Introduzione Al Disegno ale - Gillo Dorfles
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GILLO DORFLES
INTRODUZIONE AL DISEGNO INDUSTRIALE Linguaggio e storia della produzione di serie
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Indice
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Introduzione
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1. Breve premessa storica
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2. Da William Morris alle Arts and Crafts
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3. LʼArt Nouveau e i suoi rapporti con il disegno industriale
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4. Dal Bauhaus ai nostri giorni
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5. Carattere iterativo e concetto di « standard »
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6. Distinzione tra artigianato e disegno industriale
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7. Architettura industrializzata e design
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8. Interferenze tra disegno industriale, pittura e scultura
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9. La grafica fa parte del design?
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10. Teoria dellʼinformazione, complessità funzionale e strutturale e « consumo » del diegno industriale
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11. Valori simbolici e semiotici del disegno industriale
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12. Aspetti positivi e negativi dello syling
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13. Interferenze tra styling, moda, e ordinamento sociale
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14. Il concetto di « fuori serie » e gli equivoci della « piccola serie »
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15. Valore pubblicitario e autopubblicitario del design
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16. Originalità, universalità e plagio
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17. Importanza del fattore tecnologico
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18. Il lavoro di équipe e le sue caratteristiche
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19. Indagine di mercato e sistemi di vendita
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20. Disegno industriale e mass media
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21. Tentativo di una classificazione del disegno industriale
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22. Limiti dellʼazione del designer nella progettazione
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23. Lʼinsegnamento del disegno industriale
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24. Ipotesi per lʼevoluzione futura del design
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Appendice. Gli ultimi sviluppi del disegno industriale nel mondo
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Introduzione
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Ogni definizione rischia di risultare monca e imprecisa, tanto più quando essa si riferisce ad un settore vasto e complesso come quello che mi accingo a trattare: per questo preferisco non dare nessuna definizione netta ed assiomatica del disegno industriale1, lasciando che il lettore si venga formando da sé il concetto più idoneo e più rispondente alla realtà dei fatti attraverso la lettura dei paragrafi che seguiranno. Esistono, tuttavia, alcuni capisaldi dai quali non si può prescindere nell'iniziare uno studio di questo delicato settore ed è perciò 1
Un'impostazione teoretica del concetto di disegno industriale si può riallacciare già ad alcune postulazioni estetiche rinvenibili in Kant e ancor prima negli empiristi inglesi. Di solito si considera il concetto di bellezza funzionale come antikantiano e più prossimo a quel naturalismo eclettico, proprio alla filosofia del tardo Ottocento, appunto per il fatto che da questa veniva respinta ogni distinzione kantiana tra bello e arte, bello e razionale; ma, a ben guardare, già Kant, come è noto, critica la teoria del bello come perfezione e adatta alla sua teoria l'idea d'una finalità, considerando tale finalità possibile anche senza la rappresentazione d'un fine. Accanto alla bellezza pura (pulchritudo vaga) esiste per il filosofo tedesco la bellezza aderente (adhaerens), ossia quella bellezza che implica anche il fine a cui la cosa deve servire (ed è noto altresì come per Kant la finalità venga posta come principio a priori della facoltà estetica). Tuttavia non è solo la possibilità di assimilare tale finalità della cosa arti-, stica con la sua funzionalità che ci deve colpire, quanto il fatto che il concetto stesso di appropriatezza (la «fitness» degli empiristi) si identifichi per lui con la perfezione dell'oggetto artistico (ed è noto che, per Kant, nel grande settore della pittura rientrano di pieno diritto anche le arti decorative, i mobili, l'arredamento: elementi, dunque, in cui il concetto del fine a cui debbono servire, ossia quello che chiamiamo funzionalità, prevale). Proprio negli empiristi, e specialmente in Addison e in Burke, è già presente una visione dell'oggetto artistico che potremo a ragione definire come funzionalista. Dice, ad esempio, Burke (Ricerca sull'origine del sublime e del bello): «Quando esaminiamo la struttura d'un orologio e riusciamo a conoscere l'uso di ogni parte di esso, soddisfatti come siamo della convenienza dell'oggetto completo, siamo lontani dal trovare nell'orologio stesso alcunché di bello... nella bellezza... l'effetto precede ogni conoscenza dell'uso; ma per giudicare della proporzione dobbiamo conoscere lo scopo a cui un oggetto è destinato». È evidente in questa citazione la distinzione ancora posta da Burke tra bellezza e convenienza da un lato e d'altro lato tra proporzione (come elemento di bellezza) e conoscenza dell'uso, e tuttavia si intravvede già in queste righe una prima avvisaglia di quella lunga discussione mirante ad identificare, contrapporre o subordinare l’utile al bello, integrandone i due concetti in quello di funzione.
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che vorrei, sin dall'inizio, porre alcune fondamentali precisazioni che mi consentano di sbarazzare il terreno da pericolosi equivoci che si son venuti man mano addensando in questo campo, per la presenza di fattori ad un tempo estetici e tecnici, che interferiscono tra di loro senza mai raggiungere un vero punto di equilibrio. Sarebbe erroneo, innanzitutto, ritenere che il disegno industriale sia un settore esistito da sempre: quello cioè dell'oggetto utilitario. È un primo equivoco che va chiarito, e vedremo meglio, nel paragrafo dedicato ai rapporti tra disegno industriale ed artigianato, perché non si debba considerare l'oggetto artigianale come un « analogon» di quello industriale. Una delle prime condizioni necessarie per considerare un elemento come rientrante nel settore che ci accingiamo ad esaminare è che esso sia prodotto attraverso mezzi industriali e meccanici, ossia mediante l'intervento — non solo fortuito, occasionale o parziale — ma esclusivo della macchina. Da questa prima condizione derivano immediatamente altri corollari, come quello della ripetibilità, dell'iterazione, del prodotto; requisito che non era mai stato pre-visto prima dell'avvento della macchina. E, finalmente, come ulteriore premessa, dobbiamo considerare quella della maggiore o minore — ma comunque sempre presente — «esteticità» del prodotto; esteticità sui cui valori ovviamente sarà arduo intendersi (come è del resto arduo intendersi a proposito d'ogni opera d'arte che sia ancora sub judice), ma che dovremo ipotizzare come momento essenziale — almeno intenzionalmente — d'ogni opera del design. Non ogni prodotto dovuto alla macchina — s'intende — è di per sé artistico; per cui si dovranno considerare come appartenenti al settore del disegno industriale solo quelli che saranno stati, sin dalla fase di progettazione, ideati con tale intento; mentre d'altro lato si avranno numerosi casi di oggetti e di elementi industrialmente prodotti, che risulteranno provvisti di qualità espressive ed estetiche senza che tali qualità fossero menomamente previste all'atto della loro progettazione.
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Anche se, da parte di molti studiosi e teorici recenti, si tende a svalutare il lato artistico del disegno industriale e a considerare questo aspetto del tutto secondario, io ritengo che questa posizione di « rifiuto estetico» — o, se vogliamo, di puritanesimo antiedonistico — sia dovuta soprattutto al fatto di non aver ancora compreso come il concetto stesso di « arte » sia venuto mutandosi negli ultimi decenni, per cui non si dovrà piú considerare come artistico soltanto il prodotto delle « arti belle»: pittura, scultura, architettura, ma anche molti degli oggetti, degli strumentari, di cui la attuale civiltà tecnologica si vale nelle sue diverse manifestazioni. Si tratta, cioè, di constatare la presenza in ogni opera umana di una vis formativa, implicita nella stessa natura del materiale — del medium espressivo — ogni qual volta esso sia usato secondo quelle leggi compositive che gli si confanno, e che ha dato spesso origine al presentar-si di elementi altamente artistici all'insaputa degli stessi artefici. Nel nostro caso come vedremo è accaduto che, proprio alcune delle prime costruzioni tecnologiche del secolo scorso (i primi grandi ponti sospesi in metallo, alcuni edifici ingegnereschi come i docks di certi porti inglesi [Liverpool], alcune fabbriche, altiforni, alcune primitive macchine a vapore, ecc.) rivelassero per la prima volta certe costanti formali, che dovevano costituire le matrici di tutto quanto un nuovo «stile» architettonico e costruttivo, all'insaputa dei loro stessi ideatori. Potremo perciò riassumere le nostre premesse affermando che, mentre già in passato esistevano prodotti creati manualmente o solo parzialmente con interventi meccanici (ceramica, vetro), destinati a scopi pratici e utilitari, e provvisti di qualità estetiche (utensili, armi, arnesi preistorici, suppellettili, ecc.), e altresì numerosi elementi modulari, parzialmente e anche totalmente standardizzati, soltanto ai nostri giorni — ossia dopo l'avvento della rivoluzione industriale — si è data la produzione di oggetti, di
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sagome, di modelli, in grado di essere ti-prodotti in serie, e tali da adempiere, oltre che ad una funzione pratica-utilitaria, anche ad una estetica. Del resto lo stesso quoziente utilitario e «funzionale» non è del tutto indispensabile quale componente essenziale del di-segno industriale. (Ed è, anzi, questo, uno dei piú frequenti abbagli di chi ancora ritiene necessaria la presenza d'una componente «funzionale» alla base dell'oggetto industrialmente prodotto). In effetti: si può concepire l'esistenza e, si dà, l'esistenza di oggetti «inutili»: soprammobili, oggetti «decorativi», e anche oggetti di «arte pura » (che rientrano nella categoria della cosìddetta «arte programmata »), eseguiti in serie mediante l'esclusivo intervento della macchina e che sono quindi, a buon diritto, da considerarsi come facenti parte della categoria che stiamo esaminando. Per cui potremo concludere che, ciò che si richiede, per poter considerare un oggetto come appartenente al disegno industriale è: 1) la sua seriabilità; 2) la sua produzione meccanica; 3 ) la presenza in esso di un quoziente estetico, dovuto alla iniziale progettazione e non ad un successivo intervento manuale. Ecco, perché non è lecito discorrere di disegno industriale a proposito di oggetti appartenuti a età precedenti la rivoluzione industriale; e tanto meno a proposito di quelli (utensili, mobili, attrezzi) risalenti all'antichità e addirittura alla preistoria. Se il quesito del binomio bello-utile (dell'esteticità delle forme utili), rientra di pieno diritto nel nostro discorso, come quello dei rapporti tra funzione e forma, ciò non toglie che tale quesito esuli dal nostro orizzonte, quando esso si riferisce ad opere create a mano, senza possibilità di replica esatta, e senza l'intervento della macchina. Per questa ragione alcuni studi (come, ad esempio l'antico e classico volume “Arte e Industria” di Herbert Read «come l'ampio saggio di Lindinger sulla Designgeschichte) peccano nel loro rifarsi a delle pretese origini storiche del disegno industriale, risalendo all'utensile, al vaso, alla coppa dell'antichità, per il solo fatto che tali oggetti ave-'vano un
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fine utilitario oltre che estetico. t per questa ragione che nel tracciare una brevissima cronistoria del disegno industriale prenderò l'avvio sol-tanto dagli albori dell'« era neotecnica», dopo l'avvento della prima rivoluzione industriale, trascurando ogni riferimento alle forme «utili » precedenti quest'epoca. Un'ultima osservazione — prima di dare inizio alla trattazione dei diversi problemi che interessano l'oggetto prodotto industrialmente —, riguardo alla particolare latitudine del campo d'azione del disegno. Come avrò agio di precisare meglio nel paragrafo dedicato alla classificazione degli oggetti di spettanza del disegno industriale, il nostro settore si estende oggi alla quasi totalità degli elementi che costituiscono i punti di riferimento della nostra esistenza quotidiana ed è anche questo un fatto di primaria importanza di cui non tutti realizzano la portata. Noi siamo avvolti, ad ogni istante della nostra giornata lavorativa e ricreativa, da una marea di oggetti prodotti industrialmente, in serie, e con o meno palesi intendimenti estetici: dall'orologio che portiamo al polso, alla penna «biro », dagli occhiali alle forbici, dall'automobile alla carrozza ferroviaria, dallo scooter al jet. Tanto la vita casalinga (con i diversi elettrodomestici), che quella d'ufficio (con le macchine da scrivere, le calcolatrici), che quella sportiva (con gli sci, le mazze da golf), che quella bellica (con le armi, i missili, le navi da guerra), sono assiepate da produzioni alla cui base esiste sempre un momento progettativo, di creazione disegnativa, e un momento iterativo di produzione meccanizzata e seriale. Non deve dunque far specie se il nostro odierno orizzonte visuale è così fortemente influenzato dalla presenza di questa ingente quantità di elementi industrialmente prodotti, i quali — attraverso la loro forma, il loro colore, la loro tessitura — sono in grado d'influenzare — positivamente e negativamente — le nostre facoltà percettive e quindi anche le nostre tendenze creative e ideative. Potremo anzi
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affermare che proprio a tali elementi si deve, e si dovrà ancor più in futuro, il particolare indirizzo che potrà assumere il gusto dell'uomo e il suo atteggiamento verso le forme — utili e inutili — dell'ambiente entro il quale si svolge la sua esistenza.
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1. Breve premessa storica Come ho spesso avuto occasione di osservare, dobbiamo far coincidere l'inizio del disegno industriale con l'avvento della macchina nella produzione di oggetti progettati dall'uomo. Non è possibile discorrere di disegno industriale riferendosi ad epoche precedenti la rivoluzione industriale, anche se sin dall'antichità si sono dati alcuni oggetti eseguiti in serie e con il parziale intervento di :macchinari primitivi come il tornio, il trapano, la ruota ' dei vasai e le presse a mano delle fornaci di laterizi. dunque agli albori del secolo scorso che dobbiamo porre l'inizio dei primi oggetti industrialmente prodotti su disegno appositamente studiato per una produzione di serie. In quei primissimi oggetti — tanto nei mobili e nelle suppellettili che in alcuni elementi delle costruzioni edili (colonne di ghisa, ponti metallici) o nei primi mezzi di locomozione (macchine a vapore, bastimenti a ruote) si vede quasi sempre perpetuato l'errato concetto di mascherare le caratteristiche funzionali dell'oggetto mediante sovrapposizioni ornamentali che si rifanno al gusto dominante nell'epoca. In altri termini, non si era ancora giunti a concepire il prodotto sfornato dalla macchina come capace di possedere una sua « esteticità» derivata dall'incontro della funzionalità con la forma, senza aggiunta d'un fattore decorativo ad essa sovrapposto. Poichè il primo affermarsi della rivoluzione industriale si ebbe nel campo della lavorazione della ghisa, i primi conoscimenti dell'importanza dei nuovi metodi di lavorazione si ebbero nel settore dell'ingegneria. Gli ingegneri, difatti, furono i primi ad avvertire le possibilità estetiche, oltreché tecniche, dei nuovi sistemi di produzione, valendosi di elementi industrialmente prodotti per la realizzazione di opere le più svariate. Le più antiche di esse risalgono all'ultimo quarto del secolo XVIII; dato che il primo ponte in ferro ad una solo arcata - il Severn Bridge - fu costruito in Inghilterra tra il 1775 e il 1779 mentre la Royal Opera Arcade a Londra è del 1790. Ma la più ampia
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fioritura di opere ingegneresche si ebbe lungo tutto il secolo XIX ; secolo che vide il sorgere di costruzioni quali il Padiglione reale di Brighton di John Nash (1818-21), le serre del Jardin des Plantes di Rouhault a Parigi (1833), e, sempre a Parigi, la Bibliothèque Sainte Geneviève (1843-50) e la Bibliothèque Nationale di Henri Labrouste, les Halles Centrales (1849-53), nonché un buon numero di stazioni e altri edifici industriali, magazzini e ponti, tutti, a struttura interamente metallica. Sullo scorcio del secolo spiccano due importantissimi esempi di costruzioni a carattere provvisorio e cioè: Les Halles des Machines (Contamin), in occasione dell'esposizione universale dell'89 e la Torre Eiffel (Eiffel aveva già costruito precedentemente il Douro Bridge nel 1875 e il Garabit Viaduct nel 1879) destinata fortunatamente a sopravvivere all'esposizione per cui era stata ideata. Come ho già detto in quasi tutte queste costruzioni ingegneresche si perpetua l'equivoco di usare i nuovi materiali sotto forme e ornamentazioni che li fanno apparentare ai materiali che essi vengono sostituendo (pietra, legno, ecc.). Un primo esempio di emancipazione dalle formule linguistiche preesistenti lo si riscontra nell'estremo assottigliarsi del fusto delle colonne portanti, realizzate in ghisa, pur conservando esse tutti i loro tradizionali elementi compositivi. Anche in altri settori produttivi - come in quello della ceramica e della lavorazione in serie dei mobili (Thomas Chippendale e Thomas Sherraton [1718-79, 1751-1806], Joshiah Wedgwood [1730-95]), - si verifica un analogo fenomeno del perpetuarsi di schemi stilistici del passato, pur nel tentativo di immettere nella produzione nuovi sistemi di lavorazione a carattere ormai nettamente industrializzato. Nel caso di Wedgwood è significativo il fatto che la sua competenza e intuitiva modernità nel campo tecnico e organizzativo non si accompagnasse ad un'equivalente aggiornatezza nel campo estetico; infatti - soprattutto dopo la sua associazione con Thomas Bentley (1768) -egli prese a
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rivestire i suoi prodotti ceramici di motivi ornamentali desunti dall'antichità classica e rinascimentale. Tuttavia un graduale abbandono dei moduli architettonici e decorativi che venivano di giorno in giorno perdendo ogni giustificazione era inevitabile; e, se punti di vista come quelli espressi da Labrouste nelle sue annotazioni (Souvenirs d'Henri Labrouste, Paris 1928): «insisto sul fatto che in architettura la forma deve essere sempre appropriata alla funzione» erano ancora rari in Europa attorno alla metà del secolo, in America, invece, erano ben più frequenti forse in merito al più rapido sviluppo tecnologico di quel paese. L'impiego di elementi industrialmente prefabbricati nell'edilizia è qui molto più diffuso che in Europa, già sin dalla prima metà del secolo. Di essi si valsero architetti come Alexander Parris (1825) nel disegnare il progetto per il mercato di Boston e molti altri costruttori di grandi magazzini, palazzi per uffici, negozi, ecc. La più tipica di queste costruzioni, è forse l'edificio costruito da James Bogardus nel 1854 per Harpers & Brothers valendosi esclusivamente d'una intelaiatura metallica e di vetrate continue. A questo indirizzo si uniformarono, avallandolo con le loro esperienze, altri architetti come Henry Richardson (Magazzini Field a Chicago 1885-87) e i componenti della Scuola di Chicago: William Le Baron Jenney, Holabird, Burnham, John Root, nonché il grande Sullivan, maestro, come è noto, di F. Lloyd Wright. Un'analoga praticità e chiarezza di quella usata nell'architettura stava alla base della miglior produzione americana di oggetti di serie,, come resultò dalle impressioni suscitate dai prodotti americani presentati alla Esposizione di Londra del 1851, di cui Lothar Bucher (Kulturhistorische Skizzen aus der Industrieaustellung aller Völker, 1851) ebbe a dire: «Tutto quanto vediamo dell'arredamento domestico americano respira spirito di confort e adattamento allo scopo». Così, mentre in America già prima di giungere alla formulazione teorica dei problemi riguardanti il compito del
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disegno nell'industria, tali problemi ' avevano ottenuto una loro prima soluzione pratica, in Europa, ci si stava appena accostando alla determinazione ideologica degli stessi attraverso mal poste e confuse discussioni. Un primissimo riconoscimento - sia pur basato su postulati assolutamente non accettabili - dell'importanza del quoziente estetico nei prodotti dell'industria si ebbe nel discorso pronunciato da Sir Robert Peele (grande uomo di stato e grande industriale dell'epoca) ai Comuni nell'aprile del 1832 per appoggiare la proposta dell'erezione d'una galleria nazionale d'arte (cioè la National Gallery, di Londra). Egli affermò tra l'altro (come ci riferisce Herbert Read nel suo volume) che era precipuo interesse dei manifatturieri inglesi incoraggiare nel paese lo studio e la dimestichezza con le arti belle dato che la produzione inglese, tanto superiore a quella straniera dal punto di vista tecnico, si trovava in condizioni di netta inferiorità per quanto riguardava la bontà del pictorial design. In seguito a questo discorso - dove tra l'altro si raccomandava di prender esempio da quanto si faceva in Francia con l'Ecole des Beaux Arts di Lione - vennero aperte scuole, esposizioni, e si istituì un comitato che promovesse l'auspicato connubio tra arte e industria. Eppure il fattore artistico veniva tenuto in considerazione come qualcosa di distinto da| processo di produzione meccanica e come qualcosa che si doveva «applicare dal di fuori» all'oggetto industrialmente prodotto. Concetto codesto, come abbiamo spesso affermato, del tutto controproducente ed errato.
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2. Da William Morris alle Arts and Crafts Uno dei primi a voler reintrodurre l'elemento estetico nel campo della produzione di serie fu certamente William Morris (1834-95) uno degli animatori del movimento inglese delle Arts and Crafts, ma la cui posizione rispetto all'intervento della macchina nell'operare artistico e artigianale fu del tutto negativa. Per Morris una delle più alte qualità dell'uomo consisteva appunto nella sua capacità di fabbricare manualmente e senza far ricorso all'intervento meccanico. Tutto quanto egli produsse personalmente e tutto quanto egli fece per promuovere la comprensione d'ogni forma d'arte, per richiamare in vita vecchi procedimenti di lavorazione artigianale o elaborarne dei nuovi, fu il frutto di questa sua profonda convinzione. E se ne possono constatare i risultati per esempio nella Casa Rossa che egli si fece costruire da Philip Webb nel 1859 e di cui curò personalmente ogni particolare dell'arredamento, dalle tappezzerie alle stoffe, dai tappeti ai vetri e ai mobili. Principi analoghi furono da lui rivendicati nel laboratorio d'arte applicata (Morris, Marshal, Faulkner and Co.) e persino nella piccola casa editrice (Kelmscott Press) che estendeva i suoi interessi anche al campo della legatoria d'arte. In questo modo veniva riconosciuta ogni importanza educativa all'attività artigianale mentre la si negava a quella meccanizzata. Tuttavia i suoi continui sforzi per una chiarificazione del rapporto tra materiale, metodo produttivo e forma e per un'emancipazione dell'artigianato dalla schiavitù dai moduli derivati da stili preesistenti dovevano in definitiva risultare positivi anche per la successiva impostazione estetica del prodotto industriale, svincolandolo totalmente dai ricordi stilistici del passato. L'efficacia di tali principi fu del resto evidente nella ripresa dell'artigianato inglese di cui si ebbe tosto una tangibile prova nell'esposizione delle Arts and Crafts (nome con cui si
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designò la produzione artigianale inglese dopo il 1860) tenuta alla New Gallery di Londra nel 1880. La parte più vitale del suo insegnamento fu raccolta e sviluppata da alcuni suoi discepoli (come Walter Grane, W. R. Lethaby, John Sedding, Lewis Day, Charles Robert Ashbee), i quali dovevano in seguito affrancarlo da quei pregiudizi antimeccanicistici che ne avevano intralciato l'applicazione in un senso giusto e consono ai tempi. Basti citare a questo proposito quanto Lewis Day ebbe a scrivere attorno al 1882 (in «Everyday Art»): «ci piaccia o no, la macchina, la forza motrice e l'elettricità avranno qualcosa da dire nell'arte ornamentale del futuro». Alcuni dei principi morissiani - in cui più efficacemente traspaiono le teorie estetiche derivate da John Ruskin (1819-1900) e da altri autori e artisti preraffaelliti -ispirarono movimenti e personalità anche fuori dall'Isola. Tra queste una certamente delle più significative per i suoi influssi sul disegno industriale dell'epoca è quella di Henry Van de Velde (1863-1956) massimo esponente dell'Art Nouveau.
