Il Serpente Cosmico
January 13, 2017 | Author: www.psiconautica.in | Category: N/A
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Jeremy Narby. Il Serpente Cosmico. Il DNA e le origini della conoscenza...
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CAPITOLO 1 LA TELEVISIONE DELLA FORESTA La prima volta che un Ashaninca mi raccontò di aver appreso le proprietà medicinali delle piante bevendo un infuso allucinogeno pensai che stesse scherzando. Ci trovavamo nella foresta, accovacciati accanto un cespuglio le cui foglie, a sentir lui, potevano curare il morso mortale di un serpente. "Si imparano queste cose bevendo l'ayahuasca", aggiunse senza sorridere. Era l'inizio del 1985 e mi trovavo nella comunità di Quirishari nella Valle del Pichis del Rio delle Amazzoni peruviano. Avevo venticinque anni e stavo iniziando due anni di lavoro sul campo per ottenere il dottorato di ricerca in antropologia dall'Università di Stanford. Il mio addestramento mi aveva preparato ad aspettarmi racconti incredibili; ritenevo perciò che il lavoro di antropologo fosse quello di scoprire cosa pensasse davvero la gente, come una sorta di investigatore privato. Nel, corso della mia ricerca sull'ecologia ashaninca la gente di Quirishari menzionava regolarmente il mondo allucinatorio degli ayahuasqueros, o meglio degli sciamani. Nelle conversazioni sulle piante, gli animali, il territorio o la foresta facevano riferimento agli ayahuasqueros come fonte della loro conoscenza; ogni volta mi chiedevo cosa volessero veramente dire. Avevo letto e apprezzato diversi libri di Carlos Castaneda riguardanti gli usi delle piante allucinogene da parte di uno "stregone yaqui". Ma sapevo che gli antropologi di professione avevano ampiamente screditato Castaneda, accusandolo di scarsa plausibilità, plagio e mistificazione. Per quanto nessuno lo accusasse esplicitamente di essersi troppo avvicinato all'argomento da lui trattato. era chiaro che una considerazione sogettiva degli allucinogeni indigeni poteva causare problemi nell'ambito della professione. Per me nel 1985 il mondo degli ayahuasqueros costituiva una zona nebulosa, tabù per la ricerca che stavo conducendo. Inoltre, la mia indagine sull'utilizzo ashaninca delle risorse non era neutrale. All'inizio degli anni '80 le agenzie di sviluppo internazionale stavano facendo affluire centinaia di milioni di dollari nello "sviluppo" del Rio delle Amazzoni peruviano. Tale programma consisteva nella confisca dei territori indigeni e nella loro cessione a individui dagli spiccati interessi commerciali, che avrebbero poi contribuito a sviluppare la "giungla" sostituendola con dei pascoli per le vacche. Gli esperti giustificavano questi progetti di colonizzazione e di disboscamento affermando che gli indiani non sapevano come utilizzare razionalmente le proprie terre.2 Io volevo dimostrare il contrario conducendo una analisi economica, culturale e politica, che illustrasse la natura razionale dell'uso ashaninca delle risorse. Dare risalto all'origine allucinatoria della conoscenza ecologica ashaninca sarebbe stato controproducente rispetto al tema base della mia ricerca. Dopo due mesi di lavoro sul campo incontrai inaspettatamente una battuta d'arresto. Avevo lasciato Quirishari da dieci giorni per andare a Lima a rinnovare il mio passaporto e al mio ritorno la comunità mi accolse con indifferenza. Il giorno seguente, nel corso di un incontro informale di fronte alla casa nella quale alloggiavo, alcune persone mi chiesero se era vero che stavo per rientrare nel mio paese per diventare un dottore. La domanda mi sorprese, dato che ero solito descrivere la mia futura professione come quella di un "antropologo" piuttosto che di un "dottore", per evitare qualsiasi malinteso con i medici generici. Venne fuori che dei dipendenti del progetto di sviluppo governativo "Pichis-Palcazu Special Project" si erano recati a Quirishari in mia assenza per informarsi sulle mie attività. Gli abitanti di Quirishari avevano mostrato loro la mia raccolta di campioni di piante medicinali, con conseguenti accuse dei dipendenti del progetto di essere stati degli indiani ingenui: come avevano fatto a non capire che sarei ben presto diventato un dottore che avrebbe fatto un mucchio di soldi con le loro piante? In realtà avevo classificato quelle piante per mostrare che la foresta tropicale, che sembrava "inutilizzata" agli occhi degli esperti che la esaminavano dall'alto degli elicotteri, rappresentava, tra le altre cose, una farmacia per gli Ashaninca. Avevo spiegato tutto questo agli abitanti di Quirishari all'inizio del mio soggiorno, ma ero comunque consapevole che qualsiasi ulteriore spiegazione avrebbe solamente confermato i loro sospetti, dato che stavo veramente per diventare un "dottore". Proposi loro perciò di sospendere immediatamente la raccolta di piante medicinali e di affidare la
controversa collezione alla scuola elementare della comunità. Questa proposta appianò la questione e dissipò la tensione che aleggiava nell'aria, ma eliminò anche una delle basi empiriche sulle quali avevo sperato di costruire una tesi a dimostrazione della natura razionale dell'utilizzo ashaninca delle risorse. Dopo quattro mesi di lavoro sul campo lasciai Quirishari per visitare la vicina comunità di Cajonari, a 11 chilometri di cammino attraverso la foresta. Gli abitanti di Cajonari mi avevano fatto sapere che non era giusto che Quirishari avesse il monopolio esclusivo sull'antropologo che stava tenendo corsi di "contabilità". Si trattava in effetti di lezioni informali di aritmetica, che avevo iniziato a impartire su richiesta della comunità. La gente di Cajonari mi riservò un'accoglienza molto calda. Trascorremmo diverse sere raccontando storie, cantando a beneficio del mio registratore e bevendo birra di manioca, un liquido lattiginoso che ha il sapore di una zuppa di patate fredda e fermentata. Durante il giorno ci occupavamo di matematica, lavoravamo nei giardini, oppure ascoltavamo le canzoni registrate la sera precedente. Tutti desideravano ascoltare la propria interpretazione. Una sera mi trovai in compagnia di una mezza dozzina di uomini a bere birra di manioca di fronte a una casa, chiacchierando alla luce del tramonto. La conversazione deviò sulla questione dello "sviluppo", argomento all'ordine del giorno da quando era arrivato nella valle il Pichis-Palcazu Special Project con il suo budget di 86 milioni di dollari statunitensi. In generale gli Ashaninca esprimevano frustrazione, poiché veniva loro continuamente detto che non erano in grado di produrre per il mercato, mentre invece i loro giardini erano pieni di potenziali prodotti e ciascuno di essi sognava di guadagnare qualcosa. Stavamo discutendo le differenze tra l'agricoltura ashaninca e l'agricoltura "moderna". Avevo già capito che i giardini indigeni, nonostante la loro apparente confusione, erano dei capolavori policolturali, che includevano fino a settanta diverse specie di piante mescolate in modo caotico ma non casuale. Nel corso della conversazione elogiai le loro pratiche e conclusi esprimendo il mio stupore nei confronti della loro abilità botanica chiedendo: "Ma come avete imparato tutto questo?". Un uomo di nome Ruperto Gomez rispose: "Fratello Jeremy, per comprendere quello che ti interessa devi bere l'ayahuasca". Rizzai le orecchie. Sapevo che l'ayahuasca era il principale allucinogeno utilizzato dalle popolazioni indigene dell'Amazzonia occidentale. Ruperto, che non perdeva un giro della zucca contenente la birra, aggiunse con tono sicuro di sé: "Alcuni dicono che è qualcosa di misterioso, il che è vero, ma non c'è niente di male. A dire la verità l'ayahuasca è la televisione della foresta. Si possono vedere immagini e imparare cose". Concluse la frase ridendo, ma nessun altro sorrise; poi aggiunse: "Se vuoi, qualche volta ti posso far vedere".3 Risposi che ero davvero interessato. Allora Ruperto si lanciò in un'analisi comparata tra la mia scienza "contabile" e la sua scienza "occulta''. Aveva vissuto con gli Shipibo, una comunità confinante situata nella zona settentrionale e stimata per il proprio straordinario potere magico. Aveva fatto un apprendistato completo come ayahuasquero, trascorrendo lunghi mesi nella foresta, nutrendosi solamente di banane, manioca e cuori di palma e ingerendo forti quantità di allucinogeni, sotto lo sguardo vigile di un ayahuasquero shipibo. Aveva anche trascorso otto anni lontano da Cajonari, nel corso dei quali aveva prestato servizio nell'esercito peruviano, cosa che per lui era fonte di orgoglio personale. Da parte mia avevo determinati pregiudizi nei riguardi dello sciamanesimo. Immaginavo che lo sciamano "autentico" fosse un anziano saggio, tradizionale e distaccato, simile in qualche maniera al Don Juan descritto nei libri di Castaneda. Ruperto il girovago, che aveva appreso le tecniche di un'altra tribù, non corrispondeva alle mie aspettative. • In tutto il testo è sempre stata usata la parola "sciamano" senza distinzioni tra maschile e femminile per non appesantire il testo. Tuttavia è noto che la pratica sciamanica è stata da sempre competenza femminile prima ancora che maschile. Il termine perciò va inteso a indicare la "professione" e non il sesso dello/a sciamano /a, tranne nei casi di persone reali di cui e con cui l'autore parla (N.d.C.).
Tuttavia nessun anziano saggio si era fatto avanti per iniziarmi e non era il caso di fare il pignolo. Ruperto si era proposto spontaneamente e pubblicamente, come se fosse una specie di affare; in cambio gli avrei tenuto un corso speciale "avanzato" di contabilità. Accettai dunque la sua offerta, in particolare perché sembrava che non si sarebbe più materializzata una volta che gli effetti della birra avessero perso la loro efficacia. Due settimane dopo ero di nuovo a Quirishari, quando comparve Ruperto per seguire la sua prima lezione privata. Prima di andarsene mi avvisò: "Tornerò domenica prossima. Preparati il giorno prima; non mangiare né cose salate né grasse, ma solamente un po' di manioca bollita oppure arrostita". Fece ritorno il giorno stabilito portando con sé una bottiglia piena di un liquido rossastro, il cui tappo era una vecchia pannocchia. Non avevo seguito le sue istruzioni perché, in fondo in fondo, non avevo preso seriamente la cosa. L'idea di non mangiare determinati cibi prima di un certo evento rappresentava per me una sorta di superstizione. Per pranzo avevo sbocconcellato del cervo affumicato e un po' di manioca fritta. Altre due persone avevano concordato di assumere l'ayahuasca sotto la supervisione di Ruperto. All'imbrunire ci trovavamo in quattro seduti sulla pedana di una casa silenziosa. Ruperto si accese una sigaretta che si era preparato arrotolandola in un foglio di quaderno, e disse: "Questa è toé". La fece circolare. A quel punto se avessi saputo che il toé è una specie di datura, non avrei forse aspirato il fumo, dato che le piante di datura sono allucinogeni potenti e pericolosi, ampiamente riconosciuti per la loro tossicità. Il toé aveva un sapore dolce e, filtrato dalla carta della sigaretta, non avrebbe potuto essere più piacevole. A quel punto ciascuno di noi ingollò una tazza di ayahuasca. Questa è estremamente amara e il suo sapore è simile a quello pungente del pompelmo. Trenta secondi dopo averla mandata giù mi venne un attacco di nausea. Non presi appunti né nota del tempo durante questa esperienza. La descrizione che segue si basa su quanto scrissi la sera successiva. Come prima cosa Ruperto ci cosparse di acqua profumata (agua florida) e di fumo di tabacco. Poi si mise a sedere e iniziò a fischiettare una melodia straordinariamente bella. Pur essendo a occhi chiusi cominciai a vedere immagini caleidoscopiche, ma mi sentivo troppo male. Nonostante la melodia di Ruperto mi alzai per andare a vomitare. Dopo essermi liberato dei resti di carne di cervo e di manioca fritta, tornai indietro sentendomi meglio. Ruperto mi disse che probabilmente avevo eliminato l'ayahuasca e che, se volevo, potevo prenderne ancora. Mi controllò le pulsazioni e mi giudicò abbastanza forte per assumere una dose "regolare", che mandai giù. Ruperto riprese a fischiettare mentre mi mettevo a sedere nell'oscurità della pedana. Immagini iniziarono ad affluire nella mia testa. Nei miei appunti le descrivo come insolite e spaventose: un aguti (roditore della foresta) che mi mostra i denti con la bocca insanguinata; serpenti molto luminosi, lucenti e multicolori; un poliziotto che mi fa storie; mio padre con l'aria preoccupata... Fui sommerso da profonde allucinazioni. Mi trovai improvvisamente circondato da due giganteschi serpenti boa che sembravano lunghi oltre quindici metri. Ero terrorizzato: "Questi enormi serpenti sono lì, i miei occhi sono chiusi e vedo un mondo spettacolare fatto di luci brillanti; nel bel mezzo di questi pensieri confusi i serpenti iniziano a parlare con me senza proferire parola. Mi spiegano che io sono solamente un essere umano. Sento che la mia mente si incrina e, attraverso le sue spaccature, vedo la sconfinata arroganza dei miei presupposti. È estremamente vero dire che sono solamente un essere umano e che, il più delle volte, ho la sensazione di comprendere tutto, mentre adesso mi trovo qui in una realtà più potente che non capisco per niente e che, nella mia arroganza, non sospettavo nemmeno che esistesse. L'enormità di queste rivelazioni mi fa venir voglia di piangere. Poi mi viene in mente che l'autocommiserazione fa parte della mia arroganza. Provo così tanta vergogna che non ho più il coraggio di vergognarmi. E oltre a tutto devo vomitare ancora". Mi alzai di nuovo con la sensazione di essere completamente perso, scavalcai i serpenti fluorescenti come un funambolo ubriaco e, implorando il loro perdono, mi diressi verso un albero in prossimità della casa.
Racconto questa esperienza per mezzo di parole scritte. Ma in quella occasione il linguaggio stesso mi sembrò inadeguato. Cercavo dí dare un nome a ciò che stavo vedendo, ma il più delle volte le parole non si addicevano alle immagini. Tutto ciò era angoscioso, come se fosse stato reciso il mio ultimo legame con la "realtà". La realtà stessa sembrava non essere altro che una memoria distante e monodimensionale. Ciò nonostante feci in modo di comprendere k mie sensazioni, come "un povero essere umano che ha perso la parola e che prova pena per se stesso". Non mi ero mai sentito così totalmente meschino come in quel momento. Appoggiandomi all'albero iniziai di nuovo a vomitare. Nella lingua ashaninca, la parola per definire l'ayahuasca è kamarampi, dal verbo kamarank, che significa "vomitare". Chiusi gli occhi e tutto quello che vidi era di colore rosso. Riuscivo a vedere le parti interne del mio corpo, che erano rosse. "Rigurgito non un liquido, ma colori, un rosso elettrico simile al sangue. La gola mi fa male. Apro gli occhi e percepisco delle presenze vicino a me, una oscura alla mia sinistra, a circa un metro dalla mia testa, e una luminosa alla mia destra, anch'essa distante un metro. Dato che sono girato verso sinistra non sono infastidito dalla presenza oscura, perché ne ho la consapevolezza. Ma sussulto quando mi rendo conto della presenza luminosa alla mia destra e mi giro per guardarla. Non riesco effettivamente a vederla con i miei occhi; mi sento così male e la mia razionalità è così poco sotto controllo che non voglio veramente vederla. Mi mantengo abbastanza lucido per capire che non sto effettivamente vomitando sangue. Dopo un po' inizio a chiedermi cosa fare. II mio controllo è così limitato che mi lascio andare alle istruzioni che sembrano provenire fuori da me stesso: adesso è il momento di smetterla di vomitare, è ora di sputare, di soffiarsi il naso, di risciacquarsi la bocca ma non di bere acqua. Ho sete ma il mio corpo mi impone di non bere". Alzai lo sguardo e vidi una donna ashaninca, che indossava la tradizionale veste lunga di cotone. Si trovava a circa sci metri da me e sembrava levitare sopra il terreno. Riuscivo a vederla nell'oscurità che era divenuta luminosa. La qualità della luce mi riportò alla mente quelle scene notturne dei film, che vengono girati di giorno utilizzando un filtro scuro; in qualche modo si trattava dì una luce non realmente scura, ma brillante. Mentre guardavo questa donna, che mi stava fissando immersa nella silenziosa oscurità luminosa, fuì di nuovo sbalordito dalla familiarità di questa gente con una realtà che mi scombussolava e della quale ero del tutto ignaro. Ancora molto confuso, ritengo di aver fatto tutto, dì essermi anche lavato la faccia e mi stupisco di esserci riuscito per conto mio. Mi allontano dall'albero, dalle due presenze e dalla donna in levitazione e mi unisco di nuovo al gruppo. Ruperto mi chiede: 'Ti hanno detto di non bere acqua?' Rispondo: 'Si'. 'Sei sbronzo (mareado)?' Sì.' Mi siedo ed egli riprende la sua canzone. Non avevo mai sentito una musica più bella, questi piccoli staccati, che sono così acuti da rasentare il ronzio. Seguo la sua canzone e decollo. Volo nell'aria a centinaia di metri di distanza dalla terra e guardando giù vedo un pianeta tutto bianco. Improvvisamente la canzone si interrompe e mi trovo seduto per terra a pensare: 'Non si può fermare proprio adesso'. Riesco a vedere solo delle immagini confuse, alcune delle quali dal contenuto erotico, come una donna con venti seni. Egli ricomincia a cantare e io vedo una foglia verde con le sue vene, poi una mano umana con le sue vene e così via inesorabilmente. È impossibile ricordare tutto." Gradualmente le immagini svanirono. Mi sentivo esausto e mi addormentai poco dopo la mezzanotte.
CAPITOLO 2 ANTROPOLOGI E SCIAMANI Il principale enigma, nel quale mi imbattei durante la mia ricerca sull'ecologia ashaninca, fu quello riguardante il fatto che questo popolo, estremamente pratico e schietto, che viveva in maniera
pressoché autonoma nella foresta amazzonica, insisteva nel dire che la propria conoscenza botanica approfondita derivava dalle allucinazioni indotte dalle piante. Come poteva essere vero? L'enigma era tanto più affascinante, dato che la conoscenza botanica degli indigeni che abitano la foresta amazzonica stupiva gli scienziati da tanto tempo. La composizione chimica dell'ayahuasca è un esempio calzante. Gli sciamani amazzonici preparano l'ayahuasca da millenni. L'infuso è una combinazione necessaria di due piante, che devono essere bollite insieme per ore. La prima contiene un allucinogeno, la dimetiltriptamina, che sembra sia anche secreta dal cervello umano; questo allucinogeno non ha effetto quando viene ingerito, dato che un enzima gastrico, denominato monoaminoossidasi, lo blocca. La seconda pianta tuttavia contiene diverse sostanze che rendono inattivo questo preciso enzima gastrico, consentendo all'allucinogeno di raggiungere il cervello. La raffinatezza di questa ricetta ha indotto Richard Evans Schultes, il più rinomato etnobotanico del ventesimo secolo, a commentare: "Ci si chiede come degli individui delle società primitive, senza avere alcuna conoscenza della chimica o della fisiologia, riescano a scoprire una soluzione per l'attivazione di un alcaloide da parte di un inibitore della monoaminoossìdasi. Pura sperimentazione? Forse no. Gli esempi sono troppi e potrebbero anche aumentare con la futura ricerca. Si tratta di persone che non possiedono un microscopio elettronico e che scelgono, tra circa 80.000 specie di piante amazzoniche, foglie di un cespuglio che contiene un ormone cerebrale allucinogeno, che poi combinano con una pianta rampicante, le cui sostanze inattivano un enzima del tratto digestivo, che altrimenti bloccherebbe l'effetto allucinogeno. E lo fanno per modificare la propria coscienza. È come se fossero a conoscenza delle proprietà molecolari delle piante e dell'arte di combinarle; quando si chiede loro come fanno a conoscere queste cose, rispondono che la loro conoscenza proviene direttamente dalle piante allucinogene. Pochi antropologi hanno studiato a fondo questo enigma3, ma il fallimento degli accademici nei confronti di questo tipo di mistero non si limita alla zona del Rio delle Amazzoni. Per tutto il ventesimo secolo gli antropologi hanno esaminato le pratiche sciamaniche nel mondo senza comprenderle a fondo. Una breve storia dell'antropologia rivela il suo punto debole negli studi sullo sciamanesimo. Nel diciannovesimo secolo i pensatori europei ritenevano che alcune razze fossero più evolute di altre. Charles Darwin, uno dei fondatori della teoria dell'evoluzione, scrisse nel 1871: "Nei popoli dei paesi civilizzati, la dimensione ridotta delle mascelle causata da un loro uso più limitato, l'utilizzo costante di vari muscoli per esprimere emozioni diverse e la dimensione sempre maggiore del cervello determinata da un'attività intellettuale più intensa hanno contribuito a differenziare il loro aspetto generale rispetto ai selvaggi"4 L'antropologia fu fondata nella seconda metà del diciannovesimo secolo per studiare i "primitivi", le società dell'età della pietra". Il suo scopo fondamentale era di comprendere da dove provenivamo noi europei.5 Il problema della giovane disciplina consisteva nella natura irragionevole del proprio oggetto di studio. Secondo Edward Tylor, uno dei primi antropologi: "I selvaggi sono estremamente ignoranti in merito alla conoscenza sia fisica che morale; la mancanza di disciplina rende le loro opinioni rozze e le loro azioni inefficaci in misura sorprendente. Inoltre, la tirannia della tradizione impone loro pensieri e consuetudini che hanno ereditato da un diverso stadio di cultura ed hanno così perso una ragionevolezza che spesso possono aver posseduto in origine. In base al giudizio che possiamo dare con il nostro livello moderno di conoscenza, che a ogni modo è più elevato del loro, gran parte di quanto credono vero deve essere ascritto come falso".6 Il quesito era: com'è possibile studiare scientificamente una simile incoerenza? Il "padre dell'antropologia moderna, Bronislaw Malinowski, trovò la risposta sviluppando un metodo per l'analisi oggettiva dei "selvaggi". Tale metodo, denominato "osservazione partecipe" e utilizzato fino a oggi, consiste nel vivere a stretto contano con gli indigeni, osservandoli però a distanza. Considerando la realtà indigena mediante uno sguardo da lontano l'antropologo riesce a inserire "legge e ordine in ciò che sembrava caotico e bizzarro".
Dagli anni '30 in poi l'antropologia cercò ossessivamente di dare ordine al proprio studio degli altri e di elevare se stessa al rango di scienza.8 Nel corso di questo processo trasformò la realtà in discorsi quasi incomprensibili.9 Riporto uno stralcio del libro di Claude Lévi-Strauss intitolato Le strutture elementari della parentela (1949), uno dei testi con i quali l'antropologia pretese di conseguire il rango di scienza. "Così in un sistema a otto sottosezioni normale, il nipote riprodurrebbe la sotto-sezione del padre di suo padre sposando la figlia della figlia del fratello della madre della madre. L'esitazione dei Murinbata tra il sistema tradizionale e l'ordine nuovo giunge praticamente a identificare, come coniuge possibile, la figlia del fratello della madre, e la figlia della figlia del fratello della madre della madre, vale a dire che per TJANAMA: vangala = nauola. Così un uomo TJIMIJ sposa una donna namij. Il padre pretende che sua figlia sia nalyeri (che è la sottosezione `convenzionalelluttavia una donna namij — che dal punto di vista della relazione di parentela può essere una figlia di un figlio di una sorella purima, 'sposabile' — è una sorella in termini di sottosezioni e di conseguenza ha una figlia nabidjin, secondo la regola indigena, formulata in linguaggio matrilineare: 'namij produce n.- bajin.'Da qui ha origine la discussione per sapere se le sottosezioni sono patrilineari o patrilineari."10 Proprio quando l'antropologia pensò di aver trovato la propria collocazione nell'ambito della comunità scientifica grazie a tali discorsi "strutturalisti", essa subì una battuta d'arresto fondamentale. Il proprio oggetto di studio, vale a dire quei primitivi che vivevano in uno spazio senza tempo, iniziarono a dissolversi come neve al sole; entro la metà del ventesimo secolo era diventato sempre più difficile trovare un "autentico" indigeno, che non avesse avuto mai alcun contatto con il mondo industriale. In effetti tali individui potevano non essere mai esistiti. Già nella seconda metà del diciannovesimo secolo le popolazioni indigene del Rio delle Amazzoni vennero, ad esempio, costrette su larga scala a prendere parte alla costruzione del mondo industriale, al quale contribuirono con una componente essenziale, la gomma. Da allora la maggior parte di loro utilizza strumenti metallici di origine industriale. Nel corso degli anni '60 questa crisi fece piombare l'antropologia nel dubbio e nell'autocritica del "poststrutturalismo". Gli antropologi arrivarono a rendersi conto che la loro presenza cambiava le cose, che loro stessi erano una sorta di rappresentanti coloniali e, quel che è peggio, che la loro metodologia aveva delle pecche. L'osservazione partecipe è una contraddizione in termini, dato che è impossibile osservare le persone dall'alto mentre si partecipa all'azione al loro fianco; come è impossibile fare da spettatore dalle tribune, mentre si prende parte al gioco sul campo. Il metodo antropologico costringe chi lo pratica a "danzare sull'orlo del paradosso" e a recitare il ruolo schizofrenico dell'attore-commentatore. Inoltre, lo sguardo da lontano dell'antropologo non è in grado di percepire se stesso e coloro che lo applicano aspirando all'oggettività non riescono a vedere i loro stessi presupposti impliciti. Con le parole di Pierre Bourdieu, l'oggettivismo "non riesce a oggettivare il suo rapporto oggettivante". Gli antropologi scoprirono a questo punto che il loro sguardo era uno strumento di dominio e che la loro disciplina non solo era frutto del colonialismo ma che, praticandola, si ponevano al servizio della causa coloniale. Il linguaggio "privo di pregiudizi e sovraculturale dell'osservatore" era in realtà un discorso coloniale e una forma di dominio. La soluzione per la disciplina consisteva nell'accettare che essa non era una scienza ma una forma di interpretazione. Lo stesso Claude Lévi-Strauss arrivò ad affermare che "le scienze umane sono solamente scienze finalizzate a un inganno autoadulatorio. Esse si scontrano con un limite insormontabile, dato che le realtà che aspirano a comprendere hanno lo stesso ordine di complessità degli strumenti intellettuali da loro schierati. Perciò esse non sono in grado, e non lo saranno mai, di conoscere a fondo il proprio oggetto di studio". Gli antropologi hanno inventato la parola "sciamanesimo" per classificare le pratiche meno comprensibili dei popoli "primitivi". La parola "sciamano" è di origine siberiana. La sua etimologia è incerta. Nella lingua tungusa un saman è una persona che suona un tamburo, entra in trance e guarisce le persone. I primi osservatori russi, che riportarono le attività di questi saman, li descrissero come dei malati di mente.
Dall'inizio del ventesimo secolo in poi gli antropologi estesero progressivamente l'uso di questo termine siberiano e trovarono sciamani in Indonesia, Uganda, Artide e Amazzonia. Alcuni suonavano i tamburi, altri bevevano decotti di piante e cantavano; vi era chi sosteneva di guarire e chi faceva sortilegi. Tutti erano unanimemente considerati nevrotici, epilettici, psicotici, isterici, o schizofrenici.16 Come scrisse George Devereux, considerato un'autorità in materia: "In breve, non vi è nessuna ragione né giustificazione per non considerare lo sciamano come un nevrotico grave o addirittura uno psicotico. In più lo sciamanesimo è spesso anche culturalmente disto-fico... In poche parole riteniamo che lo sciamano sia mentalmente squilibrato. Sono di questa opinione anche Kroeber e Linton".17 Verso la metà del ventesimo secolo gli antropologi iniziarono a rendersi conto non solo che i "primitivi" in quanto tali non esistevano, ma anche che gli sciamani non erano pazzi. Il cambiamento ebbe luogo repentinamente. Nel 1949 Claude Lévi-Strauss affermò in un saggio chiave che lo sciamano, ben lungi dall'essere malato di mente, era in realtà una sorta di psicoterapista — la differenza sta nel fatto che "lo psicoanalista ascolta, mentre lo sciamano parla". Per Lévi-Strauss lo sciamano è principalmente un creatore di ordine, che guarisce le persone trasformando le loro "sofferenze incoerenti e arbitrarie" in "una forma ordinata e intelligibile". Lo sciamano inteso come creatore di ordine divenne il credo di una nuova generazione di antropologi. Dal 1960 al 1980 le autorità riconosciute della disciplina definirono lo sciamano come un artefice di ordine, un padrone del caos, un individuo che sfugge il disordine.19 Naturalmente le cose non avvennero in modo così semplice. Fino alla fine degli anni '60 diversi membri della vecchia scuola continuarono a sostenere che lo sciamanesimo era una forma dì malattia mentale20, mentre negli anni '70 divenne una moda il presentare lo sciamano come uno specialista in ogni campo, che interpreta i ruoli di medico, farmacologo, psicoterapista, sociologo, filosofo, avvocato, astrologo e sacerdote".21 Infine, negli anni '80 alcuni iconoclasti sostennero che gli sciamani erano creatori di disordine. Chi sono dunque questi sciamani? Degli schizofrenici, o dei creatori di ordine? Dei factotum, oppure dei creatori di disordine? La risposta è sempre stata fornita con un sistema "a specchio". Quando l'antropologia era una scienza giovane, incerta sulla propria identità e inconsapevole della natura schizofrenica della propria metodologia, gli sciamani furono ritenuti malati di mente. Quando l'antropologia "strutturalista" sostenne di aver conseguito il rango di scienza e gli antropologi si diedero da fare per trovare ordine nell'ordine, gli sciamani divennero creatori di ordine. Quando la disciplina entrò in una crisi di identità "poststrutturalista", incapace di decidere se essere una scienza oppure una forma di interpretazione, gli sciamani iniziarono a esercitare ogni tipo di professione. Finalmente alcuni antropologi iniziarono a mettere in discussione l'ossessiva ricerca di ordine della propria disciplina e videro gli sciamani come coloro il cui potere risiede nel "dubitare insistentemente e nell'insidiare la ricerca di ordine".22 Sembrerebbe dunque che la realtà che si cela dietro il concetto di "sciamanesimo", rifletta il punto di vista dell'antropologo, indipendentemente dall'angolatura di partenza. Nel 1951, all'incirca nel periodo in cui Lévi-Strauss stava trasformando lo sciamano schizofrenico in uno psicoanalista-creatore di ordine, Mircea Eliade, una delle principali autorità nella storia delle religioni, pubblicò quello che allora divenne un classico, intitolato Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi. Fino a oggi è l'unico tentativo di sintesi mondiale sull'argomento. Eliade, che non era un antropologo addestrato, non vide né malattia mentale né creazione di ordine. Mise in luce invece le straordinarie analogie nelle pratiche e nei concetti degli sciamani di tutto il mondo. In qualunque luogo operino, questi "tecnici dell'estasi" si specializzano in uno stato di trance nel corso quale si ritiene che la loro "anima lasci il corpo e salga in cielo, oppure discenda agli inferi". Parlano tutti un "linguaggio segreto", che apprendono direttamente dagli spiriti per imitazione. Raccontano di una scala a pioli, oppure di una pianta rampicante, di una corda, di una scala a chiocciola, di una scala fatta di corda intrecciata, che collega il paradiso con la terra e della quale si servono per avere accesso al mondo degli spiriti. Ritengono che questi spiriti siano venuti
dal cielo e che abbiano dato origine alla vita sulla terra.23 Gli antropologi raramente apprezzano che degli intellettuali, con una preparazione libresca, utilizzino il loro lavoro senza imbrattarsi di fango gli stivali e che finiscano con lo scoprire dei collegamenti che non avevano visto. Nessuna eccezione fu Fatta per Eliade e il suo lavoro fu respinto a causa del suo "misticismo latente". Fu anche accusato di separare i simboli dal loro contesto, di mutilare e distorcere i fatti e di distruggere l'aspetto socioculturale del fenomeno, relegandolo in un mistico angolo cieco. Di recente si è perfino detto che la nozione di Eliade di "volo celestiale" era "una rappresentazione di stampo potenzialmente fascistico della guarigione nel Terzo Mondo.24 Nonostante queste critiche, Eliade comprese comunque prima di molti antropologi che è utile prendere sul serio le persone e le loro pratiche e prestare attenzione ai dettagli di quanto dicono e fanno. Alcuni antropologi si resero allora conto che gli studi accademici sullo sciamanesimo stavano girando a vuoto, e arrivarono a criticare la nozione stessa di "sciamanesimo". Ad esempio, George Geertz scrisse che lo sciamanesimo è una di quelle "insulse categorie per mezzo delle quali gli etnografi della religione indeboliscono i propri dati" Tuttavia, l'abbandono del concetto di "sciamanesimo", cosi come avvenne trenta anni fa con la nozione di "totemismo",26 non chiarisce la sua realtà di riferimento. La difficoltà nel capire a fondo lo "sciamanesimo' risiede non tanto nel concetto stesso quanto nello sguardo di coloro che usano tale termine. L'analisi accademica dello sciamanesimo sarà sempre lo studio razionale di ciò che razionale non è; in altre parole sarà sempre un'affermazione contraddittoria o un vicolo cieco. Forse l'esempio più rivelatore a questo riguardo ei viene fornito da Luis Eduardo Luna, autore di un eccellente studio sullo sciamanesimo degli ayahuasqueros mestizo del Rio delle Amattoni peruviano, che praticano ciò che essi definiscono vegetalismo, vale a dire una forma di medicina popolare basata su piante allucinogene, canti e diete. Luna si concentra sulle tecniche di questi sciamani e riporta le loro opinioni senza interpretarle. Scrive: "Dicono che l'ayahuasca è un dottore. Essa possiede un forte spirito ed è considerata un essere intelligente, con il quale è possibile instaurare un rapporto e dal quale è possibile acquisire conoscenza e potere, purché la dieta e le altre prescrizioni vengano seguite scrupolosamente". Tuttavia Luna scrive in un linguaggio razionale destinato a un pubblico razionale ("noi") e non è razionale affermare che talune piante sono esseri intelligenti in grado di comunicare. Luna, che esamina nel corso di diverse pagine la questione delle "piante che trasmettono la conoscenza", conclude che "non si può dire nulla... fino a che non capiremo qualcosa di quello che queste persone vogliono davvero dire quando affermano che sono le piante stesse a rivelare le loro proprietà".27 Non si può ritenere vero quello che dicono perché in realtà, come "noi" sappiamo, le piante non comunicano. Questo è il punto debole.
