Insieme Per Amore (the Club Ser - Lauren Rowe
May 3, 2017 | Author: Ilaria Lacasella | Category: N/A
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romance...
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1107
Titolo originale: The Redemption Copyright © 2015 by Lauren Rowe Traduzione dall’inglese di Cecilia Pirovano Prima edizione ebook: febbraio 2016 © 2016 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-8937-9 www.newtoncompton.com Realizzazione a cura di Librofficina
Lauren Rowe
Insieme per amore The Club Series
Capitolo uno
Jonas
Voglio tenerla tra le mie braccia, ma me la strappano via. Incespico all’indietro, con gli occhi sgranati. Abbasso lo sguardo sulla mia maglietta. È intrisa del suo sangue. C’è tantissimo sangue. È dappertutto. «Non ha battito», dice un uomo, tastandole il polso. Sposta le dita sul collo. «Niente». Aggrotta la fronte. «Maledizione. Le hanno reciso la carotide di netto. Per essere sicuri…
Dio». Scuote la testa. «Che razza di animale…», commenta l’altro, ma poi si zittisce e mi lancia un’occhiata. «Fallo uscire da qui. Non dovrebbe vedere». Questi due uomini indossano un’uniforme come quella dei pompieri… ma secondo me non sono pompieri, perché non c’è nessun incendio. «Il corpo è già freddo. Direi quindici, venti minuti buoni». «Ti amo, mamma», le ho detto. Ma lei non mi ha risposto. È stata la prima volta che è successo. Quando glielo dico, lei dovrebbe rispondere: «Ti amo anch’io, bambino mio. Mio prezioso bambino». È così che mi dice sempre.
«Ti amo, bambino mio. Mio prezioso bambino». Perché stavolta non l’ha fatto? E perché non mi guarda? Tiene lo sguardo fisso fuori dalla finestra. Allora guardo anch’io fuori dalla finestra. Davanti casa c’è un’ambulanza. La sirena lampeggia ma non suona. Ne sento alcune in lontananza, però. Si stanno avvicinando. Di solito mi piace sentire le sirene, soprattutto quando si avvicinano. Mi piace quando una macchina della polizia insegue un cattivo o un grosso camion rosso dei pompieri ci supera sfrecciando. La mamma dice che se senti una sirena devi accostare. «Eccoli che vanno a salvare la situazione!», canticchia sempre
quando passano. Ma oggi no. Oggi non mi piace sentire le sirene. Vado in un angolo della stanza. Mi siedo per terra e ondeggio avanti e indietro. Le ho detto che la amo, ma lei non mi ha risposto. E adesso non mi guarda nemmeno. Fissa fuori dalla finestra. Non sbatte neanche le palpebre. È furiosa con me perché non l’ho salvata. «È la tua mamma, ragazzino?», mi chiede il primo uomo, chino su di me. La mia voce non funziona. “Sì, è la mia mamma”. «C’era qualcun altro in casa oltre a voi due?». “Volevo stare da solo con lei. La
volevo tutta per me. Volevo far sparire il dolore. Sono stato cattivo”. «Siamo qui per aiutarti, piccolo. Non ti faremo del male. Siamo paramedici. Sta arrivando anche la polizia». Deglutisco a fatica. “Sono rimasto nell’armadio perché pensavo di usare le mie mani magiche quando quell’omone se ne sarebbe andato via, ma la magia non ha funzionato. Non so perché. Sono stato cattivo”. «Come ti chiami, piccolo?» «Portalo via di qui», ripete l’altro uomo. «Non dovrebbe vedere». Con un cenno della mano, il paramedico chino su di me zittisce il
collega. «Sei sporco di sangue, ragazzino», dice piano. «Devo assicurarmi che non sia tuo. Qualcuno ti ha fatto del male?». Mi prende una mano, ma io la libero con uno strattone e corro da lei. Mi butto sul suo corpo. Non mi interessa se mi sporco ancora di più di sangue. La stringo con tutta la forza che ho. Non possono costringermi a lasciarla. Magari, se mi impegno, le mie mani magiche ricominceranno a funzionare; magari prima non mi sono adoperato abbastanza. E magari, se la mia magia ricomincerà a funzionare, lei la smetterà di guardare fuori dalla finestra. Magari se le ripeto tante volte «Ti amo,
mamma», la magia funzionerà ancora e lei finalmente sbatterà di nuovo le palpebre e mi dirà: «Ti amo anch’io, bambino mio. Mio prezioso bambino». Sono sdraiato nel mio letto, con le lenzuola con le palle da baseball. Josh è in quello di fianco al mio, con le lenzuola con i palloni da calcio. Di solito fa una scenata se non gli danno quelle con le palle da baseball, ma questa volta me le ha lasciate senza storie. «Puoi averle tu ogni notte, se vuoi», ha detto. «D’ora in avanti, puoi scegliere tu per primo». Una settimana fa, sarei stato contento di questa faccenda. Ma adesso non mi
interessa più. Non mi interessa più niente. Non mi interessa più nemmeno parlare. È passata una settimana da quando la mamma se n’è andata per sempre e da allora io non ho detto una sola parola. Le ultime uscite dalla mia bocca sono state: «Ti amo, mamma», mentre la abbracciavo, la baciavo e la toccavo con le mie mani magiche che non sono più magiche; allora ho deciso che quelle sarebbero state le ultime che avrei mai pronunciato. Anche quando il poliziotto mi ha chiesto com’era quell’omone, io non ho detto niente. Anche quando ho sentito papà che piangeva nel suo studio, io non ho detto niente. Anche quando ho sognato
l’omone che accoltellava la mamma e mi inseguiva, io non ho detto niente. Anche quando ieri sera papà ha affermato che la polizia ha scoperto che è stato il fidanzato della sorella di Mariela a far andare via per sempre la mamma, e l’ho sentito aggiungere al telefono allo zio William: «Lo ammazzo quel figlio di puttana», io non ho detto niente. Mi metto a sedere. Sento la voce di Mariela al piano di sotto, all’ingresso. So che viene da lì perché rimbomba forte e quello è l’unico posto in tutta la casa in cui le voci diventano grosse e risuonano così tanto, soprattutto una dolce come quella di Mariela.
Guardo Josh. Dorme profondamente. Dovrei svegliarlo per salutare Mariela? No, Mariela è mia. Sono io che me ne sto seduto in cucina a parlarle mentre lei ci prepara piatti venezuelani. Sono io che la aiuto a lavare le pentole e la ascolto cantare le sue belle canzoni in spagnolo. Mi piace quando immerge le mani nell’acqua con il detersivo e poi le tira fuori e la sua pelle scura, bagnata e lucida mi ricorda il caramello sul gelato. Mariela ha una pelle così morbida, liscia e bella che a volte, quando canta, io le tocco il braccio con le punte delle dita, chiudo gli occhi e glielo accarezzo piano. Anche i suoi occhi sono belli, color cioccolato. Mi
piace vederli brillare quando mi passa una pentola da asciugare o quando canta per me. «Señor, por favor!», strilla Mariela al piano di sotto. Salto fuori dal letto ed esco di corsa dalla mia stanza. È la prima volta che mi alzo dal letto da quando la mamma se n’è andata per sempre. Ho le gambe rigide e indolenzite. Mi fa male la testa. Mi ero prefisso di non scendere più dal letto, ma voglio vedere la mia Mariela. Anche se ho fatto quella promessa, magari posso darmi una nuova regola per cui mi è permesso alzarmi solo per vedere lei. Mi lancio sulle scale il più in fretta possibile. Non vedo l’ora di
sentire la sua voce che mi chiama Jonasito o mi canta una delle sue belle canzoni. Ma poi sento mio padre e mi blocco a metà scala. «Vattene», le dice, con voce cattiva. «Altrimenti chiamo la polizia». «No, señor! Por favor», grida lei. «Dios bendiga a la señora. Por favor, déjeme ver a mis bebes. Los quiero». Mi lasci vedere i miei bambini. Gli voglio bene. «Sei stata tu a dire a quel figlio di puttana che saremmo andati alla partita… È come se l’avessi uccisa tu». Mariela strilla fortissimo. «No, señor! Ay, Dios mio, señor. No sabía! Lo juro
por Dios». Si sforza di usare l’inglese. «La prego, señor. Voglio bene ai bambini, son como mis hijos». Sono come figli miei. «Señor, por favor. Esta es mi familia». È la mia famiglia. «Vattene», urla papà. «Togliti dal cazzo». Quando papà ha la voce così arrabbiata, soprattutto quando grida contro la mamma o Mariela, è meglio stargli alla larga. Ma non mi interessa. Voglio vedere la mia Mariela. Arrivo in fondo alle scale, attraverso l’ingresso e vado dritto tra le sue braccia. Non appena mi vede, lei si lascia scappare un urletto e mi abbraccia. Mi
stringe così forte che non riesco a respirare. Per la prima volta da quando la mamma se n’è andata, parlo. «Te quiero, Mariela». Ho la voce stridula. «Ay, mi hijo», dice lei. «Pobrecito, Jonasito. Te quiero». Volevo che le mie ultime parole fossero: «Ti amo, mamma», ma parlare in spagnolo con Mariela non conta come parlare, anche se le dico che la amo, perché lo spagnolo non è vero. È solo la lingua segreta che uso con lei, per gioco. Nemmeno papà capisce la nostra lingua segreta e lui è l’uomo più intelligente del mondo, quindi, anche se parlo con Mariela, anche se le dico che la amo – in spagnolo però – non infrango mica la
mia regola. Mio padre strilla a Mariela di andarsene. Io le afferro la gonna. «No me dejes, Mariela». Non lasciarmi. «Te quiero, Jonasito». Mariela piange tantissimo. «Te quiero siempre, pobrecito bebe». Ti amerò per sempre. «No me dejes, Mariela». «Mariela?». È Josh. Deve aver sentito la sua voce e si è svegliato. Corre ad abbracciarla. Lei si inginocchia e lo cinge con un braccio, mentre io le stringo le spalle. «Te quiero», dice a Josh. «Te quiero, bebe». Josh capisce la mia lingua segreta con
Mariela, ma non la parla tanto bene. «Ti amo anch’io», dice tra le lacrime. «È ora di andare», dice papà a Mariela, e prende il telefono. «Chiamo la polizia». Scossa dalle lacrime, Mariela prende il viso di Josh tra le mani (e la cosa mi fa arrabbiare un po’ perché vorrei che lo facesse a me). «Cuida a su hermanito», gli dice. «Sabes que él es lo sensitivo». Prenditi cura di tuo fratello. Lo sai che è più sensibile. «Okay, Mariela», dice Josh. «Lo farò». «Te quiero, Mariela», dico io, aggrappato alla sua gonna. «No me dejes».
«Oh, Jonasito», dice lei. «Te quiero, bebe». Fa per abbracciarmi, ma mio padre la strappa via da me e la trascina alla porta. Io lo imploro di farla restare con me. Urlo il suo nome. Le dico che la amo. Piango. Ma nonostante tutto quello che dico e faccio, papà manda via la mia Mariela per sempre.
Capitolo due
Jonas
È così pallida. «Pressione novanta su cinquanta», dice uno dei paramedici. Le stanno tutti intorno e mi tagliano fuori. Nel retro dell’ambulanza c’è poco spazio, quindi me ne sto seduto ai suoi piedi e le stringo una caviglia. «Come si chiama?», mi chiede l’uomo. Vedo la sua bocca che si muove e sento le sue parole, ma non riesco a parlare. Ho promesso di proteggerla. Le
ho promesso che non avrei mai permesso che le succedesse qualcosa. E invece me ne stavo seduto in quell’aula ad ascoltare la cazzo di musica sul portatile mentre lei era in bagno a combattere per la propria vita. Sto tremando. Un paramedico le preme qualcosa sul collo e dietro la testa, mentre un altro fa lo stesso sul costato. Le hanno attaccato una flebo. «Come si chiama?», mi chiede di nuovo. Vorrei rispondergli, ma la mia voce non funziona. «Quanti anni ha?». Deglutisco a fatica. Non permetterò ai
chiari di luna di prendere di nuovo il sopravvento. Ora sono più forte. Sono diverso. Sarah ha bisogno di me. «Sarah Cruz. Ha ventiquattro anni». Lei geme e apre gli occhi. Il paramedico si sposta e io mi sporgo verso di lei, con il viso a pochi centimetri dal suo. Ha gli occhi spalancati, impauriti. Le scende una lacrima che le scorre lungo la tempia. «Jonas?», mi chiama. Parla in un sussurro lievissimo ma, a quell’unica parola a malapena udibile, la mia mente in bilico si allontana dall’orlo del baratro e va verso la luce, verso Sarah, verso la mia preziosa bambina. A
quell’unica, debole parola, i chiari di luna si ritraggono in tutta fretta, come uno scarafaggio quando si accende la luce in cucina. A quell’unica parola di Sarah, la mia mente torna lucida. «Sono qui, piccola. Stiamo andando in ospedale. Andrà tutto bene». «La lezione inizia tra cinque minuti», dice lei. «Devo andare». «Sai come ti chiami?», le chiede l’uomo. Lei lo guarda con occhi assenti. «Jonas?» «Sono qui». «Stia indietro, signore». Ubbidisco. «Sono qui, piccola. Lasciali lavorare». Reprimo un
singhiozzo. «Sai come ti chiami?», riprova il paramedico. Lei sgrana gli occhi. «Sai come ti chiami?». Non risponde. È pallida. Sento il cuore che mi batte con violenza contro la gabbia toracica. «Sai che giorno è oggi?», chiede ancora il paramedico. «C’è diritto costituzionale». «Sai dove ti trovi?» «Chi sei tu?», chiede lei. «Sono Michael, un paramedico. Ti stiamo portando in ospedale. Ti ricordi cos’è successo?». Sarah geme. «La lezione inizia tra
cinque minuti. Lasciami andare». È legata alla barella. «Sta’ ferma, Sarah. Sei ferita. Devi stare ferma. Stiamo andando in ospedale. Digli come ti chiami». Lei mi guarda con aria assente. «Jonas?» «Sono qui, piccola». Scoppia in lacrime. «Non lasciarmi». «Non ti lascerò mai. Sono qui». Reprimo un altro singhiozzo. Ho promesso di proteggerla. Ho promesso che non le sarebbe successo nulla di male. «Non ti lascerò mai, piccola. Te lo prometto». L’ambulanza si ferma e il portellone posteriore si apre.
Alcuni dottori si accalcano intorno a lei e la portano via. Corro dietro alla barella lungo il corridoio ma poi qualcuno mi blocca fuori da una porta. «Come si chiama?» «Sarah Cruz». «Età?» «Ventiquattro». «È allergica a qualche farmaco?» «Non me ne ha mai parlato». «Sa se ha preso qualche farmaco oggi? Qualsiasi cosa?». Scuoto la testa. «Niente». «Soffre di qualche patologia?». Scuoto di nuovo la testa. «No». «Lei è il marito?». Tremo tutto. «Sì».
Cinque minuti – o cinque ore? – più tardi, finalmente un tizio mi si avvicina in sala d’attesa. «Stiamo facendo degli esami», mi dice. Indossa un camice e abbassa lo sguardo sulla mia maglietta. Lo imito. Sono imbrattato di sangue. «È ferito?». Scuoto la testa. «È il sangue della ragazza?». Annuisco. «Ora è cosciente e parla. Lei è Jonas?». Annuisco. «Continua a chiedere di lei». Mi rivolge un sorriso comprensivo. «Non appena sarà possibile, potrà tornare a
stringerle la mano. Aspetti qui. Stiamo facendo degli esami per determinare la gravità delle ferite». Annuisco di nuovo. «Aspetti qui». Il dottore si allontana e io mi risiedo. Sto tremando. La mia mente non mi appartiene più. Più resto qui seduto, più sfreccia nello spazio. Ho promesso di tenerla al sicuro e ho fallito. Sto perdendo la ragione. Ho bisogno di Josh. Faccio per prendere il telefono dalla tasca ma non c’è. Dov’è? Non so il numero di Josh a memoria. Quando voglio parlargli, mi basta premere il tasto con il suo nome. La mia mente non mi appartiene più:
avanza nello spazio a zig-zag, ondeggia e sbanda, facendo del proprio meglio per allontanarsi dai chiari di luna. E sta fallendo miseramente.
Capitolo tre
Jonas
«Ti va di arrampicarti sull’albero?», mi chiede Josh. Io non rispondo, come al solito. Non ho più parlato da quando la mamma se n’è andata due mesi fa; nemmeno quando mi hanno mandato in quel brutto posto dopo che papà ha cacciato via Mariela. Non voglio più tornarci in quel brutto posto: mi mancavano Josh, la mamma, Mariela, papà e il mio letto morbido, e volevo solo tornare a casa. E quei
dottori pensavano solo a farmi parlare di nuovo, anche se io non posso più farlo. Per tutto il tempo che sono stato in quel brutto posto ho sempre saputo che, se avessi fatto come volevano, se avessi detto qualsiasi cosa, mi avrebbero lasciato tornare a casa con Josh e papà. Ma non capivano che la mia bocca non può più dire niente, non da quando ho detto: «Ti amo, mamma», e lei non mi ha risposto. «Andiamo ad arrampicarci sull’albero come facevamo sempre», dice Josh. Quando ancora la mamma viveva a casa con noi, io e Josh ci arrampicavamo sul grande albero tutti i
giorni, ma adesso che lei non c’è più non mi interessa arrampicarmi. Non mi interessa più niente. Vorrei solo andare in paradiso con lei. «Su», dice Josh, poi mi prende per mano e mi fa alzare dal letto. Vedendo che resto lì in piedi e non torno sotto le coperte, lui sorride e mi prende di nuovo per mano e mi trascina di sotto, attraverso la cucina, fuori dalla porta sul retro, in cortile, oltre il prato e fino al grande albero. «Dai, Jonas», mi dice. «Arrampichiamoci». Lui si mette all’opera, ma io resto ai piedi dell’albero e lo osservo per un paio di minuti. È molto più lento di me e
sta sbagliando tutto. Oddio, vederlo arrampicarsi come un pesce è una tortura. La mamma diceva sempre: «Se giudichi un pesce da come si arrampica su un albero, sarà sempre un disastro. E allora perché non lo facciamo nuotare, quel povero pesciolino?». Be’, mi spiace ma è vero: Josh è un pesce del cavolo che cerca di salire su un albero. E allora mi arrampico anch’io, ma solo perché non ce la faccio più a guardare Josh il Pesce. Lo supero in men che non si dica e, una volta salito fino al punto più alto a cui è possibile arrivare, mi siedo ad aspettarlo e osservo il cielo. Quando finalmente mi raggiunge, Josh si siede e
alza lo sguardo anche lui. Non so a cosa stia pensando, ma io nella mente mi immagino delle figure con le soffici nuvole bianche. «Sai cosa ho capito?», mi dice. Non rispondo. «Di giorno la mamma fluttua tra le nuvole, mentre di notte è tra le stelle. Quando vedi una stella che brilla, è lei che ci fa l’occhiolino e ci dice che è ora di andare a dormire». Non voglio parlarne e quindi comincio a scendere. Pensavo che le mie mani magiche avrebbero guarito la mamma, ma non hanno funzionato. Quasi ogni notte da quando la mamma se n’è andata, sogno l’omone con il culo
peloso che la accoltella. A volte sogno che insegue anche me. Una volta, dopo il solito incubo, mi sono svegliato e mi sono ritrovato tra le braccia di Mariela che mi cantava una canzone in spagnolo, e mi sono messo a piangere a dirotto perché ero contentissimo di vederla, dato che mi mancava così tanto. Ma poi mi sono svegliato sul serio e Mariela non c’era. Non c’era nessuno oltre a quello stupido di Josh, che dormiva nel letto di fianco al mio e sbavava. Niente mamma. Niente Mariela. Solo Josh con il mento coperto di saliva. Continuo a scendere dall’albero. Le mie mani magiche non hanno funzionato. E non capisco come mai.
Sento mio fratello che scende dietro di me, senza smettere di parlare della mamma. Ma io non voglio parlare mai più di lei, nemmeno con Josh. Mi fa pensare al sangue, così tanto che sembrava un oceano, e al culo di quell’uomo quando si è abbassato i pantaloni. Mi fa pensare all’espressione spaventata della mamma; però io non sono uscito dall’armadio per aiutarla. Perché sono stato cattivo. Josh balza a terra sull’erba accanto a me. «Prendiamo il pallone e facciamo qualche tiro», dice. Mi afferra la mano e fa per tirarmi verso il capanno dove teniamo gli attrezzi sportivi.
La ritraggo. «Dai, Jonas», mi dice, ma io mi allontano a grandi passi. Mi segue. «Oppure possiamo fare qualche lancio a baseball, se vuoi… Possiamo fare tutto quello che vuoi. Scegli tu». Questa è nuova. Josh non mi lascia scegliere mai. Di solito è così prepotente. In realtà, mi andrebbe di scegliere, ma continuo comunque ad allontanarmi. Di punto in bianco, Josh mi placca. Cado sull’erba e lui si mette a cavalcioni su di me e mi prende a pugni nella pancia e poi sul braccio e in faccia. Io non rispondo ai suoi colpi. Voglio che mi picchi. Tutti dovrebbero
picchiarmi. Sono stato cattivo. È colpa mia se la mamma se n’è andata. Forse, se mi picchia abbastanza forte, andrò in paradiso con lei. Non voglio più stare qui. Voglio stare con la mamma. «Perché non mi picchi anche tu?», chiede Josh. «Forza!», grida. Io resto sdraiato e mi lascio colpire. Mi metto a piangere, e anche Josh. Piange e mi picchia, mentre io piango e mi lascio picchiare. Dopo un minuto, la smette. Resta seduto sopra di me, con il fiatone e il viso rigato di lacrime e moccio. Non mi muovo. Vorrei che mi picchiasse ancora. Ci fissiamo l’un l’altro. Non sappiamo
che fare. È strano. Piangiamo tutti e due a dirotto. Josh inspira a fondo e si dà uno schiaffo da solo. Molto forte. Anche se sto piangendo, mi concedo un sorriso. Perché l’ha fatto? Che cosa stupida. Vedendo me, anche Josh fa un gran sorriso. È la prima volta che sorrido da quando la mamma se n’è andata. Lui si dà un altro schiaffo, persino più forte del primo, e io scoppio a ridere. «Se non mi picchi tu, dovrò pensarci io al posto tuo», mi spiega. Mi do anch’io un forte schiaffo e ride anche lui. «Non ti fa sentire meglio, Jonas?».
Sì. Josh si sdraia sopra di me e fingiamo di fare la lotta, anche se in realtà ci abbracciamo e piangiamo insieme a lungo. «Cosa diavolo state facendo?». È nostro padre. «Alzatevi». Oddio, conosco questo tono. È la voce di quando siamo in guai grossi. Ci tiriamo su in fretta e ci asciughiamo gli occhi. «Cosa diavolo sta succedendo? Esco e mi ritrovo davanti questa scena… Voi due che vi rotolate nell’erba insieme e piangete come due femminucce…». Ragazzi, siamo proprio in guai grossi. Per un minuto, papà si nasconde il viso
tra le mani. Ha un’aria così triste. «Se volete piangere, va bene, ma non potete farlo dove tutti possono vedervi, e soprattutto non potete farlo vicino a me. Capisco che a volte abbiate bisogno di piangere, ma non voglio vedervi quando capita, ragazzi. Faccio del mio meglio per alzarmi ogni giorno e non posso avere intorno nessuno, nemmeno voi due, che non riesca a mantenere la calma. È ora che noi tre ci riprendiamo e la smettiamo di cazzeggiare». Scuote la testa e gli sfugge uno strano lamento. «Se avete bisogno di parlare di come vi sentite e di farvi un bel pianto, allora vi manderò da uno strizzacervelli e potrete farlo in una stanza chiusa fino a
diventare paonazzi. Ma quando siete a casa e con me, d’ora in avanti, voi due comincerete a comportarvi come due uomini. Avete capito?» «Sì, signore», risponde Josh. Fisso mio padre, ma non rispondo. Voglio la mamma. Lui mi fulmina con lo sguardo. «Jonas Patrick, ne ho abbastanza di te. Finora ho avuto pazienza perché pensavo che dovessi sfogarti, ma adesso il tempo è scaduto. È ora che tu la smetta di perdere tempo e ricominci a parlare. Pensi di essere l’unico a cui sembra che il mondo gli stia crollando addosso?». La sua voce mi fa ridere, è come se stesse per piangere. «Tua madre era una
santa, cazzo. Mi ha salvato. E adesso che non c’è più, chi mi salverà?». Io e Josh ci scambiamo un’occhiata. Non sappiamo cosa voglia dire. «Perché, tanto per cambiare, non pensi a come si sentono gli altri, eh? Non sei mica l’unico che vorrebbe sdraiarsi e morire. Forse dovresti piantarla e riflettere su come possano sentirsi gli altri, soprattutto visto che sei tu il motivo per cui lei era a casa. Se non fosse stato per te…». Papà mi guarda con espressione cattiva e poi si allontana a grandi passi. Corro il più veloce possibile verso l’albero, e questa volta mi arrampico più su che mai, più di quanto mi
permetta la mamma, fino al ramo più alto, quello che secondo lei potrebbe rompersi se ci salgo sopra. Ma non mi interessa se si rompe. Forse è proprio quello che voglio. Una volta in cima, allungo le mani sopra la testa e cerco con tutto me stesso di toccare le nuvole. Ma per arrivare alla mamma non basta nemmeno il ramo più alto. La prossima volta che mi arrampico devo portare una scala. Anzi, meglio ancora, dovrei scalare una montagna. Ma sì, al diavolo questo stupido albero: scalerò una montagna, la più alta del mondo. E poi arriverò fin sulla vetta e allungherò le mani e toccherò le nuvole e la mamma si
sporgerà e mi tirerà su con lei. E poi ci sdraieremo insieme sulla sua nuvola come sull’amaca blu nella casa al lago dello zio William e la mamma mi sorriderà, mi bacerà su tutta la faccia come fa ogni volta, e staremo insieme per sempre.
Capitolo quattro
Jonas
Mentre aspetto notizie dal dottore, il mio cervello delirante salta da un pensiero bizzarro all’altro. Le ginocchia mi tremano da pazzi. Non riesco a fermarle. Ho idee folli, mi tornano in mente cose che non ricordavo da anni e anni. Forse sto avendo di nuovo un crollo nervoso. Perché il dottore non viene a dirmi cosa sta succedendo? Abbasso lo sguardo. Ho la maglietta inzuppata del sangue di Sarah e allora
vado in bagno per darmi una ripulita. Ho la forte sensazione di aver già vissuto questo momento, vedendo il sangue che sparisce nello scarico del lavandino. Anche il braccialetto che porto al polso, uguale a quello di Sarah, ne è intriso. Resto impietrito per un minuto, nel tentativo di capire cosa fare. Non voglio togliermelo, ma per la mia salute mentale non posso avere addosso il suo sangue. Me lo sfilo e lo passo sotto l’acqua. È inutile. Con mano tremante, me lo metto in tasca. Strizzo la maglietta bagnata per eliminare il sangue ma è una causa persa, quindi la butto nel cestino della
spazzatura ed esco dal bagno a torso nudo. Il negozio di souvenir dell’ospedale è poco più avanti in questo corridoio. Magari vendono delle magliette per i famigliari bloccati in ospedale per lunghi periodi. Supero un’infermiera, a cui sfugge un mezzo guaito. Incrocio le braccia sul petto nudo e lei distoglie lo sguardo, tutta rossa in viso. La fisso con aria assente. In questo momento la mia mente non riesce a concepire un’interazione con altri esseri umani. Sì. Nel negozio vendono delle magliette della squadra di football dei Seattle Seahawks. Una scelta del tutto illogica, data la situazione. Ma d’altra
parte mi serve un capo pulito. Torno in sala d’attesa con indosso la mia maglietta nuova e mi metto su una sedia in un angolo. Aspetto. Cazzo, ho il peggior mal di testa del mondo. No, non è vero. Sarah ha il peggior mal di testa del mondo, non io. A questo pensiero mi vengono le lacrime agli occhi, ma le ricaccio indietro. Nella mente continuo a vedere immagini di Sarah con gli occhi azzurri privi di vita, i polsi legati e il petto squarciato da innumerevoli ferite sanguinanti. Che cazzo. È ufficiale: sto impazzendo. Arrivano alcuni compagni di Sarah del corso di diritto costituzionale e,
vedendomi, sciamano subito verso di me e mi chiedono come sta. «Cos’ha detto il dottore? Come fai a resistere?». Hanno portato il suo computer e il mio, i suoi libri, la sua borsa e il mio telefono. Gli sono così grato che potrei mettermi a piangere. Non tanto per queste cose, non me ne frega un cazzo degli oggetti in sé, ma è bello sapere che non sono solo. Li ringrazio dal profondo del cuore e mi allontano subito per chiamare Josh. Quando sento la sua voce, crollo. Non riesco a trattenermi. «Ehi, andrà tutto bene», mi dice. «Inspira profondamente». Ubbidisco.
«Salto subito su un aereo, Jonas. Aspetta lì. Non fare niente di stupido». «Non lo farò. Ma sbrigati. Non riesco a pensare, Josh. Ho in mente un sacco di stronzate». «Arrivo. Tu fa’ le tue visualizzazioni intanto, fratello. Respira e sta’ calmo». «Okay. Sbrigati». Josh dice che chiamerà Kat per dirle di avvisare la madre di Sarah. Oh, merda. La madre di Sarah. Non è così che immaginavo di incontrarla per la prima volta. «Oh, salve, signora Cruz, che piacere conoscerla. Scusi, oggi ho quasi fatto uccidere sua figlia». Cazzo. È tutta colpa mia. Di nuovo. Sono un cancro. Tutto quello che tocco diventa
sangue. Torno in sala d’attesa e sento il cuore in gola. Il dottore è lì in piedi e si guarda intorno. Non appena mi vede, punta dritto verso di me, ma io sono paralizzato. Non riesco a respirare. Mi stringo il petto. Non riesco a pensare. Non posso perderla. Non sopravvivrei senza di lei. Se lei muore, nemmeno tutti i respiri profondi e le visualizzazioni del mondo basteranno a salvarmi. Il dottore inizia a parlare e vedo muoversi la sua bocca. Dice che gli dispiace, gli dispiace tantissimo, ma non hanno potuto fare niente. Lei non c’è più. No, alt: non è quello che sta dicendo. È quello che io
mi aspetto che dica. Se le mie orecchie funzionano ancora e non sono impazzito, se non sono completamente schizzato, se non mi sto immaginando le parole che escono dalla sua bocca, sta dicendo che Sarah si rimetterà, e in fretta. Non riesco a crederci. Sto avendo delle allucinazioni? O un nuovo crollo psicologico? «…e se durante la notte i suoi segni vitali resteranno buoni, domani la dimetteremo», conclude. Non riesco a credere alle mie orecchie. Con il sangue sul pavimento, non è mai andata a finire così per me. «Domani?», ripeto, incredulo. «Ma c’era così tanto sangue». Mi cedono le
gambe. Il dottore mi afferra per un braccio e mi porta a una sedia. «Vuole dell’acqua?», mi chiede. Scuoto la testa. «Ma c’era così tanto sangue». Forse sto immaginando tutto, non ne sono ancora certo. «Sì, ne ha perso molto. Il coltello ha lacerato la vena giugulare esterna. È quella sul lato del collo che si gonfia quando si trattiene il respiro». Per dimostrarmelo, si tocca un punto preciso sul collo. «Come ha potuto vedere, quando viene recisa, la giugulare esterna sanguina da pazzi. Il paziente corre il serio rischio di morire dissanguato se non si applica subito una certa
pressione, come per fortuna è stato fatto per la ragazza. Abbiamo fatto degli accertamenti e la carotide, la trachea e l’esofago non risultano coinvolti. Ha solo quel graffio alla giugulare. Nonostante il sangue però, la ferita era piuttosto superficiale ed è bastato richiuderla con qualche punto». Aspetto ancora la brutta notizia. «E il resto del corpo?». Sento il cuore al galoppo nel petto e mi faccio coraggio. «A quanto pare, è caduta all’indietro e ha sbattuto la testa contro qualcosa di duro…». «Il lavabo, in bagno. Il bordo era sporco di sangue». «Sì, è coerente con la ferita. Si è presa
una gran botta alla nuca, che le ha provocato una bella lacerazione e una lieve commozione cerebrale. Per i prossimi due giorni avrà un mal di testa coi fiocchi, ma si rimetterà. Questo tipo di lacerazione sanguina molto, come ha visto, ma anche in questo caso, non è letale se si applica subito una pressione, com’è accaduto. Tra la ferita alla giugulare e quella alla testa le sarà sembrata una scena uscita da Carrie, ma ora l’abbiamo rimessa in sesto e si riprenderà». «Avrà bisogno di un’operazione?». Sorride. «No. Abbiamo ricucito la lacerazione in testa con dei punti metallici e la coltellata al petto non ha
interessato i principali vasi sanguigni né le vie respiratorie, il cuore o i polmoni. È stata davvero fortunata. Abbiamo ricucito anche quella e se la caverà. Se passerà bene la notte, i segni vitali resteranno stabili e non ci saranno segni di infezione, la dimetteremo domani. Dovrà restare a riposo assoluto a letto per due o tre giorni, dopodiché, direi nel giro di una settimana, tornerà quasi come prima». Sono euforico, scioccato, incredulo. «In ambulanza era molto confusa», dico. «Ha…», quasi non riesco nemmeno a finire la frase, «ha dei danni cerebrali?» «La TAC è negativa. Poteva essere confusa per lo shock o per il colpo, o
probabilmente un po’ per tutti e due. È piuttosto comune dopo un trauma. Ora è abbastanza lucida comunque. È appena entrato un agente per parlare con lei». Mi concedo il sospiro più lungo di tutta la mia vita. «Posso vederla adesso?» «Non appena avrà finito con l’agente, verremo a chiamarla per portarla da lei». Tremo per il sollievo e il dottore mi guarda con espressione comprensiva. «Se la caverà», dice, stringendomi la spalla. «Grazie, dottore». Mi accascio sulla sedia, prendo la testa tra le mani e cerco di concentrarmi per fermare la spirale di
pensieri… ma è tutto inutile. La mia mente è un cavallo al galoppo che scappa dal fienile e non tornerà indietro fino a che non rivedrò la mia piccola con i miei occhi.
Capitolo cinque
Jonas
«Signorina Westbrook, Jonas può andare in bagno?», chiede Josh, con la mano alzata. Mi è bastato guardarlo in modo strano e lui ha capito subito cosa volevo. È da così tanto tempo che parla al posto mio che è come se fosse nel mio cervello. «Jonas potrebbe andare in bagno, per favore?», lo corregge la signorina Westbrook. «Jonas potrebbe andare in bagno, per
favore?», ripete. Lei mi guarda. «Devi andare alla toilette, Jonas?». Annuisco. Non so perché la signorina Westbrook si scomoda sempre a chiedermi conferma quando Josh parla al posto mio, visto che lui ha sempre ragione. Però non mi dà fastidio; mi piace quando lei mi parla. È carina. Davvero, davvero carina. Ha i capelli scuri lucentissimi. Quanto vorrei poterli toccare. E, quando parla alla classe, mi piace come sorride, anche mentre corregge qualcuno con «potrebbe» invece di «può» o riprende un bambino che chiacchiera con il
compagno di banco. Ovviamente non ha mai ripreso me perché chiacchiero con il mio compagno di banco. Non dico una parola da prima ancora di compiere otto anni, dal giorno in cui ne avevo sette e ho detto: «Ti amo, mamma», e lei non mi ha risposto. (Quella volta in cui ho parlato in spagnolo con Mariela non conta perché lo spagnolo non è vero). Quando torno dal bagno, stanno tutti compilando le schede con gli esercizi di matematica. Io li ho già finiti. In realtà, ho finito tutto il libro. Vado verso il mio banco, ma la signorina Westbrook mi chiama alla cattedra. «Jonas», mi dice sottovoce, con gli occhi scuri che luccicano. Oh ragazzi, la
signorina Westbrook ha degli occhi bellissimi. Sembrano quasi di cioccolato e, ogni volta che sorride, scintillano. «Avrei proprio bisogno di un aiutante per un’oretta tutti i pomeriggi», mi spiega. «Qualcuno che mi aiuti a preparare ciò che serve alla classe per il giorno dopo. Pensi di poter essere tu il mio aiutante?». Annuisco. Non ho bisogno di pensarci su. La signorina Westbrook mi rivolge un sorriso a trentadue denti, tanto bello che viene voglia di sorridere anche a me. «Meraviglioso», dice. «Quando la tata verrà a prenderti oggi, ne parlerò con lei. Magari può portare Josh a fare un
giretto dopo le lezioni tutti i giorni, mentre tu resti qui con me». Annuisco ancora. Sono eccitato. Dopo la scuola, proprio come aveva detto, la signorina Westbrook parla con la signora Jefferson della sua idea e, a sentirla, sembra che abbia davvero bisogno di me, come se le facessi proprio un grosso favore. Guardo la faccia della signora Jefferson cercando di capire cosa ne pensi, ma non ci riesco. Mi fa male la pancia per quanto lo desidero. «Il fatto è», dice la tata, «che Josh e Jonas hanno un appuntamento fisso dal dottore due volte a settimana dopo la scuola». Abbassa la voce. «Dal
terapista». A quelle ultime parole, Josh mi guarda spazientito, ma io sono troppo eccitato per questa cosa dell’aiutante della signorina Westbrook per fare attenzione a lui. Però sì, so cosa intende. Anch’io odio andare dal dottor Silverman. Quasi sempre. Quando andiamo da lui, non facciamo altro che colorare i disegni di uno stupido album sui sentimenti. Oppure leggiamo uno stupido libro, Parliamo dei sentimenti. “Parlare permette di buttare fuori tutto”, c’è scritto su una pagina. “Parlare di come ci sentiamo ci fa sentire meglio”, dice un’altra. “Un’altra persona può avere sentimenti diversi dai nostri e non c’è
niente di male”, spiega un’altra ancora. “Parlare non vuol dire che stiamo litigando”. Quest’ultima frase in particolare fa ridere Josh. «Parlare non vuol dire che stiamo litigando», dice sempre lui. «Significa che ti darò un pugno su quella tua stupida faccia del cavolo». Ogni volta che io e Josh andiamo dal dottor Silverman, è mio fratello a parlare per me. Be’, per me e per sé. Lui chiacchiera di tutto con il dottore: di cosa ha mangiato a colazione, del fatto che da grande vuole fare il giocatore di baseball, del sogno che ha fatto la notte prima, di qualsiasi cosa. A volte parla persino della mamma e di
quanto gli manca e vorrebbe che lei fosse qui con noi invece che tra le nuvole e le stelle. In quei momenti, Josh piange sempre, ma io no. Di qualsiasi cosa lui parli, anche della mamma, io me ne resto là seduto, a colorare quello stupido album e a sfogliare quel cavolo di libro. In generale, odio vedere il dottor Silverman tranne che per una cosa. Lui ci fa sempre sentire della musica bellissima, e mi sembra che la mia mente viaggi tra le nuvole o vada sulle montagne russe. A volte, per un po’ di tempo, quella musica mi fa persino dimenticare di essere triste. Il dottor Silverman dice che dovrei
ascoltarla ogni volta che provo troppi sentimenti. «La musica è come una finestra aperta per far uscire quello che provi», mi ha spiegato. E, quando me l’ha detto, mi è venuta la pelle d’oca sulle braccia. «La musica è come una finestra aperta per far uscire quello che provi». È stata la prima cosa che ha detto che mi è parsa completamente sensata. Da allora, ascolto spesso la musica, soprattutto quando mi viene voglia di sbattere la testa contro il muro. La musica mi calma e mi aiuta a pensare in modo lucido. Quindi, anche se odio quasi sempre andare nello studio del dottor Silverman, direi che non lo odio del tutto.
Dopo le nostre visite, Josh mi diceva sempre: «Non devi parlare se non vuoi, Jonas. Parlerò io per te per sempre, se vuoi». Ieri però, di punto in bianco, ha cercato di farmi ricominciare a parlare, proprio come fanno tutti. «Magari se dici qualcosa, anche solo qualcosina, papà non ci costringerà più ad andare dal dottor Silverman. Dai, Jonas, inventati qualcosa. Io lo faccio ogni cavolo di volta». All’inizio mi sono infuriato con lui, ma oggi ho capito come si sente. Dopotutto, non è lui ad aver bisogno della musica. Più ci penso, più sono convinto che Josh abbia ragione: se dicessi qualcosa, qualsiasi cosa, non dovremmo più
andare dal dottor Silverman. Ma quello che mio fratello non capisce, che nessuno capisce, è che io non posso più parlare. Perché parlare va contro le regole. E non posso farci niente, che mi piaccia o no. La signorina Westbrook continua a bisbigliare con la signora Jefferson, insistendo che le farei un grosso favore se diventassi il suo aiutante. Lo voglio così tanto che sento quasi esplodere la testa. Alla fine, la signora Jefferson annuisce e conclude: «Be’, fare un tentativo non nuocerà a nessuno». Arrivati a casa, la signora Jefferson ne parla con mio padre e, con mia grande sorpresa, lui dice che posso. «Josh non
ha più bisogno del dottor Silverman», dice mio padre. «E Jonas può smettere per un paio di settimane intanto che prova. Se non funziona però, Jonas tornerà dal dottor Silverman. O magari lo rimanderò direttamente in quella casa di cura, che diamine». Non appena sento che posso aiutare la signorina Westbrook, mi viene una gran voglia di gridare «Wow!» (ma ovviamente non lo faccio). Sono così eccitato all’idea di stare con lei tutti i giorni che non mi spavento nemmeno a sentir parlare della casa di cura. Più tardi quella sera, Josh si mette a saltare sul letto come se fosse un trampolino, e ride dicendo di essere
fortunato, mentre io sono uno stupido. «La signora Jefferson mi porterà a prendere il gelato tutti i pomeriggi, e invece tu te ne starai a scuola con la signorina Westbrook», dice. «Che idiota». Mi giro su un lato per non farmi vedere e sorrido, pensando a quanto è carina la signorina Westbrook e ai suoi occhi che scintillano quando mi sorride. Quello stupido di Josh può ridere di me quanto gli pare: preferisco di gran lunga passare un’ora con la signorina Westbrook che mangiare un cono gelato del cavolo ogni giorno della settimana.
Capitolo sei
Jonas
Il poliziotto esce e io entro nella stanza di Sarah. Tremo come una foglia. Riuscirà a guardarmi ancora negli occhi? Oppure non vorrà più avere niente a che fare con me? Mi blocco subito oltre la soglia, a malapena in grado di respirare. È così piccola. Ha la testa e il collo fasciati, come un soldato della Guerra civile. Indossa un camice, ma sono sicuro che abbia anche il petto bendato. Oddio, è
così pallida… ma, grazie al cielo, non come quando l’ho vista per terra in bagno. Non voglio più pensare a lei su quel pavimento. Mi mordo il labbro per reprimere un’improvvisa ondata di emozione. Il suo braccialetto è sparito. Devono averlo tagliato. Per un attimo, il significato del suo polso nudo minaccia di farmi perdere il controllo, ma resto forte. Ora sono un bestione, cazzo. Non sono più debole come una volta. «Forza Seahawks», dice lei, piano, con voce roca. Sono confuso. «Hai scelto un momento interessante per vantarti della tua squadra».
Abbasso lo sguardo. Oh sì, la mia nuova maglietta. Questa donna è tutta fasciata, ammaccata, è letteralmente appena scampata alla morte, eppure ha ancora abbastanza forze per farmi il culo. Dio, quanto la amo. Scoppio a ridere e a piangere allo stesso tempo e barcollo fino al suo capezzale. La abbraccio con cautela, per paura di romperla. Finora, non sono mai andato oltre un pavimento insanguinato. Un pavimento intriso di rosso ha sempre rappresentato la fine della vita di una persona e al tempo stesso della mia salute mentale. Con il finale della storia diverso dal solito, non so come reagire.
«Mi dispiace così tanto, Sarah», dico, posando un bacio leggero sulle sue labbra preziose. «Mi dispiace così tanto, piccola». «A me dispiace», mormora lei sulla mia bocca. La bacio ancora. «Non devi dispiacerti per nulla, stupidina». «Jonas». «Pensavo di averti perso», le dico, baciandole ogni centimetro del volto. «Oddio, piccola. Pensavo di averti perso». «Jonas», ripete lei, in un sussurro quasi impercettibile. «È tutta colpa mia. Mi dispiace tantissimo. Ho fatto un gran casino».
«Mi hai salvato la vita», mormora lei. Non so di cosa cazzo stia parlando. «Mi hai salvato la vita», ripete. La sua voce è un sussurro debolissimo. Cosa? Sono io che l’ho lasciata andare in quel bagno da sola. Cosa diavolo sta dicendo? Vorrei porle mille domande ma, prima che possa fargliene anche solo una, la madre di Sarah irrompe nella stanza e, tra singhiozzi e gemiti, si impossessa della figlia in un improvviso turbine di spagnolo a raffica e lacrime isteriche. «In inglese, mamma», sussurra Sarah. «C’è Jonas». In realtà capisco lo spagnolo abbastanza bene, ma la signora Cruz
parla così in fretta che non distinguo una sola parola. «Jonas», dice la donna, e mi abbraccia vigorosamente. Mi vergogno così tanto per aver permesso che sua figlia fosse ferita, che non riesco nemmeno a guardarla negli occhi. «Sarah mi ha raccontato tante cose su di te, Jonas». La signora Cruz mi dà un buffetto sulla guancia. «Grazie mille per la donazione. È arrivata stamattina… dieci volte di più della più grande che avessimo mai ricevuto. Ho cercato di chiamare Sarah per farmi dare il tuo numero e ringraziarti, ma lei non rispondeva al cellulare…». Guarda la
figlia e scoppia in lacrime. Sarah mi guarda strizzando gli occhi. È la prima volta che sente parlare della mia donazione all’associazione di sua madre. Incapace di controllare le lacrime, la signora Cruz si china sulla figlia. «Qué pasó, mi hijita?» «In inglese, mamma», ripete piano Sarah. «Un tizio mi ha aggredito con un coltello in bagno a scuola». La signora Cruz si lascia sfuggire un singhiozzo di dolore. «Chi? Perché?» «Non lo conoscevo. Voleva solo prendermi la borsa. L’ho descritto alla polizia… Sono sicura che lo prenderanno. Non preoccuparti».
Allora è questa la versione dei fatti che ha dato alla polizia? Cosa diavolo le passa per la testa? Le lancio un’occhiataccia, ma lei distoglie lo sguardo. «Resto qui con te tutta la notte», afferma la signora Cruz. Sistema una sedia accanto al letto e abbraccia la figlia sdraiata. «Sarah», dice, sopraffatta dall’emozione. «Mi hijita». Vorrei stare io seduto accanto a lei, ad abbracciarla. Ma chiaramente l’amore di una madre supera quello di un fidanzato, soprattutto se è stato il fidanzato a fare un gran casino e a lasciare che la propria ragazza venisse ferita.
«Avete bisogno di qualcosa?», domando. «Signora Cruz? Posso portarle qualcosa da mangiare? O da bere?». La donna non risponde. Ha appoggiato la testa sulla pancia di Sarah e piange a dirotto. Sì, conosco questa sensazione del cazzo. Mi sveglio su una sedia in un angolo della stanza d’ospedale. Quando mi sono addormentato? Stavo facendo un sogno pazzesco sulla signorina Westbrook. Cosa diavolo sta succedendo? Non pensavo a lei da quindici anni.
Nella stanza regna il silenzio, a eccezione dei clic e dei bip delle attrezzature mediche. Sarah dorme profondamente, sempre tra le braccia della madre. Kat dorme su una sedia dall’altro lato della stanza. Non l’ho vista arrivare. Un’infermiera sta cambiando la flebo a Sarah. Fisso il monitor con la frequenza cardiaca per diversi minuti, per assicurarmi che il battito sia forte e regolare, poi richiudo gli occhi. Alzo la testa di scatto. Per quanto ho dormito? Cazzo, questi sogni folli non mi lasciano in pace. Forse sto perdendo la ragione?
La signora Cruz è sveglia e tiene la mano a Sarah, che dorme ancora. Kat se n’è andata. Mi alzo e mi avvicino a Sarah in punta di piedi, per darle un lieve bacio sulle labbra. Ho il cuore pesante; visto il macigno che lo opprime, mi stupisco che riesca ancora a battere. «Mi dispiace», sussurra Sarah quando stacco le labbra dalle sue. Non volevo svegliarla, ma sentire la sua voce è un sollievo. «Dispiace a me». «Mi hai salvato la vita», bisbiglia. Richiude gli occhi e una lacrima le riga una guancia. Non so perché continui a dirlo.
Immagino sia per gli antidolorifici, perché ciò che le è successo è tutta colpa mia.
Capitolo sette
Jonas
Il primo giorno in cui aiuto la signorina Westbrook dopo la scuola, lei non mi parla tanto, se non per dirmi cosa devo fare. Pulisco la lavagna e mi assicuro di togliere ogni piccola macchia, persino negli angoli. Dopodiché tempero le matite, tutte della stessa lunghezza, e poi pinzo trenta fascicoletti di schede con gli esercizi, attento ad allineare precisamente i punti in ogni angolo.
La signorina Westbrook dice che sto facendo un gran bel lavoro e che pongo «molta attenzione ai dettagli». Non me l’ha mai detto nessuno prima. Le faccio un sorriso, piccolo piccolo, e lei me ne rivolge uno così grande che per poco non scoppio a ridere. Per poco. Il secondo giorno passa come il primo, solo che io faccio ancora più «attenzione ai dettagli», nella speranza che lei mi dica ancora qualcosa di carino. E funziona. «Jonas, il tuo lavoro è eccellente», mi dice. «Chiunque potrebbe fare un bel lavoro, ma solo le persone speciali che ci tengono abbastanza possono fare un lavoro eccellente. Tu tieni molto
all’eccellenza, e per questo ti ringrazio». Dentro mi sento tutto accalorato e pieno d’affetto. Questa è la donna più bella che io abbia mai visto e mi piace quando è carina con me. Il terzo giorno so talmente bene cosa c’è da fare che finisco nella metà del tempo, e allora la signorina Westbrook mi dà altri incarichi. E, yuppie, mentre svolgo anche questi, comincia a parlarmi. Mi fa vedere un minuscolo anello che porta al dito, con un diamante così piccolo che pare un granello di sabbia, e mi dice che dall’anello si capisce che sta per sposarsi. Gliel’avevo già visto al dito, ma
pensavo lo portasse solo per sembrare più carina. La signorina Westbrook mi dice che tra qualche settimana diventerà la signora Santorini e che l’uomo che sposerà è nella Marina. Mi spiega che gli uomini della Marina combattono per proteggere il nostro Paese e la nostra libertà. Mi dice che se la gente come il signor Santorini non combattesse per noi, non potremmo fare niente di tutto ciò che facciamo in America. Io la ascolto con attenzione. Mi piace il dolce suono della sua voce. E ha anche un buon profumo. Mi piace soprattutto il suo collo. Porta una collana con un piccolo crocifisso d’oro e non riesco a smettere di fissarlo
– il collo, mica la croce. Però faccio finta di guardare il crocifisso, nel caso fosse da maleducati guardarle il collo. Il quarto giorno, prima di mettermi all’opera, la signorina Westbrook mi fa sedere a un banco. «Ho un regalino per te», mi dice, e mi mette davanti un biscotto gigante. «L’ho fatto per te ieri sera». È un enorme biscotto al cioccolato, il più grosso che io abbia mai visto, con sopra degli M&M’s che formano un cuore. Per qualche strano motivo, davanti a quel cuore di M&M’s mi trema il labbro inferiore. La signorina Westbrook non parla per
tantissimo tempo. «Su, Jonas», dice alla fine. «Assaggialo». Io ne mangio un piccolo boccone. È il biscotto più buono che abbia mai assaggiato. «Jonas», continua lei sottovoce. «Se non vuoi parlare, va bene. Ma a volte mi sento sola in classe e mi piacerebbe fare un po’ di conversazione. Pensi di poter parlare con me? Non dovresti farlo fuori da quest’aula se non vuoi, e nemmeno quando ci sono gli altri bambini. Ma quando siamo da soli dopo le lezioni, questo potrebbe essere il nostro piccolo bozzolo, un bozzolo solo per noi due… un posto magico dove tu puoi parlare, solo con me».
È un mese che studiamo come i bruchi si trasformano in farfalle e abbiamo persino alcune crisalidi appese in una grossa scatola che da un giorno all’altro dovrebbero schiudersi. Abbiamo imparato che i bruchi sono magici fin dall’inizio, ma per far funzionare la loro magia devono entrare in un bozzolo. Parlare con la signorina Westbrook nel nostro piccolo bozzolo per due potrebbe essere un’altra eccezione alla regola? Così come non contava parlare in spagnolo con Mariela? Magari, pur parlando con lei nel nostro bozzolo magico, le mie ultime parole ufficiali nel mondo reale sarebbero comunque «Ti amo, mamma».
«Posso chiamarla ancora signorina Westbrook anche dopo che si sarà sposata?», chiedo. Sono le prime parole che dico dal giorno in cui la mamma se n’è andata tanto tempo fa, quando non avevo ancora compiuto otto anni. Mi ero dimenticato del suono che aveva la mia voce. Non mi sembra più nemmeno mia. La signorina Westbrook è davvero sorpresa, glielo leggo in viso. Si schiarisce la voce. «Certo che puoi, Jonas. Mi farebbe molto piacere». Durante la settimana seguente, chiacchiero un sacco ogni giorno con la mia bella signorina Westbrook. Le racconto di quanto odio vedere il dottor Silverman, tranne quando mi fa sentire
meglio con la musica. Le racconto che a volte, quando sono triste, Josh si prende a schiaffi da solo per farmi ridere e che ci riesce sempre. Le racconto del libro sulla mitologia greca che ho appena letto e che gli dèi e le dee dell’antica Grecia si chiamano olimpi e vivono sull’Olimpo. E, alla fine, dieci giorni dopo essere diventato il suo assistente speciale, le racconto che prima o poi scalerò la montagna più alta del mondo. «Sul serio?», commenta lei. «Sembra emozionante». «Sì, l’Everest», le spiego mentre sono in piedi su uno sgabello per arrivare nell’angolo più lontano della lavagna. «Perché è il più alto. Salirò fino in
cima, alzerò le mani e toccherò la mia mamma tra le nuvole. E lei sporgerà le mani verso di me e mi tirerà su, su, su, e poi staremo sdraiati insieme su una nuvola soffice come se fosse un’amaca e io le massaggerò le tempie e le farò passare il dolore come facevo sempre». Intanto che pulisco la lavagna e parlo senza sosta, la signorina Westbrook è rimasta seduta alla cattedra e, quando la guardo, vedo che sta piangendo. Senza pensarci due volte, scendo dallo sgabello, metto giù il cancellino, vado da lei e con le dita asciugo le lacrime sulla sua guancia. La signorina Westbrook si asciuga gli occhi e mi sorride. E poi fa una cosa che mi fa
venire voglia di raggomitolarmi sulle sue gambe: mi mette un palmo sulla guancia. Me lo facevano sempre anche la mamma e Mariela ed è la cosa che preferisco in assoluto. Da quando la mamma se n’è andata, tantissimi adulti mi hanno abbracciato, dato dei buffetti in testa o stretto le spalle, ma nessuno mi ha mai toccato la guancia. Da quando la mamma se n’è andata, tante volte ho sognato che mi toccasse la guancia, e anche Mariela, ma poi mi sveglio sempre e sono solo e devo toccarmi io la guancia, ma non è bello come quando a farmelo è qualcun altro, soprattutto qualcuno carino come la signorina Westbrook.
Chiudo gli occhi e metto una mano sulla sua, per essere sicuro che non la sposti. Ha la pelle così morbida. «Sei un bambino speciale», mi dice. «Un giorno spero di avere un figlio proprio come te». Quando la signora Jefferson e Josh vengono a prendermi, per qualche strano motivo penso che potrei anche salutare Josh per una volta, senza infrangere le regole. Cioè, Josh è come me in un altro corpo e parlare con me stesso non può essere contro le regole, no? «Ciao, Josh», lo saluto. Nel sentire quelle due parole, lui sembra davvero contento, più ancora che all’idea di prendere il gelato con la
signora Jefferson. Allora, qualche minuto dopo, seduti sui sedili posteriori della macchina con lui che canta a squarciagola insieme alla radio, parlo di nuovo. «Sta’ zitto, Josh», gli dico. «Canti così forte che non riesco a sentire questa cazzo di canzone». La signora Jefferson, seduta davanti, resta senza fiato. «Vaffanculo, Jonas. Sta’ zitto tu», risponde mio fratello, ma poi si copre la bocca con entrambe le mani. «Cioè, no, non stare zitto, Jonas. Continua a parlare». All’idea che mi abbia detto di stare zitto dopo che non ho parlato per così
tanto tempo, scoppiamo tutti e due a ridere a crepapelle, o magari ridiamo solo perché stiamo facendo i cattivi e diciamo le parolacce come papà. «Stupido», dico. «Sei tu lo stupido. Che razza di idiota non parla per un anno intero? Dio». Poco dopo essere diventata la signora Santorini, la signorina Westbrook annuncia alla classe che si trasferirà a San Diego perché suo marito è nella Marina. Tutti i bambini sono tristi che se ne vada, ma io mi sento molto più che triste. Mi sento morire dentro. La signorina Westbrook dice agli altri di fare gli esercizi di matematica a pagina cinquantaquattro e mi chiama alla
cattedra. «Jonas, tesoro, a San Diego c’è sempre il sole. Spero che verrai a trovarmi». Come faccio ad andare a trovarla? Sono solo un bambino. Non ho una macchina né un aereo. Devo distogliere lo sguardo dai suoi begli occhi castani altrimenti potrei scoppiare in lacrime. «E io verrò a trovarti qui a Seattle ogni volta che potrò». Comincia a piangere. «Te lo prometto». Non dovrebbe promettermi di tornare da me. Mi abbandonano tutti, tutti, e non tornano mai più. Vorrei che mi dicesse semplicemente la verità: mi sta abbandonando proprio come fanno tutti e
non la rivedrò più. Anche adesso che sono qui in piedi a guardare il suo bel viso, è come se una grossa sciarpa nera scendesse dal cielo e mi avvolgesse tutto il corpo. «Le voglio bene, signorina Westbrook», le dico, sforzandomi di trattenere le lacrime. È la prima volta che le parlo quando in classe ci sono anche i miei compagni, fuori dal nostro bozzolo magico. Ma non posso farne a meno: devo dirle quello che provo prima che mi abbandoni. In realtà, vorrei poter usare quelle due parole che meglio descrivono i miei sentimenti per lei, ma dirle a qualcuno diverso dalla mamma significherebbe infrangere le
regole. La signorina Westbrook strizza gli occhi. «Ti voglio bene anch’io, tesoro. Un giorno tornerò a trovarti, Jonas. Te lo prometto».
Capitolo otto
Jonas
Apro gli occhi. Dalla finestra della stanza d’ospedale filtrano i raggi di sole. Un’infermiera è in piedi accanto al letto di Sarah e le controlla la pressione. «Hai un bell’aspetto», le dice. «E non ci sono segni di infezione. Tra poco verrà il dottore per decidere se mandarti a casa oggi». Sento vibrare il cellulare e trovo un messaggio di Josh. È appena atterrato a Seattle e vuole sapere in quale ospedale
siamo. Gli rispondo di non venire qui ma di aspettarmi a casa, facendo prima una sosta per prendere del cibo per malati, come cracker, Gatorade, gelatine e brodo di pollo. Oh, e dei biscotti Oreo. Sarah adora gli Oreo. Mi risponde: “Ci penso io”. “Grazie”, gli scrivo. “Tieni duro, fratello”. “Grazie”, rispondo. “Lo farò”. Sento vibrare di nuovo il telefono e abbasso lo sguardo. “Ti voglio bene”. Josh non me l’ha mai detto prima. Né di persona né per iscritto. Mai. Fisso a lungo lo schermo, senza riuscire a credere ai miei occhi.
“Grazie”, gli scrivo. Non so come altro rispondergli. Rimetto il telefono in tasca. Se Josh fosse qui, si prenderebbe a schiaffi da solo, e farebbe bene. Arriva il dottore e conferma che Sarah può tornare a casa, e il mio cuore fa i salti di gioia. Dio, mi prenderò grande cura della mia piccola. Risolveremo questa situazione, a qualsiasi costo. Insieme. Alle parole del dottore, la signora Cruz lancia un urlo di gioia e lo tempesta di domande sulle cure che dovrà seguire la figlia. A quanto pare, pensa che andrà a casa sua. Io guardo Sarah, convinto che le
dirà che tornerà a casa con me, invece non lo fa. Anzi, annuisce. Cosa cazzo sta succedendo? Sarah non dice alla madre che ha capito male, non le dice: «No, mamma. Ora vivo con Jonas». Merda. A quanto pare non è la signora Cruz ad aver capito male. Reprimo le mie emozioni. Conta solo ciò che vuole Sarah. Ciò di cui ha bisogno. E, chiaramente, non sono io. «Vi accompagno in macchina», mi offro. «E vi aiuterò con qualsiasi cosa vi serva». «Ci pensa mia madre», dice Sarah. «Tanto dormirò e basta. Prenderò degli antidolorifici e mi farò una bella dormita. Dovresti approfittarne per
rimetterti in pari con il lavoro. Finalmente non mi avrai più tra i piedi». Sorride, ma non è per niente divertita. «Me la caverò». Non riesco a parlare. «Devo farmi coccolare un po’ da mia madre», aggiunge sottovoce, in tono di scuse. Ma non ha bisogno di scusarsi: capisco bene. Tutto quello che tocco diventa sangue: lenzuola insanguinate, tappeti insanguinati, pareti insanguinate, pavimenti del bagno insanguinati. Sarah ha ragione. Per il suo bene, dovrebbe stare il più umanamente possibile lontano da me, che cazzo. Un’infermiera la fa sistemare su una sedia a rotelle per accompagnarla fuori
dall’ospedale. «Posso camminare», protesta lei. «È la procedura», la rassicura l’infermiera. Una volta fuori, la signora Cruz mi lascia a vegliare su Sarah mentre lei va a prendere la macchina nel parcheggio. Sarah resta in silenzio, e anch’io. Ci sono così tante cose che vorrei dirle, ma non qui, non ora. Forse il momento per dirgliele non verrà mai. Forse ci siamo. Sarah ha bisogno di prendersi una pausa da me, questo è ovvio. Spero solo che la pausa non diventi una fine. Il cuore mi pesa nel petto come un blocco di cemento. «Assumerò una squadra per tenere d’occhio la casa di
tua madre», dico. «Non posso lasciarti senza nessuna protezione». «No, adesso sono al sicuro, almeno per un po’», obietta Sarah. «Per loro valgo più da viva che da morta». Cosa vuol dire? Deglutisce a fatica. «Jonas, devo dirti una cosa». Fa una pausa per calmare i nervi ma, prima che possa aggiungere altro, arriva la signora Cruz con la macchina. Sarah mi fissa ansiosa. Merda, l’ultima volta che mi ha guardato così è stato durante il volo per il Belize, quando stava chiamando a raccolta tutto il suo coraggio per dirmi la verità sul Club.
Apro la portiera dal lato del passeggero e aiuto con attenzione Sarah a mettersi comoda sul sedile. Ho il cuore in frantumi, dolorante, a pezzi. Potrei anche morire, letteralmente. La morte fisica non può essere peggio di questa sensazione. Prima di richiudere la portiera, mi chino verso di lei. «Non posso lasciarti andare…». La mia mente avrebbe voluto dire: “Non posso lasciarti andare senza nessuna protezione”, ma la mia bocca non ha concluso la frase. «Non posso lasciarti andare». Sì, direi che riassume bene la situazione. «È solo per un paio di giorni», dice Sarah. «Dev’essere mia madre a
occuparsi di me e in questo momento ho bisogno di lei. E comunque, dormirò per tutto il tempo». Scuote la testa per reprimere le lacrime. «Non sono in me ora, Jonas. Sono sopraffatta e sto male». Mi guarda negli occhi e fa una smorfia. «Non preoccuparti, tesoro, ti chiamo io. Promesso. È solo per qualche giorno… devo solo farmi coccolare da mia madre». Annuisco come se capissi, ma non è così. Se mi sta lasciando sul serio, vorrei che mi dicesse la verità invece di promettermi qualcosa che non ha intenzione di fare. Se non tornerà da me, vorrei che non mi dicesse il contrario. «Credi davvero che sarai al sicuro?»
«Sì. Non hanno ragione di darmi la caccia. Mi hanno lasciato in vita per un motivo. Ti racconto tutto dopo, promesso». «Farò sorvegliare comunque la casa di tua madre, per sicurezza». «No, non farlo, Jonas. Mia madre andrà fuori di testa. Fidati di me. Meglio lasciar perdere». Sono esterrefatto. Hanno appena cercato di ucciderla, ci sono andati vicinissimi, e io dovrei «lasciar perdere»? Cosa cazzo mi sono perso? «Lista?», chiede la signora Cruz. «Sí, mama». «Ti porto dei vestiti… qualsiasi cosa ti serva», insisto, senza troppa
convinzione. Non capisco cosa stia succedendo. È la fine della nostra storia? «Ho un sacco di cose vecchie da lei. Me la caverò». Sono senza parole. Non vuole nemmeno che le porti le sue cose? «Ti chiamo io», conclude Sarah. Ma la mia mente capisce: “Non chiamarmi tu, ti chiamo io”. Chiudo la portiera. Sarah si accascia sul sedile, chiude gli occhi e la macchina si allontana. La fisso fino a quando non sparisce dalla mia vista. Poi mi metto le mani tra i capelli e mi sforzo di trattenere le lacrime.
Capitolo nove
Jonas
Quasi tutti i miei compagni di classe stanno lavorando sodo allo stupido esercizio di oggi. La signora Dinsdale ha detto che chi l’ha già fatto, come me, può leggere quello che vuole in attesa che finiscano anche gli altri. Sto divorando un libro sull’arrampicata e c’è un capitolo intero sull’Everest. Scalarlo dev’essere una bella impresa; un sacco di gente è morta mentre ci provava. Non lo lasciano fare ai
bambini, quindi dovrò arrampicarmi su rocce, alberi e funi e fare addominali, flessioni e allenarmi con la sbarra in camera mia per prepararmi per quando sarò più grande. Oh, e ho sentito che hanno appena aperto una palestra di arrampicata a Bellevue. Wow, al pensiero di fare arrampicata in palestra riesco a malapena a chiudere occhio la sera. Magari nel fine settimana papà darà il permesso a me e a Josh di andarci con l’autista. La porta dell’aula si apre e… merda… oddio… cazzo… non riesco a credere ai miei occhi… Entra la signorina Westbrook. Pare uscita da un sogno, ancora più bella di quanto ricordassi
dopo quattro anni. Wow. A essere sinceri, finora non riuscivo nemmeno a ricordare esattamente che aspetto avesse. È diventata una fantasia confusa a cui a volte penso la sera quando sono a letto, ma nell’istante in cui ha varcato la soglia, ogni ricordo mi invade la mente, il cuore e il corpo. Soprattutto il corpo. Wow, la signorina Westbrook è più carina che mai. Anzi di più, è bellissima. Ha i capelli più splendenti e un po’ più scuri di quanto ricordassi (e mi piacciono molto così), e anche le sue labbra sono più piene. Ragazzi, quanto mi piacerebbe darle un bacio sulle labbra. Al solo pensiero, sento un
fremito tra le gambe. Forse dovrei andarle incontro? O salutarla con la mano? Non muovo un muscolo. Forse è solo una coincidenza. Forse non è venuta per vedere me. Ma sì, si sarà del tutto dimenticata di me, ne sono sicuro. La signorina Westbrook scruta l’aula e, quando i suoi occhi incontrano i miei, sorride. Cazzo, sta sorridendo proprio a me, ne sono sicuro. La saluto con la mano e lei mi imita. Oddio. Allora si gira appena di lato e, merda, mi accorgo che sta per avere un bambino. Quando è entrata, ero troppo impegnato a guardare il suo bellissimo viso e a immaginare di baciare le sue labbra e non mi sono accorto del
pancione. Wow. La bella signorina Westbrook è tornata e avrà un bambino. Non riesco a crederci. «Jonas», mi chiama la signora Dinsdale, «hai una visita. Perché non uscite un momento? Fate pure con calma». Quando ci sediamo su una panchina all’aperto, la signorina Westbrook mi abbraccia e mi dà un bacio sulla testa. «Jonas! Come sei grande! Ma guardati! Wow!». A furia di sorridere mi fanno male le guance. Fremo tutto. «È tornata». «Ma certo. Sono tornata per vedere te». Mi fa l’occhiolino. «Io mantengo sempre le promesse».
Non riesco a credere che sia qui. Sento una scarica elettrica su tutta la pelle. Vorrei che mi toccasse la guancia come quella volta tanti anni fa. O che mi desse un altro bacio sulla testa come prima. O, meglio ancora, che mi desse un bacio sulle labbra. Darei di tutto per un bacio da lei; un bacio vero con la lingua. Oddio. Al pensiero fremo tutto, ma specialmente tra le gambe. Parliamo per venti minuti. Lei mi chiede della scuola, di mio fratello e degli sport che pratico. Mi dice che a San Diego c’è davvero il sole ed è una bella città come pensava, che là insegna alle elementari e che lei e il signor Santorini sono contenti ed eccitati
all’idea di avere il loro bambino nel giro di un paio di mesi. «Oh», dice d’un tratto, e si tocca la pancia. «Il bambino ha appena scalciato. Vuoi sentire?». Non ne sono sicuro. L’idea di toccarle il pancione mi spaventa, ma lei non aspetta la mia risposta. Mi prende la mano e se la mette sul lato della pancia e, due secondi dopo, qualcosa dentro di lei dà un colpo di karate contro la mia mano. «Oddio», commento, e scoppio a ridere. Non ho mai sentito nulla del genere prima. «È un maschio», dice lei, con un sorriso davvero grande.
«Wow. Che bello, signorina Westbrook». «Sai come lo chiamerò?». Mi stringo nelle spalle. Come diavolo faccio a saperlo? «Jonas», dice lei. Segue un lungo silenzio imbarazzato. Mi ha chiamato per nome per assicurarsi che faccia attenzione a qualsiasi nome stia per dire? Oppure significa che chiamerà suo figlio Jonas? Se è questo che mi sta dicendo, sarebbe una bella coincidenza, no? Non è un nome così comune, non come Josh. Lei alza gli occhi al cielo e sospira. «Chiamerò mio figlio come te, Jonas». Non riesco a credere alle mie
orecchie. Sorride. «Perché spero che un giorno cresca e diventi come te. Dolce, intelligente e gentile». Non riesco a ricordare l’ultima volta che ho sentito battere così forte il cuore, se mai mi è successo. Quella sera, a cena, racconto a mio padre e a Josh della visita a sorpresa della signorina Westbrook, e del fatto che chiamerà suo figlio come me. Mentre parlo, mi sembra quasi di camminare sulle nuvole, ma quando chiudo la bocca mi pento all’istante di aver detto anche solo una parola. Ovviamente papà ha bevuto – tanto – e
quando lo fa non è mai un bel momento per dirgli qualcosa, soprattutto qualcosa a cui tengo. Digrigno i denti e aspetto la cattiveria che mi dirà per farmi sentire una merda. Non devo aspettare a lungo. «Vuole che suo figlio cresca come te?», chiede, e poi beve un lungo sorso del suo drink. «Allora gli augura una vita del cazzo piena di sofferenza e dolore». Josh mi lancia la solita occhiata comprensiva che significa: “Ignoralo, è un coglione”. Ma è più facile a dirsi che a farsi. «Se il suo sogno si avvera e il figlio diventa come te», prosegue mio padre,
«allora sarà meglio che stia attenta al signor Santorini». Scoppia a ridere e beve di nuovo. «Non dico altro, cazzo».
