Il Maestro Di Nodi - Massimo Carlotto
December 14, 2016 | Author: Luigi Laurella | Category: N/A
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Massimo Carlotto
Il maestro di nodi (2002)
Prologo Udì lo scatto di un pulsante e il ronzio monotono dell'asciugacapelli. Poi sentì il getto d'aria calda e il tocco della spazzola sui capelli fradici di sudore. Lui voleva che continuasse ad avere un aspetto impeccabile. Aveva usato proprio questa parola. Tutto per lui doveva essere impeccabile. Era sempre attento ad asciugarle la saliva che colava dagli angoli della bocca tenuta spalancata da una palla di gomma dura. Una palla per cani. Impeccabile era anche la sua crudeltà. Non lasciava segni sul corpo, ma in alcuni momenti il dolore era insopportabile. Lui però sapeva anche farla godere: aveva già avuto due orgasmi da quando era iniziata la seduta. Anche quella parola era sua. In tutta la sua vita aveva sempre desiderato un dominatore così esperto e solo questa idea le impediva di continuare a pensare alla morte. Lui l'avrebbe uccisa. Ne era certa. Ma non riusciva ancora a immaginare come. Lui non aveva fretta. Dispensava dolore con movimenti lenti e studiati. Attraverso un sistema di carrucole le faceva cambiare posizione e ogni volta riusciva a stupirla con la fantasia dei suoi giochi. Lui le tolse la benda e le ordinò di guardare l'oggetto che teneva in mano. Obbedì e lui disse che l'aveva creato appositamente per lei. Capì in quel
momento che stava per morire. Il terrore si impadronì della sua mente, ma solo per un attimo. Lui la penetrò dolcemente e la fece godere un'altra volta. Mentre il suo corpo era squassato dal piacere, qualcosa di enorme e implacabile iniziò lentamente a farsi strada tra i suoi intestini. Tentò di divincolarsi ma riuscì appena a inarcare la schiena. Provò il desiderio di morire subito ma lui non glielo permise. Era bravo. Era il migliore che avesse mai incontrato. Il cellulare vibrò nel taschino della mia camicia. Continuai a fissare per un po' il puntino verde lampeggiante decidendo cosa fare. Avevo troppo alcol in corpo per essere lucido e così risposi, giusto per togliermi il pensiero. La musica a tutto volume mi costrinse a uscire in strada. Era Rudy Scanferla. Lavorava nel mio locale e fìngeva anche di esserne il proprietario. Mi disse che era arrivato un tizio che aveva urgenza di parlarmi. Gli risposi che sarei tornato il giorno dopo e chiusi la comunicazione. Probabilmente si trattava di un cliente, ma quel giorno non avevo voglia di ascoltare guai altrui. Mi stavo divertendo come non accadeva da tempo. Ero a Pontedera, al Musicomio, il negozio di dischi e libri del mio amico Guido Genovesi. Stavamo festeggiando con notevole ritardo la nascita di sua figlia, non mi capitava spesso di andare da quelle parti. Quattro anni prima ero entrato al Musicomio per comprare un disco dei Canned Heat e avevo trovato Guido che chiacchierava con un suo amico, Giacomo Minuti, sorseggiando un aperitivo. Ci eravamo guardati in faccia e ci eravamo subito piaciuti. Dopo la chiusura del ne-
gozio avevamo continuato a bere e chiacchierare in vari locali, e quando anche l'ultimo oste ci aveva invitato a uscire eravamo saliti sulla macchina di Giacomo che ci aveva portati ad attendere l'alba al villaggio Piaggio. Un piccolo quartiere costruito per gli operai e gli impiegati della grande fabbrica di scooter che, nel bene e nel male, aveva trasformato la vita della cittadina toscana. Giacomo ci aveva trascorso l'infanzia e pensava fosse importante conoscere quel luogo per capire Pontedera. Aveva ragione. Poi avevo bevuto un caffè ed ero tornato a Padova. Andavo a trovarli quando capitava. Guido, oltre a occuparsi del negozio, si dilettava a scrivere racconti. Giacomo, invece, lavorava al comune di Vicopisano. Un pomeriggio mi aveva portato a visitare il castello e le antiche galere del paese. I detenuti trituravano le mattonelle di cotto del pavimento e diluendo la polvere nell'acqua ottenevano una sorta di colore rosso per scrivere e dipingere sulle pareti. Mi aveva colpito il disegno di un piroscafo eseguito durante il fascismo da un anarchico di Carrara, tale Sirio Belletti. Mi aveva fatto provare il desiderio di fuggire e andare lontano. Giacomo non sapeva che ero stato in carcere. Lui e Guido non mi avevano mai chiesto nulla del mio passato e tantomeno cosa facevo per vivere. Sul presente sarei stato costretto a rifilare loro una bugia, mentre sui miei trascorsi avrei raccontato la verità e cioè che ero stato in galera sette anni per un'accusa di terrorismo, ma non avrei perso tempo a spiegare che ero innocente. Un inutile dettaglio nel bilancio complessivo. La notte che mi ero fottuto la gio-
vinezza avevo semplicemente ospitato un tizio che non conoscevo. Poi erano arrivati gli sbirri incappucciati e armati fino ai denti. Il tizio non l'avevo più rivisto, era ancora in galera con un paio di ergastoli sul groppone. Io me la sarei potuta cavare ma il giudice voleva che riconoscessi delle persone che non avevo mai visto. E che non mi avevano fatto nulla di male. La galera era stata dura per un ex studente ed ex cantante di blues. Mi aveva seccato la voce e alimentato una certa ossessione per la verità. Quella che la dea bendata della Giustizia non vede mai. Una volta in libertà avevo sfruttato la mia fama di persona "riservata" e l'esperienza di paciere tra le varie fazioni della malavita per inventarmi la professione di detective senza licenza. L'idea si era rivelata buona. Gli avvocati che avevano bisogno di agganci col mondo della mala per togliere dai guai i loro clienti si rivolgevano volentieri a me. I miei servigi non erano a buon mercato, ma riuscivo quasi sempre a ficcare il naso dove giudici, sbirri e investigatori privati ex sbirri non potevano nemmeno pensare di avvicinarsi. Ora gli affari andavano a gonfie vele. Mi ero perfino comprato un locale, in un paese alle porte di Padova. Stava aperto solo di notte, si beveva bene e la musica era di grande qualità. I clienti lo chiamavano affettuosamente la "Cuccia". L'avevo comprato perché avevo bisogno di un ufficio per ricevere i clienti, un tavolo perennemente riservato in posizione strategica per controllare la porta, il bar e il palco dove si esibivano i musicisti. A causa del mio passato ero stato costretto a intestarlo a Rudy Scanferla, il mio barista.
Lui aveva accettato volentieri, poteva vantarsi con le ragazze e lo stipendio non era niente male. Nella mia attività di investigatore avevo due soci: Beniamino Rossini e Max la Memoria. Rossini era un malavitoso della vecchia guardia. Figlio di una leggendaria contrabbandiera basca e di un milanese, aveva seguito le orme materne per dedicarsi successivamente alle rapine ai furgoni portavalori. Dopo una lunga pausa nelle patrie galere era tornato a trafficare da una frontiera all'altra, in particolare con quella dalmata che raggiungeva con veloci motoscafi. Nell'ultimo periodo si occupava di recuperare denaro, nascosto nei luoghi più impensabili, per conto di detenuti che non avrebbero fatto in tempo a uscire prima dell'entrata in vigore dell'euro, prevista per il primo gennaio 2002. Beniamino prelevava il bottino di rapine e di altre attività illecite, purché non provenisse dal traffico di droga o di materiale pedopornografico, e l'affidava alle persone giuste che lo rimettevano in circolazione per cambiarlo nella nuova moneta al momento giusto. Il vecchio gangster tratteneva una percentuale del venti per cento e di certo non rilasciava ricevute, ma il suo nome era una garanzia per tutti. Era sufficientemente ricco per non avere alcun bisogno di collaborare alle mie indagini ma una volta, in galera, gli avevo salvato la vita e lui non avrebbe mai permesso che mi succedesse qualcosa, e poi l'avventura era il sale della sua vita. Lo faceva sentire vivo. Un tempo era stato sposato, ma mentre era ospite dello stato sua moglie l'aveva tradito con l'avvocato, lasciandolo senza un soldo. Lui non si era
vendicato e sinceramente non avevo mai capito il perché. Rossini portava al polso sinistro dei braccialetti d'oro. Uno per ogni uomo che aveva ucciso. Era un vero professionista della violenza, che usava per amministrare la giustizia secondo i dettami di un codice malavitoso ormai dimenticato dalle nuove generazioni. Anche se aveva superato la sessantina rimaneva un nemico temibile e soprattutto implacabile. Alto, snello, ancora muscoloso, elegante, con i radi capelli tinti e i baffi alla Xavier Cougat, amava i night club e le donne che li frequentavano. Da alcuni anni stava con Sylvie, una ballerina franco-algerina di danza del ventre. Un rapporto vissuto alla giornata senza progetti a lungo termine, tipico dell'ambiente dei locali notturni. L'altro socio era Max la Memoria. Il soprannome derivava dalla sua passione di schedare ogni informazione utile. Accusato di omicidio e partecipazione a banda armata, era stato latitante per anni ma non si era mai allontanato da Padova. L'avevo conosciuto nel corso di un'indagine. Mi servivano informazioni su certi pezzi grossi che volevano la mia pelle. All'epoca utilizzava la sua donna, un'artista di strada sudamericana, per spiare la città e aggiornare i suoi schedari. Un giorno Marielita era stata uccisa dai sicari della mafia del Brenta. L'avevo tenuta tra le braccia mentre il sangue le usciva a fiotti dalla pancia e dalla bocca. Max non si era mai ripreso da quella perdita, e io dal mio senso di colpa perché, una notte, io e Marielita eravamo stati insieme. E questo non sarebbe mai dovuto succedere. Max non poteva continuare la sua latitanza all'infinito. Un giorno
o l'altro l'avrebbero preso. Succede sempre così. Io e Rossini riuscimmo a intavolare una trattativa con un giudice dell'antimafia. Normale amministrazione della giustizia. Prima ci si accorda e poi, a giochi fatti, si celebra la liturgia del processo. Alla fine al magistrato convenne aiutare Max a ottenere la grazia dopo un periodo relativamente breve di carcere. Di fronte al portone di Rebibbia, l'avevo abbracciato forte e gli avevo offerto di venire a vivere a casa mia, in un appartamento vuoto sopra il locale. Aveva accettato e da quel giorno eravamo diventati soci. Gli anni da fuggiasco e la perdita di Marielita avevano lasciato il segno. Trascorreva molto tempo chiuso nel suo studio, di fronte al computer, fumando, bevendo birra e grappa e ascoltando della buona musica. Gli anni passati in galera gli avevano lasciato in eredità il modo di cucinare. Un rito solitario fatto di gesti misurati e lenti per esorcizzare il tempo e leccarsi le ferite. Riempiva i buchi della sua esistenza con cibo, tabacco e alcol. Era grasso e aveva le dita gialle di nicotina. Lo chiamavo affettuosamente il ciccione, ma mai di fronte a lui. Max era permaloso. Al termine di un'inchiesta che ci aveva portato a scontrarci con una banda di colombiani, aveva deciso di tornare a fare politica. Non si accontentava più di risolvere casi. Io e il vecchio Rossini avevamo tentato di dissuaderlo perché, se si fosse cacciato nei guai nei cinque anni successivi alla concessione del provvedimento, la grazia poteva essere revocata. Una piccola condanna per affissione abusiva era sufficiente a rispedirlo in galera per altri quindici anni. Ma lui aveva assi-
curato che sarebbe stato attento. Aveva aderito al movimento dei movimenti, quello che i giornali chiamano No Global. Si occupava di mercato equo-solidale lavorando in un consorzio di organizzazioni senza fini di lucro della provincia di Venezia, che importava prodotti da Africa, America Latina e Asia seguendo la logica della solidarietà e non quella dello sfruttamento e del profitto. Nulla di pericoloso o di illegale, ma non si poteva abbassare la guardia. In Italia era cambiato il clima politico e chiunque pensasse che "un altro mondo era possibile" veniva considerato un nemico della "democrazia e della civiltà occidentale". Nonostante le preoccupazioni ero contento per il mio amico. Il suo sorriso era meno triste e aveva ricominciato a corteggiare le donne. L'avevo invitato a venire con me a Pontedera ma era già impegnato in qualche riunione. Mi aveva chiesto però di fare una deviazione fino a una certa pasticceria in provincia di Firenze, la sua preferita, per acquistare una provvista di buon cioccolato. L'avrei fatto l'indomani. Prima di ritornare a Padova e incontrare il nuovo cliente, sempre se avesse avuto la pazienza di aspettarmi. Guido mi batté su una spalla: «Ora si va a cena» disse. Sorrisi. Conoscevo le cene dei miei amici toscani. Prima delle due del mattino non ci si sarebbe alzati da tavola.
1 Il cliente era un tizio sui cinquantanni, alto, moro e ben vestito. Si alzò per stringermi la mano. «Sono Mariano Giraldi. Grazie di avermi incontrato» disse. «Cosa sta bevendo?». «Cognac, sono a posto così». Feci segno a Rudy di portarmi un calvados e accesi una sigaretta. Approfittai della pausa per osservarlo meglio. Era nervoso, in arretrato col sonno e non vedeva l'ora di raccontarmi il suo guaio. Si aggiustò il colletto della Lacoste verde e si lisciò i baffi sale e pepe con il pollice e l'indice della mano destra. La fronte e i capelli sulle tempie erano madidi di sudore nonostante l'aria condizionata. Non aveva l'aria dell'avvocato. E tantomeno quella del malavitoso. Sperai si trattasse di un marito tradito. Caso facile e remunerativo. «L'ascolto» tagliai corto. «Si tratta di una vicenda complessa…». «Sono sempre complesse. Faccia un bel respiro e mi dica perché ha aspettato così pazientemente il mio ritorno». Mi fissò. Non gli piacevano i miei modi. Per quanto mi riguardava poteva anche alzare le chiappe dalla sedia e tor-
narsene da dove era venuto. Ma era chiaro che non aveva nessuna intenzione di farlo. «Senta, non so nemmeno da che parte iniziare e lei, con il suo atteggiamento, non mi è di nessun aiuto». Finalmente arrivò il mio bicchiere. Ficcai il naso nel ballon per godermi i profumi del calvados. «Chi le ha consigliato di venire da me?». «L'avvocato Bonotto». «Ottima referenza». «Mi ha detto che lei poteva aiutarmi». «Dipende». «È scomparsa una persona… una donna». «Moglie, figlia, amante… su, non si faccia pregare». L'uomo si lisciò ancora i baffi. «Helena, mia moglie» disse piano. «Quando?». «Il 6 giugno, una ventina di giorni fa». «È scappata con l'amante?». Giraldi scosse la testa. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «È stata rapita». Frugai nella mia memoria. Non ricordavo casi recenti di sequestro. Ormai era un crimine in via di estinzione. Necessitava di bande numerose e, alla fine, qualcuno finiva sempre per parlare. E i giudici non lesinavano con gli anni di galera. «Si tratta di un caso di competenza della polizia, perché si è rivolto a me?». «La polizia non sa che è stata rapita».
«E cosa sa?». «Ho denunciato solo la scomparsa. Ho detto che è uscita di casa e non è più ritornata. Il caso è finito anche in televisione…». «Perché non ha denunciato il sequestro?». «Non potevo». «Non poteva?». «Helena è stata rapita in circostanze un po' particolari». «Quanto particolari?». Si schiarì la voce. «Mia moglie è una modella sadomaso» disse d'un fiato, non riuscendo a sostenere il mio sguardo. «Continui, la prego». «L'avevo accompagnata a Torino, in un hotel vicino all'aeroporto, dove doveva incontrare un cliente, ma appena siamo entrati nella stanza ho sentito come una gran scossa e sono svenuto. Quando mi sono ripreso, Helena era scomparsa. Sul letto ho trovato questo…». Infilò la mano in una costosa cartella di cuoio e mi porse un oggetto strano. Sembrava una specie di fiore bianco. Osservandolo da vicino mi resi conto che era fatto di corda. Sottile, morbida e lucida come la seta. Una serie interminabile di minuscoli nodi formavano una rosa. Lo appoggiai sul tavolo. «Cos'è? La firma del rapitore?».
«Non lo so. Nella stanza non c'era altro. Era sparita anche la borsa di Helena. Sembrava che non fosse mai entrata in quel posto». «Non la capisco, signor Giraldi. Perché non ha indirizzato gli inquirenti sulla pista giusta?». L'uomo fece una smorfia e scosse la testa. «Lei andrebbe alla polizia a raccontare di avere fantasie sadomasochiste e che sua moglie è stata rapita da un cliente contattato tramite internet?». «Io dagli sbirri non andrei comunque. Ma io non sono un incensurato come lei e soprattutto non mi hanno sequestrato la moglie». «Cerchi di capire. La società ci considera dei pervertiti. Il sadomasochismo è un peccato inconfessabile. Non c'è ambiente più clandestino del nostro». «Quello dei pedofili, forse». «Ma noi non c'entriamo nulla con quella feccia. Noi siamo tutti adulti consenzienti». «Anche il tipo che si è portato via sua moglie?». Sospirò. «Il mondo è pieno di psicopatici». «Questo è vero. Ma un ambiente nel quale la gente viene legata e frustata attira i picchiatelli cattivi. Quelli che sequestrano e uccidono dopo un bel po' di torture. Magari è proprio quello che è successo alla sua bella Helena». Giraldi scoppiò a piangere. «Mi aiuti, la prego, non so cosa fare».
«E la smetta di frignare, sta attirando l'attenzione» sbottai infastidito. Feci segno a Rudy di portargli da bere. «Beva tutto d'un fiato, le farà bene». Giraldi buttò giù il cognac e fece un gran sospiro. «Sono un vigliacco, lo so, ma non ho avuto il coraggio di raccontare la verità». «E gli sbirri ci hanno creduto?». «Sì. Mia moglie è tedesca. Si chiama Helena Heintze. Pensano che abbiamo litigato e che lei sia tornata a casa». «E come sono giunti a questa conclusione?». «Mi stavano tempestando di domande e quando uno di loro mi ha chiesto se avevamo avuto degli screzi, ho risposto di sì». «Ed è vero?». «No». «Da quanto siete sposati?». «Tre anni». «E vi siete conosciuti nell'ambiente sadomaso?». «No. Sono un rappresentante di tessuti. Ho conosciuto Helena quando ha tentato, senza fortuna, la carriera nell'alta moda. Corteggiandola ho capito le sue inclinazioni… Io frequentavo già l'ambiente e l'ho convinta a fare la modella nel giro sadomaso». «Si spieghi meglio, non ho nessuna conoscenza dell'ambiente». «Si faceva fotografare a pagamento in pose da schiava». «Legata e cose del genere?».
Non rispose. Dalla cartella tirò fuori una fotografia. Helena era davvero bella. I lunghi capelli erano raccolti in uno chignon perfetto. Il volto leggermente in ombra, ma il seno perfettamente illuminato. Due mollette da bucato le strizzavano i capezzoli. Mani e piedi erano legati con strisce di cuoio a una struttura di legno che ricordava vagamente una croce di Sant'Andrea. «Ho capito. È una battona sadomaso». «No, si sbaglia» si affrettò a puntualizzare, cercando di trattenere la rabbia. «Helena non faceva mai sesso con i clienti. Solo fotografie». Puntai l'indice sulla foto. «Ma quelle mollette devono fare un male cane». «A lei piace». Osservai meglio la foto. L'uomo aveva ragione. L'espressione della donna non dimostrava né dolore né disgusto. «Allora si tratta di vera vocazione». «Non sia sgradevole, la prego». «Tenterò… e i clienti come la contattavano?». «Via internet. Helena mette periodicamente gli annunci sui siti specializzati». «E dove si incontravano?». «Di solito negli hotel o in studi fotografici presi in affitto». «E lei l'accompagnava». «Sì. Per evitare che i clienti le usassero violenza mentre era legata».
«Quindi lei assisteva alle sedute?». «Sì». «Guardone e pappone». Strinse i pugni. «Capisce perché non ho raccontato la verità ai poliziotti?». «Le ho fatto una domanda». «Sì, mi piace guardare, contento?». «E a Helena piaceva che lei guardasse?». «Era un gioco tutto nostro». «Gioco che i clienti vi finanziavano». «Io guadagno bene con il mio lavoro. I soldi andavano tutti a Helena». «E quanto prendeva per una "seduta"?». «Dipende… comunque non meno di due milioni». «E che frequenza avevano?». «Tre, quattro al mese». «Ha detto che il fatto è successo a Torino». «Sì. Noi però viviamo a Varese. Ma lì, ovviamente, non incontravamo mai i clienti per evitare di essere riconosciuti». «Ovviamente… e in quell'albergo ci andavate spesso?». «No. Era la prima volta. La regola è mai due volte nello stesso posto». «E i posti chi li sceglieva? Voi o i clienti?». «I clienti. Noi non volevamo lasciare tracce del nostro passaggio». «Quindi il rapitore è stato obbligato a presentare un documento d'identità per affittare la stanza».
«Penso di sì». «Non ha chiesto informazioni alla reception?». «No, sono fuggito. Ero in preda al panico». «E nessuno vi ha visto entrare o uscire dall'albergo?». «No. Era notte. Siamo entrati da una porta di sicurezza che il cliente ha lasciato aperta per noi». Il racconto di Giraldi faceva acqua da tutte le parti. «Non credo a una sola parola di quanto sta dicendo». «Lei non conosce l'ambiente. Abbiamo sempre paura di essere scoperti…» tentò di spiegare. «D'accordo, questo posso anche capirlo, ma il suo comportamento non è credibile. Lei viene tramortito, sua moglie rapita da un sadico e non chiede aiuto alla polizia?». «Lo sto chiedendo a lei». «Dopo venti giorni». L'uomo non rispose. Si coprì il volto con le mani e ricominciò a frignare. «Non sapevo cosa fare. Ero terrorizzato. Poi ho pensato di rivolgermi a un avvocato…». «Cosa pensa che sia accaduto a sua moglie?». «Non lo so. Spero solo che sia ancora viva… forse vuole solo averla a disposizione per un po'». Mi feci portare il secondo calvados. Poi presi di nuovo in mano la fotografia di Helena cercando di immaginare in che tipo di guaio si fosse cacciata. Non riuscivo a pensare a nulla di diverso dall'omicidio. Da parte di un sadico. «Non è facile rapire una persona e tenerla prigioniera a lungo» pensai a voce alta.
«Si sbaglia. Nell'ambiente molte persone hanno dei dungeon, stanze segrete attrezzate per gli incontri. Io sento che Helena è ancora viva». «Allora vada alla polizia. Quando vogliono, gli sbirri sono veloci nelle indagini…». «Continua a non capire. Non posso. E poi l'avvocato mi ha detto che, a questo punto, potrei essere sospettato». «L'avvocato Bonotto ha ragione, ma a volte bisogna correre dei rischi. A me sembra che lei sia più preoccupato della sua reputazione che di trovare sua moglie». «Non è vero». «Ama sua moglie?» domandai a bruciapelo. «Lei non può immaginare quanto». «Mi è difficile crederlo. C'è altro che devo sapere?». «Non mi sembra. Allora, accetta il caso?». «Non lo so. Prima devo parlarne con i miei soci. Torni domani sera». Giraldi si alzò. Lo fermai con un gesto della mano. Scrissi una cifra su un tovagliolo di carta. «Più le spese, ovviamente. È in grado di affrontare una cifra simile?». «Certo». Mi porse la mano. Finsi dì non aver notato il gesto e chiesi a Rudy il terzo calvados. Se ne andò lasciando sul tavolo la rosa di corda e la fotografia della moglie.
2 «A quest'ora è già morta. Inutile perdere tempo» disse il vecchio Rossini osservando lo strano fiore di corda. Max la Memoria si versò una grappa. «La storia che ti ha raccontato il marito è davvero poco credibile. Se ti portano via sotto il naso la donna che ami, fai qualsiasi cosa pur di riaverla e di certo non ti metti a pensare alle conseguenze per la tua reputazione». Mi accesi una sigaretta. Avevo previsto le resistenze dei miei soci e, in fondo, anch'io non ero del tutto convinto del caso. «Giraldi è disposto a pagare bene e si tratterebbe di un'indagine coperta. Mi pare di capire che i sadomaso facciano di tutto per tenere gli sbirri lontani dal loro ambiente». Max sbuffò. «È proprio questo il problema. Giraldi ci ha messo con le spalle al muro». «Cosa vuoi dire?» domandai. «Una donna è in mano a un maniaco e non possiamo far finta di niente. A questo punto dobbiamo tentare di ritrovarla» rispose Max. Beniamino si alzò dalla poltrona. «E perché? Qui lo stronzo è il marito che non ha il coraggio di assumersi le sue responsabilità. Sono solo cazzi suoi».
Max scosse la testa. «Non me la sento di abbandonare quella donna al suo destino. Non voglio pesi sulla coscienza» disse mostrando a Rossini la foto di Helena. «Max ha ragione» approvai. Rossini allargò le braccia in un gesto sconsolato. «Ma a cosa serve cercare un cadavere? E poi non conosciamo l'ambiente, non è detto che riusciremmo a scoprire qualcosa». «Possiamo fissare un limite di tempo. Due mesi?» proposi. «No. Un mese è sufficiente» rettificò Max. «Allora siete proprio decisi» sbottò il vecchio gangster. «E quando scopriamo chi l'ha rapita e probabilmente uccisa, cosa facciamo? Chiamiamo la polizia, lo diciamo al marito o…». «Calmati» dissi. «Questo aspetto della vicenda lo affronteremo quando sarà il momento». «Non avete capito. Io non voglio dare la caccia ai maniaci». «Nemmeno io» ribatté il ciccione. «Ma ormai siamo in ballo». Quando Giraldi entrò nel locale, eravamo seduti al mio tavolo a bere e fumare in silenzio. Il vecchio Rossini era di cattivo umore. Era convinto di mettere a repentaglio la sua reputazione di gangster immischiandosi in quella vicenda. Il cliente abbozzò un saluto. Gli feci cenno di sedersi. Il suo volto era ancora più stanco e teso.
«Questi sono i miei soci. Abbiamo delle domande da farle». «Allora accettate il caso?». «Ci stiamo pensando» risposi. «Racconti anche a noi quel che è successo all'hotel» gli ordinò Max. Giraldi questa volta non si fece pregare, ma non aggiunse nulla di interessante a quanto mi aveva già detto. Beniamino terminò la sua vodka e schioccò la lingua per attirare l'attenzione dell'uomo. «Lei finora ci ha descritto il rapimento di sua moglie come se fosse coinvolta una sola persona, il cosiddetto cliente…». «Certo, Helena aveva appuntamento con un cliente». «Ma non è pensabile che una sola persona possa aver messo fuori combattimento lei e portato via da una stanza d'albergo una donna». «Sicuramente avrà stordito anche Helena». «Ne sono certo. Ma non può essersela caricata sulle spalle e averla infilata nel portabagagli della macchina da solo. Non è credibile». «Allora?». «Allora sua moglie è stata rapita da più persone» intervenne Max. «E magari il sadomasochismo non c'entra un cazzo e lei non ci ha raccontato tutta la verità». Rossini rincarò la dose. «Già. Forse l'hai ammazzata tu, gli sbirri hanno dei sospetti e ti vuoi coprire il culo con questa storia del rapimento».
Giraldi impallidì. Iniziò a sudare. «Ve lo giuro, vi ho raccontato la verità. Aiutatemi a ritrovare Helena». «Spiegami perché dovrebbe essere ancora viva» lo pungolò il milanese. L'uomo crollò e si mise a piangere. Il locale era pieno e anche se il mio tavolo era appartato più di una persona si voltò nella nostra direzione. Giraldi sembrava sincero ma la sua storia continuava a puzzare di menzogna. Rossini lo costrinse a finire il cognac. Il cliente si soffiò il naso e chiese scusa. Poi si alzò per andare in bagno. «Allora?» domandai ai miei soci. «Mente» sentenziò Beniamino. «Sì, mente. Ma non capisco a che proposito. Però credo che racconti la verità sul rapimento» aggiunse Max. «Allora accettiamo il caso?» domandai guardando Rossini. «Perdiamo solo tempo». «Ma non denaro. Comunque non ti preoccupare, Beniamino, se non te la senti il caso lo seguiamo io e Max». Mi guardò storto. «Stai usando lo stesso trucchetto di Giraldi, mi stai incastrando». Gli sorrisi. «Già, è un colpo basso. Lo sai benissimo che senza di te io e Max finiremmo per cacciarci nei guai». «Lo so, lo so, e ve ne state approfittando». Max ridacchiò. «Così hai una scusa per giustificare il tuo coinvolgimento nelle indagini».
Il milanese sbuffò. «E va bene. Tanto non scopriremo un bel nulla». «Giraldi sta tornando» avvertii i miei soci. «Allora?» domandò il cliente. «Accettiamo il caso» dissi. «Ma se tra un mese non abbiamo scoperto nulla, lasciamo perdere». «D'accordo» sussurrò il cliente sollevato. Infilò una mano in tasca e tirò fuori una busta. «Ecco i soldi». «Me li passi sotto il tavolo» dissi. Strappai la carta e diedi un'occhiata. Fruscianti bigliettoni da cinquecentomila lire. Max diede a Giraldi un blocco e una penna. «Scriva i nomi dei siti, il nickname che usava Helena per gli annunci, il suo indirizzo, quello dell'albergo, insomma tutto quello che può esserci utile. In particolare l'indirizzo internet del cliente che ha contattato sua moglie». «Non lo conosco». «Cosa vuol dire?». «Non conosco la password della casella di posta di mia moglie. Era lei che si occupava di tutti i contatti». «Di bene in meglio» borbottai. L'uomo iniziò a scrivere. Beniamino gli bloccò la mano. «Se scopro che ci hai detto delle cazzate, ti faccio male e se parli di noi agli sbirri ti ammazzo». Poi si alzò. «Ci vediamo domani». «Consigli preziosi e gratuiti» dissi in tono duro. «Fossi in lei li terrei bene a mente».
«Non c'è bisogno di questi metodi con me» sibilò indispettito. «Scriva, signor Giraldi, scriva e veda di non dimenticare nulla» disse Max in tono pacato. «Cosa ne pensi?» domandai al ciccione guardando il cliente che si allontanava. «Questo fiore di corda mi mette i brividi» rispose rigirandolo tra le dita. «In che senso?». «È perfetto. Chi lo ha fatto è preciso, fantasioso e incredibilmente abile. Hai idea di quanto dolore ti può procurare un tipo del genere?». «Abbastanza da sperare di crepare in fretta». «Proprio così. E lui ha voluto che il marito di Helena lo sapesse». Il mattino seguente, di buonora, io e Max attraversammo il mercato di piazza delle Erbe e ci infilammo nelle stradine dell'antico ghetto per raggiungere il negozio di cordami del vecchio Bianchin. Una vera autorità in fatto di corde e nodi. L'avevamo conosciuto frequentando le osterie del centro. Quando poteva si faceva sostituire dai figli, si toglieva il grembiule e andava a farsi un bicchiere nei locali della piazza. Lo trovammo intento a servire una signora, l'immancabile mezzo toscano che pendeva spento dall'angolo della bocca. «Cosa posso fare per voi?» domandò in dialetto.
Tirai fuori dalla tasca il fiore di corda e lo appoggiai sul bancone. L'anziano negoziante inforcò un paio di occhiali e l'osservò attentamente. Poi, con le forbici tagliò un nodo che dava la forma a un petalo ed esaminò la sezione del cordino. «Roba da ricchi» esclamò stupito. «Questo cordino è fatto a mano. Sicuramente su ordinazione e non in Italia. Forse in Oriente. L'anima è in dacron, la prima guaina in lilion e la seconda, quella esterna, in seta». «Cos'altro puoi dirci?». Si aggiustò gli occhiali sul naso. «È sottile ma molto resistente. La seta ha solo una funzione estetica. È più morbida e gradevole da impugnare. Di solito questo tipo di cordino viene usato per farlo scorrere nei verricelli o nei moschettoni. Ha il difetto che certi nodi si sciolgono più facilmente ma chi ha creato questo fiore è stato ben attento a usare quelli giusti. Gassa spagnola, cappio del pescatore e per i petali ha usato il paglietto». «Sai chi potrebbe averlo fatto?» domandò il ciccione. «Uno che ha tempo da perdere» rispose brusco il vecchio Bianchin. Gli era venuta sete e ci propose di accompagnarlo in un'osteria poco lontana. Mi guardai attorno. «Sei solo. Chi ti sostituisce?». «Nessuno, ma non mi importa. I miei figli hanno deciso di vendere e dopo più di quarant'anni qui ci sarà un negozio di scarpe».
Bevendo un bicchiere di merlot ci raccontò aneddoti d'altri tempi. Sulla città e sulle botteghe del centro. Alla fine ci salutò con una smorfia di amarezza. Era solo un altro vecchio messo da parte. «Bianchin ha ragione, questa città non è più la stessa» commentai osservando la vetrina di una boutique. Fino a qualche anno prima c'era una trattoria che aveva sfamato generazioni di studenti. «Questa città è morta» sospirò il ciccione. «Soffocata dal denaro e dagli intrallazzi». San Maurizio Canavese distava solo qualche chilometro dall'aeroporto di Torino. Eravamo arrivati nel primo pomeriggio e avevamo individuato l'hotel dove era stata rapita Helena. Piccolo, anonimo, ma dall'aria confortevole, era il classico albergo di passaggio strategicamente piazzato nei pressi di una tangenziale. Il posto giusto per rappresentanti, viaggiatori e gente che non voleva farsi notare. La scala antincendio portava al parcheggio sul retro, circondato da campi e lontano da occhi indiscreti, il luogo adatto per allontanarsi con una donna sequestrata. Avevamo deciso di allungare qualche banconota al portiere notturno per avere le informazioni che ci interessavano, e per ingannare il tempo e metterci al riparo dal caldo non c'era nulla di meglio di un buon ristorante. Max la Memoria aveva prenotato un tavolo per tre alla Credenza, dopo aver verificato se era consentito fumare. Per noi, ormai, era diventata una domanda d'obbligo. Aveva
letto ottime recensioni su alcune guide specializzate e non vedeva l'ora di assaggiare la cucina di Giovanni Grasso, chef e proprietario del ristorante. Il locale era elegante e silenzioso, la gente chiacchierava piano, concentrata a deliziarsi il palato. Come sempre rimasi indeciso di fronte al menù e accettai i consigli dello chef. Max e Beniamino mangiarono di gusto iniziando dagli antipasti. Io mi accontentai di un filetto di manzo in salsa all'uvetta, zafferano e limone su purè di ceci. Era tutto il giorno che non toccavo alcol e avevo voglia di bere. A differenza di un tempo bevevo solo la sera, ma era sempre troppo. Questo almeno era quello che pensava Virna che aveva posto come condizione per tornare insieme una decisa diminuzione del tasso di calvados nelle mie vene. I miei soci non rinunciarono al dolce, dopo i formaggi, e finalmente arrivarono caffè e liquori. Per costringermi a bere un solo bicchiere, uscii a telefonare. «Sono io». «Ciao, Marco» disse Virna. «Dove sei?». «In giro. Per lavoro». «Quando torni?». «Forse domani». «Peccato. Speravo di vederti prima di partire». «Partire?». «Sì. Vado a trovare Patrizia, una mia amica di Gallipoli». «Non me l'avevi detto».
