenze 1993. Macroscopica la differenza tra quegli abbozzi e i ‘cartoni’ corrispondenti del primo romanzo, in cui sintomaticamente predomina, in luogo dello stile nominale e dell’animal analogy, l’aggettivazione qualificativa di campo morale, soprattutto denigratoria, mediante formanti non plastici ma caratteriologici).
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koiné morfologica che verso la fine dell’Ottocento si coagulò, nelle pratiche letterarie, attorno ai principi della scienza positiva, creando un’autentica topologia del “diverso”. Quella di Verga sembra piuttosto un’operazione di retroguardia, un tardivo bestiario alla Balzac: per dirla in una formula, l’opzione per l’esterioriorità silhouttistica della “commedia umana” invece che per la failure ontologica della “bestia umana”. Insomma, i tipi anziché i diversi: il realismo, come lo intendeva Engels in quella primavera del 1888 («riproduzione fedele di caratteri tipici in circostanze tipiche») che finisce per scalzare il verismo. Eppure, non possiamo dimenticare come quello scrittore – lo stesso che sembra rifarsi a una modalità fisiognomica di stampo tradizionale, stringente, addirittura teofrastea nella meccanicità dei suoi sillogismi – non nasconda di mutuare i tratti della baronessa Rubiera (come di tanti altri suoi “beniamini”) dai dagherrotipi da lui sviluppati, in prima persona, nella sua Sicilia. E allora? Chi ha la meglio? Il tipico o il diverso? La letteratura o la realtà? Una prima risposta a tale domanda può essere questa: entrambi i momenti – pur essendo agli antipodi quanto a modelli letterari di riferimento – scaturiscono da un disagio dello scrittore nella focalizzazione, da una distanza non piú colmabile dai proprio oggetti. Perché quel narratore, nell’atto stesso di chiudersi nel suo cantiere poligrafico al fine di costruire delle figure “per accumulo” di segni, ha già compiuto qualcosa di estremamente sintomatico: che sbirci nelle fotografie scattate dentro l’isola, come per frugarne le cicatrici, oppure che si rifaccia ai grandi affreschi letterari, e non solo letterari, di medio Ottocento, riprendendone i tatuaggi, egli ha comunque apposto sulle sue dramatis personae le stimmate dell’alterità, di un’alterità che solo un’inesausta concentrazione poietica può incanalare nelle forme della scrittura, quasi cristallizzandola in una seconda natura. Le sue variazioni si svolgeranno, allora, su di uno spartito già dato: infine, è proprio dentro quel margine d’azione fra tipo e replica che si gioca la partita della mimesis; ed è lí che il diverso vince. Allora, si provi a ritornare all’immagine emblematica e diffratta da cui questo discorso è partito, e ai suoi molteplici déjà-vu testuali: l’immagine, cioè, di un autore in cerca dei personaggi, che si autorappresenta davanti al fuoco o ad una finestra, nell’atto di inventare le sue figure, i suoi paesaggi, i suoi «soggetti». Ebbene, nell’87 quello stesso scrittore, mentre stava mettendo mano al suo “zoo” gesualdesco, pubblicava in volume una novella in cui riaffiorava, se non l’occasione, certo la spinta motivante di Nedda e di Fantasticheria e della prefazione rifiutata ai Malavoglia: solo che ora la pulsione scopica si era fatta ossessione, il flâneur si era convertito in voyeur, e le persone avevano lasciato il loro posto agli oggetti. La lapidaria narrazione, posta a suggello della raccolta Vagabondaggio e intitolata virgilianamente Lacrymae rerum (con ammiccamento a De Sanctis, che nella celebre conferenza del ’79 su Zola e l’Asommoir aveva tuonato: «Dateci le lacrime delle cose, e risparmiateci le vostre»), si compaginava come un avanzatissimo esercizio di stile: quasi un teorema metanarrativo, basato su di un infilzamento calmo di istantanee, secondo un criterio di disgregazione percettiva piuttosto che di gerarchia prospettica. Il narratore descriveva, con focalizzazione esterna e scansione in quattro tempi, una dimora guasta, abitata da segni enigmatici e contraddittori, erratici: anche se i frammenti di quella fredda esposizione ‘cosale’ – e non già causale – venivano ricomposti e, alla lettera, disposti in virtú di un principio ottico unico e unificante. Fin dalle primissime righe, infatti, il catalizzatore dell’illusione narrativa era costituito dalla finestra: quel dispositivo che ‘ritaglia’ la vita e ne situa gli elementi dentro e fuori il ‘campo’ del visibile diveniva per il narratore una specie di
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feticcio, capace di produrre un ininterrotto gioco di luci – fra ombre, lumi, fari, tende, volti pallidi, pareti dai colori stinti e poi iridescenti – che non si può non ricollegare alla nota passione di Verga per la fotografia e per i suoi principi estetici. Era cosí che quell’interno desolato si trasformava in una camera obscura: Alla finestra dirimpetto, si vedeva sempre il lume che vegliava, la notte – le lunghe notti piovose d'inverno, e quando la luna di marzo, ancora fredda, imbiancava la facciata della casa silenziosa. La stanza era gialla, con una meschina tenda di velo appesa alla finestra. A volte vi apparivano dietro delle ombre nere, che si dileguavano rapidamente. Ogni sera, alla stessa ora, si vedeva passare un lume di stanza in stanza, sino alla camera gialla, dove la luce si avvivava intorno a un letto bianco circondato dalle stesse ombre premurose. Indi la casa tornava scura e sembrava deserta, nel gran silenzio della via. Solamente, allorché vi saliva lo schiamazzo notturno di un ubbriaco, o il passaggio di una carrozza faceva tremare i vetri nelle finestre, una di quelle ombre tacite e dolorose si affacciava a spiare nella via, e poi si dileguava75.