Capitolo dieci
Sarah
Jonas ha sempre avuto ragione: il John Travolta ucraino mi stava davvero pedinando in pieno giorno. Ma invece di credere al mio stupendo e aitante ragazzo quando mi ha detto di essere sicuro al «centodieci percento», ho deciso che molto probabilmente fosse solo iperprotettivo e ipersensibile e magari anche un tantino pazzo. Che stupida. E adesso, grazie alla mia totale
mancanza di giudizio e alla mia incapacità di fidarmi di lui, non solo mi sono giocata gran parte della mia riserva di sangue, ma ho anche fatto passare l’inferno all’amore della mia vita. Gli ho fatto rivivere il peggior incubo della sua infanzia. E non solo, l’ho anche messo in pericolo. Dio, cos’ho fatto? Ho promesso al Club di poter spillare altri soldi a Jonas e pure a un branco di altri tizi. Ma alt, c’è dell’altro! Come se questa situazione non fosse già abbastanza brutta, ho dato a quei bastardi i soldi di Jonas, ed era un bel gruzzolo. Ovviamente Jonas dirà che per lui i soldi non contano, che è pronto a pagare
qualsiasi cifra pur di tenermi al sicuro, ma quei soldi non erano miei e non potevo darli via. Tutta questa situazione è un pasticcio colossale. Un casino inimmaginabile, come direbbe Jonas. Mi alzo a fatica dal letto, scosto le tende e sbircio in strada. Uh. Sono ancora là. Due uomini seduti in una macchina. Da quattro ore. Prendo il telefono dal comodino e mando un messaggio a Jonas. “Ti prego, dimmi che i due tizi davanti casa di mia madre li hai mandati tu. Altrimenti me la faccio addosso”. “Sì. Scusa se ti ho fatto spaventare. Avrei dovuto dirtelo. Li ho mandati io”. Sto per dirgli che le guardie del corpo
non sono necessarie, che il suo assegno mi ha fatto guadagnare un seppur minimo margine di manovra, ma voglio raccontargli di persona i dettagli dell’incontro di ieri con il Travolta ucraino. “Grazie”, scrivo. “Ti prendi sempre cura di me”. “Prego, piccola. Mi manchi tantissimo. Come ti senti?” “Su di giri per gli antidolorifici. Sono il lato positivo di farsi accoltellare”. Segue una lunga pausa. “Mi manchi tantissimo”, mi scrive infine. “Mi manchi anche tu”. Siamo lontani da circa quattro ore e già mi sento in crisi d’astinenza da Jonas. “Spero che tu capisca”, scrivo.
“Dev’essere mia madre ad accudirmi finché non starò bene”. Sto per aggiungere “È così che fanno le mamme”, ma poi penso alla sua e mi trattengo. E, a dire il vero, il fatto che mia madre voglia prendersi cura di me non è l’unico motivo che mi spinge a stare da lei per qualche giorno. In realtà mi serve un po’ di spazio, un po’ di tempo per riprendermi e capire cosa fare e cosa dire. Mi sento sopraffatta. Mi vergogno. Il senso di colpa mi tormenta. Sto male, fisicamente ed emotivamente. E, soprattutto, non riesco a credere a quello che ho fatto passare a Jonas, solo perché non gli ho creduto. Quando mia madre
mi ha portato via dall’ospedale non sono nemmeno riuscita a guardarlo in faccia. Mi sento così in colpa. “Capisco”, mi scrive. “Mi dispiace tantissimo”, aggiunge. Perché continua a ripeterlo? Sono io che dovrei scusarmi con lui. Se gli avessi dato credito, se mi fossi fidata del suo intuito, se gli avessi creduto quando mi ha detto di essere sicuro che stessero venendo a prendermi, non sarebbe successo niente di tutto questo. Non ho scuse per averlo ignorato. “Non devi dispiacerti per nulla, Jonas. Sono stata io a sbagliare. Di grosso”. “Posso chiamarti? Dobbiamo parlare. Voglio sentire la tua voce”.
Non sono ancora pronta per questa conversazione. Non so ancora come spiegargli come mi sento. E poi ho un sonno d’inferno. “Ho appena preso un antidolorifico”, scrivo. “Sto crollando. Ci sentiamo più tardi?”. Fa un’altra pausa. “Qualsiasi cosa ti serva”, risponde infine, “io ci sono”. “Grazie. Ci sentiamo presto”. Dopo un minuto, aggiungo: “Follia”. Sono sopraffatta, piena di rimorsi, intontita e dolorante, ma nulla, nemmeno dei potenti antidolorifici, né il senso di colpa, i rimorsi e la stanchezza emotiva, nemmeno due pugnalate e un bernoccolo in testa potranno mai cambiare il fatto che amo Jonas Faraday con tutto il mio
cuore. “Follia”, risponde all’istante. “Tantissima”. Chiudo gli occhi e mi addormento.
Capitolo undici
Sarah
Il dottore aveva detto che mi sarei sentita di nuovo in forma dopo tre giorni di riposo assoluto e, santo cielo, aveva ragione. Mi sento decisamente bene; certo, un tantino ammaccata, ma innegabilmente bene. Apro il portatile. Ieri un compagno di corso mi ha avvisato con un messaggio di avermi mandato via email tutti gli appunti delle lezioni che ho saltato e finalmente mi sento abbastanza sveglia per dare
un’occhiata. Entro nella casella di posta e ho un tuffo al cuore. C’è un’email del Club. Gentile signorina Cruz, a quanto ci risulta si è verificato uno sfortunato problema di comunicazione tra noi e ci dispiace molto per qualsiasi inconveniente possa averle causato. Tuttavia, ora abbiamo acquisito tutte le informazioni necessarie e siamo disposti a lasciarci il passato alle spalle. Siamo interessati alla recente proposta che ci ha sottoposto e crediamo che lei sarebbe una preziosa risorsa per la nostra organizzazione nel nuovo e più ampio ruolo da lei suggerito. Tuttavia, il settanta percento dei proventi andrà a noi, non li divideremo al cinquanta percento come da lei proposto. Si tratta di una condizione non negoziabile e piuttosto legittima considerando che saremo noi a
procurare i clienti. Nei prossimi giorni le forniremo ulteriori dettagli tramite un account Dropbox. Ma, per prima cosa, la preghiamo di confermarci al più presto di non aver reso pubblico il rapporto di cui ha parlato alla nostra dipendente. Se un simile documento venisse mostrato a una qualsiasi parte terza, tra cui ma non unicamente le agenzie da lei menzionate, ovviamente verrebbe preclusa la possibilità di un amichevole rapporto professionale tra noi. Distinti saluti, il Club
Sono così arrabbiata che riesco a malapena a leggere il testo dell’email. Figli di puttana! Farmi quasi morire dissanguata sarebbe uno “sfortunato problema di comunicazione”? Sul serio? Dio, perché non ci sediamo a parlarne?
Parlare non vuol dire che stiamo litigando, significa che ho intenzione di accoltellarti. Se Jonas fosse qui, scoppierebbe a ridere. Be’, forse no. Con Jonas non si sa mai. “Jonas”. Dio, quanto mi manca. Pur con la mente annebbiata dai farmaci, questi tre giorni a casa di mia madre mi sono sembrati un’eternità. Mi pare di aver perso un braccio o una gamba. No, non è giusto: mi pare di aver perso il cuore. Non sono mai stata tanto male per un altro essere umano come per Jonas. Ho fisicamente bisogno di lui. Parli del diavolo… e mi vibra il cellulare per un messaggio. “Ciao, piccola”, mi scrive.
“Ciao, amore”, rispondo. “Ti pensavo”. Negli ultimi tre giorni ci siamo scambiati messaggi e telefonate, ma sempre brevi. Ogni volta io gli ho detto che mi mancava e che non vedevo l’ora di vederlo, e ogni volta lui ha ripetuto che gli dispiaceva, anche se per cosa non lo so. “Ti sei tenuto occupato?”, scrivo. “Sì, ieri ho fatto un’arrampicata con Josh e sto lavorando a un piano industriale per Scala e Conquista. Però faccio fatica a concentrarmi. Mi manchi tantissimo”. “Mi manchi anche tu”, scrivo. Perché gli sto facendo questo? Perché lo sto facendo a me stessa?
“Ti serve qualcosa?” “No, mia madre mi sta riempiendo di attenzioni”. Faccio una pausa. Riesco a sentire che ha il cuore infranto. Vuole solo stare con me. Lo so. “Posso chiamarti dopo?”, scrivo. “Sto finendo una cosa”. “Certo”. La tensione di quella parola viaggia per tutta la linea, fino a me. “Prometti che mi chiami?” “Te lo prometto”. Riesco a percepire la sua tortura. Lo sto facendo soffrire. Che diamine, soffro anch’io per causa mia. Ma non so come spiegargli quello che provo. Mi sento in colpa, mi vergogno. Sono depressa. Sto
facendo passare l’inferno all’uomo che amo. L’ho coinvolto in una situazione orribile ed enorme. E ora devo sistemare le cose da sola; ma non so come. Una parte di me vorrebbe solo nascondere la testa nella sabbia e sperare che sparisca tutto. Mia madre entra nella mia stanza con una scodella di zuppa fumante e un bicchierone di acqua e ghiaccio. Chiudo il portatile. «La zuppa scotta, quindi aspetta un minuto», mi dice in spagnolo. «Okay, grazie». «È ora dell’antibiotico», aggiunge, con un’occhiata all’orologio. «E puoi prendere un altro antidolorifico, se
vuoi». «No», rifiuto. «Basta antidolorifici. Al massimo prenderò dell’ibuprofene o qualcosa di simile». «Sei sicura?» «Sì, mi sento un milione di volte meglio. Le medicine mi fanno dormire troppo». «È dormendo che guarisce il corpo», dice lei, e mi accarezza i capelli. «Oggi stai molto meglio». «Mi sento molto meglio». «Stai lavorando per i corsi?», s’informa. «No, sto solo controllando le email». «Non strafare. Dovresti riposarti». «Sono tre giorni che non faccio altro.
Comincio a impazzire». «Vuoi che resti qui con te? Possiamo guardare un film». Voglio bene a mia madre con tutto il cuore. È la mamma migliore al mondo, davvero, e questa situazione dev’essere il suo peggior incubo, ancora peggio di tutto ciò che le ha fatto passare mio padre. Ma, oddio, a stare con lei sto andando fuori di testa. Questa donna mi sta soffocando di affetto materno. O forse ho solo voglia di Jonas. «Sì, va bene», accetto. «Dammi una ventina di minuti per finire qui e poi scegliamo un film». «Okay. Non strafare però, il dottore ha detto che devi riposarti». Mi dà un bacio
sulla guancia e se ne va. Riapro il portatile. Cosa diavolo rispondo a quei bastardi? Non posso mostrarmi debole, questo è certo. Devo guadagnare tempo, per poter definire un piano. Sistemo le mani sulla tastiera. “A chi di competenza”, scrivo, mordendomi il labbro. Il mio cellulare si mette a vibrare. “Georgia”. Wow, sono davvero contenta che mi stia già richiamando dopo la telefonata di ieri. «Ciao, Georgia», la saluto. Non mi aspettavo che mi cercasse così presto. «Come va?» «Alla grande», risponde. «Come stai tu oggi? Meglio?» «Molto meglio. Ogni giorno che passa
sento sempre meno dolore». Sospira di sollievo. «Sono così felice di sentirtelo dire. Allora, ho le informazioni che mi hai chiesto». Sembra eccitata. «È stato facile». Ieri, quando l’ho chiamata (presumibilmente per raccontarle del Belize), le ho chiesto se le andasse di raccogliere qualche minuscola informazione postale per conto mio. Quando mi ha domandato il perché, le ho dato una versione annacquata della verità, ma pur sempre una verità: ho lavorato per un’agenzia di incontri online e di recente ho scoperto che era invischiata in attività illecite (di cui non ho specificato la natura), e temo che
l’aggressione che ho subito a scuola possa avere a che fare con questa scoperta. «Quindi sto facendo qualche indagine per vedere se ho ragione». Georgia era comprensibilmente preoccupata ma, com’è ovvio, ha accettato di aiutarmi, per quanto le fosse possibile. «Okay, ecco cosa sono riuscita a scoprire», esordisce. «Nella zona di Las Vegas, compresi Henderson, Winchester, eccetera eccetera, ci sono dodici Oksana a cui è intestata una casella postale. Ho il nome completo e l’indirizzo fisico che hanno fornito quando hanno fatto richiesta per la casella postale». «Ti devo un favore enorme, Georgia.
Grazie. Puoi mandarmi la lista via email?» «Certo», risponde. «Ehi, non dovresti riferire tutto ai poliziotti?» «Ho già rilasciato una dichiarazione in ospedale». Vero. «Credono che sia stata un’aggressione casuale a scopo di rapina». Vero anche questo (perché è ciò che li ho spinti a pensare io). «Con un po’ di fortuna, queste informazioni saranno utili per le indagini». Di nuovo vero, anche se utili per chi e per quali indagini non ne ho idea. «Okay, fa’ attenzione però», dice Georgia. Dopo averla ringraziata di cuore e averle assicurato di stare attenta, la
saluto e mi prendo un attimo per riflettere sulla situazione. Dodici Oksana? Come farò a trovare quella giusta? Bussando alla porta di ognuna e dicendo: «Ehi! Sei tu l’Oksana che ha cercato di uccidermi»? A quanto pare, al momento la mossa migliore è guadagnare tempo. Che altro potrei fare? Mi serve tempo per capire come comportarmi e i soldi che ho consegnato non mi proteggeranno per sempre. Apro il computer e continuo a scrivere l’email. Dispiace davvero anche a me per l’inconveniente causato dal nostro “sfortunato problema di comunicazione”, visto che sono rimasta a terra in un bagno in una pozza del mio
stesso sangue. Per rispondere alla vostra domanda, non ho ancora presentato il mio rapporto a nessuno, anche se mi ci è voluto uno sforzo erculeo per evitare che venisse trasmesso in automatico a diverse agenzie, come avevo preventivamente disposto. Per fortuna sono riuscita a frenare le cose all’ultimo momento, ma la prossima volta non potrò impedire che venga diffuso e immediatamente divulgato – né sarà mia intenzione farlo. Quindi sarà meglio che non ci sia una prossima volta.
Mi interrompo e rifletto se cancellare l’ultima frase. È piuttosto sfrontata. Fanculo. Gli faccio vedere io quanto sono sfrontata. Come dice sempre Jonas: «Più alto è il rischio, maggiore è il guadagno».
Riprendo a scrivere: Vi ringrazio per l’interesse dimostrato nei confronti della mia proposta d’affari. Anch’io sono impaziente di finalizzare il nostro accordo. Sono disposta a dividere i proventi al cinquanta percento. Sì, voi fornirete i clienti, ma sarò io a fargli cacciare la grana. Potete anche portare un cavallo ad abbeverarsi alla vostra pozza, ma sarò io a fargli bere litri e litri di acqua. E di recente ho scoperto di avere un talento innato per far abbeverare i cavalli. Il cinquanta percento. Prendere o lasciare, gente. Ma vi avviso: se decidete di lasciare, il mio rapporto diventa di dominio pubblico. Niente seconde opportunità. Ne ho le palle piene di perdere tempo. I dottori del pronto soccorso che mi hanno visitato grazie a voi – vi ho già detto che in seguito al nostro “sfortunato problema di comunicazione” sono quasi morta dissanguata
in un bagno? – mi hanno detto di stare a letto per due settimane buone per riprendermi dalle ferite. Quando sarò di nuovo in salute e riuscirò a camminare, e a cavalcare i cavalli che porterete alla nostra comune pozza, ve lo farò sapere. Desidero che la nostra iniziativa abbia successo tanto quanto voi, ve lo assicuro – i nostri interessi sono esattamente gli stessi – ma dopotutto sono umana e una pugnalata al petto e dei punti metallici in testa non mi rendono di certo sexy. Distinti saluti, la vostra fedele agente di ammissione, Sarah Cruz PS:
A ogni modo, ho descritto alla polizia il nostro recente “sfortunato problema di comunicazione” come un’aggressione casuale. (Non sono mica una stupida del cazzo).
Prima di cambiare idea, premo INVIO. Porca puttana. Cosa sto facendo? Sono pazza. Non sono mica James Bond né un supereroe. Posso chiamarmi Orgasma la supereroina quanto voglio, ma sono pur sempre io. Una ragazza fatta di carne e ossa… e sangue, come ha ampiamente dimostrato il mio corpo. Non so cosa diamine pensi di fare. Maledizione. Ho bisogno di aiuto. “Ho bisogno di Jonas”. O forse dovrei gettare la spugna e chiamare l’FBI? Se ciò significa che non soddisferò i requisiti etici per poter esercitare come avvocato, allora tanto vale farmene una ragione. Ma non voglio rinunciare alla mia carriera. Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Ho lavorato
sodo per arrivare dove sono. Mia madre conta su di me, così come tutte le donne che aiuta. Non posso deluderle. Devo risolvere questa situazione. Mi asciugo gli occhi. “Ho bisogno di Jonas”. Ho mal di stomaco. “Ho bisogno di Jonas”. Jonas. Jonas, Jonas, Jonas. Dio, Jonas. Il mio cuore si strugge per lui, così come la mia anima e il mio corpo. Aveva un’aria tanto triste quando mia madre mi ha portato via dall’ospedale. Avrei voluto lanciarmi fuori dalla macchina e saltare tra le sue braccia, ma non l’ho fatto. Ho chiuso gli occhi e ho pianto mentre l’auto si allontanava, troppo
sopraffatta e dolorante e confusa e depressa e ansiosa per fare qualsiasi cosa. “Ho bisogno di Jonas”. Sento una forte fitta al cuore. Lui mi manca. Non sopporto di stare lontana da lui nemmeno per un altro minuto. Pensavo di aver bisogno di tempo per ricordarmi chi sono lontano dalla sua presenza inebriante, per combattere la dipendenza da lui e ritrovare il senso di me stessa, per riprendere in mano i miei studi e schiarirmi le idee e lasciar guarire il mio corpo senza distrazioni. Pensavo di aver bisogno di una pausa dalla follia. Ma mi sbagliavo. Dio, quanto mi sbagliavo. Ho bisogno di lui.
Il mio dolce Jonas. L’uomo che amo con tutto il cuore e l’anima. Nel bene e nel male. Prendo il telefono e faccio il suo numero. Risponde all’istante. «Piccola», mi saluta. Sembra senza fiato, come se avesse trattenuto il respiro vedendo il mio nome sullo schermo. Al suono della sua voce, crollo. «Jonas». Scoppio in lacrime. «Cosa c’è, Sarah? Dimmelo». Sospira di dolore. «Di qualsiasi cosa si tratti, la affronteremo». Sembra che voglia balzare qui dall’altro capo del telefono. «Vieni a prendermi, Jonas. Ti voglio. Ho bisogno di te. Ti prego, Jonas.
Portami a casa».
Capitolo dodici
Sarah
«Posso camminare», dico. Ma, come al solito, Jonas mi ignora. Mi tira fuori dalla sua macchina e, sempre tenendomi in braccio, mi porta in casa e va dritto in camera da letto, dove mi depone sulle lenzuola bianche come se fossi una bambola di porcellana. «Bentornata a casa», mi dice sottovoce. Ha un’aria trionfante; è il ritratto dell’euforia pura. Gli sorrido. «È bello essere a casa».
«Dillo ancora», mi fa. «Casa». «Non hai più il permesso di uscire», aggiunge. «Farò mettere le inferriate alle finestre e alle porte». «Sono così felice di essere qui che la tua affermazione non mi fa neanche venire la pelle d’oca». Si sdraia su un fianco accanto a me. «Sei bellissima», mi dice, e con un dito mi accarezza delicatamente un sopracciglio. «Mi sei mancata tantissimo». Mi prende il viso tra le mani. «Non lasciarmi più». «Non lo farò». «Mai, mai, mai più». «Ho capito».
«Mai». «Ho imparato la lezione. Stare lontana da te è stato fisicamente doloroso… o, aspetta, forse però il dolore dipendeva dalle coltellate». Sorrido, ma lui resta serio. Ovviamente è troppo presto per fare battute sull’accaduto. «Io…», si strozza con le parole e inghiotte qualsiasi cosa stesse per dire. «Quando ti ho vista per terra in quel bagno, ho pensato che fossi morta». «Oh, Jonas, mi dispiace così tanto». Non riesco nemmeno a immaginare cosa possa essere stato per lui. Mi dà un bacio leggero. «Pensavo di averti perso». Mi cinge con un braccio e mi bacia su ogni centimetro del viso.
Sento i suoi muscoli tesi contro il mio corpo. Chiudo gli occhi e con le dita trovo il suo bicipite. «Mi dispiace». «Piantala di scusarti», mormora. «È a me che dispiace». Sospira. «Sarah, devo…». «Jonas, aspetta. Stammi a sentire». Si ritrae e mi fissa, in attesa. «So che abbiamo un milione di cose di cui parlare. Milioni e milioni, a dire il vero. Ma prima di farlo, visto che probabilmente non la finiremo più, posso chiederti un favore?» «Puoi chiedermi tutto quello che vuoi, mia bellissima e preziosa bambina. Sempre, sempre, sempre. Tutto quello
che vuoi». Mi accarezza una guancia. Mi blocco. Wow, che frase impegnativa. Mi ha appena fatto saltare il cuore fuori dal petto. Mi schiarisco la voce. «Dimmi, piccola». Mi sprona con un altro bacio sulla guancia. «Qualsiasi cosa, è già tua. Io sono tuo. Per sempre. Qualsiasi cosa tu voglia, l’avrai». Mi bacia sul naso. Wow, mi gira la testa. Per non parlare di quanto mi stia eccitando. Riesco a malapena a parlare. «Dimmi», insiste. «Voglio che mi dai un bacio sulla bua». Sorride. «Sulla bua?».
Gli rivolgo un gran sorriso anch’io. Sentire questa parola stupida uscire dalla sua bocca mi fa venire voglia di ridere. «Sì. Voglio che mi riempi di besitos sulla bua per farla sparire». «Besitos?», ripete. Jonas adora quando gli parlo in spagnolo. «Mmm hmm. Dei bacini. Sulla bua». «Dei besitos sulla bua, eh?» «Mmm hmm». Si morde il labbro. «Qualsiasi cosa per la mia bella e preziosa bambina. La Mia Magnifica Sarah». Ha le guance rosse. Come abbiamo fatto a sopravvivere separati per tre giorni? Perché avevo il bisogno di allontanarmi da lui? Non mi
ricordo nemmeno perché volessi un po’ di spazio. Mi metto a sedere, sollevo le braccia sopra la testa e lui mi toglie la canottiera. «Oh». Fa una smorfia. Abbasso lo sguardo e faccio spallucce. La ferita sul petto è molto migliorata rispetto a tre giorni fa, ma per Jonas non conta. Lui vede solo il pessimo stato in cui mi trovo. Torno a sdraiarmi e lo invito a baciarmi il corpo. «È più brutto da vedere di quanto non sia, te lo assicuro». Si allunga sul mio torace e mi bacia con delicatezza. «Questa bua?».
Mi viene la pelle d’oca ovunque. «Proprio questa». Passa le dita sui punti di sutura e poi sulla pelle nera, blu e giallastra intorno al taglio. «Ti fa male?» «Non troppo». Mi bacia di nuovo sulla ferita e rabbrividisco, a mano a mano che la pelle torna in vita sotto al suo tocco. Con le labbra risale fino ai punti sul collo. «E anche questa bua?» «Mmm hmm». Un altro brivido. Fremo per lui. «Ti fa male quando ti bacio?», mi chiede. «No, mi fa bene», rispondo. «I tuoi
besitos mi fanno stare meglio». «Posso vederti la nuca?», domanda. Mi metto seduta e giro la testa. Quando mi sposta i capelli, lo sento sussultare. «Sembro Frankenstein?», m’informo. Sono un po’ in ansia. Non ho mai sbirciato quella ferita. «Merda. Ti hanno messo dei punti di metallo, Sarah». Geme di compassione. «È come se avessero usato una cucitrice». Faccio subito per sdraiarmi di nuovo e appoggiare la testa sul cuscino. «Non devi baciare anche quella bua. Non sono una sadica». Lui mi mette una mano sulla spalla e mi blocca. «Ehi, sta’ seduta,
Frankenstein. Voglio baciarti ogni bua e soprattutto quella». Resto immobile. Ho il cuore a mille. Non so che aspetto abbia il taglio, ma dev’essere piuttosto brutto a vedersi. «È tutto a posto. Non voglio disgustarti». «Non mi disgusti mica», mi assicura, e mi fa girare. «Amo ogni centimetro di te, Sarah Cruz, anche le parti disgustose». Mi volto di scatto e lo fisso. Ha appena detto che ama ogni centimetro di me? I nostri sguardi si incontrano. «Su», mi sprona, con gli occhi ardenti. «Voglio dimostrarti che amo ogni centimetro di te». Sono senza parole.
Mi fa ruotare la testa, mi scosta i capelli e appoggia con delicatezza le labbra sui punti sulla mia nuca. «Ti piace?». Rabbrividisco. «Mmm hmm». Sono troppo eccitata dalla sensazione delle sue labbra sulla pelle ricucita per aggiungere altro. Jonas scende lungo il mio collo e sulla spalla nuda e intanto sposta una mano sul davanti e mi stringe un seno. Lo sento fremere di desiderio per me e io non sono da meno. Mi sdraio supina e lui comincia all’istante a leccarmi i capezzoli turgidi. Poi il collo. L’orecchio. Le labbra. Mi infila la lingua in bocca e con la mano mi sfiora
il viso. Dio, sto andando a fuoco. Quando in quel bagno mi è passata davanti agli occhi tutta la vita, quando ho creduto di essere spacciata, cosa ho pensato? “Ti amo, Jonas”. Di tutti i pensieri che la mia mente poteva avere in quell’istante così vulnerabile, crudo e decisivo, il mio amore per Jonas era tutto. «Sarah», dice il mio nome mentre mi bacia. «Pensavo di averti perso». Si strozza per l’emozione. «Sarah», ripete. «Facciamo l’amore», ansimo. Si ritrae, incerto. «Il dottore ha detto che potevo fare sesso dopo tre giorni», lo rassicuro. Okay, tecnicamente non gli ho chiesto
quando avrei potuto riprendere a fare sesso, ma secondo la dottoressa Sarah non c’è problema. Mi sento di nuovo in forma e lo voglio dentro di me. Dio, quanto lo voglio. Voglio stargli il più umanamente possibile vicino. Per l’amor del cielo, quest’uomo ha appena detto di amare ogni centimetro di me e d’un tratto ho un disperato bisogno che me lo dimostri, dall’interno. Mi accarezza il viso. «Non voglio farti male». «Basta che fai piano». «Sei sicura?» «Sì». Mi tolgo i pantaloni del pigiama. Fremo per lui. Jonas si spoglia e si sdraia accanto a
me, con l’erezione premuta contro la mia pancia e la sua pelle calda e liscia a contatto con la mia. Sto tremando. Mi abbraccia per un attimo e mi guarda negli occhi. «Quando ti ho vista in quel bagno…», comincia, ma poi si interrompe. «Mi dispiace», gli dico. «Dev’essere stato terrificante». «Pensavo fossi morta». «Mi dispiace, Jonas». Si interrompe a lungo. Nel suo sguardo c’è qualcosa che mi fa trattenere il fiato. Inspira a fondo. «Ti amo, Sarah». Non riesco a respirare. Non sono
sicura di aver sentito bene. «Ti amo tantissimo», dice, con gli occhi lucidi. Scoppio a piangere. «Ti amo», ripete in tono sommesso, asciugandomi le lacrime, e mi bacia. So che a questo punto dovrei dirgli che lo amo anch’io, ma resto muta. Non riesco a credere alle mie orecchie. Sono allibita. Incantata. Rispondo con passione al suo bacio e lo cingo con le gambe, impaziente che mi penetri. Quando lo fa, scappa a tutti e due un forte gemito di piacere. «Ti amo», ripete lui, con voce roca. Apro la bocca per parlare, ma non ne esce nulla. Sono sopraffatta.
«Ti faccio male?», mi chiede. Scuoto la testa. Mi bacia sulle labbra e comincia a muoversi dentro di me, mentre con una mano mi accarezza la schiena e il sedere. Il suo corpo guida il mio in un movimento sincronizzato e provo solo piacere, amore e gioia. Il dolore che sentivo un attimo fa viene sostituito dal piacere, un piacere sublime. Sono euforica. «Ti amo», mi dice ancora, enfatizzando le parole con il corpo zelante. «Oh, Jonas», ansimo e finalmente ritrovo la voce. «Ti amo anch’io». «Dio», sospira, scosso dai brividi. Mi
bacia di nuovo sulla bocca e mi sussurra all’orecchio: «Ti amo, piccola». Gemo e mi spingo entusiasta contro di lui. Non avrei mai pensato che sentire quelle tre paroline potesse essere così bello. «Ti amo, Jonas», mugolo. Scoppio di gioia. Non riesco a credere che stia succedendo davvero. Lui si sfila, con il fiatone. «Amo ogni centimetro di te, Sarah Cruz». Mi fa sdraiare sulla schiena e bacia ogni punto del mio corpo a partire dalla testa, poi la ferita sul collo, il seno e l’ombelico e il taglio sul petto, i fianchi, le cosce, l’inguine, le braccia e le dita e le cosce e le caviglie e le dita dei piedi e poi
risale piano piano lungo la parte interna delle cosce fino alla pelle sensibile proprio tra le mie gambe. Quando finalmente arriva al clitoride e mi lecca delicatamente con la lingua calda e umida, ormai mi trattengo a malapena. Inarco la schiena e mi aggrappo alle lenzuola, scossa da brividi violenti. Non so se sto per gridare, scoppiare in lacrime o andare a fuoco, o se tutti i punti salteranno fuori contemporaneamente dal mio corpo come proiettili, ma di certo succederà qualcosa. Non potrò resistere ancora per molto alla pressione che sento crescere dentro di me. Mi sfugge un suono gutturale. Non ce
la faccio più. È un piacere troppo squisito per resistere. “Lui mi ama”. Mi sento avviluppata dal suo amore, dalla testa ai piedi, come in un sogno. Ma è molto meglio di un sogno, persino di quello in cui Jonas diventava una sensuale nube fluttuante. “Lui mi ama”. E io amo lui. Nonostante il mio grido di protesta, stacca la lingua umida da lì e risale in una scia di baci lungo il mio torace fino al viso. Alla fine si ferma sulla bocca e mi divora le labbra, con il pene eretto premuto contro il mio clitoride pulsante. I suoi baci sono voraci e intanto struscia l’uccello sul punto più sensibile del mio corpo. Oddio, si sfrega contro di me, mi
incita, mi fa strillare e intanto mi sussurra all’orecchio. «Ti amo, Sarah Cruz», ripete, mentre la sua voce e il suo uccello cospirano per spingermi oltre il limite. «Ti amo tantissimo, piccola». Ha un tono roco e intanto si sfrega contro di me, facendomi fremere dall’estasi. «Ti amo con tutto il cuore». Quando vengo, scossa dai brividi, urlo il suo nome, divorata e pervasa dall’orgasmo, e allora lui mi penetra a fondo, sempre di più. Dopo un attimo, viene anche lui. «Ti amo», sussurra per l’ennesima volta, con un ultimo affondo. «Ti amo, Jonas», gli dico, tremante.
Restiamo sdraiati per diversi minuti, senza parlare. Accidenti, è stato delizioso, anche se adesso sento pulsare forte le mie varie ferite per lo sforzo. Ma non mi interessa, posso sempre prendere dell’ibuprofene, che diamine. Ho appena provato un’estasi assoluta, un’euforia di quelle che ti cambiano la vita, ti travolgono e ti fanno perdere i sensi. Oh, buon Dio, quest’uomo bellissimo mi ama. E io amo lui. Ce lo siamo appena detti a voce alta. Oddio. Jonas mi dà un bacio sulla guancia e si sdraia sulla schiena, con un sospiro di felicità. «Il culmine dell’umana possibilità», commenta, con un sorriso a
trentadue denti. È il ritratto dell’allegria. Non l’ho mai visto tanto gioioso e non ho mai visto questa luce che balla senza riserve nei suoi occhi. È come se qualcosa di scuro e pesante si fosse levato dalla sua anima, liberandolo da un peso e lasciandolo leggero come una piuma. È la creatura più bella che io abbia mai visto. Oh, Jonas. Il mio dolce Jonas. Lo amo con tutto il cuore. E, che il Signore abbia pietà di me, anche lui mi ama.
Capitolo tredici
Sarah
Io e Jonas siamo seduti sul balcone a guardare la città, con un bicchiere di vino (io) e una bottiglia di birra (lui), e finalmente stiamo facendo la chiacchierata a cuore aperto che negli ultimi tre giorni ho cercato di evitare. Gli ho appena raccontato fin nei minimi dettagli lo scontro con il John Travolta ucraino nel bagno e gli ho anche mostrato il recente scambio di email con il Club. Lui ha ascoltato con attenzione
ogni parola, respirando a malapena. «Cazzo, quanto sei intelligente», dice. «Grazie a Dio avevi l’assegno in borsa». «Non grazie a Dio», lo correggo. «Grazie a te. Avevo l’assegno in borsa solo perché me l’avevi dato tu, Jonas. Mi hai salvato la vita». Scuote la testa, riluttante ad accettare questo dato di fatto semplice ma inconfutabile. «Sì invece, Jonas. Stammi a sentire. Due cose mi hanno salvato la vita: conoscere il nome di Oksana e avere quell’assegno. E per entrambe devo ringraziare te. Vedi? Mi hai salvato la vita».
Jonas beve un sorso di birra e riflette sulle mie parole. Riesco quasi a vedere gli ingranaggi che girano nella sua mente. «Ehi, magari puoi bloccare l’assegno», aggiungo. «Non so perché non ci ho pensato prima». «Che diavolo, no. Noi vogliamo che lo depositino, come un dispositivo di tracciamento. Non sarebbe potuta andare meglio nemmeno se ci avessimo pensato». Fa cin cin con il mio bicchiere. «È stato un colpo di genio, Sarah Cruz». «Non capisco». «Una volta che l’avranno incassato, sapremo in che banca hanno un conto
corrente e potremo sfruttare l’informazione per trovarli». «Oh, wow», commento. «Non ci avevo pensato». Faccio una smorfia. «Dando per scontato che lo depositino, però. Non dimenticarti che è intestato a me». Ride. «Qualsiasi criminale da quattro soldi saprebbe cancellare il nome del beneficiario da un assegno». «Sul serio? Cavoli, c’è da aver paura. Sarò anche al servizio di criminali che operano su scala mondiale, ma non ne so molto sulla criminalità organizzata». «Sarah». «Cosa c’è?». Mi sta fissando con gli occhi lucidi. «Sono davvero fiero di te».
Accantono la questione con un cenno della mano, come a dire che non ho fatto niente di che. «Ho solo guadagnato un po’ di tempo. Ma ho paura di quello che succederà quando non consegnerò tutti i soldi che gli ho promesso». Scuoto la testa, al pensiero delle mie grandi promesse. «Quanto ci metteranno a capire che ho detto solo un mucchio di stronzate? Quanto ci vorrà prima che decidano di finire il lavoro che hanno cominciato in quel bagno?». Ho una stretta allo stomaco. «Oh, non preoccuparti, piccola mia, li smaschereremo molto prima che loro smascherino noi». Mi appoggia sulla coscia una mano, ha il palmo caldo
nonostante l’aria fresca della sera. «Devi solo continuare a fargli credere di avermi in pugno, proprio come hai fatto in bagno. E nell’email. Sfrutteremo la loro avidità contro di loro e li fotteremo alla grande». «Mi dispiace di averti tirato in mezzo, Jonas», dico. «Avrei dovuto trovare un modo per salvarmi la pelle senza coinvolgerti». «Stai scherzando? Sei stata geniale. Hai detto esattamente la cosa giusta». Deglutisce a fatica, reprimendo l’emozione. «Qualsiasi cosa tu abbia dovuto fare per restare viva, sono contento che l’abbia fatta». Metto giù il bicchiere di vino e vado a
sedermi sulle sue gambe. Lui posa la birra e mi cinge la schiena, strofinando il naso contro il mio. «Allora, quali altre cose orribili volevi dirmi, mia preziosa bambina?», mi chiede. Quando abbiamo cominciato, l’ho avvisato di avere cinque cose di cui parlargli, alcune delle quali non proprio belle. «Di qualsiasi cosa si tratti, ti garantisco che non mi arrabbierò». Vedremo. Finora, delle cinque cose orribili gliene ho dette solo due. Punto uno: ho dato ai cattivi l’assegno da duecentocinquantamila dollari. Punto due: ho detto ai cattivi che sto fregando Jonas e che posso spillargli altri soldi. Fin qui, è andato tutto liscio. A quanto
pare, secondo lui ho gestito la situazione in modo brillante. Ma ora tocca ai prossimi punti. «Punto tre», esordisco, «ho una lista di dodici Oksana con una casella postale nella zona di Las Vegas, con tanto di indirizzi forniti per ottenerne l’assegnazione». Rimane a bocca aperta. «Wow, è fantastico. Perché dovrei arrabbiarmi se…». Di colpo si rabbuia. «Sarah, come hai avuto queste informazioni?». Inspiro a fondo. «Ho chiesto aiuto a Georgia». Si fa tutto rosso in viso e lo sento fremere sotto di me, come se volesse farmi spostare.
Mi alzo, con le guance in fiamme. «Come hai potuto anche solo pensare di coinvolgere Georgia in tutta questa storia?». Si passa una mano tra i capelli, nel tentativo di contenere la rabbia. Ragazzi, è proprio incazzato. «È solo che… Non riesco a credere che tu l’abbia fatto». Si sta trattenendo dall’aggiungere altro. Sapevo che questo punto non gli sarebbe piaciuto, ma pensavo che avrebbe semplicemente alzato gli occhi al cielo. Non mi aspettavo che si arrabbiasse sul serio con me. Serra la mascella. «Non voglio che Georgia e Trey vengano coinvolti in questa storia. A cosa stavi pensando?».
Nel suo tono avverto una rabbia controllata. A cosa stavo pensando? Be’, in due parole, che sono pronta a fare di tutto per rintracciare questi figli di puttana. Che non me ne starò qui seduta ad aspettare che tornino a finire il lavoro. Che non pensavo di mettere in pericolo Georgia o Trey, altrimenti non le avrei mai chiesto aiuto, diamine. Non sono così stupida, che cazzo. L’indignazione mi si legge in viso. Jonas si alza. «Dio. Cosa le hai detto quando gliel’hai chiesto?». Con voce ferma e controllata, gli ripeto esattamente ciò che ho raccontato a Georgia.
Lui resta in silenzio per un minuto buono, chino sulla ringhiera del balcone, con lo sguardo fisso sulla città. Incrocio le braccia e aspetto che il mio signore e padrone mi degni del suo verdetto. Vuole prenderli i cattivi oppure no? Perché io sì, ed è proprio quello che cercavo di fare, per l’amor del cielo. Indignata, mi risiedo e riprendo il vino. Sento il sangue che mi pulsa nelle orecchie. Jonas si volta e appoggia la schiena contro la ringhiera. «Sei proprio una curiosona, lo sai?». Mi sforzo di controllare il labbro che trema e annuisco. Sì, sono una
curiosona. Lo so anch’io. Se non gli piace questa parte di me, allora che si prepari, perché lo aspetta un viaggio lungo e tormentato. «Non puoi proprio farne a meno, eh?». Annuisco ancora. È vero, e allora? Sono sempre stata così. Non riesco a trattenermi. Se non gli va bene come sono fatta, come sono sempre stata, la mia stessa natura, allora forse dopotutto le cose tra noi non funzioneranno. Cosa vuole che faccia? Che me ne stia seduta ad aspettare che tornino a finire il lavoro che hanno cominciato… «Vieni qui», mi dice con voce calda, e allarga le braccia. Ma io non mi muovo. Ho le guance in
fiamme. I miei pensieri sono in subbuglio e mi serve un minuto. Cosa si aspettava che facessi? Che me ne stessi qui a girarmi i pollici? Non è nel mio stile. Allora mi si avvicina e mi fa alzare. Faccio resistenza addirittura per tre secondi e poi mi sciolgo contro il suo grande petto. «D’ora in avanti, siamo una squadra». Mi dà un bacio sulla testa. «Niente più Sarah la Curiosona che se ne va in giro a conquistare il mondo tutta sola, okay?». Non rispondo. Mi godo la sensazione di questo abbraccio nell’aria fresca della sera. «Decideremo tutto insieme. E vale
anche per me… Due teste e mezzo sono sempre meglio di una». Lo guardo. «Due e mezzo? È Josh la mezza testa?». Scoppia a ridere. «No, anche se gli dirò che l’hai detto. Te ne concedo mezza in più perché sei intelligente». Strofino il naso contro il suo collo. Ha un odore buonissimo. «Mi dispiace, Jonas». Mi fa sollevare la testa per guardarlo. «Cosa devo fare con te, piccola? Hmm?». Arriccio le labbra. «Baciarmi?». Inarco un sopracciglio, speranzosa. Lui sorride e ubbidisce. «Okay. Che altro c’è sulla lista?», mi
chiede. È di gran lunga più diffidente rispetto a pochi minuti fa, quando, sicuro di sé, aveva annunciato che non avrei mai potuto farlo arrabbiare. Sospiro. «Non ti ho creduto quando hai detto di aver visto il Travolta ucraino. Pensavo che fossi iperprotettivo e ipersensibile… e pure un po’ paranoico. Sono stata un’idiota. Avrei dovuto crederti». Inclina la testa e mi guarda a lungo, poi apre la bocca per dire qualcosa ma ci ripensa. «Capisco», dice infine. «È tutto a posto». Mi aspettavo qualcosa di più, ma a quanto pare non c’è altro.
Si stringe nelle spalle. «E poi?». Quindi siamo a posto su questo punto? Perché in tal caso, non so come abbiamo risolto la cosa. «Ehm, per concludere, penso sia importante parlare dell’effetto che tutta questa storia ha avuto su di te». Serra la mascella ma non dice nulla. «Ci sto da cani». Di colpo, gli occhi mi si riempiono di lacrime. «Ti ho fatto vivere un altro trauma ed è l’ultima cosa al mondo che avrei voluto. Dev’essere stata una vera e propria tortura per te trovarmi in quello stato… Quella scena deve aver riportato a galla un sacco di ricordi sull’omicidio di tua madre. Mi dispiace così tanto…». «È a me che dispiace». La sua voce è
angoscia allo stato puro. Si siede di nuovo e si prende la testa tra le mani. «Sono io che avevo promesso di proteggerti e poi ti ho lasciato andare in quel bagno senza alcuna protezione, da sola, mentre stavo seduto in aula a sentire della cazzo di musica…». Più continua e più si strozza con le parole, in preda all’emozione. «Stavi ascoltando della musica? Ascoltavi la playlist che ti ho fatto?». Si blocca e mi fissa. Ho interrotto il corso dei suoi pensieri. Mi sistemo sulle sue gambe e gli cingo il collo con le braccia. «Sei riuscito a decifrare il messaggio in codice supersegreto nascosto in quelle
canzoni?». Sorrido, ma lui aggrotta la fronte. Boom. Tutt’a un tratto, è come se venissi colpita da una tonnellata di mattoni: ecco il momento che ho cercato di ritardare negli ultimi tre giorni, che mi ha fatto scappare da Jonas per avere un po’ di spazio. Questo. Non voglio. Dentro di me, sapevo che Jonas si sarebbe addossato la colpa di tutta questa situazione, che l’avrebbe vista come l’ennesimo fallimento nel proteggere la persona che ama di più. Sapevo che non sarebbe riuscito a tenere separata l’aggressione nei miei confronti dall’orribile omicidio della madre e che avrebbe fuso i due incidenti in
un’enorme palla di inestricabile autocolpevolizzazione e, a essere sinceri, non ce la faccio a sopportarlo. Non sono emotivamente pronta per starlo a guardare mentre precipita di nuovo nel vortice di disprezzo verso se stesso. Quest’uomo bellissimo si è incolpato della morte della madre per ventitré cavolo di anni. Adesso si prenderà la colpa anche della mia aggressione per i prossimi ventitré? E in tal caso, a quale costo per la sua anima? E per la mia? A quale costo per la nostra relazione? Sono una persona compassionevole, ma non una santa, che cavolo. Non voglio affrontare tutto questo. È una cazzata e non ne ho né il
tempo né la pazienza. «Non so come farai a perdonarmi», mi dice, e si copre il viso con le mani. Mi alzo di scatto e mi metto a camminare su e giù per il balcone, in preda a un turbinio di pensieri. «Jonas», esordisco, conscia della scarica di adrenalina nelle vene. «No». Lui mi guarda e incrocia le braccia, pronto al peggio. Inspiro a fondo. «No, no, no. Per tutta la vita ti sei addossato la colpa della morte di tua madre e non è stata colpa tua. Fanculo tuo padre, Jonas. Non è stata colpa tua, che cavolo. No». Pare sorpreso. Non è quello che si aspettava.
«Se io e te vogliamo avere qualche speranza, non puoi incolparti per ciò che mi è successo come hai fatto per la morte di tua madre. Te lo dico chiaro e tondo: se questa volta ti prenderai la colpa, sarà come un veleno per te… per me… e poi per noi». Adesso ha un’espressione scioccata. E ferita. Ma così non va proprio. Ormai ho ingranato la marcia. «Mi hai salvato la vita, Jonas. Fattelo entrare in quella tua testa dura e tormentata. Sei il mio eroe, tesoro, il mio salvatore. È la verità oggettiva, ma è anche la verità che scelgo. Non capisci? Scelgo di stare con l’uomo che mi ha salvato la vita, non con quello che
cerca sempre di rimediare all’ennesimo “orribile fallimento” che non è nemmeno colpa sua. Piantala di fare il ragazzo tormentato, di autocolpevolizzarti. Piantala con questa cazzata del mea culpa. In questa favola, la nostra favola, sei il ragazzo che arriva su un cavallo bianco, sbaraglia i cattivi e mi ama come nessun altro ha mai fatto… perché quel ragazzo sei tu, Jonas Faraday. Se continuerai all’infinito a chiedermi di perdonarti per qualcosa che non hai nemmeno fatto, non funzionerà per me». Deglutisce a fatica. «Se proprio vuoi parlare di colpa, bene. Parliamone. Una volta per tutte». Apre la bocca per dire qualcosa, ma io
alzo l’indice e lo zittisco. «Se c’è qualcuno da incolpare qui, sono io. Sono io che ho infranto le regole fin dall’inizio e ti ho contattato. Sono io che ho indagato su di te e su quell’ingegnere informatico, così che per Stacy fosse fin troppo facile fare due più due e smascherarmi. E sono io che mi sono rifiutata di lasciarti venire in bagno con me perché sono sempre io che pensavo che il mio brillante e sensibile ragazzo fosse solo paranoico… e che avesse le allucinazioni». A quest’ultima parola, fa una smorfia. Sì, Jonas, ti ho appena dato dello schizzato fuori di testa. «Ed è tutta colpa mia. Mia, Jonas.
Mia. Sono io che ti ho sgridato perché non ti fidavi del tutto di me, perché non eri pronto a saltare giù da una cascata per me, e poi non mi sono fidata di te». Sta per scoppiare in lacrime. «Però io mi perdono per tutto quanto, Jonas, e spero che lo farai anche tu, perché altrimenti questa cosa mi divorerà e sarà la condanna della nostra relazione». L’espressione sul suo viso mi spezza il cuore, ma vado avanti comunque. «Jonas, capisco la storia del senso di colpa quando eri un bambino di sette anni con un padre che ti ha maltrattato per tutta la vita, ma quando si tratta di me e te, di due adulti che vanno avanti alla pari, la storia del ragazzo
tormentato non andrà a finire bene, te lo garantisco». Faccio una pausa. «Non voglio una relazione con un uomo che si ritiene responsabile di tutto ciò che succede. Cioè, so che hai il complesso del Dio, ma così ti spingi un po’ troppo oltre». Sbatte le palpebre. «Basta senso di colpa, Jonas. Basta cazzate del tipo “Non so come farai a perdonarmi”. Andremo avanti senza colpe oppure non andremo avanti per niente». Sollevo il mento e lo fisso. «Perché io sono pronta a farlo, tesoro. Sono pronta a darci un taglio». Il suo petto si alza e si abbassa allo stesso ritmo del mio e nel suo sguardo
brilla una scintilla. «Non appena mi avranno tolto i punti dalla testa, s’intende». Solleva le labbra in un sorriso sbilenco. Alzo le mani. «Allora, che ne dici, caro il mio ragazzo? Deciditi. Dentro o fuori?». Lui si alza, con occhi ardenti, e mi stringe con le braccia muscolose. Basta un bacio e, in un lampo, le nostre mani vanno dappertutto e ci abbassiamo i pantaloni, consumati dall’improvvisa scarica elettrica che ci scorre nelle vene. Senza perdere tempo, lui mi fa appoggiare la schiena alla ringhiera del balcone, scende con le dita fino al
bersaglio e mi penetra in profondità, sussurrandomi all’orecchio «Ti amo» e «Cazzo come sei calda» e «Piccola». Dio. È divino. Potrei anche sbagliarmi, potrei anche sbagliarmi di grosso, ma sono abbastanza sicura che quest’uomo mi stia dicendo, con una certa enfasi, che sì, è dentro. Completamente. Dentro di me, dolce e a fondo e del tutto. Dentro, dentro, dentro, dentro, dentro, dentro, dentro.
Capitolo quattordici
Sarah
Mi sveglio di soprassalto per un rumore accanto al letto. Strizzo gli occhi nell’oscurità della stanza e poco per volta metto a fuoco le forme e i colori. Il cuore mi balza in gola. Oddio. In un angolo c’è John Travolta di Pulp Fiction e stringe un grosso coltello. Quando i nostri sguardi si incontrano, sorride. Apro la bocca per gridare, ma non ne esce alcun suono. Lui mi si avvicina piano piano, con un sorriso
malvagio e la lama lucente in mano. Finalmente ritrovo la voce. «Oksana!», strillo. Lui scuote la testa. «Questa volta no, stronza». Solleva il coltello e, con uno sguardo glaciale, lo affonda nel mio cuore. Balzo a sedere e grido con tutto il fiato che ho, stringendomi il petto. «Ssh», dice Jonas, e cerca di tenermi ferma. «È tutto a posto». Malgrado la sua stretta, mi agito e sento la gola in fiamme. «Stavi sognando, Sarah. Era solo un incubo». Scoppio in lacrime e mi affloscio tra le sue braccia, con il corpo scosso da
violenti brividi. Lui mi tira a sé. Piango, anche se mi sforzo di controllare i singhiozzi. «È stato solo un brutto sogno», mi ripete. «Ssh». Una pioggerella leggera picchietta sul tetto. Il mio cuore batte all’impazzata. «Ci sono qui io», dice Jonas. «Sono qui, piccola. È stato solo un brutto sogno. Ci penso io». Sento il suo corpo caldo contro il mio. Mi stringe e mi bacia sulle guance umide. Non riesco a smettere di tremare. «Dobbiamo andare a Las Vegas», dico di colpo, con voce incerta. «È ora di fare il culo ai cattivi. Devo fare
qualcosa». Mi scosta una ciocca di capelli dal viso e mi dà un altro bacio sulla guancia. «Domani mi toglieranno i punti dalla testa e poi partiremo», ribadisco. Lui resta zitto a lungo. Il silenzio è interrotto solo dal rumore della pioggia contro la finestra. «E le lezioni?», mi chiede infine. «Gli esami finali ci sono tra cinque settimane», rispondo, con un sospiro rassegnato. «Sono così indietro che non riuscirei mai a prendere il massimo dei voti come speravo». La delusione nella mia voce è più che evidente. «Ma guardiamo il lato positivo: ho studiato
così tanto durante l’anno che potrei darli domani e passarli tutti». Inspiro a fondo, per cercare di calmarmi. «Che mi piaccia o no, dovrò accontentarmi di una media finale nella norma». Sospira. «Lo sai che quella borsa di studio non ti serve, vero? Qualsiasi cosa succeda, mi prenderò cura di te». Sfrego il naso contro il suo collo. «Lo so. Grazie». Vorrei tanto dirgli ancora che lo amo, ma mi mordo la lingua. Finora ci siamo ripetuti quelle due paroline solo mentre facevamo sesso e non voglio fargli troppa pressione. So che è stato un grande passo per lui, quindi mi accontento del mio solito: «Mio dolce Jonas».
Lui mi stringe. «Sei sicura che ti senti pronta?» «Sì. È ora di fare il culo ai cattivi». «Allora okay». Fa un sonoro sospiro. «Andiamo a fotterli. Domattina chiamo Josh e gli dico di prendere il suo amico hacker e raggiungerci nella città del peccato». «Perché ci serve Josh?» «Io e lui ragioniamo insieme. E poi porterà anche l’hacker, e lui ci serve». Ha ragione. Ieri abbiamo scoperto che i cattivi hanno depositato l’assegno da duecentocinquantamila dollari in una piccola banca di Henderson, una cittadina appena fuori Las Vegas, e Jonas ha immediatamente messo al
lavoro l’hacker per curiosare nel sistema centrale dell’istituto. Se facciamo centro e salta fuori che una delle Oksana della lista ha un conto lì, allora le faremo il culo. «Okay, mi sembra giusto. E io chiamerò Kat per dirle che giocheremo a Ocean’s Eleven». «Perché ci serve Kat?» «Kat torna sempre utile, in qualsiasi situazione. Vedrai. Anche se non sappiamo ancora perché o come, prima o poi ci servirà». «Ma perché coinvolgerla in questa storia? Sono abbastanza sicuro di aver convinto Stacy che Kat non sa nulla del Club, e scommetto che lei l’ha riferito ai
suoi superiori. Teniamo Kat lontano dal radar dei cattivi per il momento». «No, non capisci. Kat è la tua versione femminile. Basta che sbatta le ciglia e la gente è pronta a fare di tutto. È un’arma potente da avere a disposizione. E comunque, dai, ci servono delle belle persone nella nostra squadra se vogliamo portare a termine un colpo a Las Vegas. Non hai mai visto Ocean’s Eleven?». Sospira per la frustrazione. «Non dovremmo coinvolgere Kat». «Ho bisogno di lei, Jonas. Tu hai bisogno del tuo Josh e io della mia Kat». Sospira. «Okay. Va bene. Josh, l’hacker e Kat». Alza gli occhi al cielo
con aria fintamente seccata. «Chi altro vuoi che faccia venire a Las Vegas senza preavviso, capo? George Clooney? Brad Pitt? Matt Damon?» «Sì, grazie. Tutti e tre. Oh, e Don Cheadle. Lo adoro. Che ne dici di Ben Affleck, sai, giusto per tenere compagnia a Matt Damon? Se io e te ci portiamo i nostri migliori amici, è giusto che anche lui abbia il suo». «Oh, che pensiero dolce», dice Jonas. «Sì, lo so. Sono una persona generosa». Faccio spallucce. «Sono fatta così». Scoppia a ridere. «Riesci a farmi ridere anche quando trami di conquistare il mondo».
Sospiro. «A volte ridere è il modo migliore per non piangere». Mi abbraccia di nuovo. «Non c’è nessun motivo per piangere, piccola», mi rassicura con voce tenera. «Abbiamo questo. Io e te. Be’, io, te e Clooney». Lo abbraccio anch’io. «E Brad Pitt». «E Matt e Ben». «E Don Cheadle», aggiungo. «E il tuo Josh e la mia Kat e l’hacker». «Siamo proprio uno strano gruppetto», commenta. «E decisamente bello, che cavolo». «Nessuno ci può fermare». Per un minuto, ascoltiamo la pioggia che cade. «Dio, quanto odio Las Vegas»,
mormora Jonas. «Perché?» «Perché?», ripete, quasi gli avessi appena chiesto come mai odia il virus Ebola. «La folla. Le luci al neon. Il fumo. La musica da discoteca ovunque vai. La gente che balla». Fa una smorfia come se quest’ultima cosa fosse il crimine peggiore. «Per non parlare di quegli zombie senza cervello che gettano al vento i soldi guadagnati con il duro lavoro nel disperato tentativo di provare qualcosa, anche solo per un momento, e poi se ne tornano arrancando alla loro squallida vita reale senza più i soldi del loro affitto del cazzo». Sbuffa. «Odio tutto di quel posto».
E lo dice il ragazzo che di recente ha gettato al vento i soldi guadagnati con il duro lavoro nel disperato tentativo di provare qualcosa, anche solo per un momento? Lo amo, Dio sa quanto, ma a volte Jonas mi fa morire con la sua totale mancanza di consapevolezza di sé. Oggi però sono in modalità santa, quindi mi trattengo dal fare dell’ironia. «E io che pensavo che Las Vegas fosse divertente», dico. «Che stupida». «Non sei mai stata a Las Vegas?» «No». È sorpreso. «Non tutti sono stati ovunque come te, caro il mio nababbo». «Ma Las Vegas non è il posto da
tirarsela perché sei stato ovunque. Il Belize sì, lo ammetto, ma Las Vegas? Chiunque c’è stato». «A quanto pare no». «Uh». Sospira e mi dà un bacio sulla guancia. «Bene. Allora dovrò tapparmi il naso e far divertire la mia piccola, vero?» «Ecco lo spirito giusto. Solo perché una ragazza è impegnata a smantellare un’organizzazione criminale che opera su scala mondiale non significa che non voglia anche divertirsi, nel frattempo». «Okay, allora. Siamo d’accordo. Domani ci riuniremo con il nostro gruppo strano ma bello e cercheremo di capire come fottere questi figli di
puttana». «Adesso sì che è un piano coi fiocchi», approvo. Mi bacia sul collo. «Prima di tutto però, domattina ti farai togliere i punti dalla testa». «Sì, grazie a Dio». «Anche se per me sono piuttosto sexy». Sento la sua erezione contro la coscia. «Oh. Sei proprio un depravato, Jonas». Mi mordicchia l’orecchio. «Ogni parte di te è sexy, anche quelle disgustose». «Cosa? Nessuna parte di me è disgustosa». «Certo invece. I punti… i punti… e la lista continua». Mi bacia di nuovo. «E i
punti». Con una mano mi sfiora il fianco. «E i punti». La sposta sulla schiena e poi mi afferra il sedere. «Che ne dici se mi godo un’ultima volta questo sedere alla Frankenstein prima di domani?» «Sei malato», commento scoppiando a ridere. «Ma mi piace».
Capitolo quindici
Jonas
Sarah corre per la nostra suite a Las Vegas, lanciando gridolini. «Hai visto?», strilla. «Guarda che vista! Wow!». Si mette a cantare Fancy di Iggy Azalea a pieni polmoni. Scambio un sorrisetto con il facchino. «Metto qui, signore?», mi chiede, con un cenno alle valigie. «Questo posto è il triplo del mio appartamento!», continua a urlare Sarah, ridendo e facendo delle giravolte. «È
incredibile». «Va bene», rispondo al ragazzo. «Grazie». «Jonas!», mi chiama lei da qualche parte nel profondo della suite. «Vieni». Do la mancia al facchino. «Grazie, signore», mi dice lui, con un gran sorriso. «Vuole che apra lo champagne, signore?» «No, ci penso io». «Vuole che le descriva tutti i comfort a vostra disposizione qui nella suite nell’attico o nell’hotel in generale?» «No, grazie. Li scopriremo da soli». «Benissimo, signore. Buona permanenza». «Jonas Faraday!», strilla lei. «Porta
qui il sedere». Diamine, quanto amo questa donna. Seguo la voce di Sarah fino in bagno. È seduta, completamente vestita, e con un sorriso a trentadue denti, in una vasca da bagno vuota delle dimensioni di una piccola Jacuzzi. «Ci credi?», dice. «A chi serve una vasca così grande?». Non riesco a trattenere un’occhiatina maliziosa. «Oh», dice, con espressione altrettanto birichina. «Immagino che servirà a noi». Le brillano gli occhi. «Sai, devo avvisarti che questa città sta già tirando fuori la ragazzaccia che è in me. Lo sento». «Ah sì? Mi piace la ragazzaccia che è
in te». «E tu piaci a lei». Sorrido. «Sì, direi proprio che stiamo per aggiungere un’altra integrazione alla mia lista». «Basta che non mi leghi le gambe con delle cravatte». «Ho imparato la lezione, sta’ tranquillo». Entro nella vasca insieme a lei, che mi striscia addosso e mi bacia. «Mi sto già divertendo un sacco». «Siamo venuti direttamente qui, dopo essere atterrati, e siamo seduti in una vasca vuota, completamente vestiti». «Lo so… Non è divertentissimo?». Scoppio a ridere. «Già». Mi bacia di nuovo. «Ehi, dici che
abbiamo tempo per giocare un po’ prima che arrivino gli altri?» «Oh sì, c’è tutto il tempo», rispondo, e la bacio a mia volta. «Perché non riempiamo questa vasca e vediamo chi riesce a trattenere il fiato più a lungo?» «Non è il tipo di gioco che avevo in mente», protesto. «Ah, allora non hai capito cosa ho intenzione di farti mentre trattengo il fiato sott’acqua». Il mio uccello prende vita. «Una sfida a chi trattiene il fiato, va bene. Ti va dello champagne?» «Lo sai che non dico mai di no allo champagne».
«Arriva subito». Salto fuori dalla vasca, con l’erezione stretta nei jeans. Ehi, forse Las Vegas non è poi così male, dopotutto. «Mi sento s-e-e-e-xy, tesoro», mi grida. «Sono tu-u-u-u-tta eccita-a-a-a-ta, caro il mio aitante ragazzo. Portami lo champagne e ti garantisco che la ragazzaccia che è in me verrà a divertii-i-i-i-irsi». Dio santissimo. Stappo la bottiglia a tempo di record e prendo due bicchieri. Bussano alla porta. «Ehi!». No, ti prego, Dio, no. Non ancora. Non adesso. «Siamo a Las Vegas, baby!», grida Kat alla porta della nostra suite.
Che cazzo. Sarah esce di corsa dal bagno e spalanca la porta. «Wow!», strilla la sua amica. Le due ragazze si abbracciano e gridano come se avessero appena vinto alla lotteria. Malgrado la delusione per non essere nella vasca con Sarah, scoppio a ridere. Sono adorabili. «Wow, Jonas, stavolta ti sei davvero superato», commenta Kat, staccandosi da Sarah. «Scommetto che in questa suite vengono le rockstar e il principe Harry, soprattutto visto l’ascensore privato per salire. È stupendo». «Volevo che fosse tutto perfetto per la mia preziosa bambina, visto che è la sua
prima volta nella città del peccato». Nel sentirmi dire «la mia preziosa bambina», le due ragazze si scambiano un’occhiata sorpresa e, in effetti, sono piuttosto scioccato anch’io di aver usato quelle parole in presenza di Kat. Come ho fatto a lasciarmele sfuggire? «Oh, Jonas», dice Sarah, tutta rossa in viso. «Come sei dolce». Sento le guance andare a fuoco. «Oh, e grazie per la mia stanza», aggiunge Kat. «Tutto a posto con il check-in?» «Sì, grazie». Sarah mi guarda raggiante e io le rivolgo un’occhiata di desiderio puro. Adesso non vorrei proprio avere questa
conversazione con Kat, vorrei starmene da solo con lei e batterla nella sfida a chi trattiene il respiro sott’acqua. «Che vista!», urla Kat, afferra Sarah per mano e la trascina di corsa alle finestre alte fino al soffitto in fondo alla stanza. «E aspetta di vedere la Strip di notte», aggiunge. «Resterai impressionata da tutte le luci». Sospira. «Dio, quanto adoro Las Vegas». Perché la cosa non mi sorprende? «Ho visto la Strip solo nei film, ma scommetto che dal vivo è proprio forte», commenta Sarah. «Oh, champagne», dice Kat, notando la bottiglia sul mobile bar. «Ti prendo un bicchiere». Lancio di
soppiatto un’occhiata afflitta a Sarah, che scoppia a ridere. Sono contento che la mia agonia le sembri tanto divertente. Qualcuno bussa rumorosamente alla porta. «Apri, bestione!». Ubbidisco e mi trovo davanti Josh accanto a un nerd con il pizzetto convertito in hipster. Abbraccio mio fratello e poi il tizio si presenta come Hennessey. Non so se sia il nome o il cognome, ma lui non aggiunge altro. «Però tutti mi chiamano Henn», conclude, e mi porge la mano. «O cazzo di genio», aggiunge Josh. «Tu sei l’unico che mi chiama così, Josh». «Be’, è vero».
«Sei il genio che ha rintracciato Sarah per me?», chiedo. «Il solo e unico», conferma lui. «Allora sei un cazzo di genio anche per me». Sarah e Kat ci raggiungono saltellando allegre. «Ehi, allegra festaiola con un trattino». Josh saluta Kat con occhi brillanti. «Ciao, playboy. Viviamo proprio in un pazzo mondo se un’allegra festaiola e un playboy si incontrano a Las Vegas, non trovi?». Scoppiano entrambi a ridere. «È bello rivederti». Josh la abbraccia con entusiasmo e lei gli dà un bacio leggero sulla guancia; un saluto decisamente caloroso da parte di
entrambi. Mmm. Interessante. Kat si presenta a Henn e il ragazzo non riesce a mettere insieme nemmeno due parole. Sarà anche un cazzo di genio con i computer, ma di certo non quando c’è di mezzo una bella donna. Le ragazze riempiono di nuovo i bicchieri di champagne, i ragazzi si prendono una birra dal frigo e poi ci mettiamo comodi sui divani in pelle nera in salotto. «Sono scioccato che tu abbia fatto una follia prendendo questo posto, fratello», dice Josh, ammirando tanto splendore. «Non è per niente da te». «La vuoi piantare di dirmi cosa è o non è da me? A quanto pare, non hai
idea di come sono fatto». Josh scoppia a ridere. «Sembra proprio di no». L’hacker apre il portatile. «Okay, gente. Ho un aggiornamento sulla questione Oksana su cui mi avete fatto lavorare». «Fantastico», commento, e mi sfrego le mani. Oltre alle Olimpiadi subacquee di sesso orale con la mia piccola, non c’è niente che voglia di più che fottere questi figli di puttana in fretta. Questi pezzi di merda mi hanno quasi portato via la mia ragazza, il che significa che hanno quasi ucciso anche me, e ora non solo voglio fargli abbassare la cresta, voglio anche il loro sangue.
Ci accalchiamo tutti intorno al computer. «Sono riuscito a intrufolarmi nel sistema della banca di Henderson dov’è stato depositato l’assegno. In realtà, è stato facile. Resto sempre sorpreso di quanto sia messa male la sicurezza online delle banche. Vi consiglio vivamente di tenervi i vostri soldi sotto al materasso, gente. Comunque, sono entrato nel sistema centrale della banca e ho dato una sbirciatina. Sono riuscito a incrociare i nomi dei correntisti con quelli della lista di Oksana che mi avete mandato, e bingo. Ho un riscontro». Sarah esulta. «La nostra Oksana si chiama Oksana
Belenko; non vi sembra il nome di una pattinatrice sul ghiaccio? Ha un conto nella banca di Henderson e una casella postale a Henderson. Boom, baby». «Vedete? È un cazzo di genio», dice Josh. «Sei sicuro che sia la nostra donna?», s’informa Sarah. «Sì, è lei. Ho controllato l’indirizzo che ha dato all’ufficio postale e, come prevedevo, è palesemente falso. Ma c’è un’Oksana Belenko registrata nello Stato del Nevada tra i membri di una società che gestisce da vent’anni alcune case di appuntamenti legali, e l’indirizzo per la licenza coincide con quello fornito per l’iscrizione della società».
«Allora vuol dire che abbiamo un indirizzo fisico certo?», insiste lei. «Sì». «Wow», commenta, e poi resta un attimo zitta, con gli ingranaggi al lavoro nella mente. «Quindi Oksana fornisce le ragazze per il Club…». Lancia un’occhiata a Josh. «O, se preferisci, per le montagne russe con la faccia di Topolino». Lei e Kat scoppiano a ridere, ma Josh scalpita. «Era un’analogia», puntualizza. «Lo sappiamo, caro il nostro Josh, lo sappiamo», dice Sarah, facendogli l’occhiolino. «Ma è comunque divertente».
Appoggio una mano sulla coscia di Sarah. Riesce a eccitarmi qualsiasi cosa faccia, ma soprattutto quando fa il culo a qualcuno. «Sì, Oksana è come una vecchia maîtresse», commenta Henn. «Probabilmente non è lei la mente che sta dietro all’aspetto tecnologico». «Avrà un socio in affari che si occupa di queste cose», dico. «Di sicuro», conferma Henn. «E chiunque sia questa persona, lui o lei sa esattamente cosa diavolo sta facendo, perché non c’è modo di rintracciarli per caso». Mmm. Come cazzo ha fatto Josh a venire in contatto con il Club?
All’epoca mi ha semplicemente detto che a parlargliene era stato un atleta professionista amico suo, ma io non gli ho mai chiesto i dettagli. «Il miglior investimento della mia vita», ha affermato mentre scalavamo il Monte Rainier. «E comunque», prosegue Henn, bevendo un sorso di birra, «questa vetrina è solo una copertura. Le stronzate vere e proprie di cui si occupano sono nascoste nel Web sommerso. E quello è un posto di cui aver paura». «Cos’è il Web sommerso?», chiede Kat. Henn le rivolge un gran sorriso.
«È una domanda stupida?», s’informa lei, rossa in viso. «Oh no, tutt’altro. È che sono talmente abituato a stare tutto il giorno con altri nerd, che mi dimentico che la gente normale non ne sa niente di queste cose». Le sorride di nuovo. «Sono contento che tu non sappia di cosa si tratta, perché significa che probabilmente sei una persona equilibrata e felice». Kat scoppia a ridere. «In effetti, sì, lo sono». «Si vede», commenta lui. «La felicità è una qualità molto attraente». «Grazie», risponde Kat, e arrossisce di nuovo.
Josh si schiarisce la voce. «Allora, ragazzi, prima che Henn si lanci nella Grande Storia del Web sommerso, che ne dite di uno shot di Patrón? Dopotutto, siamo a Las Vegas, e quando sei a Roma…». «A me sembra un’idea favolosa», accetta Kat, illuminandosi. «C’è della tequila nel bar?» «Ma certo», confermo. «Me ne sono assicurato. Mio fratello è così prevedibile». Josh va dietro al mobile bar e comincia a versare da bere. Kat lo raggiunge subito. «Ti do una mano, playboy», gli dice. «Grazie, allegra festaiola».
Mi sporgo verso Sarah per sussurrarle all’orecchio: «A quanto è data una bella scopata tra quei due?». Lei soffoca una risatina. «Gli do al massimo quarantotto ore».
Capitolo sedici
Jonas
«Il Web sommerso», esordisce Henn, appoggiato allo schienale della sedia, mentre si accarezza il pizzetto come il presentatore di un documentario, «è un cazzo di posto di cui aver paura, ragazzi». Fa un cenno a Kat. «E belle signore». Ho sentito diversi aneddoti sul Web sommerso e sono certo che lo stesso valga per Josh, però non ne ho mai avuta alcuna esperienza diretta. Guardo Sarah
per capire se lei ne sappia qualcosa, ma le leggo in viso che non ha idea di cosa si tratti. «Cominciamo la lezione di oggi con il Web visibile», prosegue Henn, scandendo bene le parole, come un consumato maestro d’asilo hipster. «Il Web visibile», ripete Sarah altrettanto lentamente, quasi fosse il membro di una setta. «Sì, mia cara. Brava», dice Henn, ormai diventato il leader della loggia di Sarah. I due si sorridono. «Il Web visibile è internet come noi lo conosciamo e amiamo, con tutti i risultati che otteniamo quando
cerchiamo su Siri gli orari di un film al cinema o su Google un ristorante dove mangiare sushi. Ma internet è molto, molto di più rispetto al Web visibile». Fa un sorriso diabolico. «Mi sto spaventando, Henn», si intromette Kat. «E fai bene. Il vero internet – e con ciò intendo l’intera rete – è come un oceano dalle profondità infinite, di cui il Web visibile è solo la superficie. Tutto ciò che sta sotto, fluttua nelle acque nere come l’inchiostro del Web sommerso». «Porca zozza», commenta Kat. «Com’è che non ne ho mai sentito parlare prima? E tu, Sarah?». Lei scuote la testa.
