Francesco Saba Sardi - Dominio

February 13, 2017 | Author: mais51 | Category: N/A
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Tutti i d.iriui riservati ISBN HH-HH764-28-3 www.hcvìvinoe-diton:.it [email protected]

©Copyright 2004 Francesco Bev�vino Editore

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Milano

Grandi opere e Dizionari

Copenina e impagin:J.Zione di _1\lessio Scordamaglia

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mag;l7.Ìne dettroniLU JeJicaro al mondo del libro

Nessuna opera può sorgere senza l'ù1terlocutore e senza l'Altro. Ringrazio mia moglie Gabriella Landini, indi>pensabile copartecipe nella costruzione di Dominio.

TEATRI NO

All'alzarsi del sipario, si vedrà una collina sulla quale è intento ad arare un grassone in abito da dirigente di varie epoche, e dunque con giacca grigio scuro a doppio petto dalla quale spunta l'orlo di un colorato peplo ricamato. In testa, una bombetta ornata da una lunga piuma cangian­ te. Antico e moderno insieme, calza agili scarpe da ginna­ stica. A seguirlo solco per solco, i suoi caudatari, anch'essi pasciuti, vuoi coperti di corazza, vuoi in giacca e cravatta. Ai piedi del colle, transita, solo e magro, un itinerante con un perizoma di pelle. Impugna arco e frecce e si guarda attorno come in cerca di animali da cacciare.

ARATORE

(all'itinerante, gridando) 6dimi, straccione. Io qui sono

il signore supremo. Tutto il resto non è che un mio riflesso e un mio strumento. Il tuo scopo è obbedirmi agendo secondo luci­ dità, sempre e ovunque. Non ti è concessa l'ebbrezza né la con­ templazione di sogni segreti e indecifrabili, perché sarai cittadi­ no della città di cui traccio con l'aratro la pianta quadrata. Erigerò un agglomerato di cause concomitanti, nelle quali sarai al sicuro come in fondo a un labirinto. Il filo che unisce i moventi alle conseguenze è inestricabile. Tu, uomo selvatico,

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rassegnati alla mia città. È una calamità che passa di nazione in nazione. Crescerà su se stessa, nessuna forza, né tempesta né nemici potrà mai più cancellarla dalla faccia della terra. Obbedirà alla legge dei numeri, avrà archi di pietra candida e cieli azzurri, scalinate di marmo e finestre di cristallo. Non vi si avrà mai né troppo caldo né troppo freddo. In essa saranno abo­ lite le stagioni. In essa tutto sarà artificiale. Sarà macchina in perenne funzionamento. CAUDATARI Avaro, arruffone, sfruttatore! Te beato! Fortissimo! Bellissimo! Potentissimo! Carogna! Amato! (Si inchinano dejè­ renti. Chiedono) Andiamo a prenderlo per chiuderlo in un museo? In uno zoo? (Impugnano, frugando nel mucchio ai limiti

del campo, lance, scudi, jùcili, mitragliatori, pistole) . ARATORE Dico a te, straccione! Sto costruendo una macchina che,

copulando con se stessa, si generi continuamente dalle proprie macerie. Orsù, da bravo, vieni a rendermi omaggio. ITINERANTE

(in pronta foga, blatera quelli che possono interpretarsi soltanto quali insulti e cachinni) . ARATORE (ai caudatarz) Se l'è voluta! Andate, sterminatelo! Trionfi la civiltà e la stanzialità! Occorre sì un sacrificio umano, sia pure di un inferiore, condannato dalla storia, per edificare la città!

CAUDATARI

(scendono urlando dal colle, sparando, avventando !ance e giavellotti). ITINERANTE (trafitto, esegue un poco decoroso decesso) . ARATORE Tornate pure, miei prodi. Guardate! ( Traccia, con straor­ dinaria perizia, un elegante spigolo) .

CAUDATARI M a com'è bravo! Ma che bel rettangolo, quadrato, ret­

tilineo, angolo diedro! Da strangolarlo! Evviva, evviva il capo! In attesa che uno lo sopprima, quel porco, e si impossessi dell'ara­ tro! Mai non sia! Tu, eterno capo! Sarai sempre nei nostri cuori, maledetto, fetente, sublime!

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INTRODUZIONE

La tripartizione qui proposta non vuole sottolineare una diversità.

Potere, religione e guerra sono infatti riconducibili a un nucleo unitario, a una fase del divenire umano nella quale non erano anco­ ra diversificati né diversificabili agli occhi dei loro stessi inventori. Poiché di invenzione si trattò, e fu un processo di lunga durata: parecchi millenni, quanti ne occorsero perché si verificasse quello che a suo tempo l'antropologo e preistoriologo Gordon Childe ( 1 892- 1 957) ha voluto denominare «rivoluzione neolitica». Un periodo nel corso del quale entro il nucleo unitario di cui si è testé detto (ed evito di definirlo originario per le ragioni che andrò espo­ nendo più avanti) si delineò una diramazione, una ancora impreci­ sa distinzione fra le tre componenti, potere, religione e guerra, che andarono via via specializzandosi, a volte convergendo, altre diver­ gendo e anzi entrando in aperto conflitto tra loro. Contemporaneamente andava prendendo forma quella che oggi usiamo chiamare società, nome collettivo con cui designiamo for­ mazioni di vario tipo e diverso genere, ma aventi tutte in comune la struttura gerarchica, vale a dire la subordinazione dei più ad auto­ rità superiori e a ordinamenti piramidali. La proposta che qui espongo è di distinguerle dai gruppi itineranti preneolitici (ne igno­ riamo l'entità, possiamo solo ipotizzarne la distribuzione, gli spo­ stamenti, le fusioni e le scissioni, e le zone in cui per lo più preferi9

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vano muoversi) , privi comunque di strutture gerarchiche, cioè di poteri nell'accezione attuale del termine (più avanti distinguerò tra forme di repressione e instrumenta regni) . Ancora oggi gruppi del genere, seppure ridotti a sparuti rappresentanti della tipologia, sono dediti alla caccia e alla raccolta, in quanto esperti nella ricerca, sco­ perta e utilizzazione di ciò che l'ambiente circostante offriva e offre spontaneamente. Le loro tecniche si riducevano e si riducono all'or­ ganizzazione di cacce collettive, alla preparazione dei relativi stru­ mentari, comprese le armi da caccia, alla fabbricazione di oggetti d'uso d'altro genere, in pietra, in legno, in osso oppure derivanti da scheletri di pesci, e alla preparazione del cibo. Tutto lascia supporre che la specializzazione, differenziazione e autonomizzazione dei tre rami del tronco iniziale, potere, religione e guerra, abbia comportato una definizione di ambiti e funzioni sem­ pre più precisi e rigidi, corrispondenti al tracciamento, inizialmente simbolico ma un po' alla volta tradotto in rappresentazione, nel "come se", cioè in concretezza gelosamente affermata, di limiti e confini. È da supporre anche che gli agenti, a questo punto ormai societari, che hanno costituito le categorie - caste, classi, affiliazioni - portatrici del potere nell'accezione attuale siano stati, all'inizio, gli elementi più validi, più robusti, più abili o più autorevoli (distingue­ remo più avanti tra autorevolezza e autorità sia di uomini che di donne) e che siano stati loro assegnati o si siano attribuiti compiti di difesa, di distribuzione più o meno coattiva delle mansioni, determi­ nazione e sistematizzazione delle attività produttive, principalmente agricole, e di fabbricazione di arnesi, strumenti, armi ... A un altro insieme d i componenti d i quella che a questo punto può senz'altro definirsi società, è ipotizzabile sia stato assegnato o, ancora una volta, sia stato autoattribuito, il compito di interpreta­ re i segni del cielo, della terra, delle acque, della vegetazione, della fauna. A un altro insieme ancora sarebbe stato riservato il compito di dilatare l'ambito dell'intorno, considerato proprietà esclusiva di lO

