Gandhi - La Mia Vita Per La Liberta - Biografia

August 11, 2017 | Author: samvise | Category: Mahatma Gandhi, Marriage, Persian Language, Sports, Sin
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LA MIA VITA PER LA LIBERTÀ. INDICE PARTE PRIMA 1. NASCITA E FAMIGLIA 2. INFANZIA 3. SPOSO BAMBINO 4 . GIOCARE A FARE IL MARITO 5. LA SCUOLA MEDIA 6. UNA TRAGEDIA (I) 7. UNA TRAGEDIA (II) 8. FURTO ED ESPIAZIONE 9. LA MORTE DI MIO PADRE E LA MIA DUPLICE VERGOGNA 10. ACCENNI DI RELIGIONE 11. PREPARATIVI PER L'INGHILTERRA 12. PARIA 13. FINALMENTE A LONDRA 14. LA MIA SCELTA 15. IL GIOCO DEL GENTILUOMO INGLESE 16. CAMBIAMENTI 17. ESPERIMENTI DI DIETETICA 18. TIMIDEZZA MIO SCUDO 19. IL TARLO DELLA MENZOGNA 20. CONOSCENZA DELLE RELIGIONI 22. NARAYAN HEMCHANDRA 23. LA GRANDE ESPOSIZIONE 24. «NOMINATO» MA POI? 25. MIO SMARRIMENTO PARTE SECONDA 1. RAYCHANDBHAI 2. COME INIZIAI LA MIA VITA 3. IL PRIMO PROCESSO 4. PRIMA VIOLENTA DELUSIONE 5. PREPARATIVI PER IL SUD AFRICA 6. ARRIVO NEL NATAL 7. QUALCHE ESPERIENZA 8. VERSO PRETORIA 9. ALTRE SVENTURE 10. PRIMA GIORNATA A PRETORIA 11. CONTATTI CRISTIANI 12. ALLA RICERCA DI CONTATTI CON GLI INDIANI 13. COSA SIGNIFICA ESSERE UN «COOLIE» 14. PREPARAZIONE ALLA VERTENZA 15. FERMENTO RELIGIOSO 16. L'UOMO PROPONE, DIO DISPONE 17. MI STABILISCO NEL NATAL 18. PROBLEMA RAZZIALE

19. CONGRESSO INDIANO NEL NATAL 20. BALASUNDARAM 21. LA TASSA DI TRE STERLINE 22. STUDIO COMPARATIVO DELLE RELIGIONI 23. PADRONE DI CASA 24. RITORNO A CASA 25. IN INDIA 26. DUE PASSIONI 27. L'INCONTRO DI BOMBAY 28. POONA E MADRAS 29. «TORNA PRESTO» PARTE TERZA 1. SI PREPARA LA TEMPESTA 2. LA TEMPESTA 3. LA PROVA 4. LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA 5. EDUCAZIONE DEI FIGLI 6. SPIRITO DI SACRIFICIO 7. «BRAHMACHARYA» (I) 8. «BRAHMACHARYA» (II) 9. VITA SEMPLICE 10. LA GUERRA BOERA 11. RIFORMA SANITARIA E AIUTI IN TEMPI DI CARESTIA 12. RITORNO IN INDIA 13. DI NUOVO IN INDIA 14. IMPIEGATO E SERVO 15. IL CONGRESSO 16. IL DARBAR DI LORD CURZON 17. UN MESE CON GOKHALE (I) 18. UN MESE CON GOKHALE (II) 19. UN MESE CON GOKHALE (III) 20. A BENARES 21. MI STABILISCO A BOMBAY? 22. PROVA DI FEDE 23. RITORNO IN SUD AFRICA PARTE QUARTA 1. “PENE D'AMOR PERDUTE?” 2. AUTOCRATI ASIATICI 3. L'OFFESA 4. SPIRITO DI SACRIFICIO INTENSIFICATO 5. I RISULTATI DELL'INTROSPEZIONE 6. UN SACRIFICIO PER IL VEGETARIANISMO 7. ESPERIMENTI CON LA CURA DI TERRA E ACQUA 8. UN AVVERTIMENTO 9. IN LOTTA CON LE AUTORITÀ 10. UN RICORDO SACRO E PENITENZA 11. STRETTI CONTATTI CON L'EUROPA 12. CONTATTI CON GLI EUROPEI (CONTINUAZIONE) 13. «INDIAN OPINION» 14. QUARTIERI PER I «COOLIE» O GHETTI?

15. LA PESTE (I) 16. LA PESTE (II) 17. IL QUARTIERE INDIANO BRUCIA 18. INCANTESIMO DI UN LIBRO 19. NASCITA DELLA COMUNITÀ DI PHOENIX 20. LA PRIMA NOTTE 21. POLAK SALTA IL FOSSO 22. COLORO CHE SONO PROTETTI DI DIO 23. UNO SGUARDO ALLA VITA FAMILIARE 24. LA “RIVOLTA” DEGLI ZULÙ 25. TIMORI 26. NASCITA DEL «SATYAGRAHA» 27. NUOVI ESPERIMENTI DIETETICI 28. CORAGGIO DI KASTURBAI 29. «SATYAGRAHA» IN FAMIGLIA 30. VERSO L'AUTOCONTROLLO 31. IL DIGIUNO 32. ESPERIENZE D'INSEGNAMENTO 33. L'EDUCAZIONE LETTERARIA 34. COME SI EDUCA LO SPIRITO 35. LE CATTIVE INFLUENZE 36. DIGIUNO COME PENITENZA 37. INCONTRO CON GOKHALE 38. LA MIA PARTE NELLA GUERRA 39. DILEMMA SPIRITUALE 40. «SATYAGRAHA» IN MINIATURA 41. LA CARITÀ DI GOKHALE 42. CURA DELLA PLEURITE 43. VERSO CASA 44. RICORDI DEL TRIBUNALE 45. PROCEDIMENTI POCO ONESTI? 46. I CLIENTI DIVENTANO COLLABORATORI 47. COME SI SALVÒ UN CLIENTE PARTE QUINTA 1. PRIMA ESPERIENZA 2. A POONA CON GOKHALE 3. ERA UNA MINACCIA? 4. SHANTINIKETAN 5. DIFFICOLTÀ PER I PASSEGGERI DI TERZA CLASSE 6. MANOVRE DI ACCOSTAMENTO 7. KHUMBA MELA 8. LAKSHMAN JHULA 9. FONDAZIONE DELL'ASHRAM 10. FRA L’INCUDINE E IL MARTELLO 11. ABOLIZIONE DELL'IMMIGRAZIONE A TERMINE 12. LA MACCHIA DELL'INDIGOFERA 13. I BUONI BIHARI 14. FACCIA A FACCIA CON L'«AHIMSA» 15. L'ACCUSA VIENE RITIRATA 16. METODI DI LAVORO 17. COMPAGNI 18. PENETRAZIONE NEI VILLAGGI

19. IL BRAVO GOVERNATORE 20. ESPERIENZE DI LAVORO 21. UN'OCCHIATA ALL'«ASHRAM» 22. IL DIGIUNO 23. IL SATYAGRAHA NEL KHEDA 24. "IL LADRO DI CIPOLLE" 25. FINE DEL «SATYAGRAHA» NEL KHEDA 26. IL DESIDERIO DI UNITÀ 27. CAMPAGNA PER IL RECLUTAMENTO 28. ALLE SOGLIE DELLA MORTE 29. LE LEGGI ROWLATT ED IL MIO DILEMMA 30. UNO SPETTACOLO MERAVIGLIOSO! 31, UNA SETTIMANA MEMORABILE! (I) 32. UNA SETTIMANA MEMORABILE! (II) 33. UN ERRORE DI PROPORZIONI HIMALAYANE 35. NEL PUNJAB 36. IL CALIFFATO IN CAMBIO DELLA PROTEZIONE DELLE VACCHE? 37. IL CONGRESSO DI AMRITSAR 38. INIZIAZIONE AL CONGRESSO 39. LA NASCITA DEI «KHADI» 40. FINALMENTE TROVATO! 41. UN DIALOGO ISTRUTTIVO 42. L'ORA SI AVVICINA 43. A NAGPUR COMMIATO M. K. GANDHI

Indice 1. NASCITA E FAMIGLIA I Gandhi appartengono alla casta dei Banja ed in origine sembra fossero speziali. Ma per tre generazioni, cominciando con mio nonno, essi furono Primi Ministri in vari Stati del Kathiawad. Utamchand Gandhi, alias Ota Gandhi, mio nonno, deve essere stato un uomo tutto d'un pezzo: per intrighi di Stato fu costretto a lasciare “Porbandar” dove era Diwan per rifugiarsi a Junagadh; quando lì egli salutò il Nawab con la mano sinistra, qualcuno, rilevando l'apparente scortesia, gli chiese una spiegazione, che fu la seguente: «La mano destra l'oh già impegnata a Porbandar». Ota Gandhi si risposò una seconda volta, essendogli morta la prima moglie, ed ebbe quattro figli dalla prima moglie e due dalla seconda. Durante la mia infanzia non credo di aver mai sospettato o saputo che i figli di Ota Gandhi non fossero tutti figli della stessa madre. Il quinto dei sei fratelli era Karamchand Gandhi, alias Kaba Gandhi, ed il sesto Tulsidas Gandhi. Ambedue questi fratelli furono Primi Ministri a Porbandar, in successione; Kaba Gandhi era mio padre. Faceva parte del Rajasthanik, che ora non esiste più, ma a quei tempi era un organismo molto autorevole nel comporre dispute fra i capi e la loro gente. Kaba Gandhi fu per qualche tempo primo Ministro a Rajkot e poi a Vakaner; morì pensionato dello Stato di Rajkot.

Si sposò quattro volte essendogli sempre deceduta la moglie, ebbe due figli dal primo e dal secondo matrimonio. L'ultima moglie, Putlibai, gli diede una figlia e tre maschi, di cui il più giovane ero io. Mio padre amava la sua gente, era onesto, coraggioso e generoso, ma facile alla collera; entro i dovuti limiti, deve aver apprezzato i piaceri della carne, infatti si risposò per la quarta volta a più di quarant'anni. Ma era incorruttibile ed era noto per la sua scrupolosa imparzialità sia nell'ambito della famiglia che fuori. La sua fedeltà allo Stato era risaputa: quando un assistente politico inglese parlò in maniera offensiva del Thakore Sabeb di Rajkot, suo capo, mio padre lo affrontò coraggiosamente, il funzionario si arrabbiò e gli disse di chiedere scusa, mio padre si rifiutò e fu perciò messo agli arresti per qualche ora. Ma quando il funzionario constatò che Kaba Gandhi non si piegava, ordinò che venisse rilasciato. Mio padre non ebbe l'ambizione di arricchirsi e ci lasciò molto poco. Non aveva educazione, se non quella dettata dall'esperienza, al massimo sarà arrivato fino alla quinta classe gujarati; di storia e geografia era digiuno, ma la sua vastissima esperienza di cose pratiche gli fu di grande aiuto per risolvere le questioni più complesse e per guidare centinaia di uomini. Disciplina religiosa ne aveva pochissima, aveva quel tipo di istruzione basata su frequenti visite ai templi e sull'ascolto di dibattiti sacri, comune a molti indù. L'impressione predominante che mi ha lasciato nella memoria mia madre è quella della sua santità. Era profondamente religiosa, non le sarebbe venuto in mente di sedersi a tavola senza aver prima recitato le preghiere quotidiane, e recarsi all’avheli - il tempio Vaishnava - era un suo rito giornaliero. Per quanto io possa sforzarmi di tornare indietro con la memoria, non mi ricordo che essa abbia mai mancato al Cbaturmas `. Faceva i voti più severi e li manteneva senza vacillare, la malattia non essendo considerata una scusa sufficiente per mitigarli. Ricordo che una volta si ammalò mentre osservava il “Chandrayan”, (Un digiuno durante il quale la quantità quotidiana di cibo ingerita viene limitata o diminuita a seconda del crescere decrescere della luna) ma non interruppe l'osservanza; per lei rispettare due o tre digiuni consecutivi era cosa da nulla, fare un solo pasto al giorno durante il Cbaturmas le era abituale, e non paga, durante un Cbaturmas digiunò a giorni alterni. Durante un altro Cbaturmas fece voto di non nutrirsi se non dopo aver visto il sole. Noi bambini durante quei giorni fissavamo intenti il cielo, ansiosi di annunciare a nostra madre l'apparizione dell'astro, ma tutti sanno che in piena stagione delle piogge il sole spesso non si degna di far capolino; ricordo certi giorni quando, alla sua improvvisa apparizione, ci precipitavamo ad annunciarla a mia madre: lei correva a constatare con i suoi occhi, ma già il fuggitivo era sparito, privandola così del suo pasto. «Non fa niente», diceva allegra, «oggi Dio non ha voluto che mangiassi». E tornava alle sue solite occupazioni. Mia madre aveva un gran buon senso, era al corrente di tutti gli affari di Stato e le dame di corte stimavano molto la sua intelligenza. Spesso andavo in giro con lei, grazie ai privilegi concessi ai bambini, e ricordo ancora le numerose vivaci discussioni che faceva con la madre, rimasta vedova, dei Thakore Saheb. Da questi genitori io nacqui a Porbandar, altrimenti chiamato Sudamapuri, il 2 ottobre 1869. Trascorsi la mia infanzia a Porbandar, ricordo che mi mandarono a scuola, e che non senza difficoltà imparai a fare le moltiplicazioni. Che di quei giorni io non rammenti niente, se non che imparai, in compagnia degli altri ragazzi, ad affibbiare ogni sorta di appellativi ai nostri insegnanti, fa seriamente supporre che la mia mente fosse indolente e la mia memoria immatura. Indice 2. INFANZIA

Avrò avuto sette anni quando mio padre lasciò Porbandar per andare a Rajkot alla Corte del Rajasthanik. Fui mandato alle elementari e ricordo bene quel periodo, anche i nomi dei miei maestri e altri particolari che li riguardano; anche qui, come per Porbandar, sui i miei studi non c'è da dire quasi niente, devo essere stato uno scolaro proprio mediocre. Da questa scuola passai ad una scuola periferica e poi alle medie, avendo già compiuto i dodici anni; non ricordo di aver mai detto una bugia, durante quel breve periodo, né ai miei insegnamenti né ai miei compagni; ero molto timido ed evitavo tutti. Il mio solo interesse erano i miei libri e le lezioni, ed avevo l'abitudine d'arrivare a scuola con la massima puntualità e di tornare a casa di corsa appena terminava la scuola, tornavo a casa proprio correndo, per evitare di dover parlare con qualcuno; avevo anche paura che mi prendessero in giro. Capitò un episodio durante l'esame alla fine del mio primo anno alle medie che vale la pena ricordare. Il signor Giles, Ispettore agli Studi, era venuto a fare una visita di ispezione, e come prova di ortografia, ci aveva dato da scrivere cinque parole, fra le quali «pentola», che io scrissi sbagliata. Il maestro cercò di attirare la mia attenzione toccandomi con la punta della scarpa, ma io non gli badai, non riuscivo proprio a capire che mi voleva far copiare l'ortografia dalla lavagnetta dei miei vicie perché ritenevo che il maestro fosse lì per controllare che non copiassimo. Risultò che tutti i ragazzi, eccettuato me, avevano scritto giuste le parole, dunque l'unico scemo era stato io. Più tardi il maestro cercò di spiegarmi quanto ero stato stupido, ma fu inutile, non riuscii mai ad imparare l'arte di copiare". Tuttavia l'incidente non diminuì affatto il rispetto che nutrivo per il maestro, gli sbagli commessi dagli adulti mi rendevano naturalmente cieco; venni a sapere dopo anche di molte altre debolezze di questo maestro, ma la mia considerazione per lui non ne fu scossa, perché avevo imparato ad ubbidire agli ordini dei miei superiori, non a vagliarne il comportamento. Mi Sono sempre rimasti impressi altri due episodi occorsi nello stesso Periodo- In genere avevo in uggia qualsiasi lettura al di fuori di quella dei libri di testo; i compiti giornalieri bisognava farli perché non mi piaceva farmi rimproverare dall'insegnante così come non mi piaceva ingannarlo, perciò i compiti li facevo, ma spesso con mente distratta. Non riuscendo dunque a far bene nemmeno i compiti, non era proprio il caso che mi mettessi a leggere altri libri, ma gli occhi mi caddero per caso su un volume acquistato da mio padre, Shravana Pitribhakti Nataka (una commedia sulla dedizione di Shravana ai suoi genitori), che lessi con enorme interesse. Più o meno in quel periodo vennero dalle nostre parti degli attori ambulanti, e in una delle scene alle quali assistetti, Shravana portava in pellegrinaggio i suoi genitori ciechi reggendoli sulle spalle con delle cinghie: il libro e la scena mi lasciarono un'impressione incancellabile nella mente. «Ecco un esempio che devi seguire», dissi a me stesso, e mi risuonano ancora oggi nelle orecchie i lamenti atroci dei genitori, quando muore Shravana; anche la melodia struggente mi commosse profondamente, la suonavo su una piccola fisarmonica che mio padre aveva comperato per me. Dopo un'altra rappresentazione successe un fatto simile. Pressappoco in quel periodo avevo ottenuto da mio padre il permesso di assistere ad uno spettacolo recitato da una compagnia drammatica, e quella rappresentazione - Harishchandra - mi prese il cuore, non mi stancavo mai di rivederla. Ma quante volte mi avrebbero permesso di tornarci? Ne ero ossessionato e devo aver recitato l’ Harishchandra per conto mio un'infinità di volte. «Perché tutto non può essere verità, come nell’ Harishchandra?» mi chiedevo giorno e notte; ricercare la verità e subire tutte le prove che aveva subito Harishchandra diventò il mio ideale supremo, credevo letteralmente alla storia di Harishchandra, quando ci ripensavo spesso scoppiavo in lacrime. Oggi il mio buonsenso mi dice che Harishchandra non sarà stato un personaggio storico, eppure sia Harishchandra che Shravana sono per

me esseri realmente esistiti, e sono certo che mi commuoverei come allora se rileggessi quelle storie. Indice

3. SPOSO BAMBINO Vorrei tanto poter fare a meno di scrivere questo capitolo, ma so bene che in questo racconto avrò da ingoiare molti altri bocconi amari, e non posso esimermene; se affermo di essere un adoratore della verità è mio penoso obbligo, a questo punto, parlare del mio matrimonio all'età di tredici anni. Quando mi vedo intorno i giovanetti della stessa mia età che mi sono affidati, e ripenso al mio matrimonio, sono portato ad impietosirmi su me stesso ed a rallegrarmi con loro per essere sfuggiti alla mia sorte, dato che non esiste secondo me nessuna ragione morale che giustifichi delle nozze così assurdamente premature. Che il lettore non mi fraintenda: io fui sposato, non fidanzato, perché nel Kathiawad ci sono due diversi riti, il fidanzamento ed il matrimonio. Il fidanzamento è la promessa preliminare fatta dai genitori del ragazzo e della ragazza di unirli in matrimonio, e non è inviolabile: la morte del ragazzo non impone alla ragazza la vedovanza, si tratta solamente di un accordo stipulato fra i genitori, e non impegna i figli, i quali spesso non ne sono nemmeno informati. Pare che io sia stato fidanzato tre volte, anche se non ne oh saputo niente, ma mi hanno detto che due ragazze scelte per me erano morte una dopo l'altra, ne deduco dunque di essere stato promesso tre volte. Ricordo però vagamente che il terzo fidanzamento avvenne durante il mio settimo anno, ma non rammento di esserne stato informato. In questo capitolo parlerò del mio matrimonio, del quale oh un ricordo nettissimo. Come oh detto, eravamo tre fratelli. Il primo era già sposato, gli anziani decisero dunque di accasare il mio secondo fratello, maggiore di me di due o tre anni, un nostro cugino, che aveva forse un anno più di me, e me, tutti insieme, così facendo, non preoccupandosi del nostro benessere e ancora meno dei nostri Il matrimonio per gli indù non è cosa semplice. Spesso i genitori della sposa e dello sposo per farvi fronte si rovinano. Sprecano tempo e denaro. I preparativi durano mesi, si confezionano vestiti e ornamenti e si stanziano somme per i ricevimenti, si cerca di superarsi a vicenda nella quantità e diversità delle pietanze; le donne, che siano intonate o no, cantano fino a sgolarsi, fino ad ammalarsi, e disturbano la tranquillità dei vicini, i quali però sopportano pazientemente l'agitazione, lo scompiglio e lo spreco ed il disordine che rimangono dopo la festa, perché sanno che verrà un giorno in cui anche loro si comporteranno così desideri essendo in gioco solo i loro comodi e le loro finanze. Era meglio, pensarono i miei, affrontare tutte queste seccature in un’unica e sola volta, meno spese e più écalt. I soldi si sarebbero potuti spendere più allegramente se si trattava di tirarli fuori una volta sola, invece di tre. Mio padre e mio zio erano vecchi tutti e due, eravamo gli ultimi figli rimasti da accasare: probabilmente volevano l'ultima, più bella festa di tutta la vita. Per queste ragioni si decise per un matrimonio triplo, e come oh detto, i preparativi durarono per mesi. Fu solo da questi preparativi che capimmo quale avvenimento-si stava avvicinando; non credo che per me significasse altro che la prospettiva di indossare bei vestiti, e i suoni di tamburi, le processioni nuziali, i pasti succulenti e una ragazza sconosciuta con la quale giocare. Il desiderio carnale sopravvenne dopo. E' mia intenzione gettare tin pietoso velo sulla mia onta, se non per alcuni dettagli che meritano di essere ricordati e ai quali arriverò in seguito, ma anche quelli c'entrano poco con l'idea fondamentale che è argomento di questa storia.

