Gaja - Adinolfi Introduzione Al Diritto Dell Unione Europea
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Riassunti di Mirko Della Pelle
G. Gaja, A. Adinolfi – Introduzione al diritto dell’Unione europea; Laterza, Ed. 2010
Capitolo Primo, L’Unione europea: origini ed evoluzione 1. Dalla concezione dell’Europa funzionale all’Unione europea Dopo la CECA (Trattato di Parigi del 1951), vennero istituite a Roma nel 1957 la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea per l’energia atomica (CEEA o EURATOM), con lo scopo di sviluppare un uso pacifico dell’energia atomica (dette complessivamente Comunità europee). L’obiettivo centrale del Trattato CE era quello di realizzare un “mercato comune”, cioè un’area in cui fosse assicurata la libertà di circolazione delle merci, eliminando le restrizioni al commercio tra gli Stati membri. A persone fisiche e giuridiche era garantita la libertà di esercitare attività lavorativa in un altro Stato membro ed era riconosciuta la libertà di trasferire capitali in tali Stati per svolgere attività economiche. Inoltre la Comunità si occupava di alcune politiche (agricola, commerciale e concorrenza). I Trattati istitutivi sono stati modificati accrescendo le competenze della Comunità. Il Trattato sull’Unione europea (TUE) di Maastricht (1992) ha istituito una nuova struttura, l’Unione europea, destinata a ricomprendere in un unico quadro generale le varie forme di cooperazione poste in essere dagli Stati membri. All’interno dell’Unione si distinguevano diversi settori, divisi in pilastri: 1. il primo pilastro, costituito dalle Comunità europee, era regolato dal Trattato CE e dal Trattato EURATOM (e, fino alla sua estinzione, nel 2002, dal Trattato CECA) e aveva ad oggetto le numerose materie di competenza comunitaria (circolazione delle merci e delle persone, politica della concorrenza ecc.); 2. il secondo pilastro, regolato dal TUE, riguardava la politica estera e di sicurezza comune (c.d. PESC): 3. il terzo pilastro, anch’esso regolato dal TUE, riguardava la cooperazione di polizia giudiziaria in materia penale. La ragione di una struttura complessa risiedeva nel fatto che nelle materie oggetto del II e III pilastro gli Stati membri non avevano voluto attribuire competenze alla Comunità, ma preferivano cooperare in base a regole che consentivano loro di mantenere un ruolo decisionale più importante (e.g., privilegiando l’adozione delle delibere all’unanimità invece che a maggioranza qualificata). La volontà di semplificare tale sistema e di adattarlo al più elevato numero di Stati che si aggiungevano all’Unione ha portato a elaborare un progetto secondo il quale tutte le regole sarebbero state dettate da un unico trattato, la Costituzione europea (2004). Il progetto voleva avere un valore anche simbolico, evidenziando la volontà politica di una più forte integrazione nell’ambito dell’Unione europea; tuttavia alcuni Stati membri non hanno ratificato il nuovo trattato, in particolare a causa del risultato negativo del referendum di Francia e Paesi Bassi. Quindi gli Stati membri hanno deciso di abbandonare l’idea di sostituire i Trattati vigenti con un nuovo testo e hanno preferito modificare i vecchi testi. Così si è concluso il Trattato di Lisbona del 2007. Ora l’Unione si fonda su due trattati, ma la loro articolazione è più lineare: il TUE detta i principi più importanti, enunciando tra l’altro i fini dell’Unione (art. 3) e i valori su cui si fonda (art. 2); il TFUE, che riprende il TCE, enuncia le regole più puntuali e dettagliate sul funzionamento delle istituzioni e sulle competenze dell’Unione. È stata così eliminata la complessa struttura in pilastri, ma restano in vigore delle regole per la PESC (secondo pilastro), a causa della volontà degli Stati membri di mantenere un controllo significativo rispetto a scelte politiche ritenute di particolare importanza. Ai sensi dell’art. 1 TUE “l’Unione sostituisce e succede alla Comunità europea”. Non si determina una vera e propria successione, in quanto prevalgono elementi di continuità dell’organizzazione, ma tale disposizione intende chiarire che le funzioni che spettavano alla Comunità sono ora trasferite all’Unione. L’Unione ha oggi caratteristiche molto diverse da quelle che presentava in origine: le sue competenze normative sono state estese ben oltre l’obiettivo originario del mercato comune e il suo sistema istituzionale è stato modificato, anche aumentando i poteri del Parlamento europeo e agevolando l’adozione degli atti attraverso la riduzione dei casi nei quali essi devono essere approvati con il consenso unanime di tutti gli Stati membri. 1
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Il numero degli Stati membri è mutato nel tempo. Inizialmente erano parti delle Comunità europee solo Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Si sono aggiunti con successivi trattati di adesione: Danimarca, Irlanda e Regno unito (1973), Grecia (1981), Portogallo e Spagna (1986), Austria, Finlandia e Svezia (1995), Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria (2004), Bulgaria e Romania (2007). Sono in corso negoziati per l’adesione di Croazia, Macedonia e Turchia. Infatti il TUE prevede che qualsiasi Stato europeo che rispetti i valori dell’Unione e che si impegni a promuoverli può aderire, secondo un procedimento che attribuisce un ruolo alle istituzioni politiche dell’Unione e richiede un accordo soggetto alla ratifica di tutti gli Stati membri. 2. La ripartizione dei poteri “sovrani” fra l’Unione europea e gli Stati membri L’UE non ha una funzione di governo dell’insieme del territorio degli Stati membri o di parte di tale territorio; svolge essenzialmente, attraverso la proprio attività normativa e giudiziaria, una funzione di indirizzo della condotta degli Stati membri. Neppure rispetto alle persone l’Unione può esercitare direttamente dei poteri coercitivi, che spettano agli Stati membri, i quali soltanto sono dotati di un apparato che possa operare in relazione alle persone fisiche o giuridiche. Il fatto che le funzioni di governo del territorio spettino tuttora agli Stati membri implica che quando uno Stato membro tenga un comportamento per dare attuazione a una normativa dell’Unione, tale comportamento sia da ritenersi proprio dello Stato, anche se tenuto per adempiere a un obbligo derivante dalla partecipazione all’Unione. L’organo dello Stato non viene trasferito o messo a disposizione dell’Unione; dunque sempre allo Stato viene attribuito il comportamento di un suo organo. Benché lo Stato membro sia responsabile di un suo comportamento che costituisca la violazione di un obbligo internazionale, può, in tal caso, sorgere la responsabilità dell’Unione. Ciò avviene quando l’obbligo internazionale sia posto anche all’Unione e l norma europea determini il comportamento dello Stato membro al punto da non lasciargli, nell’attuazione, la facoltà di tenere un diverso comportamento che sia lecito sul piano internazionale. Quando invece il comportamento è tenuto da un organo dell’Unione, sarà responsabile l’Unione della violazione di un obbligo internazionale ad essa imposto. Con il Trattato di Lisbona sono state inserite nel TUE le disposizioni che tendono a preservare le competenze degli Stati membri: qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei Trattati appartiene agli Stati membri. Tale prescrizione ha scarsa rilevanza pratica perché l’atto adottato dalle istituzioni al di fuori delle competenze attribuite è illegittimo per vizio di incompetenza. L’Unione rispetta l’identità nazionale degli Stati membri, insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema della autonomie locali e regionali. L’Unione inoltre rispetta le funzioni essenziali dello Stato; queste sono individuate nel nucleo, peraltro assai ristretto, delle funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale. Tali disposizioni hanno una funzione di carattere politico, in quanto esprimono un atteggiamento di cautela da parte degli Stati membri nei confronti di ulteriori sviluppi del processo di integrazione; sul piano formale esse non sono molto incisive, poiché potrebbero essere modificate con un trattato successivo. 3. La cittadinanza dell’Unione L’Unione prevede, quale simbolo dell’intensità dei vincoli tra gli S. m., l’istituto della cittadinanza dell’Unione, il cui presupposto è la cittadinanza di uno S.m., a cui si aggiunge e non sostituisce. Tale istituto non incide sulla competenza di ciascuno Stato membro a stabilire propri criteri per l’attribuzione della nazionalità (che comunque devono essere conformi al diritto comunitario). Lo status di cittadino dell’Unione comporta un insieme di situazioni soggettive che sorgono in base ai Trattati istitutivi e alle relative norme di attuazione adottate dalle istituzioni: tra cui, in particolare, il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai Trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi. Ai cittadini sono conferiti diritti politici esercitabili sul territorio degli Stati membri diversi da quello di nazionalità. L’art. 22 TFUE conferisce al cittadino il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, nonché alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede. Con il T. Lisbona si è valorizzato il diritto dei cittadini di partecipare alla vita democratica dell’Unione, prevedendo che un numero di almeno 1 milione di cittadini dell’Unione possa invitare la Commissione a 2
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presentare proposte di atti normativi; tale potere non è molto incisivo, perché la presentazione della proposta spetta comunque alla Commissione, ma può costituire uno strumento di pressione politica nei confronti di essa. La partecipazione dei cittadini è favorita anche dalla formazione di partiti politici a livello europeo. Spetta al cittadino dell’UE il diritto di petizione al Parlamento europeo in merito a qualsiasi questione che rientra nel campo di attività dell’Unione e che lo concerne direttamente.
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Capitolo Secondo, Le istituzioni politiche 1. Il quadro istituzionale dell’Unione europea L’art. 13 TUE prescrive che l’Unione dispone di un quadro istituzionale che mira a promuoverne i valori, perseguirne gli obiettivi, servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli Stati membri. Ai principali organi dell’Unione è attribuita nel TUE la qualifica di istituzione, riferita a Consiglio europeo, Consiglio, Parlamento europeo, Commissione, Corte di giustizia, BCE e Corte dei conti. 2. Il Consiglio europeo Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo presidente e dal presidente della Commissione (art. 15 TUE). È la sede in cui gli Stati provvedono a un esame periodico delle questioni pendenti di maggiore rilevanza per lo sviluppo dell’Unione con la finalità di delineare soluzioni complessive. La scelta se partecipare al Consiglio europeo per mezzo del capo di Stato oppure del capo di governo spetta a ciascuno Stato membro. La partecipazione al CE del presidente della Commissione ha la funzione di porre in essere un raccordo tra il CE e tale istituzione, alla quale spetta di regola il potere di fare le proposte degli atti normativi. Partecipa ai lavori anche l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. La partecipazione di tale organo appare utile al fine di assicurare il coordinamento della sua attività con quella condotta dal Consiglio europeo in materia di politica estera. Il CE si riunisce di regola due volte a semestre su convocazione del presidente, che, se necessario, può convocare una riunione straordinaria. Il presidente viene eletto dai componenti del CE a maggioranza qualificata per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una volta e non può allo stesso tempo esercitare un mandato nazionale. Il CE non esercita funzioni legislative, ma esercita una notevole influenza sull’azione normativa dell’Unione. Infatti, la circostanza che i capi di Stato e di governo abbiano accettato una certa soluzione determina un comportamento corrispondente delle altre istituzioni politiche, e in particolare di quella che ha il ruolo più importante, il Consiglio, anch’esso istituzione di espressione governativa. L’attività di indirizzo svolta dal CE di norma costituisce l’elemento decisivo perché siano successivamente adottati atti normativi dell’Unione. Per l’adozione delle delibere, il CE si pronuncia – se i Trattati non dispongono diversamente – per consenso: le delibere sono prese senza voto, se non c’è un’opposizione ad adottare un testo concordato informalmente. Qualora sia prevista dai trattati l’adozione da parte del CE di deliberare mediante votazione, si applicano in via di principio le stesse regole, ai fini del raggiungimento dell’unanimità o della maggioranza qualificata, previste per le delibere del Consiglio. Il presidente del CE e il presidente della Commissione non partecipano al voto, per cui la delibera è adottata solo dai governi degli Stati membri. L’attività del CE conferisce all’Unione una connotazione marcatamente intergovernativa, a motivo sia del ruolo generale di indirizzo che esso svolge sia del potere di adottare delibere aventi grande importanza per il funzionamento del sistema istituzionale dell’Unione. Tale attività non coinvolge il Parlamento europeo, se non per il fatto che il presidente del CE presenta al PE una relazione dopo ciascuna delle riunioni; inoltre il presidente del PE può essere invitato per essere ascoltato dal CE. Il carattere retrospettivo di tali relazioni e la mera eventualità che sia sentito il presidente del PE rendono indubbiamente poco significativi questi strumenti, delineando per l’istituzione che rappresenta direttamente i cittadini un ruolo assai limitato rispetto a scelte di particolare rilevanza per lo sviluppo delle azioni dell’Unione e per il funzionamento del suo sistema istituzionale. 3. Il Consiglio Il C è una replica del CE, poiché anch’esso esprime la volontà dei governi degli Stati membri, ma da questo si differenzia perché al C è attribuita la funzione normativa, che esercita congiuntamente con il PE. Il ruolo del C è sempre determinante, perché un atto normativo non può essere adottato in assenza di una delibera favorevole da parte di tale istituzione (tranne nei casi in cui la Commissione dispone di un potere normativo, proprio o delegato). 4
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Può esercitare funzioni esecutive in casi specifici debitamente motivati, nonché in materia di politica estera e di sicurezza comune. Il riferimento a casi specifici riserva al C un potere discrezionale, che non deve essere inteso in modo ampio al fine di evitare una compressione del potere esecutivo che spetta di regola alla Commissione. Il C si compone di tanti membri quanti sono gli Stati membri dell’Unione (27). Partecipa alle riunioni un rappresentante di ciascuno S.m. a livello ministeriale, abilitato ad impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto. Il C si riunisce in varie formazioni. Le due più importanti sono previste dal TUE: il Consiglio “Affari generali”, che ha il compito di assicurare la coerenza dei lavori delle varie formazioni e di garantire che sia dato seguito agli indirizzi del CE, e il Consiglio “Affari esteri”, al quale spetta elaborare l’azione dell’Unione in materia di politica estera. La composizione del C varia nelle sue diverse formazioni, che sono stabilite in relazione alla materia trattata da ciascuna di esse: e.g. il Consiglio “Agricoltura e pesca” sarà composto da ministri dell’agricoltura, ma ciascun governo è libero di scegliere. La presidenza delle varie formazioni (eccetto “Affari esteri”) è esercitata secondo un sistema di rotazione paritaria tra gli Stati membri dal CE. Le delibere del C sono adottate a maggioranza qualificata eccetto che nei casi in cui i Trattati prevedano l’unanimità o la maggioranza semplice. La maggioranza qualificata è stata sostituita all’unanimità, sia a causa della difficoltà, derivante dall’accresciuto numero di S.m., di raggiungere l’unanimità, sia in ragione della volontà di attenuare il peso dell’orientamento di singoli S.m. nel processo decisionale. L’art. 48 TUE attribuisce al CE il potere di consentire al C, in un determinato settore o caso, di deliberare a maggioranza qualificata quando sia invece prevista dai Trattati l’unanimità (tranne nell’ambito militare e di difesa). L’astensione non ostacola l’unanimità, ma l’assenza sì, quindi si può ricorrere alla delega per il voto, con il limite che ciascun membro del C può ricevere delega da un solo degli altri membri. Per l’adozione di delibere del C a maggioranza qualifica è applicato attualmente un complesso meccanismo che si fonda essenzialmente sull’attribuzione di un peso differente al voto di ciascuno Stato membro. Tale meccanismo è stabilito da un protocollo allegato ai Trattati istitutivi che ha il fine di assicurare un passaggio graduale dal sistema di voto stabilito prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona al nuovo meccanismo previsto nei Trattati. Secondo il sistema ora operante (in vigore fino al 31/10/2014), ai voti degli S.m. è attribuita la seguente ponderazione: Francia, Germania, Italia e Regno Unito, 29; Spagna e Polonia, 27; Romania, 14; Paesi Bassi, 13; Belgio, Grecia, Portogallo, Repubblica ceca e Ungheria, 12; Austria, Bulgaria e Svezia, 10; Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lituania e Slovacchia, 7; Cipro, Estonia, Lettonia, Lussemburgo e Slovenia, 4; Malta, 3. Il totale complessivo dei voti è 345. La maggioranza qualifica è 225 voti. Il numero dei voti attribuiti a ciascuno Stato non corrisponde rigorosamente alla sua grandezza, riguardo alla popolazione. Poiché il sistema assicura un peso non proporzionato alla popolazione degli Stati minori, si è previsto quale correttivo del meccanismo di attribuzione dei voti la possibilità per ciascun membro del C di chiedere la verifica del rispetto dell’ulteriore condizione che gli Stati membri che compongono tale maggioranza qualificata rappresentino almeno il 62 % della popolazione totale dell’Unione. Qualora tale condizione non sia soddisfatta, l’atto non è adottato. A partire da l /11/2014 si applicherà il nuovo sistema con il quale è eliminata l’attribuzione di un peso particolare a ciascuno Stato membro, prevedendo che “per maggioranza qualificata si intende almeno il 55% dei membri del Consiglio, con un minimo di quindici, rappresentanti Stati membri che totalizzino almeno il 65% della popolazione dell’Unione. In sostanza si prevede l’applicazione cumulativa di due criteri: il primo (basato su una percentuale e una soglia minima) pone sullo stesso piano tutti gli Stati membri, mentre l’altro (demografico) è invece collegato all’entità della popolazione. È ulteriormente precisato che per impedire l’adozione di una delibera occorre l’opposizione di almeno quattro membri del Consiglio; ciò tende ad attenuare il potere degli S.m. più popolosi (e.g. Germania) evitando che un esiguo numero di essi possa bloccare l’adozione di un atto. Se il C non delibera su proposta della Commissione, la maggioranza richiesta sale al 72% e la percentuale della popolazione rappresentata resta il 65%; quindi in tal caso si esige un consenso più ampio, in considerazione del fatto che quando il C non agisce su proposta della Commissione il testo potrebbe non avere tenuto conto dell’interesse generale dell’Unione, ma aver privilegiato quello di alcuni S.m. Un Comitato dei rappresentati permanenti dei governi degli Stati membri è responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio. Ed è anche responsabile dell’esecuzione dei compiti che il Consiglio gli affida e può adottare decisioni di procedura nei casi previsti dal regolamento interno del C. Il Comitato, detto COREPER, costituisce una replica minore del C; non adotta formalmente atti, ma sovente la discussione del testo si conclude nel suo ambito, perché quando vi si raggiungono soluzioni concordate le 5
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questioni sono iscritte nella parte A dell’ordine del giorno provvisioni del Consiglio, comprendente i punti per i quali l’approvazione da parte del Consiglio è possibile senza dibattito. Il Protocollo n. 1 sul ruolo dei parlamenti nazionali allegato ai Trattati istitutivi ribadisce che il modo in cui i parlamenti nazionali esercitano il controllo sui rispettivi governi in relazione alle attività dell’Unione europea è una questione disciplinata dall’ordinamento e dalla prassi costituzionale propria di ciascuno Stato membro; tuttavia, è ivi prevista l’informazione dei parlamenti nazionali, ai quali devono tra l’altro essere trasmessi, direttamente dalle istituzioni dell’Unione, i progetti di atti legislativi e gli ordini del giorno delle riunioni del Consiglio. In Italia i regolamenti parlamentari offrono alle Camere la possibilità di discutere gli atti del Consiglio prima che essi siano adottati. La circostanza che il Parlamento partecipi alla formazione delle scelte che il governo esprime nel Consiglio si ricollega al potere più generale di indirizzo che nel sistema costituzionale italiano il parlamento ha in materia normativa. 4. La Commissione La C non è composta da rappresentanti dei governi degli S.m. e ha il compito di promuovere l’interesse generale dell’Unione adottando le iniziative appropriate a tal fine. Riguardo all’adozione di atti normativi, la C ha una ristretta competenza propria, conferitale da specifiche disposizioni del TFUE e può adottare raccomandazioni nei casi specifici previsti dai Trattati. È più ampio il potere della C di adottare norme per effetto di deleghe contenute in atti legislativi dell’Unione: un atto legislativo può delegare alla C il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo. Lo spazio discrezionale della C nell’esercizio del potere normativo delegato è tuttavia alquanto ridotto, sia in quanto l’atto legislativo precisa gli obblighi, il contenuto, la portata e la durata della delega, sia perché il Parlamento e il Consiglio posso revocare la delega ovvero impedire, sollevando obiezioni, l’entrata in vigore dell’atto adottato dalla Commissione. Il più importante potere della Commissione rispetto alla formazione degli atti normativi attiene all’elaborazione delle proposte; infatti, un atto legislativo dell’Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione, salvo che i Trattati non dispongano diversamente. Gli altri atti sono adottati su proposta della Commissione se i Trattati lo prevedono; tale potere è conferito alla Commissione in ragione delle caratteristiche di indipendenza di tale istituzione, al fine di garantire che la proposta prospetti una composizione dei vari interessi che sia conforme all’interesse generale dell’Unione. La C è dotata di funzioni di coordinamento, di esecuzione e di gestione, alle condizioni stabilite dai Trattati. In particolare, gli atti dell’Unione possono attribuire alla Commissione delle competenze di esecuzione qualora siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione di tali atti; il Parlamento e il Consiglio stabiliscono preventivamente le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione. Tali modalità di controllo saranno poste in essere attraverso comitati di espressione governativa, secondo la prassi della c.d. comitologia. Poteri esecutivi sono conferiti alla C, in particolare riguardo alla politica della concorrenza, agli aiuti di Stato alle imprese, alla gestione dei programmi di finanziamento da parte dell’Unione. Spetta alla C il compito di vigilare sul rispetto degli obblighi posti da norme dell’Unione da parte degli Stati membri e quello di rappresentanza esterna dell’Unione, fatta eccezione per la politica estera e di sicurezza comune e per gli altri casi previsti dai Trattati. La C spesso adotta le delibere senza voto; se si procede al voto, le deliberazioni sono prese a maggioranza dei suoi membri. I membri della C sono attualmente 27 (uno per ogni S.m.), ma il numero è troppo elevato perché l’attività della C sia svolta in modo efficace e collegiale. Il TUE prevede che dal 1/11/2014 essa sarà composta da un numero di membri che corrisponde ai due terzi del numero degli S.m. Per questo servirà un meccanismo di rotazione paritaria tra gli S.m. La C esercita le sue responsabilità in piena indipendenza; i suoi membri nell’adempimento dei loro doveri non sollecitano né accettano istruzioni dal alcun Governo, istituzione, organo o organismo e devono astenersi da ogni atto incompatibile con le loro funzioni o con l’esecuzione dei loro compiti. Secondo l’art. 17 TUE il CE, deliberando a maggioranza qualificata, propone al PE un candidato alla carica di presidente della Commissione. Tale candidato è eletto dal PE a maggioranza dei membri che lo compongono; se tale maggioranza non viene raggiunta, il CE propone un altro candidato. Il Consiglio, di 6