INTRODUZIONE

quella particolare versione di società, vale a dire l'attività bellica consistente nella conquista di nuovi territori da sottoporre a sfrut­ tamento e nella sottomissione di altri esseri umani e animali già addomesticati, oppure delle zone di pascolo o predazione di anima­ li ancora selvatici. Questa breve premessa ne comporta, e anzi ne presuppone, un'altra: l'affermazione iniziale e coeva di stanziamento, agricoltura, invenzione delle divinità, alle quali va senz'altro aggiunta brama di potere e accettazione del potere stesso da parte dei sudditi. Contemporaneamente all'affermazione del potere inteso come struttura gerarchica di sopraffazione - a proposito della quale più avanti sarà necessario soffermarsi sul significato di sadismo e maso­ chismo intesi in un'accezione sociologica, non già strettamente ses­ suale - è andata affermandosi l'economia, cioè la produttività agri­ cola e tecnica che esigeva, come ancora oggi, divisione del lavoro, assegnazione prescrittiva delle mansioni, distribuzione programma­ tica di risorse e strumenti. Allo stesso modo, i presunti rapporti con le divinità, una volta affermata la loro "reale" presenza (non dunque una presenza soltan­ to supposta, bensì proclamata, imposta, dogmaticamente prescritti­ va), in altri termini una volta operata la scissione tra aldiqua e aldi­ là, tra mondo delle concretezze terrene e sfera metafisica trascenden­ te, vale a dire zona del sacrum, la scissione in questione non poteva non trasformarsi in religione vera e propria, darsi insomma una struttura, una gerarchia, obbligatorie credenze, un sacerdozio, rego­ le cultuali da seguire con rigida esattezza, un pantheon. A conferma della contemporaneità dell'affermarsi di potere come gerarchia, di religione come strutturazione del sacrum e di guerra, è facile notare che quest'ultima non poteva venire in essere senza il duplice strumentario del potere e della religione. Il primo, perché assegnava ai guerrieri, che in tal modo diventavano soldati obbedienti a comandanti, i mezzi e gli uomini (a volte anche le donne) con cui trasformare la violenza, sempre esistita e inelimina-

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bile in ogni collettività umana, ma non ancora diventata strumen­ to consapevole - cioè grammatica e sintassi della violenza -, in sistematica organizzazione e finalizzazione della violenza stessa; la seconda, la religione, era altrettanto indispensabile in quanto giu­ stificava e legittimava, come del resto accade ancora oggi, l'azione bellica. D'altra parte, il potere non avrebbe avuto stabilità, durata e tra­ smissibilità senza l'opportunità e necessità della guerra e senza la supposta approvazione e autorizzazione della divinità. In altre paro­ le, una volta diramatesi le tre componenti iniziali del dominio, potere, religione e guerra, esse si sono condizionate, rafforzate, con­ validate a vicenda. Questo libro non aspira alla sistematicità. Il lettore può anzi sal­ tare a piacimento da un paragrafo all'altro, l'autore confidando di aver messo in opera, più che un testo, una sorta di montaggio (in senso cinematografico) in cui tout se tient. Rifuggo dai modi dell'ac­ cademia, e ho cercato di evitare designazioni troppo rigorose, atte­ nendomi, nei l imiti del possibile, al presupposto che tutto è simbo­ lico ma, dal momento che un saggio (per restare alla ben nota, tanto deplorevole quanto difficilmente evitabile, classificazione degli scritti in generi) pertiene alla logico-discorsività, mi è stato gioco­ forza servirmi di rappresentazioni. Con il rischio del letteralismo ma con la cognizione che la Parola, come il simbolismo, punta al silen­ zio, al linguaggio nascosto nel linguaggio. La conseguenza è una frammentazione in paragrafi di varia lunghezza, obbedienti a un ordine fluttuante. Grosso modo, l'esposizione si articola in un Prologo e tre Capitoli, quegli stessi del sottotitolo: potere, religione, guerra, con continui rimandi, e sovrapposizioni, dall'uno all'altro. Vasta parte è riservata, nella struttura generale, al p assaggio dal Paleolitico al Neolitico inteso quale universo della legge, della produttività, della tecnologia, della storia: il mondo in cui è prevalso il Discorso con 12

INTRODUZIONE

l'inerente tentativo di relegare mito e tabù nel ctonico. Il trionfo celebrato di continuo dal Discorso - senza che esso possa togliere di mezzo quello che chiamo residuo indecomponibile, ed è l'ombra del mito - è consistito nello stravolgimento della Parola, ciò che ha fatto dell'uomo d'oggi un parlante che rilutta a essere mitico, e tut­ t'al più ammette che lo siano gli aspiranti alla traduzione dal silen­ zio in parole. Chiamiamoli artisti - per quanto io ignori che cosa si designi con il termine arte. In questo libro si descrive dunque ciò contro cui il dominio -

potere, religione, guerra - si accanisce nel tentativo di nasconderlo, esorcizzarlo, reprimerlo, sopprimerlo. Ma l'uomo non potrebbe vive­ re neppure un giorno senza mito, senza follia, senza abbandono e senza sogno. Un paragrafo conclusivo di questa breve, nient'affatto siste­ matica esposizione, contrappone l'azione del dominio - cultura della morte - all'altra dimensione che è la possibilità, solo accenna­ ta, solo intravista della gioia (escludendo di poterla tradurre nei tetri ritmi militareschi della marciante Gioia dell'inno conclusivo della Nona di Beethoven) . Parola È senza origine, è originaria. È senza rimando a una real­ tà extralinguistica. Non è inscrivibile nel sistema del signifìcabile e nel principio di padronanza. Non c'è padronanza della parola esercitata attraverso il linguaggio. Non valgono le categorie della logica classica (tempo, spazio, luogo, non-contraddizione) . Discorso Il Discorso è ciò che inscrive la parola all'interno di un sistema che presume l'esistenza di una causa prima. Si ha così Discorso archeologico, speleologico, sintattico-grammaticale, lette­ rario, editoriale, eccetera. Il Discorso si fonda su alcuni cardini che riguardano il terzo escluso, il principio di non-contraddizione.

