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October 20, 2017 | Author: Justin Stephens | Category: Thought, Socrates, Philosophical Science, Science, Religion And Belief
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Hans Blumenberg Pensosità Ogni forma di vita tende a dare senza indugio e senza scrupolo le risposte alle domande che le si pongono. Lo schema di stimolo/reazione è una semplificazione troppo grande dei dati e dei fatti, eppure sembra essere il segreto ideale per la buona funzionalità del comportamento organico. Solo l'uomo si permette la tendenza opposta. È l'essere che esita. Sarebbe, questa, una omissione che la vita non perdona se lo svantaggio non fosse bilanciato da un grande dispendio di prestazioni il cui risultato è da noi chiamato esperienza. Che non si percepiscano solo segnali ma cose, significa che abbiamo imparato ad attendere quello che di volta in volta si manifesterà ancora. L’indecisione rischiosa di fronte all'alternativa: fuga o attacco può essere stato il primo passo verso la civiltà, non dimostrabile con alcuno scavo, come rinuncia, cioè, alle soluzioni rapide, alle vie più brevi. L’esitazione, misurata sulla norma della semplice funzione, può certo venire intesa come conseguenza di un turbamento: un cambiamento del biotipo o un mutamento di flora e di fauna causato dalle oscillazioni climatiche potrebbe aver turbato, deformato, modificato l'univocità e la sicurezza dei dati del mondo ambientale per il comportamento. La famosa sintesi teorico-conoscitiva della molteplicità delle sensazioni sarebbe sorta dalla mancanza di chiarezza, dalla estraneità del mondo ambientale. Nella esitazione non si trova alcun piacere della funzione, ma si sarebbe potuto trovare il piacere dell'indugiare nel forzato rinvio dell'azione. Ogni nuovo spazio conquistato di sicurezza protetta avrebbe permesso di ampliare l'ambito di questo profitto di piacere. La vita richiede utilità, però concede al suoi favoriti l’esperienza della libertà dallo scopo. È da qui che nasce ogni civiltà. Già nelle sue manifestazioni più primitive, negli ornamenti come nella decorazione sugli oggetti d'uso, è contenuto il gesto dell'acquisto della libertà dallo scopo, della sospensione dell'economia. Dall'esitazione come momentanea perplessità, come pura utilizzazione di un rinvio, può nascere la condizione che ha un valore di vita diverso da quello dell’esame delle scelte. Per questo valore di vita gli equivalenti linguistici appaiono quasi del tutto consunti. Come quello, per esempio, della condizione meditativa della vecchiaia, di cui si parlava una volta, e che non dovrebbe consistere nel meditare su qualcosa così da eliminarne l'esperienza. Anche la pensosità non gode la benevolenza dei contemporanei che esigono almeno una facilità di decisione. Essere pensosi è considerata una perdita di tempo abbastanza oziosa. Il pensare e il pensare sul pensare può forse conferire competenza tecnica; la pensosità non viene reclamata come possesso proprio da nessuna professione o disciplina. L’idea che abbiamo del pensare è che realizzi il collegamento più breve tra due punti, tra un problema e la sua soluzione, fra un bisogno e la sua soddisfazione, 1

fra gli interessi e il consenso ad essi, lungo quella corda del discorso su cui fanciulli ormai critici debbono arrivare a celeri conclusioni ed emancipazioni. Chi è pensoso può contare nel migliore dei casi sull'indulgenza. Non ci si aspetta da lui risultati quando si alza. Quello che fa o piuttosto quello che non fa, non eccita nessuno e meno di tutti lui stesso. Una delle descrizioni dell'essere pensoso è quella del farsi passare per la testa le cose così come vengono. Nella pensosità è contenuta un’esperienza di libertà, e tanto più una libertà del divagare. L’ampiezza dello spettro in cui si reagisce al divagare si estende dai culmini dello humour alla pura disperazione di coloro che in una cosa vorrebbero arrivare alla conclusione. Nessun genere di socialità può permettere ai suoi membri di staccarsi dal complesso delle funzioni. La digressione esige gradi di libertà che non ci si può permettere nel discorso sui poteri del pensare. Le