L’aspetto che, piú di ogni altro, sconcerta in questo incipit è lo statuto degli oggetti della mimesi. Nella «casa nera» che Verga ellitticamente disegna, spazio umanizzato eppure popolato, di nuovo, da soli simulacri che dileguano, tanto il vivente è indefinito, arcano, irriflesso, quanto l’inorganico è materico, visibile, leggibile. Ciò che il narratore – questo narratore che conosce come sola risorsa sintattica l’impersonalità del medio-passivo – si accinge a scrutare è una storia non verbale, fatta tutta di silenzi e di chiusure, di cenni e di rumori; una storia di momenti funesti e gioiosi, di camere ardenti e di scabrose alcove, di abbandoni e di dismissioni, di miseria e di collera, in cui i dettagli non umani si offrono come tracce da decifrare, e perfino le svolte narrative sono puntellate da segnali minimi e da cose che si animano («L’ultima visita che fece il legnetto nella stradicciuola solitaria fu piú breve delle altre»; «la sega del falegname che strideva»; «i lumi sembrava si accendessero da sé»; «il piccone dei muratori si mangiava le rovine»76). Tutto quanto accade nella stanza è resistente al senso, che pure l’intelligenza dell’osservatore deve ricostruire; del resto, a lui sarebbero interdetti persino i segni, e dunque la possibilità di attivare il processo ermeneutico, se un lume collocato all’interno di quello spazio fosco non funzionasse da riflettore, generando «immagini “foto-grafiche” in senso stretto, proiettate su una finestra che agirebbe come placca fotosensibile»77. In queste terebranti pagine riaffiora la stessa deriva visionaria che era già all’opera, come una pulsione profonda, nell’avvio di Nedda e nel ‘prologo alle tenebre’ dei Malavoglia: anche se stavolta le lacrime appartengono davvero esclusivamente alle cose, che stanno lí, senza empatia alcuna, come detriti di storia e non come correlativi oggettivi, o elegiache anse, dei personaggi. Come avviene nelle migliori pagine di Flaubert, essi sono corpi in esposizione, e dunque intimamente allegorici. Per paradosso, ciò rimane vero anche quando, in Lacrymae rerum, si schiudono il portone e le finestre della casa, e allora dovremmo, almeno in teoria, vedere di piú. Invece, non vediamo che una folla indistinta di estranei che ingombra la stanza gialla, producendo 75
G. Verga, Lacrymae rerum, in Le novelle, cit., II, pp. 214-5. Ibid., pp. 215, 219, 220. 77 L’“Io pittore” di Giovanni Verga: “Lacrymae rerum” e l’immaginario visivo dell’Ottocento in Moderno e modernità: la letteratura italiana, a cura di C. Gurreri, A. M. Jacopino, A. Quondam, La Sapienza, Roma 2009. 76
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«un luccichio tremolante di ceri» attorno a quello che solo ora apprendiamo essere un capezzale; e non capiamo cosa esattamente stia succedendo. Si direbbe che al narratore stia a cuore istituire una metafisica degli spazi e degli affetti, piú che un concreto agglomerato di rapporti di forza. Ben altri saranno la plastica dei corpi e il disegno dei ruoli sociali, quando Verga vorrà restituire, nelle prime battute del Mastro-don Gesualdo, la figura di un antico regime che non è mai finito, ha solo cambiato nome: perché il nuovo Stato scaturito dal sogno risorgimentale è, in realtà, marcio fin nelle viscere. E allora, le lacrime tornano ad essere quelle degli esseri umani: perché le ferite inflitte per la patria e dalla patria sanguinano ancora, cucite nell’angolo interno dell’occhio con l’ago della letteratura. Il palazzo dei Trao, di quella dinastia che si ostina a «trarre il valore dal sangue», sta andando a fuoco, ma nella baraonda non soltanto il dolore appartiene alle persone piú che alle cose, ma queste ultime, invece che farsi bruciare dalle lacrime, sgranano gli occhi: Era un correre a precipizio nel palazzo smantellato; donne che portavano acqua; ragazzi che si rincorrevano schiamazzando in mezzo a quella confusione, come fosse una festa; curiosi che girandolavano a bocca aperta, strappando i brandelli di stoffa che pendevano ancora dalle pareti, toccando gli intagli degli stipiti, vociando per udir l’eco degli stanzoni vuoti, levando il naso in aria ad osservare le dorature degli stucchi, e i ritratti di famiglia: tutti quei Trao affumicati che sembravano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro78.
Sembrerebbe un autodafé del potere che fu, un rito di passaggio verso il nuovo. Eppure, rispetto all’archetipo antropologico del sacrificio espiatorio di antenati e capi, si registra una sorta di ribaltamento: i ritratti infatti non vengono bruciati dalla furia iconoclasta del fuoco, ma piú sinistramente risultano «affumicati»; anzi, per la precisione, ad essere affumicati non sono tanto gli oggetti-quadri, ma i soggetti-Trao. Comunque, il fuoco non li annienta, piuttosto quasi li fa rivivere, trascolorandone la pelle; di piú, qui l’erlebte Rede verghiano azzarda una regressione ideologica e linguistica ad un’anima di classe modello ancien Régime, conservatrice e sprezzante, raggiunta per la via, di nuovo tutta estetica ovvero percettiva, di una focalizzazione fantastica – perché sospinta fino al punto di vista di quei manufatti, corpi inanimati e pura rappresentazione di uomini che non sono piú, eppure continuano ad esercitare un’imponderabile forma di controllo. Anche qui, come spesso nelle pagine di Verga, dobbiamo chiederci dove stia il narratore. In questo brano non si potrebbe, infatti, rilevare una sua totale “dissociazione” da quella ricattatoria ideologia: quel che si sarebbe detto, piuttosto, di un ‘modo’ che avesse deformato, in un grottesco di tipo rudimentale o in un sarcasmo corrosivo, i personaggi effigiati. Nello «sfinimento della razza» che condiziona ogni elemento di questa realtà gretta e degenerata, persino una posizione reazionaria, un’ottusità sociale ai limiti del razzismo, può giungere a fissare stimmate semioticamente non ambigue – e, appunto, con connivenza da parte della voce narrante – ad una folla predatrice, mostro collettivo e, alla lettera, «marmaglia», secondo quanto pensano (ovvero sentono, odorano) quei dipinti. Il palazzotto desueto, figuralmente solidale con i suoi incartapecoriti abitanti, sarà il segno tangibile di un passato archiviato, eppure ancora immanente: un passato di rovesci politico-sociali e di fin de race che assedia e svilisce ogni angolo di quello spazio, per quan78