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Parola La Parola è mistero, sfugge alla presa, soprattutto a quel­ la, continuamente, testardamente tentata, della linguistica. Poiché non è possibile una padronanza del linguaggio, non abbiamo facol­ tà, capacità, competenza che ci faciliti il percorso, restiamo conse­ gnati al viaggio, impervio, di esistere in combutta con il mito. Che il Discorso si sforza di mettere al bando. E anche per questo il Discorso è una costrizione, una catena di cause ed effetti che pre­ tende di imporre l'adesione a una coerenza precostituita, ricondu­ cibile a un sapere dato in partenza. Il Discorso presuppone un'ori­ gine al di fuori della Parola, nutre la speranza di trovare in un'inva­ riabilità pre-Babele la conferma di una lingua adamitica, il germe iniziale e la scaturigine dell'origine dell'universo dalla quale far dipendere la genealogia del bene e del male, dell'aldiqua e dell' aldi­ là, del mondano e del divino. Il Discorso è gnosi, episteme, funera­ ria riduzione all'uno.

Mi rendo tuttavia conto che è difficile intendere che è ciascun atto di parola in quanto tale a essere originario e che il nostro esi­ stere in esso si situa. Essendo impossibile dare in poche righe di aggiunta a un testo (comunque inconduso e inconcludente) una definizione esaustiva del termine Discorso perché riguarda quanto è già stato elaborato in filosofia e nella logica classica, mi limito a pochi accenni, alter­ nando e contrapponendo Parola e Discorso. Parola Il termine deriva dal greco

parabàllo, io lancio; donde

parabola, discorso per similitudine: "lancio" parole usate come discorso per avvicinarmi come un bersaglio alla Parola che mi flui­ sce dentro. Discorso Il trasporto di un oggetto, la parola da un ambito lin­ guistico a un altro, da una cultura a un'altra, è possibile. Si chiama traduzione. Permette di fornire oggetti, cioè testi, approvati dal-

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INTRODUZIONE

l'editoria e dall'accademia. Il traduttore lavora per la traduzione, in una di quelle attività senza le quali morirebbe di fame. Parola Persino il bambino traduce. La traduzione è universale e perenne. Il bambino balbetta, e l'informe balbettio dev'essere trasla­ to in termini indicali per rendere possibile la comunicazione in questo o quell'ambito di parlanti. È come se tutti quanti fossimo sulle rive di un fiume nel quale fluiscono le parole; immaginiamo­ ci di essere pescatori sulla sua riva, intenti a trarre le parole, che sono quelle non volute, non programmate, le stesse Parole del sogno (il fiume è a livello inconscio, per usare un termine della psi­ coanalisi), a ripulire le parole e a metterle in circolazione. È questo il principio dello scambio anche economico. Discorso Ma nel bambino c'è una lingua più profonda, un lin­

guaggio prenatale, tale che i dispersi sulla faccia della terra, costret­ ti dai diversi contesti in cui sono alle prese - baobab anziché quer­ ce, tigri anziché elefanti, mari anziché fiumi - gli esseri umani si sono dati designazioni diverse. Tuttavia, essi tendono a tornare all'origine, cioè a ricuperare una lingua universale con cui comuni­ care a tutti i livelli e ovunque. Parola Questo significa l'uniformità, l'omologazione, l'identifi­ cazione. Un nome, un codice di riconoscimento per tutti, e depo­ siti di conoscenze accessibili a tutti. Discorso Ma dicendo "io", io sono in quanto io. A furia di ana­ lizzare si scopriranno le strutture complesse, e in realtà semplicissi­ me, che stanno alla base del linguaggio naturale. Babele, insomma, prima della discesa del dio geloso dell'umana unità, e che ha distrutto uniformità e identità. Il pensiero infatti ha un'esistenza reale anteriore o esteriore alle parole.

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Parola Non ci sono oggetti che non siano stati prima denomi­

nati, inventati verbalmente o figurativamente o musicalmente per­ ché esistano. Noi-Parola muoviamo e trasformiamo il mondo­ Parola dopo averlo istituito. Parliamo perché non parliamo della Parola. La parola-tempo per noi-Parola abitanti della parola-scrittà (essendo impossibile separare la città dalla scrittura e la scrittura dalla città) si svolge linearmente perché la scrittà si svolge linear­ mente. Tempo sintattico, in successione orizzontale o verticale, non paratattico come le figure - in disordine, per noi - spesso sovrap­ poste l'una all'altra, delle grotte e dei ripari sotto roccia, prima della parola-rivoluzione neolitica, della parola-agricoltura, della paro1a­ apotr6paion contro l'abisso, la sylva, la selvaggeria ciclica o addirit­ tura senza topoi, la parola-uomo casualmente itinerante. Discorso Anche i selvaggi usano i tempi verbali, danno ordine

al discorso, distinguono passato, presente e futuro. Parola La memoria si plasma sull'esempio del passato del verbo­ parola. È il quando questo-questa ha creato il mondo. Non dal nulla, che è parola, ma appunto dalla Parola che si staglia nel tutto-nulla. Discorso Ma è la psicotecnica (psicoanalisi e psichiatria) che fa

risorgere il ricordo. Parola La psicoanalisi classica (ormai superata) parte dal presup­ posto che il tempo sia una realtà concreta. Lo psicoanalista e più ancora lo psichiatra "classico" è uno storico, cioè un traduttore (per lo più pessimo, dal momento che pretende che il "matto" si espri­ ma secondo i suoi cliché psicotecnici) che aspira al letteralismo. Discorso La storia serve a orizzontarci nel mondo, e lo storico ricerca attendibili documenti, verbali o d'altro genere, e li presenta parafrasandoli.

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INTRODUZIONE

Parola La sua attività è quella stessa dell'interprete di sogni. Al

quale il sognatore riferisce ciò che ha udito, visto, toccato, gustato, annusato, ma limitandosi - altro non può fare - ai fatti, alla crona­ ca. Manca, in quel suo riferire, la forma, che è irriferibile. Discorso La funzione del linguaggio fu e sarà sempre la stessa. Parola Nessuna parola resta inalterata nei tempi da essa stessa

istituiti. Nessuna parola, nessuna lettura, nessuna traduzione po­ tranno prescindere da questi presupposti. I sinonimi, intesi come perfetti equivalenti, non esistono. Discorso Luomo è continuamente alla ricerca del senso, ed è questa la premessa e lo stimolo per una possibile salvezza. Parola La salvezza, se mai esistesse, sarebbe una rappresentazio­ ne della disperazione. È comprensibile l'esigenza intima di ritrova­ re il nucleo del mondo, ma la condizione in cui viviamo ci rivela che la questione del senso del mondo è negata persino a livello scientifico.

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PROLOGO Il mitico e il parlante

Noi siamo Parola. Siamo nella Parola. Parola sono i nostri pen­

sieri, che sono dialoghi con noi stessi; Parola i nostri gesti; Parola tutte le nostre forme di comunicazione interiore (con le varie "per­ sonalità" che ci compongono o scompongono) o esteriore; Parola le figurazioni, i canti, le danze; Parola la scrittura: Parola verbale, dipinta, recitata, eseguita, trasferita, cioè tradotta, dal dialogo inter­ no alla sua ripulitura, correzione, revisione, per essere messa in commercio come rappresentazione figurata o gestuale oppure paro­ la verbale, insomma presentata in maniera accettabile agli altri, a loro volta maschere dell'Alterità. Scongiuro. A giudizio dei semantologi la parola è sempre usata. Lantisemantologo si avvede di primo acchito (non per niente fabu­ la, scrive, danza, dipinge, compone musica, trova fruttuoso quel­ l'ininterrotto racconto che è il sogno) che è la parola a usare e che sostenere il contrario attiene alla metafisica.