strategie del dialogo non consentono a nessuno di restare pensoso. In questa situazione sarebbe infatti permesso di far passare una cosa per l'altra, di rendere meno esigente la severità dei controlli e quindi di non usare nessuna misura di grandezza nei problemi. Si può dubitare se sia possibile pensare il senso della vita secondo regole tecniche; sarà permesso pensarci anche senza riuscire mai ad avvicinarsi ad una risposta anche solo ad una tra le molte forse possibili, e pure alla fine non possibili. La filosofia viene considerata la metodica disciplina di questi problemi, nel caso limite la loro proibizione, per la dimostrata irraggiungibilità delle risposte in maniera fededegna. Il pensiero regolato appare lontano dalla pura pensosità. Molte figure della filosofia sembrano essere contrarie a questa separazione. Socrate era un pensatore nel senso di questa severità? I suoi risultati sarebbero stati allora i più miseri di tutti quelli possibili: che cosa si sarebbe raggiunto nel sapere che non si sa nulla? E che cosa, nel coinvolgere gli altri, che si credevano in possesso del sapere, nell'attirarli e nello spingerli ironicamente nella perplessità e nella confusione? A meno che non lo s'intenda come il ricondurre il pensiero all’esser pensosi, alla sua origine, al terreno che ha abbandonato ma a cui deve sempre ritornare. Lo si chiami pure, il terreno del mondo-della-vita. In esso la filosofia ha superato ogni dubbio sul proprio diritto all'esistenza, con grande meraviglia di chi la diceva morta. Per me la filosofia non è uguale alla pensosità, ma non si può negare la sua origine da questa e soprattutto la sua volontà di servirla. La sua forma ideale non è soltanto “il pensatore” che si assicura secondo tutte le regole d’arte e che è impedito ad ogni passo dalla pura riflessione sui metodi. Altrimenti Socrate, Diogene, Kierkegaard o Nietzsche sarebbero entrati nella storia della filosofi? Socrate, in carcere, prima della sua morte è ritornato alle favole di Esopo che i greci conoscevano già dalla loro infanzia. Questo piccolo particolare è un segno che per il momento vorrei seguire. La favola di Esopo è una forma di estrema e tuttavia artistica semplicità. Ecco un esempio: “Un vecchio tagliava la legna, se l'era caricata sulle spalle e aveva cominciato a camminare per un lungo tratto. La strada lo aveva stancato. 2

Si tolse allora il carico dalle spalle e chiamò la morte. Che apparve presto e gli chiese perché lo avesse chiamato. Il vecchio rispose: perché tu mi aiuti a rimettere sulle spalle di nuovo il mio carico”. Si sente che la storia è breve, se le si presta attenzione, rende pensosi. Nè più nè meno: pensosi. Ora, le favole che sono state tramandate sotto i1 nome di Esopo non sono finite quando il loro racconto è alla fine. Hanno sentenze su ciò che debbono insegnare o abbiano potuto insegnare: il loro epimythion, la “morale della storia”. Gli umanisti e i filologi si erano accorti della sproporzione o della non proporzione di queste sentenze con le storie a cui sono attribuite. Se ci si è lasciati andare alla pensosità cui la favola induce, la sua “morale”, come risultato da intendere, non è solo spesso estremamente deludente ma addirittura sconcertante e tormentosa nella sua incomprensione. Sebbene quasi nessuna di queste sentenze si possa definire sbagliata, tutte in fondo hanno qualcosa di particolare e di inspiegabilmente improprio e inopportuno. Nel caso della favola che ho scelto, Il vecchio e la morte, è scritto che da tempo antico, forse non antichissimo, la storia (logos) dimostra che ogni uomo è amante della vita (philózoos) e questo anche se le cose gli vanno male. Certamente non è sbagliato, eppure delude. Non è soltanto una triste riduzione del senso della favola, ma un turbamento della pensosità appena risvegliata. È costretta a misurare la banalità della morale, il significato del nudo avvenimento; costretta al dubbio che una tale meravigliosa opera possa davvero essere stata pensata per tale quintessenza. Se si tenta da soli di estrarre dalla favola il messaggio, l'informazione che vorrebbe trasmettere, ci si accorge presto che ogni frase che si pronuncia