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3. L'Art Nouveau e i suoi rapporti con il disegno industriale Il nuovo indirizzo architettonico e artistico di tal nome ebbe come luogo di nascita Bruxelles e da li poi si diffuse nel resto d'Europa quasi contemporaneamente all'affermarsi in altri paesi di movimenti analoghi come lo Jugendstil in Germania, la Secessione in Austria, il Liberty in Italia, il Modernismo in Catalogna. Esso ebbe il grandissimo merito di proporre alla creazione architettonica e disegnativa moduli e decorazioni che astraevano completamente da ogni ricordo stilistico precedente, ispirandosi ad elementi naturalistici (specie floreali) e a motivi dove era possibile avvertire influssi estremorientali. Questo vagheggiare il mondo della natura nelle decorazioni dell'Art Nouveau ne rivelano l'affinità con le già considerate impostazioni dei movimenti morissiani e preraffaelliti cui si conforma anche nel senso d'una più intima aderenza tra struttura e decorazione. Dalle posizioni morissiane e ruskiniane questo movimento si discostava invece in quanto accettava incondizionatamente l'intervento della macchina. «Il gioco potente delle loro braccia di ferro come scrive Van de Velde nei suoi Kunstgewerbliche Laienspredikten, 1901 - creerà la bellezza, purché la bellezza le guidi». L'architetto belga può dunque essere considerato come il più illuminato esponente del «nuovo stile». Alla sua iniziale attività di pittore, sostituì quella di cultore delle arti applicate e di architettura, ponendosi a disegnare mobili, stoffe, tappezzerie; e attraverso tale attività ebbe un successo clamoroso in Fran-' eia quando venne chiamato nel '93 da S. Bing, mercante d'arte parigino, ad arredargli il negozio, che prese per l'appunto il suo nome dall'Art Nouveau. Lo scalpore creato attorno al negozio di Bing in quell'occasione diede origine al sorgere anche in Francia di uri analogo movimento (lo stile Galle), cui
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aderirono mobilieri, ceramisti, industriali e artisti come Galle e Guimard (il creatore delle famose inferriate del Metrò parigino) che accentuarono ancora il fantasioso decorativismo degli architetti belgi Van de Velde e Horta. Correnti analoghe all'Art Nouveau - come dissi - sorsero in Austria (dove J. Hoffmann [1870-1956] fondò nel 1903 con K. Moser le Wiener Werkstaetten) e in Germania dove venne dato notevole sviluppo alla creazione di mobili, oggetti per la casa, suppellettili. Mentre in Gran Bretagna l'opera di Morris e delle Arts and Crafts veniva continuata e perfezionata dalla scuola scozzese di Mackintosh (1869-1928) e di Mackmurdo (1851-1942). Un importante nesso tra i fermenti artistici anglosassoni e quelli germanici doveva poi essere realizzato da Hermann Muthesius (1871-1927), il quale - come addetto all'ambasciata tedesca a Londra - ebbe modo di studiare i problemi dell'industrializzazione del prodotto artigiano in quel paese e, tornato in patria, auspicò l'avvento d'un nuovo «Maschinenstil» che trovò poi nelle Deutsche Werkstaetten (a partire dal 1907) la sua prima realizzazione. È solo di recente che si è reso giustizia all'importanza dei movimenti dell'Art Nouveau nel promuovere l'avvento d'una forma d'arte già decisamente industrializzata, ma al tempo stesso provvista d'una nuova originalità stilistica; e questo perché, sino a non molti anni or sono, si continuò a considerare l'Art Nouveau come una corrente opposta e nemica di quella «razionalista». In realtà le due correnti, in apparenza distinte ed avverse, ebbero entrambe la funzione di promuovere l'utilizzazione della macchina nella creazione sia architettonica che delle « arti applicate», con la differenza che il razionalismo volle fare tabula rasa d'ogni motivo decorativo e ornamentale alla ricerca d'una assoluta purezza costruttiva e d'una assoluta funzionalità. Alle tendenze più spiccatamente razionaliste parteciparono sin dalla prima decade del secolo alcune importanti personalità come Berlage in Olanda, Adolf Loos in Austria, Tony Garnier e Auguste Perret in Francia e Behrens in Germania. E, anzi, bisogna riconoscere proprio a Behrens (divenuto nel 1909
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consulente dell'AEG di cui aveva costruito la fabbrica a Berlino) il merito - o la fortuna - di essere stato forse il primo caso di «consulente artistico» - di designer dunque chiamato direttamente da un'industria col fine di curarne ad un tempo la organizzazione tecnica ed artistica. È perciò a Behrens, nella sua successiva veste di direttore dell'accademia d'arte di Dusseldorf, come a Van de Velde, in quella di direttore della scuola di Weimar, che spetta il massimo riconoscimento quali pionieri di un metodo didattico volto a riconoscere il peso che il disegno industriale doveva assumere nel settore tecnico e artistico della produzione di serie.
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4. Dal Bauhaus ai nostri giorni È, con il 1920 che ha inizio uno dei periodi più decisivi nella storia del disegno industriale. Infatti in quell'anno Gropius (che già un anno prima era stato chiamato da Van de Velde alla direzione del Bauhaus) inizia la sua attività presso quella scuola. L'importanza del Bauhaus non ha più bisogno di essere sottolineata, ne vanno però ridimensionati gli apporti ed è di questi ultimi anni un fiorire di studi che mirano a dare il giusto peso alle iniziative di Gropius e dei suoi collaboratori. Dal 1920 al 1925 il Bauhaus continuò la sua attività a Weimar, in seguito a partire dal 1925, e sino al 1928, si trasferì a Dessau, sempre diretto da Gropius che, in quell'anno, per il sopraggiungere della incresciosa situazione politica dovuta al nazismo incalzante, abbandonò la Germania e lasciò la direzione della scuola a Hannes Mayer. Alla scuola collaborarono alcune delle personalità artistiche più rilevanti dell'epoca come Klee, Kandinskij, Feininger, Moholy-Nagy, Mies van der Rohe, Albers, VordembergeGildewart, e gli allora giovanissimi Max Bill, Gyorgy Kepes, e Breuer. È sin troppo facile rivolgere oggi degli appunti ai metodi didattici del Bauhaus e tentare di limitarne la portata dell'insegnamento. In effetti è noto che una certa quale «artigianalità» dell'insegnamento aveva ancora la prevalenza sui metodi decisamente scientifici che in seguito dovevano essere adottati; ma non bisogna dimenticare l'epoca in cui la scuola si era venuta formando e la sua derivazione da quella che era ancora una visione «estetizzante» dell'oggetto industriale e dell'architettura. Rimane comunque il fatto che senza il Bauhaus difficilmente si sarebbe sviluppata così rapidamente una chiara coscienza dei nuovi requisiti necessari all'evoluzione architettonica e disegnativa moderna. Anche per quanto si riferisce all'impostazione sociologica data da Gropius al suo insegnamento e che, attualmente, dovremmo considerare alquanto utopistica, è importante segnalare come essa costituisse una prima
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rottura con degli schemi sociali ottocenteschi del tutto arretrati. Gropius, infatti, mirava a creare un'arte capace di raggiungere col minimo costo il più alto livello artistico e mirava a creare degli oggetti che fossero destinati a tutte le categorie sociali e che non fossero riservati a sparute élites; non solo ma credeva che, abbinando l'insegnamento artigianale con quello industriale e artistico, si potesse creare quell'artista completo capace di dominare tutti quanti" i settori della produzione. Oggi sappiamo che un cosìffatto ideale «umanistico» è pressocché impensabile, sappiamo che sono necessarie altre basi - di carattere scientifico, linguistico, psicologico, filosofico - per permettere una chiara visione del problema; ma comunque non possiamo misconoscere l'efficacia dell'insegnamento di Gropius, non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti dove il suo apporto doveva risultare decisivo. Alcune realizzazioni del Bauhaus rimangono perciò quali tappe fondamentali del disegno industriale, e mi limito a citare i famosi mobili in tubo d'acciaio di Breuer (dove sedile, schienale e braccioli erano costituiti da elementi di tessuto tesi sull'intelaiatura metallica), le seggiole metalliche di Mies, tra le quali la Barcellona, costruita nel 1928 per la fiera omonima, doveva avere una lunghissima vita giacché la sua produzione di serie (sia pur di serie limitata e ad alto costo) doveva ancora prolungarsi sino ai nostri giorni. Anche nel caso dei mobili di Breuer si verificava una condizione analoga a quella della Barcellona. Essi venivano riproposti di recente (1962) e rilanciati sul mercato, sia pur con risultati alquanto incerti, a dimostrare comunque una notevole durevolezza del disegno. Altri prodotti notissimi del Bauhaus furono la maniglia in nichel di Gropius e la sua automobile Adler (1932) e ancora lampade da tavolo, diffusori di luce, ceramiche. Attorno alla stessa epoca anche in Olanda, come è noto, si andavano svolgendo importanti ricerche nel settore della progettazione industriale, e vorrei rammentare alcuni mobili tipici come quelli di Rietveld (la sua seggio: la del 1917) che,
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seppur ancor in parte di carattere artigianale, sono interessanti perché dimostrano il completo abbandono di quei compiacimenti decorativi che ancora erano presenti in molti oggetti, mobili, e suppellettili. Con l'abbandono, da parte di Gropius, di Mies, di Breuer, di Mendelsohn e di quasi tutti i migliori architetti e grafici, della Germania all'avvento del nazismo, quel paese doveva cessare di costituire un centro di attiva ricerca e di altrettanto attiva produzione per l'arte moderna (dimostrazione ovvia se ce ne fosse bisogno - di quanto le tirannie politiche possano influenzare il settore della cultura e dell'arte); ma, in un certo senso, l'avvento del nazismo fu «salutare» proprio per l'immenso contraccolpo che ne doveva risultare al continente transatlantico. Infatti gli Stati Uniti che, attorno agli anni trenta erano ancorati ad un'estetica del prodotto quanto mai edonistica e priva di purezza stilistica, dovevano ricevere un apporto formidabile dal trasferimento sul loro suolo di molti artisti europei fuggiaschi dal nazismo e dal fascismo. Fu così che a Chicago si venne istituendo lʼInstitute of Design (guidato in un primo tempo da MoholyNagy e in seguito da Jay Doblin a partire dal 1955), che fu, soprattutto nei primi tempi, quasi una continuazione dei metodi bauhausiani. Anche in altri istituti già esistenti come I'IIT di Chicago (dove per lunghi anni insegnò Mies) e il mit di Cambridge (Mass.), l'università di Harvard e quella di Yale, e alcuni istituti della California, si trasferirono parecchi dei più giovani allievi del Bauhaus portando ovunque nuove idee e nuovi metodi didattici. Tra i più impegnati ricorderò qui Gyorgy Kepes (professore al MIT), Albers (a Yale), Mundt (in California), Breuer e Gropius (a Harvard), ecc. Con la fine della seconda guerra mondiale, possiamo in certo senso considerare chiusa l'epoca dominata dal Bauhaus. Vediamo ora quali si possano considerare le tappe essenziali del design in questo dopoguerra: se, come vedremo, lo styling americano - specie nel settore automobilistico - rappresentò attorno agli ai' i cinquanta uno dei fenomeni più vistosi, non dobbiamo sottovalutare
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l'influsso esercitato nel decennio 1950-60 dall'avvento del disegno italiano che apparve, sia in Europa che oltreoceano, come un elemento rivoluzionario per i suoi aspetti fantastici e anticonformisti, sin dall'introduzione nel primo dopoguerra dei primi motoscooter (Vespa e Lambretta). Un importante apporto alla diffusione del disegno italiano fu anche dovuto alle Triennali del '51 e '54 e all'illuminata attività di alcune ditte come la Olivetti e la Necchi. Tuttavia con la Triennale del '60 il prestigio italiano cominciò a declinare, minato dalle eccessive leziosità d'un revival di moduli neoliberty. Tra le iniziative culturali dell'ultimo decennio sono da annoverare le riunioni internazionali ad Aspen (Colorado), che costituirono importanti punti d'incontro tra designer di tutto il mondo e che furono seguiti dal convegno internazionale di Tokio (1961), di Venezia (1962), di Parigi (1963). di Vienna (1965), di Montreal (1967), di Londra (1969) e di Ibiza (1971). Una importanza notevole, poi (come vedremo parlando dell'insegnamento), ebbe l'istituzione della Scuola di Ulm, che introdusse per la prima volta sistematicamente nel settore del disegno industriale lo studio della semiotica, della teoria dell'informazione, dell'ergonomia e della cibernetica, e la cui collaborazione con una ditta illuminata come la Braun portò alla creazione di oggetti assai rigorosi e selezionati.
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5. Carattere iterativo e concetto di « standard » A base d'ogni produzione industriale che possa rientrare nel settore che stiamo esaminando deve essere posto il suo carattere nettamente iterativo: ossia la sua produzione di serie. Ogni fase lavorativa del prodotto, perciò, dovrà essere organizzata e controllata in maniera tale da consentire una resa che sia sempre eguale e che non presenti la benché minima deviazione dalla serie. Mentre nei precedenti tipi di produzione, apparentemente «di serie» (come parecchie lavorazioni artigianali eseguite con mezzi parzialmente meccanizzati e dove ogni esemplare veniva ripetuto molte decine o centinaia di volte), il controllo della produzione era quanto mai relativo, appunto perché non interessava l'assoluta identità dei diversi oggetti, e perché essi non avevano bisogno di adeguarsi ad un «prototipo» costante; nel tipo di produzione industriale, il concetto di serie, riguarda, ancor più che la quantità dei singoli elementi, il loro metodo produttivo. Potremo avere, pertanto una piccola e piccolissima serie (locomotori, bastimenti, sommergibili, macchine calcolatrici elettroniche giganti, elettroencefalografi, ed altri strumenti d'alta precisione e di scarsa diffusione) in cui gli esemplari prodotti potranno essere poche decine d'unità, o addirittura pochissime unità, pur permanendo identico il carattere di «serialità» che starà alla base della loro produzione. Mentre d'altro lato avremo, il più delle volte, degli oggetti di grandissima serie (stoviglie, elettrodomestici, vasellame, transistor, ecc.) dove la ripetizione del prodotto raggiungerà le molte migliaia e centinaia di migliaia di capi, mantenendosi pur sempre costante la fedeltà del singolo oggetto al suo prototipo grazie al sistema di lavorazione che non consente nessuna deviazione di sorta. Il concetto stesso di serie è uno dei principi basilari di cui occorre tener conto. «Serie», significa possibilità di riproduzione, di iterazione, d'un determinato modello
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(modello capostipite) che possiede - secondo la definizione di G. Ciribini - «nella più larga misura quell'insieme di caratteri ritenuti necessari al suo uso a fine di campionatura o esemplativi di processi operativi di serie e come impiego combinatorio o compositivo di elementi standardizzati» (G. C, Architettura e Industria, Milano 1959). Il «capostipite» viene anche definito come «modello normale, o standard», oppure «tipo». L'atteggiamento del pubblico verso l'oggetto d'arte ha dovuto essere necessariamente mutato sostanzialmente per permettergli di accettare l'opera prodotta industrialmente, in serie, alla stessa stregua, o meglio con analogo «rispetto», di quanto avveniva nel passato per l'opera d'arte o anche per la semplice opera artigianale; infatti, nel caso della produzione di serie, viene a cadere totalmente il valore implicito nel concetto di «unicità» che era sempre alla base d'ogni valutazione d'un oggetto artistico; come pure viene a cadere la presunzione d'una particolare abilità manuale da parte dell'artefice, giacché ogni dettaglio esecutivo è già implicito nella progettazione da parte del designer, e non può venire « aggiunto» successivamente dall'eventuale «tocco» dell'artefice. Questo fattore, della presenza d'una produzione squisitamente seriale di esemplari tra di loro identici, è praticamente ignoto a qualsivoglia epoca del passato. Ogni prodotto artigianale, come abbiamo già detto, anche nelle sue esemplificazioni più accurate e anche nei casi d'intervento parziale della macchina (tornio, trapano, ruota dei vasai), aveva sempre un limite di compiutezza, e un margine di azzardo. Lo stesso quesito dei limiti d'inesattezza ammissibile per l'oggetto di serie, è del tutto diverso da quello relativo alla diversità degli oggetti artigianali, nei quali l'inesattezza costituisce spesso, anziché un difetto, un «pregio estetico», mentre nell'oggetto industriale il «limite di tolleranza» è strettissimo e ogni difetto costituisce un ostacolo alla produzione ed alla vendita. È ovvio che il principio di produzione di serie, e l'assenza di imperfezione che ne consegue, oltre a costituire un dato
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tecnico assolutamente non trascurabile, costituisce altresì un dato formale dei più significativi e rilevanti. Come abbiamo già accennato è proprio in ciò che consiste la grande rivoluzione portata dal disegno industriale in questo campo delle arti visuali; e come avremo agio di ripetere meglio parlando degli oggetti di serie non funzionali (della cosìddetta «arte programmata»), è da qui che sorge quel principio che consente di concepire oggetti, industrialmente prodotti, senza fine utilitario e quindi concepiti esclusivamente per un fine «artistico», ma che, del pari, debbono andar esenti da ogni imperfezione, da ogni compiacimento «personalistico» per quanto riguarda la loro lavorazione e la loro produzione. Il concetto di «standard», dunque (o di «normacampione»), sorge con l'avvento della macchina quale strumento capace di moltiplicare all'infinito un determinato modello; per cui l'oggetto industrialmente prodotto deve essere concepito come già compiuto all'atto stesso della sua produzione, e non deve sottostare ad ulteriori manipolazioni che ne migliorino o ne modifichino l'aspetto. Naturalmente esistono ancora in commercio alcuni oggetti ibridi che dai più vengono compresi nella categoria del disegno industriale per quanto la loro produzione sia di tipo misto; tra questi ricordiamo molti tipi di mobili prodotti solo parzialmente secondo un rigoroso principio seriale e nei quali interviene la rifinitura, la lucidatura e altri processi lavorativi eseguiti a mano. Tali mobili dovranno evidentemente essere inclusi solo con cautela nel nostro discorso, e del resto la loro esistenza è già sin d'ora precaria e sarà probabilmente destinata a cessare con l'affermarsi d'una più vasta produzione industriale. Un'altra categoria di prodotti che, secondo il nostro modo di vedere, esula dal settore del disegno industriale, è quella dei tessuti stampati a macchina, cioè di quei tessuti la cui «decorazione» avviene del tutto industrialmente e senza l'intervento dell'artista in una ulteriore fase della lavorazione. La ragione per cui consideriamo che tali prodotti siano da
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escludere è semplice: si tratta in questo caso non già di forme tridimensionali create industrialmente in base ad una previa progettazione della loro sagoma; ma si tratta semplicemente di motivi decorativi sovrimposti ad una superficie bidimensionale (alla stessa stregua di quanto avviene nelle carte stampate o in qualsivoglia «riproduzione» meccanica d'un motivo figurativo, d'un dipinto, d'un disegno, d'una fotoincisione), per cui il valore di tali prodotti non potrà assolutamente essere considerato come rientrante nel campo del disegno industriale vero e proprio. Ho voluto tuttavia nominare tali prodotti, perché spesso li vediamo inclusi in trattazioni del genere della nostra e addirittura premiati in concorsi riservati al disegno industriale. Del tutto diverso è il caso dell'imballaggio (packaging). Quest'ultimo settore - pur essendo un settore misto che ha attinenze con quello della grafica e della pubblicità -rientra peraltro nel quadro del vero e proprio disegno industriale. Infatti l'imballaggio d'un prodotto può spesso costituire un esempio dei più interessanti per la ricerca d'una forma tridimensionale capace di contenere un determinato oggetto in maniera opportuna: funzionale ed estetica insieme, mentre è portato spesso a risolvere un altro dei fattori decisivi della vendita: quello dell'auto-pubblicizzarsi del prodotto, in seguito al suo aspetto esterno.
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6. Distinzione tra artigianato e disegno industriale Una delle prime distinzioni su cui è necessario insistere riguarda l'attuale situazione dell'artigianato e del disegno industriale. Se è indubbio che si possa considerare il primo come il vero progenitore di molte opere attualmente di spettanza del secondo, ciò non toglie che tra i due settori produttivi esista oggi una netta differenza, una opposizione addirittura, per cui è bene dirimere ogni equivoco a questo proposito. Spettava un tempo all'artigianato tutta quanta la vastissima gamma di produzioni parzialmente eseguibili in serie e che si era soliti considerare come di valore estetico inferiore a quello delle «arti pure». Si contrapponeva pertanto alla «grande scultura e pittura» l'opera più modesta dell'artigiano come la ciotola, l'anfora, il vaso di ceramica, di vetro, la statuetta in legno di tipo folkloristico, il ricamo e il pizzo, il tappeto e in genere la stoffa tessuta e dipinta e ancora tutta la serie di cosìddette «arti applicate» quali il mosaico, l'arte dell'alabastro, del cuoio intagliato, e via dicendo. In realtà con l'avvento dell'era industriale, tali settori erano andati vieppiù decadendo e questo poteva giustificare il fatto che si tendesse a considerare queste forme artistiche come «minori» rispetto a pittura, architettura, scultura. L'equivoco era dovuto soprattutto al fatto di non aver inteso come la minore efficacia di tali opere era dovuta non al loro essere «applicate» o «decorative» (entrambi concetti che devono essere oggi del tutto lasciati in disparte), ma dall'essere il più delle volte cattive imitazioni del passato anziché nuove formulazioni consone allo spirito dell'epoca. La lotta di Ruskin e di Morris era appunto imperniata su tale fatto; e mirava cioè a ridare all'attività artigiana una sua autonomia estetica; ritenendo però che ciò dovesse portare ad una sconfitta dell'arte industrializzata. La situazione oggi, invece, è del tutto chiarita: le antiche forme di artigianato locale, spesso folkloristico, continuano a vegetare soltanto come
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echi di esperienze ormai desuete e destinate nel breve volgere d'anni a scomparire del tutto; mentre le forme di artigianato «moderno», quelle che hanno fatto proprie le lezioni delle arti maggiori dei nostri tempi, si sono poco alla volta del tutto riscattate dalla imitazione degli antichi moduli derivati dal passato. Ed è logico che sia così quando si pensa che, in tutte le epoche e le civiltà, i prodotti artigianali ebbero in ogni singolo periodo una loro ben precisa caratteristica formale ed estetica (basti confrontare oggi un'anfora minoica antica ad una dei successivi periodi micenei, o un'anfora olmeca con una azteca o maya). Ma, se abbiamo affermato la possibilità dell'esistenza d'un artigianato moderno che vive e si evolve secondo sue linee autonome ed originali, dobbiamo a questo punto precisare con ancora maggior recisione come sia necessario distinguere nettamente tra codesta produzione artigianale e quella che fa capo al disegno industriale. In cosa consisterà la differenza tra i due prodotti? Prima di tutto nello stesso principio informatore che è alla loro base: l'opera artigianale, per la sua stessa natura, è un'opera che deve risultare come «fatta a mano»; e questo anche nei casi in cui vi sia l'intervento parziale d'una Macchina. Come è noto, sin dall'antichità alcune opere artigianali (ceramiche) venivano eseguite con l'aiuto d'un meccanismo (la ruota, il tornio dei vasai, il trapano dei marmisti), ma, anche in questi casi, era sempre il «tocco» dell'artista-artigiano a intervenire per portare a compimento l'opera. Come del resto accade anch'oggi per la ceramica, per il vetro, per il metallo sbalzato, o intagliato. In altre parole, l'opera artigianale, anche quando sia sottoposta ad una iterazione in molteplici esemplari, non raggiunge mai l'assoluta identità d'ogni sua copia. Un quid differenziale esiste sempre - e deve esistere a distinguere un oggetto dall'altro; ed è proprio in questa, sia pur piccola, differenza, in questa minutissima imperfezione formale, che consiste il fascino e l'essenza stessa di questa forma artistica.
