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Il cammino di Santiago...
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Pegaso 2
NICOLA ARTUSO IL PASSO PERFETTO Diario dal bordo Libreria Editrice Marco Polo
Titolo dell’opera: Il Passo Perfetto – Diario dal bordo
Prima edizione: gennaio 2006 ISBN 88‐901259‐4‐2 © Copyright 2003 by Nicola Artuso Printed in Italy www.ilpassoperfetto.it Libreria Editrice Marco Polo Calle del Teatro Malibran 5886/a 30131 ‐ Venezia (Italia) Tel. 0039 041 522 6343 www.libreriamarcopolo.com Il Passo Perfetto è un progetto editoriale sostenuto dall’Associazione Culturale Cuore di Carta www.cuoredicarta.org Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.
A Giacomo, chiunque e ovunque Egli Sia.
E a Lara, causa di questo effetto.
IL PASSO PERFETTO Diario dal bordo
Primo tempo La risposta non è nel punto di arrivo, ma nel cammino che ti porta alla meta. 1 Sto per partire per il Cammino di Santiago spinto dall’idea di trovare il Passo Perfetto. Si parla di un migliaio di chilometri, dai Pirenei all’Oceano Atlantico, da fare a piedi. Ciò che mi spinge a partire è anche la curiosità, o meglio il desiderio di immettere il mio corpo in un sentiero percorso per mille anni da esseri umani mossi dalla fede. Più si avvicina l’ora della partenza più mi chiedo quale sia stata la vera motivazione di questi milioni di “pellegrini” che, per secoli, hanno abbandonato la sicurezza dei propri villaggi per affidarsi a un tragitto carico di insidie, pericoli e disagi di vario genere quali cani rabbiosi, briganti, intemperie, disastri naturali e non ultime guerre di religione. Fede? In che cosa? Perché tanto interesse per un sentiero di sassi, polvere e odore di sterco di animale? Leggendo alcune brevi cose sul Cammino ho sentito citare questa figura mitica del pellegrino antico che, armato di coraggio da vendere, si è spinto fino alle oscure foreste della Galizia arrancando sui sentieri rocciosi e guadando i fiumi. C’è un fiorire di letteratura specifica su questo tema che tende a mettere in relazione l’antico pellegrino con il pellegrino di oggi. A mio avviso va fatto un distinguo di tipo tecnico che, anche se non cambia i termini della questione o il risultato finale, pone le dovute separazioni tra presente e passato. 1
Punto primo: i piedi. L’antico pellegrino viaggiava verso Santiago dopo essere partito dalla propria città di origine scalzo o con addosso dei calzari fatti di cuoio intrecciato e legno. E poi, una volta giunto a destinazione, a meno che non fosse dotato di poteri magici, doveva affrontare il viaggio di ritorno per la stessa strada da cui era venuto e tassativamente sempre a piedi! Punto secondo: il tempo. Quello che per noi è un viaggio al massimo di un mese per questi signori era un’operazione di qualche anno e non dava quasi mai la certezza del ritorno. Partire per un viaggio del genere voleva dire consegnarsi alla vita e lasciare che il proprio destino potesse compiersi senza più di tanto interferire. Terzo e ultimo punto: i soldi. Noi abbiamo scarpe da trekking con la suola in vibram, sacchi sintetici, tecnologie ultraleggere per far fronte a tutte le evenienze fastidiose e, non ultime, almeno due carte di credito al sicuro nel marsupio ascellare. Quindi, se dovesse succedere qualcosa di strano… voilà! Un festoso aereo dell’Iberia ci riporta a casa nel giro di mezza giornata e il problema è risolto. Gli antichi pellegrini invece viaggiavano con una sacca in spalla con dentro poco niente e dovevano giorno per giorno elemosinare cibo, acqua e quant’altro necessario. Quindi le differenze tra noi pellegrini tecnologici e loro ci sono eccome e qualsiasi paragone non può che scontrarsi con questa realtà dei fatti. In ogni caso, il perché tutta questa gente sia indotta a fare una follia del genere rimane. E mi chiedo: cosa stavano cercando quei pellegrini di allora? Cosa stanno cercando quelli di adesso? Che cosa? In fondo io la mia ragione ce l’ho e mi è abbastanza chiara, ma la loro qual era? Qual è?
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Personalmente la parola “fede” non mi soddisfa abbastanza e parto anche con l’idea di trovare una risposta a quest’ultima domanda. Conosco gente appassionata di statistica che perderebbe qualche buon week end in calcoli assurdi nell’intento di individuare il numero di passi di un uomo in una vita. Conosco gente sana che dentro è follemente malata e gmerciente che passa per malata, ma che dentro è perfettamente sana. Questi calcolatori di cui parlo appartengono senz’altro al primo insieme e non è detto che io non ne faccia parte. Immagino che in circa un mese di viaggio avrò molto tempo per pensare a questa cosa dei “passi che un uomo fa in un vita”. Se fosse possibile, per esempio, desumere dal numero di passi di un uomo in una vita il risultato in termini di successo personale, esperienza, salute… Che ci sia una relazione tra queste cose e il semplice peregrinare? Quanti passi fa un uomo in una vita? Quanti passi fa una nazione in un secolo? È un affare intrigante che mi induce ad azzardare l’ipotesi che in circa 1000 km potrei spendere la modica somma di 3.300.000 passi. Il conto naturalmente è semplicistico e parte dal presupposto che un mio passo medio sia di circa 30 centimetri virgola 33 periodico. A vederli così, letti su di un foglio bianco, tremilionitrecentomila passi non sembrano poi così tanti, ma credo che a farli uno dopo l’altro li si senta tutti. Se fosse stato per me sarei andato in Thailandia a visitare i templi del Nord, dove da secoli vengono venerati santi di antichi 3
lignaggi che si dice abbiano raggiunto, in vita, la fine di un eterno peregrinare in favore di un amore incondizionato e duraturo. Se fosse stato per me… La vita però mi ha abituato a non tenere più di tanto conto di “cosa faccia per me” e, sempre più di frequente, mi impone scelte che non ho minimamente preventivato, organizzandomi condizioni dell’ultima ora che poi mi trovo a dover gestire in fretta e furia. Come un’eterna prova di presenza. Le cose sono andate così: stavo preparando, in tutta tranquillità, il mio viaggio in Thailandia. E mentre ero lì lì per acquistare il biglietto aereo ho ricevuto, in sequenza, prima una diffida a procedere verso oriente e poi un invito a recarmi verso ponente. Le proposte sono giunte quasi contemporanee, da due persone per nulla simili tra di loro. Comunque due donne. A diffidarmi dal viaggiare verso la Thailandia fu Gabriella, amica di lunga data, girovaga di professione e valorosa sperimentatrice delle febbri tropicali del terzo mondo. Quando le chiesi consigli sulle zone più interessanti da visitare mi rispose con un’e‐mail dove diceva che andare in Thailandia in agosto è proprio da idioti perché significa sfidare i virus monsonici che «hanno la carlinga di ghisa e ti infettano anche i coglioni…» Di fronte ad una dichiarazione del genere sfido chiunque a non rivalutare la questione da cima a fondo. «Perché, non lo sapevi?» — No. «L’ignoransa non se mai bastansa...» A invitarmi a procedere verso la Spagna fu invece una seconda amica, Marilina, donna di tutt’altro stile rispetto alla precedente, che con un primo messaggio essemmesse mi disse di essere in 4
procinto di organizzare una vacanza a piedi “per gente senza troppi problemi di agio e di fiato”... Con un secondo sms Marilina disse ancora che, se volevo, potevo legarmi alla comitiva e partire con loro verso i primi di agosto. Fu lei a inserire per la prima volta dentro alla mia testa quel nome. È vero che l’ignoranza in certi casi non è mai abbastanza, ma in tutta sincerità non pensavo che il mio caso fosse così grave. Ho ancora perfettamente chiaro il suono del campanello d’allarme che si accese dopo aver letto sul display del telefonino il fatidico nome: Cammino di Santiago de Compostela. — Che è? Il ritmo della sequenza diffida/proposta era stato sincronico e io, che di mio sono sensibile ad ogni forma di condizionamento che provenga dall’esterno della mia testa, ancora prima di rispondere al messaggio e senza sapere nulla in proposito avevo già deciso. In fondo, il consiglio di Gabriella non lasciava spazio ad alcuna alternativa valida e in più la proposta di Marilina si adattava perfettamente a un terzo invito, ma questa volta di un uomo, Javier. Javier era uno studente spagnolo in procinto di laurearsi in Italia. In quel periodo si stava preparando per tornare in Cantabria per passare le vacanze in compagnia della madre. Il suo invito consisteva nell’accettare un passaggio fino alla Spagna e passare qualche giorno come ospite a casa sua. Insomma, visto che gli inviti per ponente erano tre, mentre per l’oriente meno di uno, in mezz’ora ho deciso di abbandonare il viaggio nella terra del Tao in favore di uno dei più importanti pellegrinaggi della cristianità. 5
“Perché ‘sta cosa?” Il mio progetto di viaggio in oriente, infatti, era nato dalla necessità di visitare, in condizioni pellegrine, un luogo dove il cattolicesimo non avesse messo radici negli ultimi duemila anni. “Più che altro per vedere com’è…” Non posso dire di essere uno che ha viaggiato molto (in questi ultimi vent’anni anni ho investito più denaro in benzina senza piombo nei distributori cittadini che in viaggi oltreoceano), ma in ogni caso, tutte le volte che ho viaggiato senza l’opzione “se fosse stato per me” mi sono sempre ritrovato in luoghi di culto cristiano e in particolar modo di tipo cattolico. Senza polemizzare sul fatto che provengo da una famiglia piuttosto credente in questo senso, di preti e compagnia cantando, credo di averne fatto il pieno nel corso dei primi tredici anni di vita. E comunque, nei successivi ventitre, ho vissuto l’estremismo cattopolitico giorno per giorno, in prima fila come spettatore di fronte all’orrore dei telegiornali monouso, la politica d’attrazione, la show‐war e, why not?, la religione spettacolo, con tanto di celebrazioni domenicali comprese nel prezzo (della pubblicità)… Senza polemizzare su questi e altri fatti caratteristici del Bel Paese se posso, adesso, vorrei evitare di sentire predicare bene e razzolare male per le prossime tre‐quattrocento vite future. Mettiamola così… Dopo, sono anche disposto a valutare nuovamente l’ipotesi, ma… — Mi faccio sentire io, grazie! In tutto l’affare del viaggio che avevo deciso di intraprendere l’unica cosa veramente chiara era che del Cammino di Santiago in sé ne sapevo meno di zero. Ma nel contempo sapevo che
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quello era il posto giusto, il viaggio giusto, la cosa giusta da fare in quel preciso istante di spazio tempo. Basta. Ci sono delle cose che si sanno e basta perché ti sono dentro da sempre! Di fronte a una simile affermazione, persone che conosco che vivono alla grande grazie al business della New Age, commenterebbero: «Le hai dentro perché ci sei già stato nella vita precedente!» “Ma va a cagare…” Lasciando perdere questi quattro visionari modaioli e parlando di cose serie credo che una simile affermazione vada spiegata in modo chiaro. Ci sono delle cose che si sanno e basta, punto. Non sono in grado di accertare se dipendano da vite precedenti o future, ma di certo so che il Cammino di Santiago è proprio una di queste: un affare che ho già dentro. Per contro, il giudizio di mia nonna era stato fatale: «Sfrutare e vacanse pa camminare on pasto xe proprio da ebeti seto…» Traduco dal dialetto padovano: sfruttare le vacanze per camminare così tanto è proprio da idioti sai… Va detto che se mia nonna ha cento anni suonati non è un caso. Va aggiunto inoltre che, se è viva e gode di ottima salute fisica e mentale, di certo é anche dovuto al fatto che ha sulla scorza i segni di due guerre mondiali come spettatrice, in un caso, e quelli dell’attivismo partigiano nell’altro. Va detto ancora che, se si trova in questo stato miracoloso, è senz’altro perché la sua “praticità” in senso non lato le ha dato una grossa mano. Mia nonna è una persona che dall’alto della sua longevità non ha più niente da perdere. E il suo ragionamento pratico, comunque, non faceva la minima piega. 7
Se sei in ferie sei in ferie, no? Perché devi farti per forza del male? «No te voré miga maearte i pìe vero?» Non vorrai mica ammalarti i piedi, vero? — Mica è detto che ci si ammali nonna — è stata la mia risposta. «Ah, vaeà! Cossa vuto vignerme a contare. Pa forsa te te maii. Tuta chea strada a pìe, te credo ben…» Già in partenza sapevo che non avrei potuto spiegarle che a spingermi a fare quella cosa era il mio desiderio di trovare il Passo Perfetto, l’opportunità favolosa di camminare attraverso il silenzio dei boschi, l’idea di tenere la mente inchiodata al respiro, di meditare passo passo, di arrivare un po’ alla volta e inesorabilmente fino al grande oceano, la fine della terra, là dove non si può più camminare e dove il pellegrino medievale pensava fosse il limite del mondo, il baratro, l’inizio del punto di non ritorno, la fine di tutto. Non lo avrebbe capito! La sua sentenza in ogni caso era stata secca: «Se te me scolti mì te sté casa tua!» Hai voglia di spiegare… Dal giorno della decisione al giorno della partenza mancavano sì e no quindici tacche di calendario. In quella fase perciò ho acquistato lo zaino da dieci litri, la Guida al Cammino di Santiago della Berti Editrice e ordinato gli anfibi ginnici che il mio amico Larry mi aveva consigliato per camminare quando fa caldo. «Li usa la polizia antisommossa del Belgio. Puoi sia correre che camminare, non pesano, non sudi e dentro ci stai da Dio. Costano duecento carte allo spaccio della celere, se conosci qualcuno…» 8
Non conosco nessuno allo spaccio della celere, però sono molto condizionabile in fatto di consumi. Così, ho chiamato la celere, ma il tizio al centralino mi ha risposto che la Polizia di Stato non è un negozio di abbigliamento. — Giusta osservazione Watson! Allora sono risalito alla casa produttrice, ma una certa Tamara del centralino mi ha risposto che l’azienda non poteva vendere ai privati. «Ѐ un problema di contratto coi rivenditori…» — Chi li vende allora ‘sti cacchio di anfibi? «I negozi “Caccia & Pesca”…» — Ah sì? Così ho chiamato tutti Caccia & Pesca delle Pagine Gialle fino a trovarne uno che ne aveva un paio di numero quarantadue, però in magazzino. Doveva vedere. Con la scusa di fare un po’ di allenamento, il giorno dopo, ho raggiunto a piedi il negozio “Fisher Martin Sas di Andrea Pesce” (un nome, un progetto) all’altro capo della città. Dietro una vetrina di mulinelli cromati, il negoziante mi squadra in malo modo. Spiego chi sono e questi cava fuori dal sotto‐banco un paio di anfibi in tessuto di cordura, indicati per gare di resistenza nel Sahara, davvero molto belli a vedersi, ma poco adatti all’uso che devo farne. Mi è stato detto che in certe regioni della Spagna piove spesso e tremo all’idea di dover macinare chilometri con i piedi fradici. Assieme al negoziante guardiamo il catalogo della casa produttrice dove individuo il modello che ho visto addosso a Larry: metà cordura e metà di qualche materiale impermeabile che assomiglia a pelle. Pesce dice che ci vuole almeno una settimana per farli arrivare da Treviso e io, pur sapendo che tra
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sette giorni esatti devo partire, decido comunque di rischiare. Così pago l’acconto e me ne vado. Una delle indicazioni che la Guida Berti sottolinea fin dalle prime pagine è di non affrontare una camminata così intensa con un paio di scarpe nuove, ma io ormai mi sono convinto che senza quegli aggeggi non posso partire e me ne frego altamente. Nel frattempo acquisto anche un paio di sandali tecnici, con tanto di suola in vibram, che userò solo per fare la doccia nei rifugi la sera e che durante il giorno terrò appesi all’esterno dello zaino. Quando arriva il giorno della partenza sono la persona più organizzata del mondo. Zaino con sette chili tra sacco notte, calzoni di ricambio, tre paia di mutande, due di calzini, un paio di canotte, asciugamano, maglione, sandali e, naturalmente, gli anfibi ginnici della polizia antisommossa del Belgio addosso. Partiamo alle sei di mattina con la Seat Ibiza di Javier stracolma di valigie. Siamo io, lui, Samantha, la sua ragazza di Foligno che dice “scioé” invece di cioè e Jordy, un ragazzo che studia medicina in Italia e che crede di fare peccato ogni volta apre bocca, perciò non parla. I primi ottocento chilometri li trascorro sul sedile posteriore dell’auto, schiacciato da una valigia‐armadio di qualcuno di loro e dal mio zaino giallo nero. Lungo l’autostrada superiamo carovane di automezzi guidati da nordafricani residenti in Francia che trasportano giganteschi bagagli sferici sul tettuccio, stretti da strati di adesivi e di corde. A vedere tutte quelle auto in fila una dietro l’altra mi vengono in mente le colonie di formiche che si incontrano nel bosco d’estate e che trascinano, con energia indicibile, porzioni di sottobosco decine di volte superiori sia alla loro stazza che al loro peso. 10
Per tutto il giorno attraversiamo le centinaia di gallerie della Costa Azzurra. Verso sera usciamo dall’autostrada per consegnare Jordy, a mo’ di pacco postale, a suo padre che ci sta aspettando in un parcheggio dell’autostrada francese. Dopodiché, liberi da una zavorra umana e da un paio di valigie ingombranti, iniziamo la sfinente ricerca di un motel dove passare la notte. Dico sfinente perché da Toulouse in poi trovare una camera sembra sia un’impresa impossibile. Ci fermiamo a Carcassonne dove scopriamo che c’è una non si sa quale festa che attira ogni anno centinaia di turisti. Il castello medievale, visto da distante, é illuminato a giorno. Ci fermiamo in una decina di alberghi, ma senza successo. La risposta è sempre la stessa: forse in qualche città più avanti, ma qui è molto difficile. — Grazie. Dopo due ore è notte fonda e noi stiamo ancora guidando (sto guidando). Raggiungiamo esausti una cittadina francese della quale ho rimosso il nome e dopo un lungo girovagare tra tangenziali e avenues circolari individuiamo – finalmente! – un albergo. Albergo non è la parola giusta perché si tratta di un hotel malfamato; il recchione che lo gestisce ci fa strada fino al quarto piano. La stanza numero 37 è lurida e la moquette è impregnata di un odore denso di umidità (o almeno spero sia solo quella…). Faccio notare ai miei compagni che la stanza è priva di armadi, chiaro segno che tra quelle pareti devono soggiornarci solamente ospiti “touch and go” e comunque senza bagagli. La finestra dà su una strada secondaria frequentata da mignotte piene di energia da vendere, appunto… Mentre i miei due compagni di viaggio monopolizzano il bagno mi siedo sul davanzale a fumare le ultime sigarette prima di dormire e dalla mia postazione sopraelevata mi trovo a 11
osservare i movimenti dei trafficanti di sostanze che, visti i modi di trasferimento, definirei illegali. Un via vai di ubriachi senza nome che si trascinano rasente i muri del vicolo di sotto dà al quadro suburbano il tocco finale. Passa un tizio piangendo e lo spio singhiozzare vicino alla grondaia del motel, proprio sotto di me. Un pensiero sadico uscito dal profondo mi invita a centrare il poveraccio con il mozzicone di sigaretta, per poi ritirarmi nell’ombra della stanza a ridacchiare. “Come posso essere così bastardo?” Quando l’uomo passa oltre ne arriva un altro di visibilmente preoccupato che si guarda intorno come se dovesse, di lì a poco, commettere un fottutissimo reato. L’uomo si muove in maniera goffa, appesantito da qualcosa sotto la giacca e trascina i piedi con una strana fretta. Sento che è un’immagine da non perdere e mi metto ad osservare i movimenti del soggetto. Di lì a un secondo, il tizio si infila in una laterale che dà su un muro di mattoni, controllando nervosamente che nessuno lo stia osservando. Una volta in zona l’uomo si avvicina alla parete di uno dei palazzi fatiscenti che lo sovrastano e ci appoggia la fronte. È visibilmente ubriaco, ma lo capisco solo in quel momento e scioè: quando inizia a manovrare qualcosa sulla parte bassa, aprendo il davanti della giacca per estrarre dagli inguini un vermiciattolo sensibile alla forza di gravità. Osservo il rivolo di urina che gli cola da sotto le suole. Rispetto alla principale il vicolo è un po’ in salita e il liquido luminoso scorre felicemente dalla sorgente verso il centro della strada. Di tanto in tanto l’uomo stacca la fronte dal muro dando uno sguardo breve alla sua spalla, nel tentativo di tenere a bada la carreggiata. Il tempo scorre e l’urina pure.
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Dopo un paio di minuti l’immagine assume delle caratteristiche esilaranti, perché l’evacuazione sembra non finire più! A posteriori, credo sia stato lì a svuotarsi la vescica almeno cinque minuti o comunque un tempo infinito di cui la mia esperienza personale non ha memoria. — Cosa caaa ti eri bevuto: il Mar Caspio??? Nonostante la giornata sulla groppa non ho per nulla sonno e in più quella scena inconsueta mi ha dato una nuova sveglia. Sento di essere il testimone silente di un evento straordinario: la pisciata più lunga della storia. Tento di coinvolgere Javier e Samantha, ma sono troppo cotti e impegnati a controllare le probabili zecche del letto per darmi ascolto. Alla fine, quando decido di desistere perché temo possa andare avanti tutta la notte, l’ubriaco finisce di innaffiare il muro del palazzo; con calma naturalmente, ma finisce. Le scrollatine durano un altro paio di minuti e, dopo aver dato una breve occhiata al lago di se stesso, si rimette in cammino visibilmente più leggero nei movimenti di quand’era arrivato. Prima di perderlo di vista per sempre, lo osservo immettersi nella principale della principale, come se niente fosse, e confondersi tra la folla di disastrati e puttanieri. “Un genio”, penso srotolando il sacco di tela. E il primo giorno finisce così. Incrociando le gambe sul cuscino e socchiudendo gli occhi osservo il respiro salire e scendere. E poi ricordo a me stesso che il mio viaggio alla ricerca del Passo Perfetto è appena iniziato. Del “passo” naturalmente nemmeno l’ombra, ma per quanto riguarda la “pisciata perfetta”, come direbbe una signora che
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conosco, avrei un’arancia da spezzare in favore di uno sconosciuto che probabilmente non rivedrò mai più. Poi vado a letto. 2 La mattina ci rimettiamo in marcia rinfrancati da caffè olé e svariati croissant a testa. Arriviamo a Saint Jean Pie de Port prima di mezzogiorno e pranziamo con una bistecca al sangue, una montagna di patate fritte e birra francese. Sentendomi un quarto Tex Willer e tre quarti Kit Carson mi dirigo all’ufficio del pellegrino per richiedere la credenziale. L’ufficio apre alle 15 e c’è la coda. Tra i pellegrini in attesa svettano tre italiani, di Napoli, che tengono banco sparando minchiate in semi‐francese. Faccio silenzio per rimanere mimetizzato e passo per tedesco. Quando tocca il mio turno comunico alla volontaria che gestisce le credenziali che viaggio da solo e che intendo partire il prima possibile. Della serie: sistematemi subito please. La donna mi passa il modulo da compilare con le generalità e la motivazione per cui si intraprende il cammino. Con una crocetta siglo l’apposito spazio vicino alla scritta “ricerca spirituale” e sorrido all’immagine dell’esperto di statistica della curia di Santiago impegnato ad analizzare i dati dei moduli: 6850 sport, 5432 voto religioso, 1300 ricerca spirituale, 3410 curiosità, ecc. Noto che il questionario non contempla la motivazione scientifica e lì per lì penso che se ci fosse stata avrei siglato proprio quella.
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Dal mio punto di vista, essendo mosso da un’intuizione e non sapendo bene di cosa si tratti, il Passo Perfetto è un qualcosa che sta in mezzo tra la ricerca spirituale e quella scientifica. Sembra però che la burocrazia di queste parti non lo preveda. “Fa lo stesso…” Pago la tassa e faccio per andarmene. «Per dormire a Hunto bisogna prenotare – dice la donna – Tu l’hai fatto?» Scuoto la testa. «Non c’è problema – fa lei – chiamo io. Speriamo ci sia posto…» e prende in mano il telefono. Hunto è il primo ostello privato che si incontra andando verso Roncisvalles e… «Il posto c’è!» esulta la donna. «In agosto non è facile trovarlo, sai …» È una signora simpatica, con gli occhialini senza montatura da suora laica e irradia una gentilezza molto umana. «Per Hunto ci vogliono due ore… – dice ancora – Ti aspettano per le sette. Buon cammino pellegrino!» La saluto alzando una mano e con uno strano nodo in gola; esco in strada con un pezzo di cartoncino pieghevole in mano e i tre napoletani che mi guardano in modo strano. Tra me e me penso che ormai non c’è più niente da fare e che è arrivato il momento di partire davvero. Basta scherzare… Dall’altra parte del paese, nella piccola piazzola dove inizia il cammino tradizionale, saluto con un abbraccio Javier e Samantha; riempio la bottiglia alla fontana, mi chino a baciare il suolo e sempre con lo stesso nodo in gola mi metto in cammino! Dopo una ventina di passi mi giro per salutare ancora i due ragazzi e li vedo fermi lì, in mezzo alla piazzola, con le braccia sventolanti come i drappi di una sagra. – Ci vediamo dall’altra parte! – urlo nella loro direzione. 15
Siamo d’accordo infatti che tra circa una trentina di giorni verranno a recuperarmi a Santiago. Procedo di buon passo per mezz’ora in piano, fino a quando non incontro la prima vera salita. A quel punto inizio a rallentare e rallento sempre di più, sudando e deglutendo. Ad un certo momento mi accade qualcosa di strano, che il cuore inizia a palpitare insensatamente, mentre un profondo senso di sconforto mi invade testa, corpo, zaino e tutto il resto. Non ho idea del perché accada, però sento che accade; e scoppio a piangere come un bambino, lì, in mezzo alla strada asfaltata, nei pressi di una freccia segnaletica che indica Roncisvalles. Piango singhiozzando per qualche minuto, accendendomi una sigaretta e cercando di gestire le legioni di dubbi che mi assaltano la mente. Lo zaino mi pesa, non ho ancora fatto tre chilometri e i piedi mi fanno già male. Cosa sta succedendo? “Chi me l’ha messa in testa questa cosa del Passo Perfetto?” «Nessuno» sembra dirmi una voce. «Hai fatto tutto da solo…» “Ottimo!“ Rispondo al mio stesso pensiero a voce alta, senza rendermene conto, come un malato di mente. “Cominciamo bene…” Alla fine mi convinco che piangersi addosso serve fino a un certo punto, così deglutisco le ultime lacrime e mi rimetto in cammino. Dopo qualche minuto arrivo in un borgo a mezzo colle e mi fermo di fronte una casetta chiedendomi se possa essere l’ostello che cerco. Le finestre verdi che danno sulla strada sono serrate. Apro il cancelletto ed entro nel cortile sperando che non ci siano cani. Busso duettre volte alla porta di legno dipinto, ma non risponde 16
nessuno. Sento addosso un caldo atroce e mi misuro la febbre col termometro a pila, poi guardo l’ora sul cellulare. A Saint Jean la signora della credenziale mi aveva detto che per Hunto ci volevano almeno due ore di cammino e io ci sono arrivato… in meno di un’ora. “Ma sono deficiente?!” Dall’altro lato della strada individuo uno stabile di tipo industriale dove, sullo spiazzo di fronte, alcune donne di mezza età siedono comodamente su sedie di plastica bianca. “Sarà quello l’albergue?” Noto che le signore tengono un libro sulle ginocchia e di tanto in tanto chinano la testa sulla lettura. Mi giro per osservare la strada da dove sono salito e a fondo valle vedo Saint Jean Pie de Port con le sue case basse e le sue strade turistiche. Penso a Javier che procede verso il Mar Cantabrico, a Samantha seduta al suo fianco e a Katia che è a casa perché deve lavorare e che adesso mi manca profondamente. Busso un’altra volta alla porta della casa, ma ancora non risponde nessuno. Mi sorge il dubbio che non sia l’albergue che sto cercando, ma poi guardando meglio scorgo un piccolo cartello con impressa la concha, il simbolo del Cammino di Santiago de Compostela, così mi metto il cuore in pace. Appoggio lo zaino al suolo e mi siedo sull’erba del piccolo giardino a contare le formiche, guardando il fondo valle e rendendomi conto di essere nei Pirenei. Un poco prima delle sette la porta si apre dall’interno e ne esce una signora sorridente che, una volta appurato chi sono, mi fa strada attraverso una stanza a vetri adibita a refettorio, fino a un lungo giardino interno con vista sul fondovalle. Il mio alloggio è una casupola bassa in cui c’è un signore di una certa età che riposa disteso su di una branda. Sentendoci entrare l’uomo si 17
alza in piedi e saluta ossequiosamente. La donna mi spiega brevemente come funziona la doccia e mi mostra la branda dove coricarmi. Poi mi ricorda che la cena sarà alle otto in punto e la colazione alle sette e trenta della mattina e se ne va. Rimango nella stanza con il distinto signore e mi presento stringendogli la mano. È un uomo minuto che dimostra una sessantina d’anni. Ha le dita dei piedi fasciate con dei cerotti e due occhi di un azzurro chiaro come non ne ho mai visti. Si presenta come Pierre e dice di venire da Parigi. – Vai anche tu a Santiago? «Dove se no?» risponde allargando le braccia con un sorriso. Pierre è il primo pellegrino vero che incontro nel mio cammino e qualcosa mi dice che potrebbe essere anche l’unico. Fin dalle prime battute ci troviamo d’accordo su molte cose e dopo un po’ che dialoghiamo capisco che l’uomo che ho di fronte è una persona eccezionale e di grande saggezza. Mi racconta di essere in viaggio da due mesi. – A piedi? «Certo!– afferma con naturalezza – Sono un pellegrino…» – Ma da dove sei partito? «Da casa... – risponde ridendo – alla fine di maggio, dallo stesso punto in cui Napoleone diede il suo addio alla Francia...» – Come sarebbe? Quanti anni hai? Pierre ha settantaquattro anni portati benissimo, occhi di un azzurro lucente e modi educati. Nel corso di quella serata mi dice cose di importanza fondamentale per il mio viaggio, perché ci sono parole che hanno un sapore diverso da quello delle semplici parole, un po’ perché arrivano in momenti del tutto speciali e un po’ perché la persona che le dice, il luogo, l’incontro in sé, fa assumere a quelle parole dei significati assolutamente straordinari. Per me, in quel momento, le parole di Pierre sono 18
molto più che semplici consigli: sono conferme. Conferme di cose che avevo pensato riguardo all’atteggiamento mentale da tenere nel corso di questa “strana vacanza”, conferme rispetto a quanto mi aspettavo di trovare lungo la strada e conferme circa l’organizzazione pratica da seguire per arrivare a destinazione nei tempi stabiliti e con il corpo sano. Conferme rispetto all’atteggiamento da tenere nel corso di una vita. Credo di essere una persona davvero fortunata per aver incontrato quell’uomo il mio primo giorno di Cammino. È una specie battesimo del fuoco che sento condizionerà tutto il mio peregrinare lungo la Spagna. Grazie a Pierre tutti i dubbi che avevo prima di arrivare a Hunto si sono dipanati come brina al sole nel giro di una sera. Fin dal primo momento, l’uomo si era posto nei miei confronti con un atteggiamento servizievole e dignitosamente umile. Diceva di essere un pellegrino con la p minuscola. Ma nonostante facesse di tutto per non darlo a vedere, io so che quello era un uomo con la U grande. Uno dei pochi. Un pellegrino vero. Un’anima antica. Uno vero. 3 Inizia la vera salita. Greggi di pecore sono come macchie in movimento sullo sfondo delle valli pirenaiche. Passo attraverso sciami di nuvole dense e quando incontro il sole mi sembra di entrare in un sogno. L’atmosfera è carica di qualcosa che non riconosco, ma che mi infonde un certo ottimismo.
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Cammino a testa bassa, osservando la minuziosità del suolo e sentendo dentro, assieme alla fatica, una sempre più potente voglia di continuare a camminare… «Cammina pellegrino!» Di tanto in tanto mi giro per prendere fiato e ammirare il fondovalle francese, per poi riprendere il ritmo perduto nella pausa, passo dopo passo, inesorabilmente, con o senza sforzo. Dopo un paio d’ore di salita regolare l’ossigeno inizia a confondermi i pensieri. Ansie, paure e strane frette interiori tentano di prendere spazio dentro alla mia testa. Appena posso contribuisco all’accrescimento del caos mentale accendendomi un’altra sigaretta. Superando i mosaici di merda che incontro strada facendo – punta, tacco, punta – agganciato al respiro che entra e che esce dalle narici – tacco, punta, tacco, punta – quanto manca ancora alla fine? – tacco, punta, tacco, punta – novecento chilometri suonati, sembra dirmi una voce – tacco, punta – la stessa voce del giorno prima, quando salivo per Hunto – tacco, punta, tacco, punta – quando sarai sulla vetta dovrai ancora iniziare – tacco, punta, tacco, punta – non ce la farò mai, penso, – tacco, punta, tacco, punta – vedi tu, risponde quella – tacco, punta, tacco, punta – tranquilla e beata – tacco, punta, tacco, punta – fingi di non saperlo, mi dico – tacco, punta, tacco, punta – pensa al respiro all’entrata delle narici, – tacco, punta – pensa al passo perfetto – tacco, punta, tacco, punta – il passo perfetto, il passo perfetto… – punta, tacco, punta! “Perché sono qui?” «Per trovare il Passo Perfetto» conferma la voce. “Sì, ma avanti di questo passo finisco morto e sepolto…” «Depende…»
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Da quel momento in avanti allora il mio obiettivo diventa spegnere la mente dal flusso caotico di pensieri che la opprimono senza tregua. Nelle pendenze più dure aiuto me stesso nell’impresa ripetendo frasi del tipo: “Nessun conflitto, non opporti, fatti attraversare, let it be…” La strada continua a salire fino alla punta più alta dei Pirenei. Il paesaggio è a dir poco stupendo e io sono dimezzato dalla fatica. Verso mezzogiorno sento nell’aria l’avvicinarsi della vetta, quello che la guida della Berti indica come il punto più alto da passare prima di scendere in territorio spagnolo. Poco più in là un pezzo di pietra vicino a una fontana ricorda la morte di Rolando. Da queste parti ci è passato Carlo Magno la cui spada è diventata uno dei simboli del Cammino stesso. Una spada con l’impugnatura lavorata e la lama romboidale dalla cui stilizzazione è stata ricavata una croce. “Un buon programma, mi sembra…” Una volta lì sopra mi fermo a guardare per l’ultima volta la parte francese, assieme a un gruppo di pellegrini dai giacconi sventolanti e con mountain bike a carico, sfibrati dal sudore e con la lingua fuori posto. Scalcio un paio di sassi verso l’esterno del sentiero e guardo davvero per l’ultima volta Saint Jean Pie de Port; poi realizzo che mi deve essere scattato qualcosa dentro, una strana sensazione di “già visto”, come qualcosa che ho sempre saputo e che non è semplicemente “io questo l’ho già fatto”, ma è come una specie di commozione interiore che mi parla della gente, della strada, di questo evento del Cammino come una cosa inevitabile da vivere, per me, da fare… Ed è con questa indefinibile sensazione di appartenenza dentro che mi chiudo consapevolmente nel silenzio, evitando di usare la 21
parola con gli altri pellegrini. Stare zitto, è esattamente quello di cui ho bisogno, che voglio. Decido formalmente di mantenere quello stato di non‐parola per tutto il tempo di cammino che ancora mi manca di affrontare, limitatamente alle possibilità e questo sia per tenere celata la mia identità, sia per evitare di diffondere le mie emozioni. Nello stesso momento in cui lo penso, penso anche che è un ragionamento piuttosto egoistico da fare in un contesto simile; nel contempo però so anche che non m’interessa una qualsiasi alternativa. È così che ho deciso, punto e basta. Sento che non ho nulla da dire a questa gente, nulla da far sapere sulla mia provenienza o sulle mie motivazioni interiori. Nulla e basta. Forte di questa decisione appena presa mi limito a guardare un’ultimissima volta verso il basso in silenzio, sentendo quello che c’è da sentire, oltre al fischio del vento sulle orecchie, i primi dolori lancinanti che salgono dai piedi verso le ginocchia e Saint Jean Pie de Port che si perde oltre le cortine di nuvole sempre più basse. Poco dopo la tomba di Rolando incontro Pierre, seduto sul bordo del sentiero nei pressi di una fontana con le gambe rilasciate sull’erba, che pranza con del formaggio. Ci salutiamo con un sorriso e arranco verso di lui mollando lo zaino con noncuranza, pensando che di sicuro quel peso mi avrà lesionato la colonna vertebrale e che rimarrò infermo per tutta la vita. Mettendo la testa rasata sotto l’acqua gelida mi viene in mente la frase che usa dire il mio amico Javier e che rispecchia perfettamente il mio stato d’animo: hodido pero contento, fottuto ma contento, esattamente come mi sento lì sopra, a qualche ora prima del vero e proprio inizio del Cammino. Bevo due litri d’acqua della fontana stentando a credere all’energia fisica di Pierre, settantaquattro anni e più di duemila 22
chilometri sulle gambe. Eravamo partiti assieme da Hunto alle sette e mezza, dopo una colazione a base di pane e caffé, e mi fatto le scarpe già dal primo chilometro. «Non voglio morire da ricco – aveva detto la sera prima. – Sono solo un pellegrino». Già, penso guardandolo, un pellegrino… La tradizione racconta che fosse di buon auspicio per l’antico pellegrino trovare il proprio bastone nei boschi pirenaici perché, il cosiddetto bordon, sarebbe stato non solo il fedele compagno di viaggio, ma l’avrebbe di gran lunga aiutato a superare le difficoltà delle discese e difeso in caso di visite inaspettate di cani aggressivi o di briganti senza Dio. Quindi, fedele più alla guida della Berti che alla tradizione in sé, una volta iniziata la devastante discesa verso Roncisvalles, passando attraverso gli innumerevoli boschi di tigli, butto l’occhio per il sottobosco fino a quando non sono attratto da una prominenza del terreno. Mi inoltro per qualche metro fuori del sentiero e cavo via dal muschio una punta lingnea la cui corteccia, poco più avanti, ripulirò dal fango delle interperie, usando il temperino svizzero in dotazione col mio marsupio color beige. Si tratta di un ramo bitorzoluto e irregolare che trovo piuttosto adatto all’immagine che in quel momento conservo della mia personalità. Lo sbatto un paio di volte al suolo dal lato della punta e sento un debole cric provenire dalla parte bassa. Penso si tratti di un cric di assestamento e mi convinco di aver trovato il bastone, fedele compagno di viaggio, destinato ad aprirmi la strada fino all’Oceano Atlantico, come indicato dalla guida. Alzo verso il cielo il bastone e ripeto un’esclamazione che, la sera precedente, avevo sentito usare da Pierre con grande foga: – Merci Saint Jacques! 23
La discesa verso Roncisvalles è pesantissima, soprattutto per le caviglie, ma il mio nuovo bastone incute sicurezza e senz’altro mi darà una mano. Arrivo nella piazza di Roncisvalles verso primo pomeriggio sotto un sole cocente, sfinito di passi, con in mente ripetute visioni di sassi e con i piedi letteralmente a pezzi. Le suole degli anfibi ginnici della polizia belga sono roventi. La pianta dei piedi mi duole in almeno tre punti e dico a me stesso che non è il caso di preoccuparsi: di sicuro si tratta di un cric isolato di assestamento, proprio come per il mio bastone nuovo di bosco. C’è una folla di gente a piedi, in bicicletta, in auto e in bus che occupa tutto lo spazio di fronte alla cattedrale. Faccio un breve giro attorno alla piazza fino a raggiungere il rifugio del pellegrino, che è uno stabile lungo e ben messo, che si erge nei pressi della chiesa‐monastero. L’ufficio dei timbri è ancora chiuso e c’è una serie infinita di zaini che fanno la coda in sostituzione delle persone. Mi intrufolo su per le scale che portano alle camerate dove mi immergo in una sauna di odori umani dentro i quali, distese dietro a barricate di panni appesi tra una branda e l’altra, dormono centinaia di pellegrini. Troppi per i miei gusti. So che quanto ho di fronte non è altro che quello che mi aspetta di lì a un mese, ma sento che devo entrarci con calma. Per gradi. Camminando sulle punte per il dolore alle piante dei piedi mi infilo in uno degli unici due bar‐albergue‐ristorante che fanno di Roncisvalles il punto di partenza del Cammino di Santiago de Compostela. Ordino una birra prendendo posto in un tavolo di legno massiccio e appoggio zaino e bastone al suolo, con una certa cura. Qualcosa mi dice di andare pure piano, che non c’è fretta, né altro posto dove arrivare. La prima tappa, se Dio vuole, è 24
terminata ed è bene che mi abitui a funzionare a rallentatore se non voglio finire schiattato al suolo prima del cinquantesimo chilometro. Guardo la gente entrare e uscire, pellegrini, turisti, gente del luogo, nessuna fretta, let it be, grazie Saint Jacques, ammesso tu esista o sia esistito, grazie lo stesso, qualunque cosa tu sia, frutto di invenzione o proiezione assurda per devoti creduloni, grazie comunque, perché sono qui con questa birra in mano, con questa sigaretta accesa, davvero grazie mille… “Sì... mille chilometri ancora da fare!” «Ci sono tre momenti del cammino – aveva detto Pierre – dove io preferisco stare tranquillo e dormire in un hotel vero.» – Ma allora l’hai già fatto? «Sì, l’anno scorso. Ero partito qui da Saint Jean, ma a Leon dovetti fermarmi per la rottura di un tendine. Così ho deciso di partire direttamente da casa.» Finita la birra ne ordino un’altra e colgo l’occasione per chiedere alla barista se ci sono stanze libere. La ragazza chiama un tizio con le basette fino al mento che dice essercene ancora una disponibile. Alzo il pollice per dare conferma ed è fatta. Porto lo zaino e le gambe a pezzi su per le scale. La stanza è la numero 8 e lungo il corridoio incrocio Pierre che esce dalla 24. «Ehilà pellegrino…» Mi accoglie con uno dei suoi sorrisi e mi dice di essere arrivato da un paio d’ore, di essersi lavato e di essere pronto per la messa. – Che messa? «Alle otto, prima di cena, c’è la messa per la benedizione del pellegrino. La maggior parte di gente parte da Roncisvalles e non da Saint Jean.» Decidiamo di cenare assieme e ci diamo appuntamento per la messa. 25
Entro in camera e prima di stendermi sul letto salticchio sul posto per vedere se sopra l’armadio ci sono vecchie copie di giornali pornografici come capita di solito. Poi però mi ricordo che non mi trovo in un motel malfamato nella periferia di una città francese, ma bensì a Roncisvalles, ovvero il punto di partenza del pellegrinaggio più famoso della cristianità. Come può essermi entrata l’immagine di un giornale porno sopra l’armadio? Decido che non mi interessa sapere come sia stato possibile un pensiero del genere e mi stendo dieci minuti a fumare. L’ansia però mi vince dopo poche manciate di secondi e, nonostante la stanchezza mi stia piegando la schiena e i piedi siano della stessa consistenza della trippa al forno, mi alzo, guardo fuori, svuoto la zaino, lavo i calzini e mi faccio la doccia: il tutto in meno di un quarto d’ora. Fuori c’è ancora lo stesso sole cocente di quando sono arrivato. Penso che ho tutto il tempo che voglio per affrontare la coda di pellegrini odorosi all’ufficio timbri, ricevere il primo sello sulla credenziale e spararmi un’altra birra. Dopo il culo che mi sono fatto nella giornata di oggi (anche se sarebbe più corretto parlare di piedi più che di culo) penso di averne tutto il diritto. “A costo di diventare il primo pellegrino della storia alcolizzatosi strada facendo…” Per quanto riguarda la credenziale e il sello da apporre al suo interno la cosa funziona così: la Credenziale è una specie di passaporto che, solitamente, viene fornito su richiesta e a pagamento dall’ufficio di zona all’inizio del Cammino. La credenziale dà diritto a un posto al coperto dove passare la notte, alla doccia giornaliera, che non è quasi mai calda, assistenza in caso di bisogno e protezione da
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parte delle autorità spagnole. Inoltre permette sconti sul cibo e sul prezzo d’entrata delle zone di cultura. Il sello invece è la prova del passaggio del pellegrino in un determinato luogo e non è altro che un timbro da stampare sulla credenziale che servirà, una volta giunti a Santiago, a comprovare l’avvenuto transito in tutte le tappe del pellegrinaggio. Una credenziale con un numero minimo di sellos permette di ricevere la Compostela ovvero un documento personalizzato redatto in latino, che dichiara l’avvenuto pellegrinaggio del soggetto e la devozione a San Giacomo e gli dà diritto all’indulgenza plenaria per l’anno in corso ovvero all’assoluzione di tutti i peccati di tipo veniale. “Farsi una sega è un peccato veniale o cosa?” Fermo restando che a me, questa cosa dell’assoluzione dei peccati, è un affare che fa morire dal ridere (per non dire piangere da morire) già nel richiedere la credenziale ho deciso di accettare questa regola e mi metto in coda per il sello. Questo tipo di burocrazia è una cosa che, ai fini della mia ricerca del Passo Perfetto, non toglie né aggiunge nulla. Quindi ben vengano i timbri… Il sello di Roncisvalles è un timbro graficamente davvero molto bello. La forma ricorda quella di una vagina disegnata per mano di un diciassettenne brufoloso sul muro del cesso di un istituto superiore. Al centro della figura si staglia la sciabola rovesciata di Carlo Magno, simbolo millenario del cammino stesso; all’estremità superiore si aggancia la tipica spirale del bàculo di Santiago pellegrino, mentre l’estremità inferiore della spada/croce si conclude con una triplice punta a pata de oca. Attorno la spada galleggiano un paio di gigli stilizzati, antichi parenti del classico simbolo fiorentino, più le lettere dell’alfabeto A e N che, noto immediatamente più che altro perché sono le 27
iniziali del mio nome. Infine, lungo il perimetro interno della vagina c’è la scritta S’Conventus Hospitalis Roscidevallis.o che per me significa meno di quello che significa. Ad apporlo sulla mia credenziale nuova di zecca è una signora dalla bocca sottile, la montatura degli occhiali da profesora e un carattere piuttosto irascibile. Me la cavo in meno tempo di quanto pensassi e ritorno sotto il sole della piazza a osservare i pellegrini‐turisti circumnavigare il convento. Molti di questi stendono panni appena lavati nei pressi dell’hospital e noto una bionda dal seno rubicondo appendere un asciugamano ad un filo; altri invece entrano ed escono dalla cattedrale e io, per non sentirmi da meno, lascio giù un migliaio di pesetas alla ragazza sulla soglia del museo e mi faccio un giro dentro. Quando ne ho abbastanza di monete, candelabri e codici dell’ultimo millennio ritorno sulla piazza principale dove incontro Nonna Rosita, sorridente e strabica dietro la montatura argentata delle sue lenti convesse. Rosita è una signora tedesca di circa sessant’anni. Me l’ero trovata seduta a fianco la sera precedente nella mensa di Hunto. A pelle non m’era parsa per nulla simpatica, soprattutto per il fatto che si era intromessa ineducatamente nei discorsi che stavo facendo con Pierre, almeno un paio di volte. Aveva detto di abitare nel Sud della Germania, di avere due figlie e almeno tre nipoti e di chiamarsi Krrooositen (o una cosa simile) da cui l’appellativo di Nonna Rosita. La stessa sera avevo conosciuto un gruppo di cattolici francesi che pernottavano nello stabile industriale di fronte all’ostello e che erano scesi all’albergo per cenare. Il gruppo era coordinato da un uomo giovane dal sorriso orizzontale le cui attenzioni erano richieste da tutte le signore della compagnia. 28
Fernand Nonsepà, con l’occhio superbo di chi ha letto molti libri sulla catechesi, mi aveva raccontato che il lavoro del suo gruppo consisteva nel rivalutare la fede cattolica sulla base delle necessità di oggi giorno, al punto di considerare il pellegrinaggio verso Santiago una cosa fattibile anche in molti anni, a piccole pillole, cinque giorni al massimo alla volta, senza stressare più di tanto il corpo, con assistenza automobilistica in caso di necessità, pranzi in ristorante, notti in alberghi veri, ecc. Tutto programmato insomma. «Noi stiamo facendo il pellegrinaggio verso Santiago in… dieci anni! Un po’ come il pellegrino antico, no?» – In che senso scusa? Prima che finisse di spiegarmi la questione nei dettagli una frizzante signora di Grenoble si era alzata in piedi prendendo la parola senza che nessuno gliela concedesse. La donna aveva iniziato una tirata sul fatto che quella cosa che stavano facendo ormai da cinque anni era un’esperienza davvero grandiosa perché portava tutti a sentire dentro un senso di comunione che, a quel punto si alzarono in diversi per confermare, «ti cambia v‐ e‐r‐a‐m‐e‐n‐t‐e dentro». Una volta finito di confessarsi pubblicamente, trovandosi per altro quasi tutti in piedi, avevano deciso che era tempo di cenare e quindi avevano imposto ai commensali non facenti parte del loro gruppo, cioè Pierre, Nonna Rosita e il sottoscritto, un omaggio cantato del tipo “Grazie Signor…” però in francese, quindi “Mersì Messier…”. Quindi, a canto terminato abbiamo avuto accesso in sequenza: alla minestrina di brodo di pollo, al cotechino col puré, all’insalata con la salsina e al dolce di mele. Vino e caffè inclusi nel prezzo. Quando verso fine pasto si sono sognati di farmi la fatidica domanda non mi sono stupito più di tanto. E quando, alzandomi con l’intenzione di appartarmi per 29
fumare una sigaretta, ho notato una smorfia di disgusto generale, non mi sono stupito più di tanto. E quando, per rispondere alla loro domanda, ho detto di star facendo il Cammino di Santiago per trovare il Passo Perfetto, e ho visto le loro facce incredule corrugarsi a partire dal centro della fronte fino a raggiungere la giugulare, di nuovo non mi sono stupito più di tanto. “Si sa che sono così…” La maggior parte di cattolici che ho incontrato mi sono sembrati tutti così presuntuosi e convinti che il loro credo sia l’unico che valga la pena di essere preso in considerazione, mentre tutto il resto è cacca pura. Un atteggiamento simile a casa mia si chiama fondamentalismo e se i signori cattolici fossero davvero nel giusto dovrebbero sapere che ognuno prende la vita nel modo più adatto a se stesso e non c’è nessuna critica o colpa in tutto ciò perché nessuno sta, effettivamente, sbagliando. Però non è così! Sulla piazza di Roncisvalles comprendo che, se voglio evitare di fare un mese di muro contro muro con il mondo di pellegrini che mi attende di lì a Santiago, devo fare uno sforzo di volontà; così decido su due piedi di mettere da parte i miei santi pregiudizi e propongo a Nonna Rosita di andare a prendere una birra in compagnia. Una tedesca che rifiuta una birra non è una tedesca. E Nonna Rosita, con un passo perfetto da Terzo Reich, mi scorta fino ai tavolini del ristorante‐bar dove prendiamo posto di fronte allo spettacolo del sole nel tramonto. Il tema principe di ogni discorso tra pellegrini è cosa ci aspetterà l’indomani. E sorseggiando birra e lemonada, in onore all’acido salicilico, ognuno di noi racconta quello che la propria guida racconta.
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Quando l’ora della cena si avvicina saluto Nonna Rosita e mi rintano nella stanza d’albergo a guardare il muro stando seduto sul cuscino del letto con le gambe incrociate. Alle otto meno qualche minuto, preciso come un orologio svizzero, Pierre si presenta alla porta della mia stanza. Il tragitto fino alla cattedrale lo faccio nuovamente zoppicando. «Ne farai l’abitudine» commenta Pier in inglese. – I hope so – rispondo guardando verso l’alto e ridendo del mio inglese di merda. La messa è tenuta da cinque padri di qualche ordine a me sconosciuto vestiti di bianco che, quando è il momento, si appostano a semicerchio sul bordo dell’altare e puntano le mani in direzione della massa di gente, recitando una sequenza di formule magiche, tassativamente in latino. Devo dire che, nonostante il senso critico e tutti i pregiudizi che mi porto dietro nei riguardi del cattolicesimo, il rito delle mani mi commuove al punto che mi ritrovo a piangere come un pirla, lì in mezzo la gente, con Pierre che mi osserva con la coda dell’occhio e Nonna Rosita, poco distante, che fa finta di non vedere. Una volta fuori ci dirigiamo al ristorante dove ordino il primo menu della mia carriera di pellegrino: zuppa di lenticchie, pesce alla brace e dessert. L’anis per me e il Cognac per Pierre non sono compresi nel prezzo e li pago a parte, insistendo perché il francese me lo lasci fare. Dopo una buona ora di ragionamenti sulla vita e sulle cose della, ci salutiamo con una stretta di mano, forse per non rivederci mai più. Una volta in camera scrivo sul taccuino da viaggio un paio di frasi volutamente malinconiche e mi siedo sul letto a respirare. Prima di dormire do un ultimo sguardo ai piedi provando una certa compassione per me stesso
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per via delle numerose macchie rossastre che, in ordine sparso, si stanno formando su pianta e tallone. Quella notte sogno bolle sulla pelle gonfie di liquido giallo, una scacchiera di sassi tozzi e le mani dei frati puntate sulla gente. L’indomani mi sveglio per il rumore delle punte dei bastoni sulla ghiaia e odo le voci dei primi pellegrini muoversi verso la strada. Mi alzo con il desiderio impellente di affondare il naso nel vapore caldo di una tazza di caffè espresso e i denti nella glassa di un croissant. Quando scendo con lo zaino in spalla però scopro che il bar dell’albergue è ancora chiuso e così mi metto in cammino con il buio senza fare più di tante storie, cioè imprecando. Di Pierre e Nonna Rosita nemmeno l’ombra. – Buen camino, peregrinos! 4 La mattina del secondo giorno trascorre per buona parte alla ricerca di un bar dove fare colazione. Per il resto procedo urlando dal dolore per via delle vesciche ormai mature che, ad ogni sasso, mi strappano da dentro una sequenza di oscenità rivolte al centro della Terra. Nonostante i luoghi attraversati siano di bellezza indicibile, tutta la mia mente è concentrata a individuare i punti del suolo dove, nel poggiare i piedi, il dolore sia attutito. Penso non sarà per niente facile arrivare a sera. Mi rendo conto di essere lo spettatore/protagonista di una tortura cinese in grande stile. Sembra che qualche spirito bastardo del sottosuolo, armato di spara punti, si diverta ad infilzarmi le piante dei piedi con chiodi velenosi, esattamente ad ogni passo.
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Un dolore lancinante dietro l’altro, coerente, quasi visibile, che partendo dal terreno rimbalza come un fulmine al contrario, a volte fino alle ginocchia, altre volte direttamente fino al cervello. Praticamente un macello. Devo chiamare al rapporto tutta la concentrazione che conosco per rimanere calmo e procedere, perché la tentazione è quella di mandare tutti al diavolo, sedermi sul bordo del sentiero e aspettare di morire dal dolore. Da un certo punto in poi del tragitto in direzione di Zubiri, una volta iniziata la discesa, mi sale da dentro un umore così nero che, camminando, mi sembra di proiettare verso il suolo due ombre. Mi ritrovo a camminare giù per il monte facendo un passo ogni tre secondi, chiedendomi come possa essere che, con questi meravigliosi anfibi ginnici della polizia belga che ho addosso, dei fottuti sassi possano fare tanto male. Carico il peso sul bastone per lenire la pena e alleggerire la pressione sul fondo dei piedi. Cammino sulle punte che mi sembra di essere un ballerino sciancato perdutosi nel bosco sul fare di mezzogiorno. Ad un certo punto il sentiero cambia forma e si somma con il letto di un ruscello privo d’acqua. La discesa si fa molesta e devo lavorare molto con i muscoli delle gambe, facendo pratica con l’uso del polso, così da manovrare il bastone. Di tanto in tanto scorgo attraverso le fronde degli alberi l’avvicinarsi di un paese, augurandomi di tutto cuore si tratti di Zubiri. Respiro, tengo duro, impreco ancora, perdo il ritmo e cerco repentinamente di ritrovarlo. Il dolore però non accenna a diminuire. Non vedo l’ora di arrivare a valle e mettere fine alla mia pena. Quando mi arrendo all’idea che lo stato in cui mi trovo è permanente, da dietro, sbuca un tizio che non avevo sentito arrivare. 33
L’uomo è bardato di tutto punto con indumenti e attrezzature molto al passo coi tempi e saltella velocemente a ridosso del sentiero, schivando pietre e cunette, come un capriolo. Dopo qualche secondo mi raggiunge di lato e rallenta. Essendo troppo impegnato a gestire il mio passo infermo lo saluto con un grugnìo. Questi non accenna a rispondere e mi osserva prima i piedi e poi le mani, prima di commentare in castigliano: «Quel bastone non va bene!» Della serie: “Qualcuno ti ha chiesto qualcosa?” Vedendo nessuna risposta dalla mia parte l’uomo rallenta ancor di più il suo passo energico e inizia un simposio senza fine dal titolo “sul perché il tuo bastone non va bene”. Rispondo a monosillabi facendogli capire che in quel preciso istante ho ben altri problemi, del tipo arrivare quanto prima a Zubiri e mettere a tacere i dolori delle estremità inferiori, più che il bastone. Il tizio però dimostra una totale insensibilità per il mio problema e continua il monologo in maniera ossessiva elencando i punti deboli dell’oggetto che mi sostiene, mostrandomi invece i punti di forza del suo, un bastone alto quasi due metri e con la punta in gomma, che manovra agilmente con entrambi le mani. – Farti i cazzi tuoi, no? Il mio italiano parlato gli passa attraverso, perché continua la tiritera per almeno altri cinque minuti che, in un bosco, in discesa e con i piedi a pezzi, sono una specie di eternità. Dopodiché, con la stessa velocità con cui è arrivato, se ne parte dicendo di voler raggiungere quanto prima Zubiri per un problema di “hambre”. – Adios! «Hasta la vista…» fa l’uomo. – Sì… – commento – visto che asta? Appena se ne parte cerco di ritrovare il ritmo interiore che ho biecamente perduto nel dargli ascolto. 34
Penso alle distrazioni come causa primaria della perdita di concentrazione. Mi vengono in mente cose che ho letto in passato sulla questione e mi metto di buona lena a limitare il peso del mio passo verso il suolo e a controllare il respiro. Arrivo a Zubiri dopo un’ora di continua discesa nel canalone, con la testa che mi esplode per il dolore accumulato e la mente nel caos per l’iperventilazione. Mi infilo nel primo bar che incontro sulla strada per ritrovare refrigerio e un po’ di tranquillità psicofisica. Il ragazzotto che sta dietro il banco mi allunga una birra ancora prima che gliela chieda e ciò per me significa due cose: o la mia faccia contorta dal dolore non lascia pensare a nulla di buono (e questo ha capito che è meglio accondiscendere lo straniero alla svelta prima di rischiare qualcosa di brutto), oppure i mantra che ho recitato nelle ultime tre ore, al fine di limitare le bestemmie, mi hanno fatto sviluppare poteri psichici tali da riuscire a ordinare da bere senza l’ausilio della parola. In questo ultimo caso sarebbe la prima volta in assoluto nella mia carriera di umano. Troppo stanco per stare lì a pensare quale delle due ipotesi sia quella buona mi trascino con la birra in mano fino al primo tavolo libero e mi lascio crollare sulla sedia. È incredibile con che velocità recuperi vitalità un corpo martoriato dopo essersi nutrito con una birra, un paio di sigarette e un bocadillo con chorizo. Il chorizo è un salamino piccante tipicamente spagnolo che ha il potere di svegliare i morti. Mangiare chorizo o chistorra (che è una variante tipica del paese basco) e sentire questa carne salata dal retrogusto di sangue misto a pimienta attaccartisi ai denti, proporzionalmente alla rimessa in moto delle energie vitali, è
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un’esperienza che tutti dovrebbero provare, vegetariani convinti in particolar modo. Mentre mastico con cura il mio pasto carnivoro fisso gli occhi su di una slot‐machine elettronica in fondo al locale e, lasciandomi ipnotizzare dalle lucette stroboscopiche, ragiono sul fatto che, se già al secondo giorno di cammino sono ridotto in questo stato, la strada per il riconoscimento del Passo Perfetto si presenta dura e piena di insidie. Il discorso sulle insidie mi fa tornare in mente una citazione di Pier, due sere prima a Hunto, circa una superstizione legata al Cammino di Santiago. «Si racconta» aveva asserito l’anziano francese «che ogni pellegrino, durante il corso del suo viaggio, debba incontrare per almeno tre volte Satana…» – Sarebbe a dire? «È una superstizione naturalmente…» aveva continuato l’uomo «Un vecchio credo che può essere vero come no!» – Ma cosa dice di preciso? «Che il Male si farà riconoscere e il pellegrino dovrà scacciarlo con forza. Per tre volte…» A quel punto gli avevo fatto una domanda d’obbligo: – A te è mai successo? Pierre, da dietro l’azzurro dei suoi occhi color mare, mi aveva scrutato in silenzio facendo un breve accenno con il capo. E non aveva aggiunto altro. Immerso nella nuvola di fumo di tabacco nero, reso perfino dolciastro dall’aria condizionata regolata a livelli da freezer, con gli occhi accecati dalle lucette del videogame, rimango una buona mezz’ora a sorseggiare birra e a fare collegamenti mentali tra quanto mi aveva raccontato Pierre a riguardo della
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superstizione e il tizio “negativo” che avevo appena incontrato scendendo lungo il canalone. Dopo qualche minuto sono di nuovo in strada, zaino in spalla e bastone in pugno, determinato a raggiungere l’ostello dove far riposare i piedi fino all’indomani, rimanendo a discreta distanza da altri pellegrini insidiosi e logorroici. Uno di questi, che incontro strada facendo mi dice che, nonostante siano solo le tre del pomeriggio, l’albergue è già stracolmo di gente. Faccio come se non mi avesse detto nulla e raggiungo lo stabile messo a disposizione dal comune per il flusso di camminanti giornalieri. Una volta sul posto mi rendo conto di essere nella merda fino al collo perché vedo stuoie appostate ovunque, calzini lavati di fresco ovunque, umani ovunque, code per il cesso, code per la doccia e non un centimetro quadrato di pavimento disponibile per stendersi a dormire, nemmeno nel giardino esterno. – Ottimo, zio lupo! Mi siedo su di uno scalino a controllare i piedi e una volta tolti gli anfibi ginnici della polizia belga scopro una situazione peggiore di quella che pensavo. Ho le calze di cotone inzuppate di sangue e una decina di vesciche aperte, dalle caviglie alle ande. “Non posso procedere in queste condizioni – penso – né con queste troie di scarpe addosso…” Libero dallo zaino i sandali da trekking che mi ero preso per fare la doccia nei cessi contaminati ed estraggo dall’astuccio il Tea Tree Oil e il rotolo di cerotto da medicazione che mi ha dato mio fratello che lavora in ospedale; in una decina di minuti confeziono la prima di una lunga serie di opere d’arte corporea che, nelle ore successive, mi renderanno evitato dalla massa, per nulla invidiato e spesso temuto, soprattutto per il rosso sangue
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che impregnerà le fasciature ben visibili dalle aperture dei sandali. Da Zubiri in poi decido di abbandonare calzini e anfibi ginnici al loro destino e di presentarmi al mondo a piedi nudi (si fa per dire visti gli strati di cerotti che li circondano). L’idea di procedere a cavallo dei sandali mi preoccupa un po’ per via delle caviglie mal sostenute, il cui dolore interno mi lascia molto pensare, ma decido di affrontare il problema in un secondo momento. Così, lascio cadere i calzini sul fondo dello zaino e appendo gli anfibi ginnici della polizia antisommossa belga alle cinghie esterne, usandoli come contrappeso: per sempre. “Antisommossa ‘sto cazzo!” Comunque grazie lo stesso, Larry. Una volta conclusa la medicazione mi rimetto in marcia, caricando tutto il peso che posso sul bastone. Il mio nuovo obiettivo è raggiungere la tappa successiva indicata dalla guida Berti che, secondo una stima parziale, dista da Zubiri cinque chilometri ovvero, secondo la metrica del pellegrino medio, un’ora di cammino. Almeno due per me, viste le condizioni. Procedo a passo minimo raggiungendo dei livelli di lentezza da bradipo, che non avrei mai pensato possibili per la mia persona. Questo ritmo mi dà modo di ascoltare nella sua complessità tutto il male che arriva da sotto, al punto di riuscire a selezionare ventisei tipi di dolori differenti di cui: tredici sotto la pianta del piede destro, otto sotto quello sinistro, quattro sulle gambe (caviglia e ginocchio, destra e sinistra) e uno intercostale circa a metà schiena.