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comune accordo con il presidente eletto, indica le altre persone da nominare. Così il presidente e gli altri membri della Commissione sono soggetti collettivamente ad un voto di approvazione da parte del PE. In seguito la Commissione è nominata dal CE. La circostanza che il voto del PE abbia ad oggetto l’insieme delle persone designate indica come soltanto in particolari circostanze il Parlamento potrà esprimersi in senso negativo; il potere conferito al PE sarebbe senz’altro più incisivo se esso potesse esprimersi in merito ai singoli commissari designati. Il mandato della C è di cinque anni (come il PE). Il presidente della Commissione ha acquisito un ruolo importante: esso definisce gli orientamenti nel cui quadro la C esercita i suoi compiti, nomina i vicepresidenti, può costringere un membro della C a rassegnare le dimissioni e decide l’organizzazione interna della C attribuendo a ciascun commissario uno o più settori di competenza (c.d. portafogli). 5. Il Parlamento europeo Il PE esercita congiuntamente al Consiglio la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Inoltre svolge un ruolo di controllo politico sulle altre istituzioni ed esercita funzioni consultive emettendo pareri. Ad esso spetta anche eleggere il presidente della Commissione. È composto da rappresentanti dei cittadini dell’Unione che sono eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto, per un mandato di cinque anni. Nella ripartizione dei seggi spettanti a ciascuno Stato membro è tenuto conto, in una certa misura, dell’entità della popolazione. Il TUE prevede che il PE non sia composto da più di 750 membri (più il presidente) e che a ciascuno stato membro non possono essere assegnati più di 96 seggi o meno di 6. I Trattati istituitivi stabilivano originariamente che l’elezione del PE si svolgesse secondo una procedura uniforme, ma le prime elezioni (1979) si sono tenute in base a procedure diversa da Stato a Stato. L’art. 223 TFUE prevede che il PE elabori un progetto volto a consentire l’elezione dei suoi membri secondo una procedura uniforme in tutti gli S.m. oppure secondo principi comuni a tutti gli Stati membri. Non si può individuare con chiarezza nel PE una maggioranza e una minoranza, anche perché i due gruppi politici più numerosi (il Partito popolare europeo, democristiano, e l’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici), che detengono il 36% e il 25% dei seggi nella legislatura 2009-14, possono determinare l’adozione di delibere solo operando congiuntamente. 6. Le relazioni fra le istituzioni politiche Nell’esercizio delle competenze attribuite dai Trattati, le istituzioni devono comportarsi nei loro rapporti reciproci secondo un principio di leale cooperazione. Parlamento, Consiglio e Commissione procedono a reciproche consultazioni e definiscono di comune accordo le modalità della cooperazione. A tal fine le istituzioni concludono fra loro accordi (interistituzionali) per integrare la disciplina contenuta nei Trattati e che, come prevede la stessa disposizione, possono assumere carattere vincolante. I Trattati attribuiscono al PE un potere di controllo sulla Commissione, attraverso l’approvazione di una mozione di censura sull’operato della Commissione; occorre a tal fine la maggioranza di due terzi dei voti espressi e la maggioranza dei membri che compongono il PE. Se la mozione di censura viene approvata, i membri della Commissione si dimettono collettivamente dalle loro funzioni (nessuna mozione è stata sinora approvata). Il PE, anche se la mozione viene approvata, non può influire sulla nuova composizione della Commissione, quindi questo strumento non è molto efficace. Il PE non ha il potere di censurare l’operato di singoli commissari; del resto l’attività della Commissione è essenzialmente collegiale. L’attività di controllo del Parlamento sulle altre istituzioni si può esplicare anche in relazione alle petizioni e alle denunce presentategli dalle persone fisiche (cittadini) o giuridiche, che hanno il diritto di presentare una petizione al PE su una questione che lo concerne direttamente e che attenga a una materia che rientra nel campo di attività dell’Unione. Possono inoltre essere presentate al PE, da parte degli stessi soggetti, denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto dell’Unione. La Commissione deve sottoporre al PE una relazione generale annuale sull’attività dell’Unione; non è un atto politicamente rilevante, ma è utile per conoscere di anno in anno l’attività dell’Unione. Il PE esercita il potere di controllo politico anche attraverso interrogazioni rivolte alla Commissione e al Consiglio, che tuttavia non è obbligato a rispondere. In base ai Trattati istitutivi, il PE non possiede alcuno strumento significativo di controllo nei confronti delle altre istituzioni politiche, e in particolare di quella cui sono conferiti i maggiori poteri, cioè il Consiglio; né il 7
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PE è riuscito a dotarsi di fatto di strumenti di rilievo. Questo fatto e la ridotta estensione dei poteri conferiti al PE fanno pensare che nel sistema dell’Unione ci sia un difetto di democrazia: in questo sistema, l’organo eletto a suffragio universale diretto ha poteri meno ampi di quelli che generalmente appartengono ai parlamenti nazioni negli Stati con forme di democrazia rappresentativa. 7. Procedure per l’adozione degli atti normativi dell’Unione Il TFUE prevede una procedura legislativa ordinaria applicabile alla grande maggioranza dei casi, che consiste nell’adozione congiunta di un atto da parte del PE e del Consiglio su proposta della Commissione. Tale procedura prende avvio con la presentazione al PE e al Consiglio da parte della Commissione di una proposta di atto normativo. Questa procedura può prevedere un massimo di tre diverse letture da parte del Consiglio e del Parlamento. Nel corso della prima lettura il PE adotta una posizione (esprime il suo orientamento rispetto alla proposta della Commissione) e la trasmette al Consiglio; se quest’ultimo approva tale posizione, l’atto viene adottato nei termini risultanti dalla posizione stessa. Se invece, come più di frequente avviene, il Consiglio non approva la posizione del PE, esso adotta una sua posizione e la trasmette al PE. Si apre la seconda lettura, nel corso della quale la posizione del Consiglio si trasforma in un atto quando il PE l’approvi oppure quando esso non si pronunci nel termine di tre mesi dalla comunicazione della stessa posizione. Se invece il PE respinge tale posizione a maggioranza dei membri che lo compongono, l’atto proposto si considera non adottato. Qualora, infine, sempre alla stessa maggioranza, il PE abbia formulato emendamenti rispetto alla posizione del Consiglio, quest’ultimo potrà adottare l’atto solo in un’ipotesi che si verificherà difficilmente: quella in cui il Consiglio a maggioranza qualificata approvi tutti gli emendamenti del PE; occorre tuttavia l’unanimità per gli emendamenti rispetto ai quali la Commissione ha dato parere negativo. Qualora il Consiglio non accetti gli emendamenti, è convocato un comitato di conciliazione, che riunisce i membri del Consiglio o i loro rappresentanti ed altrettanti rappresentanti del PE, con la finalità di giungere ad un accordo su un progetto comune a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio o dei loro rappresentanti e a maggioranza dei rappresentanti del PE. Il comitato, ai cui lavori partecipa anche la Commissione, ha sei settimane per approvare un progetto comune. Se non si riesce ad approvare tale progetto, l’atto si considera non adottato. Se invece il comitato approva un progetto comune, è avviata la terza lettura nella quale il PE e il Consiglio dispongono di un termine, anch’esso di sei settimane, per adottare l’atto in questione in base al progetto comune: il PE delibera a maggioranza dei voti espressi e il Consiglio a maggioranza qualificata; se non è così approvato, l’atto in questione si considera non adottato. In luogo della procedura legislativa ordinaria sopra descritta si applicano nei casi specifici previsti dai Trattati delle procedure legislative speciali che prevedono l’adozione di atti da parte del PE con la partecipazione del Consiglio o da parte di quest’ultimo con la partecipazione del PE. La prima ipotesi è prevista raramente e in genere per delibere di carattere organizzativo, ad esempio al fine di determinare lo statuto e le condizioni generali per l’esercizio delle funzioni del mediatore. È più frequente l’ipotesi in cui sia prevista l’adozione di un atto del Consiglio con la partecipazione del PE, partecipazione che può esplicarsi attraverso due modalità: la prima richiede l’approvazione da parte del Parlamento ed è prevista, e.g., per l’adozione di atti sulla base dell’art. 352 TFUE e ai fini dell’adozione di una procedura elettorale uniforme. È così conferito al PE un potere apparentemente molto forte, ma privo di carattere costruttivo; il PE infatti potrà, negando la sua approvazione, impedire l’adozione dell’atto, ma non potrà incidere altrimenti sul suo contenuto. La seconda modalità prevede che il Parlamento sia soltanto consultato sulla proposta dell’atto. Tale procedura è prevista per settori rispetto ai quali la politica degli S.m. intendono riservarsi un potere ancor più determinante, limitando la partecipazione del Parlamento. La consultazione implica infatti che il PE ha il potere di esprimere la sua posizione in merito all’atto proposto solo attraverso un parere che, pur essendo obbligatorio in quanto richiesto dal Trattato, non è vincolante. La Corte ha valorizzato il ruolo consultivo del PE affermando che, quando i Trattati prevedono la consultazione obbligatoria, l’atto adottato dal Consiglio in assenza del parere del PE è illegittimo. Non è posto un termine al PE per dare il proprio parere, ma il principio di leale cooperazione fra le istituzioni non consente al PE di procrastinare indefinitamente la propria risposta. La Corte ha dichiarato che l’obbligo di consultare il PE durante il procedimento legislativo, nei casi previsti dal Trattato, comporta l’obbligo di una nuova consultazione ogni volta che l’atto infine adottato, considerato complessivamente, sia diverso quanto alla sua sostanza da quello sul quale il PE sia stato già consultato, 8
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eccetto i casi in cui gli emendamenti corrispondano essenzialmente al desiderio espresso dallo stesso Parlamento. Ci sono ambiti in cui non è richiesta la consultazione del PE. Molte disposizioni del TFUE richiedono che intervenga il parere di un organo tecnico, il Comitato economico e sociale, composto da rappresentanti delle organizzazioni dei datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile. Altre disposizioni richiedono poi la consultazione di un organo di più recente formazione, il Comitato delle regioni, che è composto da rappresentanti delle collettività regionali e locali che sono titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale, o politicamente responsabili dinanzi ad un’assemblea elettorale. 8. Il finanziamento dell’Unione e la procedura di bilancio Il bilancio dell’Unione, fatte salve le altre entrate, è finanziato integralmente tramite risorse proprie (art. 311 TFUE). Il sistema di risorse proprie è determinato con decisione adottata all’unanimità dal Consiglio previa consultazione del PE; affinché tale decisione entri in vigore occorre altresì che essa riceva l’approvazione degli S.m. conformemente alle rispettive norme costituzionali. Le entrate provengono dalle somme percepite all’atto dell’importazione nella Comunità di prodotti da Stati non membri e dall’applicazione di un’aliquota uniforme dell’imponibile IVA negli S.m., nonché dall’applicazione di un’aliquota uniforme del prodotto nazionale lordo di ciascuno S.m., da definirsi nel quadro della procedura di bilancio in relazione alla somma dei prodotti nazionali lordi degli S.m. La determinazione delle spese dell’UE avviene sulla base di un quadro finanziario pluriennale, stabilito, per un periodo di almeno cinque anni, dal Consiglio previa approvazione del PE; tale quadro fissa gli importi massimi annuali per ogni categoria di spesa, che corrisponde ad uno dei grandi settori di attività dell’Unione. Nel rispetto di tale quadro si è predisposto il bilancio annuale dell’Unione, adottato sulla base di una procedura legislativa speciale. Tale procedura prende avvio con l’elaborazione da parte di ciascuna istituzione di uno stato di previsione delle spese per l’anno successivo; sulla base degli stati di previsione la Commissione redige il progetto di bilancio, che comprende una previsione delle entrate e una previsione delle spese. Il progetto è sottoposto al PE e al Consiglio non oltre il 1° settembre dell’anno che precede quello di esecuzione del bilancio. In merito a tale progetto il Consiglio adotta, entro il termine di un mese, la propria posizione e la sottopone al PE. Qualora il PE in 42 giorni dalla comunicazione approvi la posizione del Consiglio o non deliberi, il bilancio si considera adottato. Qualora invece il PE adotti degli emendamenti il progetto è trasmesso al Consiglio e alla Commissione ed è senza indugio convocato il comitato di conciliazione; se tuttavia il Consiglio approva tutti gli emendamenti, il comitato avvierà i propri lavori con il compito di giungere, anche con l’apporto della Commissione, a un accordo su un progetto comune, a maggioranza dei membri del Consiglio o dei loro rappresentanti e a maggioranza dei rappresentanti del PE, entro il termine di 21 giorni dalla convocazione. Allorché il comitato di conciliazione pervenga a un accordo su un progetto comune, se entro il termine di 14 giorni il Consiglio e il PE lo approvano oppure non riescono a deliberare, o se una delle due istituzioni approva il progetto comune mentre l’altra non riesce a deliberare, il bilancio si considera definitivamente adottato in conformità del progetto comune. Se il comitato non raggiunge un accordo su un progetto comune oppure l’accordo raggiunto nel comitato è respinto da entrambe le istituzioni, o è respinto dall’una mentre l’altra non delibera, oppure ancora è respinto a maggioranza dal PE e approvato dal Consiglio, la Commissione deve presentare un nuovo progetto, riavviando così la procedura di adozione del bilancio. Quando invece il PE approva il progetto comune mentre il Consiglio lo respinge, il bilancio è adottato se il PE conferma tutti gli emendamenti da esso stesso adottati deliberando, però, su ciascun emendamento, a maggioranza dei membri che lo compongono e con tre quinti dei voti espressi. Qualora certi emendamenti non siano confermati, il bilancio sarà adottato mantenendo, sulla linea di bilancio oggetto di tali emendamenti, il testo concordato nel comitato di conciliazione. Tale complessa procedura conferisce un potere rilevante al PE, perché ad esso spetta l’ultima parola nella definizione delle spese dell’Unione; il PE può, con una maggioranza gravosa, confermare la propria posizione determinando così l’adozione del bilancio benché non sia stato raggiunto un accordo con il Consiglio. Qualora il procedimento di approvazione del bilancio si protragga, l’approvazione potrà avvenire dopo il 1° gennaio dell’anno al quale il bilancio si riferisce; è previsto che in tal caso l’UE, fino all’approvazione del bilancio, provveda alle spese mensilmente nell’ambito del dodicesimo delle somme stanziate dal precedente bilancio, salvo che il Consiglio autorizzi spese superiori. 9
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9. Il controllo sull’amministrazione: la Corte dei conti e il mediatore La Corte dei conti (CC) ha la funzione di assicurare il controllo dei conti dell’Unione (art. 285 TFUE). La CC si compone di 27 membri, nominati per un periodo di 6 anni. Il Consiglio, previa consultazione del PE, adotta a maggioranza qualificata l’elenco dei membri, scelti tra personalità che abbiano una qualifica o esperienza specifica per tale funzione, conformemente alle proposte presentate da ciascuno S.m. Sostanzialmente, ciascuno S.m. sceglie un membro della Corte. La CC esamina i conti di tutte le entrate e le spese dell’Unione nonché, di regola, di ogni organismo creato dall’Unione. Sulla base di tale esame essa presenta al Consiglio e al PE una dichiarazione in cui attesta l’affidabilità dei conti e la legittimità e la regolarità delle relative operazioni. La CC redige, adottandola a maggioranza, una relazione annuale dopo la chiusura di ciascun esercizio finanziario e adotta ogni anno, sempre deliberando a maggioranza, alcune relazione speciali e pareri. Il controllo che essa svolge non è soltanto tecnico, ma, attraverso l’accertamento della sana gestione finanziaria, attiene anche alle scelte politiche che hanno riflessi sulla gestione delle risorse dell’Unione. L’art. 228 TFUE prevede che il PE elegga, per la durata della legislatura, un mediatore, abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi cittadino dell’Unione o di qualsiasi persona fisica o giuridica che risiede o abbia la sede sociale in uno Stato membro, e riguardanti casi di cattiva amministrazione nell’azione delle istituzioni, degli organi o degli organismi dell’Unione, salvo la Corte di giustizia nell’esercizio delle sue funzioni giurisprudenziali. Qualora il mediatore constati un caso di cattiva amministrazione, egli ne investe l’istituzione interessata che dispone di tre mesi per comunicargli il suo parere; dopodiché il mediatore trasmette una relazione al PE e all’istituzione, all’organo o all’organismo interessati. 10. Il Sistema europeo delle banche centrali e la BCE La BCE è un’istituzione (art. 13 TUE); costituisce, insieme alle banche centrali di tutti gli Stati membri, il Sistema europeo delle banche centrali (SEBC); tale sistema ha il compito di sostenere le politiche economiche generali nell’Unione, al fine di contribuire a realizzare gli obiettivi di quest’ultima. Al SEBC si affianca il c.d. Eurosistema, che comprende la BCE e le banche centrali nazionali dei soli S.m. la cui moneta è l’euro, le quali conducono la politica monetaria dell’Unione. La BCE opera attraverso un Consiglio direttivo, comprendente i membri del Comitato esecutivo della BCE nonché i governatori delle banche centrali nazionali. Il Comitato esecutivo è composto dal presidente, dal vicepresidente e da quattro altri membri, nominati dal CE, a maggioranza qualificata, su raccomandazione del Consiglio e previa consultazione del PE. Il mandato dei membri del Comitato esecutivo dura 8 anni e i membri non sono rieleggibili (quindi dovrebbero essere indipendenti). La BCE ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro e al SEBC spetta definire e attuare la politica monetaria dell’Unione e svolgere le operazioni relative ai cambi. Inoltre la BCE esercita nel settore di sua competenza, una funzione normativa: essa può, quando il TFUE o lo statuto le attribuiscano tale potere, adottare regolamenti e decisioni, nonché formulare raccomandazioni e pareri. Varie disposizioni del TFUE prevedono che essa debba essere consultata in merito a determinati progetti di atti normativi e che, in certi casi, abbia il potere di raccomandare l’adozione di atti. La BCE non è soggetta a un controllo da parte delle istituzioni politiche dell’Unione. L’art. 284 TFUE prevede che la BCE trasmetta al PE, al Consiglio, alla Commissione e al CE una relazione annuale sull’attività del SEBC e sulla politica monetaria dell’anno precedente e dell’anno in corso e che inoltre si tenga eventualmente su questa base un dibattito generale nel PE. Un contrappeso politico alla BCE può essere ravvisato nel c.d. Eurogruppo, istituito dal CE nel 1997 e composto dai ministri delle finanze degli S.m. che adottano la moneta unica. 11. Il ruolo delle istituzioni politiche per la politica estera e di sicurezza comune Benché con il nuovo trattato si sia superata la divisione in pilastri, riguardo alla politica estera e di sicurezza comune (Titolo V del TUE), operano regole particolari che sostanzialmente riservano ai governi degli Stati membri un ruolo decisionale preponderante. L’art. 31 TUE prevede quale regola generale l’unanimità per tutte le delibere fondate sul Titolo V, salvo nei casi in cui sia diversamente stabilito dal Trattato, ed esclude l’adozione di atti legislativi. Benché sia ribadita la regola per cui le astensioni non impediscono l’adozione all’unanimità delle delibere, è previsto un particolare istituto, detto dell’astensione costruttiva: uno S.m. può motivare la propria astensione con una dichiarazione formale rispetto a una decisione, con la conseguenza che esso non è obbligato ad applicare la 10
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decisione, ma accetta che essa impegni l’Unione. Nei pochi casi in cui è previsto che il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata, è stabilito che se uno S.m. dichiara che, per specificati e vitali motivi di politica nazionale, intende opporsi all’adozione di una decisione che richiede la maggioranza qualificata, non si procede alla votazione e della questione può essere eventualmente investito il Consiglio europeo. Con il T. Lisbona alcune competenze specifiche sono state attribuite all’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, al quale è affidato il compito di guidare la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione. Si è così accentrato in un unico organo il compito di guidare tali settori al fine di favorire un orientamento uniforme e coerente da parte dell’UE nei rapporti con gli Stati terzi. L’alto rappresentante è nominato dal CE a maggioranza qualificata, con l’accordo del presidente della Commissione, senza che sia stabilita la durata del suo mandato; spetta al CE porre fine a tale mandato mediante la medesima procedura. L’alto rappresentante presiede il Consiglio nella formazione “Affari esteri” e contribuisce con le sue proposte all’elaborazione della politica estera e di sicurezza e la attua in qualità di mandatario del Consiglio. Al fine di garantire un raccordo con la Commissione, l’alto rappresentante è anche uno dei vicepresidenti della Commissione stessa. L’alto rappresentante deve regolarmente consultare il PE sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della politica estera e di sicurezza e difesa comune e lo informa dell’evoluzione di tali politiche; egli provvede affinché le opinioni del PE siano debitamente prese in considerazione.