G. Verga, Mastro-don Gesualdo (1888)-(1889), a cura di G. Mazzacurati, Einaudi, Torino 1992., p. 13.
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to nel Gesualdo la storia ufficiale sia vista – e visualizzata – di sbieco, secondo una tecnica di mimesi che (ha scritto Mazzacurati) «deve rinunciare all’anamnesi delle circostanze e al commento, alla frontalità minuziosa e all’avvolgimento analitico; e puntare piuttosto a raggiungere il cuore di una situazione attraverso l’enfasi di un particolare, di un sintomo, di un gesto, di un reperto che descriva per ellissi o per sineddoche una totalità, un carattere, uno stato»79. Il che non contrasta affatto con la circostanza che il secondo romanzo dei Vinti – a cui sarebbe seguita, per Verga, una lunghissima stagione di limbo, di disillusione, di riuso, di dissipazione, di non-finito – tenti uno dei piú coraggiosi balzi en arrière della nostra storia letteraria. Esso decide, cioè, di muovere fino alle radici del Risorgimento e dei suoi guasti; ed è forse anche per questo che resta l’ultimo frutto del ciclo dei Vinti. Differentemente da quanto accadeva nei Malavoglia, dove gli eventi della Grande Storia erano esatti quanto remoti, e la partenza di ’Ntoni rappresentava il principio del baratro per la famiglia «all’ombra del nespolo», nel secondo romanzo del ciclo gli eventi pubblici della nazione sono davvero iuxti ai destini privati, a un livello concreto e non simbolico. Se il fato dei Toscano poteva essere emblematizzato nei nomi carismatici di due imbarcazioni (Provvidenza e Il Re d’Italia: come a dire, due diversi gioghi, l’uno trascendentale e imperscrutabile, l’altro politico e riconoscibile) che progressivamente li depauperavano e li ferivano, portando alla malora i frutti della terra e del mare, dell’amore e del lavoro, nel Mastro-don Gesualdo un piú prensile e sarcastico senso storico s’impegna a determinare i corpi e i gesti dei personaggi, a definirne l’incrocio con il piano del reale. Da questo punto di vista, non parrà casuale che, a trent’anni dal debutto narrativo, e al precoce crepuscolo della sua arte di romanziere (certo, non poteva saperlo, ma non sarebbe mai piú riuscito a concludere una narrazione lunga ‘pura’: Dal tuo al mio, infatti, non è che la transcodificazione di un dramma), Verga torni a un suo pungolo di gioventú, intrecciando la parabola dell’eroe che si è fatto da sé con il racconto obliquo e disincantato delle prime cospirazioni carbonare. Nella parte seconda egli delinea gli effetti della rivolta palermitana del ’20 nel paese di Vizzini: un inedito sentimento di riscatto s’insinua negli strati popolari, fomentato dagli «arruffapopolo» del caso. È il canonico Lupi ad illustrare a Gesualdo i pericoli della «rivoluzione» e le insidie della Carboneria, la «sètta» nei cui piani «ogni villano […] vuole il suo pezzo di terra! Pesci grossi e minutaglia, tutti insieme»80. I termini sono posti con una sorta di lucidità impaurita che sfida a duello la strategia invece fine, attendista, spregiudicata di Gesualdo: il quale non esita ad autoritrarsi come parvenu, salito dalla dannazione della povertà e dalla fame attraverso i varchi aperti dal nuovo corso della storia. Perché è stato proprio sull’onda della madre di ogni rivoluzione, quella francese, che egli ha potuto divenir parte della razza padrona, e ora sa che bisogna mantenere il sangue freddo e difendere le posizioni conquistate: quella società segreta può divenire lo strumento di dominio, di controllo, di incanalamento degli impulsi eversivi della plebe. È tempo di governare la storia e il suo nuovo furore: secondo la retorica elementarmente zoomorfa che è propria dell’ultimo eroe verghiano, bisogna «tenersi a galla», «cavar le castagne dal fuoco con le zampe del gatto; tirar l’acqua al suo mulino, e se capitava d’acchiappare anche il mestolo un quarto d’ora, e di dare il gambetto a tutti quei pezzi 79 80
Ibid., p. 7. Ibid., p. 209.
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grossi che era riescito ad ingraziarsi neppure sposando una di loro, senza dote e senza nulla, tanto meglio....»81. Per far questo, infine, occorre accettare di aver parte in commedia; e allora, su sollecitazione dello stesso protagonista, quei galantuomini e altri loro pari, travestiti in modo carnevalesco quanto patetico (Lupi da pecoraio, Gesualdo da ecclesiastico…), partecipano a una riunione notturna della società. Come gli capita spesso nel secondo romanzo dei Vinti, Verga si diverte maledettamente nella descrizione di quel minuetto di “trasformismo” avant la lettre, che riverbera sulle radici della patria un vizio della neonata Italia, impastando in una melma contro-epica le chimere del risorgimento mancato e le mitografie della giovinezza, mitografie generazionali ma anche domestiche. Quasi che i carbonari di quell’esordio lontano, e mai sconfessato, fossero infine discesi dalle montagne calabre e dalle frange borboniche per infiltrare la Sicilia: la sua dimora dell’anima, malata sin nelle fondamenta. Malata da secoli, quella terra avrebbe continuato ad esserlo nelle piú sincere fra le ricostruzioni e rappresentazioni a venire: malata nel racconto indefesso – cosí attuale da venire censurato e camuffato dal governo centrale di Napoli – dei Vespri siciliani che Michele Amari aveva intrapreso mezzo secolo prima, senza mai abbandonarlo, fino alla morte sopraggiunta proprio in quel 1889; malata nella mimesis frontale dell’insurrezione di Bronte, o nella narrazione straniante dei moti palermitani, o in altre pagine verghiane ancora piú reticenti, ancora piú velate; malata, infine, nel documentario progettato da Luchino Visconti nel 1948, all’indomani del massacro di Portella della Ginestra, di quella esplosione ripugnante e virulenta di banditismo e latifondismo che ancora oggi offende la coscienza della nostra nazione. Quel documentario mancato divenne, com’è noto, uno stupendo film di dichiarata matrice verghiana, dove la famiglia di ’Ntoni non era schiacciata dalla legge imperscrutabile di un nemico lontano o metafisico, ma dall’oppressione e dallo sfruttamento delle classi capitalistiche e padrone. Era il segno di una ferita non curabile; di una tristissima, tragica modernità. La terra non aveva mai smesso di tremare; e gli uomini – altro che le cose – mai avrebbero smesso di piangere. FRANCESCO DE CRISTOFARO
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Ibid., p. 210. Gesualdo si serve, ad oltranza, di un immaginario zoomorfo che crede di dominare, ma da cui è in realtà dominato: non a caso le stazioni della sua malattia e del suo calvario saranno tutto nel segno metaforico (o allegorico) di un bestiario cupo, costituito da cani neri, bachi nella carne, enigmatiche capre, corvi necrofaghi, vitelli infuoriati (per questi aspetti, mi sia lecito rimandare al mio Corporale di Gesualdo. Il bestiario selvaggio della malattia, «Modern Language Notes», 113, Jan. 1998, Italian Issue, pp. 52-78); mentre tutta la narrazione inscenerà una sagra del ritratto carico e della grottesca, coerentemente con lo schizzo preparatorio di cui si è detto. Lo vide assai bene Giacomo Vaccari, che nel suo straordinario sceneggiato del 1964 enfatizzò quella cifra figurale, connotando le fisionomie dei personaggi in chiave animalesca e daumieriana, sorprendendoli in espressioni di «esaltazione fissata», deformandoli con inquadrature oblique ed abissali chiaroscuri.
