Imprimatur - Rita Monaldi e Francesco Sorti

January 16, 2017 | Author: settantatre_2 | Category: N/A
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Roma, settembre 1683. Mentre le feroci armate turche di Kara Mustafà premono alle porte dell‟Occidente e tengono tutta la cristianità con il fiato soppeso, in una locanda nel cuore della Città Santa la morte improvvisa di un viaggiatore semina il panico: veleno o peste? Per paura del contagio, gli ospiti vengono rinchiusi in quarantena nelle loro stanze. Tra essi c‟è l‟abate Atto Melani, ex cantante castrato e ora agente segreto del Re Sole, deciso a scoprire cosa si celi dietro quella strana morte. Atto dovrà però scontrarsi con le reticenze e le paure degli altri ospiti, con lo spettro della peste che aleggia nella locanda e con gli echi minacciosi della battaglia decisiva che le armate dei principi cattolici stanno combattendo a Vienna contro i Turchi. Nonostante le difficoltà, l‟inchiesta dell‟abate Melani condurrà alla soluzione del mistero, ma soprattutto alla tremenda verità che segretamente condiziona il destino d‟Europa: una congiura internazionale in cui s‟intrecciano sanguinosamente religione, politica e spionaggio. Il diario dell‟inchiesta, tenuto minuziosamente dal garzone della locanda, finirà sepolto in un vecchio e polveroso volume manoscritto. Ma centinaia di anni più tardi, improvvisamente riemergerà. A leggere con il fiato sospeso il drammatico racconto del garzone è ora un anziano prelato, che deve assolvere un delicatissimo incarico: far proclamare santo un Papa vissuto tre secoli prima. E, al momento decisivo, sarà proprio il diario a dettare l‟ultima parola. Nell‟ambiguo fascino della Roma barocca, tra tunnel segreti e laboratori alchemici, tra cacciatori di reliquie e tipografie clandestine, tra strampalate dottrine mediche e culinarie, viene alla luce un segreto della storia d‟Europa fino a oggi mai rivelato: un grandioso complotto le cui prove erano state occultate da sempre. È dopo anni di ricerche che gli autori hanno scoperto i documenti (veri) per raccontarci questo filo impazzito della storia e, insieme, uno straordinario secolo ingiustamente trascurato. In corso di traduzione in diversi paesi europei, Imprimatur ha già conquistato l‟attenzione della stampa internazionale. Roma, settembre 1683. Nei sotterranei della Città Santa l‟abate Atto Melani, agente segreto del Re Sole, gioca una partita mortale contro la peste e un misterioso assassino. Posta in gioco: il destino dell‟Europa. “Sensazionali documenti scoperti negli archivi vaticani… Finalmente svelato un segreto vecchio di secoli.” The Sunday Times 9788804503606 Monaldi e Sorti IMPRIMATUR MONDADORI www.mondadori.com/libri ISBN 88-04-50360-2 (c) 2002 ARNOLDO MONDADORI EDITORE S.P.A. MILANO I EDIZIONE MARZO 2002

IMPRIMATUR

Interpretazioni divinatorie dell‟Arcano del Giudizio: Resurrezione del passato Riparazione dei torti subiti Equo giudizio dei posteri. Nulla va perduto; il passato rimane vivo in ciò che interessa l‟avvenire. OSWALD Wirth, I Tarocchi

Como, 14 febbraio 2040 A Sua Ecc.za Mons. Alessio Tanari Segretario della Congregazione per le Cause dei Santi Roma – Città del Vaticano In nomine Domini Ego, Lorenzo Dell‟Agio, Episcopus Comi, in processu canonizationis beati Innocentii Papae XI, iuro me fideliter diligenterque impleturum munus mihi commissum, atque secretum servaturum in iis ex quorum revelatione preiudicium causae vel infamiam beato afferre posset. Sic me Deus adiuvet. Carissimo Alessio, vogliate perdonarmi se mi rivolgo a Voi esordendo con la formula del giuramento di rito: mantenere il segreto su quanto d‟infamante avessi appreso per la reputazione di un‟anima beata. So che al Vostro antico docente in seminario scuserete l‟adozione di uno stile epistolare meno ortodosso di quelli a cui siete aduso. Mi scriveste tre anni or sono su incarico del Santo Padre, invitandomi a far luce su una presunta guarigione miracolosa, avvenuta oltre quarant‟anni fa nella mia diocesi ad opera del Beato papa Innocenzo XI: quel Benedetto Odescalchi da Como del quale da fanciullo, forse per la prima volta, avevate sentito raccontare proprio da me. Il caso di mira sanatio riguardava, come certamente rammenterete, un bimbo: un orfanello della campagna comasca a cui un cane aveva mozzato un ditino. Il povero lacerto sanguinolento, immediatamente raccolto dalla nonna del piccolo, devota del papa Innocenzo, venne da costei avvolto nell‟immaginetta sacra del Pontefice e così consegnato ai medici del Pronto Soccorso. Il bimbo, dopo l‟operazione di reinnesto del ditino, ne riacquistò istantaneamente il perfetto uso e sensibilità: fatto che suscitò lo stupore sia del chirurgo che dei suoi assistenti. Secondo le indicazioni Vostre e il desiderio di Sua Santità, ho istruito il processo super mira sanatione, che il mio predecessore dell‟epoca non aveva invece ritenuto opportuno iniziare. Non mi dilungherò ulteriormente sul processo, che ho appena concluso malgrado siano ormai deceduti quasi tutti i testimoni della vicenda, le cartelle cliniche siano state distrutte dopo dieci anni e il bimbo di allora, ora cinquantenne, risieda stabilmente negli Stati Uniti. Gli atti Vi verranno inviati a parte.

Come richiede la procedura, so che li sottoporrete al giudizio della Congregazione e redigerete poi una relazione per il Santo Padre. So infatti quanto il nostro amato Pontefice aneli a riaprire, dopo quasi un secolo dalla beatificazione, il processo di canonizzazione di papa Innocenzo XI per proclamarlo finalmente Santo. E proprio perché anche a me sta a cuore l‟intendimento di Sua Santità, vengo al punto. Avrete certamente notato la consistente mole del plico allegato a questa mia: è il dattiloscritto di un libro mai pubblicato. Sarà arduo spiegarvene nei dettagli la genesi, poiché i due autori, dopo avermene spedito una copia, sono svaniti nel nulla. Sono certo che Nostro Signore ispirerà al Santo Padre e a Voi, dopo la lettura dell‟opera, la soluzione più giusta per il dilemma: secretum servare aut non? Tacere o rendere pubblico lo scritto? Ciò che verrà deciso sarà per me cosa sacra. Mi scuso sin d‟ora se la penna – essendo solo adesso il mio spirito liberato da tre anni di affannose ricerche – scorrerà a volte troppo libera. Conobbi i due autori del dattiloscritto, una giovane coppia di fidanzati, quarantatré anni or sono. Ero appena stato nominato parroco a Roma, dov‟ero giunto dalla mia Como, alla quale Nostro Signore mi avrebbe poi fatto la grazia di tornare da vescovo. I due giovani, Rita e Francesco, erano entrambi giornalisti; abitavano a poca distanza dalla mia parrocchia, e si rivolsero dunque a me per il corso di preparazione al matrimonio. Il dialogo con la giovane coppia andò ben presto al di là di un semplice rapporto di discenza, e si fece col tempo più stretto e confidenziale. Il caso volle che, a soli quindici giorni dalla data delle nozze, il sacerdote destinato a officiare la cerimonia cadesse vittima di una grave indisposizione. Fu perciò naturale per Rita e Francesco chiedere a me di celebrare il rito. Li sposai in un pomeriggio assolato di metà giugno, nella luce pura e altera della chiesa di San Giorgio in Velabro, a poca distanza dalle rovine gloriose del Foro romano e dell‟Arce capitolina. Fu una cerimonia intensa e colma di commozione. Pregai ardentemente l‟Altissimo di concedere alla giovane coppia una vita lunga e serena. Dopo il matrimonio continuammo a frequentarci per alcuni anni. Appresi così che, malgrado il poco tempo lasciato libero dal lavoro, Rita e Francesco non avevano mai del tutto abbandonato gli studi. Indirizzatisi entrambi, dopo la laurea in Lettere, verso il più dinamico e cinico mondo della carta stampata, non avevano tuttavia dimenticato gli antichi interessi. Continuavano al contrario a coltivare nei ritagli di tempo buone letture, visite ai musei e qualche incursione in biblioteca. Una volta al mese m‟invitavano a cena o per un caffè pomeridiano. Spesso, per permettermi di sedere, dovevano all‟ultimo istante liberare una sedia sepolta da pile di fotocopie, microfilm, riproduzioni di stampe antiche e libri: cataste di carta che a ogni visita trovavo più alte. Incuriositomi, chiesi a cosa mai stessero attendendo con sì acceso entusiasmo. Mi raccontarono allora di aver rintracciato tempo prima, nella collezione privata di un aristocratico bibliofilo romano, una raccolta di otto volumi manoscritti, risalenti ai

primi anni del XVIII secolo. In virtù di alcune amicizie comuni il proprietario, marchese *** ***, aveva dato ai due il permesso di studiare gli antichi volumi.

Si trattava di un vero e proprio gioiello per cultori di storia. Gli otto tomi erano l‟epistolario dell‟abate Atto Melani, membro di un‟antica e nobile famiglia toscana di musicisti e diplomatici. Ma la vera scoperta doveva ancora arrivare: rilegata all‟interno di uno degli otto tomi, era venuta alla luce una voluminosa memoria manoscritta. Era datata 1699 e vergata in una minuta calligrafia, di mano manifestamente diversa dal resto del volume. L‟anonimo autore della memoria affermava di essere stato garzone di una locanda romana, e narrava in prima persona sorprendenti vicende accadute tra Parigi, Roma e Vienna nel 1683. La memoria era preceduta da una breve lettera di presentazione, senza data né mittente né destinatario, e dal contenuto alquanto oscuro. Non mi fu dato per quel momento di sapere altro. I due sposini mantenevano il più stretto riserbo sulla loro scoperta. Intuii solo che dal ritrovamento di quella memoria avevano preso il via tutte le loro più animate ricerche. Tuttavia, essendo usciti entrambi per sempre dall‟ambiente universitario e non potendo quindi più dare dignità scientifica ai loro studi, i due giovani avevano cominciato a covare il progetto di un romanzo. Me ne iniziarono a parlare come per scherzo: avrebbero modellato la memoria del garzone in forma e prosa di romanzo. Ne rimasi dapprima un po‟ deluso, ritenendo l‟idea – da appassionato studioso quale mi piccavo di essere – velleitaria e superficiale. Poi, tra una visita e l‟altra, capii che la cosa si stava facendo seria. Non era passato un anno dal matrimonio, e ormai vi dedicavano tutto il tempo libero. Più tardi mi confessarono di aver trascorso quasi per intero il viaggio di nozze negli archivi e nelle biblioteche di Vienna. Non posi mai domande, limitandomi a fare da silenzioso e discreto depositario della loro fatica. All‟epoca, ahimè, non seguivo attentamente il resoconto che i due giovani mi facevano sul progredire della loro opera. Essi intanto, spronati dalla nascita d‟una bella figlioletta e stanchi di costruire sulle sabbie mobili del nostro povero Paese, all‟inizio del nuovo secolo avevano improvvisamente risolto di trasferirsi a Vienna, città a cui si erano affezionati fors‟anche per i dolci ricordi di sposini. Mi invitarono per un breve congedo, poco prima di lasciare definitivamente Roma. Promisero di scrivermi, e di venirmi a trovare quando fossero tornati in visita in Italia. Non fecero nulla di tutto ciò, e nulla seppi più di loro. Finché un giorno, mesi appresso, ricevetti un plico da Vienna. Conteneva il dattiloscritto che Vi invio: era il tanto atteso romanzo. Fui felice di sapere che erano almeno riusciti a portarlo a termine, e volevo rispondere per ringraziare. Ma rimasi sorpreso nel constatare che non mi avevano mandato il loro indirizzo, e neanche due righe di accompagnamento. A fare da

frontespizio, una scarna dedica: “Ai vinti”. E sul retro del plico solo una scritta a pennarello: “Rita & Francesco”. Lessi dunque il romanzo. O dovrei piuttosto chiamarlo memoria? Si tratta davvero di una memoria barocca, rimaneggiata per il lettore di oggi? O non piuttosto di un romanzo moderno, ambientato nel Seicento? O tutte e due le cose? Sono domande che mi assillano tuttora. In talune parti pare infatti di leggere pagine giunte intatte dal XVII secolo: tutti i personaggi discettano invariabilmente col lessico della trattatistica secentesca. Ma poi, quando la discettazione cede il passo all‟azione, il registro linguistico muta bruscamente, e i medesimi personaggi si esprimono in prosa moderna: proprio come se in quel passo gli autori avessero voluto lasciare il segno del loro intervento. Purtroppo non mi è stato possibile venire a capo della questione, che è probabilmente destinata a restare un mistero. Non ho infatti potuto rintracciare gli otto tomi di lettere dell‟abate Melani, dai quali ha preso l‟avvio tutta la storia. La biblioteca del marchese *** *** è stata smembrata una decina d‟anni fa dagli eredi, che hanno poi proceduto ad alienarla. La casa d‟aste che ha curato la vendita, avendo io scomodato qualche conoscenza, mi ha comunicato in via informale i nominativi degli acquirenti. Credevo d‟essere giunto alla soluzione, e mi ritenevo graziato dal Signore, finché non lessi i nomi dei nuovi possessori: i volumi erano stati acquistati da Rita e Francesco. Dei quali, ovviamente, non era dato conoscere alcun indirizzo. Negli ultimi tre anni ho allora condotto, con le poche risorse a mia disposizione, una lunga serie di verifiche sul contenuto del dattiloscritto. Troverete il risultato delle mie ricerche nelle pagine che Vi accludo in fondo, e che Vi prego di leggere con somma attenzione. Vi scoprirete per quanto tempo relegai nell‟oblio l‟opera dei miei due amici, e le sofferenze che me ne derivarono. Troverete poi un dettagliato esame degli eventi storici narrati nel dattiloscritto e un resoconto delle faticose ricerche che ho condotto, negli archivi e nelle biblioteche di mezza Europa, per capire se potessero corrispondere a verità. I fatti narrati infatti, come potrete verificare Voi stesso, furono di portata tale da mutare violentemente, e per sempre, il corso della Storia. Ebbene, giunto ora al termine di tali ricerche, posso affermare con certezza che le vicende e i personaggi contenuti nella storia che state per leggere sono autentici. E anche quando non era possibile trovare le prove di quanto ho letto, ho potuto almeno stabilire che si tratta di eventi del tutto verosimili. La vicenda narrata dai due miei antichi parrocchiani, pur non gravitando unicamente attorno a papa Innocenzo XI (che peraltro non figura neppure tra gli attori del romanzo), lascia comunque emergere circostanze che sulla limpidezza d‟animo del Pontefice, e sull‟onestà dei suoi propositi, gettano nuove e gravi ombre. Dico nuove, in quanto già il processo di beatificazione di papa Odescalchi, aperto il 3 settembre 1714 da Clemente XI, s‟inceppò quasi subito per le obiezioni super virtutibus, sollevate in seno alla Congregazione antipreparatoria dal promotore della

fede. Dovettero passare trent‟anni perché Benedetto XIV Lambertini imponesse, per decreto, il silenzio ai dubbi di promotori e consultori circa l‟eroicità delle virtù di Innocenzo XI. Ma ecco poco dopo arrestarsi ancora il processo, stavolta per quasi duecento anni: solo nel 1943 infatti, sotto papa Pio XII, venne eletto un altro relatore. La beatificazione si sarebbe fatta attendere per altri tredici anni, e cioè fino al 7 ottobre 1956. Dopo quel giorno su papa Odescalchi cadde il silenzio. Mai più si parlò, fino a oggi, di proclamarlo Santo. Avrei potuto, grazie alla legislazione approvata da papa Giovanni Paolo II oltre cinquant‟anni fa, aprire di mia iniziativa un supplemento d‟istruttoria. Ma in tal caso non avrei potuto secretum servare in iis ex quorum revelatione preiudicium causae vel infamiam beato afferre posset. In tal caso, cioè, avrei dovuto rivelare il contenuto del dattiloscritto di Rita e Francesco a qualcuno, fosse pure unicamente al promotore di giustizia e al postulatore (gli “avvocati di accusa e difesa dei Santi”, come oggi vengono rozzamente indicati sui giornali). In tal modo, però, avrei lasciato sorgere gravi e irreversibili dubbi sulle virtù del Beato: decisione che poteva spettare solo al Sommo Pontefice, e non certo a me. Se invece nel frattempo l‟opera fosse stata pubblicata, sarei stato libero dall‟obbligo del segreto. Sperai quindi che il libro dei due miei parrocchiani avesse già trovato un editore. Affidai pertanto la ricerca ad alcuni tra i più giovani e ignari dei miei collaboratori. Ma nei cataloghi dei libri in commercio non trovai alcuno scritto del genere, né il nome dei miei amici. Cercai di rintracciare i due giovani (ormai di certo non più tali): all‟anagrafe risultarono effettivamente trasferiti a Vienna, Auerspergstrasse 7. Scrissi a quell‟indirizzo, ma mi rispose il rettore di un pensionato universitario, che non sapeva fornirmi alcuna indicazione. Chiesi al Comune di Vienna, al quale però nulla di utile risultava. Mi rivolsi ad ambasciate, consolati, diocesi estere, senza sortire alcun risultato. Temetti il peggio. Scrissi anche al parroco della Minoritenkirche, la chiesa nazionale italiana a Vienna. Ma Rita e Francesco erano sconosciuti a tutti, compresa fortunatamente l‟anagrafe cimiteriale. Decisi infine di partire io stesso per Vienna, nella speranza di rintracciare almeno la loro figlia, pur se, dopo quarant‟anni, non ne ricordavo più il nome di battesimo. Com‟era prevedibile, anche quest‟ultimo tentativo si risolse nel nulla.

Dei miei due antichi amici, oltre agli scritti, mi resta solo la vecchia fotografia di cui mi fecero dono. Ve la lascio, come tutto il resto. Da tre anni li cerco dappertutto. Talvolta mi ritrovo a fissare le ragazze con i capelli rossi come quelli di Rita, dimenticando che ora i suoi sarebbero bianchi come i miei. Oggi avrebbe settantaquattro anni, e Francesco settantasei. Mi congedo, per ora, da Voi e da Sua Santità. Che Dio Vi ispiri nella lettura a cui Vi accingete. Mons. Lorenzo Dell‟Agio Vescovo della Diocesi di Como

Signore, nell‟inviarVi questa Memoria che ho infine rinvenuta, oso sperare che Vostra Eccellenza riconoscerà nei miei sforzi per esaudire i Vostri desideri l‟eccesso di passione e d‟amore che ha sempre fatto la mia felicità, quando ho potuto testimoniarlo a Vostra Eccellenza. Memoria contenente molti mirabili Avvenimenti, che s‟ebbero nella Locanda del Donzello all‟Orso dall‟1 1 al 25 Settembre dell‟Anno 1683; con Riferimenti ad altri Eventi, prima e dopo quei Giorni. A Roma, A.D. 1699

Giornata Prima 11 SETTEMBRE 1683

Gli uomini del Bargello arrivarono a pomeriggio inoltrato, proprio mentre stavo per accendere la torcia che illuminava la nostra insegna. Stringevano in pugno assi e martelli; e sigilli e catene e grossi chiodi. Man mano che avanzavano da via dell‟Orso, gridavano e gesticolavano imperiosi per significare ai passanti e ai crocchi di gente di sgomberare la strada. Erano invero corrucciati. Giuntimi al fianco, cominciarono a sbracciarsi: “Tutti dentro, tutti dentro, si deve chiudere” gridò colui che tra loro dava gli ordini. Feci appena in tempo a scendere dallo sgabello su cui m‟ero innalzato, e mani poderose mi spinsero in malo modo dentro l‟ingresso, mentre alcuni si ponevano a minaccioso sbarramento della porta. Ero stordito. Mi riscosse bruscamente la calca che, alle grida degli ufficiali, s‟era ammucchiata all‟entrata come un lampo dal nulla. Erano i pigionanti della nostra locanda, conosciuta come locanda del Donzello. Erano solo nove ed erano tutti presenti: in attesa che venisse servita la cena, come ogni sera si aggiravano al pianterreno tra le ottomane dell‟atrio e i tavoli delle due vicine sale da pranzo, a fingere chi di fare una cosa chi un‟altra; ma in realtà ognuno a gravitare attorno al giovane pigionante francese, il musico Roberto Devizé, che con gran bravura si esercitava alla chitarra. “Fatemi uscire! Ah, come osate? Giù le mani! Non posso restare qui! Sono sanissimo, capito? Sanissimo! Fatemi passare, vi dico!” Chi urlava così (lo scorsi a pena dietro la selva di lance con cui gli armigeri lo tenevano a bada) era padre Robleda, il gesuita spagnolo nostro pigionante, che prese a roboare in preda al panico, con il respiro corto e il collo rosso e gonfio. Tanto che mi aveva ricordato gli urli che emettono i porci quando, appesi a testa in giù, vengono mattati. Il fracasso rimbombava nella via e, mi pareva, fin nella piazzetta, spontaneamente svuotatasi in un batter di ciglia. Sull‟altro lato della strada scorsi il pesciarolo e due servi della vicina locanda dell‟Orso che osservavano la scena. “Ci chiudono” gridai loro cercando di farmi vedere, ma i tre restarono impassibili.

Un venditore d‟aceto, un nevarolo e un gruppetto di ragazzini, le cui grida fino a qualche attimo prima animavano la strada, si nascosero impauriti dietro l‟angolo. Intanto il mio padrone, il signor Pellegrino de Grandis, aveva posto un banchetto sulla soglia della locanda. Un ufficiale del Bargello vi appoggiò il registro dei pigionanti della locanda, che s‟era appena fatto consegnare, e cominciò l‟appello. “Padre Juan de Robleda, da Granada.” Poiché non avevo mai assistito a una chiusura per quarantena, né alcuno me n‟aveva mai parlato, credetti dapprima che volessero incarcerarci. “Brutta storia, brutta storia” udii sibilare Brenozzi, il veneziano. “Venga fuori padre Robleda!” si spazientì l‟appellatore. Il gesuita, stramazzato al suolo nella vana lotta con gli armigeri, si rialzò e, dopo aver verificato che ogni via di fuga era sbarrata dalle lance, rispose all‟appello con un cenno della pelosissima mano. Venne subito spinto dalla mia parte. Era padre Robleda venuto di Spagna alcuni giorni prima e da quella mattina, a causa degli accadimenti, non aveva fatto altro che mettere a dura prova i nostri orecchi con i suoi strepiti di paura. “Abate Melani, da Pistoia!” chiamò l‟ufficiale appellatore dal registro dei pigionanti. Guizzò dall‟ombra la trina di foggia franciosa che guarniva il polso del nostro ospite più recente, giunto appena all‟alba. Alzò diligentemente la mano al suo nome, e i suoi piccoli occhi triangolari brillarono come stiletti uscendo dall‟ombra. Il gesuita non mosse un muscolo per farsi da parte quando Melani, con incedere tranquillo e in silenzio, s‟unì a noi. Erano state proprio le grida dell‟abate, quel mattino, a far scattare l‟allarme. Le avevamo udite tutti, provenivano dal primo piano. Pellegrino, l‟oste mio padrone, era stato il primo a scuotere le sue lunghe gambe, accorrendo prestamente. Ma s‟era arrestato non appena raggiunta la stanza grande al primo piano che affaccia sulla via dell‟Orso. Lì avevano preso alloggio due ospiti: il signor di Mourai, anziano gentiluomo francese, e il suo accompagnatore, il marchigiano Pompeo Dulcibeni. Mourai, in poltrona con i piedi a mollo nella tinozza per il suo solito pediluvio, giaceva di traverso con le braccia penzoloni, mentre l‟abate Melani gli sorreggeva il busto e cercava di rianimarlo scuotendolo per il bavero. Mourai fissava lo sguardo alle spalle del suo soccorritore e sembrava scrutare Pellegrino con grandi occhi stupiti, emettendo un indistinto gorgoglio. Lì Pellegrino s‟accorse che l‟abate in realtà non stava gridando aiuto, ma stava interrogando il vecchio con gran frastuono e concitazione. Gli parlava in francese, e il mio padrone non capì, ma immaginò gli stesse chiedendo cosa gli era accaduto. A Pellegrino (com‟egli stesso avrebbe poi riferito a noi tutti) era sembrato tuttavia che l‟abate Melani con eccessivo vigore scrollasse Mourai nel suo tentativo di rianimarlo, e si precipitò a liberare il povero vecchio dalla troppo poderosa presa. Fu in quel momento che il povero signor di Mourai, con enorme sforzo, biascicò le sue ultime parole: “Ahi, dunqu‟è pur vero” gemette in italiano. Poi smise di rantolare. Continuava a fissare l‟oste, e bava verdastra gli era colata dalla bocca fin sul petto. Così era morto.

“Il vecchio, es el viejo” ansimò padre Robleda con un sussurro colmo di terrore, a metà tra l‟italiano e la sua lingua, non appena udimmo due armigeri ripetersi a mezza voce le parole “peste” e “serrare”. “Cristofano, medico e cerusico da Siena!” chiamò l‟appellatore. A gesti lenti e misurati, il nostro ospite toscano si fece avanti con la valigetta di cuoio, contenente tutt‟i suoi istrumenti, da cui non si separava mai. “Sono io” rispose a voce bassa dopo aver aperto la sua borsa, rimestato un mucchio di carte e, con frigida compassatezza, essersi schiarito la voce. Era Cristofano un signore tondetto di non alta statura, d‟aspetto assai curato e sguardo giocondo che ispirava buona luna. Quella sera, il volto pallido e grondante d‟un sudore che non curava di tergersi, le pupille concentrate su qualcosa d‟invisibile davanti a sé e una rapida lisciata alla nera barbetta a punta prima di muoversi smentivano la sua pretesa impassibilità, rivelando uno stato di altissima tensione. “Vorrei precisare che a un primo ma attento esame del corpo del signor di Mourai non sono affatto certo che si tratti di contagio” esordì Cristofano “mentre il perito medico del Magistrato di Sanità, che con tanta sicurezza lo asserisce, s‟è in realtà assai poco trattenuto presso la salma. Io ho qui” e mostrò le carte “appuntato per iscritto le mie osservazioni. Credo che possano servire per riflettere ancora un poco, e rinviare codesta Vostra affrettata deliberazione.” Gli uomini del Bargello, però, non avevano potere né voglia di sottilizzare. “Il Magistrato ha ordinato l‟immediata chiusura di questa locanda” tagliò corto quello che sembrava essere il capo, aggiungendo che al momento non era stata ancora dichiarata una vera e propria quarantena: i giorni di clausura sarebbero stati solo venti e senza sgombero della via; purché, naturalmente, non si verificassero altre morti o infermità sospette. “Visto che sarò rinchiuso anch‟io, e per aiutarmi nella diagnosi” insistette il signor Cristofano un poco alterato “posso almeno sapere qualcosa di più sugli ultimi pasti del defunto signor di Mourai, visto che mangiava sempre e solo in camera sua? Potrebbe anche essere una semplice congestione.” L‟obiezione ebbe l‟effetto di rendere esitanti gli armigeri, che cercarono con gli occhi il locandiere. Ma costui non aveva neanche udito la richiesta del medico: accasciato su una sedia, abbandonato allo sconforto, gemeva e imprecava, come suo solito, contro gl‟infiniti tormenti che la vita gli infliggeva. L‟ultimo di questi appena una settimana prima, quando s‟era aperta una piccola crepa in uno dei muri della locanda, cosa che accade non di rado nelle vecchie case di Roma. La fessura non comportava alcun pericolo, ci era stato detto; ma tanto era bastato già allora a deprimere e far infuriare il mio padrone. L‟appello, intanto, proseguiva. Le ombre della sera avanzavano e la squadra aveva deciso di non frapporre ulteriori indugi alla chiusura. “Domenico Stilone Priàso, da Napoli! Angiolo Brenozzi, da Venezia!” I due giovani, poeta l‟uno e vetraio il secondo, si fecero avanti guardandosi l‟un l‟altro, come sollevati dall‟essere chiamati insieme, quasi potessero così dimezzare il timore. Brenozzi il vetraio – con lo sguardo spaurito, i lucidi boccoletti bruni e il nasino all‟insù che faceva capolino tra le gote accese – ricordava un Cristarello di

porcellana. Peccato che, come suo solito, scaricava la tensione pizzicandosi oscenamente con due dita il sedano tra le cosce, quasi per suonare un istrumento a una corda sola. Vizio che a me saltava all‟occhio più che a chiunque altro. “Ci aiuti l‟Altissimo” piagnucolò in quel mentre padre Robleda, non capii se per il gesto sconcio del vetraio o per la situazione, e si lasciò cadere paonazzo su uno sgabello. “E tutt‟i Santi” aggiunse il poeta “che sono venuto da Napoli per prendermi il contagio.” “E non avete fatto bene” ribatté il gesuita tergendosi il sudore della fronte con un fazzoletto. “Bastava restare nella vostra città, che lì le occasioni non mancano.” “Può darsi. È che qui, ora che c‟è un Papa buono, si credeva d‟avere il favore del Cielo. Ma prima si deve vedere che ne pensano quelli, come si dice, di dietro la Porta” sibilò Stilone Priàso. Labbra serrate e lingua tagliente, il poeta napoletano aveva colpito là dove nessuno voleva esser neppure sfiorato. Ormai da settimane l‟esercito turco della Sublime Porta Ottomana premeva, assetato di sangue, alle porte di Vienna. Tutti gli schieramenti infedeli convergevano implacabilmente (almeno così riferivano gli scarni resoconti che giungevano sino a noi) sulla capitale del Sacro Romano Impero, e minacciavano di sfondarne presto i bastioni.

I combattenti del campo cristiano, ormai sul punto di capitolare, resistevano solo grazie alla forza della Fede. A corto di armi e vettovaglie, stremati dalla fame e dalla dissenteria, erano per di più terrorizzati dalle prime avvisaglie d‟un focolaio di peste. Tutti sapevano: se Vienna fosse caduta, le armate del comandante turco Kara Mustafà avrebbero avuto via libera verso Occidente. E sarebbero dilagate per ogni dove con gioia cieca e terribile. Per scongiurare la minaccia, s‟erano mobilitati molti Principi illustri, Reali e Capitani d‟armate: il Re di Polonia, il duca Carlo di Lorena, il principe Massimiliano di Baviera, Luigi Guglielmo di Baden e altri ancora. Tutti quanti però erano stati convinti a soccorrere gli assediati dall‟unico, vero baluardo della Cristianità: papa Innocenzo XI. Da molto tempo, infatti, il Pontefice lottava strenuamente per coalizzare, radunare e rafforzare le milizie cristiane. E non solo con i mezzi della politica, ma anche con un prezioso sostegno finanziario. Da Roma partivano di continuo generose somme di denaro: oltre due milioni di scudi all‟Imperatore, cinquecentomila fiorini alla Polonia, più altri centomila scudi donati dal nipote del Pontefice, altri versamenti da singoli Cardinali e infine un generoso prelievo straordinario sulle decime ecclesiastiche di Spagna. La Santa Missione che il Pontefice stava disperatamente cercando di portare a compimento si aggiungeva poi alle innumerevoli pie opere compiute in sette anni di Pontificato. L‟ormai settantaduenne successore di Pietro, nato col nome di Benedetto Odescalchi, aveva innanzitutto dato l‟esempio. Alto, magrissimo, la fronte larga, il

naso aquilino, lo sguardo severo, il mento sporgente ma nobile sovrastato da pizzo e baffi, si era guadagnato la fama d‟asceta. Di carattere schivo e riservato, assai di rado lo si scorgeva in carrozza per la città, ed evitava con cura le acclamazioni popolari. Era noto che avesse scelto per sé le stanze più piccole, inospitali e spoglie che mai Pontefice avesse abitato, e che quasi mai scendesse nei giardini del Quirinale e del Vaticano. Era così frugale e parsimonioso da utilizzare solo abiti e paramenti dei suoi predecessori. Sin dall‟elezione vestì sempre la stessa sottana bianca, benché oltremodo consunta, e la cambiò solo quando gli venne fatto osservare che al vicario di Cristo in Terra non conviene un abbigliamento troppo trascurato. Ma anche nell‟amministrazione del patrimonio della Chiesa s‟era acquistato meriti altissimi. Aveva risanato le casse della Camera Apostolica, che dai tempi ingiuriosi di Urbano Vili e Innocenzo X avevano subito ruberie d‟ogni genere. Aveva abolito il nepotismo: appena eletto, aveva convocato suo nipote Livio, avvertendolo – così si diceva – che non lo avrebbe fatto Cardinale, e anzi lo avrebbe tenuto lontano dagli affari di Stato. Inoltre, aveva finalmente richiamato i suoi sudditi a costumi più austeri e morigerati. I teatri, luogo di disordinato sollazzo, erano stati chiusi. Il carnevale, che solo dieci anni prima richiamava ammiratori da tutta Europa, era pressoché morto. Feste e trattenimenti musicali erano ridotti al minimo. Alle donne erano stati proibiti abiti troppo aperti e scolli alla francese. Il Pontefice aveva anzi spedito squadre di sbirri a ispezionare la biancheria stesa alle finestre, per sequestrare corsetti e camicette troppo audaci. Era grazie a tale austerità, sia finanziaria che morale, che Innocenzo XI aveva potuto faticosamente raccogliere denaro per combattere il Turco, e grande era stato l‟aiuto fornito alla causa degli eserciti cristiani. Ma ora la guerra era giunta al momento decisivo. E da Vienna tutta la Cristianità sapeva cosa attendersi: la salvezza, o il disastro. In estrema lacerazione d‟animo si trovava quindi il popolo, che a ogni albeggiare volgeva con angoscia lo sguardo a levante, chiedendosi se il nuovo giorno avrebbe portato con sé torme di sanguinari giannizzeri e di destrieri pronti ad abbeverarsi alle fontane di San Pietro. Già a luglio il Pontefice aveva annunziato l‟intenzione di proclamare il Giubileo universale, per implorare l‟aiuto divino, ma soprattutto per raccogliere altri denari da impiegare in guerra. Tutti, laici ed ecclesiastici, erano stati solennemente esortati alla pietà, e si era tenuta una grandiosa processione con l‟intervento di tutt‟i Cardinali e gli ufficiali di Curia. Alla metà di agosto il Papa aveva ordinato che le chiese di Roma ogni sera suonassero le campane per un ottavo d‟ora, a implorazione dell‟aiuto Divino. Ai primi di settembre, infine, in San Pietro era stato esposto con grande ricchezza di apparati il Santissimo Sacramento, con accompagnamento di musiche e orazioni, e di fronte all‟immensa moltitudine di popolo era stata poi cantata dai canonici la Messa Solenne contra paganos, ordinata personalmente da Sua Santità.

Ecco quindi che il battibecco tra il gesuita e il poeta aveva evocato un terrore che percorreva tutta la città come un fiume sotterraneo. La battuta di Stilone Priàso, nell‟animo già provato di padre Robleda, aveva aggiunto paura a paura. Torvo e tremante, il viso tondo del gesuita era incorniciato per la pressione irosa da un cuscino di grasso che gli ballava sotto il mento. “Qualcuno qui tiene per il Turco?” ansimò malignamente. I presenti si voltarono d‟istinto verso il poeta, che in effetti un occhio sospettoso avrebbe potuto facilmente scambiare per un emissario della Porta: la pelle bruna e butterata, gli occhietti di carbone, aveva il cipiglio del gufo. La sua figura nerastra ricordava quei ladroni dall‟ispida e corta capigliatura che s‟incontrano, ahimè sovente, sulla strada per il Regno di Napoli. Stilone Priàso non ebbe il tempo di replicare. “Tacete una buona volta!” ci azzittì uno dei gendarmi, che proseguì l‟appello. “Signor di Mourai, francese, col signor Pompeo Dulcibeni da Fermo, e Roberto Devizé, musico francese.” II primo era, come s‟affrettò a chiarire il signor Pellegrino mio padrone, l‟anziano francese arrivato alla locanda del Donzello alla fine del mese di luglio, e che ora pareva essere spirato per il contagio. Era di certo un gran nobiluomo, aggiunse Pellegrino, assai minato nella salute, ed era arrivato alla locanda in compagnia di Devizé e Dulcibeni. Il signor di Mourai era infatti quasi del tutto cieco e aveva bisogno d‟un accompagnatore; per lo stesso motivo s‟era aggiunto a loro Devizé, anche lui francese. Del vecchio Mourai non si sapeva quasi nulla: sin dal suo arrivo aveva sempre detto d‟essere molto stanco, e s‟era fatto portare ogni giorno i pasti in camera, uscendo solo di rado per qualche breve passeggiata nei dintorni della locanda. Gli armigeri presero rapidamente nota delle dichiarazioni del mio padrone. “Non è proprio possibile, signori, che sia morto di peste! Era di maniere ottime assai, e ben vestito; sarà stata la vecchiaia, ecco tutto.” A Pellegrino s‟era sciolta la lingua e s‟era posto ad alloquire la milizia con quel suo morbido tono che, pur usandone assai di rado, certune volte gli sopravveniva tanto efficace. Nonostante le fattezze nobili e l‟alta figura sottile, le mani gentili, il portamento morbido e lievemente incurvato dei suoi cinquant‟anni, il volto incorniciato da una fluente bianca chioma raccolta con un nastro, vaghi e languidi occhi castani, il mio padrone era ahimè preda d‟un temperamento bilioso e iracondo assai, che ornava i suoi discorsi d‟una gran messe di bestemmie. Solo il pericolo imminente, quella volta, gl‟impediva di dare libertà al suo naturale. Ma già più nessuno lo ascoltava. Vennero chiamati nuovamente il giovane Devizé e Pompeo Dulcibeni, che subito si fecero avanti. Gli occhi dei nostri pigionanti luccicarono all‟avanzarsi del musico francese, la cui chitarra li aveva incantati sino a poco prima. Gli uomini del Bargello avevano ormai fretta d‟andarsene e, senza neanche dare il tempo a Dulcibeni e Devizé di raggiungere la parete, li spinsero da una parte, mentre l‟ufficiale chiamava: “Signor Eduardus Bedfordi inglese e donna… e Cloridia”. L‟improvvisa correzione e il vago sorriso con cui venne proferito l‟ultimo nome lasciava intendere al di là d‟ogni dubbio quale antica professione svolgesse l‟unica

ospite femminile del Donzello. Di lei in realtà non sapevo molto, giacché il mio padrone non l‟aveva alloggiata con gli altri pigionanti, bensì nel torrino, ove godeva di un passaggio indipendente. Nel mese scarso della sua permanenza avevo solo dovuto portarle vettovaglie e vino, oltre a consegnare (in verità con singolare frequenza) biglietti in busta chiusa, che quasi mai recavano il nome dello scrivente. Cloridia era assai giovane, doveva avere all‟incirca la mia stessa età. L‟avevo vista talvolta scendere nelle sale del pianterreno e intrattenersi a conversare, assai amabilmente debbo dire, con qualcuno dei nostri pigionanti. Dai colloqui avuti col signor Pellegrino, sembrava intenzionata a prender la nostra locanda come fissa dimora. Il signor di Bedfordi non poteva passare inosservato: rosso fuoco di capelli, con un manto di macchioline dorate sul naso e sulle gote, e dagli occhi cerulei e strabici come mai avevo visto prima, veniva dalle lontane isole britanniche. Da quanto avevo udito, non era la prima volta che soggiornava al Donzello: come anche il vetraio Brenozzi e Stilone Priàso il poeta, v‟era già stato ai tempi della precedente locandiera buonanima, cugina del mio padrone. Fu mio l‟ultimo nome a essere chiamato. “Ha vent‟anni e lavora con me da poco” spiegò Pellegrino. “Al momento è il mio unico garzone, visto che in questo periodo abbiamo pochi pigionanti. Non so niente di lui, l‟ho preso a lavorare perché non aveva nessuno” disse frettolosamente il mio padrone, dando l‟impressione di voler allontanare da sé qualsiasi responsabilità per il contagio. “Faccelo solo vedere, dobbiamo chiudere” troncarono gli armigeri con impazienza non riuscendo a scorgermi. Pellegrino m‟afferrò per un braccio, quasi sollevandomi. “Ragazzo, sei proprio uno scricciolo!” mi schernì la guardia mentre i suoi compagni ridacchiavano. Dalle finestre circostanti, frattanto, alcune teste si sporgevano timidamente. La gente del rione aveva saputo cosa stava avvenendo, e solo i più curiosi cercavano di avvicinarsi. La gran parte invece si teneva a distanza, già temendo gli effetti del contagio. I gendarmi avevano portato a termine la missione. La locanda aveva quattro ingressi. Due su via dell‟Orso: il portone principale e l‟ampia entrata adiacente – tenuta aperta nelle sere d‟estate – che dava sulla prima delle due sale da pranzo. V‟erano poi l‟ingresso laterale di servizio, che dal vicolo conduceva direttamente alla cucina, e, per finire, la porticina che dall‟androne portava in cortile. Vennero tutti accuratamente sigillati con robuste assi di faggio, inchiodate con chiodi lunghi mezzo palmo. Lo stesso fu per l‟uscita che dal torrino di Cloridia apriva sul tetto. Le finestre del pianterreno e del primo piano, nonché le feritoie che dal livello superiore della cantina aprivano sul selciato del vicolo, erano già provviste di grate, e una eventuale fuga dal secondo piano o dal sottotetto avrebbe comportato il rischio d‟una caduta, o d‟essere individuati e catturati.

Il capo degli uomini del Bargello, un individuo grasso e con un‟orecchia semimozza, impartì le direttive. Avremmo dovuto calare il corpo del povero signor di Mourai da una delle finestre della sua camera dopo l‟alba, quando sarebbe passato a prenderlo il carretto della Compagnia dell‟Orazione e Morte, che avrebbe provveduto alla sepoltura. Saremmo stati sorvegliati da una sentinella diurna, dalle sei del mattino alle dieci di sera, e da una guardia notturna per le ore restanti. Non saremmo potuti uscire finché non si fosse ristabilita e accertata la sanità del luogo, e comunque non prima di venti giorni. Durante tale periodo avremmo dovuto rispondere periodicamente all‟appello da una delle finestre che davano sulla via dell‟Orso. Ci vennero lasciati alcuni grossi otri d‟acqua, neve pressata, vari pani da baiocco, cacio, lardo, olive, un po‟ d‟erbette e un cesto di mele gialle. Avremmo poi ricevuto una sommetta onde pagare i rifornimenti di cibo, acqua e neve. I cavalli della locanda sarebbero restati dove già erano, cioè nella stalla del cocchiere che abitava proprio lì a fianco. Chi fosse uscito, o avesse anche solo tentato la fuga, avrebbe avuto quaranta tratti di corda e sarebbe stato portato di fronte al Magistrato per essere punito. Venne inchiodato sull‟uscio l‟infame cartello con la scritta SANITÀ. Venimmo poi ammoniti a rispettare tutti gli ordini che ci sarebbero stati dati in seguito, comprese le disposizioni che s‟impartiscono in tempo di contagio, ovvero di peste, e si sarebbero puniti gravemente coloro che non ubbidivano. Dall‟interno della locanda assistemmo ammutoliti all‟annuncio che ci condannava alla segregazione. “Siamo morti, tutti morti” disse qualcuno dei pigionanti con voce incolore. Eravamo radunati al completo nell‟atrio lungo e stretto della locanda, divenuto tetro e oscuro appena la porta era stata sbarrata. Ci guardavamo attorno spaesati. Nessuno si decideva a dirigersi verso le attigue sale, dove la cena giaceva ormai fredda. Il mio padrone, accasciato sul bancone dell‟ingresso, inveiva tenendosi il capo tra le mani. Lanciava improperi e maledizioni che non possono essere riferiti, e minacciava di rendersi pericoloso per chiunque gli si ponesse troppo vicino. All‟improvviso cominciò a menare, con le nude mani, colpi tremendi al povero bancone, facendo schizzare in aria il registro dei pigionanti. Dopodiché sollevò il tavolo, per scagliarlo contro il muro. Dovemmo intervenire per trattenerlo, ghermendolo alle braccia e al torace. Pellegrino cercò di divincolarsi ma perse l‟equilibrio, trascinando con sé a terra anche un paio di pigionanti, che precipitarono con grande strepito l‟uno sull‟altro. Io stesso dovetti farmi da parte un attimo prima che il groviglio umano mi seppellisse. Il mio padrone fu più lesto dei suoi controllori, e quasi subito si rialzò urlando e avventandosi nuovamente coi pugni sul bancone. Decisi d‟abbandonare quell‟angusto e ormai periglioso spazio, e sgattaiolai su per la scala. Qui però, percorsa la prima rampa, mi trovai di fronte l‟abate Melani. Scendeva senza fretta, con passo prudente. “Così ci hanno riserrati, ragazzo” disse calcando sulla sua strana erre alla maniera francese. “Cosa facciamo adesso?” chiesi. “Nulla.” “Ma moriremo di peste.” “Vedremo” disse con un‟indefinibile sfumatura di tono che avrei presto imparato a riconoscere.

Indi cambiò direzione e m‟attirò al primo piano. Percorremmo fino in fondo il corridoio ed entrammo nella grande stanza che il vecchio deceduto condivideva col suo anziano accompagnatore, il marchigiano Pompeo Dulcibeni. Una tenda divideva in due la camera. La scostammo e trovammo, mentre armeggiava con la sua valigetta accovacciato sul pavimento, il medico Cristofano. Di fronte a lui, riverso sulla poltrona, era il signor di Mourai, ancora semisvestito come lo avevano lasciato quella mattina Cristofano e il perito medico. Il defunto era un poco maleodorante a causa del caldo settembrino e del pediluvio in cui marcivano ormai le carni, avendo il Bargello ingiunto di non spostar nulla sino al termine dell‟appello. “Ragazzo, già stamattina te l‟avevo chiesto: da‟ un‟asciugata a quest‟acqua puteolenta sul pavimento, per favore” m‟ordinò Cristofano con una punta d‟impazienza nella voce. Stavo per rispondere che l‟avevo già fatto appena il medico me lo aveva comandato; ma, volgendo lo sguardo a terra, m‟avvidi che attorno al catino del pediluvio c‟erano ancora, in effetti, alcune pozzangherette. Eseguii senza protestare, con straccio e bastone, maledicendomi per non esser stato abbastanza accorto quella mattina. Di fatto, prima d‟allora non avevo mai visto un cadavere in vita mia, e l‟emozione doveva avermi confuso. Mourai pareva ancora più magro ed esangue di quand‟era arrivato alla locanda del Donzello. Aveva le labbra appena schiuse, da cui ancora filtrava un po‟ della bava verdastra che Cristofano, volendo aprirgli ancor più la bocca, cominciò a rimuovere con una pezzuola. Il medico badò però ad afferrarla solo dopo aver avvolto la propria mano in un altro brandello di tessuto. Come aveva già fatto quella mattina, scrutò attentamente la gola del morto, e annusò la bava. Poi si fece aiutare dall‟abate Melani ad adagiare il corpo sul letto. I piedi, estratti dalla tinozza, erano grigiastri ed emanavano un terribile odore di morte che ci tolse il respiro. Cristofano indossò un paio di guanti di stoffa marrone prelevati dalla cassetta. Tornò a ispezionare il cavo orale, poi osservò il torace e l‟inguine già nudi. Tastò però prima con delicatezza dietro alle orecchie; poi passò alle ascelle, scostando la veste per poter osservare la carne molle e ricoperta di rada peluria. Infine sollecitò ripetutamente con i polpastrelli la parte morbida di carne che si trova a metà strada tra le pudenda e l‟inizio della coscia. Si sfilò dunque con attenzione i guanti e li ripose in una sorta di gabbietta, divisa in due scomparti da una grata orizzontale. Nello spazio inferiore si trovava una piccola bacinella in cui versò un liquido brunastro, quindi richiuse lo sportellino del comparto in cui aveva riposto i guanti. “E aceto” spiegò. “Spurga gli umori pestiferi. Non si sa mai. Comunque resto della mia idea: non mi pare proprio che sia contagio. Per ora possiamo stare tranquilli.” “Agli uomini del Bargello avete detto che si potrebbe trattare d‟una congestione” gli ricordai. “Era solo un esempio, fatto anche per prender tempo. Sapevo già da Pellegrino che Mourai gradiva solo minestre.” “E vero” confermai. “Anche stamane all‟alba ne aveva chiesta una.” “Ah sì? Va‟ avanti allora” chiese il medico interessato.