Con la metafisica ha attinenza l'invenzione della città che è, pro­ priamente e innanzitutto, apotropaion, scongiuro contro i metafisici terrori della sylva, il non edificato, il non programmato (e program­ mabile solo in prospettiva), il selvatico, il disordine, il caotico. Che è, dichiaratamente, luogo della sicurezza, ed è il luogo della scrittu19

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ra, il l uogo del testo. Scrittura, cioè jèster Schrift, testo ovvero testi­ mone saldo, incontrovertibile della verità, al quale non si sfugge, diventato com'è pietra, fatto oggetto. Città, sede del letteralismo. Città che subito si sdoppia: è una forma simbolica ma anche un insieme di norme e regole, e si avvia subito a diventare organismo, riferibile al biologico, e manufatto. È da questa crisi originaria che deriva l'occultamento e l'eclisse della città come reticolo di desideri mentre sul proscenio si fa, occupandolo in apparenza senza residui, la città macchina; ma è solo un'illusione ottica. La città non cessa mai di essere un non-io che parla e decreta la crescita, che impone le vicende storiche e l'estinzione di questa e altre città. Il potere ha un volto non poi tanto enigmatico. Ha tanti volti quanti ne ha la città. Ma nella sua molteplicità, la città contiene in sé le ragioni dell'oblio. Al pari della moneta, dello scambio con un mezzo calcolabile che è posto in essere dalla città, in origine forma simbolica; al pari dell'oro, metafora della regalità, diventato metro della ricchezza che tutto acquista, tutto può far suo, tutto ridurre; al pari della parola usata per comunicare, che si identifica allora col mezzo di scambio, e poi col denaro, la città dimentica le proprie origini, che sono non solo quelle di luogo di raduno e facilitazione degli scambi, ma anche e soprattutto di fungere da esorcismo con­ tro la colpa commessa, colpa originaria e inevitabile, l'abbandono della Madre o Antenata (Ituri, antenato/a, è detta dai pigmei la foresta) : esorcismo contro la selva, il luogo non soggiogabile, l'in­ calcolabile che sfugge alla previsione. Per questo la città si dà mura, non solo contro i nemici, venuti da altre città, abituati anch'essi al saccheggio del suolo - e perché non anche dei centri abitati? - ma anzitutto per affermarsi quale luogo della salvezza dai terrori del non cartografabile, mappa dei tentativi di non perdersi nel mondo. Ma ecco che ci si perde nella città. Vicoli, cunicoli, viali stermi­ nati, luoghi malfamati e pericolosi, sentine del vizio, spazi deliran-

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PROLOGO - IL MITICO E IL PARLANTE

ti, stratificazioni, crescita in senso verticale e dunque verttgme, alloggi da capogiro e luoghi panoramici dai quali si tenta di rico­ struire la topografia urbana: la città è una moltiplicazione dei peri­ coli che vorrebbe escludere. La città che si suppone esorcismo con­ tro l'informe, l'insensato, il proliferante che sgorga improvviso, che fruscia subdolo, che non ha confini; la città chiusa da mura o descritta e iscritta in un pian de ville che è un plan de vie; la città che pretende di rifare il cosmo all'interno di limiti scelti, che si propo­ ne quale riassunto del cosmo, specchio rassicurante del cosmo, è in effetti uno specchio frantumato: mille specchietti, mille cosmi rove­ sciati. Il labirinto con il filo d'Arianna, tale vuole essere la città. Ma essa non sfugge alla labirinticità; anzi, la moltiplica e la esaspera.

Da Leon Battista Al berti in poi, l'architetto è un programmato­ re, evoca a sé tutto lo spazio dell'immaginario, assurge a demiurgo della propositività e positività, della preveggenza, veggenza e reg­ genza, è il portatore dell'utopia e del riformismo, ignora ormai il pericolo insito nella creazione parallela a quella originaria. I.:archi­ tetto, una delle ipostasi del codificatore, si immagina titanico, e titanica vuol essere l'opera che edifica. I.: architetto-codificatore continua l'orgoglio del fondatore e del sovrano. La città, luogo della sicurezza, luogo della scrittura, luogo del testo. Scrittà, dunque. Nulla deve sfuggire alla programmazione, e quanto non è program­ mabile viene relegato fuori dalle mura. Il delirio della Sibilla non ha più posto nella città. La forma urbana medievale è caratterizzata dalla cinta di mura: non solo e non tanto per motivi di difesa, quan­ to per bandire da sé, metaforicamente, l'informe. Per inciso, agricoltura e industria (fatte nascere o sviluppate, e comunque monopolizzate dal potere, impossibili senza il potere, senza la divisione del lavoro) hanno per effetto di far crescere la complicazione in basso, pianura nella quale si è alle prese con innu­ merevoli problemi d'ordine pratico (aratri, fienagione, semine,

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parassiti, canali di irrigazione; manutenzione, fresatura, guida, con­ trollo, bullonatura, conti da pagare . . . ), rafforzando la stabilità delle vette del potere (non di un potere: del potere) ; agricoltura e indu­ stria sono di per sé l'alienazione (tale non è la fatalità di nascere, vivere, perire, avvertirsi sessuati con la "mancanza d'essere" che ne deriva e l'aspirazione all'ermafroditismo come negazione dell'Altro - il desiderio di avere una fica se si è maschi, un cazzo se si è fem­ mine, desiderio che nulla ha a che fare con l' di cui fabula Freud): intendiamo infatti riferirei all'alienazione indotta, intesa come espropriazione. Ed è certo maggiore l'alienazione dell'indu­ stria rispetto a quella dell'agricoltura: il potere ne è reso infatti ancora più saldo, inamovibile, ineliminabile, dalla stessa complica­ zione dei processi produttivi. Il mito si dà così vesti "naturali"; si identifica con il sole, con la luna, con il mare e le loro vicende, ma non è affatto il ricalco di questi grandi fenomeni celesti o terreni. Il mito-tabù è il sorgere dentro di noi. Cultura è sinonimo pertanto di mito-tabù. Ogni atto umano esprime il sorgere e ogni atto umano lo blocca e cancella, come ogni parola blocca e cancella, cristallizza e uccide, il pensiero­ parola preverbale. Ma, come non si può non parlare, così non si può non dire mito e tabù (o recitarli, o viverli) . Il mito-tabù fissa­ to, congelato, espresso, è il germe del potere; la parola è la poten­ zialità del potere. Dove accada che lo sciamano possa ridarle fluidi­ tà, ricondurre il senso al nonsenso, la potenzialità non si realizza; ma per questo occorre un gruppo "minimo", in cui lo sciamano­ memento, lo sciamano che vive il mito-tabù per "incarico" della comunità, sia sempre visibile. Appena lo si nasconde - appena la società supera una certa soglia quantitativa, numerica, quella per cui lo sciamano si eclissa - il potere "esplode". Così accade che, in certe fasi protostoriche, si formino e si disfino società gerarchiche, come ad esempio quelle mesoamericane almeno fino a epoca tolte­ ca e olmeca. Laggregazione numerica è ancora insufficiente a pro-

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PROLOGO

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IL MITI CO E JL PARLANTE

vocare !'"esplosione" del potere seguita da un'inarrestabile espansio­ ne. (Si noti che questa ha la tendenza a diffondersi, a "infettare" gli ambiti circostanti. Il potere è diffusionistico, tale per imitazione o imposizione.)

