Il Platone Di Enzo Melandri

March 20, 2023 | Author: Anonymous | Category: N/A
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Luca Guidetti Il Platone di Enzo Melandri

Nell’itinerario filosofico di Enzo Melandri, Platone non riveste, in apparenza, un ruolo centrale. I suoi studi di filosofia antica – quella filosofia a cui egli, a partire dalla metà degli anni Sessanta, riconosceva il primato speculativo e formativo, e di cui tutto il resto non sarebbe che mera estensione paradigmatica 1 –, vertono prevalentemente intorno ad Aristotele, agli stoici, oppure intorno ai rappresentanti di quella logica pre-platonica che egli – prendendo spunto dalle ricerche di due studiosi da lui molto amati, Ernst Hoffmann ed Erich Frank2  – chiamava «arcaica», vale a dire Eraclito, Antistene, Gorgia, Pitagora. Tuttavia, se si considera l’impianto generale del pensiero di Melandri, la prospettiva platonica emerge costantemente secondo l’immagine a lui cara della “matrice di sviluppo” e di “ricomprensione trascendentale” dei concetti filosofici. Ciò significa che, prima ancora che nei contenuti, la filosofia platonica, per il suo carattere al tempo stesso tetico e antitetico, offre quel preliminare sfondo metodologico  in base al quale un’argomentazione qualsiasi risulta più o meno comprensibile comprensibi le e giustificabi giustificabile. le. Questo dipende dal carattere “ibrido” o di transizione del pensiero platonico, in cui contenuti nuovi, già vincolati alla prospettiva “teoretica” della riflessione filosofica e scientifica – che Melandri indicava come «raddoppiamento empirico-trascendentale» –, sono ancora inseriti in un quadro argomentativo per molti versi arcaico, nel quale le condizioni dell’asserire e l’oggetto asserito, il linguaggio e la realtà, la validità e la verità, mostrano ancora dialogica doun launa stretta tra interdipendenza in virtù di un modello di razionalità ve “sintesi” pensiero e mondo si presenta – secondo le stesse parole di Melandri – come «limite di convergenza di una contrarietà complementare»3. In Platone, dunque, non emerge solo il pensiero con i suoi “prodotti”, ma il pensare stesso in atto, un pensare che, d’altra parte, lo stesso Melandri metteva costantemente alla prova nelle sue “condizioni di possibilità” durante le sue lezioni, in 1 Cfr.

S. Besoli,  Il percorso intellettuale di Enzo Melandri , in S. Besoli, F. Paris (a cura di),  Studi su Enzo Melandri . Atti della giornata di studi st udi – Faenza, 22 maggio 1996, Polaris, Faenza, 2000, p. 147. 2 Cfr. E. Hoffmann,  Die Sprache und die archaische Logik, Mohr, Tübingen, 1925, trad. it. di L. Guidetti, con una prefazione di E. Melandri,  Il linguaggio e la logica arcaica, Spazio Libri, Ferrara, Plato und die sogenannten Pythagoreer  3 Cfr. 1991; E. Frank, , Niemeyer, Halle a.d. Saale, 1923. E. Melandri, Logica, in G. Preti (a cura di), Filosofia , Enciclopedia Feltrinelli Fischer, vol. 14, Feltrinelli, Milano, 1966, 19702, p. 256. (da ora in poi: Logica).

 

cui egli non dava l’impressione di parlare ma di «pensare ad alta voce», portando gli allievi a «pensare insieme con lui» e dando ad essi l’impressione di «assistere a un pensiero in corso d’opera [...], a un’esperienza condivisa» 4. D’altronde, questo sfondo che vorremmo indicare come “platonico-trascendentale” “platonico-trascendentale” si rivela come il filo conduttore che alimenta da un lato la riflessione melandrian melandrianaa intorno alla nozione di analogia e, dall’altro, rinforza la prospettiva radicalmente fenomenologica attraverso cui Melandri coglie il rapporto tra momento logico e momento psicologico, tra oggetto ideale e contenuto reale dell’esperienza e dei vissuti che l’accompagnano l’accompagnano.. In questa sede, non potendo articolare nel dettaglio un percorso che, per altro, lo stesso Melandri ha lasciato per molti versi indeterminato e inconcluso, mi soffermerò in particolare su tre questioni che ritengo centrali nella sua interpretazione di Platone e il cui compito di sviluppo egli ha trasmesso in modo più o meno esplicito ai suoi allievi. Si tratta cioè, in primo luogo, delle nozioni di “idea”, di “realtà” e di “materia”; in secondo luogo della  funzione costruttiva dell’intuizione e, in terzo luogo, del pensiero discorsivo come dialettica nella sua forma circolare, in opposizione logica classica di matricecomplementare aristotelica. – cioè metalogica – con la linearità della materia in Platone  1. Idea, realtà e materia

Il carattere ontologico della logica antica, cioè la stretta corrispondenza tra l’esistenza di un ordine universale e il pensiero o l’intelligenza, rende ragione in primo istanza della duplicità del logos, inteso sia come ordine delle cose che come ordine del pensiero e, in seconda istanza, del fatto che i principi logici siano concepiti come  proposizioni , e non come semplici regole d’inferenza 5. In quanto proposizioni, essi sono semantici, cioè devono risultare veri o falsi (in base alla tesi dell’isomorfismo). Il linguaggio che sorregge taliilprincipi una“forma” natura «anfibia»: è per metà soggettivo e per metà oggettivo: criterioha della che lega microcosmo e macrocosmo fa sì che la psicologia si presenti come un’ontologia dell’anima, la fisica come una psicologia del mondo e la logica come una fisica del linguaggio6. Ma è proprio a partire da Platone che questa tesi comincia ad assumere un carattere problematico. Da un lato, infatti, la struttura della realtà, il suo “ordine logico”, deve potersi proiettare o esprimere in una  forma  (cfr. il Cratilo); dal 

4 Cfr. S. Besoli, Il percorso intellettuale di Enzo Melandri , cit. p. 153 sg.  5 CLUEB

note in margine all’Organon aristotelico,  Cfr.inE. Melandri, Organon Alcune (Da ora poi: ). 6 Cfr. Organon, p. 18.

 

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, Bologna, 1965, p. 17.

