Franco Venturi - Utopia e riforma nell'illuminismo (riassunto)

October 10, 2017 | Author: fedeg94 | Category: Age Of Enlightenment, Jean Jacques Rousseau, Voltaire, Idea, Roman Republic
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FRANCO VENTURI UTOPIA E RIFORMA NELL’ILLUMINISMO

INTRODUZIONE A ben guardare l’interpretazione filosofica dell’Illuminismo rischia di essere variamente deformante perché è sempre una storia che tende a risalire alle origini, ai principi primi delle idee che vede operare nella realtà del XVIII secolo. Guarda agli autori del periodo come fonti di quei pensieri che furono poi utilizzati e intorbidati dalla filosofia popolare, che furono consumati nel corso della lotta ideologica del secolo dei Lumi. Tuttavia non si deve risalire alle origini delle idee ma alla loro funzione nella storia del Settecento, poiché non si tratta di comprendere quale sia la coincidenza di queste col passato ma ciò che esse hanno portato di nuovo. Considerando la risposta del filosofo Kant alla domanda “Cos’è l’Illuminismo?” ci accorgiamo che essa è una frase tratta da Orazio: “Sapere aude”. Questo dà prova della presenza del mondo classico durante quel periodo e anche dell’identificazione degli illuministi con l’antichità pagana. Ma qual è il significato di questa presenza? Il rapporto tra la tradizione umanistica e le realtà politiche, sociali, è evidentemente molto più complesso di quello che può apparire. La permanenza di miti umanistici, la sopravvivenza degli dei antichi può talvolta non essere infatti presenza, ma superstizione, ornamento. Il motto comincia a prendere un segno diverso però, quando esso viene contrapposto alla concezione cristiana e teologica, simbolo di una più pura e cosciente ricerca della verità. Inoltre il “Sapere aude” ha accompagnato una logica storia che portava dal razionalismo al libertinismo del Seicento, dalla massoneria al dispotismo illuminato, diventando anche motto di quest’ultimo con i decreti di Maria Teresa d’Austria. Una strada diversa dal ritorno alle origini e comportamenti conformi al passato è quella che parte dalla società e non dalle idee, dai gruppi e non dagli individui, dalle diffuse mentalità e non dalle creazioni singole. Adotta dunque i mezzi della sociologia e della storia economica e cerca di capire l’Illuminismo costruendo schemi, tabelle e diagrammi fino a cercare di ritrovare il suo vero ritmo e la sua autentica funzione in Europa. Anche tale approccio però presenta i suoi aspetti paradossali; essa si rifà al marxismo, ma non cerca di capire quello che nell’Illuminismo può servire a spiegare il marxismo, ma applica l’opera inversa, ossia tenta di spiegare l’Illuminismo a partire dal pensiero dei marxisti. Tuttavia i marxisti intendono l’ Illuminismo come l’ideologia della borghesia in sviluppo, ed è proprio questo l’ostacolo che si frappone ad una comprensione più approfondita del XVIII secolo. Sarebbe necessario rimuovere tale ipotesi di lavoro per procedere meglio, guardando piuttosto al ritmo interno dell’Illuminismo europeo nel Settecento, confrontando gli elementi di rivolta e fede, di speranza e delusione fino a concludere che il moto dei Lumi è un cerchio chiuso in se stesso, che si riapre però in determinate circostanze e riprende il percorso del suo ciclo di problemi e scoperte. E’ certo che l’Illuminismo, o certi aspetti di esso, diventarono ad un certo momento strumenti di difesa e offesa nella lotta contro ciò che rimaneva del mondo feudale (lo storico però deve accertarsi con esattezza di quando ciò avvenne, altrimenti il rischio è quello di non comprendere più l’opposizione a Luigi XIV, la formazione e il significato di Montesquieu etc..). Il rapporto tra forze borghesi attive e movimento illuminista deve rimanere un problema e non deve essere considerato un

dato di fatto. La borghesia francese di metà Settecento viene scomposta in una serie di gruppi e di forze tutt’altro che omogenei: l’Enciclopedia non viene affatto studiata nella forma di una sorta di media delle varie posizioni, ma viene studiato con rigore il posto effettivo che ognuno degli enciclopedisti tenne nella società del tempo. Essi costituirono una piccola élite di dotti e tecnici, legati alla vita economica come elementi di punta del progresso economico e strettamente connessi pure con l’apparato statale che essi si sforzarono di rendere migliore e più razionale. Gli enciclopedisti non sono tali perché stanno tra grande e piccola borghesia, ma perché creano determinati strumenti tecnici di azione nella società francese alla metà del XVIII secolo. Il rischio della storia sociale dell’Illuminismo dunque è di studiare le idee quando son diventate ormai strutture mentali, senza cogliere mai il momento creativo e attivo, di esaminare tutta la struttura geologica del passato. Il risultato storiografico è spesso quello di riconfermare con gran lusso di metodi nuovi quello che già si sapeva. Un altro elemento pericoloso poi è il considerare una storia totale, una visione della società come d’una struttura globale capace di rivelare la sua logica interna; tale approccio trasformerebbe piuttosto il giudizio storico in filosofia della storia. Utili diventano dunque quegli studi di storia sociale che mettono a concreto contatto le idee e i fatti, la diffusione di certe tecniche e scienze, vedendo come esse reagiscono nelle terre, città, tra nobili e artigiani dei diversi paesi. Ponendo dunque il Settecento sotto le luci incrociate di alcuni problemi della storia delle idee, si vuole dimostrare come questo incrociarsi riveli alcuni punti essenziali della storia dell’Illuminismo. Al centro è presente il problema del valore della tradizione repubblicana nella formazione e sviluppo dei lumi; ciò conduce poi al cuore stesso del rapporto tra utopia e riforma; in conclusione è presente un tentativo di ripercorrere la distribuzione geografica e il ritmo differenziato di sviluppo dell’Illuminismo nell’Europa settecentesca.

