HEGEL Appunti[1]
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HEGEL E L’IDEALISMO ASSOLUTO questi appunti riproducono sostanzialmente il capitolo su Hegel del manuale di filosofia Abbagnano/Fornero, Protagonisti e testi della filosofia: sono stati apportati alcuni tagli di parti marginali, e inserite alcune parti (estratte da altri testi, di Trombino e di Reale/Antiseri) per spiegare meglio alcuni punti difficili. Opere principali da ricordare: Fra gli scritti giovanili (1793-1800): Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino La prima espressione della filosofia “matura” di Hegel: La fenomenologia dello Spirito (1807) Grandi opere sistematiche: La scienza della logica (1812-1816), L’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817), Lineamenti di filosofia del diritto (1821) Lezioni tenute da Hegel all’Università di Berlino, trascritte e pubblicate dai suoi discepoli dopo la sua morte: Lezioni di filosofia della storia , Estetica , Lezioni di filosofia della religione , Lezioni sulla storia della filosofia .
3. Il giovane Hegel Gli scritti giovanili comprendono le opere scritte dal 1793 al 1800 . Essi rimasero inediti per tutto l’Ottocento. In questi scritti l’argomento dominante è teologico, ma è molto netta la connessione con la politica. Hegel studia infatti un tema profondamente connesso con la rivoluzione francese, della quale in Germania arrivano echi sempre più intensi (e che suscita in Hegel grande entusiasmo): il tema della rigenerazione morale e religiosa dell’uomo come fondamento della sua rigenerazione politica. Perché l’aspirazione dei popoli ad una vita migliore, alla libertà e all’eguaglianza possa realizzarsi, occorre una nuova forma di religione, vissuta come “comunanza dei cuori”, che permetta a ciascuno dei cittadini di partecipare con la propria vita interiore alla vita dello Spirito di Dio e di riconoscere nella vita interiore del suo vicino il riflesso dell’unica vita di Dio L’opera più importante del periodo giovanile è Lo spirito del cristianesimo e il suo destino; in quest’opera viene attuato un confronto (a partire dalla riflessione filosofica sulla Bibbia e sulla mitologia greca) tra la religiosità ebraica e quella greca. L’antitesi tra la religiosità ebraica e quella greca si rende manifesta, secondo Hegel, nel racconto biblico del diluvio universale e nell’analogo mito greco di Deucalione e Pirra. Gli Ebrei, dice Hegel, hanno reagito al diluvio ancorando la salvezza dalla natura, che li minaccia di morte, alla fede nella potenza del loro Dio. Il diluvio è letto dagli ebrei come un tradimento della natura nei confronti dei suoi figli; Dio è pensato come il Signore estraneo alla natura a cui essa, come ogni cosa, è sottomessa . Gli Ebrei hanno dunque pensato Dio contrapponendolo alla natura: Egli è tutto, la natura e l’uomo sono niente ( il Dio personale ebraico, per Hegel, è solamente un “pensato”, cioè qualcosa di costruito dall’intelletto). Per questo motivo gli ebrei hanno scelto di vivere in inimicizia con la natura e in ostilità con gli altri uomini; essi infatti ripongono la salvezza nel loro lontano Dio trascendente, di cui sono il popolo eletto. E il loro Dio è “geloso”: esige una fedeltà esclusiva, non permette nessun rapporto con altri dei e, di conseguenza, con altri popoli. Ma l’ostilità degli ebrei verso la natura e verso i popoli stranieri lacera la profonda unità di vita che lega tutti i viventi, e la vita offesa, lacerata, si vendica, condannando gli ebrei all’infelicità. Hegel parte qui dall’idea che la vita sia unica: pertanto una posizione ostile verso la natura e verso altri popoli (come quella degli ebrei) è una posizione ostile verso la vita stessa (gli ebrei, odiando gli altri popoli, offendono e lacerano la propria stessa vita). I greci invece hanno vissuto il loro rapporto con la natura in “spirito di bellezza”, godendo cioè di un sereno accordo con essa (la loro morale è in accordo con i loro desideri, i loro dei sono immersi nella natura, espressione delle stesse forze naturali e così via). Nel mito greco, dopo la distruzione del genere umano, Deucalione e Pirra non hanno reagito come Noè, ma hanno sottoscritto un nuovo patto di fiducia nei confronti della natura e della vita. I greci non hanno creato alcuna scissione tra sé e l’unica vita del tutto. Hegel studia quindi la figura di Gesù, che ha rifiutato la scelta del suo popolo e ha predicato la legge dell’amore, cioè del superamento dell’ostilità in nome della profonda unità di vita che lega tutti i viventi. La figura di Gesù è quindi, secondo Hegel, più vicina al mondo greco che a quello ebraico. Tuttavia Gesù è stato sconfitto, perché è stato ucciso dal suo popolo, ma soprattutto perché il suo messaggio di amore è stato tradito dai suoi seguaci, che hanno fondato le Chiese cristiane riproponendo il Dio trascendente degli ebrei e tutto il loro spirito di separazione e di inimicizia. D’altra parte anche lo “spirito di bellezza” del mondo greco è stato superato da nuove esperienze della civiltà occidentale. Occorre dunque una nuova religione, fondata sul messaggio originale, autentico di Gesù, cioè sull’amore, sull’unità di vita dei viventi
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OSSERVAZIONI: Si noti che il problema che è posto da Hegel è il problema del Romanticismo, il problema del rapporto finito-infinito, o, in altri termini, il problema di ritrovare l’armonia perduta tra l’uomo e il tutto dopo l’epoca felice dell’antichità greca. I mezzi per ristabilire l’armonia variano, ma l’ideale è comune a tutti i romantici, e anche a Hegel. (Per esempio, il compagno di studi di Hegel, Friedrich Holderlin, lo vagheggiò nella sua poesia e nel romanzo Iperione assegnando al poeta romantico il compito di guidare il suo popolo verso una forma di vita altrettanto armonica della vita greca) Hegel negli scritti teologici giovanili indicò come mezzo una religione rinnovata, fondata sull’amore vissuto e predicato da Gesù (e poi tradito dalle chiese cristiane). Successivamente la religione e l’amore come mezzi per il ritrovamento dell’armonia verranno sostituiti dalla filosofia e dalla ragione.
4. I CAPISALDI DEL SISTEMA Per poter seguire proficuamente lo svolgimento del pensiero di Hegel risulta indispensabile aver chiare, sin dall’inizio, le tesi di fondo del suo idealismo: a) la risoluzione del finito nell’infinito; b) l’identità fra ragione e realtà; c) la funzione giustificatrice della filosofia.
a) Finito e infinito Con la prima tesi Hegel intende dire che la realtà non è un insieme di sostanze autonome, ma un organismo unitario di cui tutto ciò che esiste è parte o manifestazione. Tale organismo, non avendo nulla al di fuori di sé e rappresentando la ragion d’essere di ogni realtà, coincide con l’Assoluto e con l’Infinito, mentre i vari enti del mondo, essendo manifestazioni di esso, coincidono con il finito. Di conseguenza, il finito, come tale, non esiste, perché ciò che noi chiamiamo finito è nient’altro che un’espressione parziale dell’Infinito. Infatti, come la parte non può esistere se non in connessione con il Tutto, in rapporto al quale soltanto ha vita e senso, così il finito esiste unicamente nell’infinito e in virtù dell’infinito. Detto altrimenti: il finito, in quanto è reale, non è tale, ma è lo stesso infinito. L’hegelismo si configura quindi come una forma di monismo panteistico: vale a dire teoria la quale esiste un’unica realtà divina (monismo) di cui il mondo visibile costituisce la realizzazione o la manifestazione. (nella concezione cristiana invece Dio è trascendente,c’è una distinzione ontologica fra il Creatore e il mondo creato). Tuttavia il panteismo di Hegel si differenzia da quello moderno (di Giordano Bruno e di Spinoza) perché per Bruno e per Spinoza l’Assoluto è una Sostanza statica che coincide con la Natura, per l’idealista Hegel invece l’Asssoluto si identifica con un Soggetto spirituale in divenire, di cui tutto ciò che esiste è un “momento” o una “tappa” di realizzazione. Infatti, dire che la realtà non è “Sostanza”, ma “Soggetto”, significa dire, secondo Hegel, che essa non è qualcosa di immutabile e di già dato, ma un processo di auto-produzione che soltanto alla fine, cioè con l’uomo (= lo Spirito), giunge a rivelarsi per quello che è veramente: “Il vero - scrive Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito - è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente Risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità ...”