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Il posto che devo raggiungere si chiama Larrasoaña e per arrivarci bisogna uscire da Zubiri attraversando una cava di ghiaia in attività e procedere a mezzo colle per un paio di chilometri fino a inoltrarsi nuovamente nel bosco. Non vedo pellegrini nelle vicinanze e mi permetto di canticchiare con libertà canzoni di chiesa di quand’ero bambino: – Purificami o mio Signoreee, sarò più bianco della neveee… Dopo qualche centinaio di metri mi torna il buon umore fino a quando non mi trovo a dover salire ancora. Dopo due giorni di viaggio inizio ad avere le prime avvisaglie dell’autonomia energetica del mio corpo. Noto che i momenti peggiori sono quelli che vanno dalle tre del pomeriggio in poi, quando la calura si fa pressante, il calo energetico cresce e i ventisette esemplari di dolori si fondono in Uno di bello grosso e di natura insopportabile. Alla fine dell’ultima salita ho la lingua che mi esce dai denti per la disidratazione e mi autoinculerei per non aver riempito la bottiglietta d’acqua alla volta dell’ostello di Zubiri. Per fortuna lì in alto trovo un caseggiato di contadini a ridosso di una stalla di maiali, dove un tizio lava un attrezzo agricolo con un tubo di gomma. Chiedo a motti il favore di bagnarmi il capo assolato e l’uomo, non senza divertimento, mi spara il getto d’acqua fresca sul volto. A lavaggio terminato mollo zaino e bastone al suolo e mi distendo sul tufo per recuperare le energie. Rimango un quarto d’ora a rincoglionirmi con l’odore dei suini, aspirando tabacco Fortuna e ammirando le gambe frantumate e i miei piedi da lebbroso lasciare tracce di sangue sul cemento di fronte la stalla. Quando sto per alzarmi e ripartire, dal sentiero proveniente da Zubiri, sbuca un gruppetto di camminanti di cui tre donne giovani e un uomo di mezza età. Etichetto il gruppo
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come “la classica famiglia tedesca”, composta da padre, madre e due figlie: tassativamente bionde‐occhi celesti. A pelle le donne mi sono simpatiche, quella più anziana ha gli occhiali da intellettuale di sinistra che mangia biologico; le altre invece hanno due poppe da capogiro e penso che non sia un caso che mi stiano così simpatiche. Una delle due in particolare è così giovane e bella che, appena si scrolla di dosso il sudore con un movimento energico del busto, ritrovo il senso di tutta la sofferenza gratuita alla quale mi sono sottoposto fino a quel momento. L’uomo invece, solo a vederlo, mi sta sulle balle. Più tardi però, pensandoci meglio, capisco che l’antipatia per l’uomo è dovuta più che altro all’ampia trippa che si porta appresso e non ultimo per l’estesa calvizie che lo contraddistingue. “Non è il mio tipo”, penso tra me e me. In realtà il pregiudizio estetico, che ai miei occhi lo fa sembrare antipatico, non si basa su fatti reali, ma su semplici considerazioni emotive: non è una donna. “Potrò avere una simpatia, no?” Più tardi scoprirò che il tizio con le donne non aveva nulla a che vedere e che il fatto stessero camminando assieme non era altro che una casualità del Cammino che li aveva portati a condividere il tragitto di una tappa, ma null’altro. Alla faccia della famiglia tedesca che mi ero immaginato… La terza ragazza è la stessa che avevo adocchiato il giorno prima a Roncisvalles, mentre stendeva biancheria appena lavata su di un filo posticcio tirato per l’occasione tra un palo della luce e la lunetta di divieto di passaggio di un negozio di souvenir. Rimango seduto di fronte alla stalla ancora qualche altro minuto, mentre le ragazze si bagnano a vicenda con la gomma,
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godendomi lo spettacolo dei loro capezzoli irti puntati verso di me come baionette sotto il sole. Penso che quello che si dice della Spagna sia vero, ci sono dei paesaggi stupendi… Dopo qualche minuto ci rimettiamo in moto tutti assieme – o meglio: io mi rialzo quando loro ripartono, rinvigorito dal Kan Kan a cui ho appena assistito – anche se una voce da dentro mi urla minchiate del tipo: “che ognuno vada per la sua strada” oppure “non legarti a nulla che non sia il tutto” o ancora “tieniti lontano dalle distrazioni”… Cagate, insomma. Così, per un poco, viaggiamo in fila indiana e in silenzio ma, dopo qualche centinaio di metri, le lascio andare avanti. Il loro ritmo è troppo lesto per le mie gambe e la mia resistenza al dolore inizia a vacillare pesantemente. Arrivo a Larrasoaña dopo una buona ora di insulti nei riguardi dei sentieri montani. Il pavimento dell’ostello è tappezzato di carne umana e trovo le ragazze tedesche impegnate in una discussione in esperanto con una hospitalera piuttosto logorroica. Mi introduco nei loro discorsi e comprendo che la volontaria vuole convincerci a proseguire e raggiungere l’ostello successivo, che significa almeno un’altra ora di cammino. – Non se ne parla neanche, sorella… Iniziamo una trattativa sfinente e alla fine ci è permesso di appostarci all’esterno dello stabile, in un giardino di cemento sul retro della costruzione, con vista su di un fiumiciattolo e confinante con un parco giochi più ucraino che spagnolo. – Sempre meglio di una ginocchiata sui ciglioni – commento verso le ragazze, sapendo che non comprendono l’italiano. In realtà l’idea di mettermi per strada col rischio di dovermi fermare in mezzo a un campo da solo non mi alletta per niente e 41
tutta la voglia che avevo poco prima di fare il pellegrino solitario e misantropo mi passa in un batter d’occhio. Così, ci appostiamo nel morbido cemento e nel farlo ci sentiamo tutti e quattro più protetti perché, per quanto sia il retro di un ostello, è pur sempre un ostello. O no? Intuisco che le ragazze stanno pensando la stessa cosa e così, stendendomi di schiena sul calcestruzzo umido, realizzo che la situazione in cui ci troviamo ricorda, metaforicamente, quella della maggior parte di famiglie di questi ultimi anni: che si formano più per necessità che per amore. Mi allungo al suolo riposando gli occhi con l’azzurro‐rosa del cielo, pensando che il mito dell’antico detto dovrebbe essere sfatato, perché non é “l’unione a fare la forza”, ma più che altro “la paura a fare l’unione”… Quando la mia testa ne ha abbastanza dei pensieri e i miei occhi del cielo, scarto la confezione di cerotti imbevuti di sangue dei piedi. Scorgo sguardi di schifo attorno mentre estraggo il kit di cucito e “opero” le ampollas con l’ago e il filo. Un tizio, che sembra particolarmente infastidito da quanto mi appresto a fare, si avvicina per guardare meglio. È un inglese sui cinquanta, con barbino e occhialetti che dice di essere medico e di non approvare quanto sto facendo per via dell’infezione che l’ago può provocare. Gli mostro l’accendino che ho usato per sterilizzare la punta e questi mi risponde con una smorfia di disgusto. – Be’, cosa proponi allora? Mi propone un paio di cerotti “Second Skin” che proteggono la vescica dagli urti. – Grazie, ma finché il liquido non esce il dolore continua… Insiste nel dire che è meglio che la vescica si secchi da sola e mi allunga un doppio paio di cerotti. 42
– Grazie mille, dottore – rispondo col mio inglese di merda. – Domani mi saranno molto utili. Dopodiché continuo a intervenire sulle ferite, disinfettando la mia opera col Tea Tree Oil. Con la coda dell’occhio scorgo l’uomo scuotere la testa e borbottare qualcosa alla moglie. Intuisco che a turbarlo così tanto non deve essere la mia sfrontatezza nell’usare l’ago e il filo sulla pianta del piede quanto il mio affronto alla medicina tradizionale che impone una serie di regole al di fuori delle quali non è possibile intervenire senza provocare ulteriori danni. La mia non competenza in materia deve averlo irritato al punto di sparire dalla circolazione per non vedere «un rozzo italiano (forse tossicodipendente) procurarsi inevitabilmente il tetano!» Appena il medico scompare dalla scena noto che il botta e risposta che ho avuto con lui ha creato un certo trambusto nel giardino di cemento, nel frattempo riempitosi ulteriormente di pellegrini stanchi e impolverati. L’operare empirico sulle vesciche ha dato vita a due gruppi distinti tra sostenitori e contrari che, a quel punto, discutono animatamente della questione. Dopo un po’, il mio metro quadrato di cemento diventa meta di visite da parte dei sostenitori che vogliono osservare da vicino l’opera compiuta, chiedendo il permesso di fotografarmi i piedi e portandomi in dono cerotti di varie dimensioni, bottigliette di disinfettante Betadine, garze sterili, aspirine effervescenti e quant’altro… Alla fine, ho il mio bel da fare a rifiutare tutti gli omaggi che mi pervengono che devo eclissarmi nella doccia dell’ostello, per essere lasciato in pace e uscire definitivamente dalla conversazione. Quando torno tutti si sono dimenticati della questione e mi stendo nuovamente a chiacchierare con le tre ragazze tedesche 43
scoprendo che la più anziana si chiama Anna e fa l’avvocato civile ed è la mamma della più giovane, Antonia, quella con le tette da capogiro. Antonia studia qualcosa che non mi è chiaro in un istituto superiore di Dusseldorf. La terza invece, quella che stendeva i panni a Roncisvalles, si chiama Martina, ha finito da poco gli studi magistrali e abita in un paesino dalle parti di Friburgo. Chiacchieriamo del Cammino fino al tramonto quando propongo alle donne di andare a cercare un ristorante dove cenare. Larrasoaña però non offre nulla di speciale se non un bar‐ ristorante‐alimentari‐giornalaio. Così ceniamo tutti e quattro assieme (cioè tutti cinquanta assieme) all’interno dell’unico disponibile e poi ritorniamo al giardino di cemento per affrontare la prima notte sotto le stelle. Fortunatamente il cielo è sgombro e sembra non abbia nessuna intenzione di piovere. C’è perfino la luna che spicca argentina sui tegoli vecchi dei tetti che, a vederla così, è una vera e propria poesia. Posiziono il mio caro bastone vicino allo zaino. Mi siedo qualche minuto a fare propositi e a respirare. Mi stendo a pancia in su, con gli occhi rivolti alla meravigliosa cupola di stelle e penso in sequenza a: Dio (nella sua genericità) ai nostri progenitori delle Pleaidi che ci osservano dalla Shambala in terra ai Santi in generale e ai monaci erranti in particolare alle meteoriti al Glorioso Sakyamuni al Conquistatore Maitreya che verrà nel quattromila e qualcosa a quanto affermano gli Elhoim riguardo alla nostra natura di esperimenti genetici primordiali 44
a quanto sono fuori di cranio gli Elhoim ai capezzoli delle tedesche al Cammino che sto facendo a quanto siamo fuori noi che lo stiamo facendo alla vita che scorre inesorabilmente alla morte e al bardo ancora alle stelle a Pierre al discorso del diavolo all’Amore Incondizionato a quello che mi aspetta l’indomani a quello che mi aspetta nel caso dovesse piovere al telone di nylon che qualcuno ha messo nell’angolo del cortile di sicuro per qualcosa… al mio nuovo bastone… Smetto di pensare quando sento la mano di Martina, cercare la mia spalla. Ha posizionato il suo sacco vicino al mio e mi sembra opportuno accogliere quell’invito da italiano doc. Così, mi aggancio con il palmo della mano alla sua tetta più vicina ringraziando Dio per quello che ha fatto quella volta. Sento la punta del capezzolo affilato e penso che lei desideri che mi punga le dita. Accetto quella pena e mi torturo in silenzio. Penso che si senta sola. Altrimenti non mi avrebbe cercato. L’iniziativa non è stata mia. Quindi nessuna colpa. Infatti lo desidera. E si lascia fare. – Vuoi una sigaretta? Non risponde. Traduco quel silenzio. Per me significa: “no, continua a toccare, per favore”. Così, continuo a massaggiarla lasciando che gli occhi mi si chiudano dal sonno. Neanche a dirlo e gli occhi mi si chiudono. Li riapro due o tre volte per controllare di non avere in mano la luna. Sto crollando 45
dalla stanchezza. No, non è la luna. È la tetta di Martina. Ancora. Una tetta alemanna tonda e piena come la luna… Nel buio del giardino di cemento la gente dorme. Vedo avvicinarsi una forma. È la sagoma di un pellegrino. L’ultimo della serie. Uno che si è preso indietro. Osservo la sagoma scavalcare corpi, cercare una spazio dove mettere la propria roba tra la moquette di carne umana. Proprio adesso che ho la luna in mano doveva arrivare ‘sto deficiente? Poi la sagoma si avvicina alla mia parte. Cazzo vuoi a quest’ora? Lo guardo meglio. Ne riconosco i dettagli. Ma non è quello che… Mi rendo conto che è lo stesso tizio che ho incontrato nel bosco il pomeriggio, mentre scendevo verso Zubiri. Quello del bastone. Guarda te che storie. Il rompicoglioni! Fino all’ultimo, eh… e si mette proprio qui vicino, cercando spazio nel buio. Tra me, il mio bastone e il muro. Roba da non crederci. Abbandono la presa della tetta di Martina. Luna libera punto com. Ho un sonno boia. Proprio qui doveva mettersi ‘sto stronzo… Non ce la faccio più. Muoio dalla stanchezza. Vaffanculo. Io dormo. Ciao Martina. Sei stata tu a cercarmi, non io. Nessuna colpa. Buonanotte. Speriamo che non piova… Verso mezzanotte però le cose si complicano perché il parco giochi confinante si riempie di famiglie, di ragazzini e di adolescenti in motorino. Così mi sveglio. E prima di addormentarmi ancora passano ore, nel corso delle quali mi faccio una cultura di schioppettii di marmitte senza silenziatore, urla di mocciosi senza sonno e esclamazioni del tipo: hijo de puta madre, me cago en la lece e goder! placidamente espressi da mamme e bambini con toni impronunciabili. Verso le due la truppa sgomma con fragore e successivamente mi sveglio almeno altre duecento volte, girandomi e rigirandomi 46
nel sacco per trovare una posizione idonea e rilassante per la mia schiena sul calcestruzzo. Di tanto in tanto fisso lo sguardo annebbiato su di una stella. Prendo sonno, schivo la tetta di Martina che cerca la mia mano, mi risveglio… Verso l’alba sento i movimenti dei pellegrini più mattinieri. Penso al tizio del giorno prima che dorme a trenta centimetri di distanza dalla mia testa rasata e a quindici dal mio bastone sacro e mi lascio riaddormentare nelle profondità più assolute del sacconotte. Mi sveglio definitivamente quando quasi tutti se ne sono andati e sento le voci di Martina, Anna e Antonia salutarmi. Le vedo con lo zaino in spalla pronte per partire. Ci vediamo per strada, tanti saluti. Alla fine esco dalla bara e mi guardo attorno per fare il punto della situazione. Lo zaino c’è, i calzoni pure, i sandali anche. “E il bastone?” Mi giro per trovare il bastone e (sorpresa delle sorprese) lo trovo nell’esatto punto dove lo avevo appoggiato… però spezzato! Come sarebbe a dire spezzato? Sarebbe a dire rotto in due pezzi. Due pezzi quasi uguali. Sarebbe a dire spezzato! “Non ci posso credere…” Mi sveglio del tutto e cerco nei dintorni qualcosa che mi faccia capire. Del tizio del giorno prima nemmeno l’ombra. Come può essersi spezzato il bastone quando sei ore fa era appoggiato al suolo perfettamente integro come l’avevo trovato? Non può essersi rotto da solo? Queste domande, alle quali non riuscirò a dare una risposta, mi accompagnano mentre cerco il cesso per pisciare, mentre mi lavo 47
i denti, mentre arrotolo il sacco e metto alla rinfusa le mie cose dentro lo zaino, mentre ricompongo il bendaggio dei piedi dopo aver disinfettato le ferite col Tea Tree Oil. Mi accompagnano mentre mi metto in strada e raggiungo il bar‐ristorante‐ alimentari‐giornalaio che, per l’occasione, scopro di mattina diventare anche negozio di souvenir con tanto di Santiaghi in pietra, peltro, ottone e gesso. Un numero infinito di conchiglie di capasànta sono appese su di una vetrina aperta con l’immagine della spada di Carlomagno serigrafata in rosso, sulla superficie convessa; un catalogo impressionante di cartoline postali con su scritto “Camino de Santiago” fa capolino da un espositore e tre ceste di bastoni da pellegrino di varie dimensioni ornano la scena delle colazioni. Assorbendo il cafe solo, largo por favor e ingurgitando due croissant alla glassa continuo a fissare le ceste di bastoni e prima di aver finito la colazione ne ho già preso in mano uno con la punta di metallo. Alla fine ne prendo in mano tre o quattro e prima di scegliere quello definitivo devo bermi un secondo caffè e fumarmi un’altra sigaretta. Il tizio del bar è accondiscendente e mi dà consigli sulla scelta da fare. Ne esco con 150 pesetas in meno e un bastone di giunco verniciato, nuovo di zecca. Punta in acciaio e impugnatura che assomiglia alla testa di un E.T. che strizza l’occhio verso la Terra. Il giorno si presenta lungo e faticoso e non mi è niente chiaro cosa sia successo al bordon raccolto con tanto amore nel bosco dei Pirenei. Penso al tizio del giorno prima che mi ha dormito a fianco e al mio caro vecchio ex bastone nuovo, rotto in due pezzi. Inizio a camminare assestando lo zaino sulla schiena e ascolto il rumore delle vesciche ambientarsi al terreno. Penso anche a Pierre, a quella cosa che mi aveva detto su Satana la prima sera. 48
Mi viene automatico pensare che se la superstizione fosse vera, allora… Poi procedo lungo la strada a passi lenti. Mi sento un pellegrino infermo che va incontro al proprio destino. Mi sento. 5 Devo impegnarmi non poco per gestire il dolore che proviene dal terreno. I miei occhi osservano i profili delle pietre che calpesto, i miei sensi ascoltano i pesi e le montagne di bestemmie che devo scavalcare per sopportare il dolore. Cammino e respiro, solamente. Lascio dietro di me decine di passi trascinati e ad ogni ora mi fermo cinque minuti per riposare i piedi e fumare. Ogni giorno piango un poco. Da principio non so perché succede, ma succede. Non capita a orari precisi, ma ogni giorno il pianto si accende con la stessa dinamica ripetitiva. E giorno dopo giorno quella cosa aumenta. Accade che sono lì che calpesto la mia ombra e d’un tratto arriva il pianto. Così, quasi dal nulla. Prima di lasciarmi andare guardo in giro per vedere se ci sono pellegrini in arrivo. Una volta appurato di essere solo e di avere una lunga strada deserta davanti piango liberamente, a volte cantando, altre volte perfino urlando. A favorire il mio pianto, in certi casi, sono frasi di effetto che mi vengono in mente come ritornelli di quand’ero bambino o cose che ho sentito dire da un ex agente segreto della Cia che insegna meditazione e che si chiama John Coleman. Giorno dopo giorno imparo ad avvertire per tempo quando il pianto inizia a farsi strada dentro la mia mente e cerco di aiutarlo 49
richiamando alla memoria emozioni particolarmente forti che ho vissuto nel corso della mia esistenza. Il bello di questa cosa è che non piango di tristezza, ma nemmeno di gioia. Piango e basta. Quando questo succede il corpo mi vibra tutto quanto e sento degli strani brividi lungo le estremità, mentre la testa brulica di domande sulla forza di gravità orizzontale che trascina la gente a mettersi in marcia verso Santiago. “Che cos’è?” Piangendo, nel bel mezzo di quell’arcobaleno di sensazioni corporee, realizzo di essere parte di un tutto che non mi manovra, a differenza di quello che verrebbe da pensare, ma anzi mi lascia andare. Piango di vita… A un certo punto però mi chiedo: “Ma se è una cosa così bella, perché piangere?” Per il disagio anche, ma soprattutto per esserci. Le risposte che tento di darmi però sono insoddisfacenti e alla fine della fiera non mi è chiaro perché piango. Piango e basta, camminando. Mister Coleman chiudeva sempre le sessioni di meditazione con queste parole: «Che tutti gli esseri possano essere esenti dai desideri e dell’avversione; che tutti gli esseri possano essere liberi dalla sofferenza e dalle sue cause; che tutti gli esseri possano essere intrisi di gioia profonda e di divino amore…» Con queste parole che mi rimbombano dentro il cervello procedo lungo il sentiero, distribuendo gocce di me stesso sul terreno e pensando che, prima di evaporare al sole, le mie lacrime possano guarire le mille paure che ci portiamo dentro, le malattie fisiche e mentali, i dubbi, le incertezze, la rabbia infinita…
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Lascio che sul volto mi scorrano le perline di acqua salata e tendo gli occhi in giro per accertarmi che non arrivi nessuno. Cammino piangendo. Quando ne ho abbastanza estraggo dal marsupio il taccuino di viaggio e scrivo: Nella sua staticità tutto si muove e ride (di noi) Poi mi rimetto in marcia, con il taccuino in mano, facendo tentativi di passi estremi nell’intento di trovarne uno, prima o poi, che sia quello Perfetto. Ovviamente senza riuscirci. Una volta in mezzo ai campi di grano mi invade ancora la paura di non farcela e quello che vedo con gli occhi e che sento con la mente perde d’importanza perché la paura sovrasta ogni cosa. Per tranquillizzarmi dico a me stesso che sono solo sensazioni, condizioni normali per questi posti. Per questi piedi… E quando finalmente cado in uno stato ipnotico di non interesse per il dolore alle caviglie e per la paura che mi insegue, il paesaggio si trasforma completamente. Mi sembra come di essere dentro ad un sogno dove sconforto e felicità si sommano, dove le forze opposte della natura si equivalgono e, per certi versi, si annullano. Un sogno dove tutto scompare. Dove scompare il luogo che sto tentando di raggiungere e la meta diventa la stessa via, il Cammino. Solo quello. Quella sera arrivo a Cizur Menor con il taccuino in mano e in testa un vecchio brano dei Pink Floyd, ‘Cirrus Minor’. «In a churchyard by a river…»
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L’albergue del pellegrino è sobrio e pulito, ma sempre pieno di gente devastata dalla fatica, come me. Rubo una doccia nei servizi di piano terra e appoggio la mia roba su una branda al primo piano. Poi mi trascino fino a un bar con televisione per mangiare qualcosa e poi ancora a cercare un posto tranquillo dove medicare le vesciche. Ho un palinsesto infinito di programmi per le mie ore di riposo. Poco distante dal bar individuo una piazzetta solitaria servita da panchine, ornata di alberelli con la permanente. Mi metto comodo nel raggio d’azione di quell’ombra circolare e rimango qualche minuto a osservare il via vai di passeri che cercano dietro le foglie un po’ di ristoro dalla calura. «Yellow bird, you are not lonely…» Dopo qualche minuto che sono lì a trafficare con le vesciche fresche di giornata, una vecchia signora si stacca da un gruppetto di anziani e viene verso di me aiutandosi con un bastone a tre punte. Una volta giunta a destinazione si siede sulla panchina e si assesta per bene, con calma. Quando la saluto l’anziana osserva ciò che sto facendo sul fondo dei miei piedi e farfuglia qualcosa. Capisco un settimo di quello che dice e intuisco si tratti di un castigliano piuttosto antico, forse dialetto. Dopo qualche secondo di commenti sui miei piedi la donna indica il cielo e allora capisco che il discorso si è spostato sull’arsura del giorno. A un certo punto mi fa cenno di spostare lo sguardo verso gli uccellini che ci svolazzano attorno e inizia a raccontarmi del suo diabete. È una anziana simpatica che afferma di avere novantanove anni. Non perdo l’occasione per dirle che mia nonna ne ha cento e sta benone. L’anziana allora si preoccupa subito di sapere se cammina o meno. 52
– Si muove col “trabiccolo”, le dico indicando il suo bastone a tre punte, però va da sola. La donna annuisce positivamente con la testa e mi chiede da dove vengo. Glisso direttamente sul capoluogo di regione, pensando che Padova possa non far parte delle sue conoscenze, scoprendo che nemmeno Venezia sembra essere un punto codificato del suo atlante. Dopo qualche attimo di silenzio la donna riporta l’attenzione sulla fasciatura che sto confezionando sull’alluce. Le chiedo cosa ne pensa del Cammino di Santiago e mi risponde che per lei non è una cosa buona. Mi sembra di sentir parlare mia nonna: «Eeee, no te voré miga maearte i pìe, vero?» Dopo qualche altro commento sulla salute in generale la signora si alza e, con lo stesso ritmo di quand’era arrivata, se ne va. Rimango lì a godermi l’ombra degli alberi e il cinguettio dei passeri, in silenzio. Con la coda dell’occhio osservo una giovane coppia amoreggiare sul sedile di un’auto parcheggiata al sole. Controllo i messaggi sul telefono, fumo e scrivo un aforisma sul mio taccuino di viaggio: Non c’è nessun posto dove arrivare E comunque Ci si arriva lo stesso Ho davanti ancora un certo numero di ore di riposo e desidero godermi la pausa. Così mi sforzo di non fare nulla e rimango lì, coi piedi all’aria. “Sono felice di essere in vacanza”, penso. Di essere nel mio cammino… 53
6 Il giorno successivo mi svegliano i canti gregoriani provenienti dal piano terra. La cosa mi dà un certo piacere e mi alzo di buona lena con l’idea di sparire il prima possibile per trovare un bar aperto. Fuori è ancora buio e quando scopro che il locale di fronte all’albergue ha le luci accese esplodo di gioia. Mi bevo due caffè, uno dietro l’altro e poi parto, bastone e sigaretta in pugno. La mattina procede a suon di passi sulla polvere e il dolore ai piedi di sempre lascia spazio a una sofferenza più sottile di cui avevo avuto un debole segnale il giorno addietro: la paura. La paura è una brutta bestia perché viene dal nulla e ti si attacca ai vestiti come il puzzo di una cimice. Non è mica facile togliersela di dosso, soprattutto per il fatto che quando ti accorgi di averla si è già insediata tra le tue mattonelle, come sporco nato già vecchio. Quando mi rendo conto di esserne vittima, il cammino inizia a farsi ripido e non posso fare altro che ascoltare il panico salire dal centro del corpo verso la mansarda della testa. Non ho la minima idea del perché stia accadendo e nello stesso tempo so di non potere fare nulla per evitare che accada. Il brutto della paura è che ti fa ricordare tutte le altre volte in cui l’hai già avuta. Allora cerco di pensare a qualcos’altro, ma riesco soltanto a farmi venire in mente un discorso che ho sentito dal fruttivendolo, qualche giorno prima di partire. C’era una signora che, parlando di suo figlio con problemi al sistema nervoso, commentava: «Il medico dice che sodomizza tutto lì, nella testa, poverino…» Strada facendo mi convinco del fatto che anch’io sodomizzo tutto lì, nella testa… e cerco di far sloggiare l’ansia che mi ha
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preso di mira ripetendo a bassa voce altre frasi del repertorio di John Coleman: «Riconosci la paura nella sua natura mutevole, insignificante. Non tentare di fermarla, lascia che sia, let it be…» Per aiutarmi ulteriormente richiamo alla memoria l’immagine dei miei eroi, i punti di riferimento formativi di quando ero ragazzino: Barrett e Waters, London e Kerouac, Kafka e Celine…, a coppie. Per effetto di una strana illusione, forse dovuta al sole che cola a picco o forse alla follia che divampa nella mia mente, camminando a occhi socchiusi mi sembra quasi di vederli sul filo dell’orizzonte, che camminano un passo dopo l’altro, ognuno con la propria ansia ancestrale che li divora dentro, che non sanno da dove venga né dove li porti. I miei eroi… Anche loro avevano tutti l’inquietudine cronica, qualcosa che non funzionava bene dentro la zucca. Jack London di ansia ci è morto, pensa te. Almeno, così ho letto da qualche parte. Doveva avere quarant’anni e ci dava dentro fisso con l’eroina che, a quel tempo, si usava per tenere a bada i problemi nervosi. Morire di overdose di ansia, che merda… “Sempre sia vero…” Da quel che so Jack London ha vissuto una vita eccezionale, gonfia di attività adrenaliniche. Poi però sul più bello, quando stava godendosi la pensione sul suo veliero di lusso, è arrivata quella cosa che poi l’ha anche ucciso. Ansia… Penso che deve essere proprio una pessima fine morire di paura nel tentativo di fuggire dalla stessa. Davvero una brutta morte, ammesso ce ne siano di belle… Ti immagini? Tutta una vita passata a scacciare l’ansia dalla tua cambusa e quando hai la convinzione di esserci finalmente riuscito… zac! 55
Fai la fine del topo – Addio Jack! – Il cuore ti si stappa come una bottiglia di spumante. La testa che ti frigge gli occhi dall’interno. La lingua che ti si auto‐ingoia. Davvero un brutto affare. «Cammina pellegrino, cammina…» Quelli che arrivano da dietro mi superano senza problemi. Ogni tanto mi fermo a rinfrescarmi la testa e a bere alle fontane dei paesi che incontro e scambio le due parole di rito con gli altri camminanti fermi, anche loro, per cinque minuti di riposo. «Ma tu cosa stai cercando?» Questa fatidica frase l’ho sentita pronunciare decine e decine di volte da quando sono partito. «Ettù? Cosa vai sciergando?» – Io cerco il Passo Perfetto – dico al tizio che ho di fronte ‐ ma mi basterebbe venire fuori dall’ansia che mi consuma… «Ecch’è ‘zto Basso Bervetto?» I tre napoletani che avevo incontrato a Saint Jean il giorno della partenza sono distesi nell’aiuola della chiesa di un paese senza nome, con tanto di stecchini tra i denti. A pelle non mi stanno niente simpatici, ma mi sforzo di rimanere lì a parlare. Uno dei tre mi chiede una sigaretta. Estraggo dal marsupio due Fortuna, una per lui e una per me, e mi siedo. Si parla di vesciche, salite, discese e ostelli. Cose da pellegrini. – E voi cosa state cercando? Si guardano e sghignazzano. «Noi scierghiamo di vare una vaganza…» dice uno dei tre impegnato a raccogliersi i capelli in un codino verticale, alla Saracena. «La fica…» commenta un altro, scatenando una sequenza di risate e di commenti dei suoi soci. – Andate a Santiago? 56
Ridono ancora. «Bah, vorse…» fa quello del codino. Da come lo dice sembra che lui e il suo gruppo non abbiano nessuna intenzione di arrivare a Santiago di Campostella. Non ho idea di quali siano le motivazioni che li ha portati a fare il Cammino e lì per lì decido che non m’interessa. “Ognuno ha la sua storia…” Finita la sigaretta raccolgo i miei pezzi e me ne vado salutando il trio napoletano con un cenno della mano sulla fronte. L’ultima immagine che registro è il volto di quello col codino che sogghigna sullo sfondo del campanile. Dopo un po’ che arranco per il sentiero inizia la salita del giorno, quella che nel giro di un paio d’ore mi condurrà a Alto del Perdòn. In lontananza, sulla sommità della sierra, scorgo legioni di mulini a vento bianchi e filiformi. Per un momento mi appaiono come dei vigili urbani giganti che, nel ruotare in senso orario le loro lunghe braccia, dirigono il traffico di nuvole che traghettano nel cielo. Poco più avanti incontro la “Fuente de la Reniega” che la guida della Berti dice essere oggetto di un’antica leggenda. Reniega significa rinnegamento e la leggenda narra che in quel luogo il demonio si appostasse per offrire acqua ai pellegrini assetati in cambio, naturalmente, del rinnegamento della propria fede in Cristo. – Una specie di scambio alla pari… Una volta sulla cima della collina, con i piedi che pulsano e il cuore in gola, mi giro a osservare il paesaggio. È un’emozione davvero grande vedere le cime pirenaiche e tutta la pianura che ho percorso negli ultimi cinque giorni perdersi sulla linea dell’orizzonte. Una cosa della serie: io l’ho fatto! 57
L’egotrip però dura solo un attimo, il tempo di girarmi dall’altra parte e buttare gli occhi sulla distesa infinita che ancora devo attraversare. Della serie: non ce la farò mai! In qualunque modo vada, comunque, per quanto devastato io mi senta è già tanto essere arrivato dove sono. E accendendomi una sigaretta controvento festeggio la preziosità di quel momento regalandomi una breve pausa. Più tardi inizio a scendere verso valle incontrando località dai nomi strani: Urtega, Murùzabal, Óbanos, fino ad arrivare Puente de la Reina dove intendo fermarmi per la sera. All’entrata del paese osservo il monumento al pellegrino. È un Santiago di bronzo, oscurato dall’ossido di carbonio della statale, che osserva chi arriva con tanto di cappello a tese larghe e bastone sulla cui sommità è appesa una piccola zucca che fa da borraccia per il vino. Rimango qualche secondo a osservare il Santiago pellegrino, statuario come un alfiere, con il bastone che gli fa da lancia e lo sguardo fiero puntato sull’orizzonte. Un guerriero pacifico col viso rugoso e… a piedi nudi! Il monumento infatti, ritrae Santiago senza calzari. Non posso non pensare al fatto che, ammesso che la citazione sia reale, per farsi tutta quella strada scalzo l’antico pellegrino doveva avere la pianta dei piedi di vero cuoio. Spostando lo sguardo verso il basso incontro le bende insanguinate che ho sui piedi e mi viene da piangere. Così lascio perdere la statua e procedo in direzione del paese per rifocillarmi e disinfettare le ferite col Tea Tree Oil.
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L’albergue di Puente de la Reina è situato su di una collina e per arrivarci bisogna attraversare il paese e affrontare un salitina breve ma imprevista, quindi massacrante. È uno stabile di tipo industriale di colore bianco gestito da un tizio di Madrid dalla cara mala e da una famiglia di kenyoti. Una volta assolte le solite prassi di registrazione mi scelgo una branda al piano superiore di un letto a castello. Mentre sono lì che traffico con le mie cose arriva il tizio che ha occupato la parte inferiore del letto che per l’occasione è… – Pieeeerre? Dopo i saluti di rito e qualche scambio di battute sulla strada e sulla salute dei reciproci piedi lo invito a bere una birra al bar dello stabile. Così ci diamo appuntamento dopo la mia doccia. Mentre mi accordo con il pellegrino francese scorgo entrare nel rifugio Anna e Antonia. Chiedo loro informazioni su Martina e mi dicono di averla perduta di vista dal giorno prima. Il pomeriggio procede con il lavaggio degli indumenti e con l’attività certosina di sbendaggio, disinfezione e bendaggio delle vesciche in coltura sui piedi. Lì attorno soffia un vento piuttosto forte e mi siedo all’ombra di un portico a operare le piaghe e a fumare. Quando arriva l’ora della birra raggiungo Pierre al bar dello stabile e rimaniamo seduti a chiacchierare. Rimetto in gioco il discorso della superstizione e gli racconto del bastone spezzato e del tizio incontrato prima di Zubiri. Il francese sorride e non dice nulla. Chi tace acconsente, penso. Dopo la birra arriva la cena e dopo la cena il buio della sera. Rimango sullo spiazzo antistante il casermone a osservare gli indumenti appena stesi dai pellegrini volare via col vento. Poi salgo in branda e mi siedo sul cuscino per la mia consueta 59
meditazione quotidiana. Il capannone è saturo di letti a castello e di corpi distesi. Saremo in duecento persone, a dire poco. L’eco del russare strombettante dei pellegrini dal setto nasale deviato rimbomba tra le pareti, tenendoci svegli in molti. Per fortuna poi il sonno ha la meglio su tutto e su tutti. “Buonanotte suonatori.” 7 La mattina dopo mi sveglio appena in tempo per salutare Pierre che sta partendo. – Grazie di tutto e a presto. Il pellegrino dagli occhi azzurri e dai duemila chilometri sulle gambe mi sorride e se ne esce dalla camerata sventolando la mano, come una bandiera. Adesso quella scena è fissata nella mia memoria come un’immagine senza tempo. Un arzillo uomo anziano che esce da un dormitorio con il sacco in spalla, il bastone in pugno da una parte e la mano alzata dall’altra. «Buen camino, peregrino». È stata l’ultima volta che l’ho visto. La mattina poi prosegue a passi lenti sulle punte attraverso un altopiano odoroso quanto basta da convincermi a procedere in apnea. Nel fitto bosco di una collinetta perdo di vista la freccia gialla e mi ritrovo in una selva oscura. Penso a Dante che ha scritto nel mezzo del Cammin di nostra vita e a quello che sottolinea la guida della Berti sul grande poeta che affermava che il vero pellegrino è colui che va a Santiago, mentre chi si reca a Roma è un Romeo e ancora chi viaggia verso la Terra Santa è un palmare. Da qualche parte ho letto che Dante ha fatto il Cammino di Santiago, ma non ricordo dove. Non ho nozioni storiche sufficienti per dire se sia vero, però fa strano pensare che abbia 60
descritto una situazione che mi trovo a vivere in quel preciso istante. Quando mi rendo conto di essere nel bel mezzo di una selva oscura faccio dietrofront pensando che, per quanto mi riguarda, Virgilio e Beatrice possono aspettare a lungo. Non ho abbastanza coraggio da inoltrarmi nel possibile inferno che sta oltre, né nel successivo paradiso. “Ho già il mio bel da fare a riprendere la salita...” Così dopo pause, pausette, birre e sigarette, arrivo a Estella dove mi sistemo sul Polideportivo messo a disposizione dal Comune. Per arrivarci devo attraversare tutta la città e fare ben due chilometri in più rispetto ai pronostici. Una volta lì mi sistemo in un angolo dello spogliatoio, a ridosso di una ragnatela di tubi dell’acqua che emanano una sequenza ritmica di gocce e gorgoglii, per certi versi, piacevoli da sentire. La cittadina è in festa. Raggiungendo il palazzetto avevo attraversato il centro storico incontrando uomini e donne agghindati con vestiti tradizionali bianchi splendenti e fazzoletti tassativamente rossi al collo. Quando verso sera mi metto alla ricerca di un locale dove cenare scopro che è tutto prenotato e che un piatto di cibo caldo sembra essere una cosa impossibile da conquistare. In più ho ancora l’ansia che dribbla nel sangue e nessuna voglia di un altro boccadillo. Purtroppo però, dopo più di un’ora di ricerche estenuanti, mi arrendo all’idea che se voglio mangiare devo adattarmi a quel che passa il convento e mi infilo in un baraccio dove una signora molto simpatica, con tanto di marito a strascico, mi confeziona un ottimo panino di chorizo, ennesimo della serie, raccontandomi a gran voce della sua fede estrema per Sant’Antonio da Padova del quale ha un quadretto in ceramica 61
che vuole a tutti i costi farmi vedere. Un quarto di vino tinto mi aiuta a mandare giù il mattone di carboidrati che ho in gola e sciropparmi la storia del quadro di ceramica dopodiché ritorno in strada che sono, ansia a parte, la persona più contenta del mondo. Ma a quanto pare non sono l’unico ad esserlo, perché la popolazione che incrocio per strada balla gioiosa per via della festa, mentre nel cielo esplodono innumerevoli fuochi artificiali in onore di non so quale santo o toro famoso. Mi ricordo che l’indomani dovrò dire addio all’ultima provincia della Navarra in favore della prima di La Rioja. La guida dice che da quel punto in poi la strada sterrata lascia il passo a una pre‐meseta piuttosto infuocata della quale oggi ho già avuto un piccolo assaggio. “Voglio essere pronto.” E con questo pensiero fisso in mente mi trascino fino al polideportivo dove un ottimo pavimento di linoleum mi aspetta, per produrre riposo e dare un rinnovato vigore alle mie gambe malmesse. Quella notte cerco di addormentarmi ascoltando un’italiana egocentrica criticare la guida della Berti per via del fatto che le spiegazioni non sono esaurienti. La donna, classica professoressa milanese, si vanta del fatto che conosce l’autore della Berti e promette ai presenti che, una volta ritornata a Milano, lo avrebbe senz’altro contattato per esporgli le sue critiche. Mi addormento con una mano sulla guancia e con in mente il commento: “Allora falla tu una guida no, deficiente…” 62
8 La mattina parto presto, scrutando di traverso la tenda a mezza sfera dei tre napoletani, piantata al centro del campo da basket del polideportivo. Grazie alla guida vengo a sapere che nel giro di un’ora incrocerò il piazzale di un monastero dove c’è una fontana dalla quale non sgorga acqua comune, ma vino tinto! La tradizione vuole sia di buona sorte per il pellegrino berne un sorso. Arrivo sul posto alle sette di mattino e lo trovo chiuso. La targa sul portone dice che il monastero e la fontana aprono alle otto e da un certo punto di vista, penso, è una fortuna. “Bere vino alle sette di mattina è una cosa che, voglio dire…” Passando oltre il portico della chiesa medievale che si staglia lì davanti osservo alcuni pellegrini dormire dentro i sacchi. Dopo qualche minuto mi inerpico per un bosco di aceri particolarmente oscuro. L’immagine del pellegrino medievale mi occupa la mente e penso a Francesco d’Assisi che ho saputo aver fatto il Cammino di Santiago nel millecento e qualcosa. Inoltrandomi per il bosco m’immagino il pellegrino Francesco con un pallottoliere di pustole dalle parti dei piedi, svariati grammi di rogna addosso e una colonia di pidocchi sulla barba, camminare per lo stesso sentiero che sto percorrendo. L’immagine non è casuale perché, il giorno prima, prendendomi una pausa di mezz’ora con la scusa di visitare una chiesetta medievale, avevo buttato gli occhi su di una statua in legno del poverello di Assisi, scolpito con tanto di vesti linde e rifiniture in oro. Una volta nel bosco, pensando a quella statua e immaginando Francesco inoltrarsi per i posti dove mi trovo, non posso non ridere pensando al famoso giullare di Dio ridersela a gambe levate, sul muschio di qualche strano bosco, oltre lo spazio‐ 63
tempo, osservando la statua della sua controfigura di lusso che i posteri hanno eretto per ricordarlo. “A differenza di noi tutti lui l’ha trovata la chiave…” Nella perfetta solitudine della natura mi accorgo che ci sono dei momenti in cui il pensiero si armonizza con i passi e i passi si armonizzano con gli ostacoli del suolo e il suolo si armonizza con quello che ci sta attorno, in una sorta di economia naturale della quale non vedo i confini. Questa sensazione di rinnovata appartenenza mi scatena un’altra volta il pianto, a scapito dell’ansia del giorno precedente che oggi, per fortuna, sembra non intenda farsi sentire. Piango di commozione pensando a Francesco, alle sue piaghe sanguinolente e al fatto che sono lì. Osservo una lacrima cadere verso il basso e perdersi per sempre nella superficie spugnosa di un muschio. Procedo lungo il sentiero trattenendo lacrime e fiato. Camminando, è vero, si impara a fare economia di tutto, ma soprattutto di respiri. Ci sono dei momenti in cui l’aria che inspiri ti sembra eccessiva per quel momento e, siccome sai che qualche passo più avanti potresti averne bisogno, regoli di conseguenza il tuo apporto di ossigeno. Poi c’è l’economia di acqua, di peso e di pensieri. Eppure sono solo passi di un uomo sul terreno… Le uniche cose che non sono in armonia con quanto le circonda sembrano essere proprio le persone che incontro strada facendo. Appaiono tutte così goffe e fuori luogo, visibilmente scomode, come se fossero state prese per i capelli da qualche gigante con un occhio guercio e poste lì, in mezzo al sentiero, con l’unica consegna di camminare. 64
«Cammina pellegrino!» Una volta fuori dal bosco vengo raggiunto da ripetuti gruppi di persone che mi sorpassano in silenzio o che rallentano il passo per coinvolgermi in qualche conversazione indesiderata. In un tragitto come questo si incontrano persone davvero curiose. Ma non perché hanno cose particolari da mostrare, ma bensì perché sono curiose e basta. Fino a quel momento pensavo che la curiosità fosse una particolarità tipica di certe parti del mondo come l’India e la bassa padania, ma ho dovuto ricredermi. Tutti lo siamo un po’, è vero, ma i curiosi di cui parlo sono persone che si nascondono dietro ad un velo di altruismo fingendo di aiutarti a risolvere qualche problema, ma che in realtà sono spinte dal desiderio irrefrenabile di avere informazioni aggiuntive sul tuo conto. Alcuni di questi capita che siano particolarmente invadenti e se solo gli si dà spazio è finita, perché non te li scrolli più di dosso. In questi casi, se a monte avevi deciso di continuare a marciare da solo, può diventare un bel problema da risolvere toglierseli di torno. Nel grande movimento di persone che mi sorpassano scopro che le informazioni viaggiano alla velocità della luce. Anche le carovane hanno le loro regole e la voce gira più veloce dei piedi. La gente trova il tempo di parlare oltre che camminare e i pettegolezzi corrono che è un piacere… «Tu sei italiano vero?» Il francese che ho davanti sembra piuttosto irritato. Gli rispondo con un breve cenno della testa, guardando verso terra per individuare l’accendino che mi è appena caduto. «Che cos’è che stai cercando?» – Il passo perfetto e … l’accendino. Tu? 65
«Io sto cercando il bastardo che mi ha rubato il portafogli! – risponde in un francese comprensibile dal tono – Se lo trovo lo ammazzo…» Sembra ci siano stati dei furti negli ultimi tre ostelli e, a quanto pare, c’è un ladro nel mio flusso che si diverte a danneggiare gli altri pellegrini. Gira la voce sia pure un italiano. Il pomeriggio di quel giorno arrivo a Los Arcos e scopro che per prendersi un posto sul linoleum bisogna fare una fila di almeno un’ora. Decido su due piedi (gli ultimi che mi sono rimasti) che l’affare non è per me. Così, mi rimetto lo zaino in spalla e affronto con filosofia un altro paio di ore di strada, godendomi il sole più cocente della giornata in una rinnovata perfetta solitudine, nel lusso di un sentiero ad uso esclusivo dei pellegrini, segnato dalla fleccia amarilla e dalla concha e protetto da due file di siepi. Direzione Logroño. “Cara e adorata fleccia amarilla…” Alla fine della fiera la freccia gialla è l’unica sicurezza che rimane e, a volte, persino l’unico pensiero che ti passa per la testa. Seguire la freccia gialla. La freccia gialla, la freccia gialla… La fleccia è il vero simbolo del Cammino di Santiago che, col tempo, ha surclassato sia la tradizionale concha che la Croce/Spada di Cristo/Carlo Magno. Dall’inizio alla fine del Cammino il pellegrino si deve basare esclusivamente sulle indicazioni della freccia gialla dipinta sui muri delle case, sull’asfalto delle strade, sugli alberi, sui ciottoli dei sentieri in mezzo il bosco e sui pali della luce. Individuare la freccia nel caos di una città o nel deserto di una piana brulla significa essere sulla strada giusta. Significa essere nel Cammino.
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Una freccia. Una scrittura elementare. Tre segni in croce che, a volte, diventano il tuo unico legame con il progetto nel quale ti sei incanalato: la realtà. Spesso e volentieri mi sono trovato a pensare alla dedizione di tutta questa gente che si è messa a disegnare frecce di colore giallo per un tragitto inverosimile. Mille chilometri, moltiplicato per tutti i cammini possibili, fanno un sacco di litri di vernice! Un lavoro infinito… Quando dopo un paio di ore arrivo a Torres del Rio, ed entro nell’unico ristorante del paese, capisco di aver fatto la giusta scelta nel lasciare indietro la cittadina di Los Arcos. La Pata de Oca è un ristorantino gestito da una donna italiana di nome Carmen e da un tizio coi baffetti e la pelata lucida, dal fare piuttosto effeminato. Appena incrocio lo sguardo di Carmen si innesta una specie di strano riconoscimento. Non è una cosa della serie «ci siamo già visti?», ma piuttosto del tipo: «io a te ti conosco, n’è?» In realtà non ci siamo mai visti prima, ma per qualche strano fattore inspiegabile è come se ci conoscessimo da un pezzo. Senza nemmeno dirci da che parte del Belpaese proveniamo, intavoliamo un discorso dal contenuto leggero sull’esoterismo cristiano e lei mi racconta di essere arrivata in Spagna dieci anni prima facendo una ricerca sui Templari. I Templari furono un ordine di monaci guerrieri che, probabilmente stanchi dei doppi giochi della Chiesa, decisero di custodire la verità esoterica proferita dal Cristo attraverso l’uso del silenzio e delle armi. Furono sterminati dalla Chiesa stessa nel milletrecento e qualcosa quando il loro potere stava diventando tale da sovvertire l’ordine costituito.
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Carmen mi parla della piccola chiesetta del Santo Sepolcro che troneggia proprio lì, davanti all’entrata del suo ristorante. Dice che si tratta di un vero e proprio centro di iniziazione; i Templari lo usavano per divulgare le verità segrete ai pellegrini che transitavano da quelle parti. Le chiedo come avvenisse il riconoscimento di un pellegrino da parte dei monaci templari. La donna allarga gli occhi in un sorriso intelligente e poi dice: «Hai con te la credenziale?» – Certo – rispondo estraendola dal marsupio. «Aspetta qui». Prende possesso del mio passaporto di pellegrino e scompare dietro la porta della cucina. Dopo neanche un minuto riappare in sala più misteriosa di prima e, non senza enfasi, mi mostra il sello che ha posto sulla credenziale. «È un timbro magico – commenta misteriosamente. – Lo metto solo a “certi” pellegrini…» Mi riprendo il documento pensando che la donna è probabilmente svitata e che non ha risposto alla mia domanda. Poi osservo il timbro di forma ovalizzata, il cui colore viola fa sì che stacchi visibilmente da tutti gli altri sellos posti precedentemente sulla credenziale. Carmen mi descrive i simboli del timbro commentandone il significato. «Nella parte alta ci sono i sette pianeti magici con al centro Mercurio. L’essere con due teste che vedi è il Rebis, o ermafrodita, colui che racchiude in sé sia l’energia maschile che femminile. Il Rebis tiene in mano uno strumento di misurazione dal quale si genera la piramide con indicato il pigreco che vedi sulla sinistra. Poi c’è il drago, schiacciato dai piedi del Rebis e infine l’uovo cosmico, simbolo dell’universo che racchiude tutto questo.» 68
– È bellissimo… Questa manifestazione di fiducia di Carmen, con il suo regalo magico, mi rende davvero felice anche se dentro di me so che, più che altro, è il mio ego ad averne i benefici maggiori, in termini di peso. “Ci vuole poco, penso, a rendere felice uno come me… “ Poi ricordo a me stesso che non è più di tanto conveniente lasciarmi andare a strani rigonfiamenti, più che altro per via di tutta la strada che ancora c’è da fare. Così recito tre volte mentalmente il mantra padano più efficace che conosco e ringrazio Carmen con un abbraccio: “Caeaee, Caeaee, Caeaee…” che nel dialetto delle mie parti significa “abbassa le ali” o anche “vola basso” o meglio ancora “datti una calmata”. Quindi decido di andare a visitare la chiesetta del Santo Sepolcro. La signora che mi apre la porta è la classica anziana spagnola, apparentemente indaffarata, con al seguito una mocciosa chiacchierona che le fa da nipote. La donna mi accompagna fino alla chiesetta e una volta all’interno noto che è proprio come Carmen me l’aveva descritto: un tempio iniziatico. Il primo che vedo in vita mia. Sulle pareti sono impressi dei bassorilievi che ritraggono le fasi della vita del Cristo e la cupola è di un’architettura complessa che la mia ignoranza in materia definirebbe “araba”. Alla base della cupola, negli otto punti di congiunzione, ci sono delle facce mostruose che osservano il centro della scena. Osservando quei demoni con le fauci spalancate che mi puntano la fronte non posso non immaginare l’antico pellegrino di passaggio verso Santiago che, riconosciuto dal monaco‐ custode del tempio, in una notte di vento e di bufera, viene 69
iniziato alle Verità Assolute attraverso un rito magico di parole sacre e di fuoco. Un brivido di freddo mi scuote la colonna vertebrale, nonostante la mia mente sia cosciente del fatto che fuori della porta ci siano almeno trentacinque gradi all’ombra. “Sarà l’umidità di queste pietre…” Il tempio è a pianta ottagonale e da un lato c’è un minuscolo altare dove sopra penzola una croce di legno massiccio, di fronte la quale la custode, mentre aspetta che io finisca di guardare, finge di fare una preghiera. Quando ritengo di aver concluso di fantasticare sui particolari artistici del tempio ringrazio la donna e le do una piccola elemosina alla quale, mi sembra di capire, non è permesso esimersi. Poi ritorno fuori nella calura per fumare. Davanti alla chiesetta scopro essersi creato un piccolo gruppo di pellegrini che discutono animatamente di qualcosa e faccio conoscenza con due ragazze italiane piuttosto carine e visibilmente di ottima famiglia… cristiana! Daniela e Paola sono amiche del cuore, ventisei anni a testa, un passato all’ACR di Brescia, un padre spirituale “diverso da tutti gli altri” e un futuro davanti rispettivamente come: impiegata in una ditta di trasporti, la prima, e in un’agenzia di viaggi la seconda. Ci sediamo sotto il sole di una piazzetta poco distante a chiacchierare e mentre loro sgranocchiano due mele rossissime io mi fumo un paio di sigarette. I discorsi che si fanno vanno dal cammino in sé alla vita in sé. Le ragazze lamentano forti dolori alle gambe; Daniela in particolare, la più esuberante, dice di sentirsi a pezzi.
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Con modi delicati, per non essere mal interpretato, mi rendo disponibile per un massaggio da farsi prima di dormire e la ragazza acconsente scrollando la testa verso il basso e lanciando un’occhiatina alla compagna di viaggio. Alla fine decidiamo di cenare assieme e non avendo altro da aggiungere, a parte dei commenti del tutto personali sui loro corpi che però evito di fare, me ne ritorno all’albergue a vedere com’è messa la mia roba che ho steso ad asciugare al sole. Alle otto in punto sono a cena alla Pata de Oca con Daniela e Paola da un lato, Severino e Anne, due simpatici pellegrini belgi, dall’altro e di fronte un tizio portoghese di cui ricordo l’espressione, ma non il nome. A completare la scena c’è un’altra decina di persone senza identità né provenienza. Gli spaghetti di Carmen sono Barilla™ e il sughetto al tonno è ottimo. La benedico con ampi movimenti delle mani e lei da dietro il banco mi sorride. Ci scambiamo qualche breve battuta sul significato di questo o quel simbolo e per finire brindiamo a qualcosa senza significato. Verso le nove siamo tutti pronti per andare a nannina e, facendomi strada nel labirinto di brande a castello, mi presento da Daniela con in mano il tubetto di pomata alla canfora, pronto per pagare il debito acquisito con la promessa del pomeriggio. Consiglio alla ragazza di stendersi a pancia in giù e, intanto che le luci della camerata si spengono, lavoro di fino i suoi polpacci e le caviglie, per strisciare sulle ginocchia, cosce e sottocosce, una gamba dopo l’altra, inesorabilmente, nel buio. Sento che, dal piano superiore del castello, Paola tende le antenne per auscultare i miei maneggiamenti sulla parte bassa dell’amica, forse con un po’ di invidia, penso, o magari per spirito di protezione.