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Nel caso dell'oggetto industrialmente prodotto, per contro, tale evento non si verifica mai, e non deve verificarsi; quand'anche avvenga che un determinato oggetto presenti delle «imperfezioni» per ragioni di caso che sfuggono alla volontà del progettista, tali imperfezioni dovranno essere considerate come errori di fattura e non come compiacimenti d'una «bella materia». E infatti, si può a ragione affermare che l'oggetto industriale esiste già al momento in cui è stato progettato, in cui è stato ultimato il disegno esecutivo che porterà all'esecuzione del modello-prototipo da cui prenderà origine la serie perfettamente eguale ed identica di tutti i pezzi che seguiranno il primo. L'opera dell'artista, dunque, nel pezzo artigianale si esplica «alla fine» della lavorazione, nel pezzo industriale «al principio». Per questa ragione l'artigianato è destinato ai nostri giorni a diventare sempre più un'opera «d'eccezione», proprio per la necessità della presenza incessante dell'artista che ne rende impossibile la produzione «di massa» e che invece ne prevede solo una produzione d'elite. In questo modo l'artigianato sarà ridotto tra breve a un genere di produzione del tutto analogo a quello di pittura e scultura, mirante alla creazione di oggetti unici e irrepetibili e che appunto perciò saranno di per sé particolarmente pregiati e altamente costosi. L'artigianato «di serie», a poco prezzo, quello che ancora ai nostri giorni invade alcuni grandi mercati come quello di Salvador di Bahia in Brasile o di certe zone della Grecia, della Sardegna, del napoletano, del Giappone, dell'India, non potrà sussistere quando la sua costosità sia divenuta equiparata al costo effettivo d'una mano d'opera specializzata, e dovrà cedere il campo ad analoghi - meno caratteristici ma più funzionali - prodotti industriali; potrà continuare ad esistere solo per la produzione di singoli oggetti «di lusso», di pregio, eseguiti da quei pochi artisti-artigiani che avranno la possibilità di creare della merce altamente specializzata e tale da essere commerciabile a un prezzo molto più elevato della corrente produzione di serie.
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Il fatto non deve rattristare qualche nostalgico del passato: è logico che ogni epoca abbia le sue particolari leggi di mercato e non è possibile mantenere artificialmente in vita quelle opere artistiche la cui ragion d'essere contrasti con quelle che sono le costanti socioeconomiche dell'epoca in questione.
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7. Architettura industrializzata e design Si è discusso a lungo sulla possibilità di includere il vasto settore dell'architettura industrializzata entro i limiti del design, e si è anche, da parte di alcuni autori (Argan), proposto di allargare il concetto di design fino a farvi includere non solo la creazione di oggetti di serie, ma in genere di ogni elemento pianificato serialmente, estendendone quindi l'ambito sino a buona parte dell'architettura e addirittura dell'urbanistica. Ritengo che tale allargamento dell'area semantica del design non sia opportuna anche per non creare ulteriori equivoci; perciò in questa trattazione mi limiterò sempre ad esaminare soltanto quelle opere che possano essere incluse con proprietà entro i limiti del disegno industriale. Sarà bene tuttavia notare come in realtà esistano molte e rilevanti analogie tra il tipo di progettazione dell'oggetto industriale e quello di alcuni elementi dell'architettura moderna (curtain walls, snodi e giunti, serramenti e altri infissi prefabbricati, ecc.); e addirittura di certi grandi impianti industriali dove compaiono elementi formali che stanno per l'appunto a cavallo tra design e architettura e che, a dire il vero, si possono senz'altro far rientrare nel nostro settore (così dicasi di strutture come: turbine, altiforni, serbatoi, tanks, serpentine, distillatori, antenne d'alta tensione, ecc.). Simili strutture effettivamente fanno parte del design, ma, una volta inglobate entro un organismo architettonico, vengono a costituire esse stesse delle vere e proprie «architetture». Nessuno potrà negare che la vista d'una serie di immensi serbatoi alternati alle ben note serpentine di distillazione d'una grande raffineria moderna non costituiscano uno spettacolo «architettonico» anche se gli elementi singoli possono essere considerati opere di «design». Lo stesso discorso potrebbe essere ripetuto per le strutture di facciate continue (curtain walls) montate sopra un moderno grattacielo e che - anche se come elementi singoli rispondono in pieno al tipo di progettazione e di esecuzione dell'oggetto
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industriale - sono tuttavia, una volta montati sull'edificio, parte integrante di esso. Potremo dunque, in definitiva, mantenere una netta distinzione tra i due settori considerando che il fatto architettonico dipenda oltre che dalla progettazione del singolo elemento costitutivo, anche dall'intervento dell'elemento topografico, planimetrico, ambientale: elementi che esulano totalmente da quello del design. E potremo anche accennare come, pur continuando a considerarli «architetture», sia facile prevedere per un prossimo futuro un sempre maggior sviluppo di tali elementi prefabbricati non solo parziali (maniglie, infissi, serramenti), ma totali, di cui sono già espliciti esempi le famose cupole geodesiche e le «dymaxion houses» di Buckminster Fuller, i numerosi elementi modulari di Konrad Wachsmann, e alcune interessanti costruzioni unifamiliari in materiali plastici come la House of the Future della Marzant Chemical Co., l'abitazione in resina di J. Schein in Francia, e alcune case progettate, tra altri, da J. Johansen negli Stati Uniti. Ho preferito mantener distinta, più che altro per una ragione metodologica, l'architettura dal disegno industriale; non posso, tuttavia, far a meno di notare, qui, come molti dei problemi che abbiamo considerato a proposito del disegno valgano, e siano prossimi a valere, anche per . l'architettura. Non si dimentichi che ci troviamo oggi in una situazione ancora prevalentemente artigianale del fare architettonico, situazione che dal punto di vista economico presenta tutti gli inconvenienti già lamentati a proposito dell'oggetto artigianale. È perciò probabile che in un prossimo futuro si giunga, non solo a concepire, ma a realizzare un'architettura (soprattutto un'architettura domestica e residenziale, ma anche un'architettura pubblica) completamente industrializzata, prefabbricata, e standardizzata; il che porterà ad un immenso abbassamento dei costi e ad una concezione assai diversa del criterio di «originalità» in quest'arte. Da recenti ricerche compiute negli Stati Uniti risulta ad esempio che, ove un'automobile fosse realizzata ai nostri giorni con gli stessi sistemi artigianali con i quali si
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realizzano le nostre case, essa verrebbe a costare circa cinquanta volte di più di quanto attualmente costa. Eppure nonostante, - anzi proprio in merito - alla completa standardizzazione della produzione automobilistica, noi possiamo constatare oggi una maggior varietà di «tipi», e dunque una maggior originalità creativa, nel caso di macchine automobili, rispetto a quanto accade nel caso delle «normali» case d'abitazione (non intendiamo, ovviamente, riferirci ad alcune pochissime costruzioni d'alto livello artistico ed economico destinate a una esigua schiera di committenti). Il che sta a dimostrare come la paura di molti circa un inaridimento delle qualità inventive come conseguenza dell'introduzione di sistemi meccanizzati di produzione sia del tutto errata. L'attuale situazione dell'edilizia nelle nostre periferie cittadine è la miglior dimostrazione del fatto che — spesso, proprio per la sopravvivenza di metodi costruttivi artigianali - i risultati sono pessimi; mentre non lo sono in molti dei prodotti, anche più economici e standardizzati, realizzati industrialmente.
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8. Interferenze tra disegno industriale, pittura e scultura Una delle ipotesi estetiche più comunemente accettate è quella che postula una identità stilistica tra opere d'arte d'una determinata epoca; persino tra quelle di arti tra di loro assai distinte (musica, architettura, poesia), e, tanto più per quelle appartenenti ad una stessa categoria « sensoriale» come le arti visuali. È, forse soltanto ai nostri giorni, che si può assistere ad una certa sfasatura a questo proposito, sfasatura indubbiamente derivata dall'avvento dei mezzi meccanici. Questi da un lato hanno stimolato ed esaltato il processo creativo, dall'altro l'hanno subordinato a nuove ragioni d'essere che spesso esulano da quelle che dovrebbero regolare il sorgere e il divenire dell'opera d'arte. Se osserviamo, infatti, i rapporti che si sono venuti istituendo tra disegno industriale, pittura e scultura, potremo facilmente renderci conto che tali rapporti hanno subito tre fasi distinte: una prima fase - quella, tanto per intenderci, corrispondente alla prima rivoluzione industriale (all'architettura ingegneresca dell'Ottocento) -, in cui le opere tecniche e meccaniche (ivi compresi i grandi ponti metallici, le prime macchine a vapore, le prime macchine tessili, e da scrivere) venivano considerate del tutto distinte dalle « arti belle » e, tutt'al più si tentava talvolta di «mascherare» la macchina con l'aggiunta d'un fregio o d'un ornato o con l'inclusione di elementi decorativi (capitelli, colonnine) entro il corpo del meccanismo. A questa fase fece seguito quella dell'Art Nouveau che cercò di creare oggetti e architetture che, pur valendosi della lavorazione meccanica, avessero anche un quoziente artistico; e in quest'epoca si realizzarono alcune importanti opere che dovevano essere rivalutate soprattutto ai nostri giorni. A questa fase subentrò quella bauhausiana e neoplasticista durante la quale venne prendendo forza la
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convinzione che l'oggetto industriale (e l'architettura creata coi nuovi materiali) dovessero essere del tutto sottomessi al binomio utilità-bellezza; e fu allora che si verificarono i noti casi di analogie «stilistiche» tra alcune pitture (Mondrian, Van Doesburgh, Malevic), alcune sculture (Arp, Pevsner, Gabo), e gli oggetti industrialmente prodotti (mobili di Rietveld, di Le Corbusier, di Mies, di Breuer). Fu certo, quest'ultimo, un periodo glorioso e pieno di interesse polemico e ideologico; ma oggi, a distanza di un quarantennio, possiamo constatare che in questa voluta sottomissione d'un settore artistico all'imperativo della «funzionalità» doveva esservi alcunché di forzato. In effetti, nel dopoguerra, si è potuto assistere ad un progressivo ribellarsi di pittura e scultura alle frigide regole del costruttivismo e del concretismo e si sono viste sorgere nuove forme pittoriche e plastiche assai più libere, sfociate addirittura nei modi estroversi e irrazionali della pittura «informale», del tachisme, dell'action painting americano, e di altre correnti neodadaiste e pop. È ovvio che tra queste ultime forme di arte visuale e l'oggetto industriale non poteva sussistere che una ben scarsa affinità. Invano si tentò da parte di alcuni autori di individuare in certa architettura «brutalista» o in certa ripresa ornamentale dell'oggetto industriale, un'analogia con l'Informale pittorico; la realtà è ben diversa: abbiamo oggi un genere di pittura e di scultura che — proprio in opposizione al razionalismo architettonico e al rigorismo scientifico della produzione industriale — vuol mantenere intatti i suoi privilegi di assoluta libertà creativa e di assoluta indipendenza da ogni costruzione razionale. D'altro lato abbiamo la vasta gamma dei prodotti industriali che non possono comunque sottrarsi alle esigenze della praticità, della funzionalità e delle leggi del mercato e che debbono quindi sottostare ad alcune norme costitutive e costruttive che ne regolino anche l'« aspetto esterno». Il che non toglie che un'osmosi tra le diverse forme creative sussista; ne sono un esempio, dal lato delle «arti pure», la frequente inclusione in esse di elementi presi a prestito al
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mondo dell'industria e del disegno industriale (come si può constatare in parecchi artisti pop come Rauschenberg, Jasper Johns, Jim Dine, Arman, Raisse, Baj, Oldenburg, ecc.), e d'altro canto il progressivo svilupparsi ed affermarsi in diversi paesi d'un genere di produzione «industriale» (o quanto meno eseguita con sistemi industriali e di serie) dedicata alla creazione di oggetti «non utilitari» ossia di oggetti che hanno l'unico fine di essere «piacevoli», di soddisfare l'esigenza estetica del pubblico. Alcune di tali opere, come quelle create dal gruppo francese delle Recherches visuelles (Morellet, Le Pare, Sobrino, Yvaral), o da quelli italiani del Gruppo T (Boriani, Colombo, Devecchi), da Mari e Munari, o da altri artisti come i tedeschi Rot, Pohl, Mack, Piene, e altri ancora², stanno a dimostrare la possibilità di concepire anche il disegno industriale in funzione d'una creazione di opere « artistiche » non utilitarie e con ogni probabilità troveranno in futuro ampie applicazioni nel settore della pubblicità, dell'arredamento, della segnaletica e in genere in tutto quanto il lay out della moderna civiltà meccanizzata. D'altro canto il recente fiorire di forme d'arte definite come «concettuali» o «povere» e di alcune sottospeci delle stesse come la land art e la earth art, dimostra, una volta di più, come esista tuttora un forte impulso a ribellarsi ai dettami della macchina e dell'industria. Non c'è dubbio che molte di queste forme artistiche basate più sull'enunciazione d'un concetto, d'una «metafora visiva», che sulla realizzazione di veri e propri oggetti; al pari di quelle forme che segnano un ritorno alla natura, un recupero di azioni e situazioni naturali, stanno a indicare in certo qual modo, un rifiuto del mondo ²Si veda il catalogo della mostra Groupe de recherche d'art visuel, Parigi 1962 e quello di Arte cinetica, arte programmata, Milano 1962, dove si trovano riprodotte parecchie opere di Munari, Mari, del Gruppo T (Anceschi, Boriani, Colombo, Devecchi), del Gruppo N (Padova) di Grazia Varisco, dei francesi Le Pare, Morellet, Yvaral, di Alviani, ecc., molte delle quali sono progettate in maniera da esser eseguibili mediante procedimenti di serie industriali.
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meccanizzato e standardizzato della civiltà tecnologica di cui, indubbiamente, l'oggetto creato dal design è uno dei principali esponenti.
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9. La grafica fa parte del design? Un altro quesito che è stato causa di frequenti dispute, è quello che riguarda l'inclusione della grafica (del graphic design) nell'ambito del disegno industriale; tanto più quando si tenga conto che in alcune associazioni di disegno industriale (come, ad esempio nell'Adi, italiana) i grafici costituiscono una percentuale rilevante. In effetti, la distinzione tra product design e graphic design basata solo sul fatto che il primo sia prevalentemente tridimensionale e il secondo bidimensionale, è troppo semplicistica. Quello che costituisce la stigmata più rilevante del design in genere, è il fatto di essere una progettazione globale rivolta ad un determinato prodotto, oggetto, operazione, e non soltanto un singolo disegno privo di quelle caratteristiche programmatrici e di strutturazione globale e unitaria proprie del design. Ecco, perché, ritengo che, mentre non si dovrà includere nel disegno industriale, il disegno (lo schizzo) d'una stoffa stampata, d'una tappezzeria, e in genere d'un motivo «ornamentale» (ossia sovrapposto ad un oggetto), si potrà includere invece ogni progetto destinato ad una complessa operazione grafica, come quello della creazione d'un marchio di fabbrica, d'un logotipo, d'un'immagine coordinata riferita ad una ditta, ad un'impresa; e in genere ogni forma di progettazione che potrà essere bidimensionale o tridimensionale (nel caso dell'imballaggio) anche se questa progettazione sarà essenzialmente di carattere grafico piuttosto che di carattere oggettuale.
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10. Teoria dell'informazione, complessità funzionale e strutturale, e «consumo» del disegno industriale Il recente sviluppo che hanno preso alcune estetiche basate sulla teoria dell'informazione e legate quindi ad alcune norme prese a prestito alla cibernetica, ci permette di considerare il problema del disegno industriale anche sotto questo punto di vista. Infatti, proprio per la sua natura, che lo porta ad una fruizione immediata e strettamente legata con l'uso e quindi sottoposta ad un precoce «consumo», l'oggetto industriale si presta, meglio d'ogni altro, ad essere studiato secondo le regole di quest'ultima teoria. L'oggetto industriale sarà quindi considerato alla stregua d'ogni altro «messaggio» che sia in grado di fornire un determinato quoziente informativo. Poiché la teoria dell'informazione si basa essenzialmente sulla ricerca della «quantità d'informazione» presentata da un dato messaggio, sarà facile convincersi che l'informazione stessa sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà l'imprevedibilità del contenuto di tale messaggio. E questo secondo le note ricerche cibernetiche di Wiener, Shannon, Weaver, e secondo le successive applicazioni di queste all'estetica tentate da A. Moles, da Max Bense e da altri studiosi³. Non possiamo in questa sede addentrarci nella precisazione matematica di codesta teoria; ci basta soltanto ricordare, a coloro che non ne fossero al corrente, come la quantità di informazione offerta da un messaggio (e quindi anche quella offerta da un'opera d'arte o da qualsivoglia altro elemento comunicativo) segue delle leggi analoghe a quelle che regolano il principio termodinamico dell'entropia, grandezza ³ A proposito dell'applicazione all'estetica della teoria dell'informazione e della cibernetica si vedano: A. moles, Théorie de l'information et perception esthétique, Flammarion, Parigi 1958, e il mio Simbolo comunicazione consumo, Einaudi, Torino 1962, dove sono riportate altresì le ricerche di Max Bense, di Leonhard Mayer e di altri su questo argomento.
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interpretata già nel 1894 da Boltz-mann come rispondente ad una distribuzione di probabilità. Poiché l'informazione fornita da un dato messaggio, da una data comunicazione, dipende dalla sua «originalità », potremo facilmente comprendere come il grado d'informazione dello stesso possa equivalere al suo grado di inaspettatezza e di imprevedibilità e di improbabilità, il che porta a identificare l'informazione con l'opposto dell'entropia. Se ora applichiamo tali principi al caso del disegno industriale ci sarà facile arguirne come l'inaspettatezza del messaggio (offerto dall'oggetto industriale di nuovo conio), la sua «novità» dunque, sia fondamentale per ottenere un alto grado di informazione, per presentare cioè al consumatore un alto grado di sollecitazione all'acquisto. Tanto più nuovo, più insolito, più inedito sarà l'oggetto posto sul mercato, tanto più facile, più intensa ne sarà la richiesta; non solo, ma non appena la forma abbia perso la sua «novità» - dunque l'inaspettatezza del messaggio —, non appena si sia «consumata» la sua qualità comunicativa, verrà a scadere il suo valore — non solo estetico -, ma soprattutto informativo. Giacché non dobbiamo identificare tout court quoziente estetico e quoziente informativo, come taluni autori hanno tentato di fare. Sarà anzi interessante notare, come, proprio per il fatto che l'oggetto industriale è creato appositamente per una fruizione (pratica ed estetica) che sia immediata e strettamente legata all'uso, esso venga a consumarsi più rapidamente di quanto accade per le opere d'arte (pittura, scultura, architettura), la cui validità può persistere anche una volta andato smarrito il loro valore informativo. In queste ultime, infatti, l'usura e l'invecchiamento sono meno sensibili, non solo, ma non basta l'inaspettatezza e la novità a crearne la validità. Sempre legato ai canoni della teoria dell'informazione, è da considerare anche il problema della complessità dell'oggetto industriale e del suo «messaggio»; secondo Moles, ad esempio (A. Moles, Théorie de la complexité et civilisation industrielle, in «Communications»,n. 13,1969) occorre distinguere
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tra complessità funzionale e complessità strutturale d'un oggetto. La prima è legata alle diverse funzioni che sono deputate alla realizzazione d'un certo numero di prodotti o di usi; la seconda è legata alla varietà del repertorio d'elementi costitutivi dell'oggetto. La informazione fornita dall'oggetto (o dal meccanismo) in questo caso, corrisponderà alla complessità strutturale dello stesso. Tuttavia alcuni oggetti (o organismi tecnologici) hanno una complessità strutturale elevatissima di contro ad una complessità funzionale scarsa (un'automobile ha una quarantina di «funzioni», e circa quindicimila organi di svariati tipi). Sarà possibile quindi porre una distinzione dei diversi oggetti industrialmente prodotti anche in base al rapporto tra la complessità funzionale e strutturale degli stessi.