I – RE E REPUBBLICHE TRA SEI E SETTECENTO Quando si parla di tradizione repubblicana e dell’importanza che essa poté avere nel formare le idee politiche del secolo XVIII, il pensiero corre subito all’antichità, a Atene e Roma. E’ importante dunque osservare quanto del pensiero repubblicano derivi non dagli antichi greci e latini, ma dall’esperienza compiuta dalle città italiane, dall’ Olanda e dalla Svizzera, dall’ Inghilterra e dalla Polonia. L’eredità repubblicana che il Settecento raccoglie e fa fruttificare ha infatti una cultura classica, ma nasce più spesso da una esperienza diretta e non lontana, da una radice medioevale e rinascimentale che riprende a vivere al di là dell’età dell’assolutismo e delle restaurazioni del Cinque e Seicento. La forma antica e classica del pensiero repubblicano fu particolarmente evidente in Francia, fino a diventare esplosiva durante la rivoluzione. I philosophes, i girondini e i giacobini si rifecero all’antichità classica infatti perché non avevano nel loro passato di popolo nulla che potesse servire loro di modello e d’ispirazione repubblicana. Anche loro si nutrirono degli esempi inglesi e polacchi, italiani e olandesi e anche per loro le radici del pensiero repubblicano affondarono in una esperienza europea non lontana e mitica. Tuttavia erano esempi non appartenenti direttamente a loro e soltanto il mondo classico poteva assumere per loro la grandiosità e il vigore di un mito. Così la Francia diede una forma antica alla tradizione repubblicana europea.

Il Settecento italiano era stato invece profondamente antiromano, aveva contrapposto le province all’urbe, aveva ritrovato i popoli italiani anteriori alla conquista, aveva profondamente criticato il sistema economico fondato sulla conquista e non sul commercio. Nel nome dell’antichità Roma antica non risorse, mentre furono spazzate via o trasformate profondamente le repubbliche di Genova, Venezia e Lucca. Venne l’età della repubblica una ed indivisibile, proprio in un paese dove le repubbliche erano state molte e in continuo movimento esterno ed interno. La penisola diventa una sorta di microcosmo dell’intera Europa, per la grande varietà di forme politiche e costituzioni diverse, per essere un vero e proprio museo politico. In Italia il rapporto tra gli stati assoluti e le repubbliche riproduceva quel che vediamo all’estero. Durante il Cinque e il Seicento le repubbliche si comportarono come delle strutture esterne, dal contenuto aristocratico e patrizio, borghese e municipale, non dissimili da quelle che gli stati monarchici si andavano allora sforzando di dominare e inglobare nell’assolutismo. Tutto il processo di formazione dello stato moderno ritorna in questi secolari contrasti e compromessi. Tali strutture esterne sopravvivono, mantenendo in vita la tradizione repubblicana, poiché non si piegarono all’assolutismo regio, ma mantennero un modello diverso, non permettendo il trionfo totale della monarchia universale. Nel lungo periodo di passaggio tra il Sei e il Settecento, le repubbliche erano partite invece del tutto sfavorite. Il loro neutralismo, il loro conservatorismo, il loro tentativo di sottrarsi al mondo dei conflitti politici per rifugiarsi tutte in quello dei traffici commerciali e bancari, sembrava destinarle ad una sicura sconfitta. Però non fu così. Guardando all’Olanda, nonostante i conflitti tra i reggenti e gli Orange, si salvarono non soltanto le Province Unite, ma sopravvisse l’essenziale della loro costituzione. Il patriziato dei reggenti continuò a mantenere nelle proprie mani le posizioni chiave nella società dei Paesi Bassi. La tolleranza religiosa non venne messa in dubbio, ma fu la base dalla quale partirono gli emigrati francesi per fare dell’Olanda l’emporio delle idee politiche, filosofiche e scientifiche del mondo. Le Province Unite avevano mantenuto una forma di governo considerata di sempre più difficile comprensione da coloro che venivano amalgamati dall’assolutismo. La coscienza di questa diversità andò sempre più radicandosi in Olanda. Non si trattava di una “Repubblica angelica e filosofica” simile a quella di Platone, ma di una prosperità in atto, dovuto al rispetto di un interesse comune connesso alla tolleranza, alla libertà di residenza e commercio, alla mancanza di monopoli, alla moderazione delle tasse e alla volontà di mantenersi in pace. La mentalità stessa di stato “all’italiana” era ripudiata. Nemmeno la guerra poteva e doveva mutare la natura della repubblica; nella sua politica estera, l’Olanda non poteva non sentire una naturale simpatia per le repubbliche che vivevano in modo simile, poiché esse sarebbero state le sue alleate. Tutto il pensiero politico olandese del Seicento tende a determinare le condizioni religiose, psicologiche, giuridiche di una simile sopravvivenza ed esso è attento alla sorte parallela delle altre minori repubbliche d’Europa. L’Olanda rifiuta la ragion di stato, in economia non è mercantilista. La sua funzione di mercante e banchiere dei grandi stati moderni la rende fragile ed indispensabile. Con la seconda metà del Settecento sempre più evidente si fa la difficoltà in cui si viene a trovare l’Olanda ad adeguarsi ad un mondo che cambia. La sua economia è altrettanto irriformabile quanto la sua struttura politica. Fin quando l’Antico regime tenne in piedi sopravvisse dunque anche la repubblica delle Province Unite.