“Non c‟è molto da dire: aveva domandato un brodo al latte al mio padrone, che come tutte le mattine era andato a dare la sveglia al signor di Mourai e al gentiluomo marchigiano con cui divideva la stanza. Ma il signor Pellegrino aveva da fare, e così ha incaricato me di prepararlo. Sono sceso in cucina, l‟ho fatto e gliel‟ho portato.” “Eri solo?” “Sì.” “Non è venuto nessuno in cucina?” “No.” “Hai mai lasciato il brodo incustodito?” “Neanche per un attimo.” “Sicuro?” “Se state pensando che qualcosa in quel brodo potrebbe aver fatto male al signor di Mourai, sappiate che gliel‟ho somministrato personalmente, visto che il signor Dulcibeni era già uscito, e ne ho bevuto io stesso un bicchiere.” Il medico non fece altre domande. Guardò il cadavere e aggiunse: “Non posso eseguire qui e ora un‟autopsia, e credo che nessuno la farà, visto il sospetto di peste. Comunque, ripeto, non mi pare contagio”. “Ma dunque” interloquii “perché ci hanno chiusi in quarantena?” “Per troppo zelo. Tu sei ancora giovane, ma credo che da queste parti si ricordino bene dell‟ultima epidemia. Se tutto va bene, presto si renderanno conto che non ci sono pericoli. Questo anziano signore, che peraltro già non sembrava godere di buona salute, non è appestato. E direi pertanto che neppure voi e io 10 siamo. Comunque non abbiamo scelta: dovremo calare fuori Il corpo e gl‟indumenti del povero signor di Mourai, come ci hanno ordinato quelli del Bargello. Inoltre dovremo dormire ognuno in una stanza diversa. Ve ne sono a sufficienza in questa locanda, se non erro” disse guardandomi interrogativamente. Annuii. In ogni piano, sui due bracci del corridoio, s‟aprivano quattro camere: una, piuttosto spaziosa, subito a lato delle scale, seguita da un‟altra piccolissima e da una a L, mentre in fondo al corridoio si trovava la stanza più ampia, l‟unica che affacciasse non solo sul vicolo ma anche su via dell‟Orso. Si sarebbero dunque occupate, pensai, tutte le stanze del primo e secondo piano, ma sapevo che il mio padrone non si sarebbe lagnato più di tanto, visto che per il momento non potevano certo giungere altri pigionanti. “Dulcibeni dormirà nella mia stanza” aggiunse Cristofano “non può certo restare qui col cadavere. Comunque” concluse “se non vi saranno altri casi, veri o falsi, tra qualche giorno ci faranno uscire.” “Tra quanto esattamente?” chiese Atto Melani. “E chi può dirlo? Se qualcuno nei paraggi si sente male, magari solo perché ha bevuto un vinaccio o ha mangiato pesce marcio, si penserà subito a noi.” “Allora rischiamo di restare qui per sempre” azzardai sentendomi già soffocato dalle spesse mura della locanda. “Per sempre, no. Ma calmati: non sei stato giorno e notte qui dentro, nelle ultime settimane? Ti ho visto uscire molto poco; sei già abituato.” Era vero. Il padrone m‟aveva preso al servizio per misericordia perché sapeva ch‟ero solo al mondo. E io lavoravo dalla mattina alla sera. Era accaduto all‟inizio della passata primavera, quando Pellegrino era giunto a Roma da Bologna, dove faceva il cuoco, a rilevare l‟attività del Donzello dopo la disgrazia occorsa a sua cugina, la signora ostessa Luigia de Grandis Bonetti. Costei, poveretta, aveva reso l‟anima al Signore Iddio per le conseguenze fisiche di un‟aggressione subita per istrada da due gaglioffi gitani che le volevano rubare la borsa dei denari. La locanda, gestita per trent‟anni prima da Luigia con il marito

Lorenzo e il figliolo Francesco, e poi dalla sola Luigia rimasta vedova e orba madre, era un tempo assai rinomata e accoglieva ospiti da tutte le parti del mondo. La venerazione per il duca Orsini, padrone del palazzetto in cui sorgeva la locanda, aveva spinto Luigia a nominarlo proprio erede universale. Il Duca, tuttavia, non aveva avuto nulla da obiettare quando Pellegrino (che doveva sfamare moglie, figlia zitella e una piccina) era arrivato da Bologna a scongiurare il Duca di fargli proseguire la florida attività della cugina Luigia. Era questa un‟occasione d‟oro per il mio padrone, che ne aveva appena sprecata un‟altra: al termine d‟una faticosa carriera nelle cucine d‟un ricco Cardinale, ove aveva raggiunto l‟ambito posto di aiuto scalco, s‟era fatto cacciar via a causa del carattere iracondo e delle sue troppe intemperanze. Non appena Pellegrino si fu stabilito nei pressi del Donzello, in attesa che il palazzetto si liberasse da alcuni inquilini di passaggio, venni a lui raccomandato dal parroco della vicina chiesa di Santa Maria in Posterula. All‟arrivo della torrida estate romana la sua consorte, affatto entusiasta all‟idea di fare la locandiera, era partita con le figlie alla volta delle montagne appenniniche dove ancora vivevano i suoi parenti. Il loro ritorno era atteso per la fine del mese, e nel frattempo io ero rimasto l‟unico aiuto. Certo, non si poteva aspettare da me il migliore dei garzoni; ma per accontentarlo ce la mettevo tutta. Quando avevo sbrigato le faccende del giorno, volentieri cercavo ogni occasione per rendermi utile. E poiché non mi piaceva uscire da solo e affrontare i rischi della strada (e soprattutto gli scherzi crudeli dei miei coetanei) ero quasi sempre all‟opera nella locanda del Donzello, come aveva osservato il medico Cristofano. Ciononostante, il pensiero d‟essere recluso per tutta la quarantena in quelle stanze, pur così familiari e accoglienti, d‟improvviso mi pareva un sacrificio insopportabile. Nel frattempo nell‟ingresso era terminata la confusione, e ci avevano raggiunti il mio padrone e tutti gli altri che con lui s‟erano impegnati nel lungo e inutile dispendio di forze. Venne in breve spiegato loro quanto aveva sentenziato Cristofano, cosa che sollevò non poco gli animi, tranne quello del mio padrone. “Io li ammazzo, li ammazzo tutti” disse perdendo nuovamente le staffe. Aggiunse che quell‟accadimento lo aveva rovinato, poiché nessuno si sarebbe più recato al Donzello, né ovviamente sarebbe stato possibile vendere l‟attività della locanda, già svalutata da quella maledetta crepa, e avrebbe dovuto riscattare tutt‟i suoi crediti per averne un‟altra, e in breve sarebbe diventato povero e rovinato per sempre, ma avrebbe prima raccontato tutto al Collegio dei locandieri, ah sì, anche se tutti sapevano che non serviva a nulla, disse contraddicendosi poi molte altre volte, e capii che purtroppo aveva di nuovo attinto al vinello Greco. Il medico proseguì: “Dovremo raccogliere le coperte e i vestiti del vecchio, e calarli in strada quando arriverà il carro di raccolta”. Poi si rivolse a Pompeo Dulcibeni: “Avete incontrato o saputo di gente infetta arrivando da Napoli?”. “Assolutamente no.” Il gentiluomo marchigiano sembrava nascondere a fatica il grande turbamento per la morte del suo amico, avvenuta oltre tutto in sua assenza. Un

velo di sudore gli copriva la fronte e gli zigomi. Il medico lo interrogò su una quantità di particolari: se il vecchio avesse mangiato con regolarità, se fosse andato bene di corpo, se fosse d‟umore melanconico, se insomma avesse mostrato segni di sofferenza, oltre a quelli normalmente dati dall‟età avanzata. Ma così non era parso a Dulcibeni. Era questi di figura piuttosto massiccia, sempre abbigliato d‟un giuppone nero; ma soprattutto reso lento e goffo da una vecchissima gorgiera di foggia fiamminga (come credo dovesse esser di moda molti e molti anni fa), oltre che dallo stomaco prominente. Questo, assieme al colorito rubizzo, faceva sospettare una propensione al cibo non inferiore a quella che il mio padrone aveva per il Greco. I folti capelli ormai del tutto imbiancati, il temperamento ombroso, la voce lievemente affaticata e un aspetto grave e pensoso gli conferivano un sembiante d‟uomo probo e morigerato. Solo col passar del tempo, e con più attenta osservazione, avrei veduto nei suoi severi occhi glauchi, e nelle sue rade sopracciglia sempre corrugate, il riflesso d‟un‟asprezza recondita e inestirpabile. Dulcibeni disse d‟aver conosciuto il defunto signor di Mourai per caso, durante un viaggio, e di non saper molto di lui. L‟aveva accompagnato da Napoli insieme al signor Devizé poiché il vecchio, quasi privo della vista, era bisognoso d‟assistenza. Il signor Devizé, musico e suonatore di chitarra, era venuto invece in Italia, affermava ancora Dulcibeni mentre lo stesso Devizé annuiva, per acquistare un nuovo strumento da un liutaio napoletano. Successivamente aveva espresso il desiderio di fermarsi a Roma per apprendervi i più recenti stili musicali, prima di tornare a Parigi. “Che cosa succede se usciamo prima che sia finita la quarantena?” interloquii. “Tentare la fuga è la soluzione più sconsigliabile” rispose Cristofano “visto che le vie d‟uscita sono state tutte inchiodate, compreso il passaggio che dal torrino in cui alloggia monna Cloridia apre sul tetto. Le finestre poi sono troppo alte o munite di grate, e c‟è una ronda qui sotto. Meglio così: venire sorpresi a fuggire da una quarantena comporterebbe una pena severissima, e una segregazione ben peggiore per anni e anni. La gente del rione aiuterebbe a rintracciare il fuggiasco.” Erano calate intanto le ombre della sera, e distribuii i lumi a olio. “Cerchiamo di mantenere sereni gli animi” aggiunse il medico toscano, guardando significativamente il mio padrone. “Dobbiamo dare l‟impressione che tutto tra noi vada a perfezione. Io non vi visiterò, se le cose non cambiano, a meno che voi non me lo chiediate; se si verificheranno altri episodi di malore, dovrò farlo per il bene di tutti. Avvertitemi non appena vi sentite poco in salute, anche se vi sembrasse un‟inezia. Per il momento tuttavia non è bene angosciarsi, poiché quest‟uomo” disse indicando il corpo inerte del signor di Mourai “non è morto di peste.” “Di cosa è morto allora?” chiese l‟abate Melani. “Non di peste, ripeto.” “E come lo sai, medico?” incalzò l‟abate con diffidenza. “Siamo ancora in estate e fa abbastanza caldo. Se è peste, non può che trattarsi del tipo estivo, che s‟origina dalla corruzione del calore naturale e dà febbri, mal di testa, e cadaveri che diventano subito negri e caldissimi, nonché giandusse nere e marce. Ma costui di giandusse, o ghiandusse o bubboni o posteme che dir si voglia, non ha neanche l‟ombra; né sotto le ascelle, né dietro le orecchie o all‟attaccatura delle cosce. Non ha manifestato innalzamento della temperatura né arsura. E, a quanto

m‟hanno detto i suoi compagni di viaggio, sembrava stare abbastanza bene fino a qualche ora prima della morte. Questo basta, per quanto mi riguarda, a escludere il contagio pestilenziale.” “Allora è un altro male” replicò Melani. “Ripeto: per capirlo si dovrebbe ricorrere alla notomia. Aprire il corpo ed esaminarlo dall‟interno, insomma, come fanno i dottori d‟Olanda. Da un esame esterno potrei ipotizzare un attacco fulminante di febbri putride, che non si lascia riconoscere fintanto che non vi è più rimedio. Non scorgo però putrefazioni sul cadavere, né cattivi odori che non siano quelli della morte e dell‟età. Potrei forse supporre che sia stato mal di Mazucco, o Modoro, come lo chiamano gli Spagnoli: causa un apostema, ossia un ascesso interno al cervello, quindi invisibile, e fatto quello bisogna morire. Se invece il male è ai primi sintomi, è facile rimediarvi. Insomma, se ne avessi avuto notizia solo qualche giorno fa, avrei forse potuto salvarlo. Sarebbe bastato cavar sangue da una delle due vene sotto la lingua, somministrare nel bere pochissimo olio di vetriolo e ungere stomaco e capo con olio benedetto. Ma, a quanto pare, il vecchio Mourai non ha dato segni di star male. Inoltre…” “Inoltre?” lo esortò Melani. “Il mal di Mazucco non gonfia certo la lingua” terminò il medico con una smorfia significativa. “Forse è… qualcosa di molto simile al veleno.” Veleno. Mentre il medico risaliva in camera, ognuno di noi rimase in silenzio guardando il cadavere. Il gesuita, per la prima volta, si fece il segno della Croce. Il signor Pellegrino inveì nuovamente contro la sventura di trovarsi un morto nella locanda, e forse persino avvelenato, e chi la voleva sentire sua moglie quando sarebbe tornata. Corsero allora rapidissimi tra i pigionanti alcuni discorsi sui casi celebri di avvelenamenti o presunti tali, in cui primeggiavano antichi Sovrani come Carlo il Calvo, Lotario Re dei Franchi o suo figlio Lodovico o, per venire a tempi moderni, l‟acqua tofana e la cantarella usate dai Borgia per i loro nefandi delitti e le trappole tese dai Valois o dai Guisa. Un inconfessato tremore aveva pervaso tutto il gruppo, giacché paura e veleno erano nati fratelli: qualcuno ricordò come Enrico di Navarra, prima di diventare Re di Francia col nome di Enrico IV, scendesse egli stesso sulle rive della Senna per attingere l‟acqua che avrebbe consumato durante i pasti, temendo di cadere vittima di pozioni venefiche. Giovanni d‟Austria non era forse morto per aver calzato stivali avvelenati? Stilone Priàso tornò a ricordare come Caterina de‟ Medici avesse avvelenato Giovanna d‟Albret, madre di Enrico di Navarra, per mezzo di guanti e colletti profumati, e avesse tentato di ripetere l‟impresa offrendo al figlio di lei un meraviglioso libro di caccia le cui pagine un po‟ incollate, ch‟egli avrebbe cercato di sfogliare inumidendosi i polpastrelli con la lingua, erano imbevute d‟un fatale tossico italiano. A preparare tali micidiali ritrovati, rilanciò qualcuno, erano sovente astrologi e profumieri. E qualcun altro rispolverò la storia di Saint-Barthélemy, il servo del famigerato priore di Cluny che avvelenò il Cardinale di Lorena dandogli in pagamento monete d‟oro intossicate; mentre Enrico di Lutzelburgo moriva (oh, fine blasfema) per un veleno annidato nell‟ostia consacrata con la quale aveva fatto la Comunione.

Stilone Priàso prese a parlottare fittamente ora con questo ora con quello, ammettendo che sui poeti e su chi esercita il mestier del bello scrivere da sempre si dicono tante cose di fantasia, ma egli era solo un poeta, e nato per la poesia, Dio gli perdonasse l‟immodestia. Si voltarono poi verso di me e ripresero a tempestarmi di domande sulla minestra che quella mattina avevo servito al signor di Mourai. Dovetti ripetere più volte che assolutamente nessuno, oltre me, s‟era accostato al piatto. Solo a fatica alla fine si convinsero, e non badarono più alla mia presenza. Notai improvvisamente che l‟unico ad aver lasciato la compagnia era l‟abate Melani. Era ormai tardi, e risolsi di scendere in cucina per il mio lavoro di rigovernatura. M‟imbattei nel corridoio nel giovane inglese, il signor di Bedfordi, che mi pareva assai agitato, forse perché, avendo effettuato il trasloco delle proprie masserizie in una nuova camera, non aveva assistito alla diagnosi del medico. Il pigionante si stava trascinando lentamente e sembrava afflitto come non mai. Quando mi parai di fronte a lui, ebbe un sobbalzo. “Sono io, signor Bedfordi” lo rassicurai. Guardò muto e trasognato la fiamma del lume che portavo in mano. Aveva abbandonato per la prima volta l‟abituale posa flemmatica, che denunciava la sua natura affettata e sprezzante, alla quale repelleva (e me ne dava spesso la prova) la mia semplicità di servo. Nato da madre italiana, Bedfordi non soffriva punto di doversi esprimere nella nostra lingua. E anzi la sua facondia, nella conversazione che accompagnava le cene, aveva allietato gli altri pigionanti. A maggior ragione quindi, quella sera, il suo silenzio mi colpì. Gli spiegai che a parere del medico non c‟era da preoccuparsi, poiché quasi certamente non si trattava di peste. Si sospettava, tuttavia, che Mourai potesse aver ingerito un tossico. Mi fissò senza dire una parola, impaurito, con la bocca semiaperta. Indietreggiò di qualche passo, poi si voltò e raggiunse la sua camera, ove lo sentii chiudersi a chiave.

Nottata prima TRA L’11 e il 12 SETTEMBRE 1683 “Lascialo perdere, ragazzo.” Questa volta fui io a sobbalzare. M‟era di fronte l‟abate Melarli, che proveniva dal secondo piano. “Ho fame, accompagnami in cucina.” “Dovrei prima avvertire il signor Pellegrino. Mi ha vietato di attingere alla dispensa al di fuori degli orari regolari di pranzo e cena.” “Non ti preoccupare, messer padrone ora è impegnato con madama bottiglia.” “E gli ordini del dottor Cristofano?” “Non erano ordini, ma prudenti consigli. Che io ritengo superflui.” Mi precedette al pianterreno, ove si trovavano le

sale da pranzo e la cucina. Proprio in quest‟ultima rintracciai, per soddisfare la sua richiesta, un po‟ di pane e cacio con un bicchiere di vino rosso. Ci accomodammo al tavolaccio da lavoro dove mangiavamo di solito il mio padrone e io. “Dimmi da dove vieni” mi chiese mentre cominciava a rifocillarsi. Lusingato dalla curiosità, gli raccontai in breve la storia della mia misera vita. A pochi mesi d‟età ero stato abbandonato e deposto di fronte a un monastero presso Perugia. Le religiose mi avevano quindi affidato a una pia donna che viveva nei dintorni. Una volta cresciuto, ero stato condotto a Roma per essere affidato al fratello della donna, parroco di Santa Maria in Posterula, la chiesetta a poca distanza dalla locanda. Il parroco, dopo avermi impiegato in alcuni piccoli servizi, poco prima di venir trasferito fuori Roma m‟aveva raccomandato al signor Pellegrino. “Così ora fai il garzone” disse l‟abate. “Sì, ma spero non per sempre.” “Vorresti avere la tua locanda, immagino.” “No, signor abate. Vorrei fare il gazzettante.” “Questa è bella” disse con un sorrisetto sorpreso. Gli spiegai quindi che la donna pia e previdente a cui ero stato affidato aveva provveduto a farmi istruire da un‟anziana fantesca. La vecchia in precedenza aveva vestito l‟abito monastico, e m‟aveva dirozzato nelle arti del Trivio e del Quadrivio, nelle Scienze de vegetalibus, de animalibus et de mineralibus, nelle humanae litterae, nella Filosofia e nella Teologia. Poi mi aveva fatto leggere molti Istorici, Grammatici, Poeti italiani, spagnoli e francesi. Ma più ancora di aritmetica, geometria, musica, astronomia, grammatica, logica e retorica, ad appassionarmi erano le cose del mondo e massimamente, m‟infervorai, i racconti delle Vicende e dei Successi vicini e lontani dei Principi e delle Corone regnanti e delle Guerre e delle altre mirabili cose che… “Va bene, va bene” m‟interruppe “vuoi fare il gazzettante, o il menante che dir si voglia. Gl‟intelletti acuti finiscono spesso così. Come ti è venuta questa idea?” Spesso venivo mandato a fare commissioni a Perugia, gli risposi. In città, se era il giorno fortunato, s‟udivano le letture pubbliche delle gazzette e poi per due soldi si compravano (ma questo si faceva anche a Roma) i Fogli volanti con molte Ragguardevoli Descrizioni dei più recenti Accadimenti occorsi in Europa… “Accidenti, ragazzo, non m‟ero mai imbattuto in uno come te.” “Grazie, signore.” “Non sei un po‟ troppo istruito per un semplice sguattero? Quelli del pari tuo non sanno neanche come si tiene la penna in mano” disse con una smorfia. Ci restai male. “Sei molto intelligente” aggiunse addolcendo il tono. “E ti comprendo: anch‟io alla tua età ero affascinato dal mestiere degli imbrattacarte. Ma avevo tante cose da fare. Scrivere con maestria le gazzette è una grande arte, ed è sempre meglio che lavorare. E poi” aggiunse tra un boccone e l‟altro “essere gazzettante a Roma è cosa esaltante. Saprai riferire tutto sulla questione delle franchigie, sulla controversia gallicana, sul quietismo…” “Sì, credo… di sì” annuii cercando inutilmente di nascondere la mia ignoranza. “Certe cose, ragazzo, bisogna pur conoscerle. Altrimenti di che scriverai? Ma già, tu sei troppo giovane. E poi, di che si potrebbe mai scrivere adesso, in questa smorta

città? Avresti dovuto vedere lo splendore della Roma di una volta, anzi di pochi anni fa. Musica, teatro, accademie, ingressi di ambasciatori, processioni, balli: tutto sfolgorava con una ricchezza e un‟abbondanza che non puoi neppure immaginare.” “E perché oggi non è più così?” “La grandezza e la felicità di Roma sono finite con l‟ascesa di questo Papa, e torneranno solo alla sua morte. Gli spettacoli teatrali sono vietati, il carnevale è stato soppresso. Non lo vedi con i tuoi stessi occhi? Le chiese sono trascurate, i palazzi cadenti, le strade dissestate e gli acquedotti non tengono. I mastri, gli architetti e gli operai non hanno più lavoro e tornano ai loro Paesi. La scrittura e la lettura degli avvisi e le gazzette, a cui proprio tu t‟appassioni, sono proibiti; le punizioni sono ancor più dure che in passato. Perfino per Cristina di Svezia, che è venuta a Roma abiurando la religione di Lutèro per la nostra, non si tengono più feste a palazzo Barberini né spettacoli al teatro Tor di Nona. Da quando è arrivato Innocenzo XI, anche la regina Cristina ha dovuto rintanarsi nel suo palazzo.” “In passato avete vissuto qui a Roma?” “Sì, per un periodo” rispose, e subito si corresse “anzi, per più d‟uno. Arrivai a Roma nel 1644 a soli sedici anni e studiai con i migliori maestri. Ho avuto l‟onore d‟essere allievo dell‟eccelso Luigi Rossi, il più grande compositore d‟Europa di tutti i tempi. Allora, nel palazzo alle Quattro Fontane, i Barberini avevano un teatro da tremila posti e il teatro dei Colonna nel palazzo al Borgo suscitava le invidie di tutte le case regnanti. Gli scenografi portavano nomi eccellentissimi, come lo stesso Gian Lorenzo Bernini, e le scene dei teatri stupivano, commuovevano e dilettavano con apparizioni di pioggia, tramonti, folgori, animali reali e viventi, duelli con ferite vere e vero sangue, palazzi più veri del reale e giardini con fontane da cui sgorgava acqua fresca e chiara.” Mi resi conto a quel punto che non avevo ancora chiesto al mio interlocutore se egli fosse stato piuttosto compositore, o organista, o maestro di cappella. Fortunatamente mi trattenni. Il viso pressoché glabro, le movenze insolitamente morbide e muliebri, e massime la voce chiarissima, quasi di fanciullo inaspettatamente giunto alla maturità, mi rivelarono che mi trovavo di fronte a un cantante evirato. L‟abate dovette accorgersi del lampo trapelato dal mio sguardo nell‟attimo in cui ero stato colto da tale illuminazione. Proseguì tuttavia come se nulla fosse. “Allora non c‟erano tanti cantanti come oggi. Per molti era possibile trovare la strada spianata e arrivare a mete lontane e inaspettate. Quanto a me, oltre a possedere il talento che al Cielo era piaciuto concedermi, avevo studiato assai alacremente. Per questo, quasi trent‟anni fa, il Granduca di Toscana mio padrone m‟inviò a Parigi al seguito del mio maestro Luigi Rossi.” Ecco da dove viene quella buffa erre, pensai, su cui sembra calcare con tanto compiacimento. “Vi recaste a Parigi per continuare a studiare?” “Credi che avesse ancora bisogno di studiare chi aveva una lettera di presentazione per il cardinal Mazzarino e per la Regina in persona?” “Ma allora, signor abate, avete avuto l‟occasione di cantare per quelle Altezze Reali!” “La regina Anna gradiva il mio canto, potrei dire, non ordinariamente. Le piacevano le arie malinconiche in stile italiano, in cui io perfettissimamente potevo soddisfarla. Non passavano due sere ch‟io non andassi a palazzo per servirla, e ogni volta per almeno quattro ore nelle sue stanze non si

poteva prender pensiero d‟altro che della musica.” S‟interruppe e alzò lo sguardo fuori dalla finestra, come assente. “Tu non hai mai visitato la Corte di Parigi. Come spiegarti? Tutti quei nobili e cavalieri mi rendevano mille onori, e quando cantavo per la Regina a me pareva d‟essere in Paradiso, circondato da mille visi angelici. La Regina giunse a pregare il Granduca di non richiamarmi in Italia, onde poter ancora godere del mio servizio. Il mio padrone, ch‟era suo cugino carnale per via di madre, soddisfece la richiesta. Fu la Regina in persona, alcune settimane dopo, a mostrarmi, facendomi grazia del suo soavissimo sorriso, la lettera del mio padrone che mi permetteva di restare a Parigi ancora per un poco. Quando l‟ebbi letta, mi sentii quasi morire dal giubilo e dalla contentezza.” L‟abate era poi tornato sempre più spesso a Parigi, anche al seguito del suo maestro Luigi Rossi, al cui nome ogni volta gli occhi di Atto brillavano di composta commozione. “Oggi il suo nome non dice più nulla. Allora invece tutti lo trattavano per ciò che era: un grande, anzi un grandissimo. Mi volle protagonista nell‟Orfeo, l‟opera più splendida che si sia mai vista alla Corte francese. Fu un successo memorabile. Avevo solo ventun anni, allora. E, dopo due mesi di repliche, non feci in tempo a tornare a Firenze che Mazzarino dovette pregare di nuovo il Granduca di Toscana di rimandarmi in Francia, tanto la mia voce mancava alla Regina. Fu così che, tornato insieme al seigneur Luigi, ci trovammo in mezzo ai torbidi della Fronda e dovemmo fuggire da Parigi con la Regina, il Cardinale e il piccolo Re.” “Avete conosciuto il Re Cristianissimo da bambino!” “E molto bene, anche. In quei terribili mesi di esilio al castello di Saint Germain non si staccava mai da sua madre e se ne stava sempre zittino zittino a sentirmi cantare. Spesso, nei momenti di pausa, cercavo di distrarlo inventando giochi per lui; così Sua Maestà recuperava il sorriso.” Ero a un tempo galvanizzato e stordito dalla duplice scoperta. Non solo quel bizzarro pigionante nascondeva un glorioso passato di musico; egli era stato anche in intimità con le Altezze Reali di Francia! In più, era anche uno di quei singolari prodigi della Natura che alle fattezze maschili univano doti canore, e qualità dell‟animo, del tutto femminili. Avevo quasi subito notato il timbro insolitamente argentino della sua voce. Ma non m‟ero soffermato a sufficienza su altri dettagli, credendo che potesse trattarsi d‟un semplice sodomita. Mi ero invece imbattuto in un castrato. Sapevo in verità che, per conquistare i loro straordinari mezzi vocali, i cantori evirati s‟erano dovuti sottoporre a un‟operazione dolorosa e irreversibile. Pur tralasciando la mesta vicenda del pio Origene, che per raggiungere la suprema virtù spirituale si era volontariamente privato delle parti maschili, avevo udito che la dottrina cristiana condannava sin dalle origini la castrazione. Ma il caso voleva che proprio a Roma i servigi dei castrati fossero altamente apprezzati e ricercati. Tutti sapevano che la Cappella Vaticana soleva utilizzare stabilmente i castrati, e talvolta avevo udito i più anziani del rione commentare scherzosamente il motivetto accennato da una lavandaia dicendole: “Canti come Rosini” oppure: “Sei meglio di Folignato”. Alludevano ai castrati che decenni innanzi avevano allietato le orecchie di papa Clemente Vili. Ancora più

spesso avevo sentito fare il nome di Loreto Vittori, la cui voce sapevo aveva la capacità d‟incantare. Tanto che papa Urbano Vili, incurante della natura ambigua di Loreto, lo aveva nominato Cavaliere della Milizia di Cristo. Poco importava che in più occasioni il Sacro Soglio avesse minacciato la scomunica per chi praticava l‟evirazione. E ancor meno importava che la femminea avvenenza dei castrati fosse di turbamento agli spettatori. Dalle chiacchiere e dagli scherzi dei miei coetanei avevo appreso che bastava percorrere poche decine di metri dalla locanda per trovare la bottega d‟un barbiere compiacente, sempre disponibile a effettuare l‟orrenda mutilazione, purché la ricompensa fosse adeguata e il segreto venisse mantenuto. “Perché meravigliarsi?” disse Melani richiamandomi da tali silenziose considerazioni. “Non deve stupire che una Regina preferisca la mia voce a quella, Iddio mi perdoni, d‟una canterina qualsiasi. A Parigi spesso si esibiva al mio fianco una cantante italiana, una certa Leonora Baroni, che si dava tanto da fare. Oggi nessuno si rammenta più di lei. Ricorda ragazzo: se alle donne ai nostri giorni non è permesso cantare in pubblico, come giustamente voleva San Paolo, non è certo un caso.” Alzò il bicchiere come per brindare, e recitò solennemente: “Toi, qui sais mieux que aucun le succés que jadis les pièces de musique eurent dédans Paris, que dis-tu de l‟ardeur dont la cour échauffée frondoit en ce temps-là les grand concerts d‟Orphée, les passages d‟Atto et de Leonora, et le déchainement qu‟on a pour l‟Opéra?” Tacqui, limitandomi a uno sguardo interrogativo. “Jean de La Fontaine” disse con enfasi. “Il più grande poeta di Francia.” “E, se ho udito bene, ha scritto di voi!” “Sì; E un altro poeta, toscano questa volta, disse che il canto di Atto Melani poteva esser anche rimedio contro il morso delle vipere.” “Un altro poeta?” “Francesco Redi, il più grande uomo di lettere e di scienza della Toscana. Queste erano le muse sulle cui labbra viaggiava il mio nome, ragazzo.” “Vi esibite ancora per i Reali di Francia?” “Una volta svanita la giovinezza, la voce è la prima delle virtù del corpo a farsi inaffidabile. Da giovane però ho cantato nelle Corti di tutta Europa, e ho quindi avuto occasione di conoscere molti Principi. Oggi essi si compiacciono di chiedermi consiglio, quando devono prendere decisioni importanti.” “Siete un… abate consigliere, dunque?” “Sì, diciamo così.” “Sarete spesso a Corte, a Parigi.” “La Corte ora è a Versailles, ragazzo. Quanto a me, è una lunga storia.” E aggrottando la fronte, aggiunse: “Hai mai sentito parlare del signor di Fouquet?”. Il nome m‟era del tutto sconosciuto, gli risposi. Si versò un altro mezzo bicchiere di vino e tacque. Il suo silenzio non mi trovò in imbarazzo. Restammo così alquanto tempo, senza proferire parola, cullati dalla scintilla di reciproca simpatia. Atto Melani era abbigliato ancora come quella mattina: col crine d‟abate, il capperuccio e la sottanella gridellina. L‟età (che non dimostrava affatto) lo aveva avvolto d‟un sottile velo di pinguedine che gli addolciva il naso un poco adunco e i tratti severi. Il suo viso di biacca, che cedeva al carminio sugli zigomi importanti, diceva d‟un perenne contrasto d‟istinti: l‟ampia fronte corrugata e le sopracciglia sollevate ad arco suggerivano un‟indole algida e altera. Ma era solo una posa: la smentivano infatti la piega dispettosa del piccolo labbro contratto e il mento un poco sfuggente ma carnoso, in mezzo al quale campeggiava impertinente una fossetta.

Melani si schiarì la voce. Bevve un ultimo sorso e trattenne in bocca il vino, facendolo schioccare tra la lingua e il palato. “Faremo un accordo” disse all‟improvviso. “A te serve sapere tutto. Non hai viaggiato, non hai conosciuto, non hai visto. Sei perspicace, certe qualità si notano subito. Ma senza il giusto abbrivio non s‟arriva in alcun posto. Ebbene, nei venti giorni di clausura che ci aspettano posso darti tutto ciò di cui hai bisogno. Dovrai semplicemente ascoltarmi, e sempre con attenzione. Tu, in cambio, m‟aiuterai.” Stupii: “In cosa?”. “Che diamine, a scoprire chi ha avvelenato il signor di Mourai!” rispose l‟abate come fosse la cosa più ovvia del mondo e fissandomi con un mezzo sorrisetto. “Siete certo che si tratti di veleno?” “Assolutamente” esclamò alzandosi in piedi e voltandosi in cerca di qualcos‟altro da metter sotto i denti. “Il povero vecchio deve aver assunto qualcosa di letale. Hai sentito il medico, no?” “E a voi che importa?” “Se non fermeremo in tempo l‟assassino, costui mieterà presto altre vittime qui dentro.” Il timore mi seccò istantaneamente le fauci, e la poca fame che avevo abbandonò definitivamente il mio povero stomaco. “A proposito” mi chiese Atto Melani “sei proprio sicuro di quanto hai raccontato a Cristofano circa il brodo che hai preparato e servito a Mourai? Non c‟è nient‟altro che io debba sapere?” Gli ripetei che non avevo mai distolto lo sguardo dalla pentola e io stesso avevo somministrato il brodo, sorso per sorso, al defunto. Era pertanto da escludere ogni intervento esterno. “Sai se avesse preso qualcos‟altro prima?” “Direi di no. Quando sono arrivato, si era alzato da poco e Dulcibeni era già uscito.” “E dopo?” “Neanche, credo. Finito di dargli il brodo, gli ho preparato la tinozza per il pediluvio. Quando me ne sono andato, stava sonnecchiando.” “Ciò significa solo una cosa” concluse. “Ossia?” “Che lo hai ucciso tu.” Mi sorrise. Aveva scherzato. “Vi servirò in tutto” promisi di getto, con le gote già a fuoco, combattuto tra l‟emozione della sfida e la paura del pericolo. “Bravo. Per cominciare potresti dirmi tutto ciò che sai degli altri pigionanti e se nei giorni scorsi hai notato qualcosa d‟insolito. Hai udito qualche discorso bizzarro? Qualcuno si è assentato per lunghi periodi? Sono state consegnate o spedite lettere?” Risposi che sapevo ben poco, a parte che Brenozzi, Bedfordi e Stilone Priàso avevano già alloggiato al Donzello ai tempi della signora Luigia buonanima. Gli riferii poi, non senza qualche esitazione, che m‟era parso d‟intendere che padre Robleda, il gesuita, s‟era recato nottetempo nelle stanze di Clori- dia. L‟abate si limitò a una risatina. “Ragazzo, d‟ora in poi terrai gli occhi aperti. Soprattutto sui due compagni di viaggio del vecchio Mourai: quel musico francese, Roberto Devizé, e Pompeo Dulcibeni, il marchigiano.” Mi vide con gli occhi bassi e proseguì: “So cosa stai pensando: volevo fare il gazzettante, non la spia. Sappi dunque che i due mestieri non sono poi così diversi”. “Ma bisogna conoscere tutto ciò che mi avete nominato poc‟anzi? I quietisti, gli articoli gallicani…” “Questa è una domanda sbagliata. Alcuni gazzettanti sono arrivati lontano ma sanno poco: solo le cose veramente importanti.” “E quali sono?”

“Quelle che non scriveranno mai. Ma ne riparleremo domani. Ora andiamo a dormire.” Mentre risalivamo le scale, sbirciai in silenzio il volto bianco dell‟abate al chiarore della lampada: avevo in lui il mio nuovo maestro, e ne assaporavo tutta l‟eccitazione. Era accaduto in gran fretta, sì, ma oscuramente avvertivo che un Almeno finché fosse durata la quarantena. L‟abate si voltò verso di me prima che ci lasciassimo, e mi sorrise. Poi sparì nel corridoio del secondo piano, senza una parola. Trascorsi buona parte della nottata a cucire insieme dei vecchi fogli puliti, racimolati dal tavolo dei conti del mio padrone, e poi a vergare su di essi i recenti avvenimenti di cui ero stato testimone. Avevo deciso: non mi sarei perso una sola parola di quanto l‟abate Melani m‟avrebbe appreso. Tutto avrei trascritto e conservato gelosamente. Senza l‟aiuto di quegli antichi appunti oggi, a sedici anni di distanza da quei giorni, non potrei star qui a compilare questa memoria.

Giornata seconda 12 SETTEMBRE 1683

Il mattino seguente fu segnato da un inatteso risveglio. Fui io stesso a trovare il signor Pellegrino addormentato nel suo letto, nella stanza che condividevamo nel sottotetto. Non aveva provveduto a preparare alcunché per i pigionanti: cosa che, nonostante l‟eccezionalità della situazione, gli era comunque richiesta. Il mio padrone, con indosso i vestiti della sera prima e malamente accasciato sulle coltri, aveva tutta l‟aria d‟essere caduto nel sonno preda di qualche vinello rosso. Dopo averlo destato a fatica, mi recai nella cucina. Mentre scendevo le scale, sentii farsi sempre più vicina una nube lontana di suoni, dapprima confusa ancorché piacevole. Appressandomi all‟ingresso della sala da pranzo attigua alla cucina, la musica si faceva sempre più chiara e intelligibile. Era il signor Devizé che, malamente issatosi su uno sgabello di legno, s‟esercitava al suo istrumento. Uno strano incantesimo rapiva tutti alle note di Devizé. Mentre suonava, il piacere dell‟ascolto si univa a quello della vista. Il suo giustacuore di fine buratto color isabella e le vesti scevre da nappe, gli occhi mutevoli tra il verde e il grigio, l‟esile chioma cinerina: tutto in lui pareva voler cedere il passo ai vividi toni che, con soverchio cromatismo, sapeva trarre dalle sei corde. Svanita nell‟aria l‟ultima nota, l‟incantesimo si rompeva e restava davanti ai nostri occhi un ometto rosso e ingrugnato, quasi scorbutico, dai tratti minuti, un piccolo naso all‟ingiù sulla bocca carnosetta e permalosa, il fisico breve e taurino d‟un antico Germano, l‟andatura marziale, i modi bruschi.

Non fece molto caso al mio arrivo, e dopo una breve pausa riprese a suonare. Subito dalle sue dita si sprigionò non semplicemente una musica, ma una mirabile architettura di suoni che tuttora potrei esattamente descrivere, se il Cielo me ne desse le parole, e non solo la memoria. Era dapprima un motivo semplicetto e innocente, che a mo‟ di danza passava arpeggiando dall‟accordo della tonalità a quello della dominante (così avrebbe poi spiegato l‟abile esecutore a me, all‟epoca ancor ignaro dell‟arte dei suoni), e poi riprendeva tale movimento, e dopo un sorprendente salto di cadenza evitata, ripeteva il tutto. Ma questo non era che la prima d‟una ricca e sorprendente collezione di gemme che, come il signor Devizé m‟avrebbe poi spiegato, si chiamava rondò e si componeva appunto di quella prima strofa ripetuta più volte, ma ogni volta seguita da una nuova preziosa gioia, questa del tutto inedita e risplendente di luce propria. Come ogni altro rondò, quello che avrei ascoltato molte altre volte veniva coronato dall‟estrema e conclusiva ripetizione della prima strofa, quasi a dare significato e completezza e riposo al tutto. Ma l‟innocenza e semplicità, benché deliziosa, di quella prima strofa, nulla sarebbe stata se privata del concerto sublime delle altre, che una dopo l‟altra, ritornello dopo ritornello, s‟ergevano su per la mirabile costruzione sempre più libere, imprevedibili, squisite e audaci. Talché l‟ultima d‟esse era per l‟intelletto e per le orecchie una sfida dolcissima ed estrema, come quelle che per questioni d‟onore si lanciano tra cavalieri. L‟arpeggio finale, dopo essersi aggirato con circospezione e quasi timidamente verso le note basse, compiva un‟improvvisa ascesa verso gli acuti, per poi balzare verso gli altissimi, trasformando il suo incedere tortuoso e timido in un chiarissimo fiume di bellezza, nel quale scioglieva la sua chioma d‟armonia con una mirabile progressione verso il basso. Ove poi si tratteneva, assorto in assai misteriose e ineffabili armonie, che al mio orecchio suonarono proibite e impossibili (per queste soprattutto mi difettano le parole); e infine si placava di malavoglia, per fare spazio all‟estrema ripetizione della strofa iniziale. Ascoltai rapito senza proferire verbo, finché il musico francese non ebbe spento l‟ultima eco del suo istrumento. Mi guardò. “Suonate davvero bene il liuto” azzardai timidamente. “Anzitutto non è un liuto” rispose “è una chitarra. E poi non t‟interessa come suono io. A te piace questa musica. Si vede da come ascolti. E hai ragione: vado piuttosto fiero di questo rondò.” E qui mi spiegò com‟era fatto un rondò, e in cosa si differenziasse dagli altri quello che aveva appena suonato. “Quello che hai ascoltato è un rondò in stile brisé, che in italiano si dice, credo, spezzato. Ossia, a imitazione del liuto: gli accordi non sono suonati tutt‟insieme ma arpeggiati.” “Ah, ecco” commentai smarrito. Dalla mia espressione Devizé dovette capire quanto poco soddisfacente fosse la sua spiegazione, e proseguì col dire che quel rondò piaceva tanto poiché, mentre il ritornello era scritto secondo le buone antiche norme della consonanza, le strofe alterne contenevano sempre nuovi cimenti armonici, che si concludevano tutti in modo inatteso, quasi fossero estranei alla buona dottrina musicale. E dopo essere arrivato al suo massimo, il rondò iniziava bruscamente la sua fine.

Gli chiesi come mai parlasse la mia lingua così scioltamente (ancorché con forte accento francese, ma questo lo tacqui). “Ho viaggiato molto, e ho conosciuto molti italiani che, per inclinazione e per pratica, stimo essere i migliori musici del mondo. A Roma purtroppo il Papa ha fatto chiudere già da anni il teatro Tor di Nona, che stava proprio qui a due passi dalla locanda; ma a Bologna, nella cappella di San Petronio, e a Firenze si possono ascoltare tanti bravi musici e molte opere nuove e magnifiche. Persino il nostro grande maestro Giovan Battista Lulli, che fa la gloria del Re a Versailles, è fiorentino. Io conosco soprattutto Venezia, ch‟è per la musica la più florida di tutte le città italiane. Adoro i teatri di Venezia: il San Cassiano, il San Salvatore, o il famoso teatro del Cocomero dove, prima di andare a Napoli, ho assistito a un concerto meraviglioso.” “Contavate di rimanere a lungo qui a Roma?” “Ora purtroppo non importa più cosa avessi progettato. Non sappiamo neppure se usciremo vivi da qui dentro” disse riprendendo a suonare un brano che mi disse essere tratto proprio da una ciaccona del maestro Lulli. Appena uscito dalla cucina, ove dopo la conversazione con Devizé m‟ero chiuso ad approntare il pranzo, m‟imbattei in Brenozzi, il vetraio veneziano. Lo avvisai che, se voleva un pasto caldo, era tutto già pronto. Ma egli, senza proferire parola, m‟afferrò e mi trascinò giù per la rampa che conduceva in cantina. Non appena cercai di protestare, mi tappò la bocca con una mano. Ci fermammo a metà delle scale, e subito m‟incalzò: “Sta‟ calmo e ascolta, non ti spaventare, mi devi solo dire alcune cose”. Sibilava con voce strozzata, senza darmi la possibilità d‟aprir bocca. Voleva conoscere i commenti degli altri pigionanti sulla morte del signor di Mourai, e se si ritenesse che vi fosse pericolo di una nuova morte per veleno o per altra cagione, e se qualcuno in particolare paventasse tale eventualità, e se invece altri sembrassero non paventare alcunché, e quanto potesse a mia conoscenza durare la quarantena, se più dei venti giorni stabiliti dal Magistrato, e se sospettassi che uno o più ospiti possedessero veleni o addirittura ritenessi che di tali sostanze fosse stato fatto veramente uso; e infine, se qualcuno dei presenti tutti si dimostrasse inspiegabilmente tranquillo a dispetto della quarantena che era stata appena imposta alla locanda. “Signore, in verità io…” “I Turchi? Hanno parlato dei Turchi? E della peste a Vienna?” “Ma io non so nulla, non…” “Ora smetti di parlare una buona volta e rispondimi” incalzò molestandosi con insofferenza il batocchio. “Margarite: ti dice niente?” “Come, signore?” “Margarite.” “Se volete, signore, ne ho di secche in cantina per fare infusi. Vi sentite male?” Sbuffò e alzò gli occhi al cielo. “Fa‟ finta che non ti abbia detto niente. Una cosa sola ti ordino: a chi ti chiedesse, tu di me non sai niente, intesi?” e mi strinse forte ambo le mani fino a farmi male. Ristetti a guardarlo, interdetto. “Intesi?” ripeté spazientito. “Che fa, non ti basta?” Non afferrai il senso della sua ultima domanda e cominciai a temere che fosse fuori di senno. Mi divincolai dalla sua stretta e sgattaiolai su per la scala, mentre il mio rapitore cercava con uno strattone di trattenermi. Riemersi dalla semioscurità mentre la chitarra di Devizé riprendeva a suonare lo splendido e inquietante motivo che avevo udito in

precedenza. Anziché trattenermi, però, m‟affrettai al primo piano. Avevo ancora i pugni stretti per la tensione provocatami dall‟assalto del vetraio, e fu per questo che solo allora avvertii qualcosa in una mano. La schiusi e vidi tre perline di mirabile lucentezza. Le infilai in tasca e mi diressi alla stanza ov‟era deceduto il signor di Mourai. Qui trovai alcuni dei nostri pigionanti intenti a una tristissima opera. Cristofano stava trasportando il corpo del defunto, avvolto in un panno bianco a mo‟ di sudario, sotto al quale s‟intuiva la rigidità mortale delle membra. Al medico davano manforte il signor Pellegrino e, in assenza di volontari di più verde età, Dulcibeni e Atto Melani. L‟abate era senza parrucca né biacca in viso. Mi stupii di trovarlo in abiti secolari – le culotte di papalina e la cravatta di mussola – esageratamente elegante per la triste occasione. Unico tratto rimasto a contraddistinguere il suo titolo, le calze di seta rosso fuoco. Il povero corpo venne adagiato su un grande cesto oblungo, rincalzato con stracci e coperte. Sopra venne posto il fardello con le sue poche cose, raccolte da Dulcibeni. “Non possedeva altro?” chiese l‟abate Melani, avvedendosi che il gentiluomo fermano aveva consegnato solo qualche abito del defunto. Rispose Cristofano, dicendo ch‟era obbligatorio consegnare solo il vestiario, mentre il resto poteva senz‟altro restar in mano di Dulcibeni per farlo pervenire agli eventuali parenti. Poi i tre calarono il corpo con una grossa fune attraverso la finestra fin sulla strada, dove la Compagnia dell‟Orazione e Morte attendeva il suo triste carico. “Cosa faranno del morto, signor Cristofano?” chiesi al medico. “Lo bruceranno, è vero?” “Non è più affar nostro. Seppellirlo non si poteva” disse tirando il fiato. Udimmo un lieve tintinnio. Cristofano si chinò a terra. “T‟è caduto qualcosa… ma cos‟hai in mano?” chiese. Dal mio pugno semiaperto era scivolata sul pavimento una perlina. Il medico la raccolse e la studiò. “Splendida davvero. Dove l‟hai presa?” “Oh, sono il deposito di un cliente” mentii mostrandogli le altre due. Il mio padrone nel frattempo usciva dalla stanza. Sembrava affaticato. Anche Atto venne via e si diresse verso la propria camera. “Male. Non ci si dovrebbe mai separare dalle perle, massime nel nostro caso.” “Perché?” “Tra le loro numerose e occulte virtù, preservano dal veleno.” “Com‟è possibile?” chiesi impallidendo. “Perché sono siccae et frigidae in secondo grado” rispose Cristofano “e, se ben conservate in un vaso e non perforate, habent detergentem facultatem, e possono astergere in presenza di febbri e di putredine. Purgano e chiarificano il sangue (infatti restringono il mestruo) e, secondo Avicenna, curano il cor crassatum, le palpitazioni e le sincopi cardiache.” Mentre Cristofano faceva sfoggio di sapienza medica, non riuscivo a capacitarmi: quale oscuro segnale nascondeva dunque il dono di Brenozzi? Ne dovevo assolutamente parlare con l‟abate Melani, pensai, e cercai di congedarmi dal medico.