 

l’altro, se questa forma assume un senso strutturale, cioè assorbe in sé tutti  i i sensi della struttura, allora finiamo per esprimerci, inconsapevolmente, mediante “ombre sul muro” (cfr. il “mito della caverna” nel VII libro della  Repubblica  di Platone). Contestando l’esistenza di un linguaggio perfetto o ideale, di una perfetta corrispondenza tra nome e cosa, Platone comprende che la struttura  è il rapporto tra forma e funzione: un rapporto, dunque, e non un’identità, poiché tra forma e grammatica da un lato e uso o funzione del linguaggio dall’altro non esiste una necessaria corrispondenza. La funzione richiede un’analisi non grammaticale, ma, ad esempio, motivazionale; infatti la “direzione” o l’assetto finale non si ottiene mai per pura analisi formale del linguaggio (è la differenza che vi è, ad esempio, tra forma dichiarativa e funzione informativa). Ecco allora che prende corpo la genesi della dottrina delle idee attraverso la funzione dell’anamnesi : non si deve dimenticare «di che cosa sono proiezione le ombre sul muro» 7. La conquista del senso della forma, che trova espressione nell’eidos platonico, rappresenta il primo modo sistematico di esprimere l’intelligenza o l’ invarianza, vale a dire «la capacità di stabilire che cosa non varia anche quando tutto varia» 8. Se però ci si operativo dimentica vengono del significato della forma, se silaontologizza sua genesi ee si il suo senso smarriti,funzionale allora la forma si reifica, ipostatizza: «la destrutturazione della forma fa sì che la realtà si riduca a esteriorità» e la forma «diventa una cosa di un altro mondo»9. Ora, in quale modo Platone resiste a quella che Melandri chiama “destrutturazione della forma”? Non è forse vero che Platone parla di un “mondo delle idee” come di un altro mondo rispetto al nostro, sensibile e corruttibile? Questo è senza dubbio vero, ma bisogna intendere il senso in cui questa alterità si presenta. Le idee non sono né semplicemente trascendenti, né immanenti rispetto al mondo empirico. Non sono tali perché, da un lato, non sono cose accanto a cose e, dall’altro, non si riducono a funzioni concettual concettualii o metodolog metodologiche iche in vista della conoscenza. Ma non sono nemmeno una “via di mezzo”, un essere intermedio tra immanenza e trascendenza. Tutte queste connotazioni presuppongono infatti che noi possiamo dire che cosa siano le idee, ossia che le riduciamo a un insieme o una classe di enti dotati di un senso estensionale attraverso cui possiamo isolare e raccogliere  formalmente  le proprietà comuni. Il dire tende a imporre sull’oggetto sull’ogg etto la razionalità categoriale del linguaggio. Ma bisogna evitare di ridurre l’“essenza”, in cui l’eidos si esprime, a sostanza  categoriale. Piuttosto, la «visione», in cui l’eidos si esprime, richiede l’attivazione di un rapporto, e non sem 

 

7 8  Ivi  Organon Ivi , p. 21., p. 20. 9 Ibid   Ibid .

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plicemente un rapporto già realizzato. Perciò – dice Melandri – «l’idea è un entità che rappresenta l’essenza [...] ma siccome essa esiste, d’altra parte, anche in sé, indipendentemente dalle cose di cui rappresenta l’essenza, ne deriva che essa è insieme una certa cosa particolare e la rappresentazione di molte altre cose particolari». Nell’idea, dunque – prosegue Melandri – non si dà distinzione fra universale e particolare, quantunque essa assolva una  funzione  universalizzatrice10. Ciò implica: 1) che l’universalità si presenti in un senso solamente intensionale, cioè qualitativo e non quantificabile; 2) che l’universalità si manifesti nella  funzione paradigmatica che l’idea assolve, in quanto esemplare, nei confronti di tutti i casi ad essa in qualche modo assimilabili; 3) che sia possibile solo un’inferenza da particolare (fenomenico) a particolare (ideale); 4) che le ragioni per le quali l’idea vale come “modello”, così come la formulazione della sottintesa premessa universale, non possano essere esplicitamente formulate, ma solo rese per mezzo di metafore, essendo il linguaggio descrittivo retto dal principio di contraddizione esclusa; 5) che al posto delle nozioni estensionali ed assertorie di “universalità” e “particolarità” si presentino quelle intensionali   e modali  di   di “necessità” e “contingenza”; infine 116). L’analogia, che la logica non oltrepassi i limiti ragionamento per analogia cheplatonica in Aristotele assumerà un sensodelinferenzale, orizzontale, in Platone mantiene invece un senso trascendentale, verticale. Da qui tutte le metafore per esprimere, in opposizione a Parmenide, il rapporto di non-identità come condizione di significanza della predicazione: la “partecipazione” (méthexis, metèssi ),), l’“imitazione” (mìmesis, mimèsi ),), la “reminiscenza” (anamnesis, anamnèsi ),), l’“approssimazione” (homòiosis, adaequatio), la “copia” (eidolon, simulacrum), la “presenza” ( parusìa  parusìa), e infine la “proporzione” (analo gìa)12. La relazione tra idee e cose ha dunque una struttura asimmetrica, irriflessiva, intransitiva intransitiva e intensiva, cioè «suscettibi «suscettibile le di gradazione da un massimo a un minimo»13. Ora, come possiamo intendere un ente che è al tempo stesso “elemento” e “funzione”, “oggetto” e “relazione”? Colta dal nostro punto di vista, questa è una delle più gravi difficoltà dell’idealismo platonico. Infatti, nota Melandri, proprio per rendere possibile lo sviluppo di un’adeguata formalizzazione, Aristotele riformula in senso estensionale la relazione di partecipazione. Nella logica aristotelica delle “classi”, la “partecipazione” “partecipazione” indica l’inclusi l’inclusione one o l’esclusion l’esclusione. e. Si noti: il senso intensionale non scompare, ma non c’è un logos  che possa esprimerlo fino in fondo. Noi sappiamo, dice Aristotele, che in realtà il predicato ine  10 Cfr. Logica, p. 270. 11 12 Cfr. ivi  , p. 270, p.sg.51. Organon 13 Ibid   Ibid .

 

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risce  al soggetto, e che questa inerenza si manifesta nel modo più significativo

nell’ente considerato nella sua singolarità, nella “sostanza prima”, vale a dire nell’individuo; ma dell’individuo non c’è scienza, poiché non c’è un discorso in grado di rendere il suo senso intensionale e qualitativo senza ridurlo all’estensione. Il problema aristotelico dell’individuazione viene spostato, come a suo tempo aveva notato Franz Brentano, dal piano logico e metafisico a quello psicologico14. Anche per questa ragione, dice Melandri, «Aristotele non ha saputo, o voluto, essere fino in fondo antiplatonico»15. Si tratta ora di riflettere sullo spazio del rapporto tra elemento e funzione, tra essenza ed atto che la nozione platonica di “idea” sembra aprire. Cosa significa che «l’idea svolge una funzione universalizzatrice»? Chi o che cosa svolge qui questa funzione? Qual è il soggetto di questa funzione? Non si risponda nel modo più semplice e immediato in cui, storicamente, si è risposto a questa domanda, vale a dire la soggettività, la coscienza, l’io, il “soggetto della conoscenza”. Platone non è né Cartesio, né Kant e ciò per la ragione di fondo che non è ancora intervenuta quella rivoluzione tardo-ellenistica o agostiniana per la quale è l’oggetto che “gira intorno”Certo, al soggetto, alla suaè,interiorità anti-naturalistica oggettivamente irriducibile. la soggettività nel più grande allievo di So-e crate, indispensabile, è necessaria una nozione di anima da cui possa svilupparsi l’anamnesi come processo di riduzione metaforica della “partecipazione”. Ma se il carattere dell’atto non è, in qualche modo, già racchiuso nell’oggetto, non è già presente nella sua “essenza”, non è nemmeno possibile una qualsiasi relazione partecipativa. Se non vuole ridursi a semplice “pensiero”, l’idea deve già contenere in sé una qualche forma, non ingenua né empirica, di materialità. La materia, in Platone, non si riduce mai alla semplice tangibilità percettiva (un punto, questo, su cui ritorneremo tra breve). Qui Melandri sembra far valere la sua impostazione fenomenologica: l’oggetto ideale platonico è, in un senso particolare, oggetto intenzionale, è quel tramite che ci fa arrivare alla realtà pur non essendo, in senso proprio, una realtà in opposizione alla coscienza. Su questo punto si manifesta, a nostro avviso, una corrispondenza tra il pensiero melandriano e quanto hanno evidenziato, a tal riguardo, due filosofi non noti al grande pubblico, ma di grande rilievo per gli sviluppi della tradizione ermeneutica, kantiana e fenomenologica, vale a dire, alla fine degli anni Trenta, da Josef König16, esponente della “filosofia della vita” e, 14 Cfr.