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Capitolo Terzo, Le istituzioni giudiziarie 1. Introduzione Alla Corte di giustizia dell’UE è affidato il compito di assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati. Tale istituzione si articola in vari organi: la Corte di giustizia (CG), il Tribunale (T) e i tribunali specializzati (TS). Questa struttura è dovuta alla volontà di evitare di stabilire rigidamente nei Trattati una ripartizione interna di funzioni tra tali organi: il TUE e il TFUE si limitano generalmente ad attribuire determinate funzioni alla Corte di giustizia, lasciando al suo statuto il compito di ripartire le funzioni stesse tra gli organi che la compongono. 2. Le regole sull’organizzazione della Corte di giustizia, del Tribunale e dei tribunali specializzati Il TUE prevede che la CG sia composta da un giudice per S.m. e il Tribunale da almeno un giudice per S.m.; quindi il numero dei componenti del T (attualmente 27) potrebbe essere aumentato attraverso una modifica dello statuto. I giudici e gli avvocati generali sono scelti tra personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza e che soddisfino le condizioni richieste dagli artt. 253 e 254 TFUE. Tali artt. Prevedono che i giudici della CG e gli avvocati riuniscano le condizioni richieste per l’esercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti di notoria competenza; per il T i giudici devono possedere la capacità per l’esercizio di alte funzioni giurisdizionali. I giudici e gli avvocati generali della Corte e del T sono nominati di comune accordo per sei anni dai governi degli S.m.; una tenue limitazione alla libertà di ciascuno Stato di designare il proprio giudice deriva dall’esigenza che, prima della nomina dei giudici e degli avvocati generali sia consultato un comitato, composto da sette personalità scelte tra ex membri della CG e del T, membri dei massimi organi giurisdizionali nazionali e giuristi di notoria competenza, uno dei quali è proposto dal PE. Il comitato ha il compito di rendere un parere sull’adeguatezza dei candidati all’esercizio delle funzioni di giudice e di avvocato generale della CG e del T, prima che i governi degli S.m. procedano alle nomine. Gli avvocati generali hanno l’ufficio di presentare pubblicamente conclusioni motivate sulle cause che, conformemente allo statuto, richiedono il loro intervento. La sua funzione è di illustrare alla CG i contenuti possibili della decisione e le relative implicazioni, indicando quale sia a suo avviso la soluzione preferibile. Sono attualmente 8, ma il Consiglio, su richiesta della Corte, può all’unanimità aumentarne il numero. Presso il T non ci sono avvocati generali, ma un giudice di tale organo può essere chiamato a svolgere tale funzione. I giudici designano il presidente della CG, il cui mandato è triennale e rinnovabile. La CG di norma opera in sezioni composte di 3 o 5 giudici (attualmente le sezioni sono 8, più una “grande sezione” composta da 13 giudici, alla quale sono deferite le cause quando lo richieda uno S.m. o un’istituzione dell’UE che è parte in causa). L’attività della CG, oltre che dai trattati e dallo statuto è disciplinata dal regolamento di procedura, che è adottato dalla stessa Corte, ma è sottoposto all’approvazione del Consiglio che delibera a maggioranza qualificata. Anche il T si riunisce in sezioni e ha un proprio regolamento di procedura, stabilito da T con CG e sottoposto all’approvazione del Consiglio. Il T non era previsto in origine del TCE; è stato istituito nel 1989 al fine di alleviare il carico giudiziario della CG. Al T sono state gradualmente attribuite competenze sempre più ampie. In generale, sono di competenza del Tribunale i ricorsi proposti dalle persone fisiche e giuridiche, mentre spettano alla Corte quelli presentati dalle istituzioni dell’UE e dagli S.m. Al T competono tutti i ricorsi di annullamento, per carenza e per risarcimento del danno (salvo quelli riservati alla CG o ai TS). Al T può essere affidata la competenza a esaminare questioni pregiudiziali sollevate da giudici nazionali, ma solo in materie specifiche determinate dallo statuto, che però non ha ancora provveduto in tal senso, sicuramente perché, dato che le relative decisioni potrebbero essere, a certe condizioni, riesaminate dalla Corte, vi è il rischio che si prolunghi oltremodo il tempo necessario per definire una questione sollevata dal giudice nazionale. 12
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Nel sistema giudiziario dell’Unione la possibilità di impugnare le sentenze del Tribunale è riconosciuta oltre che alle istituzioni dell’UE e agli S.m., anche alle parti del giudizio. Sì è voluto garantire una maggiore tutela delle persone attraverso il doppio grado di giurisdizione e mantenere l’unità di indirizzo nell’interpretazione delle norme dell’Unione. Le decisioni del T sono impugnabili dinanzi alla Corte solo per i motivi di diritto ed entro i limiti previsti dallo statuto, che la consente entro due mesi dalla notifica della decisione del T, a qualsiasi parte che sia rimasta parzialmente o totalmente soccombente nelle sue conclusioni, agli S.m. e alle istituzioni della Comunità, anche se non erano intervenuti nel procedimento dinanzi al T, e infine a coloro che sono intervenuti nel giudizio per la parte della decisione che lo concerna direttamente. L’impugnazione è ammessa se è fondata su motivi relativi all’incompetenza del T, a vizi della procedura dinanzi al T recanti pregiudizio agli interessi della parte ricorrente, nonché alla violazione del diritto dell’UE da parte del T. L’alleggerimento del carico di lavoro della CG che deriva dall’istituzione del T deriva molto dal modo in cui la stessa CG procede all’esame delle impugnazioni; in particolare dal concetto di questione di diritto che utilizza e dal controllo che intende esercitare circa l’adeguatezza della motivazione. L’uso di criteri ampi in proposito potrebbe aprire la via a una moltitudine di ricorsi e prospettare spesso l’esigenza di un riesame approfondito delle decisioni del T. La giurisprudenza della CG ha rivelato in origine un uso dei poteri di controllo tendenzialmente estensivo. Ad esempio, benché l’insufficienza della motivazione non costituisca di per sé un motivo di impugnazione, essa può assumere rilevanza in quanto violazione di un principio generale. In effetti la CG si è indirizzata nel senso di annullare decisioni del T di primo grado la cui motivazione le è apparsa carente. Più recentemente la CG ha manifestato per certi versi un orientamento più restrittivo; essa ha affermato che in via di principio la valutazione dei fatti non costituisce una questione di diritto; tale valutazione può essere compiuta in sede di impugnazione soltanto qualora l’inesattezza materiale degli accertamenti del T risulti dai documenti acquisiti in atti e qualora sussista uno snaturamento degli elementi di prova. Quando l’impugnazione è accolta, la CG annulla la decisione del T. La Corte può in tal caso statuire definitivamente nel merito qualora lo stato degli atti lo consenta, oppure rinviare la causa al T affinché sia decisa da quest’ultimo, ovviamente in conformità con la decisione emessa dalla Corte sui punti di diritto. 3. I ricorsi per infrazione Una fra le competenze principali della CG concerne i ricorsi proposti nei confronti di uno S.m. per violazione di obblighi posti da norme dell’UE. La violazione può dipendere dal comportamento degli organi centrali dello Stato come da quello di qualsiasi altro organo o anche di un ente pubblico territoriale; particolarmente frequente è l’inadempimento dell’obbligo di attuare direttive. I ricorsi possono essere proposti dalla Commissione oppure da un altro Stato membro. La presenza di una violazione di obblighi è spesso segnalata alla Commissione da persone fisiche o giuridiche interessate al rispetto dell’obbligo. L’attenzione della Commissione è rivolta soprattutto alla tempestiva attuazione delle direttive ed essa avvia un procedimento solo in presenza di violazioni che essa considera sostanziali. Ciò significa che lievi ritardi nell’adempimento di obblighi oppure divergenze di contenuto di scarso rilievo vengono di fatto tollerati. Il procedimento previsto dall’art. 258 TFUE prende inizio con la contestazione dell’infrazione da parte della Commissione, che invia allo Stato ritenuto inadempiente una lettera detta di “intimazione” o di “addebito”, iniziando la fase pre-contenziosa. A tale contestazione lo Stato membro può replicare con proprie osservazioni. Una volta che sono state esaminate (o scaduto il tempo per formularle), la Commissione procede a emanare un parere motivato, in cui essa indica ciò che a suo avviso, lo Stato dovrebbe fare per porre fine alla violazione, stabilendo un termine per l’adempimento. Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la CG dell’UE (art. 258 TFUE). Se la Commissione intende avvalersi di tale facoltà, essa propone un ricorso, dando così avvio alla fase contenziosa del procedimento. La competenza a conoscere dei ricorsi per infrazione spetta esclusivamente alla CG. La CG ha rilevato che la lettera di intimazione ha lo scopo di circoscrivere la materia del contendere e di fornire allo S.m. invitato a presentare le sue osservazioni i dati che gli occorrono per predisporre la propria difesa. Quindi la Commissione non può far valere nuovi rilievi al momento del parere motivato e ancor meno in quello del ricorso dinanzi alla Corte. L’oggetto di un ricorso proposto ai sensi dell’art. 258 TFUE è stabilito dalla fese precontenziosa della procedura di trasgressione ivi contemplata nonché dalle conclusioni del ricorso; il parere motivato della Commissione ed il ricorso devono essere basati sui medesimi motivi e 13
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mezzi. La Commissione può tuttavia tenere conto del ricorso dei fatti successivi al parere quando essi sono della medesima natura di quelli considerati nel parere motivato e costituiscono uno stesso comportamento. Le lettere di intimazione sono inviate essenzialmente con la funzione di stimolare gli S.m. ad adempiere ai propri obblighi. La CG ha rilevato che l’azione per l’accertamento dell’inadempimento di uno Stato non va esperita entro un termine predeterminato, giacché implica, in considerazione della sua natura e del suo scopo, la facoltà della Commissione di valutare quale siano i mezzi ed il termine più appropriati onde porre fine ad eventuali inadempimenti. D’altro canto, lo svolgersi del giudizio non è precluso dallo stesso adempimento di un obbligo effettuato da parte dello S.m. dopo la scadenza del termine stabilito nel parere motivato. Quando, a seguito di un ricorso per infrazione, la CG abbia accertato la violazione di un obbligo da parte di uno S.m., tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della CG comporta. La Corte ha indicato che tale esecuzione deve essere iniziata immediatamente e deve concludersi entro termini il più possibile ristretti. La sentenza comporta per le autorità nazionali competenti l’assoluto divieto di applicare una disposizione nazionale dichiarata incompatibile con Trattato e l’obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per agevolare la piena efficacia del diritto comunitario. Qualora uno S.m. violi l’obbligo derivante dalla sentenza che aveva dichiarato l’infrazione, la CG può infliggere una sanzione pecuniaria nei confronti dello Stato che non abbia posto fine alla violazione accertata. La somma pecuniaria non ha la funzione di risarcire il danno arrecato dall’inadempimento; essa deve essere versata all’UE. L’importo deve essere adeguato alle circostanze e commisurato sia all’inadempimento accertato che alla capacità finanziaria dello S.m. di cui trattasi. Uno strumento più efficace del procedimento di infrazione consiste nella possibilità per le persone fisiche o giuridiche di rivolgersi ai giudici nazionali per far valere la responsabilità dello Stato inadempiente qualora ricorrano le condizioni a tal fine indicate dalla CG. La responsabilità per danni dello Stato inadempiente sussiste qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione; essa può sorgere anche quando la violazione dell’obbligo posto dal diritto dell’UE derivi da una sentenza emessa da un organo giurisdizionale nazionale di ultima istanza che abbia violato in maniera manifesta tale diritto. La violazione da parte di uno S.m. di obblighi derivanti dalla sua partecipazione all’UE potrebbe produrre un danno per un diverso S.m. In tal caso, lo Stato leso può agire dinanzi alla Corte di giustizia per ottenere una riparazione, ma solo in virtù di un compromesso; ciò significa, in sostanza, che lo S.m. che, a causa della violazione dei suoi obblighi, ha prodotto il danno potrà decidere se accettare o no di sottoporsi al giudizio della Corte. Nel sistema dell’UE non esiste per gli S.m. la possibilità di reagire a un inadempimento di un altro S.m. attraverso un proprio inadempimento. La CG ha infatti escluso che uno S.m. i cui diritti siano in ipotesi violati possa utilizzare contromisure nei confronti di altri S.m. 4. L’impugnazione degli atti dell’Unione L’art. 263 TFUE prevede un sistema unitario per l’impugnazione degli atti delle istituzioni dell’UE: sono impugnabili gli atti legislativi, nonché gli atti adottati dal Consiglio, dalla Commissione e dalla BCE che non siano raccomandazioni o pareri e gli atti del PE e del CE destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi; inoltre il controllo di legittimità è esercitato anche sugli atti degli organi o organismi dell’UE destinati a produrre effetti giuridici in confronti di terzi. La formula relativa agli effetti giuridici degli atti sintetizza il criterio generale che è seguito nell’ordinamento dell’Unione per determinare se l’atto di un’istituzione sia impugnabile. Tale criterio porta a ritenere impugnabili atti adottati da qualsiasi istituzione qualora siano produttivi di effetti giuridici. Il riferimento generico agli organi e organismi consente di estendere la possibilità di impugnazione, in conformità al diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale effettiva, anche agli atti adottati dalle agenzie europee alle quali è talora conferita, sulla base dei rispettivi statuti, una limitata funzione amministrativa. Il criterio collegato alla circostanza che l’atto produca effetti giuridici comporta inoltre che la Corte, ai fini di decidere circa l’impugnabilità di un atto, valuta gli effetti che esso produce indipendentemente dalla sua denominazione formale. Restano esclusi dalla possibilità di impugnazione, oltre agli atti preparatori, tutti gli atti che non producono effetti giuridici vincolanti idonei ad incidere sugli interessi del singolo, quali gli atti confermativi e gli atti di mera esecuzione, le semplici raccomandazioni e pareri e, in linea di principio, le istruzioni di servizio. Gli S.m. e alcune istituzioni (Consiglio, Commissione e PE) sono legittimati a impugnare qualsiasi atto; essi sono detti ricorrenti privilegiati. Ciò deve intendersi anche nel senso che non occorre per essi dimostrare 14
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l’esistenza di un proprio interesse all’impugnazione. Ovviamente un’istituzione non può impugnare un atto da essa adottato. Al contrario uno S.m. può proporre un ricorso anche nei confronti di un atto adottato dal Consiglio (o da questo e il PE) con il concorso del proprio voto. La Corte dei conti, la BCE e il Comitato delle regioni possono proporre ricorsi solo per salvaguardare le proprie prerogative (e.g. viene adottato un atto senza consultare l’organo, come invece imponeva il Trattato). Questa regola trae origine dal fatto che nel testo originario della disposizione non era previsto che il PE fosse legittimato a impugnare atti, ma la Corte aveva finito con l’ammettere la proponibilità di ricorsi da parte del PE solo per la tutela delle sue prerogative. Con il Trattato di Nizza il PE è stato incluso tra i ricorrenti privilegiati. Mentre è prevista l’impugnazione di atti del CE destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi, tale istituzione non è invece legittimata a impugnare atti delle altre istituzioni; questa asimmetria non dovrebbe essere ritenuta incompatibile con il principio dell’equilibrio istituzionale giacché, data l’omogeneità politica tra il CE e il Consiglio, il ricorso potrebbe essere proposto da quest’ultimo. Il Trattato non prevede nulla riguardo alla legittimazione delle articolazioni interne degli S.m., in particolare delle Regioni, a proporre il ricorso di annullamento. La Corte ha negato che le Regioni possano essere equiparate agli S.m. ai fini dell’impugnazione; esse possono agire in annullamento solo nella veste di persone giuridiche, dimostrando di possedere i requisiti richiesti dall’art. 263 TFUE. Tale soluzione rende difficile la tutela dei diritti delle Regione nei confronti dell’UE, quindi le Regioni potranno, piuttosto che intraprendere l’incerta via dell’impugnazione dell’atto dinanzi al Tribunale, sollecitare il governo dello S.m. a proporre alla CG un ricorso di annullamento. Una persona fisica o giuridica può proporre ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e individualmente. Il primo criterio è di agevole determinazione in quanto si riferisce ai soli atti che possono avere come destinataria una persona fisica o giuridica. Più complesso è accertare se un atto riguardi una persona direttamente e individualmente. Nella sentenza Plaumann la Corte ha ammesso che tali presupposti sussistono qualora l’atto del quale il soggetto non è destinatario lo tocchi a causa di determinate qualità personali, ovvero di particolari circostanze atte a distinguerlo dalla generalità, e quindi lo identifichi alla stessa stregua dei destinatari. Riguardo all’impugnazione di un regolamento da parte di una persona fisica o giuridica, la Corte ha riconosciuto che, sebbene l’impugnazione sia ammessa solo qualora la persona sia interessata non solo direttamente, ma anche individualmente da tale atto, tuttavia quest’ultimo requisito deve essere interpretato alla luce del principio di un tutela giurisdizionale effettiva tenendo conto delle diverse circostanze atte ad individuare un ricorrente; d’altra parte, tale interpretazione non può condurre ad escludere il requisito di cui trattasi, espressamente previsto dal Trattato, senza eccedere le competenze attribuite da quest’ultimo ai giudici comunitari. La Corte, quindi, pur cercando di intendere tale requisito in modo conforme al diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale, non può sovvertire in via interpretativa il sistema stabilito dai Trattati, prescindendo dai presupposti di ricevibilità da questo enunciati. La CG ha affermato che il carattere effettivo della tutela giurisdizionale deve essere valutato nel suo complesso, considerando sia i mezzi di ricorso offerti dal diritto dell’UE sia quelli presenti negli ordinamenti nazionali: infatti, qualora non sia esperibile il ricorso di annullamento per difetto dei presupposti richiesti dall’art. 263 TFUE, le persone hanno la possibilità di far valere l’invalidità degli atti dell’Unione dinanzi ai giudici nazionali e di indurre questi ultimi a rivolgersi al riguardo alla Corte in via pregiudiziale. A garanzia di tale meccanismo, la Corte ha aggiunto che spetta agli S.m. prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali e di procedimenti inteso a garantire il rispetto del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, sopperendo così a livello interno alle lacune di tutela del sistema giurisdizionale dell’Unione. La Corte ha limitato la possibilità di ricorrere a tale meccanismo di tutela precisando che quando una persona sia legittimata a proporre il ricorso dinanzi al Tribunale, una volta trascorso il termine per impugnare l’atto essa non può più farne valere l’illegittimità nell’ambito di un procedimento dinanzi a un giudice nazionale. In sostanza, chi può impugnare direttamente l’atto ma non agisce entro il termine stabilito si vedrà poi preclusa la possibilità di contestare la legittimità dell’atto in un giudizio nazionale. Riguardo agli aspetti procedurali relativi al ricorso di annullamento, l’art. 263 TFUE prevede che il ricorso debba essere proposto entro due mesi a decorrere, secondo i casi, dalla pubblicazione dell’atto, dalla sua notificazione al ricorrente ovvero, in mancanza, dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto conoscenza. In base all’art. 256 TFUE, attualmente i ricorsi degli S.m., delle istituzioni e della BCE sono proposti alla Corte salvo alcune eccezioni, mentre quelli delle persone fisiche o giuridiche sono diretti al Tribunale. Qualora fossero proposti ricorsi per l’annullamento di uno stesso atto dinanzi a istanze giudiziarie diverse 15