CAPITOLO 3 LA MADRE DELLA MADRE DEL TABACCO UN SERPENTE A due giorni dalla mia prima esperienza con l'ayahuasca, stavo camminando nella foresta con Carlos Perez Shuma, il mio principale consulente ashaninca. Carlos aveva quarantacinque anni ed era un tabaquero-ayahuasquero esperto, che aveva avuto molto a che fare con missionari e colonizzatori. Raggiungemmo un fiume, che dovevamo attraversare, e facemmo una sosta. Sembrava il momento giusto per porre alcune domande, anche perché Carlos aveva preso parte alla seduta allucinatoria tenutasi due notti prima. Tio [zio] , chiesi, "che cosa sono questi enormi serpenti che si vedono quando si beve l'ayahuasca?". "La prossima volta porta la tua macchina
fotografica e fotografali", rispose, "in questo modo sarai in grado di analizzarli a tuo piacimento". Mi misi a ridere, dicendo che non pensavo che le visioni avrebbero impressionato la pellicola. "Sì, lo faranno", replicò, "dato che i loro colori sono così brillanti". Detto questo, si alzò e iniziò a guadare il fiume. Lo seguii correndo, pensando a quanto aveva appena detto. Non mi era mai capitato prima che qualcuno potesse prendere davvero in considerazione il fotografare delle allucinazioni. Ero certo che se lo avessi fatto, avrei ottenuto solamente delle foto raffiguranti l'oscurità, ma sapevo che ciò non avrebbe dimostrato nulla, dato che egli avrebbe sempre potuto mettere in discussione le prestazioni della mia macchina fotografica. In ogni caso sembrava che questa gente considerasse le visioni prodotte dalle piante allullnogene per lo meno reali quanto la realtà consueta che percepiamo tutti. Alcune settimane più tardi iniziai a registrare una serie di interviste con Carlos, che aveva accettato di raccontarmi la storia della sua vita. La prima sera sedemmo sulla pedana della sua casa circondati dai suoni notturni della foresta. Una lampada a kerosene, costituita da una lattina e da uno stoppino di cotone, forniva una fonte di luce tremolante e sprigionava dei fumi nerastri. Nonostante il mio addestramento, era la prima volta in vita mia che intervistavo qualcuno. Non sapevo da dove iniziare e quindi gli chiesi di cominciare dal principio. Carlos era nato nel 1940 nella Valle del Perene. Dopo aver perso i genitori all'età di cinque anni durante una delle ondate di epidemie che avevano decimato la zona sin dall'arrivo dei colonizzatori bianchi, fu allevato da uno zio che si prese cura di lui per diversi anni. In seguito si recò a una missione avventista, dove imparò a parlare, a leggere e a scrivere in spagnolo. L'estratto che segue proviene dalla trascrizione di questa prima intervista fatta in spagnolo, che, come si può evincere dalla traduzione fedele, non è la lingua madre di nessuno dei due. "Mio zio era un tabaquero. Lo vedevo prendere grandi quantità di tabacco, farlo seccare un po' al sole e cuocerlo. Mi chiedevo che cosa potesse essere. 'Questo è tabacco, mi disse mio zio, e una volta che la mistura era bella nera, iniziava ad assaggiarla con un piccolo bastone. Pensavo fosse dolce, come il succo di canna concentrato. Quando mangiava il suo tabacco sapeva dare buoni consigli alle persone. Poteva dire 'questo è giusto', oppure 'questo non è giusto.' Non so che cosa dicono adesso gli intellettuali, ma a quei tempi tutti i missionari avventisti dicevano: 'Sta ascoltando i suoi pipistrelli, il suo Satana. Non aveva nessun libro che lo aiutasse a vedere, ma ciò che diceva era vero: 'Tutti si sono allontanati da queste cose, ora vanno tutti dai missionari. Io non so leggere, ma so come fare queste cose. Io so come prendere il tabacco, so tutte queste cose.' Dunque quando lui parlava io ascoltavo. Mi disse: Ascolta, nipote, quando sarai un uomo adulto, trovati una donna della quale avere cura, ma prima non devi imparare solamente a scrivere, devi anche imparare queste cose'." "Imparare a prendere il tabacco?", chiesi. "Prendere il tabacco e curare. Quando la gente andava da lui, mio zio diceva: 'Perché mi chiedi di curarti, quando dici di conoscere Dio adesso che sei alla missione e io non conosco Dio? Perché non chiedi al pastore di pregare, dal momento che egli dice di poter curare le persone con le preghiere? Perché non vai da lui?' Ma poi le curava sempre. Tirava fiori la sua coca, iniziava a masticarla e a sedersi come stiamo facendo noi adesso. Poi, ingoiava il suo tabacco. Nel frattempo io lo guardavo e gli chiedevo cosa stesse facendo. La prima volta che lo vidi curare, mi disse: Molto bene, portami il bambino malato.' Per prima cosa toccò íl bambino, poi sentì le sue pulsazioni: Ah, capisco, è messo male. La malattia è qui.' Quindi iniziò a succhiare il punto in questione [rumore di risucchio]. Poi sputò in questo modo: ptt! Poi lo fece una seconda e una terza volta: ptt! Là, molto bene. Poi disse alla madre: 'Qualcosa ha scioccato questo piccolo, e questa è un'erba per fargli il bagno. Fatto questo, lascialo riposare.' Il giorno seguente si poteva già vedere un miglioramento nello stato di salute del bambino. Così ci presi gusto e decisi di imparare. Ooh! La prima volta che presi il tabacco, non dormii." "Quanti anni avevi?" 'Avevo otto anni. Pensavo che il tabacco fosse dolce. Ma era così amaro che non riuscivo nemmeno a ingoiarlo. Mio zio disse: "Quello è il segreto del tabacco.' Poi mi insegnò tutto. Mi diede una
zucca contenente tabacco. Piano piano imparai a ingerirlo e a resistere. Abbastanza rapidamente smisi di vomitare." "Tuo zio ti insegnò anche come utilizzare l'ayahuasca?" "No, questo lo imparai più tardi, con mio suocero..." Nel corso dei mesi successivi feci circa venti ore di registrazione sull'intricata vita di Carlos. Parlava spagnolo meglio di chiunque altro a Quirishari; in passato lo aveva insegnato ad altri Ashaninca in una scuola avventista. Tuttavia, la sua grammatica era flessibile e parlava con ritmi inaspettati, punteggiando le sue frasi con pause, gesti e rumori che completavano bene il suo vocabolario, ma che sono difficili da trascrivere in inglese. Inoltre il suo modo di raccontare variava dal resoconto in prima persona al commento di un narratore che recita anche le parti dei personaggi. Senza dubbio tutto ciò si addice di più all'arte oratoria, alle commedie radiofoniche, che non a un testo. Registrando la storia della vita di Carlos non stavo cercando di stabilire il punto di vista di un "tipico" Ashanitua. quanto di comprendere alcune particolarità della storia locale seguendo il percorso personale di un uomo. In particolare ero interessato alle questioni territoriali nella Valle del Pichis: chi possedeva quali terre e da quando? Chi utilizzava quali risorse? Per combinazione. la storia globale degli Ashaninca nel ventesimo secolo è strettamente correlata alla progressiva espropriazione del territorio da parte di estranei, come rivela il racconto della vita di Carlos. Il luogo di nascita di Carlos, la Valle del Perene, fu la prima regione Ashaninca a subire la colonizzazione. Entro il 1940, la maggior parte delle terre indigene nella zona erano state già confiscate. Dieci anni più tardi, il giovane orfano Carlos aveva seguito la migrazione di massa degli Ashaninca della Valle del Perene verso la Valle del Pichis, dove le foreste erano ancora libere dai colonizzatori e dalle malattie. Dopo aver vissuto ventisei anni in questa nuova patria, Carlos era stato eletto alla presidenza del congresso dell'Associazione delle Comunità Indigene della Valle del Pichis (ACONAP). Lo scopo di questa organizzazione era di difendere le terre indigene da una nuova ondata di colonizzazione. Carlos fu costretto ad abbandonare la sua posizione dopo quattro anni quando fu morso da un serpente. A questo punto si ritirò a Quirishari per curarsi "con l'ayahuasca e con altre piante". Quando io apparvi cinque anni più tardi, viveva come un politico in pensione, soddisfatto della tranquillità, ma con la nostalgia delle lotte di ieri. Non sembrò dispiaciuto all'idea di confidare le sue memorie a un antropologo in visita. Nel corso delle nostre conversazioni, chiesi spesso a Carlos dei luoghi nei quali aveva vissuto, indirizzando la conversazione verso il solido terreno della geografia sociale. Ma lui regolarmente rispondeva indirizzando il discorso verso lo sciamanesimo e la mitologia. Ad esempio: "Il terremoto nella Valle del Perene fu nel 1948 o nel 1947?" "1947." "E tu eri lì a quel tempo?" "Certo, allora ero un ragazzo. Accadde a Pichanaki. Uccise tre persone. Pichanaki era una bella pianura, ma ora il vecchio villaggio è sepolto da oltre venti metri di terra. Era un bassopiano fertile, adatto alla coltivazione del frumento." "E perché questo posto veniva chiamato Pichanaki?" "Quello è il nome che nei tempi antichi gli diedero i primi indigeni, i tabaqueros, gli ayahuasqueros. Come ti ho spiegato, è nelle loro visioni che gli venne detto che il fiume si chiama Pichanaki." "Ah sì. E Pichanaki' significa qualcosa? Tutti i nomi di questi luoghi terminano in —aki, come anche Yurinaki, che cosa significa aki?" "Significa che ci sono molti minerali al centro di questi luoghi. Nella nostra lingua la parola significa 'occhio'" "E Picha?" "Si chiama così dato che sulle colline c'è un rappresentante degli animali, il cui nome è Picha." "Ah, gli occhi di Picha.'' "Ora cominci a capire." Chiedevo spesso a Carlos di spiegarmi l'origine dei nomi dei luoghi. Sistematicamente mi rispondeva che la natura stessa li aveva trasmessi agli ayahuasqueros-tabaqueros nel corso delle loro allucinazioni: "É così che la natura parla, dato che nella natura c'è Dio e Dio ci parla nelle
nostre visioni. Quando un ayahuasquero beve il suo infuso vegetale, gli spiriti si presentano a lui e spiegano ogni cosa.. Ascoltando le storie di Carlos, mi familiarizzai gradualmente con alcuni dei personaggi della mitologia ashaninca. Ad esempio, parlava spesso di Avíreri: "Secondo la nostra antica credenza, lui è l'essere della foresta, il nostro dio. Fu colui che ebbe l'idea di fare apparire k persone". Carlos si riferiva anche a esseri invisibili, chiamati maninkari, che si trovano in animali, piante, montagne, corsi d'acqua, laghi e in certi cristalli, e che sono fonti di conoscenza: maninkari ci insegnarono come filare e tessere il cotone e come confezionare i vestiti. In precedenza i nostri avi vivevano nudi nella foresta. Chi altro avrebbe potuto insegnarci a tessere? È così che nacque la nostra intelligenza ed è così che noi indigeni della foresta sappiamo come tessere". Non mi ero recato a Quirishari per studiare la mitologia indigena. Ritenevo perfino che lo studio della mitologia fosse un passatempo inutile e "reazionario". Per me ciò che contava erano gli ettari confiscati in nome dello "sviluppo" e i milioni di dollari in fondi internazionali, che finanziavano l'operazione. Con la mia ricerca stavo cercando di dimostrare che il vero sviluppo consisteva in primo luogo nel riconoscere i diritti territoriali delle popolazioni indigene. Il mio punto di vista era materialista e politico più che mitico. Cosi, dopo aver trascorso nove mesi a Quirishari, fu quasi a dispetto di me stesso che iniziai a leggere la dissertazione dottorale di Gerald Weìss sulla mitologia ashaninca, intitolata La cosmologia degli indiani campa del Perù orientale ("Campa" è il termine dispregiativo utilizzato finno a poco tempo fa per designare gli Ashaninca, i quali non lo apprezzano).2 Leggendo questa tesi scoprii che Carlos non si era inventato storie fantasiose. Al contrario, mi stava fornendo elementi concisi delle principali credenze cosmologiche' della sua cultura, come fu ampiamente documentato da Weiss negli anni '60. Secondo Weiss, gli Ashaninca credono nell'esistenza di spiriti invisibili detti maninkari, letteralmente "coloro che sono nascosti", ma che nonostante ciò possono essere visti ingerendo tabacco e ayahuasca. Vengono anche chiamati ashaninka, "nostri compagni", dato che si ritiene che siano gli avi con i quali si è imparentati. Dato che questi maninkari sono anche presenti in piante e animali, gli Ashaninca vedono se stessi come appartenenti alla stessa famiglia di aironi, lontre, colibrì e così via, che sono tutti perani ashaninka, nostri compagni in tempi lontani.3 Alcuni maninkari sono più importanti di altri. Weiss distingue una gerarchia tra questi spiriti e Avíreri, il dio che crea mediante la trasformazione, è il più potente di tutti. Nei miti ashaninca, Avíreri, in compagnia di sua sorella, crea le stagioni con la musica delle sue armoniche a bocca. Plasma gli esseri umani soffiando sulla terra; poi vaga con suo nipote Kíri, trasformando con disinvoltura gli esseri umani in insetti, alberi da frutto, animali o formazioni rocciose. Infine, Avíreri si ubriaca a una festa. La sua maliziosa sorella lo invita a ballare e lo spinge in un buco, che aveva scavato in precedenza. Poi finge di tirarlo fuori lanciandogli un filo, una corda e infine una fune, ma nessuno di essi è abbastanza resistente. Avíreri decide di scappare scavando un tunnel nel mondo di sotto e va a finire in un luogo chiamato "la fine del fiume", dove una pianta rampicante strangolatrice si avviluppa attorno a lui. Da allora egli continua a sostenere i suoi numerosi figli della terra. Weiss conclude: "Avíreri rimane lì fino ai giorni nostri, ormai incapace di muoversi a causa della pianta rampicante che lo imprigiona".4 Weiss osserva incidentalmente: "Dobbiamo ammetterlo, sebbene questi racconti si debbano classificare e identificare come miti, per i Campa sono resoconti affidabili di avvenimenti reali, tramandati oralmente dalle generazioni passate, avvenimenti autentici così come qualsiasi fatto vero del passato, che qualcuno ancora ricorda o che gli è stato raccontato".5 Concordavo con Weiss: i miei informatori ashaninca discutevano di personaggi o di eventi mitologici come se fossero stati reali. Tutto ciò mi sembrava piuttosto fantasioso, ma non lo dissi mai perché in quanto antropologo ero stato addestrato a rispettare le credenze più esotiche. Gli abitanti di Quirishari erano stati chiari e ío non dovevo più raccogliere campioni di piante. Tuttavia, potevo studiare il loro uso della foresta a mio piacimento, e potevo provare i loro farmaci vegetali. Così, ogni qualvolta avevo un problema di salute e le persone mi dicevano di conoscere una cura, io
la provavo. Spesso i risultati superarono non solo le mie aspettative, ma la mia stessa comprensione della realtà. Ad esempio, dall'età di diciassette anni soffrivo di un mal di schiena cronico, avendo giocato troppo a tennis da adolescente. Avevo consultato diversi medici europei, che avevano provato a curarmi con iniezioni di cortisone e trattamenti termici, senza che ne avessi avuto alcun giovamento. A Quirishari abitava un uomo, Abelardo Shingari, noto per la sua "medicina del corpo'', che mi propose di occuparsi del mio mal di schiena somministrandomi con la luna nuova un tè al sanango. Mi avvertì che avrei avuto freddo, che per un paio di giorni il mio corpo mi sarebbe sembrato di gomma e che avrei visto delle immagini. Ero scettico, pensando che se fosse stato davvero possibile curare un mal di schiena cronico con mezza tazza di tè vegetale, la medicina occidentale ne sarebbe stata senz'altro a conoscenza. D'altra parte pensavo che valesse la pena di tentare, dato che non avrebbe potuto essere meno efficace delle iniezioni di cortisone. Una mattina presto, il giorno dopo la luna nuova, bevvi il tè ai sanango. Dopo una ventina di minuti fui sopraffatto da un'ondata di gelo. Mi sentivo ghiacciato fino al midollo; iniziai a sudare copiosamente a freddo e dovetti strizzare più volte la mia maglia. Dopo sei ore piuttosto difficili, la sensazione di freddo se ne andò, ma non riuscivo più controllare la coordinazione del mio corpo o a camminare senza cadere. Per cinque minuti vidi un'enorme colonna di luci multicolori, che attraversava il cielo, ma erano solo le mie allucinazioni. La mancanza di coordinazione durò per quarantott'ore. La mattina del terzo giorno il mio mal di schiena era scomparso. fino a oggi non è più ritornato.6 Ho la tendenza a non credere a queste tipo di storie, a meno di non averle vissute sulla mia pelle e quindi non cerco di convincere nessuno riguardo l'efficacia del sanango. Comunque, a mio avviso, Abelardo aveva usato un trucco che sembrava più biochimico che psicosomatico. Ebbi diverse altre esperienze simili. Ogni volta potevo verificare che spiegazioni apparentemente fantasiose che mi venivano fornite finivano per verificarsi nella pratica, proprio del tipo: "Bevi un tè con la luna nuova; trasformerà il tuo corpo in gomma e curerà il tuo mal di schiena". Iniziai dunque a dare credito alle descrizioni letterali dei miei amici di Quirishari, sebbene non comprendessi i meccanismi della loro conoscenza. Vivendo con loro nella quotidianità, ero costantemente colpito dal loro profondo senso pratico. Non parlavano delle cose da fare; le facevano. Un giorno stavo camminando nella foresta con un uomo di nome Rafael. Dissi di avere bisogno di una nuova impugnatura per la mia ascia. Si fermò dove si trovava esclamando: "Ah sì", e servendosi del suo machete tagliò un piccolo albero di legno duro, che si trovava a poca distanza dal sentiero. Poi intagliò un'impeccabile impugnatura, che finì per durare più della stessa ascia. Impiegò circa venti minuti, lì nella foresta, per fare il grosso del lavoro, e un'altra ventina di minuti a casa per effettuare le rifiniture. Lavoro perfetto, eseguito tutto a occhio. Fino a quel momento avevo sempre pensato che le impugnature delle asce provenissero dai magazzini dei ferramenta. La gente di Quirishari insegnava facendo degli esempi, piuttosto che dando delle spiegazioni. I genitori incoraggiavano i figli ad accompagnarli al lavoro. La frase "lascia in pace papà perché sta lavorando" era sconosciuta. Le persone erano diffidenti nei confronti dei concetti astratti. Se un'idea sembrava davvero brutta, per respingerla dicevano: " Es pura teoria". Le due parole chiave, che ricorrevano continuamente nelle conversazioni, erano practica e tactica, dato che esse erano senza dubbio i requisiti per vivere nella foresta pluviale. La passione degli Ashaninca per la pratica spiega, almeno in parte, la loro generale attrazione nei confronti della tecnologia industriale. Uno dei loro argomenti preferiti di conversazione con me consisteva nel domandarmi come avevo costruito gli oggetti che possedevo: nastri, accendini, stivali di gomma, coltellino svizzero, batterie ecc. Quando rispondevo che non sapevo come costruirli, sembrava che nessuno mi credesse. Dopo un anno passato a Quirisharí ero giunto a constatare che il senso pratico dei miei ospiti era molto più affidabile nel loro ambiente della mia comprensione della realtà di formazione accademica. La loro conoscenza empirica era innegabile; tuttavia non riuscivo a credere alle loro spiegazioni inerenti l'origine delle loro conoscenze. Ad esempio, in due diverse occasioni, Carlos e
Abelardo mi mostrarono una pianta, che curava il morso potenzialmente morale di un serpente jergòn (la caicaca.). Esaminai la pianta molto attentamente, pensando che mi sarebbe potuta tornare utile prima o poi. Entrambi mi fecero notare il paio di uncini bianchi, che ricordavano i denti del serpente, in modo tale che me li ricordassi. Domandai a Carlos come fossero state scoperte le proprietà della pianta jergón: "Lo sappiamo per via di questi uncini, perché questo è il segnale che ci viene dato dalla natura". Ancora una volta pensai che se questo fosse stato vero, la scienza occidentale lo avrebbe senz'altro saputo; inoltre non potevo credere che ci fosse davvero una corrispondenza tra un rettile e un arbusto, come se un'intelligenza elementare si celasse dietro di essi e comunicasse mediante simboli visivi. A mio avviso, i miei amici "animisti" si limitavano semplicemente a interpretare le coincidenze dell'ordine naturale. Un giorno a casa di Carlos, fui testimone di una scena quasi surreale. Apparve un uomo di nome Sabino, con in braccio un bambino malato e con due sigarette peruviane in mano. Chiese a Carlos di curare il bambino. Carlos accese una delle sigarette e aspirò profondamente diverse volte. Poi soffiò il fumo sul bambino e iniziò a succhiare in un punto preciso sul suo ombelico, sputando ciò che egli diceva essere la malattia. Dopo circa tre minuti dichiarò che il problema era risolto. Sabino profuse in ringraziamenti e si congedò. Carlos lo richiamò e, appoggiandogli la seconda sigaretta sull'orecchio, aggiunse: "Torna quando vuoi". A quel punto pensai tra me e me che la mia credulità aveva dei limiti e che nessuno sarebbe riuscito a farmi credere che il fumo di una sigaretta potesse curare un bambino malato. Pensai al contrario che soffiare del fumo sul bambino potesse solamente peggiorare le sue condizioni. Alcune sere più tardi, nel corso di una delle nostre conversazioni registrate, riproposi questa domanda: "Quando si cura qualcuno, come hai fatto tu l'altro giorno per Sabino, come funziona il tabacco? Se sei tu quello che lo fuma, come puoi curare la persona che non fuma?" "Dico sempre che la proprietà del tabacco è quella di mostrarmi la realtà delle cose. Posso vedere le cose come sono. Ed eliminare tutti i dolori." "Ma come si è scoperta questa proprietà? Il tabacco cresce spontaneamente nella foresta?" "C'è un posto, ad esempio a Napiari, dove crescono enormi quantità di tabacco." "Dove?" "Nella Valle del Perene. Abbiamo scoperto il suo potere grazie all'ayahuasca, quell'altra pianta, perché è la madre." "Chi è la madre, il tabacco oppure l'ayahuasca?" "L'ayahuasca." "E il tabacco è suo figlio?" "È il figlio." "Dato che il tabacco è meno forte?" "Meno forte." "Una volta mi hai detto che sia l'ayahuasca che il tabacco contengono Dio." "È proprio così." "E che agli spiriti piace il tabacco. Perché?" "Perché il tabacco ha il suo metodo, la sua forza. Attrae i maninkari. È il miglior contatto per la vita di un essere umano." "E questi spiriti, che aspetto hanno?" "Io so che qualsiasi spirito vivente o morto è simile a quelle onde radio che aleggiano nell'aria." "Dove?" "Nell'aria. Significa che non si vedono, ma ci sono, come le onde radio. Una volta che accendi la radio le puoi intercettare. Con gli spiriti è la stessa cosa; grazie all'ayahuasca e al tabacco li puoi vedere e sentire. "E come mai, quando si ascolta un ayahuasquero cantare, si sente una musica mai sentita prima, una musica così bella?"
"Beh, attrae gli spiriti e, come ho sempre detto, se ci pensi molto attentamente... [lungo silenzio]. È come un registratore, lo metti lì, lo accendi e subito inizia a emettere suoni: hum, hum, hum, hum, hum. Inizi a cantare seguendoli e una volta che canti, li capisci. Puoi seguire la loro musica, perché hai sentito la loro voce. Succede cosi e si può vedere. come l'ultima volta quando Ruperto stava cantando." Mentre ascoltavo queste spiegazioni, mi resi conto di non credere veramente all'esistenza degli spiriti. Dal mío punto di vista, gli spiriti erano, nella migliore delle ipotesi, delle metafore. Carlos, d'altra parte, riteneva che gli spiriti fossero saldamente ancorati al mondo materiale, bramando tabacco, volando come onde radio ed emettendo suoni come dei registratori. Quindi il mio atteggiamento era ambiguo. Da una parte volevo capire ciò che Carlos pensava, ma dall'altra non riuscivo a prendere sul serio ciò che diceva, dato che non ci credevo. Questa ambiguità era rafforzata da ciò che la gente diceva sugli spiriti; in particolare, il fatto che il contatto con gli spiriti conferiva non solo il potere di curare, ma anche di danneggiare. Una sera accompagnai Carlos e Ruperto a casa di un terzo uomo, che chiamerò M. Girava la voce che Ruperto, appena rientrato dopo otto anni di assenza, avesse appreso molte cose dagli ayahuasqueros shipibo. Da parte sua, M. vantava il fatto di possedere una certa esperienza con gli allucinogeni. e disse che era proprio ansioso di vedere quanto fosse abile Ruperto. M. viveva sulla sommità di una collinetta circondata dalla foresta. Giungemmo a casa sua verso le otto di sera. Dopo esserci scambiati i saluti di rito, ci sedemmo per terra. Ruperto tirò fuori la sua bottiglia di ayahuasca e la piazzò ai piedi della scala che conduceva alla terrazza della casa, commentando: "Questo è il suo posto." Fece poi circolare una sigaretta arrotolata, e soffiò del fumo sulla bottiglia e su M. Nel frattempo Carlos mi prese le mani e vi soffiò sopra del fumo. La dolce fragranza del tabacco e la percezione del soffio sulla mia pelle erano piacevoli. Erano trascorsi tre mesi dalla mia prima seduta a base di ayahuasca. Mi sentivo fisicamente rilassato, ma mentalmente in apprensione. Avrei finito per vedere di nuovo dei serpenti terrificanti? Bevemmo il liquido amaro. Avevo l'impressione che Ruperto riempisse meno la mia tazza rispetto alle altre. Sedevo in silenzio. A un certo punto, a occhi chiusi, ebbi la sensazione che il mio corpo fosse molto lungo; Ruperto iniziò a cantare. M. si unì a lui, cantando però una melodia diversa. Il suono di questo duo dissonante era avvincente, sebbene la rivalità tra i due cantanti implicasse una certa tensione. Carlos rimase in silenzio per tutto il tempo. Continuavo a sentirmi calmo. A parte alcune immagini caleidoscopiche, non avevo alcuna visione degna di nota e non avvertivo nemmeno un senso di nausea. Iniziai a pensare di non avere bevuto una quantità sufficiente di ayahuasca. Quando Ruperto mi chiese se ero "sbronzo", risposi "non ancora". Mi chiese se ne volessi ancora. Gli dissi che non ne ero sicuro e che forse preferivo aspettare ancora un po'. Sussurando, chiesi a Carlos la sua opinione. Mi consigliò di aspettare. Passai circa tre ore seduto per terra al buio, in una condizione mentale leggermente ipnotica, ma certamente non allucinatoria. Nell'oscurità riuscivo solamente a distinguere la sagoma degli altri partecipanti. Sia Carlos che M. avevano detto a Ruperto di essere "sbronzi". La seduta giunse a una conclusione piuttosto inaspettata. Carlos si alzò e manifestando un'insolita fretta disse che andava a casa a riposare. Mi alzai per accompagnarlo e ringraziai sia il nostro ospite che Ruperto, al quale confidai di avere avuto un po' paura dell'ayahuasca. Mi disse: "Lo so, l'ho visto quando siamo arrivati". Carlos e io disponevamo solamente di una torcia. La prese e ci guidò lungo il sentiero nella foresta. Lo seguivo a distanza ravvicinata per poter sfruttare al meglio il fascio di luce. Dopo aver percorso circa trecento metri, Carlos lanciò improvvisamente un gridò e si grattò dietro il polpaccio, dal quale sembrò estrarre una specie di pungiglione. Nella confusione ciò che teneva tra le dita cadde a terra. "Quell'uomo é senza vergogna", esclamò. "Adesso mi colpisce con le sue frecce." Fui confortato dalle sue parole, dato che temevo che l'avesse morso un serpente, ma non avevo idea di che cosa stesse parlando. Feci delle domande, ma lui mi interruppe: "Ne parliamo più tardi. Adesso andiamo". Ci dirigemmo velocemente a casa sua. Una volta arrivati, Carlos era visibilmente contrariato. Finalmente mi spiegò che M. lo aveva colpito con una delle sue frecce, "dato che vuole dominare e farmi vedere che è più forte".
Da parte mia, mi rimaneva un dubbio. Com'era possibile, nell'oscurità più totale e a una distanza di trecento metri nella foresta, lanciare un piccolo pungiglione e colpire la parte posteriore del polpaccio di una persona, che oltretutto cammina davanti a qualcun altro? Tuttavia il giorno seguente Carlos era malato e la tensione tra lui ed M. perdurò fino alla fine della mia permanenza a Quirishari. Questi sospetti di stregoneria diedero adito a una serie di chiacchiere di vario genere, che minarono in parte il clima amichevole della comunità. Il contatto con gli spiriti può consentire di apprendere le proprietà medicinali delle piante e di curare. Ma fornisce anche la possibilità di sfruttare un'energia distruttiva. Secondo gli sciamani di professione, la fonte di conoscenza e di potere. alla quale essi hanno accesso, è un'arma a doppio taglio. Verso la fine della mia permanenza a Quirishari rilessi i miei appunti presi sul campo e stilai una lunga lista di domande. Per la maggior parte riguardavano il tema centrale della mia indagine, ma diverse avevano a che fare con gli elementi sciamanici e mitologici che mi avevano sconcertato. In una delle mie ultime conversazioni registrate con Carlos, gli posi queste domande: "I tabaqueros e gli ayahuasqueros sono la stessa cosa?" "La stessa cosa." "Bene. Volevo anche sapere come mai si vedono serpenti quando si beve l'ayahuasca. "Dipende dalfitto che la madre dell'avahuasca un serpente. Come puoi vedere, hanno la stessa forma." "Ma io pensato che l'ayahuasca fosse la madre del tabacco?" "È proprio cosi." "Chi è dunque il vero possessore di queste piante?" "Il possessore di queste piante. in verità è simile a Dio. Sono i maninkari. Essi sono coloro che ci aiutano. La loro esistenza non conosce nè fine nè malattia. È per questa ragione che quando l'ayahuasquero infila la sua testa in una stanza buia dicono: Se vuoi che ti aiuti, devi fare le cose bene, e io ti conferirò il potere non per il tuo personale beneficio, ma per il bene di tutti.' È qui che risiede la forza. È credendo alla pianta che tu avrai più vita. Questa è la strada. Questo è il motivo per il quale dicono che è una strada molto stretta, che nessuno può percorrere, nemmeno brandendo un machete. Non è una strada diritta, ma è pur sempre una strada. Io mi attengo a queste parole e a quelle che dicono che la verità non è in vendita, che la saggezza ti appartiene, ma deve essere condivisa. In altre parole, significa che non è una cosa buona sfruttarla per il proprio tornaconto." Nel corso delle mie ultime interviste con Carlos avevo la sensazione che quanto più lo incalzavo con le domande, tanto meno comprendevo le sue risposte. Non soltanto l'ayahuasca era la madre del tabacco, cosa che già sapevo, ma la madre dell'ayahuasca era un serpente. Che cosa diavolo poteva significare tutto ciò, se non che la madre della madre del tabacco è un serpente? Lasciando Quirishari, sapevo di non aver risolto l'enigma dell'origine allucinatoria della conoscenza ecologica ashaninca. Avevo fatto, comunque, del mio meglio per ascoltare ciò che la gente diceva. Avevo cercato costantemente di ridurre la mia ingombrante presenza di antropologo. Non annotavo mai nulla in presenza delle persone, per evitare di dare loro la sensazione di essere spiate. Scrivevo per lo più la sera, disteso sulla mia coperta, prima di andare a dormire. Semplicemente annotavo ciò che avevo fatto durante il giorno e le cose importanti che mi erano state dette dalla gente. Cercavo anche di riflettere sui miei presupposti, sapendo che era importante oggettivare il mio sguardo oggettivante, ma il mistero rimaneva inviolato. Mi congedai con la strana sensazione che il problema avesse più a che fare con la mia incapacità di comprendere quanto mi avevano detto le varie persone che con l'inadeguatezza delle loro spiegazioni. Avevano sempre utilizzato parole cosi semplici.