«Non ero ancora sicura di avere le ferie. Qui al locale fanno sempre un sacco di storie». «E quanto stai via?». «Un mese. Mi prendo tutte le ferie arretrate». «Mi mancherai». «Se devo essere sincera, ho deciso di partire per stare lontano da te». «Pensavo che ci stessimo riavvicinando». «È proprio per questo. Ci voglio pensare bene». «Capisco». «No, Marco, non capisci. Io ti amo, ma non sono sicura che questo sia sufficiente per stare con te». «Questa frase l'ho già sentita». «Hai un sacco di problemi e te ne crei continuamente…». «Buone vacanze, Virna» la salutai, interrompendo la telefonata. Tornai nel ristorante. Max e Beniamino stavano chiacchierando allegramente. «Un altro calvados» ordinai al cameriere. «Hai la faccia di uno che ha appena litigato con una donna» commentò il milanese. «Virna parte per le vacanze. Per riflettere sul nostro rapporto». «Ma non vi eravate rimessi insieme?» chiese Max. «Lo pensavo anch'io».
«Come al solito non hai capito un cazzo. Scopare un paio di volte non significa riprendere un rapporto» intervenne Beniamino. «I problemi che vi hanno portato alla rottura non si sono risolti nel periodo in cui non vi siete frequentati. E non si risolveranno nemmeno in futuro». «Grazie dell'incoraggiamento». «Virna è una donna con un'idea ben precisa della vita. E la tua non le piace. Vuole che abbandoni le investigazioni e che ti dedichi solo al locale». «Questo non è possibile». «E allora non vedo un futuro per voi». «Io sì. Sono convinto che è possibile trovare una mediazione che accontenti entrambi». «Balle» disse Max. «Illuditi quanto vuoi, ma Virna non è più una ragazzina. Se non le dai quello che vuole ti lascerà per sempre». «E Beniamino allora? Sta con Sylvie da anni e tutto fila liscio». «Sylvie è una ballerina da night. Vive alla giornata come noi» precisò l'interessato. Guardai i miei soci. «Che cosa vi ha preso questa sera? Siete in vena di consigli a buon mercato?». «No. Solo che quando hai qualche pena amorosa diventi un gran rompicoglioni, e visto che siamo alle prese con questa rogna dei sadomaso…». «Ho capito. Prometto che dalla mia bocca non uscirà più una sola parola su Virna».
Scoppiarono a ridere. Max guardò l'orologio. «Invece di dire fregnacce paga il conto. È ora di andare a fare due chiacchiere col portiere di notte». «Vorremmo avere un'informazione» dissi sorridendo amichevolmente. Il portiere, un biondino dall'aria sveglia, osservò per un momento le due banconote piegate per lungo che tenevo ben strette tra l'indice e il medio. «Mi piacerebbe esservi utile, sempre se non è nulla di illegale». «Vogliamo solo sapere chi ha affittato la stanza 208 la sera del 6 giugno» dissi appoggiando i soldi sul banco della reception. «Una semplice occhiata al registro». Fece sparire le banconote nella tasca della giacca con un gesto rapido. Poi aprì il registro e sfogliò velocemente le pagine. «Ecco qui. Il cliente ha presentato una patente intestata a Mario Lo Bianco, nato e residente a Monza… abbiamo anche la fotocopia del documento». Max scrisse tutti i dati sul suo notes mentre il portiere provvedeva a fare una nuova fotocopia. «Che lei sappia, è successo qualcosa quella notte?» domandai. «No. Ero di turno e non mi è stato segnalato nulla». «E il cliente come ha saldato il conto?» chiese Beniamino. «Dovrei controllare le fatture». «Lo apprezzeremmo molto».
Sparì dietro una porta e tornò dopo un paio di minuti. «In anticipo e in contanti» disse. C'era da immaginarselo. «La stanza è libera» disse Max indicando il tabellone alle spalle del ragazzo. La chiave penzolava attaccata alla targhetta numero 208. «Potremmo dare un'occhiata?». «No. Questo non posso farlo». Appoggiai un'altra banconota da centomila sul banco. «Ci mettiamo un minuto». «D'accordo, ma fate presto» disse prendendo la chiave. La stanza era l'ultima del corridoio al pianoterra. Proprio a fianco dell'uscita di sicurezza. Il cliente doveva averla lasciata socchiusa per fare entrare di nascosto Giraldi e Helena, e sicuramente da quella stessa porta era stata portata via la donna. Beniamino aprì la porta della 208 senza fare il minimo rumore. Per arrivare al letto matrimoniale bisognava passare accanto al bagno dove, secondo il racconto del marito, il rapitore lo attendeva nascosto per tramortirlo. Dalla sua descrizione ci eravamo fatti l'idea che l'aggressore avesse usato una pistola elettrica. Silenziosa ed efficace. Ripetemmo la scena e ci rendemmo subito conto che non era possibile che il "cliente" potesse aggredire l'uomo senza che Helena se ne accorgesse e si mettesse a gridare. «Dovevano essere almeno in due» disse Rossini. «Uno nel bagno che ha messo fuori combattimento Giraldi e uno probabilmente nascosto qui, dietro l'angolo, che si è occupato della donna».
«Se è così cade subito un'ipotesi» ragionò Max. «Non si tratta di un serial killer. Difficilmente agiscono in coppia». «Abbiamo la fotocopia della patente» intervenni. «Magari è il nostro uomo». «È falsa» sottolineò il milanese. «Probabile» aggiunse Max. «Ma una verifica dobbiamo farla». «Allora facciamola subito» proposi. Restituimmo la chiave al portiere e salimmo in macchina. I miei soci si erano rifiutati di viaggiare con la mia Skoda Felicia, lenta e priva di climatizzatore, preferendo la Chrysler PT Cruiser del vecchio Rossini. Nera metallizzata e coi vetri fumé, sembrava l'auto di un gangster di Chicago degli anni Quaranta. Quando avevo fatto notare a Beniamino che era troppo particolare per passare inosservata, aveva semplicemente alzato le spalle. Cercare di farlo ragionare era stata solo una perdita di tempo. Un malavitoso della sua generazione non avrebbe mai rinunciato alla macchina vistosa. Infilai nell'autoradio una cassetta di Albert King. Partirono subito le note di Cadillac assembly line. «Questa è per te» dissi. Beniamino sghignazzò e diede gas infilandosi nella tangenziale. Max accese la luce interna per osservare la fotocopia della patente. «Non si vede granché. Abbastanza però per verificare se il signor Lo Bianco è l'uomo giusto».
Mi passò il foglio e mi ritrovai a fissare i lineamenti sbiaditi di un uomo di circa quarantanni, quarantadue secondo i dati riportati sul documento. Capelli lisci pettinati con la riga e una barba corta incorniciavano un volto comune. «Sarebbe troppo bello se fosse lui» dissi. «Te l'ho già detto. Quella patente è falsa e la cosa dovrebbe farci riflettere». «In che senso?». «Un maniaco non si mette a falsificare documenti. Non sa nemmeno come procurarseli». Max si accese una sigaretta. «Sappiamo che nella stanza d'albergo erano almeno in due e che hanno i contatti giusti con i falsari della mala. Il rapimento sembra l'azione di una banda che con il sesso non ha nulla a che vedere». «Forse Giraldi ha conti in sospeso con usurai o spacciatori». «Forse. Ma perché inventarsi la storia del sadomaso? Poteva inventarsi una balla meno complicata». «Dimenticate la foto di Helena, legata come un salame e con le mollette sui capezzoli. Qui il sadomaso deve entrarci per forza». Il vecchio Rossini mise la freccia per deviare in un'area di servizio. «Può darsi. Il problema è cosa faremo dopo aver verificato che il signor Lo Bianco non c'entra un cazzo con il rapimento».
«Un'idea ce l'ho» ribatté Max. «Helena è stata contattata dai suoi rapitori tramite internet. Secondo me è lì che dobbiamo cercare». «E se hanno cancellato le tracce?». «Allora siamo fottuti». Ci fermammo per fare il pieno di benzina e bere un caffè in un bar affollato di camionisti, automobilisti assonnati, puttane in trasferta e fauna della notte. Anche le ragazze dietro al banco erano stanche. I volti tirati spiccavano sulle divise colorate e dai cappellini spuntavano ciocche di capelli sudati. Mi ricordarono Virna quando puliva il pavimento dopo che gli ultimi clienti avevano lasciato il locale. Mi venne voglia di bere. Ma non persi tempo a chiedere un calvados. Non ne avevo mai visto una bottiglia negli scaffali dei bar lungo le autostrade. Scesi nel seminterrato seguendo le indicazioni per la toilette. Una sudamericana sui trentanni sedeva su una sedia di plastica tra la porta del cesso degli uomini e quella del cesso delle signore. Su uno sgabello teneva un piattino per le mance. Quando le passai vicino mi fissò per ricordarmi che pisciare era gratuito ma una moneta sarebbe stata ben accetta. Puzzava di disinfettante. A forza di stare in quel buco ne aveva assorbito l'odore. Uscendo le lasciai un biglietto da diecimila lire. Le avrei addebitate a Giraldi. Spese di viaggio. «Non ho da cambiare» disse la donna. «Lasci stare. Va bene così». «Devi avere avuto una serata fortunata».
«Non proprio». «A me non capiterà mai di lasciare tutti questi soldi di mancia». «Non è detto. La vita gira» mentii. Trovai Max e Beniamino alla cassa. Stavano pagando sigarette, caramelle e una cassetta di Tom Waits. Conteneva un brano che mi piaceva, Fumblin' with the Blues. Una volta in macchina chiesi a Max di metterlo a tutto volume. Arrivammo a Monza verso le due del mattino. Di certo non potevamo presentarci a casa del signor Lo Bianco a quell'ora e andammo in un hotel dove il milanese era di casa. Ci diedero tre stanze senza registrarci. Da come si era comportato il portiere notturno capii che situazioni del genere dovevano capitare spesso. Il classico rifugio di chi ha appena svaligiato una banca e deve stare nascosto il tempo necessario per convincere gli sbirri a togliere i posti di blocco. Il controllo dei registri delle presenze doveva essere aggirato con qualche generosa bustarella. Mi distesi sul letto e accesi il televisore sintonizzandomi su un canale locale dove una vecchia gloria della canzone italiana si sgolava per convincere i telespettatori a comprare autentici tappeti persiani d'antiquariato. Avevo sentito dire che si era dato alle televendite per pagarsi il vizio della cocaina. Ogni tanto un primo piano impietoso metteva in risalto le narici arrossate. Di tappeti non capiva un cazzo. Leggeva i nomi su un foglietto nascosto nel palmo della mano. Una volta avevo visto il vecchio Rossini prende-
re a pugni un ricettatore che l'aveva avvicinato al ristorante per proporgli dei tappeti che fino a qualche giorno prima erano appartenuti a un ricco industriale della zona. L'uomo era stato insistente e non aveva capito che per il mio socio quella era proprio la merce sbagliata. Beniamino l'aveva invitato a uscire per discutere dell'affare e l'aveva colpito al volto con un gancio destro e un diretto sinistro. Poi gli aveva spiegato che non voleva essere disturbato a cena e che di herati e di germetsh non voleva sentir parlare dopo aver visto alla televisione un servizio che denunciava lo sfruttamento dei bambini nella produzione dei tappeti. «Più piccole sono le mani più piccoli sono i nodi della tessitura. Hai capito 'sti bastardi» mi aveva spiegato rientrando nel ristorante. Il ricordo di quella frase mi fece venire in mente altri nodi. Quelli del fiore di corda ritrovato nella camera d'albergo dove era stata rapita Helena. Aveva ragione Max, quell'oggetto metteva i brividi. Era il frutto di un'abilità malata. Fino a quel momento avevo dato per scontato che la donna fosse stata vittima di un sadico che l'aveva portata in una casa degli orrori e l'aveva ammazzata torturandola. Ma dopo aver visitato la stanza dove marito e moglie erano stati aggrediti, la tesi non reggeva più. I rapitori dovevano essere almeno due e magari un terzo li aspettava nel parcheggio a bordo di un'auto pronta a fuggire. Ma se non si trattava di un maniaco perché avevano sequestrato Helena?
Sentii bussare alla porta. Era Rossini già vestito e sbarbato. «Non ti sei nemmeno spogliato» mi rimproverò. «Stavo pensando a Helena». «Alla defunta Helena, vorrai dire». «Ne sei proprio sicuro, eh?». «Dopo tutti questi anni ho imparato a fidarmi del mio istinto». «Ma non conosciamo ancora il movente del sequestro». «E allora? Quando non ci sono di mezzo i quattrini, il rapito fa sempre una brutta fine. Adesso lavati la faccia. Max sta già facendo colazione». Mario Lo Bianco abitava in un palazzone della periferia. Alle otto del mattino suonai il campanello. Mi aprì una donna in vestaglia. «C'è suo marito?». «È uscito alle sei per andare in fabbrica. Come sempre». Le mostrai la fotocopia della patente. «È lui?». La donna scosse la testa. «No. Non è Mario». «Per caso ha perduto la patente?». «No. Sono sicura di no. Scusi, ma lei chi è?». «Polizia, signora. Si tratta di un controllo» risposi allontanandomi. «Buco nell'acqua» annunciai ai miei soci. «Cosa avevo detto?» disse Rossini in tono pedante. «Torniamo a casa» propose Max.
«E se andassimo a Varese a fare una visitina a Giraldi e a dare un'occhiata in giro?». «Per adesso stiamo lontani da quell'uomo. Se ci ha raccontato un sacco di balle, come credo, è probabile che sia controllato dalla polizia» disse Beniamino. «Giusto» approvò Max. «Tentiamo prima con internet». Arrivammo a casa verso le undici del mattino. Rossini ci salutò e andò a trovare la sua Sylvie. Per un attimo lo invidiai. Non solo perché aveva una donna ma anche perché Sylvie mi era sempre piaciuta. Più di una volta mi ero sorpreso a desiderarla mentre si esibiva nei locali notturni nella danza del ventre. Ma mi ero sempre limitato a pensieri momentanei. Le donne degli amici non si dovrebbero toccare. E poi sapevo di non essere il suo tipo. Seguii Max nel suo appartamento. Accese il computer e si collegò a internet. Digitò il primo degli indirizzi dei siti che gli aveva fornito Giraldi. Cliccò con il mouse la voce "schiave" scegliendo tra master, mistress, coppie, schiavi, transex, fetish e switch. «Ecco l'annuncio di Helena». Mi avvicinai allo schermo. "Modella con la passione di esibirsi si propone agli amanti del genere BDSM per la realizzazione di servizi fotografici e video. Eccitata e curiosa di provare nuove emozioni e di subire trattamenti e legature di fronte al mio master da parte di veri esperti raffinati. Disponibile a viaggiare nord-centro Italia". «E adesso?» domandai.
«Diamo un'occhiata agli altri siti». Ci trovammo di fronte a qualche migliaio di annunci. Max sfogliò le pagine elettroniche con pazienza. Io mi stancai subito. «L'inserzione della tedesca appare solo su due siti. Almeno abbiamo delimitato l'area di ricerca». «Non ti seguo. Cosa vuoi fare?». «Dobbiamo penetrare nelle caselle di posta elettronica per scoprire cosa succede realmente nell'ambiente». «E sai come si fa?». «Io no. Ma conosco le persone giuste». Prese il cellulare e compose un numero. «Ciao Arakno, sono Max. Ho bisogno del vostro aiuto. No, non ti posso spiegare di più ma è il caso che portiate un bel po' di attrezzatura». «Con chi hai parlato?». «Si chiama Arakno. Per lui e il suo socio Ivaz i computer non hanno segreti. Ci aiuteranno a violare le caselle». «Sono fidati?». «Sì. Li conosco da tempo. Però dovremo procurarci un paio di casse di birra Ichnusa. Senza, lavorano malvolentieri». «Dirò a Rudy di farsela mandare. Sono sardi come la loro birra preferita?». «Esatto. Arrivano domani da Cagliari. Andrò a prenderli all'aeroporto».
«Mi pare di capire che fino ad allora non abbiamo molto da fare». «Direi di no. Adesso preparo un bel pranzetto e poi vado al consorzio del commercio equo-solidale. C'è una riunione. Vuoi mangiare un boccone con me?». «No, grazie. Mi faccio una doccia e poi vado a fare due chiacchiere con l'avvocato Bonotto. Voglio avere un po' di informazioni su Giraldi». La casa era buia e fresca. I soffitti alti e i muri spessi, ricordo del granaio che era stata un tempo, tenevano lontano l'afa. Dal frigo presi una bottiglia d'acqua gelata. Con le bollicine. Non ho mai sopportato la minerale naturale. Mi versai due dita di Roger Groult invecchiato quindici anni. Tanto Virna non c'era. Accesi il televisore per guardare il telegiornale regionale. La sede di un'associazione gay era stata bruciata a Padova. Bande rivali di malavitosi maghrebini si erano affrontate nei pressi della stazione. Un paio erano finiti al pronto soccorso con ferite da taglio. Nel vicentino la squadra mobile aveva scoperto altri laboratori tessili che occupavano manodopera cinese in stato di semischiavitù. In compenso in provincia di Treviso una banda di albanesi aveva assalito una villetta isolata. Spensi il televisore e con un altro telecomando feci partire un cd di Bob Dylan, che attaccò Tombstone blues. La doccia mi fece venire voglia di scopare. Un altro calvados me la fece passare. Mi vestii, misi in tasca il fiore di
corda e uscii immergendomi nel caldo torrido delle due del pomeriggio. Trovai Renato Bonotto in un locale del centro dove si mangiavano insalate a prezzi esorbitanti. Come sempre era tutto solo, seduto al solito tavolo. Magro ed elegante, era un abile penalista, stimato anche dai magistrati per la sua correttezza. L'avevo conosciuto quando un suo cliente era finito nei guai per una storia di coca colombiana. Da allora mi aveva usato regolarmente come investigatore. «Ciao Marco» mi salutò. «Vuoi favorire?». «Grazie. Credo che mangerò un tramezzino». «A cosa devo la visita?» domandò. «Mi hai mandato un cliente un po' strano». «Giraldi il sadomaso?». «Proprio lui». «Non lo conosco direttamente. Si è presentato con la raccomandazione di un collega di Varese». «Allora non lo conosci». «No. Ma mi fido ciecamente del mio collega». «Cosa sai di lui?». «Più o meno quello che ti ha raccontato». «E cosa ne pensi?». «Che ha sbagliato a non rivolgersi alla polizia, ma ormai è troppo tardi. Lo sbatterebbero subito in galera». «Ha raccontato la stessa versione anche all'avvocato di Varese?». «Sì. Ho verificato prima di fargli il tuo nome».
Mangiai il mio tramezzino in silenzio mentre l'avvocato era impegnato in una conversazione al cellulare. Poi gli strinsi la mano e me ne andai. La mia Skoda Felicia era parcheggiata sotto il sole. La camicia si incollò alla schiena appena l'appoggiai al sedile. Dieci minuti dopo ero in autostrada diretto a Varese. I miei soci non sarebbero stati d'accordo. Giraldi poteva essere controllato dalla polizia e gli sbirri avrebbero trovato interessante un collegamento con tre pregiudicati, ma io avevo bisogno di vedere dove abitava Helena, per avere un'idea più precisa della donna che cercavamo. Quella foto in posa da modella sadomaso non mi diceva nulla. Mi metteva solo a disagio. Non tanto le mollette che strizzavano i capezzoli quanto l'espressione di piacere della donna. I coniugi Giraldi abitavano in una villetta di una nuova zona residenziale immersa nel verde. Passai un paio di volte cercando tracce di un eventuale controllo. Non ne trovai. Nessuna macchina o furgone sospetti erano parcheggiati nella via. Tutte le case erano protette da telecamere e da cani grossi e cattivi. Quella del cliente sembrava deserta, ma nel giardino notai una Mercedes bianca. Parcheggiai nella strada parallela e mi avvicinai a piedi, segnalato dall'abbaiare dei cani. Suonai al videocitofono e non dovetti attendere a lungo. Giraldi uscì e legò alla catena il dogo argentino che mi fissava con due occhi acquosi e per nulla amichevoli. «Ci sono novità?» domandò aprendo il cancello. «No».
«Allora cosa è venuto a fare?». «Una visita» risposi in tono duro. Quel tizio mi stava antipatico. Mi fece strada in un ampio salone arredato in modo costoso ma senza gusto. Lo fissai. Era conciato peggio dell'ultima volta che l'avevo visto. Il volto era devastato dalla tensione. Aveva la barba lunga, gli occhi arrossati e due occhiaie profonde e scure. Il suo cellulare squillò. Nella casa silenziosa si diffuse la versione elettronica di un motivetto dell'estate scorsa. Giraldi si limitò a osservare distrattamente il numero sul display. «Cosa posso fare per lei?» domandò spegnendo il telefonino. «Voglio che si sieda e mi faccia dare un'occhiata in giro». «Perché?». «Tutto quello che so di sua moglie è quella foto da schiava da due milioni a seduta. Voglio conoscere anche il resto». Mariano Giraldi si accasciò su una poltrona. «Faccia quello che vuole» sussurrò liquidando la faccenda con un cenno della mano. Infilai le scale che portavano al piano superiore. Aprii una porta a caso ed entrai in un bagno dove tutti gli oggetti appartenevano a un uomo. Di fronte c'era quello di Helena. Aprii l'armadietto e frugai tra creme e profumi. Roba di mar-
ca. La tedesca trattava bene il suo corpo. Anche le camere da letto erano due. Frugai nei comodini e nell'armadio pieno zeppo di vestiti. Trovai solo due paia di pantaloni. Alla donna piaceva mostrare le gambe. La biancheria intima era ben assortita e molto raffinata. Però non c'era un solo capo che richiamasse fantasie sadomaso. Pensai che Giraldi dovesse aver fatto pulizia dopo il rapimento della moglie. Tornai al piano terra dove visitai la cucina. Poi andai nel seminterrato. Una parte era adibita a garage, occupato in parte da un coupé Alfa Romeo. L'auto di Helena. L'altra parte era uno stanzone completamente vuoto. Le pareti erano state ridipinte da poco con una tonalità di beige. Grattai la vernice con le chiavi della macchina. Emerse uno strato bianco e poi uno nero. Osservando meglio notai che sul soffitto e sulle pareti erano stati stuccati da poco dei fori. Immaginai delle strutture di legno in una stanza scura come la notte. La sala dei giochini erotici di Helena e Mariano. «Vedo che ha smontato il dungeon in tutta fretta» dissi sedendomi sul divano di fronte all'uomo. «Avevo paura che la polizia venisse a perquisire la casa». Mi accesi con calma una sigaretta. «E poi cos'altro ha fatto sparire?». «Qualche oggetto e un po' di indumenti». «Non c'è un solo anticoncezionale in tutta la casa. Come mai?».
«Non sono affari che la riguardano. Pensi a ritrovare mia moglie». «Le ho fatto una domanda. Se non risponde mi tengo i suoi soldi e la mando a fare in culo». «I nostri rapporti non erano completi» disse fissando il pavimento di marmo. «In che senso?». «Helena non voleva essere penetrata». «Capisco. E a lei andava bene?». «Rispettavo i suoi desideri». «Quello che voglio sapere è se si accontentava di farsi seghe oppure sentiva il bisogno di infilare l'uccello da qualche altra parte». «Non sia sgradevole». «D'accordo. La domanda è chiara o devo riformularla?». «Ho capito cosa vuole sapere. Helena è bisessuale. Avevamo una relazione a tre con un'altra donna». «Sempre nell'ambito sadomaso?». «Sì. Era una schiava». «Ecco a cosa serviva il locale "attrezzato" nel seminterrato» ragionai a voce alta. «Ed era con questa altra donna che lei aveva rapporti completi?». «Sì». «E da quanto durava questa storia?». «Da prima del matrimonio. L'altra donna è mia schiava da anni».
«Signor Giraldi, lei è una persona che riserva un sacco di sorprese. Quante altre me ne devo aspettare?». L'uomo continuò a fissare il pavimento in silenzio. Il suo volto era diventato una maschera di pietra. Si era reso conto di essere diventato vulnerabile e indifeso. Ora capivo perché non era andato alla polizia a raccontare del sequestro. Quelli lo avrebbero rivoltato come un calzino e della sua vita e del suo diritto a scopare come meglio credeva sarebbero rimaste solo macerie e derisione. «A me non importa nulla dei suoi gusti sessuali. Tra adulti consenzienti ci si può divertire come si vuole, ma sua moglie è stata rapita e io devo sapere tutto quello che la riguarda. Poi, una volta risolto il contratto che ci lega, io e miei soci dimenticheremo tutto. Come sempre, del resto». «Cosa vuole sapere?». «Voglio incontrare l'altra schiava». «Perché? Non può esserle utile in nessun modo». «Questo lo lasci decidere a me». «No, lo decido io invece. Lei non la incontrerà». «Teme forse che mi dica qualcosa che non dovrei sapere?». «È solo una perdita di tempo, e poi sono io che pago. Lei deve fare quello che le dico». Gli rivolsi un sorriso beffardo. «Non funziona così. Una volta accettato il caso, le indagini le portiamo avanti a modo nostro e il cliente si adegua. Adesso lei chiama quella donna o io chiamo il mio socio, quello cattivo».
«Mi sta minacciando?». «Sì. Per il bene di sua moglie». Giraldi si diresse verso il telefono. «Usi il mio cellulare. La sua linea potrebbe essere sotto controllo». «Antonina, sono io. Appena esci dal lavoro vieni a casa mia… Me ne fotto di tuo marito, inventati una scusa» ringhiò con un tono autoritario che non sembrava appartenere all'uomo distrutto dal dolore con cui avevo parlato fino a un attimo prima. Glielo feci notare. Si strinse nelle spalle. Con quella donna era abituato a parlare in quel modo. Una semplice questione di ruoli. Decisi di far valere il mio e lo costrinsi a mostrami la sua collezione di foto. Avevo notato una polaroid in un cassetto. Un grosso album con la copertina di cuoio scuro era nascosto nella canna fumaria del camino. Gli consigliai di trovare un posto migliore. Gli sbirri l'avrebbero trovato subito. Iniziai a sfogliarlo. Helena legata e appesa in tutte le posizioni. Helena avvinghiata all'altra schiava. Corde, catene, maschere di pelle. E la pelle delle donne lucida di sudore. Giraldi non appariva mai. C'era anche una poesia firmata da una certa Barbie Slave. La mia testa contro il Tuo ventre nudo, le Tue mani fra i miei capelli… Padrone… I Tuoi giochi si librano su di me, come farfalle sul prato. La Tua voce che calda scivola dentro di me…
Regalandomi sensazioni… Padrone, amo i Tuoi occhi, che mi legano a Te. Amo la Tua bocca che segna il mio cuore, amo le Tue mani che toccano la mia anima. Padrone, nel Tuo castello la Tua schiava aspetta di esaudire ogni Tuo desiderio… Come la luna viene trafitta Dai raggi del sole nascente, per ricordare al mondo la regalità del suo Padrone, io aspetto di essere trafitta dal Tuo amore, per mostrare al mondo intero la bellezza del nostro amore. "Una vera stronzata" pensai restituendo l'album al proprietario. In questo paese tutti si sentono poeti. Anche per dire quanto dolci sono le frustate sul culo. «Soddisfatto?» chiese in tono gelido. «Sì. Volevo accertarmi che non ci fossero altre persone. Lei continua a sostenere di non conoscere il movente del sequestro e sono costretto a cercare lo sporco sotto i tappeti». «Non mi crede?». «Sempre meno». In quel momento suonò il campanello. Sul videocitofono apparve il viso di una giovane donna incorniciato da folti
capelli neri tagliati a caschetto. Il cane scodinzolò felice. Doveva frequentare assiduamente la casa. Quando mi vide impallidì. «Questa è una delle persone che mi stanno aiutando a cercare Helena» si affrettò a spiegare il padrone di casa. «Vuole farti qualche domanda». «Perché?» domandò con la voce tremante. «Io non so nulla». La osservai. Era piccola ma ben proporzionata, con due gambe troppo magre che spuntavano dal vestitino color pesca corto e scollato. Il viso non era bello e sul labbro superiore si notava la cicatrice di un intervento. Doveva aver già superato la trentina. Aveva paura, e per farla parlare decisi di usare lo stesso tono che usava con lei Giraldi. «Lei è Barbie Slave?». «Sì». «Il suo vero nome?». «Antonina Gattuso». «È sposata?». «Sì». «Cognome e nome del marito?». «Cavedoni Silvio». «Figli?». «Una bambina». «Lavora?». «Sono impiegata». «Lei ha una relazione con Giraldi e sua moglie?».
«No. Siamo solo amici». «Stronzate! Ho visto le foto. Vuole che le faccia vedere anche a suo marito e ai suoi colleghi di lavoro?». La minaccia non fece effetto. La donna guardò l'uomo che con un cenno del capo le ordinò di rispondere. «Sì. Ci incontravamo qui». «Solo con loro?». La donna non rispose e guardò ancora Giraldi. «Risponda!» urlai. «A volte master Mariano mi ordina di andare con altri master. Per punizione. Quando mi comporto male…». Mi voltai verso il cliente. «Vada a farsi una doccia signor Giraldi» ordinai. «Le ripeto: sono cose che non c'entrano nulla con il rapimento di Helena». «Sparisca. Voglio parlare da solo con la signora». L'uomo obbedì a malincuore. Fissò duramente la sua schiava. Era un avvertimento a non aprire troppo la bocca. «Si sieda su quella poltrona» ordinai alla donna. Poi mi misi alle sue spalle. Un vecchio trucco da questura. «Perché lo ha chiamato master?». «Mariano è il mio master. Mi sta addestrando a diventare una vera schiava». «Da quanto tempo?». «Sette anni». «È un'allieva così mediocre?».
«Lei non può sapere… Si può impiegare anche tutta la vita per arrivare alla perfezione». «Cosa prova per Giraldi?». «Dedizione, amore, riconoscenza. Gli devo tutto. Fino a quando non mi ha scelto ero infelice, insoddisfatta. Adesso sono una donna completa». «Perché la frusta e la lega?». «Quello è solo un aspetto. Io ho la necessità di sentirmi umiliata e sottomessa». «E suo marito?». «Lui non mi ha mai capita. Eravamo già fidanzati quando ho conosciuto master Mariano». «E non ha mai avuto sospetti?». «No». «Vuole dirmi che lei frequenta da undici anni l'ambiente sadomaso e lui non sa nulla?». «È normale. Tutti nell'ambiente hanno una doppia vita». «Insomma lei è moglie, madre, impiegata e poi una volta la settimana diventa schiava?». «Sì». «E ama suo marito?». «Certo». «Allora ama due uomini». Scosse la testa. «Sono amori diversi, che si completano». «Così è davvero felice?». «Sì».
«E allora perché ha paura?». «Per quello che è successo a Helena» rispose dopo una breve esitazione. «Anche lei teme di essere rapita?». «No. Ho paura della polizia. Che scopra tutto e che la gente venga a sapere. La mia vita e quella della mia famiglia sarebbero distrutte». «E quindi di Helena non gliene frega nulla». «È la moglie di master Mariano». «Ma lei faceva l'amore con quella donna». «Faceva parte dell'addestramento». «Vuol dire che non le piaceva?». «Se piaceva al master piaceva anche a me». «Cos'altro sa del sequestro?». «Niente. Solo quello che mi ha detto il master». Tirai fuori dalla tasca il fiore di corda, girai intorno alla poltrona e glielo mostrai. «Sa cos'è?». «No». Le indicai la porta. «Se ne vada, e se tiene così tanto alla sua reputazione stia lontana da master Mariano fino a quando non sarà stata ritrovata Helena». Non si fece pregare. Mi sedetti sulla poltrona, accesi un'altra sigaretta e cominciai a riflettere. Antonina Gattuso non mi aveva raccontato nulla di utile sul rapimento, però mi aveva fatto capire molte cose sul tipo di rapporti interni che legavano le persone di quell'ambiente. Ricoprire un ruolo
non significava solo recitare una parte per divertirsi sessualmente. C'era qualcosa di più profondo che spingeva le persone a costruirsi una doppia vita perfettamente organizzata. Nessuno al di fuori del mondo sadomaso poteva o doveva sapere. Nemmeno le persone più vicine. D'altronde essere scoperti poteva significare solo la distruzione della propria vita. Apparentemente i discorsi di Antonina potevano sembrare farneticazioni di una povera deficiente, ma non era così. Nel suo rapporto di assoluta dipendenza fisica e psicologica da master Mariano aveva trovato un equilibrio che la faceva vivere meglio. Aveva addirittura ammesso di essere felice. Se Helena era davvero scomparsa per opera di qualcuno che gravitava nell'ambiente non sarebbe stato facile ritrovarla. Il rischio di essere sputtanati li costringeva a una clandestinità assoluta e a regole e linguaggi difficilmente decodificabili. Mi domandai se eravamo davvero all'altezza dell'incarico. Poi con la coda dell'occhio vidi che Giraldi era in piedi in mezzo alla stanza e mi stava osservando con un'espressione preoccupata. Mi alzai e me ne andai senza salutare. Il locale era pieno di gente. Quella sera si esibivano Maurizio Camardi e il suo gruppo. Mi salutò con un movimento del sassofono. Al mio tavolo sedevano Max e Beniamino intenti a degustare cioccolato e Ala Amarascato siciliano. Rudy mi portò un alligatore ghiacciato al punto giusto. Raccontai della mia visita a Giraldi, le mie riflessioni e le
mie preoccupazioni sulla nostra capacità di investigare e anche solo di comprendere un ambiente così inaccessibile. «Tra loro devono pur comunicare» disse Max. «Se riusciamo a penetrare il loro sistema informativo non avranno più segreti per noi». «Sempre che i tuoi amici riescano a violare le password». «Su quello non ho dubbi. Il problema è che non sappiamo ancora cosa cercare». «Una tedesca bionda e bella» sospirai. «E questa Gattuso com'era?» chiese Rossini. «Bruttina». «Pensi che ti abbia detto la verità». Lasciai che il cocktail scendesse lungo la gola. «Non lo so. Sono talmente abituati a mentire che do per scontato che non mi abbia raccontato tutto. Lo stesso vale per Giraldi». Allungai la mano per prendere un cioccolatino. Max fece una smorfia di disgusto. «È sprecato con quel beverone. Accompagnalo con il vino, mette in risalto il gusto di mandorla». «Non mi piace. Preferisco il mio "beverone"». «Sei un barbaro senza speranze. Inutile tentare di rieducarti al gusto» ridacchiò Rossini. «Senti chi parla. Con grande appetito abbiamo mangiato la stessa sbobba della galera e adesso sembra che tu sia sempre stato un gourmet».