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Per loro in fondo sono uno sconosciuto. Potrei essere chiunque, un maledettissimo delinquente. Forse un demonio… Quel pomeriggio, nella piazzetta assolata, ne avevamo parlato di questa cosa del diavolo, della superstizione sostenuta da Pierre e dell’evento del mio bastone spezzato. Avevo detto loro che, ragionandoci, può essere benissimo che nelle espressioni popolari il termine “demonio” possa anche essere stato usato per codificare tutti quegli eventi capaci di convertire un ordine pre‐ scritto. Avevo commentato che a mio parere il demonio in sé non andava considerato come un’entità semi‐animale super‐ intelligente pronta ad infiltrarsi nel corpo di qualche malcapitato per deteriorargli l’anima, ma bensì come un qualcosa di presente in natura la cui efficacia poteva individuarsi in alcune manifestazioni o fenomeni legati alla distruzione delle cose e della vita. Le ragazze avevano scosso la testa in segno di disapprovazione. Ebbi modo di notare che, nonostante la loro giovane età, quindi la loro mente frizzante, l’interpretazione del concetto‐diavolo era molto legato alla tradizione cattolica e se lo immaginavano proprio come un’entità super‐intelligente che poteva prendere qualsiasi forma e manifestarsi anche come uomo al fine di favorire il peccato. – Quindi potrei essere anch’io –dissi ridendo di un ghigno famelico. «Sì» risposero all’unisono scambiandosi un’occhiata preoccupata. L’affare si era fatto divertente perché io sapevo che a gente così “credente” in senso lato situazioni del genere potevano portare un certo scompiglio. Ad aggiungere sale alla pozione c’era anche il fatto che, comunque, è vero che potevo essere il peggiore dei 72
demoni esistenti in zona, ma dal modo in cui mi ero posto fin dall’inizio nei loro confronti non sembravo così malvagio, quindi… Il mio essere “diavolo” poteva benissimo essere interpretato come qualcosa di intrigante e per certi versi, forse, eccitante. Qualcosa da conoscere più a fondo, religione a parte. Funziona sempre così. Si va verso quello che ci fa sentire più vivi, anche se la nostra educazione ce lo indica come “il male”. Si va… Nel loro caso era chiaro che, all’interno dello smisurato ego di cattoliche rampanti, che le aveva portate a fare “un pezzettino” del cammino di Santiago con tanto di calzoncini attillati e tette al vento (e con l’ok formale del loro padre spirituale “diverso da tutti gli altri”), era molto più interessante la sensazione di piacere provocato nell’attizzare gli uomini incontrati strada facendo che la ricerca spirituale in sé. Maneggiando le cosce di Daniela nel buio della camerata capisco che la mia presenza sta generando un piccolo terremoto nel loro programma mentale perché, se da un lato parlo di cose che appaiono importanti dal punto di vista di una più o meno confusa ricerca spirituale, dall’altro non ometto di spezzare lance in favore della materia fisica e della loro in particolare. Forte di questo pensiero mi avvicino delicatamente agli inguini della più coraggiosa, stando bene attento a non sfiorarli nemmeno col pensiero. Sento che le mie mani producono sul corpo della ragazza un calore sottile che per molti versi può essere considerato piacere allo stato essenziale. «Piacere prodotto dalle mani di un uomo che mi toccano vicino a là…» Dopo qualche minuto di pomata decido che la messa è finita e saluto le ragazze con una carezza sulla testa, da buon papà. Poi 73
raggiungo a tentoni la branda dove mi siedo in silenzio, faccio la mia meditazione pro‐sonno e penso a Katia che è a casa a non fare le vacanze e che mi manca. Uno strano senso di abbandono mi avvolge e mi addormento pensando alla solitudine che mi segue ad ogni passo. Come un’ombra malvagia. “Buonanotte mondo crudele…” 9 La mattina successiva mi sveglio con calma, faccio colazione alla Pata de Oca, saluto Carmen con un abbraccio e con la promessa che ci terremo in contatto via mail. A mezza mattina trovo le due italiane sedute sul bordo del sentiero a riposarsi. Da loro, che l’hanno saputo da qualcun altro, vengo a sapere che c’è stato un nuovo furto nell’ostello. La cosa m’interessa relativamente e sposto il discorso sulle attività della sera precedente, massaggio ai muscoli di Daniela compreso. A quel punto le ragazze, senza troppi doppi sensi, mi fanno capire che per loro sarebbe piacevole se io potessi “raddoppiare”. Faccio finta di non capire. – Raddoppiare il… passo? Ridono. Si riferivano al massaggio della sera prima e non al Cammino. La prima perché dice di non stare ancora tanto bene. La seconda perché vorrebbe stare meglio. – Ah, raddoppiare in quel senso… In quel momento realizzo che, per quelle due giovani pellegrine smarrite, devo aver proprio preso le sembianze del diavolo che tanto temono, anche se «diverso da tutti gli altri…»
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Rispondo alla richiesta in maniera piuttosto evasiva, lasciando al fato l’ardua sentenza e aggiungendo un po’ di mistero alla questione. Dopodiché, recuperando un po’ di forza sulle gambe, raddoppio il passo nel tentativo di dileguarmi e rimanere da solo con me stesso. La cosa mi riesce piuttosto bene, perché le distacco di qualche centinaia di metri in brevissimo tempo. L’evento in sé mi rinfranca perché, dopo una settimana di passi strascicati, questo aumento di velocità è il primo vero segnale di guarigione delle mie parti più basse. Dopo qualche ora la pre‐meseta inizia a dare i primi segni di presenza mostrandomi lunghi tratti di pianura semideserta di colore giallo intenso. Mi accorgo ben presto che il ritmo della camminata si adatta all’ambiente perché, a differenza della regione precedente dove ogni due per tre c’erano da affrontare salite e discese a volte vertiginose, la meseta è estremamente lineare e priva di riferimenti geografici. Se in Navarra il nemico era stato la “terra”, con le sue pietre accuminate e i suoi dislivelli irritanti, qui mi trovo a scontrarmi con un nuovo ostacolo altrettanto famelico: il sole. Camminare sotto il sole cocente durante le ore più pesanti può farti davvero male, se non prendi le giuste precauzioni di tipo “mentale”. Nonostante i miei pensieri più oscuri facciano di tutto per condizionarmi, mettendomi addosso il terrore dell’insolazione, mi sforzo di passare le ore più calde per strada, camminando. Della serie: facciamoci seriamente del male e che sia finita… Così, grazie a una specie di autoipnosi credo di aver percorso distanze incredibili, con gli occhi socchiusi come un nottambulo, senza mai fermarmi a riposare, a bere o a fumare. 75
Quel pomeriggio, durante il trasferimento, rialzando gli occhi dal suolo per un momento, mi capita di distinguere la sagoma di una montagna. É un arco grigio sulla linea dell’orizzonte appena percepibile dall’occhio, nonostante il sole alle spalle. Ripeto a me stesso che, una volta raggiunta la cima di quel monte, non sarei stato nemmeno a un quarto del mio viaggio. Non mi è chiaro se quel pensiero sia il prodotto di una profonda disillusione o l’effetto di uno strano senso di masochismo del quale non sono consapevole. Quando però questa cosa accade sento un rumore di “crollo” echeggiare dentro la mia mente e vengo pervaso da una terribile sensazione di sconforto. “Non ce la faccio, penso, sono solo umano…” «È proprio perché sei umano che puoi farcela» Mi giro per guardare chi ascolta i miei pensieri. Un orizzonte secco come un taglio osserva le mie mosse. Quello e null’altro. Cerco con gli occhi la sagoma di un’ombra di arbusto dove ripararmi. «Alzati e cammina!» dice ancora la voce «Anzi: cammina e basta… sei già in piedi!» É stato lì che ho capito che il sole stava contribuendo largamente a farmi diventare deficiente del tutto. Non potendo fare altro mi arrendo al mio destino e continuo la marcia, un passo alla volta, senza darmi tregua. Nel delirio della stanchezza mi accorgo che la mente continua a giocarmi strani scherzi, cantandomi canzoncine che vorrei tutt’altro che sentire. «Oh Regina, Reginella, quanti passi devo fare per arrivare al tuo castello bello bello?» – Duemila da formica! E giù a digerirmi duemila passi sulle punte. 76
Devo dire che per una buona settimana le ho provate tutte. Formica, elefante, rana… lì sul sentiero, a dare scandalo al resto del mondo, scimmiottando esemplari animali come un cerebroleso fuggito dall’istituto. Ho smesso di dare ascolto al “Regina Reginella” quando, pagando un pegno da 400 passi come gambero, ho rischiato di cadere giù per una scarpata e di finire il mio pellegrinaggio in un sacco argentato della Guardia Civil di Logroño. Da quel momento ho smesso di fare l’ebete continuando a camminare e limitandomi soltanto a fare quello. I primi dieci giorni sono trascorsi così, facendomi sudare l’inverosimile. E più di una volta ho avuto la percezione di me stesso come un tronco di kebab appeso fuori di un chiosco arabo, sul bordo di una statale in una notte di mezza estate. Un sudore unico. Inoltre, avendolo sperimentato anche un momento fa, posso affermare che camminando la percezione di se stessi varia in… In salita, per esempio, mi sembra di essere un nano gobbo. Testa e culo giganteschi in un corpo schiacciato dal peso dello zaino e dagli arti tozzi. In discesa, più di qualche volta, mi sento trasformare in uno spilungone watusso e, per finire, sotto il sole mesetico riprovo l’esperienza di essere ossuto e senza linfa come un cadavere ambulante. Devo dire che quando si arriva a sera, dopo che ci si è sciroppati trenta e passa chilometri di sabbia infuocata, non si può fare altro che essere se stessi e, il più delle volte, più che camminare in cerca di un rifugio si ha la sensazione di strisciare al suolo. Quel giorno arrivo a Logroño e incappo nell’ostello del pellegrino quasi senza cercarlo. Più che altro è l’albergue a 77
mettersi davanti, perché se fosse stato per me sarei andato dritto ancora per chissà quanto. Il caso vuole che la coda di gente in attesa di un posto dove stendere la stuoia arrivi fino in strada. Aspettando il mio turno osservo i pellegrini già sistemati chiacchierare con i piedi in ammollo in una piscinetta di acqua gelida leggermente all’esterno dell’entrata principale. A differenza della maggior parte di ostelli che ho incontrato strada facendo qui a Logroño c’è un’organizzazione che fa quasi paura. Gli hospitaleri sono più di tre e hanno tutti mansioni precise. Un paio di donne registrano e marcano le credenziali, un altro passa l’anfora con l’acqua da bere, un altro ancora fa strada a gruppetti di tre pellegrini verso l’area di suolo destinata. E via dicendo… Ottengo un bellissimo due metri per uno di posto in mansarda, con suolo di parquet e un trave obliquo esattamente sullo zenit della testa. “Conoscendomi” penso vedendo l’architettura della volta “almeno una zuccata devo lasciargliela giù come pegno per la fortuna di un posto così privilegiato”. Lo penso sorridendo, ma dentro di me so bene che, maldestro come sono… c’è ben poco da scherzare. E mi ricordo di fare molta attenzione nel muovermi che, se non ci è ancora riuscito il sole a farmi ringalluzzire, lo spigolo di un trave di legno massiccio può avere risultati spettacolari. Dopo la coda per la doccia esco a fare due passi, trascinando i piedi ancora mezzi malati per la cittadina. Nella piazza principale incontro nuovamente le due italiane che dicono essere in vena di… regalini. – Regalini? Sì, fanno loro, oggi è l’ultimo giorno. Domani arrivano i nostri genitori a prenderci e andiamo tutti assieme a Santiago. 78
– Sarebbe a dire? Sarebbe a dire che le due cattoliche si sono fatte nemmeno una settimana di cammino e quando mancano ancora tre quattrocento chilometri arrivano mamma e papà e le portano fino alla meta in automobile. – È un consiglio del vostro padre spirituale? No, risponde una di loro. È per il tempo: i prossimi quindici giorni andiamo al mare. “Ah ecco, mi pareva…” Quella sera ceniamo assieme in un ristorante che fa menu del pellegrino, dove loro scelgono insalata con cipolla e io, da buon diavolo, bistecca al sangue. Durante la cena le rimbambisco di parole e mentre tento di convincerle del fatto che San Francesco, in realtà, è stato più un bodhisattva buddista che un santo cattolico, le due ragazze mi guardano con la bocca spalancata e gli occhi dilatati. Anche se non riesco a convincerle pienamente guadagno a pieno titolo il diritto di massaggiare le loro periferiche motrici. Quella notte raggiungo il loro letto a castello (che non capisco come abbiano fatto ad avere visto che sono arrivate all’albergue un paio d’ore dopo del sottoscritto) e do il meglio di me stesso, infiltrandomi con le dita nodose lungo tutti i loro tendini e girovagando senza ritegno nelle pieghe dei loro inguini che, penso, più di tanto doloranti non devono essere. Quando la luce della camerata si spegne sono in procinto di abbandonare le chiappe della prima per trafficare con quelle della seconda. La festa per loro dura una decina di minuti a testa e quando ritengo di averle toccate il giusto, senza strafare né compromettermi, da buon pellegrino le saluto con un bacio di
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addio. Riesco a vedere solo lo sguardo di quella che occupa il piano di sopra del castello, che sorride. Le dico sottovoce una cosa come “Buona vita” consapevole del fatto che da quel momento in poi non le rivedrò mai più, anche se stanno a Brescia e a Brescia ogni tanto uno ci va per vedere qualche mostra o perché gli tocca scendere per via dello sciopero dell’intercity Venezia‐Milano. Mai dire mai nella vita, penso raggiungendo la mia stuoia. La sorella di Daniela, aveva detto, dall’anno prossimo studierà a Padova, magari ci vediamo. Chi può mai dirlo, rispondo mentre penso che non può fregarmene di meno. Quella notte faccio fatica ad addormentarmi per via delle mani che friggono dell’energia che ho cavato fuori stando in doppia‐ zona inguini di marca cattolica. Poi rimango ad ascoltare un pellegrino adolescente vomitare dalle parti del bagno del piano di sotto per via del vino che si è bevuto nel dopocena. Poco distante da me due coppie di coniugi pellegrini se la ridono dando spettacolo con stronzate futili da spagnoli di bassa lega e tenendo sveglia l’intera camerata. Avviene un bisticcio perché qualcuno s’incazza. Hanno ragione penso, non rompere i coglioni e dormi no… Mi addormento con la parola vaffanculo che mi aleggia in testa. Sono entrato nella fase di rabbia che, dopo la paura di non farcela, è il secondo diavolo del mio cammino. Per fortuna ho tutta la meseta ancora davanti per sbrogliarmi di dosso il drago come Dio comanda. Amen. 80
10 Al risveglio la zuccata sullo spigolo della trave arriva puntuale come un treno svizzero. Soffoco una bestemmia tappandomi la bocca con lo zaino e nessuno mi sente. Me ne esco dalla tana a gatto miao e mi vesto sulle scale in piedi sul metallo gelido. Prima di scendere del tutto, do uno sguardo veloce al castello delle due ragazze e intravedo le loro ombre dormire. Penso che per loro oggi è giornata di festa e che lo sarà per chissà quanto ancora, forse per sempre… Fuori è ancora notte e l’unico rumore che sento è il ticchettio ferrato del mio bastone di pellegrino. Me ne esco da Logroño in silenzio come un cane randagio, sulle spalle uno zaino zeppo di colpe, sotto i piedi una padella di peccati e tra le dita una sigaretta accesa. Nuocerà anche gravemente alla salute, ma l’aiuto che ti dà in certi momenti non ha eguali, grazie a Dio. Grazie a Dio sono ateo, ma… questa è un’altra storia. Secondo la Berti la tappa del giorno si presenta insidiosa per via del cammino lungo a statale. Strada facendo noto che le informazioni della guida non tradiscono le aspettative. Verso metà mattina incrocio la lapide in memoria di una pellegrina tedesca rimasta vittima di un incidente. Trascorro i sei chilometri promessi dando occhiate sinistre ai Tir che mi sfiorano ad alta velocità. Dopo un’ora e mezza di sofferenza individuo aldilà della strada una freccia gialla e la seguo. Da quel momento in poi tutto cambia e il cammino prima scende e poi sale a mezzo colle. Da lì in poi tutto cambia, nel senso che gli automezzi si allontanano sempre più verso il basso e gli unici rompi coglioni sono i pellegrini in bici che fanno il fuori pista urlando “pista” all’ultimo momento. 81
Uno mi sfreccia da dietro e in castigliano di Madrid mi urla nelle orecchie: «Buen camino peregrinooo!!!» Il tempo di riprendermi dal mezzo colpo che mi ha fatto fare e in perfetto italiano del centro di Padova gli rispondo: — Buen camino alla vacca di tua sorella…— ma è già corso troppo avanti per sentirmi. Dettagli a parte, il resto della giornata prosegue guardando le cose, ancora una volta, dal punto di vista dei piedi. Dopo tanto viandare, alla fine, si cammina e basta. Senza tecniche di auto ipnotismo o respiri che tengano. Si cammina perché si deve e perché non si può fare altro. E così passano le ore, i giorni. Capita che si attraversino luoghi incantevoli senza nemmeno guardarli. Le uniche immagini che alla fine del giorno rimangono sono le dita dei piedi, la punta di ferro del bastone e i sassi al suolo. Alla fine si diventa tutt’uno con lo zaino che ci si porta dietro come una strana gobba. L’unico passatempo che rimane, dopo dieci giorni di pellegrinaggio, è quello di contare i dolori che salgono da ovunque, scegliere il peggiore da affrontare a quattrocchi, per poi debellarlo per sempre. Alla fine si cammina perché non si può fare altro che quello. E si guarisce da ogni male oscuro che viene allo scoperto, perché non si ha altra scelta che quella. Alla fine è così che funziona, il cammino. Camminare e guarire, guarire e camminare. Senza via di scampo. Questo e null’altro. Quel pomeriggio raggiungo Najera che è una cittadina costruita a ridosso di una montagna. Il punto di attrazione culturale è un monastero incastonato su di una roccia 82
considerata miracolosa per via di certi strani fenomeni di materializzazione. Da un’effigie vengo a sapere che nel millecento e qualcosa il Buffone di Dio, durante il suo cammino verso Santiago, fece tappa nel monastero, quindi… è un motivo più che ottimo per fare, una volta tanto, il visitatore. Mi elettrizza l’idea di mettere i piedi dove è passato Francesco e quindi mi dirigo velocemente verso la porta d’entrata. L’atrio è adibito a vendita di souvenir religiosi del tipo madonne di sale, conchiglie colorate e candelotti marchiati Compostela. Un chiostro gotico dà accesso a certe stanze sepolcrali che ospitano i sarcofagi dei reali di Navarra di non so quale periodo storico. Scendendo un’ampia scalinata si raggiunge la grotta miracolosa che rende l’intero luogo di grande culto. Si racconta che lì dentro vi siano state svariate apparizioni della Madonna a colui che poi divenne il costruttore dell’intero edificio. Sul fondo della grotta vi è una gabbia di metallo con all’interno un’urna che sembra ospitare una reliquia di qualche santo sconosciuto. Rimango qualche secondo lì sotto in silenzio, cercando di verificare se sto sentendo qualcosa di miracoloso e quando ho la conferma che non sentirò altro che l’ormai cronico dolore ai piedi e l’ininterrotta voglia di fumare, me ne torno di sopra a visitare il resto. M’infiltro in un gruppo di turisti del Sud che visitano la cappella interna. Rimango pochi minuti ad ascoltare la guida, una arzilla anziana con la gobba e la sguardo fiero che di nome fa Dolores, che racconta forbitamente la storia delle rifiniture lignee del coro. Quando ne ho abbastanza me ne esco nel chiostro a guardare il gioco di luci prodotto dalle infiltrazioni del sole attraverso porte‐finestre di pietra lavorata. Dopo una sigaretta e svariate fantasie sul pellegrino Francesco decido di laudare il mio Signore interno con una birra. Quindi me ne vado in cerca di un bar. 83
Sulla porta dell’albergue incontro un paio di pellegrine di mezza età che, guarda caso, non solo sono italiane, ma vengono dalla mia città e, se non bastasse altro, abitano pure nel mio quartiere. Una di queste, Marisa Tognon, mi pianta una solfa sulle vesciche, su quanto male fanno mioddio, su cosa bisogna fare per togliersele di torno, su quanto tempo ci mettono a seccare, e via dicendo… Le due donne sembrano il manifesto del martirio umano e, a differenza di quello che affermano di voler fare, con non poca presunzione, leggo nei loro occhi che arriveranno al massimo fino alla prima città grossa, Burgos, che dista ancora qualche giorno di cammino. E poi… a Santiago in autobus, senza troppe storie! Estraggo il mio kit di sopravvivenza con l’ago e il filo e do dimostrazione di come vanno “cucite” le vesciche per renderle innocue nel giro mezzo minuto. La pellegrina Marisa sembra particolarmente attratta dall’operazione (forse per via dei centrini che tutte le donne di quell’età sanno fare) e mi osserva con cura. Così, le indico passo‐passo le azioni da compiere. Scalda l’ago, perfora la pelle esterna della vescica, attraversala da parte a parte con ago e filo, sfila via l’ago con cura e lasciaci dentro il filo, lascia che il liquido esca, aiutalo con una garza sterile, disinfetta la parte col Tea Tree Oil, copri l’assieme con un cerotto e… vedi di stare tranquilla. Alla fine si convince che è più lo schifo dell’ago che il dolore in sé, a creare tensione. Così decide di operarsi in tutta autonomia, ma con la mia supervisione. La vescica in questione è ampia come un piatto da pizza e le avvolge tutto il tallone. Procediamo… La donna scalda l’ago e, tanto per partire col piede giusto, si brucia un dito; poi fa per perforare la pelle superiore e si infilza fino quasi all’osso; una volta finito di urlare dal dolore prova a 84
farci attraversare ago e filo ma… apre in due parti il pezzo e rimane in carne viva. — Ma te sì un disastro… Alla fine però riesce a disinfettare la ferita piuttosto bene e la cosa sembra riempirla di una rinnovata energia. Così inizia una tiritera infinita sul fatto che sono il suo salvatore, ma guarda che bravo che sei, sei un mezzo guaritore, ma dove hai imparato mai… e via dicendo. Colgo l’attimo fuggente per fuggirmene altrove, lasciando la signora a raccontare al mondo la sua scoperta e la mia bravura. Lascio in custodia lo zaino nello sgabuzzino dell’albergue che, per l’occasione, non ha posti liberi nemmeno per dormire in piedi. Bighellono per la cittadina, osservando la gente che mi osserva trascinare le gambe lungo la calle. Alla fine, dimentico della birra che mi volevo bere, individuo il lungofiume dove, tra i vari pensionati che chiacchierano amabilmente, c’è una panchina libera su cui sedermi. Rimango lì un’ora a scrivere le massime del mio giorno sul taccuino e a osservare l’acqua scorrere verso Est. Poi, nella totale assenza di fame a causa della mia ansia cronica, torno verso l’albergue per cenare. Quando sono in zona mi obbligo a entrare in un ristorante tipico che l’hospitalero mi ha indicato come il migliore tra quelli più economici. Il locale si chiama Ojo Erecto ed è gestito da una giovane signora bruna che mi accoglie con un sorriso senza eguali. Quando mi accodo su di un tavolinetto noto che l’abilità della donna nel manovrare il proprio sguardo é estremamente funzionale alla vendita dei piatti della cucina. Per un senso di rispetto nei confronti di quest’arte mi lascio convincere a mangiare un pesce arrostito, servito in un bagno d’olio piccante, dove almeno cinque spicchi d’aglio galleggiano come barche alla 85
deriva aspettando di essere raccolti dalla fiocina quadriforcuta e perdersi negli inferi del mio stomaco. Il massimo per uno senza fame… Il primo boccone lo faccio a denti sollevati, ma poi mi lascio convincere totalmente dal sorriso della bella spagnola a finire sia il pesce che il contorno e a farmi fuori pure un paio di cucchiaiate di olio piccante così, da sole. Della serie: mattanza etnica. Finito di cenare pago, saluto la signora bruna e esco dall’Ojo Erecto barcollando per andare a recuperare lo zaino. Poi raggiungo il polideportivo al quale sono stato destinato, assieme a decine di altri pellegrini in esubero, dall’altra parte del fiume. Una volta sul luogo mi inoltro sul linoleum e scelgo uno spazio di suolo a discreta distanza dagli assembramenti di umani accampati. Poi srotolo per bene il mio sacco e delimito lo spazio con lo zaino, una maglietta e il bastone. Infine esco un’ultima volta per fumare vicino alla riva del fiume. Quando rientro per dormire l’intero stabile è avvolto nel buio. Mi lavo i denti nel bagno degli spogliatoi e poi ritorno alla base per meditare. Di tanto in tanto vengo interrotto dal rimbombare di una porta di metallo lasciata sbattere senza ritegno da pellegrini ritardatari e maldestri. Ad ogni colpo l’intera palestra sussulta e l’eco del rumore rimbalza dal soffitto alle pareti facendo incazzare più di qualcuno, me compreso. Alla fine della fiera devo dire che una notte in un polideportivo è un’esperienza da provare. Ma nove notti su dieci no. “Buena noche peregrinos”. 11 La formula magica è questa: «Prendi un campione di umani di tipo uomo‐donna, l’età non ha importanza, va bene anche giovani. Quello che conta è che 86
abbiano un’identità, un passato e delle idee ben salde in testa sulla vita. Mettili nel Cammino di Santiago de Compostela, con dieci chili sulle spalle e la consegna di camminare. Camminare e basta. Seguili passo passo e osserva cosa succede.» Troverai che nel giro di un paio di giorni tutte le convinzioni che avevano prima di mettersi in marcia crolleranno come torri, immagine della loro identità compresa nel prezzo. Troverai che diventeranno uomini e donne, solamente. Tutti abbastanza simili da piangere per gli stessi problemi. Abbastanza simili tra loro da non cercare conflitti di potere. Scoprirai ch’è così. Se ci provi. E scoprirai anche che, dopo dieci giorni di cammino, non sono più quelli che erano prima. Ma altri. Che prima nessuno aveva mai conosciuto. Forse nemmeno loro. Risvegliarsi è possibile, so che si può. L’ho letto da qualche parte o forse me lo sono inventato durante il delirio della camminata in meseta. I primi passi li avevo fatti nella confusione; e per quasi due settimane ho camminato con la testa che mi esplodeva di pensieri. È la mente che crea le barriere di limiti Ed è solo la mente che può distruggerle È la mente a creare i propri stessi limiti, le barriere, la prigionia in cui essa vive. Poi però le cose cambiano, come in un sogno. Ci sono dei momenti, nel ritmo infinito del passo sui sassi, in cui qualcosa cede. È come un giramento di testa, una sottile vibrazione della struttura. Ed è lì che sorge il dubbio, l’eterna domanda. È il momento in cui si apre un varco e il silenzio interiore inizia a salire. Farsi sentire. 87
Il rumore intenso del silenzio… Camminando scopro che la domanda che mi insegue da quando esisto è sempre stata la stessa. Ed è proprio la necessità di trovare la risposta a questa domanda, alla quale ho dato il nome di Passo Perfetto, che mi ha spinto a intraprendere il Cammino. È come se avessi sentito di essere parte di un Disegno la cui grandezza, normalmente, mi è impossibile da immaginare. Nello stesso momento in cui penso a questa cosa so anche che non posso dimostrare sia effettivamente così. Ma in mezzo a una meseta abbagliante, dopo cinque ore di cammino sotto il sole rovente, dalle parti di Carrion de los Condens, ho sentito ovunque attorno a me la presenza del Disegno. Mentre i miei occhi si serravano al riflesso delle immense distese di grano appena colto la mia mente sapeva che quello straordinario paesaggio lì fuori non era altro che l’interfaccia, il vestito, lo strumento di comunicazione che il Disegno stava usando per comunicarmi la sua presenza. La mia, all’interno di se stesso. “Il Disegno…” Ci sono momenti in cui tutte le convinzioni si sgretolano e senti che la tua mente appartiene alla vita nella stessa misura in cui è schiava di un sogno. Non ci sono mediazioni a riguardo. È così e basta. Ipnotizzato dal rumore dei passi sul cammino di polvere ho saputo che l’unica cosa possibile da fare è infilarsi per il sentiero dell’eternità e uscire per sempre dall’allucinazione: uscire dal flusso, venirne fuori. Non ho mai avuto così chiara la mia domanda come in quel momento, né la risposta. Camminando ho capito che risvegliarsi è possibile e si può fare in qualsiasi momento.
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Bisogna soltanto interrompere il flusso di pensieri che vanno e vengono dall’interno di noi stessi facendo il giro largo e passando per l’esterno. Rivolgere lo sguardo fuori, in direzione degli altri. L’unica cosa intelligente da fare. Smetterla di pensare a se stessi e al mantenimento della propria integrità esistenziale. Si tratta soltanto di quello, guardare fuori e occuparsi dell’esclusivo benessere degli altri. Di quello soltanto. “Una parola…” A Santo Domingo de la Calzada la Policia Municipal controlla le credenziali. Cercano il ladro degli ostelli che, a rigor di logica, non dovrebbe essere poi tanto difficile da individuare. Noto che qualcuno degli altri pellegrini mi guarda in malo modo. Sono italiano e viaggio da solo. Non do più di tanta corda ai curiosi. Per loro potrei essere io. In fondo… «Ehi Italianonnò, spaghéti, piiiza, chitara, mandolino, mafiaaaa!» — E ladri! aggiungo proverbialmente. L’americano che mi parla non sa che l’immagine che ha dell’Italia è ferma al 1952 o giù di lì. Tra me e me penso che il nostro Belgoverno dovrebbe fare qualcosa di serio una volta tanto e adoperarsi per aggiornare questa lista di prodotti di esportazione tipici del Belpaese. Magari portarla al passo coi tempi. Nemmeno questo dovrebbe essere così difficile… Capisco gli spaghetti e la pizza. Passi pure la chitarra, va tutto bene, ma il mandolino… Personalmente, avrò visto un paio di mandolini in tutta la mia vita, ma non suonati da qualche romanticone napoletano in vena di serenate, bensì appesi ai ganci di una vetrina bisunta di strumenti musicali fuori parrocchia. Di quand’è questa immagine dell’italiano col mandolino? 89
Italiano‐spaghetti‐pizza‐chitarra‐mandolino‐mafia… Il fatto che l’ultimo dei prodotti della lista abbia fatto furore negli Stati Uniti voglia dire qualcosa? Gli americani di oggi fanno finta di niente, ma è giusto ricordare che se l’America è diventata quello che è, di sicuro grandi meriti vanno a questa associazione a delinquere di stampo governativo: mafia. Naturalmente sto guardando la questione USA con occhio mooolto positivo. In realtà sappiamo che l’arroganza dei fratelli d’oltreoceano non ha eguali in tutta la galassia, così come non ce l’ha la dedizione per i peggiori crimini contro l’esistenza umana tipica della mafia. Se un prodotto d’esportazione come questo ha funzionato così bene da quella parte del pianeta un motivo ci sarà pure, o no? In ogni modo, ciò non toglie che la famosa lista della spesa urga d’essere aggiornata al 21° secolo. Lasciamogli pure la chitarra, ma togliamoci il mandolino. La mafia in lista ci deve rimanere, per definizione, ma inseriamoci anche qualcosa d’altro, di più attuale cessò: Venezia, il Milan, Mediaset, Tangentopoli, Berlusconi. Insomma qualcosa… — Ohsssole mio, sta in fronte a teee… Camminando sotto i quaranta gradi della meseta il delirio cresce ch’è una meraviglia. E tra un pensiero e l’altro qualche volta mi capita anche di pensare al Passo Perfetto che, anche se la mia mente fa finta di niente, è anche l’unico motivo che mi ha spinto a intraprendere ‘sta tortura cinese qui… Il Passo Perfetto la mia mente se lo immagina come una zompata leggera, ma equilibrata, cadenzata ma solida. Coerente… Dalle parti di Azofra, nel bel mezzo del nulla più puzzolente dell’universo, scrivo sul taccuino: 90
Il Passo Perfetto è il prodotto di forza e pensiero Poi penso che i porci di queste parti debbano essere alimentati col loro stesso sterco per creare un fetore del genere in un raggio di dieci chilometri. In un luogo così è molto più facile trovare l’olfatto imperfetto che il tanto ricercato Passo Perfetto. No chiaviche… Arrivo a Grañon dopo un intero giorno trascorso a camminare controvento in mezzo alle nuvole di polvere di una giornata bruciante. Ai piedi di una collina brulla, che devo per forza salire, decido di fare una siesta all’ombra di una fila di cipressi. L’unica presenza umana di quel luogo è un pennacchio di fumo alzato da un trattore in lontananza. Mi siedo sul muretto di un ponte pensando che camminare soli è senz’altro un vantaggio. Sulla Berti leggo che l’albergo di Grañon è gestito da un parroco molto ospitale, tale Padre Ignacio, che vale la pena di conoscere. La magica guida firmata da Alfonso Curatolo e Miriam Giovanzana dice anche che l’albergue è stato organizzato all’interno di uno stupendo campanile medievale che non si può non visitare. Così, dopo aver speso dieci minuti del mio tempo per accendere una sigaretta controvento e un paio di minuti per fumarla, mi rimetto in moto per affrontare l’ultima fatica della giornata. La salita è più pesante di quello che mi aspettavo, però sento che le mie gambe si stanno abituando al disagio. “Un’altra settimana così e divento un treno”, penso.
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Entro in paese in silenzio incrociando un cane randagio che mi lancia uno sguardo che a mio dire è ironico. — Cazzo hai da ridere? Cercando con gli occhi il campanile di cui parla la guida penso che devo essere preso davvero male se anche i cani randagi ridono al mio passaggio. Poi mi ricordo che i cani non ridono (però piangono, perché?) e lascio perdere le congetture. Alla fine arrivo al centro del paese e individuo la chiesa millenaria di San Giovanni Battista di cui parla la Berti, scorgendo il fatidico campanile spuntare tra le case. Una volta raggiunto, per mantenere intatto il mio voto di pronunciare meno parole possibili, uso un modo alternativo di dire “permesso” ed entro nello stabile strisciando rumorosamente i sandali, così da annunciare la mia presenza. Non vedendo arrivare nessuno salgo le ventidue scalette che portano al primo piano fino a raggiungere una porta. Ansimo, respiro, busso e senza attendere risposta la apro. Sono lì sulla soglia che cerco di capire se dentro quello strano luogo ci sia davvero qualcuno quando… una ragazza dallo sguardo luminoso mi investe con uno dei più bei sorrisi che ricordo di aver incassato da quando esisto. «Holà campéon!» Ha un modo di fare leggermente aggressivo per i miei gusti, ma abbastanza simpatico da convincermi a entrare. L‘hospitalera ha due occhi folgoranti che guardano dappertutto e un sorriso così aperto da sembrare il nastro di un uovo di Pasqua. Salgo le scale timidamente dichiarando le mie generalità. Lei si presenta a gran voce «Yo soy Clara campèon!» e mi spinge a entrare in una stanza dove una tavola imbandita vede una
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decina di pellegrini intenti a far fuori quella che, da lontano e nello stato in cui sono, sembra una comida superlativa. «Come with us, italiano! — dice l’hospitalera— Sit down here.» Mi indica il posto dove sedermi e mi presenta uno a uno tutti i commensali. Riconosco alcuni volti che ho già incontrato nelle tappe precedenti, ma è come se non li vedessi. Tutti i miei occhi sono concentrati su di lei, hospitalera volontaria di origine basca. La mela del mio cuore inizia a pulsare senza darmi tregua, così mi siedo combattuto dall’idea di stare per fare un infarto, ma con dentro la sensazione di essere arrivato al porto. Meta di tutte le mie mete. Mi sa che ho trovato quello che cercavo da sempre. — Merci Saint Jacques! Mangio la comida in silenzio, pensando che di un posto del genere ne avevo proprio bisogno. Dopo tutta la sofferenza dei giorni precedenti era ora che l’attenzione si spostasse dai piedi al petto o giù di lì. Significa che le cose si stanno muovendo. Dopo il riso al curry e un’insalata cosparsa di cipolla, srotolo la stuoia sul tratto di pavimento che mi è stato assegnato per la notte, e mi auto gratifico pensando che l’idea di proseguire fino a Grañon, sfidando l’imperterrita calura, è stata ottima. Fosse solo per il sorriso della ragazza che mi ha accolto ne è valsa la pena. Più tardi però, parlandoci assieme, scopro che abbiamo gli stessi unguenti naturali in caso di bisogno, cristalli in tasca per la protezione della mente e lo stesso scopo (apparente) in vita. Per un breve attimo c’è la sensazione di un lungo riconoscimento. Non so se sia per via della mia pessima pronuncia o perché non capisce una mazza di quanto sto dicendo, ma la ragazza se la ride di gusto. 93
Mi piace da morire come ride e quando le dico che voglio sposarla Clara ride ancora di più. — Sto parlando sul serio, commento. E dando sfoggio del mio inglese veramente di merda continuo: — Next year, not now… I start to prepare my things. Clara mi guarda negli occhi e io vorrei tanto lasciarmi cadere in ginocchio per baciarle i sandali. Poi la parte più seriosa di me ordina a se stessa di smetterla di tentare di sedurre tutto ciò che si muove e la cosa finisce lì. Nel corso del pomeriggio però i nostri sguardi si incontrano più di una volta lasciando tracce di sorrisi sospesi come lembi di carta nell’aria. Prima di cena la ragazza mi si avvicina e con una voce sottile che sembra quella di un flauto mi sussurra qualcosa dalle parti del collo. Il mio sguardo a quel punto si allarga. Rimango in silenzio, ma non ho alcun dubbio su ciò che devo fare. Certe cose accadono solo una volta nella vita e forse anche neanche. Dopo cena Padre Ignacio posa la pipa sul tavolo e dice che è arrivato il momento del rito propiziatorio. Tutti noi veniamo invitati a entrare nella cattedrale passando per una porticina che comunica con il campanile per prendere posto nel coro dietro all’altare. Il rito consiste in una preghiera breve in varie lingue e la lettura ad alta voce dei nomi di tutti i pellegrini che sono passati per Grañon dall’inizio dell’anno fino al giorno prima. A lettura terminata a ognuno dei presenti viene passato un libro che Padre Ignacio tiene in mano così da aggiungere il proprio nome per la funzione del giorno successivo. «Buen camino peregrinos — conclude il religioso — Ultreya!» 94
Guardo l’hospitalera seduta vicino al prete e la divoro con gli occhi. Lei lo capisce e abbassa lo sguardo sorridendo. Dopo poche ore, quando tutti sono a letto, scivolo nel paradiso del suo corpo, al centro di un cerchio di lumini nel claustro del coro. Quella notte, nel silenzio della cattedrale, dal basso dove mi trovo per ricevere il regalo confezionatomi dal Disegno, ascolto Clara perdersi in un riso sommesso. Il suono della sua voce costretta rimbalza tra le colonne e temo che da un momento all’altro Padre Ignacio entri dal campanile e ci colga nel fatto. Sarebbe da morire dal ridere, penso. Mi arrampico sulla donna come se fosse una parete del nono grado, facendo estrema attenzione a dove punto le dita. Una volta dalla parti della spalla osservo il suo profilo proiettato attraverso le ombre delle fiamme di candela e mi sembra perfetta. Perché io? Perché tu? Nel vuoto immenso della volta che ci sovrasta, il rumore del contatto dei nostri corpi sembra un frastuono senza fine. Scendo nuovamente come nebbia sulla sua pelle, disegnandola coi miei tentacoli di scritture di saliva. Quella di un uomo e una donna, nudi, distesi sotto la volta di una cattedrale antica di mille anni, è un’immagine che porta con sé il sapore dell’eterno. È qualcosa che appartiene più a un rito di iniziazione che a qualcos’altro. Più al sogno che alla realtà. Al destino di un Disegno. A qualcosa di sacro. Quella notte, nel dormiveglia, ho la visione di una bottiglia inclinata a mezz’aria dove al suo interno bolle dell’acqua senza l’ausilio del calore. Al centro dello spazio che ci contiene vedo una fiamma che brucia un drappo bianco che so essere prodotto dalla fusione di una qualche materia che non riconosco. La paura 95
di perdere la ragione però non ce la fa a distrarmi. E osservo la cosa nel buio della volta, adagiandomi ai cori di monaci che sento provenire dallo sfondo delle balaustre. Sono diventato pazzo il quattordici agosto dell’anno del Signore Duemila e Uno verso l’una e qualcosa. Notte profonda. Mille e non più mille era scritto. Com’è questa storia? Spero tanto di non venirne più fuori. Mentre sono nel delirio più totale la voce di Clara si insinua nella mia mente. «Maite zaitut» Trovando la ragione per un istante le chiedo: — What does it mean? «Te quiero campeòn!» è la risposta di Clara. Non dico nulla, però penso: “Che cazzo voglio ancora dalla vita?” 12 Verso l’alba il suono della voce di Clara mi sveglia definitivamente. Non comprendo il significato delle parole che pronuncia, ma il solo suono basta per riportarmi in vita col sorriso. Voce di angelo. Sono tornato a casa, penso. Ma nello stesso istante in cui realizzo che non sono morto mi ricordo che sto per partire un’altra volta e lasciare Clara, forse per sempre. Così mi tiro su dal marmo del coro cercando di pensare ad altro. Con tutto rispetto parlando per il luogo in cui mi trovo: ho i coglioni che frullano a dismisura. Subito dopo colazione la mezza mela del mio cuore si mette a pulsare ancora creandomi non poca agitazione. Ho una sfera di 96
lacrime ferma in gola e la sensazione di aver sbagliato tutto in vita. − Dio pellegrino… Mi stacco dall’abbraccio della donna, scendo le scale in retromarcia e rimango impalato fuori della chiesa a guardare Clara sul davanzale. Sento di aver stampato in faccia un sorriso ebete da italiano in fuga che, invece di recitare la parte del duro che non è mai stato, vorrebbe tanto piangere dalla disperazione; il bastone che mi accompagna puntato verso l’alto dei cieli come un’antenna della Radio Vaticana e un disastro interiore che non so spiegare a parole; sto combattendo con me stesso per mettermi in marcia e vorrei tanto perdere la sfida. A vedere Clara così, protesa oltre la finestra, non posso esimermi dall’immaginare di essere Romeo; un Romeo lontano qualche migliaio di chilometri dalla sua terra natìa, ma pur sempre un Romeo. Un Romeo in vacanza sotto la finestra di una Giulietta basca. Col mio inglese da marocchini la metto al corrente della visione che ho appena avuto e ridiamo un’altra, ultima, lunghissima volta assieme. Lei su, io giù, simbolismi del piffero a parte. Dentro la mia gola però la sfera di pianto spinge per uscire e devastarmi l’intero davanti della canottiera. Così, di fronte alla potenza di quell’emozione travolgente, abbasso lo sguardo incontrando le dita dei piedi fasciate dentro i sandali. “Se adesso me ne vado” penso “faccio la più grande stronzata della mia esistenza. Resta fratello, resta…”
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Non faccio a tempo a finire il pensiero che me ne sto già andando. Clara mi guarda in silenzio dal davanzale e io cammino a ritroso per qualche passo. Il braccio teso che tiene il bastone verso l’alto, come una canna spostata dal vento. Quello che sono. Sono un pirla, punto. Da quel momento in poi però i miei passi non saranno più gli stessi. “Lo so, lo sento…” E infatti tutta la sofferenza fisica provata fino a quel momento, sembra svanire nel nulla a causa di un qualche incantesimo senza nome. Dire che affrontando la mattina non provassi più dolore alle articolazioni o che fossi rimasto esente da stanchezza non è esattamente vero. Dal punto di vista fisico le cose stavano come prima, soltanto che io mi sentivo diverso, profondamente cambiato. Uno potrebbe dire: «Ci credo, ti sei trombato una spagnola in piena notte, al centro di una cattedrale dell’anno mille, di fronte a un anfiteatro di ombre di santi, nel bel mezzo di un cerchio magico di candele accese, dopo due settimane di polvere e sassi. Vuoi non sentirti diverso?» Mi rendo conto che, visto dall’esterno, un quadro di questo tipo non può che portare a un giudizio del genere. Ma io sapevo e so che lo stato in cui mi sono trovato non era dovuto alla notte trascorsa nel “trombare” la spagnola. Dal punto di vista espressamente fisico, una volta dentro a quella situazione anomala una parte di me ha subito una sorta di rispetto sia per il luogo in cui ero, che per l’essere meraviglioso che avevo di fronte. E nonostante io sappia di aver amato 98
profondamente quel corpo, quello spazio, quelle incredibili visioni senza tempo, non mi sono trombato quella donna. Non in senso tecnico, intendo. Lo so, sono cose che se le racconti in giro rischi di perdere il diritto di tenerti in tasca una carta d’identità con sopra scritto “cittadino italiano”. Mi spiace davvero tanto, ma io… non l’ho fatto! Le malformazioni sociali che subiamo crescendo in un determinato spazio geografico ci impongono di credere che (parlo di noi uomini) se in una situazione ideale come quella che mi è capitata, in presenza di un corpo di donna senza veli, sullo sfondo gioviale di un altare dorato, al centro di una cattedrale millenaria, distesi dietro una barricata di fiammelle accese, con le ombre delle candele che scivolano sugli affreschi delle pareti come alabarde affilate, si sia persa l’occasione di stantuffare per almeno una mezz’ora dentro le viscere dell’unica presente, si debba essere, per forza di cose, dei pusillanimi, come dire, mezzi uomini, in altre parole: dei suonati! Io però so che regali tipo quello che mi è toccato di ricevere valgono più di mille orgasmi messi in fila. Quando la magia della natura si mette in moto succedono cose davvero strepitose e anche se non “stantuffi” nel ventre della donna che hai davanti la vista ti vibra lo stesso, gli oggetti si presentano comunque dentro una strana veste come se fossero consumati da se stessi, o come se qualcosa dall’interno li stesse divorando. È lì dove la soglia della realtà non è più così stabile come vorremmo che fosse. Dove qualcosa che appartiene più al sogno si mostra in tutta la sua presenza. È quando il disegno dell’interdipendenza dei fenomeni diventa così chiaro da fare schifo. È quando la matrice perde tutta la sua illusorietà e tu da semplice spettatore quale sei sempre stato diventi il protagonista della scena, o 99
meglio ancora la scena stessa. Tu diventi la scena, assieme a tutto quello che ti circonda. Anche se idraulicamente parlando: non vieni! In quei momenti non c’è più spazio per i giudizi, né è possibile agire con una certa strategia, pianificando pensieri, parole opere e azioni come siamo soliti fare. Quando l’impermanenza della realtà si manifesta nella sua assoluta incompostezza non c’è santo che tenga. È come essere immersi in un fiume che scorre pacifico e beato, che tu lo voglia o meno. E trovandoti immerso in quel liquido in fermento non ti resta altro che seguire la corrente e lasciare che le cose vadano come devono andare perché in qualsiasi direzione si muovano sai che sarà uno spettacolo, un’esperienza gioiosa, sensuale, meravigliosamente vitale. Non c’è errore nella realtà, né colpa da subire o da dare. Siamo noi, con le nostre malformazioni sociali e con l’idea che tutto ciò che ci circonda sia solido e compiuto, che incolliamo strati su strati di quelli che chiamiamo “errori”, uno sopra l’altro, sulla superficie di una realtà che in quel momento crediamo sia vera. Una realtà che non è altro che la rappresentazione mentalizzata dell’infinita matrice che ci contiene, che ci gioca, ci consuma. Ecco perché accade che in una situazione così favorevole capiti quello che capita di non‐fare. Ma ciò che più fa strano è che all’interno di quello che ancora ora mi appare come un sogno ho sentito l’eco dei sussurri di quella donna sbattere da una parte all’altra della chiesa, circumnavigando la volta, sommessamente, spudoratamente, gioiosamente. Nel punto di massima energia di quella cattedrale, esattamente dove poche ore prima padre Ignacio aveva benedetto i pellegrini, me compreso, un uomo italiano e una donna del País Basco
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respiravano l’uno l’anima dell’altra nel tentativo di trovare un senso a quella estrema realtà e alle sue incredibili visioni. E visto che quell’italiano ero io posso dire che questo premio ricevuto azzera tutti i crediti che io ho sempre pensato di avere racimolato nei confronti degli innumerevoli insuccessi di questa esistenza. Non ho idea se sia serio fare questo tipo di calcoli, ma se niente niente mi fosse stato dovuto qualcosa, dopo questa cosa sono in debito marcio. Che la vita mi chieda qualsiasi cosa: io ci sarò, perché ciò che è giusto è giusto, zio billo! Qualche chilometro oltre Grañon però devo sedermi sul bordo del sentiero a piangere dalla disperazione come un bambino. Una volta ripresomi ringrazio con tutto me stesso il Disegno per il regalo ricevuto e lo faccio disegnando con le mani strane forme nell’aria che non saprei nemmeno da dove partire per ripetere. Poi con gli occhi pesti per la notte trascorsa scrivo un pensiero sul taccuino di viaggio. Uno dei tanti pensieri. Infine il mio occhio si perde in un centimetro quadrato di suolo e rimango lì come un idiota a osservarmi le dita dei piedi felicemente incrostati di piaghe. Aspiro il profumo di Clara che ho addosso lasciandolo avvolgermi il cuore. Sento un’ultima lacrima bollente scavarmi il profilo del volto. Ecco, credo di star morendo… La poesia della natura non è una cosa che si può descrivere in un pezzo di carta o, perlomeno, io non ne sono capace. 101
Plic, la lacrima mi bagna il foglio facendomi tornare alla realtà del mio cammino. Sono quasi alla metà del mio viaggio e del Passo Perfetto nemmeno l’ombra. “Cerca ancora pellegrino, penso, cerca ancora…” «Che altro ti resta in fondo da fare?» Risposta inutile, camminare.
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Secondo tempo 13 Dopo l’incontro con Clara il mio cammino prende un’altra direzione. I dolori lancinanti, fedeli compagni fin dal primo giorno di marcia, mi abbandonano quasi del tutto nel giro di poche ore lasciando spazio a problemi relazionali con elementi di altra natura. Nonostante io sappia che, dal punto di vista delle difficoltà, il peggio debba ancora arrivare, oggi mi sembra di camminare su di un tappeto rotante. Della serie: fatica zero. Strada facendo intercetto qualche faccia già incontrata in precedenza, però la fobia di stare da solo mi obbliga a non scambiare parole inutili con gli altri pellegrini; così procedo lungo il sentiero concedendo soltanto isolati cenni del capo in segno di saluto, se non niente del tutto. Come ho già detto in precedenza, la necessità di rimanere isolato dagli altri pellegrini è dovuta all’individuazione del Passo Perfetto. Quindi tutti i miei sforzi sono rivolti a sublimare il dolore fisico nel tentativo di realizzare quella concentrazione necessaria a registrare quanto sto cercando. Dopo l’incontro con Clara però, nonostante i dolori sembrassero essersi volatilizzati, la tanto ricercata concentrazione della mente sta per essere minata da un nemico ancor più difficile da combattere: il ricordo. Per migliaia di passi non ho fatto altro che pensare a quello che avevo vissuto nella chiesa di Grañon. I pensieri sono una brutta bestia, specie se stai facendo di tutto per non averne. E nella condizione in cui mi trovo è praticamente 103
impossibile non esserne preda. Se a questi ci aggiungessi anche tutte le relazioni possibili con i pellegrini incontrati strada facendo, il mio progetto del Passo Perfetto si perderebbe sul bordo del sentiero. Un lusso che non posso permettermi. Che lo si voglia o meno, per quanto uno ci provi a evitare il mondo, essere nel cammino significa appartenere a un “flusso”. Il “flusso” sono quel certo numero di persone che fanno il tuo stesso numero di chilometri giornalieri. E come ogni cosa visibile e invisibile del creato anche questo cambia in continuazione. Mentre nuovi pellegrini si aggregano, altri lo lasciano per introdursi in flussi precedenti o successivi. Dipende da molte cose, non ultimi la stanchezza accumulata, i problemi fisici più o meno seri, le crisi mistiche e altri affari simili. Dopo qualche tempo che sei dentro allo stesso flusso praticamente conosci tutti o quasi tutti. A volte capita che qualcuno si perda per strada e lo si incontri qualche giorno dopo al rifugio dove ci si ferma a dormire. Non sapendo mai però come andrà a finire la storia, la sensazione che si ha continua a essere quella di sempre: e guardi le persone come se fosse l’ultima volta che le vedi. Per quanto poco socievole uno possa o non possa essere c’è quindi sempre una sorta di rispetto ad ogni incontro che accade, perché non si sa se sia il primo di una lunga serie o l’ultimo della tua vita. Nel mio caso, essendo partito dall’inizio storico del cammino francese, a un certo punto del percorso ho realizzato che del mio flusso ero uno dei più vecchi (nel senso di chilometri prodotti) e più passavano i giorni più scoprivo che questo mi dava diritto a una specie di rispetto da parte degli altri pellegrini, come se le
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vesciche incancrenite dei miei piedi fossero delle medaglie guadagnate sul campo. Nonostante ciò, fuori Grañon tutto sembra dirmi che le cose stanno per cambiare. Le gambe iniziano ad avere ormai cinquecento chilometri e ho l’impressione che tutta la fatica accumulata si stia trasformando in qualcos’altro. Fino a Grañon il mio unico desiderio era resistere all’attacco dei dolori dovuti alla terra e trovare il Passo Perfetto. Dopo Grañon i miei desideri si sono triplicati perché, oltre a non trovare quello che stavo cercando, sono diventato bersaglio di una serie di necessità che non avevo previsto, del tipo: uscire dal gioco dei flussi, raggiungere Santiago e rivedere quanto prima Clara. Proprio così, uscire dal gioco dei flussi. Un passo per volta e per sempre. Quella sera incontro Mauro di Cuneo, che ho saputo essere accusato dei furti negli ostelli, che nel frattempo fa coppia fissa con Martina di Darmstadt, la tedesca dalla tetta di luna che ho incontrato la seconda sera a Larrasoaña. Il rifugio consiste in un campeggio lungo una strada statale e troviamo posto nella stessa tenda assieme a un paio di ciclisti di Saragoza. Non posso non notare un gruppetto di catalani che da qualche giorno si sono inseriti nel flusso a cui apparteniamo. Il miei pregiudizi più feroci fanno sì che i branchi in genere mi stiano sulle balle per definizione e, nonostante alcuni elementi del gruppo cerchino di scambiare parole amichevoli, li evito brutalmente come se avessero addosso qualche malattia virale. Seduto di fronte a una birra ghiacciata, indagando dentro il mio snobismo, scopro che quei sette otto catalani mi stanno sulle balle primo perché girano in gruppo, secondo per le facce da 105
discoteca che si ritrovano, terzo per il casino che fanno la sera negli ostelli, quarto perché sembrano di essere venuti a fare ‘sta cosa del cammino solo per farsi le canne. Ovviamente non ho nulla contro le canne, vorrei vedere. Anche se non fumo più da una vita, dopo il pagliaio di erba che mi sono interiorizzato quando avevo venti anni, come potrei avere qualcosa contro quel ben di dio adesso che ne ho trentasei? Alla fine, senza mezze misure, catalogo il gruppo di catalani come dei “coglioni qualsiasi” che hanno deciso di farsi il Cammino di Santiago così, come vacanza in alternativa alle solite Canarie. Tra loro c’è una tizia dal corpo di ragazzina e il viso rugoso come quello di un ramarro che mi incute un qualcosa di sinistro a cui non voglio pensare; tra gli altri vedo un ragazzo con la barba folta e il sorriso simpatico che la sera prima era a Grañon assieme a due giovani spagnole. Non so come si chiami, ma lo incontro sempre più spesso ormai da molti chilometri. Avrà venticinque anni, uno sguardo solare e l’occhio da buono. Non lo vedo troppo adatto a quel branco di arroganti. Che ci fa con loro? “Bah, saranno fatti suoi…” Ecco, sono così i pensieri: ti fregano. Ti metti a pensare a una cosa e poi la stessa cosa ti porta via. Come posso indurre la mia mente a non pensare? Come posso trovare il Passo Perfetto in queste condizioni? No, la risposta è lampante, non si può fare. Devo assolutamente uscire dal flusso. Quella sera mi addormento rivoltato nel sacco, intriso di pensieri che non servono a nessuno e a me per primo. Mezzo metro più in là Mauro e Martina pomiciano come trivelle. Beati loro, penso. 106
Avrei fatto meglio a stabilirmi a Grañon. − Maite zaitut Clara… 14 Il giorno dopo leggo sulla guida che quattro ore prima di Burgos, deviando un paio di chilometri dal cammino principale, si incontra Atapuerca, dove si può visitare un celebre sito preistorico. Accetto la proposta dei curatori e decido di fare tappa nel paesino. Il caldo della Navarra è qualcosa di scultoreo. Il meglio di sé però il sole lo dà verso le quattro del pomeriggio quando il sudore evapora nell’istante in cui s’affaccia dalle finestre dei pori. Arrivo all’ostello nel delirio più totale, trascinando me stesso come una fascina di legname e respirando a fatica. Dietro di me non c’è nessuno e non vedo l’ora di stendermi su di una branda senza nome. Ma quando sto per imboccare il vialetto del rifugio comunale, dal nulla che mi sovrasta, spunta un tizio alto e grosso, con la testa pelata e il passo lesto. L’uomo mi supera sulla destra e mette il piede dentro il cancello un secondo prima del mio. Non lo degno di uno sguardo e rallento ulteriormente il passo da bradipo che mi contraddistingue. Quando finalmente entro nella casa l’hospitalera volontaria allarga le braccia facendomi capire che l’ultimo letto disponibile se l’è fumato il signore entrato un secondo prima. ‒ Nessun problema ‒ la tranquillizzo − il pavimento va benissimo lo stesso. Il luogo mi sembra ottimo, l’interno è di pietra a vista e la ristrutturazione sembra recente. 107
«Non hai capito» fa la donna «qui non c’è più posto». Per sua sfortuna ormai sono un veterano del cammino e non me la bevo facilmente. Così rimango lì davanti a fissarla, in attesa mi dia un’alternativa. Il tizio fa finta di niente e scarica il suo zaino al suolo contento di aver trovato sistemazione per la notte, alla mia faccia. Vorrei fargli i complimenti per lo scatto finale, ma mi trattengo. Mentre l’hospitalera sta pensando a che palla raccontarmi per mandarmi altrove, il tizio, con un mezzo spagnolo impregnato di accento emiliano, le chiede qualcosa che ha a che fare con il bagno. “Ottimo…” commento tra me “è anche uno dei nostri…” La volontaria gli dà un paio di indicazioni con le mani e poi, rivolgendosi a me, mi fa sapere che il comune mette a disposizione una stanza per i pellegrini in esubero. Sottolinea che nel posto non ci sono né bagni né doccia, ma che comunque è un riparo. Il suo tono è quasi di scusa e apprezzo la dedizione annuendo. Con un mezzo sorriso le faccio capire che qualunque sia la sistemazione andrà bene. Stanco come sono posso dormire anche in uno di quegli sgabiozzi dell’acquedotto che si trovano lungo la strada. «Puoi farti la doccia e lavare le tue cose qui» continua la donna «poi ti accompagno all’Ayuntamento …» La ringrazio con un cenno del capo e mi avvicino al bagno dove, ovviamente, l’unica doccia è occupata dall’italiano della volata finale. “Questo devo conoscerlo…” Ironia della sorte, dopo nemmeno mezz’ora, mentre stendo gli indumenti lavati di fresco sulla rete del giardino, l’italiano si avvicina con la biancheria in mano e si presenta. 108
In un primo momento penso voglia occupare il decimetro quadrato di rete metallica che sto utilizzando e lo guardo in malo modo. Il pellegrino però, totalmente estraneo alla mia tipologia di pensieri, inizia la tirata classica di tutti gli altri. Dopo un po’ che parla comprendo che la sua stazza fisica è direttamente proporzionale al suo ego e forse un po’ meno. Vedendo che i suoi tentativi di farsi gli affari miei, per sapere chi sono, da dove sono partito, quanti chilometri ho fatto, eccetera eccetera, non mi scalfiscono di un micron, inizia una filippica infinita su se stesso. Dice di essere partito dal Passo del Somport, una variante del cammino francese, e di avere avuto, all’inizio, serie difficoltà a orientarsi per via della mancanza di frecce indicatrici. Critica a destra e a manca gli organizzatori del Cammino, illustrando punto per punto quelle che, secondo lui, sono le più gravi mancanze. Vorrei fargli sapere che il Cammino di Santiago è un pellegrinaggio e non una marcia organizzata con finalità di tipo sportivo, ma mi trattengo per l’ennesima volta. Nonostante la mia mancanza di commenti però il tizio passa dalla critica all’organizzazione a un elenco dettagliato delle sue personali bravure, partendo dall’età che si ritrova e finendo sul numero spropositato di chilometri giornalieri che è in grado di macinare nonostante una tendinite in corso d’opera. Quando infine gli chiedo se di cognome per caso fa “Talgo” l’italiano capisce che dalla mia parte non c’è carne per arrosto e mi lascia perdere. Così mi avvio tranquillamente all’unico bar del paese per regalarmi la consueta birra ghiacciata di fine giorno. “Vaffanculo tu, il tuo accento emiliano e il tuo ego di merda…” Al bar incontro Mauro e Martina che sono appena arrivati e stanno decidendo se rimanere ad Atapuerca o proseguire nel 109
cammino per poi passare la notte fuori, da qualche parte, sotto le stelle. Dopo un paio di sigarette li saluto amichevolmente augurando loro buon proseguimento e torno all’ostello per recuperare la mia biancheria che, nel tempo di una birra, si è solidificata. Guardo in giro per vedere se l’italiano più bravo del mondo è nei paraggi e non vedendolo mi metto il cuore in pace. Dopo un po’ l’hospitalera mi fa strada fino alla casa comunale di riserva dove posso finalmente srotolare la stuoia e stendermi a guardare le travi della stanza avvolte in grumi di ragnatele scure. Il pavimento è zozzo da far schifo e impregnato di odore di legno ammuffito. Si tratta di una specie di magazzino di scatole di cartone con dentro carta straccia e ricambi elettrici degli anni cinquanta. La cosa non mi tocca minimamente vista la vita randagia alla quale mi sono abituato da quindici giorni a questa parte. Dopo un po’ che sono lì a pensare alla pippa mentale del Passo Perfetto decido di sfruttare il mio tempo per farmi una cultura e, lasciando lo zaino‐cargo‐gobba vicino a una pila di cartoni, mi avvio verso l’ufficio del turismo per saperne di più sul sito preistorico. Si tratta di un ritrovamento antichissimo dal quale discende niente meno che l’intero ceppo indoeuropeo. ‒ Alla faccia… Mi sciroppo una proiezione di diapositive in castigliano e ascolto una simpatica operatrice stagionale spiegare per filo e per segno di cosa si tratta. Dal racconto della ragazza vengo a sapere che, all’inizio dei tempi, una qualche etnia di homo caverniculos è migrata dall’Africa Nera fino in quella specifica zona geografica per popolare, nel corso dei millenni, sia l’Europa che l’Asia. 110
Particolarità di questo nonno scimmione sembra fosse, guarda caso, il pellegrinare. A differenza di tutti gli altri scimmioni che c’erano stati fino a quel momento, questo aveva scoperto l’innovazione del camminare come metodo per ampliare la propria mente. La proiezione di diapo dura circa un’ora nel corso della quale rischio di appisolarmi un paio di volte. Poi l’operatrice invita tutti i presenti a salire su di un autobus per andare a vedere i resti di questa strepitosa scoperta. Guardando il bus di turisti partire per la visita al sito penso ai dolmen che ho visto entrando ad Atapuerca qualche ora prima. Sono le sei di sera e per nessuna ragione voglio scambiare la birra che intendo bermi con una seconda visita archeologica. Più tardi ceno in perfetta solitudine in un ristorantino poco distante dal centro del paese e rincasando piscio lungamente nel bordo di un prato, osservando la palla di fuoco del sole tramontare sul filo dell’orizzonte e respirando l’odore di grano. Come tutte le sere, dopo l’ultima sigaretta mi siedo sulla stuoia a meditare sul respiro. Che tutti gli esseri possano essere liberi dalla sofferenza e dalle sue cause. Che tutti gli esseri possano essere liberi dalla paura, dalla malattia e dalla morte. Che tutti gli esseri possano essere pregni di gioia profonda e di infinito amore… Quando riapro gli occhi vedo che nella stanza, proprio di fronte a me, si sono posizionati tre nuovi inquilini. Sono gli stessi che avevo intravisto due giorni prima a Grañon, il ragazzo con la barba da elfo che la mattina precedente stava col
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gruppo di catalani e le due ragazze sue compagne, probabilmente tutti di origine spagnola. Sentendomi colto con le mani nel sacco rispondo alla loro occhiata di approvazione con un sorriso. Da dietro il cespuglio di barba nera il ragazzo mi chiede: «Yoga?» Annuisco con la testa come dire “Già…”. Poi mi distendo di schiena, ascolto un abbaiare di cane lontano e cado nel vortice del sonno senza rendermene conto. 15 La guida annuncia che la prossima tappa m’introdurrà nel deserto mesetico della Castiglia. Ad essere sincero ho un po’ di timore per questa cosa. Ho sentito dire varie cose sulla meseta castigliana. Il termine in sé non è nulla di speciale (significa altopiano), ma attraversarla a piedi in agosto non è la cosa più tranquilla del mondo. Sentendo i discorsi dei pellegrini che si ristorano alle fontane lungo la strada pare che ci siano alcuni tratti impossibili da fare se non alla mattina presto o alla notte. Caldo da scioglierti le ossa. Di tanto in tanto giunge voce di qualcuno che si è sentito male a causa del sole feroce e che, tra febbre e vomito, ha dovuto interrompere il cammino e farsi ricoverare. Non avendo altra scelta che quella di procedere, di mattina buonora esco da Atapuerca con la solita gobba da cammello e vado incontro al mio destino. Le campagne dei giorni precedenti mi hanno già abituato a temperature eccezionali e quanto mi aspetta, penso, non sarà poi così tanto differente.