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11. Valori simbolici e semiotici dell'oggetto industriale È stato spesso affermato - specie dalle più recenti correnti estetiche (Langer, Morris, Cassirer) - che l'opera d'arte deve essere considerata come «simbolica» di qualcosa. Non intendo certamente, in questa sede, addentrarmi e soffermarmi sopra tale quesito. Vorrei invece - da un punto di vista molto più pratico che teoretico - considerare l'importanza dell'elemento simbolico che è posto alla base di buona parte degli oggetti industrialmente prodotti. Si tratta di un genere di simbolismo che potremmo definire «funzionale»; che s'identifica dunque con la stessa funzionalità dell'oggetto. E non si dimentichi a questo proposito come nel caso del disegno industriale si abbia sempre a che fare con un elemento che, solo parzialmente, rientra nel dominio dell'arte; si ha dunque sempre a che fare con una categoria di prodotti la cui prima ragion d'essere è quella di «funzionare» e di richiamare l'attenzione del consumatore attraverso loro specifiche qualità formali. Ecco, dunque, come discorrendo del peculiare simbolismo dell'oggetto industriale intendo riferirmi a quella proprietà per cui l'oggetto è portato, anzi destinato sin dalla sua progettazione, a «significare la sua funzione» in maniera del tutto evidente attraverso la semantizzazione d'un elemento plastico capace di sottolineare quel genere di figuralità che di volta in volta vale ad indicarci la caratteristica funzione dell'oggetto. Quasi tutti gli oggetti industriali - dal telefono al curtain wall, dalla penna a sfera al jet - racchiudono in sé alcune qualità formali che ne simboleggiano la funzione o, se vogliamo meglio, degli elementi «semantici» atti a renderle più facilmente identificabili. Accade il più delle volte che la funzione debba essere sottolineata ed esaltata in modo da dare al fruitore l'immediata sensazione dello scopo per cui l'oggetto è stato creato. Ma può anche accadere che la funzione sia da un lato esaltata ed accentuata (aereodinamicità d'una macchina da corsa), mentre ne viene
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celata e «mascherata» la parte più propriamente meccanica (come avviene in quasi tutti gli oggetti a carrozzeria). La ragione di questa mascheratura è dovuta al fatto che la vista dei meccanismi (a prescindere da quelle che possono essere delle ragioni di praticità, di igiene, o di riparo dagli agenti atmosferici) potrebbe alle volte risultare controproducente, proprio agli effetti simbolico-psicologici di cui abbiamo testé discorso. Un piccolo motore come quello posteriore della Fiat 500 è certo ancor meno «simbolico» di velocità e potenza di quanto non sia la carrozzeria che lo contiene. Lo stesso dicasi per la parte meccanica d'una macchina da cucire (per esempio la Singer, o la Necchi Supernova, o la Mirella). Naturalmente questo particolare simbolismo iconico dell'oggetto è sottoposto a numerose alterazioni e modificazioni. Valgano alcuni facili esempi. Si consideri il caso del mobile-radio agli albori del suo diffondersi, quando ancora l'elemento musicale rivestiva, nelle abitazioni borghesi, l'aspetto del pianoforte verticale o a coda: mobili ingombranti, spesso polverosamente adorni di intagli e ornati, e sempre tali da denunciare, già con la loro mole e il loro aspetto esterno, una indiscutibile magniloquenza. Parve indispensabile, appunto perciò, in quella prima fase dell'adozione dell'apparecchio radio a scopo domestico, rivestire anche quest'ultimo d'una «facciata» pomposa e adorna, spesso corredata dalla presenza di colonne, alternate con piastre di cristallo o da un bordo dentellato e a merlature, alle volte addirittura improntato ad un caratteristico revival goticizzante. Era evidente, dunque, la volontà di imporre, attraverso questa esaltazione del carattere aulico e «in stile», l'importanza d'un oggetto che doveva avere le caratteristiche di «mobile da salotto buono» e di «strumento moderno »(i pulsanti, il quadrante luminoso, l'«occhio magico», ecc.). L'uso di questo stile doveva prolungarsi circa fino allo scoppio dell'ultima guerra ed è interessante notare, proprio attorno al 1944, l'avvento in Italia d'uno dei primi esemplari di radio moderna: l'apparecchio Phonola dei fratelli Castiglioni che
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presenta per la prima volta caratteristiche del tutto diverse: abbandono d'ogni ricordo stilistico rinascimentale o goticizzante, ma in compenso l'adozione d'una sagoma nuova e più idonea ai tempi: quella dell'apparecchio telefonico; per cui assistiamo ad un nuovo tipo di simbolizzazione: la radio cammuffata da telefono; un genere di simbolizzazione che doveva essere fatto allora per appagare il gusto del pubblico già assai dimestico col normale telefono; il quale, d'altronde, non era divenuto ancora d'uso così ubiquitario da essere scaduto al rango d'un oggetto privo di ogni fascino. Per rimaner ancora all'esempio del mobile radio potremo finalmente osservare come più recentemente con il diffondersi di tali oggetti e col loro diventare di dominio pubblico — essi ebbero a subire un'ulteriore « riduzione » simbolica e tecnica insieme scemando di grandezza e di vistosità fino a veder capovolta la situazione con l'avvento della miniaturizzazione (fenomeno sul quale ritorneremo), che ridette a tali apparecchiature un nuovo fascino, non più con l'esaltarne la forma e la mole, ma anzi col rendere quest'ultima sempre più esigua e, d'altro lato coll'ottenere la facilissima trasportabilità, fino a trasformare l'apparecchio in oggetto d'uso personale alla stessa stregua dell'orologio o della penna stilografica. Non mi è possibile soffermarmi sui diversi aspetti simbolici dei più importanti oggetti; sarà facile al lettore identificarli di volta in volta (potrò rammentare tutt'al più l'importanza della simbolizzazione dovuta al colore: bianco: usato per frigoriferi e cucine, rosso: per macchine da corsa, e via dicendo), ma vorrei ancora ricordare come sia proprio all'elemento simbolico che il più delle volte va riferita la ragione prima del mutare così frequente delle forme, non già in merito a motivi di funzionalità, bensì in merito a motivi per l'appunto, simbolici ed espressivi. Questi e simili quesiti, del resto, rientrano in un più ampio discorso legato all'impostazione semiologica della critica architettonica che può agevolmente essere esteso anche al design.
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Come è noto nell'ultimo decennio si sono moltiplicati gli studi impostati sopra principi cari alla linguistica e allo strutturalismo e basati sulle ricerche degli strutturalisti sovietici e slavi (Jakobson, Trubeckoj), dei linguisti americani (Sapir, Bloomfield) del danese Hjelmslev, e soprattutto dello svizzero Ferdinand de Saussure. In architettura si è cercato di identificare delle unità morfologiche e semantiche che permettessero d'applicare a quest'arte gli schemi già usati per il linguaggio verbale. Anche nel caso del design, possiamo senz'altro ammettere che ogni singolo oggetto possa essere identificato con un «morfema» (o monema secondo la dizione di Martinet) ossia con una unità formale distinta e capace di fornire un suo particolare messaggio. E possiamo anche ammettere che — a seconda della complessità strutturale d'un oggetto — lo si possa a sua volta considerare alla stregua d'un sintagma (sempre linguisticamente parlando) ossia d'un insieme di più parole. Se poi volessimo approfondire ancora di più questa analogia tra linguaggio verbale e linguaggio disegnativo, potremmo asserire che la complessità funzionale sta alla complessità strutturale d'un oggetto (o d'un meccanismo) come la «prima articolazione» monematica sta alla seconda articolazione fonematica (secondo i noti schemi di Martinet (A. Martinet, Traité de linguistique générale, PUF, 1960). Mi sembra, tuttavia, che questo genere di impostazione rischierebbe di apparire troppo astratto ai lettori e senza una vera e propria utilità ai fini della nostra ricerca. Mi limiterò perciò ad osservare come l'aspetto semiologico del design sia un dato fondamentale dello stesso nel senso che è necessario - come ho già ripetuto più sopra - che il singolo oggetto, o l'insieme di più oggetti tra di loro complementari (cucina, frigorifero, forno; mobili d'ufficio, telefoni, dittafoni, mobili-bar, giradischi, televisore; automobile, cruscotto, abitacolo, organi di guida, ecc.) abbiano una chiara rispondenza al significato che intendono esprimere. Per cui potremo, in definitiva, sostenere che il concetto di «funzionalità», - a suo tempo considerato determinante per
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l'oggetto industrialmente prodotto - può essere sostituito da quello di semanticità: ossia che un oggetto, per essere funzionale nel vero senso della parola, dovrà rispondere oltre che a delle esigenze pratiche, utilitarie, di adeguatezza ai caratteri del materiale usato e ai costi, ecc. — anche a delle esigenze semiotiche, di corrispondenza tra la forma dell'oggetto e il suo significato. Ed è a questo punto che credo si possa utilmente introdurre una breve nota su quei casi in cui la semanticità dell'oggetto viene caricata di valori eccessivi e che corrisponde al cosìddetto fenomeno dello styling o cosmesi dell'oggetto.
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12. Aspetti positivi e negativi dello styling La parola styling, che ormai è entrata nell'uso corrente anche fuori dal suo paese d'origine, gli Stati Uniti d'America, conserva tutt'ora una connotazione peggiorativa che difficilmente le potrà essere tolta. Questo termine s'impose nel linguaggio parlato soprattutto dopo la grande crisi economica del 1929 quando gli Stati Uniti si videro obbligati a ricorrere, per necessità di cose, a tutti i sistemi più efficaci per attirare l'attenzione degli acquirenti sui prodotti d'un mercato in crisi. Furono infatti gli anni dal '30 al '35 che videro sorgere in America delle potenti organizzazioni di studi professionali (come quelli di Walter Dorwin Teague, di Raymond Loewy, di Henry Drey-fuss), il cui compito precipuo era quello di studiare la miglior maniera per «rendere appetibili» i prodotti ormai consumati dall'uso. E infatti il vero significato della parola può essere considerato quello di una appropriata e cauta cosmesi del prodotto, tale da dare nuovo fascino e nuova eleganza all'oggetto a prescindere da ogni vera e propria ragione tecnica e funzionale. È facile comprendere come un cosìffatto indirizzo - specie nei casi decisamente esagerati cui si giunse nell'America tra le due guerre - era fatto per trovare immediatamente degli strenui avversari, soprattutto da parte di quella tendenza prevalentemente puritana e funzionalista che faceva capo al Bauhaus di Gropius. Per molti anni così lo styling venne deprecato da buona parte dei designers europei e da molti critici e studiosi dei problemi del disegno. Eppure è proprio allo styling che si possono attribuire delle importanti trasformazioni nello «stile» di molti oggetti d'uso che oggi a distanza di anni sarebbe inconcepibile immaginare quali erano in precedenza: si pensi al passaggio dallo stile lineare e rettangolistico del primo razionalismo (a quello, per intenderci, che vide le famose poltrone di Rietveld, di Breuer e di Gropius e le prime applicazioni del tubo metallico) a quello aerodinamico e sinuoso del periodo dal 1930 al '40.
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Una precisa e quasi inarrestabile evoluzione del gusto era stata resa possibile solo per l'intervento d'una serie di «stilisti» che avevano applicato le loro ricette formali senza preoccuparsi più che tanto delle ragioni tecniche ad esse sottese. Qualcosa d'analogo del resto si è verificato anche di recente (attorno agli anni sessanta) con l'abbandono di tali forme sinuose e areodinamiche e con l'adozione di nuove sagome spigolate e carenate. Si osservino ad esempio alcuni modelli di carrozzerie (come la Renault R8, la Giulia Ti, la Fulvia, la Simca 1000), e numerosi elettrodomestici, mobili in acciaio, e via dicendo, tutti rispecchianti questa tendenza verso una sagoma non più aerodinamica ma rettangolistica, che però ha perduto la durezza e la rigidità di quella «razionalista», per assumere una nuova duttilità accentuata da motivi decisamente «ornamentali» (la presenza di carenature, di filettature, ecc.), inimmaginabile ancora una decina d'anni prima. Potremo notare a questo proposito come assai spesso tali trasformazioni stilistiche vadano di pari passo con analoghe trasformazioni «simboliche»; ossia di quegli elementi simbolici che sono determinanti per sottolineare la funzione d'un dato prodotto. È spesso a seconda del valore di tale funzione simbolica che muta anche la linea costruttiva, per cui nel periodo in cui ebbe a predominare la aerodinamicità, si assistette al dilagare di questa persino sugli oggetti che non avevano nessuna ragione per essere considerati « dinamici », come del resto si può scorgere l'affermarsi di sagome rettilinee e del tutto prive di sapore dinamico in oggetti destinati al rapido movimento (la Simca 1000, la Fiat 1300, ecc.). Secondo alcuni autori (Reyener Banham, Machine Aesthetics, «The Arch. Rev.», n. 171, 1955) lo styling si potrebbe addirittura considerare come una forma di «arte popolare», una sorta, cioè, di sottocategoria artistica il cui valore estetico è soltanto aleatorio ma la cui importanza nel rispondere alle esigenze delle masse è di primaria necessità. Non c'è dubbio che nell'affermazione del critico inglese ci sia parecchio di vero; non c'è dubbio, cioè, che il disegno industriale,
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specie nelle produzioni destinate al consumo delle grandi masse e ad una spiccata ostentazione simbolica, abbia un indiscusso fascino «mitagogico », non diverso da quello che offrono alle masse i miti del divismo, dello sport e della fantascienza. Non bisogna però neppure escludere che - anche all'insaputa dello stesso designer — possano essere contrabbandate, attraverso lo styling di alcuni prodotti apparentemente solo edonistico e autopubblicitario, alcune qualità formative destinate ad assumere ulteriori sviluppi anche in opere d'arte autentica. Ecco perché il nostro verdetto circa lo styling non è altrettanto pessimistico di quello di molti studiosi europei (specie inglesi come Paul Reilly o Misha Black) che sono del tutto ostili ad un simile atteggiamento del disegno industriale. Si è del resto potuto constatare che il tipo di styling all'americana doveva tosto far breccia anche in Europa appena la situazione economico-sociale ne ebbe a richiedere l'applicazione. Gli esempi di questo aspetto dello styling europeo non mancano. E ci basti qui di accennare al noto caso della macchina Lexicon Olivetti, ridisegnata da Nizzoli, e prodotta sotto il nuovo modello della Diaspron, che, pur peggiorando rispetto alla prima la linea costruttiva (senza nessuna ragione tecnica), ne rendeva più appetibile l'acquisto dato il rinnovamento esterno del prodotto. E potremmo accennare all'altro interessante caso della calcolatrice Underwood - pure prodotta dalla Olivetti secondo il brevetto americano - che presentava un meccanismo identico a quello della calcolatrice prodotta in Italia, però provvisto della carrozzeria americana che, agli occhi di talune categorie condizionate alla marca straniera, poteva sembrare più appetibile. Vorrei, in definitiva, concludere affermando che il caso dello styling ci deve ammaestrare sopra la particolare natura equivoca del disegno industriale, la cui caratteristica è appunto quella di essere un anello di congiunzione tra il dominio dell'estetica e quello della produzione; tanto che non è possibile prescindere mai da un elemento pubblicitario e di allettamento commerciale anche là dove può sembrare più rigorosamente rispettato l'unico imperativo della funzione e della «buona forma».
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E, per l'appunto questa equivocità formale del design ad essere divenuta negli ultimi tempi uno dei motivi di maggior contestazione da parte di quei designers che sono più sensibili ai problemi sociopolitici della loro professione. Il problema, purtroppo, è di difficile soluzione. Si è potuto constatare come anche nei paesi non capitalisti, a struttura nettamente statalizzata, è intervenuto a un certo punto un fattore di stilizzazione del tutto superflua a fini tecnici, e solo rivolta a fini edonistici e pubblicitari.
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13. Interferenze tra styling, moda, e ordinamento sociale C'è tuttavia chi nega che lo styling sia un fattore ubiquitario del disegno industriale, e lo considera come esclusivamente legato ai paesi capitalistici (come gli Stati Uniti) dove più alta e intensa è la lotta competitiva tra le grandi società monopolistiche che, appunto per assicurarsi il successo presso il grosso pubblico, sono costrette a sfornare sempre nuovi e diversi prodotti. Secondo tale opinione non si potrebbe in realtà discorrere di vero e proprio styling a proposito di nazioni - come l'Urss - dove venga a mancare la concorrenza tipica delle nazioni capitalistiche. Tale affermazione risponde solo in parte al vero: è vero bensì, che proprio là dove maggiore è la lotta per il dominio d'un mercato e dove maggiore è la concorrenza tra industrie private o grandi holdings monopolistici, occorre che il prodotto risulti appetibile; eppure, a ben considerare le cose, non appena una nazione (anche se comunista e priva di vere e proprie iniziative private) abbia raggiunto un determinato livello economico, una determinata capacità di acquisto da parte dei consumatori, il problema dello styling è destinato a riproporsi, proprio perché la nazione sarà costretta a ricorrervi per ragioni del tutto analoghe a quelle in vigore nei paesi capitalistici; e cioè perché sarebbe difficile poter sollecitare l'acquisto di nuova merce e di modelli nuovi, se non ci fosse un elemento estetico (di novità e piacevolezza) a potenziarlo. Quella competizione che viene a mancare tra i produttori, non viene infatti a mancare tra i singoli consumatori. Quel desiderio di differenziazione, tipico d'ogni individuo umano, dallo stadio di selvaggio piumato a quello di nobile azzimato, a quello di borghese meccanizzato, non verrà comunque mai meno; il fatto di ricorrere a oggetti «diversi» non ancora posseduti da tutti o che comunque presentino delle particolarità tali da conferire al loro proprietario quella invidiabile preminenza che solo l'insolito, il nuovo, l'inedito sono in grado di conferire,
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difficilmente sarà estirpata da un'umanità, anche socialmente evoluta e non più classisticamente retriva. E, del resto, una delle riprove di questo bisogno di differenziazione e di individualizzazione è rilevabile anche in un confronto con altri mass media dove risulta evidente la duplice caratteristica della standardizzazione dei mezzi unita all'individualizzazione degli stessi, per cui si viene determinando da parte del pubblico l'incessante richiesta d'un prodotto «individualizzato», oltre che nuovo. Il fatto che alcuni trust monopolistici siano indotti a lanciare sul mercato numerosi prodotti identici, o quasi, e diversi soltanto per l'aspetto esterno, l'imballaggio e il nome, e lutti egualmente pubblicizzati, dimostra che anche per il prodotto di consumo più elementare (detersivi, dentifrici, cosmetici) una certa differenziazione viene costantemente richiesta. Ho cercato sin qui di definire il concetto di styling e di rilevarne i lati positivi e negativi; occorre però considerare questo aspetto entro il più vasto quadro che regola il fenomeno della «moda». È ancora sotto discussione sino a qual punto la moda si possa o si debba identificare con lo «stile» d'un'epoca; crediamo che ormai sia generalmente accettata l'idea di considerare la moda come un «epifenomeno» rispetto allo stile; ossia come la presenza, in un determinato periodo storico, di alcune forme espressive, non legate strettamente a necessità di carattere etico e sociale, ma soltanto ad un effimero bisogno di mutamento per lo più di carattere edonistico. Non si può, d'altro canto, escludere che, proprio attraverso il continuo alternarsi delle mode, venga finalmente ad esplodere la nascita d'un vero e proprio stile. Per quanto riguarda il disegno industriale, non c'è dubbio che l'oggetto d'uso sia soggetto come nessun altro a rapidità di consumo e di obsolescenza e perciò stesso ad una costante instabilità formale; sarà pertanto tale instabilità formale a portare con sé delle trasformazioni nelle forme degli oggetti che potranno essere considerate del tutto gratuite e potranno quindi essere ascritte con certezza a un fenomeno di «moda». Sullo specifico concetto di moda e sul
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suo intervento nel disegno industriale è stata persino impostata una «giornata dell'estetica industriale» cui presero parte anni fa parecchi rappresentanti del disegno industriale di diversi paesi europei⁴. Tra le altre proposte avanzate a tale convegno una delle più suggestive fu quella dell'olandese L. C. Kalff che propose una divisione dei prodotti a seconda del prevalere in essi d'una forma funzionale, derivata dalla natura tecnologica del prodotto, o d'una forma «decorativa» derivata dalla natura affettiva dello stesso. Partendo da questa premessa l'autore distinse gli oggetti che sono posti in commercio da quelli che non appaiono in commercio perché di un genere d'uso non destinato al singolo individuo (come: antenne d'alta tensione, lampade stradali, treni, aerei, ecc.). Questa categoria d'oggetti «superindividuali» sottostà ad una ragion d'essere prevalentemente funzionale, che si estende, del resto, anche ad altri oggetti destinati al pubblico ma senza particolari implicazioni «affettive» (come mazze da golf, ventilatori, radiatori, ecc.). Da questa seconda categoria si passa progressivamente a quelle dove viene sempre di più a prevalere l'elemento affettivo decorativo (frigoriferi, utensili da cucina, aspiratori, automobili) - finché si giunge agli articoli deve il carattere funzionale è del tutto secondario a quello affettivo (come: articoli da toilette, e di vestiario, vetrerie, articoli da viaggio, ecc.). È ovvio che l'assenza d'ogni competizione individuale (come accade per gli oggetti, cui accennammo, a consumo «nazionale» o collettivo) porta con sé la scomparsa o la diminuzione del fenomeno della moda; che invece si esacerba e si acutizza nel caso degli oggetti d'uso personale. La distinzione tracciata da Kalff è forse troppo netta e le sue classificazioni troppo sistematiche, tuttavia esse corrispondono a quanto abbiamo già avuto occasione ⁴Cfr. il convegno L'estbétique Industrielle à la foire de Paris, in «Esthétique Industrielle», n. 28, 1957, dove sono riportati anche gli interventi di Delevoy, Paul Reilly, Otto Haupt, J. Viénot, e Gillo Dorfles.
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di osservare a proposito della rapidità di obsolescenza dei prodotti destinati alla «grande serie» rispetto a quelli destinati ad un consumo «superindividuale»⁵. ⁵Concetti del tutto analoghi a quelli esposti resultano anche in uno scritto di Werner Graeff, Ueber Formgebung, Rat für Formgebung, Darmstadt 1960 (organo del disegno industriale in Germania).
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14. Il concetto di «fuori serie» e gli equivoci della «piccola serie» Il fenomeno della moda è intimamente legato a quello dell'oggetto «fuori serie», di cui ha dato un'acuta analisi Pierluigi Spadolini⁶, e che rientra indubbiamente in quello già notato dello styling. Il fenomeno «fuori serie», secondo Spadolini, sarebbe in certo senso l'opposto di quello della moda: tanto la moda costituisce un «conformarsi» ad alcuni dettami del gusto, altrettanto il «fuori serie» costituisce un «non conformismo» rispetto al gusto generalmente accetto. In realtà le cose non stanno così: il fuori serie (il fatto cioè di voler distinguersi dal prossimo mediante l'adozione di un oggetto - automobile, scooter, motoscafo - inusitato, o quanto meno non posseduto che da pochi, dall'elite) non significa un nonconformismo ma bensì un'accentuazione ancor più specifica ed esaltata del conformismo delle masse; è in altri termini quello che si potrebbe definire « conformismo dell'anticonformismo». Infatti l'oggetto «fuori serie» non cozza con il tipico «stile» del momento, ma anzi lo asseconda e lo accentua. La carrozzeria di Pininfarina, di Bertone, di Ghia, è soltanto un genere che porta alle sue ultime conseguenze la «linea» divenuta «di moda», e la rende più duttile ed efficace mediante l'uso di materiali e rifiniture migliori. In questo senso potremo anzi dire che il «fuori serie» costituisce l'ultimo capitolo d'una determinata moda (quando invece non ne costituisce il primo passo; il che peraltro avviene più raramente). ⁶Cfr. le dispense del corso di Progettazione artistica per industrie, di Pierluigi Spadolini, Editrice Universitaria, Firenze 1960, che consistono d'una parte storica, d'una teorico-tecnica, e che in appendice portano alcuni importanti testi sul disegno industriale tra i quali sono da segnalare gli interventi e le relazioni al Congresso internazionale di disegno industriale alla X Triennale di Milano, di Argan, Paci, Wachsmann, Teague, Max Bill, Paul Reilly, G. Dorfles e altri.