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rispettivamente competenti, la Corte può sospendere il proprio procedimento; lo stesso può fare il Tribunale, che, però, può anche declinare la propria competenza, affinché la Corte di giustizia possa statuire sui ricorsi medesimi. Si lascia così in definitiva alle istituzioni giudiziarie il compito di valutare discrezionalmente quale sia la soluzione più appropriata, vagliando i diversi interessi in gioco. La stessa disposizione prevede che quando uno S.m. impugni un atto dinanzi al T e un’istituzione impugni lo stesso atto dinanzi alla CG, il T declina la propria competenza affinché la CG possa statuire su tali ricorsi; in questa ipotesi non si lascia discrezionalità alle istituzioni giudiziarie, ritenendo comunque preferibile che sia la Corte a pronunciarsi. La legittimità di un atto dell’UE può essere contestata attraverso la procedura stabilita dall’art. 277 TFUE che concerne l’ipotesi in cui un procedimento dinanzi a un qualsiasi organo della CG dell’UE metta in causa un atto di portata generale adottato da un’istituzione, organo o organismo dell’UE. In tal caso, può essere invocata l’inapplicabilità dell’atto sollevando in via incidentale un’eccezione di illegittimità. Prima delle modifiche apportate dal T. Lisbona, la disposizione si riferiva esclusivamente ai regolamenti. La Corte ne aveva dato tuttavia un’interpretazione ampia, ritenendo che essa garantisse a qualsiasi parte il diritto di contestare, al fine di ottenere l’annullamento di una decisione che la concerne direttamente e individualmente, la validità di precedenti atti delle istituzioni comunitarie, che costituiscono il fondamento giuridico della decisione impugnata, qualora non avesse il diritto di proporre, in forza dell’art. 263 TFUE, un ricorso diretto contro tali atti, di cui essa subisce così le conseguenze senza averne potuto chiedere l’annullamento. Tale tecnica assume particolare rilevanza in presenza di atti di esecuzione; questi ultimi potranno essere contestati deducendo l’illegittimità dell’atto sul quale sono fondati. Rispetto a un atto di portata generale non dovrebbe essere rilevante ai fini dell’ammissibilità di un’eccezione di illegittimità il fatto che la parte che ne faccia valere l’inapplicabilità non l’abbia impugnato tempestivamente; ciò anche perché non necessariamente una persona fisica o giuridica poteva avere consapevolezza dell’interesse all’impugnazione di un atto prima che fosse adottato l’atto esecutivo che essa intende contestare. Inoltre, se fosse rilevante l’omessa impugnazione dell’atto sul quale l’atto contestato è fondato, uno S.m., che ha sempre titolo all’impugnazione, non potrebbe mai avvalersi dell’art. 277 TFUE, che è chiaro nel considerare invocabile da ciascuna parte l’illegittimità dell’atto. La CG ha invece escluso che uno Stato membro possa invocare l’eccezione di illegittimità rispetto a una decisione della quale è destinatario e che non abbia impugnato entro i termini, perché occorre tenere conto del fatto che i termini d’impugnazione mirano a salvaguardare la certezza del diritto, evitando la rimessa in discussione all’infinito degli atti comunitari che producono effetti giuridici. I motivi di impugnazione invocabili, che sono comuni a tutti i ricorsi, sono enunciati dall’art. 263 TFUE: incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione dei Trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione, sviamento di potere. 5. Il ricorso in carenza In relazione alla mancata attuazione, da parte di un’istituzione dell’UE, di un obbligo positivo ad essa posto, l’art. 265 TFUE prevede un mezzo di ricorso che è, tuttavia, solo parzialmente adeguato. Questa disposizione si riferisce all’ipotesi di un’astensione che avvenga in violazione dei Trattati; è quindi esclusa l’utilizzabilità del procedimento allorché un’istituzione non abbia fatto uso di un proprio potere discrezionale (e.g. in relazione al potere della Commissione di proporre un ricorso per infrazione). Si tratta di un mezzo che è stato esperito solo raramente con successo. In base all’art. 265 TFUE, il ricorso può essere proposto nei confronti del PE, del Consiglio, del CE, della Commissione, della BCE, nonché di qualsiasi organo e organismo dell’UE. Legittimati a proporre ricorso sono le istituzioni dell’Unione (ma non la Corte), gli S.m. e qualsiasi persona fisica o giuridica, per contestare ad un’istituzione, organo o organismo dell’UE di aver omesso di emanare nei suoi confronti un atto che non sia una raccomandazione o un parere. La Corte, accentuando le analogie tra il ricorso in annullamento e quello per carenza, ha ritenuto che, per determinare la legittimazione delle persone fisiche o giuridiche a proporre un ricorso in carenza, si dovrebbe applicare un criterio analogo a quello stabilito per l’impugnazione degli atti. Occorre perciò accertare che l’atto che l’istituzione avrebbe dovuto adottare riguardi direttamente e individualmente il ricorrente. Un’ulteriore analogia tra il ricorso in carenza e quello di legittimità attiene al requisito per il quale la carenza può riguardare l’omissione di atti che non siano pareri né raccomandazioni. Tuttavia, per il ricorso in carenza tale requisito concerne solo i ricorsi proposti dalle persone fisiche e giuridiche; quindi uno Stato membro o 16
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un’altra istituzione potranno agire anche per far dichiarare la violazione da parte di un’istituzione dell’obbligo di emettere un parere previsto dal Trattato. Sempre in base all’art. 265 TFUE, perché il ricorso sia ricevibile occorre che l’istituzione, l’organo o l’organismo in causa siano stati preventivamente richiesti di agire. Se, allo scadere di un termine di due mesi da tale richiesta, l’istituzione, l’organo o l’organismo non hanno preso posizione, il ricorso può essere proposto entro un nuovo termine di due mesi. Il procedimento tende a far accertare, da parte degli organi giudiziari, la violazione dell’obbligo di pronunciarsi, con la conseguenza che l’istituzione, l’organo o l’organismo la cui astensione sia stata dichiarata contraria ai Trattati sono tenuti a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della CG dell’UE comporta. 6. La competenza in via pregiudiziale La Corte ha reso la maggior parte delle proprie pronunce nell’esercizio della competenza, prevista dall’art. 267 TFUE, di decidere questioni deferitele da giudici nazionali affinché essa interpreti le norme dell’UE o accerti la legittimità di atti dell’UE. L’obiettivo che l’art. 267 TFUE persegue è manifestamente quello di far sì che, almeno in via di principio, le norme dell’UE siano interpretate in modo uniforme e corretto dai giudici nazionali e altresì che sia valutata nello stesso modo la legittimità degli atti delle istituzioni. Ciò risponde all’esigenza che le disposizioni dei Trattati e quelle degli atti da queste previsti siano applicai in modo uniforme negli S.m., anche al fine di evitare che delle divergenze comportino, in sostanza, una riduzione della portata degli obblighi imposti a ciascuno S.m. Secondo l’art. 267 TFUE, le questioni relative all’interpretazione di norme dell’UE o all’accertamento della legittimità di atti delle istituzioni che occorre risolvere in un giudizio possono essere sottoposte alla CG da un qualsiasi giudice nazionale. Quando si tratti di un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla CG. La ragione per la quale è stato posto un obbligo per i giudici di ultima istanza, mentre gli altri giudici hanno la facoltà di rivolgersi alla Corte ma non sono tenuti a farlo, dipende anzitutto dal fatto che, quando il procedimento conduce a una sentenza impugnabile, la causa potrebbe eventualmente essere decisa dal giudice dell’impugnazione senza che la questione, ad esempio, dell’interpretazione di una norma dell’UE assuma rilevanza; quando invece sia il giudice di ultima istanza ad affrontare la questione ed egli al consideri rilevante, l’uniformità dell’interpretazione della norma ai fini della decisione della causa può essere assicurata soltanto attribuendo la competenza alla Corte. Inoltre, come la CG ha affermato, l’obbligo di rinvio mira, più in particolare, ad evitare che in uno S.m. si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie (ora, dell’Unione). La violazione dell’obbligo di rinvio da parte del giudice di ultima istanza può dare origine a una responsabilità dello S.m. per i danni causati alla parte del giudizio; la CG ha infatti ritenuto che l’obbligo di risarcire i danni causati dall’inadempimento di obblighi comunitari possa sorgere in presenza delle condizioni a tal fine previste in via generale, anche per la mancata osservanza da parte dell’organo giurisdizionale del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE. La CG ha ritenuto ammissibile domande a titolo pregiudiziale postele dalle Corti costituzionali nazionali. A tale proposito, la Corte cost. italiana aveva in un primo tempo affermato di non essere legittimata a rivolgersi alla CG in considerazione delle profonde differenze tra il suo ruolo e quello degli altri organi giurisdizionali nazionali. Recentemente la Corte cost. ha invece per la prima volta, nell’ambito di un giudizio di legittimità costituzionale in via principale, proposto un rinvio pregiudiziale richiamandosi alla circostanza che essa, pur nella sua peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale nell’ordinamento interno, costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 267 TFUE e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza. La Corte cost. ha altresì considerato che nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale, a differenza di quelli promossi in via incidentale, essa è l’unico giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia e che perciò se in tali giudizi non fosse possibile effettuare il rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE, risulterebbe leso il generale interesse alla uniforme applicazione del diritto comunitario. Quest’ultimo argomento sembra lasciar intendere che la Corte cost. non abbia modificato il proprio orientamento volto a escludere il rinvio pregiudiziale quando sia investita di un giudizio incidentale di legittimità costituzionale in ragione del fatto che, nell’ambito di questo procedimento, la domanda potrebbe (o dovrebbe) essere proposta dal giudice a quo. L’art. 267 TFUE impone ai giudici che emettono sentenze non impugnabili l’obbligo di proporre la questione. Rispetto alle questioni di interpretazione, la CG ha però riconosciuto l’esistenza di alcuni limiti all’obbligo di rinvio. Una prima ipotesi in cui (sentenza Cilfit) il giudice di ultima istanza può astenersi dal 17
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deferire alla CG una questione di interpretazione è data dalla circostanza che la Corte abbia già chiarito in un’altra pronuncia il significato della norma: ciò sia quando la Corte si sia già pronunciata sulla questione di interpretazione sollevata, sia quando abbia definito una questione analoga. Inoltre, la Corte si pone il problema se il giudice nazionale che applichi una norma dell’UE debba necessariamente effettuare un’interpretazione della stessa oppure se certe norme risultino talmente chiare da non prospettare alcuna attività interpretativa (in claris non fit interpretatio) e quindi da non richiedere il rinvio pregiudiziale. Quindi, nel caso dell’art. 267 TFUE, si esclude che i giudici di ultima istanza siano tenuti a deferire questioni di interpretazione alla CG quando si tratti di questioni di agevole soluzione. Se si valorizza la distinzione fra norme da interpretare e norme chiare, sorge però per l’interpretazione uniforme delle norme dell’UE il rischio che il giudice nazionale invochi una pretesa chiarezza della norma per darne proprie interpretazioni particolari. Nella sentenza Cilfit la CG ha cercato di introdurre alcune cautele per salvaguardare l’uniformità dell’interpretazione. Secondo la sentenza, la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata. Prima di giungere a tale conclusione, il giudice nazionale deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli altri S.m. ed alla CG. Circa le questioni relative alla legittimità degli atti, la CG ha escluso che rispetto all’obbligo del giudice di ultima istanza di proporre la questione possano operare dei limiti analoghi a quelli enunciati nelle sentenza Cilfit riguardo all’interpretazione. Infatti, anche quando la CG si sia già pronunciata sulla validità di un atto analogo a quello rilevante nel giudizio nazionale, non è da escludersi che un esame approfondito riveli che una disposizione la cui validità è in discussione non può essere assimilata a una disposizione già dichiarata invalida. Tale atteggiamento più rigoroso rispetto alla validità ha trovato espressione anche riguardo ai giudici che non siano di ultima istanza; la CG ha infatti affermato che le giurisdizioni non di ultima istanza possono esaminare la validità di un atto comunitario e, se ritengono infondati i motivi d’invalidità addotti dalle parti, respingerli concludendo per la piena validità dell’atto. Così facendo essi non mettono in causa l’esistenza dell’atto comunitario. Al contrario, essi non hanno il potere di dichiarare invalidi gli atti delle istituzioni comunitarie. Ciò significa che qualora un giudice non di ultima istanza ritenga che un atto dell’UE sia viziato, non potrà dichiararne l’invalidità, ma dovrà necessariamente proporre una questione pregiudiziale alla CG affinché sia essa a valutare la legittimità dell’atto. Questa conclusione, difficilmente conciliabile con l’art. 267 TFUE è giustificata dalla CG con una considerazione generale: “L’esistenza di divergenze fra i giudici degli S.m. sulla validità degli atti comunitari potrebbe compromettere la stessa unità dell’ordinamento giuridico comunitario ed attentare alla fondamentale esigenza della certezza del diritto. La CG ha ammesso che il giudice nazionale, che nutra gravi dubbi sulla validità di una norma adottata da un’istituzione, possa sospendere l’esecuzione di un provvedimento nazionale adottato in applicazione di una norma comunitaria, qualora sottoponga alla stessa Corte la questione di legittimità dell’atto dell’istituzione e qualora ricorrano gli estremi dell’urgenza, sul richiedente incomba il rischio di subire un pregiudizio grave e irreparabile e il suddetto giudice tenga pienamente conto dell’interesse della Comunità. Criteri analoghi valgono, secondo la CG, allorché il giudice nazionale intenda concedere provvedimenti provvisori che modifichino o disciplinino le situazioni di diritto o i rapporti giuridici controversi in ordine ad un provvedimento amministrativo nazionale fondato su un regolamento comunitario che forma oggetto di un rinvio pregiudiziale per accertamento di validità. La CG ha enunciato alcuni criteri di ricevibilità: la Corte muove da una presunzione di rilevanza della questione, affermando che il diniego di pronuncia su un rinvio pregiudiziale proposto da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto comunitario richiesta non ha alcun rapporto con la realtà o l’oggetto della causa principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte. Dunque, per poter giungere ad un’interpretazione del diritto comunitario che sia utile al giudice nazionale, occorre che quest’ultimo definisca il contesto in fatto e in diritto in cui si inseriscono le questioni da esso proposte o che, quanto meno, spieghi le ipotesi in fatto su cui si basano dette questioni; è inoltre importante che il giudice nazionale indichi le ragioni precise che l’hanno indotto a interrogarsi sull’interpretazione e sulla validità di determinate disposizioni del diritto comunitario e a giudicare necessario rivolgere talune questioni pregiudiziali alla Corte. È implicito nell’art. 267 TFUE che il giudice nazionale che abbia sollevato una questione di interpretazione o di legittimità sia vincolato dalla pronuncia della CG. Ma il significato della pronuncia è più vasto: la sentenza indica infatti l’orientamento della CG rispetto alle questioni sollevate dal giudice nazionale ed esso può ben avere rilievo in ulteriori giudizi. 18
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Si è parlato di effetto erga omnes delle pronunce della CG rese a titolo pregiudiziale, come se esse risolvessero una volta per tutte le questioni decise. Non esiste tuttavia nei giudizi nazionali diversi da quello in cui sono state sollevate le questioni un vincolo del giudice ad attenersi alla soluzione data dalla CG. Il giudice di ultima istanza è bensì liberato dall’obbligo di deferire una questione alla Corte qualora intenda conformarsi a quanto già deciso dalla stessa Corte; egli può tuttavia sollevare nuovamente la questione, e così possono fare gli altri giudici. D’altra parte, la Corte non si considera formalmente vincolata dai propri precedenti (come dichiarato nella sentenza Keck). 7. Le altre competenze Fra le altre competenze delle istituzioni giudiziarie, è importante quella riguardo ai ricorsi che possono essere proposti per far valere la responsabilità extracontrattuale dell’UE e le pretese al risarcimento dei danni (art. 268 TFUE). I ricorsi di persone fisiche e giuridiche sono dirette al Tribunale. Secondo la Corte, la responsabilità può essere causata da un qualsiasi atto compiuto dall’UE, anche da un atto normativo, purché naturalmente si tratti di un atto legittimo. Perché l’UE sia responsabile, la CG ha tuttavia indicato ulteriori condizioni, quali la gravità dell’illecito quando si tratti di un atto normativo che implica delle scelte di politica economica e la circostanza che sia stata violata una norma superiore posta a tutela dei singoli; ha anche considerato che l’azione di responsabilità non sia proponibile nei confronti dell’UE se il danno deriva dall’atto di uno S.m., anche se compiuto in esecuzione di una norma dell’UE. I criteri enunciati dalla CG sono stati applicati in modo rigoroso, sicché solo in pochissimi casi il ricorso è stato esperito con esito favorevole.