b) Ragione e realtà Il Soggetto spirituale infinito che sta alla base della realtà viene denominato da Hegel con il termine di Idea o di Ragione, intendendo con queste espressioni l’identità di pensiero ed essere, o meglio, di ragione e realtà. Da ciò il noto aforisma, contenuto nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, in cui si riassume il senso stesso dell’hegelismo: «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale». Con la prima parte della formula, Hegel intende dire che la razionalità non è pura idealità, astrazione, schema, dover-essere, ma la forma stessa di ciò che esiste, poiché la ragione “governa” il mondo e lo costituisce. Viceversa, con la seconda parte della formula, Hegel intende affermare che la realtà non è una materia caotica, ma il dispiegarsi di una struttura razionale (l’Idea o la Ragione) che si manifesta in modo inconsapevole nella natura e in modo consapevole nell’uomo. Per cui, con il suo aforisma, Hegel non esprime la semplice possibilità che la realtà sia penetrata o intesa dalla ragione, ma la necessaria, totale e sostanziale identità di realtà e ragione. Tale identità implica anche l’identità fra essere e dover-essere, in quanto ciò che è risulta anche ciò che razionalmente deve essere. Tant’è vero che le opere di Hegel sono costellate di osservazioni piene di ironia e di scherno a proposito dell’ “astratto” e moralistico dover-essere che non è, dell’ideale che non è reale. E tutte quante insistono sul fatto che il mondo, in quanto è, e così com’è, è razionalità dispiegata, ovvero ragione reale e realtà razionale - che si manifesta attraverso una serie di momenti necessari che non possono essere diversi da come sono. Infatti, da qualsiasi punto di vista guardiamo il mondo, troviamo ovunque, secondo Hegel, una rete di connessioni necessarie e di “passaggi obbligati” che costituiscono l’articolazione vivente dell’unica Idea o Ragione. In altri termini, Hegel, secondo uno schema tipico della filosofia romantica, ritiene che la realtà costituisca una totalità processuale necessaria, formata da una serie ascendente di “gradi” o “momenti”, che rappresentano, ognuno, il risultato di quelli precedenti ed il presupposto di quelli seguenti.
c) La funzione della filosofia
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Coerentemente con il suo orizzonte teorico, fondato sulle categorie di totalità e di necessità, Hegel ritiene che il compito della filosofia consista nel prendere atto della realtà e nel comprendere le strutture razionali che la costituiscono: “Comprendere ciò che è è il compito della filosofia, poiché ciò che è è la ragione”. A dire come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi; giacché sopraggiunge quando la realtà ha compiuto il suo processo di formazione. Essa, afferma Hegel con un paragone famoso, è come la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo, cioè quando la realtà è già bell’e fatta. La filosofia deve dunque “mantenersi in pace con la realtà” e rinunciare alla pretesa assurda di determinarla e guidarla. Deve soltanto portare nella forma del pensiero, cioè elaborare in concetti, il contenuto reale che l’esperienza le offre, dimostrandone, con la riflessione, l’intrinseca razionalità. Questi chiarimenti delineano il tratto essenziale della filosofia e della personalità di Hegel. L’autentico compito che Hegel ha inteso attribuire alla filosofia (e ha cercato di realizzare con la sua filosofia) è la giustificazione razionale della realtà, della presenzialità, del fatto. Questo compito egli l’ha affrontato con maggiore energia proprio là dove esso sembra più rischioso: cioè nei confronti della realtà politica, dello Stato (infatti può sembrare ovvio che il mondo naturale sia razionale, in quanto regolato da leggi necessarie, mentre è più difficile riconoscere che qualsiasi costruzione storica dell’uomo sia l’espressione di una necessità razionale, e che quindi debba essere accettata così com’è)
d) il dibattito critico intorno al “giustificazionismo” hegeliano Hegel in un passo dell’Enciclopedia ha precisato che la sua filosofia non può essere scambiata per una banale accettazione della realtà in tutti i suoi aspetti, perché non vanno inclusi nel concetto di “realtà” gli aspetti superficiali e accidentali dell’esistenza (ma come possa esistere l’accidentale in una realtà razionale e necessaria resta oscuro). A partire da questa precisazione taluni critici hanno negato il carattere giustificazionista della filosofia hegeliana: un filone interpretativo che va da Engels a Marcuse (pensatori della “sinistra rivoluzionaria”), pur ammettendo gli aspetti conservatori del pensiero hegeliano, ha tuttavia cercato di mostrare come esso possa venir letto in modo dinamico e rivoluzionario. Infatti secondo tali autori l’aforisma di Hegel significherebbe in sostanza che il reale è destinato a coincidere con il razionale, mentre l’irrazionale è destinato a perire (si tratterebbe insomma dell’affermazione di un progresso necessario). Ora, questa lettura di Hegel rappresenta, più che un’interpretazione, una correzione di Hegel alla luce degli ideali rivoluzionari dei suoi autori. In conclusione ci sembra che i testi di Hegel documentino in modo chiaro e inequivocabile il suo atteggiamento fondamentalmente giustificazionista nei confronti della realtà.
5. Idea, Natura e Spirito.
Le parti della filosofia
Hegel ritiene che il farsi dinamico dell’Assoluto passi attraverso i tre momenti dell’Idea “in sé e per sé” (tesi), dell’Idea “fuori di sé ” (antitesi) e dell’Idea che “ritorna in sé ” (sintesi). Tant’è vero che il disegno complessivo dell'Enciclopedia hegeliana è quello di una grande triade dialettica. L’Idea “in sé e per sé” o Idea “pura” è l’Idea considerata in se stessa, a prescindere dalla sua concreta realizzazione nel mondo. Da questo angolo prospettico, l’Idea, secondo un noto paragone teologico di Hegel, è assimilabile a Dio “prima della creazione della natura e di uno spirito finito”, ovvero, in termini meno equivocanti (visto che l'Assoluto hegeliano è un infinito immanente, che non crea il mondo, ma è il mondo) al programma o all’ossatura logico-razionale della realtà. L’Idea “fuori di sé” o Idea “nel suo esser altro” è la Natura, cioè l’estrinsecazione o l’alienazione dell’Idea nelle realtà spazio-temporali del mondo. L’Idea che “ritorna in sé” è lo Spirito, cioè l’Idea che dopo essersi fatta natura torna “presso di sé” nell’uomo. Ovviamente, questa triade non è da intendersi in senso cronologico, come se prima ci fosse l’Idea in sé e per sé, poi la Natura e infine lo Spirito, ma in senso ideale. Infatti ciò che concretamente esiste nella realtà è lo Spirito (la sintesi), il quale ha come sua coeterna condizione la Natura (l’antitesi) e come suo coeterno presupposto il programma logico rappresentato dall’Idea pura (la tesi). A questi tre momenti strutturali dell'Assoluto Hegel fa corrispondere le tre sezioni in cui si divide il sapere filosofico: 1) la logica, che è “ la scienza dell’Idea in sé e per sé”, cioè dell’Idea considerata nel suo essere implicito (= in sé) e nel suo graduale esplicarsi (= per sé), ma a prescindere, come si è visto, dalla sua concreta realizzazione nella natura e nello spirito; 2) la filosofia della natura, che è “ la scienza dell’Idea nel suo alienarsi da sé”; 3) la filosofia dello spirito, che è la scienza dell’Idea, che dal suo alienamento ritorna in sé”. Ecco un primo schema generale (cui seguiranno altri più analitici): 1. dottrina dell'essere
Logica 2. dottrina dell'essenza
Filosofia della natura
3. dottrina del concetto 1. soggettivo
1. meccanica 2. fisica 3. organica
a) antropologia b) fenomenologia c) psicologia a) diritto
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Filosofia dello Spirito
2. oggettivo
3. assoluto
b) moralità c) eticità a) arte b) religione c) filosofia
6. La Dialettica Come si è visto, l'Assoluto, per Hegel, è fondamentalmente divenire. La legge che regola tale divenire è la dialettica, che rappresenta, al tempo stesso, la legge (ontologica) di sviluppo della realtà e la legge (logica) di comprensione della realtà. Hegel non ha offerto, della dialettica, una teoria sistematica, limitandosi, per lo più, ad utilizzarla nei vari settori della filosofia. Ciò non esclude la possibilità di fissare qualche tratto generale di essa. Nel par. 79 dell'Enciclopedia Hegel distingue tre momenti o aspetti del pensiero: a) l'astratto o intellettuale; b) “ il dialettico o negativo-razionale”; c) “ lo speculativo o positivo-razionale”. Il momento astratto o intellettuale consiste nel concepire l’esistente sotto forma di una molteplicità di determinazioni statiche e separate le une dalle altre. In altri termini, il momento intellettuale (che è il grado più basso della ragione) è quello per cui il pensiero si ferma alle determinazioni rigide della realtà, limitandosi a considerarle nelle loro differenze reciproche e secondo il principio di identità e di non-contraddizione (secondo cui ogni cosa è se stessa ed è assolutamente diversa dalle altre). Il momento dialettico o negativo-razionale consiste nel mostrare come le sopraccitate determinazioni siano unilaterali ed esigano di essere messe in movimento, ovvero di essere relazionate con altre determinazioni. Infatti, poiché ogni affermazione sottintende una negazione, in quanto per specificare ciò che una cosa è bisogna implicitamente chiarire ciò che essa non è, risulta indispensabile procedere oltre il principio di identità e mettere in rapporto le varie determinazioni con le determinazioni opposte (ad es. il concetto di “uno”, non appena venga smosso dalla sua astratta rigidezza, richiama quello di “molti” e manifesta uno stretto legame con esso. E così dicasi di ogni altro concetto: il particolare richiama l’universale, l’uguale il disuguale, il bene il male ecc.). Il terzo momento, quello speculativo o positivo-razionale, consiste invece nel cogliere l’unità delle determinazioni opposte, ossia nel rendersi conto che tali determinazioni sono aspetti unilaterali di una realtà più alta che li ri-comprende o sintetizza entrambi (ad es. si scopre che la realtà vera non è né l’unità in astratto né la molteplicità in astratto, bensì un’unità che vive solo attraverso la molteplicità). Globalmente e sinteticamente considerata, la dialettica consiste quindi: 1) nell’affermazione o posizione di un concetto “astratto e limitato”, che funge da tesi; 2) nella negazione di questo concetto come alcunché di limitato o di finito e nel passaggio ad un concetto opposto, che funge da antitesi; 3) nella unificazione della precedente affermazione e negazione in una sintesi positiva comprensiva di entrambe. Sintesi che si configura come una ri-affermazione potenziata dell’affermazione iniziale (tesi), ottenuta tramite la negazione della negazione intermedia (antitesi). Riaffermazione che Hegel focalizza con il termine tecnico di Aufhebung il quale esprime l’idea di un “superamento” che è, al tempo stesso, un togliere (l’opposizione fra tesi ed antitesi) ed un conservare (la verità della tesi, dell’antitesi e della loro lotta).
