Igor Sibaldi - Libro Delle Epoche
February 1, 2017 | Author: Antonella Mazzariol | Category: N/A
Short Description
Download Igor Sibaldi - Libro Delle Epoche...
Description
Dello stesso autore in libreria LA CREAZIONE DELL’UNIVERSO IL FRUTTO PROIBITO DELLA CONOSCENZA L’ETÀ DELL’ORO IL LIBRO DEL GIOVANE GIOVANNI IL CODICE SEGRETO DEL VANGELO L’ARCA DEI NUOVI MAESTRI IL MONDO INVISIBILE LIBRO DEGLI ANGELI QUANDO HAI PERSO LE ALI LIBRO DELLA PERSONALITÀ
Igor Sibaldi
LIBRO DELLE EPOCHE
F R A S S I N E L L I
L’autore ringrazia Mariarosa Milesi e Francesca Moratti per la paziente e preziosa competenza redazionale.
LIBRO DELLE EPOCHE Proprietà Letteraria Riservata © 2010 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. per Edizioni Frassinelli
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. Ebook ISBN 9788873392095 www.frassinellieditore.it
Promesse
Certo, ogni libro appartiene al tempo in cui lo si è scritto. Ma in epoche di cambiamento, come la nostra, i tempi sono due: quello vecchio, in cui siamo cresciuti, e il nuovo, che cresce dentro di noi. E ciascuno sceglie in quale dei due vivere; o meglio, si accorge di avere già scelto. Chi è nel tempo vecchio, guarda ogni cosa attraverso tenaci illusioni, e le giustifica come può. A chi invece è nel nuovo, tutto non basta più, tutto è una soglia, sulla quale non c’è motivo di restare fermi. Questo libro dà per scontato che i lettori si siano già lasciati alle spalle la soglia. Non ho voluto pensare a chi preferisce il tempo vecchio, a obiezioni del tipo: «e noi, allora?» «un momento! con quale diritto…» Non mi soffermo, per esempio, a dimostrare che la storia sia una branca della psicologia (e non viceversa); o che tra gli scopi della teoria dell’evoluzione vi sia il do it yourself, il potersi evolvere. Sono convinto che tra poco queste e altre premesse delle mie ipotesi saranno diventate evidenti di per sé, a tutti coloro che pensano volentieri. Milano, febbraio 2010
PARTE PRIMA
La Bestia Ovvero: perché non siamo altrove
Guarda chi c’è
Si può Come ognuno di noi sa fin dall’infanzia, gira voce che l’uomo possa fare e avere tutto ciò che veramente vuole. Ed è un’idea millenaria: nel I secolo d.C., in Medio Oriente, era già stata elaborata nei dettagli. Per esercitare questa onnipotenza – così dissero allora – bisogna soltanto chiedere quel che si vuole al Dio creatore: e cioè compiere, in pratica, tre distinte operazioni, di cui soltanto la prima richiede un certo impegno: accorgersi di desiderare una determinata cosa; cominciare a volerla; lasciare che alla sua realizzazione cooperi un Creatore incomprensibile, che è sempre più avanti di ciò che già esiste.1 Desiderare significa sentire la mancanza di qualcosa di preciso. È semplice, e proprio per questo non sempre se ne è capaci: a volte si esita a precisare, ci si confonde, oppure si è troppo abituati a mentire a se stessi (e la menzogna complica sempre tutto). Volere, invece, è facile: a differenza di quel che si crede di solito, il fenomeno del Volere è infatti impersonale, come l’innamorarsi, o l’aver fame, o il formarsi di un pensiero improvviso. Capita, semplicemente. È sufficiente aspettare, e spesso, durante il giorno, comincia il Volere: come un vento che si alza da tutto e in tutto, più grande, più profondo, più importante di tutto e di chiunque. Il verbo «volere» indica soltanto la capacità di accorgersene, e di servirsene: «noi vogliamo» significa insomma che abbiamo alzato una qualche vela, in attesa di quel vento, nella direzione di quel che siamo riusciti a desiderare, perché il Volere
porti tutta la nostra vita in quella direzione. Infine, chiedere a ’Elohiym è addirittura facilissimo: significa non interferire con l’azione di quel vento. Non dubitare, per esempio, che la vela sia nella posizione giusta, non spostarla in continuazione se il vento del Volere tarda un po’. Se una qualsiasi direzione sia giusta o meno, noi in fin dei conti non possiamo saperlo per certo; non conosciamo abbastanza il futuro. Chiedere al Dio-Divenire, è lasciare a lui tutte le questioni di principio e opportunità, e preoccuparsi soltanto che la vela ci sia, e confidare che sia autentica. Se lo è, funzionerà, quale che sia la vela. È una spiegazione bella, ne nacquero religioni; eppure fu poi dimenticata dai più, anche tra i religiosi.* Come se un qualche altro vento l’avesse portata via. Non si può Ciò che ha impedito di considerare questo «metodo della vela» è soprattutto il limite che i più pongono al proprio volere, e che li accomuna agli animali addomesticati. È come se nel pensiero «io voglio…» avvertissero un pericolo, lo spalancarsi di un abisso di possibilità, che dà la vertigine. Per non doverlo vedere, vi costruiscono davanti un muro: il non («io non voglio»); e insensatamente si convincono che il loro io sia tanto più compatto quanto più se ne tiene al di qua. Questo muro delimita il mondo in cui viviamo. Lo si chiama in molti modi: «ragionevolezza», «razionalità», «valori», «doveri», «responsabilità», «tenere i piedi per terra», «necessità», «ordine» e addirittura «realtà» – per moltissime persone essere realistici significa infatti tenersi al di qua del muro. I teologi di due religioni e gli psicanalisti ritengono che in quel muro si esprima un bisogno di punizione: il cosiddetto peccato originale, o senso di colpa ereditario, in base al quale: noi non possiamo fare, conoscere, avere moltissime cose perché non
possiamo volerle; e non possiamo volerle perché non ce le meritiamo; e non ce le meritiamo perché da tempo immemorabile (da Adamo, secondo i teologi; da non si sa quando, secondo la psicanalisi) si ripercuote su di noi uno sbaglio che guasta i nostri rapporti con Dio, o con il divenire, che dir si voglia. Tra la versione teologica e quella psicanalitica preferisco la prima (in quanto la seconda non fa che riassumerla, censurandone alcuni dettagli importanti); e ciò che vi trovo di più interessante è che quello sbaglio fondamentale sia consistito proprio nel non aver chiesto. Dio, essendo eterno, non cambia idea: già nell’Eden doveva dunque valere il «chiedi e ti sarà dato» di cui tanto parlano le Sacre Scritture. Come sarebbero andate le cose, se Adamo l’avesse preso in considerazione? Invece non chiese (e perciò non ottenne) perdono, dopo aver colto un frutto senza permesso; rimase stranamente zitto, mentre Dio si infuriava. Poi se ne andò, Adamo, sempre a labbra ben strette, e sia lui sia i suoi discendenti fino a oggi continuano a non chiedere. Hanno preso quel vizio e se lo tengono stretto. Perché? Si può non potere Collocare nel passato remoto la causa di una condizione presente è sempre una scorrettezza – un po’ come parlar male degli assenti. Ma, anche supponendo che da quello sbaglio originario sia derivata una specie di condanna al confino, l’uomo non ha affatto l’aria di passarsela male; quasi che non fosse lui il detenuto. Rimane a sorvegliare il suo muro, e da lì guarda l’abisso – il che, dopotutto, dà un senso d’immensità. Com’era per Dio, prima della creazione dell’universo: E le tenebre ricoprivano l’abisso e il respiro di ’Elohiym si espandeva sopra le acque.
Genesi 1,2 E forte è il sospetto che l’uomo abbia invidiato a Dio quella vista panoramica, e l’abbia voluta – e ottenuta. Restare davanti all’abisso delle proprie possibilità sentendosi appunto perciò immensi; sapersi liberi di non esercitare la propria libertà: tanto onnipotenti da impedirsi di esserlo! È questo, davvero, lo stato d’animo più diffuso al mondo, e dunque anche il più richiesto. Non mi stupirei, se nella versione che Dio potrebbe dare di quel diverbio nell’Eden, fosse stato Adamo ad andarsene, e non avesse più voluto saperne di tornare. Certo, da allora l’uomo si dà un gran da fare, accumulando angosce, guai e stress d’ogni genere. Il rifiuto dell’onnipotenza non è l’inazione, ma l’iperattività. Fare, far fare e farsi far fare una gran quantità di cose utili, inutili o dannose, nessuna delle quali è davvero voluta dai singoli individui – e che sembrano servire soltanto a rimandare indefinitamente il momento in cui si potrà desiderare e volere qualcosa di preciso. Così l’uomo si accontenta, qui, a casa sua. Chi la pensa diversamente Non molto dopo la rottura dei rapporti diplomatici con l’Eden, tuttavia, si comincia ad avere notizia di alcuni notevoli outsider, a cui quell’onnipotenza autoimpedita andava stretta: tipi che non nutrivano preclusioni verso l’abisso delle possibilità umane, e avevano anzi grande curiosità di sapere come apparisse il muro a vederlo da fuori. L’elenco è lungo: inizia con Noè che salpò, con la sua arca, dal mondo che ai suoi contemporanei bastava; prosegue con Abramo che, infastidito dal conformismo degli urriti, intuì la Terra Promessa e andò a cercarla; e poi Giacobbe, Giuseppe egizio, Mosè e numerosi profeti, e Gesù Cristo e via dicendo. I miti di questi transfughi sono talmente simili tra loro, talmente diffusi e amati, da potersi interpretare come espressione di una componente della psiche umana, che si oppone al «non voler volere». Voglio supporre cioè
che tale componente si trovi in ognuno, così come vi è in ognuno il concetto di io; nondimeno, essa sembra attivarsi soltanto in outsider, cioè in individui che amano dire «io» mentre gli altri rispondono loro dicendo «noi». Se ne deduce che questa nostra componente psichica consista in un impulso a essere se stessi, invece di essere gli altri. E a chi segua tale impulso capita, nella stragrande maggioranza dei casi, di apparire irragionevole, irrazionale, irresponsabile, irregolare, irrealistico, irrilevante per la collettività. I «noi» tendono insomma a ritenere che quegli io inseguano finzioni. E filologicamente è proprio così. Fingere, in latino, significava «plasmare». Ed è sufficiente che quegli io plasmino un’idea nell’abisso – per esempio: «Terra Promessa» – e quell’idea finta comincia a diventare una realtà da scoprire nell’abisso, facendolo apparire molto meno abissale, almeno per loro. Biglietti da visita Ma anche i «noi» fingono in continuazione. Solo, amano fingere non qualcosa che ancora non c’è, ma se stessi, così come già sono: preferiscono dedicarsi a plasmare quotidianamente le vite delle persone che appartengono ai «noi», in modo da farle corrispondere ai ruoli che entro i «noi» devono rivestire. Vi sono «noi» piccoli e grandi: coppie, famiglie, aziende, classi sociali, partiti, popoli, Stati, religioni, razze. Che siano anch’essi finzioni, è evidente soprattutto perché l’individuo, per poterne far parte, deve per forza imparare le regole di quei «noi», farsi spiegare e ricordarsi bene in che cosa consistano: il che non sarebbe necessario se i «noi» fossero elementi innati nell’uomo. Un bambino non ha bisogno di farsi spiegare che cosa vogliano dire le parole «io», «amore», «curiosità», «conoscenza»; ma ha bisogno di un lungo, faticoso e innaturale apprendimento per usare correttamente i concetti di «famiglia», «popolo», «Stato», «religione». Per di più, in ciascuna cultura la «famiglia», il «popolo», lo «Stato», la
«religione» sono plasmati – finti, cioè – in maniera diversa, mentre la realtà dell’io, dell’amore, della curiosità, della conoscenza sono ovunque uguali. Certo, ad alcune persone non sembra di fingersi coniugi, genitori, figli, ricchi, poveri, capi, sottoposti eccetera. Per quanto onestamente guardino dentro di sé, non trovano nulla che contrasti con i doveri in cui i loro ruoli li hanno incastrati. Si identificano con quei ruoli; li sono. Ma riescono a esserli solo a condizione di dipendere moltissimo dai loro simili: dal rispetto, dalla gratitudine, dal senso di protezione e di complicità che i loro simili possono nutrire nei loro riguardi. Quando dicono – agli altri e soprattutto a se stessi – «io sono un genitore», «io sono un ingegnere» o «io sono un cattolico», non sopporterebbero che qualcuno rispondesse: «E con ciò?» e scoppiasse a ridere per il loro modo di calcare sul «sono». Si potrebbe spiegare loro il motivo per cui suona buffo: perché nel loro dire «io sono la tal cosa» vi è un perenne guardarsi attorno in cerca di un consenso che faccia sembrare questa frase sensata e vera, e perché tale consenso può provenire soltanto da chi sta fingendo come fingono loro, e soltanto entro le condizioni create dalla finzione generale. Ma il signor io-sono-la-tal-cosa, cioè l’appartenente al «noi», non senza turbamento replicherebbe che in ogni caso non è questo il punto. I regni dei Qualcosa Il punto è (sfido qualunque appartenente a un «noi» a darmi una spiegazione più coerente, tratta dalla sua esperienza personale) che a un certo momento, non si sa bene quando, forse già nell’Eden, forse poi, qualcosa ha preso il sopravvento e ha deciso che chiunque gli capitasse a tiro dovesse smettere il più possibile di essere se stesso, per identificarsi con uno qualsiasi dei ruoli che quel qualcosa andava meticolosamente definendo. Questo qualcosa non era Dio e non era un essere umano. Non era nemmeno una somma di essere umani, dato che non si possono sommare
elementi diversi tra loro, e ogni essere umano è notoriamente diverso dagli altri. Né può essersi trattato di un istinto, perché nessun istinto è meticoloso a tal punto. Era, è un Qualcosa (metto la Q maiuscola, a riconoscimento del suo enorme potere) dotato di una qualche razionalità, e ben deciso a raggiungere obiettivi propri, che contrastano con quelli di chiunque altro. Ha occupato ampi territori, e lì regna. Il suo regno non arriva tuttavia dappertutto: a un certo punto si incontra un suo confine, oltre il quale quel Qualcosa non agisce più – ma è solo perché là domina un altro Qualcosa, che gli è sostanzialmente simile ma ha obiettivi diversi. Così, per esempio, il Qualcosa che regna in Europa confina a sud con uno dei Qualcosa che regnano in Nord Africa, e a sudest con uno dei Qualcosa che regnano in Asia. E poiché l’intera superficie del pianeta è tenuta in pugno da questi Qualcosa, ciascuno con la sua sfera d’azione ben demarcata, la questione non è affatto se valga la pena o no, o se sia più o meno buffo appartenere a uno di essi, ma piuttosto se un Qualcosa a cui una persona appartiene sia molto peggiore di altri. E poiché non lo è mai, tanto vale restare lì – o almeno così pensano coloro che vi appartengono. Il passivo di «essere» D’altra parte, è improprio affermare che questi Qualcosa siano. Il fatto che si smetta di appartenere a un Qualcosa quanto più si è se stessi, mostra che queste potenze non hanno accesso diretto al verbo «essere». Non sono di per sé – a differenza di un individuo, di una pietra, di un libro o anche di un’idea. Si manifestano, esistono, agiscono soltanto attraverso l’essere degli uomini, appunto attraverso il loro «io sono», riuscendo a mettere se stessi al posto di quell’«io». Così, in realtà, è il Qualcosa a dire «io sono un genitore», «io sono un ingegnere», «io sono un cattolico» in chiunque pronunci queste frasi, il cui autentico significato sarebbe bensì: «io vengo fatto essere dal Qualcosa che, nella parte di mondo dove abito, determina il senso della famiglia, delle professioni,
della religione». Quei Qualcosa sono, insomma, vampiri. Suggono agli io l’energia dell’essere, da cui tutto dipende, come i vampiri delle leggende popolari suggono il sangue ai viventi. Si tratta di un crimine di prim’ordine, e buona parte di questo libro spiega come i Qualcosa riescano, nondimeno, a farla franca. L’altro Sé Questi Qualcosa riescono a impadronirsi del nostro essere, perché subentrano anche a quel che vi è di più profondo e di più grande in ognuno di noi. Quando ognuno di noi dice «io», intende due elementi ben distinti, uno dei quali ci è in gran parte noto, e l’altro no. Il primo è ciò che ognuno di noi chiama «io»; l’altro è ciò che in ciascuno di noi lo chiama così, e che dovrebbe farlo essere, farlo esistere, farlo agire nel miglior modo possibile. Secondo alcune religioni, quest’altro elemento di noi stessi è «l’anima». Secondo altre, è «lo spirito». Altre ancora la chiamano «anima» in un senso che a molti occidentali è ignoto, e che riguarda le vite precedenti: il nostro «io» noto verrebbe cioè fatto essere e agire in un determinato modo da una nostra superiore identità che in passato ha fatto essere e agire altri «io», ed è sopravvissuta alla loro fine. Per alcuni psicologi, Jung in particolar modo, l’«io» noto viene fatto essere e agire da una specie di X, che in gergo professionale si chiama: «il Sé». Secondo me, l’«io» noto è fatto essere e agire da un’energia generata dalla connessione dell’«io» con quello che io chiamo Aldilà, e che consiste di numerose dimensioni psichiche volutamente ignorate dalla scienza, le più alte delle quali sono atemporali e aspaziali e possono perciò dirsi infinite. Ciò che accomuna tutte queste concezioni è l’idea che, per andare alla scoperta di quel nostro elemento più grande, sia indispensabile, e anche
molto emozionante, lasciarsi indietro ciò che l’individuo conosce già di sé e del mondo, giungere a un confine interiore sul quale si è davvero soli, e oltrepassarlo, verso un’interiorità via via più profonda: là abiterebbe il soggetto superiore che attraverso il nostro «io» cerca di manifestarsi. Ma tutto ciò non vale, quando si ha a che fare con chi appartiene a uno di quei Qualcosa. In persone del genere, il soggetto superiore del loro «io» noto non è affatto dentro di loro, bensì fuori: ed è appunto quel Qualcosa che si esprime nei «noi» a cui quelle persone sono legate, e che li tiene insieme e dà loro senso. Quel Qualcosa è ciò che determina l’esistenza, i pensieri, i sentimenti, le occasioni, il senso delle vicende di coloro che gli appartengono. Li fa essere, li fa agire, li fa esistere, e soprattutto vuole attraverso di loro, facendo in modo che non siano, non facciano, non vogliano, non rappresentino nulla all’infuori di ciò che lui vuole. In tal modo, per lui e non per loro vale il «chiedi e ti sarà dato». La loro vita è sua. Il fatto che sulla carta d’identità compaia la loro fotografia, non conta più di tanto: lui, il Qualcosa, il Soggetto Collettivo è il padrone del documento che la incornicia e di tutto ciò che, tutt’intorno, dà al documento un valore. Come? E perché? 1. I moderni pensano che sia il passato a creare ogni cosa. Secondo molti
antichi, invece, il passato plasma soltanto modi di pensare, mentre tutta la realtà viene creata giorno per giorno dal futuro. Così, nelle lingue moderne la traduzione del primo versetto della Genesi è: «In principio Dio creò il cielo e la terra», e deve significare che il mondo esiste perché qualcuno l’ha creato in epoca remotissima. In ebraico antico quel versetto diceva: «Il principio è che cielo e terra vengono creati da ’Elohiym», ed ’Elohiym significava, letteralmente «La potenza di quel che è più in là» – più in là del visibile, più in là del presente. Insomma, il Divenire. Colgo l’occasione per avvertire che, in questo libro, le citazioni bibliche sono tratte dai testi originali, ebraici e greci, e non dalle traduzioni oggi in uso nelle varie
religioni. * Gli asterischi nel testo rimandano all’Appendice «Annotazioni per persone superstiziose», pag. 235
Due o più braccia
Il patto con Dio Quando io respiro, è il respirare; quando parlo, è il parlare; quando vedo, è il vedere; quando ascolto, è l’udito; quando penso, è la mente. Tutti questi non sono che nomi dei suoi atti. Ciò che la Brihadaranyaka Upanishad (VIII secolo a.C.) diceva di Brahma, e che somiglia molto alla descrizione che Gesù dà del suo «Dio Padre»,2 può purtroppo essere detto anche del Soggetto Collettivo, da parte di chiunque gli appartenga: il Soggetto Collettivo, infatti, non prende soltanto il posto dell’«io», e dell’«anima», del «Sé» dell’uomo, ma arriva anche più in alto. ’Elohiym si era molto raccomandato in proposito: Io sono il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi. Tu non avrai altro Dio all’infuori di me.
Esodo 20,2-3 Ma è il più inascoltato dei suoi comandamenti. Lo si intende di solito come il divieto di credere nell’esistenza di altri Dei; ma se così fosse, si tratterebbe di una gaffe divina. Se infatti quegli Dei non esistessero, Dio non avrebbe motivo di esserne geloso. Ciò da cui il primo comandamento mette in guardia, è la possibilità di estendere attributi divini a un qualcosa che non è un Dio liberatore. Come a dire: «Fa’ esistere solo Dio come Dio; e Dio è ciò che libera il tuo io da case di schiavi. Non sbagliarti!» Chi sbaglia qui, incorre infatti in un grave pericolo esistenziale. È certamente saggio voler dipendere da un Dio della libertà, che noi
facciamo esistere del tutto consapevolmente (nel quale, cioè, possiamo decidere di giorno in giorno se credere o no) e che è il Divenire, e che è in continua evoluzione (Dio ha figli, come spiega Gesù: cioè ha futuro), e che quindi anche in futuro libererà da eventuali altre «case di schiavi». Lasciare, invece, che qualcosa che non è Dio diventi un Dio è come mettere in tavola, al posto del cibo, qualcosa che non nutre affatto, o che addirittura avvelena, e continuare a chiamarlo cibo; o al posto dell’aria lo smog, e continuare a respirarlo come se andasse bene così. L’organismo umano (noi occidentali ne sappiamo qualcosa) può abituarsi al cibo-non cibo e all’aria-non aria, grazie al potente influsso che la mente esercita sul corpo; e a forza di nutrirsi di non-cibo e di respirare non-aria, anche l’organismo umano può diventare un non-organismo umano, i cui sensi percepiscano non più il mondo reale, ma un para-mondo, distorto in modo da far apparire sopportabile, e addirittura normale, e inevitabile, e utile l’avvelenamento. Ed è più o meno quel che avviene a quanti scelgono di dipendere da un Soggetto Collettivo, lasciando che sia lui a svolgere compiti divini: cioè a creare la loro realtà, stabilendo i significati di ogni cosa, gli orizzonti della conoscenza, i valori – insomma, tutto ciò per cui, in cui e di cui l’uomo vive. Dentro il vampiro Dipendere in tal modo da un vampiro significa aumentarne enormemente sia l’importanza sia la voracità. Lasciargli creare il mondo, i significati, i valori, vuol dire trasfondergli enormi quantità di quell’energia vitale che traiamo dai nostri rapporti con ciò che invece è reale – dai nostri rapporti con le persone e con le cose che amiamo, o con quelle che detestiamo, o con noi stessi. In cambio, il Soggetto Collettivo non fa che stabilire ruoli, tra i suoi nutritori, e priorità, nel suo nutrimento: ruoli e priorità che assumono la forma di un sistema sociale e culturale. La misura in cui gli individui contribuiscono a tale nutrimento è data dalla quantità di tempo e di forze che dedicano quotidianamente ad attività
necessarie a quel Soggetto Collettivo, e non necessarie a loro stessi, cioè: dal numero di ore quotidianamente riservate al culto del Soggetto Collettivo: per esempio, alla lettura dei giornali; o all’acquisto di abiti, oggetti o servizi che comprovino l’adesione anche esteriore ai dettami del Soggetto Collettivo; dall’intensità dei sentimenti coltivati nei riguardi di ciò che per il Soggetto Collettivo è importante (per esempio la situazione politica); dall’impegno con cui presenziano alle funzioni officiate dai vari «noi» di cui il Soggetto Collettivo consiste (pranzi con i parenti, partite di calcio, rituali religiosi eccetera). Il rischio che ciascun individuo corre, nel nutrire così il Soggetto Collettivo, è di non riuscire ad accumulare in se stesso energia sufficiente a essere un io, in qualche modo diverso dalla colossale struttura di «noi» di cui il Soggetto Collettivo si compone. Quando questa accumulazione di energia personale cala oltre un certo limite, l’individuo sparisce nello stomaco del vampiro. Perde cioè ogni traccia di autentico io, nella coscienza che ha di sé: non pensa più nulla che non consista d’un sentito dire, non desidera più nulla che non si sia visto desiderare da altri, ogni suo impulso o sentimento personale viene rapidamente frenato, censurato e incanalato in percorsi che corrispondano a quello che i «noi» sono disposti ad approvare. Vivere in questo modo costa grande fatica, ma si comincia presto ad abituarcisi, fin dalle elementari; ed essendo una dipendenza, chi l’ha sviluppata si sentirebbe perduto al solo pensiero di perderla. Il suo ruolo nella società e nella famiglia, il senso del suo stipendio, le sue opinioni, le sue credenze, i suoi valori svanirebbero; tutte le abilità che ha sviluppato fin da bambino per riuscire (nel migliore dei casi) a rallentare il proprio azzeramento esistenziale si rivelerebbero inutili. Tutti i suoi rapporti umani cambierebbero di significato: al coniuge, ai figli, ai genitori, ai colleghi, agli amici perplessi o indignati dal suo cambiamento dovrebbe dare una quantità di spiegazioni, per di più su una situazione alla quale è del tutto impreparato, cioè l’aver cominciato a sentire il proprio io crescere, invece
di diminuire, giorno dopo giorno. Sarebbe terribile. Il che ci fa apparire comprensibile il fatto che i Soggetti Collettivi siano sempre stati tanto robusti e longevi, nella storia dell’umanità. Illusioni Ho conservato il ricordo di quando il Soggetto Collettivo cominciò a divorarmi la vita. Avevo circa sedici anni, e fu dunque un po’ più tardi del consueto. Devo questo ritardo (che solo in sèguito ho cominciato a considerare una fortuna) al fatto che metà della mia famiglia fosse russa. Non avevo perciò un solo accesso al Soggetto Collettivo, ma due: due parentadi, due posti che chiamavo «casa», molto lontani l’uno dall’altro (due giorni e mezzo di treno da Milano a Mosca), e due lingue, cioè due nomi per ogni cosa, dato che con mio padre parlavo italiano e con mia madre russo. In entrambe le mie patrie mi veniva chiesto spesso se mi sentissi più russo o più italiano, ma non mi ponevo seriamente il problema della mia nazionalità. Erano i tempi della Cortina di Ferro, e a maggior ragione rispondevo a seconda della suscettibilità dei miei interlocutori e del mio bisogno di complimenti: a uno zio moscovita, fervente comunista, dichiaravo di sentirmi sicuramente più russkij, mentre alle anziane signore milanesi rispondevo: «Italiano», con una specie di I maiuscola, per il piacere di vederle annuire. Sarebbe stato troppo complicato spiegare che in realtà non mi sentivo né l’una né l’altra cosa, e che mi pareva giusto così. Per esempio, verso i sei-sette anni, mi piaceva guardare gli adulti sottraendo mentalmente tutto ciò che in loro era italiano, o russo, a seconda dei casi, e decidendo poi di volta in volta se fare più caso a quel che avevo sottratto o a quel che restava dopo la sottrazione; ma qualcosa mi diceva che era meglio tenere per me i risultati di quelle operazioni: avevo notato che agli adulti dava molto fastidio che facessi domande su certe loro cattive abitudini (per esempio: «Perché fai rumore mangiando la minestra?») e mi pareva che ci sarebbero rimasti male proprio allo stesso modo se a un adulto russo avessi chiesto il perché di quel che aveva di
russo, o a un adulto italiano il perché di quel che aveva di italiano. «Cose da adulti», pensavo. Con i miei coetanei era molto diverso. Guardando un bambino c’era pochissimo da sottrarre, e nulla di italiano (dalla Tv dei ragazzi, ai fumetti, all’oratorio) e nulla di russo (dal fazzoletto rosso dei pionèry alla mazza da hockey) di cui non si potesse fare a meno in qualsiasi momento. E con i coetanei, sì, c’era ovunque un forte senso di appartenenza: come se l’infanzia fosse stata la mia specie, ben distinta da quelle degli adulti. Allora non conoscevo, naturalmente, la parola «specie», ma avrebbe fatto al caso se me l’avessero spiegata: mai, infatti, mi sarebbe passato per la mente che quei bambini, crescendo, potessero sovraccaricarsi di tanti tratti sottraibili, come era accaduto ai loro genitori – per la stessa ragione per cui un cucciolo di gatto non può diventare un coniglio da adulto. Invece la situazione peggiorò in fretta. A quattordici anni il problema non era già più la sottrazione, ma l’addizione. Parlare, nei primi anni Settanta, sia in Italia sia in Russia significava aggiungere a qualche isolato pensiero personale una serie di concetti obbligati (politici soprattutto), in modo che dei pensieri personali rimanesse visibile un minimo lembo, nella speranza che qualcuno se ne accorgesse e volesse saperne qualcosa di più. In queste addizioni non ero bravo, mi sentivo solo e diverso, ovunque fuori tempo – e con un’invincibile tendenza a parlare quasi sottovoce. Poi, alla politica si aggiunsero altre vere e proprie ondate di concetti obbligati, luoghi comuni e frasi fatte – tra le quali i pensieri personali somigliavano sempre più agli ultimi naufraghi del Titanic, in attesa dei soccorsi, nell’acqua gelida. Fu allora che, per un bel po’, mi arresi, diventando adulto anch’io, sia in Italia sia in Russia. Fu facile: semplicemente due volte facile invece che una. In tutti e due i Paesi cominciai a dire a voce alta cose che a tutti apparivano opportune, solo perché non parlavo di me. Fshh Sono sicuro che l’avrei descritto allo stesso modo se fossi vissuto
duecento o trecento anni fa. In ogni generazione il Soggetto Collettivo comincia presto a disturbare le comunicazioni personali tra gli individui, e prosegue poi sempre più, fino a impedirle quasi del tutto, senza che però vada perduta la capacità degli individui di parlare: semplicemente, essi si dicono l’un l’altro qualcosa che non è prodotto da nessuno in particolare – da nessun io – ma solo dai vari «noi» di cui il Soggetto Collettivo consiste. La lingua dei «noi» è tanto lontana dalla comunicazione autentica, quanto i monologhi di Adenoid Hynkel nel film di Chaplin Il grande dittatore lo sono dalle battute degli altri personaggi. Hynkel parla lì in grammelot, cioè in un linguaggio di suoni e rumori indistinti, che tuttavia i suoi seguaci sembrano comprendere. In realtà, l’hynkeliano è soltanto una variante cinematografica della lingua più diffusa al mondo, che in questo libro chiameremo rumorese, e che purtroppo non viene mai avvertita come comica. È facile da apprendere: occorre soltanto fingere che i suoi fshh crr bzz significhino qualcosa. E la finzione riesce tanto più perfetta quanto più si arriva a pensare in rumorese, cioè a strutturare una serie di sequenze di bzz fshh crr come se fossero ragionamenti – cosa anche questa facilissima. Sia l’una sia l’altra abilità si acquisiscono e diventano automatiche durante la pubertà, e sembrano essere condizioni indispensabili all’esistenza sociale. Chi tarda ad acquisirle e ad automatizzarle, non viene ascoltato volentieri: il suo parlare risulta strano, e suscita diffidenza, proprio perché non vi compaiono le consuete sequenze di bzz fshh crr; e quel che dice risulta inevitabilmente «troppo complicato», perché adoperando soltanto parole sensate costringe i suoi ascoltatori a uno sforzo d’attenzione e di riflessione a cui non sono abituati. L’adolescente che non parla e non pensa per sequenze di bzz fshh crr ha inoltre, sempre più spesso, la sensazione di non capire se stesso: perché, che lui lo voglia o no, una parte della sua mente ha cominciato a utilizzare – come per osmosi – il rumorese che sente parlare ovunque, e non riesce più a intendersi con l’altra parte della sua mente. Resistere è impossibile. Cedere è un sollievo.
Esempi di rumorese Riporto qui alcuni brani di un quotidiano, di cui taccio nome, nazionalità e data. Le parole in corsivo sono in rumorese: è cioè molto difficile spiegare chiaramente che cosa significhino, e spesso non hanno alcun senso; ma se si finge di averle capite (e ciò è facilissimo) si ha la sensazione di appartenere ai «noi» in cui quelle parole sono di uso corrente. Rumorese teologico: «Amiamo la Chiesa come nostra vera madre! Amiamola e serviamola con un amore fedele, che si traduca in gesti concreti all’interno delle nostre comunità, non cedendo alla tentazione dell’individualismo…» Un papa (Qui, il «noi» è naturalmente la religione cattolica. Ma quanti lettori sanno cosa sia realmente la «Chiesa»? E «vera madre» nel senso che ci sono anche madri false? Esistono amori infedeli? I «gesti concreti» vanno compiuti soltanto «all’interno delle nostre comunità»? E che cos’è, in pratica, la «tentazione dell’individualismo»?) Rumorese politico: «Siamo pronti al confronto, ma per una giustizia dalla parte del cittadino, riforme che non modifichino i processi in corso. Il problema è: l’interlocutore…» Un esponente dell’opposizione (Qui il «noi» di cui il lettore del giornale può sentirsi parte è l’insieme formato da un partito e dai suoi simpatizzanti. Ma «confronto», «processi in corso» e «problema» sono termini troppo ambigui. E la «giustizia dalla parte del cittadino» fa pensare che la giustizia possa essere dalla parte di qualcuno, il che è una contraddizione in termini.)
Rumorese di cronaca: «Gli spostamenti costano caro agli abitanti della Capitale, che perdono in media 10,8 giorni di vita – 260 ore per la precisione – intrappolati nelle proprie auto a una velocità media di 30 chilometri orari…» Un cronista (Qui il «noi» in questione è il vasto insieme dei cittadini già iniziati alla guida, o aspiranti tali. Ma la parola «spostamenti» è vaga. «Intrappolati nelle proprie auto a una velocità media di…» fa pensare a persone intrappolate velocemente nelle auto. E l’opinione che in auto si perdano ore di vita è tutta da dimostrare: lo spreco di energia vitale avviene soltanto quando si è alla guida? In auto si pensa, quando si è da soli, e si conversa quando si è compagnia: è un perdere ore di vita?) Rumorese scientifico: «Più che un fattore decisivo nell’origine della vita – come K. ribadisce nel solo cedimento metafisico del suo libro – il rumore in tutte le sue gradazioni (compreso quello sottilissimo delle nostre connessioni sinaptiche, cioè del nostro pensiero) è uno degli attributi con cui noi diamo un senso alla nostra presenza nell’universo…» Un esperto (Qui il «noi» è formato dalla cosiddetta comunità scientifica e da coloro che se ne interessano. Ma tra le espressioni qui segnate in corsivo non ve n’è una che non susciti una serie di «che cos’è?» e di «perché?» in chiunque sia in grado di pensare. Che cos’è un «fattore nell’origine»? Chi sa qualcosa di preciso sull’«origine della vita»? Cos’è un «cedimento metafisico»: una metafisica che cede? Il «nostro pensiero» e le nostre «connessioni sinaptiche» sono davvero la stessa cosa? eccetera.) Dell’autorevolezza
Chi impara un’altra lingua è come se avesse un cuore in più, diceva Ennio, un poeta latino. In qualche modo, ciò vale anche per il miserabile idioma del Soggetto Collettivo: solo che il cuore supplementare prodotto dal rumorese si oppone a quello di cui siamo naturalmente dotati, e lo mette a tacere. In rumorese è infatti impossibile desiderare davvero, stabilire cioè di che cosa sentiamo la mancanza, dato che nessun fshh, bzz o crr indica mai qualcosa di preciso; invece qualunque cosa il nostro cuore originario riuscisse a descrivere con parole sue, risulterà incomprensibile al cuore rumorese. Ne viene una scissione: nel cuore nuovo l’algoritmo desiderarevolere-chiedere a Dio-Divenire si inceppa, lasciando il posto a un vago e perenne senso di insoddisfazione; nell’altro cuore, il desiderare, il volere, il chiedere potrebbero agire, sì, ma si è costretti a fare i conti con quella insoddisfazione, che frena, scoraggia, avvelena. In più, il rumorese sviluppa in noi anche un altro cervello, una diversa percezione. Modifica la nostra attenzione (vista, udito, olfatto, tatto, odorato, intuito, telepatia, immaginazione e memoria) in modo da concentrarla soltanto sulle cose che fanno sembrare il rumorese stesso una lingua utile: cioè, innanzitutto, sul tono e sull’espressione che le persone assumono parlando, e sui particolari rapporti di forza che si creano nel corso della conversazione. Poniamo, per esempio, che tre individui stiano discutendo, in rumorese, di un presidente del Consiglio: la loro conversazione procederebbe più o meno così: «Bzz fshh crr un uomo shh crrrr. Non shh crr bzz crr ffffsh, secondo me», direbbe uno. «Ma shh fssh shh crr bzz sh?» domanderebbe il secondo. «Sembra che shhh crr bzz. Fshh cr bzz bz cr», interverrebbe il terzo. «Crrr!» insisterebbe il primo. «Shh fff cr cr cr bz. Altro che chiacchiere.» «Mah… eppure cr fshh br cr br.» E così via. Una quarta persona, poniamo un adolescente, che seguisse attentamente questa conversazione con il cervello prodotto dall’uso del rumorese, capirebbe (nell’accezione autentica del verbo «capire») soltanto che uno
dei tre è più autorevole e che gli altri due gli daranno presto ragione, o si irriteranno inutilmente. Quell’adolescente memorizzerà quindi, in modo più o meno consapevole, certe sequenze di rumori usate dal primo interlocutore in merito al presidente del Consiglio (in particolare: «un uomo shh crrrr» e «shh fff cr cr cr bz») e le ripeterà alla prima occasione per fare anche lui bella figura, parlando di politica. È quel che accade a tutti, migliaia di volte l’anno, sentendo parlare in rumorese di ogni genere di argomenti. Democraticità del Soggetto Collettivo Ma l’efficacia di quelle sequenze di rumori memorizzate e ripetute con successo non dipende dal loro contenuto (dato che non hanno senso compiuto) bensì da qualcos’altro, di cui chi le usa non si rende ben conto: e cioè dalla loro somiglianza (di tono, ritmo, lunghezza) con altre sequenze di rumori, più o meno insensate anch’esse, che nei mesi o negli anni precedenti gli si sono impresse nella mente con particolare vigore, perché provenivano da persone ritenute autorevoli dalla maggioranza. E tale maggioranza non può che essere costituita dalle persone che si sono adattate al Soggetto Collettivo, che se ne sono lasciate plasmare, e che solo in tal modo hanno potuto continuare ad appartenergli. Oggi, i principali diffusori delle sequenze di rumori autorevoli sono naturalmente le televisioni del Soggetto Collettivo. Prima era la radio del Soggetto Collettivo. Prima ancora i giornali che del Soggetto Collettivo parlavano e attraverso i quali il Soggetto Collettivo parlava. E prima che si stampassero giornali, la dinamica dell’autorevolezza era più scoperta: i diffusori erano semplicemente le persone vicine ai centri di potere politico o religioso, vicine cioè ai più influenti «noi» del Soggetto Collettivo. E sia questi centri di potere, sia i giornali, e la radio, e la televisione hanno potuto e possono prosperare soltanto grazie alla loro rispondenza alla società e al mondo così come il Soggetto Collettivo li ha plasmati. Dunque l’autorevolezza risale sempre e comunque a quest’ultimo: è lui a esprimersi, in quel che più conta nei discorsi in rumorese. E chi non parla
con lui e come lui, è e sa di essere un emarginato, uno che, forse, in qualche parte della sua coscienza potrebbe ancora percepire e pensare senza la barriera dei bzz fshh crr, ma non saprebbe cosa farsene di quelle sue percezioni e di quei suoi pensieri, dato che non può condividerli con la maggioranza della gente. Ciò fa del rumorese una lingua estremamente pratica. Più la si adopera, sia con gli altri sia tra sé e sé, e più si è certi di partecipare alla collettività, di ballare allo stesso ritmo degli altri, in una sorta di facile sardana, a cerchi concentrici, isolati tutti quanti dalla realtà circostante, che il non-lessico del rumorese non permette neppure di nominare. Avere milioni di braccia Temo tuttavia che la metafora della sardana sia troppo festosa. In realtà, il Soggetto Collettivo non è tanto un ballo quanto piuttosto un lavoro. La ragione per cui le persone pratiche cominciano a prendervi parte e poi ad appartenergli senz’altro, non sta nella sua bellezza, ma nella ruvida consapevolezza che là dentro si abbia più potere di quanto se ne avrebbe per proprio conto. Un qualsiasi «noi» – una famiglia, una ditta, un esercito, una Chiesa, uno Stato o una gang di spacciatori – è in grado di fare più di quanto un io possa fare da solo. Vi è, d’altra parte, un grave inconveniente. In chiunque cominci ad appartenere al Soggetto Collettivo – attraverso uno qualsiasi dei suoi «noi» – si verifica una sorta di sfasamento psicomotorio, paragonabile a quel che avverrebbe a chi, invece di dover usare soltanto le sue due braccia, si trovasse ad averne molti milioni, senza che nel suo sistema nervoso fosse cambiato nulla. Le braccia che può muovere rimangono, di fatto, sempre e soltanto due. Ma anche le altre braccia si stanno muovendo, e fanno una quantità di cose: e sono anch’esse sue! Ne consegue che quei milioni di braccia ulteriori danno, al nuovo arrivato, non tanto maggiori possibilità, ma solo la misura della sua incapacità di controllare la situazione in cui si è venuto
a trovare. Anche se arrivasse a essere il capo di una multinazionale, il dittatore di un vasto Stato, il capo spirituale di una delle religioni più diffuse al mondo, costui potrebbe usare due braccia soltanto, e non potrebbe fare, con le sue due braccia, qualcosa che contrasti con quel che fanno quei milioni di altre braccia. Dovrà adeguarsi, coordinarsi a loro, limitando le proprie reazioni e i propri schemi decisionali. E così fa ciascuno, dato che moltissimi altri lo stanno facendo, tutt’attorno a lui. I più lo fanno per tutta la vita, senza interruzione. Proviamo ora a vedere che cosa muove quei milioni di braccia. Dicevamo, in precedenza, che il Soggetto Collettivo non è di per sé: non può dunque definirsi un essere vivente, benché sia sicuramente vivissimo in ogni sua parte. Ma per comodità di esposizione ne parleremo come se fosse perlomeno un essere personale – così come a volte si parla dell’«orientamento di un governo» (che pure non è un essere vivente, pur essendo costituito da persone) oppure del «volere del destino» (che a sua volta non è un essere vivente, benché si manifesti attraverso esseri viventi). Questa piccola licenza ci faciliterà la descrizione. 2. «Come puoi dire: mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e che il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere.» Giovanni 14,9-10.