È vano il tentativo di pensare a un al

di là della Parola. Ci si

imbatte sempre e comunque nella Parola, nostra felicità, nostra libertà, nostra schiavitù, nostro approdo. Il religioso monoteista che cerchi dio si arenerà sulla parola-dio; il buddista che cerca di son­ dare il mistero del samsara, la reincarnazione, la ruota degli esseri, e di superarla attingendo al nirvana, si imbatterà nella parola "essere" con l'aggiunta di sostantivizzazioni, come karma, Grandi Esseri, eccetera, e finirà per trovarsi di fronte a nomi oltre ai quali potrà magari illudersi di andare, ma solo servendosi di una successione di altre parole per giungere all'apparente conclusione della serie anche se in realtà le parole non hanno numero - cioè alla parola "fine"; e il politeista non potrà andare oltre la sfilata di dèi, semi dei, spiriti che compongono il suo pantheon o il suo Olimpo e che sono nomina insuperabili.

Lo ripeto: è la Parola a istituire gli oggetti fisici (albero, pietra, nuvola, strumento.. .), non gli oggetti fisici a replicarsi nella Parola ver­ bale, dipinta, danzata, cantata, mimata. . È un concetto sul quale è opportuno insistere di continuo perché è centrale nello svolgimento del mio discorso. Il capovolgimento della Parola significò che l'oggetto fisi­ co fu interpretato quale conforma della Parola-usata. .

È però innegabile che ben pochi accettano l'inesorabile impos­ aibilità di scoprire quale sia la fonte di luce che, nella caverna della favola platonica, proietta ombre sul fondo. Le religioni, al pari della . acienza, vogliono infatti andare al di là: le religioni, descrivendo divinità e spiriti e imponendone il culto; la scienza, in primo luogo cosmologia e la cosmografia, pretendono per via unicamente 23

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razionale - e senza dunque paterne fornire una validazione - di per­ venire al punto zero, il momento del Big Bang che avrebbe dato ori­ gine all'universo. Le religioni non meno della scienza (in fin dei conti loro legittima rampolla) mirano a definire la creazione, cioè l'edificazione dell'universo a partire dal nulla, per opera di un'enti­ tà estranea - un dio o un gruppo di dèi - o implicita, nel senso che "la creazione è la creazione". Al pari della storia - che più avanti defìniremo - la scienza è genealogica. «lo Credo in Dio padre onnipotente>>, recita il Credo cristiano.

Impossibile, per i postneolitici, concepire una divinità suprema che non sia follocrate. La speranza che esista una certezza ultima, e che la traduzione sia giustificata e valutata col metro di misura della favolistica inva­ riabilità pre-Babele, è solo paura del labirinto senza via d'uscita che è la Parola. La morte non è che lo spegnersi della parola, e dunque della speranza di accedere all'Alterità che è simboleggiata dall'altro, oggetto animato o inanimato. Al pari degli antichi stoici, l'odierno semantologo ritiene che tutto l'accadere sia preordinato da una provvidenza o da un destino o da una norma, comunque la si voglia definire, e quindi che le soli­ te, magnifiche sorti marcino progressivamente verso lo svelamento definitivo. Il semantologo non si arrende a nessun racconto mitico, lo considera un indovinello, tutt'al più uno strumento, non già una parola che parla e non certo nella forma della logico-discorsività, id est della enunciazione esplicativa; pensa che la Parola (parlata, can­ tata, dipinta . . . ) , che è il mito, la si possa spiccare dal ramo, che essa sia ciò che si pensa prima della parola stessa, e dunque che la si possa rigirare tra le mani, farla a fettine, e le fettine metterle sotto la lente del microscopio. Insomma, non sa distaccarsi dal metodo dell'Occidente, della Scuola, del Sapere. E non si accorge che la parola discorsiva è la salma, la spoglia, lo scheletro della Parola che • 24

PROLOGO

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IL MITICO

E

IL PARLANTE

scorre, irrefrenabile, in tutti, in me e in te, la parola che te pensa, che me parla. Anche Benedetto Croce ha anteposto pensiero a parola. Ma la parola è increata. Non ha origine. È essa a creare. Non c'è un al di là della parola: l'al di là avviene in quanto parola. Aggiungo che la Parola nelle sue metamorfosi inventa le proprie trappole e scissioni. Veste i panni della follia, si improvvisa perversione, si atteggia a filo­ sofia, ben sapendo - e lamentando la propria incapacità di uscirne - che sono altrettanti frammenti di essa stessa, della Parola. Ciò che . l'auspicata completezza della parola - quella che è un frammento della parola, il frammento etnografico che descrive e cataloga chiama "parola poetica delle origini" , non sfugge a codeste prevari­ cazioni operate su se stessa dalla Parola impaurita di fronte all'idea del suo stesso spegnersi, cioè della morte, dell'incapacità di desi­ gnarsi, di oggettuarsi. Ed essa si è fatta agricoltura, industria, com• mercio, produzione: per possedere designazioni, per ancorarsi a parole-oggetti. La Parola è pertanto autoinganno, menzogna, sra­ gione, illusione e delusione, perenne fluidità e sfuggevolezza, conti­ nua metamorfosi, ed è per questo che si traduce ben sapendo che nulla è traducibile, che si scrive ben sapendo che nulla è scrivibile. � mito. Tutto però si traduce, cioè si fa parola che trasferisce se stes­ sa, restando fluidità e sfumatezza, oppure trasformandosi, masche� randosi da oggetto: per scoprire, subito dopo o a distanza di anni, che la sfumatezza di allora non è abbastanza duttile adesso o che quell'oggetto è ormai inservibile. E tutto, per questo, è inesorabil­ mente racconto: avventura della Parola nel suo farsi oggetto o rifiu­ tarsi all' oggettificazione; e la Parola è dunque presenza o assenza, autoaccettazione o autorifiuto. E ciascun oggetto è racconto, trac­ ciato di un nostos, di una fuga della Parola dalla Sirte sciagurata, da ·Scilla e Cariddi, da isole abitate da imprigionanti dee e ninfe, per alla sicurezza banale di ltaca, e poi riprendere al più il mare onde non restare arenata, confitta nella reificazione. c'è un residuo indecomponibile, che nessun tentativo di cri·.