6.1 Puntualizzazioni circa la dialettica l) Come si può notare, la dialettica non comprende soltanto il secondo momento (quello che Hegel chiama dialettico in senso stretto) ma la totalità dei tre momenti elencati. 2) La dialettica non fa che illustrare il principio fondamentale della filosofia hegeliana: la risoluzione del finito nell’infinito. Infatti essa ci mostra come ogni finito, cioè ogni spicchio di realtà, non possa esistere in se stesso (poiché in tal caso sarebbe un Assoluto, ovvero un infinito autosufficiente) ma solo in un contesto di rapporti. Infatti, per porre se stesso il finito è obbligato ad opporsi a qualcos’altro, cioè ad entrare in quella trama di relazioni che forma la realtà e che coincide con il tutto infinito di cui esso è parte o manifestazione. E poiché il tutto di cui parla Hegel, ovvero l’Idea, è una entità dinamica, la dialettica esprime appunto il processo mediante cui le varie parti o determinazioni della realtà perdono la loro rigidezza, si fluidificano e diventano “momenti” di un’Idea unica ed infinita. Detto altrimenti, la dialettica rappresenta la crisi del finito e la sua risoluzione necessaria nell’infinito: “ogni finito ha questo di proprio, che sopprime se medesimo. La dialettica forma, dunque, l’anima motrice del progresso scientifico... in essa, soprattutto è la vera, e non estrinseca elevazione sul finito” . 3) La dialettica ha un significato globalmente ottimistico, poiché essa ha il compito di unificare il molteplice, conciliare le opposizioni, pacificare i conflitti, ridurre ogni cosa all’ordine e alla perfezione del Tutto. Molteplicità, opposizione, conflitto sono senza dubbio reali secondo Hegel, ma solo come momenti di passaggio. In altri termini, il negativo, per Hegel, sussiste solo come un momento del farsi del positivo e la tragedia, nella sua filosofia, è solo l’aspetto superficiale e transeunte di una sostanziale commedia (nel senso letterale di vicenda avente un epilogo positivo).
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4) Appurato che pensare dialetticamente significa pensare la realtà come una totalità processuale che procede secondo lo schema triadico di tesi, antitesi e sintesi, ci si può chiedere se la dialettica hegeliana sia a sintesi aperta o a sintesi chiusa. Infatti, poiché ogni sintesi rappresenta a sua volta la tesi di un’altra antitesi, cui succede un’ulteriore sintesi e così via, sembrerebbe, a prima vista, che la dialettica esprima un processo costitutivamente aperto. In verità, Hegel pensa che in tal caso si avrebbe il trionfo della “cattiva infinità” ossia un processo che, spostando indefinitamente la meta da raggiungere, toglierebbe allo spirito il pieno possesso di se medesimo. Di conseguenza, egli opta per una dialettica a sintesi finale chiusa, cioè per una dialettica che ha un ben preciso punto di arrivo: “Mentre nei gradi intermedi della dialettica prevale la rappresentazione della spirale, nella visione complessiva e finale del sistema prevale la rappresentazione del circolo chiuso, che soffoca la vita dello spirito, dando al suo progresso un termine, al di là del quale ogni attività creatrice si annulla, perché, avendo lo spirito realizzato pienamente se stesso, non gli resta che ripercorrere il cammino già fatto... L’impetuosa corrente sfocia in uno stagnante mare, e nell’immobile specchio trema la vena delle acque che vi affluiscono ... ” (Guido De Ruggiero). 5) E in effetti, tutti i filosofi che si sono rifatti in qualche modo all’hegelismo (da Engels a Croce e ai neomarxisti) hanno criticato l'idea di uno “stagnante epilogo” della storia del mondo, recuperando invece l’idea di un processo che risulta costitutivamente aperto. Inoltre, più che sul momento della “conciliazione” o “sintesi”, tali filosofi hanno insistito sul momento dell’ “opposizione” e della “contraddizione ”, ossia su ciò che Hegel, nella Fenomenologia, chiama “il travaglio del negativo”.
7. La critica alle filosofie precedenti Dopo aver definito in positivo i capisaldi dell’hegelismo, è venuto il momento di illustrarli in negativo, ossia di vedere a quali filosofie esso storicamente si contrapponga.
a) Hegel e gli illuministi La filosofia di Hegel implica un oggettivo rifiuto della maniera illuministica di rapportarsi al mondo. Infatti gli illuministi, facendo dell’intelletto il giudice della storia, sono costretti a ritenere che il reale non è razionale, dimenticando così che la vera ragione (= lo Spirito) è proprio quella che prende corpo nella storia ed abita in tutti i momenti di essa. Invece la ragione degli illuministi esprime solo le esigenze e le aspirazioni degli individui: è una ragione finita e parziale, ovvero un “intelletto astratto”, che pretende di dare lezione alla realtà e alla storia, stabilendo come dovrebbe essere e non è, mentre la realtà è sempre necessariamente ciò che deve essere. (...)
b) Hegel e Kant Kant aveva voluto costruire una filosofia del finito, e l’antitesi fra il fenomeno e il noumeno, fra il dover essere e l’essere, tra la ragione e la realtà, fa parte integrante di una tale filosofia. Nel campo conoscitivo l’uomo è limitato alla sfera dei fenomeni, le idee della ragione sono soltanto ideali regolativi, che spingono la ricerca scientifica all’infinito, verso una compiutezza che essa non può raggiungere mai. Anche nel dominio morale, la santità, cioè la perfetta conformità della volontà alla legge della ragione, è il termine di un progresso all’infinito. In una parola, l’essere non si adegua mai al dover essere, la realtà alla razionalità. Secondo Hegel, invece, questa adeguazione è in ogni caso possibile e necessaria (tutta la filosofia di Hegel costituisce una mediazione tra finito e infinito, cioè un metodo per accedere, sia razionalmente sia moralmente, all’Assoluto). A Kant Hegel rimprovera anche la pretesa di voler indagare la facoltà di conoscere prima di procedere a conoscere: pretesa che egli assimila all’assurdo proposito “di imparare a nuotare prima di entrare nell’acqua”.
c)Hegel e i romantici Il dissenso di Hegel nei confronti dei romantici verte essenzialmente su due punti. In primo luogo Hegel contesta il primato del sentimento, dell’arte o della fede, sostenendo che la filosofia, in quanto scienza dell’Assoluto, non può che essere una forma di sapere mediato e razionale. In secondo luogo, Hegel contesta gli atteggiamenti individualistici dei romantici (o, per meglio dire, di una parte dei romantici), affermando che l’intellettuale non deve narcisisticamente ripiegarsi sul proprio io, ma tener d’occhio soprattutto l’oggettivo “corso del mondo”, cercando d’integrarsi nelle istituzioni socio-politiche del proprio tempo. In realtà Hegel, pur non rientrando nella “scuola romantica” in senso stretto, risulta profondamente partecipe del clima culturale romantico, del quale oltre a numerosi motivi particolari (il concetto della creatività dello Spirito, dello sviluppo provvidenziale della storia, della spiritualità incosciente della natura ecc.) condivide soprattutto il tema dell’infinito, anche se ritiene che ad esso si acceda speculativamente e non attraverso vie “immediate”.
d) Hegel e Fichte (...) Hegel accusa Fichte di aver ridotto l’infinito a semplice meta ideale dell’io finito. Ma in tal modo il finito, per adeguarsi all’infinito e ricongiungersi con esso, è lanciato in un progresso all’infinito che non raggiunge mai il suo termine. Ora questo progresso all’infinito è, secondo Hegel, il falso o “cattivo infinito” o l’infinito negativo; non supera veramente il finito perché lo fa continuamente risorgere, ed esprime soltanto l’esigenza astratta del suo superamento. Di conseguenza, Fichte si troverebbe ancora, dal punto di vista di Hegel, in una filosofia incapace di attingere quella piena coincidenza tra finito e infinito, razionale e reale, essere e dover-essere, che costituisce la sostanza dell’idealismo.