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Un genere di «fuori serie» del tutto particolare, che esula in parte dallo studio che stiamo compiendo per rientrare piuttosto in quello d'un'analisi dei costumi, è la disposizione spesso rilevata in determinati ambienti e individui, ad adottare modelli (di automobili, di oggetti d'uso, di capi di vestiario) decisamente desueti, appartenuti a periodi precedenti, ormai «passati di moda» (per ragioni non solo tecniche ma estetiche), e che possono per contro venir scelti unicamente per ragioni «affettive», snobistiche, di differenziazione sociale⁷. Questo esempio - che nulla ha a che vedere con quello del fuori serie, né dello styling - rientra tuttavia in quegli aspetti squisitamente sociali cui sottostà quasi sempre il disegno industriale, e di cui evidentemente tanto il produttore che il disegnatore dovranno tener conto. Uno degli equivoci più frequenti in cui s'incorre a proposito della distinzione tra «grande serie» e «piccola serie» consiste nell'accostare il concetto di piccola serie a ⁷ A proposito della moda è interessante ricordare ancora quanto afferma George Nelson (Problems of Design, New York 1957, p. 48): «Fashion is an expression of people's habit of getting tired of things, and it constantly obsoletes things, long before they are worn out. In a society so subject to fundamental change as our own... fashions change swiftly. The essential caracteristic of fashion is that it is cyclical, and it therefore has little to do with obsolescence of a basic kind. The newly old is àlways unfashionable, but let enough time pass and the old seems new again». Il fatto è noto: accade spesso che, mentre gli oggetti e gli abiti «dei genitori» sono considerati soltanto desueti e di cattivo gusto, quelli « dei nonni» sono nuovamente adottati e rivalutati nell'opinione dei consumatori; ed è perciò che è opportuno porre una distinzione tra «moda» e obsolescenza (usura dovuta ad autentico superamento d'un dato tecnico e formale). Mentre l'invecchiamento dovuto alla moda può anche essere transitorio e non legato ad altro che ad una ragione estrinseca e formalistica, la vera e propria obsolescenza dovrebbe essere considerata quella che viene provocata da qualche autentico fattore di miglioramento tecnico o estetico del prodotto. Naturalmente una netta distinzione è quanto mai ardua; ed è perciò che spesso è solo un fatto di moda, e non di vero e proprio «stile», che conduce a un mutamento formale e cioè a quello che abbiam visto andare sotto il termine di «styling».
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quello di «serie artigianale»; anzi nel tendere a identificare i due tipi di produzione, quasi a voler rinvenire un anello di congiunzione tra prodotto industriale e prodotto artigianale attraverso la particolare categoria della piccola serie. Le cose, invece, non stanno così. Dobbiamo intendere, infatti, col termine di piccola serie due aspetti nettamente distinti d'un medesimo evento: da un lato potremo parlare ed avremo in effetti una piccola serie quando le particolari esigenze d'un prodotto industriale portano alla realizzazione di oggetti destinati ad una seriazione limitatissima (anche se il loro metodo produttivo rientra in pieno nella prassi del disegno industriale); è questo il caso, ad esempio dei jet (dei grandi aerei a reazione ed anche, in genere, di bastimenti, sottomarini, locomotori, turbine, ecc.) dove sarebbe inconcepibile una serie che superasse le poche decine di unità; o addirittura (come nel caso di navi, di grandi calcolatrici elettroniche, di cosmonavi, di satelliti spaziali, ecc.) le singole unità. Questo tipo di piccola serie, peraltro - come ho già avuto occasione di rilevare - presenta delle caratteristiche del tutto peculiari dovute al fatto che la richiesta di tali oggetti ben difficilmente può essere individuale; è invece quasi sempre «superindividuale», nazionale, e finisce dunque per sottrarsi agli imperativi della sollecitazione del «gusto» del singolo. Trattandosi dunque d'una domanda superindividuale l'elemento dello «styling» entrerà solo parzialmente in gioco nella progettazione di tali oggetti a differenza di quanto avviene per quelli destinati alla grande serie ed al consumo di massa. Ma c'è un secondo tipo di «piccola serie» di carattere diametralmente opposto e la cui importanza è alquanto limitata. Si tratta di alcuni oggetti «d'eccezione», per lo più prodotti d'alta moda, suppellettili, soprammobili, oggetti ornamentali per la casa (portacenere, vassoi, lampade, maniglie, mobili «d'autore»), dove l'esiguità della domanda e la volutamente ottenuta scarsità dell'offerta va di pari passo con l'alto prezzo e la peculiare ricercatezza della merce. Si tratta, in realtà, d'un genere di produzione che potremo considerare socialmente riprovevole, giacché sfrutta le condizioni di
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iterabilità dell'oggetto industrialmente prodotto limitandone però la richiesta e la produzione più che altro per un calcolo commerciale. Rimane aperto il quesito se proprio ad un principio come quello or ora esposto non debba e possa ispirarsi un particolare tipo di produzione industriale, di alta qualità e di gusto raffinato, che potrebbe in certo senso e con ogni cautela, venire a sostituire almeno in parte alcuni settori della produzione un tempo di spettanza dell'attività artigiana. Soltanto in questo senso, dunque, potremo accostare questo genere di «piccola serie» alla piccola serie artigianale, pur mantenendo ben netta la demarcazione tra le due categorie di prodotti.
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15. Valore pubblicitario e autopubblicitario del design Nel caso del disegno industriale abbiamo il tipico esempio d'una forma artistica (o parartistica) che mira a pubblicizzare ad un tempo se stessa nel prodotto, e il prodotto in se stessa: in altri termini, se possiamo considerare tutta quanta l'arte (a cominciare dall'architettura), come avente in sé un elemento di autopubblicizzazione (quello stesso che mira a renderla visibile, fruibile, e percettibile al massimo), dobbiamo ammettere che nel disegno industriale vi sia, oltre a tale aspetto autopubblicizzante, anche quello — che abbiamo spesso notato — d'un « simbolismo presentativo», cioè d'un elemento simbolico che mira a mettere in rilievo quelle caratteristiche proprie a rendere appetibile al consumatore l'oggetto in questione. Con questa affermazione io non miro punto a svalutare il valore estetico del disegno industriale: è ormai tempo di accettare anche il fatto pubblicitario (specie nel caso di pubblicità visuale) come facente parte in certo qual modo del grande meccanismo comunicativo entro il quale anche l'arte rientra. Sarebbe stolto non voler riconoscere l'importanza sempre maggiore che viene acquistando ai nostri giorni il fenomeno pubblicitario, che costituisce uno dei più vasti e diffusi mezzi di informazione di cui l'uomo d'oggi dispone. Ma, a differenza delle «arti pure», la pubblicità ha il compito di attirare l'attenzione del pubblico sopra il prodotto, il nome, la ditta, che mira a reclamizzare e non può mai prescindere per far ciò da un quoziente altamente informativo; il quale più facilmente di quello estetico sottostà ad una rapida usura. Come ho accennato (più sopra) un messaggio offre il massimo d'informazione quando per la sua imprevedibilità ci procura il massimo di sorpresa. Ove tale messaggio venga più volte ripetuto verrà man mano a perdere la sua efficacia. Avremo perciò un minimo di informazione al momento in cui il segnale pubblicitario avrà perduto ogni inaspettatezza, giacché con l'aumento del processo entropico diminuisce il suo
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grado informativo. Ecco perché, nel caso del disegno industriale è così indispensabile che la forma dell'oggetto venga spesso mutata e subisca quel processo di rinnovamento (da taluni identificato nel processo dello styling); appunto per il coesistere d'un quoziente pubblicitario (e autopubblicitario) I nella natura stessa dell'oggetto industrialmente prodotto, specie quando tale oggetto abbia un fine utilitario e debba sottostare alle leggi di domanda e di offerta d'un mercato.
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16. Originalità, universalità e plagio Come logico corollario del problema dello styling sarebbe opportuno considerare l'importanza dell'originalità d'ogni singolo disegno e chiedersi se e fino a che punto si possa ammettere il verificarsi del «plagio», inteso, non quanto vero e proprio «furto» d'una scoperta tecnica, quanto come imitazione abbastanza fedele d'un determinato «stile» formale. Sul tema dell'originalità del disegno e sulla sua generalizzazione entro una determinata epoca culturale si è soffermato a lungo il Congresso del disegno industriale di Tokio⁸ (1960), e, dalla maggior parte degli intervenuti, sono stati sostenuti i principi d'un progressivo generalizzarsi del gusto e delle forme nel mondo appunto in seguito al progredire dei diversi canali di comunicazione. Da altri relatori, per contro, si è tentato di difendere, almeno in parte, l'opportunità di concepire la presenza d'un disegno autonomo, con caratteri se non regionalistici, quanto meno nazionali. È ovvio che alcuni oggetti di disegno particolarmente riuscito e caratteristico sono da considerare come legati, almeno inizialmente, ad una loro precisa origine nazionalistica. (A tutti son noti alcuni famosi mobili scandinavi, soprattutto danesi e finlandesi, alcune ceramiche giapponesi e svedesi, alcuni «metalli» questi pure svedesi e tedeschi e via dicendo). Siamo senz'altro pronti a riconoscere l'importanza di queste importanti caratteristiche nazionali pur auspicando un ⁸ Cfr. la pubblicazione degli atti del congresso Wodeco (World Design Conference) di Tokio, 1960, dove sono riportati gli interventi e le relazioni dei congressisti, tra le quali segnaliamo per la loro importanza quelle di Herbert Bayer, Kamekura, Minoru Yamasaki, Erik Herlow, Kurokawa, Maldonado, Smithson, e altri.
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progressivo allentarsi delle barriere tra le nazioni e un attenuarsi delle caratteristiche nazionali, e quindi un universalizzarsi della produzione. Se il quesito del progressivo affermarsi d'un'universalità del prodotto è in definitiva abbastanza agevolmente risolvibile, più complesso appare quello che riguarda l'originalità dello stesso. Ho già affermato più volte che, nell'oggetto industriale, l'elemento di «novità», «inaspettatezza», e dunque di originalità, è fondamentale proprio per il rapido consumo cui tale oggetto va incontro, e per le sue caratteristiche di effimericità. D'altro canto abbiamo anche visto i pericoli che finisce con l'assumere la caccia del nuovo a tutti i costi, che riveste appunto gli aspetti d'un eccessivo styling senza nessuna vera necessità. Dovremo quindi dirci nemici d'una originalità eccessiva e potremo anzi ammettere che possa risultare conveniente e consigliabile un certo quoziente di «plagio» di alcune forme ben riuscite e funzionali. La cosa non dovrebbe far specie: tutta l'arte, anche del passato più remoto, è sorta piuttosto dall'imitazione di altra arte che a diretta ispirazione del mondo esterno (e questo anche quando si trattava di opere figurative che apparentemente si rifacevano a raffigurazioni naturalistiche); è logico, dunque, che anche ai nostri giorni avvenga qualcosa d'analogo nel settore del disegno industriale, tanto più tenendo conto dell'immensa marea d'oggetti che vengono continuamente sfornati dalle industrie. Un'eccessiva proliferazione di forme nuove, e non «necessarie», non potrebbe che portare all'inaridimento delle forze fantastiche o allo scadere di quel tanto di funzionalità che deve possibilmente stare alla base del prodotto stesso. Ecco, dunque, fino a che punto possiamo ammettere l'esistenza del plagio, e ricordiamo che di questo argomento si è anche interessato il Congresso internazionale del disegno industriale di Parigi (1963). Per quanto riguarda ancora il problema dell'originalità e quindi anche quello della «novità» della forma, vorrei a questo punto ricordare anche un'altra importante
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osservazione di Spadolini circa la differenza sostanziale che è bene porre tra quello che potremo definire «oggetto capostipite» d'una determinata serie e quello che non è che l'adattamento d'una forma non idonea preesistente. È facile offrire un esempio di quanto sopra: se consideriamo ad esempio il caso dell'automobile sarà facile constatare come le prime macchine (si veda la famosa Ford T 1909, e, prima ancora, la celebre Benz Dos à Dos del 1899) non erano che l'adattamento ad uso automobile delle vecchie carrozze e dei landò ottocenteschi, e come tali possedevano una forma spuria, che solo in seguito a successivi rimaneggiamenti riuscì a perfezionarsi e a trasformarsi abbastanza lentamente nell'attuale e «giusta» forma della macchina semovente. Se invece consideriamo un oggetto concepito sin dal suo sorgere per l'uso a cui è destinato e di cui non esiste in passato nulla di analogo, come per esempio nel caso della macchina da cucire o della macchina da scrivere, vedremo che la «bontà» di tale disegno e la sua efficacia e quindi originalità è tale da rimanere immutata per molto più tempo, anzi da essere difficilmente sostituibile. In tal caso diventa molto più ovvio il plagio e molto meno condannabile l'imitazione.
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17. Importanza del fattore tecnologico Dopo essermi soffermato sui problemi dello styling e dell'originalità inventiva, vorrei ancora sottolineare l'importanza del fattore tecnologico nella determinazione della forma, dell'aspetto esterno, e altresì del funzionamento dell'oggetto; fattore che rimane, comunque, basilare, per una buona conoscenza del nostro argomento. Molto spesso il processo di fabbricazione porta ad una modificazione sostanziale della forma e determina non solo importanti trasformazioni funzionali, ma decisive modificazioni formali. Mi piace a questo proposito, citare un esempio fornito da uno studioso italo-argentino, l'ingegner Pablo Tedeschi⁹, che riguarda le modificazioni ottenute in alcuni oggetti costruiti col sistema di saldatura elettrica o ossiacetilenica, anziché con quello, precedentemente in uso, della fusione. Nel caso di molti oggetti meccanici (macchine utensili, riduttori di velocità, ecc.) si ottiene, con il sistema della saldatura, l'unione di parti di lamiera e di acciaio (noti col nome inglese di «weld-ments»), sostituendo in tal modo analoghi oggetti trattati con la fusione; ma, mentre col metodo della fusione, è possibile ottenere una maggior libertà di forme, con arrotondamento degli spigoli e sinuosa curvatura della copertura, adottando l'altro sistema l'aspetto esterno del meccanismo apparirà più spigoloso appunto perché tale ; sistema non consente la plasticità formale della fusione, e si avrà un evidente profilarsi dei cordoni di saldatura che conferiscono un aspetto del tutto diverso e «nuovo» all'oggetto. Il sistema a fusione abbisognerà di spessori maggiori e non abbisognerà, per converso, di nervature rinforzate come avviene per gli elementi saldati; e tutti questi fattori ⁹Si veda: Pablo Tedeschi, La genesis de las formas y el diseño industrial, Editorial Universitaria, Buenos Aires 1962.
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contribuiranno a determinare la particolare forma del prodotto che dovrà ovviamente rispondere, anche esteticamente, a quei sistemi di lavorazione che saranno stati adottati a seconda del caso. Vige, infatti, sempre il principio di non «tradire» il proprio medium espressivo e quindi di non adottare, con un metodo di lavorazione diverso, delle espressioni formali rese necessarie da altro metodo precedente, magari opposto. Esempi analoghi potrebbero essere invocati senza limiti: potrei ricordare ad esempio la trasformazione che il fattore tecnologico ha suscitato nella lavorazione di alcuni prodotti tipici, come la ceramica, i vetri, la lavorazione del legno (in seguito all'adozione del materiale compensato, di quello compensato-curvato di cui hanno fatto così largo e abile uso Alvar Aalto, e Tapio Wirkkala), dell'alluminio anodizzato (ormai ampiamente usato nei serramenti delle abitazioni, in molti elementi prefabbricati), delle diverse materie plastiche che hanno reso possibile una strutturazione del tutto diversa di oggetti casalinghi, di suppellettili, di mobili (appunto per la possibilità di eseguire elementi fusi e pressati in un blocco unitario), della pressofusione applicata all'acciaio (che ha dato vita a tutta la serie degli elettrodomestici e degli apparecchi da ufficio), e gli esempi si potrebbero prolungare a dismisura. Forse il settore del mobilio riflette più d'ogni altro le profonde trasformazioni dovute al fattore tecnologico. Anche se - come è noto - il sistema artigianale è ancor lungi dall'essere tramontato nella produzione del mobile, esiste tuttavia una vasta gamma di mobili del tutto industrializzati e anche prodotti in grande serie. Tra questi, i tipici mobili metallici da ufficio (Olivetti, Castelli), le seggiole e le poltrone in tubo d'acciaio e in materie plastiche tanto spesso impiegate nei caffè, nei bar, negli uffici pubblici. Se il primo uso del tubo di acciaio si deve riportare alla famosa poltrona di Breuer (1925) e a quelle successive di Le Corbusier e di Mies (la famosa Barcellona di quest'ultimo [1929] è ancora prodotta ai nostri giorni, sia pure in piccola serie), la serie dei mobili succeduti a quei primi esemplari è infinita ed ha
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certamente trasfigurato un determinato settore dell'arredamento. Ed è interessante seguire le successive fasi di questa produzione che hanno completamente trasformato le forme e le strutture del mobile: si pensi - per limitarsi alla seggiola - alla sostanziale differenza tra la classica sedia in legno e quella, già in tubo di legno, di Thonet, e alle successive sedie tubolari metalliche sino alle più recenti in compensato curvato, in materie plastiche, a guscio, interamente stampate, tra le quali possiamo ricordare, in Italia, quelle ideate e realizzate da Mangiarotti Zanuso, Spadolini, Gregotti, Gae Aulenti, Magistretti; fino ai recenti mobili gonfiabili e dilatabili, oppure costruiti in materiali amorfi (come la serie «Soriana» degli Scarpa, o la serie «Bobo» di Cini Boeri) che sono la miglior dimostrazione di come possa trasformarsi l'aspetto d'un oggetto tradizionale e antichissimo in seguito all'avvento di nuovi tipi di lavorazione e di nuovi materiali impiegati.
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18. Il lavoro di équipe e le sue caratteristiche Il lavoro di équipe («di squadra» o «team-work») costituisce un altro dei fattori differenziali tra il disegno industriale è le altre forme produttive e soprattutto creative che lo precedettero. Se è possibile concepire un oggetto artigianale creato da un singolo individuo non è possibile concepire un oggetto industriale se non come risultante da un complesso convergere di attività multiple entro le quali l'elemento primo della progettazione appare solo come una delle tappe, anche se la più importante e delicata. In effetti, già il sorgere dell'oggetto, prevede sempre la richiesta specifica da parte dell'industriale ed esclude l'invenzione autonoma e incontrollata appunto per la necessità del convergere di elementi tecnici, economici, meccanici oltre che estetici nella produzione stessa. È vero, che da alcuni autori si tende a considerare come « autentico » soltanto lo schizzo, la progettazione grafica, o quanto meno il primo modello manuale dovuto al designer e a considerare tutte le fasi successive come non necessariamente legate al momento inventivo, ma è ovvio che anche ammettendo la «purezza» di codesto «momento aurorale » del disegno, rimarrà il fatto incontestabile che solo a fabbricazione ultimata sarà possibile concepire come esistente e effettivamente operante l'oggetto in questione e che pertanto noi dobbiamo indiscutibilmente riferirci sempre ad oggetti già esistenti e in grado di funzionare. Il designer, dunque, agisce sempre in vista d'una programmazione del prodotto da parte dell'industria. Vorrei tuttavia accennare al fatto che - almeno da un punto di vista sperimentale - esiste tutta una gamma di disegni che sono rimasti allo stato di abbozzo o di semplice esercitazione e che possono esser valsi a determinare in un secondo tempo la realizzazione dei veri e propri prototipi d'una serie e, che, come tali, si possono considerare molti degli esperimenti realizzati per
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studio nelle scuole di design, il cui valore se non altro formale non può essere misconosciuto. Vediamo invece come si svolga il lavoro in seno all'industria quale effettivamente risulta dalla situazione attuale. Per quanto da molte parti si sia avanzata la tesi che il lavoro del progettatore debba essere libero da ogni ingerenza e da ogni ingiunzione da parte del committente, è facile comprendere come ciò non possa di solito verificarsi; anche nei casi più favorevoli, in cui il gusto personale del designer non venga coartato dal produttore, il primo finisce sempre per essere vincolato tanto dal gusto del pubblico al quale il suo prodotto è destinato, quanto dalle esigenze economiche cui deve sottostare; ed è soprattutto per queste due ragioni che si presenta necessario un lavoro di équipe che permetta al disegnatore d'avere a sua disposizione tutta una serie di individui a diretto contatto col settore produttivo e con quello tecnico e scientifico. La necessità d'un lavoro di équipe è, nel caso dell'oggetto industriale, determinante: molto spesso un particolare prodotto richiede conoscenze tecniche quanto mai particolareggiate (materie plastiche, leghe leggere, ecc.) e solo la collaborazione con i tecnici d'ogni singolo settore potrà permettere al progettista di non incorrere in gravi errori nel risolvere costruttivamente le sue «intuizioni» plastiche e formali. Non solo, ma la presenza nell'equipe lavorativa di studiosi di tecnica del mercato (marketing), di ricerca motivazionale, di ergonomia (la dottrina che indaga sui rapporti tra la macchina e l'uomo) e di altri metodi di indagine rivolti a studiare la possibilità di assorbimento del prodotto e il probabile verificarsi di tendenze del gusto - specie negli oggetti a grande diffusione - risulta sempre più indispensabile.