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PROFILO BIOGRAFICO
A tutt’oggi contrastanti le tesi circa il luogo che ha dato i natali al maggiore esponente del verismo italiano. La documentazione ufficiale, basata sull’atto di nascita, registra l’evento nella città di Catania, presso l’abitazione paterna di via Sant’Anna. Tuttavia, sono numerose e non prive di fondamento le argomentazioni che collocano in un piccolo podere di campagna di proprietà dello zio don Salvatore, in località Tièpidi (a pochi chilometri da Vizzini), il luogo esatto in cui Giovanni Carmelo Verga sarebbe nato: il 2 settembre 1840 o, secondo alcuni studiosi, il 29 agosto, giorno della festa di San Giovanni. A sostegno di questa ipotesi ci sarebbe un fatto particolare: l’ondata di colera che colpisce Catania nell’estate di quell’anno, spingendo la famiglia Verga a lasciare momentaneamente la città siciliana per trovare riparo presso la fresca aria collinare della vicina Vizzini. Giovanni è primogenito di cinque figli; il padre, Giovanni Battista Verga Catalano, è originario di Vizzini e discendente da un ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca, mentre la madre, Caterina Di Mauro Barbagallo, proviene da un’agiata famiglia della borghesia catanese. Gli anni della prima formazione risalgono al periodo 1851-1857. Dopo essere stato avviato agli studi primari presso la scuola di Francesco Carrara, passerà, per l’istruzione secondaria, sotto la guida del liberale Antonino Abate, attivista patriota durante i moti insurrezionali antiborbonici del 1848. Gli anni ’54-’55 sono segnati da una nuova epidemia colerica e dal ritorno della famiglia Verga nella campagna di Vizzini. Le esperienze di questi anni, intrise di ricordi campestri e adolescenziali, costituiranno il principale materiale d’ispirazione della prima raccolta di novelle verghiane, Vita dei Campi (1880), in particolare del tessuto narrativo di Cavalleria Rusticana e Jeli il Pastore, ma anche del secondo romanzo dell’incompiuto ciclo dei Vinti, il Mastro Don Gesualdo 1889). Agli anni ’56-’57 risale il primo romanzo, Amore e patria, scritto da un Verga appena quindicenne, ispirato alla rivoluzione americana e d’impianto risorgimentale. Il testo, considerato immaturo da don Mario Torrisi, insegnante di latino di Verga, rimarrà inedito fino al 1929, anno della sua prima pubblicazione frammentaria nella raccolta di Studi verghiani di L. Perroni. Nel 1858, sotto la pressione paterna, Verga si iscrive alla Facoltà di Legge dell’Università di Catania, senza tuttavia riuscire ad appassionarsi alle discipline giuridiche che, difatti, deciderà di abbandonare nel 1861, per dedicarsi totalmente all’attività letteraria e al giornalismo politico. Nel 1860, anno in cui è reclutato per quattro anni nella Guardia Nazionale, istituita durante la campagna garibaldina, realizza insieme alla collaborazione di Nicolò Niceforo e Antonino Abate il foglio politico «Roma degli Italiani», dai chiari intenti unitari e anti-regionalistici. Seguirà il secondo romanzo verghiano, questa volta d’impianto storico: I carbonari della montagna (1861-1862). Ambientato nella Calabria dei moti carbonari del 1810-’12 contro il dispotismo napoleonico di Murat, è pubblicato in due fasi (voll. I-II, Tipografia Galatola; voll. III-IV, Tipografia dell’Ospizio di Beneficenza) a spese dello scrittore, che si serve del denaro datogli dal padre per la conclusione della carriera universitaria. Nel ’61 Verga tenta nuovamente, con Niceforo, la strada giornalistica, attraverso la fondazione del periodico letterario «L’Italia contemporanea», dove appare la prima novella verista di Verga, Casa da thè. Tuttavia, immediatamente dopo l’uscita del primo numero, la pubblicazione della rivista è arrestata, per poi essere assimilata da Enrico Montazio al giornale fiorentino «Italia, veglie letterarie». Stesso destino per la sua terza esperienza giornalistica di qualche anno successiva, segnata dall’inaugurazione del giornale politico «L’indipendente» (1864), diretto inizial-
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mente da Verga e, dal decimo numero in poi, affidato all’Abate. Sono questi gli anni dell’incontro con la letteratura degli scrittori francesi moderni, da I tre moschettieri di Dumas padre a La signora delle camelie di Dumas figlio, dai romanzi d’appendice a carattere sociale di Eugène Sue, primo fra tutti I misteri di Parigi, al Romanzo di un giovane povero di Octave Feuillet, padre di tutta la narrativa d’appendice. Tuttavia, sono i romanzi storici italiani di spiccato carattere romantico, in particolare quelli di Francesco Domenico Guerrazzi, a fare da modello al terzo romanzo verghiano, Sulle lagune (1863). Realizzata da un Verga ancora acerbo, infiammato dallo spirito romantico e patriottico di quegli anni, questa terza prova letteraria è pubblicata grazie all’opportunità a lui concessa di scrivere per la prima volta sul quotidiano fiorentino «La Nuova Europa», dove il testo apparirà in appendice in ventidue puntate. A fare da cornice al tessuto narrativo, tenuto insieme da una travagliata storia d’amore, sono le angherie del potere straniero della Venezia contemporanea, ancora segnata, all’indomani dell’unità d’Italia, dall’occupazione austro-ungarica. Tra il maggio e il giugno del 1865, Verga si allontanerà per la prima volta dalla sua Sicilia, raggiungendo la capitale e cuore pulsante del Regno, crogiuolo incandescente delle varie forme dell’intellighenzia contemporanea, Firenze. Di questo primo soggiorno fiorentino, l’inizio della fraterna amicizia con Luigi Capuana, l’allora critico della Nazione, e la partecipazione al Concorso Drammatico Nazionale (bandito dalla Società d’incoraggiamento all’arte teatrale) lasciano le tracce maggiori. Verga prende parte alla competizione con una commedia inviata in forma anonima, I nuovi tartufi, giudicata duramente dalla commissione esaminatrice e rimasta inedita fino al 1980. Dell’anno successivo è, invece, il suo quarto romanzo, Una peccatrice: pubblicato a Torino, ha forte carattere autobiografico e melodrammatico, narrando i «misteri del cuore» di Pietro e Narcisa, primi vinti del mondo verghiano. La nuova ondata di epidemia colerica del 1867 costringe Verga e la sua famiglia a trovare riparo dapprima nelle proprietà di Sant’Agata li Battiati e, successivamente, a Tracastagno. Nell’aprile del ’69 sarà la volta di un nuovo soggiorno fiorentino, in via dell’Alloro al numero 11, dove lo scrittore siciliano risiederà fino al settembre di quello stesso anno. Durante la seconda esperienza nella capitale, Verga intreccerà importanti relazioni politiche e intellettuali, inserendosi nei salotti culturali piú in voga del momento. Una lettera di presentazione firmata dal poeta catanese Mario Rapisardi introduce Verga in casa di Francesco Dall’Ongaro, scrittore e patriota che ha preso parte ai moti rivoluzionari di Venezia e Roma, entrando in contatto con Mazzini. Dall’Ongaro gli dà la possibilità di frequentare i salotti culturali di Ludmilla Assing, scrittrice e pubblicista, nipote di Karl-August Varnhagen von Ense, che recensirà Una peccatrice