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La successione infinita di passi dà vita a successioni infinite di pensieri, che se a volte sono veicoli di speranza e di immensa gioia, altre sono la causa di paure insopportabili dell’ignoto che ti aspetta. Poi, il discorso del sole che può indurti alla follia nel giro di mezz’ora, mi fa venire in mente tutte quelle paranoie terrorizzanti delle madri come la mia. Povere donne figlie del dopoguerra. Cavie di esperimenti chimici ch’è meglio nemmeno sapere. Cresciute con l’orrore di una morte prematura dovuta a colpi d’aria malefica, lampi di sole feroce e spruzzate di pioggia assassina. Se fosse stato per loro avremmo dovuto trascorrere l’infanzia barricati in casa sia d’estate che d’inverno temendo ogni sorta di attacco nemico e uscendo bardati di sciarpe, cappelli, ombrelli e chissà quale altra protezione della nostra debole superficie. Non mi è mai stato chiaro se ci credessero veramente fino in fondo o se il ruolo che toccava loro di recitare le avesse coinvolte al punto di farle dimenticare quanto credevano inizialmente. “Davvero un colpo di sole può mandarti al creatore?” Dopo le scie di sangue lasciate sui sentieri della Navarra, a causa delle ventiquattro ampollas sorte dal profondo degli inferi per infettarmi i piedi, una parte di me è ansiosa di sfidare questo sole maligno di cui ho tanto sentito parlare. Dentro la mia mente lo immagino come un falco oscuro appollaiato su di una rete di confine, a fianco di un cartello bisunto con sopra scritto meseta, che mi aspetta al varco per farmi passare e poi aggredirmi dall’alto. Camminando verso Burgos i saliscendi che avevano contraddistinto le tappe precedenti si affievoliscono fino a raggiungere il piatto quasi totale.
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Dopo cinque ore di cammino, con relative pausa cerveza y bocadillo, giungo alla prima periferia di Burgos e capisco che sarà una tappa di solo passaggio. Entro in città con passo vittorioso e mi fiondo a visitare la Cattedrale di cui tanto parla la guida. Una volta dentro la chiesa assaporo la deliziosa sensazione di fresco emanato dalla pietra antica quel tanto che mi serve per ristorarmi. Prima di continuare la mia marcia sotto il sole passo a vedere la cappella di San Giacomo dove ho letto si trovi un Santiago Matamoros dei più importanti dell’intero cammino. Rimango qualche decina di minuti a osservare l’imponente opera d’arte e mi chiedo perché. ‒ Perché? Perché un santo pellegrino avrebbe dovuto armarsi di sciabola e cavallo e uccidere decine di persone? Per difendere quale fede? Ma che razza di religione può mai essere una che tende a imporsi sulle altre con la violenza e la morte? In quel preciso istante non so rispondere alle domande appena sorte dal profondo dei calli, ma conoscendo l’andazzo della mia mente sento che nei chilometri di polvere che mi aspettano lì fuori questi quesiti potranno farmi non poca compagnia. Lascio la cattedrale di Burgos schifato dalla folla di turisti e procedo verso la solitudine dei campi di grano. Conto di arrivare prima di sera a Tardajos dove so esserci un’hospitalera che conosce Clara e desidero assolutamente consegnarle una lettera che ho scritto la mattina stessa. Più che una lettera è un messaggio d’amore, redatto a penna col mio solito inglese di merda. Non mi fido del correo spagnolo e vorrei che la donna glielo facesse pervenire a Grañon. In fondo sono solo ottanta chilometri. Cosa sono ottanta chilometri al giorno d’oggi? 114
Mezz’ora di automobile o tre giorni di cammino per uno che viaggia a piedi. Pensa te che assurdo... Prima di arrivare alla fine della mia tappa giornaliera piango di una strana gioia. Non so perché accade, ma ogni giorno a una data ora è la stessa cosa. Non si tratta di tristezza, ma di una specie di senso di condivisione che non so spiegare. “Ma se mi stanno sulle balle tutti quanti? Perché questa cosa?” Quel giorno, forse per la prima volta da quando sono partito, sento la presenza di Santiago che si avvicina. Che cosa c’è a Santiago? Perché da più di mille anni milioni di persone provano a raggiungerlo? Un giorno forse smetterò di farmi domande inutili. Un giorno forse smetterò di fumare venti sigarette al giorno e uscirò anche dal flusso. Un giorno, chissà... 16 Alla fine si cammina e basta. Un passo dopo l’altro, inesorabilmente e senza fare troppe storie. Alla fine cammini perché non puoi fare altro che camminare. Ma per quanto tu cammini non puoi sfuggire al tran‐tran discorsivo della mente che, se per certi versi può essere considerato un bene, dall’altro può somigliare a una specie di incubo. Camminando si pensano un sacco di cose, anzi si può dire che non ci sia limite alle argomentazioni possibili. Prendiamone uno a caso, argomento leggero: le vite precedenti.
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Non sono in grado di dire se ci siano vite precedenti o meno, ma non posso nemmeno nascondere a me stesso che, a livello teorico, mi sembra più che plausibile. Certamente non posso dimostrarlo, ma basandomi sulla logica come potrebbe non essere così? Che senso avrebbe un’esistenza singola dove ti giochi tutto e se ti va bene bene, altrimenti picche? Se davvero fosse così non so se sarebbe più di tanto conveniente esistere come viventi umani. Non ho idea da dove venga questa mia convinzione, ma pensandoci un attimo (e nel Cammino di attimi in cui pensare ne sorgono a volontà) non è forse vero che quando eravamo in fasce esistevamo? Ovviamente sì, eppure non ci ricordiamo nulla o ben poco di quella vita che abbiamo vissuta succhiando la tetta della mamma e scagazzando l’inverosimile. Per lo stesso motivo allora perché non potremmo aver vissuto qualcosa in un periodo antecedente a quella data ciucciando altri tipi di tette o vivendo esperienze di altro genere? Uno potrebbe dire che quando si è appena nati il cervello e le sue funzioni non sono ancora sviluppati del tutto e il non ricordarsi nulla è dovuto al fatto che il processore deve ancora vedere la memoria perché è in corso la fase di installazione del sistema operativo. Potrebbe essere, ma potrebbe essere anche che la formattazione precedente, la nostra recente nascita, ha congelato da qualche parte tutti i dati che ci portavamo appresso dimenticandoli in qualche sotto settore dell’hard disk. Che magari quei dati abbiano bisogno di un programma di estrazione per tornare in superficie ed essere riconosciuti?
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Potrebbe essere vero anche questo, chi può dimostrare il contrario? E poi ancora, chi mi dice che è il cervello il vero custode della memoria? Cos’è il cervello? Leggendo il Focus nella sala d’aspetto del dentista ho saputo che ci sono più cellule cerebrali nello stomaco che nella scatola cranica. Bella scoperta, eh? Dov’è il cervello allora, in testa o in pancia? La realtà dei fatti è che se non sappiamo nemmeno dove allocare il nostro cervello all’interno di questo aggregato di pezzi che chiamiamo corpo, non possiamo nemmeno affermare che quando eravamo neonati le nostre funzioni non erano ancora del tutto formate, perché per lo stesso motivo non saremmo stati in grado di ricordarci come si succhia una tetta o sorridere ai nostri genitori e via dicendo. «Eh, però quello è istinto sai…» Ma va a cagare! Il sole sopra il cielo di Hornillos del Camino cuoce che è un piacere, così mi fermo in un baraccio senza macchina del caffè a bere qualsiasi cosa assomigli a un liquido, nel tentativo di riposare un po’ la mente in vena di concettualizzazioni di natura assurda. Stanotte ho pernottato a Tardajos nel rifugio dell’hospitalera amica di Clara. Le ho dato il biglietto e mi ha promesso che nei giorni prossimi passerà a salutarla. ‒ Gracias Fernanda… Mentre mi sparo in gola una Sans Souci mi viene in mente uno dei classici ammonimenti di Katia: «Tu pensi troppo».
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È vero, io penso troppo e faccio troppo poco. Però ci sto lavorando. Per cosa credi sia venuto a farmi mille chilometri a piedi usando il mio mese di ferie quando avrei potuto andare a Lignano Sabbiedoro ospite nel camper di mia sorella: per divertirmi? Quando riprendo la marcia le campagne mi sembrano meno brulle di quando sono arrivato e continuando a ragionare su questa cosa delle vite precedenti mi viene in mente quella troia della professoressa di fisica che avevo alle superiori, Silvana Degan. (Sto citando una cosa di vent’anni fa e do per assunto che per il solo fatto di ricordarmela significa sia accaduta veramente). Senza entrare nel merito del perché quella professoressa fosse una troia, l’unica cosa di buono che credo di aver imparato da lei è stata la seconda legge della dinamica (sempre si chiami così). Il resto non me lo ricordo. Che sia esistito quindi o meno? «Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria». Che significa che se per sbaglio camminando colpisco con la punta del piede un sasso che sporge dal terreno la forza con la quale ho colpito l’oggetto si ritorce sul mio alluce con una violenza pari e opposta a quella emessa. Probabilmente il giorno che la Degan ha dimostrato questa legge non stavo attento perché impegnato a girarmi una canna con le mani sotto il banco e magari la mia interpretazione è totalmente sballinata rispetto alla realtà, ma quando penso: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, è questo che capisco. E per un pellegrino credo sia già anche troppo. Però, l’unica differenza che vedo tra una forza e l’altra sta nel fatto che l’azione che io produco si manifesta sotto forma di 118
energia motrice (e io la processo in un determinato modo), mentre la reazione, anche se si manifesta sempre come energia motrice, io la processo come dolore. Da una parte energia motrice, dall’altra dolore. Quindi, se è vero che ogni causa produce un effetto – io cammino trenta chilometri ogni giorno e prima o poi arriverò a Santiago – questo vale sia per il futuro, per il presente che per il passato. Sono venuto in Spagna a causa di una serie di fattori che mi hanno spinto a prendere la decisione, organizzarmi e mettermi in viaggio. Perché la stessa cosa non dovrebbe valere per quella entità che sta in mezzo tra me, il mio corpo, il cervello che ho in testa e quello che ho in pancia? Se tutti questi aggregati fossero presi in considerazione da soli senza fare riferimento agli altri, cosa sarebbero se non carne morta? Deve pur esserci qualcosa a metà strada tra quello che credo di essere e i miei pezzi, no? Non posso certo pensare di essere soltanto una serie di frammenti di cui un cinquanta percento è nel cervello mentre l’altro cinquanta è suddiviso tra tutti gli arti esteriori e interiori. Proprio non posso. A una cosa così non ci crede nemmeno mia nipote che ha nove anni e che legge Witch, X Mickey e PK. Un arguto ascoltatore mi farebbe notare che è la sommatoria di tutti quei piccoli aggregati a rendermi tale. Benissimo, quindi significa che c’è qualcosa che fa da legame a tutti questi pezzi e con il quale io mi identifico. In definitiva io sono quello. Anzi sono più quel legame, che la sommatoria dei miei pezzi messi in bella mostra. 119
Mettiamo allora sia proprio così. Posso dare un nome a questo legame? Come può chiamarsi questa sorta di formula che mi contraddistingue e che fa da ponte tra tutti i miei frammenti al punto che io possa riconoscermi e farmi riconoscere come essere vivente con caratteristiche di tipo umano? La psicologia del vecchio millennio chiamava questa cosa Io. Quella del nuovo millennio non so che nome intenda dargli. Sta di fatto che se cerco il mio Io all’interno di me stesso non so dove trovarlo. Non so dove cercarlo più che altro; nel cervello, nella pancia o nel cuore? Non vorrai mica dirmi che è l’uccello? Temo che anche cercando il mio Io per tutto il tempo che mi resta da vivere non troverei nulla. Forse perché semplicemente non c’è nulla da trovare. Ma se non c’è nulla cos’è che mi rende quello che sono? Sempre a livello teorico mi viene da dire la coscienza (che dalle parti di Santiago, Roma e Gerusalemme è chiamata anima) ma non ho idea se sia vero. Da sotto il delirio di questo sole ciò che mi sento di dire è che questa storia dell’Io è una bufala vera e propria; e quel famoso legame che mi contraddistingue, forse, è stato nascosto da dio nel sistema, da chi mi ha installato il software l’ultima volta. Che comunque ci sia qualcosa che produce azioni, che non è la semplice casualità dovuta a degli aggregati che si mettono in moto illogicamente, è fuori discussione. E che quelle azioni producano reazioni che a volte sembrano illogiche, ma lo sono esclusivamente perché nel momento in cui si manifestano io non ho la consapevolezza della causa che le ha rese tali, anche questo è fuori discussione. Semplificando, sarebbe come dire che ho dato un puntone a un sasso che si trovava nella traiettoria del mio piede e il dolore lo sento più avanti, forse dopo, domani, tra un mese o magari tra dieci anni. 120
“È così che funziona?” E se tanto mi dà tanto allora, tutto quello che mi rappresenta è il frutto di questa catena e, a questo punto, non solo anche tutto ciò che mi circonda, ma tutto ciò che mi circonderà! “Io esisto semplicemente perché ho posto le cause perché ciò avvenisse”. Non so quando, né perché sono stato così incosciente, ma di fatto sta accadendo così. O almeno credo. E in più, in questo preciso istante, sto mettendo le cause per una o cento delle mie possibili vite future. Se avessi davvero ragione significherebbe che nel momento in cui ho posto le cause per essere il neonato che sono stato, ero unʹaltra cosa. Non di certo quello di quel momento, altrimenti me lo ricorderei. Quindi io sono esistito precedentemente. Ma cosa voglio dire con tutto questo? Non ne ho idea, però i fatti mi danno ragione. Credo sia l’effetto normale del sole della meseta che mi sta perforando la zucca come un trapano a colonna. A un certo punto però ne ho abbastanza sia di pensare che di camminare e decido di fermarmi. Il mio dovere anche per oggi l’ho fatto. Per finire alla grande devo solo fare il bucato e mettere i piedi in ammollo da qualche parte. Decido di fermarmi al prossimo sitio che di nome fa Castrojeriz. Quando arrivo incontro il rifugio alle porte del paese. “Che culo ragazzi. Mi stavo quasi pisciando sotto…” È una casa bassa con due stanze e una cucina e c’è pure un giardinetto di erba rasata con tanto di altalena. ‒ E vai! – esclamo ‒ Stasera si gode… In una delle stanze dell’ostello c’è una tipa che dorme. Faccio piano per non svegliarla e mi posiziono nell’altra. 121
Il bagno è uno schifo inenarrabile, ma non è certo il caso di fare i sofisticati. Così piscio fissando le mattonelle di azzurro turchino lercio e poi torno in camera senza lavarmi le mani. Sono troppo stanco per seguire certi stupidi dettami da corso di igiene personale. Appisolandomi sulla stuoia mi vengono in mente una serie di problemi di lavoro, il rapporto col mio socio fissato con Milano e con il mito dei Numeri Uno delle agenzie di comunicazione, come li chiama lui, più varie ed eventuali… Stanno cambiando delle cose, lo sento. “Mi sa che mollo la società e mi metto a fare il falegname…” Ma adesso sono davvero troppo stanco per pensarci. Poi d’un tratto tutto si spegne. Quando mi sveglio il pomeriggio è evaporato e non ho lavato nulla di quello che dovevo. L’ostello intanto si è riempito di ciclisti con relativi mezzi di trasporto e la tipa che dormiva si è svegliata e adesso traffica in cucina con delle scodelle di colore rosso. È una ragazza francese di Grenoble dai tratti somatici attraenti. Si chiama Catherine e viaggia da sola. Parliamo un po’ e mi racconta di essere partita da Pamplona con un’amica e il suo cane e di avere litigato con entrambi strada facendo. Niente male, penso. Anche questa deve essere suonata forte. Dice anche di avere avuto problemi con un tizio, un pellegrino sui cinquanta incontrato nei giorni addietro, che voleva farsi una storia. Catherine mi racconta che, per togliersi di torno l’invasivo, ha iniziato a macinare chilometri arrivando a farne più di quaranta al giorno. Dal suo tono capisco che si è rotta le balle del Cammino e vuole finirlo al più presto. È giovane e bellissima.
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Prima che mi cada un occhio sul pavimento arrivano dei tizi che hanno erba da fumare. Si mettono in cucina a girare canne e così ne approfitto per uscire. Quando sono sulla soglia con una sigaretta e l’accendino in mano i tizi mi chiedono se voglio fare un tiro. ‒ Non fumo, grazie. Catherine invece rimane con loro. Quando torno dalla cena, sono ancora tutti lì che, tra uno spinello e l’altro, si fanno da mangiare insalate e yogurt. Gironzolo nel giardino una mezz’ora, mi faccio un giro in altalena nel buio della sera e poi mi trascino in branda. Mani e denti lavati. Che tutti gli esseri possano essere liberi dalla sofferenza e dalle sue cause. Cioè i pensieri. Mi addormento pensando prima al Passo Perfetto e poi a Clara. «Te quiero, campèòn», aveva detto prima che me ne andassi da Grañon. ‒ Mi tambièn Clara…. mì tambièn zio chèn… 17 Mi sveglio e nel rifugio è come se non ci fosse mai stato nessuno. Sono le sette e mezza del mattino, i ciclisti se ne sono andati, Catherine e i cannellanti pure. Riparto con gran calma fino ad arrivare al bar del paese dove spararmi il primo caffè spagnolo della giornata. Sto procedendo con una media di quattro caffè, tre birre, una limonata, due litri di acqua, un quarto di rosso e un chupito de anis al giorno. Per quanto riguarda i solidi invece siamo a: una brioche, uno due panini, un primo o un secondo a seconda di quello che offre il 123
menu del pellegrino che si trova dove arrivo e un dessert. A volte l’insalata al posto del panino. E naturalmente (parlando di alimenti gassosi) un pacchetto di Marlboro al giorno. Che cosa voglio di più? Credo di star dimagrendo, ma non mi è chiaro quanto. Saranno dieci giorni che non mi guardo allo specchio. Il mio corpo però sta bene e i dolori che ho conosciuto nel deserto pre‐mesetico sono un debole ricordo. Per essercene ce ne sono ancora, continuamente, ma il livello di sopportazione si è sensibilmente elevato quasi senza che me ne accorgessi. Accade così la vita. Cambia senza che tu te ne accorga. E anche la sfiga più granitica, che al solo vederla sembra il monolite di Kubrick, se si potesse osservarla davvero da vicino apparirebbe per quella che è: in continuo mutamento. Non c’è nulla in questo mondo che sia stabile, questa è la verità. Tutto ciò che esiste si trasforma e va inesorabilmente verso il declino. “Ma allora significa che non abbiamo via di scampo?” Procedendo in direzione di Fromista, calpestando zolle sul bordo sinistro del sentiero, scorgo un camper parcheggiato nel nulla dell’aperta campagna. Quando gli sono vicino esce fuori un uomo sui sessanta, occhiali e barba da insegnante di superiori di quelli che nel sessantotto erano giovani e belli, che con gesti da giullare mi urla: «Ehi amigo… te gusta un cafè?» Ha l’accento inglese e l’occhio un po’ pazzoide, ma è piuttosto simpatico. Quindi accolgo l’offerta e smonto la gobba dalle spalle per entrare. 124
Una volta dentro l’uomo mi fa accomodare sul divanetto e mi versa un tazzone di liquido scuro. ‒ Who are you? «An helper» risponde. Un helper? Jack mi racconta di essere un assistente di pellegrini. Lo fa ogni anno, da molto tempo. Perché gli piace. Si posiziona col suo camper nella meseta più deserta e offre a camminanti generi di sussistenza fisica o medica, disinfettanti, medicinali e massaggi ai piedi. A seconda del bisogno. Ecco, ci sono certe cose che accadono in questo posto che mi devastano il cuore e non riesco fare a meno di trattenere le lacrime. Perché succedono cose così? Cosa spinge un tranquillo signore londinese a passarsi l’estate a quaranta gradi all’ombra dentro un forno di lamiera con le ruote per fare una cosa del genere? La commozione mi obbliga a salutare Jack con una stretta di mano, lasciare qualche pesetas sul cestino delle offerte e andarmene al più presto. La scusa è quella di sempre, la lunga strada ancora da fare. Ma quando, poco più avanti, mi ritrovo di nuovo solo nel sentiero mi viene in mente tutta questa gente che si tuffa nell’arena del mondo per il benessere degli altri stritolando con coraggio indicibile il proprio ego. Giorno dopo giorno. Immagino di vedere il giullare Francesco camminare lungo il sentiero e penso a Clara e a tutti gli altri volontari del Cammino fermi lì, nel loro posto di guardia. Poi piango fragorosamente un’altra volta, emettendo un rantolo. “Posso permettermi di farlo, dietro non c’è anima viva e qui nessuno può sentirmi.” 125
Non faccio tempo a pensarlo che vengo superato da un pellegrino con gli occhiali da sole che, senza degnarmi di uno sguardo, passa oltre. “Ma dov’era?” Un secondo prima, sentendo che stava per venirmi la solita crisi giornaliera, mi ero voltato indietro per controllare il sentiero e non avevo visto nessuno. Da dove è sbucato quello? Mi asciugo il volto con il davanti della maglietta e cerco nel marsupio le sigarette. “Dopo tutto me la merito”, penso. Procedendo nella marcia arrivo all’Eremo di San Nicolas e, naturalmente visto il nome, mi fermo per una tappa. La guida della Berti, tra l’altro, indica che l’Eremo è gestito da una confraternita italiana, quindi ho più di un buon motivo per visitarlo. San Nicolas è una chiesetta di pietra che sorge sul bordo del sentiero segnato dalla freccia gialla. Più o meno in mezzo al nulla. Dentro mi accoglie Maurizio, medico di Milano, hospitalero volontario venti giorni all’anno. «Di Padova sei?» Sembra stupito della mia provenienza. E allora mi spiega che la confraternita di San Jacopo di cui fa parte ha una sede a Monselice, in provincia di Padova. Ne avevo sentito parlare, gli rispondo, ma visto il full immersion cattolico che ho avuto quand’ero ragazzino adesso, se posso, i preti li evito. «Noi siamo tutti laici» mi dice ridendo mentre prepara un caffè italiano in una moca italiana. Vedo un posacenere e chiedo se si può fumare. «Certo che sì» risponde. 126
‒ Ma non è una chiesa? «Sì, ma anche un rifugio quindi puoi fumare.» Quindi fumo. Con l’occasione lui si accende la pipa e mi racconta che la confraternita di San Jacopo ha come obiettivo il gestire l’eremo e mantenere viva l’antica tradizione della lavanda dei piedi. ‒ Significa? «Significa che se ieri sera ti fossi fermato qui a pernottare ti avremmo lavato i piedi in segno di rispetto per quello che stai facendo.» A quel punto il fumo mi si blocca in gola. Deglutisco forzatamente e sento che gli occhi mi inumidiscono un’altra volta. Maurizio è una persona squisita e ci scambiamo l’e‐mail con il proposito di risentirci una volta tornati in Italia. Mi prendo su un depliant che parla della confraternita perugina e lo saluto. Fuori conto i passi e un attimo prima del settimo prometto a me stesso di risolvere questa cosa del Passo Perfetto. Un movimento si compie in sei gradi e il settimo implica il ritorno. Le barriere della mia personalità tremano col rischio di crollarmi addosso. Sono al centro della meseta, nel punto che mi immaginavo essere il più duro di tutto il viaggio e tra poco scoprirò se è veramente così. “Cosa sta succedendo?” Il pensiero mi coglie alla sprovvista, ma la risposta ancora di più. «Ti stai avvicinando a Santiago. Non dimenticarlo.» ‒ Chi ha parlato? Nessuno. 127
La materia dei miei aggregati vibra. Il sole inizia a fare il suo effetto. Nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si modifica inesorabilmente. La Degan sarà anche stata una troia, ma mi ha dato due dritte fenomenali quella volta. ‒ Grazie professoressa… «Non fare lo spiritoso Artuso, torna al tuo posto!» ‒ Eh, appunto prof. Ci sto provando. Sono ventʹanni che ci sto provando… E così, tentando di tornare al mio posto è passato un altro giorno senza che me ne accorgessi, poi un altro ancora, una notte intera e la successiva mattina fino a quando, nel fatidico tratto che va da Carriòn de los Condes a Calzadilla de la Cueza le barriere si sono rotte. La Berti osserva che i diciassette chilometri di nulla mesetico che aspettano al varco devono essere presi con giudizio, preoccupandosi di partire di mattina buonora o alla sera tardi. Purtroppo però i miei tempi non combaciano con quelli della Berti e parto da Carriòn dopo mezzo giorno con un sole implacabile e un caldo boia. Il sentiero bianco pallido si perde nell’orizzonte dei campi di grano come un cordino di iuta steso da qualche folle geologo in vena di misurazioni a serpentina. Prima di immergermi in quello che la guida dipinge come la vera “prova del fuoco” del Cammino, faccio una breve pausa all’ultima fontana all’uscita del paese, riempiendo i due vuoti da mezzo di acqua San Pellegrino (guarda caso) e imbevendo la maglietta.
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Quindi, godendomi il piacere estatico della pioggia di gocce d’acqua, che dal turbante improvvisato mi colano sul dorso, inizio a camminare verso l’inferno. Ci sono cose che uno sa che deve fare, anche se dal mondo circostante le informazioni che gli giungono mirano a convincerlo del contrario. Affrontare la meseta nel massimo della calura per certi versi è proprio da imbecilli, quasi come a volersela cercare. Ma io sento che questo è il terzo demone di cui parlava Pierre di Parigi. Non affrontarlo sarebbe come lasciarlo vivere dentro di me chissà ancora per quanto. Nel corso del primo chilometro devo combattere con i bisbigli di voci materne che mi aizzano a desistere e tornare indietro per mettermi al sicuro sotto qualche ombra di campanile. «Per l’amor di Dio, cosa stai facendo? Non vorrai mica prendere un’insolazione vero? Per carità, non farlo che ti ammali, puoi anche morire lo sai? Quel sole fa male, ti uccide, torna indietro… torna indietro…» La mia fortuna è che il sole inizia il suo effetto allucinatorio quasi subito e entro in uno stato di catalessi onirica immediatamente, così le voci di mamme interne si trovano a parlare da sole. Al sole. Non so se qualcuno abbia studiato gli effetti di simili stati di coscienza, fatto sta che in quel contesto il tempo ha preso una piega inaspettata e si è come fermato. Gli occhi mi si sono automaticamente socchiusi dandomi modo di vedere esclusivamente le dita dei piedi sui sassi. Di tanto in tanto, la mia parte più raziocinante, mi impone di alzare lo sguardo per guardare l’orizzonte. Di fronte, dai lati e dietro non c’è altro che un immenso, infinito campo di grano piatto,
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interrotto di tanto in tanto da cilindri di fieno sospesi, almeno così mi appare, sulla superficie del terreno. Credendo di essere dentro la pubblicità di qualche droga lisergica proseguo verso la cacofonia subdola dei miei pensieri, entrando in uno stato mentale che non so definire a parole. La mia piccola e breve vita inizia a scorrermi davanti agli occhi, senza darmi modo di intervenire. Vedo la mia nascita e osservo le varie fasi della crescita fino a intravedere la mia morte. Mi tornano in mente sogni che ho fatto da bambino, frasi, scenari, paesaggi, esistenze di persone che non ricordo di avere mai conosciuto, esempi di cause, devastanti effetti di malattie, amori, figli e situazioni che non credo di avere mai vissuto negli ultimi trentacinque anni. È come essere all’interno di un cervello in fase onirica. Il mio. A un certo punto, nel giro di un secondo mi trovo a ricordare tutti i sogni fatti dall’inizio degli inizi, ma che avevo dimenticato nei sotto settori dell’hard disk. Quell’immensa marea di dati mi sovrasta. Sono perduto in un continuo e durevole deja‐vu. Il sole fa strani scherzi, è vero. E se la mia testa non esplode questa volta, penso, posso dire di essere stato miracolato. A un certo punto mi accorgo che il turbante umido che ho in testa è diventato secco come legno compensato. Toccandolo con una mano sento che ha preso una strana forma, molto simile ai copricapo delle sfingi che si vedono nelle cartoline dell’Egitto. Stimolato da questa citazione mentale mi si accende dentro un nuovo film la cui trama parla della costruzione di una qualche piramide e racconta di un giovane schiavo che s’inoltra nel deserto per sfuggire ai guardiani del cantiere e ritrovare la libertà. Le scene che vedo sono intrise di dettagli, sensazioni, nomi e significati. Non ho idea se sia un film che ha visto mia 130
madre la sera prima di concepirmi, né se si tratti di un frammento di una qualche vita precedente o futura. So solo che mi immedesimo in quello schiavo e, nel tentativo di raggiungere una tanto desiderata libertà, continuo a camminare verso il sole. La Berti dice che gli unici punti di riferimento di quel tratto sono due querce, distanti tra loro quattro chilometri, alla cui ombra ci si può ristorare un minimo pensando al fatto che metà della fatica è stata colmata. C’è un momento in cui temo che l’autore della Berti stia raccontando una bufala perché la prima quercia stenta a farsi vedere all’orizzonte. È quando capisco che non me ne può fregar di meno dei dolori, del caldo, dell’insolazione, della malattia e della morte. L’unico mio desiderio è camminare fino alla fine della tappa e di tutto. Finire. Uscire dal flusso una volta e per sempre. “Ne ho i coglioni pieni di tutte queste visioni”. Lì per lì mi viene in mente mia nonna, che dall’alto silente dei suoi cento anni ogni tanto esclama: «Bastaaa, sò stufaaa…» Cento e passa anni e una stanchezza infinita dentro. Ci credo nonna, sapessi come ti capisco. Ma nel mentre sto per precipitare nel vortice di una filippica sulla sofferenza esistenziale alzo lo sguardo dal suolo di qualche grado e nel bordo del sentiero vedo la prima quercia stagliarsi verso il cielo. E così cambio pensiero. Poi raggiungo l’albero e mi siedo. Una sagoma si muove in lontananza mentre siedo con la schiena appoggiata al tronco. 131
Un altro pirla come il sottoscritto, penso. Con la dovuta calma il pirla avanza nella calura e devia dal sentiero per raggiungere l’ombra che mi contiene. Mentre si avvicina cerco di leggere il suo sguardo nascosto tra la tesa del cappello e la folta barba. Il pellegrino mi guarda e sorride e, data la modalità in cui ciò avviene e in sostanza il contesto, è un sorriso di grandezza solare. Si chiama di Xavi. Dopo quello con Clara di Vitoria Gasteiz, País Basco, questo con Xavi di Barcelona, País Català, è il secondo incontro destinato a cambiare le sorti del mio cammino. Non ho molte parole per spiegarlo, ma Ciavi (si pronuncia così) è… mio fratello! Un fratello di quelli che, dopo neanche un quarto d’ora dalla presentazione ufficiale, potevo già guardarlo negli occhi e dirgli: ‒ Catalano di merda, non rompermi i coglioni va’…. Un fratello antico. L’incontro con questo strano soggetto di tipo umano è stato determinante per avermi catapultato in due secondi nella fase ultima del mio cammino, quella della condivisione. ‒ Hola peregrino! Simulando uno spazio immaginario all’interno dell’ombra, dentro il quale potesse sedersi, gli ho chiesto: ‒ Todo bien? «Mierda puta que calor…» è stato il suo commento. Come poteva non essermi simpatico? Ciavi è quel pellegrino barbuto che intravedevo di tanto in tanto, incontrandolo e perdendolo di vista ripetutamente. Lo stesso che avevo visto assieme al gruppo di catalani arroganti e per il quale mi ero preoccupato. Lo stesso che qualche sera prima, nel rifugio di Atapuerca mi aveva sorriso amabilmente chiedendo: 132
«Yoga?» Rimaniamo sotto la quercia a chiacchierare per una buona mezz’ora, sorseggiando acqua e fumo di sigaretta e raccontandoci i fatti salienti del nostro cammino. Il ragazzo mi racconta che quasi fin dall’inizio fa trio con Marta di Barcelona, Paìs Català e Andere di Vitoria Gasteiz, Paìs Basco, come Clara. Racconta che ha lasciato le ragazze indietro, perché non se la sentivano di fare il tratto pestifero sotto il sole del pomeriggio. ‒ Ah bene, siamo suonati uguali…. ‒ commento. E infatti, anche lui ha camminato per due ore nel deserto senza incontrare anima viva. «Por ti mas o meno, cuanto camino tenemos de hacer por el albergue?» ‒ Mira hermano, por ti Yo tiengo un sonar conmigo? Ciavi mi guarda e ride. Poi commenta: «Italiano de mierda.» Decidiamo di proseguire il cammino assieme, anche per il fatto che lui ha una boccia di acqua da due litri nello zaino e io mi sono versato l’ultima goccia sopra quello che resta dei miei piedi. Dopo un’altra sigaretta all’ombra del nulla ci rimettiamo in marcia. La strada da fare è ancora infinita per i miei gusti. Una volta sotto il sole del sentiero il calore mi sembra ancora più feroce di quando sono partito. «Esto es el momento pejor» dice Ciavi. ‒ Ottimo… «Caminare peregrino, caminare…» insiste il catalano. ‒ Va a cagare… Mentre lo insulto però penso alla famosa frase: chi trova un amico trova un tesoro. E mi sento contento. 133
Ciavi mi guarda da sotto le ciglia folte come quelle di un lupo mannaro. «Italiano propio vofunculo…» commenta. Poi però le lance del sole sembrano sortire anche su di lui l’effetto più devastante e viene inghiottito dall’oblio. A ognuno il suo, penso. E ritorno nel cervello giallo tempestato di pasticche cilindriche lasciato mezz’ora prima. Rispetto alla mia esperienza e dopo aver ascoltato numerose storie simili posso dire che dove c’è una donna c’è un pellegrino che la pensa e viceversa. Che quella donna sia un’hospitalera volontaria, un’altra pellegrina, una ex fidanzata o una passione travolgente deterioratasi in qualcos’altro questo non conta. Quello che conta è che tutti i pellegrini (siano uomini o donne), a meno che non procedano volutamente soli come il sottoscritto, non hanno mai a fianco la persona che desiderano. A forza di ragionarci sopra mi sono convinto che questo fatto ha per la mente una funzione fondamentale: farti camminare. In effetti, con tutte le energie che si mettono in moto durante un cammino, il rischio di avere la persona desiderata al proprio fianco è quello di finire il pellegrinaggio in qualche pagliaio prima di Santiago. Pensare alla donna o all’uomo che non c’è fa sorgere ventate di desiderio che in mancanza di un orizzonte su cui proiettarsi, si trasforma naturalmente in fantasticherie su possibili eventi futuri. Una volta esauriti tutti gli scenari immaginabili, quello stesso bagaglio di energia, si tramuta in speranza e poi ancora in desiderio finendo per diventare energia motrice. È un cerchio il cui senso è quello di farti proseguire di una, dieci o mille tappe. 134
Nel caso di Ciavi lei si chiama Mirjam ed è una ragazza di Amburgo. L’ha incontrata in qualche rifugio precedente e ci ha parlato assieme per tutta una sera e ora non riesce più a togliersela dalla testa. Quando arriviamo a Calzadilla de la Cueza siamo disidratati come mummie e sfiniti come donatori dell’Avis la prima domenica del mese. Il rifugio appare sull’orizzonte di una collinetta quando nessuno di noi se lo aspetta. Mi trascino dentro con la flemma di uno zombie per buttare la mia zavorra sopra la prima branda libera che mi capita sotto gli occhi. Poi scivolo fino al distributore di bibite che sta fuori per appropriarmi di una lattina di birra ghiacciata da stritolare con i muscoli della mano destra. Voglio fare un colpo. Ciavi mi raggiunge e rimaniamo con la schiena appoggiata al muro fresco del rifugio a guardare il sentiero che abbiamo appena percorso perdersi nell’assoluto in direzione Est. ‒ Todo bien Ciavi? «Me cago en la lece» – risponde ‒ «demasiado calor y ambre…» Sembrava non dovesse esserci nessuno, ma in realtà anche questa tappa è carica di soggetti in viaggio. Come sempre è gente di varie nazionalità che però, seguendo le indicazioni della guida del relativo paese di provenienza, è partita all’alba per arrivare a sistemarsi prima di mezzo giorno. C’era un gruppetto di dieci persone lì, fuori del rifugio, a commentare il nostro arrivo verso metà pomeriggio. Da dove venite, da quanto tempo state camminando, a che ora siete partiti? Quando Ciavi gli dice la sua verità e io taglio corto lasciando svolazzare brevemente la mano nell’aria ci guardano come se 135
fossimo due serial killer. Ciavi dà corda a un altro catalano che dice di essere un pellegrino annuale e sembra sapere tutto di tutto. Dopo trenta secondi ne ho abbastanza di sentire discorsi da pellegrini e mi trascino in doccia per poi lanciarmi a lavare i vestiti della giornata pietrificati dalla polvere solare. Entrando nei bagni del rifugio in fondo alla camerata, senza averlo preventivato, mi trovo faccia a faccia con uno specchio. Guardandomi provo una sorta di strana compassione mista a rispetto nei confronti di quella zucca rasata che ho di fronte. Ho l’occhio destro bello aperto e quello sinistro leggermente socchiuso, la pelle ambrata per via del sole e il volto scavato dal sudore. Noto le striature di pelo bianco sul lato sinistro del mento, segno del tempo che scorre. Non è il sole ad ucciderti mamma, ma il tempo. È vero, uno può anche morire cadendo sopra uno stuzzicadenti o auto implodere mangiando una peperonata. Chi può mai sapere che sorpresa ci riserva la nostra morte imminente? Ma vuoi mettere il lento e continuo deterioramento del tempo? Di fronte alla mia controfigura riflessa nello specchio penso che, in qualsiasi modo possa andare, sento che oggi potrei anche non morire. Ho troppa speranza che pulsa dentro al cuore per morire e un desiderio feroce di tornare col respiro sui capelli di quella donna basca. E sono proprio queste le cause che creano la vita, quelle di cui parlavo stamattina, prima di mettermi in marcia nel cervello. La vita futura. Che tutti gli esseri possano essere liberi dalla paura, dalla malattia e dalla morte.
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Che tutti gli esseri possano essere liberi dai desideri che producono sofferenza. Che tutti gli esseri possano essere intrisi di gioia profonda e di divino amore. Lavato me stesso e gli indumenti decido di “fare due passi” in paese per sondare la situazione ristoranti. Ho una fame tale che mi mangerei un cadavere di gnu cucinato al sole. 18 Il giorno entrante porta con sé una strana atmosfera. Saluto Ciavi dopo il primo bar… “ Porque deseo andar solo…” Ci diamo appuntamento per la sera a Sahagùn dove dovrebbero arrivare anche le sue amiche Marta e Andere. La strada non si presenta tanto diversa dal giorno precedente, ma il mio corpo sembra deciso a darmi una grossa mano. In un’ora arrivo a Ledigos dove passo a visitare la statua del Santiago pellegrino di cui dice la guida. Poi riparto verso Terradillos de Templarios e mi torna in mente Carmen, la simpatica studiosa templare, incontrata a Torres del Rio. Una volta arrivato visito brevemente la Iglesia de San Pedro e pranzo con un paio di banane. Poi riparto ancora. Il tempo sembra scorrere più velocemente rispetto ai giorni passati. Dopo l’incontro con Clara sono davvero entrato in un’altra fase, sia del corpo che della mente. I muscoli delle gambe li sento solidi come dei tronchi di faggio e i sandali che indosso sono tutt’uno con il mio piede. Anche il
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braccio che tiene il bastone è ben tonificato. Sento che potrei affrontare qualsiasi situazione umana. La via che percorro non è particolarmente dura e ho tutto il tempo per analizzare le insoddisfazioni della mia attuale esistenza, professione per prima cosa. Mi fermo a una fontana a mettere i piedi in acqua e ritorco la testa all’indietro dal piacere di quella frescura che sale dal basso verso l’alto. Sono più di venti anni che cerco di fare qualcosa di buono. Lavoro come un paria dodici ore al giorno, spinto da un’ambizione idealista di cui ho perso memoria. Il risultato che però ne traggo è che tutti questi sforzi sono valsi solo ed esclusivamente a racimolare granuli di esperienza da tenere al caldo in saccoccia, ma null’altro. Non so più perché lo sto facendo. Avevo più soldi a diciotto anni, penso tra me e me. “In che punto del cammino mi sono perso?” Eh, domanda leggera, alla quale potrei trovare una risposta in non meno di un migliaio di passi. Questa cosa della società con sede operativa a Milano, questa idea della comunicazione a fini pubblicitari, questo mondo di gente nuova di fuori, ma vecchia di dentro. Che cosa ci faccio in questo acquario di squali? In questo mondo fittizio che fa tanto marketing popolato di idioti che si fingono intelligenti: come ha potuto accadere che ci finissi dentro in questo modo? Per fortuna, ciò che non era riuscita a fare la malasorte degli ultimi dieci anni, ci è riuscito il sole della meseta in meno di quindici giorni. E alla volta di San Nicolàs del Real Camino mi convinco a convertire tutta l’energia produttiva che tengo nascosta nelle mani in qualcosa di più adatto alla mia persona.
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In realtà non è stata una decisione repentina, della serie fulmine a ciel sereno, giacché questo pensiero di lavoro mi gironzolava dentro fin dalla tappa di Roncisvalles. Credo sia rimasto per tutto il tempo soltanto in attesa che le barriere di controllo della mia personalità venissero meno, per poi uscire allo scoperto in tutta la sua potenza. Alla fontana di San Nicolàs decido che una volta in Italia avrei lavorato per smontare uno ad uno tutti i pilastri della struttura societaria per ritornare a essere quello che sono sempre stato: un pellegrino ossuto e solitario. Meglio soli che male accompagnati. Senza nulla togliere al mio socio, per certi versi amico e per altri buon maestro di vita, senza dimenticare le svariate opportunità di crescita professionale presentatemi in questi anni su piatti d’argento, a conti fatti sono più i disagi ai quali sono dovuto sottopormi che i benefici ricevuti in termine di gratificazione. Ci sono momenti di vita in cui l’ego vibra come una campana tibetana e non è possibile fare finta di non sentire quel suono così penetrante. Riprendendo la marcia verso Sahagùn decido di spostare sul bordo del sentiero i miei drammi interiori per tornare col pensiero a quella cosa che tanto vado cercando. Così per la millesima volta mi chiedo: Cosa sarà mai ‘sto Passo Perfetto? Ciò che io cerco in realtà è un attimo di quiete mentale, qualcosa in grado di mantenere stabile sia corpo che mente nell’assenza di pensieri. Non so perché mi sono intrufolato in questa storia assurda, ma una parte di me, seguendo una semplice intuizione, ha deciso che quell’attimo sia raggiungibile
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soltanto attraverso l’essenza del movimento fisico: un semplice passo micrometrico sul terreno lì davanti. Da quando sono partito avrò lasciato giù sui sassi almeno un milione e mezzo di esemplari di movimento, con aggiunti sopra miliardi di pensieri. Ci vuole così tanto per raggiungere lo stato di coscienza che vado cercando? E ammesso che ci riesca: ne varrà la pena? Quando arrivo a Sahagùn scopro che quelli del rifugio hanno appeso fuori un cartello dove dicono che dentro le mura della casa c’è il pienone, che in altre parole significa fate a meno di entrare. Guardo in giro se vedo Ciavi e non incontrando l’immagine della sua barba da elfo mi siedo ad aspettarlo al tavolino di un bar, nei pressi della direttrice principale. Arriva dopo un’ora buona e mi dice che ha incontrato le ragazze che però procedono a rilento per via di un problema al piede di una delle due. Sono d’accordo che si incontreranno a Calzada de Coto, a un’ora di cammino da Sahagùn. – Es mejor asì, hermano – gli dico – L’albergue està lleno. Aspetto che il ragazzo si ristori una mezz’ora e poi si parte. Passiamo nel Puente de Canto dove, grazie alla Berti, vengo a sapere si svolse una battaglia epica tra il re musulmano Aigolando e l’esercito di Carlo Magno; nei pressi di quel luogo ci furono 40.000 morti e si narra che le lance dei guerrieri cristiani uccisi, piantate in terra, fiorirono verso il sole. Mi immagino uno sterminato campo di papaveri insanguinati stendersi sull’orizzonte. Il catalano che è con me commenta come deve essere stata la battaglia. «Un maceu….» – Credo proprio di sì, ribatto, un maceu… 140
Camminiamo per un’ora in direzione Calzada del Coto e Ciavi, senza saperlo, mi elargisce gratuitamente un grande insegnamento il cui tema è: sapere ascoltare, sviluppando pazienza. Infatti parla per tutto il tempo senza mai fermarsi un attimo e questo, per il sottoscritto abituato al lusso del silenzio ormai da molti passi, non è cosa di poco conto. Arriviamo a Calzada che sono sfinito di testa e di gambe. Il paese si sviluppa in piano e non somiglia per nulla a Las Vegas. Al primo bar chiediamo indicazioni sul rifugio del pellegrino e il barista con baffi e basette alla cowboy castigliano ci indica il campo sportivo parrocchiale all’altro lato della strada. – Sarebbe? È lo spogliatoio, fa Ciavi. Bisogna chiedere le chiavi all’abitazione di fianco. – Ok, vamos. Ho bisogno di farmi un doccia e di stendermi per terra almeno una mezz’ora. Ma quando suoniamo il campanello scopriamo che la signora che ha in dotazione le chiavi non è a casa. La figlia è una ragazza piuttosto in carne e priva di sorriso e ci dice di aspettare. Ciavi insiste nel dirle che siamo molto stanchi e la ragazza risponde che forse si è ricordata di dove sua madre mette le chiavi, così torna dentro a cercarle. Dopo un po’ ritorna con una chiave lunga quindici centimetri e ci accompagna allo spogliatoio. Si tratta di una container di cemento con la porta di ferro arrugginito. Dall’esterno sembra un magazzino di supporto dell’azienda elettrica municipale.
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Quando la ragazza ci apre e se ne torna a casa esploriamo le due stanze e il bagno che abbiamo a disposizione per la notte. Sulle porte delle rispettive stanze delle scritte in pennarello indicano rispettivamente Folgore Calzada e Extranjeros. Scegliamo lo spogliatoio ospiti e portiamo dentro gli zaini. Per ora siamo gli unici inquilini e possiamo usare il bagno a volontà. È la prima volta che mi succede, commento. Bel culo! Dentro la stanza ci sono sei letti a castello ammassati l’uno addosso all’altro. I materassi sono così impregnati di macchie luride che mi chiedo se a Calzada giochino al pallone squadre del tipo: Sifilitici contro Lebbrosi. Ciavi non capisce la battuta in dialetto padovano e pone il suo zaino sul letto, in silenzio. Controllo il bagno e scopro che come sporcizia non siamo da meno degli spogliatoi. Faccio scorrere l’acqua della doccia e ne esce un filino di colore giallo. Ma alla fine perché tante storie? In fondo mica siamo al Club Mediterranee, no? Quante volte ho pensato al pellegrino antico nel corso del mio viaggio. Quella sì che era un’avventura, altro che storie! Tanto per fare un esempio c’erano fiumi senza ponte da attraversare dove, se nel punto di passaggio non ci fosse stato qualcuno con la barca, sarebbe stato necessario costruire qualcosa che somigliasse a uno zatterone con cui dragare da una riva all’altra. Oppure l’alternativa era proseguire lungo il bordo per chissà quanto tempo, con dispendio di energia e di giorni di vita, se non decidere di attraversare a nuoto col rischio di venire portati via dalla corrente o, al peggio, ammalarsi di qualcosa di mortale.
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Le notti certamente erano da passare all’aperto col rischio di venire sgozzati dal pazzo del momento o da qualche banda di delinquenti medievali protetti dal demonio. Non oso immaginare quali e quanti fastidi un pellegrino di quel tempo dovesse sopportare prima di arrivare a Santiago. Noi a confronto siamo dei nababbi superiori in agi al miglior condottiero del Sacro Romano Impero. Abbiamo il cellulare in saccoccia col numero verde da chiamare in caso di bisogno. Se ci rompiamo le balle di camminare il tempo di arrivare alla prima statale e saliamo su un autobus di linea che ci porta alla prima città con tutti i servizi annessi. Non c’è paragone tra noi e loro. È inutile che questi cattolici rampanti se la menino tanto gonfiandosi come pesci palla, adattando il pellegrinaggio a Santiago con le esigenze attuali. Mi torna in mente quel gruppo di francesi che ho incontrato la prima sera a Saint Jean Pie de Port capitanati dal belloccio di nome Monsieur Fernand Nonsepà. Quelli, tanto per essere in linea con la tradizione, si facevano il Cammino in dieci anni, una settimana al colpo con notti in albergo quattro stelle e cerimonia compresa nel prezzo. Comunque, a parte inutili polemiche dovute più che altro alla stanchezza del giorno, sono dell’idea che nessuno sta sbagliando niente. Ognuno è libero di prendere il pellegrinaggio come meglio crede, a piedi, in bici a cavallo o addirittura in auto come Paul Coelho che poi ci ha scritto sopra una storia e ha fatto Bingo nelle quattro direzioni. Per fortuna l’impermanenza dei fenomeni fa sì che questi si manifestino in infinite condizioni e questo, se ci penso, è la più incredibile delle magie.
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Facendomi la doccia con l’acqua gialla ragiono sul fatto che il famoso detto “il mondo è bello perché è vario” sarebbe profondamente da rivalutare. Almeno in parte. Qualche ora dopo arrivano le due amiche di Ciavi, e facciamo conoscenza ufficiale. Essendo in vena di socializzazioni li invito tutti al bar di fronte a bere una birra. L’età media del trio è di 23 anni che significa che quando loro sono nati io stavo imparando a spostare lo sguardo dai brufoli delle guance alle cime di erba senza semi. Un bel salto di qualità. Per fortuna nel cammino la differenza di età conta fino a un certo punto. Nella condizione di pellegrino quello che conta è più la tua umanità in senso lato che i tuoi anni in senso compiuto. Al bar però succede una cosa stranissima, che trasforma nel giro di dieci secondi la nostra condizione di semplici pellegrini appena conosciuti in un vero e proprio gruppo. Ormai è sera inoltrata e il bar è gremito di gente del luogo che guarda la televisione, gioca a carte e sghignazza ad alta voce. Siamo lì seduti al banco, uno a fianco all’altro per ordine di età quando… saltano i tappi. Ci troviamo quindi dalla luce al buio nel giro di un secondo. Dal rumore infernale degli astanti al silenzio assoluto. In quello stesso istante quando tutti, barista compreso, devono ancora rendersi conto di cosa sia successo, nel mezzo secondo successivo all’instaurarsi del buio assoluto, ho la prontezza di riflessi di emettere con la gola un sonoro OM, senza la M finale. Una specie di O allungata. «Oooooo….»
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È talmente sincronico lo scomparire della luce col diffondersi del mio mezzo mantra che sembra quasi sia io il colpevole dell’accaduto. In quell’istante anche i ragazzi che ho fianco rimangono interdetti. La loro interdizione però dura solo un paio di secondi perché capiscono al volo l’ironia del canto e si associano alla O. «Oooooo….» La cosa ci fa morire dal ridere perché nessuno di noi aveva previsto che una situazione del genere si generasse. Nel silenzio assoluto degli astanti, confusi da quella anomalia che stanno udendo, emettiamo il nostro ”O” quadrifonico ad alto volume fino a quando il barista non trova il quadro elettrico e spinge verso l’alto il selettore. Nell’esatto istante in cui la luce torna interrompiamo il suono continuando a guardare il paesaggio di bottiglie di superalcolici spagnoli che abbiamo di fronte, facendo come se niente fosse successo. Dopo qualche secondo di silenzio assoluto l’intera clientela esplode in un applauso imprevisto. Personalmente non ho idea di quale intrattenimento vada per la maggiore a Calzada del Coto in un giorno qualsiasi di agosto. Ma ho idea che quella sera gli abbiamo fatto vedere del cinema che non avevano mai visto. Anzi sentito. A birra finita usciamo dal bar tra i sorrisi del barista e dei clienti. Tutto il paese sa che nello spogliatoio ci sono quattro pellegrini che hanno strappato trenta secondi di simpatia da una stronzata quotidiana. Se mai avesse potuto succedere nessuno ci romperà le balle per la nostra condizione di randagi legalizzati. 145
«Buen camino peregrinos!» Ceniamo fuori dello spogliatoio con scatolette di tonno e insalata fresca uscita dai loro zaini. Una volta tanto mi associo ad una cena a “sacco”. Per definizione non giro con cibo se non esclusivamente per pranzare. E la sera preferisco sedermi a tavola e mangiare come i cristiani (di Grenoble). Ma questa è una sera speciale. Sono entrato nella fase della condivisione e non posso fare finta non sia vero. 19 Il mattino ha l’oro in bocca. E a volte l’alito pesante. Mi alzo rinfrancato come non mai e quasi dimentico del materasso lurido sopra il quale ho dormito. Nell’intento di guarire la mia repulsione endogena per i gruppi di persone in genere, mi adeguo ai ritmi degli altri. Purtroppo le mie resistenze sono tante e l’inquietudine mi assalta ogni quarto d’ora. La mattina scorre tra chiacchierate leggere con le ragazze sul senso della vita per gli induisti pakistani e pesanti pause sigaretta con Ciavi all’ombra di qualche albero secolare. Il paesaggio è piano come il petto di un trans prima della cura ormonale. Marta e Andere raccontano di essersi incontrate durante il cammino diventando immediatamente amiche per la pelle. Andere è una ragazza sui 22 dai capelli ricci e scuri, corporatura rotondeggiante, naso microscopico e sguardo imbronciato. Marta è la più giovane del gruppo, ha un sorriso da adolescente, occhi un po’ uscenti dalle orbite, fisico asciutto da atleta e un culetto da Lara Croft. 146
Per un paio di chilometri faccio quello col velcro dei sandali che non tiene, per rallentare di qualche passo e ammirarle il didietro. Di loro vengo a sapere che studiano all’università, Marta statistica, Andere storia. La prima è innamorata di un ragazzo che non la chiama al cellulare, la seconda di qualcuno che non c’è più. Il sentiero che percorriamo è di ghiaia bianca dalle fattezze artificiali. Ogni qualche metro ci sono degli alberi che, data la loro giovane età, fanno ombra come capocchie di cerini. Con Ciavi intavolo un discorso sulla natura e scopro che ho davanti un luminare dell’argomento. Il catalano mi racconta di essere stato per un certo tempo un arrampicatore e questo risuona come un nuovo punto di contatto tra i nostri trascorsi. Ma la sua vera specialità sono i versi degli animali e lo scopro con gran divertimento quando incrociamo un cane randagio che scodinzola lungo il sentiero. Non ridevo così tanto per una simile stronzata dai tempi della scuola. Anche lì c’era sempre qualche pirla bravo ad imitare le galline, che teneva banco durante i tempi morti tra un cambio di materia e l’altra. Ma Ciavi va oltre a ogni cosa mai sentita, perché non fa semplicemente il verso: con gli animali lui ci parla! Come cane sa fare il verso da ammalato, il piagnucolone e l’innamorato; e quando il randagio accucciato davanti gli risponde a tono vanno avanti per cinque minuti a chiacchierare come se si conoscessero da sempre. Rimango esterrefatto da quanto vedo, mentre le ragazze se la ridono di gusto, proseguendo per il sentiero e lasciandoci indietro.
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Arriviamo a El Burgo Ranero che gli addominali mi dolgono per la carrellata di esempi zoologici che il catalano mi ha fatto sentire per dieci chilometri. In paese ci procuriamo dei panini da trenta centimetri attrezzati di frittata con Chorizo e birra ghiacciata da bere. Adoro le pause del pellegrino. Ti senti in diritto di buttare dentro qualsiasi cosa senza sentirti in colpa per la salute. Dopo tre ore di passeggiata sotto il sole niente e nessuno può convincermi a fare un digiuno; e nel caso qualcuno fosse così sprovveduto da provarci dovrebbe fare molta attenzione alla punta di metallo del mio bastone. Non esiste andare avanti senza cibo. A Santiago voglio arrivarci a bordo di una canoa fatta a forma di filoncino gigante navigando su di un fiume di birra spagnola. Fate spazio! Il pomeriggio però inizia male, perché dopo mangiato il mio umore diventa insensatamente nero. C’è qualcosa che ancora non riconosco, ma che mi dà sui nervi che non sono i ventuno chilometri che ancora mi aspettano prima di arrivare alla fine della tappa. A dire il vero ho iniziato ad avvertire una strana irritazione fin dalla mattina, nel mentre si usciva da Calzada e ci si immetteva nel primo tratto di strada. E adesso qui, all’inizio di un pomeriggio tutto da scoprire, sento che questa inquietudine sta prendendo spazio e si sta trasformando in qualcosa di più solido. Credo dipenda dal fatto che l’essermi adeguato ai ritmi di un gruppo abbia rotto i miei tempi consolidati. Non so se sia questo, però il caso vuole che nel giro di dieci minuti la rabbia mi monta dentro come latte scaduto e mi ritrovo incazzato come una biscia sul bordo del sentiero.
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Sono incazzato per mille motivi e nello stesso tempo per nessuno di preciso. Mi fa incazzare Ciavi che parla senza mai fermarsi un secondo, mi fa incazzare quella nenia insulsa che cantano le ragazze dieci metri più indietro, sono stramaledettamente incazzato per quello che sto facendo, per tutte queste impronte che mi lascio dietro, per i pensieri che consumo e per tutta la pesantezza che mi porto sul collo da seicento chilometri a questa parte. Sono un logorroico incazzato come una bestia!!! Per evitare di fare della mia incazzatura un problema di Stato decido di tenere la bocca chiusa. E m’incazzo ancora di più pensando al fatto che in Italia i politici fanno questo ragionamento fin dal dopoguerra. E usando questa tecnica del silenzio, alla fine, i problemi sono diventati segreti: i famosissimi segreti di Stato. Mi fa incazzare sapere che vivo in un paese dove la verità sulle stragi non è riuscita a venire fuori, dove i politici collusi con la mafia se la spassano tranquillamente per i corridoi del transatlantico e dove l’unico papa francescano che la storia ricordi se lo sono fatti fuori con un caffè corretto all’Amaro Micidiale Giuliani. Ma ci pensiamo mai a queste cose quando sediamo nel cesso porca di quella troia?! Ci pensiamo al fatto che questi signori della comunicazione al servizio dei potenti di turno ci hanno talmente tanto abituato alle stronzate della televisione che non sappiamo più distinguere la ragione dal torto? Dov’è finito quel popolo di gente onesta che ha fatto l’Italia di cui parlava mio padre quand’ero bambino? Per cosa ha combattuto mio nonno partigiano, per vedersi gli assicuratori al governo e i finti comunisti di un tempo strafogarsi di insulsaggini nei salotti buoni delle televisioni? Dove sono finite le auto del 2000 che 149
quando eravamo ragazzini ci dicevano sarebbero volate a mezz’aria spinte da un motore a reazione alimentato da energia pulita? Che fine ha fatto la giustizia divina che al catechismo ci dicevano avrebbe risolto in breve tempo le fami e le guerre dell’intero globo? La droga uccide ci sibilano nelle orecchie da sempre, però nessuno ci racconta che tre quarti degli operatori della politica, dello spettacolo e della dirigenza aziendale sniffano coca come “folletti” che è un piacere. Da dove arriva tutta quella polvere cristallina? Non sarà mica vento del deserto, vero? Tanto per farci contenti ogni tanto arrestano qualche povero cristo che si presenta all’aeroporto con un gavettone di polvere bianca su per il culo e poi ci fanno sapere che tutta la droga che circola nel paese dipendeva da lui. Ma andate a cagare! Ci raccontano che il fumo fa male da morire e intanto, oltre a tenerci all’oscuro sui danni dell’ossido di carbonio, il novanta per cento degli spot che ci propinano sono di automobili. Ci rompono i coglioni per una sigaretta dentro il ristorante quando da Porto Marghera, secondo loro, fuoriesce soltanto profumo alle violette. Ma fatevi incenerire l’uccello brutte nerchie infestate! Mi avete strarotto le balle con i vostri discorsi sul progresso, sul lavoro e sull’evoluzione dell’uomo. La realtà è che alla fine voi ve la cavate sempre e in ogni caso, processi penali o meno. Basta solo spostare questo o quell’altro giudice da una sede all’altra, questo o quell’altro ufficio dirigenziale da un paese all’altro e il problema è risolto. Siete una manica di opportunisti legalizzati con la camicia azzurra e la cravatta a quadri che fa tanto imprenditore del Nord con il codazzo di faccendieri del Sud. L’unica cosa che siete 150
riusciti ad ottenere è fare perno su queste masse insulse di gente che neanche ascolta le troiate che dite, ma chi vi prende soltanto come modelli estetici da seguire. Voi e le vostre piazze lucide quanto la mia, voi e le vostre tasse del cazzo da evitare, voi e le barche esenbollo ormeggiate nei moli della costa, voi e le vostre segretarie senza tette che vi trascinate dietro da una cena di lavoro all’altra per farvi spompinare all’incrocio prima di casa. Mi fate schifo perché avete vinto! Avete fatto Bingo sulla pelle della gente senza patrimonio culturale, consapevoli che la memoria della collettività ha vita più breve di quella di un virus. Ci raccontate una cosa oggi e aspettate il tempo giusto perché ce la dimentichiamo e poi ce ne raccontate un’altra di completamente opposta. Ogni tanto accade che qualche buon’anima con la memoria lunga si ricordi di cosa avevate detto e ve la schiaffi nella prima pagina di un qualche giornale. Ma è un danno calcolato, che lascia il tempo che trova, il cui destino è perdersi nel fragore. Siete dei demoni infausti, delle carogne impestate di morte, delle merde infinite, delle troie infettate… Delinquenti al potere. Dopo tre ore di bestemmie a ruota libera sono ancora incazzato come una biscia e mi tasto le labbra con la mano per vedere se ho la schiuma alla bocca. C’è qualche mostro rabbioso che sta uscendo dal mio sottosuolo e me ne rendo conto quando sono trascorsi quasi venti chilometri e ho i piedi che sono diventati poltiglia. Ciavi si accorge che il mio umore è cambiato e mi chiede se va tutto bene. – Tutto bene un cazzo! Rispondo energicamente. «Che italiano di merda», mi sfotte.