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potrà mai risolvere: nessuna legge, e dunque nessuna religione, potrà mai cristianizzarlo o comunque convertirlo. Nessuna legislazione riuscirà mai a chi udere in una definizione la traduzione, che è perennemente all'opera: ininterrottamente tra­ sferiamo parole, gesti, forme, dal flusso che ci percorre senza soste alla comunicabilità che comporta la riduzione del flusso a poche istanze, ben inferiore al profluvio del dialogo con no i stessi . Va però detto, a questo proposito, che l'Essere si rivela nascondendosi, e più avanti dovremo tornare sul concetto. La Parola, inevitabilmente sospesa nel vuoto in quanto fìne a se stessa, in quanto nulla designante ma istitutrice di rappresentazio­ ni, di se stessa prigioniera, ha partorito l'anti-Parola. stallizzazione

«Dio disse: "Sia la luce!"» (Genesi, 1,3). Incapaci di non attribuire un'origine alla Parola, le religioni (la cri­ stiana pars pro toto) inventano comunque un'o rigine e la collocano in una dimensione per principio incontestabile. Bisogna anche supporre che la Parola si sia, in un certo senso, i mpaurita di se stessa, che si sia sentita appunto sospesa nel vuoto, non bastandole avere inventato i mammut dipinti sulla parete della grotta di Rouffignac, gli orsi, i tchurunga australiani, gli struzzi afri­ cani, i "pitoti" della Valcamonica, gli stambecchi che il paleolitico itinerante, dedito alla venagione, lasciava a memoria del suo passag­ gio o temporanea dimora, essendo egli insieme homo fober, homo ludens, homo my thologicus, costruttore di utensili, dedito alla pit­ tura, alla danza, all'affabulazione, inventore di mitemi e proiezioni della propria presenza nel mondo.

È stato più volte ripetuto che le ideologie e le credenze non sono suscettibili di fossilizzazione, e ne conseguirebbe l'impossibilità di pro­ varne l'esistenza presso i Paleantropi, gli "uomini antichi': i nostri pro­ genitori preistorici. Parecchi studiosi prefèriscono pertanto non dire nulla sull'argomento, limitandosi a ricostruire la vita materiale degli • 26

PROLOGO - IL MITI CO E IL PARLANTE

uomini del Paleolitico sulla scorta dei reperti. Ma è un atteggiamento che rischia di incoraggiare l'opinione che all'epoca l'attività spirituale si limitasse alla conservazione e alla trasmissione della tecnologia. Non è comunque ammissibile che l'uomo di allora fosse soltanto homo fober, cioè costruttore di oggetti: doveva, non poteva non essere anche homo ludens, cioè dedito anche ad attività non esclusivamente pratiche, al divertimento di vario genere e ad attività "artistiche': e non poteva non essere anche homo mythologicus, cioè "creatore"- in quanto Parola- del mondo. Stanno a dimostrarlo, se non altro, lefigurazioni di vario gene­ re che ha lasciato sulle pareti delle grotte e dei ripari sotto roccia, oltre ai prodotti dell'arte mobiliare. E ci inducono a pensar/o tale le analogie con le culture dei residui popoli cacciatori, che in comune con i nostri antenati hanno per lo meno la tendenza alla rappresentazione pittorica rupestre, molte pratiche fonerarie e il manifèsto uso di strumenti non dissimili da quelli usati migliaia di anni fo dai nostri progenitori. Gli sparuti popoli cacciatori e raccoglitori odierni possono essere definiti come popoli preistorici o preneolitici, sopravvissuti fino a oggi senza agricoltura e senza animali domestici foorché cani, anche se esi­ stono casi che sono quasi sempre eccezioni. Così per esempio gli india­ ni Tiglit (costa nordoccidentale dell'America Settentrionale) coltivano o almeno coltivavano fino a tempi recenti il tabacco, considerandolo però non già un alimento o un prodotto commerciale, bensì una droga; e alcuni gruppi di Ainu (isola di Hokkaido nell'arcipelago giapponese) da qualche decennio coltivano il miglio che serve a preparare la birra, anch'essa come tutte le bevande inebrianti da considerare più droga che alimento. Per lo meno questa assenza di agricoltura accomuna i caccia­ tori odierni ai Paleantropi. È dunque lecito, ripetiamo, proporre ana­ logie, pur con il dubbio che si possa riuscire a ricostruire oltre limiti ristretti il modo di vivere (e dunque di pensare) dei nostri antenati.

�·

La Parola paleolitica è stata stravolta, suppostamente spiccata dal ramo, affermata ciò che si presunse esistere prima della Parola, e pertanto oggetto da rigirare tra le mani, da fare a pezzi, da reifìca27

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re;

e la Parola sarebbe così stata ridotta esclusivamente a verbo, non più i nvenzione ma creazione in senso teologico - cioè supposta­ mente apparsa dal nulla per intervento esterno dell'ormai concepi­ ta divinità - Cosa con la quale si potesse descrivere e riprodurre l'esistente. La Parola avrebbe così cessato di essere l'istituzione del­ L' albero, del fiume, del giorno e della notte, per diventare supposto specchio, eco, ricalco della realtà. Perché gli uomini si sono stanziati? Sull'evento consistito nel­ L'assunzione da parte degli uomini del controllo dell'ambiente natu­ rale, atteggiamento che ha cambiato radicalmente La Loro e la nostra posizione nel mondo, sono state avanzate molte ipotesi. Si è tratta­ to di un processo recentissimo se commisurato sulla scala della pre­ senza antropica sulla terra: ha avuto luogo infatti non più di 1 5 .000 anni fa, nella cosiddetta Mezzaluna Fertile, la regione del Vicino Oriente che comprende Egitto, Anatolia Meridionale, Palestina, Siria e una parte della zona compresa fra il Tigri e l'Eufrate.

«Il Signore gradì Abele e la sua ojfèrta, ma non gradì Caino e la sua ojfèrta» (Genesi, 4,4-5). Il dio, che è ilpotere neolitico, apprezza il nomadismo e condanna la stanzialità agricola: Caino ara, stupra la terra (che si vendica dan­ dogli scarsi, foticatifrutti), ma non può non assolverlo perché è lui stes­ so frutto della stanzialità che ha inventato la divinità («Il Signore impose a Caino un segno perché non lo colpisse chiunque l'avesse incon­ trato» Genesi, 4, 15). E Caino difotto prospera e diviene costruttore di città (Genesi, 4, 17). Gli aspetti positivi della rivoluzione neolitica. Le risorse diven­

nero regolarmente prodotte anziché restare legate all'aleatorietà della loro spontanea presenza nell'ambiente, e fu dunque possibile accumulare scorte in vista di periodi di scarsa produttività vegetale e animale. Si ebbe pertanto, rispetto al Paleolitico, una disponibili­ tà di quantitativi maggiori di prodotti alimentari.