Virtù e carenze del Soggetto Collettivo
Sua enormità Un Soggetto Collettivo è incomparabilmente più grande di un io; ma non in tutto. I suoi bisogni sono più grandi di quelli di un io; e in genere è in grado di soddisfarli in abbondanza. La sua forza è più grande di quella di un io. Le sue paure sono più grandi di quelle di ciascuno di noi, perché quantitativamente ha più da perdere di quanto ne abbia ciascuno di noi. Sono più grandi anche la sua paura dei suoi bisogni, e la sua paura della paura, e i suoi bisogni di bisogni; in compenso, la salute di questo Soggetto Collettivo è incomparabilmente più salda di quella di un qualsiasi organismo individuale – così come la salute dell’influenza è più salda di quella delle persone che la contraggono. Anche l’aspettativa di vita di questo Soggetto Collettivo è incomparabilmente superiore a quella degli individui: la maggior parte dei «noi» che lo compongono (famiglie, ditte, partiti, religioni) possono vivere per più d’un secolo o due, a differenza di coloro che a questi «noi» appartengono. Infine per quelli che appartengono a un Soggetto Collettivo, incomparabilmente più grande della loro volontà è anche la sua volontà, alimentata da tanto vigore, da tante paure, da tanti bisogni, e paure di bisogni, e paure di paure, e bisogni di bisogni. Tutto ciò dovrebbe rendere il nostro Soggetto Collettivo non solo più potente, ma anche più creativo e più libero dei più evoluti tra gli individui, i quali avrebbero in tal caso buone ragioni per mettersi al suo servizio. Ma così non è. I suoi schemi di reazione e di decisione sono scarsi; la sua capacità di riflettere è inferiore a quella di coloro che gli appartengono. E ciò perché
gli difettano tre elementi, che i singoli individui possono, o almeno potrebbero coltivare facilmente: la memoria, l’amore e la libertà – che mi risulta siano i tre principali vettori dell’evoluzione della specie. Della scarsa memoria In ciascuno dei «noi» che costituiscono un Soggetto Collettivo, la memoria decresce in base a due fattori: quanto più il «noi» è numeroso; quanto più direttamente è coinvolto in attività di «noi» più vasti e potenti. E senza dubbio, tale decrescere della memoria ha lo scopo di preservare dalla disgregazione tutti i «noi» di cui un Soggetto Collettivo si compone. Prendiamo in considerazione il primo fattore di oblio nei vari «noi», dal più piccolo al più grande. Più si è, meno si sa di sé Il più piccolo tra i «noi» che costituiscono il Soggetto Collettivo è la coppia: e qualunque coppia di vostri conoscenti, dopo essersi brevemente consultati tra loro, potrebbero riferire con precisione la frequenza settimanale delle loro liti o delle loro effusioni fin dall’inizio della relazione. La coppia sembra dunque avere buona memoria; nondimeno, la memoria dei due migliorerebbe molto durante una causa di divorzio: con l’aiuto degli avvocati e degli psicologi, tornerebbero loro in mente dettagli e aspetti della loro vita in comune che, proprio per non interromperla prima, erano riusciti a dimenticare. Una famiglia ha già memoria più incerta. Anche nella storia delle migliori famiglie – anzi, in quelle più che in altre – ci sono episodi che
rapidamente vengono dimenticati, oppure ricordati da questo o quel componente in modo distorto. La maggior parte di tali distorsioni mirano a rendere più sopportabile il rapporto con qualche parente: per esempio con un genitore che non ha saputo dare sufficiente affetto e approvazione. Una parte minore delle distorsioni mirano invece a screditare un altro membro della famiglia: un fratello, un figlio, il cognato… Ma l’intento delle une e delle altre è sempre il medesimo: rafforzare i legami famigliari. Si ricorre infatti alle distorsioni del primo tipo (quelle ottimistiche) per potersi amare di più nonostante tutto, e a quelle del secondo tipo (quelle screditanti) per arrendersi, semplicemente, alla propria incapacità di andarsene da casa – come a dire: «Guardate quanto detesto quel mio parente, eppure siamo ancora qui». E nella stragrande maggioranza delle famiglie le distorsioni di entrambi i tipi sono tali e tante che diventa addirittura difficile stabilire che cosa i diretti interessati intendano di preciso per «famiglia»: il succedersi delle fasi dei loro reciproci rapporti, oppure ciò che ne raccontano agli altri, o ciò che ne raccontano a se stessi. Ma qualunque cosa sia, quanto più vi appartengono tanto meno veritiero è il ricordo che ne hanno. Ancor più debole è la memoria di un’azienda – cioè di coloro che di un «noi» aziendale sentono di far parte. I proprietari di un’azienda possono sì ricordare molti momenti difficili e momenti belli della ditta, ma si tratterà soprattutto di ricordi individuali e famigliari. Il pensiero che, invece, attraversa più spesso la mente dei dirigenti e dei dipendenti durante i rapporti di lavoro è: «Bah, lasciamo perdere…» e il vincolo che li lega al «noi» dell’azienda sarà tanto più duraturo quanto più numerosi sono i dettagli che, lì, la loro memoria non vuole conservare. Ancor più che in famiglia, in un’azienda avviene perciò che i colleghi, i superiori e i sottoposti diventino, gli uni per gli altri, figure finte, plasmate in un composto psichico i cui ingredienti sono soprattutto la speranza, le illusioni, le proiezioni affettive. Per dirigenti e dipendenti, indossare queste maschere per molte ore al giorno è una dura alienazione, sopportabile
soltanto se, giorno dopo giorno, anzi minuto dopo minuto, si riesce a non ricordarla abbastanza. Debole deve necessariamente essere la memoria di un partito – cioè di coloro grazie ai quali il «noi» di un partito esiste, perché se ne sentono parte. Un partito ha infatti tutto da guadagnare nel fare dimenticare al più presto i suoi errori e nell’ingigantire quel tanto che è riuscito a fare di buono, per evitare che i suoi iscritti e simpatizzanti diminuiscano. Molto debole è la memoria delle classi sociali – cioè di coloro grazie ai quali le classi sociali possono esistere, perché dicono «io sono un borghese», «io sono un aristocratico», operando una trasfusione dell’essere dal proprio io al «noi» della classe. Se, infatti, le classi sociali ricordassero le ragioni e le dinamiche dei loro reciproci attriti, avrebbero risolto da secoli la maggior parte dei loro problemi, dissolvendosi: perché mai un giovane di buona memoria dovrebbe caricarsi dei limiti esistenziali della sua classe (qualunque sia) invece di vivere come pare meglio a lui personalmente? * * * Ineffabilmente elusiva è la memoria delle religioni – cioè di coloro che le fanno esistere mediante una trasfusione del tutto analoga a quella descritta sopra, e dicono a tale scopo «io sono un protestante», «io sono un islamico» e così via. La grandezza e la durata di tutte le religioni, infatti, si ridurrebbero molto rapidamente, se anche soltanto una parte dei loro fedeli si ricordassero delle guerre, dei massacri, delle torture, dei disastrosi errori di giudizio, e delusioni, e compromessi di cui la storia della loro religione è piena. Pessima, infine, è la memoria di uno Stato, di un Paese – cioè dell’insieme delle istituzioni statali e di coloro che danno a esse esistenza,
valore e potere, a spese del proprio essere, dicendo «io sono italiano» e intendendo con ciò l’appartenenza alla Repubblica italiana, «io sono russo» e intendendo con ciò l’appartenenza alla Federazione russa, ex URSS, ex Impero di tutte le Russie e così via. Nelle azioni che uno Stato compie e in ciò che spinge gli individui a sentirsene cittadini, è già molto se si notano ricordi risalenti a una ventina d’anni prima; quanto a ciò che è avvenuto prima ancora, sessanta, settant’anni addietro, come vedremo nei prossimi capitoli, quel che un Paese non ricorda tende irresistibilmente a ripetersi – e i libri di storia, anche da questo punto di vista, sono una lettura davvero sconfortante. Il secondo fattore di oblio Oltre alle dimensioni dei vari «noi», è fattore di oblio anche la loro vicinanza a centri di potere. Così, la memoria di una religione o di un partito peggiora quanto più tale religione o partito partecipa al dominio di uno o più Paesi. Quando erano perseguitati, i cristiani dei primi secoli ricordavano ancora abbastanza bene l’insegnamento degli evangelisti; quando il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’Impero romano, ai devoti cominciò invece ad apparire del tutto normale prestare servizio militare, sottoscrivere ed eseguire condanne e prestare giuramento per accedere a cariche pubbliche. E quel che vale per i «noi» più grandi, vale anche per i più piccoli. Una famiglia, o una coppia, avranno anch’esse una memoria tanto più labile o distorta, quanto più parteciperanno all’attività di «noi» potenti – partiti, religioni eccetera. Si consideri anche soltanto l’influsso calmante che la televisione esercita anche sulle famiglie più infelici, permettendo loro di dimenticare – almeno per la durata di una trasmissione – le delusioni, le offese di vario genere sofferte in casa. Del perdonare in rumorese
Un animo molto gentile obietterebbe, a questo punto, che quel che chiamo peggioramento della memoria può anche definirsi perdono. E che, di conseguenza, sarebbe opportuno considerarlo una cosa bella. In rumorese sì, è così – soprattutto perché certi «noi» molto influenti, come le religioni, parlano spesso del perdono, usando sequenze («fshh ss perdonare crr bz», «non shh ff rancore zbzz crr» eccetera) che si sono profondamente impresse nella mente degli appartenenti al Soggetto Collettivo. Ma nelle altre lingue c’è una differenza sostanziale: «perdonare» significa riuscire a separare un individuo dalle azioni dannose che ha commesso, in modo che queste ultime non determinino l’immagine che si ha di lui. Vuol dire, insomma, dargli un’altra possibilità di mostrare qualche suo volto migliore, che si spera sia autentico. E ciò non ha nulla a che vedere con le censure che gli appartenenti al Soggetto Collettivo impongono alla propria memoria, al solo scopo di continuare ad appartenergli: tali censure non fanno che consolidare i suoi «noi», permettendo loro di limitare gli individui, di impedire che mostrino, per l’appunto, i loro lati più autentici. Così, per fare un esempio d’interesse generale, moltissimi genitori hanno evidentemente «perdonato» (stando all’«accezione» rumorese del verbo) i loro insegnanti per le cattive informazioni, le angherie e i condizionamenti che ne hanno ricevuto dall’adolescenza alla giovinezza: e ciò permette a quei genitori di non sentirsi a disagio nel mandare i figli a scuola e nel preoccuparsi del loro profitto – cosa che di certo farebbero molto meno volentieri, o non farebbero affatto, se si ricordassero tutte le sciocchezze che a scuola si insegnano, e il modo tanto dannoso in cui vengono insegnate. Perdonare (non in rumorese) è un atto di coraggio. Perdonare (in rumorese) è un atto di viltà. E, come tale, inevitabilmente si paga. Scherzi della memoria Che il Soggetto Collettivo abbia poca memoria, non vuol dire che sia libero dal peso del passato. Al contrario: sia per gli Stati, come accennavo
in precedenza, sia per qualunque essere vivente il passato è tanto più determinante, quanto meno si riesce a ricordarlo. Tutte le nostre nevrosi, ossessioni, compulsioni richiedono, per poter durare, che dimentichiamo sia un certo numero di fatti che ci sono accaduti, sia le conseguenze che quei fatti continuano ad avere per noi ogni giorno. L’alcolista può benissimo convincersi di dover bere per dimenticare, ma per poter mandar giù un altro bicchiere deve dimenticare innanzitutto gli effetti della sbornia dell’altroieri e il numero di bicchieri che ha già tracannato stasera. Qualcosa di molto simile devono riuscire a fare anche coloro che appartengono al Soggetto Collettivo. Chi, per esempio, sfogliasse un libro recente di astrofisica, scoprirebbe come gli scienziati credano fermamente che all’origine dell’universo vi sia stata una grossa esplosione, detta Big Bang (bzz fshh), e studino questa loro credenza con grande passione. Ma solo la complessità del rumorese scientifico impedisce di accorgersi che ciò che quegli esperti chiamano «l’universo» non è che l’universo così come lo si conosce oggi (cioè il cinque per cento dell’universo vero e proprio; il resto è dark matter, materia obscura) e che anche quel Big Bang fshh è avvenuto, in realtà, soltanto qualche anno fa, nella loro fantasia. Non appena un lettore se ne accorgesse, avrebbe la spiacevole sensazione che quegli esperti si stiano ingannando – che si ripeta insomma, anche in questa branca della scienza, ciò che avevamo detto riguardo alle versioni consuete della cacciata di Adamo: il proiettare nel passato una situazione presente, allo scopo di spiegare e giustificare il presente stesso. È come se l’alcolista spiegasse il proprio vizio affermando che qualche anno prima qualcosa lo ha spinto a bere molto. Questo non spiega nulla, e spinge soltanto a domandarsi perché oggi lui dica così. Allo stesso modo, la teoria del Big Bang pone il problema: perché gli astrofisici parlano di un loro modellino dell’origine dell’universo come se fosse la vera origine dell’universo? La risposta che costoro potrebbero dare è molto semplice: «Non ce lo ricordiamo più». Qualcosa è scomparso dalla loro memoria. E, proprio come nel caso della cacciata di Adamo, quel qualcosa è lo scopo per cui
essi stanno agendo a quel modo; e l’hanno dimenticato per la ragione che da sempre determina i vuoti di memoria tra gli appartenenti al Soggetto Collettivo: per preservare un «noi». Così, questo antico impulso di autoconservazione dei «noi» del Soggetto Collettivo può continuare indisturbato a determinare le azioni e i ragionamenti di coloro che gli appartengono, appunto perché la loro memoria non prende in considerazione né quell’impulso, né il fatto che tanti altri prima di loro l’abbiano dimenticato proprio allo stesso modo. Gli astrofisici vogliono preservare il «noi» degli addetti alla ricerca scientifica, che sarebbe seriamente minacciato se qualcuno di loro scoprisse qualcosa, invece di ricercare e basta. (Il primo passo per la scoperta, consisterebbe nel domandarsi: «Ma io, io cosa desidero dall’origine dell’universo?» e nell’evitare ogni possibile «noi» nel formulare la risposta; la conseguenza immediata sarebbe una radicale revisione dell’immagine dell’universo stesso.) L’alcolista sta invece distruggendosi in nome di tutti i «noi» del Soggetto Collettivo, per dimostrare che senza un ruolo e senza un senso di responsabilità verso quegli stessi «noi», c’è soltanto decadenza e morte. Più avanti vedremo quante e quali forme assuma questo dimenticare, in tutti coloro che appartengono a un Soggetto Collettivo, e come il Soggetto Collettivo tragga significato, forme, vitalità da ciascuna di esse. Le altre carenze del Soggetto Collettivo Sono, dicevamo, l’amore e la libertà. E vanno di pari passo. L’amore infatti (nelle lingue diverse dal rumorese) è il voler trovare in qualcuno qualcosa da amare, e dunque anche il coraggio di scorgere e dire ciò che in quel qualcuno non va – dato che quanto meno si ama una persona, tanto meno ci si cura della qualità delle sue azioni, dei suoi atteggiamenti, delle sue parole. E la libertà (concetto a cui il rumorese non è in grado di alludere in alcun modo) è la voglia di scorgere, di scoprire sempre di più, senza la quale non è possibile alcun amore propriamente detto.
Del rapporto tra questi due elementi e i «noi» di un Soggetto Collettivo c’è poco da dire che non sia banale. Della libertà, si possono individuare in un Soggetto Collettivo soltanto le limitazioni – che talvolta prendono nomi illusori: per esempio, libertà di stampa, libertà d’informazione e via dicendo. Queste definizioni contengono tutte un equivoco: intendono il termine «libertà» come sinonimo di «permesso». Solo in rumorese non si coglie la differenza: ma il fatto stesso che in qualche luogo si debba ottenere un permesso, esclude che vi si possa parlare di autentica libertà. Della politica Così è infatti in ogni Stato. Che il concetto di Stato risulti compatibile con quello di libertà in lingue diverse dal rumorese, è una possibilità che fin dai primordi della storia umana attende di essere dimostrata in teoria, e che non è mai stata attuata in pratica. Se infatti si intende, con «libertà», la voglia di notare, scoprire, apprendere sempre di più, l’appartenenza a uno Stato la preclude fin dalla più tenera infanzia. A differenza dell’essere nati poveri o ricchi, maschi o femmine, gracili o vigorosi, l’essere nati italiani o algerini o tedeschi non è tanto un punto di partenza, quanto piuttosto il titolo di un programma di condizionamento che inevitabilmente si attua, e che consiste nel far notare e nel far apprendere all’io non ciò che l’io potrebbe voler conoscere, ma solo ciò che un italiano, un algerino, un tedesco può notare e apprendere. Scopo di tale programma è, naturalmente, che l’individuo versi il più volentieri possibile una parte dei suoi guadagni al grosso «noi» del suo Stato, e che alle leggi e agli usi e costumi approvati da quest’ultimo subordini il più a lungo possibile le proprie aspirazioni. È triste pensare come ciò dipenda soltanto dall’essere nati al di qua di un certo confine invece che al di qua di un altro, e che tutti quei confini e gli Stati che contengono siano – come già abbiamo visto – finzioni. Ancor più triste è accorgersi di come queste finzioni chiamate Stati siano proprio quel che dice la parola stessa: stati, aspetti che quel Soggetto Collettivo
assume, nel suo nutrirsi dell’essere (e delle ricchezze, e delle aspirazioni) di un gran numero di individui. Ciò esclude per principio che qualsiasi io possa recuperare la propria libertà attraverso un’attività politica, migliorando cioè le condizioni dello Stato in cui vive, estendendo le parziali «libertà»-permessi che esso concede. La libertà, l’amore, la memoria e quel che ne consegue si recuperano solo emancipandosi da quel Qualcosa che anche attraverso gli Stati si esprime. Come il Ciclope Emanciparsi da quel Qualcosa non significa mai emanciparsi da qualcuno in particolare. Il principale avversario del Soggetto Collettivo è certamente il singolo individuo, dato che altrimenti i «noi» non si sforzerebbero così tanto di conculcarlo e asservirlo. Dunque, non è possibile che un qualche io domini i «noi» di cui il Soggetto Collettivo consiste, e asservisca la gente attraverso di essi; sarebbe un controsenso, poiché dove vi è io non vi è Soggetto Collettivo, e viceversa. Per un io, l’appartenenza al Soggetto Collettivo si rivela a qualsiasi livello un’attività in perdita, essendo il Soggetto Collettivo il prodotto e l’espressione della perdita, da parte dell’individuo, della capacità di essere se stesso. Tale incapacità, con i tanti Soggetti Collettivi che ha alimentato nel corso dei millenni, domina a tal punto la storia del mondo, da far ritenere che ormai non ci sia più nulla da fare: che nella mente e nell’animo umano debbano cioè essersi atrofizzate le funzioni indispensabili alla scoperta di se stessi. Si potrebbe addirittura dubitare che quelle funzioni ci siano mai state, nella specie umana, e aprire così la via all’idea che l’uomo sia non tanto un animale politico quanto piuttosto un animale collettivo, capace di sopravvivere soltanto in società simili a quelle delle api, per le quali l’unico vero individuo è il gruppo, e i singoli sono soltanto sue cellule. Ciò giustificherebbe tra l’altro l’abitudine degli psicologi occidentali a
considerare i pazienti tanto più sani quanto più riescono a integrarsi nei «noi» (coppia, famiglia, ditta, religione, Stato) in cui hanno avuto origine i loro guai. Nondimeno, quelle funzioni indispensabili alla libera scoperta di se stessi sembrano riattivarsi ogni volta che qualcuno ne parla. E, ogni volta, si ha la nettissima sensazione che le api non c’entrino poi molto con ciascuno di noi: che tra ciascuno di noi e i nostri enormi Soggetti Collettivi vi sia non soltanto una differenza, ma una lunga lotta. In questa lotta, il nostro svantaggio è chiarissimo, ma non perciò decisivo. Anche il nostro vantaggio è degno di nota: i nostri princìpi di individuazione – la memoria, l’amore, la libertà – ci permettono infatti di comprendere quell’avversario, cioè di essere almeno intellettualmente più grandi di lui, di scorgerne i limiti, i punti deboli, così come Ulisse li individuò in Polifemo. Quanto a questo, ogni io è o può essere Ulisse. E studiare, comprendere l’ottuso Ciclope che chiamiamo qui Soggetto Collettivo, invece di farsene divorare ogni giorno, significa in pratica capire come e perché i «noi» di cui esso consiste abbiano fatto e facciano determinate cose, e non possano farne altre.
Le civiltà
A cosa obbediva Pilato Ciascun io subisce il Soggetto Collettivo a modo suo. In genere, quanto meno facciamo per un Soggetto Collettivo, tanto più piccoli sono i «noi» attraverso cui ci tiene nella sua rete. Per un giovane talmente innamorato da non potersi interessare di nulla che non riguardi la sua ragazza, il «noi» della coppia sarà il viluppo che blocca la sua libera scoperta di se stesso; mentre per un grande industriale, le maglie della rete saranno i «noi» delle aziende di cui è proprietario. Sia il giovane innamorato, sia l’industriale avrebbero dunque tutto il diritto di dire a quei loro «noi» ciò che Gesù diceva a Pilato: Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato da più in alto.
Giovanni 19,11 Quali che siano, cioè, le dinamiche di una coppia o di un complesso d’industrie, il senso e lo scopo dell’azione che esercitano sul singolo individuo non dipendono tanto da loro leggi intrinseche o dalla personalità di coloro che ne fanno parte, quanto piuttosto dal Soggetto Collettivo che se ne serve. Ciò fa apparire altrettanto illusorie una terapia di coppia che miri a una crescita interiore dei due diretti interessati, e una corporate psychology che miri al benessere psichico dei dipendenti e dei dirigenti di un’impresa. Delle due l’una: o la psicologia vuole servire all’individuo, oppure vuole aumentare il potere del Soggetto Collettivo; ma non potrà in alcun modo favorire lo sviluppo dell’individuo senza cercare di distruggere il senso dei «noi» adoperati dal Soggetto Collettivo – cosa che gli psicologi, almeno
per ora, non sembrano intenzionati a fare. Qualsiasi psicologo potrebbe obiettare che ciò non servirebbe comunque a nulla, perché quella rete è una nassa vasta, complessa, costituita da strati sovrapposti: chi si liberasse dal «noi» della coppia, sarebbe comunque avviluppato dal «noi» di un’azienda; chi riuscisse a liberarsi anche da questo, sarebbe comunque avviluppato dal «noi» di una religione o dello Stato e così via – e perciò non vi sarebbe comunque scampo alla rete del Soggetto Collettivo. Sembrerebbe un argomento convincente, se non fosse per quell’«e così via», in cui si nasconde il punto debole di questa sconsolata obiezione. In realtà, a un certo punto gli strati della nassa finiscono: ce n’è uno che li contiene tutti, e che corrisponde a quel «più in alto» da cui vengono dati il potere, il senso, lo scopo a tutti i «noi»-Pilati con i quali abbiamo ovunque a che fare. Al di fuori di quest’ultimo strato le appartenenze cessano, e da fuori si può vedere bene come esso impronti di sé tutti gli strati inferiori. Comunemente lo si chiama civiltà. Che cos’è la civiltà Civiltà è il termine che, nel linguaggio degli storici, corrisponde da millenni a quel che qui chiamiamo Soggetto Collettivo. Si tratta cioè dell’insieme degli aspetti esteriori, per una qualsiasi ragione memorabili, assunti nel corso del tempo dai vari Qualcosa che agiscono a spese dell’anima, dello spirito, del Sé e del rapporto con Dio della stragrande maggioranza degli individui. Sono le civiltà, e non le razze, né i continenti, né le culture religiose, né tantomeno l’umanità intera. Il nostro Soggetto Collettivo non è l’umanità tutta intera, perché possiamo facilmente accorgerci che sul pianeta agiscono vari Soggetti Collettivi, molto differenti gli uni dagli altri. I nostri Soggetti Collettivi non sono i continenti, né le razze, né le culture religiose, dato che l’area in cui un determinato Soggetto Collettivo
agisce può includere più di un continente, e i vincoli che uniscono fra loro gli appartenenti a una stessa razza o a una stessa religione sono assai più deboli di quelli che uniscono fra loro gli appartenenti a uno stesso Soggetto Collettivo. Così, un ebreo di New York ha molto più in comune con un suo concittadino wasp, che non con un ebreo mediorientale, e un cattolico irlandese ha molto più in comune con un suo connazionale protestante che non con un cattolico filippino. Quanto all’idea marxista che il miglior modo di suddividere la popolazione mondiale siano le fasce di reddito e i ruoli nei processi di produzione, la considero un vecchio eccesso di materialismo: che un operaio della Mecca possa intendersi meglio con un operaio argentino che con un aristocratico saudita poteva sembrare vero centocinquant’anni fa a un europeo molto impressionato dal progresso, ma le conseguenze pratiche che da allora si è tentato di trarne non sono state convincenti. Cosa si dice in rumorese della civiltà Dalle cosiddette civiltà dipende dunque il potere che ciascuno di noi ha o subisce in concreto, come anche il valore che attribuiamo alle persone, alle cose, alle istituzioni e alle circostanze a noi note e anche (e soprattutto) a quelle che conosciamo poco. Quanto a questo, le civiltà sono appunto, per la maggior parte delle persone, l’equivalente del Dio creatore. La differenza è che ’Elohiym aveva creato i fondamenti dell’universo chiamandoli per nome («’Elohiym disse: Sia la luce! E la luce fu»), le civiltà creano invece para-mondi umani interferendo nei linguaggi, snaturando i significati delle parole, rifingendoli in modo da giustificare i valori che ai loro «noi» fanno comodo. Uno studioso di linguistica potrebbe delineare senza difficoltà le aree semantiche delle civiltà: le aree, cioè, nelle quali una lunga serie di parole suscitano le medesime reazioni e associazioni. Per esempio: «maiale», «tenda», «americano», «meridione» eccetera. Le reazioni e associazioni determinate in noi dalla nostra appartenenza a una civiltà sono ciò che ci impedisce di vedere in un maiale un semplice
maiale, una tenda in una tenda, nient’altro che un americano in un americano, e nel meridione nient’altro che un punto cardinale. Si noti, altresì, che ogni appartenente a una determinata civiltà tende a dare grande importanza proprio a ciò che differenzia il significato che queste parole hanno per lui da quel che esse indicano in realtà (per un arabo un maiale è soprattutto un animale impuro, e solo in secondo luogo un animale; e un americano è soprattutto un nemico, e solo in secondo luogo un americano e via dicendo), ma quanto maggiore è l’importanza che egli dà a quel diverso significato, tanto più ingarbugliata sarà la spiegazione che potrà fornirne, bzz fshh: prova evidente che qui agisce davvero una qualche aggrovigliatissima nassa. E ciò vale anche per la parola «civiltà». Il significato che nella nostra civiltà le viene attribuito riveste per noi un’importanza talmente grande, che nessun dizionario riesce a darne una definizione chiara. Le definizioni che se ne trovano sono – nei dizionari migliori – quattro, ma nessuna di esse spiega che cosa le tenga insieme. La «civiltà», nei dizionari, sarebbe: 1. il complesso delle attività economiche, sociali, politiche, culturali specifiche di una data nazione, o di un dato insieme di nazioni, in un dato periodo storico; e in tal senso si parla di civiltà assira, egizia, romana e così via; 2. il corredo delle qualità che si richiedono a quello che in latino era chiamato civis, cioè alla persona capace di integrarsi in una collettività varia e ben organizzata; e in tal senso potrete dare dell’incivile a un tizio il cui comportamento risulti imbarazzante agli occhi di molti altri; 3. il livello di sviluppo raggiunto da una collettività, sia essa una nazione o un insieme di nazioni, o uno qualsiasi dei gruppi sociali che la compongono: classe, città, villaggio eccetera; e in tal senso si parla di grado di civiltà, di Paesi più civili di altri (in inglese e francese, civilisation è stato a lungo un equivalente di «progresso», e così pure nel tedesco Zivilisation);
4. il grado di benessere materiale (ai giorni nostri: acqua corrente, wc, doccia, elettrodomestici e simili) di cui si gode nei Paesi detti appunto civili, e in alcune zone di tali Paesi più che in altre; in tal senso, il contrario di «civile» è non tanto «incivile» quanto «scomodo», uncomfortable. È chiaro che se in una conversazione sensata vi capitasse di usare la parola «civiltà» (o «civile», o «civilizzato») dovrete per forza fermarvi a spiegare che cosa state intendendo, o casomai sperare che il vostro interlocutore l’abbia capito per telepatia. Di solito è questa speranza a prevalere; ma la telepatia tra gli umani è un fenomeno raro, gli equivoci riguardo alla «civiltà» sono inevitabili, e la conseguenza è che con quella parola la stragrande maggioranza delle persone intende: un qualcosa di molto diffuso dalle nostre parti e meno altrove, e di cui tutto sommato conviene parlare bene, dato che molti ne parlano bene.
E paradossalmente è proprio questa – benché nei dizionari non la si trovi – la definizione più azzeccata, o almeno l’unica che colga un denominatore comune a tutti e quattro i significati suddetti. Le qualità indispensabili al civis (significato 2) derivano infatti tutte dalla sua capacità di accorgersi di quanto sia evoluta (significato 3) la collettività a cui lui appartiene, a paragone di tante altre, quanti e quali progressi materiali (significato 4) essa abbia compiuto rispetto a un passato più o meno remoto, e quanto sia solida l’organizzazione che quella collettività si è data nelle sue svariate attività (significato 1). Cosa è ragionevole dire della civiltà La civiltà è dunque: 1. una più o meno complessa organizzazione socio-economicopoliticoculturale – e il modo in cui la intendono coloro che le appartengono;
2. le qualità necessarie a intenderla in quel modo, e a parteciparvi – e il modo in cui le intendono coloro che le appartengono; 3. il più alto livello di sviluppo culturale raggiunto nell’area geografica in cui vige tale organizzazione – e il modo in cui lo intendono coloro che le appartengono; 4. le comodità di cui in quell’area si può godere quando tutto va bene – e il modo in cui le intendono coloro che là ne godono. Le parole che in queste quattro frasi sono in corsivo si riferiscono all’azione che un Soggetto Collettivo compie, nelle persone, per assumere aspetto di civiltà. Le altre parole di queste frasi riguardano invece i caratteri che la civiltà ha assunto, cioè i risultati che il Soggetto Collettivo è riuscito a realizzare, grazie agli impulsi che quei modi di intendere hanno impresso sulle energie di coloro che gli appartengono. Nei dizionari, tuttavia, questa definizione della civiltà non c’è. Se dunque il termine «civiltà» corrisponde al nostro concetto di Soggetto Collettivo, non è perché con «civiltà» la gente alluda consapevolmente a quel che indichiamo noi con «Soggetto Collettivo», ma solo perché tra i due termini vi è un preciso rapporto, checché se ne dica oggi nella nostra civiltà. E ciò potrà causare discrepanze notevoli tra le opinioni espresse in questo libro, in particolare sulla civiltà occidentale, e quel che sanno delle civiltà gli storici, i filosofi e le persone informate che parlano in rumorese. Esaminiamo subito la discrepanza principale. Delle cause di una qualsiasi civiltà Per quegli storici, filosofi e persone informate, una civiltà è soprattutto un fatto. E perciò (fshh bzz) non ha scopi che possano spiegarne la ragione, così come ai loro occhi non ne hanno un fulmine durante un temporale o il primo, accidentale sguardo scambiato dai due individui che qualche anno dopo sarebbero diventati i tuoi genitori. Spiegare la ragione d’un fatto (in rumorese) può significare soltanto
stabilire le sue cause e le possibilità che esso aveva di prodursi; e anche queste, solo fino a un certo punto. Così, per quegli storici, filosofi e persone informate, una civiltà si forma da una certa quantità di materiale economico, culturale e umano, e da una determinata serie di predisposizioni che quel materiale ha ereditato da civiltà precedenti, e che nella civiltà di cui si sta parlando si sono combinate in modo relativamente nuovo rispetto a prima. Quanto all’origine, e dunque alle cause di tali predisposizioni, le si può cercare nelle civiltà precedenti, ben sapendo che lì non le si troverà e che occorrerà estendere la ricerca a civiltà ancora precedenti, di cui si sa troppo poco; non trovandone l’origine e la causa neppure lì, ci si fermerà infine ai primordi della più antica civiltà di cui si possa dire qualcosina. Su quell’estremo confine della scienza storica, qualcuno potrà lanciare un’ipotesi metafisica, più o meno come si lancia un sasso: potrà affermare, per esempio, che le prime civiltà siano state volute da Dio, o che Dio abbia creato gli Angeli delle civiltà, incaricandoli di plasmarle. Gli si potrà credere o non credere, ma se gli si domandasse perché Dio avrebbe voluto le civiltà o creato quegli Angeli, quel metafisico non saprebbe rispondere – e allora si avrebbe davvero la sensazione che tutto quel cercare la ragione a ritroso, nelle cause e nelle cause delle cause, non sia servito a niente. Come d’altronde la maggior parte delle ricerche svolte in rumorese. Degli scopi di una qualsiasi civiltà Se invece si intende la parola «civiltà» come l’aspetto storico del nostro Soggetto Collettivo, è possibile impostare la questione in tutt’altra maniera. Ciascuna civiltà che abbia occupato o occupi una porzione del nostro pianeta è innanzitutto una forma. È la forma alla quale concorrono, nel loro complesso, come tessere di un mosaico, tutti i fatti che vengono percepiti o ricordati o previsti dagli appartenenti a una data civiltà: e questi fatti non sono certo la totalità immensa dei fatti che si possono percepire, ricordare o prevedere in qualsiasi ora della giornata, bensì soltanto un certo numero di fatti che
permettano di completare le immagini, gli sfondi, gli ornati del mosaico stesso. Al contempo, una civiltà è il modo in cui ciascuno di quei fatti viene percepito, ricordato o previsto: è il significato che a quei fatti viene dato da coloro che le appartengono – proprio come i mosaicisti aggiustano, con qualche colpo di scalpello, la forma delle tessere che verranno poi calcate nella malta. In tal senso una civiltà è dunque, per ciascuno di coloro che le appartengono, un metodo. Questo metodo richiede, naturalmente, di essere appreso. Un evidente risultato di tale apprendimento è il fatto che voi ora stiate leggendo questo libro – della qual cosa io mi rallegro – mediante brevi movimenti degli occhi da sinistra verso destra, intervallati da movimenti più rapidi da destra verso sinistra, per arrivare alla riga seguente. Altri evidenti risultati dell’apprendimento del metodo chiamato «civiltà occidentale» sono che anche le lancette degli orologi procedano da sinistra verso destra, e che nei quadranti il tempo sia scandito in cicli di dodici ore, i quali cicli rientrano a loro volta in un ciclo più vasto di dodici mesi – cosa, questa, che in verità non mi suscita alcun senso di soddisfazione e anzi mi irrita un po’. «Che te ne importa?» potreste domandarmi voi, «da noi si fa così, e funziona egregiamente. Che ragione c’è di non adeguarsi?» Io risponderei che ho altre idee riguardo al tempo: che a mio parere il tempo non scorre in modo tanto regolare; che mi è sempre sembrato che alcune ore o minuti fossero più lunghi e altri più brevi, e che nella nostra mente ci siano importantissimi orologi che il più delle volte sono fermi o addirittura vanno indietro, e la nostra civiltà occidentale non li ha raffigurati da nessuna parte – benché la vita reale di ciascuno di noi sia misurata ben più da quegli orologi irregolari, piuttosto che dagli elementari scatti militareschi della lancetta dei secondi e dal pensoso movimento di quella dei minuti. Mi spingerei anche ad affermare che noi non siamo affatto noi stessi tutte le volte che nel corso della giornata ci regoliamo sul movimento delle lancette degli orologi, e che non essere se stessi è facile (perché pochi lo
sono) ma rovinoso (perché se non sei te stesso fai e ottieni ciò che vogliono altri) e che i momenti migliori della mia vita sono stati sicuramente quelli in cui mi ero dimenticato dell’esistenza degli orologi, e che ciò deve pur significare qualcosa… Ma a questo punto molti dei miei interlocutori si sarebbero probabilmente convinti che un discorso del genere sia una perdita di tempo. Sèguito del precedente Per la nostra civiltà occidentale un discorso del genere è sicuramente tempo perso, dato che non offre tessere utili al mosaico, e anzi ha tutta l’aria di voler cominciare un altro mosaico più in là. Rispetto al nostro intento di scoprire perché esistano le civiltà, quella questione del tempo e dei cicli di dodici è invece del tutto pertinente, e ci conduce proprio al punto principale: alla ragione, cioè, per la quale i nostri Soggetti Collettivi ci sembrano – e diventano per noi – reali. È proprio come per la nostra idea del tempo. Quel ciclo temporale basato sul numero dodici non è reperibile in natura, ma soltanto nella nostra mente: è qualcosa che a partire da un certo momento storico ha soddisfatto a nostri criteri di funzionalità e armonia. Nondimeno, noi stabiliamo un’identità tra quel qualcosa di numerico e la dimensione temporale: diciamo e sentiamo di aver trascorso un’ora, di aver vissuto un certo numero di anni fino a oggi, come se l’ora e gli anni ci fossero davvero; possiamo addirittura sentir passare un minuto guardando l’orologio. Crediamo insomma che il nostro modo di descrivere il tempo sia il tempo. Così come crediamo che il nostro modo di descrivere la storia sia la storia, e il nostro modo di spiegare i fenomeni sia la ragione dei fenomeni. Una prima conseguenza di ciò è che noi chiamiamo «realtà» non la realtà stessa, ma solo quel che riusciamo a esprimere quando parliamo di realtà. Una seconda conseguenza, ancor più compromettente, è che anche a noi
stessi (ai nostri pensieri, sentimenti, sensazioni, intuizioni) sovrapponiamo alcune descrizioni, e crediamo di essere queste ultime, invece di ciò che realmente siamo. Dopodiché, lasciamo che siano le nostre descrizioni, le loro forme, il loro metodo, a decidere il nostro comportamento e il senso della nostra vita. A questo punto, se stessimo parlando in rumorese, potremmo domandarci quale sia la causa di tale sovrapposizione – in cui consiste sempre ciò che chiamiamo civiltà. Ma la causa non c’è, e non ce n’è alcun bisogno. Non c’è nessuna forza che, provenendo dal passato, obblighi gli individui a non essere se stessi e farsi determinare da qualche descrizione. È proprio il contrario: da molto tempo, per riuscire a non essere se stessi, cioè per rifiutarsi di utilizzare nella maniera più semplice una grande quantità delle proprie energie psicofisiche, gli uomini lasciano che tali loro energie siano utilizzate da Qualcos’altro, e solo per giustificare tale loro comportamento continuano a descrivere a se stessi quel Qualcos’altro, come una potentissima forza coesiva. Una civiltà appunto. Questa cessione delle energie degli io, e la loro trasformazione nella civiltà che li domina, si replica da molto tempo in ogni generazione, non perché sia la conseguenza di quel che era avvenuto in qualche generazione precedente, ma perché in ciascuna generazione continua a ripetersi e a giustificarsi tale cessione, il cui scopo è non essere se stessi. Finché tutto ciò si ripete, gli uomini potranno convincersi che sia causato irresistibilmente dal loro passato; mentre il giorno che smetteranno di alienarsi – e potrebbe benissimo essere oggi – guarderanno alle civiltà passate come a tristi, sconcertanti stranezze, da cui nessun essere ragionevole potrebbe più lasciarsi influenzare in alcun modo, benché per millenni siano apparse come la causa di tutto ciò che agli uomini è accaduto. Dell’energia delle civiltà La nostra civiltà attuale è dunque davvero e profondamente nostra,
perché proviene da noi: noi permettiamo che esista, noi le diamo forma – e così è stato in tutte le civiltà precedenti, per coloro che in esse hanno vissuto. Al contempo, la nostra civiltà non è nostra affatto, perché ciascuno di coloro che le appartengono si è rifiutato di utilizzare, di essere quelle energie di cui essa consiste, e ciò che essa ne fa è molto diverso da ciò che ciascuno avrebbe voluto e potuto farne, se le avesse tenute per sé. Ma ciò che una civiltà fa di quelle energie è un far fare talmente grande e radicato nella vita di coloro che le appartengono, da suscitare il sospetto che le energie di cui essa dispone non siano soltanto quelle che costoro hanno rifiutato di utilizzare. Se disponesse soltanto delle energie che gli uomini non vogliono adoperare, una civiltà somiglierebbe a una società finanziaria a cui i risparmiatori affidano parte del loro capitale: quella società potrà benissimo investire in imprese che danneggiano la vita degli investitori stessi, per esempio in industrie inquinanti; ma gli investitori avranno pur sempre un loro conto corrente a cui attingere per vivere come e dove pare a loro. Invece, la cessione di una parte delle nostre energie alla civiltà somiglia sempre alla vendita dell’anima al Diavolo. La civiltà trascina via non in parte, ma interamente ciascuno di coloro che le appartengono. Non si limita a impedir loro di fare certe cose (quelle che appunto avrebbero fatto se non avessero rifiutato certe loro energie): li costringe anche a fare molte cose che contrastano con i loro impulsi e bisogni; li fa agire, pensare, essere come pare a lei, sempre e non durante una parte soltanto della giornata, del mese o dell’anno, servendosi di loro per la sua evoluzione che, in ogni epoca, è molto diversa da quella degli uomini. Il numero della Bestia Come sappiamo, l’evoluzione della civiltà è più lenta della nostra. Al pari del Diavolo (che stando a tutte le teologie fu creato prima degli uomini e, a differenza di Dio, è sempre rimasto uguale a se stesso) i
Soggetti Collettivi sono meno progrediti dell’io: mancando di memoria, amore e libertà, sono più ignoranti, più egoisti, più passivi di quel che noi, nel corso dei millenni, siamo riusciti a diventare. Non per nulla l’autore dell’Apocalissi li definisce «la Bestia», tout court. La Bestia faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, che era il nome della Bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della Bestia: è un nome dell’uomo. E tal cifra è il seicentosessantasei.
Apocalissi 13,16-18 È una perfetta descrizione della civiltà. «Nessuno poteva comprare o vendere senza quel marchio»: il più immediato vantaggio pratico dell’appartenere a una civiltà è appunto il poter partecipare a varie attività economiche e, attraverso di esse, a molti rapporti sociali. E il «marchio» è «sulla mano destra e sulla fronte», cioè sul modo di agire e sul modo di pensare: ciascuna civiltà marchia davvero, in tal senso, coloro che le appartengono. L’autore dell’Apocalissi ci informa anche che quel marchio da bestiame sarebbe un «nome» e un «numero»: e qui davvero occorre un po’ di sapienza, filologica innanzitutto, per comprendere che cosa significhi. Benché sia stata scritta in greco, l’Apocalissi di Giovanni è di indubbia origine ebraica; certe parole importanti andranno dunque intese più nel loro senso ebraico, che in quello greco. Così è per la parola che in ebraico significa «nome», šem, e che non corrisponde appieno al concetto che dei nomi avevano i greci. L’ebraico antico era una lingua molto vicina all’egiziano, le lettere dell’alfabeto venivano interpretate anche come geroglifici, cioè come elementi di definizione del significato delle parole: ogni «nome» proprio, comune, astratto o concreto, era dunque una vera e propria formula filosofica, uno schema (termine anche filologicamente vicinissimo a šem) che descriveva la cosa o la persona a cui era riferito.3
Proprio perciò, lo šem di una qualunque cosa poteva essere «calcolato», come dice qui il testo, cioè decifrato, da chi avesse sufficiente «intelligenza», cioè da chi conoscesse la chiave di decifrazione. E il «calcolo» è in questo caso abbastanza semplice: le lettere ebraiche venivano usate per indicare anche i numeri, e la lettera ebraica che corrispondeva al 6 era la w, che in ebraico veniva scritta così:
ed era il segno del «nodo da sciogliere», dell’«ostacolo non ancora superato». 666,
www, suonava dunque sia come una condanna sia come un’affatturazione – come a dire: «ti domino! ti domino! ti domino!» E anche in ciò la descrizione della Bestia dell’Apocalissi è compatibile con quel che sappiamo del nostro Soggetto Collettivo. Il principio della stasi Quel www (ogni riferimento a Internet non è certo casuale) ci aiuta anche ad accorgerci del perché una Bestia meno evoluta di ciascuno di noi riesca a determinare la nostra esistenza. In realtà, è quel che secondo le più recenti ipotesi evoluzionistiche avviene regolarmente in tutte le specie a riproduzione sessuale. Ciascuna di queste specie tende a una condizione di stasi, nella quale i cambiamenti evolutivi sono o del tutto assenti, o troppo rari e scarsi per costituire un vero e proprio sviluppo. Fenomeni evolutivi si hanno soltanto grazie a pochi individui, che d’un tratto deviano da quella stasi, e danno inizio a
una specie nuova.4 Quella che l’Apocalissi chiama la Bestia, e noi chiamiamo Soggetto Collettivo e civiltà, è precisamente la condizione di stasi in cui si trova la stragrande maggioranza degli uomini, e in cui viceversa non possono più restare gli individui, cioè coloro che cominciano a essere se stessi, invece di essere gli altri. Quando apparteniamo a una civiltà – cioè alla forma di un Soggetto Collettivo – possiamo anche non accorgerci mai dell’azione frenante, del www, che essa esercita su di noi e sull’evoluzione umana: ed è allora che quella civiltà è nostra, e proviene da noi, la facciamo esistere, la nutriamo, lasciandovi fluire le nostre energie come acqua in un fiume. Quando invece un io riprende ad amare, a ricordare e a essere libero di evolversi, si accorge di come quella sua civiltà sia diversa da lui, e abbia fino ad allora utilizzato le sue energie per scopi diversi da quelli che lui può ora proporsi. Ne deriverebbe che chiunque riesca, in un qualsiasi momento, a essere un individuo e dunque a sottrarsi a quella stasi, diviene potenzialmente l’inizio di una specie nuova, diversa da quella della maggioranza dei suoi contemporanei; e se non lascia che i www lo ritrascinino giù, nel non ricordare, nel non amare, nel servire, la specie nuova nasce davvero. Ma di questo torneremo a parlare più avanti, nella Parte terza. Per ora proseguiamo con le cattive notizie. L’Inconscio e il Conscio Collettivo Da circa un secolo la psicologia occidentale sostiene che la nostra personalità è frenata, minacciata dall’oscura pressione di impulsi, paure e traumi preistorici, tenacemente insediati a troppo scarsa profondità nella psiche umana, in quello che alcuni continuano a chiamare Inconscio Collettivo. Sarà; personalmente ho vari dubbi a questo proposito. In ogni caso, un freno e un pericolo ben più grave per l’io di ciascuno di noi è costituito dal torpido Conscio Collettivo della civiltà, come dimostrano i costi esistenziali che ci impone. Proprio come l’Inconscio immaginato dagli psicanalisti, questo Conscio Collettivo è una creatura
bruta, i cui unici scopi sono esistere e durare e prevalere contro chiunque le si opponga; ma i suoi contenuti non risalgono affatto alla preistoria dell’umanità, né a ere in cui la differenza tra animali e uomini non si era ancora ben delineata. Conviene qui scoraggiare ancora una volta i cercatori di cause. Quanto alle nostre remote parentele con gli animali, non si vede perché le si debba per forza intendere come l’origine delle nostre arretratezze, o comunque di punti deboli della nostra psiche. Gli animali che ho avuto la fortuna di conoscere finora o di cui ho avuto notizia sono molto meno dannosi delle nostre civiltà; e con il termine «Bestia» (therion) anche l’autore dell’Apocalissi non sembra intendere un equipollente biologico del suo gatto, se aveva un gatto, o di una rondine, o di una farfalla, bensì una creatura disumana, inferiore tanto all’uomo quanto a qualsiasi altro animale. Non per nulla, gli contrappone in funzione di salvatore un Agnello, che è un animale anch’esso. Quanto ai nostri lontani progenitori, a giudicare da quel che ci hanno lasciato (per esempio le pitture rupestri di Lascaux), dovevano essere dotati di notevole sensibilità, intelligenza e senso dell’umorismo. Forse avrebbero potuto gradire qualche aspetto delle civiltà che poi si succedettero nella storia, specialmente per quel che riguarda le comodità e la tecnologia; ma è molto probabile che avrebbero scosso il capo con disapprovazione dinanzi a tutto il resto. È invece molto probabile che i contenuti e la ragion d’essere delle nostre Bestie si trovino, da millenni, non alle nostre spalle bensì davanti a noi, in attesa di realizzarsi sempre più, a nostro scapito: e che crescano di dimensioni e peggiorino di carattere quanto più è caparbio lo sforzo degli uomini di non essere se stessi. Tale sforzo sembra decisamente aumentare, nel corso della storia. Le pitture di Lascaux e le tue foto Nelle pitture rupestri e nei manufatti del paleolitico le figure umane sono rarissime, mentre le figure di animali e di esseri demonici sono d’una
straordinaria precisione ed espressività: gli uomini erano cioè talmente impegnati a essere se stessi, da non poter scindere da se stessi la propria immagine – da non avere il tempo psicologico di guardarsi. Poi le immagini di uomini comparvero, e divennero via via più precise. «E l’uomo si innamorò della propria forma» come si legge in quello straordinario schema dell’evoluzione umana che è il Poimandres,* e come mostra anche il mito di Narciso. L’uomo cominciò cioè a rappresentare sempre più se stesso, e dunque a essere sempre meno, fino a porsi (proprio agli albori delle grandi civiltà) nella situazione che tuttora perdura, nella quale tanto più si è, quanto più si è raffigurati – e il venire raffigurati prende spesso il posto dell’essere. Chi non ha perso tempo e intelligenza a farsi fotografie durante i viaggi, mentre avrebbe potuto accrescere il proprio tempo, la propria intelligenza e l’elenco delle proprie esperienze memorabili semplicemente essendo di più, cioè percependo meglio quel che aveva davanti a sé e dentro di sé? Le immagini che abbiamo di noi dimostrano che ci siamo o che ci siamo stati. Ne abbiamo molto bisogno oggi, perché altrimenti potremmo non esserne del tutto sicuri. Dov’è finita tutta la forza della nostra presenza, del nostro contatto reale e vitale con ciò che ci circonda? Nella fotocamera del cellulare. E cosa ha fatto sì che quella fotocamera arrivasse anche nelle nostre mani? La civiltà. La Bestia. Con quale forza? Con la nostra. Oggi sembra un indice di progresso della civiltà il fatto che una persona abbia un gran numero di immagini di sé e famiglia, a documentazione della sua esistenza; ma, se la si osserva attentamente, ci si può accorgere che in quella persona qualcosa non va. «Ecco, questo sono io», dice infatti, indicandole, con un mezzo sorriso di cui ignora il significato. Ed è vero: la foto è lui più di quanto lui non sia se stesso; e non perché gli somigli, ma perché perlomeno quella sua foto è se stessa, e lui non tanto. Lui è soprattutto il ruolo che occupa in questo o quel «noi» della sua civiltà. È ciò che la civiltà ha voluto che fosse; è la lunga serie di giudizi buoni o cattivi che i suoi «noi» hanno dato di lui. Buoni o cattivi che fossero, stratificandosi in lui quei giudizi hanno dato forma a ciò che lui
ora chiama coscienza, attenzione, volontà o più confidenzialmente “io”, senza accorgersi delle virgolette. Invece il suo io (senza virgolette) si è fatto da parte molto tempo fa e non c’è più. L’ha mangiato la Bestia, che è ghiotta delle preziose energie di cui gli uomini dispongono per diventare ogni giorno individui – cioè, letteralmente, esseri non scissi. In compenso, si dirà, la nostra Bestia ha realizzato cose enormi. Certo. Si pensi anche soltanto a quanti cellulari con fotocamera è già riuscita a produrre quest’anno, per consolazione delle sue vittime, per ricordo. L’«io sono» L’Apocalissi è una monografia sulla Bestia, cioè sulle civiltà che avevano e avrebbero occupato la storia; ma nel Nuovo come nel Vecchio Testamento non c’è quasi capitolo che non contenga qualche accenno a questo tipo di creatura. E sul modo di sottrarsi alla Bestia stessa e di superarla, il Nuovo e il Vecchio Testamento concordano appieno. Secondo entrambi i Testamenti, per liberare l’io da ciò che nel suo mondo è «noi», occorre l’«io sono», come ama dire Gesù nei Vangeli. Se nessuna religione attuale dà a questo tema il dovuto rilievo, è solo perché anche le religioni costituiscono dei «noi», e non trarrebbero nessun vantaggio dal divulgare come le si smantelli. Quanto ai «noi», gli avvertimenti a starne in guardia incominciano già al principio di tutto, nella Genesi: Un individuo lascia suo padre e sua madre e si unisce alla sua anima: allora i due diverranno uno, nella realtà.
