Folklore, magia, religione

April 3, 2017 | Author: alessandrotrinca | Category: N/A
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Folklore, magia, religione - Carlo Ginzburg...

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carlo ginzburg Folklore, magia, religione

Sommario 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

L’Italia da evangelizzare Costruzione gerarchica e sopravvivenze magiche Laicato, riforma, eresie Gli ordini mendicanti Nuove devozioni e letteratura religiosa «Reformare deformata» La crisi del primo Cinquecento Gruppi riformatori e ripresa di antiche superstizioni La Controriforma Il nuovo ruolo delle campagne Chiesa e società nello Stato unitario Mondo cattolico e vita politica nell’Italia del dopoguerra

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Storia d’Italia Einaudi

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Da: Storia d’Italia, vol. 1, I caratteri originali, Giulio Einaudi Editore, Torino 1972.

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Prima di entrare in quella che è oggi la cittadina di Sutri, a un centinaio di metri dalla via Cassia, c’è una grotta scavata nel sasso, coperta dagli alberi. In essa è stato riconosciuto un mitreo del secolo III d. C., poi adattato a chiesa cristiana. Le pareti di questa specie di tana buia sono coperte da affreschi molto corrosi, che vanno dal secolo vi al xvi all’incirca. Non lontano c’è un sepolcreto etrusco1. Le memorie della donazione di Sutri e delle lontane origini del potere temporale dei papi affondano in un paesaggio che conserva le tracce di culti antichissimi. È un esempio tra i tanti, scelto a caso. Questo senso quasi palpabile della continuità della vita religiosa – una continuità vischiosa, vegetale, che sembra riassorbire in sé le fratture e le lacerazioni che pure ci furono – fa parte dell’esperienza di chiunque si accosti alla storia italiana. Come il paesaggio della penisola, nelle forme dei campi, talvolta nel tracciato dei solchi, nella maggiore o minor frequenza delle boscaglie serba le tracce del lavoro duro, ostinato di generazioni: cosí nei gesti delle preghiere, nelle credenze, nei luoghi di culto, si possono scorgere in controluce altri gesti, altri scongiuri, altri riti, molto piú antichi. 1. L’Italia da evangelizzare. Anche per la storia religiosa l’invasione longobarda costituisce per molti versi una cesura. La grande figura di Gregorio Magno, cosí legata, per ambiente familiare e per formazione, alla tradizione romana, e insieme cosí aperta verso il futuro, appare quasi emblematica. Il suo contributo all’esegesi biblica, alla liturgia, all’agiografia ebbe certo un’importanza incalcolabile. Ma per valutare il coraggio di queste scelte bi1 Cfr. c. nispi-landi, Storia dell’antichissima città di Sutri, Roma 1887, pp. 563-65; m. j. vermaseren, Corpus Inscriptionum et Monumentorum religionis Mithraicae, I, Hagae Comitis 1956, pp. 241-42.