E. Melandri, Le «Ricerche logiche» di Husserl. Introduzione e commento alla Prima ricerca , il Mulino, Bologna, 1990, pp. 41-43.

15 16 Cfr.  Organon , p. 53.  Sein und Denken. Studien im Grenzgebiet von Logik, Ontologie und SprachphilosoSprachphil osoJ. König,

 phie, Niemeyer, Halle a.d. Saale, 1937, p. 67 sg.

 

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all’inizio degli anni Settanta, da Hans Radermacher17, studioso di Fichte e del nuovo neokantismo: anima e idea hanno un carattere di “parentela” che può essere spiegato con l’esempio dello specchio. Noi vediamo le cose per tramite delle idee le quali, come uno “specchio”, ci danno un’immagine speculare, hanno la funzione di “riflettere”. Lo specchio e l’immagine non sono dunque prodotti da noi; tuttavia, essi funzionano solo se noi vediamo qualcosa nello specchio. Per mezzo dello specchio noi vediamo le cose, non già le loro immagini. È cioè attraverso l’oggetto intenzionale dell’idea, il suo “contenuto di significato”, che l’oggetto reale assume un senso. Il “vedere” nello specchio mostra così un lato soggettivo e un lato oggettivo, ognuno dei quali non ha senso  senza l’altro. Si tratta di una complementarità che la nozione di idea, a differenza di quella di concetto o di classe, rende possibile. D’altra parte, la metafora dello specchio ci rende conto della paradossalità logica che pertiene alla nozione di idea. Lo specchio, si potrebbe dire, non ha forse la capacità di rispecchiare tutte le cose? In seconda istanza: come si può dire che esso, al pari dell’idea, sia un elemento della sua stessa specie? Esistono anche specchi vuoti, senza immagini, e questa noi intendiamo essere la vera dipendono “natura” dello specchio. Ora, queste obiezioni proprio dall’impossibilità di una formalizzazione estensionale di ciò che è intensionale. Lo specchio diventa in realtà ogni volta l’immagine che riflette, il suo senso si condensa nella sua capacità di attivazione e riattivazio riattivazione ne in relazione al “vedere”. Non esiste mai, propriamente, uno specchio “vuoto”, né uno specchio di ogni  immagine.   immagine. Su questo punto s’innesta ciò che Melandri chiama il «chiasma ontologico»18, ossia l’inversione di prospettiva o l’alternanza di senso che si produce ogni qualvolta si rende fisso un termine della relazione, nel nostro caso: l’essere da un lato e il linguaggio dall’altro o l’essere e la logica. All’univocità ontologica dell’idea platonica, al suo valere per un oggetto individuale (per un solo senso dell’essere), deve corrisponder corrisponderee l’equivocità logica della sua funzione, il suo valere in modo più o meno adeguato per una copia o immagine (i molti  che  che ne partecipano). Viceversa, all’equivocità ontologica dell’essere aristotelico (i molti sensi dell’essere) deve corrispondere l’univocità logica che garantisce il “riferimento ad uno” (alla sostanza). Il problema è che questo “viceversa”, che esprime l’inversione di senso, non garantisce la reciprocità tra i due casi, ossia: univocità ed equivocità ontologica, così come, 17 Cfr.

H. Radermacher,  Dialektik, in H. Krings, H.M. Baumgartner, Ch. Wild, Handbuch philoso phischer Grundbegriffe, Bd. 1, Kösel, München, 1973, trad. it.  Dialettica, in ed. it. a cura di G. Penzo, Concetti fondamentali di filosofia, Queriniana, Brescia, 1981, vol. 1, pp. 554-557. 18

 La 2004, linea epp. il 349 circolo. sull’analogia E. Melandri, , il Mulino, Bologna,  L’analogia, 1968, Cfr. Quodlibet, Macerata, sgg.Studio (Da oralogico-filosofico in poi: LC). Cfr. anche E. Melandri, la proporzione, la simmetria, ISEDI, Milano, 1974, pp. 48 sgg. (Da ora in poi: APS).

 

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simmetricamente, equivocità e univocità logica, non sono convertibili perché sul lato sinistro la matrice ha un carattere intensionale, mentre sul destro estensionale. Questo cambiamento di prospettiva, che esprime una rottura del piano di simmetria oppositivo oppositivo in cui trova espressio espressione ne il pensiero lineare o bivalente, rende in ultima istanza ragione del fatto che idealismo e realismo non si pongono su un medesimo piano di opposizione, e dunque non si elidono, tant’è vero – nota Melandri – che l’idealismo platonico può apparire anche come un iperrealismo19. L’impossibilità di una formalizzazione adeguata dell’idealismo platonico non implica tuttavia, per Melandri, una sua espulsione dal regno del logos, ma, anzi, fa emergere la necessità di una sua più riposta e attenta ricomprensione nell’ambito articolato e polivalente della razionalità. Si tratta di una razionalità non fondata sull’astrazione classificatoria e categoriale, ma sull’ astrazione  tipologica, ossia sul modello tipico-ideale20. Ciò che nell’intenzionalità della coscienza appare come “tipico”, cioè fondato su una logica qualitativa del singolare e vincolato alla razionalità pratica dell’agire sensato – che «elude vantaggiosamente vantaggiosamente la non necessaria, inopportuna, da ultimo falsa dilemmatica imposta“induzione/deduziodalle coppie contrastive come “astratto/concreto”, “generale/particolare”, ne”, “a priori/a posteriori”»21 – trova il suo correlato oggettivo nella  formalità  del “topico”, nel disegno del “luogo” che circoscrive e determina le condizioni di senso dell’opinione  (doxa). In questo modello, il valore di verità varia gradualmente in conseguenza della maggiore o minore assimilabilità della cosa o del soggetto empirico all’idea come “predicato”. Mentre in Aristotele un giudizio dev’essere necessariamente o vero o falso, in Platone esso può essere al tempo stesso vero e falso, o né vero né falso. Il giudizio platonico non è semplicemente «a è A», in cui la copula asserisce solo la sussistenza di una relazione, ma «a → A» ove la copula significa “imita”, “partecipa di”, “esemplifica”: «la copula – dice Melandri – asserisce il grado intensivo, il grado comparativo e quindi una mediazione continua tra i due poli dell’essere e del non-essere»22. Emerge qui il problema dell’analogia  attributiva che non si può risolvere in maniera analitica. Platone ha tentato dunque di esprimere l’inesprimibile: «la tangente stessa del metéchein, la trascendenza del valore  rispetto al fatto. L’analisi del giudizio tipologico mostra che l’“idea” è insieme due cose: (i) per un verso è  A, il modello a cui si approssima il fatto empirico a; (ii) ma per l’altro è a →   A, 19 Cfr. APS, p. 66. 20 Cfr. LC, p. 655 sg. 21

 La controversia sulsociali  metodo nelle scienze sociali  soci ali   E.inMelandri,  (1980),  (1980), ora in E. Melandri,  Sette variazioni tema di psicologia e scienze , Pitagora, Bologna, 1984, p. 144. 22 LC, pp. 662-663.