E’certo che le repubbliche patrizie italiane non possano paragonarsi davvero nel loro declino alle Province Unite. Ma i loro riflessi di conservazione e la loro permanenza in margine ai grandi stati assolutistici meritano di essere guardate più da vicino, contribuendo all’idea che dalle repubbliche si fecero gli uomini del secolo dei Lumi. A Genova, differenti eventi politici nel corso del Sei e Settecento misero di nuovo in movimento la stratificazione sociale che era venuta sedimentandosi nel corso del Cinquecento. Nonostante le pretese di stravolgimento presentate da Luigi XIV, la volontà fondamentale di Genova era sopravvivere. Proprio la forma repubblicana del suo governo le permetteva di realizzare questa volontà. La classe dirigente sapeva di poter sopravvivere alle guerre e alle rovine purché l’essenziale della costituzione patrizia e cittadina non fosse toccato. Anche a Genova i pericoli avevano indotto a pensare che era necessario concentrare i poteri nelle mani di pochi, che era indispensabile spezzare l’antico equilibrio e permettere che una delle magistrature prendesse il sopravvento sulle altre. Tuttavia questi rimasero sempre vaneggiamenti e sogni entro i confini delle magistrature esistenti. A Venezia la situazione era apparentemente alquanto diversa tra Sei e Settecento. Soltanto con la pace di Passarowitz la repubblica di San Marco sarà davvero tagliata fuori dai grandi conflitti internazionali e non si farà più trascinare in una guerra. La sua neutralità la preservò un po’ meglio dal passaggio degli eserciti e dalle loro ruberie. Eppure la situazione era pur sempre molto simile rispetto a Genova. L’Impero proseguì una sistematica politica tesa ad isolare e togliere ogni forza economica a Venezia e a sostituirla con le vie di comunicazione presenti in Lombardia. Per lunghi anni Venezia reagì a questa lenta opera di assorbimento con il tipico riflesso repubblicano dell’immobilità, del conservatorismo programmatico. All’immagine del Cinque e Seicento dello stato veneto equilibrato, capolavoro della politica, si sovrappone sempre più quella d’uno stato basato sul diritto storico dell’eterna esistenza. Non le restava dunque che ripiegarsi tutta sul suo passato, e là ricercare la propria ragione di vita. Al medioevo dunque bisognava rifarsi, riprendendo antiche leggi per riformare quelle esistenti, riesumando antichi ordinamenti per correggere gli errori presenti. Il passato e la storia erano una forma entro cui dovevano essere colate le esigenze nuove. La situazione era meno appariscente in Toscana. Quando Giangastone, ultimo dei Medici, morì nel 1737, gli occhi di molti erano rivolti al passato, verso le antichità etrusche e soprattutto verso la grande età dell’Umanesimo civico che cominciò ad essere riscoperta e apprezzata dai dotti fiorentini. In seguito però la Toscana venne destinata ai Lorena e Richecourt cominciò la sua opera riformatrice che permetterà al granducato di Pietro Leopoldo di diventare uno dei modelli più riusciti in Europa di assolutismo illuminato. Tuttavia il passato repubblicano della Toscana continuò a far sentire il suo peso. Gran parte degli intellettuali rimasero all’opposizione rispetto a Richecourt, opposizione che guardava al medioevo di Firenze e che andò cercando sempre più nella libertà inglese un proprio modello ideale e che trovò in Montesquieu i termini di una volontà costituzionale. La Toscana di Pietro Leopoldo non sarà soltanto un esempio ammirato di stato riformatore, ma sarà anche la terra dove nascerà il primo tentativo costituzionale italiano e quella in cui l’esperienza del passato fu sprone alla ricerca d’una nuova libertà.

Considerando i grandi dibattiti discussi nel corso degli anni su tale situazione, spicca tra questi il discorso di Montequieu. Egli osserva ed esamina la corruzione che sempre colpisce le repubbliche; il pericolo continuo al quale sono sottoposte queste forme di governo di cadere nella più ristretta aristocrazia o di soggiacere ad una rivolta popolare. Malgrado una simile pessimistica diagnosi, l’autore afferma che il principio della repubblica è la virtù, principio superiore e più alto rispetto a quello che governa le monarchie. La ragion d’essere delle repubbliche coincide con la moralità stessa, con la capacità cioè di dettare a se stesso la propria legge e di eseguirla. Anche nell’antichità le repubbliche non erano basate sulla democrazia universale e diretta ma sulla capacità del popolo di scegliere e seguire i propri rappresentanti. Sono insomma i corpi costituiti che contano, decidono e fanno si che uno Stato non ricada nel dispotismo. La vera corruzione e rovina ha inizio quando si intaccano le leggi costituzionali, che è precisamente quanto era accaduto nelle repubbliche italiane, dove il restringersi del potere ad un piccolissimo numero di famiglie e lo stabilirsi d’un diritto di ereditarietà avevano spezzato la virtù, facendo cadere il governo nel dispotismo. Nonostante i tentativi di queste città di far rivivere da soli i corpi costituiti senza la direzione e protezione di un monarca, questi si erano dimostrati sempre più difficili poiché ci si è resi conto che le repubbliche e le aristocrazie moderne avevano perso ogni loro significato e avevano guadagnato piuttosto un carattere anacronistico. Il problema storico che le repubbliche moderne avevano posto era solubile soltanto all’interno delle monarchie ovvero in quel compromesso tra strutture nobiliari, cittadine e giudiziarie e il sovrano che caratterizzava gli stati moderni, sia che questo compromesso prendesse la forma francese con la trasformazione dei corpi costituiti in corpi intermedi, o quella inglese in cui i corpi intermedi finivano per porsi alla base della separazione dei tre poteri. Si conferma così che il dibattito tra repubblica e monarchia era stato in realtà deciso in Inghilterra. Ed è lì dunque che bisogna rivolgere lo sguardo.

II - I REPUBBLICANI INGLESI L’incapacità dell’Inghilterra a stabilire la democrazia è meno negativo di quanto può apparire a prima vista. Certo la Gran Bretagna si era lasciata governare da uomini senza punti di vista, così come alquanto ridicoli e scomposti erano stati i tentativi britannici per liberarsi della monarchia. Tale giudizio risulta però essere piuttosto una fredda e staccata constatazione storica poiché l’Inghilterra era allora troppo moderna per rifarsi ai modelli dell’antichità, troppo vicina agli stati moderni per poter tornare repubblica. All’equilibrio conservatore che sul continente venne raggiunto a metà del Settecento tra le antiche repubbliche e gli stati monarchici corrispondeva un compromesso tra la monarchia, il parlamento, le città, le classi e i corpi costituiti. Questo compromesso però non era stato né rapido né facile. L’idea repubblicana avevano continuato a fermentare infatti molto tempo dopo la restaurazione del 1660 e aveva continuato a svilupparsi, a crescere e a modificarsi anche quando era stata posta ai margini della vita politica quotidiana. In realtà quel che sopravvisse e rigermogliò dalla tradizione repubblicana è molto più importante e vitale di quanto non