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sogna volgersi al suo epistolario. I rapporti con i feroci longobardi; la convivenza con gli ebrei; l’importanza delle immagini per il culto; la venerazione delle reliquie; le «sopravvivenze» idolatriche nelle campagne: su questi problemi e su molti altri Gregorio interviene con grande equilibrio e inventività. Manca ancora una tradizione cristallizzata, consolidata cui fare riferimento. Sereno, vescovo di Marsiglia, ha frantumato le immagini poste nella sua chiesa per impedirne l’adorazione: e alla soluzione intermedia propostagli da Gregorio – proibire l’adorazione delle immagini, ma consentire che attraverso le pitture gli ignoranti adorino la storia sacra in esse narrata – reagisce con asprezza (M.G.H., Ep. II, pp. 195, 269 sgg.). Adriano, notario di Palermo ha perseguitato incantatori e sortilegi: ma poi è stato colto da un dubbio sulla legittimità della sua azione. Gregorio lo rassicura (ibid., 1171). Ma l’esitazione di Adriano è sintomatica. Che atteggiamento assumere nei confronti di una tradizione ancora cosí presente e vivace? Presente in forme diversissime a tutti i livelli: accanto agli abitanti della Barbagia, che vivono «come animali insensati» adorando legni e pietre (ibid., I, p. 262), accanto agli idolatri della Corsica (ibid., 11, pp. 1-2), c’è Desiderio, vescovo di Vienne, che si è dedicato allo studio della cultura profana, e viene duramente ripreso da Gregorio per aver mescolato le lodi di Cristo alle lodi di Giove (ibid., II, p. 303). La civiltà impersonata da Gregorio si costituisce e prende consapevolezza di sé mediante una serie di rifiuti. Ciò non esclude un sapiente gradualismo nell’opera di conversione. I templi dedicati agli idoli – scrive Gregorio all’abate Mellito – non vanno distrutti, ma trasformati in chiese cristiane, e provvisti di altari e reliquie. Gli animali che venivano immolati al diavolo, ora verranno uccisi col pensiero volto a Dio: solo apparentemente i sacrifici saranno gli stessi. Le menti ostinate non possono abbandonare di colpo l’antico errore: solo a piccoli passi, senza salti, riescono a accostarsi alla verità (ibid., II, p. 331)2. La conversione degli idolatri al cristianesimo poteva essere vista con questa tranquilla fiducia. Ma quando la notizia del culto degli alberi e delle fonti giungeva non dalla Gallia, o dalla Corsica, o dalla selvatica Barbagia, ma da una campagna non lontana da Roma, da Terracina, allora la reazione di Gregorio era dura e angosciata. Che cosa aspettava Agnello, il vescovo, a intervenire, a reprimere, a placare Dio con la vendetta, porgendo insieme una correzione esemplare (ibid., II, p. 21)?

2 Cfr. anche s. boesch gajano, Missione, cristianizzazione, conversione. In margine a un recente convegno, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», xxi, 1967, p. 152.

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Nella profondissima crisi sociale e politica che agitava la penisola, le strutture ecclesiastiche s’incrinavano. La chiesa di Minturno, ormai deserta di clero e di fedeli, veniva unita da Gregorio alla chiesa di Formia (ibid., I, p. 10). A Populonia, la mancanza di sacerdoti impediva di portare i soccorsi religiosi ai morenti e di battezzare gli infanti (ibid., I, p. 16). In Sicilia, si doveva ricorrere ai monasteri per sostituire i preti indegni (ibid., I, p. 24). Tra le maglie spesso allentate delle diocesi riaffioravano antiche credenze contadine, mai ben vinte. Questo mondo non ancora veramente cristianizzato è oscuramente presente nei Dialogi di Gregorio3. Un senso elementare, popolaresco del miracoloso affiora, per quanto filtrato e esorcizzato, in queste pagine. Una donna, che aveva avuto rapporti col marito prima di recarsi all’inaugurazione di un oratorio, viene posseduta da un diavolo (l’incompatibilità tra la sessualità e il sacro viene presentata come cosa ovvia, anteriore ad ogni considerazione canonica o teologica). I familiari cercano di farla guarire con arti magiche: viene condotta a un fiume, immersa nell’acqua, ma senza risultato – un diavolo è cacciato, ne sopraggiungono venti. Arriva, in concorrenza col mago, il vescovo del luogo, Fortunato, e guarisce la donna (P.L., 201). La potenza dei rappresentanti del sacro cristiano è superiore a qualsiasi magia. E i protagonisti di questa raccolta di racconti agiografici son quasi tutti membri del clero: monaci, in grande maggioranza – a cominciare da san Benedetto; molti vescovi. Rari i laici: e soprattutto, gente senza volto e senza nome, gruppi indistinti, come i quaranta contadini martirizzati dai longobardi (ibid., 284). Questa tendenziale bipartizione della società cristiana, questo polarizzarsi del modello di santità nelle figure dei monaci e dei vescovi, costituivano il punto d’arrivo provvisorio di un processo lungo e pieno di contraddizioni. Queste contraddizioni, le vediamo incarnarsi, nei Dialogi, nella straordinaria figura di Equizio. Era costui un monaco della provincia Valeria (corrispondente press’a poco agli odierni Abruzzi) che girava per le chiese, i villaggi, le case, gli accampamenti, malvestito, in groppa a un giumento. Portava sulle spalle, in due sacchetti di pelle, uno di qua uno di là, i libri sacri: e dovunque arrivava, dice Gregorio, apriva la fontana delle Scritture e irrigava i prati delle menti. Questo comportamento suscita a Roma un certo scandalo: chi era questo contadino (Iste vir rusticus), che, pur essendo sprovvisto dell’ordine sacro, usurpava l’ufficio della predicazione? Viene mandato qualcuno a investigare:

3 Cfr. in generale j. le goff, Culture cléricale et traditions folkloriques dans la civilisation mérovingienne, in «Annales E.S.C.», xxii, 1967, pp. 780-91.

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ma quando arriva al monastero di Equizio, Equizio non si trova. Dov’è l’abate? È giú nella valle che taglia il fieno, dicono i monaci, sorpresi nel loro lavoro di trascrizione di codici. Ed ecco, compare l’uomo di Dio: veniva avanti con ai piedi scarpe chiodate, in spalla la falce per tagliare il fieno. Agli inviati di Roma spiega di essersi chiesto piú volte egli stesso se il proprio comportamento era legittimo: finché una notte gli era apparso un giovane bellissimo, che toccandogli la lingua con un flebotomo, l’aveva incitato a uscire dal monastero e a predicare. Da allora, dice, non posso tacere di Dio. Poco dopo, un miracolo mostrerà all’inviato di Roma che Equizio agisce secondo la volontà divina (Ibid., 169 sgg.). Di fronte a questo monaco, anzi abate di un monastero, sempre in giro a predicare, vestito come un contadino, confuso tra i contadini, intento ai lavori dei campi, lo stesso Gregorio, che pure gli è apertamente favorevole e non condivide l’iniziale reazione negativa di Roma, lascia trasparire un certo imbarazzo. È l’imbarazzo di fronte a una testimonianza di un monachesimo ormai superato dai tempi: quel

monachesimo anteriore a san Benedetto, di cui sappiamo cosí poco. Equizio era una figura di rilievo: una tradizione, raccolta anche dal calendario benedettino, afferma che Benedetto era suo parente per parte di madre – quasi a sottolineare la continuità tra il nuovo monachesimo e l’antico4. Ora, Equizio non solo non aveva gli

ordini sacri (fatto allora tutt’altro che eccezionale) ma, pur non avendo gli ordini, usciva dal monastero a predicare. Queste pagine aprono quasi inavvertitamente uno spiraglio su quella che dovette essere l’evangelizzazione, tutta imperniata sulla predicazione della Scrittura, delle campagne in questo periodo, da parte di monaci come Equizio. Da una parte vediamo i contadini, e i monaci legati ad essi da un rapporto fatto di duro lavoro in comune e di predicazione: dall’altra, il clero. E il clero, il clero di Roma, reagisce. Perché acconsenta a riconoscere la legittimità del comportamento di Equizio, è necessario un miracolo. Di fronte a questo monachesimo tutto proiettato nelle campagne, l’azione di san Benedetto, distillata e rielaborata nella Regola, appare già molto diversa. Non c’è traccia nella Regola di preoccupazioni di evangelizzazione. Il mondo, il mondo esterno al monastero, e un’entità soltanto negativa, da tenere lontana con ogni mezzo. Di qui l’insistenza sull’autosufficienza economica del monastero, che deve disporre di acqua, di un mulino, di un orto, in modo da evitare ai monaci uscite che 4 Cfr. c. rivera, Per la storia dei precursori di san Benedetto nella provincia Valeria, in Convegno storico di Montecassino, Roma 1932, pp. 25-49.