“Interessante” aggiunse però Cristofano scrutandole e rigirandole attentamente tra i polpastrelli “le perle di questa forma indicano che sono state pescate prima del plenilunio, e in acqua vespertina.” “E cosa significa?” “Che curano le false immaginazioni dell‟animo e cogitazioni. Se sciolte nell‟aceto fanno rinvenire da omni imbecillitate et animi deliquio, soprattutto dalla morte apparente.” Riebbi infine le perline da Cristofano, dal quale così mi separai. Salii le scale di corsa diretto alla stanza dell‟abate Melani. La camera di Atto era al secondo piano, proprio sopra a quella che il vecchio Mourai condivideva con Dulcibeni. Erano queste le più ampie e luminose stanze di tutta la locanda: godevano ognuna di ben tre finestre, di cui due affacciate su via dell‟Orso e una sull‟angolo col vicolo. Ai tempi della signora Luigia v‟avevano soggiornato importanti personaggi col loro seguito. V‟era una stanza identica anche nel sottotetto che costituiva il terzo e ultimo piano, dove aveva già alloggiato la signora Luigia. Qui, nonostante il divieto di Cristofano, continuavamo a coabitare, pur temporaneamente, il mio padrone e io: un privilegio che avrei perso al ritorno della moglie del signor Pellegrino, la quale, avendo preteso di riservare tutto il piano alla famiglia, m‟avrebbe certamente relegato di nuovo a dormire in cucina. Fui colpito dalla varietà di libri e carte d‟ogni sorta che l‟abate aveva portato con sé. Atto Melani era un amante delle antichità e delle bellezze di Roma, almeno a giudicare dai titoli di alcuni dei volumi che potei intravedere ben ordinati su uno scaffale, e che più tardi in ben altro modo avrei imparato a conoscere: Lo splendore dell‟antica e moderna Roma nel quale si rappresentano tutti i principali templi, teatri, anfiteatri, cerchi, naumachie, archi trionfali, obelischi, palagii, terme, curie e basiliche del Lauri, la Chemnicensis Roma del Fabricius, e le Antichità dell‟alma città di Roma raccolte brevemente da molti autori antichi e moderni e aggiuntovi un discorso sopra i fuochi degli antichi di Andrea Palladio. Spiccavano poi nove grandi carte di geografia con bastoni color di canna d‟India e pomi dorati, più un mazzo di carte manoscritte che Melani teneva sul tavolo e che ripose rapidamente. Mi fece sedere. “Ti volevo appunto parlare. Dimmi: hai conoscenze in questo rione? Amici, confidenti?” “Credo… eh, no. Quasi nessuno, signor abate Melani.” “Puoi chiamarmi signor Atto. Peccato. Avrei voluto sapere, magari dalla finestra, cosa si dice a proposito della nostra situazione; e tu eri l‟unica mia speranza” disse. S‟accostò alla finestra, e con voce soavissima e appena trattenuta iniziò a cantare: Disperate speranze, addio, addio. Ahi, mentite speranze, andate a volo. L‟estemporaneo saggio di virtuosismo dell‟abate mi lasciò stupefatto e ammirato: malgrado l‟età, Melani conservava un timbro assai leggiadro di soprano. Mi complimentai e gli chiesi se fosse lui l‟autore della splendida cantata che aveva appena accennato. “No, è del seigneur Luigi Rossi, mio maestro” rispose distrattamente. “Ma dimmi, dimmi piuttosto, com‟è andata la mattinata? Hai notato qualcosa di bizzarro?” “Mi è accaduto un episodio assai curioso, signor Atto. Avevo appena avuto una piccola conversazione con Devizé, quando…” “Ah, Devizé, appunto di lui

volevo parlarti. Stava suonando?” “Sì, ma…” “E bravo. Piace molto al Re. Sua Maestà adora la chitarra almeno quanto un tempo, da giovane, adorava ascoltare l‟opera e mettersi in mostra nei balletti di Corte. Bei tempi. E cosa ti ha detto Devizé?” Capii che, se non avessi prima esaurito l‟argomento musicale, non mi avrebbe lasciato proseguire. Gli dissi così del rondò ascoltato dalle corde del musico francese, il quale m‟aveva raccontato d‟aver udito la musica italiana in molti teatri, soprattutto a Venezia, dov‟era il famoso teatro del Cocomero. “Il teatro del Cocomero? Sei sicuro di ricordare bene?” “Be‟, sì, è un nome così… insomma, è un nome strano per un teatro. Devizé mi ha detto di esserci stato subito prima di andare a Napoli. Perché?” “Oh, nulla. E solo che il tuo chitarrista racconta un po‟ di panzane, ma senza prepararle bene.” Rimasi di stucco: “Come fate a dirlo?”. “Il Cocomero è un magnifico teatro, dove in effetti si esibiscono molti splendidi virtuosi. Per dirla tutta, ci ho cantato anch‟io. Ricordo che una volta l‟organizzatore mi voleva rifilare la parte di Apelle nell‟Alessandro vincitor di se stesso. Io ovviamente mi sono impuntato e mi hanno dato il ruolo del protagonista, ah ah. Un gran bel teatro, il Cocomero. Peccato che si trovi a Firenze, e non a Venezia.” “Ma… Devizé ha detto di esserci andato prima di recarsi a Napoli.” “Appunto. Poco tempo fa, quindi, visto che poi da Napoli è venuto direttamente a Roma. Ma è una balla: un teatro con quel nome resta impresso nella memoria, come infatti è successo a te. Difficile collocarlo nella città sbagliata. Te lo dico io: Devizé al Cocomero non ci ha mai messo piede. E forse neanche a Venezia.” Restai sgomento di fronte alla rivelazione di quella piccola, ma allarmante bugia del musicista francese. “Ma va‟ pure avanti” riprese l‟abate. “Mi dicevi poc‟anzi che t‟è capitato qualcosa di strano, se non sbaglio.” Potei finalmente riferire ad Atto delle domande fattemi con tanta insistenza dal veneziano Brenozzi nonché della sua bizzarra richiesta di margarite e del misterioso dono di tre perline, che Cristofano aveva riconosciuto esser del tipo usato per curare avvelenamenti e morte apparente. Per il qual motivo, temevo che quelle piccole gioie avessero a che vedere con la morte del signor di Mourai, e forse Brenozzi sapeva qualcosa, ma aveva avuto paura di parlare chiaramente. Mostrai le perle a Melani. L‟abate diede loro un‟occhiata e rise di gusto. “Ragazzo mio, non credo proprio che il povero signor di Mourai…” iniziò a dire scuotendo il capo; ma venne interrotto da un grido acutissimo. Sembrava provenire dal piano superiore. Ci precipitammo nel corridoio, e poi su per le scale. Ci arrestammo a metà della seconda rampa dove giaceva, riverso sui gradini, il corpo esanime del signor Pellegrino. Alle nostre spalle stavano accorrendo anche gli altri pigionanti. Dal capo del mio padrone partiva un rivolo di sangue che scendeva per un paio di gradini. Il grido al di là d‟ogni dubbio era partito dalla bocca di Cloridia la cortigiana, che guardava tremante, con un fazzoletto a coprire quasi tutto il viso, il corpo apparentemente privo di vita. Dietro di noi, ancora immobili, si fece largo il medico Cristofano. Con una pezzuola scostò i lunghi capelli bianchi dal volto del mio padrone e fu allora che esso

sembrò rianimarsi e, in un grave sussulto, vomitò dalla bocca una massa verdastra e puzzolentissima. Dopodiché il signor Pellegrino si giacque a terra senza segno di vita. “Prendiamolo e portiamolo su in camera sua” esortò Cristofano chinandosi sul mio padrone. Nessuno si mosse tranne me, che cercai, con scarsi risultati, di sollevargli il busto. Mi sostituì, spingendomi da una parte, l‟abate Melani. “Tienigli la testa” ordinò. Il medico prese Pellegrino per le gambe e, fattici largo tra il silenzio generale, lo trasportammo fino alla grande camera nel sottotetto, ove lo adagiammo sul letto. Il viso rigido del mio padrone era d‟un pallore innaturale, e la pelle del volto coperta d‟un sottile velo di sudore. Sembrava di cera. Gli occhi sbarrati fissavano il soffitto, sotto di essi due borse livide. Una ferita all‟altezza della fronte era stata appena pulita dal medico, rivelando una lesione lunga e profonda, che ai lati lasciava intravedere l‟osso del cranio, probabilmente leso da un forte colpo. Il mio padrone, tuttavia, non era morto: rantolava sommessamente. “È caduto lungo le scale e ha sbattuto lo testa. Ma temo che fosse già privo di conoscenza.” “Come sarebbe a dire?” chiese Atto. Cristofano esitò prima di rispondere: “E rimasto vittima dell‟attacco d‟un male che non ho ancora identificato con certezza. Comunque, una crisi fulminante”. “Come sarebbe a dire” ripeté Atto alzando un poco il tono della voce “anche costui avvelenato, forse?” A quelle parole fui scosso da un brivido e mi sovvennero le parole dell‟abate la notte prima: se non lo avessimo fermato in tempo, l‟assassino avrebbe presto mietuto altre vittime. E forse ora, ben prima di quanto ci aspettassimo, aveva già colpito il mio padrone. Il medico, tuttavia, scosse il capo alla domanda di Melani e liberò il collo di Pellegrino dal fazzoletto che usava portare annodato sopra la camicia: due macchie bluastre e rigonfie si rivelarono sotto l‟orecchio sinistro. “Dalla rigidità generale sembrerebbe trattarsi dello stesso male del vecchio Mourai. Ma queste” proseguì indicando i due bubboni “queste qui… Eppure non mi sembrava…” Capimmo che Cristofano pensava alla peste. Ci ritraemmo tutti istintivamente, qualcuno invocò il Cielo. “Era sudato, probabilmente aveva la febbre. Quando abbiamo calato in strada il corpo del signor di Mourai s‟è stancato con troppa facilità.” “Se è peste, non ne avrà per molto.” “Tuttavia…” proseguì chinandosi di nuovo sui due rigonfiamenti scuri sul collo del mio padrone “tuttavia esiste la possibilità che si tratti d‟altra infermità simile, ma non altrettanto disperante. Per esempio, le petecchie.” “Le cosa?” interloquirono padre Robleda e Stilone Priàso il poeta. “In Ispagna, padre, le chiamate tabardillo, mentre nel Regno di Napoli sono dette pastici, e a Milano segni” spiegò Cristofano rivolgendosi prima all‟uno e poi all‟altro. “E morbo causato da sangue corrotto per indisposizione di stomaco. Pellegrino, infatti, ha vomitato. La peste incomincia con grandissimo empito, mentre le petecchie con lievissimi accidenti, come la lassitudine e la stornità di testa (che ho rilevato in lui appunto stamane). Si va poi aggravando e causa i sintomi più diversi, finché manda per tutto il corpo chiazze rosse, pavonazze, o nere come queste due. Le quali,

è vero, sono troppo gonfie per esser petecchie, ma anche troppo piccole per esser giandusse, ossia bubboni di peste.” “Ma” intervenne Cloridia “che Pellegrino sia svenuto così repentinamente non è segno certo di peste?” “Non sappiamo bene se ha perso conoscenza per la botta in testa o per il morbo” sospirò il medico “comunque la verità ce la diranno domani queste due macchie qui, che purtroppo, dicevo, sono ben nere, e indicano che il morbo è maggiore e con più putredine.” “Insomma” interruppe padre Robleda “è contagioso o no?” “Il morbo delle petecchie è causato da tanta calidità e siccità, e pertanto viene facillime ai temperamenti collerici, come appunto Pellegrino. Capirete di qui l‟importanza, per scansare il contagio, di non agitarsi né smaniare” e qui guardò significativamente il gesuita. “Il male dissecca ed estingue in breve spazio l‟umido radicale nei corpi, e infine può ammazzare. Ma se si dà sostanza al corpo indebolito del malato, esso ammazza in sé la contagiosità e pochissimi periranno: per questo è meno grave della peste. Comunque, quasi tutti lo abbiamo avvicinato nelle ultime ore. E tutti pertanto corriamo dei rischi. E opportuno che rientriate nelle vostre stanze, io vi visiterò più tardi uno per uno. Cercate di mantenere la calma.” Cristofano mi chiamò poi a sé per aiutarlo. “E stato un bene che Pellegrino abbia vomitato subito: il vomito evacua le materie dello stomaco atte a putrefarsi e a corrompersi a causa degli umori” mi disse appena gli fui accanto. “D‟ora in avanti bisognerà nutrire il malato con cibi frigidi, che raffrescano l‟indole collerica.” “Gli farà un salasso?” domandai, avendo udito come tale rimedio fosse universalmente raccomandato per ogni male. “Da scansare assolutamente: il salasso potrebbe raffreddare troppo il calor naturale e l‟infermo morrebbe con prestezza.” Rabbrividii. “Per fortuna” continuò Cristofano “ho con me erbe, balsami, acque, polveri e quant‟altro mi serve in caso di morbi. Aiutami a spogliare del tutto il tuo padrone, ché lo devo ungere con l‟unzione da morbilli, come Galeno chiama le petecchie, che penetra e conserva il corpo dalla corruzione e putrefazione.” Uscì e tornò poco dopo con una raccolta d‟ampolline. Piegati diligentemente in un cantuccio il grembiulone grigio e gli abiti del signor Pellegrino, chiesi: “Forse allora la morte di Mourai è dovuta alla peste o alle petecchie?”. “Non ho trovato l‟ombra d‟una macchiolina sul vecchio francese” fu la brusca risposta “comunque ora è tardi per saperlo. Abbiamo dato via il corpo.” E si chiuse nella camera col mio padrone. I momenti successivi furono a dir poco convulsi. Quasi tutti reagirono alla sventura del locandiere con accenti di disperazione. La morte dell‟anziano pigionante francese, attribuita dal medico al veleno, non aveva certo gettato la compagnia in tale sgomento. Dopo aver ripulito le scale dai liquami del mio padrone, il pensiero mi corse al benessere dell‟anima sua, la quale forse avrebbe presto incontrato l‟Onnipotente. Mi sovvenni, a questo proposito, che un editto comandava di porre in ogni stanza delle locande qualche quadro o ritratto di Nostro Signore, ovvero della Beata Vergine, o dei Santi, e un vaso con l‟acqua benedetta. Affranto e col cuore tutto rivolto al Cielo affinché non mi privasse dell‟affetto del mio padrone, risalii nel sottotetto e mi recai nelle tre stanze rimaste vuote dopo la

partenza della moglie del signor Pellegrino per cercare l‟acqua santa e qualche sacro ritrattino da appendere sopra al letto dell‟infermo. Erano queste le stanze abitate una volta dalla defunta signora Luigia. Erano rimaste pressoché immutate, vista la breve permanenza in esse della famiglia del nuovo locandiere. Dopo aver brevemente cercato, rinvenni nella camera da letto, sopra un tavolino assai polveroso accanto a due reliquiari e a un Agnus Dei di pan di zucchero, racchiuso in una campana di cristallo, una statua in terracotta del Battista che teneva tra le mani un‟ampolla in vetro colma d‟acqua benedetta. Alle pareti pendevano belle immagini sacre. Rimasi commosso nel mirarle e, ripensando ai tristi accadimenti della mia giovane vita, mi salì il groppo alla gola. Era un male, pensai, che nelle sale da pranzo fossero appesi unicamente soggetti profani ancorché leggiadri: un quadro di frutti, due quadrucci con boscareccia e figurine, altri due in carta pecora bislonghi con vari uccelli, due paesini, due Amorini che spezzano un arco con le ginocchia e infine, unica concessione biblica, una raffigurazione licenziosa di Susanna con i vecchi al bagno. Assorto in tali meditazioni, scelsi un quadretto della Madonna de‟ Sette Dolori appeso lì nei pressi e tornai verso la stanza dove Cristofano armeggiava ancora attorno al mio povero padrone. Sistemati in tutto silenzio quadro e acqua santa accanto al letto del malato, sentii venir meno le forze e, accasciatomi in un angolo della camera, piansi. “Coraggio ragazzo, coraggio.” Ritrovai nel tono di voce del medico il Cristofano paterno e giocondo che nei giorni passati m‟aveva tanto ispirato buona luna. Mi strinse paternamente la testa tra le mani e potei finalmente sfogarmi. Stava morendo colui che m‟aveva preso presso di sé, gli spiegai, sottraendomi alla probabile miseria. Era un uomo d‟umor bilioso ma buono, il signor Pellegrino, e se anche ero al suo servizio da appena sei mesi, a me pareva d‟essere stato con lui da sempre. Che ne sarebbe stato ora di me? Una volta terminata la quarantena, se anche fossi sopravvissuto, mi sarei ritrovato senza alcun mezzo e il nuovo parroco di Santa Maria in Posterula neanche lo conoscevo. “Ora tutti avranno bisogno di te” mi disse rialzandomi di peso da terra. “Sarei venuto io stesso a cercarti, perché dobbiamo calcolare le risorse. Il sussidio che ci verrà dato dalla Congregazione di Sanità sarà comunque assai esiguo, e sarà bene razionare le nostre scorte.” Tirando ancora su col naso, lo rassicurai che la dispensa era tutt‟altro che vuota, ma lui volle ugualmente esservi condotto. Si trovava nello scantinato e solo io, oltre a Pellegrino, ne possedevo una chiave. D‟ora in poi, mi disse Cristofano, avrei custodito entrambe le copie in un luogo conosciuto solo a me e a lui, in modo che nessuno potesse fare man bassa delle provviste. Alla fioca luce che penetrava dalle feritoie, entrammo nella dispensa, che s‟estendeva su due livelli. Fortunatamente il mio padrone, da quel gran maestro di cucina e scalcheria ch‟era stato, non aveva tralasciato di rifornire la dispensa con gran varietà di profumate caciotte, carni salate e pesci affumicati, legumi e pomodori secchi, oltre a file di orci di vino e d‟olio, che deliziarono per un attimo la vista del medico e ne distesero i tratti del viso. Non commentò che con un mezzo sorriso, e proseguì: “Per ogni

problema farai capo a me, e mi riferirai se qualcuno ti sembrerà in cattiva salute. Chiaro?”. “Ma accadrà anche ad altri quello ch‟è successo al signor Pellegrino?” chiesi con le lacrime che tornavano a riempirmi gli occhi. “Speriamo di no. Però bisognerà fare di tutto perché non accada” disse senza guardarmi negli occhi. “Tu intanto, puoi restare a dormire in stanza con lui, come d‟altronde hai già fatto la notte passata malgrado le mie disposizioni: è un bene che il tuo padrone abbia chi lo vegli di notte.” Mi meravigliai molto che il medico non considerasse la possibilità che così potessi venire contagiato, ma non osai far domande. Lo accompagnai fino alla sua stanza, al primo piano. Appena svoltammo a destra, ché lì era la camera di Cristofano, avemmo un sussulto: trovammo Atto appoggiato all‟uscio. “Cosa fate qui? Credevo d‟aver dato chiare disposizioni a tutti” protestò il medico. “So benissimo cosa avete detto. Ma se c‟è qualcuno che non ha niente da perdere l‟uno dalla compagnia dell‟altro, siamo proprio noi tre. Abbiamo trasportato o no il povero Pellegrino? Il garzonetto qui presente ha vissuto gomito a gomito col suo padrone fino a stamattina. Se dovevamo essere contagiati, 10 siamo già.” Un sottile velo di sudore copriva l‟ampia fronte corrugata dell‟abate Melani mentre parlava, e la sua voce, malgrado il sarcasmo del tono, tradiva la secchezza delle fauci. “Non è un buon motivo per commettere imprudenze” ribatté Cristofano irrigidendosi. “Lo ammetto“ disse Melani. ”Ma prima che ci rinchiudiamo in questa sorta di clausura, vorrei capire quante possibilità abbiamo d‟uscire vivi da qui. E scommetto…“ ”Non m‟importa cosa scommettete. Gli altri sono già nelle loro stanze.“ ”… scommetto che nessuno sa esattamente cosa organizzare nei prossimi giorni. Che succede se i morti cominciano ad ammucchiarsi? Ce ne sbarazzeremo? In che modo però, se saranno i più deboli a sopravvivere? Siamo certi che le provviste ci verranno fornite? E cosa succede al di fuori di queste mura? Il contagio s‟è allargato o no?“ “Questo non è…” “Tutto questo è importante, Cristofano. Nessuno va avanti da solo, come voi pensavate di fare. Dobbiamo parlarne, anche se questo dovesse servire solo a rendere meno ingrata la nostra triste condizione.” Dalla blanda difesa del medico, avevo capito che le argomentazioni di Atto stavano facendo breccia. A completare l‟opera dell‟abate giunsero in quel mentre Stilone Priàso e Devizé con l‟aria d‟avere anch‟essi una gran quantità d‟ansiosi quesiti per il medico. “D‟accordo” cedette Cristofano con un sospiro ancor prima che i due aprissero bocca. “Cosa volete sapere?” “Proprio nulla” rispose Atto facendo boccuccia. “Dobbiamo innanzitutto ragionare insieme: quando ci ammaleremo?” “Be‟, se e quando avverrà il contagio” rispose il medico.

“Oh, suvvia!” ribatté Stilone. “Ammessa l‟ipotesi peggiore, owerossia che si tratti di peste, quando accadrà? Siete voi o no il medico?” “Eh sì, quando?” feci eco io quasi per darmi forza. Cristofano venne punto sul vivo. Sgranò con autorità i tondi occhi neri da barbagianni e, inarcato alquanto un sopracciglio a inequivocabile segno che si stava disponendo a discettare, portò gravemente due dita sul pizzetto del mento. Poi però ci ripensò, e rimandò le spiegazioni a quella sera stessa, essendo sua intenzione, disse, riunirci tutti dopo cena e in tale occasione fornirci qualsivoglia delucidazione. A quel punto l‟abate Melani se ne tornò in camera. Cristofano trattenne però Stilone Priàso e Devizé. “M‟è parso poco fa d‟udire, mentre parlavo, che soffriate d‟una certa ventosità d‟intestini. Se lo desiderate, ho con me qualche buon rimedio per liberarvi del fastidio.” I due assentirono, non senza qualche imbarazzo. Risolvemmo allora di scendere tutti e quattro al pianterreno, ove Cristofano mi comandò di scaldare un poco di buon brodo, col quale sarebbero stati somministrati per bocca quattro grani a testa di olio di solfo. Il medico avrebbe intanto provveduto a ungere la schiena e le reni di Stilone Priàso e Devizé col suo balsamo artificiato. In attesa che Cristofano andasse a prendere l‟occorrente, che aveva dimenticato in camera, il francese si pose in un cantuccio all‟altro capo della sala ad accordare la chitarra. Sperai che suonasse nuovamente l‟intrigante brano che quella mattina m‟aveva tanto incantato, ma lo vidi poco dopo alzarsi e tornare verso la cucina, intrattenendosi dietro al tavolo ove sedeva il poeta napoletano, senza più mettere mano all‟istrumento. Stilone Priàso aveva tirato fuori un taccuino e vi stava scarabocchiando qualcosa. “Ragazzo, non temere. Non moriremo di peste” disse rivolto a me, che trafficavo in cucina. “Prevedete forse il futuro, signore?” chiese ironicamente Devizé. “Meglio di quanto non sappiano farlo i medici!” scherzò Stilone Priàso. “Il vostro spirito non si adatta a questa locanda” lo ammonì il medico, sopraggiungendo a maniche arrotolate e col balsamo in mano. Il napoletano si scoprì per primo il dorso, mentre Cristofa- no elencava come al solito le numerose virtù del suo preparato: “… e infine fa bene anche alla carnosità di verga. Basta sfregarlo energicamente sul petenecchio sino ad assorbimento. Il sollievo è certo”. Mentre m‟affaccendavo alla rigovernatura e a scaldare il brodo richiestomi, udii che i tre prendevano a conversare sempre più fittamente tra loro. “… Eppure ti ripeto che è lui” sentii sibilare Devizé, facile da riconoscere grazie alla caratteristica pronuncia gallica, che soprattutto nelle parole come carro, guerra o correre ne rendevano inconfondibile l‟eloquio. “Non c‟è dubbio, non c‟è dubbio” gli fece eco con eccitazione Stilone Priàso. “Siamo in tre a riconoscerlo, e ognuno per vie diverse” concluse Cristofano.

Mi posi discretamente all‟ascolto, senza varcare la soglia che divideva la cucina dalle sale da pranzo. Capii ben presto che parlavano dell‟abate Melani, che i tre evidentemente già conoscevano di fama. “Questo è certo: si tratta d‟un individuo pericolosissimo” affermò perentoriamente Stilone Priàso. Come sempre quando voleva dare autorità alle proprie parole, fissava severo un punto invisibile davanti a sé grattandosi la gobba del naso col dito mignolo e poi scrollandosi nervosamente le dita della mano come per mondarsi da non si sa qual pulviscolo. “Va tenuto costantemente sotto osservazione” concluse. I tre discutevano senza badare a me, come del resto accadeva con tutti i clienti per i quali un garzonetto era poco più che un‟ombra. Appresi così una serie di fatti e circostanze che mi fecero pentire assai d‟aver conferito tanto a lungo la notte precedente con l‟abate Melani, e soprattutto d‟avergli promesso i miei servigi. “E ora è al soldo del Re di Francia?” chiese a bassa voce Stilone Priàso. “Ritengo di sì. Anche se nessuno può dirlo con certezza” rispose Devizé. “Il mestiere preferito di certi personaggi è stare con tutti e con nessuno” aggiunse Cristofano, proseguendo il massaggio e calcando vieppiù con i polpastrelli sulla schiena di Stilone Priàso. “Ha servito più Principi di quanti lui stesso non riesca a ricordare” sibilò Stilone. “A Napoli credo che non lo farebbero neppure entrare in città. Più a destra, grazie” disse rivolto al medico. Appresi così, con indicibile sgomento, il passato oscuro e burrascoso dell‟abate Melani. Un passato di cui la notte prima egli non m‟aveva fatto parola alcuna. Già nella primissima gioventù Atto era stato ingaggiato dal Granduca di Toscana come cantante evirato (e questo in effetti l‟abate me l‟aveva detto). Ma non era l‟unico lavoro che Melani faceva per il suo padrone: in realtà, lo serviva come spia e corriere segreto. Il canto di Atto, infatti, era ammirato e richiesto in tutte le Corti d‟Europa, il che dava al castrato gran credito presso le Corone, oltre a una particolare libertà di movimento. “Con la scusa di intrattenere i Sovrani s‟introduceva nelle Corti per spiare, mestare, corrompere” spiegò Devizé. “Per poi riferire tutto ai suoi mandanti” gli fece eco acidamente Stilone Priàso. Oltre ai Medici, ben presto anche il cardinal Mazzarino aveva richiesto i doppi servigi di Atto, grazie agli antichi rapporti d‟amicizia tra Firenze e Parigi. Il Cardinale era anzi divenuto il suo principale protettore, e se lo portava dietro persino nelle trattative diplomatiche più delicate. Atto veniva quasi considerato uno di famiglia. Era diventato l‟amico del cuore della nipote di Mazzarino, per la quale il Re aveva perso la testa, tanto da volerla sposare. E quando più tardi la ragazza dovette lasciare la Francia, Atto restò il suo confidente. “Poi però Mazzarino morì” riprese Devizé “e per Atto tutto diventò difficile. Sua Maestà era appena diventato maggiorenne, e diffidava di tutti i protetti del Cardinale” spiegò Devizé. “Per di più, Melani venne compromesso dallo scandalo di Fouquet, il

Sovrintendente alle Finanze.” Trasalii. Non era proprio Fouquet il nome che l‟abate Melani m‟aveva fatto di sfuggita la notte prima? “Fu un passo falso” proseguì il musico francese “che il Re Cristianissimo gli ha perdonato solo dopo molto tempo.” “Solo un passo falso lo chiami? Ma lui e quel ladrone di Fouquet non erano addirittura amici?” obiettò Cristofano. “Nessuno è riuscito mai a chiarire come stessero veramente le cose. Quando Fouquet venne arrestato, nella sua corrispondenza venne trovato un biglietto con l‟ordine di ospitare segretamente Atto a casa sua. Il biglietto venne mostrato dai giudici a Fouquet.” “E il Sovrintendente come lo spiegò?” incalzò Stilone Priàso. “Raccontò che, tempo addietro, Atto cercava con urgenza un rifugio sicuro. Quel ficcanaso si era inimicato il potente Duca de La Meilleraye, l‟erede della fortuna di Mazzarino. Il Duca, che era un vero esagitato, aveva ottenuto dal Re di far allontanare Melani da Parigi, e aveva già sguinzagliato dei sicari per bastonarlo. Alcuni amici raccomandarono quindi Atto a Fouquet: a casa sua sarebbe stato al sicuro, visto che tra i due non era nota alcuna frequentazione.” “Ma allora Atto e Fouquet non si conoscevano!” disse Stilone Priàso. “Non è così semplice” ammonì Devizé con uno scaltro sorrisetto. “Ora sono passati più di vent‟anni, e io all‟epoca ero un bambino. In seguito però ho letto gli atti del processo a Fouquet, che a Parigi erano più diffusi della Bibbia. Ebbene, ai giudici Fouquet disse: ”Di Atto non era nota alcuna frequentazione con me“.” “Che furbacchione!” esclamò Stilone. “Una risposta perfetta: nessuno poteva testimoniare d‟averli mai visti insieme prima; il che però non esclude che potessero essere segretamente in contatto… Secondo me i due si conoscevano, eccome. Quel biglietto parla chiaro: Atto era uno degli spioni privati di Fouquet.” “E possibile” annuì Devizé. “Comunque, con quella risposta ambigua Fouquet ha salvato Melani dal carcere. Atto dormì a casa di Fouquet, e subito dopo partì alla volta di Roma, sfuggendo alle bastonate. A Roma però gli arrivarono altre cattive notizie: l‟arresto di Fouquet, lo scandalo, il suo nome infangato, la collera del Re…” “E come se la cavò?” sollecitò Stilone Priàso. “Se la cavò benissimo” s‟inserì Cristofano. “A Roma si mise al servizio del cardinal Rospigliosi, che era pistoiese come lui, e che poi è diventato Papa. Tanto che Melani si vanta ancora adesso d‟averlo fatto eleggere Pontefice. I pistoiesi le sparano sempre grosse, credetemi.” “Può darsi” rispose cauto Devizé. “Ma per fare un Papa bisogna ben manovrare nel Conclave. E durante quel Conclave, ad aiutare Rospigliosi fu proprio Atto Melani. Inoltre papa Rospigliosi fu un ottimo amico della Francia. E si sa che Melani è da sempre amicissimo non solo dei Cardinali più in vista, ma anche dei più potenti ministri francesi.” “E un individuo intrigante, infido e temibile” tagliò corto infine Stilone Priàso. Ero al culmine dello stupore. L‟individuo di cui parlavano i tre ospiti della locanda era davvero lo stesso con cui m‟ero intrattenuto, a qualche metro da quelle stesse sedie, appena la notte prima? Mi s‟era presentato come musico, e ora invece mi veniva rivelato come agente segreto, coinvolto in torbide manovre di palazzo, e infine travolto da scandali. Sembrava quasi d‟aver conosciuto due persone diverse. Certo, se era vero quanto l‟abate stesso m‟aveva riferito (e cioè l‟essere ancora nelle grazie di

numerosi Principi), doveva aver risalito la china. Ma dopo aver udito la conversazione tra Stilone Priàso e Cristofano e Devizé, chi non avrebbe accolto le sue parole con sospetto? “In ogni questione politica di qualche importanza spunta sempre l‟abate Melani” ricominciò il musico francese, calcando sulla parola “abate”. “Magari si scopre solo tempo dopo che nell‟affare è immischiato anche lui. Riesce sempre a infilarsi ovunque. Atto si trovava tra gli aiutanti di Mazzarino durante le trattative con gli Spagnoli all‟isola dei Fagiani, quando venne conclusa la pace dei Pirenei. Lo mandarono anche in Germania, per convincere l‟Elettore di Baviera a candidarsi al Trono Imperiale. Ora che l‟età non gli consente di viaggiare come prima, cerca di rendersi utile soprattutto inviando al Re relazioni e memorie sulla Corte di Roma, che conosce bene e in cui ha tuttora molti amici. In più d‟un affare di Stato pare si siano udite voci a Parigi reclamare con ansia i suggerimenti dell‟abate Melani.” “Il Re Cristianissimo gli concede udienza?” s‟incuriosì Stilone Priàso. “Questo è un altro mistero. Un personaggio dalla così dubbia reputazione non dovrebbe neppure essere ammesso a Corte, e invece Atto intrattiene rapporti diretti con i ministri della Corona. E c‟è chi giura di averlo visto sgattaiolare alle ore più impensate dalle stanze del Re. Come se Sua Maestà avesse voluto chiamarlo a colloquio con grande urgenza, e in gran segreto.” Era dunque vero che l‟abate Melani poteva ottenere udienza presso Sua Maestà il Re di Francia. Almeno su questo punto egli non m‟aveva mentito, pensai. “E i suoi fratelli?” domandò Cristofano, mentre m‟avvicinavo con una scodella di brodo caldo. “Agiscono sempre in gruppo, come i lupi” commentò Devizé con una smorfia di disapprovazione. “Non appena Atto si sistemò a Roma, dopo l‟elezione di Rospigliosi, due dei suoi fratelli lo raggiunsero, e uno di essi diventò subito maestro di cappella a Santa Maria Maggiore. A Pistoia, la loro città, hanno fatto man bassa di benefici e gabelle, e molti pistoiesi giustamente li odiano.” Non c‟erano più dubbi. Non m‟ero imbattuto in un abate, ma in un infido sodomita, abile nel carpire la fiducia d‟ignari Sovrani, e questo anche grazie all‟appoggio furfantesco dei suoi fratelli. Avere promesso di aiutarlo era stato un errore imperdonabile. “È ora ch‟io controlli il signor Pellegrino” annunciò Cristofano, dopo aver somministrato ai due compagni di chiacchiera l‟olio di solfo col brodo. Solo allora ci accorgemmo che, chissà da quanto tempo, era ridisceso Pompeo Dulcibeni: era rimasto in tutto silenzio seduto in un cantuccio dell‟altra sala ad attingere al fiaschetto d‟acquavite, che il mio padrone usava tenere su uno dei tavoli attorniato di bicchierini. Di certo, pensai, doveva aver udito la conversazione su Atto Melani. M‟accodai dunque al terzetto. Dulcibeni, invece, non si mosse. Giunti al primo piano incontrammo padre Robleda. Il gesuita s‟era fatto forza, tenendo a freno la folle paura del contagio, ed era rimasto per un attimo sulla soglia della sua camera, asciugandosi il sudore che schiacciava sulla fronte breve i riccioletti brizzolati, attento a darsi un contegno. Ora s‟era spinto appena fuori la stanza, e sostava rigido lungo la parete del corridoio ma

senza sfiorarla, restando in tal guisa eretto e buffo. Rimase così a guardarci, nell‟ansiosa e tenue speranza d‟udire buone nuove dal medico, col peso del suo grande corpo tutto sulle dita dei piedi e il busto esageratamente inarcato all‟indietro, onde il profilo della sua nera figura formava una grande linea curva. Non che fosse realmente pingue, se non nella struttura assai tonda del viso bruno e del collo. Era alto, e la moderata prominenza del ventre non lo guastava, bensì gli donava un‟aura di saviezza matura. Ma tale bizzarra posa costringeva il gesuita a proiettare gli occhi verso il basso, con le palpebre lievemente calate, se voleva fissare in volto l‟interlocutore; il che, unitamente a lunghe e distanziate sopracciglia e alle occhiaie che gli circondavano l‟occhio, gli conferiva un‟aria di altera noncuranza. Mal gliene incolse, giacché Cristofano appena lo vide lo invitò perentoriamente a seguirci, ché forse Pellegrino avrebbe avuto urgenza d‟un sacerdote. Robleda avrebbe voluto obiettare qualcosa, ma non sovvenendogli nulla, si rassegnò a seguirci. Saliti al sottotetto, per gettare un‟occhiata al letto di quello che ormai temevamo fosse il cadavere del mio padrone, ci accorgemmo invece che lui era ancora vivo. E ancora rantolava, regolarmente e sommessamente. Le due chiazze, tuttavia, non erano calate né cresciute: la diagnosi restava in bilico tra peste e petecchie. Cristofano provvide a ripulirlo tutto e a rinfrescarlo con pezzuole bagnate, dopo averlo asciugato dai sudori. Al gesuita, rimasto prudentemente fuori dall‟uscio, ricordai allora che, stando così le cose, si sarebbe dovuto amministrare il sacramento dell‟Estrema Unzione a Pellegrino. L‟editto che prevedeva la presenza delle Immagini Sacre nelle locande aggiungeva – precisai – che, se qualcuno si fosse ammalato nelle locande o osterie, lo si confessasse sacramentalmente almeno nel terzo giorno di infermità, se non prima, e che gli si amministrassero gli altri sacramenti. “Eppeppè, sssì, in effetti è così” disse Robleda, tergendosi nervosamente con una pezzuola i riccioli sudati. S‟affrettò però ad aggiungere che a norma del precetto ecclesiastico non v‟era che il parroco o il sacerdote da lui commesso, che potesse amministrare lecitamente tale sacramento; e se qualche altro prete secolare o regolare volesse amministrarlo, incorrerebbe in peccato mortale e nella scomunica maggiore e non potrebbe essere assolto che dal Papa. Infatti, continuò, l‟editto da cui avevo appreso tale buona e giusta prescrizione comandava che a imporre il Santo Olio sulla fronte dei degenti e a bisbigliare le Sacre Litanie al loro povero orecchio fosse il parroco della locale parrocchia, e che a quanto ne sapeva lui, competenti in prima persona per i viaggiatori erano i caritatevoli fratelli della Compagnia della Perseveranza di San Salvatore in Lauro detta delle Coppelle, il cui officio è la cura dei forestieri infermi etcetera etcetera. Infine occorreva olio appositamente benedetto da un vescovo, e lui con sé non ne aveva. Il gesuita conosceva a fondo la questione – disse con un calore che gli faceva ballare il grasso mento – poiché nel Giubileo del 1675 un suo confratello s‟era trovato in circostanze analoghe alle nostre, e infatti non era stato lui ad amministrare l‟estremo rito.

Mentre Robleda ripeteva le sue perplessità al resto del gruppo, in un lampo avevo ritrovato l‟editto che Pellegrino teneva in un cassetto insieme a tutte le disposizioni pubbliche a cui sono sottoposti locandieri, osti e bettolieri. Lo scorsi rapidamente: il gesuita aveva ragione. Prese la parola il medico Cristofano, e osservò sommessamente che le dotte e sagge osservazioni di padre Robleda andavano senz‟altro accolte alla lettera, poiché si trattava d‟un precetto ecclesiastico e d‟un editto, rischiandosi finanche la scomunica, e pertanto si sarebbe immediatamente dovuto avvertire il parroco della vicina chiesa di Santa Maria in Posterula che si era verificato un nuovo caso di sospetta contagione. Si sarebbe poi dovuto allertare i caritatevoli fratelli della Compagnia della Perseveranza di San Salvatore in Lauro detta delle Coppelle: nessuna pretermissione era in questo caso ammissibile. Anzi, stando così le cose, aggiunse Cristofano con un guizzo dei suoi tondi e grandi occhi neri, sarebbe stato saggio che ognuno dei pigionanti preparasse tempestivamente le proprie masserizie e bagagli giacché, espletate tali procedure, saremmo stati trasferiti in un luogo sicuro e poi in un lazzeretto. Padre Robleda, rimastosene fin‟allora ben quieto dietro noncuranti palpebre a mezz‟asta, ebbe un sussulto. Volgemmo tutti lo sguardo verso di lui. Puntati sul pavimento e come appesi al naso spiovente e affilato, gli occhietti neri del gesuita non s‟alzarono; quasi padre Robleda temesse di sprecare – appuntando lo sguardo sui visi altrui – le preziose residue forze interne, rabbiosamente volte al momento a trarlo in segreto fuori d‟impaccio. Mi strappò l‟editto di mano. “Ma… ecco, ecco. Eh, lo sapevo” disse stringendosi la bocca tra il pollice e l‟indice e gonfiando il nero ventre. “In questo editto non si parla dei casi di necessità, come l‟assenza, l‟impedimento o il ritardo del parroco, nel qual caso qualunque prete potrà amministrare la Sacra Unzione!” Cristofano gli fece notare che niente di tutto ciò era ancora accaduto. “Ma potrebbe accadere” ribatté allargando le braccia in gesto teatrale. “Se chiamassimo i frati della Compagnia della Perseveranza, credete non sarebbero forse capaci di spedirci al lazzeretto senza neanche accostarsi al malato per tema del contagio? Eppoi l‟esclusiva competenza del parroco è necessaria per precetto ecclesiastico, ma non lo è giammai stata per precetto divino! È quindi mio im-procra-sti-na-bile dovere impartire al più presto a questo povero fratello agonizzante il Sacro Crisma che toglie le reliquie del peccato e rende più forte l‟anima nel sopportare le estreme sofferenze e…” “Ma non avete l‟olio benedetto dal vescovo” lo interruppi. “La Chiesa greca, per esempio, ne fa a meno” rispose con sufficienza. E, senza ulteriori spiegazioni, mi comandò di portargli olio d‟oliva, come indicava espressamente San Giacomo, ché doveva benedirlo per l‟officio; e anche una bacchetta. In capo ad alcuni minuti, padre Robleda era al capezzale di padron Pellegrino a imporgli l‟Estrema Unzione. La cosa fu invero rapidissima: intinse la bacchetta nell‟olio e badando a restare il più possibile distante dal malato gli unse un orecchio e brontolando rapidamente solo

la breve formula Indulgeat tibi Deus quidquìd peccasti per sensus, ben diversa da quella più lunga che tutti conoscevano. “L‟Università di Lovanio” si giustificò poi, volgendosi al perplesso uditorio “ha approvato nel 1588 che in caso di contagio sia lecito al sacerdote impartire il Sacro Crisma con una bacchetta, anziché col pollice. E anziché ungere bocca, nari, occhi, orecchie, mani e piedi pronunciando ogni volta la formula canonica Per istas sanctus unctiones, et suam piissimam mi- sericordiam indulgeat tibi Deus quidquìd per visum, auditum, odo- ratum, gustum, tactum deliquisti, molti teologi di colà hanno ritenuto valido il sacramento con una sola unzione effettuata con prestezza sopra uno degli organi di senso, pronunziando la breve formula universale che avete prima udito.” Dopodiché il gesuita s‟allontanò di gran fretta. Per non dare nell‟occhio attesi che il gruppetto si fosse sciolto, e subito seguii padre Robleda. Lo raggiunsi proprio mentre varcava la porta della propria camera. Ancora mezzo trafelato gli dissi che ero in grande apprensione per l‟anima del mio padrone: l‟olio aveva mondato la coscienza di Pellegrino dai peccati, affinché egli non corresse il rischio di perire all‟Inferno? Oppure occorreva che si confessasse prima di morire? E cosa sarebbe accaduto se non avesse ripreso conoscenza prima del trapasso? “Oh, se è per questo” rispose Robleda sbrigativamente “non ti devi preoccupare: non sarà colpa del tuo padrone, se prima di morire non tornerà in sé quel tanto che basta per poter rendere piena confessione dei suoi peccatucci al Signore.” “Lo so” ribattei pronto “ma ci sono anche i peccati mortali, oltre ai peccati veniali…” “Sai forse di qualche peccato grave commesso dal tuo padrone?” chiese il gesuita allarmato. “Che io sappia non è mai andato oltre qualche intemperanza e qualche bicchiere di troppo.” “Comunque, perfino se avesse ucciso” disse Robleda facendosi il segno della Croce “questo non vorrebbe dire molto.” E mi spiegò che i padri gesuiti, avendo particolare vocazione per il sacramento della confessione, avevano da tempo studiato con gran cura la dottrina del peccato e del perdono: “Vi sono delitti che provocano la morte dell‟anima, ed essi sono la maggioranza. Ma ve ne sono anche di parzialmente permessi” disse abbassando verecondamente la voce “o perfino alcuni, beninteso in casi eccezionali, che sono permessi. È una questione di circostanze, e per il confessore ti assicuro che la decisione è sempre cosa difficile”. La casistica era sterminata, e andava considerata con grande cautela. Si deve dare l‟assoluzione a un figlio che per legittima difesa ammazza il padre? Commette peccato colui che, per evitare di essere giustiziato ingiustamente, uccide un testimonio? E una moglie che uccide il marito, sapendo che lui sta per renderle identico servizio? Può un nobile, per difendere di fronte ai suoi pari l‟onore (che è per lui quanto v‟è di più importante), assassinare chi lo ha offeso? Commette peccato un soldato se per ordine di un superiore uccide un innocente? Ancora: una donna può prostituirsi per salvare dalla fame i propri figli? “E a rubare, padre, si fa sempre peccato?” insistetti sovvenendomi che le troppo abbondanti prelibatezze della cantina del mio padrone non erano forse tutte di provenienza lecita.

“Tutt‟altro. Anche qui devi considerare le circostanze interne ed esterne in cui l‟atto è compiuto. È cosa certamente diversa se il ricco ruba al povero, o il povero al ricco, o il ricco al ricco o infine il povero al povero e così via.” “Ma non ci si può far perdonare in tutti i casi, restituendo ciò che si è rubato?” “Sei troppo frettoloso! L‟obbligo di restituzione è cosa importante, certo, e il confessore è tenuto a ricordarlo al fedele che a lui s‟affida. Ma l‟obbligo può anche essere limitato, o venir meno. Non occorre restituire quanto è stato rubato, se ciò significa impoverirsi: un nobile non può privarsi della servitù, e un cittadino distinto non può certo abbassarsi a lavorare.” “Ma se non sono costretto a restituire il maltolto, come dite voi, allora cosa devo fare per ottenere il perdono?” “Dipende. In alcuni casi è bene fare una visita al domicilio dell‟offeso, e porgere le proprie scuse.” “E le tasse? Cosa accade se non si paga il dovuto?” “Eppeppè, questa è una faccenda delicata. Le tasse rientrano tra le res odiosae, nel senso che nessuno le paga volentieri. Diciamo che è sicuramente peccato non pagare quelle giuste, mentre per le tasse ingiuste bisogna vedere caso per caso.” Robleda mi lumeggiò poi su molti altri casi che, senza conoscere la dottrina dei gesuiti, avrei senz‟altro giudicato in modo assai diverso: chi è condannato ingiustamente può evadere dal carcere, e può ubriacare i guardiani e aiutare a fuggire i suoi compagni di cella; si può gioire della morte di un genitore che ci lascia una grossa eredità, purché lo si faccia senza odio personale; si possono leggere i libri proibiti dalla Chiesa, ma al massimo per tre giorni e per non più di sei pagine; si può rubare ai genitori senza fare peccato, ma non più di cinquanta monete d‟oro; chi infine giura, ma lo fa solo per finta e senza l‟intenzione di giurare davvero, non è obbligato a mantenere la parola. “Insomma si può spergiurare!” riassunsi stupito. “Non essere così rozzo. Tutto dipende dall‟intenzione. Il peccato è il distacco volontario dalla legge di Dio” recitò solenne Robleda. “Se invece lo si commette solo in apparenza, ma senza volerlo davvero, allora si è salvi.” Uscii dalla stanza di Robleda in preda a un misto di spossatezza e inquietudine. Grazie alla sapienza dei gesuiti, pensai, Pellegrino aveva buone probabilità di salvarsi l‟anima. Ma da quei discorsi pareva quasi che il bianco si chiamasse nero, che la verità fosse uguale alla menzogna, che bene e male fossero tutt‟uno. Forse l‟abate Melani non era l‟uomo specchiato che voleva far credere. Ma di Robleda, pensai, si doveva ancor più diffidare. L‟ora del desinare era ormai passata e i nostri pigionanti, digiuni dalla sera precedente, scesero rapidamente verso la cucina. Dopo che si furono frettolosamente rifocillati con una mia minestrina di gnocchetti e luppoli che non entusiasmò nessuno, fu Cristofano a riportare la nostra attenzione sul da farsi. Presto saremmo stati chiamati dagli armigeri a comparire in appello alle finestre. Un altro infermo avrebbe di certo convinto la Congregazione di Sanità a decretare il pericolo di contagio pestifero, e in tal caso la quarantena sarebbe stata mantenuta e rafforzata. Forse sarebbe stato improvvisato un lazzeretto, in cui saremmo stati presto o tardi trasferiti. L‟ipotesi era tale da far tremare anche i più coraggiosi. “Allora non ci resta che tentare di fuggire” ansimò il vetraio Brenozzi.