appiattisce la profondità che può essere compresa, non solo intesa, nella pensosità; esclude troppo perché si possa accettare in questo modo, per quanto sia giusto che non possa esistere alcun grado di miseria della vita che le tolga completamente il suo valore. Vorrei allora fare un passo avanti dicendo che la pensosità, che la favola provoca, è legata alla pensosità che nella favola si manifesta. Il vecchio di cui si racconta non è un “pensatore” che tra il buttare via il carico e l'arrivo della morte abbia mutato una considerazione sul poco valore della vita, ma è qualcuno che nell'indugio impara il profitto che esso soltanto concede. Il vecchio ha gettato via il carico insopportabile perché alla fine è deciso e vuole aspettare la morte, e l’aver gettato il carico gli concede ancora una dilazione, trarre un respiro, guardare il mondo, che sotto il carico aveva osservato, guardarlo ancora una volta per sentire quale sarebbe il prezzo per essere liberato definitivamente dal carico. Mentre sta così pensoso, si avvicina la morte chiamata; e sembra che il vecchio ottenga dalla morte quel prolungamento della dilazione che si era procurato con la sua stanchezza della vita. La favola non dice nulla di quello che era passato in mente al vecchio per commuovere la morte ad aiutarlo nel continuare a portare il carico, quasi fosse stata chiamata per questo. Ma in quello, appunto, che la favola non dice, si concede a noi lo spazio possibile in cui restiamo pensosi. 3

La pensosità si manifesta anche nella sproporzione tra favola e morale. Si vorrebbe quasi credere che gli epimythia siano stati inventati proprio per dimostrare agli ascoltatori e ai lettori come ben poco si ottenga dal trarre una morale dalla storia, dal ricondurla ad una frase conclusiva e comodamente trasferibile, e come invece sia essenziale raggiungere una condizione di pensosità che protegga da queste frasi. La pensosità è una pausa anche rispetto ai risultati banali che il pensiero ci procura quando ci si interroga sulla vita e sulla morte, il senso e il non senso, 1’essere e il nulla. Il mio risultato - e per obbligo di professione ne devo pur dimostrare uno - è che la filosofia debba conservare se non rinnovare qualcosa della pensosità, della sua origine dal mondo della vita. Per questo non deve essere vincolata a particolari aspettative sul tipo della sua utilità. Il legame col mondo della vita sarebbe distrutto se il diritto di interrogare della filosofia fosse limitato dalla normatività delle risposte o anche solo dalla costrizione di porre interrogativi secondo le possibilità delle risposte e della loro disciplina. La filosofia rappresenta solo un risultato più generale in ogni cultura: quello della insopprimibilità dei suoi bisogni e problemi elementari attraverso il suo ipotetico superamento. Cultura è anche rispetto dei problemi cui non possiamo dare risposta e che ci fanno riflettere e ci lasciano pensosi. Heine ha riversato tutta la sua beffarda ironia su Kant dicendo che ha scritto la sua seconda Critica, quella della ragione pratica, con i temi della pensosità: libertà, esistenza di Dio, immortalità, soltanto per far piacere al suo vecchio servitore Lampe. Quando l'audacia dell'ironico beffardo poeta si è dissolta, si resta pensosi: non potrebbe forse essere vero? Non c'è bisogno di fare nomi venerabili. Rispetto al mondo volevamo e vogliamo sapere a che cosa attenerci. E anche se siamo sicuri che non ci saranno da formulare risposte e che le risposte formulate non saranno realizzabili, non ci lasciamo convincere facilmente a rinunciare, solo temporaneamente, solo confidando nell'ersatz (sostituzione) delle risposte. A che cosa attenerci, a questo pensiamo, ora che siamo stati distolti dal non pensarci. Pensosità vuol dire: non tutto resta così semplice e naturale com’era. Questo è tutto. Il testo ripropone il discorso di ringraziamento del filosofo tedesco Hans Blumenberg per il premio di prosa “Sigmund Freud” ed è comparso in Italia per la prima volta nella traduzione di Lea Ritter Santini in “In forma di parole”, Elitropia Edizioni, Reggio Emilia 1981

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