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metterebbero in pericolo il loro equilibrio spirituale (cap. LXVI). Di qui, parallelamente, la chiusura psicologica verso il mondo esterno: i monaci tornati da un viaggio (e il viaggio è sentito sempre come un pericolo) non devono assolutamente riferire che cosa hanno visto o sentito, «quia plurima destructio est» (cap. LXVII). L’altissimo ideale di perfezione delineato da san Benedetto nella Regola può realizzarsi unicamente nel chiuso della comunità monastica. L’aspra polemica contro i monaci vagabondi è ben sintomatica. Unica eccezione positiva prevista, quella degli eremiti (che tuttavia devono essere passati anch’essi attraverso l’esperienza del monastero). Ma Gregorio va al di là della Regola. Egli riporta i monaci nel mondo – ma in uno spirito molto diverso da quello che aveva animato Equizio. I monaci vengono assimilati ai chierici. Sempre piú spesso viene loro impartita l’ordinazione sacerdotale. Gregorio, già monaco, ricorre, come abbiamo visto, ai monaci per sostituire preti o vescovi. Soprattutto, ai monaci affida il grandioso compito di evangelizzare terre lontane come l’Anglia o la Sassonia. Inversamente, nello stesso periodo si tende a esaltare nei chierici qualità tipicamente monastiche come la dedizione alle veglie notturne e al lavoro manuale5. Alla fine del secolo vi, chierici e monaci, avendo chiarito e specificato sempre meglio le proprie funzioni e i propri attributi, appaiono piú che in passato lontani dalla massa dei fedeli. 2. Costruzione gerarchica e sopravvivenze magiche. L’elaborazione della dottrina degli ordines diede una sanzione ideologica a questo distacco. Di fronte all’ordine dei chierici (ordo predicantium) e all’ordine dei monaci (ordo continentium) l’ordine dei laici (ordo bonorum coniugum) appariva privo di una funzione specifica. Si trattava in realtà di un’ideologia di copertura: è solo apparentemente paradossale che a questa costruzione gerarchica corrispondesse, nella realtà, una sempre piú accentuata subordinazione del clero e dei monaci alle realtà secolari. Proprio mentre i grandi monasteri consolidano la loro importanza economica e sociale, e diventano elementi essenziali del sistema curtense, i monaci propongono l’ordo monasticus come modello e punto di riferimento all’intera società. La progressiva feudalizzazione della Chiesa si riflette perfino nei gesti della pietà dei fedeli. A partire 5 Cfr. g. penco, Il concetto di monaco e di vita monastica in Occidente nel secolo vi, in «Studia monastica», 1, 1959, pp. 7-50.

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dal secolo IX si afferma il modo di pregare «more francico», cioè con le mani giunte (anziché con le braccia alzate al cielo o aperte in forma di croce) sul modello del vassallo inginocchiato dinanzi al signore: sintomo minimo ma eloquente di questa sempre maggiore compenetrazione di realtà religiose e realtà feudali6. L’insistente raffigurazione della maestà di Cristo – un Cristo giudice e severo, lontano e imperscrutabile – esprime la stessa tendenza7. La costruzione gerarchica degli ordines, con l’implicita subordinazione dell’ordo laicorum, testimonia il sostanziale rifiuto da parte del clero della cultura irriflessa delle masse popolari8. È un rifiuto che si accompagna a una precisa volontà di cristianizzazione. Certo, la grandiosa opera di evangelizzazione delle masse contadine compiuta dalla Chiesa nell’età carolingia non spazzò via lo spesso strato di credenze e culti legati alle vicissitudini dell’agricoltura e volti alla propiziazione della fertilità. La menzione, ricorrente nei concili di questo periodo, dell’adorazione «idolatrica» di pietre e fonti, ancora non sradicata, è di per sé eloquente. E le superstizioni condannate dai penitenziali germanici di questo periodo erano diffuse, in forme press’a poco analoghe, anche nella penisola italiana. La credenza nei poteri magici di Erodiade, biasimata da Raterio vescovo di Verona, era una propaggine delle tradizioni germaniche coagulate attorno a una misteriosa divinità femminile dai molti nomi (Perchta, Holda, Diana) legata al mondo dei morti e della fertilità9. Ma non bisogna esagerare la gravità della dicotomia esistente tra religione ufficiale e religione «popolare». Da un lato, è evidente che nella coscienza dei fedeli credenze superstiziose e pratiche magiche (amorose o di altro tipo) come quelle menzionate dai penitenziali, erano perfettamente compatibili con le credenze e i riti della religione cristiana. Dall’altro, il clero, pur rifiutando le componenti magiche e superstiziose della religione popolare, vedeva in esse semplicemente il frutto della rozzezza delle plebi, quasi un limite inevitabile dell’opera di evangelizzazione. Le donnette che credevano alla cavalcata notturna di Diana erano considerate, con caratteristica indulgenza, vittime di sogni e fanta-