“Non sarebbe possibile” osservò Cristofano. “Avranno già posto cancelli a chiusura della via, e anche se riuscissimo a passarli ci verrebbe data la caccia in tutto il territorio pontificio. Potremmo cercare di traversarlo in direzione di Loreto fuggendo per i boschi, per poi imbarcarci sull‟Adriatico e fuggire via mare. Ma su quella via non dispongo di amici sicuri, e credo che nessuno di noi si trovi in condizioni migliori. Saremmo costretti a chiedere ospitalità a estranei, correndo così ogni volta il rischio di essere traditi da chi ci offre ospizio. Altrimenti potremmo cercare di rifugiarci nel Regno di Napoli, sempre procedendo di notte e dormendo di giorno. Io non ho certo l‟età per sopportare una tale fatica; e anche altri tra voi forse non sono stati favoriti dalla Natura. Avremmo poi bisogno d‟una guida, un pastore o un villico, non sempre facile da convincere, che ci guidi per le colline e i valichi, e che soprattutto non intuisca che siamo braccati: ci consegnerebbe al suo padrone senza pensarci due volte. Saremmo infine in troppi a scappare, e tutti privi di passaporto sanitario: verremmo bloccati al primo controllo di confine. Le possibilità di riuscire, insomma, sarebbero scarsissime. E tutto ciò senza contare che, anche qualora avessimo successo, saremmo votati a non tornare mai più a Roma.” “E allora?” incalzò Bedfordi sbuffando con sprezzo e lasciando le mani penzolare ridicolmente dai polsi in un gesto d‟impazienza. “E allora Pellegrino risponderà agli appelli” rispose Cristofano senza scomporsi. “Ma se non riesce neppure a stare in piedi” obiettai. “Ci riuscirà” ribatté il medico. “Ci deve riuscire.” Quand‟ebbe finito, ci trattenne ancora e ci propose, per rinforzarci contro l‟eventuale contagio, dei rimedi mondificativi degli umori. Alcuni, disse, erano già pronti, altri li avrebbe egli stesso preparati con erbe ed essenze che aveva con sé in viaggio, attingendo alla fornita cantina di Pellegrino. “Non vi piaceranno né al gusto né all‟odore. Ma sono preparati di grande autorità” e qui guardò polemicamente in direzione di Bedfordi “come Yelixir vitae, la quinta essenzia, la seconda acqua e la madre di balsamo artificiato, l‟olio filosofo- rum, il magnolicore, il caustico, il diaromatico, l‟elettuario angelico, l‟olio di vitriolo, quello di solfo, i moscardini imperiali e tante varietà di suffumigi e pillole e palle odorifere da portar nel petto. Purificano l‟aria e non lasceranno entrare un eventuale contagio. Ma non abusatene: dentro, insieme ad aceto stillato, ci sono arsenico cristallino e pegola greca. Inoltre ogni mattina vi somministrerò per bocca la mia quinta essenzia originale, ricavata da un ottimo vino bianco maturo nato in luoghi montuosi, che ho distillato per bagnomaria, poi chiuso in una boccia con un tappo di erb‟amara e sotterrato capovolto in letame di cavallo ben caldo per venti giorni continui. Cavata la boccia dal letame (operazione che raccomando sempre di fare con gran destrezza, per non contaminare il preparato), ho separato il distillato color del cielo dalle fecce: quella è la quinta essenzia. La serbo in vasetti di vetro chiusissimi. Vi preserverà dalla corruzione e putrefazione e da ogn‟altra infermità ed è di tanta virtù che risuscita i morti.” “Ci basta che non ammazzi i vivi” ridacchiò Bedfordi. Il medico si piccò: “Il suo principio è approvato da Raimondo Lullo, Filippo Ulstadio e molti altri filosofi antichi e moderni. Ma voglio concludere: ho qui per

ognuno di voi pillole eccellentissime, di mezza dramma l‟una, da portare in tasca e ingoiare appena vi doveste sentire un po‟ tocchi dal contagio. Son fatte di tutti semplici assai appropriati, senza stravaganze: quattro dramme di bolo armeno, terra sigillata, zedoaria, canfora, tormentilla, dittamo bianco e aloe patico, con uno scropolo di zafferano e uno di diagridio, succo di verza e miele cotto. Sono studiate appositamente per scansare la peste causata dalla corruzione del calor naturale, come dovrebb‟essere il caso di Bedfordi. Il bolo armeno e la terra sigillata estinguono infatti il gran fuoco nel corpo e mortificano le alterazioni. La zedoaria ha virtù d‟essiccare e di risolvere. La canfora rinfresca e anch‟essa dissecca. Il dittamo bianco è contro il veleno. L‟aloe patico conserva dalla putredine e scioglie il corpo. Lo zafferano e i garofali conservano e allegrano il cuore. E il diagridio solve la superflua umidità del corpo”. L‟uditorio taceva. “Potete fidarvi” insistette Cristofano. “Io stesso ne ho perfezionato le formule ispirandomi a celebri ricette sperimentate da eccellentissimi maestri nelle pesti più alpestri. Come gli sciroppi stomacali di maestro Giovanni da Volterra, che…” Vi fu in quel momento un piccolo trambusto nel gruppo degli astanti: era giunta, del tutto inaspettata, Cloridia. Fino a quel momento era rimasta nella propria camera, incurante come sempre degli orari dei pasti. Il suo arrivo venne salutato in vari modi. Brenozzi si tormentò l‟arboscello, Stilone Priàso e Devizé si ravviarono i capelli, Cristofano tirò discretamente in dentro la pancia, padre Robleda arrossì, mentre Atto Melani starnutiva. Restarono impassibili solo Bedfordi e Dulcibeni. Proprio tra gli ultimi due si fece spazio, senza essere invitata, la cortigiana. Era invero di singolare aspetto, Cloridia: sotto il belletto bianchissimo affiorava, suo malgrado, una carnagione assai bruna, e formava uno strano contrasto con la folta chioma riccia e artificiosamente imbiondita, che incorniciava la fronte assai spaziosa e l‟ovale regolare. Il naso camuso, ma piccolo e grazioso, gli occhi grandi, vellutati e neri, i denti perfetti e senza finestre nella bocca carnosa, facevano solo da contorno a ciò che più saltava all‟occhio: un‟amplissima scollatura, sottolineata da un balconcino policromo di nappe intrecciate che le correva tutt‟attorno alle spalle e terminava con un grosso nodo tra i seni. Bedfordi le fece largo sulla panca, mentre Dulcibeni restava immobile. “Sono sicura che qualcuno di voi ha voglia di sapere tra quanti giorni ci faranno uscire” disse Cloridia con tono amabilmente tentatore, posando sul tavolo un mazzo di carte per il gioco dei tarocchi. “Libera nos a malo” sibilò Robleda facendosi il segno della Croce e alzandosi in tutta fretta senza neppure congedarsi. Nessuno accolse l‟invito di Cloridia, che tutti pensavano propedeutico ad altri, più approfonditi sondaggi, ma finanziariamente oneroso. “Forse non è il momento migliore, gentile dama” disse cortese Atto Melani per toglierla d‟imbarazzo “la tristezza delle cose presenti prevale perfino sulla vostra amabile compagnia.” Sorprendendo tutti, Cloridia afferrò allora la mano di Bedfordi

e la portò leggiadramente davanti a sé, proprio davanti al petto rigoglioso e scollato alla moda francese. “Forse è meglio una bella lettura della mano” propose Cloridia “ma gratis, beninteso, e solo per il vostro piacere.” A Bedfordi questa volta la lingua fece difetto e, prima che potesse rifiutare, Cloridia gli schiuse amorosamente il pugno. “Eccoci qua” disse carezzando con la punta di un dito il palmo dell‟inglese “vedrai, ti piacerà moltissimo.” Tutti i presenti (io compreso) avevano impercettibilmente allungato il collo per meglio vedere e ascoltare. “Ti hanno mai letto la mano?” chiese Cloridia a Bedfordi sfiorandogli assai soavemente i polpastrelli e poi il polso. “Sì. Cioè no. Voglio dire, non così.” “Non t‟agitare, ora Cloridia ti spiega tutti i segreti della mano e della buona ventura. Il dito grosso si chiama Pollice quia pollet, ossia perché ha forza maggiore degli altri. Il secondo, Indice perché serve a indicare, il terzo si chiama Infame perché è segno di beffa e di contumelia. Il quarto è detto Medico o Anulare perché porta l‟anello, il quinto Auricolare perché serve a nettare, e a pulire gli orecchi. Le dita della mano sono ineguali per maggior decenza, e per maggiore facilità nell‟uso.” Mentre passava in rassegna l‟apparato digitale, Cloridia sottolineava ogni frase solleticando lubricamente le falangi di Bedfordi, che cercava di mascherare l‟agitazione con un timido sorriso, e con una sorta d‟involontaria ritrosia di fronte al sesso femmineo quale avevo conosciuto solo nei viaggiatori provenienti dalle terre nordiche. Poi Cloridia passò a illustrare le altre parti della mano: “Ecco vedi, la linea che parte in mezzo al polso e sale verso l‟indice, proprio qui, è la linea della vita, o linea del cuore. Questa che taglia la mano più o meno da destra a sinistra è la linea naturale, o linea del capo. La sua linea sorella, vicina vicina, è la linea detta mensale. Questo piccolo rigonfiamento si chiama cingolo di Venere. Ti piace questo nome?” chiese insinuante Cloridia. “A me sì, tantissimo” proruppe Brenozzi. “E sta‟ indietro, idiota” gli rispose Stilone, respingendo il tentativo di Brenozzi di conquistare una posizione più vicina a Cloridia. “Lo so, lo so, è un bel nome” disse Cloridia rivolgendo prima a Brenozzi e poi a Bedfordi un sorrisetto complice “ma sono belli anche questi: dito di Venere, monte di Venere, dito del Sole, monte del Sole, dito di Marte, monte di Marte, monte di Giove, dito di Saturno, monte di Saturno e sedia di Mercurio.” Mentre così illustrava dita, nocche, rughe, linee, articolazioni, rigonfiamenti e avvallamenti, con un abile e sensuale contrappunto di gesti Cloridia passava l‟indice alternativamente sulla mano di Bedfordi e sulle proprie guance, sul palmo dell‟inglese e poi sulle proprie labbra, nuovamente sul polso di Bedfordi e poi sulla primissima e ancora innocente attaccatura del suo generoso seno. Bedfordi deglutì. “Poi ci sarebbero la linea del fegato, la linea o via del Sole, la linea di Marte, la linea di Saturno, il monte della Luna, e poi tutto finisce con la Via Lattea…” “Oh sì, la Via Lattea” si lasciò sfuggire Brenozzi in deliquio. Quasi tutto il gruppetto si era frattanto accalcato attorno a Cloridia, come neanche il bue e l‟asinello fecero con Nostro Signore nella notte in cui venne al mondo.

“Comunque avete una bella mano, e ancor più bella dev‟essere la vostra anima” disse Cloridia compiacente, attirando a sé il palmo di Bedfordi, per un breve attimo, sulla bruna pelle tra il petto e il collo. “Del corpo invece non so dire” rise poi allontanando scherzosamente da sé, come per difesa, la mano di Bedfordi, e agguantando quella di Dulcibeni. Tutti gli occhi si puntarono sul maturo gentiluomo, che però si sottrasse con un brusco gestaccio alla presa della cortigiana, e s‟alzò dal tavolo dirigendosi verso le scale. “Ma quante storie” commentò ironicamente Cloridia cercando di nascondere la delusione e sistemandosi con muliebre stizza una ciocca di capelli. “E che brutto temperamento!” Proprio in quel mentre ebbi modo di riflettere che nei giorni precedenti Cloridia s‟era accostata sempre più spesso a Dulcibeni, il quale tuttavia l‟aveva respinta con crescente insofferenza. Al contrario di Robleda, infatti, che faceva esageratamente mostra di scandalizzarsi della cortigiana ma forse qualche notte le aveva volentieri reso visita, Dulcibeni pareva provare un autentico e profondo disgusto alla presenza della giovane. Nessun altro pigionante della locanda osava trattare Cloridia con tanto sprezzo. Ma, forse proprio a causa di ciò, o forse per il denaro che (come pareva chiaro) a Dulcibeni non doveva certo far difetto, la cortigiana sembrava essersi intestardita nell‟alloquire il gentiluomo fermano. Non riuscendo a cavargli di bocca una sillaba, Cloridia mi aveva più volte posto domande sul conto di Dulcibeni, curiosa di apprendere qualunque particolare lo riguardasse. Così bruscamente interrotta la lettura della mano, il medico ne approfittò per riprendere le sue delucidazioni circa i rimedi contro il rischio di contagio. Ci distribuì varie pillole, palle odorifere e quant‟altro. Poi ci accodammo tutti a Cristofano a controllare lo stato di salute di Pellegrino. Entrammo nella stanza del mio padrone, ove questi giaceva sul letto e appariva ora un poco meno esangue. Il chiarore proveniente dalle finestre consolava lo spirito, mentre il medico ispezionava il malato. “Mmmh” brontolò Pellegrino. “Non è morto” sentenziò Cristofano. “Ha gli occhi semiaperti, ha ancora la febbre, ma il colorito è migliorato. E s‟è pisciato addosso.” Commentammo con sollievo la notizia. Ben presto però il medico toscano dovette constatare che il paziente si trovava in uno stato di catatonia che lo rendeva incapace di rispondere alle sollecitazioni esterne se non assai debolmente. “Pellegrino, di‟ cosa intendi delle mie parole” gli sussurrò Cristofano. “Mmmh” ripeté il mio padrone. “Non può” statuì il medico con convinzione. “È in grado di discernere le voci, ma non di rispondere. Mi sono già imbattuto in un caso simile: un villico rimasto sepolto da un tronco d‟albero abbattuto dal vento. Per mesi non poté proferire verbo, sebbene fosse perfettamente in grado di capire quanto gli venisse detto dalla moglie e dai figli.” “E poi cosa successe?” chiesi. “Niente: morì.” Mi venne chiesto di rivolgere dolcemente alcune frasi al malato per cercare di rianimarlo. Ma non ebbi successo; neppure sussurrandogli che la

locanda era in fiamme, e tutte le sue riserve di vino erano in pericolo, potei farlo uscire dal torpore che lo vinceva. Ciò malgrado, Cristofano si mostrò sollevato. Le due protuberanze sul collo del mio padrone si stavano già schiarendo e sgonfiando; non erano pertanto giandusse. Petecchie o semplici ecchimosi che fossero, ora stavano regredendo. Non sembravamo minacciati da un‟epidemia di peste. Potevamo perciò allentare la tensione. Non abbandonammo tuttavia il degente al suo destino. Verificammo immediatamente che Pellegrino fosse in grado di deglutire, sebbene con lentezza, sia cibi triturati che liquidi. M‟offrii di ristorarlo regolarmente. Cristofano lo avrebbe visitato a intervalli regolari. La locanda restava però orba, per il momento, di colui che meglio la conosceva ed era in grado d‟assisterci. Stavo intrattenendomi in tali considerazioni quando gli altri, soddisfatti della visita al capezzale del locandiere, man mano si congedarono. Rimasi solo con il medico, mentre questi s‟attardava scrutando pensosamente il corpo di Pellegrino, disteso e inerte. “Le cose vanno meglio, direi. Ma coi morbi non bisogna mai sentirsi troppo sicuri” commentò. Fummo interrotti da un forte scampanellio nella via dell‟Orso, sotto alle nostre finestre. M‟affacciai: erano tre uomini inviati per chiamarci in appello e controllare che qualcuno di noi non fosse sfuggito alla sentinella. Prima però, annunciarono, era necessario che Cristofano fornisse ragguagli sul nostro stato di salute. Corsi alle altre stanze e radunai tutti i pigionanti. Qualcuno guardò con apprensione il mio povero padrone, totalmente incapace di reggersi in piedi. Fortunatamente, la sagacia di Cristofano e dell‟abate Melani risolse rapidamente il problema. Ci radunammo al primo piano, nella stanza di Pompeo Dulcibeni. Per primo si mostrò alla grata della finestra Cristofano, assicurando che nulla di notevole era accaduto, che nessuno aveva mostrato segno alcuno d‟infermità, e che tutti sembravano stare perfettamente in salute. Quindi iniziammo a sfilare uno dopo l‟altro davanti alla finestra, per farci ispezionare. Ma il medico e Atto avevano fatto in modo da confondere per bene le idee ai tre ispettori. Cristofano infatti condusse alla finestra Stilone Priàso, poi Robleda e infine Bedfordi, mentre però i tre chiamavano i nomi di altri ospiti. Cristofano si scusò più volte per l‟involontario scambio di persona, ma intanto si era creata una notevole confusione. Quando fu il turno di Pellegrino, Bedfordi riuscì a creare altro caos: cominciò a sbraitare in inglese, chiedendo (come spiegò Atto) di essere finalmente liberato. I tre ispettori reagirono insultandolo e deridendolo, ma nel frattempo sfilava rapidamente Pellegrino, che sembrò in perfetta forma: i capelli erano ben ravviati, le gote pallide erano state truccate e rese rubiconde con il belletto di Cloridia. Contemporaneamente, anche Devizé iniziò a sbracciarsi e a protestare per la nostra reclusione, distraendo definitivamente da Pellegrino l‟attenzione degli ispettori. I quali conclusero così la visita senza accorgersi del pessimo stato del mio padrone. Mentre ragionavo su tali espedienti, m‟attirò fuori dalla soglia l‟abate Melani. Voleva sapere dove Pellegrino fosse solito riporre i valori che i viaggiatori gli affidavano all‟arrivo. Mi ritrassi manifestando stupore per la domanda: il luogo era

ovviamente segreto. Anche qualora non vi fossero custoditi tesori, era pur sempre lì che il mio padrone metteva al sicuro le somme di denaro lasciate in custodia dai clienti. Mi tornò in mente la pessima opinione che di Atto avevano Cristofano, Stilone Priàso e Devizé. “Immagino che il tuo padrone tenga la chiave sempre con sé” soggiunse l‟abate. Stavo per rispondergli, quando gettai uno sguardo a Pellegrino attraverso l‟uscio mentre veniva ricondotto in camera sua. Il mazzo di chiavi, raccolte da un collare di ferro, che il padrone teneva notte e giorno assicurato alle braghe, non era al suo posto. Mi precipitai in cantina, ove tenevo le chiavi di riserva, nascoste in un pertugio del muro di cui io solo conoscevo l‟esistenza. C‟erano. Cercando di non attirare la curiosità dei pigionanti (che, ancora eccitati dalla riuscita della messinscena, stavano scendendo al pianterreno per il pasto serale) risalii al terzo piano. Ora, occorre che spieghi che per giungere a ogni piano c‟erano due rampe di scale. Alla fine d‟ogni rampa c‟era un pianerottolo. Ebbene, sul pianerottolo tra il secondo e il terzo piano si trovava la porticina che dava accesso all‟andito ove si custodivano i valori. M‟assicurai che nessuno si trovasse nei paraggi ed entrai. Estrassi la pietra, incastonata nel muro, dietro a cui giaceva il piccolo forziere. Lo aprii. Nulla mancava: né i denari, né le note di deposito controfirmate dai clienti. Mi tranquillizzai. “Ora la domanda è: chi ha preso le chiavi di padron Pellegrino?” Era la voce dell‟abate Melani. M‟aveva seguito. Entrò e accostò la porta dietro di sé. “A quanto pare potremmo avere un ladro tra noi” commentò quasi divertito. Poi s‟arrestò allarmato: “Silenzio, sta arrivando qualcuno” e accennò col capo in direzione del pianerottolo. M‟indicò di affacciarmi, cosa che feci seppur di malavoglia. Sentii arrivare fioche dal pianterreno le note del liuto di Devizé. Nient‟altro. Invitai l‟abate a uscire senza esitazione dallo stanzino, desideroso com‟ero di ridurre al minimo i nostri contatti. Mentre si sfilava dallo stretto uscio, notai che puntava lo sguardo in direzione del piccolo forziere con aria assai preoccupata. “Cosa c‟è ancora, signor abate?” chiesi cercando di celare l‟ansia crescente e di contenere il tono scortese che mi saliva alle labbra. “Stavo riflettendo: non ha alcun senso che chi ha trafugato il mazzo di chiavi non abbia rubato niente dal forziere della locanda. Sei proprio sicuro d‟aver controllato bene?” Tornai a guardare: i denari c‟erano, le note di deposito pure; che altro doveva esserci? Poi ricordai: le perline datemi da Brenozzi. Era sparito il bizzarro e affascinante dono del veneziano che avevo gelosamente nascosto tra gli altri valori. Ma perché il ladro non aveva preso nient‟altro? Eppure erano là custodite cospicue somme di denaro, ben più visibili e commerciabili delle mie perline. “Rasserenati. Ora andremo nella mia stanza, qui sotto, e faremo il punto della situazione” disse. Ma vedendo che stavo per rifiutare, aggiunse: “Se vuoi rivedere le tue perline”.

Seppure di gran malavoglia, acconsentii. Giunti nella sua stanza, l‟abate m‟invitò a occupare una delle sedie. Intuiva la mia agitazione. “Abbiamo due possibilità” esordì. “O il ladro ha già fatto tutto ciò che voleva, ossia rubarti le perline, oppure non ha potuto portare a compimento le sue intenzioni. E io propendo per la seconda.” “Perché? Vi ho pur detto quanto m‟ha spiegato Cristofano: quelle perle hanno a che vedere col veleno e con la morte apparente. E forse Brenozzi sa qualcosa.” “Almeno per ora lasciamo perdere quella storia, ragazzo” disse con una risatina. “Non certo perché le tue piccole gioie valgano poco, anzi, o non abbiano i poteri che attribuisce loro il nostro medico. Ma ritengo che nello stanzino il ladro avesse da fare anche altro. Là dentro ci si trova a metà tra il secondo e il terzo piano. E in quei pressi, sin da quando è stato trovato il corpo esanime di padron Pellegrino, c‟è stato un certo viavai che non gli ha dato modo d‟agire.” “E allora?” “Allora credo che il ladro si darà ancora da fare in quel bugigattolo, e col favore della notte. Nessuno, per il momento, sa che hai scoperto il furto delle chiavi. Se non avvertirai i pigionanti, il ladro crederà di poter agire in pace.” “D‟accordo” dissi infine, seppur pieno di diffidenza “lascerò passare la notte prima di metterli in guardia. Pregando il Cielo che non accada loro nulla di male.” Guardai l‟abate di sbieco e mi decisi a porgli la domanda che avevo in serbo da tempo: “Credete che il ladro abbia ucciso il signor di Mourai, e magari abbia cercato di far lo stesso con il mio padrone?”. “Tutto è possibile” rispose Melani gonfiando curiosamente le guance e facendo la bocca a ciliegia. “Il cardinal Mazzarino mi diceva: a pensar male si commette peccato, ma s‟indovina sempre.” Doveva essere chiaro all‟abate il sorgere della mia diffidenza nei suoi confronti, ma non fece domande e proseguì come se nulla fosse: “A proposito di Mourai, già stamane stavo per proporti una piccola esplorazione, quando però il tuo padrone s‟è sentito male”. “Che intendete dire?” “Credo sia giunta l‟ora di perquisire le stanze dei due compagni di viaggio del povero vecchio. Tanto tu hai copia di tutte le chiavi.” “Volete entrare di nascosto in camera di Dulcibeni e di Devizé? E volete che io vi aiuti?” chiesi allibito. “Suvvia, non mi guardare così. Rifletti: se qualcuno qui è sospettabile d‟aver a che fare con la morte del vecchio francese, questi sono proprio Dulcibeni e Devizé. Sono giunti al Donzello insieme a Mourai, provenienti da Napoli, e alloggiano qui da oltre un mese. Devizé, con la storia del teatro del Cocomero, ha dimostrato d‟avere probabilmente qualcosa da nascondere. Pompeo Dulcibeni ha persino condiviso la camera col morto. Forse sono innocenti; ma sul signor di Mourai ne sanno più di chiunque altro.” “E cosa sperate di trovare nelle loro stanze?” “Non lo saprò finché non vi sarò entrato” rispose seccamente. Mi risuonarono ancora una volta nelle orecchie le orribili cose udite su Melani dalla bocca di Devizé. “Non posso darvi copia delle loro chiavi” dissi dopo aver riflettuto. Melani capì che sarebbe stato inutile insistere e rimase in silenzio.

“Per il resto, tuttavia, sono a vostra disposizione” aggiunsi con tono raddolcito, pensando alle mie perline sparite. “Per esempio, potrei fare qualche domanda a Devizé e Dulcibeni, cercare di farli parlare…” “Per carità, non ne caveresti nulla e li metteresti sull‟avviso. Andiamo per gradi: cerchiamo intanto di capire chi è il ladro delle chiavi e delle tue perline.” Atto mi espose dunque la sua idea: dopo cena avremmo sorvegliato le scale dalle nostre stanze, io al terzo piano e lui al secondo. Avremmo passato una cordicella tra la mia e la sua finestra (le nostre stanze erano esattamente l‟una sotto l‟altra), che ambedue avremmo legato per un capo a un piede. Quando uno di noi avesse notato qualcosa, l‟avrebbe tirata più volte e con forza, per far accorrere l‟altro e bloccare in tal guisa il ladro. Mentre egli così parlava, soppesavo i fatti. Sapere che le perline di Brenozzi potevano valere una fortuna aveva finito d‟abbattermi: nessuno m‟aveva mai regalato qualcosa di tanto prezioso. Conveniva forse assecondare per un po‟ l‟abate Melani. Certo, avrei dovuto tenere gli occhi ben aperti: non dovevo dimenticare i pessimi giudizi uditi su di lui. Gli assicurai che avrei seguito le sue indicazioni, come peraltro (ricordai per rassicurarlo) avevo già promesso la notte avanti durante il nostro lungo e singolare colloquio. Accennai vagamente che avevo sentito tre ospiti della locanda discutere del Sovrintendente Fouquet, del quale l‟abate m‟aveva fatto il nome la sera prima. “E cosa ne dissero in particolare?” “Nulla che io ricordi con esattezza, poiché stavo rigovernando la cucina. Mi fecero solo rammentare che avevate promesso di raccontarmi qualcosa in proposito.” Un lampo traversò le pupille acuminate dell‟abate Melani: aveva finalmente colto la fonte della mia repentina diffidenza nei suoi confronti. “Hai ragione, ti sono in debito” disse. Il suo sguardo si fece poi improvvisamente lontano, perso nella memoria del passato. Canticchiò sottovoce con malinconia: Ai sospiri, al dolore, ai tormenti, al penare, torna o mio core. “Ecco: così ti avrebbe parlato di Fouquet il seigneur Luigi Rossi mio maestro” aggiunse notando la mia espressione interrogativa. “Ma visto che tocca a me raccontarti, e che dobbiamo attendere l‟ora della cena, mettiti comodo. Mi chiedi chi fosse Nicolas Fouquet. Ebbene, egli fu anzitutto un vinto.” Tacque, come a cercar le parole, mentre gli tremava la fossetta del mento. “Un vinto dall‟invidia, dalla ragione di Stato, dalla politica, ma soprattutto un vinto dalla Storia. Perché, ricorda, la Storia la fanno sempre i vincitori, buoni o cattivi che siano. E Fouquet ha perso. Perciò a chiunque tu chiederai mai in Francia e nel mondo chi fosse Nicolas Fouquet, ti verrà risposto ora e sempre ch‟egli fu il ministro più ladro, corrotto e fazioso, più leggero e prodigo dei nostri tempi.” “E voi, prima che un vinto, chi dite ch‟egli fosse?” “Il Sole” rispose con un sorriso. “Così era chiamato Fouquet, da quando Le Brun lo dipinse in tal guisa nell‟ Apoteosi di Ercole, sulle pareti del castello di Vaux-le-Vicomte. E veramente nessun altro astro s‟addiceva a un uomo di tanta magnificenza e generosità.” “E quindi il Re Sole s‟è dato tale appellativo perché ha voluto copiare Fouquet?” Melani mi guardò assorto e non rispose. Riprese spiegandomi che le Arti, come delicate infiorescenze di rose,

necessitano di qualcuno che accomodi loro il giusto vaso, o renda pingue e dissodi il terreno, e poi giorno per giorno lasci pietosamente cadere l‟acqua che le disseterà; a sua volta, aggiunse l‟abate Melani, il giardiniere deve possedere gli utensili migliori per curare le sue creature; un tocco delicato per non offendere le tenere foglie, occhio esperto per riconoscere i loro malanni e, infine, saper trasmettere la sua arte. “Nicolas Fouquet aveva tutto ciò che serviva allo scopo” sospirò l‟abate Melani. “Era il mecenate più splendido, più grandioso, più tollerante e più generoso, il più dotato nell‟arte di vivere e di far politica. Ma si trovò impigliato nella tela di nemici avidi, gelosi, orgogliosi, intriganti e dissimulatori.” Fouquet era d‟una ricca famiglia di Nantes, che già il secolo addietro aveva fatto meritata fortuna nel commercio con le Antille. Venne affidato ai padri gesuiti, che in lui rinvennero un‟intelligenza superiore e un carisma eccezionale: i seguaci del grande Ignazio ne fecero uno spirito nobilmente politico, capace di saggiare ogni opportunità, di volgere a proprio favore ogni situazione e persuadere ogni interlocutore. A sedici anni era già consigliere del Parlamento di Metz, a venti era nel prestigioso corpo dei maitres des requètes, i pubblici funzionari che amministravano la Giustizia, le Finanze nonché i corpi militari. Nel frattempo era morto il cardinale di Richelieu, ed era asceso il cardinal Mazzarino: Fouquet, allievo del primo, passò senza difficoltà al servizio del secondo. Anche perché quando era scoppiata la Fronda, la famosa rivolta dei nobili contro la Corona, Fouquet aveva ben difeso il giovane re Luigi e aveva organizzato il suo rientro a Parigi, dopo che il Sovrano e la sua famiglia erano stati costretti dai disordini a lasciare la città. S‟era dimostrato ottimo servitore di Sua Eccellenza il Cardinale, fedelissimo del Re e uomo audace. Finiti dunque i tumulti, quando aveva ormai trentacinque anni, acquistò la carica di Procuratore Generale del Parlamento di Parigi, e nel 1653 fu finalmente Sovrintendente alle Finanze. “Ma tutto ciò è solo la cornice di ciò ch‟egli veramente fece di nobile e di giusto e d‟eterno” si spinse a dire l‟abate Melani. Ancor più che correre da una parte all‟altra di Francia (come quando era maitre des requètes), e ancor più che sacrificare il sonno e la salute per amministrare saggiamente fino all‟ultima lira le finanze della Corona (come quando era Sovrintendente alle Finanze, a Parigi), sopra ogni cosa gli premeva che la Francia potesse mostrare all‟Europa intera il trionfo glorioso delle Arti e delle Virtù. La sua casa era aperta ai letterati e agli artisti quanto agli uomini d‟affari; sia a Parigi che in campagna tutti aspettavano i preziosi momenti ch‟egli rubava agli affari di Stato per gratificare coloro che avevano talento nella Poesia, nella Musica e nelle altre Arti. Non era un caso se Fouquet per primo aveva capito e amato il grande La Fontaine. Il talento scintillante del poeta ben valeva la ricca pensione che il Sovrintendente gli aveva concesso sin dagli albori della loro conoscenza. E per essere sicuro di non pesare sull‟animo delicato del suo amico, gli offrì di sdebitarsi restituendogliene periodicamente una parte, ma in versi. Lo stesso Molière era in debito con il Sovrintendente, sebbene mai ciò gli sarebbe stato rimproverato, perché il debito

maggiore era quello morale. Anche il buon Corneille, ormai vecchio e non più baciato dalle labbra ardenti e capricciose della gloria, proprio nel momento più difficile della sua vita fu concretamente gratificato, e salvato dalle spire della melanconia. Ma il nobile connubio del Sovrintendente con le Lettere e la Poesia non s‟esauriva in una pur lunga sequela di regalie. Il Sovrintendente non si limitava a fornire aiuto materiale. Leggeva le opere ancora in gestazione, dava consigli, incoraggiava, correggeva, ammoniva, criticava se necessario, lodava se opportuno. E dava ispirazione: non solo con le parole, ma anche con la sua stessa nobile presenza. Rinfrancava e infondeva fiducia il buon cuore che spirava dal viso del Sovrintendente: i grandi occhi cerulei da bambino, il naso lungo che finiva a ciliegia, la larga bocca carnosa e le fossette delle guance piegate ad aperto sorriso. Alla porta dell‟animo di Nicolas Fouquet avevano bussato ben presto anche l‟Architettura, la Pittura e la Scultura. Qui s‟apriva però, m‟avvertì l‟abate, un capitolo doloroso. Nella campagna presso Melun, a Vaux-le-Vicomte, sorge un castello, gioiello d‟architettura, meraviglia delle meraviglie, fatto erigere con incomparabile gusto da Fouquet, e realizzato da artisti da lui scoperti: l‟architetto Le Vau, il giardiniere Le Nòtre, il pittore Le Brun chiamato da Roma, lo scultore Puget e tanti altri che il Re avrebbe ben presto preso al proprio servizio facendone i nomi più eccelsi dell‟arte francese. “Vaux, castello delle illusioni” gemette Atto “enorme smacco di pietra: decoro d‟una gloria che durò una notte d‟estate, quella del 17 agosto 1661. Alle sei del pomeriggio Fouquet era il vero Re della Francia, alle due del mattino dopo non era più niente.” Quel 17 agosto il Sovrintendente, inaugurato da poco il castello, offrì una festa in onore del Re. Voleva piacergli e compiacerlo. Lo fece col gaudio e la munificenza che gli erano soliti ma, ahi lui, senz‟aver compreso la contorta indole del Sovrano.

I preparativi furono impressionanti. Si fece spedire a Vaux, nei saloni ancora incompleti, letti di broccato con passamanerie d‟oro, tappezzerie, mobili rari, argenterie, candelieri di cristallo. Le strade di Melun vennero percorse dai tesori di cento musei e di mille antiquari: tappeti di Persia e di Turchia, cuoi di Cordova, porcellane che i gesuiti gl‟inviavano dal Giappone, lacche importate dalla Cina attraverso l‟Olanda grazie alla via privilegiata che il Sovrintendente aveva costituito per l‟importazione di rarità dall‟Oriente. E poi i quadri scoperti a Roma da Poussin e speditigli tramite suo fratello, l‟abate Fouquet. Tutti gli amici artisti e poeti, tra cui Molière e La Fontaine, furono mobilitati. “In ogni salotto, da quello di madame de Sévigné a quello di madame de la Fayette, non si parlava che del castello di Vaux” continuò Melani ormai sprofondato nel ricordo di quei giorni. “L‟ingresso del castello accoglieva il visitatore col merletto austero della grata e le otto statue di divinità che si libravano da ciascun lato. Veniva poi l‟immensa corte d‟onore, unita alle dipendenze da pilastri di bronzo. E negli archi

a tutto sesto dei tre imponenti portali d‟ingresso, lo scoiattolo rampicante, stemma di Fouquet.” “Uno scoiattolo?” “In bretone, il dialetto natale del Sovrintendente, la parola fouquet vuol dire appunto scoiattolo. E il mio amico Nicolas era simile per complessione e temperamento alla bestiola: industrioso, scattante, fine, il corpo nervoso, lo sguardo giocoso e seducente. Sotto allo stemma, il motto Quo non ascendam?, ossia ”fino a dove non salirò?“, riferito alla passione dello scoiattolo di raggiungere vette sempre più alte. Ma beninteso nella generosità: Fouquet amava il potere come un fanciullo. Aveva la semplicità di chi non si prende mai troppo sul serio.” Attorno al castello, proseguì l‟abate, gli splendidi giardini di Le Nòtre: “Velluti d‟erba e di fiori di Genova, ove le bordature di begonie avevano la regolarità degli esametri. Alberi di tasso potati a cono, cespugli di bosso foggiati a braciere, e poi la grande cascata d‟acqua e il laghetto di Nettuno che conducevano alle grotte, e dietro di esse il parco con le celebri fontane che avevano stupito Mazzarino. Tutto pronto per ricevere il giovane Luigi XIV”. Il giovane Re e la Regina madre erano partiti dalla residenza di Fontainebleau nel pomeriggio. Alle sei erano arrivati a Vaux col loro codazzo. Solo la regina consorte Maria Teresa, che portava in grembo il primo frutto dell‟amore di suo marito, non era tra i presenti. Il corteo passò ostentando indifferenza tra le ali impettite di guardie e di moschettieri, e poi tra torme indaffarate di paggi e valletti che maneggiavano vassoi d‟oro ricolmi d‟ornatissime vivande, aggiustavano trionfi di fiori esotici, trascinavano casse di vino, accomodavano sedie attorno alle enormi tavole damascate, su cui i candelieri, i servizi e le posate d‟oro e d‟argento, le cornucopie di frutta e di verdura, i bicchieri di cristallo finissimo e rifiniti anch‟essi in oro facevano splendida, stupefacente, inimitabile, irritante mostra di sé. “Fu allora che il pendolo della sorte iniziò a volgere indietro il suo cammino” commentò l‟abate Melani. “E l‟inversione di marcia fu tanto imprevista quanto violenta.” Non piacque, al giovane re Luigi, lo sfarzo quasi sfacciato di quella festa. Il caldo e le mosche, vogliose di festeggiare quanto i convitati, avevano spazientito sia il Sovrano che il suo seguito, costretto dalle convenzioni a una torturante visita dei giardini di Vaux. Rosolati dal sole, intabarrati nei duri collari di pizzo stretti alla gola e nelle cravatte di lino batista infilate nel sesto bottone del giustacuore, si moriva dalla voglia di togliersi braghe e parrucche. Fu con infinito sollievo che si salutò il fresco della sera, e finalmente ci si sedette a tavola. “E come fu la cena?” chiesi ingolosito, intuendo che le cibarie fossero al livello della dimora e della cerimonia. “Al Re non piacque” disse l‟abate rabbuiato. Soprattutto non piacquero, al giovane re Luigi, le trentasei dozzine di piatti d‟oro massiccio e le cinquecento dozzine di piatti d‟argento schierate sui tavoli. Non gli piacque che così tanti fossero gli invitati, centinaia e centinaia, che la fila delle carrozze e dei paggi e dei vetturini in attesa fuori dalla villa fosse così lunga e allegra, quasi una seconda festa. Non gli piacque dover apprendere dal sussurro d‟un suo cortigiano, quasi si trattasse d‟un pettegolezzo ch‟era stato ammesso a condividere, che la festa era costata oltre ventimila livres.

Non piacque al Re la musica che accompagnava il pasto – cimbali e trombe con le entrées, seguiti dai violini – e neppure l‟enorme zuccheriera d‟oro massiccio che gli venne piazzata di fronte, costringendogli i movimenti. Non gli piacque essere ricevuto da chi, senza corona, stava dimostrando d‟essere più munifico, più fantasioso, più abile nello stupire i suoi ospiti e nello stesso tempo nell‟avvicinarli a sé, unendo alla magnificenza l‟accoglienza; e quindi più splendido. In una parola: più Re. Alle sofferenze della cena, s‟aggiunsero per Luigi quelle dello spettacolo all‟aperto. Mentre il banchetto si prolungava, passeggiando nervosamente avanti e indietro al riparo dei tendaggi, Molière malediceva a sua volta il Sovrintendente: Les Facheux, la commedia che aveva preparato per l‟occasione, sarebbe dovuta iniziare già da due ore. Ora invece la luce del giorno scemava. Alla fine entrò in scena sotto lo scudo blu e verde dell‟ultimo tramonto, mentre a levante le prime stelle già punteggiavano la volta del cielo. Anche qui fu meraviglia: sul proscenio apparve una conchiglia, le valve s‟apersero, e una danzatrice, dolcissima Naiade, si levò e fu allora come se tutta la Natura parlasse e gli alberi e le statue circostanti, mossi da forze sottilissime e divine, s‟appressassero alla ninfa per intonare con lei il più dolce dei carmi: l‟elogio del Re, con cui iniziava la commedia: Pour voir sur ces beaux lieux le plus grand roi du monde Mortels, je viens à vous de ma grotte profonde… Alla fine del sublime spettacolo vennero i fuochi artificiali preparati da quell‟italiano, Torelli, che a Parigi già chiamavano il Grande Stregone, in grazia delle meraviglie di lampi e di colori che lui solo sapeva con cotale sapienza agitare nella pentola nera e vuota del cielo. Alle due del mattino, forse ancora più tardi, il Re fece capire con un cenno ch‟era giunta l‟ora del congedo. Fouquet lo scorse fosco in volto: restò attonito, forse capì, sbiancò. Lo avvicinò, s‟inginocchiò e con un ampio gesto della mano gli offerse pubblicamente Vaux in dono. Il giovane Luigi non rispose. Salì in carrozza e gettò un ultimo sguardo al castello che si stagliava nell‟oscurità: fu allora che gli passò forse davanti agli occhi (c‟è chi lo giura) un‟immagine della Fronda, un confuso pomeriggio della propria infanzia, un‟immagine la cui origine non sapeva più se attribuire a racconti altrui o ai propri ricordi; una malcerta reminiscenza della notte in cui dovette strisciare fuori dalle mura di Parigi con la regina madre Anna, e il cardinal Mazzarino, le orecchie assordate dagli scoppi e dalle grida della folla, l‟odore acre del sangue e il tanfo della plebe nel naso, vergognandosi d‟essere Re, e disperando di poter un giorno tornare in città, nella sua città. O forse il Re (c‟è anche chi giura ciò), guardando i getti delle fontane di Vaux che s‟alzavano ancora belli e arroganti, e di cui sentiva lo scroscio mentre la carrozza s‟allontanava, si ricordò improvvisamente che a Versailles non c‟era neppure un goccio d‟acqua. “E poi cosa successe?” chiesi con un filo di voce, emozionato e confuso dalla narrazione dell‟abate. Passarono poche settimane, e il cappio si strinse rapidamente attorno al collo del Sovrintendente. Il Re finse di doversi recare a Nantes per far sentire in Bretagna il peso della propria autorità e per imporre qualche tributo che i bretoni non avevano

mostrato fretta di versare alle casse del Regno. Il Sovrintendente lo seguì senza nutrire preoccupazioni eccessive, giacché Nantes era la sua città d‟origine e molti suoi amici vi abitavano. Prima di partire però qualcuno comincia a suggerirgli di guardarsi le spalle: c‟è in atto una trama contro di lui, gli sussurrano gli amici più fedeli. Il Sovrintendente chiede udienza al Re, gli apre il suo cuore: gli chiede perdono se le casse della Corona soffrono, ma lui era stato fino a pochi mesi prima agli ordini di Mazzarino, e questo Luigi lo sa bene. Il Re fa mostra di comprendere perfettamente e lo tratta con la più assoluta considerazione, chiedendogli consiglio per ogni minima cosa e seguendo senza batter ciglio le sue indicazioni. Fouquet avverte però che qualcosa non va e s‟ammala: torna a soffrire delle febbri intermittenti che l‟avevano colpito nelle lunghe esposizioni al freddo umido, quando sorvegliava i cantieri di Vaux. Perde sempre più spesso il ristoro del sonno. Qualcuno lo vede piangere in silenzio, dietro una porta. Infine parte al seguito di Luigi, e alla fine di agosto raggiunge Nantes. Subito però è nuovamente costretto a letto dalla febbre. Il Re, che si è installato in un castello all‟altro capo della città, sembra perfino premuroso, lo fa visitare per avere notizie sulla sua salute. Seppure a fatica, Fouquet si rimette. Infine, il 5 settembre, giorno del compleanno del Sovrano, viene fatto convocare alle sette del mattino. Lavora col Re fino alle undici, e alla fine inaspettatamente il Sovrano lo trattiene ancora per discutere alcuni affari. Mentre finalmente Fouquet sta lasciando il castello, la sua carrozza viene fermata da un drappello di moschettieri. Un sottotenente moschettiere, tale D‟Artagnan, gli legge l‟ordine d‟arresto. Fouquet è incredulo: “Signore, siete certo che sia io che dovete arrestare?”. Senza dargli altro tempo, D‟Artagnan gli sequestra tutte le carte che ha con sé, perfino quelle che porta addosso. Sigillano tutto, e 10 caricano su un convoglio di carrozze reali che lo porta nel castello di Angers. Qui rimarrà tre mesi. “E poi?” “Non era che il primo passo sulla via del supplizio. Venne istruito il processo, che durò tre anni.” “Perché così a lungo?” “Il Sovrintendente si seppe difendere come nessun altro. Ma alla fine dovette soccombere. Il Re lo fece chiudere in perpetuo nella fortezza di Pinerolo, oltre le Alpi.” “E lì è morto?” “Da lì non si esce, se non per volontà del Re.” “Ma allora fu l‟invidia del Re a perdere Fouquet, perché non tollerava la sua magnificenza, e la festa…” “Non posso consentirti di parlare così” m‟interruppe “il giovane Re cominciava allora a posare gli occhi su tutte le varie parti dello Stato, e non con occhi indifferenti, ma con occhi da padrone. Soltanto allora capì che lui era il Re, ed era nato per esserlo. Ma ormai era tardi per aver soddisfazione di Mazzarino, il defunto patrigno-padrone dei suoi verdi anni, che gli aveva rifiutato tutto. Era invece rimasto Fouquet, l‟altro Sole, la cui sorte fu così segnata.” “Così il Re si è vendicato. E in più non gli erano piaciute le stoviglie d‟oro…” “Nessuno può dire che il Re voglia vendicarsi, perché egli è il più potente di tutti gli altri Principi d‟Europa, e a maggior ragione nessuno può dire che Sua Maestà Cristianissima sia invidiosa del Sovrintendente alle Finanze Reali, le quali appartengono infatti al Sovrano stesso, e a nessun altro.” Tacque di nuovo, ma capì egli stesso che la sua risposta non poteva bastare alla mia curiosità.

“In effetti” disse alla fine fissando l‟ultima luce diurna penetrare dalla finestra “non conosceresti la verità se ti tacessi del Serpente ch‟avvolse lo Scoiattolo nelle sue spire.” Infatti, se il Sovrintendente era lo Scoiattolo, a seguirne insidioso i passi c‟era un Serpente. Perché latinamente il viscido animale è detto colubra, e bizzarramente si compiaceva di questo appellativo il signor di Colbert, convinto che la similitudine con un rettile potesse (idea tanto erronea quanto rivelatrice) meglio fare lustro e magnifico il suo nome. “E davvero come una serpe dalle mille spire seppe condursi” disse l‟abate. “Perché il Serpente di cui tanto s‟era fidato lo Scoiattolo fu lo stesso che lo precipitò nell‟abisso.” All‟inizio Jean Baptiste Colbert, figlio d‟un ricco negoziante di stoffe, era signore di un bel nulla. “Anche se” ridacchiò Atto “si piccò poi d‟augusti natali facendosi fabbricare una falsa pietra tombale che spacciò per quella d‟un suo avo del 1200, e davanti alla quale faceva persino mostra d‟inginocchiarsi.” Di scadente istruzione, la fortuna gli era arrivata comunque presto sotto le spoglie d‟un cugino del padre, il cui aiuto gli aveva consentito di comprare una carica di funzionario al ministero della Guerra. Lì le sue doti adulatorie gli avevano permesso di conoscere e legarsi a Richelieu e poi, dopo la morte del Cardinale, di divenire segretario di Michel Le Tellier, il potente segretario di Stato alla Guerra. Nel frattempo a Richelieu s‟era sostituita la figura, assai meno gradita a Colbert, d‟un Cardinale italiano molto vicino alla Regina madre, Giulio Mazzarino. E con lui Colbert non pareva intendersi molto. “Intanto però, grazie ai soldi della mercatura, s‟era comprato un titoletto nobiliare. E se avesse avuto bisogno d‟altri denari, a risolvere il problema arrivò intanto il matrimonio con Marie Charron e soprattutto con le sue centomila livres di dote” aggiunse l‟abate Melani con un‟ulteriore punta di astio. “Ma a far la sua vera fortuna” riprese “fu la disgrazia del Re.” Nel 1650 infatti la Fronda, iniziata due anni prima, era arrivata al suo apice e il Sovrano, la Regina e il cardinal Mazzarino dovettero fuggire da Parigi. “Il problema maggiore per lo Stato non era certo l‟assenza del Re, ch‟era ancora un fanciullo dodicenne, né quella della Regina madre, che era soprattutto l‟amante del Cardinale, ma quella di Mazzarino.” A chi affidare, infatti, gli affari e i segreti di Stato che il Cardinale manovrava tanto abilmente quanto oscuramente? Egli e Colbert non s‟erano amati affatto a prima vista: il primo appariva al secondo, se comparato a Richelieu, troppo ondivago e introverso, talvolta troppo accomodante e sovente irresoluto. Viceversa Colbert, glaciale e distante ancorché di buone maniere, non poteva certo conquistare le simpatie di Mazzarino senza fare qualche sforzo. Mise così in campo tutte le proprie qualità di zelante esecutore: si faceva trovare in ufficio alle cinque del mattino, manteneva l‟ordine più assoluto e non intraprendeva mai nulla d‟importante di propria iniziativa. Tutto questo, là dove Fouquet lavorava invece a casa propria ed era una fucina d‟idee, nel caos più assoluto di carte e documenti. Così nel 1651 il Cardinale, che cominciava a sentirsi minacciato dall‟intraprendenza di Fouquet, scelse proprio Colbert per curare i suoi affari. Tanto

più che quest‟ultimo si era dimostrato assai aduso alla corrispondenza in cifra. Colbert servì Mazzarino non solo finché questi rientrò trionfalmente a Parigi con Luigi e Anna d‟Austria, alla fine della Fronda, ma fino alla morte del Cardinale. “Gli affidò perfino l‟amministrazione dei suoi beni” disse l‟abate con un sospiro che esprimeva tutto il rammarico per aver visto tanta fiducia riposta nella persona sbagliata. “Gli insegnò tutta l‟arte che il Serpente, da solo, non avrebbe mai potuto coltivare con le sue forze. Il Serpente, invece di essergli grato, si fece pagar bene. E ottenne favori per sé e la sua famiglia” disse sfregando il pollice e l‟indice per indicare volgarmente il denaro. “Riusciva ad avere udienza dalla Regina quasi ogni giorno. A vederlo, era l‟esatto contrario di Nicolas: tozzo, il viso largo e marcato, l‟incarnato giallognolo, i capelli corvini lunghi e radi sotto la calotta, lo sguardo avido, la palpebra semicalata, i baffetti affilati come fruste sul labbro sottile e assai poco incline al sorriso. Il carattere glaciale, spinoso e recondito lo avrebbe reso temibile se non fosse stato per la sua ridicola ignoranza, malamente camuffata sotto citazioni latine fuori luogo che ripeteva a pappagallo, dopo averle apprese da giovani collaboratori appositamente arruolati. Divenne uno zimbello e fu ancor meno amato, tanto che madame de Sévigné lo chiamò ”il Nord“, come il punto cardinale più gelido e sgradevole.” Evitai di chiedere a Melani perché dal suo racconto trasparisse tanta avversione per Colbert e non invece per Mazzarino, che a Colbert sembrava essersi così strettamente legato. Conoscevo già la risposta: non avevo forse sentito dire da Devizé, Cristofano e Stilone Priàso, che il castrato Atto Melani era stato sin da giovanissimo aiutato e protetto dal Cardinale? “Colbert e il Sovrintendente Fouquet erano amici?” azzardai invece. Esitò un istante prima di rispondere. “Si conobbero ai tempi della Fronda, e all‟inizio s‟amarono a sufficienza. Durante i tumulti Fouquet si comportò come il migliore dei sudditi, e Colbert lo adulò, rendendogli i propri servigi quando Fouquet divenne Procuratore Generale di Parigi, carica che accumulò con quella di Sovrintendente alle Finanze. Ma non durò molto: Colbert non poteva sopportare che la stella di Fouquet risplendesse così alta e chiara. Come perdonare allo Scoiattolo la celebrità, la fortuna, il fascino, il lavoro agile e lo spirito pronto (mentre Colbert sudava duro per farsi venire buone idee), e infine la fastosa biblioteca di cui egli, incolto, non avrebbe neanche saputo servirsi? Il Serpente si finse dunque ragno e mise mano alla tela.” I risultati dei maneggi di Colbert arrivarono presto. Dapprima instillò il veleno della diffidenza in Mazzarino, poi nel Re. Il Regno usciva allora da decenni di guerra e di povertà, e non fu difficile falsificare le carte per accusare il Sovrintendente d‟aver accumulato ricchezze alle spalle del Sovrano. “Fouquet era molto ricco?” “Non lo era affatto, ma lo doveva sembrare per ragioni di Stato: solo in tal modo poteva ottenere sempre nuovi crediti e soddisfare così le pressanti richieste di denaro da parte di Mazzarino. Il Cardinale, lui sì, era ricchissimo. Eppure il Re lesse il suo testamento, poco prima della morte di questi, e non ebbe niente da ridire.” Non era però questa, spiegò Atto, la vera questione per Colbert. Una volta morto il Cardinale, si doveva decidere chi avrebbe preso il suo posto. Fouquet aveva abbellito il Regno, gli aveva dato la gloria, s‟era profuso giorno

e notte per esaudire le pretese di nuove entrate: si pensava a ragione che toccasse a lui. “Ma quando venne chiesto al giovane Re chi fosse il successore di Mazzarino, egli rispose: ”C‟est moi“. Non c‟era più posto per un prim‟attore oltre al Sovrano, e Fouquet era di stoffa troppo raffinata per fare il secondo. Colbert invece era perfetto nel ruolo di leccapiedi: era assetato di potere, fin troppo simile al Re nel prendersi sul serio, e proprio per questo non sbagliò una mossa. Luigi XIV ci cadde in pieno.” “Allora è per l‟invidia di Colbert che Fouquet venne perseguitato.” “Ma è chiaro. Durante il processo, il Serpente si coprì di vergogna: subornò giudici, falsificò documenti, minacciò e ricattò. A Fouquet non restarono che l‟eroica difesa di La Fontaine, la perorazione di Corneille, le coraggiose lettere che i suoi amici inviarono al Re, la solidarietà e l‟amicizia delle nobildonne e, tra il popolo, la fama d‟eroe. Solo Molière, vile, tacque.” “E voi?” “Be‟, io non ero a Parigi e potei fare ben poco. Ora però è bene che tu mi lasci. Sento che gli altri pigionanti stanno scendendo per la cena, e non voglio attirare l‟attenzione del nostro ladro: deve credere che nessuno sia all‟erta.” In cucina, vista l‟ora tarda e gli altri pigionanti già da molto in attesa, non potei fare di meglio che distribuire gli avanzi del pranzo con l‟aggiunta di qualche uovo e un poco di scaro- letta bianca. Certo, ero solo un piccolo garzone d‟alcuna esperienza ai fornelli: non potevo competere con la maestria del mio padrone, e i pigionanti cominciavano ad accorgersene. Durante il pasto non notai alcunché d‟insolito. Brenozzi, col suo roseo visino da Bambinello, continuava a pizzicarsi il raperonzolo tra gl‟inguini, osservato gravemente dal medico che si stringeva con una mano la nera barbetta a pizzo sul mento. Stilone Priàso, nell‟ispido e nigro cipiglio gufesco, era sempre preda dei suoi molteplici automatismi: sfregarsi la gobba del naso, pulirsi i polpastrelli, scrollare un braccio come per far scendere una manica, allontanare la camicia dal collo, passarsi le palme delle mani sulle tempie. Devizé frattanto, com‟era sua abitudine a tavola, si nutriva rumorosamente, e quasi soverchiava l‟inarrestabile loquela vanamente dispersa da Bedfordi all‟indirizzo di Dulcibeni, sempre più impenetrabile, e di padre Robleda, che annuiva all‟inglese con occhio vacuo. L‟abate Melani consumò il pasto in completo silenzio, sollevando solo a tratti lo sguardo. Si alzò un paio di volte, preda d‟una scarica di starnuti, per portarsi al naso un fazzoletto di pizzo. Quando il pasto era ormai al termine e già tutti s‟apprestavano a rientrare nelle loro stanze, Stilone Priàso ricordò al medico la sua promessa di chiarirci le idee su quante speranze avevamo d‟uscire vivi dalla quarantena. Cristofano non si fece pregare e, di fronte al piccolo uditorio, cominciò una dottissima dissertazione in cui spiegò, con abbondanza d‟esempi tratti dalle opere degli Autori antichi e moderni, in quale modo si produca il contagio pestifero: “Posto che la prima cagione per la quale giunge al mondo il contagio di peste sia la volontà divina e che non esiste rimedio migliore della preghiera, dovete sapere ch‟essa procede dalla corruzione dei quattro elementi, aria acqua terra e fuoco, che entrano attraverso l‟aere nel naso e nella bocca: per altro luogo infatti la peste non può entrare nel corpo. D‟estate, com‟è il nostro caso, si ha la corruzione del fuoco o calor naturale: il morbo che da essa procede dà febbri, dolori di testa e tutto quanto v‟ho

già spiegato prima al capezzale di Pellegrino. Il morto, poi, diventa subito negro e caldissimo. Per evitare un tale eccesso occorre tagliar le giandusse appena mature, e porre impiastri sulle ferite. In inverno, invece, si rischia la peste che viene dalla corruzione della terra, che quindi causa giandusse simili a quei tuberi che durante la stagione fredda riposano nelle viscere del terreno. E son bubboni, questi, da far maturare con unguenti caldi. In primavera e in autunno, invece, quando le acque sono più abbondanti, la peste procede dalla corruzione appunto dell‟acqua, causata a volte anche dai Pianeti celesti, e fa giandusse acquose che, rotte, si sanano con gran prestezza. La cura consiste allora nel far uscire l‟acqua velenosa con purghe, balsami e sciroppi. Comunque, è sempre l‟aere cattivo a far la parte maggiore nel diffondersi del contagio. L‟aria entra in tutto, perché non datur vacuum in natura. Per questo è bene porre delle fiaccole agli angoli delle strade. La fiamma purifica: con essa s‟affina l‟oro, si purifica l‟argento, si purga il ferro, si liquefanno i metalli, calcinansi le pietre vive, cocinansi le vivande, scaldansi le cose fredde e disseccansi le cose umide. La fiamma, dunque, purificherà anche l‟aere dalla corruzione e malignità sua. È un rimedio da seguire specie nelle città, che sono più atte a ricever corruzione rispetto alle campagne che sono aperte”. “Siamo nel posto peggiore, allora, qui al centro dei borghi romani” intervenni con orrore. “Purtroppo. A mio modesto parere” enunciò Cristofano con in verità assai scarsa modestia “la causa dell‟aria cattiva di alcune città, come Roma, procede anzitutto dall‟esser dispopolate. Infatti Roma, città santa e antichissima e dominatrice di tutto l‟universo, nel tempo che trionfava e accoglieva gente d‟ogni nazione, godeva dell‟aere migliore e più salutifero. Oggi invece respiriamo in essa, ormai dispopolata dalle guerre, un‟aria corrottissima. Lo stesso si dica di Terracina, di Romana Cervetro, della città in spiaggia di Nettuno, come anche di Baia nel Regno di Napoli, Avernia, Dignano, e la gran città di Como, che già furono tanto famose e vi abitavano tante genti ch‟era cosa di stupore: oggi sono così rovinate in tutto e di aria così trista che le genti non vi possono abitare. Al contrario, a Napoli e Trapani, che per il cattivo aere non vi si poteva stare, ora che son floride e ben coltivate l‟aria è perfetta. Questo anche perché nelle terre selvatiche crescono erbe velenose e animali tossicosi, e l‟uno e l‟altro attossicano le genti. Insomma, anche qui a Roma era ragionevole nutrire timori. Pur se l‟ultima epidemia di peste risale al 1656, ben ventisette anni fa. Se è veramente peste, a noi è toccata la mala sorte d‟aprirle le porte questa volta.” Restammo in silenzio per qualche istante, meditando le parole che il medico aveva con tanta gravità dispensato al suo magro uditorio. Atto riprese la parola: “Come si trasmette?”. “Attraverso gli odori, facillime. Ma anche tramite oggetti pelosi come coperte o pellicce, che per questo andranno bruciati. Gli atomi impuri, secondo alcuni Autori, vi s‟abbarbicano con forza, per poi lasciarsi cadere più tardi” rispose Cristofano con ovvietà. “Quindi i vestiti del signor Pellegrino ci avrebbero potuto infettare” dissi reprimendo un accesso di panico.