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8. La Fenomenologia dello Spirito La Fenomenologia dello Spirito (1807) è la prima opera in cui Hegel espone il suo pensiero “maturo”, quel pensiero di cui abbiamo già presentato i fondamenti e il metodo (vedi sopra: i capisaldi del sistema e la dialettica). Il termine Fenomenologia (dalla parola greca phainomenon = ciò che si manifesta, che appare) significa “Studio delle manifestazioni” dello Spirito. (Si tenga presente che il termine “fenomeno” in Hegel non comporta una distinzione kantiana tra apparenza e cosa in sé inconoscibile: infatti posta l’identità tra pensiero e essere, tra ragione e realtà, nulla può sfuggire alla coscienza). Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel vuol descrivere il percorso della coscienza verso il sapere assoluto, vale a dire l’itinerario dalla coscienza comune alla piena coscienza filosofica. “La coscienza comune è la coscienza dell’uomo che vede il mondo come un insieme di oggetti e soggetti indipendenti gli uni dagli altri senza rendersi conto che il mondo costituisce un’unità e che anche la differenza tra il soggetto cosciente e le cose va compresa all’interno dell’unità razionale dell’Assoluto. La coscienza filosofica è invece quella che vede le cose e gli eventi come la frammentaria manifestazione del Tutto, e considera una semplice illusione la possibilità di identificarle separatamente. Alla coscienza comune il mondo appare come un arcipelago composto da moltissime isole - gli uomini, gli oggetti, gli eventi - separate le une dalle altre. La coscienza filosofica scopre invece che le isole sono le cime di monti sottomarini, che formano un’unica catena montuosa che si eleva dal fondo del mare. Allo sguardo del filosofo dietro la differenza compare la comune radice di ogni essere” 1. L’itinerario dalla coscienza comune alla coscienza filosofica è segnato da una serie di tappe (che Hegel chiama figure) che costituiscono fasi della storia dell’umanità, fasi che il singolo individuo deve ripercorrere (per elevarsi alla coscienza filosofica, al punto di vista dell’assoluto). Ma queste tappe sono anche “manifestazioni dell’assoluto” perché, come abbiamo già detto, tutti gli eventi della storia non sono altro che momenti necessari del divenire dell’assoluto, della totalità infinita. Quindi la fenomenologia descrive la via che conduce l’individuo al sapere assoluto (in questo senso la Fenomenologia dello Spirito può essere intesa come un BildungsRoman: un romanzo di formazione, nel quale il protagonista, attraverso il duro tirocinio di un’esperienza sofferta, supera le originarie convinzioni e giunge alla verità), ma descrive anche, e soprattutto, la via attraverso la quale l’Assoluto stesso giunge all’autocoscienza (l’Assoluto si autoconosce attraverso il filosofo) La Fenomenologia dello Spirito è costituita da 6 tappe fondamentali: COSCIENZA AUTOCOSCIENZA RAGIONE SPIRITO RELIGIONE SAPERE ASSOLUTO Le prime tre tappe descrivono l’innalzamento dalla coscienza individuale finita alla ragione come consapevolezza filosofica. Le successive tre tappe descrivono il dispiegarsi della coscienza che ha conquistato il punto di vista dell’Assoluto. Siccome lo svolgimento della filosofia come “conoscenza dal punto di vista dell’ Assoluto” viene riproposto in modo più sistematico nelle opere successive di Hegel, prendiamo in considerazione solo i primi tre momenti. COSCIENZA: Nel primo momento della Coscienza questa si rivolge a un oggetto che è considerato esterno rispetto ad essa. AUTOCOSCIENZA: La seconda tappa dell’itinerario fenomenologico è costituito dalla “autocoscienza” che, attraverso i singoli momenti, impara a sapere che cosa essa sia propriamente. L’autocoscienza si manifesta, dapprima, come caratterizzata dall’appetito e dal desiderio, ossia come tendenza ad appropriarsi delle cose e a far dipendere tutto da sé, a “togliere l’alterità che si presenta come vita indipendente”. Ma l’autocoscienza necessita di altre autocoscienze in grado di darle la certezza di essere tale: l’uomo acquista coscienza di sé, si afferma come autocoscienza, solo se riesce a farsi riconoscere da altri uomini, da altre autocoscienze (dice Hegel: “l’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza”) L’uomo però non rispetta l’altro nella sua diversità, ma vuole appropriarsene, vuole ridurlo a una cosa propria (perché, come abbiam detto, l’autocoscienza si manifesta come tendenza a far dipendere tutto da sé) e di conseguenza nasce in maniera necessaria una lotta tra i due uomini la cui posta in gioco è proprio il riconoscimento. Il riconoscimento deve passare attraverso un conflitto (e non attraverso l’amore cfr. pensiero giovanile di Hegel), solo attraverso “la lotta per la vita e per la morte” l’autocoscienza può realizzarsi. Ma poiché ogni autocoscienza ha 1
Vedi Mario Trombino, Da Kant a Hegel, vol. 2.2 di Filosofia testi - percorsi, Poseidonia
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bisogno strutturalmente dell’altra la lotta non deve aver come esito la morte di una delle due, ma il soggiogamento di una all’altra. Nasce, cosí, la dialettica tra “padrone” e “servo” (che corrisponde, nella storia, alla civiltà antica), che Hegel descrive in pagine divenute famosissime, e che è effettivamente fra le cose più profonde e più belle della Fenomenologia. Il “padrone” ha rischiato nella lotta la sua vita e nella vittoria è diventato, di conseguenza, padrone. Il “servo” ha avuto timore della morte e, nella sconfitta, per aver salva la vita fisica, ha accettato la condizione di schiavitù ed è diventato come una “cosa” dipendente dal padrone. Il padrone usa il servo e lo fa lavorare per sé, limitandosi a “godere” delle cose che il servo fa per lui. Ma, in questo tipo di rapporto, si sviluppa un movimento dialettico, che finirà col portare al rovesciamento delle parti. Infatti il padrone finisce col diventare “dipendente dal servo”, perché può appropriarsi delle cose solo attraverso il lavoro del servo (il padrone rimane inerte). Il servo invece, per mezzo del lavoro, finisce per diventare indipendente, perché impara a dominare se stesso (autodisciplina) e impara a dominare le cose trasformandole, imprimendo in esse una forma che è il riflesso dell’autocoscienza. La figura della dialettica Padrone-Servo è stata apprezzata soprattutto dai marxisti, i quali hanno visto in essa un’intuizione dell’importanza del lavoro e della dialettica della storia, nella quale, grazie all’esperienza della sottomissione, si generano le condizioni per la liberazione. Resta tuttavia una differenza fondamentale tra Marx ed Hegel: infatti la figura hegeliana non si conclude con una rivoluzione sociale o politica, ma con la coscienza dell’indipendenza del servo nei confronti delle cose e della dipendenza del padrone nei confronti del lavoro servile. Un’altra figura celebre dell’Autocoscienza è quella della Coscienza infelice, che descrive la condizione della coscienza tipica della religione ebraica e del Cristianesimo medievale. La coscienza infelice è la coscienza che vive se stessa come coscienza finita, mortale, che per esistere deve ancorarsi a una realtà assoluta, infinita, del tutto estranea alla coscienza stessa ( = Dio trascendente). In questa figura c’è quindi una profonda scissione tra l’autocoscienza dell’uomo (finita , mutevole) e l’oggetto della coscienza, la realtà vera, assoluta, infinita, a cui la coscienza tende senza mai poterla raggiungere. Nella figura della Coscienza infelice ogni accostamento dell’uomo alla Divinità trascendente significa una mortificazione, un’umiliazione, un sentire la propria nullità, e da ciò deriva appunto l’infelicità. Nel Cristianesimo si cerca poi di rendere accessibile il Dio trascendente per mezzo del Dio incarnato (Gesù Cristo); tuttavia, secondo Hegel, la pretesa di cogliere l’Assoluto in una figura storica è destinata al fallimento, perché Cristo, vissuto in uno specifico e irripetibile periodo storico, risulta pur sempre lontano, e quindi per la coscienza rimane separato, estraneo. Di conseguenza, anche con il cristianesimo, la coscienza continua ad essere infelice e Dio continua a configurarsi come un “irraggiungibile al di là che sfugge”. RAGIONE: L’autocoscienza era il momento in cui la coscienza aveva preso se stessa come oggetto, ma il suo culmine nella coscienza infelice mostra l’impossibilità di comprendere se stessa restando entro i limiti di sé. La Ragione nasce nel momento in cui la Coscienza, abbandonato il vano sforzo di unificarsi con Dio, si rende conto di essere lei stessa Dio, il Soggetto assoluto, in altri termini acquisisce “la certezza di essere ogni realtà”. E’ questa la posizione propria dell’idealismo: l’unità di pensiero ed essere. Questa “certezza di essere ogni realtà” sorge nel Rinascimento, si sviluppa durante l’età moderna e ha il suo culmine nell’Idealismo. Il “cammino”della Ragione si conclude con il superamento del punto di vista individuale: la coscienza comprende che ogni atto della vita individuale si situa dentro una realtà storico-sociale che lo fonda e lo rende possibile, e quindi la ragione si realizza concretamente nelle istituzioni storico-politiche di un popolo e dello Stato; ma con questo entriamo nel mondo dello Spirito, per il quale, come abbiam già detto, rimandiamo alla Filosofia dello Spirito esposta nelle opere successive.