Così mio fratello ed io fummo condotti da Rajkot a Porbandar. Dai preliminari al dramma finale avvennero alcuni episodi divertenti - per esempio il fatto di spalmare completamente i nostri corpi di pomata alla curcuma ma li devo omettere. Mio padre era un Diwan, ma era pur sempre un dipendente, tanto più che godeva dei favori del Thakore Saheb, il quale non volle lasciarlo partire fino all'ultimo istante, e quando si decise, ordinò per mio padre delle speciali diligenze, che ci mettevano due giorni di meno. Ma il destino aveva deciso altrimenti: Porbandar si trova a 120 miglia da Rajkot - in carrozza un viaggio di cinque giorni mio padre percorse la distanza in tre giorni, ma durante la terza tappa la vettura si rovesciò, ed egli subì gravi lesioni. Arrivò tutto bendato. Il suo ed il nostro entusiasmo per l'avvenimento in programma subì un duro colpo, ma ormai la cerimonia doveva aver luogo. Infatti come sarebbe stato possibile cambiare la data del matrimonio? Comunque, nella mia gioia infantile per le nozze dimenticai il mio dolore per le ferite di mio padre. Ero attaccatissimo ai miei genitori, ma ero anche schiavo delle passioni che suscita la carne, non avevo ancora imparato che al rispettoso servizio dei propri genitori bisognerebbe sacrificare la felicità ed il piacere. Ebbene, quasi a punirmi per il mio desiderio di piaceri, capitò un fatto che da allora non cessa di turbarmi la memoria e che narrerò più avanti. Canta Nishkulanand: «Rinunciare alle cose, se non si rinuncia anche al desiderio di esse, è cosa vana, per quanto si tenti di riuscirvi», e ogni volta che canto questa canzone o la sento cantare, mi torna alla memoria quell'amaro infausto incidente che mi riempie di vergogna. Malgrado le sue ferite mio padre si fece forza e partecipò in pieno alle nozze. Se ci ripenso, riesco anche oggi a rivedere con gli occhi della memoria i posti dove si mise a sedere mentre prendeva parte alle diverse fasi della cerimonia: ero ben lontano allora dall'immaginare che un giorno avrei severamente criticato mio padre per avermi sposato bambino, tutto mi sembrava giusto e ben fatto e piacevole. lo stesso ero impaziente di sposarmi, e dato che allora tutto ciò che faceva mio padre mi sembrava al di sopra di ogni critica, il ricordo di quelle cose mi è rimasto fresco nella memoria: ancora oggi ci rivedo, quando sedemmo sul trono matrimoniale, quando eseguimmo il Saptapadi (- I sette passi che una sposa ed uno sposo indù fanno insieme scambiandosi nel contempo promesse di mutua fedeltà e devozione, dopo di che il matrimonio diventa irrevocabile). Quando noi, i novelli marito e moglie, ci ponemmo in bocca a vicenda il dolce Kansar (Un impasto a base di grano che gli sposi mangiano insieme a cerimonia ultimata). E quando cominciammo a vivere insieme, e oh! quella prima notte, due bambini innocenti si tuffavano del tutto ignari nell'oceano della vita. La moglie di mio fratello mi aveva istruito esaurientemente su come mi dovevo comportare la prima notte, non so chi avesse istruito mia moglie, non gliel'oh mai chiesto, né oh voglia di farlo ora, il lettore sia pur certo che il nervosismo ci impediva di affrontarci, eravamo sicuramente troppo timidi. Come le dovevo parlare, e cosa le dovevo dire? I consigli non mi aiutavano molto. Ma in realtà in queste cose le istruzioni non servono, le impressioni lasciateci dalla esistenza precedente sono abbastanza potenti da renderle inutili. Cominciammo a conoscerci a poco a poco, e a parlarci liberamente; dopotutto avevamo la stessa età. Ma ben presto assunsi l’autorità del marito. Indice

4. GIOCARE A FARE IL MARITO Intorno all'epoca del mio matrimonio, circolavano piccoli opuscoli che costavano un pice (Moneta anglo-indiana dei valore di un quarto di anna), o un pie (ora non ricordo esattamente), nei quali si parlava di amore coniugale, di economia, di nozze fra

bambini e di altri argomenti del genere. Ogni volta che mi capitava in mano uno di questi opuscoli, lo leggevo da capo a fondo, ed era mia abitudine dimenticare ciò che non mi garbava e mettere in pratica quello che approvavo: la fedeltà per la vita alla moglie, che era, inculcavano gli opuscoli, dovere del marito, mi rimase impressa per sempre nel cuore; oltretutto la passione della verità era innata in me, il tradirla sarebbe stato perciò fuori questione, e poi a quella tenera età avevo ben poche occasioni di esserle infedele. Ma la lezione di fedeltà ebbe anche un effetto malefico. «Se io devo impegnarmi ad essere fedele a mia moglie, anche lei deve impegnarsi ad essermi fedele», dissi a me stesso, e questo pensiero mi rese un marito geloso, in men che non si dica trasformai il suo dovere nel mio diritto di esigere fedeltà da lei, e per poter esigere, dovevo difendere tenacemente le mie prerogative. Non avevo assolutamente nessun motivo di sospettare della fedeltà di mia moglie, ma la gelosia non ha bisogno di motivi, mi sentivo in dovere di stare sempre all'erta a sorvegliare i suoi movimenti, perciò lei non poteva andare in nessun luogo senza il mio permesso. Ne nacque un'acerba lite, in realtà la mia sorveglianza si traduceva virtualmente in una specie di reclusione, e Kasturbai non era tipo da sopportare una cosa simile, ci teneva ad andare dove le pareva e quando le pareva. Appena esercitai un controllo ancora più severo, lei si prese ancora maggiori libertà, e io mi arrabbiai sempre di più. Il rifiuto di parlarci diventò perciò una cosa normale per noi sposi bambini. Credo che fosse in tutta innocenza che Kasturbai infrangeva le mie proibizioni: infatti come poteva una ragazza senza colpa sopportare che venissero limitate le sue visite al tempio o agli amici? Se avevo il diritto di imporle restrizioni, non godeva di uguale diritto anche lei? Oggi tutto questo mi appare evidente, ma a quei tempi ci tenevo a far valere la mia autorità di marito. Comunque, il lettore non creda che la nostra fosse una vita di continue amarezze, perché le mie severità erano sempre ispirate all'amore, io volevo fare di mia moglie una moglie ideale, il mio scopo era di obbligarla a vivere una vita pura, di insegnarle quello che imparavo io e di fondere le nostre vite ed i nostri pensieri. Io non so se Kasturbai condividesse queste mie ambizioni: era analfabeta, di natura semplice, indipendente, perseverante e, almeno con me, reticente; la sua ignoranza non le pesava e non ricordo che i miei studi l'abbiano mai spinta a tentare anche lei una simile avventura, perciò immagino che la mia ambizione non fosse condivisa. Ma siccome la mia passione era completamente concentrata su di lei, volevo essere corrisposto - anche se non vi era reciprocità, non poteva esservi solo monotona infelicità, dato che almeno da una parte vi era un amore vivo. Devo dire che l'amavo appassionatamente, pensavo a lei anche quando ero a scuola, e il pensiero della sera e del nostro prossimo incontro non cessava di ossessionarmi. La separazione mi era insopportabile, poi la tenevo sveglia fino a notte alta con le mie chiacchiere. Se oltre a questa passione divorante non avessi avuto anche un fortissimo senso del dovere, sarei caduto in preda alla malattia e alla morte prematura, o sarei sprofondato in una triste vita. Ma ogni mattina c'erano da sbrigare le consuete mansioni, ed esimermene con delle bugie mi era impensabile. Fu il mio amore della verità che mi salvò da molti guai. Oh già detto che Kasturbai era analfabeta; io ero molto desideroso di istruirla, ma il mio amore sensuale non mi dava requie. E poi dovevo impartirle gli insegnamenti suo malgrado, e per giunta di notte; non osavo incontrarmi con lei* in presenza degli anziani, e ancora meno parlarle, dato che allora vigeva nel Kathiawad, e entro certi limiti è così ancora oggi, una speciale, bizzarra, inutile e barbara forma di Purdah. Dunque, le circostanze ci erano avverse. Devo confessare che la maggior parte degli sforzi da me compiuti durante la nostra gioventù per istruire Kasturbai finirono nel nulla, e quando mi destai dal sonno concupiscente mi ero già lanciato nella vita pubblica e non mi rimaneva molto tempo libero. Non sono neanche riuscito a farla istruire da insegnanti privati, perciò Kasturbai oggi riesce a mala pena a scrivere una modesta letterina e a capire il gujarati parlato semplicemente. Sono certo che se il

mio amore per lei non fosse stato macchiato di sensualità, sarebbe oggi una signora istruita; perché allora sarei riuscito a vincere la sua avversione per gli studi: so che nulla è impossibile a chi ama d'amore puro. Oh accennato ad una circostanza che mi salvò più o meno dai pericoli dell'amore passionale. Ve n'è un'altra degna di nota, e i molti esempi mi hanno convinto della verità che Iddio redime in definitiva colui che persegue la purezza. Oltre alla crudele usanza delle nozze fra bambini, la società indù ha un'altra usanza che un po' attenua i danni della precedente: i genitori non permettono alle giovani coppie di rimanere insieme a lungo, la sposa bambina passa più della metà del suo tempo a casa del padre, e così succedeva anche a noi. Cioè, durante i primi cinque anni di vita matrimoniale (dall'età di 13 a quella di 18 anni) certamente non abbiamo vissuto insieme per un periodo complessivo di oltre tre anni. Coabitavamo da non più di sei mesi, quando mia moglie veniva richiamata dai suoi genitori; a quei tempi questi richiami ci erano molto sgraditi, ma ci salvarono entrambi. All'età di diciotto anni io andai in Inghilterra, e ci fu allora un periodo di separazione lungo e salutare, e anche dopo il mio ritorno dall'Inghilterra era raro che rimanessimo insieme per più di sei mesi, perché io dovevo andare su e giù da Rajkot a Bombay. Poi arrivò la chiamata dal Sud Africa, che mi trovò già abbastanza libero dagli appetiti carnali. Indice

5. LA SCUOLA MEDIA Oh già detto che quando mi sposai frequentavo le medie. Noi tre fratelli andavamo alla stessa scuola, mio fratello maggiore era molto più avanti, e il fratello che si era sposato insieme a me era più avanti di me di un anno. Per colpa del nostro matrimonio perdemmo tutti e due un anno, anzi il risultato fu ancora più grave per mio fratello, perché egli abbandonò gli studi completamente, e Dio solo sa quanti giovani si sono trovati nel suo stesso frangente. Succede solo nella nostra società indù attuale che gli studi e il matrimonio procedano così di pari passo. Proseguii i miei studi. Alle medie non mi ritenevano un asino, e i miei insegnanti mi hanno sempre trattato con affetto. Ai genitori venivano spedite una volta all'anno pagelle che li informavano sugli studi e la condotta e io non ebbi mai brutte pagelle, anzi quando terminai la seconda vinsi dei premi. Durante il quinto e sesto anno ottenni borse di studio di quattro e dieci rupie rispettivamente, un risultato che attribuisco più alla mia buona stella che alle mie capacità, perché le borse di studio non erano accessibili a tutti, ma solo ai migliori alunni scelti fra quelli della Divisione Sorath del Kathiawad, e a quei tempi non ci saranno stati molti ragazzi di Sorath in una classe di quaranta a cinquanta alunni. Mi ricordo che non tenevo in gran conto la mia bravura ogni qualvolta vincevo premi e borse di studio cadevo dalle nuvole, ma difendevo molto gelosamente la mia reputazione. Il minimo fallo che commettevo mi faceva venire le lacrime agli occhi; se meritavo un rimprovero, o almeno così pareva al maestro, questo mi era insopportabile. Una volta ricordo di aver subìto una punizione corporale; non fu tanto la punizione che mi dispiacque, quanto il fatto di averla meritata, e piansi amaramente. Fu quando ero in prima o in seconda; un altro incidente simile capitò l'anno in cui ero in settima. Il direttore di allora era Dorabji Edulji Gimi, che era amato dai ragazzi perché sapeva imporre la disciplina, ed era un uomo metodico e un buon insegnante. Aveva stabilito che per i ragazzi delle classi superiori ginnastica e cricket fossero obbligatori; a me non piacevano né l'uno né altro, e prima che fosse reso obbligatorio non partecipai mai a nessuno sport, cricket o pallone che fosse. Una delle ragioni di questo mio disinteresse era la mia timidezza, e ora mi render conto

che sbagliavo. Ma allora ero erroneamente convinto che la ginnastica non c'entrasse affatto con l'educazione mentre oggi so che nel programma di studi l'esercizio fisico dovrebbe andare di pari passo con lo sviluppo intellettuale. Devo aggiungere tuttavia che l'astensione dagli sport non mi aveva danneggiato: avendo letto libri che parlavano dell'effetto salutare delle lunghe passeggiate all'aria aperta e essendomi piaciuta l'idea, avevo preso l'abitudine di camminare, che mi è rimasta, e grazie a queste passeggiate oh una costituzione abbastanza robusta. . Alla base della mia avversione per la ginnastica vi era il mio vivo desiderio di fare da infermiere a mio padre, e appena terminava la scuola, mi precipitavo a casa e incominciavo a servirlo. Per forza di cose questo servizio richiedeva esercizio fisico; chiesi al signor Gimi di dispensarmi dalla ginnastica in modo da essere più libero di assistere mio padre, ma non ci voleva sentire. Accadde che un sabato, quando avevamo scuola di mattina, dovetti poi da casa tornare a scuola per la ginnastica alle quattro di pomeriggio. Non avevo orologio e le nuvole mi ingannarono, quando arrivai a scuola i ragazzi se ne erano già andati tutti. Il giorno dopo, esaminando il foglio di presenze, Gimi vide che risultavo assente, e io, interrogato sul motivo della mia assenza, gli dissi cosa era accaduto, ma non volle credermi e mi ordinò di pagare un'ammenda di una o due anna ' (ora non ricordo con esattezza). Mi si accusava di mentire! Ne fui addoloratissimo. Come dimostrare la mia innocenza? Era impossibile, e piansi, profondamente sconfortato. Capii che un uomo sincero deve saper anche essere scaltro. Fu la prima ed ultima volta che commisi una negligenza a scuola, e ricordo vagamente che alla fine riuscii a farmi condonare l'ammenda. Naturalmente fu ottenuta anche l'esenzione dalla ginnastica, perché mio padre stesso scrisse al direttore dicendogli che mi voleva a casa dopo la scuola. Mentre l'aver trascurato lo sport non mi ha danneggiato, sto ancora scontando un'altra trascuratezza. Non so come mai, mi ero messo in testa che la bella calligrafia non fosse parte integrale dell'educazione, e finché non andai in Inghilterra non cambiai idea. Poi quando più tardi, specialmente in Sud Africa, vidi come scrivevano bene gli avvocati ed i giovani nati ed educati lì, mi vergognai e mi pentii della mia sbadataggine, capii che la brutta calligrafia dovrebbe essere considerata indice di scarsa educazione, cercai di migliorare la mia, ma era troppo tardi, non riuscii mai a riparare la stoltezza commessa in gioventù. Che il mio esempio serva ai giovani, uomini e donne, affinché capiscano che una bella calligrafia è parte integrante dell'educazione;. oggi sono del parere che bisognerebbe insegnare ai bambini l'arte di disegnare prima che imparino a scrivere. Che il bambino impari a scrivere le lettere dell'alfabeto dopo averle osservate come osserva altre cose, per esempio i fiori, gli uccelli, ecc. e gli si faccia imparare a scrivere solo quando avrà imparato a disegnare le cose: allora scriverà benissimo. Altri due ricordi del mio periodo scolastico vale la pena di raccontare. Avevo perso un anno a seguito del mio matrimonio, e il maestro voleva che rimediassi facendo due classi in una - privilegio concesso abitualmente ai ragazzi studiosi; perciò rimasi solo sei mesi in terza e passai in quarta dopo gli esami che precedono le vacanze estive. A partire dalla quarta la maggior parte delle materie veniva insegnata in inglese, mi trovai completamente in alto mare: per esempio la geometria era una materia nuova per la quale non ero molto portato e il doverla studiare in inglese me la rendeva ancora più difficile. Il maestro spiegava la materia molto bene, ma non riuscivo a seguirlo, spesso mi scoraggiavo e pensavo di tornare in terza, ritenendo che il voler concentrare in un solo anno lo studio di due era voler troppo, ma avrei non soltanto fatto una brutta figura io, l'avrei fatta fare anche al maestro, dato che egli fidandosi della mia diligenza, aveva caldeggiato la mia promozione. Per paura del doppio disonore rimasi perciò al mio posto. Quando, con grande sforzo, arrivai al tredicesimo teorema di Euclide, improvvisamente capii quanto fosse estremamente semplice la materia: un soggetto che imponeva puramente e semplicemente di fare

uso delle proprie capacità di ragionamento non poteva essere difficile. Da quella volta oh trovato la geometria facile ed interessante. Invece il sanscrito si rivelò un osso più duro; in geometria non c'era niente da imparare a memoria, mentre mi sembrava che il sanscrito fosse tutto da mandare a mente. Anche questa materia si iniziava in quarta. Arrivando in sesta mi scoraggiai: l'insegnante ci metteva a dura prova, nell'intento, secondo me, di spremere il massimo dagli scolari; c'era una specie di rivalità fra i maestri di sanscrito e di persiano, ma il maestro di persiano era indulgente. Fra loro i ragazzi si raccontavano che la lingua persiana era molto facile e che il maestro di persiano era buono e gentile con gli studenti. La "facilità" mi fece gola ed un giorno assistetti alla lezione di persiano. il maestro di sanscrito si dispiacque, mi chiamò a sé e mi disse: «Come puoi dimenticare di essere il figlio di un padre Vaishnava? Non vuoi imparare la lingua della tua religione? Se ti trovi in difficoltà, perché non vieni da me? lo voglio insegnare a voi studenti il sanscrito come meglio posso. Procedendo, vi troverai cose di grande interesse, non dovresti scoraggiarti, torna a frequentare le lezioni di sanscrito». La sua gentilezza mi imbarazzò, non potevo non tener conto dell'affetto che egli mi dimostrava, e oggi non posso non ricordarmi con riconoscenza di Krisbnashankar Pandya, perché se non sapessi quel poco di sanscrito che oh imparato allora, mi sarebbe stato difficile interessarmi ai nostri sacri testi. Mi dispiace anzi enormemente di non essere riuscito a imparare la lingua più a fondo, perché da allora oh capito che tutti i ragazzi e le ragazze indù dovrebbero avere una buona conoscenza del sanscrito. Oggi sostengo che l'indù, il sanscrito, il persiano, l'arabo, l'inglese, oltre naturalmente ai dialetti, dovrebbero essere inclusi nei programmi di studi superiori indiani, e questa lunga lista non deve spaventare. Se il nostro metodo di insegnamento fosse più sistematico, e se i ragazzi non avessero il fastidio di dover imparare le materie in una lingua straniera, sono certo che l'apprendimento di tutte queste lingue non sarebbe più un'impresa molesta ma una vera gioia, dato che la conoscenza scientifica di una lingua facilita lo studio delle altre. Veramente l'indù, il gujarati ed il sanscrito sono praticamente una lingua sola, e anche il persiano e l'arabo sono uguali. Anche se il persiano appartiene alla famiglia linguistica ariana, e l'arabo a quella semitica, il persiano e l'arabo sono parenti stretti, perché ambedue fanno risalire il loro pieno sviluppo all'ascesa dell'Islam. Non oh considerato l'urdu una lingua a sé, perché ha adottato la grammatica indù e ha un vocabolario soprattutto persiano e arabo, tanto è vero che per imparare bene l'indù bisogna sapere il persiano e l'arabo, così come per imparare bene il gujarati, l'indù, il bengali e il marathi bisogna sapere il sanscrito. Indice

6. UNA TRAGEDIA - (1) Tra i Pochi amici che avevo alle medie ne ebbi due in diversi Periodi, che potrei definire in timi. Una di queste amicizie non durò a lungo anche se non oh mai tradito il mio amico, fu lui a lasciare me perché strinsi amicizia con l'altro. Quest'ultima amicizia la considero una tragedia nella mia vita; durò a lungo la coltivai con intenti riformatori. Il compagno era un amico di mio fratello maggiore, erano in classe insieme. Conoscevo le sue debolezze, ma lo ritenevo un amico fedele, mentre mia madre, mio fratello maggiore e mia moglie Mi avvertirono che era un cattivo compagno. Ero troppo orgoglioso per dar retta alle parole di mia moglie ma non osavo andar contro al parere di mia madre e di mio fratello maggiore, feci però valere le mie ragioni dicendo loro: «So che ha i difetti di cui lo accusate ma non

conoscete le -sue virtù; egli non può traviarmi, io sto insieme a lui allo scopo di migliorarlo, perché sono certo che se cambia abitudini diventerà una bravissima persona. Vi prego di non preoccuparvi per me». Non credo che li convinsi, ma accettarono le mie spiegazioni e mi lasciarono fare quello che volevo. Adesso so che mi sbagliavo, un riformatore non può permettersi di fare amicizia con colui che intende riformare, la vera amicizia scaturisce da una identità di sentimenti difficile da raggiungere in questo mondo. Solo l'amicizia tra nature simili può essere giusta e duratura. Gli amici si influenzano a vicenda, perciò fra amici è difficile riuscire a migliorarsi. lo sono del parere che bisogna evitare le intimità esclusive; perché l'uomo impara i vizi molto prima delle virtù, e colui che vuole essere amico di Dio deve restare solo, o fare amicizia con il mondo intero. Forse mi sbaglio, ma il mio tentativo di coltivare una amicizia intima si dimostrò un fallimento. Un vento di "riforma" soffiava sii Rajkot quando incontrai questo amico per la prima volta. Mi informò che segretamente molti nostri insegnanti mangiavano carne e bevevano vino, citò molte persone note di Rajkot come aderenti alla stessa compagnia, mi disse che vi erano anche ragazzi delle medie. Ne fui sorpreso ed addolorato, chiesi al mio amico una spiegazione ed egli mi disse: «Siamo un popolo debole perché non mangiamo carne, ali inglesi sono in grido di dominarci, perché seno carnivori. Tu sai quanto io sia forte, e come corro veloce, è perché sono carnivoro. I carnivori non hanno foruncoli o tumori, e anche se a volte gli vengono, poi guariscono rapidamente. I nostri insegnanti e le altre insigni persone che mangiano carne non sono dei pazzi ne conoscono le virtù Dovresti seguirne l'esempio; l'unica è provare, prova e vedrai che forza ti viene». Queste argomentazioni in favore della carne non mi furono esposte in una sola volta, sono il succo di un discorso lungo ed elaborato che il mio amico tentava ripetutamente di farmi accettare. Mio fratello maggiore aveva già capitolato, perciò sosteneva la tesi del mio amico: vicino a mio fratello ed al mio amico apparivo indubbiamente gracilino, erano entrambi più resistenti, fisicamente più robusti e più arditi. Le imprese del mio amico mi affascinavano, egli riusciva a correre a lungo a velocità sorprendente, era bravo nel salto in alto e in lungo, resisteva a qualsiasi punizione corporale. Spesso ostentava davanti a me le sue prodezze e dato che sempre ci stupiamo nel ravvisare negli altri le virtù di cui siamo privi, io stupivo davanti alle prodezze del mio amico. Ne risultò una gran voglia di somigliargli. Saltavo e correvo a stento, perché non potevo diventare anch'io forte come lui? Inoltre, ero vigliacco. Ero ossessionato dalla paura di ladri, spettri e serpenti, di notte non osavo arrischiarmi fuori della porta di casa, l'oscurità mi terrorizzava, mi era quasi impossibile riuscire a dormire al buio, incominciavo ad immaginare che da una parte arrivassero gli spettri, da un'altra i ladri e da un'altra ancora i serpenti, perciò non sopportavo di dormire senza un lume in camera. Come confessare queste paure a mia moglie, non più bambina, ma già quasi fanciulla, che mi dormiva accanto? Sapevo che era più coraggiosa di me, e mi vergognavo. Lei non aveva paura dei serpenti e degli spettri, andava ovunque anche al buio. Il mio amico conosceva tutte queste mie debolezze. Mi diceva che sapeva stringere in mano serpenti vivi, sfidare i ladri e che agli spiriti non ci credeva, tutto, naturalmente perché mangiava carne. Fra noi scolari era in voga una filastrocca composta dal poeta gujarati Narmad, che faceva così: ”Guardate il Potente inglese, Domina il Piccolo indiano, Perché essendo carnivoro, E’ alto cinque cubiti.”

Gli effetti non tardarono a farsi sentire. Ero vinto, finii per convincermi che il mangiare carne era giusto, che sarei diventato forte e coraggioso, e che se l'intero Paese fosse diventato carnivoro si sarebbero potuti dominare gli inglesi. Fu dunque fissato un giorno per iniziare l'esperimento, che doveva avere luogo segretamente. I Gandhi erano Vaishnava, i miei genitori erano particolarmente osservanti, si recavano regolarmente al Haveli, in famiglia avevamo persino i templi nostri. Nel Gujarat anche il jainismo era forte, la sua influenza si faceva sentire sempre e ovunque. In nessun altro luogo dell'India o di altri Paesi esisteva una opposizione e un'avversione così estrema contro l'alimentazione a base di carne da potersi paragonare a quella che regnava nel Gujarat fra i Jain e i Vaishnava. All'ombra di queste tradizioni nacqui e fui allevato; ero estremamente attaccato ai miei genitori, mi rendevo conto che se fossero venuti a sapere che avevo mangiato carne, sarebbe stato per loro un colpo mortale. Data la mia passione per la verità, ero prudentissimo. Non posso negare che sapevo che se incominciavo a mangiare carne dovevo ingannare i miei genitori, ma la mia mente era avida di "riforme": non si trattava di golosità, ignoravo che la carne fosse particolarmente appetitosa. Desideravo essere forte e coraggioso e volevo che lo fossero anche i miei connazionali, tanto da sconfiggere gli inglesi e liberare l'India. Non avevo ancora mai udito la parola "Swaraj", ma sapevo cosa era la libertà. Ero dominato dalla frenesia della "riforma", e essendomi assicurata la segretezza, mi persuasi che nascondere il fatto ai miei genitori non era violare la verità. Indice

7. UNA TRAGEDIA - (II) Arrivò il giorno. IL difficile descrivere esattamente le mie condizioni, da un lato ero animato dallo zelo per la “riforma” e dalla novità del passo che stavo per compiere, dall'altro c'era la vergogna di doversi nascondere come un ladro. Non so quale sentimento predominasse. Cercammo un posto solitario in riva al fiume e lì, per la prima volta in vita mia, vidi carne. C'era anche pane cotto da un fornaio, non mi piacquero né l'una né l'altro. La carne di capra era dura come cuoio, non riuscii proprio a mangiarla, mi sentii male e dovetti smettere. Dopo, passai una notte tremenda, mi ossessionò un incubo spaventoso: quando stavo per assopirmi mi pareva che una capra viva mi belasse dentro e saltavo su pieno di rimorsi. Ma poi mi ripetevo che il mangiare carne era un dovere e mi consolavo un po'. E mio amico non era tipo da arrendersi facilmente, si mise a cucinare varie ghiottonerie a base di carne, condendole a dovere. E per mangiare, non ci recavamo più al luogo nascosto in riva al fiume, ma in un edificio statale, con tanto di salone da pranzo fornito di tavoli e di sedie che il mio amico aveva prenotato contravvenendo al volere del capocuoco del locale. Queste astuzie furono coronate da successo, vinsi l'avversione per il pane, dimenticai la compassione per le capre e diventai ghiotto di pietanze a base di carne, se non proprio della carne stessa, per circa un anno. Ma in tutto partecipammo a non più di mezza dozzina di festini carnivori; perché l'edificio statale non era sempre disponibile e inoltre la frequente preparazione di costosi saporiti piatti di carne presentava un'ovvia difficoltà: io non avevo soldi per finanziare questa "riforma", perciò toccava sempre al mio amico arrangiarsi, e non so come facesse, ma ci riusciva, deciso com'era a tendermi carnivoro. Dovevano essere pochi anche i soldi di cui disponeva lui, comunque, perciò i festini erano necessariamente rari e molto intervallati.