«A proposito» intervenne Max. «Non so se è capitato anche a voi, ma a me questa storia dei sadomaso mi ha fatto ripensare alla galera». «Non ne voglio parlare» tagliò corto Beniamino. «Nemmeno io» dissi. «Ci avete pensato. Lo sapevo» continuò il ciccione imperterrito. «A me sono venuti in mente alcuni sbirri sadici, e nel vero senso della parola…». «Smettila» sibilai. «Perché ci vuoi rovinare la serata? Lo sappiamo tutti e tre che in galera c'è gente malata. Da una parte e dall'altra». «Solo che se si tratta di un detenuto puoi risolvere il problema. Se invece è una guardia sei costretto a sopportare tutte le sue angherie gratuite». «Non stai dicendo nulla di nuovo» ribattei. «I carceri sono luoghi ideali per frustrati di ogni tipo, che si sentono qualcuno solo se hanno una divisa addosso». «Non mi riferivo a questo, ma al fatto che in alcuni di quei personaggi c'era anche una vera e propria componente sadica». «Se continui con queste stronzate mi alzo e me ne vado» minacciò Rossini. «Lo sai che di una serie di esperienze di galera non si parla mai. Ognuno si smaltisce la merda per conto suo». «Beniamino ha ragione». «Quella che chiami merda non sparisce mai. E lo sai bene. Ti rimane piantata nel cervello».
«Appunto. Visto che non si può dimenticare è perfettamente inutile rivangarla». «Non sono d'accordo». «Allora vai da uno strizzacervelli». «Si può parlare di galera solo con chi c'è stato». «Allora non so proprio come aiutarti». La discussione terminò con l'arrivo di Maurizio che venne a sedersi al nostro tavolo. Parlammo di musica e musicisti e l'atmosfera si distese. Ma più tardi, quando mi ritrovai nella solitudine del mio appartamento, i ricordi di cui aveva parlato Max riaffiorarono nella mia mente come una fogna traboccante. Il mio socio aveva ragione a sostenere che c'era qualcosa nel mondo sadomaso che ricordava la galera, ma non riuscivo a capire cosa fosse. Forse era l'uso delle catene, la coercizione o la violenza fisica. 0 forse era la divisione netta dei ruoli, da una parte il carnefice, dall'altra la vittima, come le guardie e i detenuti. Certo era che mi faceva sentire a disagio. Mi venne in mente un giovane travestito calabrese che avevo conosciuto al reparto isolamento del carcere di San Giovanni in Monte a Bologna. Lui si trovava lì perché aveva un aspetto troppo femminile per poter stare in sezione. Io, invece, perché ero di transito verso il penale di Padova e il maresciallo capo non voleva troppi "politici" in circolazione nel suo istituto. Era stato arrestato per aver rapinato un cliente. Ogni notte un gruppetto di guardie e detenuti entrava nella sua cella, lo costringevano a vestirsi da donna e a truccarsi, poi lo imbavagliavano, lo legavano alle sbarre e se lo
facevano a turno. Io sentivo tutto e fumavo al buio pregando che se ne andassero in fretta. La mattina, durante l'ora d'aria, non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi e facevo di tutto per evitarlo. Non ricordavo più il suo volto ma solo le sue urla soffocate. Mi alzai dal letto e andai in cucina a bere. Se avessi continuato a ricordare sarebbero emersi altri fantasmi e non me lo potevo permettere, altrimenti rischiavo di sprofondare nel mio personale abisso di dolore e vergogna per le umiliazioni subite. Non avevo mai subito violenze sessuali, ma la galera è capace di produrre ogni tipo di aberrazione. Chiamai Virna. Il suo cellulare era staccato. Mi infilai i pantaloni e andai a bussare alla porta di Max. Era ancora sveglio. Mi aprì con un libro in mano. «Per colpa tua non riesco a dormire» sibilai entrando. «Incubi di un passato recente?» chiese in tono ironico. «Vaffanculo, Max». «Vuoi parlarne?». «No. E proprio non ti capisco. Vuoi trasformarci in un gruppo di autocoscienza sul nostro vissuto galeotto?». «Potrebbe essere un'idea». «Smettila di dire cazzate e offrimi da bere». Mi indicò la credenza. «Serviti pure». «Cosa stai leggendo?». «La perversione sadomasochistica di Franco De Masi». «E cosa dice?». «Che si tratta di una perversione pericolosa, la sessualizzazione di un piacere distruttivo».
«Addirittura…». «L'autore sostiene che il rapporto sadomaso porta a un eccitamento drogato dove si tende ad aumentare la dose di violenza». «E le persone sottomesse riescono a sopportarla?». «Pare di sì. Il dolore fa produrre al sistema nervoso le endorfine, sostanze che portano a uno stato di benessere, talvolta di estasi». «E tu cosa ne pensi?». «Continuo a pensare che entro certi limiti ognuno può scopare come vuole». «Quali limiti?». «Gli stessi indicati con estrema chiarezza nei siti specializzati, che loro un po' pomposamente chiamano "codici di etica e comportamento dell'ortodossia sadomaso". In poche parole sesso sicuro, sano e consensuale. Inoltre ci sono una serie di regole per la negoziazione dei limiti dei giochi e dei segni convenzionali per interrompere le sedute». «Sono molto prudenti. Evidentemente hanno avuto dei problemi in passato». «Problemi grossi dato che hanno fissato delle norme di sicurezza, semplici ma efficaci, per non correre il rischio di finire nelle mani di malintenzionati». «Come quelli che hanno rapito la tedesca». «Già. Lupi che si aggirano a caccia di prede in un mondo clandestino e omertoso. Il comportamento del marito ne è un esempio lampante».
«Mi pare di capire che Helena e Giraldi non abbiano seguito la procedura di sicurezza». «L'hanno completamente ignorata e vorrei capire il perché. Da quello che hai scoperto a casa Giraldi è evidente che frequentano assiduamente l'ambiente da diversi anni. Eppure sono entrati in quella stanza alla cieca, mentre le regole impongono che il primo appuntamento avvenga in un luogo pubblico con un "monitor", una persona amica che controlla la situazione a distanza. Addirittura durante il primo rapporto sessuale è vietato legare il partner sottomesso proprio per impedire atti sconsiderati». «Mi sembra impossibile che Giraldi e la moglie si siano fatti fregare come due pivelli». «Anche a me. Un motivo in più per non credere alla versione del nostro cliente». «Visitando i siti ti sei fatto qualche altra idea?». «Analizzando i dati ho notato che le donne sono una netta minoranza, sia nella categoria schiave che mistress o padrone. I maschietti che aspirano a essere sottomessi sono la maggioranza, seguiti a ruota dai master. Poi ci sono i feticisti e altre sottocategorie. Si tratta comunque di decine di migliaia di persone». «Non possiamo controllarli tutti». «Helena si proponeva nel ruolo di schiava. Inizieremo a frugare in quel giro».
4 Il trillo del cellulare mi svegliò verso mezzogiorno. «Sto arrivando con i nostri ospiti» annunciò Max la Memoria. Mi preparai una tazza di caffè istantaneo corretto con due dita di calvados. Lo facevo di nascosto. Max sarebbe inorridito e mi avrebbe tolto il saluto. L'unico caffè ammesso era quello del mercato equo-solidale. Era buono, anzi il migliore, ma al mattino volevo bere solo il solubile di una certa marca. Lungo, forte e zuccherato e nella tazza rossa che davano in omaggio con quattro prove d'acquisto. La caffettiera che bolliva sul fornello e la tazzina solitaria mi ricordavano la galera. Maledissi il ciccione per l'ennesima volta. Facevo di tutto per dimenticare quei sette anni di vita dietro le sbarre e lui pretendeva che ci mettessimo intorno a un tavolo a chiacchierare dei nostri incubi. Mi accesi la prima sigaretta della giornata. Pensai a Virna. Provai a chiamarla. Non era raggiungibile. Era chiaro che aveva deciso di non parlarmi mentre ripensava al nostro rapporto. Scelsi il disco giusto per mettermi di buonumore, Moondance di Van Morrison, e mi ficcai sotto la doccia. Max mi aveva regalato una linea completa di ottimi e sani prodotti di erboristeria. Non li avevo mai usati. Usavo shampoo e bagnoschiuma di supermercato.
Mi piacevano colorati, cremosi e profumati. Quello che mi spalmai generosamente sul torace e sulle cosce sapeva di agrumi. Una fragranza estiva, proprio come prometteva la pubblicità. Arrivarono i giovani hacker, alti e magri, che non dovevano avere più di venticinque anni. Ivaz aveva i capelli scuri corti. Quelli di Arakno invece erano rossi e lunghi fino alle spalle. Entrambi avevano dei tatuaggi sulle braccia. La mano che li aveva disegnati era la stessa, ed era quella di un vero artista. Di certo non erano stati fatti in galera. Ormai i tatuaggi andavano di moda, ma vederne in giro di così belli era difficile. Io e Max eravamo tra i pochi ex detenuti a non averne. Non ci piaceva l'idea di essere costretti a guardare lo stesso disegno per tutta la vita. «Sono due ragazzi» sussurrai al ciccione. «E allora? Lo siamo stati anche noi un tempo» ribatté il mio socio. «Comunque non preoccuparti. Hanno le referenze giuste». I due mi salutarono con una stretta di mano e iniziarono a tirare fuori dalle custodie di metallo computer portatili, modem e cavi di ogni dimensione. «Certo che ne avete portata di roba» esclamai stupito. Arakno ridacchiò. «In realtà questa è solo la chiave per collegarci al vero arsenale». «Questi portatili ci consentiranno di manovrare a distanza la rete di computer della nostra università» aggiunse Ivaz.
«Un nostro socio li collegherà a internet e lavoreranno per noi. Noi da qui comunicheremo cosa dovranno cercare». Mentre allestivano l'attrezzatura, scesi al locale a prendere dal frigo una cassa di birra Ichnusa. Apprezzarono il pensiero e cominciarono a darsi da fare, con la sigaretta penzolante dall'angolo della bocca. Il ciccione si collegò a uno dei due siti dove apparivano gli annunci di Helena. «Per prima cosa voglio entrare in questa casella di posta elettronica. helena@…». «Adesso ci proviamo» disse Arakno. «Io mi occuperò della gestione della rete di computer per attivare una generazione casuale di password, mentre Ivaz tenterà di individuarle attraverso la domanda prevista dal gestore in caso di dimenticanza». «Non ti seguo» intervenne Max. «Quando apri una casella di posta viene richiesto di inserire una domanda la cui risposta ricordi la password. A volte è semplice, tipo il nome del marito o la data di nascita». Il mio socio si affrettò a scrivere su un notes tutti i dati di Helena a nostra disposizione e li passò a Ivaz. «Perché non metti un po' di musica?» chiese Arakno. «Nelle orecchie ho ancora il ronzio del motore dell'aereo». Max fece partire il cd inserito nel lettore del computer. Era un brano di jazz, che però mi faceva venire in mente un motivo conosciuto. «Ma questa l'ho già sentita in un'altra versione».
Il ciccione ridacchiò. «È il trio di Renato Sellani che esegue brani di Ricky Gianco. Per la precisione è…». «…Pugni chiusi». Ivaz iniziò a dissertare sulle diverse versioni della canzone, ma fu interrotto dal suo amico che era riuscito a entrare nella casella di posta di Helena. Io e Max ci avvicinammo allo schermo. Tutti i messaggi precedenti al giorno del rapimento erano stati cancellati. Gli altri erano proposte di incontri da parte di vecchi e nuovi clienti. Nulla che ci potesse essere utile per le indagini. Mi accesi una sigaretta. «Non credo sia stata la tedesca a cancellarli» ragionai a voce alta. «O ci ha pensato il marito o sono stati i suoi rapitori» aggiunse Max. «Giraldi ha detto di non conoscere la password» puntualizzai. «E poi sono i rapitori ad avere la necessità di non lasciare tracce». «Non c'è modo di recuperarli?» chiese il mio socio. Arakno bevve un sorso di birra. «No. Sono stati cancellati tutti i messaggi. Ricevuti e inviati». «Che facciamo adesso?» domandai scoraggiato. «Continuiamo a ficcare il naso nelle caselle delle schiave sperando di avere fortuna». Max andò a preparare il pranzo e i due ragazzi sardi sì rimisero al lavoro. Dopo una ventina di minuti riuscirono a penetrare nella casella di una certa anais'72@…, 29 anni di Novara. Aveva messo l'annuncio da una decina di giorni e
avevano già risposto una settantina di master e mistress. Alcuni avevano lasciato il numero di cellulare e altri, almeno la metà, fotografie in posa da dominatori con il solito armamentario di maschere e fruste. Leggendo le risposte inviate dalla donna si capiva che aveva selezionato tre uomini della zona di Torino, con i quali aveva iniziato a corrispondere con estrema cautela. Quando Max ritornò dalla cucina, asciugandosi le mani con un canovaccio, avevo già letto la posta di quattro schiave. Una aveva già iniziato a frequentare un master, ma nella rigida osservanza delle norme di sicurezza consigliate dai siti. Comunque i nickname dei master e delle mistress erano ricorrenti, e spesso gli stessi messaggi di risposta erano stati spediti a persone diverse. Le schiave dovevano essere merce rara. «Dobbiamo trovare un altro sistema» sbuffò il mio socio. «Così ci mettiamo un secolo». «Hai ragione» disse Ivaz stiracchiandosi. «Adesso però ho fame». Il ciccione aveva preparato delle linguine con una crema di scampi e melanzane. I due hacker mangiarono con appetito. Noi invece eravamo distratti dal pensiero di trovare un metodo di selezione delle caselle che ci permettesse di risparmiare tempo. Helena era l'unica a offrirsi come modella sadomaso. Le altre donne, con un'età che oscillava dai 19 ai 58 anni, cercavano emozioni forti. Escludemmo le schiave che cercavano solo mistress e quelle che preferivano essere
dominate da coppie. Poi eliminammo quelle che si avvicinavano per la prima volta all'ambiente e ci ritrovammo con circa trecento annunci. Ancora troppi. Procedemmo allora con un criterio di selezione geografica, depennando gli annunci provenienti dal sud, visto che Helena viveva a Varese ed era stata rapita a Torino. Suddividendoli per regione ci rendemmo conto che la maggioranza delle schiave viveva in Piemonte, Lombardia e Veneto, in particolare nelle grandi città. Max si accorse che alcune volte lo stesso annuncio veniva ripetuto nel tempo. E fu proprio mentre procedevamo in questo tipo di controllo che notai un nickname che mi sembrava familiare, barbieslave@… «Ma questo è il nome da schiava di Antonina Gattuso, l'amica di Giraldi». «Sei sicuro?» chiese Max stupito. «Sì. La poesia conservata nell'album era firmata Barbie Slave». «Allora la schiava di Giraldi non è poi così fedele». «Non è detto. Mi ha confidato che la costringeva a sottomettersi ad altri master per punirla quando nonsi comportava bene. Guarda, è scritto anche nell'annuncio…». "Sono Barbie, una bella schiava di 35 anni, esperta ma a volte disobbediente. Il mio master, per punirmi, mi mette a disposizione per utilizzi' intensi e senza limitazioni, purché avvengano alla sua presenza. Sarà lui stesso a selezionare i miei dominatori che dovranno essere esperti, raffinati e fantasiosi".
Max si rivolse ai nostri esperti. «Forse abbiamo trovato quello giusto». Arakno e Ivaz si misero al lavoro. Dopo una quindicina di minuti ci comunicarono che la password era composta da una sequenza di numeri e lettere e che ci sarebbe voluto un po' più di tempo per scoprirla. «Vado a fare il caffè» comunicò il ciccione. Lo seguii in cucina. Dal soffitto pendevano pentole di ogni tipo e dalle rastrelliere sulle pareti utensili dalle fogge più strane. Era l'unica stanza della casa perfettamente ordinata. «Hai sentito Virna?» domandò il mio socio accendendo il gas. «Ha staccato il cellulare». «Penso che tornerà con una decisione definitiva». «Lo penso anch'io. E non mi aspetto nulla di buono». «Non è che tu abbia fatto un grande sforzo per adeguarti alle sue richieste». Accesi una sigaretta. «Posso bere meno ma non smettere di fare questo lavoro». «Il locale va bene. Potresti accontentarti». «Parli sul serio?». «No. Ma devi essere chiaro con lei su questo. Le hai mai spiegato il vero motivo che ti spinge a ficcarti nei casini?». «Nemmeno io sono sicuro di saperlo».
Max prese le tazzine. «Non hai ancora ammesso con te stesso di fare l'investigatore senza licenza per bisogno di giustizia, quella che i giudici ti hanno negato?». «Dài, Max, non fare lo strizzacervelli». «D'accordo. Ma sai che dico la verità. E dovresti dirla anche a Virna. Altrimenti la perdi per sempre». «Correrò questo rischio». «Fai un po' come vuoi. Vuol dire che io e il vecchio Rossini ti consoleremo». Il suo tono mi aveva infastidito, facendomi venire voglia di litigare, ma Ivaz apparve sulla porta. «Ci siamo riusciti» disse soddisfatto. Antonina Gattuso era una persona ordinata. Non aveva mai cancellato nulla e tutta la corrispondenza era ordinata in varie cartelle. Una, in particolare, risultò interessante e riguardava uno scambio di e-mail con una tale docilefemmina®…, che in una data successiva al rapimento di Helena aveva scritto a Barbie Slave: "Ho paura. Le loro richieste si fanno sempre più pressanti, non so più cosa inventare con mio marito per giustificare le mie assenze. E poi dobbiamo scoprire quello che è successo a Helena. Perché l'hanno portata via? E dove? Finora non era mai successo. Devo incontrarli dopodomani. Ho tentato di rinviare ma non me l'hanno permesso. Master Mariano deve intervenire…". «Ci sono anche le risposte?» domandai.
«Certo» rispose Arakno. «Sono tutte conservate nell'archivio». Barbie Slave aveva risposto la sera stessa: "Stai calma. Master Mariano sta cercando una soluzione e, comunque, è importante che loro non si accorgano che tu sai di Helena. Potrebbe essere pericoloso. Comportati come sempre e non ti accadrà nulla". Docile Femmina si era rifatta viva dopo un paio di giorni: "Li ho incontrati. Ero terrorizzata ma tutto è andato come al solito. Sono tornata a casa tardi e mio marito mi ha fatto una scenata. Sospetta che abbia un amante. Così non si può andare avanti…". "Viviamo tutti una situazione difficile e master Mariano più di tutti" aveva ribattuto l'altra. "Tu, come me, sei solo una schiava e non conti nulla. Vedi piuttosto di risolvere la situazione con tuo marito. Non deve sospettare nulla. Il master si sta occupando della faccenda e dobbiamo avere fiducia". Tre giorni dopo Docile Femmina aveva inviato un altro messaggio: "Alla televisione hanno parlato della scomparsa di Helena. Pensano che sia tornata in Germania. Ma cosa ha raccontato alla polizia master Mariano? E se scoprono che è in mano loro?". Barbieslave@… "La polizia non sa e non immagina nulla. Non farti prendere dal panico". Docilefemmina@…"Mi hanno ricontattata. Devo incontrarli la prossima settimana. Ho paura".
Barbieslave@… "Master Mariano ha assunto delle persone legate alla malavita per trovare Helena. Quando la troveranno tutti i nostri problemi saranno finiti. Il Maestro di Nodi uscirà per sempre dalla nostra vita". Mi voltai a guardare Max. «La rosa di corda deve essere opera di questo Maestro di Nodi. Quel pezzo di merda di Giraldi ci ha preso per il culo». «E ha commesso un errore. Beniamino l'aveva avvertito». «Il Maestro di Nodi…Ti dice qualcosa?». «No. Forse è un titolo nella gerarchia sadomaso, comunque lo sapremo presto da Giraldi». «È la prima volta che ci capita di strapazzare un cliente per avere informazioni». «Già. È convinto di avere a che fare con una manica di fessi. Leggi l'ultimo messaggio della sua amichetta…». "Oggi ho incontrato una delle persone che stanno cercando Helena. Mi ha fatto un sacco di domande. Il master ha un piano per condurli sulle tracce del Maestro di Nodi…". «Che stronzo!» sbottai furioso. Max chiese ai due sardi di violare la casella di posta della misteriosa Docile Femmina. La password era semplice e impiegarono pochi minuti. C'era un unico messaggio inviato da un certo mastersade@… "Giovedì ore 18, 30 al solito posto". «Ci saremo anche noi» disse Max. «Ma adesso sono curioso di leggere la corrispondenza di questo signore».
«Non c'è nulla» annunciò Arakno un'ora dopo. «Abbiamo solo perso tempo. Il tizio ha cancellato tutto». Chiamai Rossini e lo invitai al cinema. Era il nostro codice per gli incontri urgenti. Il mio socio pagò gli hacker e prese accordi per continuare la collaborazione a distanza, nel caso avessimo avuto ancora bisogno di loro. Poi uscì per riaccompagnarli all'aeroporto. Tornai nel mio appartamento. Avevo dimenticato di chiudere le imposte e il caldo soffocante aveva invaso la casa. Accesi il condizionatore e mi versai due dita di calvados. Ero furibondo. Giraldi doveva essere disperato per architettare un piano così stupido. Il suo vero obiettivo era liberarsi del Maestro di Nodi e dei suoi complici, e non ritrovare sua moglie. Altrimenti ci avrebbe parlato subito della banda. Sapeva che Helena non sarebbe tornata, e dopo aver parlato con l'avvocato Bonotto aveva capito che noi potevamo essere la soluzione di tutti i suoi guai. E il braccio della sua vendetta. "Persone legate alla malavita", così ci aveva descritto Antonina Gattuso nel messaggio indirizzato all'altra schiava. Molte cose non erano ancora chiare. In particolare come avrebbe fatto a metterci sulla pista dei rapitori e che tipo di finale immaginava per la vicenda. Forse sperava che eliminassimo fisicamente i cattivi. Era l'unica soluzione che poteva garantirgli di tenere lontani gli sbirri. Mi versai un altro po' di distillato di sidro e smisi di arrovellarmi. Ben presto avrei avuto tutte le risposte.
Il vecchio Rossini ascoltò il mio racconto fumando in silenzio, con un sorrisino saccente stampato sulle labbra. «Potrei sottolineare che te l'avevo detto fin dall'inizio di lasciar perdere questo caso, ma non voglio infierire». «Possiamo farlo adesso» lo stuzzicai. «I soldi li abbiamo presi». «Eh no! L'avevo avvertito di non tentare di fotterci. Adesso voglio insegnargli come ci si comporta e sapere tutto quello che ci ha nascosto. Poi, magari, possiamo anche dimenticare l'intera faccenda». Toccò a me sorridere. Lui fece finta di niente e cambiò malignamente discorso chiedendo notizie di Virna. «Ci sposiamo il mese prossimo». «Ho capito. Ti sta mollando un'altra volta». «Non mi devo preoccupare. Il ciccione ha detto che mi consolerete». «Max ha sbagliato a usare il plurale. Appena succede io sparisco dalla circolazione finché non ti è passata. Sei insopportabile quando hai il cuore spezzato». «Che palle 'sta storia». «Sei palloso. Se con Virna non funziona, volti pagina e ti cerchi un'altra donna. Non sei più un ragazzino». «Non è così che vanno le cose». «Invece sì. Il problema è che siete una generazione di lagnoni. Per voi la vita è solo sofferenza».
Lo mandai a quel paese e andai a ficcarmi sotto la doccia. Quando uscii dal bagno, Max la Memoria era già ritornato. Stava discutendo del caso con il vecchio Rossini. «Pensavamo di partire subito per Varese» disse. «Sono d'accordo». «Beniamino propone di abbandonare il caso dopo aver chiarito le cose con il cliente». «E tu cosa ne pensi?». Max si passò una mano sulla pancia prominente. «Non lo so. Dipende da cosa ci dirà Giraldi sulla fine di sua moglie. Come ho già detto non voglio pesi sulla coscienza». Tirai fuori le sigarette dal taschino della camicia. «Già. È presto per prendere una decisione».
4 All'altezza di Brescia, Max la Memoria tentò nuovamente di coinvolgerci in una riflessione sul carcere. «Nei siti sadomaso, guardando tutte quelle foto di gente legata ai letti, mi sono venuti in mente quelli che arrivavano dai manicomi criminali» disse. «Avevano ancora su polsi e caviglie i segni delle cinghie dei letti di contenzione. Nudi, un buco sul materasso per cagare e pisciare e punture da cavalli due volte al giorno. Avevano la faccia stravolta, lo sguardo perso e nessuno li voleva in cella. Ve li ricordate anche voi, no?». Io e Beniamino ci scambiammo un'occhiata in silenzio. Il vecchio gangster guidava veloce senza spostarsi dalla corsia di sorpasso. Mi accesi un'altra sigaretta. Il ciccione continuò imperterrito. «In ogni galera ci sono un paio di celle dove finiscono i rifiuti: matti, sieropositivi, tossici che non hanno smesso di farsi e quelli che sono semplicemente malati. Anche le guardie hanno schifo a entrarci. Quando devono fare la "perquisa" tirano a sorte. A proposito, vi ricordate quando c'erano le perquisizioni generali, quelle con i carabinieri con scudi e manganelli… Ci chiudevano nelle docce ed eravamo così pigiati che non si riusciva nemmeno a respirare. E poi quando
ritornavamo in cella trovavamo tutto a terra. Il caffè, il sale, l'olio e la marmellata sparsi sui vestiti. Le lettere e le cartoline strappate. E dovevamo stare zitti altrimenti ci massacravano di botte e finivamo in isolamento. L'isolamento, altra bella merda… Quanto ne abbiamo fatto d'isolamento subito dopo l'arresto, prima che i giudici si decidessero a interrogarci e a mandarci in sezione insieme agli altri, eh?». Rossini si schiarì la voce. «Io in galera ci sono stato quindici anni, Marco sette. Tu sei quello che ne ha fatta meno. Anzi, ne hai fatta troppo poca per romperci i coglioni con queste menate». «Che cazzo vuoi dire? Che non posso parlare perché sono l'ultimo della classe?». «Sì. E ti dirò di più, Max. Tu sei stato quasi sempre al penale di Rebibbia. Il migliore in Italia. Sei un privilegiato. Io e Marco, invece, siamo stati in buchi di culo che nemmeno immagini». «È vero» ammise il ciccione. «Ma ho visto abbastanza per sapere cos'è la galera…». «E allora smettila di parlarne» sbottai. «Ve l'ho già detto. Questa storia dei sadomaso mi ha scatenato certi ricordi. Mi sento a disagio». «Cazzi tuoi» tagliò corto Beniamino. La casa di Giraldi era buia e silenziosa. I cani annusarono la nostra presenza e iniziarono ad abbaiare. Il suo dogo
argentino era il più rabbioso. Suonai il campanello. Non rispose nessuno. Non c'era nemmeno la Mercedes. «Monta, svelto» disse Rossini. «I cani fanno troppo casino, tra un po' si accenderanno tutte le luci». «Sono le due del mattino» commentai. «Dove può essere andato?». «Magari sta addestrando la sua schiava» rispose Max in tono acido. «Prova a chiamarlo al cellulare». Digitai il numero. «Non è raggiungibile». «Sali. Torniamo dopo» disse il milanese accendendo il motore. Trascorremmo un paio d'ore in un night, dove il vecchio Rossini era ben conosciuto. Mentre lui si intratteneva con alcune persone, io e Max ci sedemmo al bancone del bar. Due entraìneuse ci raggiunsero nel giro di pochi secondi. «Siamo con lui» dissi indicando Beniamino. Le due ragazze scomparvero con la stessa velocità con cui erano arrivate. Non eravamo due polli da spennare. «Carine, però» commentai osservandole mentre si allontanavano. «Non sono il nostro genere. Veniamo da un altro pianeta». «Non è detto. Se trovano l'uomo giusto e un'alternativa di vita abbandonano volentieri il giro. Questo almeno è il sogno di tutte quelle che iniziano a lavorare nei locali notturni». «Ti metteresti con un'entraìneuse?».
Alzai le spalle. «Con una come Sylvie di corsa». Il ciccione sorrise. «Ti stai avventurando su un terreno pericoloso». «Niente affatto. Mi piace e basta». «Più di Virna?». «No. E poi io amo Virna». «Sto corteggiando una donna» mi confidò di punto in bianco. «Finalmente». «L'ho conosciuta in un centro sociale a Padova». «Ti piace?». «Molto. Però è vegetariana». «Non è poi così grave». «Lo so. Vorrei invitarla a cena, ma non so che menù inventarmi». «Fatti invitare da lei». «Non le piace cucinare». «Portala in un ristorante». «Preferisco giocare in casa». «Sei un uomo complicato, Max». «Senti chi parla». Beniamino ci raggiunse con un sorriso soddisfatto stampato sul volto. «Abbiamo fatto bene a venire qui. Ho appena concluso un ottimo affare». «Un altro salvataggio di lire in estinzione?» domandai. «No. Una vecchia conoscenza sta cercando uno yacht per certi compratori dell'est che pagano bene».
«Scommetto che sai già dove sgraffignarlo». «Certo. C'è un tizio, che si è arricchito sfruttando i cinesi nei laboratori clandestini, che ne ha appena comprato uno. Credo proprio che avrà una brutta sorpresa». «Mi sembra rischioso». «Non esistono "lavori" sicuri» sbuffò. «Un professionista come il sottoscritto pianifica le cose al millimetro. È l'unico modo per evitare le manette. E poi lo yacht devo solo consegnarlo in Croazia. Al resto pensano loro». «Perché non torni a rapinare banche?» scherzò Max. «Magari una di quelle che finanziano il commercio di armi. Ti posso fornire un bell'elenco». «Troppi rischi e pochi soldi» rispose serio il vecchio gangster. Giraldi non era ancora rientrato a casa. Tornammo in città e ci infilammo in un bar vicino al mercato coperto. Alle sei del mattino commercianti, trasportatori e facchini extracomunitari si abbuffavano di panini, birre e caffè corretti. Max fu uno dei pochi a ordinare cappuccino e cornetto. Il locale era caldo e puzzava di fumo, sudore e fatica. Provai a richiamare il nostro cliente, ma il cellulare risultava sempre spento. Chiesi alla barista l'elenco telefonico. Se entro le otto non avessi rintracciato master Mariano, avrei chiamato Antonina Gattuso. Bisognava costringerla a rivelare l'identità di Docile Femmina per poterci presentare all'appuntamento con i rapitori di Helena. Non c'era nessun Gattuso. Cercai il cognome del marito, Cavedoni. Per fortuna ce n'era uno solo.