 

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ossia il modello trascendentale dell’approssim dell’approssimazione azione stessa»23. Ciò spiega perché ogni idea sia sempre guidata, nella sua funzione paradigmatica, dall’idea suprema del bene, che esprime la valutazione o gradiente dell’approssimazione. Una cosa a non solo partecipa di  A, ma sarà migliore o peggiore, più o meno “buona” rispetto a un’altra cosa a seconda che abbia un grado maggiore o minore di approssimazione al modello. Il bene è “trascendentale” perché si applica a tutti i rapporti di predicazione in cui emerge la tendenza o la vettorialità  dalla partecipazione. In realtà, per comprendere un fatto a, siamo solitamente costretti a postulare più modelli ( B  B, C , D...). Questi saranno presenti in proporzione variabile, e la loro connessione armonica o disarmonica, consonante o dissonante (quella che Platone chiama koinonia), non sarà irrilevante per la comprensione di a. Tale armonia o “comunanza” è infatti regolata da quella che Platone chiama l’idea del bello, omologo più complesso dell’idea del bene, perché non stabilisce solo l’esemplificazione di A, ma l’esemplificazione di un particolare accordo tra idee; dunque «la formalizzazione del giudizio tipico-ideale, se mai fosse possibile, richiederebbe non solo l’idea del bene, ma anche quella del bello»24. Queste ultime affermazioni di Melandri ci portano all’ultima damentale per comprendere il significato platonico dell’idea, valequestione a dire allafonnozione, correlativa, di materia. Le discussioni intorno al concetto platonico di materia si può dire comincino dagli accademici Speusippo e Senocrate e proseguono per oltre duemila anni fino all’esegesi platonica più recente. Al di là dei contrasti di scuola, possiamo fissare alcuni aspetti comuni e imprescin imprescindibili. dibili. La causa irrazionale del mondo sensibile, il principio di assoluta separazione, di assoluto mutamento, è ciò che, con un’espressione non platonica, si può chiamare “materia” platonica. Infatti, il termine hyle ha in Platone lo stesso significato che assume nel linguaggio corrente: significa “bosco”, “legno”, “materiale da costruzione”25. Per il concetto astratto di substrato materiale, Platone utilizza espressioni del tutto diverse. Solo in Aristotele hyle diventa un termine tecnico della filosofia che egli utilizza anche per esporre la dottrina platonica. In questo senso, la parola hyle non esiste nel Timeo, ma compare nella Fisica di Aristotele (209 b 11 sgg.): «Perciò anche Platone dice nel Timeo che la materia (hyle) e lo spazio (chora) sono la medesima cosa [...]». Ma Platone non cerca mai il fondamento del corporeo in un substrato fisico positivo. È invece molto più evidente che sia stato Platone a introdurre il termine soma per indicare la determinazione corpo  23 Ivi   Ivi , p. 663. 24 Ivi   Ivi , pp. 664-665. 25

 Das Problem der Materie in i n der griechischen Philosophie Phidans losophie  Cfr., p. a tal C. Bäumker, , Mün Le problème du devenir et la conception de la matière la philosophil ososter, 1890, 114riguardo, sg.; A. Rivaud,  phie grecque jusqu’à Théophraste, Paris, 1906, pp. 275 sgg.  

 

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 psyche). Ma soma non coincide col concetto rea nella sua differenza dall’anima ( psyche di materia: il soma è visibile e tangibile, mentre la cosiddetta materia platonica è precedente ogni corpo, non ha, cioè, alcuna determinazione. Perché allora Aristotele attribuisce anche a Platone il concetto di hyle come sostrato positivo? Ce lo dice Teofrasto: in base al processo di analogia tra techne e physis: hyle va compresa «per analogia con la tecnica (o “arte”)». Hyle assume dunque in Platone un significato specificamente “artigianale”; si tratta cioè di una trasposizione della techne al cosmo attraverso il demiurgo che “foggia” la realtà. Ora, il fatto che hyle non indichi in Platone la pura materialità fisica o, in generale, la materia indeterminata – in termini aristotelici, una “sostanza” in senso massimamente improprio –, ma solo il “materiale”, ci suggerisce anzitutto che la nozione platonica di materia come principio del divenire e della molteplicità sensibile debba essere cercata in un’altra direzione rispetto alla corporeità come semplice potenzialità passiva di ricevere o di essere improntata dalle forme. Essa non può cioè rientrare nella nozione categoriale di sostanza, anche se declinata nel senso della mera “potenza” (dynamis). Nel Filebo e nel Timeo, Platone utiliz-

za due termini per esprimere la nozione di materia, vale dire chorasi (“luogo”,altri “spazio”) e hypodochè  (“recipiente”, “ricettacolo”). Gliainterpreti sono spesi nei modi più diversi per tentare di chiarire il senso di questi concetti: si è voluto vedere in essi, ad esempio, lo “spazio” in senso puramente matematicorelazionale, oppure una condizione di possibilità del sensibile in senso kantiano, oppure ancora una pura struttura geometrica, un “campo di forze”, solo per citarne alcuni. Ma se noi ci atteniamo a quanto Platone stesso ci dice, chora  e hypodochè non esprimono altro che la base, il “seno materno” illimitato del divenire, il cui carattere intrinsecamente irrazionale, disordinato, spurio e oscuro non può che essere compreso attraverso un corrispondente  ragionamento “improprio”, “bastardo” (logismòs nòthos), secondo lo schema platonico, di tipo ontologico-obiettivistico, il base al quale il grado di intelligibilità di un oggetto è proporzionale proporzio nale alla sua intrinseca razionalità. razionalità. In termini melandriani, queste considerazioni assumono un duplice rilievo, ossia da un lato la metafora della madre o nutrice ci suggerisce l’irriducibilità simbolica dell’indeterminazione materiale, che dunque mantiene sempre un residuo “anomalistico”. La materia ha una valenza simbolica solo nella sua forma, cioè nel suo sis-tema, non nel suo tema, che è l’esperienza stessa nel suo attuarsi e nell’incontrare la resistenza dell’apeiron. Dall’altro, è l’«oggetto del discorso», la sua intrinseca costituzione che guida, fenomenologicamente, i modi in cui dev’essere appreso, per cui anche l’irrazionalità materiale rientra come “posizione” di una più ampia e riposta razionalità analogica dell’essere. A ben vedere,  