«C’è da farsela sotto a sentirne parlare per la prima volta, eh?», chiede Henn. «Assolutamente», conferma Kat. «È come quando ho scoperto che sulla pelle ci sono sempre miliardi di microbi invisibili». Rabbrividisce. Josh geme. «Ti prego, non ricominciare con questa storia dei microbi. Mi fai venire ogni volta la pelle d’oca». Il playboy e l’allegra festaiola scoppiano in una calorosa risata. Sarah si sporge verso il mio orecchio. «Facciamo al massimo ventiquattr’ore». Sorrido. «Quindi, se i normali motori di ricerca non possono recuperare le informazioni
nel Web sommerso, come si fa a trovare ciò che contiene?». Quella di Henn è una domanda retorica. «Per farla breve, bisogna sapere con precisione cosa cercare. Con precisione. Le uniche persone che setacciano il Web sommerso, oltre ai tipi virtuosi come me, sono i governi e i criminali. E quando dico “criminali” intendo jihadisti, signori della droga e trafficanti di esseri umani». «Quindi tu non ti ritieni un criminale?», chiede Kat. Dal suo tono non traspira alcun giudizio, ma solo curiosità. «Che diamine, no, non sono un criminale. Io sto sempre dalla parte dei
buoni, sorella», risponde l’hacker. «Le uniche volte in cui infrango la legge è per il bene supremo o quando una legge è superata». Fa una pausa. «O inutile. O stupida». Fa un’altra pausa. «O quando infrangere una legge specifica non fa male a nessuno». Scoppia a ridere. «Quindi, sì, ehm. Ora che ci penso, infrango la legge di continuo». Ride di nuovo. «Ma non sono un “criminale”. Sto con i buoni, io». Lancio un’occhiata a Sarah. Non pare per nulla turbata dall’illegalità del lavoro di Henn. Anzi, sembra divertita. In effetti, nessuno di noi due ha il diritto di scandalizzarsi per ciò che fa lui – sappiamo benissimo che si è infiltrato
negli archivi della University of Washington per trovarla per me e di certo non era legale. «I miei clienti mi pagano per aiutarli con un problema specifico», continua Henn. «E io lo faccio. Ma non lascio tracce, non prendo niente e non faccio male a nessuno. A meno che non mi paghino per lasciare tracce, prendere qualcosa o fare male a qualcuno, s’intende». Fa un sorrisetto. «Ma lo faccio solo quando sono sicuro di lavorare per i buoni». Sarah mi stringe il braccio, per farmi capire che tra i buoni di cui Henn sta parlando ci sono anch’io. «Per esempio», va avanti l’hacker,
«quando ho dato una sbirciatina in quella banca in cerca di Oksana, ho scoperto un sacco di conti non protetti. Avrei potuto prendermi due milioni di dollari se avessi voluto e sarebbe stata una passeggiata, ma io non farei mai una cosa del genere. Perché? Perché non sono un ladro». Josh sorride e annuisce in segno di approvazione. Si fida completamente di Henn. «Ma potresti lavorare per dei ladri», commenta Sarah. «Ci hai mai pensato?» «No. Se i miei clienti mi assumono per prendere qualcosa, è sempre per un buonissimo motivo. Come ho detto, io lavoro solo per i buoni».
«Ma come fai a saperlo?», chiedo io. Gli sono più che grato per ciò che ha fatto per me – chiedergli di rintracciare Sarah è stata la decisione migliore della mia vita – ma assumere questo tipo strambo per aiutarmi a smantellare il Club è un altro paio di maniche. E se fossi un pazzo a fidarmi di un ragazzo con i jeans aderenti per il compito più complicato di tutta la mia vita? «Ognuno pensa che la propria causa sia legittima», aggiungo. «Da qui scaturisce il concetto di guerra». «Be’, sì, certo». Henn fa un sorriso obliquo a Kat, come se stesse per raccontare una bella barzelletta. «Lasciate che vi mostri come faccio a
distinguere i buoni dai cattivi. È un metodo a prova di stupido». Guarda Sarah dritto negli occhi. «Sarah, tu sei tra i buoni o i cattivi?» «Tra i buoni», dice lei. «Ecco fatto». Lei si stringe nelle spalle, come se la cosa avesse perfettamente senso. «Ecco fatto». È ridicolo. «Chi mai direbbe di stare tra i cattivi? Chi mai penserebbe questo di sé? La gente è bravissima a trovare una giustificazione per le proprie azioni. Fidatevi di me, ne so qualcosa». «Be’, sì», concede Henn. «Ma non ci credo sempre quando qualcuno mi dice di essere tra i buoni. Anzi, mi fido di
rado. E se ci credo, com’è appena successo per la signorina Cruz, allora mi basta». «Oh, quindi mi credi, Henn?», gli chiede Sarah. «Certo. Indubbiamente». «Grazie». «Di niente». Faccio spallucce. In effetti, è difficile controbattere a questa logica. Se dovessi risalire alla base della filosofia che seguo per gli affari, agisco anch’io nello stesso modo E, a dire il vero, al momento quali opzioni ho oltre a fidarmi di questo ragazzo? Se Josh si fida, allora mi fido anch’io. Indubbiamente. «A volte è semplicissimo», riprende
Henn. «Per esempio, quando mi arriva un lavoro da Josh, so sempre che combatto per la verità, la giustizia e lo stile americano, senza nemmeno farmi domande. Perché in quanto a moralità, Josh potrebbe essere preso come esempio: lui è sempre tra i buoni, fin nell’anima». «Grazie, amico», commenta Josh. «Sto solo dicendo la verità». «Bene, bene, bene», interviene Kat, lanciando un’inequivocabile occhiata a Josh. «A quanto pare questo playboy è buono, dopotutto. Nonostante la storia delle montagne russe con la faccia di Topolino». Mi sporgo verso Sarah. «Sedici ore,
non di più». Lei ridacchia. «Indubbiamente», sussurra. «Allora, Henn», dico, per cercare di far quadrare il cerchio, «se il Club se ne sta nel Web sommerso, come cazzo facciamo noi a rintracciare e smascherare questi figli di puttana?». Fremo all’idea di fotterli. «Ci serve una mappa», risponde lui. «Una mappa precisa che ci dia una posizione esatta. Una volta che avrò quella, potrò violare il loro sistema e immergermici per bene». Appoggio una mano sulla coscia nuda di Sarah. Non vedo l’ora di immergermi per bene nella Jacuzzi con lei più tardi.
«E come la troviamo questa mappa?», chiede Sarah. Mette una mano sopra la mia e me la stringe. «Cominciamo con la nostra amica, la straordinaria pappona Oksana Belenko. Dovrà pur comunicare con chiunque si occupi dell’aspetto informatico. O magari è lei stessa ad accedere al sistema centrale. In entrambi i casi, in un modo o nell’altro mi porterà dritto a loro». «Cosa dobbiamo procurarti noi?», chiede ancora Sarah. «Un indirizzo email personale di Oksana». Sarah mi fissa con sguardo colpevole. Era proprio quello che stavo per
ottenere da Stacy quando lei ha interrotto la mia grande strategia al Pine Box. «Non ce l’abbiamo», dice. «Grazie a me e al mio carattere da comandina». Sorride con aria timida, tanto da farmi scoppiare a ridere. «Be’, ci serve però», ribadisce Henn. «Poi manderò a Oksana un malware che mi permetterà di accedere al suo computer. E installerò anche un buon vecchio keylogger. Ma per riuscirci, dobbiamo farle aprire un’email». «Cos’è un keylogger?», m’informo. «Un sistema per controllare a distanza ogni tasto che preme sulla tastiera. Un modo facile per avere tutte le sue
password». Sfrego le mani con fare perfido. «Eccellente». «Dunque, dovrai fare tre cose». Guarda dritto verso Sarah. «Primo: ottenere il suo indirizzo email. Secondo, ovviamente: mandarle un’email. E terzo: assicurarti che lei la apra, preferibilmente in tua presenza, per non lasciare nulla al caso. Pensi di farcela?» «Certo», risponde lei. «Sono convinti che io stia imbrogliando Jonas. La troverò e le dirò che sono venuta a negoziare la mia parte del raggiro». «Non pensarci neanche», commento, probabilmente in un tono più impetuoso del necessario.
Sarah apre la bocca, scioccata. «Sì, invece, Jonas. La incontrerò, negozierò la mia parte e, nel frattempo, le manderò un’email con qualcosa per siglare il patto. Fine della storia». «Non pensarci neanche», ripeto, ma questa volta tengo sotto controllo la voce. «Non incontrerai Oksana né nessun altro del Club da sola». «Jonas, andrà tutto bene…». «Vengo con te». Alza gli occhi al cielo. «Pensano che ti stia fregando, ricordi? Perché mai dovrei portarti con me se ti sto imbrogliando?» «Non lo so. Usa quel cervellone che ti ritrovi e inventati qualcosa di
plausibile». Sospira per la frustrazione. «È una condizione non negoziabile, Sarah. Faremo questa cosa insieme o non la faremo per niente». Sbuffa. «Perché dovrei portarti da lei? Non ha senso». Arriccio le labbra e penso. Così su due piedi non mi viene in mente nulla. Nella stanza piomba il silenzio. A quanto pare, ci stiamo scervellando tutti sullo stesso rompicapo. «Pensano che ti stia fregando», ripete piano Sarah, come se riflettesse a voce alta. «Perché dovrei portarti con me?» «Non lo so, ma è una condizione non negoziabile».
«Ti avevo sentito anche la prima volta, mio signore e padrone». Incrocia le braccia sul petto. Dopo un attimo, prende il flûte di champagne e si avvia alla grande finestra dall’altro lato della stanza. Mentre parlavamo, il sole è tramontato e le frenetiche insegne al neon della Strip brillano accecanti sotto di noi. «Wow», commenta Sarah, fissando la distesa di luci. «È bellissimo». Ci alziamo tutti e la raggiungiamo per ammirare la vista, ognuno con il proprio bicchiere in mano. Cingo Sarah con un braccio e lei si sporge verso di me. «Facciamoci una foto, Sarah»,
propone Kat. Le due si mettono in posa, sorridendo, per un selfie con il telefono di Kat. Le emblematiche luci sono sullo sfondo. «E anche una con te e Jonas», ordina, facendoci cenno di avvicinarci. Io e Sarah ci abbracciamo e Kat ci scatta una foto. Sembra tutto così normale. Mi piace. Kat guarda l’immagine. «State bene insieme voi due», mi dice, con un mezzo sorriso. «Davvero bene». Il mio cuore salta un battito. Il fiero angelo custode di Sarah ha ammesso di ritenermi degno della sua migliore amica? «Non postarle da nessuna parte, Kat», la mette in guardia Henn. «Non
vogliamo far sapere ai cattivi che siamo nel loro territorio». «Non lo farò, tranquillo. Voglio solo un ricordo di essere stata qui a Las Vegas con la mia migliore amica per la sua prima volta». Di colpo, sopraffatta dall’emozione, Kat abbraccia Sarah. «Grazie a Dio stai bene. Ero così preoccupata per te. Ti voglio così tanto bene». «Ti voglio bene anch’io», risponde Sarah, con il viso affondato tra i capelli biondi di Kat. «Non so cosa avrei fatto se non ti fossi ripresa». «Sto bene. Era solo una ferita superficiale, cara la mia Kat».
Le osservo, affascinato. Questa conversazione è così affettuosa, semplice e naturale, che per certi versi sono invidioso. Vorrei essere io ad abbracciare Sarah e a dichiarare apertamente il mio amore per lei con una simile facilità. Sarah alza di scatto la testa. «Ce l’ho», annuncia. «Cos’hai?», chiede Kat. Sarah si stacca da lei. «Sfrutteremo la loro avidità contro di loro». «Ecco la mia ragazza», commento. «Sapevo che ti sarebbe venuto in mente qualcosa». Corre ad abbracciarmi. «Funzionerà». «Ma certo che funzionerà», rispondo.
«Nessuno ci può fermare». Le do un bacio delicato. Henn guarda l’orologio. «Okay, mettete a punto il vostro piano e domattina passeremo all’azione. Io lavorerò tutta la notte sul malware. Voglio essere sicuro che sia a prova di bomba». Prende il portatile, eccitato all’idea di cominciare la sua opera. Io e Sarah ci scambiamo un’occhiata. La posta in gioco è molto alta. «Be’», dice Kat, con le mani sui fianchi. «Intanto che Henn si inventa un bel virus, noi dobbiamo trovarci qualcosa da fare a Las Vegas. Mmm». Si batte l’indice sulla tempia, come se si sforzasse di riflettere. «Cosa diavolo
potremmo fare a Las Vegas?». Guardo Sarah, nella speranza che stia pensando quello che sto pensando io, e cioè che questa sera un’uscita a quattro non le interessa minimamente. Invece no, mi basta un’occhiata per capire quanto sia eccitata all’idea. «Ti piace scommettere, Kat?», le chiede Josh. «Lo adoro». «A che gioco?» «Black-jack». «Che noia», commenta lui. «Come?» «Per divertirti davvero devi giocare ai dadi». «Non ci ho mai provato», dice lei.
«Mi sembra complicato». «No, è facile. Ti do mille dollari e ti insegno a giocare». Kat spalanca gli occhi. «Non ho intenzione di accettare dei soldi da te. Ti guarderò e basta». «No, tu dovrai tirare i dadi per me, allegra festaiola. Hai dalla tua la fortuna del principiante e pure quella della donna, e poi puoi tirare solo se piazzi una scommessa». «Allora scommetterò i miei soldi». «Kat», intervengo, «lascia che mio fratello paghi per farti divertire. Non c’è nulla che Josh Faraday ami di più che gettare al vento per uno stupido passatempo i soldi guadagnati con il
duro lavoro». «È così che pensi di aiutarmi, fratello?». Scoppio a ridere. «Mi faresti un favore, Kat. Scommettere su un principiante è il sogno di chiunque giochi ai dadi. È il massimo dell’eccitazione». Sorride. «E io adoro quando le cose si fanno eccitanti». Persino dalla mia posizione, a queste ultime parole gli vedo brillare gli occhi. Kat sorride. «Okay, playboy. Ci sto. Mi hai convinto con la tua eccitazione. Usciamo tutti insieme però, giusto?». Guarda Sarah per averne conferma. «Certo», accetta lei.
Maledizione. Speravo dicesse di avere il carnet di ballo già al completo per questa sera con la rumba subacquea. Mi schiarisco la voce, nel tentativo di attirare la sua attenzione. Se mi guarda, capirà che non ho voglia di uscire. Ma, davanti alla sua espressione, mi sciolgo. Ragazzi, è così adorabile: non sta nella pelle all’idea di festeggiare. Cosa sto pensando? Io e lei possiamo fare sesso in una stanza d’albergo quando vogliamo. Devo tirare fuori le palle e far divertire la mia piccola nel settimo girone dell’inferno. «Dove portiamo a cena queste adorabili signore?», domando a mio fratello. «Conosco proprio il posto perfetto».
«Figuriamoci», rispondo. «Signore, pensate di poter sopravvivere a una serata fuori con i fratelli Faraday?», chiede Josh. Per tutta risposta, loro si profondono in gridolini e Sarah mi getta le braccia al collo. «Grazie, Jonas». «Di niente», sussurro, baciandole il collo. «Ti farò divertire in questa città infernale, piccola, proprio come meriti». «E poi torneremo qui e ci divertiremo in paradiso nella Jacuzzi, solo io e te». Oh, quanto amo questa donna. «Henn, vieni a cena con noi?», grida Josh all’hacker, dall’altro lato della stanza. «Ehi, Henn?». Lui alza lo sguardo dal computer.
«Vieni a cena con noi?» «Oh, Josh», risponde, scuotendo la testa. «Quante volte devo dirtelo? Puoi offrirmi tutte le belle cene che vuoi, ma non mi porterai mai a letto».
Capitolo diciassette
Jonas
Okay, lo ammetto. Mi sto divertendo. A Las Vegas. Manca poco all’apocalisse. Con Sarah al mio fianco, potrei divertirmi in qualsiasi posto e in qualsiasi momento, persino all’inferno. Il ristorante scelto da Josh è superbo – Sarah ha usato almeno dieci volte la parola “assurdo” per descrivere il suo piatto – e l’esibizione del Cirque du Soleil a cui assistiamo dopo cena, per un desiderio del tutto improvviso, è
stupenda. Ogni volta che guardo Sarah, il suo viso è raggiante di una gioia quasi infantile che mi fa scoppiare il cuore. “Ecco come ci si sente a essere felici”, penso. Dopo lo spettacolo, le ragazze corrono insieme in bagno e io colgo al volo l’opportunità di fare il terzo grado a Josh su Henn. «Quanto lo conosci?», gli chiedo. «Sei sicuro che possiamo fidarci di lui?» «Al cento percento». «Abbiamo per le mani una situazione del cazzo», insisto. «Sei sicuro che ci possiamo fidare completamente?» «Sì, Jonas. Siamo amici fin dall’università. È come un fratello per
me». Cosa cazzo vuol dire? Henn è «come un fratello» per lui? Perché a Josh serve un amico che è come un fratello se un fratello ce l’ha già? E, se sono così legati, perché non ho mai sentito parlare di Henn prima? «Appena arrivato all’università, l’ho preso sotto la mia ala quando lui ne aveva più bisogno», mi spiega Josh. «All’inizio pensavo di essere io quello forte nella nostra amicizia, ma alla fine ho contato più io su di lui che lui su di me». Si stringe nelle spalle. Ho una fitta allo stomaco. So a quale periodo si riferisce: appena dopo il suicidio di nostro padre. I chiari di luna.
Josh è andato alla UCLA per il primo anno di università e io sono rimasto a casa, accantonando gli studi per un anno mentre mi sforzavo di strappare la mia mente alle tenebre impenetrabili. «All’epoca mi serviva qualcuno a cui appoggiarmi», aggiunge Josh. «E quel qualcuno è stato Henn». «Capisco», rispondo. Ciò non significa però che non mi senta in colpa e, a essere sinceri, anche geloso del fatto che Henn ci sia stato per Josh quando io non ho potuto. Henn è come un fratello per Josh? Che cazzo. L’idea che Josh abbia avuto bisogno di appoggiarsi a qualcuno oltre a me mi lascia di stucco. Anche se, ora che ci
penso, non dovrebbe. È ovvio che Josh abbia avuto bisogno di un sostegno dopo essersi ritrovato di colpo senza padre e senza fratello. Per forza. Ma dopo i chiari di luna? Josh ha continuato ad appoggiarsi a Henn anche dopo? Avevo dato per scontato che con il passare del tempo mio fratello si fosse appoggiato a me, nonostante tutte le mie debolezze, i miei difetti e i miei casini, così come io ho sempre fatto con lui. Ma avrei dovuto capirlo. Non ci si può appoggiare a qualcuno che ha le gambe rotte, altrimenti si cade in due. L’emozione minaccia di prendere il sopravvento e abbasso lo sguardo. «Ehi», dice sottovoce Josh. «Mi sono
appoggiato anche a te, fratello. Più di quanto tu sappia. Sei il mio uomo». Rialzo lo sguardo su di lui. Ora che ci penso, non mi viene in mente una sola volta in cui si sia appoggiato a me. Ricordo soltanto quelle, innumerevoli, in cui è corso in mio aiuto, quando ne avevo un disperato bisogno. «E mi appoggio ancora a te, sempre», aggiunge. «Sempre». «Puoi farlo, lo sai», dico. «Appoggiarti a me, intendo. In qualsiasi momento». «Lo so. E lo faccio. Sei metà del mio cervello. La metà migliore, tranne quando fai il coglione». «Adesso sono forte», dico. «Non devi
più prenderti cura di me. A volte posso prendermi anch’io cura di te. Adesso sono forte». «Lo so», ripete lui. «Sei un bestione». «Anche tu», gli dico. D’un tratto, mi torna in mente il messaggio che mi ha mandato quando ero seduto a vegliare su Sarah in ospedale. “Ti voglio bene, fratello”, mi ha scritto. E, da bravo coglione emotivamente inesperto che sono, gli ho risposto: “Grazie”. «Grazie per il messaggio», dico. «Quando Sarah era in ospedale». Capisce a quale mi riferisco e annuisce. Faccio una smorfia. «Ha significato
tanto». Segue un breve silenzio, in cui nessuno dei due sa cosa dire. Forse dovrei aggiungere qualcos’altro, ma non so cosa. Josh si sforza di sorridere, senza riuscirci però. Ha gli occhi lucidi. Cazzo. È troppo strano. Mi do uno schiaffo e lui scoppia a ridere, sorpreso. Non sono mai io a colpirmi per primo. Mai. «Siamo a posto, stronzo di una femminuccia?», gli chiedo. Ride di nuovo. «Sì, siamo a posto, stronzo di una testa di cazzo». Sento la risata di Sarah. Sbircio dietro di me e, come immaginavo, la vedo
trascinarsi con Kat verso di noi. Hanno entrambe un enorme sorriso stampato in faccia. «Ehi», dico a Josh prima che ci raggiungano. «Se per te Henn è come un fratello, allora lo è anche per me. Sono contento che ci sia stato quando ne avevi bisogno».
Capitolo diciotto
Jonas
Da un’ora ormai il playboy e l’allegra festaiola stanno sbancando il tavolo dei dadi. Josh aveva ragione: non può perdere, non quando Kat tira per lui. Ormai è un sacco di tempo che io e Sarah li guardiamo, esultiamo e battiamo il cinque, e abbiamo scommesso più soldi del dovuto, ma che io vinca o perda, il mio cervello non è più in grado di prestare attenzione ai numeri che escono sui due dadi.
Quando Sarah mi sussurra: «Ti va di andarcene?», ogni centimetro quadrato della mia pelle freme. «Mi hai letto nella mente, piccola», rispondo, spingo tutte le mie fiches accanto alla pila mastodontica di Kat e prendo Sarah per mano. «Ci vediamo dopo, ragazzi», grido a Josh e Kat. «Andiamo, piccola». Ho già l’uccello duro all’idea delle delizie che mi aspettano. Ma, a quanto pare, Sarah non mi ha letto affatto nella mente, perché non vuole tornare di corsa nella nostra suite per dedicarci agli sport acquatici. Vuole correre nello studio dall’altra parte del casino e farsi fare il suo primo
tatuaggio. Sarah è seduta sul lettino del tatuatore e gli sta spiegando dettagliatamente cosa vuole. Io la osservo, estasiato ed eccitato da morire. Le uniche cose a cui riesco a pensare sono il suo sapore, farla venire, e poi scoparla nella Jacuzzi fino a mandarle in pappa il cervello. «Sembra facile», commenta il tizio. «Fammi vedere di preciso dove lo vuoi». Lei si sdraia e, senza la minima esitazione, solleva il vestito e scopre il perizoma leopardato che indossa. Wow, questa sera il contegno non è certo un problema per lei… Be’, come si dice,
quando sei a Roma… O forse è solo ubriaca persa. O forse ha finalmente accettato di essere una bomba sexy e non gliene frega una mazza di chi lo sa, perché, che cazzo, questa donna è decisamente provocante. Guardo il tatuatore e capisco chiaramente quanto gradisca la tela olivastra su cui dovrà lavorare. Cosa cazzo sta facendo adesso Sarah? Sta abbassando l’elastico delle mutandine minuscole, e proprio quando sto per sporgermi per bloccarle la mano – è davvero ubriaca fino a questo punto? – lei si ferma da sola, appena prima di mostrare la merce. Indica un pezzetto di pelle olivastra di solito coperto dal davanti delle
mutandine. «Proprio qui», spiega, toccando il punto esatto con un dito. «Boom». Non riesco a resistere. Allungo una mano per sfiorare quel punto e, al mio tocco, lei rabbrividisce visibilmente. Ragazzi, cosa ci facciamo ancora qui? Corriamo in quella cazzo di Jacuzzi. «Sei sicura, piccola?», le chiedo. Alla sensazione della sua pelle sotto le dita mi è diventato duro come una roccia. «Oh sì», risponde. «Con le mutandine o il bikini il tatuaggio sarà coperto e si vedrà solo quando sarò completamente nuda, il che significa che non lo vedrà mai nessuno oltre me. E te». Sento il sangue che mi pulsa nelle
orecchie. Si lecca le labbra. «Sei l’unico uomo che vedrà questo tatuaggio, Jonas». Con una stretta al petto, annuisco. Sbatte piano le palpebre e sorride. «L’unico». «Per sempre?», le chiedo. Wow. Non riesco a credere di averlo appena detto. Cazzo però, l’ho detto e non posso rimangiarmelo adesso. Per sempre. Sì. È proprio quello che voglio da lei. Le sue guance si fanno di una bella sfumatura scarlatta. Lei si stringe nelle spalle con aria timida e si morde le labbra. «Voglio essere l’unico uomo a
vederlo», dico, a voce bassa. Accenno al tatuatore. «Oltre a lui». Sarah deglutisce a fatica e annuisce. Ho la pelle in fiamme. Quanto vorrei sigillare il nostro patto qui, sul lettino, ma visto che per ovvie ragioni non è possibile, nemmeno in una città dissoluta come Las Vegas, mi accontento dell’alternativa migliore: le prendo il viso tra le mani e la bacio con passione. È un bacio così entusiasta, così deliziosamente eccitante che non riesco a racimolare la forza di volontà per staccarmi da lei. So che il tatuatore è seduto ad aspettare che la smettiamo, ma al mio corpo non interessa. Lei è la mia droga e, in questo momento, voglio una
dose. Mi assicuro di riabbassarle il vestito sulle cosce – “Sono l’unico uomo che ha il permesso di vedere le mutandine della mia piccola, stronzo” – e la sollevo tra le mie braccia. “Lei è mia”. «Scusa, amico», dico al tatuatore. «Torneremo un’altra volta». Guardo Sarah. «Giuro che ti lascerò fare il tatuaggio che vuoi prima di andarcene da questa città dimenticata da Dio, piccola. Ma adesso ti porto dritta in camera… e nella Jacuzzi». Mi chino verso il suo orecchio per non far sentire il resto al tatuatore. «E poi cenerò con una deliziosa patatina sbollentata». Avvampa in viso.
Faccio per prendere il portafoglio in tasca ma, con lei in braccio, è troppo difficile. «Fammi il favore di pagare quest’uomo gentile, piccola. Per il disturbo». Sarah prende il portafoglio e gli lancia due banconote da cento dollari. Avrebbe anche potuto dargliene mille e non me ne sarebbe fregato niente; qualsiasi prezzo mi sta bene pur di andarmene da questo posto di merda e assaggiare la bella e dolce passera della mia piccola nell’acqua calda della Jacuzzi. La bacio di nuovo. «Cazzo quanto sei sexy», le dico. Ha il fiato corto. Esco dallo studio con la mia piccola in
braccio e corro attraverso il casino rumoroso diretto agli ascensori, dall’altra parte dell’atrio. Quando, per colpa dei corridoi stretti, delle slot machine e della folla, non riesco più a proseguire tenendola così, lei balza a terra e mi salta sulla schiena, e io riprendo a superare i tavoli da gioco, le cameriere con i cocktail e le future spose ubriache con tanto di tiara in testa. Stringo tra le mani le sue cosce lisce e ho l’uccello duro di desiderio. Sono un uomo con una missione. Le mie gambe sono partite in quarta. Il cuore mi batte all’impazzata. Sento la sua risata alticcia dietro le spalle. Sì, piccola mia, sono un cavallo che galoppa verso la
stalla con la sua dolce figa. Nulla mi impedirà di assaggiare la mia cavallina arrapata il più presto possibile. Ma, tutt’a un tratto, le mie gambe si bloccano e io inchiodo. Cosa cazzo sta succedendo? I miei arti devono avere una volontà propria perché sono sicuro di non avergli detto di fermarsi. Alzo lo sguardo. Sono davanti a una cappella dove si celebrano matrimoni. È una di quelle ispirate a Elvis, una vera e propria assurdità di Las Vegas, ma pur sempre una cappella dove ci si può sposare. Sento contro la schiena il battito del cuore di Sarah, ma lei non dice niente. Nemmeno io.
Cazzo. Non avrei dovuto fermarmi. Perché le mie gambe si sono bloccate? Non gliel’ho detto io. No? Si sono impadronite di me e hanno preso il controllo. Cazzo. Il silenzio di Sarah è denso come melassa. Sento il suo petto che si alza e si abbassa contro la mia schiena. Perché mi sono fermato? “Perché voglio sposare questa ragazza”. Cosa? “Voglio sposare questa ragazza”. Oddio. Voglio sposare Sarah. Voglio che sia mia e solo mia, di nessun altro, mai più. “Per sempre”. Voglio chiamarla mia moglie. Ma non è possibile.
Non potrei mai chiedere a Sarah di impegnarsi con me per l’eternità senza prima averle mostrato la terra desolata e impenetrabile che ho dentro, la roccaforte incasinata che chissà come sono riuscito a tenerle nascosto finora. Non posso chiederle di promettere di amarmi per sempre senza prima averle raccontato ogni singola cosa sui chiari di luna. E non sono per niente disposto a farlo. Senza dire una parola, riprendo a camminare e mi lascio la cappella alle spalle. A mano a mano che riprendo velocità, la tensione del corpo di Sarah si allenta e svanisce, e lei mi dà un bacio delicato sulla nuca.
Sulla destra vedo gli ascensori, tra cui quello privato che porta al nostro attico, ma svolto bruscamente a sinistra. «Posso aiutarla, signore?», chiede la donna dietro al bancone della gioielleria. «Sì, grazie. Cerchiamo dei bracciali». Sarah scivola giù dalla mia schiena e si mette al mio fianco, tenendomi per mano. «Il mio braccialetto che abbiamo preso in Belize era pieno di sangue», le sussurro. «Ho dovuto toglierlo». Lei annuisce e, davanti ai suoi occhioni scuri, mi sciolgo. «Il mio me l’hanno tagliato in ospedale», ammette sottovoce. «Non so che fine abbia fatto».
«Vedete se vi piacciono questi», dice la commessa, mettendoci davanti due espositori pieni di bracciali. «Questi sono da uomo e questi da donna». Ne scelgo uno semplice di platino, aperto. È il più essenziale possibile. «Si può fare un’incisione sul davanti?», m’informo. «Certo», risponde la donna. «“Sarah”», dico, e glielo passo. «Con l’acca finale». «Benissimo». Ora guarda Sarah, con un sopracciglio inarcato. «E lei, signorina?». Sarah sbircia i modelli da donna. Rispetto al semplice bracciale che ho scelto per me, le opzioni a sua
disposizione sono molto più elaborate, con diamanti, ghirigori, catenine e gemme colorate. «Vedi qualcosa che ti piace, piccola?», le chiedo. Lei solleva il modello da donna uguale al mio: di platino, aperto, liscio. «No, piccola, scegli qualcosa di carino, con i diamanti. Puoi avere tutto quello che vuoi». Lei insiste con il più semplice e lo passa alla commessa. «Ci faccia incidere “Jonas”». «No», ripeto. «Piccola, stammi a sentire. Scegline uno con i diamanti». Ne prendo uno di platino dotato di chiusura, a differenza del mio, e
tempestato di diamanti. «Questo è carino. O che ne dici di questo?». Sollevo un bracciale tennis con dei diamanti abbaglianti. «È stupendo». La commessa appoggia sul bancone il mio bracciale e quello che le ha passato Sarah, in attesa della nostra decisione finale. «Voglio quello uguale al tuo», si limita a dire lei. «Sì, ma…». «Jonas, stammi a sentire». Il suo tono non ammette repliche. Prende la coppia di bracciali e li solleva, uno accanto all’altro. «Io sono l’unico membro del Jonas Faraday Club e tu sei l’unico del Sarah Cruz Club. Ed è tutto ciò che
conta per me. Al diavolo i diamanti. I nostri bracciali devono essere una coppia perfetta perché noi siamo una coppia perfetta». Mi guarda con il mento sollevato. «Fine della storia».
Capitolo diciannove
Sarah
Sono nella vasca sempre più piena ad aspettare che Jonas torni con lo champagne e non sto più nella mia pelle nuda. Passo un dito sulle lettere incise sul mio nuovo bracciale. “Jonas”. Dovrei metterlo sul bordo della vasca per evitare di bagnarlo, ma non voglio togliermelo. Mai più. Sono impaziente. Fremo. Sto impazzendo. L’unica cosa che voglio è fare a quest’uomo stupendo il miglior
pompino della sua vita. E voglio anche fare l’amore con lui, s’intende. E baciarlo. E toccarlo. E sentirlo dentro di me. E ovviamente non vedo l’ora di dirgli che lo amo con le due paroline magiche, le parole sacre che a quanto pare ci diciamo solo quando facciamo l’amore. Che diamine però, in questo momento il pompino ha la priorità. Non ragiono più per il desiderio di prenderglielo in bocca e farlo godere fino a che non gli si incrociano gli occhi. Lui si eccita da matti a farmi godere? Be’, ho scoperto che lo stesso vale per me. Ecco qui. Fino a poco tempo fa non conoscevo questo mio lato e non mi ero mai sentita
impaziente di fare del sesso orale a un altro uomo, ma con Jonas ho scoperto che, se apro la mente e mi tocco quando lo succhio, posso eccitarmi quasi fino all’orgasmo. Mi piace averlo alla mia mercé, in senso letterale e figurato. Avrei voluto inginocchiarmi e prenderglielo tutto in bocca nell’istante stesso in cui ha detto: «Per sempre» nello studio di tatuaggi ma, visto che sono una brava ragazza (e non una puttana ubriaca in un vicolo), fargli un lavoretto simile in pubblico non è stato possibile (nemmeno in una città perversa come Las Vegas). E poi, quando si è fermato davanti alla cappella, accidenti, mi ha lanciato
«nella pura estasi». Ho cercato di sussurrargli all’orecchio: «Il culmine dell’umana possibilità», ma non sono riuscita a usare la voce. Dentro di me, sapevo che Jonas aveva chiuso gli occhi e mi stava facendo una promessa eterna, nella speranza che io stessi facendo lo stesso. E così ho fatto. Ho chiuso gli occhi e ho pensato: “Per sempre, Jonas, te lo prometto”. È stato magico come il bacio che ci siamo dati fuori dalla caverna in Belize. Anzi, forse persino di più. Tocco di nuovo il braccialetto e chiudo gli occhi. Non abbiamo bisogno di stare davanti a parenti e amici vestiti di tutto punto
per rendere il nostro amore vero ed eterno. Non abbiamo bisogno di un pezzo di carta. Oggi è stato il nostro matrimonio. E a me basta così. La vasca è sempre più piena di acqua calda e io mi sento rilassata ed eccitatissima. Premo la parte bassa della schiena contro il getto caldo. «Ah», sospiro. «Forza, tesoro», grido a Jonas nell’altra stanza. «Ti sto aspetta-a-a-a-ando». «Sto aprendo la bottiglia, piccola», mi risponde. Non ce l’ho con Jonas per non essere il tipo da matrimonio perché, a essere sinceri, nemmeno io lo sono. Cioè, siamo seri, cosa ne so io del
matrimonio? Nulla di buono. Per me è quando un uomo picchia una donna, a volte con i pugni, a volte con la cintura, a volte con i calci. Quando un uomo inveisce contro una donna, apparentemente senza motivo, e a volte la chiama con termini garbati come «puttana» e «stronza». Quando un uomo torna a casa il giorno dopo con dei fiori e dice alla moglie che gli dispiace, che cambierà, che ha smesso di bere, e lei piange di gioia, sollevata, e tutto torna a posto magari per sei settimane. E poi, inevitabilmente, lei dice qualcosa di sbagliato o lo guarda nel modo sbagliato e lui beve una birra e poi un’altra e un’altra ancora e ricomincia tutto da
capo, solo che la volta dopo tutto torna a posto per quattro settimane, se sei fortunata. Per una se non lo sei. Cos’altro so sul matrimonio? So che è quando una bambina di nove anni passa le notti a tremare nell’armadio con una cartina del mondo o, se le cose si mettono proprio male, se ne sta sdraiata a letto a pensare ai modi per uccidere il padre senza farsi scoprire. È quando, una sera particolarmente brutta poco dopo il suo decimo compleanno, una sera in cui ha visto la madre picchiata quasi a sangue, schiaccia con calma otto pasticche di sonnifero e le mette nella birra del padre e aspetta che lui si addormenti, da bravo pezzo di merda
inutile che è. E, non appena lui crolla, è quando la piccola trascina con tutte le sue forze la madre malconcia fuori di casa fino a un vecchio capanno fatiscente che ha scoperto a pochi isolati di distanza e che da un mese ormai riempie di provviste. È quando la piccola si prende cura della madre nel capanno e le dice che andrà tutto bene fino a che, alla fine, dopo tre giorni, la madre solleva la testa e la guarda con una scintilla negli occhi che non aveva mai avuto prima e le dice: «No más. De hoy en adelante, renazco». Basta. Da oggi rinasco. Finalmente l’acqua mi arriva alle spalle e chiudo il rubinetto. «La vasca è
piena, tesoro», strillo a Jonas. «È ora dei giochini sexy, ragazzone!». «Arrivo, piccola», grida lui dall’altra parte della suite. Quindi sì, Jonas non è il tipo da matrimonio e la cosa mi va benissimo, perché non lo sono nemmeno io. Non ho bisogno di sposarmi per donarmi a Jonas Faraday. L’ho già fatto. E lui si è donato a me. Per sempre. Ah, eccolo. Il mio dolce Jonas. Che entra in bagno con due flûte di champagne e l’uccello gigante in tiro. Dio, non mi stanco mai di vederlo nudo. Con un sorriso, mi passa un bicchiere e io lo svuoto fino all’ultima goccia in un solo sorso avido.
«Vacci piano, piccola. È roba buona». «Entra nella vasca, Jonas P. Faraday», dico, contorcendomi come un’anguilla. Sono così eccitata che riesco a malapena a respirare. Raggiante per l’eccitazione, Jonas immerge il corpo glorioso nell’acqua calda. «Ti piace proprio lo champagne, vero?» «Vuoi sapere perché?» «Dimmi». Mi avvicino a lui e prendo in mano la sua invitante erezione. «Perché tira fuori la ragazzaccia davvero, davvero cattiva che è in me». «Mi piace la ragazzaccia che è in te».
«E tu piaci a lei». Mi lecco le labbra. «Un sacco». E con ciò, mi abbasso piano piano verso la superficie dell’acqua, prolungando al massimo la deliziosa attesa per Jonas. Alla fine, con grande ostentazione, inspiro a fondo da brava ragazzaccia e, con un occhiolino a Jonas che mi guarda tutto contento, immergo la testa.
Capitolo venti
Sarah
«Per me eravamo pari», dice Jonas. «Oh, ma per piacere. Ho vinto io», ribatto. «Dev’essere il prossimo isolato», afferma, controllando Google Maps sul telefono. «Cavolo, che caldo». «Benvenuta a Las Vegas». «A Henderson, in realtà», lo correggo. «Henderson, Las Vegas… dove vuoi. A ogni modo, fa più caldo qui che
all’inferno. E non hai vinto tu», aggiunge. «Se metti insieme tutti i minuti che sono rimasto sott’acqua senza respirare, ho vinto io. Senza dubbio». «Sì, ma l’unico motivo per cui sei stato sotto così a lungo è che non sei riuscito a concludere il lavoro con la mia stessa efficienza. E questo non può essere un motivo per vincere». Scoppia a ridere. «Oddio, ma è una questione di uomini e donne, pura fisiologia, non una conseguenza delle mie abilità. E probabilmente ci ho messo tanto per colpa di tutto lo champagne che ti sei bevuta… Annebbia le terminazioni nervose, sai». «Tutte scuse».
«Non sono scuse. Alla fine ce l’ho fatta comunque, no?» «Certo che ce l’hai fatta. Decisamente». «Solo perché mi hai fatto venire più in fretta di un adolescente non significa che tu abbia vinto. La sfida era per chi riusciva a trattenere il respiro più a lungo, non a finire il lavoro più in fretta». «No, ho cambiato le regole. Era per chi riusciva a essere più efficiente». Ride di nuovo. «Non l’avevi detto. Sei proprio un’imbrogliona». «Io ho dovuto riprendere fiato solo una volta. Tu sei riemerso quattro volte. Ergo, ho vinto io».
Al ricordo della notte scorsa, gli sfugge un gemito. «Dio, ieri sera eri tutta un fuoco. Hai davvero talento, cazzo, lo sai, Sarah Cruz? Sei una dea e una musa ispiratrice. Mmm hmm. Che diamine». Faccio spallucce. «L’ho fatto per amore». «Sì, be’, comunque non puoi cambiare unilateralmente le regole della sfida all’ultimo minuto. Non è mai stata questione di chi fosse più veloce e lo sai». «Più efficiente». «Be’, è una cazzata. Non avevo nessuna chance. Prima ancora che mettessi le labbra sul mio cazzo, ero già mezzo venuto».
«Tutte scuse». «Non sono scuse. Sono fatti». «Ti stai forse lamentando di aver perso, Jonas?» «Ah, no! Sono molto contento di aver perso». «Alt, è quello?». Indico un anonimo edificio dall’altro lato della strada. Jonas controlla di nuovo l’indirizzo. «Sì, dovrebbe essere quello. Cazzo, si muore di caldo. Come fa la gente a vivere così?». Continuiamo a camminare e ci piazziamo di fronte all’edificio, e lo teniamo d’occhio standocene nascosti all’angolo di un negozio di alcolici. È una costruzione in cemento degli anni
Settanta con le veneziane abbassate a tutte le finestre e nessuna insegna. È il posto in cui ci si aspetta lo studio di un chiropratico o di un’agenzia immobiliare, del tutto impersonale. Di certo non grida a pieni polmoni «criminalità organizzata su scala globale». «Non è come me l’aspettavo», commento. «E cosa ti aspettavi?» «Una cosa alla Die Hard, credo. Un palazzo altissimo in acciaio, con le finestre a specchio, pieno di cattivi con completi di sartoria e auricolari». Jonas scoppia a ridere. «Un’idea piuttosto specifica. Ti aspettavi tutto
questo da quegli stronzi dei capi del Travolta ucraino?» «Sì, come il capo di John Travolta in Pulp Fiction. Aveva un’aria elegante, no?» «Marsellus Wallace». «Cosa?» «Il capo di Travolta in Pulp Fiction si chiamava così, Marsellus Wallace. E John Travolta era Vincent Vega». Lo guardo perplessa. «E Uma Thurman era Mia Wallace. Ma sei sicura di aver visto il film? Perché comincio ad avere qualche dubbio». Alzo gli occhi al cielo. «Certo che l’ho visto. È il film più bello della storia». Arriccio il naso. «Non ti ho mai
detto neanche una bugia, mai». Mi sorride. «Lo so. Sei carina quando ti arrabbi con me, sai?». Faccio una smorfia e sbircio di nuovo l’edificio, inspirando per farmi coraggio. «Sei pronta a incontrare la nostra amica Oksana Belenko?», mi chiede Jonas. «Sì». Faccio un respiro profondo. «Penso di sì». Tocco d’istinto il polso ma, ovviamente, il bracciale non c’è: io e Jonas abbiamo deciso di toglierceli per questa commissione. «Sai cosa fare?», s’informa. «Sì. È solo che di colpo sono nervosa». Ho un sussulto. «E se ci fosse
anche il Travolta ucraino?». Non riesco a credere di non aver preso in considerazione prima questa eventualità. «Allora il nostro piano va a puttane perché ucciderò quello stronzo con le mie mani». Resto a bocca aperta. Aspetto che aggiunga: «Sto scherzando», ma non lo fa. «Jonas, no. Se ci sarà anche lui, trova il modo di mantenere la calma. Promettimi che non ucciderai nessuno». «No. Se quel figlio di puttana è là dentro, è un uomo morto, e al diavolo il piano. Se ti dico di correre, sarà meglio che tu lo faccia». Sento una stretta al petto e d’un tratto vengo invasa dal panico. Perché non ho
pensato a cosa potrebbe fare Jonas se si trovasse faccia a faccia con il mio aggressore? A cosa potrei fare io? Inspiro a fondo per calmarmi. «Jonas, stammi a sentire. Se farai qualcosa che non rientra nel piano, potresti farci uccidere tutti e due. O peggio». «Cosa c’è di peggio che farci uccidere tutti e due?» «Potresti morire tu e non io. Oppure potresti andare in prigione. E in entrambi i casi sarebbe peggio. Preferirei morire che vivere senza di te». «Be’, allora speriamo che quel figlio di puttana non sia là dentro». Il suo sguardo si è fatto duro. Non l’ho mai
visto così. Ho il respiro corto. «Forse non dovremmo farlo. Forse dovremmo pensare un altro piano». «Piccola, stammi a sentire». Mi afferra per le spalle e mi guarda con i suoi begli occhi azzurri. «Non possiamo restarcene seduti per il resto della vita a guardarci alle spalle. Lo sai. È ora di prendere in mano la situazione». Annuisco. Ovviamente ha ragione. Dopotutto, l’idea di venire da Oksana è stata mia. Inspiro ancora. Non so come mai di colpo sto perdendo la testa. «Mi rifiuto di stare ad aspettare chiedendomi se verranno ancora a cercarti», prosegue Jonas. «Non
permetterò più che mi succedano delle stronzate. Voglio avere io il controllo». Annuisco. Sono contenta di sentirglielo dire. «Allora, sei pronta a fotterli con me o no?» «Sì, sono pronta». Mi riscuoto. «È stato solo un attimo di indecisione. Sono pronta». Mi prende una mano e me la stringe. «Dobbiamo solo fargli aprire un’email. Un gioco da ragazzi». Annuisco ancora. «Okay. Hai il telefono?». Me lo mostra. «E il libretto degli assegni?». Si dà una pacca sulla tasca. «Sì». Mi
tira verso la strada. «Aspetta». Gli lascio la mano e faccio un passo indietro. Lui si volta e mi fissa, incerto. «Stai bene?» «Ho una strana sensazione… Come una premonizione». Mi guarda, in attesa di una spiegazione. «Se la ignoro e poi saltasse fuori che era giusta, mi prenderei a calci da sola». Jonas continua ad aspettare. «Puoi farmi un assegno? Intestato a me?» «Per che cosa?» «Non lo so», dico. «L’ultima volta ne avevo uno ed è servito a salvarmi la
vita. Ho l’impressione di dover entrare là dentro con la stessa protezione, giusto in caso». «In quale caso?» «Non lo so». Pare preoccupato. «Se non sarà necessario, non lo userò. Ma se il piano A non funziona, mi servirà un assegno come piano B…». «Piccola, no. Non esiste nessun piano B. Abbiamo solo il piano A». «Che male c’è? Se non lo userò, poi lo strapperò». D’un tratto, vengo invasa da un’ondata di adrenalina. Più ne parliamo e più sono sicura che mi servirà. «Su, fammi contenta». Mi scruta in volto. «Non ti lascerò da
sola con loro, nemmeno per un minuto. Lo sai, vero? Non c’è nessun piano B». «Certo, ma se mi perquisissero la borsa? Sarebbe un bene se lo trovassero, no? Sarebbe una conferma del fatto che ti tengo in pugno, proprio come gli ho raccontato». «Mi hai davvero in pugno». Sorride. Sorrido anch’io. Diamine, quanto è bello. «L’altra volta il tuo assegno mi ha salvato la vita, Jonas. Forse sono paranoica, ma non entrerò là dentro senza il mio portafortuna». Tira fuori con calma il libretto degli assegni. «Non è un invito a non seguire il piano, però. Non c’è nessun piano B». «Lo so». Prendo una penna dalla borsa
e gliela passo. «Quanto? Duecentocinquanta?» «No, è troppo. Magari cento». Compila l’assegno e me lo dà. «A prescindere da tutto però, ci atterremo al nostro piano. Lo faccio solo perché mi fido della tua pancia». Mi dà un bacio in testa. «Perché sei intelligentissima». «Grazie. Mi sento meglio adesso che ce l’ho». Do un buffetto alla mia borsa. Lui mi sorride per rassicurarmi. «Segui me e basta. Il nostro piano è a prova di stupido». «Andiamo». «Attieniti al piano». «Lo so». «Dillo».
«Mi atterrò al piano». «Okay. Andiamo».
Capitolo ventuno
Jonas
«Informo Oksana che siete qui», annuncia la ragazza all’ingresso, con aria diffidente. «Posso portarvi qualcosa da bere?» «No, grazie. Siamo a posto», rispondo. «Potete ripetermi i vostri nomi?» «Jonas Faraday e Sarah Cruz. Siamo venuti per vedere Oksana Belenko». Le rivolgo il mio sorriso più incantevole e la sua espressione si ammorbidisce visibilmente.
«Okay. Solo un minuto». Scompare nella stanza accanto e chiude la porta. Io e Sarah ci guardiamo. Ho il cuore che batte come un tamburo. Passano diversi minuti. Le stringo una mano. Non mi aspettavo di essere tanto nervoso. La ragazza riappare, seguita da un tizio all’incirca della mia età, con un completo firmato e i capelli biondo scuro pettinati all’indietro. Sarah si concede un sorrisetto: ecco il suo cattivo alla Die Hard. «Posso aiutarvi?», chiede lui, tenendosi a distanza, con gli occhi fissi su Sarah.
«Salve», esordisco, facendo del mio meglio per sembrare un elefante in un negozio di cristalli. «È un vero piacere conoscerla». Gli porgo la mano come se fossimo amici che non si vedono da tempo. «Sono Jonas Faraday, un membro del Club». Guardo Sarah e sorrido. «Un membro molto soddisfatto del Club, aggiungerei». Sarah mi sorride. L’uomo mi stringe la mano, ma senza il mio stesso entusiasmo e, nonostante io mi sia presentato, continua a non dire il suo nome. «Ho portato Sarah a Las Vegas per divertirci un po’ e ho pensato: perché non prendere due piccioni con una fava
e concludere qualche affare con voi intanto che sono qui?». L’uomo tiene il suo sguardo duro fisso su Sarah. La guardo anch’io, preoccupato che possa perdere la testa, invece è impassibile. Fa un largo sorriso al tizio e allunga una mano. «Sono Sarah Cruz», si presenta. «Non ci conosciamo, credo». Mi guarda. «Ho sempre lavorato da Seattle, quindi non ho mai incontrato nessuno del quartier generale». Il tizio guarda la porta d’ingresso alle nostre spalle. «Ci siete solo voi due?» «Sì», risponde Sarah in tono piatto. «Assolutamente. Solo noi». «Già. Sarah mi aveva detto che
sarebbe stato meglio mandarvi un’email, ma quando si tratta di affari lei non è un’esperta come me». Le faccio l’occhiolino. «Giusto, Sarah?» «Giusto». «È che non ha ancora esperienza sul campo, sa? È molto intelligente, per carità, ma non ha alcuna conoscenza del mondo reale. Non capisce che si può ottenere molto di più con una stretta di mano e guardando qualcuno negli occhi che con un’email». La tiro a me e le stringo il sedere. «Che ragazza, però, lasciatemelo dire. Che ragazza». A quel brusco contatto, Sarah reclina la testa e scoppia a ridere. «Oh, Jonas». «Stacy di Seattle mi ha detto che devo
parlare con Oksana per comprare un po’ del tempo di una ragazza, così ho pensato di venire qui e fare un accordo pulito con voi per comprarmi Sarah». «Jonas», dice lei, colpendomi per scherzo. «Lui ha capito cosa intendo. Mi comprerò il tuo tempo, tesoro. È ovvio che non mi comprerò te». Torno a guardare il tizio. «A meno che non sia in vendita». Rido come se avessi appena fatto una battuta divertente. Sarah mi imita. «Sul serio però, mi piacerebbe comprarmi un bel po’ di tempo con questa ragazza. È così impegnata giorno e notte a controllare le domande di
ammissione per voi che non mi dedica tutto il tempo che vorrei. E mi creda, io ne voglio tanto». La palpeggio di nuovo e lei ridacchia. Il tizio sembra diffidente. Non parla. «Torno subito». Sparisce oltre una porta. Io e Sarah ci scambiamo un’occhiata. Stiamo recitando la nostra parte alla perfezione, come previsto, ma chi cazzo è quest’uomo? Dov’è Oksana? Lo stronzo alla Die Hard torna dopo un paio di minuti. «Lasciate i telefoni e la borsa a Nina». Accenna alla giovane che ci ha accolto. Sarah le consegna la borsa senza esitare ma io resto immobile.
«Signor Faraday, saremo più che lieti di parlare con lei in questo edificio, ma non siamo disposti a rischiare che la nostra voce venga registrata per i posteri». Merda. Questo è il pezzo di merda che scrive le email per il Club, non c’è dubbio. Parla come scrive. «Oh, certo. Non c’è problema», dico, e allungo il cellulare alla ragazza. Lo stronzo ci perquisisce e noto che controlla ogni centimetro del corpo di Sarah con molta più attenzione rispetto al mio. Forse si fida meno di lei che di me? Oppure si sta solo godendo il piacere di toccarla? Serro la mascella e mi sforzo di reprimere i miei istinti
omicidi. Una volta convinto che siamo entrambi puliti, lo stronzo ci invita nell’ufficio. Seduta dietro a una grossa scrivania c’è una donna sulla sessantina con i capelli tinti di biondo platino e gli occhi pesantemente truccati con l’eye-liner. Dal giro di presentazioni scopro che è la nostra amica Oksana e che lo stronzo uscito da Die Hard è suo figlio Maksim, anche se lui ci dice di chiamarlo Max. Io e Sarah ci sediamo di fronte a Oksana mentre il figlio si sistema accanto a lei. Da pezzo di merda qual è, tiene lo sguardo fisso su Sarah. «È un vero piacere conoscerla, finalmente, Oksana», dico in tono
disinvolto una volta seduti. «Finora l’esperienza con il Club mi è piaciuta molto. È stato tutto eccellente». Max si schiarisce la voce. «Sono sorpresa di vederla qui», dice Oksana in tono piatto. Nonostante il marcato accento ucraino, parla in un inglese perfetto. «Non accettiamo incontri faccia a faccia con i clienti. E il nostro indirizzo non è di pubblico dominio». «Oh, già. Mi scusi. È stata Stacy di Seattle a dirmi dove trovarla». All’improvviso, mi sento in colpa per aver tirato in mezzo Stacy, ma non mi viene in mente un altro modo razionale per spiegare come abbiamo fatto a
rintracciare Oksana. «Spero non sia un problema. Non voglio mettere nei guai Stacy. È un tale tesoro. Anzi, all’inizio avevo pensato di comprarmi un po’ del suo tempo. Quella ragazza è sexy da morire e ha davvero talento…». Sarah si irrigidisce sulla sedia, fingendo di reprimere appena la gelosia. «Ma poi questa signorina si incazza come una bestia anche solo se guardo un’altra, e così ho cambiato in tutta fretta i miei piani». Faccio un sorrisetto a Sarah, che annuisce. «A quanto pare, la ragazza qui è gelosa e non le piace condividere quello che ha. Dunque, una cosa a tre con Stacy era fuori questione». Scoppio a ridere.
Sarah serra la mascella, facendo la sua parte proprio come previsto. «È proprio un bel tipetto. Un candelotto di dinamite». Rido. Sarah fa un gran sorriso a Oksana, che però resta impassibile. «Sì, è vero», commenta la donna. «Eccola la nostra Sarah. Proprio un bel tipetto». La guarda con gli occhi socchiusi, come per capire il suo gioco. «Oh, Jonas, lo sai che sono dolce», dice Sarah in tono mellifluo. «Giusto. Sei dolce che di più non si può», concordo. Da quando ci siamo seduti, Max non ha staccato un attimo gli occhi da Sarah. Giuro su Dio che se la tocca di nuovo
come ha fatto nell’altra stanza, non riuscirò più a controllarmi e finirò per strozzarlo. «…e lui dice sempre che lavoro troppo», sta continuando Sarah. «Non è vero, tesoro?» «Oh, sì. Questa ragazza deve sempre lavorare. Lavoro, lavoro, lavoro. Deve pagarsi la scuola, e poi c’è questa cosa terribile del cancro di sua madre. Ma di certo lo saprete già…». Oksana e il figlio si scambiano un’occhiata. «E adesso mi ha detto che suo padre è appena stato licenziato». Mi concedo un gran sospiro. «Quanto può sopportare una ragazza da sola? Dio. Anche dopo che un pazzo l’ha aggredita a scuola…
Sarah, gliel’hai raccontato?». Lei scuote la testa. «No, non gliel’ho detto, tesoro. Non è stato nulla di che». «Mi prendi in giro? È stato brutale», ribatto. «È difficile credere che al mondo ci siano dei pezzi di merda malati che vogliono fare del male a una ragazza dolce come te. Chiunque sia stato, spero che bruci all’inferno, cazzo». Fulmino Max con lo sguardo. «Jonas», mi riprende Sarah, con voce tesa. Merda. Mi sto allontanando dal piano. Il mio cuore martella senza pietà. Inspiro a fondo. «Mi dispiace sapere che sei rimasta ferita, Sarah», dice lentamente Max.
«Per fortuna ti sei ripresa». Le sorride con fare lascivo. «Molto bene». Mi schiarisco la voce. Figlio di puttana. Stringo i pugni così forte che mi fanno male. «A quanto pare, all’università c’è stata una serie di stupri», spiega Sarah con calma. «La polizia pensa che la mia aggressione sia stato uno stupro mancato, o forse solo un tentativo di rapina, non si sa per certo. A ogni modo però, ora sto bene». Mi lancia un’occhiataccia, per farmi capire di attenermi al piano. «Jonas è stato dolcissimo a coccolarmi mentre mi riprendevo». «Sì, questa poveretta era ridotta male.
E così ho capito che voglio prendermi cura di lei, sapete? Renderle la vita un po’ più semplice, toglierle qualche peso dalle spalle. Quanto può sopportare una ragazza da sola? Ma anche dopo l’aggressione, no, lei è voluta tornare di corsa a scuola e al lavoro. Ha detto che ha troppe bollette, troppe domande da esaminare e non poteva permettersi una pausa». Di colpo, Sarah prende a singhiozzare come se stesse soffocando, o almeno questa è l’impressione che dà. Diamine, è davvero brava. So che sta recitando, ma è comunque un’interpretazione da spezzare il cuore. «Ehi», le dico in tono gentile. «È tutto
a posto». Le prendo una mano. «Si risolverà tutto». «Mi dispiace», dice lei. «Adesso sto bene». Deglutisce a fatica. «È solo che ultimamente ne ho passate tante e sapere che vuoi aiutarmi significa molto per me». Le do un bacio sul dorso della mano. «È quello che voglio fare». Mi rivolgo a Oksana. «Forse non dovrei dirglielo, ma continuo a ripeterle che pagherò io le sue bollette, così potrà lasciar perdere del tutto il suo lavoro di agente di ammissione e concentrarsi su di me, sette giorni su sette. Però lei dice che non sarebbe giusto nei vostri confronti, che dipendete troppo da lei».
Oksana e Max si scambiano un’occhiata. Non mandano una domanda di ammissione a Sarah da prima che partissimo per il Belize. «Sa, è buffo. Mi sono iscritto al Club per non avere a che fare con dei legami emotivi però, che diamine, ho finito per legarmi a questa ragazza». Le stringo una coscia. «Nessun uomo potrebbe resisterle. Guardatela: è stupenda. Ma gli affari sono affari, lo so, e lo rispetto. Ecco perché sono qui». «Cosa possiamo fare di preciso per lei, signor Faraday?», chiede Max. «Speravo di convincervi a lasciarmi comprare tutto il tempo di Sarah, diciamo per un mese. Lei scappa sempre
via per occuparsi delle domande per voi quando invece io vorrei portarla da qualche parte o passare del tempo da solo con lei. È così preoccupata per le bollette. Quindi pensavo che, convincendola a prendersi delle ferie pagate, potrebbe avere del tempo libero per me». «Non posso lasciare il lavoro, Jonas», commenta Sarah, sollevando il mento. «Troppe persone dipendono da me». «Lo so, tesoro. Ma devi imparare ad accettare il mio sostegno. Voglio solo aiutarti». «Grazie, Jonas. Sei così generoso». «Penso che potremo accontentarla, signor Faraday», interviene Oksana.
«Tuttavia, Sarah è una delle nostre migliori agenti di ammissione e facciamo grande affidamento su di lei su base giornaliera. Ovviamente, ogniqualvolta ci è possibile, vogliamo anche rendere felici i nostri clienti». «Fantastico. Per cominciare, vorrei comprarla per un mese. Non posso impegnarmi più a lungo, almeno non ora». «Ed è proprio per questo motivo che non lascerò il lavoro», Sarah spiega a Oksana, come se fosse la sua migliore amica. «Lui non vuole impegnarsi». Ora guarda me. «Se tu non puoi impegnarti con me, Jonas Faraday, allora io non posso impegnarmi con te».
A Oksana brillano gli occhi. Un chiaro apprezzamento della capacità di Sarah di giocare ai limiti della legalità. Alzo gli occhi al cielo. «È tosta la ragazza, non voglio mentire. Mi tiene sempre sull’attenti». Sorrido a Sarah e lei fa altrettanto. «Ovviamente potrei avere qualsiasi altra ragazza del Club – o qualsiasi altra ragazza al mondo per quanto mi riguarda, se proprio volete sapere la verità – ma non mi stanco mai di lei. È una pazzia. Lei è… Ragazzi, è una pistola carica». Sarah sorride. «Sono solo onesta, tutto qua. Sono quella che sono. Prendermi o lasciarmi». «Già, continua a ripetermelo… e io
continuo a prenderla». Scoppio a ridere, da bravo sporcaccione. «Ma non vuole lasciare il lavoro e, se voglio avere la sua totale attenzione, insiste che paghi il suo tempo direttamente a voi. E io lo rispetto. È leale. Onesta. Lo dico sempre io che quando si tratta di affari bisogna essere puliti e comportarsi con integrità». Sarah si stringe nelle spalle. «Non li abbandonerei mai». China la testa, come se fosse di nuovo sopraffatta dall’emozione, e si prende un istante. «Scusate, è che stavo pensando a mia madre e mio padre. Ne stanno passando tante». Che diamine, se una simile sceneggiata
non basta a convincere questi stronzi che Sarah è il loro diamante più prezioso, allora non so cosa serva. Si merita un Oscar. «Non preoccuparti di nulla, Sarah», intervengo. Sbircio Oksana. Sì, se la sta bevendo. «Ti aiuterò io con tutte le spese, tesoro, te lo prometto. Ma, prima di tutto, quanto mi costerà fare in modo che questa bella ragazza venga affidata alle mie cure per un mese? Voglio che sia mia… sette giorni su sette». Mi lecco le labbra. «Oh, Jonas», commenta lei. «Come sei dolce». «Sette giorni su sette?». Oksana guarda il soffitto, come se stesse facendo dei
calcoli. «Tremila dollari al giorno dovrebbero bastare». «Novantamila per un mese?», dico, incredulo. «Mi sembra tanto». Fremente di rabbia, Sarah incrocia le braccia. «Ti sembra tanto, Jonas Faraday? Per un mese con me, sette giorni su sette, ogni volta e in ogni luogo che vorrai? A me sembra decisamente poco». Alzo le mani sulla difensiva, per tranquillizzare la mia ragazza impossibile da accontentare, ma lei distoglie lo sguardo, seccata. Oksana sorride. Oh sì, adora Sarah. «Facciamo molto affidamento su Sarah, ecco perché è così impegnata con il
lavoro. È la nostra stella migliore. Capisce che lei non è una ragazza del Club, ma un membro altamente specializzato della nostra squadra. In realtà non avrebbe mai dovuto averla. Di norma non è in vendita. Una come lei costa caro». «Oh, sì, lo so. Comunque, mi dispiace di aver infranto le regole del Club con lei… non ho potuto resistere». Le rivolgo un bel sorriso. «Era una tentazione troppo grande». Sarah annuisce con foga. Giustissimo. «Se ho ben capito cosa ci sta chiedendo», riprende Oksana, «lei vorrebbe che noi le conservassimo il posto di lavoro, garantendole di riaverlo
tra un mese, e nel frattempo dovremmo continuare a pagarla per tutto il mese in cui sarà via, giusto? Come delle ferie retribuite?» «Esatto». «Il che significa che dovremo assumere un altro agente di ammissione al posto suo, almeno temporaneamente, e occuparci della formazione di quella persona. Tutta questa situazione è un grosso inconveniente per noi. Gestiamo un’associazione a scopo di lucro, non di beneficenza». Resto in silenzio, fingendo di riflettere. Sarah mi guarda con sguardo implorante. «E se accettassi una
riduzione dello stipendio per venirti incontro, Jonas? Voglio davvero essere disponibile per te per il prossimo mese, in ogni minuto di ogni giorno e ogni notte». Sbatte le ciglia. «Non ti chiederei mai di accettare una riduzione dello stipendio, Sarah», le dico. «Mai. I soldi ti servono». Sospiro. «Vorrei solo che mi permettessi di pagare direttamente te. Non sarebbe più facile?» «Facciamo ottanta», sbotta Oksana. «Ma non un centesimo di meno. È la mia ultima offerta». «Oh, grazie, Oksana», dice Sarah tutta allegra. «Vedi, Jonas? È disposta a fare affari con te. Ci stai allora?». Si alza e
mi sussurra all’orecchio. «Ti prometto che ne varrà la pena, tesoro». So che sta solo recitando la sua parte, ma mi sto eccitando. Giro la testa e la bacio sulla bocca, mentre lei mi passa una mano tra i capelli. Diamine, anche quando fingiamo, lei è la mia droga. «Lo sai che non riesco a resisterti», dico sottovoce, e prendo il libretto degli assegni. «Vada per ottanta. Lo intesto al Club?», chiedo. «Al beneficiario pensiamo noi», risponde Max. Compilo l’assegno e lo passo a Oksana, poi guardo Sarah. «È ufficiale adesso: ti possiedo. Sette giorni su sette. Sei mia».
A Sarah brillano gli occhi. «Per un mese». «Mi scuso di nuovo per aver cooptato Sarah contro le regole. Non sono riuscito a resisterle… Dopo quello che mi ha scritto in quell’email, nessun uomo avrebbe potuto. E quando poi ho scoperto il suo lato geloso, ragazzi, è stato troppo». Scorro un dito sul suo braccio. «È proprio un bel tipetto. Un bel tipetto saporito». Sarah mi rivolge un sorriso malizioso. «Grazie per la tua generosità, Jonas. È una qualità molto attraente in un uomo. Io la trovo eccitante». Mi giro verso di loro. «È il miglior investimento di tutta la mia vita, senza
dubbio. Sono davvero contento di essermi iscritto. Continuo a ripetere ai miei amici quanto sia fantastico il Club. In effetti, sono stato a un congresso internazionale con alcuni pezzi grossi della finanza e una sera davanti a uno scotch devo averne parlato ad almeno venti tizi, che adesso vogliono iscriversi tutti, fino all’ultimo. Ma, sapete, questi sono VIP di prima classe, abituati a ricevere attenzioni speciali per ogni cosa». «Ci assicureremo di fornire loro un’esperienza fantastica», commenta Oksana. «In confronto ad alcuni di loro, sembro un poveretto, sul serio». Ridacchio.
«Hanno quantità oscene di soldi. Gli ho detto che vi avrei chiesto di contattarli personalmente, per una specie di servizio di accoglienza VIP , rispondere alle loro domande, occuparvi della loro ammissione, dirgli cosa offrite e assicurargli che verranno trattati come dei re. Non vogliono dover compilare una domanda di ammissione come chiunque altro; vogliono la garanzia che avranno il meglio del meglio. A questi tizi non gliene frega un cazzo del romanticismo, se capite cosa intendo. Vogliono solo un servizio esclusivo». Oksana lancia un’occhiata a Max, che le stava chiedendo chiaramente il permesso di parlare.
«Gli offriremo il nostro pacchetto platino, glielo assicuro», risponde lui. «Gli dia il link al nostro portale e avvieremo il processo di ammissione tramite i nostri normali protocolli». «Perché invece non vi mando un’email con i loro contatti, così potete chiamarli voi? Scommetto che riuscirete a vendere a tutti quanti il pacchetto per un anno intero per mezzo milione. Magari di più… O magari potete creare una specie di VIP club nel Club, solo per loro? Dico sul serio. Io sono un barbone in confronto ad alcuni di loro». Scoppio a ridere. «Se mi ridate il cellulare che è nell’altra stanza, recupero i loro contatti e ve li mando via email».
«No», ribadisce Max in tono fermo. «Non ammettiamo contatti telefonici e non sollecitiamo nuovi membri, mai. Niente eccezioni. Se vogliono entrare nel Club, dovranno farlo attraverso i canali appropriati, come chiunque altro. Ho progettato io stesso i protocolli. Lo facciamo per assicurare il massimo livello di protezione e riservatezza per tutte le persone coinvolte nella transazione. Sono sicuro che capirà». Oh, dunque a progettare il sito è stato questo stronzo? La sua mammina procura le ragazze e lui si occupa di tutto il resto? «Non so se accetteranno», insisto. «Jonas, ti prego», interviene Sarah,
decisa. «Rispetta quello che ti sta dicendo Max, per favore. A prescindere da quanti soldi abbiano, i tuoi amici non possono chiedere al Club di fare qualcosa che possa in qualche modo compromettere la riservatezza. Non dimenticare che serve a proteggere anche me in quanto impiegata, proprio come chiunque altro». La fisso. Questo non fa parte del piano. Cosa cazzo sta dicendo? Il piano è che io gli mandi una cazzo di email con i nomi dei miei amici ricchi che intendono iscriversi. Perché si è messa dalla parte di Max? «Posso essere del tutto sincera con te su una cosa, Jonas?», prosegue lei. Però
tiene lo sguardo fisso su Max, come per una battuta che solo loro possono capire. «Ma certo». Ho il cuore a mille. Cosa cazzo sta facendo? «Se si scopre che lavoro per il Club, potrei non soddisfare i requisiti etici per esercitare come avvocato. Quindi è davvero importante per me attenersi a qualsiasi protocollo il Club abbia adottato per proteggersi, perché quei protocolli proteggono anche me. Cioè, li conosci bene questi tizi? Puoi essere certo della loro discrezione totale?». Sono senza parole. Senza battere ciglio, Sarah continua a fissare Max. Lui le sorride, con gli occhi infervorati. Per come la sta guardando, è
già tanto che io riesca a trattenermi dal saltare dall’altra parte della stanza e spezzare il collo a questo stronzo. «L’obiezione di Sarah è eccellente», commenta lui. «Grazie, Sarah». «Di niente. Proteggere il Club è nell’interesse di tutti. Soprattutto nel mio». Mi guarda con occhi dolci. «Così come proteggere la privacy dei membri, s’intende». Mi fa un largo sorriso, per incantarmi. Cosa cazzo sta facendo? Non fa parte del nostro cazzo di piano. «Concordo», dice Max. «Signor Faraday, perché non mi dice i nomi dei suoi amici? Così, quando ci contatteranno tramite gli appositi canali,
saremo pronti ad accoglierli». Afferra un blocco per gli appunti dalla scrivania della madre. «Le prometto che sarà l’esperienza migliore della loro vita». «Certo», dico, sollevato. Allora la follia di Sarah aveva uno scopo: si è guadagnata la fiducia di questo stronzo. Bella trovata. «Sì, okay, ho i nomi nel cellulare. Ridatemelo e vi mando la lista via email». «No, me li dica adesso, a voce». Prepara una penna. «Jonas, puoi dare a me la lista più tardi e io mi assicurerò di passarla a loro», interviene Sarah. Sono di nuovo senza parole. Cosa cazzo sta facendo? Non fa parte del
nostro cazzo di piano. «Perfetto», conclude Max. «Grazie, Sarah». Lei mi guarda. «Jonas, ti dispiace lasciarmi cinque minuti a parlare in privato con Max e Oksana?». Cosa cazzo significa? Eravamo d’accordo che non l’avrei lasciata sola con questi pezzi di merda neanche per un nanosecondo. Cosa cazzo sta facendo? «Solo cinque minuti», mi dice in tono allegro. «Devo comunicare delle informazioni su un membro, sull’ultima domanda che ho esaminato, e ovviamente si tratta di informazioni confidenziali. È l’ultimo incarico per tutto il prossimo mese, te lo prometto.
Quando usciremo da quella porta, niente più lavoro». Mi fa l’occhiolino. Non riesco a parlare. È una pazzia. Non esiste, cazzo. «Solo cinque minuti, tesoro», insiste. Non mi muovo. Non esiste. Non esiste, cazzo. «Signor Faraday, sarebbe così gentile?», interviene Max, che si alza e va alla porta. «Ci vorrà solo un attimo. Nina le porterà un caffè». Apre la porta che dà sull’ingresso. Fisso Sarah. Cazzo. Non sta succedendo davvero. Non esiste, cazzo. «Grazie, Jonas», dice lei. «Ci metterò solo un minuto, te lo prometto». Mi costringo ad alzarmi e guardo
l’orologio. «Cinque minuti». Le rivolgo uno sguardo duro come il granito. «Ti cronometro». «Bene, grazie. Arrivo subito».