nella Neue Freie Presse di Vienna, e delle pittrici Swanzberg. Non meno influenti l’incontro con Vittorio Imbriani e con i politici e gli intellettuali che animano la vita mondana di quegli anni al Caffè Doney, o al Caffè Michelangelo, luogo prediletto dagli appartenenti del movimento pittorico dei macchiaioli. L’influenza che la nuova dinamicità sociale e intellettuale esercitano sulla maturazione artistica del giovane Verga, ha come risultato immediato la realizzazione di due lavori teatrali: la commedia L’onore, rimasta incompiuta, e il dramma Rose caduche (probabilmente sottoposto al giudizio di Dall’Ongaro l’anno precedente), apparso postumo in «Le maschere», nel giugno 1928. Il primo vero successo arriva, tuttavia, con Storia di una capinera, vicenda di una monacazione forzata. Il romanzo, in forma epistolare, esce inizialmente a puntate sul settimanale milanese del Lampugnani «Il Corriere delle Dame. Giornale di mode ed amena letteratura» (16 maggio al 22 agosto del 1870), semplicemente con il titolo La capinera e, successivamente su un’altra rivista di moda, «La ricamatrice». Al 1871 risale la prima pubblicazione ufficiale del
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romanzo in volume a Milano, presso la tipografia del Lampugnani. Questa prima edizione contiene una lettera-prefazione dedicata da Dall’Ongaro alla scrittrice Caterina Percoto, grande sostenitrice dell’opera. Il notevole successo riscosso dal romanzo è testimoniato dalle sue numerose riproposte a distanza ravvicinata sull’«Illustrazione popolare», a puntate (9 marzo - 29 giugno1873) e, successivamente, in un volume pubblicato da Treves quello stesso anno. A partire dal 20 novembre 1872, lo scrittore siciliano soggiornerà a Milano per circa vent’anni, fino al 1893, interrompendo la permanenza solo con periodici ritorni a Catania. Accompagnato da una fama in aumento e sostenuto dall’amicizia di Dall’Ongaro (che lo raccomanda al pittore e scultore Tullio Massarani) e di Capuana (che lo avvicina, invece, al romanziere Salvatore Farina, direttore della «Rivista minima»), Verga riesce a venire in contatto con gli ambienti piú ferventi della cultura milanese, dai salotti della contessa Maffei, di Vittoria Cima, di Teresa Mannati-Vigoni, al circolo del Caffè Cova. Qui ha modo di interagire con intellettuali e artisti del calibro di Rovetta, De Roberto, Giacosa, Torelli-Viollier, Fortis, e di incontrare alcuni grandi esponenti del mondo della scapigliatura come Boito, Praga, Gualdo, Sacchetti e Cameroni. Nel 1873, grazie alla sempre piú stretta collaborazione con Emilio Treves, Verga riesce a pubblicare Eva, il romanzo iniziato durante il soggiorno fiorentino, considerato ‘scandaloso’ dai critici di parte moderata avversi al naturalismo, tra cui il Carducci che, in una lettera all’amante Lina Piva Cristofori, in data 23 aprile 1873, arriverà a definire lo scrittore siciliano «un vigliacco ridicolo parvenu». Del 1874 è, invece, la novella Nedda. Bozzetto siciliano, apparsa in estratto il 15 giugno nella «Rivista italiana di Scienze, Lettere ed Arti», per poi essere ristampata in opuscolo dall’editore Brigola. Nel dicembre di quello stesso anno, Verga avvia anche il «bozzetto marinaresco» Padron ’Ntoni, sottoposto in parte al giudizio di Treves, e nel 1875 pubblica, ancora una volta con Brigola, i romanzi Eros (stampato alla fine del 1874 ma datato ’75) e Tigre Reale, mentre si dedica alla commedia Dopo, rimasta incompiuta. Sempre a Brigola, nel 1876, viene affidata la pubblicazione della raccolta di novelle Primavera e altri racconti, apparsa in seconda edizione l’anno successivo, con l’aggiunta del bozzetto Nedda. Il progetto di realizzare un ciclo di cinque romanzi dal titolo complessivo di La marea (a cui successivamente sarà preferita la ‘soglia’ I vinti) viene presentato per la prima volta dall’autore in una lettera del 21 aprile 1878, indirizzata all’amico Salvatore Paolo Verdura. Dei cinque romanzi ideati, solo i primi due, Padron ’Ntoni (poi diventato I Malavoglia) e Mastro-don Gesualdo, saranno portati a termine; il terzo, La Duchessa delle Gargantas (poi La Duchessa di Leyra), rimarrà incompiuto, mentre gli ultimi due, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso, non saranno mai scritti. Il 5 dicembre del ’78, la vita di Verga viene profondamente segnata dalla morte della madre, preceduta da quella della sorella Rosa scomparsa nel ’77. L’avvenimento segna l’inizio di un lungo periodo di depressione, nel corso del quale lo scrittore decide di fare ritorno a Catania, dove rimarrà fino al giugno dell’anno seguente. Con il rientro a Milano, tuttavia, Verga ritroverà anche il fervore della scrittura e le idee: tra il ’78 e il ’79 usciranno le novelle Rosso Malpelo (in seguito inclusa in Vita dei campi), e Fantasticheria, rispettivamente sulle riviste «Il Fanfulla» e «Fanfulla della domenica», mentre è in corso di elaborazione Jeli il Pastore. Finalmente, nel 1880 viene data alle stampe, presso gli editori Treves, la raccolta di novelle già pubblicate in rivista tra il ’78 e l’80, Vita dei campi, e nel mese di settembre, ha inizio la lunga relazione sentimentale, destinata a durare circa quattro anni, con Giselda Fojanesi, moglie di Mario Rapisardi, conosciuta a Firenze nel ’69. Sul numero di gennaio della Nuova Antologia, nell’anno 1881, appare con il titolo Poveri Pescatori!, una anticipazione dell’episodio tratto dal decimo capitolo dei Malavoglia. Il romanzo, la cui imminente pubblicazione è annunciata dal siciliano Enrico Onufrio sul Capitan Fracassa del 14 settembre 1880, sarà pubblicato da Treves nel mese di febbraio, raccogliendo pareri molto severi da parte della critica. Nonostante quello che Verga,
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in una lettera dell’11 aprile all’amico Capuana, ha definito un «fiasco pieno e completo», nello stesso anno viene predisposta la traduzione dell’opera in francese, affidata a Edouard Rod, scrittore svizzero residente a Parigi che, dal 1880 avvierà una lunga corrispondenza con il verista siciliano. Nel frattempo, Verga pubblica con Treves una nuova edizione della Vita dei campi, caratterizzata dall’aggiunta del racconto, Il come, il quando ed il perché e, a Roma, stringe il forte legame d’amicizia con la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo con la quale a partire dal 1896 inizierà una vera e propria relazione d’amore. Nel 1882, oppresso dai bisogni economici, decide di pubblicare presso Treves Il marito di Elena, un nuovo romanzo esterno al progetto dei Vinti, cui segue la novella Pane nero, pubblicata in opuscolo dall’editore catanese Giannotta e poi inserita in Novelle rusticane, la silloge che esce a fine anno (ma con data 1883), per i tipi dell’editore Casanova di Torino. Nel maggio del 1882, durante l’incontro con Rod a Parigi, Verga ha l’opportunità di raggiungere Zola a Médan, per poi recarsi a Londra nel mese di giugno, e iniziare, al suo rientro, la collaborazione alla rivista «La rassegna settimanale», diretta da Franchetti e Sonnino. Del 1883 è la pubblicazione dei racconti milanesi raccolti sotto il titolo Per le