Ogni volta che mi capitava di partecipare a questi furtivi banchetti, poi pranzare anche a casa era impossibile; naturalmente mia madre mi diceva di venire a tavola e desiderava sapere perché non volessi mangiare, io le rispondevo: «Oggi non oh appetito; devo aver digerito male». Escogitavo questi pretesti non senza rimorsi, sapevo di mentire, e di mentire a mia madre, sapevo anche che se mia madre e mio padre fossero venuti a sapere che ero diventato carnivoro, ne sarebbero stati profondamente addolorati. Questo pensiero mi dilaniava il cuore. Perciò mi dissi: «Anche se è essenziale mangiare carne, ed è anche essenziale lanciare una "riforma" alimentare in questo Paese, ingannare padre e madre e dir loro bugie è peggio che non mangiare carne, perciò finché vivono loro, di mangiare carne non se ne parla più. Quando saranno morti e io avrò conquistata la mia libertà, mangerò carne apertamente, ma fino a quel momento me ne asterrò». Comunicai perciò questa decisione al mio amico, e da allora non oh mai più fatto ritorno alla carne. I miei genitori non seppero mai che due dei loro figli erano stati carnivori. Rinunciai alla carne, tanto era sincero il mio desiderio di non mentire ai miei genitori, ma non rinunciai alla compagnia del mio amico; la mia smania di riformarlo mi era stata estremamente nociva, ma io non me ne rendevo assolutamente conto. La stessa compagnia voleva indurmi ad essere infedele a mia moglie, ma mi salvai per il rotto della cuffia. Un giorno il mio amico mi condusse davanti a un bordello, e mi spinse ad entrare impartendomi le raccomandazioni necessarie. Era tutto combinato, il prezzo era stato già pagato. Entrai nel luogo di perdizione, ma Dio nella sua infinita misericordia mi difese contro me stesso. Rischiai di diventare cieco e sordo in quell'antro di, vizi. Mi sedetti accanto alla donna sul letto, ma non pronunciai sillaba. Naturalmente le scappò la pazienza e mi mandò via, coprendomi di ingiurie e di insulti. Allora mi parve di essere stato offeso nella mia virilità e per la vergogna avrei voluto sprofondare sotto terra, ma da quel giorno non oh mai cessato di rendere grazia a Dio di avermi salvato. Ricordo che mi capitarono altri quattro episodi analoghi, e quasi ogni volta fui salvato dalla mia buona stella più che dai miei sforzi. Dal punto di vista puramente etico, tutte queste occasioni vanno interpretate come cedimenti morali; perché il desiderio carnale ci fu ed è come se avessi commesso il fatto, ma generalmente si considera innocente l'uomo che evita di commettere fisicamente un peccato, e io mi salvai solo in questo senso. Certe azioni, se evitate, diventano una manna sia per l'uomo che si salva che per coloro che lo circondano. L'uomo, appena tornato sulla retta via, è grato alla misericordia divina che l'ah aiutato. Sappiamo che un uomo cade spesso in tentazione, per quanto opponga resistenza, ma sappiamo anche che la Provvidenza interviene spesso e suo malgrado lo salva. Come avviene tutto ciò fino a che punto l'uomo è libero e fino a che punto decidono le circostanze, quando conta il libero arbitrio e quando interviene il fato - questi sono misteri e tali rimarranno. Ma proseguiamo con la storia. Nemmeno allora mi decisi ad aprire gli occhi sulla perfidia di cui dava prova il mio amico, ingoiai molti altri bocconi amari, finché non mi caddero proprio le scaglie dagli occhi constatando di persona alcuni suoi difetti che non mi aspettavo, e di cui parlerò dopo; ora procediamo in ordine cronologico. Tuttavia di una cosa devo parlare adesso, perché successe in quel periodo: senza dubbio litigavo con mia moglie anche perché frequentavo quell'amico. Ero un marito affezionato ma geloso, ed il mio amico gettò olio sul fuoco dei miei sospetti su mia moglie. Non mettevo mai in dubbio la veracità di quanto egli mi diceva, e non mi sono mai perdonato la violenza di cui mi resi colpevole offendendo spesso mia moglie perché credevo all'amico. Forse solo una moglie indù poteva sopportare queste durezze, ed è per questo che considero la donna l'incarnazione della tolleranza. Un servo ingiustamente accusato può licenziarsi, per gli stessi motivi un figlio può abbandonare il tetto paterno, e un amico può troncare l'amicizia; la moglie, se sospetta il marito, se ne rimane zitta, ma se è suo marito a sospettare lei, allora è

rovinata. Dove può andare? Una moglie Indù non può chiedere il divorzio in tribunale, a lei la legge non offre rimedi. E io non riesco a dimenticare e a darmi pace di aver reso mia moglie così infelice. Fui libero dal tarlo del sospetto solo quando conobbi l’Ahims in tutti i suoi aspetti. Capii allora la meraviglia del Brahmacharya e mi resi conto che la moglie non è una schiava a vita del marito, ma la sua compagna ed il suo appoggio, ed è al suo fianco nella gioia e nel dolore, libera come il marito di scegliere la sua strada. Quando ripenso a quei tristi giorni di dubbi e sospetti, la mia stoltezza e la mia crudeltà sensuale mi colmano di ripugnanza, e deploro il mio cieco attaccamento al mio amico. Indice

8. FURTO ED ESPIAZIONE C'è da raccontate ancora qualche mia mancanza commessa durante quel periodo carnivoro e anche prima, cioè appena sposato o poco dopo. Un mio parente ed io cominciammo a fumare con gusto: non che ritenessimo che fosse utile fumare, o che fossimo innamorati dell'odore delle sigarette, semplicemente provavamo un certo piacere nel soffiare nubi di fumo dalla bocca. Mio zio fumava e vedendolo fumare ci venne voglia di seguire il suo esempio, ma non avevamo soldi; incominciammo dunque racimolando i mozziconi di sigaretta buttati via da lui. Però non ci era sempre possibile procurarci queste cicche e comunque facevano poco fumo, così cominciammo a rubare spiccioli ai servitori, dai loro risparmi, per comperarci sigarette indiane. Ma avevamo il problema di dove conservare le sigarette, e naturalmente non potevamo fumare in presenza degli adulti. In qualche modo, per alcune settimane, ci arrangiammo con gli spiccioli rubati: intanto sentimmo dire che i gambi di una certa pianta erano porosi e si potevano fumare come sigarette; ce li procurammo e ci mettemmo a fumare quella roba. Ma tali ripieghi erano lungi dal soddisfarci, il nostro desiderio di indipendenza si faceva impellente, era insopportabile che ci fosse vietato di agire senza il controllo dei grandi: finalmente, del tutto disgustati, decidemmo di suicidarci! Ma come fare? Dove procurarci il veleno? Sentimmo dire che i semi della dhatura contenevano un potente veleno; partimmo per la giungla in cerca dei semi, che raccogliemmo. Si diceva che il momento propizio fosse all'imbrunire. Ci recammo al Kedarji dalla bocca. Mio zio fumava e vedendolo fumare ci venne voglia di seguire il suo esempio, ma non avevamo soldi; incominciammo dunque racimolando i mozziconi di sigaretta buttati via da lui. Però non ci era sempre possibile procurarci queste cicche e comunque facevano poco fumo, così cominciammo a rubare spiccioli ai servitori, dai loro risparmi, per comperarci sigarette indiane. Ma avevamo il problema di dove conservare le sigarette, e naturalmente non potevamo fumare in presenza degli adulti. In qualche modo, per alcune settimane, ci arrangiammo con gli spiccioli rubati: intanto sentimmo dire che i gambi di una certa pianta erano porosi e si potevano fumare come sigarette; ce li procurammo e ci mettemmo a fumare quella roba. Ma tali ripieghi erano lungi dal soddisfarci, il nostro desiderio di indipendenza si faceva impellente, era insopportabile che ci fosse vietato di agire senza il controllo dei grandi: finalmente, del tutto disgustati, decidemmo di suicidarci! Ma come fare? Dove procurarci il veleno? Sentimmo dire che i semi della dhatura contenevano un potente veleno; partimmo per la giungla in cerca dei semi, che raccogliemmo. Si diceva che il momento propizio fosse all'imbrunire. Ci recammo al

Kedarii Mandir (Tempio religioso) versammo del burro semi-fuso nella lampada del tempio, ci prostrammo nel darshan e poi cercammo un angolo solitario, ma il coraggio ci venne meno: e se non fossimo morti sul colpo? E a che pro volersi uccidere? Non era meglio sopportare la mancanza di indipendenza? Ma intanto mandammo giù due o tre semi, non osammo ingoiarne di più. Ci venne a tutti e due il terrore di morire, decidemmo di andare al Ramji Mandir per calmarci, e di non pensare più al suicidio. Mi resi conto che è meno facile suicidarsi che meditarci sopra, e da allora, quando sento dire di uno che minaccia di uccidersi, la cosa mi lascia quasi del tutto indifferente. L'aver contemplato il suicidio fece sì che tutti e due perdessimo l'abitudine di fumare mozziconi di sigarette e di rubare spiccioli ai servi per procurarci da fumare. Da quando sono adulto non oh più voglia di fumare e considero barbaro, sporco e nocivo il vizio del fumo. Non oh mai capito perché c'è una, tale smania di fumare nel mondo, non sopporto di viaggiare in uno scompartimento pieno di gente che fuma, mi soffocano. Ma molto più serio di questo furto fu quello di cui mi macchiai un po' di tempo dopo; gli spiccioli li rubacchiavo quando avevo dodici o tredici anni, forse meno, l'altro furto lo commisi all'età di quindici anni. Staccai un pezzetto d'oro dal bracciale di mio fratello «mangiatore di carne», il quale aveva contratto un debito di circa venticinque rupie. Portava al polso un bracciale di oro zecchíno, non fu difficile spezzarne un frammento. Beh, così feci e saldai il debito, ma a questo punto ero nauseato. Decisi di non rubare mai più, e risolvetti anche di confessarmi a mio padre, ma non osavo parlargli. Non che avessi paura che mio padre mi picchiasse, no, non ricordo che abbia mai picchiato nessuno di noi, avevo paura del dolore che gli avrei procurato, tuttavia sentivo che dovevo affrontare la prova; non vi poteva essere redenzione senza una piena confessione. Decisi finalmente di mettere per iscritto la confessione per poi mostrarla a mio padre e chiedergli il suo perdono; la scrissi su un foglietto di carta e gliela consegnai io stesso. In quel biglietto confessavo non solo la mia colpa, ma chiedevo una giusta punizione, e terminavo implorandolo di non punire se stesso per il mio fallo; mi impegnavo anche a non rubare mai più in avvenire. Quando porsi la confessione a mio padre tremavo. Egli soffriva per una fistola e doveva rimanere a letto; il suo letto era un semplice tavolaccio di legno. Gli diedi il foglio e mi sedetti accanto al tavolaccio. Egli lesse tutto e lungo le guance gli colarono giù le lacrime, bagnando la carta; per un attimo chiuse gli occhi assorto, poi strappò il foglio. Per leggere si era tirato su. Si rimise sdraiato. Piangevo anch'io, mi rendevo conto dello strazio di mio padre, se fossi pittore ancora oggi saprei ritrarre tutta la scena, tanto vivida mi è rimasta nella memoria. Quelle lacrime d'amore mi mondarono il cuore, e cancellarono il mio peccato, solo colui che è stato oggetto di tanto amore può conoscerne il valore; come dice l'inno: Solo chi è colpito dalle frecce dell'amore ne conosce il potere. Questa per me fu una lezione pratica di Ahimsā. Allora non vi scorsi che una manifestazione di amore paterno, ma oggi so che si trattava di pura Ahimsa ; quando l'Ahimsa diventa universale, trasforma tutto ciò che coinvolge, la sua forza non ha limiti. Questo sublime modo di perdonare non era abituale a mio padre, mi aspettavo che si sarebbe arrabbiato, che avrebbe detto cose cattive e che si sarebbe battuto la fronte, invece fu meravigliosamente calmo, credo perché mi ero confessato a cuore aperto: una confessione sincera, unita alla promessa di non peccare mai più, è la più

alta forma di pentimento, quando la si offre a chi ha il diritto di raccoglierla. So che la mia confessione tranquillizzò completamente mio padre su di me, e aumentò in modo smisurato l'affetto che egli mi portava. Indice

9. LA MORTE DI MIO PADRE E LA MIA DUPLICE VERGOGNA L'anno che tratto adesso è il mio sedicesimo. Mio padre, come abbiamo visto, era costretto a stare a letto, sofferente per una fistola, e i suoi principali assistenti eravamo mia madre, un vecchio servo di casa, ed io, che gli facevo da infermiere, cioè mi occupavo soprattutto di medicargli la ferita, dargli le medicine e dosare gli ingredienti quando bisognava prepararli in casa, e ogni sera gli massaggiavo le gambe e mi ritiravo solo quando me lo diceva lui o quando si addormentava. Mi piacevano molto queste mansioni, non ricordo di averle mai trascurate: il tempo che mi rimaneva, terminate le incombenze quotidiane, lo ripartivo fra la scuola e l'assistenza a mio padre, poi la sera me ne andavo a fare una passeggiata, però solo quando egli me lo permetteva o quando si sentiva bene. In quel periodo mia moglie aspettava un bambino il che voleva dire, lo capisco oggi, che mi coprivo doppiamente di vergogna, dato che non solo-non mi limitavo, come sarebbe stato giusto finché ero ancora studente, ma il mio appetito carnale mi faceva dimenticare quelli che consideravo fossero i miei doveri, cioè studiare e, altro dovere ancora più fondamentale, la dedizione ai miei genitori, dato che lo Shravana era stato il mio ideale sin dall'infanzia. Ogni sera, mentre avevo le mani occupate a massaggiare le gambe di mio padre, il mio pensiero volava alla mia camera da letto e questo a quei tempi, quando i rapporti sessuali erano condannati dalla religione, dalla scienza medica e dal buon senso. Ero sempre felice di essere liberato dai miei obblighi e reso omaggio a mio padre, me ne andavo subito in camera da letto. Intanto mio padre peggiorava di giorno in giorno. I dottori Ayurvedic (Curano con gli estratti di erbe) gli avevano applicato tutti i loro unguenti, gli Hakim (Medici mussulmani) I loro impiastri e i ciarlatani locali le loro panacee; si era cimentato anche un chirurgo inglese, secondo il quale l'ultima e sola speranza era una operazione chirurgica, ma il dottore di famiglia vi si oppose, essendo contrario ad una operazione data l'età avanzata. Il dottore era bravo e conosciuto, prevalse dunque il suo parere, fu scartata l'idea della operazione e le varie medicine che erano state comprate in previsione dell'intervento risultarono inutili. Credo che se il medico avesse permesso l'operazione, la ferita sarebbe guarita bene; l'operazione l'avrebbe eseguita un chirurgo allora molto noto a Bombay. Ma Dio aveva deciso altrimenti, e quando la morte incombe, come sapere quale è la cura giusta? Mio padre tornò da Bombay con tutta la roba necessaria per l'operazione, ormai superflua; non pensava di aver molto da vivere, si indeboliva sempre di più, finché gli si dovette chiedere di compiere le sue funzioni naturali a letto, ma fino all'ultimo si rifiutò di fare una cosa simile, insistendo sempre nel voler affrontare la fatica di alzarsi. Le norme Vaishnava sulla pulizia personale sono severissime. La pulizia è essenziale, certo, ma la scienza medica occidentale ci ha insegnato che tutte le funzioni, comprese il bagno, si possono compiere a letto in modo pulitissimo, senza arrecare al paziente il minimo disturbo, rimanendo il letto sempre perfettamente netto. E suo igienismo mi sarebbe dovuto apparire del tutto consono al culto Vaishnava ma allora l'insistenza che metteva mio padre nel volersi alzare dal letto mi riempiva di stupore, l'ammiravo incondizionatamente.

Giunse la terribile notte. Mio zio i trovava a Rajkot; ricordo vagamente che arrivò avendo appreso che mio padre stava peggio, dato che i fratelli erano unitissimi fra loro. Mio zio rimaneva seduto tutto il giorno vicino al letto di mio padre, e insisteva nel dormire al suo capezzale dopo averci spediti via tutti. Nessuno aveva immaginato che fosse giunta la notte fatale, anche se naturalmente il pericolo c'era sempre. Erano le dieci e mezza o le undici di sera, stavo facendo il massaggio, mio zio mi propose di darmi il cambio. Con gioia andai subito in camera da letto, dove mia moglie, poverina, dormiva profondamente. Ma come poteva continuare a dormire quando c'ero io? La svegliai. Cinque o sei minuti dopo però bussò alla porta il servo; sussultai allarmato. «Alzati» disse, «tuo padre sta molto male». Che stava molto male naturalmente lo sapevo, perciò indovinai il significato di quel “molto male" adesso. Saltai giù dal letto. «Cosa c'è? Dimmi!» «Tuo padre non è più». Così era finito tutto! Non mi rimaneva che torcermi le mani; sentendomi profondamente colpevole ed infelicissimo, mi precipitai in camera di mio padre. Se la passione animale non mi avesse accecato, mi sarebbe stata risparmiata la tortura di essere lontano da lui durante i suoi ultimi istanti, se fossi stato lì a fargli il massaggio, sarebbe morto fra le mie braccia, ma tale privilegio era toccato a mio zio, tanto devoto a suo fratello maggiore da aver meritato l'onore di rendergli gli ultimi servigi! Mio padre aveva presentito la fine imminente, aveva fatto cenno che gli dessero carta e penna, e aveva scritto: «Preparate gli ultimi riti». Si era slacciato dal braccio l'amuleto e anche la collana d'oro di palline di tulasî e li aveva scagliati da una parte. Un attimo dopo non era più. La vergogna a cui oh accennato in un capitolo precedente, era la vergogna di provare desiderio carnale anche nell'ora critica dell'agonia di mio padre, che richiedeva una attenta veglia; è una macchia che non sono più riuscito a cancellare o a dimenticare e oh sempre riflettuto che anche se il mio attaccamento per i miei genitori non conosceva limiti e per loro avrei rinunciato a tutto, il mio sentimento era però imperfetto ed incompleto perché la mia mente era anche in preda alla lussuria. Perciò mi sono sempre considerato un marito lussurioso, anche se fedele; mi ci volle molto a liberarmi dalla schiavitù della concupiscenza ed ebbi. a sopportare molte prove prima di riuscirvi. Nel terminare questo capitolo sulla mia duplice vergogna, posso aggiungere che il povero piccino che nacque a mia moglie non visse più di tre o quattro giorni, e non c'era da stupirsene. Che a tutti i coniugi il mio esempio sia di ammonimento. Indice

10. ACCENNI DI RELIGIONE Dall'età di sei o sette anni, fino ai sedici, andai a scuola, dove studiai molte materie, ma non la religione. Peccato che non fui capace di carpire ai miei maestri degli insegnamenti che avrebbero potuto impartirmi senza fatica; eppure dal mondo che mi circondava non mancavo di raccogliere varie nozioni. Ilo usato la parola "religione" nel senso più lato, cioè nel suo significato di auto-percezione o conoscenza di sé stessi. Essendo per nascita un Vaishnava, era mio dovere recarmi spesso al Haveli, ma non mi piacque mai, lo sfarzo e la pompa non essendo di mio gusto. Poi sentii dire che vi

avvenivano immoralità e questo mi disgustò: frequentando l’ahveli non avrei imparato niente. Ma ciò che non appresi lì, me lo insegnò la mia nutrice, una vecchia serva di famiglia, di cui* ancora ricordo l'affetto che aveva per me. Ilo già detto che avevo paura degli spettri e degli spiriti; Rambha, questo era il nome della donna, mi suggerì come rimedio contro la mia paura di recitare il Ramanama. Mi fidavo più di lei che del suo rimedio, ma in tenera età cominciai a recitare il Ramanama per fugare la paura di spettri e spiriti. Non mi ci dedicai a lungo, ma noti fu seminato in vano il buon seme piantato in gioventù; credo che se oggi per me il Ramanama è una infallibile salvaguardia, lo devo e agli insegnamenti di quella brava Rambha. Pressappoco allora, un mio cugino gran cultore dei Ramayana. fece prendere al mio secondo fratello ed a me lezioni di Rama Raksha. Lo imparammo a memoria e divenne un abitudine recitarlo ogni mattina dopo il bagno, pratica che conservammo durante tutto il tempo che passammo a Porbandar. Appena arrivammo a Rajkot, fu scordata, non ci credevo molto, lo recitavo anche perché ero orgoglioso di saper recitare il Rama Raksha con pronuncia esatta. Quello che invece mi lasciò un'impressione profonda fu ascoltare la lettura del Ramayana fatta a mio padre. Durante parte della sua malattia mio padre visse a Porbandar, e ogni sera aveva la consuetudine di ascoltare il Ramayana. Il lettore, devotissimo a Rama, era Ladha Maharaj, di Bileshvar, del quale si diceva che si fosse curato dalla lebbra non con medicine, ma applicandosi sulle parti malate foglie di bilva gettate via dopo essere state offerte alla immagine di Mahadev nel tempio di Bileshvar, e recitando regolarmente il Ramanama; la sua fede, si diceva, l'aveva guarito. Sarà o non sarà stato vero, comunque noi alla storia ci credevamo, e quando Ladha Maharaj si mise a leggerci il Ramayana, il suo corpo certamente non era affetto dalla lebbra. Aveva una voce melodiosa, cantava i dobas (distici) ed i cohpai (quartine), e ce li illustrava, perdendo poi il filo dei discorso e trascinandosi dietro gli ascoltatori. Avrò avuto tredici anni allora, ma ricordo bene quanto mi affascinasse quella lettura; fu l'inizio della mia profonda devozione al Ramayana. Oggi ritengo che il Ramayana di Tulasidas sia uno dei maggiori libri di tutta la letteratura sacra. Pochi mesi dopo questi fatti, andammo a Rajkot. Lì non si leggeva il Ramayana, però ogni giorno dell'Ekadashi si leggeva il Bhagavat. Qualche volta assistevo alla lettura, ma il lettore non mi ispirava. Oggi capisco che il Bhagavat possa suscitare fervore religioso, l'oh letto in gujarati con estremo interesse; ma quando durante il mio digiuno di vent'uno giorni udii brani dall'originale letti dal pandit. Madan Moban Malavija, oh rimpianto di non averlo sentito leggere da bambino da un appassionato come lui, così da abituarmi già in tenera età ad apprezzarlo. Le impressioni formate a quell'età si innestano profondamente nella nostra indole ed è mio costante rammarico non aver avuto la fortuna di sentire leggere in quel periodo un maggior numero di buone opere come questa. Comunque, a Rajkot, imparai ad essere tollerante per tutte le forme di induismo e di religioni associate. Perché mio padre e mia madre frequentavano fraveli ma anche il tempio di Shiva e di Rama e noi ragazzi ci accompagnavano loro, o ci mandavano per conto nostro. Anche i monaci jain venivano spesso a trovare mio padre e, fatto per loro inconsueto, accettavano da noi del cibo - da noi che non eravamo jain e si intrattenevano con mio padre su argomenti religiosi e mondani. Mio padre aveva anche amici mussulmani e parsi, che gli parlavano delle loro fedi, ed egli li ascoltava sempre con rispetto, spesso con interesse; queste varie circostanze contribuirono ad inculcarmi la tolleranza per tutte le fedi. L'unica eccezione era rappresentata dal cristianesimo, contro il quale mi venne una specie di avversione, e la ragione c'era: a quei tempi i missionari cristiani si appostavano all'angolo della scuola media e concionavano, coprendo di insulti gli indù ed i loro dei. Questo non mi andava giù. Forse una volta sola mi fermai ad

ascoltarli, ma mi bastò per dissuadermi dal ripetere l'esperimento. All'incirca nello stesso periodo sentii parlare di un noto indù che si era convertito al cristianesimo, tutta la città raccontava che quando lo battezzarono dovette mettersi a mangiare manzo e a bere liquori, che fu costretto a cambiare abbigliamento e da allora cominciò a girare tutto vestito da europeo, compreso il cappello. Queste cose mi fecero venire i nervi, e pensavo: una religione che obbliga a mangiare manzo, a bere liquori e a cambiar modo di vestire non merita tale nome. Mi dissero anche che il neo convertito aveva cominciato a sparlare della religione dei suoi avi, delle loro tradizioni, del loro Paese. Tutto ciò fece si che mi misi a disprezzare i cristiani. Ma anche se avevo imparato ad essere tollerante verso le altre religioni, ciò non significava che avevo una vera fede in Dio. Mi capitò circa in quel periodo di scoprire il Manusmiriti, che faceva parte della raccolta di mio padre: la storia della creazione e le altre storie che conteneva non mi impressionarono molto, anzi mi spinsero piuttosto verso l'ateismo. Avevo un cugino, tutt'ora vivente, che stimavo molto per la stia intelligenza. Gli esposi i miei dubbi, ma non fu capace di fugarli. Mi mandò via dicendomi: «Quando crescerai, saprai capire queste cose da solo, alla tua età non si dovrebbe discutere di certi problemi». Mi zittì ma non mi confortò, mi pareva che i capitoli del Manusmriti sulla dieta ed altre cose fossero contrari alla regola quotidiana. Ai miei dubbi, compreso quest'ultimo, rispose nello stesso modo, allora dissi a me stesso: «Quando la mia intelligenza si sarà affinata e quando avrò letto di più, capirò meglio». Comunque il Manusmriti non mi insegnò l'Ahimsā. Ilo raccontato l'episodio di quando mangiai la carne: mi parve che il Manusmriti mi desse ragione, e poi mi sembrava giustissimo uccidere serpenti, cimici ed altri insetti, anzi lo consideravo un dovere. Un concetto mi si radicò dentro profondamente - la convinzione che la morale è alla base di tutte le cose, e che la morale è fatta di verità, dunque la verità divenne il mio solo scopo. Ogni giorno assumeva più importanza e anche la mia definizione di essa si è andata sempre più arricchendo. Una strofa didattica gujarati mi entrò nella mente e nel cuore, e il suo insegnamento rispondere al male con il bene - divenne il mio principio ispiratore, divenne per me una tale passione che cominciai a fare vari esperimenti. Ecco quelle (per me) meravigliose righe: Per una ciotola d'acqua offri un buon pasto Ad un gentile benvenuto inchinati con ardore; Per una semplice monetina restituisci oro; Se la vita vuoi salva, non salvaguardarti. Così osserva le parole e le azioni del saggio; Ogni minimo favore ricompensa dieci volte. Ma i veri nobili sanno che tutti gli uomini sono uguali, E lietamente ricambiano col bene il male ricevuto. Indice