«Chissà dove si è ficcato Giraldi» bofonchiò Max. «Sappiamo ben poco di lui. Magari è dalla mamma» scherzò Rossini. Lo chiamai ogni venti minuti. Alle otto in punto digitai il numero di casa Cavedoni. Beniamino mi fermò con un gesto della mano. «Chiama da una cabina. È più prudente». Ne trovai una proprio di fronte al bar. Mentre inserivo la carta telefonica, non potei fare a meno di notare che pubblicizzava l'arma dei carabinieri nel suo centottantesimo anno di fondazione. Una voce d'uomo rispose al secondo squillo. «Voglio parlare con Antonina». «Antonina? Non c'è. Non è tornata a casa ieri sera» rispose in tono preoccupato. Poi cominciò a tempestarmi di domande. «Ma lei chi è? Perché sta cercando mia moglie alle otto del mattino?». Appoggiai delicatamente la cornetta sulla forcella. Giraldi e Barbie Slave erano scomparsi. Non poteva essere una coincidenza. Forse erano fuggiti. Ma non aveva senso. Lei aveva una figlia e un marito. Lui un'attività avviata e una moglie rapita. Una cosa era certa. Se non si fossero fatti vivi nelle prossime ore sarebbe intervenuta la polizia. «Torniamo a casa» disse il milanese. «Qui non abbiamo più nulla da fare». Durante il viaggio discutemmo a lungo sugli sviluppi del caso. La logica e l'esperienza ci suggerivano che il motivo della scomparsa era il Maestro di Nodi. Quel fesso di Giraldi doveva aver detto o fatto qualcosa che aveva allarmato
la banda di rapitori. I quali senza perdere tempo avevano reso inoffensivi master Mariano e la sua schiava. Se questa ipotesi si fosse rivelata fondata non potevamo nemmeno escludere che i due avessero raccontato del nostro ingaggio. In quel caso i cattivi conoscevano l'indirizzo del mio locale. Bisognava tenere gli occhi aperti. La notizia della scomparsa di Antonina Gattuso in Cavedoni apparve sui giornali due giorni dopo. Gli articoli raccontavano lo stupore del marito, dei parenti e dei colleghi di lavoro. Le descrizioni della donna erano concordi nel ritenerla dedita alla famiglia e al lavoro. In un'intervista a un quotidiano locale il parroco lodò il suo impegno nel "sociale". La solita trasmissione specializzata in persone scomparse le dedicò un ampio servizio. Il marito lanciò un appello. La figlia scrisse una lettera dal titolo "Mammina torna presto". Il capitano dei carabinieri incaricato delle indagini fece capire che erano orientati verso l'ipotesi della scomparsa volontaria. L'unico dato certo era che Antonina si era allontanata dall'ufficio con la sua automobile. Nessuno fece mai il minimo accenno a Giraldi. La sua scomparsa fu denunciata dal fratello solo una quindicina di giorni dopo, quando della donna non si occupava più nessuno. Il ritardo fu giustificato dalla convinzione che si fosse recato in Germania a cercare la moglie. Ma quando le ditte di cui era rappresentante avevano iniziato a lamentarsi dell'assenza, Ettore Giraldi si era preoccupato. Gli era bastata una telefonata ai familiari di Helena per sco-
prire che nessuno dei due si era fatto vedere. La stampa e la televisione si occuparono del caso con la superficialità di sempre. La notizia perse presto di interesse e a nessuno venne in mente di domandarsi se i due casi fossero collegati. D'altronde in Italia spariva ogni anno un bel po' di persone, e una discreta percentuale non veniva più ritrovata. Max la Memoria fece un'accurata ricerca su internet. Scoprì che se non c'era il fondato sospetto che la scomparsa fosse causata da un crimine o riguardasse un minore, le indagini si fermavano alle procedure di routine. Al locale non notammo nulla di strano, a parte due albanesi che erano venuti a chiedere il pizzo. Il vecchio Rossini era andato a parlare con il loro capo e la faccenda si era risolta senza che nessuno si facesse male. Alla luce dei fatti ci eravamo convinti che master Mariano e la sua schiava fossero stati eliminati. Per quanto ci riguardava, il caso del rapimento della bella Helena era chiuso. Eravamo stati pagati profumatamente per fare ben poco. Per scrupolo Max aveva inviato un messaggio a Docile Femmina. "Sappiamo che lei è vittima del Maestro di Nodi. Come ben sa, lui e la sua banda sono responsabili della scomparsa di tre persone. Pensiamo che lei sia in pericolo. Possiamo aiutarla…". Quel pomeriggio il caldo era opprimente. Me ne stavo disteso sul divano, con le imposte chiuse e il condizionatore al massimo. Stavo pensando a Virna. Era tornata da qualche
giorno ma non aveva voluto vedermi. Nel corso di una telefonata piuttosto burrascosa mi aveva detto che il nostro rapporto non avrebbe funzionato. Eravamo troppo grandi per adeguarci alle esigenze dell'altro. Me l'aspettavo ma stavo male ugualmente. Avevo bisogno di una donna. Avevo bisogno di lei. E avevo una voglia fottuta di scopare. Ai miei soci non avevo detto nulla. E non avevo la minima intenzione di farlo. Si sarebbero trasformati in due chiocce premurose e mi avrebbero sommerso di attenzioni e consigli, senza perdere l'occasione di ricordarmi le loro previsioni. Max bussò alla porta. «Disturbo?». «No. Stavo riflettendo sulla mia prolungata inattività sessuale». «Un tema da talk show» disse in tono partecipe. Poi aggiunse: «C'è una novità nel caso di Helena». «Ti ascolto». «Docile Femmina ha risposto al messaggio e ha fissato un appuntamento. Domani pomeriggio alle 17,30 di fronte alla farmacia della stazione centrale di Milano». «E come la riconosceremo?». «Sarà lei a farlo». «Il solito giornale sotto il braccio?». «Una rivista di arredamento. Se la situazione non le aggrada gira i tacchi e scompare per sempre». «Speriamo che le piacciano le nostre facce». «Il vecchio Rossini?».
«È in viaggio verso la Croazia con lo yacht rubato e non tornerà prima di qualche giorno». «Allora domani andremo solo noi due». «Speriamo che non sia una trappola». «Lo escludo. Il luogo è affollato. Docile Femmina l'ha scelto secondo i criteri di sicurezza consigliati dai siti sadomaso». Max andò a una delle tante riunioni del consorzio del commercio equo-solidale. Io invece tornai a buttarmi sul divano. Johnny Winter mi accolse cantando Doni take advantage of me. Smisi di pensare alle mie pene d'amore e mi concentrai sull'inatteso sviluppo del caso. Docile Femmina aveva deciso di accettare la nostra proposta. Probabilmente la sua situazione era diventata insostenibile. Mi addormentai pensando ad Antonina Gattuso. Ormai la cercava solo il marito. Ogni settimana lanciava un appello attraverso la solita trasmissione televisiva. Era rivolto alla moglie. Sospettava che fosse fuggita da lui e dalla bambina, da un appartamento in affitto e dai sabati al centro commerciale. Se solo avesse immaginato la doppia vita della sua Antonina, non avrebbe perso tanto tempo in chiacchiere.
5 Partimmo per Milano nella tarda mattinata. Non volevamo correre il rischio di arrivare tardi all'appuntamento. La temperatura non era calata di un solo grado. Avevo lasciato la Skoda Felicia al sole e il mio socio, appena appoggiò il sedere sul sedile bollente, fece dei commenti poco carini sulla mia intelligenza. Era appena stato in edicola. Oltre alla rivista d'arredamento aveva acquistato anche alcuni quotidiani. Cominciò a sfogliarli e a commentarli. «Il 20 luglio si riuniranno a Genova i "grandi della terra". Lo sapevi?». «Sì. Ho sentito che stanno blindando la città. Per impedire a quelli come te di rompere i coglioni». «Stavo giusto valutando la possibilità di andare alla manifestazione». «Il caldo ti ha sciolto il cervello, Max. Lo sai che sei sul filo del rasoio. Se fai anche solo uno starnuto su uno sbirro, torni dritto dritto in galera». «Ci saranno decine di migliaia di persone. E poi starei nello spezzone del mercato equo-solidale. Gente assolutamente pacifica».
«Che cazzo dici? Alla televisione una parte del movimento ha annunciato che tenterà di raggiungere la zona proibita…». «La zona rossa». «Proprio quella. Gli scontri con la polizia sono una certezza». «Ma io starò con l'altra parte del movimento». «Ti sei dimenticato cos e successo a Napoli a marzo, al summit precedente» sbottai. «Gli sbirri hanno rotto tutte le teste che capitavano a tiro e non chiedevano alla gente a quale parte del movimento appartenevano. E in quel momento c'era un governo di centro sinistra, immagina cosa succederà adesso con la destra al potere». «Il Genoa Social Forum ha chiesto garanzie e sta trattando con il Ministero degli interni. Non succederà nulla». «Non crederai a queste fesserie, spero. Di' piuttosto che hai già deciso di andare». «Ho detto che ci sto pensando». «Fai il cazzo che vuoi ma non cercare la mia benedizione». Calò un silenzio carico di tensione. Dopo un po' il ciccione ricominciò a commentare le notizie. Piegò il giornale e mi mostrò un articolo. «Leggi un po' qui». «Sto guidando» ribattei sgarbato. «"Delitti sotto silenzio"» lesse. «"I casi di detenuti morti in Italia per malasanità"».
«Ti prego, non riattaccare con la storia della galera». «L'elenco è breve. Sono solo i morti di quest'anno… carcere di Enna, aveva 59 anni. Gli hanno comunicato la sospensione della pena per malattia la mattina che è schiattato. Milano, detenuto già malato da tempo muore per embolia. Aveva chiesto di essere curato in una struttura esterna. Palermo, altro disgraziato muore dopo l'intervento chirurgico eseguito nel reparto medico interno. Si erano dimenticati una sonda tra le trippe…». «Questo capita anche ai "regolari"» lo interruppi. «Comunque è morto… Prato, infermiera sotto inchiesta per non aver soccorso un detenuto spagnolo colpito da infarto. Aveva 45 anni. Vigevano: morto di embolia a 60 anni. I medici non avevano disposto il ricovero in ospedale…». «Smettila, Max». «Ascolta questa. Padova: pensavano avesse simulato un infarto. Gli hanno creduto solo quando il secondo infarto lo ha ucciso. Ancora Padova: detenuto maghrebino defunto a seguito di uno sciopero della fame. Era dimagrito di venti chili ma nessuno si è occupato di applicare il trattamento sanitario obbligatorio ordinato dal giudice. Ti risparmio i suicidi. Sono in aumento. Comunque c'è una buona notizia. Hanno stanziato 830 miliardi per costruire 22 nuove carceri». «Hai finito?». «Sì. Ma quanti ne abbiamo visti morire?». «Alla gente non gliene frega un cazzo di quello che succede in galera».
«Nemmeno a te». «Non più di tanto. Quando sei dietro le sbarre pensi solo a uscire il più velocemente possibile e senza troppi danni. E quando sei libero vuoi solo dimenticare. Degli altri te ne fotti. Ognuno pensa per sé». «Io non voglio dimenticare». «Peggio per te. Tanto non cambia niente. In questo paese le galere possono solo peggiorare». «Non è una buona ragione». «Ti racconto una storia. Un giorno arrivò un violentatore di bambini. Lo misero in isolamento in attesa dell'interrogatorio del pubblico ministero. Era terrorizzato. I carabinieri gli avevano spiegato cosa succedeva ai tipi come lui in carcere. Le guardie iniziarono a tormentarlo. Alla fine fece una corda con un lenzuolo, l'attaccò alle sbarre della finestra e si mise il cappio intorno al collo. Solo che non aveva il coraggio di saltare dallo sgabello. Allora due guardie aprirono la porta ed entrarono. Lo aiutarono a impiccarsi. Una diede un calcio allo sgabello e l'altra si attaccò di peso alle gambe». «Come fai a sapere che le cose andarono in questo modo?». «Perché ho visto tutto. Ero nella cella di fronte. Quando mi interrogarono, dissi che quando le due guardie avevano aperto la porta il tizio penzolava dalle sbarre». «Cazzo, Marco. Come hai potuto?».
«Cosa volevi che facessi? Nessuno mi avrebbe creduto e ogni guardia di ogni fottutissimo carcere si sarebbe sentita in dovere di rompermi il culo». «Un'esecuzione in piena regola e se la sono cavata…» borbottò indignato. «Come sempre. E adesso smettila di rompermi i coglioni». Docile Femmina aveva scelto il posto giusto. A quell'ora del pomeriggio la stazione centrale era affollata ed era impossibile notare una persona che ci stesse osservando. Max si piazzò davanti alla farmacia, facendo finta di leggere la rivista di arredamento. Io, invece, mi piazzai davanti a una grande edicola, fingendo interesse per le riviste. Non potei fare a meno di notare il vasto assortimento di collezioni proposte. Ogni settimana si potevano acquistare soldatini, statuette del presepe, automobili e altri oggettini rigorosamente di plastica con cui riempire il salotto di casa. "La gente si sta proprio rincoglionendo" pensai prima di spostare lo sguardo sul settore delle riviste pornografiche. Una era dedicata esclusivamente ai culi. Sperai che Docile Femmina si facesse viva in fretta. Per fortuna la donna spiò il mio socio per una decina di minuti, poi decise di fidarsi e si fece avanti. Il ciccione le diede la mano e poi indicò nella mia direzione. Mi avvicinai. Mi salutò con un cenno del capo.
«Seguitemi» disse incamminandosi verso la scala mobile che portava al piano terra. Uscì dalla stazione, voltò a sinistra, attraversò la strada e si infilò in un bar. Ci sedemmo in una saletta vuota e ordinammo da bere. Finalmente potei osservarla. Era una quarantenne magra ed elegante. Aveva un viso non bello ma interessante, con grandi occhi nocciola. Doveva essere piena di soldi, perché il tailleur, la borsa e i sandali erano firmati e costosi. Portava orecchini di brillanti e oro bianco, e la fede al dito. «Niente nomi» chiarì subito. «D'accordo». «Come avete fatto a trovarmi?». «Siamo entrati nella casella di posta elettronica di Antonina. Abbiamo letto i messaggi che vi siete scambiate». Tirai fuori dalla tasca il fiore di corda. Lei lo guardò. «Il Maestro di Nodi» sussurrò guardandosi attorno. «Dove lo avete trovato?». «L'ha trovato Giraldi nella camera dove è stata rapita Helena». «Adesso è scomparso anche lui. Sono scomparsi tutti» disse angosciata. Poi il suo volto si contrasse in una smorfia. Era sul punto di crollare ma riuscì a dominarsi. Respirò a fondo un paio di volte. «Non potete immaginare quello che ho passato». «Forse è il caso che lei ci racconti tutto dall'inizio» la incoraggiò il mio socio.
Bevve un sorso di caffè freddo e iniziò a parlare. Aveva conosciuto Helena per motivi di lavoro, nel campo della moda. Le era piaciuta subito. Fino a quel momento non aveva mai avuto il coraggio di affrontare la sua bisessualità, ma la tedesca le aveva scatenato il desiderio di amare una donna. La modella si faceva corteggiare volentieri. Una sera, al termine di una sfilata, andò a cena con Helena e il marito. Giraldi introdusse il tema del sadomasochismo e la invitò a seguirli a casa. Superato l'imbarazzo iniziale, lei disse che non le interessava essere dominata e tantomeno un rapporto a tre. Allora Mariano le propose di insegnarle a diventare una mistress. Lui si sarebbe limitato a guardare. Era titubante, ma Helena la guardava con desiderio. Accettò. E quella fu la prima e ultima volta che fece l'amore con la tedesca. Giraldi le fece conoscere Antonina Gattuso e fu con lei che imparò l'arte della dominazione. Ma Barbie Slave non era bella come Helena, e lei mise un annuncio su un sito consigliato da Mariano. Risposero diverse donne. Le incontrò ma ebbe rapporti, poco soddisfacenti, solo con una di loro. Poi un giorno conobbe Cristiana, una ventiquattrenne che sprizzava sensualità da tutti i pori. Si incontrarono tre volte, in altrettanti hotel di Milano. Al quarto appuntamento si presentò un uomo sui cinquantanni, alto, bruno con l'aria poco raccomandabile. Per convincerla a farlo entrare nella camera disse di essere il padre di Cristiana. Poi dalla tasca del giaccone prese una videocassetta, pretese che lei la vedesse e solo allora iniziò a
parlare di ricatto. Le mostrò una lista di persone che avrebbero ricevuto copie del video in cui lei dominava Cristiana. Il primo nome era quello del marito. Seguivano quelli dei parenti più stretti, dei colleghi di lavoro e infine dei vicini di casa. Si sentì perduta. Non cedere al ricatto avrebbe significato la sua completa rovina. Chiese quanti soldi voleva. Scuotendo la testa aveva risposto che la reputazione non aveva prezzo. Poi le aveva detto quello che avrebbe dovuto fare in cambio del silenzio. Si sentì annientata. Cercò un'altra via di uscita ma dovette piegarsi. Non aveva altra scelta. Come Cristiana. Anche lei era stata vittima dello stesso orribile ricatto. L'uomo fece una telefonata, e poco dopo altri due bussarono alla porta. Uno era giovane, con il fisico scolpito dalla palestra, l'altro era mingherlino. Quest'ultimo prese una telecamera da una borsa, mentre il giovane si spogliava. Le fecero indossare una maschera di pelle, la legarono al letto e fu così che girò il suo primo video sadomaso. Questo accadeva un anno e mezzo prima. Aveva avuto modo di conoscere il resto della gang bang, come chiamavano la loro banda. Era composta da sei elementi. Il capo non l'aveva mai visto in faccia. Arrivava solo quando era stata bendata. Veniva chiamato con rispetto il Maestro di Nodi perché, come le avevano spiegato, era un seguace della scuola di Chimuo Nureki, il sensei del kinbaku, l'antica arte giapponese del legamento. Era lui che si occupava di legarla e della regia dei film. I partecipanti variavano a seconda del soggetto. Lei era diventata la loro schiava, nel vero senso della parola. Potevano farle
quello che volevano, anche se avevano sempre l'accortezza di non oltrepassare i limiti e di garantirle l'anonimato facendole indossare la maschera. La costrinsero ad attirare in una camera d'albergo, dove era stata nascosta una telecamera, Antonina Gattuso, che era arrivata accompagnata da master Mariano. A sua volta l'uomo, ricattato, doveva aver coinvolto la moglie. «Allora quando Helena è stata rapita, Giraldi sapeva di dover incontrare la banda del Maestro di Nodi?» domandai. «Non lo so. Doveva trattarsi sicuramente del primo appuntamento, visto che era stato fissato in un hotel. Di solito mi passavano a prendere a una fermata del tram di corso Sempione. Mi facevano indossare un paio di occhiali con le lenti verniciate e mi portavano in uno studio attrezzato nel seminterrato di una villetta o di un palazzo». «Qui a Milano?». «Sì. Il viaggio durava intorno ai quindici, venti minuti». «Se ho capito bene si tratta di una banda che col ricatto costringe delle donne a recitare in film pornografici destinati al mercato illegale». «Sì. Ma per loro non è solo business. Quei porci si divertono, e poi il Maestro di Nodi è una specie di capo spirituale. Non fa altro che parlare dei principi del sadomaso giapponese e del suo sensei». «Si spieghi meglio». «Il sadomasochismo in Giappone non contempla il piacere reciproco. È potere, dominazione assoluta nei confronti
delle donne che, secondo questi stronzi, hanno troppo potere all'interno della società». «Quante donne erano coinvolte?». «Non ne ho idea. Io ho girato video solo con Cristiana e Antonina». «Perché pensa che abbiano rapito Helena?». La donna prese una sigaretta dal mio pacchetto. «Non lo so. Anche se a forza di pensarci un'idea me la sono fatta». «La dica anche a noi». «Helena era bellissima. Aveva un corpo perfetto. Difficile trovare una donna così nel giro delle schiave. Credo che l'abbiano rapita per girare molti video in un crescendo di violenza». «Dà per scontato che l'abbiano uccisa torturandola». «Sì. I video più ricercati sono quelli dove le schiave vengono torturate con dilatazioni anovaginali. Con me, Antonina e Cristiana si sono limitati a usare piccoli oggetti per evitare lacerazioni dei tessuti, che non saremmo state in grado di spiegare ai nostri mariti. Ma credo che con Helena abbiano praticato il fist fucking fino a farla morire». Io e il mio socio ci scambiammo un'occhiata. Il fist fucking era la penetrazione con la mano. Una pratica estremamente pericolosa. E un modo orribile per dire addio alla vita. «Pensa che la banda abbia fatto un salto di qualità?». «Sì. Gli snuff, i video che si concludono con la morte della vittima, sono molto richiesti nel mercato clandestino, nonostante costino cifre considerevoli».
«Non capisco una cosa» intervenni. «Se per Helena e Giraldi si trattava del primo appuntamento, perché la banda aveva già organizzato il rapimento? Fino a quel momento si erano comportati diversamente, usando una telecamera nascosta per organizzare il ricatto». «È vero. Sono convinta che sia stata Antonina a parlare loro di Helena come modella sadomaso. Magari si è anche procurata delle fotografie o ha fornito l'indirizzo. Lei odiava la moglie di Giraldi. Voleva master Mariano solo per sé. Quando mi telefonò per avvertirmi del rapimento era quasi euforica». «Si è fatta un'idea anche sulle ragioni della loro scomparsa?». «Devono aver fatto qualche mossa falsa». «C'è un'altra cosa che mi sfugge» dissi. «Perché non hanno fatto sparire Giraldi insieme alla moglie?». Questa volta fu Max a rispondere. «L'unica spiegazione plausibile è che non avevano intenzione di uccidere Helena. L'hanno rapita per averla a disposizione per video più violenti, e deve essere morta per un incidente. Poi sono stati costretti a eliminare anche Mariano e la sua amichetta, che potevano rivelarsi testimoni pericolosi». «Lei deve stare attenta» raccomandai. «Se la ricontattano ci avverta subito. Penseremo noi a proteggerla». «Non credo si faranno più vivi» ribatté. «Per loro non rappresento nessun pericolo. Siete le prime e ultime persone a cui ho raccontato questa storia, oltre al mio analista natu-
ralmente, perché so che non andrete in giro a parlarne. Antonina mi aveva scritto che appartenete alla malavita o qualcosa del genere». «Quindi la sua reputazione è più importante della vita di tre persone» la stuzzicò il ciccione. Si era risentito per essere stato definito un malavitoso. Lo fulminai con lo sguardo, ma la donna non si era offesa. «Lo può ben dire. Adesso ho una possibilità di ricominciare a vivere. Se vado alla polizia posso solo suicidarmi o chiudermi in un convento…». Max stava per ribattere ma lo bruciai sul tempo. «Ci può fornire qualche elemento utile per identificare gli uomini della banda?». Prese un foglio dalla borsa. «È l'elenco dei nickname che hanno usato per contattarmi». «Si sono mai chiamati per nome?». «Mai. Sono sicura di una cosa, però. Nessuno di loro era meridionale o straniero». «Anche il Maestro di Nodi?». «Sì. Aveva una voce profonda e un marcato accento milanese». «Si ricorda il numero di targa dell'auto che la passava a prendere?». La donna scosse la testa sconsolata. «Purtroppo non ci ho mai fatto caso. Comunque era una Y 10 verde scuro».
Max tirò fuori dalla tasca un piccolo notes e una penna. «Ci descriva gli elementi della banda che ha visto. Anche il più piccolo particolare può essere utile». Mezz'ora dopo la donna, pallida e stanca, se ne andò. Doveva essere stato penoso per lei ripercorrere le tappe di quella vicenda. Il ciccione ordinò il terzo tè freddo. Io una coca con rum. «Brutta faccenda» commentai. «Speriamo che il suo analista sia in gamba». «Dobbiamo trovare il modo per fermare il Maestro di Nodi e la sua banda» sbottò Max rabbioso. «L'unico che può farlo è Rossini. A colpi di pistola». «Già». «Sempre se gli garba. Sai com'è fatto. Anche lui ha i suoi problemi di reputazione». «Sono sicuro che, dopo aver raccontato le gesta del Maestro di Nodi, non si tirerà indietro». «Può darsi. Comunque abbiamo ben poco in mano, e quelli devono aver già cambiato zona». «Ma non attività. Hai sentito cosa ha detto Docile Femmina. Per loro il sadomaso non è solo business». «Non sarà facile trovarli». «Dobbiamo continuare a controllare gli annunci sui siti. Appena si fanno vivi, usando uno dei nickname che ci ha fornito la tizia, li inchiodiamo». «Ho un'altra idea. Battere il mercato pornografico illegale».
«Conosciamo qualcuno?». «Una vecchia conoscenza di galera. Se gli parla Rossini credo che ci possa aiutare».
6 Il vecchio Rossini tornò al locale tre giorni dopo, più abbronzato del solito e con un nuovo orologio dall'aria costosa. L'affare in Croazia doveva essere andato a buon fine. Ordinò un kir royal, champagne e cassis. «Non ti ho mai visto bere quella mistura» dissi. «Ogni tanto mi piace cambiare». «Abbiamo delle novità» annunciò Max la Memoria, addentando un cioccolatino. Il milanese ci guardò dritto negli occhi. «Sono di buonumore. Spero non si tratti della storia dei sadomaso». «Proprio quella». «Almeno fatemi bere in santa pace». Lo accontentammo. Poi Max prese il suo notes e ripetè quanto ci aveva raccontato Docile Femmina. Beniamino masticò una bestemmia tra i denti. Buon segno. Il vecchio gangster era indignato. Io e Max ci guardammo soddisfatti. «Ai miei tempi non c'erano tutte queste schifezze» disse con amarezza. «I papponi che sfruttavano le donne erano considerati feccia e in galera se ne stavano in isolamento. Altrimenti si beccavano un paio di coltellate alle docce. Oggi
non ci sono più regole, e pezzi di merda come questo Maestro di Nodi si permettono qualsiasi cosa. Non hanno le palle di rischiare la vita o la galera per guadagnarsi la pagnotta e campano di ricatti e violenze…». «Meritano solo di essere presi a calci in culo» gli diede corda il ciccione. «Qualcuno deve fermarli» aggiunsi. «Sono pazzi e pericolosi». Rossini si accese una sigaretta. «L'affare della barca mi ha reso bene. E non ho nulla di urgente per le mani. Posso dedicarmi a dare la caccia a questi stronzi a tempo pieno». Era fatta. Gli raccontai la mia idea di seguire la pista del mercato pornografico illegale partendo dal tizio che avevamo conosciuto in galera. Max disse che lui avrebbe continuato a frugare nelle caselle di posta elettronica. Avremmo iniziato l'indomani. «Vado da Sylvie» annunciò Beniamino. «Max vuole andare alla manifestazione contro il G8 a Genova». Il milanese rimase in silenzio. Raccolse sigarette e accendino e li infilò nella tasca della giacca di lino. «È una cazzata». «Tutti rischi calcolati» precisò subito il ciccione. «Gli scontri sono annunciati» ribattei. «Non puoi andare». Il vecchio Rossini mi guardò. «Max sa come la pensiamo. Ma è lui che deve decidere».
Scossi la testa. «Finirà per cacciarsi nei guai». Beniamino allargò le braccia. «È grande abbastanza per valutare i rischi». Poi se ne andò dalla sua donna, non prima di essersi fatto dare da Rudy un paio di bottiglie di champagne infilate in un secchiello pieno di ghiaccio. Il ciccione prese il cellulare e chiamò Arakno. «Mettetevi al lavoro» disse. Poi si rivolse a me con tono irritato. «Perché non ti fai mai i cazzi tuoi?». «Perché ti stai comportando come l'ultimo dei coglioni». «Non mi accadrà nulla». «Lo spero». Max se ne andò e io rimasi a chiacchierare con alcuni clienti. Come sempre, alla fine del concerto Maurizio Camardi venne a sedersi al mio tavolo. Mi parlò di un gruppo, La Moranera, che faceva serate per finanziare la costruzione di pozzi d'acqua in Africa. «Parlane con Rudy» dissi. «È lui il proprietario». Il sassofonista sorrise. «Ha detto che sei il suo consulente musicale». «Allora va bene. Falli venire quando vogliono». Ogni volta che si apriva la porta, con fare indifferente alzavo lo sguardo nella speranza di vedere entrare Virna. Razionalmente sapevo che era finita, che l'avevo perduta per sempre, ma non riuscivo ad accettare fino in fondo questa realtà. Quando l'ultimo cliente se ne fu andato, io e Rudy facemmo un po' di conti. Il bilancio era decisamente in attivo e il mio prestanome ne approfittò per aumentarsi lo stipendio.
Indicai il ragazzo curdo, un immigrato clandestino, che stava lavando il pavimento. «Dagli un po' più di soldi. Ce lo possiamo permettere». «Va bene». «Cosa sai di lui?». «Praticamente nulla». «Informati. Magari lo possiamo aiutare». Beniamino mi passò a prendere nel tardo pomeriggio. Si era informato dove potevamo trovare il trafficante di pornografia. Ma prima volle parlare con Max. «Ho sentito delle voci» disse. «Pare che qualcuno stia reclutando esagitati del giro delle tifoserie venete da portare a Genova». «Se ne sentono tante in questi giorni» minimizzò il ciccione. «La fonte è attendibile. Mi ha raccontato che il reclutatore lavora per gli sbirri». «Riferirò la notizia» tagliò corto Max. Avevamo conosciuto Nicola Mirra al penale di Padova. Stava scontando una vecchia condanna per ricettazione, ma nell'ambiente era noto per commerciare in pornografia illegale. Su richiesta di Rossini era stato sottoposto a una sorta di processo da parte dei detenuti che contavano. Lui si era difeso giurando sulla testa di tutti i suoi parenti che non aveva mai avuto nulla a che fare con la pedofilia e che si limitava a
esportare foto e video hard in nord Africa. Era stato assolto con formula dubitativa, e nessuno gli aveva torto un capello. Viveva a Brescia ma le informazioni raccolte dal mio socio suggerivano di dare un'occhiata a un'enoteca della parte alta di Bergamo dove Mirra incontrava i suoi clienti. Lo notammo dalla vetrina del locale. Parlottava con un signore sui sessant'anni dall'aria distinta. Il nostro uomo aveva cambiato aspetto dall'ultima volta che l'avevo visto. I capelli erano tagliati a spazzola ed era dimagrito. Rossini si diresse a passo deciso verso il suo tavolo. Mirra impallidì quando ci vide. Capì subito che cercavamo proprio lui. «Ti dobbiamo parlare» esordì Rossini in tono secco. «Sono occupato» ringhiò l'altro. «Il signore se ne sta andando» disse Rossini, appoggiando la mano sulla spalla del tizio. «Comprerà le tue schifezze un'altra volta». L'uomo, rosso in volto, si alzò guadagnando velocemente la porta. «Cosa cazzo volete?» sibilò Mirra. «Informazioni» risposi. «Andate a farvi fottere. Qui non siamo in galera». «Muoio dalla voglia di farti male» lo minacciò il milanese buttando la cicca nel suo bicchiere di vino bianco. «Cosa volete sapere?». «Conosci qualcuno che produce video sadomaso? Quelli pesanti intendo».
«Snuff o cose del genere?». «Esatto». Ci rivolse uno sguardo preoccupato. «Io non tratto quella roba». «Magari conosci qualcuno». «Quel poco che c'è in circolazione arriva dall'estero». Rossini si alzò. «Scusa il disturbo». Una volta fuori lo presi per un braccio. «Perché te ne sei andato? Avevamo appena iniziato a torchiarlo». «Ci stava rifilando una marea di balle. Lì dentro si sentiva al sicuro e non ci avrebbe detto nulla di utile». «Ho capito. Gli vuoi fare un discorsetto lontano da orecchie indiscrete». «Già. Appena esce lo seguiamo». Entrammo in un bar distante poche decine di metri. Dal banco si poteva tenere d'occhio la porta dell'enoteca. Ordinammo da bere e ci rassegnammo a una lunga attesa. I locali di Bergamo alta, la parte più antica della città, erano strapieni di gente che cercava di sfuggire al caldo. «C'è una tizia che ti guarda con interesse» mi avvertì Rossini. Spostai lo sguardo con discrezione. Una bruna sui quarantanni con un lungo vestito scollato mi salutò alzando il bicchiere. Ricambiai il sorriso. Lo spacco laterale lasciava intravedere una coscia discretamente abbronzata. Non era affatto male.
«Si vede così tanto che ho voglia di scopare?» domandai al mio socio. «Forse è solo ubriaca». Mi alzai dallo sgabello. «Avvertimi quando esce lo stronzo». Mi sedetti al suo fianco. «Mi chiamo Marco». Allungò la mano piena di anelli. «Viviana». «Sei carina, Viviana». «Anche tu». «Il mio amico dice che forse sei solo sbronza». Sorrise. «Bevo solo gin fizz. Tutte vitamine». Rossini schioccò le dita per richiamare la mia attenzione. Mirra era uscito dal locale. «Adesso devo andare» dissi. «Magari passo dopo». Guardò l'orologio. «Mi trattengo ancora un paio d'ore». «Spero di fare in tempo». «Ci conto». Poi aggiunse: «Una sveltina. Nulla di impegnativo. D'accordo?». Nicola Mirra camminava veloce, girandosi ogni tanto per assicurarsi che non lo seguissimo. Ma c'era troppa gente perché si accorgesse di noi. Raggiunse un parcheggio deserto appena fuori le mura. Mentre stava aprendo la macchina, Beniamino lo colpì con un pugno al fianco e poi gli sbatté la testa sul tettuccio. «Entra!» ordinò, aprendo la portiera posteriore.
Io salii dall'altra parte. Mirra era in mezzo. Aveva un taglio sulla fronte. «Vi ho già detto che non so nulla» gridò. Il vecchio Rossini gli tirò un pugno sui testicoli. L'uomo incassò il colpo con un gemito. Tentò di proteggere la parte dolorante con le mani. Il milanese lo colpì al volto con il gomito. Una, due, tre volte. Il sangue iniziò a colare dal labbro spaccato. Poi gli piegò le dita della mano sinistra fino quasi a spezzarle. «Parla!» urlò. «Va bene» sussurrò dolorante. «Ho sentito che c'è un tipo, uno nuovo, che produce i video che cercate. Ma non li vende in Italia. Si chiama Jay Jacovone. È un italo-americano. Dicono che sia legato alla mafia di Miami». «Dove possiamo trovarlo?» domandai. «Vive a Roma. Non so altro». Rossini lasciò andare la mano dell'uomo. «Se ci hai raccontato delle cazzate, torno e finisco il lavoro». Uscimmo dalla macchina e tornammo sui nostri passi. «Bastava uno schiaffo. Avrebbe parlato lo stesso». Il mio socio alzò le spalle. «Meritava di peggio». «Dovevi proprio pestarlo dentro la macchina? Mi ha sporcato di sangue la manica della camicia». «Buttala. È pure brutta». «Non ci penso proprio». «Vuoi tornare al bar dalla tua nuova amichetta?». «Perché no?».
La sedia di Viviana era vuota. Domandai sue notizie al barista. Mi disse che aveva agganciato un tizio e se n'era andata una decina di minuti prima. Quando tornammo, il locale era ancora aperto. Max sedeva al mio tavolo in compagnia di grappa, cioccolato e sigarette. Una smorfia amara gli attraversava il viso come una vecchia ferita. «Che ti succede?» domandai. «Nulla. Stavo pensando» rispose con la voce leggermente impastata dall'alcol. «Le seghe mentali sono una specialità della vostra generazione» disse il vecchio Rossini in tono piatto. Il ciccione lo ignorò. Beniamino, a volte, non sopportava i nostri atteggiamenti e le nostre debolezze. Ormai ci avevamo fatto l'abitudine. «A che pensavi?» domandai. «A quanto vive male la gente». «Non è una novità». «Mi riferivo all'ambiente sadomaso». Si versò una dose abbondante di liquore. «Ho trascorso la sera a leggere la posta delle "schiave" che hanno messo gli annunci. Arakno e Ivaz ci hanno procurato un bel po' di password… Per molte di loro il desiderio di essere dominate nasconde l'incapacità di accettarsi, solitudini devastanti o voglia di evadere dal carcere della famiglia, del matrimonio o del loro lavoro. Si confidano con i loro master come col prete e, col tempo, i loro
dominatori diventano un punto di riferimento insostituibile per la loro esistenza…». «Doppia esistenza, vorrai dire» puntualizzò Rossini. «Certo. Una è quella "normale", una quotidianità che non le soddisfa. Poi c'è quella clandestina, inconfessabile; quella che permette loro di andare avanti, di trovare un equilibrio e un po' di serenità». «È vero, non si tratta solo di sesso» dissi. «L'ho capito quando ho parlato con Antonina Gattuso». «Quello che mi ha colpito è che facendo un rapido calcolo del numero di annunci di tutte le categorie, i sadomaso superano i trentamila, a cui vanno aggiunte le persone che si limitano a rispondere». «Un bel po' di gente». «Ho dato un'occhiata anche ai siti stranieri. Le cifre aumentano in Germania, in Francia e in Inghilterra. Anche gli svizzeri non se la cavano male». Assaggiai l'alligatore che Rudy mi aveva preparato. Sette parti di calvados, tre di Drambuie, molto ghiaccio e una fettina di mela verde, secondo la ricetta di Danilo Argiolas del Libarium di Cagliari. Non aveva ancora raggiunto la temperatura ideale. «C'è chi si affida alla religione, chi allo strizzacervelli…». «E chi si fa frustare le chiappe» mi interruppe il milanese spazientito. «Piuttosto, hai scoperto qualcosa?».