Genesi 2,24* I ruoli nel «noi», e tutto il passato («padre e madre») che li ha stabiliti, vengono cioè mostrati come un ostacolo alla scoperta di sé e del mondo. I Vangeli ribadiscono che per «giungere all’io» è indispensabile addirittura odiare il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita.
Luca 14,26 e «non giurare affatto» (Matteo 5,34), in modo da non formare «noi» vincolati dal www di qualche giuramento; e «amare i nemici» (Matteo 5,44), dato che per nemici le Scritture intendono gli stranieri, cioè i nemici dei «noi» a cui la Bestia vuole farti appartenere, e così via. E «l’io ha vinto il mondo!» (Giovanni 16,33) è la proclamazione della possibilità di porre l’io al centro della realtà, e delle fatali conseguenze che ciò avrebbe sia per qualsiasi www che lo voglia tener legato, sia per tutto ciò che nelle Bestie appare importante. Di altri mondi Non vi è ragione per non riprendere e proseguire, oggi, quell’antico discorso. Non è utopico come sembra. Le Bestie, certo, dominano il mondo così come noi tutti lo conosciamo. Ma è un dominio molto meno temibile di quel che comunemente si creda, dato che il mondo è soltanto un nostro modo di vedere. «Mondo», «cosmo», «sistema» sono tre parole dal significato pressoché identico: mundus, in latino, è «un terreno che abbiamo sgombrato e messo in ordine»; kosmos (il termine greco usato nei Vangeli) è «ciò che è stato messo in ordine e appare coerente»; sistema, in tutte le lingue diverse dal rumorese, è solo «un modo di connettere le cose». Il mondo-cosmosistema è dunque una creazione non di Dio, ma degli uomini, i quali sono sempre più antichi di qualsiasi mondo in cui si trovino ad abitare. In particolare e in pratica, il mondo-cosmo-sistema in cui ciascun io ritiene di stare vivendo è opera sua, di quello stesso io: il materiale da costruzione che quell’io ha usato consiste certamente di immagini, di interpretazioni della realtà e di interrogativi creati e perfezionati da molte altre persone, ma il modo di usare quel materiale, il processo di fabbricazione e il risultato finale dipendono soltanto da lui – benché egli poi creda nella realtà di quel suo mondo come se anche gli altri vi credessero. Questo credere reale il proprio mondo è ciò che ogni io condivide con tutti gli altri: il fatto che ciascuno chiami la propria opera «il mondo» (dimenticandosi di aggiungere «mio») dà a tutti la sensazione che il mondo
in questione sia appunto uno solo – mentre in realtà sono completamente diversi, per ciascun io, sia il numero delle cose che il suo mondo contiene, sia i rapporti che tra quelle cose si stabiliscono. Il cosiddetto mondo, il mondo intero che crediamo reale, è dunque quanto di più personale, di più segreto e al tempo stesso di più immaginario vi sia nell’uomo. E l’ottima notizia che ne consegue, è che non appena un io riuscisse a cambiare se stesso cambierebbe anche il mondo intero. In meglio o in peggio? Cosa dirà la gente Chi cambiasse il mondo in peggio, non lo cambierebbe affatto. Sono infatti cambiamenti in peggio quelli in seguito ai quali il mondo così come lo vede e lo crea qualcun altro soppianta il mondo così come un io lo stava vedendo e creando, e quest’io non ha la forza di opporsi alla cosa. Sono invece cambiamenti in meglio tutti gli altri: quelli, cioè, che incominciano quando l’io scorge i limiti di quel che finora ha saputo del mondo (dagli altri), e li supera. In questo caso, naturalmente, saranno gli altri a opporsi: avvertiranno, in quel suo guardare oltre, la possibilità che anche ciò che essi chiamano «il mondo» abbia dei limiti, e dunque non sia affatto «il mondo» ma solo il loro mondo – e non a tutti piace accorgersi di poter cambiare, cioè di poter «vincere il mondo», come diceva Gesù. Diranno che quell’io vuol fare troppo di testa sua; che le cose non stanno affatto come dice quell’io; che non è possibile che tutti quanti abbiano avuto opinioni sbagliate su una cosa tanto fondamentale com’è appunto il mondo intero, e bzz fshh crr. Tuttavia, per quanto se ne abbiano a male, potranno negare soltanto ciò che di nuovo quell’io riuscirà a dir loro del mondo, e non il fatto che adesso, per lui, il mondo non è più quel che credeva prima – e che dunque il mondo possa non essere come si crede che sia. Questa possibilità, dal momento in cui un io la coglie, non è più annullabile in nessun modo.
E mostra da subito i suoi benefici. È sufficiente considerarla (cominciando a pensare: «E se davvero provassi…») per accorgersi di come l’idea che il mondo possa essere cambiato sia essenziale per la salute psichica dell’uomo. La nostra salute si consolida e aumenta soltanto se sa perché consolidarsi e aumentare, e quanto più grandi sono le ragioni che può darsi, tanto maggiori sono le energie dalle quali si lascia nutrire. Adattarsi deprime, ottunde l’io: dà ragioni di vita soltanto ai «noi», accresce soltanto la loro salute, e quella della loro Bestia. Vediamo come, più da vicino. 3. Per esempio la parola šem: la lettera geroglifica šrappresentava la «cono-scenza» e la «possibilità di estendersi», mentre la mrappresentava l’atto del «de-finire un ambito» e dello «stabilire una coerenza». 1em, letteralmente, doveva quin-di tradursi: «struttura complessiva», «spiegazione». 4. È la teoria del Punctuated Equilibrium, in italiano «Equilibrio puntuato»,o Equilibrio discontinuo. Per questo come per tutti gli altri argomenti scientificiche menziono qui, l’esistenza di Wikipedia mi esime dalla noiosa incombenza didover fornire bibliografie.
C.O. Fisiologia di una Bestia ben nota
Eccola Vidi salire dal mare una Bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo.
Apocalissi 13,1 Amante di quelli che oggi si chiamano effetti speciali, l’autore dell’Apocalissi nota anche che una di quelle teste aveva una ferita mortale: ma rapidamente la ferita guariva, con grande entusiasmo degli uomini che stavano a guardare. E adorarono la bestia, dicendo: «Chi è simile alla bestia e chi può combattere con essa?»
Apocalissi 13,4 si dicevano tutti l’un l’altro. Poco dopo, viene fornita la spiegazione di queste preponderanti caratteristiche: l’autore apprende da un Angelo che sia le teste sia le corna della Bestia sono in realtà una serie di re. Delle sette teste, cinque sono re che hanno già regnato, una è un re in carica e la settima è il suo imminente successore; le dieci corna sono invece altrettanti re che regneranno in avvenire, ciascuno «per un’ora soltanto», e a condizione che riconsegnino tutti quanti «la loro forza e il loro potere alla bestia» (Apocalissi 17,9-13). Le interpretazioni degli studiosi si sono sviluppate in numerose direzioni – a partire dall’unico punto da tutti condiviso: che i sette re volessero rappresentare i sette re di Roma. Qualche esegeta ha preferito cercare a ritroso, cioè individuare le fonti e
i fatti storici ai quali l’autore dell’Apocalissi si sarebbe ispirato; altri hanno cercato nei secoli successivi qualche possibile conferma a quella serie ordinata di re. Altri ancora non hanno resistito alla tentazione di stendere un’analisi della psiche dell’autore, che sembrava loro un «caso» molto promettente. A noi interesserà invece l’aspetto più strettamente fisiologico di questa descrizione, per poterla confrontare con la fisiologia della nostra attuale Bestia-civiltà, della quale tratteremo in questo e nel prossimo capitolo. I corpi di tempo Innanzitutto: di cosa è fatta una Bestia. Se possiamo affermare che le Bestie non sono né sono mai state esseri viventi nel senso in cui può ritenere di esserlo ciascuno di noi, è soprattutto perché, per quanto grosse siano, non hanno un corpo come l’abbiamo noi. Ma ciò non significa che non l’abbiano affatto. Semplicemente, il loro organismo è fatto di tempo, a differenza del nostro che consiste principalmente di spazio. E gli organismi temporei sono tutt’altro che rari. Ne ha uno ogni cosiddetta entità o realtà o forma di vita spirituale: cioè ogni entità o realtà o forma di vita, che possiamo cominciare a percepire soltanto dopo aver imparato la parola che la indica – mentre si definisce entità materiale qualsiasi cosa, essere o condizione di cui si possa chiedere: «E questo com’è chiamato?» dopo averla percepita. Così, per esempio, un uomo politico è un’entità materiale, a differenza di un orientamento politico, che rientrerebbe tra le realtà spirituali. Essendo fatte di tempo, tali entità o realtà o forme di vita spirituali hanno dunque decenni, secoli, millenni così come noi abbiamo cellule, fibre e organi – e chiedo ai lettori di immaginarsi ciò nel modo più concreto, senza alcuna connotazione metaforica. Appunto nel suo corpo temporeo, una simile forma di vita può essere viva, longeva, e anche indaffarata, e volitiva, assai più di quanto lo sia ciascuno di noi nello spazio. Queste forme di vita ci appaiono anzi inevitabilmente più abili, più
potenti di ciascuno di noi, proprio perché la dimensione temporale, in cui esse sono di casa, ci è molto meno familiare di quella spaziale. Basti pensare a come la spazialità predomini nel nostro modo di rappresentarci il tempo: non solo non siamo mai stati capaci di misurarlo direttamente (gli orologi finora inventati misurano soltanto porzioni di spazio, che per pura convenzione si fanno corrispondere a periodi di tempo) ma persino nel descrivere il tempo ricorriamo a categorie spaziali, soprattutto dello spazio lineare. Diciamo infatti che un periodo è lungo o breve, e che un episodio è vicino o lontano nel tempo e così via – mentre non riusciremmo neppure a immaginare una descrizione dello spazio in termini temporali: un prato rapido o lento, o una piazza istantanea, sarebbero per noi espressioni prive di senso. Per quei corpi temporei, invece, il tempo è come l’acqua per i pesci. Solo che lo spazio non è, per noi, come una terraferma, sulla quale possiamo sentirci al sicuro dal rischio di annegamento. Viviamo bensì immersi in quella dimensione temporale, a noi straniera; ne siamo compenetrati; dimodoché ci troviamo altrettanto in svantaggio, rispetto a quelle forme di vita temporee, quanto lo saremmo rispetto ai pesci se ci muovessimo nell’acqua fino al mento. E giustappunto dall’acqua l’autore dell’Apocalissi vide salire la Bestia. Dell’intemporazione della Bestia Possiamo tracciare tutti i gradi di quell’emergere: dell’incarnarsi, o meglio dell’intemporarsi delle Bestie-civiltà nell’esistenza di ciascuno di noi – cioè del loro modo di essere attraverso di noi, come dicevamo nei primi capitoli di questo libro. E sono appunto i gradi in cui decresce, nel mondo umano, l’importanza dello spazio e aumenta l’importanza del tempo. In linea generale, per i «noi» della Bestia lo spazio è tanto più importante, quanto meno numerose sono le persone che li compongono. Così, per una coppia o una famiglia lo spazio conta ancora un bel po’: è
molto diverso essere «un cuore e una capanna» in un bilocale o in una villa di trenta stanze; oppure sentirsi uniti se i membri della coppia o della famiglia risiedono in uno stesso condominio o in continenti diversi. Nondimeno, ciò che determina la storia di una coppia o di una famiglia non è tanto lo spazio quanto il tempo: da quanto tempo e fino a quando sono durati i legami – i www – che la costituiscono. Per un popolo, lo spazio conta meno e il tempo è invece ben più determinante: i www che trasformano in un popolo un determinato numero di famiglie, coppie, individui, sono ben più storiche che non geografiche – come mostra bene la storia di ogni popolo migratore, da quello ebraico agli zigani, agli emigrés russi (che a partire dal 1918 furono gli unici russi propriamente detti, mentre in URSS prendeva forma il popolo sovietico) e così via. Per una civiltà, poi, il da quando? e il fino a quando? sono le vere questioni fondamentali, mentre il dove? è come l’ombra che un corpo proietta: se per ciascuno di noi scomparire significa non essere più in nessun luogo, per una civiltà significa non essere più nel tempo di nessuno. Quanto più la coppia, la famiglia, la religione, il popolo, e con essi la Bestia-civiltà, fanno essere una persona e sono attraverso di essa, tanto più quella persona avvertirà il tempo come sua realtà costitutiva: l’età, lo ieri, l’adesso, il domani, la maggiore o minore distanza dalla sua morte le appariranno cioè più importanti, che non il qua, e il suo corpo, e il «qui dentro» (il cosiddetto cuore), e l’intorno, e tutto ciò che di bello o di brutto vi è qua e nel suo corpo, e nel «qui dentro» e tutt’intorno. A questa intemporazione ogni io tenta istintivamente di opporsi, e tale tentativo consiste in una spazializzazione del tempo, mediante la memoria, la quale fa il possibile per fissare porzioni di tempo in immagini di persone, cose e luoghi – che sono appunto immagini spaziali. Ma abbiamo
già visto come i «noi» l’abbiano vinta, tanto spesso, sulla nostra memoria, appannandola, disgregandola, falsandola. E quanto più la memoria si lascia indebolire, tanto più l’io scompare, lasciandosi assimilare dagli organi temporei della Bestia-civiltà. Le cosiddette corna Tutto ciò ci permette di comprendere in cosa consista davvero l’attributo più flagrante della Bestia descritta nell’Apocalissi: le corna, appunto. Il Diavolo non c’entra: nella cultura ebraica del I secolo d.C. non lo si immaginava cornuto. Le dieci corna della Bestia, di cui non è precisata né la lunghezza né la struttura, indicano piuttosto sue emanazioni: qualcosa che da lei prende forma e si prolunga più in là, ampliando la sua sfera d’azione. Sono come raggi che escono da una sorgente di luce, ma nulla era più lontano dalla mente del nostro autore, del paragonare la Bestia a qualcosa di luminoso. Quelle corna sono bensì un irradiarsi pesante, pericoloso, mostruoso. E quando viene spiegato che rappresentano e sono re, il cui compito è esercitare il potere della Bestia e riconsegnarglielo continuamente, si chiarisce anche che cosa precisamente si irradi in esse, e come, e verso dove. Dalla sua dimensione temporea la Bestia si estende e penetra nella nostra dimensione spaziale: e in quelle corna la sua consistenza si trasforma, diventa spazio. Ciò che in quei re-corna è ancora temporeo è la durata dei loro regni. Ma un regno ha anche un’estensione spaziale: è anche la reggia, la corte del re, gli organi amministrativi, e gli edifici che la sua corte e la sua amministrazione occupano; è il suo esercito e i mezzi di cui l’esercito dispone; ed è tutto quello che viene adibito, prodotto, venduto, comprato per mantenere il re, la reggia, l’amministrazione, l’esercito. Tutto ciò è dimensione spaziale, con cui la Bestia entra in diretto contatto, escrescendovi attraverso i suoi «re». E alcuni di essi – scrive il nostro autore – sono già diventati «teste», cioè volti, figure storiche; mentre gli altri, le «corna» appunto, si apprestano a diventarlo.
Le funzioni della Bestia, e le nostre Oggi l’autore dell’Apocalissi troverebbe nel dizionario un termine meno metaforico, per questo estendersi della Bestia: funzioni. Funzione è infatti, in ogni scienza, ciò che permette a un sistema, com’è appunto il corpo temporeo della Bestia, di interagire con un altro sistema, che in questo caso è la nostra dimensione spaziale. Quanto alla differenza tra le funzioni della Bestia e le nostre funzioni umane (per esempio, il pensiero, l’intuizione, la sensazione, il sentimento, attraverso le quali il sistema che chiamiamo «io» può interagire con i sistemi di ciò che per ciascuno di noi non è «io») è anch’essa determinata dal suo rapporto con il tempo e dal nostro rapporto con lo spazio. Proprio perché nel nostro modo di esistere il tempo è meno rilevante dello spazio, ciascuno di noi è, o almeno dovrebbe essere, più libero di agire nel tempo che non nello spazio. Ogni io ha (come è bello ripetere alle persone a cui vogliamo bene) «tutto il tempo del mondo» per fare qualsiasi cosa; può esercitare contemporaneamente varie funzioni: pensare e provare sentimenti, provare sentimenti e provare sensazioni eccetera – ma il suo corpo non può stare in più di un luogo alla volta. La Bestia, invece, può fare soltanto il contrario, cioè esercitare solo una funzione per volta, ma in molti luoghi diversi. L’autore dell’Apocalissi spiega infatti che i suoi «re» agiscono uno alla volta, e non precisa dove. Non vi è alcuna necessità di vedere, qui, un riferimento alle vicende politiche di Roma: quei «re» rappresentavano più verosimilmente modi di regnare e di obbedire ai re, cioè periodi, epoche, che potevano accomunare diversi Stati anche molto lontani tra loro. E se così è, l’Apocalissi aveva ragione: anche la nostra Bestia-civiltà attuale ha infatti vari «regni», («corna» diventate «teste», modi di pensare) attraverso i quali ingrana con la nostra dimensione spaziale. Ciascuno di quei «regni» perdura per un certo periodo di tempo anche in tre continenti alla volta, ma nessun suo regno – come vedremo tra breve – opera mai contemporaneamente a un altro. Sono epoche della Bestia, e somigliano ai mesi dell’anno, che iniziano ciascuno solo quando il precedente finisce. Su un’altra cosa aveva ragione, quel profeta ebreo-greco di duemila anni
fa. All’Angelo che lo istruisce, fa dire che gli uomini si stupiranno al vedere che la Bestia era e non è più, ma riapparirà.
Apocalissi 17,8 Quel tipo di Bestie, cioè, per dirla in tono meno enigmatico, esercitano le loro funzioni in maniera ciclica: i loro «re-corna» entrano in azione uno dopo l’altro, e la loro serie termina a un certo punto, «era e non è più», ma solo per «riapparire», per ricominciare poi daccapo. Allo stesso modo la notte del 31 dicembre l’anno termina, ed «era e non è più», ma il 1° gennaio ricomincia, con gli stessi mesi di sempre. E anche le epochefunzioni della nostra attuale civiltà hanno un andamento ciclico, e si ripresentano sempre uguali. Ancora sulle funzioni degli organismi viventi. Loro cause. Ma prima di esaminare queste epoche, vale la pena di precisare ancora un po’ il prezioso concetto di funzione vitale. Chi provasse ad approfondirne il significato nella letteratura scientifica o filosofica rumorese, verrebbe facilmente indirizzato verso qualche bibliografia dell’evoluzionismo, pro e contro, e lì ritroverebbe – sia nei testi pro, sia nei testi contro – tentativi di spiegazione causale, cioè probabilistiche ricostruzioni a ritroso dei diversi stadi evolutivi attraversati, in questa o quella specie, dalle funzioni vitali attualmente note. Dai testi evoluzionistici apprenderebbe, così, che noi pensiamo, respiriamo, intuiamo, ci riproduciamo in un determinato modo perché i nostri remoti predecessori nei cladogrammi delle specie lo facevano in un altro modo, e i loro remoti predecessori in un altro ancora e così via, risalendo lungo la serie dei Last Common Ancestors delle varie specie, fino al primo organismo vivente che, appunto per le sue funzioni, si sarebbe distinto dagli oggetti inanimati.
E lì, di nuovo, come già abbiamo visto nel caso delle civiltà, questa spiegazione evoluzionistica si fermerà, senza aver chiarito quel che doveva, ovvero per quale causa gli esseri viventi abbiano le funzioni vitali. Quanto ai testi antievoluzionistici, la loro unica differenza da quelli proevoluzionistici è che si fermano quasi subito dopo la formulazione del quesito: stabiliscono soltanto di non poter scoprire quella causa, dato che Dio solo la conosce ed è un suo segreto del mestiere. Invece Se invece tratteniamo l’insana voglia di cercare soltanto nel passato la ragione di qualcosa che troviamo nel presente, non ci metteremmo molto ad accorgerci che le funzioni di un essere vivente sono semplicemente espressioni peculiari di quell’essere, al pari dei suoi gesti, delle sue decisioni, della voce e di tutto ciò che è suo. Il fatto che i rinoceronti abbiano un naso diverso dal nostro non è dovuto tanto alla differenza tra il processo evolutivo che ha fatto capo ai rinoceronti attuali e il processo evolutivo che ha fatto capo a noi, quanto piuttosto alla ben più dimostrabile circostanza che i rinoceronti sono rinoceronti mentre gli uomini sono uomini. Il problema del che cosa siano in realtà le funzioni diventa dunque il problema del che cosa siano in realtà i loro proprietari. E che cosa sia davvero un rinoceronte, e che cosa sia invece un uomo, in rumorese non è dato saperlo, perché questa lingua è talmente povera da doversi per forza aggrappare agli oggetti visibili per poter significare qualcosa (provate a formulare una frase di senso compiuto usando soltanto bzz crr fshh e senza accennare a nulla con il dito, con lo sguardo o con il mento, e capirete che cosa intendo). Il rumorese non può dire nulla riguardo a ciò che un qualsiasi essere vivente in realtà è, appunto perché ciò che un essere vivente è non si vede, non si tocca né si può percepire attraverso alcun altro senso corporeo. Quanto a ciò, hanno quasi ragione gli antievoluzionisti, nel sostenere che ci sono vari perché degli esseri, di cui Dio non parla: di certo non ne
parla in rumorese. Dio adopera, invece, e possiamo adoperare benissimo anche noi, tutte le parole e tutte le immagini del mondo per spiegare ovunque quei perché: l’elemento fondamentale e invisibile di ogni essere vivente, ovvero ciò che quell’essere vivente in realtà è per se stesso e per gli altri, non fa che esprimersi nelle sue funzioni vitali, che stanno a lui come un’opera d’arte sta al suo contenuto; anche l’opera d’arte è infatti l’apparire, la visibilità di qualcosa che altrimenti non percepiremmo in alcun modo. Il marchio sulla fronte D’altra parte, così come un’opera d’arte non è tutta quanta in ciò che ne percepiamo (la bellezza di un dipinto non è in nessuno dei suoi pigmenti di colore, ma in ciò che attraverso quei pigmenti si rivela a chi sa accorgersene), allo stesso modo un essere vivente non consiste solo delle sue funzioni, ma anche di ciò che attraverso quelle funzioni si esprime, e si manifesta, appunto, a chi sa accorgersene; cosa, questa, che capita di rado. Già arrivare a scorgere la qualità di un singolo essere umano al di là del suo operato è possibile soltanto in particolari stati di grazia, per esempio quando si riesce a perdonare qualcuno, cioè – come abbiamo visto prima – a distinguere tra ciò che quel qualcuno è e ciò che ha fatto. Quando invece si tratta di gruppi di persone, di grandi «noi», di popoli interi, una simile distinzione non viene nemmeno in mente, ai più: e viene visto solo l’operato. Così, per esempio, di una guerra, di una rivoluzione gli storici descrivono i fatti, tentando di individuarne le connessioni: e dal modo in cui ciascuno storico connette i fatti, deduce le loro conseguenze (cioè le connessioni con fatti successivi) e le loro cause (cioè le connessioni con fatti precedenti). Null’altro. Da tale fattualità gli storici sono a tal punto affatturati da non accorgersi di considerare come fatti, e non come esseri viventi, anche le molte persone coinvolte in quella guerra o rivoluzione. I governi, gli stati maggiori, gli eserciti, le popolazioni, i ceti sociali, insomma tutti quelli che in genere vengono indicati come protagonisti
della storia, per lo storico non sono altro che fatti, causati da altri fatti. Il che fa apparire i libri di storia come insiemi di frasi piene di verbi, ma in realtà prive di soggetti. Le domande a cui nessun libro di storia risponde sono: chi erano, di per sé, gli esseri umani che vengono descritti come popoli, eserciti, classi sociali, governi? in questi raggruppamenti che cosa restava dei singoli individui (del loro pensare, del loro sentire, del loro personale volere)? Presumibilmente non molto; e dunque: chi o che cosa, in quei raggruppamenti, era e agiva? Chi, insomma, ha fatto e fa la storia, dalla quale l’esistenza di ciascuno di noi è condizionata? Di certo, non coloro che potrebbero essere indicati in risposta alla prima domanda. E quel che è peggio: a questo modo, cioè solo con verbi e senza soggetti, la stragrande maggioranza delle persone pensano quotidianamente a ciò che da ogni parte le circonda, e spesso anche a se stesse – non chiarendo mai né il significato della parola «io», né il rapporto tra il loro autentico io e ciò che esse fanno a somiglianza del loro prossimo. È come se un qualche tabù impedisse persino di formulare questi interrogativi; o come se, per certe circostanze genetiche, anche la mente dei più tendesse a diventare soltanto un fatto, un’azione, una funzione altrui, priva di volontà propria, e perciò potesse vedere attorno a sé e in se stessa soltanto fatti, determinati da altri fatti, e non chi sia davvero a determinarli. L’autore dell’Apocalissi avrebbe probabilmente sottoscritto sia l’ipotesi del tabù sia quella genetica, dopo che gli si fosse spiegato che cosa significano oggi questi termini; e avrebbe aggiunto che proprio questo intendeva con la sua immagine del «marchio sulla fronte degli uomini», impresso dalla Bestia: un divieto superstizioso e al tempo stesso una lesione di alcuni centri nervosi indispensabili all’intelligenza.
Dell’esserci Da ciò che abbiamo visto nelle pagine precedenti derivano alcune condizioni o criteri di esistenza diversi da quelli comunemente in uso nella nostra civiltà. In base a questi diversi criteri possiamo dire che la Bestia esiste, e anche intendere meglio in quale modo la nostra esistenza si contrappone alla sua. Il criterio di invisibilità: ovunque sia all’opera una funzione, vi è un essere vivente che attraverso di essa agisce, e la cui essenza è invisibile. Ciò aumenta moltissimo il numero degli abitanti dell’universo, rispetto al totale che se ne potrebbe calcolare in rumorese. Oltre agli uomini, agli animali, ai vegetali, ai minerali, vi sono infatti le entità e forme viventi che hanno corpi temporei, piccoli o grandi. Anche Jung avanzò in tutta serietà l’ipotesi che molti dei nostri pensieri non siano affatto nostri, bensì espressioni, funzioni di altre forme di vita che nei dizionari rumoresi non si trovano menzionate, e che noi percepiamo soltanto attraverso la nostra coscienza.5 Il criterio di appartenenza: non tutte le funzioni vitali che si possono veder esercitate in un essere vivente visibile appartengono a quell’essere. Quando qualcos’altro ci fa essere ed è attraverso di noi (e sappiamo che la Bestia non fa altro, nel nostro mondo spaziale), sono le sue funzioni ad agire in noi, e non le nostre. Il criterio di identità, il più avventuroso: tra le funzioni (pensieri, intuizioni, sentimenti, sensazioni eccetera) che un io avverte all’opera in un qualsiasi momento della sua esistenza, può individuare le proprie e le altrui; con un po’ di pratica, può anche imparare a fare lo stesso osservando i suoi simili: distinguerà cioè anche in costoro le funzioni che a loro appartengono e quelle che invece appartengono a qualcun altro a forme di vita diverse. Un io può cominciare, così, a stabilire più chiaramente sia la propria
identità, sia quella altrui, avviando un processo di reinterpretazione della realtà nel quale chi appartiene alla Bestia non può essergli di alcun aiuto. Di nuovo l’abisso Il contrario del criterio di identità è l’illusione: l’illusione che l’«io» sia l’io, che gli altri siano gli altri, e che qualcuno di loro sappia («Qualcuno dovrà pur saperlo!…») in qual modo e perché gli io riuniti in un esercito, in un ceto, in un governo, o in ogni altro «noi» di una civiltà fanno cose che ben pochi di loro farebbero per proprio conto, e si aggrovigliano in problemi che di per sé non avrebbero mai avuto. È evidente che nessuno lo sa, nella Bestia. Ma quando un’illusione è condivisa da moltissimi e riguarda cose essenziali – nel nostro caso, l’esistenza stessa – vale per essa una sorta di «teorema di completezza» (il reciproco di uno dei celebri teoremi di incompletezza di Gödel): se un’illusione è sufficientemente vasta ed espressiva da riguardare il mondo intero, non è possibile dimostrare l’incoerenza di tale illusione a chi la condivide.6 Abbiamo già visto come ciò avvenga nel rumorese, che non è in grado di descrivere la propria incapacità di descrivere qualsiasi cosa. Vedremo come ciò avvenga in ciascuna epoca della nostra Bestia, nella mente, nei sentimenti, nell’anima di coloro che le appartengono: come siano tanto più convinti di essere qualcosa quanto meno riescono a essere se stessi; come scambino fatalmente le funzioni della Bestia per le proprie; e come ritengano tutto ciò il modo di vivere più ragionevole e addirittura il più vantaggioso, soltanto perché alla Bestia occorre che lo si ritenga tale. Bisogna dunque uscire da una vasta illusione, per essere in grado di vederla. E all’inizio, di certo, non risulterà facile. Agli occhi di un io che si allontani dalla Bestia, tutto comincia a cambiare, come emergendo da una densa foschia: in tutto ciò su cui posa lo sguardo, vede un confine tra quel che ne sapeva e ne capiva prima, e quel che si accorge di vederne e di capirne adesso. Sperimenta allora la più luminosa tra le sensazioni: quella di aver avuto torto finora, e dunque di essere nuovo, e più grande, di trovarsi all’inizio di un diverso cammino – di un diverso stadio evolutivo.
Ma è una sensazione che dà vertigine. Fa temere l’abisso, il vuoto. Nella Bestia-civiltà ognuno di noi ha in ogni istante un ruolo, un senso, una direzione; i suoi «perché?» hanno milioni di risposte già pronte, tutte rigorosamente causali, tutte in rumorese. È il Soggetto Collettivo ad avere tutto ciò, in ciascuno di noi. Quando ci stacchiamo dalla Bestia, tutto ciò va perso: è il Soggetto Collettivo a perderlo, in ciascuno di noi. Il senso di smarrimento che allora avvertiamo è il suo senso di smarrimento: e sarà immenso, e non potrà che travolgerci e annientarci, se non riusciamo a essere qualcosa di diverso. Cioè noi stessi, soltanto. Ed è una grande impresa, troppo semplice, e appunto perciò impossibile per molti. La nostra Bestia Intanto, perché non vi siano dubbi su ciò da cui conviene uscire, facciamo conoscenza con la Bestia che sta esprimendosi, oggi, a spese di circa un miliardo di persone, molte delle quali sono nostri amici o conoscenti: la moderna Civiltà Occidentale, diretta discendente di quella denunciata dall’Apocalissi. Ecco quale sarebbe la sua carta d’identità, se qualcuno avesse potuto rilasciargliela: Cognome........................ SOGGETTO COLLETTIVO Nome ............................ CIVILTÀ OCCIDENTALE Emersa dall’acqua .......... ATTORNO AL 1760 A.................................... EUROPA E COLONIE NORDAMERICANE Cittadinanza .................. TUTTE LE CITTADINANZE DEI COSIDDETTI STATI OCCIDENTALI
Residenza ...................... NEL TEMPO Stato civile ...................... PLURIDIVORZIATA
(DOPO LA FINE DEL
COLONIALISMO)
Professione .................... BESTIA Come data della sua apocalittica «emersione dall’acqua» ho indicato gli
anni Sessanta del XVIII secolo, perché prima d’allora la Bestia era un’altra. Non c’era ancora l’Occidente così come lo intendiamo oggi: cioè quella solida compagine che, nell’emisfero settentrionale, si estende dall’America alla Russia, e nell’emisfero meridionale ha in Australia e in Nuova Zelanda una sua dépendance. Solo attorno al 1760, con l’ingarbugliata Guerra dei Sette Anni e con il regno di Caterina II, si ebbe il definitivo ingresso dell’Impero russo nella politica europea, e in quello stesso periodo l’Europa cominciò ad accorgersi che le sue colonie nordamericane erano diventate qualcosa di diverso dal Regno Unito, e che avevano tutta l’intenzione di farlo sapere in giro. Solo allora «emerse» la nostra attuale Civiltà Occidentale – che nel seguito di questo libro chiameremo più confidenzialmente C.O.
Lignaggio La C.O. emerse come sempre emergono dall’acqua le Bestieciviltà: con l’aggregarsi di alcuni, centri di potere e popolazioni che avevano cominciato a scoprirsi tra loro affini. Così era avvenuto, infatti, anche per le Bestie che prima di lei avevano dominato parte dei suoi territori attuali: tra l’XI e il XVII secolo, cioè tra l’inizio delle Crociate e la fine della Controriforma, la Bestia in carica era costituita da un’aggregazione di
Paesi cosiddetti cristiani; tra il V e l’XI secolo, cioè tra il crollo dell’Impero romano e le Crociate, la Bestia (la nonna, potremmo dire, della nostra attuale) era costituita dall’aggregazione dei popoli prima dipendenti da Roma e di alcune popolazioni barbariche insediatesi in Europa; tra il finire del I secolo a.C. e il V d.C. la Bestia era costituita dai popoli dell’Impero eccetera. E la fine di ciascuna di queste Bestie si dovette appunto al disaggregarsi, per fattori esterni o interni, degli Stati e dei popoli che l’avevano costituita. Facile e compatta Le Bestie-civiltà originano da aggregazioni, perché tendono evidentemente a seguire un principio di minor resistenza, al loro interno. Somigliano cioè a fiumi che trascinano con sé milioni di io, e non a motori che spingano qualcosa in salita. Da un lato, se ne potrebbe dedurre che le Bestie non siano in grado di affrontare compiti complessi: affidarsi a un principio di minor resistenza è più facile che soggiogare, costringere o convertire (a differenza delle religioni, le Bestie non fanno proseliti). Dall’altro lato, proprio a questa forza inerziale ogni Bestia-civiltà deve la sua compattezza e solidità. È compatta perché chi vive nei suoi territori trova incomparabilmente più facile fluire in lei, piuttosto che opporlesi. E quando si comincia a fluire in lei, si diventa fiume: si ha cioè la sensazione di essere parte di un fenomeno naturale, nel quale la Bestia è armonia, e sono invece disarmoniche le esigenze degli io – la loro memoria, il loro amore, la loro libertà. È come se la Bestia dicesse: «Eh sì, sono fatta così, che volete?» e tutti coloro che le appartengono ripetessero allo stesso modo: «Sì, è vero, siamo fatti così, tutti noi, e cos’altro possiamo volere?» E il suo corso fluviale non può che spingere sul fondo, o fuori, coloro che, al suo interno, tentino di modificarlo o fermarlo. Per la stessa ragione la Bestia è solida verso l’esterno: la pressione esercitata sui suoi confini dalle altre Bestie-civiltà non fa breccia in lei,
appunto perché a chi le appartiene costerebbe maggiore sforzo aderire a quelle, piuttosto che continuare a fluire con la massa dei connazionali. Se il fattore di coesione fosse la costrizione, lo sforzo di continuare ad appartenerle sarebbe invece superiore a quello di sfuggirle e di defluire in una Bestia vicina. Gli irochesi Un ottimo esempio della duplice utilità di questo principio di minor resistenza si ebbe durante l’«emersione» della C.O., su quello che sarebbe poi divenuto il suo confine occidentale. L’intricatissimo conflitto dei Sette Anni, tra il 1756 e il 1763, impegnò non soltanto tutti gli Stati che poi appartennero alla nostra Bestia, ma anche, nella regione dei Grandi Laghi americani, la Confederazione Irochese, alleata degli inglesi, e gli uroni, alleati dei francesi. C’erano ottime ragioni per cui la Bestia emergente avrebbe potuto integrare i pellerossa: irochesi e uroni erano temuti e rispettati, a quel tempo; l’Illuminismo, allora di moda in tutto l’Occidente, aveva aperto prospettive sufficienti a far apparire i «selvaggi» come persone degne di considerazione (e d’altronde irochesi e uroni non erano, a quel tempo, più «selvaggi» di varie popolazioni rurali europee, i contadini russi, per esempio); per di più, la forza gravitazionale delle culture dei pellerossa non era tanto intensa da impedire la loro aggregazione alla C.O. – a differenza di quella della civiltà islamica, o della civiltà cinese, con le quali la C.O. si apprestava a confinare a est e a sud. Dunque ci si sarebbe potuti intendere, con quelle nazioni indiane, e associarle, così come i romani avevano saputo assimilare al loro impero le nazioni galliche. Ma così non fu: la religione romana era più elastica delle religioni praticate dagli occidentali nel XVIII secolo (cioè cristianesimo ed ebraismo). Associare alla C.O. gli irochesi e gli uroni avrebbe significato o doverli dominare e convertire, o dover imporre agli occidentali troppo faticose revisioni del loro credo monoteistico – e nell’uno e nell’altro caso
sarebbe venuto meno il principio di minor resistenza. In tal modo, le alleanze con i pellerossa ebbero breve durata. La C.O. pose lì un suo confine, escludendoli. Fece quel che le risultava più facile: porsi come una compagine di soli bianchi cristiani ed ebrei. E ciò la rafforzò. Ben presto cominciò a erodere, a distruggere le culture indiane, troppo diverse le une dalle altre per poter formare una Bestia sufficientemente compatta; e le spazzò via dal proprio cammino, senza integrarle mai, e bollando come outsider ogni appartenente alle C.O., che si affratellasse con loro. Un’altra Bestia Così non fu nell’America Centrale e Meridionale. Qui i colonizzatori avevano finito per fondersi con le popolazioni locali, determinando un altro principio di minor resistenza, e il sorgere non soltanto di nuove etnie miste, ma soprattutto di nuovi sistemi culturali, molto diversi sia da quelli che vi erano in quel territorio prima della conquista, sia da quello che si andava formando in Europa e in Nord America. Nella seconda metà del Settecento, tale diversità era già evidente: in Messico, in Brasile, in Argentina, in Cile l’Illuminismo non poté diffondersi, perché era il prodotto di una mentalità, di «sistemi di riferimento» da cui quelle nazioni erano e si sentivano lontane. Poco dopo, la C.O. venne completamente esautorata da quella parte di mondo: divenute indipendenti, le ex colonie americane del Portogallo e della Spagna non avvertirono alcun bisogno né di entrare nel gioco politico europeo, né di stringere con gli USA rapporti che non fossero puramente commerciali. Fecero «emergere dall’acqua» una civiltà tutta loro, che dalla C.O. è ancor oggi percepita come esotica. Perciò, nonostante le affinità che legano la loro Bestia alla nostra, non mi sembra possibile includere nella C.O. l’America Centrale e Meridionale – non più di quanto vi si potrebbero includere le Filippine, perché vi si parla spagnolo e vi si pratica il cattolicesimo; o di quanto si potrebbero includere i somali nella civiltà dell’Asia occidentale perché praticano l’islamismo e hanno l’arabo tra le
loro lingue ufficiali. Del nascere interrogativo Ma tutto ciò basta a spiegare soltanto il come una Bestia emerga; il fatto che emerga richiede ancora qualche chiarimento – così come lo richiederebbe il fatto che nasciamo noi, una volta che ci venisse in mente di domandarci seriamente perché siamo al mondo. A quest’ultima domanda (un poco più complessa di quella sulle Bestie) potremmo trovare due ordini di risposte. Il primo è il seguente. Ognuno di noi è, per un verso, un essere costituito di spazio, di un «qui», di un «dentro», e di un aspetto esteriore, che formano un insieme unico, per un periodo di tempo che chiamiamo vita. Questo periodo di tempo è incominciato al momento del nostro concepimento e terminerà nel momento della nostra morte. Sia al suo inizio, sia in ciascun istante che intercorre tra l’inizio e la morte, l’esistenza di un io è un’ininterrotta serie di cambiamenti, più o meno significativi, ciascuno dei quali potrebbe aprire direzioni inattese. Da ciascun io – dal suo desiderare, volere e «chiedere al Dio-Divenire» – dipende quali e quante direzioni prenderà la sua esistenza. Sui modi in cui l’esistenza di ciascun io dipende da lui sono possibili opinioni svariate (il primo ordine di risposte è infatti ricchissimo, nella storia del pensiero umano) ma una cosa è certa: nessun io potrà mai formarsi un’idea esauriente di sé, se non alla fine del suo periodo di vita, quando appunto potrà considerare tutte le direzioni che la sua esistenza ha preso. In tal senso, nascere è l’inizio di un quesito di cui tutta la vita è la soluzione – e quanto a questo, le informazioni che sulle nostre carte di identità sono stampate dirimpetto alla foto non sono, in genere, di grande aiuto. Del nascere confermativo
Il secondo ordine di risposte è invece più stringato. La foto sulla nostra carta di identità mostra la parte superiore del nostro corpo, così come lo può cogliere uno strumento – la macchina fotografica – che l’uomo ha costruito in modo da confermare l’immagine che la stragrande maggioranza degli uomini ha del corpo umano. Secondo tale immagine, il nostro corpo è un involucro chiamato pelle e quel che tale involucro contiene. Nessun primitivo e nessun animale sarebbero d’accordo su questo punto. Del nostro corpo i primitivi avevano, e gli animali hanno, immagini ben più ampie, comprendenti campi d’energia termica, psichica e così via. Quanto a questo, dunque, l’immagine del nostro corpo è anch’essa fatta soprattutto di tempo: ha incominciato, in un certo periodo, ad apparire valida ai nostri occhi, e durerà ancora per un po’, fino a quando apparirà antiquata, assurda e sarà sostituita da un’altra. In considerazione di ciò, il nostro nascere e la nostra esistenza sono il nostro corrispondere a un’immagine del corpo che non è incominciata con noi, e che nessun io può, attualmente, cambiare. Il fatto che noi siamo nati vuol dire che abbiamo cominciato ad avere soltanto due braccia, due gambe, venti dita, due occhi, un naso, due polmoni proprio come un triangolo ha tre lati, un rettangolo quattro, un’ora ha sessanta minuti, un anno dodici mesi, e una civiltà una serie di epoche cicliche. E nient’altro. Dell’emergere dall’acqua È sufficiente un lieve spostamento del punto di vista, per passare da un ordine di risposte all’altro: cioè dal nascere interrogativo a quello che abbiamo chiamato confermativo. E nella nostra esistenza questi due modi di nascere interferiscono infatti l’uno con l’altro, entrambi egualmente validi; solo che gli io, gli individui trovano più vero il primo, perché il loro modo di vivere lo preferisce e ne trae un senso che il secondo non fornisce. Nell’esistenza delle Bestie vale, invece, soltanto il secondo. Perciò preferisco usare, per le Bestie, l’apocalittica espressione
«emergere», invece di «nascere». Il verbo «nascere» implica irresistibilmente l’idea di un progressivo formarsi, che prosegue poi per tutta l’esistenza di chi o di ciò che è nato: di una storia d’amore, di una città, o di un ragionamento si può dire che nascano, proprio come nasce un io; e se ne può poi narrare la più o meno interessante storia, da quando erano piccoli fino a quando diventano vecchi. Le Bestie emergono invece già pienamente formate, proprio come lo è (secondo l’attuale opinione occidentale) la nostra corporeità; e nel corso del tempo non fanno che diventare sempre più quel che erano fin dall’inizio, proprio così come il nostro corpo evidenzia sempre più i suoi tratti e le loro funzioni e possibilità, via via che cresciamo – ma in ogni istante della sua vita potrà avere al massimo due braccia, due gambe, venti dita, un naso, due polmoni. Allo stesso modo, emergono già pienamente formate, dal profondo della nostra psiche, le figure geometriche, di cui gli studiosi indagano e poi scoprono a lungo le proprietà; allo stesso modo, per quanto possiamo saperne, è emerso il tempo, tutt’a un tratto e tutto intero; e così lo spazio, che ebbe inizio insieme con il tempo, e fu da subito tale e quale a com’è adesso. Le descrizioni geometriche Tutte queste realtà emergenti hanno in comune il fatto che, quando le si descrive, non vi è alcun loro punto che si possa considerare più iniziale di un altro. Per narrare nei dettagli una storia d’amore sarà bene, a un certo punto del racconto, menzionare il primo incontro tra i due, dal quale tutto ha avuto inizio. Nel ricostruire la storia di una città, la genesi di una teoria, di un libro, si delineeranno fasi in cui la città, la teoria, il libro stavano prendendo forma, e in alcune di tali fasi erano molto diversi sia da quel che erano stati prima sia da quel che sarebbero stati poi. Chi volesse invece spiegare tutto il possibile di una figura geometrica o del corpo umano così come lo vediamo oggi, potrebbe cominciare da qualsiasi lato, da qualsiasi lineamento o organo, e non cambierebbe nulla:
scopo della sua spiegazione sarebbe comunque suscitare il prima possibile, in chi lo ascolta, l’immagine intera di quella figura, o del corpo umano, poiché soltanto allora l’ascoltatore potrà intendere di che cosa stia parlando. E qualcosa di molto simile è avvenuto quando, molto tempo dopo le figure geometriche, e dopo l’immagine del corpo umano così come oggi lo si intende, la nostra Bestia-civiltà emerse dalle acque del Tempo e apparve nel nostro universo misto, spaziotemporale. Il Castello Nella dimensione temporale (che è per loro quel che lo spazio è per noi) le Bestie emergono dall’acqua già intere, da subito. Nel nostro spazio-tempo producono poi forme, attraverso le quali la nostra mente comincia a capirle. Così, nel suo Tempo la nostra Bestiaciviltà era già intera alla fine della Guerra dei Sette Anni: e dal 1760 non ha fatto che manifestarsi nella nostra realtà, con le sue corna-regni, con le sue epoche, senza crescere, né diminuire, né cambiare nulla della propria struttura fondamentale. Secondo alcune religioni (non tutte), anche il nostro io potrebbe essere il manifestarsi spazio-temporale di un elemento psichico-spirituale che, nel Tempo, gli preesisteva, e che esisterà poi. Secondo me, è più probabile, e in ogni caso è più bello pensare che l’io di ogni essere vivente sia il punto di connessione tra l’universo spazio-temporale e il Tempo e molte altre dimensioni, e che compito dell’io sia scoprirle e abitarle tutte – «crescere e moltiplicarsi» in esse, come dice ’Elohiym all’inizio della Genesi 7 – senza perdere il contatto con nessuna. E che la nostra Bestia-civiltà se ne stia, per ora, come un guardiano della soglia del Tempo, che tocca a noi smuovere ed eliminare. Per chi fosse interessato a quest’impresa, ecco qui il suo identikit, come sono riuscito a ricostruirlo.