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Capitolo Quarto, I confini del diritto dell’Unione 1. La cooperazione rafforzata Non sempre le norme dell’UE si applicano uniformemente a tutti gli S.m. In alcuni casi la differenziazione nella disciplina è nel senso che ciò che è diritto dell’UE per alcuni S.m. non è tale per gli altri. Tale fenomeno assumerà maggiore rilievo se e quando verrà utilizzato un meccanismo introdotto dal T. Amsterdam e disciplinato dagli artt. 20 TUE e 326-334 TFUE. Il meccanismo c.d. cooperazione rafforzata consente a un gruppo di S.m., almeno 9, di perseguire, da soli, obiettivi dell’UE che non possono essere perseguiti entro un termine ragionevole dall’UE nel suo insieme. Le istituzioni dell’UE saranno utilizzate per attuare la cooperazione rafforzata, senza che gli Stati che non sono coinvolti dalla cooperazione in questione possano partecipare alla votazione delle delibere del Consiglio: quando per l’adozione di una delibera sia prevista la maggioranza qualificata, essa è quella definita nell’art. 238 TFUE. La normativa così prodotta sarà considerata parte del diritto dell’UE, ma soltanto per gli Stati che partecipano alla cooperazione rafforzata. L’avvio di una c.r. presuppone la richiesta da parte di un congruo numero di S.m. e una delibera di autorizzazione, presa a maggioranza qualificata dal Consiglio nella sua composizione ordinaria; tale delibera è adottata su proposta della Commissione, previa approvazione del Parlamento. La c.r. è aperta a tutti gli S.m., fatto salvo il rispetto delle eventuali condizioni di partecipazione stabilite dalla decisione di autorizzazione. Per l’ingresso di uno Stato in una c.r. già avviata, occorre tuttavia anche una delibera di conferma da parte della Commissione o eventualmente, se la Commissione non è favorevole, del Consiglio nella composizione limitata agli Stati che partecipano alla cooperazione. 2. Altri casi di applicazione differenziata della normativa dell’Unione L’applicazione differenziata della normativa dell’UE trova altri esempi nell’ambito dei Trattati senza che tuttavia si profili in questi casi l’estraneità di uno S.m. rispetto a norme dell’Unione. L’esistenza di deroghe, generalmente temporanee, per esentare uno o più S.m. da taluni obblighi stabiliti dalla normativa comunitaria ha accompagnato il TCE sin dalla sua formazione. Un insieme ampio di deroghe è stato stabilito in tutti gli accordi relativi all’adesione all’UE di nuovi S.m., in modo da consentire agli Stati aderenti di realizzare progressivamente, nel corso di un periodo transitorio, l’adeguamento alle esigenze del mercato comune e alle altre derivanti dai Trattati. Un insieme di norme dell’UE si applica soltanto agli S.m. la cui moneta è l’euro. L’art. 139 TFUE elenca una serie di disposizioni dello stesso Trattato che non operano rispetto agli S.m. riguardo ai quali il Consiglio non ha deciso che soddisfano alle condizioni necessarie per l’adozione dell’euro; tali Stati sono chiamati Stati membri con deroga. 3. L’impatto del diritto dell’Unione oltre i propri confini Una forma particolare di impatto delle norme dell’UE si verifica quando si produce, per effetto di esse, una discriminazione a rovescio. È il caso in cui i cittadini italiani godano, in base a una normativa nazionale, di un trattamento meno favorevole di quello che è dovuto in Italia ai cittadini degli altri Stati membri secondo la normativa dell’UE. Con riferimento a un tale tipo di discriminazione, la CG ha dichiarato nella sentenza Steen II che spetta al giudice nazionale, quando sia chiamato a conoscere di una questione di diritto interno, stabilire se, alla luce di quest’ultimo, vi sia una discriminazione e se e come tale discriminazione debba essere eliminata. La CG ha precisato che il diritto comunitario non osta a che il giudice nazionale controlli la compatibilità con la propria Costituzione di una norma interna che sfavorisca i lavoratori nazionali rispetto ai cittadini di altri S.m., qualora i detti lavoratori nazionali si trovino in una situazione priva di qualsiasi connessione con quelle contemplate dal diritto comunitario. Sarebbe tale il caso di lavoratori nazionali che non abbiano esercitato la libertà di circolazione.
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Capitolo Quinto, Le competenze normative dell’Unione europea 1. Il fondamento delle competenze normative dell’UE: il principio di attribuzione L’UE dispone delle competenze normative che le sono conferite dal TUE e dal TFUE; essa, in virtù del principio di attribuzione, può agire esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli S.m. nei Trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Tale principio è completato dalla precisazione che qualsiasi competenza non attribuita all’UE nei Trattati appartiene agli S.m. Un’indicazione generale delle competenze dell’UE figura negli artt. 3, 4 e 6 TFUE che elencano i settori nei quali l’Unione può agire. Generalmente la disposizione che attribuisce la competenza indica anche la procedura che deve essere seguita per adottare atti che attengono a quel particolare settore o materia. La disposizione inoltre precisa talora anche quale atto normativo le istituzioni possono adottare; spesso è conferito, invece, il potere generale di adottare misure, lasciando così alle istituzioni la scelta dell’atto normativo più adeguato. La scelta del fondamento giuridico di un atto spetta alle istituzioni politiche dell’Unione. Tuttavia la Corte ha affermato che tale scelta deve basarsi su elementi oggettivi, suscettibili di sindacato giurisdizionale, tra i quali figurano, in particolare, lo scopo e il contenuto dell’atto. Tale esigenza è dovuta alla circostanza che la scelta del fondamento giuridico implica conseguenze importanti sul piano istituzionale poiché da essa dipende la procedura normativa e quindi il ruolo più o meno ampio che il Parlamento avrà per l’adozione di un atto. Inoltre, la scelta del fondamento giuridico può condizionare il contenuto dell’atto a motivo della possibilità che sia prevista, per la sua adozione, la maggioranza qualificata oppure l’unanimità ai fini della delibera del Consiglio. Nell’individuazione del fondamento giuridico si possono presentare delle situazioni problematiche quando un atto concerna più materie. In tali ipotesi secondo la CG occorre che venga accertato quale sia l’obiettivo prevalente dell’atto; esaminando la legittimità di un regolamento che concerneva sia il commercio sia la tutela dell’ambiente, la Corte ha affermato che se l’esame di un atto comunitario dimostra che esso persegue una duplice finalità o che ha un doppia componente e se una di queste è identificabile come principale o preponderante, mentre l’altra è solo accessoria, l’atto deve fondarsi su un solo fondamento normativo, ossia quello richiesto dalla finalità o componente principale o preponderante. Tuttavia, qualora non sia possibile individuare una componente preponderante e sia accertato che l’atto persegue contemporaneamente più obiettivi o che ha più componenti tra loro inscindibili, senza che uno di essi assuma importanza secondaria e indiretta rispetto all’altro, tale atto dovrà basarsi sui diversi fondamenti normativi corrispondenti. 2. Competenze esclusive, competenze concorrenti e competenze parallele Le competenze che l’Unione può esercitare non hanno tutte le stesse caratteristiche, ma possono comportare una maggiore o minore limitazione dei poteri degli S.m. Il TFUE precisa, in relazione alle materie di competenza dell’UE, se queste hanno un carattere esclusivo o concorrente, ovvero se appartengono alla nuova categoria delle competenze di sostegno, coordinamento o completamento. Sono altresì delineate dal TFUE le caratteristiche proprie delle diverse tipologie di competenza. Le innovazioni così apportate tendono a stabilire una situazione di maggiore chiarezza nell’assetto delle competenze, al fine di delineare in modo più preciso la ripartizione di funzioni normative tra l’UE e gli S.m. L’art. 2 TFUE indica anzitutto che quando i Trattati attribuiscono all’Unione una competenza esclusiva in un determinato settore, solo l’UE può legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli S.m. possono farlo autonomamente solo se autorizzati dall’UE oppure per dare attuazione agli atti dell’UE. Pertanto, nelle materie di competenza esclusiva non vi è soltanto la prevalenza delle norme dell’UE rispetto alle norme degli S.m., ma risulta illecita, qualunque ne sia il contenuto, una normativa nazionale adottata fuori dalle due circostanze indicate dalla disposizione. L’esistenza di una competenza di carattere esclusivo restringe in modo molto rilevante i poteri degli S.m. Da un punto di vista pratico, però, ai fini di una valutazione della compatibilità della normativa degli Stati membri con il diritto dell’Unione, è talora tenue la distinzione fra limiti derivanti da una competenza esclusiva e limiti collegati al contenuto di una normativa adottata dall’Unione in una materia di competenza concorrente. Infatti, i limiti di contenuto possono essere talmente rilevanti da precludere sostanzialmente l’attività normativa degli S.m., comportando così una situazione simile a quella che si verifica nei settori di 21
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competenza esclusiva: ad esempio, le norme comunitarie sul ravvicinamento delle legislazioni sono state talora intese dalla Corte, in ragione dei loro obiettivi, come implicanti il divieto per gli Stati membri di provvedere in modo autonomo alla tutela di certi interessi una volta che è intervenuta la disciplina comunitaria. Il carattere esclusivo di una competenza si desume dalla disposizione del Trattato che l’attribuisce. Tuttavia, considerato che il carattere esclusivo non dipende dalla circostanza che il legislatore dell’UE abbia adottato in quel settore un atto normativo, sarebbe opportuno che, nelle materie di competenza esclusiva, fosse comunque realizzato un certo sviluppo della disciplina dell’UE per evitare il rischio che si determini una situazione di vuoto normativo: infatti, qualora l’unione non abbia ancora provveduto a disciplinare una materia di competenza esclusiva, neppure gli S.m. potrebbero provvedere. Per evitare tale rischio, la Corte ha tratto la conclusione dell’esistenza di una competenza esclusiva non dal semplice fatto dell’entrata in vigore del Trattato CE, ma dalla scadenza di termini posti per la realizzazione di taluni obiettivi dallo stesso Trattato. La circostanza che ora sia invece il TFUE a qualificare certe materie come di competenza esclusiva comporta che il carattere esclusivo si determina per il solo fatto dell’entrata in vigore del T. Lisbona, indipendentemente dalla circostanza che l’UE abbia raggiunto certi obiettivi normativi. Il carattere esclusivo della competenza è attribuito alla politica commerciale comune, alla politica della pesca, all’unione doganale, alla definizione di regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato comune, alla politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro. Riguardo alla definizione di competenza concorrente, il TFUE all’art. 2 indica che quando i Trattati attribuiscono all’Unione una competenza concorrente con quella degli Stati membri in un determinato settore, l’Unione e gli S.m. possono legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti in tale settore. Specifica inoltre che gli Stati possono esercitare la loro competenza nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria. Il Protocollo n. 25 indica che quando l’Unione agisce in un determinato settore, il campo di applicazione di questo esercizio di competenza copre unicamente gli elementi disciplinati dall’atto dell’UE in questione e non copre pertanto l’intero settore. A ciò si aggiunge che varie disposizioni del TFUE che attribuiscono all’UE competenze di carattere concorrente precisano che gli atti adottati dalle istituzioni non ostano a che uno S.m. mantenga o stabilisca misure, compatibili con i Trattati, che prevedano una maggiore protezione. Diversamente da quanto avviene nelle materie di competenza esclusiva, gli S.m. possono, nelle materie di competenza concorrente, adottare non solo norme di applicazione e attuazione di atti dell’UE, ma provvedere a una normazione autonoma, cioè non finalizzata all’adempimento di obblighi derivanti dalla partecipazione all’Unione, purché conforme a tali obblighi. Ad esempio, in presenza di una direttiva di armonizzazione che lasci agli S.m. la facoltà di adottare norme più favorevoli a una categoria di persone o beni, gli S.m. saranno tenuti a rispettare i requisiti minimi fissati dalla direttiva, ma potranno anche stabilire sulla base di norme interne limiti più rigorosi. Il TFUE non elenca in modo generale le competenze di natura concorrente, ma si limita a indicare le principali in va meramente esemplificativa. Ciò perché le competenze concorrenti si individuano in via residuale: sono tutte quelle che non sono esclusive né parallele (art. 4 TFUE). Il TFUE delinea una nuova tipologia di competenze, dette parallele, in relazione a settori nei quali l’UE può svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli S.m., senza tuttavia sostituirsi alle loro competenze in tali settori. Le materie oggetto di competenza parallela sono elencate all’art. 6 TFUE. La differenza sostanziale rispetto alle materie di competenza concorrente consiste nella preclusione per l’Unione a provvedere, nelle materie di competenza parallela, all’armonizzazione delle disposizioni degli S.m. La differenza è alquanto tenue, dato che anche nelle materie di competenza concorrente talora si delineano poteri delle istituzioni diretti essenzialmente a sostenere le politiche degli S.m. o si esclude la possibilità di normative dell’UE che comportino l’armonizzazione delle disposizioni nazionali. L’individuazione delle competenze parallele non contribuisce a chiarire in modo adeguato la ripartizione tra queste ultime e le competenze concorrenti, anche perché ai fini di determinare l’effettivo contenuto che l’azione normativa può assumere in una certa materia occorre comunque riferirsi alla disposizione del TFUE che attribuisce il relativo potere normativo. Ciò è confermato dalla precisazione che risulta dall’art. 6 TFUE, nel senso che la portata e le modalità d’esercizio delle competenze dell’UE sono determinate dalle disposizioni dei Trattati relative a ciascun settore. 3. L’art. 352 TFUE e l’interpretazione delle disposizioni che conferiscono poteri normativi L’art. 352 TFUE consente alle istituzioni, qualora ricorrano certe condizioni, di adottare atti anche quando il rispettivo potere normativo non è conferito specificamente dai Trattati. Secondo tale disposizione, infatti, se 22
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un’azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai Trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai Trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del PE, adotta le disposizioni appropriate. Le misure adottate sulla base di tale articolo non possono concernere, tuttavia, la politica estera e di sicurezza comune né comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli S.m. nei casi in cui i Trattati la escludono. Questo articolo non conferisce ulteriori competenze, dovendo le istituzioni operare nel quadro delle politiche definite dai Trattati. La CG ha affermato che “tale disposizione, costituendo parte integrante di un ordinamento istituzionale basato sul principio dei poteri attribuiti, non può costituire il fondamento per ampliare la sfera dei poteri della Comunità al di là dell’ambito generale risultante dal complesso delle disposizioni del Trattato, ed in particolare di quelle che definiscono i compiti e le azioni della Comunità”. Dall’interpretazione accolta dalla Corte discendono due ulteriori principi. In primo luogo, considerato che il ricorso all’art. 352 TFUE è possibile solo quando esiste una competenza ma non sono indicati i poteri per esercitarla, tale articolo non può offrire una base giuridica alternativa a quella eventualmente risultante da altre disposizioni del Trattato. Quindi, si può fondare un atto sull’art. 352 soltanto quando il potere di adottarlo non sia conferito da una diversa disposizione del Trattato. Secondo la CG l’inesistenza di un potere normativo attribuito a un’istituzione da altre disposizioni del Trattato costituisce un presupposto perché un atto possa legittimamente essere fondato su tale articolo. Tale atteggiamento della CG tende essenzialmente a evitare che attraverso il ricorso all’art. 352 TFUE sia riservato al PE un ruolo meno rilevante di quello che gli spetterebbe sulla base di una diversa disposizione del Trattato. In secondo luogo, l’art. 352 TFUE non può essere utilizzato quale base per l’adozione di disposizioni che condurrebbero sostanzialmente, con riguardo alle loro conseguenze, a una modifica del Trattato che sfugga alla procedura prevista nel Trattato medesimo. L’orientamento della CG tende a evitare che possa essere aggirata, ricorrendo all’art. 352, la procedura ordinaria di modifica dei Trattati; tale procedura prevede infatti la ratifica di un nuovo trattato da parte degli S.m. secondo le rispettive norme costituzionali, norme che possono richiedere un coinvolgimento dei parlamenti nazionali o talora lo svolgimento di un referendum popolare. Un atteggiamento di cautela da parte degli S.m. nei confronti di una disposizione che è a contenuto aperto, poiché consente l’esercizio del potere normativo in ipotesi che non risultano precostituite da specifiche disposizioni del Trattato, si riflette ancora oggi nell’art. 352 TFUE; ciò spiega in particolare le ragioni del requisito dell’unanimità tuttora previsto ai fini dell’adozione degli atti fondati su tale articolo. Riguardo alla procedura normativa la seconda frase del par. 1 indica che qualora il Consiglio adotti le disposizioni in questione secondo una procedura legislativa speciale esso delibera altresì all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del PE; tale clausola tende verosimilmente a escludere che l’adozione di atti fondati sull’art. 352 prescinde dai requisiti ivi stabiliti in via generale. Nonostante l’ampio sviluppo ormai raggiunto dalla normativa dell’UE, restano tuttora spazi per trarre dall’art. 352 TFUE dei poteri d’azione in settori non ancora disciplinati. Ciò anche perché le condizioni di applicazione di tale disposizione sono ora più estese. Infatti, il ricorso ad essa è oggi possibile nel quadro delle politiche definite dai Trattati e non più, come invece indicava il TCE, solo nel funzionamento del mercato comune; si apre così la possibilità di utilizzare l’art. 352 quale fondamento giuridico di atti normativi che concernano qualsiasi materia rientrante nell’ambito di applicazione dei Trattati. Inoltre gli obietti dell’UE sono ora indicati dall’art. 3 TUE in modo ancora più ampio, in particolare riferendosi anche al mantenimento della pace, oltre che, tra l’altro, alla crescita economica sostenibile ed equilibrata e al progresso sociale; ciò porta correlativamente anche a un’estensione della possibilità di utilizzare, secondo la tecnica sopra descritta, l’art. 352 TFUE. Un limite è prospettato, tuttavia, da una dichiarazione adottata a Lisbona (n. 41) in cui gli S.m. affermano che è escluso che un’azione basata sull’art. 352 persegua soltanto gli obiettivi di cui all’art. 3 del TUE, vale a dire il fine dell’UE di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli; si vuole così verosimilmente evitare che da tale obiettivo si ricavino poteri impliciti che potrebbero dare fondamento ad azioni in materia di politica estera e di difesa. La possibilità di fondare un atto sull’art. 352 TFUE dipende anche dall’interpretazione più o meno estensiva data alle disposizioni del Trattato che attribuiscono poteri normativi; infatti, quanto più è ampia l’interpretazione di tali disposizioni, tanto più ridotta sarà la possibilità di utilizzare il fondamento giuridico residuale fornito dall’art. 352. La Corte ha affermato che la Comunità agisce normalmente sulla base di poteri specifici che non devono necessariamente risultare in termini espressi da puntuali disposizioni del Trattato, potendo anche essere dedotti, in modo implicito, dalle disposizioni medesime.