si ammetta spesso in Inghilterra. Sembra davvero che la stabilità politica raggiunta in Inghilterra nel primo Settecento sia ancora così solida da mettere fuori gioco tutt’oggi coloro che la combatterono o vollero modificarla, e che trasmisero il messaggio della loro opposizione. L’ Illuminismo è inconcepibile senza tale messaggio. Tuttavia si può dire che nonostante ci fosse l’intenzione di combattere per tale messaggio, la rivoluzione inglese non suscitò quell’ondata ideologica che accompagna altre rivoluzioni europee. Le idee nate in Inghilterra erano infatti destinate a passare su continente soltanto nella forma filosofica. Soltanto così tali idee divennero cosmopolite e poterono creare un potente fermento su tutta l’Europa del nascente Illuminismo. Il problema della repubblica può essere un buon filo conduttore nel labirinto delle ribellioni, restaurazioni, rivoluzioni accadute nell’isola britannica. E’ importante comprendere come gli inglesi reagirono nel momento in cui si accorsero che il ritorno alla repubblica si faceva sempre più incerto e difficile. La repubblica avrebbe significato infatti in quelle circostanze (passaggio alla dinastia degli Hannover) guerra civile, e gli inglesi non intendevano cominciarla. Tutti i modelli repubblicani che essi avevano in mente non erano infatti adatti alla realtà del Paese. L’agitazione degli “spiriti inquieti” era notevole negli anni immediatamente precedenti, e il club cominciò ad assumere sempre maggiore importanza nella vita del paese, accanto al salotto e alla taverna. Allora vediamo farsi avanti un gruppo di uomini in continuo movimento come Shaftesbury o Tindal, attivissimi nelle lotte politiche di quei giorni; essi si presentano come filosofi e non soltanto come uomini della politica e della diplomazia. Sono un primo gruppo di intellettuali e filosofi illuministi alle prese con i problemi politici della loro età. Da questo punto di vista, Toland è il più significativo e il più caratteristico di questo gruppo di intellettuali, capace di intuizioni geniali sulla storia delle religioni ed il più attivo tra i riassertori della tradizione repubblicana inglese. Quanto al pensiero politico del gruppo, sarebbe sbagliato dividerlo in più o meno democratico; in realtà le loro riflessioni e le loro lotte sono interessanti perché ci mostrano tutta intera la tradizione repubblicana messa a confronto con nuovi problemi e che a poco a poco si trasforma in una nuova visione della libertà politica. John Toland e Walter Moyle furono coloro che più fecero per ridare forza e vigore ad un’interpretazione repubblicana dell’antichità, rifacendosi all’umanesimo civico dell’Italia rinascimentale e a Machiavelli, cercando di mettere dalla parte propria il maggior numero possibile di scrittori latini. Essi ripresero e trasmisero al secolo XVIII una lunga tradizione, ripresentando una antichità repubblicana al popolo inglese facente parte dell’età Augustea. Moyle si chiedeva perché il “governo popolare” dell’antica Roma fosse caduto; rispose affermando che non si era avuta l’energia di ritornare alle forme di governo originali “ripristinando l’antica virtù e la disciplina” . Una “libertà sbagliata” dunque aveva permesso eccezioni alla costituzione. Tuttavia sarebbe stata meglio una dittatura piuttosto che simili compromessi. Né un condominio tra il popolo e il senato avrebbe potuto risolvere il problema. Il vigore della legge era stato dunque diminuito. Una simile involuzione fu possibile per alcuni difetti della costituzione romana, dalla cattiva organizzazione del tribunato e della censura. Quando la decadenza era ormai in atto anche i grandi uomini invece di difendere le libertà, si erano gettati contro di esse. Anche le riflessioni del mondo antico di Moyle dunque riprendevano le preoccupazioni politiche che vivevano in quegli anni al di là e al di qua della Manica.

Quanto a John Toland, fra tutti gli uomini di questa corrente, egli è quello che più si avvicina al tipo di filosofo già illuminista, di cultura enciclopedica, dalla vita libera, attiva e scanzonata, coerente però con la propria vocazione. In John Toland la tradizione repubblicana diventa modo di vita, indipendenza personale, entusiasmo filosofico. Il germe illuministico delle idee di Toland era vigoroso. Permetteva ad esempio di capire la storia delle religioni dall’interno, non più soltanto come costruzione di un potere ecclesiastico, ma come sviluppo di misteri e dogmi. Si trattava di qualcosa di nuovo, d’una razionale volontà di non ammettere nulla che fosse contrario alla ragione o oltre essa, di un invito a guardare tra la gente comune, d’una volontà di giungere ad una società razionalmente costruita. Attraverso Londra, Toland si rivolgeva al mondo intero col suo appello alla libertà. Ormai i repubblicani non erano più gli uomini di una setta o d’un complotto, ma predicavano apertamente a tutti le loro idee. Queste si diffusero poi durante il periodo segnato dalla guerra di successione spagnola anche al di fuori dell’Inghilterra. A ciò Toland si dedicò con notevole efficacia e successo. Toland fu insomma uno degli scrittori che più si adoperò per dare un significato ideologico all’alleanza delle potenze marittime con l’Impero e con alcuni principi tedeschi contro la Francia di Luigi XIV. Tuttavia se la guerra di successione spagnola permetteva la diffusione delle idee deiste, bloccava quella delle idee repubblicane. Troppo grande era il pericolo della politica espansionistica di Luigi XIV. Indispensabile era dunque uno stato monarchico anche in Inghilterra . Ben dovette rendersene conto Toland quando tornò in Inghilterra e fu costretto a fronteggiare una tempesta di critiche, accuse e minacce. L’idea di repubblica si trasformò dunque per l’autore, ormai scevra dalle forme storiche che aveva preso in passato, in un ideale capace di vivere nella monarchia inglese, così come di diffondersi sul continente, in un incitamento alla libertà oltre le contingenze storiche.

III – DA MONTESQUIEU ALLA RIVOLUZIONE A metà del Settecento le antiche repubbliche erano ormai non soltanto messe al margine degli stati assolutistici, ma della storia stessa. Contavano infatti sempre meno politicamente e, anche sul piano economico, i maggiori centri di commerci e manifatture entrarono in una fase di decadenza. Sopravvivevano le arcaiche repubbliche, ritraendosi però dall’organismo europeo, lontane dai punti di incontro e di scontro delle forze militari e produttive. Vivevano persuase nella loro continuità e perpetuità, agendo sempre meno e sempre più abbandonandosi al senso della propria esistenza. Anche sul piano ideologico le idee repubblicane non sembravano più avere mordente politico, non costituivano più quindi una alternativa alle idee e alla prassi di un assolutismo che stava allora cominciando a prendere le forme del dispotismo illuminato. Tuttavia, fuori dai conflitti e dalle battaglie, tali idee permanevano nei costumi ed erano capaci ancora di suscitare una volontà di indipendenza e di virtù che gli stati monarchici non erano in grado di soddisfare. Sussiste allora un’amicizia repubblicana, un senso repubblicano del dovere anche in un mondo mutato al cuore stesso di uno stato monarchico. Ed è proprio sotto l’aspetto etico che questa tradizione repubblicana fa appello agli scrittori dell’illuminismo, a Voltaire, a Diderot, a d’Alambert e a Rousseau. Sul piano morale avviene la confluenza con la nuova visione della vita che si stava formando nella Parigi del tempo.