Somiglia, come si vede, alla pianta di un castello. Sono giunto lentamente a questa ricostruzione, studiando le epochefunzioni della C.O., il loro susseguirsi ciclico e i loro rapporti reciproci. Dapprima avevo pensato che lo schema dovesse essere circolare, o a spirale, come quello dell’orologio, o dello Zodiaco. Poi, mi sono accorto di quelle che sono ora le «torri»: quattro epoche in cui le popolazioni della C.O. avvertono – ciascuna a suo modo, con maggiore o minore paura – un’esuberanza di energie, che le spinge a volersi sottrarre al ciclo che la
Bestia impone, a cercare altre vie. E notavo che in quelle epoche la Bestia frenava puntualmente le spinte centrifughe, erigendo barriere di avvenimenti frustranti: le sue popolazioni venivano, lì, ricondotte entro il ciclo in modo così brusco, da far apparire inadeguata l’idea di un cerchio – in cui ogni tratto della circonferenza deve essere uguale a tutti gli altri. E l’immagine di un quadrato dagli angoli robusti divenne rapidamente un Castello. Mi tornavano in mente i crociati che, in Outremer, guardavano dai loro castelli perfettamente occidentali i colori abbaglianti e gli orizzonti di sabbia, in attesa dei variopinti eserciti del Sultano. Dentro, tutto era per loro Europa: e il cortile del nostro Castello rappresenta appunto ciò che per noi oggi è nostro, occidentale (in qualsivoglia ambito: dalla politica ai rapporti famigliari). Da dentro, le mura apparivano sicure e perciò sensate: e anche oggi, viste dal «cortile» del nostro Castello, tutte quante le epoche della C.O. ci appariranno, via via che le scopriremo, familiari, comprensibili, necessarie; mentre al pensiero di quel che c’è fuori, nelle altre Bestie, le epoche della C.O. costituiscono per i nostri «noi» un baluardo (e vedremo che alcune sono meno solide di altre). Altri castelli Il castello, d’altronde, come molte altre cose che gli uomini hanno sentito il bisogno di costruire a lungo, è anch’esso una forma ben più temporea che spaziale. È un archetipo, si direbbe nel rumorese della psicologia. Ogni castello, infatti, benché venga costruito dagli uomini, obbedisce meno al talento e all’arbitrio dei suoi costruttori, che alla formacastello impressa nella mente degli uomini d’una determinata civiltà. Quel typos, o pattern – quella massiccia struttura dalla base tendente al quadrato, e associata all’idea di protezione – emerge nella mente di quegli uomini da profondità millenarie, come testimoniano i tanti tentativi antichi di realizzarla, di oggettivarla: menhir, nuraghe, piramidi; e continua a emergere in tentativi recenti: grattacieli, complessi residenziali, stazioni spaziali. A maggior ragione mi convinsi che il Castello fosse, per la nostra
Bestia, uno schema adeguato. Presumo invece che per lo schema della civiltà islamica sarebbe necessario inserire, nel perimetro delle epoche, un tratto incurvato, dato che l’emisfero sovrapposto a un prisma – la cupola – è la principale figura archetipica nelle culture dell’Islam; e per la civiltà africana lo schema sarebbe probabilmente triangolare, come la sezione verticale di una piramide. Ma qui intendo trattare soltanto della C.O. Esaminiamone dunque le mura. 5. CARL GUSTAV JUNG, Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli, Milano 1978, pag. 226. 6. In realtà, il secondo teorema di incompletezza di Gödel sostiene che: «Nessun sistema coerente può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza» ed è riferito ai grandi sistemi matematici. Io estendo irrazionalmente il suo reciproco a tutti i grandi sistemi esperibili dall’io. 7. Genesi 1,28. Unicamente per influsso del rumorese, questo comandamento di ’Elohiym viene inteso sempre come un’esortazione a prolificare. In realtà, sia in ebraico sia in traduzione, esso è riferito all’io di ciascuno: come a dire «ognuno di voi cresca, e crescendo scopra quanto è grande e molteplice ciò che chiama io».
Dentro il Castello
Le dodici epoche-funzioni Le chiamo epoche sia nel senso corrente di «periodo storico», sia nel significato originario del greco epokhé, che era: «modo di star fermi». Così, epokhé asteron, cioè «aspetto degli astri», significava in greco ciascuna posizione in cui le costellazioni vengono a trovarsi le une rispetto alle altre, con tutte le circostanze che, secondo gli antichi, tale posizione determina nel mondo, trattenendo gli uomini dal compiere determinate azioni e facilitandone invece altre. Anche in ciascuna epoca della C.O. determinate potenzialità umane vengono ostacolate o del tutto paralizzate, mentre ad altre è concesso di attuarsi. Certo, i desideri degli individui non obbediscono a queste epoche,8 poiché qualcosa nell’io non se ne lascia fermare; ma ai «noi» le epoche della Bestia appaiono tanto naturali quanto i processi di un essere vivente: anche nell’inspirare viene impedito l’espirare, e viceversa; o come le stagioni: d’autunno le foglie possono avvizzire e cadere e non spuntare, e in primavera il contrario. * * * Quanto al fatto che le nostre epoche-funzioni siano dodici, i più esoterici tra i lettori potrebbero ipotizzare una somiglianza con i dodici segni zodiacali – che sono anch’essi ciclici, proprio come le nostre epochefunzioni. Ma a tale riguardo, vorrei subito rassicurare i lettori a cui l’esoterismo è venuto a noia: nessuna di queste epoche corrisponde al segno dell’Ariete, al Toro, ai Gemelli. L’unico rapporto tra le dodici epoche della C.O. e i segni e le Case è da vedersi nel fatto che quel numero archetipico, il dodici, sia stato scelto dall’astrologia, qualche migliaio di
anni fa, per suddividere il ciclo zodiacale. Interpreto questo parallelismo come una momentanea coincidenza, non particolarmente significativa: non tutte le Bestie hanno dodici epoche. La Bestia dei tempi in cui fu scritta l’Apocalissi ne aveva diciassette: i sette «re-teste» e in più i dieci «recorna» pronti a entrare in azione dopo di loro. La nostra Bestia ne ha dodici, a quanto mi risulta dallo studio dei modi in cui essa trattiene e manovra, dal 1760 in poi, coloro che le appartengono. La prossima Bestia ne avrà magari ventuno. Conteggio e titoli Quanto alle date che compaiono sulle mura del Castello, la loro ratio è meno complessa di quel che sembra: ciascuna epocafunzione dura sei anni. Un intero ciclo della C.O. ne dura dunque settantadue, dimodoché ogni settantadue anni ciascuna epoca torna a fermare e a manovrare le vicende dell’Occidente nel modo che le è proprio.* È un ritmo storico facilmente verificabile. Basta prendere un anno qualsiasi, poniamo il famigerato 2012, o meglio ancora il periodo 2012-2018, sottrarre settantadue anni, e poi ancora settantadue, e poi ancora, e confrontare ciò che avvenne in quei periodi con quel che oggi molta gente prevede per l’anno delle Olimpiadi di Londra e per quelli immediatamente successivi. 2012-2018 meno 72 dà 1940-1946. La Seconda Guerra Mondiale. Un’enorme macchina bellica distrusse decine di milioni di persone senza che ci si potesse far nulla. 1940-1946 meno 72 dà 1868-1874. Nel 1870 vennero annientati alcuni Stati della penisola italiana, centinaia di migliaia di parigini, durante la Comune, e poco dopo anche la monarchia francese. E ciò che li accumunò tutti fu il non aver trovato sostegno da parte di nessuno. 1868-1874 meno 72 dà 1796-1802. Nel 1796 ebbero inizio le guerre napoleoniche, e un giovanissimo generale avversato da tutti cominciò
ad accumulare irresistibili vittorie, contro vecchi e robusti eserciti accorsi in aiuto l’uno dell’altro. È come se qui, ogni settantadue anni, la Bestia intensificasse al proprio interno i processi di selezione naturale, per saggiare la capacità di sopravvivenza dei suoi «noi» grandi e piccoli. Favorisce, perciò, i distruttori, e non sembra tollerare che si interferisca con il loro operato. Donde il titolo di quest’epoca: «Non si può più aiutare nessuno» – che spero incoraggi la riflessione, nei prossimi due anni circa. Se invece prendiamo in considerazione la nostra epoca attuale, intitolata «Ribellioni», un rapido sguardo indietro fa risaltare, di settantadue anni in settantadue anni, caratteristiche d’altro genere. 2006-2012 meno 216 (cioè tre volte 72) dà 1790-1796. È il periodo della Rivoluzione francese. 2006-2012 meno 144 (cioè due volte 72) dà 1862-1868. In questi anni si formarono due nuovi Stati europei, Italia e Prussia, risorgimentali entrambi; venne fondata la Prima Internazionale Comunista e di là dall’oceano fu abolita la schiavitù, in seguito alla Guerra di Secessione. 2006-2012 meno 72 dà 1934-1940. Trionfarono irresistibilmente personalità ribelli: in Europa i golpisti, come Stalin, Hitler, Franco, Mussolini; altrove gli innovatori radicali, come F.D. Roosevelt – mentre tutti coloro che in politica continuavano a ragionare come si era usato prima d’allora, apparivano disorientati e inetti. Tre periodi, insomma, in cui prevale chi si stacca dai sistemi di riferimento che alla maggioranza appaiono validi, e ne propone o ne impone di nuovi. Anche ai nostri giorni questo carattere dell’epoca sembrerebbe confermato, sia negli USA, con la bella vittoria di un presidente afroamericano, sia in Italia, con l’ipnotico prepotere di personalità politiche che qualche anno fa sarebbero apparse improbabili. È come se in quest’epoca, a ogni suo ripresentarsi di settantadue in settantadue anni, un qualche nostro istinto volesse avvertirci che troppa
parte della popolazione della C.O. sta fluendo in massa verso la dura selezione che l’attende nell’epoca immediatamente successiva: e che è bene ribellarsi al mainstream, o almeno prenderne le distanze. Non per nulla, durante l’ultimo conflitto mondiale, il maggior numero di distruzioni e di vittime si ebbero proprio nei Paesi i cui abitanti, nei sei anni precedenti, si erano mostrati più conformisti, più sottomessi: URSS, Germania, Italia. Donde il titolo di quest’epoca: «Ribellioni», nella speranza, di nuovo, che i lettori ne traggano ispirazione per tempo. Antropocentrismo A questo punto, chi sia particolarmente impaziente può benissimo correre avanti, alla Parte seconda del libro, nella quale ciascuna epoca viene descritta e documentata. Io intanto proseguo, qui, chiarendo qualche altra implicazione di questa teoria dei cicli storici della Bestia. Il fatto che le epoche-funzioni ricorrano a distanza d’una settantina d’anni, può essere spiegato anche in termini banalmente generazionali, se si tiene presente che: è molto difficile che una generazione riesca a trasferire alla generazione successiva ciò che ha capito, o anche soltanto la memoria delle proprie esperienze, e in particolare dei guai che ha combinato: tipico dei figli è piuttosto contrapporsi ai padri in maniera più o meno conflittuale, e in ogni caso compiere esperienze diverse dalle loro, capire le cose in altri modi; quindi ai figli di questi figli perverrà poco o nulla della sapienza accumulata – appunto una settantina d’anni prima – dai nonni, riguardo soprattutto al modo di evitare errori; • data la tendenza alla stasi, alla ripetitività che accomuna la specie umana a tutte le altre, si può star certi che, se le condizioni fondamentali di una collettività rimangono le medesime, gli appartenenti a tale collettività torneranno a compiere le stesse esperienze compiute dai loro predecessori appena questi ultimi non
saranno più in grado di metterli in guardia, cioè ogni settant’anni circa. Per condizioni fondamentali della C.O., intendo i modi di considerare ciò che si trova nel cortile del Castello, ovvero la politica, la ricchezza, i conflitti sociali, la funzione della tecnologia, della scienza, della letteratura, lo spettacolo, la religione, la morale, la validità del rumorese, il nascere, il morire, i legami famigliari, la sessualità, le cosiddette libertà – e, in Occidente, i modi di considerare tutte queste cose non sono oggi molto diversi da com’erano nella seconda metà del Settecento. Teriocentrismo Ma ciò non toglie che accanto a questa spiegazione antropocentrica se ne possa articolare un’altra incentrata sulla Bestia, e più avventurosa, che dia conto non soltanto di quell’arco d’una settantina d’anni ma anche delle caratteristiche, delle necessità di ciascuna delle dodici epoche. La nostra Bestia, la C.O., vive ed esiste nel succedersi di queste sue dodici stagioni: sono le sue funzioni fisiche e psichiche, il suo respirare, il suo nutrirsi e digerire, il suo evacuare, il suo muoversi, il suo pensare, sentire, intuire. Ciascuna delle sue epoche-funzioni ha i due scopi che si ritrovano nelle funzioni di tutti gli organismi viventi: accrescere l’impulso vitale, il benessere dell’organismo stesso; compensarne le carenze, eliminando le tossine che le hanno determinate. Gli avvenimenti principali di ciascuna epoca-funzione concorrono all’uno o all’altro di quei due scopi; e perciò ognuna di esse deve a un certo punto cessare, perché se continuasse più di tanto determinerebbe la morte dell’organismo – come avverrebbe se noi continuassimo, poniamo, a espirare, o a inspirare, senza interruzione per qualche minuto. Che si tratti delle funzioni di una Bestia ben precisa, è evidente per il
fatto che altrove, in altre civiltà, le funzioni e i loro ritmi sono completamente diversi. Ma tale diversità, se adottiamo questa spiegazione teriocentrica (therion è la «Bestia», in greco), non dipende affatto da una qualche differenza tra gli uomini, nonostante quel che la stragrande maggioranza tende a credere: come già accennato, i popoli non sono né specie umane, né sottospecie; gli afghani, gli inglesi, i russi si comportano cioè in modo diverso gli uni dagli altri non perché appartengano a razze diverse, e la loro circolazione sanguigna, la loro digestione, il loro sistema nervoso siano perciò di un altro tipo, ma solo perché diversa è la Bestia a cui, fin da ragazzi, si sono trovati ad appartenere – mentre di per sé ciascuno di loro è, o meglio sarebbe stato, un io totalmente diverso da qualunque altro io, straniero o suo connazionale. Le epoche della Bestia hanno plasmato la loro mente, molto più di quanto le stagioni in una determinata area del pianeta hanno plasmano gli organismi umani in modo diverso dalle stagioni di un’altra area. Dell’opporsi alle Bestie D’altra parte, proprio come avviene per le stagioni, a nessun essere umano è dato di poter modificare le epoche di queste Bestie. Opporsi, per esempio, all’epoca-funzione delle «Dominazioni», decidendo di ribellarsi mentre essa è al culmine, o voler abbreviare quella del «Non si può più aiutare nessuno», cercando di salvare molta gente mentre la Bestia sta esercitando la sua selezione naturale, risulta altrettanto rischioso per un io – e spesso altrettanto improduttivo e disastroso – quanto il voler indossare abiti di lino d’inverno perché si è ideologicamente contrari al fatto che la temperatura scenda sotto lo zero. È certamente una dimostrazione di libertà, ma incompleta e autolesionistica, come tutte le libertà che decidano di manifestarsi contro un’oppressione. Quel loro essere contro le lega infatti all’oppressore, in un sospetto vincolo di dipendenza. La libertà vera è semmai fuori dall’oppressione stessa. Se si detesta l’inverno, non è più ragionevole andarsene dove fa caldo?
L’impulso a opporsi alle Bestie per migliorarle, può sorgere soltanto in un individuo che avverte nei loro riguardi un illusorio senso di responsabilità, in chi pensa cioè: «Tutto sommato questa civiltà è la mia», dato che si può essere responsabili soltanto di ciò che in qualche modo ci appartiene. Ma una Bestia appartiene solo a se stessa. Lei è l’unica responsabile di quel che in ciascuna sua epoca i miliardi di persone che le obbediscono si sentono spinte a pensare e a fare. Una responsabilità, l’individuo la potrà avvertire semmai nei confronti dell’io, ovverosia nei confronti di ciò che in lui è capace di dire «sì» quando per l’io è sì, e «no» quando per l’io è no, secondo la troppo poco celebre esortazione del Discorso della Montagna (Matteo 5,37). E tale responsabilità si avverte in due modi. Della responsabilità individuale Innanzitutto, ci si può accorgere di ciò che nei nostri pensieri, nei nostri sentimenti, nelle nostre intuizioni è agito dalla Bestia, invece che dal nostro io (vedi i criteri esposti a pag. 73). È sufficiente sapere che cosa la Bestia esige dai suoi milioni o miliardi di cervelli, di cuori, di braccia in ciascuna epoca: essere dominati o dominare, durante le «Dominazioni»; ribellarsi durante le «Ribellioni»; pensare soltanto a se stessi durante il «Non si può più aiutare nessuno» e via dicendo. E, per non essere più i burattini della C.O., e per cominciare a intravvedere la possibilità di vivere la propria vita, invece della sua, è sufficiente cogliere la differenza tra quel che un’epoca ci impone e quel che ognuno di noi può volere. In secondo luogo, proprio come è opportuno vestirsi secondo il clima locale mentre si raggiunge l’aeroporto da dove si partirà per qualche altro posto migliore, allo stesso modo è bene adottare quei comportamenti che sono imposti dall’epoca-funzione in corso, così da evitare problemi superflui, ma con il preciso intento di trovare quanto prima il modo di allontanarsi non soltanto dalla propria Bestia, ma anche dalle Bestie in generale, per provare a essere davvero se stessi.
Come sfidare le Bestie A tale scopo, non è necessario cercare sul mappamondo un cantuccio isolato, sul quale nessuna Bestia eserciti il suo dominio. Non esiste un luogo del genere, se non forse in qualche zona desertica – dalla quale si dovrebbe comunque uscire prima o poi per fare la spesa, mostrando sulla mano e sulla fronte il «marchio» della Bestia che impera in quei dintorni. Per di più, sappiamo che in tutto ciò che è luogo, dimensione spaziale, le Bestie-civiltà hanno un enorme vantaggio strategico e noi un altrettanto enorme svantaggio, dato che lo spazio è quel che più conta per noi e non è quel che più conta per loro: sfidarle nello spazio sarebbe dunque come dover combattere in casa propria contro un nemico preponderante che abbia il suo arsenale a molte miglia di distanza, al sicuro. La forza, il cuore della Bestia è bensì nel tempo: e lì occorre mirare. Ci si emancipa dalle Bestie-civiltà imparando ad adoperare diversamente il tempo, allontanandosi dal loro modo di vedere, che fa cogliere nella realtà soltanto ciò che le giustifica (e che nasconde mediante il rumorese le inevitabili incongruenze di tale modo di vedere). Ciò significa vedere di più. Essere liberi di scorgere decine di significati e di possibilità, là dove coloro che appartengono alla Bestia ne scorgono soltanto due o tre. Avere più amore, per poter desiderare questo maggiore orizzonte di conoscenza. Avere più memoria – cioè più tempo immagazzinato in noi – perché su queste conoscenze maggiori si possa riflettere. Avere più parole – e più tempo per usarle – perché queste conoscenze maggiori mettano radici in noi e diano frutto. Tutto ciò toglie alla Bestia il tempo, di cui e in cui essa vive, e accresce il nostro io. Del punto di fuga
Quando si comincia ad allontanarsi dalla Bestia – cioè a riconoscerla – si ha l’impressione di esserne circondati. Da un lato, tale impressione è decisamente sgradevole: si è soli e diversi da tutti. Dall’altro, è rassicurante: quei tutti appaiono come un limite al nuovo che chi si allontana dalla Bestia sente crescere in sé, e di cui è naturale avere un po’ di paura. Nondimeno, quell’impressione di accerchiamento è falsa. In realtà, la Bestia è soltanto in chi la fa essere: quanto più un io è se stesso, tanto più comincia a scorgere negli altri non la Bestia bensì altri io, e a far essere quelli invece di lei. Chi guarda il mondo dal punto di vista dell’io, cessa di vedere l’attività, le realizzazioni, il potere del Soggetto Collettivo (come se fossero del tutto naturali, come se fossero tutto); impara invece a vedere ciò che nei singoli individui permette al Soggetto Collettivo di esistere e di agire. È come chi, poniamo, studiando i disastri prodotti da un dittatore ponesse l’attenzione non sul carattere, i traumi, le ossessioni di quest’ultimo, ma sul carattere, sui bisogni, sulle aspettative dei molti che l’hanno sostenuto, protetto, e che hanno trasmesso i suoi ordini, e dei moltissimi che gli hanno obbedito, e delle folle che l’avevano applaudito. Il significato storico del dittatore si ridimensiona, allora, al punto di non corrispondere più a ciò che comunemente si associa all’idea di «capo»: da padrone d’un Paese, si trasforma in una specie di turacciolo spinto in alto dall’onda di milioni di io, veri produttori dei problemi del periodo in questione. Le Bestie, dicevo, scompaiono addirittura, quando cambia il punto di fuga della prospettiva in cui le si guarda. E si svela – come un trucco teatrale, visto da dietro le quinte – il modo in cui l’energia di milioni di persone si trasferisce sulla loro Bestia, alimentandola. Il transfert come trasfigurazione Definirei tale cambio di prospettiva una trasfigurazione, forzando appena un poco il significato del termine.
L’energia di molti milioni di persone può diminuire in loro e venirsi a trovare nella Bestia a cui quegli individui appartengono, perché ciascuno di loro proietta nella Bestia immagini di ciò che egli avrebbe potuto ottenere e fare se avesse adoperato quell’energia per se stesso.9 Vuole vedere nella Bestia qualità che lui stesso non ha sviluppato nella propria personalità: vuole che i «re-corna», e tutti i «noi» della Bestia, e tutti coloro che guidano e sostengono quei «noi» siano forti, sicuri, amati, obbediti, come lui sarebbe potuto essere se avesse avuto un po’ più di coraggio. E fa in modo che lo siano, perché – paradossalmente – ciò placa il suo senso di frustrazione: il loro successo, il loro potere è per lui ciò che il bel sogno d’un banchetto è per l’animo di un uomo affamato. È un meccanismo proiettivo simile a quello che ipnotizza nella pubblicità. Nei volti delle pubblicità, così pieni di irraggiante desiderio all’inizio e poi dell’incontenibile gioia suscitata dall’acquisto del prodotto, la grande maggioranza dei nostri contemporanei trova una compensazione alla propria disperata incapacità di desiderare e di gioire della realizzazione d’un desiderio: senza pubblicità non vivrebbero, come un diabetico senza l’insulina; e poiché la pubblicità dà assuefazione, hanno bisogno che i volti degli spot siano sempre più intensi, i colori più vividi, le voci più calde. Proprio allo stesso modo, coloro che appartengono alla Bestia la vogliono potente, e a tal fine la nutrono trasferendo quotidianamente, e trasfigurando in essa, le grosse quantità d’energia di cui, finché sono nella Bestia stessa, non hanno immediata necessità per sopravvivere. Proprio di queste occorre sapersi riappropriare per poter cominciare a vivere, invece di sopravvivere soltanto. Lo specchio del Cherubino Ciò che è semplice, in tale riappropriarsi, è l’attuazione: è sufficiente, anche qui, desiderare, volere e «chiedere a ’Elohiym». Ciò che è ancora più semplice – e che richiede perciò grande coraggio, lucidità e sincerità – è accorgersi di desiderare, di sentire la mancanza di quelle energie
devolute alla Bestia. Le caratteristiche delle sue epoche-funzioni sono in ciò di grande aiuto. Offrono un quadro completo delle possibilità che coloro che le appartengono non hanno voluto e non vogliono attuare ciascuno nella propria esistenza. Tutti i «noi» di cui la Bestia consiste, e attraverso i quali essa agisce e condiziona coloro che le appartengono, sono come porzioni di un enorme schermo, sul quale ognuno proietta, vede, e venera le immagini compensative delle proprie non-volontà. Per accorgersene, occorre soltanto immaginare cosa avverrebbe al nostro io, se attuasse lui stesso quelle possibilità ogni giorno della sua vita, invece di vederle attuare una dopo l’altra da una enorme, lenta Bestia che, come sappiamo, può adempiere soltanto a una funzione per volta. Eccole. Nelle «Ribellioni», la capacità che viene proiettata sui «noi» – ed esaltata o temuta – è la conquista della propria libertà, che chi appartiene alla C.O. non osa, non vuole attuare per proprio conto. Nel «Non si può più aiutare nessuno», è la capacità di distruggere ciò che è ormai superato. Nell’«Apice della tensione», è il coraggio di affrontare le proprie tensioni più profonde. Nella «Pasqua», è la capacità di scorgere e affrontare un cambiamento radicale. Nel «Muro», è la capacità di limitare il proprio agire, così da ottenere concentrazione e determinazione. Nell’«Epoca massima», è la capacità di utilizzare appieno i propri talenti. Nelle «Cose viste da lontano», è la capacità di guardare oltre ciò che è contingente. Nell’«Oggigiorno», è la capacità di radicarsi nel presente, di guardare bene in faccia gli altri e ben dentro se stessi. Nel «Domani», è la capacità di vedere oltre il presente. Nel «Sempre», è la capacità di individuare i propri valori e bisogni
fondamentali, e di metterli alla prova. Nei «Problemi rispetto al Sempre», è la capacità di cogliere ciò che nei propri valori e bisogni non basta ancora. Nelle «Dominazioni», è la capacità di imporre a se stessi le rielaborazioni di quei valori e di quei bisogni. Ne risulta che, a partire dalla seconda metà del Settecento, la stragrande maggioranza degli occidentali non ebbero, ciascuno a suo modo, la forza di attuare queste capacità. Così si fermarono; così incominciò, epoca dopo epoca, ciclo dopo ciclo, la stasi che chiamiamo C.O., e nella quale si espresse il loro Soggetto Collettivo, tanto più potente quanto più netto era il loro rifiuto di essere se stessi in quelle dodici direzioni. A quella Bestia, da allora, ci si adeguò: le generazioni occidentali crebbero, cioè, una dopo l’altra, nei www di quelle nonvolontà e delle loro immagini compensative. Avvenne insomma, ancora una volta, ciò che secondo la Genesi era avvenuto dopo la cacciata dall’Eden, quando Dio aveva collocato un «guardiano della soglia» dinanzi all’umanità: vi mise il Kherubiym, con il bagliore della spada che gira su se stessa, a guardia della via della crescita delle vite.
Genesi 3,24 Ciò non significa affatto che vi mise una specie di gendarme alato, come sostengono invece le opere teologiche scritte in rumorese. La «spada che gira su stessa» era bensì l’immagine di uno specchio: la spada lo è sempre, nei miti antichi. Se dunque l’umanità non raggiunge quella che qui è chiamata «la crescita delle vite» – e che noi oggi chiameremmo nuovi stadi evolutivi – è perché ogni io ha paura della forte luce che vede guardandosi in quello specchio. Ha paura delle sue capacità, dei suoi impulsi più autentici, e di quel che le une e gli altri gli permetterebbero di realizzare nel mondo. Quanto al Cherubino, il significato letterale di Kherubiym è, in ebraico antico, «Sembra-una-moltitudine»; e il termine Kherubiym fa dunque, qui, perfettamente al caso: anche il nostro Soggetto Collettivo è infatti un
«Sembra-una-moltitudine», è una civiltà intera, che continua a sgomentarci con quelle immagini riflesse della potenza di ciascuno di noi. Errori storici Che nell’animo di chi appartiene alle C.O. qualcosa voglia opporsi a questa alienazione è mostrato dalle numerose insubordinazioni, tentate sia da singoli io sia da gruppi di persone, negli ultimi duecentocinquant’anni. Ogni tanto, qualcuno si rifiuta di tenere il passo con le epoche-funzioni, di conformare cioè le proprie decisioni alle immagini compensatorie che di volta in volta la C.O. propone, e ne derivano inconvenienti di vario genere, non soltanto per i singoli individui ma anche per la Bestia. Per i singoli individui che, insubordinandosi alla Bestia, continuano a operare in essa, gli inconvenienti sono fallimenti esistenziali e grandi sofferenze. Esempi celebri furono Lev Trotskij, che dopo il 1928, in piena epoca di «Dominazioni», insistè nel predicare la rivoluzione, e fu sconfitto, esiliato, isolato, assassinato; o Robespierre che, al contrario, volle ergersi a dominatore nel 1794, in piena epoca di «Ribellioni», e fu rapidamente annientato. Per la Bestia, quando a insubordinarsi, a sbagliare timing sono grandi gruppi di persone (per esempio il «noi» di un intero Stato), gli inconvenienti sono vere e proprie disfunzioni, sempre difficili da curare. Terapie storiche A volte, proprio come capita negli organismi viventi, la Bestia riesce a rimediare a questi «errori storici» nell’epoca immediatamente successiva a quella in cui l’errore è stato commesso: punisce, in un certo modo, lo Stato che ha sbagliato, rendendo la sua situazione molto difficile per una decina d’anni – e abbiamo già accennato al caso della Germania, dell’URSS e dell’Italia, che per aver mancato di spirito innovativo durante l’epoca delle «Ribellioni», tra il 1934 e il 1940, ebbero sorte durissima nell’epoca
seguente. Altre volte la correzione di rotta non riesce: lo Stato in questione non rientra nei ranghi e causa guai sempre più gravi e più estesi. Il caso più evidente, nella C.O., è stato quello dell’Impero russo, il cui errore storico fu l’abolizione della servitù della gleba nel febbraio del 1861, cioè nell’epoca delle «Dominazioni». Il provvedimento ebbe immediatamente esiti nefasti, e ne derivò un errore ancor peggiore, cioè un aumento dell’oppressione politica nel periodo seguente, quello appunto delle «Ribellioni». Da lì in avanti il Paese scivolò sempre più verso la catastrofe: l’inconcludenza dello zar Alessandro III, la vertiginosa inettitudine del suo successore Nicola II, la tragica guerra contro il Giappone nel 1905, la sciaguratissima decisione d’intervenire nella Prima Guerra Mondiale, la Rivoluzione d’ottobre (anch’essa in un’epoca inadatta) e la lunga guerra civile che ne seguì somigliano ai sussulti, ai cozzi, ai capovolgimenti e infine alla completa distruzione d’un treno che, uscito dai binari, trascini con sé altri convogli, e impianti, ed edifici. In questa prospettiva, l’isolamento in cui l’URSS venne a trovarsi fin quasi alla fine del XX secolo, sembrerebbe una terapia radicale a cui la Bestia C.O. abbia dovuto ricorrere per la sua «disfunzione russa»: una specie di ingessatura dell’intero Paese, con vari interventi chirurgici, e poi una lunga rieducazione in clinica. Vedremo, esaminando le epoche del Castello, come la C.O. sia ricorsa spesso a ingessature per rimediare ad altri errori storici e disfunzioni gravi. Intanto, da tutto ciò che abbiamo visto in questa Parte prima del volume, possiamo trarre qualche conclusione preliminare. Del giudicare la storia Questa teoria delle Bestie permette di considerare la storia in un modo molto diverso da quello a cui la civiltà ci ha abituato. Innanzitutto, quanto più si osserva il comportamento delle Bestie-civiltà, tanto più diviene possibile per gli io giudicare la storia. Non che sia una novità, il volerla giudicare: lo si è fatto spesso in
termini moralistici, presentando la storia come un evidente repertorio della crudeltà e dell’ottusità del potere, e anche in termini filosofici, cercando in questo o quel periodo storico le prove della validità di una determinata intuizione o ideologia. Secondo Marx, per esempio, in un periodo storico possono dirsi sbagliate tutte le condizioni di vita e le decisioni che non corrispondono alla fase che in quel periodo starebbero attraversando i rapporti tra capitale e forza-lavoro. Secondo Nietzsche, sbagliano tutti quei registi, protagonisti, comprimari e comparse della storia che ignorano il ruolo fondamentale della «Volontà di Potenza». Secondo Freud, quella stessa troupe della storia fa cose sbagliate e controproducenti ogni volta che tenta di ignorare il ruolo fondamentale del complesso di Edipo. Eccetera. La novità, in questa teoria della Bestia, sta nel poter giudicare gli avvenimenti senza applicarvi nessun metro o valore che siano stati elaborati da filosofi, scienziati o teologi in una determinata epoca, e che perciò risentano necessariamente delle caratteristiche di quell’epoca. Ciascun fatto storico può bensì venir giudicato in base alle caratteristiche perenni della Bestia-civiltà (e in particolare di quella sua epoca-funzione) in cui è avvenuto. Il giudizio consisterà nello stabilire quali decisioni furono conformi all’epoca in cui vennero prese, e quali no; quale statista, scienziato, artista, filosofo o imprenditore percepì più saggiamente le opportunità che l’epoca gli offriva; e quale fu invece storicamente più inetto, perché fece qualcosa al momento sbagliato, o non fece affatto ciò che una determinata epoca gli avrebbe dato modo di fare. Del comprendere la storia La teoria della Bestia permette altresì di comprendere la storia di una civiltà, senza limitare la comprensione al semplice incastro di serie più o meno brevi di cause e di effetti, ma scorgendone le ragioni. Ciò significa comprendere perché e a che scopo un determinato episodio si verificò in una determinata epoca, e non dieci anni prima o dieci anni
più tardi. E perché e a che scopo un determinato individuo poté avere successo politico o finanziario. E perché e a che scopo alcuni ne stanno avendo oggi e altri no, e addirittura chi potrà o non potrà averne nel prossimo futuro – nel caso, ovviamente, che la nostra C.O. perduri. Nell’attuale epoca di «Ribellioni», per esempio, io posso attendermi con buona probabilità che le idee nuove che espongo in questo libro vengano accolte favorevolmente da molte più persone che non nella precedente epoca delle «Dominazioni» – anche se non ovunque, dato che vi sono sempre dei «noi» più o meno disfunzionali, cioè non in linea con l’epoca. Posso anche ipotizzare che tra qualche tempo, dopo il 2024, queste idee (sempre che la C.O. perduri) verranno accolte ancor più facilmente, dato che ruotano tutte attorno alla necessità di cambiare la nozione stessa di storia, e il 2024-2030 è un’epoca di innovazioni; ma in quegli anni non si potranno più trarne, purtroppo, le indicazioni che riguardano il modo di affrontare le acque torbide e pericolose del «Non si può più aiutare nessuno» e dell’«Apice della tensione», cioè del periodo compreso tra il 2012 e il 2024. Del vivere la storia La teoria della Bestia permette anche di vivere la storia più intensamente e precisamente di quanto finora non ci abbiano insegnato a fare. In genere, nel rumorese filosofico, religioso, morale, politico, l’espressione «vivere la storia» viene riferita alla storia attuale o futura, e indica maniere più o meno sensate di partecipare agli eventi collettivi. Quando invece si impara a conoscere le epochefunzioni della propria civiltà, anche gli avvenimenti storici di qualche secolo fa appaiono tutt’altro che lontani. Se, per esempio, sappiamo in che cosa consiste e come influisce su di noi l’attuale epoca delle «Ribellioni», e proviamo a ricostruire le
dinamiche di qualche situazione politica o culturale di sei o sette anni fa, cioè del clou delle «Dominazioni», non ci occorrerà molto per prescindere dal modo in cui oggi siamo portati a vedere le cose, e per concentrarci su come le si vedeva allora, in base agli orizzonti, ai valori, alle possibilità che, appunto, l’epoca delle «Dominazioni» faceva sembrare importanti. E molti aspetti della vita sociale, politica, economica o anche della vita privata di sette-otto anni fa, che, a guardarli con gli occhi dell’epoca attuale, ci sembrerebbero bisognosi di spiegazioni, ci appariranno invece spiegabilissimi, a guardarli con gli occhi di allora (per esempio, la rapidità dell’ascesa politica di Berlusconi). Per la ragione opposta ci sembreranno invece più vicini a noi gli avvenimenti di settantadue, centoquarantaquattro, duecentosedici anni fa – gli avvenimenti cioè delle precedenti fasi della nostra attuale epoca di «Ribellioni». Un italiano avvertirebbe negli italiani del 1938, del 1866, del 1794 lo stesso smarrimento che i suoi connazionali provano oggi. Un russo scoprirebbe affinità decisive tra l’attuale situazione post-sovietica, l’URSS staliniana di settantadue anni fa, le disguaglianze sociali dei tempi di Alessandro II (centoquarantaquattro anni fa) e il giro di vite deciso da Caterina II quando (duecentosedici anni fa) le giunsero notizie della Rivoluzione francese; uno statunitense scoprirebbe affinità non meno rilevanti tra il successo di Obama e quello di Roosevelt, e quello di Abraham Lincoln, e quello di George Washington presidente. Eccetera. Del superare la storia Questa possibilità di calarsi nella modalità esistenziale di periodi affini al nostro attuale, o di esplorare epoche diverse dalla nostra, apre anche un’altra prospettiva di cui nella storiografia consueta non vi è traccia. Quanto più impariamo a distinguere un’epoca-funzione dall’altra, e a scoprirle via via tutte, tanto più si precisa in noi quella particolare dimensione dell’io, che da tutte è indipendente. All’inizio, esplorando un’epoca-funzione diversa da quella attuale, il
nostro io non potrà non percepire soprattutto le differenze tra la mentalità d’allora e la nostra, dato che quest’ultima lo ha certamente condizionato più di qualsiasi altra. Ma poi, quando si immergerà nell’altra epoca, e in un’altra e in un’altra ancora, arriverà a percepire il punto di vista della sua epoca attuale come qualcosa da cui la sua mente può svincolarsi, e ne prenderà sempre più le distanze. È proprio come per coloro che imparano bene qualche lingua straniera: dapprima continuano a pensare nella loro lingua d’origine, e a tradurre i propri pensieri in quelle straniere; in seguito, cominciano a pensare in queste ultime, a percepire dall’interno il sistema, le necessità espressive, e soprattutto quella speciale visione del mondo che ciascuna lingua configura. Pervengono così a quella condizione – che i filologi amano molto – nella quale i pensieri, le intuizioni, i sentimenti e persino le sensazioni non sono più condizionate da nessuna lingua, non devono più confermare la validità di nessun lessico, di nessuna sintassi, ma si muovono libere, ampie, e quando le si vuole esprimere in qualche lingua, ci si accorge di adoperarla senza esserne adoperati. Allo stesso modo, imparando a giudicare, a comprendere, a vivere la storia della Bestia, l’io arriva a essere dapprima cittadino di varie epochefunzioni (anche di tutte) in egual misura, e poi estraneo a ciascuna di esse in egual misura. Allora la possibilità di emanciparsi dalla Bestia per essere veramente se stessi riceve il più potente impulso. Ed è quel che ci accingiamo a fare nelle prossime pagine, esaminando in una prospettiva ciclica e teriocentrica alcuni dei principali fatti avvenuti nel Castello della nostra Bestia durante gli ultimi tre secoli e mezzo. Sull’utilità delle teorie Hume osservò per sempre che gli argomenti di Berkeley non ammettono la minima confutazione e non suscitano la minima convinzione.
J.L. BORGES, La postulazione della realtà Quando, d’altra parte, una teoria della storia comincia ad addurre serie di fatti a propria conferma, accade inevitabilmente che qualche appassionato degli storici di professione faccia osservare che, comunque, i fatti addotti sono un po’ pochi per comprovare l’assoluta validità della teoria stessa, e che il rischio che la teoria li distorca a proprio vantaggio è, di conseguenza, troppo alto. In parte ciò è vero: ma quando si mira alla «validità assoluta» di una teoria, i fatti adducibili a sua conferma sarebbero comunque troppo pochi. Anche se ne venissero addotti decine di migliaia, basterebbe un unico fatto in contrasto con gli altri per vanificare la pretesa di assolutezza. Ma quando si parla e si pensa sul serio, la «validità assoluta» di una teoria non conta alcunché. In ogni campo dello scibile, una teoria è solamente un metodo nel senso più letterale del termine: cioè un procedimento che serve a condurre oltre, a far scoprire qualcosa di più (methodos: in greco, «una via», hodos, che fa arrivare meta, «più in là»). Delle teorie è utile perciò valutare soltanto la rispondenza a tale loro scopo, cioè la loro sempre relativa bontà. La relativa bontà di una teoria si misura in due modi. Una teoria nuova è migliore delle precedenti se allo stesso tempo: permette di spiegare più cose; è più confutabile delle precedenti, senza che il suo contenuto di verità diminuisca.10 In altre parole, se un piccolo gruppo di biofisici presentasse una teoria del tutto verosimile – ma confutabilissima – secondo cui la gallina sarebbe nata prima dell’uovo, e tale teoria permettesse di spiegare alcune particolarità della struttura della materia, di chiarire alcuni aspetti dei black holes, e di individuare una serie di imprecisioni negli attuali modelli del Big Bang, tale teoria sarebbe migliore di quella attualmente in auge, la quale sostiene che sia impossibile sapere se sul pianeta siano comparse prima le uova o il pollame: quest’ultima infatti, pur essendo inconfutabile,
non aggiunge né toglie nulla a quel che oggi si sa in zoologia, né in fisica, né in nessun’altra disciplina. La stessa cosa avviene per quella che oggi è la base comune a tutte le teorie storiografiche, e cioè la certezza che non si possano scoprire le ragioni degli avvenimenti storici al di là del loro nesso causale con una lunga serie di avvenimenti storici precedenti, del più antico dei quali è inconoscibile la ragione. L’inconfutabilità di questa teoria negativa è tanto più forte in quanto gli storici la «autoavverano» (self-fulling) di continuo, semplicemente rifiutandosi di indagare quelle ragioni in termini diversi dalla causalità. Come a dire: «Se non lo facciamo noi, è chiaro che noi non possiamo farlo» – affermazione molto metafisica, inconfutabile (dunque del tutto inutile sul piano scientifico) e anche alquanto stupida. Al contrario, e paradossalmente, la teoria delle Bestie non è metafisica affatto, malgrado i suoi cordiali rapporti con vari brani dell’Apocalissi. Il nostro modello della Bestia C.O. può essere confutato in ogni suo dettaglio: se per esempio risultasse che alcuni avvenimenti di una data epoca non corrispondono al titolo dato a quell’epoca (per esempio, che nel «Non si può più aiutare nessuno» furono invece aiutate moltissime persone), o che alcuni avvenimenti degli ultimi due secoli e mezzo contrastano con l’idea che ciascuna epoca duri sei anni esatti, tali confutazioni richiederebbero soltanto una modifica del titolo di qualche epoca o del calcolo della durata dei cicli della C.O., senza che ciò diminuisca né il principale contenuto di verità della teoria della Bestia (cioè che le Bestie esistono, vivono a spese del nostro io, hanno corpi temporei e un determinato numero di funzioni in forma di epoche cicliche), né le implicazioni che tutto ciò ha, oltre che per la storiografia, anche per l’immagine che la psicologia contemporanea ha dell’io, e per la psicologia delle masse, per la psicologia del profondo e via dicendo. Ma procediamo. 8. Non sarebbero desideri, se no. Vedi pagg. 5-6, 235-236. 9. È uno dei principali argomenti del mio Libro della Personalità, Frassinelli,Milano 2009. 10. Si veda la voce Falsificabilità, e meglio ancora Falsifiability, in
Wikipedia.
PARTE SECONDA
Le epoche della Civiltà Occidentale
Fasi e rapporti Come visitare il Castello
Termini tecnici Così come ogni gioco ha le sue regole, allo stesso modo ogni teoria ha la sua terminologia specifica, il cui scopo è limitare l’orizzonte di chi l’ascolta; non per nulla, terminus in latino significava soprattutto «confine». Quanto più la terminologia di una teoria è ricca, con il pretesto di voler essere precisa, tanto più netti e stretti sono i limiti che pone; ne consegue che le più anguste tra le teorie sono le Weltanschauungen delle Bestie, la concezione cioè che gli appartenenti a una determinata civiltà hanno del mondo intero – e i cui termini tecnici sono tutte le parole dei dizionari dei loro popoli. Le più lungimiranti teorie sarebbero invece le concezioni che del mondo hanno gli animali, ai quali le parole non sembrano interessare affatto. Quanto a questo, la teoria delle Bestie si piazza in buona posizione, dato che i suoi tecnicismi sono quattro soltanto: epoca, e confido che il senso ne sia già chiaro (da epokhé asteron eccetera); funzione (della Bestia), che è pressoché un sinonimo di epoca; ciclo, cioè il regolare succedersi, in settantadue anni, di tutte e dodici le epoche-funzioni della C.O., ciascuna delle quali dura un seennio; fase storica, termine con il quale indicherò il ripresentarsi di una determinata epoca, appunto, ogni settantadue anni. Così, il periodo in cui stiamo vivendo ora (2006-2012) è la quarta fase dell’epoca delle «Ribellioni». La prima fase si era avuta nel 1790-1796, la
seconda fase nel 1862-1868, la terza nel 1934-1940. E l’epoca delle «Ribellioni» è circa a metà del quarto ciclo della C.O., il quale si completerà – se tutto andrà bene per lei – nel 2048, cioè duecentottantotto anni dopo l’inizio del primo ciclo. Buon anniversario, per allora. Dell’inizio della visita Nella descrizione delle dodici epoche-funzioni, ho deciso di partire dall’epoca appena terminata, quella cioè delle «Dominazioni», e di procedere in senso orario. È una scelta arbitraria, come lo sarebbe stata qualsiasi altra: sappiamo infatti che il Castello, al pari delle figure geometriche e del corpo umano, non ha un punto iniziale (vedi pagg. 8384). Ho solo voluto privilegiare l’attuale generazione di lettori: c’eravamo già tutti, sei o sette anni fa, ricordiamo ancora bene quel che avvenne allora, e (sei o sette anni non passano invano) possiamo parlarne con una certa equanimità. Cominciare dall’epoca attuale sarebbe stato troppo deprimente; cominciare dalla prossima, troppo cupo. Cominciare dal momento in cui la nostra Bestia «emerse dall’acqua», cioè dall’epoca intitolata «Oggigiorno» (tanto lontana da noi in tutte le sue fasi), sarebbe stata invece un’inutile pedanteria: nel periodo 1760-1766 non si trovano le ragioni delle epoche successive, più di quanto non se ne trovino in una fase di qualsiasi altra epoca – così come in un lato d’un quadrato non si trovano più ragioni del quadrato stesso, di quante non se ne trovino in qualsiasi altro suo lato o angolo, e nelle dita di una mano non si trovano più ragioni del corpo di quante se ne trovino in qualsiasi altra sua parte. Nondimeno, questa nostra visita al Castello è descritta in modo che i lettori possano cominciare da qualunque epoca li incuriosisca di più. Fatti, digressioni e sviluppi ulteriori
Quanto ai temi della descrizione, ho scelto di limitarla quasi esclusivamente a fatti storici, nel senso che a questo termine danno i manuali di storia. Non perché condivida l’idea che quel che più conta nelle vicende umane siano le decisioni dei capi di Stato, i comportamenti degli eserciti e le intenzioni degli industriali, ma per una ragione assai più opportunistica: gli avvenimenti cosiddetti storici sono i più facili da verificare, ed eventualmente da approfondire, su quel benedetto archivio universale che è Internet. Si potrà insomma verificare di che cosa starò parlando, senza dover passare da librerie o biblioteche. Qualunque altra chiave sarebbe stata più esigente. Chiamare in causa la storia letteraria (per esempio Balzac per l’epoca «Oggigiorno», Dostoevskij per l’«Apice della tensione» e via dicendo), oppure gli sviluppi della filosofia o del pensiero economico, avrebbe richiesto ai lettori competenze che oggi hanno in pochi, e che Internet non fornisce. Ai fatti storici aggiungerò i miei commenti – che, come i lettori avranno notato, tendono facilmente a diventare digressioni. Verteranno soprattutto sui rapporti tra epoca ed epoca e tra fase e fase. Sono certo che non convinceranno gli storici di professione, come del resto le loro opinioni non convincono me. A questi molto confutabili (falsifiable) commenti che si troveranno nelle prossime pagine, se ne potrebbero d’altronde aggiungere numerosi altri. Per esempio, è facile notare una regolarità degli influssi che, in ciascun ciclo, alcune epoche hanno su altre. Le epoche che, nel nostro Castello, risultano diametralmente opposte le une alle altre hanno caratteristiche antitetiche:
Le due disastrose epoche della parete nord del Castello non hanno nulla in comune con i periodi di relativa pace che la C.O. conosce durante le epoche della parete sud; e la vivacità delle epoche della parete ovest non ha nulla in comune con il tetro immobilismo dell’epoca del «Muro». Invece, l’epoca che immediatamente precede una «torre» del Castello influisce sull’epoca che segue a quella «torre» più di quanto una qualsiasi altra epoca influisca sulla sua successiva.
Così, per esempio, le tensioni risorgimentali del 1856-1862 terminano nel 1870 con la conquista di Roma; la Cortina di Ferro dell’immediato dopoguerra porta alla costruzione del Muro di Berlino nel 1961; l’intervento in Vietnam nel 1962 determina potentemente la situazione politica e culturale degli USA all’inizio degli anni Settanta; la prima Rivoluzione russa nel 1905 si replica su scala ben più tremenda nel 1917 eccetera.