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Vorrei insultarlo nella sua lingua di origine, ma non mi viene niente e Ciavi che è un ragazzo sveglio sembra capire la mia difficoltà e se la ride ancora più di gusto. – Ma vaffanculo spagnolo, va’… «No – fa lui con un sorriso serafico dipinto sulla barba – Vafonculo sì, ma Catlàn por favor. Spaniolo no…» Sorrido alzando le spalle e mi sento già più leggero. Arriviamo a Mansilla de Las Mulas che sono la fotocopia di me stesso fatta senza toner. Mi trascino su per la salita di ciottoli di porfido che conduce al rifugio con il mento che striscia per terra. Una volta lì davanti devo rimanere a recuperare respiri per dieci minuti. Sto rischiando di schiattare in un buco di culo di mondo mentre il sole sta tramontando. Se dovessi scegliere, penso, vorrei morire di mattina presto. Senza alcun programma per il giorno entrante e di ottimo umore. Oppure alle due del pomeriggio con una birra ghiacciata in mano e una sigaretta tra le labbra. Ma poi mi ricordo che quando la morte arriva non si fa annunciare. È ora di finirla di dire stronzate, penso allora. Vatti a docciare pellegrino, fammi un favore. E infatti, dopo una doccia ghiacciata il mondo è unʹaltra cosa. Hanno voglia di raccontarmela che non è vero, ma l’acqua fredda cambia tutto. Ciavi e le ragazze sono andati in paese a comperare la comida por la noche, e così mi siedo nel silenzio del giardino a guardare i pellegrini che controllano il bucato rinsecchito. “Col cacchio che mangio al sacco un’altra sera…”
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Mentre sono lì che penso alle lenticchie che mi farò fuori nel giro di un paio d’ore arriva una ragazza tedesca, magra, biondina e con gli occhialetti tondi che ho già visto in qualche tappa più indietro. Con lei c’è una tizia italiana un po’ grassottella e un americano che gira con una chitarra senza cassa armonica che assomiglia a un manico di scopa. Mi chiedono in inglese se c’è posto per dormire e gli rispondo in italiano. Credo di sì, provate a vedere. Dopo un po’ Ciavi ritorna e quando gli dico della ragazza tedesca esplode dalla gioia. «Donde està la chica?» Si tratta di Mirjam di Amburgo, quella di cui mi ha parlato e che gli piace da morire. – Està dentro l’albergue a duciarse, rispondo. Ciavi commenta con uno dei suoi irripetibili Aaaahhhh afoni, a parte la “A” iniziale. «Yo soy feliiiiz, aaaaahhh…» – Buon segno hermano. Feliz par ti… Il tempo passa e mi rilasso. Quando arriva l’ora di cena i ragazzi estraggono i loro fagotti di carta con dentro formaggio e frutta e io mi metto in moto per raggiungere uno dei vari ristorantini che ci sono in paese. Quando torno vengo a sapere che il ragazzo americano è ripartito e Mirjam sta chiacchierando in esperanto con Ciavi e le ragazze. – Ma è partito di sera? «Yes, he like it.» Sembra che all’americano piaccia camminare di notte e dormire di giorno. Non è chiaro come faccia, ma lo fa.
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Il cielo è dipinto di nuvole rosso fuoco striate di azzurro. Un manifesto naturale di bellezza strepitosa. Resto seduto su di un muretto a lungo, a guardare lo spettacolo del sole scomparire dietro le montagne e a fumare. Tra me e me penso che gli americani sono gente strana. Non dico questo in particolare, anche gli altri. O sono persone intelligentissime e piene di sensibilità, oppure sono dei cerebrolesi incapaci di intendere e di volere. Ne ho incontrati almeno tre o quattro durante il mio cammino e non mi sono sembrati poi male come persone. Hanno questa usanza strana, frutto del benessere economico, di prendersi un anno sabbatico finito gli studi e girare il mondo in lungo e in largo prima di essere assorbiti dall’età matura. Da Mirjam vengo a sapere che questo, prima di fare il Cammino di Santiago, è stato tre mesi in Marocco, due in Siria, qualche mese in Egitto per poi venire in Spagna a camminare. Non è chiaro se farà tutto il cammino o solo un piccolo tratto. Ma è certo che dopo questa cosa se ne partirà per la Francia, qualche mese in Italia, poi la Grecia e per finire la Thailandia. Voglio dire, beato lui! È chiaro che non è solo semplice cultura, ma disponibilità finanziaria. Fortuna da un lato e un Babbomat al sicuro dentro qualche tasca dei calzoni. Di base gli americani non mi piacciono, per la loro politica estera e per i loro prodotti fatti di solo nome. In passato ho letto che i servizi segreti americani, nel ’48, hanno aiutato la Democrazia Cristiana ad andare al potere manipolando i risultati delle elezioni. Non ho idea se sia vero, ma è plausibile visto che ci avevano liberati dall’incubo del fascismo. I vincitori di solito fanno quello che vogliono e gli americani sono bravi sia a vincere che a dominare. 154
Concludo il mio pensiero sul tramonto dicendo che non mi piacciono gli americani perché mi ricordano lo strapotere dell’Impero Romano. I loro film invece sì che mi piacciono. Fanno di quelle produzioni che noi ce le sogniamo. Voglio pensare sia il frutto di cervelli illuminati che conoscono benissimo quel mestiere e non solo disponibilità economica. Voglio pensare… Ma chi sono poi gli americani? Quando ne ho abbastanza di elucubrazioni sulla società yankee decido di andare a dormire. E quando mi siedo sul cuscino con le gambe incrociate Ciavi mi chiede se possono partecipare anche loro alla meditazione. – Come no! Così senza volerlo mi trovo attorno un cerchio di quattro persone sedute con la schiena eretta che aspettano che gli dica qualche cosa. È la prima volta che mi succede di essere il conduttore di un affare del genere. In esperanto dico semplicemente di chiudere gli occhi e di osservare il respiro che entra dalla base delle narici. Che tutti gli esseri possano essere liberi dalla sofferenza e dalle sue cause. Che tutti gli esseri possano esseri liberi dalla paura, dalla malattia e dalla morte. Che tutti gli esseri possano essere intrisi di gioia profonda e di divino amore. È stato un giorno duro e pieno di cose nuove. A domani, buonanotte. 155
20 È una mattina ventosa e il profumo dell’aria mi dice che oggi potrebbe anche piovere. Da quando sono partito non è mai successo e l’idea di sperimentare la mantellina da un etto che ho nella gobba non mi dispiace per nulla. Ciavi è su di giri perché Mirjam parte con noi. Tra uno sbadiglio e l’altro arranco fino al primo bar dove faccio colazione con un caffè in bicchiere da ¼ e un paio di croissant. Usciamo dal paese passando per l’antico ponte di pietra sul rio Elsa che ci immette negli appezzamenti di terreno coltivato. La Berti dice che di qui a poco ci aspetta il bordo della statale che ci condurrà fino a Lèon. – Finalmente un po’ di civiltà! Sono di ottimo umore e l’idea di camminare sull’asfalto non mi disturba. C’è tutta una genia di pellegrini che piuttosto che camminare lungo le statali prende l’autobus fino alla tappa successiva. Personalmente non sono d’accordo e lo dichiaro apertamente. Senza perdermi in filippiche filosofiche sul perché sono contrario al pullmann dico solo che per me questo cammino sta diventando, giorno dopo giorno sempre più, una sorta di rappresentazione dell’esistenza in genere con tanto di sbalzi di umore, gioie, problemi, amori, successi e perdite. Una vita compressa in un percorso di un migliaio di chilometri, da vivere nel giro di un mese. Può essere? Quindi, se accetto i dolori che sorgono dal sottosuolo, il delirio procurato dal sole, il disagio del dormire sul cemento di un polideportivo e la sfiga dell’incontro con pellegrini “so tutto io”: che problema c’è nel fare una statale?
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Se devo dirla tutta non me ne può fregar di meno dell’ecologia, almeno in questo caso. Certo, tra i boschi si cammina meglio, c’è più silenzio e i colori della natura rendono più armonica la mente. Ma cosa sto cercando di preciso? Il Passo Perfetto, che significa un movimento in grado di fare da chiave d’accesso allo stato silenzioso della mente. Quindi il problema da risolvere è quello del silenzio della mia mente non quello della chiave; il Passo Perfetto caso mai può essere solo uno strumento atto a spianarmi la via. Ma se è così, per quale motivo la mia mente dovrebbe trovare il silenzio nei boschi e non in una strada statale? Se fosse veramente così non so se mi andrebbe ancora bene il gioco. Quello che io voglio è trovare uno stato di silenzio che sia “permanente”, o meglio che possa manifestarsi in qualsiasi caso, monti, mari, città e via dicendo. Altrimenti non ha senso. Mi viene in mente un libro che ho letto da ragazzino, lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Il payoff dell’edizione economica che avevo diceva: Il Buddha è nel petalo di un fiore o nel cambio di una motocicletta? Ecco, una cosa del genere. Il Buddha è nelle campagne della Castiglia o nelle sue statali? È nelle menti dei cattolici di Grenoble o nella mente logorroica di italiano con le gambe a pezzi? Per quanto ne so io (e io ne so abbastanza poco) il Buddha è uno stato della mente e come tale è ovunque. Accettare la realtà che ti viene incontro, bella o brutta essa sia, è di sicuro uno degli aspetti di quel tipo di mente che si dovrebbero imparare.
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Purtroppo questo non viene sempre facile, perché si fa presto a chiacchierare blandamente, spostando ciottoli con la punta del sandalo, quando si hanno trentasei anni e si è in piena salute. Si fa presto a parlare quando si è nati nel triangolo d’oro del mondo, nella crema dell’industria del Belpaese, si fa presto. Se penso al mio snobismo mi girano i coglioni come trivelle e a quel punto il palco crolla giù di brutto tanto che vorrei affossarmi per la vergogna, visti i pensieri che faccio. Datti una calmata pellegrino, mi dico, se fossi nato in Bosnia Erzegovna o in una famiglia tribale del Congo (col rischio di venire decapitato dal tuo vicino appena metti la testa fuori della capanna) di certo non parleresti così. «Datti una calmata e continua a camminare, va’…» È l’unica cosa saggia che puoi permetterti di fare. Dopo una mezz’ora di doppie voci interne ed elucubrazioni mentali di natura improponibile il sentiero inizia a salire. Fermandomi a fumare una sigaretta mi accorgo che fino a quel momento non ho nemmeno sentito il chiacchiericcio continuo dei miei compagni di squadra. Eppure c’è stato! Ricordo a me stesso che uno può essere solo al centro di una folla e, al contrario, sentirsi parte del mondo mentre si trova nel bel mezzo di un deserto mesetico. Certo che la mente è proprio strana. Specie la mia, che se la fa e se la gode da sola. «Tieni un cigarro por favor?» – Claro que sì! Ciavi non ha voglia di rollare e mi chiede una sigaretta. Fumiamo seduti su un tronco mozzato e guardiamo una colonna di formiche trasportare briciole di nulla verso qualche dove. In realtà quello che fanno è portare in giro microscopici afidi sulle corazze per mollarli giù da qualche parte e farli 158
lavorare sulle piante. Poi alla sera tornano a riprenderli e li portano nel formicaio per infilargli un canotto nel culo ed estrargli fuori tutte le sostanze vitali che questi hanno racimolato faticosamente; e la cosa ricomincia il giorno dopo, alla faccia del Nord Est che lavora! – Ma pensa te che strano universo… Viene da chiedersi come abbiamo fatto a capitare qui e così? La prossima volta dovrò ricordarmi di farmi dare il libretto di istruzioni prima di venire fuori dall’uovo. Il vento intanto ha iniziato a soffiare che è un vero piacere. Le ragazze del gruppo però sembrano agitate. Non è la prima volta che mi capita di notare l’inquietudine delle donne in presenza del vento. Deve essere uno di quegli elementi naturali che le confonde, qualcosa forse che ha a che fare col mestruo o con la loro mente naturalmente deviata, ma non ne ho idea. Ho sempre pensato che le donne, a differenza degli uomini, abbiano una “piegatura nel cervello”. Ovviamente non posso dimostrarlo, né so se quanto penso sia vero o meno. Però lo penso sinceramente perché mi è capitato più volte di verificarlo. Le donne hanno dei momenti in cui sballinano con la zucca e per un uomo non c’è modo di capire perché la cosa accade. Possono essere situazioni di natura complessa o stupidaggini delle più banali. Di fatto, i loro i processi mentali, ogni tanto, seguono delle regole che sanno solo loro. Non sto dicendo che non siano razionali, ma che quella razionalità non è dello stesso tipo di quella dell’uomo. I fili logici sono legati tra loro da nodi di diverso tipo e non ci si capisce.
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Per esempio: ieri sera, prima di addormentarmi avevo dato una leggera carezza sulla spalla ad Andere che stava nel sacco al mio fianco. Non c’era il minimo intento di approccio o seduzione da parte mia. La cosa proprio non mi passava per la mente. Era solo una dimostrazione di affetto che in quel momento mi sembrava opportuna vista la durezza del giorno e il suo sguardo triste che avevo intercettato un istante prima. Insomma, con quella carezza volevo darle un messaggio di “bene”. Eppure la ragazza mi era saltata su dicendo che non dovevo assolutamente toccarla, che la cosa le dava fastidio e di non riprovarci mai più. – Ok, ok, tranquilla… mica volevo toccarti le tette. Stamattina, logicamente, ho cercato di evitarla come la peste per non farla irritare con la mia presenza, mentre lei cercava in continuazione di venirmi vicino benedicendomi con larghi sorrisi. Ma cosa significa? O sono io che sono fuori come un balcone, oppure sei tu ragazza che non hai tutte le tegole a posto. Mettiamoci d’accordo. Naturalmente parlo di un caso singolo e non si può fare di tutta l’erba un unico cannone. Però la devianza delle donne di cui parlo è molto simile a questa manifestata da Andere. Non entro nel merito delle motivazioni che l’hanno indotta all’aggressività di ieri sera, né a quelle della dolcezza di stamattina. Avrà di certo i suoi buoni motivi. Quello che mi manca è il legame logico tra un agire e l’altro. Cosa è cambiato stanotte? Ho fatto qualcosa che non mi ricordo?
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Se così fosse sarebbe davvero grave e non avrei dubbi se farmi fare un TSO al pronto soccorso più vicino. Ma è davvero un problema mio? Seguendo il bordo della statale arriviamo in un paese protetto da una cappa di sole grigio che si chiama Valdelafuente. Dopo una piccola ristorazione alla fontana ci prepariamo a salire verso l’Alto del Portillo. Quando cammini con gli altri non ci sono tante alternative. O rimani zitto e pensi ai fatti tuoi o parli. Entrambe le cose non sono per nulla semplici perché i pensieri che fai hanno la tendenza a diventare più pesanti del carico che stai portando, mentre il dialogare con gente di nazionalità diverse può essere una vera e propria impresa titanica. Ciavi parla castigliano e catalano e l’unica parola di inglese che conosce è of course (pronunciato come si legge o‐f‐c‐o‐u‐r‐s‐e); Marta parla castigliano, catalano e un po’ di inglese; Andere castigliano e basco; Mirjam tedesco, inglese, un po’ di italiano e di castigliano; io invece parlo italiano, un inglese di merda da corsi parrocchiali, il castigliano che ho interiorizzato strada facendo e il dialetto padovano (che assomiglia molto di più al catalano di quanto si pensi). Ci sono momenti in cui la stanchezza schiaccia molto più del risucchio dei TIR che ci sfiorano lungo la statale e anche il minimo sforzo mentale è piuttosto fastidioso da sopportare; così l’idea di chiacchierare amabilmente con qualcuno dà come un senso di leggerezza. In altre parole: aiuta. Ma come fare per non incorrere nel rischio di incartarsi in un discorso in esperanto dal quale poi diventa difficile venirne fuori? Semplice, si dicono idiozie. Così, tanto per aiutarsi vicendevolmente a procedere. E quali sono le stronzate che funzionano per tutti? Ovvio, le barzellette. 161
Salendo verso l’Alto del Portillo io e Ciavi ci raccontiamo qualche barzelletta nei nostri rispettivi idiomi, cercando di farci capire alla meglio. Vado subito sul pesante e racconto quella della bambina di undici anni che entra in farmacia e, con tono più che spigliato, chiede una scatola di preservativi. Il farmacista che sta dietro il banco, guardando la ragazzina dall’alto verso il basso, le dice: – Ma va là piccoletta, che hai ancora il latte sulla bocca… La bambina guarda il farmacista dal basso verso l’alto e con fare aggressivo commenta: – Non è latte… Ciavi esplode in una risata che dura dieci secondi, mentre le ragazze sogghignano debolmente. – È una stronzata – osservo allargando le braccia – lo so. Il catalano allora, preso dalla foga ne racconta una delle sue che mi ricorda un poco il mio lavoro. C’è un tizio di nome Pedro Martinez che gestisce una ferramenta il cui prodotto forte sono i chiodi. Un bel giorno, per accrescere il volume di affari, Pedro s’inventa una pubblicità da appendere per il paese. La pubblicità consiste in un manifesto con al centro l’immagine di un imponente Cristo crocefisso. Sotto la croce un’ampia scritta ricorda: I chiodi di Pedro Martinez resistono più di 2000 anni! Naturalmente la pubblicità fa non poco scalpore nel paesino dove l’uomo vive. E il pomeriggio seguente un suo conoscente del distretto comunale gli fa visita in negozio. Il negoziante, cadendo dalle nuvole, chiede: 162
«Non sono fatti bene?» «Non è quello il discorso, Pedro…» insiste il conoscente. «Il tuo manifesto è piuttosto offensivo per la religione cattolica e questo non va bene». Pedro Martinez allarga nuovamente le braccia. «Ma è solo una pubblicità…» «Ho capito Pedro, però non va bene. Fanne una di nuova e mettila dove vuoi, nessuno ti dirà nulla. Ma vedi di togliere questi manifesti al più presto». Pedro non è per nulla d’accordo, ma per evitare guai con il Comune decide di togliere i manifesti dalla circolazione e di pensare a una nuova pubblicità. Dopo una settimana le strade del paese sono nuovamente tappezzate della pubblicità di Pedro Martinez. Il manifesto è uguale a quello precedente e vede al centro della scena lo stesso imponente crocifisso, però vuoto. A piedi del crocifisso c’è il cristo di gesso, ancora con le braccia aperte e il volto verso il suolo, come se si fosse staccato dalla croce un secondo prima. La scritta alla base dell’immagine dice: Con i chiodi di Pedro Martinez questo non sarebbe mai successo! Rimango a ridere come un deficiente sul bordo della statale, incrociando sguardi di famiglie spagnole che traghettano in auto verso qualche luogo di vacanza. Di tanto in tanto passano autobus turistici multicolore gonfi di “pellegrini” cattolici diretti a Santiago che, nel vederci ridenti e sporchi sul ciglio della strada, ci sventolano le mani dai finestrini come se avessero visto chissà cosa.
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– Bai bai beibi… – commento alzando la punta del bastone verso il cielo. Poi continuiamo a salire, tra una stupidaggine e l’altra, fino a quando arriviamo in cima. Ho il polmoni pieni d’aria salubre e la mente sgombra di pesantezze. – Sapevo che la statale mi avrebbe reso di buon umore. Dall’Alto vediamo in lontananza Lèon, una delle città più grandi che si incontrano lungo il cammino. Distinguo le guglie della cattedrale di cui parla la guida. Ci aspetta un’ora buona di periferia prima dell’entrata in città. Diamoci da fare! Nella discesa verso Lèon le mie gambe iniziano a pedalare rinvigorite da qualche energia nascosta. La via non è nulla di speciale a parte uno corvo dai riflessi argentei che taglia la nostra traiettoria con un volo radente. Sento la gravità tirarmi verso il basso e gli arti inferiori adeguarsi amichevolmente a quella forza che li chiama. Nel giro di qualche chilometro ci troviamo immersi nella zona di industriale della città, tra capannoni senza intonaco, camion in manovra e muletti carichi di bancali. Ritornando sui pensieri di poche ore fa penso che, in effetti, non c’è paragone tra la calma solitaria dei campi di grano e questa cacofonia di rumori. La statale inizia ad infoltirsi di persone indaffarate e la zona industriale viene sostituita da una prima periferia uguale a tante altre che ho visto dalle mie parti. Ad un certo punto dico: – Tutto il mondo è paese, puttana sua madre. Ma non mi sente nessuno.
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L’entrata in città è lunga e noiosa e la vista deve abituarsi a riconoscere le frecce che segnano il cammino orientandosi tra la moltitudine di segnali stradali, murales e manifesti pubblicitari. Dopo numerosi incroci e strade adibite a parcheggi raggiungiamo il centro della città dove il mio obiettivo è fare una tappa veloce alla famosa cattedrale e poi riprendere la marcia. La guida dice che Leòn è una città di notevole importanza storica per il Cammino di Santiago de Compostela; per quanto riguarda invece il “mio” di cammino la notevole importanza riguarda il fatto che dista soli 300 chilometri da Santiago. Voglio dire, meno di venti giorni fa, nel bel mezzo dei Pirenei, la targa a fianco della lapide di Rolando diceva: Santiago 780 Km. Aggiungiamoci i “rotti”, tutti quei chilometri fatti in lungo e in largo per salire sui Pirenei da Saint Jean, ritrovare il sentiero perduto per non aver visto la freccia, cercare bar e ristoranti, raggiungere i rifugi mal segnati dalle indicazioni o visitare luoghi fuori mano: una cinquantina in più sul conto ci vanno di sicuro. Che significa che fino a questo momento i miei piedi hanno lasciato impronte per più di cinquecento chilometri! Voglio dire, ma sono deficiente? Ma chi mi vieta di buttare nella spazzatura armi e bagagli, prendermi un fottutissimo treno Talgo e arrivare a Santiago prima del tramonto? Niente da fare, i miei demonietti interiori non ce la fanno neanche stavolta a convincermi a lasciare, anche perché di buono c’è che adesso ho il fisico dalla mia parte. Il livello di sopportazione dei disagi motori si è alzato notevolmente e la fatica pesante la sento solo durante l’ultima ora di cammino (sei chilometri) forse per un fatto squisitamente mentale.
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Ormai ci sono dentro fino al collo e voglio finire in bellezza, da pellegrino. A Lèon il gruppo si smembra perché Andere e Marta sono stanche e vogliono visitare la città e Mirjam deve incontrare un suo amico fotografo che arriva in bus da qualche tappa più indietro. Ciavi e io decidiamo di procedere per non dormire nel caos di un rifugio “porto di mare” e optiamo per altre due ore di cammino con inclusa una pausa birra prima della fine. Salutiamo le ragazze con la promessa di vederci l’indomani da qualche parte, e seguiamo le conchas metalliche incastonate sul porfido fino ad raggiungere la cattedrale. Il caos di turisti che c’è lì fuori però fa a tutti e due lo stesso identico effetto di fastidio e con un’occhiata d’intesa decidiamo di entrare da una porta e uscire dall’altra. – Interessante, commento bonariamente una volta di nuovo al sole, dal punto di visto culturale intendo… Ridacchiando come due spiritelli impolverati gironzoliamo per la città vecchia per farci ispirare da qualche locale coi tavolini fuori su cui mangiare un’insalata. Ne scegliamo uno individuato in una strada secondaria piuttosto stretta. Ha tre tavoli di numero messi in bella vista e su due di questi ci sono seduti dei turisti tedeschi che dal look sono tutto fuorché dei pellegrini. Il cameriere in realtà non è per nulla simpatico e dal menu scopriamo che nemmeno i prezzi ci favoriscono. Così prendiamo solo da bere e qualcosa di veloce da mangiare. Un paio di sigarette e un doppio paio di sguardi alle fighe che passano sulla direttrice principale, con aggiunti i relativi commenti, da hombres hodidos pero contentos.
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Quando ne ho abbastanza di quella immobilità faccio segno a Ciavi di partire e il catalano annuisce positivamente, disincagliandosi dal legno della sedia. Uscendo da Lèon incrocio molte facce di persone che mi sembra di aver già visto in precedenza, anzi la sensazione che ho è ancora più strana: mi sembra di conoscerli tutti! Lo strano effetto ottico però mi abbandona appena fuori del centro e una volta nell’asfalto della periferia opposta, Lèon diventa solo un debole ricordo. Mi passano per la mente stupidaggini pseudo filosofiche sul giusto atteggiamento da tenere nei confronti del futuro che avanza ad ogni passo, ma le schiaccio brutalmente verso il terreno prima che prendano piede e mi inquinino la mente più di quanto già lo sia. Detto fuori dai denti, in cinquecento chilometri credo di avere pensato svariate tonnellate di stronzate che, se non ci fossero state, sarebbe cambiato poco niente. Il cammino comunque continua e ci porta ad attraversare un ponte su di un fiume e poi prosegue lungo la statale fino a un paesetto chiamato La Virgen del Camino. Qualche chilometro prima ci fermiamo in un sobborgo a visitare una piccola chiesetta piantata sul bordo della strada. Oddio, non è una vera e propria visita, ma più che altro la necessità di sederci in qualche luogo fresco e silenzioso. E senza nulla togliere alle chiese come luogo di culto per chi ci crede, da questo punto di vista non sono niente male. Così mi siedo sul primo banco, poggiando giù lo zaino e rilasciando le gambe. Sopra l’altare è appeso un possente crocefisso di legno scuro e non posso fare a meno di pensare alla barzelletta di Pedro Martinez raccontata da Ciavi qualche ora prima. 167
Scorrendo con lo sguardo il perimetro interno della chiesa noto che, oltre ai soliti quadretti della via crucis, ci sono un certo numero di dipinti che sembrano antichi, con tanto di cornice di gesso dorato. Uno di questi mi attrae particolarmente e cambio postazione per osservarlo meglio. È un Santiago Matamoros di bellezza inestimabile. Non m’intendo di arte antica, tanto meno di pittura religiosa. Quindi l’inestimabile bellezza di cui parlo va relativizzata col mio modo di processare lo specifico momento. Diciamo che, a me sembra piuttosto bello, ma non so dire di preciso perché. Mi sembra e basta. Ovviamente, come già successo in precedenza, il contenuto mi lascia un po’ perplesso: un santo a cavallo che, armato di scimitarra, fa a fette dei guerriglieri musulmani. Mi viene da ridere. Sbaglio o è un film che ho già visto in televisione? No, voglio rimanere nel dubbio e provare a capire il vero significato di questa cosa. C’è una leggenda a proposito del Santiago Matamoros e mi viene in mente non tanto perché la so grazie alla mia cultura storica, bensì perché l’ho letta sulla Berti qualche giorno fa. In sostanza, durante una battaglia tra gli arabi invasori e i soldati cristiani questi ultimi avevano la peggio e sentendosi perduti pregarono il San Giacomo. A quel punto Santiago apparve a bordo di un purosangue bianco e, armato di tutto punto, spronò i soldati a combattere dando l’esempio. La leggenda narra che quella fatidica volta, grazie a questa apparizione miracolosa e nonostante fossero in netta minoranza, i soldati cristiani vinsero la battaglia. Punto, fine della trasmissione. 168
Personalmente non me ne può fregar di meno di questa cosa, lo dico perché sia chiaro prima di tutto a me. Mi fa strano però che un santo di degno rispetto (san Giacomo, fratello e discepolo di Gesù Cristo, mandato da quest’ultimo in terra magica per convertire i pagani con il più ampio messaggio d’amore che l’occidente ricordi di avere mai ricevuto da qualcuno che non fossero le mignotte) si perda a decapitare i figli di Allah sul fare del tramonto. Ma a chi vogliamo darla da bere? Diciamoci la verità una volta tanto, per favore. Che cosa significa questo strano quadro replicato in gesso, legno, marmo e pitture di tutti i tipi. Nel fresco della chiesetta scopro di essere rimasto da solo perché il mio compagno è uscito a rollarsi una Golden Virginia sugli scalini esterni. E visto che ho tutto il tempo del mondo a mia disposizione provo a cercare un senso a questo quadro. Ma come spesso accade nei casi della vita, la risposta mi arriva proprio nell’esatto momento in cui smetto di cercarla. Paf! Una luce mi si accende in mezzo agli occhi. – Che monaaaa…. Penso che sono stato uno stupido a non capirlo prima. «Quel Santiago Matamoros non è altro che un simbolo, ragionaci un attimo!» Penso al cammino che ho condotto fino a questo momento: chilometri su chilometri di dolori, disagi, fantasmi della mente, emozioni, rabbie e pulsioni di varia natura. «A che cosa serve un pellegrinaggio?» Risposta semplice: a raggiungere un luogo di culto spinti dalla fede in qualcosa.
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«No no no, a parte questo: guarda bene! Ripeto la domanda: a cosa serve un pellegrinaggio? Rispondi semplicemente!» A camminare. «Esatto. E a cosa serve camminare?» A raggiungere un luogo di culto spinti dalla fede in…. «Naaaa! Pensa al Passo Perfetto: a cosa serve camminare?» A raggiungere il silenzio della mente. «Esatto! E cosa succede camminando (l’hai detto un attimo fa)?» Che ci sono dei problemi. «Giusto, dei problemi di varia natura come pulsioni, emozioni, dolori, ecc… in sostanza dei demoni che ti distolgono la mente dalla pacificazione. Chiaro?» Sì. «Bene. Santiago chi è?» Un santo pellegrino. «Appunto. Fai due più due…» Certe volte non ti capisco. « Na, dài. Fai due più due.» Quattro. «Non dire stronzate. Santiago è un pellegrino che cerca di pacificare la propria mente e per farlo deve distruggere i demoni che gli ostacolano la strada. Nel medioevo, probabilmente, il moro, l’arabo, il musulmano, doveva essere considerato così tanto il male da diventare un simbolo stesso del demonio. Quindi Santiago nell’uccidere i mori distrugge tutti quegli eventi malefici che sorgono dal fondo della sua mente e trova così, finalmente, il silenzio che tanto va cercando. Sei d’accordo?» Sì, dico sminuendo, è una chiave di lettura… «Una chiave di lettura tua sorella! Questa è la chiave di lettura di quel dipinto. Che senso avrebbe altrimenti ritrovarlo ogni 170
cento chilometri lungo un percorso frequentato da soli pellegrini da più di mille anni? Non vorrai dirmi che è per impietosire la gente sulle sofferenze dei cristiani delle epoche passate che, con i loro fiumi di sangue, ci hanno permesso di godere della “libertà” di oggi giorno? Accetto questo discorso da un ultimo della classe come Giorgio Dabliù Busc o al limite da chel porco de Mosconi (come lo chiama tua nonna) che la mena ai quattro venti con la lotta al terrorismo islamico per evitare i processi per ladrocinio di cui è accusato. Ma non da te!» A quel punto del dialogo tra me e il mio secondo io Ciavi mette la sua testa cespugliosa dentro la porta della chiesa e in perfetto catalano di Badalona mi chiede con chi sto parlando. – Parlo da solo Ciavi non preoccuparti. Ho risolto un piccolo enigma che avevo con questa pittura, ma non c’è più problema. Ora esco. Raccolgo le mie cose e mi avvio verso l’uscita della chiesa pensando che forse mia mamma ha ragione a pensare che il sole può farti andare via di testa. “Stasera le telefono per dirglielo”. Poi ci rifletto. Nà, la chiamerò solo per salutarla e per dirle che va tutto bene. Si preoccuperebbe e basta. Dopo mezz’ora arriviamo a la Virgen del Camino e chiediamo informazioni a un religioso vestito con la tunica bianca dei Domenicani che esce da un Istituto di fronte all’omonimo Santuario. La nostra richiesta è semplice e riguarda la strada per raggiungere il rifugio del pellegrino. Non l’avessimo mai detto. Il prete in bianco ci tratta malissimo come se fossimo dei pezzenti appena usciti da chissà quale girone infernale.
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«Qui non ci sono ostelli, bofonchia maleducatamente, andate più avanti!» “Uè Mamma Ebe – gli dico con un’occhiata – vedi di abbassare il tiro…” Così, schifati della sua presenza, lo lasciamo perdere e ci distendiamo sull’aiuola di erbetta fresca di fronte all’Istituto, proprio come dei barboni veri. Della serie: fai lo stronzo? E allora ti pernottiamo davanti casa! È bellissima questa cosa del pellegrino con in tasca la Credenziale. Ti dà il diritto di essere protetto dalla Legge Spagnola sempre in ogni caso, che significa che per il solo fatto di essere un fedele a Santiago, tutta una serie di cose ti sono permesse. Per esempio riposarti su di un’aiuola in mezzo al traffico di una cittadina, senza che nessuno ti dica qualcosa o pensi che tu sia un rifiuto umano. Anzi, la maggior parte di quelli che passano ti stimano per quello che stai facendo e hanno per te una certa dose di rispetto. Penso che se facessi una cosa del genere nella mia città mi arresterebbero nel giro di un quarto d’ora. Già mi vedo la locandina del giornale del giorno dopo: «Arrestato imprenditore dei new media allo sbando, che dormiva nei pressi della fontana di piazzale Stanga di fronte al torrione della Vodafone…» Il riposino nell’aiuola dell’Istituto dura una mezz’ora e mi sveglia la voce del Ciavi che ancora commenta l’antipatia del prete: «Que hijo de puta de cura de mierda…» – Assa perdere Ciavi – ribatto in dialetto padovano – No es un problema tuo, hermano.
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Nel cielo si sta preparando il tramonto e decidiamo di andare a cenare. Attraversiamo la strada ed entriamo in una trattoria con i tavoli in vetrina. Il menu del pellegrino prevede spaghetti al pomodoro e cotoletta alla milanese. Ordino il menu completo ridendo per quello che mi aspetta. La titolare è una spagnola grassa e simpatica che adora i pellegrini. A differenza del prete ci tratta con tutte le grazie, visto che sono solo le sette di sera e che siamo gli unici clienti (gli spagnoli di solito cenano alle dieci). Mentre siamo lì che assorbiamo energie, sul marciapiede oltre la vetrina, vediamo passare Marta e Andere. – Ma come? Non avevano detto che sarebbero rimaste a visitare Leòn? Ciavi esce per chiedere spiegazioni e dopo un po’ ritorna assieme alle due ragazze. Ci raccontano che nel rifugio c’era il delirio. Pellegrini come se piovesse. Le suore erano per nulla simpatiche e così, dopo essersi riposate un paio d’ore hanno deciso di ripartire. Ottima scelta, commento. Peccato che qui non si sappia dove dormire… Mentre siamo lì che parlottiamo passano due pellegrine spagnole che ho già visto da qualche parte. Ciavi dice che quella castana faceva l’hospitalera a Belorado il giorno in cui è passato da quelle parti. Così le fermiamo con un fischio per chiedere se sanno dove pernottare. Ci rispondono evasivamente dicendo che lì a la Virgen non ci sono ostelli e che loro hanno intenzione di andare oltre. Ok, buon viaggio. La guida in effetti non cita la presenza di nessun rifugio da quelle parti, ma visto l’enorme Santuario ci sembra quasi impossibile. Chiediamo informazioni al señora della trattoria e la 173
donna ci dice che in effetti c’è un piccolo monastero di suore che offre ospitalità ai pellegrini. Ci spiega come raggiungerlo dopodiché, finito di bere el medio chupito de Anis e medio de Manzana che divido con Ciavi, ci mettiamo in moto verso il possibile rifugio. Le indicazioni della donna ci portano a costeggiare un campo sportivo e poi una specie di stabilimento che sembra in dotazione ai vigili del fuoco. Alla fine ci troviamo in mezzo a campi coltivati con nessuna presenza di monasteri nei dintorni. Il tramonto ormai ha fatto il suo corso e il buio del crepuscolo ha preso in consegna tutte le forme visibili e non. L’unico posto cui possiamo far riferimento è una villetta discreta, stile anni ‘70, con il cancello di ferro verde arrugginito e numerose piante attorno. Mi avvicino alla casa per suonare e scopro che fissata alla ringhiera di recinzione c’è una targa che dice Moncas de la Virgen del Camino. – Ehi hijos, està aqui!! Nel buio non individuo nessun campanello e così entriamo nel giardino a passi felpati. Una volta di fronte alla casa bussiamo alla porta. Ad aprirci è una signora di mezz’età che indossa abiti civili. A prima vista sembra una maestra elementare della vecchia generazione, ma l’azzurro cristallino che si espande dal centro della sua pupilla non lascia dubbi circa la sua verginità: è una suora laica. Con fare non gentile all’eccesso ci dice che non hanno posto per accogliere nuovi pellegrini e che anche se fosse gli uomini non sono previsti. Ciavi e io ci guardiamo, poi guardiamo le ragazze e poi torniamo con lo sguardo sulla “santa madre chiesa” che abbiamo di fronte. – Che dire sorella, pazienza… 174
Allargo le braccia in segno di accettazione, ma se lasciassi parlare i miei pensieri direi cose del tipo “che serata di merda…” o peggio ancora “ma menami l’uccello va…”. A quel punto la suora credo s’impietosisca perché ci fa entrare in casa dicendo che parlerà con la Superiora per vedere se si può fare qualcosa. Maria Goretti colpisce ancora, penso. La Superiora infatti è Maria Goretti in persona e si presenta uscendo da una stanza buia che dà sul refettorio. L’atmosfera di quel luogo è funebre e dopo tutti i luoghi santi che ho visitato dall’inizio del Cammino questo in particolare mi sembra molto più sinistro che sacro. Per un attimo temo di essere entrato nella casa di una setta di pazze furiose che sgozzano i pellegrini nel sonno. La Superiora però, con fare mansueto, ripete il discorso dell’altra sulla presenza degli uomini. In tutta risposta, con l’esperanto di cui sono ormai padrone, dico che non c’è nessunissimo problema, che noi uomini possiamo dormire nell’aiuola di fronte al santuario e, senza farmi tradire dallo sguardo preoccupato, penso “che di certo è più sicura di questo strano posto”. Poi concludo la manfrina chiedendo alla Madre di trovare almeno un posto per le ragazze che viaggiano con noi. A quel punto succede qualcosa di piuttosto strano, bussano alla porta. «Ecco le altre due pellegrine…» sussurra la suora apprestandosi ad aprire «…che tornano dalla cena in paese». Appena varcano la soglia scopriamo che le “due pellegrine” non sono altro che quelle due stesse pellegrine incontrate di fronte alla trattoria e che avevano risposto alle nostre domande sul rifugio in maniera evasiva. 175
Le due tizie entrano e rimangono di stucco nel vederci. Sembra che la ex hospitalera conosca molto bene queste suore, perché si danno del tu e hanno tra loro atteggiamenti piuttosto familiari. Guardo Ciavi come per dire: hai capito com’è la questione? Proprio due belle pellegrine, rifletto tra me, volevano passare la notte da sole in questo posto, senza rotture di balle di altre persone attorno con le quali dividere uno spazio al coperto e avevano cercato di eluderci dicendo che a la Virgen non c’erano rifugi quando sapevano benissimo che almeno uno ce n’era: perché lo stavano raggiungendo! Un’azione piuttosto bassa per un’hospitalera… A fronte di questo nuovo fatto penso che il posto non mi piace per nulla e faccio per andarmene, ma Ciavi insiste con la Superiora quel poco che basta per farla desistere. Così, ci ritroviamo in sei in un salottino tre metri per due con le due tizie che non sanno verso che quadro della Madonna poggiare gli occhi per la vergogna. Una suora giovane bussa la porta per portarci delle coperte nel caso ne avessimo bisogno. Ha uno sguardo sorridente e carico di una gioia che nelle sorelle più anziane non avevo intercettato. Inneggiando un breve canto diretto alla Vergine ci dà la buona notte e ci augura buon cammino. – Gracias hermana, tambièn tu. Appena la suora esce le due pellegrine bastarde si lanciano un’occhiata d’intesa e la ex hospitalera di Belorado estrae dal portasapone un dado di hashish. Mentre a Marta le si illuminano gli occhi e Andere sorride, a me e a Ciavi ci cadono i coglioni. “Pensa te che realtà assurde ci sono in giro. Questa poi…” Fermo restando che, ripeto, non ho niente contro le canne. Anzi, non posso certo escludere la parte più romantica di me che 176
pensa che le persone che fumano erba abbiamo un leggero vantaggio in termini di sensibilità umana rispetto a quelli che non se ne fanno. È evidente però che sto diventando vecchio, perché non è proprio così. E forse non lo è nemmeno mai stato. Sono inchiodato al fatto che, quando vent’anni fa mi fumavo gli spinelli, lo facevo con l’illusione di usare il THC per attingere delle verità da zone superiori della mente. E ho sempre voluto convincermi che anche gli altri le facessero per il mio stesso identico motivo, ma in realtà è tutt’altro che così. Chi si fa le canne, ieri oggi domani, lo fa esclusivamente per avere qualche mezz’ora di leggerezza inebriante, ma nulla di più. Quindi è normale che una persona ambigua come questa hospitalera, dopo aver tentato di godersi il privilegio di un rifugio per i fatti suoi e dopo aver fatto la faccia da santarella di fronte alle suore forte del suo curriculum di volontaria cattolica, una volta che queste se ne sono uscite estragga dal porta sapone un toccone di fumo con dipinto sul viso un ghigno da pervertita di provincia. Della serie: e adesso che i problemi formali sono risolti via con le masturbazioni cerebrali. Chinandomi a sedere sul tappeto penso che il giorno trascorso è stato lungo e pieno di sorprese. Domani ce ne aspetta un altro al varco. Santiago si è avvicinato di altri dieci chilometri. Dentro di me sta continuando a muoversi qualcosa, lo sento. Che tutti gli esseri possano essere… Meno stanchi di quanto lo sono io questa sera. Devo assolutamente mettermi a dormire. Buonanotte allora, fumatori di canne, suore, preti e sognatori. Buonanotte Katia, Clara e amori senza nome. 177
Buonanotte e sogni d’oro. Maite zaitut. A tut. 21 La mattina inizia con Ciavi che mi elenca le bestemmie più fantasiose che pronuncia suo nonno quando è incazzato nero. A dire il vero, dopo averne ascoltate un certo numero, non mi sembrano poi così offensive rispetto a quelle che si dicono dalle mie parti. Lasciamo La Virgen del Camino con la speranza di non incontrare più le due pellegrine della sera prima e ci immettiamo nella direttrice principale. Di lì a poco il cammino si divide e c’è la possibilità di continuare a seguire la statale o di fare un cammino alternativo rimanendo più in contatto con la natura. Scegliamo all’unanimità il secondo e procediamo di buona lena fermandoci solo per pause tecniche alle fontane e per dare uno sguardo ognuno alle rispettive vesciche in via di guarigione. Ormai di fiato ne ho da vendere al punto che mi permetto di camminare di buon passo fumando beatamente. L’unico punto a nostro sfavore sembra essere il vento che da qualche giorno soffia in senso contrario alla nostra direzione. Personalmente la cosa non m’infastidisce più di tanto, ma capisco che per qualcuno può essere un problema. Di tanto in tanto veniamo superati da flotte di pellegrini pimpanti partiti all’alba da Leòn. Sono quelli fissati con il letto vero, che preferiscono partire alle cinque di mattina per non ritrovarsi la sera a dormire sul duro suolo.
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Mi fa un certo ché vederli circolare tutti in gregge, verso le dieci di mattina, a testa bassa come dei manzi, procedere verso la tappa di massa indicata dalla guida ufficiale che hanno in tasca. Per loro oggi sarà Villa de Mazarife a 21, 5 km da Lèon. Procedendo ad andatura normale solitamente si fanno sei chilometri all’ora, che, nel loro caso, significa non più di quattro ore di cammino. Partendo alle sei vuol dire che questa gente, ammessa una pausa colazione di almeno mezz’ora, prima delle undici sarà in coda di fronte alla porta dell’ostello e ci rimarrà fino all’ora in cui il rifugio verrà aperto al “pubblico”. Almeno tre ore con la testa sotto la pressa del sole per non perdere il posto. “Ci vuole coraggio...” Noi invece ormai abbiamo perso il giro delle tappe ufficiali e ci fermiamo dove capita, a metà strada tra una meta e l’altra, così da evitare la ressa. A Villar de Mazarife incontriamo la casa di un artista locale che, tra tronchi intagliati alla meno peggio e sculture fatte con le conchiglie di Santiago, si è creato un vero e proprio museo personale di souvenir a uso e consumo dei pellegrini. Commento a me stesso che è certamente meglio vivere come questo signore dal nome esotico di Mon Señor, che raffazzona artigianato di dubbio gusto facendolo passare come opere d’arte, piuttosto che fracassarsi i marroni cercando di farsi un nome tra le migliaia di agenzie di comunicazione‐marketing‐web che, da qualche anno a questa parte, sorgono tra il Veneto e la Lombardia come se fossero dei funghi prataioli. Mon Señor almeno, da queste parti, è l’unico sfigato e qualcuno gli darà pur retta. Lì invece di sfigati siamo una marea infinita e c’è sempre il più bravo o il più pirla, il cui padrino ha 179
più potere del tuo o è più bravo a piazzare stecche alle persone giuste, che riesce a lavorare senza rogne. “Ma andate a fare in culo voi, la vostra comunicazione di merda, le vostre tangenti del cucco che passano per consulenza professionale e il vostro ego‐marketing indecente...” Per un attimo penso di essere vittima di un’ennesima crisi di rabbia come quella di due giorni fa, ma per non rovinarmi la tappa metto a tacere tutto quanto spostando i pensieri oscuri verso i piedi. Dopo Villar paese passiamo davanti alla coda di pellegrini in lizza per il posto letto. Giuro a me stesso che non voglio ridere di loro, ma proprio quando sono di fronte alla porta del rifugio e do uno sguardo al primo della fila esplodo in una risata sarcastica vergognosa. Il tizio mi guarda con l’espressione di un caposcout provetto che chiede cosa ci sia mai da ridere. Incapace di gestire sia le convulsioni del mio addome che la voce strozzata allargo le braccia elemosinando comprensione, facendo capire al tipo che non so più che pazienza portare con me stesso. Ciavi mi guarda chiedendomi cosa sia successo al punto di farmi soffocare dal ridere. – È il dolore – commento in italiano – davvero insopportabile... E passo oltre la coda cercando di riprendermi. Fuori di Villar il cammino ripropone la stessa alternativa de La Virgen: o l’antico tracciato che segue la statale o il cammino alternativo che passa attraverso la vegetazione. Ovviamente la scelta va per la vegetazione. Fuori del paese si risente a pieno della presenza del vento che muove le fronde dei pioppi e crea numerosi vortici sui canaletti di irrigazione che costeggiano il sentiero. Il terreno che 180
calpestiamo è abbastanza piano e gradevole da attraversare. Verso tarda mattinata ci fermiamo a pranzare in un bar alimentari senza nome e controllando il display del cellulare scorgo un messaggio non letto. È Marilina, l’amica di Milano che nemmeno un mese prima mi aveva illuminato sull’esistenza del Cammino di Santiago de Compostela. Il messaggio dice che è partita da Saint Jean Pie de Port e sta procedendo verso Roncisvalles. Le rispondo indicandole l’albergo dove dormire se vuole evitare la prima calca di gente, ma non ricevo risposta. “Cara Marilina, se sono qui è solo grazie a te. Una vita di ringraziamenti non basterà a colmare il debito. Buen camino peregrina!” Quando riprendiamo la marcia mi coglie una strana stanchezza. Penso alla birra doppio malto che ho bevuto e al fatto che magari sta facendo il suo effetto sugli arti inferiori. Penso anche a tutta la nicotina che scorre nel mio sangue, al respiro che entra e che esce, al sudore che evapora e le piaghe sulle piante dei piedi che si stanno seccando. Un album fotografico di istantanee organiche mi avvolge l’interno degli occhi senza che me renda conto e mi sento catapultato nel mondo delle sensazioni. Tutto ciò che ho addosso pulsa, vibra e si muove. Non c’è nulla che rimanga fermo e stabile, che possa essere osservato dalla mia mente in maniera definitiva perché nel momento in cui provo a selezionare una specifica sensazione questa sfugge di mano diventando un’altra cosa, diversa dalla precedente, poi diversa ancora. È questa l’impermanenza dei fenomeni di cui parlava John Coleman? 181
È l’eterno mutare del flusso che deve essere osservato per comprendere la vera natura della realtà o c’è qualcos’altro che mi sfugge? Un senso di sconfitta da alunno che non stava attento alle spiegazioni mi pervade. Per fortuna ormai conosco l’antidoto per risolvere ogni tipo di guaio interiore: continuare a camminare. Faccio segno agli altri che ne ho abbastanza del bar e che c’è un ragno che sta facendo la tela tra la mia gamba e quella del tavolino, quindi è ora di muoversi. Il gruppo acconsente con gran calma e dopo circa una mezz’ora, per via la piscia di una, il conto da pagare dell’altro e le vesciche della terza, finalmente ci mettiamo in marcia. Il cammino continua controvento e la cosa toglie a tutti non poca energia. Il Vento, quando soffia oltre una certa velocità, ti fa fare il triplo della fatica. In questo caso devo modificare la mia classica posizione eretta e puntare la testa leggermente in avanti per acquisire una forma aerodinamica tale da procedere senza problemi. Però questo scatena un altro problema che, a differenza dei dolori muscolari o delle storte alle caviglie, è un non‐problema: il sibilo sulle orecchie. Yesss, il fischio del vento sui padiglioni auricolari sembra una stronzata, ma in realtà non lo è in special modo se devi camminare per ore e ore. Se lo prendi bene può anche favorirti perché ti dà il ritmo; ma se sei in un brutto momento – e ti dà fastidio tutto – hai voglia tu di fare quello che se ne frega…. Il sibilo del vento ti fa andare la testa in fibrillazione in un tempo brevissimo e se solo provi a cambiare posizione del collo per venirne fuori la nota di base cambia e vai ancora di più in confusione. 182
Così inizi a pensare cose del tipo: quell’altra nota mi piaceva di più, no è meglio questa. Questa ha un riverbero più alto verso la coda, l’altra era più grave quindi più adatta alla mia voce, o ancora: vuoi vedere che dipende da come sono fatte le mie orecchie? E se dipendesse invece dal cerume? E cose del genere. È come pensare di essersi dimenticati il gas acceso di notte e di non avere nessuna voglia di alzarsi per controllare, più o meno. A forza di procedere controvento arriviamo a Puente Hospital de Orbigo dove la guida dice essere un antico posto di ricovero per i pellegrini malati che trovavano in questa zona cure mediche o, se non altro, un luogo dove morire in santa pace. Entrando nella cittadina mi sento così svuotato dal vento che mi sembra di essere la mia radiografia animata. Passo il paese come un nottambulo, senza degnare cose, case e persone di uno sguardo. I ragazzi hanno voglia di fermarsi, ma io decido di proseguire per non perdere il ritmo. – Ci si vede a Santibañes, gli dico. «A despuès…» Quando sono nuovamente solo lungo il sentiero mi trovo a pensare a quanta fatica si faccia per trovare un equilibrio stabile in vita e nel confronto con le altre persone. La parte più cinica di me allora salta su dicendomi che ho di questi problemi perché evidentemente posso permettermeli, visto che non ho una famiglia da mantenere, una moglie da sopportare, ecc. ecc. Boh. Una volta un sensitivo al quale ho chiesto una consulenza mi ha detto che per andare bene dovrei fare come il cigno, ovvero spostarmi da una parte all’altra dello stagno lentamente, senza sollevare troppo fango dal fondo.
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Ricordo che mi è parsa una buona immagine, facile da tenere a mente. Peccato che nel mio caso, essendo lo stagno completamente colmo di fango, ho un certa difficoltà solo ad arrivare dall’altra parte. Figuriamoci se trovo l’acqua sul fondo. Per finire, come nelle migliori delle tradizioni, mi viene una di quelle crisi di pianto che mi sognavo da un pezzo. È evidente che la presenza delle persone mi mette in soggezione. Sai cosa ti dico? Che mi sono rotto le balle di questo tran‐tran mentale. Ma quanto manca ancora alla fine? «250 km, più o meno. Circa dieci giorni di strada». Nooo, it’s impossibile. Deve essere meno, molto meno. Mi do una settimana al massimo. «Fa come credi…» mi risponde la voce. Decido che più tardi quando vedrò i ragazzi gli farò questa comunicazione. O con me o senza di me. Tra un paio di giorni entriamo in Galizia, terra di Celti, di maghi e di forze misteriose. Non vedo l’ora. 22 Ho il vago ricordo di una sagoma scura che avanza dal buio della camerata e mi si pone davanti. Rimango impietrito in attesa che estragga il coltello e me lo pianti nel torace. Penso che posso ripararmi solo con il sacco dentro il quale mi trovo e che quindi sono perduto. Ma invece di accoltellarmi lo strano demone del buio bussa con le nocche della mano sulle mie ginocchia come se fosse un portone di legno.
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È a quel punto che mi sveglio e che vedo di fronte a me un vichingo di dimensioni apocalittiche che, con un inglese impeccabile tornito di accento tedesco, mi intima di smetterla di russare. Mi giro dall’altra parte scusandomi col mondo per l’incapacità di controllo delle mie effusioni notturne e prima di riaddormentarmi lo sguardo mi cade sul letto a fianco. È una pellegrina ossuta, vestita di bianco come Mortiria Adams in versione paradiso, ossuta e pallida quanto basta quanto per generarmi un profondo senso di ribrezzo per il genere umano. La ragazza dorme supina, con le mani all’altezza delle spalle e le palme rivolte verso l’alto come se qualcuno dall’alto le puntasse una pistola sulla fronte. Sono troppo rincoglionito dal sonno per rendermi veramente conto se ciò che vedo sia vero. Precipitando nel vortice di un nuovo sogno la immagino appartenere a qualche strana setta di catto‐folli che credono nell’elargizione di energia cosmica da parte degli angeli durante le ore di sonno. A svegliarmi un’ennesima volta sono i bastoni dei primi pellegrini che ticchettano nel suolo dell’alba. Ricado nel dormiveglia fino a nuovo ordine, svegliandomi definitivamente tre ore dopo, a rifugio ormai deserto. Scendo dal letto a castello facendo attenzione a non schiantarmi di sotto. Ciavi dorme beatamente e gli sussurro che è ora. Mi guarda da dentro il grumo di barba e capelli che, da quanto è folto, un giorno di questi finirà per farlo scomparire. Le ragazze sono già in piedi e fanno strane ginnastiche portandosi una gamba tesa dopo l’altra dietro la nuca. Arrancando verso il bagno per pisciare l’ultima birra del giorno
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prima penso che se provassi a fare io una cosa del genere dovrebbero portarmi a Santiago in barella. Dopo i vari riti di piegatura e accartocciamento degli indumenti dentro lo zaino sono pronto per partire verso la colazione. Ma trovare un bar aperto alle nove di mattina in Spagna non è cosa da poco. Esco dal paese bestemmiando in tolemaico per queste usanze tribali degli ispanici di andare a letto tardi e di alzarsi a mattina inoltrata. Scandisco il territorio con lo sguardo per vedere un’insegna che mi parli dell’alimento liquido che più adoro prima di ogni mezzogiorno. Mentre faccio questo, con mio sommo stupore, scopro che sull’orizzonte di Santibañez si staglia una montagna. Che roba è? Sono i Montes de Leòn di cui parla la guida che, evidentemente, la sera prima non avevo notato. Sollevo la questione a Ciavi commentando ch’era un pezzo che non si vedevano montagne così alte all’orizzonte. Il ragazzo annuisce e dice che oltre quelle colline c’è la Galizia, quindi tra un po’ si inizia a salire. – È già… Anche questo nuovo giorno quindi si presenta duro e carico di insidie. Mi viene in mente una cosa che ho letto in un rifugio qualche decina di tappe or sono: cada dia tiene su pena o una cosa simile. Ogni giorno ha la sua pena. – Mazza se è vero… Posso sopportare intere notti insonni o impregnate di incubi sanguinolenti, ma non sopporto l’idea di mettermi in moto al mattino senza caffè. 186
Proprio non ci riesco, mi spiace. So che è una di quelle cose che dette da un adulto non fa tanto bella figura, ma non ci posso fare niente. Prima del primo caffè (e a volte anche del secondo) sono un vero e proprio incapace. Però la fortuna che mi accompagna in questa esistenza è così grande che prima ancora di finire il pensiero mi trovo di fronte a un’insegna di bar aperto. – E vai, porca troia, evvaaai!!! Vorrei lanciare in aria il bastone da quanto sono felice. Ci vuole poco a volte per rendermi raggiante, basta solo l’idea di un caffè e di una sigaretta in coda, pensa te… Per aver resistito così a lungo me ne sparo subito due, uno dietro l’altro. Uno lungo e uno corto. Il lungo, il corto e il pa‐cioc‐cone Sono tre bravi cow boyyy Non usano mai le pistole Perché lo sceriffo non vuole… Bei tempi i primi anni settanta, eh? Va detto comunque, che il caffè spagnolo rispetto a quello italiano fa letteralmente cagare. Possono menarcela quanto vogliono, ma tostarlo, macinarlo e servirlo come lo facciamo noi in un qualsiasi bar di periferia non ce la faranno mai. Poi c’è da dire che anche in Italia, specie alla mattina presto, ci sono certi bar che fanno un caffè che fa fastidio ai sassi. Si dice dipenda dal fatto che la macchina non ha ancora lavorato abbastanza, ma a me sa tanto che in realtà i primi che vengono fuori usano l’acqua calda che è stata ferma nei tubi tutta la notte
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scrostando ossidi di zinco in quantità, che è esattamente quel componente che miscelato alla polvere scura ti fa dire: – Però, fa proprio schifo ‘sto caffè… Alla mattina sono talmente subdolo e senza carattere che se me lo colorassero di scuro e lo mettessero in una tazza con su scritto caffè mi berrei anche del piscio senza accorgermene. Fuori del bar e dopo il consueto “passaggio a Ponente” (cioè i cessi dei bar spagnoli che, chissà perché, mi pare diano sempre a Ovest) aspetto i ragazzi concludere i loro rito di purificazione giornaliera per poi partire davvero. Ci si incammina, una volta tanto, di nuovo controvento; ma essendo belli carichi di energia è come se quella spinta contraria non ci fosse. Le gambe ormai tengono anche le velocità sostenute, anzi in certi casi le chiedono a gran voce! E così marciamo come dei treni verso le montagne che abbiamo dinnanzi, percependo la presenza di Santiago avvicinarsi. Sentendo i ragazzi canticchiare filastrocche spagnole sconosciute mi torna in mente in un colpo solo tutto il repertorio di Angelo Branduardi che ascoltavo quando avevo tredici anni. E così, da solista stonato quale sono, inizio a competere con il trio ispano. Sono io la morte‐te‐te E po‐ò‐rto corona Io sono di tutti voi tun‐tun Signòra e padrona E sotto la mia falce il capo tu dovrai chinare E dell’oscura morte al passo andare!