«No. Ma ho letto un nuovo annuncio piuttosto interessante. Una tale Sherazade si propone come modella sadomaso» rispose il ciccione. «Come Helena». «Esatto». «Se è bella come la tedesca potrebbe stuzzicare l'interesse del Maestro di Nodi». «Ho già chiesto ai nostri amici sardi di scoprire la password». «Noi invece abbiamo fatto una chiacchierata con Mirra». Max notò il sorriso soddisfatto del vecchio Rossini. «Scommetto che si è fatto male». Gli mostrai le macchie sulla camicia. «Abbastanza. Comunque è servito a rinfrescargli la memoria. Abbiamo finalmente il nome del produttore». Beniamino riferì le notizie apprese dal trafficante di pornografia. Aprii un nuovo pacchetto di sigarette. «Dobbiamo spostarci nella capitale. Ci serve un appartamento sicuro e una persona ben inserita nella mala romana». «A Rebibbia ho conosciuto qualcuno, ma non so se possiamo fidarci». «Ci penso io» disse il vecchio gangster. «Ho il contatto giusto. Uno della vecchia guardia che ogni tanto mi ordina merce di contrabbando».
Assaggiai nuovamente il cocktail. Adesso era perfetto. «È inutile che andiamo tutti e tre. Max dovrebbe rimanere qui a controllare i messaggi». I miei soci approvarono la proposta. Io e Beniamino saremmo partiti l'indomani. Il tempo di dormire qualche ora e riempire una borsa di vestiti e di una buona scorta di denaro. Il milanese sbuffò. «Avevo promesso a Sylvie di portarla in barca un paio di giorni. Dovrò farmi perdonare». Pensai ancora a Virna. Mi venne la tentazione di chiamarla, ma lasciai perdere. Forse l'avrei fatto al ritorno. Il contatto romano di Rossini si chiamava Toni Marazza. Era coetaneo del mio socio e si erano conosciuti nel carcere speciale dell'isola di Pianosa. La sua specialità erano le rapine a mano armata. Poi l'età e le molte condanne l'avevano costretto a dedicarsi al commercio di armi. Riforniva le numerose bande della capitale. Beniamino gli procurava fucili mitragliatori dell'ex esercito jugoslavo, particolarmente ricercati per la potenza dei proiettili, in grado di penetrare le corazze dei furgoni portavalori. Lo incontrammo in un ristorante elegante del quartiere Prati. Dopo i soliti convenevoli tra gangster, il mio socio gli spiegò il motivo della nostra venuta a Roma. Marazza si mostrò disponibile ad aiutarci e, dopo una breve trattativa economica, ci condusse in un piccolo appartamento, con entrata indipendente, in una palazzina vicino a piazza Barberini. Fino a poco tempo prima era stato usato da una coppia di giovani prostitute. Roba d'alto
bordo. Un paio di onorevoli della Repubblica l'avevano frequentato assiduamente per rilassarsi nelle pause del faticoso lavoro parlamentare. Il palazzo di Montecitorio non era lontano. Marazza lo aveva rilevato con tutto l'arredamento e non aveva pensato di togliere i grandi specchi sul soffitto delle due camere da letto. Ci sarebbe costato due milioni di lire al giorno. La ricerca di Jay Jacovone invece era gratis. Il pregiudicato romano apparteneva alla stessa generazione di Rossini e ne aveva rispettato i principi per tutta la vita. Eliminare dal giro un produttore di video sadomaso era quasi doveroso per uno come lui. Ci riposammo un paio d'ore, poi Toni passò a prenderci. La caccia era iniziata. Fino alle tre del mattino entrammo e uscimmo da bar, ristoranti e locali di ogni tipo. Il nostro contatto stringeva mani, scambiava battute e chiedeva informazioni. Nessuno sapeva nulla. L'italo-americano non frequentava la mala romana. Toni Marazza alla fine disse che dovevamo cercare in un altro ambiente. Se Jacovone era legato alla mafia di Miami, gli sbirri dovevano essere a conoscenza del suo arrivo in Italia. La sera dopo suonammo al campanello di un club esclusivo dalle parti di via Veneto. Dato che la cravatta era obbligatoria, quel pomeriggio mi ero comprato un abito blu. Le scarpe nuove mi facevano male e mi sentivo ridicolo. Il locale era raffinato. Il pianista suonava distrattamente, distribuendo sorrisi a tutti quelli che gli passavano vicino. Riconobbi volti che apparivano spesso in televisione. I tavoli erano sistemati in modo tale da permettere conversazioni discre-
te. Il bar invece era frequentato da bevitori professionisti. Il barman si scandalizzò quando chiesi un alligatore e gli spiegai gli ingredienti. Tentò di dissuadermi consigliandomi altri cocktail a base di calvados e, dopo un elegante duello verbale, dovetti piegarmi ad assaggiare un appiè cocktail. Calvados, sidro, gin e cognac. Ne ordinai subito un altro. Era buono sul serio. L'uomo che Toni cercava arrivò poco dopo. Era in compagnia di una ragazza che aveva la metà dei suoi anni, con un bel corpo e un bel visino rovinato da occhi gelidi e calcolatori. Lui era un funzionario dello stato. Un quadro intermedio del Ministero degli interni, con una carriera non particolarmente brillante e un tenore di vita elevato. Marazza, tirato a lucido come se dovesse portare all'altare la figlia, fece le presentazioni. Il tizio spedì la ragazza a incipriarsi il naso. Ascoltò la nostra richiesta, sussurrò una cifra e ci diede appuntamento per la sera seguente. Tornammo al bar e mi scolai il terzo cocktail. Beniamino mi svegliò proponendomi di andare in giro a fare shopping. Lo mandai al diavolo e mi girai dall'altra parte. Rientrò a metà pomeriggio, carico di pacchetti. La maggior parte erano regali per Sylvie. Ce n'era uno anche per me. Un accendino Ronson in acciaio. Un modello originale degli anni Sessanta. «Così smetti di usare quelle porcherie di plastica» borbottò quando lo ringraziai. Il funzionario rispettò gli accordi. Lo seguii nella toilette e, dopo aver contato i soldi, mi sussurrò un indirizzo e mi
consegnò la fotocopia a colori di una fotografia. Avevamo trovato Jay Jacovone. Chiamai Max la Memoria. Stava continuando a spiare le caselle di posta delle schiave, ma non aveva nessuna novità. La copertura del produttore di video sadomaso era una società di esportazione di vini italiani per il mercato statunitense. La sede era in un palazzo del quartiere Flaminio dove risultava risiedere lo stesso Jacovone. Indossai nuovamente l'abito blu e mi presentai fingendo di aver sbagliato piano. L'ufficio era elegante, alle pareti erano appese grandi fotografie di vigneti e cantine. La scrivania del titolare era vuota. La segretaria fu molto gentile e mi indicò come raggiungere lo studio notarile che stavo cercando. «Deve avere un altro posto dove riproduce e immagazzina le cassette» disse Rossini. «Ma non sarà facile trovarlo. Dobbiamo organizzare un pedinamento». A Roma il mezzo ideale per seguire una persona è lo scooter. Agile per muoversi nel traffico e difficile da notare nella moltitudine delle due ruote che circolano in città. Marazza ce ne procurò uno di grossa cilindrata. Beniamino fu particolarmente pignolo nella scelta dei caschi. Li voleva eleganti ma non troppo vistosi. Il commesso sospirò di sollievo quando uscimmo dal negozio. La parte più difficile fu trovare un luogo dove appostarci senza dare nell'occhio. La via non era molto lunga e non c'erano bar, né negozi. Però notammo che nel palazzo quasi di fronte a quello di Jacovo-
ne c'era un appartamento in vendita al primo piano. Al portiere facemmo credere che stavamo andando all'agenzia matrimoniale del terzo piano. «Sono tutte mignotte dell'est» ci avvertì. «Quelle vi sposano solo per il permesso di soggiorno». Il vecchio Rossini tirò fuori dalla tasca un astuccio di cuoio che custodiva alcuni grimaldelli. Scelse il più adatto e scassinò la serratura senza danni visibili. Dalla finestra della cucina si aveva una vista perfetta sul portone che ci interessava. Dopo un paio d'ore il milanese mi indicò una macchina parcheggiata. Una Fiat Punto color senape. All'interno un tizio leggeva un quotidiano. «L'ho notato quando siamo arrivati» disse. «Non si è mai mosso». «Pensi che stia controllando Jacovone?». «E chi sennò?». «Sbirri?». «Può darsi. Comunque teniamolo d'occhio. Non vorrei trovarmi nel bel mezzo di un'indagine di polizia». L'italo-amelicano uscì dal palazzo alle 13,30 in punto e salì su una Jaguar bianca. Ci precipitammo in strada. Il tempo di fare manovra e gli eravamo già alle costole, a bordo dello scooter. Ma non eravamo soli. Anche la Punto lo stava seguendo. Ci superò e si incollò alla macchina di Jacovone. Non si trattava certo di un professionista. Guidava a scatti per il timore di perdere il contatto. Il nostro uomo si diresse verso Fiumicino. Pensammo che fosse diretto all'aeroporto,
invece entrò nel parcheggio di un ristorante di pesce sul lungomare. L'utilitaria del pedinatore si fermò poco più avanti. Entrammo nel locale. Jay Jacovone era seduto in compagnia di due anziani signori. Sul loro tavolo spiccavano dei dépliant di una casa vinicola. Doveva trattarsi di un semplice pranzo di lavoro. Ci dirigemmo verso un tavolo libero non troppo vicino al suo, da dove potevamo osservarlo senza dare nell'occhio. Era magro, di media statura, e aveva gli occhi e i capelli scuri. Doveva essere sui cinquantanni. Si capiva che era americano da come vestiva. Sembrava la comparsa di un film sulla mafia d'oltreoceano. Indossava una camicia gialla a maniche corte, pantaloni e mocassini bianchi e calze di seta nere. Al collo portava una catena d'oro e all'anulare sinistro un anello con uno smeraldo. Si dava arie da boss, gesticolando come Marion Brando nel Padrino. Guardai il mio socio. Il vecchio gangster stava giocherellando con i braccialetti che portava al polso sinistro. I suoi scalpi. Ne avrebbe aggiunto un altro volentieri. Quello di Jacovone. Ordinammo un antipasto e un piatto di spaghetti. Quando lui ordinò il caffè, noi stavamo già pagando il conto. Rimontammo sullo scooter e ci nascondemmo dietro un chiosco di gelati per evitare di essere notati dal tizio della Punto. «Trovare Jacovone ci è costato fatica e denaro» sibilò il milanese, «e quell'incapace rischia di mandare tutto a puttane» «Cosa facciamo?».
«Dobbiamo rinunciare a seguire il mafiosetto e concentrarci sull'altro. Dobbiamo capire chi è e cosa vuole». Jay Jacovone uscì dal ristorante poco dopo e ritornò in ufficio con la sua coda di pedinatori. La Fiat continuò la sua corsa, conducendoci in una pensione di infimo ordine dalle parti della stazione Termini. Il portiere si accontentò di cinquantamila lire per confidarci le generalità del cliente, il numero della stanza e scordare di averci visti. Si chiamava Flavio Guarnero, 36 anni, nato e residente a Torino. Rossini bussò piano alla porta della numero undici. «Chi è?» domandò una voce dall'interno. «Sono il portiere» rispose il mio socio. Quando l'uomo ci vide, tentò di richiudere la porta ma una spallata del milanese lo gettò a terra. Si rialzò di scatto cercando di raggiungere il comodino. Beniamino lo bloccò afferrandolo al collo e piegandogli il braccio dietro la schiena. «Chi siete?» domandò in tono minaccioso. Il torinese non faceva paura a nessuno. Era di statura media, paffuto, capelli castani radi e occhi chiari. Aprii il cassetto del mobile. Presi una pistola per la canna e la mostrai al mio socio. «Beretta calibro nove» commentò. «È in dotazione alle forze dell'ordine».
Notai il portafoglio. «Infatti è uno sbirro» dissi estraendo il tesserino. «Sovrintendente Guarnero Flavio. Questura di Torino». Non aveva l'aspetto di un agente "operativo". Il suo fisico e la sua goffaggine suggerivano un'attività sedentaria. «In che ufficio lavori?» domandai. «Ufficio stranieri». Il vecchio Rossini lasciò la presa. Gli consegnai la pistola, controllò che fosse carica e poi la puntò contro Guarnero. «Siediti» ordinò. «Siete uomini di Jacovone?» domandò massaggiandosi il braccio. «No» risposi. «Siamo critici cinematografici e i film di quello stronzo non ci piacciono». La stanza era calda, sporca e puzzava di sudore. Frugai nell'armadio. Nel fondo di una valigia trovai una cartellina. Conteneva fotocopie di informative sull'italo-americano. Una proveniva dall'FBI. Jacovone apparteneva alla mafia di Miami. Si era occupato di cocaina fino a quando non aveva fatto secco un boss della concorrenza colombiana disattendendo gli ordini della "famiglia". Era stato spedito in Italia in esilio a occuparsi di vini. Il traffico di video sadomaso era una sua iniziativa. Riforniva il mercato clandestino americano e canadese. I federali chiedevano ai colleghi italiani di non intralciare l'attività del mafioso. Era diventato un loro prezioso collaboratore. Stava fornendo le informazioni per smantellare l'intero cartello di Miami.
«Il nostro amico Flavio sta svolgendo un'indagine non autorizzata» dissi. «Uno sbirro non tiene fascicoli riservati nell'armadio di una topaia». «Perché ti interessa Jacovone?» domandò il mio socio. «Fuori dai coglioni» urlò il torinese. Rossini lo colpì alla testa con la canna della pistola. Non troppo forte. Giusto per fargli abbassare il tono. «O ci racconti tutto o ti leghiamo come un salame e telefoniamo ai tuoi colleghi romani. Pensa a quante domande ti faranno quando troveranno sul letto, in bella mostra, il fascicolo su Jacovone». La minaccia fece effetto. «È una faccenda personale». «Eri uno dei suoi attori preferiti e non ti ha pagato?» lo provocai. Chinò il capo. «Mia sorella» sussurrò. Marisa Guarnero, trent'anni, aveva messo un'inserzione su un sito sadomaso. Si era proposta come schiava. Aveva scelto di incontrare un master che l'aveva portata in un hotel. Al terzo incontro si era presentato con il video del ricatto. Marisa insegnava italiano in una scuola media, non era sposata ma aveva un fidanzato che lavorava in Svizzera, un fratello in polizia con moglie e due figli, un padre operaio e una madre infermiera. Aveva ceduto al ricatto "recitando" in alcuni video; poi, quando le richieste si erano fatte più pressanti, era andata a fare una passeggiata in un parco di Torino. Si era seduta su una panchina, si era ficcata in gola del veleno per topi e aveva atteso la morte. L'intuito di sbirro aveva
spinto il fratello a indagare. Non capiva perché Marisa si fosse uccisa senza lasciare uno straccio di spiegazione. Al corso gli avevano insegnato che i suicidi senza letterina d'addio erano sempre sospetti. Frugando nella sua agenda aveva trovato un nickname: sorrisoblu@… Aveva acceso il computer e si era collegato alla rete. Aveva cliccato la voce "Avete scordato la password?"… Dopo aver inserito i dati della sorella era apparsa la domanda per ricordare la parolina magica. "Come si chiama il mio gatto?". Guarnero aveva digitato il nome Arturo, e la sua esistenza era cambiata. Sua sorella aveva una doppia vita. Era una pervertita. Per fortuna che si era ammazzata. Il buon nome della famiglia e la sua carriera erano salvi. Per essere certo che il segreto venisse sepolto con Marisa, Flavio aveva setacciato l'archivio del computer. Nel file "documenti" aveva trovato una specie di diario, dove la sorella raccontava la storia del ricatto e tutto quello che aveva dovuto subire dalla banda il cui capo risultava essere un uomo chiamato il Maestro di Nodi. L'aveva giudicata troppo in fretta. Marisa meritava solo di essere vendicata. Sfruttando il terminale del Ministero degli interni aveva cercato le tracce del gruppo di ricattatori, ma non aveva trovato nulla. Aveva poi battuto la pista dei trafficanti di pornografia fino a individuare Jay Jacovone. Quando era arrivato il suo turno di ferie aveva portato moglie e bambini dai suoceri in Calabria ed era arrivato a Roma. «Qual era il tuo piano?» chiesi.
«Arrivare alla banda». «E come? Pedinando Jacovone con la tua Punto color senape?» lo sfottè Beniamino. «Cos'altro sai di Jacovone?» domandai. «Solo quello che c'è scritto sul fascicolo». Il milanese tolse il caricatore della pistola e la buttò sul letto. «Torna da tua moglie e dai tuoi figli e stai lontano da questa storia» gli consigliò in tono paterno. «Pensa ad arrivare alla pensione senza farti ammazzare». «Questa rogna dello sbirro non ci voleva» sbuffò Rossini camminando verso lo scooter. «Ha avuto tutto il tempo per imprimersi bene nella memoria le nostre facce». «Non dirà nulla. Ha troppo da perdere». «Meglio non rischiare. È arrivato il momento di tornare a casa». «Quanta fretta…» commentò Beniamino infilandosi il casco. «Sono certo che sa molto di più di quello che ci ha raccontato». «Vuoi continuare a seguirlo?». «Sì. Sono curioso di scoprire che cosa ha in mente». Guarnero uscì dalla pensione all'ora di cena. Entrò in una rosticceria dove mangiò senza voglia un trancio di pizza e bevve un'aranciata dal colore improbabile. Poi salì in macchina. Guidava piano, con lo sguardo incollato allo specchietto retrovisore. Temeva di essere seguito. Fece due volte
il giro di una rotonda per smascherare eventuali pedinatori, ma il vecchio Rossini fu molto abile a non cadere nella trappola. Ci condusse nella zona del quartiere San Saba e parcheggiò la Punto in modo tale da tenere sotto controllo una villetta dall'aria piuttosto dimessa. La zona era quasi deserta. Ogni tanto passava qualche macchina e i rari passanti erano perlopiù accompagnati da cani. Dopo una ventina di minuti i fari della Juaguar bianca di Jacovone illuminarono la via. Passò davanti alla casa senza rallentare e svoltò alla prima traversa. La Punto dello sbirro non si mosse. Qualche minuto dopo vedemmo due persone avvicinarsi a piedi. Una era il mafioso. L'altra era un uomo basso e tarchiato. Quest'ultimo tirò fuori un mazzo di chiavi e aprì il portoncino blindato della villetta dopo aver disinserito l'allarme. I due scomparvero all'interno. Grazie a Guarnero avevamo trovato la base del traffico di pornografia illegale di Jacovone.
7 Rossini si avvicinò alla Punto di Guarnero. «Scendi». Lo sbirro ebbe un sussulto. Non si aspettava di vederci in quel luogo. Credeva di essere furbo ma era solo un povero fesso accecato dal desiderio di vendetta. «Andate via» sibilò aprendo la portiera. «Sennò chiami la polizia?» lo provocai. «Dammi la pistola» ordinò Beniamino. «No». Il milanese lo afferrò per la gola con la mano sinistra e lo spinse contro l'auto, prendendogli la pistola con l'altra mano. Controllò che fosse carica, poi se la infilò nei pantaloni, coprendola con la camicia. «Ora andiamo a fare due chiacchiere con mister Jacovone». «Siete pazzi. E poi non è lui che mi interessa. Io voglio il Maestro di Nodi». «E speri di arrivarci seguendo il mafioso? Imbranato come sei non ti basterebbe tutta la vita». Il vecchio Rossini si arrampicò sul cancello e saltò nel giardino. Io trascinai il poliziotto verso il citofono. Il poliziotto era rigido e pallido come marmo. Pigiai più volte il pulsante con insistenza.
«Chi è?» domandò una voce con forte accento romano. «Polizia». Non accadde nulla. Dopo qualche secondo udimmo un rumore. Sembrava quello di una porta che veniva spalancata con violenza. Poi silenzio. Finalmente Beniamino ci aprì. Entrando vidi Jacovone e il suo socio distesi sul pavimento con le mani intrecciate dietro la testa. «Li ho bloccati sul retro mentre cercavano di filarsela. Il "padrino" era pure armato» disse mostrandomi una calibro.38 a canna corta. «Chi siete?» chiese il mafioso in tono duro. Il vecchio Rossini gli rifilò un calcio nelle costole. L'italo-americano si rannicchiò in posizione fetale. «Ne vuoi uno anche tu?» chiese all'altro. Il tizio scosse la testa. «Siamo qui per i video sadomaso» continuò il mio socio. «Vi conviene collaborare». «Ce li volete fregare» protestò il mafioso. Si beccò un altro calcio. «Calma» disse il complice. «Se non siete poliziotti possiamo metterci d'accordo». «Dateci la merce e ce ne andiamo» mentii. I due uomini ci condussero in cantina. Li legammo a due sedie di metallo, usando del nastro adesivo da imballaggio. Il locale, protetto da una spessa porta blindata, non era molto grande ma perfettamente organizzato e pulito. Le videocassette erano disposte sui piani di uno scaffale di metallo. A fianco c'era un armadio blindato. «Dentro cosa c'è?» chiese Rossini.
Jacovone non rispose, ma il suo complice non perse tempo. «Gli originali e un po' di soldi. La chiave ce l'ha Jay». Lo frugai. Il mazzo di chiavi era appeso alla cintura. I video erano circa una trentina. I soldi non li contai. Infilai tutto in una borsa sportiva che avevo trovato sotto un tavolo. «Non c'è altro. Adesso potete anche togliere il disturbo» disse Jacovone. Scossi la testa. «Prima dobbiamo fare una bella chiacchierata. Vogliamo sapere chi vi procura il materiale». «Io non so nulla» si affrettò a puntualizzare l'altro. «Io mi occupo solo di montare i video e preparare le copie». «Allora sei l'artista della compagnia» lo punzecchiai. «È Jay che tiene i contatti». «Se non sai nulla allora è inutile continuare a tenerti in vita» disse Beniamino in tono minaccioso. L'uomo perse la testa. «Parla Jay! Questi mi ammazzano». Rossini lo colpì sul naso con la canna della pistola. Il dolore gli fece perdere i sensi. «Chi è il Maestro di Nodi?» domandò a Jacovone. «Prima voglio garanzie» rispose calmo. Scoppiai a ridere. «Guarda che non siamo in America e soprattutto non siamo federali. Non c'è nulla da trattare. O parli o muori». In quel momento udimmo un urlo strozzato. Mi voltai e vidi che Flavio Guarnero stava guardando delle fotografie che aveva trovato in un cassetto. Mi avvicinai. Riconobbi
Helena, Antonina e Docile Femmina. Si trattava di istantanee "pubblicitarie" tratte dai video. Il torinese era terreo in volto e aveva gli occhi iniettati di sangue. Gli tolsi la foto che stringeva tra le mani. Ritraeva una donna nuda, legata, che fissava l'obiettivo con occhi disperati. «È tua sorella?» domandai. «Sì. È Marisa» rispose con un filo di voce. Accadde tutto in un attimo. Prese un paio di forbici posate sul tavolo e si scagliò contro Jacovone. Lo colpì al petto e poi alla gola. Il vecchio Rossini afferrò il poliziotto alle spalle riuscendo ad allontanarlo di qualche metro. Poi lo schiaffeggiò e gli strappò di mano le forbici insanguinate. Il corpo del manoso era scosso da spasmi mentre dalla carotide il sangue usciva a fiotti. Morì in meno di un minuto. Io e il mio socio ci scambiammo un'occhiata. Era tutta colpa nostra. Avevamo sottovalutato lo stato emotivo di Guarnero. Il poliziotto scoppiò a piangere. Dalla punta dei capelli fino alle scarpe era sporco di sangue. «Mio Dio, che ho fatto» iniziò a farfugliare. Il milanese per la rabbia gli mollò un'altra sberla. «Chiudi quella bocca, coglione». Poi si avvicinò al complice del mafioso. Gli appoggiò la canna della pistola sul cuore. «Sei sicuro di non sapere nulla?» chiese in tono assolutamente calmo. L'uomo era troppo terrorizzato per riuscire a parlare. Si limitò a scuotere la testa. Rossini tirò il grilletto. Il rumore
dello sparo fu assordante. Il tizio morì sul colpo. Il mio socio puntò la Beretta in faccia a Guarnero. «Non farlo» dissi. «È fuori di testa. Se lo lasciamo andare correrà dai suoi colleghi a confessare e noi finiremo all'ergastolo». Il torinese aveva lo sguardo perso e biascicava parole incomprensibili. Non si rendeva conto del pericolo che stava correndo. «Vedrai che appena si calma capirà che gli conviene stare zitto. Ha moglie e figli». Il braccio di Beniamino non si mosse. «È troppo pericoloso. Non me la sento di rischiare». «Non ammazzarlo. Non ancora, almeno. Lasciami provare». Spostò lo sguardo dal mirino della calibro nove e mi fissò. Poi inserì la sicura e abbassò l'arma. «Ti do dieci minuti, il tempo di preparare un bel falò per cancellare le nostre impronte. Poi se non ricomincia a ragionare lo stendo». Spinsi Guarnero fuori dalla cantina costringendolo a salire le scale che portavano al pianoterra. Lo trascinai in un bagno lercio e abbandonato da tempo e lo ficcai nella vasca da bagno. Dalla doccia uscì acqua color ruggine che si mescolò al sangue che veniva via dal volto e dai vestiti dell'uomo. Mi afferrò il braccio. «Ho ucciso un uomo» sussurrò. «Devo avvertire i colleghi». «Morirai se continui a dire cazzate» urlai. «Pensa a tua moglie e ai tuoi figli. E pensa a tua sorella. Se racconti que-
sta storia verrà fuori la faccenda dei video. Distruggerai te stesso e la tua famiglia». Ricominciò a piangere. Mi stava esasperando. Forse un proiettile in testa non era un'idea così malvagia. Raccolsi tutte le mie forze per l'ultimo tentativo. Puntai il getto dell'acqua sulla sua faccia fino a togliergli il respiro. «Ascoltami bene, Flavio» dissi chiudendo il rubinetto. «Adesso torni alla pensione, paghi il conto, raggiungi la tua famiglia in Calabria e non racconti a nessuno quello che è successo qui». «Sono un poliziotto…» mormorò. «Te lo dovevi ricordare prima di venire a Roma. Adesso è tardi. Tra pochi minuti questa casa brucerà e gli sbirri troveranno due cadaveri carbonizzati». «Forse tre» disse una voce alle mie spalle. Era Rossini. In mano teneva la pistola del torinese. «Hai sentito cosa ha detto?» domandai a Guarnero, scuotendolo per le spalle. «Ti vuoi decidere a svegliarti?». «D'accordo, non dirò nulla». Beniamino si avvicinò e gli puntò la pistola sulla testa. «Se cambi idea e ci metti nella merda, giuro che ti ammazzo moglie e figli». Poi tolse il caricatore e restituì la pistola al legittimo proprietario. «E ricordati che la tua pistola d'ordinanza ha ucciso un uomo. La pallottola è ancora nel cadavere». Aiutai l'uomo a uscire dalla vasca. Ai suoi piedi si formò una pozza d'acqua sporca. «In cantina sta covando un
bell'incendio» ci avvertì Rossini. «Conviene filare alla svelta». «Hai preso i loro cellulari?» domandai. «Cazzo, non ci ho pensato. Adesso è troppo tardi». Appena tornammo nell'appartamento, mi spogliai e andai a fare la doccia. Beniamino bussò sul vetro del box e mi offrì un bicchiere di calvados. «Io non ammazzo donne e bambini» disse serio. «Lo so». «Volevo solo fargli paura, per reggerti il gioco». «Lo so». «Però è stato un errore lasciarlo in vita». «Non parlerà». «Lo penso anch'io, ma è stato comunque un errore. Di metodo, capisci?». «Sì. Ma non me ne frega un cazzo». «Hai salvato la pelle a uno sbirro». «A un padre di famiglia». Alzò il bicchiere di vodka gelata. «Alla salute, allora».
8 Max la Memoria ci aspettava per l'ora di pranzo, ma il tratto appenninico dell'autostrada tra Firenze e Bologna era intasato di camion e macchine piene di turisti. Lo avvertii che forse saremmo arrivati in ritardo. Seguimmo il giornale radio. Dei due cadaveri nella cantina era rimasto ben poco perché il milanese aveva steso i corpi sopra una pira di videocassette. La plastica bruciava particolarmente bene. I pompieri, comunque, non avevano dubbi sull'origine dolosa dell'incendio. Il servizio fu molto breve. Quel fatto di cronaca non aveva le caratteristiche giuste per diventare il giallo dell'estate, quello che si commenta sotto l'ombrellone tra un tuffo e un gelato. Beniamino si sintonizzò sulla stazione che trasmetteva musica italiana degli anni Sessanta e ascoltammo Don Backy che ci raccontò la storia di "una ragazza facile". Per l'ennesima volta mi voltai a osservare la borsa sportiva sul sedile posteriore. Conteneva gli originali dei video sadomaso che avevamo trovato nell'armadio blindato. E i soldi. Una quarantina di milioni in banconote di vario taglio. Sarebbero serviti per finanziare la battuta di caccia al Maestro di Nodi e alla sua banda. Se quel povero fesso di Guarnero non avesse scannato Jacovone, avremmo saputo tutto. Ora ci
trovavamo nuovamente al punto di partenza. Il vecchio Rossini sperava di trovare degli elementi utili nei video, ma a mio avviso era solo tempo perso. Quelli erano troppo furbi per fare errori così banali. Superata la tangenziale di Bologna il traffico divenne più fluido e il mio socio pigiò sull'acceleratore. A un certo punto picchiò il pugno sul volante e sibilò una bestemmia. «Che ti succede?». «Ho fatto proprio una cazzata a dimenticarmi di prendere i cellulari di quei bastardi. Potevano esserci utili». «Stai invecchiando». Rossini mi fulminò con un'occhiataccia. «Scherzavo, naturalmente» mi affrettai ad aggiungere. «E poi dubito che Jacovone si tenesse in contatto col Maestro di Nodi attraverso il cellulare. Il suo doveva essere per forza sotto controllo». Il ciccione aveva preparato un pasto freddo. Prosciutto crudo, melone, insalata di pasta e gelato. Una volta tanto mangiai di gusto. «L'altra sera sono uscito con la tizia che mi piaceva». «La vegetariana?» domandai. «Sì». «E adesso non ti piace più?». «Diciamo che ho delle riserve. Non mi piace come ride».
«Allora lascia perdere» consigliò paternamente Rossini. «Non puoi parlare solo di politica dopo aver scopato». Bevuto il caffè, ci trasferimmo nello studio per visionare le videocassette. Si trattava degli originali non montati e privi di audio. Iniziammo con quelle dove "recitava" Helena. Erano sei. Nella prima era legata a un tavolo e vittima di una violenza di gruppo. I suoi stupratori erano mascherati ma corrispondevano alle descrizioni che ci aveva fornito Docile Femmina. Negli altri video la tedesca era legata a una struttura di legno appesa al soffitto. Un uomo con una tunica bianca, incappucciato e mascherato, ogni tanto tirava delle corde, azionando un sistema di carrucole. La tedesca sembrava una marionetta. A ogni nuova posizione del corpo di Helena corrispondeva una nuova fantasia sadomaso e una diversa legatura. L'espressione terrorizzata della donna era ben diversa da quella che avevamo visto nella fotografia che ci aveva mostrato Giraldi. Il suo viso, con la bocca tenuta spalancata da una palla di gomma, era contratto dal dolore. E dal terrore. Le mani dell'uomo manovravano le corde con velocità e sicurezza. Non poteva trattarsi che del Maestro di Nodi. Nell'ultimo video la donna era sospesa a mezz'aria con le gambe spalancate in posizione orizzontale. Sembrava fosse seduta nel vuoto. Il cerimoniere dell'orrore si avvicinò e si tolse la tunica. Purtroppo non fece l'errore di sfilarsi la maschera. Comunque potemmo osservarlo più attentamente. Dimostrava una cinquantina d'anni. Non era alto ma aveva il fisico possente, sicuramente frutto di un costante lavoro di
pesi in palestra. I tatuaggi che gli ricoprivano il petto e la schiena raffiguravano delle geishe, legate in vario modo. Sembravano quelli di uno yacuza, un mafioso giapponese. L'uomo aveva un'erezione. Penetrò Helena. Dopo averla posseduta la obbligò a guardare un fiore di corda, poi si spalmò la mano e l'avambraccio con una crema biancastra. La donna doveva aver capito cosa stava per fare e aveva iniziato a dimenarsi, ma le corde le impedivano ogni movimento. Il Maestro di Nodi si portò alle sue spalle. La telecamera lo seguì e vedemmo il primo piano delle dita che si insinuavano tra le sue natiche. Max schiacciò un tasto del telecomando e l'immagine scomparve. «Ho bisogno di bere un goccio». «Anch'io». «Quello è un uomo morto» annunciò Rossini. «Ma non sarà un proiettile ad ammazzarlo». Bevve d'un flato la vodka di grano che gli avevo portato. «Finiamo di vedere questa merda». Helena era morta per un errore, come aveva supposto Max. Il Maestro di Nodi ebbe un moto di stizza quando estrasse il braccio dal corpo della donna. La morte di Antonina Gattuso e master Mariano invece era stata decisa in anticipo. Il nostro cliente fu letteralmente impalato. Quando la punta dell'asta uscì dalla spalla era ancora cosciente. Antonina, dopo essere stata frustata a sangue e ricoperta di cera bollente, subì lo stesso supplizio di Helena. Anche a lei il Mae-
stro aveva offerto un flore di corda. Secondo Max somigliava a un garofano. Guardammo gli altri video. Solo uno riguardava l'uccisione di una giovane donna dai lunghi capelli neri con la tecnica del fist fucking. Il Maestro di Nodi doveva avere una particolare predilezione per quella tortura. Gli altri contenevano solo pornografìa sadomaso estorta con il ricatto. Oltre a Docile Femmina e la stessa Antonina, erano coinvolte altre quattro donne. Rimanemmo a lungo in silenzio, a bere e fumare. Non era facile dire qualcosa di sensato dopo quello che avevamo visto. Non avevamo mai visto uno snuff, quel genere di video di tortura sadomaso. Eravamo sconvolti. «Cosa facciamo con i parenti?» domandò Max. «In che senso?». «Non possiamo farli rimanere tutta la vita a chiedersi che fine hanno fatto Helena, Antonina e Giraldi. Sarebbe una tortura crudele». Il milanese si accese una sigaretta. «Non possiamo nemmeno raccontare loro la verità». «Sarebbe un bel gesto. Ma è troppo pericoloso». «Marco ha ragione. Comunque, prima scoviamo quei pezzi di merda» tagliò corto Rossini. «Al resto penseremo in seguito». Max aggiunse del ghiaccio nel suo bicchiere. «Farò un ingrandimento dei tatuaggi del Maestro di Nodi. Magari siamo fortunati e troviamo chi li ha fatti».