vie, iniziati l’anno precedente e già presentati singolarmente nelle riviste «Fanfulla della domenica», «Domenica letteraria» e «Cronaca bizantina»; ma anche una nuova amicizia, quella con la contessa Paolina Greppi Lester, che si protrarrà per oltre vent’anni. Il 1884 è segnato dall’esordio teatrale dello scrittore che, il 14 gennaio, al Teatro Carignano di Torino, mette in scena Cavalleria rusticana, adattamento dell’omonima novella contenuta in Vita dei campi, rappresentata dalla compagnia di Cesare Rossi, con Eleonora Duse nei panni di Santuzza e Flavio Andò nel ruolo di Turiddu. La rappresentazione guadagna il consenso favorevole della critica e il grande successo anticipato da Giocosa, che ha seguito l’intero lavoro. Forte dell’esito positivo della versione teatrale di Cavalleria rusticana, Verga, in seguito alla pubblicazione dei Drammi intimi (edito da Sommaruga), si occupa della riduzione teatrale di un’altra novella, Il canarino del n. 15, contenuta nella raccolta Per le vie. L’opera è rappresentata con il titolo In portineria, al teatro Manzoni di Milano il 16 maggio 1885, senza riscuotere, tuttavia, il successo agognato. Il triennio 1886-88 è quello della permanenza romana, interrotta occasionalmente da qualche viaggio di ritorno a Catania reso necessario dall’acuta crisi psicologica dello scrittore, a causa di preoccupazioni finanziarie e dalla percezione dell’impossibilità di portare avanti il ciclo narrativo intrapreso. Ma sono anche anni contrassegnati da nuove pubblicazioni: nell’87 esce presso l’editore Barbèra di Firenze la raccolta di racconti intitolata Vagabondaggio e, nello stesso anno, viene pubblicata la traduzione francese dei Malavoglia, curata da Rod (Les Malavoglia, Mœurs siciliennes, A. Savine, Paris) senza grande clamore. Terminata nel frattempo la prima stesura del romanzo Mastro-don Gesualdo, esso viene pubblicato dapprima a puntate sulla rivista «La Nuova Antologia» (I° luglio – 16 dicembre), e successivamente, alla fine del 1889, dopo un’attenta revisione, in volume (con data 1890) presso l’editore Treves. La nuova stesura del testo, grazie a rilevanti modifiche rispetto all’edizione precedente, riscuote un successo notevole e immediato. Il 17 maggio 1890 va in scena al teatro Costanzi di Roma la prima dell’opera Cavalleria rusticana, diventata melodramma su libretto di G. Targioni Tozzetti e musica di Pietro Mascagni. Il successo clamoroso dell’opera si conclude, tuttavia, con una causa giudiziaria intentata da Verga a Mascagni e all’editore Sonzogno per il riconoscimento dei diritti d’autore sull’opera lirica; lo scrittore siciliano, rappresentato e difeso dall’avvocato Paolo Verdura, riesce a ottenere nel gennaio 1893 una transazione, in base alla quale riceve dall’editore la somma di lire 143.000 «una volta per sempre». Rispettivamente al 1891 e al 1894 risalgono le pubblicazioni, presso Treves, delle due ultime raccolte di novelle, I ricordi del capitano d’Arce e Don Candeloro e C.i, mentre al 1893 risale il suo ritorno definitivo a Catania, dal-
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la quale Verga si allontanerà solo per brevi viaggi all’estero, a Milano e a Roma, dove nel 1895 incontra, nell’abitazione romana di Capuana, Émile Zola. Il 26 gennaio dell’anno seguente, al teatro Gerbino di Torino è rappresentato il dramma La Lupa, ricavato dall’adattamento teatrale della omonima novella verghiana. Sempre nel 1896 è affidata a Treves la pubblicazione del volume Teatro, raccolta contenente i drammi La Lupa, In portineria, Cavalleria rusticana, mentre, nel corso dell’estate, Verga continua a lavorare al romanzo La duchessa di Leyra, la cui stesura, tuttavia, si arresterà a un frammento del secondo capitolo. L’abbozzo apparirà postumo, il I° giugno 1922, sulla rivista mensile illustrata «La Lettura», curata da De Roberto. Ad inaugurare il 1897 è la pubblicazione della novella La caccia al lupo, apparsa il I° gennaio di quell’anno sulla rivista catanese «Le Grazie». Del ’97 è anche la nuova edizione di Vita dei campi, edita da Treves, con le illustrazioni del pittore Arnaldo Ferraguti e una struttura diversa (comprende Nedda, uscita nel ’74 e ristampata nel ’76 nella raccolta Primavera e altri racconti, ed esclude Il come, il quando ed il perché), nonché correzioni notevoli rispetto alle precedenti edizioni. Sembra intanto proseguire assiduamente la stesura de La duchessa di Leyra, come si apprende da una lettera scritta all'amico Edouard Rod nel 1898, notizia confermata da «La Nuova Antologia» che ne annuncia la prossima pubblicazione. Il 2 novembre 1901, al Teatro Manzoni di Milano sono rappresentati gli atti unici La caccia al lupo e La caccia alla volpe, pubblicati l’anno successivo da Treves. Alla morte del fratello Pietro, avvenuta il 21 aprile 1903, i nipoti sono affidati alla sua tutela. Nel mese di luglio di quell’anno, sulla rivista «La Critica» compare il saggio di Benedetto Croce dedicato all’opera di Verga e nel mese di novembre, sempre al Teatro Manzoni è allestito il dramma Dal tuo al mio, la cui versione narrativa apparirà nel 1905 a puntate sulla «Nuova Antologia» (16 maggio – 16 giugno) e nel 1906 in volume presso Treves, con una premessa dagli accesi toni antisocialisti. Gli anni 1912-15 lo vedranno impegnato nell’adattamento cinematografico di alcune sue opere, la sceneggiatura delle quali viene affidata a De Roberto; Verga interviene personalmente sul lavoro di riduzione cinematografica di Storia di una capinera e La caccia al lupo. Nel corso di questi anni, alle soglie dello scoppio del primo conflitto mondiale, egli si avvicinerà in maniera sempre piú convinta a tendenze ideologiche rigidamente conservatrici, alimentate da una forte ammirazione per il movimento nazionalista, a cui dichiarerà di essere «favorevolissimo»; l’apice di questa stagione reazionaria sarà la piena approvazione, dopo qualche effimero tentennamento, dell’interventismo nella grande guerra, considerata necessaria. La sua ultima novella, Una capanna e il tuo cuore, elaborata nel 1919, uscirà postuma nell’«Illustrazione Italiana» del 12 febbraio 1922, mentre nell’ottobre di quello stesso anno (ma con data 1920), presso l’editore Ricciardi di Napoli, verrà pubblicata la monografia di Luigi Russo Giovanni Verga; sempre nel’20 comparirà a Roma, per le edizioni della Voce, un’edizione riveduta (e con correzioni sostanziali) delle Novelle rusticane. Il suo ottantesimo compleanno, compiuto nel luglio di quell’anno, viene celebrato con solenni onoranze nel mese di settembre a Roma, presso il Teatro Valle, alla presenza del Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce, e al Circo Massimo di Catania, con un discorso ufficiale tenuto da Luigi Pirandello ma in assenza del festeggiato. Il 30 ottobre Giovanni Giolitti nomina Verga senatore del Regno d’Italia, probabilmente su proposta dello stesso Croce. Gli ultimi giorni della sua lunga esistenza si svolgono tra il 24 gennaio del 1922, quando perde conoscenza in seguito ad una trombosi cerebrale, e il 27 gennaio, giorno del decesso avvenuto a Catania, presso la casa paterna di via Sant’Anna. [f.d.c.]