La linfa proviene dalla Gran Bretagna, soprattutto grazie all’etica di Shaftesbury. Egli era stato uno dei primi a ritrarsi dalla lotta politica, a mettersi da parte e a trasporre sul piano filosofico gli ideali di Toland, Molesworth, etc .. Le sue “Characteristicks” avevano proprio questo valore. La sua polemica deistica contro ogni forma di religione rivelata l’aveva portato ad osservare con curiosità le forme tradizionali dell’entusiasmo religioso. A questo egli andò contrapponendo un entusiasmo nuovo e diverso, che chiamò sociale e che costituiva la spinta etica d’una società tutta mondana. La sua amicizia è ben diversa da quella tradizionale, e vuole inserire nel contesto della società un rapporto naturale. Altrettanto caratteristico è il patriottismo di Shaftesbury, facoltativo ed estraneo al cristiano, esplicitamente diverso dalla carità e che si contrappone pure al senso istintivo d’amore e di attaccamento per la propria terra. Cosmopolita, il nuovo patriottismo è inscindibilmente legato alla libertà, è inconcepibile o assurdo fuori di essa,e non può essere provato se non da coloro “ che hanno veramente un paese e sono in quantità tale da essere chiamati popolo”. Ogni potere assoluto distruggeva e negava la base stessa del vero amore per la patria. La parola stessa di patriottismo traduce dunque in termine di passione, di entusiasmo, di etica esattamente il senso di eguaglianza e di libertà di coloro che si consideravano il popolo. Non si tratta più di discutere quindi in termini politici e costituzionali dove stava e fin dove si estendeva la sovranità, ma di sentire e di rivivere quel senso di indipendenza che le repubbliche avevano creato. Il nuovo patriottismo è carico di una secolare tradizione, ma si traduce in termini che tutti gli uomini possono e debbono capire e intendere, è universalmente umano. Shasftesury diffondeva però le sue idee sul patriottismo e sull’eroismo accompagnandole con un elemento di critica e di ragione, poiché i conflitti avrebbero potuto trasformare tali valori da positivi a totalmente negativi. Considerando nuovamente la situazione in Francia, il duca d’Argenson è il più lucido ed indipendente testimone della diffusione di un fermento repubblicano nel paese tra il 1745 e il 1754. Egli conosceva bene il suo paese e l’Europa. Aveva tra l’altro tracciato un largo quadro dei diversi governi dell’intero continente; d’Argenson nutriva una grande ammirazione per lo spirito pubblico che le repubbliche avevano saputo creare e mantenere, aveva constatato la loro superiorità nell’iniziativa economica, tanto dei privati che dello stato, stimava che le situazioni di autorità che facevano la loro fortuna avrebbero potuto e dovuto essere trapiantate anche sul suolo degli stati assolutisti. Il re avrebbe dovuto assumere il titolo di protettore del paese, trasformando lo stato in una sorta di repubblica protetta dal re. I rapporti tra province e monarca avrebbero dovuto avere un fondamento di libertà ed uguaglianza. La libertà intellettuale era indispensabile infatti ed anche più importante politicamente era l’uguaglianza. Anche nel seno della monarchia francese s’andava così aprendo la discussione sulla necessaria trasformazione dei corpi intermedi in modo da renderli adatti ai nuovi compiti e a farli sempre più connessi con le strutture di un grande stato. Le forze che avrebbero potuto guidare il paese su una simile strada erano i Parlamenti e i filosofi. Gli uni e gli altri saranno infatti alla testa di tutti i movimenti nei successivi decenni. I corpi costituiti e le forze intellettuali si disputeranno la guida dell’opposizione, dall’interno stesso della struttura monarchica (Parlamenti), opponendosi agli altri sempre più apertamente dal di fuori (filosofi). I Parlamenti faranno appello all’antica costituzione del regno, ad una più o meno mitica costituzione legale, mentre i filosofi cercheranno sempre più intensamente le loro giustificazioni nelle idee che l’Illuminismo andrà contrapponendo al passato.