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4. Il principio della sussidiarietà Nelle materie in cui l’UE non dispone di competenza esclusiva, il suo potere normativo deve essere esercitato in conformità al principio di sussidiarietà (art. 5 TUE): “nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli S.m., né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione”. Nell’ordinamento dell’UE il principio del federalismo assume un valore particolare: esso costituisce un limite alla possibilità dell’Unione di adottare atti normativi nelle materie che non sono di sua competenza esclusiva. Ciò è evidenziato dalla circostanza che il principio, che non era stato enunciato nel TCE, è stato inserito nel T. Maastricht, con la funzione di costituire un contrappeso alla più ampia attribuzione di competenze alla Comunità che con tale Trattato era stata realizzata: in sostanza, nel momento in cui si sono attribuite all’Unione più estese competenze, allo stesso tempo si è limitata la possibilità che queste vengano effettivamente esercitate poiché l’adozione di ogni atto normativo è condizionata alla sua necessità, valutata attraverso i parametri del principio della sussidiarietà. Tenuto conto della funzione di tale principio nell’ordinamento dell’UE, è opportuno precisare che esso non incide, quindi, sui rapporti fra Stato centrale o federale e Regioni o Stati federati all’interno degli S.m., dato che esso concerne soltanto i rapporti fra l’UE e gli S.m., considerati in modo unitario, quali che siano le loro suddivisioni interne. Come risulta dall’art. 5 TUE, il principio della sussidiarietà non opera rispetto alle materie che rientrano nella competenza esclusiva dell’Unione. Anche in relazione a queste ultime vale però il principio della proporzionalità, applicabile a qualsiasi materia di competenza dell’Unione: “In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati”. Quando una materia rientra nella competenza concorrente o parallela, i principi della sussidiarietà e della proporzionalità operano quindi entrambi nel senso di limitare l’esercizio, da parte dell’Unione, della propria competenza normativa. La proporzionalità concerne sia l’esercizio di un’attività normativa dell’UE sia le modalità seguite per svolgerla. Pertanto, il rispetto del principio della proporzionalità può richiedere, in ipotesi, che il Consiglio non emani una normativa inutile oppure che esso adotti un atto normativo che lasci maggiore libertà agli Stati membri. L’accertamento circa la conformità di un’azione normativa ai principi della proporzionalità e della sussidiarietà può non essere agevole in concreto; in particolare, il principio della sussidiarietà implica una valutazione comparativa fra quello che gli S.m. potrebbero fare per raggiungere un certo obiettivo e quello che invece è in grado di realizzare allo stesso fine l’UE nell’esercizio delle sue competenze. Un’attività normativa dell’UE potrebbe risultare compatibile col principio della sussidiarietà allorché gli S.m. si astengano dal compiere quel che potrebbero fare in modo adeguato per realizzare l’obiettivo, perché altrimenti questo non verrebbe raggiunto. La verifica delle condizioni del principio presenta difficoltà, anche perché richiede una valutazione da svolgere in diverse prospettive, come quella politica ed economica, e implica senza dubbio un ampio spazio di apprezzamento discrezionale da parte delle istituzioni. Al fine di agevolare l’applicazione dei principi in questione sono stati adottati dapprima un accordo interistituzionale e poi, con il T. Amsterdam, un protocollo allegato al TCE. Il Protocollo n. 2 allegato ai Trattati afferma che ciascuna istituzione vigila in modo continuo sul rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Tale compito spetta anzitutto alla Commissione nell’elaborazione della proposta dell’atto normativo, nonché alle altre istituzioni o S.m. ai quali talora compete il potere di iniziativa. Un ruolo di controllo è affidato altresì ai parlamenti nazionali, sul presupposto che l’adozione di un atto dell’UE non conforme al principio di sussidiarietà leda il potere di questi ultimi, privandoli, in sostanza, di parte della loro funzione legislativa; si è perciò introdotta una procedura, alquanto complessa, sulla base della quale ciascun parlamento può, entro un termine di otto settimane dalla data di trasmissione di un progetto di atto legislativo dell’Unione, inviare alle istituzioni politiche un parere motivato che esponga le ragione per le quali ritiene che il progetto non sia conforme al principio della sussidiarietà. Ciascun parlamento nazionale dispone di due voti (nei sistemi bicamerali, ciascuna Camera esprime un voto). Qualora i pareri motivati rappresentino almeno un terzo dell’insieme dei voti il progetto deve essere riesaminato. L’istituzione o organo proponente può decidere di mantenere la proposta, modificarla o ritirarla, ma se decide di mantenerla deve motivare la soluzione. Una conseguenza ulteriore si produce nell’ipotesi in cui la proposta venga mantenuta e sia previsto, ai fini dell’adozione della stessa, il ricorso alla procedura legislativa ordinaria; in tal caso, qualora i pareri motivati rappresentino la maggioranza semplice dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali, il legislatore deve esaminare la compatibilità della proposta con il principio di sussidiarietà prima della conclusione della 24
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prima lettura, tenendo conto delle ragioni espresse e condivise dalla maggioranza dei parlamenti nazionali: se, a maggioranza del 55% dei membri del Consiglio o a maggioranza dei voti espressi nel PE, il legislatore ritiene che la proposta non sia compatibile con il principio di sussidiarietà, la proposta legislativa non forma oggetto di ulteriore esame. Tale procedura tende quindi, qualora si manifesti un’ampia opposizione dei parlamenti nazionali, a far esaminare preliminarmente da parte del Consiglio e del PE la questione della conformità dell’atto proposto al principio della sussidiarietà, evitando che l’iter di approvazione possa proseguire nel merito prima di tale delibera.
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Capitolo Sesto, Il sistema delle fonti 1. Introduzione Le fonti del diritto dell’UE comprendono i due Trattati istitutivi (TUE e TFUE), i principi generali, gli accordi che l’Unione conclude con Stati terzi o altre organizzazioni internazionali, le norme di diritto internazionale generale vincolanti l’UE e gli atti normativi che le istituzioni adottano in base ai Trattati. Il TFUE definisce quali sono gli atti che le istituzioni dell’UE possono adottare, senza enunciare alcuna gerarchia tra essi. Ciò non significa che tutti gli atti normativi abbiano necessariamente lo stesso valore: essi lo hanno solo in via di principio. In particolare, un atto si dovrà considerare superiore a un altro quando il secondo è emanato al fine di dare esecuzione al primo. Un’analoga soluzione vale a maggior ragione quando un atto sia emanato dalla Commissione su delega del Consiglio, perché in questi casi il rispetto dell’atto delegante costituisce, almeno implicitamente, un limite che l’istituzione delegata è tenuta a rispettare. L’esistenza di una gerarchia fra atti normativi si potrebbe in teoria prospettare anche quando fra due atti adottati nella stessa materia uno sia stato emanato con un procedimento meno gravoso. Questa ipotesi non è prevista nel diritto dell’UE poiché i Trattati non stabiliscono che si possano seguire procedure diverse a seconda dell’importanza dell’atto da emanare. Gli artt. 289 e 290 TFUE pongono una distinzione fra gli atti legislativi, adottati mediante procedura legislativa, e gli atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo. L’art. 290 prospetta che gli atti non legislativi siano adottati dalla Commissione su delega contenuta nell’atto legislativo; nel loro titolo verrebbero allora indicati quali atti delegati ed essi sarebbero, ovviamente, subordinati all’atto legislativo che contiene la delega. L’art. 291 TFUE concerne invece l’eventuale emanazione di atti normativi di esecuzione. Tale disposizione muove dalla considerazione che, in generale, siano gli S.m. ad adottare tutte le misure di diritto interno necessarie per l’attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione, ma stabilisce che tali atti possano conferire alla Commissione competenze di esecuzione allorché siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione. La circostanza che si tratti di atti di esecuzione deve essere indicata nel titolo dell’atto. È chiaro che questi atti debbono intendersi subordinati agli atti della cui esecuzione rispettivamente si tratta. Se in linea generale gli atti dell’Unione e le norme da essi poste si situano tutti allo stesso livello, ciò non significa che non esista nell’ordinamento dell’UE una gerarchia tra le fonti. Infatti il potere delle istituzioni di emanare atti normativi si fonda sui Trattati; il TFUE, nel descrivere gli atti normativi, non menziona le disposizioni dei Trattati, ma è implicito che le norme dei Trattati siano poste a un livello superiore rispetto a quelle prodotte dagli atti adottati dalle istituzioni. 2. I Trattati Il TUE e il TFUE hanno la natura giuridica di accordi internazionali, ma operano nell’ordinamento dell’Unione come l’insieme delle norme situate al livello più elevato. In sostanza questi Trattati avrebbero una natura giuridica diversa da quella propria degli accordi internazionali in ragione del fatto che costituirebbero una carta costituzionale. Più precisamente, i Trattati sono accordi internazionali, ma, fondata l’UE, hanno la funzione di costituire l’insieme delle norme fondamentali dell’ordinamento dell’Unione. Il fatto che il TUE e il TFUE conservino la natura giuridica di accordi internazionali è resa manifesta dal modo in cui è stabilito che si provveda alla loro modifica. L’art. 48 TUE richiede esplicitamente, per la revisione definita ordinaria dei Trattati, che un accordo internazionale sia adottato da una conferenza dei rappresentanti dei governi degli S.m. e quindi sia soggetto alla ratifica da parte di tutti gli S.m. conformemente alle loro rispettive norme costituzionali. La disposizione subordina la convocazione della conferenza a una decisione favorevole del Consiglio, ma si tratta di una scelta che sostanzialmente è comunque rimessa ai governi degli S.m.; non è di grande rilievo nemmeno l’altro requisito stabilito dall’art. 48, e cioè la previa consultazione del PE e della Commissione. L’art. 48 TUE prevede altresì una procedura di modifica dei Trattati che è definita semplificata; essa concerne disposizioni considerate di minor rilievo, quando comunque le modifiche non comportino un’estensione delle competenze dell’Unione: si tratta delle disposizioni della parte terza del TFUE relative alle politiche e azioni interne dell’UE. Anche per la revisione semplificata occorre in sostanza un accordo che coinvolga tutti gli S.m.: la modifica deve infatti essere adottata con una decisione unanime del Consiglio 26
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europeo, che entra in vigore solo previa approvazione degli S.m. conformemente alle rispettive norme costituzionali. La revisione di un trattato deve effettuarsi ai sensi dell’art. 48 TUE, ma la circostanza che gli S.m. non seguano la procedura stabilita dall’art. 48 può essere indice dell’assenza di una volontà di cambiare i Trattati: gli accordi fra gli S.m. devono allora essere intesi come subordinati ai Trattati stessi. Si tratterebbe di accordi che operano nell’ordinamento dell’UE in quanto abbiano una funzione integrativa delle norme dei Trattati. Anche se il TUE enuncia la maggior parte delle regole fondamentali dell’UE, il TFUE non è gerarchicamente subordinato al TUE. L’art. 1, 3° comma, TUE mette in chiaro che i due Trattati hanno lo stesso valore giuridico. Questo stesso valore è proprio dei protocolli e degli allegati che accompagnano i Trattati. Il fatto che i Trattati costituiscano l’insieme delle norme fondamentali dell’ordinamento dell’UE implica l’esigenza che si utilizzi per interpretarne le disposizioni un metodo che non è quello generalmente seguito per interpretare gli accordi internazionali, ma è piuttosto funzionale all’operatività del sistema dell’Unione. La CG ha adottato un metodo sostanzialmente analogo a quelli che i giudici interni utilizzano nel ricostruire il significato delle regole costituzionali: ogni disposizione di diritto comunitario va ricollocata nel proprio contesto e interpretata alla luce dell’insieme delle disposizioni del suddetto diritto, delle sue finalità, nonché del suo stadio di evoluzione al momento in cui va data applicazione alla disposizione di cui trattasi (interpretazione sistematica). Una conseguenza molto rilevante dell’uso, da parte delle CG, di questo metodo nell’interpretare il TCE è stata la ricostruzione di diritti ed obblighi per persone fisiche e giuridiche sulla base di disposizioni formulate come regole di comportamento per gli S.m. o per le istituzioni. In particolare, una persona fisica o giuridica potrebbe, a certe condizioni, far valere dinanzi ad un giudice nazionale un diritto ricavato da una di tali disposizioni dei Trattati istitutivi. La prima pronuncia nel senso che una disposizione del TCE abbia questa conseguenza giuridica, e quindi produca quel che la CG ha chiamato effetto diretto, è stata la sentenza van Gend & Loos. Con riferimento alla disposizione del Trattato che vieta agli S.m. di introdurre nuovi dazi doganali che si applichino nei rapporti fra di loro, la Corte ha dichiarato: “il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emanate dagli S.m., nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi. Si deve ritenere che questi sussistano, non soltanto nei casi in cui il Trattato espressamente li menziona, ma anche come contropartita di precisi obblighi imposti dal Trattato ai singoli, agli S.m. o alle istituzioni comunitarie”. La CG ha rilevato che il disposto dell’art. 30 TFUE pone un divieto chiaro e incondizionato che si concreta in un obbligo non già di fare, ma di non fare. A questo obbligo non fa riscontro alcuna facoltà degli Stati di subordinare l’efficacia all’emanazione di un provvedimento di diritto interno. Il divieto dell’art. 30 TFUE è per sua natura perfettamente atto a produrre direttamente degli effetti sui rapporti giuridici intercorrenti fra gli S.m. e i loro amministrati. Tali effetti si producono non solo in giudizio, ma già sul piano sostanziale: come la CG ha chiarito più tardi a proposito degli effetti diretti delle direttive, ma certamente con una valenza più generale, quando disposizioni comunitarie producono questi effetti tutti gli organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, come i Comuni, sono tenuti ad applicarle. La CG ha di regola configurato gli effetti diretti come soltanto verticali, costruendo situazioni giuridiche attive di persone fisiche e giuridiche nei confronti degli S.m., facendo riferimento anche agli enti pubblici. Solo rispetto ad alcune disposizioni del TCE la CG ha riconosciuto che esse producano anche effetti diretti orizzontali, cioè che stabiliscano obblighi di persone fisiche o giuridiche nei confronti di altre persone fisiche o giuridiche. Secondo la CG il fatto che una disposizione produca effetti diretti costituisce una garanzia minima, che non esime gli S.m. dall’eventuale obbligo di attuare con provvedimenti normativi tale disposizione, in particolare rimuovendo norme nazionali configgenti con essa. Nella sentenza Commissione c. Italia, causa 168/85, la CG ha affermato che “semplici prassi amministrative, per natura modificabili a piacimento dell’amministrazione e prive di adeguata pubblicità, non possono essere considerate valido adempimento degli obblighi del Trattato”; in presenza di una legge nazionale che contrasta con una disposizione del Trattato avente effetti diretti, anche se quest’ultima prevale sulla legge, devono essere emanate “disposizioni interne vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle da modificare”. 3. I principi generali Un’altra fonte del diritto dell’UE è costituita dai principi generali che trovano enunciazione soprattutto nella giurisprudenza della CG. 27