IL SISTEMA Nella Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio troviamo l’esposizione sistematica di tutti i momenti costitutivi dell’assoluto, nel loro ordine necessario. La Fenomenologia dello Spirito ci ha mostrato come la coscienza empirica giunge al Sapere assoluto. Il sistema ci mostra l’Assoluto visto da quel punto di vista che la Fenomenologia ha guadagnato. Su questo piano è tolta ogni differenza tra certezza (elemento soggettivo) e verità. L’esposizione segue il ritmo triadico di tesi (Idea in sé), antitesi (Idea fuori di sé, cioè natura), sintesi (Idea che ritorna in sé, cioè Spirito) e si divide in Logica, Filosofia della Natura, Filosofia dello Spirito.
9. La Logica
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In quanto “scienza dell’idea pura, cioè dell’Idea nell’elemento astratto del pensiero”, la Logica (alla quale Hegel ha dedicato l’opera Scienza della logica e la prima parte della Enciclopedia delle scienze filosofiche) prende in considerazione la struttura programmatica o l’impalcatura originaria del mondo. Tale “impalcatura” si specifica in un organismo dinamico di concetti o di categorie i quali, in virtù della identità fra pensiero ed essere, costituiscono altrettante determinazioni della realtà. La logica di Hegel quindi è molto diversa dalla logica tradizionale, di derivazione aristotelica: infatti quest’ultima veniva presentata come “organon”, puro strumento o metodo del pensiero, a cui era giustapposta la realtà esterna; la logica di Hegel invece esprime la realtà stessa nella sua essenza. Pertanto risulta evidente come la logica (= lo studio del pensiero) e la metafisica (= lo studio dell’essere) siano per Hegel la stessa cosa (la posizione antimetafisica dell’Illuminismo e di Kant viene quindi respinta da Hegel) . Hegel afferma anche che la logica é «l’esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura»; i termini Dio e creazione vanno però intesi diversamente rispetto a ciò che essi significano nel contesto della dottrina cristiana: infatti la creazione per Hegel è il processo in cui Dio stesso si trasforma e si arricchisce, e il “Dio dopo la creazione” (di cui si occuperà la filosofia dello Spirito) è qualcosa di superiore rispetto al “Dio prima della creazione”. L’Idea di cui tratta la Logica in ogni caso non è da concepire come una sorta di realtà unica e compatta, ma come Sviluppo e Processo dialettico. I concetti o categorie esposti nella Logica sono successive definizioni dell’Assoluto, progressivamente più ricche, e l’Idea è la totalità dei concetti determinati e dei nessi che li legano e il loro passare dall’uno all’altro in cerchi sempre più alti . La Logica hegeliana si articola dialetticamente in dottrina dell’essere, dottrina dell’essenza e dottrina del concetto; ognuna di queste articolazioni presenta ulteriori triadi interne, che non è possibile trattare analiticamente. Prendiamo quindi in considerazione solo l’incipit della Logica, la triade “Essere, Nulla, Divenire”: il punto di partenza della logica è il concetto dell’essere, il concetto più generale perché assolutamente indeterminato, astratto, privo di ogni possibile contenuto. Ma appunto perché privo di determinazioni , l’essere richiama il suo opposto, il nulla, e fa tutt’uno con esso. La sintesi di questa prima opposizione , di essere e nulla, è il divenire: nel divenire infatti ciò che non è viene ad essere e viceversa (già gli antichi definivano il divenire come passaggio dal nulla all’essere). Il divenire tuttavia non unisce l’essere e il nulla in un’identità astratta ma in un rapporto dialettico, in cui ciascuno dei due passa nell’altro. Tutte le categorie della logica (sia della logica classica, sia della logica trascendentale kantiana) vengono ricostruite con questo procedimento dialettico. Per concludere prendiamo in esame la discussione (contenuta nella Dottrina dell’essenza) dei principi logici di identità (A = A) e di non-contraddizione (A non è non-A) di cui Aristotele aveva fornito la prima enunciazione: secondo Hegel questi principi rappresentano il punto di vista dell’intelletto astratto e unilaterale, ma non il punto di vista della ragione, che è il solo punto di vista della verità. La vera identità, secondo Hegel, non è A = A, ma deve essere intesa “come identità che include le differenze”, vale a dire come sintesi che dialetticamente si realizza togliendo l’opposizione e conservando in sé gli opposti. Quanto al principio di non-contraddizione Hegel obietta che la contraddizione inerisce necessariamente alla concretezza e alla vita: «Il muoversi non consiste se non in un esplicarsi e mostrarsi della contraddizione (...) Qualcosa è dunque vitale solo in quanto contiene in sé la contraddizione» (tutto ciò naturalmente rimanda alla Dialettica)
10. LA FILOSOFIA DELLA NATURA Il testo fondamentale della filosofia della natura di Hegel è la seconda parte dell’ Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Come abbiamo già detto (vedi sopra, a pag. 4 , Le partizioni della filosofia) la Natura è l’Idea “fuori di sé” o Idea “nel suo esser altro”, cioè l’estrinsecazione o l’alienazione dell’Idea nelle realtà spazio-temporali del mondo. Ispirandosi a Fichte, Hegel afferma che anche la natura è Idea, cioè qualcosa che è compreso in quella totalità processuale (in divenire) che è l’Assoluto; non è una realtà estranea, irriducibile allo Spirito. Tuttavia la Natura è “l’idea nella forma dell’essere altro”, nella forma dell’esteriorità che è inadeguata all’Idea. Pertanto Hegel insiste molto sul momento di negatività costituito dalla Natura: “La natura, considerata in sé, nell’idea, è divina; ma nel modo in cui essa è, l’essere suo non risponde al suo concetto: essa è, anzi, la contraddizione insoluta. Il suo carattere proprio è questo, di esser posta, di esser negazione; e gli antichi hanno infatti concepito la materia in genere come un “non ens”. Così la natura è stata anche definita come la decadenza dell’Idea da sé stessa, poiché l’Idea, in quella forma dell’esteriorità, è inadeguata a se stessa.” Hegel parla anche di una “impotenza della natura” che pone dei limiti anche alla comprensione filosofica della natura stessa. Quindi Hegel non condivide l’entusiasmo dei Rinascimentali e soprattutto dei Romantici per la natura. Alla tesi secondo cui in un piccolo evento naturale come in un fiore o in una pagliuzza possono farsi conoscere la verità e Dio, Hegel contrappone la tesi secondo cui il più piccolo evento dello Spirito ci fa conoscere la verità e Dio in modo incomparabilmente superiore, e che perfino il male compiuto dall’uomo è addirittura infinitamente superiore ai moti degli astri e alla innocenza delle piante, in quanto il male è un atto di libertà, la quale costituisce l’essenza dello Spirito.
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La filosofia della Natura si articola in: 1) meccanica, che studia lo spazio, il tempo, la materia e il movimento; 2) fisica, ove dalla rigidità dei corpi inerti si passa ai fenomeni magnetici, elettrici e chimici; e 3) organica, che tratta della natura vegetale e animale. Nell’esposizione della filosofia della Natura Hegel attinge alle conoscenze della scienza dei suoi tempi, tuttavia essa rappresenta un ritorno ad una concezione pre-galileiana della scienza, alla persuasione di poter cogliere l’essenza dei fenomeni naturali, in forte polemica con la “riduzione al quantitativo” attuata da Galileo, Cartesio e Newton.
11. LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO La filosofia dello Spirito è lo studio dell’Idea che, dopo essersi estraniata da sé, sparisce come natura, cioè come esteriorità e spazialità per farsi puro spirito, autocoscienza e libertà. Lo Spirito è l’idea che ritorna a sé dalla sua alterità. L’Idea, intesa come “impalcatura logica del mondo”, era una possibilità astratta, lo Spirito è la vivente attualizzazione e autoconoscenza dell’Idea. Come momento dialetticamente conclusivo, ossia come risultato del processo dell’Assoluto, lo Spirito è la più alta manifestazione dell’Assoluto. Scrive Hegel: “L’assoluto è lo spirito: questa è la più alta definizione dell’assoluto. Trovare questa definizione e comprenderne il significato e il contenuto è stata la tendenza di ogni cultura e di ogni filosofia; a questo punto ha mirato coi suoi sforzi ogni religione e ogni scienza; solo questo impulso spiega la storia del mondo”. Anche la filosofia dello Spirito è strutturata in maniera triadica, e quindi divisa in tre momenti: 1) un primo in cui lo Spirito è sulla via della propria autorealizzazione e autoconoscenza: Spirito soggettivo, 2) un secondo in cui lo Spirito si autorealizza pienamente come libertà: Spirito oggettivo, 3) un terzo in cui lo Spirito si autoconosce pienamente e si sa come principio e come verità di tutto, ed è come Dio nella sua pienezza di vita e di conoscenza: Spirito Assoluto.