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NOTA BIBLIOGRAFICA
1. Biografie e strumenti bibliogtafici Prima ancora di ogni studio biografico e monografico, bisogna segnalare l’omaggio amicale di Federico De Roberto: Casa Verga, curato da C. Musumarra (Le Monnier, Firenze 1964) è un libro incompiuto, ma nondimeno ricchissimo di notizie e di spunti sulle origini, l’adolescenza e la prima formazione culturale dello scrittore, nonché sul suo percorso incompiuto; ad esso andrà aggiunto almeno, per quanto viziato da molte imprecisioni, il saggio di Lina Perroni (a lungo custode, con il fratello Vito, delle carte verghiane) Ricordi di D’Artagnan (La prima giovinezza di Giovanni Verga e due romanzi sconosciuti: «Amore e patria» e «I carbonari della montagna»), «Studi verghiani», II-III, Edizioni del Sud, Palermo 1929. Tra le biografie vere e proprie, si vedano quella pioneristica di N. Cappellani, Vita di G. Verga, Le Monnier, Firenze 1940, il Giovanni Verga di G. Cattaneo (Utet, Torino 1969) e infine la ricchissima, e ordinata annalisticamente, Vita di Giovanni Verga di Gino Raya (Herder, Roma 1990). Allo stesso Raya si devono inoltre, insieme a una miriade di contributi critici mirati (dal tema trofico ai rapporti con l’industria cinematografica), la monumentale Bibliografia verghiana (1840-1971), Ciranna, Roma 1972; insieme ad essa, si può utilmente consultare G. Santangelo, Storia della critica verghiana, La Nuova Italia, Firenze 19692. Per un regesto dei volumi posseduti (e spesso chiosati) da Verga, si vedano G. Garra Agosta, La biblioteca di Giovanni Verga, Greco, Catania 1977, nonché il catalogo La biblioteca di Giovanni Verga, a cura di C. Lanza, S. Giarratana e C. Reitano, con introduzione di S. S. Nigro, Edigraf, Catania 1985. Tra i molti saggi a carattere monografico (o di critica integrale), si segnalano, dopo lo studio pilota di Luigi Russo – vero ‘monumento in vita’ – , A. Seroni, Verga, Palumbo, Palermo 19694; M. Pomilio, La fortuna del Verga dal 1880 al 1918, Liguori, Napoli 1963; R. Luperini, Interpretazioni di Verga, Savelli, Roma 1975; E. Ghidetti, Verga. Guida storico-critica, Editori Riuniti, Roma 1979; N. Borsellino, Storia di Verga, Laterza, Roma-Bari 1982; G. Mazzacurati, Verga, Liguori, Napoli 1984; V. Masiello, Il punto su Verga, Laterza, Roma-Bari 1986; R. Fedi, Giovanni Verga, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 2002.
2. Edizioni A metà degli anni ’80 del Novecento, la Fondazione Verga di Catania, guidata allora da Francesco Branciforti, ha promosso l’Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Verga, pubblicata da Le Monnier e dal Banco di Sicilia. Il volume I tempi e le opere di Giovanni Verga, Le Monnier, Firenze 1986 (comprendente il saggio di G. Galasso La Sicilia ai tempi del Verga e il fondamentale F. Branciforti, Lo scrittoio del verista) illustrava il piano dell’opera. Esauritosi lo slancio iniziale, l’impresa sembra essersi arenata. Sono usciti finora meno della metà dei ventidue volumi previsti: Vita dei campi, a cura di C. Riccardi, 1987; Drammi intimi, a cura di G.
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Alfieri, 1987; I carbonari della montagna – Sulle lagune, a cura di R. Verdirame, 1988; Tigre reale, a cura di M. Spampinato Beretta, 1988; I ricordi del capitano d’Arce, a cura di S. Rapisarda, 1992; Mastro-don Gesualdo, a cura di C. Riccardi, 1993; Don Candeloro e C.i, a cura di C. Cucinotta, 1994; Dal tuo al mio, a cura di T. Basile, 1995; Per le vie, a cura di R. Morabito, 2003. Anche l’edizione-monstre de I Malavoglia, a cui Branciforti da molto tempo, è rimasta incompiuta a causa della scomparsa del curatore: esiste però un’edizione critica a cura di F. Cecco (Il Polifilo, Milano 1995), come anche un puntuale commento redatto dallo stesso (Einaudi, Torino 1995). Essendo i sette volumi delle Opere di Giovanni Verga, a cura di L. e V. Perroni, Mondadori, Milano 1939-1946 viziati da una miriade di inesattezze testuali, conviene rifarsi ad alcune edizioni di singoli o di piú romanzi verghiani: I carbonari della montagna – Sulle lagune, a cura di C. Annoni, Vita e Pensiero, Milano 1975; Tutti i romanzi, a cura di E. Ghidetti, Sansoni, Firenze 1983; Mastro-don Gesualdo (1888)-(1889), a cura di G. Mazzacurati, Einaudi, Torino 1992. Quanto ai Malavoglia, ne esistono moltissimi commenti: segnaliamo soltanto quello a cura di L. Russo (Vallecchi, Firenze 1924); di G. Carnazzi (Rizzoli, Milano 1978); di N. Merola, (Garzanti, Milano 1980); di M. Pieri (Tea, Milano 1990); I. Gherarducci (Theorema, Milano 1993). Per la produzione novellistica, ci limitiamo a segnalare le due edizioni complessive piú avvedute scientificamente ed esaurienti sul piano documentario, ancorché contraddistinte da contrarie opzioni metodologiche: da un lato quella a cura di C. Riccardi (Mondadori, Milano 1979), che privilegia le prime edizioni, dall’altro quella curata, con maggiore dovizia di apparati di commento, da G. Tellini (Salerno, Roma 1980), che si rifà, nell’ordine e della scelta delle varianti, all’ultima volontà d’autore. Ad esse si aggiunge l’originale lavoro di M. Pieri (Novelle e teatro, Utet, Torino 2002). Per il Verga drammaturgo, le raccolte di riferimento sono quelle a cura di N. Tedesco, Mondadori, Milano 1980; e di G. Oliva, Garzanti, Milano 1987. Dell’epistolario verghiano, ricchissimo (come testimoniano l’imponente Regesto delle lettere a stampa di Giovanni Verga, a cura di G. Finocchiaro Chimirri, Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale, Catania 1977 e la silloge, a cura della stessa studiosa, Lettere sparse, Bulzoni, Roma 1979), sono fin qui pubblicati solo alcuni episodi, tra cui spiccano Lettere al suo traduttore, a cura di F. Chiappelli, Le Monnier, Firenze 1954; Lettere d’amore, a cura di G. Raya, Ciranna, Roma 1972; Carteggio Verga-Capuana, Ateneo, Roma 1984.