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19. Indagine di mercato e sistemi di vendita Nessun altro prodotto artistico soggiace al pari di quello industrialmente prodotto alle ferree leggi del mercato verso cui è diretto; per cui ogni analisi estetica dovrà accompagnarsi ad un'indagine economica e di mercato (marketing). Non è qui la sede per discutere sull'opportunità e l'attendibilità delle indagini di solito intraprese e basate sui noti sistemi statistici, numerici, sui sondaggi dell'opinione pubblica (tipo Gallup o Doxa), sulla preferenza da accordare alle indagini basate su gruppi-campione di popolazione oppure su singoli colloqui svolti più direttamente e personalisticamente da abili indagatori specializzati. Quello che preme è precisare quanto sia importante il principio stesso di affiancare tali analisi alla progettazione e alla produzione del prodotto, partendo dal concetto che si possa veramente prestar fede alla risposta del pubblico, ammettendo che quest'ultimo sia in grado d'avere una sufficiente consapevolezza dei requisiti migliori d'un dato prodotto di cui non sia venuto precedentemente a conoscenza, o di cui possieda una conoscenza quanto mai superficiale. Sta di fatto che l'indagine di mercato si viene sempre più estendendo di pari passo con l'adozione delle relative pratiche pubblicitarie - direttamente proporzionali alle indagini stesse ed alle ricerche motivazionali eseguite - ed è un dato di fatto che il più delle volte le campagne pubblicitarie compiute sulla base dei dati così ottenuti risultano assai efficaci per la vendita del prodotto, anche se ci lasciano nell'incertezza riguardo all'autentica «validità» dell'aspetto formale cui si sia sottoposto l'oggetto sulla presunta base di cosìffatte indagini. Nel considerare l'indagine di mercato, una delle prima condizioni di cui bisognerà tener conto è se il prodotto sia destinato alla piccola, alla media o alla grande serie (come, ad esempio per il caso di macchine da cucire, di macchine da espresso, o di calcolatrici elettroniche), e inoltre se la
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«grandezza» della serie, dipenda dal fatto che la domanda è ancora ristretta per ragioni economiche e per mancata diffusione e popolarizzazione del prodotto (mobili d'autore, televisori di classe) oppure per l'appartenenza del prodotto stesso a quelle categorie «superindividuali» di cui già ragionammo e che ne prevedono la diffusione solo in numero quanto mai esiguo. Nel primo caso sarà possibile e quindi utile ed auspicabile mirare ad una maggior diffusione del prodotto; mentre nel secondo caso qualsiasi pressione sul consumatore sarà inutile o di scarsa utilità data la peculiarità e rarità dell'uso e l'impossibilità di estenderlo (elettroencefalografo, telescopio, ecc.). Da questa distinzione, ovviamente, dipenderà anche l'opportunità di preoccuparsi più o meno dell'aspetto esterno dell'oggetto e di curarne l'eccezionalità formale; poiché nel caso d'un oggetto destinato alla piccolissima serie e al consumo superindividuale, l'apparenza esterna non potrà incidere che in maniera del tutto secondaria sulla vendita. Nel caso opposto - quello dell'oggetto destinato al consumo di massa - l'aspetto esterno avrà una diretta influenza sulla sua vendibilità, in concorrenza con prodotti analoghi presenti sul mercato. A questo punto entra immediatamente in gioco il fatto della « concorrenza », che ha una diretta influenza sulla vendibilità maggiore o minore d'un prodotto. Sarà opportuno, a questo riguardo, tener conto di alcuni fattori come il mezzo o i mezzi di distribuzione dell'oggetto (se attraverso filiali, agenzie specializzate delle singole ditte produttrici, rivenditori, catene di supermarket, ecc.) e del sistema economico vigente nel paese produttore e consumatore. Molti ricercatori - tenuto conto dell'indubbio prevalere del fenomeno dello styling in paesi a economia capitalistica come gli Stati Uniti, piuttosto che in quelli a economia socialistica - hanno considerato che il fenomeno concorrenziale potesse essere posto in second'ordine in questi ultimi paesi. Ma, a questo riguardo bisognerà altresì distinguere tra i due tipi di concorrenza: quella pura e quella monopolistica; la prima è, ai nostri giorni, limitata a poche
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aree quanto mai circoscritte (mentre dominava ancora nel periodo della prima industrializzazione ottocentesca); la seconda è diffusa in tutti quei paesi ad alto tenore industriale dove l'elemento concorrenziale vale a differenziare il prodotto in base a sue effettive caratteristiche tecniche, economiche e simboliche. Tale genere di concorrenza si basa essenzialmente sulla possibilità da parte d'un sistema industriale di ottenere il monopolio d'un determinato prodotto a scapito di altri prodotti inferiori per qualità e appetibilità. È un errore, del resto, quello di credere che tale genere di concorrenza monopolistica non abbia a verificarsi nei paesi socialisti per il solo fatto che la produzione è passata nelle mani dello stato anziché in quelle di privati. In effetti, anche in questo tipo di sistema economico, la concorrenza tra i prodotti esiste, sia pure in forma meno acuta; e non è verosimile credere che si possa giungere ad un punto di equilibrio tra domanda e offerta a prescindere dal movente psicologico creato appunto dalla veste esterna del prodotto, anche ove tale veste sia conferita per soddisfare, non già un complesso monopolistico privato ma, bensì, un complesso monopolistico di stato.
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20. Disegno industriale e mass media Si pone, a questo punto, un quesito che investe, non solo il disegno industriale, ma in genere tutti i recenti aspetti dell'arte pianificata e meccanizzata; ossia tutte quelle forme artistiche o parartistiche, che sono state rese possibili solo ed esclusivamente in seguito all'intervento della macchina e della meccanizzazione dell'era industriale. Si pensi, tanto per esemplificare brevemente, al caso della musica riprodotta attraverso dischi, nastri e trasmessa dalla TV e dalla radio, alla prosa, al teatro, che attraverso gli stessi canali trovano una diffusione e una diffondibilità mai prima raggiunte; e si pensi agli altri aspetti di molte forme pseudoartistiche (come i fumetti, i cineromanzi, ecc.) che raggiungono tirature mai per l'innanzi immaginate. Accade oggi su scala universale quello che solo assai limitatamente s'era verificato attraverso l'invenzione di Gutenberg e forse con conseguenze ideologiche ed estetiche che potranno superare di gran lunga quelle prodotte dall'invenzione della stampa. Le opere destinate a questo nuovo tipo di «funzione di massa» devono necessariamente rispondere ad alcuni requisiti di gusto e di livello artistico che le renda idonee ad essere fruite, comprese, ed apprezzate da ognuno; devono perciò abdicare da ogni loro qualità di sofisticatezza e di eccezionalità. È un dato di fatto riconosciuto da quasi, tutti gli studiosi dei problemi legati ai mass media¹⁰ e porta alla conclusione che si venga sempre di più instaurando un genere d'arte, se non decisamente low-brow (di livello infimo), quanto meno middlebrow (di livello medio); un'arte, dunque, che accontenti la sensibilità media, il gusto ¹⁰Uno dei migliori documenti sui problemi dei fenomeni di massa e sui mass media è l'antologia di Bernard Rosenberg e David Manning White, Mass Culture, The Free Press, New York 1957. Si veda anche il volume di Edgard Morin, L'esprit du temps, Grasset, Paris 1962.
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medio, e che non sia più esclusivamente destinato alle élites. Questo fatto è d'un'importanza estetico-sociale rilevantissima e investe problemi d'ordine etico che non possono essere sottovalutati. In effetti, se siamo pronti a convenire sopra una probabile standardizzazione, sopra un certo livellamento del gusto (in campo musicale, teatrale, narrativo) in seguito all'avvento dei mass media; dobbiamo per altro notare come proprio in merito ad essi sia possibile «contrabbandare» in ambienti che ne sarebbero stati sempre totalmente esclusi, forme d'arte destinate alle élites e che finiscono così per essere ammesse, tollerate, e finalmente amate anche dalle «masse» e da esse rettamente intese. Giacché in realtà, ciò che distingue le élites (culturali, s'intende, non economiche; poiché quest'ultime sono spesso ancor più retrive degli strati medi della popolazione) spiega che ciò possa essere ottenuto - per quanto concerne l'aspetto visuale - dal disegno industriale. In realtà, sarà facile notare come, assai spesso, un oggetto dall'ottimo disegno possa venir accettato e prediletto universalmente per le sue intrinseche qualità estetiche e anzi si è potuto dimostrare come proprio popolazioni non ancora «viziate» dall'uso di oggetti industriali di «cattivo disegno» abbiano accettato con più comprensione il «good design» di quanto non abbiano fatto popolazioni considerate più evolute. È di sommo interesse a questo proposito notare come da un punto di vista antropologico - si sia potuto constatare un fenomeno assai istruttivo circa la diffusione di taluni oggetti tra popolazioni meno colte o addirittura sottosviluppate. In alcuni casi, la precoce introduzione in una determinata area sottosviluppata (Africa centrale) di alcuni meccanismi industriali tipici (macchina da cucire) ha, a tal punto, condizionato il gusto delle popolazioni da far si che queste, in seguito, accettassero solo quel determinato tipo di macchina antiquata cui si erano ormai abituate, rifiutando il
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modello ridisegnato e perfezionato perché considerato «meno bello» - diremmo piuttosto meno simbolicamente efficace - di quello antico. (Ed è noto che alcune ditte, come la Necchi, si videro costrette a mantenere in vita vecchi modelli appunto per soddisfare la richiesta di quelle aree sottosviluppate). In altri casi si verificò una circostanza del tutto opposta; ossia: l'introduzione di oggetti mai prima conosciuti e posseduti in determinate zone (per esempio il televisore nel Sud dell'Italia) vide una netta preferenza, da parte delle popolazioni non precedentemente condizionate ad un determinato modello, per gli oggetti di miglior disegno e più progrediti. Come si vede, anche da questi due facili esempi, il problema della diffusione dell'oggetto industriale in aree depresse o addirittura barbariche pone dei problemi di alto interesse antropologico. Quanto ho affermato, oltretutto, contraddice un'opinione quanto mai diffusa e cioè che, attraverso l'industrializzazione dei mezzi di comunicazione e dell'arte in genere, si renda ubiquitario e trionfale il Kitsch¹¹ (la «nonarte») al posto dell'arte. Ma, se è vero che dare in pasto alle popolazioni i fumetti e i fotoromanzi significa condizionare tali popolazioni a questo genere di prodotti artistici, è anche possibile l'opposto; e cioè come spetti proprio a noi di somministrare attraverso i canali di massa gli oggetti di buon gusto, se vogliamo che si realizzi un'effettiva educazione artistica delle popolazioni. Infatti, se manca nella cultura di massa, ogni differenziazione fruitiva, tuttavia, il prodotto, destinato a questa stessa fruizione spersonalizzata e livellatrice, ha pur bisogno d'una certa qual differenziazione per essere accetto per cui si determina da parte del pubblico l'incessante richiesta di prodotti «individualizzati» e «nuovi». ¹¹Il problema del Kitsch è analizzato nel mio volume Kitsch, antologia del cattivo gusto, Mazzotta, Milano 1969; e si veda anche - per una interpretazione teoretica del Kitsch - il volume di Ludwig Giesz, Phänomenologie des Kitsches, Rothe Verl., Heidelberg 1960.
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Naturalmente il gusto di massa potrà essere individualizzato solo fino ad uh certo punto, per l'impossibilità da parte del produttore di imporre un prodotto che non incontri l'accettazione dei molti e che pertanto renda impossibile una sua ampia seriazione. Tuttavia l'effetto spersonalizzante della produzione di massa sarà certamente meno grave, quando si tratti di oggetti d'uso comune, come la maggior parte di quelli dovuti al disegno industriale (orologio, frigorifero), che quando si tratti di musica o di letteratura a base di «condensati» e fumetti. Ecco perché sarà forse attraverso un miglioramento - sia pur spersonalizzante - dell'oggetto d'uso comune, che si potrà sperare in un successivo miglioramento del gusto anche riguardo alle opere d'arte vere e proprie dove la spersonalizzazione è più pericolosa. Per quanto poi riguarda il fenomeno del Kitsch, cui dianzi alludevo, non c'è dubbio che la presenza attorno a noi di molti oggetti prodotti industrialmente (bottigliette di coca-cola, lattine di birra e marmellata, tubetti di dentifrici e cosmetici, ecc.) dalla tipica connotazione «Kitsch», abbia avuto un curioso effetto di rimbalzo sull'arte d'elite. È noto, infatti, come molta pop-art si sia valsa di tali oggetti, inclusi nelle proprie opere (nei combinepaintings di Rauschenberg, nelle composizioni di Arman o di Spoerri) o imitati e ingigantiti (come nel caso di Oldenburg), appunto per la loro valenza di «cattivo gusto popolare», ottenendo così, un effetto demistificante tutt'altro che disprezzabile. Non solo, ma attirando l'attenzione dello stesso pubblico verso un genere di prodotti il cui valore esteticosimbolico non era stato sino allora sufficientemente considerato.
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21. Tentativo d'una classificazione del disegno industriale Giunti a questo punto della nostra trattazione potrebbe sembrare opportuno di addivenire ad una classificazione dei singoli oggetti industrialmente prodotti e aventi caratteristiche tali da permettere la loro inclusione nel settore di cui ci occupiamo. In realtà tale classificazione è quanto mai ardua e credo anzi che potrebbe risultare discutibile la sua stessa importanza perché condurrebbe solo ad una monotona elencazione dei singoli oggetti. Dato poi il carattere piuttosto estetico che tecnico di questo volume ci sembra inutile insistere in una minuziosa analisi dei materiali costitutivi, analisi che avrebbe scarso peso non potendo giungere ad uno studio approfondito dei materiali stessi, da un punto di vista chimico, fisico, strutturale, ecc. In effetti, come ho già avuto agio di osservare: una cosa è lo studio tecnico-scientifico dei sistemi lavorativi e produttivi d'ogni categoria di oggetti (studio che ovviamente deve essere devoluto al campo della tecnica aziendale e industriale) e altra cosa è l'esame delle costanti estetiche e metodologiche che presiedono allo sviluppo del disegno industriale. E a tale esame non può certo competere l'entrare in dettagli scientifici circa la costituzione fisica e la impostazione meccanica degli oggetti in questione. Ecco perché una catalogazione degli oggetti del disegno industriale come quella tentata da Herbert Read ci sembra ormai desueta. Lo studioso inglese, infatti, partiva ancora da principi che portavano ad identificare o quanto meno ad assimilare l'oggetto artigianale e l'oggetto industriale, purché questi fossero costituiti dalle stesse materie prime (ceramica, vetro, legno, metallo). Una posizione che - come ho più volte ribadito - non possiamo più accettare. Per la stessa ragione la classificazione degli oggetti a seconda dei materiali usati non è oggi più sufficiente, sia per la frequente commistione degli stessi che per l'estrema complessità della lavorazione; sicché i dati (circa la loro costituzione fisica, la creazione di
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leghe metalliche, la diversa composizione delle paste ceramiche, la lavorazione del vetro, ecc.) offerti da Read, sarebbero del tutto inadeguati a chi, in base ad essi, volesse accingersi ad una pratica progettazione e lavorazione dei singoli oggetti, mentre d'altro lato non farebbe che appesantire la presente trattazione con dati pseudoscientifici del tutto irrilevanti ad una precisazione estetico-metodologica del problema che stiamo esaminando. Sarà, naturalmente, di primaria importanza, oggi come ieri, tener conto dello specifico materiale in cui l'oggetto è costruito per valutarne le qualità non solo tecniche ma estetiche; proprio per la necessità mai abbastanza sottolineata d'un'aderenza della forma alla natura del materiale, base prima d'ogni funzionalità costruttiva; e sarà quindi ancora possibile una divisione degli oggetti a seconda del materiale costitutivo (tale è ad esempio la classificazione in atto presso l'Archivio di Darmstadt); ma sia ben chiaro che tale classificazione utilissima da un punto di vista pratico e organizzativo - non ci potrà offrire che scarsi chiarimenti circa la validità dell'oggetto in questione. Ecco perché preferiremo ricorrere ad altri tipi di catalogazione che siano più rispondenti al rapporto tra funzione e forma, così tipico per tutto il settore del disegno industriale. Una delle possibili suddivisioni sarà, ad esempio, quella che tenga conto della presenza o meno nell'oggetto d'una sezione meccanica che formi con esso parte integrante. Avremo, cioè, da un lato una categoria di oggetti, creati bensì meccanicamente, ma sprovvisti di meccanismo; mentre dall'altro lato dovremo considerare la notevole gamma di quelli in cui alla forma esterna farà riscontro una «forma interna» derivante dalla presenza d'una parte meccanica. A questo secondo gruppo appartengono numerosi oggetti d'uso costante ai nostri giorni che vanno dall'orologio al rasoio elettrico, dall'automobile alla macchina da cucire, dal transistor al radiogrammofono, dal motoscafo
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al bollitore elettrico e allo scaldabagno. Mentre la prima categoria d'oggetti dovrà presentare una forma che risponda ai requisiti del caso, senza tener conto di altre esigenze; la seconda categoria dovrà rispondere a delle esigenze che comprendano anche la delicata presenza del meccanismo, il quale dovrà essere ospitato, protetto, e a seconda dei casi, evidenziato o occultato (anche questo a seconda, non solo di ragioni pratiche, ma, come abbiamo già visto, esteticosimboliche). Sempre rimanendo entro i limiti di questa seconda categoria potremo inoltre compiere un'ulteriore distinzione a seconda del fatto che l'oggetto appartenga o meno alla famiglia degli oggetti «a carrozzeria»; a seconda cioè che la sua parte meccanica sia intimamente inclusa nell'oggetto o soltanto ad esso sovrapposta o ancorata; e soprattutto a seconda che la forma esterna, come tale, abbia un rapporto più o meno intimo con la struttura del meccanismo. È, quest'ultima, un'altra delle più importanti determinazioni della forma oggettuale; come è noto molti oggetti provvisti di meccanismi appaiono rivestiti da «gusci» metallici o di materie plastiche che li occultano e che valgono sia da protezione dei meccanismi stessi, quanto da protezione dell'uomo da tali meccanismi (macchine da scrivere, e da cucire, calcolatrici, ecc.). C'è appena bisogno di accennare al fatto che la carrozzeria dovrà « sposare» nel miglior dei modi l'elemento meccanico, abbracciandone i diversi elementi senza spreco di spazio, di materiale, di peso, ecc. Naturalmente la latitudine interpretativa da parte dell'elemento carrozzeria è vastissima; basti considerare il caso d'un'automobile da corsa, dove tra la forma del motore e l'aspetto esterno del veicolo c'è una scarsissima analogia, giacché in questo caso l'involucro dovrà rispondere non solo ai requisiti di «copertura» del motore, ma a quelli di «abitabilità» da parte del pilota, di efficacia simbolica del veicolo stesso, e via dicendo.
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Oltre a questa classificazione possiamo ricordarne un'altra, alla quale abbiamo già avuto occasione di accennare a proposito dei rapporti tra disegno e moda, quella cioè proposta dall'ingegnere olandese Kalff. Quest'ultima è basata sulla maggiore o minore qualità individualistica del prodotto; ossia sul fatto che esso sia destinato ad una fruizione spiccatamente individuale (che terrà in massimo conto il fattore estetico-ornamentale) o ad una di tipo «superindividuale» che terrà invece conto prevalentemente del fattore funzionale-pratico. Tra i primi oggetti Kalff pone quelli che non si «trovano sul mercato», che non sono di solito di acquisizione pubblica (come antenne per l'alta tensione, treni, lampadari per l'illuminazione pubblica, cassette postali), tra i secondi, tutti gli oggetti comunemente in commercio distinti in diverse e sottili gradazioni a seconda che prevalga in loro l'aspetto funzionale (ventilatori, radiatori, articoli sportivi, mazze da golf, fucili), o invece che prevalga l'aspetto affettivo e personalistico (come negli orologi, nella ceramica e negli oggetti casalinghi o addirittura negli oggetti da toilette e da vestiario, che siano naturalmente eseguiti industrialmente e non artigianalmente). Secondo Kalff oggetti puramente funzionali (e non «personali») come un proiettile, un razzo, un aviogetto, non possono subire l'influsso dell'estetica industriale e devono addirittura essere esclusi dal nostro settore d'indagine. Noi siamo del parere che, anche nel caso di una richiesta superindividuale, si dia egualmente un quoziente estetico, seppure in sottordine, a quello strettamente tecnico-meccanico. In definitiva, riassumendo i lati positivi delle diverse catalogazioni, e naturalmente senza voler dare nessun valore assiomatico a quelle proposte ed elencate, credo di poter così definire le principali categorie di oggetti che si possono considerare come facenti parte della grande famiglia del disegno industriale: 1 ), oggetti d'uso individuale (sia con che senza la presenza d'un meccanismo incluso) a funzionalità spiccata,
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poco soggetti alla moda ed al consumo: buona parte degli elettrodomestici, strumenti di precisione, microscopi, cannocchiali, telefoni, giradischi, altoparlanti, macchine da scrivere e da cucire, apparecchi sanitari... 2), Oggetti d'uso individuale, soggetti a periodiche modificazioni del gusto, legati alla moda, presentanti requisiti di funzionalità limitata sottoposti ad un rapido consumo: oggetti d'uso personale e di vestiario, penne, matite, portacenere, soprammobili, alcuni mobili di serie, automobili, scooter, motoscafi, ecc., lampade e altri elementi dell'arredamento e, in genere, suppellettili (ceramica, vetro, metalli) di serie. 3), Oggetti destinati ad un uso «superindividuale», sottostanti a minore alterazione del gusto, non legati alla moda, rispondenti a requisiti di assoluta funzionalità e sottoposti ad un genere di consumo solamente tecnologico e non estetico: aviogetti, sottomarini, navi, treni, elettromotrici, turbine, serpentine di distillazione, macchine utensili, elementi d'arredamento urbano (cassette postali, antenne d'alta tensione, lampade stradali, ecc.). 4), Oggetti «inutili», costruiti in base ad una progettazione di tipo industriale tipicamente di serie, ma senza alcun fine «pratico»; facenti parte della cosìddetta «arte programmata » e dell'« arte cinetica » e costituenti la categoria dei cosìddetti «multipli». (Categoria che di solito non viene inclusa nelle trattazioni riguardanti il disegno industriale, mentre merita di esserlo per gli sviluppi futuri che potrà presentare). 5), Alcuni settori di «architettura industrializzata»: giunti, snodi, curtain walls, serramenti, e altre parti di edifici prefabbricati; cupole geodesiche di BuckminsterFuller, snodi di elementi modulari di Wachsmann, ecc., tenendo peraltro ben distinti tali elementi dall'architettura e cioè tenendo sempre conto dell'opportunità di distinguere gli oggetti del design dalla vera e propria architettura.