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PROLOGO

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IL MITICO E IL PARLANTE

I..:allevamento sistematico degli animali, prescelti inizialmente

specie gregarie e itineranti, assicurò fin dagli esordi del Neolitico certa padronanza dello spazio, ripresa, sviluppata e moltiplicadalla pastorizia, sinonimo di nomadismo. Alla sylva, come fu poi dai romani la natura selvaggia, si sostituì la crescente v"""'v"'" dei suoli. Ebbe inizio il processo di conquista e coloniz­ R!i!iir.cu.-•v•J•c degli spazi, dapprima i viciniori, successivamente quelli più e, in tempi a noi prossimi, persino oltre mari e oceani. Il graduale passaggio dai piccoli villaggi del Neolitico iniziale ad ··altri di ben maggiore estensione, alle città e alle conurbazioni, si accompagnò alla sostituzione del mito-tabù con la metafisica (si veda il Glossario) . La metafisica consistette essenzialmente, lo ripe­ tiamo, nella convinzione che la Parola potesse diventare sempre usata, anziché essere Parola-in-cui-siamo. La metafisica vuole per principio ignorare che noi siamo mitici e solo secondariamente par­ lanti, come a dire che il perenne scambio che abbiamo con noi stes­ si cioè con l'Alterità - e che precede la comunicazione plurivocale - non è una scelta ma è parte integrante e anzi condizione del nostro esser-ci inteso come parte, frazione, ombra dell'Essere. La metafisica comportò l'invenzione della scrittura. La Parola usata venne intesa quale cosa, oggetto di scambio e anzi quale esor­ dio e modello iniziale dell'attività economica, dapprima nella forma di scambio, di baratto via via accompagnato da lucro in sostituzio­ ne delle non-regole precedenti, del periodo cioè in cui la comuni­ cazione materiale prendeva la forma di dono senza l'obbligo della reciprocità, anche se questa era ovviamente bene accetta. Tabù. Il noto antropologo francese Lévi-Strauss vorrebbe ricon­ durre il tabù a un primum, e sarebbe la proibizione dell'incesto a sua volta riconducibile alla necessità dello scambio delle donne. La proibizione dell'incesto sarebbe «una regola di reciprocità», destina-

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ta

a escludere l'endogamia e a garantire l'esogamia. In ultima anali­

si, lévi-Strauss riduce il tabù al proposito di evitare che ci si unisca tra congiunti. Il tabù viene dunque da lui riferito a una regola, che pertanto preesisterebbe al divieto. Ma l'antropologo dimentica che

i faraoni egizi sposavano la sorella, o addirittura la madre o la figlia, che lo stesso facevano i sovrani incaici, e che l'incesto è largamente praticato in molte vallate alpine che, d'inverno, restano bloccate, isolate dalla neve. Dimentica anche che le madri degli aborigeni centroaustraliani, in particolare i Pitjentara, iniziavano i figli maschi alla sessualità, ponendosi su di essi a cavalcioni nella posi­ zione detta alknarintja, e che tra i Kaingang dell'Altipiano brasilia­ no la prassi era, e forse è ancora, missionari permettendo, altrettan­ to diffusa che tra gli sparuti gruppi abitanti le zone interne della foresta amazzonica. Il tabù dell'incesto "funziona" insomma per conto proprio: il tabù copre tutto ciò che allude alla simbologia del­ I' origine. Il tabù, al pari del mito, non presuppone affatto un'origine. Né l'uno né l'altro fanno di un'assenza una presenza. Non pongono domande, non forniscono risposte. Si rivelano, ecco tutto. Si pon­ gono quali riti di passaggio, insituabili cippi confinari attraverso i quali tuttavia si transita per ritrovarsi nell'aldilà e rientrare nell'al­ diqua. Sono, appunto, Parola: Parola che ci ritroviamo in bocca, in mano, nei piedi, nel pennello. Appena sbocciati, mito e tabù si affermano come perenne ripetizione, onda che viene a frangersi sulla spiaggia, non latrice di un senso definito e definitivo, ma sem­ pre sfuggente e tuttavia avvertito - come un sentimento, se si vuole - e allora il mito-tabù, verso e recto della medaglia, ci appare come un as if, un "come se", non tangibile ma avvertito e ineludibile. Come nostra origine, non di esso, il mito-tabù che origine non ha, che non è corso d'acqua da risalire alla sorgente, ma è corso d'acqua che, appunto, scorre, quel fiume sommerso di cui ho parlato sopra.

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P ROLOGO - IL MITICO E IL PARLANTE

L'incesto è uno dei luoghi deputati del tabù. E tale diventa a posteriori, quando non ci si accontenti di indicarne la presenza, ma 1i voglia sottoporlo a biopsia. Molti sono i luoghi deputati in cui il tabù, il senza tempo, il senza spazio, si manifesta, si evidenzia, mul­ tiforme Proteo senza un'unica faccia. Sono, per esempio, la morte, l'agonia, lo spargimento di sangue, la guerra, il sacrificio, l'erotismo perché in esso, con esso, ci si "perde", si smarrisce la propria presun­ ta individualità, e senza un nome ci si abbandona alla parola dei c:orpi, non meno molteplice di quella verbale, assai più eloquente di quella di scambio. Tabù è dunque la violenza in ogni sua manifesta­ zione, tabù il grembo materno, visto come luogo del cruento e lacrimante prorompere, è la breccia nel muro dentro la quale forse si celano le penne da restituire alla Fenice: luogo del manifestarsi iniziale della Parola-esserci. E che, in quanto tale, egregiamente simboleggia il nascere e il perire, l'apparire e lo scomparire.

«Tabù. Un sistema di proibizioni religiose e sociali, le più famose e fondamentali delle istituzioni sociali della Polinesia». M. Leach, J. Fried et alii, a cura di, Standard Dictionary of Folk/ore, New York, 1 949. Impossibile, per gli antropologi, non concepire il tabù come divieto religioso e sociale. Se il sovrano arcaico, e come lui il "selvaggio" , il "primitivo" - e anche il cosiddetto "pervertito" - praticano e recitano l'incesto, è, nel caso del primo, perché è immune dalle punizioni che il "sacro", il sito dell'introvabile origine, comporta per chi ne sfiora i confini, per chi lo aujhebt, per dirla con Hegel. Nel secondo caso, perché comunque il tabù è per essere superato, sbarra di confine che torna ad abbattersi appena si sia compiuto il rite de passage. Il tabù, il sen­ timento del nascere-perire, cioè dell'indescrivibile sgorgare e spro­ fondare della parola - quello che dai greci era denominato il Phanes, l'Apparso - viene facilmente tramutato, da assenza, in presenza, gli si fa assumere forma di legge, lo si esprime come proibizione o

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divieto. Va detto ancora che il tabù ha ovunque un interprete, ed è il mito, e sono la Sibilla e il suo portavoce. Il mito è l'altra faccia di un'unica medaglia. Dal punto di vista etimologico, il mito è, sì, racconto, mythos greco, ma il termine deriva, a quanto pare, da una radice indoeuropea, mn, donde memoria, mnemonico, mind inglese, e via dicendo. Il mito-raccon­ to commenta di continuo la continua aurora del tabù, ne decreta il tramonto e ne preannuncia il risorgere. E descrive o rievoca di pre­ ferenza le conseguenze dell'incesto, della guerra, la nascita (l' appa­ rizione, l'Epifan ia) , le avventure del pene e della vulva, il viaggio, il repentaglio. È per questo che tanto spesso assume la forma del mito solare - ma perché tenta di dar voce all'inesprimibile, all'indecidi­ bile, e predilige pertanto quei simboli esteriori che più immediata­ mente corrispondono alla ruota degl i esseri-parole vorticante den­ tro di noi. Al posto del mito-tabù con il Neolitico è intervenuta la prescri­ zione, il divieto, in altre parole la legge. Ogni legge si scriveva e si scrive, dapprima nella specie di semplici simboli, su lastre di pietra, su papiri, su tavolette di legno, cera, argilla, in libri, su fogli e scher­ mi, allo scopo sempre di farne un oggetto fisico.