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dunque, la nozione platonica di materia non è poi così distante dalla correlativa nozione di idea; si può anzi dire che tra le due viga un rapporto di complementarità nella misura in cui anche la “madre” o “nutrice” è – come a suo tempo avevano evidenziato Cornford e Ross26 – un medium, una sorta di “specchio” che rende possibile la produzione delle immagini, oppure, come hanno sottolineato Robin e Stenzel27, è, al pari dell’idea, il principio della distinzione e della formazione originaria del molteplice. Ma perché parliamo di complementarità e non di coincidenza, come accade, ad esempio, nello schema neoplatonico della coincidentia oppositorum? Perché Platone è, secondo Melandri, il primo ad aver compreso la necessità di una teoria o ipotesi conoscitiva fondamentale, cioè di una coerente teoria della conoscenza. Se conoscere significasse semplicemente istituire un rapporto tra pensiero e linguaggio da un lato e realtà dall’altro, allora avrebbe ragione la tesi di Gorgia secondo cui la concretizzazione (cioè il passaggio dal concetto alla realtà) non riproduce in termini di operazione inversa l’ astrazione (il passaggio dalla realtà al concetto). Possiamo infatti concretizzare più di quanto in effetti esiste (per concretizzazione da come generilae chimera specie dati può ottenere sia un l’introduzione animale esistente, sia   28. Invece, uno inesistente o ilsi liocorno) di due principi della realtà (la materia e l’idea: il demiurgo, nella sua azione di formazione del mondo, trova preesistenti le idee e la chora) rende possibile che, nell’ambito conoscitivo, il processo di concretizzazione metta capo a un’oggettività teoretica (l’idea) come il “noumeno” o pensato, la quale deve trovare il corrispettivo di verificazione nell’oggettività fenomenico-materiale. Il reale diventa così, dal punto di vista conoscitivo, un “sistema di riferimento” dissociato in due momenti complemen complementari tari29. Si noti che, in termini platonici, l’oggettività teoretica non è l’idea, così come l’oggettività fenomenica non è la materia. Idea e materia sono solo matrici di ramificazione dei diversi livelli o “sensi” del reale 30. Il rapporto di corrispondenza tra pensiero ed essere trova così un limite irriducibile sia in alto che in basso ossia: la realtà in sé costituisce sempre un residuo anoma 

26 Cfr.

F. Cornford, Plato’s Cosmology, London, 1937, pp. 177 sgg.; W.D. Ross, Plato’s Theory of  Ideas, Oxford, 1951, pp. 124 sgg. 27 Cfr. L. Robin, La théorie platonicienne des idées et des nombres d’après Aristote Aristot e, Paris, 1908, pp. 474-478; Id.,  La place et la signification de la physique dans la philosophie de Platon, Paris, 1919; J. Stenzel, Zahl und Gestalt bei Platon und Aristoteles, Leipzig, 1924, Hamburg, 19593, pp. 61 sgg. 28 Cfr. E. Melandri, La pragmatologia intesa i ntesa quale prolegomeno alla metodologia delle scienze sociali   (1975), ora in E. Melandri, Sette variazioni in tema di psicologia e scienze sociali , cit., p. 99. 29 Ivi   Ivi , p. 100. 30

 Sulla c. d., in “ipotesi del mondo esterno”, ovvero la fenomenologia del senso, dei  Cfr.assunti E. Melandri, vari sensi dal c. d. “reale” vari azioni variazioni in tema di psicologia ps icologia e scienze sociali  Id.,  Sette , cit.,o pp.

235-237.  

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listico come «infinita alterità»31. Questa non azzerabilità dell’inseità ontologica nel suo complemento noetico spiega ancora una volta perché la teoria platonica della conoscenza non possa considerarsi come una teoria idealistica pura, la quaq uale richiederebbe invece l’identifi l’identificazione cazione dell’essere col suo significato32. 2. La funzione costruttiva costruttiva dell’intuizione  Assieme alla nozione di idea, anche la nozione di intuizione costituisce uno dei punti più controversi dell’esegesi e dell’intera tradizione platonica. La complessità della questione è dovuta al fatto che da un lato la filosofia platonica, pur essendo fondamentalmente dialogica e discorsiva, sembra intendere il grado supremo della conoscenza, l’intellezione (nous), come un vero e proprio atto intuitivo, assimilabile per molti versi all’intuizione intellettuale dell’idealismo speculativo moderno e, dall’altro, dalla mancanza in Platone di un termine specifico a tale scopo, equivalente al greco epibolé  o   o al latino intuitus, termine che invece troviamo, nella sua specificità filosoficofilosofico-teoretica, teoretica, nel più grande dei neoplatonici, vale a dire Plotino (Enneadi , IV, 4, 1), in cui esso indica il rapporto diretto con l’oggetto e, in modo particolare, la conoscenza immediata e totale che l’intelletto divino ha di sé e dei suoi oggetti; una conoscenza superiore e privilegiata, dunque, nella quale l’oggetto è immediatamente presente in virtù della  perfetta  coincidenza tra pensiero ed essere. Ora, da quanto abbiamo detto a proposito della nozione di idea, non è corretto intendere l’intellezione platonica come un atto di conoscenza immediata e totale dell’oggetto ideale. Non dobbiamo scambiare la tesi dell’isomorfismo, che è un postulato metodico della conoscenza, con il contenuto oggettivo della conoscenza stessa. Questo si congiunge alla graduabilità o modulabilità della nozione platonica di verità già vista in precedenza. Si consideri inoltre che proprio la versione “forte” dell’intuizione, quale il rapporto diretto esiimmediato con l’oggetto implica di per sé laper sualaconoscenza vera è assoluta modella sullo schema della visione sensibile o, in generale, della sensibilità in cui, a differenza del pensiero discorsivo, l’oggetto è “immediatamente presente”. Se la presenza immediata dell’oggetto alla coscienza fosse condizione sufficiente per la sua perfetta conoscenza, se ne dovrebbe ricavare che il modello conoscitivo è adeguazionistico o assimilativo; ma è proprio la teoria platonica della percezione, che prefigura un “incontro” tra l’attività dell’organo senziente e l’attività dell’oggetto sentito, a escludere un tale modello. Tanto nell’immediatezza percettiva, quanto nell’immediatezzaa intellettiva, i due termini, soggetto e oggetto, pensiero ed essenell’immediatezz    

31 E. Melandri, La pragmatologia..., cit., p. 100. 32 Cfr. ivi , pp. 100-101.

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re, realtà e coscienza, rimangono in Platone sempre distinti. distinti. Non dimentichiamo che le idee, in quanto oggetti, non si riducono mai a concetti. Su questo punto Melandri sembra, a nostro avviso, sviluppare rispetto a Platone una concezione presentata alla fine degli anni Cinquanta da quello che era stato il suo maestro di logica a Kiel, ossia Paul Lorenzen, il fondatore del costruzionismo metodico e della cosiddetta “Scuola di Erlangen” e, ancor prima, dallo psicologo e filosofo del linguaggio Karl Bühler, il maggiore esponente della “Scuola di Würzburg”. L’intellezione platonica non dev’essere semplicemente intesa come l’intuizione-per-evidenza che caratterizza l’atto conoscitivo semplice e immediato, così come emerge, ad esempio, dalla filosofia cartesiana e, in parte, anche dalla prima fenomenologia husserliana, laddove Husserl parla di “visione d’essenza” o “intuizione eidetica”. Un’intuizione per evidenza richiede infatti a suo sostegno un’immagine  oggettiva come datità in cui l’essere oggettuale “si manifesta”; ma nell’intellezione platonica nessuna immagine può “rappresentare” in modo estatico l’oggettività dell’idea. Questo non significa che essa non metta capo a un immagine, ma solo che l’immagine non può costituire un attributo