CAPITOLO 4
ENIGMA A RIO Alla fine del 1986 ritornai a casa, nella Svizzera rurale, per scrivere la mia dissertazione. Due anni più tardi, dopo essere diventato "dottore in antropologia", mi sentii costretto a mettere in pratica le mie idee. Sotto l'influsso ashaninca ero giunto a ritenere che la pratica fosse la forma più avanzata di teoria. Mi ero stancato di fare ricerca e adesso volevo agire. Voltai dunque le spalle all'enigma della comunicazione vegetale. Iniziai a lavorare per Nouvelle Planète, una piccola organizzazione svizzera per la promozione dello sviluppo comunitario nei paesi del Terzo Mondo. Nel 1989 viaggiai lungo il bacino del Rio delle Amazzoni, parlando con organizzazioni indigene e raccogliendo progetti per il riconoscimento legale dei territori indigeni. Poi raccolsi fondi per questi progetti in Europa. Questa attività mi occupò per quattro anni. La maggior parte dei progetti, che presentai a singoli individui, comunità, gruppi cittadini, fondazioni e perfino a un'organizzazione governativa, furono finanziati e realizzati con successo. Lavorando gomito a gomito con le organizzazioni indigene, furono i topografi sudamericani e gli antropologi a effettuare il vero lavoro di assegnazione del diritto di proprietà territoriale. Ciascun paese aveva leggi diverse sui requisiti necessari al riconoscimento ufficiale dei territori indigeni. In Perù, ad esempio, i topografi devono visitare e fare mappe dettagliate dei fiumi, le foreste, le montagne, i campi e i villaggi utilizzati da una certa popolazione indigena, e gli antropologi devono tener conto del numero di persone occupanti il territorio e descrivere il loro modo di vivere; questi documenti vengono poi registrati in collaborazione con il ministero dell'agricoltura, che li elabora ed emette le assegnazionì ufficiali del diritto di proprietà territoriale a nome delle comunità indigene. Tali assegnazioni garantiscono il possesso territoriale collettivo da parte delle persone che, in molti casi, occupano il territorio da millenni. I fondi raccolti servirono a pagare gli stipendi degli antropologi e dei topografi, le spese di viaggio in luoghi sperduti della foresta pluviale, i materiali necessari per creare le mappe e il costo necessario a seguire i documenti lungo l'iter burocratico. Il progetto di maggiore successo fu realizzato in Perù, nelle regioni di Putumayo, Napo e Ampiyacu, dall'AIDESEP, la federazione nazionale delle organizzazioni indigene del Rio delle Amazzoni peruviano; furono loro a ingaggiare i topografi e gli antropologi e riuscirono a ottenere le assegnazioni del diritto di proprietà per quasi 6.000 chilometri quadrati di terra per soli 21.525 dollari statunitensi. Il mio lavoro consisteva in parte nel recarmi ogni tanto in aereo in Sudamerica, per visitare le aree alle quali era stato assegnato il diritto di proprietà, e nel controllare i conti. Viste le difficoltà che le popolazioni indigene spesso hanno nell'apprendere la contabilità, fui sorpreso nel verificare che il più delle volte le cose erano state fatte esattamente secondo i piani contenuti nei progetti iniziali. Al mio rientro in Europa tenevo conferenze sui motivi ecologici della demarcazione dei territori delle popolazioni indigene che vivono nella foresta pluviale amazzonica, spiegando perché esse sono le sole a sapere come utilizzarla in modo sostenibile. Puntualizzavo la natura razionale delle tecniche agricole indigene, quali la policoltura e l'uso di piccole radure. Tuttavia, quanto più parlavo tanto più mi rendevo conto di non dire tutta la verità, così come l'avevo capita. Non dicevo che le popolazioni amazzoniche afferemano che la loro conoscenza botanica proviene dalle allucinazioni indotte dalle piante. Io stesso avevo provato questi allucinogeni sotto la loro supervisione e il mio incontro inaspettato con i serpenti fluorescenti aveva modificato il mio modo di considerare la realtà. Nel corso delle mie allucinazioni avevo imparato cose importanti: ad esempio che sono solamente un essere umano, che sono intimamente legato alle altre forme di vita, e che la vera realtà è più complessa di quanto i nostri occhi ci inducano a credere. Non parlai di queste cose, perché temevo che le persone non mi avrebbero preso sul serio. A quel punto, "l'essere preso sul serio" aveva più a che vedere con l'effettiva raccolta di fondi che non con il mio timore di perdere credibilità nella carriera accademica. Nel giugno del 1992 mi recai a Rio per partecipare alla conferenza mondiale sullo sviluppo e l'ambiente. Al "Summit della Terra", il nome con cui diventò famoso, scoprii che tutti erano
improvvisamente diventati consapevoli della conoscenza ecologica delle popolazioni indigene. I governi del mondo la menzionavano in ogni trattato che veniva sottoscritto2; le società farmaceutiche e quelle attive nella produzione di prodotti per l'igiene personale parlavano di commercializzare i prodotti naturali delle popolazioni indigene a prezzi "ragionevoli".3 Nel frattempo gli etnobotanici e gli antropologi anticiparono cifre impressionanti relative ai diritti di proprietà intellettuale delle popolazioni indigene, anche perché il 74% dei farmaci di composizione vegetale della moderna farmacopea sono stati inizialmente scoperti dalle società "tradizionali". Fino a oggi meno del 2% di tutte le specie vegetali sono state sottoposte a test completi di laboratorio e la gran parte del restante 98% si trova nelle foreste tropicali; il Rio delle Amazzoni raccoglie la metà di tutte le specie vegetali presenti sulla terra4, e così via. A Rio i mondi politici e industriali stavano appunto prendendo coscienza del potenziale economico delle piante tropicali. Le biotecnologie degli anni '80 avevano aperto nuove possibilità di sfruttamento delle risorse naturali. La biodiversità delle foreste tropicali rappresentava improvvisamente una favolosa fonte di ricchezza non ancora sfruttata; senza la conoscenza botanica delle popolazioni indigene i biotecnologi avrebbero però dovuto testare alla cieca le proprietà medicinali delle 250.000 specie vegetali che si stima siano presenti nel mondo. Le popolazioni indigene resero nota la loro opinione ai riguardo nel corso della loro conferenza, tenutasi alla periferia di Rio una settimana prima del summit ufficiale. Seguendo l'esempio dei delegati amazzonici, dichiararono la propria opposizione alla Convenzione sulla Biodiversità, che i governi erano in procinto dì sottoscrivere, dato che essa era priva di un concreto meccanismo atto a garantire una compensazione alla loro conoscenza botanica. I rappresentanti amazzonici basavano la loro posizione sull'esperienza: per le società farmaceutiche è ormai una tradizione quella dì recarsi nel Rio delle Amazzoni a prelevare campioni di farmaci vegetali indigeni e dì tornare poi nei loro laboratori per sintetizzare e brevettare i principi attivi, senza nulla lasciare a coloro che li avevano scoperti in origine.6 Il curaro è l'esempio più noto di questo tipo di caccia di frodo. Vari millenni fa i cacciatori amazzonici misero a punto questa sostanza che paralizza i muscoli come veleno da cerbottana. Il curaro uccide gli animali che nascono sugli alberi senza avvelenarne la carne, inducendoli ad allentare la presa e a cadere a terra. Le scimmie, se colpite con un freccia non trattata con tale veleno, hanno la tendenza ad arrotolare la coda attorno ai rami e a morire in luoghi fuori dalla portata dell'arciere. Negli anni '40 gli scienziati si resero conto che il curaro avrebbe potuto grandemente facilitare la chirurgia toracica e degli organi vitali, dato che esso interrompe gli impulsi nervosi e rilassa tutti i muscoli, inclusi quelli preposti alla respirazione. I chimici sintetizzarono i derivati della miscela vegetale, modificando la struttura molecolare di uno dei suoi principi attivi. Attualmente gli anestesisti, che "somministrano curaro" ai loro pazienti, utilizzano soltanto composti sintetici. L'intero processo ha retribuito il lavoro di tutti quelli che vi hanno preso parte, a eccezione di coloro che avevano sviluppato il prodotto originale.7 Il più delle volte gli scienziati rifiutano di riconoscere il fatto che degli "indiani dell'età della pietra" possano avere sviluppato qualcosa. In base alla teoria tradizionale, gli indiani sono incappati in molecole utili fornite dalla natura solo mediante sperimentazione casuale. Tuttavia, nel caso del curaro, questa spiegazione non sembra probabile. Nel Rio delle Amazzoni vi sono quaranta tipi di curaro, estratti da settanta specie vegetali. Il tipo utilizzato nella medicina moderna proviene dal Rio delle Amazzoni occidentale. Per produrlo è necessario combinare diverse piante e farle bollire per settantadue ore, evitando di aspirare i profumati ma mortali vapori rilasciati dal brodo. Il prodotto finale è una pasta inattiva, a meno che non venga iniettata sotto pelle. Se ingerita non ha alcun effetto.8 È difficile immaginare che qualcuno possa essersi imbattuto in questa ricetta con una sperimentazione casuale. Inoltre, dei cacciatori nella foresta tropicale attenti solo a preservare la qualità della carne, come avrebbero potuto addirittura immaginare una soluzione endovenosa? Quando si indaga sull'invenzione del curaro, le risposte sono quasi invariabilmente di origine mitica. I Tukano del Rio delle Amazzoni colombiano sostengono che fu il creatore dell'universo a inventare il curaro e ad affidarlo a loro.9
A Rio gli etnobotanici menzionavano spesso l'esempio del curaro per dimostrare che la conoscenza delle popolazioni amazzoniche aveva già contribuito in maniera significativa allo sviluppo della scienza medica. Parlavano anche di altre piante della farmacopea indigena, che solo di recente avevano destato l'interesse degli scienziati. Un estratto dell'arbusto Pilocarpus jaborandi, utilizzato dai Kayapo e dai Guajajara, era stato da poco convertito in un farmaco per la cura del glaucoma da parte della Merck, la multinazionale farmaceutica, che stava sviluppando un nuovo anticoagulante a base di tikiuba, pianta dei Uru-eu-Wau-Wau. Grande interesse fu suscitato anche dal frutto della Couroupita guienensis, utilizzato dagli Achuar per trattare le infezioni mitotiche, e dalle foglie della pianta rampicante Aristolochia messe in infusione come tè dai Tirio per dare sollievo al mal di stomaco, assieme a molte altre piante non classificate, che gli indigeni amazzonici utilizzano per curare lesioni cutanee, diarrea, morsi di serpente e così via. 10 Al Summit della Terra tutti discutevano della conoscenza ecologica delle popolazioni indigene, ma nessuno parlava dell'origine allucinatoria di parte di essa, come sostenuto dalle stesse popolazioni indigene. Certo, la maggior parte degli antropologi e degli etnobotanici non ne sapeva niente, ma anche coloro che ne erano a conoscenza non dissero nulla, presumibilmente perché non era possibile farlo ed essere presi sul serio. I colleghi avrebbero potuto chiedere "Vuoi dire che gli indiani sostengono di trarre informazioni verificabili a livello molecolare dalle loro allucinazioni? Non li prenderai mica alla lettera, vero?" Che cosa si può rispondere in questi casi? È vero che non tutte le popolazioni indigene del mondo utilizzano piante allucinogene. Perfino nel Rio delle Amazzoni vi sono forme di sciamanesimo basate su tecniche estranee all'ingestione di allucinogeni; ma nell'Amazzonia occidentale. che include la parte peruviana, ecuadoriana e colombiana del bacino. è difficile trovare un'etnia che non usi collezioni intere di piante psicoattive. In base un censimento nel Rio delle Amazioni occidentale sono persemi settantadue etnie che utilizzano l'ayahuasca. Richard Evans Schultes, il più importante etnobotanico del ventesimo secolo, scrive dei guaritori di una regione colombiana, che reputa essere uno dei centri dello sciamanesimo del Rio delle Amazzoni occidentale: "Gli uomini di medicina delle tribù Kamsà e Inga della valle di Sibundoy possiedono una conoscenza insolitamente estesa nell'ambito delle piante medicinali e di quelle tossiche... Uno dei più rinomati è Salvador Chindoy, il quale insiste nell'affermare che la sua conoscenza delle proprietà medicinali delle piante gli è stata trasmessa dalle piante stesse, mediante le allucinazioni sperimentate nel corso di tutta la sua lunga vita di uomo di medicina" Schultes non aggiunge niente di più in merito all'origine allucinatoria della competenza botanica delle popolazioni amazzoniche, dato che non vi è nulla che si possa dire senza entrare in contraddizione con due principi fondamentali della conoscenza occidentale. Primo, le allucinazioni non possono essere la fonte di informazioni reali, dato che considerarle tali è sinonimo di psicosi. La conoscenza occidentale considera le allucinazioni come illusioni nel migliore dei casi, e nel peggiore come fenomeni patologici.13 Secondo, le piante non comunicano come gli esseri umani. Le teorie scientifiche della comunicazione ritengono che solamente gli esseri umani utilizzino simboli astratti come le parole e le immagini, e che le piante non trasmettano informazioni sotto forma di immagini mentali.14 Secondo la scienza, la fonte delle allucinazioni è il cervello umano, che le piante psicoattive semplicemente scatenano mediante le molecole allucinogene in esse contenute. Fu a Rio che mi resi conto della portata del dilemma posto dalla conoscenza allucinatoria delle popolazioni indigene. Da una parte i suoi risultati sono confermati empiricamente e utilizzati dall'industria farmaceutica; dall'altra la sua origine non può essere discussa scientificamente, dato che contraddice gli stessi assiomi della conoscenza occidentale. Quando ho compreso che l'enigma della comunicazione vegetale era un punto debole per la scienza, mi sono sentito spinto a condurre un'indagine approfondita sull'argomento. Inoltre mi portavo dietro il mistero della comunicazione vegetale dalla mia permanenza con gli Ashaninca e sapevo che nell'ambito scientifico esplorare le contraddizioni spesso porta a ottimi risultati. Infine sono convinto che per instaurare un dialogo serio sull'ecologia e sulla botanica con le popolazioni indigene è necessario occuparsi di tale questione.
Dopo Rio sapevo di voler scrivere un libro sull'argomento. All'inizio era mia intenzione semplicemente menzionare l'enigma e stabilire una mappa esplorativa sul seguente vicolo cieco o paradosso: noi possiamo utilizzare la loro conoscenza, ma appena tocchiamo la questione della sua origine dobbiamo fare marcia indietro. Bevendo l'ayahuasca a Quirishari ero andato oltre il segnale "Hai toccato i limiti della scienza", e avevo trovato un territorio irrazionale e soggettivo, che era terrificante ma tuttavia ricco di informazioni. Sapevo dunque che il vicolo cieco offriva un passaggio, normalmente nascosto alla contemplazione razionale, verso un mondo dal potere sorprendente. Di certo non immaginai nemmeno per un attimo di poter risolvere l'enigma. Ero convinto di avere a che fare con un fenomeno essenzialmente paradossale e privo di soluzioni.
CAPITOLO 5 DEFOCALIZZAZIONE A dodici mesi di distanza dalla conferenza di Rio un editore accettò la mia proposta per un libro sullo sciamanesimo e sull'ecologia amazzonica. Avevo intenzione di intitolarlo Allucinazioni ecologiche. Diverse settimane più tardi il mio datore di lavoro mi diede la possibilità di dedicare parte del mio tempo all'elaborazione del libro. Avevo deciso di indagare sull'enigma della comunicazione vegetale, ma da che parte dovevo cominciare? Il mio impulso iniziale sarebbe stato quello di recarmi nuovamente nel Rio delle Amazzoni peruviano e di trascorrere un po' di tempo con gli ayahuasqueros. Tuttavia, la mia vita era cambiata; non ero più un antropologo libero di girare il mondo, ma ero il padre di due bambini. Avrei condotto la mia indagine dall'ufficio e dalla biblioteca più vicina, invece che dalle foreste del Perù. Cominciai con il rileggere gli appunti annotati sul campo e le trascrizioni delle interviste fatte a Carlos Perez Shuma. Dedicai particolare attenzione agli strani passaggi che avevo escluso dalla mia tesi. Poi, visto che la scrittura è un'estensione del pensiero. abbozzai una versione preliminare di un primo capitolo relativo al mio arrivo a Quirishari e alla mia prima esperienza con l'ayahuasca. Immergendomi in quei misteriosi momenti del mio passato inziai a pensare a ciò che aveva detto Carlos. E se avessi preso alla lettera le sue parole? Se fosse vero che la natura si esprime mediante dei segni e che il segreto per comprenderc il suo linguaggio consiste nel notare analogie nella sagoma o nella forma? Questa idea mi piacava e decisi di leggere i testi antropologici sullo sciamanesimo prestando attenzione non soltanto al loro contenuto, ma anche al loro stile. At taccai un biglietto al muro del mio ufficio: "guarda la forma". Ripensando alla mia permanenza a Quirishari mi fu subito chiara una cosa. Ogni volta che avevo dubitato di una spiegazione fornita dai miei consulenti, la mia comprensione della visione della realtà da parte degli Ashaninca aveva fatto cilecca; per contro, nelle rare occasioni in cui ero riuscito a mettere a tacere i miei dubbi, avevo capito meglio la realtà locale, come se ci fossero delle volte in cui si deve credere per vedere, piuttosto che fare il contrario. Il fatto di essermi reso conto di tutto ciò mi indusse a decidere, adesso che stavo cercando di mappare il vicolo cieco della conoscenza allucinatoria, che mi sarebbe stato utile non solo stabilire i suoi limiti da una prospettiva razionale, ma anche mettere da parte l'incredulità, e annotare con imparziale serietà i tratti essenziali delle nozioni degli ayahuasqueros sull'altro aspetto dell'apparente impasse. Lessi per settimane. Iniziai rinfrescandomi la memoria, riprendendo i testi fondamentali di antropologia, così come quelli nuovi e dotati di una vena autocritica. Divorai poi la letteratura sullo sciamanesimo, che mi era nuova. Non avevo letto così tanto dai tempi dei miei esami per il
dottorato, sostenuti nove anni prima, ed ero lieto di riscoprire questo livello puramente astratto della realtà. Animato da un entusiasmo che non avevo mai avuto ai tempi dell'università, scrissi centinaia di pagine di note che poi classificai. Dopo cinque mesi, mia moglie e io ci recammo in visita da alcuni amici, che nel corso della serata ci mostrarono un libro contenente "immagini tridimensionali" a colori, costituite da puntini apparentemente disposti senza alcun ordine. Per vedere emergere un'immagine coerente e tridimensionale dalla visione confusa, si doveva defocalizzare il proprio sguardo fisso. "Lascia andare i tuoi occhi", mi consigliò la mia ospite, "come se stessi guardando attraverso il libro senza vederlo. Rilassati dentro l'immagine confusa e sii paziente". Dopo diversi tentativi, e apparentemente come per magia, uno stereogramma notevolmente ben definito balzò fuori dalla pagina, che tenevo di fronte a me. Rappresentava un delfino che solcava le onde. Non appena mettevo normalmente a fuoco la pagina, il delfino scompariva assieme alle onde che lo circondavano, e tutto ciò che potevo vedere erano di nuovo solo dei puntini confusi. Questa esperienza mi riportò alla mente la frase di Bourdieu "di oggettivare la propria relazione oggettivante", che è un altro modo per dire "di diventare consapevole della propria contemplazione". Era esattamente quello che si doveva fare per vedere lo stereogramma. Questo mi fece pensare che la mia insoddisfazione nei confronti degli studi antropologici sullo sciamanesimo era forse dovuta alla prospettiva necessariamente focalizzata degli antropologi accademici, che non riuscivano a comprendere i fenomeni sciamanici, così come la normale contemplazione non era in grado di vedere "immagini tridimensionali". C'era forse un modo per rilassare la propria contemplazione e vedere più chiaramente lo sciamanesimo? Nelle settimane seguenti continuai a leggere, cercando di rilassare il mio sguardo e di prestare attenzione allo stile dei testi e anche al loro contenuto. Poi iniziai a scrivere una versione preliminare di un secondo capitolo, sull'antropologia e sullo sciamanesimo. Un pomeriggio, mentre stavo scrivendo, vidi improvvisamente emergere dalla confusione un'immagine straordinariamente coerente, come mi era capitato con lo stereogramma. La maggior parte degli antropologi che avevano studiato lo sciamanesimo aveva visto solamente la propria ombra; ciò valeva per gli schizofrenici, i creatori d'ordine, i factotum e i creatori di disordine. Questa visione mi scosse. Ebbi la sensazione di aver trovato una labile traccia e senza perdere tempo, proseguii in quella direzione. Dato che ero certo che l'enigma della conoscenza allucinatoria fosse un vicolo cieco solo in apparenza e, poiché stavo cercando di mettere da parte l'incredulità, iniziai a chiedermi se dopotutto non fossi in grado di trovare una soluzione. Il passaggio che conduceva al mondo sciamanico si celava certamente alla visione normale, ma forse vi era un modo di percepirlo stereoscopicamente. Facendo congetture in questo senso, mi resi conto che le allucinazioni che avevo avuto a Quirishari potevano anche essere descritte come immagini tridimensionali, non visibili attraverso uno sguardo normale. Secondo i miei amici ashaninca. era esattamente raggiungendo lo stato di coscienza allueinatorio che si superava l'impasse. Per essi non vi era alcuna contraddizione fondamentale tra la realtà della loro vita nella foresta pluviale e il mondo invisibile e irrazionale degli ayahuasqueros. Al contrario, oscillando avanti e indietro tra questi due livelli, si poteva trarre una conoscenza utile e verificabile, che altrimenti non sarebbe stato possibile ottenere. Questo dimostrava che era possibile conciliare questi due mondi apparentemente distinti. Sentii anche che per riuscirci era necessario migliorare le mie capacitò di defocalizzazione. Vivo non lontano da un castello appartenuto alla famiglia di Arthur Conan Doyle, l'autore della serie di Sherlock Holmes. In gioventù avevo spesso ammirato i metodi "paralleli" del famoso investigatore, quando si chiudeva nel suo ufficio a suonare note dissonanti con il suo violino a notte inoltrata per giungere poi alla chiave del mistero. Avvolto dalle gelide nebbie dell'altopiano svizzero iniziai a seguire l'esempio di Holmes. Non appena i bambini erano a letto, scendevo nel mio ufficio e iniziavo a lavorare con un sottofondo di musica ipnoticamente dissonante. Alcune serate facevo di più. Visto che camminare favorisce la riflessione, indossavo degli indumenti caldi e uscivo a passeggiare nell'oscurità nebbiosa armato del mio registratore. Con l'unico accompagnamento dei tacchi dei miei stivali, pensavo ad alta voce a tutte le possibili
soluzioni dell'enigma, che iniziava a ossessionarmi. Il giorno seguente trascrivevo quei nebulosi soliloqui, cercando nuove prospettive. Alcuni passaggi mi aiutarono davvero a capire dove stavo cercando di andare: "Devi defocalizzare il tuo sguardo, in modo da percepire contemporaneamente la scienza e la visione indigena. Poi il terreno comune tra i due apparirà sotto forma di uno stereogramma...". La mia vita sociale divenne inesistente. A eccezione di alcune ore che trascorrevo al pomeriggio insieme ai bambini, passavo la maggior parte del mio tempo leggendo e pensando. Mia moglie iniziò a dirmi che ero assente perfino quando ci trovavamo nella stessa stanza. Aveva ragione e non potevo sentirla perché ero ossessionato. Quanto più procedevo con questa inusuale metodologia, tanto più nitida sembrava la traccia. Durante diverse settimane esaminai la letteratura scientifica sugli allucinogeni e sugli effetti che si suppone abbiano sul cervello umano. Ecco un fatto che appresi durante le mie letture: non sappiamo come funziona il nostro sistema visivo. Mentre leggiamo queste parole non vediamo veramente l'inchiostro, la carta, le mani e quello che ci circonda, ma un'immagine interna e tridimensionale, che li riproduce quasi esattamente e che è costruita dal cervello. I fotoni riflessi da questa pagina colpiscono la retina degli occhi, che li trasforma in informazioni elettrochimiche; i nervi ottici trasmettono questa informazione alla corteccia visiva situata sulla nuca, dove una rete di cellule nervose, simile a una cascata, suddivide il segnale in entrata in categorie (forma, colore, movimento, profondità, ecc.). E' ancora un mistero come il cervello riesca a riunificare in un'immagine coerente questi gruppi di informazioni suddivise in categorie. Ciò significa anche che la base neurologica della coscienza è sconosciuta.2 Se non sappiamo come facciamo a vedere un oggetto reale, che si trova di fronte a noi, allora è ancora più difficile comprendere come facciamo a percepire qualcosa che non c'è. Quando una persona ha delle allucinazioni, non vi è alcuna fonte esterna di stimolazione visiva, il che, ovviamente, è la ragione per la quale le macchine fotografiche non possono immortalare le immagini allucinatorie. Stranamente, e con alcune eccezioni, questi fatti fondamentali non vengono menzionati nelle migliaia di studi scientifici condotti sulle allucinazioni; in libri intitolati ad esempio Origine e meccanismi delle allucinazioni, gli esperti forniscono risposte parziali e per lo più ipotetiche, che formulano con una terminologia complicata, dando l'impressione di aver raggiunto la verità oggettiva o di essere in procinto di farlo.3 I percorsi neurologici degli allucinogeni sono più noti dei meccanismi delle allucinazioni. Nel corso degli anni '50 i ricercatori scoprirono che la composizione chimica della maggior parte degli allucinogeni ricorda molto quella della serotonina, un ormone prodotto dal cervello umano e utilizzato come messaggero chimico tra le cellule cerebrali. Ipotizzarono allora che gli allucinogeni agissero sulla coscienza, accordandosi con gli stessi recettori cerebrali della serotonina, "come chiavi simili, che si adattano alla medesima serratura".4
L'LSD, un composto sintetico sconosciuto in natura, non ha lo stesso profilo delle molecole organiche della dimetiltriptamina o della psilocibina. Túttavia la grande maggioranza delle indagini cliniche si sono concentrate sull'LSD, considerato il più potente di tutti gli allucinogeni, visto che solamente 50 milionesimi di grammo producono il loro effetto.5 Ma nella seconda metà degli anni '60, gli allucinogeni sono diventati illegali nel mondo occidentale. E subito dopo gli studi scientifici condotti su queste sostanze, che erano stati così prolifici nei due decenni precedenti, sono stati messi da parte. La cosa comica è che pressappoco in quello stesso periodo diversi ricercatori puntualizzarono che, in base a severi criteri scientifici, I'LSD molto spesso non induce delle vere allucinazioni, dove le immagini si confondono con la realtà. Gli individui sotto l'effetto dell'LSD sanno quasi sempre che le distorsioni visive o che le cascate di puntini e di colori percepite non sono reali, ma sono dovute all'azione di un agente psichedelico. In questo senso I'LSD è uno"pseudo-allucinogeno".6 Perciò gli studi scientifici sugli allucinogeni si sono concentrati principalmente su di un prodotto che non è realmente allucinogeno; i ricercatori hanno tralasciato le sostanze naturali, che centinaia di persone utilizzano da migliaia di anni, a favore di un composto sintetico inventato in un laboratorio del ventesimo secolo.7 Nel 1979 si scoprì che il cervello sembra produrre la dimetiltriptamina, che è anche uno dei principi attivi dell'ayahuasca. Questa sostanza genera delle vere allucinazioni, nelle quali le visioni rimpiazzano in modo convincente la normale realtà, come serpenti fluorescenti, con i quali ci si scusa scavalcandoli. Sfortunatamente la ricerca scientifica condotta sulla dimetiltriptamina non è diffusa. A oggi gli studi clinici dei suoi effetti su "normali" esseri umani si possono contare sulle dita di una mano.8 Leggendo, trascorsero le stagioni. Improvvisamente l'inverno lasciò spazio all'estate e le giornate iniziarono a diventare più lunghe. Avevo passato sei mesi interi concentrandomi sui testi di altri. Sentivo che adesso era arrivato il momento di fermarmi per un po' e di iniziare a scrivere il mio libro. Sfruttando al massimo i primi tepori dell'anno, mi presi una giornata di vacanza e andai a passeggiare in una riserva naturale in compagnia del mio registratore. I germogli iniziavano ad aprirsi, sorgenti zampillavano per ogni dove e speravo che anche le mie idee avrebbero fatto altrettanto. Mi era chiaro il fatto che gli ayahuasqueros durante le loro visioni avevano qualche tipo di accesso a informazioni verificabili sulle proprietà delle piante. Perciò conclusi che l'enigma della conoscenza allucinatoria si poteva ridurre a un interrogativo: queste informazioni provengono dall' interno del cervello umano, come vorrebbe la scienza, o dal mondo esterno delle piante, come sostengono gli sciamani? Entrambe queste prospettive sembravano presentare vantaggi e svantaggi. Da una parte l'affinità tra i profili molecolari degli allucinogeni naturali e della serotonina indicava che queste sostanze agiscono esattamente come delle chiavi che si adattano alla stessa serratura all'interno del cervello. Tuttavia non potevo concordare con la posizione scientifica, secondo la quale le allucinazioni sono esclusivamente emissioni di immagini immagazzinate nei recessi della memoria subcosciente. Ero convinto che gli enormi serpenti fluorescenti, che avevo visto grazie all'ayahuasca, non corrispondevano affatto a nulla che potessi aver sognato, neppure nei miei incubi peggiori. Inoltre la velocità e la coerenza di alcune delle immagini allucinatorie superavano di gran lunga i migliori video rock e sapevo che non avrei potuto di certo fìlmarle.9 D'altra parte, mi veniva sempre più facile lasciare da parte l'incredulità e ritenere potenzialmente corretto il punto di vista indigeno. Dopo tutto, nella conoscenza scientifica degli allucinogeni, che all'inizio era sembrata cosi affidabile, vi erano lacune e contraddizioni di ogni genere: gli scienziati non sanno come queste sostanze agiscano sulla nostra coscienza e non hanno nemmeno studiato in dettaglio dei veri allucinogeni. Non mi sembrava più irragionevole ritenere che le informazioni sul contenuto molecolare delle piante potessero davvero provenire dalle piante stesse, proprio come sostenevano gli ayahuasqucros. Tuttavia non riuscivo a cogliere come tutto ciò funzionasse
concretamente. Immerso in questi pensieri interruppi la mia passeggiata e mi misi a sedere, appoggiando la schiena a un grande albero per riposarmi. Poi cercai di entrare in comunicazione con esso. Chiusi gli occhi e respirai avvolto nell'umida fragranza vegetale, che si percepiva nell'aria. Attesi che una forma di comunicazione apparisse sul monitor della mia mente, ma finii per non percepire altro che la piacevole sensazione di essere immerso in una fertile natura assolata. Dopo circa dieci minuti mi alzai e ripresi a passeggiare. Improvvisamente i miei pensieri si rivolsero di nuovo agli stereogrammi: forse avrei trovato la risposta considerando simultaneamente entrambe le prospettive, con un occhio rivolto alla scienza e l'altro allo sciamanesimo. Si poteva trovare la soluzione ponendo la questione in modo diverso: non si trattava di domandarsi se la fonte delle allucinazioni fosse interna oppure esterna, ma di ritenere che poteva essere entrambe le cose allo stesso tempo. Non riuscivo a immaginare come questa idea avrebbe funzionato in pratica, ma mi piaceva, dato che riconciliava due punti di vista, in apparenza divergenti. La strada che stavo percorrendo mi condusse a una cascata cristallina, che zampillava da una rupe calcarea. L'acqua era frizzante e aveva il sapore dello champagne. Il giorno seguente mi recai di nuovo in ufficio con un'energia rinnovata. Tutto ciò che dovevo fare era classificare i miei appunti di lettura sullo sciamanesimo amazzonico e poi avrei potuto iniziare a scrivere. Tuttavia, prima di dedicarmi a questo compito, decisi di trascorrere una giornata inseguendo la mia immaginazione, impaginando alla meglio il mucchio di articoli e annotazioni, che avevo accumulato nel corso dei mesi. Leggendo la letteratura sullo sciamanesimo amazzonico avevo notato che l'esperienza personale degli antropologi con gli allucinogeni indigeni era un terreno nebuloso. Conoscevo bene il problema per il fatto di averlo sfiorato io stesso nei miei scritti. Una delle categorie nelle mie note di lettura era intitolata "Antropologi e ayahuasca". Consultai la scheda corrispondente a questa categoria, che avevo compilato nel corso delle mie indagini, e notai che la prima descrizione soggettiva di un'esperienza con l'ayahuasca avuta da un antropologo era stata pubblicata nel 1968, mentre diversi botanici avevano scritto di esperienze simili un centinaio di anni prima.10 L'antropologo in questione era Michael Harner. Aveva dedicato alla propria esperienza una decina di righe, nel bel mezzo di un articolo accademico: "Dopo aver bevuto l'infuso e pur essendo desto, mi trovai per diverse ore in un mondo che superava tutti i miei sogni più sfrenati. Incontrai persone con la testa dí uccello e anche creature simili a draghi, che spiegavano di essere le vere divinità di questo mondo. Ottenni i servigi di altri adiutori spiritualistici, nel tentativo di volare attraverso i lontani recessi della galassia. Trasportato in uno stato di trance, dove il sovrannaturale sembrava naturale, mi resi conto che gli antropologi, incluso me stesso, avevano decisamente sottovalutato l'importanza della droga sull'ideologia degli indigeni".11 All'inizio Michael Harner aveva avuto una carriera invidiabile, insegnando in università rinomate e pubblicando un libro sullo sciamanesimo per la Oxford University Press. In seguito, tuttavia, si alienò la simpatia di gran parte dei suoi colleghi, pubblicando un manuale divulgativo su una serie di tecniche sciamaniche, basate sulla visualizzazione e sull'uso di tamburi. Un antropologo lo definì: "Un progetto che merita di essere criticato, vista la totale ignoranza di M. Harner sullo sciamanesimo.12 In poche parole, il lavoro di Harner fini per essere screditato da tutti. Devo ammettere che avevo assimilato alcuni di questi pregiudizi. All'inizio della mia indagine avevo dato solamente una scorsa veloce al manuale di Harner, notando semplicemente che il primo capitolo conteneva una descrizione dettagliata della sua prima esperienza con l'ayahuasca, che questa volta occupava dieci pagine anziché dieci righe. Ma non avevo prestato particolare attenzione al suo contenuto. Così, per piacere e per curiosità, decisi di ripercorrere nuovamente il resoconto di Harner. Fu leggendo questa narrazione. letteralmente fantastica, che incappai per caso in un indizio chiave, che avrebbe cambiato il corso della mia indagine. Harner spiegava di essersi recato all'inizio degli anni '60 nel Rio delle Amazzoni peruviano per studiare la cultura degli indiani conibo. Dopo un anno o poco più aveva fatto pochi progressi nella comprensione del loro sistema religioso e i Conibo gli dissero che, se voleva davvero imparare,
doveva bere l'ayahuasca. Harner accettò non senza paura dato che alcune persone lo avevano avvertito che si trattava di un'esperienza terrificante. La sera seguente, sotto la stretta supervisione dei suoi amici indigeni, bevve l'equivalente di un terzo dì bottiglia. Dopo diversi minuti si sentì precipitare in un mondo fatto di autentiche allucinazioni. Dopo essere giunto in una caverna celestiale, dove era in pieno svolgimento "un carnevale sovrannaturale di demoni", vide due strane barche fluttuare nell'aria, che si combinavano fino a formare "un'enorme prua con la testa di drago, non dissimile da quella di una nave vichinga". Sul ponte riusciva a distinguere "un gran numero di persone con le teste di ghiandaie blu e con corpi umani, non dissimili dalle divinità con la testa di uccello raffigurate sui dipinti tombali degli antichi egizi". Dopo molteplici episodi, la cui descrizione in questa sede richiederebbe troppo tempo, Harner si convinse di essere in punto di morte. Cercò di chiamare in aiuto i suoi amici conibo per avere un antidoto, senza però riuscire a proferire una parola. Poi vide che le sue visioni emanavano da "creature simili a rettili giganti" che stavano nei recessi più profondi del suo cervello. Questi esseri iniziarono a proiettare scene di fronte ai suoi occhi, avvisandolo che tali informazioni erano riservate ai moribondi e ai morti: "Prima mi mostrarono il pianeta Terra come era miliardi anni fa, prima che su di esso comparisse qualsiasi forma di vita. Vidi un oceano, la terra arida e un cielo di un blu brillante. Poi centinaia di particelle nere scesero dal cielo e si depositarono di fronte a me sul paesaggio arido. Riuscivo a vedere che le 'particelle' erano in effetti grandi creature nere e lucenti dotate di ali tozze simili a quelle dello pterodattilo, e con enormi corpi simili a quelli delle balene... Mi spiegarono, in una specie di linguaggio del pensiero, che stavano sfuggendo da qualcosa nello spazio. Erano giunti sulla Terra per sfuggire al loro nemico. Le creature mi spiegarono poi come avevano dato origine alla vita sul pianeta, nascondendosi all'interno di molteplici forme per mascherare la propria presenza. La magnificenza della creazione vegetale e animale e della speciazione (centinaia di milioni di anni di attività) ebbe luogo di fronte a me con una portata e una vivacità impossibili da descrivere. Imparai così che delle creature simili a draghi si trovavano all'interno di tutte le forme di vita, compreso l'uomo". A questo punto del suo resoconto Harner scrive in una nota a piè di pagina: "Guardando le cose in retrospettiva si potrebbe dire che essi erano quasi simili al DNA, anche se a quel tempo, nel 1961, non sapevo nulla del DNA".13 Mi fermai per tirare i fiato. In precedenza non avevo prestato attenzione a questa nota a piè di pagina. Il DNA era effettivamente all' interno del cervello umano, come anche nel mondo esterno delle piante, visto che la molecola della vita, contenente informazioni genetiche, è la stessa per tutte le specie. Il DNA poteva essere così considerato una fonte di informazioni, sia interna che esterna; in altri termini, era esattamente ciò che avevo cercato di immaginare il giorno prima, quando mi trovavo nella foresta. Mi immersi di nuovo nel libro di Harner, ma non trovai nessuna ulteriore citazione relativa al DNA. Comunque, alcune pagine più avanti, Harner osservava che "drago" e "serpente" sono sinonimi. Questo mi fece pensare che la doppia elica del DNA ricordava, per la sua forma, due serpenti attorcigliati. Dopo pranzo, ritornai in ufficio con una strana sensazione. Le creature simili a rettili, che Harner aveva visto nel suo cervello, mi ricordavano qualcosa, ma non sapevo dire che cosa. Doveva essere un testo che avevo letto e che si trovava in una delle numerose pile di documenti e appunti sparsi sul pavimento. Consultai la pila classificala come "Cervello", nella quale avevo collocato gli articoli inerenti gli aspetti neurologici della coscienza, ma non trovai alcuna traccia dei rettili. Dopo aver rovistato in giro per un po', la mia mano si posò su un articolo intitolato "Cervello e mente nello sciamanesimo dei Desana" di Gerardo Reichel-Dolmatoff. Avevo chiesto in biblioteca una copia di questo articolo nel corso delle mie letture sul cervello. Avendo appreso grazie alle numerose pubblicazioni di Reichel-Dolmatoff, che i Desana del Rio delle Amazzoni colombiano erano dei regolari utilizzatori di ayahuasca, mi era venuta la curiosità di sapere qualcosa del loro punto di vista sulla fisiologia della coscienza, ma la prima volta che avevo letto l'articolo mi era sembrato piuttosto esoterico e lo avevo relegato in una pila secondaria. Questa volta, sfogliandolo. fui attratto da un disegno dei Desana raffigurante un cervello umano, con un
serpente posizionato tra i due emisferi. Lessi il testo inerente il disegno e appresi che i Desana ritengono che la fenditura occupata dal rettile sia una "depressione, plasmata agli albori del tempo (del tempo mitico ed embrionale) dall'anaconda cosmico. Vicino alla testa del serpente c'è un cristallo di rocca esagonale, proprio all'esterno del cervello; là risiede una particella dì energia solare che irradia il cervello". 4 Dopo diverse pagine. nel corso dell'articolo, mi imbattei ìn un secondo disegno. che questa volta rappresentava due serpenti.