«Sempre se sono stati fatti in Italia» aggiunsi dubbioso. «Vale la pena provarci. Altrimenti non ci resta che tentare di agganciarli tramite gli annunci sui siti». «Speriamo che la morte di Jacovone non li abbia spaventati» disse Beniamino. Strofinai il Ronson sui jeans per lucidarlo. «Non mi preoccuperei. Il mafioso aveva un sacco di nemici. E per quanto ne sanno loro potrebbe essere opera di qualche cliente insoddisfatto della merce o della concorrenza». «Docile Femmina ci ha detto che la gang bang non agisce solo per denaro» intervenne il ciccione. «Probabilmente sono già a caccia di nuove vittime». «Iniziamo a battere la pista dei tatuaggi» propose Rossini. «Domani potremmo andare a Milano e poi a Torino…». «Io domani vado a Genova per la manifestazione e torno tra due giorni» ricordò Max. «Però posso fornirvi una lista di professionisti». Accese il computer e si collegò a internet. Un'ora dopo avevamo gli indirizzi di tutti i tatuatori del nord Italia. Beniamino si infilò in tasca sigarette, accendino e cellulare. «Me ne vado a fare un giro in barca» disse. «Ho bisogno di stare da solo per digerire quei video di merda». Max si accarezzò la pancia prominente. «Prima hai detto che non ucciderai il Maestro di Nodi con una pallottola. Cosa intendevi dire?».
«Voglio che si renda conto che sta per morire» rispose serio il milanese. «Una manciata di secondi di dolore e lucidità». «Non ti sembra di esagerare?» domandai. «No. Però se la cosa disturba i vostri nobili cuoricini, lascio la faccenda nelle vostre mani». Il ciccione e io ci scambiammo un'occhiata. Non avremmo mai avuto il coraggio di tirare il grilletto. «Fai come ti pare» tagliai corto. Rossini si avviò alla porta, poi tornò indietro e diede un buffetto sulla guancia a Max. «Stai lontano dagli sbirri» raccomandò. «E se ci sono problemi chiamaci subito». «E così hai deciso di andare, eh?». «Sì». «Mi sembra di capire che parlarne non servirebbe a nulla». «Già». Mi ritirai nel mio appartamento. Volevo stare solo, per cercare di scacciare con l'alcol quelle immagini spaventose che non volevano andarsene dalla mia mente. Mi attaccai alla bottiglia senza neanche accendere lo stereo. Nessun blues sarebbe stato abbastanza triste. Max bussò alla mia porta a notte fonda. Mi seguì in cucina, dove tracannai un bicchiere di acqua gelata per mandare giù un paio di compresse contro il mal di testa. «Non ti sei ubriacato?» domandai.
Scosse la testa. «Avevo voglia di pensare». «E scommetto che adesso mi racconterai per filo e per segno cosa ti è frullato per la mente» bofonchiai con la voce impastata. «Rovinando la mia sbronza terapeutica». «Quelle immagini mi hanno fatto venire in mente la tortura, quella per farti parlare intendo». Mi sedetti e accesi una sigaretta. Il discorso del ciccione non sarebbe stato breve. «Ne ho sentito parlare per anni» continuò a voce bassa. «Prima i racconti sulla resistenza, poi quelli degli esuli sudamericani…». «Vieni al punto, Max. Vorrei tornare a dormire». «Tutti coloro che hanno resistito alla tortura sono diventati degli eroi, quelli che hanno ceduto invece sono stati considerati dei traditori». Alzai le spalle. «Così è la vita. Qual è il problema?». «Guardando i video mi sono reso conto che non riuscirei a resistere». «Nemmeno io, credo. Quando sono stato arrestato mi hanno pestato per una notte intera, ma non ho parlato solo perché non sapevo un cazzo». «Però il vecchio Rossini non ha mai detto una sola parola». «Lui e tanti altri. Anche gente su cui non avresti scommesso una lira. Forse dipende dalle situazioni in cui uno si trova».
«Sono contento di non essere stato messo alla prova e, comunque, non sono più così sicuro che chi parla sotto tortura sia un traditore». «Non lo so e non ho voglia di pormi il problema» sbottai. «La regola è che quando hai bisogno di informazioni prima domandi e poi spezzi le ossa. Anche noi usiamo questo metodo. Intimidazione, violenza e ricatto sono gli unici sistemi per far parlare la gente». «Lo so bene. Solo che non avevo mai pensato a me stesso nella situazione di dover decidere se parlare o farmi massacrare». «E non ha senso che tu lo faccia». Max si alzò. Mi salutò con un cenno della mano e si diresse verso la porta. «Ho una storia da raccontarti» dissi. «Un'altra storiellina di galera?» domandò ironico. «Quando il pentitismo cominciò a diventare di moda, i militanti della lotta armata iniziarono a non fidarsi più uno dell'altro. Quando uno andava dal medico, dal direttore o all'ufficio matricola doveva essere sempre accompagnato da un altro per impedire che si mettesse d'accordo con gli sbirri per collaborare. Eppure alla fine riuscivano sempre a trovare il modo». «E allora?». «La tortura non c'entrava un cazzo. Avevano solo paura di pagare il conto. E di invecchiare in galera. Se la sono cavata tutti a buon mercato».
«Non capisco dove vuoi arrivare». «Puoi giustificare uno che parla perché gli stanno strizzando le palle. Un attimo di debolezza può capitare a tutti. Ben altra cosa è l'infamità. Prima di ficcarsi nei casini è bene capire se hai le palle per sfangarti la galera». «E tu le hai?». «Non più. In galera non ci torno, comunque». «Anche il vecchio Rossini la pensa così?». «Certo. Giochi la partita fino a quando vinci. Poi passi la mano». «Per sempre…». «È l'unico modo per non vivere con un cazzo ficcato nel culo per il resto della tua vita». «Ho capito». «Riflettici, Max. A certe cose è meglio pensarci bene».
9 Prima di partire per Genova, Max la Memoria aveva stampato una decina di ingrandimenti dei tatuaggi del Maestro di Nodi. Li osservai per l'ennesima volta e li infilai nel cruscotto della Chrysler di Beniamino. Entrammo in autostrada verso le nove del mattino. Il caldo era ancora accettabile e comunque il condizionatore ci avrebbe protetto adeguatamente. Il mio socio non era di buonumore. Non gli dissi nulla della chiacchierata con il ciccione. Come al solito avrebbe reagito con asprezza, ripetendo il solito ritornello sulle debolezze della nostra generazione. «Ho ancora quei video piantati nel cervello» sbottò a un tratto. «Pensa che stanotte non sono riuscito a fare l'amore con Sylvie». «Succede». «Lo ha detto anche lei, sottolineando che ormai comincio ad avere una certa età». «E a quel punto ti sono girati i coglioni». «Puoi ben dirlo». «E avete litigato…». «Mi sono rivestito e ho tolto il disturbo». «Stasera le telefoni e fate la pace». «Veramente toccherebbe a lei chiamare».
«Ma tu sei un gentiluomo…». «Più che altro sono innamorato come un ragazzino. Mi piacerebbe che questa storia durasse ancora un bel po'». «Mi sembra una relazione solida». «Ma lei è una donna di night. Un giorno si stancano del posto e se ne vanno altrove. E poi anche Sylvie comincia ad avere una certa età. Ancora qualche anno e dovrà ritirarsi». «Hai mai pensato di sposarla?». Scoppiò a ridere e non rispose. Accese la radio. Il notiziario ci informò subito sul G8. A Genova stavano arrivando decine di migliaia di manifestanti. E il ministro degli interni, in un'intervista, dichiarava: "Le forze dell'ordine italiane in piazza non sparano, perlomeno sinché io sarò ministro". Il vecchio Rossini conosceva Milano come le sue tasche e iniziammo a cercare gli studi di tatuaggi secondo un ordine preciso. Ma a metà pomeriggio cominciammo a sospettare che quella non fosse la pista giusta per arrivare al Maestro di Nodi. Di sera ne avemmo la conferma. «Questi tatuaggi sono made in Japan. Ne sono certo» disse Jack "Ago" Lovisetti mentre ritoccava con la macchinetta il disegno di un drago sulla spalla di una ragazza. «Io ci sono stato e ho visto come lavorano da quelle parti. Si vede da come sono stati "battuti" e dai colori e poi le geishe hanno il sesso coperto secondo gli usi nipponici». «Potrebbe essere stato qualcuno che ha imparato la tecnica in Giappone».
«Lo escludo. Nell'ambiente si saprebbe». «Non puoi aiutarci in nessun modo?». «No. Posso solo farvi un bel tatuaggio». «No grazie» risposi. «Io ne ho uno che vorrei migliorare» disse Beniamino entusiasta. Si tolse la giacca e srotolò la manica della camicia fino alla spalla mostrando il disegno di un uomo e di una donna che si accoppiavano al chiaro di luna sotto una palma. «Una vera schifezza» commentò Jack. «Dove lo hai fatto? A San Vittore?». «Sì» rispose secco il mio socio. Al tizio passò subito la voglia di fare dello spirito. «Beh, non c'è niente da fare. Se non ti piace, l'unica soluzione è un piccolo intervento chirurgico». Trascinai Beniamino fuori dallo studio prima che la situazione degenerasse. «Quel tizio dovrebbe imparare l'educazione» sibilò in tono minaccioso. «Non ha tutti i torti» ribattei. «Quel tatuaggio è veramente brutto. E poi Jack ci è stato utile. Possiamo smettere di perdere tempo». Tentai di accendermi una sigaretta, ma il Ronson era scarico. Rossini prese il suo Dunhill d'oro massiccio, stile mala marsigliese anni Settanta. «Ricordati che negli accendini ogni tanto bisogna metterci il gas». Tirai una boccata. «Ormai possiamo sperare solo in un colpo di fortuna per beccare il Maestro di Nodi».
«Quel bastardo non può farla franca». «Per adesso è lui in vantaggio». Prima di ripartire, il mio socio volle fermarsi a mangiare una pizza in centro. La proprietaria ci riservò un trattamento speciale. Era stata la donna di un rapinatore che aveva fatto diversi colpi con Beniamino, morto in un conflitto a fuoco con i carabinieri mentre fuggiva da una banca del bresciano. Le pizze avevano un aspetto e un profumo davvero invitanti ma ne avevo mangiate troppe quando ero studente e adesso riuscivo a malapena a gustarne qualche boccone. In compenso tra i dessert c'era un sorbetto al calvados che accompagnai con un bicchiere di Morin. Rossini chiese al cameriere di poter guardare il telegiornale sul grande televisore usato di solito per seguire le partite di calcio. Il summit del G8 di Genova era la prima notizia. Mentre i grandi facevano finta di occuparsi dei problemi del mondo, un enorme corteo di manifestanti era partito da piazza Carignano. Gente allegra che cantava e ballava. Migliaia di poliziotti li osservavano da sotto la visiera del casco difendendo la cosiddetta zona rossa, la parte della città trasformata in una gabbia di reti metalliche e preclusa ai cortei per non infastidire i pezzi grossi. Non c'erano stati incidenti. Sollevato, ordinai un altro calvados. Avrei voluto chiamare Max al cellulare, ma non volevo fare la parte della chioccia ansiosa. Erano passate da poco le sei del pomeriggio. Ero chiuso in casa a godermi l'aria condizionata e ad ascoltare blues.
Ogni tanto bevevo un goccio. Mi veniva sete quando pensavo a Virna. Mi mancava. Ero tentato di chiamarla ma non riuscivo a trovare una frase abbastanza intelligente e disinvolta per attaccare discorso. Sentii bussare forte alla porta. Attraverso lo spioncino vidi l'immagine deformata di Beniamino. «Hai notizie di Max?» domandò scuro in volto. Scossi la testa. «È successo qualcosa a Genova?». «Un'ora fa i carabinieri hanno ammazzato un manifestante». Mi precipitai ad accendere il televisore. Scene di scontri. Un corpo a terra vicino a un fuoristrada dei carabinieri. Canottiera bianca, jeans, passamontagna blu intriso di sangue. Un poliziotto si accorse di essere inquadrato dalla telecamera e iniziò a urlare all'indirizzo di un altro giovane mascherato che stava fuggendo. «Sei stato tu ad ammazzarlo con la tua pietra, pezzo di merda». Guardai Rossini che spazzò l'aria con un gesto rabbioso. «Stronzate». Abbassai il volume e digitai il numero del cellulare di Max. Mi rispose al terzo squillo. «Stiamo scappando» gridò affannato. «Ti richiamo appena sono al sicuro». In attesa della sua telefonata continuammo a guardare le immagini saltando da un canale all'altro. Eliminai l'audio. Ogni commento era superfluo. I manifestanti erano caduti nella più classica delle trappole. Gruppetti di provocatori e di imbecilli chiamati genericamente Black Bloc e sbirri infiltra-
ti avevano scatenato la violenza indisturbati, fornendo la scusa alle forze dell'ordine per caricare il corteo in una parte della città ben lontana dalla "zona rossa". In realtà non poteva trattarsi che di un piano preordinato. Nuovi manganelli americani, nuovi gas lacrimogeni costruiti in Italia su licenza americana, nuove armature che facevano sembrare gli sbirri i cattivi di qualche vecchio film di fantascienza. Una volta in piazza c'erano i carabinieri e la celere, quel giorno non mancava nessuno. I finanzieri erano i più accaniti. «Dalle mazzette alle mazzate» commentò Rossini. Ogni tanto le telecamere tornavano a inquadrare piazza Alimonda dove era morto il manifestante. Ormai si sapeva che era stato ucciso da un colpo di pistola esploso dall'interno del fuoristrada e che il mezzo gli era passato sopra. I carabinieri avevano sparato più volte in quelle ore. Fino a quando non c'era scappato il morto. «Era un ragazzo» mormorai. Era piccolo e minuto. Aveva le braccia così sottili che era riuscito a infilarsi fin sopra il gomito un rotolo di nastro adesivo che aveva trovato per terra. «Ragazzini» sbottò Rossini furioso. «Anche quelli con i capelli bianchi. Sono tutti ragazzini che non hanno capito un cazzo e ancora sognano». Squillò il cellulare. Era Max. «Ci hanno caricato all'improvviso. Stavamo distribuendo datteri iracheni…». «Non me ne frega un cazzo» gridai. «Muovi il culo e vattene da Genova».
«No. Rimango qui» rispose tranquillo. «Adesso mi trovo in una zona lontana dagli scontri. Non mi succederà nulla». «Ma non hai ancora capito che non siamo più negli anni Settanta…». «Ti saluto. Ci sentiamo domani». Guardai il milanese e poi lo schermo. Un poliziotto stava sparando un candelotto lacrimogeno all'interno di un furgone carico di feriti. «Non torna» dissi. «Deve finire di distribuire i datteri iracheni». Beniamino alzò le spalle e si accese una sigaretta. Qualche ora dopo al locale si respirava un'aria di tensione. Maurizio Camardi salì sul palco. Appoggiò il sax su una sedia. «Abbiamo deciso di non suonare. Siamo tristi, indignati e preoccupati». Le sue parole vennero accolte con un applauso. Poi tutti alzammo il bicchiere per ricordare il ragazzo ucciso. Scoprii che si chiamava Carlo Giuliani. Fu una serata triste e carica di rabbia. Un cliente si avvicinò al mio tavolo. Lo conoscevo. Venticinque anni prima aveva militato nel movimento. «Se ci fossero stati i nostri servizi d'ordine non si sarebbero permessi di massacrare in quel modo la gente». Il vecchio Rossini sbuffò. «Un altro reduce del cazzo». Il tizio cambiò tavolo e noi tornammo a bere e a fumare in silenzio. Arrivò Virna trafelata. L'abbronzatura le donava.
Le sorrisi. Pensavo fosse venuta per me. «Dov'è Max?» chiese in tono preoccupato. «A Genova» risposi indifferente, cercando di nascondere la delusione. «Lo immaginavo». «Sta bene» intervenne il milanese. «Meno male» disse sedendosi. «Cosa vuoi bere?» domandai. «Ti sei già dimenticato cosa bevo?». Ordinai a Rudy il brandy spagnolo invecchiato. Virna iniziò a parlare dei fatti di Genova. «Hai sbagliato tavolo» la interruppi scortese. Lei scostò la sedia con un movimento rabbioso e se ne andò offesa. «Sei il solito pirla» mi insultò Beniamino. «Non ti ci mettere anche tu». «Ti sei risentito perché è venuta a chiedere notizie di Max». «È vero» ammisi. «Speravo si buttasse tra le mie braccia. Come un tempo…». Il mio socio scosse la testa. Poi guardò l'orologio. «Ci vediamo domani mattina. Se ci sono novità, chiamami a qualsiasi ora». Dormii poco e male. Mi preparai il solito caffè e accesi il televisore. Ancora una volta tolsi l'audio. Non avevo voglia di ascoltare cazzate. A mezzogiorno arrivò Beniamino. «Notizie di Max?».
«Nessuna». «Chiamalo». Il ciccione mi disse di stare tranquillo. Erano arrivate trecentomila persone da tutta Europa, e dopo quello che era successo il giorno prima le forze dell'ordine si sarebbero limitate a controllare la situazione. «Cazzate» mormorò Rossini.
10 Puntualmente si ripetè lo schema del giorno prima. Infiltrati e provocatori agirono indisturbati e la prima carica della polizia partì alle tre del pomeriggio. I lacrimogeni venivano sparati anche dagli elicotteri e dai gommoni lungo la costa. Il grande corteo venne spezzato in tre tronconi. La gente non sapeva cosa fare e dove andare. Alzava le mani in segno di resa ma le manganellate arrivavano lo stesso. Non venne risparmiato nessuno. Nemmeno i sanitari con la croce rossa sul petto e sulla schiena, cameraman e fotoreporter. Un pezzo grosso della Digos si fece sorprendere mentre, a volto scoperto, tirava calci in faccia a un ragazzino di quindici anni, tenuto fermo dai suoi uomini. Gli sbirri approfittavano delle pause per farsi foto di gruppo in pose guerresche. Le strade di Genova erano sporche di sangue. Gli ospedali pieni di feriti. Venivano ricuciti alla buona e trasportati al centro di detenzione temporanea di Bolzaneto per essere presi in consegna dagli uomini del GOM, il gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. Una squadra speciale, creata per sedare le rivolte nei carceri e per "gestire" detenuti difficili e pericolosi. I prigionieri furono costretti a stare in piedi per ore, faccia al muro, gambe e braccia divaricate. Altre percos-
se, minacce di stupro con i manganelli per le donne. Medici penitenziari in tuta mimetica strappavano orecchini e piercing nell'esercizio della professione. Il ministro di grazia e giustizia in persona visitò il centro e successivamente dichiarò di non aver visto nulla di anomalo. L'affermazione non stupì nessuno. Stravedeva per i suoi "ragazzi" ed era l'unico ministro della repubblica a essere convinto che le galere italiane fossero degli alberghi di lusso. Si era perfino lamentato con la stampa che le celle avessero il televisore a colori. Aveva però omesso di dire che i detenuti non erano liberi di cambiare canale e che senza quel contatto con la realtà esterna i suoi "istituti" si sarebbero trasformati in un inferno di rivolte e violenza. Centinaia di migliaia di persone fuggirono da Genova. Sembrava ormai tutto finito. Invece si preparava l'ultima mattanza. Fingendo di essere stati attaccati, gli sbirri fecero irruzione in una scuola trasformata in quartier generale del Genoa Social Forum che aveva organizzato le manifestazioni. Le telecamere inquadrarono teste rotte e nasi spaccati. Quelli che non potevano camminare venivano trasportati fuori in barella. Un vero e proprio regolamento di conti. La televisione mostrò il primo piano di una poliziotta che indossava una maglietta nera con la scritta No Global. Aveva un tatuaggio sul braccio. La mano stringeva il nuovo manganello americano. Il volto era coperto da un fazzoletto. Solo il casco era regolamentare. Blu, lucido e con lo stemma dorato del corpo.
Di Max nessuna notizia. Il cellulare risultava spento. Alle due di notte io e Rossini ci convincemmo che era stato arrestato. Chiamai l'avvocato Bonotto. Era ancora sveglio, inchiodato davanti al televisore. Mi disse che a Genova i diritti costituzionali erano stati sospesi, i legali erano impotenti. Si poteva solo aspettare. Alle sei del mattino squillò il cellulare. Controllai il numero sul display. Il prefisso era di Genova. «Sono Delia Manzi. Lei è Marco?» chiese una voce gentile da persona anziana. «Sì. Sono io». «Guardi, io e mio marito abbiamo trovato in cortile un uomo ferito. Ha detto di chiamare questo numero». «Mi faccia parlare con lui». «Mio marito lo sta medicando in un'altra stanza. Il suo amico sta male, dovrebbe andare in ospedale». «È pericoloso, signora. La polizia lo arresterebbe». «Lo ha detto anche lui. Noi però non possiamo assumerci questa responsabilità, capisce…». «Certo, signora. Dovreste avere pazienza ancora qualche ora e lo veniamo a prendere noi», «Noi viviamo in corso Italia, la zona è piena di poliziotti». «Non si preoccupi. Qual è il numero civico?». Rossini prese il cellulare e digitò il numero di un locale notturno di Genova. «Voglio parlare con Vagno».
Per venti milioni di lire gente della mala genovese avrebbe prelevato Max dal suo rifugio e l'avrebbe condotto in un'area di servizio dell'autostrada Milano-Venezia. Nel frattempo andai a svegliare Daniele Cusinato, un chirurgo con il vizio dei cavalli, che per soldi curava chiunque senza fare troppe domande. Pattuii il prezzo e gli dissi di tenersi a disposizione. Max arrivò nascosto in un camion di mobili. Era disteso su un materasso. Pallido, con la testa fasciata e un sopracciglio gonfio coperto da un cerotto. Ci sorrise ma appena lo alzammo svenne per il dolore. Lo trasportammo nella mia macchina e ci dirigemmo verso Padova. «Vai piano» sibilò Rossini. «Vuoi farti fermare dalla stradale?». «Max è conciato male» sbottai in tono stridulo. «Ha bisogno di un dottore». «Nervi saldi, Marco, e non superare il limite di velocità». Max tossicchiò. «Ci sono stati altri morti?». «No. Ma ci sono parecchi feriti gravi» rispose il milanese. «Mi hanno suonato come un tamburo» biascicò. «Come ti senti?» domandai. «Male. Mai stato peggio in vita mia». «Allora non sprecare il fiato. Tra un po' arriviamo dal medico».
All'uscita dell'autostrada trovammo un posto di blocco dei carabinieri. Come sempre la mia Skoda Felicia non attirò l'attenzione dei militi. «Sarebbe meglio portarlo in ospedale» disse il medico. «Impossibile». «Ha una commozione cerebrale di cui non riesco a valutare l'entità» ribatté serio. «Possono sopraggiungere delle complicazioni. E poi ha il polso sinistro e tre costole rotte, contusioni in tutto il corpo, una decina di punti da mettere sulla testa e altrettanti sul sopracciglio». «Devi decidere tu, Max» disse il vecchio Rossini. «Niente ospedale» biascicò. «Mi prenderebbero subito». «Può inventarsi una storia credibile» intervenne Cusinato. «In fondo Genova è lontana». «Gli sbirri stanno cercando feriti e contusi in tutti gli ospedali d'Italia» dissi. «E poi i suoi precedenti penali renderebbero poco credibile qualsiasi storiella». «D'accordo» sbuffò il medico. «Adesso cerco di rimetterlo in sesto, ma se le sue condizioni peggiorano vi consiglio di portarlo al pronto soccorso di corsa». Max agitò il braccio sano. «Ehi dottore» mormorò, «dammi un antidolorifico da cavalli. Non ce la faccio più». Uscii dall'ambulatorio e chiamai Rudy al locale. Gli dissi di procurarsi un furgoncino e qualcosa che assomigliasse a una barella. Qualche ora più tardi distendemmo il ciccione sul suo letto.
«Dammi una sigaretta. È da ieri che non fumo». Ne accesi una e gliela infilai tra le labbra. «Cos'è successo?». «Non ho voglia di parlarne». «Il medico ha detto di tenerti sveglio» intervenne Rossini. «E poi voglio proprio sentire in che cazzo di casino ti sei cacciato». «Ero in mezzo al corteo con gli altri del mercato equosolidale» iniziò a raccontare. «A un certo punto sono apparsi i Black Bloc, le tute nere, hanno spaccato qualche vetrina e la polizia ci ha caricato. Mi sono messo a correre ma mi hanno raggiunto subito». «Non hai più il fisico per certe cose» lo rimproverò Beniamino. «Erano in quattro» continuò Max. «Mi hanno riempito di calci e manganellate e solo quando sono svenuto se ne sono andati. Poi mi sono trascinato nel cortile di un palazzo e mi sono nascosto dietro una macchina…». «Dove ti hanno trovato i signori Manzi». «Due vecchietti simpatici» commentò Max. «Hanno chiamato il portiere e suo figlio e mi hanno accolto in casa. Gli ho sporcato di sangue il divano». «Per fortuna nessuno di loro ha chiamato un'ambulanza». «Molti genovesi non hanno gradito il modo di fare della polizia».
Rossini si alzò. «Vado a ordinare dei fiori per la signora. È il minimo che possiamo fare per ringraziarli». Il ciccione volle vedere la televisione. Quasi tutti i canali trasmettevano ancora le immagini degli scontri di Genova e interviste a esponenti politici. L'opposizione esprimeva preoccupata indignazione. Il governo appoggiava in pieno l'operato delle forze dell'ordine. Un giornalista parlò del ragazzo ucciso in modo subdolamente infamante, nonostante il tono trasudasse finta pietà per la giovane vita spezzata. Abbassai il volume. «Alza, voglio sentire» disse Max. «Non sei stanco di sentire cazzate?». «È meglio farci subito l'abitudine. Di Genova si parlerà ancora a lungo». Bussarono alla porta. Era Virna. «Rudy mi ha detto che Max è ferito». «Rudy parla troppo». La mia ex fidanzata corse al capezzale del ciccione riempiendolo di baci e carezze. In quel momento mi resi conto di essere in arretrato di sonno e tolsi il disturbo. L'appartamento puzzava di fumo. Spalancai le finestre e mi ficcai sotto la doccia. La presenza di Virna mi metteva a disagio. Come sempre diventavo inopportuno e creavo un'inutile tensione. La mia gelosia nei confronti di Max era ridicola. Ma non sapevo davvero cosa farci. Ero ancora innamorato. Mi distesi sul divano e mi addormentai come un sasso.
*** Le condizioni di Max migliorarono sensibilmente nell'arco di due settimane. Il ciccione aveva la testa dura. Cusinato veniva a visitarlo regolarmente e finalmente si decise a sciogliere la prognosi. Era un medico molto cauto con i pazienti che poteva salassare con parcelle esorbitanti. Anche Virna si faceva vedere spesso. Preparava pranzo e cena e intratteneva allegramente il mio socio. Ormai l'evitavo apertamente ma il mio atteggiamento ostile sembrava passare inosservato. Max mi preoccupava. Stava guarendo in fretta ma il suo umore diventava sempre più cupo. Continuava a guardare la televisione e a leggere i giornali in modo quasi ossessivo. Era perennemente collegato a internet a caccia di notizie sui siti del movimento. Se ne accorse anche Rossini che non riuscì a tenere a freno la lingua. «Mi stai facendo girare i coglioni, Max» disse in tono tagliente. «Perché?». «Capisco che tu ti stia leccando le ferite, ma hai un'aria da martire insopportabile». «Davvero?». «Sì. E poi è arrivato il momento di tornare a occuparci del Maestro di Nodi. Abbiamo già perso troppo tempo». «In questo momento ho altro a cui pensare…». Il milanese si alzò di scatto. «Io non volevo essere coinvolto nella faccenda dei sadomaso. Mi ci avete trascinato per
i capelli, ma adesso non ho nessuna intenzione di lasciar perdere. Ho giurato a me stesso che avrei fatto fuori quel sadico». «Beniamino ha ragione» dissi. «La pista dei tatuaggi si è rivelata inconsistente. Abbiamo bisogno di te per seguire quella degli annunci sui siti. La sola che ci è rimasta». Max la Memoria si accese una sigaretta. «Avete ragione» ammise sospirando. «Ma sono ancora scosso. Non solo per le legnate ma per tutto quello che è successo. Non riesco a pensare ad altro». «Eppure mi sembra tutto così chiaro» intervenne il vecchio gangster. «E lo era anche prima. L'avvertimento ve l'avevano già dato a Napoli». «Ti sbagli» ribatté il ciccione. «I fatti di Genova hanno un significato ben diverso». Avrebbe voluto continuare a ragionare a voce alta ma il nostro atteggiamento glielo impediva. Rossini, come sempre, era troppo severo. Il momento era delicato, si correva il rischio di creare una frattura insanabile al nostro interno ed era necessario mediare. In fondo era la mia specialità. Avanzai cautamente una proposta. Avremmo ascoltato la tesi di Max e poi avremmo continuato a dare la caccia al Maestro di Nodi. Mentre il ciccione parlava capii perché Beniamino era così restio ad affrontare la discussione. Ben prima di me aveva intuito analogie con un passato che voleva dimenticare. Io, invece, avevo osservato la situazione in modo distaccato,
senza soffermarmi a riflettere, forse perché troppo preoccupato per quello che poteva accadere a Max. E non avevo capito nulla. Il comportamento degli sbirri mi era sembrato "normale" e questo era corretto se rapportato al mondo del carcere e dell'uso della violenza poliziesca su marginali e malavitosi. Non lo era affatto però nei confronti di persone pacifiche e incensurate. Negli anni Settanta le forze dell'ordine addestrate a gestire l'ordine pubblico si erano sempre comportate in modo ben diverso, tendendo a contenere gli scontri di piazza. Più di un giovane aveva perso la vita, ma non c'era mai stato un massacro generalizzato dei manifestanti e tantomeno una caccia all'uomo negli ospedali. Inoltre, una volta che gli arrestati venivano consegnati nelle mani della polizia penitenziaria le violenze cessavano. A Genova, invece, le donne e gli uomini che protestavano contro il summit del G8 erano state trattate come criminali comuni colti in flagranza di reato e ne avevano seguito il percorso. Il tipo di violenza esercitata sulle persone era tipicamente carceraria. Quell'accanirsi in gruppi di quattro o cinque contro una persona a terra era il classico Sant'Antonio, il pestaggio punitivo riservato ai detenuti. L'irruzione nella scuola sede del Genoa Social Forum, dal punto di vista operativo, era stato il classico assalto al carcere in rivolta: occupazione dell'edificio, annientamento fisico dei soggetti e trasferimento immediato in un'altra struttura. E la squadra speciale della polizia penitenziaria nel centro di detenzione temporanea di Bolzaneto aveva "accolto" gli arre-
stati come accadeva normalmente ai detenuti pericolosi spediti nei carceri di massima sicurezza. Il ciccione parlava, analizzava ogni singolo aspetto del comportamento delle forze dell'ordine e nella mia mente scorrevano le immagini delle cariche. Quella selva di mani alzate, di volti atterriti e di bocche spalancate mi ricordò un episodio accaduto molti anni prima nel carcere speciale di Cuneo. Chiusi gli occhi. L'avevo fatto anche allora quando avevo sentito arrivare la prima manganellata sulla schiena. Max terminò la sua esposizione. Si versò dell'altra grappa e aprì un nuovo pacchetto di sigarette. «È un problema vostro. Tuo e degli altri sognatori» commentò Rossini. «Noi questi metodi li abbiamo subiti sempre». Non aveva tutti i torti. «Ti confesso che anch'io non riesco a stupirmi più di tanto. E tantomeno a indignarmi». «È davvero entusiasmante parlare con voi» ironizzò il ciccione. «Cosa pretendi?» domandò il milanese. «Per noi non è cambiato nulla. E il plurale comprende anche te. Sei un marginale e lo sarai per tutta la vita». «Perfino i vigili urbani adesso picchiano come dannati. Hanno fatto carte false per avere pistole e manganelli» dissi. «Guarda come trattano gli extracomunitari che vendono le loro carabattole sotto i portici del centro o con che gusto spaccano gli strumenti ai musicisti di strada…».
«Dovreste essere contenti» mi interruppe, scherzando, il vecchio gangster. «Finalmente abbiamo una polizia democratica che tratta tutti allo stesso modo». «I tempi sono cambiati per sempre» continuai. «Useranno ogni mezzo per stroncarvi le gambe. E ne hanno un bel po' a disposizione: mass media, manganelli, galere…». «E provocatori» aggiunse Beniamino. «Queste nuove BR puzzano di servizi. Le useranno contro di voi e per regolare i conti con il passato. Vedrai quanto ci mettono a sbattere in galera i rifugiati a Parigi». Max sorrise. «Quelli non li toccheranno mai». «Staremo a vedere. Con la scusa del terrorismo si giustifica tutto». Max alzò le mani in segno di resa. «D'accordo. Cambiamo argomento» sbuffò, collegandosi a internet. «Come mai non avete scoperto nulla sui tatuaggi del Maestro di Nodi?». «Perché non sono stati fatti in Italia ma con ogni probabilità in Giappone» spiegai. «Un vero peccato» borbottò manovrando il mouse. Sui siti sadomaso non c'erano grandi novità. Gli annunci non erano aumentati sensibilmente in quel periodo. Max disse che era normale durante il periodo estivo. «Tra pochi giorni è ferragosto» dissi. «Forse anche la banda di sadici è andata in vacanza». Il ciccione guardò di sottecchi il milanese. «Come mai non sei al mare con Sylvie? I night sono chiusi in questi giorni».