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22. Limiti dell'azione del designer nella progettazione Sarà opportuno ripetere qui quanto abbiamo già detto più volte, e cioè che il designer non deve essere considerato soltanto un «disegnatore» nel senso che questa parola riveste di solito in italiano; ossia un individuo che possieda particolari doti di talento e di perizia nel disegno. Proprio a ribadire la distinzione di «disegno» (nel senso inglese di «design» e spagnolo di «diseño» contrapposto a dibujo e a drawing ossia disegno d'arte distinto da ogni elemento di progettazione), dobbiamo considerare il designer come un progettista dell'oggetto da produrre industrialmente, ma anche come un pianificatore della stessa vicenda produttiva. Prima ancora di accingersi alla progettazione ed al disegno d'un determinato oggetto, infatti, egli dovrà aver precisato il suo compito di creatore dello stesso nell'ambito di tutta la complessa compagine produttiva. Uno dei suoi primi obiettivi sarà pertanto, quello di raggruppare sinteticamente i dati ricavati dalle informazioni avute dai diversi ricercatori, tecnici, statistici, esperti del mercato e delle tecniche operative, così da poterne trarre le conclusioni che gli permettano di individuare il tipo di prodotto da progettare. Ecco perché sarà impossibile che un designer possieda le nozioni tecniche e scientifiche sufficienti a permettergli la progettazione di qualsivoglia prodotto, anche se si sarà specializzato in un determinato ramo dell'industria. Mentre sarà certamente ammissibile che - valendosi delle informazioni avute dai tecnici e dagli esperti - possa progettare oggetti di cui possa anche non penetrare compiutamente i requisiti scientifici. E questo giustifica anche il fatto che in questo volume - come del resto nella maggior parte di quelli destinati al nostro problema - si sorvoli su tutta quanta la complessa materia delle basi scientifiche dei singoli manufatti, proprio perché una conoscenza soltanto superficiale di esse sarebbe del tutto insufficiente e permetterne l'indagine, mentre, solo attraverso
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i dati scientifici di cui gli esperti sono in possesso, sarà possibile, al momento opportuno, orientare in un modo piuttosto che in un altro la progettazione del singolo oggetto. Eppure al disegnatore per l'industria, spetta un compito assai più complesso e importante che quello di « stilizzare » una determinata forma, ossia di rivestire di panni acconci e nuovi un meccanismo di cui egli ignori le caratteristiche vitali. Il designer, per le sue conoscenze particolari circa l'indagine delle esigenze del pubblico, sarà in grado di giungere all'ideazione d'un determinato oggetto che corrisponda a determinati requisiti tecnico-formali, non previamente immaginati né supposti dagli stessi tecnici del ramo in questione. Spesso, cioè, è lo stesso disegnatore a imporre o a suggerire la dimensione ottimale d'un apparecchio, la cui costruzione sarà portata al valore formale che il disegnatore considererà più adatto alle esigenze del pubblico. Si è visto così più d'una volta adottare determinati accorgimenti che non sarebbero stati individuati dalla produzione ma che furono ipotizzati e suggeriti dalla progettazione. A questo proposito possiamo ricordare una osservazione di Arthur Becvar¹²: «il design, nel suo stadio iniziale di progettazione, consiste nel pensare al problema non nel considerarne la soluzione... cercando di individuare se il problema è stato posto in maniera chiara ed è comprensibile al pubblico cui si rivolge». In altre parole, spetta proprio al designer di ideare l'oggetto, in maniera che esso sia immediatamente «comprensibile» e «leggibile» al consumatore; in maniera, cioè, che le sue qualità funzionali siano esplicitamente semantizzate. Guai se la forma d'un oggetto - specie d'un oggetto «a meccanismo» - dovesse risultare «incomprensibile» all'utente, se dovesse risultare mascherato con vesti non proprie, se potesse venir scambiato con un altro prodotto affine ma non identico. ¹² Arthur
Becvar, The designer's answer, in «Design Forecast», n. 1.
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Questo dimostra, oltretutto, come non sia vero che il disegnatore debba sottostare supinamente alla volontà del produttore e neppure a quella del consumatore. Spesso spetta proprio al progettatore di individuare quella forma che, soddisfacendo ai requisiti basilari imposti dalla funzione, dal costo, dall'analisi di mercato, possa altresì costituire, appunto, un elemento di «novità», e come tale educare il pubblico all'accettazione d'un nuovo genere di linea e di forma cui non era precedentemente condizionato¹³. ¹³ Chi voglia documentarsi direttamente sull'opinione degli stessi designers rispetto alla loro professione potrà consultare le numerose. riviste specializzate («Stile-Industria», «Industrial Design», «Design», ecc.) e le non molte opere scritte sinora dai disegnatori. Tra questi, quelli che hanno saputo meglio illustrare la loro professione con scritti pieni di vivacità e di partecipazione sono forse George Nelson, Problems of Design, New York 1957; Waltee D. Teague, Design this Day, New York 1949 (1960), e, in diversi articoli, Eames, Viénot, Maldonado, ecc. È interessante notare come dalla maggior parte degli scritti risulti la evidente volontà e consapevolezza da parte degli autori di essere gli artefici in certo senso più delicati e importanti nella strutturazione dell'aspetto estetico della nostra società.
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23. L'insegnamento del disegno industriale L'importante problema dell'insegnamento del disegno industriale è lungi dall'essere risolto, proprio per la peculiare struttura di questa disciplina. Come spesso accade - specie nei paesi di antica tradizione culturale come quelli latini: Italia, Francia, Spagna - prima che le strutture didattiche preesistenti si siano adeguate a discipline di nuovo conio, passano molti anni, spesso molti decenni. D'altro canto è ovvio che, in un campo squisitamente tecnologico, ma anche direttamente legato a problemi estetici, sia quanto mai arduo addivenire ad una precisa e organica distribuzione delle materie di insegnamento. Ecco perché nel nostro paese, e praticamente in tutti gli altri, il disegno industriale ha attraversato una prima fase di autodidattismo cui solo in un secondo tempo si è venuto sostituendo una precisa e rigorosa metodologia didattica. Un altro fatto di cui occorre tener conto è l'origine parzialmente artigianale della nostra disciplina che ha fatto si che in molti paesi dove le scuole artigiane erano più sviluppate esso venisse innestato direttamente sul tronco artigianale già funzionante; e questo spesso con notevole danno per il sistema didattico. Così infatti è accaduto per la Germania e l'Austria dove le Kunstgewerbeschulen già esistevano ad un livello assai elevato e così per l'Inghilterra dove la tradizione delle Arts and Crafts era ancora operante sin dai lontani tempi di Morris e di Mackmurdo. Nei paesi anglosassoni, infatti, e soprattutto nella Gran Bretagna, dove il processo d'industrializzazione era stato più precoce, avvenne appunto che già per tempo, entro alle scuole dei «mestieri» artigianali, si cominciassero ad impartire delle nozioni di progettazione industriale, anche se ad un livello ancora assai modesto. Lo stesso accadde in Germania, dove, oltretutto, si svolse l'importantissimo seppur oggi superato - esperimento del Bauhaus legato sin dai suoi inizi alla possente personalità di un Van de Velde,
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che aveva intuito tra i primi l'importanza dell'arte creata industrialmente; e proseguito, come è noto, dal 1920 in poi, dall'altra grande figura di maestro che è stato Walter Gropius. In realtà anche nel Bauhaus, vigeva ancora un sistema didattico prevalentemente artigianesco: i vari laboratori addestravano gli allievi alla manipolazione del vetro, del metallo, del legno, ed anche ad una vera e propria progettazione industriale, sempre tuttavia basandosi sopra un alquanto utopistico funzionalismo «socialistico», che in realtà era ben lungi dal corrispondere a quelle che in seguito si rivelarono le vere esigenze dei prodotti di massa. È comunque doveroso riconoscere al Bauhaus il merito di essere stato la prima grande scuola ad affrontare i problemi della progettazione - sia artigianale che industriale - con la stessa serietà e con la stessa profondità ideologica con la quale sino allora erano affrontati soltanto i problemi degli «alti studi» universitari, scientifici ed umanistici. Questo concetto, infatti, doveva perpetuarsi anche in seguito e divenire operante ai nostri giorni presso i docenti più illuminati: quello cioè di considerare lo studio del design alla stessa stregua di qualsivoglia altro importante studio di discipline scientifiche o artistiche. Ed è questo che più ci preme di ribadire in queste righe: come cioè non si possa assolutamente concepire uno studio del disegno industriale che sia avulso da una globale educazione dell'individuo e da una preparazione tecnica, sociale, scientifica, artistica, davvero integrata. Per questa stessa ragione non è ammissibile di riservare lo studio del disegno industriale al solo livello «undergraduate» (ossia per i giovani al disotto dei diciotto anni), giacché sarebbe inconcepibile (salvo un successivo autonomo e privato complemento di studi) che a costoro venisse affidata la progettazione dei prodotti industriali in tutta la loro estrema complessità. Perché un disegnatore possa essere veramente idoneo ad accingersi ad una progettazione, non limitata al singolo oggetto ma che sia rivolta ad una vasta
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gamma di prodotti e che tenga conto di tutte le esigenze sociali, economiche ed artistiche ad essi sottese, è opportuno, anzi indispensabile, che egli abbia avuto un insegnamento completo, costituito da anni di studi undergraduate (che potranno già essere «specialistici») e seguito da un periodo di studi «superiori» (dai tre ai cinque anni) che gli diano una completa visione dei complessi problemi cui va incontro. A tale criterio sono orientati quei pochi istituti specializzati che si sono di recente venuti istituendo in Europa e in America; tra i primi l'Institute of Design di Chicago (che fu diretto in origine da Moholy-Nagy e da Mies), il MIT di Cambridge (dove insegna Gyorgy Kepes) e la Hochschule für Gestaltung di Ulm, fondata da Max Bill, diretta in seguito da Tomas Maldonado, e da Otl Aicher e che, purtroppo, ha cessato la sua attività nel 1969. Se il MIT corrisponde piuttosto ad uno dei nostri politecnici o ad una Technische Hochschule tedesca, gli altri istituti possono effettivamente considerarsi come scuole specializzate nello studio del design - non solo del disegno industriale, ma delle branche affini, della grafica, del shelter design, del visual design, della comunicazione audio visiva, e dell'architettura industrializzata, e possiedono corsi completi (a livello undergraduate e graduate) per il disegno industriale comprendenti anche quegli insegnamenti complementari indispensabili alla formazione del designer. Così, ad esempio ¹⁴ la Scuola di Ulm tendeva a dare un particolare sviluppo, oltre che all'aspetto tecnico-scientifico del disegno e alle sue applicazioni pratiche, anche alle basi teoretiche dello stesso ed alla ricerca nel campo della comunicazione visuale e della comunicazione ¹⁴ A illustrazione
dell'attività della Scuola di Ulm, si veda la pubblicazione edita dalla scuola: Zeitschrift der Hochschule fur Gestaltung, Ulm, di cui sono apparsi sino alla chiusura della scuola numeri con importanti notizie tecniche e scritti teoretici tra i quali ricordiamo soprattutto quelli di Tomas Maldonado, e Gui Bonsiepe.
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scritta, inserendo così lo studio del design nel più vasto settore delle discipline sociali, statistiche e linguistiche, che hanno e avranno sempre maggior peso nella nostra civiltà. In Italia, dove la progettazione industriale ha raggiunto livelli altissimi in alcuni settori, si deve purtroppo ancora lamentare una quasi assoluta carenza dell'impostazione didattica, sicché la maggior parte dei nostri designers sono, vuoi degli autodidatti, vuoi degli architetti che hanno applicato al disegno di oggetti le nozioni apprese nel corso dei loro studi architettonici. Solo negli ultimi anni sono state istituite, presso l'università di Firenze, di Milano e di Napoli (Facoltà di Architettura) delle cattedre di disegno industriale, e solo da alcuni anni sono stati fondati dei corsi superiori di disegno industriale appoggiati agli Istituti d'arte di Roma e di Firenze (che, tuttavia, hanno ormai ultimato la loro fase sperimentale e dovranno - si spera - essere sostituiti da appositi istituti specialistici a carattere universitario e non dipendenti dagli Istituti d'arte). Da alcuni anni, inoltre, funziona a Novara una Scuola d'avviamento «arte-tecnica», a livello non universitario, diretta da Nino di Salvatore; mentre, sempre a livello medio, esistono dei corsi presso l'Umanitaria di Milano e l'Istituto d'arte di Monza. Se veniamo a considerare i sistemi stranieri, già da tempo funzionanti, vedremo come essi possano, in linea di massima, distinguersi in quelli miranti alla formazione di designers specializzati in un determinato settore (e perciò legati ad una determinata industria) e in--quelli volti all'integrazione tra disegno, grafica e altre discipline analoghe; oltre, naturalmente, a quelli che ancora indulgono nella pericolosa frammistione di sistemi artigianali e sistemi industriali abbinati in una stessa scuola. Poiché non ci è possibile soffermarci pili a lungo a considerare i diversi tipi di istituti esistenti e le diverse forme d'insegnamento, ci limiteremo ad esporre quello che potrebbe essere un «programma-tipo» d'una scuola a livello universitario che si articoli in quattro o cinque anni di corso e
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che sia in grado di ospitare studenti provenienti da istituti di cultura a livello medio-superiore. Una scuola del genere dovrà comprendere, oltre alle materie complementari che varieranno a seconda della preparazione avuta in precedenza dall'alunno (tra le quali saranno comprese: storia dell'arte, lingue estere, psicologia, fisica, chimica, matematica, elementi di architettura, disegno dal vero, plastica, fotografia, ecc.), le seguenti materie fondamentali divise nei diversi anni di corso: analisi della forma e della funzione di oggetti naturali e artificiali, introduzione alle tecniche di ricerca, uso di utensili e di macchine fondamentali; studio della sensibilità manuale e visiva; studio delle capacità espressive mediante i diversi mezzi di progettazione e di presentazione; studio dell'elemento comunicativo visuale; analisi del mercato; studio del packaging (imballaggio) e della esposizione, progettazione di oggetti dagli stadi preliminari fino allo stadio di prototipo e al campione definitivo; studio delle qualità fisiche e organolettiche dei materiali e delle strutture; meccanica e trasmissione meccanica delle forze; analisi dei tempi e dei costi; costruzione di modelli funzionanti; pianificazione commerciale e industriale, analisi motivazionale; protezione dei progetti, brevetti, copyright, marchi, organizzazione professionale, ergonomia, teoria dell'informazione, cibernetica. Naturalmente quelle scuole che saranno provviste di sezioni speciali per l'insegnamento di particolari processi produttivi (ceramica, metalli, materie plastiche, vetro, tessuti, arredamento, architettura industrializzata, fotografi, decoratori, tecnici della pubblicità, lynotipisti, ecc.), daranno a tali materie uno sviluppo che non sarà possibile altrove; ma - come ho già precisato - phi che lo studio del singolo materiale (che potrà sempre essere completato direttamente con la partecipazione ad un ciclo lavorativo di fabbrica con risultati molto più veloci e pratici), quello che dovrà essere curato dalla scuola è l'impostazione globale dello studente; la sua formazione percettiva e la sua impostazione
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comunicativa. Senza questi elementi basilari ogni ulteriore specializzazione sarà destinata spesso a trovare un terreno arido e non potrà sviluppare validi risultati creativi.
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24. Ipotesi per l'evoluzione futura del design Le previsioni che possiamo avanzare circa il futuro del disegno industriale sono, ovviamente, come ogni previsione, quanto mai problematiche e aleatorie. E, tuttavia, ritengo sia possibile, sin da oggi, anticipare alcune ipotesi che forse potranno risultare veritiere. Ho cercato, nei paragrafi che precedono, di dimostrare come l'oggetto industriale sia derivato da un primitivo e arcaico oggetto artigianale, opera individuale d'ogni uomo, quasi prolungamento degli arti stessi dell'individuo; ed ho anche accennato a come, in un secondo tempo, tale oggetto, creato per l'uso del singolo si sia andato trasformando in oggetto standardizzato e destinato all'uso di molti, di tutti. Ho anche cercato di precisare come - con l'avvento della macchina e con la rivoluzione industriale - sia sorta una nuova categoria di oggetti, completamente distinta dagli oggetti artigianali e destinata a sostituire progressivamente e quasi integralmente la prima. È stato anche accennato al progressivo evolversi e modificarsi di alcuni concetti-base che presiedevano alla valutazione estetica ed alla progettazione stilistica degli oggetti; e cioè come ad un primo criterio estetico divenuto dominante nel periodo bauhausiano secondo il quale Inutile» e il «bello» venivano quasi ad identificarsi, sia venuto sostituendosi un secondo criterio per cui si tiene conto accanto al binomio di utilità-bellezza - anche dell'elemento «piacevolezza» e «novità». Ossia come, per soddisfare il gusto del pubblico e quindi per sollecitare l'acquisto di sempre nuovi prodotti, si sia giunti a concepire la necessità di produrre oggetti in cui l'elemento funzionale venga posto in secondo ordine di fronte all'elemento estetico capace di costituire una efficacissima molla per l'acquisto di sempre nuovi prodotti. È proprio a questo proposito che gli ultimi tempi hanno visto svilupparsi una situazione di particolare
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disagio che ha colpito, non solo i designers, ma la parte più illuminata del pubblico. È accaduto infatti che, sotto la spinta incessante della iperproduzione, soprattutto nei paesi neocapitalisti e di più avanzata industrializzazione, si sia giunti ad una vera e propria inflazione nell'avvicendamento dei singoli oggetti di design. Il consumismo - questa pericolosa condizione entropica che tende a dominare l'economia e la mentalità stessa dell'uomo occidentale - ha fatto sì che da parte dello stesso utente i valori intrinseci degli oggetti venissero posti in sottordine rispetto ai valori meramente edonistici e formalistici; con l'immediata conseguenza d'un decadere della qualità strutturale e tecnica degli oggetti. Si è giunti così a parlare d'una «crisi dell'oggetto», e a intravvedere da parte di qualcuno, un prossimo futuro in cui si giungerebbe alla scomparsa dell'oggetto e al suo integrarsi in più complessi circuiti e sistemi. In realtà siamo ben lungi dalla scomparsa dell'oggetto, e anche ove molti degli attuali elementi oggettuali venissero inglobati in più complessi meccanismi unitari (telefoni, illuminazione, elettrodomestici, ecc.) - ciò non toglie che la civiltà dei consumi sarebbe sempre vigile e pronta a creare nuovi «bisogni indotti» e nuovi oggetti per tali bisogni. I tentativi degli stessi designers, dei più coscienti e maturi, di opporsi alla marea consumistica, di ribellarsi alla 1 sfrenata ricerca del nuovo per il nuovo, sono stati frustrati il più delle volte dalla situazione del mercato, che, ovviamente, è sempre più ferreamente legata all'establishiment dominante. Bisogna dunque auspicare che in un prossimo futuro, ; lo stesso verificarsi di particolari crisi economiche o l'avvento di diverse impostazioni sociopolitiche, determini un arresto, o quanto meno, una limitazione all'incessante avvicendarsi della produzione di nuovi prototipi, e permetta quindi una maggior riflessione e maturazione nell'opera del designer e una minor caccia al nuovo da parte del consumatore.
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L'interdipendenza, d'altronde, tra fattori economici ed estetici è troppo stretta perché si possa ipotizzare uno svincolarsi dei due settori l'uno dall'altro; per cui, il design continuerà ad essere una sensibilissima spia socioeconomica, ma potrà anche risultare una benemerita campana d'allarme d'una situazione in procinto d'evolversi in maniera patologica e anormale. È probabile, dunque, che in un prossimo futuro, abbiano a subentrare alcune importanti modificazioni nella concezione stessa dell'oggetto industriale, nella sua progettazione e nella sua distribuzione. Per il generalizzarsi in tutto il mondo d'un analogo standard di vita e di analoghe esigenze produttive e di consumo, è quanto mai probabile che si giunga ad una sempre maggiore omogeneizzazione, sia della società umana (con lo scomparire delle attuali differenze di classe), sia con l'attenuarsi e lo scomparire delle attuali differenze «nazionalistiche» nella produzione di serie. La scomparsa di questi due importanti elementi differenziali è destinata a portare con sé alcuni sostanziali mutamenti anche nel settore della produzione dell'oggetto di serie. Stiamo già assistendo al progressivo diffondersi di alcuni tipi di architettura industrializzata e prefabbricata che hanno ormai invaso tutti i continenti e che sono destinati sempre di più a generalizzarsi. Altrettanto sta accadendo anche per il singolo oggetto creato dall'industria: assistiamo già ad un progressivo omogeneizzarsi di alcuni prodotti (automobili, apparecchi radio, televisori, frigoriferi, ecc.) in tutti i paesi industrializzati; ed è probabile che le distinzioni nazionali tra tali prodotti abbiano sempre di più a venire eliminate anche per ragioni di intercambiabilità dei prodotti stessi e delle loro singole parti e pezzi di ricambio. Ma c'è un altro fenomeno di cui bisogna, credo, tener conto ed è la progressiva «scomparsa» di molti oggetti in quanto tali in seguito ad un loro generalizzarsi così ubiquitario da farne cessare il carattere di eccezionalità e di
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prestigiosità. Mi spiego: alcuni oggetti, gadgets domestici, che ancora nei primi tempi della loro introduzione sul mercato costituivano un elemento di eccezione (e quindi di prestigio) (frigorifero, lucidatrice, macchina da cucire, televisore), stanno già oggi diventando oggetti alla portata di tutti e vengono pertanto a perdere la loro caratteristica di eccezionalità. Il pubblico preferirà perciò che tali oggetti diventino sempre di più «comodi» e pratici ma meno «vistosi»; il processo di miniaturizzazione è dunque destinato a procedere e ad estendersi a molti settori che ancora oggi ne sono immuni. Non solo, ma con la progressiva pianificazione edile e dei diversi «servizi» domestici, e con l'analoga pianificazione e standardizzazione di molti altri « servizi» industriali è assai probabile che molti elementi oggi ancora individualizzati finiscano per essere «incorporati» entro più vaste strutture come già accennavo più sopra. Bisogna, tuttavia, tener conto anche del lato opposto del fenomeno: quello che riguarda l'invincibile - e a mio modo di vedere salutare - desiderio dell'uomo di differenziarsi, di vincere la standardizzazione, di sconfiggere l'anonimato della sua esistenza e del prodotto di cui si serve. E tale desiderio potrà facilmente venir appagato proprio attraverso la persistenza di alcuni prodotti fatti a mano. Da quanto ho detto sin qui ritengo si possa affermare che l'area di dominio del design nella società futura dovrà essere semmai ancora accresciuta, senza tuttavia che questo porti alla eliminazione di quello che ancora vogliamo chiamare «arte». Il concetto di «arte» e di design, verranno, anzi, sempre più intercambiandosi: si dovrà attribuire a molti settori tecnologici e scientifici un valore estetico, mentre verranno a decadere molte attuali strutture artistiche, che sono, in effetti già ora, esclusivamente «sovrastrutturali», e sarà, con ogni probabilità, riattivato un genere di produttività manuale, sia per scopi psico-pedagogici, che a livello altamente tecnologico. Il che dimostra l'impossibilità d'un trasferimento integrale dell'attività creativa dell'uomo a
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organismi cibernetici, e questo anche nel caso che - proprio attraverso di essi — si possa giungere alla realizzazione di nuovi prodotti artistici solo in parte guidati dall'intervento dell'uomo.