Capitolo ventidue
Sarah
Nell’istante stesso in cui la porta si richiude alle spalle di Jonas, mi giro di scatto verso Oksana e Max, con uno sguardo duro come l’acciaio. «Voglio il cinquanta percento o me ne vado», dico in tono piatto, con la mascella serrata. «Come avete potuto vedere, ho in pugno quest’uomo. Non si stanca mai di me. Sono come una droga. E adesso che gli ho raccontato la mia triste storia su mia madre che ha il cancro e mio padre che
ha perso il lavoro, è pronto a darmi soldi a più non posso. Il cinquanta percento altrimenti me ne tiro fuori». Max ridacchia. «Il sessanta a noi e il quaranta a te», ribatte Oksana. «È la mia ultima offerta». Mi appoggio allo schienale della sedia e incrocio le braccia. «Ce l’ho in pungo, vi dico». La donna ha un’espressione di pietra. «Il sessanta a noi e il quaranta a te», ripete. «Prendere o lasciare». Chissà cosa mi farebbe se lasciassi. «Datemi il cinquanta percento con lui e il quaranta con i prossimi uomini», dico. «Non ho più nemmeno bisogno di voi
per Faraday. Potrei tenermi tutti i suoi soldi e voi non verreste mai a saperlo, invece vi tengo nei giochi perché in futuro voglio collaborare con voi anche per altri uomini». Oksana e Max si scambiano un’occhiata. «Potresti tenerti tutti i soldi di questo tizio e noi non verremmo mai a saperlo?», mi fa il verso Max, ridacchiando tra sé. «Pensi che sarebbe così semplice?». Il suo tono è di pura minaccia. «Ssh, Maksim. Dobre», lo riprende la madre. «Bene, Sarah. È evidente che tu abbia già fatto molto lavoro con Faraday, quindi ti daremo il cinquanta
percento con lui e il quaranta per tutti gli altri». «Okay», accetto. «Bene. Ora che abbiamo sistemato questa faccenda, sarete contenti di sapere che questa mattina mi ha dato un altro assegno. Centomila stavolta». «Tutto qui?», chiede Max. Alzo gli occhi al cielo. «Sono solo per “divertirmi” con qualche scommessa intanto che siamo a Las Vegas». Scoppio a ridere. «Ve l’ho detto, ce l’ho in pugno». Come previsto, Oksana pare impressionata. «Hai con te l’assegno?» «Sì, ce l’ho in borsa». Indico l’altra stanza.
Oksana fa un cenno al figlio, che si alza per andare a prenderla. «Spremerò Faraday più che potrò nel corso del prossimo mese, ma dopo voglio altri clienti», dico a Oksana, intanto che siamo sole. «Sto cominciando a divertirmi». «Ah, hai scoperto il potere». Scoppia a ridere. «Lo dico sempre io, finché una donna ha una passera e una bocca, è solo colpa sua se non riesce a ottenere tutto quel cavolo che vuole». Nonostante un’improvvisa ondata di nausea, abbozzo un sorriso. «Quant’è vero. Da come si comporta con me, sembra quasi che quell’uomo non abbia mai fatto sesso prima».
«Il potere della passera», conclude Oksana con finta riverenza. Ridiamo entrambe sguaiatamente, anche se mi devo sforzare per non vomitare. Che stronza. Max ricompare con la mia borsa ma, mentre richiude la porta alle sue spalle, sento la voce ansiosa di Jonas nell’ingresso. «Ho pagato per il suo tempo», gli sento dire. «Io torno di là». «Ci dia solo cinque minuti», dice Max in tono cortese. Chiude la porta con un colpo e gira la chiave nella serratura, poi attraversa la stanza frugando nella mia borsa. Tira fuori l’assegno e lo mostra alla madre.
«Bel lavoro», commenta lei. «La settimana prossima la salute di mia madre peggiorerà», annuncio. «E mio padre rischierà di perdere la casa, per la modica cifra di cinquecentomila dollari». Oksana annuisce, entusiasta. «Bene». Max si sistema sulla sedia lasciata libera da Jonas e si sporge verso di me, con una mano sulla mia coscia. A questo contatto, mi ritraggo d’istinto. «Allora, Faraday ha risolto il tuo problemino?». Non rispondo. Max si avvicina ancora di più e mi sussurra: «Ha risolto il problemino di cui parlavi nell’email che gli hai
mandato? Mi pare che tu l’abbia chiamato il problema “del Monte Everest”». Si lecca le labbra. «Perché se non ce l’ha fatta, sono sicuro di poterci riuscire io in cinque minuti». Mi allontano decisa dal suo viso. «Gli ho detto quello che voleva sentirsi dire, tutto qui. L’unica cosa a cui sapevo che non avrebbe resistito». Max ridacchia. Dalla sua espressione, capisco che non mi crede. «Sei stata molto, molto convincente». «Maksim, nemaye», lo riprende Oksana. «Molto intelligente, Sarah». Faccio una smorfia. Al momento, ho in testa una sola cosa: farle aprire un’email, a qualsiasi costo.
«Piantiamola con le stronzate», taglio corto. «Sono disposta a dimenticare il nostro “sfortunato problema di comunicazione”, ma voglio essere pagata entro ventiquattr’ore, ogni volta, altrimenti me ne vado. E in questo caso, credetemi, vi rovinerò». «Non ci rovinerai», replica Max. Serro le labbra in una linea sottile. «L’hai detto tu stessa: se viene fuori che hai lavorato per noi, non soddisferai i requisiti etici per esercitare come avvocato. Non rischieresti tanto». Lo guardo con un’espressione accigliata, come se ce l’avessi con me stessa per avergli rivelato il mio grande segreto. «O forse non mi importa di
diventare avvocato», ribatto, facendo del mio meglio per sembrare una terribile bugiarda. Lui sorride. «Oh, sì invece che ti importa. Ho fatto qualche ricerca su di te e sono piuttosto sicuro che sia la cosa a cui tieni di più. E perciò non racconterai niente a nessuno». Digrigno i denti. «Ma è proprio per questo che possiamo fidarci di te, signorina Cruz. I nostri interessi coincidono. Ed è un bene». «Se mi fate girare le palle, a prescindere da cosa possa succedere alla mia carriera, renderò pubblico il rapporto».
Max sorride. Non ci casca. «Bene», sbuffo, dandogliela vinta, e incrocio le braccia. «Ma se manderete ancora il John Travolta ucraino a farmi del male, fine dei giochi». «Il “John Travolta ucraino”?». Max scoppia a ridere. «Sì. Come John Travolta in Pulp Fiction, solo che è ucraino». Max è davvero divertito. «Devo dire a Yuri che l’hai chiamato così». Parla alla madre in ucraino, strappandole una grassa risata, e poi accantona la questione con un gesto della mano. «Non ti faremo del male, Sarah. Hai dimostrato il tuo valore. Hai detto che non sei “una stupida del cazzo”? Be’,
nemmeno noi». Lo guardo strizzando gli occhi. «Sei brava a scrivere, comunque. Un candelotto di dinamite, come ha detto quel coglione del tuo ragazzo». «Come faccio a sapere che posso fidarmi di voi? Come faccio a sapere che non manderete ancora il vostro sicario a cercarmi?». Il suo sguardo si fa duro. «Perché se io dico che sei al sicuro, allora sei al sicuro. E se ti voglio morta, allora sei morta». Un brivido mi corre lungo la spina dorsale: sono a quindici centimetri dall’uomo che ha dato personalmente l’ordine di farmi fuori. «Ma la buona notizia è che non ti voglio morta». Mi
sfiora il braccio e rabbrividisco. «Spero che il nostro sfortunato problema di comunicazione non ti abbia arrecato troppi danni». «Oh, no, per niente. Non mi serviva tutto quel sangue», rispondo, prendendolo in giro. «Quanto sono gravi le cicatrici?», s’informa Oksana. «Non posso metterti nel giro se sono troppo brutte». Parla in un tono puramente professionale. Qualcuno bussa forte alla porta. «Il tempo è scaduto», dice Jonas a voce alta. Scuote l’uscio, ma è chiuso a chiave. «Sarah? Il tempo è scaduto. Adesso». Max accenna alla porta. «Va’ a
parlargli». Ubbidisco e apro. Jonas è nel panico. O forse è furioso? «È tutto a posto, tesoro», gli dico con fare allegro, facendo capolino. «Abbiamo quasi finito di parlare di affari. Altri cinque minuti e avremo concluso del tutto. E poi sarò tua per un mese intero». È fuori di sé. «Vieni qui», gli dico. Lui si sporge a pochi centimetri dal mio viso per sussurrarmi qualcosa, ma io lo bacio. «Sarah», mormora, staccandosi, con uno sguardo irrequieto. «Esci subito da lì».
«Sì, solo un paio di minuti», rispondo a voce alta. «Dopodiché, sarò al tuo servizio, tesoro». «Sarah, adesso», sussurra lui, furioso. «Adesso». «No», bisbiglio. «Fidati di me». Gli richiudo la porta sulla faccia incandescente di rabbia. Mi volto, assicurandomi di non chiudere a chiave. «Le ferite stanno guarendo sorprendentemente bene», annuncio, mentre torno a sedermi. «Grazie per il vostro interessamento. Questa sul collo si nota appena». Inclino la testa per fargliela vedere. «Sì, non è troppo male», concorda Oksana.
«E nemmeno quella sul torace. E migliorerà con il tempo». «Vediamola», dice la donna. «Devo vederla con i miei occhi». «In realtà, noi del Club abbiamo una piccola tradizione», interviene Max, in tono lascivo. «Prima di inserirla nel giro, faccio un provino a ogni singola ragazza, giusto per assicurarmi che sia all’altezza dei nostri standard elevati». Guarda la madre e le dice qualcosa in ucraino. Mi si rivolta lo stomaco. Di colpo mi sento invasa dal panico e lancio un’occhiata alla porta. Merda. «Non ci vorrà molto», aggiunge Max. «Cinque minuti». Si alza e mi porge una
mano. Porca vacca. Vuole scoparmi in bagno adesso? «Maksim», lo sgrida Oksana. «Ne zaraz». Ho un nodo in gola. «Faraday è dietro quella porta», balbetto. «E si sta già chiedendo cosa stia succedendo, l’avete visto. Sta andando fuori di testa. Non c’è abbastanza tempo». «Maksim, nemaye», gli dice la madre in tono secco. «Ne s’ohodni». Max le risponde con un’occhiataccia e sospira. «Be’, se non oggi, allora prima che se ne vada da Las Vegas». Mi sforzo di sorridere, ma sono certa al novantanove percento di non riuscirci.
Devo andarmene da qui – sto perdendo la testa – ma maledizione, devo far aprire una cavolo di email a Oksana. «Quando riesci a liberarti di lui per un’oretta? Io mi adatto». Max mi fa l’occhiolino. «Domani?» «Non lo so. È un tipo che richiede molte attenzioni… piuttosto passionale». «Lascerò perdere all’istante qualsiasi cosa starò facendo». «Oh, come sei dolce… Smetterai di accoltellarmi per scoparmi?». La mia mente è al galoppo. Devo trovare un motivo per mandare un’email a Oksana. Mi resta poco tempo. Max scoppia a ridere. «Sei proprio un bel peperino, eh? Capisco perché gli
piaci. Ci divertiremo». «Maksim, tysha», lo riprende ancora Oksana con fare deciso. «Sarah, prima che tu te ne vada, devo vedere le tue cicatrici. Non posso farti entrare nel giro senza sapere quello che vedranno i clienti. Ho un catalogo privato di foto per poter assegnare le ragazze in base alle preferenze specifiche dei nostri clienti». “Pensa, Sarah, pensa”. «Faraday mi aspetta dietro quella porta», ribadisco. «Non mi spoglierò qui su due piedi. L’avete visto, si è insospettito. Potrebbe entrare con la forza da un momento all’altro». «Be’, io devo vedere il tuo corpo
altrimenti l’affare salta». “Un lampo di genio. Alleluia”. «Okay», cedo. «Andrò in bagno e mi farò un selfie nuda, solo per il catalogo personale. Ridatemi il cellulare. Ma mi farò una foto solo dal collo in giù e terrò le mutandine». Max sorride. «Scaricherai una foto da internet». Alzo le mani, esasperata. «Come farei? Mi vedrete nel vostro bagno e con questo». Alzo in fretta la gonna e gli mostro per un secondo il perizoma rosso. Vedendolo di sfuggita, il viso di Max si illumina come un albero di Natale. «Farò la foto adesso e ve la girerò via
email. Resterò qui mentre aprite l’allegato per assicurarvi che la riteniate accettabile». Prendo una tazza con dei gatti disegnati dalla scrivania di Oksana. «E terrò in mano questa tazza. Non posso certo fotoscioppare una foto di me nel vostro bagno, con addosso un perizoma rosso e una tazza con i gatti in mano, no?» «Pravda», dice Oksana, soddisfatta. «Maksim?». Per un attimo lui pare dubbioso, ma alla fine annuisce. Allungo una mano. «Posso avere il mio telefono, per favore?». Max fruga nella mia borsa, lo estrae e lo esamina a lungo.
«Non sta registrando», dico. Glielo strappo di mano e lo metto davanti alla bocca. «Sono Sarah Cruz e lavoro per il Club. Sto fregando soldi a Jonas Faraday fin dal primo giorno e sto per intraprendere una bella e nuova carriera come squillo di lusso». Faccio un sorrisetto a Max. «Non sta registrando». Mi sorride anche lui. «Vengo in bagno con te». «Maksim, bud’ laska», sbraita Oksana. Spero proprio che significhi no. Senza aspettare di scoprirlo, schizzo in bagno con la tazza in mano e chiudo la porta a chiave. Non appena sono sola, le ginocchia prendono a tremarmi. Mi aggrappo al bordo del lavabo per
mantenere l’equilibrio. «Merda», sussurro, con il fiato corto. «Riprenditi, Cruz». Mi sfilo il prendisole dalla testa e mi faccio una foto allo specchio dal collo in giù, con la tazza in mano. Con il sangue che mi pulsa nelle orecchie, mi blocco per un attimo per osservare lo scatto del mio corpo mezzo nudo. Mi sembra sbagliato. Molto, molto sbagliato. E allora perché sono così sicura che funzionerà? Scuoto le mani e sospiro per calmarmi. Qual è la cosa peggiore che possa succedermi? Cercheranno di ricattarmi con la foto? La metteranno su un sito porno? Fisso di nuovo
l’immagine, sforzandomi di immaginarla su un disgustoso sito pieno di donne a seno nudo. Non è poi la fine del mondo, no? La mia faccia non si vede e non c’è nulla per cui queste tette e questo torace siano proprio i miei, a eccezione della cicatrice, s’intende. In teoria, qualcuno potrebbe ricondurla a me, ma non in modo certo. Non come con un tatuaggio. Potrei sempre negare di essere io e dire che hanno usato Photoshop per aggiungere la cicatrice. Bah. Ho la sensazione che sia una cattiva idea. Ma che alternativa ho? Non apriranno un’email di Jonas, questo è chiaro. Per qualche motivo, non si
fidano del tutto di lui. Invece si fidano di me. Il piano A è ufficialmente fallito. È ora di andare avanti con il piano B o di ammettere la sconfitta. E io mi rifiuto di ammettere una sconfitta. Allego la foto all’email che Henn mi ha dato, mi rimetto il vestito ed esco dal bagno. «Vuoi controllare di nuovo che non stia registrando?». Con mano tremante, allungo il telefono a Max. «Non dirò niente di particolarmente interessante». Sorride. «Favoloso». Abbasso lo sguardo sul cellulare. «Qual è il tuo indirizzo, Oksana?». Lei me lo dice e, mentre lo scrivo, mi
tremano le mani. «Max? Immagino che vorrai la foto anche tu, no?». Dalla sua espressione, non resta alcun dubbio sulla risposta. «Qual è il tuo indirizzo email?». Me lo detta e lo aggiungo in fretta ai destinatari… e poi premo INVIO. Oh. Mio. Dio. Sto per andare in iperventilazione. Devo avere le guance incandescenti. «Okay, l’ho mandata», annuncio, sforzandomi di stare calma, anche se riesco a malapena a respirare. «Controllate tutti e due di averla ricevuta». Mentre Oksana accende il computer e apre la sua casella di posta, mi sembra
che il tempo scorra al rallentatore. «È all’altezza dei vostri standard elevati?», chiedo, con voce e ginocchia malferme. «Oh sì, molto carina», commenta Oksana vedendo la foto. Oddio. Ha aperto la mia email. L’ha aperta! «Sarai tra le preferite dei clienti che amano le cose piccanti», prosegue lei. «La cicatrice è a posto. Puoi sempre dare la colpa a un intervento chirurgico. Magari per l’appendicite, come Marilyn Monroe in quelle foto famose». Sorrido di cortesia, anche se non ho idea di cosa stia parlando. «Cosa ne pensi tu, Max?», chiedo. «Ti piace quel
che vedi?». Mi sforzo di sembrare sexy e invitante, ma probabilmente do l’impressione di avere il mal d’auto. Max tocca lo schermo del suo telefono – oddio, sta aprendo l’email! – e mi costringo a respirare con la bocca per non svenire. Osserva la foto. «Capisco perché il signor Faraday è un tuo grande fan». Torna a guardarmi e si lecca le labbra. «Non vedo l’ora di avere il mio assaggio domani». «E quanto hai intenzione di pagarmi per questo piacere?». Mi deride con lo sguardo. «Una prostituta furba non la dà mai via per nulla. Giusto, Oksana?».
La donna ridacchia. «Per Maksim, sì; se sa cosa è meglio per lei». «Io ricevo sempre un omaggio», dice lui. «Ma non preoccuparti, mi assicurerò che piaccia anche a te. Sono molto attento in questo senso. Soprattutto con una donna con il tuo problema». Ho una stretta allo stomaco. «Io… non so se riesco a liberarmi». Accenno alla porta. «Faraday è piuttosto possessivo…». «Troverai un modo, se sai cosa è meglio per te». Qualcuno bussa con forza alla porta. «Sarah», strilla Jonas. «È ora di andare. Adesso». Scuote la porta, che però è chiusa a chiave. Quando l’hanno
chiusa? D’un tratto, vengo invasa dal panico. Devo uscire da questa stanza. «Sarah!», grida di nuovo Jonas. «Il tempo è scaduto!». «Arrivo», rispondo, sforzandomi con tutta me stessa di usare un tono leggero e allegro. Poi sussurro a Oksana e Max: «È davvero infervorato». Jonas cerca ancora di aprire la porta, che trema tutta. Mi giro per andarmene, ma Max mi afferra un braccio in una morsa di ferro. «Pensa: se Yuri ti avesse ucciso come gli avevo chiesto, mi sarei perso un gran divertimento». Senza alcun preavviso, si avventa
sulla mia faccia e mi bacia sulla bocca, infilandomi la lingua fino in gola. Indietreggio di scatto, del tutto ripugnata, e lui mi torce il braccio. «Le cose si risolvono sempre per il meglio». Sorride come uno squalo. «Ti mando un messaggio con il mio numero di telefono. E aspetto una tua telefonata domani».
Capitolo ventitré
Sarah
Vi do un consiglio: se avete intenzione di portare avanti una qualsiasi relazione, soprattutto amorosa e monogama, con Jonas P. Faraday, non fate – ripeto non fate – quello che ho appena fatto io. Perché, come dice sempre Kat, porca puttana. Non è andata a finire bene. Non appena io e Jonas ci siamo allontanati dai cattivi e ancora prima di arrivare alla macchina, lui me ne ha dette quattro. Dire che era arrabbiato
con me sarebbe l’eufemismo dell’anno. Dire che mi ha fatto a pezzi e ora il mio corpo ha diversi nuovi orifizi non gli renderebbe giustizia. Per la primissima volta, ho visto con i miei occhi la furia di Jonas rivolta contro di me e non contro il suo paziente fratello, e devo dire che non è stato bello. Certo, quando lui si è messo a gridarmi contro, io sono scoppiata a piangere come una fontana, ma la sua crisi di nervi non era il solo motivo delle mie lacrime. Probabilmente c’entravano anche le innumerevoli emozioni contrastanti che mi hanno assalito. Mi sentivo sollevata, furiosa, ansiosa, giustamente indignata, in colpa
e imbarazzata allo stesso tempo, ma soprattutto, se devo essere sincera, mi sentivo esultante e orgogliosa per aver trovato un modo di far aprire l’email con il malware a Oksana e pure a Max. Ed ero incazzata nera che Jonas fosse tanto consumato dalla rabbia o dall’ansia o da tutte e due per non ammirarmi ed elogiarmi, visto che mi sono comportata da vera e propria tosta. Una volta finito di assalirmi a parole, quando è finalmente riuscito a rivolgersi di nuovo a me in modo razionale, Jonas ha preteso che gli raccontassi ogni singola cosa successa nella stanza con Max e Oksana, dall’istante in cui era uscito fino a quello in cui ero tornata da
lui. E l’ho fatto. Be’, gli ho detto quasi tutto. Non ho parlato del disgustoso «omaggio» richiesto da Max né del bacio ripugnante che mi ha dato. Che senso avrebbe avuto raccontargli anche quei due squallidi dettagli? Sapevo che Jonas avrebbe semplicemente fatto marcia indietro, sarebbe rientrato in quell’edificio e avrebbe cercato di uccidere quel bastardo con le sue mani, e avevo una paura mortale che si sarebbe fatto ammazzare. Cioè, che cavolo, so meglio di chiunque altro che razza di mostro sia Max e non avrei permesso che accadesse qualcosa a Jonas. Però gli ho raccontato del selfie nuda
che mi sono fatta e che ho mandato via email a Oksana e a Max, ed è stato allora che il mio aitante ragazzo ha perso completamente le staffe. Comprensibilmente, certo, ma wow. Nel vederlo tanto orripilato e oltraggiato per quella minuscola foto, mi è sorto il dubbio che non avesse sentito quando ho aggiunto che avevano aperto l’email. La prima volta che l’ho detto non ha reagito, quindi l’ho ripetuto. «Hanno aperto l’email, Jonas. Tutti e due. Ha funzionato. Ce l’abbiamo fatta». Ma a lui non gliene fregava un cavolo. Non in quel momento, perlomeno. No. Era talmente furioso che niente, assolutamente niente, avrebbe potuto
distrarlo dalla sua rabbia. A un certo punto, l’ho anche capito. Chi mai vorrebbe che la propria ragazza mandasse una sua foto nuda a un magnaccia omicida? Però dai, in fin dei conti cosa diamine volete che sia? La mia faccia non si vede. È solo una foto di un corpo nudo qualunque, come tutti gli altri corpi di questo mondo. Un collo, due tette, un ombelico, un perizoma rosso, due gambe e una tazza con dei gatti. Niente di che. A essere sinceri, se proprio volete sapere la verità, io ne sono orgogliosa. Dopotutto sono Orgasma la supereroina, e oggi l’ho dimostrato. Quando è in missione per difendere la verità e la giustizia,
determinata a decimare i cattivi e a proteggere gli innocenti, Orgasma non si ferma davanti a nulla pur di raggiungere il proprio obiettivo. Sì! Orgasma tri-onfe-rà. Stronzi! E comunque, cosa diavolo avrei dovuto fare? Tornarmene in albergo e dire: «Scusate, ragazzi, abbiamo fatto del nostro meglio. La prossima volta saremo più fortunati»? Non esiste, che cavolo. Prima di mettere piede in quell’ufficio mi ero ripromessa che non mi sarei fermata davanti a nulla. E così ho fatto. Mi sono scattata una stupida foto, e allora? Data la situazione, sarebbe potuta andare peggio. A ogni modo, l’ho già
detto che ha funzionato? Perché, accidenti, hanno aperto l’email tutti e due. Boom. È un quarto d’ora buono che io e Jonas non ci diciamo una parola. Dopo la litigata, entrambi abbiamo ancora il fiatone e io mi sento il viso tutto rosso. Gli lancio un’occhiata, ma lui tiene lo sguardo fisso davanti a sé e ha la mascella serrata. Guardo fuori dal finestrino del lato del passeggero, fumante di rabbia. Nella mia mente, non riesco a smettere di urlargli contro. Non sarò certo io la prima a parlare. Jonas accosta la macchina presa a noleggio davanti al nostro albergo e, in coda dietro ad altre auto, aspettiamo il
parcheggiatore senza profferire parola. Dopo un minuto, Jonas prende il cellulare e scrive un messaggio. «Dico agli altri di raggiungerci nella nostra suite tra dieci minuti», mormora, rompendo il silenzio. Non gli rispondo. Che vada a farsi fottere. Non può strillarmi contro in quel modo e poi aspettarsi che io faccia finta che sia tutto a posto. Prima ancora che il parcheggiatore mi apra la portiera, mi fiondo fuori dalla macchina ed entro a passo spedito in albergo, senza guardarmi alle spalle. Jonas è arrabbiato con me? Bene, perché più ci penso e più anch’io sono furiosa con lui. Mentre attraverso l’ingresso diretta
agli ascensori, vengo investita dalla gelida aria condizionata, che però non serve a smorzare il fervore che mi agita. Ha avuto una reazione esagerata, ecco tutto. Un po’ di rabbia l’avrei accettata, ma un vulcano in eruzione che mi riversa addosso lava incandescente? No, così non va. Avrebbe dovuto congratularsi e dirmi che sono intelligente, ecco cosa avrebbe dovuto fare. Quell’uomo deve darsi una calmata e festeggiare la nostra vittoria, a prescindere da come l’abbiamo ottenuta. Sì, per quanto mi riguarda, Jonas può anche andare all’inferno.
Capitolo ventiquattro
Sarah
Pendono tutti dalle mie labbra (tranne Jonas). Ecco la reazione che speravo di ottenere da Mister Vulcano. Quando arrivo alla parte in cui mi faccio un selfie nuda in bagno, Kat strilla, se per lo shock o la gioia non so. E quando delizio il gruppo con la parte in cui Oksana e Max aprono l’email all’istante, Josh esulta e mi dà il cinque, mentre Henn alza i pugni in aria e corre al portatile per controllare i progressi del
malware che ha partorito. E Jonas? Se ne sta seduto in un angolo, con il broncio, a guardarci senza dire una parola. A essere sinceri, vorrei tanto mostrargli il dito medio, ma mi trattengo perché sono una signora. «Bingo», annuncia Henn dopo aver scrutato per un attimo lo schermo. «Ce l’hai fatta. Siamo dentro. Ho il computer di Oksana e il telefono di quel tipo. Merda, Sarah. Hai vinto il jackpot». Lancio un’occhiata compiaciuta a Jonas, ma lui distoglie lo sguardo. Ah, è così? Sei incazzato con me? E allora io sono incazzata con te. «Oddio», prosegue Henn, con gli occhi fissi sullo schermo. «Il bastardo ha
aperto l’email anche su un altro computer». Ridacchia. «Geniale». Preme un tasto e di colpo si fa paonazzo in viso. Oh oh. Perché ho la netta sensazione che Henn abbia appena visto le mie tette? Arrossisco. «Allora, Henn?». L’hacker alza di scatto la testa, come un bambino sorpreso con una mano nel barattolo dei biscotti. «Sì?» «Che si fa adesso?». Deglutisce a fatica. «Be’», ha ancora le guance in fiamme, «darò una sbirciata nei due computer e nel cellulare di questo Max e vedrò cosa riesco a trovare. E poi aspetteremo che accedano al sistema centrale o ai conti correnti.
Immagino che non dovremo aspettare a lungo». «Puoi cancellare la foto?», s’informa Jonas, in tono deciso. «Puoi trovarla e cancellarla dappertutto?» «Ehm, certo, non c’è problema», si affretta a rispondere Henn. «Posso cancellarla anche subito, se vuoi. Ho un accesso totale». «Sì, ma se la cancelli adesso, a loro non sembrerà strano?», chiede Kat. «Già», concorda Henn. «Se la foto sparisce come per magia, questo Max capirà di sicuro che c’è sotto qualcosa. Se davvero, come ha detto, è stato lui a occuparsi della parte informatica, allora è un gran figlio di puttana di dimensioni
epiche e non dobbiamo fare nulla che lo insospettisca». «Allora non cancellarla. Non voglio dargli nessun motivo per insospettirsi», intervengo. «Sono d’accordo con te», dice Henn. Jonas sospira e incrocia le braccia. «Dio, Sarah», commenta Kat ridendo. «Prima la foto di una tetta e adesso questo. Sei piuttosto esibizionista, eh?». Oh, cavolo. Grazie, Kat. Lancio una rapida occhiata a Jonas, giusto in tempo per vederlo serrare la mascella. Sì, Jonas, ho raccontato alla mia migliore amica dello scatto alla mia tetta sinistra che ti ho mandato quando ero solo la tua anonima agente di ammissione. Fammi
pure causa, su. Notando l’espressione di Jonas, Kat fa una smorfia e, muovendo solo le labbra, mi dice: «Scusa». Mi stringo nelle spalle, con una faccia del tipo che vada a farsi fottere. «Una foto con una tua tetta?», chiede Josh, con un sopracciglio inarcato. «Oh cielo, raccontaci tutto, Sarah Cruz». «Ho conosciuto online un ragazzo davvero figo e abbiamo fatto un po’ di sexting», spiego con un’occhiata a Jonas, che però è ancora incazzato da morire. Alzo gli occhi al cielo. «Un ragazzo figo che aveva il senso dell’umorismo. Non è niente di che. Ormai lo fanno tutti i ragazzini».
«E tutti i politici», dice Josh. «E gli atleti», interviene Henn. «E le casalinghe», aggiunge Kat. «E le nonne», dice Josh. «E anche alcuni preti», afferma Henn, e scoppiamo tutti a ridere (tranne Jonas). «Sarah, hai trovato l’esca perfetta per l’email», dice Kat. «Per quanto un tizio possa essere intelligente, potente o ricco, per ogni uomo della storia la kryptonite è sempre la stessa: due tette al vento». «È davvero così facile capirci?», chiede Josh. «Sì», risponde lei. «Davvero». «Non bisogna mai sottovalutare il potere del porno», commenta Henn.
«Che frase a effetto», dice Kat. «L’industria del porno dovrebbe usarla come slogan sui cartelloni». «Non penso che l’industria del porno abbia bisogno di aiuto per il marketing», ribatte Henn. Durante quest’ultimo discorso, Jonas non ha smesso un attimo di covare la sua rabbia. Ha persino una vena che gli pulsa sul collo; e adesso so per certo che si tratta della giugulare esterna. «Sei stata proprio brava a prendere una decisione su due piedi, Sarah», dice Josh, ma tiene lo sguardo fisso sul fratello. «Sei entrata con la speranza di arpionare una piccola balena e hai finito per spiaggiare Moby Dick. Ben fatto».
Solleva un sopracciglio, rivolto a Jonas. «Giusto, fratello? Non sei fiero di lei?». Jonas lo guarda di traverso. «Ho avuto paura, non vi mentirò», ammetto. «Mi tremavano le mani da pazzi per tutto il tempo che sono rimasta là dentro, ma non me ne sarei mai andata senza aver installato il virus, a qualsiasi costo. La posta in gioco era troppo alta». «Sei proprio tosta, Sarah», dice Kat. Jonas sospira e allunga le braccia. Storco il naso. Sono tosta e lui dovrà accettarlo. È già tanto se non gli faccio la linguaccia. «Ehi, ragazzi», interviene Henn, assorto in qualcosa sullo schermo.
«Merda. Oksana sta accedendo al suo conto corrente proprio adesso. Quello che abbiamo scovato nella banca di Henderson». Fissa lo schermo per una decina di secondi. «Voilà, ha appena digitato la password. Ah! Ce l’ho». Scuote la testa. «Ragazzi, quanto amo la tecnologia». «E adesso cosa facciamo?», chiedo, con il cuore a mille. «Aspettiamo qualche minuto che si disconnetta e poi diamo un’occhiata». «Mi sembra il momento perfetto per prendere le ordinazioni. Cosa volete da bere?», chiede Josh, e si dirige al mobile bar. Cinque minuti dopo, proprio mentre
consegna gli ultimi drink, Henn ci richiama al computer. «Si è disconnessa», annuncia. «Entriamo». Ci raggruppiamo intorno allo schermo come per vedere una partita di football. «Be’, ha già depositato i tuoi assegni. Centottantamila bigliettoni», dice Henn. «Scommetto che ti fa ribollire il sangue nelle vene, eh, Jonas?». Per tutta risposta, lui grugnisce. «E ne ha appena trasferita la metà sul suo conto di risparmio. Mmm», prosegue Henn, perplesso. «Cosa c’è?», domando. Sono senza fiato. Tutta questa storia è troppo eccitante. «Anche dopo il deposito di oggi, tra
questi due conti messi insieme Oksana ha solo mezzo milione». Aggrotta la fronte. «Mmm», dice Josh. «Mmm», ripete l’hacker. «Sono solo spiccioli. Questi devono essere i suoi conti personali, di certo non quelli del Club». «Maledizione», sbotto. «Come facciamo a trovare il grosso della grana?». Jonas si sposta dall’altro lato della stanza, allontanandosi da noi per tornare nel suo angolino con il broncio. «Dobbiamo solo aspettare che accedano ai conti principali. Potrebbero volerci cinque minuti, cinque ore o
cinque giorni, chissà, ma vi garantisco che prima o poi ci condurranno anche a quelli. E nel frattempo, darò una bella occhiata ai loro file e ai loro dati, farò una copia di tutto e vedrò se c’è qualcosa di interessante. Oh, e ascolterò la casella vocale di Max. È proprio una figata che tu sia riuscita ad avere il suo telefono, Sarah». Beve un sorso di birra. «Accidenti, c’è un sacco da fare». Josh sospira. «A quanto pare il povero Henn dovrà lavorare di nuovo tutta la notte, con questa roba». Guarda Kat. «Cosa ne dici, allegra festaiola con un trattino, ti va di fare di nuovo baldoria con me nella città del peccato?» «In realtà vorrei aiutare Henn, se per
te va bene», risponde lei. «Sono piuttosto eccitata da tutta questa faccenda». Mi guarda. «Sono decisamente motivata ad affossare questi tizi». Le sorrido. Non c’è nulla al mondo come una migliore amica. «Per te va bene, Henn?», gli domanda Kat. «Oppure pensi che ti sarei d’intralcio?» «No, sarebbe grandioso. Ma solo se ti va davvero. Cioè, Josh e Jonas mi pagano per farlo, quindi…». Lancia un’occhiata a Josh, per assicurarsi di non pestare i piedi a nessuno accettando l’aiuto di Kat. Ma se Josh è deluso dall’inaspettato
cambio di programma per la serata, non lo dà a vedere. «Può farti comodo anche il mio aiuto?», chiede. «Certo», risponde l’hacker. «Sarebbe fantastico». «Okay, allora. Ordino qualcosa al servizio in camera e poi noi tre ci mettiamo al lavoro». «Noi quattro. Resto anch’io ad aiutarvi», intervengo. «Sono decisamente motivata anch’io ad affossare i cattivi». Fulmino Jonas con lo sguardo. Se è ancora incazzato con me, non è un problema mio. Jonas si porta la birra alle labbra perfette e beve un sorso lungo e sexy. Okay, sono sempre furiosa con lui,
giuro, ma le sue labbra sono così sensuali quando beve a canna che vorrei essere quella bottiglia. «No», ribatte Josh. «Voi due dovreste uscire a festeggiare». Rivolge a Jonas un’occhiata allusiva. «O restare in camera a festeggiare, come preferite. Comunque, dovreste proprio festeggiare: oggi avete spaccato tutti e due». Jonas mi fissa, ma io distolgo lo sguardo. Se pensa di potermi urlare contro come ha fatto oggi e poi scoparmi da bestia come se nulla fosse, si sbaglia di grosso. Josh mi sorride. «Noi tre ci spostiamo nella mia suite e lasciamo voi due pazzi a far ondeggiare i lampadari quassù».
Senza staccarmi gli occhi di dosso, Jonas beve con calma un altro lungo sorso di birra. Sollevo il mento e distolgo lo sguardo. Se non riesce ad accettare ciò che è successo oggi, mi dispiace, ma tanto peggio per lui. Non avevo intenzione di abbandonarlo; volevo davvero che il piano iniziale funzionasse, ma non è andata così. Ho dovuto agire di pancia e prendere una decisione in una frazione di secondo per portare a termine la missione. Più alto è il rischio, maggiore è il guadagno. Non è quello che ha insegnato lui stesso durante la lezione di diritto dei contratti? Con un’occhiata penetrante, finisce la
birra e mette giù la bottiglia. Incrocia le braccia sul petto muscoloso e mi fissa. Questa volta però non distolgo lo sguardo. E nemmeno lui. Ci stiamo sfidando a chi cede per primo. Bene. «Cosa ne dici, piccola?», mi chiede alla fine. Nel sentirmi chiamare così, tutta la mia determinazione svanisce. Maledizione. Si lecca le labbra. Ragazzi, i suoi occhi ardono alla grande. «Ti va di festeggiare un po’ stanotte?». Faccio spallucce. “No”. «Io penso che dovremmo farlo». Mi stringo di nuovo nelle spalle. “No”. Ma non riuscirò a resistere per
sempre. Dopotutto, lui è la mia droga. «Oh, su, piccola». Solleva un angolo della bocca e, d’un tratto, mi sento invasa da un’ondata di calore. «Ti va di divertirti un po’?» «Forse», rispondo. Ma poi mi ricordo che sono arrabbiata con lui e mi ricompongo. «O forse no». Faccio una smorfia indignata. Lui mi imita, ma per prendermi in giro. «E se ti dicessi ti prego?». Guardo Kat. Lei sa che sono spacciata. Arriccio le labbra. «Allora direi che è possibile. Ma non probabile». «E se ti dicessi ti prego, ti prego, ti prego?». Mi fa un sorriso a trentadue denti.
Serro le labbra, nel tentativo di resistergli. Ovviamente tutti i miei sforzi sono futili, ma faccio comunque del mio meglio. Mi stringo di nuovo nelle spalle. «E se ti dicessi ti prego, ti prego, ti prego e che possiamo fare tutto quello che vuoi, qualsiasi cosa, basta che tu lo dica?». Ora sì che ha la mia completa attenzione. «Qualsiasi cosa?» «Qualsiasi cosa». «Sarai del tutto alla mia mercé?». Jonas strizza gli occhi e si morde il labbro. Con la coda dell’occhio, vedo Kat e Josh sorridersi a vicenda. «Be’? Sarai alla mia mercé o no?», gli
chiedo, battendo un piede a terra. «Cosa dici?» «Mmm». Jonas mi viene incontro lentamente, con i muscoli tesi. «Cosa dico?». Quando mi raggiunge, mi prende il viso tra le mani. «Dico che sono un coglione». Oh, i suoi occhi. Questi occhi assolutamente bellissimi. «No che non lo sei. Sei un presuntuoso bastardo coglione figlio di puttana», dico piano. Mi dà un bacio delicato. Ha le labbra fredde che sanno di birra. È delizioso. «Sei stata brava oggi», mi dice. Mi dà un altro bacio e questa volta mi infila la lingua in bocca. “Il mio dolce Jonas”.
Al diavolo, non posso resistergli. «Mi dispiace di averti fatto preoccupare», commento. Ed è vero. Non mi dispiace per ciò che ho fatto: sono stata efficace e ho spaccato di brutto. Ma soltanto che le mie azioni siano state una tortura per lui. Oggi deve aver perso diversi anni di vita. Bacio le sue labbra sensuali, attenta a succhiare quello inferiore quando mi stacco da lui. «Stanotte faremo tutto quello che voglio e tu non potrai dire assolutamente nulla a riguardo», sussurro. Per un attimo lui pare diffidente, ma io non cedo. Si sporge verso il mio orecchio. «Niente cravatte», bisbiglia. Sorrido. «Ovviamente no».
«Allora okay, sì, comandi tu. Qualsiasi cosa voglia fare». «Bene», dico. «Ci sto».
Capitolo venticinque
Jonas
Di tutte le cose che potremmo fare in questo momento, di tutti i posti in cui potremmo stare questa notte, la mia piccola ha guidato fino a uno squallido strip club di periferia. Cosa diavolo ha in mente? Siamo nel parcheggio, seduti nella macchina che abbiamo noleggiato, e fissiamo l’insegna al neon sul tetto dell’edificio, che dice THE AMSTERDAM CLUB. Pare un locale davvero lurido; un locale di spogliarelli a buon mercato,
non certo come quelli alla moda sulla Strip. È qui che la mia piccola è voluta venire per la nostra serata? Dio. Adoro quando fa la ragazzaccia, non fraintendetemi; è sexy da morire e intelligente e mi eccita da pazzi qualsiasi cosa faccia, anche quando mi fa incazzare com’è successo oggi, ma sì, per quanto sia attraente, a volte la mia ragazzaccia è anche fuori di testa, che cazzo. Ecco, l’ho detto. È matta come un cavallo. «Cos’è questo posto del cazzo pieno di zoccole?», le chiedo. «Perché non ce ne torniamo nella nostra suite? Voglio la rivincita a trattenere il respiro sott’acqua. Perché non facciamo al
meglio di tre?» «Un patto è un patto», ribatte lei, alzando una mano. «Purché non usiamo cravatte, stasera dovrai fare tutto quello che voglio io». «Come hai fatto a trovare questo posto?» «Su Google». «No, cioè… sì, Google». Alzo gli occhi al cielo. «Voglio dire, con tutti gli strip club che ci sono a Las Vegas, come hai fatto anche solo a pensare di venire in questo posto? Perché proprio qui?» «Oh, vedrai». «Perché cazzo dovrei voler vedere una spogliarellista qualunque quando posso gustarmi la squisita beltà di Sarah Cruz,
dea e musa ispiratrice?». Scoppia a ridere. «Siamo qui per aggiungere un’integrazione alla mia lista, quindi sta’ zitto». Ah, già, le integrazioni di Sarah. La prima volta che ha pronunciato questa parola, mi è sembrata sexy, eccitante e misteriosa ma, da quando mi ha legato come King Kong, se la tira in ballo sono un tantino meno entusiasta. D’un tratto, un pensiero mi restituisce un po’ di speranza. «Farai uno spogliarello per me?». Fremo alla sola idea. «Entriamo a bere qualcosa, okay? Sciogliamoci un po’ e poi ti dirò cos’ho in mente di preciso». Oh oh. Ha quella scintilla di follia
negli occhi. Merda. Quando mi guarda così, non riesco proprio a resisterle. Dopo quattro scotch, mi sento alla grande. Di norma non lo bevo, ma che cazzo: quando sei a Las Vegas, devi comportarti come uno dei Rat Pack, giusto? Sì, cazzo. Questo posto è così scadente e vecchio stampo che quattro scotch erano l’unico modo per sopportarlo. Nell’ultima ora, io e Sarah abbiamo limonato in un angolo del locale come due adolescenti, a pochi metri da donne nude che roteavano intorno ai pali, e ora non sto più nella pelle dalla voglia di leccarla e penetrarla. Devo ancora trovare una
spogliarellista che mi ecciti anche solo un millesimo di quanto fa Sarah, anche se lo spettacolo di tette e culi assortiti mentre bacio e strizzo le tette e il culo della mia piccola mi regala un certo divertimento ben poco intellettuale. È come andare a una festa di paese una volta l’anno e mangiare ogni tipo di schifezze. È orribile, certo, ma se lo fai una volta ogni morte di papa è anche divertente. «Torno subito, tesoro», mi dice Sarah in tono civettuolo, con le guance rosse. «Vado a preparare tutto per noi. Resta qua». E scompare. Ce l’ho duro come una roccia. Cosa
cazzo ha in mente? Vuole farmi uno spogliarello? Cazzo, quanto sarebbe sexy. Che diamine, questa donna è diversa. Con lei non ci si annoia mai, poco ma sicuro. Chiudo gli occhi. Non sento più le dita dei piedi. Colpa dello scotch. Scoppio a ridere. Dove cazzo è finita? Sono così eccitato che forse dopo lo spogliarello dovrò insistere per darci da fare in bagno. Oppure, visto che è tutta la sera che ci comportiamo come due adolescenti, magari lo faremo sui sedili posteriori della macchina. Sarah torna e mi prende per mano. «Vieni», mi dice. «Vieni, mio dolce Jonas». Mi tira a sé e mi lecca in faccia. «Sto perdendo la testa, piccolo». Mi
trascina verso un corridoio buio dall’altra parte del locale. «Dove stiamo andando?» «Nel “Distretto a luci rosse”». Indica una scritta al neon sopra le nostre teste all’inizio del corridoio. Ci fermiamo all’ingresso, dove un addetto alla sicurezza ci ritira i cellulari e ci consegna un tagliandino per recuperarli più tardi. Un grosso cartello alla parete dice: È SEVERAMENTE VIETATO FARE RIPRESE. Senza più i telefoni, avanziamo nel corridoio in penombra tenendoci per mano, e ci fermiamo davanti a un grande vetro oscurato. Dietro si sente Pour Some Sugar on Me a tutto volume.
«Cosa cazzo è questo?», chiedo. «Un peep show. Come ad Amsterdam», mi spiega. Scoppio a ridere. «Non è per niente come ad Amsterdam». Mi guarda con la fronte aggrottata. «E come faccio a saperlo io? Sta’ al gioco, razza di snob». Inserisce dei gettoni in una macchinetta e il sipario nero oltre il vetro si solleva. Una donna nuda in una stanzetta nera inondata di una sgargiante luce rossa balla e si tocca addirittura per dieci secondi, poi il sipario si richiude. Faccio spallucce. «Wow. Una donna nuda. Adesso torniamo in stanza a scopare come conigli».
Sarah scoppia a ridere e mi trascina alla vetrina successiva, dove ci godiamo un’altra donna nuda che fa delle piroette sotto una luce rossa in una scatola nera, questa volta sulle note di Talk Dirty to Me. «È un jukebox porno», dico. «Yuppie». Sarah mi dà un bacio. «Non riesco a smetterla di pensare al mio sogno, Jonas. Voglio che tu lo faccia diventare realtà». La fisso. Non starà mica parlando di quello in cui i fantasmi di me fanno l’amore con lei in ogni modo, con il vino rosso che le cola addosso e la gente al ristorante che ci osserva? Oh merda. La gente al ristorante che ci
osserva. Oddio. È matta. Sapevo che aveva un lato pazzo e, in effetti, mi piace quando fa la pazzerella, ma questa storia è completamente fuori di testa. «Hai detto che stanotte avremmo fatto tutto ciò che voglio». Sorride. «Sarà supereccitante». Con un sorriso malizioso, mi trascina in fondo al corridoio buio, fino a una porta con la scritta VIETATO L’ACCESSO AL PERSONALE NON AUTORIZZATO . La apre e vedo una spogliarellista che, a quanto pare, ci sta aspettando. «Piccola, ti ringrazio ma non voglio fare una cosa a tre», le dico. «Io voglio solo te». So che la maggior parte degli uomini deve implorare la propria
ragazza o la propria moglie per ricevere un simile regalo, ma io ci ho già provato e ho scoperto in modo piuttosto categorico che questa formula mi distrae da ciò che mi piace di più. E poi, a ogni modo, non voglio condividere Sarah con nessuno, nemmeno con un’altra donna. «No, razza di stupido», mi dice lei. «Questa ragazza è qui per aiutarmi a preparare tutto». «Sarah, stammi a sentire». Mi lecca in faccia. «Stanotte voglio fare la ragazzaccia». Ha il fiato corto. «Con te. Dai, facciamolo, Jonas. Facciamo una pazzia. Voglio replicare il mio sogno nella realtà». «Piccola, lo sai che ci sto sempre a
giocare e divertirci, ma tutto questo è davvero perverso». Le si illuminano gli occhi. «Perverso, sì. Mi piace questa parola. Facciamo qualcosa di perverso». Mi ritraggo, pronto a rifiutarmi… però ce l’ho duro come una roccia. Sono sconvolto o eccitato da tutta questa storia? Non saprei dire. «Ho organizzato tutto, tesoro. Nessuno saprà che siamo noi. Indosseremo delle maschere. Ho anche delle bende per coprire i tuoi tatuaggi e le mie cicatrici. Puoi tenere i boxer se vuoi, non mi interessa. E io terrò le mutandine e potrai abbassarmele o spostarle di lato, come preferisci. Come ti senti più a tuo
agio». Parla così in fretta che riesco a malapena a seguirla. O forse parla a una velocità normale e sono solo ubriaco. «Nessuno saprà mai che siamo noi, Jonas», insiste. «Possiamo fare tutto quello che vogliamo in quella vetrina, qualsiasi cosa, e nessuno saprà che siamo noi. Magari qualcuno ci vedrà o magari no; dipende se qualcuno metterà dei gettoni nella macchinetta. Ma è questa la parte eccitante: pensare che qualcuno potrebbe guardarci per tutto il tempo». «Perché ti eccita così tanto l’idea che la gente ci guardi mentre scopiamo?» «Ti ricordi in biblioteca?», mi dice in tono sensuale. «Non è stato sexy?». Si
muove a scatti tanto è su di giri e mi mette una mano sopra i jeans, sull’uccello. «Indosseremo delle maschere… Nessuno saprà che siamo noi. Su, Jonas. Potrai leccarmi e nessuno saprà che siamo noi». Rabbrividisco all’idea. È davvero da depravati. «Sarah», faccio per dirle. Questa donna mi eccita come non mi è mai successo prima, ma non ho alcun interesse a diventare un pornodivo. «Solo per questa volta», insiste lei. «È come se avessimo una lista di cose da fare prima di morire». «Sarah…». «Ti prego, ti prego, ti prego». Mi lecca
di nuovo sulla faccia. Vengo percorso da un brivido. Cazzo. Non voglio deluderla. Ed è davvero convincente. «Possiamo baciarci in quella stanza, ma non ho intenzione di leccarti la passera. Certe cose sono sacre». A dire il vero, se le cose si facessero troppo spinte potrei anche scoparla in quella vetrina, ma di certo non andrò in chiesa con lei in un simile posto di merda. Si abbatte all’istante. «Okay», accetta. Ho smorzato tutto il suo entusiasmo. Questa ragazza è matta come un cavallo; non la capisco proprio. Le donne non dovrebbero volere arcobaleni, unicorni e lunghe
passeggiate sulla spiaggia? Cosa cazzo è questa storia? Non riesco a credere che tra noi due in questa relazione la voce della ragione sessuale sia io. «Puoi farmi un grosso favore e pagare questa donna gentile?», mi chiede Sarah. «Le ho promesso duecento dollari per lasciarci il suo posto in vetrina per venti minuti». Prendo i contanti e li passo alla spogliarellista. «Hai messo un tavolo, giusto?», le chiede Sarah. «Sì», le assicura la donna. «Oh, e voglio una canzone in particolare». «Certo. Quale?».
Sarah le sussurra qualcosa. «Non l’ho mai sentita», commenta la donna. «Sicura che non vuoi Baby Got Back o Talk Dirty to Me o qualcosa del genere?» «No, dev’essere quella». Ha stuzzicato il mio interesse. «Ripetimi il titolo», dice la donna, e Sarah glielo bisbiglia di nuovo. «Okay, ho capito. Farò del mio meglio». Accenna a uno scatolone sul pavimento. «Ecco le cose che hai chiesto. Torno subito». Sarah si avventa sulla mia bocca. «Sono così eccitata». «Spiegami di nuovo perché vuoi che qualcuno ci guardi mentre scopiamo,
perché io non lo capisco». «È solo che… Tu sei stupendo, Jonas. Mi eccita l’idea di fare l’amore con te davanti al mondo intero». La osservo in viso per un momento. «Lo sai che non vado da nessuna parte, vero?». Arriccia il naso. «Anche quando faccio delle pazzie come questa?» «Anche in questo caso». «Anche quando ti faccio spaventare a morte e non mi attengo al piano e ti faccio incavolare?» «A malapena, ma sì, anche in questo caso». Sorrido. «Non vado da nessuna parte». Abbassa la voce. «Anche se c’è
qualcosa che non va in me?». Accenna allo scatolone per terra. «Anche se non sono normale?» «Anche in questo caso, piccola». La bacio. «La normalità non esiste». A cosa cazzo ho acconsentito? Siamo in piedi nella stanza nera, completamente nudi a eccezione delle mutande e delle mascherine nere, con i nostri segni particolari coperti da bende bianche. «Sembriamo due mummie arrapate che si preparano per una rapina in banca», dico. A questo commento, Sarah scoppia a ridere tanto forte che deve sedersi sul
bordo del tavolo. Mi siedo accanto a lei, che si appoggia all’istante alla mia spalla senza smettere di ridere e si tiene la pancia. Proprio quando comincia a calmarsi e si sporge per darmi un bacio, d’un tratto si accende una luce rossa e dagli altoparlanti esce Baby Got Back a tutto volume. «Che diamine», mormora Sarah, seccata per la canzone. «Dev’essere il segnale», azzardo, e allungo un braccio bendato verso di lei. «Frankenstein contro la Mummia… Chi vincerà?». Sarah reclina la testa e riprende a ridere e, questa volta, dietro la mascherina, le lacrime le scorrono sulle
guance. Senza alcun preavviso, il sipario nero si alza e di colpo vediamo il nostro riflesso su quello che, adesso lo sappiamo, è un vetro unidirezionale: uno specchio per noi e una finestra per il nostro raffinato guardone, chiunque egli sia. Sarah accenna goffa alle nostre immagini mascherate, per salutare con un’espressione sarcastica lo spione che non possiamo vedere, e poi riprende a ridere. Come al solito, la sua ilarità mi eccita e rido anch’io. Osservo questa donna bellissima, sexy, pazza ma intelligente in preda alla ridarella, con una maschera ridicola e delle bende da matti intorno al collo e al
petto, mentre Sir Mix-a-Lot in sottofondo ci canta una serenata sui culi grossi, e di colpo capisco con una chiarezza assoluta che non voglio condividere la mia piccola con nessuno, da nessuna parte e in nessun momento, men che meno con un branco di sfigati che spiano da una finestra in uno strip club malfamato fuori Las Vegas. Questa bella donna è il mio tesoro, non il loro. Lei vuole che il mondo ci guardi mentre facciamo l’amore? Peccato, perché sono l’unico uomo che la vedrà mai raggiungere la vetta più alta del piacere umano, il culmine dell’umana possibilità, la forma di espressione più vera che due persone possano
condividere. E sarà così fino alla fine dei nostri giorni. Con il cuore che batte a mille, le prendo una mano. «Piccola, hai frainteso». Si asciuga gli occhi. «Cosa?» «Il tuo sogno, l’hai frainteso». Mi guarda senza capire. «Pensi di volerlo mettere in pratica, ma non devi prenderlo alla lettera, piccola. È una metafora». Non ci arriva ancora. «Pensa a come ti fa sentire, a ciò che ti fa desiderare. Non prenderlo alla lettera, Sarah. Quel sogno significa qualcosa di diverso da tutto questo. Possiamo anche scopare fino a mandarci
in pappa il cervello dietro questo vetro e farci guardare da cento persone, ma non servirebbe comunque a soddisfare il tuo desiderio». Incrocia le braccia sul seno nudo, d’un tratto come in imbarazzo. Non ride più adesso. Sir Mix-a-Lot chiede agli uomini tra il pubblico se la loro ragazza ha un culo abbondante come quelli di cui rappa. «Hell yeah», rispondo, citando il testo, e Sarah storce la bocca in modo adorabile. «Lo sai che questa canzone mi fa venire voglia di dare un bel morso dal tuo culo delizioso, vero?». Mi fa un mezzo sorriso, ma capisco che sta ragionando.
Le accarezzo i capelli. «Sei pronta per andare via?», le chiedo. Annuisce. «Torniamo in camera e potrai farmi sentire la canzone che avevi in mente per questa sera e io ti morderò il culo, ti leccherò la tua bella passera e ti scoperò fino a farti giurare che sono il tuo signore e padrone supremo. Che ne dici?». Mi fa un sorriso malinconico. «Scusa». «Non c’è niente per cui devi scusarti». Le sistemo i capelli dietro le spalle. «Per oggi. Per averti fatto spaventare». «È vero». Aggrotto la fronte. «Ma sei stata grande».
Si stringe nelle spalle. Sir Mix-a-Lot proclama nuovamente il suo entusiasmo per i sederi grossi, come se non fosse ormai chiaro. «Devi scusarmi anche per tutto questo». Accenna al sipario nero che si è abbassato. «Non ce n’è bisogno. È stato divertente. Cioè, guardaci. Dio, che bel ricordo». «Forse sono un tantino pazza». «Sarah, mia preziosa bambina, non devi mai scusarti con me per essere pazza. Amo ogni centimetro di te, dentro e fuori… anche le parti pazze». Trattiene il fiato e mi bacia. «Ti amo, Jonas». La sento tremare tra le mie
braccia. Senza alcun preavviso, il sipario nero si alza e ci ritroviamo a fissare il nostro riflesso nello specchio, accecati dalla luce rossa. Quando il sipario si riabbassa, la bacio con dolcezza. «Sei pronta per tornare in albergo e fare l’amore?». Annuisce. «Assolutamente». Sospiro di sollievo. Sir Mix-a-Lot professa per l’ennesima volta il suo amore profondo per gli ampi didietro. «Dopo che mi avrai portato a ballare». Alzo le mani in aria. «Ma dai!». Scoppia a ridere. «Sto scherzando». Mi fa un sorrisetto obliquo. «Però,
tornando, voglio fare un salto nello studio di tatuaggi». E mi fa l’occhiolino.
Capitolo ventisei
Sarah
«Lo adoro», dice, con la bocca a pochi centimetri dal mio nuovo tatuaggio, e il suo fiato caldo mi solletica la pelle. «Cazzo, quanto è sexy». Lo bacia con delicatezza e le sue labbra morbide mi mandano un brivido lungo la spina dorsale. Poi lo lecca. «È troppo sensibile?» «No». Riesco a malapena a parlare. «Rifallo». Ubbidisce e mi viene la pelle d’oca su
tutto il corpo. «Dio, quanto mi fa eccitare», commenta, leccandolo più volte. «È come un tesoro nascosto. E io sono l’unico ad avere la mappa». Comincia a scendere con la lingua sotto al tatuaggio e, all’idea di ciò che mi aspetta, sento fremere il clitoride. «Premi PLAY», dico senza fiato. «Ho preparato una canzone per noi». Sono già fuori di me dall’eccitazione. Quando si alza per ubbidire, mi tocco da sola, in attesa del suo ritorno. Partono le prime note della canzone che morivo dalla voglia di fargli sentire mentre facciamo l’amore. È Take Me to Church dell’irlandese Hozier. La prima
volta che l’ho sentita, ho pensato all’istante: “Jonas”. C’è qualcosa nel mix di intelligenza, vulnerabilità, passione, angoscia e mascolinità di questo musicista che secondo me cattura alla perfezione l’essenza di Jonas, tanto che mi sono autoconvinta che a cantare sia proprio lui. Se fosse un cantautore, è questa la canzone che scriverebbe. Non solo su di me, ma su tutto ciò che ha passato nella vita. Jonas torna da me e riprende con una scia di baci che dal tatuaggio scende verso il mio punto più dolce, facendomi contorcere, ma ben presto è troppo rapito dalla canzone per concentrarsi su di me.
«Cos’è?», chiede dopo averla ascoltata per un momento. «Cazzo». Sorrido. So quanto significa per lui la musica. «La adoro», dice sottovoce. Chiude gli occhi per un attimo, commosso dal suono inconfondibile della sua anima che canta per lui, poi si china e comincia a baciare delicatamente la parte interna delle mie cosce. Quando la canzone arriva all’appassionato «Amen» finale e poi riparte in loop, Jonas solleva la testa e mi scruta con occhi avidi. «Va’ in chiesa, amore mio», sussurro, con il seno che si alza e si abbassa per l’eccitazione. «Amen», commenta lui.
Con uno strattone, tira il mio corpo nudo fin sul bordo del letto e si inginocchia davanti a me. Appoggia le mie cosce sulle sue spalle larghe, nasconde la faccia tra le mie gambe e comincia a rendere omaggio al mio altare come un condannato che cerca disperatamente di salvarsi. Amen. In men che non si dica, vengo invasa da un orgasmo potente e, alla fine, senza dire una parola, Jonas solleva il mio corpo sudato, mi porta in salotto e mi fa sdraiare sul tavolo. Non gli chiedo cos’ha in mente perché non mi importa. Il mio corpo è suo e può farne ciò che vuole, manipolarlo in qualsiasi
posizione desideri, ottenerne tutto il piacere che brama. Jonas è un violoncellista esperto e io un semplice pezzo di legno senza vita, almeno fino a quando il mio maestro non mi risusciterà. In piedi, attaccato al tavolo, Jonas si mette i miei polpacci sulle spalle e si erge in tutta la sua altezza, facendomi sollevare il bacino dal tavolo e sostenendomi il sedere con le sue forti mani. Mi tira a sé per penetrarmi e, alla sensazione dei nostri corpi che si uniscono senza alcuno sforzo in questa posizione nuova ed esotica, mi sfugge un gemito. «Questa è la farfalla», mi dice Jonas
con voce roca, mentre il suo corpo si muove magicamente dentro al mio. «Perché tu sei la mia farfalla, piccola». Santo cielo. Mi piace. Possiamo aggiungerla alla lunga lista di posizioni sessuali che Jonas mi ha fatto scoprire e che sono diventate le mie preferite. Adoro ogni singola posizione fantastica che mi ha fatto vedere: la ballerina, l’altalena, quella a mo’ di sedia pieghevole chiusa, tutte. Persino quest’ultima mi ha fatto eccitare di brutto, anche se non è stata esattamente un successo (coma sia possibile farla funzionare, non ne ho proprio idea), perché grazie al nostro divertente fiasco, ho scoperto che ridere a crepapelle con
Jonas, soprattutto quando siamo nudi, è eccitante, intimo e piacevole quanto fare sesso con lui. «Una farfalla», geme Jonas. «La mia piccola farfalla sexy da morire». Affonda i fianchi contro di me, mangiandomi con gli occhi, e intanto si profonde in suoni gutturali. Inarco la schiena, nel tentativo di alleviare la pressione che mi cresce dentro, e lui mi tira il sedere per avermi ancora più vicina. Guardo oltre il mio torace il punto in cui i nostri corpi si fondono, impaziente di vedere il suo pene scintillante che scivola dentro e fuori da me (e che mi eccita sempre) e, davanti alla vista inaspettata del mio
nuovo tatuaggio, mi scappa un gemito. Dalla mia posizione, le lettere sono al contrario: Jonas è l’unica persona al mondo che le vedrà mai dal lato giusto, ma non importa. Il semplice fatto di sapere che ci sono mi rende audace, birichina e sexy in modo del tutto nuovo. OS, proclama fiero il mio nuovo distintivo, le dolci iniziali della sexy supereroina tosta che è in me, che spacca e combatte il crimine. Le guardo di nuovo. OS. Mi sfugge un forte gemito e neanche Jonas si trattiene. La pressione dentro di me è sempre più forte, sempre di più, sempre più vicina al limite.
«Sei una farfalla», geme Jonas. «Cazzo, quanto sei bella». Il mio corpo si muove a scatti. Sono al limite assoluto. Quando il vice-Jonas mi offre cantando la sua vita dagli altoparlanti del computer – e quindi, nella mia mente, è Jonas stesso a farlo – mi lascio andare e mi srotolo come una matassa di lana. Orgasma la supereroina è tornata. Ogni muscolo anche solo lontanamente legato al punto in cui Jonas mi penetra si contrae. Grido il suo nome, o almeno penso di gridarlo, perché chissà quale accozzaglia di suoni mi esce in realtà dalla bocca mentre deliziose ondate di calore mi invadono il corpo. Poi mi sciolgo in una pozza di
sollievo, tra le emozioni di questa giornata lunga, estenuante, spaventosa ed eccitante, troppo forti perché riesca ancora a contenerle fisicamente. Mi aspetto che venga anche Jonas, invece no. Si sfila, mi riappoggia il bacino sul tavolo, abbassa i miei polpacci dalle sue spalle e li solleva verso il soffitto, in un angolo di novanta gradi rispetto al mio torace. Mi fa incrociare le gambe a mo’ di forbice, mi tira le caviglie in direzioni opposte e mi penetra di nuovo, con un forte gemito. Ne sfugge subito uno anche a me, a mano a mano che un piacere del tutto nuovo e scandaloso irrompe nel mio corpo. Dio, Jonas scivola dentro di me senza alcun
ostacolo e le mie gambe serrate tra noi sono come una morsa. Gemendo, affonda dentro di me con forza, più volte, premendo forte le mie gambe una contro l’altra. Vengo assalita da un’ondata delirante, quasi dolorosa, mentre sento crescere un altro orgasmo. Quando alla fine le convulsioni prendono il sopravvento e il mio corpo è scosso da tremiti intermittenti, Jonas mi divarica le gambe. Mi mette seduta e mi fa capire di cingergli la vita. «Sarah», dice, con un bacio vorace ogni volta che mi penetra a fondo. «Sarah», ripete, con voce gutturale. «Oh, piccola, sei fantastica». Mi sento svuotata. Non riesco più
nemmeno a sorreggermi ed è lui a sostenermi la schiena con le braccia a ogni affondo. Come fa a durare così tanto? Dev’essere per lo scotch perché, che diamine, io sono del tutto fiacca e lui si muove ancora, ancora e ancora. Mi sento sciogliere e colare giù dal tavolo in un’enorme pozza tremante sul pavimento, e lui è ancora in fiamme. Mi morde l’orecchio, mi bacia sul collo, senza mai interrompere l’assalto insistente del suo corpo. Sono morta. Andata. È troppo bello. Dolore e piacere sono un tutt’uno. Il mio corpo è stremato. Come fa a durare così tanto? Dio. Non ce la faccio più. Devo spingerlo oltre il limite.
«Ti amo», gli dico. «Ti amo, Jonas». Gli mordo il collo. «Ti amo, tesoro, per sempre». Allungo una mano e lo accarezzo con passione proprio sotto al punto in cui i nostri corpi si uniscono. Lui rabbrividisce e geme così forte che tremo tutta. «Amo ogni centimetro di te, tesoro, dentro e fuori», gli dico a denti stretti, senza smettere di toccarlo, e gli mordo un capezzolo. «Ti amo». Geme come se fosse sotto tortura. «Ti amo, tesoro, ogni parte di te». Lo accarezzo con più ardore e lui ha uno spasmo. «Anche le parti oscure, anche quelle pazze. Amo tutto di te, Jonas». Gli mordo il collo. «Oddio, tesoro, amo
tutto di te, anche le parti che mi tieni nascoste, anche quelle che secondo te non amerò. Amo. Tutto. Di. Te». Con un grido, Jonas è invaso da brividi violenti e io mi lascio andare all’indietro sul tavolo. Mi sento una maratoneta che ha appena superato il traguardo. Sono del tutto esausta. Con un forte gemito, lui mi crolla addosso in un ammasso sudato di muscoli. «Ti amo, Jonas», sussurro, e gli do un bacio sulla guancia imperlata di sudore. «Ogni centimetro di te, a prescindere da cosa ci sia sotto».
Capitolo ventisette
Sarah
Chissà se è normale sentirsi fisicamente dipendente da un’altra persona, desiderare con tale rabbia il tocco di un uomo, quasi la sua carne fosse un narcotico. Ritrovarsi a sognarlo a occhi aperti come un bel fusto sul cartellone di un film, per poi rendersi conto che è seduto accanto a te sul divano, a lavorare al computer mentre mangia una mela. Avere la sensazione di essere nata per incastrare il proprio
corpo al suo, e al suo soltanto, come se foste gli unici due pezzi di un puzzle a incastrarsi al mondo. Essere sicura che, dovendo scegliere in un qualsiasi momento o giorno tra baciare le sue labbra sensuali e mangiare uno squisito pezzo di cioccolato, sceglieresti sempre il bacio, persino in quei rari giorni in cui sei così arrabbiata con lui che vorresti mandarlo affanculo. Chissà se è normale amare qualcuno così tanto che non solo perdoni i suoi difetti, gli errori, le imperfezioni e il suo lato oscuro, non solo non li ignori, ma persino li adori, e non vorresti mai cambiarlo. È normale? Non lo so, ma se non lo è, allora la normalità è decisamente sopravvalutata.
Dopo la maratona di sesso, da bravo cavernicolo qual è, Jonas mi riporta in camera tenendomi su una spalla e depone il mio corpo prostrato sul letto, con un sorriso malizioso sul suo bel viso. «Ordina qualcosa dal servizio in camera, piccola», mi dice, mi gira su un lato e mi dà una sculacciata. Non aggiunge «per favore». Non dice «se ti va». Mi dà solo quell’ordine, la sculacciata e una forte risata di gioia. Poi, come un pavone orgoglioso che fa la ruota, va in bagno agitando il suo adorabile culo. Forse dovrei fargli abbassare un po’ la cresta, ricordargli che bisogna essere in
due per ballare il tango, dirgli che non è arrivato alla sessocellenza tutto da solo. Invece no. Non voglio smorzare il suo autocompiacimento. A dire il vero, dopo essersi appropriato del mio corpo con tale padronanza questa notte – come sempre, d’altronde – si merita qualsiasi lode voglia rendersi da qui all’eternità. Amen. Ovviamente ciò non significa che io abbia intenzione di ordinare qualcosa da mangiare come mi ha imposto il mio signore e padrone; dopo tutto quello che mi ha fatto, non riesco a muovere nemmeno un cavolo di muscolo. Riesco solo a starmene sdraiata qui come una pappamolle, ad ascoltarlo mentre ride di
gioia sotto la doccia. A sentirlo così, potrebbe benissimo stare sulla prua del Titanic a gridare: «Sono il re del mondo!». Oh, Jonas. «Amen!», canta sotto la doccia, riprendendo il testo della canzone di Hozier. Non l’ho mai sentito cantare prima e mi concedo un gran sorriso. Oddio, eccolo di nuovo, ma questa volta prolunga la parola come un cantante lirico stonato. «A-a-a-a-m-e-een». Scoppio a ridere forte. Wow, è terribile, del tutto privo di qualsiasi abilità canora. Stranamente, questa scoperta mi intriga e, se è possibile, me lo fa amare ancora di più.
Prendo dal comodino il menu del servizio in camera e il cellulare. Ho promesso a mia madre di chiamarla ogni giorno da Las Vegas per assicurarle di stare bene, e mi sono appena resa conto di non averlo fatto oggi. Non posso certo telefonarle nel cuore della notte, ma le manderò un messaggio che leggerà domattina. Lancio un’occhiata allo schermo e ho un sussulto. Ho ricevuto un messaggio da un numero sconosciuto che mi fa rizzare i peli su tutto il corpo. “Quando sarà il mio turno con te, non ti porterò in uno squallido locale di spogliarelli e non ti chiederò di nascondere il tuo incantevole viso dietro una maschera.
Chiamami oggi. Non sono un uomo paziente. M.”. Con mano tremante, lascio cadere il cellulare. Ho una stretta allo stomaco. Oddio. No. “Max ci ha visto”. Deve averci seguito fino al locale. Quanto avrà visto? Mi copro il viso con le mani, sopraffatta da un misto di ansia, paura, vergogna e repulsione. Questo è troppo. Jonas esce dal bagno, con un asciugamano bianco intorno alla vita. «A-a-a-m-e-e-e-n!», canta, allargando le braccia con fare teatrale. «Ehi, hai ordinato da mangiare?». Nel giro di un istante, il suo tono si fa preoccupato.