“Se posso essere più chiaro” rispose smorzando lievemente il tono di supponenza “non sono del tutto certo che le cose stiano davvero così. In realtà, nessuno sa con certezza come si propaghi il morbo. Conobbi a Palermo uno speziale vecchissimo, d‟ottantasette anni, Giannuccio Spatafora, di grandissima dottrina ed esperienza. Mi disse che le epidemie di peste che attaccavano la città erano senza spiegazione: l‟aria di Palermo era buonissima, al riparo dai venti di Ostro e di Scirocco, che molto nuocciono alla salute e alla fertilità dei Paesi, e gonfiano gli uomini generando una certa specie di febbri continue che ammazzano in gran quantità. Eppure, la peste a Palermo era di così rea qualità che, stordita appena la testa, faceva cader a terra e morire subito dopo. E dopo morti si diventava negri e caldissimi.” “Insomma, nessuno sa veramente come si diffonda il contagio” lo incalzò Atto. “Posso dire che molte epidemie sono sicuramente iniziate a causa di qualche malato che portava l‟infezione da una zona infetta” rispose Cristofano. “Qui a Roma per esempio, nell‟ultima epidemia, neanche trent‟anni fa, si disse che il morbo era arrivato da Napoli, portato da un ignaro pescivendolo. Ma mio padre, che fu Provveditore alla Sanità nella grande peste di Prato del 1630 e si prese cura di molti appestati, molti anni dopo mi confidò che la natura del male è misteriosa, e che nessuno degli antichi Autori l‟aveva saputa penetrare.” “E aveva ragione.” Ci colse di sorpresa la voce aspra e severa di Pompeo Dulcibeni, l‟anziano viaggiatore che accompagnava Mourai. Esordì con tono sommesso: “Un dottissimo uomo di Chiesa e di Scienza ha mostrato la strada su cui procedere. Ma purtroppo non è stato ascoltato”. “Un uomo di Chiesa e di Scienza. Lasciatemi indovinare: padre Athanasius Kircher, magari” azzardò il medico. Dulcibeni non rispose, lasciando intuire che il medico aveva indovinato, e scandì: “Aerem, acquarti, terram innumerabilibus insectis scatere, adeo certum est”. “Sta dicendo che la terra, l‟aria e le acque pullulano di minuscoli esseri invisibili a occhio nudo” tradusse Cristofano. “Ebbene” riprese Dulcibeni “questi esseri minuscoli provengono dagli organismi in putrefazione, ma lo si è potuto osservare solo dopo l‟invenzione del microscopio, e quindi…” “Lo conoscono così in tanti, quel gesuita tedesco” lo interruppe Cristofano con una punta di scherno “che il signor Dulcibeni a quanto pare lo cita perfino a memoria.” A me, per la verità, il nome di Kircher non diceva proprio nulla. Ma che fosse conosciuto doveva esser vero: a sentire il nome di padre Athanasius Kircher, l‟intero uditorio aveva fatto cenni di assenso. “Le idee di Kircher però” continuava intanto Cristofano “non hanno ancora soppiantato quelle dei grandi Autori, i quali invece…” “Forse le dottrine di Kircher possono avere qualche fondamento, ma solo la sensazione può essere base solida e affidabile per la nostra conoscenza.” S‟era interposto stavolta il signor Bedfordi. Il giovane inglese, che sembrava essersi liberato dal terrore della sera prima, aveva ripreso l‟abituale spocchia. “La stessa causa infatti“ proseguì ”può in diversi casi produrre effetti opposti. Non è forse la stessa acqua bollente a indurire l‟uovo e ad ammollare la carne?“ ”So benissimo“ sibilò aspramente Cristofano ”chi mette in giro questi sofismi: il signor

Locke e il suo compare Sidenamio, che sapranno anche tutto dei sensi e dell‟intelletto, ma a Londra pretendono di curare i malati senza essere medici!“ ”E allora? A loro interessa curare“ ribatté Bedfordi ”e non raccattare pazienti con le chiacchiere, come fanno certi medici. Vent‟anni fa, mentre la peste a Napoli faceva ventimila morti al giorno, medici e speziali napoletani venivano a Londra a vendere i loro metodi segreti contro il contagio. Bella roba: fogli da appendere al petto col segno dei gesuiti i.h.s. tracciato dentro una croce; o il famoso cartello, da appendere al collo con la scritta: ABRACADABRA ABRACADABR ABRACADAB ABRACADA ABRACAD ABRACA ABRAC ABRA ABR AB A A questo punto il giovane inglese, ravviatosi con vanità la rossa chioma e appuntando sull‟uditorio (tranne me cui non badava affatto) i glauchi occhietti strabici, s‟alzò e s‟appoggiò al muro concedendosi un più tranquillo discorrere. Gli angoli delle strade e i pali delle case, narrava, erano ricoperti d‟avvisi di medicastri in cui s‟invitava la gente a comprare “infallibili pillole”, “impareggiabili pozioni”, “antidoti regali” e “acque universali” contro la peste. “E quando non truffavano con queste idiozie” proseguì Bedfordi “spacciavano pozioni a base di mercurio, che avvelenavano il sangue e ammazzavano peggio della peste.” Proprio quest‟ultimo intervento dell‟inglese ebbe su Cristofano l‟effetto d‟una miccia, e riaccese violentemente la disputa tra i due. In quel momento anche padre Robleda s‟unì alla discussione. Dopo aver emesso a mezza bocca inintelligibili borbottii di commento, il gesuita avanzò per prendere le difese di padre Kircher, suo confratello. Ma le reazioni non si fecero attendere e ne scaturì un‟indecorosa lite, in cui ognuno cercava d‟imporre i propri argomenti assai più con la forza della voce che con quella del ragionamento. Era la prima volta, nella mia povera vita di garzone, che assistevo a una così dotta tenzone, pur essendo assai sorpreso e deluso dalla litigiosità dei partecipanti.

Ne ricavai comunque le prime informazioni sulle teorie di quel misterioso Kircher, che non poteva non suscitare curiosità. Nel giro di mezzo secolo di studio indefesso, il dottissimo gesuita aveva riversato la sua multiforme dottrina in oltre trenta magnifiche opere sui più svariati argomenti, tra cui anche un trattato sulla peste, lo Scrutinium phisico-medicum contagiosae luis quae pestis dicitur, pubblicato ormai venticinque anni prima. Lo scienziato gesuita sosteneva d‟aver fatto con il suo microscopio grandi scoperte, di fronte alle quali il lettore sarebbe forse rimasto incredulo (come infatti poi era avvenuto), ma che comprovavano l‟esistenza di esserini invisibili, che a suo dire erano causa del contagio pestifero. Secondo Robleda, a sostenere la scienza del padre Kircher c‟erano facoltà degne di un veggente, o comunque ispirate dall‟Alto. E se questo strano padre Kircher, pensai, avesse saputo davvero come guarire dalla peste? Ma visto il clima rovente, non osai far domande. Attento come e più di me alle notizie sul padre Kircher era stato per tutto il tempo l‟abate Melani. Costretto a sfregarsi ripetutamente il naso nel vano tentativo di reprimere alcuni sonori starnuti, non aveva più interloquito, ma i suoi occhietti aguzzi

s‟appuntavano lesti alle bocche che rimpallavano l‟una all‟altra il nome del gesuita tedesco. Io, da parte mia, ero al contempo terrorizzato dall‟incombente pericolo della peste e affascinato da quelle dotte teorie sul contagio, di cui allora per la prima volta apprendevo l‟esistenza. Per questo non venni insospettito (mentre invece avrei dovuto) dal fatto che Dulcibeni conoscesse così bene la vecchia e dimenticata teoria di Kircher sulla peste. E non notai come Atto avesse drizzato le orecchie quando era stato fatto il nome di Kircher. Dopo ore di discussione, buona parte dei pigionanti – ormai sopraffatta dalla noia – era lentamente sciamata verso il proprio letto, lasciando soli i litiganti. E di lì a poco, senza il sollievo d‟una pacificazione, ce ne andammo tutti a dormire.

Nottata seconda TRA IL 12 E IL 13 SETTEMBRE 1683

Appena rientrato nella mia stanza, mi sporsi dalla finestra e, tramite una canna, allungai fin davanti alla finestra di Atto un capo della cordicella che avremmo dovuto tirare per dare l‟allarme. Mi sdraiai sul letto, tenendo la porta semiaperta e le orecchie ben diritte, pur timoroso di non poter resistere per molto al sonno. Mi disposi tuttavia all‟attesa, anche perché nel letto di fronte a me giaceva semicosciente il mio povero padrone, e Cristofano s‟era raccomandato di tenerlo d‟occhio. Gli sistemai alcuni panni vecchi nelle brache, per assorbire eventuali minzioni, spensi il lume e iniziai la veglia. Il racconto dell‟abate Melani, pensai, m‟aveva in parte tranquillizzato. Aveva ammesso senza difficoltà l‟amicizia con Fouquet. E aveva chiarito perché mai il Sovrintendente fosse caduto in disgrazia: più che il disappunto del Re Cristianissimo, era stata l‟invidia di Colbert. Chiunque conosce la forza maligna dell‟invidia: non potevano esser dovute a essa anche le chiacchiere di Devizé, Stilone Priàso e Cristofano sul conto dell‟abate? Forse l‟ascesa del figliuolo d‟un campanaio, che da povero castrato qual era in gioventù, era giunto ora a dispensare consigli al Re Sole, aveva suscitato troppe gelosie. Certo, i tre avevano mostrato di conoscerlo e i loro discorsi non potevano essere frutto di fantasia. Tuttavia l‟ostilità di Cristofano poteva ben essere dovuta all‟invidia di un conterraneo: nemo propheta in patria dice il Vangelo. Che pensare poi della strana menzogna di Devizé? Aveva raccontato di aver visitato a Venezia il teatro del Cocomero, che invece si trovava a Firenze. Dovevo dunque guardarmi anche da lui? Il racconto di Atto comunque era non solo credibile, ma anche grandioso e straziante. Sentii prorompere nel mio petto l‟amaro pentimento per averlo creduto un furfante, un dissimulatore pronto a tradire e a mentire. Ero stato io a tradire, in realtà,

il sentimento d‟amicizia che s‟era sprigionato durante la nostra prima conversazione nella cucina, e che avevo avvertito genuino e veridico. Gettai un‟occhiata al mio padrone, che sembrava dormire da molte ore un sonno pesante e innaturale. Troppi erano i misteri da sciogliere: cos‟aveva ridotto il mio padrone in quello stato? E prima di lui, di cos‟era stato vittima il signor di Mou- rai? E infine, cos‟aveva indotto Brenozzi a regalarmi le preziose perline, e perché poi m‟erano state trafugate? La mia mente era ancora pervasa da tali assilli, quando mi svegliai: senza neppure rendermene conto, m‟ero assopito. Era stato uno scricchiolio a destarmi: mi levai di soprassalto, ma immediatamente una forza oscura e sleale mi fece precipitare a terra, dove a malapena riuscii a evitare d‟essere sbattuto con violenza. Imprecai: avevo dimenticato la cordicella che collegava la mia caviglia destra a quella dell‟abate Melani. Alzandomi v‟ero inciampato, e cadendo avevo provocato uno strepito che aveva quasi avuto l‟effetto di destare il mio padrone, il quale infatti mugolò sommessamente. Eravamo al buio: forse a causa della mancanza d‟olio, il mio lume si era spento. Tesi le orecchie: nel corridoio non v‟era più rumore di sorta. Non appena mi rialzai, cercando a tastoni il bordo del letto, udii però nuovamente uno scricchiolio, seguito da un mezzo tonfo, un tramestio metallico e poi da un altro scricchiolio. Il cuore mi batteva forte: era certamente il ladro. Mi liberai del lacciuolo che m‟aveva fatto cadere, cercai alla cieca il lume che si trovava sul tavolo nel mezzo della stanza, ma senza successo. Vincendo a fatica la paura, decisi allora di uscire dalla camera per intercettare il ladro, o almeno per indovinarne l‟identità. M‟immersi nel buio del corridoio, senza aver idea di come comportarmi. A fatica percorsi in discesa la rampa che mi separava dallo stanzino. Se mi fossi trovato a tu per tu con il misterioso individuo l‟avrei aggredito, ovvero avrei chiamato aiuto? Senza sapere perché, m‟abbassai e cercai di avvicinarmi alla porta dello stanzino, tendendo le mani di fronte a me a difesa del volto e a esplorazione dell‟ignoto. Il colpo arrivò crudele e improvviso. Qualcuno, o qualcosa, mi aveva offeso la guancia, lasciandomi dolorante e confuso. Preda del terrore, cercai di sottrarmi a un secondo fendente arretrando verso il muro e urlando. La mia angoscia divenne insopportabile non appena scoprii che dalla mia bocca non proveniva alcun suono: a tal punto il panico mi stritolava l‟ugola e i polmoni. Stavo per rotolarmi disperatamente a terra pur di sfuggire all‟ignoto nemico, gemendo come un vitello prima del sacrificio, quando una mano mi strinse il braccio con decisione, e al contempo udii: “Cosa fai, sciocco?”. Era al di là di ogni dubbio la voce di Atto, accorso dopo aver avvertito la corda tendersi quando io, allarmato dallo scricchiolio sospetto, m‟ero alzato all‟improvviso. Gli spiegai l‟accaduto, lagnandomi per il colpo ricevuto al viso. “Quello non era un colpo, ero io che correvo ad aiutarti, mentre tu ti sei precipitato giù dalle scale come un babbeo e ti sei scontrato con me” mi bisbigliò soffocando l‟ira. “Dov‟è il ladro?” “Io veramente tranne voi non ho visto nessuno” sussurrai ancora tremante.

“Io invece sì. Mentre salivo ho sentito sferragliare le sue chiavi. Dev‟essere entrato nello stanzino” disse accendendo un lume che aveva avuto l‟accortezza di portare con sé. Scorgemmo dall‟alto una lama di fioca luce sotto la porta di Stilone Priàso, sul lato destro del corridoio del secondo piano. L‟abate m‟invitò ad abbassare la voce e m‟indicò l‟uscio del piccolo andito in cui supponeva che il ladro si fosse infilato. La porticina era socchiusa. All‟interno, il buio. Ci guardammo e trattenemmo il fiato. Il nostro uomo doveva trovarsi lì dentro, consapevole di essere ormai in trappola. L‟abate esitò un momento, e poi aperse con decisione la porticina. All‟interno, nessuno. “Non è possibile” disse Melani visibilmente deluso. “Se fosse scappato giù per le scale si sarebbe imbattuto in me. In su, anche se fosse riuscito a superarti, non vi sono altre possibilità di fuga: la porta che dal torrino di Cloridia dà sui tetti è stata sigillata dall‟esterno. Se poi avesse aperto l‟uscio di una delle altre stanze l‟avremmo senz‟altro udito.” Eravamo al colmo dello sconcerto. Stavamo quasi per battere in ritirata, quando Atto mi fece cenno di restare sul posto e si avviò rapido giù per la rampa di scale. Seguii il suo lume a olio con lo sguardo e lo vidi sostare alla finestra che dal corridoio del secondo piano dava sul cortile interno. Appoggiò il lume per terra e lo intravidi sporsi alquanto dal davanzale. Rimase così per un po‟. Incuriositomi, m‟avvicinai anch‟io alla piccola grata della finestrella che di giorno illuminava lo stanzino. Ma era troppo in alto per me, e non vidi altro se non una notte illuminata da una fioca luna. Tornato nello stanzino, l‟abate si chinò sul pavimento e ne misurò a palmi la lunghezza, arrivando a infilarsi fin sotto lo scaffale degli attrezzi a ridosso della parete in fondo. Ristette a pensare un attimo, indi ripeté l‟operazione considerando stavolta anche lo spessore delle mura. Indi prese la distanza tra la finestrella e il muro di fondo. Quando finalmente si scrollò le mani dalla polvere, m‟afferrò senza proferir verbo e, issatomi di peso su uno sgabello e messami sulla testa la lanterna, che dovevo così reggere con le mani, mi pose davanti alla grata: “Non ti muovere!” m‟ingiunse puntandomi il dito sul naso. Lo sentii ridiscendere a tastoni fino alla finestra del secondo piano. Quando infine fu tornato su e mi guardò, ero impaziente di partecipare alle sue riflessioni. “Seguimi bene. Il ripostiglio è lungo poco oltre otto palmi, vale a dire che è alquanto angusto. Si arriverà forse a dieci palmi, se si aggiungono le mura. Come si può ben vedere dal cortile, la piccola ala cui appartiene questo stanzino è stata costruita in un secondo tempo rispetto alla locanda. Essa, infatti, appare dall‟esterno come un gran pilastro che da terra corre fin quassù, attaccato allo spigolo posteriore del muro occidentale dell‟edificio. Solo, c‟è qualcosa che non torna: il pilastro è ampio almeno il doppio dello stanzino. Questa finestrella, come vedi, è vicinissima allo scaffale, a non più di un paio di palmi dalla fine dello stanzino. Quindi, anche vista da fuori, avrebbe dovuto risultare in prossimità dello spigolo esterno dell‟ala. Ma, quando là sotto dal corridoio del secondo piano mi sono affacciato, ho visto che la finestrella, illuminata dal lume da te sorretto, non era neanche alla metà della parete in cui è stata ricavata.” L‟abate s‟arrestò, attendendosi forse che arrivassi io alle conclusioni. Ma non ci avevo capito un‟acca, soffocato com‟ero nella testa da

figure geometriche ammucchiate le une sulle altre e richiamate a frotte dallo stringente ragionamento di Atto. Così proseguì: “Perché tutto questo spazio sprecato? Perché nessuno ha rubato un po‟ di spazio a vantaggio dello stanzino, tanto angusto che non ce la facciamo a starci in due senza sfiorarci?”. Andai anch‟io ad affacciarmi alla finestra del secondo piano, felice anzitutto di prendere una boccata dell‟aria fresca notturna. Sgranai gli occhi. Era vero. Il chiarore del lume a olio che intravedevo dalla grata dello stanzino era curiosamente lontano dallo spigolo esterno, evidenziato dal riverbero lunare. Non vi avevo mai fatto caso, troppo indaffarato il giorno e troppo stanco la notte, per poltrire al davanzale. “E sai qual è la spiegazione, ragazzo?” mi prevenne l‟abate Melani appena risalii da lui. Senza attendere la mia risposta, infilò le braccia nello scaffale degli attrezzi appoggiato alla parete in fondo, e cominciò a tastare avidamente il muro retrostante. Sbuffando, mi chiese di aiutarlo a spostare il mobile. L‟operazione non fu troppo difficile. L‟abate sembrò non essere affatto sorpreso dalla rivelazione che si parò di fronte ai nostri occhi: semi-celato dalla sporcizia che il tempo aveva irriguardosamente asperso sulla parete, emergeva il profilo d‟una porta. “Eccoti qui” esclamò soddisfatto. E senza paura diede una spinta alle vecchie assi, che cigolarono. La prima cosa che avvertii fu una corrente umida e fredda che mi alitava sul viso. Davanti ai nostri occhi s‟era aperta una cavità nerastra. “E andato lì dentro” conclusi con ovvietà. “Pare proprio di sì” rispose l‟abate spingendo in avanti il naso con diffidenza. “Questo maledetto stanzino aveva un doppio fondo. Vuoi entrare per primo?” Il mio silenzio parlò da solo. “E va bene” concesse Atto, infilando il lume per poter farsi strada. “Tocca sempre a me risolvere tutto.” Non aveva ancora finito di parlare che lo vidi aggrapparsi disperatamente alla vecchia porta che avevamo appena varcato, trascinato in giù da una forza irresistibile. “Aiutami, presto” invocò. Un pozzo: Melani stava per precipitarvi, con conseguenze sicuramente fatali. Era riuscito a malapena ad aggrapparsi allo stipite e a lasciar penzolare le gambe nell‟oscurità vorace che si apriva sotto di noi. Quando si fu rialzato, grazie al mio pur debole sostegno, eravamo al buio: il lume, sfuggendo di mano all‟abate, era stato ingoiato dal buco nero. Ne andai quindi a prendere un altro nella mia stanza, che ebbi cura di chiudere a chiave. Pellegrino dormiva tranquillo e fortunatamente ignaro, pensai, di quanto si agitava nella sua locanda. Quando tornai, Atto si stava già calando nella cavità. Si mostrava particolarmente agile per la sua età. Come avrei avuto modo di notare anche in seguito, possedeva una sorta di controllato ma fluido vigore dei nervi, che lo sorreggeva costantemente nel corpo.

Non si trattava propriamente d‟un pozzo, mi mostrò brandendo il lume, giacché nella pietra era infissa una serie di sostegni in ferro, a mo‟ di gradini, che rendeva possibile una cauta discesa. Ci calammo lentamente nel pertugio verticale, non senza timore. Durò poco: ben presto ci trovammo in piedi su un rozzo basamento di mattoni. Ci guardammo attorno, puntando la lanterna, e scoprimmo che il percorso non s‟era interrotto, ma proseguiva su uno dei lati corti del pianerottolo con una scala in pietra a pianta quadrata. Ci sporgemmo, per cercare d‟individuarne, invano, la fine. “Siamo sotto lo stanzino, ragazzo.” Accennai un flebile mugugno di commento, visto che la cosa non m‟era punto di consolazione. Proseguimmo in silenzio. Stavolta la discesa sembrava non aver mai fine, anche a causa di una sottile pellicola melmosa che avvolgeva ogni cosa e rendeva il cammino assai periglioso. A un certo punto la scala mutò completamente aspetto: ricavata nel tufo, divenne strettissima e alquanto sconnessa. L‟aria s‟era fatta pesante, segno inequivocabile che eravamo nel sottosuolo. Continuammo a scendere, finché ci trovammo in una galleria buia e ostile scavata nell‟umida terra. Unici nostri compagni, l‟aria pesante e il silenzio. Avevo paura. “Ecco dov‟è andato il nostro ladro” sussurrò l‟abate Melani. “Perché parlate così piano?” “Potrebbe essere qui vicino. Voglio essere io a sorprenderlo, e non il contrario.” Invece il ladro non era a pochi passi di distanza, né più oltre. Ci incamminammo per la galleria, in cui l‟abate Melani era costretto a procedere a testa china a causa del soffitto, se così lo si poteva chiamare, assai basso e irregolare. M‟osservò andar spedito innanzi a lui: “Per una volta t‟invidio, ragazzo”. Procedevamo con grande lentezza su un sentiero reso occasionalmente compatto solo da pietre e mattoni disposti capricciosamente. Proseguimmo per alcune decine di metri, durante i quali fu lo stesso abate a rispondere alla mia muta ma prevedibile curiosità. “Questo passaggio dev‟essere stato costruito per permettere di emergere, non visti, in qualche punto remoto della città.” “In tempo di peste, forse?” “Credo molto, molto prima. La sua utilità non sarà venuta mai a mancare in una città come questa. Forse è servito a qualche Principe romano per scatenare i suoi bravi contro qualche rivale. Le famiglie romane si sono sempre odiate e combattute con tutte le forze. Quando i Lanzichenecchi saccheggiarono Roma, alcune casate li aiutarono a depredare la città, purché colpissero i loro rivali. È possibile che il nostro albergo sia servito in origine come quartiere per gruppi di sicari e tagliagole. Magari al soldo degli Orsini, che possiedono molte case nelle vicinanze.” “Ma chi ha costruito il sotterraneo?” “Osserva le pareti” l‟abate accostò il lume al muro. “Sono in pietra di aspetto alquanto antico.” “Antico come le catacombe?” “Forse. So che nei decenni passati un dotto sacerdote ha esplorato le cavità che si trovano in alcuni luoghi di Roma, e ha scoperto e disegnato innumerevoli pitture, tombe e resti di Santi e Martiri. In ogni caso è certo che sotto le case e le piazze di alcuni quartieri vi sono passaggi e gallerie, a volte costruiti dagli antichi Romani, a volte invece scavati in tempi a noi più vicini.” Incamminandoci per gli angusti passaggi, nonostante la nostra perigliosa condizione, l‟abate non pareva voler rinunciare alla sua passione per i racconti. E, in un flautato bisbiglio, aggiunse che l‟Italia abbonda da tempi remotissimi di passaggi

segreti scavati nella roccia o nella terra, che erano stati dapprima concepiti per sfuggire ad assedi e assalti armati, come i condotti che permettono di evadere non visti da rocche e castelli, ma anche per organizzare convegni segreti, o addirittura per incontri amorosi, come si è detto facessero madonna Lucrezia Borgia e suo fratello Cesare con i loro numerosi amanti. Ma dei cunicoli segreti si doveva anche massime diffidare, poiché a garanzia della loro inviolabilità non c‟era solo il segreto (che a volte era costato la vita a chi li aveva costruiti), ma anche molte insidie: per ingannare e distogliere gl‟intrusi spesso venivano costruiti passaggi senza uscita, o porte invisibili governate da contrappesi e nascoste nei muri, che si aprono solo azionando congegni occulti. “Mi hanno raccontato di un labirinto sotterraneo costruito in Sicilia dal grande imperatore Federico, i cui corridoi celano aste le quali, se calpestate, liberano grate metalliche che piombano dall‟alto e imprigionano senza scampo i visitatori, o lame affilate che, vomitate da invisibili feritoie, sono capaci di trafiggere e uccidere i passanti. Altri meccanismi aprono improvvisamente pozzi profondissimi in cui chi non ha contezza di tali minacce inevitabilmente precipita. Di alcune catacombe sono state prodotte piante piuttosto precise. Si dice che anche sotto il suolo di Napoli vi sia un numero sorprendente di cunicoli e percorsi sotterranei, ma non ne ho esperienza come invece per quelli di Parigi, che sono senz‟altro assai estesi e in cui ho potuto fare qualche visita. So anche che in Piemonte, nel secolo scorso, presso un luogo chiamato Rovasenda centinaia di contadini furono braccati da soldati francesi, che li sospinsero dentro alcune caverne che si trovavano presso un fiume. Si narra che nessuno sia più uscito da quelle grotte: né gli assalitori, né tantomeno gl‟inseguiti.” “Il signor Pellegrino non mi ha mai parlato dell‟esistenza di questo passaggio” sussurrai. “Lo credo bene. Non è cosa da rivelare, se non è indispensabile. E probabilmente neppure lui ne conosce tutti i segreti, visto che cura questa locanda da poco tempo.” “E allora il ladro delle chiavi come ha individuato il passaggio?” “Forse il tuo buon padrone ha ceduto a un‟offerta di soldi. O di vino Moscato” ridacchiò l‟abate. Mentre procedevamo, mi sentii lentamente sopraffare da una sensazione di oppressione al petto e al capo. L‟oscuro camminatoio in cui ci eravamo avventurati portava in una direzione sconosciuta e, verosimilmente, foriera di pericoli. Il buio, rotto solo dal lume a olio che portava di fronte a sé l‟abate Melani, era spaventoso e nefasto. Le pareti della galleria, a causa del loro disegno tortuoso, impedivano di guardare di fronte a noi e facevano presagire a ogni passo qualche sgradevole sorpresa. E se il ladro, avvistando da lungi la luce della nostra lanterna, ci stesse aspettando dietro qualche sporgenza per tenderci un agguato? Pensai rabbrividendo alle minacce che popolavano le gallerie di cui sapeva l‟abate Melani. Nessuno avrebbe mai recuperato i nostri corpi. I pigionanti della locanda avrebbero avuto buon gioco a convincere se stessi e gli armigeri che io e l‟abate Melani eravamo fuggiti dalla locanda, forse saltando nottetempo da una finestra. Non saprei tuttora dire quanto a lungo durò l‟esplorazione. Alla fine notammo che il sentiero sotterraneo, che inizialmente ci aveva portato sempre più in profondità, cominciava gradualmente a risalire.

“Ci siamo” disse l‟abate Melani. “Forse stiamo per sbucare da qualche parte.” Mi dolevano i piedi e l‟umidità cominciava ad attanagliarmi. Da parecchio non discorrevamo più, vogliosi solo di vedere la fine di quella spaventosa spelonca. Ebbi un moto di terrore quando vidi l‟abate incespicare con un gemito e rischiar di cadere in avanti, lasciandosi quasi sfuggire la presa sul lume: perdere la nostra unica fonte di luce avrebbe reso un incubo la nostra presenza là sotto. Mi precipitai a sorreggerlo. Con espressione a un tempo furente e sollevata per il rischio appena corso, l‟abate illuminò l‟ostacolo: una rampa di gradini in pietra, tanto alti quanto angusti, ci riportava verso l‟alto. Li scalammo quasi strisciando, per non correre il rischio di cadere all‟indietro. Durante l‟ascesa una serie di curve costrinse Atto a rattrappirsi penosamente. Io, una volta tanto, me la cavavo meglio. Atto mi guardò: “T‟invidio proprio, ragazzo” mi ripeté divertito, incurante che mostrassi di gradire poco la sua battuta. Eravamo lordati di fanghiglia, la fronte e il corpo aspersi di sudori immondi. Improvvisamente l‟abate gridò. Un essere informe, rapidissimo e furtivo, mi piombò sulla schiena, strisciando malamente sulla gamba destra prima di rituffarsi nell‟oscurità. Mi contorsi, proteggendomi la testa con le braccia per il terrore, ugualmente pronto a impetrare pietà e a difendermi alla cieca. Atto capì che il pericolo, se vi era stato, era durato il tempo d‟un fulmine. “Strano che non ne avessimo ancora incontrati” commentò appena ripreso il controllo. “Si vede che siamo davvero fuori dalle rotte abituali.” Un enorme topo di fiume, disturbato dal nostro arrivo, aveva scelto di scavalcarci anziché farsi ricacciare indietro. Nel suo folle scatto s‟era abbarbicato sul braccio dell‟abate Melani, mentre questi si appoggiava alla parete, ed era poi piombato con tutto il peso sulla mia schiena, paralizzandomi dal terrore. Ci fermammo, muti e spauriti, sino a quando il fiato riprese il ritmo normale. Ricominciammo l‟ascesa, finché gli scalini cominciarono a essere intervallati da tratti orizzontali in mattoni, che si facevano ogni volta più lunghi. Fortunatamente avevamo una buona scorta d‟olio: contravvenendo ai ricorrenti bandi dei Camerlenghi, avevo deciso di utilizzare anche olio buono commestibile. Sentivamo d‟essere arrivati al tratto finale. Camminavamo ormai su un leggero pendio ascendente, che ci faceva dimenticare le fatiche e le paure da poco patite. Sbucammo improvvisamente in uno spazio quadrangolare non più scavato ma in muratura. Aveva tutta l‟aria d‟essere un fondaco, o il sotterraneo d‟un palazzo. “Siamo tornati tra gli uomini” disse l‟abate salutando il nuovo ambiente. Di qui un‟ultima scalinata, ripidissima, ma munita di un corrimano di corda assicurato alla parete di destra tramite una serie di anelli di ferro, conduceva verso l‟alto. Ci inerpicammo fino alla sommità. “Maledizione” sibilò l‟abate. E capii immediatamente cosa intendesse. Alla fine della scalinata c‟era, come prevedibile, una porta. Era assai robusta ed era chiusa. Era l‟occasione buona per riposare, sebbene in un sito così ostile, e riflettere sul nostro stato. La porticina in legno era sprangata con una sbarra di ferro arrugginita,

da far scorrere fuori dal muro. Da essa, com‟era facile indovinare dal fruscio di vento che arrivava fino a noi, si usciva all‟aperto. “Ora non parlerò. Spiegami tutto tu” invitò l‟abate. “La porta è chiusa dall‟interno. Pertanto” mi sforzai di dedurre “il ladro non è uscito dalla galleria. Ma poiché non lo abbiamo incontrato, né abbiamo rinvenuto alcun bivio, se ne conclude che non ha preso la nostra strada.” “Bene. E allora dov‟è andato?” “Forse non si è neanche calato per il pozzo dietro lo stanzino” azzardai senza crederci un attimo. “Mmmh!” brontolò Atto. “Dove si sarebbe cacciato, quindi?” Ridiscese la scala e fece rapidamente il giro del fondaco. In un angolo, una vecchia barca di legno semimarcito confermava il sospetto che avevo nutrito appena arrivati fin lì: eravamo in prossimità delle sponde del Tevere. Aprii l‟uscio, facendo scorrere non senza fatica il chiavistello. Illuminato dai flebili raggi della luna si mostrava l‟inizio di un sentiero. Più in basso scorreva il fiume, e mi ritrassi naturalmente di fronte al baratro. Il vento fresco e umido penetrò nel fondaco, facendoci respirare. Appena fuori dalla porta, un altro malcerto sentiero sembrava diramarsi verso destra, perdendosi tra le terre fangose della riva. L‟abate prevenne i miei pensieri: “Se fuggiamo ora, ci prenderanno senza meno”. “Insomma” gemetti sconsolato “siamo arrivati fin qui invano.” “Tutt‟altro” ribatté Atto impassibile. “Conosciamo comunque questa via di fuga, per ogni necessità. Non abbiamo trovato traccia del ladro, il quale pertanto non ha preso questa strada. Abbiamo tralasciato qualche altra possibilità, a causa d‟una svista o di nostra incapacità. Ora torniamo indietro, prima che qualcuno s‟accorga della nostra assenza.” Il ritorno verso l‟albergo fu quanto mai penoso, e due volte più faticoso del primo viaggio. Privi dell‟istinto di caccia che ci aveva sospinti all‟andata (o almeno così era stato per l‟abate Melani), ci trascinammo soffrendo ancor più la difficoltà del cammino, anche se il mio compagno di strada non desiderava ammetterlo. Una volta risalito il pozzo iniziale, e lasciatoci alle spalle con grande sollievo l‟infernale cunicolo sotterraneo, riguadagnammo lo stanzino. L‟abate, visibilmente frustrato per la spedizione andata a ufo, mi congedò dandomi alcune frettolose istruzioni per il giorno successivo. “Domani, se vuoi, potrai avvertire gli altri pigionanti che qualcuno ha trafugato la seconda copia delle chiavi, o che essa comunque è andata smarrita. Naturalmente non racconterai della nostra scoperta, né del tentativo che abbiamo fatto d‟individuare il ladro. Non appena ne avremo l‟occasione, ci consulteremo separatamente dagli altri, in cucina o in altro luogo sicuro, e ci terremo informati sulle novità.” Annuii pigramente, a cagione della stanchezza, ma soprattutto dei dubbi che segretamente ancora nutrivo sull‟abate Melani. Durante il ritorno in galleria avevo di nuovo mutato sentimento nei suoi confronti: mi ero detto che, fossero anche eccessive e malevole le dicerie sul suo conto, rimanevano pur sempre zone d‟ombra nel suo passato e perciò, ora che era fallita la caccia al ladro delle chiavi, non intendevo oltre fargli da servo e da informatore e rischiare così di essere coinvolto in affari poco limpidi e forse pericolosi. E se era pur vero che il Sovrintendente Fouquet, del quale Melani era stato sodale, non era stato altro che un mecenate troppo splendido, vittima della regale

gelosia di Luigi XIV e dell‟invidia di Colbert, non si poteva però negare, mi ero ripetuto mentre ci affannavamo procedendo nell‟oscurità, che mi trovavo pur sempre in compagnia di un personaggio aduso alle furbizie, alle sottigliezze, alle mille astuzie della Corte di Parigi. Sapevo quanto aspramente il nostro buon Papa, Innocenzo XI, fosse in contrasto con la Corte francese. Allora non ero in grado di spiegare perché tanta fosse l‟acredine tra Roma e Parigi. Ma dai discorsi del popolo e di coloro che erano più addentro alle cose della politica, avevo chiaramente compreso che chi intendesse essere devoto al nostro Pontefice non poteva, e non doveva, essere amico della Corte gallica. E poi, tutta quella foga nell‟inseguire il supposto ladro di chiavi, non era essa stessa degna di sospetto? Perché darsi a quell‟inseguimento gravido di incognite e di pericoli, anziché attendere più semplicemente gli eventi e avvertire subito gli altri pigionanti della sparizione delle chiavi? E se l‟abate avesse saputo molto più di quanto mi aveva confidato? Forse aveva già un‟idea precisa di dove esse fossero nascoste. E se il ladro fosse stato proprio lui, e avesse cercato semplicemente di distogliere la mia attenzione per poi agire con più calma, magari quella stessa notte? Perfino il mio affezionato padrone m‟aveva nascosto l‟esistenza della galleria. Ebbene, per quale motivo un estraneo come l‟abate Melani avrebbe dovuto confidarmi i suoi reali intendimenti? Promisi pertanto genericamente all‟abate di seguire le sue indicazioni, ma badai bene a disimpegnarmi con celerità, riprendendo il mio lume e sbarrandomi immediatamente in camera, ove avevo intenzione di pormi a riempire il mio diarietto con i numerosi accadimenti di quel giorno. Il signor Pellegrino dormiva placidamente, il respiro quasi del tutto sopito. Erano passate oltre due ore dal nostro ingresso nell‟orrida galleria sotterranea, ne mancavano forse solo altrettante al risveglio ed ero allo stremo delle forze. Fu un puro caso se, un attimo prima di spegnere il lume, posai lo sguardo sulle brache del mio padrone scorgendo le chiavi sparite appese in bella mostra alla cintola.

Giornata terza 13 SETTEMBRE 1683

Dalla finestra trapelavano i raggi benefici del sole, che inondavano tutta la stanza di biancore, spargendo una luce pura e benedetta perfino sul volto sudaticcio e sofferente del povero signor Pellegrino, abbandonato sul suo letto. La porta si aprì e fece capolino il viso sorridente dell‟abate Melani.

“E ora d‟andare, ragazzo.” “Dove sono gli altri pigionanti?” “Sono tutti in cucina, ad ascoltare Devizé che suona la tromba.” Strano: non sapevo che il chitarrista fosse anche virtuoso di quel fragoroso strumento, e massime non mi spiegavo che il suono argentino e potente dell‟ottone non s‟udisse ai piani superiori. “Dove andiamo?” “Dobbiamo tornare là sotto, l‟ultima volta non abbiamo cercato a dovere.” Entrammo nuovamente nello stanzino, ove apersi la porticina dietro lo scaffale. Sentii lambire il mio viso dall‟aria umida. M‟affacciai di malavoglia, illuminando l‟inizio del pozzo con il lume. “Perché non aspettare la notte? Gli altri potrebbero scoprirci” protestai debolmente. L‟abate non rispose. Estrasse dalla tasca un anello, e me lo pose sul palmo della mano chiudendomi le dita attorno al gioiello, come per sottolineare l‟importanza della consegna. Annuii, e iniziai la discesa. Appena arrivammo sul basamento di mattoni, ebbi un sussulto. Una mano nell‟oscurità si era posata sulla mia spalla destra. Il terrore m‟impedì sia di urlare che di girarmi. Oscuramente, percepii che l‟abate m‟invitava a restare tranquillo. Vincendo a fatica la paralisi che mi attanagliava, mi voltai per scoprire il volto del terzo esploratore. “Ricordati di onorare i morti.” Era il signor Pellegrino, che con espressione sofferta così gravemente mi ammoniva. Non trovai parole per esprimere il mio sconcerto: chi era dunque il dormiente che avevo lasciato nel suo letto? Come aveva potuto Pellegrino traslarsi istantaneamente dalla nostra stanza assolata al buio e umido cunicolo? Mentre tali interrogativi cominciavano a prendere forma nella mia mente, Pellegrino parlò nuovamente. “Voglio più luce.” Mi sentii improvvisamente scivolare all‟indietro: la superficie dei mattoni era viscida e irresistibilmente sdrucciolevole; avevo forse perso l‟equilibrio, pensai, nel voltarmi verso Pellegrino. Precipitai lentamente, ma con tutto il peso, verso l‟apertura della scala, volgendo il dorso al suolo e il ventre al cielo (che da là sotto sembrava non essere mai esistito). Infilai miracolosamente di schiena i gradini che conducevano in basso senza incontrare alcuna resistenza, sebbene mi paresse di pesare più d‟una statua di marmo peperino. L‟ultima visione fu quella di Atto Melani e Pellegrino che assistevano con flemmatica indifferenza alla mia scomparsa, quasi fosse loro ignota la differenza tra vita e morte. Caddi, parimenti sopraffatto dallo stupore e dalla disperazione, come anima perduta che precipitando nell‟Abisso infine conosce la propria dannazione. A salvarmi fu l‟urlo che sembrava provenire da qualche piega inconoscibile del Creato e che mi destò, strappandomi all‟incubo. Avevo sognato, e sognando avevo gridato. Ero nel mio letto, e mi voltai verso quello del mio padrone, che ovviamente era sempre rimasto dove lo avevo lasciato. Dalla finestra non entravano i bei raggi del sole, come nella visione onirica, ma il chiarore a un tempo rosato e bluastro che annuncia l‟alba. L‟aria pungente del primo mattino m‟aveva infreddolito, e mi coprii meglio pur sapendo che non avrei ripreso sonno tanto facilmente.