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Cfr. l. gougaud, Dévotions et pratiques ascétiques du Moyen Age, Maredsous 1925, pp. 1-42. Cfr. e. delaruelle, La pietà popolare nel secolo xi, in X Congresso internazionale di scienze storiche, Relazioni, vol. III, Firenze 1955, pp. 328-29; cfr. anche h. barrè, La royauté de Marie pendant les neuf premiers siècles, in «Recherches de sciences religieuses», 1939, pp. 129-62, 303-34. 8 Cfr. le goff, Culture cléricale cit.; a. frugoni, Momenti del problema dell’«ordo laicorum» nei secoli x-xii, in «Nova historia», XIII, 1961, pp- 3-22. 9 g. bonomo, Caccia alle streghe, Palermo 1959, p. 19. 7

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sticherie: povere donne ingannate dal demonio, non già suoi strumenti consapevoli. Ma il rifiuto della cultura folklorica da parte del clero implicava alcune concessioni alla mentalità delle masse contadine. In primo luogo, l’accentuazione degli elementi meravigliosi (interventi soprannaturali, miracoli) presenti nell’agiografia. In un mondo in cui l’accesso alla Scrittura era riservato a pochi individui colti, prevalentemente chierici, le vite dei santi finivano con lo svolgere una funzione decisiva di tramite con le masse. Il meraviglioso cristiano dell’agiografia – eventualmente ricalcato sui miracoli della Bibbia – si poneva quindi in diretta concorrenza con il meraviglioso folklorico10. Inoltre, un gran numero di rituali folklorici si erano innestati nella pratica religiosa ufficiale. Un testo del secolo IX come la Cena di Giovanni Immonide, rifacimento in versi della tardo-antica Cena Cypriani, fornisce una singolare testimonianza su una tradizione romana allora in vigore11. Il sabato dopo Pasqua, il priore della schola cantorum avanzava in groppa a un asino, portando in testa una corona di fiori ornata di corna, dinanzi a una folla riunita: cerimonia oscura, di cui tuttavia s’intravede l’origine folklorica. Talvolta questi innesti venivano respinti: cosí, il sinodo tenutosi nell’a Pavia condannava i chierici e i monaci che girovagavano spargendo molteplici errori e «inutiles questiones», mescolando alle cerimonie ecclesiastiche balli e canzoni oscene a somiglianza dei pagani, e ingannando cosí gli animi dei semplici12. Per secoli sinodi e concili si scagliarono (a quanto pare, senza molto successo) contro cerimonie legate a una cultura avvertita ancora come una minaccia – basta pensare alle manifestazioni orgiastiche in occasione di feste religiose come quella di san Giovanni, che riproponevano in un momento cruciale dell’annata agricola culti di fertilità piú o meno mascherati13. Ma si ha l’impressione che a poco a poco esse finissero col diventare qualcosa di previsto e quasi di istituzionalizzato. La periodica irruzione di questo elemento folklorico, in senso lato carnevalesco, scaricava le tensioni latenti e agiva come un potente fattore di equilibrio sociale, oltre che religioso. Una festività come quella dei santi Innocenti, in cui, entro una cornice di deliberato sovvertimento gerarchico, un fanciullo debitamente eletto (episcopellus, episcopus puerorum) sedeva sulla cattedra episcopale e riceveva gli omaggi dei 10

le goff, Culture cléricale cit. Cfr. g. arnaldi, Giovanni Immonide e la cultura a Roma al tempo di Giovanni VIII, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 68, 1956, pp. 33-89 (con bibliografia). 12 g. d. mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XIV, Venetiis 1769, col. 938. 13 Cfr. v. lanternari, La politica culturale della Chiesa nelle campagne: la festa di s. Giovanni, in «Società», xi, 1955, pp. 64-95. 11