«Sarah?». Non riesco a parlare. Sto per vomitare. Si siede sul bordo del letto. «Cos’è successo?». Gli passo il telefono, incapace di dire una sola parola. Legge il messaggio. «Chi…?» «Max. Maksim». «Cosa cazzo vuol dire?». D’un tratto è furioso. Scoppio in lacrime. «Cosa cazzo sta succedendo? Dimmelo subito». Gli racconto ogni dettaglio su Max che mi ha chiesto un «omaggio», che ha detto di essere contento che Travolta non mi
abbia ucciso come gli aveva personalmente ordinato, perché altrimenti si sarebbe perso un gran divertimento e, infine, ammetto che mi ha infilato la lingua in gola appena prima che uscissi dalla porta dell’ufficio. Jonas si porta le mani tra i capelli e poi gesticola come un matto. «Perché non me l’avevi detto?». Scuoto la testa. «Come hai potuto non dirmi niente?» «Avevo paura». «Di dirmelo? Avevi paura di me?» «No, no». Sospiro per la frustrazione. Cammina su e giù per la stanza come un pazzo. «Quello stronzo ci ha seguiti,
stanotte». «Avevo paura che saresti tornato indietro di corsa per cercare di ucciderlo». Grugnisce. «E avevi ragione, perché è proprio quello che ho intenzione di fare. Lo uccido, cazzo». Ho il cuore in gola. «Jonas, no». È così arrabbiato che non sembra più lui. Trema tutto e ogni singolo muscolo del suo corpo è contratto e gonfio. Torna a sedersi sul letto accanto a me, con uno sguardo di fuoco. «Mi hai detto tutto?» «Sì». «Tutto?» «Sì, te lo giuro».
Sospira. «Che pezzo di merda», borbotta, con una smorfia. «Ti ha baciato?». Annuisco. «È stato ripugnante». Deglutisco a fatica. «E spaventoso». Perdo il controllo e scoppio a piangere a dirotto. «Mi dispiace, Jonas. Oggi è stata una giornata davvero spaventosa». Mi accarezza i capelli. «Non nascondermi mai più nulla, d’accordo?». Nella sua voce c’è uno strano misto di compassione e rabbia. Annuisco. «Mai. Di qualsiasi cosa si tratti. Mai più». «Volevo dirtelo prima, ma quando siamo usciti da lì eri così arrabbiato con
me e non volevo alimentare la tua rabbia. Non volevo che tornassi a cercare di ucciderlo… e a farti ammazzare. Eri così furioso con me che non ragionavi». Sospira e mi abbraccia. «Non sono mai stato furioso con te, Sarah. Non capisci?». Mi guarda negli occhi. «Non avrei dovuto urlarti contro. Ho reagito male. Mi dispiace». Trema per l’adrenalina. «Non ero arrabbiato con te. Avevo paura al pensiero che ti succedesse di nuovo qualcosa. Ma mi sono comportato come un coglione». Annuisco. È vero, si è comportato come un coglione, ma lo capisco. «Poverina». Mi stringe forte. «Dio».
«Mi dispiace di non avertelo detto». «Non nascondermi più nulla, mai più». «Non lo farò». Appoggio una guancia contro la sua spalla. Si ritrae. «Sarah, non so come dirtelo abbastanza chiaramente. Questa è una condizione non negoziabile. Non nascondermi più nulla, mai più». Annuisco. «Promettimelo». «Te lo prometto. Mi dispiace». Mi stringe e mi dà un bacio sulla spalla nuda. «Scusami per averti urlato contro. Non avrei dovuto. Non te lo meritavi». «Ti perdono». «Ho perso la testa».
«Lo so». «Non nascondermi più nulla». «Non lo farò. Te lo prometto». «Bene». «E me lo prometti anche tu?». Non risponde. «Prometti di non nascondermi più nulla?». Resta in silenzio. Gli spingo il petto e mi libero dal suo abbraccio. «Perché non dici niente?» «Perché non te lo prometto». Apro la bocca, scioccata. «Non posso promettertelo, non quando si tratta di questi pezzi di merda. Per qualsiasi altra cosa e qualsiasi altra
persona, sì, te lo prometto. Giuro sulla mia vita che ti dirò sempre e solo la verità e non ti nasconderò mai nulla. Ma quando si tratta di questi figli di puttana, ti proteggerò a qualunque costo, senza alcun vincolo a cui mi obbligherebbe questa promessa, anche se ciò significherà non dirti qualcosa che è meglio che tu non sappia».
Capitolo ventotto
Jonas
Henn ha gli occhi annebbiati e iniettati di sangue, come se non avesse chiuso occhio per tutta la notte. Siamo seduti intorno al tavolo del salotto, su cui ieri notte la mia piccola è diventata una deliziosa farfalla, per sentire cos’hanno scoperto finora sul Club Henn e i suoi due aiutanti. Nemmeno Kat e Josh sembrano particolarmente riposati, ma a differenza dell’hacker si vede che sono andati a letto. E, se non mi sbaglio, sono
anche seduti decisamente vicini. «Allora, per riassumere», esordisce Henn, «abbiamo a che fare con una cosa grossa, ragazzi. Di quelle che ti fanno dire “Oddio”». Fa un enorme sorriso. «È davvero grandioso». Io e Sarah ci guardiamo, nervosi. «Mi sono buttato a capofitto in questa tana di coniglio per tutta la notte e ogni galleria mi porta in un’altra tana a inseguire un altro coniglio ucraino… Ah, comunque, sto traducendo un botto di roba con dei software, che non è la stessa cosa che usare un traduttore in carne e ossa, ma se non altro ci faremo un’idea…». «Respira, Henn», lo interrompo.
«Rallenta e riparti dall’inizio. Sembri il coniglio della Duracell fatto di anfetamine». Henn si blocca di colpo e scuote la testa. «Scusa. Nelle ultime dodici ore ho preso litri di caffè americano e due Red Bull…». «Dio, Henn. Quella merda ti ucciderà», gli dico. «È il rischio del mestiere». Sorride. «Riassumi quello che hai scoperto finora». «Sì, okay». Henn fa un bel respiro. «Ieri notte ci siamo fatti un’idea della situazione ed è un gran bordello». Resto in attesa. L’hacker inspira di nuovo. «Quasi tutto
quello che ci interessa è in ucraino, ma ci sono anche un sacco di cose in russo. L’ucraino e il russo sono due lingue diverse, lo sapevate?». Sbatto piano le palpebre, sforzandomi di non perdere la pazienza. «Dimmi semplicemente: sei riuscito a entrare nel sistema del Club?» «No, non ancora. Ovunque sia, è nascosto in fondo al web, in fondo in fondo. Ma ci sono vicino. Ho un sacco di scie di briciole da seguire. Gli sto alle costole, ragazzi. E belle signore». Fa un sorriso adorante a Kat e poi, ripensandoci, anche un occhiolino educato a Sarah. «Avreste dovuto vedere Henn al
lavoro», dice Kat. «È uno Sherlock Holmes tecnologico». «Quest’uomo è un cazzo di genio», aggiunge Josh. Perché devo sempre far quadrare il cerchio? «Cosa sappiamo finora?», domando. «Allora», dice Henn. «Cominciamo dall’ambito delle loro operazioni. Gigantesco. Imponente. Enorme. Colossale. Mastodontico. Molto più di quanto mi aspettassi. Non si tratta di un piccolo giro di prostituzione a conduzione familiare – non che io abbia qualche metro di paragone con altri giri del genere, s’intende – ma sto solo dicendo che quello che ho visto ha
superato ogni mia aspettativa. E, sentite un po’, è saltato fuori che la prostituzione è solo una parte dei loro traffici». «Che altro fanno?», chiede Sarah. «Be’, Oksana pensa alla prostituzione, ma Max si occupa di un sacco di altre cose. Droga e armi, soprattutto». Restiamo tutti quanti a bocca aperta. Merda. «E ha tantissimi tizi che lavorano per lui, in tutto il Paese, ma soprattutto a Las Vegas, Miami e New York». Sarah non riesce a smettere di scuotere la testa. È del tutto sconvolta. Gira la testa anche verso di me. «Di che volume di affari stiamo parlando?»,
m’informo. «In dollari, intendo». «Non ho ancora avuto accesso ai loro conti, ma credo che si tratti di cifre grosse». «Sii un po’ più preciso», dico. «Be’, da alcune cose che ho visto nei loro registri, immagino – e sto solo immaginando – che si parli di circa mezzo miliardo di dollari l’anno. Forse di più». Siamo tutti scioccati. «E la lista dei membri? Hai avuto fortuna con quella?», chiede Sarah. «Non ancora. Questi dati sono nascosti da qualche parte nel sistema del Club, a cui sto cercando di arrivare, ma Oksana ha una preziosa lista di clienti VIP di cui
si occupa personalmente. Non usa i loro nomi veri e gestisce tutto con codici e soprannomi, ma ho seguito qualche traccia e sono risalito all’identità di alcuni di questi tizi. Finora ci sono diversi amministratori delegati e pezzi grossi dell’industria, degli atleti di alto profilo – avete presente il giocatore degli Yankees che ha appena firmato un contratto stratosferico? – e almeno due membri del Congresso che sono clienti piuttosto importanti già da un po’. E poi c’è un tizio che è davvero un pezzo grosso, una specie di superVIP , ma non ho ancora capito chi sia. Solo con questi esempi però, parliamo di gente di un certo calibro che sarebbe piuttosto
seccata se scoprisse di aver finanziato la mafia russa, o quella ucraina. Ma torneremo più avanti su questo punto». Io e Sarah ci scambiamo un’occhiata. Non avevo mai pensato a loro come a dei mafiosi. È questo che sono? Merda. Ho una stretta allo stomaco. Finora sono rimasto seduto al tavolo, con le ginocchia che mi tremavano all’impazzata, ma adesso mi alzo e vado su e giù per la stanza. «Sarà meglio riuscire a scoprire l’identità del superVIP », continua Henn. «Nelle sue email usa un doppio sistema di cifratura, ma sono riuscito a craccarne una che Oksana ha inoltrato a Max e quel tizio scriveva cose del tipo
“il mio personale di sicurezza sarà appostato fuori dalla porta”. Ha del personale di sicurezza? Che sarà “appostato” fuori dalla porta? Chi cazzo parla così?». Sarah mi guarda, con gli occhi spalancati. Mi sento esattamente allo stesso modo. «Una rockstar?», azzarda lei. «I cantanti hanno sempre delle guardie del corpo». «No», dice Henn. «Non stando a quel che ho visto». «Già, conosco molte rockstar che girano con le guardie del corpo, e non parlano così», commenta Josh. Sembra ansioso.
«Continuerò a lavorarci», afferma Henn. «Okay, siete pronti per restare ufficialmente a bocca aperta?» «Vuoi dire che c’è dell’altro?», chiede Sarah. «Oh, sì. Ed è proprio la parte che sto per dirvi che rende tutto così divertente». Si gira verso Kat. «L’ho scoperto appena dopo che te ne sei andata ieri notte». Kat guarda il resto del gruppo con aria mortificata. «Alla fine sono dovuta andare a dormire». «Capita quando non sopravvivi con una dieta a base di caffeina e nicotina», commenta Henn. Guardo di sfuggita mio fratello.
Nemmeno lui sa di cosa sta per parlarci Henn. «Sei andato a dormire anche tu?», gli chiedo. «Sì, nemmeno io sono riuscito a tenere il passo di Henn», ammette. «Me ne sono andato più o meno alla stessa ora di Kat». Le lancia un’occhiata. «Forse poco più tardi». Merda. Vanno a letto insieme. Guardo subito Sarah per capire se anche lei vede quello che vedo io, ma è pallida e ansiosa, per nulla interessata al fatto che Kat e Josh facciano sesso o meno. «Allora?», chiede Kat, seduta sull’orlo della sedia. «Sto ancora aspettando che un mare di
roba venga tradotto. Questa storia del russo e dell’ucraino è un vero handicap per me e non ho ancora finito, ma ragazzi, Dio mio… Oksana è una specie di attivista politica. Una Che Guevara ucraina. Continua a scriversi con dei suoi connazionali a proposito di qualcosa chiamato Donbas. Non sapevo cosa fosse quindi ho fatto delle ricerche e si riferisce a una specie di rivoluzione in Ucraina». «I separatisti», commento. Ne hanno parlato tutti i giornali ultimamente. «Sì, è quel che ho pensato anch’io», concorda Henn. «Oksana si scambia in continuazione messaggi con dei tipi in Ucraina, in cui spara cazzate di
propaganda e parla della “causa”, e loro dicono di dover trovare finanziamenti e armi. Armi serie, ragazzi. Cose da pazzi. E Oksana continua a sparare cazzate del tipo: “Abbiate fede”». Quest’ultima parte la dice con un finto accento russo da cartone animato. «Oddio», mormora Josh. «Cosa?», chiede Kat. «Stanno finanziando i separatisti ucraini», le spiega mio fratello. «Il che significa che Oksana sta finanziando Putin per vie traverse», aggiungo. Kat non capisce. «Ragazzi, potete spiegarvi in termini più semplici, per favore?»
«Okay. Allora, una volta c’era l’URSS, giusto?», le dico. «Poi si è divisa in tante parti, tra cui la Russia, l’Ucraina e i Paesi baltici. Bene, ora Putin vorrebbe rimettere insieme i pezzi della grande madre Russia e risuscitare il vecchio impero, e che il fiore all’occhiello di questa nuova Unione Sovietica fosse l’Ucraina». Kat annuisce. «E all’Ucraina sta bene?» «No, non al governo ufficiale. Ma c’è una fazione interna, quella dei separatisti, che vuole staccarsi dal governo e appoggiare il piano di riunificazione di Putin. Perciò, finanziata dai russi, ha intrapreso una lotta armata
contro il proprio governo». Guardo Josh. Stiamo pensando la stessa cosa: oh cazzo, abbiamo dato i nostri soldi a queste persone. Dalla sua espressione, Sarah si sente esattamente come me in questo momento: mortificata. «Porca puttana», dice Kat piano. «Sì», concorda Henn. «Puoi dirlo forte». «Dobbiamo scoprire chi è Mister superVIP », dico di colpo, con lo stomaco sottosopra. «Dobbiamo sapere chi sono tutti i pezzi grossi. Hai detto che in questa merda sono coinvolti anche dei membri del Congresso, giusto?» «Già», risponde Henn.
«Le cose potrebbero mettersi malissimo», commenta Josh. «Davvero. “Buongiorno, cari elettori. Vi prego, rieleggetemi”», dice Henn, imitando un politico come meglio può. «“Ho aumentato i poliziotti per le strade, ho fatto costruire una biblioteca e ho votato a favore dell’aumento del salario minimo. Oh, e ho anche dato un sacco di soldi a un giro di prostituzione e armi ucraino che finanzia la riunificazione dell’Unione Sovietica. Posso contare sul vostro voto alle prossime elezioni?”». Non riesco nemmeno a ridere. Merda. Non mi aspettavo proprio una cosa del genere.
«Questa storia è troppo grossa, non possiamo gestirla da soli», dichiara Sarah in tono concitato. «Dobbiamo dire tutto all’FBI». Spalanca gli occhi. «O alla CIA, forse? Non so. Cioè, cavolo, sono solo una studentessa di legge al primo anno». Scuote la testa. «Qui si tratta di una faccenda con dei risvolti internazionali. E non sto esagerando». Ha ragione. Non sta esagerando. E ha ragione anche sul fatto che dobbiamo dire tutto alle autorità competenti. Ma non ho idea nemmeno io di come raccontare una storia di queste dimensioni. «Il punto è come e quando», dico. «Non possiamo presentarci freschi
freschi all’FBI e chiedere del primo agente speciale disponibile e dirgli: “Ehi, a Las Vegas c’è un giro di prostituzione che ricicla denaro e armi per Putin. Su, andate a prenderli!”. Se anche ci credessero, e ne dubito, chissà quanto ci vorrà prima che facciano delle indagini e intervengano, semmai lo faranno. Se ci mettono troppo, quanto passerà prima che Max e Oksana diventino paranoici e decidano che Sarah non è poi così preziosa come pensavano? L’unica cosa che mi importa in tutta questa storia è proteggere Sarah». Lei si lascia sfuggire un gemito. «Non si tratta più di un semplice colpo al
casino, ragazzi. Ci servirà molto più che George Clooney per arrivare fino in fondo». Sospiro. «Quali prove abbiamo finora, Henn?» «Al momento la storia del finanziamento all’Impero del Diavolo è solo indiziario, perché non ho ancora i dati bancari. Con molta creatività, potrei provare qualcosa e mettere insieme i pezzi, ma per convincere qualcuno all’istante ti servirà un pubblico con una capacità di concentrazione piuttosto alta e disposto a starti a sentire con attenzione e a fare diversi salti logici». «Non possiamo contarci». «Lo so. Non appena riuscirò a entrare
nel sistema centrale del Club, ogni cosa sarà inconfutabile e chiara come il sole. E ci sono vicinissimo». «Dobbiamo far vedere i soldi», aggiungo. «È questa la chiave. È l’unico modo per attirare l’attenzione di qualcuno». «Sono d’accordo», conviene l’hacker. «Non ho ancora tutti i loro conti né le password, ma ci sto lavorando». «Quanto ti ci vorrà per avere tutto il necessario per delle prove inconfutabili?» «Ancora un paio di giorni e ne avremo di solide. Magari non inconfutabili, ma di certo solide. Cioè, potrei andare avanti per mesi e mesi e continuerei a
trovare informazioni, ma se volete giusto qualcosa da usare come prima salva, qualcosa che attiri in fretta l’attenzione dei buoni e li spinga a intervenire subito, allora posso darvi quel che vi serve in un paio di giorni». «Eccellente», commento. «Henn, sarò la tua nuova migliore amica», interviene Sarah. «Comincerò a raccogliere e a mettere insieme le informazioni che trovi e a sintetizzarle in un unico documento conciso, una sorta di dossier. Se vogliamo attirare in fretta la loro attenzione, dobbiamo avere qualcosa da consegnare ai buoni. Gli renderò la vita più facile delineando i fatti, le operazioni del Club e tutti i
possibili capi d’accusa: crimine organizzato, frode telematica, riciclaggio, traffici illeciti e il resto. E per ogni capo riassumerò tutte le prove raccolte finora a riguardo». La sua mente ha ingranato ormai. «Kat». «Sì, signora?» «Per ogni capo d’accusa avrò bisogno di prove a supporto, per far capire che non ci stiamo inventando niente. Ti dirò cosa mi serve di preciso e poi tu cercherai a fondo in ciò che troverà Henn. Sarai la mia assistente addetta alle ricerche». «Posso farcela», acconsente Kat. «Bene», commento. «E io e Josh cercheremo di capire quale sia la
strategia migliore per chiedere aiuto. Sono d’accordo sul fatto che dovremmo dire tutto a qualcuno, ma il punto è a chi. Se mettiamo questa faccenda nelle mani sbagliate, potremmo farci un nemico ben più grande del Club». «Cosa intendi?», chiede Kat, con gli occhi sgranati. «A quanto pare, nella lista dei clienti c’è un sacco di gente potente che non vorrà che questo scandalo venga alla luce del sole». Per un po’, ognuno di noi assimila questa informazione in silenzio. Stiamo per cacciarci in un grosso e pericoloso ginepraio. «Alla fine gira tutto intorno ai soldi»,
dico. «Il dio denaro». «Giusto», concorda Josh. «Henn. I soldi hanno la priorità assoluta, okay?», gli dico. «Rintracciali e trova il modo di accedere ai conti». «Capito», conferma lui. «Non dovrei metterci più di un paio di giorni». «Possiamo farcela», dice Sarah, anche se non sembra convinta. «Guardate quanto talento c’è in questa stanza. Non abbiamo bisogno di George Clooney, Brad Pitt o Matt Damon». «Sì, vorrei tanto che ci fosse l’acrobata cinese», dice Henn. «Era forte». «Quello che hanno infilato nella scatola?», chiede Kat. «Lo adoro».
«Sì, era un grande», concorda Henn. «Yen. Non si chiamava così?». Henn scoppia a ridere. «Oh, sì. Che memoria, Kat». Si batte un dito sulla tempia. «Hai il cervello e pure la bellezza». «Ehi, ragazzi, mi dispiace interrompere le vostre riflessioni profonde, ma non riesco a non preoccuparmi», dice Sarah. «Abbiamo un sacco di lavoro da fare e vorrei cominciare subito». «Certo», dice Kat. «Qualsiasi cosa tu voglia, capo». «Ehi, Sarah», interviene Henn. «C’è un’altra cosa. Cosa vuoi fare per il messaggio che ti ha mandato il dottor
Male?». Sarah si fa paonazza. «Sto monitorando il suo cellulare, ricordi? “Non sono un uomo paziente”. Che razza di storia è questa?». Sarah non riesce nemmeno a parlare, quindi le stringo una mano e racconto agli altri della richiesta di un «omaggio» da parte di Max, e spiego il senso generale del resto del messaggio. (Non scendo nei particolari perché, per quanto mi riguarda, non c’è bisogno che si sappia del riferimento allo “squallido locale di spogliarelli” e alla “maschera” e, grazie al cielo, Henn ha il buon senso di non rivelare questi dettagli). «Cosa dovrei fare?», chiede Sarah ai
presenti, con voce debole. «Ignorarlo? Rispondergli? Nascondermi?» «Ignorarlo e nasconderti», dico. «Non voglio che tu dica un cazzo a quel figlio di puttana». «Sono d’accordo», commenta Josh. «Ignoralo e nasconditi». «No», ribatte Kat in tono neutro. «Rispondigli e nasconditi. Se lo ignori lo farai incazzare e noi non vogliamo che succeda. Vogliamo che resti tranquillo, sicuro e prevedibile». La guardiamo tutti, riflettendo sulle sue parole. «Al dottor Male non viene duro pensando a Sarah, ma a Jonas». Faccio una smorfia. «Dio, Kat. Non
metterla così». «Non dal punto di vista sessuale. Gli viene duro pensando a te come maschio alfa, Jonas. È come un gorilla beta che vuole liberarsi di quello alfa. Vuole quello che hai tu per vincere. Quindi, gli viene duro pensando a te». «Per l’amor del cielo, ti prego, piantala di dire così», la imploro. «Cosa dovrei rispondergli allora?» «Dobbiamo tenerlo lontano da te e convincerlo che la tua unica motivazione sia l’avidità e non la fedeltà verso Jonas», spiega Kat. «Più lui pensa che i tuoi interessi siano uguali ai suoi, più sarai al sicuro. Devi fare in modo che continui a fidarsi di te. Se lo ignori,
diventerà paranoico». Sarah mi guarda e annuisco. Kat ha perfettamente ragione. Incoraggiata da questo scambio non verbale tra me e Sarah, Kat prosegue. «Digli che dopo il vostro incontro, Jonas è uscito dai gangheri e ha perso completamente la testa per la gelosia. Ha notato la chimica tra te e il dottor Male e ti ha accusato di avergli mentito sul fatto di non averlo mai incontrato prima. Jonas è convinto che voi due stiate insieme e che tu volessi stare sola con Max per fare sesso in bagno. E adesso, che cavolo, è impossibile che tu riesca ad allontanarti senza renderlo ancora più sospettoso. Jonas il Gelosone
ti osserva come un falco e non ti lascia uscire dalla vostra stanza da sola. Fa’ passare Jonas per uno schizzato. Di’ a Max di non scriverti perché lui ti controlla il telefono e digli che, comunque, sta per darti un assegno gigantesco. Così accarezzi il suo egocentrismo e allo stesso tempo stuzzichi la sua avidità. Per quanto voglia un omaggio per soddisfare la sua erezione al pensiero di Jonas…». «Okay, Kat, basta così», la avviso. «…non insisterà per averlo rischiando di mandare a monte la truffa. Jonas passerà per il cattivo e sembrerà che Sarah stia facendo del proprio meglio per tenerlo a bada e continuare a
spillargli soldi». Impressionati e senza parole, fissiamo tutti Kat. Lei si stringe nelle spalle. «Cosa c’è? Nella vita ci sono due cose che conosco bene: le pubbliche relazioni e gli uomini». «Bello», commenta Henn, con ammirazione palpabile. «Ehi, sarò anche stupida, ma non sono bionda», dice Kat, strappando a tutti una risata. Josh le rivolge un sorriso adorante. «Siamo tutti d’accordo con Kat? Perché io lo sono assolutamente». E anche noi. «Soprattutto sul fatto che non puoi
uscire dalla suite senza di me», dico. «Quella parte è vera. Non voglio che tu esca da sola». «Fidati, non lo farò», dice Sarah. «Ora che so che quel viscido è là fuori a spiarmi, non ho più nessuna voglia di lasciare questa suite. E comunque devo mettermi sotto e scrivere il dossier. Sarà un lavoro enorme». Scuote la testa incredula. «Tutta questa storia è una follia». «È davvero da pazzi», concorda Henn, con un sospiro di felicità. «Non è grandioso?».
Capitolo ventinove
Sarah
È stata una giornata lunghissima, ma produttiva. Perlopiù, io e Kat siamo state l’ombra di Henn che lavorava come un matto su tre computer e, quando alla fine lui è crollato per la totale mancanza di sonno, io e lei siamo andate avanti e abbiamo fatto del nostro meglio per catalogare e ordinare in base alla priorità le informazioni che era riuscito a recuperare. Nel frattempo, anche Jonas e Josh ci hanno dato dentro,
raccogliendo le loro idee, facendo ricerche sulle agenzie governative e buttando giù un foglio con diverse potenziali strategie. In diverse occasioni i ragazzi si sono messi a bisticciare, fino a che uno di loro non scoppiava a ridere, subito imitato dall’altro, e una volta, di punto in bianco, hanno cominciato una discussione animata su chi fosse il miglior quarterback di sempre della NFL. A dire il vero, a un certo punto anch’io e Kat eravamo tanto rintronate che ci siamo sedute tutte vestite nella Jacuzzi vuota a berci un bicchiere di vino. Per il resto però, è stata una stressante giornata di lavoro ininterrotto.
Mentre scrivevo una sezione particolarmente frustrante del dossier, ho lanciato un’occhiata a Jonas dall’altra parte della stanza, intento a studiare qualcosa sul suo computer con la fronte aggrottata, e ho provato il desiderio fortissimo di andare a sedermi sulle sue gambe e dirgli: «Al diavolo tutto, torniamo in Belize». Invece gli ho proposto di fare una pausa e andare ad allenarsi nella palestra dell’albergo. «Non ho tempo», ha risposto lui. «Sono in missione per conto di Dio, piccola». Stavo per dirgli che magari una pausa gli avrebbe giovato alla mente quando lui, all’improvviso e davanti a tutti, ha
aggiunto: «Perché amo la mia piccola più della vita stessa». Poi è tornato a guardare lo schermo del computer, come se quello non fosse stato il momento più eccitante di tutta la mia vita. Adesso, finalmente, se ne sono andati tutti e non c’è nulla che mi trattenga dal sedermi sulle sue gambe, o dal fare qualsiasi cosa voglia con il mio aitante ragazzo. Jonas esce dal bagno dopo la doccia, con ogni singolo muscolo del suo corpo duro come una roccia, e viene nel letto accanto a me. Senza troppe cerimonie, mi fa girare sulla schiena e mi striscia sopra con gli occhi luccicanti, sfregando l’erezione contro la mia pancia. «Con
cosa cominciamo, mia signora?», mi chiede. «Con un bel morso al sedere? O un boccone di questi due bei pasticcini?». Si china e mi mordicchia i capezzoli. «Aspettate un momento, signore», gli dico, scandendo bene le parole, e lui si blocca, seppur con l’aria di soffrire fisicamente. «Per puro caso questa sera ho idee molto specifiche a riguardo». Do una pacca al letto accanto a me e lui, con una certa riluttanza e uno sguardo interrogativo, ubbidisce. «Quando ho cercato su Google il locale di spogliarelli in cui vi ho portato ieri notte, all’inizio ho scritto “peep show Las Vegas”, e sapete cosa mi è uscito?».
Scuote la testa. «Un sacco di stronzate su uno spettacolo di donne nude, sulla Strip, non più in programma, con la moglie di Ice-T». Jonas mi guarda l’inguine e nei suoi occhi vedo un desiderio puro. Gli faccio un sorrisetto malizioso. «Allora ho digitato “peep show sex club”, tanto per vedere cosa avrei trovato. Che diamine, Google deve aver pensato che cercassi del sesso. Una lettura affascinante». Mi mordo il labbro inferiore. Jonas accenna un sorriso, ma riesce in qualche modo a nascondere la propria eccitazione.
«A quanto pare esiste una posizione sessuale che si chiama proprio “peep show”. La conoscete, signore?». Lui si blocca. «In realtà, potrebbe riferirsi a diverse cose, mia cara signora». Si lecca le labbra. «Dovete essere più precisa su quella che vi interessa nello specifico». Prendo il computer dal comodino e recupero in fretta l’immagine tridimensionale che ho trovato per caso ieri sera, con due attraenti avatar animati impegnati nella cosiddetta “peep show fellatio” con tanto entusiasmo da muoversi a scatti. Considerando tutti i modi diversi e a volte sorprendenti in cui Jonas mi ha
fatto del sesso orale – e chi lo sapeva che ne esistessero così tanti? – l’animazione di questo in particolare non avrebbe dovuto sorprendermi. Invece è successo. Per tutto questo tempo, ho accettato il paradigma di Jonas per cui il mio piacere fosse la bestia elusiva, il premio sudato per vincere il quale lui aveva studiato e si era esercitato e si era allenato, e non mi era mai venuto in mente che potessero esserci una o due cosette che avrei potuto imparare io per regalare a lui un piacere massimo. È stato come se mi si accendesse una lampadina in testa… e tra le gambe. Giro lo schermo verso Jonas e il suo
viso si illumina. «Questo», dico, mostrandogli le figure. «Vi dice qualcosa, signore?». Il sorriso si allarga su tutto il suo viso. «Ma certo, mia signora», risponde, con voce pregna di eccitazione repressa. «Eccome se mi dice qualcosa». Rido. «In effetti, ho sentito parlare di questo “peep show” di cui mi dite», continua, con occhi ardenti, «ma non sono mai stato tanto fortunato da avere qualcuno che si proponesse di farlo a me». Si morde il labbro. «Per me». Sono sbalordita. Non me l’aspettavo. Pensavo che Jonas avesse già provato ogni pratica sessuale immaginabile. Non
riesco a credere alle mie orecchie. «Com’è possibile?», chiedo, lasciando perdere le finte buone maniere. «Non l’ho mai fatto». «Ma, cioè, pensavo che in fatto di sesso tu avessi già fatto tutto, e anche di più». Si stringe nelle spalle. «Ma pensavo…». Scuoto la testa. Sono davvero confusa. Com’è possibile? Arrossisce. «Non è il tipo di cosa che chiederei a una puttana qualunque. E non ho mai avuto una…». Sospira. «Non ho mai avuto una ragazza come te prima». Mi sento invasa da un’ondata di calore. «Cosa vuoi dire?».
Si stringe di nuovo nelle spalle, ma non risponde. «Le tue ragazze non hanno mai voluto fartelo?». Scuote la testa. «Non pensare di cavartela scuotendo la testa. Confessa. Su». Sospira. «Non è mai saltato fuori». «Perché no?» «Perché non ti lasci leccare fino a venire e ne parliamo dopo?». Fa per strisciarmi di nuovo sopra, con un sorriso malizioso. Lo respingo. «Sono troppo affascinata da questa storia. Prima dimmelo e poi ti prometto che faremo sesso sfrenato fino all’alba».
Sospira. «Sei proprio una rompipalle, lo sai?» «Sì». Alza gli occhi al cielo. «Poco più di un anno fa ho avuto un appuntamento con una donna che ha finto di avere un orgasmo…». «Sì, lo so, la donna che ti ha spinto a cercare “redenzione” la seconda volta. Comunque, dovrei comprarle una bottiglia di champagne di lusso per ringraziarla, visto che a beneficiare degli studi superiori che ti ha ispirato sono soprattutto io». Sorride. «E se ti raccontassi questa storia dopo averti leccato fino a farti venire?». Allunga una mano verso la
parte interna della mia coscia. La allontano di scatto. «No». Aggrotta la fronte come un bambino che si vede negare un biscotto. «Su. Svuota il sacco». Rassegnato al proprio destino, sospira. «Grazie al fatto che ha finto, ho cominciato a leggere dei testi e a studiare e, per la prima volta, ho capito che far avere un orgasmo a una donna è un dono e richiede uno sforzo di gran lunga maggiore che scoparla e basta. Prima, pensavo solo: “Se piace a me, piacerà anche a lei”. Pensavo fosse come giocare ai dadi, una cosa fuori dal mio controllo. A volte una donna viene e altre volte no». Sorride. «Cioè, non
fraintendermi, ero migliore di molti altri uomini, non sono un cavernicolo, ma quando ho cominciato a documentarmi e a studiare, mi sono reso conto che c’era molto di più, moltissime tecniche da imparare. Mi sono reso conto che, se volevo far venire una donna, potevo, ogni singola volta. Dovevo solo farlo nel modo giusto». «Oddio, mi stai facendo eccitare, Jonas». Il desiderio esplode sul suo viso e il suo pene eretto si rizza ancora di più. «Allora lasciati leccare fino a urlare». «Prima finisci la storia». Per punzecchiarlo, mi accarezzo un seno. Il suo petto si alza e si abbassa
visibilmente. «Allora ho leccato tantissime donne tra le gambe e le ho fatte venire ogni volta che volevo. Fine». Sorride e fa per stringermi. Lo respingo di nuovo. «Come sei volgare». Scoppia a ridere. «Dico sul serio, però. Sono sorpresa di aver finalmente scoperto l’unico atto sessuale che non hai mai fatto prima». «Oh, ma ce ne sono molti che non ho mai fatto prima, e un sacco che ho fatto solo con te». Ora sono completamente esterrefatta. «Cosa? Certe cose le hai fatte con me per la prima volta?» «Molte, molte cose».
Sbatto le palpebre, come se avesse appena preso a frustate la mia mente. Mi metto a sedere e lo guardo negli occhi. «Tesoro, cosa stai dicendo? Sono davvero confusa». Mi mette una mano sulla guancia e mi bacia. «Mia Magnifica Sarah», dice, mordicchiandomi la mascella. «Tu mi ecciti, piccola. Hai idea di quanto mi ecciti?». Mi accarezza con delicatezza il seno. Il sangue mi pulsa tra le gambe. «No, Jonas. Dimmelo». «Perché prima non mi dai un assaggino… La tua passera mi sta chiamando a sirene spiegate». «No».
Mette il broncio. «Dimmelo». Geme e sospira. «Prima di trovare la religione, per così dire, ovviamente avevo fatto un sacco di sesso, con prostitute, ragazze vere e proprie, avventure, conquiste da una notte. Avevo fatto tutte le cose normali: trombate, sesso orale, cose a tre… Qualsiasi cosa. Ma non è mai, mai stato come con te. Mai come, sai…». Vedo una scintilla nei suoi occhi. «Come andare in chiesa». Si illumina in viso. «E dopo aver trovato la religione, dopo aver cominciato a studiare e imparare e andare in cerca di donne per fare pratica, il sesso per me ha sempre significato far venire la mia
partner come non le era mai successo in vita sua, farla arrendere a me, farmi diventare Dio». A queste ultime parole, alza gli occhi al cielo. «La redenzione», commento sottovoce, come se di colpo mi si fosse accesa una lampadina in testa. Come ho fatto a non accorgermi finora di quanto la necessità di redimersi avesse pervaso tutta la vita di Jonas? «Ogni cosa che fai, persino il sesso, ti serve per redimerti, Jonas. Per dimostrare che non sei inutile». Mi fissa a lungo. «Sì», dice infine, «credo di sì». Mi guarda con il suo tipico sguardo addolorato. «Uh». Segue un’altra pausa. «Comunque, ho sempre
fatto in modo che le mie partner sessuali si arrendessero a me, ma non ho mai…». Storce la bocca. «Non ho mai voluto essere io ad arrendermi». Deglutisce a fatica. «Quindi, per rispondere alla tua domanda, non ho mai fatto un sacco di cose volte a dare piacere a me, come il peep show. Ho sempre spinto le cose in direzione opposta». Riesco a malapena a contenere gli impulsi del mio corpo. «Ma prima dell’ultimo anno, prima della “ricerca della sessocellenza”? Hai avuto delle ragazze prima, e non hai mai voluto che loro ti dessero piacere?» «A volte sì, certo. Ma prima di te, tutte le mie ragazze erano abbastanza
castigate. Probabilmente le sceglievo apposta perché fosse più semplice reprimermi piuttosto che rivelarmi. Sì, ho avuto delle storie prima di te, ma questa è la prima volta che mi comporto come un vero e proprio ragazzo… la prima volta che mi sto rivelando». Sono elettrizzata. «E tutte le conquiste da una notte? Non riesco a credere che tu non abbia fatto sesso in ogni posizione possibile…». «Pensaci. Quando ti scopi una donna diversa ogni notte e il tuo unico obiettivo è farla venire di brutto, alla fine hai meno voglia di sperimentare, non di più. Hai uno o magari due colpi sicuri per far venire la sconosciuta di
turno come mai prima e alla fine hai certe mosse fisse a cui ricorri di continuo, per essere assolutamente certo di andare a segno». «E tutte le posizioni sessuali che abbiamo fatto?» «Le sto provando quasi tutte con te». Fremo tutta per l’eccitazione. «La farfalla?». Sembra in imbarazzo. «L’ho fatta solo con te. La mia bella farfalla». Sento pulsare il clitoride come se mi avesse appena leccato proprio lì. «La ballerina?» «Chi riuscirebbe a stare in piedi in quella posizione, figuriamoci a scopare?».
Mi gira la testa. «E il sessantanove a testa in giù che abbiamo fatto quando siamo tornati dal Belize?» «Solo con te». «Ma prima di farlo hai detto che ti eccitava e che…». «Parlavo del sessantanove in generale. Quello l’avevo già fatto, certo, ma non in quella versione acrobatica pazzesca. Ho sempre voluto provarci, ma con chi avrei potuto farlo oltre te?». Sospira, estasiato. «È stato fantastico». Sono eccitata fino all’inverosimile. «Oh, Jonas». Scuoto la testa. «Pensavo che avessi già fatto di tutto con mille altre donne». Ora è lui a scuotere la testa. «Le ho
leccate, le ho fatte venire e poi le ho scopate solo per venire anch’io. Ma non aveva nulla a che fare con quello che facciamo noi. Con te ho fatto per la prima volta un sacco di cose che ho sempre voluto provare, con la mia sexy porcellina d’india». Come una gatta in calore, ho una voglia matta di sfregarmi contro la sua gamba. «Bisogna sentirsi del tutto a proprio agio con una persona per fare le cose più avventurose che abbiamo provato noi. Ci vuole una fiducia reciproca». Gli prendo il volto tra le mani e lo bacio. Lui si allunga subito verso di me, pronto a salirmi addosso e montarmi, ma
io lo respingo di nuovo, strappandogli un gemito. «Dai, piccola. Sto morendo. Non ce la faccio più ad aspettare», piagnucola. «Tanto peggio». Ho il fiatone. Recupero il computer e l’immagine dal titolo “Peep show fellatio”. Clicco per tornare al sito, interamente dedicato a ogni posizione sessuale esistente e corredato da disegni animati, istruzioni dettagliate e bacheche per i commenti. Vado alla home page dove, nella barra a sinistra, c’è un lungo menu di categorie generali del tipo “Faccia a faccia”, “Sessantanove” e “Da dietro”, ognuna con un link che porta a una serie di sottocategorie più specifiche e
dimostrazioni animate. Clicco sul link che dice “Fellatio” e lo schermo si riempie di dodici figure diverse di pompini. «E questi? Quali hai già fatto?». Jonas passa in rassegna le immagini, con il petto che si alza e si abbassa. «Ragazzi», commenta. «Wow. Guarda questo». Il suo pene eretto ha uno scatto. «No. Mi hanno fatto solo i pompini classici, che sono stupendi e non mi lamento affatto, credimi. Oh, e anche quello, in piedi, ma secondo me è una posizione di base. Oh, e anche quello lì, da seduto». «E questo?». Clicco su un link. Scuote la testa e scoppia a ridere.
«No». «Questo?» «Ehm, no. Ma non voglio farlo. Ti schiaccerei». Do un’occhiata. «Sì, credo anch’io. Eliminiamo questa opzione, non sopravvivrei. Che ne dici di questa però? L’hai mai fatta?» «No». «Be’, tesoro, oggi è il tuo giorno fortunato. Hai presente i calendari dell’avvento? Ecco, oggi inauguriamo il tuo calendario dell’avvento dei pompini. Proveremo ognuna di queste varianti, fino all’ultima. Tranne quelle in cui potresti letteralmente schiacciarmi». Scoppio a ridere. «Forse non sarò tanto
abile nel fartele…». Guardo un disegno particolarmente enigmatico e faccio una smorfia. «Alcune mi sembrano una vera e propria sfida e non capisco nemmeno come bisogna posizionarsi, ma ti prometto che ce la metterò tutta». «Sarah, non devi…». «Voglio». «Piccola, stammi a sentire. Quando ti lecco, non è una cosa occhio per occhio. Adoro farlo. Il tuo sapore mi eccita. Sei deliziosa. Non lo faccio per ricevere qualcosa in cambio…». Mi chino e gli lecco la punta del pene, zittendolo all’istante. Rialzo lo sguardo su di lui. «Ti piace il mio sapore?».
Inspira a fondo. «È la cosa che preferisco». «Be’, è così che mi sento anch’io quando ti succhio. Mi eccita da matti. Mi immagino di farlo. Lo desidero. Sogno di farlo. Mi piace il tuo sapore. Mi piace sentirti in bocca. Mi piace come mi afferri i capelli mentre sono là sotto. Mi piace sentirti gemere». Lo lecco di nuovo e lui mugola subito. «Quando lo faccio, mi sento potente. Come se tu fossi mio». «Cazzo, piccola, mi farai venire prima ancora di cominciare». Gli afferro l’asta. «Allora sarà meglio smettere di parlare e darsi da fare. Guarda ancora la lista e dimmi con
quale vuoi iniziare. Sono supereccitata». Lui guarda il computer e passa in rassegna con una certa fretta le diverse opzioni, con il respiro pesante. «Dunque?» «Non so decidermi… Sei crudele a chiedermi di scegliere». «Che ne dici di questa?» «Sì». «O di questa?» «Sì». Scoppio a ridere. «Quale hai più voglia di provare?» «È come chiedermi di scegliere il mio figlio preferito. Li amo tutti allo stesso modo». Rido di nuovo e scruto le figure.
Inclina il computer verso di sé. «Ehi, perché non guardiamo anche le opzioni per te? Sarebbe divertente». Risistemo lo schermo. «No, sono io che devo diventare una samurai del sesso. Tu ti sei già guadagnato la spada». «Aspetta». Si riappropria del portatile e clicca su “Cunnilingus” nel menu laterale. Davanti alle varie opzioni, geme come se gliel’avessi appena preso in bocca. «Solo a guardare queste figure, mi sto già eccitando da pazzi. Vorrei fartele tutte in questo istante». «Non le abbiamo già fatte tutte?». Sbircio lo schermo. «Questa no», dice lui, con un altro
gemito. «Non ti sei mai sdraiata su di me così. Oh, lo voglio fare. Oddio, sembra proprio bello. Sì, ti prego». Ha ragione. Sembra incredibile. Ma mi riscuoto. «Sono io che devo fare qualcosa per te». «Sì, ma faresti eccome qualcosa per me, ti giuro». Geme ancora. «Se ti lasci leccare così, probabilmente ti verrei sui capelli». Indica un altro disegno con la testa della donna penzoloni in posizione precaria vicino al pene dell’uomo, e freme. «Oh, voglio provare questa, Sarah. Ti prego». Geme. «Ti prego, ti prego, ti prego». Sussulto di desiderio. «In effetti, sembra delizioso».
Freme di nuovo anche lui. «Facciamolo adesso». Allunga una mano tra le mie gambe e mi tocca. Sentendo quanto sono bagnata, geme forte. «Dai». «Un attimo». Annaspo. «Aspetta, Jonas. Aspetta». Ritrae la mano e mette il muso. «Adesso tocca a te ricevere». Sospira e torna a guardare il computer, ignorandomi. Clicca su un altro link. «Non abbiamo mai provato così, vero? Con la tua gamba in aria in questa posizione?». Non capisce dove voglio arrivare: voglio essere io a dargli piacere. Ma non riesco a resistere e do una sbirciata all’opzione di cui parla. Oddio, è così
allettante che sento pulsare il clitoride solo a guardarla. «“Leccare il pennone”», leggo. «Oh, carino». «Voglio farlo», commenta Jonas, come un bambino in un negozio di caramelle. «Io volere quello», dice, come un cavernicolo. «Io. Volere. Quello. Adesso». Afferro il computer. «Stiamo andando fuori strada. Sono io che dovrei capire come aumentare al massimo il tuo piacere». «Non potresti mai aumentarlo più di quanto fai già. Ti basta essere te stessa: bellissima, saporita e squisita». Arrossisco. «Ma voglio provare qualcosa di nuovo. Davvero».
Si morde il labbro. «Okay, d’accordo. Ho una proposta da farti, aspirante samurai». «Cosa?» «Lo faremo alla occhio per occhio». «Ti piace proprio questa espressione, eh?» «Ssh. Stammi a sentire». Con aria da saputella, fingo di rivolgergli tutta la mia attenzione. «Questa sarà l’Avventura alla Occhio per Occhio di Jonas e Sarah. Comincerai sempre tu facendomi un pompino nella versione che preferisci e io accetterò umilmente e pieno di gratitudine il tuo prezioso dono. Poi però sarà il mio turno di farti quel cazzo
che voglio, come mi pare». Freme per l’eccitazione. «Ma non lo facciamo già? Tu mi fai comunque quello che vuoi, come ti pare, no? Cosa cambia?» «Ssh. Adesso è ufficiale, abbiamo delle regole. Occhio per occhio. Tu mi fai quello che vuoi, poi invertiamo i ruoli e faccio io qualcosa a te, come cavolo mi pare». Si lecca le labbra. «Per ventiquattro giorni», aggiungo. «I tuoi ventiquattro giorni di pompini». «E i tuoi ventiquattro giorni di gustose sorprese». «Jonas, mi fai una gustosa sorpresa ogni singolo giorno. Non mi stai proponendo niente di nuovo o di
diverso…». «Sta’ al gioco. Perché diamine ti piace tanto comandarmi a bacchetta e rovinarmi tutto il divertimento? Sei proprio una comandina». Alzo gli occhi al cielo. «Scusa. Okay». Clicco di nuovo sulle opzioni di pompini nel menu laterale. «Scegliamo il tuo pompino inaugurale». Clicco su un’immagine animata indicata come “Il martello pneumatico”. «Questo non capisco nemmeno come funziona. Dovrei prendere il tuo pene in bocca fino in fondo al contrario. Non ti farà male?» «Non lo so. Lo scopriremo». Mi fa un gran sorriso.
«E questo, l’“Incantatore di serpenti”… Sei capace di fare la verticale?». Scoppia a ridere. «Sono disposto a fare un tentativo». «Ecco l’atteggiamento aperto che volevo sentire, piccolo. Facciamo così: cominciamo con la posizione del peep show, visto che è stata questa a farmi eccitare e a farmi venire voglia». Gli afferro l’uccello e lo accarezzo. Lui trema. «Benvenuto nei tuoi ventiquattro giorni di pompini, tesoro», gli dico sottovoce, senza smettere di toccarlo. Guaisce per l’eccitazione. «Ti amo, Jonas», gli dico.
«Ti amo più della vita stessa», risponde lui. «Mia Magnifica Sarah». «E adesso piantala di perdere tempo e sdraiati su un fianco. Sei mio e ti farò quello che mi pare». Ubbidisce all’istante, con un sorriso che va da un orecchio all’altro e l’erezione ben tesa. «Okay, bene». Lancio un’altra occhiata allo schermo del computer, cercando di capire come mettermi. Mi pare di giocare a Twister. «E adesso dovrei infilare la testa e il collo tra le tue gambe da dietro». Mi metto nella posizione giusta e commento: «Vediamo cosa c’è nella prima finestrella. Oh, un bel bastoncino di zucchero che aspetta
di essere leccato». Lui ride a crepapelle per la gioia e io lo imito, poi lo lecco con entusiasmo. «Mmm», dico. «Davvero gustoso». Jonas reclina la testa e ride. «Dio, quanto ti amo, Sarah».
Capitolo trenta
Jonas
Mi sveglio con Sarah che si dibatte e urla tra le mie braccia. «No!», strilla con tutto il fiato che ha in corpo e la voce rauca. «No!». Si agita come una pazza. «Sarah, svegliati. È un sogno». Cerco di tenerla ferma. «Sarah. Stai avendo un altro incubo». Lei si sveglia di colpo, con il respiro corto e gli occhi spauriti. «Hai fatto un altro brutto sogno».
Lei mi stringe e scoppia in lacrime. «Ssh, piccola. Sei al sicuro. Ci sono qui io. Era solo un sogno». Le accarezzo i capelli. «Ssh. È tutto a posto. Ci sono qui io». Quando è un po’ più calma, la tiro a me e la bacio sulle guance. «Di nuovo il Travolta ucraino?». Annuisce, poi deglutisce a fatica e trattiene il respiro. «Solo che questa volta c’era anche Max. Mi violentava mentre Travolta mi teneva un coltello alla gola. E Max continuava a dire: “Quando avrò finito di scoparti, ti ucciderà”, e io gridavo e cercavo di liberarmi, ma avevo le braccia e le gambe paralizzate e non riuscivo a muovermi…».
«Piccola, è tutto a posto. È stato solo un brutto sogno». Continua a piangere. «Sei al sicuro». La stringo forte. Ucciderò quei figli di puttana, giuro su Dio. Dopo un momento per ricomporsi, Sarah riprende a parlare. «E poi…». Fa una pausa, come se stesse rivedendo qualcosa. «Di punto in bianco è arrivato mio padre». Rabbrividisce. «E per una frazione di secondo mi sono sentita sollevata, perché pensavo che fosse venuto a salvarmi… ma lui si è chinato verso il mio orecchio mentre Max mi penetrava e mi ha detto: “La vendetta fa sempre male, eh?”».
Mi si gela il sangue nelle vene. Lei trema. «Dio, erano anni che non avevo più incubi su mio padre. Tutta questa storia del Club deve aver riaperto delle vecchie ferite psicologiche». Le accarezzo un braccio. «Facevi degli incubi su di lui?» «In continuazione. Per un anno, dopo che io e mia madre siamo scappate, ho continuato a guardarmi alle spalle per paura che lui arrivasse, mi mettesse un sacco in testa e mi trascinasse via». Inspira e sospira rumorosamente. «E adesso ho la stessa sensazione con Max e Travolta, come se mi stessero alle spalle». Soffoca un gemito. «Penso
sempre che stiano venendo a prendermi». La stringo forte. “Ucciderò quei figli di puttana del cazzo”. «Che cavolo. Pensavo di aver chiuso con gli incubi su mio padre». Si asciuga gli occhi. «Gli hai visto fare delle cose orribili, vero?» «Già», risponde sottovoce. «Gonfiava di botte mia madre e poi si aspettava che io lo considerassi il papà dell’anno». «Ti ha mai fatto del male?». Una volta mi ha detto che non le aveva mai messo le mani addosso, ma chissà se è del tutto vero. «Non mi ha mai sfiorata. Io ero la sua
principessa». Sentendolo, mi concedo un gran sospiro di sollievo. «Però Jonas…». Resto in attesa, ma lei non continua. «Cosa c’è?». Per qualche ragione, sono nervoso. «C’è una cosa che non ti ho detto… una cosa che non ho mai detto a nessuno». Mi si rizzano i capelli sulla nuca. «Cosa ti ho raccontato di mio padre? Di quando ce ne siamo andate?». Ripenso al poco che mi ha detto. «Che tuo padre faceva del male a tua madre e che, quando avevi dieci anni, siete scappate».
«Sì, è vero». Si appoggia sui gomiti e mi guarda in faccia, con i capelli che le ricadono sulle spalle. «Ma c’è una cosa che ho tenuto segreta per tutta la vita. Non volevo tenerla segreta a te; è solo che l’ho tenuta segreta a tutti». Mi accarezza il viso. «Ma voglio che non ci siano più segreti tra noi, su nulla. Né grandi, né piccoli». Mi viene la pelle d’oca. Sta parlando dei miei o dei suoi segreti? Di colpo, il cuore mi balza in gola. Che Josh le abbia detto tutto su di me? È a questo che allude? «Quando ti ho detto che io e mia madre siamo “scappate” da mio padre, è vero. Lui la picchiava sempre». Fa una
pausa. «E poi c’è stata una sera orribile in cui l’ha pestata fino a farle perdere i sensi, fino a ridurla a un ammasso insanguinato», aggiunge. «Era messa così male che ho pensato fosse morta». Trattengo il fiato. Non so cosa stia per rivelarmi. «Quando ti ho detto che io e mia madre siamo “scappate” da mio padre, ho fatto in modo che sembrasse che lei mi aveva presa ed eravamo fuggite, come se finalmente avesse deciso di averne abbastanza e di andare via». Annuisco. È proprio come avevo immaginato. «È la storia che racconto anche a me stessa. È così che mi costringo a
ricordare. Ma non è così che è andata». Il sangue mi pulsa nelle orecchie. «La verità è che sono stata io». La guardo con aria interrogativa. «Quella sera lui l’ha gonfiata di botte, tanto che pensavo che fosse morta. E quando ho capito che era viva, mi sono sentita così sollevata che ho pensato: “Basta, che cavolo. Mai più. Non gli permetterò di ucciderla la prossima volta. Non permetterò che ci sia una prossima volta”». Sospira, ma le trema la voce. «Allora l’ho drogato e ho portato mia madre in un posto dove lui non ci avrebbe trovato. Lei era troppo debole per opporsi». Sono confuso… Ma non aveva dieci
anni? «Da settimane mettevo delle provviste in un capanno abbandonato a pochi isolati da casa, come se sognassi di scappare, anche se non avevo un piano preciso né niente. E poi c’è stata quella sera ed è cambiato tutto. Gli ho messo dei sonniferi nella birra e, quando è svenuto, ho trascinato mia madre fino al capanno. Siamo rimaste là per qualche giorno, senza mettere fuori il naso, intanto che lei recuperava le forze. E poi un giorno si è svegliata, mi ha guardata negli occhi e mi ha detto: “Basta. Da oggi rinasco”. Nient’altro. Aveva chiuso con lui». «E quanti anni avevi tu?»
«Dieci». Mi gira la testa. Sapevo che Sarah era una tosta di dimensioni epiche, ma questa è la prova che è nata così. Dio. «Per moltissimo tempo ho temuto di averlo ucciso per sbaglio, perché magari gli avevo dato troppi sonniferi, e continuavo ad avere degli incubi sulla polizia che si presentava alla nostra porta per arrestarmi. Quando alla fine mia madre ha chiesto il divorzio, ho capito che doveva essere ancora vivo, ma poi ho cominciato ad avere degli incubi orribili su di lui che veniva a cercarmi per vendicarsi». «Quando sono finiti gli incubi?» «Quando lui si è risposato e ha avuto
un figlio con la sua nuova moglie. Da allora non l’abbiamo più sentito». Sospira e si asciuga gli occhi. «E poco per volta ho cominciato a sentirmi al sicuro». «Wow, Sarah. È un grande stress per una bambina». Mi guarda, stupita. «Dice il ragazzo con gli occhi più tristi che io abbia mai visto». Mi accarezza la guancia. Arrossisco. Non volevo spostare l’attenzione su di me. Sospira di nuovo. «Non ho mai raccontato a nessuno di averlo drogato, nemmeno a mia madre. Lei era così fuori di sé che non mi ha mai chiesto i dettagli di quella sera. E dopo si vergognava
troppo per aver sopportato così tante stronzate per così tanto tempo che non ha mai più voluto parlare di lui né di quanto era successo. E quando ha cominciato ad aiutare altre donne e ad assisterle per uscire dalle brutte situazioni, non ho voluto rivelare la scandalosa verità per cui ad avere il coraggio di andarsene era stata la figlia di dieci anni, e non lei. Be’, solo all’inizio però, perché dopo mia madre ha avuto un sacco di coraggio». «Sei stata davvero forte, Sarah. Wow». «No». «Sì invece». «Sono stata determinata. Il coraggio
non è quando sai di fare una cosa che ti fa paura ma la fai comunque? Io pensavo piuttosto che niente potesse fermarmi. Non ho mai smesso di avere paura. Ho solo messo i paraocchi e ho fatto ciò che dovevo». Sorrido. «Penso di aver visto una o due volte quando inserisci la “modalità determinata”». Con un timido sorrisetto, si china e mi dà un bacio. «Non ho mai raccontato a nessuno questa storia». «Non hai nulla di cui vergognarti. Dovresti essere orgogliosa». «Non sono orgogliosa. Cioè, non mi dispiace di aver agito così. Se non l’avessi fatto, magari mia madre sarebbe
morta la volta dopo, ma questa storia dimostra che sono irrimediabilmente incasinata, no?». Sorride. «O almeno un tantino pazza». Sta cercando di farmi dire che anch’io sono un tantino pazzo? Forse Josh le ha raccontato tutto di me? È a questo che allude? «Mi ami ancora, anche se ho drogato mio padre e ho strappato mia madre dalle sue grinfie?». Mi sorride. Mi sforzo di sorridere anch’io, ma non ci riesco. D’un tratto, vengo invaso dal panico. Cosa sa? Sta cercando di dirmi qualcosa? Mi bacia. «Wow, mi sento così bene adesso che te l’ho detto». Mi accarezza
il petto nudo. «Mi sento incredibilmente vicina a te, Jonas». Preme le labbra sul mio collo e si struscia contro di me. «Non l’avevo mai raccontato a nessuno». Mi bacia la bocca, ovviamente eccitata. Ma io sono distratto. Ora che mi ha rivelato i suoi segreti, devo forse parlarle dei miei? Se non le dico tutto subito, in questo preciso istante, sarebbe come mentirle? Non è questo che mi ha appena detto implicitamente? Merda. Mi accarezza i bicipiti, mentre il suo corpo nudo è premuto contro il mio. Il mio uccello si risveglia subito. Se non confesso tutto adesso, non sarà come quando ho incontrato Stacy al Pine
Box senza dirglielo? Cos’aveva detto a riguardo? «I segreti creano delle lacune in una relazione, degli spazi bui. Quando una persona ha dei segreti, l’altra riempie quegli spazi bui con le proprie paure e insicurezze». Ha detto che il mio silenzio su Stacy aveva creato uno spazio buio tra noi, che le aveva dato un motivo per non fidarsi di me. Cazzo. Se adesso taccio sui miei segreti, creerò un nuovo spazio buio? Mi accarezza l’uccello, che ovviamente risponde come al solito da campione. Geme. «Ti amo», mi dice. Mi cinge con una coscia e si struscia contro di me.
Un uomo normale confesserebbe subito i propri segreti. È il momento di vuotare il sacco. Lei mi ha appena confidato il suo segreto più profondo e cupo e ha detto che ora si sente più vicina a me. Non ci sarà una seconda possibilità. Il cuore mi batte a mille. Non dirle niente sarebbe come mentirle? Sì. Forse non prima di oggi, ma qualcosa è cambiato. Lo sento. Devo ricambiare il suo gesto. Ecco di cosa ha bisogno, cosa si merita. E un uomo normale lo farebbe per la donna che ama. «Mi sento così vicina a te», mormora lei. «Ti voglio dentro». Mi bacia con avidità, ma io non
rispondo al bacio. Sono paralizzato dalla paura. Ho promesso di non mentirle. Ho promesso di dirle ogni cosa su tutto, a eccezione del Club. Ma questa storia non ha nulla a che fare con il Club. Merda. Mi afferra l’uccello e mi tira per i fianchi, invitandomi a scoparla. «Su, Jonas». «Sarah, aspetta». In un silenzio imbarazzato, lei mi guarda con gli occhi sgranati e mi lascia andare. «Devo dirti una cosa. Anzi, diverse cose. Cose su di me che devi sapere».
Capitolo trentuno
Sarah
Da un’ora ormai io e Jonas siamo seduti a letto in pigiama, a parlare del periodo successivo alla morte di sua madre. Ho paura di fargli troppe domande; quest’uomo mi sta aprendo il suo cuore come non ha mai fatto prima e non voglio spezzare l’incantesimo. Quando mi racconta della sua adorata Mariela, gli chiedo se l’abbia più cercata. Lui scuote la testa, triste. «Non ho mai nemmeno saputo il suo cognome.
Ero troppo piccolo. Per me lei era solo Mariela. La mia Mariela». Il dolore nella sua voce è inconfondibile. «Non mi ricordo nemmeno che faccia avesse. Solo i suoi occhi castani e la sua bellissima pelle scura». Sospira. «E quando mi cantava in spagnolo». Reprimo un sorrisetto. La prima donna che Jonas ha amato oltre alla madre è stata una sudamericana che parlava spagnolo, con gli occhi castani e una «bellissima pelle scura»? Ehm, salve. Quando mi spiega di non aver parlato per un anno intero dopo la morte della madre perché voleva che le ultime parole che avesse mai pronunciato fossero «Ti amo, mamma», il mio cuore
va in mille pezzi. Mi ci vuole tutto il mio autocontrollo per non scoppiare a piangere a dirotto nel momento in cui mi rendo conto che quest’uomo stupendo, sensibile e poetico ha deciso di pronunciare ancora quelle parole preziose per me. E poi, quando mi racconta della sua insegnante, la signorina Westbrook, e di come con gentilezza e ingegno l’ha indotto a interrompere quel doloroso silenzio, di come l’ha fatto sentire amato nel momento della sua infanzia in cui si sentiva più solo, di come ha accudito quel povero bambino afflitto che tanto desiderava anche una sola goccia di dolcezza, di come gli ha
affettuosamente dimostrato l’amore più puro che esista chiamando suo figlio come lui, per un attimo ho pensato che il mio cuore sarebbe esploso, schizzando questo poveretto con più sangue di quanto non abbia già sopportato. A quanto pare non sono l’unica donna a essersi innamorata perdutamente dell’innata dolcezza di Jonas. Prima di me, ci sono state sua madre, Mariela e la signorina Westbrook. «Oh, Jonas. Povero, dolce tesoro», dico, e faccio per abbracciarlo. Lui alza una mano. «No. Non ti ho ancora detto quello che devo». Sul viso ha una maschera di pura ansia. «Tutte le cose che ti ho raccontato finora
servivano solo per farti capire la situazione, il contesto di quello che sto per dirti». Torno a sedermi e chiudo la bocca. Cosa avrà mai bisogno di dirmi che lo rende tanto ansioso? Inspira a fondo e mi fissa con quel suo sguardo addolorato. «All’inizio, quando non parlavo, mio padre mi ha mandato via. In un ospedale. Cioè, un ospedale psichiatrico. Una “casa di cura per bambini”, la chiamavano». A sette anni? Subito dopo che quel poverino aveva perso la madre e pure la sua adorata tata? Mi sembra una cosa piuttosto crudele da fare a un bambino. «Ma io continuavo a non parlare. Non
facevo nulla di ciò che volevano i medici. Non volevo migliorare. Volevo solo morire per stare con mia madre. Quando alla fine mi hanno dimesso, anche se non parlavo ancora, ho pensato che mio padre avesse capito che gli mancavo troppo per farmi restare là. Solo in seguito ho scoperto che aveva ceduto e mi aveva riportato a casa perché Josh l’aveva supplicato e implorato e aveva pianto tanto». Sorride mesto. Continuo a dimenticarmi del povero Josh. Dio, non è stato facile nemmeno per lui. «E poi, negli anni successivi, ho sempre convissuto con la minaccia che,
in qualsiasi momento, mio padre potesse rispedirmi in quel posto. Se non parlavo. O se piangevo, che Dio ce ne scampi. O se semplicemente non ero “abbastanza uomo”, qualunque cosa volesse dire. Incombeva sempre su di me: se dicevo o facevo la cosa sbagliata, se ero la cosa sbagliata, se pensavo la cosa sbagliata, lui diceva che ero “pazzo” e che quei “dottori del cazzo dovevano farmi chiarire di nuovo le idee”. A volte però non riuscivo a trattenermi. Non riuscivo a seguire le sue regole. Magari per una settimana intera ero troppo triste per alzarmi dal letto. O magari un giorno in particolare
non mi importava abbastanza dell’opinione che lui aveva di me. A volte perdevo la testa e cominciavo a urlargli contro, e più diventavo grande più era un problema per lui. Comunque, per anni sono entrato e uscito da quel posto del cazzo. Entravo e uscivo, entravo e uscivo. Per lunghi periodi andavo a scuola, mi facevo persino uno o due amici e cominciavo a pensare di essere normale, dopotutto. E poi boom, per un motivo o per l’altro mi rispediva in ospedale. A mano a mano che crescevo, sono diventato sempre più arrabbiato per tutta quella storia e ho cominciato a pensare che avrei preferito morire piuttosto che tornarci ancora. E
poi, ero poco più che adolescente, ricordo di aver pensato: “Preferirei ucciderlo piuttosto che tornarci”». Deglutisce a fatica. Il mio cuore salta un battito. «Lui mi odiava». Si passa una mano tra i capelli. «Mi disprezzava apertamente». Ha gli occhi lucidi. «Per tutti quegli anni, eravamo solo mio padre, Josh e io a vivere in quella casa enorme, solo noi tre, e due persone su tre mi odiavano a morte». Sento gli occhi riempirmisi di lacrime. Da chi ha ricevuto almeno un poco di amore Jonas da ragazzo? Da Josh, certo, ma poi? Come cavolo ha fatto a mantenere tutta la bontà e la gentilezza
che vedo in lui? «E per tutto il tempo, giuro su Dio, il pazzo era mio padre, non io. Era lui che si sbronzava di brutto in continuazione, non io. Era lui che si scopava le prostitute e le portava a casa nostra e regalava alle sue “ragazze” Bentley, Bugatti, Porsche, elicotteri e gioielli, sperperando i suoi soldi». Scuote la testa. «Era lui che strillava sempre, non io». D’un tratto, il suo sguardo si illumina, come se gli si fosse accesa una lampadina in testa. «Mi dispiace di averti urlato contro dopo che ce ne siamo andati dal Club, Sarah». Si asciuga gli occhi. «Non avrei dovuto. Ero così terrorizzato all’idea di perderti
che mi sono sfogato con te». Scuote ancora la testa. «E la cosa non ha alcun senso». Si passa le mani sul viso. «Forse sono un matto del cazzo, non lo so». Striscio sul letto per raggiungerlo e lo abbraccio. «È tutto a posto. Capisco perché l’hai fatto». Sfrega il naso contro il mio collo. «Non ci sono scuse se ti urlo contro, mai. Tu sei la persona più gentile e educata che io abbia mai conosciuto. Non te lo meriti, soprattutto visto lo stronzo che hai avuto per padre. Ti prego, perdonami». «Certo che ti perdono». «Non pensare che io sia come tuo
padre, ti prego». All’idea, mi viene da ridere. Jonas è una bestia selvaggia in molti sensi: è fisicamente imponente, tempestoso e primitivo, e la sua presenza sessuale mi intimidisce e tortura più di quella di chiunque altro abbia mai conosciuto, ma nemmeno per un nanosecondo ho mai pensato che mi avrebbe torto anche un solo capello. «Capisco», gli dico. Lo bacio sulle labbra e vengo pervasa da un desiderio scandaloso. Oh, Signore, voglio fare l’amore con lui. Bacio ogni centimetro del suo viso e lui si scioglie sotto di me. Avverto una violenta pulsazione tra le gambe. In un attimo, mi viene una voglia
matta e Jonas è l’unico che possa soddisfarla. Premo il corpo contro il suo, affamata. Lui geme, con la stessa voglia che ho io. Mi accarezza la schiena e mi solleva la canottiera, ma poi si allontana di scatto e si tira i capelli. «Non ti ho ancora raccontato tutto», mi dice, con voce tesa. «Sarah, stammi a sentire. Se non ti dico tutto adesso, non ci riuscirò più». Serra la mascella. «Devo dirtelo». Nei suoi occhi leggo un dolore puro. Vorrei baciarlo per porre fine alla sua tortura. Vorrei sentirlo dentro di me, farlo stare bene e far sparire il suo dolore, godendo anch’io nel mentre. Invece annuisco e faccio un
respiro profondo. «Puoi dirmi tutto». Torno nel mio lato del letto e lo fisso, in attesa. Eccola di nuovo, sul suo viso: la paura. È serio? Questo ragazzo pensa davvero di poter dire qualcosa che mi faccia scappare a gambe levate? Pensa davvero che ci sia qualcosa a questo mondo che possa farmi smettere di amarlo? «Io e Josh li chiamiamo i “chiari di luna”», confessa con un gran sospiro, come se avesse appena pronunciato un’abominevole bestemmia. Aspetto che continui. «Avevo diciassette anni. Come al solito mio padre aveva i biglietti per la
partita dei Seahawks, ma ha detto che non si sentiva bene e quindi li ha dati a Josh. Lui aveva sempre mille amici che poteva invitare a una partita. E io sono rimasto del tutto scioccato quando papà mi ha chiesto di stare a casa con lui per guardarci la partita in TV. “Lasciamo andare Josh con i suoi amici”, ha detto. “Io e te staremo qui e faremo qualcosa di memorabile”». Scuote la testa, con un sorriso di scherno. «Cazzo, ero così stupido da eccitarmi davvero all’idea di stare a casa con lui. Ho pensato: “Wow, vuole passare del tempo con me, solo con me? Senza Josh?”. Gli ho risposto: “Wow, papà, sarà fantastico”. Ero così contento che mi girava la testa. Era
come se mi avesse proposto di ricominciare da capo». So cosa è successo dopo e gli occhi mi si riempiono di lacrime. «Ero in cucina a preparare degli hamburger di tacchino per la partita. Dio, ero così idiota che stavo decorando i piatti». Ride amaramente. «L’avevo visto fare in una trasmissione di cucina». Mi mordo il labbro. So che devo lasciarlo finire, ma non so se ce la faccio a stare a sentire quello che sta per dirmi. «Quando ho sentito lo sparo al piano di sopra, ho capito all’istante. Ricordo di aver abbassato gli occhi sui piatti che
stavo preparando per noi, che stavo decorando, e sono scoppiato a ridere. In quell’istante ho capito che mi aveva fregato». Si strofina gli occhi. «Avrei dovuto uscire dalla cucina e poi dalla porta d’ingresso, senza guardarmi alle spalle. Ma, proprio come voleva lui, non sono riuscito a fermare le mie gambe e ho fatto le scale». Guarda fuori dalla finestra della camera da letto. Stiamo parlando da così tanto tempo che il sole sta sorgendo sulla Strip. Jonas è più bello che mai, ma ha l’aria stanca. Esausta, persino. Si lecca le labbra, sensuali come sempre. Faccio del mio meglio per cercare qualcosa da dire, ma non trovo nulla.
Riesco solo a pensare a quant’è bello. E a quanto mi dispiace per tutto ciò che ha dovuto sopportare. «Mettiamo un po’ di musica?», mi chiede all’improvviso. «Vorrei sentire qualcosa per un minuto, per favore». «Certo. Cosa vuoi sentire?» «Qualsiasi cosa. Scegli tu». Però si affretta ad aggiungere: «Ma non cercare di rendere commovente questo momento con qualche stronzata del tipo Everybody Hurts». Scoppio a ridere. «Okay. Niente R.E.M.». «E, per l’amor del cielo, nemmeno Hurt dei Nine Inch Nails». «Se volessi rendere questo momento
commovente, metterei la versione di Johnny Cash allora». «Ah, sarebbe una tortura. È stupenda, cazzo». «Lo so. Mi fa piangere ogni volta». «Anche a me. La sua voce mi fa morire». «Oh, e anche Tears in Heaven», aggiungo. «Parlando di lacrime». «No, ti prego. Voglio solo un po’ di musica di sottofondo per rilassarmi». «Sì, sì, ho capito. Non preoccuparti, piccolo». Mi alzo e armeggio con il portatile. «Ecco Love Shack in arrivo».
Capitolo trentadue
Jonas
«Cos’è?», chiedo. «My Favourite Book», risponde lei. «Chi la canta?» «Gli Stars. Sono un gruppo indie pop canadese». «Dove diavolo la trovi questa roba?». Si stringe nelle spalle. «Non lo so. Sta’ zitto e ascolta». Chiudo gli occhi e mi lascio invadere dalla musica. È una canzone d’amore semplice, disinvolta. Rassicurante. Sexy.
Allegra. Proprio come Sarah. «È bella», commento. Questa canzone mi rilassa e i miei pensieri caotici cominciano a riordinarsi e organizzarsi. «Grazie». Dall’altra parte del letto, Sarah mi guarda sbattendo piano le palpebre, come per accarezzarmi le guance con le ciglia innaturalmente lunghe. Dio, quanto è bella. Sento una scarica di ansia nelle vene. E se, una volta venuta a sapere dei chiari di luna, per lei cambiasse tutto? Mi conforto scrutando i suoi occhi scuri e caldi. Nessuno mi ha mai guardato come fa lei. I suoi occhi mi spingono a gettare al vento ogni cautela e a rivelarle i miei segreti.