«Date le tue condizioni non potevo prendere impegni. Lei si è dimostrata molto comprensiva ed è partita per la Spagna con una sua amica». Max scoppiò a ridere. «Vuoi dire che passerai ferragosto con noi due?». «Non se continui a fare lo spiritoso». Ma il ciccione era già diventato serio. «C'è una sfilza di messaggi dei nostri amici sardi» annunciò. «Sfruttando la rete di computer della loro università hanno scoperto che Sherazade, la schiava che si era proposta come modella sadomaso, è stata contattata da un tizio che usa il nickname docktorramino, che corrisponde all'anagramma di rockdominator, uno di quelli della lista che ci ha consegnato Docile Femmina». «I nickname sono centinaia di migliaia» dissi in tono dubbioso. «Certe coincidenze devono essere frequenti». «Ma non in un ambiente ristretto come quello sadomaso» ribatté Max. «Arakno e Ivaz si sono insospettiti per la presenza della lettera k nella parola doctor. Sembra un errore voluto per comporre l'anagramma. E poi guarda caso il messaggio è indirizzato all'unica modella che ha messo un annuncio dopo Helena». «Non ricordo l'annuncio» intervenne Beniamino. Max prese un foglio. "Sento di essere una schiava e sogno di venir dominata, ma non ho nessuna esperienza. Cerco master esperti che mi addestrino all'obbedienza in modo graduale. Temo il dolore
fisico anche se lo desidero e al momento mi offro come modella per servizi fotografici durante i quali potrò essere legata e posseduta. Scrivete a Sherazade…". «Possiamo ficcare il naso nella posta del tizio?» chiese il vecchio gangster. «Certamente. Arakno e Ivaz hanno scoperto la password». Era vuota. Non c'era nessun messaggio in arrivo e tantomeno archiviato. Una caratteristica che avevamo riscontrato nelle altre caselle usate dalla banda. Invece quella di Sherazade traboccava di messaggi. Molti clienti erano gli stessi di Helena. Un paio di messaggi chiedevano se non fosse la stessa tedesca ad aver cambiato nickname e indirizzo di posta elettronica. Esaminando tutta la corrispondenza, scoprimmo che la donna aveva già incontrato due clienti in altrettanti hotel. Il primo ad Alessandria e il secondo a Torino. Aveva pattuito precedentemente un compenso di due milioni di lire. Si era mossa con cautela, rispettando le norme di sicurezza consigliate dai siti. Al messaggio sospetto di docktorramino non aveva ancora risposto perché, come aveva scritto a lui e ad altri potenziali clienti, si trovava in vacanza e non sarebbe tornata prima del 17 agosto. Max controllò il calendario appeso alle sue spalle. «Oggi è il 12». «Dobbiamo agganciarla prima noi per usarla come esca» disse Rossini.
«Risponde secondo l'ordine di arrivo. Dovremo aspettare il nostro turno». «Ho un'idea» dissi. «Avete notato che i due clienti che ha incontrato non hanno più inviato messaggi?». «E allora?». «Secondo me non hanno più bisogno di farlo perché Sherazade ha dato loro un numero di cellulare». «Potrebbe anche essere andata così» disse Max, accarezzandosi la pancia. «Magari si tratta di una professionista interessata solo a farsi una buona clientela». «Attraverso i documenti registrati alla reception degli alberghi possiamo risalire ai clienti e farci dare il numero». «E un paio di fotografie» aggiunsi. «Ne avremo bisogno per identificarla». Il ciccione fece una smorfia dubbiosa. «Abbiamo già tentato con questo trucchetto e ci è andata male». «Perché si trattava della banda del Maestro di Nodi. Ma questi dovrebbero essere normali clienti che hanno usato la loro vera identità». Il milanese sbirciò l'orologio. «Possiamo partire dopo cena e arrivare a Torino giusto in tempo per fare due chiacchiere con il portiere di notte». «Saremo costretti a lasciarti solo» dissi a Max. «Non vi preoccupate. Sto molto meglio e poi se ho bisogno di qualcosa chiamo Rudy. O Virna…». Lo fulminai con un'occhiataccia e lui mi strizzò l'occhio sorridendo. «A volte sei proprio un fesso, Marco».
Alzai le spalle. «Lo so. Ma è più forte di me». Il primo tentativo andò a vuoto. Il portiere dell'hotel di Torino era un ex carabiniere in pensione. Gli era bastata un'occhiata per capire che non volevamo una camera e quando gli avevo fatto vedere i soldi aveva preso il telefono per avvertire gli sbirri. Eravamo stati costretti a filarcela di gran carriera. Rossini mi rimproverò di non aver notato lo stemma dell'associazione nazionale carabinieri appuntato sul bavero della giacca. In effetti non ci avevo fatto caso. Colpa dell'abitudine. Ormai quando offrivi denaro a qualcuno raramente rifiutava. In fondo dare informazioni in cambio di qualche biglietto frusciante emesso dalla zecca di stato era solo un piccolo affare. Ci dirigemmo verso Alessandria. Non ci ero mai andato. Beniamino era stato ospite per qualche tempo dell'istituto di pena della città alla fine degli anni Settanta. Avemmo qualche difficoltà a trovare l'hotel a quell'ora di notte, ma non a ottenere le informazioni. Il giovane che vigilava alla reception approfittava del turno per studiare. Dal titolo del libro che stava in bella mostra sul bancone capimmo che stava preparando l'esame di diritto penale. Il ragazzo prometteva bene. Pretese una cifra decisamente esagerata e intascò una manciata di banconote provenienti dal gruzzolo di Jacovone. Il cliente che aveva affittato la camera per intrattenersi con Sherazade si chiamava Romano Erba, nato 58 anni prima a Torino dove era tutt'ora residente in via Colombo, nel quartiere della Crocetta. Rientrammo in autostrada dove ci
fermammo a dormire qualche ora in un'area di servizio. Alle sette del mattino un tizio bussò al vetro della macchina. «Che vuoi?» chiese il mio socio. «Sigaretta» rispose in un italiano stentato. Avrà avuto una quarantina d'anni e aveva il volto sciupato da rughe di povertà e vita sui campi. Ci disse che era bulgaro. Puzzava di sudore e di clandestinità. Il mio socio gli diede trecentomila lire. «Non farti beccare» disse. «Avrei dormito un'altra oretta» borbottai stiracchiandomi. Andammo a bere il primo caffè della giornata. Si preannunciava torrida come le altre. Un'estate di merda. Il caldo non mi era mai piaciuto. Preferivo l'inverno. Quando andavo al liceo e uscendo da casa mi imbattevo nella nebbia andavo alla stazione e salivo sul primo treno diretto a Venezia. Mi piaceva passeggiare tra le calli avvolte in una massa di vapori densi e bianchi come bambagia. Anche il mio socio amava la nebbia ma per motivi meno poetici. Era la migliore amica dei contrabbandieri. Beniamino addentò un cornetto. «Spero che Max si riprenda alla svelta. Le manganellate gli hanno scosso il cervello». «Non mi preoccuperei più di tanto». «Sta covando rabbia e quelli come lui non la sanno gestire. La trasformano in politica e si ficcano nei casini». «Il ciccione è troppo intelligente per non aver capito dove soffia il vento».
«Ma questo non sarà sufficiente a tenerlo lontano dai guai». Quando suonai il campanello dell'abitazione di Romano Erba, la portinaia uscì dalla guardiola e mi disse che l'uomo si trovava in vacanza con la famiglia ad Alassio. C'era da immaginarselo. Buona parte degli italiani erano partiti per il mare o la montagna e le città erano semivuote. Torino non faceva eccezione. Inventai al momento una storiella abbastanza credibile di un atto notarile per la vendita di un appartamento e ottenni il nome dell'albergo dove era alloggiato. La donna lo conosceva perché il signor Erba lo frequentava ormai da anni. Rossini sbuffò. Era stanco di guidare ma per nulla al mondo avrebbe affidato al sottoscritto la sua macchina nuova. Sosteneva che guidavo come un pensionato. Avevo sempre considerato l'automobile necessaria ma pericolosa. Preferivo di gran lunga i mezzi pubblici ma nel nostro mestiere era raro usarli. Dopo Savona l'autostrada correva lungo la costa ed era costellata di gallerie. In una delle più lunghe superammo un gruppo di motociclisti olandesi a cavallo delle loro Harley Davidson. Il rombo era assordante. Una ragazza ci salutò agitando la mano. Alassio era invasa dai turisti. Le ville in stile inglese dominavano la spiaggia fitta di ombrelloni. L'albergo del nostro uomo era un quattro stelle frequentato da gente danarosa. Una bionda carina con un tailleur severo mi avvertì che in quel momento il dottor Erba stava pranzando.
«Gli dica che lo aspetto qui nella hall». «Chi devo annunciare?» domandò in tono professionale. «Gli dica che sono un amico di Sherazade». Qualche minuto dopo vidi arrivare un tizio che si guardava intorno con aria preoccupata. Era grassottelle, di media statura, stempiato, con un naso importante sormontato da un paio di occhiali dalla montatura sottile. Indossava una camicia a righe con le iniziali e un paio di pantaloni blu di lino. «Chi è lei?» chiese cercando di ostentare sicurezza. Ma dietro l'aggressività c'era solo la paura di essere sputtanato o ricattato. «Non ha importanza chi sono» risposi a bassa voce. La bionda ci stava osservando dal banco della reception. «Voglio solo sapere come contattare Sherazade». «Non la conosco». «Vuole che dica a sua moglie che il mese scorso si è incontrato con una modella sadomaso in un hotel di Alessandria?». L'uomo impallidì. «Cosa vuole da me? Denaro?». «Si calmi. Le ho appena detto che voglio incontrare Sherazade». «Non capisco» balbettò. «Come fa a conoscermi, a sapere che mi trovo qui?». «Non sono affari che la riguardano. Lei mi dice quello che voglio sapere e io sparisco dalla sua vita». Si passò una mano sulla fronte. Era indeciso. Mi incamminai verso la sala del ristorante. «Dove va?».
«A fare due chiacchiere con la sua signora». «Si fermi» disse prendendo il portafoglio dalla tasca. Da uno scomparto prese un biglietto da visita. «Adesso mi lasci in pace» sibilò. «Mi servirebbe anche una foto della modella». «Cosa crede? Che me le porti in vacanza?». Lo fissai dritto negli occhi. Stava mentendo. «Sì. Tu sei il tipo che non se ne separa, altrimenti non ti tira l'uccello» risposi con cattiveria. Il dottor Romano non doveva essere abituato a questi modi spicci, ma capì subito che non l'avrei lasciato perdere tanto facilmente. Mi fece cenno di seguirlo. Scendemmo nel garage. Con il telecomando fece scattare la serratura di una lucida BMW bianca. Con le mani che gli tremavano frugò nel vano portaoggetti e prese il manuale delle istruzioni dell'automobile. Tra le pagine erano conservate due polaroid. Una bella bruna, formosa, sorrideva maliziosa legata al letto. Me le consegnò con un grugnito. «Dove abita?». «A Torino». «L'indirizzo lo conosci?». «No. L'ho incontrata una volta sola» rispose esasperato. «Torna pure a finire la pappa» dissi. «E stai tranquillo. Non mi rivedrai più». Mi fermai alla reception e chiesi alla bionda l'elenco telefonico di Torino. Controllai il nome che appariva sul biglietto. Non risultava tra gli abbonati. Me lo aspettavo, ma
una verifica andava fatta. A volte capitano anche i colpi di fortuna. Tornai alla macchina con un'aria soddisfatta. Passai a Rossini le foto e il biglietto da visita. «Donatella Morganti, modella e hostess» lesse ad alta voce. «C'è pure il numero di cellulare». «Una professionista» commentai. «Non c'è dubbio». Esaminò le istantanee con attenzione. «È anche carina». Digitai il suo numero di cellulare ma risultava non raggiungibile. «Se è andata in vacanza come ha comunicato ai suoi clienti lo terrà spento per non essere assillata dalle chiamate». «Probabile. E adesso non ci resta che attendere il suo ritorno». «Ho un'idea». «Ti ascolto». «Non ti piacerà». «E allora non la voglio sapere». «Flavio Guarnero, lo sbirro che ha steso Jacovone». «Tu sei tutto scemo». «Ragiona: lavora alla questura di Torino. Ha accesso ai terminali e se questa tizia batte è sicuramente schedata». «Quello è fuori di testa. Non è affidabile». «Io penso di sì. Se gli diciamo che l'informazione serve per arrivare al Maestro di Nodi ci aiuterà».
Il vecchio Rossini accese il motore. «Cerchiamo un ristorante» disse. «A digiuno non riesco a ragionare». Fu difficile, ma al momento di bere il caffè l'avevo convinto. Durante il tragitto verso Torino non fece altro che farmi raccomandazioni e dovetti sorbirmi il solito pistolotto su come erano cambiati i tempi. Una volta non ci saremmo abbassati a chiedere aiuto a uno sbirro. Chiamai Max la Memoria. Stava sempre meglio ed era più concentrato sul caso. Ero tentato di chiedergli notizie di Virna, ma rinunciai per non rendermi ridicolo una volta di più. Entrammo in città nel tardo pomeriggio. La gente cominciava a uscire dalle case e ad animare i locali tracannando aperitivi ghiacciati. Guarnero abitava nel quartiere Barriera di Milano, in corso Giulio Cesare. Individuammo il palazzo e provai a chiamarlo da una cabina. La moglie mi disse che era ancora in servizio ma che sarebbe tornato a casa per l'ora di cena. Riconoscemmo la sua Punto color senape appena imboccò la via. Quando scese per aprire il cancello del passo carraio gli fummo alle spalle. «Ciao Flavio» lo salutai. Si voltò di scatto portando la mano al marsupio dove gli sbirri tengono la pistola in estate, quando non possono nasconderla sotto la giacca. Rossini allargò le braccia. «Non sono armato». «Cosa volete?».
«Forse abbiamo trovato una pista che ci può condurre al Maestro di Nodi, ma ci serve il tuo aiuto». Scosse la testa. «Non voglio più sapere nulla di questa storia». «E tua sorella?». «Ho ucciso un uomo». «Jacovone era solo merda». «Lascio la polizia. Mi trasferisco in Calabria per lavorare con mio suocero». Gli sbattei in faccia le polaroid con la donna legata. «Questa è la prossima vittima. Ne vuoi un'altra sulla coscienza?». Allontanò la mia mano con un gesto di stizza. «Cosa dovrei fare?». «Verificare un nome». «Tutto qui?». «Si chiama Donatella Morganti. Pensiamo sia una professionista che ha allargato il suo giro di affari all'ambiente sadomaso». «D'accordo. Chiamatemi domani mattina a questo numero di cellulare…». Andammo a mangiare un boccone e poi subito in albergo. Eravamo stanchi e con un gran bisogno di dormire. Come sempre trovammo alloggio in un albergo compiacente. Il vecchio Rossini ne conosceva almeno uno per città. Mi distesi a letto con un bicchiere di calvados e le sigarette a por-
tata di mano. Alla televisione trasmettevano ancora servizi su Genova. L'altra verità, quella delle vittime, cominciava ad affiorare. In quei giorni c'erano state troppe telecamere e macchine fotografiche in giro per la città. Migliaia di scatti e chilometri di pellicola che ricostruivano minuto per minuto la realtà dei fatti. Comunque non cambiava nulla. Tutta quella gente che ripeteva con convinzione parole come verità e giustizia si sarebbe ritrovata con un pugno di mosche in mano. Nessuno avrebbe pagato. Anche l'evidenza sarebbe stata sepolta da una montagna di stronzate. Alla fine il solito perito avrebbe sostenuto la tesi di comodo e la scienza forense avrebbe dimostrato che il ragazzo era stato ucciso da un proiettile sparato in aria e fatalmente ricaduto in basso. Un sindacato di polizia protestava per l'uso dei nuovi lacrimogeni, molto dannosi per la salute. Anche gli sbirri ne avevano respirato un bel po'. Cambiai canale e seguii la solita televendita. Non c'era nulla di meglio per addormentarsi. Chiamai Guarnero alle undici in punto. Usai il telefono di una cabina della stazione di Porta Nuova perché non rimanesse traccia della conversazione sul mio cellulare. Lo sbirro mi disse che Donatella Morganti era schedata come prostituta. L'avevano pizzicata in un casino d'alto bordo mascherato da centro estetico, frequentato da manager e calciatori. Da quel momento non era più stata fermata. Abitava in via Cavour, in un appartamento di proprietà del padre.
Gli augurai buona fortuna e riattaccai. Rossini alzò gli occhi al cielo. Mi era venuto spontaneo farlo. Al di là della divisa che indossava era un buon diavolo che aveva cercato giustizia violando le regole del suo mondo. Ero certo che il rimorso l'avrebbe perseguitato per il resto della sua esistenza. Ci recammo nella via indicata da Guarnero. La donna stava al terzo piano di un palazzo signorile. Un cartello avvertiva che la portineria chiudeva alle diciotto. Registrammo l'informazione e tornammo a Padova. L'umore di Max la Memoria era ulteriormente migliorato. Aveva ripreso a cucinare e ad ascoltare musica. In quel momento un vecchio disco dei Beatles. A me non erano mai piaciuti particolarmente. Ero cresciuto ascoltando i Jefferson Airplane, Jimy Hendrix e i Rolling Stones. Poi una notte era entrata nelle mie orecchie la voce di Janis Joplin e il blues mi era arrivato dritto al cuore. Il ciccione annunciò la fine della convalescenza e l'intenzione di venire a Torino per seguire da vicino le indagini. «A una condizione» precisò il milanese. «Che non ricominci a rompere i coglioni con la galera o con le mazzate della polizia». Il ciccione sorrise divertito, scartando un cioccolatino al latte. Non avrebbe rispettato i patti. D'altronde era impossibile evitarlo. La gente non parlava d'altro che di Genova e stampa e televisione alimentavano le polemiche.
A Ferragosto Beniamino ci portò a fare un giro in motoscafo. Io e il ciccione, bianchi come mozzarelle, ci spalmammo il corpo di crema protettiva. Il mare era tranquillo e ci fermammo a pranzo in un ristorante costoso dell'isola di Torcello. Fu una giornata piacevole trascorsa tra amici. Rossini raccontò storie di contrabbando. Max del primo campeggio in montagna con i boyscout. Io rimasi zitto ad ascoltare. Il passato precedente alla galera era ben custodito in qualche angolo della memoria e non avevo intenzione di frugare tra i ricordi. Mi interessava solo il presente.
11 Il giorno seguente partimmo per Torino. Il nostro piano era semplice. Avremmo atteso Donatella Morgana' nel suo appartamento. Il milanese aveva con sé il solito astuccio con i grimaldelli, oltre a una pistola con silenziatore ben nascosta in un vano che aveva fatto ricavare da un carrozziere di fiducia nel portabagagli della Chrysler. A turno controllammo la via e il palazzo dove abitava la donna. Diversi appartamenti erano deserti. Gli inquilini si trovavano ancora in vacanza. Per un verso la cosa era positiva perché era minore il rischio di essere notati, ma per l'altro portinai e sbirri stavano allerta per evitare le visite dei topi d'appartamento particolarmente attivi in quel periodo. Beniamino infilò il grimaldello nel portone all'ora di cena. Salimmo le scale silenziosamente fino al terzo piano. L'appartamento a fianco era opportunamente vuoto. La porta era munita di una doppia serratura. La più fastidiosa era quella di sicurezza con chiave a farfalla ma, non essendoci allarmi, venti minuti furono sufficienti per aprirla senza danneggiarla. La casa era completamente al buio e puzzava di chiuso. Accendemmo le torce e la visitammo rapidamente. Salotto,
due stanze di cui una adibita a studio, bagno e cucina. Max accese il computer e cominciò a frugare nei file. Io e Rossini andammo in cucina a curiosare nel frigorifero. Non c'era nulla di interessante a parte qualche yogurt scaduto e confezioni di formaggi ipocalorici. Il milanese prese una bottiglia di vino e con una scatoletta di tonno e qualche crackers improvvisò uno spuntino. Gli feci compagnia sorseggiando del calvados che saggiamente avevo portato con me. Ascoltai i messaggi della segreteria telefonica. C'era un messaggio della sorella e uno del suo consulente finanziario. Donatella aveva le idee chiare su come investire i soldi. Poi mi spostai in camera da letto. La donna aveva buon gusto e le piaceva spendere per scarpe e vestiti. Nulla di vistoso, nemmeno tra la biancheria intima. Nel suo guardaroba non c'era niente che potesse ricondurla alla sua attività. Sembrava la casa di una donna con un buon lavoro, che aveva scelto di vivere sola. Sul comodino e sul cassettone, oltre a profumi e qualche romanzo rosa in edizione economica, c'erano diverse foto incorniciate che la ritraevano in compagnia della famiglia. Donatella Morganti doveva essere una donna molto riservata. Ero certo che gli altri inquilini ignorassero che la bella signorina del terzo piano era una puttana invischiata nel giro sadomaso. Accesi una sigaretta e mi distesi sul letto. Max mi raggiunse. «Quel computer è una scatola vuota» sussurrò. «Lo usa solo per connettersi a internet. Controllando i collegamenti precedenti ho visto che è una habituée dei siti porno».
Puntai il fascio di luce sulle foto. «È più bella di quel che credevo. Le polaroid del dottor Romano non le rendono giustizia». «Sola e ricattabile, questa tizia è la vittima ideale per il Maestro di Nodi e la sua banda». «Anche noi non saremo carini con lei». «Non abbiamo altra scelta. Speriamo solo che l'intuizione di Arakno e Ivaz si riveli giusta». Trascorrere il tempo in quell'appartamento, al buio e senza fare rumore, era esasperante, soprattutto per il caldo. Per fortuna Donatella Morganti infilò le chiavi nella toppa nel primo pomeriggio del giorno dopo. «Che puzza di fumo» mormorò stupita, appoggiando borsa e valigia a terra. Accese la luce e vide tre sconosciuti che la osservavano con interesse. La sua bocca si spalancò per cacciare un urlo ma la mano di Rossini la tappò in tempo. «Zitta» bisbigliò mostrandole la pistola silenziata. Il milanese la costrinse a sedersi su una poltrona e la minacciò ancora prima di permetterle di parlare. Era proprio una bella donna. Sui trentacinque anni, alta, con lunghi capelli neri che ricadevano sulle spalle, snella e piena di curve nei posti giusti. Aveva un musetto impertinente con due grandi occhi scuri e labbra ben disegnate. Indossava un vestito a fiori, corto, che metteva in risalto le gambe abbronzate e un paio di sandali semplici ma eleganti. Non portava gioielli vistosi. Un filo di perle al collo, cerchi d'oro alle orecchie e
un paio di anelli alle dita. Pensai che, in altre circostanze, avrei potuto corteggiarla. Ma durò solo un attimo, quando aprì la bocca cambiai subito idea. «Ho solo un po' di soldi e qualche gioiello» esordì con una voce stridula e sgradevole. «Se volete scoparmi non c'è bisogno di farmi male». Quella tizia aveva la scorza dura. Nonostante la paura e la sorpresa era riuscita a mantenersi calma e a tentare di uscire da quella situazione con meno danni possibile. Beniamino ridacchiò divertito. «Cazzo, ragazzi, sembra la strega di Biancaneve». «Non vogliamo rapinarti, né violentarti» puntualizzai. «Anzi, siamo qui per salvarti il culo, Sherazade». Sentire pronunciare il suo nickname di modella sadomaso le fece perdere un po' di sicurezza. «Siete della polizia?». Max prese una sedia e si sedette davanti a lei. Le spiegò per sommi capi in che guaio rischiava di cacciarsi e le disse chiaramente cosa volevamo che facesse. «Non ci sto» gracchiò. «Mi sono messa in questo giro per farmi una clientela di "uomini maturi e facoltosi". Questo è il mio target. Per i servizietti particolari pagano bene. Tutto qui. Siete fuori di testa se pensate di usarmi come esca con quei pervertiti pericolosi». «Non credo tu abbia possibilità di scelta» precisai. «E poi al primo appuntamento non succede mai nulla». «Se non collabori sei morta» aggiunse Rossini scandendo bene le parole. Toccava sempre a lui la parte del cattivo.
«Ascoltate. Non posso esservi utile in nessun modo» disse Morganti in tono ragionevole. «Sono nuova di questo giro. Ci sono finita solo perché qui a Torino è un brutto periodo per battere in proprio». Il vecchio gangster alzò la pistola e tirò il grilletto. La pallottola si conficcò nella imbottitura della poltrona a pochi centimetri dall'orecchio destro della donna. Si udì solo un piccolo schiocco e il tintinnare del bossolo caduto sul pavimento e la stanza si riempì dell'odore di cordite. «Il prossimo proiettile è quello giusto» mormorò Beniamino. Era diventata pallida come una lapide di marmo. Allargò le braccia. «D'accordo, metti via quell'arnese». Max le indicò lo studio. «Vai al computer e invia un messaggio a "docktorramino"». La donna obbedì, ma quando si alzò le sue gambe si piegarono e ricadde sulla poltrona. Andai in cucina a prenderle un bicchiere d'acqua. Lo bevve con avidità. Le offrii anche una sigaretta ma rifiutò con un gesto della mano. Max nel frattempo si era connesso a internet. Lei prese il suo posto. «Cosa devo scrivere?». «Che vuoi incontrarlo ma sei libera solo domani» spiegò il ciccione. «Preferibilmente in un luogo non troppo distante da Torino». La donna digitò il messaggio. «Non funzionerà» borbottò. «Non c'è abbastanza tempo per organizzare l'incontro».
«Vorrà dire che dovrai sopportare la nostra compagnia ancora a lungo» sbottai in tono duro. Quella tizia era davvero antipatica. Le permettemmo di farsi una doccia ma non la perdemmo mai di vista. Per evitare problemi le ordinammo anche di spegnere il cellulare e di non rispondere al telefono. Max teneva d'occhio la sua casella di posta, "docktorramino" inviò il suo messaggio di risposta poco prima di mezzanotte. Si dichiarava ben contento di incontrarla e indicava un hotel di lusso poco distante dalla stazione di Porta Nuova. L'avrebbe attesa alle dieci di sera al bar dell'albergo ma chiedeva una conferma per l'indomani mattina fornendo un numero di cellulare. «Strano» commentò Max. «Da quanto sappiamo, finora si erano limitati a comunicare via e-mail». Accartocciai il pacchetto vuoto di sigarette. «Forse hanno fretta di ricostruire un'altra rete di vittime da ricattare». «Secondo me si sono insospettiti per l'atteggiamento poco cauto della nostra esca» intervenne Beniamino. «E vogliono sincerarsi che non si tratti di una fregatura». Discutemmo ancora per qualche minuto, poi venimmo interrotti dalla donna. «Ho fame» disse. «La dispensa è vuota». «Lo so. È casa mia». «Forse è avanzato qualche cracker» disse il ciccione. «C'è una pizzeria qui sotto. È aperta fino a tardi».
Ci guardammo. Avevo voglia di sgranchirmi le gambe. «Vado io». «Non è il caso» grugnì il milanese. «Qualcuno potrebbe notarti». «Posso chiedere di farmele portare» suggerì la donna. «Ogni tanto lo fanno. Il padrone ha un debole per me». «Magari stai pensando di fare qualche fesseria» disse il vecchio Rossini. «Ho solo fame» sbuffò Donatella. «Sei avvertita». Compose a memoria il numero del locale e dopo un quarto d'ora arrivò un cameriere con pizze e birre. La donna lo pagò sulla porta, impedendogli di entrare, mentre Beniamino la teneva sotto tiro. Mangiammo di gusto. Lei si rilassò e iniziò a chiacchierare, raccontando le sue vacanze sull'isola di Panarea al largo della Sicilia. Era stata ospite di un maturo industriale marchigiano che non amava trascorrere le vacanze da solo dopo la morte della moglie. Gli piaceva mostrarsi in giro con una bella mora. Ogni tanto erano andati a letto insieme ma più che altro avevano parlato. Per la modica cifra di un milione al giorno. «Ma voi chi siete?» domandò poi a bruciapelo. Nessuno di noi rispose. Lei insistette proponendo delle ipotesi. Alla fine si arrese e se ne andò a letto col broncio. Si svegliò verso le otto del mattino durante il mio turno di guardia. Preparò il caffè e me ne portò una tazzina. La informai che nella segreteria c'era anche un messaggio del suo
consulente finanziario. Lo feci solo per curiosità e lei mi accontentò raccontandomi i suoi progetti. Donatella Morganti cullava il sogno di tutte le puttane: esercitare la professione ancora per qualche anno e investire i sudati guadagni in qualche attività redditizia. Avrei voluto ribattere che poche ci riuscivano ma mi trattenni. Sarebbe stato solo fiato sprecato. La vita di quella donna non mi importava granché. Un paio d'ore dopo chiamò il numero indicato nel messaggio di "docktorramino". Beniamino aveva visto giusto. L'uomo la tartassò di domande nel tentativo di sincerarsi che la donna fosse veramente una modella sadomaso. Seguendo i nostri consigli lei fu abile nel fargli credere la verità e cioè di trovarsi di fronte a una professionista. A quel punto lui sondò cautamente la presenza di un protettore ma fu subito tranquillizzato. Lei, infine, descrisse sé stessa e gli abiti che avrebbe indossato per farsi riconoscere. Quando chiuse la comunicazione, il vecchio Rossini le afferrò il mento per costringerla a guardarlo negli occhi. «Questa sera non potrò starti vicino e ti potrebbe venire la tentazione di filartela. Non farlo o sei morta». Lei si divincolò con un gesto rabbioso. «Smettila di minacciarmi». «Lo faccio per il tuo bene» chiarì Rossini. «In questa faccenda non sono ammessi errori». Max e io ci sedemmo al bar dell'albergo un paio d'ore prima dell'appuntamento. Indossavamo vestiti e scarpe com-
prati nel pomeriggio in un negozio del centro. Beniamino come sempre era partito provvisto di un guardaroba adatto a tutte le occasioni. Sembravamo due rappresentanti di passaggio e per impersonare meglio la parte ero stato costretto a togliermi l'orecchino. Era ora di cena e il locale era vuoto. Il barman ci preparò due vodka martini. Beniamino avrebbe accompagnato la modella sadomaso alle ventidue in punto. «Sono nervoso» disse il ciccione riempiendosi la bocca di arachidi. «Anch'io. Il nostro piano fa acqua da tutte le parti». «Non siamo riusciti a escogitare nulla di meglio». «E se lo perdiamo?». «Dovremo costringere la nostra amica a incontrarlo ancora». «È proprio questo che mi preoccupa». Il bar si animò dopo le nove. Bevitori, clienti che non sapevano come trascorrere la serata e qualche incontro di affari. Gli uomini soli erano diversi ma nessuno somigliava alle descrizioni che ci aveva fornito Docile Femmina o ai sadici mascherati che avevamo visto nei video. «Il prossimo anno torno a Genova» annunciò Max. «Il movimento si è dato appuntamento per l'anniversario della morte di Carlo Giuliani». «Tutte quelle manganellate non ti hanno insegnato niente, eh?».
Il ciccione sorseggiò il suo terzo cocktail. Io ero già passato al calvados. «Ho ripensato a quanto avete detto tu e il vecchio Rossini. E non sono d'accordo». «Eppure si trattava di vero distillato di saggezza» scherzai. «Date per scontato che la realtà sia immutabile, ma questo non è vero. E comunque ì nuovi padroni del mondo stanno portando l'intera umanità alla bancarotta, un motivo più che sufficiente per tentare di fermarli». «Questi discorsi li ho già ascoltati negli anni Settanta…». Mi interruppe con un gesto delle mani. «Finalmente c'è qualcosa di nuovo e io non voglio starne fuori, capisci quello che voglio dire?». Gli rivolsi un sorriso amaro. Il mio socio aveva qualcosa che gli bruciava dentro. «Sono stanco di campare alla giornata» continuò. «Mi piacerebbe avere un'altra vita». «Non so cosa dirti. Io non saprei vivere in altro modo». Mi fissò accarezzandosi la pancia. «Scusa se ti rompo i coglioni con queste chiacchiere». «Siamo amici, Max» dissi serio, ma poi aggiunsi in tono scherzoso: «Certo che in questo momento mi sembri Virna con tutte le sue menate sulla necessità di costruirmi un'altra vita». Scoppiò a ridere e prese una manciata di patatine. Gli volevo bene ma non gli sarei stato di nessun aiuto. Riuscivo
appena a fare i conti con la mia esistenza e avevo smesso da un pezzo di farmi domande. Pochi minuti prima dell'arrivo di Donatella Morganti, entrò un uomo sui trent'anni, alto, capelli biondi raccolti in un codino, ben vestito e con un fisico modellato dalla palestra. Io e il mio socio ci scambiammo un'occhiata. Poteva trattarsi del nostro uomo. Il tipo si accomodò su uno sgabello del bar e si guardò attorno. Incontrò lo sguardo di un altro cliente che con un impercettibile movimento della testa gli comunicò che la situazione era tranquilla. Provai una fitta allo stomaco. Finalmente avevamo trovato la banda del Maestro di Nodi. Max non si era accorto di nulla perché dava loro le spalle. «Sono in due» bisbigliai, indicando l'altro. Era arrivato un'oretta prima e aveva recitato la parte del cliente annoiato. Doveva avere poco più di cinquant'anni, alto e snello, con i capelli corti castani e un pizzetto che gli copriva il mento sfuggente. Pensai che fosse lui ad avere il compito di affittare la stanza e piazzare la telecamera nascosta ma sarebbe stato l'altro a intrattenersi con Sherazade. Se qualcosa fosse andato storto poteva sempre sostenere che la donna si era inventata tutto oppure che qualcuno aveva approfittato della sua assenza per introdursi nella stanza. D'altronde non era pensabile che usassero sempre documenti falsi per registrarsi negli alberghi. Poteva essere necessario per un rapimento come era accaduto a Helena, altrimenti era solo
un rischio inutile. E in quell'albergo non avrebbero tentato di portarsi via Donatella, il luogo era troppo frequentato. La nostra esca entrò nel bar e tutti gli uomini si girarono a guardarla. Indossava un vestito nero corto e scollato ma per nulla volgare. Il biondo attese qualche istante poi si alzò e le andò incontro sorridendo. Si strinsero la mano e lui le indicò un tavolo un po' defilato. Digitai il numero del cellulare di Rossini. Anche per lui era arrivato il momento di entrare in scena. La modella e il suo cliente chiacchieravano bevendo cognac. Ebbi l'impressione che lui continuasse a farle domande. Forse non si fidava ancora del tutto. L'altro tizio continuava a spostare lo sguardo sulla donna. Aveva un'espressione soddisfatta stampata sul volto. Doveva essere certo di aver messo le mani su un'altra schiava di notevole bellezza. Il vecchio Rossini ci raggiunse esibendo un completo blu a doppio petto. Ci porse la mano scusandosi del ritardo e si sedette al nostro tavolo. Mentre blaterava ovvietà a uso e consumo degli altri avventori, gli indicai i due uomini. Anche lui esibì un sorriso soddisfatto ma per tutt'altri motivi. Si toccò i braccialetti che portava al polso sinistro. Non vedeva l'ora di aggiungerne altri due. Donatella e il biondo si alzarono e si diressero verso gli ascensori. Lei sorrideva tranquilla. Una vera professionista. L'altro rimase al suo posto. La nostra esca aveva concordato la cifra di un milione di lire per una "seduta" di un'ora. Cominciai a guardare con impazienza l'orologio.