Pochi anni dopo, nel 1754, Rousseau poneva un nuovo rapporto tra le nuove idee e la tradizione repubblicana. Sembrava aver ritrovato la patria perduta. Il suo entusiasmo repubblicano lo portava ad accettare non questo o quell’aspetto di Ginevra, la sua città natale, ma tutta intera l’eredità, compresa l’aristocrazia patrizia che la governava. Egli si dichiarava della classe che non ha poteri politici, ma che non è per questo meno attaccata alla patria. Ginevra diventa dunque non il luogo in cui Rousseau è nato, ma la patria che egli stesso si è scelta. Ciò che lo muove non è l’amore per la sua terra, cerca piuttosto un paese in cui società civile e governo si confondono e in cui governanti e governati facciamo tutt’uno, in cui domina la legge e non la volontà politica dei singoli governanti, in cui la tradizione è tutto e nulla l’arbitrio. In realtà repubblicani si nasceva, si era, non si diventava. Soltanto così una repubblica avrebbe potuto allontanare da sé ogni tentazione di espansione, di conquista, di modificazione all’esterno e di squilibrio all’interno fra popolo e magistrati. Come Rousseau sosteneva, era ben difficile far ritorno a forme e sentimenti repubblicani in un paese che fosse stato piegato dall’assolutismo. Teoricamente riacquistare la virtù era altrettanto impossibile quanto tornare allo stato di natura. Tuttavia esisteva sempre e comunque un’alternativa, una diversa possibilità. Per comprendere bene il significato dell’appello di Rousseau dobbiamo rivolgere lo sguardo al gruppo dei philosophes, in particolare a Alexandre Deleyre. Dalla natia Garonda, il giovane provinciale giunge a Parigi con una raccomandazione di Montequieu. Qui rimane inorridito dalla metropoli, intimorito e sdegnato della corruzione che lo circondava. Tutto questo portò Deleyre a guardare al gruppo dei philosophes come alla città ideale, come all’unico modo in cui era possibile vivere e respirare. Là egli incontrò Rousseau. Fu proprio Rousseau a fargli conoscere Diderot, e Deleyre pubblicò poi nell’Enciclopedia suoi articoli, e divenne elemento attivo e convinto del gruppo degli enciclopedisti. Tuttavia la disputa che avvenne tra Rousseau e Diderot negli anni successivi lasciò Deleyre profondamente deluso del gruppo dei philosophes, incapace oramai ai suoi occhi di impersonare l’ideale di una società di liberi e di uguali. Non gli restava che l’esilio; girovagò per l’Europa cercando una nuova strada e riuscì ad esprimere tale ricerca non solo criticando il mondo con cui entrò in contatto o partecipando alla crisi degli intellettuali francesi negli ultimi anno del regno di Luigi XIV, ma riuscendo ad esprimere questi suoi sentimenti e pensieri in una forma più efficacemente politica di molti suoi contemporanei. La sua protesta sociale era strettamente legata a quella morale; il lusso lo ripugnava sempre di più, non soltanto come una ingiustizia, ma come una sempre più grave minaccia alla libertà. La rivolta contro i tiranni antichi e nuovi era dunque più che legittima. Sarà destino di Deleyre di colpire egli stesso il monarca francese, poiché tra i voti della Convenzione che condannarono a morte Luigi XVI ci sarà anche il suo. La lotta tra i re e i popoli non aveva nulla di giuridico né di formale, ma restava per lui l’urto della natura onnipotente contro i meschini artifici degli uomini. Egli si rese inoltre perfettamente conto che l’idea stessa di virtù stava allora cambiando, poiché non era più tempo dell’antica moderazione repubblicana, ma d’una nuova morale, nata dall’aspro desiderio di nuovi guadagni. Proprio questa mescolanza di antica e nuova morale andava producendo reazioni sempre più violente e profonde nell’animo di un numero sempre maggiore di persone. L’esempio di Deleyre ci ha portato a comprendere come i sentimenti e atteggiamenti che fermentavano tra il popolo di Parigi sfociarono nella rivoluzione. Ma i rapporti tra i

lumi e la tradizione repubblicana devono essere considerati su un piano diverso, che non è quello della virtù perduta, ma quello delle forme costituzionali, del contatto e contrasto tra le idee politiche dell’Illuminismo e le istituzioni repubblicane esistenti nel secondo Settecento. Ritornando a Rousseau, sul piano ideologico, il suo paradosso cominciò a portare i suoi frutti. Le idee di contratto, di eguaglianza, di democrazia trovarono nella tradizione repubblicana un primo elemento concreto, una prima sostanza politica. E’ utile leggere il “Contratto sociale” in chiave ginevrina, per comprendere come si venga stabilendo un rapporto sempre più stretto fra gli ideali e i fatti. Anche più interessante è la lettura delle “Lettre écrites de la montagne” per osservare quale interpretazione e soluzione Rousseau tentasse di dare alla lotta che si andava svolgendo all’interno di Ginevra. Fin dal 1707 il monopolio politico dei patrizi viene rimesso in questione nel tentativo di ridare potere e vigore all’insieme dei cittadini che compongono la borghesia. I due estremi, i patrizi e il popolo tendono a convergere contro di essa, ma questa si dimostra un’alleanza precaria e nemmeno essa permette di trovare un equilibrio. Il conflitto si allarga così all’interno della piccola repubblica e non trova il suo limite se non nella situazione internazionale in cui esso si inserisce. La storia di Ginevra è esemplare e rappresenta una delle esperienze più pure e perfette di questo fenomeno repubblicano del tardo Settecento. Esemplare è Ginevra in un ulteriore e più amaro senso. Le antiche repubbliche non sono riformabili. Nessuna riesce a ritrovare il meccanismo politico che impedisca il ripetersi e che istituzionalizzi in qualche modo i conflitti tra il patriziato, la borghesia e il popolo. Non pochi tra i cittadini delle antiche repubbliche si diedero allora a tradurre, a leggere e rileggere le opere di Rousseau, cercando una spiegazione degli avvenimenti che gli avevano trascinati e sopraffatti. E non avevano torto, poiché in quelle pagine stava il primo tentativo d’interpretare i contrasti interni di Ginevra in una nuova e ampia luce . In realtà Rousseau compiva soprattutto l’operazione inversa: dare un senso europeo a quello che stava accadendo nella sua città natale. Rousseau scoprì la radice stessa dell’idea repubblicana e stabilì un effettivo punto di contatto tra le idee democratiche che andavano allora riemergendo e il passato comunale. Da questa tradizione egli sembrò anzi un momento distanziarsi. Il passato medioevale sembrava inghiottire le più moderne idee di uguaglianza e di libertà. Rousseau finì col dichiarare che “il miglior governo è quello dove tutte le parti si bilanciano in un equilibrio perfetto” , avvallando allo stesso tempo il meccanismo stesso dell’immobilismo delle antiche repubbliche. In realtà l’idea di sovranità quale Rousseau la concepiva dava una base ed un valore nuovo e diverso all’idea repubblicana. L’intervento di Voltaire in questi conflitti è notevole soprattutto per l’agilità e la capacità di adattamento dimostrata dal vecchio filosofo. Seguì le onde che andavano dai patrizi ai borghesi e al popolo, non identificando se stesso con nessuno di loro. Nemmeno lui riesce però a trovare una soluzione a tali scontri, finendo per rifugiarsi anch’egli in principi generali, cercando di passare dalla politica ginevrina alle idee di libertà, tolleranza ed eguaglianza. Il suo sguardo continua ad essere puntato su Parigi, sulle lotte contro i Parlamenti, sulla crisi degli ultimi anni del regno di Luigi XV. Voltaire sa che là è il campo su cui i lumi avrebbero dato battaglia decisiva, all’interno della grande monarchia francese, alle fondamenta stesse dell’assolutismo. Eppure il peso della tradizione repubblicana non è tanto piccolo nemmeno per lui, e lo costringe a riesaminare dalla base le sue concezioni politiche. I lumi secondo l’autore potranno risolvere il dilemma nella scelta tra la monarchia inglese o le repubbliche del passato. Sono i lumi a dare all’uomo una fede nella propria epoca e a fargliela considerare