dell’oggetto ideale (si prenda sempre, Ciò come termine di raffronto, la già originario menzionata teoria platonica della percezione). che qui emerge è dun per-costruzione, come, d’altra parte, risulta chiaro dalla centralità que l’intuizione- per-costruzione che la nozione di ipotesi  assume  assume nella teoria platonica della conoscenza33. Utilizzando una terminologia leibniziana, Melandri nota che, a questo proposito, Platone impiega, a scopo costruttivo, il «metodo apagogico (per riduzione all’assurdo) di dimostrazione indiretta della verità delle premesse [...] e applica inoltre, sempre a scopo costruttivo, il metodo espositivo (ipotetico-deduttivo) di dimostrazione indiretta, già noto ai Pitagorici (Archita di Taranto) e agli atomisti (Democrito di Abdera)»34. Il procedimento apagogico, volto a verificare la bontà delle ipotesi, esprime dunque l’essenza stessa del metodo conoscitivo platonico. In questo senso, l’intellezione rappresenta il momento costruttivo della verità, ciò che consente di “scegliere” quando la dianoia, il pensiero discorsivo, ha portato il confronto al suo limite estremo. Si noti tuttavia che la scelta non è, in senso proprio, conseguenza necessaria o “analitica” di un tale confronto, ma è, per l’appunto, frutto dell’intuizione che, in quanto produzione di determinazione, sviluppa operativamente il processo di approssimazione approssimaz ione all’idea. Non è detto che la contraddittorietà di A debba portare, discorsivamente, ad assumere la verità del suo opposto contraddittorio nonA. Può darsi che risulti euristicamente più proficuo un azzeramento dell’opposi   

33 Cfr. LC, pp. 355-357. 34 Logica  Logica, p. 270. Cfr., a tal riguardo, Platone, Menone, 86 sgg.

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zione per contraddizione e la costruzione di un nuovo assetto ipotetico in cui A e non A, in un certo senso, coesistano. Nell’intuizione per costruzione, la questione ontologica –nota Melandri – «diventa interna al suo particolare sistema semantico»35, e questo, a sua volta, dev’essere ricompreso all’interno di un più  pratico-ermeneutico neutico  che definisce il fondamentale e spesso sottaciuto assetto  pratico-erme “senso” o la “direzione” che deve assumere la costituzione del significato. La nozione platonica di intuizione rende in ultima istanza conto del fatto che ogni determinazione teoretica deve far riferimento allo sfondo pratico-operativo che la costituisce. L’intuizione è dunque «determinazione metodica riferita al contenuto»36  (cioè alla connotazione o senso intensivo dell’oggetto), e non si riduce mai alla pura semplice «posizionalità immediata» dell’oggetto37. 3. La dialettica  È alla scuola eleatica, e leatica, e in particolare a Parmenide, che si può attribuire il primo tentativo di rendere esplicite le condizioni alle quali deve sottostare un discorso per essere vero38. Tali condizioni si riassumono nella tesi dell’isomorfismo  diretto o “rigido” tra pensiero ed essere, per cui ogni rapporto di predicazione dev’essere inteso come un’equazione. Da ciò derivano due conseguenze paradossali, ossia: 1) siccome la realtà deve avere la stessa struttura logica del discorso, il senso di questo può essere eletto a criterio universale per decidere che cosa esiste e che cosa non esiste, indipendentemente dall’esperienza. 2) È impossibile render ragione di tutti quei fatti empirici, come il cambiamento, il movimento o l’indeterminazione, che non si possono esprimere per mezzo di predicazioni 35 LC, p. 356. 36 Cfr. a tal riguardo,

G rundW. Flach,  Zur Prinzipienlehre der Anschauung, Bd. I:  Das spekulative Grund problem der Vereinzelung, Meiner, Hamburg, 1963, pp. 68 sgg. 37 Su questa base, Melandri (cfr. LC, pp. 357-359) chiarisce che la questione del «presupposto esistenziale» – cioè del fatto che, come sostengono Kant e i neopositivisti, l’«esistenza non è un predicato» e, come tale, è indefinibile e senza significato – è legata all’assetto analitico-descrittivo della logica. È dunque tale assetto a ssetto che condiziona il modo di intendere l’esistenza, e non la sua assoluta e «pura posizionalità» extralogica. In realtà la nozione di esistenza non è affatto aff atto «logicamente ineffabile» poiché – nota Melandri – «se siamo in grado di dire a che cosa equivalga l’esistenza, siamo anche in grado di definirla per lo meno implicitamente». Il problema dell’esistenza va dunque ricercato nel carattere della predicazione e, precisamente, nel rapporto tra predicati di primo grado (i “modi” della predicazione essenziale) e predicati di secondo grado (gli “attributi” della predicazione oggettuale). È a questi ultimi che appartiene la notazione esistenziale. La questione appare come logicamente “problematica” perché nel passaggio dai modi agli attributi si dà l’inversione di senso o chiasma ontologico fra univocità ed equivocità. Ciò che appare univoco e analitico nel “modo”, diventa equivoco e sintetico nell’“attributo”, di cui il “modo” non è che un caso particolare. «Questo, a sua volta, – conclude Melandri – rimanda al classico problema platonico per cui una stessa cosa ci appare tanto una quanto infinita  in

moltitudine: “perché, VII, noi vediamo nel[nel contempo l’identica cosa comedi unità e come pluralità infinita” (Platone, Repubblica 525 a 4-5)» testo melandriano la frase Platone è riportata in greco]. 38 Cfr. Logica, pp. 267-268.  

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d’identità. Solo i giudizi affermativi, a condizione che siano identici, sono validi; i giudizi negativi non hanno “oggetto” poiché ad essi non corrisponde alcun essere; dunque non hanno un senso logico. In quanto onto-logica (il problema dell’essere è cioè interno alla struttura stessa del linguaggio), la tesi radicale dell’isomorfismo non è suscettibile di dimostrazione; si può solo esibire come principio – il che porta a dichiarare irreale  tutto ciò che risulta irrazionale, ossia non deducibile dalla tesi  (che  (che chiameremo, ad esempio, “r”) – e difendere per mezzo di un’argomentazione indiretta o “riduzione all’impossibile” dell’antitesi  (che   (che chiameremo “p”). Trova così applicazione, per la prima volta in modo sistematico, quella regola logica che nella tradizione scolastica prenderà il nome di modus tollendo tollens (“se p, allora q; ma non q; dunque non p”), la quale consente di respingere come irrazionale l’antitesi stessa (nel nostro caso, “p”) che, opposta al principio o tesi (“r”), funge da premessa o antecedente dell’argomentazione. Se l’antitesi è irrazionale, la tesi risulta infatti, per conversione contraddittoria, razionale. È in questo modo che in Zenone di Elea nasce la dialettica come metodo argomentativo 39. Ma dai sofisti in poi – nota Melandri – diventa impossibile sostenere senza restrizioni la tesi dell’isomorfismo diretto; infatti, il carattere convenzionale  delle regole del discorso, da essi evidenziato, rende impossibile la loro totale identificazione con le leggi di natura. Con Socrate la tesi viene fatta regredire a  problema  attraverso due momenti contenuti nell’ironia: a) la messa in crisi della persuasione (momento retorico); b) l’analisi dei fondamenti della tesi (momento logico-dialettico). La dialettica, dunque, non serve più per sostenere o confutare direttamente una tesi, ma per provocare una regressione analitica ai fondamenti . Ciò consente la critica dei presupposti di un certo ce rto modo di ragionare perché ogni asserzione viene considerata come conclusione tratta da premesse ipotetiche sottaciute. La dialettica assume di conseguenza una funzione metalogica in quanto regressione a una problematica di second’ordine40. Con Socrate, e poi soprattutto con Platone, la dialettica non serve più solo a un uso eristico (la tecnica della confutazione e l’arte del battagliare con le parole per vincere nelle discussioni), ma riapre il problema del fondamento41. È a questo punto che prende corpo l’uso positivo e costruttivo della dialettica attraverso il metodo apagogico42 e il metodo espositivo che abbiamo in precedenza menzio 