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I ragazzi si ammutoliscono e mi guardano con gli occhi sgranati. «Que es?» – Ma come che es? Angelo Branduardi che es, il più famoso pirata di riff medievali degli anni 70. Altro che Napster… «Que lindo – fa Andere – cantala de nuevo por favor…» Sì de nuevo, un corno. Paganini non ripete, non si usa in Spagna? – Te ne canto un’altra, ascolta: Se viene la sera compagno non avrai da solo farai la tua strada e allora la prima sarà la faina verrà per portarti paura… Se non la fuggirai sorella ti sarà È lei che davvero conoooosce Il passo segreto che il fiume conduce Per il tuo corpo un riparo sicuro. Ciavi allora nella sua proverbiale schiettezza dice: «Vaffonculo italiano di mierda, perché cazo canti cantione di iglesia a questa haora de la mañana???» – Macchè canzone di iglesia Ciavi, questo è Angelo Branduardi zio lupo! Possibile che qui in Spagna siate così ignoranti che non sapete chi sia? Poi però penso a quello che ho appena detto e correggo il tiro dicendo che neanche in Italia si conosce più tanto. Era famoso trent’anni fa, soprattutto per via dei capelli da Napo Orso Capo e il violino. Ma non credo proprio che le nuove generazioni sappiano chi sia…
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«Me gusta veramente mucho! – insiste Andere – Inseñame la primera por favor…». E così mi metto a insegnare a una rappresentanza delle regioni autonome più produttive dell’intera Spagna, Morte in Fa Diesis Minore o come cacchio si chiama la ballata di Branduardi. Le menti dei miei amici sono giovani ed elastiche e imparano la filastrocca in italiano nel giro di un quarto d’ora. Così, nelle tre ore successive di cammino ci troviamo a ripetere la stesse due strofe un centinaio di volte, come bambini mai contenti, usando come ritmo di base chi il battito delle mani chi la punta del bastone al suolo. Sono io la morte‐te‐te E po‐ò‐rto corona Io sono di tutti voi tun‐tun Signooora e padrona E così sono crudele così forte sono e dura Che non mi fermeranno le tue mura! Sei l’ospite d’onore nel ballo che per te suoniamo Posa la falce e danza tondo a tondo Nel giro di una danza e poi un’altra ancora E tu del tempo non sei più signora. Cantando Branduardi in forma così ripetuta, come se fosse un mantra, mi viene automatico pensare al significato recondito del testo. Nel giro di una danza e poi un’altra ancora e tu del tempo non sei più signora. Mi ricorda molto il processo della reincarnazione caro all’oriente, che vede nell’interruzione del ciclo infinito di
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rinascite il raggiungimento di uno stato di beatitudine senza tempo. Non so se Branduardi si intendesse di queste cose (anzi sua moglie, perché mi sembra di ricordare fosse lei a scrivere i testi delle canzoni), ma di certo questa citazione è piuttosto orientata verso quelle parti. Beh, ci ho messo solo ventitre anni a capirlo, mica male per uno che potrebbe non avere una vita sola... La mattina trascorre in mezza salita e discesa, senza particolari problemi a parte il soffiare imperterrito del vento in senso contrario. A un certo punto una discesa più ripida delle altre ci mostra la città di Astorga in lontananza. Sorridiamo contenti con la bocca ancora piena di suoni e ci fermiamo a fumare. Dopo meno di un’ora Ciavi e io entriamo in Astorga, trottando sulle ginocchia come cavallerizzi. Marta ha deciso di fermarsi ad aspettare un pellegrino di Maiorca, che le piace particolarmente, che arriva da dopo Leòn e Andere non ne vuole sapere di abbandonare la sua amica. Per la strada incrociamo Mauro di Cuneo che zoppica ed è visibilmente dimagrito dall’ultima volta che l’ho visto ad Atapuerca. La cosa mi fa un certo effetto perché Mauro è un ragazzo prestante e ben allenato. Ricordo che diceva di venire da un posto di montagna e di essere abituato a fare lunghi percorsi montani. Tra l’altro era l’unico del mio flusso che osservavo camminare con due bastoni, come i trekkisti veri. – Che cosa ti è successo? Racconta di essere stato non bene in meseta, a causa dell’acqua bevuta o del sole. Per un paio di giorni è stato male forte, con
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febbre alta e vomito. Dice anche che Martina è stata peggio e che ha dovuto fermarsi in un ospedale per fermare la febbre. Mauro è appena uscito da un ambulatorio medico specialistico dove si è fatto visitare per via di una prominenza che gli è cresciuta sull’inguine. – Sarebbe? «Una ghiandola che si è ingrossata, devo prendere una serie di antibiotici». Ci mostra la scatola di farmaci che ha in mano. Gli chiedo se ha intenzione di procedere o fermarsi. «No, vengo avanti – risponde – Con calma». Ci salutiamo da pellegrini augurandoci rispettiva buona sorte. Più avanti mi fermo a osservare l’esterno di un capolavoro architettonico di inestimabile bellezza: El Palacio Espiscopal di Antonio Gaudì. È una costruzione che appartiene più a una fiaba dei fratelli Grimm che alla realtà attuale. Il palazzo ospita il museo dei Cammini, ma non si può visitare perché è chiuso. Nella guida leggo che Astorga significa Austurica‐Augusta e che in passato fu un importante asse di comunicazione dove la via Traiana si incrociava con quella de la Plata. La Berti dice inoltre che ad Astorga c’è una chiesa dedicata a Francesco d’Assisi in onore del suo illustre passaggio verso Santiago. Una parte di me vorrebbe mollare armi e bagagli e andare a visitarla subito, ma in quel momento la cosa più importante è trovare un bar decente dove mangiare qualcosa e poi riprendere il cammino. Propongo a Ciavi di fare un giro veloce nel fresco della cattedrale che si innalza proprio di fronte al Palacio Episcopal, tanto per dire a noi stessi che abbiamo fatto qualcosa di culturale anche per quel giorno. E così ci trasciniamo dentro. 192
Mentre la stiamo circumnavigando dall’interno al mio compagno viene l’iconoclastica bella idea di bagnarsi il ginocchio destro con l’acqua benedetta di un grande acquasantiere di marmo rosa, nel tentativo gli passi un dolore pungente che si porta dietro da molti giorni. Sfortuna vuole che mentre sta facendo questo rito propiziatorio uno degli inservienti della chiesa si accorge della questione e gli si aizza contro con una violenza verbale inaudita. «L’acqua santa non è per lavarsi! – gli urla in castigliano stretto – vergogna!!!» Ciavi, che di suo è un ragazzo pacato e tranquillo, gli risponde che non stava lavandosi, ma che cercava di benedire il suo male al ginocchio. L’inserviente però non vuole sentire ragione e continua a brontolare, insultando «questi pellegrini miscredenti che ci sono in giro». «Statevene a casa vostra, cosa venite a fare qui?» Ciavi è risentito per l’aggressività di quel tizio e gli verrebbe da rimanere a questionare. – Assa perdere – gli raccomando nella mia lingua madre – Vamos andando catlà… «Coño que puta madre de hombre…» borbotta l’amico uscendo dalla chiesa. L’esclamazione di Ciavi mi fa sorridere, più che altro per il tono. «Coño…», la pronuncia esatta per un italiano è “cogno” e significa letteralmente “figa”. In Italia, l’esclamazione che va per la maggior per definire qualcosa di preoccupante e di non sempre bello è “cazzo”; in Spagna invece è il contrario: “coño”. Non si capisce perché, ma da loro la vagina è maschile (el coño), mentre l’organo genitale maschile è femminile (la poja). 193
E poi usano el coño per definire tutto ciò che di negativo ci può essere in giro, mentre noi quando diciamo “fiiiga”, alla milanese, intendiamo definire qualcosa di superlativo. Penso che questa loro usanza sia dovuta al macismo che ha regnato per molto tempo; ma se devo essere sincero l’idea non mi convince del tutto. Ovviamente è uno di quei problemi che se anche non risolvo immediatamente sto bene lo stesso, però il fatto di parlarne col mio compare sortisce l’effetto di alleggerire l’incazzatura che si porta dentro per via dell’acquasantiere. Quindi entriamo in un bar che sta all’uscita del paese per mangiare un bocadillo con jamon y una cerveza por favor. I bocadillos spagnoli hanno un ché di inverosimile. Sono filoni di pane da mezzo metro con dentro praticamente solo mollica. Mangiarne uno intero è come ingoiare un mattone di tufo e, il più delle volte, una sola birra non basta ad alleggerire il carico. Però me la faccio bastare. Nella mia ingordigia di sensi‐dipendente per fortuna ho delle regole che mi trattengono dall’eccedere. Per esempio, a parte quella di fine giornata, mai birra o alcolici a stomaco vuoto o senza accompagnamento di cibo. Nel caso dei superalcolici, se posso li assumo solo dopo le nove di sera e al massimo medio chupito, cioè una mezza dose. L’unico vizio pesante che mi ritrovo, vabbé, sono le sigarette la cui regola è mai più di un pacchetto al giorno. Sono anni che cerco di abbassare questo limite, ma per una cosa o per l’altra lo standard rimane sempre quello. La mia dipendenza da nicotina nasce alle scuole superiori. Da ragazzini si fumava così, per gioco. Mentre le ragazzine si truccavano la faccia da pipistrelli per dire al mondo che erano diventate delle donne noi, per lo stesso motivo, si fumava per 194
dire al mondo che avevamo le balle che fumavano dalla voglia di provare sensazioni. Stessa cosa. Poi quel vizio però prende altre forme, con somma gioia della psicanalisi che traduce il filtro in capezzolo, il fuoco in rabbia, il fumo in bisogno di leggerezza e l’atto di fumare in sé in una forma di suicidio controllato. Che dicano quello che vogliono, alla fine si tratta di una dipendenza chimica, come lo è quella dal caffè, dagli psicofarmaci o da qualsiasi altra droga. Sono dell’idea però che i vizi peggiori sono sempre quelli che non si vedono, ma che di questi tempi sono piuttosto ben visti dai controllori sociali. Parlo del vizio di accumulare denaro e ricchezze materiali alla Paperon de Paperoni, del vizio del superare gli altri, del sesso sporco, del potere. Per i vizi di questo tipo non c’è un ministero della sanità mentale che ti diffidi da farne un uso incontrollato perché il cancro all’anima non è ancora stato riconosciuto dalla scienza medica come peste universale. Chi controlla gli sms dei nostri telefonini o i tracciati delle nostre carte di credito non gliene può fregare di meno che tu hai il vizio di rubare tasse allo Stato per favorire te stesso, perché quella è una cosa gestita più che altro dalla legge morale e di tanto in tanto dalla Finanza. A chi monitorizza la tua vita privata non interessa certo sapere se con la tua arroganza ti strafreghi degli altri e vivi sodomizzando i tuoi subalterni per gratificare il tuo ego fetente. A loro basta demonizzare la sigarettina, facendoti credere che tutti i cancri del mondo dipendono da quell’andare e venire di fumo caldo nei polmoni. Certo, è ormai provato che buona parte delle malattie polmonari, alla gola, al colon, eccetera, dipendono dal vizio del fumo e tutti noi faremmo bene a smetterla, ma tutti quei cancri inspiegabili che spuntano nel circondario di Mestre e 195
Marghera? Tutta quella gente che schiatta di leucemia per aver abitato due anni a fianco di un paio di piloni dell’Enel? Perché non scrivete sulle portiere delle automobili «nuoce gravemente alla salute (degli altri) »? Ovviamente perché il “vizio” di chi governa queste cose è il business e al business non si comanda, vero Ciavi? «Of corse» mi risponde il compare. O‐f‐c‐o‐r‐s‐e, naturalmente senza la u. La strada che ci conduce via da Astorga è in discesa e dopo una lunga spianata di ghiaia bianca costeggiata da alberelli minuti siamo di nuovo immersi nei campi coltivati. Per arrivare alla fine della giornata mancano ancora più di venti chilometri. «Caminare peregrino, caminare…» In tarda serata arriviamo alle porte di Rabanal del Camino che è un paesino medievale che conta cento abitanti e due rifugi attivi. La salita che conduce al centro del paese è massacrante per le mie gambe provate da trentacinque chilometri di terra ghiaiosa. Arranco sul porfido bollente accusando vertigini. Vorrei inginocchiarmi in mezzo alla strada e lasciare che il cuore mi esploda fuori dalle orecchie. Gli ultimi metri sono sempre i peggiori. Ho la testa in confusione e una certa difficoltà a controllare il respiro. Ciavi si è fermato a riposare più indietro. Anche lui è a pezzi. Da Astorga in poi ci abbiamo dato giù di brutto con l’andatura, poche parole e quasi nessuna pausa. “Potrei anche morire…” Avanzo di un millimetro alla volta, imprecando per il fatto che i rifugi sono sempre dalla parte opposta del paese. 196
Sento la vescica urinaria corrodersi dall’interno e gonfiarsi occupando lo spazio degli altri organi. Ormai sono dentro al paese e non posso permettermi di farla dove capita, anche se la tendenza sarebbe di fregarsene e pisciare sul muro faccia a vista di una delle abitazioni. Decido di fermarmi un minuto a respirare sotto il quadrato d’ombra che la tettoia di un portoncino proietta sulla strada. Alzo gli occhi dal porfido per vedere dove sedermi e lo sguardo mi cade su un cartello bianco appeso al muro di una casa. Vendo piso. La risata che mi esce è quasi un pianto. Mi inginocchio su me stesso nei convulsi e rido per quanto ho appena letto: vendo piso… “Piso” in castigliano significa “appartamento” e si pronuncia con la s sonora. In dialetto padovano “Piso”, pronunciato in quel modo significa appunto piscio, urina. E con la pisciata in canna di dimensioni oceaniche che mi ritrovo, la stanchezza che ha messo k.o. tutte le mie riserve di controllo, leggere quel cartello sortisce l’effetto di farmi crollare in ginocchio a ridere e piangere nello stesso istante di tempo. In altri contesti l’avrei considerata una semplice stupidaggine, ma in questo caso l’evento mi catapulta in uno stato di ebbrezza incontrollata. È incredibile come in certi casi il Disegno ti prenda per il culo alla grande. Perché, non posso non pensare che dietro a un affare del genere non ci sia un Disegnatore che si diverte come un matto a giocherellare con i limiti di questi poveri esseri umani mortali. 197
“Vendo piscio”, ma pensa te… Ciavi mi raggiunge che sono in uno stato di catalessi ridanciana. Ma sono anche troppo esaurito per spiegargli tutta la questione. Ci trasciniamo come dei lombrichi verso il rifugio El Gaucelmo, gestito dalla confraternita inglese di Saint James. Il luogo è rustico e molto accogliente, ma stracolmo di pellegrini. Quindi raggiungiamo il secondo della serie, privato, che sta all’uscita del paese. Fortuna vuole che ci siano ancora delle brande libere. Mi fiondo automaticamente verso Ovest per incontrare il bagno e svuotare la cambusa. A operazione terminata esco con il sorriso idiota di “quello che ce l’ha fatta”. Da questo momento in poi mi si installa nella mente un nuovo desiderio impellente che, per certi versi, ha più che altro le caratteristiche di una necessità del tutto umana: bere una birra. Il rifugio è gestito da una coppia giovane e super organizzata, che offre ai pellegrini comidas di ogni natura, ovviamente a pagamento. Mi rilasso su di una panca di legno, allungando le gambe al sole e mettendomi a torso nudo. Un tizio di Madrid mi si avvicina per chiedermi cosa significhi il tatuaggio che ho sulla spalla. – È un pellegrino – gli dico ridendo. Il mio accento scioglie ogni dubbio sulla mia provenienza e l’uomo insiste nell’avere ulteriori informazioni sul disegno, sciorinando un italiano corretto. – Parli bene – mi complimento. «Ho vissudo tre anni arroma per studiare mediscina…» – dice lo spagnolo. 198
– Arroma eh? Se sente… Gli racconto che il tatuaggio che ho sulla spalla è un ideogramma presente in forma microscopica in una delle statue dell’Isola di Pasqua. Il significato preciso non lo conosco, ma è la stilizzazione di un uomo che cammina con le braccia che sembrano abbracciare tutto il creato e le mani aperte per toccare quello che incontra. Dalla testa del soggetto, quasi fosse un’antenna di trasmissione, partono una serie di raggi concentrici che vanno verso all’esterno. – È un pellegrino – ripeto – solo quello. «Bello – commenta il tizio – Becché vai a Santiago?» Ecco, ci risiamo. La solita domanda di sempre. Perché vai a Santiago. Cacchio ne so perché vado a Santiago? Boh. – E tu perché ci vai? Lo spagnolo si aspetta questa contro domanda. Anzi, sono portato a pensare che mi abbia fatto la richiesta non tanto per sapere i miei motivi, ma per avere l’occasione di divulgare i suoi. Un giro largo con effetto garantito. – Allora? Percepisco nei suoi occhi una strana luce folle, oscurata da un sorriso saccente che mi sta sui coglioni. «Mortificazione…» risponde con una certa enfasi. Ho già visto quello sguardo in certe facce, non solo nel corso del cammino, ma anche sotto i portici delle mie parti. Sono i cattolici fondamentalisti delle nuove generazioni. Quelli che frequentano le messe di guarigione di certi preti‐guru. Ho sentito dire che la velleità di questi gruppi è quella di portare avanti la tradizione del cattolicesimo più esoterico. Non entro nel merito dei loro riti, che non conosco. Ma basandomi sulle due o tre persone che ho conosciuto di quel giro, devo dire che
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l’impressione è di avere davanti dei soggetti “fuori” come parabole – nel senso più antennistico del termine. Il tizio che ho davanti inizia con una predica sul «motivo reale del pellegrinare cristiano» che poi trascende automaticamente sulla «diversità del messaggio cristiano rispetto agli altri» e che finisce, com’è logico che sia, sulla verità «superiore del cattolicesimo rispetto a tutte le altre religioni». Fin dall’inizio della tirata tengo d’occhio la porta delle docce per vedere uscire Ciavi. E quando il mio sguardo intercetta in lontananza il cespuglio di barba dell’amico catalano, colgo l’occasione per porgere cordiali saluti e svignarmela. – Buen camino peregrino. Il tizio rimane ghiacciato per la mia violenta interruzione del suo discorso. Adesso mi squadra in malo modo senza commentare e dal riverbero del suo sguardo credo di percepire il pensiero che sta facendo nei miei confronti: «Tu non sei degno di ricevere il messaggio della vera verità». Evidentemente no, penso di rimando. E mi allontano. Più tardi ci raggiungono le ragazze che, non si sa come, riescono a trovare due brande libere. “’Ste donne…” Veniamo a sapere che nella chiesa di Rabanal sta per iniziare una funzione in favore dei pellegrini, sostenuta da un coro che canta in gregoriano. Con Ciavi decidiamo di andare a dare un’occhiata, ma la cosa risulta fin da principio una palla. Così, come siamo entrati ne veniamo fuori. Più tardi vado a cena da solo nell’unica trattoria del paese, mentre i ragazzi mangiano al rifugio.
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Il menu è costituito da un ricchissimo piatto di lenticchie di primo e pollo con patate fritte di secondo. Da bere, neanche a dirlo, vino tinto di rosso. Come si dice da qualche secolo a Venezia: l’aqua fa marsire i paii e da questo punto di vista non posso che dar ragione alla tradizione. La cena mi sembra ottima e dopo la consueta microdose di anice me ne ritorno al rifugio con le gambe che vanno per i fatti loro. So che non sono i muscoli che si stanno rilassando, ma il mix esplosivo dei due alcolici che ho appena messo in circolazione. Mi addormento dopo arguti ragionamenti sul senso della vita, con un hospitalero brasiliano di nome Jordi. Domani ci aspetta la salita de la Cruz de Hierro e io voglio essere pronto. 23 Stamattina il problema colazione non sussiste. Gli efficienti titolari del rifugio preparano comidas a destra e manca perché i pellegrini bisogna prenderli quando ci sono. Mi alzo abbastanza presto rispetto alla norma, perché so che la salita che ci aspetta richiede un certo tempo. Le ragazze se la dormono alla grande e le saluto con lo sguardo nel buio della camerata. L’accordo è che ci incontreremo strada facendo o, al più tardi, al rifugio di fine tappa. Ponferrada. Fuori il sole non è ancora sorto e soffia una certa brezza gelida, perciò mi attrezzo con il maglione di Katia che ho nello zaino. Ciavi è fisicamente presente, ma è come se stesse ancora dormendo. Ci svegliamo entrambi definitivamente appena fuori paese, quando la pendenza della direttrice inizia a farsi sentire. Nel 201
momento in cui scocca l’alba faccio una sosta tra i cespugli per rimettere in gobba il maglione e accendermi una Marlboro rossa. Fumare in salita alle sei di mattina è il massimo del salutismo, posso assicurarlo. I polmoni aperti come ali di colombe e la lingua che sembra una spugna. Della serie: facciamoci del male serio una volta tanto. Non si sa come, ma dopo un po’ ci raggiungono le ragazze che nel frattempo si sono alzate e messe in moto. Procedono in fila indiana a un’andatura che io e Ciavi ce la sognamo. – Cazzo correte a fare? Col ghigno malefico le due spagnole ci sorpassano senza degnarci di uno sguardo perdendosi, nel giro di qualche minuto, attraverso la folta vegetazione. – E poi vuoi dirmi che le donne non hanno una piegatura nel cervello? «Ahhh – controbatte Ciavi – stan loche, eh?» – Loche da ricovero – commento. Una volta immersi nelle alture dei Montes de Leòn arriviamo in quello che la guida Berti definisce uno dei luoghi più emblematici del Cammino. Si chiama la Cruz de hierro, la croce di ferro, e non è altro che un palo molto alto di legno sopra il quale è posta una piccola croce di ferro che guarda in direzione di Santiago. Attorno al palo si è formata una montagnola di sassi lasciati giù dai milioni di pellegrini che sono passati per quel punto nel corso dei secoli. Secondo l’usanza, mettersi alla base della montagnola dando le spalle alla croce e lanciare un sasso all’indietro associando al gesto un desiderio, fa sì che questo si avveri.
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Sulla Berti leggo che la croce fu eretta da un eremita del 1100 di nome Gaucelmo sullo stesso punto in cui anticamente sorgeva un altare dedicato a Mercurio. Ragionando su questo fatto penso che la Chiesa, in fondo, per installarsi così radicalmente nel territorio come ha fatto in questi ultimi duemila anni non poteva fare altro che sostituire le sue chiese ai templi già esistenti, trasformando gli antichi simboli con i suoi e di conseguenza modificandone i credo. Il giorno di Natale non era l’antica festa “pagana” del solstizio d’inverno che inneggiava alla ricrescita della natura? E quando poteva nascere un Salvatore se non alla fine di un inverno spirituale come quello creato dai romani? Peccato che i cosiddetti pagani, per molti versi, fossero più spirituali di quanto ce la vogliano raccontare. Adorare le forze della natura e sacrificare azioni ed opere ad essa non è una cosa poi tanto differente dalla ritualità cristiana. Comunque, dopo il lancio del mio sasso sento che qualcosa mi si muove dentro. E senza chiedermi due volte se si tratti dell’efficacia del rito o di qualcos’altro, mi inoltro nel bosco di cespugli, a Ovest, per dare seguito al rito pagano di purificazione mattutina. Ritorno in sede trotterellando, offrendomi come sentinella degli zaini e dando il cambio a Ciavi. Quando ritorna dal suo viaggio nella terra promessa il catalano commenta: «Me cago en la lece que sitio de mierda total...» In effetti, a un tiro di schioppo dalla collinetta di sassi della Cruz ce n’è un’altra che, al posto dei desideri dei pellegrini, ne contiene i pezzi. Dopo la terza Marlboro della giornata sono pronto a ripartire.
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Do un ultimo sguardo al paesaggio che mi sono lasciato indietro dall’inizio del viaggio, perché so che una volta sceso dall’altra parte non potrò più rivederlo. Penso alle ragazze che con quell’andatura saranno ormai arrivate ad El Acebo e forse anche oltre. – Vamos hermano? «Vamos italiano» mi fa rima il compare. Procediamo per qualche centinaio di metri fino a incontrare il rifugio di Manjarìn che la guida dice essere di ispirazione templare e gestito da un personaggio caratteristico di nome Thomàs. Un piccolo nucleo di persone sosta sotto la tettoia di una catapecchia sul bordo del sentiero e ci avviciniamo seguendo il suono di un campanaccio. C’è un uomo dall’aria disordinata che indossa un mantello bianco con impressa sul dorso una croce di Malta rosso fuoco. Quando ci vede ci fa segno di venire avanti e di prendere parte alla funzione. L’uomo ha la barba incolta e occhiali dalla montatura grossa con dentro lenti spesse come microscopi; capisco si tratta del caratteristico Thomàs di cui parla la guida. Il personaggio impugna uno spadone medievale e recita solennemente un salmo mezzo in latino e mezzo in castigliano. Con la punta della spada benedice certe croci appese su di un pannello di legno scuro. Ad accompagnarlo nel rito ci sono due ancelle di mezza età col volto dipinto da principesse egiziane e l’aria da fricchettone dal cervello bruciato. La scena è piuttosto assurda perché il trio sembra fuggito da una comica sugli hippy degli anni che furono. Thomàs appoggia la spada al suolo e si dà da fare con un batacchio. Il suono del campanaccio rimbalza sulla lamiera della catapecchia e ci rintrona tutti. 204
Non so dire se assistere a quella scena mi riempie più di gioia o di tristezza. C’è qualcosa di maledettamente fuori tempo in quel luogo. Qualcuno che si è fatto un male serio giocando coi soldatini dei monaci templari. La preghiera si conclude invocando il nome dell’arcangelo Gabriel, perché protegga i pellegrini diretti a Santiago e porti in Terra Santa un messaggio di pace. Dopodiché Thomàs si trasforma da monaco templare in venditore di souvenir fatti in legno e le ancelle distribuiscono una bevanda fumante che non ho il coraggio di accettare. Il tutto avviene nel bel mezzo di un concerto di galli e galline, un belare di capretto poco distante e un odore impregnante di pollaio. Ce ne torniamo sul tracciato senza dire una parola. Tra me e me penso che di suonati, il mondo, ne lascia circolare parecchi; ma se proprio devo scegliere preferisco che spargano in giro crocette francescane e messaggi di pace, piuttosto che leggi‐ fregatura o bombe all’uranio impoverito come ci stanno abituando a vedere giorno dopo giorno. Poco prima di El Acebo incontriamo un’insegna pittoresca che indica la distanza mancante da Santiago: 222 chilometri. El Acebo è un villaggio che ricorda molto i fumetti di Asterix. Nell’aria c’è un odore costante di letame e tra una casa e l’altra sostano dei covoni di fieno a forma di campana. Attraversato il villaggio il cammino scende ripidamente verso valle immettendoci su di un sentiero sassoso piuttosto irto e impegnativo. Devo fare attenzione per via della scelta fatta a Zubiri di usare i sandali da trekking anziché gli anfibi della polizia belga. Infatti le mie caviglie sono libere da sostegni e il rischio di prendermi una slogatura è piuttosto alto. 205
In breve tempo scendiamo di molte decine di metri e arriviamo a Riego de Ambros dove il cammino prosegue sull’asfalto e le mie caviglie si mettono in pace. Da questa parte dei Montes de Leòn il paesaggio sta visibilmente iniziando a cambiare. Il verde sembra leggermente più verde e in lontananza il cielo è cosparso di cumulonembi grossi e scuri. «Porchè Galissia tiens on monton de arbores» osserva il catalano. Al paese successivo ci fermiamo a mangiare un’insalata piena di tutto e a spararci una birrozza in gola. Delle nostre compagne di viaggio però nemmeno l’ombra. Il giorno poi prosegue un passo dopo l’altro simpaticamente, perché la strada d’asfalto non è più di tanto trafficata e l’aria è più fresca. Alla sera arriviamo a Ponferrada, la città dei templari, osservando le guglie dell’enorme castello che ha reso famosa la cittadina. Seguendo la freccia in direzione del rifugio mi prometto di venirlo a visitare dopo la doccia. L’albergue Nicolas de Flüe si trova vicino alla chiesa del Carmen ed è nuovo di zecca e zeppo di inquilini. In entrata osservo decine di pellegrini immergere i piedi disastrati su di una fontana circolare. C’è un grande giardino tempestato di indumenti ad asciugare e una squadra di hospitaleri organizzati di tutto punto. Un uomo in piazza totale ci fa strada lungo i corridoi dello stabile, ma quando siamo quasi arrivati alle brande a noi destinate incrociamo Marta. «Hola peregrinos!» La ragazza ha il solito sorriso stralunato da adolescente e i capelli gocciolanti. 206
Ci dice che ci hanno tenuto un paio di posti liberi nel “castello” sopra di loro. Ci accordiamo con l’hospitalero per il cambio di destino e Marta ci conduce fino alle brande. «Andere no sta bèn… » fa sapere in catalano all’amico Ciavi. Chetal? Sembra che la ragazza, nella fatidica discesa dopo El Acebo, si sia slogata una caviglia e adesso è tutta gonfia. – Merda… Raggiunti i letti a castello smontiamo gli zaini gobba e srotoliamo i sacchi. Andere è a farsi la doccia e non è chiaro come stia. Il fatto che cammini però è già un buon segno. «Ya…» Mi rilasso una decina di minuti disteso sul letto al secondo piano e mi guardo attorno. È uno stanzone molto grande interrotto ogni tre metri da colonne di cemento. Ci saranno almeno un centinaio di letti a castello, quindi il doppio di pellegrini. Osservo l’esercito di persone indaffarate salire e scendere dalla brande, riversarsi verso i locali delle docce o ritornare con un bagaglio di indumenti asciutti o da lavare. Sembra di essere all’interno di un formicaio dalle parti del tramonto, dove ognuna delle formiche si prepara autonomamente il proprio spazio di riposo in funzione della notte che sta per arrivare. “Ma quanta gente c’è che fa sta roba del cammino?” Il cammino di Santiago in questi ultimi anni è diventato un fenomeno di massa grazie anche a pubblicazioni come quella di Coelho, che hanno contribuito a dipingere la facciata delle chiese di una magia non necessaria. Il libro di Coelho io non l’ho letto. Non ci sono riuscito. Sono arrivato a pagina sei e mi è sembrato una stronzata, così l’ho
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lasciato perdere. L’ho comprato il giorno dopo aver deciso di partire quando sono andato in libreria per dotarmi della guida. In quel poco che ho letto però mi ha ricordato molto un altro libro della serie, quello dei “Celestini”, molto apprezzato da quei cattolici che vogliono sentirsi un po’ alternativi. La stessa cosa. La realtà è che in fatto di spiritualità nessuno di noi sa più dove sbattere la testa (o, ammesso esista, l’anima). Nonostante il mercato offra un’ampia varietà di credo da interiorizzare e in giro vi sia un proferire di fedi più o meno colorite a cui affidarsi, sono davvero poche le filosofie che rispondono alle domande per le quali tutti vorremo una risposta. Una tra tutte: ma poi cosa c’è? Alla fine non resta altro che scivolare verso questa o quella scuola di pensiero che ci sembra sia la più adatta al nostro percorso personale; quella che, senza tirare troppo in ballo i nostri errori, né richiederci più di tanto sforzo, ci permette di salvare capra e cavoli, conservando i pezzi giusti della fede dei nostri genitori (non facendo sentire in colpa né noi né loro) e permettendoci di vivere alimentando i nostri desideri materiali di ricchezza, piacere e bellezza. Che senso avrebbe la vita se il nostro Ego non potesse contare su questi tre alimenti fondamentali? Nessuna. Ed è proprio questo il problema, le fedi che propinano i media o che ci inducono a credere le istituzioni ufficiali e meno ufficiali, non sono dei credo destinati alle nostre persone, ma ai nostri Ego. Abbiamo avuto la bella idea di destinare ogni nostra risorsa a questo “personaggio caratteristico” al quale abbiamo dato anche la delega di pubblicazione della nostra immagine e poi ci siamo ritirati dietro le quinte a guardare.
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Ma deve essere successo qualcosa cammin facendo, perché il nostro Ego ci ha preso gusto a recitare la sua parte, divulgando il nostro nome in giro. E così adesso noi non esistiamo più perché nessuno sa che ci siamo. Esiste invece il nostro Ego, che nel fare le nostre veci è riuscito a sfuggire completamente da qualsiasi controllo ed è attivo, vivo e vigile, lì fuori. Peccato però che non siamo noi. Non ho idea di cosa stia cercando tutta questa gente diretta a Santiago. Forse qualcosa in cui credere. Qualcosa in cui sperare. Il mio obiettivo dichiarato è stato fin dal principio trovare la perfezione di un passo, ma più il tempo passa (Santiago – 200) più raccolgo solo impronte sulla polvere e messaggi di confusione. Che esista poi una soluzione? Quando la nostra amica basca ritorna dalla doccia zoppicando decido di accompagnarla al pronto soccorso per farsi controllare. Mi faccio una doccia in velocità e poi usciamo dal rifugio passando attraverso le orde di pellegrini indaffarate a gestirsi la sera. Andere è scura in volto. Mentre attraversiamo la cittadina a passo di formica, le chiedo qualcosa sulla sua vita. Mi racconta che il padre le è morto quando aveva otto anni e che vive con la madre e un fratello. Che strano, penso, anche Ciavi ha una storia simile. Suo padre se ne è andato quando lui aveva otto anni, scomparendo dalla circolazione, e lui è cresciuto con la madre e un fratello. Adesso che ci penso, anche l’amico Javier mi diceva che suo padre è “fuggito” da casa quando aveva otto anni lasciandolo solo con la madre. Tre esempi di mancanze paterne molto simili e vicine tra di loro. 209
Cosa vuole indurmi a comprendere il Disegno con questi esempi? Quando raggiungiamo il Pronto Soccorso una gioconda infermiera chiede di vedere la credenziale del pellegrino che dà diritto ad assistenza medica gratuita. Quando più tardi Andere viene chiamata in ambulatorio per essere visitata da uno specialista mi siedo nel giardinetto esterno a fumare. L’ospedale di Ponferrada è nuovo di zecca e sembra gestito da un’amministrazione di nazionalità svizzera. Porte scorrevoli comandate da fotocellule, corridoi ampi e puliti, nel giardino esterno un’erbetta inglese da fare invidia al Buckingham Palace. La Spagna non ha nulla da invidiare alla Norvegia, penso. Mentre sono lì che aspetto, rifletto sulla scenata di Andere di qualche giorno addietro. Pur mantenendo integra la riservatezza che la contraddistingue, da quel momento in poi, ha cambiato totalmente atteggiamento nei miei confronti. E adesso mi lancia di continuo dei sorrisoni che non so bene dove collocare all’interno del mio zaino di cose. Chi lo sa? Da un certo punto di vista siamo tutti sotto stress emotivo. Con questa infinita strada davanti; lontani da casa; i talloni che bussano di continuo sul soffitto dell’inferno risvegliando strani demoni; Santiago che si fa desiderare come una bella donna. Che cosa dobbiamo aspettarci se non un minimo di reazioni emotive strane? Quando Andere esce dall’ambulatorio ha una fasciatura che le avvolge tutto il piede. Il medico le ha ordinato un giorno di riposo e l’uso di una pomata antinfiammatoria. Così torniamo a recuperare gli altri per poi andare a cena in un ristorante gallego, con tanto di corazza sul portone e ambientazione medievale all’interno. Un nuovo giorno sta per terminare. 210
Portatemi da bere, cogno! 24 Ponferrada alle otto di mattina è deserta come Padova alle quattro di notte. In giro ci sono solo quelli della nettezza urbana che gestiscono il lavaggio delle strade. Passo sotto l’Arco del Reloj e arrivo nella piazza del Palacio del Ayuntamiento dove spero di trovare un bar aperto. La fortuna sembra essere dalla mia parte perché non solo ne trovo uno, ma assomiglia molto a una pasticceria della nuova generazione, con tanto di vetrina termo‐riscaldata gonfia di leccornie. Dopo mezz’ora le varie carezze interiori costituite da caffè, brioche e sigaretta finiscono nel sottoscala del mio organismo e non mi resta altro che mettermi in moto. La sera prima Ciavi era preoccupato per non avere più ricevuto notizie di Mirjam dal giorno in cui l’abbiamo lasciata a Leòn. Così ha deciso di rimanere qualche ora in più a Ponferrada, nella speranza di vedere arrivare la ragazza tedesca che tanto gli piace. La scusa ufficiale in realtà è di dare assistenza alle nostre compagne di viaggio, in attesa decidano se rimanere a Ponferrada o ripartire in bus, ma io so che dentro di lui la motivazione più forte è vedere spuntare la testa bionda della ragazza di Amburgo. Quindi per oggi mi trovo a viaggiare da solo come ai “vecchi tempi”. Il Cammino è così. Un concentrato esemplare di vita. Incontri delle persone che ti scioccano da quanto le senti vicine al tuo modo di essere ed è come se quella connessione trascendesse il passato e le esperienze racimolate strada facendo. Come se le conoscessi da sempre. 211
Poi però, in maniera del tutto casuale, quelle persone si perdono, tu ti perdi, e di loro rimane solo un ricordo. Per me è stato il caso di Pierre, il pellegrino francese di 74 anni partito da Parigi tre mesi prima; il caso di Martina, la tedesca dalla tetta di luna che ora è ricoverata da qualche parte a smaltire la febbre. È stato anche il caso di Carmen, la studiosa dei templari di Torres del Rio e di Clara la cui voce continua a risuonarmi dentro come una campana tibetana. Non so se sarà il caso di Ciavi, Marta e Andere, di Marilina e di chissà chi altro. Questo lato del cammino però non mi dispiace. Mentre con una mano ti dà, con l’altra ti toglie, in una danza che per nessuna ragione puoi considerare ingiusta o amorale perché… è la realtà! Nel cammino le cose succedono e basta e non c’è verso di fermare questo andare e venire di eventi. «Tutto volge al deperimento» diceva John Coleman durante i suoi corsi di meditazione. Tutti i fenomeni sono impermanenti, tienilo presente. «Keep know impermanence…» Ad ogni azione corrisponde una reazione, diceva quella troia della Degan durante le lezioni di fisica. Ma io non stavo mai attento. Esco dalla cittadina passando per il famoso ponte di ferro che le dà il nome. La Berti dice essere stato costruito nel 1082 in sostituzione di uno più antico, di legno. Prima di arrivare dall’altra parte guardo le acque del rio Sìl scorrere sotto di me. “Cosa siamo se non acqua che scorre?” Quando di mattina mi vengono facili certi interiorismi significa che il caffè appena bevuto non ha ancora fatto del tutto effetto. L’amara realtà è che per trovare un altro bar aperto devo
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sciropparmi, come minimo, cinque chilometri fino al prossimo paese dal nome pittoresco: Columbrianos. La consueta freccia amarilla, che Dio benedica chi l’ha fatta, mi spinge in direzione della Strada Nacional VI. La guida sottolinea che proseguire verso Nord Ovest eviterà di attraversare la zona industriale di Ponferrada. Appena fuori città il cammino si presenta in leggera discesa, ma una volta in periferia si snellisce. Passo attraverso un quartiere alberato di villette a modo loro lussuose. La freccia mi porta verso un caseggiato ampio e circondato da portici. Sento una strana attrazione per quel luogo, ho la mente particolarmente attenta e la tendenza a fissare i particolari delle cose. Passo nei pressi di una chiesa immersa in un giardinetto di erba inglese irrigata da un sistema idraulico multi punto. C’è la statua di una Madonna sopra un basamento di marmo e poco più avanti una croce di pietra associata al simbolo della concha di Santiago. Saluto entrambi con un cenno della testa, ridendo di me stesso per l’idiozia di quel gesto, nello stesso istante in cui uno sbuffo d’acqua dell’irrigatore intercetta la mia traiettoria. Rimango per un mezzo secondo senza fiato e continuo a camminare ridendo, sentendomi a pois per via dei goccioloni d’acqua che mi tappezzano dalla testa ai piedi. Sono solo in una strada senza nome e mi sento felice di esistere; felice di una pienezza inconsueta che mi dà il coraggio di essere quello che sono e anche il suo contrario. Sono un pellegrino straniero che avanza senza tregua dentro l’inarrestabile futuro. Nessuno sa da dove vengo, cosa penso e tanto meno cosa cerco. Potrei essere chiunque, santo illuminato o
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delinquente incallito. Ho uno zaino sul dorso, un tatuaggio sulla spalla, dei sandali e un bastone. “Non sono questi forse dei chiari indizi di libertà?” Ed è forse per questo che, per nulla intimorito dalle mujeres spagnole che mi osservano da dietro le tende delle villette, in un attimo di follia consapevole, alzo con forza il bastone al cielo e urlo con tutto il fiato che ho in gola: – MERCI SAINT JAAACQUES!!! Se ci fosse Ciavi, commenterebbe il mio gesto con uno dei suoi proverbiali: «Sssstiaputa que dolor…». Poi, nel giro di un centinaio di passi, il quartiere dove mi trovo finisce e mi immergo a piedi pari nella strada statale. – Grazie Santiago. Poi piango. Piangere mi fa bene, lo sento. Ma più che altro mi fa bene sapere che non piango di tristezza. Credo si tratti di commozione. Qualcosa di simile. È come sentirsi immersi in un bagno di umanità senza che ci sia nessuno attorno. E sono momenti in cui tutta la misantropia che firma i miei pensieri viene meno e mi stanno simpatici perfino quelli fissati col calcio. Quando finisco di sbrodolarmi di lacrime mi passo il polso sugli occhi e prendo dal marsupio una Marlborina. “Sacrifichiamo ‘sta nuova vergine al dio del fuoco, va…” Columbrianos, a parte il nome, non ha nulla di speciale. È un paese che costeggia per un tratto la statale e non vedo l’ora di ritornare nel silenzio dei campi coltivati. Un signore di mezza età che dipinge un’inferriata cerca di catturare la mia attenzione dicendo che dalle sette di mattina ha 214
contato trecentoquindici pellegrini passare per quel lato della strada. Senza fermarmi gli chiedo se ogni giorno ce ne sono tanti così. «Mas o meno ombre» risponde prontamente lo spagnolo, «pero mas de l’año ante». Lo saluto facendo svolazzare la mano sopra la cima del capo e vado oltre. Il cammino poi riprende la via della campagna e arrivo in poco tempo a Fuentes Nuevas dove mi fermo a inzuppare la testa in una bellissima fontana e a ristorarmi con un bocadillos de chorizo nel bar di fronte. – Y una cerveza por favor… Zio lupo, un panino di salame piccante e una birra alle nove e mezza di mattina è una cosa più da carpentieri che da pellegrini. Ma il bello è che finito di ingozzarmi col primo partirei da capo con un secondo. Ovviamente decido di lasciare perdere e dopo aver saldato il conto riparto per la mia strada. Da soli si viaggia che è un piacere. Tra l’altro, ascoltando il calpestio dei sandali sul terreno ci sono dei momenti in cui mi sembra che il Passo Perfetto che tanto vado cercando sia, come dire… a un passo da me! Noto anche che la mia mente è molto più tranquilla rispetto ai giorni precedenti, come se tutto quel fluire di pensieri sconclusionati l’avessero in un qualche modo alleggerita. È un po’ come succede nei corsi di Mister Coleman. I primi giorni il cervello ti va in risonanza magnetica correndo il rischio di implodere per il troppo lavoro. Poi però, dopo sei giorni di silenzio e di osservazione succede qualcosa di inconsueto e ti ritrovi con la mente sveglia e nello stesso tempo raccolta in uno stato di ibernazione. 215
Di tanto in tanto passano pacchetti di informazioni che tu osservi come se fossero dei vettori silenti che fluttuano in una superstrada di linoleum; e il massimo che la tua mente si permette di fare è osservare questo strano passaggio di cose senza osare alcun giudizio. Soltanto guardare il flusso. Come il tizio dell’inferriata di Columbrianos che osserva i pellegrini passare davanti alla sua abitazione e li conta. Una cosa del genere, mas o meno. Il paesaggio che mi circonda si sta visibilmente trasformando. Il sole è imperniato nella volta assoluta del cielo e il vento soffia in direzione opposta come ormai da qualche giorno. Procedo a passo lento lavorando sul respiro, cercando di portare a casa qualche risultato che mi induca a credere che il Passo Perfetto non è una stronzata delle mie, ma qualcosa di ben definito. Ci sono dei momenti in cui mi sento benedetto da una strana forza che si respira nell’aria e, una volta tanto, vorrei avere qualcuno a fianco per verificare se quanto sento è reale o il prodotto di una masturbazione cerebrale lunga settecento chilometri. Così da mettermi il cuore in pace. Dopo un po’ che galleggio in surplace sul bordo del sentiero, entro in quello stato di catalessi attiva che avevo sperimentato in meseta e ci rimango per svariati chilometri. Camminare per venti giorni senza interruzione genera, per forza di cose, un certo grado di esperienza. Senza mentire a me stesso o esagerarne l’effetto posso dire che questo intenso e ripetuto contatto coi fenomeni naturali quali il calore del sole, il vento, le asperità del terreno e il continuo contatto visivo con i toni di verde della vegetazione, mi permette di prevedere le cose prima che queste accadono.
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Mi era capitato di notarlo già nei lunghi tratti di deserto mesetico, ma avevo fatto finta di non vedere la questione dicendo a me stesso che poteva trattarsi di un effetto collaterale del sole feroce. Ma adesso che la pressione dell’astro sulla zucca è ammansita dalla presenza del vento e dagli arbusti non ammettere che questa cosa sia un fenomeno reale è peccare di ipocrisia. Non è che sono diventato tutto d’un colpo il Mago Zurlì, anzi. Però mi capita di fare delle affermazioni istintive su un determinato evento prima che questo si verifichi e dopo un certo periodo di tempo (breve) essere testimone del suo accadere. Naturalmente si tratta di stupidaggini che non spostano nemmeno di una tacca la bilancia della mia miseria spirituale, né tanto meno della mia condizione di imprenditore dei new media fallito. Sono pensieri del tipo: tra cento passi incontro una lucertola. Robe da bambini insomma. Ma visto che camminando non c’è nulla di meglio da fare inizio a contare questi cento passi. E‐uno, e‐due, e‐tre… Ma la cosa divertente è che quando arrivo al novantanovesimo passo dal bordo del sentiero spunta fuori un ramarro delle dimensioni di un gatto che mi attraversa la strada per scomparire tra i cespugli del bordo opposto. Altro esempio: guardo il cielo e vedo un corvo. Memore delle mie letture adolescenziali mi viene in mente il Don Juan di Castaneda e penso “Il corvo è un uccello d’argento”. Sarà mai che adesso ti trovo qualcosa di argento? Abbasso lo sguardo e a pochi passi da dove sono vedo luccicare una spilletta perduta probabilmente da un pellegrino precedente. Così, mi chino sull’oggetto per liberarlo dai sassi e lo rigiro tra le dita, scoprendo il simbolo dell’argento che ha impresso sul profilo. Nulla di speciale insomma, cose di questo tipo. 217
E verso metà mattina, in uno di questi momenti (che dalle mie parti si definirebbero “da mona”) mi passa per la testa l’idea di fermarmi alla prossima fontana per aspettare Ciavi che “sta per arrivare”. Non ho preso nessun accordo preciso con Ciavi. L’idea era che ci saremmo visti al rifugio di Villafranca del Bierzo verso sera. Con la scusa della slogatura di Andere, di Marta che voleva stare con la sua amica e di Mirjam che non si vedeva ormai da qualche giorno, Ciavi aveva deciso di rimanere tutta la mattina a Ponferrada e partire nel pomeriggio per arrivare a destinazione in tarda serata. Quindi non c’è nessun motivo reale che mi faccia pensare che il catalano stia per raggiungermi. Non avendo però nessuna fretta, né un orario stabilito da seguire, quando arrivo in un paesino chiamato Cacabelos prendo posto su di un muretto a fianco della prima fontana che incontro sul sentiero e rimango in attesa che succeda qualcosa. E in effetti dopo meno di mezz’ora qualcosa succede perché da un punto indefinito dell’orizzonte vedo avvicinarsi un pellegrino che avanza con passo lesto. Se la mia testa funzionasse a dovere, rifletto, questo sarebbe il vero momento ideale per mettersi a piangere. Altro che Saint Jacques… A me invece mi viene da ridere. E scoppio in una risata così sonora da far decollare uno sciame di passeri da un arbusto poco distante. Ciavi riconosce la mia sagoma quando è ancora lontano e alza il braccio in segno di saluto. «Ssstia puta che dolor…» dice quando mi raggiunge «Tiengo mal a la rodilla…» Ha male a un ginocchio, ma la cosa non gli ha impedito di procedere velocemente. 218
Non dico nulla di tutta la mia pippa mentale sulla previsione dell’evento. – Chetal ermano? Las cicas? «Son in bus – risponde – y Mirjam està dejà a Villafranca del Bierzo». Ottimo, stasera si festeggia la grande famiglia riunita. «Tiene un cigarro por favor?» Eccome, no? Il giorno continua con l’amico catalano che mi racconta la sua vita, i problemi con la madre che soffre di depressione, la terapia omeopatica alla quale lui si sottopone per uscire da questa storia schiacciante, sua zia guaritrice, ancora le bestemmie di suo nonno, il cane e la fuga di suo padre. È un soggetto strano, il mio compagno catalano. Di una bontà infinita. È tanto buono quanto iper‐sensibile. Penso dovrebbe imparare a mettersi addosso degli scudi per proteggersi dall’esterno. Per certi versi ha la mente di un bambino, totalmente esente da filtri. E questo lo porta a diventare bersaglio di un certo numero di sensazioni che, a mio avviso, lo danneggiano. Di mestiere fa l’autista per l’azienda comunale di Barcellona. – Che lavoro fai Ciavi? «L’autista de un microbus de disminuitos…» Accompagna due volte al giorno un certo numero di portatori di handicap da casa all’istituto e dall’istituto a casa, all’alba e al tramonto. – Ti piace come lavoro? «Un monton! – risponde – Los desminuitos son superior a nosotros, como maestros con cuerpos differente…» Gli ultimi sette chilometri che ci distanziano da Villafranca li trascorriamo chiacchierando. E quando arriviamo nel punto 219
d’incontro le ragazze ci dicono che Mirjam è partita per il rifugio successivo. – Quanti chilometri sono? «Mas o meno 12», due ore di cammino. Guardo il mio compagno e lo capisco al volo. Oggi è stata una giornata piuttosto leggera e rispetto ai giorni precedenti, fermandoci dove siamo, rischiamo di abbassare la media. Non saranno certo dodici chilometri a ucciderci. Convinciamo le ragazze a fare questo sforzo e anche loro ci stanno. Una pausa birra e lemonada ci aiuta tutti a chiarirci le idee sul futuro. Recuperate armi e bagagli usciamo dalle mura della cittadina e prendiamo la discesa che costeggia il fiume. Per uscire da Villafranca del Bierzo e immettersi nel giusto cammino bisogna attraversare un ponticello di ferro battuto piuttosto stretto, tenuto in sospensione da dei tiranti. Fa un certo effetto camminare sentendo la ferraglia dondolare con cinquanta metri di dislivello sotto i piedi. E una volta giunti dall’altra parte della costa però non è finita, perché il cammino inizia a salire. Ma come? È stato tranquillo tutta oggi e adesso inizia la salita? – Poche storie pellegrini! Ciò che è fatto è fatto e in questo caso non c’è scelta. Anzi, l’unica scelta è procedere in avanti. L’unica direzione è verso l’alto. Da chi è che l’ho sentita dire? Ah sì, lo diceva un mio vecchio amico d’infanzia. Uno che a un certo punto non ho voluto più vedere. Segno zodiacale scorpione, segni particolari opportunista fuori di misura. Che 220
Dio te la mandi buona Marco, in qualunque periferia del mondo tu sia. Sperando che come direzione sia davvero verso l’alto. Dopo qualche centinaio di metri comunque la salita finisce e ci ritroviamo nel traffico di mezzi pesanti della statale N VI che, seguendo l’antica rotta del cammino, attraversa la Valle de Valcarce, collegando il Bierzo con la Galizia. Il procedere sul bordo della statale è scomodo e pericoloso a causa del continuo passaggio di TIR i cui spostamenti d’aria ci risucchiano ogni tre secondi. La Berti dice che quella situazione ci accompagnerà per altri 17 chilometri, cioè fino al rifugio dove intendiamo pernottare e anche oltre. Procediamo sulla parte interna del guardrail, tra il bordo sinistro della statale e la scarpata che dà sul rio Sìl. L’aria è tesa e densa della polvere sollevata dal passaggio dei camion. Avanziamo in fila indiana immobilizzandoci ad ogni passaggio di veicolo pesante e stando attenti a non scivolare giù nella scarpata. Dopo qualche chilometro di questa indimenticabile esperienza però qualcosa cambia. È come se ci fosse uno strano odore nell’aria che all’inizio non so definire. L’odore va a sommarsi allo smog distribuito dai mezzi che scorrono in entrambi le direzioni. È un odore acre, nauseabondo, di organismo in putrefazione. Quando diventa insopportabile ci guardiamo l’uno con l’altro chiedendoci da dove provenga tutto quel tanfo. Da tanto sembra malato, in senso stretto, nessuno di noi ha il coraggio di aprire la bocca per dire qualcosa per la paura di venire infettato. Procediamo ancora qualche centinaio di metri, coprendoci il naso con il girocollo della maglietta, quando Ciavi mi fa segno di guardare giù della scarpata, verso le acque del rio Sìl.
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Vedo dei coperchi di colore bianco venire portati via dalla corrente. Sembrano casse di polistirolo e ce ne sono un certo numero. Alcune sono ferme sul bordo, impigliate dalle fronde della riva, altre sono divelte e si muovono nell’acqua seguendo i vortici della corrente. All’interno di alcune di queste individuo dei pezzi di corpi di animali. Sono carcasse di polli in avanzato stato di decomposizione. L’aria malsana in cui sono immerso mi dà il vomito. Non ho mai sentito un odore così fastidioso di… morte! Cosa può essere successo? Ad un certo punto la statale fa un ampia curva oltre la quale riusciamo a vedere in lontananza dei segni di smottamento sul bordo della strada. Avvicinandoci capiamo che deve essere successo qualcosa perché il guardrail che ci separa dalla strada è divelto proprio a ridosso della curva successiva. Do un ulteriore sguardo al fiume e la scena che vedo è impressionante. Ci sono scatole di polistirolo e cadaveri di galline in putrefazione ovunque e un po’ più avanti, giù per la scarpata, la carcassa di un camion rimorchio finito fuori strada. Ecco cos’era. La scena è impressionante e ci lascia tutti esterrefatti. Osserviamo la scena senza dire una parola e limitando al minimo il numero di respiri. Una parte di me ha il terrore che l’odore di cadavere possa in qualche modo inquinarmi fatalmente e da come i miei compagni procedono tenendo il mento appoggiato allo sterno capisco che temono la stessa cosa. Lasciamo la scena orribile dietro di noi e dopo un po’ l’odore viene meno. Respiro a pieni polmoni la sbuffata di gas di camion carico di ghiaia che mi sfreccia a fianco. È profumo a confronto di quello che ho appena sentito. Più avanti superiamo una lapide 222
dedicata a un pellegrino tedesco ucciso nel 1987 da un’auto uscita fuori strada in quel punto. Dopo poche centinaia di metri passiamo sotto la volta di uno svincolo che connette la statale N VI con non so quale altra direttrice. Osservo l’anfiteatro di cemento che ci sovrasta tenuto su da colonnoni di tre metri di diametro e alti almeno trenta. È impressionante cosa riesca a fare l’edilizia. Da togliersi tanto di cappello. Non entro nel merito del rispetto dell’ambiente, altrimenti finirei il mio giorno insultando il sistema che in funzione del risparmio di tempo non si è risparmiato di devastare quella valle. “Complimenti signori costruttori, avete fatto proprio un ottimo lavoro…” Dopo il grande ponte la freccia gialla ci indica di attraversare la statale per immetterci in un sentiero costeggiato da alberi di castagno. Una volta eseguita questa semplice indicazione la nostra vita cambia. Il mio compagno e io ci sediamo sotto l’ombra del primo arbusto per fumare. Ma, dove sono le ragazze? Mentre commentiamo la scena nauseante che abbiamo visto ci viene incontro un vecchio che ci saluta con un cenno della mano. Ciavi gli chiede se sa quando sia successo l’incidente del camion e l’anziano spagnolo risponde la sera prima. L’autista si è addormentato un attimo ed è andato dritto in curva. Nell’abitacolo con lui c’era sia sua moglie che suo figlio, ma non si sono fatti niente. Ricordo bene la carcassa del rimorchio e c’è da rimanere increduli al racconto del vecchio. Mentre siamo lì che discutiamo del disastro ambientale arrivano le ragazze ancora schifate per quanto hanno visto e per l’odore. Ci rimettiamo in marcia dopo
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un quarto d’ora, incontrando il rifugio privato sul bordo sinistro del sentiero. Il tizio che lo gestisce è un certo Marcos, che ha la faccia da delinquente di bassa qualità. Lo vediamo impegnato a trafficare con una griglia che gli serve per preparare la cena. Ci accordiamo sul prezzo del pernottamento comprensivo di cena. Poi sua moglie ci fa strada dentro lo stabile. Il rifugio è piccolo e in ottimo stato. I materassi sono appoggiati al suolo e quando mi stendo su quello che mi è stato assegnato ne apprezzo la durezza. La stanza dove ci troviamo è adatta a ospitare un massimo di venti pellegrini e noi cinque siamo gli ultimi della serie. Della serie: anche per oggi ce l’abbiamo fatta. A doccia finita vado a rilassarmi in giro dove Marcos ha costruito un chiosco di legno con al centro una fontana. Mi siedo sul muretto che fa da perimetro alla costruzione e faccio conoscenza con una ragazza italiana, Paola di Aosta, insegnante di scuola elementare, totalmente piatta di seno, ma con due labbra carnose che mi trafiggono per una sequenza di istanti da pensieri di varia natura. Paola sta facendo l’ultimo tratto di cammino con due signori di una certa età che mi presenta uno come il padre, l’altro come lo zio. Il padre di Paola dice di essere un generale in pensione e mi sembra una persona molto cordiale e a modo. Con la ragazza valdostana nasce subito un certo feeling verbale, anche perché loro sono al secondo giorno di cammino e io, ormai, posso dire di venire da lontano. Le do consigli su come trattare le vesciche che si stanno formando e poi il discorso trasla dall’atteggiamento mentale da tenere nei momenti di fatica feroce alle motivazioni dell’antico pellegrino. 224
Cioè tutto e il contrario di tutto. Ma alla fine, dopo un quarto d’ora di chiacchiere, quando il mio conto alla rovescia ha raggiunto lo zero da un paio di secondi, Paola se ne esce con la fatidica domanda di sempre…
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Terzo tempo “Cazzo ne so perché lo sto facendo? Non ne so niente ragazza mia, credimi. All’inizio sì un’idea ce l’avevo, ma l’ho persa strada facendo. E ora eccomi qui, con l’occhio che mi cade sulla guancia come una maschera di cera. A essere sincero non è nulla di nuovo, perché questo film l’ho già visto altre volte in passato. Troppe volte. Anzi, è da sempre che perdo per strada pezzi di idee di importanza vitale. E adesso, alle soglie dei quarant’anni, ne ho i marroni stracolmi di questo fatto. Ma sai qual è il bello? Che non me ne sbatte niente! Guardami. Tu mi vedi seduto qui bello pimpante, con la parlantina che frigge e i muscoli della braccia pitturati dal sole. Mi credi un osso duro, un uomo vero. Come potrebbe non esserlo uno che si è fatto quasi ottocento chilometri a petto nudo? Ma la realtà dei fatti è che io non ci sono. Non esisto. E non esisto per il semplice fatto che se non ci sono pensieri a sostenere la personalità che li diffonde quella stessa personalità viene meno. E io non ho più pensieri. Né certezze. Tutto è finito. Eliminato. Sparito via con la corrente di un fiume inquinato di morte che trascina a valle un camion di cadaveri di galline. Non cambia nulla, né per i miei pensieri incerti né per quei polli. Cosa conta il destino di un cadavere? Nulla. Nel loro caso, se non si fossero putrefatti sui ciottoli di una scarpata sarebbero venuti meno sulle tavole di dieci, cento, mille famiglie spagnole o negli intestini provati di migliaia di pellegrini che si trascinano verso Santiago. Morte per morte per tre e quattordici. Sai fare la circonferenza dell’esistenza? Ci credo che no, con quello sguardo da brava ragazza che ti ritrovi, il lavoro che fai, la tua mente sarà colma di pensieri di speranza. Sorella, cosa posso dirti? Per me non è così. 226
Facciamo ognuno il proprio cammino e buonanotte. Scusami se non accolgo il tuo sguardo languido e non scivolo nel silenzio di questa notte fino al tuo sacco. Scusami se non ti prendo per mano e non ti trascino fino al bagno di sotto. Scusami se non riempio le tue voragini piene di speranza di questa forza folle che mi scorre tra l’ombelico e le ginocchia. Sono solo un pellegrino. Un pellegrino casuale che viene da chissà dove e se ne sta andando chissà dove. Ce ne stiamo tutti andando. Ti è chiaro vero? Ogni giorno che passa, ogni secondo che scorre, ognuno di questi insulsi “Io” che ci hanno messo addosso se ne va e va verso un inesorabile e incondizionato deterioramento. È così, credimi bella donna piena di prospettive. Ci stiamo putrefacendo come quei petti di pollo alla deriva e non possiamo farci niente, non possiamo dire niente. Ma solo accettare il nostro terrore e basta. Morire, questo e null’altro. Non basta avere la certezza di un padre generale per sentirsi al sicuro in questo cammino. Il cammino non è niente, niente! Non c’è nulla in questa strada da scoprire, a parte i tuoi pensieri subdoli che non fanno altro che uscire uscire uscire, insensatamente e senza tregua. Questa è una guerra di merda sorella! L’unica differenza tra la vita di tutti i giorni e quella di questo cammino è che, se ti va bene, qui puoi permetterti il lusso di mostrarti per quella controfigura di vivente quale sei. Puoi permetterti di non vergognarti della tua mancanza di esistenza. A casa invece tutto è più difficile e tra quello che ti fanno indossare, le parole che ti fanno dire e quelle stronzate che ti fanno sentire ti hanno convinta a credere che “Tu” sei qualcosa di ben definito, di coordinato. Come potresti non esserlo? Hai un nome, una casa, un lavoro. Hai dei genitori che a loro volta hanno un nome, una casa, un lavoro. Ma io dico, è tutto qui?