E ancora: alcune epoche della C.O. sono particolarmente vulnerabili alle interferenze di altre Bestie-civiltà – che durante le altre epoche la C.O. riesce invece a tener lontane o a opprimere e depredare. Questi «punti deboli» del Castello sono: l’epoca del «Non si può più aiutare nessuno» (nel 1946 la Gran Bretagna perse il controllo sull’India, e tutto lascia pensare che nell’imminente epoca del «Non si può più aiutare nessuno» le migrazioni dall’Africa in Europa e la concorrenza della Cina e dell’India aumenteranno in maniera preoccupante); l’epoca del «Muro» (tra il 1958 e il 1964 ebbe termine il periodo coloniale europeo); l’«Oggigiorno» (nel 1905 si ebbe la disfatta dell’Impero russo contro il Giappone; nel 1976 si poté misurare tutto il disastro dell’intervento statunitense in Vietnam); le «Dominazioni» (i guai con la Turchia, nella Guerra di Crimea del 1856, e la traumatica aggressione subita dagli USA nel 2001, alla quale fece sèguito la ritorsione contro l’Afghanistan e l’Iraq). Di queste e di altre caratteristiche delle epoche (la cui spiegazione non può ridursi a dinamiche generazionali) non parlerò se non di sfuggita, soprattutto perché la teoria della Bestia è così semplice da assimilare che vorrei invitare i lettori stessi a esplorarla autonomamente, e ad ampliarla magari, sviluppandone quel che qui ne ho esposto.
DOMINAZIONI 2000-2006 1928-1934 1856-1862 1784-1790
In questi anni gli appartenenti alla C.O. scoprono in se stessi una gran voglia di farsi dominare, e regolarmente trovano chi la soddisfi. È la Bestia, a esprimersi in quella voglia: è lei ad aver bisogno che gli «io» vengano oppressi più del solito, e che, di conseguenza, aumentino ovunque la popolarità di capi particolarmente intransigenti e l’interesse per ideologie, filosofie, opinioni unilaterali, che in epoche precedenti sarebbero apparse ottuse. A voler supporre che la C.O. sia un essere dotato di coscienza, e dunque capace di meditare i propri intenti, l’epoca-funzione delle «Dominazioni» si potrebbe interpretare in due modi. Se si immagina la C.O. come una Bestia tutto sommato benevola, cioè convinta che il suo benessere vada di pari passo con il benessere degli «io» che la costituiscono, questa sua epoca-funzione sembrerebbe un modo di preparare la gente alle rivolte dell’epoca successiva: quanto più le masse si sentiranno oppresse durante le «Dominazioni», tanto più si renderanno conto che bisogna scuotersi, e tanto meglio si comporteranno durante le
«Ribellioni». Se invece ci si immagina la C.O. come un essere ecologicamente malvagio, privo cioè di qualsiasi simpatia verso le genti di cui deve servirsi per esistere (come tanto spesso lo sono gli uomini nei riguardi delle loro stesse membra), l’epoca delle «Dominazioni» apparirà come una specie di siesta della Bestia che, ben sapendo quanto saranno stressanti le quattro epoche successive, per il momento almeno non vuol essere disturbata da nulla di nuovo. Se qualcuno si agita, nei suoi «noi», provvede a schiacchiarlo, come fosse una zanzara. Se qualche sveglia trilla, la spegne o la rompe. 1784-1790 Nel Settecento, in genere, le caratteristiche di ciascuna epoca si delineano diligentemente. È come se le esigenze della Bestia avessero la freschezza, la nitidezza delle novità, e fossero avvertite da tutti come interessanti, promettenti, tali insomma da potercisi adattare volentieri, se non altro per curiosità. In questa prima fase delle «Dominazioni» abbiamo perciò – in perfetta concordanza con l’epoca-funzione – da un lato i dominatori indiscussi, tutti in ottima salute e amati dai loro sudditi; e dall’altro, i sovrani incerti nelle decisioni, e non solo detestati da molti ma bersagliati dalla sorte anche nella vita privata. Tra i primi: l’imperatrice Caterina di Russia, Giuseppe imperatore d’Austria, Carlo III in Spagna, e George Washington al culmine del suo trionfo, primo presidente (dal 1789) degli Stati Uniti d’America, appena nati. Tra gli sventurati: Giorgio III d’Inghilterra, che dopo aver perso le colonie americane cominciava a mostrare segni di grave follia; e Luigi XVI in Francia, che deludeva tutti – popolo, corte, clero – e in famiglia passava da un’amarezza all’altra. Ma né Giorgio né Luigi furono esautorati, non era ancora il momento, in quest’epoca: il progetto di affidare la Gran Bretagna a un principe reggente fallì nel 1789, e la
monarchia francese sarebbe crollata soltanto nel 1791, nell’epoca appunto delle «Ribellioni». Ad accrescere l’afflizione di re Giorgio e di re Luigi e la soddisfazione dei loro colleghi più determinati, vi era anche la sempre più avida curiosità della gente verso i sovrani. Sia pettegolare di loro, sia discutere del loro operato stava diventando una passione di massa: di certo contribuivano a ciò la diffusione della stampa periodica e la moda dell’Illuminismo (l’idea che tutti gli uomini fossero uguali implicava che ognuno potesse ben dire la sua, anche in politica); ma agiva anche una componente più recondita: una tendenza degli sguardi di tutti a puntare in su, come se fosse diventato d’un tratto molto interessante sapere che effetto fa guardare le cose dall’alto. Non per nulla, il primo esperimento di volo umano in mongolfiera era avvenuto nel novembre del 1783; e il protestantesimo si lasciava fiduciosamente ristrutturare, in questi anni, da John Wesley, fondatore della Chiesa metodista; e in filosofia – grazie a Kant – riacquistava importanza l’aggettivo «trascendentale». In questa prospettiva ascensionale maturò, in Francia, la generazione di coloro che a partire dal 1790 avrebbero scalato e scosso i vertici del potere. 1856-1862 Fu proprio nel 1858 che, nei pressi di Lourdes, Bernadette Soubirous ebbe la prima visione della Vergine. E se ne deduce che anche in questo periodo l’attenzione generale amasse puntare in su: non tanto perché proprio allora un’entità tanto celebre decise di manifestarsi a una fanciulla (in ogni epoca è frequente che adolescenti e bambini vedano cose inspiegabili), quanto per l’enorme eco che tale avvenimento ebbe da subito. A tutti parve stranamente sensato che il Cielo dicesse la sua; fu come la chiave di volta di quella vera e propria cupola di dominatori che ammaliavano allora le popolazioni della C.O.: la regina Vittoria; Napoleone III; in Italia Vittorio Emanuele II, Cavour e Verdi; in Austria Francesco Giuseppe ed Elisabetta; negli Stati Uniti Lincoln; negli ambienti
scientifici e intellettuali Darwin; e infine Giuseppe Garibaldi, che ipnotizzava letteralmente tutti. In perfetta concordanza con l’epoca, tra l’altro, Garibaldi si stava dedicando in questi anni a favorire («Obbedisco!») le imprese di casa Savoia, ben decisa a dominare la penisola; e sgombrò la via togliendo di mezzo Francesco II, re troppo fragile delle Due Sicilie. In Russia, lo zar Alessandro II fu dapprima allineato lui pure alle esigenze delle «Dominazioni», con il disprezzo che mostrava verso i ministri e i consiglieri; ma deviò d’un tratto, nel 1861, abolendo per decreto imperiale la servitù della gleba. Non era cosa da farsi in quel momento: sovvertire da un giorno all’altro il sistema economico, sociale, morale anche, che aveva oppresso da più di un secolo il novanta per cento della popolazione dell’Impero! Era una vera e propria ribellione, per quanto ordinata dall’alto, una sveglia che squillava in anticipo – e infatti ebbe conseguenze catastrofiche, come vedremo tra breve. 1928-1934 Nella terza fase dell’epoca delle «Dominazioni», la posizione mento in su era ancor più flagrante. Mussolini comandava in Italia. Stalin cominciava a dominare incontrastato sull’Unione Sovietica. Hitler arrivava al potere in Germania. In Jugoslavia, riusciva il colpo di Stato di Alessandro I; in Portogallo, quello di Salazar. E negli Stati Uniti, nel pieno della Grande Depressione, Franklin Delano Roosevelt diventava un dittatore de facto. Aggiungerei alla serie dei dominatori anche Mohandas Gandhi, la cui popolarità cominciò a crescere proprio in questo periodo: cresceva in India, e dunque non proprio nel territorio della C.O., ma l’India a quel tempo apparteneva all’Impero inglese; e i fondamenti dell’ideologia gandhiana erano radicati (ed ebbero poi sèguito) ben più in Occidente che non nelle varie culture indiane. Tra i leader di questa terza fase si nota, d’altronde, una demarcazione nettissima, che penso meriti una breve
DIGRESSIONE Su alcuni «re-corna» della Bestia nel XX secolo C’è modo e modo di dominare, e di farsi dominare. Da un lato, in questa terza fase dell’epoca, Roosevelt e Gandhi sono modelli di integrità: si ispirano a valori utili alla collettività, e vogliono guidare la propria gente verso obiettivi moralmente degni. Dall’altro, ci sono i dittatori europei: uomini ottusi, portati da una corrente che, palesemente, non erano in grado di comprendere. Certo, Mussolini, Hitler, Stalin riuscivano a farsi rispettare, erano addirittura venerati – ma soprattutto perché i loro sudditi li vedevano come modelli di quel tremendo modo di obbedire, che da essi si stavano lasciando imporre. Guardarli, per gli italiani, i tedeschi, i russi, era come guardare se stessi allo specchio. Riconoscevano in loro la propria espressione di sgomento e testardaggine, di cinismo e di angoscia, e soprattutto (è il tratto più tipico dei periodi di dittature) la miserabile furbizia di chi sa di stare mentendo agli altri e anche a se stesso, ma conta che tutti siano troppo stupidi per accorgersene. E riconoscersi in un leader entusiasma: ci si sente simili a lui, celebrati, ipostatizzati in lui. È un fenomeno non meno irrazionale della fede nella Madonna di Lourdes, cioè nell’immagine di una ragazzina che vede dinanzi a sé un’apoteosi della donna, radiosa, nobilmente vestita, abbagliante, sovrana. In un sistema religioso robustissimo come la Chiesa cattolica, la morbosità di questa proiezione d’egocentrismo può essere contenuta, incanalata, trasformata, così come una turbina trasforma l’energia cinetica di una cascata in altre forme di energia. Ma in politica il rischio non può che essere enorme – tanto più che la fede proiettiva in un dittatore è stimolata da un maggior numero di apparizioni pubbliche, a paragone di quelle della Vergine, e da un culto più intenso, più radicato nell’esistenza quotidiana. In quel pericolosissimo entusiasmo egocentrico sta la principale differenza tra i due tipi di dominatori di questa fase. Roosevelt e Gandhi – il primo facendo leva sui valori di una democrazia di lunga data, il secondo su un’illuminata idea religiosa – trascendevano se
stessi, e spingevano la gente a trascendere le proprie condizioni, per poter meglio corrispondere alle esigenze della Bestia. Mussolini, Hitler e Stalin spingevano invece all’estremo la propria importanza personale, per essere il più possibile «Madonne», apparizioni venerabili. E in tal modo puntavano a uno scopo completamente nuovo, rispetto alle precedenti fasi dell’epoca: sfuggire alla Bestia, essere il più possibile un io davanti al maggior numero possibile di persone. Proposito giustissimo di per sé, ma attuato da quei tre criminali nella direzione e con la propulsione più sbagliate. Erano come piloti che dopo il decollo credessero d’essere loro, e non l’aereo, a poter volare. Parla anche di loro l’Apocalissi, quando narra dei «re» che dominano per un’ora soltanto, e solo per riconsegnare la loro forza e il loro potere alla Bestia, da cui li hanno ricevuti. Ciò che spingeva i dittatori europei a voler essere più «io» degli altri era il potere che avevano accumulato, l’altezza che avevano raggiunto – ma quel potere proveniva tutto quanto dalla Bestia, e anche l’altezza era la sua. Volersi emancipare da lei a quel punto, significava soltanto precipitare e sfracellarsi al suolo: e il loro sguardo era infatti quello di chi sta esitando prima del salto, e che poi cade. 2000-2006 I dominatori politici del tempo dell’euro hanno avuto molto in comune, per indole, con i dittatori europei della fase precedente. George W. Bush, Putin, Berlusconi, Giovanni Paolo II, Tony Blair e, in margine alla C.O., anche Bin Laden, in questa fase erano (e quelli di loro tuttora in carica hanno continuato a essere) tutti decisamente egocentrici. Le istituzioni dei loro Stati, le tradizioni dei loro popoli, gli ideali a cui si dovevano richiamare per farsi propaganda durante l’ascesa al potere, sono diventati ai loro occhi un intralcio da scavalcare con disinvoltura, sempre e soltanto per affermare il proprio «io» come qualcosa di più importante di tutto il resto. Non è una differenza, rispetto ai loro predecessori di settant’anni prima,
neppure il fatto che questi leader della quarta fase andassero molto d’accordo fra loro. Nemmeno Roosevelt aveva nulla contro Hitler, nei primi anni Trenta, né Mussolini contro Stalin: invece di limitarsi a vicenda, durante le «Dominazioni» i leader egocentrici sembrano incoraggiati gli uni dall’esempio degli altri. E il peggio, per quanto riguarda noi oggi, è che gli effetti delle epoche immediatamente precedenti alle «torri del Castello» si manifestano appieno nelle epoche immediatamente successive alle «torri» stesse: dunque i guai innescati tra il 2000 e il 2006 dovrebbero esplodere tra il 2012 e il 2018. Nei primi due cicli della C.O. le tensioni irrisolte durante le fasi di «Dominazioni» sfociarono in grosse guerre durante fasi del «Non si può più aiutare nessuno»; e nel periodo 1940-1946, le nazioni che dodici anni prima si erano lasciate dominare da leader egocentrici furono proprio quelle i cui abitanti avrebbero maggiormente desiderato di essere altrove. E stavolta come andrà, per Stati Uniti, Russia, Italia, Gran Bretagna e per la Chiesa cattolica, che tra il 2000 e il 2006 hanno ripetuto errori molto simili a quelli di settantadue anni prima? Tra le prospettive allarmanti, la più probabile sembra per ora quella di un collasso socio-economico, che proprio durante la quarta fase delle «Dominazioni» veniva teorizzata da vari specialisti. Richard C. Duncan, in particolare, nella sua celebre Teoria di Olduvai indicava il 2005-2008 come il momento in cui la produzione mondiale di cibo, di petrolio e di gas naturale avrebbe raggiunto il suo picco, dopo il quale avrebbe dovuto inevitabilmente decrescere – mentre la popolazione mondiale non può che continuare ad aumentare. Per il periodo 2012-2015 Duncan prevedeva un caos del sistema sanitario, determinato da carestie, diffusione di malattie e da un’emigrazione massiccia e disordinata dai Paesi più poveri, dilaniati da conflitti sempre più feroci. E anche se a tutto ciò non dovessero aggiungersi i disastri provocati qua e là in Occidente da governi d’emergenza presi dal panico, secondo Duncan ci si dovrebbe aspettare che nel 2030 il consumo di energia pro-capite nei Paesi civilizzati torni a essere quello degli Stati Uniti durante la Grande Depressione. Di sicuro l’ingegner Duncan non è la persona con cui si avrebbe più voglia di scambiare quattro chiacchiere quando si è di umore basso, e
molti specialisti ritengono che le sue ipotesi siano esagerate; ma ciò di cui parla è comunque importante. Nella quarta fase delle «Dominazioni», l’egocentrismo dei leader mondiali li ha accecati non meno di quanto lo furono i loro predecessori settant’anni fa, consentendo l’accelerazione di processi pericolosissimi, anche stavolta, tanto per la C.O. quanto per il mondo intero. Il che accresce l’importanza delle scelte da compiersi nell’epoca successiva – cioè in quella che stiamo vivendo ora.
RIBELLIONI
2006-2012 1934-1940 1862-1868 1790-1796
È l’epoca-funzione in cui la Bestia ha bisogno di rinnovarsi; sa bene quel che la aspetta dopo: un dodicennio in cui tutte le sue forze vitali dovranno distruggere più o meno dolorosamente ciò che nel suo organismo è invecchiato. E siccome non ha nessuna voglia di distruggersi più di tanto, si vuol svecchiare per tempo, ed esige a tal fine la cooperazione di tutti i «noi» che la costituiscono. Asseconda perciò chi in quest’epoca riesce a scrollarsi di dosso il passato – e nell’epoca successiva gli garantirà migliore sorte, se sarà riuscito a innovarsi abbastanza. Dovranno invece aspettarsi l’esatto contrario coloro che in questi anni commettano il gravissimo errore di dire
a se stessi: «Be’, ci penserò poi». Ed è il rischio che corre chiunque abbia trovato particolarmente ragionevoli e vantaggiosi i comportamenti adottati nell’epoca precedente. Lo si nota bene su scala nazionale: negli Stati in cui, durante le fasi di questa epoca, a ribellarsi è la grande maggioranza della popolazione e si affermano leader rivoluzionari, si ha nell’epoca seguente un lungo periodo di stabilità all’interno e di successi sul piano internazionale. Invece, negli Stati in cui la ribellione di una parte della popolazione si scontra con la resistenza dell’altra parte senza che nessuna delle due riesca a prevalere, non si ha alcun miglioramento nel periodo successivo: gli unici a cavarsela bene, lì, sono quelli che hanno seguito qualche ideale nuovo, si sono battuti per esso o, comunque, sono riusciti a cambiare radicalmente la propria esistenza. Lo stesso avviene anche negli altri «noi»: religioni, partiti, imprese, famiglie eccetera. Quindi se oggi, per bontà d’animo o per viltà, avete deciso di sopportare qualcuno o qualcosa ancora per un bel po’, dovrete prendervela soltanto con voi stessi quando fra tre o quattro anni, la Bestia vi presenterà il conto. 1790-1796 La Francia fu di gran lunga lo Stato più puntuale, in questa prima fase storica delle «Ribellioni». Alla fine del 1790 era già in piena rivoluzione, mentre gli Stati vicini stavano a guardare preoccupati. E non solo la sua rivoluzione riuscì, ma inarrestabili furono poi, a lungo, le vittorie della Francia contro i suoi nemici esterni. Anche in Polonia e in Sardegna si ebbero insurrezioni, ma lì andò peggio. In Polonia, nel 1791, fu emanata una Costituzione liberale: gran parte della nobiltà reagì sdegnata. Si ebbero disordini, e gli Imperi confinanti, la Russia in primo luogo, ebbero gioco facile nello sfruttare la situazione per impossessarsi, di fatto, del Paese. Nel 1794 il generale polacco Tadeusz Kosciuszko – già famoso per gli incarichi ricoperti nell’esercito
rivoluzionario americano – organizzò e guidò la rivolta contro l’occupazione russa, ottenendo imprevedibili vittorie; ebbe il tempo di proclamare l’abolizione della servitù della gleba e di estendere le libertà civili a tutta la popolazione; poi, furono le controversie tra i suoi stessi seguaci a determinare il disastro. Kosciuszko fu preso prigioniero dai russi, ma sorprendentemente non fu messo a morte: una buona stella aiuta davvero i rivoluzionari, durante quest’epoca. Liberato e subito emigrato nel 1796, divenne una figura carismatica tanto per i patrioti polacchi quanto per il pensiero liberale europeo. Qualcosa del genere avvenne anche in Sardegna, nel 1794: un’insurrezione scoppiata a Sassari portò all’abbandono dell’intera isola da parte dei piemontesi. Il leader ribelle, lì, fu Giovanni Angioy: tentò di istituire la Repubblica sarda, di abolire il feudalesimo e di introdurre le idee-guida della Rivoluzione francese. La nobiltà e la borghesia sarda gli si opposero subito, riconciliandosi con i piemontesi, e ricadendo sotto il loro pesante dominio. Angioy emigrò nel 1796, incarnando bene l’ideale dell’eroe perseguitato; ma commise il grave errore di chiedere aiuto a Napoleone – proprio nell’epoca del «Non si può aiutare nessuno». Gli fu negato, naturalmente. Di là dall’Atlantico, intanto, gli Stati Uniti d’America si godevano i vantaggi storici della loro nazione rivoluzionaria: la presidenza di George Washington aveva la maestà delle cose nuove e piene di fiducia nella propria novità. Tutto si stava creando, dallo stile architettonico al linguaggio statunitense; anche la nazione cambiava di continuo confini: tra il 1789 e il 1796 passò infatti da undici Stati a sedici. Vi furono sporadiche insurrezioni (per motivi fiscali), che però miravano a conservare vecchie consuetudini, e furono spente perciò senza grande fatica. 1862-1868 DIGRESSIONE Su alcune disonestà secolari
Se la prima metà dell’Ottocento è tutta slanci e freni (dall’epopea napoleonica fino alle insurrezioni del ’48), la seconda è tutta ingenuità e ipocrisia, tenute insieme dalla passione per la retorica. Ingenuo è chi dalla retorica si lascia nutrire e dirigere, ipocrita è chi la usa per nascondere qualcosa. Difficile dire chi alla fine risulti meno felice, anche perché spesso le due tendenze si mescolano, e ne deriva il tipico idealista ottocentesco che tanto più si impunta a credere febbrilmente in qualche cosa, quanto più ha il segreto sospetto che non sia vera. Niente di paragonabile al secolo seguente, che fin dai primissimi anni si impose spudoratamente di credere soltanto in ciò che sapeva essere falso – abitudine che ancor oggi persiste. Si può indicare proprio nel 1861-1863 l’inizio di questa simbiosi ingenui-ipocriti, che allora e finché durò fu pasticciona in tutto, meno che nella diplomazia, arte nella quale il grado di verità di qualcosa non ha mai avuto peso. Valutate voi stessi. Nel 1861, lo zar Alessandro I (uomo ingenuo) aveva annunciato la fine del servaggio in tutto il suo impero (che già nel 1862 si rivelava puramente retorica). Lo stesso anno, negli Stati Uniti, il Sud schiavista (ingenuo) entrò in guerra contro il Nord abolizionista (lucidamente retorico). Nel 1863 la nobiltà polacca (retorica) scatenò una vasta insurrezione (ingenua). La principale conseguenza di tale insurrezione fu di suscitare, a molte centinaia di chilometri di distanza, sufficiente entusiasmo (retorico) nei comunisti riuniti a Londra per un loro congresso, da spingerli a creare la Prima Associazione Internazionale degli Operai (ingenua) per tutelarsi contro gli industriali (che solo con la retorica potevano dissimulare la loro rapacità). Ingenuità e retorica alimentarono, d’altra parte, le ribellioni di cui la Bestia aveva in quel momento bisogno: mai, né prima né dopo d’allora, nella C.O. furono prese in così breve periodo tante iniziative rivoluzionarie, sia dall’alto sia dal basso della società; a decidere poi il loro esito fu quel che più contava per l’epoca: ebbero successo soltanto quelle più innovative. La Prima Internazionale se la cavò piuttosto bene,
per una decina d’anni; Lincoln ebbe la meglio sul Sud conservatore; l’insurrezione polacca (che fu in gran parte una reazione dei proprietari terrieri all’abolizione del servaggio) si trasformò invece in catastrofe. Quanto al decreto di Alessandro I, sappiamo già che provocò solo guai: l’impazienza, la fretta impedì allo zar di accorgersi che i cavilli erano talmente perfidi, da condannare i contadini a una miseria ancor maggiore di quella che avevano patito da servi. In poco tempo l’Impero russo divenne un’immensa riserva di braccianti sbigottiti; e inevitabilmente Alessandro dovette ratificare forme di oppressione sempre peggiori – in insanabile contrasto disfunzionale con l’epoca delle «Ribellioni» – pur continuando a farsi chiamare, per pura retorica, «lo zar liberatore». La retorica, di nuovo, ammantò agli occhi degli italiani anche il loro intervento a fianco della Prussia, contro l’Austria, nel 1866: la cosiddetta Terza Guerra d’Indipendenza. Scopo di tale intervento, per il Regno d’Italia, era in realtà ottenere con la forza l’annessione del Veneto. Altro che «Ribellioni»: si trattò, anche qui, soltanto di dominazione, e se il colpo riuscì (peraltro a fatica) fu solo perché gli austriaci erano, a quel tempo, ancor più conservatori dei Savoia. Vi fu dunque un elemento disfunzionale anche in questo formarsi dell’Italia, i cui governi furono poi incapaci di correggerlo, peggiorando via via, fino a produrre il fascismo, e oltre. 1934-1940 La terza fase delle «Ribellioni» vide un rinnovamento soltanto negli USA, grazie al New Deal rooseveltiano; ma l’Europa si stava dirigendo sempre più chiaramente verso il peggiore disastro della sua storia, e nessuno faceva o diceva nulla. Ci si sarebbe potuti ribellare, l’epoca non chiedeva altro al Vecchio continente: non per nulla l’unica insurrezione del periodo, quella spagnola, finì con la vittoria dei ribelli – di Francisco Franco, cioè. Ma nel resto del continente prevaleva l’inerzia: tutti obbedivano alle autorità costituite; perfino gli ebrei – nonostante le esortazioni a emigrare, da parte del movimento sionista – non facevano che adeguarsi a una situazione sempre più fosca.
Perché la trappola si chiudeva tanto ineluttabilmente? DIGRESSIONE Sui buoni sentimenti Senza dubbio, l’Europa stava registrando in quegli anni una netta carenza di amore, di memoria e di libertà interiore, che come sappiamo sono le qualità indispensabili a chi voglia essere se stesso – e solo chi riesce a essere se stesso trova la forza di ribellarsi. Quelle tre carenze erano allora tanto profonde e condivise, perché si sarebbero dovute cambiare troppe cose, per colmarle. Si pensi anche soltanto alle colonie. L’economia europea, alla fine degli anni Trenta, dipendeva in larga misura dallo sfruttamento di molte altre popolazioni, africane e asiatiche: cosa che con amore, memoria e libertà aveva ben poco a che fare. Tutti lo sapevano: c’era il cinema, c’era la radio, i giornali erano pieni di fotografie, la gente leggeva e viaggiava molto più che all’epoca del New Imperialism (vedi pagg. 144 e 149). Eppure nessuno osava mettere in discussione le rapine commesse ogni giorno a danno di quei milioni di stranieri. Nemmeno Freud ne parlò mai, nei suoi studi sul «senso di colpa». Quanto doveva costare, agli europei, questa vera e propria omertà? Non accorgersene era possibile soltanto rifiutandosi di ascoltare la propria coscienza morale, cioè il proprio io: e per riuscire a non ascoltare se stessi, bisogna confondersi nel «noi», nei molti altri. Anche da ciò proviene la tendenza, tanto forte in questi anni, a formare masse, ad apparire il più possibile normali al maggior numero possibile di persone – con il conseguente odio per gli outsider, per i diversi. Ne proviene anche l’insensibilità alle menzogne, o addirittura la voglia di udirne e di crederci – perché anche il dubbio implica isolamento, in una massa: è un dar peso alla propria opinione, invece di adeguarsi a quella prevalente. Dimodoché i leader europei, in questo periodo più bugiardi che mai, ebbero la strada spianata. Su una cosa quei leader non mentivano: promettevano sempre più
esplicitamente guerra, cioè morte in compagnia. Il fatto che fosse in compagnia fu fondamentale, per popolazioni che temevano tanto la solitudine. Il fatto che fosse morte e crimine non suscitava, invece, quell’indignazione che soltanto in una coscienza moralmente desta si sarebbe potuta avere. 2006-2012 SÈGUITO DELLA DIGRESSIONE PRECEDENTE Tra la terza fase dell’epoca e la sua fase attuale, l’unica differenza notevole è che la Spagna, oggi, appare tranquilla: non ci si ribella, cioè, nemmeno lì. I governi autoritari sono numerosi nella C.O., e agiscono indisturbati, grazie a partiti d’opposizione debolissimi, confusi. In alcuni Stati europei, Italia e Russia soprattutto, si assiste a un conformismo che non ha eguali da molti secoli. Quanto alla solitudine, è divenuto il più raro dei beni e il più deperibile – dato che gli eccessi di Internet la insidiano anche quando si è chiusi nella propria stanza. Intanto, proprio come nelle altre fasi delle «Ribellioni», anche oggi tutto ciò che è innovativo sembra destinato ad avere successo: per esempio la candidatura di un uomo di colore alla presidenza degli Stati Uniti. Peccato che gli avvenimenti innovativi siano incredibilmente scarsi. Tra gli elementi che ne ostacolano l’aumento, vi è ovunque nella C.O. la paradossale popolarità di chi non ha successo affatto. È un fenomeno curioso. Fino a qualche anno fa, popolarità e successo erano sinonimi: solo, tra i significati della parola «successo» prevaleva quello di «riuscita in una qualche impresa»; e dunque il favore del pubblico veniva automaticamente inteso come il premio a chi avesse conseguito qualche risultato significativo. Oggi ciò occorre sempre meno: la popolarità ha cominciato ad autoalimentarsi. È popolare chi è popolare, indipendentemente dai motivi per cui lo è, e ai quali si attribuisce sempre minore importanza.
Non penso che occorra cercare la causa di ciò in un influsso esercitato sulla C.O. dall’industria dello spettacolo, nella quale il bisogno di volti nuovi obbliga spesso i produttori a non andare tanto per il sottile nel fabbricare le star. Non è per show business che l’accademia svedese ha attribuito il premio Nobel per la Pace al presidente Obama, senza che costui abbia fatto nulla per meritarlo. Penso invece, ancora una volta, che una causa non ci sia affatto, cioè che ce ne siano moltissime e che nessuna conti, e che questa trasformazione delle dinamiche della popolarità sia stata plasmata da un preciso scopo collettivo: evitare (follemente, disastrosamente, proprio come lo farebbe un aspirante suicida) che il successo di chi fa cose davvero significative smuova le popolazioni della C.O. dallo stato di torpore in cui, per la seconda volta in cent’anni, hanno deciso di rimanere fino all’ormai imminente epoca del «Non si può più aiutare nessuno». Si direbbe una forma depressiva: o almeno non vi è, in ciò, nulla di diverso dal comportamento di una persona depressa che potrebbe scuotersi e recuperarsi se incontrasse più gente, se trovasse qualcuno di cui innamorarsi, e che appunto per ciò non esce mai di casa. Può darsi che in questo stato d’animo autolesionista si stia manifestando una profondissima ribellione degli «io» alla Bestia. In fin dei conti, ribellarsi durante l’epoca delle «Ribellioni» significa obbedire a quel che la Bestia vuole. E forse gli uomini si sono stufati di obbedirle. Ma se è così, hanno scelto il modo più pericoloso di sfidarla: come se tutti gli schiavi di un padrone malvagio avessero deciso di lasciarsi morire di fame perché sono stanchi di obbedirgli. A morire di fame fisica basta qualche settimana; invece per morire di fame spirituale, come sembra intenzione di questa umanità stanca, possono volerci diversi anni – e al 2012-2018 ne mancano solo due. Molto meglio sarebbe se l’insubordinazione alla Bestia fosse più attiva: se alla denutrizione si preferisse una scorpacciata di amore, memoria e libertà; in tal modo, si arriverebbe alla fine della C.O. senza bisogno di soffrire troppo. Ma sarebbe una cosa bella, e ai depressi le cose belle danno fastidio.
NON SI PUÒ PIÙ AIUTARE NESSUNO
2012-2018 1940-1946 1868-1874 1796-1802
Qui è la fine, per tutto ciò che è invecchiato e che non è più in grado di crescere e cambiare, e anche per il nuovo che ancora non è riuscito a imporsi e che avrebbe bisogno di aiuto. 1796-1802 La prima fase del «Non si può più aiutare nessuno» corrisponde al primo periodo delle Guerre napoleoniche. Nel 1796, con la Campagna d’Italia, ebbe inizio lo sconcertante problema: come e perché un gruppo di giovanissimi generali (Bonaparte aveva ventisei anni) alla testa di un
esercito caotico riuscivano a sconfiggere una dopo l’altra le coalizioni delle potenze europee? Il regime austriaco nell’Italia del Nord, solidissimo fino ad allora, la diplomazia inglese e russa, l’autorità del papa: tutto crollava o indietreggiava davanti a quel giovanotto iperattivo, abolitore di Stati, fondatore di chimeriche repubbliche – Transpadana, Cisalpina, Anconitana, Romana… Non contento del disordine che portava in Europa, Napoleone dichiarava guerra all’Egitto, scatenava il caos anche là, per poi tornare in Francia a portare a termine un golpe, e a dichiararsi padrone assoluto del Paese. Si disse, già allora, che fosse un’incarnazione dell’Anticristo. Era piuttosto un perfetto strumento di quell’epoca della Bestia, tanto fortunato proprio perché, senza dare né chiedere aiuto a nessuno, aveva come avversari non dei leader, ma appunto delle coalizioni, cioè monarchi che tentavano di aiutarsi l’un l’altro; e per di più, erano tutti monarchi vecchi, custodi di un ordine che gli ideali della Rivoluzione francese avevano sorpassato e costretto sulla difensiva. Anche altri Stati arcaici subirono pesanti sconfitte in questi anni, in margine alla C.O.: la Persia, a opera della Russia, e la Reggenza di Tripoli, a opera di una forza d’intervento statunitense (nella cosiddetta Barbary War, del 1802). Fallirono invece varie ribellioni, dato che era ormai passato il tempo: la rivolta di Liegi nel 1797, la sanguinosa Rivolta irlandese contro il dominio inglese, nel 1798, e la lotta di Toussaint L’Ouverture per l’indipendenza di Haiti, spietatamente repressa dalle truppe napoleoniche. 1868-1874 Anche in questa fase alcuni Stati che vivevano del loro passato furono abbattuti da altri che nel periodo precedente avevano cominciato a realizzare novità. Bene o male, a torto o a ragione, il Regno d’Italia stava costruendo se stesso, fatto nuovo nella storia della penisola: e nel 1870, con la conquista di Roma, eliminò dalle carte geografiche anche il suo ultimo ostacolo, il
millenario Stato della Chiesa. La Prussia stava lavorando alacremente all’unificazione degli Stati tedeschi, altro fatto nuovo nel continente, e nel 1870 si trovò improvvisamente in guerra con la Francia, a quel tempo nostalgica più che mai, perfino nel nome del suo re: Napoleone III (giustificato da una lontana parentela con il Napoleone vero). E fu la Prussia, a stravincere. Quanto ai molti massacrati di questi anni, di qua dall’Atlantico l’episodio più tragico fu la repressione della Comune di Parigi, sempre nel ’70: qui, il «Non si può più aiutare nessuno» prese la forma dell’assedio di quartieri, delle lunghe fucilazioni nelle piazze e nei cortili – centomila vittime in poche settimane, nella città chiusa da ogni parte dalle truppe governative. Altrove, negli Stati Uniti e nelle colonie asiatiche, la C.O. andava affinando non meno indisturbata le sue tecniche di genocidio: là, le vittime erano coloro che secondo il darwinismo più estremo avevano accumulato troppo ritardo nell’evoluzione della specie – pellerossa e hindu. Al 1871 risale per esempio il sordido Criminal Tribes Act, con il quale il governo britannico dichiarava centosessanta etnie indiane portatrici di incurabili impulsi criminali ereditari – e implicitamente candidate all’estinzione forzata. Hitler ne trasse senza dubbio ispirazione, settant’anni dopo. 1940-1946 Settant’anni dopo la vittoria della Prussia a Sedan, la Germania tornò a sconfiggere e a invadere Stati europei, scatenando il più spaventoso disastro abbattutosi finora sul mondo. Durò sei anni. Determinò la morte di non meno di venti milioni di militari e di quaranta milioni di civili. Pose fine per lungo tempo all’indipendenza degli Stati sorti in Europa centrale vent’anni prima (troppo giovani e stentati per reggere a un’epoca tanto dura); accelerò il crollo dell’ultimo Impero rimasto nella C.O., quello britannico (troppo vecchio); dimezzò il popolo ebraico, che più d’ogni altro in Europa era legato al suo passato remoto. Si ebbe invece il trionfo delle due Potenze più innovatrici, gli Stati Uniti appena usciti dal New
Deal e l’URSS, ancora sorretta, nonostante tutto, dalla generazione che aveva vissuto le Rivoluzioni del ’17. Produsse anche un altro cambiamento, talmente profondo da non essere ben misurabile ancora oggi: con Auschwitz e Nagasaki, l’uomo della C.O. scoprì in se stesso abissi nuovi di ottusità, di odio, di ferocia. Ciò avrebbe dovuto obbligarlo a crescere, cioè a trovare in sé prospettive più alte e luminose, che lo riequilibrassero in qualche modo. Sarebbe stata, per la specie, un’esigenza elementare, analoga a quella per cui dopo un’epidemia di peste si ha una forte crescita demografica. Ma a tutt’oggi non è avvenuto nulla del genere. Dopo la guerra la cultura occidentale non è migliorata affatto, non ha né creato valori nuovi né riscoperto valori antichi (si è invece limitata a esaurire le scorte di quelli vecchi), come se l’orrore l’avesse ferita troppo gravemente. O come se qualcosa le impedisse di credere a valori autentici – per quella particolare tendenza del XX secolo a credere soltanto a ciò che si sa non essere vero. 2012-2018 DIGRESSIONE Sulla prossima fase di quest’epoca D’altra parte, la nostra psiche è fatta in modo che quanto più vuole ignorare i propri impulsi distruttivi, tanto più ne è condizionata – e tanto più inevitabili le sembreranno, quando cominceranno a manifestarsi. Sia per creare il Dio che li ha creati, sia per creare le forze interiori che li possono annientare, gli uomini seguono il medesimo procedimento: pongono un limite alla propria conoscenza di sé, e lasciano che quel che si trova al di là del limite continui a crescere, mentre ciò che è al di qua rimanga fermo. La differenza è che, quando sono riusciti a creare un Dio, gli uomini cominciano in genere a limitarne gli effetti, parlandone molto (soprattutto in rumorese), nominandolo volentieri invano, indagandolo. Nei riguardi dei loro impulsi distruttivi, fanno invece l’esatto contrario:
li temono a tal punto da parlarne il meno possibile, e preferiscono intrattenersi su quel che di giusto, di lodevole credono di avere, o di voler avere nel proprio cuore. In tal modo gli impulsi distruttivi non fanno che crescere. In ciò consiste, oggi, uno dei principali pericoli per le popolazioni della C.O. Tutte le volte che gli occidentali si indignano ascoltando notizie di crimini contro l’umanità, tutte le volte, cioè, che in quelle notizie si sforzano di vedere qualcosa che contrasta con quel che di lodevole essi credono di avere dentro di sé, stanno in realtà proteggendo la carica d’odio che hanno ereditato dalla generazione attiva tra il ’40 e il ’45, e che da allora hanno imparato a nascondere a se stessi. Farebbero molto meglio a considerare quei crimini come qualcosa di normale per loro, figli e nipoti di coloro che avevano commesso o tollerato sessanta milioni di vittime in sei anni. Perlomeno non mentirebbero a se stessi. Non sarebbero impegnati in continue autocensure più o meno segrete. L’uomo occidentale, cresciuto tra i reduci, i traumatizzati, i colpevoli, i testimoni indifferenti o impotenti e gli amnestici della Seconda Guerra Mondiale, non può che essere un violento o, qualora si sforzi di negarlo, un ipocrita, sulle cui labbra parole come «amore», «fratellanza», «pace» suonano sempre false, moralistiche, banalmente didattiche. Non vi è sforzo più costoso, per la psiche umana, del non voler accorgersi di qualcosa. Ed è ciò che, negli ultimi sessant’anni, ha impedito agli occidentali sia di riflettere seriamente sul proprio presente e sul proprio futuro, sia di creare valori nuovi, o di ascoltare i pochi che tentavano di crearne o di riscoprire i valori antichi. Da tale sforzo, gli occidentali appaiono oggi sfiniti. L’unico principio etico condiviso da tutte le popolazioni della C.O. è, oggi, lo stesso che potrebbe avere un criminale angosciato: «Speriamo di tirare avanti ancora un po’, prima che me la facciano pagare». E al contempo, l’effetto degli impulsi distruttivi che quelle popolazioni nascondono a se stesse diventa sempre più evidente: proprio grazie allo sviluppo tecnologico voluto, diffuso e imposto ovunque dall’Occidente, l’umanità intera è costretta a sperare di tirare avanti ancora un po’, prima
che gran parte del pianeta diventi inabitabile. Nulla lascia sperare che tale situazione cambi in meglio, dentro la Bestia, nei prossimi due anni. Una distruttività ereditaria e tanto cronicizzata non si guarisce in un tempo breve. Quel che la Bestia potrebbe fare per limitare il disastro delle sue popolazioni (se tale sarà il suo intento) sarebbe considerarle nel loro complesso il più grande dei suoi «errori storici», e immobilizzarle, ingessarle per una quindicina d’anni in regimi dittatoriali. Quel che invece può fare un io è andarsene. Non essere più occidentale né altro, non appartenere più alla C.O. in alcun modo, guardarla come si guardano i documentari di etologia, e lasciare che se la sbrighi da sola, con i problemi che i suoi cicli storici hanno finito per cagionarle. Torneremo a parlare più avanti di tale prospettiva, ma dal canto mio garantisco fin d’ora che con questa civiltà, dopo che al libro avrò messo la parola Fine, non vorrò più avere nulla a che fare.
APICE DELLA TENSIONE
1946-1952 1874-1880 1802-1808
Durante le «Ribellioni» vengono messe alla prova le istituzioni della C.O., e le convinzioni o le fedi che le giustificavano; durante l’epoca del «Non si può più aiutare nessuno» crollano gli equilibri che alcune di quelle istituzioni, convinzioni e fedi avevano prodotto; durante l’«Apice della tensione», la C.O. sembra invece aver paura che tale crollo non si possa fermare più. È come una mente che si accorga di star perdendo il senso della realtà: cerca di consolidare quel che ancora può, o di deviare in qualche modo gli impulsi disgregatori. Ed è sempre un compito molto difficile: finora, nei cicli storici, due volte su tre un’epoca non è bastata ad assolverlo, e i tentativi di soluzione sono proseguiti nell’epoca successiva. 1802-1808
In questa prima fase dell’«Apice della tensione», il compito di frenare la distruzione non riuscì, alla C.O. Sia Napoleone, sia i governi che gli erano ostili tentarono invano di ridimensionare i loro attriti reciproci, con mosse e contromosse diplomatiche e politiche, ma già nel 1803 ricominciarono le guerre, ancor più vaste di prima. Coinvolsero Francia, Austria, Prussia, Russia, Svezia, Spagna, Portogallo, Regno di Napoli; e furono ancor più sanguinose: diciottomila caduti ad Austerlitz, trentamila a Jena, cinquantamila a Eylau, senza che nulla accennasse a risolversi. 1874-1880 La seconda fase storica fu più accorta: si fece in modo che la tensione venisse sfogata altrove, in guerre coloniali e flussi d’emigrazione (come già era avvenuto in altri secoli della storia d’Europa: con le Crociate, per esempio, o nel primo Seicento). E la tensione era, in questa seconda fase, fortissima. La neonata Germania e gli Stati Uniti in pieno sviluppo stavano complicando troppo il commercio internazionale; Gran Bretagna e Francia avevano dovuto limitare la produzione industriale e abbassare i prezzi, e già dal 1873 aveva avuto inizio la recessione (quella che poi fu chiamata Long Depression), con la crescente paura che i conflitti sociali si acutizzassero e che il socialismo riuscisse ad approfittarne. Il New Imperialism fu la soluzione: ebbe inizio nel 1875, con l’acquisto da parte della Gran Bretagna della maggioranza azionaria del Canale di Suez, e rapidamente si estese in Africa e in Asia. Nel giro di pochi anni le nazioni occidentali presero possesso del venti per cento dell’intero pianeta, per aprire nuovi mercati, procurarsi le materie prime e distrarre lo sguardo del maggior numero possibile di europei dai problemi di casa loro. Anche la retorica divenne, naturalmente, irrefrenabile: con la mission civilisatrice dei francesi, con lo jingoism, il tronfio patriottismo britannico, con l’esaltazione della supremazia quasi mistica dell’uomo bianco. Quest’ultima contagiò persino gli Stati Uniti che, a nemmeno dieci anni dalla Guerra di Secessione, all’improvviso si scoprirono razzisti, ancor più
di prima, nei riguardi sia dei neri, sia dei cinesi. Fu un vero e proprio drenaggio dell’angoscia fuori dal Castello; e, certo, produsse follie, atrocità, corruzione, ma fuori dalla C.O. più che al suo interno: e in compenso permise a tutti i suoi «noi» di superare la crisi. Si ebbe un unico caso in controtendenza al colonialismo: la Serbia, nel 1878, proclamò la propria definitiva indipendenza, dopo una travagliatissima lotta contro i turchi che da secoli la opprimevano. Ma anziché suscitare nella C.O. qualche dubbio sulla legittimità dell’oppressione coloniale, l’indipendenza serba fu accolta come un’ulteriore dimostrazione della superiorità dei bianchi cristiani sui popoli di altre sfumature di colore e di altre fedi. 1946-1952 In questi anni la carta politica d’Europa, con quella Cortina di Ferro che la tagliava a metà, sembrava un diagramma di fase della personalità schizofrenica. E la salute psichica della gente era davvero messa a dura prova: lo stalinismo da una parte, il maccartismo dall’altra non erano sindromi ossessive di massa? Eppure vi fu, in tutto ciò, un evidente vantaggio generale. La psicosi della guerra fredda bloccava ogni impulso, permettendo a tutti di aspettare, immobili: e non tanto che accadesse qualcosa, ma che anno dopo anno si placassero, lentamente, le grandi energie distruttive dell’epoca precedente. Chissà quali conflitti sociali si sarebbero potuti scatenare, se non ci fossero state la paura del comunismo, da una parte, la paura del capitalismo, dall’altra, e la paura della bomba atomica a dominare su tutto. Ancora una volta, i «noi» della Bestia riuscirono a salvarsi convincendo ognuno che il nemico fosse altrove: all’Ovest, per chi era all’Est, e all’Est per chi era all’Ovest. E fu anche meglio dell’Imperialismo di settant’anni prima, che aveva richiesto guerre vere, spesso molto calde, in luoghi lontanissimi; adesso, bastava la guerra fredda – cioè il pensiero di una guerra – a ipnotizzare le menti, a obbligarle a obbedire.
PASQUA
1952-1958 1880-1886 1808-1814
«Pasqua», si sa, significa «Transizione». Ufficialmente, è la commemorazione dell’esodo degli ebrei dall’Egitto, e del vano inseguimento da parte degli egiziani, i quali finirono quella volta in fondo al Mar Rosso. Ufficiosamente, è la festa di un archetipo ancora più antico, e universale: il passaggio dall’inverno alla primavera, e più in generale da una stasi a un aumento di slancio vitale. In tutte e quattro le fasi dell’epoca della «Pasqua» tale slancio è evidente, impetuoso, tanto da determinare lunghi movimenti di centinaia di migliaia di persone. Ma quest’epoca è anche una delle quattro delicatissime «torri» (le altre sono, come si ricorderà, le «Ribellioni», l’«Epoca massima» e il «Domani»), in cui la Bestia adotta severe misure
di contenimento, per impedire che le sue popolazioni facciano qualcosa di incompatibile con il perimetro del Castello. Perciò, in questi anni, si verifica tanto spesso l’esatto contrario sia dell’accezione ufficiale sia di quella ufficiosa della Pasqua: lo slancio vitale non trionfa, ma viene piegato, schiacciato; gli esodi o si interrompono o si condannano da sé allo sfacelo; e si viene ricondotti in Egitto, nella stasi. 1808-1814 L’insensata campagna di Russia sembra davvero un esodo non riuscito: nel giugno del 1812 Napoleone puntò tutt’a un tratto verso est, con la più grande Armata che avesse mai avuto; follemente, battaglia dopo battaglia, arrivò fino a Mosca (e non ve n’era motivo, dato che la capitale era allora a Pietroburgo, assai più facile da raggiungere) dopodiché, altrettanto follemente, decise di tornare indietro a fine ottobre, mentre il termometro scendeva molto al di sotto dello zero. Nel complesso, perse in quell’anno più di cinquecentomila uomini. Dove voleva andare in realtà? E perché? Non c’era ragione politica, economica o strategica che giustificasse una simile impresa. Ma era la «Pasqua»: Napoleone doveva andare via, e perdersi in qualche luogo; ed evidentemente molti di quei suoi cinquecentomila e più lo dovevano (e lo volevano) tanto quanto lui: non avrebbe potuto convincerli a seguirlo, se no, in un’impresa tanto insensata. Esprimevano la necessità dell’epoca, che non apparteneva a nessuno di loro, ma soltanto alla Bestia, e che non è un desiderio di fuga, ma il bisogno di mostrare che la fuga è impossibile. I russi, dal canto loro, si vantarono a lungo di avere disfatto la Grande Armée: ma fu soltanto il primo grande servigio che prestarono alla Bestia, facendosene suo strumento, quasi vendicatori degli egizi di tremila anni prima (il secondo grande servigio fu lo stalinismo). Terminato quel sanguinoso mysterium antipasquale, il compito di Napoleone sembrò d’un tratto esaurito: fino al 1812 gli era andato tutto bene, poi tutto gli andò storto – come se la Bestia, non avendo più bisogno di lui, avesse smesso di assecondarlo.