migliore del passato; sono loro a dare un senso nuovo all’idea di natura umana, a combattere contro la superstizione, ad aprire l’animo all’accettazione di una società in cui anche i più umili possano essere liberi e politicamente attivi. La libertà inglese rimane dunque un modello, ma lontano e precario. Si trattava ora di affermare il nuovo senso democratico che il mondo moderno sembrava contenere in se stesso come frutto maturo. Voltaire, rispetto a Rousseau, agiva nella posizione di una potenza estera trascinata dalle cose stesse ad interferire. Perciò il suo intervento fu più democratico e meno repubblicano. Tale categoria di pensiero politico radicata nel passato si apre ad una realtà nuova, mostrando tutte le sue interne contraddizioni, tutta l’energia di una tradizione amata e contrastata, attiva ed efficace nel mutare delle persone e delle cose. L’eredità del passato era ormai dissolta nella ricchezza del presente.

IV – IL DIRITTO DI PUNIRE Il dialogo tra utopia e riforma nasceva spontaneo e continuò senza sosta, in ogni angolo d’Europa, per tutta la seconda metà del Settecento. L’entusiasmo sociale contribuì a portare nuova linfa all’utopia, facendola rifiorire insieme alle prime discussioni politiche del gruppo che stava costruendo l’”Enciclopedia”. Ormai, in ogni gruppo di philosophes è difficile non scorgerne almeno uno che non abbia una segreta simpatia per un mondo in cui non sia mai esistita o in cui sia stata abolita la fatale distinzione del tuo e del mio. Nell’animo stesso di alcuni dei filosofi maggiori questa visione senza tuo e mio non scompare più. Tale idea “comunista” darà origine, nella seconda parte del Settecento, per la prima volta, ad una corrente di pensiero. Appare nei più diversi ambienti dell’Illuminismo europeo e diventa una delle forme che prende la volontà di trovare una situazione nella quale fosse abolita l’idea stessa di bene e male. L’utopia tradizionale viene allora allargandosi e trasformandosi sotto la spinta di questa volontà illuministica di realizzare il paradiso in terra, di creare una società tutta umana, egualitaria e libera, di allargare al di fuori dei piccoli gruppi di eletti, di santi e di monaci, una regola comunitaria che valesse per tutti. La storia del passaggio dall’utopia all’ideale, dal sogno individuale al movimento politico comunista è piena di interesse. L’intera età illuministica non è comprensibile infatti senza questo elemento, il quale è uno dei risultati più irreversibili, immobili e duraturi che il secolo XVIII trasmise al XIX, una di quelle forme mentali che non andranno dissolvendosi più se non dopo lunghe e difficili prove e tentativi. Dopo la metà del Settecento l’idea che l’abolizione della proprietà potesse cambiare le basi stesse della convivenza umana, abolire ogni morale tradizionale, ogni politica del passato non scomparirà più dagli animi dei contemporanei. Ciò che qui interessa approfondire è il rapporto tra tali forze di entusiasmo sociale e la concreta volontà di “riformare” questo o quell’aspetto delle società ereditate dal passato, di operare concrete trasformazioni. Dunque il rapporto tra utopia e riforma. Consideriamo un problema che tocca l’uno e l’altro aspetto, ossia il diritto di punire, che non può non implicare la questione stessa del rapporto tra l’individuo e la società, e che pure è strettamente connesso con una casistica di metodi e di esempi, di strumenti e pratiche diverse. Comporta insieme cioè una discussione di principio e una disanima sui problemi concreti. Proprio per questo suo doppio aspetto esso può essere particolarmente importante per capire l’Illuminismo. Un esempio che risulta utile

seguire è l’eco dell’opera di Beccaria, “Dei delitti e delle pene”, pubblicata nel 1764 attraverso l’Europa. Il nodo che da millenni si era formato unendo con mille fili peccato e delitto, crimine e colpa, veniva tagliato nettamente da Beccaria. Secondo l’autore la chiesa poteva occuparsi dei peccati, ma allo Stato spettava soltanto il compito di valutare e di risarcire il danno che l’infrazione della legge aveva portato all’individuo e alla società. Il grado di utilità e disutilità misurava tutte le azioni umane. La pena non era un’espiazione. I giudici non avevano altro compito che ristabilire l’equilibrio turbato. Il diritto penale veniva completamente desacralizzato. L’illuminismo radicale di Beccaria negava implicitamente ogni concezione religiosa del male, ogni peccato originale, ogni sanzione pubblica della morale. L’utilitarismo suo nasceva dalla volontà di creare una società fondata sulla ragione e sul calcolo, abbattendo ogni ostacolo e pregiudizio ereditato dal passato. Ma quale era mai il diritto di punire e addirittura di condannare a morte qualcuno, in una simile società? In fondo al ragionamento di Beccaria stava la visione d’una società in cui l’uguaglianza usciva dalle astrazioni giuridiche per entrare nei fatti economici. Non solo egli prova orrore di fronte alla violenza, alla crudeltà ma rifiuta dal più profondo dell’animo suo ogni teorizzazione, ogni giustificazione di esse, ripugnandoli sempre ogni utilizzazione loro da parte degli stati, delle società, del diritto. Le sue pagine sulla pena di morte e sulla tortura nascono da questa doppia ritrosia ad accettare il diritto di punire e le conseguenze che esso comporta. Era davvero convinto che ogni sua conclusione avrebbe direttamente pesato sulla sorte dei suoi simili. Beccaria si pone così sulla soglia dell’utopia settecentesca, si sente trascinato dalla sua logica e dal suo modo di sentire verso una soluzione che prometta di risolvere alle radici, alla sorgente, il problema del bene e del male. Eppure Beccaria si ferma su quella soglia; egli vuole che la ragione, il calcolo, vengano a dominare l’impeto egualitario e libertario. Chiedersi dove portava il diritto di punire non doveva portare alla dissoluzione della società, alla negazione del diritto. Non l’utopia dunque, ma una società di liberi ed eguali sarebbe stata la risposta al problema che egli aveva posto. Soltanto una concezione strettamente utilitaristica della società poteva interpretare praticamente la volontà di eguaglianza. Se,di fronte al delitto, si trattava di riparare un danno, tutti avevano il diritto e il dovere di compiere questa riparazione. Ogni privilegio di casta e di gruppo era soltanto un ostacolo sulla via della giustizia. Similmente anche di fronte ai problemi della società, il calcolo utilitario era l’unica via per giungere all’eguaglianza. Le riforme avanzate da “Dei delitti e delle pene” incidono in realtà nel profondo della psicologia e della politica di quell’età. Continuando lungo la linea di pensiero dell’autore, Beccaria considera inoltre la sostituzione del lavoro forzato alla pena di morte; soltanto così la società avrebbe evitato di compiere un delitto giuridico e il delinquente avrebbe potuto pagare il suo debito allo stato. Questa sarebbe stata l’unica riparazione socialmente razionale e utile. Le implicazioni sociali di una simile soluzione si rivelarono a poco a poco, durante il dibattito che venne allargandosi intorno all’autore. Chiedersi se il lavoro forzato era una risposta adeguata ai delitti non era soltanto domandarsi se esso poteva spaventare i potenziali delinquenti; si vide ben presto che Beccaria aveva voluto in realtà rispondere non soltanto alle esigenze di una umanizzazione e di un perfezionamento del diritto, ma che il suo pensiero mirava al centro stesso dell’umana società. Dalle riforme da lui proposte non fu difficile risalire di nuovo a quell’utopia potenziale dalla quale era partito. La discussione prese ben altra ampiezza quando il libro di Beccaria venne pubblicato nella versione francese e quando l’autore si recò a Parigi a ricevere gli elogi dei philosophes. D’Alambert fu impressionato dall’intrecciarsi