Lo stanziale del Neolitico si suppose parlante e relegò in una duplice dimensione la Parola-parlato: un mondo estraneo, paradi­ siaco o ctonico, di dèi e demoni dotati di volontà propria e identi­ ficabili appunto con la Parola; e un mondo terreno ma non urilita­ ristico, quello in cui in processo di tempo i posrneolitici avrebbero confinato i cosiddetti artisti. Il processo di stanziarnento comportò l'invenzione del villaggio e della città, e soprattutto il passaggio dal modulo circolare (ciclici­ tà dei ritm i naturali, forma delle capanne, visione complessiva del

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PROLOGO

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IL MITICO E IL PARLANTE

mondo e dei suoi fenomeni) al modulo, oggi onnidominante, della "quadratità" che, va detto subito, non fu dettato da ragioni di pra­ ticità e comodità, ma fu inevitabile frutto di una diversa visione ·del reale.

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Gli svantaggi, a breve, a medio e a lungo termine, del passaggio ·dal Paleolitico alla rivoluzione neolitica. In primo luogo, l'istituzio­ .. ne della sfera della ratio, ritenuta lo strumento principe dell' affer­ mazione nel mondo, e della sfera ben delimitata - cittadella mura­ ta - del rimosso, dell'inconscio, dell'Es o come si voglia chiamarlo. Il mondo fu "civilizzato" e rimodellato dall'attività e dallo sfrut­ . tamento umani, al punto che oggi nulla più somiglia a ciò che 'd ovette essere un tempo la natura extraumana. Cosa questa che comportò la distruzione sempre più rapida delle foreste, delle sava­ . ne, delle praterie, persino dei deserti e dei mari, per permettere l'in­ . 1taurazione di campi, vie, fabbriche, centri abitati, apertura delle risorse idriche al sistematico sfruttamento ittico, eccetera. Stanziamento, agricoltura, allevamento, industria e produzione sistematica, vale a dire frammentazione del reale in un'infinità di ! oggetti utilizzabili e contemporanea urbanizzazione, hanno pro­ mosso la moltiplicazione degli esseri umani. Se alla fine del Paleolitico su tutta la terra si contavano forse 200.000 esseri umani, oggi sono più di sei miliardi in rapido avvicinamento ai dieci e forse ' più, a quello che è generalmente considerato l'estremo limite sopportabile dalle risorse terrestri. :Lagricoltore e l'allevatore hanno dovuto conquistare il mondo anziché accontentarsi di ciò che veniva loro dato, e praticarono non

aoltanto la domesticazione, e dunque sottomissione degli animali, ma anche la schiavitù. Avevano e hanno necessariamente una visio­ ne gerarchica non solo della società, ma anche degli dèi e degli spi-

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riti. Erano e sono dediti a sacrifici, sia cruenti, sia simbolici (messa della religione cristiana) , non di rado umani , anche se per lo più animali (ancora oggi, nei templi della dea Kalì in India). Agricoltori e allevatori devono infatti "pagare" il loro stesso esistere agli dèi ai quali si co nsiderano sottomessi, partendo dal p resupposto che dal­ l'aldilà vengono vita e morte, buoni raccolti o carestie, pioggia abbondante o siccità... Anzi, si presume che nell'aldilà si nasca, nel­ l' aldiqua si viva e nell'aldilà si muoia. All'inizio, l'agricoltore ha concepito ancora il tempo come cicli ­ (eterno ritorno delle stagioni: non aveva una precisa visione "sto­ rica", di destinazione e di causalità) , organizzando comunque le sue attività in base a un rigoroso calendario. La fertilità della terra gli appariva simbolicamente solidale con quella della donna; la donna fu considerata responsabile dell'abbondanza dei raccolti, poiché "conosceva" il "mistero" della creazione in quanto capace di parto­ rire, e dunque di dare insieme vita e morte (il nuovo nato è desti­ nato comunque al decesso) e il nutrimento (latte, attività domesti­ che: la donna prepara da mangiare, custodisce la dispensa). Se in un primo momento si credette che la terra si ingravidasse da sola, per partenogenesi, con l'invenzione dell'aratro il lavoro agricolo venne assimilato all'atto sessuale, e dunque alla fecondazione della terra a opera di agenti esterni.

co

Il mistero della terra partenogenetica è però restato a lungo, come residuo, nelle società agricole: si conoscono, in tutte le reli­ gioni, decine, centinaia di madri vergini che vengono ingravidate da spiriti, angeli, dei, senza intervento umano (in Grecia, Era con­ cepisce da sola e dà alla luce Efesto e Ares) . Suppostamente nato dalla terra, l'uomo morendo tornava alla madre. Sul ritmo delle sta­ gioni, si costruì poi il ritmo dell'eterno ritorno, della continua rige­ nerazione del mondo dopo una catastrofe (morte sotto forma di diluvio, di apocalisse eccetera); il mondo rinascente era considerato

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PROLOGO - IL MITlCO

E IL PARLANTE

migliore del precedente, la cui rovina era stata generalmente causa­ ta da errori o peccati, commessi dagli uomini o dalle loro proiezio­ ni celesti o sotterranee, dèi superni o inferi. Nel Neolitico, trionfò il diritto del più forte. Cessò l'uguaglian­ delle società "selvagge" , in cui uomini e donne avevano e hanno uguali diritti; la società divenne maschilista, fallocratica. Ancora, mentre tra i cacciatori le ossa erano considerate il ricettacolo della vita, da quando, nel Neolitico, per gli agricoltori la terra assunse importanza fondamentale (da essa dipendeva la vita della società), furono le "ossa della terra" a essere considerate l'elemento stabile, eterno, indistruttibile. Le ossa della terra erano le rocce, i massi, e soprattutto le loro repliche erette dall'uomo: i dolmen, i menhir, i 1, betili, i cromlech e, a mano a mano che l'organizzazione sociale diveniva più complessa e che le tecniche si perfezionavano, le cosid1 dette costruzioni megalitiche. za

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È diffusa la convinzione che il passaggio dalla vita itinerante (caccia e raccolta) allo stanziamento abbia comportato un progres10. Rifugiati in vari angoli del globo, ancora oggi sussistono gruppi isolati e minacciati che vivono secondo il ritmo delle stagioni, in una condizione atemporale rispetto alla cronologia misurata dagli orologi. Vivevano e vivono meglio o peggio degli stanziali? I caccia­ tori hanno opposto ferma resistenza ai tentativi, ripetuti costante••"'"'nr.. nei millenni dagli agricoltori, di "civilizzarli" o di sopprimer­ fisicamente o almeno cancellare la loro cultura. Questi gruppi si unud.va.uu e si rifiutano di cambiare il proprio sistema di vita, e le •*RIOill ne sono evidenti: l'attività venatoria e la raccolta assicurava­ loro tutto il cibo (animali terrestri e marini, frutti e radici) di cui tvl'·v>, in Sonneville-Bordes, a cura di, La Préhistoire: problèmes et tendances, Éditions du CNRS, Parigi, 1 968 Arendt H., The Origins of Totalitarism ( 1 95 1 ) , trad. it. Le ongznz del Totalitarismo, Comunità, Milano, 1 967

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