Dalle scale proveniva un lontano rumore di passi, e tesi l‟orecchio per capire se qualcuno stesse avvicinandosi alla porta dello stanzino. Si trattava, come intuii chiaramente, di alcuni dei pigionanti che scendevano in cucina o al primo piano. Distinsi in lontananza la voce di Stilone Priàso e di padre Robleda, che chiedevano a Cristofano se avesse nuove sulla salute del signor Pellegrino. Mi alzai, prevedendo che in breve il medico sarebbe giunto a visitare il mio padrone. Il primo a bussare alla mia porta fu invece Bedfordi. Quando aprii, mi trovai di fronte un viso pallido, con grandi mezzelune scure sotto agli occhi, e sulle spalle un caldo mantello. Bedfordi era perfettamente abbigliato, e ciononostante era preda di brividi che lo scuotevano dalla schiena al capo, e faceva inutili quanto penosi sforzi per reprimerli. Mi pregò subito di farlo entrare, quasi certamente per non essere visto dagli altri pigionanti. Gli offersi un po‟ d‟acqua e le pillole dateci da Cristofano. L‟inglese declinò l‟offerta giacché, disse preoccupato, esistevano pillole capaci di condurre il paziente alla morte. Venni colto alla sprovvista da tale risposta, ma fui costretto a insistere. “Ti dirò pure” disse con voce improvvisamente affievolita “che l‟oppio e i purganti dei vari umori possono persino dare la morte, e ricordati sempre che i negri tengono nascosto sotto le unghie un veleno che uccide con una semplice graffiatura, e poi ci sono i serpenti a sonagli, sì, e ho letto di un ragno che schizzò nell‟occhio del suo persecutore un veleno così potente che lo lasciò per molto tempo privo della vista…” Pareva febbricitante. “Ma Cristofano non farà nulla del genere” protestai. “… e queste sostanze” proseguì come se neppure mi avesse udito “agiscono per virtù occulta, ma le virtù occulte non sono altro che lo specchio della nostra ignoranza.” Notai che le gambe gli tremavano, e per reggersi in piedi doveva appoggiarsi allo stipite della porta. Anche le sue parole somigliavano assai a un chiaro delirio. Bedfordi si sedette sul letto e mi sorrise con tristezza. “Lo sterco dissecca la cornea” recitò alzando severamente l‟indice come un maestro che ammonisce gli studenti “l‟erba senecio, portata appesa al collo, è buona per guarire le febbri terzane. Ma per l‟isterismo ci vogliono gl‟impacchi di sale ai piedi ripetuti più volte. E per apprendere l‟arte medica, dillo al signor Cristofano quando lo chiamerai, invece di Galeno o Paracelso legga il Don Quixote.” Poi si stese, chiuse gli occhi, incrociò le braccia sul petto per coprirsi e cominciò a tremare leggermente. Mi precipitai per le scale a chiamare aiuto. Il grosso bubbone sotto l‟inguine, più uno di dimensioni appena inferiori nell‟incavo dell‟ascella destra, avevano lasciato pochi dubbi a Cristofano. Questa volta purtroppo si trattava chiaramente di contagio pestilenziale, cosa che ovviamente tornava a gettare nere ombre anche sulla morte del signor di Mourai e sul singolare torpore che aveva ghermito il mio padrone. Non ci capivo più niente: per la locanda si stava aggirando un abile e oscuro assassino o piuttosto il ben noto morbo della peste? La notizia della malattia di Bedfordi gettò nello sconforto più profondo tutta la compagnia. Disponevamo solo di un giorno, prima che gli uomini del Bargello tornassero per l‟appello successivo. Notai che molti mi schivavano, dal momento che

ero stato forse il primo a venire a contatto con Bedfordi quando il morbo lo aveva aggredito. Tornava a regnare il sospetto. Cristofano fece però osservare che tutti avevamo parlato, mangiato e alcuni persino giocato a carte con l‟inglese sino al giorno precedente. Pertanto nessuno poteva sentirsi al sicuro. Io, forse per una buona dose di giovanile temerarietà, fui l‟unico a non cedere subito alla paura. Vidi invece i più pavidi di tutti, ossia padre Robleda e Stilone Priàso, correre a prelevare alcuni viveri che avevo lasciato a disposizione in cucina e dirigersi poi verso le proprie stanze. Li fermai, essendomi sovvenuto allora della necessità di officiare anche a Bedfordi il sacramento dell‟Estrema Unzione. Stavolta però padre Robleda non volle udir ragioni: “È inglese, e so che aderisce alla religione riformata; è uno scomunicato, uno sbattezzato” rispose concitato, aggiungendo che l‟olio degl‟infermi era riservato agli adulti battezzati e precluso agli infanti, ai pazzi, agli scomunicati denunciati, ai pubblici peccatori impenitenti, agli ergastolani e alle partorienti; come pure ai soldati schierati in battaglia contro il nemico e a quanti fossero in pericolo di naufragare. M‟investì pure Stilone Priàso: “Non sai che l‟olio santo accelera la morte, fa cadere i capelli, fa partorire con maggior dolore e porta itterizia al nascituro, fa morire le api che volano attorno alla casa dell‟ammalato, e che quelli che l‟hanno ricevuto moriranno se danzeranno nel rimanente dell‟anno, e che è peccato filare in camera dell‟infermo perché morrà se si cessa di filare o se il filo si rompe, e che non si possono lavare i piedi se non molto tempo dopo che si è ricevuta l‟Estrema Unzione, e che bisogna aver sempre una lampada o un cero acceso nella stanza del malato finché dura la malattia sennò il poveretto muore?”. E, piantatomi in asso, corsero a sprangarsi ognuno in camera sua. Rientrai così dopo circa mezz‟ora dentro la stanzetta del primo piano in cui giaceva Bedfordi, per vedere in quale stato egli versasse. Credetti che anche Cristofano fosse colà tornato, giacché lo sventurato inglese stava discorrendo ed era apparentemente in compagnia. Mi avvidi subito però che io e il degente eravamo soli, e che egli in realtà era in preda al delirio. Lo trovai terribilmente pallido, un ciuffo di capelli appiccicato sulla fronte a cagione dell‟abbondante sudore e le labbra insolitamente screpolate che lasciavano indovinare fauci arse e sofferenti. “Nella torre… è in torre” biascicò malamente rivolgendomi uno sguardo stanco. Parlava a vanvera. Elencò senza apparente motivo una serie di nomi a me ignoti, e che potei imprimermi in mente solo perché li ripeté più e più volte, intercalati da inintelligibili espressioni nel suo idioma patrio. Sospirava continuamente il nome di tale Guglielmo, nativo della città di Orange, che immaginai essere suo amico o conoscente. Stavo quasi per chiamare Cristofano, temendo che il male potesse inaspettatamente acutizzarsi e pervenire a esito fatale, quando arrivò il medico, attirato dai mugolii del malato. Con lui si accompagnavano Brenozzi e Devizé, che si tennero a prudente distanza. Il povero Bedfordi proseguiva il suo folle monologo citando il nome di tale Carlo, che Brenozzi ci chiarì essere Carlo II Re d‟Inghilterra; il veneziano, che rivelò così di

godere di una non disprezzabile conoscenza della lingua inglese, ci spiegò d‟aver intuito che Bedfordi era da poco transitato per gli Stati d‟Olanda. “E perché si era recato in Olanda?” domandai. “Questo non lo so” rispose Brenozzi zittendomi mentre tendeva nuovamente l‟orecchio ai vaneggiamenti del malato. “Conoscete bene davvero la lingua inglese” osservò il medico. “Un mio lontano cugino, nato a Londra, mi scrive spesso per affari di famiglia. Io stesso sono lesto nell‟apprendere come nel ritenere a memoria, e ho fatto molti viaggi per commerci vari. Guardate, sembra che si senta meglio.” Il delirio del degente sembrava essersi placato e Cristofano ci invitò con un cenno a uscire nel corridoio. Qui trovammo ad attenderci, ansiosi di notizie, buona parte degli altri pigionanti. Cristofano parlò senza mezzi termini. Il procedere del morbo, disse, era tale da fargli dubitare della propria arte. Prima la poco chiara morte del signor di Mourai, poi l‟incidente occorso al signor Pellegrino, tuttora ridotto in così pietoso stato, infine l‟evidente caso di contagio che aveva colpito Bedfordi: tutto ciò aveva gettato nello sconforto il medico toscano, che di fronte a tanto concorso di mala sorte e di accidenti, ammetteva di non poter più fare fronte alla situazione. Ci guardammo l‟un l‟altro, pallidi e spauriti, per alcuni interminabili istanti. Alcuni diedero in lamenti di disperazione, altri si rifugiarono in camera. C‟era chi stringeva d‟assedio il medico per ottenere sollievo ai propri timori, chi muto s‟accasciava a terra col volto tra le mani. Lo stesso Cristofano s‟affrettò verso la propria stanza, dove si serrò a chiave, chiedendo di poter restare un poco in pace per consultare qualche libro e meditare sulla situazione. Ma la sua ritirata appariva assai più come il tentativo di mettersi al riparo, che d‟organizzare una riscossa. La nostra forzata prigionia aveva smesso il volto della commedia per vestire quello della tragedia. Alla scena di disperazione collettiva aveva assistito anche l‟abate Melani, d‟un pallore mortale. Ma più di chiunque ero io a essere preda di autentica disperazione. Il signor Pellegrino, pensavo tra le lacrime, aveva fatto della locanda la tomba sua e mia, nonché quella dei nostri pigionanti. E già immaginavo le scene di dolore che sarebbero seguite all‟arrivo di sua moglie, quando avrebbe scoperto con i propri occhi la crudele opera della morte nelle stanze del Donzello. L‟abate mi raccolse, seduto per terra nel corridoio di fronte alla stanza di Cristofano, mentre avevo ormai ceduto ai singhiozzi e mi coprivo il volto inondato di lacrime. Carezzandomi il capo, mi sussurrò in un flebile canto: Piango, prego e sospiro, e nulla alfin mi giova. Attese che mi calmassi, cercando blandamente di consolarmi; ma poi, vista l‟inutilità di quei primi tentativi, mi sollevò di peso in piedi e m‟appoggiò energicamente con le spalle al muro. “Non ho voglia d‟ascoltarvi” protestai. Gli ripetei le parole del medico, alle quali aggiunsi che certamente saremmo tutti piombati in atroci sofferenze entro pochi giorni, o persino dopo qualche ora, come Bedfordi. L‟abate Melani m‟afferrò con forza e mi trascinò su per le scale fin dentro la sua stanza. Nulla però poteva riportarmi alla calma, cosicché l‟abate dovette alfine

darmi un deciso manrovescio, che ebbe l‟effetto d‟arrestare il singulto. Per qualche attimo mi misi in pace. Atto mi cinse fraternamente le spalle con un braccio e cercò con parole pazienti di convincermi a non cedere alla disperazione. L‟importante era anzitutto ripetere l‟abile messa in scena con cui avevamo celato agli uomini del Bargello la malattia di Pellegrino. Rivelare la presenza d‟un appestato (questa volta, uno vero) all‟interno della locanda avrebbe reso ancora più stretti e frequenti i controlli; saremmo forse stati deportati in un lazzeretto improvvisato in una zona meno popolosa, magari nell‟isola di San Bartolomeo ov‟era stato approntato l‟ospedale degl‟infermi nella grande pestilenza di trent‟anni prima. A noi due restava sempre la via di fuga sotterranea, che avevamo scoperto insieme la notte appena trascorsa. Sfuggire alle ricerche in tal caso era – non lo negava – tutt‟altro che facile, ma era pur sempre una soluzione praticabile ove gli eventi precipitassero. Mentre ero quasi ritornato alla calma, l‟abate fece il punto: se Mourai era stato avvelenato e se i presunti bubboni di Pellegrino non erano che petecchie o, ancor meglio, due semplici ecchimosi, l‟unico sicuramente appestato era per ora solo Bedfordi. Udimmo bussare alla porta di Atto: Cristofano chiamava tutti a raccolta nelle sale del pianterreno. Aveva, disse, urgenti comunicazioni da farci. Giunti nell‟androne trovammo tutti i pigionanti riuniti ai piedi della scala anche se, dopo gli ultimi accadimenti, prudentemente distanziati tra loro. Devizé, in un cantuccio, addolciva il grave momento con le note del suo splendido e inquietante rondò. “E forse spirato il giovane inglese?” azzardò Brenozzi senza smettere di pizzicarsi il sedano. Il medico scosse il capo e invitò tutti a prendere posto. Il cipiglio di Cristofano strozzò l‟ultima nota sulle dita del musico francese. Io mi recai in cucina, dove cominciai a dar intorno a pentole e fornelli per la preparazione del pranzo. Quando si furono tutti accomodati, il medico aprì la borsa, ne trasse una pezzuola, s‟asciugò puntigliosamente il sudore (come sempre lo si vedeva fare prima d‟una concione) e, in ultimo, si schiarì la voce. “Onoratissimi signori, mi scuso per aver poc‟anzi disertato la vostra compagnia; era necessario, tuttavia, ragionare sul nostro stato presente, e ho concluso” disse mentre s‟era fatto silenzio “e ho concluso…” ripeté Cristofano appallottolando la pezzuola con una mano “che se non vogliamo morire, dobbiamo seppellirci vivi.” Era giunto il momento, spiegò, di rinunciare una volta per tutte a gironzolare per il Donzello come se nulla fosse. Non ci si sarebbe più potuti intrattenere l‟un l‟altro in amabili conversari in dispregio alle raccomandazioni ch‟egli da giorni andava impartendoci. Finora il destino ci era stato fin troppo amico, e le sventure occorse al vecchio signor di Mourai e a Pellegrino s‟erano rivelate aliene a qualsiasi contagio; ma ora le cose s‟erano volte in peggio, e la peste prima evocata a sproposito era arrivata veramente al Donzello. Vano computo era la conta dei minuti passati da questo o da quello a contatto col povero Bedfordi: serviva solo ad alimentare il sospetto. Unica speranza di salvezza era segregarsi volontariamente nella propria stanza, sì da evitare d‟inalare gli umori altrui, o di venire a contatto con gl‟indumenti

degli altri pigionanti etcetera etcetera. Avremmo dovuto farci ungere e massaggiare regolarmente il corpo con olii e balsami purificativi che il medico avrebbe preparato, e ci saremmo riuniti solo in occasione degli appelli degli armigeri, come quello dell‟indomani mattina. “Signore Iddio Santissimo” s‟impennò padre Robleda “aspetteremo la Morte in un angolo del pavimento accanto alla nostra stessa immondezza? Se posso permettermi” aggiunse il gesuita addolcendo il tono “ho sentito dire che il mio confratello Diego Guzman di Zamorra fece mirabile opera di preservazione verso se stesso e altri gesuiti missionari nella peste di Perpignan, nel Regno di Catalogna, con un remedium assai gradito alla lingua: buonissimo vino bianco da bere a volontà, in cui fossero state sciolte una dramma di coperosa e mezza di dittamo bianco. Faceva ungere tutti con olio di scorpioni e poi li faceva mangiare benissimo. E nessuno mai s‟ammalò. Non sarebbe forse il caso di tentare prima di murarci vivi?” Alle parole di Robleda annuiva vigorosamente l‟abate Melani, alle cui indagini un‟eventuale seclusione avrebbe posto gravissimi ostacoli: “So anch‟io che il vino bianco della miglior qualità è ritenuto un ottimo ingrediente contro la peste e le febbri putride” concordò Atto con forza “e ancor meglio sono l‟acquavite e la Malvasia. E rinomata a Pistoia l‟acqua che maestro Anselmo Rigucci adottò con gran successo per preservare i pistoiesi dal contagio. Mio padre narrava a me e ai miei fratelli che i vescovi che s‟erano succeduti nell‟amministrazione pastorale della città da secoli ne facevano volentieri gran consumo, e non solo per cura. Si trattava infatti di cinque libbre d‟acquavite aromatizzata con erbe mediche da lasciar poi riposare, ermeticamente chiusa in una boccia, per ventiquattr‟ore all‟interno del Duomo. Infine, s‟aggiungevano sei libbre di buonissima Malvasia. Ne usciva un ottimo liquore, di cui monsignor il vescovo di Pistoia beveva due once ogni mattina a digiuno dietro l‟altare maggiore, con un‟oncia di miele”. Il gesuita fece schioccare significativamente la lingua, mentre Cristofano scuoteva scettico la testa e tentava invano di riprendere la parola. “Mi sembra innegabile che tali rimedi allietino gli animi” lo prevenne Dulcibeni “ma dubito che riescano a sortire altri e più importanti effetti da questi. So anch‟io, per esempio, d‟un gustoso elettuario formulato da Ludovico Giglio da Cremona durante la peste in Lombardia. Consisteva in un ottimo condimento da spalmarne quattro dramme sul pane caldo, tutte le mattine a digiuno: miele rosato e poco sciroppo acetoso impastati con agarico, scamonea, turbiti e zafferano. Ma morirono tutti, e il Giglio evitò il linciaggio solo per l‟esiguità del numero e delle forze dei sopravvissuti” concluse lugubre l‟anziano gentiluomo marchigiano, lasciando intendere che a suo parere avevamo ben poche possibilità di cavarcela. “E già” riprese Cristofano “come il tanto declamato cordiale e stomacale di Tiberio Gariotto da Faenza. Una follia da mastro dolciario: zuccaro rosato, diamarinato, cinnamomo, zafferano, sandalo e coralli rossi, da incorporare con quattr‟once di succo di cedro e poi così lasciare per quattordici ore. Poi mescolava il tutto con miei cotto, bollente e dispumato. E v‟aggiungeva tanto di muschio quanto bastava a dargli profumo. Lui però lo linciarono. Datemi retta, non ci resta che fare come vi ho detto poc‟anzi…” Ma Devizé non lo lasciò finire: “Hanno ragione

monsieur Pompeo e il nostro cerusico: anche Giovan Gutiero, medico di Carlo II di Francia, sosteneva che ciò ch‟è buono al palato non può purificare gli umori. Tuttavia Gutiero aveva messo a punto un elettuario che varrebbe forse la pena di provare. Pensate che il Re gli diede, per le virtù del suo preparato, una grandissima entrata nel ducato di Lorena. Nel suo elettuario, infatti, quel medico incorporava a dolcezze come il miele cotto e dispumato, venti noci e quindici fichi, anche grande quantità di ruta, absinchion, terra sigillata e salgemma. Ne faceva pigliare sera e mattina, mezz‟oncia alla volta, e appresso bere un‟oncia di fortissimo aceto bianco per aumentare il disgusto”. Ne seguì un‟accesa discussione tra i sostenitori dei rimedi graditi al palato, capeggiati da Robleda, e quelli invece del disgusto come miglior terapia. Seguii la discussione quasi divertito (nonostante il grave momento) dalla prontezza con cui ogni pigionante pareva avere da sempre in tasca la ricetta risolutiva contro il contagio. Solo Cristofano continuava a scuotere la testa: “Se volete, provate pure tutti questi rimedi, ma non venitemi a cercare al prossimo caso di contagio!”. “Non potremmo optare per una clausura parziale?” propose timidamente Brenozzi. “È celebre un caso analogo a Venezia, durante la peste del 1556: si poteva circolare indenni per le calli della città solo se si tenevano in mano delle palle odorifere, ideate dal filosofo e poeta Girolamo Ruscelli. Al contrario dello stomaco, infatti, il naso trae giovamento dai profumi, mentre è contaminato dalla puzza: muschio di Levante, flora- ce calamita, garofali, noce moscata, spiconardo, e olio di storace liquido per impastare. Quel filosofo ne faceva palle grosse come una noce con la scorza, da tenere sempre in ambo le mani, giorno e notte, per tutti i mesi che durava il contagio. Furono infallibili, ma solo per chi riuscì a non mollarle neanche per un attimo, che non so quanti furono.” Qui Cristofano si spazientì e alzatosi in piedi proclamò, con accenti vieppiù gravi e vibranti, che poco gl‟interessava che gradissimo o meno la seclusione nelle nostre camere: tale rimedio era l‟ultimo possibile e, se non ne avessimo convenuto, allora si sarebbe egli rinchiuso in camera propria, e pregava me che gli portassi da mangiare, e non sarebbe più uscito finché non avesse saputo che gli altri erano tutti morti, cosa che sarebbe ben presto accaduta. Seguì un silenzio di tomba. Cristofano allora proseguì annunciando che – se si fosse infine deciso di seguire le sue indicazioni – solo lui, medico, avrebbe potuto condursi liberamente per la locanda per assistere i malati e visitare regolarmente gli altri pigionanti; al contempo avrebbe avuto certo necessità d‟un assistente, che attendesse al nutrimento e all‟igiene dei pigionanti, nonché a spalmare e far correttamente penetrare gli olii e i balsami preservativi. D‟altronde non ardiva chiedere a nessuno di rischiare tanto. Potevamo tuttavia chiamarci fortunati anche nella sventura, visto che c‟era tra noi qualcuno, e mi gettò un‟occhiata mentre tornavo dalla cucina, che la sua lunga esperienza di medico sapeva essere di fibra assai resistente ai malanni. Gli sguardi si volsero verso di me: il medico m‟aveva preso per il braccio. “La particolare condizione di questo garzonetto” proseguì con forza il cerusico senese “rende lui, e tutti i suoi consimili, pressoché immuni da contagio.” E mentre

l‟uditorio mostrava sul viso i segni dello stupore, Cristofano passò a enumerare i casi d‟assoluta immunità avutisi in tempi di peste e riferiti dai massimi Autori. I mirabilia si succedevano l‟un l‟altro in crescendo, e dimostravano che uno come me avrebbe persino potuto bere pus di giandusse (come pare fosse realmente accaduto nella peste nera di tre secoli prima) senza patirne danno che non fosse un bruciorino di stomaco. “Fortunio Liceto accomuna le loro stupefacenti proprietà a quelle dei monopodi, dei cinocefali, dei satiri, dei ciclopi, dei tritoni e delle sirene. Stando alle classificazioni di padre Gaspare Schotto, più tali soggetti hanno membra ben proporzionate tra loro, maggiore è la loro immunità dal contagio pestilenziale” concluse Cristofano. “Orbene, vediamo tutti che questo ragazzo, nel suo genere, è abbastanza ben fatto: spalle solide, gambe diritte, viso regolare, denti sani. Rientra, per fortuna sua, tra i mediocres della sua razza, e non già tra i più sgraziati minores o, Dio ne scansi, tra gli sciagurati minimi. Possiamo quindi esser tranquilli. Stando al Nierembergius, quelli come lui nascono già con i denti, i capelli e le pudenda da adulto. A sette anni sono barbuti, a dieci sono forti come giganti e possono generare figli. Giovanni Eusebio dice d‟averne visto uno che a quattro anni d‟età possedeva già elegantissima chioma e barba. Per non parlare del leggendario Popobawa, che assale e, con i suoi enormi attributi, sodomizza nel sonno i robusti maschi di un‟isoletta africana, i quali dalla vana lotta riportano anche contusioni e fratture.” Primo a schierarsi col medico, che si sedette fremente e nuovamente sudato, fu padre Robleda. La mancanza d‟altre soluzioni altrettanto valide e la paura d‟essere abbandonati da Cristofano condusse gli altri uno a uno a rassegnarsi mestamente alla clausura. L‟abate Melani non proferì verbo. Mentre tutti si stavano alzando per sciamare verso i piani superiori, il medico disse che avrebbero potuto fermarsi in cucina, ove io avrei distribuito loro il pasto caldo e il pane abbruscato. M‟avvertì di servire il vino solo dopo averlo abbondantemente annacquato, ché così era più facile a passare per lo stomaco. Sapevo quanto agli sventurati pigionanti avrebbe giovato l‟assistenza culinaria del signor Pellegrino. Invece, ero rimasto il solo a mandare avanti la locanda e, malgrado ce la mettessi tutta, m‟ero ridotto ad arrangiare i pasti con semi ammollati e quant‟altro racimolavo nella vecchia dispensa di legno della cucina, senza prelevare quasi nulla dalla ricca cantina. Completavo di solito con qualche frutto o verdurina e col pane da baiocco recapitatoci insieme agli otri d‟acqua. Così almeno, mi consolavo, si risparmiavano le scorte del mio padrone, già esposte al continuo saccheggio operato da Cristofano per i suoi elettuari, balsami, olii, trocisci, elisir e palle curative. Quella sera tuttavia, a consolazione della brutta ora, m‟ero ingegnato un po‟ e avevo preparato una minestrina d‟ova in bagnomaria con cicerchie; appresso polpettine di pan mollo e qualche sarda sotto sale battuta con erbette e passarina; e per finire radiche di cicoria bollite con mosto cotto e aceto. Su tutto avevo cosparso un pizzico di cannella: la pregiata spezia dei ricchi avrebbe sorpreso i palati e rinfrancato gli spiriti. “Son caldissime!” annunciai con forzato buon umore a Dulcibeni e padre Robleda che s‟erano accostati funerei a sbirciare le radiche.

Ma non ottenni commenti, né scorsi un rasserenamento nella smorfia dei visi. La prospettiva che la mia speciale condizione potesse, a giudizio del medico, diventare un‟arma contro gli assalti dell‟epidemia mi fece provare per la prima volta l‟ebbrezza dell‟orgoglio. Malgrado qualche particolare m‟avesse lasciato perplesso (a sette anni ero ovviamente imberbe, né ero nato con i denti o con giganteschi attributi), mi sentii all‟improvviso un gradino più in alto degli altri. E sì, mi dissi ripensando alla decisione di Cristofano, io potevo. Essi, i pigionanti, dipendevano da me. Ecco spiegato inoltre perché il medico m‟avesse con tanta leggerezza lasciato dormire nella stessa camera col mio padrone, quando questi era in stato d‟incoscienza! Riacquistai così un po‟ di buon umore, che contenni rispettosamente. A chi vive ogn‟or contento ogni mese è primavera… Udii canterellare al mio fianco. Era l‟abate Melani. “Che visino allegro” motteggiò. “Mantienilo così fino a domani: ne avremo bisogno.” Il richiamo all‟appello della mattina seguente mi riportò con i piedi per terra. “Vorresti accompagnarmi verso la mia triste clausura?” chiese con un sorrisetto, dopo aver consumato il pasto. “In camera tornerete da solo” l‟apostrofò Cristofano “il ragazzo mi serve, e subito.” Congedato così bruscamente Atto Melani, il medico mi comandò di lavare piatti e stoviglie dei pigionanti. Da quel momento in avanti, disse, avrei dovuto farlo almeno una volta al giorno. Mi mandò a cercare due grossi catini, pezze pulite, scorze di noci, acqua pura e vino bianco, e mi condusse con sé da Bedfordi. Si recò poi nella propria stanza, lì accanto, a prelevare la cassettina degli arnesi da cerusico e alcune bisacce. Quando tornò, lo aiutai a spogliare il giovane inglese, che scottava come un paiolo nel camino e di tanto in tanto riprendeva a sproloquiare. “Le giandusse sono troppo calde” osservò Cristofano preoccupato “avrebbero bisogno d‟un interramento.” “Cioè?” “È un miracoloso e gran segreto lasciato in punto di morte dal cavalier Marco Leonardo Fioravanti, illustre medico bolognese, per sanarsi dalla peste con brevità: chi ha già le giandusse si faccia seppellire tutto in una fossa, eccetto collo e testa, e stia così dodici o quattordici ore, e poi si faccia cavar fuori. È un segreto che si può usare in tutti i luoghi del mondo, senza interesse e senza spesa.” “E come ha effetto?” “La terra è madre e purifica tutte le cose: disfa tutte le macchie dei panni, frolla le carni dure seppellendole per quattro o sei ore, senza dimenticare che a Padova vi sono bagni di fango che sanano molte infermità. Altro rimedio di grande autorità sarebbe giacere da tre a dodici ore nell‟acqua salsa del mare. Ma purtroppo siamo segregati e non possiamo nulla di tutto ciò. Non ci resta pertanto che praticare al povero Bedfordi un salasso che refrigeri le giandusse. Prima però dobbiamo quetare gli umori alterati.” Tirò fuori un vaso di legno. “Sono i miei moscardini imperiali, molto attrattivi per lo stomaco.” “Che vuol dire?” “Attraggono tutto quanto c‟è nello stomaco e lo trascinano fuori, sfiancando nel malato la mala resistenza ch‟egli potrebbe opporre alle operazioni del medico.” E prese tra due dita un trocisco, ossia uno di quei preparati secchi di varia foggia che

approntano gli speziali. Questo sembrava per l‟appunto un moscardino di mare. Non senza fatica riuscimmo a farlo inghiottire a Bedfordi, il quale di lì a poco ammutolì e sembrò quasi che stesse per strozzarsi: venne scosso da tremiti e tosse, cominciò a buttar bava dalla bocca, finché rigurgitò una quantità di roba maleodorante nel catino che gli avevo prontamente posto sotto al naso. Cristofano scrutò e annusò soddisfatto il liquame. “Prodigiosi i miei moscardini, non trovi? Eppure sono un compendio di semplicità: un‟oncia di zuccaro candido violato, cinque d‟iris e altrettante di scorza d‟uovo in polvere, una dramma di muschio, una d‟ambracane, e con draganti e acqua rosa messi a seccare al sole” recitava Cristofano assai soddisfatto mentre s‟affaccendava a contenere gli spruzzi del malato. “Nei sani, invece, combattono l‟inappetenza, anche se sono meno forti del diaromatico” aggiunse. “Anzi, ricordami di dartene alcuni da portare con te nella distribuzione dei pasti, nel caso qualcuno si rifiutasse di mangiare.” Pulito e risistemato il povero inglese, che ora a occhi socchiusi taceva, il medico cominciò a bucarlo coi suoi arnesi. “Come ben insegna maestro Eusebio Scaglione da Castello a Mare nel Regno di Napoli, il sangue va cavato dalle vene che hanno origine dai luoghi in cui sono apparse le giandusse. La vena della testa corrisponde alle giandusse del collo e la vena comune a quelle della schiena, ma non è questo il caso. A lui salassiamo la vena del polso, che origina dalla giandussa che ha sotto l‟ascella. E poi la vena del piede, che corrisponde al grosso bubbone dell‟inguine. Passami il catino pulito.” Mi comandò di cercare nelle sue sacche i vasetti ove fosse scritto dittamo bianco e tormentilla; mi fece prenderne due pizzichi ciascheduno e, mescolatili con tre dita del vino bianco, mi ordinò di somministrarli a Bedfordi. Mi fece poi pestare nel mortaio un‟erba detta piede corvino, con cui dovetti riempire due mezze scorze di noce che il medico usò, a salasso compiuto, per tappare subitamente i buchi sul polso e sulla caviglia del povero appestato. “Fasciagli le noci ben strette. Le cambieremo due volte al giorno, finché non compariranno delle vesciche, che allora romperemo per spremerne l‟acqua velenosa.” Bedfordi cominciò a tremare. “Non gli avremo tolto troppo sangue?” “Macché. E la peste, che fa congelare il sangue nelle vene. L‟avevo previsto: ho preparato una miscela d‟ortica, malva, agrimonia, cardofanto, origano, puleggio, genziana, lauro, storace liquido, bengioi e calamo aromatico per un bagno di vapore molto salutifero.” E da un viluppo di feltro nero tirò fuori una boccia di vetro. Riscendemmo in cucina, dove mi fece mettere a bollire il contenuto della boccia con molta acqua nel calderone più grande della locanda. Lui attendeva intanto alla bollitura di farina di fieno greco, semi di lino e radici di altea, a cui poi lo vidi mescolare del grasso di porco prelevato dalla dispensa del signor Pellegrino. Tornati in camera del malato, avvolgemmo Bedfordi con cinque coperte da letto e lo facemmo accomodare sul calderone fumante che avevamo trasportato fin lì con grande disagio e rischio d‟ustioni.

“Deve sudare quanto può: il sudore assottiglia gli umori, apre i pori e scalda il sangue congelato, acciocché la corruzione della pelle non ammazzi repentinamente.” Il disgraziato inglese non sembrava però d‟accordo. Iniziò a gemere sempre più forte, ansimando e tossendo, tendendo le mani e allargando le dita dei piedi in spasimi di sofferenza. Improvvisamente si calmò. Sembrava svenuto. Ancora sul calderone, Cristofano iniziò a punzecchiargli le giandusse con una punta di lancetta in tre o quattro punti e poi vi spalmò sopra l‟impiastro di grasso di porco. Compiuta l‟operazione, lo rimettemmo a letto. Non fece una mossa, ma respirava. Quale capriccio del destino, pensai, che alle pratiche mediche di Cristofano fosse sottoposto proprio il suo più acerrimo detrattore. “Ora lasciamolo riposare e speriamo in Dio” disse il medico gravemente. Mi condusse in camera sua, ove mi consegnò una sacca con alcuni unguenti, sciroppi e suffumigi già pronti da applicare agli altri pigionanti. Me ne illustrò l‟uso e lo scopo terapeutico, fornendomi anche alcuni appunti. Alcuni remedia erano più efficaci su talune complessioni piuttosto che su altre. Padre Robleda, per esempio, sempre ansioso, rischiava la peste più mortale, al cuore o al cervello. Meno grave, invece, se fosse stato colpito il fegato, che si poteva sgravare con le giandusse. Dovevo cominciare prima possibile, raccomandò Cristofano. Non ne potevo più. Risalii le scale carico di quelle boccette che già detestavo, diretto al mio lettuccio nel sottotetto. Giunto al secondo piano, venni però richiamato dal bisbiglio dell‟abate Melani. Mi aspettava, occhieggiando circospetto dall‟uscio semichiuso della sua camera, in fondo al corridoio. M‟avvicinai. Senza lasciarmi il tempo d‟aprire bocca, mi sibilò in un orecchio che il comportamento bizzarro di alcuni pigionanti nelle ultime ore gli aveva dato occasione di riflettere non poco sulla nostra situazione. “Temete forse per la vita di qualcun altro di noi?” sussurrai subito allarmato. “Può darsi, ragazzo, può darsi” replicò frettolosamente Melani, mentre mi tirava per un braccio dentro la camera. Una volta serrato l‟uscio, mi spiegò che il delirio di Bedfordi, che l‟abate stesso aveva potuto origliare da dietro la porta della stanza in cui giaceva l‟appestato, rivelava senz‟ombra di dubbio che l‟inglese altro non era che un fuggiasco. “Un fuggiasco? In fuga da cosa?” “Un esule, che attende tempi migliori per rientrare in patria” sentenziò l‟abate con aura d‟impertinenza, tamburellandosi con l‟indice la fossetta del mento. Fu così che Atto mi riferì una serie di vicende e di circostanze che nei giorni a venire avrebbero avuto grande importanza. Il misterioso Guglielmo di cui Bedfordi aveva fatto il nome era il Principe d‟Orange, candidato al trono d‟Inghilterra. La nostra conversazione si profilava lunga: sentii allentarsi la tensione di poco prima. Il problema, spiegava intanto Atto, era che l‟attuale Re non aveva avuto figli legittimi. Aveva pertanto designato a succedergli suo fratello, il quale però era cattolico e avrebbe riportato così la Vera Religione sul trono d‟Inghilterra. “E allora dov‟è il problema?” intervenni in preda a uno sbadiglio.

“È che i nobili inglesi, che aderiscono alla religione riformata, non vogliono un Re cattolico e tramano invece a favore di Guglielmo, che è un ardentissimo protestante. Allungati pure sul mio letto, ragazzo” rispose l‟abate con vocina fattasi dolce, indicandomi il suo giaciglio. “Ma allora l‟Inghilterra potrebbe tornare per sempre eretica!” esclamai posando la bisaccia di Cristofano e distendendomi senza farmi pregare, mentre Atto si dirigeva allo specchio. “Già. Ecco quindi che in Inghilterra ci sono attualmente due fazioni: una protestante orangista, e l‟altra cattolica. Il nostro Bedfordi, anche se a noi non lo confesserà mai, deve appartenere alla prima” spiegò mentre l‟arco acuto delle sue sopracciglia, che scorgevo riflesso nello specchio, indicava la scarsa soddisfazione che l‟abate stava traendo dall‟esame della propria immagine. “E voi come lo deducete?” chiesi guardandolo incuriosito. “A quanto ho potuto capire, Bedfordi s‟è trattenuto per un po‟ di tempo in Olanda, terra di calvinisti.” “Ma in Olanda si trovano anche cattolici, so di nostri pigionanti che vi sono stati per lungo tempo, e sono sicuramente fedeli alla Chiesa di Roma…” “Certo. Ma le Province Unite d‟Olanda sono anche la terra di Guglielmo. Una decina di anni fa il Principe d‟Orange ha sconfitto l‟esercito invasore di Luigi XIV. E ora l‟Olanda è la roccaforte dei cospiratori orangisti” ribatté Atto mentre, tirati fuori con uno sbuffo d‟impazienza un pennellino e una scatolina, si dipingeva di rosso gli zigomi un poco sporgenti. “Insomma, voi pensate che Bedfordi sia andato in Olanda per cospirare a favore del Principe d‟Orange” commentai cercando di non fissarlo troppo. “Ma no, non esagerare” rispose voltandosi verso di me dopo aver dato un‟ultima soddisfatta occhiata allo specchio. “Credo che Bedfordi faccia semplicemente parte di coloro che vorrebbero Guglielmo sul trono, anche perché – non lo dimenticare – in Inghilterra gli eretici sono in gran numero. Sarà uno dei tanti messaggeri tra l‟una e l‟altra sponda della Manica, a rischio di essere prima o poi arrestato e condotto nella prigione della Torre di Londra.” “Infatti Bedfordi ha nominato una torre, mentre delirava.” “Vedi allora che non siamo lontani dal vero” continuò afferrando una seggiola e ponendosi a sedere accanto al letto. “È incredibile” commentai mentre il sonno s‟allontanava. Ero intimidito e agitato da quei mirabolanti e suggestivi racconti. Remoti e possenti conflitti tra i Regnanti d‟Europa si stavano materializzando davanti ai miei occhi, dentro la locanda in cui ero solo un povero garzone. “Ma chi è questo principe Guglielmo d‟Orange, signor Atto?” chiesi. “Oh, un grande soldato, pieno di debiti. Punto e basta” rispose secco l‟abate. “Per il resto, la sua vita è assolutamente piatta e scialba, come anche la sua persona e il suo spirito.” “Un Principe senza un soldo?” domandai incredulo. “Già. E se non fosse sempre a corto di denari, forse il Principe d‟Orange avrebbe già preso il trono inglese con la forza.” Tacqui, pensoso. “Certo, mai e poi mai avrei sospettato che Bedfordi fosse un fuggiasco” ripresi dopo poco.

“Anche qualcun altro lo è. Qualcuno che viene da lontano, e sempre da una città di mare” aggiunse Melani con un sorrisetto, mentre il suo viso, fattosi man mano più vicino, ormai mi sovrastava. “Brenozzi il veneziano?!” esclamai sollevando di scatto il capo dal letto e dando involontariamente una zuccata al naso adunco dell‟abate, che emise un gemito. “Proprio lui, certo” confermò poi alzandosi in piedi e massaggiandosi il naso. “Ma come potete esserne certo?” “Se avessi ascoltato con maggior perspicacia le parole di Brenozzi, e soprattutto se fosse più ampia la tua conoscenza delle cose del mondo, avresti senz‟altro notato un‟inverosimiglianza” rispose in tono vagamente stizzito. “Be‟, ha detto che un cugino…” “Un lontano cugino nato a Londra gli avrebbe insegnato l‟inglese così bene semplicemente per lettera: un po‟ curiosa come spiegazione, non credi?” E rievocò come il vetraio m‟avesse trascinato a forza per le scale, e quasi privo di senno mi avesse sottoposto a una sfilza di domande a proposito dell‟assedio turco e del contagio che forse stava piegando Vienna, e poi m‟avesse nominato le margarite. Ma non d‟un fiore si trattava, proseguì Atto, bensì di uno dei più preziosi tesori della Serenissima Repubblica Veneta, che essa è disposta a difendere con ogni mezzo, e a cagione del quale il nostro Brenozzi versava ora in tanta difficoltà. Nelle isole che si trovano nel cuore della laguna veneta è custodita infatti una segreta ricchezza a cui i Dogi, che da molti secoli sono i capi di quella Serenissima Repubblica, massimamente tengono. In quelle isole sorgono le manifatture del vetro e delle perle, dette dal latino anche margarite, la cui lavorazione riposa su segreti dell‟arte tramandati da molte generazioni, e di cui i Veneziani sono orgogliosi e soprattutto gelosi al massimo grado. “Ma allora le margarite cui m‟aveva accennato e le perline che poi m‟ha messo in mano sono la stessa cosa!” esclamai confuso. “Ma quanto potevano valere?” “Non lo immagini neppure. Se tu avessi viaggiato un decimo di quanto ho potuto io, sapresti che su quei bei monili di Murano è colato, e colerà ancora per chissà quanto, il sangue copioso dei Veneziani” disse Melani sedendosi allo scrittoio. I maestri vetrai e i loro garzoni per tradizione godevano nei mesi autunnali d‟un periodo di licenza. In questo tempo potevano sospendere il lavoro nelle loro manifatture, rimettere a nuovo i forni con cui veniva lavorato il vetro e recarsi all‟estero per commercio. Ma non pochi mastri vetrai rimanevano spesso impegolati nei debiti, o si trovavano in difficoltà a causa del periodico ristagno delle committenze. I loro viaggi all‟estero si trasformavano allora in preziose occasioni per fuggire alla ricerca di miglior sorte. A Parigi, Londra, Vienna e Amsterdam, ma anche a Roma o a Genova, i vetrai fuggiaschi trovavano padroni più generosi e un commercio con meno concorrenti. La fuga non era però gradita ai Magistrati del Consiglio dei Dieci di Venezia, che non avevano nessuna intenzione di perdere il controllo di quell‟arte, che tanto denaro aveva portato nelle casse dei Dogi, e avevano affidato il caso agli Inquisitori di Stato, lo speciale consiglio incaricato di vigilare affinché nessun segreto capace di recare pregiudizio alla Serenissima Repubblica venisse propalato.

Per gli Inquisitori era sin troppo facile capire se qualche vetraio stesse per prendere il largo. Bastava osservare se tra gli artigiani della laguna si diffondessero malumori, e se si facessero vedere in giro i reclutatori di vetrai, inviati dalle potenze straniere per aiutare la fuga. I reclutatori venivano seguiti passo dopo passo, calle dopo calle, portando così gli Inquisitori direttamente alla porta di coloro che stavano per fuggire. Ma il gioco era rischioso anche per gli imprudenti emissari degli stranieri, che non di rado venivano rinvenuti in qualche canale con la gola squarciata. Molti Veneziani riuscivano infine a imbarcarsi, ma anche all‟estero venivano presto scovati grazie alla rete di ambasciatori e consoli della Repubblica Veneta. A quel punto alcuni discreti intermediari inviati da Venezia cercavano, dapprima con promesse e blandizie, di convincerli al ritorno. A chi aveva infranto la legge (persino agli omicidi) veniva offerta un‟amnistia. A chi era fuggito per i troppi debiti si offriva una dilazione dei pagamenti. “E i vetrai tornavano?” “Dovresti dire ”tornano“, giacché questa tragedia si ripete tutt‟oggi, e io credo proprio in questa locanda.” Coloro che non accettavano le insistenti offerte inviate dalla Serenissima Repubblica, proseguì l‟abate, venivano improvvisamente lasciati soli. Niente più visite d‟intermediari, niente più proposte: ciò per turbarli e inquietarli sottilmente. Dopo qualche tempo iniziavano le minacce, i pedinamenti, i danneggiamenti alle nuove botteghe appena fondate, a prezzo di gravi sacrifici, in terra straniera. Qualcuno cede, qualcun altro fugge nuovamente in altri Paesi portando con sé i segreti del mestiere. Altri ancora resistono sul posto, rifiutando di rimpatriare. E contro di loro che si accaniscono gli Inquisitori. Le loro lettere vengono sistematicamente intercettate. Vengono minacciati i parenti rimasti a Venezia, e si vieta loro l‟espatrio. Le mogli di margaritari e specchieri vengono spiate e punite severamente se si avvicinano a un molo. Gli irriducibili vengono banditi senza alcun preavviso; e quando sono al colmo della disperazione viene loro offerto il rimpatrio e il confino a vita nell‟isoletta di Murano. Per chi non accetta c‟è l‟opera destra e segreta dei sicari. Colpito un ribelle, ragionano gli Inquisitori, se ne educheranno cento. Al ferro, che rivela la fine violenta, è sovente preferito il veleno. “Ecco perché il nostro Brenozzi è tanto preoccupato” concluse l‟abate Melani. “Il margaritaro, vetraio o specchiere che fugge da Venezia trova l‟inferno. Vede assassini e tradimenti dappertutto, dorme con un occhio solo, cammina guardandosi sempre dietro le spalle. E anche Brenozzi ha di certo conosciuto le violenze e le minacce degli Inquisitori.” “E io, che ingenuamente mi ero fatto spaventare da quanto m‟aveva detto Cristofano sui poteri delle mie perline!” esclamai con un po‟ di vergogna. “Solo adesso capisco perché Brenozzi mi ha chiesto, e a brutto muso, se era abbastanza: con quelle tre perline voleva comprare il mio silenzio sulla nostra conversazione.” “Bravo, ci sei arrivato.” “Tuttavia, non trovate strano che ci siano ben due fuggitivi in questa locanda?” chiesi alludendo alla presenza contemporanea di Bedfordi e Brenozzi.

“Non molto. In questi anni non pochi sono fuggiti da Londra, e altrettanti da Venezia. Probabilmente il tuo padrone non è il tipo che fa la spia facilmente, e forse neppure la signora Luigia Bonetti che teneva la locanda prima di lui. Forse il Donzello è considerato un albergo ”tranquillo“, dove può trovare riparo chi fugge da guai grossi. E posti di questo genere, tra gli esuli, vengono spesso tramandati di bocca in bocca. Ricorda: il mondo è pieno di gente che vuole sfuggire al proprio passato.” M‟ero intanto sollevato dal giaciglio e, presa la bisaccia, versai in una scodellina uno sciroppo per l‟abate indicatomi dal medico. Gli spiegai brevemente di cosa si trattava e Atto lo bevve senza fare storie. Poi s‟alzò in piedi e canterellando cominciò a risistemare alcune carte sul tavolo: In questo duro esilio… Era curioso come Atto Melani sapesse pescare nel proprio repertorio canoro l‟arietta giusta per ogni situazione. Doveva conservare un ben vivido e tenero affetto, pensai, per la memoria del suo maestro romano: il seigneur Luigi, come lo chiamava lui. “Il povero Brenozzi è dunque in grande ansia” riprese l‟abate Melani. “E forse prima o poi ti chiederà nuovamente aiuto. A proposito, ragazzo, hai una goccia d‟olio sulla testa.” Pulì la piccola stilla sulla mia fronte con la punta del dito e con noncuranza se la mise tra le labbra, suggendola. “Credete che il veleno che avrebbe ucciso Mourai avesse a che vedere con Brenozzi?” gli chiesi. “Lo escluderei” rispose con un sorriso. “Credo sia solo il nostro povero vetraio ad avere tale timore.” “Perché m‟ha chiesto anche dell‟assedio di Vienna?” “E tu dimmi: dove si trova la Serenissima Repubblica?” “Vicino all‟Impero, anzi a meridione, e…” “Basta questo: se Vienna capitola, in pochi giorni di cammino i Turchi dilagheranno innanzitutto verso sud, entrando a Venezia. Il nostro Brenozzi deve aver passato un bel po‟ di tempo in Inghilterra, dove ha potuto apprendere discretamente l‟inglese di persona, e non per lettera. Ora probabilmente vorrebbe tornare a Venezia, ma si è reso conto che il momento non è propizio.” “Rischia cioè di finire in bocca ai Turchi.” “Proprio così. Si dev‟essere spinto fino a Roma sperando magari d‟aprirvi bottega e mettersi così al sicuro. Ma s‟è accorto che anche qui la paura è grande: se i Turchi vincono a Vienna, dopo Venezia arriveranno al ducato di Ferrara. Attraverseranno le terre di Romagna e i Ducati di Urbino e Spoleto, oltre le dolci colline umbre si lasceranno sulla destra Viterbo per puntare…” “Su di noi” rabbrividii, scorgendo forse per la prima volta con chiarezza il pericolo che ci sovrastava. “Non è necessario ch‟io ti spieghi cosa accadrebbe in tale eventualità” disse Atto. “Il Sacco di Roma di un secolo e mezzo fa diventerà ben poca cosa al confronto. I Turchi devasteranno lo Stato Pontificio, portando la loro naturale ferocia alle estreme conseguenze. Basiliche e chiese, a cominciare da San Pietro, verranno rase al suolo. Preti, Vescovi e Cardinali saranno prelevati nelle loro case e sgozzati, i crocefissi e gli altri simboli della fede verranno divelti e incendiati; il popolo verrà depredato, le donne orribilmente violate, città e campagne andranno in rovina per sempre. E se si avvererà questo primo crollo, tutta la Cristianità rischierà di finire preda della fiumana turca.” L‟esercito degl‟infedeli, risalendo dai boschi del Lazio, avrebbe in

seguito travolto il granducato di Toscana, poi il ducato di Parma e, passando per la Serenissima Repubblica di Genova e il ducato di Savoia, avrebbe dilagato (solo qui forse vidi sul volto dell‟abate Melani una punta di autentico orrore) nei territori francesi in direzione di Marsiglia e di Lione. E a questo punto, almeno teoricamente, avrebbe potuto puntare su Versailles. Fu allora che cedetti nuovamente allo sconforto e, congedandomi da Atto con un pretesto, raccolsi la bisaccia e m‟allontanai infilando di corsa le scale, fermandomi solo quando ebbi raggiunto la breve rampa che portava al torrino. Qui diedi sfogo a tutto il mio turbamento, abbandonandomi a uno sconsolato soliloquio. Ero prigioniero in un‟angusta locanda ove si sospettava, ormai ragionevolmente, albergasse il morbo della peste. Ero appena riuscito a rinfrancarmi grazie alle parole del medico, che prefigurava una mia resistenza ai morbi, e ora secondo Melani correvo il rischio di uscire dalla locanda del Donzello e di trovare Roma invasa dai sanguinari fedeli di Maometto. Da sempre sapevo di non poter contare che sulla bontà d‟animo di poche persone, tra cui Pellegrino, che m‟aveva benignamente tratto in salvo dai pericoli e dalle durezze della vita; questa volta, invece, potevo contare solo sulla compagnia, certamente non disinteressata, d‟un abate castrato e spione, i cui ammaestramenti erano per me quasi solo fonte d‟angoscia. E gli altri pigionanti della locanda? Un gesuita dal temperamento bilioso, un gentiluomo marchigiano ombroso e scostante, un chitarrista francese dai modi bruschi, un medico toscano con le idee confuse e forse anche pericolose, un vetraio veneziano in fuga dalla sua patria, un sedicente poeta napoletano, più il mio padrone e Bedfordi, che giacevano impotenti nei loro letti. Mai prima d‟allora avevo avvertito così profondamente il sentimento della solitudine, quando il mio parlottio venne improvvisamente interrotto da una forza invisibile che mi proiettò indietro lasciandomi disteso a terra, e scorsi sopra di me l‟ospite che avevo tralasciato nel mio muto inventario. “M‟hai spaventato, sciocco.” Cloridia, avvertita una presenza estranea dietro il suo uscio (al quale infatti ero appoggiato) aveva spalancato la porta di scatto, facendomi rotolare dentro la sua stanza. Mi alzai in piedi senza neppure tentare di giustificarmi e mi asciugai frettolosamente il viso. “E poi” proseguì “ci sono disgrazie peggiori che la peste o i Turchi.” “Avete udito i miei pensieri?” replicai stupito. “Innanzitutto non pensavi, perché chi pensa davvero non ha tempo per i piagnistei. E poi siamo in quarantena per sospetto di contagio, e a Roma in queste settimane nessuno dorme una sola notte senza sognare i Turchi che entrano da porta del Popolo. Perché mai potevi frignare tu?” E mi porse un piatto con un bicchiere mezzo pieno di acquavite e una ciambellina all‟anice. Accennai a sedermi timidamente sul bordo del suo alto letto. “No, non lì.” M‟alzai d‟istinto, rovesciando metà del liquore sul tappeto, agguantando per miracolo la ciambella ma inondando il letto di briciole. Cloridia non disse nulla. Farfugliai una scusa e cercai di porre rimedio al piccolo disastro, chiedendomi perché mai non m‟avesse aspramente rimproverato, com‟era solito fare

il signor Pellegrino come anche qualsiasi pigionante della locanda (eccetto, in verità, l‟abate Melani che aveva avuto nei miei confronti una condotta più liberale). La giovane donna che mi s‟ergeva di fronte era l‟unica persona di cui sapessi al contempo tanto poche cose quanto certe. I miei contatti con lei si limitavano ai pasti che il mio padrone m‟ordinava di prepararle e di portarle, ai biglietti sigillati che talvolta mi chiedeva di consegnare a questo o a quello, alle servette che cambiava spesso e che di volta in volta ammaestravo sull‟uso dell‟acqua e della dispensa nella locanda. Ecco tutto. Per il resto nulla sapevo di come vivesse nel torrino ove riceveva gli ospiti tramite il passaggio che dava sui tetti, e nulla era necessario sapere. Non era una semplice meretrice, era una cortigiana: troppo ricca per essere una puttana, troppo avida per non esserlo. E tuttavia ciò non è sufficiente per intendere a dovere chi fosse una cortigiana, e di quali raffinate arti fosse maestra. Perché tutti sapevano cosa si facesse nelle stufe, quei bagni di vapor caldo importati a Roma da un tedesco e consigliati per eliminare col sudore gli umori putridi, bagni tenuti per lo più da femmine di malaffare (ce n‟era una proprio a due passi dal Donzello ch‟era a detta di tutti la più famosa e antica di Roma, e si chiamava proprio Stufa delle Donne); e tutti conoscevano, persino io, che commerci si potevano avere con alcune femmine presso Sant‟Andrea delle Fratte, o nei dintorni di via Giulia, o a Santa Maria in Via. E si sapeva benissimo che a Santa Maria in Monterone identico mercimonio avveniva financo nelle stanze della parrocchia, e che già nei secoli antichi i Pontefici avevano dovuto vietare al clero la convivenza promiscua con questa specie di donne, e che però tali divieti erano stati spesso ignorati o aggirati. Era infine chiarissimo chi si celasse dietro nobili nomi latini come Lucrezia, Cornelia, Medea, Pentesilea, Flora, Diana, Vittoria, Polissena, Prudenzia o Adriana; o chi fossero Duchessa e Reverendissima, che avevano osato rubare il titolo ai loro illustri protettori; o, di nuovo, quali bramosie amassero scatenare Selvaggia e Smeralda, e quale fosse la vera natura di Fior di Crema, o perché Gravida si chiamasse così, o infine che mestiere facesse Lucrezia La Sgarra tona. A che indagare? C‟era chi aveva fatto già da un secolo e più il censimento delle categorie: meretrici, puttane, curiali, da lume, da candela, da gelosia, da impannate, donne di partito o della minor sorte, mentre alcune filastrocche burlesche conoscevano anche le domenicali, le bizzocche, le osiniane, le guelfe, le ghibelline e mille mille altre. Quante erano? Abbastanza da far pensare a papa Leone X, allorquando si doveva riparare la via che andava verso piazza del Popolo, di imporre una tassa alle puttane, le quali abitavano numerose in quel rione. Sotto papa Clemente VII c‟era chi giurava che ogni dieci romani vi fosse una mercenaria (a cui aggiungere ruffiani e lenoni), e aveva forse ragione Sant‟Agostino quando diceva che se scomparissero le prostitute, ogni cosa sarebbe sconvolta da sfrenate licenze. Ma le cortigiane, loro erano altra cosa. Perché con esse il trastullo amoroso diveniva esercizio sublime: vi si poteva misurare non più l‟appetito del mercante o del soldato, ma l‟ingegno di Ambasciatori, Principi e Cardinali. L‟ingegno: perché la cortigiana con gli uomini gareggia vittoriosamente in versi, come Gaspara Stampa che dedica un intero ardente canzoniere a Collatino di Collalto, o come Veronica Franco che sfida, a letto e con i versi, i potenti della famiglia Venier; o come Imperia,

la regina delle cortigiane romane, che sapeva forgiare con grazia madrigali e sonetti, e che fu amata da talenti illustri e opulenti quali Tommaso Inghirami, Camillo Porzio, Bernardino Capella, Angelo Colocci e lo straricchissimo Agostino Chigi, oltre a posare per Raffaello e forse a rivaleggiare con la stessa Fornarina (finì suicida, Imperia, ma prima della morte papa Giulio II le accordò l‟assoluzione integrale dei peccati, e il Chigi le fece erigere un monumento). La celebre Madremia-non-vuole, così soprannominata per un improvvido rifiuto giovanile, conosceva a memoria tutto Petrarca e Boccaccio, e Virgilio e Orazio e cento altri Autori. Ecco: la donna che avevo innanzi apparteneva, come dice Pietro l‟Aretino, a quella schiatta di sfacciate la cui pompa sfianca Roma, mentre le mogli vanno coperte per le strade borbottando paternostri. “Sei venuto anche tu a chiedere cosa ti riserva il futuro?” chiese Cloridia. “Vuoi la buona novella? Guarda che le cose venture, e lo dico a tutti quelli che vengono qui, non sempre sono come le si desidera.” Tacqui perplesso. Tutto credevo di aver saputo di quella donna, e invece ignoravo che sapesse predire il futuro. “Di magia non so nulla. E anche se vuoi conoscere gli arcani delle stelle devi andare da qualcun altro. Ma se non ti è mai stata letta la mano allora è Cloridia che cercavi. O magari hai fatto un sogno, e vuoi sapere il suo senso nascosto. Non dirmi che sei venuto senza alcun desiderio, perché non ti crederò. Nessuno viene da Cloridia senza volere qualcosa.” Ero incuriosito, emozionato e titubante al tempo stesso. Mi sovvenne che anche a lei dovevo somministrare i rimedi di Cristofano, ma rimandai. Invece colsi al volo l‟occasione e le raccontai dell‟incubo in cui mi ero visto cadere nell‟oscura cavità sotterranea del Donzello. “No, no, non è chiaro” commentò alla fine Cloridia scuotendo la testa “l‟anello era d‟oro o di materia vile?” “Non saprei.” “Allora l‟interpretazione è dubbia. Perché un anello di ferro significa: un bene con una pena. Anello d‟oro significa: gran profitto. Io trovo interessante la tromba, che è indice di segreti, nascosti o rivelati. Forse Devizé è legato a qualche segreto, che egli può conoscere o meno. Ti risulta?” “No, veramente so solo che è valentissimo suonatore di chitarra” dissi memore della musica meravigliosa che avevo sentito procedere dalle corde del suo strumento. “Certo che non puoi sapere altro, sennò che segreto sarebbe il segreto di Devizé?” rise Cloridia. “Poi però nel tuo sogno c‟è Pellegrino. Tu l‟hai visto come morto e poi risorto, e i morti che risorgono significano: travagli e danni. Dunque vediamo: anello, segreto, morto che risorge. Il significato, ripeto, non è chiaro a causa dell‟anello. L‟unica cosa chiara sono il segreto e il morto.” “Allora il sogno è presagio di sventura.” “Non è detto. Perché il tuo padrone in realtà è solo malato, è in cattive condizioni, ma non morto. E malattia significa semplicemente: oziosità e poco impiego. Forse, da quando Pellegrino non è in forze, temi di aver trascurato i tuoi doveri. Ma non avere paura di me” disse Cloridia estraendo pigramente da un cesto una nuova ciambellina “non sarò certo io a dire a Pellegrino se sei un po‟ svogliato. Dimmi invece, cosa si dice dabbasso? A parte lo sventurato Bedfordi, gli altri mi pare godano tutti di ottima salute, no?” e con fare vago aggiunse: “Pompeo Dulcibeni, per esempio? Te lo chiedo, visto che è tra i più anziani…”.