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Il ricorso a principi generali si è imposto nella giurisprudenza in ragione dell’esigenza di integrare una disciplina essenzialmente settoriale come quella contenuta nei Trattati. Oltre a costituire parametri per il giudizio di legittimità degli atti delle istituzioni, i principi generali contribuiscono a dare elementi per interpretare le norme dell’UE e per integrarne il contenuto. In quest’ultima direzione la CG ha proceduto con cautela, ricorrendo ai principi generali solo in presenza di una disciplina della materia già risultante da atti delle istituzioni. Come esempio dell’applicazione di un principio generale in funzione integrativa, la CG nella sentenza Krucken ha affermato che il principio della tutela del legittimo affidamento fa parte dell’ordinamento giuridico comunitario e che il rispetto dei principi generali del diritto comunitario si impone ad ogni autorità nazionale che debba applicare il diritto comunitario, concludendo che l’autorità nazionale incaricata di applicare il regime delle restituzioni all’esportazione nell’ambito dell’organizzazione comune dei mercati agricoli è tenuta ad osservare il principio della tutela del legittimo affidamento degli operatori economici. La CG ha enunciato nella sentenza Hauer che “i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto, di cui essa garantisce l’osservanza; nel garantire la tutela di tali diritti essa è tenuta ad ispirarsi alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e non potrebbe, quindi, ammettere provvedimenti incompatibili con i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalle costituzioni di tali Stati; i trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo, cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito, possono del pari fornire elementi di cui occorre tenere conto nell’ambito del diritto comunitario. 4. I regolamenti La regola della motivazione si applica a tutti gli atti (art. 296 TFUE), insieme con il riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri previsti dai Trattati. La motivazione è generalmente formulata nel preambolo dell’atto, che costituisce pertanto un elemento rilevante per l’interpretazione delle norme prodotte dallo stesso atto. I regolamenti, che l’art. 288 TFUE descrive per primi, sono la forma più completa di normativa dell’UE. Il regolamento è definito obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli S.m. I regolamenti sono pubblicati nella GU dell’UE. Essi entrano in vigore alla data da essi stabilita oppure, in mancanza di data, nel ventesimo giorno successivo alla loro pubblicazione. Nell’art. 288 TFUE il regolamento è definito come un atto direttamente applicabile. Ciò significa che in linea generale le disposizioni del regolamento operano senza che occorra alcun atto di attuazione, dell’Unione o di uno S.m. Sempre in via generale, il regolamento è di per sé idoneo a far sorgere, per le persone fisiche e giuridiche, diritti e obblighi nei loro rapporti con gli S.m., le istituzioni dell’UE o altre persone fisiche o giuridiche. Rispetto ad alcuni regolamenti, vi può essere l’esigenza di una normativa integrativa che spetta in via generale agli Stati membri emanare, a meno che non siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione; si provvederà in quest’ultimo caso a mezzo di un regolamento di esecuzione. Alcune disposizioni di regolamenti possono richiedere, per la loro applicazione, l’adozione di misure di esecuzione da parte degli S.m. Tale esigenza potrebbe manifestarsi anche soltanto rispetto a certi S.m. in relazione al modo d’essere del rispettivo ordinamento. Occorre allora che il legislatore statale provveda, in attuazione dell’obbligo degli S.m. sancito nell’art. 4 TUE, ad adottare ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione. La normativa statale che sia comunque necessaria per attuare un regolamento non deve tendere a sostituirsi ad esso, anche perché così facendo rischierebbe di mettere in pericolo l’applicazione del regolamento con i tempi e le modalità, anche relative ai criteri di interpretazione degli atti, che sono propri degli atti normativi dell’Unione. Nella sentenza Commissione c. Italia, causa 39/72, la CG ha considerato che contrastano col trattato le modalità di attuazione che possano avere la conseguenza di ostacolare l’efficacia diretta dei regolamenti comunitari e di comprometterne quindi la simultanea ed uniforme applicazione nell’intera Comunità. Si manifesta così una netta differenza fra gli atti normativi direttamente applicabili e quelli che producono effetti diretti. Questi ultimi non vietano, ma impongono, l’emanazione di una normativa statale conforme, mentre gli atti normativi direttamente applicabili implicano il divieto di emanare una tale normativa statale: il legislatore statale deve limitarsi ad adottare le norme di attuazione di un regolamento che siano eventualmente necessarie. Il regolamento, sempre secondo l’art. 288 TFUE ha portata generale. Nella prassi sono frequenti i regolamenti che si applicano in modo differenziato nell’ambito della Comunità, in quanto operano soltanto rispetto a taluni S.m. oppure escludono dalla propria sfera di applicazione certi Stati o parte dei loro territori. 28
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5. Le decisioni Ai regolamenti seguono le direttive e quindi le decisioni. Queste ultime possono essere avvicinate ai regolamenti perché, se il regolamento ha portata generale ed è obbligatorio in tutti i suoi elementi, la decisione è definita come obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari, è obbligatoria solo nei confronti di questi. La decisione può avere per destinatari singoli soggetti. Una decisione che designa i destinatari diventa efficace in virtù della notificazione; quelle che non designano i destinatari sono invece pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell’UE. Rispetto ai destinatari designati, le decisioni sono interamente obbligatorie. Quelle che hanno per destinatari gli S.m. non di rado impongono ad essi l’obbligo di adottare provvedimenti normativi. Si pone il problema se una decisione possa produrre effetti diretti. La CG nella sentenza Grad ha dichiarato: “Sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita dall’art. 288 TFUE alla decisione l’escludere, in generale, la possibilità che l’obbligo da essa imposto sia fatto valere dagli eventuali interessati. In particolare, nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante decisione, obbligato uno S.m. o tutti gli S.m. ad adottare un determinato comportamento, la portata dell’atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario”. 6. Le direttive L’art. 288 TFUE descrive la direttiva come un atto che vincola lo S.m. cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Riguardo all’efficacia delle direttive nei confronti dei destinatari, l’art. 297 TFUE distingue fra le direttive che sono rivolte a tutti gli S.m. e le altre. Per queste ultime l’efficacia resta subordinata alla notificazione agli S.m. che ne sono destinatari; esse sono tuttavia per prassi pubblicate nella GU dell’UE nella parte concernente gli atti per i quali la pubblicazione non è una condizione di applicabilità. Invece per le direttive che hanno per destinatari tutti gli S.m. vale lo stesso regime previsto per i regolamenti, e cioè la pubblicazione. Anche per le direttive è ammessa, come per i regolamenti, la possibilità che la stessa direttiva stabilisca quando essa entri in vigore, ma non si tratta di un’opportunità importante, perché è sempre dato agli S.m. un termini di molti mesi (o anni) per provvedere all’attuazione. La direttiva in teoria dovrebbe lasciare agli Stati destinatari una certa libertà di scelta delle modalità di attuazione. Ciò non esclude che le direttive possano anche porre obblighi rispetto ai quali la libertà è limitata o inesistente (come per gli obblighi di non fare). Questa prassi implica una limitazione dei poteri degli S.m. che appare di dubbia compatibilità con il TFUE nei casi in cui l’istituzione che ha emanato l’atto abbia il potere di emanare unicamente direttive e non invece anche atti normativi più completi quali regolamenti o decisioni. Il fatto che questa prassi tragga formalmente origine da delibere del Consiglio, e quindi avvenga con il consenso degli S.m. i cui poteri ne risultano limitati, e la circostanza che la CG non abbia mai formulato critiche al riguardo inducono a ritenere ormai conforme al diritto dell’UE il fatto che le direttive possano avere carattere dettagliato. Lo S.m. deve provvedere a prendere tutte le misure necessarie per attuare gli obblighi posti dalla direttiva entro il termine stabilito dalla stessa. Occorre generalmente che lo S.m. emani norme di attuazione, ma ciò non è necessario quando la normativa interna sia già conforme a quanto prescritto: ad esempio quando una direttiva per il ravvicinamento delle legislazioni abbia adottato come modello proprio la legislazione di quello Stato. La CG ha rilevato come ciascuno S.m. sia libero di ripartire nel modo che ritiene opportuno le competenze sul piano interno e di dare attuazione ad una direttiva mediante provvedimenti adottati dalle autorità regionali o locali, ma che semplici prassi amministrative, per loro natura variabili ad arbitrio dell’amministrazione, non possono essere considerate come un valido adempimento dell’obbligo derivante da una direttiva. Anche rispetto alle direttive, i requisiti enunciati dalla CG perché si produca un effetto diretto si ricollegano ai caratteri della chiarezza e della precisione, nonché all’assenza di condizioni; generalmente quest’ultimo carattere è impresso alle disposizioni della direttiva dalla scadenza del termine in essa stabilito per l’attuazione da parte degli Stati destinatari. La possibilità di ricavare effetti diretti dalle disposizioni di una direttiva è stata enunciata dalla CG per la prima volta nella sentenza van Duyn: se è vero che i regolamenti in forza dell’art. 288 TFUE sono direttamente applicabili e quindi atti, per natura, a produrre effetti diretti, da ciò non si può inferire che le altre categorie di atti contemplate dal suddetto articolo non possano mai produrre effetti analoghi. Sarebbe in 29
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contrasto con la forza obbligatoria attribuita dall’art. 288 TFUE alla direttiva l’escludere, in generale, la possibilità che l’obbligo da essa imposto sia fatto valere dagli eventuali interessati. In particolare nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, obbligato gli S.m. ad adottare un determinato comportamento, la portata dell’atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario. Mentre in questa sentenza l’esistenza di effetti diretti è fatta dipendere da caratteri oggettivi propri della disposizione della direttiva, a partire dalla sentenza Ratti l’effetto diretto è configurato, rispetto alle direttive, come una forma di sanzione dell’inadempimento dello S.m.: “lo S.m. che non abbia adottato, entro i termini, i provvedimenti d’attuazione imposti dalla direttiva non può opporre ai singoli l’inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa”. Ciò ha innanzitutto la conseguenza che una direttiva produce effetti diretti soltanto in relazione agli S.m. inadempienti. Ma vi è una conseguenza di maggior rilievo: se è vero che l’effetto diretto è la sanzione dell’inadempimento di un obbligo da parte di uno S.m., non si possono ricavare effetti diretti che comportino situazioni soggettive passive per persone fisiche o giuridiche, poiché esse non sono mai destinatarie dell’obbligo. In altre parole, deve essere data una soluzione negativa alla questione degli effetti diretti orizzontali delle direttive. Nella giurisprudenza più recente la CG ha ricollegato a disposizioni di direttive che non hanno effetti diretti alcune conseguenze che ampliano in modo significativo la rilevanza giuridica delle stesse disposizioni per le persone fisiche e giuridiche. Nella sentenza Marleasing la CG ha affermato che nell’applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288 TFUE. Questa indicazione è resa più significativa dal modo in cui la CG ha considerato concretamente il compito del giudice nazionale. Questi doveva risolvere una questione in tema di validità, secondo la legge spagnola, dell’atto costitutivo di una società per azioni; la sola disciplina esistente in proposito nell’ordinamento spagnolo era costituita dalle disposizioni del codice civile, precedente alla direttiva. Eppure la CG ha enunciato il dovere del giudice di interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva al fine di impedire la dichiarazione di nullità di una società per azioni per una causa diversa da quelle elencate all’art. 11 della stessa direttiva, che non era ancora stata attuata in Spagna. La CG ha tuttavia precisato che non si possa per questa via giungere ad affermare l’esistenza di obblighi per persone fisiche e giuridiche. Nella sentenza Arcaro la CG ha osservato che l’esigenza di interpretare una norma nazionale in conformità con quanto stabilisce una direttiva non attuata incontra un limite qualora tale interpretazione comporti che ad un singolo venga opposto un obbligo previsto da una direttiva non trasposta ovvero, a maggior ragione, qualora abbia l’effetto di determinare o aggravare, in forza della direttiva e in mancanza di una legge emanata per la sua attuazione, la responsabilità penale di coloro che ne trasgrediscono le disposizioni. Appare tuttavia alquanto sottile la distinzione fra gli obblighi, che non dovrebbero sorgere, per le persone fisiche o giuridiche in base a una direttiva e le altre conseguenze negative che le persone fisiche o giuridiche potrebbero invece subire in ragione dell’interpretazione di una legge nazionale in conformità con la direttiva. Le disposizioni di una direttiva che non hanno effetti diretti possono produrre un secondo tipo di conseguenze giuridiche, queste soltanto nei rapporti fra una persona fisica o giuridica e uno Stato membro. Tali conseguenze sono state delineate nella sentenza Francovich. Dopo aver escluso che la direttiva 80/987/CE relativa alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza dei datori di lavoro produca effetti diretti, la CG ha affermato una responsabilità dello Stato che non abbia attuato la direttiva per i danni subiti dai lavoratori a causa della mancata attuazione. Secondo la Corte, il diritto al risarcimento è sottoposto a tre condizioni: “La prima è che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli. La seconda è che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva. Infine, la terza condizione è l’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. È bene precisare che l’ipotesi presa in considerazione dalla CG in questa sentenza è che la disposizione della direttiva non abbia effetti diretti: essa non attribuisce infatti ai singoli un diritto, ma soltanto un’aspettativa, in quanto impone agli S.m. di conferire diritti ai singoli in attuazione della stessa direttiva. Nel caso della direttiva concernente l’insolvenza dei datori di lavoro, i lavoratori hanno un diritto ad ottenere un risarcimento che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario, ma che deve essere fatto valere dinanzi al giudice nazionale nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità”. 30
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7. Gli atti non vincolanti L’art. 288 TFUE indica che le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti. Le raccomandazioni possono essere rivolte da un’istituzione ad altre istituzioni, agli S.m. o anche ad altri soggetti. Se esse non hanno carattere vincolante, non sono perciò sempre giuridicamente irrilevanti. Una raccomandazione può ad esempio risultare significativa per interpretare un altro atto normativo oppure la legge di uno S.m. che abbia inteso conformarsi alla raccomandazione stessa. Secondo quanto la CG ha espresso nella sentenza Grimaldi, “i giudici nazionali sono tenuti a prendere in considerazione le raccomandazioni ai fini della soluzione delle controversie sottoposte al loro giudizio, in particolare quando esse sono di aiuto nell’interpretazione di norme nazionali adottate allo scopo di garantire la loro attuazione, o mirano a completare norme comunitarie aventi natura vincolante”. I pareri sono diretti all’istituzione che li richiede ed esauriscono la loro funzione all’interno del procedimento di formazione di un atto in cui essi si inseriscono. Quando il Trattato prevede che un parere entri a far parte del procedimento, il parere è obbligatorio, nel senso che l’atto non può essere, almeno di regola, emanato se l’istituzione che lo adotta non ha chiesto e ricevuto il parere. Il parere non vincola invece nel merito le scelte di chi lo riceve, come è indicato nella definizione generale. 8. Gli atti atipici L’art. 288 TFUE elenca gli atti normativi che di regola le istituzioni politiche dell’UE hanno il potere di adottare, a seconda dei casi, sulla base dei Trattati. Tuttavia, alcune disposizioni dei Trattati conferiscono alle istituzioni il potere di adottare atti diversi da quelli delineati in via generale; tali atti, alquanto eterogenei, sono solitamente raggruppati, per contrasto, nella categoria degli atti atipici. Nell’ambito di tali atti, sono rilevanti gli accordi interistituzionali che intervengono fra il PE, il Consiglio e la Commissione. L’art. 295 TFUE prevede che le istituzioni politiche definiscono di comune accordo le modalità della cooperazione. A tale scopo, nel rispetto dei Trattati, possono concludere accordi interistituzionali che possono assumere carattere vincolante (il carattere vincolante dipende dall’intenzione delle istituzioni che li concludono).