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presenti, aveva questo significato catartico e equilibratore. La dimensione carnevalesca, fatta di gioco, irrisione, licenza, inversione rituale, abolizione delle distanze, spiega inoltre la presenza massiccia nella cultura medievale di un filone solo apparentemente marginale, come la parodia sacra14. La presenza contemporanea del sacro e del buffonesco, del sacro e dell’osceno, significava mescolanza non di sacro e profano, ma di livelli diversi di sacro. Le sacre rappresentazioni nacquero in questo contesto. 3. Laicato, riforma, eresie. È probabile che nel corso del secolo x, che vide la crisi dell’autorità papale e imperiale e il faticoso ricostituirsi di una nuova autorità dal basso, precaria e circoscritta, le componenti locali di questa religiosità si accentuassero. Finché non disporremo di ricerche coordinate sui culti e le devozioni locali, sulle strutture delle diocesi e delle pievi, una storia religiosa italiana su base regionale – quindi, una storia religiosa tout court – sarà impossibile. Quel che è certo è che nel generale processo di rinnovamento – economico, sociale, politico – che investe la società italiana del secolo xi, il laicato si fa avanti e pretende di partecipare in forme nuove alla vita religiosa. È un movimento intimamente legato al risorgere della vita della città, e le campagne ne sono toccate solo marginalmente. La stessa lotta contro il clero simoniaco e corrotto si svolge prevalentemente tra le mura delle città. Uomini e istituzioni vengono vagliati e giudicati alla luce di un intransigente ideale religioso e morale, che si richiama sempre piú spesso alla mitica Chiesa primitiva, la comunità cristiana delle origini, simbolo di virtú e di perfezione. Crolla la vecchia impalcatura degli ordines: a Milano, i patarini rivendicano una funzione di supplenza nei confronti di una gerarchia che non è piú all’altezza dei propri compiti. Era un principio potenzialmente rivoluzionario. Ma il movimento del laicato cittadino non era che un aspetto di un movimento piú generale di rinnovamento religioso, che metteva in discussione tutto – la subordinazione della gerarchia al potere politico, la feudalizzazione del monachesimo, i modelli di santità. In questa volontà di rinnovamento il laicato s’incontrava con gli ambienti eremitici, che, marginali per definizione, ma appunto perciò non compromessi con la gerarchia mon14 Cfr. il libro fondamentale di m. bachtin, che cito nella traduzione francese, L’oeuvre de François Rabelais et la culture populaire au Moyen Age et sous la Renaissance, Paris 1970.

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danizzata e corrotta, avevano riacquistato in questo periodo, dopo secoli di stasi, peso e vigore. Ma proprio la pluralità di queste spinte periferiche consentí in definitiva a Roma di porsi alla testa del movimento, servendosi anche dell’iniziativa, talvolta violenta, del laicato cittadino, senza perderne mai il controllo. La riforma, che dal suo esponente piú illustre fu detta gregoriana, fu quindi, in ultima analisi, una rivoluzione dall’alto. D’altra parte, l’esigenza di dare una legittimità alla propria azione indusse gli uomini della corrente riformatrice a insistere sull’autorità del pontefice, ponendola addirittura al di sopra – sono le parole del cardinale Umberto di Silva Candida – «delle sacre pagine e delle tradizioni avite». Cosí, una lotta che aveva visto il laicato in prima linea, si concluse con un’affermazione senza precedenti della gerarchia, e in particolare del primato pontificio15. Ma l’intrecciarsi di queste diverse componenti – laicali da una parte, eremitiche e monastiche dall’altra – e l’effettiva subordinazione delle prime alle seconde, lasciò la strada aperta a ulteriori sviluppi. La riforma gregoriana, proprio perché aveva reciso i molteplici legami che vincolavano il potere ecclesiastico al potere secolare, aveva finito col dare al laicato una consapevolezza nuova della propria importanza. In una società caratterizzata da una crescente mobilità, dall’emergere di forme associative e politiche nuove come i comuni, da una sempre maggiore vitalità economica, il laicato, soprattutto cittadino, non voleva piú riconoscersi nelle generiche prerogative assegnate nell’età carolingia all’ordo laicorum. È in questa situazione che riesce ad imporsi, come una sorta di risarcimento, il mito della crociata. Grazie ad esso, le possibili fonti di tensione che minacciavano di distruggere la sistemazione ecclesiastica e dottrinale uscita dalla Chiesa gregoriana venivano deviate verso l’esterno. La trasformazione del tradizionale pellegrinaggio ai luoghi santi in lotta armata contro gli infedeli, coronata dalla conquista e dal bottino (e dal massacro delle comunità ebraiche incontrate lungo la strada) forniva al laicato una missione specifica. Nello stesso tempo, l’insistenza sulla dilatatio ecclesiae testimoniava la volontà di questa chiesa purificata e rinnovata di identificarsi col mondo. Ma l’inquietudine del laicato aveva anche altre radici, piú profonde. Il risultato della riforma gregoriana era stata una Chiesa fortemente clericalizzata. Lo stesso rifiuto, compiuto dai laici nel vivo della lotta, di ricevere i sacramenti dai sacerdoti simoniaci e corrotti aveva posto in primo piano la figura di coloro che avevano il potere di somministrare 15