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Da degli esseri umani mi aspettavo qualcosina di più. Da me soprattutto. Che differenza c’è tra noi e un animale allora? Con tutto rispetto parlando per gli animali anche loro hanno un nome, una casa e un lavoro. Le mucche delle tue parti si chiameranno Berta, Nerina, Adele o cose del genere. Dormiranno in una stalla e faranno le masticatrici di professione. Che differenza c’è tra loro e me, te e tuo padre generale dell’esercito in pensione? Nessuna per la madonna, in questo contesto nessuna. Tu mi chiedi perché sto facendo questo cammino. Guarda sorella, non ne ho idea. Anzi, ne ho più di una ed è per questo che sto fibrillando in questa strana confusione. Mi piacciono le tue labbra, te l’ho detto? Se non avessi fatto il voto del silenzio degli arti inferiori, se non fossi un pellegrino determinato a raggiungere l’oceano, se non fossi quello che sono ti spingerei di forza fino a toccare il legno del pavimento con le ginocchia. Sì, se non fossi quello che credo di essere, ma che in realtà non sono, ti giuro lo farei. Ho visto tanta gente in questi settecento chilometri di polvere e odori. Una marea infinita di persone e tutte, dico tutte, avevano scritta in fronte un’unica domanda da farti. Quella unica domanda idiota di sempre. Perché stai facendo il cammino? Di tanto in tanto ho visto farsi vivo il cattolico di turno che diceva di saperla lunga su questo o quell’altro perché. Ma la realtà dei fatti sai qual è? È che nessuno di noi ne sa una sega del perché siamo qui a camminare come dei deficienti dieci ore al giorno. A tutti frulla in testa il dubbio atroce se questa sia o non sia stata la cosa migliore da fare invece che andarsene per un mese consecutivo in qualche spiaggia della costa a guardare le fighe abbronzarsi i capezzoli. Questa è la realtà. Siamo dei prototipi di esseri viventi pieni di paranoie esistenziali, schiavi di un sistema che dopo averci resi 228
vittime del lavoro ci ha convinti che la cosa migliore da fare è credere in un futuro migliore. Soltanto che il futuro è il loro. Un futuro fatto di prodotti da acquistare, di ordini da eseguire, di valori da perdere al ritmo di ogni respiro. Non c’è più nessuna regola morale lì fuori Paola di Aosta dalle labbra carnose, tienilo presente bene. Non c’è niente da vedere, niente da sapere. Col nuovo millennio siamo entrati a pieno nell’era del deterioramento. Diglielo a tuo padre che te l’ho detto! L’unica soluzione a tutti i quesiti di questa avventura orwelliana sta nel camminare. Cammina, pensaci strada facendo e sappimi dire. Se vuoi ti do un recapito, una fottuta e‐mail aziendale con la quale puoi dialogare e insozzarmi la trash di pensieri d’amore. O anche sconci, se preferisci. Oppure ti do il mio codice fiscale così puoi risalire facilmente a quello che il sistema ha voluto io fossi, un numero, una sequenza di dichiarazioni dei redditi, un non diplomato, uno che non ha fatto il servizio militare per problemi di inadeguatezza con il comportamento sociale. Diglielo a tuo padre chi hai davanti. Che mi spari una denuncia a piede libero. Sul piede libero. Quello sinistro ha preso solo tredici vesciche in questi maledetti settecento chilometri. L’altro ventiquattro. Come l’oracolo del ritorno. Lo conosci? Un movimento si compie in sei gradi e il settimo implica il ritorno. Il sette è il numero della luce giovane e si forma quando l’oscurità è intatta. Scegli tu quali piede colpire per primo. Condizionalo a scegliere quello che fa più male. Sei una bella donna e hai tutto il potere del mondo sulle decisioni di tuo padre. Figlia o meno. Corri a dirgli che cosa avrei avuto intenzione di farti in gola... corri sorella, corri! Mancano sei giorni alla fine di questo viaggio, ma sarà una fine parziale. Il cammino è iniziato da quando siamo venuti al mondo 229
e forse anche prima, molto prima. Il mio non finirà il giorno in cui entrerò a Santiago, te lo assicuro. Voglio andare avanti altri cento chilometri fino a vedere il mare. Il profondissimo Oceano di Atlantide meta di mille sguardi e di pianti assoluti. Voglio bruciare questi vestiti che sanno di putrefazione della mente. Voglio denudarmi sul tramonto e piangere in mare tutta la mia disperazione. Voglio fare un fuoco di tutti questi pensieri e urlare di gioia. Voglio sentirmi libero, libero, libero. Domani entriamo nella regione più suggestiva che questo cammino conosca. Il luogo di energia da dove è partito tutto. Hai scelto un punto strano per iniziare il tuo viaggio. L’hai fatto per un motivo preciso o è stata una scelta casuale? Se fossi quello che vorrei essere ti porterei fino nel bagno che sta in basso per farti sentire di che pasta sono fatto. Ma per tua o mia sfortuna, non so né quello che vorrei essere, né quello che sono. Comunque è stato un piacere averti conosciuta. Ti auguro buon cammino! Da pellegrino”. 25 (‐5) Questo nuovo giorno inizia male fratello catalano. Ho dormito bene se è per quello, ma sento una strana presenza nell’aria. Tu come stai? Sono giorni che parliamo di questa terra sacra, patria di druidi e di streghe e oggi ci tocca di entrarci. Se mi sento pronto? Ancora non mi è del tutto chiaro, ma fammici prima bere un altro paio di caffè sopra e poi ti so dire. Il barista ha il suo bel fare a gestire gli zaini di questa marea di gente che sta per salire. Vive di questo il poveraccio, lasciateglielo fare. Cosa vuoi che ti dica, sarà anche un’ottima idea, ma io il mio carico voglio portarmelo tutto addosso fino alla fine, dovesse scoppiarmi il cuore. Quando la trovo un’altra volta un’occasione 230
d’oro per liberarmi di tutto questo fango che trasudo dai pori? Te lo dico io quando, mai la trovo. Fatelo voialtri se vi sembra giusto, qui il bello è proprio questo. Che ognuno può scegliere le proprie armi. Importa a nessuno che le usi per offendere o difendere, combattere o morire. La libertà da queste parti non è più soltanto un’opinione. Non ho idea di come andrà a finire questa storia però voglio che sia chiaro che non ho mollato il mio peso nemmeno un istante. Se devo essere sincero mi è poco chiaro cosa ci sia lì fuori. Mi sento dannatamente irascibile e perfino questa brezza frizzante del primo mattino mi fa irritare. Hai visto come mi guarda l’italiana? Mi chiedo che cosa la porti a fare un giro come questo. Alternativa al trekking? Vacanza spirituale? Fanculo le sue motivazioni e fanculo a quelle di tutti gli altri, iniziamo a salire questa benedetta montagna e facciamola finita, per dio. Santiago lasciaci entrare! La guida è sempre stata chiara e non sarà certo oggi che smetterà di fare la sua funzione. Sarebbe da mandargli un vaglia a questa coppia di catto‐vedette Curatolo/Giovanzana che l’hanno scritta. Se tutto va come deve andare quando torno li chiamo per stringergli la mano telefonicamente. E se tutto va come previsto tra poco ci ritroviamo in bocca a quella stronza di statale. E infatti, neanche a dirlo, eccola lì davanti. – Uelà, asfalto di ieri… non è che oggi ti porti appresso lo stesso odore di cadavere in putrefazione, vero? Sai cosa ti dico fratello Ciavi, che io me ne strafrego dei mezzi pesanti, di chi li guida e di chi come noi li guarda passare. Me ne strafrego di questo gregge di camminatori insolenti con la bottiglietta di acqua non gasata a tracolla. Mi spiace dirtelo amico, ma sia loro che noi ce l’abbiamo dritto nel culo perché tra 231
poco si sale di brutto e lì voglio vederci. Zaino sulle spalle o meno. Che senso ha poi? Farsi portare la zavorra da un barista in jeep per non fare fatica. Cosa cazzo significa? Non stavamo facendo un pellegrinaggio? Bah, non voglio neanche discuterla questa cosa, fate come volete. Ognuno è libero di scegliere quello che gli pare. E poi mi sa tanto che sto invecchiando di brutto. Sto diventando un vecchio scassa balle. Avanti di questo passo magari mi sentirai fare discorsi sulla mortificazione cristiana, come quel pirla di Madrid trovato a Rabanal. Se dovesse succedere fratello, se sei davvero mio amico, guardami negli occhi quando meno me lo aspetto e fammelo sapere. Dimmi, hermano tu es un rompi cocones de la ostia, un cura de mierda, un hijo de puta madre… dimmi quello che vuoi basta che me lo fai capire. Mi terrorizza l’idea di invecchiare a quarant’anni e diventare come quei rompi balle che ho sempre combattuto. Mi odierei. Do per scontato che me lo farai sapere fratello catalano. La guida dice che al prossimo paese il cammino prende due strade. Una sale per la montagna, si allunga di qualche chilometro e ci devi lasciare giù un pegno in decilitri di sudore, però sei fuori dalla strada. Se invece continuiamo per la statale abbiamo altri tre chilometri di asfalto e di conseguenza di rischio, però è tutto piano. Personalmente me ne frego della natura, almeno per ora. So che oggi dobbiamo lasciarci giù il cuore su quella salita di O’Cebreiro. Quindi se posso giocare al risparmio lo faccio volentieri. Non ho più ventʹanni come voialtri, ma quasi il doppio. Non me ne può fregar di meno dei camion che lasciano la scia di schifezze e ti risucchiano sotto le ruote. Tanto morire si deve comunque.
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È anche vero che se però potessi scegliere preferirei in un altro modo. Per la miseria, non farmi dire cose che non voglio. L’idea di finire massacrato dalle ruote di un TIR non è che mi alletta molto. Meglio disteso da qualche parte, senza parenti che piangono o donne che ti tengono la mano. Te l’hanno detto anche a te quand’eri piccolo che dobbiamo morire da soli? Sarebbe troppo bello farlo in compagnia, ma alla fine io credo che nemmeno così funzioni. Il terrore che ti accecherà gli occhi da dentro sarà comunque lo stesso, se non peggio. Chi può dirlo come sarà? Conosci qualcuno che sia tornato per parlarne? Sì, si leggono tante cose in giro e certe librerie hanno perfino intere sezioni dedicate all’argomento. Scaffali come quelli dei musei vaticani pieni di libri che parlano della vita oltre la morte e di gente che dice di essere morta e poi rinata. Dovremmo crederci? Poi ci sono quelli che decidono di farlo in gruppo e ogni qualche anno si sente di qualche setta di idioti che, stanchi di aspettare gli UFO che non vengono, si sono fatti fuori l’uno con l’altro. Vallo a capire il mondo, fratello catalano. Da dietro quella barba da elfo che gocciola rugiada cosa ne pensi di questi idioti invasati? Conosci gli Elhoim? Sono dei suonati americani che credono nella razza del futuro per via di un giornalista fuori come un balcone che dice di essere stato prelevato da un’astronave e di avere visitato un pianeta alieno. Pensa te che bruciato quello. Si veste in tuta spaziale e tira su soldi per clonare capretti o pezzi del suo ginocchio e poi ci ha una villa larga un chilometro quadrato. E sai dove la stanno costruendo la base di atterraggio per gli extraterrestri che devono arrivare? Che discorsi in Israele, chissà perché. La Terra Promessa. Se no perché Elhoim e non Moller o Neteran? Con tutto rispetto parlando per le menti eccelse che quella razza di geniacci ha prodotto in tutti questi secoli, credo che gli israeliani siano portatori di uno strano virus. 233
Qualcosa che solo loro sanno. Hanno il dono dei numeri quelli, tra le basette ricciolute e il cappello da Zio Paperone nascondono qualche segreto che noi poveracci sappiamo zero. E comunque non la raccontano giusta. Non credo nemmeno ci sia nel loro cazzo di Costituzione la parola “giustizia”. Certo è che non sembra che la storia, coi suoi tragici eventi, li abbia aiutati a evolversi più di tanto. Manco pel cacchio. Avranno il dono del numero, ma per quanto riguarda puttanate tipo comprensione, tolleranza e accettazione del diverso quelli proprio non ci sentono. Detto tra noi, sono degli abili manipolatori e altrettanto capaci mercanti. Ma se invece di costruire basi di atterraggio per extraterrestri investissero il denaro in case decenti per gli extracomunitari del mondo non andremo meglio un po’ tutti? Siamo in mezzo a una bastardissima guerra fratello Ciavi e se continua così non ne veniamo più fuori. La realtà è che quei signori riccioluti si sono comprati tre quarti del geoide e adesso si stanno preparando al loro Armageddon epocale. Questa è la verità. La triste verità. Ho un paio di cari amici in Israele, uno dei quali lo considero un maestro. Non c’è razzismo in questi miei pensieri, credimi Kraus, però la realtà dei fatti è questa. Se mai ci incontreremo ancora sul cammino della vita potrei parlare ore su ore con te di questa cosa, come un tempo. Però se questo non dovesse succedere sappi che io non ti dimenticherò. Ma la realtà è la realtà e qui non ci piove. E la realtà è che con la scusa della vostra religione che sa di muffa apocalittica avete occupato militarmente un’intera regione e con le multinazionali che possedete tenete il mondo col fiato sospeso. E il fiato del mondo, manco a dirlo, sa di qualche essenza di menta che voi vendete sotto forma di bevanda analcolica. La religione è il doppio dei popoli, dice il mio amico Koryu e ci ha ragione. 234
Nella migliore delle ipotesi dovrebbe fare la stessa funzione di questa meravigliosa freccia gialla che incontri sui muri delle case di tanto in tanto e indicarci il cammino. E invece non solo non è così, ma fa ancora più casino. È la religione a fare le guerre, da sempre. La presunzione di nuclei ristretti di persone di avere la verità in tasca, la prepotenza di voler indurre gli altri a sposare una fede che non chiedono. Gente comune che si spaccia per illuminata solo perché col denaro è riuscita a comprare tutte le azioni dell’Azienda Mondiale per l’Energia Elettrica. E questo dovrebbe essere il motivo supremo che permette a dei folli dal cervello lesso di martirizzare migliaia di persone nei forni a gas? Il motivo per cui i figli dei martirizzati distruggono un popolo coi caterpillar rivoltando le loro baracche come se fossero dei calzini dismessi? Voi chiamate i palestinesi “scarafaggi”, fratelli israeliani perché? Sono questi i giusti motivi che permettono a un paio di nazioni gestite da potenti uomini d’affari di invadere un giorno dopo l’altro popoli che non ne vogliono sapere della loro falsa quanto ipocrita democrazia? Ma andare a fare in culo voi, la vostra allergia alle minoranze, le vostre panze piene di coca cola e i vostri alleati subdoli che scodinzolano come dei cagnetti per raccogliere le briciole di potere che lasciate sfuggire dalla bava della bocca. Potenti del mondo, venditori di ipocrisie vestite da prodotti, assicuratori di vite senza senso: mi avete fracassato i coglioni! Dici che dovrei calmarmi vero? Tra quanto pensi inizi questa benedetta salita? La guida indica che dopo Ambasmestas dovremmo esserci. Lo spero tanto perché ho bisogno di sudare. Di buttare fuori questa melma rabbiosa che mi intasa il profilo interno dell’epidermide. Credo che stavolta sono arrivato all’osso. Ne sono convinto. Ci 235
ho messo ventiquattro giorni e più di settecento chilometri per smuovere l’acqua stagnante del cantinino. E adesso guardami qua. Non sembro nemmeno la controfigura di quello che è partito da Saint Jean Pie de Port. Non mi guardo allo specchio da una settimana, che occhi mi vedi addosso? Ti sembra che possa avere la febbre? Mi sento pallido sotto l’abbronzatura. Oggi è uno di quei giorni che potrei anche morire. Ogni giorno è buono, se è per quello, ma oggi fratello il doppio di più. Sono proprio curioso di vedere questa Galizia. Questo contenitore di maghi che dicono sia stato in passato. Se è vero quello che si racconta uno dovrebbe sentirlo nell’aria. Sentire che c’è qualcosa di diverso. E in effetti io mi sento diverso. Sento la testa che va in fibrillazione, ma non temo per la mia salute mentale come accadeva dieci giorni fa. Anzi sento che va tutto bene. Perfettamente. Sento che si è accesa una lampadina dentro. Gente, voi non la vedete quella luce? Non sentite l’energia che vi scorre per le gambe, prima da una parte e poi dall’altra? Non vi sembra di avere forza da vendere quando dovrebbe essere il contrario? Non so cosa dirvi, questo è l’effetto che mi sta facendo questo cammino sacro. Non so se sono io che esagero con i pensieri, ma a forza di pestare sul chiodo delle domande ho come l’impressione che stiano arrivando le risposte. Guarda te! Ho appena visto un quarzo incastonato sul sentiero. Era rosa e… adesso un altro! Un altro ancora. Stiamo camminando sui cristalli di quarzo ve ne rendete conto? Nella mia città ci sono negozi di suonati filo new age che vendono quelle pietre a un occhio della testa. E qui le trovi per terra! Vatti a sapere che strano è il mondo. Taci va’ che inizio a vedere la salita. Ci sono i pellegrini in fila indiana che incespicano sul sentiero. Augh fratelli, buon cammino del cazzo a voi e al vostro servizio zaini‐taxi. Da lontano sembrate tante formiche operaie 236
mentre da vicino siete solo dei muli da traino con il copribusto colmo di peccati da condonare. Divertente camminare eh? Stiamo arrivando anche noi, teneteci il posto nel bar di lì sopra. Da bere voglio una birra, ma fatela spinare tra un paio d’ore. Ci metteremo due ore vero? Due ore, forse tre. Da qui sono undici chilometri, ma di salita pestifera. Due ore di pendenza che punge. La libertà non viene elargita gratuitamente, mai. Questo dovremmo averlo imparato, no? Iniziamo a salire, ecco, finalmente. Il sudore mi spurga fuori dalle narici, le ragazze lì dietro come stanno? Si sono fermate? Perché si sono fermate? Andere ha le balle girate ancora. Macheccazzo, quella ragazza dovrebbe darsi una calmata. Già è difficile per i fatti suoi camminare e basta e questa si fa venire i problemi esistenziali. Abbiamo tutti dei problemi Andere! Ne ho persino io che sono il più vecchio del gruppo, pensa te. Fatti una sudata che è meglio. Fatti ‘sta salita sorella basca. Datti una mossa. Sentissi come tira la gravità qui sotto… Oppure fai come credi, fate come credete. Ci vediamo di sopra, io vado avanti. C’è questo paesaggio dolce che mi vuole vedere attivo, in movimento, e uno strano presentimento che mi segue. Qualcosa che mi dice di abbandonare tutte le difese al peso, di smetterla di dare ascolto a queste mille paure che sorgono da profondo, alle assurde necessità di questo povero corpo da sempre bistrattato. Povero lui, poveri noi. Se fossi saggio dovrei ripartire a vivere da qui e chiedergli scusa per la vita da lesso che gli ho fatto fare fino a questo momento. Dirti scusa fratello corpo. Scusa per tutte le schifezze che ti ho portato a fare in questi anni. Scusa per i sentieri tortuosi che ti ho spinto a seguire. Scusa per 237
tutte le sigarette che ti ho buttato dentro. Per tutte le trombate che avrei potuto regalarti e che invece non ti ho fatto fare. Scusa per tutti i piaceri che ti ho dato e per tutti quelli che ti ho evitato. Fratello corpo scusa. Di tutto. Se ci ragiono sopra però è anche vero che il bisogno di dire “scusa” è un retaggio culturale che io come molti di loro ci portiamo dentro da sempre, da quando siamo nati in questo occidente appeso per le palle ai ganci del passato. È la colpa a renderci vittime di noi stessi. La colpa di mamma chiesa. Soltanto quella. Questa fottuta idea imbecille che da qualche parte dentro abbiamo il peccato che brulica. Da cosa deriva se non da questo la nostra paura? Vaffanculo colpa, vaffanculo chiesa e vaffanculo educazione cattolica. Pensaci un attimo e dimmi se non ho ragione! Che cos’è la mente? Viene da dire l’Io. Mettiamo sia così. Quindi Io sono la mia mente. Da cui se individuo la mia mente individuo il mio Io. Il bello è che se mi scarto come una cipolla mica ci riesco a individuare la mente dentro questa povera camera iperbarica che è il mio corpo. Vale a dire? Che la mia mente è volatile, che non posso provare ci sia da qualche parte dentro lo scafandro. Ci sono pezzi di carne che emanano odore, ma non c’è una località geografica dove io posso dire con certezza che ci sia dentro la mia mente. La mia mente non c’è. Non c’è per la madonna! Ma se allora se non c’è chi è che prova dolore? Chi è che prova paura per quello che gli può accadere? Chi è che si sente il bersaglio della colpa, da cui il bisogno di chiedere scusa? Merda, è così chiara la questione fratello sole e sorella luna. Fratello catalano e sorella basca. Collega italiano, hai capito dove andiamo?
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Stiamo andando passo dopo passo in bocca alla disperazione, uno scalino alla volta, tornante dopo tornante. Deve succedere per forza qualcosa una volta arrivati lì sopra altrimenti che senso avrebbe tutto ciò? Ma il bello di tutta la questione è che puoi verificarlo. Se ci arrivi, puoi verificare. Scientificamente parlando intendo, tu puoi dire è così o non è così. Vuoi mettere che razza di opportunità è questa? O’Cebreiro è da qualche parte lì, dietro la montagna. A 1.293 metri d’altezza dalle parti del cielo. Lascia che la tua vista si perda nella bellezza di questo orizzonte. Viene male dentro a guardarli questi posti, da quanto belli sono. Ahhhh… O’Cebreiro si chiama così per la storia del contadino e del sacerdote. L’ho letto nella Berti ieri sera. C’èra un contadino del villaggio di Barxamaior, nell’anno mille duecento novanta tre o giù di lì, che per ascoltare la Messa è partito di mattino presto per questa stessa salita durante una tormenta di neve. La tormenta lo fa giungere in ritardo e questo lo disturba molto. Il prete che celebra la funzione, privo di fede come una carogna, ride del fatto che quel buzzurro si sia fatto la montagna con quel tempo da diavoli solo per prendersi un poco di pane e di vino. Ma al momento della consacrazione l’Ostia che tiene in mano si converte in carne e il vino in sangue facendolo trasalire. O’Cebreiro, il cervello. Carne e sangue. Contenitore di ordini logistici. Forse calderone di pensieri, ma non è chiaro. Adesso quei due sono sepolti l’uno a fianco all’altro dentro la chiesa del paese. Un semplice contadino ricco di fede e un prete incredulo. Che dormono assieme, come degli amanti, da settecento anni. «Italianooo? Que hay?» Non c’è niente hermano, cerco solo di non fare un infarto. Sto sudando anche l’anima e tra un po’ mi fermo a prendere fiato. Continuo a camminare sui cristalli di rocca, pare anche a 239
te? Se pesassero come polistirolo me ne metterei nello zaino un paio, ma non posso permettermelo. Tra un po’ si arriva a Laguna de Castilla dove ho sentito dire ci sia un bar. E lì mi fermo di certo a bere un vaso. Poi c’è l’ultimo tratto e spero vivamente di farcela. Non è tanto la salita in sé, ma quello che ci si mette sopra a rendere difficile la questione. Ancora una volta mi sembra che il cammino come metafora essenziale della vita sia la visione più corretta che ho avuto finora. Le cose, dalla loro parte, non pesano e non hanno più di tanti problemi per esistere. Come dire: esistono e basta. Siamo noi con le nostre proiezioni inutili che rendiamo quelle stesse cose pesanti fino all’inverosimile. Se mi guardo dentro devo ammettere che il mio approccio con la realtà è distruttivo, per lo meno in un primo momento. Sono partito dai Pirenei con l’idea che la terra che avrei calpestato poteva massacrarmi i piedi, cosa che poi è successa. Ho affrontato il sole della meseta sempre con l’idea ereditaria che il sole può farti suonare il cervello. E così il mio cervello ha iniziato a suonare. Ho percorso la Castiglia interferendo col vento che soffiava in senso contrario, cosa che ho continuato a fare fino a stamane. Le mie proiezioni mi inducono a credere che tutto ciò che giunge dall’esterno sia malefico per il mio corpo o che comunque sia un ostacolo da superare. Ma di fatto non è così. Non c’è un’entità “sassi sul terreno” che ha progettato a monte di massacrarmi i piedi. È la mia idea che questo possa accadere che fa sì che la cosa accada, null’altro. Già con il sole il mio atteggiamento è cambiato grazie al fatto di aver individuato l’estraneità di quel pensiero. Solo per il fatto di aver pensato che è per mia madre che il sole uccide e non per me che quella stessa non‐entità‐Sole mi ha fatto passare
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indenne. E adesso mi ci sto lavorando il vento... Terra, Fuoco e Aria. Manca l’Acqua, ma in Galizia è risaputo che piove. Devo continuare a osservare. Non ho idea di quanto tempo sia passato da quando ho fatto due parole con Ciavi l’ultima volta. Ho come l’impressione che il tempo si sia fermato. Ho un vago ricordo di avere attraversato un paese dove c’era un cane che dormiva di fronte ad una stalla, ma non sono in grado di dire se sia stato un minuto fa o un’ora. Che sia stata Laguna? L’unica cosa che ricordo è che non ho mai smesso di camminare. Non vedo più i ragazzi dietro. Forse ho tirato dritto e non mi sono fermato al bar. Che abbia incrociato la curva spazio temporale e mi sia sparato un viaggio interstellare? Non ne ho idea, ma qualcosa deve essere successo perché quel cartello che vedo in lontananza sembra parlare chiaro. La vista per fortuna non mi abbandona. Perdo i capelli è vero, ma c’è qualcosa che ancora funziona. O’Cebreiro, il primo paese della Galizia. Non so come sia successo, ma è successo. Mi sento stanco, mi sento stanco dentro. Ho bisogno di bere del ghiaccio liquido e lasciarmi morire sul bordo di un campo di grano. Ho bisogno. O’Cebreiro è l’emblema del caos. Una marea umana di gente che sembra di essere a Jesolo in agosto. Pare che i cattolici di tutte le parrocchie del mondo si siano dati appuntamento qui stamattina. Mancano 152 chilometri a Santiago ed è il punto limite da cui partire per ricevere la Compostela. Se fai meno strada non te la danno. Niente indulgenza plenaria. Devi garantire almeno cento chilometri di timbri e da qui si può fare. 241
La stragrande maggioranza di gente che dice di aver fatto il Cammino di Santiago parte da qui se non da più avanti. Una settimana di viaggio al massimo e poi ualà! Via i peccati veniali. Se tu li vedessi fratello Francesco, tu che ogni volta che ti penso mi fai venire l’occhio glauco e il nodo in gola. Se tu potessi vederli come sono fatti, come sono attrezzati di supporti e di orgoglio. Se tu potessi sentire come strillano… Riusciresti davvero ad abbracciarli come hai fatto con gli altri? Qui più di qualsiasi altro posto che ho attraversato dà l’idea del fiorente Business di Santiago. Se nei giorni precedenti c’era ressa da adesso in poi c’è da aspettarsi il peggio. Ma perché dovrei lagnarmi? In fondo io sono uno di loro, esattamente uguale sia nei diritti che nei doveri. No, non è quello. È che mi dà l’impressione che tutti questi pellegrini dell’ultimo tratto non siano rodati al rispetto. E se ci penso è anche logico, stanno partendo da qui. Mettiti nella loro testa. Ricordi quando hai baciato il suolo di Saint Jean? È la stessa cosa. Come i cattolici saccenti di Grenoble, a modo loro stanno facendo un’impresa. Cosa importa se in una settimana, dieci anni, in triciclo o scortati dalla guardia svizzera. Tutta questa polemica non è importante. L’unica cosa importante è procedere fino a toccare le labbra dell’Oceano Atlantico. Se c’è un posto giusto dove tirare le conclusioni è quello e solo quello. Si fotta anche l’indulgenza. Il paese di suo è molto bello, caratteristico. Ci sono talmente tanti souvenir esposti che non si sa bene cosa sia reale e cosa no. Quel tipo col forcone per esempio. È vero o ci fa finta? Secondo me fa finta, perché il mondo viaggia ormai a un’unica velocità e non importa se il tema del giorno è la spiritualità, le vacanze del presidente o il conflitto indo‐pakistano. The show must go on zio cane!
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Finalmente arrivano le ragazze. Ciavi ha gli occhi che luccicano per via di Mirjam. Ti auguro ogni bene fratello. Facciamoci fare ‘sto timbro sulla Credenziale e ripartiamo subito. O’Cebreiro mi ha già rotto i coglioni. C’è talmente casino che bisogna fare la coda per entrare nella chiesa. Per vedere cosa poi, la tomba del prete povero e del contadino ricco dentro? Ma fammi il piacere. Facciamoci sta birra e filiamo via. A questo punto la strada è mille volte meglio. Certo è che questo, più di ogni altro luogo, sembra costruito ad arte per darti un senso di suggestione. Con queste case col tetto di covoni, questi muri faccia a vista e quest’odore di paglia e di fieno. Di merda anche. Secondo me qui non ce le hanno nemmeno le vacche. Comprano l’essenza di letame da qualche fabbrica di profumi e la spargono in giro di notte per lo show del giorno dopo. Lo spettacolo deve continuare. Infinitamente. Ma fino a quando? Recuperate i vostri begli zaini, compagni casuali di viaggio. È tempo di darsi una mossa e procedere lungo la via. Abbiamo altri dieci chilometri da fare e non vedo nelle vicinanze l’italiana di Aosta. Si sarà persa assieme al padre generale e allo zio napoletano. Ci siamo tutti persi. Da tanto tempo. Perché se così non fosse, che cosa ci staremmo a fare qui? Inutile che mi guardiate con quegli occhi fratelli. Non ho alcuna risposta da dare, però sappiate che ne cerco. Perché sono così oscuro? Ve lo dico subito. A farmi sentire così incazzato al punto di piantare tutto questo casino mentale non è un fine supremo come può sembrare. Si tratta soltanto di passione, solo quella. Energia sessuale non lavorata e ben compressa che scorga direttamente dalla sorgente. Avevo la possibilità di fare all’amore con una specialissima hospitalera basca e non l’ho fatto. Potevo arricchire il curriculum di relazioni fisiche lasciando sciogliere il 243
mio fluido sulle labbra di una maestrina valdostana e non l’ho fatto. È una vita che lascio scorrere via occasioni d’oro e non so nemmeno io perché. Col tempo evidentemente si diventa deficienti e, nel mio caso, questo viaggio sta accelerando i tempi. Il processo è in atto. Sappiatelo. ‐152 alle porte di O’Cebreiro ho iniziato a vedere sul bordo della strada dei ceppi segnaletici in cemento. La Berti dice che da adesso in poi, a cadenza di ogni cinquecento metri, indicheranno la distanza mancante da Santiago. In pratica è un conto alla rovescia. Un sotterfugio per creare tensione, nel caso non ve ne fosse stata già abbastanza. Così adesso anche se non voglio sapere a che punto sono non posso più farlo. Nemmeno la sorpresa ci è concessa, due marroni ‐151,5 uno fa di tutto per non avere al polso l’orologio e regolarsi col sole e prova in ogni modo a fidarsi del suo istinto che gli dice “al prossimo rifugio mancheranno dieci chilometri” e adesso gli tocca di lasciare perdere perché la verità è stata affidata al blocco di cemento. So mica se mi va bene questa cosa. ‐151 Mi verrebbe da tornare indietro o cambiare addirittura strada per fare un dispetto a chi ha avuto questa idea bastarda. Perché, un conto è camminare e basta pensando ai fatti propri e un altro è avere questo assillo sul bordo della vita che ti dice mancano cento, mancano ottanta, mancano venti. Porca troia, a cosa servono ‘sti cazzo di blocchi. Senza contare che saranno costati una fortuna. ‐150,5 Sì, tua sorella… … 244
‐150 Succhiami l’uccello va… … ‐149,5 Quella infestata di tua madre, ti venga un blocco… …. ‐149 Credo che l’unica soluzione sia fare finta che non ci siano. Non guardarli. E così firulì, firulà, ci incamminiamo verso il primo paesetto che si chiama Liñares. Mirjam parlotta con Ciavi sul bordo sinistro della statalina, Marta con Andere su quello destro e io per mantenere l’equilibrio del gruppo cammino al centro, proprio in mezzo alla strada. Se arrivano macchine mi sposto, è solo per non vedere quei ceppi malefici, ah ecco, guardane un altro ancora. Voglio proprio vedere se riesco a non… ‐148,5 Niente da fare. Mi attirano la vista come un paio di tette. Come la bocca della valdostana. Ma in fondo che problema c’è? Perché dovrei preoccuparmi per dei blocchi di cemento? Tutto questo ragionamento non ha il minimo senso. Certo è che da ieri sera è cambiato qualcosa, anzi è successo qualcosa. Ma cosa? Ho parlato con Paola di Aosta e allora? Eh, allora allora… non ci vuole molto a capirlo che tutta questa rabbia, questo scorrere frizzantino di pensieri non è altro che lo spostamento d’aria di una valanga di energia che non sai dove convogliare. Questo è. Comprimi tu, ecco cosa succede. E guarda caso il tutto accade proprio quando pensavi di avere risolto definitivamente il problema della confusione mentale. Vatti a fidare della mente. La mente è una cosa instabile fratello padovano, come le gambe.
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L’importante è che non ti abbandonino quelle altrimenti è finita. Sei finito. Ecco un altro ceppo: ‐147,5. Uno l’ho perso per strada. Meglio così. Un passo alla volta. Sin prisa y sin pausa, come dice l’antico detto che trovi scritto nel muro esterno di certi rifugi. Senza fretta e senza pause. Mi sembra molto saggio. Prelude al fatto che per procedere nel migliore dei modi bisogna stare calmi. Che senso ha poi agitarsi? Se hai un problema e non puoi risolverlo di cosa ti preoccupi a fare? Al contrario, se hai un problema e puoi risolverlo che senso ha preoccuparsene? In entrambi i casi agitarsi non vale la pena. Detto tra noi, vista l’esperienza fatta finora, il Passo Perfetto credo sia uno di quegli stati che si individuano sul sentiero soltanto se la mente è sgombra. Quindi, per individuarlo è necessario fare tabula rasa di pensieri dentro la zucca e procedere serenamente. Gioiosamente. Ecco, adesso che mi sono fatto stampigliare sulle labbra un sorriso deficiente mi sembra che tutto funzioni meglio; la strada mi scorre sotto i piedi magicamente, come un tapis roulant… passo Liñares, passo Alto de San Roque, passo Hospital… no, qui mi fermo. – Ci fermiamo? Se c’è posto ok, gli altri sono d’accordo. Il rifugio è una casa sul bordo della strada e dal numero di mutande stese fuori sembra gonfia di persone. Ma è un giorno troppo pesante per andare ancora avanti. Non c’è nulla da mangiare? Pazienza. Ci sono ristoranti? Un cazzo, siamo in mezzo al nulla. Signora, ha un paio di uova da vendere? 246
Un litro di vino? Simpatici questi galiziani. Tu di dove sei? Di Padova e tu? Di Vicenza. Infatti, si sente dall’accento. Noi abbiamo iniziato oggi. Ottimo. E tu? Più indietro. Ma si può stendere la biancheria in questo posto? Non capisco la domanda. Stai stendendo la biancheria sul filo di un vigneto privato, si può? Di dove sei di Vicenza? Montecchio Maggiore. Ah ecco. Non è vietato allora, possiamo anche noi? Sì, potete anche voi. Per fortuna. Già fortunissima. Scusa, posso farti una domanda personale? … Posso? … Perché stai facendo il Cammino? 247
26 (‐4) Oggi sento che sarà un gran giorno, soprattutto per il fatto che non è più ieri. Il vivere di ieri è stato particolarmente duro e spero che la cosa non si ripeta per un po’ di tempo. Stanotte ho dormito tra i piedi di Andere e la testa di qualche crucco. Dopo una giornata come quella passata, contrariamente a quanto ho affermato in precedenza che la mente non esiste, ciò che in questo momento mi sento di sostenere è che non solo la mente esiste, ma esistono più tipi di menti che si attivano a propria discrezione diventando i portabandiera di incomprensibili personalità. Della serie: noi valiamo zero. E nel qual caso io. In questo senso ho ragione quando dico che non esisto. Nel senso che non ho alcuna voce in capitolo. A questo punto è come tornare alla casella di partenza del gioco dell’oca. Si riparte dalla domanda iniziale: chi sono? A parte il fatto che non so dare la minima risposta, ripensando alla giornata di ieri non posso non soffermarmi sull’irascibilità che ha condotto tutti i miei pensieri nei confronti del mondo esterno. Da un certo punto di vista dovrei vergognarmi di me stesso, ma visto che il problema è proprio chi è quel me stesso che dovrebbe vergognarsi di chi, accetto quanto accaduto come tale e vedo di concentrarmi sui problemi attuali. «Caminare peregrino, caminare…» Il sorriso radiante di Ciavi mi prende alla sprovvista. – Come va hermano catalano? «Yo bene italiano. Ma tu? Aier fueste siempre oscuro como la cancion de Brindebardi. Yo te vedìa andar scribiendo col poligrafo, un monton de palabras ostia puta…» 248
– Ieri è stata una giornata strana. «Tiene problemas?» – Un monton ostia puta. «Qualo es el problema amigo?» – Problema de equilibrio mental hermano. «Ahhhhh – commenta Ciavi ridacchiando – yo siempre dicho que tu es un poco loco ne la cabeza…» Tre chilometri dopo Hospital arriviamo a Alto de Poio, un villaggio composto di svariati letamai e qualche casa. Fuori della costruzione di calcestruzzo adibita a rifugio una donna ci sventola la mano: «Ultreya!» Ultreya è un’esclamazione che, ho sentito dire, in Galizia si udirà spesso. La usavano gli antichi abitanti della regione per spronare i pellegrini a raggiungere l’imminente fine del Cammino. Credo voglia dire qualcosa del tipo forza e coraggio! Della serie: manca un niente e sei arrivato. Se smetti adesso sei un pirla. Quindi continua e taci. Ultreya. Più avanti ci fermiamo a fare colazione su di un baraccio e chiedo al mio compagno perché secondo lui non c’è la nebbiolina magica di cui tanto si è parlato. Ciavi ne sa quanto me e si arrampica su di un discorso assurdo sull’umidità del giorno prima e il calore del sole di oggi. Il caso vuole però che una volta ripresa la strada il sentiero s’inoltri per una folta vegetazione e come per magia ci troviamo immersi in un paesaggio incantevole degno di una fiaba nordica. Il sentiero scorre attraverso un bosco di querce dove, ad un certo punto, la fatidica nebbiolina si spande a trenta centimetri dal suolo.
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Ciavi esplode in uno dei suoi proverbiali «Aaaahhh…» aspirati. La sensazione è quella di essere entrati in un mondo incantato dopo aver attraversato la porta dello specchio magico. Dico a me stesso che un’immagine del genere vale tutti disagi di un viaggio di questo tipo. Poi, come accade sempre, il paesaggio muta per trasformarsi in qualcosa d’altro. Il bosco diventa strada, la strada ancora villaggio, il villaggio fontana e i piedi fanno male, le ragazze cantano Brindebardi e io ho la testa ancora rintronata per i pensieri irati di ieri. Dal punto di osservazione di queste colline verdeggianti, quanto successo è fin troppo chiaro. La ragazza di Aosta incontrata a Pereje, con le sue labbra promettenti, ha sortito l’effetto per nulla desiderato di stappare il fermo dell’energia che sto lasciando invecchiare nella botte del cantinino. E tutta quella roba, non potendo fare altro, è iniziata a uscire senza dirmelo. Per sua sfortuna però, una delle mie tanti menti se n’è accorta in tempo e, per difendermi, ha iniziato a convertire il composto in qualcos’altro e direzionarlo all’esterno. Il risultato di questo processo di conversione è finito in parte sulle pagine del mio diario e in parte addosso ai pellegrini di O’Cebreiro sotto forma di occhiate taglienti. Personalmente non ho memoria dei luoghi in cui mi sono fermato a prendere nota dei pensieri. Ciavi dice di avermi visto scrivere camminando e qualcosa in effetti mi sembra di ricordare… Ma è finita! Oggi è un altro giorno. Ormai siamo quasi arrivati alla fine e i blocchi di cemento sul bordo del sentiero fanno di tutto per non farcelo dimenticare. I sentieri della Galizia sono dolci e l’impegno più grande è per gli occhi che, attraversando i numerosi tratti di natura umida e oscura, non sanno bene dove sia meglio guardare. 250
Mentre Ciavi mi spiega dettagliatamente le sfaccettature della depressione di sua madre, le ragazze perfezionano il cantato di Ballata in Fa Diesis minore. Due “spagnole” che insegnano un testo di Branduardi a una tedesca è un’esperienza da non perdere. A un certo punto, quando siamo alla fine di un promontorio e stiamo per scendere al centro di una vallata lussureggiante, le donne del gruppo dicono di essere pronte e tentano di coinvolgere sia me che il catalano in un’esibizione pubblica, riuscendoci. Così si canta a squarciagola Sono io la mortettè e po‐ ò‐rtoccorona sbattendo piedi e bastoni sul suolo del sentiero. E mentre eseguo la mia parte mi chiedo se non sarebbe stato meglio insegnare a quella gente una stronzata più semplice del tipo Bandiera Rossa o cose del genere. Non l’avessi mai detto. Bandiera Rossa già la conoscono, perfino Mirjam. “Pensa tì…” E così, dopo tre quattro versioni di Branduardi si riparte con le prove di Bandiera Rossa per una successiva esibizione. Arriviamo a Sarria che sono sfinito. Il rifugio è capiente e colmo di viventi come prevedevamo. Trovo un angolo su cui srotolare la stuoia e mi distendo. Sono finito. Dopo un po’ arriva un pellegrino di Bilbao che incontro sul sentiero ormai da qualche giorno. Ha lo sguardo oscuro e qualcosa che non mi piace, ma essendo testato alla colorita varietà di umani circostanti ci discorro tranquillamente. Il ragazzo mi fa tutto un ragionamento strano che capisco per metà, dopodiché mi invita a bere una birra. Non so perché, ma qualcosa mi dice di rifiutare. E rifiuto. 251
Prima di andarsene il basco mi dice: «Tu sabes que es un maricon?» – Ciavi, que es un maricon ? «Ahhh, un maricon es un maricooon…» risponde il catalano atteggiandosi da donna. – Na checca? «Que es nachecca italiano vafonculo pizza cazzo figa…» – Sta tranquìo fìo… una cosa alla volta… Comunque ho capito, maricon vuol dire checca e io non lo sapevo. Il giorno finisce con una zuppa di lenticchie e un piatto di polpo a la gallega. Un quarto di rosso, un chupito de Anis e un doppio paio di sigarette. Posso dirlo? Sono‐stanco‐dentro. Ho bisogno di poggiare la testa su una pietra e dormire per i prossimi duemila anni. Lasciate che mi svegli da solo. Adios. 27 (‐3) Il vento contrario ormai è un debole ricordo. La Galizia, con le sue nebbie mattutine dà l’impressione di essere un territorio sacro. Non so cosa sia, ma sento qualcosa di solido trafiggere l’aria e miscelarsi con l’odore delle piante. Qualcosa che mi dice di procedere in silenzio, senza far rumore, portando rispetto… Per i miei arti inferiori, abituati alla pena giornaliera, la strada da fare non è più un problema. I sandali scivolano a pochi centimetri dal suolo e l’impressione è proprio quella di camminare su dei cuscinetti d’aria.
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Uscendo dal paese incontriamo una ferrovia da attraversare e poco più avanti il cammino si introduce in una radura umida e oscura, immersa in quella nebbiolina che fa tanto Fata Morgana. Camminiamo in silenzio per il bosco, con i sensi tesi ad ascoltare le meraviglie della natura che ci giungono dall’esterno. Dopo qualche tempo di dolce saliscendi Ciavi ci induce a fare una pausa ai piedi di una quercia secolare. Mi siedo dando le spalle al tronco e rimango lì a guardare il paradiso terrestre che ho dinnanzi. In quella posizione immagino il Vittorioso Siddharta con la schiena appoggiata all’albero del Bodhi. Mi accorgo solo ora che il sentiero tracciato dal Grande Conquistatore occupa la mia mente per lunghi tratti sin da quando sono partito. Così come il pensiero di Francesco sortisce l’effetto di scatenare la commozione del mio cuore, pensare al Glorioso Gioiello Radiante mi genera nella mente quella luce che spesso e volentieri tende a mancare. Penso a tutte le persone che ho incontrato durante questo viaggio. Gente con cui ho legato come Mauro di Cuneo e Martina di Darmstadt e altri con cui il solo contatto visivo mi ha creato tensione. Guardo i miei attuali compagni di viaggio impegnati chi a sgranocchiare pistacchi, chi a bere acqua, chi a salire sopra l’albero e chi a fumare. Eccoci qui, fratelli. Sul filo del rasoio di questa vita. Al centro di questo sentiero che induce alla speranza. Naturalmente tutta da verificare. Se siamo qui è perché stiamo cercando qualcosa che lì fuori ci manca. Spinti da necessità del tutto personali che vanno dal bisogno di incontrare l’anima gemella, al desiderio di riuscire in un’impresa avventurosa. Non vi sembra strano? Che se andiamo a sfogliare una per una tutte le motivazioni che ci hanno portato 253
a partire da casina casella per venire a farci il culo quadro in questa Spagna del Nord non troviamo altro che un unico denominatore comune? Felicità. Bisogno di. Amore. Desiderio di. Sofferenza. Fine della. Chiamatela come volete, ma la questione è sempre la stessa. Siamo tutti qui per questo e se non raccontate balle a voi stessi capite che è così. Guardiamoci fratelli, ognuno colla nostra zavorra di sfighe attaccata dietro che ci spinge in avanti lungo il corridoio. A volte ho la sensazione che dai bordi del sentiero s’innalzino al cielo delle pareti di pietra. La mia immaginazione mi porta a credere che la funzione di tutto ciò è proteggere il pellegrino che si è lanciato coscientemente in questa assurda impresa. Muri di protezione. Muri che non possono certo garantirti che tornerai a casa sano e salvo, però che ti mettono in condizione di abbandonarti al processo di purificazione. Perché hermanos, se non l’avete capito, è questo che accade nel cammino. Lasciate che i cattolici vi dicano quello che credono sulla mortificazione, che i cicloturisti di mezzo mondo vi presentino le righe della sella sul didietro come la loro verità, che la Junta Gallega vi racconti fregnacce sulla natura che incontrate strada facendo. Ci sono tante verità quanti sono i viventi in circolazione nell’universo quindi la vedo un po’ difficile trovare un accordo per tutti. Ma quello che è fin troppo chiaro, figli di una vescica infettata, è che se possiamo permetterci di essere qui in questo momento è perché abbiamo avuto un culo grande come una capanna. Non so voi, ma io ho l’impressione di star buttando fuori tanto di quel lerciume da far spavento. Se potessi voltarmi indietro e vedere la scia di nero che ho lasciato dietro i talloni 254
credo vomiterei dal disgusto. Sto scoprendo l’acqua calda, lo so. Tutti i pellegrinaggi sono dei cammini di purificazione, indipendentemente dalle seghe mentali che uno si spara strada facendo, e non sarà un certo un ex imprenditore del nord‐est padano senza il dono del numero a scoprire la celata verità. Né il Coelho di turno. Quello che voglio dire è che il tentativo di individuare un Passo Perfetto, nascosto tra milioni di passi ordinari, mi sta portando a credere che la vita dà ragione a qualsiasi atto consapevole. So per certo che nessuno di noi se ne tornerà a casa con la soluzione dei problemi dentro la saccoccia e che non c’è un’unica soluzione che vada bene per tutti. Ma questo è uno di quei luoghi in cui per lo meno si ha la possibilità di intuire quale sia la propria. A qualcuno farà effetto il profumo di una candela appena spenta intercettato in una chiesa dedicata a Santiago Matamoros, a qualche altro la pellegrina che si è trombato in un pagliaio dalle parti di Samos, a qualche altro ancora il curandero incontrato sul bordo del sentiero che, con una sola occhiata, gli ha rivelato vita morte e miracoli del suo passato precedente. E per qualcuno come il sottoscritto, alla fine della fiera, il cammino sarà stato solo una sequenza di impronte sulla polvere. Un tentativo come un altro di indurre la quiete mentale attraverso la coordinazione di passi e respiri. Passi e respiri. Non credo uscirò vincente da questa prova, perché quello che sono venuto a cercare non si può trovare semplicemente riproducendo l’evento milioni di volte. Sì certo, la familiarità sicuramente aiuta a rendere la pratica del passo più consapevole, ma per trovare la perfezione ci vuole ben altro e quel ben altro a volte si chiama tempo, altre volte pazienza, altre ancora meriti acquisiti. 255
Fa brutto dirlo, ma credo di essere più confuso di quando sono partito. E in più sono portato a credere che non ci sia un Disegno Superiore che coordina le nostre azioni in questo spazio, come pensavo all’inizio. Non so come sia la questione, ma a volte ho il sentore che i fenomeni che si manifestano dentro e fuori la nostra mente siano spinti da una forza casuale più che causale. Sono filosofie del cacchio, me ne rendo conto. Ma ci stanno così bene in questo posto, con la schiena appoggiata alla corteccia di un albero secolare. Sembrano la loro morte. La mia. La verità per fortuna non è mai da una parte sola, ma sta sempre in mezzo. Hermanos, vi chiedo perdono per questo silenzio caotico di cui vi rendo parte. Se fossi saggio riderei assieme a voi del pianto d’amore del merlo che il catalano diffonde nell’aria di questo bosco da dieci minuti a questa parte. Se fossi saggio… Ma il vero problema è che sento che questo viaggio sta quasi giungendo al termine e io non ho trovato nulla di quello che cercavo e in più ho meno certezze di prima. Stanotte ho sognato dei dischi di rame argentato nel bagagliaio di un’auto. Poi entravo in una casa disordinata dove non c’era nessuno. Seguendo certi rumori provenienti dal salotto ho scoperto un ascensore e la casa è diventata un reparto ospedaliero dove gente entrava e usciva cercando questo o quell’altro dottore. Non chiedetemi di provare a interpretare questi simboli perché non ne sono capace, per lo meno oggi. Che gli strizzacervelli facciano il loro mestiere e io il mio. E il mio, questo sì che l’ho capito, è quello di camminare. Perché‐Io‐sono‐un‐pellegrino. Solo questo. «Vamos?» 256
– Vamos a Samos, commento in rima. «Samos fuè ahier, italiano loco…», mi risponde Ciavi ticchettandosi la tempia con la punta dell’indice. Già. Tra Triacastela e Calvor, allungando il cammino di cinque chilometri c’era la possibilità di visitare un monastero benedettino del VI secolo che fu un punto di grande importanza per i pellegrini diretti a Santiago. Cosa che non abbiamo fatto per un problema di tempo. Dando uno sguardo alla Berti leggo del prossimo villaggio che incontreremo sulla strada: Barbadelo. Lo incrociamo in meno tempo di quanto pensassi. Sul bordo del sentiero c’è una chiesa dedicata a Santiago costruita secondo uno strano stile che la guida definisce romanico gagliego. Davanti alla chiesa salutiamo un gruppo di pellegrini intenti a fumare attorno a un tizio che suona il Deejeereedoo. Attraversiamo il paese senza fermarci e procediamo per le campagne alternate da boschi ricchi di muschio. L’aria è salubre e mi sembra di non sudare. A differenza dei primi seicento chilometri, che mi bevevo tre litri di acqua di fontana al giorno, adesso quasi non sento nemmeno la sete. Sarà perché non ho più nulla da far evaporare? Ne ho, ne ho, eccome ne ho. Avanti di questo passo arriviamo nei pressi di un villaggio chiamato Ferreiros dove un ceppo di cemento indica la distanza da Santiago: 100 km! Tra me e me penso che da questo punto in avanti sarà piuttosto difficile fare finta di non vedere i blocchi segnaletici del famoso conto alla rovescia. Ci sediamo da quelle parti a fare una pausa tabacco e non ho nessuna voglia di parlare. Mi sento triste e so che i miei compagni lo sentono. Non faccio tempo a finire il pensiero che 257
Andere mi si siede accanto e, senza che io le chieda nulla, inizia a parlare della sua vita. Mi chiede scusa per l’atteggiamento dei giorni precedenti e mi ringrazia per averla accompagnata all’ospedale di Ponferrada. Dice che gli incuto molta sicurezza e rivede in me dei tratti di suo padre, quel padre che non ha più da molti anni. Attenta a non proiettarmi addosso cose che non sono, Andere. No, non ti proietto addosso cose che non sei, quello che dico è vero. Vorrei fare l’amore con te… … Credo di non aver capito cos’ha detto. «Yo deseo amarte. Amame por favor...» ... Glunk! Glunk è il rumore che fa il mio cervello quando una donna si dichiara così apertamente. Glunk! È come una porta pesantissima che si apre e si chiude simultaneamente. Il rumore di una specie di serratura. Glunk! Un po’ arrugginita anche e credo sia perché non mi succede spesso che le donne mi si rivelino così. Della serie: chejjedico ora? Come faccio a spiegare a una basca di ventidue anni che non credo di essere la persona adatta a sostituire suo padre con il “valore aggiunto” in più che mi chiede? Parlo esperanto soltanto da venti giorni e non credo proprio di essere in grado di fare un comizio sul contatto fisico tra un uomo e una donna nel corso del Cammino di Santiago. – Vedi Andere io… «Te quero. – mi interrompe – Amame por favor!»
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Gli altri nel frattempo hanno ripreso a camminare e mi ritrovo solo all’entrata di un nuovo bosco alle prese con una basca che non capisco bene se sia eccitata o cosa. – Es una tua pelicula Andere, esto no es el sitio justo por esta cosa. «No es el sitio justo por l’amor? Donde està el sitio justo por l’amor?» – No sé… La cosa mi preoccupa. Non mi aspettavo una proposta del genere sul fare di mezzogiorno. «Yo siento que tu es un hombre especial y quero haberte. Tomame por favor!» – Tomame? Especial? Tu es loca sabe? Sento che non sarà facile uscire da questo guano. La ragazza mi sembra piuttosto convinta e non posso glissare su altri discorsi. Devo affrontarla subito e sciogliere immediatamente ogni dubbio. – Esta cosa non està possible Andere. Yo soy un peregrino solamente. No quero una relaccion in esto lugar. «Porque?» – Porque tengo otras cosas in mente. «Que cosas?» Il pressing si fa sempre più duro e cerco di aumentare il passo impercettibilmente per raggiungere gli altri. Non posso nascondere che la situazione mi crea una certa inquietudine soprattutto per la dinamica con cui si è sviluppata. Andere è una bella ragazza, giovane e piena di ottime qualità, ma ormai ho un’età che non mi permette di accettare condizioni esterne. E se anche lo facessi si finirebbe per soffrire e basta.
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Non l’ho fatto con Clara che mi attraeva fuori di misura, perché dovrei farlo con Andere? Le voglio bene, ovviamente. Ma un bene amichevole, da pellegrino. Non rientra nei progetti mentali di questo momento storico usare il mio corpo che non sia per camminare. Anche se si tratta di fare del bene a qualcuno. Mi spiace Andere, non posso. «Dime porque?» Eeeeeh, dime porque! E allora mi vuoi fare girare i coglioni zio cane! Dime porque. Porque no e basta. Cogno! Le cose o ci sono o non ci sono. E qui non ci sono! Guarda, non prendertela. È colpa mia. Scusa! Forse ho sbagliato nei giorni precedenti a darti tanta corda, scusami tanto, ma quanto mi chiedi non è possibile. Non ci sono abituato, ho la testa da unʹaltra parte e un certo fardello di sensi di colpa belli invadenti da trascinarmi dietro. Quindi interrompiamo qui la trasmissione e che sia finita. «No es finita» – commenta Andere. «Se empeza haora…» Il ping pong verbale va avanti per un certo numero di chilometri fino a quando Marta non mi viene in aiuto e si porta via Andere e Ciavi mi si attacca addosso con la scusa di fumare un cigarro. Ci sediamo su di un tronco sul bordo strada, tra folate di merda che arrivano da qualche direzione e gruppetti di pellegrini spiritosi che passano senza degnarci di uno sguardo. Dopo un po’ che siamo lì il catalano mi chiede: «Tienes problemas con Andere?» – No – ribatto – es Andere que tienes problema conmigo. Quando riprendiamo a camminare le ragazze non ci sono più. Procediamo con calma attraverso strani luoghi che mi ricordano le Nebbie di Avalon e le saghe arturiane in genere.
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Dopo un’ora si presenta davanti il grande ponte di metallo oltre il quale c’è Portomarìn. Ormai è quasi sera e ci aspetta un lussuosissimo palazzetto dello sport dove stendere le nostre casacche lerce su del morbido calcestruzzo. Questo è un tipo di libertà che non ha prezzo. Dovremo dirlo in giro, penso. 28 (‐2) A Portomarìn le ragazze non ci sono e nel tentativo di trovarle al rifugio successivo ci rimettiamo in strada nel tramonto. Se è vero che, rispetto ai primi venti giorni di cammino, il corpo viaggia che è una meraviglia, è anche vero che gli ultimi chilometri del giorno continuano a essere una tragedia. Arriviamo a Gonzar con i piedi che urlano bestemmie contro qualsiasi creato. Il rifugio è una casupola sul bordo della strada e non c’e un centimetro quadrato di pavimento libero su cui stendere la schiena, né le ragazze che cerchiamo. A fianco del rifugio vi è un bar paninoteca colmo di pellegrini che si ingolfano di frittata. Se non ci sbrighiamo a cenare finiscono anche le uova dell’ultima scorta e io sono terrorizzato all’idea di dover digiunare. Quindi abbandono l’idea di una doccia e mi siedo su un angolo del locale. Non c’è niente di peggio che finire un giorno di trenta chilometri senza lavarsi un minimo il corpo. Però a volte bisogna scegliere: cibo o acqua? Cibo. Perfetto. A toast terminato (le uova dell’ultima scorta nel frattempo sono finite comunque) si chiacchiera con un pellegrino di Barcellona che fa l’agente di borsa. È uno che incontro ormai da svariate centinaia di chilometri e che all’inizio non mi stava
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niente simpatico a causa dell’atteggiamento “so tutto io” che dispensava in giro. Però, ciò che di buono accade in questa transumanza umana è che anche gli aculei più taglienti della nostra personalità vengono levigati dal vento dello spazio attraversato. E con gli spigoli smussati e tondeggianti si giustifica tutto, si accetta tutto degli altri. Si comprendono cose, anche. Xavi (si chiama così pure lui) mi si aggrappa addosso per via dei sandali tecnici che indosso. Vengo a sapere che fa l’intero cammino ormai da molti anni e che ha una moglie gravemente malata. Da quanto mi dice intuisco si tratti di una di quelle malattie deterioranti che uccidono una goccia di vita alla volta, lentamente e inesorabilmente. Facendo due più due deduco che Xavi, spinto dalla fede in Santiago e dall’amore per sua moglie, spera che i suoi ripetuti sforzi annuali producano un qualche tipo di miracolo. Una malattia grossa ha bisogno di una grossa mortificazione. Quindi un cammino non basta. Porca troia! S’incontrano di quegli esemplari di esseri umani delle volte… Vorrei abbracciare quell’uomo e fargli sapere che apprezzo quanto sta facendo! Vorrei dirgli di non demordere perché prima o poi queste cose funzionano. Parola di ateo. Senza nascondermi dietro a false ipocrisie vorrei ammettergli che all’inizio mi stava proprio sulle balle, ma adesso che ho saputo del suo intento mi sono più chiare molte cose. Gli passo tutte le informazioni che ho circa i miei sandali tecnici di marca israeliana (sono i migliori in commercio) e ci scambiamo gli indirizzi con l’idea di sentirci più avanti. Poi l’uomo inizia a sbadigliare e allora mi rivolgo al mio compagno di viaggio di Badalona, facendo il punto su dove dormire. 262
L’albergue è pieno e al suolo non si può stendere nemmeno un francobollo. Non ci resta che il bar o l’esterno. Il barista dice che se vogliamo ci consente di dormire sotto il portico e così, visto che un portico vale l’altro, ci mettiamo sotto quello del rifugio con l’idea di sconfinare verso l’entrata. Un poco alla volta, ma inesorabilmente, nel corso della notte che avanza. La mattina mi sveglio alla cinque a causa di un ululato di cane. Siamo immersi nei sacchi che a loro volta sono immersi nella nebbia. Quindi abbiamo dormito nella nebbia, non guadagnando un centimetro di entrata che fosse uno solo. Sono infreddolito e ho una spalla ghiacciata. Penso a mia mamma che contenta sarebbe di sapere che suo figlio sta dormendo nel regno dell’umidità. Quasi quasi le telefono per farglielo sapere. «Vutto capirlo che te te maiiiii?» – Eora troveme tì on posto dentro, no? Dopo un’ora e qualcosa ne ho i marroni rotti di stare dove sono. Il bar fanculo è chiuso e ho bisogno di bere caffè ziocane. – Partimo Ciavi? – il traduttore interno padovano/castigliano di mattina funziona da culo. «Ohhhhh…stia puta que ahora es?» – E sie y media. «Tiens prisa amigo?» – No, tiengo hambre. «Que coño de hombre que tu es.» Di mattina le associazioni mentali viaggiano senza l’ausilio di filtri e prendendo spunto da ciò che il mio compare ha appena detto rispondo: – Ov course catlàn, tiengo hambre de cogno, tu no? 263
Scartandosi dal sacco di malavoglia l’amico catalano commenta : «Solito italiano pieno di figa… le seis de la mañana aaaaahhhh… que sueño que tiengo… astu da ascendre italià?» Come no! Gli porgo l’accendino e penso a ciò che ha appena detto. Il solito italiano pieno di figa... Volevi dire, scusa? Camminiamo nel buio e nella nebbia per mezz’ora, superati da greggi di pellegrini che avanzano dietro i coni di luce delle pile. Contro ogni aspettativa, sul bordo della strada, troviamo un bar che sta aprendo e mi fiondo dentro azzannando un doppio paio di magdalenas e ordinando un caffè triplo. La barista è una ragazza silenziosa, però simpatica. Dopo colazione, sentendomi alla grande, uso il bagno a Ovest del locale. È fresco di disinfettante come non mai e il sapere di essere il primo inquilino di un cesso spagnolo mi sembra un lusso senza eguali. Usciamo che è ancora buio e ci mettiamo in marcia. Arranchiamo in cerca della freccia amarilla per un’ora quando dalla nebbia dietro di noi esce una sagoma che dice: «Italiano, me gustan muchos los sandalos que tienes!» È l’altro Xavi di Barcellona, quello della sera prima. Procediamo assieme per una mezz’ora, chiacchierando di Santiago e della strada che ancora resta da fare. Prima di Ligonde incontriamo El Cruceiro de Lameiros di cui avevo letto qualcosa sulla guida. È un crocifisso in pietra datato 1670 che la Berti dice di essere tra i più interessanti dell’intero Cammino. Lo vedo stagliarsi in un piccolo spiazzo vicino a un vecchio rovere di dimensioni spettacolari e mi avvicino.
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Sui quatto lati del basamento si riconoscono dei simboli che lì per lì definisco alchemici: il martello, i chiodi, le spine e il teschio. Passione e morte. Sulla sommità invece, ai lati della croce, ci sono i simboli della maternità e della vita. Giro attorno al crocifisso un paio di volte e poi decido di sedermi a cavalcioni sul teschio per fumarmi una sigaretta. Xavi di Barcellona mi scatta una foto ricordo con la promessa di spedirmela nei mesi successivi. Poi il pellegrino ci saluta e riprende il cammino. Ciavi e io rimaniamo lì ancora qualche minuto, lui pensando alle ragazze che non si vedono, io alla morte sopra la quale poggio il didietro. Il cammino riprende tra il profumo intenso degli eucalipti, mentre il sole cerca di farsi spazio tra la nebbia del mattino. Entriamo nel bosco delle fiabe un’altra volta. La fiaba è la stessa, ma il bosco è un altro. Dobbiamo morire, l’hai saputo? «Me l’han dicho sì… – ribatte il catalano – pero tu antes de mì…» – Podarse… Succederà prima o poi, che la vista dell’occhio mi si oscurerà e l’udito chiuderà le porte ai rumori. Cosa farò a quel punto? Si attiverà una della mie tante menti o rimarrò immerso nel buio? Vedrò qualcosa? Sentirò? Viviamo in un mondo che ci vuole tenere impreparati alla morte. Chi gestisce le informazioni ha fatto in modo che il passaggio tra il corso di un’esistenza e la sua fine diventi un tabù e questo ci porta, inevitabilmente, a essere travolti dall’evento. Mi chiedo come possa essere che la religione cristiano cattolica che, per i primi quindici anni di esistenza, ci ha fracassato i coglioni col discorso del paradiso e della vita eterna non sia in 265
grado di darci delle istruzioni chiare e dettagliate su quello che ci può accadere quando moriamo? Il massimo che riusciamo a fornire al morente è una benedizione e se va bene una crocetta di olio santo sulla fronte. Della serie: vai con Dio. Ma dovrebbe bastarci? Non mi hai ripetuto fino a snervarmi che se mi comporto in un certo modo è quasi automatico di andare in paradiso, se mi comporto così e così vado al purgatorio e se mi comporto di merda, tipo dire parolacce e così via, vado all’inferno? Quindi, io che sono un bambino di otto anni do per scontato che tu “sei certo” che dall’altra parte ci sarà qualcosa. No? Ma allora se “sei così certo” perché non mi racconti niente sul trasferimento. È come se mi dicessi, guarda: New York è bellissima! Ok, dico io. Ma come ci arrivo a New York? Non lo so. Come non lo sai? In nave, in aereo o a piedi? Come vuoi, in nave. Benissimo. Ma… com’è la nave? Voglio dire: è meglio dell’aereo? Non lo so. Ma ci sei stato o no? Scena muta. La realtà è che nella nostra società manca una cultura alla morte perché la stessa istituzione che si fa il portabandiera della vita eterna ha del trapasso una fifa immonda. Anch’io ho fifa, una fifa boia se è per questo. Avere fifa in questo caso credo sia piuttosto normale. Ma almeno dimmelo subito. Quando siamo bambini dimmelo chiaramente che non lo sai, cosa ci vuole?