11. PREPARATIVI PER L'INGHILTERRA Passai l'esame di ammissione all'università nel 1887. Allora si teneva in due centri, Ahmedabad e Bombay, e la miseria diffusa nel Paese faceva preferire naturalmente agli studenti del Kathiawad il centro più vicino e meno costoso: la povertà della mia famiglia mi spinse a fare la stessa scelta. Era la prima volta che andavo da Rajkot a Ahmedabad e per di più vi andavo solo. Dopo l'esame i miei volevano che continuassi gli studi in collegio. C'era un collegio a Bhavnagar e ce n'era uno anche a Bombay, ma siccome il primo costava meno, scelsi quello e mi iscrissi al Collegio Samaldas. Frequentai, ma mi trovai completamente sperso, tutto era difficile, non riuscivo a seguire le lezioni tenute dai

professori, e tanto meno ad interessarmici. Non era colpa loro, i professori di quel collegio erano considerati ottimi, ma io ero troppo rozzo. Alla fine del trimestre tornai a casa. Mavji Dave, un bramino furbo e istruito, vecchio amico e consigliere di famiglia, che aveva continuato a frequentare la nostra casa anche dopo la morte di mio padre, capitò da noi durante le mie vacanze. Conversando con mia madre e con mio fratello maggiore, si informò dei miei studi; saputo che frequentavo il collegio Samaldas, disse: «I tempi sono cambiati. E nessuno di voi può sperare di accedere al grado di vostro padre senza una educazione adatta. Dato che il ragazzo è ancora studente, dovreste riporre le vostre speranze in lui quale successore al gadi. Impiegherà quattro o cinque anni per ottenere la laurea in lettere, che se va bene gli permetterà di trovare un impiego da sessanta rupie, non una carica da Diwan, e se, come mio figlio, studiasse legge, gli ci vorrebbe ancora di più, per poi trovarsi circondato da una quantità di altri avvocati aspiranti al titolo di Diwan. Sarebbe molto meglio che lo mandaste in Inghilterra. Mio figlio Kevalram dice che è molto facile diventate avvocato; entro tre anni avrebbe finito, e la spesa non sarà di più di quattro o cinque mila rupie. Pensate a quell'avvocato appena tornato dal l'Inghilterra: come vive lussuosamente! Basterebbe che dicesse una parola e lo nominerebbero Diwan. Vi consiglierei vivamente di mandare Mohandas in Inghilterra entro quest'anno. Kevalram ha molti amici lì, gli darà delle lettere di presentazione, e Mohandas non avrà problemi». Joshji - così chiamavamo il vecchio Mavji Dave - si rivolse a me con fare sicuro e mi chiese: «Non preferiresti andare in Inghilterra piuttosto che rimanere a studiare qui?». Per me era una prospettiva meravigliosa, dato che i miei difficili studi mi spaventavano; afferrai dunque la palla al balzo e dissi che prima partivo e meglio era, non è facile dare esami sotto pressione. E non mi sarei invece potuto iscrivere a medicina? Mio fratello mi interruppe: «A nostro padre non è mai piaciuta, pensava a te quando disse che noi Vaîshnava non dovremmo occuparci del sezionamento dei corpi morti; voleva che tu facessi l'avvocato». Joshji intervenne: «Io non sono contrario alla professione medica come lo era Gandhi. Le nostre Shastr non la condannano, ma con una laurea in medicina non diventerai Diwan, e io voglio che tu diventi Diwan o anche qualche cosa di più. Solo allora potrai offrire un'ala protettiva alla tua famiglia. I tempi stanno cambiando rapidamente e diventano ogni giorno più difficili, perciò la cosa migliore è fare l'avvocato». Rivolgendosi a mia madre le disse: «Ora devo andare; vi prego di riflettere su quanto vi oh detto, e quando torno la prossima volta spero di trovarvi occupati in preparativi per l'Inghilterra. E non dimenticatevi di farmi sapere se vi posso essere utile in qualche modo». Joshji se ne andò e io cominciai a fabbricare castelli in aria. Mio fratello maggiore era molto preoccupato; dove trovare i soldi per il mio viaggio? Ed era giusto mandate un giovanetto come me all'estero da solo? Anche mia madre era seriamente perplessa, non le andava l'idea di separarsi da me, cercò di dissuadermi: «Lo zio», mi disse, «ora è il più anziano della famiglia. Sarebbe giusto consultarlo e se acconsente prenderemo la cosa in considerazione». A mio fratello venne un'altra idea, mi disse: «Lo Stato di Porbandar ci è debitore per un certo affare. L'amministratore è il signor Lely, che ha molta stima per la nostra famiglia e lo zio gode delle sue grazie; forse potrebbe raccomandare il tuo nome per l'assegnazione di qualche aiuto statale per farti studiare in Inghilterra». Ero d'accordissimo e mi preparai a partire per Porbandar. A quei tempi la ferrovia non c'era, era un viaggio di cinque giorni in un carro trainato da buoi. Oh detto che ero vigliacco, ma il desiderio di andare in Inghilterra, che mi dominava completamente, fece svanire la mia vigliaccheria: affittai un carro di buoi fino a

Dohraji e da Dohraji presi un cammello per arrivare a Porbandar con un giorno di anticipo. Era la prima volta che montavo su un cammello. Finalmente giunsi, feci un inchino a mio zio e gli dissi tutto. Egli ci pensò sopra e mi disse: «Non sono sicuro che sia possibile vivere in Inghilterra senza trasgredire alla propria religione, da quello che sento dire, oh i miei dubbi. Quando incontro i nostri grandi avvocati non vedo differenza fra il loro modo di vivere e quello degli europei. Non si fanno scrupoli nel mangiare, in bocca hanno sempre un sigaro, si vestono in modo sfacciato come gli inglesi, tutto ciò non corrisponde alla nostra tradizione familiare. Fra poco vado a fare un pellegrinaggio e non oh più molti anni da vivere, sono in punto di morte, come posso trovare il coraggio di darti il permesso di andare in Inghilterra, di traversare i mari? Ma non ti metterò i bastoni fra le ruote; in realtà quello che conta è il permesso di tua madre: se te lo concede lei, allora vai con Dio! Dille che non mi opporrò, partirai con la mia benedizione». «Da te non potevo aspettarmi di più», dissi io. «Ora cercherò di convincere mia madre. Ma non potresti raccomandarmi al signor Lely?». «E come faccio?» Rispose lui: «Ma è un brav'uomo, chiedigli un appuntamento facendogli sapere di chi sei parente, ti riceverà certamente e forse ti potrà anche aiutare». Non so perché mio zio non mi diede una lettera di raccomandazione, ma oh la vaga sensazione che volesse evitare di contribuire direttamente alla mia partenza per l'Inghilterra, azione contraria alla religione, secondo lui. Scrissi al signor Lely, che mi chiese di andarlo a trovare a casa sua. Mi vide mentre stava salendo per le scale, e dicendomi brevemente: «Prima laureati in lettere e poi torna da me, aiutarti ora è impossibile» spari al piano di sopra. Mi ero preparato accuratamente a questo incontro, avevo imparato attentamente qualche frase, mi ero inchinato fino a terra e l'avevo salutato a mani giunte; tutto inutile! Pensai ai gioielli di mia moglie, a mio fratello maggiore, nel quale avevo la massima fiducia, egli era di una estrema generosità e mi amava come un figlio. Tornai a Rajkot da Porbandar e narrai quello che era successo; consultai Joshiji, il quale mi consigliò naturalmente di fare anche un debito se era necessario. Accennai alla possibilità di disfarmi dei gioielli di mia moglie, che avrebbero potuto fruttare due o tre mila rupie circa. Mio fratello mi promise di trovare i soldi in qualche modo. Mia madre, però, era ancora restia. Si era messa a far domande minuziose. Qualcuno le disse che i giovanotti in Inghilterra si depravavano, altri le dissero che si mettevano a mangiare carne; e altri ancora che lì non potevano vivere senza liquori. «Cosa ne dici?» mi chiese, lo le dissi: «Non ti fidi di me? Non ti mentirò e giuro che non toccherò nessuna di quelle cose. Se ci fosse questo pericolo, credi che Joshiji mi lascerebbe andare?». «Di te mi posso fidare», disse lei, «Ma come fidarmi di te in tiri Paese lontano? Sono frastornata e non so cosa fare; mi rivolgerò a Becharji Swami». Becharji Swami era stato un Modh Bania, ora si era fatto monaco Jain. Anche lui era un consigliere di famiglia come Joshiji; mi venne in aiuto dicendo: «Farò fare solennemente le tre promesse al ragazzo, e poi potrà andare». Egli pronunciò il giuramento e io promisi di non toccare vino, donna, e carne. Fatto questo. mia madre mi concesse il permesso. Alla scuola media organizzarono una festa d'addio in mio onore, era un fatto strano che un giovanotto di Rajkot partisse per l'Inghilterra. Mi ero preparato qualche parola di ringraziamento, ma riuscii a malapena a balbettarle, ricordo come mi girava la testa e come mi tremava tutto il cuore quando mi alzai per pronunciarle. Con la benedizione dei miei, partii per Bombay. Era la prima volta che da Rajkot andavo a Bombay; mi accompagnò mio fratello. Ma tra il dire ed il fare, c'è di mezzo il mare e a Bombay ci aspettavano non poche difficoltà. Indice

12. Paria Con il permesso e la benedizione di mia madre, partii esultante per Bombay, lasciando mia moglie con un bambino di pochi mesi. Ma quando fummo giunti lì, alcuni amici dissero a mio fratello che in giugno e in luglio l'Oceano Indiano era burrascoso e essendo questo il mio primo viaggio, non mi si doveva lasciar partire prima di novembre. Ci dissero anche che durante una tempesta era affondato un piroscafo, mio fratello si preoccupò e non volle assumersi il rischio di farmi partire subito, perciò lasciandomi con un amico a Bombay, se ne tornò a Rajkot e ai suoi affari. Affidò ad un nostro cognato i soldi per le mie spese di viaggio e incaricò alcuni amici di aiutarmi se ne avessi avuto bisogno. A Bombay il tempo non mi passava, non facevo che sognare la partenza per l'Inghilterra. Intanto la gente della mia casta si era messa in agitazione per la mia partenza per l'estero, mai prima d'ora un Modh Bania si era recato in Inghilterra, e se osavo pensarci, mi si doveva richiamare all'ordine! Fu convocata un'assemblea generale della casta e mi fu intimato di comparire. Ci andai: come riuscii a farmi improvvisamente coraggio non lo so, comunque per niente intimidito e senza la minima esitazione mi presentai davanti al consesso. Lo Sheth il capo della comunità - che era un mio lontano parente ed era stato in ottimi rapporti con mio padre, si rivolse a me dicendomi: «La casta ritiene che la tua intenzione di andate in Inghilterra non è ragionevole. La nostra religione vieta i viaggi all'estero, e abbiamo sentito dire che non è possibile vivere lì senza offendere la nostra religione, ci si deve mettere a mangiare e a bere insieme agli europei!». Al che risposi: «Penso che andare in Inghilterra non sia affatto contrario alla nostra religione; io ci voglio andare per continuare gli studi, e oh già promesso solennemente a mia madre di astenermi dalle tre cose che temete di più; sono certo che il voto mi proteggerà». «Ma noi ti diciamo», replicò lo Sheth, «che lì non è possibile non trasgredire alla nostra religione. Tu sai quanto per amico di tuo padre e dovresti ascoltare il mio consiglio». «So quanto eravate amici», dissi io, «e tu per me sei come un parente più anziano, ma non c'è niente da fare, non posso tornare sulla mia decisione di andare in Inghilterra. L'amico e consigliere di mio padre, un saggio Bramino, non ha niente da obiettare al mio viaggio e anche mia madre e i miei fratelli mi hanno concesso il loro benestare». «Ma vuoi non tenere conto degli ordini della tua casta?». «Non posso proprio farci niente, penso che la casta no dovrebbe intromettersi in questa questione». Lo Sheth montò su tutte le furie, si mise a imprecare, lo rimasi impassibile. Così lo Sheth pronunciò il suo verdetto: «Da oggi questo ragazzo sarà trattato come un paria, chiunque lo aiuta o lo andrà a salutare al porto sarà passibile d un'ammenda di una rupia e quattro anna». L'ordine non mi smosse, e mi congedai dallo Sheth. Ma mi domandavo come l'avrebbe presa mio fratello. Per fortuna non cambiò idea e mi scrisse per assicurarmi che mi permetteva di partire, nonostante gli ordini dello Sheth. Però questo incidente mi rese più che mai impaziente di imbarcarmi. E se fossero riusciti a far pressione su mio fratello? Mettiamo che succedesse qualche imprevisto? Mentre mi torturavo sulla mia situazione, sentii che un vakil di junagadh sarebbe partito per l'Inghilterra (essendo stato iscritto all'albo degli avvocati), con un

piroscafo che salpava il 4 settembre. Incontrai gli amici ai quali ero stato affidato da mio fratello, anche loro furono del parere che non dovevo lasciarmi scappare l'occasione di viaggiare con un simile compagno. Non c'era tempo da perdere, telegrafai a mio fratello per ottenere il suo benestare, che mi concesse, chiesi a mio cognato di darmi il denaro, ma egli evocò il volere dello Sheth e dichiarò che non poteva permettersi di venir estromesso dalla casta. Ricercai allora un amico di famiglia e gli chiesi di prestarmi quanto mi serviva per il biglietto e le piccole spese, e di farsi restituire i soldi da mio fratello. L'amico non solo fu tanto gentile da accettare la mia richiesta, ma mi fece anche coraggio; gliene fui gratissimo. Con parte del denaro acquistai subito il biglietto, poi dovetti equipaggiarmi per il viaggio. Un altro mio amico aveva esperienza di queste cose, mi procurò gli abiti ed il resto. Alcuni abiti mi piacquero ed altri non mi piacquero affatto; la cravatta, che più tardi portai con delizia la odiai, e trovai immodesta la giacca corta. Ma queste avversioni erano niente paragonate al mio desiderio di andare in Inghilterra, più forte di tutto. Avevo anche provviste sufficienti, anzi abbondanti, per il viaggio. I miei amici mi prenotarono una cuccetta nella cabina occupata dal Sjt. Tryambakrai Mazmudar, il vakil di Junagadr, e mi raccomandarono a lui: egli era un uomo pratico d’età matura che conosceva il mondo, io non ero che un giovanetto di diciotto anni senza esperienza. Mazmudar disse ai miei amici di non preoccuparsi per me. Finalmente partii da Bombay il 4 settembre. Indice

13. FINALMENTE A LONDRA Non soffrii per niente il mai di mare, ma a mano a mano che passavano i giorni diventavo irrequieto. Anche il rivolgermi al cameriere mi intimidiva, non ero affatto abituato a parlare inglese e fatta eccezione per il Sjt. Mazmudar, tutti gli altri passeggeri della seconda classe erano inglesi. Con loro non riuscivo a comunicare perché capivo con difficoltà quello che dicevano quando mi rivolgevano la parola, e anche quando li capivo, non potevo rispondere, mi dovevo preparare mentalmente ogni frase, prima di riuscire a pronunciarla. Ignoravo l'uso del coltello e della forchetta e non avevo il coraggio di chiedere quali pietanze elencate sul menù non contenessero carne, perciò non mangiavo mai a tavola ma sempre nella mia cabina, e mi nutrivo soprattutto di dolci e di frutta che mi ero portato dietro. Il Sjt. Mazinudar non aveva simili difficoltà, si intratteneva con tutti, circolava liberamente sul ponte, mentre io mi nascondevo tutto il giorno in cabina, avventurandomi a uscire sul ponte solo quando vi era rimasta poca gente. Mazmudar non faceva che esortarmi ad avvicinare i passeggeri e a parlare con loro tranquillamente, mi disse che gli avvocati dovevano avere la parola facile, e mi narrò le sue esperienze legali, mi consigliò di approfittare di ogni occasione che mi si offriva di parlare inglese, e di non aver paura di commettete errori, inevitabili quando ci si esprime in una lingua straniera, ma nulla riusciva a farmi vincere la timidezza. Un passeggero inglese, rivolgendosi a me con gentilezza, riuscì a farmi parlare. Era più anziano di me, mi chiese cosa mangiavo, chi ero, dove andavo, perché ero timido, e così via. Mi consigliò anche di mangiare a tavola, rise della mia insistenza nel ripudiare la carne e mi disse amichevolmente quando fummo nel Mare Rosso: «Fino a qui tutto bene, ma quando saremo nel Golfo di Biscaglia dovrai cambiare idea, in Inghilterra fa così freddo che è assolutamente impossibile sopravvivere senza mangiare carne». «Ma io oh sentito dire che la gente può viverci senza mangiare carne», dissi io.

«Credimi, sono frottole», rispose lui. «Nessuno, che io sappia, vive lì non mangiando carne. Renditi conto che non ti chiedo di bere liquori, cosa che faccio io; ma secondo me la carne dovresti proprio mangiarla, perché facendone a meno non potrai resistere». «Grazie per il cortese consiglio, ma oh solennemente promesso a mia madre di non toccare carne, e perciò devo assolutamente evitarla. Se dovesse essere impossibile farne a meno, preferirei di gran lunga tornarmene in India che mangiarla pur di restare li». Entrammo nel Golfo di Biscaglia, ma non cominciai a provare la necessità né di carne né di liquori; mi avevano suggerito di farmi rilasciare dei certificati attestanti che non avevo mangiato carne, e chiesi all'amico inglese di darmene uno, cosa che fece con piacere e per qualche tempo ne feci tesoro, ma quando più tardi mi resi conto che si potevano ottenere simili certificati pur essendo carnivori, allora perse ogni attrattiva; e poi, se non mi si credeva sulla parola, a che scopo possedere un certificato? Dunque, arrivammo a Southampton, mi pare di ricordare, un sabato. Sulla nave avevo indossato un abito nero, avendo appositamente conservato quello di flanella bianca, procuratomi dai miei amici, per metterlo al momento dello sbarco, ritenendo che una tenuta bianca sarebbe stata la più adatta per scendere a terra; perciò sbarcai in flanella bianca. Era la fine di settembre, e scoprii di essere il solo ad indossare un abito del genere. Depositai presso un agente della GRINDLAY & Co. Tutto il mio bagaglio, comprese le chiavi, avendo visto che molti altri facevano così e volendo imitarli. Avevo quattro lettere di presentazione: per il Dott. P.J. Melita, per il Sjt. Dalpatrain Shukla, per il principe Rajistinbji per Dadabbai Naoroji. A bordo uno mi aveva consigliato di Alloggiare a Londra all'albergo Victoria, perciò Mazmudar ed io ci recammo là. La mia vergogna di essere l'unico vestito di bianco mi era già diventata insopportabile, e quando all'albergo mi dissero che il giorno dopo non avrei potuto ritirare le mie cose da GRINDLAY, perché era domenica, mi esasperai. Il dottor Mehta, al quale avevo telegrafato da Southampton, venne a trovarci la sera stessa, alle otto circa, e mi fece una accoglienza festosa. Sorrise vedendomi vestito di flanella. Mentre stavamo parlando, presi distrattamente il suo cilindro e per provarne la morbidezza vi passai sopra la mano in senso contrario, rovesciando il pelo. Il dottore mi lasciò fare con un certo fastidio, poi mi fermò ma ormai il guaio era fatto. L'episodio mi servì di avvertimento per il futuro, infatti quella fu la mia prima lezione di etichetta europea, nei cui meandri fui spiritosamente iniziato dal dottor Melita. «Non toccare le cose altrui», mi disse. «Non fare domande a gente appena incontrata, come siamo abituati a fare in India; non parlare ad alta voce; non dar mai del "signore" alle persone con le quali parli, come facciamo noi in India; solo i servi e i dipendenti parlano così ai loro superiori». E via di questo passo. Mi disse anche che vivere in un albergo era molto caro e mi consigliò di abitare presso una famiglia privata; decidemmo di riparlarne lunedì. Mazmudar ed io scoprimmo che la vita d'albergo era complicatissima, e che costava molto. Un nostro compagno di viaggio Sindhi, di Malta, che aveva stretto amicizia con Mazmudar e conosceva bene Londra, ci propose di trovarci un alloggio. Accettammo, ed il lunedì, appena recuperammo il bagaglio, pagammo i nostri conti e ci recammo all'alloggio fissato per noi dall'amico Sindhi. Mi ricordo che il mio conto all'albergo fu di tre sterline, una somma che mi scandalizzò: e malgrado il conto così salato, avevo praticamente fatto la fame! Perché non mi piaceva niente, e quando una cosa non mi andava, ne ordinavo un'altra, ma mi toccava poi pagarle tutt'e due. In conclusione continuavo a nutrirmi con le provviste che mi ero portate da Bombay. Mi sentivo molto a disagio anche nel nuovo alloggio, non facevo che pensare alla mia casa ed al mio Paese, mi ossessionava sempre il pensiero dell'amore di mia madre, di notte mi scorrevano le lacrime lungo le guance, e ricordi casalinghi di ogni

genere mi rendevano impossibile il sonno. Non poter condividere la mia pena con anima viva e anche se avessi potuto farlo, a che pro? Nulla avrebbe potuto calmarmi, tutt’ora bizzarro: le persone, le loro abitudini, e anche le loro abitazioni. Ero completamente inesperto in materia di etichetta inglese e dovevo stare continuamente all'erta, e inoltre c'era la difficoltà del voto vegetariano; le pietanze che potevo mangiare erano prive di sapore ed insipide. Venni così a trovarmi tra Scilla e Cariddi. L'Inghilterra non la sopportavo, ma tornare in India era impensabile: ormai che ero qui, dovevo finire i tre anni, mi diceva la vocina interna. Indice