Secondo Reichel-Dolmatoff, questo secondo disegno mostra che all'interno della fenditura "si trovano due serpenti intrecciati, un anaconda gigante (Eunectes murinus) e un boa arcobaleno (Epicrates cenchria), un grande serpente di fiume dai colori scuri e opachi e un serpente di terra altrettanto grande e dai colori brillanti e spettacolari. Nello sciamanesimo dei Desana questi due serpenti simboleggiano un principio femminile e uno maschile, un'immagine di madre e una di padre, acqua e terra... In poche parole, essi rappresentano un concetto di opposizione binaria, che deve essere superato per ottenere consapevolezza individuale e integrità. Si immagina che i serpenti si muovano ritmicamente a spirale, oscillando da una parte all'altra .15 Incuriosito, iniziai a leggere l'articolo dal principio. Nelle prime pagine riportava una sintesi delle principali credenze cosmologiche dei Desana. I miei occhi si fermarono sulla seguente frase: "I Desana dicono che agli albori del tempo i loro antenati giunsero a bordo di canoe, la cui forma ricordava quella di enormi serpenti".16 A questo punto iniziai a meravigliarmi per le analogie tra il resoconto di Harner, basato sulla sua esperienza allucinatoria con gli indiani conibo nel Rio delle Amazzoni peruviano, e i concetti sciamanici e mitologici di un popolo, che utilizza l'ayahuasca e che vive a migliaia di chilometri di distanza dal Rio delle Amazzoni colombiano. In entrambi i casi vi erano rettili nel cervello e barche di origine cosmica con la sagoma di serpenti, che erano le navi della vita agli albori del tempo. Si trattava di una pura coincidenza?
Per scoprirlo, presi un libro riguardante una terza popolazione, che utilizzava l'ayahuasca, intitolato (in francese), Visione, conoscenza, potere: sciamanesimo tra gli Yagua nel Perù nord-orientale. Questo studio di Jean-Pierre Chaumeil è, a mio avviso, uno tra i più rigorosi condotti sull'argomento. Iniziai a sfogliarlo alla ricerca di passi relativi alle credenze cosmologiche. Prima trovai un "serpente crlestiale", raffigurato su un disegno dell'universo tracciato da uno sciamano yagua. Poi, alcune pagine più avanti, si cita un altro sciamano, che afferma: "Nella notte dei tempi, prima della nascita della terra, di questa terra qui, i nostri più lontani antenati vivevano su di un'altra terra...". Chaumeil aggiunge che gli Yagua ritengono che tutti gli esseri viventi furono creati da gemelli, che sono "i due personaggi centrali nel pensiero cosmogonico degli Yagua".17 Queste corrispondenze sembravano alquanto strane e non sapevo che cosa farne. O meglio, riuscivo a intravedere un modo semplice per interpretarle, che però contraddiceva la mia comprensione della realtà. Un antropologo occidentale come Harner beve una forte dose di ayalmuca con un dato popolo e ottiene l'accesso, nel bel mezzo del ventesimo secolo, a un mondo che dà forma ai concetti "mitologici" di altri popoli ancora, consentendo loro di comunicare con spiriti di origine cosmica che creano la vita, possibilmente collegati al DNA. Questo mi sembrava altamente improbabile, se non addirittura impossibile. Comunque, mi stavo abituando a mettere da parte l'incredulità, e avevo deciso di seguire la mia impostazione fino alla sua logica conclusione. Cosi annotai direttamente a matita, a margine del testo di Chaumeil: "gemelli = DNA?" Queste connessioni indirette e analogiche tra il DNA e le sfere allucinatorie e mitologiche mi sembravano divertenti, o quanto meno curiose. Tuttavia, iniziai a pensare di avere forse trovato con il DNA il concetto scientifico sul quale focalizzare un occhio, concentrando l'altro sullo sciamanesimo degli ayahuasqueros amazzonici. Più concretamente, creai una nuova categoria nei miei appunti intitolata "Serpenti del DNA".
CAPITOLO 6 NOTARE LE CORRISPONDENZE Il mattino seguente mia moglie e i bambini partirono per una vacanza in montagna. Sarei rimasto solo per dieci giorni. Mi accinsi a classificare i miei appunti sulle pratiche e sulle credenze degli ayahuasqueros indigeni e di quelli mestizo. Questo lavoro richiese sei giorni e rivelò un numero di costanti tra le culture. In tutta l'Amazzonia occidentale l'ayahuasca si beve di notte, in genere nell'oscurità più totale; preventivamente ci si astiene dai rapporti sessuali e si digiuna, evitando i grassi, l'alcool, il sale, lo zucchero e tutti gli altri condimenti. Di solito la seduta allucinatoria viene condotta da una persona esperta, che accompagna le visioni con delle canzoni.1 In molte regioni gli ayahuasqueros apprendisti si isolano nella foresta per lunghi mesi e ingeriscono enormi quantità dì allucinogeni. In questo periodo la loro dieta consiste principalmente di banane e pesce, che sono entrambi particolarmente ricchi di serotonina. Accade anche che il consumo prolungato di allucinogeni diminuisca la concentrazione di questo neurotrasmettitore presente nel cervello. La maggior parte degli antropologi non è comunque consapevole dell'aspetto biochimico di questa dieta e alcuni arrivano a inventare spiegazioni astratte per ciò che essi definiscono "irrazionali tabù alimentari".2 Mentre classificavo le mie note, creai nuovi collegamenti tra sciamanesimo e DNA. Avevo Appena ricevuto una lettera da un amico, un giornalista scientifico, che aveva letto una versione preliminare del mio secondo capitolo; mi suggerì che forse lo sciamanesimo "non fosse traducibile nella nostra logica per mancanza di concetti corrispondenti".3 Compresi ciò che intendeva, e stavo creando
esattamente di stabilire se il DNA, senza essere esattamente equivalente, potesse essere il concetto più adatto a interpretare ciò di cui parlavano gli ayahuasqueros. Questi sciamani insistono, con disarmante costanza, nell'affermare l'esistenza di essenze (o spiriti, o madri) animate, comuni a tutte le forme di vita. Ad esempio, sugli Yaminahua del Rio delle Amazzoni peruviano, Graham Townsley scrive: "L'immagine centrale dominante l'intero campo della conoscenza sciamanica degli Yaminahua è quella di yoshi, spirito o essenza animata. Nel pensiero yaminahua tutte le cose presenti al mondo sono animate e caratterizzate con le loro peculiarità da yoshi. La conoscenza sciamanica è, soprattutto, la conoscenza di queste entità, che sono anche le fonti di tutti i poteri, rivendicate dallo sciamanesimo per se stesso... è attraverso il concetto di yoshi che si stabilisce l'identicità fondamentale tra ciò che è umano e ciò che non lo è".4 Quando mi trovavo a Quirishari sapevo già che la credenza animista, secondo la quale tutti gli esseri viventi sono animati dallo stesso principio, era stata confermata dalla scoperta del DNA. Nel corso delle mie lezioni di biologia alle scuole superiori avevo appreso che la molecola della vita era la stessa per tutte le specie e che le informazioni genetiche racchiuse in una rosa, in un batterio o in un essere umano erano codificate in un linguaggio universale formato da quattro lettere, A, G, C e T, che sono quattro composti chimici, contenuti nella doppia elica del DNA. Dunque la relazione piuttosto ovvia tra il DNA e le essenze animate percepite dagli ayahasqueros non mi era nuova. La classificazione dei miei appunti di lettura non rivelò nessuna ulteriore corrispondenza. Nel mio settimo giorno di solitudine decisi di recarmi alla biblioteca universitaria più vicina, dato che volevo seguire un'ultima traccia prima di mettermi a scrivere: quella dei gemelli che creano la vita, che avevo trovato nella mitologia yagua. Sfogliando gli scritti di autorità nel campo della mitologia, fui sorpreso di scoprire che il tema dei creatori gemelli di origine celeste era estremamente comune in Sudamerica e per la verità in tutto il mondo. La storia narrata dagli Ashaninca, relativa ad Avíreri e a sua sorella, che crearono la vita mediante la trasformazione, era solo una delle centinaia di varianti sul tema dei "gemelli divini". Un altro esempio è Quetzalcoatl, il serpente piumato degli aztechi, che simboleggia la "sacra energia della vita", e suo fratello Tczcatlipoca, entrambi figli del serpente cosmico Coatlicue.5 Mi trovavo seduto nella sala di lettura principale, circondato da studenti, e stavo sfogliando l'ultimo libro di Claude Lévi-Strauss, quando ebbi un sussulto. Avevo appena letto il seguente passo: "Nella lingua azteca la parola coatl significa sia 'serpente' che 'gemello'. Il nome Quetzalcoatl può dunque essere interpretato sia come 'serpente piumato' che come 'magnifico gemello'."6 Un serpente gemello, di origine cosmica, che simboleggia la sacra energia della vita? Tra gli aztechi? Era metà pomeriggio. Avevo bisogno di pensare un po'. Lasciai la libreria e mi diressi a casa in automobile. Lungo la strada del ritorno non riuscivo a smettere di pensare a ciò che avevo appena letto; guardando fuori dal finestrino mi chiesi che significato potessero avere tutti questi esseri gemelli nei miti della creazione delle popolazioni indigene. Quando giunsi a casa andai a passeggiare nei boschi per schiarirmi le idee. Volli ricapitolare dall'inizio: stavo cercando di tenere sott'occhio da una parte il DNA e dall'altra lo sciamanesimo, per scoprire il terreno comune tra i due. Passai in rassegna le corrispondenze che avevo trovato sino a quel momento; poi camminai in silenzio, dato che ero confuso. Rimuginando su questo blocco mentale mi tornarono alla mente le parole di Carlos Perez Shuma: "Guarda la FORMA". Quella mattina, in biblioteca, avevo fatto ricerche sul DNA consultando diverse enciclopedie e avevo notato casualmente che la sagoma della doppia elica era spesso descritta come una scala a pioli, come una scala di corda intrecciata, o come una scala a chiocciola. Fu proprio nel momento esatto in cui mi chiedevo se vi erano delle scale nello sciamanesimo che la rivelazione si manifestò dì fronte ai miei occhi: "LE SCALE! Le scale degli sciamani, 'simboli della professione' secondo Métraux, presenti nelle tematiche sciamaniche in tutto il mondo secondo Eliade!" Mi precipitai di nuovo nel mio ufficio e mi immersi nel labro di Mircea Eliade, intitolato Lo sciamanesimo e le techinche dell'estasi, scoprì che esistevano "innumerevoli esempi di scale sciamaniche in tutti cinque i continenti, rappresentate in alcuni luoghi come una "scala a pioli elicoidale", in altri come delle "scale" o come delle "corde intrecciate". In Australia, in Tibet,
in Nepal, nell'antico Egitto, in Africa, in Nordamerica e in Sudamerica "il simbolismo della corda, come quello della scala a pioli, implica necessariamente una comunicazione tra cielo e terra. E grazie all'ausilio di una corda o di una scala a pioli (come anche di una pianta rampicante, di un ponte, di una catena di frecce e così via) che le divinità discendono sulla terra e gli uomini ascendono in cielo". Eliade cita addirittura un esempio tratto dal Vecchio Testamento, in cui Giacobbe sogna di una scala a pioli, che arriva fino al cielo, "con gli angeli di Dio che ascendono e discendono su di essa". Secondo Eliade la scala a pioli sciamanica è la versione primordiale dell'idea di un asse del mondo, che collega i diversi livelli del cosmo, e si ritrova in numerosi miti di creazione sotto forma di albero.7 Fino a quel momento avevo considerato con sospetto il lavoro di Eliade, ma improvvisamente lo vidi sotto una nuova luce.8 Cominciai a dare una scorsa agli altri suoi scritti in mio possesso e scoprii: serpenti cosmici. Questa volta erano gli aborigeni australiani a ritenere che la creazione della vita fosse opera di un "personaggio cosmico legato alla fecondità universale, il Serpente Arcobaleno", i cui poteri erano simboleggiati da cristalli di quarzo. È così che anche i Desana del Rio delle Amazzoni colombiano associano l'anaconda cosmico, creatore della vita, con un cristallo di quarzo:
Come poteva essere che gli aborigeni australiani, separati dal resto dell'umanità per 40.000 anni, narrassero la medesima storia riguardo la creazione della vita da parte di un serpente cosmico associato con un cristallo di rocca, come sostengono gli abitanti del Rio delle Amazzoni che bevono l'ayahuasca? I collegamenti che iniziavo a percepire stavano spazzando via lo scopo della mia indagine. Come potevano i serpenti cosmici dell'Australia essere di aiuto alla mia analisi sugli usi degli allucinogeni nell'Amazzonia occidentale? Nonostante questo dubbio, non riuscivo a fermarmi e mi ci buttai a capofitto. Afferrai i quattro volumi del lavoro comparativo di Joseph Campbell sulla mitologia mondiale. Me li aveva dati un amico tedesco all'inizio della mia indagine, dopo che gli avevo raccontato del libro che intendevo scrivere. All'inizio avevo semplicemente esaminato il volume intitolato Mitologia primitiva. Il titolo non mi piaceva molto e il libro ignorava il bacino del Rio delle Amazzoni, per non parlare degli allucinogeni. All'epoca avevo relegato il capolavoro di Campbell in seconda fila su uno degli scaffali della mia libreria e non ero andato avanti nella consultazione. Cominciai a sfogliare la Mitologia occidentale in cerca di serpenti. Con mia grande sorpresa ne trovai uno nel titolo del primo capitolo. Girando la prima pagina mi imbattei nella seguente immagine.
Questa immagine è tratta da un sigillo della mesopotamia, risalente al 2200 a.C., e mostra "la divinità con sembianze umane, seduta sul trono, con alle spalle il suo emblema caduceo e davanti a sè un altare con il fuoco acceso".9 Il simbolo di questo dio serpente non era altro che una doppia elica. L'analogia con la rappresentazione del DNA era lampante! Sfogliai febbrilmente tra i libri di Campbell e trovai serpenti attorcigliati nella maggior parte delle imagini che rappresentavano scene sacre. Di questo simbolismo onnipresente del serpente Campbell scrive: "Attraverso il materiale riportato nei volumi di questo lavoro, e dedicato alla mitologia primitiva, orientale e occidentale, appaiono frequentemente miti e riti del serpente e con un significato simbolico notevolmente costante. In qualsiasi luogo, in cui la natura viene venerata per la propria autonomia e dunque per la propria intrinseca natura divina, il serpente è riverito come il simbolo della vita divina.10 Nel lavoro di Campbell scoprii un numero sbalorditivo di divinità creatrici rappresentate sotto forma di serpente cosmico, non solo in Amazzonia, Messico e Australia, ma presso i Sumeri, in Egitto, Persia, India, nel Pacifico, a Creta, in Grecia e in Scandinavia. Per verificare questi fatti consultai il mio Dizionario dei simboli in lingua francese alla voce "serpente". Lessi: "Non dà peso ai sessi e all'opposizione dei contrari; è femminile e anche maschile, un gemello di se stesso, come molte delle importanti divinità creatrici che, nella loro prima rappresentazione, sono sempre serpenti cosmici... Così il serpente visibile appare semplicemente come la breve incarnazione di un Grande Serpente Invisibile, che è casuale e al di fuori del tempo, un signore del principio vitale e di tutte le forze della natura. E' un'antica divinità primaria reperita all'inizio di tutte le cosmogonie, prima che il monoteismo e la ragione la facessero vacillare" (corsivo in originale).11 Campbell si sofferma su due svolte cruciali per il serpente cosmico nella mitologia mondiale. La prima ha luogo "nel contesto del patriarcato degli ebrei dell'età del ferro nel primo millennio a.C., [dove] la mitologia adottata dalle prime civilizzazioni neolitiche e dell'età del bronzo... si capovolse, per rappresentare un tema, che era esattamente agli antipodi rispetto a quello della sua origine". Nella storia della creazione giudaico-cristiana, narrata nel primo libro della Bibbia, si trovano elementi comuni a tanti miti della creazione del mondo: il serpente, l'albero, gli esseri gemelli; ma il serpente, "che era stato venerato in Oriente per almeno settemila anni prima della compilazione del Libro della Genesi", interpreta per la prima volta il ruolo del cattivo. Geova, che lo sostituisce nel ruolo del creatore, finisce per sconfiggere "il serpente del mare cosmico, il Leviatano".12 Secondo Campbell la seconda svolta decisiva ha luogo nella mitologia greca, dove Zeus era inizialmente raffigurato come un ser pente; ma attorno al 500 a.C. i miti cambiarono e Zeus divenne un uccisore di serpenti. Egli difese il regno delle divinità patriarcali del monte Olimpo, sconfiggendo Tifone, l'enorme mostro dalle fattene serpentine, che è il figlio di Gaia, dea della terra che incarna le forze della natura. Tifone "era talmente grande che spesso la sua testa cozzava contro le stelle e le sue braccia si estendevano dall'alba al tramonto". Per sconfiggere Tifone, Zeus poté contare solamente sull'aiuto di Atena, "la Ragione", dato che tutte le altre divinita dell'Olimpo erano fuggite terrorizzate in Egitto.13
A questo punto scrissi nelle mie note: "Queste divinità patriarcali ed esclusivamente maschili sono incomplete per quanto concerne la natura. Il DNA, come il serpente cosmico, non è né maschile né femminile, anche se le sue creature sono l'una o l'altra cosa, o entrambe. Gaia, la dea greca della terra, è incompleta come Zeus. Come lui è il risultato della contemplazione razionale, che separa prima di pensare ed è incapace di comprendere la natura androgina e doppia del principio vitale". Erano le otto di sera e non avevo mangiato. Ero sbalordito di fronte all'enormità dì quanto ritenevo di avere scoperto. Decisi di fare una pausa. Presi una birra dal frigorifero e mi misi ad ascoltare della musica di violino. Iniziai poi a camminare avanti e indietro nel mio ufficio. Cosa poteva dunque significare tutto ciò? Accesi il registratore e cercai di rispondere alla mia stessa domanda: "Primo, la cultura occidentale si è staccata dal serpente/principio vitale, in altre parole dal DNA, dal momento in cui ha adottato un punto di vista esclusivamente razionale. Secondo, i popoli che praticano ciò che definiamo "sciamanesimo" comunicano con il DNA. Terzo, paradossalmente la parte dell'umanità che si è staccata dal serpente è riuscita a scoprire la sua esistenza materiale in laboratorio circa tremila anni più tardi. "I diversi popoli hanno utilizzato tecniche differenti in luoghi diversi per ottenere accesso alla conoscenza del principio vitale. Nelle loro visioni, gli sciamani riescono a portare la propria coscienza fino al livello molecolare. Questo è esattamente ciò che Reichel-Dolmatoff descrive nelle note da lui registrate, relative alle sue visioni indotte dall'ayahuasca (`come microtopografi delle piante; come quelle microscopiche sezioni macchiate; qualche volta come quelle tratte da un libro di testo di patologia' 14). "Questo è il modo in cui imparano a combinare gli ormoni cerebrali con gli inibitori della monoaminoossidasi, o come scoprono quaranta diverse fonti di paralizzanti muscolari, mentre la scienza è stata solamente in grado di imitare le loro molecole. Quando dicono che la ricetta per il curaro venne loro fornita dagli esseri che crearono la vita, essi si esprimono alla lettera. Quando affermano che la loro conoscenza proviene dagli esseri che vedono nel corso delle loro allucinazioni, le loro parole corrispondono esattamente a ciò che dicono. "Secondo gli sciamani di tutto il mondo, la comunicazione con gli spiriti si innesca tramite la musica. Per gli ayahuasqueros è pressoché inconcepibile accedere al mondo degli spiriti e rimanere in silenzio. Angelika GebhartSayer discute la 'musica visiva' proiettata dagli spiriti di fronte agli occhi degli sciamani: essa è composta da immagini tridimensionali, che si fondono con il suono e che gli sciamani imitano, emettendo melodie corrispondenti.15 Dovrei verificare se il DNA emette un suono o meno. "Un altro modo per testare questa idea sarebbe quello di bere l'ayahuasca e osservare le immagini microscopiche...". A quel punto mi venne in mente che potevo affrontare questa esperienza dando un'occhiata al libro dei dipinti di Pablo Amaringo, un ayahuasquero peruviano in pensione, dotato di una memoria fotografica. Questi dipinti sono pubblicati ín un libro intitolato Visioni con l'ayahuasca: liconografia religiosa di uno sciamano peruviano, di Luis Eduardo Luna e Pablo Amaringo. In questo libro l'antropologo Luna fornisce una miniera di informazioni sullo sciamanesimo arnazzonico, delineando il contesto dei cinquanta dipinti di straordinaria bellezza, opera di Amaringo. La prima volta che vidi questi dipinti fui colpito dal fatto che somigliavano alle mie visioni indotte dall'ayahuasca. Con le parole di Amaringo: "Io dipingo solamente ciò che ho visto e l'esperienza che ho avuto. Per i miei dipinti non copio e non prendo spunti da nessun libro". Luna afferma: "Ho mostrato i dipinti di Pablo a diversi vegetalistas che hanno dimostrato un immediato interesse ed espresso stupore: alcuni hanno commentato su quanto le loro stesse visioni fossero simili a quelle dipinte da Pablo, altri riconoscono in essi addirittura degli elementi".16 • Gli spiriti delle piante in genere sono considerati di sesso femminile. Pablo Amaringo chiama l'antico spirito dell'ayahuasca "una vecchietta" (in Michela Zucca, Il Turismo magico: un ponte tra le antiche entità e nuovi modelli di svilutto, Atti del Convegno del 20 aprile 2004, Trento, Facoltà di economia; n.d.c.)
Aprendo il libro rimasi sbalordito nel trovare scale zigzaganti di ogni tipo, piante rampicanti intrecciate, serpenti attorcigliati, e soprattutto, solitamente nascoste sui margini, delle doppie eliche, come questa:
Diverse settimane più tardi mostrai questi dipinti a un amico. che aveva una buona conoscenza della biologia molecolare. Egli reagì nello stesso modo dei vegetalistas, ai quali Luna li aveva mostrati: "Guarda c'è del collagene... E lì c'è la rete embrionale dell'assone con i suoi neuriti... Quelle sono delle triple eliche... e quello è il DNA, che da lontano ricorda un filo del telefono... Questo è simile ai cromosomi in una fase specifica... c'è la forma estesa del DNA e proprio accanto a essa vi sono i filamenti del DNA nella loro struttura nucleosomica".17 Anche senza queste spiegazioni, ero sotto shock. Consultai rapidamente l'indice delle Visioni con l'ayahuasca, ma non trovai alcun riferimento al DNA, ai cromosomi o alle doppie eliche.
Era possibile che nessuno avesse notato l'aspetto molecolare dí queste immagini? Ebbene, si, dato che io stesso le avevo spesso ammirate e mostrate agli amici per spiegare che aspetto avesse la sfera
allucinatoria, e nemmeno io vi avevo fatto caso. Il mio sguardo era stato, come sempre, focalizzato. Non ero stato in grado di vedere contemporaneamente la biologia molecolare e lo sciamanesimo, che la nostra mente razionale separa, ma che potrebbero benissimo sovrapporsi e coincidere. Ero sbalordito. Sembrava che nessuno avesse visto i possibili legami tra i "miti" dei "popoli primitivi" e la biologia molecolare. Nessuno aveva notato che la doppia elica aveva rappresentato il principio della vita per migliaia di anni in tutto il mondo. Al contrario l'opinione più diffusa era che le allucinazioni non potevano in alcun modo costituire una fonte di conoscenza, che gli indiani avevano trovato le molecole utili mediante una sperimentazione casuale e che i loro "miti" erano esattamente solo dei miti, senza alcuna relazione con la conoscenza reale scoperta nei laboratori. A questo punto mi ricordai la storia di Michael Harner. Non aveva forse sostenuto che queste informazioni erano riservate ai moribondi e ai morti? Improvvisamente fui sopraffatto dalla paura, e sentii l'impulso di condividere queste idee con qualcun'altro. Presi in mano il telefono e chiamai un vecchio amico, anche lui scrittore. Lo guidai rapidamente attraverso le corrispondenze che avevo trovato quel giorno: i gemelli, i serpenti cosmici. le scale a pioli di Eliade, le doppie eliche di Campbell e anche quelle di Amaringo. Poi aggiunsi: "Vi è un'ultima corrispondenza, che è leggermente meno chiara delle altre. Gli spiriti che si vedono nel corso delle allucinazioni sono immagini tridimensionali che emettono suoni, e parlano una lingua fatta di immagini tridimensionali che emettono suoni. In altre parole. sono Fatti della loro stessa lingua, come il DNA. All'altro capo del telefono ci fu un lungo silenzio. Poi il mio amico disse, "Si. e come il DNA si replicano per trasmettere le loro informazioni". "Aspetta". lo interruppi. "me lo sto scrivendo". "Proprio così", continuò. "Invece di parlare con me. dovresti scrivere tutto".18 Seguii il suo consiglio, e fu scrivendo i miei appunti sulla relazione tra gli spiriti allucinatori fatti di linguaggio e il DNA che ricordai il primo verso del primo capitolo del Vangelo di Giovanni: "All'inizio fu il logos, la parola, il verbo, il linguaggio". Quella notte ebbi serie difficoltà ad addormentarmi. Il giorno seguente dovevo partecipare a un incontro di lavoro, che non aveva alcun nesso con la mia ricerca. Sfruttai il viaggio in treno per esaminare le cose in prospettiva. Mi sentivo strano. Da una parte, interi macigni di intuizioni mi stavano spingendo a credere che il collegamento tra il DNA e lo sciamanesimo fosse reale. Dall'altra, ero consapevole del fatto che questa visione era in contraddizione con le idee accademiche, e che i collegamenti che avevo trovato fino a quel momento non erano sufficienti a turbare un punto di vista strettamente razionale. Tuttavia, guardando un campione casuale di mondo occidentale attraverso il finestrino del treno, non riuscii a fare a meno di notare una sorta di separazione tra gli esseri umani e tutte le altre specie. Noi ci tagliamo fuori vivendo in blocchi di cemento, andando in giro a bordo di bolle fatte di vetro e di metallo e passando gran parte del nostro tempo a guardare altri esseri umani in televisione. Fuori, la pallida luce di un sole di aprile risplendeva sui sobborghi. Aprii un giornale e tutto ciò che riuscii a vedere furono immagini di esseri umani e articoli inerenti le loro attività. Non vi era un singolo articolo su un'altra specie. Stando seduto in treno, misurai il paradosso confrontandomi con me stesso. Ero senza dubbio un individuo occidentale, e tuttavia stavo iniziando a credere in idee, che non erano recepibili da un punto di vista razionale. Questo significava che ero sul punto di scoprire qualcosa di più riguardo il DNA. Fino a quel momento avevo solamente trovato corrispondenze biologiche nello sciamanesimo. Restava da vedere se era vero anche il contrario e se vi erano corrispondenze sciamaniche in biologia. Più precisamente avevo bisogno di verificare se le nozioni sciamaniche sugli spiriti corrispondevano alle nozioni scientifiche sul DNA. In sostanza, mi trovavo, a dir tanto, solamente a metà del percorso. Sebbene gli scaffali della mia libreria fossero ben forniti in tema di antropologia e di ecologia, non possedevo nessun libro sul DNA o sulla biologia molecolare; conoscevo però un collega, esperto sia in chimica sia in letteratura, che sarebbe stato in grado di aiutarmi. Dopo l'incontro, nel tardo pomeriggio, mi recai a casa del mio collega. Mi aveva generosamente
concesso di consultare i libri in sua assenza. Entrai nel suo ufficio, costituito da un'ampia stanza con un'intera parete occupata da una libreria a scaffali, accesi la luce e iniziai a scartabellare. La sezione dedicata alla biologia conteneva, fra le altre cose, La doppia elica di James Watson, che assieme a Francis Crick scoprì la struttura del DNA. Diedi una scorsa a questo libro, guardando con interesse le figure e lo misi da parte.
Un po' più in là, sullo stesso scaffale, mi imbattei in un libro di Francis Crick intitolato La vita: sua origine e natura. Lo presi dallo scaffale e guardai la copertina: non riuscii a credere ai miei occhi. Mostrava un'immagine della terra. vista dallo spazio, con un oggetto piuttosto indistinto, proveniente dal cosmo, che atterrava su di essa. Francis Crick, vincitore dcl premio Nobel e coscopritore della struttura del DNA, stava alludendo all'origine extratentme della molecola della vita, nello stesso modo in cui i popoli "animisti" sostenevano che il principio vitale era un serpente proveniente dal cosmo. Non avevo mai sentito parlare dell'ipotesi formulata da Crick, chiamata "panspermia diretta", ma sapevo di avere appena trovato una nuova corrispondenza tra la scienza e il complesso formato dallo sciamanesimo e dalla mitologia. Mi misi a sedere in poltrona e mi immersi in La vita: sua origine e natura. Crick, che scriveva all'inizio degli anni '80, criticava la solita teoria scientifica sull'origine della vita, secondo la quale una prima cellula apparve nel brodo primordiale, grazie alle collisioni casuali di molecole disorganizzate. Secondo Crick questa teoria presenta un grave difetto: si basa su idee concepite nel diciannovesimo secolo, molto prima che la biologia molecolare rivelasse che i meccanismi fondamentali della vita sono identici per tutte le specie e che sono estremamente complessi; quando si calcolano le probabilità che il caso produca una tale complessità, si finisce per ottenere numeri incredibilmente piccoli. La molecola del DNA, che eccelle nello stoccare e duplicare informazioni, non è in grado di costruirsi da sola. Le proteine lo fanno, ma esse non sono capaci di riprodursi in assenza dell'informazione contenuta nel DNA. Dunque la vita è, a quanto pare, una sintesi obbligata di questi due sistemi molecolari. Andando oltre la famosa questione della gallina e dell'uovo, Crick calcola le probabilità che una singola proteina emerga per caso (la quale poi potrebbe proseguire nella creazione della prima molecola di DNA). In tutte le specie viventi le proteine sono composte esattamente dagli stessi 20 aminoacidi, che sono delle piccole molecole. La proteina media è una lunga catena costituita approssimativamente da 200 aminoacidi, scelti tra quei 20, e uniti assieme nel giusto ordine. In base alle leggi combinatorie vi è una probabilità su 20, moltiplicata per se stessa 200 volte, che una singola proteina specifica emerga per caso. Questa cifra, che si può
esprimere come 20200e che equivale grosso modo a 10260, è enormemente più grande del numero di atomi presenti nell'universo osservabile (stimato su i 1080). Queste cifre sono inconcepibili per la mente umana. Non è possibile immaginare tutti gli atomi dell'universo osservabile e tanto meno una cifra che è un miliardo di un miliardo di un miliardo di un miliardo di un miliardo (ecc.) di volte più grande. Tuttavia, dal momento in cui è iniziata la vita sulla terra, il numero di catene di aminoacidi, che potevano essere state sintetizzate per caso, rappresentano solamente una piccola porzione di tutte le possibilità. Secondo Crick: "La grande maggioranza delle sequenze non può essere stata mai sintetizzata in alcun modo e in nessun momento. Questi calcoli tengono conto soltanto della sequenza aminoacidica. Essi non lo consentono per il fatto che molte sequenze probabilmente non si ripiegherebbero in modo soddisfacente, fino a dare origine a una forma stabile e compatta. Quale frazione di tutte le possibili sequenze lo faccia non è noto, tuttavia si suppone che essa sia piuttosto piccola". Crick conclude dicendo che la complessità organizzata individuata a livello cellulare "non può essersi creata per puro caso". La terra esiste da circa 4.5 miliardi di anni. All'inizio era semplicemente un aggregato radioattivo con una temperatura superficiale che raggiungeva il punto di fusione del metallo. Non era esattamente un luogo ospitale per accogliere la vita. Tuttavia vi sono fossili di esseri monocellulari, la cui datazione risale a circa 3.5 miliardi di anni fa. L'esistenza di una singola cellula implica necessariamente la presenza del DNA, con il suo "alfabeto" composto da 4 lettere (A, C. C, T), dalle proteine, con il loro "alfabeto" composto da 20 lettere (i 20 aminoacidi) e anche di un "meccanismo di traduzione" tra i due, visto che le istruzioni per la costruzione delle proteine sono codificate nel linguaggio del DNA. Crick scrive: "è alquanto straordinario che un tale meccanismo esista, ed è addirittura più notevole il fatto che ogni cellula vivente, sia essa animale, vegetale o microbica, ne contenga una versione".19 Crick paragona una proteina a un paragrafo costituito da 200 lettere allineate nell'ordine corretto. Se le possibilità che, in un miliardo di anni, un paragrafo emerga da un brodo terreste sono infinitesimali, allora la probabilità che, nello stesso periodo, compaiano casualmiente due alfabeti e un meccanismo di traduzione è perfino più remota. Quando alzai lo sguardo dal libro di Crick fuori era buio. Mi sentivo meravigliato ma anche esultante. Come un investigatore miope chinato su di una lente di ingrandimento all'inseguimento di una traccia, ero precipitato in un buco senza fondo. Per mesi avevo cercato di dipanare l'enigma della conoscenza allucinatoria delle popolazioni indigene dell'Amazzonia occidentale, cercando ostinatamente il passaggio nascosto nell'apparente vicolo cieco. Avevo scoperto la traccia del DNA solo due settimane prima nel libro di Harner. Da allora avevo soprattutto sviluppato l'ipotesi inseguendo delle linee intuitive. Il mio scopo non era certamente quello di costruire una nuova teoria sull'origine della vita; ma eccomi lì: un povero antropologo, che sapeva a mala pena nuotare, galleggiante in un oceano cosmico pieno di serpenti microscopici e bilingue. Adesso capivo che potevano esserci dei legami tra la scienza e le tradizioni sciamaniche, spirituali e mitologiche, e che questi sembravano essere passati inosservati, senza dubbio a causa della frammentazione della conoscenza occidentale. Con questo libro, Francis Crick fornisce un buon esempio di questa frammentazione. La sua matematica è impeccabile e il suo modo di ragionare cristallino: senza dubbio una delle menti razionali più acute del ventesimo secolo. Ma non sapeva di non essere il primo a proporre l'idea di un principio vitale di origine cosmica dalle fattezze serpentine. Tutte le popolazioni del mondo, che parlano di un serpente cosmico, lo dicono da millenni. Egli non l'aveva notato, dato che il suo sguardo razionale era continuamente focalizzato e poteva esaminare solamente una cosa alla volta. Tale tipo di sguardo separa le cose per comprenderle, incluse quelle propriamente complementari. E' lo sguardo dello specialista, che vede la grana fine di un campo visivo necessariamente ristretto. Quando Crick si accinse a considerare seriamente la cosmogonia dalla prospettiva della biologia molecolare, da tempo aveva allontanato dalla sua mente analitica i miti delle popolazioni arcaiche. Dal mio punto di vista lo scenario ipotizzato da Crick di una "panspermia diretta", nella quale una navicella spaziale trasporta il DNA sotto forma di batteri congelati attraverso gli spazi immensi del
cosmo, mi sembrava meno probabile dell'idea di un serpente cosmico onnisciente e terrificante, dotato di un potere inimmaginabile. Dopo tutto, la vita descritta da Crick si basa su di un linguaggio miniaturizzato, che non era cambiato di una virgola per miliardi di anni, riproducendosi in specie estremamente diverse. I petali di una rosa, il cervello di Francis Crick e il rivestimento di un virus sono tutti costituiti da proteine formate esattamente dagli stessi 20 aminoacidi. Un fenomeno capace di una tale creatività non avrebbe di certo viaggiato a bordo di una navicella spaziale, che mi ricordava molto quei contenitori dotati di propulsore e immaginati dagli esseri umani nel ventesimo secolo.