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Capitolo Settimo, Norme dell’Unione e norme italiane 1. I rapporti fra norme dell’Unione e norme degli S.m. nella prospettiva della CG Nella giurisprudenza della CG si è affermata la preminenza delle norme comunitarie nei loro rapporti con le norme degli S.m. La CG ha elaborato la propria concezione dei rapporti fra norme comunitarie e norme degli S.m. soprattutto in due sentenze, entrambe rese a titolo pregiudiziale su richiesta di giudici italiani. La prima, sentenza Costa, muove dalla considerazione che nell’istituire la Comunità, gli Stati hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani. L’ordinamento giuridico comunitario è configurato come integrato nell’ordinamento giuridico degli S.m.; secondo la CG, tale integrazione nel diritto di ciascuno S.m. di norme che promanano da fonti comunitarie, e più in generale, lo spirito e i termini del Trattato, hanno per corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, che pertanto non potrà essere opponibile all’ordine comune. Le implicazioni della preminenza delle norme comunitarie sono state in parte precisate nella successiva sentenza Simmenthal. La Corte ha considerato i rapporti fra un regolamento comunitario e una legge successiva italiana. Questa appariva contrastante con il regolamento in quanto esso, adottato in attuazione del principio della libera circolazione delle merci nella Comunità, non consentiva di percepire tasse per la visita sanitaria di cani bovine al momento dell’importazione da un altro S.m., mentre la legge italiana stabiliva che si continuassero a versare tasse. La CG indica che in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli S.m., non solo di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie. Nella sentenza la CG ha considerato soprattutto l’ipotesi in cui la prevalenza fosse assicurata nello S.m., ma solo, come avveniva allora in Italia, a seguito di un procedimento per annullare la norma interna per mezzo di un giudizio sulla legittimità costituzionale della legge. Secondo la CG un sistema di questo genere non è conforme al principio della preminenza delle norme comunitarie, dal quale risulta che qualsiasi giudice nazionale, adito nell’ambito della sua competenza, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria. Nella sentenza Factortame la CG ha enunciato che, in ragione della prevalenza delle norme comunitarie sulle leggi interne successive, deve essere superato il principio di common law secondo il quale nessun provvedimento cautelare potrebbe essere emanato nei confronti della Corona. A tal fine la Corte ha aggiunto che “la piena efficacia del diritto comunitario sarebbe del pari ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire al giudice chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia giurisdizionale sull’esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario. Ne consegue che in una situazione del genere il giudice è tenuto a disapplicare la norma di diritto nazionale che sola osti alla concessione di provvedimenti provvisori”. L’obbligo di applicare una norma dell’UE a preferenza della norma, con essa contrastante, dell’ordinamento di uno S.m. opera in presenza non soltanto di regolamenti, ma anche di norme aventi effetti diretti, perché pure rispetto ad esse vale l’esigenza che la norma dell’UE possa essere fatta valere nonostante qualunque regola interna contrastante. L’affermazione degli effetti diretti di una norma ha avuto in molti casi proprio la funzione di superare il contenuto di una disciplina interna altrimenti applicabile. Quando la norma dell’UE non sia direttamente applicabile né produca effetti diretti, l’organo dello S.m. non si trova in presenza di una norma dell’UE suscettibile di essere applicata a preferenza di una norma interna eventualmente contrastante. Il contrasto può risultare soltanto apparente allorché la norma interna sia suscettibile di essere interpretata in modo da renderla conforme alla norma dell’UE. Un’interpretazione della norma nazionale in questo senso può essere imposta dallo stesso ordinamento dello S.m. Secondo la CG, l’esigenza di un’interpretazione della norma interna che tenda ad adeguarla agli obblighi derivanti dal diritto dell’UE è stabilita anche da quest’ultimo. Nella sentenza Marleasing la CG ha affermato che l’obbligo degli S.m., derivante da una direttiva, di raggiungere il risultato da questa previsto, così come il loro dovere, in 32
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forza dell’art. 4 TUE, di adottare tutte le misure generali o particolari idonee a garantire l’adempimento di questo obbligo, si impongono a tutte le autorità degli S.m. comprese, nel quadro delle loro competenze, le autorità giurisdizionali. Ne consegue che applicando il diritto nazionale, che si tratti di disposizioni anteriori o posteriori alla direttiva, il giudice nazionale chiamato ad interpretarlo è tenuto a farlo, per quanto più possibile, alla luce della lettera e degli scopi della direttiva stessa al fine di raggiungere il risultato da questa previsto e conformarsi all’art. 288 TFUE. 2. La prospettiva della Corte costituzionale La Corte cost. ha sinora affrontato solo il problema dei rapporti fra norme italiane e norme comunitarie, ma le conclusioni a cui è pervenuta sono da ritenere applicabili anche rispetto alle norme dell’UE. Il modello, costruito dalla CG, della Comunità quale ente superiore le cui norme sono preminenti per effetto dell’ordinamento comunitario non è stato accolto dalla Corte cost. che ha cercato le ragioni e le modalità della preminenza nella Costituzione italiana. Dopo una prima fase nella quale aveva negato la prevalenza delle norme comunitarie sulle leggi sostenendo che la violazione del Trattato, se importa responsabilità dello Stato sul piano internazionale, non toglie alla legge con esso in contrasto la sua piena efficacia, la Corte cost. ha rinvenuto una ragione della prevalenza nell’art. 11 Cost. In base a questa norma, che è stata inserita nella Cost. essenzialmente in vista della partecipazione all’ONU, l’Italia consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. La Corte cost. aveva già considerato che l’art. 11 concerne anche le comunità europee; aveva tuttavia attribuito alla stessa norma soltanto una funzione permissiva, osservando: “La norma significa che, quando ricorrano certi presupposti, è possibile stipulare trattati con cui si assumano limitazioni della sovranità ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinaria”. La Corte aveva invece escluso allora che una prevalenza delle norme comunitarie rispetto alle leggi ordinarie potesse fondarsi sull’art. 11 Cost. Invece nel 1975 è giunta alla conclusione opposta: dopo aver escluso che il trasferimento agli organi delle Comunità del potere di emanare norme giuridiche comporti come conseguenza una radicale privazione di efficacia della volontà sovrana degli organi legislativi degli S.m., la Corte ha infatti affermato che tale trasferimento fa sorgere, invece, il diverso problema della legittimità costituzionale dei singoli atti legislativi; pertanto, le disposizioni di una legge che violano obblighi comunitari sono costituzionalmente illegittime per il contrasto con i principi enunciati dagli artt. 267 e 288 TFUE e per la conseguente violazione dell’art. 11 Cost. Con la sentenza 8 giugno 1984, n. 170 la Corte ha di nuovo mutato indirizzo, continuando a individuare nell’art. 11 Cost. la ragione della preminenza della normativa comunitaria. La Corte osserva che le confliggenti statuizioni della legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della forza e valore, che il Trattato conferisce al regolamento comunitario, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili. Rispetto alla sfera di questo atto, così riconosciuta, la legge statale rimane infatti, a ben guardare, pur sempre collocata in un ordinamento che non vuole interferire nella produzione normativa del distinto ed autonomo ordinamento della Comunità, sebbene garantisca l’osservanza di essa nel territorio nazionale. È chiaro che, secondo la Corte, il giudice deve applicare il regolamento comunitario e non applicare, invece, una legge contrastante con lo stesso regolamento; è chiaro inoltre che tale legge non è considerata illegittima da un punto di vista costituzionale. La ragione di questa soluzione sembra risiedere in una sorta di riserva di campo che sarebbe garantita alla fonte comunitaria dall’art. 11 Cost.; ai regolamenti comunitari sarebbe assicurato uno spazio proprio, nel cui ambito la legge non potrebbe entrare. Si potrebbe obiettare a questa costruzione che, se è vero, come sostiene la Corte cost., che la non applicazione di una legge trae origine sia pure indirettamente da una norma costituzionale, la legge dovrebbe essere soggetta al giudizio di costituzionalità ai sensi dell’art. 134 Cost. L’introduzione nell’art. 117, 1° comma, Cost. dell’esigenza che la potestà legislativa sia esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario sembrerebbe rafforzare questa soluzione. La Corte cost. non ritiene peraltro di dover trarre dall’art. 117, 1° comma, Cost. conseguenze rispetto alla prevalenza delle norme dell’Unione nei confronti delle leggi italiane. La sentenza 349/2007 non ha attribuito rilevanza in proposito all’introduzione della nuova norma costituzionale, ribadendo che è l’art. 11 Cost. la disposizione che ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento. Allorché, come la Corte cost. sostiene, si rinvenga comunque in una norma costituzionale la ragione della preminenza di un regolamento dell’Unione, per escludere la necessità di esperire un giudizio di costituzionalità si dovrebbe desumere dall’art. 11 o dall’art. 117 Cost. anche l’esigenza che il giudice 33
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comune riconosca la prevalenza del regolamento dell’UE rispetto a qualsiasi legge contrastante e ciò nel modo che vorrebbe la CG; la questione della legittimità costituzionale della legge diverrebbe allora irrilevante, perché la legge stessa non dovrebbe essere applicata dal giudice laddove essa contrasti con il regolamento. La costruzione data dalla sentenza 170/1984 appare poco soddisfacente anche sotto un altro aspetto. La successiva giurisprudenza della Corte cost., pur richiamando la sentenza del 1984, ha affermato alcune conseguenze che non sono congrue rispetto all’idea che la legge interna non interferisca nella sfera occupata dalla norma comunitaria. Con queste parole la sentenza del 1984 aveva di mira i rapporti fra regolamenti comunitari e leggi interne; la stessa sentenza aveva quindi precisato che la non applicazione delle legge vale solo e fino a quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca con una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno. Sennonché, come risulta dalla giurisprudenza della CG, l’esigenza di non applicare leggi interne contrastanti con la normativa dell’UE non opera soltanto rispetto ai regolamenti, ma anche nei confronti di tutte le norme che producono effetti diretti. La questione dei rapporti fra norme dell’UE e norme interne non si configura allora come era stata delineata dalla sentenza del 1984, perché quando si è in presenza di disposizioni di direttive o decisioni aventi effetti diretti, il legislatore nazionale, lungi dal doversi astenere dall’entrare in un campo già occupato, deve far sì che esista una normativa interna conforme alle norme dell’UE. In relazione a questa ipotesi, l’art. 11 Cost. non può quindi avere la funzione di garantire al legislatore dell’UE uno spazio proprio nel quale la normativa interna non interferisca, ma piuttosto assicura che fra norme che insistono in uno stesso campo prevalgano le norme dell’UE aventi effetti diretti e richiede che siano adottate norme interne ad esse conformi. 3. La rilevanza della tutela dei diritti fondamentali come stabilita nella Costituzione Mentre secondo la CG il diritto dell’UE si applica per forza propria, la Corte cost. ravvisa il fondamento della sua applicabilità in Italia nelle leggi di esecuzione del TCE e dei successivi Trattati. Sotto questo aspetto, la recente modifica dell’art. 117 Cost. non produce conseguenza, perché la disposizione, mentre richiede il rispetto della normativa dell’UE da parte delle leggi ordinarie, non provvede all’attuazione di questa normativa, né esclude che tale attuazione incontri un limite nell’esigenza di salvaguardare i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. Nella sentenza 27 dicembre 1965, n. 98 la Corte cost. ha innanzitutto escluso che alcune disposizioni della Costituzione possano essere applicate in relazione ai diritti e interessi che derivano a un soggetto dalla sua posizione in un ordinamento estraneo com’è quello della CECA; ha invece sindacato la legge di esecuzione del Trattato CECA in quanto gli effetti interni dell’attività comunitaria vanno determinati senza pregiudizio del diritto del singolo alla tutela giurisdizionale, considerando tale diritto tra quelli inviolabili dell’uomo. Queste affermazioni sono state sviluppate nella sentenza 183/1973 che ha considerato inapplicabili nei confronti della normativa comunitaria le disposizioni costituzionali che disciplinano l’attività normativa degli organi dello Stato, soggiungendo tuttavia che, in base all’art. 11 Cost., sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni possano comunque comportare per gli organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana. Si profila pertanto un limite all’applicabilità della normativa dell’Unione: limite che è analogo a quello che la Corte cost. ha prospettato per le leggi di revisione costituzionale. L’unico aspetto che la Corte ha sinora considerato attiene alla tutela dei diritti fondamentali; si pone quindi il problema di accertare se e in quale misura, quando si tratti di applicare una norma dell’Unione in Italia, alla tutela dei diritti fondamentali accordata nell’ordinamento dell’UE si aggiunga quella apprestata dalla Costituzione. In altre parole, in quali casi non deve essere applicata la norma dell’UE che non sia rispettosa del contenuto della tutela dei diritti fondamentali stabilita dalle norme costituzionali? Il limite posto all’applicazione delle norme dell’Unione, così come configurato nella sentenza del 1973, assume scarso rilievo. Ciò non tanto perché è vero quel che sostiene questa sentenza quando afferma che è difficile configurare anche in astratto l’ipotesi che un regolamento comunitario possa incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Corte cost. italiana: si tratterebbe cioè di un’ipotesi improbabile. È certo che la tutela dei diritti fondamentali si è notevolmente sviluppata sul piano del diritto dell’UE, riducendo così le ipotesi in cui non risultano adeguatamente tutelati diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. Tuttavia, come la stessa Corte cost. ha rilevato più tardi (sent. 232/1989), quel che è sommamente improbabile è pur sempre possibile. Inoltre va tenuto conto che almeno in linea teorica generale non potrebbe affermarsi con certezza che tutti i principi fondamentali del nostro 34
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ordinamento costituzionale si ritrovino fra i principi comuni agli ordinamenti degli Stati membri e quindi siano compresi nell’ordinamento comunitario. La ragione dello scarso rilievo del limite delineato nella sentenza del 1973 risiede piuttosto nel congegno processuale che la Corte cost. ha allora ritenuto applicabile per far valere l’eventuale non conformità della norma ai principi costituzionali. La sentenza ha affermato che sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali, verosimilmente attraverso un controllo della legittimità costituzionale della legge di esecuzione del TCE. Ma la stessa sentenza ha soggiunto che deve invece escludersi che questa Corte possa sindacare singoli regolamenti: ciò perché l’art. 134 Cost. riguarda soltanto il controllo di costituzionalità nei confronti delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni, e tali, per quanto si è detto, non sono i regolamenti comunitari. In questo modo il controllo del rispetto dei principi fondamentali diverrebbe impossibile in relazione agli atti normativi dell’Unione, a meno di non sostenere che esso debba venir effettuato in modo diffuso da qualsiasi altro giudice: una soluzione a cui la Corte non allude e che essa ben difficilmente avrebbe considerato accettabile. L’argomento formale enunciato nella sentenza del 1973 per escludere un controllo di costituzionalità da parte della Corte non è insuperabile. Infatti, se si ritiene che il regolamento dell’UE operi in Italia per forza propria, lo stesso dovrebbe valere per tutte le altre norme dell’UE, comprese quelle che sono enunciate nei Trattati; se invece l’efficacia in Italia di queste ultime, come sembra considerare la Corte cost., deriva dalle leggi di esecuzione dei Trattati, allora dovrebbe risultare dalle stesse, sia pure indirettamente, anche l’efficacia delle altre norme dell’UE. Sicché la Corte dovrebbe poter esaminare una questione di legittimità costituzionale della legge di esecuzione di un Trattato in quanto su di essa si fondi l’efficacia in Italia di un atto normativo dell’UE e affrontare quindi la questione della compatibilità del medesimo atto con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. Se la Corte cost. accertasse che l’atto dell’Unione è incompatibile, dovrebbe dichiarare illegittima la legge di esecuzione nella parte in cui dà efficacia in Italia a tale atto. Riferendosi alla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali, la sentenza del 1973 sembrava considerare l’ipotesi in cui il contrasto concernesse l’insieme del sistema comunitario più che singole norme del Trattato. La citata sentenza 232/1989 della Corte cost. ha invece esplicitamente ammesso la sua competenza a verificare, attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione, se una qualsiasi norma del Trattato, così come essa è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona umana. Resta da considerare che, se si deve ritenere aperta da un punto di vista tecnico la via per un controllo del rispetto, da parte degli atti normativi dell’UE, dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, l’esito negativo del controllo determinerebbe in Italia l’efficacia almeno parziale della norma dell’UE. Ciò pregiudicherebbe evidentemente l’applicazione uniforme della normativa dell’UE là dove essa dovrebbe essere realizzata in base al diritto dell’Unione stessa. Si verrebbe così a determinare una situazione difficilmente compatibile con una partecipazione corretta dell’Italia all’Unione. Qualora tale situazione assumesse una certa rilevanza pratica, occorrerebbe ricercare un rimedio di ordine costituzionale. I principi fondamentali non sarebbero soggetti in via generale a revisione costituzionale, ma dovrebbero flettere di fronte all’esigenza della partecipazione all’UE, sempreché non si versi nell’ipotesi, certamente remota, in cui questa stessa partecipazione dovesse essere rimessa in causa. 4. L’attuazione della normativa dell’Unione Un’esigenza di provvedere con specifici atti normativi nazionali di attuazione si pone generalmente a proposito delle direttive, che lasciano salva la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi per l’attuazione dei rispettivi obblighi. Ed è proprio in relazione alle direttive che in Italia, come in altri S.m., l’attuazione è stata non di rado tardiva e carente. I ritardi traevano tradizionalmente origine dalla lentezza con cui erano approntati i disegni di legge governativi e quindi, in caso di leggi di delega, i provvedimenti delegati; una parte consistente del tempo era dovuta altresì alla lentezza dei procedimenti parlamentari. Una procedura per rendere più sollecita e completa l’attuazione degli obblighi comunitari è stata delineata dalla legge 9 marzo 1989, n. 86 (legge La Pergola), che ha previsto, sulla falsariga della legge finanziaria, un provvedimento, detto legge comunitaria, che il Parlamento dovrebbe approvare ogni anno. Sono indicati dei tempi per la presentazione del disegno di 35
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legge che nella prassi non sono stati sempre rispettati; la legge comunitaria costituisce comunque dal 1990 lo strumento principale per conformare l’ordinamento italiano alle norme dell’UE. La legge comunitaria può scegliere fra diversi modi di attuare gli obblighi comunitari, in particolare quelli posti da direttive. Essa può anzitutto contenere direttamente norme di adattamento agli obblighi derivanti dal diritto dell’UE; si tratta peraltro di un’ipotesi che ha assunto in pratica scarsa rilevanza. Una seconda soluzione che si offre è la delegificazione, meccanismo che può essere adottato nelle materie già disciplinate con legge, ma non coperte da riserva assoluta di legge. Si tratta di prevedere con legge che un atto normativo subordinato alla legge provveda alla disciplina, eventualmente anche derogando a norme di legge preesistenti. Una terza soluzione è l’attuazione di una direttiva in via amministrativa, ciò che è evidentemente possibile solo allorché non esista riserva di legge né occorra modificare una legge. Vi è poi una quarta soluzione, che è quella seguita più frequentemente: la via tradizionale di conferire al governo una delega legislativa. Nella prassi dell’emanazione della legge comunitaria sono indicati, ai sensi dell’art. 76 Cost., anche se talora in modo generico, principi e criteri direttivi ai quali il legislatore delegato si deve conformare. Sostanzialmente tali criteri sono formulati dallo stesso governo nel predisporre il disegno di legge, poiché il Parlamento difficilmente riesce a svolgere un ruolo significativo in presenza di un provvedimento così complesso quale la legge comunitaria, la cui approvazione sollecita è d’altra parte richiesta dall’esigenza di evitare che si formino oppure continuino inadempimenti di obblighi derivati dal diritto dell’UE. 5. In particolare, il ruolo della legislazione regionale La competenza regionale per attuare direttive, secondo il D.P.R. 616/1977, operava soltanto in relazione a direttive fatte proprie dallo Stato con legge che indica espressamente le norme di principio. La disposizione sembrava muovere dal presupposto che, rispetto all’attuazione di una direttiva, si propongano normalmente scelte di una certa ampiezza e che spetti al legislatore statale il compito di indirizzare tali scelte prima ancora che le Regioni possano emanare norme. Questa soluzione è stata successivamente superata, anche perché determinava il rischio che il ritardo nell’emanazione della legge statale di attuazione di una direttiva comportasse necessariamente l’inadempimento totale degli obblighi derivanti dalla direttiva, anche rispetto alle Regioni che avessero predisposto una propria normativa di attuazione. Secondo l’art. 9 della legge La Pergola nella versione originaria, le Regioni a statuto ordinario potevano quindi dare attuazione alle direttive nelle materie di competenza concorrente anche in mancanza di legge statale, ma ciò solo dopo l’entrata in vigore della prima legge comunitaria successiva alla notifica della direttiva. Questa disposizione attenuava, ma non eliminava, il rischio di inadempimento. È stata modificata dalla legge 24 aprile 1998, n. 128 secondo la quale le Regioni, anche a statuto ordinario, e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di competenza concorrente, possono dare immediata attuazione alle direttive; secondo questa legge, il legislatore statale resta comunque competente a emanare nelle stesse materie norme di principio, che prevalgono sulle contrarie disposizioni eventualmente già emanate dagli organi regionali. A seguito della riforma costituzionale del 2001, spetta al legislatore statale individuare i principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente. L’art. 9 della legge 4 febbraio 2005, n. 11 prevede che le disposizioni che individuano i principi fondamentali concernenti l’attuazione delle norme dell’Unione siano di regola adottate dal legislatore statale nella legge comunitaria. L’eventuale determinazione, da parte del legislatore statale, di principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente impone alla Regione di adeguare ad esse la propria normativa, modificando se occorre quella già adottata. Nella prassi i principi fondamentali per l’attuazione delle direttive sono spesso indicati in modo tale da lasciare poco spazio al legislatore regionale: non si tratta, in altre parole, di veri e propri principi fondamentali, come è stabilito nell’art. 117 Cost. a proposito della competenza concorrente delle Regioni e Province autonome. Questa regola costituzionale, che vorrebbe salvaguardare l’autonomia normativa delle Regioni e delle Province autonome, appare particolarmente debole rispetto all’attuazione delle direttive. In relazione alla notevole incidenza che la normativa statale assume nella prassi rispetto alla legislazione della Regione, può apparire conveniente per il legislatore regionale attendere, nelle materie di competenza concorrente, l’emanazione della legge statale di attuazione della direttiva prima di provvedere a dare una propria disciplina. Altrimenti ci si troverebbe in presenza di un rapido succedersi nel tempo di discipline di vario contenuto, che finirebbero per causare confusione e dar luogo a differenze poco giustificate di trattamento. 36
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