Nel 1807 Prussia e Russia l’avevano riconosciuto trionfatore, con la pace di Tilsit; nel 1809, aveva sconfitto clamorosamente gli austriaci a Eylau; nel ’10 gli era stata data in moglie Maria Teresa, figlia dell’imperatore del Sacro Romano Impero; nel 1811 gli era anche nato un figlio. Nel 1813, era invece un uomo in lotta contro la disperazione: continuò a fare la guerra, ma solo per rallentare un poco il proprio crollo. Nel ’14 abdicò, tentò invano di avvelenarsi, e fu relegato all’Isola d’Elba – mentre il Congresso di Vienna preparava, sempre per conto della Bestia, la successiva epoca del «Muro». Intanto, la tecnologia sembrava in qualche modo percepire ed esprimere il senso dell’epoca: nel 1809 Fulton inventava il battello a vapore, e Stephenson, cinque anni dopo, la locomotiva. Per produrre forza motrice parve cioè ovvio, tutt’a un tratto, costringere in una caldaia il vapore in espansione, e lasciarlo sfogare soltanto in modo che azionasse ruote inserite in una rotaia. Era quasi un’allegoria del disastro di Napoleone: l’ambizione, in lui, era come il vapore nella macchina, la caldaia era la trappola che la storia gli andava preparando in Russia, e la rotaia era il volere della Bestia, in quell’epoca tanto tragica. 1880-1886 Con esemplare puntualità, proprio in questa fase della «Pasqua» ebbe inizio la prima grande ‘aliyah, l’immigrazione, cioè, degli ebrei in Palestina. Ma pochi vi badarono, allora: era soltanto un piccolo epifenomeno della generale passione imperialista e razzista che altrove, sia in Asia sia in Africa, continuava a ottenere risultati ben più eclatanti – trasformando Paesi stranieri in vapore da comprimere, così da produrre forza motrice per la C.O. L’implicazione dell’imperialismo era naturalmente che i conquistatori, dal canto loro, dovessero trasformarsi in rotaia, cosa immorale e psicologicamente insalubre: ma in questi anni continuarono a riuscirci senza tanti scrupoli. Ne derivò una sindrome particolare, una coazione alla
violenza, chiamata, allora, «Empire for Empire’s sake», cioè l’oppressione degli stranieri per il gusto dell’opprimerli – ma non fu avvertita come una malattia: anzi, pareva un merito, dava gloria. Nella C.O., intanto, aveva avuto inizio una «Pasqua» tecnologica in grande stile: le prime elettrificazioni di intere città, sia negli Stati Uniti sia in Europa; i primi grattacieli; il primo modello di automobile; il successo del grammofono. Mai il concetto di Progresso – con la P maiuscola – era stato evidente a tutti gli strati della popolazione: era facile immaginarselo come un esodo dell’intero Occidente verso un sempre maggiore benessere, e non accorgersi di quanto fosse, in realtà, il contrario. Istillava infatti in tutti – o quasi – la certezza di abitare già nel migliore dei mondi possibili, e di stare già lavorando per migliorarlo: quale miglior modo di scoraggiare la ricerca di qualcos’altro? Se in Egitto fosse stata inventata la lampadina nel 1200 a.C., Mosè non avrebbe potuto convincere nessuno a seguirlo. 1952-1958 Nel 1953 morì Stalin, e tutt’a un tratto, con il XX congresso del PCUS, Khruščëv diede inizio a una «Pasqua» in URSS: il cosiddetto «disgelo». La stampa sovietica denunciò alcuni crimini dello stalinismo, migliorarono i rapporti con l’Occidente (si arrivò addirittura a una sospensione dei test nucleari statunitensi, per qualche anno) e il terreno di confronto tra le grandi potenze si spostò altrove, nella gara alla conquista dello spazio – che aveva anch’essa un evidente senso «pasquale», di passaggio verso il chissà dove. Ma durò poco: nel ’56 l’Ungheria, che aveva preso il «disgelo» un po’ troppo sul serio, fu invasa dalle truppe del Patto di Varsavia. La Russia tenne fede, ancora una volta, al suo ruolo di frustratrice, di mastino della Bestia. A ovest, in questi anni, la «Pasqua» si direbbe soprattutto subita, come nella Bibbia la subirono gli egizi: il colonialismo tramontava rapidamente, e in Africa e in Asia gli occidentali cominciavano a perdere uno dopo l’altro i loro possedimenti – Sudan, Tunisia, Ghana, Cambogia, Laos,
Singapore, Malesia… Anche gli USA si videro soffiar via i loro investimenti a Cuba, con la rivoluzione castrista (lì, Castro e Che Guevara facevano la parte di Mosè e Aronne, in questi anni). In realtà, per la cultura occidentale, questo rimanere al di qua del Mar Rosso dinanzi a tanti esodi, finì per rivelarsi fruttuoso in vario modo: andava di pari passo con la fine del maccartismo e con l’inizio di una nuova epoca nei diritti umani – proprio come se, smettendo di vessare economicamente altre popolazioni, gli occidentali si stessero domandando se non fosse meglio smettere di vessare moralmente se stessi. Nel 1957 negli USA, fu fondata la Commissione per i Diritti Civili; poco prima, il Rapporto Kinsey aveva cambiato le idee degli americani sulla sessualità, ed effetto analogo ebbe in Gran Bretagna il Wolfenden Report – in sèguito al quale l’omosessualità fu tolta dalla rubrica dei reati punibili. L’eco nel resto della C.O. fu vasta e profonda. Si ebbe la sensazione – pasqualissima – che ogni nuovo diritto riconosciuto ne facesse diventare più evidenti altri che ancora attendevano riconoscimento: proprio il sentirsi un po’ più liberi fa apparire più stretto il luogo in cui ci si trova. L’epoca seguente, quella del «Muro», avrebbe d’altronde provveduto a rendere la prigione più salda. Quanto all’Italia, è fondamentale il fatto che nel 1954 abbiano avuto inizio le trasmissioni televisive: un intero popolo scoprì di essere molto più arretrato di quel che credeva, il che è sempre una bella cosa; lo schermo grigio sembrò a tutti un supremo strumento di aggiornamento, di civilizzazione. Ma era anche quello una «Pasqua» della C.O., e non ci mise molto a rivelarsi il mezzo supremo di condizionamento, di irreggimentazione (di «genocidio», diceva Pasolini già negli anni Sessanta) della cultura nazionale.
MURO
1958-1964 1886-1892 1814-1820
Come sanno i lettori della Bibbia, l’esodo ebbe una sosta di addirittura quarant’anni. Dio e Mosè decisero così, perché si erano accorti di non potersi fidare degli ebrei adulti, nati e cresciuti servi degli egiziani, e perciò abituati alla viltà, inadatti alla conquista della Terra Promessa. Bisognava che quella generazione schiava si estinguesse: «I vostri corpi cadranno uno dopo l’altro in questo deserto!» dichiarò loro il Signore (Numeri 14,29); e quarant’anni parvero un periodo sufficiente. Mosè si dedicò, in quel frattempo, a far crescere liberi e coraggiosi i bambini d’allora, così da farne un popolo degno del favore divino. Accade qualcosa del genere anche nell’epoca del «Muro»: qui per sei anni, invece che per quaranta, gli appartenenti alla Bestia sono costretti a
fermarsi, come murati in una dura stasi politica, sociale, culturale. La differenza è che, nel bloccarli così, la Bestia non mira di certo a suscitare in loro un maggiore coraggio. Il «Muro» è un prolungarsi dello sforzo di contenimento che abbiamo visto nella «Pasqua»: serve a eliminare dalle menti e dagli animi ogni eventuale residuo di impulsi centrifughi, in vista della successiva e assai impegnativa epoca-«torre». 1814-1820 Il più celebre degli intrappolati, in questa prima fase storica, fu Napoleone. Nel 1814 era bloccato nell’Isola d’Elba, nel febbraio del 1815 riuscì a fuggire ed ebbe, fino a giugno, il suo ultimo periodo d’attività: i cosiddetti «Cento giorni» che, in realtà, furono anch’essi un aggirarsi davanti a insuperabili muri. L’Europa si era già saldamente organizzata in modo da chiudergli ogni possibilità: fu costretto allo scontro, a Waterloo – e anche lì, per otto ore, l’esercito francese tentò invano di sfondare il muro delle truppe di Wellington. Dopodiché, l’ex imperatore fu relegato per sempre a Sant’Elena, ed ebbe inizio quella lunga, meticolosa denapoleonizzazione e derivoluzionarizzazione d’Europa, che prese il nome di Restaurazione, e della quale per molti versi si pagano ancor oggi le conseguenze. A partire dal 1815 vennero infatti inculcati nelle menti alcuni profondi princìpi d’infelicità personale, autentiche trappole, indispensabili per il mantenimento dell’illibertà collettiva: dal criterio d’anzianità nelle carriere alla certezza che qualsiasi forma di amore-passione non monogamico e non mirante all’eternità fosse approssimativa e generatrice di infelicità. La gente si ritrovò insomma murata, sia in casa sia fuori. Poliziotti, funzionari e preti diventarono i principali punti di riferimento della società. Fu il tempo delle rivolte disperate e inutili – in Spagna, in Portogallo, nel Regno delle Due Sicilie. Fu il tempo dei carcerati famosi, degli incompresi, degli outsider senza scampo: da Pellico a Leopardi, a Shelley, a Byron.
1886-1892 Outsider sono anche le personalità più intense della seconda fase storica del «Muro»: da Van Gogh a Nietzsche, da Tolstòj (in questi anni, definitivamente votatosi all’eresia) a Oscar Wilde, da Rimbaud a Collodi. Mi ero ripromesso di non sconfinare nella storia della letteratura, ma come non citare qui Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, monumento ai muri interiori ed esteriori di quest’epoca; e anche la fuga del suo autore in Polinesia, per respirare almeno per un po’, prima di morire, l’aria di un mondo non carcerato dalla Bestia. Interpreto come un’ossessione del muro anche il fervore degli occultisti di questi anni e la popolarità di Kropotkin e Bakunin. Nell’occultismo era infatti evidente il bisogno di cercare varchi nell’Aldilà, poiché nell’Aldiqua tutto appariva in qualche modo chiuso. Altrettanto evidente era, nell’anarchia, l’impulso a portare gli ideali alle loro conseguenze estreme: non certo per aumentare la fiducia nel fatto che li si potesse realizzare, ma, al contrario, per la certezza che nel mondo concreto quegli ideali fossero irrealizzabili e che, dunque, tanto valesse proiettarli in un’utopia, fondamentalmente disperata. Intanto, di muri se ne perfezionavano ovunque. Non per nulla fu ultimata, nel 1889, la Tour Eiffel, autentico emblema di quest’epoca: uno spasmodico slancio verso l’alto (via dai limiti del qui, dalla normalità soffocante) e al tempo stesso un’angosciosa, scura gabbia di ghisa! Vi erano muri razziali, e religiosi. In quello stesso 1889, con l’Indian Religious Code il governo statunitense faceva divieto agli indiani di praticare i loro culti; di lì a poco, gli immigrati cinesi negli USA furono pubblicamente definiti, dal presidente Cleveland, «una popolazione impossibile da integrare e socialmente pericolosa». In Russia si scatenavano persecuzioni sia contro gli ebrei sia contro alcune sette cristiane rigorosamente pacifiste, e appunto perciò ritenute pericolose – tra queste, i molokàne, o «bevitori di latte», e i dukhobòrtsy, o «lottatori spirituali», che sarebbero stati deportati in massa se Lev Tolstòj non fosse intervenuto in loro difesa, e non avesse provveduto a proprie spese alla loro emigrazione in Canada.
Molto pericolosi erano considerati, in tutta la C.O., anche gli operai, e gli oppressi in genere. La situazione sociale era, in questi anni, tanto preoccupante che persino la Chiesa cattolica si ritenne in dovere di commentarla. Il papa Leone XIII vi dedicò le encicliche Libertas, del 1888, e Rerum Novarum, del 1891. Purtroppo, risultò che soltanto i titoli promettevano bene: in entrambi i testi, i muri furono invece sostanzialmente ribaditi, con la riaffermazione dell’importanza obbligatoria della religione (quella cattolica) e la condanna del socialismo, del sindacalismo, della lotta di classe. Non era proprio il tempo degli uomini di buona volontà. 1958-1964 Sono gli anni del Muro di Berlino, eretto nel 1961 e del muro tra le due zone di Cipro, e di quello tra gli USA e Cuba, e di quello tra i due Vietnam. Sono anche anni di trappole paralizzanti: il Vietnam lo fu per i soldati statunitensi e l’Algeria per i francesi. Fu un’astuta trappola propagandistica, nel 1958, l’assegnazione del Nobel a Boris Pasternak, a cui clamorosamente non fu concesso di uscire dalla Cortina di Ferro, per andare a Stoccolma a ritirare il premio. Fu una trappola l’assassinio di J.F. Kennedy, e poi del suo presunto assassino, e poi dell’assassino dell’assassino, mentre davanti all’opinione pubblica si alzava un muro che avrebbe impedito per decenni di capire che cosa fosse successo in realtà. Sembrava un uomo in trappola persino Jurij Gagarin, chiuso nell’abitacolo della sua navicella Vostòk: emblema dell’occidentale contemporaneo, paralizzato dalla tecnologia. E se in questi anni nella C.O. ci si accorgeva finalmente dell’oppressione cinese in Tibet, o della durezza dell’apartheid, non era tanto per le notizie dei disordini a Lhasa o per le rivolte dei neri negli Stati Uniti (non erano novità) ma perché nel Dalai Lama, in Malcolm X e in Martin Luther King gli appartenenti alla nostra Bestia riconoscevano il proprio disagio, sempre più chiaro alla loro coscienza, eppure sempre più infrangibile.
Nel frattempo, aumentava di mese in mese l’elenco dei Paesi a cui la C.O. concedeva l’indipendenza: Camerun, Togo, Congo, Somalia, Gabon, Rwanda, Burundi, Zanzibar, Dahomey, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Chad, Repubblica Centrafricana, Senegal, Nigeria, Mauritania, Kenya, Uganda, Trinidad e Tobago… Sembravano altrettante feste, e non lo erano affatto: l’Occidente si stava soltanto liberando di questi popoli come di altrettante zavorre, li abbandonava al loro difficile destino dopo averli saccheggiati e spezzati, ed elevava un muro tra sé e loro, ben deciso a procedere più rapido, lasciandoli sempre più indietro.
EPOCA MASSIMA
1964-1970 1892-1898 1820-1826
Un’altra «torre»: anche qui si contrappongono forze centrifughe e centripete, e con particolare intensità. Da un lato, l’epoca del «Muro» ha portato troppi «noi» all’esasperazione; dall’altro, i «noi» che negli anni precedenti si sono consolidati non hanno nessuna intenzione di farsi mettere da parte. Sia gli uni sia gli altri danno ora il massimo di sé, per sopraffarsi a vicenda. Non è come nelle «Ribellioni», in cui il successo è garantito a chi sa opporsi all’ordine costituito (e se non ci si oppone è soltanto per paura del successo); non è come nella «Pasqua», in cui, al contrario, la sorte è sempre avversa a coloro che vogliono cambiare le cose (e in qualche modo sembrano saperlo loro stessi, e non vedere l’ora di rassegnarsi):
nell’«Epoca massima» un incontenibile eccesso di energia vitale spinge tutte le componenti della C.O. a esprimere appieno se stesse, e nessuna accetta di riconoscere che non c’è abbastanza posto per tutte quante. Possono avvenire, così, tre cose: o l’oppressione esercitata dalle autorità diventa ancor più dura che nell’epoca precedente; o gli oppressi approfittano di ogni minima crepa, e la trasformano in una breccia; oppure si aprono prospettive nuove, nuovi modi di esistere, in cui l’energia vitale di tutti possa espandersi. 1820-1826 L’Europa era in piena Restaurazione: dalla Spagna alla Russia, la sottomissione toccava in questi anni il suo massimo storico; e assumeva un aspetto nuovo: prima d’allora, ci si sottometteva a un monarca, a un governo, a un despota magari; adesso, gli europei stavano invece imparando a obbedire allo Stato come a una realtà di per sé sufficiente, senza bisogno di alcun’altra precisazione: ci si trascendeva negli Stati, li si poneva al di sopra di ogni cosa, trascurando i propri autentici impulsi e desideri – quasi se non vi fosse più differenza tra vivere e sentirsi inseriti, come ingranaggi, nel sistema. Il lavoro diventava sempre più servizio (con tanto di uniformi per gli impiegati, in vari Stati europei); la cultura diventava sempre più accademia; e il pensiero si sforzava sempre più di giustificare l’esistente (è l’epoca di Hegel), o peggio ancora: di far apparire il qui e ora come la vetta dell’evoluzione umana, così che non vi fosse ragione di rimpiangere nulla, e nemmeno di volere qualcosa di diverso dalle «magnifiche sorti e progressive» che un presente tanto contento di sé avrebbe avuto sicuramente, automaticamente. Leopardi, già nel 1819 – ne L’infinito – aveva individuato bene la forza gravitazionale di questa contentezza, questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, e la paura che varcarla portasse solo al naufragio. Una buona metà della C.O. la pensava così. L’altra metà no. È significativo che proprio in questi anni gli Stati Uniti – dove la Restaurazione non c’era – sentirono il bisogno di tracciare una netta separazione tra il Nuovo Continente e il Vecchio: il governo statunitense annunciava che non sarebbero più state tollerate ingerenze europee negli affari di una qualsiasi nazione dell’emisfero occidentale. Fu un’ottima notizia per Argentina, Cile e Colombia, che avevano appena conquistato l’indipendenza, e servì da incoraggiamento a molte altre colonie americane: tra il 1821 e il 1825 si proclamarono indipendenti Messico, Brasile, Perù, Venezuela, Guatemala, Honduras, Costa Rica, Panama, Nicaragua, El Salvador. Fu invece un disastro per gli Europei, e soprattutto per la Spagna, che venne a trovarsi in una condizione disfunzionale, in un «errore storico»: nel pieno dell’«Epoca massima» non solo perdeva quasi tutti i suoi territori d’oltremare, ma ne faceva perdere anche alla C.O. – dato che in quei nuovi Stati in America Centrale e Meridionale cominciò a «emergere» una civiltà diversa, a sé stante. E la Spagna fu, naturalmente, punita: a partire da questi anni si trovò sempre più esclusa dalla politica europea, si paralizzò in continue guerre civili, lasciandosi sfuggire numerose occasioni di progresso economico. 1892-1898 Nella seconda fase storica dell’«Epoca massima» la Spagna perse anche Cuba e le Filippine, in una sventurata guerra contro gli Stati Uniti – ancora decisamente antieuropei. Ma si trattò dell’unico episodio centrifugo di questo periodo, peraltro brillante sotto molti punti di vista. Qui l’«Epoca massima» trovò il modo di esprimere la sua esuberante energia nella Belle Époque, pacifica, ottimistica, festosa, e caratterizzata per di più da una grande crescita demografica, oltre che industriale ed economica (dopo la
fine della Long Depression, nel 1895). La voglia di esserci appieno celebrò se stessa nelle prime Olimpiadi moderne, nel 1896, con il celebre motto: «L’importante è partecipare», perfetto assioma sociologico di questa fase. Davvero si partecipava a tutto in misura incomparabile a prima: più d’un ventennio senza guerre nel Vecchio Continente aveva fatto sì che i popoli europei cominciassero a sentirsi quasi un’unica nazione (con Parigi come capitale ideale), nella quale nessuna vicenda interna d’uno Stato appariva estranea agli altri. Gli scandali provocati dalle teorie di Tolstòj avevano quasi più eco in Francia e in Italia che in Russia, il principe di Galles era un volto non meno familiare ai serbi di quanto lo fosse agli inglesi, e le notizie degli scioperi in una qualunque fabbrica europea angosciavano allo stesso modo i proprietari di tutte le altre. Anche il proliferare dei grandi magazzini (ce n’erano ormai in ogni città) rispondeva a questo bisogno di universalizzazione: faceva pensare che tutto sarebbe stato sempre più alla portata di tutti – o almeno degli occhi di tutti. E non era un linguaggio universale anche il cinema, brevettato nel 1894? Era capitato già qualcosa di simile, in un lontanissimo antecedente dell’«Epoca massima», stando alla Genesi: Tutta la terra aveva allora una sola lingua e le stesse parole. E Yahweh disse: «Ecco, sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è solo l’inizio della loro opera, e ora nulla di quel che progetteranno di fare sarà loro impossibile».
Genesi 11,1.6 Ma quella volta Yahweh era sceso a frustrarli, mentre adesso non si vedeva nessuno a cui potesse dare fastidio la nuova, armoniosa Torre di Babele della C.O. Durò infatti ancora a lungo, continuò anzi a crescere – per altri sedici anni, prima che la Bestia la bloccasse. 1964-1970 «We are more popular than Jesus now»: fece scalpore questa dichiarazione di John Lennon all’Evening Standard, nel 1966.
Corrispondeva a verità e, quel che più conta, esprimeva bene l’animo di questa terza fase dell’epoca. L’eccesso di energia vitale si stava infatti esprimendo soprattutto in verticale, in una serie di ascese che polarizzavano l’attenzione di tutti gli appartenenti alla C.O. più di quanto le fedi religiose avessero mai fatto. Mentre i Beatles scalavano le classifiche, proseguiva l’escalation dell’intervento in Vietnam; c’era, verticalissimo, il primo viaggio dell’uomo fino alla Luna; c’era il picco, continuamente superantesi, delle tensioni sociali e politiche, con il massimo impegno delle forze contrapposte: antirazzisti e razzisti, contestatori e conservatori, avversatori e sostenitori della guerra vietnamita, antifascisti e neofascisti. Quanto vigore! E al tempo stesso quanto sforzo – più o meno inconsapevole – da parte di tutti, perché nel modo di utilizzarlo non si andasse oltre il limite che la C.O. aveva posto. Non per nulla si chiamavano «manifestazioni di piazza»: una piazza è pur sempre un luogo delimitato – come il cortile di un castello. «Azzuffatevi pure lì finché volete», sembrava dire la Bestia, «ma non uscitene, non fatevene portare altrove.» E i più obbedivano. Qualcuno, di tanto in tanto, si incaricava anche di dare l’esempio, in modo brutale. Negli Stati Uniti furono sistematicamente assassinati in questi anni i modelli di chi desiderava desiderare di più: Malcolm X, Martin Luther King, Robert Kennedy. In Cecoslovacchia, il Patto di Varsavia intervenne per evitare che la vitalità, anche lì, superasse certi precisi limiti gravitazionali. In Italia, ebbe inizio la «strategia della tensione»: e, da subito, fu soprattutto una strategia dell’immobilizzazione della tensione, il cui scopo era far apparire l’evoluzione politico-sociale troppo temibile, troppo esplosiva perché ne valesse la pena. E la diffusione della droga: non fu anch’essa un modo di fermare Babele?
COSE VISTE DA LONTANO
1970-1976 1898-1904 1826-1832
È un’epoca dominata dalla sensazione che tutto ciò che conta avvenga altrove, o dietro, o magari dentro: e che il visibile sia finto, o simbolico; e quel che se ne dice sia, nel migliore dei casi, cifrato. A considerare la planimetria del Castello, questo impulso dietrologico appare come un influsso dell’epoca del «Muro»: là, dodici anni prima, gli appartenenti alla C.O. avevano dovuto sopportare evidenti esclusioni da qualcosa, e ora è come se avessero interiorizzato quell’esperienza, e la esprimessero sospettando ovunque inganni, cioè esclusioni più astute, perfide. A ragionare, invece, in termini più tradizionalmente storici, lo si può spiegare come un effetto principale del forte sviluppo che in tutte le fasi di
quest’epoca si ebbe nei mezzi di comunicazione: paradossalmente, quanto meno si è isolati dal resto del mondo, tanto più sembra di essere tenuti al margine. È quel che avviene anche a chi comincia a studiare un qualsiasi argomento degno di interesse: quanto più ne sa, tanto più numerose sono le cose che scopre di non saperne. Prima del 1826, prima del 1898, prima del 1970 era più facile sentir dire, per esempio, «noi francesi crediamo che…» oppure «le nostre colonie in India…» o «noi socialisti abbiamo scelto di…» Nell’epoca, invece, delle «Cose viste da lontano», frasi di questo genere appaiono d’un tratto ingenue alla gran maggioranza delle persone: si intuisce la presenza, dietro le quinte di ogni «noi», di qualcuno che decide, manovra e conclude – camarille occulte, carbonari, polizie segrete, agenti inglesi, finanzieri, ebrei, massoni… Qualche parte della popolazione si indigna a volte e si ribella, vuol sfondare gli scenari di cartapesta, smascherare gli attori, scovare i registi, gli autori, e chiedere conto, e cambiarli. E spesso ci riesce. 1826-1832 Proprio in quest’epoca incentrata tutta sul vedere e sul guardare dietro le quinte, Joseph Niepce inventò la fotografia, che è in sostanza l’arte di vedere il vedere, e Goethe diede alle stampe la versione definitiva del Faust, il cui protagonista non fa che esplorare e intrigare dietro le quinte d’ogni cosa – amore, magie, potere, civiltà, civilizzazione, e perfino regni dell’Aldilà. A Parigi, nel luglio del 1830, la popolazione non ne poté più degli intrighi di re Carlo X: esplose in un’insurrezione repubblicana, dietro le quinte della quale intrigavano tuttavia i monarchici; e furono questi ultimi a prevalere, mettendo sul trono il sessantenne Luigi Filippo d’Orléans, rimasto dietro le quinte fin dai tempi della vecchia Rivoluzione, in attesa d’entrare in qualche modo in scena. In agosto scoppiò un’insurrezione indipendentista anche a Bruxelles, cioè dietro il sipario del Regno d’Olanda, che pareva compatto: i moti ebbero un’impronta socialista
(vennero attaccate e distrutte fabbriche), ma anche qui il risultato fu l’indipendenza d’un Belgio monarchico. Lontano, a ispirare tutti gli insurrezionalisti di questo periodo, vi erano le vicende dell’allora esotica Grecia, in lotta contro l’occupante ottomano. Fu una delle guerre d’indipendenza più pubblicizzate della storia della C.O., la prima a cui aderissero volontari d’ogni Paese. E anche qui le trame delle grandi Potenze risultarono poi evidenti: nel 1829 la Grecia riuscì a proclamarsi Repubblica indipendente, sotto la protezione della Russia; ma nel 1832, dopo un colpo di Stato e frenetiche trattative diplomatiche nell’Europa centrale, si trasformò in una monarchia – e le fu dato come re, sorprendentemente, il principe ereditario di Baviera, Otto von Wittelsbach. Fu un’ottima lezione di dietrologia, per tutti i lettori di giornali d’Europa. 1898-1904 Furono davvero gli anni del vedere, del voler vedere il più possibile, dello scoprire, del frugare appassionatissimo. Per gli occhi di tutti era un tripudio: a partire dal 1895 l’intera C.O. aveva cominciato ad apprezzare e produrre Art Nouveau, cioè a trasformare in ridondantissimo oggetto d’arte tutto il possibile, dalle tazze da caffè ai balconi, dalle insegne dei negozi ai rubinetti dei lavandini – come se la stimolazione del senso della vista fosse divenuta tutt’a un tratto un bisogno primario. Il cinema, intanto, grazie al talento imprenditoriale dei Lumière e alle invenzioni di Méliès, diventava una meravigliosa abitudine. La voglia di vedere e di accorgersi faceva riscoprire Van Gogh ai critici d’arte (dal 1901) e la Sindone agli studiosi (nel 1898, quando fu fotografata per la prima volta, si poté distinguere – nel negativo – il volto che vi era misteriosamente impresso). La voglia di vederci chiaro riempì a lungo le prime pagine dei giornali con il caso Dreyfus, presunta spia e in realtà vittima di un rigurgito antisemita: lo scandalo che ne derivò indignò l’Europa e scosse lo Stato Maggiore francese, con tanto di (dietro le quinte) siluramenti e suicidi di dignitari.
Nella scienza, le scoperte sensazionali divennero addirittura la norma, in questi anni: il potere del radio e quello della radio, il neon, l’aspirina, la meccanica quantistica, le leggi dell’ereditarietà e anche il dietro le quinte dell’io cosciente, l’Inconscio, come lo battezzò Freud nel 1901. Clamorosi anche i risultati della tecnologia: dalle auto Ford alla Transiberiana, dal Canale di Panama ai transatlantici, gli ingegneri della C.O. sembravano mettere al primo posto l’esigenza di far andare gli uomini più in là di prima, perché vedessero di più. Fu anche il tempo degli attentati celeberrimi: qua e là, nella C.O., continuavano a spuntar fuori, tutti d’un tratto, cospiratori o anarchici armati di revolver, bombe, sciabole, pugnali o cacciaviti, pronti ad avventarsi su monarchi e statisti, come chi volesse squarciare un fondale. Le vittime furono Elisabetta d’Austria-Ungheria, Umberto I di Savoia, il presidente McKinley, Alessandro I di Serbia. Quest’ultimo fu particolarmente rappresentativo: quando, la notte dell’11 giugno del 1903, un gruppo di congiurati irruppe nel Palazzo Reale di Belgrado, Alessandro e la consorte riuscirono a nascondersi in un armadio, in abito da notte; li cercarono per ore, li scoprirono all’alba, li massacrarono e gettarono i cadaveri dalla finestra nel giardino, dove rimasero per tutta la mattina, mentre la gente veniva a guardarli, dalle inferriate. 1970-1976 In questa terza fase, la voglia di vedere di più diventò soprattutto voglia di vederci chiaro. La contrapposizione tra i due Blocchi durava ancora, ma convinceva sempre meno: tutti i russi e tutti gli americani sapevano che l’URSS poteva sopravvivere soltanto grazie alle colossali importazioni di grano statunitense e canadese; e nelle cordialità bilaterali di Nixon con Brežnev e con Mao si avvertiva senza possibilità di dubbio la decisione di buttar giù le maschere, e di cominciare a dividersi il mondo da bravi colleghi. Nella C.O., storsero il naso un po’ tutti: Brežnev fu il più ridicolizzato tra i
segretari generali dell’URSS e il primo di cui si risapessero le malversazioni mentre era ancora in vita (il secondo fu Gorbačëv); quanto a Nixon, di gran lunga il più antipatico tra i presidenti americani, fu travolto dal caso Watergate, cioè (ironia dell’epoca!) dal venire in luce dei suoi tentativi di vedere troppo nelle vicende personali dei colleghi e degli oppositori. Crollavano, intanto, come se di colpo si fossero rivelati finti, vari scenari politici fino ad allora pomposi: il regime franchista in Spagna, la dittatura portoghese, quella greca. Il prestigio delle forze armate statunitensi, altissimo da quasi trent’anni, finiva con la disfatta in Vietnam; e l’idea che gli USA fossero un Paese ricco franava, anno dopo anno, davanti ai dati sul loro indice di povertà. L’idea che le Olimpiadi celebrassero la pace tra i popoli andò in pezzi con il massacro di Monaco. Lo scandalo Lockheed travolse un paio di governi in Europa. Il cosiddetto «eurocomunismo» e, in Italia, il «compromesso storico» fecero apparire sempre più finte e finite le pretese d’onestà delle sinistre. Cominciava a cambiare anche il sistema dell’informazione, con il moltiplicarsi delle radio libere e delle tv private – anch’esse espressione chiarissima del volerne sapere di più. E ne furono incoraggiate tendenze molto promettenti, almeno in alcuni Paesi: la green revolution, cioè la voglia di cambiare scenari di vita, tornando all’agricoltura; l’ambientalismo, cioè il voler mostrare i danni che il benessere occidentale provoca e tenta di nascondere; il movimento antitabagista, primo esempio di reazione popolare ai messaggi della pubblicità (fino ad allora pressoché sacri); e la cosiddetta seconda ondata del femminismo, che fu in realtà una vasta campagna contro il non voler vedere i problemi civili e morali di due dei tre sessi della specie umana. In altri Paesi, al contrario, crescevano le dimensioni di quel che si sapeva di non poter sapere: e l’Italia ebbe qui il suo primato, con l’impossibilità di risalire ai responsabili delle stragi, da piazza Fontana in poi, e con i misteriosi omicidi di Pinelli, Calabresi, Feltrinelli, Pasolini… Ma anche il sapere di non sapere qualcosa è pur sempre un sapere più di prima, quando non si sapeva e basta.
OGGIGIORNO
1976-1982 1904-1910 1832-1838 1760 (circa)-1766
In quest’epoca, è come se il tempo divenisse d’un tratto impaziente di sopraffare lo spazio: l’adesso, il subito vuole arrivare il più lontano possibile; si diffonde il bisogno di sapere come sia l’oggi in casa d’altri, in altri Paesi e continenti – prima che l’oggi sia diventato ieri. È quel che più ordinariamente si chiama essere aggiornati; e non che sia di per sé una novità: anche in altre epoche si era incuriositi dalle notizie urgenti; ma nell’«Oggigiorno» è nuovo il fatto che questa curiosità diventi tanto ansiosa e, soprattutto, tanto decisiva nella mente dei più. Si direbbe che gli uomini intuiscano, qui, la temporeità della Bestia, e se ne vogliano in qualche modo appropriare: lei è superiore alle distanze
spaziali, lei è dappertutto in ogni istante, perché noi no? E ciò riesce a produrre, qui più che in ogni altra epoca, un generale aumento di contemporaneità, che va dal gusto intensissimo del presente al trasformare ogni fare in un’imitazione di ciò che è nuovo altrove. Quanto al passato, è inevitabile che scivoli a margine e scompaia dal campo visivo: soprattutto perché le popolazioni della C.O. sono talmente assetate di novità da riuscire a produrne di sempre più radicali, per le quali i criteri di comprensione e giudizio elaborati in precedenza non servono a nulla. A volte ciò è molto bene. Altre volte no: alcuni sono impreparati davanti a un oggi tanto assoluto, nulla aiuta a capirlo – e può quindi capitare di accorgersi di qualche aspetto dell’oggi quando esso è ormai già passato, e altri aspetti ancora più odierni lo hanno già irrimediabilmente soppiantato. Allora gli impreparati inseguono questi ultimi, ma arrivano a raggiungerli quando è troppo tardi. Così rimangono indietro, e si scoraggiano. Dodici anni dopo – passata l’epoca-torre del «Domani» – ne pagheranno le conseguenze. 1760 (circa)-1766 La C.O. comincia qui a manifestarsi, appunto come un oggi che all’improvviso fa dimenticare e annienta ogni ieri. Sono gli anni in cui l’Illuminismo scopre di essere la prima corrente filosofica a essersi trasformata in una moda internazionale, della quale è ovunque indispensabile essere al corrente per venir considerati persone per bene. Voltaire diventa, in tal modo, uno dei catalizzatori del processo di formazione della nuova Bestia: il fatto che lo leggessero contemporaneamente (e con il medesimo entusiasmo) Caterina di Russia, Federico di Prussia e Benjamin Franklin, fu segno evidente che qualcosa aveva cominciato a unire le culture di due continenti in un intero omogeneo, diverso sia da ogni altra Bestia contemporanea, sia da quella che fino ad allora aveva dominato le nazioni centroeuropee – e alla quale Voltaire stava appunto insegnando a dire addio. Quanto all’Encyclopédie, che D’Alembert e Diderot finirono di pubblicare proprio in questi anni,
mai nessuna opera fu al tempo stesso tanto voluminosa e puntuale: un autentico inventario generale del «cortile del Castello», colto proprio nel periodo in cui si stavano gettando via le cose vecchie e si preparavano le nuove. L’altro catalizzatore potentissimo fu, come già sappiamo, la Guerra dei Sette Anni, che riempì di truppe in marcia quasi tutto il territorio in cui la Bestia stava cominciando a emergere: dalla Prussia Orientale al Lago Ontario. Si affrontarono, da un lato, l’Austria, la Russia, la Svezia, la Spagna, il Regno di Sardegna, la Francia e le colonie francesi, la Sassonia e alcuni Stati tedeschi, e dall’altro la Prussia, il Portogallo, l’Inghilterra e le colonie inglesi (degli irochesi e degli uroni e della loro mancata integrazione nella C.O. abbiamo già detto, vedi pag. 79). Rimasero fuori soltanto i Balcani e la Grecia, ma a quell’epoca erano ancora saldamente in pugno all’Impero ottomano, e dunque a tutt’altra civiltà. Anche il corso di questa prima «guerra mondiale» della Bestia fu scandito da colpi di scena – in piena coerenza con l’epoca dell’«Oggigiorno». Federico di Prussia sorprendeva tutti con l’imprevedibilità del suo genio militare. La Russia sorprendeva ancora di più per la sua mutevolezza: fino al 1762, sotto il regno della zarina Elisabetta, fu nemica di Federico; poi divenne sua alleata, quando salì al trono lo zar Pietro III; e in capo a sei mesi, quando Pietro fu deposto e fatto strangolare da sua moglie Caterina, l’esercito russo ricominciò ad attaccare i prussiani. Sugli altri fronti si succedevano accordi e controaccordi, trattati e violazioni degli stessi, complicati anche lì da decessi di sovrani (Ferdinando di Spagna, Giorgio II d’Inghilterra). Alla fine, nel 1763, vi furono non vincitori veri e propri, ma solo un nuovo equilibrio e nuove regole del gioco – con, da un lato, la Russia e la Prussia divenute a tutti gli effetti grandi potenze europee e, dall’altro, il crescere di una coscienza nazionale nei nordamericani e il chiarirsi della loro ostilità verso la madrepatria britannica, a cui si accorsero di essere legati soltanto dal fisco. La Corona inglese, lì per lì, non se ne curò più di tanto, e dodici anni dopo venne a trovarsi, appunto per questo, in serissimi guai.
1832-1838 La moda più fervida, in questi anni, è quella degli ideali liberali. Li si poteva coltivare solo in segreto, dato che la polizia vigilava ovunque attivissima: ma era un segreto sempre più vasto, con il proliferare di entusiastiche società clandestine, fregiate, tutte, dall’aggettivo «giovane» – Giovane Europa, Giovane Italia, Giovane Francia, Giovane Germania, Giovane Polonia eccetera. Molto in stile «Oggigiorno», anche questo. Da un lato, infatti, quell’insistere sulla gioventù era come dire che la natura si apprestava a fare il suo corso: i vecchi sarebbero ovviamente scomparsi tra non molto, e i giovani no; e d’altro lato era una scommessa sulla capacità di quei giovani di combinare qualcosa adesso, prima che con il maturare dell’età si dovesse cambiare il nome a quelle loro organizzazioni. E a incoraggiare i giovani europei giungevano breaking news davvero inaudite, attraverso le agenzie di stampa appena inaugurate: nel 1833, l’abolizione della schiavitù in tutto l’Impero britannico; nel 1834, l’abolizione dell’Inquisizione spagnola; nel 1835, la Texas Revolution, ovvero l’impetuosa insurrezione indipendentista del Texas, allora appartenente al Messico. In qualche modo, più che un preciso ideale, erano i giornali ad alimentare l’entusiasmo delle società segrete: la voglia appunto di imitare le cose nuove, il sogno di emularle – che rendeva tanto più odiosa la vecchia Europa, irrigidita nella Restaurazione. 1904-1910 I caratteri dell’«Oggigiorno» emersero netti, in questa terza fase. La C.O. era in perenne cambiamento e innamorata del cambiamento, sempre più. Non per nulla, in arte, era il periodo delle avanguardie (Fauvisme e Cubismo, all’inizio) nella certezza, tutt’a un tratto evidente, che l’etichetta di ancora più nuovo servisse al lancio meglio di qualsiasi altra. Era il momento in cui qualcosa, per esistere davvero, doveva stupire o perlomeno aggiornare. Così, si andava al cinema sia per i film sia per i
nuovissimi notiziari filmati, per vedere cosa fosse appena successo nel mondo. Nuovissimo era stato il fatto che nel dicembre del 1903 i fratelli Wright fossero riusciti a far volare sul serio (per un minuto circa) un aeroplano; ma già l’anno seguente quella permanenza in aria pareva ridicolmente breve, e in tutta la C.O. si studiavano con urgenza nuovi modelli. Nuovissima fu la Ford T, la prima utilitaria, nel settembre del 1908: e appunto perciò parve a tanta gente indispensabile aggiornarsi, impossessandosene (se ne vendettero più di diecimila esemplari nel primo anno). Sorprendente fu anche la guerra russo-giapponese, nel 1905: quella che fino ad allora era stata la più temibile potenza militare del mondo, la Russia, fu annientata da uno Stato insulare, appena entrato nell’era moderna. Era una conferma incredibilmente tempestiva dell’equazione E = mc2, stabilita da Einstein proprio in quell’anno: l’energia è data dalla massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce; e davvero, anche in quella guerra, tutto era dipeso dalla velocità. La Russia era una massa gigantesca, sì, ma immobile; il Giappone, minuscolo al suo confronto, era stato immobile fino a vent’anni prima, e all’improvviso aveva cominciato a correre, accelerando sempre più, impadronendosi delle tecnologie nuove con tutto il vigore di chi non ha dovuto faticare per crearle: e aveva prodotto così un’energia bellica insormontabile. Nondimeno, le notizie di quel fronte estremo-orientale passarono anch’esse in un batter d’occhio, subito rimpiazzate da altre non meno sorprendenti: in Russia scoppiava la rivoluzione. Scoppiava, davvero, e non scoppiò: continuò semplicemente a cominciare, da gennaio a dicembre del 1905 – con il suo picco in autunno, quando in varie città si formarono «consigli» (soviet) di operai che presero il posto delle amministrazioni locali – senza che nessun leader ne assumesse la guida, né sapesse cosa fare. C’erano Trotskij e Lenin: ma a quel tempo erano, entrambi, due finissimi teorici della rivoluzione ancora perplessi riguardo al lato pratico. Sia il resto della C.O. sia gli stessi russi seguivano giorno dopo giorno le notizie senza avere il tempo di capirle: pareva cambiare tutto, e in realtà non cambiava nulla… E poi, di colpo, era finita. Passata anche questa. E dall’inizio del 1906 la
Russia tornò a occuparsi (come il resto della C.O.) soltanto dell’oggi, tanto da non riuscire proprio a pensare né allo ieri, né, purtroppo, al domani. DIGRESSIONE Sulla teoria della relatività ristretta In quale misura l’epoca dell’«Oggigiorno», con la sua fondamentale relatività del nuovo, ispirò nel 1905 Albert Einstein? E = mc2 esprime, propriamente, il rapporto tra la massa (m) di qualcosa e l’energia (E) che se ne può trarre: come a dire, tra una qualsiasi situazione reale, o prodotto, o idea, e l’impatto o vantaggio che quella situazione, o prodotto, o idea possono produrre. E il deus ex machina, il moltiplicatore, la c nell’equazione, è la velocità della luce, così come l’uomo può percepirla. Si direbbe davvero una formulazione, oltre che di una legge fisica, anche del tratto fondamentale dell’epoca in cui fu scoperta: la velocità della luce è ciò che permette all’uomo di vedere, occupazione principale dell’epoca precedente, e Einstein pensò di moltiplicare quella velocità per se stessa, cioè di immaginare che superasse se stessa, proprio così come nell’«Oggigiorno» il bisogno di vedere superava ogni cosa già vista. Probabilmente, le scoperte scientifiche avvengono quando il ricercatore dà loro il permesso di avvenire e a se stesso il permesso di volerle davvero: all’una e all’altra cosa l’epoca può contribuire. E se così è, si potrebbero anche azzardare previsioni sulle scoperte scientifiche a cui altre epoche offriranno occasione. Per esempio, l’equazione della relatività ristretta è ritenuta tuttora valida, ma la fisica non ha ancora ben chiarito che cosa precisamente si debba intendere con il concetto di massa di un corpo. Quale epoca favorirebbe tale chiarimento? Le «Ribellioni», forse, con il loro impulso a smuoversi da ciò che tende – come appunto la massa – all’inerzia, all’immobilità. Oppure la «Pasqua», con i suoi slanci verso ciò che è al di là? Staremo a vedere.