«Okay», dico sottovoce, preparandomi a quello che sto per fare. «I chiari di luna». Lei annuisce, pronta ad ascoltarmi. Cazzo, ci siamo. Sospiro. «Sono entrato nel suo studio. Pareva che avesse infilato la testa in un frullatore gigante senza coperchio». Fa una smorfia, ma io non provo nulla. È come se le stessi dando delle indicazioni per raggiungere l’ufficio postale. “Gira a sinistra sulla Cinquantasettesima e poi a destra sulla Diciassettesima Avenue in direzione nordest e te lo ritrovi sulla destra”. «Aveva appeso il suo vestito da sposa su un attaccapanni accanto alla
scrivania», proseguo. «Le foto del loro matrimonio erano ovunque. Il suo sangue e il suo cervello dappertutto». Mi schiarisco la voce. Merda. Non riesco a credere che le sto dicendo tutto. «Solo dopo ho scoperto che quel giorno sarebbe stato il loro ventesimo anniversario di matrimonio». Si morde il labbro, in attesa del seguito. «Sulla scrivania c’era una busta con il mio nome. Sapevo che aprendola avrei detto addio alla mia salute mentale, ma non sono riuscito a fermarmi. Dovevo sapere, anche se sapevo già». Sospiro. «Non si può sfuggire per sempre alla propria pazzia, e io ero stufo marcio di
scappare». Sarah aggrotta la fronte con fare comprensivo, ma non dice nulla. «“Tutto quello che tocchi diventa sangue”. Ecco cosa diceva il biglietto». Scoppio in una risata amara. «Nient’altro. Solo un ultimo, semplice vaffanculo. Nessuna scusa. Nessun ultimo consiglio paterno né parole di rimpianto, orgoglio o amore». All’ultima parola, mi sfugge un sorriso denigratorio. «Nemmeno un addio al povero Josh. Ed è proprio questa la cosa più imperdonabile, quello che ha fatto a lui… mandarlo a divertirsi alla partita mentre un altro genitore restava a casa a morire».
Le sfugge un debole gemito. Prima di continuare, faccio una pausa per ricompormi, ma non perché ciò che è successo dopo mi faccia venire voglia di piangere. Anzi. Ancora oggi, mi fa venire voglia di ridere come un matto. «Lui aveva una collezione incredibile di macchine», dico. «Una McLaren, una Lamborghini, una Bugatti d’epoca, diverse Porsche, due Bentley e persino una Lotus. Ragazzi, quanto le adorava». Scuoto la testa. «Ho preso due taniche di benzina dal capanno e le ho rovesciate su tutte quelle auto, tranne sulla sua preferita, il suo bene più prezioso: una vecchia Porsche 959 color argento». Sbircio di soppiatto Sarah. Ha
un’espressione neutrale, ma le brillano gli occhi. Cazzo, forse me lo sto immaginando, ma sembra quasi che stia trattenendo un sorriso. «Sono sfrecciato via sulla Porsche, che ovviamente lui non mi permetteva mai di toccare. Fu una sensazione piuttosto gratificante. E nello specchietto retrovisore vedevo benissimo il falò delle sue macchine. È stato speciale». Annuisce. Dal suo linguaggio del corpo pare aperta, rilassata, affascinata. Persino divertita forse? Di certo non è sconvolta. Finora, tutto bene. Mandar giù la prossima parte non sarà altrettanto semplice però. «All’inizio ridevo, ma poi riuscivo a
malapena a guidare tra le lacrime. Ero ridotto male, avevo del tutto perso la testa. Ho urtato delle auto parcheggiate, sono salito sul marciapiede, sono andato a centosessanta all’ora in autostrada… ero completamente impazzito. È un vero e proprio miracolo che non abbia ucciso nessuno. Ancora oggi, il pensiero di cosa sarebbe potuto succedere quel giorno se avessi fatto del male o ucciso qualcuno mi tortura. E se avessi ucciso una madre? Non sarei stato migliore dello stronzo che aveva ammazzato la mia». Sarah mi guarda con aria comprensiva, ma resta in silenzio. «Quando ho imboccato l’autostrada,
un’auto della polizia ha cominciato a inseguirmi e io ho pensato: “Ah, sì? Provate a prendermi, figli di puttana!”. Avevo perso il controllo e ridevo come un matto. I poliziotti dovevano aver pensato che fossi fatto di LSD o qualcosa di simile, giuro su Dio. Sembrava uno di quegli inseguimenti che si vedono in TV. E poi è arrivata un’altra auto e un’altra ancora e alla fine avevo un piccolo esercito attaccato al culo. E ricordo che ho cominciato a pensare, a ripetizione: “Uccidetemi, uccidetemi, uccidetemi, uccidetemi, uccidetemi, uccidetemi, uccidetemi”». Mi passo una mano sul viso. «Volevo solo che qualcuno mettesse fine alla mia vita infelice del
cazzo una volta per tutte». Si morde il labbro. Se prima avevo visto un accenno di sorriso, ormai è sparito. «E poi ho pensato a Josh e mi sono messo a frignare come un bambino all’idea di quello che gli stavo facendo nello stesso giorno in cui nostro padre si era fatto saltare il cervello. Dio, era così crudele da parte mia, ma non mi importava. Pensavo solo a mettere fine alla mia tortura e non al tormento che avrei inflitto a mio fratello. Stento ancora a crederlo, ma ero pronto a mandare a puttane la sua vita solo per stare meglio». Faccio una smorfia con le labbra, combattendo un nodo alla gola.
«Probabilmente mi ero convinto di fargli un favore, liberandolo, finalmente». «Oh, Jonas». Cazzo, sembra proprio che mi capisca. Ma ciò che le leggo in viso è comprensione o pietà? Forse ai suoi occhi non sono più il ragazzo che ama e rispetta ma un caso pietoso? «E cos’è successo dopo?», mi chiede. «Visto che sei seduto qui, immagino che il suicidio assistito dalla polizia non sia andato a buon fine». «Non perché non ci abbia provato. Hai presente il Montlake Bridge?» «Certo. Quello vicino al campus». «Mi sono diretto a tutta velocità verso quel ponte con le auto della polizia alle
calcagna. Mi sentivo come O.J. Simpson sulla sua Bronco, e ridevo e piangevo e non capivo più niente. Ero un pazzo totale. Era così strano che mi pareva un’esperienza extracorporea. E poi il ponte ha cominciato a sollevarsi per far passare una chiatta nel canale e i poliziotti mi hanno circondato, hanno estratto le pistole e io… io non ci ho nemmeno pensato. Ho accelerato». Spalanca gli occhi. «Oddio». «Già». «Ti sei buttato giù da quel cavolo di ponte con quella costosa Porsche?» «Sì». Mimo con la mano la traiettoria della macchina che precipita. «Crash». Fa una smorfia. «Oddio, Jonas. Come
fai a essere ancora vivo?» «A quanto pare, quel ponte è il peggiore di tutta Seattle per suicidarsi. Non è abbastanza alto. E sono finito in acqua con la macchina». Mi fermo, sforzandomi di ricordare la caduta libera, ma non ci riesco. «Comunque ormai non ero più in me. Ero uscito dal mio corpo, per così dire. Un po’ come quando gli ubriachi sopravvivono sempre quando fanno un frontale». «Oh», dice lei in tono piatto, come se le avessi appena raccontato un’affascinante inezia sul quoziente intellettivo medio di una tartaruga. Non è la reazione che mi aspettavo. Pensavo che avremmo pianto tutti e due.
Mi immaginavo mentre cercavo disperatamente di convincerla che ora sto bene, che sono un bestione, lo stesso Jonas che lei conosce e di cui si è innamorata. Ma lei non sta per piangere, non come prima, quando le ho raccontato di Mariela e della signorina Westbrook. Non sembra neanche lontanamente tentata di voltarmi le spalle. È strano, ma sembra affascinata, e comprensiva, ma non particolarmente commossa. «Quindi, bla, bla, bla», proseguo, «non sono morto. Nemmeno quello sono riuscito a fare. Anzi, con gran sorpresa di tutti, ne sono uscito quasi illeso. Avevo solo un paio di costole rotte e una
commozione cerebrale. Quando mi hanno tirato fuori dai rottami della macchina, ero così poco collaborativo, così fuori di me, così violento, che mi hanno messo in una specie di riformatorio psichiatrico, guardato a vista, perché temevano che tentassi il suicidio. Non so quanto ci sono rimasto. Forse una settimana, forse un mese. Non lo so proprio. Ricordo solo che ero legato come King Kong e che mi dibattevo». «Come hai fatto a uscire?» «Ci hanno pensato gli avvocati dello zio William. Me la sono cavata con la libertà vigilata, una multa e il ricovero forzato in un ospedale psichiatrico fino
ai diciotto anni. Grazie al suicidio di mio padre quello stesso giorno e alla mia storia clinica, mi hanno riconosciuto delle “circostanze attenuanti”». Sarah mi guarda con attenzione e mi scruta in viso. In questo momento, la sua espressione è del tutto indecifrabile. Faccio una pausa. Mi sembra sempre che stia per dire qualcosa, ma lei resta in silenzio. «È tutto?», mi chiede infine, scura in viso. Annuisco, spaventato a morte per ciò che dirà. Sta per lasciarmi? Per dirmi che non mi rispetta più? Che non sono l’uomo che pensava? «Sì». Deglutisco a fatica.
«È questo a cui ti riferisci con i “chiari di luna”?». Annuisco ancora. Riesco a malapena a respirare. Lei sospira forte e sorride. «È questa la grande rivelazione? L’orribile e oscuro segreto che dovrebbe farmi scappare via gridando senza più tornare indietro?». Non capisco il suo sorriso. Sta ridendo di me? «Be’, sì». «Hai dato fuoco alla collezione di auto costose di tuo padre, ti sei fatto un giro sulla sua amata Porsche che non ti faceva toccare e poi l’hai buttata giù da un ponte nel disperato tentativo di
mettere fine al dolore che da dieci anni ti tormentava senza tregua?». Cazzo. Questa sì che è una semplificazione drastica. «Più o meno la storia si può riassumere così, no?» «Be’, sì. Ma, Sarah, forse non capisci. Ho avuto una specie di episodio psicotico per cui mi hanno internato in manicomio. Non è mica una cosa da niente». Lei scuote la testa come per rimproverarsi, striscia verso di me e mi prende il viso tra le mani. «Mi dispiace di averti legato, Jonas. Non avevo idea…». «Come avresti potuto? Qualsiasi
ragazzo normale avrebbe ringraziato la sua buona stella per essere legato da questa sexy piccolina». Mi stringo nelle spalle come per scusarmi. «Mi dispiace di non essere un ragazzo normale». Mi bacia. Restiamo in silenzio per un minuto. Ho lo stomaco sottosopra. Sono spaventatissimo per ciò che mi dirà, ma aspetto. Sarah sembra immersa nei suoi pensieri. Vorrei perorare la mia causa, dirle che sto meglio adesso, che può fidarsi di me, che non ho alcun grosso problema da quando avevo diciassette anni – a meno che non si consideri iscriversi al Club
per un anno come un grosso problema – che la amo e non le farei mai del male. Però non dico niente. I miei pensieri sono un turbine fuori controllo. Mi lascerà? Questo cambia tutto? Mi ama ancora? «Pensavo stessi per dirmi che avevi preso a pugni una suora o buttato un cagnolino giù da una scogliera. Cavoli, che sollievo». Sollievo? Non riesco a credere alle mie orecchie. Forse non ha capito tutto quello che le ho appena raccontato. «Sarah, mi hai sentito? Sono andato a sbattere contro le auto parcheggiate, ho guidato sul marciapiede. Avrei benissimo potuto uccidere un bambino,
una madre, una dolce vecchietta… e poi mi sono buttato apposta con la macchina giù da un ponte del cazzo, ridendo come un matto per tutto il tempo. Hai sentito? Sono arrivato a tanto così dall’uccidere un bambino innocente che poteva mangiare un cono gelato sul marciapiede». «Ma non l’hai fatto». «Solo perché sono stato fortunato». «Ah! È la prima volta che dici di essere fortunato». Mi fa un gran sorriso. «Hai visto cosa è appena successo? La vita è solo la storia che ti racconti nella tua testa. Quindi, invece di ripeterti in un continuo circolo controproducente la storia di Jonas che è finito in manicomio
ed è responsabile di ogni cavolo di cosa mai successa a tutta la sua famiglia, passa alla storia di Jonas che un giorno davvero di merda è stato supermegafortunato». Resto a bocca aperta. Perché fa la difficile? Questa storia è orribile. Perché non ci arriva? «Sarah, non credo che tu capisca. Ho cercato di uccidermi poche ore dopo che mio padre si è suicidato, e al diavolo Josh. Come ho potuto pensare di fargli una cosa del genere? Sono stato crudele. Egoista. Spregevole». «Secondo me tutto ciò che hai fatto era perfettamente comprensibile. Triste. Deplorevole. Straziante. Oltraggioso. Sì,
piuttosto pazzo. Ma totalmente e completamente comprensibile». Sono sbalordito. Scuoto la testa. «No, Sarah. Ti stai spingendo troppo in là con questo atteggiamento da ragazza comprensiva». Non capisce. Io sono guasto. Inutile. «Ecco una cosa che ancora non sai: mi hanno detto che ho dato un pugno al primo uomo che ha cercato di tirarmi fuori dalla Porsche in acqua. Alla faccia del pezzo di merda». «Be’, dopo tutto quello che mi hai detto, questa è proprio l’ultima goccia. Scusa, tesoro, me ne vado». Sorride. «Come fai a essere così allegra a riguardo?» «Non sono allegra». Sospira,
ovviamente frustrata. «Non è la parola giusta». Mi guarda strizzando gli occhi e io faccio altrettanto. Perché non capisce? Sono difettoso. Orribile. Inutile. Non capisce in cosa si caccia se resta con me? Non sono normale. A un certo punto, manderò tutto a puttane. “Tutto quello che tocco diventa sangue”. «Sei felice?», mi chiede. Mi blocco. È una domanda trabocchetto? «Voglio dire, sei felice con me?» «Oh». Be’, è facile. «Sì, certo. Sono più felice con te che in tutta la mia vita». Anzi, felice non è la parola giusta per descrivere come mi sento con lei. «Sono più che felice», proseguo. «Sono
follemente felice. È come se avessi una grave malattia mentale o qualcosa del genere». Le rivolgo un timido sorriso. Sorride anche lei. «Lo stesso vale per me. E sai cosa? È follia». Arriccia le labbra per reprimere un sorrisetto. «Dunque, visto il mio attuale stato di follia, perché cavolo dovrei andare a cercarmi di proposito una pila fumante di infelicità, soprattutto per dei fatti di tredici anni fa? Perché non continuare a essere felice?». Sono esterrefatto. Non so cosa rispondere. «Mmm?». Questa donna ha ragione. «E, cosa più importante, perché tu non
dovresti voler essere follemente felice? Non preferiresti goderti la tua felicità e basta?». Mi trema il labbro inferiore e lo mordo per fermarlo. Lei mi prende il viso tra le mani. Dio, adoro quando lo fa. «Prevedi di cercare di ucciderti di nuovo in un prossimo futuro, amore?». Scuoto la testa. «No. Mai». «Okay, allora. Bene». Abbassa le mani. Aspetto, ma lei non aggiunge altro. Sono confuso però. Cosa vuol dire «bene»? È tutto quello che mi dirà? «Quindi è tutto qui?», le chiedo. «Bene?».
Sospira. «Sì. Bene». Sono incredulo. Lei si china verso di me e mi dà un bacio. «Jonas, fallire non è cadere, ma non rialzarsi. E tu ti sei rialzato come nessun altro che abbia mai conosciuto. Sono fiera di te. Io vedo i tuoi trionfi, non i tuoi fallimenti. Vedo la tua bontà. E la dolcezza. E la generosità di spirito. La gentilezza che risplende dentro di te. E, per tutte queste cose, ti amo. Proprio come ti amava Mariela. Come la signorina Westbrook. Come tua madre». A queste ultime parole gli occhi mi si riempiono di lacrime e allora li chiudo. Sono sbalordito. È davvero tutto qui? Vuole descrivermi in termini tanto
poetici? Tanto belli? Vuole farmi passare per un cazzo di eroe? «Ho una domanda, però». Ah, eccoci. Annuisco e mi faccio forza. «Come hai fatto a passare dal Jonas malato di mente che si butta giù da un ponte all’aitante bestione sexy che spacca? Come hai fatto a cambiare da così a così? Sono affascinata». Merda. Mi mordo la parte interna della guancia, cercando di capire se dirglielo o evitare del tutto l’argomento. Lei mi guarda con occhi pazienti. Caldi. Curiosi. «Lo vuoi sapere davvero?» «Sì».
Questa parte non mi piace. Non ne ho mai parlato con nessuno, nemmeno con Josh. Lui sa solo che sono stato sottoposto ad alcuni “trattamenti”. Non gli ho mai detto cosa ha fatto un’enorme differenza per me alla fine. Faccio una pausa. «C’è stato un punto di svolta?», mi chiede. «Hai avuto una sorta di epifania? Qualcosa di specifico che ti ha aiutato a ribaltare la situazione?». Diamine, la mia piccola è proprio insistente. Annuisco. «Be’, cos’è stato?». Faccio una smorfia con le labbra. «Dai, Jonas. Puoi dirmi tutto». Sospiro.
«Su, tesoro. Fidati di me».
Capitolo trentatré
Jonas
Il sangue mi pulsa nelle orecchie. Merda. Non voglio parlargliene. So che sembra brutto. Conosco lo stigma che accompagna l’argomento. Ma le ho rivelato tutto il resto, no? Non posso fermarmi adesso. Cazzo. «Mi hanno fatto un sacco di TEC», dico sottovoce. «Sai di cosa si tratta?». Lei scuote la testa. «L’elettroshock». Si blocca. «Vuoi dire che ti hanno dato
delle scariche elettriche al cervello?». Annuisco. «Wow. Mi sembra una cosa da barbari». «No, non è stato come pensi. Non è come in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Prima ti sedano. Io non me lo ricordo nemmeno. Però mi ha aiutato». «E te l’hanno fatto quando avevi diciassette anni?» «Sì. Si tenta dopo aver provato tutto il resto, credo». «E ti ha aiutato?» «Moltissimo. Non so perché, ma ha funzionato. E poi c’è un altro pezzo del puzzle. Una cosa che mi ha cambiato la vita e che mi è capitata subito dopo la
fine delle cure». È del tutto affascinata. «Per il mio diciottesimo compleanno, Josh mi ha mandato Repubblica di Platone. Sul biglietto aveva scritto: “Mi hanno costretto a leggere questo strumento di tortura per il corso di filosofia. Preferirei strapparmi le unghie con una pinza arrugginita piuttosto che rileggerlo. Lo adorerai, fratello. Divertiti”. E aveva ragione. Mi è piaciuto tantissimo. Mi ha introdotto alla filosofia e mi ha spinto a leggere di tutto: Locke, Cartesio, Aristotele, Eraclito, Nietzsche, Sen, Camus, Santayana, chiunque. Ma, alla fine, sono sempre tornato a Platone. È stato il
capostipite del pensiero moderno e mi ha dato l’ispirazione per visualizzare il divino originario e conquistare me stesso. “Per un uomo conquistare se stesso è la prima e più nobile di tutte le vittorie”». Sospiro. «Sei sicura di voler sentire il resto?» «Sei pazzo?». Scoppia a ridere. «Certo che voglio sentirlo. Pendo dalle tue labbra». Faccio una pausa. «Su, Jonas. Continua. Adoro sentire questa storia». Sospiro. «Avevo finito le cure. Tutte le accuse contro di me erano state cancellate dalla mia fedina penale perché all’epoca ero minorenne. Josh
studiava alla UCLA e lo zio William era occupato a tenere a galla l’azienda dopo la morte di mio padre. Allora mi sono detto: “Ma sì cazzo, Platone, facciamolo”. Zaino in spalla, sono andato sulle tracce di Platone in Grecia – dove mi sono fatto i tatuaggi, per inciso – e da lì ho viaggiato in tutta Europa, dove cazzo volevo, da solo. Ho fatto arrampicate, escursioni, esplorazioni, di tutto. Ho ascoltato musica e letto libri e ho risolto diverse questioni di merda». «Su, Jonas… Tutto qui? Arrampicate, escursioni e letture? Sono sicura che avrai fatto anche qualcos’altro». Mi fa un sorrisetto. «Scommetto che le
universitarie arrapate in giro per l’Europa sono impazzite per il diciottenne Jonas Faraday, dal sorriso timido e gli occhi tristi». Lasciamo fare a Sarah. Non le sfugge niente. Sì, ha ragione, avevo tralasciato questa particolare attività. Durante quel viaggio, ho cominciato a capire che le donne erano attratte più da me che dagli altri ragazzi in giro o nei bar. Quando non rovinavo tutto diventando Jonas il Pauroso, l’Eccessivo, l’Asociale, il Filosofo, lo Stronzo o, che Dio ce ne scampi, Jonas dallo Sguardo Folle, in effetti le ragazze erano piuttosto interessate a me. Anche se evitare di essere uno dei suddetti Jonas
risucchiava quasi tutte le mie energie. E in quei rari e bellissimi giorni in cui Jonas l’Affascinante, o perlomeno il Timido o l’Imbranato, decideva di farsi vedere, non me le lasciavo di certo sfuggire. In quelle occasioni, per quanto rare, trovare una ragazza era come pescare in un barile: potevo scegliere qualsiasi giovane donna nel giro degli ostelli della gioventù. «Sì», dico, arrossendo. «Durante quel viaggio ho capito quanto mi piaccia il sesso. In effetti, è stato allora che ho perso la verginità». Non riesco a trattenere un gran sorriso. A essere sinceri, in realtà il sesso con quella bella svedesina non era stato un granché,
ma un uomo non si scorda mai quando finalmente usa per la prima volta il proprio uccello secondo natura. «Urrà per il Jonas diciottenne! Vorrei lanciargli dei coriandoli. Quel poveretto si meritava un po’ di divertimento spensierato, non pensi?» «Sì. E si è divertito. Eccome». Scoppia a ridere. Perché ero tanto nervoso all’idea di raccontarle tutto? È così facile parlare con lei, che non giudica mai. Questa donna è gentile, punto. Perché non mi fidavo? «Il giovane Jonas ha scoperto una cosa interessante, però: la maggior parte delle ragazze non ama i tipi ombrosi ed
emotivi». «Sul serio?». È sbalordita. «Aspetta un attimo. Sei sicuro?» «È così. Scappano a gambe levate, agitando le braccia». Scoppia a ridere di nuovo. «Be’, quelle ragazze erano tutte idiote, perché io so che proprio i ragazzi ombrosi ed emotivi sono gli amanti migliori». Mi fa l’occhiolino. È come se mi avessero tolto un peso enorme dalle spalle. «Be’, non necessariamente. All’epoca non pensavo ancora alla sessocellenza. Per nulla». Rido ancora. «Ero più un cane agitato con un osso». «Be’, dopotutto eri solo un cucciolo».
«Sì, un cucciolo con un’erezione da pazzi». Sarah ride. «Un’erezione da pazzi, delle zampe enormi e una gran coda che rovesciava i drink sui tavolini». «Sei sicuro che fosse colpa della coda, ragazzone?». Rido anch’io. Dio, quanto la amo. «Okay. A diciott’anni non eri ancora un mago delle donne». «Per niente. Probabilmente pensavo che l’orgasmo femminile fosse un mito messo in giro dall’industria del porno». Mi rivolge un largo sorriso. «Josh invece era fantastico con le ragazze. O almeno in confronto a me. In
estate, una volta finiti i corsi, mi ha raggiunto in Thailandia per scalare il Crazy Horse – che è davvero fantastico, cazzo, e non vedo l’ora di portartici – e poi abbiamo viaggiato insieme per una decina di settimane, abbiamo fatto arrampicate ed escursioni e ci siamo divertiti e… lo sai». Le faccio un gran sorriso. «Siamo andati a pesca». Capisce subito a quale tipo di pesca mi riferisco. «Quindi è stato Josh a insegnarti a rimorchiare?». Rido di cuore. «È stato il mio ObiWan Kenobi. Prima che arrivasse lui, l’unica strategia che avevo trovato per prendere dei pesci era starmene seduto in barca tutto solo, senza alcun attrezzo,
sforzandomi di non passare per un serial killer e pregando che un bel pesce saltasse fuori per caso dall’acqua e mi atterrasse in grembo». Scoppia a ridere. «Oh, Jonas». «E a volte succedeva, per mia fortuna. Ma Josh? Lui aveva un gran talento. Faceva una cosa rivoluzionaria: attirava i pesci alla sua barca con una canna e un’esca». Si illumina in viso. «E qual era la sua esca?» «Senti qua: parlava con i pesci. Mica male, eh?». Ride ancora. «Cosa? È pazzesco. Dovrebbe scrivere un libro». «Oh, e mi ha anche insegnato la
semplice arte di offrire da bere a una ragazza. Sai, fare il gentiluomo. Mostrarmi attento. Sorridente. Roba da pazzi». «Era un aspirante mago delle donne, a quanto pare». Rido. «Davvero». Sono stupefatto. Nemmeno in un milione di anni avrei mai immaginato che io e Sarah avremmo riso parlando dei chiari di luna. Pensavo che avremmo pianto, o che io mi sarei scusato, che l’avrei implorata e rassicurata. Ma riso? Mai. «Avresti dovuto vedere Josh in azione. Era Mister Ci-So-Fare, o almeno così pareva al Jonas diciottenne. Mi diceva
sempre: “Jonas, chiudi quella cazzo di bocca e fa’ il simpatico, okay? Tu devi essere la ragnatela coperta di rugiada che attrae le ragazze. Devi luccicare. E io sarò il ragno che aspetta e gli stacca le gambe prima ancora che capiscano cosa le ha attaccate”». Sarah scoppia a ridere per l’ennesima volta e mi unisco a lei. «Dunque, per rispondere alla tua domanda iniziale, è stato allora che le cose hanno cominciato a girare per me, quando Josh mi ha trascinato in giro in cerca di montagne da scalare e belle ragazze da montare. È stato allora che ho cominciato a intravedere per la prima volta in vita mia la forma divina
originaria di Jonas Faraday, anche se all’epoca era solo fioca e annebbiata». «Dove siete andati oltre alla Thailandia?» «Be’, io avevo già visto quasi tutta l’Europa da solo, quindi con Josh siamo stati in Asia, Australia, Nuova Zelanda e, mentre rientravamo, in America centrale. In effetti, durante quel viaggio sono stato per la prima volta in Belize». Solo sentendo nominare quel Paese, Sarah si illumina. «Il Belize», ripete, con un sospiro sognante. D’un tratto mi rendo conto con una certa brutalità di quanto si sia trasformata la mia bruchetta da quando ci siamo stretti nel nostro bozzolo per
due in Belize. Allora pensavo di amarla ed era vero, a modo mio, ma il mio amore era solo una pozzanghera rispetto all’oceano sconfinato che ora provo per lei. «Piccola mia, il Belize è stato solo l’inizio. Ti farò vedere il mondo intero». Scoppia di eccitazione. «Andremo ovunque tu voglia andare. Basta che lo dica». Le scappa un gridolino. «Oh, Jonas. Grazie». Dio, quanto la amo. Perché avevo tanta paura di raccontarle queste cose? La nostra conversazione è così giusta. Questa donna mi ama. Ho la pelle elettrizzata. Mi ama.
«Allora, cos’è successo quando sei tornato a casa?». Mi gira la testa e non riesco a concentrarmi. Lei mi ama, nonostante tutto… o forse proprio a causa di tutto. Ormai me l’ha detto tante volte, ma questa è la prima che le credo. Mi ama. Ogni parte di me. Il vero me. Non il finto me. Non una ridicola immagine di me. Me. Nel bene e nel male. «Jonas, cos’è successo quando sei tornato a casa?» «Ehm». Le sorrido. Diamine, è bellissima. Inarca un sopracciglio. «Stai bene?» «Sì, benissimo, piccola. Mai stato meglio. Be’, Josh è tornato alla UCLA
per frequentare il secondo anno, mentre io sono andato alla Gonzaga e poi a Berkeley per l’MBA e, una volta laureati tutti e due, io sono subentrato alla Faraday & Figli a Seattle, Josh ha aperto la filiale di Los Angeles e lo zio William si è trasferito a New York per aprirne una anche là. Ed è stato allora che la compagnia è decollata come un missile, oltre ogni nostra aspettativa». Faccio una pausa. Non mi viene in mente nient’altro da aggiungere. «E adesso sono qui con te a Las Vegas e sono del tutto normale in ogni modo immaginabile e ho voglia di stare dentro di te più ancora che di respirare. Fine». Sarah sorride ma non dice nulla,
sembra in attesa che io continui. «Fine», ripeto, alzando le mani come a dire ta-da. «Olé». Scoppia a ridere. La luce del sole che filtra dalla finestra le illumina il viso. È bellissima. Assonnata, sì, ma bellissima. Guardo la Strip sotto di noi e sospiro. Odio questo posto infernale. Mi manca Seattle. Mi manca la pioggia. Mi mancano le mie lenzuola bianche inamidate e la mia palestra e la macchina per fare l’espresso. Voglio tornare a casa e mettermi al lavoro per rendere Scala e Conquista come me la immagino. E soprattutto, più di ogni altra cosa, voglio cominciare la mia vita con Sarah.
«L’alba di un nuovo giorno», commenta lei, seguendo il mio sguardo fuori dalla finestra. «Che le tenebre scompaiano». Striscia sul letto e mi cinge con tutto il corpo. «So quanto ami le metafore, tesoro, quindi che questa bella alba ti sia d’ispirazione. Che da questo giorno la tua vita si riempia di luce, fin nelle nicchie e nelle fessure che finora hai tenuto avvolte nelle tenebre». Parla la mia lingua. «Sei una poetessa», le dico. «Solo con te». «Come mai tutto quello che ti ho detto non ti turba?». Si stringe nelle spalle. «Non so». «Sul serio però», le dico, rosso in
viso. «Se vuoi dirmi qualcosa, qualsiasi cosa tu stia pensando, dimmelo adesso. Ti prego. Strappa pure via il cerotto. Posso farcela». Sarah scuote la testa. «Su, Jonas. È stato tredici anni fa. Prenditi una pausa, che cavolo. E dammi un po’ di fiducia». «Non hai paura che io sia un pazzo totale?» «Lo sapevo già che sei un pazzo totale». Aspetto che sorrida, ma non lo fa. «Jonas, fin dal primo minuto, fin dall’istante in cui ho letto la tua domanda di ammissione, ho capito che eri un po’ matto. Ma la tua pazzia mi piace, tesoro. Ti rende sexy».
Sono del tutto senza parole. «Ciò che è successo allora non ti definisce. Ti ha forgiato? Certo. Ma è tutto qui. A prescindere da quello che è accaduto, tu sei il mio dolce Jonas. Sei il Jonas che ha parlato al mio corso di diritto dei contratti: brillante, affascinante, intelligente e carismatico. Sei il Jonas che mi ha preso quando mi sono lanciata giù da una cascata alta dieci metri. Sei il Jonas che con aria timida, dolce e goffa mi ha messo al polso un braccialetto dell’amicizia. Il ragazzo che mi ha mandato degli Oreo per darmi il benvenuto nel Jonas Faraday Club. La forma divina originaria di uomo che mi fa venire ogni
singola volta che mi tocca, anche nei miei sogni». A quest’ultima immagine, il mio uccello freme. Mi bacia. «Tesoro, sei il Jonas che ha scatenato Orgasma la supereroina». Mi mordicchia le labbra e si mette a cavalcioni su di me. «Sei l’uomo che mi ha salvato la vita, che mi ha dato tutto ciò di cui avevo bisogno per salvarmi e che mi ha letteralmente impedito di morire dissanguata con le proprie mani». Passa le labbra sulle mie. «E sei l’uomo che spaccherà con me». Mi lecca le labbra. «Devi strangolare un gattino o prendere a calci sui denti una scout per farmi scappare da questo ragazzo».
Ho un sorriso tanto grande in viso che non riesco nemmeno a baciarla. «È stato tredici anni fa, che cavolo, amore. È ora di piantarla. No más. De hoy en adelante, renaces». Diamine. Il mio spagnolo è piuttosto buono, ma non perfetto. Penso di aver capito, ma non ne sono sicuro. «Basta», traduce, leggendomi nella mente. «Da oggi rinasci». Si struscia contro il mio uccello duro. «Renaces, rinasci. Renazco, rinasco». Mi bacia sul collo. Rabbrividisco. Adoro quando mi parla in spagnolo, soprattutto quando mi dice una cosa tanto tosta. «Renazco», ripeto. Mi bacia sulla guancia. «No más. De
hoy en adelante, renazco». «No más. De hoy en adelante, renazco», ripeto in tono goffo, rispetto a quello bellissimo in cui lo dice lei. «Giusto. Giustissimo. Rinasci, tesoro. Da oggi». Le tiro la canottiera e lei se la toglie, e anche i pantaloni del pigiama. La imito e mi libero dei boxer e poi, con il cuore a mille, mi metto sopra di lei. Mi prende il viso tra le mani. «Non ci sono più spazi bui tra noi, Jonas, niente più segreti. Senti la differenza?». Annuisco. Certo che la sento. Dio, ho una voglia matta di stare dentro di lei. Mi bacia. «È così che ci si sente quando ci si fida completamente di una
persona. Capisci?». Annuisco, perché sì, capisco cosa sta dicendo. Ma, se fosse per me, l’avrei detto in modo lievemente diverso: è così che ci si sente quando si è amati completamente da qualcuno. Prima d’ora, non sapevo come farmi amare da Sarah, non completamente. Prima di questo momento, non mi ero accorto di quanto la tenessi a distanza e la respingessi. Sapevo come amare lei; Dio sa che la amo con tutto il cuore e l’anima fin da quando è saltata giù da quella cascata tra le mie braccia, e forse anche da prima. Ma, per quanto la amassi, non ero disposto a saltare anch’io dalla cascata e a lasciarle
ricambiare il mio amore. Finora. Impaziente di toccare la parte del suo corpo che è solo mia, allungo una mano tra le sue gambe e, oddio, nel sentire quanto è bagnata, non sto più nella pelle. Mi porto il dito alla bocca per assaggiare il suo gusto delizioso. Non esiste al mondo sapore più dolce di quello della mia piccola e non esiste momento più dolce di questo. La bacio sulla bocca e torno ad accarezzarle il clitoride, con l’uccello che pulsa contro la sua passera scivolosa e tesa, facendola rabbrividire e contorcere. Fremo senza pietà per averla, ma mi costringo ad andarci piano. In fin dei conti, abbiamo tutto il
tempo del mondo. Io non ho intenzione di andare da nessuna parte, e nemmeno lei. La penetro a fondo con un dito fino ad accarezzarle il punto G, facendola sobbalzare. «Mia preziosa bambina», sussurro, toccando di nuovo il punto magico e strappandole un gemito. Lei è il mio Stradivari e non c’è piacere maggiore al mondo che far vibrare le sue corde. Torno con le dita al clitoride e lei sussulta. Non ce la faccio più ad aspettare. Gemendo forte, la penetro fino in fondo e a lei sfugge un sospiro tremante. È una sensazione nuova per me, un
nuovo Sacro Graal: fare l’amore con la donna che amo senza più segreti, senza spazi bui e senza più dubbi. Nemmeno stare sulla vetta dell’Everest può essere così bello. Mi ama. Ogni parte di me. Anche quelle incasinate. Sarah ruota i fianchi a ritmo con i miei e mi cinge la vita con le gambe. «Il culmine dell’umana possibilità», gemo, senza smettere di affondare dentro di lei. «Sì», annaspa. «Jonas». Lei mi ama. Mi illumina. Mi onora. Mi redime. Sento sorgere dentro di me un’ondata di piacere, che minaccia di spingermi oltre il limite.
«Mettiti sopra», le dico d’un tratto. «Devo guardarti». Cambiamo posizione e lei si mette a cavalcioni su di me, leccandosi le labbra e toccandosi. Mi metto comodo e mi godo la vista del suo seno che si muove delicatamente su e giù, della curva dei suoi fianchi, dei capelli che le ricadono sulle spalle. Adoro guardarla mentre controlla la profondità, la velocità, l’angolazione. Mi eccita da pazzi quando si piega in avanti, in modo che il mio uccello duro sfreghi contro il clitoride o con la sommità la tocchi in un punto preciso dentro di lei. È magnifico vedere quanto abbia imparato bene ormai, come sappia eccitarsi. Che
trasformazione dal primo giorno. Dio. Le afferro il sedere e mi preparo per una bella scopata. «Amo il tuo culo», gemo mentre lo stringo e con le dita avide esploro ogni fessura del suo corpo, facendola fremere. Risalgo con le mani sulla sua schiena liscia e intorno al seno e poi passo il pollice sulla cicatrice arrossata. Sta guarendo in fretta. Sbircio il suo minuscolo tatuaggio, l’annuncio segreto di quanto sia tosta, e ho un brivido. Cazzo, la amo. Mi sento invaso da una gioia pura, palpabile, come se me ne avessero rovesciato un secchio in testa. “Sposerò questa ragazza”, penso. Lo so per certo come so il mio nome.
“Sposerò questa stupenda ragazza e la renderò mia moglie”. Non riesco più a resistere. Sono al limite. «Jonas», ansima lei, sforzandosi di riprendere fiato. «Oh, oh, oh». «L’amore è la gioia dell’uomo buono, la meraviglia dell’uomo saggio, il diletto degli dèi», sussurro, con voce incerta e tesa, e lei reclina la testa. E poi fa il Suono, e significa che, se solo riuscirò a resistere ancora un pochino, sarò il fortunatissimo ragazzo che sentirà il suo orgasmo mentre è dentro di lei. Le tocco il clitoride con assoluta devozione e lei sussulta.
«Sei stupenda, piccola», le dico accarezzandola, trascinandola, facendo del mio meglio per spingerla oltre il limite. Cazzo, desidero che venga tanto quanto lei. «Sei Orgasma la supereroina, piccola», le dico, tremante, mentre tutto il suo corpo è scosso dai tremiti. «Sei una dea e una musa ispiratrice, Sarah Cruz». Mi contorco come un pazzo sotto di lei, nel tentativo di resistere. “E io ti sposerò”.
Capitolo trentaquattro
Sarah
Un quarto d’ora fa, Henn ha mandato un messaggio per chiamarci tutti a raccolta. “Ho trovato la vena madre!”, ha scritto. E così l’intero gruppo, a eccezione di Jonas, si è riunito nella nostra suite per sentire le novità. «Jonas ci raggiunge?», chiede l’hacker. «Dobbiamo aspettarlo?» «No. Stamattina è andato dritto in palestra», rispondo. «Non so quando tornerà».
Dopo la nostra maratona di chiacchiere e delizioso sesso, Jonas è praticamente saltato giù dal letto dicendo che sarebbe «corso in palestra e poi a fare una commissione», ma non ha voluto dirmi nulla di più. «Non stai per fare qualcosa di stupido, vero, Jonas?», gli ho chiesto, con un’occhiata di traverso e il sangue che mi pulsava nelle orecchie. «Certo che no», ha risposto lui, con un’espressione di pura innocenza. «Sul serio, Jonas. Devi dirmelo: non stai andando a stanare Max, vero?». Mi ha tirato a sé. «No, anche se mi viene duro solo all’idea di uccidere quello stronzo. Resto concentrato sul
nostro obiettivo, piccola. Non preoccuparti». Mi ha afferrato il sedere e mordicchiato sul collo. «Devo solo fare una commissione». Non ero ancora convinta, però. Mi ha preso il viso tra le mani. «Tranquilla, mi atterrò al piano». «Me lo prometti?», gli ho chiesto. «Te lo prometto». Ho fatto un grosso sospiro di sollievo. Jonas non fa mai false promesse. Lui mi ha baciato e mi sono sentita sciogliere tutta. «Ti racconto quando torno. Ci vediamo tra un paio d’ore, Mia Magnifica Sarah». Dopodiché, è praticamente schizzato fuori dalla porta. E adesso, io, Kat e Josh siamo seduti
sul divano di pelle in salotto e fissiamo impazienti Henn, che ha due occhi che potrebbero schizzargli fuori dalle orbite per l’eccitazione. L’hacker sospira. «Okay». Fa una pausa a effetto. «Siete seduti?». È una domanda retorica, perché siamo tutti seduti proprio davanti a lui. Tratteniamo il fiato. «Li ho trovati… e sono entrato». Sussulto. «Oddio», commenta Kat. «Sei un cazzo di genio», aggiunge Josh. «Puoi dirlo forte», concorda Henn. «Ho le chiavi di tutto il loro regno del cazzo: liste dei membri, password,
email, codici. Sono dentro». Esultiamo tutti fragorosamente. Proprio quando Henn sta per rivelarci qualcosa che ci farà «slogare la mascella dallo stupore», come dice lui, Jonas irrompe nella suite in tuta e felpa, con i capelli madidi di sudore. «Ehi, ragazzi. Ho ricevuto il tuo messaggio, Henn. Ti prego, dimmi che ce l’hai fatta». «Ce l’ho fatta». Attraversa di corsa la stanza, lo abbraccia, batte il cinque a Josh e a Kat e poi mi solleva da terra per festeggiare. «Hai sbrigato la tua commissione?». Mi rivolge un gran sorriso e annuisce. «Dopo ti faccio vedere».
Mi fa vedere? «Cosa mi sono perso?», chiede Jonas. «Ancora niente. Hai un tempismo perfetto», rispondo. «Henn stava per rivelarci qualcosa che ci farà “slogare la mascella dallo stupore”». «E i soldi?», s’informa Jonas. «Ti prego, dicci che hai craccato i soldi». «Ho craccato i soldi». «Oddio, Henn», commenta Kat con un sorriso enorme. «Sei un cazzo di genio». L’hacker è raggiante. «Sono risalito a dodici conti correnti in cinque banche diverse», esordisce lui, con una drammatica pausa a effetto. «Jonas, è meglio che tu ti sieda per il seguito».
Jonas si sistema accanto a me e mi appoggia una mano sulla coscia. «Dodici conti diversi per una liquidità, e sto parlando di denaro disponibile semplicemente depositato in banca, di circa, ehm, cinquecentocinquantaquattro milioni di dollari». Alla nostra reazione, i muri della suite potrebbero benissimo crollare. Mi prendo il viso tra le mani. Non riesco a crederci. «E ho tutti i loro numeri di conto e le password», dice Henn con un sorrisetto. «Per i conti più grossi, i trasferimenti si possono fare solo di persona in filiale, e comunque la maggior parte delle banche
richiede una firma per le operazioni superiori al milione, quindi non possiamo pensare di prendere i soldi. Dobbiamo solo consegnare a qualcuno tutti i numeri di conto e le password». Lancio un’occhiata a Jonas, che è immerso nei propri pensieri. «Puoi stamparmi un elenco dei conti con i saldi di ognuno?» «Certo», dice Henn. «Posso fare qualsiasi cosa». «È assurdo», commenta Josh con un’occhiata incredula a Kat, che pare altrettanto stupita. «E la lista dei membri?», chiedo. «Oh, quella è la seconda grossa notizia», risponde Henn. «È la parte che
vi lascerà a bocca aperta». «Cinquecentocinquantaquattro milioni di dollari non sono già abbastanza?», chiedo. «No». Da vero e proprio maestro nel raccontare storie, fa un’altra pausa. «Ho trovato la conferma, con prove documentate e indiscutibili, tanto da scommetterci la vita, che la lista comprende sette membri del Congresso, due governatori, un sindaco canadese e…». Si blocca, come in attesa di un rullo di tamburi. «Il segretario della Difesa in persona». Restiamo tutti scioccati. «Il tizio a capo del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, quello che
gestisce tutte le forze armate». «E fa parte del gabinetto del presidente», aggiunge Jonas, pallido. Vengo invasa da un panico intenso e il mio cuore salta un battito. Jonas si passa una mano sul viso. «Merda», mormora sottovoce. «Giusto, merda. Una gran merda», concorda Josh. Per qualche momento restiamo tutti in silenzio, ad assimilare l’informazione. Ormai ho le palpitazioni. «Ci sarà uno scandalo enorme», dico. So che è ovvio e faccio la figura della ritardata, ma non mi viene in mente altro. Henn annuisce, frenetico. «Roba da pazzi, eh? Il segretario della Difesa
paga un club del sesso che fornisce soldi e armi a sostegno dell’imperialismo russo». Sbuffa. «Ops». «Un bel problema per il suo futuro in politica», aggiunge Josh. «Di sicuro non vorrà che si sappia», commenta Jonas, cupo. Gesù Bambino nella mangiatoia. Stiamo per scatenare uno scandalo mondiale di proporzioni epiche, che farà tremare i piani più alti del governo, fino alla Casa Bianca. Non ho alcun interesse a far cadere il segretario della Difesa, per non parlare dei vari membri del Congresso e dei governatori, o che diamine, degli atleti, degli amministratori delegati e dei semplici
ingegneri informatici. E di certo non mi interessa minimamente infangare il presidente degli Stati Uniti, che diavolo. «Quando si saprà del segretario della Difesa, dite che sarà un problema anche per il presidente?», chiede Kat, leggendomi nella mente. «Certo. Il segretario della Difesa fa parte del suo gabinetto», risponde Josh. «È nella cerchia più ristretta dei suoi collaboratori. Un uomo del genere coinvolto in un giro di prostituzione su larga scala è già uno scandalo di per sé e i giornali ci sguazzerebbero anche solo con questa chicca. Ma se aggiungiamo il fatto che ha indirettamente finanziato i separatisti ucraini, allora ci ritroviamo
con un sacco di merda che esploderà come una granata politica investendo chiunque si trovi nelle sue immediate vicinanze, compreso il presidente». «Mi sta venendo un attacco di nervi», balbetto, guardando Jonas e poi Josh. «E voi due? Quanto si metterà male per voi nel momento in cui questa storia verrà alla luce?». I fratelli si scambiano un’occhiata. «Non lo so», risponde Josh, stringendosi nelle spalle. «Di certo non sarà un bel momento per nessuno di noi». Abbasso lo sguardo, d’un tratto nauseata. L’imbarazzo per Josh sarà minore, perché sarà Jonas a prendersi la maggior parte delle critiche. Dopotutto,
Josh è stato iscritto al Club per un mese, mentre Jonas ha sborsato duecentocinquantamila dollari per una ghiotta iscrizione di un anno intero. Questo scandalo annienterà la sua reputazione nel mondo degli affari? Pregiudicherà la possibilità di rendere Scala e Conquista un marchio globale come vorrebbe? E io? Tra due anni, quando avrò terminato gli studi e l’ordine degli avvocati di Washington esaminerà la mia richiesta di poter esercitare la professione, soddisferò i requisiti etici? Mi crederanno quando giurerò che non ero a conoscenza della vera natura degli affari dei miei datori di lavoro?
Jonas mi stringe una mano. «Pensiamo un giorno alla volta. Magari troveremo una soluzione perché questa storia non diventi di dominio pubblico». Ne dubito. «E come?» «Lascia fare a me e a Josh», mi dice, guardando il fratello per avere conferma. Josh annuisce deciso, anche se il suo sguardo non ispira certo fiducia. Dopo una lunga discussione, in cui in pratica ce la facciamo tutti sotto e conveniamo che è una faccenda troppo grossa perché possiamo occuparcene da soli, e ci chiediamo come abbiamo fatto a finire in questa situazione, e come cazzo dobbiamo comportarci, alla fine
definiamo una strategia immediata: io terminerò oggi il dossier con tutte le prove che riusciremo a mettere insieme in così poco tempo, compresi i saldi dei molti conti correnti del Club, mentre Josh e Jonas uniranno le loro menti per capire come presentare il dossier alle autorità competenti; poi, domattina, per prima cosa, ci trascineremo tutti negli uffici dell’FBI di Las Vegas e faremo del nostro meglio per convincere chiunque sia il responsabile a organizzarci un incontro con il suo capo a Washington. Che altro potremmo fare? È una cosa troppo grossa per restarcene qui seduti più dello stretto necessario, e di gran lunga esagerata per gestirla senza dei
rinforzi armati fino ai denti. Per non parlare del fatto che siamo tutti paranoici all’idea che il Club possa trasferire da un momento all’altro i propri fondi, in parte o completamente. Quando ognuno di noi si mette al lavoro, Jonas mi prende in disparte. «Sono tutto sudato dopo la palestra», dice, con le mani nelle tasche della felpa. «Mi faccio una doccia veloce. La fai con me? Voglio farti vedere una cosa». Vuole farmi vedere una cosa, eh? Come no. Non sono il tipo da rifiutare una doccia con Jonas, Dio mi è testimone, ma in questo momento mi sembra una perdita di tempo prezioso. Io
devo finire il dossier e lui deve capire cosa cavolo farne. «Più tardi», dico. «Per festeggiare quando avremo terminato il dossier». Sembra deluso. «Così avrai qualcosa per cui essere impaziente», aggiungo. A essere sinceri, mi stupisco che abbia scelto proprio questo momento per pensare a scopare sotto la doccia. Piace un sacco anche a me, però… abbiamo di meglio da fare. «Sarah», mi chiama Kat. «Henn ha già stampato i dati delle banche. In che punto del registro delle prove vuoi metterli?» «Solo un secondo». Guardo di nuovo Jonas. Ha l’aria di un ragazzino
imbranato che non è stato scelto dai compagni per entrare in squadra. «Più tardi, tesoro», gli assicuro, poi attraverso la stanza per rispondere alla domanda di Kat.
Capitolo trentacinque
Sarah
Sono le tre del mattino e siamo sfiniti. Siamo stati rinchiusi tutto il giorno e la notte nella suite, scambiando a malapena qualche parola e fermandoci soltanto per mangiare. Ognuno di noi è perfettamente consapevole della portata di ciò che stiamo cercando di fare e della potenziale posta in gioco se dovessimo fallire. Il duro impegno e le lunghe ore di lavoro hanno dato i loro frutti, però, perché il dossier è concluso. Alleluia.
Ed è venuto piuttosto bene. Certo, se avessi il tempo di scriverlo con la precisione che vorrei, potrei andare avanti per altre tre settimane, ma la rapidità è essenziale e dovrò accontentarmi di questa versione. Ho delineato i fatti, le accuse e le prove come meglio ho potuto e, a ogni singola informazione presentata, ho allegato un registro con le prove. Non ci sono congetture, né ipotesi. Nulla che possa essere messo in discussione. Se questo dossier non attira l’attenzione dell’FBI, allora non so proprio cosa ci voglia. Josh e Kat se ne vanno insieme, affermando entrambi di dover «dormire un po’», a quanto pare ognuno nella
propria stanza (anche se io non ne sono così sicura). Comincio a sospettare che, da quando siamo a Las Vegas, quei due siano diventati più che amici. Domani dovrò chiederlo a Kat. Oggi ero troppo ossessionata dalla nostra missione per divagare e pensare a qualcosa di diverso dal dossier. Dopo che Kat e Josh se ne sono andati, Henn mi chiama al computer. Gli avevo chiesto di cercare un’ultima prova nel sistema del Club, qualcosa che stabilisse un nesso tra i nomi usati nel processo di ammissione e i codici assegnati ai file dei membri una volta accettati. «Questo può andare?», chiede, con
voce esausta. Vado alle sue spalle e scruto lo schermo. Lui mi spiega le informazioni che ha trovato. «Sì, è perfetto», dico. «Grazie, Henn. È solo che dev’essere tutto più che chiaro, senza supposizioni né salti logici». Henn è d’accordo con me. Jonas se ne sta seduto in silenzio in un angolo della stanza e mi guarda con uno sguardo di fuoco e i muscoli tesi. «Jonas, vuoi dare un’occhiata anche tu?», gli chiedo. Scuote la testa. Oh, conosco questo sguardo. Mi
mordo il labbro. Il mio aitante ragazzo resta seduto perché ce l’ha in tiro. «Grazie, Henn. Sei un cazzo di genio», gli dico. «Me l’hanno detto», ribatte lui. Sorride e, con molte cerimonie, chiude il portatile. «Bene, se non vi serve altro, io me ne vado. Ho avuto l’improvvisa intuizione di andare a tirare per sette volte la leva della slot machine da cento dollari prima di filare a nanna». «Buona fortuna», gli auguro. «Ci vediamo alle dieci». A quell’ora ci incontreremo tutti per andare insieme negli uffici dell’FBI in città. Nell’istante stesso in cui Henn chiude la porta, mi giro verso Jonas. «Ti va di
farci la doccia adesso?», gli chiedo. Lui annuisce piano. Maledizione, quant’è bello. Lo raggiungo, esausta ma eccitata per tutto ciò che siamo riusciti a fare oggi, e mi siedo sulle sue gambe. Oh, salve. Sì, l’ha duro come una roccia. Passo le dita sulle lettere incise sul suo bracciale di platino. “Sarah”. «Ciao, mio bel ragazzo», gli dico sottovoce. Lui sorride e tocca il mio bracciale. «Ciao, mia bella ragazza». Mi tira il viso verso il suo e mi bacia con passione. Sposto le mani sopra la sua maglietta a maniche lunghe e mi godo la sensazione
del suo petto largo e delle spalle scolpite. Non mi stancherò mai di toccarlo. È un capolavoro. Scendo sui possenti bicipiti e sugli avambracci… e con le dita avverto un tessuto diverso sotto la maglietta sottile. Picchietto appena sopra l’avambraccio destro. Sì, c’è qualcos’altro oltre alla pelle. «Cos’hai qui sotto?» «La mia commissione», risponde con un sorriso. «Che morivo dalla voglia di farti vedere». Si toglie la maglietta lasciando scoperti il petto glorioso, gli addominali, le spalle scolpite e i bicipiti sporgenti… insieme a due spessi cerotti rettangolari sulla parte alta degli avambracci.
«Cosa ti è successo?», gli chiedo, ma poi capisco. «Ti sei fatto dei nuovi tatuaggi?». Mi rivolge un gran sorriso. Sono curiosa. In Belize gli avevo chiesto se pensasse di farsene altri, soprattutto visto tutto il tempo che era passato da quando si era fatto quelli con le parole sacre di Platone, e lui aveva risposto di no. «Non ho bisogno di tatuarmi tanto per farlo», aveva detto. «Voglio imprimermi sulla pelle solo quelle idee che mi hanno cambiato la vita e sono degne dell’eternità. E quali oltre a quelle di Platone sarebbero all’altezza?». Bene, bene, bene… le ultime parole
famose. Chissà quale nuova idea d’un tratto gli ha “cambiato la vita” ed è “degna dell’eternità”. Jonas tira l’angolo del cerotto sull’avambraccio destro e se lo toglie con un forte: «Ahi!». Gli sollevo il braccio per guardare bene e, vedendomi restare senza fiato, lui si illumina in viso. Con le lacrime agli occhi, leggo a voce alta: «“No más. De hoy en adelante, renazco”». Sono le parole che gli ho detto ieri notte. Oddio. Le mie parole gli hanno cambiato la vita e sono degne dell’eternità? Sento gli occhi riempirsi di lacrime. «Renazco», ripete lui sottovoce, fissandomi negli occhi. «Rinasco grazie
a te, Mia Magnifica Sarah». Per un attimo pare intimidito, come se chiamasse a raccolta il coraggio per aggiungere ciò che ha sulla punta della lingua. «Mi amor siempre», sussurra. Mio amore per sempre. Oh, Jonas. Non riesco a credere che abbia messo le mie parole sullo stesso piano di quelle di Platone sul suo corpo. Per l’eternità. Mi metto a cavalcioni su di lui. «Mi amor siempre», bisbiglio anch’io, e lo bacio con dolcezza. Lui risponde con foga e, così su due piedi, mi sento arrapatissima e già pronta. Però Jonas ha un cerotto anche sull’altro braccio e ovviamente devo sapere cosa c’è sotto. Mi costringo a
staccarmi da lui, anche se la sua erezione che preme contro le mie mutandine mi sta facendo impazzire. «E questo?». Indico il cerotto sul braccio sinistro. Con un sorriso malizioso, lui comincia a tirarlo via. Quando se l’è tolto, solleva il braccio sul petto per farmi vedere il tatuaggio dal lato giusto. Non riesco a credere ai miei occhi. È una frase in inglese. Non ha senso. Una volta Jonas mi ha detto che si era fatto apposta i tatuaggi in greco antico perché non voleva assolutamente che chiunque gli passasse accanto potesse capirli. «I miei tatuaggi servono a ispirare me, non le masse»,
aveva detto. Be’, a quanto pare Jonas Faraday ha cambiato idea… su molte cose, in effetti. Con voce tremante, leggo a voce alta i caratteri in grassetto. «“L’amore è la gioia dell’uomo buono, la meraviglia dell’uomo saggio, il diletto degli dèi”». Lui annuisce con foga. Ricordo che mi ha già detto queste parole, due volte credo, ma in entrambi i casi stavamo facevamo l’amore ed ero troppo impegnata a venire per chiedergli spiegazioni. «È una frase di Platone?», gli chiedo, passando le dita sulle lettere. Annuisce. «Platone la attribuisce al poeta Agatone. Viene dal Simposio, il
lungo dialogo di Platone sulla natura, il fine e la genesi dell’amore. Più precisamente, l’amore romantico». Mi mordo il labbro. «Secondo lui, all’inizio l’amore romantico viene percepito attraverso i sensi fisici ma, con la contemplazione, si trasforma in qualcosa di più grande: l’apprezzamento da parte dell’anima della bellezza di un’altra persona». Il mio cuore salta un battito. «Alla fine, attraverso l’amore, le nostre anime riescono a riconoscere la forma ideale della bellezza, la forma divina originaria della bellezza stessa». I suoi occhi ardono. «Che, a sua volta, ci porta a comprendere la verità».
Appoggio una mano sul suo cuore per tenermi in equilibrio. «Ma Jonas». Mi gira la testa. «Platone in inglese? Non in greco antico?». Annuisce. «Pensavo non volessi che la gente potesse capire i tuoi tatuaggi». «Questo sì». Trattengo il respiro. «Platone avrà anche scritto queste parole sagge e sacre migliaia di anni fa, ma Jonas Faraday le proclama oggi». «Oh, Jonas». Sono senza fiato. «Con questo tatuaggio, grido il mio amore per te dalla vetta della montagna più alta, Sarah. Voglio che il mondo intero lo legga e sappia la verità: ti amo,
Sarah Cruz». Mi sto sciogliendo. Mi prende il viso tra le sue grandi mani. «L’amore è la gioia dell’uomo buono, la meraviglia dell’uomo saggio, il diletto degli dèi». Lo sguardo che mi rivolge è intenso. «Cioè tu, Sarah Cruz. Tu e io. Tu sei la mia bellezza. La mia verità». Ho il cuore che batte a mille. «Non c’è mai stato un amore come il nostro e non ce ne sarà mai un altro. La nostra è la più grande storia d’amore mai raccontata». Non riesco a credere che l’uomo che un tempo dichiarava il proprio disprezzo per le «stronzate alla San Valentino» si
sia trasformato nell’uomo più romantico del mondo. Mi mordo il labbro. «Siamo epici», prosegue, con sguardo ardente. «Il nostro amore è così puro e vero che siamo il diletto degli dèi». Chi può parlare così? Jonas Faraday, ecco chi. Dio, quanto lo amo. Ha il suo sguardo, quello di cui ha l’esclusiva e che significa Jonas-è-ungrosso-squalo-bianco-e-Sarah-un-leonemarino-indifeso. Quel bagliore di quando sta per mangiarmi. Mi dà un bacio passionale e non serve altro: all’improvviso perdiamo tutti e due la testa. Lui mi tira con insistenza la maglietta e io sollevo le braccia per aiutarlo a sfilarmela. Mi slaccia e mi
toglie il reggiseno e, non appena sono liberi, prende a succhiarmi avidamente i capezzoli. «La doccia», sussurro, contorcendomi tutta per l’eccitazione. Jonas si alza con me in braccio, tenendomi per il sedere. Gli cingo il collo con le braccia e la vita con le gambe e lo bacio con passione e, mentre mi porta in camera, mi sfrego contro di lui, lo attacco, mi lascio inebriare dal suo odore. Mi butta sul letto e mi strappa i pantaloni e il perizoma – cazzo, me lo strappa letteralmente di dosso – e poi affonda il viso tra le mie gambe, in preda al desiderio sfrenato di un animale famelico. Niente preliminari,
niente finezza né calma. Niente sessocellenza stavolta, gente. Questo è uno squalo che si avventa sulla sua preda… e la cosa mi eccita da morire. Quando si rialza leccandosi le labbra, sembra l’Incredibile Hulk. Una bestia. Il poeta non c’è più. L’uomo romantico è sparito. Si abbassa i pantaloni e i boxer regalandomi una vista che non mi stanca mai e, prima che io possa fare qualcosa, mi solleva come se fossi una bambola di pezza e mi porta in bagno, senza smettere di baciarmi con foga per tutto il tragitto. Gli afferro i capelli con entrambe le mani e gli strappo un gemito da gorilla. Oddio, adoro questo suono primitivo.
Mentre mi contorco contro di lui, baciandolo e tirandogli i capelli, Jonas apre l’acqua calda, che mi colpisce sulla schiena e mi inonda il seno. Cerco invano di premermi contro la sua erezione, ma lui mi sfugge. «Mettimi giù», gli dico ma, senza aspettare risposta, scivolo lungo la sua pelle bagnata e poggio i piedi a terra. «Decido io», afferma lui, con voce ferma. Ma non lo sto a sentire. Mi inginocchio e lo prendo in bocca, succhiandolo con foga mentre l’acqua bollente mi colpisce sulla nuca. Lui mi afferra i capelli e si muove nella mia bocca, gemendo come se gli stessi
facendo malissimo. Dio, sono sempre più eccitata. Dai versi che fa, sembra che stia per morire – di felicità, s’intende – e allora allungo una mano e mi tocco, pensando all’espressione sul suo viso quando mi ha mostrato i suoi nuovi tatuaggi. Lui sussulta, geme e mi tira i capelli più forte che mai, ma non mi importa di soffrire un po’, non quando lo sto facendo godere così. Dio, riesco a malapena a respirare, tanto sono arrapata. Continuo a toccarmi, a succhiarlo e a immaginare i suoi nuovi tatuaggi. Jonas ha inciso le mie parole accanto a quelle di Platone. Ha dichiarato il suo amore eterno per me
sulla sua pelle in modo permanente, in inglese, perché tutto il mondo possa vederlo. Apro gli occhi di scatto. Il mio sogno. I dieci fantasmi di Jonas, il vino che sgorga, gli spettatori rumorosi… e Jonas che alza lo sguardo e dichiara il suo amore per me al mondo intero. Oddio. Il mio sogno non si riferiva a un esibizionismo sessuale, ma emotivo. Volevo che Jonas mi rivendicasse davanti al mondo. Ed è proprio quello che ha appena fatto con i suoi nuovi tatuaggi. L’orgasmo che mi avvolge è potente e mi sfugge un forte gemito, per quanto attutito dal pene che ho in gola. Strillo,
facendo del mio meglio per continuare a succhiarlo malgrado le ondate di piacere dentro di me, ma non ci riesco. Si sfila dalla mia bocca. «Adesso ti scopo, piccola», mi dice. Il mio orgasmo si spegne. Cos’ha detto? Stordita per la soddisfazione, sollevo la testa per guardarlo e l’acqua calda mi investe il viso. «Io», dice, come un cavernicolo, facendomi rialzare. «Adesso». Parla con voce roca. È lui a decidere. «Adesso ti scopo». Con uno sguardo di fuoco, mi tira a sé senza troppe cerimonie e mi tocca tra le gambe. Vacillo. Wow, non ho ancora finito, nemmeno lontanamente. Sono
ancora eccitatissima. Mi fa girare e io ubbidisco senza bisogno che mi dica nulla. «Piegati», geme nel mio orecchio. «Piegati e afferrati le caviglie». Non penso ad altro che a ubbidire al suo volere. Il mio desiderio di avere il controllo è del tutto sparito. Mi piego e mi afferro le caviglie. Diamine, in questa posizione sono completamente esposta e alla sua mercé. Fremo all’idea di ciò che mi aspetta. Con una mano mi accarezza la schiena e intanto infila l’altra tra le mie gambe da dietro, fino al clitoride. Vuole farmi venire di nuovo e, Dio mio, ce la farà. L’acqua bollente mi investe la schiena e
gocciola dal mio viso chinato verso il basso. Tremo. Cosa sta aspettando? Mi cedono le gambe e lui mi aiuta a mantenere l’equilibrio. Muove le dita come un vero esperto. È una sensazione troppo intensa. Se continua a toccarmi così, non riuscirò più a mantenere la posizione; con tutto questo piacere, non potrò stare in equilibrio. Piego le gambe. Sono troppo eccitata per restare così. Ho bisogno di girarmi, sfregarmi contro di lui, baciarlo. Non ce la faccio più. Devo venire. Jonas mi penetra senza alcun preavviso, così a fondo, con tale forza e per nulla dispiaciuto di possedere il mio
corpo, che mi sfugge un grido e, con mia grande sorpresa, vengo all’istante. A mano a mano che il mio orgasmo cresce, Jonas affonda senza pietà dentro di me gridando forte e, in meno di un minuto, con un urlo acuto viene anche lui, nel profondo di me. Strillo anch’io. Oh, ragazzi, quanto rumore stiamo facendo. Ci adoro. Quando ha finito, preme con decisione un palmo alla base della mia schiena, per farmi capire di restare così. Ancora una volta, ubbidisco. Lui si sfila da me e mette il doccino tra le mie gambe. Vibro tutta quando il getto caldo mi colpisce sul clitoride. È una sensazione così bella che perdo l’equilibrio e
vacillo in avanti, ma Jonas mi tiene con una mano salda su un fianco. Appoggio i palmi sul piatto della doccia e lui continua a lavarmi tra le gambe, insaponandomi piano con il bagnoschiuma e poi sciacquandomi in modo delizioso con l’acqua calda. Sono sull’orlo dell’ennesimo orgasmo. Dio, devo rialzarmi. Non ce la faccio più. Il sangue mi è andato alla testa e ora lo sento pulsare nelle orecchie e negli occhi. Sto pure affogando per l’acqua che mi scende sulla schiena e mi finisce nel naso. Prima che io possa rialzarmi però, Jonas si inginocchia dietro di me e comincia a leccarmi con ferocia,
assaggiando indiscriminatamente ogni centimetro quadrato di pelle e divorando con la bocca e le labbra ogni parte di me, anche minimamente vicina a dove mi lecca di solito. Oh madre santissima. La sensazione della sua lingua in quei luoghi proibiti mi manda in sovraccarico. Bastano due leccate e vengo di nuovo, con muscoli mai usati prima. Nell’istante in cui il mio orgasmo finisce, Jonas mi afferra d’un tratto il torace e mi fa rialzare. Vacillo. Mi sembra di avere le gambe di gomma. «Non ce la faccio», mormoro. «Jonas». Mi attacco alla parete della doccia per tenermi in piedi, ma lui mi fa
girare per guardarlo in faccia. Gli cingo il collo e appoggio una guancia sulla sua spalla forte. Sono del tutto esausta. Sotto il flusso d’acqua calda, la sua pelle è scivolosa, tesa e deliziosa. Mi stringe tra le sue braccia forti e mi sento pervasa da una soddisfazione totale. Dopo esserci rilassati qualche minuto in silenzio, alla fine Jonas parla. «Mentre mi facevano i tatuaggi», dice sottovoce, «riuscivo a pensare solo a tornare in stanza per fare l’amore con te». «Mmm», commento. Non sono ancora tornata operativa. «Mi immaginavo mentre facevamo l’amore con calma, teneramente, e
intanto ti sussurravo all’orecchio parole di devozione totale». Scoppiamo a ridere tutti e due nello stesso istante. «La tua brillante strategia è sfumata», commento. «Come al solito». «Ti stai forse lamentando?» «Cazzo, no». «E comunque, io odio il Jonas Strategico», aggiungo. «Volevo solo fare qualcosa all’altezza del momento… alla tua altezza», dice lui. «Qualcosa di romantico». «Oh, Jonas». Stacco la guancia dalla sua spalla e lo guardo negli occhi. «Quello che abbiamo fatto è stato
romantico. Erano le stronzate alla San Valentino e il sesso spinto tutto in uno». Sorrido. «Riesci sempre a darmi entrambe le cose». Mi guarda con gli occhi luccicanti. «Sei fatta per me, Sarah Cruz», dice. «Tu sei fatto per me, Jonas Faraday». Rimetto la guancia sulla sua spalla larga e sospiro, appagata. «Grazie per avermi trovato». «Grazie per essere stata scopribile». «Non è una vera parola». «Da adesso sì». Il suo sorriso raggiante mi lascia senza fiato. «Asciughiamoci. Voglio parlarti di una cosa».
Avvolti nei soffici accappatoi bianchi forniti dall’albergo, siamo seduti sul morbido letto candido. Stando alla sveglia sul comodino, sono le quattro meno dodici. Cosa diavolo ci facciamo ancora in piedi? Tra sei ore dovremo incontrare gli altri per andare negli uffici dell’FBI in città. Ragazzi, sto crollando. Jonas pare nervoso. Sta cercando di capire cosa dirmi. «Sputa il rospo, tesoro», lo esorto con uno sbadiglio. «Mi sto addormentando, seduta». Sospira. «Quando avremo finito qui, voglio portarti a fare un viaggio. In un posto davvero speciale per me».
Mi risveglio all’istante. «Dove?» «Ti importa qualcosa?» «Per niente». Sorrido. «All’estero… Non ti dirò di più». Santo cielo, sono euforica. È tutta la vita che sogno di viaggiare per il mondo, fin da quando ero piccola. Ogni volta che mio padre inveiva contro mia madre, quando sapevo che stava andando su di giri e che a breve sarebbe diventato violento, io strisciavo nell’armadio con una cartina del mondo e mi isolavo da tutta quella cattiveria immaginandomi in posti lontani. Nemmeno in un milione di anni avrei mai pensato che un giorno le mie fantasie infantili si sarebbero avverate,
o che sarei stata così fortunata da avere una guida con labbra così seducenti, addominali d’acciaio e lo sguardo triste, per non parlare di un budget di viaggio apparentemente inesauribile. «Wow», commento, senza parole. «Quindi è un sì?». Mi guarda, speranzoso. «Quando?» «Non appena finiremo qui». Il suo viso scoppia di eccitazione. «Intendi prima ancora di tornare a casa?» «Sì. Ci farò spedire i passaporti dalla mia assistente, ti porterò a fare spese folli per comprare tutto ciò che ti serve per il viaggio e poi salteremo su un
aereo». Ha un’espressione memorabile. Pare un bambino seduto sulle gambe di Babbo Natale, che chiede un regalo speciale. Non c’è nulla che desideri di più che correre in qualche lontana località esotica con Jonas. Ma non è possibile, non adesso. Lo bacio sul naso. «Come sei dolce, Jonas», gli dico. «Te l’ho mai detto, caro il mio dolce Jonas?». Si incupisce. Sa cosa sto per dire. Lo guardo di traverso. «Hai già diramato il comunicato stampa? Sul fatto che lascerai la Faraday & Figli?». Scuote la testa, come uno scolaro colto in flagrante a lanciare palline di carta. «Hai parlato a tuo zio di Scala e
Conquista?» «No». Abbassa lo sguardo. «Non pensi che sarebbe meglio farlo?». Sospira. «C’è stata una complicazione». «Mmm hmm». «Con Josh. E poi ti hanno aggredito e sei finita in ospedale…». «Ma adesso non sono più in ospedale. Perché non hai ancora parlato con tuo zio?». Arriccia le labbra. «Perché anche Josh vuole lasciare l’azienda». La sua espressione è un misto di gioia e rammarico. «Vuole occuparsi a tempo pieno di Scala e Conquista con me».
«Oddio, Jonas. È fantastico. Devi essere contentissimo». «Ma la Faraday & Figli non sopravvivrebbe senza tutti e due. Lo zio William è quasi in pensione ormai. Chi manderà avanti la baracca?» «E ti senti in colpa per questo? Ti senti responsabile?». Annuisce. Gli prendo una mano. «È questo che vuoi fare nella tua vita, amore mio? Occuparti di Scala e Conquista? Con Josh?». Annuisce. «Quando mi ha detto di volersi unire a me, è stato come un sogno che si avverava». «È questo che vuole lui?».