Lo sguardo di uno specialista occidentale era troppo ristretto per vedere i due pezzi che combaciavano tra di loro per risolvere il puzzle. La distanza tra biologia molecolare e sciamanesimo/mitologia era un'illusione ottica, generata dallo sguardo razionale. che separa le cose prima del tempo, e dato che l'oggettivismo non riesce a oggettivare la propria relazione oggettivante, esso fa anche fatica a considerare i propri presupposti. L'enigma da risolvere era: chi siamo e da dove veniamo? Immerso in quest i pensieri, iniziai a farmi domande sul serpente cosmico e su come venisse raffigurato in tutto il mondo. Mi diressi verso le sezioni di filosofia e religione della biblioteca del mio collega. Incappai piuttosto rapidamente in un libro di Francis Huxley intitolato La via del sacro, pieno di figure di immagini sacre provenienti da tutto il mondo. Trovai un buon numero di immagini contenenti serpenti o draghi e in particolare due raffigurazioni del serpente arcobaleno, fatte da aborigeni australiani. La prima riportava una coppia di serpenti zigzaganti sui margini. La seconda era un dipinto su roccia, raffigurante il serpente arcobaleno. La esaminai più attentamente e notai due cose: tutto attorno al serpente vi erano una sorta di cromosomi nella loro forma capovolta ad "U", e sotto una specie di scala a pioli! Mi strofinai gli occhi accusandomi di essermi immaginato dei collegamenti, ma non riuscivo a far sì che la scala a pioli o i cromosomi mi sembrassero qualcos'altro. Diverse settimane più tardi appresi che i cromosomi con la sagoma a "u" erano in "anafase", uno degli stadi della duplicazione cellulare, che è il meccanismo centrale della riproduzione della vita, e la prima immagine dei serpenti zigzaganti somiglia in maniera straordinaria ai cromosomi nella "profase precoce", all'inizio dello stesso processo.
Comunque, adesso non avevo bisogno di questo dettaglio per essere certo che le persone che praticano lo sciamanesimo sono a conoscenza dell'unità nascosta della natura, confermata dalla biologia molecolare, proprio perché esse hanno accesso alla realtà della biologia molecolare.
Fu a questo punto che, di fronte all'immagine dei cromosomi dipinta dagli aborigeni australiani, mi immersi in una febbre mentale c interiore che sarebbe durata per settimane, nel corso delle quali mi dibattei in dissonanti miscugli di miti e molecole.
CAPITOLO 7 MITI E MOLECOLE Per cominciare seguii la traccia mitologica del serpente cosmico, prestando particolare attenzione alla sua forma. Trovai che esso era spesso doppio. Questo disegno, che risale all'antico Egitto, non rappresenta un vero animale, ma una sciarada visiva. che significa "doppio serpente".
Nemmeno Quetzalcoatl, il serpente piumato degli aztechi, è un vero animale. In natura i serpenti non hanno nè braccia nè gambe, e tanto meno ali o piume. Un serpente volante è una contraddizione in termini, un paradosso, come un muto che parla. e la conferma viene dalla doppia etimologia della parola che significa sia "serpente" che "gemello". Gli antichi Egizi raffiguravano anche il serpente cosmico con dei piedi umani.
Anche qui l'immagine suggerisce che la divinità primordiale è doppia, vale a dire che essa è sia "serpente" che "non serpente". All'inizio degli anni '80 l'ayahuasquero Luis Tangoa, che viveva in un villaggio shipibo-conibo nel Rio delle Amazzoni peruviano, si offri di spiegare certe nozioni esoteriche all'antropologa Angelika Gebhart-Sayer. Insistendo sul fatto che era più opportuno discutere tali questioni servendosi di immagini,1 fece diversi schizzi dell'anaconda cosmico Ronìn, incluso il seguente.
Sarebbe possibile fornire molti esempi di doppi serpenti di origine cosmica associati alla creazione della vita sulla terra, ma è importante evitare un'interpretazione troppo rigida di queste immagini, che possono avere contemporaneamente vari significati. Ad esempio, le ali del serpente possono significare sia una natura paradossale, che una reale capacità di volare, in questo caso nel cosmo.
Talvolta il serpente alato assume le sembianze di un drago, l'animale mitico e doppio per eccellenza, che vive in acqua e sputa fuoco. Secondo il Dizionario dei simboli, il drago rappresenta "l'unione di due principi opposti." La sua natura androgina è simboleggiata in modo molto chiaro dall'Uroboros, il serpente-drago, che "incarna in se stesso l'unione sessuale, che si autofeconda continuamente, come traspare dalla sua coda infilata in bocca". In natura i serpenti non si mordono la coda. Tuttavia. l'Uroboros appare in alcune delle più antiche raffigurazioni del mondo, come il disco bronzeo del Benin riportato di seguito. Il Dizionario dei simboli lo descrive "senza dubbio come la più antica imago mundi africana, nella quale la sua figura sinuosa, che associa gli opposti, racchiude gli oceani primordiali, al centro dei quali galleggia il quadrato della terra raffigurato sotto".2
I serpenti mitici sono spesso enormi. Nell'immagine del Benin, l'Uroboros circonda l'intera terra; nella mitologia greca il mostro-serpente Tifone tocca le stelle con la testa. Inoltre nel primo paragrafo del primo capitolo di Chuang-Tzu, il presunto fondatore del taoismo filosofico descrive un pesce estremamente lungo, che abita il lago celestiale, si trasforma in un uccello e sale a spirale verso il cielo. Chuang-Tzu afferma che la lunghezza di questo pesce-uccello cosmico è pari a "chissà quante migliaia di chilometri".3 Anche la mitologia indù fornisce un esempio di un serpente dalle proporzioni smisurate noto come Sesha, il serpente dalle mille teste, che galleggia nell'oceano cosmico, mentre gli esseri creatori gemelli, Vishnu e Lakshmi, si adagiano nelle sue spire. I serpenti mitologici sono quasi invariabilmente associati all'acqua.4 Nel disegno a pagina 83 (fig. 19), basato sulle descrizioni dell'ayahuasquero Laureano Anco, l'anaconda Ronìn circonda l'intera terra, concepita come un "disco che nuota nelle grandi acque"; lo stesso Ronìn è "semisommerso", poiché l'anaconda è una specie acquatica.
Il serpente cosmico varia in dimensioni e in natura. Esso può essere piccolo o grande, singolo o doppio, e talvolta entrambe le cose nello stesso tempo. Questa immagine fu tracciata da Luis Tangoa, che vive nello stesso villaggio di Laureano Ancon. I due sciamani avrebbero avuto tutto il tempo possibile per giungere a un accordo riguardo l'aspetto dell'anaconda cosmico; tuttavia il primo lo rappresenta come un serpente monospermo e con due teste, mentre il secondo lo descrive come un anaconda dall'aspetto normak", che circonda completamente la terra. Come il creatore della vita, il serpente cosmico è un maestro nell'arte della metamorfosi. Nei miti del mondo, dove gioca un ruolo centrale, esso crea trasformando se stesso e cambia rimanendo immutato. Dunque è comprensibile che debba essere raffigurato conieniporaneatnente in modi diversi. Continuai a cercare il collegamento tra il serpente cosmico (il maestro nell'arte della trasformazione dalle fattezze serpentine, che vive in acqua e può essere sia estremamente lungo che corto, singolo e doppio) e il DNA. Trovai che il DNA corrisponde esattamente a questa descrizione. Se si stende il DNA, contenuto nel nucleo di una cellula umana, si ottiene un filamento lungo quasi due metri, ma largo solamente quanto dieci atomi. Questo filamento è un miliardo di volte più lungo rispetto alla sua larghezza. Per fare un esempio, è come se il vostro mignolo si estendesse da Parigi
a Los Angeles. Un filamento di DNA è molto più piccolo della luce visibile percepita dagli esseri umani. Perfino i microscopi ottici più potenti non riescono a individuarlo, dato che il DNA è circa 120 volte più sottile rispetto alla più piccola lunghezza d'onda della luce visibile.5 Il volume del nucleo di una cellula equivale a 2 milionesimi di una capocchia di spillo. Il filamento di DNA, lungo quasi due metri, si racchiude in questo minuscolo volume, avvolgendosi su se stesso all'infinito, conciliando così lunghezza estrema e dimensione infinitesimale, come i serpenti mitici. In base ad alcune stime, l'essere umano medio è costituito da centomila miliardi di cellule. Ciò significa che in un corpo umano sono contenuti circa 125 miliardi di chilometri di DNA, corrispondenti a un percorso pari a settanta viaggi di andata e ritorno tra Saturno e il Sole. Si potrebbe viaggiare per tutta la vita a bordo di un Boeing 747, lanciato alla velocità massima, senza coprire nemmeno un centesimo di questa distanza. Il DNA di una persona è sufficientemente lungo per avvolgersi attorno alla terra per cinque milioni di volte.6 Tutte le cellule presenti al mondo contengono DNA, siano esse animali, vegetali o batteriche, ed esse sono tutte piene di acqua salata, nella quale la concentrazione di sale è simile a quella dell'oceano terrestre. Quando piangiamo e sudiamo ciò che rilasciamo è essenzialmente acqua salata. Il DNA nuota in acqua, che a sua volta gioca un ruolo fondamentale nel plasmare la forma della doppia elica. Dato che le quattro basi del DNA (adenina, guanina, citosina e timina) non sono solubili in acqua, esse si inseriscono al centro della molecola, dove si associano a coppie per formare i pioli della scala; poi si raggruppano avvolgendosi a spirale, per evitare il contatto con le molecole d'acqua circostanti. La sagoma del DNA a forma di scala a pioli attorcigliata è una diretta conseguenza dell'ambiente at.queo della cellula.- Il I)NA è in armonia con l'acqua. proprio come nel caso dei serpenti mitici.
La molecola del DNA è una singola lunga catena composta da due nastri intrecciati, che sono collegati dalle quattro basi. Queste basi si possono combinare solamente in coppie specifiche: A con T, G con C. Qualsiasi altra combinazione delle basi non è possibile, a causa della disposizione dei loro singoli atomi: A si può legare solo con T, e G solo con C. Ciò significa che uno dei due nastri è il duplicato fronte-retro dell'altro e che il testo genetico è doppio: esso contiene un testo principale su uno dei nastri, che viene letto in una precisa direzione dagli enzimi di trascrizione, e una copia, che è invertita e il più delle volte non viene letta.
Il secondo nastro ha due funzioni essenziali. Consente agli enzimi di riparazione dí ricostruire il testo principale, nel caso in cui venga danneggiato e, soprattutto, fornisce il meccanismo per la duplicazione del messaggio genetico. E' sufficiente aprire la doppia elica, come si potrebbe aprire una cerniera lampo, per ottenere due nastri separati e complementari, che possono poi venire ricostruiti in nastri doppi mediante gli enzimi di duplicazione. Dato che questi ultimi possono solamente abbinare una A a una T, e viceversa, e una G a una C, e viceversa, ciò porta alla formazione di due doppie eliche gemelle, che sono identiche in tutto e per tutto all'originale. I gemelli sono dunque essenziali per la vita, proprio come indicano gli antichi miti, ed essi sono associati a una sagoma serpentina. Senza questo meccanismo di copiatura, una cellula non sarebbe mai in grado di duplicare se stessa e la vita non esisterebbe. Il DNA è la molecola contenente l'informazione della vita, e la sua vera essenza consiste nell'essere sia singola che doppia, come i serpenti mitici. Il DNA e i suoi meccanismi di duplicazione sono gli stessi per tutte le creature viventi. L'unico elemento, che cambia da una specie all'altra, è l'ordine delle lettere. Questa costante risale alle origini primordiali della vita sulla terra. Secondo il biologo Robert Pollack "La superficie del pianeta è mutata molte volte, ma il DNA e il meccanismo cellulare per la sua duplicazione sono rimasti invariati. Il 'cristallo aperiodico' di Schreidinger sottolinea la stabilità del DNA: nessun sasso, nessuna montagna, nessun oceano, e nemmeno il cielo sopra di noi sono rimasti stabili e invariati così a lungo: nessuna entità inanimata, indipendentemente dal suo livello di complessità. è rimasta immutata per una frazione del tempo in cui il DNA e il suo meccanismo di replicazione sono coesistiti".8
All'inizio della sua esistenza, circa 4,5 miliardi di anni fa. il pianeta Terra era un luogo inospitale per la vita. Come una palla di fuoco fatta di lava fusa, la sua superficie era radioattiva: la sua acqua era talmente bollente da esistere solamente sotto forma di vapore non condensabile, e l'atmosfera, priva di ossigeno respirabile. conteneva gas velenosi come il cianuro e la formaldeide. Circa 3.9 miliardi di anni fa la superficie della terra si raffreddò sufficientemente per formare una sottile crosta sulla superficie del magma fuso. Stranamente la vita, e cosi il DNA. apparvero subito dopo in maniera relativamente rapida. Gli scienziati hanno reperito tracce di attività biologica nelle rocce sedimentarie, la cui datazione risale a 3,85 miliardi di anni fa, e i cacciatori di fossili hanno trovato veri fossili batterici, che risalgono a 3,5 miliardi di anni fa. Nel corso dei primi due miliardi di anni dì vita sulla terra. il pianeta era abitato solamente da batteri anaerobici, per i quali l'ossigeno è un veleno. Questi batteri vivevano nell'acqua e alcuni di essi impararono a utilizzare l'idrogeno contenuto nella molecola H20, espellendo l'ossigeno. Questo apri la strada a percorsi metabolici nuovi e più efficienti. Il graduale arricchimento dell'atmosfera con l'ossigeno rese possibile la comparsa di un nuovo tipo di cellula, in grado di utilizzare l'ossigeno e munita di un nucleo, per contenere il proprio DNA. Queste cellule nucleate hanno un volume per lo meno trenta volte superiore rispetto alle cellule batteriche. Secondo i biologi Lynn Margulis e Dorion Sagan: "La transizione biologica tra batteri e cellule nucleate... è cosi improvvisa da non poter essere effettivamente spiegata mediante variazioni graduali avvenute nel corso del tempo". Da quel momento in poi prese forma la vita, così come noi la conosciamo. Le cellule nucleate si unirono per formare i primi esseri multicellulari, come le alghe. Anche queste ultime producono ossigeno mediante la fotosintesi. L'ossigeno atmosferico aumentò circa del 21% e si stabili poi a questo livello circa 500 milioni di anni fa, ed è una fortuna che ciò sia avvenuto, poiché se la percentuale dell'ossigeno fosse più elevata gli esseri viventi sarebbero vittime dell'autocombustione. Secondo Margulis e Sagan, questo stato di cose "dà l'idea di una decisione consapevole per mantenere l'equilibrio tra pericolo e opportunità, tra rischio e beneficio.9 Circa 550 milioni di anni fa la vita esplose, dando origine a un'imponente varietà di specie multicellulari, alghe e piante e animali più complessi, che non vivevano solamente in acqua, ma anche sulla terra e nell'aria. Di tutte le specie viventi a quel tempo a oggi non ne è sopravvissuta nessuna. Sulla base di stime recenti, quasi tutte le specie vissute sulla terra sono già scomparse, e attualmente vi sono tra i 3 e i 50 milioni di specie viventi.10 Il DNA è un maestro nell'arte della trasformazione, proprio come i serpenti mitici. Il DNA, la cui vita si basa sulla cellula, ha formato l'aria che respiriamo, il paesaggio che vediamo e l'impressionante diversità degli esseri viventi, dei quali facciamo parte. In 4 miliardi di anni esso si è moltiplicato in un numero incalcolabile di specie, rimanendo esattamente lo stesso. All'interno del nucleo il DNA si arrotola e si srotola, si torce e si contorce. Gli scienziati spesso paragonano la forma e i movimenti dì questa lunga molecola a quelli di un serpente. Il biologo molecolare Christopher Willis scrive: "Le due catene di DNA ricordano due serpenti arrotolati uno attorno all'altro, in una sorta di elaborato rituale di corteggiamento".11 Per riassumere, il DNA, che è un maestro nell'arte della trasformazione dalla forma serpentina, vive nell'acqua ed è sia estremamente lungo che corto, singolo e doppio. Proprio come il serpente cosmico. Sapevo che molte popolazioni sciamaniche utilizzano immagini differenti del "serpente cosmicoper discutere la creazione della vita. tra cui in particolare una fune, una pianta rampicante, una scala a pioli o scale di origine celestiale, che collegano il cielo con la terra.
Mircea Eliade ha dimostrato che queste immagini differenti formano un tema comune, da lui chiamato axis mundi, o asse del mondo, che si può trovare nelle tradizioni sciamaniche in ogni parte del pianeta. Secondo Eliade axis mundi dà accesso all'aldilà e alla conoscenza sciamanica; vi è un "passaggio paradossale", normalmente riservato ai morti, che gli sciamani riescono a utilizzare mentre sono in vita, e questo passaggio è spesso sorvegliato da un serpente o da un drago. Per Eliade lo sciamanesimo rappresenta il gruppo di tecniche che consentono di negoziare l'accesso a questo passaggio e che permettono di raggiungere l'asse, di acquisire la conoscenza a essa connessa e di riportarla indietro, il più delle volte per guarire le persone»
Anche in questo caso il collegamento con il DNA è palese. Nella letteratura della biologia molecolare la forma del DNA è paragonata non soltanto a due serpenti attorcigliati, ma anche, in maniera molto precisa, a una fune, una pianta rampicante, una scala a pioli, o a delle scale, con immagini che variano da un autore all'altro. Ad esempio, Maxim Frank-Kamenetskii ritiene che "in una molecola di DNA i filamenti complementari si avvolgono uno attorno all'altro come due liane". Inoltre gli scienziati hanno iniziato a rendersi conto di recente che molte malattie, incluso il cancro, hanno origine e possono quindi essere risolte a livello di DNA.13 Mi accinsi quindi a esplorare le diverse raffigurazioni dell'asse del mondo, vale a dire quelle immagini parallele al serpente cosmico. Il concetto di axis mundi è particolarmente comune tra le popolazioni indigene del Rio delle Amazzoni. Gli Ashaninca, ad esempio, parlano di una "fune del cielo". Con le parole di Gerald Weiss: "Tra i Campas vi è la credenza che un tempo la Terra e il Cielo fossero vicini tra di loro e che essi fossero collegati mediante un cavo. Una pianta rampicante, detta inkiteca (letteralmente, "fune del cielo"), caratterizzata da una particolare forma a gradini, venne indicata all'autore come il cavo, che teneva uniti assieme la Terra e il Cielo".14 Secondo Weiss, questa pianta rampicante è la stessa che all'inizio del ventesimo secolo fu indicata dagli indiani Taulipang a Theodor Koch Grunberg, uno dei primi etnografi. Nella sua opera, KochGrunberg fornì uno schizzo, tracciato con maestria, della pianta rampicante dei Taulipang.
Stranamente i Taulipang vivono in Guyana, a circa 4.800 chilometri di distanza dagli Ashaninca, e tuttavia associano esattamente la stessa pianta rampicante alla fune del cielo.
Una delle varianti più note dell'axis munii è il caduceo, costituito da due serpenti avvolti attorno a un'asse. Sin dai tempi più antichi questo simbolo si trova connesso all'arte della guarigione. dall'india al Mediterraneo. I taoisti cinesi rappresentano il caduceo con lo yin-yang, che simboleggia due forme serpentine e complementari, che si avviluppano in un unico principio vitale androgino.15
Nel mondo occidentale il caduceo è tuttora utilizzato come il simbolo della medicina, talvolta in forma modificata.16
Tra gli Shipibo-Conibo nel Rio delle Amazzoni peruviano l'axis mundi può essere raffigurato come una scala a pioli. Nel seguente disegno, basato sulle descrizioni fornite dall'ayahuasquero José Chucano Santos, la "scala del cielo" è circondata dall'anaconda cosmico Ronìn. La scala a pioli, che dà accesso alla conoscenza sciamanica, è un tema talmente diffuso che Alfred Métraux lo definisce il "simbolo della professione". Egli riferisce anche che, per quanto concerne gli sciamani amazzonici, è mediante il contatto con gli "spiriti della scala, o dei pioli" che essi imparano a "padroneggiare tutti i segreti della magia".
Métraux precisa anche che questi sciamani bevono "un infuso preparato da una pianta rampicante, la cui forma ricorda quella di una scala a pioli".17 In effetti, la pianta rampicante dell'ayahuasca viene spesso paragonata a una scala a pioli, o addirittura a una doppia elica, come si vede in questa fotografia scattata dall'etnobotanico Richard Evans Schultes. La maggior parte dei collegamenti che avevo trovato fino a questo momento tra il serpente cosmico, l'asse del mondo e il DNA, erano connessi con la firma. Questo concordava con ciò che Carlos Perez Shuma mi aveva detto: la natura parla mediante dei segni e, per comprendere il suo linguaggio, si deve prestare attenzione alle analogie nella forma. Egli aveva anche affermato che gli spiriti della natura comunicano con gli esseri umani mediante le allucinazioni e i sogni, in altri termini, con immagini mentali. Questa idea è comune nelle tradizioni "prerazionali". Ad esempio, Eraclito disse dell'oracolo pitico (dal greco puthón, "serpente") che esso "non dichiara né nasconde, ma dà un segno".18 Tuttavia, volevo andare oltre i puri collegamenti formali e sapevo, grazie al lavoro di Mircea Eliade, che quasi ovunque gli sciamani parlano un linguaggio segreto, "il linguaggio di tutta la natura", che consente loro di comunicare con gli spiriti. Iniziai a ricercare informazioni su questo fenomeno, per vedere se vi erano degli elementi comuni nel contenuto tra il linguaggio degli spiriti della natura, che gli sciamani apprendono, e il linguaggio del DNA. Sfortunatamente non vi sono molti studi approfonditi sul linguaggio sciamanico, senza dubbio per il
fatto che gli antropologi non lo hanno mai preso davvero sul serio.19 Trovai un'eccezione nel recente lavoro di Graham Townsley, relativo alle canzoni degli ayahuasqueros yaminahua nel Rio delle Amazzoni peruviano. Secondo Townsley, gli sciamani yaminahua imparano le canzoni, chiamate koshuiti, imitando gli spiriti che vedono nel corso delle loro allucinazioni, per poter poi comunicare con essi. Le parole di queste canzoni sono pressoché incomprensibili per gli Yaminahua che non sono sciamani. Townsley scrive: "In queste canzoni non vi è quasi nulla che venga identificato con il suo nome normale. Sono invece usate le circonlocuzioni metaforiche più astruse. Ad esempio, la notte diventa 'rapidi tapiri', la foresta diventa 'arachidi coltivate', i pesci sono 'pecari', i giaguari sono 'cesti', gli anaconda sono 'amache' e così via". Townsley aggiunge che in ciascun caso la logica metaforica può essere spiegata con un collegamento oscuro ma reale: "Così i pesci diventano 'pecari dal collare bianco' per la somiglianza della branchia di un pesce con le macchie bianche presenti sul collo di questo tipo di pecari; i giaguari diventano 'cesti', dato che le fibre di questo particolare tipo di cesto (wonan), tessuto con una trama morbida, formano una struttura esattamente simile alle macchie del giaguaro". Gli sciamani comprendono molto chiaramente il significato di queste metafore e le definiscono tsai yoshtoyoshto, letteralmente "linguaggio-serpeggiante-serpeggiante". Townsley traduce questa espressione come "twisted language", linguaggio intrecciato. La parola twist ha la stessa radice di two e di twin. Twisted significa, tecnicamente, "doppio e avvolto su se stesso" (Twist significa intreccio o spira, two due, twin gemello e twisted intrecciato, N.d.T.) Perché gli sciamani yaminahua parlano in un linguaggio intrecciato? Secondo uno di essi: "Con le mie canzoni koshuiti io voglio vedere... cantando, esamino attentamente le cose... il linguaggio intrecciato mi avvicina ma non troppo... servendomi delle normali parole entrerei in collisione con le cose... con le parole intrecciate invece giro attorno a esse... le riesco a vedere chiaramente". Sempre secondo Townsley, tutte le relazioni sciamaniche con gli spiriti vengono "deliberatamente
costruite con uno stile ellittico e multifunzionale, in modo da riflettere la natura ribelle degli esseri, che sono i loro oggetti". Egli conclude dicendo che: "Gli Yoshi sono esseri reali, che sono sia 'simili che dissimili' rispetto alle cose che animano. Essi non hanno una natura stabile o unitaria e così, paradossalmente, la 'vista' di un 'linguaggio intrecciato' è l'unico modo per descriverli in modo adeguato. In questo caso l'uso della metafora non è improprio, ma è l'unica denominazione appropriata possibile".20 Continuai a cercare il collegamento tra il linguaggio degli spiriti, descritto dagli ayahuasqueros yaminahua e il linguaggio del DNA. Trovai che le definizioni di "doppio e attorcigliato". o "serpeggiante-serpeggiante", o "yoshtoyoshto", corrispondono perfettamente a quest'ultimo. L'informazione genetica di un essere umano (ad esempio), chiamata "genoma", è contenuta in 3 miliardi di lettere sparse lungo un singolo filamento di DNA. In alcuni punti questo filamento si avvolge su se stesso fino a formare 23 segmenti più compatti, noti come "cromosomi". Noi tutti ereditiamo un corredo completo di cromosomi da ciascuno dei nostri genitori e abbiamo così 23 coppie di cromosomi. Ciascun cromosoma è formato da un filamento molto lungo di DNA, che è già un doppio messaggio con il quale iniziare, il testo principale disposto su di un nastro e il duplicato complementare sull'altro. Perciò tutte le nostre cellule contengono due genomi completi, e anche le loro copie. Il nostro messaggio genetico è doppiamente doppio e contiene un totale di 6 miliardi di coppie base, o 12 miliardi di lettere. Il DNA presente nel nucleo di una cellula umana è lungo quasi due metri e i due nastri, che compongono questo filamento, si avvolgono uno attorno all'altro diverse centinaia di milioni di volte.21 Per quanto concerne il suo aspetto materiale o la sua forma, il DNA è un testo doppiamente doppio, che si avvolge su se stesso. In altre parole, esso è un "linguaggio-serpeggiante-serpeggiante". Gli enzimi di trascrizione leggono solamente le parti del testo del DNA che codificano la costruzione delle proteine e degli enzimi. Questi passaggi, denominati "geni", rappresentano, secondo varie stime, soltanto il 3% del genoma umano. Il restante 97% non viene letto; la sua funzione non è nota. Gli scienziati hanno reperito, disseminate tra le parti non codificanti del testo, un gran numero di sequenze ripetute all'infinito, apparentemente prive di significato, e addirittura dei palindromi, vale a dire parole o frasi che possono essere lette in entrambe le direzioni. Essi hanno definito "DNA di scarto" questo linguaggio apparentemente incomprensibile, che costituisce la stragrande maggioranza del genoma. 22 In questo "materiale di scarto" si trovano decine di migliaia di passaggi del tipo: ACACACACACACACACACACACACACACACAC... Vi è addirittura una sequenza formata da 300 lettere, che è ripetuta complessivamente mezzo milione di volte. In tutto, le sequenze ripetute costituiscono un intero terzo del genoma. Il loro significato è, fino a ora, sconosciuto. I biologi molecolari Chris Calladine e Horace Drew riassumono la situazione: "La gran parte del DNA presente nei nostri corpi adempie funzioni che noi attualmente non comprendiamo".23 Disseminati in questo oceano privo di senso, i geni sono simili a isole, nelle quali il linguaggio del DNA diviene comprensibile. I geni dettano le istruzioni per allineare gli aminoacidí e formare le proteine. Essi fanno tutto ciò con parole composte da tre lettere. Nel linguaggio del DNA "CAG" codifica, ad esempio, la glutarnín.a aminoacidica. Dato che tutte le parole del codice genetico sono costituite da tre lettere, e dato che il DNA dispone di un alfabeto formato da quattro lettere (A, G, C, T), il codice genetico contiene 4 x 4 x 4 = 64 possibili parole. Tutte queste parole hanno un significato e corrispondono a uno dei 20 aminoacidi utilizzati nella costruzione delle proteine o a uno dei due segni di interpunzione ("inizio", "fine"). Vi sono dunque 22 possibili significati per 64 parole. Questa sovrabbondanza ha indotto gli scienziati ad affermare che il codice genetico è "degenerato". In realtà esso è semplicemente ricco di sinonimi, come un linguaggio nel quale parole tanto differenti quanto "giaguaro" e "cesto" hanno lo stesso significato.24 In realtà le cose sono addirittura più complesse. All'interno dei geni vi sono molti segmenti non codificanti, denominati "introni". Non appena gli enzimi di trascrizione hanno trascritto un dato
gene, gli enzimi "correttori di bozze" (enzimi di maturazione dell'RNA messaggero) eliminano gli introni con precisione atomica e congiungono tra loro i veri segmenti codificanti, noti come "esoni". Alcuni geni consistono fino al 98% di introni, il che significa che essi contengono soltanto un 2% di informazione genetica. Il ruolo di questi introni rimane misterioso.25 La proporzione di introni ed esoni, presenti nel genoma umano, non è ancora nota, dato che, fino a ora, sono stati identificati solo la metà di tutti i geni che esso contiene, su un totale presunto di 100.000.26 Lungo il filamento del DNA si alternano "materiale di scarto" e geni; all'interno dei geni gli introni sì miscelano con gli esoni, che sì esprimono anch'essi in un linguaggio, ìn cui quasi ogni parola ha un sinonimo. Per quanto concerne entrambi il suo contenuto e la sua forma. il DNA è un linguaggio doppiamente doppio, che sì avvolge su se stesso. Proprio come il linguaggio intrecciato degli spiriti della natura. Che significati hanno questi collegamenti tra il DNA e il serpente cosmico, tra l'asse del mondo e il linguaggio degli spiriti della natura? Le corrispondenze sono troppo numerose per essere spiegate attribuendole solamente al caso. Se io fossi membro di una giuria, che si deve pronunciare in proposito sarei convinto che si tratta della stessa realtà descritta secondo punti di vista diversi.
Prendiamo, ad esempio, il serpente cosmico degli antichi egizi, "colui che fornisce gli attributi". I segni che lo accompagnano significano "uno", "vari", "spirito, doppio, forza vitale", "luogo", "stoppino di lino intrecciato", e "acqua". Sotto il mento del secondo serpente si trova una croce egizia, detta "chiave della vita".27 I collegamenti con il DNA sono ovvi e funzionano a tutti i livelli: il DNA ha in effetti una forma simile a un lungo serpente singolo e doppio o a uno stoppino di lino intrecciato; esso è una doppia forza vitale, che si sviluppa trasformandosi da singolo a molteplice; il suo luogo è l'acqua. Che altro avrebbero potuto voler dire gli antichi egizi, quando parlavano di un doppio serpente, che forniva gli attributi e la chiave della vita, se non ciò che gli scienziati definiscono "DNA"? Perché queste metafore sono sempre state utilizzate in maniera così coerente e frequente, se non per significare esattamente ciò che esprimono?
CAPITOLO 8 ATTRAVERSO GLI OCCHI DI UNA FORMICA In un pomeriggio assolato di quella primavera mi trovai seduto in giardino con i miei bambini. Gli uccelli cinguettavano sugli alberi e la mia mente iniziò a vagare. Eccomi, un prodotto della razionalità del ventesimo secolo, con la mia fede che aveva bisogno di numeri e di molecole
piuttosto che di miti. Eppure, ora ero a confronto con i numeri mitologici relativi a una molecola, nei quali dovevo credere. All'interno del mio corpo, che si trovava lì seduto al sole in giardino, vi erano 201 miliardi di miglia di DNA. Ero completamente avvolto nei filamenti di DNA, del quale fino a poco tempo prima non sapevo nulla. Questo numero astronomico era davvero soltanto un 'fatto inutile ma divertente",1 come avrebbero voluto alcuni scienziati? Oppure esso indicava, per lo meno, che le dimensioni del nostro DNA sono cosmiche? Alcuni scienziati descrivono il DNA come una "antica biotecnologia superiore", contenente "un volume di informazioni che è oltre un centinaio di trilioni di volte superiore a quello dei nostri più sofisticati congegni di archiviazione dei dati". Si potrebbe ancora parlare di tecnologia in queste circostanze? Sì, dato che non vi è nessuna altra parola che si presta a descrivere questa molecola duplicabile, che immagazzina le informazioni. Il DNA è largo solamente quanto dieci atomi e come tale costituisce una sorta di tecnologia primaria: è organico e così miniaturizzato da sfiorare i limiti dell'esistenza materiale.2 Gli sciamani, dal canto loro, sostengono che il principio vitale, che anima tutte le creature viventi, proviene dal cosmo ed è pensante. Come afferma l'ayahuasquero Pablo Arnatiligo: "Una piata magari non parla, ma ha uno spirito consapevole che vede ogni cosa e che è la sua anima, la sua essenza, quello che la rende viva". Secondo Amaringo questi spiriti sono esseri autentici e anche gli esseri umani ne sono pervasi: "Perfino i capelli, gli occhi, le orecchie sono piene di esseri. Si vede tutto questo quando l'ayahuasca è forte".3 Nel corso delle precedenti settimane ero giunto a ritenere che la prospettiva dei biologi si potesse conciliare con quella degli ayahuasqueros, e che entrambi potessero avere ragione allo stesso tempo. Secondo l'immagine stereoscopica che ottenevo guardando simultaneamente le stesse prospettive, il DNA e la vita basata sulla cellula, che esso codifica, sono una tecnologia molto sofisticata, che supera di gran lunga la nostra comprensione odierna. Questa si è inizialmente sviluppata da qualche parte non sulla terra e si è trasformata radicalmente al suo arrivo circa quattro miliardi di anni fa. Questo punto di vista mi era del tutto nuovo e cambiò il mio modo di vedere il mondo. Le foglie degli alberi, ad esempio, mi apparivano adesso come dei veri pannelli solari. Si doveva soltanto guardarle attentamente per vedere il loro aspetto "tecnologico", o organizzato.