12. LO SPIRITO SOGGETTIVO Lo spirito soggettivo è lo spirito individuale (dell’uomo singolo, ancora legato alla finitudine), considerato nel suo lento e progressivo emergere dalla natura, attraverso un processo che va dalle forme più elementari di vita psichica alle più elevate attività conoscitive e pratiche. La filosofia dello spirito soggettivo si divide in tre parti: antropologia, fenomenologia e psicologia. Nella antropologia viene considerata quella fase aurorale della vita cosciente che nell’uomo si manifesta come carattere, temperamento, disposizioni psicofisiche connesse all’età e al sesso, abitudini: la vita spirituale è ancora “invischiata” nella natura e ne conserva in gran parte la meccanicità, la passività. Nella fenomenologia viene riproposto il percorso “Coscienza”, “Autocoscienza”, “Ragione” già visto nell’opera La fenomenologia dello Spirito (cfr.) Nella psicologia vengono studiate le attività proprie dello spirito, cioè la conoscenza (attività teoretica), l’attività pratica e il volere libero. Il volere libero rappresenta il culmine dello Spirito soggettivo: l’anima dell’uomo aspira alla libertà, ma si scontra con il limite della propria finitezza, della propria individualità. Per essere libero, l’uomo deve superare la propria individualità e finitezza, deve quindi entrare in relazione con il mondo e gli altri uomini: per farlo non può restare nella forma dello Spirito soggettivo. Si passa quindi allo Spirito oggettivo.
Precisazioni sul concetto di libertà. Il momento dello Spirito oggettivo costituisce per Hegel la realizzazione della libertà umana. E’ quindi opportuno precisare che cosa intende Hegel per libertà. La libertà per Hegel è la piena realizzazione dell’uomo, realizzazione che si ottiene quando si raggiunge la consapevolezza di essere parte e manifestazione dello Spirito infinito. Lo Spirito è libero perché è Totalità infinita, e nulla gli è esteriore in modo da poterlo condizionare. L’uomo è libero quando comprende che nella sua vita individuale e finita si esprime lo Spirito infinito. Si osservi che la nozione di libertà che qui utilizziamo non ha nulla a che vedere con la nozione di libero arbitrio, che presuppone la sostanziale indipendenza della persona umana dalla trama necessaria delle relazioni che costituiscono l'ordine del mondo (ad esempio: ho la possibilità di agire come voglio, nonostante le influenze che subisco dal mondo esterno). L’idea diametralmente opposta di Hegel è che la persona è libera quando supera la propria finitezza e individualità riconoscendo e accettando di appartenere a una trama necessaria di relazioni.
13. LO SPIRITO OGGETTIVO Per oggettività dello Spirito Hegel intende le istituzioni, esteriori all’individuo, nelle quali l’uomo concretamente vive. Esse sono oggettive perché si presentano al singolo uomo come una realtà data, come qualcosa di concretamente esistente in modo oggettivo. Ad esempio, venendo al mondo, l’uomo si trova a far parte di una famiglia, che è per lui qualcosa di dato, un ente della realtà. In effetti si tratta di una forma molto particolare di oggettività, perché la famiglia non ha alcuna esistenza senza gli individui (soggetti, dunque) che la compongono. L’oggettività dello Spirito è così
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formata dall’estraniazione degli stessi soggetti: le istituzioni, ad esempio la famiglia, sono l’oggettivazione dell’uomo stesso in una realtà che non ha più i tratti soggettivi dell'uomo ma ha regole e caratteristiche sue proprie. Queste istituzioni, in quanto oggettive, si presentano all’uomo come dotate di caratteri che sfuggono alla volontà del singolo: hanno letteralmente leggi oggettive, indipendenti dalla volontà dei soggetti, benché siano costituite da soggetti. Nicolai Hartmann ha chiarito molto bene la concezione hegeliana dello Spirito oggettivo in questa pagina che riportiamo: “ Lo Spirito oggettivo è un elemento della vita in cui noi tutti ci troviamo e al di fuori del quale non abbiamo alcuna esistenza, è per così dire l’aria spirituale in cui respiriamo. Si tratta della sfera spirituale in cui nascita, educazione e circostanza storica ci pongono e ci lasciano crescere: quel quid universale che nella cultura, nei costumi, nella lingua, nelle forme del pensiero, nei pregiudizi e nelle valutazioni predominanti conosciamo come potenza sopraindividuale e tuttavia reale, nei cui confronti il singolo si presenta quasi senza potere e senza difesa, poiché penetra, porta e caratterizza la sua essenza come quella di tutti gli altri. E’ facile divenirne storicamente coscienti (guardando indietro, dal punto di vista degli epigoni): noi parliamo di tendenza e correnti spirituali di un'epoca, dei suoi orientamenti, idee valori, della sua morale, scienza ed arte. Intendiamo questi fenomeni come qualcosa di storicamente reale, che ha il suo nascere e perire e dunque la sua vita nel tempo, non diversamente dagli individui. Siamo però ben lontani dall’attribuire all’individuo storico come tale questi fenomeni, come se fossero soltanto i suoi. Concretamente li afferriamo certamente nel modo più facile nell’uno o nell’altro rappresentante dallo spiccato rilievo, ma sappiamo che si tratta solo di un rappresentante, che quella realtà che in lui si esprime spiritualmente non è la sua e neppure oggettivamente si risolve in lui. Non meno noto è lo spirito oggettivo nella vita del proprio presente. Si parla per esempio chiaramente di un "sapere del nostro tempo". A questo sapere il singolo partecipa, imparando vi si orienta, ma tale sapere non si risolve mai nel sapere del singolo. Innumerevoli intelligenze vi collaborano, ma nessuna lo dice certamente suo. Tuttavia è qualcosa di totale, di comprensivo, di sviluppantesi unitariamente, una realtà con ordinamento e leggi proprie. Non ha spazio in nessuna coscienza singola; tuttavia si tratta di un elemento specificamente spirituale, essenzialmente differente da ogni dimensione cosale, materiale. E con ciò è assolutamente reale, dotato di tutto quel che appartiene alla realtà: nascita nel tempo, crescita, sviluppo, culmine e decadenza. Gli individui sono i suoi portatori. Ma la sua realtà non è quella degli individui, come la sua vita e la sua durata sono diverse dalla loro vita e durata. Continua a sussistere nell’avvicendarsi degli individui, è una realtà spirituale, un essere sui generis, spirito oggettivo ”. Hegel distingue tre momenti della Filosofia dello Spirito oggettivo, il diritto, la moralità e l’eticità.
IL DIRITTO Il soggetto trova dinanzi a sé la legge, come istituzione esteriore che regola attraverso norme di comportamento le sue relazioni con il mondo. La legge definisce ciò che è legittimo fare da ciò che non lo è, e dunque inevitabilmente limita l’assolutezza della volontà del singolo. Tuttavia nel concreto della vita il diritto permette di fatto una maggiore libertà all’uomo, rendendo possibile la vita di relazione e dunque concretamente fattibili cose che, altrimenti, sarebbero sì teoricamente possibili, ma nei fatti del tutto irrealizzabili (si pensi alla vita quotidiana in assenza di regole: un caos, non un’effettiva libertà). Momento iniziale del diritto è la proprietà. La proprietà è il compimento dell’uomo (o, il che è lo stesso, la sua libertà) in una cosa esterna. Hegel dunque teorizza il diritto alla proprietà privata come una necessità dello Spirito per la realizzazione della propria libertà. (Si ponga attenzione a questo punto, che Marx analizzerà accuratamente da una posizione fortemente critica.). Dalla proprietà si passa al contratto (riconoscimento reciproco del diritto di proprietà) che pone l’uomo in relazione con altri uomini. Il momento del diritto, tuttavia, permette solo una forma esteriore di libertà (una libertà nei comportamenti, non nella coscienza dell’uomo), e la legge è sempre vissuta come qualcosa che dall’esterno si impone al singolo, sebbene ciò accada per garantirgli una concreta libertà d’azione. L’uomo non può infatti pienamente identificarsi con la legge, perché essa è pur sempre esteriore alla sua coscienza. Alla legge manca qualcosa, manca cioè la possibilità che l’uomo vi si identifichi: ciò equivale a dire che la legge è esteriore, le manca l’interiorità, le manca la moralità. Momenti dialettici del diritto sono la proprietà che pone l’uomo in rapporto con le cose (quindi Hegel afferma il diritto alla proprietà), il contratto attraverso cui la proprietà viene riconosciuta dagli altri uomini, e che quindi pone l’uomo in rapporto con gli altri uomini, il delitto, che è la negazione del diritto, e la pena, che ristabilisce il diritto, reintegra il colpevole nel diritto; perché la pena sia efficace occorre però che il colpevole non soltanto sconti la pena, ma riconosca interiormente la propria colpa, in tal modo però si passa dalla sfera dell’esteriorità a quella dell’interiorità, e si passa quindi dal diritto alla moralità.
LA MORALITA’ La moralità collega l’azione esteriore dell’uomo alla sua interiorità. Nel momento della moralità Hegel studia il complesso delle leggi interiori della coscienza. L’ambito della moralità è del tutto diverso da quello del diritto, perché la fonte di quest’ultimo è un’autorità istituzionale che regola solo l’aspetto esteriore dell’azione degli uomini senza
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occuparsi del loro mondo interiore. Per la moralità invece è essenziale l’intenzione con cui un’azione viene compiuta e il bene come valore morale è il suo fine. La moralità di Hegel quindi corrisponde all’etica kantiana, che è “formale”, perché dà importanza solo all’intenzione della volontà, non al contenuto, non alla realizzazione effettiva. Tuttavia Hegel considera ancora insufficiente la moralità e critica l’etica kantiana, rimproverandole di essere vuota e unilaterale, di “chiudere l’uomo nel suo interno”. I termini della questione sono questi. Moralità e diritto si contrappongono dialetticamente come legge esteriore e legge interiore. Né l’uno né l’altro dei due momenti, da solo, permette che nell’azione si esprima l’unità della persona, cioè lo Spirito nella sua integrità e concretezza. Perché questo accada è necessario il momento di sintesi tra diritto e moralità, cioè l’eticità.