Annuisce. «Allora è la cosa giusta da fare», taglio corto. «Non sei responsabile del futuro della Faraday & Figli e nemmeno tuo fratello. Non avete chiesto voi di diventarne i custodi. Quell’azienda non è la tua vocazione, mentre Scala e Conquista sì. Hai la responsabilità di essere fedele a te stesso e al tuo destino. Devi vivere la tua verità. Sempre». Il suo sguardo si ammorbidisce e si accende. «Hai solo una vita da vivere, amore mio. Una. Vivila al massimo. Ogni singolo giorno. Ecco il lavoro più sacro che esista». Arrossisce. «Grazie».
«Prego». «Sei così saggia, Sarah. Sei intelligente, sì, ma sei anche saggia». Adoro quando me lo dice. «Puoi adularmi quanto vuoi, ragazzone», ribatto. «Ma non faremo quel viaggio fino a che non avrai mosso il sedere e cominciato la tua nuova vita. Questo viaggio non sarà un modo per scappare, ma per festeggiare. Festeggeremo la nascita di Scala e Conquista e la fine del mio primo anno di studi». Capendo quando gli sto proponendo di partire, si rabbuia in viso. «Jonas, non posso andarmene prima degli esami finali. Devo studiare». Sembra davvero deluso.
«Sono tra quattro settimane appena», proseguo. «Partiremo subito dopo. E nel frattempo, tu riorganizzerai la tua vita e io studierò come un’ossessa, ogni giorno, senza fermarmi». Apre la bocca per protestare. «Tranne che per fare sesso sfrenato con te, s’intende. Te l’ho detto, Jonas, il sesso con te è un bisogno fisico, come dormire, mangiare e respirare». Alzo gli occhi al cielo. «Ma va». «Mi hai letto nel pensiero». «Possiamo partire il giorno dopo gli esami. Cosa ne dici?». Sporge il labbro inferiore e mette il muso. «Lo sai che ho ragione», dico.
Accentua il broncio. «Lo sai». Si stringe nelle spalle. «Odio aspettare». «Ti sto solo dicendo di rimandare, tutto qui, piccolo. Un mese appena. Dovrai essere paziente». «Non sono bravo a pazientare». Scoppio a ridere. «Ah davvero?». Sospira forte. «Be’, a quanto pare non ho scelta». Fa spallucce. «Un’altra attesa del cazzo». Scuote la testa. «Un mese. Tu studierai e io mi comporterò da adulto e, in ogni minuto libero, ci rintaneremo nel nostro bozzolo per due e scoperemo fino a perdere la testa, da bravi bruchi ninfomani».
Scoppio a ridere. «Perché, i bruchi scopano?». Si stringe nelle spalle. «Adesso sì». Rido di nuovo. «Ma, prima di tutto», dice, con sguardo duro come il granito, «io e te, piccola, fotteremo il Club». Gli cingo il collo con le braccia. «Ci puoi scommettere, tesoro. Direi che è proprio un bel piano».
Capitolo trentasei
Jonas
«Dobbiamo parlare con il suo capo», dico al novellino dell’FBI che mi sta di fronte dall’altra parte del tavolo. Cazzo, questa recluta non sarebbe in grado di mobilitare proprio nessuno per fare un cavolo di niente. «Sì, be’, non è possibile. Dovrete parlare con me». «Sono Jonas Faraday», dico, con l’aria di un vero stronzo. «E questo è mio fratello Josh. Insieme gestiamo la
Faraday & Figli con sedi a Seattle, Los Angeles e New York, e vorremmo parlare con il responsabile di questo ufficio». Il ragazzo fa spallucce. «Sono l’unico agente disponibile con cui potete parlare, signore. Mi spiace». Ma non gli dispiace per niente. Guardo Sarah. Ha gli occhi quasi fuori dalle orbite. E a ragione. Se il suo dossier finirà su una pila sulla scrivania di questo novellino, non ce la faremo. Ci serve un’azione tempestiva e ciò significa che dobbiamo attirare subito l’attenzione di qualcuno che possa fare molta più leva all’interno dell’FBI rispetto a questo tizio.
«Da quanto lavora come agente?», interviene Kat. Quando il ragazzo le mette gli occhi addosso, il suo atteggiamento si ammorbidisce visibilmente. Oh già, continuo a dimenticarmi che Kat è superattraente. Per me è solo Kat, la migliore amica di Sarah, l’allegra festaiola dal cuore d’oro. Ma quando assisto a reazioni come quella dell’agente, mi ricordo che è davvero uno schianto. «Da quattro mesi», risponde lui. «È stato addestrato a Quantico come si vede nei film?» «Già». «Wow. Forte. Che incarico le hanno
assegnato? Tutto quello che so sull’FBI l’ho visto nel Silenzio degli innocenti». Da come gli parla, potrebbero benissimo essere seduti in intimità in un angolo di un bar, a conoscersi davanti a un drink. Questo tizio deve sapere che Kat lo sta adulando, eppure le sorride come se non gli importasse. «Be’, per il primo anno i nuovi agenti si occupano perlopiù di accertamenti. E, ovviamente, io sono il fortunato che deve incontrare tutti i bravi cittadini come voi che entrano qui dalle strade di Las Vegas per denunciare il crimine del secolo». «Bisogna pur cominciare da qualche parte», commenta Kat, con un sorriso
dai denti perfetti. Poi si sporge sul tavolo. «Ecco come stanno le cose, agente Sheffield. Oggi sono entrata qui dalle strade di Las Vegas per denunciare il crimine del secolo». Lui non riesce a reprimere una risata. Ragazzi, Kat ha appena preso un bel pesce. Si fa seria. «In realtà, non sto scherzando. Sono davvero venuta a denunciare il crimine del secolo». L’uomo sospira. «Come si chiama?» «Katherine Morgan. Ma lei può chiamarmi Kat». Lo dice come se fosse un favore speciale riservato a lui, come se il mondo intero non la chiamasse già così.
L’espressione dell’agente speciale Sheffield si fa grave. «Kat», ripete, «le dico come faremo. Lei e i suoi amici presenterete la denuncia a me e io vi prometto di esaminarla con attenzione nel giro di due settimane, magari anche della prossima. E, se vedrò qualcosa di interessante, farò ulteriori indagini». Sono tentato di intervenire, ma Sarah mi appoggia una mano su una coscia. «La ringrazio, agente speciale Sheffield», commenta Kat con un sorriso. «Lo apprezzo molto. Qual è il suo nome?» «Eric». «Agente speciale Eric». Sposta i lunghi capelli biondi dietro le spalle. «Il
fatto è che si tratta di una questione urgente». Si sporge del tutto sul tavolo, tanto che il seno quasi le fuoriesce dalla scollatura. «È uno di quei casi che permetterebbero a un agente come lei di fare carriera, giuro su Dio». Lancio di nuovo un’occhiata a Sarah. Sta reprimendo un sorrisetto. Avrà già assistito una o due volte al fascino di Kat in azione. Il giovane agente pare dubbioso. «Anche se io vi credessi», dice, «dovrei parlarne con il mio capo a tempo debito, se e quando riuscirò ad avere la sua totale attenzione. E se riuscirò a convincerla, cosa che non è scontata, allora lei dovrà sottoporre il vostro
dossier al suo capo a Washington per poter fare qualcosa, se davvero è una storia grossa come dite. E ci vuole tempo, signorina Morgan. Sa quanti teorici del complotto si presentano ogni giorno all’FBI per parlare del crimine del secolo?». Kat ride e scuote la testa, con i capelli dorati che le ricadono sulle spalle. «Posso solo immaginarlo», commenta. «Ma lei non pensa davvero che noi siamo teorici del complotto, vero?». Le brillano gli occhi. «Siamo solo un esperto informatico, una studentessa di legge, un’addetta alle pubbliche relazioni…». A queste parole accenna a se stessa con ostentazione. «E due
uomini d’affari ricchissimi che potrebbero fare un sacco di altre cose piuttosto che presentare una denuncia all’FBI. Questi due sono stati in copertina su “Businessweek”, per l’amor del cielo». Scoppia a ridere. «Non c’è nessun pazzo tra noi. Be’, okay, devo ammettere che io sono un po’ pazzerella». Mostra l’indice e il pollice, a pochi millimetri di distanza, giusto per enfatizzare il concetto. «Ma non come i pazzi di cui parla lei». Ragazzi, è brava davvero. Mi devo sforzare per non ridacchiare. L’agente Eric sospira. «Sarò contento di dare un’occhiata al vostro dossier a tempo debito…».
«Agente Sheffield, la imploro. Non metta il nostro dossier su qualche pila, la prego. Lo esamini ora. Ci permetta di spiegarle tutto, pagina per pagina. Le garantisco che non se ne pentirà». Eric guarda l’orologio. Avrà una montagna di accertamenti che lo aspettano. «Henn», interviene Sarah, «potresti per piacere far sentire all’agente speciale Sheffield il messaggio vocale che abbiamo preparato?» «Sì, signora». Henn preme un tasto sul suo computer e per circa otto secondi la voce roca del Travolta ucraino riempie la stanza. Finita la registrazione, Sarah riprende
a parlare con calma. «Questo è solo uno dei messaggi che il nostro esperto informatico, Peter Hennessey, ha recuperato dal cellulare di Maksim Belenko, la mente dietro le varie operazioni del Club. In questo messaggio specifico, un sicario di nome Yuri Navolska chiede a Belenko se deve comunque eseguire gli ordini ricevuti e uccidere il bersaglio prefissato o se invece, viste le informazioni appena scoperte, deve aspettare». L’agente speciale Eric spalanca gli occhi, decisamente incuriosito. «Un interprete ucraino, consapevole delle conseguenze penali in caso di falsa testimonianza, glielo confermerà in una
dichiarazione giurata e, ovviamente, il signor Hennessey giurerà che il messaggio viene dal cellulare di Belenko». Henn annuisce in modo brusco. «E visto che, mentre lasciava quel messaggio, Yuri Navolska mi teneva un coltello alla gola in un bagno della University of Washington, io posso garantirle personalmente che è vero». Ora sì che ha la completa attenzione dell’agente. Sarah prosegue l’attacco. «Circa un minuto dopo aver lasciato quel messaggio, Navolska mi ha reciso la vena giugulare esterna e mi ha accoltellato al torace, facendomi cadere
all’indietro e sbattere la testa contro un lavandino». Inclina il capo per rivelare la cicatrice sul collo. «Mi dica se vuole vedere anche le cicatrici sul torace e sulla testa e gliele mostrerò». L’agente Eric inspira a fondo. «No, va bene così. Le credo». «La prego», si intromette Kat, con voce sinceramente emozionata. «Questa gente ha cercato di uccidere la mia migliore amica». La Kat Civettuola è sparita; ora è diventata la Kat Onesta. «Ci conceda solo un paio d’ore del suo tempo». Persino io mi rendo conto di quanto sia bella in questo momento. La vulnerabilità le si addice. «Avete altri messaggi oltre a questo?»,
s’informa Eric. «Diversi», conferma Henn. «Su un sacco di brutti affari. Maksim Belenko è un cattivo coi fiocchi: prostituzione, armi, droga, riciclaggio di denaro sporco». «Questo dossier presenta ogni fatto con dovizia di particolari», dice Sarah, afferrando il plico pesante e tenendolo sospeso in aria. «Ogni singola accusa contenuta qui dentro è vera e avvalorata da prove valide e inconfutabili». Lo lascia ricadere sul tavolo con un sonoro tonfo. L’atteggiamento dell’agente Eric è cambiato diametralmente rispetto a quando siamo entrati dalla porta.
«Okay», concede con un sospiro. «Vediamo cos’avete. Esamineremo questo dossier insieme pagina per pagina e, se davvero è come dite, lo porterò oggi stesso al mio capo». Alza gli occhi verso il soffitto. «Ma, vi prego, per amor del cielo, non raccontatemi cazzate su nessunissima cosa. Okay?». Annuiamo tutti profusamente. «Se devo espormi, dovete promettermi di dire tutta la verità». «Grazie», dice Kat. «Glielo promettiamo». Gli rivolge un’occhiata come se gli avesse appena promesso un pompino. Il segnale di ritirata della Kat Vulnerabile. «Forza», dice l’agente Eric,
mettendosi comodo sulla sedia con lo sguardo fisso su Kat. «Sono tutto vostro».
Capitolo trentasette
Jonas
Sono quasi tre ore che ripercorriamo il dossier di Sarah e le prove annesse insieme all’agente speciale Eric. In tutto questo tempo, lui è apparso a fasi alterne eccitato, sopraffatto, ansioso e affascinato, ma sempre convinto. «Allora, cosa volete che faccia?», chiede infine, sfogliando il registro delle prove e sforzandosi di nascondere il fatto che se la sta facendo sotto. «Vogliamo incontrare i pezzi grossi di
FBI, CIA
e servizi segreti a Washington entro due giorni», rispondo. Eric mantiene un’espressione impassibile, ma si capisce che sta perdendo la testa. «Sono abbastanza sicuro di poter convincere il mio capo», dice, accennando al dossier. «Ma dubito che lei riuscirà a coinvolgere le altre agenzie». «Stiamo parlando del segretario della Difesa degli Stati Uniti d’America», gli faccio notare. «Non sappiamo chi possa avere in pugno quell’uomo all’interno dell’FBI». Eric apre la bocca per protestare, ma non gliene do il tempo. «Non è che non mi fidi di nessuno
nell’FBI in sé. La penso allo stesso modo anche per i pezzi grossi della CIA e dei servizi segreti. Ci stiamo semplicemente tutelando, aumentando le possibilità che questa storia venga gestita come si deve». L’agente Eric si sfrega gli occhi. «Tutte e tre le agenzie entro due giorni?». Annuisco. Scuote la testa. «Sarà dura convincere tutti». «Ci dica cosa fare per riuscirci». «Consegnateci i soldi». «Fatto», interviene Sarah. «C’è una stampata con tutti i conti correnti del Club nella Tavola D nel registro delle
prove. Abbiamo oscurato i numeri dei conti, ma…». «No, consegnateci i soldi veri, non una stampata. Volete che l’FBI, la CIA e i servizi segreti saltino perché glielo dite voi? Allora dategli un’operazione chiavi in mano». «Ma non possiamo», ribatte Sarah. «Quei conti richiedono…». «Sì che possiamo», la interrompe Henn. Sarah lo guarda come a dire “ma che cazzo dici?”, e a ragione. L’hacker ci aveva detto che era necessario firmare di persona per i trasferimenti di un certo valore. «Possiamo farlo», insiste lui.
«Okay», dice Sarah piano, guardandolo con espressione interrogativa. «Anche in questo caso però, abbiamo un problema. Se spostiamo i soldi prima che siate pronti a intervenire, Belenko capirà subito chi l’ha fottuto e darà la caccia a me e a Jonas… e chissà cos’altro potrebbe fare». «Ha ragione», intervengo. «Non possiamo spostare i soldi per convincervi ad agire. Dev’essere il contrario». Eric sospira e alza gli occhi al cielo. «Non mi state dicendo una cazzata, vero? Potete farlo?». Guardiamo tutti Henn.
«Possiamo farlo». «Allora garantirò io per voi con il mio capo», dice l’agente speciale. «Farò tutto quanto è in mio potere». Sospiriamo tutti di sollievo. «Ehi, agente Sheffield», dice Sarah. «Devo chiederle un favore». Ci voltiamo tutti verso di lei, sorpresi. Non ne abbiamo discusso prima. Di cosa cazzo sta parlando? Eric increspa le labbra, in attesa di sentire la richiesta. «Ha detto che lei si occupa di accertamenti, giusto?», domanda Sarah. «Già», risponde lui. «Tutti i giorni». «Vorrei che rintracciasse due persone per me».
L’agente inarca un sopracciglio, e anch’io. Cosa sta dicendo? «Non si tratta di una richiesta. È solo un favore personale. Ma è molto importante». Ho il cuore a mille. «Chi sono queste due persone?», chiede Eric. «La prima è una donna venezuelana che si chiama Mariela». Resto all’istante senza fiato. Sarah non mi guarda. «Non conosco il suo cognome, ma ha lavorato per Joseph e Grace Faraday a Seattle tra il 1984 e il 1991 circa». Lancio un’occhiata a Josh. È rimasto anche lui a bocca aperta. Nascondo il
viso tra le mani, come se stessi riflettendo, o fossi stanco, o avessi mal di testa. Ma in realtà sto soffocando le lacrime. «Nel 1991 Grace Faraday è stata assassinata a casa sua e per l’omicidio è stato condannato il fidanzato della sorella di Mariela. Dovrebbe riuscire a scoprire il cognome della donna risalendo dall’assassino alla sua fidanzata, e poi a Mariela. Magari la sorella andava a trovarlo in carcere? Magari è stata interrogata o ha rilasciato una dichiarazione durante le indagini o al processo? Da qualche parte ci sarà pure una testimonianza su di lei e quella dovrebbe portarla al cognome di
Mariela». Tremante, sospiro e Sarah mi afferra la coscia sotto al tavolo. Guardo mio fratello. Anche lui ha il viso nascosto tra le mani. Non riesco a respirare. «Aspetti», dice Eric. «Può ripetere tutto?». Sarah racconta di nuovo tutta la storia con calma, accarezzandomi nel mentre la coscia. «Deve ritrovare Mariela… o se non è più in vita, i suoi figli». Quest’ultima parte è come una pugnalata al cuore. Mariela potrebbe essere morta? Faccio un rapido calcolo a mente. Quanti anni aveva quando io e Josh ne avevamo sette? Una trentina? All’epoca non conoscevo ancora il
concetto di età, per me erano tutti adulti, ma scommetto che fosse più giovane di me adesso. Quanti anni può avere? Una cinquantina, probabilmente? Eric alza lo sguardo dal taccuino. «Okay. Mi sembra fattibile». Ho lo stomaco sottosopra. Questo tipo rintraccerà Mariela? Guardo Josh e lui scuote la testa, del tutto sotto shock. Dalla mia faccia deve capire che mi sento esattamente allo stesso modo. «È fantastico, Eric», commenta Sarah. «Grazie. E c’è anche un’altra donna. Non conosco il suo nome, ma il cognome da nubile era Westbrook». Merda. Io e Josh ci guardiamo di nuovo, sbalorditi. Anche la signorina
Westbrook? Cosa cazzo sta facendo Sarah? «La signorina Westbrook insegnava a Seattle probabilmente nel 1992 e poi ha sposato un ufficiale della Marina di nome Santorini, di base a San Diego». «Cosa c’entrano queste due donne con il Club?», s’informa Eric. «Assolutamente nulla», risponde Sarah, guardandomi con gli occhi scintillanti. «Si tratta di un favore personale. Non conoscendo il loro nome completo, io non ho i mezzi per ritrovarle da sola, ma lei sì». Eric si stringe nelle spalle come se fosse ovvio. Dopotutto, lavora per l’FBI. «Non dovrebbe essere un problema». Le
sorride. «Grazie. Ho bisogno di queste informazioni il prima possibile, per favore». «Farò del mio meglio». Fremo per l’ansia e l’eccitazione e tutta una serie di altre emozioni che non riesco nemmeno a definire. Cos’ha in mente Sarah? Guardo per l’ennesima volta mio fratello, che mi fissa come se fossi un alieno, scioccato che io abbia parlato a Sarah di Mariela e della signorina Westbrook. «Oh», dice Sarah. «Quasi dimenticavo. La seconda donna, la signora Westbrook Santorini, ha un figlio di nome Jonas, che avrà…», alza gli
occhi verso il soffitto, facendo due calcoli a mente, «sui diciassette anni ormai. Magari questa informazione la può aiutare». Il mio cuore salta un battito. Merda. Jonas Santorini. Non avevo mai pensato al figlio della signorina Westbrook come a un essere vivente, e di certo non come a un adolescente. Per me è sempre stato solo un pancione, cristallizzato nel tempo. «Capito», commenta Eric, prendendo un appunto sul taccuino. «Come si chiama la scuola di Seattle dove insegnava la signorina Westbrook, Jonas?», mi chiede Sarah. «Potrebbe essere utile per la ricerca di Eric».
Ho le guance in fiamme. Apro la bocca ma non ne esce nulla. «È la Saint Francis Academy», risponde Josh. Lo guardo e lui mi rivolge un gran sorriso. Come ai vecchi tempi. Sarah mi cinge la schiena con un braccio e mi stringe. «Okay, farò del mio meglio», afferma l’agente Eric. «La ringrazio», dice Sarah. «Non dovrebbe essere troppo difficile». Eric spinge da parte il taccuino, raggiante per l’eccitazione. «Okay, dovrei avere tutto ciò che mi serve». Cerca di mostrarsi calmo, ma se la sta godendo un mondo. «Ora, giusto
per essere chiari, promettete di darci pieno accesso a tutto, giusto? Senza restrizioni né eccezioni? Al sistema operativo, alle liste dei membri, alle caselle vocali, ai codici… e ai soldi?». Guardiamo tutti Henn. Lui è l’unico in questa stanza che sappia se possiamo fare una promessa tanto grande. «Sì», risponde l’hacker. «A tutto». «Ma li consegneremo solo a rappresentanti di alto livello di FBI, CIA e servizi segreti. E voglio che ci sia anche lei, Eric. Dica al suo capo che la sua presenza è una condizione non negoziabile del nostro accordo. Le dica che, se necessario, pagherò io il suo viaggio fino a Washington, ma deve
esserci anche lei». Eric si illumina. Nella sua carriera agli inizi, non deve aver partecipato a molti incontri con i pezzi grossi. «Okay», dice, pronto per combattere. «Andrò subito a parlare con il capo. Vi chiamo più tardi». Fa un cenno a Kat, per rassicurare soprattutto lei. «Vi prometto che darò il massimo». «Lo so, Eric», commenta lei in tono mellifluo. «Confido pienamente in lei».
Capitolo trentotto
Sarah
«Henn, passami il ketchup», dice Josh. Stiamo mangiando tutti e cinque come degli ingordi al ristorante Americana nel nostro hotel. Il tavolo è pieno di hamburger, patatine fritte e birra – persino Jonas sta divorando un cheeseburger con pancetta e le patatine, due cose che non gli ho mai visto ordinare – e intanto discutiamo entusiasti dell’incontro con l’agente speciale Eric, come se stessimo
analizzando la moviola di una partita dei Seahawks. L’opinione generale è che oggi Kat è stata il nostro quarterback ed è andata decisamente in meta. Henn passa il ketchup a Jonas, ma tiene lo sguardo fisso su Kat. «Chi è il cazzo di genio adesso?», dice. «Diamine, che ragazza». Le dà il cinque. Kat è raggiante. «A Kat», dico e sollevo la mia birra. I ragazzi mi imitano e brindiamo in onore della mia amica. «È grazie a te che Eric ci ha preso sul serio», dico. «Senza dubbio». «Oh, grazie», risponde lei. «Ma è stato un lavoro di squadra». Alziamo di nuovo i bicchieri e
brindiamo “alla squadra”. «Allora, Henn, come facciamo a prendere i soldi?», interviene Josh. «Pensavo avessi detto che la maggior parte dei conti prevede solo trasferimenti effettuati di persona». «Giusto», conferma l’hacker. «Il che significa, ovviamente, che dovremo trasferire i soldi di persona». Restiamo tutti in silenzio, senza capire cosa intenda. Henn tiene lo sguardo fisso su Kat. «Buongiorno, Oksana Belenko». Dall’espressione di Kat, pare che le abbiano appena detto che è stata scelta per cantare l’inno nazionale al Super Bowl.
«Andrai alla grande», prosegue Henn. «Ti preparerò un passaporto e una patente…». «Oh, non so», farfuglia lei. «Non so se ce la farò…». «Certo che ce la farai», ribatte lui, cercando di confortarla. «E oggi l’hai dimostrato. Senza ombra di dubbio». Le rivolge un gran sorriso. «Non preoccuparti, cara la mia Kat». Le sfiora il dorso della mano. «Violerò ogni conto e toglierò una trentina d’anni all’età di Oksana. Non dubiteranno che tu sia lei nemmeno per un secondo. E ti accompagnerò in ogni singola banca. Sarò sempre al tuo fianco». Le sorride per rassicurarla. Oh, questo ragazzo la
adora proprio. «Ma Kat sarà al sicuro?», domando. «Me ne accerterò personalmente», dice l’hacker. «E anch’io», aggiunge Josh. È una follia. Possiamo davvero chiederle di farlo? Perché Henn e Josh si comportano come se fosse una richiesta del tutto ragionevole? Guardo Jonas, certa che sia ansioso quanto me, invece lo vedo annuire con convinzione. Ma sono impazziti tutti quanti? Di fianco al nostro tavolo passa una cameriera e Kat la intercetta. «Patrón doppia per tutti, per favore». Quando la ragazza si allontana, Kat si concede un lungo sospiro. «Okay, lo farò».
«Kat, sei sicura?», le chiedo. «Non sei obbligata». «Sì, invece. Non si tratta più di un semplice colpo al casino, ragazzi. E bella signora». Mi fa l’occhiolino. «Qui si tratta di schiacciare questi tizi perché non possano più farti del male, Sarah. Facile». Sollevano tutti la birra e brindano a Kat, tranne me però, perché sono troppo spaventata per festeggiare. So fin troppo bene con che razza di criminali abbiamo a che fare. «Apriremo un conto corrente offshore», dice Jonas, già avanti con il pensiero. «E all’ultimo momento ci faremo confluire tutti i soldi».
«Due conti offshore», interviene Josh. «Secondo me dovremmo prenderci una piccola commissione. Non credi, fratello? Magari l’un percento?» «Sì, cazzo», accetta Jonas. «È un’idea geniale. Sì, cinque milioni e mezzo mi sembrano una giusta commissione. Kat e Henn, a voi ne spetta uno a testa. Ve lo siete guadagnato». I due si guardano l’un l’altro, completamente sotto shock. «Dici sul serio?», strilla lei. «Mi darai un milione di dollari?» «Te lo sei meritato». Kat urla di nuovo. Si alza e per la gioia corre dall’altra parte del tavolo per abbracciare Jonas e baciarlo sulla
guancia, come se avesse appena vinto il titolo di Miss America. Poi afferra me e mi bacia sulle labbra, ridendo. Dopo passa a Josh, con la chiara intenzione di dargli un casto bacetto sulla guancia, ma lui la solleva da terra e la bacia sulla bocca. Diavolo, wow, questo sì che è un bacio e, dalla reazione di Kat, pare che si stia sciogliendo nelle mutandine. Buon Dio, questi due insieme sono davvero sexy. Credo di aver appena avuto la risposta al dubbio se vadano a letto insieme. Avvilito, Henn distoglie lo sguardo dalle loro smancerie. Quando finalmente si stacca da Kat, Josh commenta: «Era una vita che
aspettavo di farlo». «Perché diamine hai aspettato tanto, playboy?», dice Kat senza fiato, con il viso in fiamme. Alt. Cosa? Questo è stato il loro primo bacio? Josh ridacchia. «Già, me lo chiedo anch’io». «Allora vuol dire che me lo dirai, finalmente?», sussurra Kat. Josh annuisce. Oddio, ha le guance di fuoco. “Di cosa diamine stanno parlando questi due?”. Sono curiosa. Kat torna a sedersi con un sorrisetto diabolico ma, vedendo l’espressione di Henn dall’altro lato del tavolo, si
rabbuia in viso. «Oh, Henn. Mi dispiace». L’hacker scuote la testa. «No, va bene così. Siete i migliori». Deglutisce a fatica. «Senza ombra di dubbio». Si sforza di sorridere. Josh assume un’aria di scuse. «Ehi, Henn…». «No, davvero». Accantona la questione con un cenno della mano. «Sto bene». Invece non sta bene. Per niente. Oh, poverino. Kat fa il giro del tavolo e gli cinge le spalle. «Sei tu il migliore». Gli dà un bacio leggero sulla guancia. «Sono orgogliosa di poter dire che sei mio
amico». Non che sia una gran consolazione per il poveretto, ma dovrà accontentarsi. Arriva la cameriera con la tequila ordinata da Kat e alziamo tutti i bicchieri. «All’allegra festaiola con un trattino e al nostro hacker», dico. «Una coppia di mi-lio-na-ri». «Oh sì», aggiunge Josh con uno sguardo di fuoco rivolto a Kat, e beviamo tutti la tequila alla goccia. «Be’, non mettiamo il carro davanti ai buoi», dice Kat. «Dobbiamo ancora riuscire a prendere i soldi». «Oh, li prenderemo, non preoccuparti», dice Henn, sforzandosi di
apparire spensierato. L’espressione sul suo viso è una tortura. Un milione di dollari non basta a curare un cuore infranto. «E tu, Jonas?», chiedo, per distogliere l’attenzione dal povero Henn. «Devono dei soldi anche a te». «Eccome. Quegli stronzi si sono presi i duecentocinquantamila dollari che ti avevo dato, e ho intenzione di recuperarli per te, e poi rivoglio i centottantamila che gli ho dato per convincerli che sono un idiota del cazzo». «Be’, più i primi duecentocinquantamila che hai sborsato per l’iscrizione», aggiungo.
«No, quelli non me li merito», ribatte lui. «Non mi spetta un risarcimento per essere stato un coglione». «Jonas, ma te li hanno presi con l’inganno», dico. «No invece». Si stringe nelle spalle. «A prescindere da tutto, è stata una mia scelta iscrivermi per un anno intero. Chi cazzo lo farebbe?». Lancia un’occhiata al fratello, con un mezzo sorriso. «E comunque, si è rivelato il miglior investimento della mia vita». Mi fa l’occhiolino e io gli rivolgo un sorriso che va da un orecchio all’altro. Adoro sentirglielo dire. «Rivoglio solo i soldi che mi hanno rubato e la paga per Kat e Henn, tutto il resto del piatto è tuo,
Sarah Cruz», dice. «Cosa?», sbotto. «Quei pezzi di merda ti hanno quasi ucciso, piccola. Ti devono molto più di tre milioni di dollari. E poi, in questa storia sei stata il nostro intrepido George Clooney. Te li meriti». Annuiscono tutti con enfasi. «Non posso…». «Certo che puoi», interviene Josh. «Assolutamente», aggiunge Kat. «E tu, Josh? Non vuoi anche tu una fetta dei soldi?», gli chiedo. Lui scoppia a ridere. «No, che diamine». «Ma ci hai aiutato fin dall’inizio…». «Certo. Non avrei mai fatto
altrimenti». Sorride al fratello. Sospiro. Wow. Tre milioni di dollari? Sono tentata, lo ammetto, ma sono troppi. Non fraintendetemi, non sono mica una santa. Se Kat e Henn sono disposti a prendersi un milione, lo sono anch’io. Ma tre? No. Già con uno potrei fare tutto ciò che ho sempre sognato: comprare una casa a mia madre, pagarmi l’università (perché ormai la borsa di studio è solo un miraggio) e magari mettere da parte qualcosa per le incertezze della vita. Ma, per il resto, non mi serve altro. In un modo o nell’altro, con la laurea in legge riuscirò sempre a prendermi cura di me. Ho un bel posto in cui vivere con Jonas
nell’immediato futuro e, se volessi viaggiare e andare in qualsiasi parte del mondo, il mio aitante fidanzato mi ha già detto che devo solo dirglielo. Che altro potrebbe servirmi? Visto che Jonas non è tipo da matrimonio, in teoria dovrei mettere da parte dei soldi per il giorno presumibilmente inevitabile in cui le cose andranno a farsi friggere tra noi e non potrò contare su nessuno al mondo oltre me stessa, ma io so che quel giorno non arriverà mai. Per l’amor del cielo, quest’uomo si è inciso una dichiarazione d’amore eterna per me sulla propria pelle. La sua promessa di essere mio per sempre non poteva essere più chiara, e
io gli credo. Sì, nonostante i lavaggi del cervello alla Hallmark e Disney, credo al mio dolce Jonas con tutto il cuore. «Non prendere una decisione adesso», mi dice Jonas, accarezzandomi una coscia. «Pensaci su». Annuisco. «Okay, ci penserò». E, in effetti, mi è già venuta una bella idea di come fare buon uso di tutti quei soldi. «Allora, Henn, quanto pensi che ci metterai per…». Vengo interrotta dall’arrivo di una figura al nostro tavolo. Accidenti. Oddio. Porca puttana. Non è possibile. Non può essere vero. No, no, no. È Max.
Capitolo trentanove
Jonas
Cosa cazzo ci fa qui Max? Seduta accanto a me, Sarah sobbalza come se l’avessero colpita con un Taser. Merda. Forse ci ha visti andare all’FBI? Cazzo. No, non è possibile. Abbiamo fatto dei ridicoli salti mortali per accertarci di non essere seguiti e sono sicuro al cento percento che abbia funzionato. Max deve avere uno scagnozzo qui in albergo che l’ha chiamato quando siamo rientrati.
«Cosa vuoi?», gli dico, cingendo Sarah con un braccio. Wow, sta proprio tremando. «Buongiorno, signor Faraday», mi saluta lui. «Sarah». Lancia un’occhiata al resto del tavolo ma bada solo a Sarah e a me. «Spero vi stiate ancora godendo il soggiorno a Las Vegas». «Cosa cazzo vuoi?», ripeto. Sarah mi stringe una coscia, probabilmente per farmi capire di stare attento. Ma questo stronzo pensa che io sia un coglione possessivo, giusto? E lo sono davvero, quindi che vada pure a farsi fottere. «Avevo un affare da sbrigare qui in hotel. Che coincidenza incontrarvi per
caso», spiega Max. Serro la mascella e lo fulmino con lo sguardo. Mi ci vuole tutto l’autocontrollo di cui dispongo per non balzare in piedi, afferrargli quei suoi cazzo di capelli pettinati all’indietro con il gel e prendere a cazzotti il suo muso compiaciuto. Questo stronzo ha versato il sangue sacro della mia piccola sul pavimento di un bagno e l’ha lasciata là a morire. Questo stronzo figlio di puttana succhiacazzi le fa venire gli incubi quasi ogni cazzo di notte. Voglio staccargli la testa. Voglio tagliargli la gola e stare a guardare mentre il suo sangue cola a terra. Lo voglio vedere morto, cazzo.
Come al solito, Sarah mi legge nel pensiero e allunga un braccio davanti al mio corpo, come per tenermi a bada. «Ciao, Max», dice, con voce tremante. «Sì, è proprio una coincidenza. Ehi, ragazzi, questo è Max, un mio amico. E questi sono amici di Jonas che ci hanno raggiunto per fare festa insieme a noi. Josh, il fratello di Jonas, Kayley, la ragazza di Josh, e Scott, il suo compagno di stanza all’università». Max annuisce con aria assente. «Devo rubarti solo per un paio di minuti, Sarah». Le porge una mano, come se si aspettasse davvero che lei gliela stringesse. «No», dico, e la schiaccio contro di
me. Sono a un soffio dal prendere un coltello dal tavolo e tagliare la gola a questo figlio di puttana del cazzo. Max digrigna i denti. «Ehi, ragazzi». Sarah si rivolge agli altri. «Potete scusarci per qualche minuto?». Loro si guardano l’un altro, perplessi. «Ehm», prende tempo Josh, fissandomi in attesa di un segnale. Annuisco. «Certo», risponde allora mio fratello. «Su, Kayley. Scott. Andiamo a lanciare qualche dado». E se ne vanno, osservandoci con espressione circospetta. Quando Max si sistema su una delle
sedie appena rimaste vuote, sento il cuore in gola. Potrei uccidere questo stronzo adesso. Potrei allungarmi sul tavolo, afferrare la sua cazzo di testa e girargli il collo con tutta la forza che ho. Ma non posso, maledizione. Per il bene di Sarah; per il bene della nostra missione; per il bene di tutti e non solo per il mio; affinché non dobbiamo più essere costretti a guardarci alle spalle, devo tenere a bada i miei impulsi. Serro la mascella come un epilettico sull’orlo di una crisi. «Ci vorranno solo pochi minuti», riprende a parlare Max in tono neutro. «Perché non va a scommettere anche lei, signor Faraday?».
Mi sporgo in avanti. «Vaffanculo», rispondo. «Figlio di puttana». Max strizza gli occhi. «Ho sborsato ottantamila dollari per possedere questa donna per ogni secondo di ogni giorno per il prossimo mese. E lei è mia. Ogni centimetro del suo corpo, dentro e fuori. Ogni singolo capello sulla sua bellissima testa. Quindi, vaffanculo». Con un sorrisetto, Max si appoggia allo schienale della sedia, palesemente sorpreso. Sarah, che ancora trema come una foglia, si sporge verso di me. «Per il prossimo mese, questa donna è mia, figlio di puttana. Non voglio che la
chiami. Non voglio che le mandi messaggi. Non voglio che ti “fermi al nostro tavolo” per una cosiddetta “coincidenza” a parlarle. Non voglio nemmeno che la guardi». Non mi sorprenderei se in questo istante mi uscisse del fumo dalle orecchie. «È mia». Max strizza di nuovo gli occhi e serra i denti. Dopo un attimo si alza e, nonostante le mie esplicite istruzioni, tiene lo sguardo fisso su Sarah. «Goditi questo mese, Sarah». «Sei sordo, figlio di puttana? Non parlarle. Non guardarla, cazzo», sbraito. «Ho pagato ottantamila dollari per essere l’unico uomo a godere di questi
sublimi piaceri». Max mi ignora e continua a fissarla. «Ti aspetto nel mio ufficio non appena sarà finito questo mese. Quello stesso giorno». «Certo», risponde lei. «Non vedo l’ora». Giro la testa di scatto verso Sarah, sul punto di esplodere. Sarah mi stringe di nuovo la coscia sotto al tavolo. «Una volta finito il nostro mese, Jonas, dovrò tornare al lavoro», mi dice, tremando tutta stretta a me. «Devo pagare l’università, le cure mediche di mia madre e il mutuo di mio padre. Lo sai». Oh, Sarah. La Mia Magnifica Sarah.
Chissà come fa a restare sempre così concentrata, anche quando è spaventata a morte. «Ne parliamo dopo», dico, con un’occhiataccia a Max. «Perché sei ancora qui?». Con aria di sufficienza, gli faccio segno con la mano di andarsene. «È ora di smammare, figlio di puttana». Max freme di rabbia. «Sono impaziente di vederti tra un mese, Sarah». Mi lancia uno sguardo di fuoco. «Signor Faraday, le consiglio di fare attenzione a chi chiama “figlio di puttana”». Serra la mascella. Vuole uccidermi almeno quanto io voglio uccidere lui. «È una parola forte». «Fi-glio di put-ta-na», scandisco bene
ogni sillaba. «Sì, capisco. È proprio una parola forte, figlio di puttana». Mi sporgo in avanti, con lo sguardo torvo. «Come pezzo di merda. E stronzo. Testa di cazzo. Coglione». Dio, quanto vorrei uccidere questo figlio di puttana. «Succhia-caz-zi. E la lista potrebbe continuare, fi-glio di put-ta-na». Max scuote piano la testa. «Faccia attenzione, signor Faraday». «Grazie. Lo farò di certo, figlio di puttana». Con le narici dilatate, Max guarda Sarah per un istante, poi gira sui tacchi ed esce dal ristorante come una furia. Non appena sparisce, Sarah accanto a me comincia a muovere il corpo a scatti.
Le prendo il viso tra le mani e lo sento tremare sotto ai miei palmi. «Stai bene, piccola?». Fa di sì con la testa e deglutisce a fatica. «Sei al sicuro adesso, piccola… mia preziosa bambina». La stringo a me. «Se n’è andato». «Jonas», dice lei, senza fiato, scossa da tremiti violenti contro il mio petto. «Se n’è andato. Sei al sicuro». Le accarezzo i capelli, ma lei non la smette di tremare. Dio. Si contorce tutta come un pesce preso all’amo. «Jonas», ripete il mio nome. «Sono qui». Mi ritraggo e la guardo nei suoi occhioni scuri.
«Jonas». Ha la voce tesa. Dio, è proprio messa male. «Piccola, va tutto bene». Le do un bacio leggero. «Jonas, ti prego». Sembra che sia in ipotermia. Praticamente balbetta. «Ti ascolto, piccola. Cosa c’è? Dimmelo». Lei chiude gli occhi e solleva il viso verso il mio. «Riportami in camera, Jonas». Arrossisce. «Riportami in camera e scopami fino a farmi perdere la testa».
Capitolo quaranta
Sarah
Oltre all’agente speciale Eric e al suo capo di Las Vegas, con me e Jonas nella sala conferenze del quartier generale dell’FBI a Washington ci sono almeno quindici persone con un completo nero, uno sguardo duro e un’espressione serissima, che si sono identificate come rappresentanti dell’FBI, della CIA, dei servizi segreti, della DEA, del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives, del dipartimento di
Giustizia e, che diamine, di quello della Difesa. Oltre a tutta questa folla, ci sono poi tre tizi che mettono paura solo a guardarli e che, all’inizio della riunione, ormai quattro ore fa, hanno cortesemente rifiutato di presentarsi e da allora non hanno più aperto bocca. L’agente speciale Eric, che in mezzo a tanti colleghi navigati pare un bambino che ha accompagnato il padre al lavoro, ci ha chiamato ieri e ci ha detto di prendere il primo volo e portare il culo a Washington, ed è esattamente quel che abbiamo fatto. A quanto ci ha detto, il mio dossier ha innescato una tempesta di fuoco di attenzione all’interno dell’FBI, a cominciare dal suo capo di Las Vegas e
poi sempre più su lungo la catena di comando fino ai pezzi più grossi a Washington. Sembra che quando due ricchi e rispettati uomini d’affari (che non compaiono in nessuna lista di osservati speciali del governo) affermano che il segretario della Difesa è inconsapevolmente coinvolto in un’organizzazione criminale da un miliardo di dollari che finanzia con soldi e armi la politica aggressiva della Russia, e quando questi due magnati sono disposti a sacrificare la propria reputazione e forse persino a rischiare un’incriminazione per essersi fatti avanti, e quando questi due uomini
presentano le proprie accuse in un dossier a prova di bomba di cinquanta pagine con prove dettagliate e promettono di poter consegnare almeno mezzo miliardo di dollari a sostegno delle proprie affermazioni, be’, l’FBI se ne accorge eccome, che cazzo. E pure molti altri individui dall’aria spaventosa con strani badge. Seduti sul proverbiale posto che scotta ci siamo solo io e Jonas, mentre Henn, Josh e Kat (alias Oksana Belenko) sono rimasti a Las Vegas in attesa del nostro segnale per trasferire i soldi. Dire che ho passato le ultime quattro ore in questa sala conferenze a farmela sotto sarebbe l’eufemismo dell’anno. Ho cercato di
mostrarmi calma e composta, s’intende, ma probabilmente sono sembrata solo una pazza totale. Al contrario, fin dall’inizio della riunione Jonas non ha mai perso il suo sangue freddo (tranne quelle poche volte in cui gli ho visto tremare un ginocchio sotto al tavolo). Jonas è incantevole. Disarmante. Collaborativo. Onesto. Osservandolo, sto imparando molto sulla fiducia in se stessi e sulla tranquillità. È gradevole senza farsi in quattro per piacere a questa gente che, di conseguenza, lo rispetta. Vedendolo nelle ultime quattro ore a tenere in pugno la stanza come se il capo fosse lui, ho capito come mai ha così tanto successo
nel mondo degli affari. Prima di entrare in questa stanza, io e Jonas abbiamo concordato di mostrarci sempre del tutto onesti, a prescindere dalle conseguenze, e finora ci siamo sempre attenuti al piano, anche quando le nostre risposte ci hanno messo in imbarazzo o reso incriminabili. E abbiamo fatto bene. Perché anche se all’inizio ci sentivamo chiaramente sotto accusa, ora comincio a credere che tutti questi tizi tosti con i loro completi scuri credono davvero a ogni nostra parola. Ho i palmi delle mani sudati e li asciugo sulla gonna. «Chi altri è a conoscenza di questa storia?», s’informa il tizio del
dipartimento della Difesa, con in mano il mio dossier. «Qualcuno oltre a voi due e ai tre membri della vostra squadra?». Controlla gli appunti. «Katherine Morgan, Josh Faraday e Peter Hennessey?» «Nessuno oltre a noi cinque ha mai visto il dossier né è a conoscenza del suo contenuto», risponde Jonas, con voce forte e ferma. «Abbiamo mandato alcuni messaggi isolati a un traduttore ucraino, ma senza alcun contesto né informazioni». «Ne è sicuro? Nessuno oltre a voi cinque sa niente di tutto questo?», insiste il tizio della Difesa, studiando l’espressione di Jonas.
Lancio un’occhiata a uno degli agenti della CIA, che ha l’aria di uno capace di farci a pezzi e mettere i nostri corpi nel bagagliaio della macchina, e vedo che pende dalle labbra di Jonas. «Nessuno», ribadisce lui. «In pratica, Sarah ha inconsapevolmente lavorato per un giro di prostituzione su vasta scala – non proprio un argomento da mettere nel curriculum per un’aspirante avvocato – e io ho involontariamente dato un quarto di milione di dollari al suddetto giro di prostituzione per comprarmi sesso illimitato per un anno». Mi guarda con aria di scuse e gli sorrido. «E se tutto ciò non fosse già abbastanza per optare per una certa
discrezione, ora salta fuori che abbiamo a che fare con dei trafficanti di droga e armi il cui obiettivo principale è sostenere l’imperialismo russo. Se questo non è un valido motivo per limitare al massimo la diffusione del dossier, allora non so cosa possa esserlo». Il rappresentante del dipartimento di Giustizia ridacchia e altri due pezzi grossi si concedono un sorrisetto. Buon segno. «Sappiamo di essere nella merda fino al collo, scusate il linguaggio. Credetemi, non vogliamo assolutamente che la notizia di questa storia si diffonda».
Il tizio del dipartimento della Difesa pare soddisfatto, come tutti i presenti nella stanza. «Come comprenderete, la mia unica preoccupazione è proteggere questa donna», prosegue Jonas, toccandomi il braccio. «Non siamo qui per smascherare nessuno. E, visto il nostro coinvolgimento personale, preferiremmo non essere costretti a farlo. Non ci importa come vorrete procedere, come vorrete rigirare la questione, quali informazioni sceglierete di diffondere e quali no. È la vostra strategia, il vostro show, e noi non apriremo bocca a riguardo. Siamo qui solo per passarvi tutte le informazioni, aiutarvi e poi
toglierci dalle scatole». Ben detto. E non ha usato nemmeno una parolaccia. Oggi è il Jonas Educato. «In fin dei conti, l’unica cosa che mi importa è fotterli talmente tanto che, quando avremo finito con loro, non riusciranno più nemmeno a zoppicare», aggiunge Jonas, afferrandomi una mano. Come non detto. «Concordo», intervengo io. «Non ho alcun interesse a umiliare né smascherare nessuno». Fisso il tizio del dipartimento della Difesa, per fargli capire che mi riferisco al suo capo. Dev’essergli passato per la mente che potremmo avere intenzione di ricattare il segretario. «E concordo anche
sull’ultima parte più colorita». Sorrido timidamente. Sono nervosissima. A porte chiuse con Jonas sarò anche Orgasma, ma fare la supereroina in questa stanza sta mettendo a dura prova la fiducia in me stessa. I vari pezzi grossi si guardano intorno, per valutare le reazioni dei colleghi. «Noi siamo i buoni», dico in tono sincero, guardandoli. «Non siamo qui per nuocere a nessuno, ma per fare la cosa giusta. Voglio solo impedire ai cattivi di poter fare di nuovo del male a me o a qualcun altro». A queste ultime parole, mi trema la voce e Jonas mi cinge con un braccio, come per proteggermi.
Dall’espressione dell’agente più anziano della CIA, capisco che mi crede. Così come il tizio con i capelli grigi dei servizi segreti e la donna dell’FBI che, dalla sua aria, potrebbe benissimo mangiarmi a colazione. Oddio, ci credono tutti. Ne sono certa. Dopo una lunga occhiata con il tizio del dipartimento della Difesa, il pezzo grosso dell’FBI chiede: «E ci consegnerete tutto?» «Sì», conferma Jonas. «Tutto». I presenti annuiscono dal primo all’ultimo, soddisfatti. «Veniamo ai soldi», prosegue Jonas. «I miei uomini a Las Vegas sono pronti a trasferirli su un conto offshore.
Aspettano solo che io glielo dica». Mostra il cellulare. «Cinque minuti fa ho ricevuto un messaggio con la conferma che i soldi sono ancora tutti al loro posto, pronti per essere spostati. Ma il tempo è essenziale, ovviamente. Belenko potrebbe trasferire fino all’ultimo centesimo fuori dal Paese in qualsiasi momento». Il ginocchio di Jonas prende a tremare sotto al tavolo. Gli appoggio una mano sulla coscia e lo vedo fermarsi. L’agente dell’FBI fa un cenno alla collega di Las Vegas e poi i due conferiscono sottovoce per tre minuti buoni, nascondendo la bocca con le mani per non farci leggere le labbra.
Tutti gli altri aspettano pazienti al loro posto. «Okay», dice infine Mister FBI, staccandosi dalla collega. Non sono sicura di cosa significhi. Okay cosa? Segue un silenzio imbarazzato. A riempirlo è Jonas. «Prima di trasferirvi i fondi però, abbiamo alcune piccole condizioni», dice in tono neutro. Nella stanza si sente un sospiro collettivo di apprensione. Il capo dell’FBI raggela Jonas con uno sguardo diffidente. Se fossimo in un cartone animato, direbbe: «Capperi!». Jonas non si scoraggia però. «Voglio l’immunità per tutti i membri della mia
squadra circa la nostra affiliazione al Club e anche rispetto all’indagine». Mister FBI annuisce. Non è chiaro se perché accetta la condizione o ne prende semplicemente atto. «Vi aiuteremo per qualsiasi cosa abbiate bisogno, risponderemo a ogni vostra domanda e vi daremo tutte le dichiarazioni giurate di cui avrete bisogno per le indagini. Pagherò personalmente perché il mio hacker venga qui e vi aiuti a prendere in carico tutto il materiale che vi consegneremo e mi assicurerò che vi presti assistenza anche durante le indagini, se riterrete di aver bisogno di lui. Ma i nostri cinque nomi verranno completamente rimossi
da qualsiasi documento. Non siamo mai stati coinvolti con il Club né in questa indagine, in nessun modo. Di conseguenza, i file che vi forniremo non accenneranno in alcun modo a Sarah, a mio fratello o a me. Abbiamo eliminato ogni riferimento». Mi appoggia una mano sulla coscia sotto al tavolo. Il capo della CIA e il tizio del dipartimento della Difesa si scambiano un’occhiata. «Ma credetemi, anche senza i nostri nomi, avrete tutto il necessario per inchiodarli definitivamente», li rassicura Jonas. Il tizio dell’FBI fa per dire qualcosa, ma quello della Difesa lo interrompe.
«Il vostro esperto informatico ha alterato i file che ci consegnerete?», s’informa. «Giusto. Per cancellare ogni traccia del lavoro di Sarah e delle attività mie e di mio fratello legate al Club». Mister Difesa increspa le labbra. «Avete ancora accesso ai dati originali?». Jonas esita, riflettendo sulla risposta. «Sì», risponde infine, sincero. Sono contenta che si mantenga su questa linea. «Qualcuno oltre a voi ha accesso ai dati originali?» «No». Il tizio della Difesa annuisce. «E ci fornirete anche i servizi dell’hacker,
senza alcuna restrizione?» «Certo. Fino a che avrete bisogno di lui». Mister Difesa pare felice della risposta. Forse sta pensando di cancellare anche il nome di un’altra certa persona dai documenti… e bravo. «Mi assicurerò che Peter Hennessey sia disponibile per aiutarvi. Fidatevi di me, sarete elettrizzati di averlo in squadra. Adora stare dalla parte dei buoni». Jonas fa un sorrisetto. Segue una lunga pausa, in cui gli agenti delle diverse agenzie confabulano tra loro. «Accettiamo tutte le vostre condizioni», annuncia in tono neutro
Mister Difesa, senza consultare nessuno. Il pezzo grosso dell’FBI pare seccato, ma non lo contraddice. «Bene», commenta invece e, per un attimo, il suo sguardo si fa torvo. «Avete qualche altra condizione, signor Faraday?» «Sì». Mister FBI freme. Ovviamente non è la risposta che si aspettava. «Dirò alla mia squadra di trasferire tutti i fondi del Club, tranne l’un percento, in un conto offshore a cui sarete i soli ad avere accesso», spiega Jonas. «Potrete cambiare unilateralmente le password e avere la custodia immediata ed esclusiva dei
fondi». «E il restante un percento che non avete intenzione di trasferire?», s’informa Mister FBI. «È la nostra commissione», risponde Jonas. «Cinque milioni e mezzo e qualche spicciolo». Mister FBI si sposta nell’angolo della stanza e parla per un attimo con i tizi del dipartimento di Giustizia. «Ci sembra una commissione ragionevole», conclude, e torna a sedersi. «Limitata all’un percento dell’ammontare totale dei fondi che trasferirete». «Questo un percento verrà suddiviso tra diversi beneficiari», prosegue Jonas. «E voglio che ognuno percepisca i
propri soldi esentasse. Completamente esentasse». Il tizio dell’FBI guarda quello del dipartimento di Giustizia. «Nessuno dei presenti ha la giurisdizione circa le implicazioni fiscali della ricezione di fondi», commenta in tono imparziale. «Ma sono sicuro che qualcuno tra i presenti può sistemare la faccenda, solo per questa volta, visto che si tratta di una condizione non negoziabile», ribatte Jonas. “Indubbiamente”, penso io. Il pezzo grosso dell’FBI guarda di nuovo il rappresentante del dipartimento di Giustizia, che fa un cenno con il capo. Un agente della CIA attraversa la stanza e
si china per sussurrare qualcosa al suo collega dell’FBI. «Acconsentiremo a distribuire esentasse i vari importi del fondo, a condizione che ci diciate oggi chi percepirà quei soldi e in quale ammontare», dice infine il tizio dell’FBI, in apparenza seccato. «Ma una volta concluso l’accordo, sarà definitivo. Niente nuovi nomi». «Non c’è problema», dice Jonas. «Posso dirvi adesso i nomi dei beneficiari. Jonas Faraday percepirà cinquecentomila dollari, Peter Hennessey un milione e Katherine Morgan un altro milione, per un totale complessivo di due milioni e mezzo. Il
resto, più o meno tre milioni, andrà alla signorina Sarah Cruz». «In realtà, no», mi intrometto, «non è corretto». Jonas mi guarda a bocca aperta, colto alla sprovvista. Da quando mi ha parlato dei tre milioni, ci ho pensato molto e ho trovato un modo migliore di distribuirli piuttosto che tenermeli tutti per me. «I membri della squadra che Jonas ha appena nominato, compresa me, riceveranno un totale di tre milioni e mezzo. Io percepirò un milione, e non tre. I restanti due milioni verranno distribuiti in parti uguali ad altri beneficiari che non fanno parte della
nostra squadra». Jonas è perplesso. «Per mantenere la più assoluta riservatezza in merito a questa situazione, penso che dovrebbe essere il governo degli Stati Uniti, piuttosto che noi, a elargire i due milioni di dollari ai beneficiari. Siete disposti a farlo?». Mister FBI resta evasivo. «Dipende. Sentiamo». Jonas è davvero confuso. «Okay. Il primo beneficiario è Mariela Rafaela León de Guajardo, l’ex tata di Jonas, che al momento vive in Venezuela con il marito e tre figli adolescenti». Jonas si fa scarlatto e abbassa lo sguardo sul tavolo.
«L’agente speciale Sheffield ha rintracciato per noi il recapito di Mariela. Sarebbe così gentile da passarlo a tutti, agente Sheffield?». A sentire il suo nome, Eric si illumina in viso. «Certo». «Mariela è stata rimpatriata in Venezuela nel 1994. A quanto ho capito, il padre il Jonas, Joseph Faraday, ha sfruttato alcuni suoi agganci influenti perché accadesse». Guardo Jonas. Si morde il labbro con gli occhi fissi sul tavolo, come se si stesse trattenendo. «Pensavo che potreste giustificare il pagamento a Mariela come un risarcimento per il rimpatrio».
«Le faremo avere i suoi soldi», dice in tono cortese il tizio dell’FBI, prendendo appunti. «Ma non vi prometto niente su come verrà giustificato il pagamento». «Okay, bene. Grazie. Il secondo beneficiario è la signora Renee Westbrook Santorini, madre di due figli e vedova di Robert Santorini, agente delle Forze speciali della Marina». Jonas mi guarda scuotendo la testa, ma non per sgridarmi, piuttosto per dirmi «non la smetti mai di sorprendermi». «L’agente speciale Sheffield ha anche il suo recapito». Eric annuisce. Cerca di mostrarsi serio e professionale, ma pare un bambino che spegne le candeline sulla torta di
compleanno. «La signora Santorini è stata la maestra di Jonas. Il defunto marito Robert Santorini, membro delle Forze speciali della Marina, era di base a San Diego ed è stato ucciso in combattimento nel 1999. Pensavo che potreste giustificare i soldi per lei come qualcosa legato al servizio prestato dal marito». Mister FBI annuisce. «Sono certo che si possa fare qualcosa del genere». Ormai ho inserito la marcia. «Georgia Marianne Walker, di Seattle». Jonas fa una smorfia per l’emozione. Si schiarisce la voce e riabbassa lo sguardo.
«Non so come potrete giustificare il pagamento nei suoi confronti. È una madre single, è sopravvissuta al cancro e lavora per il servizio postale». Faccio una pausa per pensare. «Non so cosa…». «Credo che la signora Walker stia per ricevere un’eredità in quanto unica parente ancora in vita di un lontano cugino di terzo grado di cui non ha mai sentito parlare», interviene il pezzo grosso dell’FBI, reprimendo un sorriso. Sorrido anch’io. «Perfetto. La ringrazio». «Okay, qualcun altro?», domanda l’agente dell’FBI, alzando gli occhi dal taccuino. Durante tutta questa
conversazione, è stato molto gentile con me, quindi non dev’essere troppo seccato dalle mie richieste. «No, è tutto», dico, sorridendo al mio nuovo migliore amico. «I due milioni saranno divisi equamente tra Mariela, Renee e Georgia». «No, aspettate», interviene Jonas con voce ferma, e io avverto una stretta allo stomaco. Forse ho interpretato male la sua reazione? È arrabbiato con me? «C’è un altro beneficiario», dice Jonas. «Con quattro persone saranno cinquecentomila dollari a testa. Una bella cifra tonda tonda». Oh, grazie a Dio. È d’accordo con me. Ma chi è il quarto? Trattengo il fiato.
«Gloria Cruz, di Seattle», dice Jonas. Mi metto una mano sulla bocca. Jonas mi sorride ma, in un lampo, torna a pensare agli affari. Oh, dolce Jonas. Ha già donato una somma di denaro assurda all’associazione di mia madre e adesso vuole darle anche una fetta della torta? È un pensiero davvero gentile nei confronti di mia madre, ma anche una manna dal cielo per me, visto che avevo intenzione di usare metà dei miei soldi per comprarle una casa. Raggiante, guardo Jonas e lui mi dà un bacio leggero sulla guancia. «Grazie», sussurro. Lui mi fa un gran sorriso, ma poi
rivolge uno sguardo triste a Mister FBI. «Gloria Cruz gestisce un’associazione di beneficenza che si occupa di donne abusate, ma vogliamo che i soldi vadano a lei personalmente, esentasse. Dovrete inventarvi un motivo anche per il suo inaspettato colpo di fortuna». «Ci verrà in mente qualcosa», commenta Mister FBI. «Ci sono tutte?». Abbassa lo sguardo sugli appunti. «Mariela, Renee, Georgia e Gloria. Cinquecentomila a testa, esentasse, dando per scontato che ci consegnerete tutti i dati come promesso e che trasferirete con successo mezzo miliardo di dollari». «Sì, ci sono tutte», conferma Jonas. «E
lo faremo». «Altre condizioni?», chiede poi Mister FBI, ma dal suo tono è chiaro che sarà meglio che la risposta sia no. «È tutto», dico io con un sospiro di sollievo, ma Jonas mi parla sopra. «Sì, c’è un’altra cosa», dice. Un’altra? E cosa? Merda. Di qualsiasi cosa si tratti, sta proprio sfidando la sorte. I tizi dall’aria più severa gemono esasperati e due si scambiano un’occhiata come a dire «che pezzo di merda». Di cosa diavolo sta parlando Jonas? Si blocca. «Ma rivelerò quest’ultima condizione solo agli agenti di grado più
alto», dice in tono neutro. “Di cosa diavolo sta parlando?”. «Parlerò di quest’ultima richiesta solo ai diretti interessati». Tutti si guardano intorno, senza sapere che fare. Restare? Uscire? Mandarlo a farsi fottere? Dopo qualche mormorio, diversi tirapiedi si alzano per lasciare la stanza, compreso il povero Eric, che non pare per nulla felice. Passando di fianco a Jonas, gli rivolge una lunga occhiata implorante, nella chiara speranza che Jonas lo esima dall’uscire. Ma non accade. Con le braccia incrociate e battendo i piedi sotto al tavolo, fulmino Jonas con lo sguardo. Ragazzi, non vedo l’ora di
sentire cos’ha da dire. Quando la porta si richiude dietro ai tirapiedi e all’agente speciale Eric, Jonas si sporge verso di me, fino ad avere il viso a pochi centimetri dal mio. «Ci puoi scusare anche tu, piccola?», mi domanda sottovoce, come se mi stesse chiedendo se preferisco una o due zollette nel tè. Resto a bocca aperta. Si alza un brontolio sommesso. Ogni uomo nella stanza sussulta pieno di ansia per Jonas: davanti ai loro occhi c’è un uomo morto. «C’è una cosa che preferirei dire a questi uomini, ma non in tua presenza», aggiunge lui in tono cortese.
Sono incredula. Ha davvero detto che preferisce dire una cosa a questi gentili signori (e alla signora) non in mia presenza? Porto le mani alle guance per impedire che la mia testa si metta a girare di trecentosessanta gradi. Jonas preferisce dire una cosa non in mia presenza, eh? Be’, e se io preferissi restare a sentire qualsiasi cazzo di cosa il mio cazzo di ragazzo abbia intenzione di dire a questi cazzo di uomini (e alla donna) circa la mia cazzo di vita? Dopotutto, sono io che ho delle cazzo di cicatrici sul corpo. Sono io che sono quasi morta dissanguata in quel cazzo di bagno. Sono io che mi guardo alle spalle ovunque vado e che mi sveglio madida
di sudore freddo quasi ogni cazzo di notte. E sono io quella che verranno a cercare se questa cazzo di strategia si ritorcesse contro di noi. Apro la bocca per protestare, ma Jonas mi batte sul tempo. «Ricordi la promessa che non ho voluto farti?». Il suo sguardo è duro come il granito. «Quando non ho voluto prometterti di dirti sempre tutto?». Annuisco. Certo che mi ricordo quella conversazione. Mi ero pure incazzata. «È per questo». Serra la mascella. «Questo momento è il motivo preciso per cui non ho voluto farti quella promessa». Avverto un brivido lungo la schiena.
Jonas aveva previsto questo preciso momento? Lui mi guarda con occhi fermi. Un agente tossisce. Non so se abbia qualcosa in gola o se lo scambio di battute a cui sta assistendo lo metta troppo a disagio per trattenersi, qualunque cosa sia, però, arrossisco. Mi guardo intorno. Be’, è strano. Tutti i presenti aspettano che io prenda una decisione: resterò o me ne andrò? Stanno scommettendo a mente su ciò che farò nei prossimi cinque secondi: scoppierò in lacrime, mi metterò a strillare come una pazza o ribalterò il tavolo. Guardo Jonas. Il suo sguardo è intenso.
Irremovibile. È una bestia selvaggia. Ma è anche il mio dolce Jonas, l’uomo che mi ama come mai nessuno prima. L’uomo che io amo senza condizioni né riserve. L’uomo che darebbe la propria vita per me senza un attimo di esitazione. L’uomo di cui mi fido con tutta me stessa. Sospiro. Se il mio dolce Jonas ha bisogno di dire qualcosa, non in mia presenza, per proteggermi, se è questo che serve perché possa fare qualsiasi cosa lui pensi vada fatta, allora va bene. Dovrò fidarmi di nuovo ciecamente di lui. Mi chino e lo bacio sulle labbra. Non per istigarlo a pomiciare, ma per
dimostrare a tutti i presenti, compreso Jonas, che sì, mi fido di quest’uomo in modo incondizionato. Finito di baciarlo, appoggio la fronte alla sua e lui mi accarezza una guancia. Dopo un attimo, mi guardo intorno nella stanza, con aria sprezzante. Non piangerò, non mi metterò a strillare e non ribalterò nessun tavolo oggi, ragazzi (e signora dall’aria tosta). «Signori», dico, alzandomi. «E signora». Lei mi sorride. «Vi sono estremamente grata per il tempo e l’attenzione che ci avete concesso oggi. Grazie. Vi prego di sapere che, qualsiasi cosa Jonas stia per dirvi, di qualsiasi cosa si tratti, io ci sto al cento
percento».
Capitolo quarantuno
Sarah
Durante il nostro soggiorno a Washington, città che ho sempre desiderato visitare, avrei tanto voluto vedere il Lincoln Memorial, il Campidoglio, l’Obelisco, lo Smithsonian e il Vietnam Veterans Memorial, ma non è stato possibile. Dopo la maratona di ieri con i “federali” (termine che preferisco perché fa figo), io e Jonas siamo stati scortati al nostro hotel – sì, scortati – da
due uomini con un completo nero, pistole e auricolari – sì, auricolari – e lasciati nella nostra suite, da cui ci hanno detto senza mezzi termini di non uscire. E da allora i due uomini di scorta armati (e quelli che gli hanno dato il cambio) sono sempre rimasti fuori dalla porta della nostra stanza, e vi sono ancora, da quasi venti ore ormai. Non è chiaro se questi gentili agenti siano stati messi di guardia per non far entrare i cattivi o non far uscire i buoni, ma in entrambi i casi è piuttosto ovvio che non siamo liberi di andarcene. E io e Jonas abbiamo approfittato della situazione, ovviamente.
Jonas ride e una delle fragole che ho appoggiato sulla sua pancia scivola giù dal suo corpo nudo e cade sul letto. «Ehi», dico, e rimetto subito la fragola al suo posto. «Sta’ fermo». Con grande attenzione, continuo a costruire una piramide di fragole, strizzando gli occhi e mordendomi il labbro per la concentrazione. Jonas ride di nuovo e un’altra fragola rotola sulle lenzuola bianche. «Jonas P. Faraday», lo sgrido. «Controllati. È una questione importante, che cavolo». Do un gran morso a uno dei miei mattoni. Lui ride ancora. «Un po’ di rispetto, per favore. Sto
costruendo un edificio di importanza epica». Risistemo con cura l’ultima fragola in un solco profondo tra gli addominali di Jonas. «Devo fare bene le fondamenta altrimenti cadrà tutta la struttura». «Quindi stai progettando una piramide di fragole?», chiede lui, con una fragorosa risata. A quel movimento improvviso, precipita un’altra fragola. «Dio», urlo. «Sei la peggior torta umana alle fragole del mondo». Jonas ride di gusto. Non l’ho mai sentito ridere così. Sembra un bambino a cui viene fatto il solletico. «Scusa», si strozza quasi. Risistemo l’ultima fragola caduta e
continuo a costruire la mia opera d’arte. «Adesso sta’ fermo, per l’amor del cielo», ordino. «Altrimenti rovinerai tutto». Lui scoppia ancora a ridere ma si ricompone subito davanti al mio sguardo gelido. «Sì, signora», dice, sforzandosi di mostrarsi sottomesso. Quando però mi vede prendere la panna spray dal comodino, per completare la mia creazione traballante con il colpo di grazia in cima, lui si mette a ridere fragorosamente prima ancora che cominci a spruzzare. Dio, la sua risata è divina. È un suono di stupidità pura e disinibita, di abbandono completo e totale, di gioia. E
fa venire la ridarella anche a me. Ridendo come una pazza, rimetto la panna sul comodino e comincio a togliergli le fragole di dosso, una dopo l’altra, gettandole nel secchiello per lo champagne. «Non ce la faccio», commento. «Sei senza speranza». «Oh no, non dite così, signora. Datemi un’altra possibilità. Abbiate pietà di me». Mette le mani sotto la testa sul cuscino e mi guarda. «C’è sempre speranza, ricordate?». Non so a cosa si riferisca, ma adoro guardare i suoi bicipiti gonfi quando piega le braccia così. Mangio un’altra fragola.
«Su, mia bella agente di ammissione», dice lui, con un gran sorriso. «“Dobbiamo accettare la delusione che è limitata, ma non dobbiamo mai perdere l’infinita speranza”. Una volta un’agente davvero intelligente e con un culo delizioso mi ha citato questa frase di Martin Luther King». Ah già, ora ricordo. Gli ho scritto quella frase durante il nostro primo scambio di email, prima ancora che lui sapesse il mio nome. Non riesco a credere che se la ricordi ancora. Mi raggomitolo contro di lui e gli metto una fragola sulle labbra. Lui ne stacca un gran morso. «Ho anch’io una citazione per lei, caro
il mio Brutalmente Onesto Signor Faraday. “La speranza è il sogno di un uomo sveglio”. Una volta un bellissimo puttaniere generoso, simpatico, intelligente ed eroico con addominali sexy e labbra sensuali e… ehi, ma guarda un po’! Uno sguardo felice…». «Sì, molto, molto felice…». «Uh. Un bellissimo puttaniere con uno sguardo molto, molto felice mi ha detto questa frase di Aristotele». Jonas mi sorride, strizzando gli occhi azzurri. Apre la bocca come un uccellino e io gli do un’altra fragola. «Allora, siamo d’accordo che non sono senza speranza?», mi chiede tra un boccone e l’altro. «Una volta hai detto
che c’è sempre speranza. Ci credi ancora?» «Certo che ci credo. C’è sempre speranza. Una speranza infinita». «Una speranza infinita», ripete lui con riverenza. «A questo proposito, sei pronta per proseguire la nostra Avventura alla Occhio per Occhio, Mia Magnifica Sarah?» «Com’è che la “speranza infinita” porta direttamente al sesso orale, Jonas?». Scoppia a ridere. «Tutto porta direttamente al sesso orale. Non l’hai ancora capito?». Reclino la testa e rido anch’io. «Allora è un sì?»
«Solo se è compresa la panna spray». «Cazzo. Si può forse fare senza?». Prendo la panna. «Se si può, non voglio saperlo». Il telefono di Jonas sul comodino si mette a suonare, lui lo afferra e guarda lo schermo. «Oh, merda», mormora. So benissimo cosa significa: a chiamarlo è Eric. Abbiamo capito che qualcosa si stava muovendo quando Eric ci ha telefonato tre ore fa per dirci che Kat e i ragazzi dovevano cominciare subito a trasferire tutti i soldi. Ma non avevamo idea di cosa avessero in mente di fare di preciso i federali, né quando. Be’, stiamo per scoprirlo. «Pronto?», risponde Jonas. «Ehi, Eric.
Sì». Sento battere il suo cuore fin qui. Resta in ascolto per un attimo. «Tutti?». Alza gli occhi al cielo come se non riuscisse a credere alle proprie orecchie. «Sei sicuro?». Mi fa un cenno, con gli occhi spalancati. «Tutti», mi dice muovendo solo le labbra, e alza un pollice. Oddio. Kat e i ragazzi ce l’hanno fatta: hanno spostato tutti i cinquecentocinquantaquattro milioni. Merda, siamo proprio come in Ocean’s Eleven. «Aspetta un attimo». Jonas appoggia il telefono al petto. «La cifra finale supera i seicento milioni», sussurra. «Devono aver depositato altri fondi». Rimette il
telefono all’orecchio. «Okay, scusa. Cosa?». Il mio cuore batte alla stessa velocità delle ali di un colibrì. «Adesso?». Jonas mi indica come un matto il telecomando che sta nella mia metà di letto e io glielo lancio come se fosse una patata bollente. «Su che canale?», chiede. «Uno a caso?». La TV si accende su una puntata di SpongeBob e lui passa al canale successivo. Bingo: c’è un collegamento dal vivo per un’importante ultim’ora. Il tipo di notizia che finisce contemporaneamente su tutti i principali canali. «Sì, stiamo guardando. Ti richiamo». Chiude la telefonata. «Merda».