Era una rivelazione inquietante. Cominciai a pensare ai miei occhi, attraverso i quali stavo guardando le piante in giardino. Nel corso delle mie letture avevo appreso che l'occhio umano è più sofisticato di qualsiasi macchina fotografica di simili dimensioni. Le cellule presenti sullo strato esterno della retina possono assorbire ogni singola particella di luce, o fotone, e amplificare la sua energia almeno un milione di volte prima di trasferirla, sorto forma di segnale nervoso, alla parte posteriore del cervello. L'iride, che funge da diaframma dell'occhio, è controllato automaticamente. La cornea ha proprio la giusta curvatura e il cristallino è messo a fuoco da minuscoli muscoli, che sono anch'essi controllati automaticamente dal ritorno di segnale. Il risultato finale di questo sistema visivo, la cui interezza non è ancora perfettamente compresa, è un'immagine chiara, colorata e tridimensionale all'interno del cervello, che noi percepiamo come se fosse esterna. Non vediamo mai la realtà, ma solamente una raffigurazione interna di essa, che il nostro cervello costruisce continuamente per noi.4 Ciò che mi turbava non era tanto dovuto alla somiglianza dell'occhio umano a una tecnologia organica ed estremamente sofisticata nata dalla conoscenza cosmica, quanto al fatto che si trattava dei miei occhi. Chi era questo "io" che percepiva le immagini, che inondavano la mia mente? Una cosa era certa: io non ero responsabile della costruzione del sistema visivo del quale ero dotato. Non sapevo che fare di pensieri di questo tipo. Fissando con lo sguardo assente il prato inglese che si stendeva di fronte a me, iniziai a seguire una formica nera e lucente, che si faceva largo tra i folti fili d'erba con la determinazione di un carro armato. Si stava dirigendo verso una colonia di afidi, che si trovava sull'albero situato in fondo al giardino. Si trattava di una formica appartenente a una specie che raccoglie gli afidi e "munge" le loro dolci secrezioni. Iniziai a pensare che questa formica disponeva di un sistema visivo diverso dal mio, che a quanto pare funzionava altrettanto bene. A dispetto delle nostre differenze di dimensione e forma. Le reciproche informazioni genetiche erano scritte nello stesso linguaggio, che entrambi non eravamo in grado di vedere, visto che il DNA è più piccolo della luce visibile, perfino per gli occhi dì una formica. Trovai interessante il fatto che il linguaggio contenente le istruzioni per la creazione di sistemi visivi differenti fosse invisibile. Era come se le istruzioni dovessero rimanere celate ai propri beneficiari, come se fossimo avvolti in fili strutturati in modo da non riuscire a vederli... Perché? Cercai di riconsiderare la questione da un punto di vista "sciamanico". Era come se questi esseri, che si trovano dentro di noi, si volessero nascondere... Ma è quello che dicono gli Ashaninca
quando chiamano gli esseri invisibili, che crearono la vita, i "maninkari", letteralmente "coloro che sono nascosti'! Quel pomeriggio più tardi tornai in ufficio e iniziai a rileggere i brani relativi ai maninkari riportati nell'esaustivo studio di Gerald Weiss, condotto sulla cosmologia ashaninca. Secondo Weiss, gli Ashaninca ritengono che il più potente di tutti i maninkari sia il "Grande Trasformatore" Avíreri, che creò la vita sulla terra, cominciando con le stagioni per poi passare alla totalità degli esseri viventi. Accompagnato talvolta da sua sorella, e altre volte da suo nipote, Avíreri è uno dei gemelli divini trickster (nella cultura sciamanica i trickster sono solitamente degli spiriti imbroglioni dei quali bisogna diffidare. N.d.T.), che creano mediante trasformazione e che sono così comuni nella mitologia. Fu leggendo l'ultima storia sulla fine della traiettoria di Avíreri che ebbi uno shock. Avendo completato il suo lavoro di creazione Avíreri si recò a una festa, dove si ubriacò di birra di manioca. Sua sorella, che era anch'essa una trickster, lo invitò a ballare e lo spinse in una cavità scavata in precedenza. Poi finse di tirarlo fuori lanciandogli un filo e poi una corda, ma nessuno dei due era abbastanza resistente. Furioso con la sorella, la trasformò in un albero; Avíreri decise poi di fuggire scavando un cunicolo nel mondo sotterraneo dal quale finì in un luogo chiamato la Fine del fiume, dove una pianta rampicante strangolatrice si avvolse attorno a lui. Da lì egli continua a sostenere fino a oggi i suoi numerosi figli presenti sulla terra.5 Come avevo potuto non cogliere i collegamenti tra l'essere gemello Avíreri, il Grande Trasformatore, e la doppia elica del DNA, che prima crea l'atmosfera respirabile ("le stagioni"), poi la totalità degli esseri viventi mediante la trasformazione, che vive in un mondo microscopico ("il mondo sotterraneo"), in cellule piene di acqua salata ("la Fine del fiume"), che poi assume la forma di un filamento, di una corda o di una pianta rampicante strangolatrice, avvolta su se stessa e che, infine, continua a sostenere fino a oggi tutte le specie viventi del pianeta? Per settimane avevo trovato collegamenti tra miti e biologia molecolare. Non ero nemmeno sorpreso di vedere che il mito della creazione di una popolazione indigena amazzonica coincidesse con la descrizione fatta dai biologi dei giorni nostri in merito allo sviluppo della vita sulla terra. Ciò che mi colpì profondamente, e che mi riempi addirittura di costernazione, fu di aver avuto questa prova sotto il naso per anni, senza aver attribuito a essa la benché minima importanza. La mia contemplazione era stata troppo ristretta. Seduto nel mio ufficio, ricordai quando Carlos Perez Shuma mi aveva detto: "I maninkari ci insegnarono a filare e a tessere il cotone". Ora il significato mi sembrava ovvio; i due nastri della doppia elica del DNA si avvolgono uno attorno all'altro 600 milioni di volte all'interno di ogni cellula umana. "Chi altro poteva averci insegnato a tessere?" Il mio problema era che non gli avevo creduto. Non avevo pensato nemmeno per un attimo che le sue parole potessero avere una corrispondenza reale. In queste circostanze, che significato aveva il mio titolo di "dottore in antropologia", se non quello di un falso intellettuale in rapporto al mio oggetto di studio? Fui sopraffatto da queste rivelazioni. Per fare ammenda decisi immediatamente di prendere alla lettera gli sciamani per il resto della mia indagine. Che ne era stato della ricerca che aveva posto l'enigma della conoscenza allucinogena delle popolazioni indigene dell'Amazzonia occidentale? Perché si era conclusa con serpenti cosmici provenienti da tutto il mondo e intrecciati con molecole di DNA? Per alcune settimane mi ero trovato in una specie di stato di trance e la mia mente era inondata da un flusso quasi permanente dì collegamenti strani, se non impossibili. La mia unica regola era stata quella di annotarli, o di registrarli, anziché reprimerli con l'incredulità. La mia visione del mondo era stata messa a soqquadro, ma stavo lentamente tornando in possesso dei miei sensi e la prima domanda che mi feci fu: cosa significa tutto questo? A quel punto ero dell'idea che il DNA fosse all'origine della conoscenza sciamanica. Con il termine "sciamanesimo" intendevo una serie di tecniche di defocalizzazione: sogni controllati, digiuno prolungato, isolamento in ambiente selvaggio, ingestione di piante allucinogene, ipnosi indotta da una percussione ritmica di tamburo, esperienze al limite della morte, o una combinazione delle due
cose. Gli sciamani aborigeni dell'Australia giungono a conclusioni simili a quelle degli ayahuasqueros amazzonici, senza fare uso di piante psicoattive, lavorando principalmente con i propri sogni. Che tecniche utilizzavano, per nominarne alcuni, Chuang-Tzu, i faraoni egizi e gli animisti del Benin? Chi poteva dirlo? Ma tutti loro parlavano, in un modo o nell'altro, di un serpente cosmico, come facevano gli australiani, gli amazzonici e gli aztechi. Utilizzando queste diverse tecniche, sembrava possibile indurre variazioni neurologiche, che consentissero di prelevare informazioni dal DNA. Ma da quale DNA? All'inizio pensai di aver trovato la risposta quando appresi che, in ogni cellula umana, vi è una quantità di "informazioni equivalenti a quelle contenute in un'enciclopedia di millecinquecento volumi"6: in altri termini, l'equivalente di una libreria lunga circa nove metri e alta un paio. Ecco, pensai, questa è l'origine della conoscenza. Però, riflettendo, vidi che questa idea non era probabile. Non vi era alcuna ragione per la quale il genoma umano, indipendentemente dalle proprie dimensioni, dovesse contenere informazioni sulle piante amazzoniche necessarie, ad esempio, per la preparazione del curaro. Inoltre gli ayahuasqueros avevano detto che le immagini sonore altamente sofisticate che essi vedevano e sentivano nel corso delle loro allucinazioni erano interattive, e che era possibile comunicare con esse. Queste immagini non potevano avere origine da un corredo statico, o testuale, di informazioni come un'enciclopedia di 1.500 volumi. La mia esperienza con le allucinazioni indotte dall'ayahuasca era limitata, ma sufficiente a suggerire una traccia. L'ayahuasquero Ruperto Gomez, che mi aveva iniziato, aveva definito l'infuso allucinogeno "la televisione della foresta" e io in effetti avevo visto sequenze di immagini allucinatorie, che saettavano a una velocità abbagliante, proprio come se esse fossero state realmente trasmesse fuori dal mio corpo, ma captate dentro la mia testa! Non ero a conoscenza di alcun meccanismo neurologico sul quale basare questa ipotesi di lavoro, ma sapevo invece che il DNA era un cristallo aperiodico, che cattura e trasporta elettroni in modo efficiente, che emette fotoni (in altre parole, onde elettromagnetiche) a livelli estremamente tenui, attualmente ai limiti della misurazione, e che fa tutto ciò più di qualsiasi altra materia vivente.8 Questo mi condusse a un potenziale candidato per le trasmissioni: la rete globale della vita basata sul DNA. Tutti gli esseri viventi contengono DNA, siano essi batteri, carote o esseri umani. Il DNA, come sostanza, non varia da una specie all'altra; cambia solamente l'ordine delle sue lettere. Questa è la ragione che rende possibile la biotecnologia. Ad esempio. nel genoma umano si può estrarre la sequenza di DNA contenente le istruzioni per costruire la proteina insulinica e congiungerla al DNA di un batterio, che poi produrrà insulina simile a quella normalmente escreta dal pancreas umano. Le macchine cellulari, denominate ribosomi, che raccolgono le proteine all'interno del batterio, comprendono lo stesso linguaggio a quattro lettere dei ribosomi, che si trovano all'interno delle cellule pancreatiche umane e utilizzano gli stessi 20 aminoacidi come componenti elementari. La biotecnologia prova, con la propria stessa esistenza, la fondamentale unità della vita. Ogni essere vivente è costruito sulla base delle istruzioni scritte nella sostanza ricca di informazioni che è il DNA. Un singolo batterio contiene circa dieci milioni di unità di informazioni genetiche, mentre un fungo microscopico contiene un miliardo di unità. In una semplice manciata di terra vi sono circa dieci miliardi di batteri e un milione di funghi. Ciò significa che vi è più ordine, e informazione, in una manciata di terra di quello che si trova sulle superfici di tutti gli altri pianeti noti messi assieme.`' l'informazione contenuta nel DNA fa la differenza tra la vita e la materia inerte. La terra è circondata da uno strato di vita basata sul DNA, che ha reso respirabile l'atmosfera e creato lo strato di ozono, il quale protegge la nostra materia genetica dai raggi ultravioletti e mutagenici. Vi sono addirittura batteri anaerobici, che vivono a una profondità di poco oltre mezzo chilometro al di sotto del fondo dell'oceano; il pianeta è avvolto dalla vita fino nel profondo, al di sotto della sua crosta. 10 Quando camminiamo in un campo, il DNA e la vita basata sulla cellula che esso codifica, si trovano ovunque: all'interno dei nostri corpi, ma anche nelle pozzanghere, nel fango. negli escrementi delle
mucche, nell'erba sulla quale camminiamo, nell'aria che respiriamo, negli uccelli, negli alberi e in tutto ciò che vive. Questa rete globale di vita basata sul DNA, questa biosfera, racchiude l'intera terra.
Qual è l'immagine che meglio raffigura la biosfera basata sul DNA se non Ronín, l'anaconda cosmico degli Shipibo-Conibo? L'anaconda è un serpente anfibio, in grado di vivere sia in acqua che sulla terra, proprio come le creature della biosfera. L'ayahuasquero Laureano Ancon spiega l'immagine raffigurata sopra: "La terra sulla quale ci troviamo è un disco, che galleggia nelle grandi acque. Ronín, il serpente del mondo, è per metà sommerso e la circonda completamente"." Ed ecco, secondo le mie conclusioni, il grande istigatore delle immagini allucinatorie percepite dagli ayahuasqueros: la rete cristallina e biosferica della vita basata sul DNA, vale a dire il serpente cosmico. Nel corso della mia prima esperienza con l'ayahuasca avevo visto un paio di enormi e terrificanti serpenti. Mi comunicarono un'idea, che mi sconcertò e mi incoraggiò successivamente a riconsiderare l'immagine di me stesso. Essi mi insegnarono che ero solamente un essere umano. Ad altri questa può non sembrare una grande rivelazione; ma allora quello era esattamente ciò di cui io, giovane antropologo, avevo bisogno per imparare. Si trattava, soprattutto, di un pensiero che non sarei riuscito a concepire per mio conto, proprio per via dei miei presupposti antropocentrici. Percepivo anche molto chiaramente che la velocità e la coerenza di certe sequenze di immagini non potevano essere scaturite dal caotico archivio della mia memoria. Vidi, ad esempio. in una rassegna visiva da far venire le vertigini, la sovrapposizione delle vene di una mano umana su quelle di una foglia verde. Il messaggio era chiaro e cristallino: la struttura di cui siamo fatti è la stessa del mondo vegetale. Non avevo mai davvero pensato a tutto ciò in modo così concreto. I1 giorno successivo alla sessione a base di ayahuasca. mi sentivo un essere nuovo, in unione con la natura. orgoglioso di essere umano e di appartenere al grandioso tessuto vitale che circonda il pianeta. Ancora una volta, questa era una prospettiva totalmente nuova e costruttiva per me, che ero un umanista materialista. L'esperienza tuttavia mi aveva scombussolato profondamente. Se non ero io la fonte di tutte queste immagini altamente coerenti ed educative, da dove provenivano? E chi erano quei serpenti. che sembravano conoscermi meglio di me stesso? Quando lo domandai a Carlos Perez Shuma, la sua risposta fu ellittica: tutto ciò che dovevo fare era fotografare i serpenti la prossima volta che li avrei visti. Egli non negò la loro esistenza: al contrario, lasciò intendere che erano tanto reali quanto la realtà con la quale tutti noi abbiamo familiarità, anche se non e più così. Otto anni dopo la mia prima esperienza con l'avahuasca, il mio desiderio di comprendere il mistero
dei serpenti allucinatori era altrettanto vivo. Lanciato in questa indagine e familiarizzatomi con i diversi studi dello sciamanesimo basato sull'ayahuasca, avevo scoperto che la mia esperienza era stata un luogo comune. Tutte le persone che bevono l'ayahuasca nelle loro visioni vedono soprattutto giganteschi serpenti colorati12, siano esse un indiano tukano, uno sciamano urbanizzato, un antropologo, o un poeta errante americano.13 I serpenti, ad esempio, sono onnipresenti nei dipinti di Pablo Amaringo, ispirati dalle sue visioni.14
Nel corso delle mie letture avevo scoperto che il serpente era associato quasi ovunque alla conoscenza sciamanica, perfino in regioni nelle quali gli allucinogeni non sono utilizzati e dove i serpenti sono sconosciuti nell'ambiente locale. Mircea Eliade sostiene che in Siberia il serpente ricorre nell'ideologia sciamanica e nel costume dello sciamano tra popoli nei quali "il rettile stesso è sconosciuto''.15 Poi avevo appreso che un numero infinito di miti riporta un serpente terrificante e gigantesco, oppure un drago, che sorveglia l'asse della conoscenza, raffigurato sotto forma di una scala a pioli (o dì una pianta rampicante, di una corda, di un albero...). E che i serpenti (cosmici) abbondano nei miti della creazione del mondo, e che essi non sono solo all'origine della conoscenza, ma anche della vita stessa. I serpenti sono onnipresenti non soltanto nelle allucinazioni, nei miti e nei simboli dell'umanità in generale, ma anche nei sogni. Alcuni studi affermano che: "Gli abitanti di Manhattan li sognano con la stessa frequenza degli Zulu". Uno dei sogni più noti di questo tipo è quello di August Kekulé, il chimico tedesco, che in una notte del 1862 scoprì la struttura chimica del benzene, quando si addormentò di fronte al fuoco e sognò un serpente che danzava davanti ai suoi occhi, mordendosi la coda e prendendosi gioco di lui. Secondo un commentatore: "Non vi è quasi alcun bisogno di ricordare che questo contributo fu fondamentale per lo sviluppo della chimica organica".16 Perché i serpenti, che creano la vita e trasmettono la conoscenza, appaiono nelle visioni, nei miti e nei sogni degli esseri umani di tutto il mondo? A tale domanda è stata offerta una semplice risposta neurologica, generalmente accettata: dipende dall'istintiva paura del veleno programmata nei cervelli dei primati, quali noi siamo. Balaji Mundkur, autore dell'unico studio globale sul tema, scrive: "La causa fondamentale dell'origine dei
culti del serpente sembra essere diversa da qualsiasi altra e ha dato praticamente origine a tutti gli altri culti animali; sembra che il fascino esercitato dal serpente. e il timore di esso, sia stato imposto non soltanto dalla semplice paura del suo veleno, ma anche da sensibilità psicologiche meno palpabili, anzi piuttosto primordiali, radicate nell'evoluzione deì primati. Sembra che i serpenti, a differenza di quasi tutti gli altri animali, provochino in misura variabile, sia nei primati umani che in quelli non umani, determinate risposte fobiche tipicamente intuitive e irrazionali... e sembra che il potere del serpente di paralizzare con lo sguardo certi primati dipenda dalla reazione del sistema nervoso autonomo di questi ultimi alla sola vista del movimento sinuoso del rettile, un tipo di risposta che può essere stata rafforzata da ricordi di attacchi venefici avvenuti nel corso dell'antropogenesi e della differenziazione delle società umane... Per farla breve. il fascino esercitato dai serpenti è sinonimo di uno stato di paura che equivale, almeno temporaneamente, a una morbosa repulsione o fobia... i cui sintomi poche altre specie di animali (forse nessuna) sono in grado di provocare"17 A mìo avviso, questo è un tipico esempio di risposta riduttiva, illogica e inesatta. Le persone venerano davvero ciò di cui hanno più paura? Le persone che hanno, ad esempio, la fobia dei ragni decorano forse i loro vestiti con immagini raffiguranti i ragni, sostenendo: "Veneriamo questi animali perché li troviamo repellenti?". È improbabile. Perciò dubito che gli sciamani siberiani abbelliscano i loro costumi con un gran numero di nastri raffiguranti i serpenti per il semplice fatto di essere affetti da una fobia nei confronti di questi rettili. Inoltre la maggior parte dei serpenti, presenti sui costumi degli sciamani siberiani, non rappresentano veri animali, ma serpenti con due code. In un gran numero di miti della creazione il serpente, che ha il ruolo principale, non è un vero rettile; è un serpente cosmico con spesso due teste, due piedi o due ali, oppure è talmente grande da avvolgersi attorno alla terra. Inoltre i serpenti oggetto di venerazione spesso non sono velenosi. Nel Rio delle Amazzoni i serpenti non velenosi, come gli anaconda e i boa, sono quelli ritenuti sacri dalle popolazioni, come l'anaconda cosmico Ronín. Nel Rio delle Amazzoni non mancano certo i serpenti aggressivi in grado di uccidere e dotati di un veleno distruttivo, come ad esempio il crotalo nero (Serpente noto anche come terrore dei boschi. N.d.T.) e la caiaca, che rappresentano quotidianamente una minaccia per la vita; tuttavia, essi non sono mai oggetto di culto.18 La risposta, secondo me, è altrove; il che non significa che i primati non soffrano di un'istintiva, o perfino "programmata" paura dei serpenti. La mia è una risposta ipotetica, ma potrebbe anche non essere più limitata della teoria generalmente accettata e relativa alla fobia del veleno. Il fatto è che la rete globale della vita basata sul DNA emette onde radio estremamente tenui, ai limiti della misurazione, ma che noi possiamo percepire solo in condizioni di defocalizzazione, quali le allucinazioni o i sogni. Dato che il cristallo aperiodico del DNA ha una forma simile a due serpenti attorcigliati, a due nastri, una scala a pioli intrecciata, una corda, o a una pianta rampicante, nei nostri stati di trance vediamo serpenti, scale a pioli, corde, piante rampicanti, alberi, spirali, cristalli e così via. Poiché il DNA è un maestro nell'arte della trasformazione, vediamo anche giaguari, caimani, tori e qualsiasi altro essere vivente; ma gli speaker preferiti in onda sul DNA sembrano essere, senza alcun dubbio, dei serpenti enormi e fluorescenti. Questo mi induce a sospettare che il serpente cosmico sia narcisista, o sia, per lo meno, ossessionato dalla propria stessa immagine, perfino nelle raffigurazioni.
CAPITOLO 9 RECETTORI E TRASMETTITORI La mia indagine mi aveva dunque indotto a formulare la seguente ipotesi di lavoro: gli sciamani, nelle loro visioni, portano la loro coscienza a livello molecolare e ottengono accesso alle
informazioni connesse al DNA, che essi definiscono "essenze animate" o "spiriti". Questo è il contesto in cui vedono doppie eliche, scale a pioli intrecciate, e forme simili a quelle dei cromosomi. Ed è in questo modo che le culture sciamaniche sanno da millenni che il principio vitale è lo stesso per tutti gli esseri viventi, la cui forma è simile a due serpenti attorcigliati (o a una pianta rampicante, a una corda, a una scala a pioli...). Il DNA è la fonte della loro straordinaria conoscenza botanica e medica, alla quale si può arrivare solamente mediante stati di coscienza defocalizzati e "non razionali", anche se i risultati si possono poi verificare empiricamente. I miti di queste culture sono pieni di raffigurazioni biologiche. Inoltre, le spiegazioni metaforiche degli sciamani corrispondono abbastanza precisamente alle descrizioni che i biologi stanno iniziando a fornire. Sapevo che tale ipotesi sarebbe stata più solida se se si fosse basata su un fondamento neurologico, ma non era ancora questo il caso. Perciò avevo deciso di orientare la mia indagine prendendo alla lettera gli ayahuasqueros, che concordavano nell'affermare che determinate sostanza psicoattive (contenenti molecole che sono attive nel cervello umano) influiscono sugli spiriti con modalità precise. Gli Ashaninca sostengono che, ingerendo ayahuasca o tabacco, è possibile vedere gli spiriti maninkari, normalmente invisibili e nascosti. Carlos Perez Shuma mi aveva detto che il tabacco attraeva i maninkari e gli sciamani amazzonici ritengono in genere che il tabacco sia un cibo per gli spiriti, che lo desiderano intensamente "dato che non possiedono più il fuoco a differenza degli esseri umani"1. Se la mia ipotesi fosse stata corretta, avrei dovuto trovare delle corrispondenze tra queste nozioni sciamaniche e i fatti dimostrati dallo studio dell'attività neurologica prodotta dalle stesse sostanze. Più precisamente, dovevo trovare una connessione analoga tra la nicotina e il DNA contenuto nelle cellule nervose del cervello umano. L'idea che ai maninkari piacesse il tabacco mi era sempre sembrata bizzarra. Ritenevo che gli "spiriti" fossero personaggi immaginari, che non potevano davvero godere delle sostanze materiali. Ritenevo anche che il fumo fosse una cattiva abitudine, e mi sembrava improbabile che gli spiriti (ammesso che esistessero) soffrissero degli stessi tipi di dipendenza dai quali sono affetti gli esseri umani. Tuttavia avevo deciso di non lasciarmi più frenare da simili dubbi e di prestare attenzione al significato letterale delle parole degli sciamani, e questi affermavano in modo categorico che gli spiriti bramano in modo quasi insaziabile il tabacco.2 Iniziai a seguire tale pista trascorrendo alcuni giorni in biblioteca. Avevo perfino telefonato diverse volte a uno specialista nel campo dei meccanismi neurologici della nicotina, per capirne di più e per accertarmi di non aver stabilito collegamenti immaginari, visto che la neurologia è l'ultima delle mie competenze. Ecco cosa appresi. Nel cervello umano ogni cellula nervosa, o neurone, ha sulla propria superficie esterna miliardi di recettori. Questi recettori sono proteine specializzate nel riconoscere e nel trattenere specifici neurotrasmettitori, o sostanze simili. Una molecola di nicotina condivide, a livello strutturale, delle analogie con il neurotrasmettitore acetilcolina, e si adatta come un passe-partout nel suo recettore su certi neuroni.3 Questo recettore è incluso nella membrana della cellula ed è una grande proteina, che comprende non solamente una "serratura" (il sito di aggancio per la molecola esterna), ma anche un canale con una porta, che è normalmente chiusa. Quando si introduce una chiave nella serratura, ossia quando una molecola di nicotina si adatta al sito di legame sulla sommità del recettore, la porta del canale si apre, consentendo l'ingresso di un flusso selettivo di atomi di calcio e dí sodio con carica positiva. Questi ultimi danno l'avvio a una cascata di reazioni elettriche (di cui si sa poco) all'interno della cellula, che si conclude eccitando il DNA contenuto nel nucleo e facendo si che esso attivi vari geni, inclusi quelli corrispondenti alle proteine, che costituiscono i recettori nicotinici.4 Quanto più si fornisce nicotina ai neuroni, tanto più il DNA in essi contenuto attiva la costruzione, entro certi limiti, di recettori nicotinici. È da questo, pensai, che dipende la brama quasi insaziabile di tabacco degli spiriti: quanto più se ne dà, tanto più ne vogliono. Ero sorpreso dal grado di corrispondenza tra le nozioni sciamaniche del tabacco e gli studi neurologici sulla nicotina. Bastava solamente fare una traduzione letterale per passare dall'uno all'altro. Comunque i resoconti scientifici in termini di "recettori", "flusso di atomi con carica
positiva", e "stimolazione della trascrizione dei geni, che codificano le subunità dei recettori nicotinici" non spiegavano in alcun modo gli effetti della nicotina sulla coscienza. Ma come facevano gli sciamani a vedere gli spiriti ingerendo enormi quantità di tabacco? Prima di procedere su tale questione chiarirò due punti. Primo, la scoperta che la nicotina stimola la costruzione di recettori nicotinici è stata fatta solamente all'inizio degli anni '90; il collegamento tra questo fenomeno e la dipendenza manifestata dagli utilizzatoti di tabacco sembra ovvia, ma deve ancora essere esaminata in modo dettagliato. Secondo, vi sono differenze fondamentali tra l'uso sciamanico del tabacco e il consumo di sigarette prodotte industrialmente. La varietà botanica utilizzata nel Rio delle Amazzoni contiene una quantità di nicotina fino a diciotto volte superiore rispetto a quella delle piante utilizzate per produrre le sigarette "Virginia". Il tabacco amazzonico è coltivato senza far uso di fertilizzanti chimici o di pesticidi e non contiene nessuno degli ingredienti aggiunti alle sigarette, quali l'ossido di alluminio, il nitrato di potassio, il fosfato di ammonio, l'acetato di polivinile, e le circa altre cento sostanze che costituiscono quasi il 10% di ciò che viene fumato.5 Nel corso della combustione una sigaretta sprigiona circa 4000 sostanze, la maggior parte delle quali sono tossiche. Alcune di queste sono addirittura radioattive, facendo delle sigarette la più grande singola fonte di radiazione nella vita quotidiana di un fumatore. Secondo uno studio, il fumatore medio assorbe ogni anno l'equivalente dei dosaggi delle radiazioni di 250 radiografie toraciche. Il fumo della sigaretta è direttamente implicato in oltre 25 gravi malattie, incluse 17 forme di cancro.6 Nel Rio delle Amazzoni il tabacco è invece considerato un farmaco. La parola ashaninca corrispondente a "guaritore", o "sciamano", è sheripidri, letteralmente "la persona che utilizza il tabacco".7 Gli Ashaninca più anziani che conoscevo erano tutti degli sheripiki ed erano così avanti negli anni da non sapere nemmeno la propria età, che poteva essere intuita solamente da loro pelle, solcata da profonde rughe; inoltre essi godevano di notevole lucidità e salute. Incuriosito da queste differenze, esaminai le banche dati relative agli studi comparati tra la tossicità della varietà amazzonica (Nicotiana rustica) e la varietà utilizzata dai produttori di sigarette, sigari, tabacco da sigaretta e tabacco da pipa (Nicotiana tabacum). Non trovai nulla. A quanto pareva, la questione non era stata sollevata. Ricercai anche studi sul tasso di cancro tra gli sciamani, che utilizzano dosi massicce e regolari di nicotina: niente, ancora una volta. Decisi così di scrivere alla persona più autorevole in materia, Johannes Wilbert, autore del libro intitolato Tabacco e sciamanesimo in Sudamerica, per rivolgere a lui le mie domande. Egli mi rispose: "È certamente dimostrato che i prodotti occidentali a base di tabacco contengono molti agenti dannosi differenti, che probabilmente non sono presenti nelle piante delle coltivazioni organiche. Non ho avuto notizia di sciamani che si siano ammalati di cancro, ma ciò può essere naturalmente una condizione determinata da diversi fattori, quali la mancanza di diagnosi effettuate in occidente, la naturale durata della vita delle popolazioni indigene, la restrizione magico-religiosa dell'uso del tabacco nelle società tribali, e così via".8 Sembra chiaro che la nicotina non provochi il cancro, visto che è attiva nel cervello e che le sigarette non provocano il cancro nel cervello, ma nei polmoni, l'esofago, lo stomaco, il pancreas, il retto, i reni e la vescica, e negli organi raggiunti dai catrami carcinogeni che vengono anche ingeriti. Comunque sia gli scienziati non hanno mai davvero considerato il tabacco come un allucinogeno, dato che gli occidentali non hanno mai fumato dosi sufficientemente massicce da raggiungere lo stato allucinatorio.9 Di conseguenza i meccanismi neurologici delle allucinazioni indotte dal tabacco non sono mai stati studiati. Paradossalmente, i recettori nicotinici sono quelli meglio conosciuti dai neurologi, che li studiano da decenni, dato che vi sono sia sostanze che stimolano questi recettori, come l'acetilcolina e la nicotina, sia altre sostanze che li bloccano, come il curaro e il veleno di determinati serpenti.10 In effetti, per una di quelle strane coincidenze, il tabacco, il curaro e il veleno dei serpenti si adattano tutti esattamente alle stesse serrature all'interno del nostro cervello. Dato che la pista neurologica delle allucinazioni indotte dal tabacco era un vicolo cieco, tornai a considerare l'ayahuasca. Carlos Perez Shuma aveva detto: "Quando un ayahuasquero beve la sua mistura vegetale, gli spiriti gli si presentano e spiegano ogni cosa». Gli sciamani dell'Amazzonia
occidentale affermano in generale che il loro infuso allucinogeno consente di vedere gli spiriti. In base alla mia ipotesi, ci doveva essere un collegamento dimostrabile tra i principi attivi dell'ayahuasca e il DNA contenuto nelle cellule nervose di un cervello umano. Mi misi alla ricerca. L'ayahuasca è l'allucinogeno più complesso da un punto di vista botanico e chimico. Si può pensare a esso come a un cocktail psicoattivo, contenente additivi differenti a seconda della regione, di chi lo usa e degli effetti desiderati. Gli scienziati che hanno studiato la sua composizione concordano sul fatto che il principio attivo più importante è la dimetiltriptamina. Sembra che questa sostanza, altamente allucinogena, sia anche prodotta in piccole quantità dal cervello umano. Tuttavia, dalla fine degli anni '60, la dimetiltriptamina è stata al vertice dell'elenco delle sostanze controllate, assieme ai composti sintetici come l'eroina e l'LSD. Questo significa non soltanto che è illegale per il soggetto medio, ma che gli studi scientifici sui suoi effetti sono scoraggianti e rari.11 In letteratura trovai solamente un'indagine scientifica sulla dimetiltriptamina, che era stata condotta in condizioni neutrali. Almeno per una volta, l'allucinogeno non era considerato come uno 'psicotomimetico" (vale a dire come un "imitatore di psicosi"), la sua "psicopatologia" non era oggetto di discussione, e non veniva somministrato a criminali in carcere per farne delle cavie umane. Nello studio del 1994, pubblicato da Rick Strassman e colleghi, i soggetti erano tutti esperti utilizzatori di allucinogeni, che avevano deciso dì prendere parte alla ricerca. A eccezione di un individuo, erano tutti professionisti o studenti impegnati in programmi di formazione professionale.12 Gli autori di questo studio hanno dedicato un paragrafo ai contenuti delle visioni avute dai loro soggetti: immagini che erano "sia familiari che nuove, come un 'uccello fantastico', 'un albero della vita e della conoscenza', 'una sala da ballo con lampadari di cristallo', figure umane ed 'aliene' (come 'una piccola creatura tondeggiante con un occhio grande e uno piccolo, che si reggeva su piedi pressoché invisibili'), 'la parte interna delle schede di un computer', 'condotti', 'doppie eliche del DNA', 'un diaframma pulsante',` un disco d'oro che ruota', 'un enorme occhio di mosca che rimbalza di fronte al mio viso', 'passaggi sotterranei e scale.' 13 Sotto l'effetto della dimetiltriptamina le persone vedevano alberi della vita e della conoscenza, cristalli, scale e doppie eliche del DNA. Questo confermò la mia ipotesi secondo la quale gli sciamani percepiscono immagini contenenti informazioni biomolecolari, ma non spiegò in alcun modo il suo meccanismo. Come era possibile che la realtà molecolare diventasse accessibile alla normale coscienza non molecolare degli esseri umani? Che cosa accadeva allo stato normale di coscienza per scomparire in un flusso di strane immagini? La conoscenza nell'ambito dei percorsi neurologici delle sostanze allucinogene ha fatto grandi progressi negli ultimi anni. Sebbene gli scienziati sapessero da oltre un quarto di secolo che molecole quali la dimetiltriptamina, la psilocibina e perfino l'LSD ricordano il neuro-trasmettitore serotonina, fu solamente negli anni '90 che si scoprì l'esistenza di sette tipi di recettori della serotonina, in relazione ai quali ciascun allucinogeno ha una specifica modalità di funzionamento.14 Uno di questi recettori è costruito sul modello della serratura accoppiata con un canale. Gli altri sono più simili ad "antenne", che attraversano la membrana della cellula. Quando una molecola di serotonina stimola la parte esterna dell'antenna, quest'ultima emette un segnale all'interno della cellula.15 Cercai un collegamento tra la stimolazione dei recettori della serotonina e il DNA e trovai un articolo recente (1994) intitolato "La serotonina incrementa la sintesi del DNA nel prossimale del ratto e nelle cellule muscolari lisce polmonari vascolari in coltura". ll collegamento esisteva, ma non era ancora molto chiaro, dato che l'aumento nell'attività del DNA a seguito di un input di serotonina era misurabile, ma la cascata di reazioni all'interno della cellula, dall'antenna al nucleo, rimaneva ipotetica. 16 Per quanto ne so, l'attuale ricerca sui meccanismi neurologici degli allucinogeni si ferma a questi interrogativi sui recettori. Usando una metafora: noi capiamo da dove proviene l'elettricità e vediamo dove si trova la presa, ma non sappiamo come funziona il televisore. Attualmente il DNA non fa parte del dibattito scientifico sulle allucinazioni, ma non è sempre stato
così. Alla fine degli anni '60 l'inquietudine dovuta al casuale e largo consumo di LSD diede origine alla voce secondo la quale gli allucinogeni "rompono i cromosomi". Nell'isteria che ne conseguì, ogni tipo di esperimento mal concepito sembrava confermare questa ipotesi. Ad esempio, i ricercatori somministrarono l'equivalente di più di tremila dosi di LSD a scimmie femmina che si trovavano al quarto mese di gravidanza; alla nascita, un piccolo di scimmia era nato morto, altri due mostravano "deformità facciali", e un quarto morì dopo un mese, dimostrando soprattutto il fatto che questi animali erano stati maltrattati gravemente e senza motivo. Altri scienziati notarono che il semplice DNA, estratto dal nucleo della cellula e inserito in una provetta, attraeva l'LSD e le altre molecole allucinogene; secondo i loro calcoli, queste molecole si frapponevano tra i pioli della scala formata dalla doppia elica, dando origine così alle famose "rotture cromosomiche"17 (successivamente si puntualizzò che il semplice DNA attraeva in questo modo migliaia di sostanze). Diversi scienziati suggerirono, sulla base di questa ricerca, che il DNA svolgeva un ruolo nei meccanismi allucinatori.18 Tuttavia questa idea non fu degnata di molta attenzione nell'atmosfera tesa del momento. Anzi, la ricerca scientifica su queste sostanze fu abbandonata nella prima metà degli anni '70. A quei tempi la comprensione scientifica del DNA c dei recettori cellulari era allo stato embrionale. I ricercatori non sapevano che nella realtà biologica il DNA non era mai semplice, ma era sempre avvolto in proteine all'interno del nucleo, e che quest'ultìmo non veniva mai penetrato da molecole allucinogene extracellulari. Fu soltanto negli anni '80 che gli scienziati compresero che gli allucinogeni stimolavano i recettori situati sulla parte esterna delle cellule.19 Dalla metà degli anni '70 in poi il collegamento tra il DNA e gli allucinogeni scomparve dalla letteratura scientifica.20 Sarebbe senza dubbio interessante riconsiderarlo alla luce della nuova conoscenza determinata dalla biologia molecolare. Come l'axis mundi delle tradizioni sciamaniche, il DNA ha la forma di una scala a pioli intrecciata (o di una pianta rampicante...); secondo la mia ipotesi il DNA, come l'axis mundi, era la fonte della conoscenza e delle visioni sciamaniche. Per accertarmi di ciò dovevo capire come il DNA potesse trasmettere informazioni visive. Sapevo che esso emetteva fotoni, che sono onde elettromagnetiche, e ricordavo quanto mi aveva detto Carlos Perez Shuma, quando paragonò gli spiriti alle "onde radio": "Quando accendi la radio, le puoi intercettare; con le anime è la stessa cosa; grazie all'ayahuasca e al tabacco le puoi vedere e le puoi sentire". Cosi studiai a fondo la letteratura sui fotoni di origine biologica, o "biofotoni". All'inizio degli anni '80, grazie alla messa a punto di un sofisticato strumento di misurazione, un gruppo di scienziati dimostrò che le cellule di tutti gli esseri viventi emettono fotoni fino a un tasso di circa 100 unità al secondo e per centimetro quadrato di area superficiale. Dimostrarono anche che il DNA era la fonte di questa emissione fotonica.21 Nel corso delle mie letture appresi con stupore che la lunghezza d'onda alla quale il DNA emette questi fotoni corrisponde esattamente alla banda stretta della luce visibile. "La gamma della sua distribuzione spettrale va per lo meno dall'infrarosso (a circa 900 nanometri (unità di misura della lunghezza corrispondente a 10-9 metri (N.d.T.)) all'ultravioletto (fino a circa 200 nanometri)".22 Questa era una pista seria, ma non sapevo in che modo seguirla. Non vi era alcuna prova che la luce emessa dal DNA fosse ciò che gli sciamani vedevano nelle loro visioni. Inoltre, questa emissione fotonica aveva un aspetto fondamentale che non riuscivo a cogliere. Secondo i ricercatori che la misurarono, la sua intensità è tale da corrispondere "a quella di una candela a una distanza di circa 10 chilometri", ma essa dispone di "un grado sorprendentemente alto di coerenza, se paragonato a quello dei settori tecnici (laser)".23 Un segnale ultradebole come poteva essere altamente coerente? Una candela distante come poteva essere paragonata a un "laser"? Dopo averci pensato a lungo, arrivai a comprendere che la coerenza dei biofotoni non dipendeva tanto dall'intensità della loro erogazione quanto dalla sua regolarità. In una fonte coerente di luce la quantità di fotoni emessi può variare, ma gli intervalli di emissione rimangono costanti. Il DNA emette fotoni con una tale regolarità che i ricercatori paragonano il fenomeno a un "laser ultradebole". Questo ero in grado di comprenderlo, ma non riuscivo ancora a vedere ciò che poteva significare per la mia indagine. Mi rivolsi a un mio amico, giornalista scientifico, che me lo spiegò