L’ETICITA’ Nell’eticità la volontà buona si realizza concretamente, diventa qualcosa di esistente. Le norme esteriori del diritto e le norme interiori della moralità sono conciliate nell’azione etica. Si tenga presente che la distinzione tra moralità ed eticità non è tradizionale, viene introdotta solo da Hegel. Col termine eticità Hegel intende riferirsi a tutte quelle istituzioni che permettono tanto una libertà esteriore quanto una libertà interiore, istituzioni dunque nelle quali l’uomo può trovare piena soddisfazione alle sue esigenze di realizzazione e di libertà, perché in esse può identificarsi: può viverle come proprie, pur mantenendo esse il loro rigoroso carattere di oggettività. Le istituzioni dell’eticità cui si riferisce Hegel sono la famiglia, la società civile e lo Stato.
LA FAMIGLIA La prima istituzione dell’eticità è la famiglia, che permette la libertà per i suoi membri nella sfera della vita privata. Nella famiglia l’aspetto naturale (la “relazione dei sessi”) viene elevato alla sfera spirituale, infatti gli impulsi naturali vengono conciliati con i dettami razionali e la volontà individuale viene conciliata con le leggi dello Stato (quindi si realizza la sintesi tra diritto e moralità, infatti la famiglia è sintesi di un moto interiore, l’amore, che si realizza esteriormente in una struttura giuridica, il matrimonio). L’elemento fondante della famiglia è l’amore, la famiglia poi si articola nei momenti del matrimonio, del patrimonio e dell’educazione dei figli. L’abbandono della famiglia da parte dei figli costituisce la negazione della famiglia, da cui scaturisce la società civile.
LA SOCIETA’ CIVILE Il secondo momento dell’eticità è la società civile, cioè quell’insieme di istituzioni nelle quali l’individuo può entrare in relazione con altri uomini sulla base del proprio interesse (che è l’elemento fondante della società, come l’amore lo era della famiglia). Nella società civile gli uomini trovano soddisfazione ai propri bisogni, pur restando estranei gli uni agli altri e pur essendo la società civile essenzialmente antagonistica e conflittuale. La società civile svolge quindi una funzione di mediazione dei bisogni e degli interessi contrapposti, permette cioè che l’incontro-scontro di interessi individuali porti alla soddisfazione dei bisogni di tutti i soggetti sociali (per esempio il mercato permette che i bisogni contrapposti dei venditori e dei compratori trovino soddisfazione proprio incontrandosi); scrive Hegel: «l’egoismo soggettivo si converte nel contributo all’appagamento dei bisogni di tutti gli altri, - nella mediazione dell’individuo per mezzo dell’universale, in quanto movimento dialettico; così che, poiché ciascuno acquista, produce e gode per sé, appunto perciò, produce e acquista per il godimento degli altri.» La società è costituita dai rapporti economico-sociali ma anche dal sistema giuridico-amministrativo che permette di coordinare le attività e gli interessi individuali. Hegel analizza molti aspetti della vita sociale, quali la divisione del lavoro e la divisione della popolazione in classi sociali, l’amministrazione della giustizia e il diritto pubblico, la polizia e la sicurezza sociale, le corporazioni di mestiere.
LO STATO La famiglia e la società civile sono entrambe istituzioni parziali, che permettono la soddisfazione del bisogno etico dell’uomo solo in ambiti particolari (nella sfera privata la famiglia, nella sfera pubblica, ma conflittuale, la società civile). Entrambe non possono tuttavia sussistere come istituzioni se non all’interno dello Stato, che per Hegel è la sintesi globale dell’eticità. Lo Stato infatti è una specie di “famiglia in grande” in cui l’uomo può realizzare pienamente la sua libertà. Lo Stato infatti non si limita a coordinare gli interessi particolaristici (come avveniva nella società civile) ma pone un principio di unità e di appartenenza superiore, e perciò convoglia tutti i particolarismi verso un bene collettivo; in altri termini possiamo dire che lo Stato è l’istituzione in cui la libertà dell’uomo viene realizzata non perché l’uomo vi trova il soddisfacimento dei propri bisogni individuali ma perché vi riconosce un valore superiore (l’ethos del popolo), e condivide il riconoscimento di questo valore superiore con tutti i suoi concittadini. Questa concezione etica dello Stato, visto come incarnazione suprema della moralità sociale e del bene comune, si differenzia nettamente dalla teoria liberale dello Stato (vedi Locke) come strumento indirizzato a garantire la sicurezza
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e i diritti degli individui. Infatti per Hegel una teoria di questo tipo comporterebbe una confusione tra società civile e Stato, ovvero una riduzione dello Stato a semplice tutore degli interessi particolaristici della società civile. Lo Stato di Hegel si differenzia anche dal modello democratico, vale a dire dalla teoria della sovranità popolare (vedi Rousseau), in quanto il popolo, al di fuori dello Stato, è soltanto una moltitudine informe. A simili “astrazioni”, Hegel contrappone la teoria secondo cui la sovranità dello Stato deriva dallo Stato medesimo, perché lo Stato non è fondato sugli individui, ma sull’idea di Stato, ossia sul concetto di un bene universale: pertanto non sono gli individui a fondare lo Stato, ma lo Stato a fondare gli individui, sia dal punto di vista storico-temporale (lo Stato è “prima” degli individui, che nascono nell’ambito di uno Stato già esistente), sia dal punto di vista ideale, in quanto lo Stato è superiore agli individui (così come il tutto è superiore alle parti che lo compongono; in termini hegeliani lo Stato è una realtà “concreta” e la persona singola è una realtà “astratta”). Detto questo, risulta chiaro perché Hegel rifiuta anche la teoria contrattualistica (secondo cui la Stato deriverebbe da un contratto scaturito dalla volontà degli individui), e la teoria giusnaturalistica (secondo cui i diritti naturali esisterebbero prima e oltre lo Stato: per Hegel il diritto esiste solo nello Stato e grazie allo Stato). Lo Stato hegeliano è assolutamente sovrano, ma non per questo è dispotico: infatti Hegel ritiene che lo Stato debba operare solo per mezzo delle leggi, debba essere, quindi, uno Stato di diritto; inoltre identifica la “costituzione razionale” dello Stato con la monarchia costituzionale moderna. Tuttavia Hegel non intende costruire un modello politico di Stato, quanto piuttosto rendere ragione della natura profonda dello Stato, che resta tale indipendentemente dalle realizzazioni concrete degli Stati e dalle loro eventuali imperfezioni e inadempienze. Leggiamo il testo di Hegel: «Lo Stato, in sé e per sé, è la totalità etica, la realizzazione della libertà; ed è finalità assoluta della ragione, che la libertà sia reale. Lo Stato è lo Spirito che sta nel mondo, e si realizza nel medesimo con coscienza, mentre, nella natura, esso si realizza soltanto in quanto altro da sé, in quanto spirito sopito. Solamente in quanto esistente nlla coscienza, in quanto consapevole di se stesso, come oggetto che esiste, esso è lo Stato. (...) L’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato; il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come volontà. Nell’idea dello Stato non devono tenersi presenti Stati particolari, istituzioni particolari; anzi, si deve considerare per sé l’idea, questo Dio reale. Ogni Stato, lo si dichiari anche cattivo secondo i principi che si professano, si riconosca questo o quel difetto, ha sempre in sé, specialmente se appartiene alla nostra epoca civile, i momenti essenziali della sua esistenza. Ma poiché è molto più facile scoprire un difetto, che intendere l’affermativo, si cade facilmente nell’errore di dimenticare, al di sopra dei suoi singoli aspetti, l’organismo interiore dello Stato stesso. Lo Stato non è un’opera d’arte; esso sta nel mondo, e quindi nella cerchia dell’arbitrio, dell’accidentalità e dell’errore; un comportamento cattivo lo può svisare da molti lati. Ma l’uomo più odioso, il reo, un ammalato e uno storpio, sono sempre ancora uomini viventi; l’affermativo, la vita, esiste, malgrado il difetto; e questo affermativo importa, qui.» Emerge da questa pagina una esplicita divinizzazione dello Stato; come vita divina che si realizza nel mondo, lo Stato non può trovare nelle leggi della morale un limite o un impedimento alla sua azione; inoltre non può esistere un organismo superiore allo Stato che possa giudicare le pretese degli Stati e regolare i rapporti tra gli Stati. Il solo giudice o arbitro fra gli Stati è lo Spirito universale, cioé la Storia, la quale ha come suo momento strutturale la guerra. Muovendosi in un orizzonte di pensiero completamente diverso dal cosmopolitismo pacifista dell’Illuminismo, Hegel attribuisce alla guerra non solo un carattere di necessità e inevitabilità, ma anche un alto valore morale. Infatti come «il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole», così la guerra preserva i popoli dalla fossilizzazione alla quale li ridurrebbe una pace perpetua.