La necessità di rimanere a lungo seduti al bar ci aveva costretto a bere parecchio. Il ciccione aveva spazzolato diverse ciotole di salatini. Io mi ero accontentato di un po' di arachidi ma ora era arrivato il momento di smettere. Dovevamo essere lucidi per seguire il biondo. Avevamo deciso di lasciare perdere l'altro. Probabilmente si sarebbe fermato per la notte e se fossimo stati seminati potevamo sempre riagganciarlo la mattina dopo. L'hotel aveva altre due uscite, il garage e quella usata dal personale e dai fornitori. Una ventina di minuti dopo eravamo piazzati davanti a ognuna di esse. Il primo che avrebbe avvistato il tizio avrebbe avvertito gli altri con il cellulare. Donatella Morganti uscì per prima dalla porta principale. Mi vide e mi strizzò l'occhio. La marchetta era filata liscia. Poi fu la volta del biondo. Si incamminò verso la stazione, attraversò la strada e si infilò in una strada secondaria. Lo seguii tenendomi in contatto con il vecchio Rossini che mi stava raggiungendo con la macchina. Lo vidi salire su un grosso fuoristrada. Temetti per un momento che ci potesse sfuggire, ma il milanese si fermò al mio fianco mentre stava partendo. Fummo costretti a lasciare Max a Torino. Lo chiamai e gli dissi di aspettarci a casa della donna. Il tizio guidava tranquillo. Non si aspettava di essere pedinato e ci condusse a Milano. Parcheggiò davanti a una palestra nel quartiere dell'Isola. A quell'ora di notte doveva essere chiusa ma non appena l'uomo pigiò il campanello qualcuno si affrettò ad aprire la porta.
«Abbiamo trovato la base della banda» disse Beniamino. «Scommetto che sono tutti lì dentro a guardarsi il video con Donatella». «Non male come copertura» commentai. «Adesso capisco perché sono ben messi fisicamente». «Tra un esercizio e l'altro organizzano i ricatti, gli omicidi e il business dei filmini sadomaso». Sotto l'insegna, appesa al muro dello stabile, c'era una vetrinetta con le foto pubblicitarie delle varie attività della palestra. Nonostante la strada fosse deserta, decidemmo di scendere dalla macchina e dare un'occhiata. Rossini era armato e se il biondo ci avesse visto e riconosciuto le cose sarebbero precipitate. Il mio socio fremeva all'idea di chiudere in fretta i conti. Presi dalla tasca il Ronson, che avevo finalmente ricaricato, e con la scusa di accendere una sigaretta illuminai il pannello. Un cartello avvisava che la palestra sarebbe rimasta chiusa fino al primo settembre. Poi sarebbero ripresi i corsi delle più moderne tecniche ginniche. Si praticava però una delle più antiche arti marziali, il karatè. Il maestro si chiamava Bruno Chiarenza e aveva imparato l'arte marziale in Giappone. Diverse istantanee lo ritraevano mentre si esibiva spaccando pile di mattoni. Una invece era a mezzo busto e permetteva di vedere bene il volto. Pieno, volitivo, con occhi azzurri gelidi incassati in orbite pronunciate e coperte da folte sopracciglia. Indossava il kimono. Era leggermente aperto sul petto e si intravedeva lo scorcio di un tatuaggio. Il volto di una geisha. Chiarenza era il Maestro di
Nodi. Il milanese grugnì di soddisfazione. Tornammo ad appostarci all'interno dell'auto. Eravamo curiosi di vederlo di persona. Invece dalla palestra uscirono solo il biondo e un mingherlino che Docile Femmina aveva indicato come l'operatore. Scegliemmo di seguire quest'ultimo. Il mio socio era convinto che fosse l'anello debole della banda. Salì su una Ford Fiesta e si diresse verso la tangenziale. «Che intenzioni hai?» chiesi. «Se abita in un posto tranquillo, gli vorrei chiedere di venire a fare un giretto con noi». «Pensi sia il caso? Ormai sappiamo dove trovarli». «Appunto. Ci può fornire gli ultimi dettagli». «Non sono convinto che sia la mossa giusta». «È ora di chiudere la partita». L'utilitaria si fermò davanti al cancello di una vecchia casa di campagna, alle porte di Lodi. Nell'ultimo tratto l'avevamo seguito a fari spenti e il tizio non si rese conto della nostra presenza fino a quando non si trovò la pistola del milanese piantata nel collo. Rossini lo obbligò a salire nella nostra macchina mentre io mi spostavo sul sedile di guida. «Chi siete?» domandò spaventato. Beniamino lo colpì con un pugno allo stomaco. «Zitto, stronzo». Infilai una strada sterrata. Dopo un po' il mio socio mi fece segno di fermarmi. Aprì la portiera e trascinò giù il tizio
afferrandolo per i capelli. Lo costrinse a inginocchiarsi e gli puntò la pistola alla nuca. «Come ti chiami?» domandai guardandomi attorno. Eravamo circondati da sterminati campi di soia. Nessuno ci avrebbe disturbato. «Ugo Giachino» rispose con un filo di voce. «Che mestiere fai?». «Lavoro in una televisione privata». «E a tempo perso giri filmetti sadomaso» lo sfottè Rossini. «Non è vero». Il milanese avvitò il silenziatore alla canna della pistola e gli sparò su un piede. L'uomo gridò e si accartocciò a terra per il dolore. «Ti riduco le gambe un colabrodo se non apri subito quella cazzo di bocca». Fumammo una sigaretta per dargli il tempo di riprendersi. Si lamentava piano tamponandosi la ferita con le mani. «Ho due bambini» piagnucolò. «Non uccidetemi». «Dipende da quello che ci racconterai» mentì il mio socio. «Se è interessante ti facciamo tornare dai tuoi marmocchi». L'idea della banda era venuta a Bruno Chiarenza tre anni prima. Era un master sadomaso da molto tempo, fin dal suo primo viaggio in Giappone dove aveva capito e dato sfogo alle sue inclinazioni sessuali. Dotato di una personalità decisa e carismatica aveva riunito intorno a sé un gruppo di
quattro fedeli adepti accuratamente selezionati all'interno della palestra. Per loro il maestro di karaté era una vera guida spirituale. Dominare donne e trattarle come schiave per il piacere era lo scopo della loro vita. Si chiamavano Graziano D'Introna, Franco Rocchi, Raimondo Fiorato e Michele Narsi. Era stato quest'ultimo a proporgli di entrare nella banda col ruolo di operatore. Si erano conosciuti frequentando i siti sadomaso. Giurò sulla testa dei suoi figli di non aver mai toccato una schiava. A lui interessava solo guardare. Lo eccitava farlo attraverso l'obiettivo della telecamera. E poi c'erano un bel po' di quattrini da guadagnare. Il Maestro di Nodi aveva deciso di entrare nel business dei video porno illegali e c'era bisogno di un professionista. All'inizio avevano iniziato a venderli a un ristretto giro di master. Poi era intervenuto Jay Jacovone che aveva fatto fare il salto di qualità alla banda. L'italoamericano voleva immagini di fist fucking e snuff. In America e in Canada si vendevano bene. Il Maestro lo aveva accontentato. Le donne ricattate non si ribellavano mai. Erano troppo terrorizzate che si venisse a sapere della loro doppia vita. Il contatto con il mafioso era avvenuto tramite Adelmo Pietroniro, un master romano che era finito in galera negli Stati Uniti per un traffico di pornografia. «Forse è quello che abbiamo fatto fuori insieme a Jacovone» intervenne Rossini. «Siete stati voi, allora» esclamò Ugo. «Il Maestro pensava fosse opera della famiglia di Jay». «Perché?».
«Diceva che aveva fatto delle cazzate a Miami e quelli non l'avevano mai perdonato». «Adesso a chi vendete i video?». «A nessuno. Il giro si è fermato». «E allora perché siete a caccia di carne fresca?». «Il Maestro vuole nuove schiave». «Parlaci di Helena». «Sapete un sacco di cose». «Non immagini quante». «È stato il marito a consegnarcela. Chiarenza voleva che la tedesca si trovasse in una situazione psicologica particolare per praticarle il fist fucking…». «Mariano Giraldi sapeva che la moglie sarebbe stata rapita?». «Sì. Il Maestro lo ricattava ma a lui piaceva l'idea che altri dominassero Helena». «E dopo l'avete ucciso insieme a Barbie Slave». «Era deciso fin dall'inizio. La morte accidentale di Helena ha solo affrettato i tempi». «Dov'è il video girato stasera?». «Nella palestra». «Ti è piaciuto?». L'uomo non rispose. «Si sta facendo tardi» intervenne Beniamino. «Hai altro da chiedere a questo stronzo?». «Gli indirizzi dei complici». «Fai in fretta. Siamo qui da un bel po'».
L'uomo li snocciolò uno dietro l'altro. Poi ci fornì una notizia importante: «Il Maestro parte per il Giappone tra una settimana». «Grazie dell'informazione» dissi. «Lasciatemi andare in ospedale». «Aspetta, prima ti canto una canzoncina» annunciò il milanese. «Cosa?» balbettò Giachino. «Solo una strofa, vedrai che ti piacerà». Il re del Portogallo volea ballar la samba Ma a noi che siamo in gamba Ridere ci fa. «Che cazzo significa?» chiese l'operatore. «Davvero non l'hai capito?» domandò Rossini in tono ironico. «No». «Non ha importanza» disse il mio socio prima di tirare il grilletto. Tornammo a Torino e raccogliemmo Max davanti al portone della casa di Donatella Morganti. «Ragazzi, che palle quella donna» sbottò appena salito. «Non faceva altro che chiedermi quando me ne sarei andato». «Cosa ti ha raccontato della sua marchetta?» domandai. «Il tizio si è divertito a legarla e poi l'ha scopata. E voi siete riusciti a seguire il biondo?».
Raccontai a Max quanto era successo dopo che l'avevamo lasciato a Torino. «Siete stati troppo precipitosi» sbuffò. «La morte di questo tale metterà in allarme la banda». Ero d'accordo. L'avevo ripetuto a Beniamino fino alla nausea durante il viaggio. «L'importante adesso è beccare il Maestro di Nodi» ribatté il milanese. «Gli altri li conosciamo e mi occuperò di loro a tempo debito». «Se Chiarenza anticipa la partenza siamo fottuti». «D'altronde questo non potevamo prevederlo» si difese Rossini. «Di' piuttosto che non vedevi l'ora di farne fuori qualcuno» sbottai. Il vecchio gangster mi guardò storto. Lo mandai al diavolo. «Perché non andiamo adesso a fargli una visitina?» propose il ciccione. «Il cadavere non è stato ancora scoperto». «Mi sono disfatto della pistola» spiegò Beniamino. «Non potevo mica andare in giro con un'arma fresca di ammazzamento. E poi per affrontare uno come il Maestro voglio qualcosa di più pesante». «Che vuoi dire?». «Quello è una cintura nera. E io non sono più un ragazzino. Voglio usare un'arma che non mi costringa ad avvicinarmi troppo e lo faccia fuori al primo colpo». «Hai visto troppi film di Bruce Lee» lo canzonò Max.
«Ti ricordi dell'olandese?» mi domandò Rossini. Erano anni che non pensavo a lui. Come a tanti altri conosciuti in galera. Era finito dentro per aver ammazzato la moglie durante una vacanza in Italia. Anche lui era un esperto di arti marziali. Un giorno aveva litigato con un vice brigadiere. Quello era tornato con la squadretta e l'olandese li aveva massacrati di botte. Poi era tornato tranquillamente in cella. Per stanarlo avevano usato i lacrimogeni e gli avevano fatto un Sant'Antonio che l'aveva fatto restare in ospedale per un mese. Il sole era già alto quando arrivammo a Padova. Il milanese ci salutò dandoci appuntamento per il pomeriggio. Giusto il tempo per recuperare "l'attrezzatura" e un po' di sonno. Ma alle sette di sera non si era ancora fatto vedere. Preoccupato telefonai a Sylvie che mi avvertì che gli sbirri l'avevano prelevato non appena giunto a casa. Pare che l'aspettassero dalle cinque del mattino. Rimasi immobile per alcuni minuti. La notizia mi aveva sconvolto. Beniamino era come un fratello e saperlo in mano alla polizia mi fece sprofondare nella disperazione più nera. Strinsi forte nella mano l'accendino che mi aveva regalato. Mi venne da piangere e con gli occhi gonfi di lacrime bussai alla porta di Max. «Hanno arrestato il vecchio Rossini». Anche Max la prese male e fece fatica a riprendersi. «Non è possibile che l'abbiano ricollegato al delitto di ieri notte» disse dopo un lungo silenzio.
Mi accasciai sul divano. «Dammi da bere». «Non è il momento» si incazzò il ciccione. «Dobbiamo parlare con il suo avvocato e capire di cosa lo accusano». «Preferirei non farlo. Non mi fido. Beniamino, dopo che il suo vecchio avvocato è andato in pensione, si è rivolto a uno di questi rampanti della nuova generazione». «Del genere onorevoli avvocaticchi? Politica, difese spregiudicate, pelo sullo stomaco e sempre a testa bassa contro i magistrati "comunisti"?». «Esatto». «Da un vecchio gangster come lui non me lo sarei proprio aspettato». «I penalisti vecchio stampo giocano troppo pulito per vincere le cause e Rossini, con la sua fedina penale, non se lo può permettere». «Allora non ci resta che contattare Bonotto». Lo chiamai e gli diedi appuntamento in un bar del centro. Quando arrivammo era al banco con un bicchiere di negroni in mano. Stava chiacchierando con un paio di persone e fummo costretti ad attendere che si levassero di torno. «Il collega di Venezia mi ha detto che Rossini è stato fermato per una rapina a un furgone portavalori avvenuta ieri notte a Mestre» spiegò. «Gli inquirenti non hanno elementi validi, a parte i precedenti, ma il vostro amico è sprovvisto di alibi e loro ne approfittano per tenerlo dentro».
Il suo alibi ero io. Ma di certo non potevo presentarmi dagli sbirri e dire che ci trovavamo nelle campagne di Lodi a far fuori un tizio di nome Ugo Giachino. «C'è la possibilità di farlo uscire in fretta?» chiese Max. «La fretta è un concetto piuttosto aleatorio nei procedimenti giudiziari» filosofeggiò il penalista. «Secondo il suo difensore la faccenda si dovrebbe risolvere nel migliore dei modi e questa è la cosa più importante quando si ha una fedina penale come quella del vostro amico». Mi sarebbe piaciuto andare a consolare Sylvie, ma tutto l'entourage del vecchio Rossini doveva essere stato messo sotto controllo. E poi non avrei saputo cosa dirle. Lo sconforto mi stava facendo perdere la lucidità. Avevo voglia di bere. Ne avevo bisogno. Ma non era ancora il momento. Il ciccione invece era più reattivo. Seguimmo diversi servizi sulla rapina trasmessi dai telegiornali regionali. Cinque banditi avevano bloccato un furgone con i soldi destinati alle banche del litorale in uno svincolo della tangenziale. Avevano usato la solita tecnica del camion di traverso. Poi avevano sparato raffiche di kalashnikov sul mezzo per convincere le guardie ad aprire le portiere. Il bottino era consistente e gli sbirri avevano promesso una rapida soluzione del caso. «Che facciamo con il Maestro di Nodi?» domandò a un tratto. «Non ne ho la minima idea» risposi infastidito. In quel momento era l'ultima cosa a cui volevo pensare.
«Se aspettiamo la scarcerazione di Beniamino, lo perdiamo per sempre». «Non è detto» ribattei. «Un giorno o l'altro tornerà dal Giappone». Max mi fissò dritto negli occhi. «Pensi davvero che sia così stupido?» gridò. «A quest'ora avrà già saputo dell'omicidio di Giachino e avrà capito che qualcuno lo ha fatto parlare e sa tutto della banda». «Senza Rossini abbiamo le mani legate. Non penserai mica che siamo in grado di affrontarlo noi due?». «Invece ce la possiamo fare». Scoppiai in una risata nervosa. «Il caldo ti ha rincoglionito. Nessuno dei due ha mai preso un'arma in mano». «E allora? Non è poi così difficile tirare un grilletto». «Smettila di dire cazzate, Max. Abbiamo avuto sfiga e dobbiamo passare la mano». Max se ne andò sbattendo la porta. «Fottiti» urlai. L'arresto di Beniamino aveva fatto andare fuori di testa anche lui. La verità era che senza il vecchio gangster non eravamo in grado di affrontare nessuna indagine rognosa. Al massimo qualche tresca coniugale o la ricerca di ragazzini scappati da casa. Per fortuna che al momento giusto avevo investito nel locale. Ma in quel momento l'unica cosa che mi interessava era la sorte del mio amico. Quando Max era finito dentro avevo sofferto molto. Una persona cara che sta dietro le sbarre è come un morto che resuscita quando finisce la
pena. Non avevo nessuna intenzione di ripetere quell'esperienza, e poi sapevo che il vecchio Rossini aveva giurato di non scontare più condanne. L'avevo fatto anch'io. Mai più in galera. A qualsiasi costo. Ricominciai a piangere per la rabbia e solo l'alcol riuscì a calmarmi. La mattina seguente andai da Bonotto e gli chiesi il favore di chiamare nuovamente il suo collega. Lo fece davanti a me e dalle parole del penalista capii che gli sbirri avevano trovato tracce di polvere da sparo sui vestiti di Rossini. «La faccenda si complica» commentò l'avvocato. «Ero con lui l'altra notte. In un luogo molto lontano da quello della rapina» raccontai. «Ha usato un'arma… nel senso che ne ha provato il funzionamento». «Ovviamente» puntualizzò Bonotto in tono neutro. «E quest'arma era di tipo diverso da quello usato dai rapinatori?». «Si trattava di una pistola». «In questo caso si può chiedere un supplemento di indagine per dimostrare che le tracce ritrovate sugli indumenti non sono compatibili con quelle dei bossoli rinvenuti vicini al furgone». «Sarà sufficiente a tirarlo fuori dai guai?». «Sì, se si dimostra anche che si trovava altrove». «Insomma ha bisogno di un alibi». «Talmente buono da reggere un'attenta verifica».
12 Beniamino ci fece arrivare sue notizie dalla cella di isolamento tramite una guardia corrotta del carcere di Venezia. Era certo di uscire in fretta e voleva che organizzassimo una "recita" convincente. Mentre gli sbirri cercavano di spezzare il suo ostinato silenzio, lui pensava all'alibi. Un paio di poliziotti croati che lui pagava profumatamente per evitare problemi quando attraccava in un certo porto della Dalmazia, avrebbero testimoniato che quella notte si trovava con loro, e che al termine di una lunga notte di bisboccia gli avevano fatto sparare qualche colpo con la loro pistola d'ordinanza. Gli inquirenti non avrebbero creduto alla storiella ma sarebbe stato impossibile confutarla. Rossini era troppo furbo per loro. Mi vergognai con me stesso per aver ceduto allo sconforto. Invece di frignare avrei dovuto capire che il cervello del milanese stava organizzando una mossa vincente. Max continuava a tenermi il muso ma avevamo altre cose a cui pensare e stabilimmo una tregua. Uno dei contrabbandieri che lavorava per Rossini salpò per la Croazia. L'avvocato era stato avvertito da Sylvie dell'arrivo di importanti novità utili al suo cliente. Ora si trattava solo di attendere il lento evolversi del procedimento giu-
diziario. Per curiosità andai a cercare informazioni sui veri autori della rapina. In poche ore scoprii che si trattava di una banda di veterani bosniaci con base a Udine. Anche gli sbirri sapevano che i responsabili erano stranieri. La concitazione dell'assalto aveva fatto sfuggire loro qualche parola in lingua madre ma si ostinavano ad accusare Beniamino di essere quanto meno il basista. Nel frattempo avevo continuato a seguire le notizie nella stampa sull'omicidio di Ugo Giachino. Gli articoli lo descrivevano come un marito e un padre esemplare. I colleghi della televisione in cui lavorava avevano organizzato una colletta per sostenere la famiglia. Le indiscrezioni che uscivano dal comando dei carabinieri di Lodi suggerivano l'ipotesi di una rapina di balordi albanesi finita male. In buona sostanza brancolavano nel buio più fitto. Sapevano bene che a Giachino non era stato sottratto nulla. A notte fonda il ciccione bussò alla mia porta. In mano teneva le videocassette sadomaso trovate nel covo romano di Jacovone. «Cosa ne facciamo?». Sbuffai. «Questa è solo una scusa per tornare sull'argomento». «Hai ragione». «Non ho voglia di litigare». «Mancano tre giorni alla partenza del Maestro di Nodi per il Giappone». «Lo so».
«Allora parliamone». Gli feci cenno di accomodarsi. Max pretese di riesaminare la vicenda dall'inizio. Ogni singolo aspetto. Ritenevo che fosse solo tempo perso ma se poteva servire a convincerlo a desistere dai suoi propositi bellicosi ero ben lieto di assecondarlo. Invece dovetti ricredermi. Procedendo nella ricostruzione prese corpo la possibilità di poter riaprire la partita con il Maestro di Nodi. Il problema era che avremmo dovuto coinvolgere due persone che non volevano più avere a che fare con noi e che la soluzione finale era moralmente discutibile. Secondo i nostri criteri, ovviamente. «Beniamino ci toglierà il saluto» commentai. «Però potrebbe funzionare». «Dipende tutto da Guarnero e Donatella». «Lo sbirro è ricattabile e alla battona piacciono i soldi». Per convincere Flavio Guarnero a incontrarci fui costretto a minacciarlo di rivelare tutto a sua moglie. Ci raggiunse in un bar vicino alla questura. «Chi è?» domandò indicando Max. «Lavora con me» tagliai corto. «Ho pochi minuti, devo tornare subito in ufficio». «Abbiamo trovato il Maestro di Nodi» annunciai mostrandogli una fotografia che il ciccione aveva scaricato da internet. La notizia gli fece rizzare le orecchie. Ascoltò con attenzione il resoconto delle nostre scoperte, purgato di alcuni particolari come la fine di Giachino.
«E da me cosa volete ancora?». Il ciccione gli spiegò il piano. Lo sbirro si accarezzò il mento con fare pensoso. Poi bevve d'un fiato la sua bibita. «D'accordo, ci sto» disse infilandosi in tasca la foto di Chiarenza. «Ancora voi!» sbottò esasperata Donatella. Aveva i capelli freschi di parrucchiere e uno smalto diverso sulle unghie. «Siamo venuti a proporti un affare» annunciai con fare ammiccante. «Tanti bei soldini e non devi nemmeno aprire le gambe». «Dov'è la fregatura?». «Perché non ci fai entrare, così chiacchieriamo con calma?». La poltrona bucata dal proiettile esploso da Beniamino era stata sostituita con un'altra in pelle rossa. La donna accavallò le gambe. «Vi ascolto». Toccò ancora al ciccione l'esposizione del piano. La professionista lo interruppe più volte per chiedere spiegazioni. «Quanto avete intenzione di pagarmi?». «Venti milioni». «Ne voglio quaranta». «Sono troppi». «Allora rivolgetevi a qualcun'altra». «Trenta». «Quaranta» ribadì decisa.
«D'accordo». «In anticipo». «Metà subito e l'altra a lavoro finito» dissi porgendole la busta col denaro. La soppesò fissandomi negli occhi. «Avevate già deciso la cifra, eh?». «Abbiamo pensato che ti sarebbe piaciuto mercanteggiare un po'». «Siete proprio due stronzi». Guarnero ci diede appuntamento nel parcheggio di un supermercato vicino a casa. Aveva l'aria affaticata e la maglietta era macchiata di sudore. «Chiarenza parte domani mattina dall'aeroporto di Malpensa» disse passandomi un foglietto con l'ora e il numero del volo. «Ha tentato di anticipare ma non c'è riuscito per mancanza di posti». «Cos'altro hai saputo?». Alzò le spalle. «Ben poco. Ha la fedina penale pulita. Aveva iniziato la carriera militare nei paracadutisti, poi ha lasciato il servizio per dedicarsi al karaté». «Sposato?». «Divorziato. Niente figli». «E gli altri?». «Solo Graziano D'Introna ha precedenti. È stato dentro per violenza carnale. Gli altri sono puliti come gigli. Famiglia, figli, un buon lavoro…».
Non avevamo altro da dirci. Dopo un attimo di silenzio, girò i tacchi e si allontanò. Passammo a prendere Donatella e ci dirigemmo verso Milano. La donna ebbe da ridire sulla mia Skoda. Disse che non aveva mai avuto a che fare con clienti così scalcinati. Non smise un attimo di parlare e pretese di fermarsi a mangiare in un ristorante costoso e alla moda. L'unico modo per farla stare zitta era ripassare il piano. Per la notte, trovammo alloggio in un albergo di Saronno, non lontano dall'aeroporto. Le concedemmo l'unica stanza con l'aria condizionata per evitare altre lamentazioni. Io e Max ci accontentammo di una doppia, calda e puzzolente, al piano terra a fianco alla cucina. Il ciccione prese una mignon di liquore dal piccolo frigorifero. «Chissà il vecchio Rossini come se la sta passando» disse con una punta di tristezza. Accesi una sigaretta. «A quest'ora sarà disteso sulla branda a fissare il soffitto. Come tutti gli altri detenuti». «La notte è il momento peggiore. Ricordo che…». «Smettila, Max» lo interruppi. «Non ho voglia di parlare di galera. Anzi non ho proprio voglia di parlare». «Sei preoccupato per domani?». «Non solo. Anche se tutto va bene, il finale non sarà quello giusto». «Non potevamo fare altro».
Donatella Morganti fece il suo ingresso all'aeroporto vestita come una puttana di lusso in viaggio d'affari. Aveva raccolto i capelli e indossava un elegante tailleur blu. Dalla spalla pendeva una borsa in coccodrillo. La mano sinistra stringeva l'impugnatura di una piccola borsa mentre la destra trainava un piccolo trolley. Si diresse a passo deciso verso la scala mobile, e dopo aver gironzolato tra i negozi si infilò in un bar, ordinando un cappuccino. Io e Max eravamo appostati nei pressi dei banchi della compagnia aerea che doveva portare in Giappone il Maestro di Nodi. Arrivò qualche minuto dopo, in notevole anticipo sull'orario di partenza. Evidentemente non voleva correre il rischio di perdere l'aereo. Reggeva due grandi valigie senza il minimo sforzo. Indossava una polo che metteva in risalto i pettorali massicci e un paio di pantaloni di tela. Si mise in fila per il checkin. Donatella, avvertita da Max, arrivò quasi subito e si piazzò alle sue spalle. Lo abbordò chiedendogli un'informazione. Lui si voltò ed ebbe una reazione di stupore che riuscì subito a dominare. Chiarenza l'aveva riconosciuta. Istintivamente si guardò attorno per capire quanto fosse casuale quell'incontro con la schiava ritratta nel vìdeo girato nell'albergo di Torino. Quello che vide dovette tranquillizzarlo perché iniziò a parlare con la donna in modo molto disinvolto. Sorrideva spesso mettendo in mostra denti bianchi e regolari. Donatella lo ringraziò e si allontanò seguita dal suo sguardo. Secondo il piano, nel corso di quella breve conversazione doveva averlo informato che il suo aereo era in ri-
tardo e che sarebbe stata costretta a ingannare il tempo seduta in un bar. Sola, purtroppo. Il Maestro di Nodi consegnò il bagaglio ed espletò le formalità. Controllò l'orologio. Mancava più di un'ora all'imbarco. Si incamminò nella direzione presa dalla donna. La raggiunse al tavolo e chiese se si poteva sedere, Lei fece un grande sorriso e gli indicò la sedia. Donatella iniziò subito a corteggiarlo con apprezzamenti sul suo fisico. Presi il cellulare e chiamai Flavio Guarnero. Gli fornii il nome del bar e chiusi la comunicazione. Vedemmo il piede della donna che spingeva la borsa che finora aveva tenuto sotto il tavolo verso le gambe dell'uomo. Dopo un paio di minuti si alzò, prese la borsa di coccodrillo e chiese a Chiarenza se gentilmente poteva dare un'occhiata al suo bagaglio mentre lei si recava un attimo alla toilette. Lui rispose con un sorriso che continuò a rimanergli stampato sul volto a lungo. Forse stava pregustando il momento in cui l'avrebbe posseduta e torturata. Osservandolo capii che non era affatto spaventato e dal Giappone sarebbe tornato presto. Forse aveva tentato di anticipare la partenza per precauzione, in attesa di capire chi aveva eliminato Giachino. Lo dissi al ciccione. «Penso che tu abbia ragione» sospirò. «Ormai è troppo tardi». Dopo una decina di minuti iniziò a controllare l'ora, allungando il collo per vedere se stava ritornando. Osservò con curiosità un gruppo di agenti di polizia entrare nel locale.
Quando capì che stavano puntando su di lui, si alzò di scatto ma uno sbirro in borghese che gli era arrivato alle spalle fu lesto a puntargli una pistola alla nuca. Gli misero le manette e lo trascinarono via. Due agenti raccolsero i bagagli. Anche quelli di Donatella. La borsa più piccola conteneva i video delle torture e delle morti di Helena, Mariano Giraldi, Barbie Slave e il fiore di corda trovato nella stanza della tedesca. Un nostro omaggio personale al Maestro.
Epilogo Il vecchio Rossini venne scarcerato la settimana seguente. La guardia di finanza aveva fermato un bosniaco che stava cercando di attraversare il confine con una borsa piena di quattrini. In cambio di un trattamento di favore aveva cantato facendo arrestare l'intera banda di rapinatori. Il milanese arrivò al locale la sera stessa del rilascio. Dopo una serie di abbracci commossi, propose di andare nel mio appartamento per parlare lontano da orecchie indiscrete. Superata la soglia, tirò fuori dalla tasca un ritaglio di giornale. Riportava la notizia dell'arresto del Maestro di Nodi e la scoperta dì un grosso giro di pornografia illegale. Chiarenza aveva fatto i nomi dei complici. Solo uno, Michele Narsi, era sfuggito alla cattura. L'inchiesta prometteva clamorosi sviluppi e i lati più morbosi del caso avevano stuzzicato l'interesse della stampa. «Che cazzo significa?» domandò trattenendo a stento la rabbia. Mi schiarii la voce, cercando il tono giusto. «Tu non c'eri» risposi, «e abbiamo dovuto arrangiarci». Max fece un resoconto dettagliato degli avvenimenti. Rossini ascoltava e scuoteva la testa. «Non ci posso credere»
sbottò alla fine. «Avete chiesto aiuto a uno sbirro e a una puttana per mandare in galera quel pezzo di merda». «Stava per tagliare la corda» ribattei. «Meritava solo di morire». «Non se la passerà bene nemmeno in galera». «A proposito» intervenne Max. «Come te la sei passata in questo periodo?». Beniamino lo fissò come se fosse un pazzo. Poi sbatté la mano sul tavolo. «Qui c'è scritto che il Maestro era convinto che l'omicidio di Giachino non fosse legato alla loro attività» gridò. «Quello stronzo sarebbe tornato e avremmo potuto sistemare la faccenda a modo nostro». «È vero. Lo abbiamo capito troppo tardi» ammisi. «Siamo stati troppo precipitosi. Come lo sei stato tu quando hai steso quel fesso di Giachino. La verità è che, fin dall'inizio, ci siamo mossi in un ambiente che non conoscevamo e in questi casi capita di sbagliare». Il vecchio Rossini si alzò. Notai un nuovo braccialetto d'oro che pendeva dal polso sinistro. Lo scalpo di Ugo, l'operatore. Doveva averlo acquistato appena uscito di prigione. «Torno da Sylvie» disse e uscì senza salutare, chiudendo piano la porta. «Non è affatto di buonumore» commentò il ciccione. «Gli passerà» dissi. «Cerca di non stuzzicarlo troppo sul carcere. Altrimenti si incazzerà sul serio». «D'accordo. Vedrò di tenere a freno la lingua. Torniamo al locale?».
«C'è tempo. E poi ti devo parlare». «E di cosa?». «Ho pensato di proporti di entrare in società. Al cinquanta per cento». Mi guardò sorpreso. «Ti ringrazio, ma non ho soldi sufficienti per…». «Non voglio soldi». «Cosa significa? Mi regali la metà del locale?». «Grattacapi compresi». «Perché, Marco?». «Siamo amici. Tutto qui». «Non posso accettare». «Invece sì. Questo posto frutta bene e anche tu hai bisogno di sistemarti. Nel nostro mestiere non si sa mai quello che può capitare e avere il culo coperto può fare comodo». Max mi fissò. «Non è solo per questo, vero?». Accesi una sigaretta. «No, Max. Voglio che tu possa avere la tranquillità economica per scegliere liberamente cosa fare della tua vita». «A cosa ti riferisci?». «In quell'albergo di Torino hai detto che questa non ti andava bene». «Altre scelte sarebbero inconciliabili con questo mestiere». Alzai le spalle. «Rimarremo amici comunque e poi, se devo essere sincero, ti invidio perché riesci ancora a sognare».
Il ciccione rimase a lungo in silenzio. «Non so cosa dire». «Allora non sprecare il fiato». Mi strinse forte la spalla e tornò al locale. Terminai la sigaretta con calma. Ero soddisfatto. Avevo fatto la cosa giusta. Presi il cellulare e chiamai Virna. «Le parole hanno ancora un senso tra di noi?». «Forse» rispose cauta. La incontrai in un locale del centro. La trovai più bella del solito. Dissi due tre frasi senza importanza, poi bevvi d'un fiato il bicchiere di calvados e iniziai a parlare. Le raccontai chi ero veramente e perché avevo scelto quel lavoro. Perché mi fosse così indispensabile, per dare un senso alla mia vita, rimestare nella merda e giocare a rimpiattino con malavitosi, sbirri e magistrati. Mi aprii come non avevo mai fatto con nessuno. Quando terminai la guardai dritto negli occhi. «Il gran caldo è finito. Finalmente si torna a respirare» disse semplicemente. Sorrise e mi accarezzò con un dito il dorso della mano. Lo faceva sempre quando aveva voglia di fare l'amore.
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