immediatamente: "Una fonte coerente di luce, come un laser, dà la sensazione di vedere colori brillanti, una luminescenza, e fornisce un'impressione di profondità olografica".24 La spiegazione del mio amico mi fornì un elemento essenziale. Le descrizioni dettagliate delle esperienze allucinatorie indotte dall'ayahuasca menzionano invariabilmente il colore brillante. Secondo gli autori dello studio sulla dimetiltriptamina: "I soggetti descrivevano i colori come più brillanti, più intensi e profondamente saturi, rispetto a quelli visti in condizioni di normale coscienza o nei sogni: `Era come il blu di un cielo terso, ma su di un altro pianeta. I colori erano da 10 a 100 volte più saturi'."25 Era quasi troppo bello per essere vero. L'emissione fotonica altamente coerente del DNA spiegava la luminescenza delle immagini allucinatorie, e anche il loro aspetto tridimensionale, o olografico. Sulla base di questo collegamento, riuscivo ora a concepire un meccanismo neurologico per la mia ipotesi. Le molecole di nicotina o di dimetiltriptamina, contenute nel tabacco o nell'ayahuasca, attivano i loro rispettivi recettori, che emettono una cascata di reazioni elettrochimiche all'interno dei neuroni, portando alla stimolazione del DNA e, più in particolare, alla sua emissione di onde visibili, che gli sciamani percepiscono come "allucinazioni".26 Ecco, pensai, la fonte della conoscenza: il DNA, che vive nell'acqua ed emette fotoni, come un drago d'acqua, che sputa fuoco. Se la mia ipotesi è corretta, e se gli ayahuasqueros nelle loro visioni percepiscono i fotoni emessi dal DNA, dovrebbe essere possibile trovare un legame tra questi fotoni e la coscienza. Iniziai a ricercarlo nella letteratura biofotonica. I ricercatori che operano in questo nuovo settore considerano principalmente l'emissione h biofotonica come un "linguaggio cellulare" o come una forma di "biocomunicazione non sostanziale tra cellule e organismi". Nel corso degli ultimi quindici anni, hanno condotto abbastanza esperimenti riproducibili da ritenere che le cellule utilizzano queste onde per guidare le loro stesse reazioni interne, e anche per comunicare tra di loro, e addirittura tra gli organismi. Ad esempio, l'emissione fotonica fornisce un meccanismo di comunicazione che potrebbe spiegare il modo in cui miliardi di organismi individuali sotto forma di plancton collaborano in frotte, comportandosi alla stregua di "superorganismi".27 L'emissione biofotonica può colmare talune lacune nelle teorie della biologia ortodossa, che si incentra esclusivamente sulle molecole. Tuttavia i ricercatori, che operano in questo nuovo ambito di indagine, dovranno lavorare sodo per convincere la maggior parte dei loro colleghi. Come sottolineano Mae-Wan Ho e Fritz-Albert Popp, molti biologi trovano difficile immaginare l'idea che la cellula sia un sistema allo stato solido, "dato che pochi di noi possiedono le basi biofisiche necessarie per apprezzarne le implicazioni".28 Tutto ciò non fu però di aiuto alla mia ricerca di un collegamento tra i fotoni emessi dal DNA e la coscienza. Non trovai una pubblicazione che si occupasse di questo collegamento o, perlomeno, del tema dell'influenza della nicotina o della dimetiltriptamina sull'emissione biofotonica. Decisi dunque di chiamare Fritz-Albert Popp nel suo laboratorio universitario in Germania. Egli fu così gentile da dedicare il suo tempo a uno sconosciuto antropologo, che conduceva una misteriosa indagine. Nel corso della conversazione, diede conferma a un buon numero delle mie impressioni. Finii con il domandargli se avesse mai considerato la possibilità di un collegamento tra l'emissione fotonica del DNA e la coscienza. Egli rispose: "Si, la coscienza potrebbe essere il campo elettromagnetico costituito dalla somma di queste emissioni. Ma, come lei sa, la nostra comprensione della base neurologica della coscienza è ancora molto limitata".29 Una cosa mi aveva colpito mentre esaminavo la letteratura biofotonica. Quasi tutti gli esperimenti condotti per misurare i biofotoni implicavano l'uso del quarzo. Già nel lontano 1923 Alexander Gurvich notò che le cellule separate da uno schermo al quarzo influenzavano reciprocamente i propri processi di moltiplicazione, cosa che invece non accadeva utilizzando uno schermo metallico. Dedusse che le cellule emettono onde elettromagnetiche, con le quali esse comunicano. Ci volle più di mezzo secolo per mettere a punto un "fotomoltiplicatore" in grado di misurare questa radiazione ultradebole, e guarda caso il contenitore di questo apparecchio è in quarzo.30 Il quarzo è un cristallo, il che significa che ha una disposizione estremamente regolare degli atomi,
che vibrano a una frequenza molto stabile. Queste caratteristiche lo rendono un eccellente recettore ed emettitore di onde elettromagnetiche, e questo è il motivo per il quale il quarzo è ampiamente utilizzato per le radio, per gli orologi e in gran parte delle tecnologie elettroniche. I cristalli di quarzo sono anche usati dagli sciamani di tutto il mondo. Come scrive Gerardo ReichelDolmatoff: "I cristalli di quarzo, o cristalli di rocca traslucidi, hanno avuto un ruolo primario nelle credenze e nelle pratiche sciamaniche in molti momenti della storia e in molte parti del mondo. Sono stati reperiti di frequente in contesti preistorici e vengono menzionati in tante fonti antiche. Furono importanti nell'alchimia del continente europeo, nella stregoneria e nella magia e sono ancora in uso in molte società tradizionali. Gli sciamani e i guaritori indiani d'America utilizzano i cristalli di rocca per guarire, per praticare la cristalloscopia e per molti altri scopi e il loro antico uso nelle Americhe è attestato dai rapporti archeologici".31 Gli sciamani amazzonici, in particolare, ritengono che gli spiriti si possano materializzare e diventare visibili nei cristalli di quarzo. Alcuni sheripiari nutrono addirittura giornalmente le loro pietre con succo di tabacco.32 E se questi spiriti non fossero altro che i biofotoni emessi da tutte le cellule del mondo, che sono intercettati, amplificati e trasmessi dai cristalli di quarzo degli sciamani, dagli schermi al quarzo di Gurvich, e dai contenitori in quarzo dei ricercatori biofotonici? Questo significherebbe che gli spiriti sono esseri fatti di pura luce, come è sempre stato detto. Anche il DNA è un cristallo, come spiega il biologo molecolare Maxim Frank-Kamenetskii: "le coppie di basi in esso contenute sono disposte come in un cristallo. Si tratta, comunque di un cristallo lineare, monodimensionale, con ciascuna coppia dì basi affiancata solamente da due vicini. Il cristallo di DNA è aperiodico, dato che la sequenza di coppie di basi è irregolare quanto la sequenza di lettere in un testo stampato coerente... Così non è una sorpresa il fatto che il cristallo monodimensionale del DNA, un cristallo di un tipo completamente nuovo, affascini così tanto i fisici".33 Le quattro basi del DNA sono esagonali (come i cristalli di quarzo), ma ciascuna di esse ha una forma leggermente differente.34 Dato che si impilano una sull'altra, formando i pioli della scala intrecciata, esse si allineano nell'ordine dettato dal testo genetico. Perciò la doppia elica del DNA ha una struttura leggermente irregolare, o aperiodica. Comunque non è questo il caso per le sequenze ripetute, che costituiscono un intero terzo del genoma, come ACACACACACACAC. In queste sequenze il DNA diviene una composizione regolare di atomi, un cristallo periodico, che potrebbe, per analogia con il quarzo, raccogliere tanti fotoni quanti ne emette. La variazione nella lunghezza delle sequenze ripetute (alcune delle quali contengono fino a 300 basi) aiuterebbe a raccogliere differenti frequenze e potrebbe quindi costituire una possibile e nuova funzione per una parte del DNA "di scarto".35 Suggerisco questo poiché la mia ipotesi richiede tanto un recettore quanto un emettitore. Per il momento la ricezione dei biofotoni non è stata studiata.36 Rimane misteriosa perfino l'emissione di fotoni del DNA e nessuno è stato in grado di stabilire direttamente il suo meccanismo. Il semplice DNA, estratto dal nucleo della cellula, emette fotoni così deboli da non poter essere misurati.37 Nonostante tutte queste incertezze, desidero continuare a sviluppare la mia ipotesi, proponendo la seguente idea: e se il DNA, stimolato dalla nicotina o dalla dimetiltriptamina, attivasse non solo la sua emissione di fotoni (che sommergono la nostra coscienza sotto forma di allucinazioni), ma anche la sua capacità di intercettare i fotoni emessi dalla rete globale della vita basata sul DNA? Questo vorrebbe dire che è la stessa biosfera, considerabile come "un'unità collegata più o meno interamente",38 a essere la fonte delle immagini.
CAPITOLO 10
L'ANGOLO CIECO DELLA BIOLOGIA Ho iniziato la mia indagine con l'enigma della "comunicazione vegetale". Sono andato avanti accettando l'idea che le allucinazioni potessero essere una fonte di informazioni verificabili. E ho finito per concludere con un'ipotesi, che lascia intendere che una mente umana può comunicare, in uno stato di coscienza defocalizzata, con la rete globale della vita basata sul DNA. Tutto ciò contraddice i principi della conoscenza occidentale. Nonostante ciò, la mia ipotesi può essere testata. La prova potrebbero fornirla i biologi, accreditati a livello istituzionale, che accettassero di reperire informazioni biomolecolari nel mondo allucinatorio degli ayahuasqueros. Questa ipotesi non è però attualmente recepibile dalla biologia istituzionale, perché lede i presupposti della disciplina. La biologia ha un angolo cieco di origine storica. La mia ipotesi suggerisce che quanto gli scienziati definiscono DNA corrisponde alle essenze animate che, a detta degli sciamani, comunicano con loro e animano tutte le forme di vita. Tuttavia, la moderna biologia si basa sulla nozione secondo cuì la natura non è animata da intelligenza e dunque non può comunicare. Questo presupposto deriva dalla tradizione materialista instaurata dai naturalisti del diciottesimo e del diciannovesimo secolo. A quei tempi ci volle coraggio per mettere in discussione le spiegazioni sulla vita ricavate da una lettura letterale della Bibbia. Adottando un metodo scientifico, basato sull'osservazione diretta e sulla classificazione delle specie, Linneo, Lamarck, Darwin e Wallace ebbero l'audacia di sostenere che le diverse specie si erano evolute nel corso del tempo, e non erano state create in forma fissa seimila anni prima nel giardino dell'Eden. Wallace e Darwin proposero simultaneamente un meccanismo materiale per spiegare l'evoluzione della specie. Secondo la loro teoria della selezione naturale, gli organismi presentavano lievi variazioni da una generazione all'altra, che venivano mantenute o eliminate nella lotta per la sopravvivenza. Questa idea si basava su di un tema ciclico: sopravvivono coloro che sono i più adatti a sopravvivere, e sembrava poter spiegare sia la variazione della specie che la sbalorditiva perfezione del mondo naturale, dato che esso conserva solamente i miglioramenti. Una tale ipotesi metteva Dio fuori discussione e consentiva ai biologi di studiare la natura senza doversi curare di un piano divino al suo interno. La teoria della selezione naturale fu contestata per quasi un secolo. I vitalisti, come Bergson, rifiutavano il suo ostinato materialismo, obiettando che mancava di un meccanismo atto a spiegare l'origine delle variazioni. Fu soltanto negli anni '50, e con la scoperta del ruolo del DNA, che la teoria della selezione naturale venne accettata a tutto titolo tra gli scienziati. La molecola del DNA sembrava dimostrare la materialità dell'ereditarietà e fornire il meccanismo mancante. Dato che il DNA si duplica autonomamente e trasmette le proprie informazioni alle proteine, i biologi conclusero che le informazioni non potevano rifluire dalle proteine al DNA; perciò la variazione genetica poteva derivare solamente da errori nel processo di duplicazione. Francis Crick definì tutto ciò il "dogma centrale" della nuova disciplina chiamata biologia molecolare e scrisse: "Il caso è l'unica vera fonte di novità". La scoperta del ruolo del DNA e la formulazione, in termini molecolari, della teoria della selezione naturale ha dato nuovo impulso alla filosofia materialista. E' diventato possibile asserire con fermezza su base scientifica che la vita è un fenomeno puramente materiale. Francis Crick ha scritto: "Lo scopo ultimo del moderno movimento in biologia è quello di spiegare tutta la biologia in termini di fisica e di chimica". Secondo Franciois Jacoh, un altro vincitore del premio Nobel per la biologia molecolare: "I processi, che hanno luogo negli esseri viventi al livello microscopico di molecole, non differiscono in alcun modo da quelli analizzati dalla fisica e dalla chimica nei sistemi inerti".2 L'approccio materialista nella biologia molecolare ha fatto grandi progressi, ma esso si è basato sul presupposto non dimostrabile che il caso sia l'unica fonte di novità in natura e che la natura sia priva di qualsiasi scopo, intenzione o coscienza. Jacques Monod, anch'egli biologo molecolare vincitore
del premio Nobel, ha espresso chiaramente questa idea nel suo famoso saggio intitolato II Caso e la necessità: "Il fondamento del metodo scientifico è il postulato secondo il quale la natura è obiettiva. In altri termini, la negazione sistematica che la 'vera' conoscenza si può raggiungere interpretando i fenomeni in termini di cause finali, vale a dire di uno `scopo'... Questo semplice postulato non può essere dimostrato, dato che è ovviamente impossibile immaginare un esperimento che provi ovunque in natura la non esistenza di uno scopo o del perseguimento di un fine. Ma il postulato dell'obiettività è consustanziale con la scienza, ed esso ha guidato totalmente il suo prodigioso sviluppo per tre secoli. E' impossibile sottrarsi a esso, perfino provvisoriamente o in un ambito limitato, senza allontanarsi dal campo della scienza stessa". 3 I biologi hanno pensato di aver trovato la verità, e non hanno esitato a definirla "dogma". Stranamente la loro convinzione è stata a mala pena turbata dalla scoperta avvenuta negli anni '60 di un codice genetico, che è lo stesso per tutti gli esseri viventi e che presenta delle notevoli analogie con i sistemi di codifica umani o con le lingue. Per trasmettere informazioni il codice genetico utilizza degli elementi (A, G, C e T), che individualmente sono privi di significato, ma che formano unità dotate di significato se combinati, nello stesso modo in cui le lettere formano le parole. Il codice genetico contiene 64 "parole" formate da tre lettere. ciascuna delle quali ha un significato, inclusi i due segni di interpunzione. Come ha sottolineato il linguista Roman Jakobson, tali sistemi di codifica erano considerati, fino alla scoperta del codice genetico, come "fenomeni esclusivamente umani"4 vale a dire, come fenomeni che richiedono la presenza di un'intelligenza per esistere. Quando iniziai a leggere la letteratura della biologia molecolare fui stupito da alcune descrizioni. Ero dichiaratamente alla ricerca da qualcosa di inusuale, dato che la mia indagine mi aveva indotto a ritenere che il DNA e la sua struttura cellulare fossero davvero una tecnologia estremamente sofisticata di origine cosmica. Ma nello studiare attentamente migliaia di pagine di testi biologici, ho scoperto un mondo di fantascienza, che sembrava confermare la mia ipotesi. Proteine ed enzimi erano descritti come dei "robot in miniatura", i ribosomi erano "computer molecolari", le cellule erano "fabbriche", e lo stesso DNA era un "testo", un "programma", un "linguaggio", o dei "dati". Bastava fare una lettura letterale della biologia contemporanea per giungere a delle straordinarie conclusioni; tuttavia la maggior parte degli autori mostra una totale mancanza di stupore e sembra ritenere che la vita sia semplicemente "un normale fenomeno fisico-chimico".5 Uno dei fatti che mi preoccupava di più era la lunghezza astronomica del DNA contenuto in un corpo umano: 201 miliardi di chilometri! Ecco, pensai, qual è la fune per il cielo degli Ashaninca: è dentro di noi ed è certamente abbastanza lunga da collegare la terra con il cielo. Che cosa hanno fatto i biologi di questo numero cosmico? La maggior parte di essi non lo menziona neppure, e coloro che lo fanno lo definiscono un "fatto inutile ma curioso". Ero anche turbato per la sicurezza ostentata dalla maggior parte dei biologi di fronte alla realtà profondamente misteriosa che descrivono. Dopo tutto, le spettacolari imprese della biologia molecolare, avvenute nel corso della seconda metà del ventesimo secolo, hanno portato più interrogativi che risposte. Questo è un vecchio problema: la conoscenza richiede maggiore conoscenza o, come scrisse Jean Piaget, "La scienza più avanzata rimane in continuo divenire".6 Tuttavia pochi testi biologici discutono l'ignoto. Prendiamo, ad esempio, le proteine. Queste lunghe catene di aminoacidi, collegate tra di loro nell'ordine specificato dal DNA, svolgono quasi tutte le funzioni essenziali nelle cellule. Catturano le molecole e le assemblano fino a formare strutture cellulari o le smembrano per estrarre la loro energia. Conducono gli atomi in luoghi precisi all'interno o all'esterno della cellula. Essi fungono da pompe o da motori. Formano i recettori, che catturano molecole altamente specifiche o antenne, che trasportano cariche elettriche. Alla stessa stregua dí marionette versatili o di factotum, si intrecciano, si piegano e si distendono, assumendo la forma richiesta dalla loro funzione. Che cosa si sa, esattamente, di queste "macchine autoassemblanti”? Secondo Alwyn Scott, un matematico interessato alla biologia molecolare: "La comprensione deí biologi in merito alle modalità di funzionamento delle proteine è molto simile alla tua e alla mia comprensione del funzionamento di un'automobile. Sappiamo che si fa benzina e che la benzina viene bruciata per mettere in moto, ma i
dettagli sono tutti abbastanza vaghi".7 Gli enzimi sono grandi proteine, che accelerano le attività cellulari. Agiscono con una velocità e una selettività disarmanti. Un enzima presente nel sangue umano, l'anidrasi carbonica, è in grado di raccogliere da sola oltre mezzo milione di molecole di acido carbonico al secondo. Gli enzimi, che sono preposti sia alla riparazione della doppia elica in caso di danno che alla correzione di qualsiasi errore nel processo di replicazione del DNA, commettono solamente un errore ogni dieci miliardi di lettere. Gli enzimi leggono il testo del DNA, lo trascrivono in RNA, eliminano i passaggi non codificanti, congiungono il messaggio finale, assemblano le macchine che leggono le istruzioni e costruiscono... altri enzimi. Che cosa si sa, esattamente, di questi "automi molecolari"? Secondo i biologi Chris Cal-ladine e Horace Drew: "Questi enzimi sono estremamente efficienti nello svolgimento del loro lavoro, tuttavia nessuno sa esattamente come essi funzionino".8 Gli sciamani dicono che le metafore sono il modo corretto con cui parlare degli spiriti. I biologi confermano questa nozione, utilizzando un insieme preciso di metafore antropocentriche e tecnologiche per descrivere il DNA, le proteine e gli enzimi. Il DNA è un testo, o un programma, o dei dati, contenente informazioni, che viene letto e trascritto in RNA messaggeri. Questi ultimi riforniscono i ribosomi, i quali sono computer molecolari che traducono le istruzioni secondo il codice genetico. Essi costruiscono il resto del meccanismo della cellula, precisamente le proteine e gli enzimi, che sono dei robot miniaturizzati, che costruiscono e mantengono la cellula. Nel corso delle mie letture mi domandavo continuamente come la natura potesse essere priva di intenzione, se essa veramente corrispondeva alle descrizioni che ne facevano i biologi. Era sufficiente prendere in considerazione solamente la "danza dei cromosomi" per vedere il DNA muoversi in un modo intenzionale. Durante la divisione cellulare i cromosomi sì duplicano e si riuniscono a coppie. Le due serie di cromosomi si allineano poi lungo la parte centrale della cellula, migrano verso i rispettivi poli e ciascun membro di ciascuna coppia prende sempre la direzione opposta a quella del proprio compagno. Come può verificarsi questa "sorprendente e maestosa pavana"9 in assenza di una qualche forma di intenzione? In biologia questo interrogativo non viene semplicemente posto. Il DNA è "solamente una sostanza chimica",10 per essere precisi, è l'acido desossiribonucleico. I biologi lo descrivono sia come una molecola sia come una lingua, che fa di esso la sostanza informativa della vita, ma essi non ritengono che il DNA sia cosciente, o vivo, dato che le sostanze chimiche sono inerti per definizione. Come può la biologia presupporre che il DNA non sia cosciente, se non comprende nemmeno il cervello umano, che è la sede della nostra stessa coscienza e che è costruito sulla base delle istruzioni contenute nel DNA? Come può la natura non essere cosciente, se la nostra stessa coscienza viene prodotta dalla natura?11 Ispezionando i testi di biologia, ho scoperto che il mondo naturale pullula di esempi di comportamenti, che sembrano richiedere premeditazione. Alcuni corvi costruiscono strumenti con ganci di forma standard e con sonde dentate per agevolare la loro ricerca di insetti nascosti nelle cavità. Alcuni scimpanzé, quando sono infettati dai parassiti intestinali, si nutrono di piante dal gusto amaro e ripugnante, che in condizioni normali evitano di mangiare, e che contengono composti biologicamente attivi che annientano i parassiti intestinali. Alcune specie di formiche, il cui cervello ha le dimensioni di un granello di zucchero, allevano gruppi di afidi, che vengono spremuti per le loro dolci secrezioni e conservati nelle loro scorte. Altre formiche, da cinquanta milioni di anni, coltivano funghi come loro alimento esclusivo12. E' difficile comprendere come questi insetti possano fare tutto ciò in assenza di una forma di coscienza. Tuttavia, gli osservatori scientifici negano loro questa facoltà, come Jacques Monod, che ritiene "automatico" il comportamento delle api: "Sappiamo che l'alveare è 'artificiale', in quanto rappresenta il prodotto dell'attività delle api. Ma abbiamo buone ragioni per pensare che questa attività sia rigorosamente automatica, immediata, non pianificata coscientemente.13 In effetti, il "postulato dell'obiettività" impedisce a coloro che lo praticano di riconoscere qualsiasi intenzionalità nella natura o, viceversa, vanifica il loro diritto alla scienza, se lo fanno. Nel corso di questa indagine mi sono diventati familiari certi limiti dello sguardo razionale, che
tende a frammentare la realtà e a esdudere la complementarità e l'associazione dei contrari dal proprio campo visivo. Ho anche scoperto uno dei suoi effetti più dannosi: l'approccio razionale tende a minimizzare ciò che non comprende. L'antropologia è un terreno di addestramento ideale per comprendere tutto ciò. I primi antropologi andarono oltre i limiti del mondo razionale e videro i primitivi e le società inferiori. Quando incontrarono gli sciamani pensarono che fossero malati di mente. L'approccio razionale parte dall'idea che tutto può essere spiegato e che il mistero è, in un certo senso, il nemico. Ciò significa che esso preferisce le risposte peggiorative, e addirittura sbagliate, piuttosto che ammettere la propria mancanza di comprensione. La biologia molecolare, che ritiene che il 97% del DNA presente nel nostro corpo sia "materiale di scarto", rivela non soltanto il proprio grado di ignoranza, ma fino a che punto è pronta a sminuire l'ignoto. Alcune recenti ipotesi lasciano intendere che il "DNA di scarto" potrebbe avere dopo tutto certe funzioni." Ma ciò non dissimula l'abituale atteggiamento peggiorativo: se non comprendiamo, prima spariamo e poi facciamo domande. Questa è la scienza del cowboy, che non è così obiettiva come pretende di essere. La neutralità, o semplicemente l'onestà, dovrebbero procedere con parole quali "per il momento non sappiamo". Per l'appunto, lo si sarebbe potuto, ad esempio, definire semplicemente DNA misterioso. Il problema non è quello di avere dei presupposti, ma di non riuscire a renderli espliciti. Se la biologia parlasse dell'intenzionalità che la natura sembra manifestare a tutti i livelli, "talvolta la vediamo, ma non possiamo parlarne senza smettere di praticare la scienza secondo i criteri a noi noti", le cose sarebbero per lo meno chiare. Ma la biologia tende a proiettare i propri presupposti sulla realtà che osserva, sostenendo che la natura stessa è priva di intenzione. Questa è forse una delle cose più importanti che ho imparato nel corso di questa indagine: noi vediamo ciò in cui crediamo e non solo il contrario; e per cambiare quello che vediamo, talvolta è necessario cambiare ciò in cui crediamo. All'inizio ho pensato di essere l'unico a rendersi conto che la biologia avesse limiti simili a quelli dell'antropologia scientifica, e che anch'essa era un "inganno autoadulatorio", che tratta la vita come se fosse inerte. Poi ho scoperto che all'interno della comunità scientifica vi erano persone di ogni tipo, che stavano già discutendo le contraddizioni fondamentali della biologia. Nel corso degli anni '80 è diventato possibile determinare l'esatta sequenza degli aminoacidi in certe proteine. Ciò ha svelato un nuovo livello di complessità negli esseri viventi. Un singolo recettore nicotinico, che forma una serratura altamente specifica accoppiata a un canale altrettanto selettivo, è costituito da cinque catene proteiniche giustapposte, che contengono un totale di 2.500 aminoacidi allineati nell'ordine corretto. Nonostante sia improbabile che una tale struttura emerga per caso, perfino i nematodi, che sono tra gli invertebrati multicellulari più semplici, hanno dei recettori nicotinici.15 Messi a confronto con questo tipo di complessità, alcuni ricercatori non si accontentano più della solita spiegazione. Robert Wesson scrive nel suo libro intitolato Al di là della selezione naturale: "Nessuna semplice teoria può tenere testa all'enorme complessità rivelata dalla genetica moderna".16 Altri ricercatori hanno sottolineato l'improbabilità del meccanismo, che si suppone sia la fonte della variazione, precisamente, l'accumulo di errori nel testo genetico. Sembra ovvio che "un messaggio perderebbe rapidamente tutto il significato, se i propri contenuti cambiassero continuamente in un contesto di anarchia".17 Ma allora, come poteva un tale processo portare ai prodigi del mondo naturale, del quale facciamo parte? Un altro problema fondamentale contraddice la teoria della selezione naturale guidata dal caso. Secondo la teoria, le specie dovrebbero evolversi lentamente e gradualmente, dal momento che l'evoluzione è causata dall'accumulo e dalla selezione di errori casuali nel testo genetico. La memoria fossile rivela uno scenario completamente diverso. J. Madeleine Nash scrive nella sua recensione di una recente ricerca paleontologica: "Fino a circa 600 milioni di anni fa non vi erano organismi più complessi dei batteri, delle alghe multicellulati e del plancton monocellulare... Poi, 543 milioni di anni fa, nel periodo paleocambriano, entro uno spazio di tempo di non oltre 10
milioni di anni, si materializzarono, con la stessa repentinità delle apparizioni, creature dotate di denti, di tentacoli, di artigli e di mandibole. In un'esplosione di creatività, che non aveva avuto eguali in precedenza o da qual momento in poi, la natura sembra aver delineato virtualmente le cianografie per l'intero regno animale... Dal 1987 le scoperte dei principali strati fossili in Groenlandia, in Cina, in Siberia e ora in Namibia hanno dimostrato che il periodo di innovazione biologica avvenne virtualmente nello stesso istante nel tempo geologico in tutto il mondo... Ora... tutti virtualmente concordano sul fatto che il periodo cambriano iniziò quasi esattamente 543 milioni di anni fa e, cosa che è addirittura più sorprendente, che tutti i fili nella memoria fossile apparvero entro i primi 5-10 milioni di anni”.18 Attraverso la memoria fossile, le specie sembrano apparire improvvisamente e completamente formate e munite di ogni tipo di organo specializzato, e poi rimangono stabili per milioni di anni. Ad esempio, non vi è forma intermedia tra il progenitore terreste della balena e i primi fossili di questo mammifero marino. Come i loro attuali discendenti, hanno narici poste in cima alle loro teste, un sistema respiratorio modificato, nuovi organi come una pinna dorsale e capezzoli circondati da un cappuccio, per proteggerli dall'acqua marina, e forniti di una pompa per consentire ai piccoli di succhiare sott'acqua.19 La balena rappresenta la regola, piuttosto che l'eccezione. Secondo il biologo Ernst Mayr, un'autorità in tema di evoluzione, non vi è "alcuna prova chiara per qualsiasi modificazione di una specie in un genere differente o per l'origine graduale di una novità evolutiva''.20 Un problema simile esiste a livello cellulare. Il microbiologo James Shapiro scrive: "In realtà, non vi sono resoconti darwiniani dettagliati per l'evoluzione di un qualsiasi sistema fondamentale biochimico o cellulare, ma solo una varietà di desiderose speculazioni. E' notevole che il darwinismo sia accettato come una spiegazione soddisfacente per un tema così vasto come l'evoluzione, e con un esame così poco rigoroso di quanto bene funzionino le sue tesi fondamentali nell'illuminare esempi specifici di adattamento o di diversità biologica”.21 A metà degli anni '90, i biologi sequenziarono i primi genomi completi di organismi che vivevano in libertà. Attualmente. il più piccolo genoma batterico conosciuto contiene 580.000 lettere di DNA.22 Questo è un quantitativo enorme dì informazioni. paragonabile ai contenuti di una piccola guida telefonica. Se si considera che i batteri sono le più piccole unità della vita, per come noi la conosciamo, diventa addirittura più difficile comprendere come il primo batterio possa aver preso forma spontaneamente in un brodo chimico, privo di vita. Come può una piccola guida telefonica di informazioni emergere da processi casuali? I genomi degli organismi più complessi hanno una dimensione ancora più scoraggiante. Il lievito da panettiere è un organismo unicellulare, che contiene 12 milioni di lettere di DNA; il genoma dei nematodi, che sono organismi multicellulari piuttosto semplici, contiene 100 milioni di lettere di DNA. I genomi dei topi, come i genomi umani, contengono circa 3 miliardi di lettere di DNA. Mappando, sequenziando e confrontando i diversi genomi, i biologi hanno scoperto di recente ulteriori livelli di complessità. Alcune sequenze sono ben conservate tra le specie. Ad esempio, 400 geni umani corrispondono a geni molto simili presenti nel lievito. Ciò significa che questi geni sono rimasti in un luogo quasi identico e formano oltre cento milioni di anni di evoluzione, da una forma di vita molto primitiva a un essere umano.23 Alcune sequenze genetiche, note come "geni dominanti", controllano centinaia di altri geni come un interruttore di accensione/spegnimento. Questi geni dominanti sembrano essere ben conservati tra le specie. Ad esempio, le mosche e gli esseri umani hanno un gene molto simile, che controlla lo sviluppo dell'occhio, anche se i rispettivi occhi sono molto differenti. Il genetista André Langaney scrive che l'esistenza dei geni dominanti "indica l'insufficienza del modello neodarwiniano e la necessità di introdurre nella teoria dell'evoluzione dei meccanismi, siano essi noti o da scoprire, che contraddicano i principi fondamentali di questo modello".24 La recente mappatura genetica ha rivelato che, in alcune aree del testo del DNA, i geni hanno una densità trenta volte superiore rispetto ad altre aree, e che alcuni dei geni sembra si raggruppino in famiglie, che si occupano di problemi simili. Talvolta gli aggregati genetici sono ben conservati tra le specie come, ad esempio, nel caso del cromosoma X dei topi e degli esseri umani. In entrambe le
specie il cromosoma X è una molecola gigante di DNA, lunga 160 milioni di nucleotidi; è una delle coppie di cromosomi che determina se un nascituro sarà maschio o femmina. La mappatura del cromosoma X ha dimostrato che i geni si raggruppano principalmente in cinque regioni ricche di geni, intervallate tra di loro da lunghe regioni apparentemente prive di DNA, e che i topi e gli esseri umani hanno un corredo di geni molto simile sui loro cromosomi X, anche se le due specie seguono percorsi evolutivi separati da 80 milioni di anni.25 Il recente lavoro condotto sulle sequenze genetiche inizia a svelare una complessità molto più vasta di quella che si sarebbe potuta concepire anche solo dieci anni prima della scoperta dei dati. Come gli scienziati trovano un senso nella schiacciante complessità dei testi del DNA? Robert Pollock propone "che il DNA non sia semplicemente una molecola contenente informazioni, ma anche una forma di testo e che perciò sia meglio compreso da modalità di pensiero analitiche comunemente applicate alle altre forme di testo come, ad esempio, ai libri".26 Questo sembra essere un suggerimento sensato, ma pone un interrogativo: come si può analizzare un testo, se si presuppone che nessuna intelligenza lo abbia scritto? Nonostante queste contraddizioni essenziali, che riassumo qui in poche righe, ma con le quali potrei riempire libri interi, la teoria dilla selezione naturale rimane fermamente ancorata nelle menti della maggior parte dei biologi. Questo è dovuto al fatto che è sempre possibile sostenere che le mutazioni appropriate avvennero per caso e che furono selettive. Ma questa affermazione non dimostrabile è denunciata da un numero crescente di scienziati. Pier Luigi Luisi parla della "tautologia del darvinismo molecolare... (che) non è in grado di ricavare concetti diversi da quelli coi quali è stato costruito in origine". La circolarità della teoria darwiniana significa che essa non è falsificabile e perciò non è autenticamente scientifica. Il "criterio di faisificabilità" è il fondamento del metodo scientifico del ventesimo secolo. Fu messo a punto dal filosofo Karl Popper, che dimostrò che non si può mai provare la correttezza di una teoria scientifica, dato che solamente un numero infinito di risultati di conferma costituirebbe la dimostrazione definitiva. Popper propose invece di testare le teorie con modalità che cercassero dì contraddirle, o di falsificarle l'assenza di una prova contraddittoria diventa dunque la dimostrazione della validità della teoria. Popper scrive: "Sono giunto alla conclusione che il darvinismo non è una teoria scientifica testabile, ma un programma di ricerca metafisico, una possibile cornice per teorie scientifiche testabili... È metafisico, dato che non è testabile".27 La biologia è attualmente divisa tra una maggioranza, che ritiene che la teoria della selezione naturale sia un fatto vero e assodato, e una minoranza che lo mette in discussione. Comunque le critiche sulla selezione naturale devono ancora fornire una nuova teoria che sostituisca la vecchia, mentre intanto le istituzioni, con la loro inerzia, sostengono le attuali ortodossie. C'è da fare ancora molta strada prima di giungere a un nuovo paradigma biologico. Presupposti, postulati e argomentazioni circolari si prestano più alla fede che non alla scienza. Il mio approccio in questo libro parte dall'idea che il rispetto della fede altrui è estremamente importante, indipendentemente da quanto essa possa sembrare strana, sia che si tratti di sciamani che credono alla comunicazione da parte delle piante o di biologi che ritengono che la natura sia inanimata. Non è mia intenzione attaccare la fede di nessuno, ma indicare l'angolo morto dello sguardo razionale e frammentario della biologia contemporanea, e spiegare perché la mia teoria sia anticipatamente condannata a rimanere in quella condizione. Per riassumere: la mia teoria si basa sul concetto che il DNA in particolare e la natura in generale siano esseri pensanti. Ciò contravviene al principio fondamentale della biologia molecolare, che è l'attuale ortodossia.