14. LA MIA SCELTA Lunedì il. dottor Mehta andò all'albergo Victoria credendo di trovarmi, seppe che ce ne eravamo andati, chiese i nuovo indirizzo e mi venne a far visita al nostro alloggio. Sul piroscafo mi ero preso la tricofizia, per pura stupidaggine: per lavarci e per fare il bagno, c'era acqua salata, che non scioglie il sapone, io però adoperavo il sapone, considerando questa abitudine una prova di civiltà, ma invece di pulirmi la pelle me la ungevo, e mi venne la tricofizia. Mi feci visitare dal dottor Mehta, che mi disse di farmi applicazioni di acido acetico (ricordo che il bruciore dell'acido mi fece piangere). Il dottore ispezionò la mia camera e l'arredamento e scosse la testa disapprovando. «Qui non va», disse «Noi veniamo in Inghilterra non tanto per gli studi quanto per fare esperienza di vita e di abitudini inglesi, perciò devi vivere in una famiglia. Ma prima, penso sia meglio che tu faccia un periodo di tirocinio da ... Ti ci condurrò». Accettai con gratitudine la sua proposta e mi trasferii in casa del suo amico, il quale fu pieno di gentilezze e di attenzioni, mi trattò come un fratello, mi iniziò ai modi ed alle consuetudini inglesi e mi abituò a parlare la lingua, però la mia nutrizione diventò un problema serio. Non mi piacevano le verdure bollite cotte senza sale o condimenti, e la padrona di casa non sapeva più cosa prepararmi. La mattina mangiavamo la pappa di fiocchi di avena (il porridge), piuttosto riempitiva, ma a mezzogiorno e la sera ero sempre affamato. L'amico mi diceva continuamente di mangiare carne, ma io invocavo il mio voto e poi tacevo. Sia a colazione che a pranzo mangiavo spinaci e pane e anche marmellata; ero una buona forchetta e avevo uno stomaco capace, mi vergognavo di chiedere più di due o tre fette di pane, dato che mi pareva poco educato. E non si beveva latte né a colazione né a pranzo. Un giorno l'amico , disgustato da questo mio modo di fare mi disse: «Fossi mio fratello, ti avrei già mandato al diavolo; che valore ha una promessa fatta ad una madre analfabeta, ignara delle condizioni di vita di qui? Non è un voto, per legge non sarebbe considerato tale, rispettare una simile promessa è pura superstizione, e ti avverto che questa persistenza non ti aiuterà a farti strada. Hai confessato di aver mangiato la carne e di averla apprezzata, l’ahi mangiata quando non ve ne era nessuna necessità, e non vuoi mangiarla ora che è indispensabile. Che peccato! ». Ma ero irremovibile. Ogni santo giorno l'amico cercava di convincermi, ma io gli opponevo un eterno rifiuto anzi, più insisteva, più diventavo intransigente. Pregavo quotidianamente Iddio di accordarmi la sua protezione, ed egli mi esaudiva. Non che avessi un concetto preciso di Dio; mi sosteneva la fede, una fede germogliata dal seme gettato dalla buona nutrice Rambha. Un giorno l'amico si mise a leggermi La teoria dell'utilità di Bentham. Non ci capivo niente, per me quelle cose erano troppo difficili. Cominciò a spiegarmele, io gli dissi: «Ti prego di scusarmi. Queste cose astruse mi sono incomprensibili, ammetto che mangiare carne possa essere una necessità, ma non posso venir meno al mio voto. Non so far valere le mie ragioni, sono certo che non

saprei ribattere alle tue argomentazioni, ma ti prego, rassegnati a considerarmi stupido oppure ostinato. Ti sono molto grato dell'affetto che mi dimostri e so che vuoi il mio bene, so anche che continui a tornare su questo argomento perché ti sto a cuore. Ma non ci posso fare niente. un voto è un voto, non vi si può venir meno». L'amico mi guardò con sorpresa, chiuse il libro e disse: «Bene, non ne parlerò più». Ne fui contento. Non tornò mai più sull'argomento, ma non smise di preoccuparsi per me. Lui fumava e beveva, ma non mi chiese mai di imitarlo, anzi, mi consigliò di astenermi da tutt'e due. La sua preoccupazione era che mi indebolissi troppo non mangiando carne, e perciò non riuscissi a sentirmi a casa in Inghilterra. Così feci un mese di tirocinio. La casa dell'amico era a Richinond, e non era possibile andare a Londra più di una o due volte alla settimana, perciò il dottor Mehta e il Sjt. Dalpatram Shukla decisero di sistemarmi presso qualche famiglia. Shukla scoprì una casa anglo-indiana a West Kensington e mi mandò lì. La padrona era una vedova, le dissi del mio voto: la vecchia signora promise di prendersi buona cura di me, e mi stabilii da lei. Anche qui mi toccò soffrire la fame. Avevo richiesto da casa dolci e altre cose, ma non era arrivato ancora niente. Trovavo tutto insipido, ogni giorno la vecchia signora mi chiedeva se il cibo mi piaceva, ma cosa ci poteva fare? lo ero ancora timidissimo e non osavo chiedere più di quello che mi veniva posto davanti. C'erano anche due figlie, che insistevano e mi davano un paio di fette di pane in più, ma erano lontane dall'immaginare che per riempirmi ci sarebbe voluta una pagnotta. Comunque ormai mi stavo orientando. Non avevo ancora iniziato gli studi regolari, mi ero messo però a leggere i giornali, grazie al suggerimento di Shukla; in India non avevo mai letto giornali, ma riuscii ad abituarmi ad apprezzarli leggendoli regolarmente. Davo sempre un'occhiata al Daity News, al Daily Telegraph, e al The Pall Mall Gazette. Ci mettevo meno di un'ora, perciò cominciai anche a vagabondare, mi spinsi alla ricerca di un ristorante vegetariano. La padrona di casa mi aveva detto che in città vi erano locali del genere. lo trotterellavo per dieci o dodici miglia al giorno, entravo in un ristorante modesto e mangiavo pane fino a riempirmi, ma non ero mai sazio. Una volta, durante un mio vagabondaggio, scoprii un ristorante vegetariano in via Farringron. A quella vista provai la gioia che prova un bambino quando ottiene quello che desidera cori tutto il cuore. Prima di entrare notai esposti in una vetrina vicino alla porta dei libri in vendita e fra di essi vidi: Difesa del vegetarianismo, di Salt, che comprai per uno scellino, poi mi avviai diritto verso la sala da pranzo. Da quando ero arrivato in Inghilterra, fu la prima volta che mangiai di gusto: Dio mi era venuto in aiuto. Lessi il libro di Salt senza saltarne un rigo e mi fece molta impressione. Da quando oh letto quel libro, posso affermare di essere diventato vegetariano per convinzione, e benedissi il giorno in cui feci la promessa a mia madre. Fino ad allora mi ero astenuto dal mangiate carne per rispetto della verità e della promessa che avevo fatto, ma desideravo nel contempo che tutti gli indiani diventassero carnivori e speravo di poter mangiare carne anch'io un giorno apertamente e liberamente, convincendo altri a dividere le mie idee. Ma ora avevo scelto il vegetarianismo e da quel momento diffonderlo diventò la mia missione. Indice 15. IL GIOCO DEL GENTILUOMO INGLESE La mia fede nel vegetarianismo crebbe ogni giorno di più, il libro di Salt stimolò il mio interesse per gli studi dietetici, ricercai tutti i libri esistenti sul vegetarianismo e me li lessi. Uno di questi, di Ohward William, L'etica della dieta, era ». una storia biografica della letteratura sulla dietetica umana dai tempi più remoti fino ad oggi, tentava di dimostrare che tutti i filosofi ed i profeti, da Pitagora a Gesù, fino a quelli

dei giorni nostri, erano vegetariani. Anche La dieta perfetta della dottoressa Anna Kingsford era un buon libro, e pure gli scritti del dottor Allison sulla salute e l'igiene mi furono molto utili: egli propugnava un sistema curativo basato sul controllo della dieta dei pazienti. Essendo un vegetariano anche lui, prescriveva ai suoi pazienti una dieta strettamente vegetale. La lettura di tutti quei libri fece sì che gli esperimenti dietetici cominciarono ad assumere una certa importanza nella mia vita; all'inizio, fine principale dei miei esperimenti era la salute, più tardi, motivo supremo ne divenne la religione. Nel frattempo il mio amico non aveva cessato di preoccuparsi per me, il suo affetto l'aveva convinto che se persistevo nel rifiutare la carne, non solo mi sarei indebolito fisicamente, ma sarei diventato un essere dappoco, perché non mi sarei mai sentito a mio agio nella società inglese. Quando seppe che avevo incominciato ad interessarmi ai libri sul vegetarianismo, temette che questi studi mi potessero confondere le idee; che sciupassi la mia vita in esperimenti, dimenticando il mio lavoro, e diventassi un maniaco, perciò fece un ultimo sforzo per convertirmi: un giorno mi invitò a teatro. Prima dello spettacolo dovevamo pranzare insieme al ristorante Ohlborn, per me un luogo suntuoso ed il primo grande ristorante dove mettevo piede dopo aver lasciato l'albergo Victoria. Il mio soggiorno in albergo era stato un'esperienza molto poco utile, perché ero ancora troppo frastornato. L'amico aveva stabilito di portarmi in quel ristorante, immaginando evidentemente il mio temperamento mi avrebbe reso un gentiluomo, tanto meglio, altrimenti avrei rinunciato a questa aspirazione. Questi pensieri ed altri simili mi tormentavano; le manifestai in una lettera che indirizzai al maestro di dizione, chiedendogli di dispensarmi dal prendere altre lezioni (ne avevo prese solo due o tre). Scrissi una lettera analoga al maestro di ballo, e mi recai personalmente dalla maestra di violino, per chiederle di dare via il mio violino a qualsiasi prezzo. Si era dimostrata piuttosto gentile con me, così le dissi come avevo scoperto che stavo inseguendo un'idea sbagliata, e lei mi incoraggiò nella mia determinazione di voltare completamente pagina. L'infatuazione mi deve essere durata circa tre mesi, la mia scrupolosità nel vestire perdurò per anni: ma da quel momento diventai tino studente. Indice 16. CAMBIAMENTI Non si creda che gli esperimenti di danza e il resto mi portassero a rilassare le mie abitudini. Il lettore avrà notato che nemmeno in quei giorni persi la testa, infatti non mancai durante quel periodo di infatuazione di fare un po' di auto-critica. Tenevo conto di ogni centesimo e vagliavo attentamente le mie spese, annotavo ogni più piccola cosa, i biglietti dell'autobus o i francobolli o un paio di monete spese per i giornali, e ogni sera prima di andare a letto tiravo le somme. Da allora oh sempre conservato questa abitudine, perciò quando mi furono affidati fondi ammontanti a centinaia di migliaia di rupie, sono riuscito ad amministrarli con la massima economia, e tutte le transazioni monetarie che oh compiuto, invece di grossi debiti mi hanno sempre fruttato un'eccedenza di profitti. Che ogni giovane faccia tesoro della mia esperienza e prenda l'abitudine di annotare tutto ciò che entra ed esce dalle sue tasche, alla fine constaterà, come oh fatto io, che ne valeva la pena. Sorvegliando attentamente il mio modo di vivere, mi resi conto che mi dovevo mettere a risparmiare, perciò decisi di dimezzare le spese. Dai miei conti risultava che spendevo molto per i trasporti. Inoltre abitare presso una famiglia significava pagare regolarmente un conto settimanale, e imponeva la cortesia di invitare ogni tanto i membri della famiglia .a pranzo fuori, e di recarmi con loro a dei ricevimenti, il che significavi forti spese per i trasporti, sopratutto perché, se si trattava di una

donna, l'usanza voleva che fosse l'uomo a pagare tutto. E poi mangiare fuori era una spesa supplementare, non si potevano sottrarre dal regolare conto settimanale i pasti non consumati. Mi parve che quelle spese fossero da abolire, e anche lo svuotamento del mio portafoglio causato dal mio esagerato senso del decoro. Decisi di andare a stare per conto mio, invece di continuare a vivere presso una famiglia, e anche di cambiare quartiere a seconda delle mie occupazioni, accumulando in questo modo nuove esperienze. Sceglievo l'alloggio a mezz'ora a piedi dal mio posto di lavoro, risparmiando così sui soldi per i trasporti. Prima, quando dovevo andare da qualche parte, prendevo sempre un mezzo, e poi dovevo trovare il tempo per passeggiare; il nuovo sistema abbinava passeggiata e risparmio, dato che economizzavo sui biglietti e percorrevo a piedi otto o dieci miglia al giorno. Fu soprattutto questa abitudine delle lunghe passeggiate che mi ha mantenuto quasi sempre in buona salute durante il mio soggiorno in Inghilterra e ha irrobustito il mio corpo. Affittai due camere: una mi serviva da soggiorno e l'altra da camera da letto. Questa fu la seconda fase, la terza sarebbe venuta poi. I mutamenti dimezzarono le mie spese, ma come sfruttare a pieno le giornate? Sapevo che gli esami di legge non richiedevano molta preparazione, perciò non mi sentivo eccessivamente impegnato. Il mio inglese incerto mi era fonte di continua preoccupazione. Le parole del signor (più tardi Sir Frederic) Lely, «prima laureati in lettere e poi torna da me», mi risuonavano ancora nelle orecchie: dovevo non solo diventare avvocato, pensavo, ma prendermi anche una laurea in lettere. Chiesi informazioni sui corsi tenuti alle Università di Oxford e di Cambridge, consultai qualche amico, e capii che se decidevo di stabilirmi in uno di questi luoghi, avrei speso molto di Più e sarei dovuto rimanere in Inghilterra per un periodo molto più lungo di quello preventivato. Un amico mi suggerì, se proprio volevo avere la soddisfazione di dare un esame difficile, di presentarmi all'esame di ammissione all'Università di Londra; significava sgobbare moltissimo ma arricchire notevolmente il mio bagaglio di nozioni generali, non spendendo quasi niente in più. Accettai il consiglio, ma il programma mi spaventò, erano obbligatori il latino è una lingua moderna! Col latino me la sarei cavata? L'amico mi incoraggiò moltissimo: «Il latino agli avvocati è molto utile, la conoscenza del latino porta ad una maggiore padronanza della lingua inglese». Mi convinse e decisi di imparare il latino a costo di qualunque sforzo. Avevo già cominciato il francese, perciò scelsi questa come lingua moderna. Mi iscrissi ad un corso privato di ammissione all'Università, gli esami si svolgevano ogni sei mesi ed io avevo davanti solo cinque mesi, era un'impresa quasi disperata. Ma l'aspirante gentiluomo inglese decise adesso di tramutarsi in uno studente impegnato; mi fissai un orario minuto per minuto; ma né la mia intelligenza né la mia memoria mi garantivano che sarei riuscito ad affrontare il latino ed il francese, oltre alle altre materie, entro il periodo indicato. Il risultato fu che mi bocciarono in latino; mi dispiacque ma non mi disperai, il latino mi stava cominciando a piacere, pensai che se avessi riprovato ci avrebbe guadagnato anche il mio francese, e avrei scelto una materia scientifica diversa. La chimica, che avevo come materia di scienza, non mi attraeva perché non si facevano esperimenti, altrimenti sarebbe stato uno studio molto interessante, ed era una delle materie d'obbligo in India, perciò l'avevo scelta per l'esame di ammissione londinese. Questa volta invece della chimica scelsi "Calore e Luce". Dicevano che fosse facile, e fui anche io di questo parere. In previsione di un'altra prova, mi sforzai di semplificare ancora di più la mia vita, capivo che non si addiceva ancora ai mezzi modesti di cui disponeva la mia famiglia, e il pensiero di mio fratello sempre in difficoltà, che rispondeva generosamente alle mie regolari richieste di aiuto finanziario, mi addolorava profondamente. Mi rendevo conto che molti fra coloro che spendevano dalle otto alle quindici sterline al mese avevano il vantaggio di avere delle borse di studio. Non mi mancavano gli esempi di

modi di vita semplicissimi, incontrai non pochi studenti che vivevano più modestamente di me; uno di essi abitava nei bassifondi, in una camera a due scellini la settimana, e si nutriva di cacao e di pane con un paio di scellini per pasto all'economico "Salone del Cacao" di Lockhart. Lungi da me il pensiero di emularlo, ma avrei potuto abitare in una camera sola invece che in due e mi sarei potuto cucinare qual.Che pasto a casa, sarebbe stata un'economia di quattro o cinque sterline alla settimana. Trovai anche dei libri su come vivere semplicemente. Rinunciai alle mie due stanze e ne affittai una sola, comperai una stufa, e cominciai a prepararmi la prima colazione a casa, ci voleva poco più di venti minuti, perché non facevo che preparare la pappa d'avena e bollire l'acqua per il cacao. Facevo colazione fuori e per pranzo mangiavo pane e cacao in camera, Così riuscii a vivere con uno scellino e tre penny al giorno. Fu anche un periodo di intenso studio, il vivere semplicemente mi fece risparmiare molto tempo e agli esami fui promosso. Che il lettore non immagini che questi provvedimenti mi rendessero l'esistenza squallidissima. Al contrario i mutamenti erano consoni alla mia vita interiore ed esteriore, ed era anche una esistenza più adatta ai mezzi finanziari di cui disponeva la mia famiglia; vivevo certamente in modo più giusto e la mia anima era pienamente felice. Indice

17. ESPERIMENTI DI DIETETICA Scrutando profondamente in me stesso, mi apparve evidente la necessità di cambiamenti interiori ed esteriori. Quando apportai i mutamenti nel mio modo di spendere e di vivere, o forse ancora prima, cominciai anche a variare la mia dieta. Vidi che gli autori vegetariani avevano esaminato il problema molto attentamente, dettagliandone gli aspetti religiosi, scientifici, pratici e medici e dal punto di vista etico, erano arrivati alla conclusione che la supremazia dell'uomo sugli animali inferiori non implicava che i primi dovessero cacciare i secondi, ma che i più progrediti dovevano proteggere gli inferiori, e che ci dovesse essere assistenza reciproca fra loro come c'era fra uomo e uomo. Avevano anche messo in evidenza la verità che l'uomo non mangia per diletto ma per sopravvivere, e conseguentemente alcuni di loro suggerirono e misero in pratica di vivere astenendosi non solo dalla carne ma anche dalle uova e dal latte. Alcuni avevano dedotto che scientificamente la struttura fisica dell'uomo dimostrava che esso non era nato per nutrirsi di cibi cotti, ma che era un animale frugivoro. che doveva bere solo il latte di sua madre, per poi cominciare a nutrirsi di alimenti solidi appena metteva i denti. Dal punto di vista medico avevano suggerito l'eliminazione di tutte le spezie e dei condimenti: basandosi su dati pratici ed economici, avevano dimostrato che la dieta vegetariana è la meno costosa. Tutte queste considerazioni mi convinsero, e nei ristoranti vegetariani incontrai vegetariani di tutti i tipi. Esisteva una Società vegetariana in Inghilterra che pubblicava un suo foglio settimanale, mi abbonai al settimanale, mi iscrissi alla Società e in breve mi trovai a far parte del Comitato Esecutivo, dove venni in contatto con quelli che erano considera i pilastri del vegetarianismo e cominciai anch'io a fare esperi menti nel campo dietetico. Smisi di mangiare i dolci e le spezie ricevuti da casa. Or che i miei pensieri seguivano un altro corso, la mia passione per i condimenti andò svanendo, e mi piacevano gli spinaci bolliti che a Richinond mi erano sembrati insipidi perché non erano conditi. Molti esperimenti simili mi insegnarono che in realtà il gusto ha origine non nella lingua, ma nella mente.

Naturalmente tenevo sempre presente anche l'aspetto finanziario: secondo un'opinione diffusa in quel tale periodo il tè ed il caffè erano dannosi ed era preferibile il cacao. Essere convinto che si dovessero mangiare solo alimenti che fortificassero il corpo, rinunciai in linea di massima al tè ed a caffè e li sostituii col cacao. Nei ristoranti che frequentavo vi erano due settori differenti uno frequentato da gente piuttosto benestante, serviva vari portate dalle quali si sceglieva e si pagava à la carte, ogni pasto venendo a costare da uno a due scellini, l'altro settore serviva pasti a sei penny di tre portate più una fetta di pane Nei miei giorni di severa frugalità mangiavo abitualmente ne secondo reparto. Facevo molti esperimenti secondari oltre quello fondamentale; come, per esempio, una volta rinunciare a cibi ricchi d'amido, un'altra nutrirmi solo di pane e frutta e una volta solo di formaggio, latte e uova, tentativo quest'ultimo che fallì subito, non durò neanche quindici giorni. Il riformatore che caldeggiava i cibi privi di amido era favorevole alle uova e sosteneva che non erano carne, infatti apparentemente, nutrendosi di uova, non si nuoceva a nessuna creatura umana. Fui convinto da questi argomenti e mangiai uova mal, grado il mio voto, ma la caduta fu momentanea: non toccava me interpretare il voto in modo diverso, l'interpretazione data da mia madre che me lo avevo imposto mi doveva bastare, e sapevo che per lei 'anche le uova erano carne. Appen' mi resi conto della reale importanza del voto, rinunciai si alle uova che all'esperimento. Esisteva una sottile differenziazione a proposito di questa discussione, che vale la pena riferire. In Inghilterra si davano tre definizioni di carne: secondo la prima, solo quella degli uccelli ed altre bestie era carne, infatti i vegetariani che accettavano questa formula rinunciavano alla carne di uccelli ed altri animali, ma mangiavano il pesce e naturalmente le uova; secondo un'altra definizione, carne era quella di tutte le creature viventi, dunque era vietato il pesce ma erano permesse le uova; secondo la terza definizione, carne era quella di tutte le creature viventi, e di tutti i loro prodotti, comprendendo non solo le uova ma anche il latte. Se accettavo la prima definizione, mi potevo nutrire non solo di uova, ma anche di pesce, ma ero convinto che la definizione valevole per me era quella data da mia madre, perciò se volevo rispettare il voto fatto, dovevo escludere le uova, e così feci. Fu una complicazione perché, come risultò da una ricerca, anche nei ristoranti vegetariani molti piatti erano a base di uova. Perciò a meno che non sapessi esattamente cosa contenessero, dovevo sottomettermi all'imbarazzo di sincerarmi se un certo piatto contenesse uova o meno, e in molti dolci e torte c'erano. Benché l'aver capito come mi dovevo comportare mi avesse messo in difficoltà, la mia dieta ne fu semplificata: la semplificazione mi infastidì perché dovetti rinunciare a molti piatti che avevo imparato ad apprezzare, ma il fastidio fu solo passeggero, e la precisa osservanza del voto mi procurò un godimento interiore certamente più sano, delicato e durevole. La prova maggiore però non l'avevo ancora subita e concerneva l'altro mio voto. Ma chi osa nuocere a colui che Dio protegge? Qualche osservazione sull'interpretazione dei voti o delle promesse non sarà fuori posto: come valutare le promesse è stata materia di perenni conflitti in tutto il mondo, dato che per esplicito che sia l'accordo, la gente volta e rigira il testo finché lo fa corrispondere alle sue mire. Persone che agiscono così se ne incontrano in tutti gli strati della società, fra i ricchi ed i poveri, sono principi o contadini; l'egoismo li rende ciechi e avvalendosi di ambigue scappatoie ingannano sé stessi e cercano di ingannare il mondo e Dio. Una regola d'oro consiste nell'accettare onestamente l'interpretazione data alla promessa dalla parte che la impone. Un'altra consiste, quando ci possono essere due versioni, nell'accettare l'interpretazione che ne dà il contraente più debole. Rifiutare queste due regole significa scatenare la lotta e l'iniquità, che hanno radici nella menzogna. Colui che ricerca solo la verità applicherà senza sforzo la regola d'oro, per agire non avrà bisogno di dotti consigli; secondo la regola d'oro, la sola interpretazione di carne che doveva valere per me era quella

data da mia madre e non quella che la mia più vasta esperienza e la mia presunzione di saperne di più avrebbero potuto consigliarmi. In Inghilterra i miei esperimenti si ispiravano ad un principio di economia ed igiene; prima di andare in Sud Africa, dove feci esperimenti estenuanti di cui parlerò più avanti, non presi in considerazione l'aspetto religioso del problema, ma comunque il seme di tutto quello che feci dopo fu gettato in Inghilterra. L'entusiasmo del convertito per la sua nuova religione è superiore a quello della persona che a quella fede appartiene dalla nascita. In Inghilterra il culto vegetariano era nuovo, e lo era anche per me, perché, come abbiamo visto, quando arrivai ero un carnivoro convinto e solo più tardi mi convertii intellettualmente al vegetarianismo. Animato dallo zelo del neofita, decisi di fondare un club vegetariano nella mia zona, Bayswater. Chiesi a Sir Edwin Arnold, che risiedeva lì, di diventarne il vice presidente, il dottor Oldfield, redattore del Il Vegetariano ne divenne presidente, io fungevo da segretario. Il club per un po' andò bene, ma fallì nel giro di pochi mesi. Io mi ero trasferito in un'altra zona, secondo la mia abitudine di muovermi periodicamente. Comunque, grazie a quel breve e modesto tentativo acquistai un po' di esperienza nell'organizzazione e conduzione di un ente. Indice

18. TIMIDEZZA, MIO SCUDO Fui eletto a far parte del comitato esecutivo della società vegetariana, e partecipavo scrupolosamente a tutte le assemblee, ma non riuscivo a spiccicare una parola. Una volta il dottor Oldfield mi disse. «Con me parli benissimo, ma perché non fai mai sentire la tua voce durante una riunione del comitato? Sei proprio un fuco». Il paragone mi divertì, le api sono sempre operose, il fuco è un emerito pigrone. Ed era ben strano che mentre gli altri esprimevano il loro pensiero durante le riunioni, io restavo completamente zitto: non che non mi fosse mai venuta la voglia di parlare, ma non sapevo come fare, tutti gli altri soci mi parevano più informati di me. Succedeva poi spesso che proprio quando stavo per farmi coraggio ed aprire la bocca, si cambiava argomento; questo durò per un bel pezzo. Si venne a parlare di una questione seria. Sentivo ch’era mio obbligo essere presente e sentivo che votare silenziosamente sarebbe stata una vigliaccheria. La discussione nacque pressappoco così: il presidente della società era il signor I Hills, proprietario delle Ferriere del Tamigi; egli era un puritano. L'esistenza della società dipendeva in pratica dal suo aiuto finanziario, molti membri del comitato erano più o meno suoi protetti. Anche il. dottor Allison, noto vegetariano, faceva parte del comitato; fautore dell'allora nascente movimento per il controllo delle nascite, ne illustrava i metodi alle classi lavoratrici. Secondo Hills l'applicazione di tali metodi era fondamentalmente contraria alla morale. Egli sosteneva che la società vegetariana doveva mirare non solo ad una riforma dietetica, ma anche ad una riforma morale, e che un uomo dalle vedute anti-puritane come Allison non poteva continuare a fare parte della società; fu perciò avviata una mozione per l'espulsione di Allison. La questione mi interessava moltissimo, ritenevo pericolose le idee di Allison sui metodi artificiali per il controllo delle nascite e trovavo che Hills aveva il diritto, essendo puritano, di avversarlo. Stimavo molto Hills anche per la sua generosità, ma trovavo sbagliatissimo radiare una persona da una società vegetariana semplicemente perché si rifiutava di ammettere che la morale puritana fosse uno degli scopi della società. L'opinione di Hills sull'esclusione degli anti-puritani dalla società, era una questione personale e non c'entrava affatto con il fine dichiarato della società, che era semplicemente la divulgazione del vegetarianismo e non quello di un qualsiasi

principio morale. lo perciò ero del parere che qualsiasi vegetariano potesse far parte della società, qualunque fossero le sue opinioni in materia di morale. Altri nel comitato erano di questa opinione, ma sentii che era mio dovere personale esprimere le mie idee. Come riuscirci, ecco il problema; non avevo il coraggio di parlare perciò decisi di buttare giù i miei pensieri per iscritto, e mi recai alla riunione con il documento in tasca. Mi pare di ricordare che non seppi nemmeno leggerlo, e che il Presidente lo fece leggere da un altro. Allison fu sconfitto; perciò, nella mia prima battaglia di questo tipo, mi trovai schierato dalla parte del vinto, ma mi confortò il pensiero che la causa era giusta. Ricordo vagamente che dopo questo incidente dimissionai dalla Commissione. La timidezza mi rimase durante tutto il soggiorno in Inghilterra. Anche quando andavo a fare una visita, la presenza di sei o più persone mi rendeva muto. Una volta andai a Vetnor con Mazmudar, abitammo presso una famiglia vegetariana. Anche Ohward, l'autore di Etica della dieta abitava in quello stesso luogo di cura termale, lo incontrammo e ci invitò a parlare ad una riunione per la divugazione del vegetarianismo. Mi ero sincerato che leggere i propri discorsi non fosse considerato scorretto, sapevo infatti che molti per esprimersi coerentemente e brevemente facevano così. Dato che parlare ex tempore mi sarebbe stato impossibile, avevo scritto il mio discorso. Mi alzai per pronunciarlo, ma non ce feci, mi si offuscò la vista e mi misi a tremare, e benché discorso non riempisse più di un foglio di protocollo, lo dovette leggere al )osto mio Mazmudar. Il discorso suo naturalmente fu eccellente e salutato da un applauso. Mi veraognai di me stest;o e mi piangeva il cuore per la ima incapacità. L'ultima volta che tentai di fare un discorso in pubblico in Inghilterra fu alla vigilia della mia partenza per tornare a caso., ma ancora una volta riuscii solo a coprirmi di ridicolo. Invitai i miei amici vegetariani a pranzo al ristorante Ohlborn, di cui oh già parlato in questi capitoli. «Naturalmente nei ristoranti vegetariani servono pasti vegetariani», dissi a me stesso. «Ma perché questo non si potrebbe ottenere anche in un ristorante non vegetariano?» E concordai con il direttore del ristorante Ohlborn un pasto strettamente vegetariano: i vegetariani accolsero il nuovo esperimento con gioia; tutti i pasti devono essere motivo di godimento, ma in Occidente questa funzione è diventata un'arte, si pranza con molto éclat, a suon di musica, e si fanno discorsi, e anche il piccolo pranzo che diedi io fu rallegrato da simili esibizioni, perciò non potevano mancare i discorsi. Quando toccò a me, mi alzai per parlare, Con molta attenzione mi ero preparato discorso fatto solo di poche frasi, ma dopo la prima frase non riuscii più ad andare avanti. Avevo letto che Allison aveva iniziato il suo primo discorso alla Camera dei Comuni ripetendo tre volte «io concepísco», e che quando non riuscì a continuare, si alzò una buona lingua e gli disse: «Il ha signore concepito tre volte ma non ha dato alla luce nulla». Avevo meditato di fare un discorso umoristico prendendo spunto da quell'aneddoto, perciò cominciai a raccontarlo, non riuscii ad andare avanti, la memoria mi tradì completamente, e con la pretesa di fare un discorso umoristico mi resi ridicolo. «Vi ringrazio, signori, di aver così gentilmente accettato il mio invito», dissi bruscamente, e mi sedetti. Fu solo in Sud Africa che superai la mia timidezza, sebbene non la vinsi mai completamente. Mi era impossibile parlare à l'impromptu. Titubavo ogni qualvolta mi trovavo ad affrontare ascoltatori sconosciuti e quando potevo evitavo di parlare; ancora oggi non credo che vorrei o saprei partecipare ad una riunione formata da amici occupati a conversare piacevolmente.