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Appendice Gli ultimi sviluppi del disegno industriale nel mondo Non sarebbe possibile tracciare una particolareggiata cronistoria di tutte le personalità che hanno militato nel settore del disegno industriale in questi ultimi anni e in tutte le nazioni del mondo, e questo per ovvie ragioni; a differenza di quanto accade nel campo delle altre arti dove un giudizio di valore - sia pur soggettivo e discutibile - può tuttavia essere difeso e preso in considerazione come decisivo per una accurata e severa selezione, nel campo del disegno industriale, è sempre assai arduo distinguere il valore meramente tecnico da quello tecnico-estetico, e soprattutto è arduo decidere quale sia il vero iniziatore d'un nuovo «stile» che possa considerarsi autonomo e scevro da imitazioni e da influssi. Dato poi il numero immenso degli oggetti prodotti, alcuni del resto del tutto anonimi, sarebbe impossibile una scelta che coprisse tutti i settori e tutti i singoli prodotti. Dovrò pertanto limitarmi a considerare, per ogni paese quegli esempi davvero significativi e che si possono considerare come tappe ormai «storiche» nel cammino della progettazione industriale. Rifacendomi, allora, agli Stati Uniti, di cui ho brevemente. ricordato gli sviluppi dovuti all'intervento degli uomini del Bauhaus, vorrei qui rammentare come in questa nazione esistesse anche prima dell'apporto europeo un altissimo livello di industrializzazione che aveva dato ottimi frutti, specie nel settore architettonico, già a partire dall'epoca dei grandi «architetti del ferro e dell'acciaio» come i Sullivan, i Bogardus, i Le Baron Jenney, ecc. Tra i pionieri d'una progettazione industriale intesa in senso moderno è bene ricordare innanzitutto i nomi di Walter Porwin Teague (morto nel 1960), di Raymond Loewy e di Henry Dreyfuss. Loewy, d'origine francese, giunse negli Stati Uniti nel 1919, ed ebbe un notevole peso sui futuri svolgimenti dello styling americano, proprio per i suoi frequenti contatti con le industrie europee, alle quali veniva attingendo
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parecchie idee che poi dovevano trovare la loro applicazione nei prodotti del mercato americano. A lui si deve la progettazione d'una serie vastissima di oggetti che va dalle automobili, ai treni, ai motoscafi, ai frigoriferi e persino ad alcuni imballaggi, tipico quello delle sigarette Lucky-Stryke. È interessante notare come l'apice delle attività stilizzatrici dei designers americani coincidesse con la crisi economica del 1929 (fu in quell'anno che Loewy aprì il suo studio a New York ed è nello stesso anno che Teague iniziò alcuni dei suoi più efficaci interventi di styling applicato alle carrozzerie automobilistiche), e ciò appunto per l'esigenza avvertita dalle industrie statunitensi di dare ai loro prodotti una miglior cosmesi così da vincere la riluttanza del pubblico all'acquisto. Anche Teague esplicò nella sua lunga carriera professionale un'attività multiforme dedicandosi alle apparecchiature cliniche come ai motoscafi e agli utensili più svariati, alle stazioni di servizio automobilistiche come alle carrozzerie automobilistiche. Il suo studio, specie nel periodo tra il 1930 e il 1945 costituì uno degli esempi più tipici della «maniera» stilistica americana. Un altro grande designer è Henry Dreyfuss, consulente della Bell Company e ideatore d'una lunga serie di apparecchi telefonici che sono stati i progenitori di tutti quanti gli apparecchi oggi in uso e inoltre progettatore del Superconstellation G (1951), dei piroscafi Indipendence, di sveglie, termostati, estintori d'incendi, trattori, ecc. Nella generazione leggermente posteriore troviamo alcuni designers particolarmente geniali, già parzialmente influenzati dalle nuove correnti europee, ma con personalità ben distinte, come Charles Eames, noto per la seggiola prodotta da Miller in compensato curvato e tubo d'acciaio, per altre originali produzioni in plastica e legno, per le lampade e i numerosi «giochi di carte», oltre che per le molte applicazioni architettoniche; George Nelson, autore di molti oggetti e anche acuto teorizzatore dei problemi della progettazione architettonica e industriale; e alcuni architetti come Eero
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Saarinen (morto nel 1962) autore di interessanti mobili, Breuer (che si dedicò a mobili in legno e in metallo e ad una serie di locomotori) e numerosi altri che - soprattutto attraverso le realizzazioni di alcune ditte come la Knoll e la Miller (progetti di Bertoia, di Breuer, ecc.) - invasero negli ultimi anni i mercati mondiali con i loro prodotti per la casa e l'ufficio. Nel settore automobilistico, a prescindere da alcuni ottimi esempi come la Studebaker di Loewy (1955) e alcune più recenti «compact cars» ormai influenzate dallo stile europeo, si manifestò negli Stati Uniti una tendenza verso un tipo quanto mai vistoso e complicato di carrozzeria che indubbiamente I badava piuttosto ad una funzionalità «psicologica», di prestigio sociale, che ad una funzionalità tecnica. Per tale motivo alcune automobili americane (la Oldsmobile, la Chevrolet, la Dodge) divennero tosto le tipiche rappresentanti di quella volontà o addirittura smania di cui abbiamo avuto agio di ragionare a proposito dello styling e giunsero ad una eccessiva esaltazione di elementi esclusivamente «simbolici» di potenza e di sfarzo, come le immense pinne posteriori, le pesanti nichelature, lo sfoggio di segnalazioni luminose e di altri aggeggi pubblicitari. Sembra che negli ultimi tempi - appunto con l'avvento anche in America dei compact cars - tale fase esibizionistica del design automobilistico sia in netto regresso. Altri importanti disegnatori - e non possiamo ovviamente che fare alcuni dei tanti nomi noti - sono Muller Munck, Herbert Bayer, Louis Becvar, J. C. Shalvoy, Jay Doblin, Elliot Noyes, J. Mango, D. Chapman, Don Defano, W. Smith, ecc. Se negli Stati Uniti le tendenze del design negli anni del dopoguerra ebbero a rispecchiare una esaltazione dello styling ed una inevitabile carenza di autentiche novità formali che fossero anche novità estetiche, qualcosa di analogo succedeva anche negli altri paesi più altamente industrializzati. Non c'è alcun dubbio che persino paesi notoriamente sobri come quelli scandinavi o dall'alta tradizione disegnativa come il Giappone
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risentissero dell'influsso americano e dessero ai loro prodotti una vistosità e un'accentuazione plastica forse eccessive. Bisogna riconoscere che tra i paesi più sobri, tanto nel settore architettonico che in quello disegnativo, va annoverata la Gran Bretagna dove, proprio a causa della precocissima industrializzazione del paese, la richiesta del pubblico era più facilmente colmabile anche attraverso un prodotto che mantenesse le sue caratteristiche normali per un periodo assai lungo. Infatti in questo paese nell'immediato dopoguerra non si ebbero che pochi esempi di stilizzazione esagerata e magniloquente. Tra gli esempi migliori dovuti ai designers inglesi vorrei almeno rammentare alcuni locomotori di Misha Black (noto anche per i suoi arredamenti), alcuni mobili di Robin Day, Neville Ward, lan Bradbery, apparecchi radio di A. Bednall, J. White, televisori di R. Day, di Thwaites, elettrodomestici di David Ogle, Roy Perkins, suppellettili metalliche di P. H. Davies, Robert Cantor, ecc. Eppure anche l'Inghilterra proprio negli ultimissimi anni ha in parte seguito l'indirizzo degli altri paesi più evoluti e forse proprio trascinata in ciò dall'esempio dell'Italia. Due mostre di disegno industriale italiano che furono allestite a Londra nel 1955 e nel 1956 ebbero un inatteso successo, e fu appunto a partire da quegli anni che a Londra cominciarono a moltiplicarsi vertiginosamente i caffè-bar all'italiana che ostentavano la lucentissima macchina da caffè della ditta Gaggia o di ditte locali. Negli anni 1958-60 inoltre anche il mercato automobilistico britannico si rese conto che la domanda del pubblico si rivolgeva verso tipi di macchine continentali, ed in seguito a ciò invitò un disegnatore italiano, Pininfarina, a creare alcuni disegni per carrozzerie di auto inglesi (come accadde appunto per la Morris, la Austin, la Hillmann). La Germania del dopoguerra, se mirò subito a riparare alle ingiustizie commesse dal nazismo verso i massimi architetti dell'epoca, e se tentò di aggiornare al più presto le manchevolezze del suo patrimonio architettonico e disegnativo, non si può dire tuttavia che abbia dato sinora esempi particolarmente rilevanti di questa sua volontà di
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rinnovamento. Dato l'alto grado di industrializzazione del paese, tuttavia, esistono moltissimi e discreti esempi di prodotti industriali nei quali il disegno è sufficientemente accurato, e tra questi sarà bene ricordare i molti oggetti disegnati da Wilhelm Wagenfeld (tra cui alcune porcellane, molti vetri; materie plastiche, posate, lampade), quelli creati dalla ditta Braun (ad esempio gli apparecchi radio disegnati da Hans Gugelot, il condizionatore di Laing), e ancora le posate di Hugo Pott, l'orologio di Max Bill per Junghaus, la lampada tascabile di P. Sieber, la radio a transistor di Theo Haussler, lo spremifrutta di H. Ehring e altri prodotti disegnati da Cari Pott, Rido Busse, W. Kersting, Braun-Feldweg, Cari Aubock, T. Maldonado, H. Loffelhardt, e altri. Ma il campo in cui la Germania ha offerto l'esperimento più notevole è quello didattico con la creazione avvenuta nel 1954 d'una Hochschule für Gestaltung (Scuola superiore per la formatività), creata da Inge Scholl-Aicher, con una fondazione in parte sovvenzionata dagli americani, e a cui fu chiamato come direttore l'architetto-grafico svizzero Max Bill. Bill, ben noto come scultore, grafico e saggista, era uno dei più giovani allievi del Bauhaus, e sua intenzione fu quella di riportare a Ulm l'antico spirito funzionalista che aveva animato la vecchia e gloriosa scuola. Purtroppo i tempi erano mutati e, in seguito a dissidi sempre più forti con gli altri docenti della scuola (tra i quali si possono ricordare il vecchio pittore Vordemberge-Gildewart, il grafico Aicher, il designer Gugelot e il critico e sociologo Maldonado), egli fu costretto a dimettersi, lasciando la direzione della scuola in un primo tempo a Tomas Maldonado (il quale mirava a sviluppare l'impostazione linguistico-informativa anziché la plasticoformalistica), e in seguito al critico Gert Kalow e poi al grafico Otl Aicher. La Francia, nonostante l'alto quoziente di industrializzazione e l'interesse, anche teorico, rivolto ai problemi del disegno industriale (non si dimentichi che il massimo estetologo francese, Etienne Souriau, continuò,
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sulle orme del padre Paul, ad occuparsi di disegno industriale, e che di architettura industrializzata e di disegno industriale si interessano numerosi altri studiosi, come P. Francastel, M. Dufrenne, R. Huyghe, ecc.), non diede vita negli ultimi anni a rilevanti novità strutturali e formali, se si eccettua l'alto livello di certo disegno nel settore automobilistico, dove una carrozzeria come quella della DS 19 Citroen valse a capovolgere addirittura un indirizzo divenuto da tempo stagnante. Tuttavia, per la presenza nel paese di una organizzazione come quella dell'Esthétique Industrielle (associazione e rivista diretta e fondata da J. Viénot sino alla sua morte avvenuta nel 1959), la Francia vide accendersi numerose competizioni nel campo del disegno industriale e mise sul mercato negli anni del dopoguerra svariati prodotti, tra i quali si ricordano quelli dovuti alla progettazione di Le Creuset (pentole), G. Gauthier, R. de la Godelinais (trasformatori, oggetti metallici), B. La Croix (lampade), T. Meunier (radiatori elettrici), J. Abraham, H. de Looze (apparecchi igienici e mobili), J. Viénot (rasoio elettrico) e ancora: Defrance, Philippon, J.-A. Motte, C. Gaillard, M. Mortier, P. Paulin, J. C. Hennin, Gisèle Pelletier, J. Dumond, J. Goudeman, Ph. Leloup, Tiarko Meunier, J.A. Motte, Jean Luce, e dalle società Technès, Sapac, Durand, ecc. La qualità e il prestigio del design scandinavo sono ben noti ovunque, e soprattutto i mobili e gli oggetti casalinghi svedesi, danesi e finlandesi, sono apprezzati in tutto il mondo e considerati anzi come un traguardo pressoché irraggiungibile. È bene notare, per altro, che in queste nazioni la produzione si è volta a quel genere di oggetti per i quali la tradizione artigianale poteva ancora far valere i suoi richiami; molto spesso i materiali usati sono il legno e la ceramica o il vetro, solo più di rado le materie plastiche e il metallo (soprattutto in Svezia). Molti di questi oggetti, anche se concepiti per la serie e prodotti secondo i metodi della più rigorosa standardizzazione, conservano in parte una piacevolezza del materiale che ricorda i loro progenitori artigianali, e talvolta -
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specie nei mobili - si valgono addirittura d'una raffinata rifinitura a mano. Rimane tuttavia da notare che per purezza di linea, per assenza di sovrastrutture decorative, molti di questi prodotti sono senz'altro tra i più «artistici» che oggi possa fornire l'industria moderna. Tra i più noti e singolari artisti sono da menzionare almeno i danesi Arne Jacobsen e Finn Juhl, entrambi creatori di originalissimi mobili, i finlandesi Tapio Wirkkala e Alvar Aalto - il quale, oltre ad essere il massimo architetto finlandese, è uno dei più fantasiosi disegnatori di mobili e di oggetti di compensato curvato e di plastica , Erik Herlòw e Tormod Olesen, autori della serie di pentole R, di ghisa smaltata, un esempio tra i più perfetti d'un oggetto utilitario, dove le caratteristiche della funzionalità e dell'artisticità convergono. Ancora tra i finlandesi bisognerà ricordare Kay Frank (autore di numerosi oggetti di porcellana per la casa), mentre Wirkkala è il creatore di numerose raffinatissime serie di posate, sia di metallo che di legno. Tra gli svedesi che hanno affrontato anche oggetti più spiccatamente meccanici (come calcolatrici, apparecchi per riscaldamento), si ricordano Sigvard Bernadotte, Acton Bjorn e Heribertson; tra i creatori di vetrerie e di ceramiche il finlandese Timo Sarpaneva e Toini Muona, i danesi Herbert Krenchel e Kristian Vedel, lo svedese Sven Palmquist, mentre sono da citare per le produzioni in acciaio gli svedesi Polke Arstrbm, Arne Gillgren e Sigurd Persson. Fra i norvegesi vanno ricordati Grete Corsmo, Willy Johansson, Bjbrn Engo (oggetti e mobili), Jore Hjertholm, Karl Korseth (mobili), Birges Dahl (lampade), e ancora: gli svedesi Stig Lindberg, S. E. Skavonius, Àstrid Sampe, i finlandesi Eero Rislakki, C. Borrfan, J. Pellinen, ecc. La posizione del Giappone rispetto alla produzione industriale è quanto mai caratteristica: è noto che questo paese ha saputo allinearsi con sorprendente velocità al ritmo produttivo dei paesi occidentali sfornando una congerie di prodotti di ottima qualità a prezzi di assoluta concorrenza. Quello che appare tuttavia singolare è che, mentre nel caso della produzione artigianale il paese ha saputo conservare inalterate le sue altissime doti di gusto e di originalità, tanto che ancora ai nostri
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giorni l'artigianato risulta tra i più evoluti e sofisticati, nel settore del disegno industriale si è avuto spesso una pedissequa imitazione dei prodotti occidentali senza un particolare apporto stilistico nazionale. Questo vale soprattutto per gli oggetti di più recente invenzione come radio, televisori, cannocchiali, apparecchi fotografici, registratori, calcolatrici, ecc. Uno sviluppo del tutto particolare hanno avuto in questo settore gli apparecchi radio a transistor che sono divenuti pressoché paradigmatici della virtù stilizzatrice e miniaturizzatrice del paese. Se invece rivolgiamo l'attenzione al settore un tempo artigianale e oggi ampiamente industrializzato, potremo constatare come alcune peculiarità nazionali sono riuscite a conservarsi inalterate: così dicasi per la raffinatezza e la precisione del disegno di alcuni mobili (ad esempio quelli di Sori Yanagi e di Isamu Noguchi, e di Kenzo Tange) come pure per le lampade di Yoshida, di Saito, di Shimazuma, le vetrerie di Awashima, e gli arredamenti di Yamawachi, Watanabe, Kenmochi; nonché altri prodotti di Iwasaki, Kimura, Mukai, Nakamura, Shimizu, Yotsumoto, ecc. Gli inizi di un'attività moderna e cosciente del disegno industriale italiano si identificano in certo senso con quelli dell'architettura funzionale; mancando in Italia quella tradizione industriale che in altri paesi europei, come abbiamo visto, risaliva già ai primi dell'Ottocento, un risveglio della coscienza architettonica e disegnativa si ebbe soltanto con l'inizio della grande battaglia razionalista imperniata sulle famose Triennali milanesi dell'anteguerra e specialmente su quella del 1935. Prima di quest'epoca gli oggetti prodotti dall'industria e le stesse macchine (da cucire, da scrivere, a vapore) sono ancora vittime del compromesso ornamentale. È solo, dunque, nel periodo tra le due guerre che si può parlare di qualche esempio d'un certo rilievo in questo settore: è il caso della Lancia Aprilia del 1937, ed è quello degli elettrotreni ETR 200, la cui sagoma era, per quei tempi (1936), indice d'una certa maturità formale. Attorno alla stessa epoca si ebbero alcuni interessanti tentativi anche nel campo del mobile radio (come
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quello di Figini e Pollini del 1935 e come quello disegnato dai fratelli Castiglioni e da Caccia Dominioni nel 1939 per la Phonola). Ma solo in questo dopoguerra si è assistito ad un'autentica presa di coscienza del problema del disegno, sia dal punto di vista pratico che da quello teorico. Nell'immediato dopoguerra (ossia attorno al 1946) le necessità pratiche d'una rapida ed economica motorizzazione dettero origine alla nascita del celebre motoscooter Piaggio chiamato Vespa a cui segui poco dopo la Lambretta Innocenti. Questi due modesti ma fantasiosi modelli (che dovevano rivoluzionare il campo della motorizzazione a due ruote anche fuori del nostro paese), assieme alle esperienze compiute nel campo automobilistico (coi famosi esempi di alcune macchine come l'Aurelia GT, la Cisitalia di Pininfarina, ecc.), dovevano dare l'esempio a molte altre industrie italiane additando l'importanza del fattore estetico sulla vendibilità del prodotto. Altri settori in cui negli stessi anni si ebbe un intenso sviluppo furono quelli delle macchine da scrivere - dove prima la Lexicon poi la Lettera 22 create da Nizzoli per la Olivetti dovevano costituire esempi memorabili - e quello delle macchine da cucire, dove apparvero gli apparecchi ideati da Nizzoli per la Necchi, da Zanuso per la Borletti e più recentemente da Mangiarotti e Morassutti per Salmoiraghi. Notevole anche lo sviluppo degli imballaggi dei prodotti di plastica, ecc. Nel campo teorico-critico del disegno industriale la prima manifestazione d'una certa importanza fu la mostra «La forma dell'utile», ideata e ordinata da Peressuti e Belgiojoso alla IX Triennale di Milano; a questa seguì una pili importante manifestazione alla X ed una grande mostra comprendente una trentina di personali dei maggiori designers del mondo alla XI Triennale, mentre in occasione della X Triennale si svolgeva un grande congresso internazionale, cui parteciparono numerose personalità straniere come Max Bill, Teague, Le Corbusier, Wachsmann, ecc. Altra importante manifestazione fu, negli anni successivi, la mostra ordinata a Londra (da Zanuso e Dorfles), che doveva riscuotere un notevole successo. In questa
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mostra vennero esposti tra gli altri prodotti: La Motom di Frua, la macchina da cucire Borletti di Zanuso, la poltrona Martingala dello stesso, la Lexicon di Nizzoli, oltre a numerose interessanti produzioni come i vetri di Poli, le stoffe Jsa, le ceramiche Ginori. Attorno a questa epoca (1956) ebbero inizio quelle competizioni istituite dalla Rinascente (Compasso d'oro) che videro premiati tra gli altri prodotti: il mulinello Atlantic dell'Alcedo, la serie di tegami di acciaio di Sambonet, un secchio di plastica di Menghi, numerosi oggetti di plastica della Kartell di Colombini, l'orologio Solari di Valle, Myer e Provinciali, i vasi di Vianello, i mobili di De Carlo, lo scaldaacqua di Rosselli, le lampade Arteluce di Sarfatti, l'aspirapolvere di Castiglioni, e recentissimamente: un televisore Brion-Vega di Zanuso, una macchina da caffè Cimbali dei fratelli Castiglioni, un tavolo di M. Bellini, un vaso portafiori di Sergio Asti, per non citare che alcuni degli oggetti più caratteristici. In un secondo tempo (1967) il Compasso d'oro venne affidato alle cure dell'Adi (Associazione per il disegno industriale) che ne assunse la gestione e l'organizzazione. Tra gli oggetti e i progetti premiati nelle ultime edizioni ricorderò: nel 1967, la macchina utensile Auctor (Olivetti) di Rodolfo Bonetto, la lampada Eclisse (Artemide) di Magistretti, il telefono Grillo (Siemens) di Zanuso, l'apparecchio ricevente (Phoebus) dei Castiglioni, la lampada Spider (O-Luce) di Joe Colombo, le ricerche di design di Enzo Mari; e nel 1970, l'elaboratore elettronico (GE) di Sottsass, la calcolatrice (Olivetti) di Mario Bellini, il Meteor (Orlandi) di Rosselli, la poltrona Soriana (Cassina) di A. e T. Scarpa, la produzione di Sambonet (per la Sambonet) l'apparecchio per microfilm (BCM) di Bonetto. Non sarebbe, ovviamente, possibile un'elencazione, neppure approssimativa, di tutti gli oggetti d'un certo rilievo prodotti negli ultimi anni in Italia e all'estero. È anzi opportuno, fare, a questo punto, un rilievo essenziale riguardo le attuali condizioni del design internazionale. Mentre negli anni immediatamente successivi alla guerra era possibile identificare e selezionare con una certa facilità i
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pochi esemplari degni d'essere considerati significativi dal punto di vista sia tecnico che estetico; oggi, l'aumento vertiginoso dei prodotti, dovuto in buona parte all'indirizzo consumistico che ha assunto la nostra civiltà, specie nei paesi dell'Occidente capitalistico, ha fatto sì che nella marea degli oggetti sfornati in continuazione, sia sempre più difficile compiere una selezione. Da un lato il livello medio del design si è indubbiamente elevato; dall'altro è venuta a far difetto una ricerca meditata e precisa. Molto spesso la stessa coscienza dellʼeffimericità dei prodotti induce il designer a sbizzarrirsi in progetti la cui validità è dubbia dal punto di vista tecnologico ed economico, ma è efficace dal punto di vista pubblicitario e quindi dello smercio. Una globale tendenza verso l'aspetto «informale», ad esempio, ha colpito il settore del mobile, mentre in altri settori la miniaturizzazione ha di per sé portato alla scomparsa dell'oggetto. Assistiamo dunque a quella che è stata spesso definita come «crisi dell'oggetto». Crisi, del resto, che va di pari passo con quella in atto nel settore dell'architettura. Senza volere né potere far previsioni che sarebbero azzardate, ritengo che questo periodo di crisi possa essere superato soltanto attraverso profonde trasformazioni del sistema economicosociale oggi in atto.
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