1976-1982 Per gli avvenimenti di storia e cronaca di questa quarta fase storica dell’«Oggigiorno», è forte la tentazione di abbondare in punti esclamativi. Il primo bambino in provetta! (Una bambina, per la precisione, oggi la signorina Louise Brown.) E la legalizzazione dell’aborto in Italia! Il primo personal computer! E la prima rete globale, Arpanet, che di lì a poco diverrà Internet! Gli accordi di pace tra Israele ed Egitto, a Camp David! E l’assassinio del presidente egiziano Sadat! Il papato di Giovanni Paolo I: trentatré giorni soltanto! E poi un papa polacco! E l’attentato al papa polacco! E l’attentato al presidente Reagan! A Danzica un sindacato di destra, Solidarnść, mette in crisi il governo filosovietico: e i russi non intervengono con i carri armati! I russi invadono, invece, l’Afghanistan! Le Olimpiadi di Mosca sono boicottate dagli Stati occidentali! Due altri interventi militari, ma rapidissimi: quello britannico nelle Falkland, quello statunitense a Grenada! Per la prima volta una donna (Margareth Thatcher) diventa primo ministro del Regno Unito! Per la prima volta una donna (Nilde Jotti) diventa presidente della Camera in Italia! Il presidente Giovanni Leone deve dimettersi perché coinvolto nello scandalo Lockheed! E il cardinale Marcinkus è coinvolto nello scandalo del Banco Ambrosiano! Viene scoperta la loggia eversiva P2! Aldo Moro rapito e ucciso! Esplode una bomba alla stazione di Bologna! Viene assassinato da un gruppo terroristico il giornalista Walter Tobagi, socialista! E così via, è lungo l’elenco delle notizie che in questi anni, oggi dopo oggi, non fanno che sorprendere tutti quanti. E hanno una caratteristica in comune: lì per lì sembrano esaurirsi in se stesse, come puntini che è inutile tentare di unire, perché le figure che ne risultano sono troppe e tutte improbabili o – lì per lì – inammissibili. Ma se sembra così, è proprio a
causa del ritmo incalzante dell’epoca dell’«Oggigiorno», che non lascia il tempo per riflettere, né tantomeno per volgersi al passato, a fare confronti. E i più non ne sentono neppure il bisogno: in quest’epoca il punto esclamativo appare già un commento sufficiente alle novità, e dà assuefazione; l’attenzione verso gli avvenimenti si trasforma sempre più nella semplice voglia che anche oggi arrivi qualcosa di nuovo, e che passi al più presto, per lasciare il posto a qualche altra novità. DIGRESSIONE Sulla Legge 304 del 29 maggio 1982 Tutto ciò permette di ragionare meglio anche su un episodio particolarmente increscioso della storia italiana di quegli anni: l’approvazione della cosiddetta «legge sui pentiti», per la quale a un terrorista che denunciasse i suoi complici venivano concessi forti sconti di pena, quali che fossero stati i suoi crimini. Nell’«Oggigiorno», infatti, quella legge è perfetta. Il «pentitismo» fu la proclamazione giuridica dell’irrilevanza del passato; era come riconoscere, tutt’a un tratto, che solo l’oggi conta, solo nel momento presente bisogna credere – e che, di conseguenza, l’individuo non ha responsabilità ma solo interessi. La qual cosa va benissimo sul piano spirituale, quando cioè gli interessi in gioco sono quelli dell’anima o della psiche, e il perdono libera chi lo chiede dal tormento che l’ha spinto a chiederlo; ma quando il «pentimento» consiste in una delazione il cui unico scopo è ottenere un beneficio dall’autorità vigente, la conseguenza è deleteria per chiunque ne venga al corrente. A fondamento del «pentitismo» può infatti porsi soltanto la certezza della sterilità dell’individuo dinanzi allo Stato. Se, cioè, allo Stato viene riconosciuto il diritto di annullare la gravità di un crimine, è perché si ammette implicitamente che nulla di quel che l’individuo può aver fatto in passato ha valore di per sé: conta solo il parere dell’attuale governo, il quale deciderà – in base al proprio vantaggio, e a quello della Bestia che
attraverso quel governo si esprime – che cosa merita di esistere e che cosa no, agli occhi della collettività. Ne risulta un allarmante paradosso: il cittadino si vede posto, dallo spirito di questa legge, nella necessità di chiedere allo Stato il permesso di aver già fatto qualcosa. Per i terroristi, si trattava del permesso di aver già ucciso qualcuno, e di essere trattati perciò come assassini; ma agli occhi di chiunque altro, l’elevazione di un permesso simile a principio giuridico disgregava in profondità il senso di quasiasi agire: «Perché darmi da fare in un qualunque ambito, se poi quel che avrò realizzato non verrà giudicato di per sé ma, indipendentemente dal suo valore, esisterà o non esisterà a seconda di quel che fa comodo al ‘noi’ di un governo in carica?» È un paradosso, ripeto, che poteva non essere avvertito come tale soltanto nell’epoca dell’«Oggigiorno». Quanto all’utilità pratica che la Legge 304 ebbe allora, cioè al fatto che contribuì alla dissoluzione del brigatismo, è (a vederla a posteriori) tanto allarmante quanto lo sarebbe l’idea di liberare qualcuno dai disagi di un’ulcera gastrica asportandogli tutto l’apparato digerente: e, in realtà, il «pentitismo» asportò dall’organismo dello Stato italiano il suo apparato morale, peraltro ulceratissimo. Nell’«Oggigiorno» se ne accorsero in pochi, non c’era tempo, troppe cose distraevano; ma era un’epoca precedente a una «torre» e, come sempre avviene, di lì a dodici anni se ne videro i pesantissimi effetti.
DOMANI
1982-1988 1910-1916 1838-1844 1766-1772
Tratto caratteristico di quest’epoca è l’emergere, nelle popolazioni della C.O., di un preponderante impulso a guardare soltanto avanti, a individuare il significato di qualsiasi avvenimento non in ciò che di esso è presente, o nel peso del suo passato, ma soltanto nella direzione in cui quell’avvenimento conduce – come se quella direzione futura fosse, nella mente di tutti, più reale d’ogni altra cosa. Ovviamente questo non è ragionevole. Secondo ragione, gli uomini riescono semmai a prevedere probabilità, ma ciò che si esprime nelle loro previsioni è comunque il loro presente – il modo cioè in cui possono pensare oggi a quel che avverrà – e non il futuro, che alla nostra mente è
precluso per definizione: non può infatti dirsi futura una cosa che in qualunque modo ci sia già nota, giacché, se possiamo pensarla, essa ha già cominciato a esistere. Insomma: non siamo Dei, anche se il Vangelo dice il contrario (Giovanni 10,34). L’epoca del «Domani» sembrerebbe invece voler mettere in evidenza il fatto che possiamo esserlo un po’. E come darle torto? Capita a tutti di fare o dire d’un tratto, senza saper bene perché, qualcosa che poi si rivela tanto significativa e puntuale da far credere che l’avessimo accuratamente predisposta. Per lo più chiamiamo «casuali» questi avvenimenti: ma solo per le persone molto superstiziose il Caso esiste di per sé. Per gli altri, questa parola indica invece un insieme di leggi che ancora non conosciamo; e nulla ci permette di escludere che sia solo la nostra ragione a non conoscerle (o forse addirittura a non volerle riconoscere), mentre altre facoltà della nostra psiche si orientano egregiamente in quelle leggi, e vi si orienterebbero ancora meglio se la nostra razionalità non si impicciasse. Nell’epoca del «Domani», la maggioranza sembra pensarla proprio a questo modo. Molte resistenze razionali sono messe a tacere da un evidente aumento di vitalità della Bestia, da una sua impazienza, che si comunica prima agli individui e poi ai «noi». La velocità sviluppata durante l’«Oggigiorno» continua ad aumentare; è come se l’equazione einsteiniana dovesse diventare E = mc3, E = mc4>… e il sovrappiù di E che ne consegue dovesse inevitabilmente esprimersi nel futuro, dato che il presente non sembra in grado di contenerlo. La Bestia, poi, bada a che quest’esuberanza non trabocchi dal Castello: il «Domani» è una robustissima epoca-«torre», e in tutte quattro le sue fasi storiche pone, a un certo punto, barriere – che incanalino quella voglia di futuro soltanto verso l’epoca successiva, come argini durante una piena. 1766-1772 Nel 1766 la Svezia proclamò ufficialmente – per la prima volta nella C.O. – la libertà di stampa: il che aprì un grande futuro sia a tale «libertà»,
sia alla Svezia stessa; ma per il momento l’innovazione restò confinata lassù nella penisola scandinava; nel resto della C.O. si intuì soltanto che prima o poi quel diritto editoriale si sarebbe dovuto estendere: non ora, non ancora. In Inghilterra, l’invenzione della macchina a vapore, del telaio meccanico e del filatoio ad acqua avviarono quella che sarà chiamata la Rivoluzione industriale – e subito ne derivò un aggravarsi della situazione degli operai. A Boston, una sera di marzo del 1770, i soldati inglesi spararono su una folla di dimostranti, davanti al Palazzo della Dogana: cinque morti; fu lo Horrid Massacre, che sarebbe servito (poi, non ora!) da innesco al movimento rivoluzionario americano. Uno dei cinque era un mulatto, Crispus Attucks, e avrebbe avuto ampia fama in sèguito, tra gli abolizionisti, come simbolo del contributo dei neri alla storia degli Stati Uniti. Al confine sud-orientale della C.O., la Russia stava combattendo contro l’Impero ottomano (1768-1774): riuscì a conquistare la Crimea – creando il precedente alla guerra crimeana di ottant’anni dopo. Nel 1772 Russia, Austria e Prussia procedettero alla Prima Spartizione della Confederazione Polacca, e fu l’inizio del più duraturo tra i fenomeni ricorsivi della storia d’Europa: nei centottant’anni che seguono la Polonia sarebbe stata infatti spartita altre cinque volte (1793, 1795, 1815, 1832, 1939). Intanto, nasceva un nuovo continente della C.O.: James Cook aveva attraversato il Pacifico in cerca dell’ipotetica Terra Australis, e l’aveva trovata, prendendone possesso in nome di re Giorgio: il luogo del suo primo attracco fu la baia su cui sorgerà Sydney. Sull’altra riva del Pacifico, in California, datano dal 1769 i primi insediamenti – spagnoli – che diverranno poi Los Angeles, San Francisco, San Diego. Aggiungerei ai fatti significativi di questa prima fase dell’epoca anche il matrimonio tra Luigi XVI e Maria Antonietta (1770), non perché la vita privata dei due sia stata particolarmente gravida di futuro, ma per la ragione opposta: perché proseguì banale e vacua per una ventina d’anni, finché all’improvviso acquistò straordinaria importanza per il tragico
modo in cui andò a finire. Anche questo fu in linea con l’epoca del «Domani», nella quale ogni occasione e decisione è come l’uovo di cioccolato in cui è ancora chiusa la sorpresa. 1838-1844 Anche qui si susseguivano avvenimenti il cui «contenuto di futuro» è altissimo. Nasceva il telegrafo. Nasceva il dagherrotipo – e il gusto di farsi fotografare. Veniva inaugurata la prima linea a vapore transatlantica; fu stampato il primo francobollo; incominciò la collaborazione tra Marx ed Engels; l’imprenditore statunitense Charles Goodyear mise a punto il metodo per vulcanizzare la gomma; fu proclamata la prima jihad dell’era moderna contro gli occidentali, da parte dell’eroico sceicco Abd el Kader. Si registrò anche il primo clamoroso caso di narcotraffico internazionale: tra il 1838 e il 1842 la Gran Bretagna fece guerra alla Cina per garantirsi la possibilità di esportarvi l’oppio indiano, di cui gli imperatori Qing avevano voluto proibire severamente l’uso. Prese il nome di Guerra dell’Oppio – e una vittoria contro la Cina non bastò: tra il 1856 e il 1860 ve ne fu una seconda, con anche l’appoggio militare della Francia e degli Stati Uniti, che poi si divisero equamente i profitti dello smercio. Fu invece un disastro per la Gran Bretagna la spedizione in Afghanistan, dove nel gennaio del 1842 fu massacrata l’intera armata inglese di lord Elphinstone: e si aprì uno sventuratissimo conto tra la C.O. e gli afghani, che da allora dura senza interruzioni. Importante, per l’eco che avrà in sèguito, è anche il caso della nave negriera Amistad. Nell’estate del 1839 questa brutta goletta spagnola veleggiava verso Cuba, quando gli schiavi neri si ribellarono e se ne impadronirono; non sapendo nulla di marineria, andarono alla deriva per un po’, finché non vennero salvati – e rimessi in catene – da una nave statunitense. Vennero processati per ammutinamento e condannati, ma tale fu il movimento dell’opinione pubblica a loro favore, che il processo fu riaperto. Si concluse, nel 1841, con la loro liberazione: ritornarono nel Paese natale – la Sierra Leone – a spese della marina degli Stati Uniti,
nonostante le veementi proteste della Corona spagnola, che pretendeva la restituzione di quella gente ai negrieri. Abraham Lincoln a quel tempo faceva l’avvocato nel Midwest, e non aveva ancora pensato all’abolizione della schiavitù: forse anche dalla vicenda dell’Amistad trasse idee. 1910-1916 «Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile?» si leggeva sul Manifesto del Futurismo, pubblicato su Le Figaro nel febbraio 1909. E decisamente non erano parole a vanvera, anche se D’Annunzio definì Marinetti «un cretino fosforescente». Nei futuristi fosforesceva la voglia di futuro della C.O.; la loro esaltazione del «passo di corsa» era davvero un’intuizione dell’epoca – come anche, purtroppo, l’insistenza sul carattere aggressivo di quell’impazienza: sull’«amor del pericolo», sulla «temerità», sulla necessità della guerra. Per gli amanti della velocità e dei primati vi erano davvero, in quegli anni, notizie inebrianti: la prima consegna di posta per mezzo d’aeroplano (nel 1911, in India, tra Allahabad e Naini), i primi lanci da aereo con il paracadute, i primi enormi successi cinematografici (quelli di Charlot). Furono scoperte le vitamine e la loro utilità (Kazimierz Funk le isolò e coniò il termine, nel 1911), a incoraggiamento del «passo di corsa»; si aprì la Prima Convenzione Internazionale per il controllo della produzione e del commercio degli stupefacenti (L’Aja, 1913), per temperare l’uso della cocaina. Ma vi erano anche scoperte e novità funeste, in linea con l’«amor del pericolo»: nel 1908 Rutherford ebbe il Nobel per aver individuato la connessione tra radioattività e disintegrazione del nucleo dell’atomo, il che – come si vide poi – prometteva malissimo; nel 1912, al Congresso Socialista di Praga si formò la frazione bolscevica, quella che avrebbe tratto tremendi vantaggi dalla Rivoluzione russa; e quello stesso anno si ebbe il primo utilizzo militare dell’aeronautica, nella breve e intricata Guerra Balcanica – durante la quale, tra l’altro, la Serbia manifestò per la prima volta le sue mire espansionistiche sul Kosovo.
E nell’agosto del 1914 incominciò la prima delle nostre guerre troppo grandi. DIGRESSIONE Sull’inevitabilità della Prima Guerra Mondiale Non tutte le guerre sono inevitabili allo stesso modo. A posteriori sì, ogni guerra appare come l’unico risultato possibile di una fitta serie di cause (intrighi, tensioni, esigenze dell’industria e della finanza, isterismo delle popolazioni eccetera) e come l’unico modo di raggiungere determinati scopi di cui due o più Stati non potevano più fare a meno. Ma se ci si limita a voler sapere come andarono le cose nei mesi che precedettero lo scoppio di una guerra, la sua percentuale di inevitabilità può non essere del cento per cento. Lo fu nel caso della Seconda Guerra Mondiale, o delle Guerre del Golfo, l’una e le altre accuratamente pianificate da tutte le parti belligeranti; non lo era affatto, invece, all’inizio dell’estate del 1914, e nemmeno nelle due-tre settimane che seguirono al 28 giugno – giorno in cui, a Sarajevo, il servizio segreto serbo fece uccidere il principe ereditario austriaco e sua moglie, forse su istigazione inglese. Winston Churchill, allora Primo Lord dell’Ammiragliato (come dire primo stratega ufficiale del Regno Unito), stava cercando da un pezzo l’occasione di un conflitto che indebolisse la Russia, in modo da poter estendere la sfera d’influenza britannica in Asia, soprattutto nella zona petrolifera del Golfo Persico; e la Germania aveva anch’essa una gran voglia di ricorrere alla forza, per assicurarsi qualche colonia in più. Ma a nessuno interessava un conflitto enorme in Europa – come dimostrano anche le quotazioni dei buoni del Tesoro austriaci e altri indicatori delle Borse della C.O. nella primavera del ’14. La situazione mutò e precipitò tutto a un tratto, in modo paragonabile più a una serie di terremoti che non a un ciclone. L’Austria dichiarò guerra alla Serbia, perché quest’ultima aveva vietato alla polizia asburgica di indagare a Sarajevo sull’organizzazione
dell’attentato al principe ereditario: pretesto insulso, determinato evidentemente da uno stato d’animo isterico che la diplomazia poteva benissimo ricomporre. Prova ne sia che la Russia minacciò di intervenire in difesa della Serbia, se fossero scoppiate le ostilità – e dunque era ancora possibile che non scoppiassero. A questo punto si intromise la Germania: dichiarò guerra alla Russia e alle sue alleate, Francia e Gran Bretagna, e stabilì in fretta e furia un patto d’intervento con la Turchia. Ma, di nuovo, un conflitto vero e proprio si sarebbe ancora potuto evitare: le potenze europee erano come giocatori di poker che alzano sempre più la posta per scoraggiarsi a vicenda. La chiave di tutto fu l’Italia, la cui alleanza con Austria e Germania determinava un rapporto di forze troppo svantaggioso per Gran Bretagna e Francia. D’un tratto, insensatamente, e anche misteriosamente, l’Italia decise dapprima di dichiararsi neutrale, e poi addirittura di schierarsi contro i suoi alleati austro-germanici. Fu il più tragico voltafaccia della storia europea, e cominciò lo sfacelo. Non solo si sarebbe dovuto e potuto evitare: semplicemente, gli uomini non avrebbero potuto volerlo, fino all’ultimo istante. Nessuno degli Stati che entrarono in guerra aveva infatti qualcosa d’indispensabile da guadagnarci, tutti avevano invece moltissimo da perderci (Italia compresa: la ricompensa che i nuovi alleati le promisero in caso di vittoria era infatti la stessa che Austria e Germania le avevano già garantito, in caso di vittoria). A volerlo fu invece, evidentemente, la Bestia: lei premette e forzò, a tutti i livelli, perché la guerra scoppiasse e fosse così grande e sanguinosa. Come sappiamo, le epoche-«torri» sono sempre quelle in cui un gran numero di individui avvertono più forte l’impulso a sfuggire al Castello: nella terza fase dell’epoca del «Domani» tale impulso si era esasperato fino a generare una sensazione di soffocare nel presente, che – come il Futurismo aveva mostrato – era già divenuta perfettamente cosciente. Nel 1914 le popolazioni dell’Occidente volevano andar via da tutto. Troppo, per i gusti della Bestia: e non riuscendo più a fermarle, si diede a massacrarle. Secondo gli storici marxisti le spaventose ecatombi della Prima Guerra Mondiale furono, e vollero essere, soprattutto una vittoria delle classi
dirigenti contro la classe lavoratrice, che nelle trincee veniva decimata e intontita quanto doveva bastare a impedirle, negli anni seguenti, di costituire una minaccia per lo status quo. Ciò è quasi vero. A sentirsi minacciata era in realtà la Bestia, e reagiva cercando di infettare il più possibile quella voglia che tutti avevano di qualcos’altro: dirigendola verso la morte, perché non giungesse da qualche altra parte. La gente continuò così, negli ultimi due anni di questa fase, a voler superare i limiti dell’esistente, ma in un numero sempre maggiore di persone quell’impulso diventava il bisogno di finire, invece che di far finire qualcosa. Nella loro mente, nella loro anima una specie di malattia contagiosa aveva modificato la gittata e la traiettoria della loro voglia di futuro, spostandole verso il nulla, il non esserci più. A tenerle puntate lì, a rendere la malattia incurabile per milioni di persone, non furono tanto gli industriali e i custodi dell’ordine costituito, ma i «noi» che essi rappresentavano: per salvare questi ultimi – e la Bestia con essi – era necessario il massacro di quei moltissimi io che non volevano più restarvi imprigionati. 1982-1988 Particolarmente evidenti, in questa quarta fase, sono alcuni ricorsi: il disastro, questa volta russo, in Afghanistan; Gheddafi leader antioccidentale del Nord Africa, dove centoquarant’anni prima aveva predicato Abd el Kader; l’esordio di Internet, centoquarant’anni dopo quello del telegrafo; la prima Convenzione internazionale delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di droghe e sostanze psicotrope; l’inizio delle tensioni tra la Serbia e gli altri Stati jugoslavi. E ciascuno di questi fatti mostra, negli anni Ottanta, un’impulsione verso il futuro non diversa da quella che abbiamo notato nelle fasi precedenti. Colme di futuro sono anche tutte le altre notizie che in questi anni mettevano in subbuglio la C.O. In Russia, diventò segretario del Partito e poi prezidènt Mikhail Gorbačëv: con la Perestròjka, un regime che fino a pochi mesi prima era apparso solidissimo cominciò a trasformarsi rapidamente, gettando nello sgomento tutti i sovietici privilegiati – eccettuati i vertici del KGB, che da un pezzo stavano progettando nei
minimi dettagli il futuro del Paese. Anche in Italia avvenne qualcosa di vagamente simile: le vicende giudiziare di «Mani pulite» segnarono il crollo del potere di Craxi e di un’intera classe politica – ma nel frattempo si arenavano le indagini sulla loggia P2, alcuni membri della quale occuperanno di lì a non molto importanti posizioni di potere. Altre novità, poi, erano così proiettate nell’avvenire che, semplicemente, i più non riuscirono a prenderle sul serio. In URSS nasceva il movimento nazionalista (decisamente xenofobo) di Vladimir Žirinovskij, e in Italia la Lega Lombarda: qualche anno dopo si sarebbe visto quanto le loro intuizioni avessero precorso sviluppi della cultura popolare nei rispettivi Paesi. Negli Stati Uniti, il reverendo Jesse Jackson fu il primo candidato di colore alla presidenza: e allora sembrò una boutade. Reagan varò il progetto dello SDI, o Scudo Spaziale, che nell’epoca seguente avrebbe segnato la fine (ancora inimmaginabile, in questi anni) dalla Guerra Fredda. Nascevano anche Word, e il compact disc, e i primi virus informatici. Veniva identificato il virus HIV. Si ebbe il primo caso famoso di imbarazzo ecologico: il cargo-pattumiera statunitense Khian Sea girò da un oceano all’altro per sedici mesi, senza trovare un luogo dove liberarsi dei suoi container di rifiuti tossici. E soprattutto, nell’aprile del 1986, esplose il reattore di Cernòbyl’, provocando il primo cataclisma da energia nucleare – con quella sua nuvola di stronzio e altri isotopi che, diffondendosi dall’Ucraina all’Europa, causarono un numero di vittime mai accertato (sessantacinque, secondo le stime ufficiali; sei milioni, secondo Greenpeace). Particolarmente odioso è il fatto che la centrale ucraina si sia guastata a quel modo proprio nell’epoca del «Domani», e che le sue conseguenze si siano protratte nell’epoca successiva, quella del «Sempre», nella quale, come vedremo, ciò che succede perdura.
SEMPRE
1988-1994 1916-1922 1844-1850 1772-1778
In quest’epoca si consolida ciò a cui il «Domani» aveva dato avvio, o ciò che dopo il «Domani» era riuscito a sopravvivere. Quello che invece ha preso forma o è finito durante le quattro fasi del «Sempre», è quanto di più duraturo sia stato prodotto dalla C.O.: in quest’epoca sono incominciati o sono crollati imperi, certezze, fedi, e sia le nazioni sia gli individui hanno mostrato i tratti più profondi del loro carattere, oppure sono rimasti impigliati in qualche loro scelta, dalle cui conseguenze non hanno potuto, a volte, liberarsi più. Avviene anche, in questi anni, che una fede o una speranza nasca e scompaia ben presto; ma, in tal caso, ciò che essa rivela con il suo
fallimento è la più profonda propensione esistenziale di quelli che vi avevano creduto e di quelli che le si erano opposti: gli uni scoprono di essere nati per la sconfitta, e gli altri per vincere. Per tutte queste ragioni, le lotte in quest’epoca sono acerrime. Chi le combatte sente, in modo più o meno oscuro, che quel che è in gioco non è il vantaggio di un momento, ma tutto il destino dei contendenti: chi (o ciò che) vince qui, può poi durare saldamente, a volte per un intero ciclo storico, cioè per settantadue anni, a volte più ancora; chi invece perde qui, dovrà perdere anche in futuro. 1772-1778 Sono gli anni di due grandi e feroci insurrezioni: quella del cosacco Emel’jàn Pugačëv, in Russia, e quella del Nord America contro la Corona inglese. La prima finì in disfatta. In Pugačëv si espresse e fallì, in modo fatale, l’aspirazione alla libertà del popolo russo e degli altri popoli dell’Impero (l’insurrezione era iniziata nel basso Volga, regione densa di etnie): sedata la rivolta, sterminati buona parte degli insorti, Caterina II ribadì l’autorità assoluta dei proprietari terrieri sui contadini, cioè di un’insignificante minoranza sull’enorme maggioranza della popolazione – e fino a oggi questa condizione di dominio non ha subìto, in Russia, modifiche sostanziali. La Rivoluzione americana fu invece incontenibile, e produsse qualcosa che nella C.O. nessuno aveva ancora mai visto: il formarsi di un nuovo Stato in meno di due anni. Le ostilità ebbero infatti inizio nell’aprile del 1775, tra gruppi scoordinati di coloni e un agguerrito esercito britannico, sicuro di trovarsi dinanzi a poco più d’una sommossa: eppure la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti fu emanata il 4 luglio 1776, mentre gli inglesi, nonostante l’afflusso di contingenti sempre più numerosi, non riuscivano a riportare nessuna vittoria decisiva. Non era ammissibile, ma lo divenne; e da allora quel nuovo Stato rimane e prospera.
Tra le altre consuetudini addirittura millenarie che finirono in questi anni, vi fu la caccia alle streghe, l’ultima delle quali fu decapitata, in Svizzera, nel 1775; e la resistenza del cattolicesimo alla divulgazione delle Sacre Scritture: nel 1778 la Bibbia fu per la prima volta tradotta in italiano, dall’abate Antonio Martini (e la traduzione era in molti punti eccellente). Nello stesso anno morì Voltaire, e cominciò a finire l’idea dell’Illuminismo come strumento di progresso e pacifica soluzione delle controversie tra i popoli e tra i ceti. Ciò che invece proseguiva sempre più audace era l’avventura di James Cook, il quale tra il 1772 e il 1778 intraprese altri due viaggi nel Pacifico, scoprendo varie altre terre, mappando coste, sperimentando nuovi strumenti di navigazione e giungendo fin quasi in Antartide. Tornava a manifestarsi, con lui, l’antico bisogno occidentale di esplorare e vincere la paura dell’ignoto, dell’infinito: già nella Divina Commedia Dante lo indicava come uno dei tratti più antichi della mentalità occidentale («facemmo ali al folle volo» eccetera) ed è probabilmente, ancora oggi, il tratto migliore degli appartenenti alla C.O. 1844-1850 A giudicare da questa seconda fase dell’epoca, la passione principale delle popolazioni della C.O. si direbbe quella per la Terra Promessa, che assunse la forma sia di migrazioni geografiche sia di tentativi di migrazioni sociali, da un ordine ingiusto verso un progetto di libertà. Le prime si verificarono soprattutto negli Stati Uniti: sorsero in questi anni due grandi miti americani, la Frontiera e la California-Eldorado, destinati entrambi a durare a lungo. La Frontier è l’espansione aggressiva verso ovest; e l’Eldorado fu quello della prima grande Corsa all’oro, che in questi anni cominciò a trasformare le cittadine californiane in metropoli. Nell’uno e nell’altro mito, quel che più contava era proprio l’idea del test del destino: puntare tutto ciò che si ha, per il gusto di scoprirsi totalmente vincitori o totalmente perdenti. E dell’uno e dell’altro mito partecipò la più biblica delle vicende di questa fase: la lunga marcia dei mormoni verso l’interno del Paese, alla ricerca dei loro «nuovi cieli e nuova terra», che
trovarono alla fine nello Utah – dove ancor oggi risiedono. Un po’ più a nord, nei pressi di Concord, nel Massachusetts, Henry D. Thoreau teorizzava invece in questi anni la sua Terra Promessa individuale: la necessità di scoprire i valori autentici dell’individuo attraverso un più stretto rapporto con la natura, e la necessità di manifestarli attraverso la «disobbedienza civile», cioè il rifiuto di pagare le tasse a un governo che stia praticando politiche ingiuste. Thoreau fu ai suoi tempi un totale outsider della filosofia, ma le sue idee sono a tutt’oggi le più longeve e le più fruttuose (influì su Tolstòj, su Gandhi e su tutti gli altri teorici della non-violenza) che siano sorte nel continente americano. Molto violente furono invece le insurrezioni che dal 1847 cominciarono a scoppiare nella C.O.: dal Canada all’Ungheria, dalla Francia alla Sicilia. Ciò che ebbero in comune fu la strana eclissi in cui venne a trovarsi, tra gli insorti, il testo politico più importante pubblicato in quegli anni: il Manifesto di Marx ed Engels (Londra, 1848). Fossero state più consapevolmente di sinistra, le insurrezioni del ’48 avrebbero avuto vita più lunga e risultati più significativi: invece puntarono o alla repubblica e al suffragio universale maschile (come i radicals francesi) o a una troppo velleitaria indipendenza nazionale o regionale (come nelle Cinque giornate di Milano). In tal modo, nacquero e subito fallirono tutte, con una sola eccezione: la Svizzera, che tra il 1847 e il ’48, con una fulminea guerra civile tra cantoni conservatori e cantoni innovatori, ottenne la sua nuova e razionalissima Costituzione, i cui princìpi sono tuttora immutati e rispettati, e si avviò a diventare lo Stato più democratico d’Europa – oltre che il più rivoluzionario, per il suo tenace rifiuto di partecipare a qualsiasi guerra. 1916-1922 Nella terza fase storica del «Sempre», l’Europa è decisamente intossicata dalla sua pulsione di morte, che sembra non voler finire più. Il computo delle vittime è vertiginoso: ventuno milioni tra il 1914 e il 1918, a cui si aggiungono tra il ’18 e il ’19 altri venticinque milioni uccisi dall’influenza «spagnola» (così chiamata perché nel 1918 la stampa ne
diede l’annuncio solo in Spagna: negli altri Stati della C.O. la censura vietò la notizia, per non demoralizzare le truppe) e i quindici milioni di caduti della Guerra Civile russa. Il totale, nel 1921, fu quasi lo stesso delle vittime della Seconda Guerra Mondiale: solo che quest’ultima si combatté molto anche in Africa e in Estremo Oriente, mentre la Grande Guerra imperversò soltanto in alcune aree della C.O. e sui suoi confini mediorientali. La densità di distruzione per metro quadrato era dunque altissima, pazza: altissima divenne, a un certo punto, anche la probabilità che producesse un’incontrollabile rivolta degli individui contro i «noi», che non erano mai stati tanto feroci. Il primo segnale d’allarme giunse dalla Russia, dove nel febbraio del ’17 era cominciata la rivoluzione. E se si fosse estesa? La Grande Guerra, scatenata nella precedente epoca-«torre» per dissanguare lo slancio dell’Occidente, poteva trasformarsi in un «errore storico» (vedi pag. 101) gigantesco, e commesso non da qualche Stato, ma dalla Bestia stessa, per eccesso di crudeltà. La Bestia, palesemente, corse ai ripari. Non poté arginare gravi crolli di alcuni suoi «noi»: nel 1919, oltre all’Impero russo, si disgregarono anche quello asburgico e quello germanico (oltre all’Impero ottomano, nella civiltà accanto), ma il resto rimase in piedi, il Castello nel suo complesso fu salvo. La nostra Bestia riuscì nell’impresa in due modi: immobilizzando alcune sue membra (Russia e Italia in particolar modo) e truccando spudoratamente vari giochi – manovrando cioè i test del destino di molti, in modo che a vincere non fossero affatto i migliori, e nemmeno i più forti, ma solo coloro che sapevano paralizzare meglio il maggior numero possibile di persone e di processi evolutivi. Perciò sono tanto numerosi gli ottimi propositi frustrati in questi anni: un vero picco – altrimenti inspiegabile – di sconfitte ingiuste, e di altrettanto ingiuste, aberranti vittorie. Fallirono i tentativi di decine di migliaia di soldati di porre fine alla guerra: per esempio, il 25 maggio 1917 trentamila soldati francesi si rifiutarono di andare in battaglia; e negli stessi mesi, la vittoriosa offensiva russa di Brusilov contro i tedeschi fu rallentata da un numero non minore
di diserzioni (la Russia era pur sempre la patria di Tolstòj, che negli ultimi vent’anni della sua vita aveva riempito gli scaffali di mezza Europa con i suoi saggi contro la guerra). Se questi scioperi militari avessero almeno trovato eco dopo la guerra, sarebbe stato molto più difficile ingessare tanta parte d’Europa in dittature: ma nessuna sinistra ne parlò mai, proprio come se la Bestia impedisse di guardare in quella direzione. Fallì la Rivoluzione russa del febbraio 1917, che avrebbe potuto trasformare il Paese in una passabile monarchia costituzionale. Riuscì invece la Rivoluzione d’Ottobre, che precipitò la Russia nel terrore poliziesco, e ne fece ben presto una nazione di robot. Fallì la «Rivolta araba» inventata e diretta dal colonnello Thomas Edward Lawrence, o Lawrence d’Arabia: se fosse riuscita, avrebbe determinato una fase nuova sia nei rapporti tra la C.O. e le altre civiltà, sia nei rapporti tra gli Stati europei. Ai territori arabi che erano appartenuti all’Impero ottomano fu invece imposta una configurazione del tutto artificiale, decisa a Versailles dalla Società delle Nazioni – cioè dal nuovo organismo internazionale che, nominalmente, avrebbe dovuto garantire la pace e il progresso in tutti i Paesi del mondo, e che in realtà servì soltanto ai più rapaci interessi di Gran Bretagna e Francia. Ottenuto questo successo nell’ingessare il Medio Oriente in forma di nuove colonie de facto inglesi e francesi, la Società delle Nazioni si occupò dell’Europa occidentale, e sancì confini, aree d’influenza e linee politiche ed economiche. Quanto fosse, in ciò, strumento della Bestia, lo si vide poi: nessuna delle decisioni che si ratificarono allora ebbe altro effetto, se non quello di favorire il formarsi e il consolidarsi di paralizzanti dittature (non per nulla non fecero mai parte della Società delle Nazioni due dei Paesi più democratici della C.O., gli Stati Uniti e la Svizzera). L’unica autentica protesta contro le decisioni di Versailles, cioè l’occupazione di Fiume a opera di D’Annunzio e di qualche migliaio di soldati ribelli e di pittoreschi sostenitori, ebbe vita brevissima – un anno – e nessun sèguito. Durò poco anche il test del destino degli Stati autonomi nati dalla disgregazione dell’Impero russo: con l’eccezione della Polonia e delle Repubbliche baltiche, furono tutti reintegrati ben presto nell’Unione delle
Repubbliche Socialiste Sovietiche. Fallì, nelle durissime lotte tra il 1919 e il 1922, il movimento rivoluzionario in Germania, che avrebbe probabilmente evitato l’ascesa del nazionalsocialismo. Fallì, negli USA, il movimento per la liberazione di Sacco e Vanzetti, che avrebbe favorito – se fosse riuscito nel suo intento – un orientamento molto più tollerante, nella politica e nella società statunitense. In questi anni avevano invece inverosimile successo leader crudeli, come Mussolini e Lenin (e di lì a poco anche Hitler). La Bestia apriva loro le porte, li proteggeva, li assecondava. Aveva bisogno di loro. 1988-1994 In questa quarta fase dell’epoca l’URSS cessò di esistere. Terminò, cioé, una delle grandi missioni paralizzatrici imposte dalla Bestia settanta anni prima. E in Europa orientale, nel 1992, ci si ritrovò in una situazione molto simile a quella del 1920: Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia, Ucraina, Polonia divennero di nuovo Stati autonomi, e ritrovarono le loro identità secolari – ovvero ciò che sempre avrebbero dovuto essere, e che poteri stranieri avevano cercato di far loro dimenticare. In Russia cominciò a scomparire, come una malattia, quel non-partito non-comunista che era stato il PCUS: e fu un’autentica rivoluzione; o meglio furono due, proprio come nel 1917: prima si ebbe una fase vagamente demokratìčeskaja, e poi – nel 1994 – un vero e proprio golpe, con tanto di assalto di carri armati e truppe speciali al Parlamento di Mosca. Forse fu perché la Russia doveva rivivere in qualche modo il momento da cui era iniziato il suo periodo sovietico, così come i manuali di psicanalisi stabiliscono che l’isterico debba rivivere i propri traumi per liberarsi dalle loro conseguenze. O forse perché, più banalmente, uscire dal ruolo impersonato per più di settant’anni non era affatto facile, né per chi in quel periodo aveva imparato a comandare né per chi aveva dovuto imparare soltanto a obbedire: e si assisté perciò a una replica dei vecchi
traumi, non per superarli ma per rinnovarne gli effetti, dato che senza di essi la vita non era più pensabile. Quanto al resto della C.O., i test del destino ripresero, in questi anni, in varie forme e direzioni, gettando le basi di situazioni che dovevano durare a lungo, o facendo riemergere tensioni da lungo tempo radicate e irrisolte. Nel 1991 ebbe inizio uno di questi test, su vasta scala, in terre altrui: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Canada, Australia, Italia, Spagna e qualche altro Stato attaccarono l’Iraq. Il pretesto fu l’aggressione irachena al Kuwait, ma la posta in gioco era il petrolio del Golfo Persico; a tutti era chiaro che, nei decenni successivi, sarebbe potuto prosperare solo chi disponesse di maggiori fonti di energia – e la C.O. era decisa a tutelarsi per tempo. Nel frattempo, Serbia, Bosnia e Croazia decisero all’improvviso di non potersi tollerare a vicenda, per ragioni che provenivano da un lontanissimo passato: e i loro conflitti sfociarono in genocidi. In Germania, al contrario, ragioni antiche aiutarono i tedeschi dell’Est e quelli dell’Ovest a trovare un modo di vivere insieme, dopo la caduta del Muro: e la Germania cominciò a diventare quello che da sempre aveva voluto essere, cioè il colosso dell’Europa centrale, da tutti sempre osteggiato (anche in questi anni il trattato di Maastricht le fu ostile) e da tutti autonomo, proprio come la sognava Federico di Prussia. In Italia, ebbero fine tre partiti nati giustappunto una settantina d’anni prima: il PCI, il PSI e il partito dei cattolici italiani, la DC (che risaliva al Partito Popolare fondato da don Luigi Sturzo nel 1919). Ebbe invece inizio un non-si-sa-ancora-cosa socio-politico-culturale chiamato Forza Italia, simile per molti versi al fascismo, che era sorto anch’esso settantadue anni addietro: proprio come il movimento fascista, anche «Forza Italia» era populista, retorico, esclamativo, vago, e incentrato tutto sul suo leader. E, proprio come era avvenuto per Mussolini, anche per Berlusconi la conquista dei vertici del potere politico diveniva anche un modo per tutelarsi da accuse penali. Anche nel suo caso, insomma, perdere era perdere molto, forse tutto – in perfetta linea con l’epoca. Intanto, sullo sfondo, si profilava sempre più netto quello che costituisce ancor oggi il principale test del destino dell’intera C.O., cioè l’emergenza
ambientale. I campanelli d’allarme furono numerosi, in questa fase: dal naufragio della petroliera Exxon Valdez a quello della Braer, dai tassi d’inquinamento della Siberia al buco dell’ozono; ma la reazione rimase incerta, letargica, come se la C.O. non avesse nel suo patrimonio genetico le capacità di affrontare un problema tanto grande. Non riusciva, su questo versante, a immobilizzarsi. Aspettava. Ancor oggi aspetta. Forse sa, o ha deciso, qualcosa che noi non sappiamo. O forse è solo troppo vecchia per durare ancora.
PROBLEMI RISPETTO AL SEMPRE
1994-2000 1922-1928 1850-1856 1778-1784
Nell’epoca precedente, i «noi» della C.O. hanno intrapreso vie destinate a durare a lungo; ora devono prenderne atto, e mostrarsi all’altezza. Sono come chi, ritrovandosi d’un tratto al volante di un autobus in corsa, debba dimostrare di saperlo guidare – e non è detto che ne sia capace: nella storia avviene che non si abbia il tempo di prendere la patente, prima di sedersi alla guida di autobus stracarichi. Per fortuna della C.O., in tutte le fasi di quest’epoca i passeggeri si sono mostrati relativamente tranquilli, sfibrati com’erano dalle durissime esperienze appena trascorse, e propensi perciò, se non alla fiducia, perlomeno alla pazienza. Solo di tanto in tanto si sono avuti momenti di
panico, di smarrimento o – peggio di tutto – di ipnotica indifferenza per ciò che stava combinando qualche autista davvero incompetente. 1778-1784 James Cook morì proprio all’inizio di questa prima fase, pugnalato dagli indigeni hawaiani: si narra di lui che negli ultimi tempi stesse perdendo la ragione, e avesse cominciato a trattare con pericoloso disprezzo gli indigeni – i quali dal canto loro erano stati così gentili da identificarlo con il loro Dio della Fertilità. D’altra parte, riuscire a superare tante volte i confini del mondo noto alla propria civiltà è uno stress difficile da sostenere: anche Cristoforo Colombo era diventato cupo e feroce, nelle Indie occidentali; anche Magellano, nelle Filippine, aveva avuto la pessima idea di voler imporre il Cristianesimo massacrando le popolazioni locali, e ne era stato ucciso. Il «folle volo» può davvero produrre follia. Cook fu comunque l’unico caso notevole di deragliamento, in questi anni. Le altre imprese allora in corso andarono in porto dignitosamente. I coloni americani vinsero la loro Guerra d’Indipendenza nel 1783, stabilendo ottime relazioni con la Francia, la Spagna e le Province Unite; la Gran Bretagna organizzò sapientemente la conquista dell’India e seppe gestire i vantaggi della Rivoluzione industriale; i fratelli Montgolfier dimostrarono che il volo in pallone era un mezzo di trasporto abbastanza sicuro. Tutto il resto della C.O. era prudentissimamente fermo, già pronto a incanalarsi nell’epoca delle «Dominazioni». 1850-1856 Sembra un’eco lontana della vicenda di Cook il romanzo Moby Dick, che Melville pubblicò nel 1851, a settantadue anni esatti dalla morte del capitano inglese; sembra, ancora di più, un visionario commento a quell’idea di Progresso che proprio nel 1851, a Londra, si stava celebrando pomposamente nella Grande Esposizione, al Crystal Palace, visitata da sei
milioni di persone. La baleniera del capitano Ahab inseguiva entusiasta un miraggio, la Balena Bianca, e quel miraggio la distrusse; il Progresso – nome di battaglia del capitalismo – non stava forse inseguendo allo stesso modo un’ossessione di perenne sviluppo, che avrebbe svuotato di senso la vita di tutti coloro che scambiavano quell’ossessione per un ideale? Qualcuno, oltre a Melville, aveva cominciato a domandarselo sul serio (Marx, Proudhon) ma per il momento la quasi totalità delle popolazioni della C.O. sembravano rispondere di no: tutto andava benissimo così, in particolar modo dopo che nel 1848 si erano messe a tacere le velleità rivoluzionarie di mezza Europa. Anche in politica internazionale, la guida delle varie Potenze sembrava in mani sicure. Gli equilibri consolidatisi nella Santa Alleanza divennero molto problematici nel 1853, per la voglia di alcuni Stati europei di approfittare della crisi dell’Impero ottomano: ne derivò la Guerra di Crimea; ma si risolse in un capolavoro di fair play: nessun vincitore e nessun vinto, un rialzo di popolarità per tutti i monarchi che vi parteciparono, e (quel che più importava nel secondo Ottocento) molta retorica, grande sfoggio di progressi tecnologici e la dimostrazione, assai gradita alle classi dirigenti, di una totale obbedienza da parte dei soldati, e dei sudditi in generale. Fu la riprova che lo spirito rivoluzionario dei loro nonni e bisnonni era stato definitivamente annientato: trent’anni di oppressione avevano dato il loro frutto, e tutti i «noi» della Bestia potevano dormire sonni tranquilli. 1922-1928 I problemi di questa terza fase dell’epoca risultarono invece gravissimi, e i guidatori sempre più incerti. L’economia cigolava. Le forti somme di denaro che gli Stati Uniti prestavano alla Germania servivano quasi esclusivamente a pagare i suoi enormi debiti di guerra alla Francia e all’Inghilterra, le quali usavano quello stesso denaro per pagare i loro debiti di guerra – anch’essi ingenti – agli Stati Uniti. Tutto il sistema economico della C.O. dipendeva così dalla
capacità dei finanzieri statunitensi di esportare capitali: a loro toccava quel ruolo di guida, che è indispensabile nell’economia internazionale, e non ne erano affatto all’altezza. La finanza statunitense era, in questo periodo, fragile, gonfiata da tassi di credito troppo bassi – che dovevano rialzarsi prima o poi, determinando il caos – e da continui innalzamenti delle quotazioni di Borsa dovuti a semplici speculazioni – che prima o poi dovevano pur calare, determinando il panico. In Europa, certo, lo si sapeva: ma dato che non ci si poteva fare nulla, non rimaneva che obbligarsi a fingere di non saperlo, e aspettare l’inevitabile – che avvenne nell’ottobre del ’29. Nell’attesa, su entrambe le sponde dell’Atlantico si andavano affermando a tutti i livelli figure di guidatori, di problem-solver, sempre più improbabili. Nella società statunitense dominavano, da un lato, l’assurdo proibizionismo e, dall’altro, gangster sempre più potenti. In Europa, tutto era in mano a politici e diplomatici miopi e a dittatori moltiplicantisi: oltre che in Italia, si instauravano regimi autoritari in Polonia, Jugoslavia, Grecia, e situazioni sempre più problematiche in Germania, in Austria, in Spagna – dove nessuno sembrava più guidare nulla. Nell’URSS, Lenin aveva fatto in tempo, prima di morire nel 1924, a passare dal durissimo «Comunismo di guerra» alla «Nuova Politica Economica», cioè da un metodo di radicale sfruttamento della popolazione a un regime parzialmente capitalistico, che includeva il libero mercato dei prodotti agricoli e qualche elemento di imprenditoria industriale. L’esperimento (che secondo Lenin era motivato dall’«arretratezza mentale dei russi», incapaci di pensare in termini comunisti) durò fino al 1927, quando Stalin riuscì ad assicurarsi il predominio assoluto. Nel ’28 tutto cambiò, con lui al volante: la «Nuova Politica Economica» fu bandita, ed ebbero inizio la collettivizzazione forzata dell’agricoltura e il primo Piano Quinquennale, che poneva al primo posto l’industria pesante, con traguardi di produzione insensatamente ambiziosi. Campagne e fabbriche divennero, in Russia, luoghi di schiavitù, diversi da quelli d’un secolo prima per il solo fatto che ai lavoratori si faceva obbligo di rallegrarsi della situazione. Chi aveva guadagnato qualcosa nei
quattro anni precedenti e chi aveva qualcosa da ridire sulla novità fu deportato (e le stime delle vittime dello stalinismo – tra il 1929 e il 1953 – variano da un minimo di diciotto milioni a un massimo di sessanta milioni di cittadini sovietici). Modo odioso di risolvere i problemi; ma ebbe sèguito: Mussolini imparò subito; Hitler, di lì a poco, ancora di più. 1994-2000 In questa quarta fase, la differenza tra grandi soluzioni e grandi problemi cominciò ad assottigliarsi in vario modo, fin quasi a scomparire qua e là. Per esempio, fu certamente una soluzione a problemi sia antichi sia nuovissimi il record di permanenza di un astronauta nello spazio (Valerij Polyakov, 438 giorni, nel 1994-1995): a James Cook questa notizia sarebbe interessata moltissimo; ma i problemi che pose, non solo sul piano scientifico, furono molto più numerosi di quelli che risolse: se infatti l’uomo può vivere un anno e più lontano dal suo pianeta, ne consegue che la C.O. doveva prendere in seria considerazione la prospettiva di estendersi nello spazio extraterrestre, e ciò richiedeva una totale revisione dei princìpi internazionali, cioè una mole di problemi di cui sarebbe difficile trovare l’uguale. E la World Trade Organization, l’organismo che dal 1995 si incaricò di coordinare la globalizzazione, parve una soluzione soltanto a una minoranza della popolazione della C.O., mentre per la maggioranza divenne addirittura il problema dei problemi. Viceversa: furono titoli di problemi o inizi di soluzioni le suggestive scoperte che la fisica compì in questi anni, come la «materia oscura», l’«energia oscura», i «buchi neri», le stelle nane (rosse, blu, gialle, nere)? E per quante persone nella C.O. sono stati o sono problemi, e per quante invece sono state o sono soluzioni l’ascesa politica di Vladimir Putin; o il trattato di Dayton, che pose fine alla guerra nell’ex Jugoslavia nel 1995; o le ricerche sulla clonazione animale e su quella umana; o il nuovo concetto
di «libertà di informazione», che in questi anni viene sancita come un diritto mondiale? Certo, il contrasto tra punti di vista è una costante in ogni periodo storico: la sconfitta di Hitler nel 1945 fece ai tedeschi un effetto ben diverso che agli Alleati; ma mentre nelle altre undici epoche della C.O. l’alternativa è tra il considerare un qualsiasi fatto un vantaggio o un guaio, e le opinioni delle parti interessate sono generalmente chiare, in questa quarta fase dei «Problemi rispetto al sempre» è sempre la perplessità a prevalere: le considerazioni che si possono fare appaiono connesse non da rassicuranti «e» bensì da «ma» che lasciano il giudizio in sospeso. Così, la notizia della nuova jihad «contro gli ebrei e i miscredenti» proclamata da Bin Laden e da altri estremisti islamici nel febbraio 1998 fu indiscutibilmente un problema per la C.O. (e un problema serissimo, come si vedrà tre anni dopo) ma al tempo stesso diventa, altrettanto indiscutibilmente, la soluzione al quesito più urgente delle grandi Potenze occidentali: quali argomenti addurre per giustificare massicci investimenti nell’industria bellica e rimettere in gioco gli equilibri in alcune delle aree più calde del globo. E la grande eco mediatica dei casi di pedofilia in cui la Chiesa cattolica si trovò invischiata negli USA alla fine degli anni Novanta era la risposta definitiva al quesito se la teologia fosse riuscita o no a chiarire le dinamiche della sessualità (ovviamente no), ma proprio perciò pose a ciascun fedele un problema radicale: «È bene continuare a credere a un clero del genere?» E qualunque soluzione gli si potesse trovare, sarebbe stata temibile. Da un lato, tutto ciò era di sicuro proficuo. L’incertezza è un bene primario, un potente fattore di libertà individuale: quando un interrogativo dura a lungo, il pensiero non può che guadagnarci in profondità e in ampliamento degli orizzonti; ed è così che si compiono le scoperte più importanti per la propria vita. D’altro lato, quando l’incertezza investe i principali «noi» d’una Bestia, ed è conclamata, e perdura, diventa per la maggioranza delle persone un fattore di stress insopportabile. E nella seconda metà degli anni Novanta, vari elementi contribuiscono a trasformare l’incertezza in smarrimento.