Ecco che Cloridia tornava a chiedermi di Dulcibeni. Mi scostai rabbuiato. Capì subito: “E non aver paura di starmi vicino” disse traendomi a sé e arruffandomi i capelli “io la peste per il momento non ce l‟ho”. Mi rammentai allora del mio dovere sanitario e le riferii che Cristofano m‟aveva già consegnato i rimedi preventivi da somministrare a tutti i sani. Arrossendo, aggiunsi che dovevo cominciare dall‟unguento alla violetta di mastro Giacomo Bortolotto da Parma, che avrei dovuto spalmarle su schiena e fianchi. Tacque. Sorrisi debolmente: “Se preferite, ho qui anche le balotte di Orsolin Pignuolo da Pontremoli. Possiamo cominciare da quelle, visto che avete il camino in stanza”. “Va bene” rispose. “Purché non sia cosa lunga.” Si sedette al tavolino della toletta. La vidi scoprirsi le spalle e raccogliersi le chiome in una cuffia di mussolina bianca sorretta da nastri incrociati. Intanto io attendevo a rinfocolare e raccogliere in un vaso le braci ardenti del caminetto, pensando con un fremito alle nudità ch‟esse dovevano aver vegliato in quelle pur teporose notti di metà settembre. Mi voltai di nuovo verso di lei. S‟era accappata in testa una pezza doppia di lino: sembrava un‟apparizione sacra. “Carrube, mirra, incenso, storace calamita, bengioi, armoniaco, antimonio, impastati con acqua rosa finissima” recitai, ben istruitomi sugli appunti di Cristofano, mentre le poggiavo lesto il vaso con le braci sul tavolino e vi rompevo dentro una balotta “mi raccomando: respirate a bocca ben aperta.” E le tirai giù il telo di lino fino a coprirle il viso. La stanza si riempì in breve d‟un pungente odore. “I Turchi fanno fumi salutiferi ben migliori di questi” borbottò dopo un po‟ da sotto il telo. “Ma noi non siamo Turchi, ancora” risposi goffamente. “E ci crederesti, se ti dicessi che io lo sono?” udii di rimando. “No di certo, donna Cloridia.” “E perché mai?” “Perché siete nata in Olanda, a…” “Ad Amsterdam, bravo. E questo come lo sai?” Non seppi rispondere, perché avevo appreso di tale circostanza proprio pochi giorni prima, origliando alla porta di Cloridia la conversazione tra lei e un ignoto visitatore prima di bussare per consegnare una cesta di frutta. “Te l‟avrà detto una delle mie ragazze, probabilmente. Sì, sono nata in terra di eretici quasi diciannove anni fa, ma Calvino e Lutèro non mi hanno mai avuta tra i loro. Mia madre non l‟ho mai conosciuta, mentre mio padre era un mercante italiano molto ricco e un po‟ capriccioso, che viaggiava molto.” “Oh, beata voi!” azzardai dal basso della mia condizione di semplice trovatello. Tacque, e dal moto del busto intuii che stava inalando profondamente i fumi. Tossì. “Se un giorno mai avrai a che fare con i mercanti italiani, ebbene ricorda: essi sono destinati solo a lasciare i debiti agli altri, e a tenere per sé i profitti.” Non potevo ancora comprendere quanto parlasse a ragion veduta. C‟era stato in effetti un tempo in cui la mercatura era cosa in cui Lombardi, Toscani e Veneti eccellevano al punto da aver conquistato, per usare un gergo militare, le piazze più ricche d‟Olanda,

Fiandra, Germania, Russia e Polonia. E non v‟era niuno che li battesse in spregiudicatezza. Costoro, m‟accennò Cloridia (e di ciò avrei ancor meglio appreso negli anni a venire), erano in gran parte i discendenti di famiglie dalla chiarissima fama come Buonvisi, Arnolfini, Calandrine Cenami, Balbani, Balbi, Burlamacchi, Parenzi e Sam- miniati, da tempo immemorabile esperti nella mercatura dei tessuti e dei grani sulla piazza di Anversa, che era allora il più grande mercato d‟Europa, e poi anche come banchieri e sensali di cambio ad Amsterdam, Besanzone e Lione. E ad Amsterdam la stessa Cloridia aveva tastato da vicino la fama dei Tensini, dei Verrazzano, dei Balbi, dei Quingetti, e poi dei Burlamacchi e Calandrini già presenti ad Anversa: Genovesi, Fiorentini, Veneziani, tutti commercianti, banchieri e sensali di cambio, alcuni agenti di Principati e Repubbliche italiane. “E vendevano tutti granaglie?” domandai appoggiandomi con i gomiti sul tavolino per udire e farmi udire meglio. Cominciavo a essere irretito dal racconto di quelle terre lontane che, per chi come me non aveva in mente un‟immagine precisa delle coste del Nord, ancora non avevano un posto sull‟orbe terracqueo. “No, te l‟ho detto. Prestavano, prestano tuttora soldi, hanno molti traffici. I Tensini per esempio sono assicuratori e noleggiatori di navi, comprano caviale, sego e pellicce dalla Russia, e poi procurano i farmaci allo Zar. Ora sono quasi tutti assai ricchi, ma alcuni sono arrivati colà tra i tanti miserabili, qualcuno ha cominciato come birraio, altri erano semplici tintori…” “Birraio?” rimpallai scettico all‟istante, incredulo che si potesse in tal modo accumulare una fortuna. Tenevo ormai il mio viso vicinissimo al suo: tanto non poteva vedermi. E questo mi dava grande sicurezza. “Ma certo: i Bartolotti, che hanno la casa più bella di tutta la città sull‟Heerengracht, e che ora sono tra i banchieri più potenti di Amsterdam, azionisti e finanziatori della Compagnia delle Indie.” Mi spiegò che dall‟Olanda, o meglio, dalle Sette Province Unite, come suonava il nome ufficiale della Repubblica, partivano tre volte l‟anno navi cariche di cibo e merci e oro da scambiare sulla via delle Indie, e tornavano dopo molti mesi cariche di spezie, zucchero, salnitro, seta, perle, conchiglie, spesso dopo aver barattato seta cinese con rame giapponese, stoffe con pepe, elefanti con cannella. E per radunare la ciurma e armare i fluii (così si chiamavano le navi veloci impiegate dalla Compagnia) i denari venivano equamente forniti dai signori e dai potenti della città, che al ritorno dei vascelli spesso (ma non sempre) traevano enorme guadagno dalle merci arrivate, e altri ancora maggiori profitti riuscivano a trarne in seguito, giacché secondo la religione eretica di quel popolo è premiato col paradiso chi più duramente lavora e guadagna, anche se poi non è considerata cosa buona far sperpero di quel guadagno, ed è stimata cosa importante l‟esser frugali, modesti e probi. “E i Bartolotti, i birrai, sono eretici anche loro?” “Sulla facciata della loro casa ci sono le parole ”Religione et Probitate“, e questo basta a indicare che sono seguaci di Calvino, anche perché …” Cominciai ad ascoltarla con difficoltà: le esalazioni del suffumigio mi davano forse alla testa.

“Che vuol dire sensale di cambio?” chiesi a un tratto dopo essermi ripreso, visto che alcuni di cotesti mercanti, a dire di Cloridia, erano passati a tale ancor più lucrosa attività. “E chi fa da intermediario tra chi presta denaro e chi lo prende a prestito.” “Ed è un buon mestiere?” “Se vuoi sapere se sia buona gente coloro che lo fanno, ebbene dipende. Se sia un lavoro che rende ricchi, questo invece è certo. Anzi da ricchi rende ricchissimi.” “Gli assicuratori e i noleggiatori sono più ricchi?” Cloridia sbuffò: “Posso alzarmi?”. “No, monna Cloridia, non finché non sia esaurito il fumo!” la fermai. Non volevo porre fine così presto ai nostri conversari. Avevo cominciato anche, quasi senza avvedermene, a lisciare con un dito il lembo del telo di lino che le copriva il capo: non poteva accorgersene. Sospirò. E qui il mio eccesso di ingenuità, unito alla poca conoscenza delle cose del mondo (e a circostanze che in tale frangente ignoravo senza colpa), ebbe l‟effetto di sciogliere la favella a Cloridia. Inveì improvvisamente contro i mercanti e il loro denaro, ma soprattutto contro i banchieri, la cui ricchezza era alla fonte di ogni nefandezza (ma più aspre parole e ben altri accenti usò in verità Cloridia) ed era all‟origine di ogni male, specie se dato in prestito da usurai e sensali, e massime quando ne erano destinatari i Re e i Papi. Ora che il mio spirito non è più quello incolto del garzonetto, so quanto avesse ragione. So che Carlo V comprò l‟elezione a Imperatore con i soldi dei banchieri Fugger; e che i malaccorti Sovrani spagnoli, per aver fatto troppo ricorso ai capitali dei prestasoldi genovesi, dovettero dichiarare una vergognosa bancarotta che mandò in rovina molti dei loro stessi finanziatori. E ciò senza neppure dire del discusso Orazio Pallavicino che pagava le spese di Elisabetta d‟Inghilterra, o dei toscani Frescobaldi e Ricciardi che già al tempo di Enrico III prestavano alla Corona d‟Inghilterra e riscuotevano famelici le decime per conto dei Papi. Cloridia intanto s‟era sollevata dalle braci e s‟era tolta il lenzuolo dalla testa, facendomi fare un balzo all‟indietro, rosso di vergogna. Si strappò financo la cuffia e la lunga e riccia chioma le cadde a raggiera sulle spalle. M‟apparve allora per la prima volta in una luce nuova e ineffabile, capace di cancellare ciò che di lei avevo visto – e soprattutto ciò che non avevo visto, ma che mi pareva ancor più incancellabile – e vidi con le pupille e credo con l‟anima tutta il bell‟incarnato di lucente velluto bruno che contrastava con i folti riccioli biondo veneziano, e poco importava in quel momento che li sapessi figli di feccia di vino bianco e olio d‟oliva, se facevano da cornice ai lunghi occhi neri e alle serrate perle della bocca, al naso tondetto per saper esser orgoglioso, alle labbra ridenti con quel poco di rosso che bastava a toglierne il vago pallore, e alla figura piccola ma sottile e armoniosa e alla bella neve del petto, intatta e da due soli baciata, sopra le spalle degne di un busto del Bernini o almeno così mi pareva et satis erat, e la voce sua che sebbene alterata e quasi resa tonitruante dall‟ira, o forse proprio per quello, mi empiva di lascivetti desiri e languidetti sospiri, di rustiche frenesie, sogni fioriti, di odorosi vegetabili deliri, e quasi mi pareva di poter diventare invisibile a occhio altrui, per la nebbia di desio che m‟avvolgeva e che mi fece apparire Cloridia più

sublime d‟una Madonna di Raffaello, più ispirata d‟un motto di Teresa d‟Àvila, più mara- vigliosa di un verso del cavalier Marino, più melodiosa di un madrigale di Monteverdi, più lasciva di un distico di Ovidio e più salvifica di un intero tomo di Fracastoro. E dicevo a me stesso che no, non avrà mai ugual potere il poetare d‟una Imperia, d‟una Veronica, d‟una Madre-mia-non-vuole (sebbene tanto mi aggravasse l‟animo sapere che basse femmine a pochi metri dalla locanda, nella Stufa delle Donne, erano lì pronte a tutto, anche per me, solo ad aver due scudi), e mentre ancora l‟ascoltavo, in un lampo rapido come i cavalli del cardinal Chigi, venni trafitto dal pensiero di tutte le volte che avevo portato sin al suo uscio la tinozza con l‟acqua caldissima per il bagno, e mai avrei compreso come lei dietro quelle poche assi di legno, con la serva a strofinarle dolcemente la nuca con acqua di talco e lavanda, mi potesse essere stata indifferente quanto ora m‟accendeva la mente e i sensi e lo spirto tutto. E così assorto perdevo di vista (ma solo più tardi ne avrei avuto piena contezza) quanto bizzarro fosse quell‟inveire contro i mercanti da parte della figlia di un mercante, e soprattutto quanto inattesi quegli accenti di orrore per il denaro sulla bocca d‟una cortigiana. E oltre a essere cieco a tali stranezze, per poco non fui anche sordo alle ritmiche percussioni delle nocche di Cristofano sull‟uscio di Cloridia, la quale invece rispose prontamente alla cortese richiesta d‟ingresso e fece entrare il medico. M‟aveva cercato dappertutto. Aveva bisogno del mio aiuto per la preparazione d‟un decotto: Brenozzi lamentava un forte dolore alla mascella e gli aveva chiesto un rimedio. A malincuore venni quindi distolto dal mio primo colloquio con l‟unica ospite femminile del Donzello. Subito ci congedammo. Con gli occhi della speranza volli scorgere nel suo volto una traccia di tristezza per la separazione, e ciò pur tuttavia – mentre richiudeva l‟uscio – non m‟impedì di scorgere sul suo polso un‟orribile cicatrice che la sfigurava quasi fin sul dorso della mano. Cristofano mi riportò in cucina, dove fui incaricato di reperire alcuni semi, erbe e una candela nuova. Poi mi fece scaldare una pignatta con poca acqua mentre egli stesso riduceva in polvere e setacciava gl‟ingredienti, e quando l‟acqua fu calda a dovere vi ponemmo il trito finissimo, che subito sprigionò un gratissimo profumo. Mentre preparavo il fuoco per il decotto gli chiesi se era vero, come avevo sentito dire, che potevo usare il vino bianco anche per pulire e imbiancare i denti. “Certo, e avresti opera buona e perfetta, ma solo se lo usi per lavare la bocca. Se lo mescoli al caolino, vedrai un bellissimo effetto che piacerà massime alle giovani donne. Lo devi strofinare su denti e gengive, meglio se con una pezza di scarlatto come quella che stava sopra al letto di Cloridia, e su cui eri seduto tu.” Finsi di non cogliere la duplice allusione e m‟affrettai a deviare il discorso chiedendo a Cristofano se mai avesse sentito parlare di suoi conterranei toscani, quali i Calandrini, i Burlamacchi, i Parenzi, e altri (anche se in realtà furono forse un paio i nomi che potei ricordare senza storpiarli). E, mentre mi comandava di porre ormai nella pignatta il trito d‟erbe e cera, Cristofano mi rispose che sì, qualcuno di quei nomi era assai conosciuto in Toscana (anche se alcune di tali casate erano in realtà da tempo

decadute), ed egli stesso in alcuni casi ne conosceva le famiglie per aver curato i loro segretari, servitori e famigli. E in particolare era noto, generazioni or sono, che i lucchesi Burlamacchi e Calandrini avevano abbracciato la religione di Calvino e i loro figli e nipoti avevano scelto prima Ginevra e poi Amsterdam come loro patria, e anche senza arrivare a tanto i Benzi e i Tensini erano comunque così legati ai traffici con l‟Olanda, dove avevano comprato terreni, ville e palazzi, che in Toscana li chiamavano infiamengati. Era vero quanto riferito da Cloridia: sovente erano arrivati ad Anversa e Amsterdam privi di mezzi, e avevano imparato sul posto l‟arte difficile e rischiosa della mercatura. Alcuni avevano fatto fortuna, si erano sposati e imparentati con nobili famiglie del luogo; altri erano crollati sotto il peso dei debiti, e di loro non s‟era avuta più notizia. Altri ancora erano morti su qualche nave affondata tra i ghiacci artici di Arcangelo o nelle acque di Malabar. Altri ancora infine s‟erano arricchiti, ma in età avanzata avevano preferito tornare in patria, dove s‟erano guadagnati giusti onori: come Francesco Feroni, un misero tintore di Empoli, che aveva cominciato trafficando con la Guinea lenzuola vecchie, saie pavonazze di Delft, tele di cotone, margaritine di Venezia, quantità d‟acquavite, vino di Spagna e birra gagliarda. Coi suoi negozi s‟era tanto arricchito che nel granducato di Toscana s‟era guadagnato gran fama già prima del rientro, anche per aver servito da ottimo ambasciatore del Granduca, Cosimo III de‟ Medici, nelle Province Unite. Infine, quando aveva deciso di tornare in Toscana, il Granduca stesso lo aveva nominato suo Depositario Generale, suscitando le invidie di tutta Firenze. Feroni aveva riportato in Toscana cospicue ricchezze, s‟era comprato una splendida villa nella campagna di Bellavista, e nonostante le malevolenze dei fiorentini poteva ben dirsi fortunato per essere tornato in patria ed esser sfuggito al pericolo. “Quello di finire affogato con la nave?” “Non solo quello, ragazzo! Certi traffici portano con sé infiniti rischi.” Avrei voluto chiedergli cosa intendesse, ma a questo punto il decotto era pronto e Cristofano mi disse di portarlo a Brenozzi nella sua stanzetta al secondo piano. Seguendo le indicazioni del medico, raccomandai al veneziano d‟aspirare con la bocca ben aperta i suffumigi ancora caldi: dopo tale trattamento, di certo la mascella gli avrebbe doluto assai meno o punto. Infine Brenozzi avrebbe lasciato fuori dall‟uscio la pignatta acciocché la si potesse riprendere in consegna. Grazie al mal di denti, mi venne risparmiata la sua loquela. Potei così tornare immediatamente in cucina per riprendere la conversazione con il medico prima che tornasse in camera sua. Vi trovai invece, purtroppo, l‟abate Melani. Feci fatica a nascondere la mia costernazione. I momenti passati con Cloridia, conclusi dall‟inquietante visione del suo polso martoriato, nonché la sua singolare orazione contro i mercanti mi facevano avvertire il disperato bisogno d‟interrogare ancora Cristofano. Il medico invece, in ossequio alle sue stesse prescrizioni, era prudentemente tornato in camera senza attendere il mio ritorno. E ora a gravare sui miei pensieri s‟era aggiunto Atto Melani, che sorpresi a frugare spensieratamente nella dispensa. Gli feci osservare che la violazione delle disposizioni del medico ci metteva tutti in pericolo, e che sarebbe stato mio dovere avvertire Cristofano, e che inoltre l‟ora della cena non era ancora arrivata e comunque mi sarei certamente incaricato tra poco di soddisfare l‟appetito dei signori pigionanti, se solo (e lanciai

un‟occhiata significativa alla fetta di pane che Melani teneva in mano) avessi potuto disporre liberamente della dispensa. L‟abate Melani cercò di dissimulare il proprio imbarazzo, e rispose che m‟aveva cercato per potermi parlare di certe cose che lo avevano impensierito, ma subito gli fermai le parole in gola e gli dissi che ero stanco di dovergli dar retta mentre tutti ci trovavamo in evidente e grave periglio, mentre ancora non sapevo cosa lui veramente volesse e cercasse, e che non intendevo prestarmi a maneggi di cui non comprendevo lo scopo, e che era per lui giunto il momento di spiegarsi e di fugare ogni dubbio, giacché avevo sentito sul suo conto alcune chiacchiere non onorevoli, e prima di mettermi al suo servigio pretendevo sufficienti spiegazioni. L‟incontro con Cloridia doveva avermi donato nuovi e più freschi talenti, poiché il mio audace discorso parve cogliere alla sprovvista l‟abate Melani. Si disse sorpreso che qualcuno nella locanda credesse di poterlo disonorare senza pagarne il fio, e mi invitò senza troppa convinzione a fargli il nome di chi osasse tanto. Giurò poi che non intendeva in alcun modo abusare dei miei servigi, e affettò enorme stupore: non rammentavo forse più che lui e io insieme stavamo cercando di scoprire chi fosse mai l‟ignoto ladro delle chiavi di Pellegrino e delle mie perline? E che, anzi, prima ancora di questo, urgeva capire se tutto ciò avesse a che fare con l‟assassinio del signor di Mourai, e in qual guisa infine tutto ciò s‟intrecciasse – se realmente s‟intrecciava – con gli accidenti occorsi al mio padrone e al giovane Bedfordi? Non temevo forse più, mi rimproverò, per la vita di noi tutti? Malgrado la sua inarrestabile favella, scorgevo chiaramente che l‟abate annaspava. Incoraggiato dal successo della mia improvvisata sortita, lo interruppi spazientito e, con un angolo del cuore ancora rivolto a Cloridia, pretesi da Melani immediate spiegazioni sul suo arrivo a Roma e sulle sue vere intenzioni. Mentre sentivo il cuore battermi forte nelle tempie e m‟asciugavo idealmente il sudore dalla fronte per l‟audacia di tali rivendicazioni, trattenni a stento lo stupore per la reazione dell‟abate Melani. Il quale anziché respingere le arroganti pretese d‟un semplice garzone, mutò repentinamente in viso e con tutta semplicità e cortesia m‟invitò a sedermi con lui in un angolo della cucina al fine di dare soddisfazione alle mie giuste rimostranze. Accomodatici, l‟abate cominciò a descrivermi una serie di circostanze che, seppure vicine alla favola, devo alla luce dei fatti successivi ritenere vere o largamente verosimili, e che quindi riporterò con la maggior fedeltà possibile. Iniziò l‟abate Melani col dire che, negli ultimi giorni dell‟agosto appena trascorso, Colbert era caduto gravemente malato, arrivando in breve ad agonizzare, e si temeva che il decesso sopravvenisse già nel volgere di pochi giorni. Come accade in tali occasioni, vale a dire quando un uomo di Stato depositario di molti segreti s‟approssima alla fine della vita terrena, l‟abitazione di Colbert nel quartiere Richelieu divenne improvvisamente meta delle visite più disparate, alcune disinteressate, altre meno. Tra le ultime c‟era quella dello stesso Atto che, grazie alle ottime referenze di cui disponeva presso Sua Maestà Cristianissima in Persona, era stato in grado d‟introdursi senza troppe difficoltà tra le mura domestiche del suo ministro. Ivi il grande andirivieni di persone della Corte che si recava a rendere omaggio al moribondo (o semplicemente faceva atto di presenza) aveva permesso

all‟abate di disimpegnarsi abilmente da un salottino e, aggirata la già pigra sorveglianza, d‟infilarsi nelle stanze private del padrone di casa. Qui in verità aveva rischiato per ben due volte d‟esser sorpreso dalla servitù mentre si nascondeva dietro un tendaggio e poi sotto a un tavolo. Salvatosi per miracolo, era alfine giunto nello studio di Colbert dove, sentendosi finalmente al sicuro, aveva cominciato a frugare frettolosamente tra le lettere e gl‟incartamenti che erano di più facile e rapido accesso. Per un paio di volte aveva dovuto interrompere l‟ispezione, allarmato dal passaggio di estranei nel corridoio adiacente. Tutti i documenti cui aveva potuto dare un rapido sguardo sembravano pressoché privi d‟interesse. Corrispondenza con il ministero della Guerra, affari della Marina, lettere relative alle manifatture di Francia, appunti, conteggi, minute. Nulla di fuori dall‟ordinario. E ancora una volta aveva percepito dalla porta l‟avvicinarsi di altri visitatori. Non poteva rischiare che si diffondesse la voce che l‟abate Melani era stato sorpreso, facendo profitto della malattia di Colbert, a frugare clandestinamente tra le carte del ministro. Aveva quindi afferrato alla rinfusa e infilato a forza nelle braghe alcuni mazzi di corrispondenza e appunti ammucchiati nei cassetti della scrivania e negli armadi, le cui chiavi non aveva faticato molto a trovare. “Ma avevate il permesso di farlo?” “Per vegliare sulla sicurezza del Re ogni gesto è permesso” ribatté secco l‟abate. Stava già scrutando il corridoio semioscuro prima di lasciare lo studio (per la visita l‟abate aveva scelto le ore del tardo pomeriggio, onde poter contare su una minore luminosità), quando l‟intuito gli fece scorgere con la coda dell‟occhio, soffocato in un angolino tra le coltri di una pesante tenda da finestra e il fianco poderoso d‟un armadio d‟ebano, un comodinetto. Era gravato da una considerevole pila di fogli bianchi, in cima alla quale mal si teneva un imponente leggio dal ricco piede. E sul leggio, un fascicolo legato con una cordicella nuova di zecca. “Sembrava non essere ancora stato toccato” spiegò Atto. La malattia di Colbert infatti, una violenta colica di reni, era arrivata al culmine solo da poche settimane. Da alcuni giorni si diceva ch‟egli non attendesse più ad alcuna attività; ciò significava che il fascicolo poteva ancora essere in attesa d‟un lettore. La decisione fu questione di un lampo: depositò quanto aveva già prelevato, e prese con sé il fascicolo. Appena ebbe sollevato il plico, però, gli andò nuovamente l‟occhio sulla pila di fogli bianchi, deformata sotto il peso del leggio. ““Bel posto per riporre della carta da scrivere“ borbottai tra me, attribuendo una tale bètise al solito servitore stolto.” Preso il leggio sotto al braccio sinistro, l‟abate volle dare ai fogli ancora vergini una rapida sfogliata, nel caso si nascondesse tra essi qualche documento interessante. Niente. Era carta di ottima fattura, assai liscia e pesante. Trovò però che alcuni fogli erano stati tagliati in modo tanto accurato quanto singolare: avevano tutti la medesima forma, come di una stella dalle punte irregolari. “Pensai dapprima a qualche mania senile del Colubra. Poi m‟avvidi che qualcuno di quei fogli recava segni di stropicciamento e, sul bordo di una delle punte, lievissime stria ture come di grasso nero. Ero ancora interdetto” proseguì Atto “quando avvertii che il gran peso del leggio mi stava anchilosando il braccio. Mi

risolsi a posarlo sullo scrittoio e m‟avvidi allora con orrore che un lembo del delicatissimo merletto della manica mi s‟era incastrato in una grossolana giuntura del leggio.” Quando l‟abate riuscì a liberare il pizzo, questo recava tracce di grasso nero. “Ah, piccola biscia presuntuosa, credevi di farmela?” aveva pensato Melani in un lampo d‟intuizione. E lesto aveva afferrato una delle stelle di carta ancor nuove. Scrutandola attentamente, la sovrappose a una delle vecchie e la fece ruotare rapido fino a riconoscere qual era la punta giusta. Poi la inserì nella giuntura. Ma non accadde nulla. Ci riprovò nervosamente, ma niente. A quel punto la stella si era ormai spiegazzata e dovette prenderne una nuova. La inserì stavolta con estrema delicatezza nella giuntura, accostando l‟orecchio come fanno i mastri orologiai quando stanno per godere del primo ticchettio della pendola che loro stessi hanno risuscitato a nuova vita. E fu appunto un lieve scatto che l‟abate udì appena la punta del foglio ebbe sfiorato il fondo della fessura: una delle estremità del piede del leggio era scattata in fuori al modo d‟un cassetto, rivelando una piccola cavità. Vi giaceva una busta con l‟effigie di un serpente. “Presuntuosissima biscia” aveva ripetuto tra sé l‟abate Melani di fronte all‟emblema del Colubra, che così a sorpresa gli s‟era presentato innanzi. In quel mentre Atto aveva udito nel corridoio un tramestio di passi che sembravano avvicinarsi rapidamente. Prese la busta, aggiustò la giacca in modo da mascherare per quanto possibile la protuberanza creata dal malloppo e trattenne il fiato, nascosto dietro un tendaggio, mentre sentiva l‟uomo arrivare di fronte alla porta dello studio. Qualcuno varcò l‟uscio e disse, rivolto ad altri: “Sarà già entrato”. I servi di Colbert, non avendo sentito l‟abate Melani entrare nella stanza del degente, avevano iniziato a cercarlo. La porta si richiuse, il servo tornò sui propri passi. L‟abate Melani uscì in gran silenzio e si diresse senza fretta verso l‟uscita. Qui salutò un valletto con un sorriso disinvolto: “Guarirà presto” disse guardandolo dritto negli occhi mentre guadagnava l‟uscita. Nei giorni seguenti non s‟era sparsa voce alcuna della sparizione del fascicolo, e l‟abate aveva potuto leggerlo con tutta calma. “Perdonate signor Atto” lo interruppi “ma come avevate capito qual era la punta di carta giusta da inserire nella giuntura?” “Semplice, tutte le stelle di carta già usate recavano tracce di grasso esattamente sulla medesima punta. Un grossolano errore del Serpente lasciarle lì. Evidentemente negli ultimi tempi i suoi sensi avevano già cominciato ad appannarsi.” “E perché il cassettino segreto non si è aperto subito?” “Stupidamente avevo pensato a un rozzo meccanismo” sospirò Atto “che sarebbe scattato appena si fosse toccato il fondo della fessura con la chiave giusta, vale a dire con la punta di carta dal giusto grado di angolazione. Ma avevo sottovalutato i maestri ebanisti di Francia, capaci d‟ideare congegni sempre più mirabili. In realtà (e qui risiedeva l‟importanza d‟usare un materiale nobile come quei fogli di squisita fattura) si trattava di molteplici e sensibilissimi congegni metallici posti non direttamente sul fondo, bensì lungo l‟ultimo tratto della fessura, i quali solo un lento sfioramento di entrambi i lati avrebbe potuto azionare in perfetta successione.” Tacqui ammirato.

“Avrei dovuto capirlo subito” concluse Atto con una smorfia. “Le stelle usate, infatti, erano annerite non sull‟esatta cima delle punte, bensì lungo i bordi di esse.” II suo intuito non lo aveva deluso: gli era capitato tra le mani, a suo dire, un caso tra i più straordinari. Dentro la busta con la faccia del Colubra (e calcò l‟espressione) era contenuta corrispondenza in lingua latina, inviata da Roma da un ignoto che Melani, a giudicare dallo stile e da altri particolari, capì essere certamente un ecclesiastico. La carta era ingiallita, e sembrava risalire a molti anni prima. Nelle missive si faceva riferimento a notizie riservate che lo stesso informatore aveva in precedenza comunicato al destinatario. Quest‟ultimo, come si desumeva dalla busta, era il signor Sovrintendente Generale alle Finanze Nicolas Fouquet. “E perché le aveva Colbert?” “Ti ho già detto, come ricorderai, che al momento dell‟arresto, e nei giorni seguenti, a Fouquet erano state sequestrate tutte le carte e la corrispondenza di cui era in possesso, sia a fini privati che di Stato.” Il linguaggio del misterioso prelato era tanto criptico, che a Melani non fu possibile capire neanche di qual natura fosse il segreto cui si accennava. Notò, tra l‟altro, che una delle epistole esordiva curiosamente con mumiarum domino, ma non riuscì a darsene alcuna spiegazione. Ma la parte più interessante del racconto dell‟abate Melani doveva ancora venire, e qui la materia assumeva i contorni dell‟incredibile. Il plico che Atto aveva trovato in bella vista sulla scrivania conteneva corrispondenza recentissima che, a causa della malattia, Colbert non aveva ancora potuto sbrigare. Oltre ad alcune scritture di veruna importanza, si trovavano due lettere da Roma del luglio passato, destinate quasi certamente (come pareva di capire dalle formule di ossequio) a Colbert in persona. Il mittente doveva essere un uomo di fiducia del ministro, e segnalava la presenza in città dello scoiattolo sull‟amor caritatis. “E cioè …” “Facile. Lo scoiattolo è l‟animale dello stemma di Fouquet, Yarbor caritatis non può essere che la città della misericordia, e cioè Roma. E infatti secondo l‟informatore l‟ex Sovrintendente Fouquet era stato visto e seguito ben tre volte: presso un luogo chiamato piazza Fiammetta, nelle vicinanze della chiesa di Sant‟Apollinare e in piazza Navona. Tre siti, se non vado errato, della Città Santa.” “Ma non è possibile” obiettai. “Fouquet non è forse morto in carcere, a …” “A Pinerolo, certo, ben tre anni fa e tra le braccia del figlio, a cui nell‟ora estrema fu lasciato pietoso accesso. Eppure le lettere dell‟informatore di Colbert, quantunque in cifra, a me parlavano chiaro: era qui a Roma poco più di un mese fa.” L‟abate a questo punto aveva deciso di partire immediatamente alla volta di Roma per sciogliere il mistero. Due erano le possibilità: o la notizia della presenza a Roma di Fouquet era vera (e ciò avrebbe superato ogni immaginazione, giacché era noto a tutti che il vecchio Sovrintendente era morto per una lunga malattia dopo essere stato segregato in una fortezza per quasi vent‟anni); oppure era falsa, e allora bisognava capire se qualcuno, magari un agente infedele, stesse diffondendo false voci allo scopo di turbare il Re e la Corte, e di aiutare i nemici della Francia. Ancora una volta notai come, nel raccontare tali segrete e sorprendenti vicende, negli occhi dell‟abate Melani s‟accendesse una scintilla di gioia maliziosa, un

solitario compiacimento, una muta lussuria nel riferirle a chi come me, povero garzone, fosse del tutto ignaro d‟intrighi, complotti e occulti affari di Stato. “Colbert è morto?” “Senz‟altro, viste le sue condizioni. Anche se non prima ch‟io partissi.” Colbert in effetti, come avrei appreso più tardi, morì il 6 settembre, esattamente una settimana prima che l‟abate Melani mi narrasse della sua intrusione. “Agli occhi del mondo è morto da vincitore” aggiunse Atto dopo una pausa “ricchissimo e potentissimo. Ha comprato fior di titoli nobiliari e di cariche per la sua famiglia: il fratello Charles è diventato Marchese di Croissy e segretario di Stato per gli Affari esteri; un altro fratello, Edouard-Franqois, fu fatto Marchese di Maulévrier e luogotenente generale delle armate del Re; il figlio Jean-Baptiste è divenuto Marchese di Seignelay, nonché segretario di Stato per la Marina. Senza contare altri fratelli e figli maschi che ha avviato a brillanti carriere militari ed ecclesiastiche, e i ricchi matrimoni procurati alle tre figlie, divenute tutte duchesse.” “Ma Colbert non aveva gridato allo scandalo, accusando Fouquet d‟essere troppo ricco e d‟aver piazzato suoi uomini dappertutto?” “Già, e poi s‟è macchiato del nepotismo più sfacciato. Ha intriso le maglie del Regno di proprie spie come nessuno mai, cacciando e rovinando tutti gli amici più sinceri del Sovrintendente.” Sapevo che Melani si riferiva qui anche al proprio esilio da Parigi. “Non solo: Colbert ha accumulato un patrimonio netto di oltre dieci milioni di livres, sulla cui provenienza però nessuno mai ha sollevato sospetti. Il mio povero amico Nicolas, invece, s‟era indebitato personalmente per reperire fondi per Mazzarino e la guerra contro la Spagna.” “Un uomo astuto, il signor di Colbert.” “E privo di scrupoli” incalzò Melani. “E stato osannato tutta la vita per le sue vaste riforme dello Stato che lo consegneranno, ahimè, alla Storia. Ma noi tutti a Corte sappiamo bene ch‟egli le ha rubate una per una a Fouquet: le operazioni sulle rendite e sui poderi, l‟alleggerimento delle taglie, gli sgravi, le grandi manifatture, la politica navale e coloniale. Non a caso provvide ben presto a far bruciare tutti gli scritti del Sovrintendente.” Era già stato Fouquet, mi spiegò l‟abate, il primo armatore e colonizzatore di Francia, il primo a riprendere il vecchio sogno di Richelieu di fare della costa atlantica e del golfo di Morbihan il centro del rinnovo economico e marittimo del Regno. Era stato lui, già regista della guerra vittoriosa contro la Spagna, a scoprire e organizzare i tessitori del villaggio di Maincy, di cui Colbert ha poi fatto le Manifatture Gobelins. “D‟altronde, che tali riforme non fossero farina del suo sacco fu presto chiaro agli occhi del mondo. Per ben ventidue anni Colbert è stato Controllore Generale, nome più modesto con cui egli, per compiacere il Re, aveva ribattezzato la carica di Sovrintendente ufficialmente abolita. Fouquet, invece, era rimasto al governo solo otto anni. E qui stava il problema: finché ha potuto, il Serpente ha ricalcato le orme del suo predecessore e il successo gli ha arriso. Poi però ha dovuto proseguire da solo quel piano di riforme che Fouquet s‟era visto strappare dall‟arresto. E da lì in poi per Colbert è stato un susseguirsi di mosse false: nella politica industriale e mercantile, dove né i nobili né la borghesia gli hanno dato credito, come nella politica marittima, dove nessuna delle sue sbandierate compagnie navali ha avuto vita lunga, e nessuna è mai riuscita a strappare la supremazia agli Inglesi o agli Olandesi.” “E il Re

Cristianissimo non s‟è accorto di nulla?” “Il Re custodisce gelosamente i propri mutamenti di giudizio; ma pare che, appena i medici hanno dato Colbert per spacciato, egli abbia iniziato un giro di consultazioni per sceglierne il successore e abbia fatto una rosa di nomi di ministri d‟indole e formazione assai distanti da quelle di Colbert. A chi glielo ha fatto rimarcare, pare che Sua Maestà abbia risposto: ”Li ho scelti appunto per questo“.” “Colbert è morto dunque in disgrazia?” “Non esageriamo. Direi piuttosto che tutto il suo ministero è stato travagliato dalle continue ire del Re. Colbert e Louvois, ministro della Guerra, i due intendenti più temuti in Francia, erano scossi da tremori e sudori ogni volta che il Re li convocava in consiglio. Essi godevano della fiducia del Sovrano, ma ne erano i primi due schiavi. Colbert si dovette accorgere ben presto di quanto fosse difficile prendere il posto di Fouquet, e sottostare come lui ogni giorno alle richieste di denaro da parte del Re per guerre e balletti.” “Come se la cavò?” “Nel modo più comodo. Il Colubra cominciò a convogliare nelle mani di uno solo, il Sovrano, tutte le ricchezze che fino ad allora erano state di pochi. Soppresse innumerevoli cariche e pensioni, spogliò insomma d‟ogni lusso privato Parigi e il Regno, e tutto finì nei forzieri della Corona. Tra il popolo, chi prima faceva la fame, ora ne moriva.” “Colbert diventò mai potente quanto lo era stato Fouquet?” “Ragazzo, lo fu molto di più. Giammai il mio amico Nicolas ha disposto delle libertà di cui ha beneficiato il suo successore. Colbert ha messo le mani dappertutto, intervenendo in ambiti rimasti completamente fuori dalla portata di Fouquet, che aveva avuto anche la difficoltà di operare quasi sempre in tempo di guerra. Eppure il passivo che il Serpente ha lasciato è superiore a quello per il quale Fouquet venne additato a rovina dello Stato, lui che per lo Stato s‟era rovinato.” “Nessuno incolpò mai Colbert?” “Scandali ve ne sono stati diversi. Come l‟unico caso di falsificazione di moneta mai avuto in Francia, in cui erano coinvolti tutti uomini del Colubra, persino suo nipote. O anche il saccheggio e i traffici illeciti dei legni di Borgogna, o lo sfruttamento colpevole delle foreste in Normandia, in cui si ritrova persino lo stesso uomo di Colbert, Berryer, che aveva materialmente falsificato le carte nel processo Fouquet. Tutti raggiri per far ammassare soldi alla sua famiglia.” “Una vita fortunata, allora.” “Non direi. Ha passato l‟esistenza a far finta d‟essere integerrimo, accumulando una fortuna che non ha mai potuto godersi. Ha sofferto d‟un‟invidia smodata e mai sopita. Ha sempre dovuto sudare sette camicie per farsi venire un‟ideuzza che non fosse da buttar via. Vittima della sua smania di potere, s‟è sobbarcato il controllo di ogni settore del Paese, passando la vita al tavolo del suo studio. Non s‟è mai divertito un‟ora, e ciononostante è stato odiato dal popolo. Ha ogni giorno subito le più funeste ire del Sovrano. È stato irriso e disprezzato per la sua ignoranza. E proprio queste due ultime hanno finito con l‟ucciderlo.” “Che volete dire?” L‟abate fece una risatina di tutto gusto: “Sai cosa ha condotto Colbert sul letto di morte?”. “Una colica di reni, avevate detto.“ ”Esatto. E sai perché? Il Re, inferocito dalla sua ultima balordaggine, lo aveva convocato e riempito d‟insulti e contumelie.“ ”Qualche errore nell‟amministrazione?“ ”Molto di più. Per imitare la competenza di Fouquet, Colbert aveva messo il becco nella costruzione di una nuova ala della reggia di Versailles, imponendo le proprie opinioni ai costruttori. E questi non riuscirono a

fargli intendere i rischi del suo scellerato intervento.“ ”Ma come: Fouquet era scomparso in carcere già da tre anni e Colbert ne era ancora ossessionato?“ ”Finché il Sovrintendente fu in vita, benché sepolto vivo a Pinerolo, Colbert visse nel terrore costante che il Re lo avrebbe un giorno fatto tornare al suo posto. Scomparso Fouquet, l‟animo del Colubra restò gravato dalla memoria del suo predecessore, troppo più brillante, geniale, colto, amato e ammirato.

Colbert ebbe molti figli, sani e robusti; li arricchì tutti, ebbe un immenso potere, mentre la famiglia del suo avversario era stata dispersa lontano dalla capitale e condannata a lottare in perpetuo contro i creditori. Ma i pensieri del Colubra non riuscirono mai a staccarsi da quell‟unica originaria sconfitta infertagli da Madre Natura, che con sprezzo gli aveva rifiutato i propri doni per concederli invece tanto generosamente al suo rivale Fouquet.“ “Come andò la costruzione a Versailles?” “La nuova ala crollò, e tutta la Corte ne rise. Il Re fece una sfuriata a Colbert che, sopraffatto dallo scorno, ebbe un violentissimo attacco di colica. Dopo giorni di urla di dolore, il male lo condusse all‟agonia.” Ero senza parole, tutto compreso della potenza della vendetta divina. “Voi eravate davvero un buon amico del Sovrintendente Fouquet” fu l‟unica cosa che riuscii a dire. “Avrei voluto essere un amico migliore.” Udimmo una porta al primo piano aprirsi e poi richiudersi, e qualcuno dirigersi verso le scale. “Meglio lasciare il campo libero, arriva la Scienza” disse Atto alludendo all‟avvicinarsi di Cristofano “ma ricordati che più tardi abbiamo qualcosa da fare.” E corse ad acquattarsi lungo la rampa che conduce in cantina, in attesa del passaggio del medico, per poi sgattaiolare lesto su per le scale. Cristofano era venuto a sollecitare la preparazione della cena, a causa delle proteste degli altri pigionanti. “M‟è parso d‟udire dei passi mentre scendevo. Qualcuno è forse stato qui?” “Assolutamente no, avrete udito me: stavo già apprestandomi ai fuochi” risposi fingendomi affaccendato con le pignatte. Avrei voluto trattenere il medico ma egli, pago della mia risposta, tornò subito alla propria stanza, pregandomi di servire la cena quanto prima. Per fortuna, pensai, si era deciso di servire solo due pasti al giorno. Misi mano a una minestra di semmolella con fave, aglio, cannella e zucchero sopra, a cui avrei unito formaggio e un po‟ d‟erbette odorose, con alcune gallette e una mezza foglietta del vino annacquato. Mentre attendevo a tale preparazione, nella mia povera mente di garzone s‟agitavano mille torbidi pensieri. Al primo posto veniva quanto raccontatomi dall‟abate Melani. Ero commosso: ecco, pensavo, tutta la difficoltà presente e passata dell‟abate: uomo capace di menzogna e dissimulazione (e chi in qualche misura non lo è?), ma non incline a rinnegare il passato. La sua antica familiarità con il Sovrintendente Fouquet era la macchia che neppure la fuga giovanile a Roma e le umiliazioni successive avevano potuto cancellare, e che forse ancor oggi gli rendeva

incerto il favore del Re. Ma lui continuava a difendere la memoria del suo benefattore. Forse parlava così liberamente solo con me, che certo non avrei mai avuto modo di riferirlo alla Corte francese. Riandai poi con la memoria a quanto egli aveva scoperto tra le carte di Colbert. Con tutta tranquillità mi aveva confidato d‟aver trafugato dallo studio del Colubra alcuni documenti riservati, forzando i congegni che li dovevano proteggere. Ma non era questa una sorpresa, dato il carattere dell‟uomo, come ormai l‟avevo appreso sia dai racconti altrui che di persona. Ciò che mi aveva colpito era la missione di cui egli stesso s‟era, a suo dire, incaricato: trovare a Roma il suo antico amico e protettore, il Sovrintendente Fouquet. Non doveva essere cosa leggera per l‟abate Melani, e non solo perché il Sovrintendente fino ad allora era stato creduto morto, ma anche perché si trattava proprio di colui che aveva, sebbene involontariamente, coinvolto Atto Melani nello scandalo: e io sembravo, a detta dell‟abate, l‟unico depositario di tale segreta missione, che solo l‟improvvisa chiusura della locanda per quarantena, pensai, aveva momentaneamente interrotto. Quando m‟ero addentrato nella galleria sottostante alla locanda, ero dunque in compagnia di un agente speciale del Re di Francia! Mi sentii onorato ch‟egli s‟appassionasse tanto a risolvere gli strani casi occorsi nel Donzello, tra cui anche il furto delle mie perline. E anzi era stato egli stesso a chiedere con insistenza il mio aiuto. Ora non avrei esitato un attimo a consegnare fiduciosamente all‟abate la copia delle chiavi delle stanze di Dulcibeni e di Devizé, che solo il giorno prima gli avevo invece rifiutato. Ma ormai era tardi: a causa delle disposizioni di Cristofano i due, come gli altri pigionanti, sarebbero rimasti chiusi in camera tutto il tempo, rendendo impossibile qualunque perquisizione. E l‟abate m‟aveva già chiarito l‟inopportunità di porre loro domande, che li avrebbero insospettiti. Ero orgoglioso di condividere tanti segreti, ma tutto questo era infine nulla in confronto al groviglio di sentimenti provocatomi dal colloquio con Cloridia. Dopo aver portato la cena in camera a ogni commensale, mi recai prima da Bedfordi e poi da Pellegrino, ove Cristofano e 10 avemmo cura d‟imboccare i degenti. L‟inglese farfugliava cose incomprensibili. Il medico pareva preoccupato. Tanto che s‟era recato nella stanza di Devizé lì accanto, facendogli presenti le condizioni di Bedfordi e pregandolo perciò di deporre almeno per il momento la sua chitarra: il musico, infatti, si stava sonoramente esercitando, ripetendo sul suo strumento una bella ciaccona tra le sue preferite. “Farò di meglio” rispose laconico Devizé. E anziché smettere di suonare, intraprese le note del suo rondò. Cristofano stava per protestare, ma l‟incanto misterioso di quella musica lo avvolse, gli rischiarò i tratti del volto, e Il medico annuendo bonariamente infilò l‟uscio senza far rumore. Poco dopo, mentre scendevo dalla stanza di Pellegrino, su al sottotetto, venni richiamato da un bisbiglio al secondo piano. Era padre Robleda, la cui camera era attigua alle scale. Affacciandosi all‟uscio, mi chiese notizie dei due malati. “E l‟inglese non sta meglio.” “Direi di no” risposi.