CAPITOLO 11
"PERCHÉ CI HAI MESSO TANTO?" A Rio i governi del mondo hanno sottoscritto dei trattati per il riconoscimento della conoscenza ecologica delle popolazioni indigene e anche dell'importanza di compensarla "in modo equo". Tuttavia, come penso di aver dimostrato in questo libro, la comunità scientifica non è pronta a impegnarsi in un vero dialogo con le popolazioni indigene, dato che la biologia non è in grado di ricevere la loro conoscenza a causa di vari blocchi epistemologici. Paradossalmente questo è un vantaggio per le popolazioni indigene, perché dà loro il tempo di prepararsi. Se l'ipotesi presentata in questo libro fosse corretta, significherebbe che esse possiedono non soltanto una preziosa familiarità con piante specifiche e farmaci, ma anche un insospettata fonte di conoscenza biomolecolare, che ha un valore inestimabile e riguarda principalmente la scienza di domani. Continuerò a lavorare con le organizzazioni indigene del Rio delle Amazzoni e discuterò con loro le possibili conseguenze della mia ipotesi. Dirò che la biologia è diventata un'industria, che è guidata da una sete di conoscenza commerciale, più che da considerazioni di tipo etico e spirituale. Spetterà a loro decidere quale strategia adottare. Forse cercheranno semplicemente di fare soldi con la loro conoscenza, istruendosi in biologia molecolare e cercando poi le informazioni biologiche commerciabili della sfera sciamanica. Del resto, il fatto che l'attuale biologia non sia in grado di ricevere la conoscenza indigena non ha impedito alle società farmaceutiche di commercializzare parti di essa. Nel corso degli ultimi cinquecento anni il mondo occidentale ha dimostrato di non avere alcuna fretta di retribuire la conoscenza delle popolazioni indigene, pur avendola utilizzata ripetutamente. Gli anni trascorsi dai trattati di Rio non hanno cambiato nulla a questo riguardo. Alla luce di queste circostanze, posso soltanto consigliare le organizzazioni indigene di negoziare seguendo la linea dura. Tanto per cominciare, questo significherebbe aumentare i controlli sugli scienziati che desiderano ottenere accesso al loro sciamanesimo. In un mondo governato dal denaro e dalla corsa al successo, dove qualsiasi cosa può essere coperta da brevetto e commercializzata (incluse le sequenze di DNA), è impossibile condurre un gioco alla pari e tutelare i propri segreti. Comunque, non sembra probabile che nel futuro prossimo i biologi molecolari saranno in grado di rubare i segreti degli ayahuasqueros. Per diventare uno sciamano del Rio delle Amazzoni occidentale, ci vuole ben altro che bere solamente l'ayahuasca. Si deve seguire un lungo e terrificante apprendistato basato su continue ingestioni di allucinogeni, diete prolungate, e isolamento nella foresta per imparare a dominare le proprie allucinazioni, cosa che non sembra essere alla portata della maggior parte degli occidentali.1 Io per primo non ne sarei capace. Inoltre la cultura occidentale non favorisce un tale apprendistato: considera illegali le principali piante allucinogene e la maggior parte degli individui che ne fa uso personale, senza curarsi della legge, non pratica le tecniche richieste (digiuno, astinenza da alcolici e da pratiche sessuali, oscurità, canto, ecc.). A mio avviso, una seduta allucinatoria in piena regola è più simile a un incubo controllato che non a una forma di divertimento e richiede preparazione, disciplina e coraggio. Nel corso di questo libro ho cercato di tradurre lo sciamanesimo degli ayahuasqueros per renderlo comprensibile al pubblico occidentale. Ritengo sia interesse delle popolazioni indigene dell'Amazzonia che la loro conoscenza sia compresa in termini occidentali, dato che il mondo è attualmente governato da valori e da istituzioni occidentali. Ad esempio, fu soltanto quando i paesi occidentali si resero conto che serviva anche a loro proteggere le foreste tropicali, che divenne possibile reperire i fondi per delimitare i territori delle popolazioni indigene che vivono li. Prima di allora, la maggior parte delle rivendicazioni territoriali, formulate in difesa dei propri interessi dalle popolazioni indigene, non aveva portato a nulla. Le mie conclusioni possono essere accusate di riduzionismo, giacchè finisco per presentare, in termini principalmente biologici, pratiche che combinano simultaneamente musica, cosmologia, allucinazioni, medicina, botanica, e psicologia.2 La mia interpretazione, che si incentra sulla
biologia molecolare, distorce certamente la multidimensionalità dello sciamanesimo, ma tenta per lo meno di riunire discipline suddivise in categorie, dalla mitologia alla neurologia, passando attraverso l'antropologia e la botanica. Non intendo dire che lo sciamanesimo è equivalente alla biologia molecolare, ma che per noi, occidentali frammentati, la biologia molecolare è l'approccio più proficuo nei confronti della realtà olistica dello sciamanesimo che ci è cosi poco familiare. Undici anni fa arrivai per la prima volta nel villaggio Ashaninca di Quirishari in veste di giovane antropologo e giunsi rapidamente a un accordo con gli abitanti. Essi mi avrebbero permesso di vivere assieme a loro e di studiare le loro pratiche, in modo da poterle spiegare alla gente del mio paese e diventare un dottore in antropologia. In cambio dovevo tenere un corso di "contabilità", vale a dire di aritmetica. La loro posizione era chiara: un antropologo non dovrebbe studiare soltanto le persone, ma anche cercare di essere utile a esse. Carlos Perez Shuma, che mi aveva preso sotto la sua protezione, spesso spiegava la mia presenza ai suoi compagni dicendo: "è venuto a vivere con noi per due anni, perché vuole far capire alla gente del suo paese come lavoriamo". Queste persone si erano da sempre sentite ripetere da missionari, colonizzatori e agronomi gosernativi di non sapere nulla, e che la loro cosiddetta ignoranza giustificava addirittura la confisca delle loro terre. Perciò non erano affatto dispiaciuti all'idea di dimostrare le loro conoscenze; su tale concessione ho infatti potuto scrivere questo libro. Tutti gli Ashaninca che ho incontrato volevano entrare a far parte del mercato mondiale, anche solo per acquistare oggetti che avrebbero reso più agevole la loro vita nella foresta pluviale, quali ad esempio machete, asce, coltelli, pentole, torce, batterle e kerosene. Avevano anche bisogno di denaro, per tare fronte ai minimi requisiti di "civilizzazione", quali vestiti, libri di scuola, penne e carta, oltre al sogno comune di possedere una radio o un registratore. A parte i soldi e alcuni prodotti, le popolazioni indigene del Rio delle Amazzoni desiderano sopravvivere in un mondo che li ha considerati, fino a poco tempo fa, poco più che dei selvaggi dell'età della pietra. Ora essi richiedono tutti la demarcazione e l'assegnazione della proprietà dei loro territori, nonché i mezzi per educare i loro figli come desiderano loro. Sembra che alla fine le istituzioni occidentali abbiano compreso, per lo meno in linea di principio, l'importanza di riconoscere i territori indigeni, anche se nella pratica rimane ancora molto da fare in questo senso. Tuttavia, la richiesta indigena di educazione bilingue e interculturale deve ancora essere accettata, anche se è un requisito indispensabile per instaurare un dialogo veramente razionale con questi popoli. Dopo tutto, la parola "razionale" deriva dal latino ratio, "calcolo". Come si può stabilire una "equa" compensazione della conoscenza indigena, se la maggior parte delle popolazioni indigene non comprende le basi della contabilità e dell'amministrazione finanziaria e ha bisogno di apprendere l'aritmetica? Questa non è una domanda fine a se stessa. La ricerca ha dimostrato che l'educazione di stampo occidentale non funziona con gli indiani amazzonici. La loro è una tradizione orale, dove la conoscenza viene principalmente acquisita mediante la pratica nella natura. Se si impone a dei giovani indiani di rimanere in un'aula scolastica per sei ore al giorno, nove mesi all'anno, per dieci anni, e se si insegnano concetti a loro estranei espressi in una lingua europea, essi finiranno per raggiungere in media solo un livello pari alla seconda elementare. Ciò significa che la maggior parte di essi sa a mala pena leggere e scrivere e non riesce a calcolare una percentuale. Le stesse popolazioni indigene sono le prime a rendersi conto di partire svantaggiate, in un mondo definito da parole scritte e da numeri, così come sanno di essere spesso truffate, quando vendono i loro prodotti sul mercato. Questa è la ragione per cui vogliono un'educazione bilingue e interculturale. Tuttavia, per ogni società indigena, che parla la sua lingua, è necessario mettere a punto un programma di studi specifico e addestrare istruttori indigeni in grado di insegnarlo.3 Tale operazione verrebbe a costare circa 200.000 dollari statunitensi per ogni etnia. Solamente nel Rio delle Amazzoni peruviano vi sono cinquantasei diverse etnie, ciascuna delle quali parla una lingua diversa. Per il momento soltanto dieci di queste hanno accesso all'educazione bilingue interculturale. Questa cifra così esigua si spiega con il fatto che il ristretto numero di organizzazioni non governative, che sostengono questa iniziativa, dispongono di mezzi limitati e le istituzioni, che
sono sufficientemente grandi da costituire fondi per programmi educativi destinati alle popolazioni indigene, non sembrano avere fretta di intraprendere questa strada. E' anche vero che i risultati di un tale investimento si possono misurare solamente in termini di generazioni, più che in cicli quinquennali. Dopo aver scritto questo libro nella sua versione originale in francese, mi recai di nuovo nel Rio delle Amazzoni peruviano e trascorsi una settimana a Iquitos, in una scuola per l'educazione bilingue interculturale, dove giovani uomini e donne, provenienti da dieci società indigene, stavano imparando a insegnare la conoscenza indigena e quella occidentale, entrambi nella loro lingua madre e in spagnolo. Passai vari giorni affascinanti come osservatore negli ultimi banchi di una classe, al termine dei quali gli studenti mi chiesero di parlare del mio lavoro. L'ultima sera tenni un discorso in un'aula gremita durante il quale spiegai che la mia ipotesi indicava l'esistenza di una relazione tra i serpenti intrecciati, che gli sciamani amazzonici vedono nelle loro visioni, e la doppia elica del DNA, che la scienza ha scoperto nel 1953. Alla fine del discorso si levò una voce dal fondo dell'aula: "Intendi dire che gli scienziati ci hanno quasi raggiunto?". Ritornai anche a Quirishari e mi incontrai con Carlos Perez Shuma, per la prima volta dopo nove anni. Non era cambiato per niente e sembrava addirittura più giovane. Ci mettemmo a sedere in una casa tranquilla e iniziammo a chiacchierare per recuperare il tempo perduto. Mi ragguagliò su tutto ciò che era accaduto nella Valle del Pichis durante la mia assenza. Lo ascoltai per circa un'ora, ma poi non riuscii più a contenermi: "Zio, c'è qualcosa dì importante che ti devo dire. Ti ricordi di tutte le cose che mi hai spiegato, che io registravo e avevo difficoltà a comprendere? Beh, dopo averci pensato su per degli anni e averle studiate, ho appena scoperto che, in termini scientifici, tutte le cose che mi hai detto erano vere". Pensavo che sarebbe stato contento di saperlo e stavo per proseguire quando mi interruppe dicendo: "Perché ci hai messo tanto". Noi occidentali abbiamo i nostri paradossi. Il razionalismo ci ha portato un inaspettato benessere materiale, tuttavia pochi sembrano essere soddisfatti. Comunque, non siamo i soli e anche le popolazioni indigene hanno i loro dilemmi. Innanzitutto, per riconoscere l'autentico valore della loro conoscenza, devono fronteggiare il danno che la storia ha inflitto loro. Negli ultimi 500 anni la civiltà occidentale ha insegnato alle popolazioni indigene che esse non sapevano nulla, al punto che alcune hanno finito per crederci. Per apprezzare il valore della loro stessa conoscenza, devono venire a patti con il fatto di essere state ingannate. In secondo luogo, vi è il denaro. Nel corso degli ultimi anni, uno dei principali problemi, con i quali si sono confrontate le organizzazioni indigene dell'Amazzonia, è stato il loro stesso successo. Gli amici della foresta pluviale hanno fatto affluire denaro nella zona, animati dalle migliori intenzioni, ma senza effettuare controlli rigorosi. Ciò ha soprattutto causato corruzione e discordia. La colpa è anche nostra, poiché abbiamo confidato in loro in modo paternalistico; pensavamo che le popolazioni indigene fossero incorruttibili, dato che avevamo dei presupposti romantici, ma questo non significa che dovremmo smettere di lavorare in questo senso. Al contrario, dovremmo insistere con maggiori controlli nella gestione dei fondi, per evitare una generosità controproduttiva, che affonda le sue radici nel paternalismo romantico. Infine, la creazione di meccanismi di compensazione per la proprietà intellettuale delle popolazioni indigene dipenderà dalla risoluzione del seguente dilemma. Nelle tradizioni sciamaniche è invariabilmente specificato che la conoscenza spirituale non è commercializzabile. Certamente, il lavoro dello sciamano merita di essere retribuito ma, per definizione, la sacralità non è in vendita; l'uso di questa conoscenza, se finalizzato all'accrescimento del potere personale, diventa magia nera. In un mondo nel quale tutto è in vendita, incluse le sequenze genetiche, questo concetto sarà senza dubbio difficile da negoziare.4 Parlo di "popolazioni indigene" o di "indiani amazzonici" e le metto in contrapposizione a "noi occidentali"; tuttavia queste parole non corrispondono a realtà monolitiche. Prima della colonizzazione europea, gli abitanti del Rio delle Amazzoni costituivano già un mosaico di diversità, con centinaia di etnie che parlavano lingue differenti, e che intrattenevano relazioni più o meno costruttive tra di esse. Alcune società indigene non attesero l'arrivo dei conquistadores per
farsi guerra. La realtà diversificata dell'Amazzonia indigena ha subito l'assalto della colonizzazione europea, che ha decimato la popolazione e frammentato i territori. Le culture indigene, necessariamente trasformate e rese ibride, sopravvivono tenacemente in alcuni luoghi e meno in altri. Ma le apparenze ingannano e la realtà ha spesso una doppia faccia: l'ibridizzazione, la "mestizazione", che implica un certo diluire, è una delle più antiche strategie di sopravvivenza del mondo. Il "vero indiano", che non ha mai abbandonato la foresta, che non parla una parola di spagnolo o di portoghese, che non usa utensili metallici e che si aggira nudo e coperto di piume, esiste solamente nell'immaginazione occidentale, cosa preferibile per i vai indiani che fanno già abbastanza fatica a vivere come vorrebbero. Lo sciamanesimo basato sull'ayahuasca è un fenomeno essenzialmente indigeno, che tuttavia sta attualmente vivendo un periodo di grandissima crescita grazie all'incontro tra le culture. Il caso di Pablo Amaringo è eloquente in questo senso. Amaringo è un ayahuasquero mestizo, vive nella città di Pucallpa, la sua lingua madre è il Quechua e i suoi antenati sono un miscuglio di Cocama, Lamista e Piro; le canzoni che canta nei suoi stati di trance allucinatori contengono liriche indigene. Amaringo non si considera un indiano, pur riconoscendo la natura indigena della sua conoscenza. Egli afferma, ad esempio, che gli Ashaninca sono coloro che conoscono "meglio di qualsiasi altra popolazione della giungla gli usi magici delle piante che trasmettono la conoscenza".5 Nel frattempo gli Ashaninca, che conoscevo nella Valle del Pichis, sostenevano che i migliori sciamani erano gli Shipibo-Conibo (che vivono nella stessa zona di Amaringo). Ruperto Gomez, l'ayahuasquero che mi iniziò, fece il suo apprendistato con gli Shipibo-Conibo, e questo gli conferì un innegabile prestigio. Sembrerebbe dunque che gli studi fatti "all'estero" siano ritenuti migliori e che la sede principale dello sciamanesimo amazzonico sia sempre in un luogo diverso da quello in cui ci si trova.6 Lo sciamanesimo ricorda una disciplina accademica (come l'antropologia o la biologia molecolare). Con i suoi professionisti, ricercatori di grande spessore, specialisti e scuole di pensiero, esso è un modo per comprendere il mondo che si evolve costantemente. Una cosa è certa: sia gli sciamani indigeni che quelli mestizo considerano popoli come gli Shipibo-Conibo, i Tukano, i Kamsà e gli Huitoto alla stessa stregua di università quali Oxford, Cambridge, Harvard e la Sorbona7, nonché i punti di riferimento più illustri nelle questioni inerenti la conoscenza. In questo senso, lo sciamanesimo basato sull'ayahuasca è un fenomeno essenzialmente indigeno. Appartiene alle popolazioni indigene dell'Amazzonia occidentale, che detengono le chiavi per un modo di conoscere, praticato senza interruzioni da almeno cinquemila anni. Le università del mondo occidentale hanno invece meno di novecento anni. Lo sciamanesimo, del quale le popolazioni indigene del Rio delle Amazzoni sono guardiane, rappresenta la conoscenza accumulata nel corso di migliaia di anni nel luogo biologicamente più diversificato che esista sulla terra. Certamente, gli sciamani affermano di acquisire la loro conoscenza direttamente dagli spiriti, ma crescono in culture nelle quali le visioni sciamaniche sono parte integrante dei miti. In questo modo la mitologia informa lo sciamanesimo: gli spiriti maninkari invisibili sono coloro le cui imprese vengono narrate dalla mitologia ashaninca, e sono ancora i maninkari che parlano agli sciamani ashaninca nelle loro visioni, spiegando loro come guarire. Una cultura indigena, che dispone di un territorio sufficiente e di una cultura bilingue e interculturale, si trova in una posizione migliore per mantenere e coltivare la propria mitologia e lo sciamanesimo. Al contrario, la confisca delle terre e l'imposizione di un'educazione straniera, che trasforma i giovani in malati di amnesia, minaccia non soltanto la sopravvivenza di queste persone, ma anche di un intero modo di conoscere. E' come se si bruciassero da cima a fondo tutte le università del mondo e le loro biblioteche, una dopo l'altra, sacrificando così la conoscenza del mondo delle future generazioni. In questo libro ho scelto un'impostazione autobiografica e narrativa per varie ragioni. Anzitutto, non credo in un punto di vista obiettivo con un monopolio esclusivo sulla realtà. Mi è sembrato importante esporre gli inevitabili presupposti dell'osservatore, in modo che i lettori possano
formarsi la loro opinione con una conoscenza completa dell'ambiente.8 In questo senso io appartengo al recente movimento creatosi nell'ambito dell'antropologia, che vede tale disciplina più come una forma di interpretazione che una scienza. Tuttavia, anche tra i miei colleghi che lavorano in questo modo, prestando ascolto attentamente alle persone, registrando e trascrivendo le loro parole, e interpretandole come possono, persiste un problema che ho tenuto di evitare, ovvero la suddivisione settoriale della conoscenza in discipline, il che significa che la dissertazione di un certo specialista è solamente comprensibile ai suoi immediati colleghi.9 A mio avviso, temi quali il DNA e la conoscenza delle popolazioni indigene sono troppo importanti per essere affidati unicamente allo sguardo focalizzato di specialisti accademici in biologia o in antropologia; essi riguardano le popolazioni indigene, ma anche le ostetriche, gli agricoltori, i musicisti e il resto dell'umanità. Ho deciso di raccontare la mia storia tentando un resoconto comprensibile a livello interdisciplinare e al di fuori del mondo accademico. Questa decisione è stata ispirata dalle tradizioni sciamaniche. le quali affermano invariabilmente che le immagini, le metafore e le storie sono i mezzi migliori per trasmettere la conoscenza. In questo senso, i miti sono "narrazioni scientifiche" o storie inerenti la conoscenza (la parola "scienza" deriva dal latino scire, "sapere"). Sono stato fortunato nello scegliere questa impostazione, perché per raccontare la mia storia ho scoperto quella vera che volevo raccontare. C'è stato un prezzo da pagare per il mio totale coinvolgimento nel lavoro. Ho trascorso molte notti insonni e ho messo a dura prova la mia vita privata. Lavorare a questo libro mi ha decisamente cambiato. All'inizio ero sicuro che esso avrebbe cambiato anche il mondo. Mi ci sono voluti mesi di discussioni con vari amici per comprendere che la mia ipotesi non era nemmeno recepibile dalla scienza ufficiale, nonostante gli elementi scientifici in essa contenuti. Da allora, mi sono calmato e non ne parlo più per delle ore. Viviamo in un tempo in cui è difficile esprimersi seriamente sulla propria spiritualità. Spesso basta solo affermare le proprie convinzioni per essere considerato un predicatore. Anche io appoggio l'idea secondo la quale ciascuno dovrebbe essere libero di credere in ciò che vuole, e che non spetta agli altri imporre le cose in cui si dovrebbe credere. Perciò non entrerò nel merito dell'impatto che il mio lavoro ha avuto sulla mia spiritualità, né indicherò ai lettori cosa pensare delle associazioni che ho fatto. Anche in questo caso prendo ispirazione dallo sciamanesimo, che non si basa sulla dottrina, ma sull' esperienza. Lo sciamano è semplicemente una guida, che conduce l'iniziato agli spiriti. L'iniziato raccoglie le informazioni rivelate dagli spiriti e ne fa ciò che vuole. In maniera analoga, in questo libro, fornisco un numero di collegamenti con riferimenti completi per coloro che desiderano seguire un percorso particolare. Infine, spetta ai lettori trarre le conclusioni spirituali che riterranno opportune. La vita ha uno scopo? Esistiamo per qualche motivo? Io ritengo di si e penso che la combinazione dello sciamanesimo e della biologia fornisca delle risposte interessanti a questi interrogativi, ma non mi sento pronto a discuterle da un punto di vista personale. Il mondo microscopico del DNA, con le sue proteine e i suoi enzimi, brulica dentro di noi e questo da solo è già un concetto prodigioso. Tuttavia la dissertazione razionale, che detiene il monopolio sull'argomento, nega ogni senso di meraviglia. Gli attuali biologi si condannano, a causa delle loro credenze, a descrivere il DNA e la vita basata sulla cellula, di cui è codice, alla condizione di ciechi che discutono un film, o degli antropologi oggettivi che pretendono di spiegare la sfera allucinatoria, della quale non hanno alcuna esperienza. Si obbligano a considerare una realtà animata come se fosse inanimata. Ignorando questo vincolo e prendendo contemporaneamente in considerazione lo sciamanesimo e la biologia, stereoscopicamente, ho visto i serpenti del DNA. Ed erano vivi. L'origine della conoscenza è un tema che gli antropologi trascurano, ed è una delle ragioni che mi hanno indotto a scrivere questo libro. Gli antropologi comunque non sono soli, poiché gli scienziati in generale hanno difficoltà analoghe per ovvi motivi: molte delle idee cardine della scienza sembrano provenire da luoghi oltre i limiti del razionalismo. Cartesio sognò un angelo che gli
spiegava i principi fondamentali del razionalismo materialista; Albert Einstein sognò a occhi aperti su di un tram, mentre si avvicinava a un altro, e concepì la teoria della relatività; James Watson scribacchiò su un giornale a bordo di un treno, per poi inforcare la sua bicicletta e giungere alla convinzione (avendo "preso in prestito" il lavoro radiografico di Rosalind Franklin) che il DNA abbia la forma di una doppia elica.10 E cosi via. La scoperta scientifica spesso deriva da una combinazione di coscienza focalizzata e defocalizzata. Per un ricercatore è tipico trascorrere mesi in laboratorio a lavorare su di un problema, analizzando dei dati i dati fino alla nausea, per avere poi un'illuminazione facendo jogging, sognando a occhi aperti, stando disteso a letto a comporre immagini con la mente, guidando l'auto, cucinando, facendosi la barba o la doccia, in poche parole, pensando ad altro e deficalizzando. W. I. B. Beveridge scrive in L'arte dell'indagine scientifica: "Le circostanze più tipiche che caratterizzano un'intuizione sono un periodo di intenso lavoro condotto su di un problema, accompagnato dal desiderio di trovare la soluzione, l'abbandono del lavoro dedicando attenzione a qualcosa d'altro, e poi la comparsa dell'idea con drammatica repentinità e spesso con un senso di certezza. Vi è spesso una sensazione di ilarità e forse di sorpresa per il fatto che l'idea non sia venuta in mente prima".11 Nel corso della mia indagine ho abbinato mesi di schietto lavoro scolastico (leggendo, prendendo appunti, e classificando) con impostazioni defocalizzate (ad esempio, passeggiate nella natura, soliloqui notturni, musica dissonante, sogni a occhi aperti), che mi hanno aiutato moltissimo a prendere la direzione giusta. La mia ispirazione in questo senso è ancora una volta sciamanica. Ma gli sciamani non sono i soli a ricercare la conoscenza praticando la defocalizzazione. Gli artisti lo hanno fatto in tutti i tempi. Come ha scritto Antonin Artaud: "Mi abbandono alla febbre dei sogni, alla ricerca di nuove leggi".12 Ho visto collegamenti immaginari nella mia febbre? Ho forse torto nel collegare il DNA con questi serpenti cosmici reperiti in tutto il mondo, con queste funi per il ciclo e con axis mudi? Alcuni dei miei colleghi saranno di questa opinione. Ecco una delle ragioni. Nel diciannovesimo secolo i primi antropologi iniziarono a confrontare le culture e a elaborare teorie sulla base delle analogie, che man mano trovavano. Quando scoprirono, ad esempio, che le cornamuse non venivano suonate solamente in Scozia, ma anche in Arabia e in Ucraina, stabilirono dei falsi collegamenti tra queste culture. Poi si resero conto che i popoli possono fare cose simili per ragioni differenti. Da allora l'antropologia si è staccata dalle grandi generalizzazioni, ha denunciato gli "abusi del metodo comparativo" e si è rinchiusa in una specificità, che rasenta la miopia. Questa è la ragione per la quale gli antropologi che studiano lo sciamanesimo allucinatorio dell'Amazzonia occidentale si limitano ad analisi specifiche di una certa cultura, non riuscendo a cogliere i punti in comune essenziali tra le varie culture. Così le loro analisi ravvicinate consentono loro di vedere che la dieta di un apprendista ayahuasquero si basa sul consumo di banane e/o di pesce. Ma non notano che questa dieta viene praticata in tutta l'Amazzonia occidentale e dunque non considerano che possa avere un fondamento biochimico, come è in realtà. Evitando confronti tra culture, si finisce per mascherare i veri collegamenti e per frammentare ancora di più la realtà, senza nemmeno rendersene conto. Il serpente cosmico degli Shipibo-Conibo, quello degli aztechi, degli aborigeni australiani e degli antichi egizi sono la stessa cosa? No, sarà la risposta degli antropologi, che insistono sulla specificità culturale; a loro avviso, il fatto di pensarla in modo diverso induce a ricadere nello stesso errore che ha fatto Mircea Eliade quaranta anni fa quando ha separato tutti quei simboli dai loro contesti, ha cancellato l'aspetto socioculturale dei fenomeni e mutilato i fatti e così via. La critica adesso è ben nota, ed è il momento di affrontarla. In nome di che cosa si mascherano le fondamentali analogie nel simbolismo umano, se non per un'ostinata devozione alla frammentazione razionalista? Come si possono spiegare queste analogie con un concetto diverso dal caso, il che è più un'assenza di concetto che altro? Perché insistere nel frammentare la realtà senza cercare mai di ricomporla? Secondo la mia ipotesi gli sciamani portano la loro coscienza a livello molecolare e ottengono accesso alle informazioni biomolecolari. Ma che cosa avviene veramente nel cervello/mente di un ayahuasquero quando questo accade? Qual è la natura della comunicazione di uno sciamano con le
essenze animate della natura? La risposta chiara è che è necessario approfondire le ricerche sulla coscienza, lo sciamanesimo, la biologia molecolare e la loro interrelazione. Il razionalismo separa le cose per comprenderle. Ma le sue discipline frammentate hanno prospettive limitate e punti deboli. E, come è noto a qualsiasi guidatore, è importante prestare attenzione agli angoli ciechi perché possono contenere informazioni vitali. Per ottenere una comprensione più profonda della realtà, la scienza dovrà mutare il proprio modo di guardare. Lo sciamanesimo può aiutare la scienza nella defocalizzazione? La mia esperienza indica che l'impiego della conoscenza sciamanica richiede lo studio approfondito di un gran numero di discipline e del modo in cui si possono adattare tra di loro. Infine, un ultimo interrogativo: da dove proviene la vita? Nel corso dell'ultimo decennio, la ricerca scientifica si è scontrata con l'impossibilità che un singolo batterio, che rappresenta la più piccola unità di vita indipendente a noi nota, possa essere emerso per caso da una sorta di "brodo prebiotico".13 Visto che un'origine cosmica, come quella proposta da Francis Crick, nella sua ipotesi di "panspermia diretta", non è scientificamente verificabile, gli scienziati si sono concentrati quasi esclusivamente su scenari terrestri.14 In base a essi, le molecole antesignane hanno preso forma (per caso) e aperto la strada a un mondo basato sul DNA e sulle proteine. Tuttavia, questi differenti scenari, basati su RNA, peptidi, argilla, solfuro vulcanico sottomarino, o piccole bolle oleose, propongono spiegazioni che fanno assegnamento su sistemi i quali, per definizione, sono stati sostituiti dalla vita che noi conosciamo, senza lasciare alcuna traccia.15 Anche quese sono speculazioni che non possono essere verificate scientificamente.16 Lo studio scientifico delle origini della vita conduce a una impasse, nella quale l'agnosticismo sembra essere l'unica posizione ragionevole e rigorosa. Come scrive Robert Shapiro nel suo libro intitolato Origini: guida di uno scettico alla creazione della vita sulla terra: "Non abbiamo la più pallida idea di come la vita abbia avuto inizio. Il corredo molto particolare delle sostanze chimiche necessarie ci è ancora sconosciuto. Lo stesso processo potrebbe avere incluso un evento improbabile, che si sarebbe potuto verificare in base a una sequenza praticamente ineluttabile; potrebbe avere richiesto diverse centinaia di milioni di anni, oppure solo alcuni millenni. Potrebbe essersi verificato in un tiepido specchio d'acqua, o in una fonte idrotermale sul fondo dell'oceano, in una bolla nell'atmosfera, o in qualsiasi altro posto nel cosmo che non sia la terra".17 Qualsiasi certezza su questo interrogativo diventa una questione di fede. Che cosa dicono dunque le tradizioni sciamaniche e mitologiche a questo proposito? Secondo Lawrence Sullivan, che ha studiato dettagliatamente le religioni indigene del Sudamerica: "Nei miti di cui vi è memoria fino a oggi, la maggior parte delle culture sudamericane mostra un interesse limitato nei riguardi delle origini assolute."18 Da dove proviene la vita? Forse la risposta non è alla portata di semplici esseri umani. Chuang-Tzu lo ha suggerito tanto tempo fa, quando scrisse: "Se esiste l'inizio del mondo, allora esiste anche un tempo prima di questo inizio, e un tempo prima di questo tempo di prima. Se l'esistenza esiste, allora esiste anche la non-esistenza e un tempo prima del nulla. Improvvisamente appare la nonesistenza, ma io non so quando si tratta di non-esistenza, quale è davvero esistenza e quale nonesistenza. Ora ho appena detto qualcosa, ma non so se ciò che ho detto ha espresso davvero qualcosa o se non ha detto nulla".19 Tutto considerato, la saggezza richiede non solo l'indagine di molte cose, ma anche la contemplazione del mistero.
(il titolo originale contiene oltre 80 pagine di note e approfondimenti che non sono state incluse in questa versione)
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