Troppe innovazioni tecnologiche stavano divenendo pressoché obbligatorie nella C.O. (dai computer ai cellulari); c’erano troppe parole nuove a esse collegate, che era indispensabile conoscere; troppe cose cambiavano rapidissimamente sia negli equilibri mondiali, sia in quelli nazionali, imponendo quasi ogni anno riassetti della mentalità, che facevano apparire inutile l’esperienza accumulata fino a quel momento nel risolvere problemi. Essere esperti in qualcosa di utile richiedeva ormai un grado eccezionale di vivacità intellettuale, di genialità addirittura; essere maestri in qualcosa era impossibile; i più, dunque, procedevano alla cieca, guidati da ciechi. Le conseguenze sociali d’un simile smarrimento possono essere molto gravi. E intere nazioni vanno infatti incontro, in questi anni, a una tipica crisi di disadattamento al nuovo, i cui tratti più evidenti sono: l’insediarsi, al vertice della nazione, di una minoranza dominante che non sa risolvere i nuovi problemi e che può durare solo imponendo obbedienza a vecchi valori, ormai inadeguati; la drammatica involuzione della popolazione, nella maggioranza della quale la creatività e il senso di responsabilità personale evaporano, e crescono invece la fiducia nei capi (che può spingersi fino alla venerazione e al martirio) e l’inerzia (particolarmente insidiosa, quando viene avvertita dai più come semplice self-control). Ma all’epoca pochi se ne accorsero; anche questa volta l’Occidente cominciava a filare a vele spiegate verso le fauci di quella grossa Moby Dick che è l’epoca delle «Dominazioni».
PARTE TERZA
Altre conclusioni Alzatevi, andiamo via di qui. Giovanni 14,31
La fine di tutto e la paura di tutto
Perché no Alla Bestia si appartiene solo finché se ne ignora l’esistenza. Quando si impara a vederla, si può semmai scegliere di appartenerle; e tale scelta diventa un impegno quotidiano tanto enorme, quanto lo sarebbe, per un nevrotico, il continuare a ritenersi in perfetta salute psichica anche dopo aver saputo in cosa consiste la sua nevrosi. Occorrerebbe infatti sforzarsi di non vedere la Bestia all’opera (pressoché ovunque); di non pensarci; di non accorgersi di ciò che nel proprio animo è diverso da lei; e convincersi ottusamente che in ogni caso il mondo delle Bestie sia il migliore dei mondi possibili, e che perciò la prospettiva di esserne un burattino sia, tutto sommato, sensata. I motivi per cui ci si può accollare questa fatica si dividono in due categorie: persuasivi e segreti. Rientrano nella prima categoria i numerosi motivi che chi sceglie di appartenere alla Bestia riuscirebbe a individuare con più facilità, il giorno in cui si domandasse: «Perché non sono me stesso?» Rassegnazione. Rancore verso qualcuno. Collera. Avarizia. Invidia. Abitudine, accidia. Superbia («Gli altri non meritano di sapere chi io sono davvero»). Avidità e vanità («Devo accaparrarmi molte cose, anche se non c’entrano nulla con me»). Stupidità. Mancanza di fiducia in se stessi.
Servilismo. Eccetera. Li definisco persuasivi, perché chi adduce questi motivi sta soprattutto tentando di convincersi che non ce ne sono altri più semplici, nella sua gravosa decisione di continuare ad appartenere alla Bestia, cioè di far essere lei e non se stesso. Il quantum della paura La seconda categoria di motivi comprende soltanto alcune forme di paura. La paura che tutto ciò che valeva prima possa d’un tratto non valere più: i divieti, i doveri che avevano plasmato la personalità e il pensiero; l’immagine del passato e i limiti del presente; il senso del futuro; le ragioni delle scelte; la differenza tra l’utile e l’inutile, tra il bello e il brutto, tra il bene e il male. La paura che ciò significhi essere se stessi, e che sia semplice. La paura che gli altri, i «noi», se ne abbiano a male, si sentano traditi. E la paura che possa non fare paura. Queste paure sono tutte fondate, l’ultima in particolar modo. Ciò che chi sceglie di appartenere alla Bestia teme in tutte le proprie paure è, infatti, che esse possano dissolversi, a guardarle troppo da vicino. È quel che banalmente accade ogni volta che ci convinciamo di aver paura di qualcuno perché pensiamo che sia più potente di noi. Gli ebrei ne ebbero dei «giganti», di cui parlarono loro i primi esploratori della Terra Promessa: È un paese che divora i suoi abitanti; tutta la gente che abbiamo visto là è di statura eccezionale; vi abbiamo visto anche Nephiliym, i figli di ‘Anaq, della razza dei giganti, dinanzi ai quali ci sembrava di essere come locuste, e così dovevamo sembrare a loro
Numeri 13,32 Se i Cananei sembrassero giganti o lo fossero davvero, quegli ebrei non
lo seppero mai: per paura di incontrarli, infatti, non entrarono nella Terra Promessa. E così avviene sempre: ciò che soprattutto temiamo quando qualcuno ci sembra più forte di noi, è di scoprire che la sua superiorità dipenda soltanto dal nostro crederlo superiore a noi. Abbiamo insomma paura della paura, perché se affrontassimo la semplice paura potremmo accorgerci che è infondata, e che infondato è anche tutto quel che la giustifica: cioè l’opinione che fino a quel momento abbiamo avuto di noi stessi, e la nostra immagine del mondo, e i nostri valori, e tutti i rapporti che su quei valori abbiamo costruito. Allora, ciò che veramente ci spaventa è la possibilità di aver avuto torto finora, e di poter cambiare completamente la nostra esistenza. In tutte le paure sopra elencate si individua facilmente questa specie di barriera quantica, il cui scopo è rimanere all’interno di un determinato sistema di riferimento – così come quegli ebrei rimasero al di qua del confine di Canaan. La paura che tutto finisca è soltanto la paura della paura che tutto finisca; la paura che cessino certi doveri è solo la paura della paura che essi non valgano più, eccetera. Quanto, in particolare, alla paura di un’ostilità da parte dei «noi», è solo la paura di percepire gli altri in modo nuovo. Come sappiamo, quando si smette di appartenere alla Bestia, cessa lo sforzo di vedere soltanto ciò che la Bestia stessa ritiene indispensabile, cioè quella trama di rapporti che dà forma e significato ai suoi «noi»; si cominciano invece a vedere gli individui che in quei rapporti erano legati. Dinanzi a un funzionario, invece di vedere la sua uniforme si vede la sua vita. Ascoltando un telegiornale, invece di voler capire le notizie si vuol capire cosa prova l’annunciatore che le sta leggendo e così via. La Bestia ne sarebbe di sicuro indignata, se ancora esistesse: ma se i suoi «noi» svaniscono, svanisce anche lei. La presunta normalità Per poter continuare ad aver paura della paura è dunque indispensabile:
tenersi alla larga da tutto ciò che possa suscitare la paura vera: e dunque precludersi rapporti autentici con le altre persone; impedire a se stessi di provare sentimenti intensi e di dare ascolto ai propri pensieri e intuizioni, perché tali sentimenti, pensieri e intuizioni potrebbero far entrare nell’orizzonte della coscienza ciò che la Bestia vuole tenerne fuori. Il risultato di tali preclusioni è la cosiddetta «normalità»: cioè il bisogno (fondamentale per i «noi» della Bestia) di tenersi stretti al maggior numero possibile di cose che si sapevano fino a cinque minuti prima. L’esistenza della normalità è negata dalla maggior parte degli psicologi che hanno continuato a leggere libri dopo la laurea; ma è un’opinione molto difficile da dimostrare. Si direbbe piuttosto che non esista una normalità sola, ma molte, poiché quel bisogno di vedere continuamente confermate il maggior numero possibile di cose già note assume forme diverse in ciascun «noi», facendo apparire normali agli uni cose che per altri non lo sono; ciò non toglie, tuttavia, che in tutti i «noi» quel bisogno sia sempre il medesimo. Il fatto che la normalità sia un bisogno toglie, invece, fondamento alla diffusissima convinzione che qualcuno possa essere normale. Se uno ha bisogno di una determinata cosa, vuol dire che non ha quella cosa. E se la normalità è il bisogno di vedere confermate una serie di certezze, vuol dire che sia quelle certezze sia le loro conferme non fanno che sfuggire: non sono nostre, di nessuno di noi. La cosiddetta normalità è dunque, in tutte le sue molte forme, soltanto un’apparenza con la quale nascondere a se stessi il fatto che normali non si è per niente. Dove precisamente si trovi la Terra Promessa Le preclusioni della paura e la normalità che ne consegue determinano in ciascun individuo un’evidente frammentazione della coscienza di sé. Ognuno di noi è scisso tra ciò che in realtà pensa, intuisce e sente in se stesso, e quel poco che può permettersi di ricordare dei propri pensieri,
sentimenti, intuizioni e sensazioni. In questi due settori della sua attività psichica egli non è lo stesso io, ma due «io» diversi, spesso lontanissimi tra loro, uno dei quali deve fare i conti con la normalità, mentre l’altro (che di solito è il più intelligente) ne è completamente escluso. Al contempo, ognuno di noi deve essere un io diverso in ciascuno dei «noi» a cui appartiene, se intende svolgere in quei «noi» una qualche funzione di rilievo. Tutto ciò gli impone una ripartizione delle sue energie in altrettanti quoti, ciascuno dei quali sarà inevitabilmente molto inferiore al totale. In una parabola narrata a Gesù da alcuni dotti di Gerusalemme, questa situazione viene descritta così: Mosè ci ha prescritto che se a un uomo muore un fratello che ha moglie, ma senza figli, quell’uomo deve prendere la vedova e dare una discendenza al fratello morto. C’erano in un luogo sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo, e poi il terzo, e così tutti e sette; e morirono tutti senza lasciare figli. Da ultimo, anche la donna morì. Questa donna, dunque, di chi risulterà moglie al momento della resurrezione? Perché tutti e sette l’hanno avuta in moglie.
Luca 20,28-33 Il vero senso del quesito è ben chiaro, ed esemplare per tutti, se con i «sette fratelli» si intendono appunto i quoti che dicevamo, e con il «matrimonio» la decisione di consacrare in uno di essi la propria identità, ponendolo a fondamento d’un futuro, di una famiglia, di una prole. Chiedere «Chi dei sette è il vero marito?» equivale dunque a chiedersi «Chi sono io veramente, di quei miei quoti che di volta in volta sono stato?» Ma la parabola vuol chiaramente significare che una tale consacrazione di un quoto sarà sempre illusoria: si è tutti e sette e nessuno dei sette, dicono i dotti, e chiedono a Gesù che cosa ne pensi. L’opinione di Gesù è che l’io potrebbe essere se stesso soltanto se non avesse più bisogno di quel «matrimonio». Gesù rispose: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono trovati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie
né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli Angeli, ed essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi».
Luca 20,34-39 Gesù parla qui di due «mondi»: kosmoi in greco, cioè «sistemi» (vedi pag. 59); e intende la resurrezione dei morti – articolo di fede molto dibattuto a quei tempi, in Israele – come il passaggio da un kosmos all’altro. In uno (in «questo kosmos») si assumono ruoli, si è parte di qualche «noi», per essere qualcuno; nell’«altro kosmos» no: non si è né «mogli», né «mariti», si è soltanto se stessi e perciò «uguali agli Angeli», cioè pienamente realizzati nella propria essenza, aperti e fiduciosi in tutte le proprie potenzialità, non più scissi in alcun modo. E in tal senso non si ha più bisogno di «morire», di lasciare cioè un «fratello» per diventarne un altro, come avviene invece ogni giorno, più volte al giorno, nel kosmos della Bestia. Questa nuova Terra Promessa, il «regno di Dio», come lo chiamava Gesù, è dunque l’esistenza così come appare a chi riesce a far cessare la propria suddivisione in quoti: a riunirli in un’energia sola, indivisa, enorme a paragone di ciascuno di quei quoti, o «fratelli». Ciò che a ciascun «fratello» poteva bastare, ciò di cui aveva bisogno, ciò che vedeva intorno a sé, non può naturalmente bastare più a chi sia diventato tutto quanto intero.
Genitori e figli
Single Né «mogli», né «mariti». Anche questo spaventa. Tra i motivi che fanno preferire il mondo-cosmo della Bestia alla Terra Promessa vi è di sicuro la paura di perdere modi di prendersi cura degli altri: l’altruismo è uno dei nostri istinti più forti, ogni persona non gravemente lesa nelle sue facoltà psichiche aspira, fin dall’infanzia, a fare molto per il suo prossimo, e tutto nel mondo degli uomini ruota intorno a questa aspirazione: l’amore, il potere, i principi etici, la sopravvivenza della specie, il senso della gioia, il successo, le professioni… Le Bestie non potevano non tenerne conto: e, appositamente, ogni «noi» di cui esse si servono – dalla coppia allo Stato – è, per chi vi partecipa, un modo di prendersi cura di qualcuno. Ogni Bestia-civiltà, cioè adopera questo istinto a proprio vantaggio, offrendo agli individui le condizioni per esercitarlo – le sue condizioni, da lei stabilite e concesse ad alcuni di più, e ad altri di meno. Ma staccarsi dalla Bestia non significa estirpare quel nostro bellissimo istinto, significa soltanto sottrarlo alla Bestia stessa, e mettersi in proprio. Cosa è meglio per l’io: volere il bene della C.O., dei suoi «noi» e dei suoi www, e, attraverso di essi, il bene di un determinato numero di persone, oppure direttamente il bene del maggior numero possibile di persone, senza dover passare da quei «noi» e quei www? Come i patriarchi La forza di quell’istinto altruistico è la ragione per cui i protagonisti
della Genesi sono tutti patriarchi. Quel che premeva all’autore non era di dimostrare che a quei tempi ’Elohiym e Yahweh preferissero intrattenersi con gente ricca; voleva bensì porre dinanzi ai lettori d’ogni epoca figure a cui sentirsi profondamente, immediatamente affini: non guerrieri, o servi, o re, ma genitori e figli. Nondimeno, quei patriarchi sono sempre in viaggio, illimitatamente stranieri a tutte le Bestie-civiltà d’allora. Cercano e trovano le proprie leggi – scuotendo il capo, tra sé e sé, al pensiero di quelle degli altri. Ciò che non hanno è un Paese, una patria, in cui il modo di essere genitori e figli sia stato regolamentato prima della loro nascita. Yahweh, il Dio dell’essere, fa di questa libertà una benedizione, per il patriarca Abramo. Yahweh disse ad Abram: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che l’io ti indicherà. L’io farà di te un grande popolo e ti benedirà, renderà grande il tuo nome e diventerai tu stesso una benedizione. L’io benedirà coloro che ti benediranno, e maledirà chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le stirpi della terra». Genesi 12,1* «Benedizione» in ebraico, berakha, deriva dalla radice verbale br’, che vuol dire «creare», «dare forma». La benedizione crea infatti ciò che augura: comincia cioè a farlo esistere e a farlo avvenire, dapprima nel mondo interiore di chi l’ascolta, poi anche nel mondo esteriore. Ciò che in questa benedizione Yahweh crea per Abramo (e in realtà per tutti gli Abramo di sempre) è un’idea dell’esistenza, che nella «casa di tuo padre», in un tuo Paese, in una tua patria era ed è tuttora impossibile. A uso di chi, per i più vari motivi, non se la senta di accorgersi da sé di quel che
incomincia con questa berakha, aggiungo qui un dettagliato commento. Esegesi «Nelle tue pazienti, doverose lentezze», sta dunque dicendo qui Yahweh ad Abramo, «nella tua esitazione, tu hai finora mostrato di te, al mondo, una parte piccola, e unicamente per far piacere al papà, alla gente di casa tua, della tua cittadina e della tua terra. «Ciò finora ti ha dato abbastanza gioia: piccola gioia. «E ha fatto sì che tu frequentassi un piccolo numero di persone, anch’esse capaci di mostrare soltanto una piccola parte di sé, e di rallegrarsi che tu fossi come loro, e di trarre vantaggio da te. Questo, finora, ti è piaciuto. «Nella nuova fase della tua personalità, che adesso ha inizio, si dà invece un’impostazione diversa a tutto quanto. «Innanzitutto, non hai più bisogno dell’approvazione della gente: stai cominciando a trovare e a chiarirti le tue vie, i tuoi obiettivi, ampi, tali da produrre grandi cambiamenti nella realtà del mondo intero. Ciò inizia a emanare, adesso, da te, e richiede a te un modo di vivere tale da apparire alla gente come una vera rivelazione. «Inoltre, non avendo più bisogno dell’approvazione di nessuno, tu non apparterrai più a nessun popolo» (mi spiace molto per gli ebrei più bigotti, ma qui il testo parla chiaro), «e non perché sarai solo uno straniero dappertutto: ma perché tu avrai in te stesso ciò che prima chiamavi: popolo. «Non hai mai pensato che questa idea, il cosiddetto popolo, fosse soltanto una proiezione di qualcosa che sentivi in te, e che, quando mostravi soltanto quella piccola parte di te, credevi fosse fuori, intorno? «Era soltanto fuori da quella piccola parte di te, e intorno a essa; ma era in ciò che di te non conoscevi ancora. «Non nascondere questa novità che ora stai scoprendo di essere. Impara a seguirla in ciò che ti detterà, e sarà facile. Produrrà occasioni per te, ovunque andrai. Ne vedrai la continua conferma in tutti i luoghi, tra gente
di tutti i tipi. «E produrrà occasioni anche per loro, quando vedranno te. «Chi riconoscerà in te qualcosa che ha anche lui, e cioè proprio quel che tu chiami io, attraverso il tuo modo di vivere potrà esserne benedetto tanto quanto lo sei tu ora. «Chi invece non vorrà riconoscerlo, dovrà poi fare i conti con i disagi del suo io, e ti garantisco che sarà come una maledizione.» Verso l’inesistente L’ostacolo a questa benedizione può consistere soltanto nella forza inerziale che la «patria», la «casa del padre», il «popolo» imprimono alle scelte dell’individuo. Troviamo qui una vera e propria prefigurazione millenaria della teoria del Punctuated Equilibrium (vedi pag. 54), secondo la quale sono gli individui a determinare una speciazione, cioè un ramificarsi di una «speciefiglia» dalla «specie-madre». Applicata alle civiltà, questa teoria implicherebbe appunto che il singolo può evolversi dalla Bestia in cui è cresciuto, soltanto se si stacca dalla direzione in cui vanno la stragrande maggioranza dei suoi connazionali. E qui è davvero indispensabile un coraggio del coraggio. Guardando al loro passato, quei suoi connazionali hanno infatti il vantaggio di poter prevedere, almeno a grandi linee, dove li porterà la Bestia nel prossimo futuro. Chi invece si separa da loro, ha dinanzi a sé un futuro ignoto. «Cosa sto facendo?» potrebbe domandarsi. «Sento in me qualcosa che vuole il nuovo, ma non so cos’è, né dove.» Così deve essere. «Vai dove l’io ti indicherà», aveva detto Dio ad Abramo, e «Venite e vedrete!» tagliava corto Gesù, rispondendo a chi gli chiedeva dove abitasse il Figlio di Dio e figlio dell’uomo, cioè il futuro di Dio e dell’uomo (Giovanni 1,39). Il fatto che le vie del Signore (e anche quelle dell’evoluzione) siano notoriamente infinite, fa apparire tanto più inquietante questa scarsità di segnaletica; nondimeno, quello straordinario manuale di speciazione che è la Bibbia non ammette eccezioni, a questo riguardo: anche quando a una qualche terra promessa viene dato un nome,
si tratta sempre di un trasparente simbolo dell’ignoto: Canaan, in ebraico geroglifico, significa «Come-le-nubi»; e quando Lot fugge da Sodoma che sta per essere distrutta, gli viene detto di andare a «Tso‘ar» (Genesi 19,22) che in ebraico significa «Ciò-che-è-giovane»11 e dunque ancora imprevedibile, perché troppo ricco di futuro. In ciò, la scelta di staccarsi dalla Bestia è simile al momento in cui ci si accorge che si sta scoprendo o creando qualcosa: è un fare che precede il voler fare qualcosa di preciso. Ed è ben comprensibile: coloro che cominciano ad andare verso il nuovo non possono pensarlo in anticipo, semplicemente perché non sono ancora abbastanza nuovi essi stessi. Qualsiasi cosa possano pensare, sarà necessariamente costituita da quel che già sanno, da ciò che in loro è vecchio, dal mondo così come permettevano di vederlo i loro ruoli, e per il quale quei ruoli avevano senso. La moglie di Lot Dopo la svolta i ruoli cessano. Non possono più contenere l’io. La Genesi lo spiega nell’episodio della moglie di Lot, che per essersi voltata indietro mentre fuggiva da Sodoma diventò «una figura di sale» (Genesi 19,26). In nessun testo teologico ho trovato una spiegazione esauriente di questa metamorfosi; eppure il senso è chiaro. Una figura di sale è una forma che nulla tiene insieme: è una quantità di sale contenuta in un sacco, che per qualche istante rimarrebbe ancora lì, se d’un tratto il sacco si sfilacciasse e sparisse; poi verrebbe dispersa dal vento. Il sacco sono i ruoli in cui ciascuno si lascia contenere, nei «noi» di una Bestia-specie madre – che nell’episodio di Lot è raffigurata da Sodoma che si consuma e scompare.12 Voltarsi indietro, voler pensare in termini vecchi dopo la svolta, è voler essere ancora un contenuto che ha bisogno di un contenitore: e perciò, fuori da «Sodoma», è un sentirsi sparire. Non avviene a chi, nel sacco di quei ruoli, sentiva imprigionate le proprie membra e possibilità; avviene a chi al sacco si era talmente abituato da non
avere più, nel proprio io, alcuna coesione. Perciò chi si volta e scompare è qui una «moglie», di cui la Genesi non menziona il nome: è solo un ruolo sociale. Come a dire: ciò che in ciascuno è soltanto «moglie», o «marito», o qualunque altra qualifica sociale, là fuori non varrà più. Là fuori si è figli e basta, ma figli di se stessi soltanto. La nuova generazione Il passo seguente è ancor più delicato. Lot andò ad abitare sulla montagna, insieme con le sue due figlie, perché aveva paura a rimanere in Tso‘ar. Viveva in una caverna, con le figlie. La maggiore disse alla più piccola: «Nostro padre è vecchio e non c’è nessuno da queste parti che si unisca a noi come è d’uso in tutta la terra. Daremo da bere vino a nostro padre, e ci coricheremo con lui, e così avremo figli da lui».
Genesi 19,30-32 Così fecero; Lot, ubriaco, «non si accorse» di come si unì alle figlie, e da questo incesto – narra la Genesi – ebbero origine due popoli. Anche qui la Scrittura continua a valere come manuale di speciazione, mostrando la difficoltà in cui viene a trovarsi ciò che in ciascun io è «padre», quando si allontana dalla civiltà in cui era cresciuto. Ciò che nell’io è «padre» non ha nulla da insegnare, all’infuori del passato da cui è riuscito a staccarsi, e del modo in cui l’ha superato. Può soltanto continuare a essere all’altezza di tale superamento, oppure subirlo. Lot, narra la Genesi, ebbe paura di «Tso‘ar», del nuovo: smise di volere, di capire – «viveva in una caverna» – e il nuovo cominciò a prendere forma senza che lui potesse farci nulla; furono le figlie a decidere. È il contrario di ciò che avviene nelle Bestie-civiltà, in cui sono le vecchie generazioni a condizionare la nuova. A volte la divorano senz’altro, come Crono divorava i suoi figli: la assimilano cioè a se stessi. Altre volte la massacrano, come fece Erode e come anche Abramo si sentì
spinto a fare con Isacco: ciò che negli io è «padre» distrugge cioè quel che di nuovo può nascere da lui o in lui. Così le Bestie perdurano. Nella speciazione invece il «padre» è comunque guidato dai «figli». Nella vita quotidiana di chi si stacca dalla propria civiltà, ciò comporta una totale inversione della funzione educativa: il genitore non spiega più ai figli quel che è bene fare, ma domanda a loro consiglio, impara da loro, li segue; non ha cioè «paura di Tso‘ar», e non appena cominciasse ad averne perderebbe ogni possibilità di agire. Allo stesso modo, nell’interiorità di qualunque io staccatosi dalla propria civiltà, ciò che già è noto dal passato può suscitare soltanto interrogativi: è stato bene? è stato male? è servito a qualcosa? E soprattutto: in che cosa limitava l’esistenza? Le risposte verranno solo da ciò che l’io ancora non sa, e che scoprirà via via: dai «figli» che crescono, rivelando nuove prospettive esistenziali. E poco male se, agli occhi di chi appartiene alla Bestia, questa inversione appare aberrante. 11. E in geroglifico Tso‘ar è: «L’esitazione (Ts) e l’ostacolo (o‘) al di là dei quali incomincia il cammino (r)». 12. Sdm «Sodoma» in ebraico geroglifico è: «Ciò che ferma (S) e rinchiude (m) l’abbondanza (d)».
Gli ultimi nove
Del non-contenitore Quando i ruoli scompaiono e ci si avventura in «Tso‘ar», rimangono indietro tutte le colpe, le paure, le necessità, le maschere, le speranze, i valori, le oppressioni, i rancori, i problemi (i problemi soprattutto!), i compromessi, le censure in cui consisteva il nostro vincolo con la «specie madre». Il presente diviene libero e ampio, il contenitore dell’io non è più un sacco ma diventa un intero universo, in cui tutti i permessi sono accordati, perché non vi è più nulla e nessuno che li possa negare. Il futuro, il desiderare, il volere cominciano allora a prendere forma in base a un sistema di orientamento completamente nuovo. In qualunque Bestia si viene abituati a dividere le possibili direzioni in giuste e sbagliate, a seconda che giustifichino o meno la forma e il peso dei «sacchi» di sale vigenti nei loro «noi». Fuori dalla Bestia, invece, ogni volta che ci si trova a scegliere tra due vie, una delle quali possa dirsi per un qualsiasi motivo sbagliata e l’altra giusta, ci si accorge che tra le due non vi è differenza. Se infatti si sceglie quella sbagliata, si apriranno un determinato numero di direzioni, poniamo mille, di cui cento sono certamente pessime, cinquecento mediocri, duecento buone, cento ottime e altre cento addirittura meravigliose; mentre se si sceglie la via giusta, si apriranno altre mille direzioni, di cui cento sono certamente pessime, cinquecento mediocri, duecento buone, cento ottime e altre cento addirittura meravigliose – proprio come avveniva nella scelta precedente. Ciò che più conta, quando si pensa così al proprio futuro, è solo l’ampiezza dell’io, cioè la distanza tra il punto da cui ci si è mossi e il punto in cui si sta per giungere – tra ciò che pensi e ciò che potrai pensare
tra un attimo, tra ciò che oggi ti accorgi di desiderare e ciò che desidererai domani e così via. In quella distanza è il tuo centro, ed è tanto più grande quanto più cresci. Degli altri parenti di Lot Nella Bestia, avere un grande centro, cioè star crescendo molto, è a volte d’intralcio. Per esempio, durante l’epoca delle «Dominazioni» chi ha un grande centro interiore è più esposto a rischi di conflitto con le autorità o, se egli stesso è un’autorità, con i suoi sottoposti, ai quali la sua crescita non piacerà affatto, dato che chi cresce molto cambia spesso idea. Altre volte invece è la salvezza: come appunto nella nostra epoca attuale, quella delle «Ribellioni», in cui proprio chi riesce a distanziarsi il più possibile dal passato è più favorito da tutto e da tutti, e ha maggiori possibilità di non trovarsi, nell’epoca successiva, tra quelli che avranno bisogno di aiuto e non potranno averne. Purtroppo, quando – come ora – la Bestia procede rapida verso un periodo di brusco rinnovamento, in cui molti recipienti sono destinati ad andare in pezzi, cominciare o continuare a crescere è un po’ più difficile del solito: l’avvenire (da tutti oscuramente presentito) spaventa più che mai; e lo spavento determina nei più l’irragionevolissimo impulso a continuare a pensare soltanto come si pensava prima, cioè a non crescere affatto, a farsi quanto più piccoli è possibile – come sperando che in tal modo anche lo spavento rimpicciolisca, e che, restando quel che si era prima, si possa far sì che anche l’intera civiltà resti com’era. Lot era uscito e parlò ai suoi generi, che dovevano sposare le sue figlie. e disse: «Alzatevi, andate fuori da questo luogo, perché il Signore sta per distruggere la Città!» Ma i suoi generi credettero che stesse scherzando.
Genesi 19,14 E anche quei generi, nel racconto biblico, non hanno nome. Anch’essi sono soltanto gradi di una parentela acquisita: ruoli, cioè, che occupano nel «noi» della famiglia. E quel loro «noi», che dà loro identità
ed esistenza, è talmente ingranato in tutti gli altri «noi» della Città, che i generi non possono prendere in considerazione l’idea che la Città scompaia: esistono solo in essa e per essa, e «uscirne» è per loro altrettanto irreale, quanto lo sarebbe per un nostro contemporaneo l’idea di vivere da domani senza il pianeta Terra. Così, «credettero che stesse scherzando» e continuarono a esistere ancora un po’ nell’unico modo a loro noto, senza sapere né domandarsi perché. Senza metafore Sarebbe come se oggi qualcuno cominciasse a dire che i sintomi di un imminente rinnovamento gravissimo della Bestia sono evidenti. Che, per esempio, la gente conosce troppo poche parole, di cui troppe sono in rumorese; e che dunque la gente pensa troppo poco e male, e comunica troppo poco – perché ha paura di sapere qualcosa. E che perciò è troppo facile ingannarla; e che moltissimi sono portati ad ascoltare proprio chi non usa le parole, ormai troppo difficili, che potrebbero aprir loro gli occhi. E che perciò si lasciano governare da persone di scarso valore, d’intelligenza corta: non sanno difendersene, non si accorgono di quanto i loro governanti li defraudano (anche per indicare buona parte di ciò di cui vengono davvero defraudati occorrerebbero parole che la maggior parte delle persone non conoscono più). Così, paralizzati dalla sensazione di non sapere più, di non potere più, si lasciano mettere gli uni contro gli altri, e al tempo stesso sono agitati da un’ansia di essere masse, nella quale si esprime il terrore che chi è tanto inefficiente ha di rimanere solo; sono stremati, infine, dalla peggiore di tutte le fatiche, che è appunto quella del non adoperare le proprie energie autentiche, del non provare autentici desideri, del non porsi domande vere. Il collasso di una simile società non richiede un conflitto, una crisi o un cataclisma, per potersi scatenare. È già incominciato: è un’involuzione che accelererà sempre più, e nella quale i conflitti e le grandi crisi rappresenteranno semmai i costosissimi sforzi della Bestia per salvarne
qualcosa – come abbiamo visto parlando dell’epoca-funzione del «Non si può più aiutare nessuno». Che cosa farebbero, oggi, i «generi» di un Lot? La barriera corallina Niente. Non riuscirebbero nemmeno a seguire il discorso. E Lot, come si sentirebbe? Lot era uscito e parlò… dice intensamente la Genesi. In qualche modo, cioè, Lot era già fuori, aveva già cominciato a vivere in quello che per i suoi generi era un inesistente Aldilà: e già da fuori guardava, attorno a sé, ciò a cui non apparteneva più – così come noi qualche pagina fa guardavamo le epochefunzioni della nostra Bestia. E in quel momento, sperava di poter salvare ancora qualcuno. Questo intervallo tra il sapersi già fuori e il non aver ancora abbandonato la «Città», è sempre caratterizzato da una serie di brutte sorprese. Brutta sorpresa è il baratro che d’un tratto separa l’io-Lot da amici e famigliari, e che si allarga sempre più. Brutta sorpresa è il crescere rapidissimo della sua delusione sul mondo come l’aveva conosciuto finora. Brutta sorpresa è il suo cominciare a comportarsi in contrasto con le sue convinzioni di prima, che si erano formate tutte in quella «Città» di cui ora non gli può più importare. Brutta sorpresa è la netta sensazione che perciò, là fuori, qualsiasi sua azione apparirà ingiustificabile non soltanto a coloro di cui prima ascoltava il parere, ma anche a lui stesso. Bruttissima sorpresa è anche il rendersi conto di come i risultati che ha ottenuto in passato non conteranno più nulla: non gli servono, a sapere che cosa riuscirà a fare lontano da Sodoma. Di ciò che il suo io sa già di sé,
potrà parlare soltanto al passato. Quell’Altrove è dunque un posto tutt’altro che rassicurante. In compenso, è il luogo della libertà, della memoria e dell’amore. Lo è sempre stato, anche prima. La libertà, per il nostro io, è da sempre un’emanazione di quell’Altrove: non è certo nella «Città» che un io può imparare a scoprirla; nella «Città» ci si accorge semmai di quanto sia duro non essere liberi. L’amore, l’impulso cioè a trovare qualcuno e qualcosa da amare, è espressione di una vastità dell’animo, che la «Città» può soltanto limitare. E la memoria è da sempre il principale strumento della lotta che ognuno combatte per emanciparsi dalla «Città»: dato che quanto più precisa è la nostra memoria, tanto più possiamo constatare la gravità delle limitazioni, dei compromessi, degli inganni che la «Città» ci ha imposto. Della soglia critica Quanto al poter salvare qualcuno dalla «distruzione di Sodoma», le Scritture ribaltano la questione. Non solo non si può far nulla per chi è «moglie di Lot», o «genero», ma l’io che riesce a scampare ne determina il disastro. L’Angelo sterminatore lo spiega quando ordina a Lot e ai suoi di raggiungere Tso‘ar: Corri, fa’ presto, perché io non posso far nulla fino a che tu non vi sia arrivato!
Genesi 19,22 Anche il Diluvio poté cominciare soltanto dopo che Noè fu entrato nell’arca (Genesi 7,16). In un’eventuale istruttoria per il reato di cataclisma, ciò implicherebbe un’ipotesi di correità sia per Noè, sia per Lot. Cosa sarebbe avvenuto, se fossero rimasti l’uno fuori dall’arca e l’altro a Sodoma? A tale riguardo, la Genesi riporta un dialogo terribilmente ironico, che Yahweh e Abramo ebbero poco prima della distruzione della città,
guardandola da un’altura: Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto insieme con l’empio? Forse vi sono una cinquantina di uomini giusti in quella città: davvero li vuoi sopprimere?…» Yahweh rispose: «Se a Sodoma troverò cinquanta giusti entro le mura della città, per riguardo a loro perdonerò alla città intera». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere. Ma se ad arrivare a cinquanta giusti ne mancassero cinque? Per quei cinque di meno, vorrai distruggere tutta la città?» E Yahweh: «Non la distruggerò, se ne troverò quarantacinque». Abramo insistette ancora: «E se ce ne fossero soltanto quaranta?»
Genesi 18,23-29 La trattativa proseguì fino a che Dio promise di risparmiare la Città se vi avesse trovato dieci giusti – in ebraico tsadiyqim, cioè «persone sagge e generose». A volerlo considerare dal punto di vista della moglie e dei generi di Lot, ne conseguirebbe che quanti più giusti si trovano a Sodoma, tanto più la città sarà al sicuro: e che perciò un semplice senso d’umanità obbligherebbe chiunque si ritenesse un giusto a rimanere dov’è – a non andare verso «Tso‘ar». A volerlo considerare dal punto di vista di un astratto amore dell’umanità, si potrebbe invece rimproverare ad Abramo di non aver chiesto a Dio di risparmiare la città se vi si fossero trovati cinque giusti, o due, o uno solo. Ma, evidentemente, ciò che importava qui all’Autore della Genesi era una questione di fisica della civiltà: così come si appurò in seguito che zero gradi è la soglia al di sotto della quale l’acqua gela, premeva allora stabilire una «soglia critica» al di sotto della quale è bene che un io scelga di abbandonare una civiltà prossima allo sfacelo – «dieci giusti per città», appunto. E lo scopo era ammonire ogni io affinché si guardasse bene attorno, nelle Sodoma e in genere nelle Bestie future, così da non correre il rischio di trovarsi tra gli ultimi nove, otto, o sette, o meno ancora, che non se ne saranno andati via per tempo. Quali che siano la saggezza, la generosità di quei meno di dieci, la loro sorte sarà infatti la più malinconica di tutte, nella Città in cui sono rimasti.
Non avranno più senso. Costituiranno soltanto un inutile rimprovero a tutto: a chi appartiene alla Bestia, a chi ha osato andarsene, a Dio, all’evoluzione – che quegli ultimi giusti staranno in realtà cercando di sconfiggere in se stessi, come il suicida vuole sconfiggere in se stesso la vita. E, francamente, saranno anche un po’ antipatici, nel loro compiacersi della propria giustizia, del loro aver ragione, in mezzo a tanta gente che ha palesemente torto. Meglio andarsene, davvero. Cambiare e crescere: cioè trovare il coraggio di essere felici in futuro. Non vi è altro modo per esserlo anche al presente: per lasciare che tutte le proprie capacità splendano e si superino di continuo. Il benessere che ciò emana non è per tutti, e non a tutti sembra una cosa buona. Si evolve soltanto chi può; gli altri non sanno, e non lo sapranno mai.
APPENDICE
Annotazioni per persone superstiziose
* Sul chiedere, a pagina 6.
I passi evangelici che descrivono questo principio vengono infatti tradotti e interpretati, ancor oggi, in modo incongruo. Per esempio, Giovanni 15,16, nelle versioni consuete è: Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo concederà. Così formulato, può significare due cose:
o qui Gesù esorta a credere che qualsiasi richiesta di un devoto corrisponda a quel che potrebbe chiedere la Seconda persona della Trinità (e ciò è molto improbabile); oppure Gesù concede qui un privilegio ben strano, un «dite che vi mando io», la cui grossonalità non corrisponde a nulla di quel che il Vangelo attesta in ogni altra sua pagina. Io penso sia bene tradurre: Tutto quello che chiederete al Padre in nome dell’io, ve lo concederà.
Ciò che questo passo raccomanda, è di chiedere ciò che è l’io a volere, e non ciò che vogliono altri. È un riferimento al comandamento mosaico: «Tu non desidererai quello che desiderano gli altri» (anch’esso malamente tradotto con «Non desiderare la roba d’altri»). E per desiderare in nome del proprio io occorrono grande libertà e coraggio. Quanto alla libertà, in particolar modo, è utile osservare che «desiderare» deriva dal latino sidera, cioè «stelle»: de-siderare significa
letteralmente «accorgersi che in cielo mancano le sidera», gli aspetti astrologici che permetterebbero il realizzarsi di una determinata situazione. Era – ed è – la prova empirica di un’indipendenza dell’io dall’influsso degli astri: se non ne fosse indipendente, l’io non potrebbe avvertire la mancanza di qualcosa che gli astri non stanno concedendo. Trasponendola in termini più consoni alla nostra mentalità attuale, questa idea dell’indipendenza dell’io varrebbe nei riguardi dei condizionamenti sociali, invece che di quelli celesti: se un io si accorge di desiderare qualcosa che gli altri non desiderano, vuol dire che il suo orizzonte è più vasto di quello della società in cui vive; e la differenza tra i due orizzonti è precisamente la misura della libertà di tale io. A questo genere di desideri, e soltanto a questi, i Vangeli garantiscono l’attuazione, a opera del Dio-Divenire. Ciò che viene garantito è, propriamente, che il futuro del singolo io sia determinato più dai suoi autentici desideri, cioè da quel suo orizzonte più grande, che non dalla società in cui quell’io vive. È facile capire perché. Quanto più un io chiarisce i propri desideri, tanto più conosce se stesso; e quanto più conosce se stesso, tanto meno si identifica con la società in cui vive: vuole cose diverse – alza vele diverse da quelle che vede intorno a sé, e il Volere lo porta verso possibilità nuove. Anche l’idea (oggi strana, per i più) che sia ’Elohiym, cioè il Divenire, a creare tutto, emancipa l’io dal più potente dei condizionamenti sociali: ovvero dalla convinzione che il potere del passato sia invincibile – e che dunque sia insensato desiderare moltissime cose, appunto perché in passato non le si è desiderate mai. Di entrambi questi aspetti della questione tratto a lungo nel resto del libro. * Dei testi antichi, a pagina 56.
Non è consuetudine, oggi, citare testi antichi a sostegno di qualche idea, ma io lo faccio regolarmente. Negli antichi si trovano, in abbondanza, intuizioni di cui i moderni
hanno perduto non tanto il ricordo quanto piuttosto la chiave: gravissime crisi culturali, cataclismi sociali, periodi bui e vere e proprie epidemie psichiche (determinate in gran parte dal cozzo tra le principali religioni monoteistiche) impediscono da almeno dieci secoli di accorgersi di quel che dicono veramente certi testi fondamentali di duemila o più anni fa. Da questo obnubilamento dipendono, oggi, alcune assurde e soffocanti certezze: che, per esempio, i Vangeli siano il fondamento delle Chiese attuali; che le teorie evoluzionistiche siano contrarie alla Bibbia; che la Divina Commedia rispecchi principalmente le idee medievali sull’Aldilà e via dicendo. Quanto al Poimandres, cioè al Primo Trattato di quel Corpus Hermeticum in cui, attorno al I secolo d.C., vennero descritti alcuni princìpi dell’antichissima teologia egiziana, ne consiglio senz’altro la lettura a chiunque si interessi dell’evoluzione della nostra specie, o di psicologia del profondo. Vi si trovano, oltre all’«innamorarsi della propria forma», molti altri concetti preziosi. Per esempio, quello di autentìa, cioè della capacità di essere davvero se stessi: Io domando: «Ma tu chi sei?» «Io», mi risponde, «sono Poimandres, la Mente della autentìa; io so che cosa vuoi, e sono con te ovunque.»
Poimandres, 2 Nel coraggio di «sapere che cosa si vuole» stava, secondo gli autori del Corpus Hermeticum, l’accesso alla conoscenza, nell’«innamorarsi della propria forma», cioè di quel che già si è diventati, stava invece il principale ostacolo al crescere della conoscenza stessa. * Di una nuova teologia, a pagina 58.
Nelle versioni in rumorese, questo passo viene naturalmente presentato in tutt’altro modo, e cioè: L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.
E diventa in tal modo una consacrazione del www coniugale (rivolta esclusivamente ai maschi): ovverosia qualcosa che solo in rumorese può non suscitare forti dubbi. La Genesi tuttavia è scritta in ebraico: la parola che, qui, viene regolarmente tradotta «uomo» è in ebraico ’ysh, cioè «individuo» nell’ebraico corrente, e in geroglifico «la capacità di conoscere le cose visibili». Né nell’uno né nell’altro dei suoi significati, ’ysh può limitarsi ai soli maschi. La parola di solito tradotta «moglie» è invece, in ebraico, ’ishah, che nel linguaggio corrente significa oggi «donna», e in geroglifico significava «la capacità di conoscere le cose invisibili». Preferisco naturalmente quest’ultimo significato; e ne risulta che, secondo il testo ebraico della Genesi, tutti i conflitti (l’«essere due») che un io può scorgere nel mondo derivano dal suo attaccamento a «padre e madre», cioè a quel che gli è stato insegnato dalla generazione precedente, e vengono superati quando quell’io sa congiungere in se stesso la propria mente logica, concreta (lo ’ysh, appunto) con la propria superiore intuizione (la ’ishah), e dà ascolto alla propria autentìa più che alle opinioni e alle certezze degli altri. Dei fondamenti filologici di questo mio modo di tradurre, e della nuova teologia che ne deriva, ho trattato ampiamente in altri miei libri: La creazione dell’universo, Il codice segreto del Vangelo, Il mondo invisibile eccetera. Qualche secolo fa la si sarebbe inevitabilmente definita una «eresia», ma non mi risulta che ciò si possa, oggi, considerare un problema: è una risposta, semmai, alla molto più problematica superstizione in cui le traduzioni della Bibbia in rumorese costringono i loro lettori. * Degli Angeli, a pagina 89.
Anche le categorie angeliche sono settantadue, secondo la Qabbalah: ma qui, probabilmente, la coincidenza è un po’ più significativa di quanto non lo sia il rapporto tra le dodici epoche della C.O. e i dodici Segni astrologici. L’antica angelologia era in realtà un brillante esperimento di tipologia
psichica (vedi il mio Libro degli Angeli), nella quale ciascuno di settantadue tipi umani era descritto, in un intenso linguaggio simbolico, come l’aspetto terreno di una particolare «energia angelica» – cioè di un rapporto di potenziale, diremmo oggi, tra la coscienza individuale e la dimensione più alta immaginabile nell’universo, cioè Dio. Al tempo stesso, l’angelologia si spingeva anche oltre, giungendo all’idea che i tipi umani fossero settantadue non per una qualche ragione esclusivamente metafisica, ma perché la mente dell’uomo ha settantadue modi di percepire i suoi simili. Studiare questi settantadue modi è scoprire le dinamiche della mente stessa, e soprattutto dei concetti che la mente può formarsi del destino, della necessità, del caso e di tutti gli altri aspetti dei rapporti umani. Ritengo utile questa idea, non diversamente da come uno psicologo potrebbe ritenere utili i tipi psicologici individuati da Jung, o l’ipotesi che una serie limitata di «archetipi» condizionino la nostra percezione e la nostra creatività. Perciò mi ha rallegrato la scoperta che anche i cicli della C.O. durassero proprio settantadue anni: era un’ulteriore conferma dell’importanza di quel numero nella nostra immagine del mondo. Noi percepiamo, subiamo, facciamo esistere la Bestia in cicli di settantadue momenti (dal latino movimentum), proprio così come percepiamo, attraversiamo, facciamo esistere lo spazio nelle direzioni stabilite dai quattro punti cardinali; e quei cicli non hanno né più né meno di settantadue momenti, per la stessa ragione per cui i nostri punti cardinali non sono né più né meno di quattro. Si tratta certamente di una nostra proiezione, ma la nostra mente non è in grado di farne a meno. E non mi stupirei se quella scansione di settantadue anni si riscontrasse anche nelle altre Bestie che dominano e hanno dominato il nostro pianeta, quale che fosse il numero delle loro epoche: dimodoché se una Bestia contasse sei epoche, ciascuna sua epoca durerebbe dodici anni; se ne contasse trentasei, ciascuna epoca durerebbe un biennio; se ne contasse undici, ciascuna sarebbe di sei anni e mezzo e così via.
View more...
Comments