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«Guarda, le cose stanno così. Tu adesso vivi, però potrebbe anche essere che muori. Nessuno lo sa quando questo accade. Può essere adesso, domani o tra centodue anni. Se sei qua significa che ieri non è stato e questa è una certezza. Comunque, se mai dovesse capitare, sappi che nessuno di noi sa dirti come comportarti, né che cosa devi pensare quando ti capiterà. Vedi, noi crediamo che di là ci sia qualcosa, bei posti, angeli, piaceri infiniti e cose del genere però lo crediamo per via della fede. Non ne abbiamo la certezza matematica. Chi può averla? Nessuno che si sappia è mai tornato indietro per dire che cosa ha visto lì avanti. Quindi non siamo nemmeno in grado di dire che cosa accade nel momento in cui si muore. Sappiamo che la vita finisce quando il respiro smette e il cuore cessa di battere. Poi basta. Da lì in poi dovrai arrangiarti da solo». Cazzolina! Che cosa ci vuole a dirla tutta chiaramente? Paura che un bambino non capisca? Tanto lo pensa da solo prima o poi. A cosa serve tutta questa ipocrisia? Evidentemente serve a colmare il vuoto stesso dell’istituzione. Religiosa o governativa non importa. Siamo entrati a pieno nell’era delle chiacchiere. Ci hanno abituati ad accettarle poco a poco e una volta maturi… Basta prendere uno qualsiasi dei nostri politicanti. Chiacchiere e solo chiacchiere. Prendi uno dei prelati con la papalina rossa, di quelli che si trovano a cena col politico di turno, il giorno prima della elezioni amministrative: chiacchiere, solo chiacchiere. Si riempiono la bocca di parole, fino a ingolfarsi. Ma non è tanto importante quello che dicono, ma quanto. Quantità, non qualità. Benvenuti nell’era della degenerazione signori!
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Se nessuno sa darmi informazioni aggiuntive sulla morte perché non dovrei sedermi a cavalcioni sopra un teschio di pietra a fumare? Rispetto? Nei confronti di chi? Purtroppo la realtà è più triste di quello che penso, perché se mi guardo dentro io sono figlio del Dna del mio popolo e come il mio popolo sono rappresentato da quei politici, da quei trafficanti di false informazioni e dai prelati. E come quei politici ‐ in cravatta se fingono di essere per bene e in tunica se fingono di essere religiosi ‐ mi riempio la bocca di chiacchiere. Perché anch’io come loro non so trovare delle risposte decenti alla morte. Almeno per ora. «Lo scopriremo solo vivendo…» Non credo. Alla fine è morto anche lui. Moriremo tutti. E senza informazioni. Dopo Ligonde il cammino prosegue attraversando paesi dai nomi caratteristici come Eirexe, Avenostre, Alto del Rosario e Palas de Rei. Giunti in un villaggio chiamato Casanova entro scodinzolando, facendo quello che butta in giro l’occhio lesso per vedere se c’è qualche bella figa da sedurre. Ma il mio compagno non capisce la battuta e proseguiamo oltre senza fermarci nemmeno a bere una birra al bar. Dopo poco intercettiamo un cartello che dice che stiamo per entrare nella provincia di A Coruña. – Ottimo – osservo, pensando che non me ne può fregar di meno. Dopo un po’ inizia la zona industriale di Melide che in breve ci porta al centro della cittadina.
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Il rifugio capiente di cui parla la Berti ha esaurito la capienza al punto di essere pieno da far schifo. Si ripiega al polideportivo dove, finalmente, incontriamo Mirjam, Marta e Andere. – Ma dove eravate finite? Andere mi sorride come se il giorno prima non fosse successo niente e mi tocca di pensare che sia suonata come una campana. Però le voglio bene. La guida dice che nella chiesa del Monastero‐Hospital de Sancti Spiritus c’è una pittura murale del XV secolo che ritrae un Santiago Matamoros. Il programma perciò è certo come la morte: doccia, lavaggio indumenti, posizionamento bucato in direzione sole e turismo spirituale. Poveri piedi. Tra una cosa e l’altra oggi vi siete fumati una quarantina di chilometri tondi tondi. Siamo a ‐50 da Santiago. Domani è il giorno della vigilia. Non ci posso credere. La sera ceniamo in un ristorante tradizionale che offre menu del pellegrino con primo, secondo, dessert e beveraggi vari a 1100 pelas. Siamo tutti di ottimo umore. Ciavi per via di Mirjam, Marta per via del ragazzino che l’ha chiamata al cellulare, Andere per via di qualcosa che non capisco, Mirjam per i fatti suoi e io per essere dove sono. Vivi come se dovessi morire tra un istante, pensa come se dovessi vivere in eterno. L’ho letto da qualche parte, in zona 20 anni. – Un chupito de Anis por favor, y uno de Manzana. “Bevi come se dovessi morire tra un istante…”
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Mi addormento dopo aver guidato la meditazione sul respiro che ormai è diventata il punto di riferimento del nostro piccolo gruppo. Che tutti gli esseri possano essere liberi dalla paura, dalla malattia e dalla morte. Dalla paura della morte anche. Prima di cadere nel baratro del sonno penso alla mia. Quando accadrà spero di essere lucido, per vederla in faccia. Spero di non morire di paura e di lasciarmi andare al processo di assorbimento. Spero avvenga tardi perché ho paura. Poi muoio. Cioè dormo. Notte. 29 (‐1) Appena rinasco l’occhio mi cade sul tabellone segnapunti del pallacanestro che indica: Official‐Extranjeros 0‐0. E mi sveglio davvero. Oggi non sarà un giorno come tutti gli altri. Non posso dire sia l’ultimo, ma in un certo senso è come se lo fosse. In realtà l’ultimo sarà domani, ma immagino che, essendo il giorno dell’entrata in Santiago, ci sarà una certa agitazione nell’aria da parte di ognuno. Il pellegrino di domani sarà un’altra persona e può essere che il viandante che si è trascinato per chilometri e chilometri nel corso di questo mese diventi solo un debole ricordo della mente. Perciò voglio godermi questo giorno alla grande. Voglio prendermela con calma e nel contempo marciare. Voglio arrivare a sera devastato dalla fatica. 270
Voglio essere quello di ieri e dell’altro ieri. Voglio essere. Essere semplicemente quello che sono sempre stato. Un pellegrino. – Santiago, por favor, pensaci tu. Mi sono svegliato pensando alla magia di questi posti. Ho fatto le mie cose al rallentatore e nonostante questo mi trovo seduto su di un muricciolo, fuori del polideportivo di Melide, ad aspettare gli spagnoli che non sono ancora pronti a partire. Loro sì che fanno le cose con calma. L’italiano più rilassato che conosco non lo sarà mai tanto quanto uno spagnolo medio. Ci pensano degli agitati e forse hanno ragione. Quando alla fine si decidono ci dirigiamo in fila indiana fino all’uscita del paese e salutiamo Melide passando di fronte al cimitero della chiesa di Santa Marìa, per poi inoltrarci nel bosco. Ho in mano queste cose che ho trovato sul bordo del sentiero e non so cosa pensare. I fatti sono questi: quando i ragazzi sono usciti, dopo svariate battute sugli occhi da sonno di questo o di quella, abbiamo preso la strada. Mentre sto ancora pensando al discorso della magia e al senso del mio pellegrinaggio ateo l’occhio mi cade sul bordo della carreggiata sinistra. “Toh, una carta…” È una carta da gioco, con la figura rivolta a terra. Mi viene automatico andarci verso e raccoglierla. “Fante di Denari. Ma guarda te che strana cosa…” Non faccio tempo a riprendere a camminare che ne vedo un’altra. È lì per terra, poco più avanti, sempre con la figura rivolta verso il suolo.
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I ragazzi sono indietro che parlottano dei fatti loro e decido di non dire nulla. Così raccolgo la carta in silenzio e scopro si tratta di un Asso di Spade. “Ma pensa te…” Guardo in giro per vedere se lì avanti c’è qualche ubriaco in motorino che dispensa le carte che gli sono rimaste in tasca dopo la giocata di ieri sera. Ma niente. Dopo dieci passi ne vedo unʹaltra e poi un’altra ancora. Le raccolgo nuovamente una dopo l’altra senza girarle. Dopodiché fine del gioco, non ne trovo più. Le seconde due sono un Re di Denari e un Due di Coppe. Che cosa dovrei pensare? Anzi, sarebbe meglio dire: a che cosa stavo pensando? Il pensiero corrente era rivolto alla magia di questi posti in generale e al senso del mio viaggio. Ironia della sorte, questo strano ritrovamento sembra quasi volermi dare una risposta, penso. Ma cosa significa? Non conosco il significato simbolico delle carte da gioco, né so interpretarle in altro modo. Non ho mai giocato a carte in vita mia, né letto i tarocchi. Mi piacciono un po’ gli scacchi, ma non ci gioco quasi mai. Dovrei considerarla una cosa seria o una presa in giro? Non so, però il fatto di avere per le mani quattro simboli che prima non c’erano non è una cosa che mi passa tanto indifferente. Nel frattempo la freccia gialla che segna il cammino ci introduce nella prima selva oscura del giorno dove fa la sua prima apparizione la solita nebbiolina di Avalon. Ci inoltriamo nel sentiero con la nebbia che ci copre le gambe fino alle ginocchia. Tra me e me penso che il luogo in cui mi
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trovo può essere l’ideale per interpretare le carte che la terra di Galizia mi ha, per così dire, regalato. Per lo meno posso tentare. Estraggo la prima che ho trovato per vederla meglio. Un Fante. Chi è costui? Continuo a camminare tenendo il bastone sotto l’ascella con la punta rivolta verso avanti. “Potrebbe essere che…” Il Fante è vestito con una calzamaglia rossa e indossa un giacchino da domatore di leoni. Sulla parte bassa porta una gonnella un po’ goffa attorno alla quale è legato un borsino da cui esce un drappo di colore azzurro. Con una mano trattiene la mantella sulla spalla e con l’altra sostiene un disco d’oro che potrebbe essere una moneta gigante dalla quale si partono dei piccoli raggi appuntiti. Al centro della moneta si staglia il profilo di una giovane donna patrizia con i capelli raccolti sulla nuca. Attorno al perimetro interno della moneta due minuscole scritte dicono “Varios Premios”. Il valletto indossa un capello basco dal quale spunta una specie di penna azzurra. Lo sguardo del ragazzo è teso in lontananza è il suo corpo è disegnato in una posizione tale da indurre a pensare che sia in movimento. – Sta camminando! “Potrebbe essere che sono io?” Non vedendo altri nelle vicinanze decido che, visto che le carte le ho raccolte io, potrei essere proprio il soggetto dipinto sulla carta anzi, potrebbe essere un’istantanea simbolica di quello che ero io nel momento in cui sono partito da Saint Jean Pie de Port. Un giovane pellegrino pieno di buoni propositi con le vesti linde e un sacco di strada da fare. Poi cosa tocca? L’Asso di Spade. Come immagine mi ricorda la forza, l’audacia, il coraggio e storie del genere. È una spada un po’ ricurva, mezza araba e mezza spagnola, col fodero tutto lavorato dalla parte dell’impugnatura e una specie di nastro 273
colorato che avvolge a spirale il porta lama. È la spada di un torero. Cosa mi significa questa carta? Beh, improvviso, semplicemente l’energia necessaria a sconfiggere i disagi. Il bastone del pellegrino, le difese, la spada del Santiago Matamoros o una cosa del genere. Vabbè, non sono più di tanto convinto di questa visione, ma accetto l’interpretazione del mio alter ego in silenzio. Poi arriva il Re di Denari, imponente, vestito da ricco signore con una tunica rossa con tanto di ricami d’oro alla base. Un cinturone obliquo di metallo prezioso che scompare dietro il mantello di raso azzurro foderato di pelle di giaguaro. Il Re porta con fierezza una barba dorata e sostiene con il capo una corona a quattro punte. Da sotto la corona parte una lunga chioma bionda che gli si posa sulle spalle e sconfina dietro la schiena. La mano destra del Re è stretta sull’impugnatura della spada piantata al suolo. L’altra mano è appoggiata sul fianco sinistro dandogli un’immagine di stabilità. Lo sguardo del sovrano punta nella stessa direzione cui guardava il fante, l’orizzonte sinistro. La postura regale e le gambe leggermente divaricate lasciano pensare che il personaggio sia in attesa di veder giungere qualcuno, come un servitore di fiducia o un valoroso condottiero al suo servizio. Noto che, a differenza dello sguardo del Fante, ch’è intento a osservare lo spazio sconfinato da attraversare, nel caso del Re tutto lascia pensare ch’egli sia già giunto alla sua destinazione e stia aspettando un messaggero che gli porti buone nuove circa questo o quell’altro affare. In sostanza, se il Fante era un viandante all’inizio del cammino, il Re è un viandante alla fine. Seguendo la logica delle precedenti interpretazioni dovrei pensare che il Re è lo stesso Fante della prima carta che, grazie
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alla forza della spada, ha concluso vittorioso la sua cerca diventando quello che si ritrova a essere. Ma che relazione ha tutto ciò con me? Per fortuna c’è ancora una carta, l’ultima. Si tratta del Due di Coppe. Due calici dorati che, visto dove mi trovo, per associazione a delinquere di idee non posso identificare che con il Sacro Graal. Due per giunta! Che cosa conterranno? Sono due calici dotati di coperchio, con un fiore a otto petali che orna il sostegno della coppa. Il basamento è squadrato e formato da due scalini, di cui uno azzurro e l’altro dorato. La coppa è di colore rosso con delle pietre incastonate sulla superficie esterna. Il coperchio è ricurvo e lascia presagire che dentro ci sia qualche strano liquido di colore azzurro chiaro. Una coppa, una coppia, una copia. Due coppe sono un unione. Sono l’amore. Che cosa vuole dirmi questa carta? Che quel giovane Fante, lottando con coraggio è diventato Re e ora è pronto per trovare l’amore e diventare una coppia? È questo quello che dice? Che voglio? Che cosa sono venuto a cercare veramente in questo cammino: il Passo Perfetto o l’amore di una donna? E ho trovato qualcuno dei due o l’ho perso per strada? Oppure la coppia riguarda il fatto che i due soggetti (Fante e Re) hanno raggiunto le loro rispettive mete e ora sono pronti per procedere oltre. Potrebbe essere un’interpretazione? Belle domande sul fare del primo mattino. Domande alle quali mi è un po’ difficile trovare una risposta coerente prima del secondo caffè. 275
La Galizia però mi prende bene, perché non faccio tempo a fare delle richieste che sono subito esaudito. Infatti appena usciamo dal bosco, dopo una curva a gomito che non lascia intravedere cosa ci sia oltre, ci troviamo di fronte a un bar. – E vai! È un bar per modo di dire, di quelli che si incontrano spesso lungo la rotta jacopea. Sono contadini con un minimo di senso imprenditoriale che, modificando la baracche degli attrezzi piantate dai loro padri vicino alle stalle, le spacciano per spazi colazioni al coperto. Nel giardino della casa ci mettono un paio di tavolini di plastica e tanti ombrelloni da spiaggia quante sono le sedie. Il banco di solito è fatto con pezzi di mobili dismessi o di legno riciclato. Spesso è di forma semicircolare e protetto dalla pioggia da un tettuccio di lamiera che fa molto trincea stile prima guerra mondiale. A parte una tostiera orizzontale, una spina birre e un bollitore per caffè all’americana, hardware aggiuntivo in questi posti non se ne vede. Come software offrono bottiglie di bevande e lattine di ogni genere, dalla birra alla coca cola e dalla coca cola alla birra. Nulla a che vedere con un bar normale, ma come punto di ristoro va più che bene. Una volta appoggiato lo zaino mi siedo con le gambe allungate sul ghiaino. Quando la tizia che gestisce la questione viene a prendere le ordinazioni ordino un café lungo & solo e poi mi rilasso ulteriormente. Oltre a noi ci sono altre coppie di pellegrini che parlano del più o del meno, cioè del cammino. Dopo un po’, dal nulla assoluto della curva, sbucano fuori alcuni soggetti che stimolano sia il mio sguardo che quello di Ciavi. Li ricordo perché facevano parte di quel gruppo di Barcellona che qualche 276
centinaio di chilometri prima avevano richiamato la mia attenzione per via del casino che facevano. A quanto vedo il gruppo si è smembrato e i più convinti hanno deciso di arrivare alla fine. Chissà… Avendo fatto un lungo pezzo di strada assieme Ciavi li conosce abbastanza bene e si alza dalla sedia per andargli incontro. Sono in quattro, due uomini e due donne. Una delle due donne la ricordo particolarmente bene perché ha un corpo che sembra quello di una ragazza di venticinque anni e un viso colmo di rughe come una settantenne. Ricordo che quando la vidi la prima volta, la discrepanza tra quel fisico giovanile e quel volto antico, m’incuté un certo disagio. Trovarmela davanti ora, devo dire, non è più di tanto differente da quella volta, ma essendo, nel frattempo, passata molta polvere sotto i miei piedi decido di fare un salto quantico in termini di pregiudizi e di lasciare perdere la questione. La donna prende posto nel tavolino vicino e si siede. La saluto con un sorriso e lei fa altrettanto. Mentre parlicchia con Ciavi si appropria di una salvietta che sta sopra il tavolo e in maniera del tutto automatica inizia a piegarla su se stessa. Dopo un po’ che ci lavora ne ricava una specie di maschera il cui taglio degli occhi è affusolato nella parte delle tempie. A opera conclusa la donna alza lo sguardo nella mia direzione e mi fissa con occhi vitrei; poi senza alcuna espressione facciale afferra con due dita la mascherina e se la porta al volto. L’immagine che vedo in quel momento mi terrorizza. Non ho idea di che cosa sia stato, se suggestione o cos’altro, ma nel momento in cui la tizia indossa la mascherina e mi osserva digrignando i denti vedo come… 277
un demone infernale che mi sfida con gli occhi!!! Sarà la pelle carta pecora di quel volto, la forma della mascherina fatta con una salvietta di colore rosso, o quel ghigno famelico che si ritrova… Non so. Il caso vuole che però ne rimango turbato e mi torna in mente tutto d’un tratto la storia di Pierre e del diavolo. La donna continua a fissarmi con lo sguardo vitreo da dietro la maschera e sogghigna apertamente quasi sentisse i miei pensieri paranoici e si divertisse alle mie spalle. A quel punto ritengo che la mia pausa di ristoro sia conclusa e dando pieno ascolto alle valanghe di pregiudizi che trasporto decido di andarmene alla svelta da quella presenza infausta. Due volte la stessa sensazione è già abbastanza. Saluto i ragazzi con l’idea di farmi raggiungere fuori del paese. – Si miremos adelante hermanos. «Espera italiano… » commenta Ciavi. – No, si encontremos nel camino andando. «Ok, a despues». Così pago e mi rimetto in cammino, liberandomi dall’inquietudine di quel volto e ritornando con l’occhio della mente sul passo e sul respiro, sul respiro e sul passo. Mi piace camminare in solitudine, devo ammetterlo. Mi dà quella stabilità che faccio fatica a trovare quando sono assieme alla gente. Come tutto quello che mi accade so che poi la cosa non dipende tanto dalla gente, ma dalla mia mente. L’equilibrio mentale non è una cosa che dipende dall’esterno, o meglio: questo è quello che io capisco. Dopo un po’ che seguo la freccia gialla in una strada di terra battuta arrivo in un piccolo paesino dal nome entusiasmante: Castañeda. 278
Come non pensare all’eroe della mia adolescenza? Anche se sono passati venticinque anni e la n di Carlos non aveva la tilde, l’associazione viene facile alla mia mente. Carlos Castaneda, l’antropologo in missione nel deserto del Chiuhauha. Il guerriero Nagual, Don Juan Matus, la Gorda & Company. Carlos Castaneda è stato il primo grande ricercatore della mente post‐beat generation. Uno di quelli che ha dato il via alle sperimentazioni scientifiche sugli stati di coscienza alternativi. Che è partito dalle droghe, passando dallo sciamanesimo per arrivare diritto in bocca al cammino di liberazione spirituale. Il nonno dei “celestini” degli ultimi trent’anni. Alla faccia di Coelho e di tutti i filistei. Sarebbe da chiedere, ma in questa landa desolata che odora di pozione celtica c’è per caso qualcuno che si ricorda della datura stramoniun detta erba del diavolo o dei funghi della famiglia dei Psylocybe o del sacro Peyotl degli indiani Yaqui? Bah, poco importa che qualcuno se ne ricordi. In fondo, sono passate svariate generazioni da quella volta e le proposte di indagine mentale di Castaneda probabilmente ora sanno tanto da vecchi rimbambiti. Le droghe che girano per le nostre città servono solo a produrre orgasmetti pieni di energia, ma zero a capire la natura dei fenomeni; e non è un caso che si piazzino più nei dintorni delle discoteche che in altre parti. Ma alla fine, dico io, chissenefrega? Appunto. Quindi recido sul nascere la polemica e mi siedo sul bordo della fontana di Castañeda ad aspettare il gruppo. Dopo qualche decina di minuti i quattro dell’apocalisse arrivano canticchiando bandiera rossa e mi salutano con un sorriso. 279
«Italianoooo, stasera ci fai spaghetti pizza mandolino e maffffiaaaa?» – Che bella idea! esclamo. Come ultima sera non sarebbe male che, da italiano quale sono, facessi a questi ragazzi un degno piatto di spaghetti, in contrapposizione a quella merda di pasta collante che abbiamo mangiato nei giorni addietro. – Bravo Ciavi, es una buena idea! «Sì sì italiano, buena idea del cazo…» Riprendendo la strada inizio a progettare una carbonara fatta come dio comanda, che possa restare negli annali del Cammino di Santiago de Compostela. Naturalmente i dubbi sono molteplici e riguardano: la disponibilità di una cucina, gli spaghetti tassativamente Barilla, la pancetta e tutto quello che serve tipo pentole, padelle, ecc. – Se abbiamo un po’ di fortuna stasera vi faccio un piatto di spaghetti che neanche vi immaginate. “Santiago, por favor, dame na màn…” Il cammino procede attraverso le campagne e i boschi galleghi e va avanti fino a sera, interrotto di tanto in tanto da pezzi della strada nazionale N 547. Verso le sette, spinti da un umore fortemente ridanciano, arriviamo a Arca dove passeremo l’ultima notte prima dell’entrata a Santiago. Il rifugio è strapieno di persone, ma nonostante ciò a ognuno di noi viene assegnata una branda. Bel colpo! Dopo essermi lavato mi dedico alla “costruzione” degli spaghetti che ho promesso agli amici di cordata. Però, come prevedevo strada facendo, il rifugio di Arca non è dotato di una pentola adatta al caso. E allora mi organizzo ed 280
entro in un vicino supermarket‐casalinghi‐ferramenta per acquistare sia gli ingredienti necessari che il recipiente su cui far bollire l’acqua. L’unica cosa che riesco a trovare, che più si avvicina a quanto sto cercando, è un pignattone di terracotta che costa una follia. Non avendo scelta lo acquisto comunque pensando di lasciarlo in dotazione alla cucina dell’ostello, per gli italiani che verranno. Chissà… Dopodiché corro verso il rifugio per preparare la cena. La notte si avvicina a gran voce e una delle regole dei rifugi di grandi dimensioni è spegnere le luci alle nove di sera per favorire il sonno ai pellegrini più mattinieri, che vogliono evitare di camminare sotto le lame del sole. Arrivo dentro che ormai sono le otto passate e ho un’ora soltanto a disposizione. Quindi riempio d’acqua la pentola appena acquistata e la metto sulla piastra elettrica a bollire; poi preparo gli ingredienti necessari come l’uovo, la cipolla, la pancetta affumicata e il parmigiano. Parmigiano castigliano, pensa te… Al gruppo intanto si uniscono un tedesco di Berlino e la sua ragazza guatemalteca, una coppia di belgi e un tizio portoghese. Gli amici sono tutti lì attorno con una fame da lupi addosso e una voglia boia di prendermi per il culo. «Italiano fa spaghetti cazooooo….» La fame di tutti, me compreso, è davvero tanta. C’è l’incubo che gli hospitaleri del rifugio spengano le luci tra meno di mezz’ora e l’acqua che ho messo a scaldare ormai da un quarto d’ora non vuole saperne di bollire. “Santiago please – do uno sguardo ironico verso l’alto – fa bollire ‘sta acqua…”, ma non succede niente.
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Il tempo intanto scorre e dopo tre quarti d’ora l’acqua della pentola ancora non bolle, così il gruppo inizia a innervosirsi per davvero. «Italianoooo… coñooo! Tenemos hambre ‘stia puta ….» – Eh, lo so…– mi difendo –Ma qua non bolle… Alzando le mani al cielo in segno di supplica dico: – Santiago, per favore, falla bollire… Mirjam mi consiglia di mettere dentro gli spaghetti nell’acqua che non bolle. – Sì buonanotte. E poi ci metto anche l’uovo e la pancetta e facciamo la minestrina. Il gruppo però ormai è alle corde. Hanno tutti fame. L’ostello sta per spegnere le luci e non c’è verso di far bollire quest’acqua bastarda. La cosa alla fine scatena un giro di insulti verso la mia direzione. «Italianooooo, che mierda di spagheti sono cuesti che no fai…» Ed è così che, alla fine, m’incazzo come una vipera e lancio le braccia al cielo spinto da un conato di rabbia. È così che urlo in direzione del soffitto la frase testuale: – Santiago… – pausa tecnica – ma vaffanculo!!! Adesso, io non dico nulla, non penso nulla, non voglio tirare nessuna somma. Ma nella “o” finale di vaffanculo la pentola che avevo acquistato è… esplosa! Come dirlo… si è divelta, praticamente aperta in due, come tagliata da un laser, in senso verticale. Della serie: vaffancul‐o… ZZZ‐STACK!!! Il disastro.
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L’acqua salata che invade le piastre elettriche generando fumo, casino di urla e panico multietnico; gli spaghetti che cadono a terra e si spargono per tutta la cucina; le due mezze pentole sul fornello come le ante di un libro aperto che fumano; dieci persone che interrompono gli insulti all’unisono e mi fissano impietrite come se fossi stato io a fare “quella cosa”… Poi il silenzio. È un’allucinazione, penso. Nell’aria vige tensione, come quando senti sta per arrivare il terremoto. Nessuno ha il coraggio di dire nulla, di pensare nulla, di fare nulla. Un miracolo al contrario. Anzi, una maledizione… Usando il raziocinio posso dare mille spiegazioni logiche all’accaduto, non ultimo il fatto che si era ad una certa altezza sul livello del mare e l’acqua fa più fatica a raggiungere la temperatura di ebollizione, che c’erano le piastre al posto dei fuochi e la pentola era di ceramica nuova. Tutto quello che vogliamo. Ma ciò non toglie che la pentola si sia aperta sulla “o” del vaffanculo che ho lanciato in direzione dello sponsor di maggioranza del Cammino. Cioè Santiago in persona. Mica stronzate. In ogni caso, la cosa poi finisce nei miasmi della branda con lo stomaco a digiuno e senza che nessuno di noi abbia il coraggio di parlarne. Dalle mie parti c’è un vecchio detto che dice “scherza coi Fanti, ma lascia stare i Santi”. Mi addormento pensando al Fante di Denari raccolto sulla strada la mattina e a questo affare della pentola ancora caldo di vapore, ma soprattutto a quello che ho sentito a livello emotivo in quel momento. C’è un’energia speciale da queste parti. Un’energia di cui non sono in grado di descrivere le caratteristiche, ma che so essere 283
tanto, tanto potente. Non ho prove per dire quello che sto dicendo, perché le prove di una sensazione interiore non sono scientificamente plausibili. Però rispetto alla mia esperienza, adesso che sono quasi arrivato alla fine posso dirlo, da queste parti soffia una Forza di natura profondamente santa e buona. Una cosa che fa bene, tanto bene. Non mi stupirei se la gente guarisse dalle malattie fisiche o psichiche nell’avvicinarsi a piedi a Santiago. Se siano le stelle della Via Lattea che mandano influssi benefici, se siano i rimasugli dei riti celtici, i riti magici dei templari o il corpo decapitato scoperto nel Campus Stellae, non ne ho idea. Quello che so è che se, al posto della pentola, “quella cosa” avesse preso la mia testa o la mano che si agitava verso l’alto, adesso non starei qui a parlarne. Buona ultima notte, pellegrino. Ti è andata molto di culo anche stavolta. Ritieniti fortunato e muori pure in pace. Amen. 30 (0) Santiago Ho fame. A svegliarmi all’alba non è solo il rumore cazzuto delle punte dei bastoni che strisciano sul pavimento. Alla fine ci si abitua a tutto. Anche alla mancanza di sensibilità dei catto‐suonati che si sentono in diritto di fare casino alle sei e un quarto di mattina per la gioia di chi invece vorrebbe dormire. Se devo dirla proprio tutta oggi non è che inizia tanto tanto bene; fuori fa freddino e a Arca non c’è in giro nemmeno la foto di un bar aperto.
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Ci tocca camminare per due ore tra muschi e licheni, salite e discese, boschi e radure, prima di intercettarne uno. Il solo fatto che sia aperto mi fa sorvolare l’antipatia della barista, la cui espressione di gioia è un libro aperto circa il suo desiderio del momento: essere dappertutto fuorché dove si trova. Intossicandomi di caffè, magdalenas e tabacco, il mio umore di merda si scioglie come bronzo fuso e così colgo l’occasione per sfruttare il servizio damas y caballeros che, una volta tanto, è a Est del locale. “Si vede che le cose da oggi prendono un’altra piega”, penso. Quando torno dal rito di purificazione mi accorgo che non ci sono più le ragazze spagnole. – Ciavi, donde stan las chicas? «No te recorde? Se iron con calma por el monte media ahora ante.» Boh. E poi il catalano aggiunge: «Y…. muchas gracias por el plato de spaghetto de aier. Complimentos…» Va a cagare. Mirjam ride in tedesco. «Aaaah – insiste Ciavi – gracias del consillo hermano cocinero italiano bravissimo». E dopo un po’ continua: «Ahora me voy a cagar. Pero espero que la guerra termonuclear de tu pasaje evapore un poco…» Simpatico il catalano. Sempre di ottimo umore, a differenza del sottoscritto che fa tanto il filosofo e poi ogni due per tre gli girano i coglioni come eliche per qualcosa che nemmeno si rende conto.
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Però però, mi basta davvero poco per tornare sulla retta via, cioè un altro caffè, una sigarettina e poi ta‐dah! Sono pronto per affrontare questi ultimi quindici chilometri e… che sia finita! Così, uscendo dal bar dico sonoramente addio alla barista che, con l’espressione caustica che si ritrova, sembra appena uscita da un film di Cronemberg. Avrei voglia di cantare Branduardi a squarciagola e un po’ mi spiace che non ci siano le ragazze. – Non vorranno mica entrare a Santiago da sole quelle stronze, vero? Vedi com’è stare con la gente? Alla fine generi gelosia e attaccamento. Mi viene in mente una frase che ho letto in qualche raccolta di detti orientali: “Vivi al bordo della foresta, solo con te stesso, mai stanco, vivi gioiosamente, senza desideri”. Esattamente il contrario di quello che sto facendo, naturally. Quindi avvicinandomi a Santiago con grandi falcate ripiego sul sciorinare a voce alta l’intero repertorio di Angelo Branduardi, partendo dalla Fiera dell’Est per finire con La pulce d’Acqua, passando attraverso l’ormai classica Ballata in fa diesis minore, ovviamente solo. L’andamento canterino mi porta inevitabilmente a lasciare indietro i miei due compagni che discutono animatamente di qualcosa di strambo‐spirituale in anglo‐alemanno‐italo‐casta‐ catalano. Cioè esperanto. Verso la fine del mio concerto da solista, mentre sto eseguendo Cogli la prima mela in tonalità personalizzata (quindi stonata) realizzo il significato recondito della strofa: 286
Stringilo forte a te L’amico che ti sorriderà Danzala la tua allegria E cogli la prima mela‐à E come nelle migliori delle tradizioni scoppio a piangere sul bordo del sentiero. In quel momento mi si scatena dentro la solita tempesta emotiva che parla dell’amore profondo che provo per quella gente che mi accompagna e che conosco solo in parte. Il peggio di questo affare però è che, piangendo, quel sentimento di strano amore si amplifica per andare a toccare tutti i pellegrini incontrati strada facendo, poi quelli che fin da tempo immemore sono arrivati a Santiago e poi ancora quelli che, magari, stanno partendo in questo preciso istante da un qualsiasi punto del Cammino. Inevitabilmente mi sorgono in mente le frasi di chiusura di John Coleman, successive alla suddivisione dei meriti e alle dediche ai Grandi Maestri; e così le ripeto mnemonicamente, adagiando le parole al respiro, il respiro al passo e così via per molti chilometri. Che tutti gli esseri possano essere liberi dalla sofferenza e dalle sue cause. Che tutti gli esseri possano essere liberi dalla paura e dalla morte. Che tutti gli esseri possano essere intrisi di gioia profonda e di divino amore. Che tutti gli esseri possano essere liberi nell’istante infinito… di un passo perfetto. Recitando questa strana preghiera per infinite sequenze di passi mi trovo a ragionare su tutti gli atteggiamenti negativi che ho avuto dall’inizio del mio viaggio fino all’istante in cui mi trovo. 287
– Mi sento così meschino… Analizzandone con cura il contenuto ne risulta che la maggior parte di queste negatività sono sorte nel contatto con le persone. Ma andando in profondità nell’analisi vedo chiaramente che non dipendono certo dagli interventi diretti delle persone nei miei riguardi, ma più che altro dalla risposta della mia mente a quelle che reputava delle violazioni fatte ai suoi danni. In sostanza tutto nasce da un bisogno dell’Io di proteggersi da qualcosa di esterno. Ciò mi porta a concludere che se l’Io si sente minato significa che è convinto di essere qualcosa di ben definito, di concreto. E un Io che si sente concreto è un Ego con la E maiuscola, come quella di Empire. Ma avendo già dimostrato in precedenza che l’Ego è pressoché inesistente chi può minare chi? Chi può danneggiare chi? Chi può violare chi? Caro mio, siamo di fronte all’illusione delle illusioni, all’ansia delle ansie, a un classico esempio di mente, la mia, che per ignoranza sulla natura dei fenomeni sta danneggiando se stessa. Si tratta di una specie di autodistruzione. Un suicidio inconsapevole. Perché, che cos’è l’ansia se non paura di avere paura? Timore che in un futuro prossimo accada qualcosa che possa danneggiare qualche componente della tua struttura. Paura… Ma mi chiedo, per quanto tempo questa condizione privilegiata di pellegrino vittorioso mi permetterà di selezionare l’impercettibile forma difettosa che condiziona la mia mente? E poi, riuscirò a trattenere viva questa consapevolezza il tempo necessario per destrutturare il pezzo corrotto e ri‐programmarlo? Non so. Però so che tra un pensiero e l’altro ho marciato come un treno, insensibile alla fatica sia della salita che della discesa. 288
Adesso come adesso mi trovo sul Monte de Gozo oltre il quale… VEDO SANTIAGO!!! Marta e Andere sono lì ad aspettarci, sedute sul bordo del sentiero dalle parti del monumento. Hanno il solito sorriso giovane per certi versi imperscrutabile, nel senso che non so dire se sia portatore di qualche contenuto o sia del tutto vuoto. Dopo un po’ arrivano Ciavi e Mirjam e ci prepariamo a scendere per fare gli ultimi cinque chilometri, l’ultima ora di questo cammino lungo ottocento chilometri più i cosiddetti “rotti”. «’Stia puta…» L’entrata in Santiago non è come uno se la immagina durante un mese di viaggio. A partire dal Monte de Gozo si incontra prima l’aeroporto, poi uno stabilimento orrendo che ospita TV Galicia e per finire il mega rifugio a schiera, cioè una serie di bassi e anonimi fabbricati che servono a ospitare quei famosi catto‐turisti degli ultimi 100 chilometri. Minchia, quelli sì che son tosti, eh! Si fanno un cammino di quattro giorni tutto spesato, prenotato e supportato, per cuccarsi ‘sta indulgenza plenaria da mettere in cornice. E poi dicono in giro di aver fatto il pellegrinaggio più antico della cristianità. Mia nonna direbbe: «Cossa vuto, bisonia concepirli…» – Nonna, si dice compatirli… «Eh, e mì cossa goi ditto?» L’entrata in Santiago comunque non ha nulla di entusiasmante, né trasuda chissà quale sacralità. Alla fine è come entrare in una cittadina spagnola qualunque con tanto di zonetta industriale, traffico e asfalto. 289
Dopo aver passato un piccolo ponte giungiamo al cartello che segnala l’ingresso in città e stringo la mano al mio compagno di viaggio. – Hijo de puta madre… ti voglio bene! Con l’occasione sbaciucchio un poco le ragazze e poi mi metto a camminare dietro a Marta osservando distrattamente la prima periferia della città e contemplando gloriosamente il meraviglioso didietro che si ritrova. In quel frangente penso che il famoso detto “anche l’occhio vuole la sua parte” sia una benemerita stronzata. Se non fossi quello che sono ci tirerei una manata su quel culo da ventiduenne, tanto che cosa ho da perdere? Sono arrivato a Santiago, no? Entriamo nelle mura della città a mezzogiorno e qualcosa. Per le strade non ci sono tanti pellegrini e quando arriviamo di fronte alla basilica scopriamo che sono tutti dentro a cuccarsi la benedizione. Sfruttiamo l’occasione della temporanea assenza della calca per andare a poggiare la mano sulla colonna di marmo, come vuole la tradizione. È la colonna centrale dell’archivolto che si incontra entrando dalla porta principale della basilica. Sopra di essa c’è un Santiago semi‐sorridente con in mano una pergamena, e alla base la testa di Maestro Mateo che fu l’architectus del complesso storico. La tradizione vuole che ogni pellegrino che arriva a Santiago poggi la mano sulla superficie della colonna come ringraziamento e richiesta di benedizione all’apostolo. Nonostante abbia la fortuna di essere ateo, grazie a Dio, mi metto lo stesso in coda dietro i compagni di viaggio e quando arriva il mio turno rimango impressionato dai solchi di cui parlava la guida. 290
A forza di mani e mani di pellegrini, infatti, nel corso dei secoli il marmo della colonna è stato per così dire “mangiato”. Nel momento in cui poggio la mano sull’impronta della colonna di Santiago sento i brividi. Ancora una volta mi viene il nodo in gola e decido di lasciare perdere il turismo spirituale per i prossimi trent’anni e andarmi a stendere nel piazzale antistante ad aspettare l’arrivo di Javier e della sua ragazza di Foligno che dice scioè invece di cioè. Mentre mi avvio all’uscita vedo che Ciavi è rannicchiato in posizione fetale in un angolo della chiesa e sta singhiozzando. Senza intervenire se non con lo sguardo faccio segno al mio compagno di piangere tranquillo e di raggiungermi fuori quando ha finito. E finalmente esco all’aria aperta. – Aahhhh , ’stia puta…. Sto diventando come il catalano, penso. Stendendomi sui lastroni del piazzale ammiro l’imponenza architettonica della cattedrale. Ho il nodo alla gola e una voglia boia di piangere. Non ho idea di cosa mi sia successo da un mese a questa parte, ma la commozione che mi si è scaturita dentro il giorno in cui Marilina mi ha messaggiato il nome di Santiago non vuole saperne di abbandonarmi. Dico a me stesso che un giorno ne verrò a capo di questa cosa e che forse non è ancora giunto quel momento. Attorno a me gruppi di pellegrini danzano e ridono, turisti si fotografano l’uno con l’altro sullo sfondo dell’immensa cattedrale. Rimango disteso sulla schiena per un quarto d’ora con gli occhi semisocchiusi, la testa appoggiata allo zaino gobba e lo sguardo rivolto al cielo. 291
“Fare novecento chilometri a piedi – dico a me stesso – non è niente di speciale… “. Poi una lacrima mi sfugge dalla dogana dell’occhio e rimango lì a studiare i riflessi del sole che si rifrange sulla superficie della cornea. Quando arriva Ciavi ci capiamo con un’occhiata. Infatti, entrambi sappiamo che non rimarremo a lungo a Santiago. Poi sbucano fuori Javier e Samantha e c’è il rito dei baci, abbracci e commenti vari. «Sei dimagrito un casino, lo sai?» No, non lo so, rispondo. È da un pezzo che non mi guardo allo specchio. Mentre i pellegrini sono ancora nella cattedrale a prendersi la super benedizione con il Pendolo di Focault vestito da incensiere ci trasciniamo fino all’ufficio del pellegrino a farci dare ‘sta benedetta Compostela. CAPITULUM hujus Almae Apostolicae et Metropolitanae Ecclesiae Compostollanae sigilli Altaris Beati Jacobi Apostoli custos, un omnibus Fidelibus et Peregrinis ex toto terrarum Orbe, devotionis affectu vel voti causa, ad limina Apostoli Nostri Hispaniarum Patroni ac Tutelaris SANCTI JACOBI convenientibus, authenticas visitationis litteras expediat, omnibus et singulis praesentes inspecturis, notum facit: Dominum Nicolaum Artuso hoc sacratissimum Templum pietatis causa devote visitasse In quorum fidem praesentes litteras, sigillo ejusdem Sanctae Ecclesiae munitas, ei confero. Datum Compostellae die 26 mensis Augusti anno Domini 2001. Non ne so una sega di latino, lo ammetto.
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È passata la legge che ne escludeva l’insegnamento alle scuole medie inferiori l’anno prima che io iniziassi. Poi ho avuto la bella idea di fare un istituto tecnico per geometri bloccando gli studi in terza, quindi… Devo bermi un paio di birre prima di intuire cosa significa quanto è scritto sul foglio di finta pergamena che l’ufficio mi ha rilasciato. Oltre all’assoluzione dei peccati veniali, la Compostela dà diritto a dei sensibili sconti sui biglietti d’aereo per il viaggio di ritorno in patria. Anche in questo secondo caso non sfrutterò le opzioni offerte da Santa Madre Chiesa perché l’accordo è di tornare a Padova con la Seat Ibiza di Javier e l’idea non mi dispiace per niente. Dopo esserci ristorati in una pulperia gallega andiamo tutti in processione fino al rifugio del pellegrino per mollare giù gli zaini e farci una doccia e successivamente, come tutti gli altri, fare i turisti dell’ultimo giorno. Mentre ci avviamo allo stabile inizia a piovere. Non era mai successo prima, da quando sono partito. Chissà che domani non mi tocchi di sperimentare la meravigliosa mantella che ho in un angolo dello zaino da un mese a questa parte… Finis Terrae Il cammino da Santiago verso Finisterre dura tre giorni ed è considerato “Pagano”. Sono 100 chilometri di natura infinitamente bella condizionata dalla visione del mare presto a venire. I rifugi sono nuovi di zecca e poco frequentati perché la maggior parte di pellegrini che arrivano a Santiago poi raggiungono la costa in pullman. 293
Nel mio caso l’idea di raggiungere il mare come l’antico pellegrino mi alletta molto. Con noi viaggiano anche Javier e Samantha che però, non essendo per nulla allenati a una media di trenta chilometri giornalieri, hanno un sacco di problemi muscolari e arrivano a sera letteralmente massacrati. La mattina dell’ultimo giorno, salendo un ripido costone, accade una cosa che lascia tutti senza fiato. Siamo lì che camminiamo cantando Brindebardi, saltellando, incuranti della fatica del cammino quando, all’unisono, senza che qualcuno di noi dia l’ordine di farlo, ci zittiamo completamente. E a farci capire che sta accadendo qualcosa sono Javier e Samantha che, lontani anni luce dalle nostre sincronie di gruppo, continuano a parlare. A quel punto siamo quasi arrivati al limite dell’altura e sappiamo che dopo qualche decina di metri inizieremo a scendere dall’altra parte. Senza proferir parola ci avviciniamo, coagulandoci, come se fossimo un’unica mente dotata di cinque corpi. È una sensazione impressionante che non ho mai sentito prima. A quel punto anche i nostri due “ospiti” si zittiscono, condizionati dal nostro strano istinto animale. Sento che il mio respiro è lo stesso di Mirjam e che quello di Mirjam è il respiro di Ciavi che è il medesimo di Marta e di Andere. “Siamo una cosa sola!” Avanziamo lentamente con un passo che definirlo sincronico è sminuirne la natura, e finalmente raggiungiamo il punto più alto dell’altura dove l’orizzonte del cielo infinito si congiunge con un altro orizzonte, altrettanto azzurro e infinitamente grande… il Mare! 294
“Non me ne frega un cazzo di quello che pensate fratelli, io scoppio a piangere un’altra volta. Eccomi qua, cado in ginocchio su questa polvere perché le gambe non mi tengono più su. Chi se ne frega… Non so perché ’sta cosa mi stia facendo questo effetto, ma non riesco a trattenerlo. Mi spiace. Possiamo costruire miliardi di basiliche della durata di un millennio cadauna e metterle in bella mostra su ogni angolo della terra, ma non riusciremo a eguagliare di un micron la bellezza dell’Oceano. Mai! Ecco, mi sembra di intuire perché il pellegrino antico non si fermasse a Santiago. Adesso capisco. La sensazione che provava quella gente trovandosi di fronte a un assoluto così ampio, doveva essere estasiante. Un assoluto talmente ampio e piatto che le credenze del tempo dicevano terminasse in un burrone cosmico. Che sensazione… Lasciatemi qui hermanos, sono arrivato alla fine del mio viaggio. Non voglio più andare oltre, ma rimanere qui in silenzio a scrutare l’imperscrutabile. Andatevene pure avanti, grazie. Lasciatemi solo… Voglio morire. Y punto”. Il rifugio di Finisterre non è nulla di speciale, però l’hospitalero è di un’accoglienza strepitosa. E anche i volontari dei due rifugi precedenti lo sono stati, cosa che a parte in rari casi (e uno era il caso di Clara) non è mai accaduta durante il Cammino Ufficiale. 295
“Che sia una prerogativa del cammino pagano la delicatezza nei confronti dei pellegrini? Perché è considerato pagano? Perché non ci sono chiese da visitare?” Arriviamo a Finisterre verso le sette di sera mentre sull’orizzonte si sta preparando un tramonto spettacolare. Javier e Samantha si trascinano fino alla branda e crollano dalla stanchezza proprio quando arriva il bello. Vengo a sapere che Marta ha dei problemi familiari di poco conto, ma che però vuole tornare a Barcellona quanto prima. Perciò la accompagniamo al bus che la condurrà all’aeroporto di Santiago e poi… – Addio Marta! Nella commozione generale salutiamo quel pezzo di noi stessi che adesso osserviamo sventolare la bandana da dietro il finestrino del pullman. Poi ci avviamo verso il porto. Dopo una breve doccia decidiamo di dirigerci al faro, per eseguire il rito finale, sul fare del tramonto. Sono circa tre chilometri lungo la costa, quindi una ventina di minuti a farla grande. Partiamo ognuno con la sua borsetta di nylon di cose da bruciare; in particolare io mi porto dietro l’intero cambio e quindi, dopo il rito, dovrò rimanere con gli stessi vestiti per altri quattro giorni, fino al ritorno a casa. Essendo ormai dei veterani della camminata decidiamo di prendere una scorciatoia e invece di circumnavigare la montagna che separa il porto di Finisterre dal faro della Costa della Morte, optiamo per… scavalcarla! “Cazzo vuoi che sia una montagnola di sette ottocento metri…” è il commento che gira nelle nostre quattro teste in versione Uno. Quindi ci lanciamo all’arrembaggio e prendiamo la salita.
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Dopo un po’ però capiamo che forse non è stata la scelta migliore perché ci troviamo in un paesaggio lunare, totalmente privo di indicazioni e di sentieri. Arriviamo al faro dopo un’ora di cammino pestifero che ci porta a dover scalare in discensione un costone roccioso. La situazione al faro è tale che sembra di essere in una specie di Disneyland della conchiglia. La strada è costeggiata di auto e oltre le auto c’è un mercato di souvenir con mercanzie di ogni natura, dal Santiago scolpito in terracotta alla basilica fatta di capesante. Passiamo oltre le inferriate che conducono sugli strapiombi, il punto in assoluto più vicino al mare. Si chiama Costa della Morte perché in quell’area il mare è particolarmente feroce e la storia narra di molte navi schiantatesi sulle rocce e di innumerevoli pellegrini impavidi annegatisi per la frivolezza di voler far il bagno a tutti i costi. Raggiungiamo un punto che ci sembra abbastanza fuori dai percorsi ufficiali della calca domenicale. Ci sediamo ad ammirare lo spettacolo proprio nell’istante in cui il disco rovente del sole cola a picco sull’orizzonte dell’acqua. È un momento bellissimo. Dopo qualche decina di minuti di contemplazione silenziosa do vita al mio rito del fuoco seguito a ruota dai miei compagni. Si dice che l’antico pellegrino usasse arrivare fino al mare per bruciare un indumento del viaggio, in segno propiziatorio, per salutare l’antica identità che si era lasciato dietro le spalle. Mentre il saco de dormir di Ciavi arde assieme ai miei calzoni mimetici, alla maglietta di Mirjam e al fazzoletto di Andere propongo ai ragazzi di fare un’ultima meditazione assieme.
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Siamo tutti consapevoli che l’indomani il destino delle nostre esistenze ci risucchierà verso direzioni per lo più opposte e sarà difficile ritrovarsi in una simile occasione. Difficile per non dire impossibile. A differenza di tutte le altre volte propongo di fare una meditazione guidata dichiarando apertamente il mio intento. I ragazzi acconsentono con un sorriso e senza curarmi dell’esperanto cui vado parlando, prima di iniziare, chiedo ai miei compagni di ripetere la Formula del Rifugio come vuole la tradizione dei Figli del Vittorioso. La luce del crepuscolo dipinge di ombre l’intera costa e do un ultimo sguardo alle fiamme del fuoco prima di chiudere gli occhi. Prendo rifugio nei Tre Gioielli. Voglio raggiungere la perfezione della mente Per il beneficio di ogni essere vivente. Rendendoci consapevoli del respiro che entra e che esce dalla base delle narici osserviamo il flusso di pensieri della nostra mente acquietarsi, senza intervenire per modificare qualcosa, ma semplicemente lasciandolo andare. Let it be… Rendendoci consapevoli del nostro corpo seduto su questa immensa costa, lasciamo che gli arti che ci hanno accompagnato durante questo interminabile viaggio si rilassino, senza intervenire per modificare qualcosa, ma semplicemente lasciando andare. Let it be… Rendendoci consapevoli della nostra mente stabilizzata, portiamo la nostra attenzione nella zona del cuore e 298
immaginiamo il formarsi di una sfera di luce bianca la cui natura è la stessa del sole a mezzogiorno… Let it be… Rendendoci consapevoli della sfera che brilla intensamente, lasciamo che la luce si espanda dal centro del nostro petto fino alle periferiche del corpo, irradiandoci completamente di calore… Rimanendo in contatto con questa sensazione, lasciamo che la sfera di luce si espanda ulteriormente fino a raggiungere e fondersi con la luce dei nostri compagni vicini. Lasciamo che sia… Let it be… Rendendoci consapevoli del campo di luce dentro il quale ci troviamo, contempliamone la perfetta natura, il cui influsso benefico pulisce, guarisce, purifica e armonizza…. Rendendoci consapevoli delle enormi fatiche sopportate durante questo lungo viaggio, dei disagi, dei dolori e delle sofferenze che abbiamo sperimentato giorno dopo giorno, lasciamo che questa grande luce accolga tutto ciò di negativo che abbiamo trattenuto e lo dissolva nello spazio circostante. Let it be… Rendendoci consapevoli dei benefici che abbiamo ricevuto con il nostro coraggio e con i nostri sforzi, lasciamo che questa grande luce accolga i meriti che abbiamo acquisito e li trattenga, amplificandoli, decuplicandoli, all’infinito. Let it be… Rendendoci consapevoli dell’immenso potere raccolto nella sfera che ci contiene, lasciamo che la luce si espanda in tutte le direzioni, lentamente e inesorabilmente… Let it be…
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Osserviamo adesso la luce prendere la direzione della costa e spargersi nei villaggi di questa meravigliosa regione patria di grandi menti. È una luce che entra in ogni luogo e che guarisce, purifica, dona calore e amore… Noi dividiamo i nostri meriti con questi luoghi che ci accolgono in questo preciso istante. Osserviamo la luce procedere a ritroso lungo il cammino che ci ha condotto fino a questa costa e raggiungere tutte le persone che abbiamo incontrato strada facendo, i nostri compagni di viaggio, gli altri pellegrini, gli hospitaleri e le hospitalere che con grande dedizione si dedicano ogni giorno a sostenere, sfamare e curare i pellegrini... Noi dividiamo i nostri meriti con tutti loro. Osserviamo la luce tracciare un sentiero luminoso che passa attraverso tutti i villaggi e le regioni di questo stupendo paese, entrando nelle case, nelle stalle, nelle chiese, nei ristoranti, nei bar e nei bagni posizionati a Ovest. Osserviamola avvolgere tutte le persone che abbiamo conosciuto anche per un solo momento, tutti gli esseri che per un istante ci hanno donato il loro sguardo, uomini, animali, vegetali, cose… Osserviamo la nostra luce colmare le menti di tutti quegli esseri e guarirle dalla sofferenza per indurre uno stato di gioia senza fine… Noi dividiamo i nostri meriti con tutti loro. Osserviamo la linea di luce continuare il suo viaggio e raggiungere il punto dal quale siamo partiti per poi andare oltre per strade, autostrade, stazioni ferroviarie, aeroporti, fino raggiungere la casa dove abitiamo e da questa la nostra gente, i nostri genitori, fratelli, amici, nemici, persone con le quali condividiamo affetto, desideri, conflitti.
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Osserviamo questa luce installarsi dentro le loro menti e portare benessere, serenità e amore. Osserviamo la luce partire dalla nostra gente e raggiungere tutte quelle persone che nel corso della nostra esistenza ci hanno dato o tolto qualcosa, gli insegnanti, i maestri, gli avversari. Osserviamo la loro sofferenza dissolversi al contatto con questa luce. E dividiamo i nostri meriti con tutti loro. Let it be.. Let it be... Osserviamo la luce espandersi fino a inglobare le nostre città, la nostra regione, il nostro paese, l’intero continente, gli altri continenti, il mondo intero. Osserviamo la luce raggiungere i conflitti del mondo e risolverli, guarire l’odio tra le persone, le malattie, la paura, la miseria, la guerra. Osserviamo la luce introdursi nelle menti dei governanti, dei generali, dei mercanti d’armi, dei dittatori e di tutti i soldati. Osserviamo questa luce purificare tutta la sofferenza che sperimentano da tempo immemore, perché possano pagare il loro pegno in questo preciso istante ed essere liberi dal disagio… Noi dividiamo i nostri meriti con tutti loro. A tutti gli ammalati, vittime degli errori umani e dei disastri naturali, a tutte le persone private della casa, del cibo e dell’acqua a causa dell’egoismo di pochi Noi dividiamo i nostri meriti con tutti loro. A tutti i governanti e capi religiosi del pianeta, perché il potere che hanno sulle menti dei loro credenti, serva ad indurre la fine di ogni schiavitù e non al mero condizionamento finalizzato al controllo Noi dividiamo i nostri meriti con tutti loro. Ai nostri morti, alle coscienze che in questo momento stanno morendo e che si trovano a vivere degli incubi mentali 301
terrificanti, che questa luce possa aiutarli a trovare il giusto sentiero nel cammino della liberazione Noi dividiamo i nostri meriti con tutti loro. A tutti gli esseri di tutti i piani di esistenza, dagli animali alle piante, dai demoni alle divinità, dai santi agli illuminati, a tutte le energie che condizionano tutti i cammini di questo immenso universo, perché la loro forza possa vegliare sugli esseri viventi al fine di portare un stabilità di pace e di Amore illimitato Noi dividiamo i nostri meriti con tutti loro. Osserviamo la luce farsi grande e attraversare il mare e il cielo in tutte le direzioni e ampliarsi fino a raggiungere la luna, i pianeti del sistema solare, il sole, le stelle della galassia, la altre galassie e l’universo intero. Contempliamo questa immensa luce, ricca di buone qualità, di perfezione e di Amore espandersi di universo in universo oltre lo spazio e il tempo, condividendo i nostri meriti con il Glorioso Conquistatore Sakyamuni, Maitreya, Tenzin Ghiatso e i Vittoriosi di tutti i lignaggi e di tutte le dimensioni. A Francesco d’Assisi, a Giacomo, a Gesù di Nazareth e a tutti i Santi Bodhisattva che hanno operato e operano per la perfezione degli universi del creato. Noi dividiamo i nostri meriti con tutti loro. E a voi, compagni di viaggio, io divido i meriti che posso aver acquisito durante questo cammino di purificazione con le vostre menti e le vostre famiglie, perché questa esistenza e quelle future che vivrete possano essere colme di gioia, felicità e Amore senza fine. «Che tutti gli esseri possano essere liberi dalla sofferenza e dalle sue cause. 302
Che tutti gli esseri possano esseri liberi dalla paura, dalla malattia e dalla morte. Che tutti gli esseri possano essere intrisi di gioia profonda e di divino amore. Che tutti gli esseri possano essere completamenti illuminati. » In quel momento mi sono alzato, sicuro di farlo. Ho guardato l’orizzonte oscuro del mare che avevo davanti e ho iniziato a camminare verso il precipizio. I miei compagni di cammino, ancora assorti dal viaggio interstellare cui gli avevo condotti, non si sono accorti di nulla. Ed è stato lì, al limite del baratro, con un piede sospeso nel vuoto e l’altro sulla pietra che… l’ho sentito! Quando tutto ormai lasciava pensare che la mia ricerca durata mille chilometri fosse stata vana ho realizzato che il Passo Perfetto esiste e sta a metà strada tra il movimento e la sua assenza. Il Passo Perfetto è la via di mezzo tra l’andare e venire dei flussi. Sono rimasto lì, sospeso nel vuoto dello spazio, per un tempo interminabile fino a quando… «Italiano que hace, es loco?» Ho ordinato al piede proteso nel baratro di ritornare sulla terra e di lasciare perdere l’idea di andare oltre. Non l’avrei fatto comunque, se è per questo, mica sono scemo. Però dovevo sapere se almeno l’ultimo passo era in grado di rispondere alla domanda che mi ha spinto a partire per il Cammino. E direi che alla fine mi è andata bene. Che ne è valsa la pena. 303
11 settembre 2001 Oggi è l’11 settembre dell’anno del Signore 2001. Una data che passerà alla storia senza che nessuno di noi l’abbia chiesto. Il mio cammino è finito da una settimana. Come milioni di altri esseri umani sono incollato alla TV ad assistere al tragico crollo delle Twin Towers. Una parte di me si sta chiedendo se quella meditazione fatta a Finisterre sia servita a qualcosa. A qualcuno. L’evento che scorre nei pixel dello schermo mi urla a tutta forza che non è così. Ma c’è un’altra parte di me, quella più dura a morire, che insiste nel voler credere a qualcosa. Ad avere fede. E mi sussurra che se quella meditazione non è servita a far rimanere in piedi le due torri gemelle, forse ci è riuscita in molti altri luoghi, regioni o mondi di cui non sono consapevole. E io voglio credere sia così. La libertà a volte consiste nel decidere da cosa farsi condizionare. E io voglio credere che da qualche parte ci siano delle Costruzioni che, grazie alle meditazioni dei pellegrini, possano puntare verso l’alto in eterno emandando vibrazioni d’Amore in tutto il cosmo. Come il monolite di Kubrick. Più o meno. E se non credessi a un’anomalia della mente in grado di materializzare utopie come questa, non mi sarei certo messo a cercare il Passo Perfetto in un cammino. Non ho idea se farò leggere a qualcuno questo diario. Forse sì, forse no… Forse sì, in fondo si scrive sia per specchiarsi dentro i propri limiti che per la subdola emozione che qualcuno te li legga. 304
Magari qualcuno all’inizio del suo cammino. O anche alla fine. Da qualche parte. Forse. Che tu rimanga indietro o sia vicino: nessuna colpa. “Buen camino peregrino!”
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Questo scritto è dedicato a Clara di Vitoria Gasteiz, Marilina di Milano, Pier di Parigi, Xavi di Badalona, Mirjam di Amburgo, Marta di Barcellona, Andere di Vitoria Gasteiz, Mauro di Cuneo, Martina di Darmstadt, Paola di Aosta, JB di Santander, Samantha di Foligno, Carmen di Torres del Rio, Xavier di Barcelona, Anna e Antonia di Colonia, Rositen di Baviera, Anne e Severino di Bruxelles, Daniela e Paola di Brescia, Katia di Padova, Valentina di Palermo, Silvana e Rita di Sassari, Rodolphe di Arlon, Lara di Imola, Maurizio di Milano, agli autori della Guida Berti/Terre di Mezzo, al gruppo di Cattolici di Grenoble e ai pellegrini di tutti i tempi. Io divido i miei meriti con tutti loro.
RINGRAZIO Bruna e Galdino dell’Associazione Cuore di Carta per aver creduto nel progetto e finanziato questa edizione. Elisabetta, Claudio e Genny di Marco Polo per la fiducia che mi hanno dimostrato fin dall’inizio. Miriam di Terre per avermi dedicato il suo tempo in più di un’occasione. I pellegrini Francesco e Liliana di Avola per quello che loro sanno. E infine, ma non per ultima, ringrazio Alessandra per avermi aiutato ad andare oltre ai gravi limiti della mia condizione. Spero un giorno di riuscire a ricambiare la vostra grande gentilezza. Nicola Artuso Gennaio 2006
SOMMARIO Primo Tempo ...........................................................................1 Secondo Tempo .....................................................................97 Terzo Tempo ........................................................................198 Dedica...................................................................................266 Ringraziamenti....................................................................267
Stampato nel mese di gennaio 2006 per conto della Libreria Editrice Marco Polo Calle del Teatro Malibran 5886/a Venezia (Italia) Tel. 0039 041 522 6343 www.libreriamarcopolo.com www.ilpassoperfetto.it www.cuoredicarta.org
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