Cfr. g. miccoli, Chiesa gregoriana, Firenze 1967.

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gli strumenti della salvezza. Il costituirsi di una dottrina sacramentale articolata aveva innalzato il sacerdote addirittura al di sopra del monaco. È probabile che agli occhi della maggioranza dei fedeli la capacità di comunicare e di assolvere i peccati conferisse un alone quasi magico. A questa gerarchia consolidata e rafforzata si oppongono individui isolati (laici, per lo piú, ma anche monaci, come Arnaldo da Brescia) che in breve raccolgono intorno a sé gruppi piú o meno cospicui, in nome del ritorno alla verità del Vangelo. Miti già agitati nel corso della riforma gregoriana, come quello della Chiesa primitiva, o carichi di significato nuovo, come quello della vita vere apostolica, venivano proposti polemicamente, quasi sempre con implicazioni pauperistiche16. Il cristallizzarsi dell’eresia era spesso lento. L’elemento che portava alla coscienza del distacco, e quindi all’eresia vera e propria, era generalmente il rifiuto opposto dalla gerarchia alle pretese dei laici – prima fra tutte, la pretesa di predicare ai fedeli la verità del Vangelo riscoperto. Attorno alla protesta religiosa si coagulavano risentimenti e opposizioni politiche, in primo luogo contro i vescovi. Nel giro di qualche decennio, grazie all’intenso proselitismo di questi gruppi, composti in prevalenza da artigiani itineranti, l’eresia si diffuse nelle principali città dell’Italia centrosettentrionale – da Milano a Cremona, a Firenze, a Orvieto, fino addirittura a Viterbo, quasi alle soglie di Roma. Era un movimento legato alla civiltà comunale, e quindi esteso anche, in parte, alle campagne, dati gli stretti rapporti che legavano in questo periodo le città alle campagne circostanti. Ma proprio per questo, esso si arresta, di fatto, all’Italia centrale (anche se possediamo una testimonianza su un tentativo di proselitismo cataro a Napoli)17 confermando cosí l’esistenza di una frattura ormai profonda nella penisola, anche al livello della storia religiosa, oltre che a quello della storia economica, sociale e politica. Nonostante la volontà dei pontefici di sostituire, grazie all’appoggio concesso agli invasori normanni, un clero dipendente da Roma a quello dipendente da Bisanzio, la storia religiosa del Mezzogiorno continuerà per secoli a seguire vie proprie, diverse dal resto d’Italia, soprattutto per la presenza massiccia di riti e tradizioni greche fino, si può dire, alla Controriforma. Il pullulare di questi movimenti ereticali indica che nel rapporto tra la gerarchia ecclesiastica e le masse qualcosa si era incrinato. La netta 16 Cfr. c. violante, Hérésies urbaines et hérésies rurales en Italie du IIe au 13e, siècle, in Hérésies et sociétés dans l’Europe pré-industrielle, IIe-18e siècles, Communications et débats du Colloque de Royaumont présentés par J. Le Goff, Paris - La Haye, 1968 (ma 1970), pp. 171-97. 17 ch. thouzellier, Hérésie et croisade au XIIe síècle, in «Revue d’hístoire ecclésiastique», xlix, 1954, pp. 868-69.