Devo aggiungere che la mia costituzionale timidezza, oltre a farmi prendere periodicamente in giro, non mi ha procurato nessun'altra difficoltà. Anzi, capisco che mi è stata di aiuto, e la fatica che faccio ad esprimermi, che una volta m imbarazzava, ora l'apprezzo, mi è stata utile soprattutto perché mi ha insegnato a pesare le parole. Ilo preso naturalmente l'abitudine di controllare i miei pensieri, e potrei oggi autorilasciarmi un certificato attestante che né dalla bocca né dalla penna non mi scappa quasi mai una parola sventata. Non ricordo di essermi mai trovato a dover rimpiangere una cosa da me detta o scritta, mi sono stati risparmiati così molti fastidi e molte perdite di tempo: l'esperienza mi ha insegnato che il silenzio fa parte della disciplina spirituale di un seguace della verità, dato che la tendenza a esagerare, a o a modificare la verità, consapevolmente o inconsapevolmente, è una debolezza naturale all'uomo, e il silenzio serve a vincerla. Ad un uomo di poche parole capiterà raramente di parlare avventatamente; egli peserà ogni parola. Quanta gente c'è, smaniosa di parlare, non c'è presidente di assemblea che non sia ossessionato da richieste di permessi di prendere la parola, e ottenuto il permesso, Portare oltrepassa generalmente i limiti concessigli, chiede altro tempo, e continua a parlare senza autorizzazione; non si può certo dire che tutto questo parlare sia utile all'umanità, è una gran perdita di tempo. In realtà, la mia timidezza mi è servita da scudo e da difesa, mi ha aiutato a crescere, mi ha guidato nella percezione della verità. Indice

19. IL TARLO DELLA MENZOGNA Quarant'anni fa gli studenti indiani residenti in Inghilterra erano piuttosto pochi, e loro abitudine era farsi passare per scapoli anche se non lo erano. In Inghilterra, gli studenti che frequentano le scuole o i collegi sono tutti scapoli, essendo gli studi considerati incompatibili con la vita coniugale. Anche da noi c'era questa abitudine, ai bei tempi andati, quando uno studente era sempre considerato un brahmachari. Ma oggi abbiamo il matrimonio fra bambini, cosa praticamente sconosciuta in Inghilterra, perciò i giovani indiani lì residenti si vergognavano di confessare di essere sposati, e dissimulavano, anche perché se si fosse venuto a sapere che erano sposati sarebbe stato impossibile ai giovanotti andarsene in giro ad amoreggiare con le ragazze delle famiglie presso le quali vivevano. Civettavano più o meno innocentemente; i genitori anzi li incoraggiavano; e quel genere di contatti fra giovanotti e ragazze sarà anche necessario, dato che lì ogni giovane deve scegliersi la compagna. Però quando i ragazzi indiani stabilendosi in Inghilterra si comportano in quella maniera, del tutto naturale ai ragazzi inglesi, spesso succedono disastri come si è constatato più di una volta. Vedevo i nostri giovani soccombere alla tentazione e scegliere una vita di menzogna pur di stare in compagnia, cosa innocente se la facevano i giovani inglesi, ma sbagliata per gli indiani; fui vittima anch'io del contagio. Non esitai a spacciarmi per scapolo, benché fossi sposato e padre di un figlio. Ma il dissimulare non mi rendeva felice. Comunque solo la mia riservatezza e la mia reticenza mi impedirono di sprofondare in acque più torbide. Finché io non Parlavo, non poteva venire in mente a nessuna ragazza di mettersi a chiacchierare e di uscire con me. La mia Vigliaccheria era pari alla mia riservatezza: era usanza tra le famiglie come quella presso la quale abitavo a Vetnor che la figlia della padrona di casa uscisse a far due passi con uno degli ospiti. La figlia della mia padrona di casa mi condusse una volta sulle belle colline che circondano Vetnor; io non camminavo certo piano, ma la mia compagna eri ancora più veloce di me, mi trascinava dietro a sé chiacchierando senza posa. Rispondevo al suo chiacchiericcio sussurrando ogni tanto «sì» o «no» o al massimo «sì, che bello!», e lei svolazzava come un uccello mentre io mi chiedevo quando sarei tornato a casa. Arrivammo in cima ad una collina; come avremmo fatto per riscendere, questo era il problema comunque, nonostante gli stivaletti dal tacco alto, la briosa venticinquenne si scagliò giù dalla collina come una freccia. Io le arrancavo faticosamente dietro. Si fermò ai piedi della collina sorridendomi e incoraggiandomi e proponendomi di venire a trascinarmi giù: perché ero così pavido? Con enorme difficoltà e mettendomi anche a strisciare, riuscii in qualche modo ad arrivare fino in fondo. Lei rise forte dicendomi «bravo» e facendomi vergognare ancora di più, e ne aveva tutte le ragioni.

Ma non poteva andarmi sempre bene, perché Iddio voleva liberarmi dal tarlo della menzogna. Una volta andai a Brighton, altro posto termale come Vetnor, fu prima di andare a Vetnor, appunto. Lì, in un albergo, incontrai una vecchia vedova di condizione modesta, (accadeva durante il mio primo anno di permanenza in Inghilterra); sul menu i piatti erano tutti descritti in francese, lingua che non capivo. Ero seduto alla stessa tavola della vecchia signora, la quale, vide che ero straniero e in difficoltà e mi venne subito in aiuto: «Lei mi pare straniero», disse, «e mi sembra perplesso, perché non ha ordinato niente?». Quando mi interpellò la buona signora io Stavo sillabando il menu, e mi accingevo a farmi dire dal cameriere quali ingredienti erano contenuti nelle pietanze; la ringraziai e spiegandole il mio dilemma le dissi che non riuscivo a capire quali pietanze fossero vegetariane perché non sapevo il francese. «Lasci che l'aiuti», mi disse. «Le spiegherò la carta e le indicherò quello che può mangiare». Con gratitudine approfittai della sua cortesia, e fu l'inizio di una conoscenza che sbocciò in un'amicizia e perdurò durante tutto il mio soggiorno in Inghilterra e molto dopo; mi diede il suo indirizzo a Londra e mi invitò a pranzare da lei ogni domenica sera. Mi invitava anche quando c'era qualche occasione speciale, mi aiutava a vincere la mia ritrosia e mi presentava a giovani donne incoraggiandomi ad intrattenermi con loro. Particolarmente scelta per queste conversazioni era una giovane che abitava da lei, e spesso ci lasciava completamente soli. Al principio trovavo tutto ciò molto faticoso, non riuscivo ad intavolare una conversazione né a scherzare, ma lei mi incoraggiava. Cominciai ad imparare; e a poco a poco aspettavo le domeniche e presi gusto agli incontri con la giovane amica. Ogni giorno la vecchia signora 'allargava un po' la sua rete, si interessava ai nostri incontri, forse aveva in mente qualche progetto. Ero imbarazzatissimo. «Come vorrei aver confessato alla buona signora che sono sposato!», mi dicevo. «Allora non avrebbe pensato ad un fidanzamento. Comunque, non è mai troppo tardi per riparare, se dico la verità mi eviterò maggiori guai». Preoccupato da questi pensieri, le scrissi una lettera che diceva pressappoco: «Dal giorno che ci incontrammo a Brighton lei è stata buonissima con me, ha avuto cura di me come una madre. Lei ritiene che mi dovrei sposare e perciò mi ha fatto conoscere giovani donne. Per evitare che le cose vadano avanti di questo passo, devo confessarle che non sono degno del suo affetto: quando oh cominciato a venire da lei avrei dovuto dirle che sono sposato, ma sapevo che in Inghilterra gli studenti indiani dissimulano il fatto di essere coniugati e oh seguito il loro esempio. Ora capisco di avere sbagliato. Devo precisare che mi hanno sposato ancora bambino e che oh un figlio. Sono desolato di averle nascosto queste cose per tanto tempo, ma sono contento che ora Dio mi abbia dato il coraggio di dire la verità. Mi vuole perdonare? Le assicuro che non oh preso libertà sconvenienti con la giovane alla quale lei mi ha così gentilmente presentato, oh saputo rimanere al mio posto. Ignorando che ero sposato, naturalmente lei desiderava che ci fidanzassimo: per evitare che le cose si complichino ancora di più, è mio dovere dirle la verità. Se dopo aver letto questo, lei sarà del parere che mi sono reso indegno della sua ospitalità, le assicuro che capirò. Oh verso di lei un debito di gratitudine eterno per la gentilezza e premura che mi ha dimostrate; se, dopo quanto le dico, lei non mi respingerà ma continuerà a considerarmi meritevole della sua ospitalità, cosa che mi sforzerò in tutti i modi di meritare, ne sarò naturalmente felicissimo e la considererò una ennesima prova della sua gentilezza».

Sappia il lettore che una lettera simile non la scrissi in un attimo, l'oh scritta e riscritta molte volte, ma alleviò un peso che mi stava schiacciando. Quasi a giro di posta mi arrivò la risposta, che più o meno diceva: «Oh ricevuto la sua lettera sincera. Ne siamo state tutte e due molto contente e ci siamo fatte delle gran risate, la menzogna di cui lei dice di essersi reso colpevole è scusabile, ma ha fatto bene ad informarci di come stanno le cose. Io l'aspetto sempre da me, e certamente deve venire domenica prossima perché siamo impazienti di sapere tutto del suo matrimonio da bambino per ridere alle sue spalle. Devo ripeterle che la nostra amicizia non è per nulla cambiata dopo questo incidente ». Così mi liberai dal tarlo della menzogna e da allora non esitai a dire che ero sposato ogni qualvolta fu necessario. Indice

20. CONOSCENZA DELLE RELIGIONI Verso la line del secondo anno che passai in Inghilterra, incontrai due teosofisti, fratelli, ed ambedue scapoli, mi parlarono della Gita, ne stavano leggendo la traduzione di Sir Edwin Arnold La Canzone Celeste - e mi proposero di leggere l'originale assieme. Mi vergognai, perché non avevo mai letto quel sacro poema, né in sanscrito né in gujarati, fui costretto a confessare che non conoscevo la Gita, ma che l'avrei letta volentieri con loro e che anche se il sanscrito lo sapevo poco, speravo nondimeno di riuscire a capire l'originale almeno tanto da afferrare in quali punti la traduzione non riuscisse a rendere il significato esatto. Cominciai dunque a leggere con loro la Cita, e i versi del secondo capitolo: Se uno medita sull’oggetto dei sensi, da lì nasce l'attrazione, l'attrazione diventa desiderio, il desiderio s'infiamma di passione selvaggia, la passione genera l'incoscienza; poi la memoria completamente tradita fa dimenticare lo scopo nobile e insidia la mente finché scopo, mente e uomo non sono che rovina.

Mi fecero una grande impressione e ancora mi risuonano nelle orecchie. Il libro mi colpì come un'opera di valore inestimabile, convinzione che da allora si è andata accrescendo tanto che oggi lo considero il libro par excellence per la comprensione della verità. Mi è stato di grandissimo aiuto nei momenti di tristezza, oh letto quasi tutte le traduzioni inglesi esistenti e trovo che la migliore è quella di Sir Edwin Arnold, perché è rimasto fedele al testo, eppure non sembra una traduzione. Lessi la Gita assieme a quegli amici, ma allora non la studiai, fu solo qualche anno più tardi che cominciai a leggerla ogni giorno. 1 fratelli mi consigliarono anche La luce dell'Asia, di Sir Edwin Arnold, che fino ad allora conoscevo come autore de La Canzone celeste, e lo trovai ancora più interessante del Bhagavadgita, una volta iniziato, non riuscii più a smettere. Mi condussero al Padiglione Blavatsky e mi presentarono alla signora Blavatsky e alla signora Besant, la quale proprio allora era entrata a far parte della società teosofica e io seguivo con grande interesse le discussioni sulla sua conversione. Gli amici mi consigliarono di entrare anch'io a far parte della società, ma declinai cortesemente, dicendo loro: «Data la poca conoscenza che oh della mia propria religione, non voglio appartenere a nessun altro organo religioso». Ricordo dì aver letto, spinto dai fratelli, La chiave alta teosofia, della signora Blavatsky, e quel libro mi fece venire voglia di leggerne altri sull'induismo e mi levò dalla testa l'idea diffusa dai missionari, che l'induismo fosse zeppo di superstizioni. In quel periodo circa in una pensione vegetariana incontrai un buon cristiano di Manchester, che mi parlò del cristianesimo. Gli narrai i miei ricordi di Rajkot, e udire quelle cose gli dispiacque, mi disse: «Io sono vegetariano, non bevo liquori; è vero, molti cristiani mangiano carne e bevono, ma né il mangiare carne né il bere sono prescritti dalle Sacre Scritture. Ti prego, leggi la Bibbia». Accettai il suo consiglio, e me ne procurò una copia, ricordo vagamente che lui stesso vendeva copie della Bibbia, ne comperai un'edizione corredata da carte, indici analitici ed altre appendici. Cominciai a leggerla, ma non riuscii a finire il Vecchio Testamento; lessi la Genesi, i capitoli successivi mi facevano immancabilmente venire sonno, comunque proprio per il gusto di poter dire che li avevo letti, perseverai nella lettura degli altri libri con molta fatica e senza nessun interesse, anzi non capendoci niente. Non mi piacque nemmeno il Libro dei Numeri. Ma il Nuovo Testamento mi fece tutt'altra impressione, specialmente il Sermone della Montagna, che mi andò dritto al cuore. Lo paragonai alla Gita, i versetti: «Ma io vi dico, accettate il male: a chi vi colpirà sulla guancia destra, offrite anche l'altra, e a colui che vi prende il mantello, date anche la cappa» mi incantò oltre ogni dire e pensai al Shamal Bhatt: «Per una ciotola d, acqua, offrì un buon pasto» ecc. La mia giovane mente cercò una similitudine tra gli insegnamenti della Gita, quelli contenuti nella Luce dell'Asia e quelli del Sermone della Montagna. Il fatto che la rinuncia fosse considerata la più alta espressione religiosa mi attraeva molto. Quelle letture mi fecero venire voglia di leggere le vite di altri maestri sacri; un amico mi consigliò Gli eroi ed il culto degli eroi di Carlyle, lessi il capitolo sull'Eroe profeta e appresi della grandezza, del coraggio, e della vita austera che conduceva il Profeta. Per ora non mi potevo spingere oltre in questa prima conoscenza della religione, perché la preparazione agli esami mi lasciava poco tempo da dedicare ad altri argomenti, ma mentalmente presi nota del fatto che dovevo leggere più libri di religione e approfondire tutte le religioni principali. E dovevo informarmi anche sull'ateismo, tutti gli indiani conoscevano il nome di Bradlaugh ed il suo cosiddetto ateismo. Lessi qualche libro in materia, ma non ricordo i titoli, tuttavia non mi fecero effetto, perché avevo già oltrepassato il Sahara dell'ateismo. La signora Besant, allora molto sulla cresta dell'onda, dall'ateismo era passata al teismo e anche questo contribuì a rafforzate la mia avversione per l'ateismo. Avevo letto il suo libro Come diventai teosofista. Fu circa a quell'epoca che morì Bradlaugh. Fu sepolto nel Cimitero di Woking, mi recai al funerale, come credo fecero tutti gli indiani residenti a Londra. C'era anche

qualche prete a rendergli gli ultimi onori. Tornando dal funerale aspettammo il treno, alla stazione; dalla folla un paladino dell'ateismo cominciò a far domande imbarazzanti ad un ecclesiastico: «Beh, signore, lei crede nell'esistenza di Dio». «Sì, io credo», rispose il brav'uomo a bassa voce. «Lei crede anche che la circonferenza della Terra è di 28.000 miglia, vero?», disse l'ateo con un sorriso auto-compiaciuto. «Certo». «La prego, mi vuol dire quanto misura il suo Dio e dove si trova?» «Mah, se solo volessimo capacitarcene, risiede nei nostri cuori». «Su, non mi tratti come un bambino», esclamò il paladino dandoci un'occhiata trionfante. Il prete si chiuse in un silenzio umile. Questo dialogo non fece che aumentare i pregiudizi che nutrivo contro l'ateismo. Mi ero fatto un'idea sull'induismo e sulle altre religioni del mondo, ma avrei dovuto sapere che non sarebbe bastata, a salvarmi nei momenti di crisi: cosa sia a sostenerlo in mezzo alle difficoltà, l'uomo non ne ha la minima idea, lo ignora completamente, al momento buono. Se è miscredente penserà di essersi salvato perché è fortunato, se è credente, affermerà che a salvarlo è stato Iddio, e concluderà, a ragione, che lo stato di grazia che lo pervadeva lo doveva ai suoi studi religiosi o alla disciplina spirituale. Ma nell'ora della liberazione, non sa se a salvarlo sia la sua disciplina spirituale o qualche altra cosa. Chi, essendosi vantato della sua forza spirituale, non l’ah vista ridotta in polvere? Aver studiato le religioni, se si manca di esperienza, è cosa vana nell'ora dei bisogno. Fu in Inghilterra che mi resi conto di quanto fosse inutile la semplice conoscenza delle religioni. Non posso dire come mi fossi salvato precedentemente, perché allora ero molto giovane; ma adesso avevo vent'anni ed essendo marito e padre qualche esperienza l'avevo fatta. Mi pare di ricordare che fu l'ultimo anno che soggiornai in Inghilterra, cioè nel 1890, che a Portsmouth si svolse una conferenza vegetariana alla quale fummo invitati un mio amico indiano ed io. Portsmouth è un popoloso e movimentato porto di mare, abitato da una popolazione marinara, vi sono molte case di donne di dubbi costumi, non proprio prostitute, ma donne non molto scrupolose in fatto di morale; fummo sistemati in una di queste case. Naturalmente il comitato di accoglienza non sapeva che tipo di casa fosse, era difficile in una città come Portsmouth stabilire quali erano le abitazioni raccomandabili e quali invece quelle non raccomandabili a viaggiatori occasionali come noi. Tornammo a casa dalla conferenza in serata, dopo pranzo facemmo una partita di bridge alla quale partecipò anche la padrona di casa, come è in uso in Inghilterra anche fra le famiglie rispettabili. I giocatori naturalmente si scambiano innocenti scherzi, ma il mio compagno e la nostra padrona cominciarono a dire cose oscene. Non sapevo che il mio amico fosse esperto in quest'arte, mi divertii e seguii il loro esempio, ma quando stavo per oltrepassare il limite, abbandonando carte e gioco, Dio, per bocca del mio buon compagno, pronunciò l'avvertimento benedetto: «Donde viene questo diavolo che ti possiede, ragazzo? Vattene, presto!». Mi vergognai, accettai l'avvertimento e internamente manifestai la mia riconoscenza all'amico. Ricordando la promessa fatta a mia madre fuggii, mi ritirai in camera mia scosso, tremante, e con il cuore in tumulto, come una preda scappata all'inseguitore.

Fu la prima volta che fui spinto alla concupiscenza da una donna che non era mia moglie, trascorsi la notte insonne assalito da ogni sorta di pensieri. Dovevo lasciare quella casa? Dovevo fuggirmene da lì? Dov'ero? Cosa mi sarebbe successo se perdevo la testa? Decisi di agire con molta cautela; e di non cambiare alloggio, ma di andarmene da Portsmouth. La Conferenza durava ancora due giorni, ricordo che lasciai Portsmouth la sera successiva mentre il mio compagno vi rimase più a lungo. Allora non sapevo niente né dello spirito religioso né di Dio, né sapevo come Egli opera in noi, mi resi conto solo vagamente che quella volta Iddio mi aveva protetto. Egli mi ha aiutato in tutti i momenti di crisi, la frase Mio mi ha salvato ha oggi per me un significato più pieno, tuttavia sento di non averne ancora afferrato il significato vero: potrò giungere ad una comprensione più totale solo attraverso una più completa esperienza. Ma nelle ore difficili della mia vita - crisi spirituali, difficoltà nell'esercizio della professione legale, nella conduzione di organizzazioni e nella politica posso affermare che Iddio mi ha salvato. Quando non c'è più speranza, .quando cessano gli aiuti e manca la consolazione", scopro che l'aiuto mi arriva, non so da dove. Le suppliche, l’adorazione, la preghiera non sono superstizioni; sono azioni più reali che il mangiare, il bere, il sedersi o il camminare. Non è esagerazione affermare che solo esse sono vere e tutto il resto è illusione. L'adorazione o la preghiera non sono semplici slanci di eloquenza; non sono omaggi superficiali, scaturiscono dal cuore, perciò, se il nostro spirito raggiunge quella purezza che lo rende mondato da tutto salvo che dall'amore, se tutte le corde del nostro arco sono tese a dovere, esse “tremando si trasformano in musica e svaniscono”. Alla preghiera non servono le parole; io non dubito minimamente che la preghiera sia un mezzo infallibile per liberare il cuore dalle passioni, ma deve essere pronunciata con grande umiltà. Indice

22. NARAYAN HEMCHANDRA Circa a quei tempi arrivò in Inghilterra Narayan Hemchandra. Avevo sentito parlare di lui come scrittore, ci incontrammo in casa della signorina Manning, della associazione nazionale indiana. La signorina Manning sapeva che la gente mi intimidiva, quando ero da lei rimanevo seduto a bocca chiusa, senza mai parlare se non quando mi si rivolgeva la parola. Mi presentò a Narayan Hemchandra. Egli non parlava inglese, il suo abbigliamento era strambo: un goffo paio di pantaloni, un cappotto, come lo portano i parsi, spiegazzato e sporco, né cravatta né colletto, e in testa un berretto infiocchettato, e aveva una lunga barba. Era di corporatura sottile e basso di statura, la sua faccia tonda era deturpata dal vaiolo ed il naso non era né a punta né all'insù, con la mano si torceva continuamente la barba. Una persona dall'aspetto cosi bizzarro e vestita tanto stranamente era destinata a far colpo nella società mondana. «Oh sentito molto parlare di lei», gli dissi, «oh anche letto qualche suo scritto. Sarei molto felice se lei acconsentisse a venirmi a trovare». Narayan Hemchandra parlava con voce un po' roca. Sorridendo mi rispose: «Certo, dove abita? », «In via Store». «Allora siamo vicini. Voglio imparare l'inglese, me lo insegnerebbe?». «Sarò felice di insegnarle quello che so, e farò del mio meglio, Se vuole, verrò io da lei».