Sullo schermo, una giornalista parla al microfono e si preme un auricolare nell’orecchio. “Ultim’ora: minaccia terroristica sventata a Las Vegas”, si legge sulla parte bassa dello schermo. «…un sofisticato complotto terrorista è stato scoperto qui a Las Vegas», sta dicendo la donna. Alle sue spalle, alcuni agenti con i giubbotti antiproiettile entrano ed escono da un edificio anonimo, trasportando scatoloni. Accidenti, non è un semplice edificio anonimo: è l’edificio di merda del Club, dove io e Jonas abbiamo incontrato Oksana e Max. Jonas alza il volume. «Le autorità hanno confermato che
l’organizzazione terroristica stava progettando un attentato su vasta scala sul suolo americano, forse a Las Vegas. I dettagli del complotto non sono ancora stati resi noti». Jonas mi stringe una coscia, ma io sono troppo in ansia per reagire. «Tuttavia, stando alle dichiarazioni delle autorità, si sa per certo che il complotto era “sofisticato, imminente e imponente”, e che l’organizzazione terroristica ha dei legami con il governo russo». «Oh, merda», commenta Jonas. «Ha appena dato il via alla seconda guerra fredda». «Non ha accennato al giro di
prostituzione?», chiedo. «Credo di no». «Ripeto», dice la cronista, come se non l’avessimo già sentita la prima volta, «le autorità federali hanno sventato un imminente attacco terroristico a Las Vegas. Fonti affidabili riferiscono inoltre che la minaccia terroristica è in qualche modo legata al recente tentativo da parte della Russia di assumere il controllo dell’Ucraina». D’un tratto, sullo schermo dietro alla giornalista compare Oksana, scortata in manette fino a una macchina senza alcun segno distintivo. «Ecco Oksana», commento, senza fiato. Sembra sotto shock, come un
cervo davanti ai fari di un’auto. «Finora, quattordici persone sono state arrestate a Las Vegas, altre quattro a New York e otto a Miami, tutte con legami confermati con quella che è stata definita la più grande cellula terroristica russa mai scoperta sul suolo americano». «Wow», dice Jonas. «Una versione interessante. Ma lo sanno che Russia e Ucraina non sono la stessa cosa?». Non riesco a parlare. Tutta questa situazione è surreale. La cronista si preme l’auricolare nell’orecchio. «Mi stanno dicendo che c’è la conferma che due terroristi… scusate, due presunti terroristi, sono
morti». Jonas scatta verso lo schermo, d’un tratto ammaliato. «Entrambi gli uomini sono rimasti uccisi nel corso di un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine durante l’incursione nell’edificio». Jonas geme piano. Finora, l’avevo sentito gemere così solo durante il sesso. «A quanto pare, i due uomini hanno alzato le armi davanti alle forze dell’ordine…». Jonas brontola sottovoce. «…e diversi agenti hanno aperto il fuoco. Entrambi gli uomini sono morti all’istante mentre nessun agente risulta
ferito». La cronista preme di nuovo l’auricolare. «Le autorità federali ci stanno informando che tutti e due gli uomini erano simpatizzanti già noti del movimento separatista ucraino, ma la loro identità non è ancora stata divulgata». Jonas mi guarda raggiante, con il petto che si alza e si abbassa per l’eccitazione. Santo cielo, è proprio euforico. D’un tratto, mi afferra il viso e mi bacia con foga, come un boss della mafia che ordina un omicidio. Quando si stacca da me, mi rivolge uno sguardo ardente. «La mia preziosa bambina», dice esultando, poi arrossisce e mi bacia
ancora. Si ritrae e nei suoi occhi vedo un luccichio. «Sì», dice. «Sì!». Sono sotto shock, ammosciata. È troppo da assimilare tutto insieme. Stanno descrivendo il Club come un’organizzazione terroristica? Dicono che Max e Oksana appartengono a una «cellula terroristica russa» a Las Vegas? Mi aspettavo di sentir parlare di un giro di prostituzione e magari di crimine organizzato. Ma una cellula terroristica? Nemmeno in un milione di anni mi sarei aspettata queste ultime parole, e di certo non l’aggettivo «russa». Jonas passa rapidamente da un canale all’altro, trovando conferma che la storia è ovunque, poi toglie il volume e
prende il cellulare. «Eric», mormora, con voce bassa e intensa. «Sì, ho visto. Cazzo. Hai i nomi?». Nel sentire qualsiasi cosa Eric gli stia dicendo dall’altro capo del telefono, Jonas solleva le labbra in un sorrisetto sbilenco e nei suoi occhi vedo una scintilla impetuosa. «Grazie. Sì, anche a te. Assolutamente». Chiude la conversazione e il suo sorriso si fa sempre più largo. Wow, è un gran sorriso per lui. Se lo vedessi in foto senza conoscere il contesto, giurerei che gliel’abbiano scattata mentre gli fanno un pompino. Sembra eccitato. «Boom», dice lui sottovoce, con un
tono che ribolle di ferocia. Aspetto che aggiunga qualcosa, ma a quanto pare non vuole dirmi altro. «Boom?», ripeto. Lui annuisce piano, con uno sguardo ardente. Aspetto ancora, ma resta in silenzio. Dovrei forse fingermi confusa da quest’unica parola con cui ha proclamato vittoria? Perché non è così. Non sono per nulla confusa. In realtà, so esattamente quali nomi gli ha appena comunicato Eric. Non c’è bisogno che mi si dica quali due presunti terroristi sono morti oggi. Senza smettere di fissare gli occhi ardenti di Jonas, mi sento invadere in tutto il corpo da un
calore soverchiante. «Boom, figli di puttana», dico, in tono pungente come il coltello che hanno usato per tagliarmi la gola. Jonas si lecca con calma le labbra. «Giusto, piccola». Mi sfiora la parte interna della coscia. «Li abbiamo fottuti alla grande, vero?». Mi mordo il labbro. Potrebbe essere il momento più sexy di tutta la mia vita. «Puoi dirlo forte, amore». «Sono eccitatissimo», dice Jonas, e per dimostrarmelo solleva il lenzuolo bianco. «Anch’io», rispondo, e accenno tra le mie gambe nude. Ridacchia. «Partiamo oggi. Non voglio
aspettare un solo giorno in più per portarti nel mio posto speciale». Mi accarezza delicatamente la coscia e, al suo tocco, la mia pelle va a fuoco. «Tra un mese», dico. Dio, mi sento avvampare. «Non voglio aspettare». «Lo so». «Voglio andarci adesso». «Lo so, ma dovrai aspettare». Le sue dita delicate mi accarezzano tra le gambe e si spostano sul clitoride, facendomi fremere. «Odio aspettare». La sua espressione si trasforma nel ghigno alla Jonas-è-un-grosso-squalobianco-e-Sarah-un-leone-marino-
indifeso. Mi accarezza ancora tra le gambe, proprio sul punto giusto, che sento pulsare. «Ce l’abbiamo fatta, piccola», dice. «Sei al sicuro». Le sue carezze si fanno serie. «Siamo liberi». Ho il fiato corto per l’eccitazione. Ha ragione. Siamo liberi: liberi di cominciare la nostra nuova vita insieme; liberi di fare quel cavolo che vogliamo. E so esattamente dove voglio cominciare a esercitare questa libertà appena conquistata. Senza alcun preavviso, gli salgo sopra e lo accolgo dentro di me, fino in fondo, più che posso, con un gemito smorzato. Lui sospira forte. «Sei al sicuro»,
ripete, con gli occhi chiusi. «Mia Magnifica Sarah». Con un lungo sospiro tremante, inizio a muovermi piano, pianissimo, su e giù e in cerchio, godendomi ogni sensazione del suo corpo che si fonde con il mio. «Partiamo oggi, piccola», geme lui. «Voglio farti vedere una cosa». «Tra un mese», ribatto io, con il fiatone. «Sei proprio una comandina». Mi tocca il seno e si lascia sfuggire un lamento. «Tornando a casa ci fermeremo a New York», dico. «Così mi presenterai tuo zio e gli parlerai di persona di Scala e Conquista».
Mi tocca piano la cicatrice sul torace. «Come vuoi, amore mio», dice, e comincia a muoversi insieme al mio corpo. «Faremo una breve sosta a New York». Mette le mani sui miei fianchi. Aumento l’intensità dei movimenti. Ce l’ha fatta. Jonas mi ha protetto, come aveva promesso. Oh sì, sì, sì, il mio uomo ha fatto quel cazzo che doveva per proteggere me, la sua donna, dai cattivi. E lo amo per questo. Cazzo, quanto lo amo per questo. Oh, sì, sì, sì, lo amo. «Grazie, Jonas», gemo, cavalcandolo con entusiasmo. «Per me, sei un eroe». «E tu per me sei tutto», risponde lui, stringendomi con forza il sedere. «Dio, quanto amo il tuo culo». Mi dà una
sculacciata. «Mmm», dico, perché in questo momento non riesco a sostenere oltre una conversazione. Ce l’ha fatta. Mi ha protetto. Siamo liberi. Sono così felice e sollevata che potrei mettermi a piangere. Mi chino in avanti e lo bacio, ancora più eccitata dalla sensazione dei miei capezzoli turgidi che sfregano contro il suo petto. Per la prima volta da quando quei bastardi mi hanno tagliato, accoltellato e lasciato a morire dissanguata sul pavimento di un bagno, mi sento del tutto al sicuro. Anzi, mi sento spensierata. «Ce l’hai fatta, Jonas». «Noi ce l’abbiamo fatta, piccola»,
dice lui, con voce tesa. Sta per venire e geme. «Ce l’abbiamo fatta insieme».
Capitolo quarantadue
Jonas
Da quando abbiamo cominciato a inerpicarci su per il Monte Olimpo dietro alla guida, Sarah non la smette di parlare. In realtà, sollevata di aver finalmente finito gli esami, non fa che chiacchierare fin da quando ci siamo imbarcati sul volo per la Grecia tre giorni fa. Non mi dispiace che ci pensi lei a tenere in piedi la conversazione, per nulla, perché nelle ultime tre settimane,
in cui ho pianificato, tramato e aspettato l’arrivo di questo giorno speciale, in cui mi diventava duro mentre dormivo e sognavo di inginocchiarmi, in cui ho immaginato a occhi aperti di farle la domanda magica e ho bramato il momento in cui le infilerò l’anello al dito (e che cazzo, è un anello epico), be’, con il lento passare dei giorni ho perso la capacità di svolgere le azioni più basilari, figuriamoci di parlare. Dio, quando siamo saliti sull’aereo tre giorni fa, ormai ero ridotto a uno straccio. Do una pacca alla tasca dei miei pantaloni da trekking. Sì, la scatoletta c’è ancora. Mi concedo un lungo sospiro tremante. Sono sicuro al novantanove
percento che mi dirà di sì, ma a farmi impazzire è quell’un percento di possibilità di fallire. Sarah mi ama, questo è ovvio, ma con lei non si sa mai cosa potrebbe dire o fare in una data situazione. E se, per colpa di tutte le stronzate a cui ha assistito da bambina, avesse la bizzarra opinione per cui il matrimonio è la morte di una relazione o qualche altro irrisolvibile pregiudizio contro questo sacro vincolo? È del tutto plausibile. Non penso sia così, ma lei non ha mai accennato a volersi sposare – e nemmeno io, per quel che conta – perciò non si sa mai. Mi concentro per un attimo sulle chiacchiere di Sarah. Sta parlando di
Josh e Kat, la quale quando noi siamo partiti stava andando a Los Angeles per un fine settimana lungo. «Mmm hmm», commento. Sono contentissimo di sentire che le cose vanno bene per il playboy e l’allegra festaiola, davvero. In effetti, da quando siamo andati via da Las Vegas, Josh non ha mai smesso di parlare di Kat, quindi non sono per nulla sorpreso, però in questo momento non riesco a concentrarmi su di loro. Quando ho programmato il viaggio in Grecia, ho stupidamente pensato che fosse meglio arrivare, rilassarci, abituarci al fuso orario, visitare Atene per qualche giorno e poi salire
sull’Olimpo, dove chiederò a Sarah di diventare mia moglie. Non avevo capito che l’attesa di questo momento sarebbe stata una vera e propria tortura, e che sarebbe diventato impossibile mangiare, dormire e anche solo fare conversazione in modo naturale. Se l’avessi saputo, avrei programmato questa escursione per il primo giorno. «Quindi penso di aver risposto abbastanza bene alla domanda», sta dicendo Sarah. «Ma la domanda in sé era davvero ambigua, sai? Avrei potuto argomentare la questione da entrambi i punti di vista e avrei comunque avuto ragione». Sta parlando di uno degli esami che ha
dato la settimana scorsa, ma non ho la più pallida idea di quale. «Per me hai spaccato», dico, nella speranza che sia il commento giusto. «Lo pensi davvero?» «Certo». «Be’, sto un po’ più calma allora. Di sicuro tu conoscerai a menadito i contratti. Ehi, e la domanda dell’esame di responsabilità civile…». Do un’altra pacca ai pantaloni. La scatoletta è ancora al suo posto. Da oggi in poi, Sarah porterà il mio anello al dito, dove il mondo intero lo vedrà e io potrò finalmente ricominciare a respirare. Grazie al cielo ho prenotato la villa a Mykonos per domani sera e
non per l’inizio del viaggio. Se ci fossimo andati prima di salire sull’Olimpo, non sarei mai riuscito a godermi quel paradiso. Così invece trascorreremo quattro magnifici giorni di beatitudine per festeggiare il nostro fidanzamento. Sempre che ci sia da festeggiare. Cazzo. Se dirà qualcosa di diverso da sì, mi raggomitolerò e morirò sul posto. «Mi sembra quasi di avvertire tutt’intorno a noi la presenza dei fantasmi di millenni fa, sai?», mi dice. «Mmm hmm», rispondo, dando l’ennesima pacca sulla tasca. «Non so, è come se riuscissi a percepire la loro saggezza collettiva»,
prosegue lei. «Come se fosse una cosa fisica, che fluttua nell’aria». «Mmm hmm». Su questo lato della montagna il sentiero non è particolarmente impegnativo né panoramico, ma non siamo qui per la gita; è solo un mezzo per raggiungere un fine. Dio, non vedo l’ora di svuotare il sacco e dirle perché siamo venuti qui. «E mi viene da pensare: “Ehi, sono state persone vere”, sai? D’un tratto, mi è chiaro che non sono solo nomi in un libro di storia antica. Erano persone, proprio come me e te. Mangiavano, dormivano, facevano l’amore, piangevano, ridevano, amavano…
Capisci cosa voglio dire?» «Mmm hmm». Sarah si blocca di colpo e per poco non vado a sbatterle contro la schiena. Si gira verso di me e mi fissa. «Ma mi stai ascoltando, Jonas?» «Assolutamente sì», rispondo. «Ho sentito ogni singola parola e sono d’accordissimo con tutto quello che hai detto». Però non so che cazzo abbia detto. In questo momento, non riesco a pensare in modo razionale. L’unica cosa a cui riesco a pensare è chiedere a questa bellissima donna di diventare mia moglie e la madre dei miei figli. Mi osserva per un attimo. «Stai bene?» «Certo».
«Ti comporti in modo strano». Mi si stringe il petto. Forse lo sa? «Davvero?» «Sì». «Be’, sono solo… assorto nei miei pensieri». «Su cosa?» «Su di te». Mi scruta. «Su di me?» «Sì». «E sono pensieri buoni?» «Buonissimi. Tu sei una dea e una musa ispiratrice, Sarah Cruz. Quando penso a te, i miei pensieri sono solo buoni». «Oh, Jonas». Sorride. «Come sei dolce». Si gira tutta contenta e raggiunge
la guida più avanti sul sentiero. «Comunque, quale parte ti è piaciuta di più?». Quale parte di cosa mi è piaciuta di più? Di cosa cazzo stava parlando? Mi sforzo di ricordare. “Persone vere”. Sì, giusto. Ha detto che non si tratta solo di nomi in un libro di storia, ma di persone vere. Probabilmente parlava del giro che abbiamo fatto a piedi ad Atene il primo giorno. «L’Acropoli», rispondo. «Non c’è nulla di paragonabile alla vista della terra su cui Platone e Aristotele hanno camminato. Ha catturato la mia immaginazione quando avevo diciotto anni e vederla con te è stato ancora più
magico». Dio. Dopo aver messo insieme tante parole in un pensiero coerente, sono sfiancato. C’è una sola cosa di cui vorrei parlare ora, e non è l’Acropoli. Muoio dalla voglia di scatenarmi finalmente con il discorso che, ormai da tre settimane buone, mi ripeto notte e giorno a mente. «Sì, anche per me», concorda lei. «È stato stupendo, soprattutto vederla con te». Gira la testa e mi fa un sorriso delizioso. Sorrido anch’io. O almeno, credo. Chissà che cazzo di espressione ho in questo momento. Non ho più il controllo dei muscoli facciali. Merda, sto perdendo la testa. Sogno questo
momento fin da quando ce ne siamo andati da casa dello zio William un mese fa. Com’era prevedibile, nell’istante stesso in cui l’ha conosciuta, lo zio si è perdutamente innamorato di Sarah. Anzi, sono convinto che abbia reagito tanto bene alla notizia che lascerò la Faraday & Figli solo perché c’era lei, che con la sua presenza gli ha fatto una specie di incantesimo. Certo, quando Josh ci ha raggiunto la seconda sera e ha sganciato la bomba dicendo di volerla lasciare a sua volta, il povero zio ha fatto un po’ più fatica a mandar giù la cosa. Ma, datemi pure del pazzo se volete, in realtà lo zio William mi è parso
sollevato, come se da tempo aspettasse che i fratelli Faraday abbandonassero insieme l’azienda e ora potesse concedersi un gran sospiro di sollievo. Tutto sommato, il fine settimana è andato sorprendentemente bene e sono sicuro di dover ringraziare soprattutto Sarah. «Hai intenzione di sposarla?», mi ha chiesto lo zio William a cena la seconda sera, non appena Sarah si è alzata da tavola per andare in bagno. «Assolutamente sì», ho risposto, scioccato da quanto fosse stato facile dirlo. Ammettere le mie intenzioni a voce alta, soprattutto con la mia famiglia, è stato affascinante. «Non appena sarà umanamente possibile».
«È fantastico, fratello», ha commentato Josh. «Lei lo sa?». A quel punto, hanno cominciato a tremarmi le ginocchia sotto al tavolo. «No», ho risposto, con una stretta al petto. «Dovrei chiederle se posso chiederglielo?». Era una domanda seria. Josh si è messo a ridere. «No, Jonas, razza di stupido. Non è quello che intendevo. Sto solo dicendo che, se vuoi farle una sorpresa, allora assicurati di lasciarla di stucco. È la storia che un giorno racconterà ai vostri nipoti. Quindi non fare le cose a cazzo». Be’, come dice Sarah, ma va. Quello lo sapevo già. Eppure, alle parole di mio fratello, d’un tratto mi è venuto un
senso di nausea e da allora non se n’è più andato. Per tutto il mese scorso, anche mentre sgobbavo come un cane per la transizione dalla Faraday & Figli a Scala e Conquista, sono diventato sempre più ansioso. Non sono nervoso all’idea che Sarah diventi mia moglie; che cazzo, quella è la cosa che mi rende meno nervoso in tutta la mia vita. Sono solo preoccupato di non riuscire a farle la proposta da favola che la mia preziosa bambina si merita tanto. «Dunque, questo è il Monte Olimpo?», chiede Sarah, guardandosi intorno. «Ehm, non è come me l’aspettavo». «E cosa ti aspettavi?». Fa una pausa. «Non so. Forse che
quassù ci fosse un vecchietto con una lunga barba bianca e dei fulmini in mano». Ridacchio. «In realtà, forse non sapevi che Zeus è talmente vecchio ormai che se ne sta seduto su una sedia a dondolo in cima alla montagna a fare sudoku». Scoppia a ridere. «È forte pensare agli antichi Greci che guardavano la vetta di questa montagna e immaginavano che gli dèi vivessero quassù». La guida lo prende come un segnale (per fortuna, perché ho esaurito la mia capacità di fare conversazione per il prossimo futuro) e si lancia in una lunga descrizione dell’Olimpo in quanto dimora mitologica dei dodici Olimpi.
Sarah lo ascolta rapita e io mi isolo. Adoro il fatto che Sarah non mi abbia chiesto nemmeno una volta perché stiamo salendo in cima all’Olimpo. Probabilmente per lei la semplice esistenza di una montagna, in una qualsiasi parte del mondo, è un’attrattiva sufficiente per farmi venire in mente di scalarla e, in una normale situazione, sarebbe vero. Ma oggi non è un giorno normale. Seguendo il sentiero, facciamo una curva, attraversiamo una piccola cima e, di punto in bianco, arriviamo a destinazione, un piccolo altopiano appena sotto una delle vette scoscese. Vedo con sollievo che le nostre
successive guide sono già qui, come da programma, ad aspettarci con l’attrezzatura necessaria. Vedendole, Sarah si blocca di colpo e si gira verso di me. «Mi prendi in giro?». Deve aver notato i due paracadute colorati distesi a terra. Le sorrido. «No, non ti prendo in giro». Mi fulmina con lo sguardo. «Ci lanceremo dall’Olimpo, piccola. E poi scenderemo in parapendio fino alle belle spiagge di sabbia bianca del mar Egeo». Serra le labbra. «E sarà una figata pazzesca».
«Ti ho mai detto che soffro di vertigini?» «Tante volte». È incredula. «Stai cercando di farti odiare?» «Al contrario». «Allora, qualsiasi cosa tu stia cercando di fare, fai schifo, perché in questo momento ti odio». Scoppio a ridere. «Su, piccola. Ti faccio vedere cosa faremo».
Capitolo quarantatré
Sarah
Sto tremando. Io soffro di vertigini, davvero tanto. «Jonas, non ne sono sicura», dico. Indosso una pesante tuta da volo e nel frattempo l’uomo che piloterà il paracadute sta assicurando la mia imbracatura e controllando per la seconda volta i vari fili, preparandosi a saltare da questa montagna del cavolo con me legata a lui come un bambino in un marsupio. Non riesco proprio a immaginare cosa abbia spinto Jonas a
pensare a me. «Stai bene, piccola», dice Jonas. Mi si avvicina e ricontrolla che il mio casco sia allacciato nel modo giusto. «Ricorda, devi solo stare seduta, rilassarti e goderti il panorama, che passerà dalle montagne ai campi al mare scintillante». Ci sa fare come venditore, devo ammetterlo. Fa sembrare questa tortura quasi bella. «Siediti e goditi lo spettacolo. È l’unica cosa che devi fare con me». «Me l’hai già dimostrato migliaia di volte. Anzi, ogni singola notte. E io mi sono arresa a te innumerevoli volte e ti ho riconosciuto come mio signore e
padrone. Che bisogno c’è di farmi mettere in pratica l’ennesima metafora per avvalorare il tuo punto di vista?». Jonas alza gli occhi al cielo. «Perché, per una volta in vita mia, non sto parlando di sesso, piccola. Sto parlando della vita. Questa è una metafora della vita, della nostra vita insieme. Voglio che tu sappia che, quando sei con me, devi solo sederti, rilassarti e goderti lo spettacolo, perché io mi prenderò sempre cura di te». In effetti, è un discorsetto piuttosto dolce. Ovviamente ci ha pensato molto. Eppure non riesco a non sentirmi irritata. Io soffro di vertigini, davvero tanto. «Sì. Ti prenderai sempre cura di
me, tranne quando mi spingi giù da posti altissimi, anche se soffro di vertigini». Sembra ferito. Sospiro. Come sono cattiva. «Scusa, Jonas». Gli prendo una mano. «Mi dispiace. Dimmi quello che volevi dirmi. Questa è una grande metafora della vita, non del sesso. Se mi siedo, mi rilasso e mi godo lo spettacolo… Su, tesoro. Sono cattiva e orribile. È chiaro che ci hai pensato molto. Ti ascolto. Va’ avanti». Arrossisce. «Ti prego. Sul serio, ti ascolto». Si schiarisce la voce. «Anche se qualcosa ti spaventa, se sarai disposta a fare un atto di fede con me, scoprirai di
poterti godere lo spettacolo più di quanto pensavi fosse possibile», mi dice sottovoce. «Che cosa carina. È una metafora fantastica. Grazie». Sta recuperando la fiducia in se stesso. «Ah, ma questa è solo una delle molte metafore che ho in serbo per te oggi». «Ah, sì? Oggi è il Giorno delle Metafore, mio dolce Jonas?» «Sì, in effetti, sì. Oggi è il giorno dell’Avventura Metaforica di Jonas e Sarah». «Le metafore ti piacciono proprio, Jonas Faraday». «Giusto». Fa un passo avanti e si ferma a pochi centimetri dal mio viso.
«Posso parlarti della metafora che hai inconsapevolmente messo in pratica per me?» «Ti prego». «L’escursione sull’Olimpo. Era una metafora». «Davvero?» «Sì. Ti ricorderai che per tutto il sentiero sono stato dietro di te. E sai perché?». Scuoto la testa, con un sorriso. È così carino. «Perché io ti guarderò sempre le spalle, amore mio, e perché ti seguirei fino in capo al mondo. Era una doppia metafora. Vale doppio». Inclino la testa. Ha proprio pensato
molto a tutta questa storia, eh? «E poi la prossima metafora. Siamo sulla vetta più alta di tutta la Grecia, l’Olimpo, la dimora degli dèi». Mi mette una mano su una guancia. «Sai perché ho voluto portarti qui, su questa cima in particolare?» «Perché sei un sadico?», dico piano, ma in tono molto più amichevole rispetto al senso della frase. Lui inspira a fondo per calmarsi e sposta la mano sulla mia spalla. «Sarah Cruz, ti ho portato qui, in questo preciso punto del pianeta Terra, per due motivi». Sorride. «E vale ancora doppio». Sorrido anch’io. «Primo, questa è la vetta più alta di
tutta la Grecia, il che significa che mi sento obbligato a scalarla e a gridare al mondo il mio amore eterno per te». Oddio. «Ma non siamo sull’Olimpo solo perché è il monte più alto», prosegue. «Siamo qui anche perché è la dimora degli dèi, Sarah, il che significa che è la tua legittima dimora». Gli brillano gli occhi. «Tu sei una dea e una musa ispiratrice, Sarah Cruz. Sei ogni divinità greca, tutte in una, mia preziosa bambina». «Oh, Jonas». «Sei Afrodite», continua, «la dea dell’amore, della bellezza, del piacere e del sesso. Il sesso più erotico che il
mondo abbia mai visto». Arrossisco. «Sei Atena, la dea della saggezza, del coraggio, dell’ispirazione, della legge, della giustizia, della forza e della strategia militare. Sei così intelligente, piccola, che mi lasci senza fiato». Mi mordo il labbro. «Sei Artemide, la protettrice delle donne. Piccola, il tuo cuore gigante e il fatto che ci tieni sinceramente ad aiutare le altre donne e a rendere il mondo un posto migliore sono la cosa che preferisco di te, di gran lunga». Non riesco a credere che mi stia dicendo tutte queste cose. Sono in estasi. «Aspetta però, ce dell’altro». Inclina
le labbra in un sorriso sbilenco. «Sei anche la mia Demetra, la dea del raccolto, della vita e del nutrimento. Piccola, tu sei il mio nutrimento. Ho fisicamente bisogno di te come i semi di un fiore hanno bisogno della luce del sole, della terra e dell’acqua. Tu mi nutri, piccola, fino alle radici. Mi dai la vita». Merda, mi tremano le ginocchia. «E, ovviamente, cara la Mia Magnifica Sarah, non dimentichiamoci che sei anche Era». Fa una pausa a effetto. «La dea del matrimonio». Scusa? Mi guarda, raggiante. Sta parlando in senso metaforico,
vero? «Cara la Mia Magnifica Sarah, sei ognuna di queste bellissime dee potenti e venerate, tutte in una». Non parlava in senso letterale un attimo fa quando ha usato la parola “matrimonio”, vero? «Ma soprattutto, non dimentichiamoci che sei anche una musa, Sarah Cruz. L’ispirazione della bellezza femminile stessa. Sei l’entità donna nel mio regno ideale». Dio. È tutto così straordinario, così bello, così epico. «Oh, Jonas», sospiro. Per qualche motivo che non capirò mai del tutto, il mio bellissimo e aitante ragazzo è drogato di senape e, grazie al
cielo, io sono una grande tinozza piena. «Perciò, amore mio, ecco perché siamo in cima all’Olimpo, dimora degli dèi e vetta più alta della Grecia». Si concede un gran sospiro di sollievo e poi inspira a fondo, come per farsi forza per qualcos’altro. C’è dell’altro? «Ma nulla di tutto ciò risponde alla domanda sul perché stiamo per saltare giù dalla vetta più alta di questo Paese, vero?». Sembra che muoia dalla voglia di rivelarmi un grosso segreto. Scuoto la testa e sorrido. Cavolo, quant’è carino. Come diavolo ha fatto un uomo tanto bello a inventarsi tutto questo? «Ti prego, amore. Dimmi perché
mai stiamo per saltare giù da questa mitica montagna. Pendo dalle tue labbra». «Perché, adorabile Sarah, tu e io siamo pronti per saltare al prossimo livello. All’inizio siamo saltati insieme da una cascata alta dieci metri, perché allora non potevamo affrontare di più. Ma adesso siamo pronti per saltare addirittura dal paradiso». Con queste parole, è come se avessimo appena fatto l’amore. Sta forse prendendo una specie di impegno eterno nei miei confronti, qui in questo preciso momento? È forse un’elaborata cerimonia metaforica per impegnarsi con me?
«Il che mi porta alla metafora successiva. Stiamo per saltare giù da una montagna, Mia Magnifica Sarah. Tuttavia, avrai notato che ti ho fatto avere un paracadute per l’atterraggio – tecnicamente è un parapendio, ma per la nostra metafora lo chiameremo paracadute – perché, a prescindere da ciò che accadrà, a prescindere da dove andremo a finire saltando nella vita, lo faremo sempre insieme e tenerti al sicuro, protetta e comoda sarà sempre la mia priorità». È una follia. Mi sto sciogliendo. L’espressione di Jonas in questo momento è adorabile, euforica. È l’uomo più bello del mondo. E io sono
la ragazza più fortunata del mondo. Sì, mi sta sposando metaforicamente, ne sono sicura. Tocco il braccialetto che porto al polso. «Ti amo, Jonas», gli dico. Vorrei dirgli molto di più ma, se lo conosco bene, ha passato un sacco di tempo a pensare a questo discorso e non voglio rovinare i suoi piani. «Quindi salterai giù dall’Olimpo con me?», mi chiede, insicuro della mia risposta. «Ma certo, tesoro. Salterei giù da qualsiasi montagna con te, per non parlare delle cascate, degli alberi, delle scale, dei ponti, degli sgabelli e dei marciapiedi. Mi basta farlo con te».
Si mette praticamente a saltellare dalla gioia. «Oh, Jonas». «Aspetta, c’è un’altra cosa», mi dice. Si interrompe per riflettere e si sforza di reprimere un sorriso gigantesco. «Ma non ora. Dopo». Ho una stretta allo stomaco. Un’altra cosa? La mia mente è un turbine di pensieri folli fuori controllo; pensieri che non dovrei fare per niente. Pensieri che di certo non vedrò realizzarsi. «Mi spiace solo di non poterti fare io da pilota. Farti saltare giù dall’Olimpo legata a un greco a caso manda a puttane la metafora, ma ho pensato che saltare e morire non fosse il massimo visto la
metafora che voglio mettere in pratica». Scoppio a ridere. «Immaginerò di essere legata a te». «Sì, ti prego». Il pilota si avvicina. «Siete pronti?», ci chiede, con forte accento greco. «Sì. Vado io per primo», risponde Jonas. «Tutto a posto, piccola?» «Alla grande». «Voglio aspettarti a terra quando arriverai». «Un’altra metafora, immagino». «No. Voglio fotografare la tua faccia durante l’atterraggio. Sarà uno spasso». Scoppio a ridere. «Però c’è davvero un’altra metafora che ci aspetta laggiù, la più grande di
tutte, mia preziosa bambina. Ti spiegherò ogni dettaglio una volta atterrati». Ho una stretta allo stomaco mentre una scarica elettrica mi attraversa le vene. «Non puoi darmi nemmeno un indizio?» «No. Ti racconto dopo». Si sporge verso di me e mi bacia. Quando la sua lingua mi separa le labbra, avverto una scossa in tutto il corpo. «Goditi lo spettacolo, mia preziosa bambina», dice. «Siediti, rilassati e guarda il bel panorama». Vorrei mettermi ad applaudire rumorosamente. Wow, mi ha appena regalato la più magnifica dichiarazione d’amore mai fatta a una donna nella
storia. È stata l’Iliade delle dichiarazioni d’amore, gente. In qualche modo però, riesco a controllarmi. «È stato bellissimo, Jonas», gli dico. «Sono in estasi, letteralmente». «Sul serio? Sto andando bene finora?». Mi fa un timido sorrisetto. Cosa cavolo significa? «Certo. Stai andando alla grande finora», rispondo. «Sei un poeta, il più romantico uomo mai esistito. Un assoluto maestro delle stronzate alla San Valentino». Sorride. «Dopo tutto quello che mi hai appena detto, mi fanno pena i poveri stupidi che pensano anche solo di dichiarare il proprio amore a una donna, perché ho
appena vissuto la forma divina originaria delle dichiarazioni d’amore». Il sorriso esuberante di Jonas gli illumina tutto il viso. «È facile usare la forma divina originaria di una dichiarazione d’amore per la forma divina originaria della donna». Mi sfugge una risatina. Jonas scoppia a ridere. «Allora, sei pronta a saltare?». Smetto di ridacchiare all’istante. Merda. Mi ero del tutto scordata del salto. «Certo», squittisco. Lui ride e mi dà un bacio sulla guancia. «Allora ci vediamo sulle splendide spiagge di sabbia bianca dell’Egeo, mia preziosa bambina». Si
gira verso il proprio pilota e alza un pollice. «Andiamo».
Capitolo quarantaquattro
Jonas
Eccola che scende dal cielo come la bellissima farfalla che è. Dio, in questo istante il suo viso è stupendo: scoppia di eccitazione, orgoglio per ciò che è riuscita a fare e stupore. Dal punto in cui mi trovo sulla spiaggia, riesco quasi a sentirla urlare. Scoppio a ridere e allungo il collo per osservare la sua discesa. Wow, è euforica. Scatto un milione di foto con il cellulare mentre lei saluta e fa delle facce rivolta
all’obiettivo. Dio, quanto è adorabile con il casco e le belle guance rosse. È raggiante. Il pilota le strilla qualcosa, di certo per prepararla all’atterraggio, dicendole di stare dritta nell’imbracatura e pronta a correre quando toccheranno terra. Mentre lui le parla, l’espressione felice di Sarah scompare del tutto. Se dovessi scrivere una didascalia per la sua faccia, sarebbe: “Oh merda”. Non riesco a non ridere. Scendono in fretta. Non si può più tornare indietro. Oh, povera la mia piccola. Sembra spaventata a morte, in preda a un panico assoluto e improvviso. Mi sento in colpa per
averla costretta a fare una cosa simile. Forse c’era un modo più cortese per imporle quest’ultima e splendida metafora? Be’, ormai è troppo tardi. Eccola che arriva. Grazie a Dio, l’atterraggio è perfetto: Sarah e il pilota toccano terra leggeri come piume, con delicatezza, per poi correre per l’adrenalina. E insieme corrono, corrono, corrono. Ma guardatela, sembra un’esperta… per almeno cinque passi, perché poi crolla a terra per il sollievo. Mi precipito all’istante verso di lei, gridando il suo nome. Lei si agita per terra come una tartaruga ribaltata. Il pilota la libera
dall’imbracatura e lei balza in piedi. Mi corre incontro, gridando con tutto il fiato che ha in corpo, e mi salta in braccio, senza smettere di strillare. «Mi hai visto?», urla. «Ce l’ho fatta!». Mi cinge la vita con le gambe e mi stringe forte, chiudendo gli occhi mentre io le copro il viso entusiasta di baci ferventi. «Sei stata fantastica», le dico. «Incredibile!». Non la smetto più di baciarla. «Ce l’ho fatta», grida lei. Mi getta le braccia al collo e mi stringe forte. «Mi sono lanciata giù da un precipizio! Ho corso verso un cazzo di precipizio, non in direzione opposta, e mi sono
lanciata. Dio, me la facevo sotto, Jonas, ma ho continuato comunque a correre e mi sono buttata». Mi bacia ancora, ma poi d’un tratto si stacca e mi colpisce su una spalla, con la fronte aggrottata. «Mi è quasi venuto un infarto, Jonas Faraday. Cosa diavolo volevi farmi fare?». Si finge seccata, ma il suo viso è allegro. «Non è normale correre verso un precipizio e saltare, lo sai, vero?». Scoppio a ridere. «Ma è divertente, no?» «Divertentissimo». «Ce l’hai fatta, piccola». «Ce l’ho fatta. E anche tu. Ce l’abbiamo fatta». Mi fissa con sguardo raggiante. «E che panorama. Jonas, Dio
mio». «Stupendo, vero?» «La cosa più bella che io abbia mai visto. Un paradiso in terra». «E il colore dell’acqua…». «Morirei per quell’acqua», dice lei. «Non l’avevo mai vista prima di quella sfumatura turchese». «E una volta in volo, non ti sei sentita rilassata?» «Sì, quando ho smesso di avere un infarto dopo la partenza, ho pensato: “Ehi, com’è bello”». Mi picchia di nuovo su una spalla. «Fino al momento dell’atterraggio. Dio, sei proprio un sadico». Scoppio a ridere. «Avresti dovuto
vedere la tua faccia. È stato impagabile». «Stai cercando di torturarmi?». La bacio. «No, mia preziosa bambina. Anzi». D’un tratto, mi sento il cuore in gola. Eccolo: il momento che aspettavo. Oddio. Inspiro a fondo. «Ti metto giù». Lei si stacca da me e scivola a terra. Sento il viso in fiamme. Non riesco a respirare. Ci siamo. Merda. Il sangue mi pulsa nelle orecchie. «C’è un’ultima metafora di cui voglio parlarti. La più grande». Lei sposta il peso da un piede all’altro. Do una pacca sulla tasca. Sì, la scatoletta c’è ancora. «Sarah», dico, con
voce tremante. Mi schiarisco la voce. «Mia Magnifica Sarah». Oddio, mi si sta chiudendo la gola. Lei si slaccia il casco e se lo toglie. Sembra ansiosa. Inspiro di nuovo. «Grazie», esordisco. Merda. Non è il discorso che mi sono allenato a ripetere. Da dove esce questo? Devo riprendermi e fare le cose come si deve. Sarah serra le labbra e mi guarda con attenzione. Nel tentativo di ricompormi, faccio l’ennesimo respiro profondo. Che discorso avevo in mente? Comunque fosse, adesso mi sembra del tutto sbagliato. L’unica cosa giusta ora è la
gratitudine; l’amore e la gratitudine. Il mio discorso può anche andare a farsi fottere. Le dirò quello che sento ora nel mio cuore. «Grazie, Sarah», ripeto. «Grazie per amarmi e per avermi insegnato a farmiamare. Il tuo amore mi ha salvato». Mi tremano le labbra e faccio una pausa per calmarmi. «Il tuo amore mi ha dato la vita». «Oh, Jonas», commenta lei, con voce carica di emozione. Le prendo il viso tra le mani. «Ho sbagliato quando ho definito il nostro amore follia. Mi dispiace. Il nostro amore non è follia, piccola. Il nostro amore mi ha finalmente reso sano di mente».
Sorride. Appoggio le mani sulle sue spalle. «Sarah Cruz, quando sei entrata nel nostro bozzolo per due insieme a me, quando ti sei donata a me, totalmente e completamente, per la prima volta in vita mia ho scoperto la vera felicità». Mi sforzo di tenere a bada l’emozione. Lei batte le palpebre piano, per ricacciare indietro le lacrime. «Pensavo…». Mi trema la voce, quindi faccio una pausa. «Pensavo che non esistesse una felicità più grande che stare in quel bozzolo con te per il resto della vita». Mi sudano le mani. Tocco di nuovo la tasca e sento il rigonfiamento della scatoletta.
A poca distanza da noi, i piloti e altra gente sulla spiaggia parlano in greco. Sarah sta per scoppiare a piangere e a me gira la testa. «Pensavo che il nostro bozzolo per due fosse il culmine dell’umana possibilità», proseguo. Lei mi sorride con i suoi occhioni scuri. «Ma, a un certo punto, non so bene quando, ho scoperto una gioia ancora più grande: guardarti uscire da quel bozzolo e trasformarti nella bellissima farfalla che eri destinata a diventare, proprio davanti ai miei occhi». Il suo viso si contorce per le mille emozioni che sta provando tutte insieme.
«Quando sei diventata la mia bella farfalla, potente, delicata, miracolosa, gloriosa e di ferro, è stato allora che ho scoperto la forma divina originaria della felicità. Un’estasi pura». Gli occhi di Sarah sono pieni di lacrime. Dio. Ci siamo. Mi sento come se il cuore stesse per spaccarmi lo sterno dall’interno. Inspiro a fondo per calmarmi, estraggo la scatoletta dalla tasca e mi inginocchio. Alzo lo sguardo verso il bel viso di Sarah e… lei scoppia a piangere. Dio. Non le ho ancora fatto la domanda. Non ho ancora nemmeno
aperto la scatoletta. Sono in ginocchio con una scatola chiusa e lei strilla come se le avessi appena rubato i soldi per il pranzo. Devo rialzarmi e consolarla? No, non posso. Se aspetterò un secondo di più a dirle quello che devo, mi verrà un infarto. Sono un treno in corsa ormai. Apro la scatoletta e Sarah si trasforma in una pazza patentata; piange a dirotto e allo stesso tempo ride di gioia. Oh, la mia piccola. Ha perso del tutto il controllo, e la adoro. Si porta una mano tremante alla bocca. «Jonas», dice, senza fiato. «Oddio». I piloti e alcuni bagnanti si sono radunati intorno a noi. Un uomo inginocchiato che porge un anello si
capisce in ogni cultura. «Sei una dea e una musa ispiratrice, Sarah Cruz», dico, sollevando il diamante. «Ti amo più di quanto qualsiasi uomo abbia mai amato una donna nella storia. Il nostro amore è la gioia dell’uomo buono, la meraviglia dell’uomo saggio, il diletto degli dèi». Mi interrompo, non perché abbia paura o non sia sicuro, ma perché voglio assaporare il momento. «Il nostro amore è l’invidia degli dèi, mia preziosa bambina». Inspiro a fondo e la guardo nei suoi grandi occhi scuri. «Mia Magnifica Sarah Cruz, mi vuoi sposare?». Lei si inginocchia davanti a me, con il
viso all’altezza del mio, mi getta le braccia al collo e mi bacia con foga, tanto che per poco non mi soffoca. La piccola folla radunata sulla spiaggia applaude. «Sì?», chiedo, quasi strozzandomi. Non riesco a respirare. Buon Dio, questa donna mi sta asfissiando. «Sì?» «Sì», strilla lei. «Sì!». Le afferro una mano tremante e faccio per infilarle l’anello, ma lei la ritrae. Dio, ho preso la mano sbagliata. Ridendo, lei mi porge l’altra e, in qualche modo, riesco a metterle l’anello al dito giusto. Dio, non riesco a crederci. Porta il mio anello. È ufficiale. Sarah Cruz diventerà mia moglie.
Sarah si guarda la mano e lancia un urletto. «Dio, Jonas. È mozzafiato!». Le faccio sollevare la mano e la guardo. Wow, le sta ancora meglio di quanto immaginassi. «È magnifico», dico. «Perché nulla di meno sarebbe stato degno della Mia Magnifica Sarah». Mi rialzo tirandola in piedi con me e poi la bacio come se stessi rianimando una donna quasi affogata. O forse è lei che rianima me. Il piccolo pubblico applaude di nuovo e qualcuno strilla: «Bravo!». «La mia futura moglie», annuncio alla folla, indicando Sarah. «Ha detto di sì». Lei scoppia a ridere. «Oh, Jonas». «Non voglio aspettare». Le stringo le
spalle con insistenza. «Sposiamoci subito». Il suo viso sprizza eccitazione da tutti i pori. «Come vuoi, futuro marito». Ridacchia. «Piccola, prenditi un mese per organizzare la cerimonia e…». «Wow, cosa?» «…fa’ come vuoi. Assumi dieci wedding planner se vuoi. Non mi interessa cosa farai, purché io possa chiamarti “mia moglie” entro un mese». Lei si porta le mani alle guance, come il ragazzino sulla locandina di Mamma, ho perso l’aereo. «Jonas, non posso organizzare un matrimonio in un mese». «Certo che puoi».
«No, non capisci. Mi serve un anno… o almeno sei mesi». Mi sfugge un gemito. Che cazzo, non aspetterò sei mesi per sposarla. «Ti prego, Sarah. Ti prego». Potrei impazzire. Se me lo permettesse, la sposerei in questo stesso istante. «Spendi quanto vuoi, assumi chi vuoi. Non mi interessa come farai, ma non farmi aspettare. Ti prego». Scoppia a ridere. «Sei davvero esigente, lo sai?». Non mi interessa. Non in questo caso. Non posso assolutamente aspettare. Dopo aver atteso un mese intero questo momento, sono quasi morto… non posso aspettarne più di un altro prima di
chiamarla “mia moglie”. «Sarah, ti prego, ti prego, ti prego». Lei scuote la testa, come se non riuscisse a credere in cosa è andata a cacciarsi, ma alla fine si stringe nelle spalle, rassegnata. «Okay, tesoro, come vuoi». «Qualsiasi cosa è possibile se paghi abbastanza. Fidati». Sorride e alza gli occhi al cielo. «Sai una cosa? Non mi interessa il matrimonio in sé. L’unica cosa che mi interessa è sposare te». «No, no, piccola, devi organizzarlo come preferisci. Assumi chi vuoi perché sia perfetto. Paga cinque volte più di quanto farebbe una persona sana di
mente. Non mi interessa cosa farai, ma ti prego, ti prego, ti prego, non farmi aspettare». «Okay», acconsente, e schiocca le dita. «Facile facile». La tiro a me. Sono così sollevato che potrei mettermi a urlare. «Sul serio?» «Certo». Mi bacia. «Te l’ho detto, l’unica cosa che mi interessa è sposare te. Il matrimonio è solo una festa. Ce la faccio a organizzare una festa in un mese. È un gioco da ragazzi». Mi sento su di giri, con una scarica di adrenalina che mi scorre nelle vene, l’uccello che freme e la pelle elettrizzata. «Corriamo in spiaggia in un posto appartato e facciamo il bagno
nudi», sussurro, con il petto che si alza e si abbassa visibilmente per l’eccitazione. Lei guarda il diamante che porta al dito e fa una smorfia. «Non voglio perdere l’anello in mare». Cazzo, a impedirmi di fare l’amore in questo momento con la mia futura sposa è l’anello di fidanzamento che ho comprato per lei? Che ironia della sorte. Sarah fa un cenno ai piloti. «Per caso uno di voi ha un paracadute in più che possiamo prendere per fare una passeggiata? Ve lo riportiamo subito». Si gira verso di me e sorride. «Volere è potere». Sorrido a mia volta. Cazzo, quanto è
intelligente. E sexy. Un pilota estrae dallo zaino un paracadute colorato. «Non si può usare per volare. Solo per fare pratica a terra», spiega. «Va bene?». Glielo passa. «Perfetto. Grazie». Lei mi guarda con occhi maliziosi. «Cosa ne pensi, tesoro?» «Penso: sì, cazzo». Prendo il paracadute in una mano e la sua nell’altra, e corriamo lungo la spiaggia, senza mai smettere di ridere. Corriamo all’infinito, fino a quando non vediamo più nessuno e, sicuri di essere completamente soli, ci sdraiamo e ci copriamo con il paracadute. La luce del
sole che filtra attraverso il tessuto dai colori accesi illumina la sabbia tutt’intorno a noi di rosso, azzurro e giallo. Siamo due animali selvaggi, con un disperato bisogno l’uno dell’altra. Sarah si toglie in fretta la maglietta, con il fiato corto e il viso inondato dal riflesso azzurro, e io faccio altrettanto con la mia. Mi abbassa con foga i pantaloni e libera il mio uccello. «Sei un saltamartino fatto uomo», commenta, con il fiatone. «Soltanto se la scatola la fai tu». Scoppia a ridere, come sempre quando le dico così. «La futura signora Faraday», mormoro,
e intanto infilo una mano nelle sue mutandine e stringo il suo sedere nudo. Merda, ce l’ho duro come una roccia. «La futura signora Faraday», ripeto, solo perché è bellissimo dirlo. «Diventerai mia moglie». Lei geme forte e mi mordicchia un labbro, afferrandomi l’uccello. «Il mio futuro marito». A queste parole, avverto un’ondata di elettricità nelle vene. «Ridillo», gemo, e le tolgo le mutandine. «Il mio futuro marito». Muove la mano con tanta sicurezza da farmi fremere e poi, con il viso inondato di luce rossa, si sdraia sulla sabbia, tirando con sé il mio uccello e invitandomi a stare dentro di
lei. Mi dà un lieve strattone, spronandomi a penetrarla, ma non voglio farlo. Ho appena chiesto a questa splendida donna di diventare mia moglie e niente, nemmeno l’indomita Sarah Cruz, nemmeno Orgasma con i suoi superpoteri mi impedirà di andare in chiesa con la mia futura moglie. Mi inginocchio tra le sue gambe, gliele faccio divaricare e, da bravo zelota, comincio a venerare il suo altare. Dio, la futura signora Faraday ha un sapore così buono… e geme e si abbandona ai tremiti sotto la mia lingua. «La mia futura moglie», sussurro mentre la lecco. «Ti sposerò, piccola»,
dico con voce roca, assaggiandola come so che le piace fino a quando finalmente, deliziosamente, lei inarca la schiena e viene. Finito l’orgasmo, Sarah apre gli occhi e mi sorride. «Ti voglio dentro di me, futuro marito». Mi basta e avanza come incoraggiamento. «Questo è il giorno più bello della mia vita», mi sussurra nell’orecchio, con i fianchi inclinati per accogliermi e il viso ora inondato di giallo. «Anche per me». La bacio a fondo. Trema. «Oh, Jonas». Mi cinge la schiena con le gambe e muove il bacino a tempo con il mio. «È stata la proposta più bella della storia».
«Sono andato bene?» «Oh, tesoro, più che bene. Sei un bestione». Geme. «E adesso scopami come un bestione». Diamine, questa donna sa proprio come eccitarmi. Ubbidisco alla lettera. «Così», dice. «Sì!». Mi morde il collo. «Oh». Vengo invaso dai brividi. Scoppia a ridere e mi morde di nuovo. «Perché lo vuoi così violento?». Ride di nuovo. Cambio posizione, in modo da raggiungere con l’uccello un altro punto dentro di lei, e la sento prendere fuoco sotto di me. «Oddio, così. Non fermarti». Sussulta.
«Oh, sì, tesoro… Oddio… Sì, sì, sì». Non ci sono parole per descrivere questa estasi perché non è mai esistito un amore come il nostro. Lei è la forma divina originaria di donna e il nostro amore è la forma divina originaria di amore. «Sarah», dico, sull’orlo del paradiso. «Ti amo». «Mmm». Il paracadute colora la sabbia intorno a noi di tinte magnifiche, illuminando la nostra cattedrale come una vetrata. «Ti amo, piccola», gemo, e la bacio a ripetizione. «Jonas», dice lei, senza fiato, proprio sull’orlo dell’orgasmo. «Sì!». «E ti sposerò», aggiungo.
Comincia a fare il Suono. «Diventerai mia moglie». È appesa a un filo. «La signora Faraday». Ci siamo. È andata. E anch’io. Lei è la mia salvezza. La mia religione. La mia redenzione. Sono rinato. Non è mai esistito un amore come il nostro. E mai esisterà. Il nostro amore è la gioia dell’uomo buono, la meraviglia dell’uomo saggio, il diletto degli dèi. Il culmine dell’umana possibilità.
Epilogo
Jonas
«Signora Faraday», sussurro sottovoce. Non risponde. È sdraiata sulla pancia, con la faccia sprofondata nel cuscino. Con le punte delle dita, le accarezzo con calma la schiena sopra la canottiera, canticchiando piano il ritornello di I Melt With You dei Modern English. Come cantante faccio davvero pena, senza ombra di dubbio, ma per qualche strano motivo, lei adora sentirmi
cantare, soprattutto questa canzone. Ancora nulla. «Oh, signora Faraday?», la chiamo in tono sommesso, e riprendo a cantare. «Mmm». «Buongiorno, Mia Magnifica signora Faraday», sussurro. «Sei sveglia?» «Adesso sì», risponde con voce roca. «Com’è che ti sei già riabituato al fuso orario di Seattle?» «Non mi sono riabituato. Il mio corpo pensa che sia l’ora della Nuova Zelanda, ma la mia mente è troppo contenta per dormire». Affonda il viso nel cuscino e geme. «Ho sposato un pazzo». Le punzecchio il sedere attraverso i
pantaloni del pigiama. «Ehi, mogliettina». Mi caccia via la mano con uno schiaffo. «Come sei strambo». «Moglie?» «Che ora è in Nuova Zelanda? Perché per il mio corpo adesso è quella». «Su, dormigliona. Io sono sveglio da tre ore. Mi sono allenato, ho lavato tutte le cose nelle nostre valigie e ho risposto a un centinaio di email. E adesso mi sento solo senza la mia sexy mogliettina». «Come diavolo fai a dormire così poco, razza di matto?». Non mi guarda ancora e continua a tenere la faccia affondata con ostinazione nel cuscino.
«Giuro su Dio che non sei umano. Sei un robot del cavolo». Mi siedo sul letto accanto a lei e le accarezzo il bellissimo sedere. Non riesco a trattenermi: le abbasso i pantaloni del pigiama e le do un bacio leggero sulla natica. Mi ci vuole tutto il mio autocontrollo per non abbassarglieli completamente e farle molto di più, ma so che è esausta. «E se ti dicessi che ti ho portato un cappuccino?». Solleva la testa. «Allora ti direi: “Buongiorno, caro marito. Che piacere vederti”. Avresti dovuto dirmelo subito, stupidone». Si gira e si mette a sedere. Le passo la tazza che avevo appoggiato sul comodino. «Ecco a te,
cara moglie». «Grazie, caro marito, sei il migliore… anche se sei matto, strambo e un robot». Beve un sorso. «Mmm». «Hai dormito bene?» «Come una bambina. Dormire finalmente nel mio letto è stato magnifico». «Nessun posto è come casa propria». Soprattutto se è la nostra casa. Ovviamente, ho apprezzato ogni minuto della nostra luna di miele: una settimana in Nuova Zelanda (dopotutto, è la capitale mondiale dell’avventura), seguita da tre giorni in Venezuela, dove ci hanno raggiunto Josh e Kat (e dove Sarah ha organizzato un incontro molto
toccante tra me, Josh e Mariela), e per finire quattro notti magiche per me e la mia piccola (e le nostre amiche scimmie urlatrici) nella nostra casa sull’albero in Belize. È stato tutto fantastico ma, quando è venuto il momento di rientrare, non mi è dispiaciuto. Anzi, non vedevo l’ora di tornare a casa e cominciare la mia nuova vita con la mia piccola, mia moglie, la dea e musa ispiratrice, Sarah Faraday. Sarah beve il cappuccino con aria confusa. «Dio, non riesco nemmeno a muovermi», si lamenta. «Dopo tutto il bungee jumping, le discese in corda doppia e il sesso sfrenato, il mio corpo è perennemente ammosciato».
«Sì, sono abbastanza distrutto pure io», ammetto. «Già, ecco perché stamattina ti sei già allenato e hai fatto tutto il bucato. Vedi che sei strambo?» «Te l’ho detto. Sono troppo contento per dormire». «Che dolce», commenta lei, il che significa che mi trova troppo passionale o raccapricciante, o entrambe le cose. «In cucina ci sono un sacco di biglietti e regali», le dico. «Josh e Kat devono aver portato tutto qui dopo il matrimonio. Vuoi aprirli oggi?» «Sì, ma più tardi, quando riuscirò a concentrarmi», risponde. «Sono così stanca».
Le scosto i capelli dal viso. «Sei bellissima anche quando sei stanca. Lo sapevi, signora Faraday?». Sospira di felicità. «Il matrimonio è stato adorabile, vero?» «È stato perfetto». Nelle ultime due settimane, io e Sarah abbiamo parlato del nostro matrimonio innumerevoli volte, ma a quanto pare nessuno dei due si stanca mai dell’argomento. «Georgia non era fantastica?», chiede Sarah. «E Trey era così elegante con quel completo». «Tua madre non ha smesso un attimo di sorridere». «Be’, tranne quando piangeva come
una bambina». «No, sorrideva comunque». «E l’espressione della signorina Westbrook quando ti ha visto, Jonas… Dio, mi viene da piangere solo al pensiero. È stato bello». Sorrido. È stato davvero bello. Ma potrei dire lo stesso di ogni singolo minuto di quel giorno. Sarah ha organizzato ogni cosa dall’inizio alla fine; io ho solo dovuto pagare i conti e presentarmi come qualsiasi altro invitato, ed è stato stupendo. Quando l’ho vista avanzare verso di me lungo la navata, ho pensato sinceramente che sarei morto e andato in paradiso. E quando ha detto: «Sì, lo voglio», quando
è diventata ufficialmente mia moglie davanti a Dio e a tutti, ecco, quello è stato il momento più bello della mia vita. E poi c’è stato il ricevimento. E che ricevimento. Dio, io ho persino ballato. Per tutta la notte. Con Sarah ovviamente, ma anche con Georgia e il suo ragazzo e Trey e la signorina Westbrook e i suoi figli (compreso il mio omonimo, che si è rivelato un giovanotto piuttosto robusto) e la madre di Sarah e Kat e Josh e Henn e un sacco di amici di Sarah. Quando siamo passati allo scotch e la band ha cominciato a darci dentro, ho persino ballato con lo zio William. Non mi sono mai divertito tanto in vita
mia. Un sano e stupido divertimento vecchio stile. Sì, me la spasso un sacco con Sarah, questo è ovvio, e anche con Josh, ma non mi ero mai lasciato andare a quel modo con qualcun altro oltre a loro due, e soprattutto non in una stanza piena di gente, che in parte nemmeno conoscevo. È stato un vero e proprio colpo di genio da parte di Sarah affittare Canlis per l’occasione. Quale posto migliore per festeggiare di quello del nostro primo appuntamento? «Terra chiama Jonas». Le sorrido. «A cosa stai pensando, tesoro?» «Al nostro fantastico matrimonio». «È stato meraviglioso, vero? Hai visto
lo zio William che ballava con Kat?», chiede Sarah. «Era adorabile». «Sì. E hai visto Henn che cercava di fare quella specie di break dance?». Scoppia a ridere. «Non capivo cosa diavolo avesse intenzione di fare. Ero un po’ preoccupata per la sua sicurezza». «E per quella delle persone in pista vicino a lui». Ride di nuovo. «Rifacciamolo al più presto». Sarah mi lancia un’occhiata come a dirmi che sono un idiota totale. «Lascia che ti spieghi una cosa piuttosto elementare, amore. La particolarità del matrimonio è che, se sei davvero fortunato, lo fai una volta sola. Il
concetto in sé è unico». Sorride. «Cara la mia saputella, io intendevo che dovremmo dare un’altra festa. Non ne ho mai data una prima. È stato divertente». Resta a bocca aperta. «Jonas Faraday vuole dare una festa?» «No, aspetta. Mi correggo. Voglio che tu dia una festa e io voglio solo partecipare. Proprio come al nostro matrimonio. Farai tu tutto il lavoro, prenderai tutte le decisioni, sceglierai gli invitati, non mi seccherai per nessuna questione e io verrò a bere, ballare, divertirmi e fare l’idiota». Scoppia a ridere. «Oh, Jonas. Darò una festa quando vuoi, tesoro. Sarà un
piacere». Mi sistemo accanto a lei e la abbraccio. «Grazie». La bacio sul naso. «Moglie». Mi rannicchio contro di lei e restiamo così in silenzio per qualche minuto, mentre le accarezzo la schiena. «Che giorno è oggi?», chiede lei d’un tratto, come se avesse avuto una specie di epifania. Glielo dico. «Merda. Ormai dovrebbero aver pubblicato i voti». Prende il portatile e si connette al sito per gli studenti. Io sbircio oltre la sua spalla, trattenendo il fiato. «Ah», commenta lei. «Che cavolo». «Cosa c’è?»
«La buona notizia è che ho preso il massimo dei voti in tutti gli esami», dice, eppure sembra delusa. «Ma è fantastico. Perché non sei contenta?». Sporge il labbro inferiore. «Perché la cattiva notizia è che sono precipitata a picco tra i migliori studenti». Sospira. «Sono al dodicesimo posto adesso. Ne ho persi otto». «Sei al dodicesimo posto di tutto il tuo corso? E parli di precipitare a picco?». Scoppio a ridere. «È stupendo, piccola». «Ma non ho ottenuto la borsa di studio». Abbassa lo sguardo sulle sue mani e io non riesco a trattenere un
sorriso davanti alla fede che brilla al suo dito affusolato, accanto al diamante lucente. «L’ho persa per due posizioni». «Piccola, stammi a sentire. Considerando tutto quello che hai passato appena prima degli esami, è fantastico che tu sia al dodicesimo posto». Si stringe nelle spalle. «Non preoccuparti per la borsa di studio. Te l’ho detto, sei la fortunata destinataria della borsa di studio erogata da Jonas Faraday. Sii fiera di te e non stare in ansia». «Non mi servono i tuoi soldi. Posso pagarmi l’università con la mia parte di ricompensa».
«No. Adesso sono tuo marito e ciò significa che mi prenderò cura di te. Per ogni cosa. In ogni modo. Fine della storia». Mi guarda con le sopracciglia inarcate. Oh, già, mi ero scordato che non le piace sentirselo dire. «Io voglio prendermi cura di te, Sarah… signora Faraday. Ti prego». Sorride. «In ogni modo immaginabile. Per il resto della tua vita». «Oh, Jonas». La bacio. «Sono orgoglioso di te e devi esserlo anche tu. Non stare in ansia».
«Grazie». Le afferro il sedere con entusiasmo. «Allora, cosa vuoi fare oggi, mogliettina? Bungee jumping da un ponte? Una discesa in corda doppia da un precipizio? Scopare come scimmie e immaginare le nostre sorelle in Belize che urlano nella giungla tutt’intorno a noi?» «Dio, non sopporterei altre avventure eccitanti. Per la prossima settimana e fino all’inizio dei corsi, voglio solo stare sdraiata qui a sbavare e fissare il soffitto». Cazzo, spero non stia dicendo alla lettera sulle avventure eccitanti. A meno che non abbia in mente di lasciarsi
leccare ogni centimetro del suo corpo intanto che se ne sta sdraiata a fissare il soffitto, ovviamente, perché questa donna è la mia droga e non ho nessuna intenzione di andare in riabilitazione. Si blocca. «Anche se…». Il mio umore si risolleva. «Sì?» «C’è una cosa che mi andrebbe proprio di fare oggi, caro maritino mio, se te la senti». «Dimmelo, oh mia sposa». Il mio uccello freme. «Be’, ho notato che quando mi metto comoda sulla poltrona di pelle in salotto con i miei libri, non c’è un tavolino per appoggiare una tazza o un bicchiere». La guardo con aria divertita. Di cosa
diavolo sta parlando? «E ho notato anche che nelle tue varie credenze non hai dei bicchierini…». «Nelle nostre credenze non abbiamo bicchierini. Nostre. Non abbiamo». Sorride. «Non abbiamo bicchierini». «Mmm hmm». Non sono sicuro di dove voglia andare a parare. «Quindi pensavo che sarebbe carino andare a fare un po’ di spese oggi». Mi fa un sorriso da saputella e, di colpo, capisco a che gioco sta giocando. «Un po’ di spese, eh?» «Giusto». «Per prendere un tavolino e dei bicchierini?» «Giusto. E magari anche qualche altro
accessorio per la casa». Dio. Non riesco a credere che la mia vita sia diventata così… e che mi piaccia. «E dove pensavi di andare a comprare un tavolino, dei bicchierini e altri vari oggetti non meglio specificati, signora Faraday?» «Be’, caro il mio aitante marito, conosco un posto miracoloso dove possiamo trovare tutte queste cose e molte altre ancora, magari persino un pouf imbottito gigante verde lime, e allo stesso tempo ingozzarci di squisite polpette svedesi». Sospiro, come se fossi in ansia. «Wow, non so, piccola. Mi sembra un grande passo per il nostro rapporto.
Pensi davvero che siamo pronti?». Finge di valutare le varie opzioni. «Be’, significherebbe portare il nostro rapporto al livello successivo, questo è certo. Ma io penso di essere pronta, se lo sei anche tu». Mi sorride. «Se ci sono delle polpette e sto con te, posso affrontare qualsiasi cosa, persino un giro all’IKEA. Lascerò a casa l’uccello e le palle e starò benissimo». «No, stupidone. Così non va». «Perché no?» «Pensa, Jonas, pensa. Se lasci a casa l’uccello e le palle, come faremo a fare sesso sfrenato in uno dei bagni?». Ma salve. Divento duro all’istante. «Ah, eccellente osservazione. Sono
contento che uno di noi ci abbia pensato». «Oh, ma io ci penso sempre, Jonas. Te lo assicuro». «Questo è l’eufemismo del secolo, piccola». Scoppia a ridere. «Allora è deciso? Il signore e la signora Faraday oggi andranno a fare spese all’IKEA?» «Assolutamente sì. Adesso che mi hai fatto pensare al mio uccello, alle palle e alle polpette però, prima di uscire muoio dalla voglia di un po’ di albóndigas». I suoi occhi si riempiono di terrore puro. «Oh no, Jonas. Ti prego, no». «Non puoi fermarmi».
«No!», urla lei ridendo, ma resistermi è inutile. La faccio sdraiare sulla pancia, le abbasso con uno strattone i pantaloni del pigiama e le do un bel morso succoso al sedere. «Mmm. Adoro il tuo culo», ringhio, e poi la sculaccio. Lei strilla di nuovo. Ragazzi, ce l’ho duro come una roccia, pronto per una bella scopata vecchio stile con la mia dolce mogliettina, la Mia Magnifica signora Faraday. Eppure, ripensandoci, non c’è fretta, giusto? Io e mia moglie abbiamo tutto il tempo del mondo. Io non ho intenzione di andare da nessuna parte e nemmeno lei. Per sempre. Ha preso un impegno
davanti a Dio e a tutti e non può rimangiarsi la promessa. Quindi perché non astenersi e concedersi una deliziosa attesa? Se farò il bravo bambino paziente, questo pomeriggio mi scoperò la mia ragazzaccia cattiva in un bagno dell’IKEA e sicuramente ne varrà la pena. Balzo giù dal letto ed esulto… e le do un’ultima sculacciata per sicurezza. «Forza, signora Faraday», urlo. «Muovi il tuo delizioso culo. Tuo marito ce l’ha in tiro e vuole portare la sua sexy mogliettina a fare spese all’IKEA!».
Ringraziamenti Scrivere questa trilogia è stata una delle gioie più grandi della mia vita. Grazie ai miei amati primi lettori per i vostri commenti e il vostro incoraggiamento, con una menzione particolare alla mia stella cometa, Nicki Starr. Grazie alla mia famiglia per avermi sempre dato spazio e sostegno mentre scrivevo, anche se sappiamo tutti che scrivere mi rende patologicamente pazza (soprattutto quando lavoro a tre libri uno dietro l’altro).
Per quanto riguarda questo terzo volume, Insieme per amore, grazie al “paese” che mi ha aiutato dandomi l’ispirazione. Grazie al mio vicino Steve, un agente dei servizi segreti in pensione, per le innumerevoli ore passate a raccontarmi di indagini federali, crimine organizzato e pirateria informatica. Eravamo una coppia improbabile, ma ci siamo divertiti un sacco a parlare, vero? Grazie agli splendidi hacker che ho incontrato a Las Vegas al Mandalay Bay. Voi eravate là per una convention mentre io ero andata a divertirmi con le mie amiche e, per mia fortuna, mi avete riempito di idee. Probabilmente non vi rivedrò mai più e
non leggerete mai questo messaggio, ma mi avete aiutato e fatto ridere così tanto, e ho molto gradito i drink che ci avete generosamente offerto, che mi sento comunque in dovere di ringraziarvi da queste pagine. La mia grande famiglia è stupenda. Grazie a mia madre, a mia suocera e a mia zia per aver letto i libri e averli apprezzati. Vi voglio un mondo di bene. Grazie a mio zio il motociclista per aver letto il primo capitolo di Insieme per gioco e avermi dato conferma della credibilità del punto di vista maschile. La tua fiducia mi ha incoraggiato ad andare avanti e a fidarmi della voce di Jonas che avevo in testa. Grazie a mio
zio il mago dei computer per avermi dato un giorno a pranzo quell’idea geniale. Grazie alla mia cuginetta per aver letto i primi capitoli di Insieme per gioco e avermi chiamato all’istante per dirmi: «Cugina, sei una bestia selvaggia». E grazie per avermi parlato del Web sommerso. Una volta sentita, questa merda non si scorda più. Grazie a mio padre per avermi ascoltato parlare della trama di questi libri (ovviamente riducendo le scene di sesso a «e poi fanno sesso») un giorno a pranzo. Non so perché continuo a scrivere di padri bastardi quando io ho avuto il miglior padre del mondo. Ti voglio bene, papà. (Non so come mai ti
ho appena ringraziato qui perché, se leggerai questi libri, non voglio saperlo). Grazie a Scott, il medico del pronto soccorso che, nonostante i suoi impegni, ha sacrificato tanto tempo per aiutarmi a descrivere le ferite, le cure e il ricovero di Sarah nel modo più realistico possibile. Grazie anche all’autrice di best seller (ed ex infermiera di pronto soccorso) Catherine Bybee, che mi ha aiutato a inventare le ferite della povera Sarah e mi ha fatto ridere a crepapelle. Grazie ai miei agenti, Jill e Kevin. Come sempre, a prescindere dal nome con cui scrivo o dal genere, mi avete dato fiducia e per me significa molto.
Grazie a Author Whisperer per i commenti e l’aiuto inestimabili. Grazie a Lisa, Melissa e Sharon. Siete delle grandi, ragazze. Grazie ad Alicia per la revisione e l’editing e a Judi per la formattazione. Sono fortunata a poter contare sul sostegno di una squadra così fantastica. E, infine, grazie al membro più importante della squadra: il mio aitante marito. Sei la mia roccia e ti amo.
Indice Capitolo uno. Jonas Capitolo due. Jonas Capitolo tre. Jonas Capitolo quattro. Jonas Capitolo cinque. Jonas Capitolo sei. Jonas Capitolo sette. Jonas
Capitolo otto. Jonas Capitolo nove. Jonas Capitolo dieci. Sarah Capitolo undici. Sarah Capitolo dodici. Sarah Capitolo tredici. Sarah Capitolo quattordici. Sarah Capitolo quindici. Jonas Capitolo sedici. Jonas Capitolo diciassette. Jonas Capitolo diciotto. Jonas Capitolo diciannove. Sarah Capitolo venti. Sarah Capitolo ventuno. Jonas Capitolo ventidue. Sarah Capitolo ventitré. Sarah Capitolo ventiquattro. Sarah
Capitolo venticinque. Jonas Capitolo ventisei. Sarah Capitolo ventisette. Sarah Capitolo ventotto. Jonas Capitolo ventinove. Sarah Capitolo trenta. Jonas Capitolo trentuno. Sarah Capitolo trentadue. Jonas Capitolo trentatré. Jonas Capitolo trentaquattro. Sarah Capitolo trentacinque. Sarah Capitolo trentasei. Jonas Capitolo trentasette. Jonas Capitolo trentotto. Sarah Capitolo trentanove. Jonas Capitolo quaranta. Sarah Capitolo quarantuno. Sarah
Capitolo quarantadue. Jonas Capitolo quarantatré. Sarah Capitolo quarantaquattro. Jonas Epilogo. Jonas Ringraziamenti
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