di logica e precisione, Morellet si sforzò di trasformare invece l’opera traducendola in un sistema giuridico capace di essere la base di un nuovo codice. La Francia però tardo ad abolire la tortura. Le ragioni sono molte e vanno cercate nel potere dei Parlamenti, nell’importanza politica, come forza autonoma e di opposizione, che essi andarono prendendo in quegli anni. Secondo Beccaria la giustizia non doveva essere guidata dalle categorie sociali, ma dalla pura e semplice volontà di non uccidere, di non proseguire così la lotta dello stato di natura, di non spezzare in tal modo le basi stesse d’una convivenza sociale quale egli la concepiva. La discussione sul lavoro forzato andò poi allargandosi in tutta Europa e rivestendo spesso le forme d’un calcolo sempre più duro e spietato sull’utilizzazione della manodopera dei condannati o richiamando invece i legislatori al dovere di non mascherare sotto il nome di lavori forzati una esecuzione capitale peggiore di quella che si era voluta formalmente abolire. Una giustizia meno armata avrebbe visto un sempre minor numero di delinquenti. In ultima analisi le riforme avrebbero migliorato la società. Ma l’idea che la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale rendessero vane queste speranze finì sempre più col dominare. L’utopia era tramontata, ogni speranza di riforma era un’illusione, restava il duro realismo, l’accettazione delle leggi di una società ingiusta.

V – CRONOLOGIA E GEOGRAFIA DELL’ILLUMINISMO Per cogliere pienamente il ritmo e fissare i confini dell’Illuminismo dovremo guardare all’Europa. I molti saggi di storia economica del XVIII secolo forniscono ancora un quadro disuguale a seconda delle varie zone e dei diversi paesi dell’Europa di quell’età. Viene naturale chiedersi fin dove il trend economico francese sia valido, pur con tutte le variazioni locali, anche per il resto del continente. A un periodo di espansione fanno seguito la depressione degli anni ’30, la ripresa degli anni ’40 e un periodo di espansione che dura fino al 1770 circa, per poi essere sostituito da un periodo di alti e bassi. Verificare il trend fuori dalla Francia è spesso difficile. Là dove lo spezzettamento politico è grande, la piccolezza dei mercati locali tende ad offuscare le linee generali dell’andamento economico. In altri paesi la permanenza della servitù contadina dà a tutta l’economia una forma diversa. In Inghilterra l’inizio della rivoluzione industriale muta anch’esso profondamente la situazione. E’ dunque tutta la società e non solo il movimento delle idee e della politica ad essere in espansione all’inizio del secolo. Tuttavia, non meno vero è che le situazioni locali differenziano questo ritmo, creando punte e ritardi. Nonostante questo i fili che collegano gli elementi sono più numerosi e solidi di quanto non appaia da subito, la circolazione delle idee è più intensa di quello che avremmo potuto sospettare, le speranze e le aspettative si volgono verso una medesima direzione. Non siamo più di fronte alla crisi della coscienza europea di inizio secolo, né alla disputa fra deisti e antideisti. Qualcosa di nuovo stava nascendo, si stava passando da un primo sviluppo fino al pieno dell’Illuminismo. Dai problemi religiosi e morali ci rivolge ora a quelli politici e sociali, da quelli legali a quelli economici, dal sistema filosofico alla sperimentazione. Al centro del quadro sta Parigi in cui si va preparando l’Enciclopedia. Si tratta di una nuova generazione e di un ambiente sociale del tutto diverso. Un po’ ovunque in Europa quel che dicono e fanno gli enciclopedisti a Parigi è seguito con una curiosità e un interesse che crescono rapidamente. Anche fuori dei confini della Francia è evidente che quella libertà e spregiudicatezza che regna nel gruppo dei giovani philosophes è troppo

grande e intensa per essere accolta dall’Europa nella metà del Settecento. Eppure proprio l’Enciclopedia getta i ponti e permette il passaggio tra il pensiero del gruppo parigino e il resto d’Europa. Il fatto stesso che si tratti d’un dizionario delle scienze e delle arti crea la possibilità della diffusione delle nuove idee, anche là dove certo non sarebbero potute giungere direttamente. Si trattava di cambiare il modo di pensare della gente, e per far questo era più efficace una esposizione nuova del rapporto tra arti e lettere, tra scienza e società che un pamphlet in più di diretta polemica religiosa e politica. Il confronto tra la situazione in Francia ed il resto d’Europa ce lo conferma. La diffusione delle idee economiche che venivano da Parigi non è che un esempio d’un ritmo differenziato che possiamo cogliere fin dai primi echi di risposta all’ Enciclopedia.

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