39 Cfr. ivi , p. 268. 40 Cfr. ivi , p. 269. 41 Cfr. ivi , p. 270. 42

abduttivo)  introdotta riduzione  Il metodo apagogico (apagoge) non è da confondere con la più consueta all’impossibile eis too adynaton  ( apagoge da Zenone. Esso infatti è una prova indiretta consi-

stente, dal punto di vista aristotelico, in un procedimento semiscientifico o semidimostrativo in cui, in 

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nato. Rispetto a tali metodi, il metodo della divisione ( diairesis), in cui comunemente si vuole esprimere il concetto platonico di dialettica, non rappresenta che l’aspetto tecnico o funzionale dell’indagine conoscitiva, la sua “impalcatura sintattica”, tanto che – nota Melandri – «si potrebbe perfino parlare, a questo proposito, di una epistemologia “tecnica”»43. La techne richiede d’altra parte un sa pere competente e il suo aspetto funzionale rivela la natura teleologica dell’idea. La peculiarità del procedimento diairetico è infatti la possibilità della scelta, lasciata ad ogni suo passo, della caratteristica adatta a determinare in modo opportuno la divisione nella parte destra e nella parte sinistra, in modo da seguire l’articolazione del concetto senza “romperlo”. Dunque la natura sintattica della diairesis risulta in ultima istanza sempre ontologicamente vincolata, cioè dipendente dal “tema” e dalla semantica che lo costituisce. È questo che rende inadempiente ogni riduzione analitica della dialettica platonica, la quale, anzi, si presenta sempre come sintetica, vale a dire volta alla ricerca, alla scelta e all’impiego della caratteristiche effettive di un oggetto, al fine di chiarirne la natura o, meglio, le possibilità (dynameis). La la funzione metalogica della dialettica implica che non solo gli oggetti, ma anche  praxis abbia il suo eidos; e questa, secondo Melandri è «forse la cosa più importante che ha detto Platone»44. L’eupraxia, l’agire secondo ragione, diventa possibilee a condizione che l’uomo sappia fondare la funzionalità della tecnica sul possibil  principio di finalità che l’idea esprime. Le idee si impongono come fini rispetto ai mezzi, come norme  rispetto alle operazioni; l’idealismo platonico propriamente detto, secondo l’utopia delineata della Politeia, sta nel legame tra l’idealità della vece di provare direttamente la proposizione che si vuole affermare (tesi), si parte da una premessa evidente o assicurata e s’introduce una seconda premessa – in qualche modo legata alla proposizione che si vuole affermare – con un grado di  probabilità  o credibilità superiore o quantomeno uguale alla tesi. Supponendo, ad esempio, di voler affermare “A è in relazione a C”, si parte da una premessa evidente o comunque generalmente accettata (“A è in relazione a B”), s’introduce quindi una premessa minore con una alto grado di credibilità (“B è in relazione a C”) e si costruisce il sillogismo: «Se “A è in relazione a B” e “B è in relazione a C”, allora “A è in relazione a C”». Il metodo apagogico o abdut Logica, tivo può essere dunque inteso, come fa Melandri, come un «metodo per riduzione all’assurdo» ( Logica p. 270) poiché la negazione della tesi “A è in relazione a C” non porta all’impossibilità, cioè alla contraddizione logica, ma solo all’irragionevolezza o non credibilità (assurdità), vale a dire alla contrarietà  o estraneità rispetto a ciò che si può ragionevolmente credere (cfr. M. Mignucci, Nota ad Aristotele, Gli analitici primi , B, 25, Loffredo, Napoli, 1969, pp. 707-708). Tuttavia, nell’analitica aristotelica il termine “assurdo” (atopon), posto come equivalente all’ adynaton, assume in generale lo stesso significato di “impossibile”, cosicché anche le due riduzioni finiscono per coincidere. Lo stesso Melandri sovrappone talvolta i due significati. L’esempio più evidente dell’applicazione da parte di Platone del metodo apagogico-abduttivo è in  Menone, 87 b2-c1 (cfr., a tal riguardo, W.D. Ross, ARISTOTELOUE ANALUTIKA.  Aristotle’s Prior and Posterior Analytics, Oxford, 1949, 19652, p. 490; R. Robinson, 2

Plato’s Earlier Dialectic , Oxford, 1953 , pp. 114-122). 43 LC, p. 187. 44  Ibid  Ibid .

 

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conoscenza e la funzionalità della sua applicazione pratica. Il discorso è, in questa prospettiva, una forma di prassi che deve esercitarsi nell’ eupraxia della tecnica dialettica; il suo senso deve pertanto venir ricercato non nella sua semantica astratta, ma piuttosto nella sua pragmatica45: «il senso del discorso – osserva Melandri – sta nella tangente momentanea della curva, non nella curva che esso effettivamente descrive»46. Non basta “vedere”, bisogna anche dare alla nostra ricerca un senso che si trova «al di là dell’essenza»47. L’antico isomorfismo tra pensiero ed essere deve dunque venir ricompreso all’interno di una  prassi ideale  – ciò che Melandri definisce come un’«intenzionalità pragmatica» – la quale trascende ogni possibile determinazione ontologica48. Questo spostamento d’interesse dall’essere al valore fa sì che non si tratti «di sapere come stiano esattamente le cose, ma piuttosto di decidere quale via seguire»49. Su questo punto, l’interpretazione melandriana di Platone rivela ancora una volta molte assonanze con la funzione del dialogo in Paul Lorenzen. Il dialogo non è soltanto un gioco formale, ma è anche la  prassi  in   in cui si esplica concretamente la verifica della validità logica degli enunciati. Solo nel dialogo impariamo a ragionare logicamente, poiché solo in esso si mostrano le strategie argomentative che danno una funzione ed un senso ai connettivi logici e, in tal modo, costituiscono le “regole” della sintassi proposizionale. Nel dialogo abbiamo a che fare con un insieme di schemi operativi  che   che di per se stessi non sono né veri né falsi, ma che sono comunque pragmaticamente necessari per condurre in porto determinate operazioni con i segni del nostro linguaggio 50. La logica è, in sostanza, un comportamento argomentativo argomentativo che deve essere ricostruito razionalmente; pertanto, la semantica del logos cessa di valere come direttamente ontologica per farsi carico del momento fondativo del metodo. E in questo – dice Melandri – «Platone è più vicino ai sofisti» che a Parmenide e a Democrito 51. In ultima istanza, dialettica platonica,),operativamente configurata, configur indica lo spazio d’azione dellalacoscienza   (syn-eidesis ossia la correlazione traata, l’idea  come atto soggettivo e la tensione di approssimazione dell’eidos come termine ideale oggettivo 52. In questa prospettiva, la coscienza è la sede dell’immaginario perché 45 Cfr., a tal riguardo, E. Hoffmann, Il linguaggio logica arcaica, cit., pp. 111 sgg. 46 LC, p. 188. 47 Cfr. Platone, Repubblica, 509 b 5 sgg. 48 Cfr. LC, p. 188. 49 Ibid   Ibid .  50 Cfr. P. Lorenzen, K. Lorenz,  Dialogische Logik, Wissenschaftliche Buchgesellschaft,

Darmstadt,

1978, pp. 1 sgg.