“E il medico non ha nulla di nuovo da dirci.” “Direi di no.” Ci giungeva intanto l‟ultima eco del rondò di Devizé. Robleda, a quelle note, si lasciò andare a un languido sospiro. “La musica è la voce di Dio” si giustificò. Visto che portavo gli unguenti con me, ne approfittai per domandargli se aveva un po‟ di tempo per la somministrazione dei rimedi contro il contagio. Con un gesto m‟invitò allora a entrare nella sua stanzetta. Stavo per posare le mie cose su una seggiola che si trovava appena passata la porta. “Nonnonnò, aspetta, questa mi serve.” Appoggiò frettolosamente sulla seggiola una cassettina di vetro in una cornice nera di pero, con dentro un Cristarello e frutti e fiori, eretta su piccoli piedini d‟argento a cipolla. “L‟ho acquistata qui a Roma. È preziosa, e sulla sedia è più al sicuro.” Il debole pretesto di Robleda m‟indicò che il suo desiderio di conversazione, dopo lunghe ore passate in solitudine, andava di pari passo con la sua paura di stare a contatto con chi doveva ogni giorno toccare Bedfordi. Gli ricordai allora che avrei dovuto applicare i rimedi con le mie proprie mani, ma che non c‟era motivo di sospetto, visto che lo stesso Cristofano aveva rassicurato tutti sulla mia resistenza al contagio. “Giaggiaggià” si limitò a proferire, in segno di cauta fiducia. Gli chiesi di scoprirsi il torace, ché avrei dovuto ungerlo e poi fargli un impiastro sopra la regione del cuore e massime intorno alla tetta sinistra. “E perché mai?” chiese turbato il gesuita. Gli spiegai che tale era la raccomandazione di Cristofano, visto il suo carattere ansioso che rischiava d‟indebolirgli appunto il cuore. Si tranquillizzò e, mentre aprivo la borsa e cercavo i vasetti giusti, si distese supino sul letto. Sopra di esso era appeso un ritratto di Nostro Signore Innocenzo XI. Robleda cominciò quasi subito a lagnarsi delle indecisioni di Cristofano, e del fatto che dopo così tanto tempo non si fosse ancora arrivati a una spiegazione certa della morte di Mourai né del malore che aveva colto Pellegrino, e vi erano persino incertezze sulla peste di cui era vittima Bedfordi, e ciò era sufficiente ad affermare senz‟ombra di dubbio che il medico toscano era incapace d‟assolvere il suo compito. Poi passò a lagnarsi degli altri pigionanti e del signor Pellegrino, incolpandoli della situazione presente. Incominciò dal mio padrone, che a suo dire non aveva sufficientemente vigilato sull‟igiene nella locanda. Poi passò a Brenozzi e Bedfordi, che avendo viaggiato a lungo, potevano di certo aver portato nella locanda qualche morbo oscuro. Per lo stesso motivo se la prese con Stilone Priàso(che veniva da Napoli, città ove l‟aria era notoriamente malsana), con Devizé (il quale veniva pure da Napoli), con Atto Melani (la cui presenza all‟interno della locanda e la cui pessima fama imponevano senz‟altro il ricorso alla preghiera), con la femmina del torrino (della cui abituale presenza all‟interno della locanda egli giurava non aver mai saputo nulla, altrimenti giammai avrebbe scelto di soggiornare al Donzello), e infine imprecò all‟indirizzo di Dulcibeni, la cui espressione torva da giansenista, disse Robleda, non gli era mai piaciuta. “Giansenista?” chiesi incuriosito da quella parola che udivo per la prima volta.

Appresi allora sommariamente da Robleda che i giansenisti erano una setta pericolosissima e perniciosa. Traevano il nome da Giansenio, fondatore di tale dottrina (se davvero la si voleva così chiamare), e tra i suoi seguaci era persino un folle, tale Pasqual o Pascale, che portava calze intrise nel cognac per scaldarsi i piedi, e aveva scritto alcune lettere contenenti gravi offese per la Chiesa, per Nostro Signore Gesù Cristo e per tutte le persone oneste, di buon senso e con fede in Dio. Ma qui il gesuita s‟interruppe e storse il naso: “Che inverecondo puzzo in questo tuo olio. Siamo sicuri che non sia velenoso?”. Lo rassicurai sull‟autorità di quel rimedio, messo a punto da mastro Antonio Fiorentino per preservare dalla peste al tempo della Repubblica di Firenze. Gl‟ingredienti, come m‟aveva appreso Cristofano, altro non erano se non teriaca di Levante bollita con succo di limoni, carlina, imperatoria, genziana, zafferano, dittamo bianco e sandaraca. Dolcemente accompagnato dal massaggio che avevo intanto iniziato a fargli sul torace, Robleda sembrò cullarsi nel suono dei nomi di quei semplici, quasi ne venisse così cancellato l‟odore sgradevole. Come già avevo osservato in Cloridia, i vapori pungenti o le varie digitazioni con cui applicavo i remedia di Cristofano pacificavano i pigionanti sin nel profondo dell‟animo e sbrigliavano loro la lingua. “Insomma sono quasi eretici, questi giansenisti?” ripresi. “Più che quasi” rispose compiaciuto Robleda. Tant‟è vero che Giansenio aveva scritto un libro, le cui proposizioni papa Innocenzo X aveva già molt‟anni prima aspramente condannato. “Ma perché, secondo voi, il signor Dulcibeni appartiene alle fila dei giansenisti?” Robleda mi spiegò che il pomeriggio precedente all‟inizio della quarantena aveva visto Dulcibeni rientrare al Donzello con alcuni libri sottobraccio, che aveva probabilmente acquistato in qualche libreria, magari nella vicina piazza Navona ove siffatte rivendite sono numerose. Tra i testi, Robleda aveva potuto scorgere il titolo d‟un libro proibito che appunto inclinava verso tali dottrine eretiche. E ciò, a parere del gesuita, era segno inequivocabile dell‟appartenenza di Dulcibeni alle fila dei giansenisti. “È strano però che un libro del genere possa essere acquistato qui a Roma” obiettai “visto che sicuramente papa Innocenzo XI avrà condannato a sua volta i giansenisti.” Padre Robleda cambiò volto. Sottolineò che, al contrario di quanto pensavo, numerosi atti di graziosa attenzione nei confronti dei giansenisti erano venuti da papa Odescalchi, tanto che in Francia, ove i giansenisti erano dal Re Cristianissimo tenuti in massimo sospetto, da tempo si accusava il Papa di colpevole simpatia nei confronti dei seguaci di quella dottrina. “Ma com‟è possibile che Nostro Signore papa Innocenzo XI nutra simpatie per degli eretici?” chiesi stupito. Padre Robleda, disteso con le braccia sotto al capo, mi guardò di tre quarti facendo scintillare gli occhietti. “Forse saprai che tra Luigi XIV e Nostro Signore papa Innocenzo XI c‟è da tempo grande attrito.” “Intendete dire che il Pontefice appoggia i giansenisti solo per danneggiare il Re di Francia?” “Non dimenticare” rispose sornione “che un

Pontefice è anche un Principe con un dominio temporale, che è suo dovere difendere e promuovere servendosi d‟ogni mezzo.” “Ma tutti dicono un gran bene di papa Odescalchi” protestai. “Ha abolito il nepotismo, ha risanato i conti della Camera Apostolica, ha fatto di tutto per aiutare la guerra contro i Turchi …” “Quanto dici non è falso. In effetti ha evitato di attribuire alcune cariche al nipote, Livio Odescalchi, e non l‟ha neppure fatto Cardinale. Quelle cariche, infatti, le ha tenute per sé.” Mi sembrò una risposta maliziosa, anche se nella lettera non negava le mie asserzioni. “Come tutte le persone avvezze alla mercatura, ben conosce il valore del denaro. Va riconosciuto infatti che ha saputo fare buon investimento dell‟azienda ricevuta in eredità dal suo zio di Genova. Circa … cinquecentomila scudi, dicono. Senza contare i brandelli di varie altre eredità che ha avuto cura di contendere ai parenti” disse frettolosamente abbassando il tono della voce. E prima che potessi vincere la sorpresa e chiedergli se veramente il Pontefice avesse ereditato una tale spaventosa somma di denaro, Robleda proseguì. “Non è un cuor di leone, il nostro buon Pontefice. Si dice, ma bada bene” calcò la voce “è solo una diceria, che da giovane per codardia si sia allontanato da Como, pur di non fare da arbitro in una lite tra amici.” Tacque un istante, e riattaccò: “Però ha il santo dono della costanza, e della perseveranza! Scrive quasi ogni giorno al fratello e agli altri parenti per avere notizie dei beni di famiglia. Pare non sappia stare due giorni di fila senza controllare, consigliare, raccomandare … Del resto i cespiti di famiglia sono notevoli. Aumentarono improvvisamente dopo la peste del 1630, tanto che dalle loro parti, a Como, c‟è chi dice che gli Odescalchi abbiano approfittato della moria di appestati, e si siano rivolti a notai compiacenti per farsi intestare i beni dei morti che non avevano eredi. Ma sono tutte calunnie, per carità di Nostro Signore” disse Robleda facendosi il segno della Croce, e completò: “Comunque la loro roba è tanta che secondo me ne hanno perso il conto: terreni, immobili affittati a Ordini religiosi, uffici venali, appalti per la riscossione di gabelle. E poi tanti crediti, sì, direi soprattutto prestiti, a molte persone, anche a qualche Cardinale” accennò il gesuita con noncuranza, fingendo interesse per una crepa nel soffitto. “La famiglia del Pontefice s‟arricchisce coi crediti?” mi sorpresi. “Ma se proprio papa Innocenzo ha proibito ai giudei di fare i prestasoldi!” “Appunto” rispose enigmatico il gesuita. Poi mi congedò improvvisamente, con il pretesto della preghiera serale. Fece per alzarsi dal letto. “Veramente non avrei ancora terminato: devo applicarvi un impiastro, ora” m‟opposi. Si ridistese senza protestare. Sembrava cogitabondo. Sbirciando gli appunti di Cristofano, presi un pezzo di arsenico cristallino e lo involsi dentro un poco di zendale. Mi riaccostai al gesuita e gli spalmai l‟impiastro sopra la mammella. Dovevo attendere che s‟asciugasse, per tornarlo a liquefare due volte con l‟aceto.

“Comunque, per carità, non dare ascolto a tutte le chiacchiere malevole che s‟odono su papa Innocenzo sin dai tempi di Donna Olimpia” riprese mentre attendevo all‟operazione. “Quali chiacchiere?” “Oh, nulla, nulla: sono solo veleni. E più potenti di quello che avrebbe ucciso il nostro povero Mourai.” Poi tacque con aria misteriosa e, mi parve, sospetta. Mi misi in allarme. Perché il gesuita aveva ricordato il veleno che aveva forse assassinato l‟anziano francese? Era solo un casuale paragone come sembrava? O la misteriosa allusione celava qualcosa di più, e magari aveva a che vedere con i sotterranei, altrettanto misteriosi, del Donzello? Mi diedi dello sciocco, ma subito quella parola – veleno – tornò a ronzarmi nella testa. “Perdonate, padre, cosa intendevate dire?” “Meglio per te che resti nella tua ignoranza” tagliò corto distrattamente. “Chi è Donna Olimpia?” insistetti. “Non mi dire che non hai mai sentito nominare la Papessa” sussurrò voltandosi a guardarmi stupito. “La Papessa?” Fu così che Robleda, messosi di fianco su un gomito e con l‟aria di farmi un‟enorme concessione, iniziò a raccontarmi a voce pressoché inudibile che papa Odescalchi era stato fatto Cardinale da papa Innocenzo X Pamphili, quasi quarant‟anni prima. Quest‟ultimo aveva regnato con grande fasto e magnificenza, facendo dimenticare alcuni fatti spiacevoli che si erano verificati durante il Pontificato precedente, quello di Urbano VIII Barberini. Qualcuno tuttavia, e qui il tono del gesuita s‟abbassò di un‟altra ottava, aveva osservato che tra papa Innocenzo X, della famiglia Pamphili, e la moglie di suo fratello, Olimpia Maidalchini, correva grande simpatia. Si diceva (tutte calunnie, per carità) che la vicinanza tra i due fosse smodata e sospetta anche trattandosi di due parenti stretti, tra i quali l‟affetto e il calore e tante altre cose, disse puntando per un fulmineo istante il suo sguardo nel mio, sono del tutto naturali. L‟agio che papa Pamphili concedeva a sua cognata era comunque tale che ella frequentava quasi a ogni ora del giorno e della notte le sue stanze, metteva bocca nei suoi affari e s‟ingeriva financo nelle cose di Stato: fissava le udienze, concedeva privilegi, s‟assumeva l‟onere di decisioni a nome del Papa. Non certo con l‟avvenenza dominava, Donna Olimpia, dotata anzi d‟una particolare ripugnanza, bensì con l‟incredibile forza d‟un temperamento quasi virile. Gli ambasciatori delle potenze straniere le inviavano di continuo regali, consapevoli del potere ch‟ella esercitava nella Santa Sede. Il Pontefice era invece debole, remissivo, d‟umor melanconico. Le chiacchiere a Roma erano inarrestabili, e c‟era chi s‟era preso gioco del Papa inviandogli anonimamente una medaglia con la cognata nei panni di Pontefice, con la tiara e tutto, e sull‟altro lato Innocenzo X in acconciatura femminile con in mano l‟ago e il filo. I Cardinali s‟erano ribellati a tale indecorosa situazione, riuscendo per un periodo a far allontanare la donna, ma alla fine questa era riuscita a tornare in sella e ad accompagnare il Papa fino alla tomba, e a suo modo: aveva nascosto al popolo per ben due giorni l‟avvenuto trapasso del Pontefice, per avere il tempo di trafugare dalle stanze papali ogni oggetto di valore. Il povero corpo esanime intanto era stato

abbandonato in una stanza alla mercé dei topi, mentre nessuno si faceva avanti per provvedere alla sepoltura. Alla fine le esequie si erano svolte tra l‟indifferenza dei Cardinali e le contumelie e le burle del popolo minuto. Orbene, Donna Olimpia amava giocare a carte, e si dice che una sera, in un gaio consesso di dame e cavalieri al suo tavolo, si fosse trovata in compagnia di un giovane chierico che, essendosi ritirati dal gioco tutti gli altri concorrenti, avrebbe con grazia accettato la sfida al gioco di Donna Olimpia. E si dice ancora che attorno ai due si fosse radunato gran concorso di gente, per assistere all‟insolita tenzone. E per più di un‟ora i due si sarebbero affrontati, senza badare al tempo né al denaro, dando ai presenti occasione di grande allegrezza; e alla fine della serata Donna Olimpia sarebbe tornata a casa con una somma di cui mai si è saputo l‟esatto ammontare, ma che tutti assicurano enorme. Corre parimenti voce che il giovane sconosciuto, il quale in verità avrebbe avuto quasi sempre gioco migliore della sua avversaria, graziosamente avrebbe fatto in modo di mostrare distrattamente le carte a un servitore di Donna Olimpia, così da perdere tutte le mani decisive, senza peraltro (come cavalleria obbliga) darlo a vedere a nessuno, tantomeno alla vincitrice, e anzi affrontando con magnifica indifferenza la grave sconfitta. Ebbene, poco tempo dopo, papa Pamphili fece Cardinale quel chierico, che rispondeva appunto al nome di Benedetto Odescalchi, arrivato alla porpora alla verdissima età di trentaquattro anni. Avevo intanto terminato il massaggio con l‟unguento. “Ma ricorda” m‟ammonì frettolosamente Robleda con voce tornata normale, mentre si ripuliva il petto dall‟impiastro “sono tutte chiacchiere. Non esiste infatti alcuna prova materiale di quell‟episodio.” Appena lasciata la stanza di padre Robleda, provai un senso di fastidio, che neppure io sapevo spiegare a me stesso, nel ripensare al colloquio con quel sacerdote flaccido e paonazzo. Non era necessario un ingegno soprannaturale per capire quanto il gesuita pensava: che Nostro Signore papa Innocenzo XI, anziché un Pontefice probo, onesto e Santo, altro non era che un amico e sostenitore dei giansenisti, anche al fine di turbare i disegni del Re di Francia col quale egli era in urto. Per di più sarebbe stato pervaso da insani appetiti materiali, da avidità e avarizia, e avrebbe perfino corrotto Donna Olimpia per ottenere il Cardinalato. Ma se veridico fosse stato un tale ritratto, così ragionavo, come avrebbe potuto mai Nostro Signore papa Innocenzo XI essere la stessa persona che aveva riportato austerità, e decoro, e frugalità nel cuore di Santa Madre Chiesa? Come poteva essere la stessa persona che da decenni elargiva elemosine ai poveri d‟ogni dove? Come poteva essere lo stesso che aveva chiamato i Principi di tutt‟Europa a unire le loro forze contro il Turco? Era un fatto che i Pontefici precedenti avevano coperto di regali i loro nipoti e familiari, mentr‟egli aveva interrotto tale inopportuna tradizione; era un fatto che avesse riportato il bilancio della Camera Apostolica alla salute; ed era infine un fatto che Vienna stesse resistendo all‟avanzare della marea ottomana grazie agli sforzi di papa Innocenzo. No, non era possibile quanto m‟aveva detto quel pavido, pettegolo gesuita. Del resto, non avevo sospettato da subito del suo dire e non dire, e della cervellotica dottrina dei gesuiti che rendeva lecito il peccato? Ed ero colpevole anch‟io, per essermi trascinato ad ascoltarlo e anzi per averlo da un certo punto in poi esortato a

continuare, catturato dal casuale e fuorviante accenno di Robleda all‟avvelenamento del signor di Mourai. Era tutta colpa, pensai con rimorso, dell‟attitudine di Atto Melani all‟indagine e alla spioneria, e del mio desiderio di emularlo. Stolta passione, che m‟aveva ora fatto cadere nella rete del Maligno e aveva disposto le mie orecchie ad ascoltare i suoi calunniosi sussurri. Tornai in cucina dove trovai sulla dispensa un biglietto anonimo, ma chiaramente indirizzato a me: TRE TOCCHI SULLA PORTA – TIENITI PRONTO.

Nottata terza TRA IL 13 E IL 14 SETTEMBRE 1683 In poco più di un‟ora, dopo che Cristofano aveva dato l‟ultimo sguardo al mio padrone, l‟abate Melani bussò tre volte alla mia porta. Ero intento al mio diarietto: lo nascosi ben benino sotto il materasso e apersi. “Una goccia d‟olio” disse enigmaticamente l‟abate appena entrato. Ricordai così all‟improvviso che, nel nostro ultimo incontro, egli aveva notato una stilla d‟olio sulla mia fronte, e col dito l‟aveva portata alla lingua. “Dimmi: che olio usi qui per le lampade?” “Il bando dei Camerlenghi comanda d‟usarsi sempre e solo olio mischiato con feccia, che …” “Non ti ho chiesto cosa si deve usare, ma cosa usi qui tu, mentre il tuo padrone” e lo indicò “se ne sta lì a riposo nel suo letto.” Gli confessai con imbarazzo che in effetti usavo anche olio buono, perché ne avevamo in abbondanza, mentre di quello impuro mischiato a feccia ce n‟era poco. L‟abate Melani non riuscì a nascondere un furbo sorrisetto. “Ora non mentire: quante lampade hai a disposizione?” “All‟inizio erano tre, ma una l‟abbiamo rotta quando ci stavamo calando nella galleria. Ne sono rimaste due, ma a una devo fare qualche accomodatura…” “Va bene, prendi quella buona e seguimi. E porta anche quella.” M‟indicò, appoggiata in verticale nell‟angolo della stanza, una canna con cui il signor Pellegrino era solito, nei pochi momenti liberi, recarsi a pescare sulle rive del Tevere, proprio dietro alla chiesetta di Santa Maria in Posterula. Pochi istanti dopo eravamo già nello stanzino, e avevamo imboccato il pertugio di accesso alla scala, che conduceva nei sotterranei. Ci calammo assicurandoci ai sostegni in ferro piantati nel muro finché sentimmo sotto i piedi il pavimento di mattoni, e ci infilammo nella scala di pietra a pianta quadrata. Nel punto in cui la scala cominciava a essere scavata nel tufo incontrammo puntualmente lo strato di melma sui gradini, mentre l‟aria s‟era fatta densa. Raggiungemmo infine la galleria, profonda e oscura come la notte in cui l‟avevo conosciuta. Mentre lo seguivo, l‟abate Melani dovette percepire la mia curiosità come fiato sul collo.

“Ora saprai finalmente cosa ha mai in testa questo strano abate Melani.” Si fermò. “Dammi la canna.” Pose a metà sul ginocchio l‟asticella e con uno schiocco la spezzò in due. Stavo per protestare, ma Atto mi prevenne. “Non ti preoccupare. Se mai potrai raccontarlo al tuo padrone, egli capirà che si trattava di un caso d‟emergenza. Ora fa‟ come ti dico.” Mi fece procedere davanti a sé, tenendo la canna mozza in verticale dietro di me e facendone strisciare l‟estremità contro la volta della galleria, come una penna che scivola sulla carta. In tal modo avanzammo per alcune decine di metri. Nel frattempo l‟abate mi rivolgeva alcuni bizzarri interrogativi. “L‟olio misto a feccia ha un gusto particolare?” “Non saprei come descriverlo” risposi, mentre in realtà ne conoscevo benissimo il sapore avendone più volte irrorato furtivamente una fetta di pane trafugata nella dispensa, quando il signor Pellegrino dormiva e la cena era stata troppo modesta. “Si può dire rancido, amaro e acido?” “Forse … direi di sì” ammisi. “Bene” rispose l‟abate. Percorremmo ancora pochi passi, e improvvisamente l‟abate m‟ordinò di fermarmi. “Ci siamo!” Lo guardai perplesso. “Non hai ancora capito?” mi disse mentre il suo ghigno veniva capricciosamente deformato dal chiarore del lume. “Allora vediamo se questo ti aiuta.” Mi prese la canna dalle mani e la spinse con forza contro la volta della galleria. Sentii come il gemito di un cardine, indi un tremendo boato e infine il sussurro d‟una piccola pioggia di detriti e pietruzze. Poi il terrore: una grossa e nera serpe si era lanciata verso di me quasi a ghermirmi, restando poi grottescamente appesa al soffitto come un impiccato. Mi ritrassi istintivamente con un brivido, mentre l‟abate prorompeva in una risata. “Vieni qui e accosta il lume” mi disse trionfante. Nella volta c‟era un foro largo quasi come l‟intera cavità, da cui pendeva una robusta corda. Era stata questa che, pencolando disordinatamente a causa dell‟apertura della botola, m‟aveva lambito terrorizzandomi. “Ti sei fatto spaventare dal nulla, e ci vuole una piccola punizione. Salirai per primo, poi ti toccherà aiutarmi a seguirti là sopra.” Fortunatamente riuscii a innalzarmi senza troppa difficoltà. Dopo essermi abbarbicato alla corda, vi montai finché raggiunsi la cavità superiore. Aiutai l‟abate Melani a raggiungermi, ed egli impiegò tutte le sue forze rischiando per un paio di volte di far precipitare a terra la nostra unica lanterna. Ci trovammo nel mezzo di un‟altra galleria, che sembrava posta obliquamente rispetto alla precedente. “Ora tocca a te decidere: destra o sinistra?” Protestai (debolmente, spaurito com‟ero): non era forse il momento per l‟abate Melani di spiegarmi com‟era giunto a tutto ciò? “Hai ragione, ma allora sceglierò io: andiamo a sinistra.” Come avevo io stesso confermato all‟abate, l‟olio tagliato con feccia è abitualmente di sapore assai più ingrato di quello che si usa per le fritture e per la buona mensa. La goccia ch‟egli aveva trovato sulla mia fronte il giorno dopo la prima esplorazione nella galleria (e

che miracolosamente non era venuta a contatto con le coltri quando m‟ero coricato), all‟esame del gusto non poteva dunque provenire dalle lanterne della locanda, da me stesso caricate con l‟olio buono. Non proveniva neanche dagli unguenti medicinali di Cristofano, tutti di colore diverso. Dunque veniva da un‟ignota lanterna, che – chissà come – dovevo aver avuto incombente sul mio capo. Da qui l‟abate aveva concluso con la consueta rapidità che si doveva pensare a un‟apertura nella volta della galleria. Apertura che sarebbe servita anche come unica possibile via di fuga al ladro, così inspiegabilmente svanito nel nulla. “L‟olio caduto sulla tua fronte dev‟essere gocciolato dalla lanterna del ladro attraverso una fessura delle assi che compongono il coperchio della botola.” “E la canna?” chiesi. “Ero certo che la botola, se esisteva, doveva essere molto ben nascosta. Ma una canna come quella del tuo padrone è molto sensibile alle vibrazioni, e l‟avremmo senz‟altro sentita schioccare nel passaggio dalla pietra della galleria al legno della botola. Così come abbiamo fatto.” Fui segretamente grato all‟abate per aver attribuito in qualche modo a entrambi il merito d‟aver individuato la botola. “Il marchingegno è assai rudimentale” continuò “ma efficace. La corda, che ti ha tanto spaventato quando è penzolata giù dal soffitto, viene semplicemente appoggiata sullo sportello della botola e chiusa insieme a esso. Quando dalla galleria sottostante lo sportello viene aperto, spingendolo verso l‟alto, la corda cade verso il basso. L‟importante, se si vuole averla a disposizione, è riporla allo stesso modo quando si ritorna sui propri passi.” “Allora pensate che il ladro faccia sempre avanti e indietro in questa galleria.” “Non lo so, lo suppongo. E suppongo anche, se lo vuoi sapere, che questa galleria porti da qualche altra parte.” “Supponevate anche che con il solo aiuto della canna avremmo individuato la botola?” “La natura fa il merito, la fortuna lo mette in opera” sentenziò l‟abate. E alla luce fioca della lanterna cominciò l‟esplorazione. Anche in tale galleria, come quella che avevamo lasciato sotto di noi, una persona di normale statura era costretta a procedere leggermente piegata a causa della volta angusta. E, come osservammo subito, anche il materiale di cui era costituita, cioè il reticolato di mattoncini a losanga, sembrava identico al percorso precedente. Il primo tratto era costituito da un lungo rettilineo che sembrava lentamente guadagnare in profondità. “Se il nostro ladro ha seguito questa strada, deve avere buon fiato” osservò l‟abate Melani “inerpicarsi su quella corda non è cosa da tutti, e il terreno è assai scivoloso.” All‟improvviso fummo ambedue preda dello spavento più atroce. I passi di uno sconosciuto, leggeri ma chiarissimi, s‟avvicinavano da un punto imprecisato. Atto mi fermò stringendomi forte la spalla, in segno d‟estrema cautela. Fu allora che ci fece tremare un boato, simile a quello con cui s‟era aperta la botola dalla quale eravamo passati poc‟anzi. Appena ripreso fiato, ci guardammo con occhi ancora carichi di tensione. “Secondo te veniva dall‟alto o dal basso?” bisbigliò l‟abate Melani. “Più da sopra che da sotto.” “Direi anch‟io. Dunque non poteva essere la botola precedente, ma un‟altra.” “E quante ce ne saranno?” “E chi lo sa? Abbiamo fatto

male a non sondare ancora il soffitto con la canna: chissà, avremmo potuto individuare qualche altro pertugio. Qualcuno ci avrà sentiti arrivare e si sarà affrettato a sbarrare il passaggio tra lui e noi. Il rimbombo è stato troppo grande, non saprei dire se veniva dalle nostre spalle o piuttosto dal tratto che dobbiamo ancora percorrere.” “Potrebbe essere il ladro delle chiavi?” “Mi fai domande a cui è impossibile rispondere. Forse ha avuto l‟idea d‟andarsene a passeggio anche stasera, forse no. Hai per caso tenuto d‟occhio in serata l‟accesso allo stanzino?” Ammisi che non me ne ero molto occupato. “E bravo” commentò sferzante l‟abate “così siamo venuti qui sotto senza sapere se siamo noi sulle tracce di qualcuno oppure viceversa, tanto più che … Guarda!” Ci trovavamo in cima a una scalinata. Abbassando la lanterna fino ai nostri piedi, notammo che i gradini erano in pietra e scolpiti con arte. Dopo un istante di riflessione, l‟abate sospirò: “Non ho idea di cosa ci possa aspettare là sotto. La gradinata è diritta: se c‟è qualcuno, sa già che stiamo arrivando. Non è vero?” concluse gridando verso il fondo della scalinata e scatenando un‟orribile eco che mi fece sobbalzare. Indi, armati solo del debole lume, iniziammo la discesa. Esauriti i gradini, ci trovammo infine a camminare su d‟un lastrico. Grazie all‟eco provocata dai nostri passi capimmo di trovarci in una grande cavità, forse una grotta. L‟abate Melani brandì la lampada verso l‟alto. Apparve il profilo di due grandi archi di mattoni ritagliati in un alto muro di cui non si scorgeva la cima, e tra gli archi un passaggio verso il quale, senza saperlo, ci eravamo diretti fino a quell‟istante. Non appena ci fermammo, e s‟era fatto di nuovo silenzio, Atto starnutì fragorosamente una, due e poi tre volte. Per un attimo la fiamma della lanterna s‟affievolì, fin quasi a spegnersi. Fu allora che avvertii un furtivo fruscio alla nostra sinistra. “Hai sentito?” bisbigliò l‟abate allarmato. Udimmo un nuovo fruscio, questa volta poco più lontano. Atto mi fece cenno di restare immobile; e anziché imboccare il passaggio che avevamo di fronte, scattò in punta di piedi sotto l‟arco sulla destra, superato il quale la luce della lanterna non lo raggiungeva più. Restai in attesa con la lanterna in mano, impietrito. Si fece nuovamente silenzio. Un nuovo fruscio, questa volta più vicino, era alle mie spalle. Mi voltai di scatto. Un‟ombra schizzò verso sinistra. Mi precipitai verso l‟abate Melani, più per proteggere me che per mettere in guardia lui. “Nooo” sibilò appena lo individuai con la lampada, e mi resi conto di averlo tradito: si era silenziosamente spostato di alcuni metri a sinistra, e s‟era acquattato a terra. Spuntò nuovamente da non so dove una sagoma grigia, che lestissima s‟interpose tra noi cercando d‟allontanarsi dagli archi. “Prendilo!” urlò l‟abate Melani avvicinandosi a sua volta, e aveva ragione poiché il qualcuno o qualcosa sembrò incespicare e quasi cadere. Scattai alla cieca, pregando Iddio che Atto sopraggiungesse prima di me. Ma proprio in quel mentre mi fu sopra, e ovunque attorno a me, una pioggia fragorosa e orribile di cadaveri teschi e ossa umane, e mandibole mascelle costole

omeri misti a immondo sudiciume, travolto dal quale caddi e restai a terra, e solo allora in realtà conobbi da vicino la schifosa materia, restandone semisepolto e a mia volta quasi morto. Cercai di divincolarmi dalla mostruosa e scricchiolante poltiglia mortifera, il cui infame gorgoglio si mescolava a un duplice muggito infernale di cui non indovinavo la provenienza né la natura. Quella che oggi riconoscerei per una vertebra m‟ostruiva la visuale, e ciò che era stato un tempo il cranio d‟un vivente mi osservava minaccioso, quasi sospeso nel vuoto. Cercai d‟urlare, ma la mia bocca non emise alcun suono. Sentii le forze venirmi meno, e mentre gli ultimi pensieri si radunavano faticosamente in un‟estrema preghiera per la salvezza dell‟anima mia, come in un sogno udii la voce ferma dell‟abate risuonare nel vuoto. “Ora basta, ti vedo. Fermo o sparo.” Mi parve trascorso alquanto tempo (ma ora so che si trattò solo di pochi minuti) prima che dall‟incubo informe in cui ero precipitato mi richiamasse il suono echeggiante d‟una voce estranea. Notai con allarme che una mano mi teneva il capo sollevato, mentre qualcuno (un terzo essere?) liberava le mie povere membra dalla massa spaventevole che poc‟anzi mi aveva sopraffatto. Istintivamente mi ritrassi da quelle attenzioni aliene ma, slittando malamente, mi ritrovai a faccia in giù con il naso pigiato su un arto (impossibile dire quale) dal tanfo nauseabondo. Subitaneamente vinto dagli sforzi di stomaco, vomitai in pochi secondi tutta la cena. Udii l‟alieno imprecare in una lingua che pareva simile alla mia. Mentre ancora non ero riuscito a riprendere fiato, sentii la mano pietosa dell‟abate Melani afferrarmi da sotto l‟ascella. “Animo, ragazzo.” Mi rimisi faticosamente in piedi, e al fioco chiarore della lampada intravidi un individuo, avvolto in una sorta di saio, brontolare piegato a terra nel febbrile tentativo d‟isolare dalle mie secrezioni gastriche la non meno vomitevole catasta di resti umani. “Ognuno ha i suoi tesori” schernì Atto. Scorsi che l‟abate Melani teneva in mano un piccolo marchingegno: da quanto potevo vedere, terminava con una canna di legno lucido e una guarnitura di metallo rilucente. Lo puntava minaccioso contro un secondo individuo, abbigliato come il suo compare e seduto su una pietra scolpita. Nell‟attimo in cui la lanterna illuminò costui a dovere, venni fulminato dall‟immagine del suo viso. Se viso lo si poteva chiamare, giacché altro non era che una sinfonia di rughe, un concerto di grinze, un madrigale di brandelli di pelle che parevano resistere insieme sol perché troppo vecchi e stanchi per ribellarsi alla forzata convivenza. Le pupille grigie e diffidenti erano coronate dal rosso intenso dell‟occhio, che faceva dell‟insieme una delle visioni più spaventevoli ch‟io avessi mai avuto innanzi. Completavano il quadro i denti marroni e aguzzi, degni d‟una visione infernale di Melozzo da Forlì. “Corpisantari” mormorò l‟abate tra sé e sé con disgusto, scuotendo la testa. “Avreste almeno potuto fare un po‟ d‟attenzione” aggiunse sardonico “avete spaventato due gentiluomini.” E abbassò il piccolo congegno, con il quale aveva

tenuto fino ad allora sotto tiro il primo misterioso individuo, riponendolo in tasca in segno di pace. Mentre mi ripulivo alla meno peggio, cercando di vincere la nausea che ancora mi pervadeva, ebbi modo di scorgere il volto del secondo soggetto, che si era per un istante levato in piedi. O meglio di intravederlo, giacché egli indossava un lurido pastrano con maniche troppo lunghe e un cappuccio che gli copriva quasi interamente il volto, lasciando una fessura da cui solo di rado, se la direzione della luce era favorevole, era possibile scorgere le sue fattezze. E ciò era un bene, giacché dopo numerosi, pazienti tentativi di osservazione avrei ricavato l‟esistenza d‟un occhio semichiuso e biancastro, e di un altro bulbo oculare rigonfio, enorme e sporgente, quasi stesse per cadere in terra; un naso simile a un cetriolo deforme e carcinoso, e una pelle giallastra e unticcia, mentre della bocca non sarei mai stato in grado di testimoniare l‟esistenza, se non per i suoni informi che occasionalmente emetteva. Dalle maniche facevano capolino, di tanto in tanto, due mani adunche e unghiute, tanto decrepite quanto rapinose. L‟abate si voltò e incontrò il mio sguardo, spaurito e pieno di urgenti interrogativi. Con un cenno indicò al primo dei due, impaziente di tornare in libertà, che poteva unirsi al suo compare, affaccendato nella disgustosa cernita tra ossa e materia di stomaco. “È buffo” disse Atto mentre si spolverava accuratamente le maniche e le spalle “nella locanda ho continuamente accessi di starnuto mentre qui, con tutta la polvere che si portano addosso questi due sventurati, neanche uno.” E mi spiegò che i due strani esseri in cui ci eravamo imbattuti facevano parte della schiera miserabile, e purtroppo nutrita, di coloro che nottetempo calavano nelle infinite cavità del sottosuolo di Roma a caccia di tesori. Non di gioie o di statue romane, però, sibbene delle Reliquie Santissime dei Santi e dei Martiri di cui abbondavano le catacombe e le tombe di Martiri di Santa Romana Chiesa, disseminate per tutta la città. “Non capisco” lo interruppi “è davvero permesso prelevare dalle tombe queste Sante Reliquie?” “Non solo è permesso: direi che è necessario” rispose l‟abate Melani con una punta d‟ironia. “I luoghi dei primi cristiani sono infatti da considerarsi fecondo terreno di ricerca spirituale, e talvolta perfino di caccia, ut ita dicam, per le anime elevate.” Già San Filippo Neri e San Carlo Borromeo erano soliti infatti raccogliersi in preghiera nelle catacombe, aveva ricordato l‟abate. E alla fine del secolo scorso un coraggioso gesuita, tale Antonio Bosio, si era calato negli anfratti più reconditi e oscuri, e aveva esplorato le cavità di tutta Roma, facendo molte e meravigliose scoperte e pubblicando un libro, che chiamasi appunto Roma sub-terranea, con cui aveva meritato grande e generale applauso. Il buon papa Gregorio XV all‟incirca nel 1620 aveva pertanto stabilito che si estraessero dalle catacombe le spoglie dei Santi, in modo da poterne accogliere i preziosi resti nelle chiese di tutta la Cristianità, e aveva incaricato il cardinal Crescenzi di provvedere alla realizzazione di tale Santo Programma. Mi voltai verso i due bizzarri omuncoli, che s‟affannavano attorno a quei resti umani emettendo una sorta di osceno grufolio.

“Lo so, ti pare curioso che una missione di alta spiritualità coinvolga due esseri del genere” riprese Atto. “Il fatto è che la discesa nelle catacombe e nelle grotte artificiali di cui è piena Roma non è cosa da tutti. Bisogna affrontare passaggi pericolosi, corsi d‟acqua, frane e crolli. Poi bisogna aver lo stomaco di metter le mani tra i corpi …” “Ma si tratta di vecchie ossa.” “Si fa presto a dire così: ma come hai reagito tu poco fa? I nostri due amici avevano terminato il loro giro, come mi hanno spiegato mentre tu te ne stavi lì per terra mezzo morto. In questa cavità hanno collocato il loro deposito: le catacombe sono lontane, e non c‟è pericolo che nella zona si aggiri qualcuno dei loro concorrenti. Non si aspettavano quindi d‟incontrare anima viva; quando li abbiamo sorpresi sono stati colti dal panico, e si sono messi a correre da tutte le parti. Nella confusione tu ti sei avvicinato troppo alla catasta di ossa, l‟hai urtata e ti è crollata addosso. E sei svenuto.” Guardai a terra, e vidi che i due strani ometti avevano ormai separato le ossa dal resto, e le avevano sommariamente ripulite. La piccola montagna che mi aveva sepolto, ora tutta sparsa in terra, doveva essere stata ben più alta della mia persona. In realtà gli scarsi resti umani (un teschio, qualche osso lungo, tre vertebre) erano ben poco se confrontati con la materia restante: terriccio, cocci, sassi, schegge, muschio e radici, stracci, sporcizia varia. Quello che, complice la paura, mi era parso un diluvio di morte, era solo il contenuto del sacco d‟un contadino che ha grattato troppo la terra del suo campicello. “Per fare un lavoraccio sporco come questo” proseguì l‟abate “ci vuole un paio di soggetti come quelli che hai davanti. Si chiamano corpisantari, dal nome delle sacre spoglie di cui sono sempre alla cerca. Se gli va male, vendono qualche porcheria al gonzo di turno. Hai mai visto vendere in strada, davanti alla tua locanda, la clavicola di San Giovanni o la mascella di Santa Caterina, piume di ali di angelo, schegge di legno della vera e unica Croce portata da Nostro Signore? Ecco: i fornitori sono i due nostri amici, o i loro compagni d‟arte. Quando gli va bene trovano la presunta tomba di qualche presunto Martire. A fare la bella figura di annunciare la traslazione delle spoglie di San Tizio in qualche chiesa spagnola ci vanno però i Cardinali, o quel vecchio trombone del padre Fabretti, che Innocenzo X ha nominato, se non erro, custos reliquiarum ac coemeteriorum.” “Dove siamo, signor abate?” chiesi spaesato da quell‟ambiente ostile e tenebroso. “Ho ripercorso mentalmente la strada che abbiamo fatto, e ho posto un paio di domande a questi due. Loro lo chiamano l‟Archivio, perché ci stipano le loro schifezze. Direi che ci troviamo più o meno dentro le rovine del vecchio stadio di Domiziano, dove durante l‟Impero Romano si tenevano i certami guerreschi tra navi. Per tua comodità, posso dirti che ci troviamo sotto a piazza Navona, sull‟estremità più prossima al Tevere. Se avessimo coperto in superficie la stessa distanza dalla locanda fino a qui, con passo comodo non avremmo impiegato più di tre minuti.” “Allora queste rovine sono dei Romani.” “Ma certo che sono rovine romane. Vedi questi archi? Devono essere le vecchie strutture dello stadio in cui si facevano giochi e gare navali, sul quale poi sono stati edificati i palazzi che formano il profilo di piazza Navona, e che seguono il vecchio disegno a cerchio allungato.” “Come quello

del Circo Massimo?” “Esattamente. Solo che in quel caso tutto è rimasto alla luce. Qui purtroppo è stato sepolto dal peso dei secoli. Ma vedrai, prima o poi scaveranno anche qui. Ci sono cose che non possono restare sepolte.” Mentre narrava di cose per me del tutto nuove, fui stupito nel veder per la prima volta brillare negli occhi dell‟abate Melanila scintilla dell‟attrazione per le Arti e l‟Antico, nonostante in quelle ore gli stesse apparentemente a cuore tutt‟altro. Una passione di cui avevo avuto sentore per la prima volta quando avevo scorto nella sua stanza tutti quei libri sulle antichità e i tesori artistici di Roma. Ancora non potevo saperlo, ma tale inclinazione avrebbe avuto in quelle vicende, e nelle successive, non poca importanza. “Ebbene, saremmo curiosi di poter riferire, un giorno, il nome delle nostre notturne conoscenze” disse infine Melani ai due corpisantari. “Io son Ugonio” disse il meno basso dei due. Atto Melani guardò interrogativamente l‟altro. “Gfrrrlùlbh” sentimmo provenire da dentro il suo cappuccio. “E lui è Ciacconio” s‟affrettò a tradurre Ugonio, coprendo in parte il gorgoglio del suo compagno. “Non sa parlare?” insistette l‟abate Melani. “Gfrrrlùlbh” rispose Ciacconio. “Capisco” disse Atto reprimendo l‟impazienza. “Ci rincresce d‟aver disturbato la vostra passeggiata. Ma già che ci siamo, per caso avete visto passare qualcuno da queste parti, poco prima di noi?” “Gfrrrlùlbh!” proruppe Ciacconio. “Qualcuno lui l‟ha straveduto” annunciò Ugonio. “Digli che vogliamo sapere tutto” mi interposi. “Gfrrrlùlbh” ripeté Ciacconio. Guardammo interrogativamente Ugonio. “Ciacconio s‟è infilzato nella gallerizia da cui sarebbero pervenute le signorizie vostre, e qualcuno che manreggeva un lampadume lo ha perspicato, e Ciacconio è indietrato sui suoi retropassi mentre il lampadifero deve aver infilzato una botola perché è scomparsato come sfumato, e Ciacconio si è protezionato qui, molto spaurizzato.” “Non lo poteva raccontare lui?” chiese l‟abate Melani lievemente interdetto. “Ma lo ha appena egli medesimo descrittato e confessato” rispose Ugonio. “Gfrrrlùlbh” annuì Ciacconio, vagamente piccato. Atto Melani e io ci guardammo perplessi. “Gfrrrlùlbh!” proseguì animandosi Ciacconio, il cui rutto sembrò l‟orgogliosa rivendicazione che anche un povero essere delle tenebre poteva rendersi prezioso. Come opportunamente tradusse il suo compagno, Ciacco- nio, dopo l‟incontro con lo sconosciuto, aveva eseguito un secondo sopralluogo nella galleria, perché più della paura aveva potuto la curiosità. “È un gran nasoficcante” spiegò Ugonio col tono d‟un vecchio e reiterato rimprovero “e gli porta solo guaimenti e sfortunizie.” “Gfrrrlulbh” lo interruppe però Ciacconio frugandosi nel pastrano alla ricerca di qualcosa. Ugonio sembrò esitare. “Cos‟ha detto?” gli chiesi.

“Un nientismo, ovvero solo che …” Ciacconio tirò fuori trionfante un pezzo di carta sgualcita. Ugonio gli afferrò l‟avambraccio e glielo strappò di mano con la velocità del fulmine. “Dammelo o ti faccio esplodere la testa” disse con calma l‟abate Melani avvicinando la mano destra alla tasca, ove aveva riposto l‟arnese con cui aveva prima minacciato i due corpisantari. Ugonio tese lentamente una mano consegnando al mio compagno la carta appallottolata. Poi d‟improvviso cominciò a prendere furiosamente a calci e pugni Ciacconio, chiamandolo Pellandrone, Pellicciaccio, Bambalio, Bastione, Panfardo, Parabolano, Pizzafrondo, Scrignocco, Serrazzonio, Scarabotto, Gabbaino, Scolopendrio, Asiniano, Antronio, Farinaccio, Arcifanfano, Cavolaccio, Borboglio, Tartagliazzo, Mangiardonio, Barbacano, Bragonardo, Stramboinone, Licantropio, Valdrappaccio, Brutaniano, Ferramazzo, Mazzarango, Gonnellastro, Forchinpalo, Vesciconio, Podiciaio, Pederastrio, Arroganzio, Castagnaccio, Ciabattonio, Taccagnazio, Zampadellio, Bagianione, Baldonaccio, Bagonello, Neronato, Garagnonio, Sicomorone e altri epiteti che non avevo prima d‟allora mai udito, e che pur tuttavia suonavano assai gravi e offensivi. L‟abate Melani non degnò d‟uno sguardo quel penoso teatro, e distese per terra il foglietto, tentando di restituirgli la foggia originaria. Io allungai il collo e lessi con lui. Il lato sinistro e quello destro erano purtroppo gravemente laceri, e anche quasi tutto il titolo era andato perso. Per fortuna era perfettamente leggibile la parte rimanente della pagina: Ut Primum. varicatus cft autcm Moab in ci, poftquam mortuus cft Achab. CeirqucOchoziaspcrcancellos coenaculi, quod habcbat in Samaria, & aegro- it: mifìtque nuncios, dicens ad cos:, confulite Bcelzebub dcum Accaron:rum vivere queam de infirmitatc mea;m Domini locutus cft ad Eliam Thcsbi-: & afeende in occurfum nunciorum Re- ^cs ad eos; nunquid non cft Deus in Ifrar.lulcndum Beelzebub deumAccaron? Qu? iicit Dominus: De laflulo fuperquem afe.efeendes, fed morte morieris. Et abiit Ei; flint nuncii ad Ochoziam.Qui dixit eis: Qt.s? At iIli refponderunt ci: Vir occurrit nob:,os: Ite & revcrtimini ad Regcm, qui mifit • -is ci: Hxc dicit Dominus: Nunquid.quia nor in Ifrael, mittis ut confulatur Beelzebub deus; “ Idcirco de le&ulo fupcr quem afeendifti, non
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