Oh, no, vengo io da lei, e mi porterò anche un quaderno per le traduzioni». Fissammo un appuntamento, e presto diventammo grandi amici. Narayan Hemchandra non aveva nessuna nozione di grammatica, per lui "cavallo" era un verbo e "correre" un sostantivo. Ricordo molti comici esempi simili. Ma non si lasciava scoraggiare dalla sua ignoranza, quel poco che sapevo io di grammatica non lo impressionava affatto, certamente non considerò mai la sua ignoranza grammaticale un motivo di vergogna. Disse con grande noncuranza: «Non sono mai andato a scuola come te. Non oh mai provato il bisogno della grammatica per esprimere i miei pensieri. Per esempio, tu sai il bengali? io sì, sono stato nel Bengala. Oh diffuso io le opere del Maharshi Davendranath Tagore nelle zone dove si parla il gujarati, ed è mia intenzione tradurre in gujarati i capo lavori scritti in molte altre lingue. Come sai, le mie traduzioni non sono mai fedelissime, mi accontento di rendere lo spirito dell’opera. Altri, più istruiti di me, potranno fare di più in avvenire, ma io sono proprio soddisfatto di quello che sono riuscito a fare senza l’aiuto della grammatica. So il jnarathi, l’indù, il bengali ed ora oh cominciato ad imparare l’inglese. Quello che mi serve è sapere tante parole; e credi che le mie ambizioni siano tutte qui? Niente affatto, voglio andare in Francia per imparare il francese. Mi dicono che in quella lingua esiste una letteratura abbondante; andrò anche in Germania, se potrò, per imparare il tedesco». E continuava a chiacchierare senza posa, per lo studio delle lingue e i viaggi all’estero era di un’ambizione sconfinata. «Allora andrai anche in America?» «Certamente, come posso tornare in India senza aver visto il Nuovo Mondo?». «Ma dove troverai i soldi?». «Cosa me ne faccio dei soldi? Non sono un uomo di mondo come te, a me basta il minimo cibo indispensabile e il minimo indispensabile abbigliamento, mi basta quel poco che ricavo dai miei libri e che mi danno i miei amici. Viaggio sempre in terza, anche andando in America viaggerò sul ponte». Narayan Hemchandra era di una semplicità e di una franchezza tutte speciali, non aveva il minimo orgoglio, eccezione fatta per la forma di rispetto piuttosto esagerata che nutriva per le sue proprie capacità di scrittore. Ci incontravamo ogni giorno, il nostro modo di pensare e di agire era molto simile. Eravamo vegetariani tutti e due, e spesso facevamo colazione insieme, erano i giorni in cui vivevo con 17 scellini alla settimana e mi facevo da mangiare da solo. A volte andavo io da lui, a volte veniva lui da me. Io cucinavo alla maniera inglese, a lui piaceva solo la cucina indiana, non riusciva a fare a meno del dal. Io preparavo minestre di carote, ecc. e lui deplorava i miei gusti. Una volta riuscì non so come a scovare un mung (legume), lo cucinò e lo portò da me, lo mangiai con delizia, così ebbe inizio fra noi un regolare sistema di scambi, io gli portavo le ghiottonerie che avevo io e lui mi portava quelle che aveva lui. Il nome del cardinale Manning era su tutte le labbra, uno sciopero dei portuali era stato composto rapidamente grazie agli sforzi compiuti da Jonn Burns e dal cardinale Manning. Dissi a Narayan Hemchandra che Disraeli aveva reso omaggio alla semplicità del Cardinale. «Allora devo incontrare il saggio, » esclamò lui. «E’ un uomo importante. Come vuoi incontrarlo?». «Perché? So come fare: devi scrivergli tu da parte mia, digli che sono un autore e che mi voglio rallegrare personalmente con lui per l'opera umanitaria che ha compiuto, e digli anche che dovrò portare te come interprete dato che non so l'inglese». Scrissi la lettera. Due o tre giorni dopo arrivò un biglietto di risposta del Cardinale Manning, che ci fissava un appuntamento; così ci recammo tutti e due dal Cardinale, io indossai il mio abituale abito da cerimonia, Narayan Hemchandra era combinato come al suo solito, con lo stesso cappotto e gli stessi pantaloni. Cercai di prenderlo in giro, ma mi rise in faccia dicendomi:

«Voi persone civilizzate siete tutte codarde. I grandi uomini non badano mai alle apparenze, per loro conta solo il cuore». Entrammo nella residenza del Cardinale. Appena ci fummo seduti apparve un vecchio signore magro, alto, che ci diede la mano. Narayan Hemchandra lo salutò così: «Non voglio farle perdere tempo: oh sentito molto parlare di lei e oh pensato che era mio dovere ringraziarla per il bel lavoro da lei compiuto in favore degli scioperanti. È sempre stata mia abitudine andare a trovare i saggi di questo inondo, ecco perché la disturbo oggi». Questa fu naturalmente la mia traduzione di quello che disse lui in gujarati. «Sono contento che lei sia venuto, spero che passerà a Londra un periodo gradevole e che verrà a contatto con la gente di qui. Dio vi benedica». Pronunciate queste parole il Cardinale si alzò e ci salutò. Una volta Narayan Hemchandra venne da me indossando una camicia e il dohti. La buona padrona di casa aprì la porta e venne correndo da me tutta spaventata - era una nuova che non conosceva ancora Narayan Hemchandra dicendomi: «C'è una specie di pazzo che vuole vederla». La seguii e con mia sorpresa vidi Naravan Hemchandra; mi scandalizzai, ma sulla sua faccia brillava il solito sorriso. «Ma i bambini per la strada non ti hanno molestato?» «Sì, mi sono corsi dietro, ma io non ci oh badato e si sono calmati». Dopo qualche mese di soggiorno a Londra, Naravan Hemchandra andò a Parigi, si mise a studiare il francese e anche a tradurre libri francesi. Io sapevo un po' di francese, tanto da rivedere le sue traduzioni, così me le diede da leggere-, non erano traduzioni, spiegavano la sostanza. Finalmente mise in atto il suo progetto di andare in America. Dopo molte difficoltà riuscì a procurarsi un biglietto, durante il suo soggiorno negli Stati Uniti fu processato per abbigliamento “contrario alla decenza, perché una volta uscì in camicia e dohti (pezza di stoffa avvolto attorno ai fianchi, che copre anche le gambe. Ricordo che fu assolto. Indice

23. LA GRANDE ESPOSIZIONE Nel 1890 a Parigi ci fu la grande esposizione. Avevo letto che si stavano facendo grossi preparativi, e avevo molta voglia di vedere Parigi, pensai dunque che mi conveniva abbinare le due cose e andarci adesso. Speciale attrazione alla esposizione era la Torre Eiffel, tutta costruita in ferro e alta circa 1.000 piedi. Naturalmente vi erano molte altre cose interessanti, ma la più interessante era la Torre, dacché fino ad allora si supponeva che una struttura di quell’altezza non potesse reggersi in piedi. Avevo sentito dire che a Parigi esisteva un ristorante vegetariano, vi affittai una camera e vi abitai per sette giorni. Organizzai tutto con pochissima spesa, sia il viaggio che le visite turistiche, girai quasi sempre a piedi e con l’aiuto di una pianta di Parigi e anche di una pianta e di una guida dell’Esposizione, grazie alle quali mi orizzontai e trovai le strade principali ed i posti di maggiore interesse. Non ricordo nulla dell’Esposizione, se non la sua vastità e varietà. Rammento abbastanza bene la Torre Eiffel, dato che vi salii due o tre volte; c’era un ristorante sulla prima piattaforma, e proprio per la soddisfazione di poter dire che avevo fatto colazione a tale altitudine, buttai via sette scellini per mangiarvi. Oh vivide nella memoria le antiche chiese di Parigi, la loro grandiosità e la loro quiete sono indimenticabili. La stupenda struttura di Nótre Dame e la elaborata decorazione dell’interno con le sue meravigliose sculture non si possono scordare: sentii allora che coloro che avevano speso milioni per erigere quelle cattedrali divine non potevano non avere nel cuore l’amore per Dio.

Avevo letto molto sulle mode e le frivolezze di Parigi, che erano visibili ovunque per strada, ma le chiese rappresentavano delle oasi: entrando in una di quelle chiese si dimenticavano il rumore ed il trambusto esterno, si cambiava atteggiamento, ci si comportava con dignità e riverenza passando accanto a qualcuno inginocchiato davanti ad un’immagine della Vergine. Il sentimento che provai allora non ha fatto che rafforzarsi: tutto quell’inginocchiarsi e pregare non poteva essere semplice superstizione; le anime pie che si prostravano davanti alla Vergine non si limitavano ad adorare un pezzo di marmo, erano animate da una devozione genuina e non adoravano la pietra, ma la divinità simboleggiata. Mi pare di rammentare che allora provai la sensazione che così adorando essi non sminuivano, anzi accrescevano, la gloria di Dio. Devo dire una parola sulla Torre Eiffel. Non so a cosa serva oggi, ma allora sentii dirne molto male e molto bene. Ricordo che fra i suoi denigratori più accaniti vi era Tolstoi, dichiarò che la Torre Eiffel era un monumento alla pazzia dell’uomo, non alla sua saggezza. Sosteneva che il tabacco è il peggiore dei tossici, dato che un uomo che vi è assuefatto soccombe alla tentazione di commettere crimini che un ubriaco non avrebbe mai osato commettere; l’alcool rendeva l’uomo demente, ma il tabacco gli offuscava l’intelletto, lo portava a fabbricare castelli in aria, e la Torre Eiffel è una delle opere erette dall’uomo sotto tale influenza. Non ha nulla di artistico, non si può dire che abbia contribuito in alcun modo ad abbellire realmente l’Esposizione. La gente accorreva a vederla e vi saliva sopra perché era una novità e aveva dimensioni uniche, era il giocattolo dell’Esposizione: finché siamo bambini i giochi ci attirano e la Torre stava proprio a dimostrare che siamo tutti fanciulli attratti dai gingilli. Si può affermare che a questo è servita la Torre Eiffel. Indice 24. “NOMINATO”: MA POI? Finora oh tralasciato di parlare della ragione per la quale ero andato in Inghilterra, cioè la mia nomina ad avvocato; è tempo ora di occuparcene brevemente. Per poter essere formalmente ammesso a legge uno studente doveva osservare due regole: “fare atto di presenza” per dodici sessioni cioè per circa tre anni, e passare agli esami. Fare atto di presenza”, significava consumare i pasti durante le sessioni, cioè essere presenti a circa sei pasti su 24 durante una sessione; ma consumare non significava dover mangiare, bensì fare atto di presenza all’ora stabilita e assistere al pranzo. Di solito, naturalmente, tutti mangiavano e bevevano i buoni cibi ed i vini scelti che venivano serviti. Un pasto costava da due scellini e sei penny a tre scellini e sei, cioè da due a re rupie, ed era da considerarsi un prezzo ragionevole, perché in un albergo si spendeva altrettanto solo per i vini. Non in India troviamo molto strano, se non siamo “civilizzati”, che il costo delle bevande superi quello del cibo. La prima volta ne fui molto colpito e mi domandai con quale coraggio la gente buttava via tanti soldi per il bere, poi più tardi riuscii a capire. Spesso non mangiavo niente a quei pranzi perché avrei potuto mangiare solo pane, patate bollite e cavolo. All'inizio questi cibi non li mangiavo, perché non mi piacevano; e più tardi, quando cominciai ad apprezzarli, trovai anche il coraggio di chiedere altre pietanze. I pasti serviti ai giudici erano migliori di quelli serviti agli studenti. Uno studente parsi, vegetariano anche lui, ed io, richiedemmo nell'interesse del vegetarianismo che ci venissero servite le pietanze vegetariane riservate ai giudici, richiesta che fu accolta, ci diedero la frutta e le verdure servite alla tavola dei giudici.

A ogni gruppo di quattro venivano concesse due bottiglie di vino, e dato che io non lo toccavo, ero sempre richiestissimo come quarto, così in tre si bevevano due bottiglie E c'era una "serata straordinaria" per sessione, durante la quale si servivano vini speciali, come lo champagne, oltre al porto e allo sherry: mi si richiedeva insistentemente di partecipare ed ero molto ricercato durante quelle "serate straordinarie". Non capivo allora, né l'oh mai capito in seguito, come il partecipare ai pasti potesse rendere gli studenti più degni della professione. Un tempo, ai pasti prendevano parte solo pochi studenti, avevano allora modo di intrattenersi con gli avvocati e si tenevano anche discorsi; tali occasioni li aiutavano ad entrare in dimestichezza con il mondo, acquistando una certa raffinatezza e un certo garbo, e gli davano modo di imparare ad esprimersi. Ma ai tempi miei non era più così perché i membri del Collegio sedevano ad un tavolo a parte; l'istituzione aveva a poco a poco perso ogni significato, ma la conservatrice Inghilterra continuava a mantenerla in vita. Il programma di studi era facile e gli avvocati erano detti scherzosamente "gli avvocati conviviali", tutti sapevano che gli esami non contavano praticamente nulla. Ai tempi miei ce ne erano due, uno di Diritto Romano e l'altro di Diritto Consuetudinario, per gli esami erano prescritti regolari libri di testo che si potevano frazionare, ma quasi nessuno li leggeva. So di molti che hanno dato l'esame di Diritto Romano sfogliando in un paio di settimane appunti di Diritto Romano, e quello di Diritto Consuetudinario leggendo appunti in materia per un paio di mesi. Gli esami erano facili, gli esaminatori indulgenti, la percentuale di promossi all'esame di Diritto Romano era di 95/99 e di.quelli promossi all'esame finale di 75 e più. Dunque c'erano poche probabilità di essere bocciati, e gli esami si svolgevano non una ma quattro volte all'anno non si poteva dite rappresentassero una seria difficoltà. Invece io ne feci una montagna, trovavo che era mio dovere leggere tutti i libri di testo, sarebbe stato un imbroglio, pensavo, non leggerli. Spesi molti soldi per comperarli. Decisi di leggere Diritto Romano in latino, il latino che avevo imparato per dare l'esame di ammissione all'Università di Londra mi fu di grande aiuto (e tutta quelle letture mi furono utili più tardi in Sud Africa, dove vige la legge Romana Olandese; perciò la lettura di Giustiniano mi servì a capire la legge sud africana). Mi ci vollero nove mesi di studio piuttosto intenso per imparare il Diritto Consuetudinario inglese; il Diritto Consuetudinario di Broom, un libro voluminoso ma interessante, mi portò via un altro bel po' di tempo; La giustizia di Snell, anche molto interessante, era un po' difficile da capire; Cause principali di White e Tudor, di cui dovevamo studiare alcuni casi, era molto utile e molto istruttivo. Lessi con interesse anche Beni Immobili di N. William e Edward, e di Goodeve Proprietà privata: il libro di William si leggeva come un romanzo. Un libro che ricordo di aver letto tornando in India, con lo stesso enorme interesse, fu Diritto indù di Mayne. Ma non è ora il momento di parlare di libri di legge indiani. Promosso agli esami, fui iscritto all'albo degli avvocati il 10 giugno 1891 e fui ammesso all'Alta Corte il giorno 11. Il 12 mi imbarcai per tornare a casa. Nonostante gli studi compiuti il mio smarrimento ed il mio terrore rimanevano illimitati, non mi sentivo all'altezza di esercitare l'avvocatura. Ma descriverò questo mio smarrimento in un capitolo a parte. Indice 25. MIO SMARRIMENTO

Farsi iscrivere all'albo degli avvocati era facile, ma era difficile esercitare; avevo studiato legge, ma non avevo imparato a praticarla, avevo letto con interesse Le massime legali ma non sapevo come applicarle alla mia professione. Una di esse era Sic utere tuo ut alienum non laedas (usate della vostra proprietà in modo da non danneggiare quella altrui), ma io ignoravo come si potesse applicare questa massima a vantaggio dei propri clienti. Avevo letto i casi più salienti, ma non mi erano serviti di guida per la sua applicazione nell'esercizio della legge. Inoltre, non avevo imparato nulla di diritto indiano, noti avevo nessuna nozione di diritto indù e maomettano, non avevo nemmeno imparato a sporgere una querela e mi sentivo completamente in alto mare. Avevo sentito dire di Sir Pherozeshah Mehta che ruggiva come un leone nei tribunali. Come aveva fatto, mi domandavo, ad imparare quell'arte in Inghilterra? Era poco ma sicuro che non avrei mai acquisito un acume legale paragonabile al suo, ma dubitavo seriamente di riuscire almeno a guadagnarmi la vita esercitando quella professione. Mentre studiavo legge mi dilaniavano questi dubbi e queste ansietà; confidai le mie difficoltà ad alcuni miei amici, uno mi consigliò di chiedere consiglio a Dadabhai Naoroji. Oh già detto che partendo per l'Inghilterra, avevo un biglietto di presentazione per Dadabhai; a cui feci ricorso molto tardi; pensavo di non aver il diritto di scomodare un così grand'uomo sollecitandogli un'intervista. Ogni volta che veniva annunciato un suo discorso, io lo ascoltavo, ritto in un angolo della sala e poi me ne andavo avendo gioito con gli occhi e con le orecchie; per poter stabilire un più stretto contatto con gli studenti aveva fondato un'associazione, io mi recavo alle riunioni e godevo della sollecitudine per gli studenti dimostrata da Dadabhai e del loro rispetto per lui. Col tempo trovai il coraggio di consegnargli il mio biglietto di presentazione, e disse: «Venga a chiedermi consiglio quando vuole». Ma non approfittai mai della sua offerta, perché pensavo che non fosse giusto disturbarlo, se non in caso di grande necessità: perciò non mi azzardai allora a seguire il consiglio del mio amico, che mi diceva di sottoporre le mie perplessità a Dadabhai. Non ricordo adesso se fu lo stesso amico o un altro che mi consigliò di incontrare il signor Frederick Pincutt, il quale era un conservatore, ma provava un affetto genuino e altruista per gli studenti indiani. Molti studenti ricercavano i suoi consigli e anch'io gli chiesi un appuntamento, che mi concesse, non dimenticherò mai quell'incontro, mi accolse come un amico, rise del mio pessimismo: «Tu credi che tutti debbano diventare dei Pherozeshah Mehta? Pherozeshah e Badruddin sono eccezionali. Credi pure, non ci vogliono doti straordinarie per diventare un normale avvocato, molta onestà e voglia di lavorare bastano per guadagnarsi da vivere; non tutte le cause sono complicate. Beh, parlami un po' delle tue letture generali». Quando gli dissi di quel poco che avevo letto, rimase, me ne resi conto, piuttosto male, ma solo per un attimo, poi la sua faccia fu illuminata nuovamente da un sorriso radioso e mi disse: «Capisco, qual'è il tuo guaio: hai letto troppo poco. Non hai nessuna conoscenza del mondo, un sine qua non per un vakil. Non hai nemmeno letto la storia dell'India. Un vakil dovrebbe conoscere la natura umana, dovrebbe sapere interpretare il carattere di un uomo dalla sua espressione. E ogni indiano dovrebbe conoscere la storia indiana. Non c'entrano con l'esercizio dell'avvocatura, ma tu queste cose le dovresti sapere. Vedo che non hai neanche letto la storia dell'Ammutinamento del 1857 di Kaye e Malleson. Cercalo subito e leggi anche questi due per capire la natura umana». Si trattava delle opere di Lavator e Shemmelpennick sulla fisionomia. Fui estremamente grato a questo mio venerabile amico. Finché rimasi al suo cospetto tutte le mie paure svanirono, ma appena lo lasciai cominciai di nuovo a

preoccuparmi. "Riconoscere un uomo dall'espressione del suo viso" era l'idea che mi ossessionava, mentre tornavo a casa ripensando ai due libri. Il giorno dopo comperai il libro di Lavater, quello di Shemmelpennick in quel negozio non c'era. Lessi il libro di Lavater e lo trovai più difficile di Giustizia di Snell, e di scarso interesse; studiai la fisionomia di Shakespeare, ma non imparai l'arte di riconoscere gli Shakespeare fra coloro che camminavano per le strade di Londra. Il libro di Lavater non mi insegnò niente, e i consigli del Signor Pincutt mi furono di scarsa utilità pratica, ma la sua gentilezza mi servì molto. La sua faccia sorridente e aperta mi rimase impressa nella mente e mi fidai delle sue parole, e cioè che l'acume, la memoria e l'abilità di Pherozeshah Mehta non erano essenziali per diventare un buon avvocato; bastavano l'onestà e la voglia di lavorare. E dato che queste ultime doti non mi mancavano mi sentii un po' rassicurato. Non riuscii a leggere i volumi di Kaye e Malleson in Inghilterra, ma li lessi in Sud Africa, mi ero prefisso di leggerli appena possibile. Così, con un pizzico di speranza mescolata alla mia disperazione sbarcai a Bombay dal piroscafo Assam; mare in porto il era agitato e perciò raggiunsi il molo in motolancia. Indice PARTE SECONDA

1. RAYCHANDBHAI Oh detto nel capitolo precedente che il mare era agitato nel porto di Bombay, cosa non abituale nell'Oceano Indiano in giugno è in luglio. Era stato sempre increspato durante il viaggio da Aden, quasi tutti i passeggeri si erano sentiti male; solo io stavo benone, andavo sul ponte a vedere i tempestosi flutti e mi godevo gli spruzzi delle onde. Per la prima colazione la mattina si presentavano solo una o due persone oltre a me, mangiavamo la zuppa d'avena con i piatti accuratamente mantenuti sulle ginocchia, per evitare che sulle ginocchia ci finisse invece la zuppa. Per me, la tempesta degli elementi simboleggiava la tempesta che avevo dentro, la prima mi lasciava imperturbabile, e credo di poter affermare che anche la seconda mi turbava poco. Mi aspettavano i guai con la casta, e oh già parlato del mio smarrimento nell'iniziare la mia professione; inoltre, dato che ero un riformatore, meditavo sul modo migliore per varare certe riforme, ma non mi rendevo conto quali guai mi aspettassero. Mio fratello maggiore mi era venuto incontro sul molo. Aveva già fatto conoscenza con il dottor Mehta e con suo fratello più grande, e dato che il dottore insisteva perché accettassi la sua ospitalità, ci recammo da lui, così la conoscenza iniziata in Inghilterra continuò in India e maturò in un'amicizia duratura fra le due famiglie. Mi struggevo dalla voglia di rivedere mia madre. Non sapevo che non era più e che non avrebbe più potuto stringermi al suo seno; mi venne data la triste notizia e mi sottoposi alle abluzioni d'uso. Mio fratello mi aveva tenuta nascosta la sua morte, avvenuta quando mi trovavo ancora in Inghilterra, voleva risparmiarmi quel dolore finché mi trovavo in terra straniera. Però fu ugualmente per me un terribile colpo, ma non mi ci devo soffermare; il mio dolore fu ancora maggiore di quello che avevo provato per la morte di mio padre, si frantumavano le mie più care speranze; ricordo

tuttavia che non mi abbandonai a selvagge espressioni di sofferenza, riuscii anche a frenare le lacrime, e ripresi a vivere come se nulla fosse successo. Il dottor Mehta mi presentò a molti amici, fra i quali era suo fratello Shri Ravyshankar jagjivan, con cui feci amicizia per la vita. Ma l'incontro che debbo ricordare in modo particolare fu quello con il Poeta Raychand o Rajchandra, il genero di un fratello maggiore del dottor Melita e socio della ditta di gioiellieri gestita per conto di Ravashankar Jagjivan. Allora non avrà avuto più di venticinque anni, ma dal primo incontro con lui mi convinsi che si trattava di un uomo dal carattere forte, e molto colto; era noto anche con l'appellativo di Shatavadhani (uno che ha la facoltà di ricordarsi o di badare a cento cose alla volta) ed il dottor Melita mi spinse a metterlo alla prova con esercizi di memoria. Tirai fuori parole in tutte le lingue europee che conoscevo e chiesi al poeta di ripeterle: egli le ripeté nel preciso ordine in cui gliele avevo dette. Invidiai questo suo dono senza tuttavia esserne abbagliato. La cosa di lui che veramente mi affascinò la scoprii più tardi, era la sua vasta conoscenza delle scritture, il suo carattere senza difetti, e la sua passione divorante per l'autoespressione. Mi resi conto più tardi che questa era l'unica cosa per la quale viveva; le righe che seguono, di Muktanand, gli erano sulle labbra e le portava scolpite nel cuore: Mi riterrò benedetto solo quando Lo vedrò rispecchiato in ognuna delle mie azioni quotidiane; In verità Egli è il filo che conduce la vita di Muktanand. Le operazioni commerciali trattate da Raychandbhai ammontavano a centinaia di migliaia di rupie, era un conoscitore di perle e di diamanti, non c'era intricato problema d'affari che non risolvesse, ma il perno intorno al quale girava la sua vita non erano queste cose, era il suo desiderio di essere a tu per tu con Dio. Fra le cose sul suo tavolo di lavoro c'erano invariabilmente dei testi religiosi ed il suo diario: appena aveva terminato i suoi affari apriva il libro sacro o il diario, diario dal quale sono riprodotte molte sue pubblicazioni. Uno, che appena finiva di trattare delicate transazioni d'affari, cominciava a descrivere gli aspetti sconosciuti dello spirito, non era in realtà un uomo d'affari, era un puro ricercatore della Verità. E lo sorpresi del tutto assorto in cose divine mentre ferveva il lavoro, e non solo una o due volte, ma spessissimo. Mai gli vidi perdere la calma. Non avevamo in comune affari o altri interessi egoistici, eppure gli ero legatissimo. Non ero che un avvocatuccio senza cause allora, ma ogni volta che mi incontrava mi impegnava in una conversazione di natura seriamente religiosa: io procedevo ancora a tastoni e non si può dire che mi interessassi seriamente alle discussioni religiose, nondimeno trovavo nella sua conversazione un fascino estremo. Oh poi incontrato molti capi o maestri religiosi, oh cercato di incontrare i maestri di diverse credenze, ma devo dire che mai nessuno mi fece l'impressione che mi fece Raychandbhai: afferravo immediatamente quello che voleva dire, la sua intelligenza suscitava in me un'ammirazione pari a quella che nutrivo per la sua serietà morale e nel mio intimo ero convinto che egli non mi avrebbe mai consciamente fuorviato e mi avrebbe sempre confidato i suoi pensieri più reconditi, perciò nei momenti di crisi spirituale, egli era il mio rifugio. Eppure malgrado il rispetto che nutrivo per lui, non riuscii ad assegnargli il posto di Guru nel mio cuore. Il posto è rimasto vacante e la mia ricerca continua ancora. Credo nella teoria indù del Guru e nella sua importanza per la realizzazione spirituale, credo che ci sia una gran parte di verità nell'insegnamento che la vera conoscenza è impossibile senza un Guru. Un maestro non perfetto può essere tollerato se si tratta di cose mondane, ma non di cose spirituali. Solo un perfetto “gnani” (gnani un illuminato, un saggio) merita di essere elevato a Guru. Perciò la