 51  52 Cfr.  LC, p. E.188. Melandri, Contro il simbolico. Dieci lezioni di filosofia,

p. 128.  

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Ponte alle Grazie, Firenze, 1989,

 

la corrispondenza tra il pensiero e le cose non avviene mai in modo continuo, ma sempre attraverso un’«imbastitura un’«imbastitura a punti radi, irregolari, intermittenti» 53. Per la nozione platonica di corrispondenza è dunque sufficiente – nota Melandri – che si dia «coincidenza di tanto in tanto, non importa se il fondamento è in sé fantasmatico: anche le lettere dell’alfabeto non hanno alcuna somiglianza con i suoni che loro corrispondono» 54. Si badi bene, però: si tratta di una dottrina, non di una “teoria” della corrispondenza, per la quale sarebbe richiesta «la spiegazione della relazione d’impuntura in sé». Ciò, dipende, d’altra parte, dall’«in dall’«incombenza combenza del carattere d’azione che inerisce alle idee in quanto fantasmatiche» e quindi «non è certo peregrino che le prime idee a essere isolate [...] siano state quelle di aretai , quali virtù o forze: tale è infatti il contenuto dei dialoghi di Platone detti “socratici”, la definizione cioè di idee di pura praxis» 55. Così, in Platone l’universale non può essere affidato alla linearità “astrattiva” della logica, né alla circolarità proiettiva e intensiva dell’analogia. La prima, mancando dell’univocità del significato  o dell’essere (essendo cioè ontologicamente equivoca) non può comprendere l’equivocità dei sensi  che  che il reale assume quando viene in qualche modo “inteso” (ed è perciò costretta a trasferire sul lo gos l’univocità assente a livello ontologico); la seconda, mancando dell’univocità del logos (che può parlare delle cose solo in modo “equivoco”, cioè per somiglianza o partecipazione alle idee), non può comprendere o formalizzare, se non attraverso rimandi infiniti o più che metaforici, l’univocità del senso che il reale assume nella sua particolarità individuale quando “perviene all’esistenza”. È invece la dialettica che, situandosi al di là dell’opposizione tra logica e analogia, anzi in qualche q ualche modo ricomprendend ricomprendendole ole per complementarità, verifica la cogenza dell’universalità “ideale” esprimendo in un certo senso un effetto di “totaliz   53 L’immaginario – osserva Melandri – è legato «al fatto che, come nel mito platonico della caverna, non possiamo fare altro che guardare delle immagini proiettate quali ombre sulle pareti. Non c’è una via che porti a veder le cose come sono, alla luce del sole» (Contro il simbolico, cit., p. 134). Ciò non significa che l’immaginario (il “fantasmatico”) sia semplicemente l’immaginativo o il fantastico: «Prima bisogna accostumarsi all’idea che uno stesso immaginario sta alle radici della diramazione che per un verso immette in ciò che chiamiamo reale, e per l’altro ramo, complementarmente, in quel che abbiamo tagliato fuori come non reale, fantastico e immaginativo. Dunque l’immaginario  (o mondo semantico), nel senso che si è detto, si suddivide in reale e non reale, fantastico e in una parola imma ginativo» (ivi , p. 124). Questo dipende secondo Melandri dal fatto che la coscienza è intenzionale, vale a dire instaura un rapporto triadico, e non diadico, con l’oggetto: «la coscienza ha qualcosa come oggetto. [...] Ciò significa che io (come coscienza) ho in mente qualcosa (come etwas überhaupt ) che, in mancanza di meglio, identifico con questa o quella specie di oggetti». Qui l’identità non è ontologica (ossia la constatazione oggettiva che a=b), ma «fa parte del mio modo di essere intenzionale, di prendere coscienza». Se ne conclude che il qualcosa ( etwas), «comunque lo si identifichi, è per sua natura  54 Ivi  immaginario» (ivi , p. 125).  Ivi , p. 136.  55 Ivi   Ivi , p. 137.

 

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zazione” attraverso un processo di inversione che, da ultimo, richiama l’immagine dello specchio: «al di là dello specchio – conclude Melandri – le immagini virtuali diventano reali. Il loro senso è invertito, ma non per questo lo giudicheremo un nonsenso. È piuttosto un controsenso, un senso contrario e complementare che può servire a raddirizzare le fallacie di abitudine, la mancanza di spirito critico, l’entropia del senso comune e del buonsenso. Al di là dello specchio è normale semantica la catacresi 56, data l’inversione del senso. Ma ciò non abolisce il significato, né lo rende meno preciso per chi lo sappia trovare» 57. Nel momento in cui diviene tautologica, la dialettica può valere come metafora assoluta; ma se perde l’aggancio tematico, se non è capace c apace di accogliere e d’intendere nella sua multiform multiformità ità l’agire reale dell’uomo all’interno all’interno dell’esperienza, i cui oggetti non possono sempre essere rappresentati dai modelli trascendenti, ma appaiono anche circoscritti alle scelte contingenti e alle deliberazioni in merito alle situazioni di fatto – per le quali Aristotele aveva coniato il concetto di  phronesis, saggezza o “sapere fronetico” dotato di una peculiare razionalità pratico-normativa, di carattere topico-materiale 58 – allora ogni suo potere di mediazione è distrutto. È forse questo il rischio che Melandri intravede, più che in Platone, in ogni platonismo che, nella storia, abbia voluto fare della dialettica una metafisica della realtà.

 56 La catacresi è una particolare forma di metafora in cui l’uso del termine, – il cui significato è sta-

to “trasferito” dal senso proprio ad uno figurato – serve a colmare una lacuna della lingua, cioè la mancanza di una parola specifica in un determinato contesto semantico (ad esempio: “collo della bottiglia”, “piede del tavolo” ecc.). Dunque nella catacresi il significato non viene semplicemente trasferito ma anche, in un senso particolare, “costituito” nel contesto semantico in cui esso mancava.  57 LC, p. 797.  58 In questo senso, la razionalità pratica aristotelica, consegnata all’ambito delle scienze pratiche topico-materiali e politica) ma estranea scienzestesso teoretiche, si contrappone razionalità pratica platonica,(etica di matrice topico-formale, maalle al tempo epistemica e ideale, valealla a dire universale e trascendentale (cfr. supra, p. 7).  

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