3. La fortuna critica La storia critica di Verga inizia parallelamente al suo esercizio narrativo piú alto: contributi cruciali sulle sue opere si troveranno in L. Capuana, Verga e D’Annunzio, a cura di M. Pomilio, Cappelli, Bologna 1972 e in F. Cameroni, Interventi critici sulla letteratura italiana, a cura di G. Viazzi, Guida, Napoli 1974; U. Ojetti, Alla scoperta dei letterati, a cura di P. Pancrazi, Le Monnier, Firenze 1946; e ancora, dentro il Novecento, in B. Croce, La letteratura della nuova Italia, III, Laterza, Bari 1915; R. Serra, Le lettere, a cura di D. De Robertis e L. Grilli, Le Monnier, Firenze 1958; F. Tozzi, Pagine critiche, a cura di G. Bertoncini, ETS, Pisa 1993; G.A. Borgese, Tempo di edificare, Treves, Milano 1923. Su tutti, naturalmente, L. Pirandello, Saggi. Poesie. Scritti vari, a cura di M. Lo Vecchio Musti, Mondadori, Milano 1960. La stagione ‘moderna’ e per cosí dire ‘scientifica’ della critica verghiana (sincrona ai cimenti di Tozzi, Pirandello e Borgese) è aperta invece da L. Russo, Giovanni Verga, Ricciardi, Napoli 1920 [ma 1919], poi Laterza, Bari 1934 ss. Nei successivi cinquant’anni, fino cioè alla
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esplosione del «caso Verga», la ricerca documentaria e la nuova attenzione filologica sono accompagnati da un primo sforzo ermeneutico, che ha i suoi momenti piú significativi in: A. Momigliano, Giovanni Verga narratore (1923), in Dante, Manzoni, Verga, D’Anna, Messina 1944; D. Garrone, Giovanni Verga, Vallecchi, Firenze 1941. Gli anni ’50 si aprono con le straordinarie lezioni di un critico poco accademico all’Università di Messina (che vedranno la luce solo un quarto di secolo piú tardi: G. Debenedetti, Verga e il naturalismo, Garzanti, Milano 1976); mentre a metà dello stesso decennio lo studio di F. Devoto I piani del racconto in due capitoli dei “Malavoglia” (1954), successivamente stampato in Id., Nuovi studi di stilistica, Le Monnier, Firenze 1962 e l’analisi spitzeriana dell’erlebte Rede (del 1956: poi in L. Spitzer, Studi italiani, Vita e Pensiero, Roma 1976) imprimono un rinnovamento decisivo allo studio sulla lingua verghiana. Seguono, attenti al livello stilistico come a quello storico-culturale. G. Trombatore, Riflessi letterari del Risorgimento in Sicilia, Manfredi, Palermo 1960; N. Sapegno, Ritratto di Manzoni e altri saggi, Laterza, Bari 1961; E. Giachery, Verga e D’Annunzio, Silva, Milano 1968; E. Cecchetti, Il Verga maggiore, La Nuova Italia, Firenze 1968. Ma il ’68 – l’anno fatale delle ideologie e del rinnovamento culturale – segna soprattutto l’avvento sulla scena della critica verghiana di una nuova generazione di critici di ispirazione marxista: esce innanzitutto R. Luperini, Pessimismo e verismo in Giovanni Verga, Liviana, Padova 1968 (a cui seguiranno, dello stesso, L’orgoglio e la disperata rassegnazione. Natura e società, maschera e realtà nell’ultimo Verga, Savelli, Roma 1974 e Verga e le strutture narrative del realismo. Saggio su "Rosso Malpelo", Liviana, Padova 1976; fino a Simbolo e costruzione allegorica in Verga, Il Mulino, Bologna 1989); negli anni immediatamente successivi, V. Masiello, Verga tra ideologia e realtà, De Donato, Bari 1970 (ma anche, piú avanti, I Miti e la Storia, Liguori, Napoli 1984), A. Asor Rosa (a cura di), Il caso Verga, Palumbo, Palermo 1972 (e Id., Il punto di vista dell’ottica verghiana, in AA.VV., Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, II, Bulzoni, Roma 1975. Ad essi andrà aggiunto almeno il fondamentale, e diversamente engagé, L. Sciascia, La corda pazza, Einaudi, Torino 1970. Seguiranno P. De Meijer, Costanti del mondo verghiano, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1969; R. Bigazzi, I colori del vero. Vent’anni di narrativa (1860-1880), Nistri-Lischi, Pisa 1969; G. P. Marchi, Concordanze verghiane, Fiorini, Verona 1970 (nonché Id., Verga e il rifiuto della storia, Sellerio, Palermo 1987); S. Ferrone, Il teatro di Verga, Bulzoni, Roma 1972; C. A. Madrignani, Ideologia e narrativa dopo l’unificazione, Savelli, Roma 1974; G. Mazzacurati, Forma & Ideologia, Liguori, Napoli 1974 (ma anche Id., Stagioni dell’apocalisse, Einaudi, Torino 1996); G. Pirodda, L’eclissi dell’autore. Tecnica ed esperimenti verghiani, Editrice democratica sarda, Cagliari 1976; V. Spinazzola, Verismo e positivismo, Garzanti, Milano 1977; S. Campailla, Anatomie verghiane, Pàtron, Bologna 1978; N. Merola, Su Verga e D’Annunzio, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, Roma 1978. Con gli anni ’80, gli studi verghiani conoscono una nuova svolta, sia per l’impegno della Fondazione Verga, che organizza costantemente convegni, ospitando spesso contributi di pregevole carattere innovativo; sia per la pubblicazione dell’importante G. Baldi, L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, Liguori, Napoli 1980. La stagione che si apre è estremamente attenta al dato formale e alla ricostruzione filologica, grazie anche alla spinta delle sincrone edizioni critiche nazionali e dei citati commenti di Cecco e, soprattutto, di Mazzacurati. Fra i molti e diversi contributi, andranno ricordati almeno G. Bàrberi Squarotti, Verga. Le finzioni dietro il verismo, Flaccovio, Palermo 1982; E. Ghidetti, L’ipotesi del verismo, Liviana, Padova 1982; F. Nicolosi, Verga tra De Sanctis e Zola, Pàtron, Bologna 1986; G. Nencioni, La lingua dei Malavoglia, Morano, Napoli 1988; G. Patrizi, Il mondo da lontano, Fondazione Verga, Catania 1989; M. Muscariello, Le passioni della scrittura. Studio sul
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primo Verga, Liguori, Napoli 1989 (e poi Ead., Gli inganni della scienza. Percorsi verghiani, Liguori, Napoli 2001); P. Mazzamuto, Il parvenu risorgimentale. Giovanni Verga tra antropologia e storia, Dharba, Palermo 1990; G. Petronio, Restauri letterari da Verga a Pirandello, RomaBari, Laterza 1990; M. Pieri, Caso Verga. Schede per una storia del verghismo minimamente diversa, Zara, Parma 1990; G. Tellini, L’invenzione della realtà. Studi verghiani, Nistri-Lischi, Pisa 1993; C. Musumarra, Di là del mare. Saggi di critica verghiana, Palumbo, Palermo 1993; A. Di Silvestro, Le intermittenze del cuore. Verga e il linguaggio dell’interiorità, Fondazione Verga, Catania 2000; V. Roda, Verga e le patologie della casa, Clueb, Bologna 2002; R. Luperini, Verga moderno, Laterza, Roma-Bari 2005. [f.d.c.]
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