14. LA FILOSOFIA DELLA STORIA Se lo Stato è la Ragione che fa il suo ingresso nel mondo, la Storia, che nasce dalla dialettica degli Stati, è il dispiegarsi di questa stessa Ragione nel tempo; nella storia si realizza la coincidenza fra reale e razionale: tutto va come deve andare. Certo dal punto di vista degli individui le cose spesso non vanno come dovrebbero, ma la filosofia della storia non va pensata dal punto di vista degli individui bensì dell’assoluto, e allora si capisce che la storia si svolge secondo un disegno razionale. Hegel dice che la razionalità della storia coincide con il concetto cristiano di Provvidenza, cioè di un governo divino del mondo. Tuttavia la Provvidenza cristiana ha un’origine trascendente e non può essere completamente decifrata e compresa dall’uomo. Invece la razionalità dello storia hegeliana è immanente e la ragione filosofica può comprenderne il fine e i mezzi. Il fine della storia del mondo è che «lo spirito giunga al sapere di ciò che esso è veramente, e oggettivi questo sapere, lo realizzi facendone un mondo esistente, manifesti oggettivamente se stesso». Questo spirito che si manifesta e realizza in un mondo esistente, cioè nella realtà storica, è lo spirito del mondo che si incarna, si particolarizza negli spiriti dei popoli (e quindi negli Stati) che si succedono all’avanguardia della storia. Infatti nella competizione fra i popoli ottiene la vittoria quel popolo (e quello Stato) che ha concepito il più alto concetto dello Spirito (come abbiamo detto sopra, il solo giudice o arbitro fra gli Stati è lo Spirito universale, cioé la Storia, la quale ha come suo momento strutturale la guerra).
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Abbiamo detto che lo Spirito oggettivo è la progressiva realizzazione della libertà. Questa libertà si realizza nello Stato: quindi il fine supremo della storia è una realizzazione sempre più perfetta della libertà per mezzo dello Stato, realizzazione che avviene in tre momenti: 1) il mondo orientale, nel quale uno solo è libero, 2) il mondo greco-romano, nel quale alcuni sono liberi, 3) il mondo cristiano-germanico, nel quale tutti gli uomini sono liberi . I mezzi della storia sono gli individui con le loro passioni: Hegel ammette l’esistenza di individui cosmico-storici o eroi, come Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone, capaci di “fare la storia”, tuttavia questi uomini agiscono per fini particolari, ma c’è un’ astuzia della ragione che si serve delle loro passioni irrazionali e particolari per realizzare un progresso universale: non loro hanno fatto la storia, in realtà, ma in essi è vissuto lo Spirito e ha utilizzato la loro azione per il proprio obiettivo universale (e quando essi hanno realizzato il loro compito, vengono “scartati” dallla storia: Giulio Cesare ucciso, Napoleone esiliato a Sant’Elena ecc.) Commento: Lo storicismo perfetto di Hegel intende il divenire come un progresso continuo in cui la forma successiva è per forza migliore di quella precedente. E’ evidente che la storia così concepita diventa un “tribunale” in cui chi prevale ha sempre ragione; col risultato di giustificare ogni cosa: il male è cancellato, così come è cancellata la responsabilità individuale. E le lacrime e il sangue dei vinti? Finiscono, per usare un’espressione di Lenin, nella “pattumiera della storia”, come un momento dialettico necessario ma destinato ad essere superato dal potere vincente. E il criterio di giudizio storico non sarà il bene o il male, ma l’essere “contro la storia” o “nel senso della storia”, cioè essere ultimamente dalla parte del vincitore.
15. LO SPIRITO ASSOLUTO Lo Stato è “l’ingresso di Dio nel mondo”, il culmine dello Sprito oggettivo, ma esso rimane pur sempre un elemento parziale, finito, del Tutto. Occorre ancora giungere alla comprensione dello Spirito come Totalità. Lo spirito assoluto è il momento il cui l’Idea giunge alla piena coscienza della propria infinità o assolutezza (cioè del fatto che tutto è Spirito e che non vi è nulla al di fuori dello Spirito). Ma questo auto-sapersi dello Spirito non è un’intuizione mistica, ma un processo dialettico rappresentato dall’arte, dalla religione e dalla filosofia. Queste sono, dunque, tre attività attraverso le quali noi conosciamo l’Assoluto e l’Assoluto conosce se stesso. Sono però tre attività poste su livelli diversi. Infatti soltanto la filosofia può ambire al sapere assoluto, perché essa sola utilizza lo strumento adeguato all’oggetto da conoscere: la razionalità dialettica. L’arte e la religione hanno lo stesso contenuto della filosofia, lo Spirito assoluto, ma lo presentano in forma inadeguate: l’arte nella forma dell’intuizione sensibile e la religione nella forma della rappresentazione.
L’ARTE Hegel attribuisce all’arte una funzione conoscitiva (come i Romantici), l’arte permette infatti di arrivare, attraverso le forme sensibili, all’intuizione dell’Assoluto. Infatti l’esperienza estetica è l’esperienza di un’unità profonda tra soggetto e oggetto; pertanto l’arte, attraverso la mediazione di un elemento sensibile (qualcosa di materiale, come una statua, un quadro, un suono) coglie intuitivamente quell’identità tra Spirito e Natura che la filosofia idealistica afferma concettualmente. Il limite dell’arte consiste nel fatto che la forma dell’intuizione sensibile non è in grado di render conto del dispiegarsi dialettico dell’Assoluto. Hegel dialettizza la storia dell’arte in tre momenti: arte simbolica, arte classica e arte romantica. L’arte simbolica (tipica dei popoli orientali) è caratterizzata dallo squilibrio tra contenuto e forma, nel senso che la forma prevale sul contenuto. L’arte classica è caratterizzta da un arminco equilibrio tra contenuto spirituale e forme sensibili. L’arte romantica è caratterizzata da un nuovo squilibrio tra forma e contenuto, nel senso che il contenuto prevale sulla forma, qualsiasi forma spirituale viene ormai avvertita come insufficiente a esprimere la ricchezza dello Spirito. Per questo l’arte romantica prelude alla Morte dell’arte, cioè all’abbandono dell’arte per trovare una più adeguata espressione della spiritualità nella religione e nella filosofia; la “morte dell’arte” non significa l’estinzione di qualsiasi attività artitica, ma il fatto che per l’uomo moderno l’arte non costituisce più il vertice della vita spirituale, non è più (come invece era per gli antichi) il bisogno supremo dello spirito.
LA RELIGIONE La religione è la seconda forma dello spirito assoluto, quella in cui l’assoluto si manifesta nella forma della rappresentazione interiore, che è il modo tipicamente religioso di pensare Dio, e che sta a metà strada fra l’intuizione sensibile dell’arte e il concetto razionale della filosofia (rappresentazione è, per esempio, l’immagine di un Dio creatore, con cui la coscienza religiosa esprime l’Assoluto). Anche la religione ha uno sviluppo storico, dalle antiche religioni naturali, in cui Dio è visto come forza naturale, alle religioni dell’individualità spirituale (giudaica, greca e romana), in cui Dio appare in sembianze umane, al Cristianesimo, in cui Dio appare come “puro spirito”. Per Hegel la religione cristiana è la “religione assoluta”, perché
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essa esprime attraverso i suoi dogmi le stesse verità della filosofia: per esempio la Trinità esprime la triade dialettica di Idea, Natura e Spirito, Gesù Cristo uomo-Dio esprime l’identità di finito e infinito, ecc. Tuttavia anche il cristianesimo presenta i limiti di ogni religione, cioé l’incapacità della forma rappresentativa di esprimere adeguatamente l’Assoluto. Il limite della rappresentazione religiosa consiste nel fatto che essa intende le sue determinazioni come giustapposte, cioè slegate, sconnesse. Per esempio non c’è un nesso logico (secondo Hegel) tra la Trinità divina, la creazione, la provvidenza ecc. In altri termini, la religione non è in grado di pensare dialetticamente lo Spirito, vale a dire di cogliere la ricchezza e la necessità delle sue articolazioni: per la religione l’Assoluto rimane misterioso. Pertanto l’unico sbocco coerente della religione è la filosofia, che ci parla anch’essa dell’Assoluto, ma nella forma finalmente adeguata del concetto.
LA FILOSOFIA Nella filosofia lo Spirito giunge alla piena e concettuale coscienza di se stesso, chiudendo il ciclo cosmico. Hegel ritiene che anche la filosofia sia una formazione storica, ossia una totalità processuale che si è sviluppata attraverso una serie di gradi o momenti concludentisi necessariamente nell’idealismo. In altre parole, la filosofia è nient’altro che l’intera storia della filosofia giunta finalmente a compimento con Hegel. Di conseguenza, i vari sistemi filosofici che si sono succeduti nel tempo non devono essere considerati come un insieme disordinato e accidentale di opinioni che si escludono a vicenda, in quanto ognuno di essi costituisce una tappa necessaria del farsi della verità. «La filosofia che è ultima nel tempo insieme un risultato di tutte le precedentie deve contenere i principi di tutte: essa è perciò la più sviluppata, ricca e concreta» : l’ultima filosofia è quella di Hegel ! E’ nella filosofia di Hegel che l’Assoluto si autoconosce, totalmente e definitivamente!
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