ricerca della perfezione deve essere incessante, perché ognuno di noi trova il Guru che si merita. E' nostro diritto ricercare la perfezione all'infinito, ne vale la pena, e il resto è nelle mani di Dio. Così, anche se non riuscii a elevare Raychandbhai con il titolo di Guru sul trono del mio cuore, vedremo come egli in molte occasioni mi fu di guida e di aiuto. Tre personaggi contemporanei hanno lasciato una profonda traccia nella mia vita e mi hanno conquistato: Raychandbhai per gli incontri che ebbi con lui; Tolstoi con il suo libro In voi è il Regno di Dio; e Ruskin con il suo Fino all'ultimo. Ma ritornerò su queste cose a tempo debito. Indice 2. COME INIZIAI LA MIA VITA Mio fratello maggiore aveva riposto in me grandi speranze, Egli desiderava molto ottenere ricchezza, notorietà e fama; aveva un gran cuore, era generosissimo, cosa che, abbinata al suo carattere semplice, gli aveva procurato molti amici, e tramite questi amici sperava di procurarmi un lavoro. Era poi convinto che mi sarei fatto un'ottima clientela e in questa attesa lasciò che le spese di casa salissero alle stelle; in verità per prepararmi il terreno non lasciò nulla di intentato. La tempesta che si era scatenata nella mia casta per il mio viaggio all'estero ancora non si era placata; la casta si era divisa in due fazioni, una delle quali mi riammise subito, mentre l'altra era per l'esclusione. Per cortesia verso la prima fazione mio fratello mi condusse a Nasik prima di tornare a Rajkot, mi fece fare il bagno nel sacro fiume e, arrivando a Rajkot, offrì un pranzo alla casta, tutte cose che non approvavo; ma l'amore di mio fratello per me era sconfinato e pari era la devozione che avevo io per lui, perciò facevo meccanicamente quello che voleva, ogni suo desiderio per me era un ordine. Dunque l'intoppo della mia riammissione nella casta era stato praticamente superato. Non tentai mai di essere riammesso nella sezione che mi aveva rifiutato, e non provai neppure un intimo risentimento contro i capi di quella sezione. Alcuni di essi mi consideravano con sfavore, ma evitai scrupolosamente di offenderli nei loro sentimenti, rispettai alla lettera le regole della casta sulla scomunica: secondo queste regole, nessun mio parente, compreso mio suocero e mia suocera e perfino mia sorella e mio cognato, doveva ricevermi, e io rifiutai di bere anche solo un bicchier d'acqua a casa loro, benché essi fossero disposti segretamente a trasgredire a quella proibizione, ma era contrario alla mia indole fare di nascosto ciò che non avrei fatto in pubblico. Il risultato della mia condotta scrupolosa fu che in nessuna occasione fui molestato dalla casta; anzi, in generale, il corpo della sezione che mi considera ancora uno scomunicato non mi ha dimostrato che affetto e generosità, mi hanno anche aiutato nel mio lavoro, senza aspettarsi mai niente da me per la casti. Sono convinto che tutte queste cose positive le devo alla mia non-resistenza, se mi fossi agitato per farmi riammettere, se avessi tentato di dividerla in più fazioni, se avessi offeso i dirigenti, si sarebbero certamente vendicati e invece di evitare la tempesta, al mio ritorno dall'Inghilterra mi sarei trovato coinvolto in un ciclone e forse sarei caduto in preda alla dissimulazione. I miei rapporti con mia moglie non erano ancora come li avrei voluti, nemmeno il soggiorno in Inghilterra mi aveva curato dalla gelosia, continuavo ad essere

scontroso e sospettoso di ogni piccola cosa, e perciò rimasero inadempiuti i miei più cari sogni. Avevo deciso che mia maglie doveva imparare a leggere e a scrivere e che l'avrei aiutata negli studi, ma si frapponeva la mia sensualità e lei soffriva per la mia debolezza. Una volta la rimandai perfino a casa da suo padre, e acconsentii a lasciarla tornare solo dopo averla resa infelicissima. Più tardi capii che questo mio comportamento era pura follia. Avevo progettato di riformare l'educazione dei bambini: mio fratello aveva bambini e anche mio figlio, che avevo lasciato a casa quando partii per l'Inghilterra, era ora un maschietto di quasi quattro anni. Era mio desiderio insegnare a questi piccoli degli esercizi fisici che li irrobustissero, e inoltre offrire loro l'appoggio della mia personale sorveglianza; mi piaceva molto la compagnia dei piccoli e l'abitudine di giocare e scherzare con loro mi è rimasta a tutt'oggi; da allora oh sempre pensato che saprei essere un bravo insegnante per bambini. Era evidente la necessità di adottare una "riforma" alimentare; il tè ed il caffè erano già comparsi a casa nostra, dato che mio fratello aveva pensato bene di farmi trovare al mio ritorno un po' di atmosfera inglese e perciò adoperavamo giornalmente delle terraglie e altri simili utensili tenuti in casa per usarli solo in occasioni speciali. Le mie "riforme" diedero il tocco finale: instaurai l'usanza della zuppa d'avena, e il cacao avrebbe dovuto sostituire il tè ed il caffè, ma poi continuammo a bere anche tè e caffè. Gli stivali e le scarpe li portavo già, completai l'europeizzazione indossando l'abito europeo. Così aumentavano le spese, ogni giorno si aggiungevano nuove cose. Eravamo riusciti a distinguerci, ma come trovare i mezzi per tirare avanti? Aprire uno studio a Rajkot sarebbe equivalso senza dubbio a coprirmi di ridicolo, infatti ne sapevo a malapena quanto un vakil qualificato, eppure pretendevo di essere pagato dieci volte tanto! Nessun cliente avrebbe avuto la dabbenaggine di rivolgersi a me, e se anche mi avessero cercato, dovevo aggiungere l'arroganza e l'imbroglio alla mia ignoranza e aumentare l'entità del debito che avevo con il mondo? Alcuni amici mi consigliarono di andare a Bombay per qualche tempo per fare un po' di esperienza all'Alta Corte, per studiare diritto indiano e per tentare di ottenere qualche incarico. Accettai il suggerimento e partii. A Bombay misi su casa con un cuoco inesperto quanto lo ero io, un bramino. Non lo trattavo come un servitore ma come un membro della famiglia. Si versava addosso l'acqua ma non si lavava mai, il suo dohti e il suo filo sacro erano sporchi e ignorava completamente le scritture, ma come trovarne uno migliore? «Beh, Ravishankar» (si chiamava così), gli domandavo, «non saprai cucinare ma almeno conoscerai le sandhya (Preghiere quotidiane) e gli altri riti». «Ma quali sandhya, signore! L'aratro è il nostro sandhya e la vanga è il nostro rito quotidiano, sono un bramino fatto così, io. Devo vivere della tua carità, oppure naturalmente posso darmi all'agricoltura». Così mi toccò fare da maestro a Ravishankar; tempo ne avevo, incominciai a cucinare quasi tutto io e misi in pratica gli esperimenti inglesi in materia di cucina vegetariana. Comperai una cucina economica e insieme a Ravishankar mi misi a far da mangiare. Mangiavo anche fra un pasto e l'altro senza farmi scrupoli e anche Ravishankar non ci badò più, così andammo avanti allegramente insieme, ma c'era un solo guaio: Ravishankar aveva giurato di restare sporco e di lasciare sporco il cibo. Ma mi fu impossibile rimanere a Bombay per più di quattro o cinque mesi, non essendoci modo di far quadrare i conti, con le spese che aumentavano sempre.

Così incominciai la mia vita. Scoprii che la professione dell'avvocato era un brutto mestiere - molta pompa e poca scienza - e mi sentivo oppresso dal peso delle mie responsabilità. Indice 3. IL PRIMO PROCESSO A Bombay mi misi a studiare le leggi indiane e a fare esperimenti di dietetica per i quali si affiancò a me Virchane Gandhi, un mio amico; dal canto suo mio fratello faceva del suo meglio per riuscire a procurarmi dei clienti. Lo studio della legislazione indiana era tediosissimo, non riuscivo a finire il Codice di Procedura Civile. Trovai più facili l'Evidence Act (procedure testimoniali). Virchand Gandhi stava preparando l'esame da notaio e mi raccontava un sacco di storie sugli avvocati ed i vakil. «La bravura di Sir Pherozeshah» soleva dirmi, «si basa sulla sua profonda conoscenza della legge conosce a memoria l'Evidence Act e tutti i casi della trentaduesima sezione; la formidabile capacità di argomentazione che ha Badruddin Tyabji intimidisce il giudice». Le storie di simili prodezze mi scoraggiavano. «Non è inconsueto», egli aggiungeva, «che un uomo di legge vegeti da cinque fino a sette anni, ecco perché oh accettato l'incarico di procuratore. Tu potrai ritenerti fortunato se riuscirai a sbarcare il lunario tra tre anni». Ogni mese le spese aumentavano, mantenere un ufficio legale fuori casa, mentre ancora mi preparavo alla professione era una cosa che non mi andava giù, e perciò non riuscivo a concentrarmi esclusivamente sui miei studi. Cominciai ad apprezzare l'Evidence Act e lessi la legislazione indù di Mayne con molto interesse, ma non avevo il coraggio di patrocinare una causa, ero smarrito oltre ogni dire, come una sposa appena giunta in casa del suocero. In quel periodo assunsi la difesa di una certa Mamibai “era una causa da poco”. «Avrai da pagare una piccola commissione a quello che ti ha procurato la cliente», mi fu detto ma rifiutai energicamente. «Ma se anche quel gran penalista, signor Tal dei Tali, che guadagna da tre a quattro mila rupie al mese, versa una commissione!». «Non oh bisogno di emularlo», risposi. «Mi accontenterei di 300 rupie al mese, anche mio padre non guadagnava di più» «Ma i tempi sono cambiati, a Bombay tutto è aumentato, devi essere pratico». Fui irremovibile. Non "versai nessuna commissione, ma ottenni ugualmente di difendere Mamibai. Era un caso facile, chiesi 30 rupie quale mio onorario, probabilmente il processo non sarebbe durato più di un giorno. Ero presente quale difensore dell'imputata e mi toccò perciò sottoporre a contro-interrogatorio i testimoni dell'attore. Mi alzai, ma il cuore mi mancò, mi girava la testa e mi pareva che ondeggiasse tutta la sala, non riuscivo a formulare una domanda. Il giudice si deve essere messo a ridere e senza dubbio i vakil si godettero lo spettacolo, ma io non vedevo niente. Mi sedetti e dissi al cancelliere che non ero in grado di difendere la causa, era meglio che incaricassero Patel e avrei restituito il mio onorario; fu ingaggiato il signor Patel per 51 rupie, e naturalmente per lui fu un gioco da ragazzi. Mi affrettai ad uscire dal Tribunale, senza sapere se la mia cliente avesse vinto o perso la causa, ma mi vergognavo di me stesso e decisi di non accettare più incarichi finché non avessi avuto il coraggio di discuterli, infatti non tornai più in Tribunale prima della mia partenza per il Sud Africa. Non fu una decisione coraggiosa, avevo fatto semplicemente di necessità virtù: dove trovare un'altra persona tanto stolta da affidarmi la sua causa, per perderla. A Bombay veramente un'altra causa che mi aspettava c'era, si trattava di istruire una pratica. A Porbandar avevano confiscato il terreno ad un povero mussulmano, il

quale si rivolse a me come a degno figlio di degno padre: il suo caso appariva incerto, ma accettai di redigere un ricorso a suo nome, le spese di stampa essendo a suo carico. Lo preparai e lo lessi ai miei amici, che l'approvarono, e mi diedero la sicurezza di essere - entro certi limiti - all'altezza di redigere un ricorso, cosa che infatti era vero. Se mi mettevo a redigere ricorsi gratis i miei affari si sarebbero moltiplicati, ma non sarei riuscito a mandare avanti la baracca. La mia conoscenza dell'inglese era abbastanza buona e mi sarebbe piaciuto molto insegnarlo in qualche scuola ai ragazzi che si preparavano alla licenza liceale, mi avrebbe permesso di far fronte almeno a parte delle spese. Trovai un annuncio sul giornale: Si cerca maestro di inglese per un ora al giorno, salario 75 rupie. L'annuncio era messo da una famosa scuola media, sottoposi la mia candidatura e fui chiamato per una intervista alla quale andai tutto speranzoso, ma quando il direttore scopri che non ero laureato, mi respinse, pur spiacente. «Ma oh dato l'esame di ammissione all'Università di Londra con il latino come seconda lingua». «E’ vero, ma noi vogliamo un laureato». (Non sempre i titoli di studio inglesi corrispondono ai nostri. La preparazione dell'A., che pur era stato ammesso ad esercitare legge, non corrispondeva al titolo di laurea. Non ci fu niente da fare, mi torsi le mani disperato, anche mio fratello si preoccupò moltissimo. Concludemmo insieme che era inutile che io rimanessi a Bombay, mi sarei stabilito a Rajkot dove mio fratello che era avvocato difensore subalterno mi poteva procurare un po' di lavoro, per esempio la redazione di memorie e ricorsi. E poi dato che avevo casa a Rajkot, il liberarmi di quella che mantenevo a Bombay sarebbe stato un notevole risparmio. La proposta mi piacque, dopo un soggiorno di sei mesi a Bombay liquidai dunque la mia piccola organizzazione. A Bombay mi ero recato ogni giorno in Tribunale, ma non posso dire di aver imparato un gran che: non avevo basi sufficienti per giovarmene; spesso non riuscivo a seguire il dibattito e mi appisolavo; comunque non ero il solo a comportarmi così e questo alleviava la mia onta, anzi dopo un certo tempo non mi vergognai nemmeno più, imparai a considerare elegante il fatto di addormentarsi in Tribunale. Se anche fra le generazioni attuali vi sono avvocati senza cause come lo ero io a Bombay, vorrei impartire loro un piccolo precetto di vita pratica: benché abitassi a Gigaum, non prendevo quasi mai carrozze o tram, mi ero imposto la regola di andare in Tribunale a piedi. Mi ero abituato al calore del sole, quelle passeggiate di andata e ritorno dal Tribunale mi facevano risparmiare non poco denaro e mentre molti miei amici a Bombay si ammalavano, io non ricordo di essere stato mai male. Anche quando incominciai a guadagnare, non persi l'abitudine di andare e tornare a piedi dall'ufficio e ancora oggi godo dei benèfici risultati di questa consuetudine. Indice 4. PRIMA VIOLENTA DELUSIONE Deluso, lasciai Bombay e tornai a Rajkot, dove aprii un mio studio. Qui tirai avanti abbastanza benino, la redazione di memorie e ricorsi mi rendeva in media 300 rupie al mese; il lavoro lo dovevo alle mie conoscenze più che alla mia abilità, dato che il socio di mio fratello aveva una clientela affermata; tutte le pratiche ecc. che fossero veramente, o solo secondo lui, di natura importante, egli le passava ai grandi avvocati, a me toccavano quelle dei suoi clienti poveri. Devo confessare che a questo punto fui obbligato a violare il principio di non versare mai commissioni, che così scrupolosamente avevo rispettato a Bombay. Mi dissero che le condizioni non erano le stesse; che mentre a Bombay le commissioni si pagavano ai procacciatori di clienti, qui si pagavano ai vakil che affidavano le cause; che qui, come a Bombay, tutti gli avvocati, nessuno eccettuato, versavano una percentuale dei loro onorari in commissioni. Fu per me decisivo il discorso che mi fece mio fratello: «Tu sai», disse, «che lavoro in società con un altro vakil. Cercherò

sempre di passare a te tutte le cause di cui potrai occuparti, ma se rifiuti di pagare una commissione al mio socio, mi metti in imbarazzo: dato che tu ed io siamo in società, una parte di quello che tu guadagni viene in tasca anche a me. Ma il mio socio? Se affidasse la stessa causa ad un altro avvocato, da quello incasserebbe certamente una commissione». Le sue parole mi convinsero e mi resi conto che se volevo esercitare legge, non potevo insistere nel non voler versare commissioni, data la situazione; questo è quanto dissi a me stesso, o per dirla più brutalmente, fu così che mi auto-ingannai. Voglio aggiungere, però, che non ricordo di aver mai versato una commissione in nessuna altra occasione. Benché incominciassi a sbarcare il lunario, fu in quel periodo che mi capitò la prima grande delusione della mia vita. Avevo sentito descrivere i funzionari britannici, ma fino a quel momento non mi ero mai trovato faccia a faccia con uno di loro. Mio fratello, che era stato segretario e consigliere del defunto Ranasheb di Porbandar prima che questi fosse promosso al suo attuale gadi, veniva accusato di aver dato consigli sbagliati quando ricopriva tale incarico. Della cosa era stato informato l'agente politico, il quale era perciò prevenuto contro mio fratello; io, che avevo conosciuto quel funzionario in Inghilterra, potevo affermare che con me si era dimostrato abbastanza cordiale. Secondo mio fratello dovevo farmi forte di questa amicizia e dovevo cercare di intercedere in suo favore per smontare le prevenzioni nutrite dall'agente politico. L'idea non mi garbava affatto. Non era giusto, pensavo, cercare di approfittare di una vaga conoscenza fatta in Inghilterra; se mio fratello aveva sbagliato, a cosa serviva la mia raccomandazione? se invece era innocente, che presentasse una petizione in piena regola e aspettasse fiducioso gli eventi con la coscienza a posto. A mio fratello questo consiglio non garbava: «Tu non conosci il Kathiawad», mi disse, «e ancora non conosci il mondo, qui contano solo le conoscenze. Non è bello che tu, mio fratello, voglia sottrarti al tuo dovere, quando ti sarebbe così facile dire una buona parola per me ad un funzionario che conosci». Non potei rifiutare di accontentarlo, così molto controvoglia mi recai dal funzionario, pur sapendo che non avevo nessun diritto di rivolgermi a lui e rendendomi pienamente conto che stavo mettendo in gioco la mia dignità. Ma chiesi un appuntamento e lo ottenni. Gli rammentai che ci eravamo già conosciuti, ma immediatamente mi resi conto che nel Kathiawad. le cose erano diverse che in Inghilterra. L'agente politico ammise di conoscermi, ma il fatto che glielo ricordassi sembrò infastidirlo. «Non sarai mica venuto qui per approfittare di questa conoscenza?» pareva volesse dire con il suo atteggiamento, ed era come se avesse queste parole scritte in fronte, nondimeno gli accennai la cosa. Il sahib si mostrò impaziente. «Suo fratello è un intrigante, non voglio sentire più nemmeno una parola, non oh tempo. Se suo fratello ha qualche cosa da dire, che segua la normale trafila». La risposta era inequivocabile, forse me l'ero meritata, ma l'egoismo è cieco; seguitai a esporre il fatto. Il sahib si alzò e disse, « Adesso se ne vada». «Ma la prego, mi ascolti», dissi io. Questo lo fece arrabbiare ancora di più, chiamò il suo attendente e gli ordinò di accompagnarmi alla porta. Siccome esitavo ancora, quando entrò l'attendente, questi mi mise le mani sulle spalle e mi fece uscire dalla stanza. Il sahib (sahib - Signore; titolo per indicare un europeo.) si allontanò insieme all'attendente ed io me ne andai, irritato e furente. Immediatamente gli scrissi ed inviai un biglietto pressappoco di questo tenore: «Lei mi ha insultato, mi ha aggredito per mano del suo attendente. Se non mi fa delle scuse, dovrò intentarle causa». Subito arrivò la risposta portata dal sowar (Usciere, messaggero, attendente) «Lei mi ha trattato con insolenza, le avevo chiesto di andarsene e si è rifiutato, non mi rimaneva altro da fare che ordinare al mio attendente di farla uscire. Anche quando le è stato chiesto di lasciare l'ufficio, lei non ha voluto andarsene, perciò dovette esercitare una leggera pressione per mandarla fuori. Mi faccia pure causa se crede».

Con questa risposta in tasca arrivai a casa mortificatissimo e raccontai a mio fratello tutto quello che era successo. Egli ne fu dispiaciuto, ma non sapeva come rimediare. Parlò ai suoi amici vakil, dato che io non sapevo da che parte incominciare per fare causa contro il sahib. In quei giorni si trovava per caso a Rajkot Sir Pherozeshah Mehta, arrivato a Bombay per un processo. Ma come potevo io avvocatuccio principiante osare avvicinarlo? Allora gli feci pervenire le carte riguardanti il mio caso tramite l'avvocato che l'aveva convocato, implorandolo di consigliarmi. «Dite a Gandhi», rispose, «che cose simili succedono spesso ai vakil e agli avvocati. Egli è tornato da poco dall'Inghilterra e ha la testa calda, non conosce gli ufficiali britannici. Se vuole guadagnarsi da vivere qui e non aver problemi è meglio che strappi il foglio e ingoi l'insulto, non otterrà nulla facendo causa al sahib, anzi molto probabilmente rischierà di rovinarsi. Ditegli che ancora non conosce la vita». Questo consiglio mi fu amaro come la cicuta, ma dovetti accettarlo, ingoiai l'insulto e ne trassi anche un insegnamento. «Mai più mi caccerò in una situazione così ambigua, mai più cercherò di approfittare in questo modo di un'amicizia», dissi a me stesso, e da allora non mi sono mai macchiato di violazioni a questo principio. Quella grande delusione cambiò il corso della mia vita. Indice 5. PREPARATIVI PER IL SUD AFRICA Senza dubbio io avevo sbagliato andando da quel funzionario, ma la sua impazienza e la sua rabbia imperiosa furono del tutto sproporzionate al mio errore; non meritavo di venire espulso, dopotutto non gli avrò fatto perdere più di cinque minuti. Ma lui non sopportava proprio di starmi a sentire. Avrebbe potuto chiedermi cortesemente di andarmene, ma il potere gli era andato alla testa in modo spropositato. Più tardi seppi che la pazienza non era fra le sue virtù principali, insultare la gente che riceveva era sua abitudine, al minimo screzio il sahib si infiammava. Molto del mio lavoro sarebbe stato di sua competenza, e tentare di rabbonirlo era più forte di me, non avevo voglia di accattivarmi le sue grazie. Anzi, avendo minacciato di intentargli causa, non volevo rinunciare a far sentire le mie ragioni. Intanto incominciai ad imparare qualche cosa delle piccole manovre che si svolgevano nel Paese: il Kathiawad era un conglomerato di statarelli e naturalmente vi abbondavano gli intrighi politici; infatti le meschine beghe fra gli stati, le manovre dei funzionari per arrivare al potere erano all'ordine del giorno; i principi erano sempre alla mercé altrui e pronti a prestare ascolto agli adulatori. Era doveroso adulare perfino l'attendente del sahib, e il shirestedar (Capo amministratore in un tribunale vigti - Affitti agricoli) del sahib era per questi più di un padrone, essendo i suoi occhi, le sue orecchie ed il suo interprete; il volere del shirestedar era legge e si presumeva che i suoi guadagni fossero regolarmente superiori a quelli del sahib stesso, probabilmente era un'esagerazione, ma certamente spendeva più del suo salario. L'atmosfera mi appariva molto pericolosa e mia preoccupazione costante era riuscire a non farmi contagiare. Ero completamente sfiduciato e mio fratello se ne rese conto. Eravamo tutti e due dell'idea che se fossi riuscito a trovarmi qualche impiego mi sarei salvato da quest'atmosfera di intrighi: ma se non si facevano intrighi era fuori questione riuscire ad assicurarsi un posto ministeriale o giudiziario, e la mia disputa con il sahib mi intralciava nell'esercizio della professione. Allora Porbandar era controllata da una amministrazione fiduciaria ed io sbrigavo qualche incarico, consistente nell'assicurare più poteri al principe. Inoltre dovevo trattare con l'amministratore per via dei pesanti vigohti (Affitti agricoli) imposti ai Mers. Mi accorsi che questo funzionario, benché indiano, in fatto di arroganza non

aveva nulla da invidiare al sahib. Era un uomo capace, anche se non mi pareva proprio che la sua abilità andasse molto a vantaggio dei contadini. Riuscii ad ottenere qualche privilegio in più per il Rana (principe) ma non concessero quasi nulla ai Mers, e dovetti rendermi conto che la loro situazione non era stata nemmeno esaminata a fondo. Così anche questa missione risultò deludente, dato che secondo me ai miei clienti non veniva fatta giustizia, e io non avevo i mezzi per assicurargliela. Al massimo avrei potuto rivolgermi all'agente politico o al governatore, i quali avrebbero respinto il ricorso rispondendo « ci rifiutiamo di interferire ». Se almeno ci fosse stata qualche norma o regola che disciplinasse quelle decisioni, invece era legge la volontà del sahib. Ero esasperato. Intanto una ditta Mema di Porbandar scrisse a mio fratello facendogli la seguente proposta: ~
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