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distinzione tra clero e laicato, perseguita consapevolmente dalla gerarchia romana nel corso della riforma gregoriana, tendeva a rivolgersi contro la gerarchia stessa. La mobilità sociale, il progressivo affermarsi di un’economia monetaria facevano esplodere i vecchi e rigidi quadri istituzionali. In questo senso, le rivendicazioni pauperistiche avanzate da questi gruppi ereticali esprimevano senza dubbio la protesta di ceti e classi legati a strutture sociali ormai in crisi, o che comunque faticavano a adattarsi a una situazione sociale nuova. Era una protesta volta verso il passato, e costretta, per di piú, a prender consapevolezza di sé attraverso il richiamo a un passato miticamente incorrotto, come quello della comunità cristiana delle origini. Inoltre, la polemica contro la gerarchia ecclesiastica indusse la maggior parte di questi gruppi ereticali (con un’eccezione importante, che vedremo subito) a rifiutare di darsi una struttura organizzativa qualsiasi, il che agevolò ovviamente la loro repressione. E tuttavia, benché schiacciati e dispersi, essi lasciarono nella storia italiana una tradizione di dissidenza religiosa dura a morire. Anche se, allo stato attuale della documentazione, è impossibile stabilire nessi precisi, sembra lecito supporre che l’ostinata sopravvivenza di conventicole ereticali – fraticellesche o di altro tipo – nell’Italia centrale, addirittura sino alla fine del Quattrocento, fosse agevolata dal persistere di antiche sedimentazioni. E forse non fu un caso che nel Cinquecento le dottrine riformatrici d’Oltralpe trovassero seguaci in Lombardia soprattutto in centri come Milano e Cremona, che – com’è stato notato – erano fin dal Medioevo focolai d’eresia18. Nel variegato panorama di questi gruppi ereticali, il movimento cataro spicca per la sua originalità, non solo dottrinale. Attraverso la Lombardia e il Piemonte, i nuclei catari italiani avevano intrecciato rapporti precisi con le chiese catare del Delfinato e della Provenza. Stretti in una rigida organizzazione settaria, i catari avevano trovato aderenti e appoggi soprattutto negli strati superiori della società (l’assenza di motivi pauperistici, e l’insistenza su temi, come la polemica contro le immagini, scarsamente comprensibili per la massa dei fedeli, spiegano indubbiamente questo tipo di proselitismo). Sfruttando verosimilmente la polemica antiromana dei gruppi ghibellini, i catari riuscirono ad assicurarsi fin quasi alla fine del secolo XIII importanti centri di potere politico, come Orvieto (è il caso piú clamoroso) o la stessa Firenze. Era, per la Chiesa di Roma, una minaccia grave. Ma nel giro di pochi decenni 18 Cfr. f. chabod, Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V, Note e documenti, in Opere, III, 1. Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971, p. 314, n. 3.

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questa minaccia si dileguò, e l’eresia catara scomparve, almeno apparentemente, dalla realtà religiosa della penisola. 4. Gli ordini mendicanti. Lo strumento decisivo di questa controffensiva vittoriosa della gerarchia romana furono gli ordini mendicanti. Grazie ad essi, all’azione originale e audace da essi perseguita, la gerarchia romana recuperò il ritardo storico accumulato nei confronti della nuova civiltà cittadina. Senza esagerazione Machiavelli poteva, in una celebre considerazione retrospettiva, vedere nella fondazione degli ordini mendicanti un evento che aveva salvato la Chiesa dalla rovina19. L’apostolato, la predicazione, che i vecchi ordini monastici avevano abbandonato da tempo, furono al centro dell’attività svolta, soprattutto nelle città, dagli ordini mendicanti. Quest’opera di proselitismo non escludeva, tutt’altro, metodi di persuasione piú spicci: basta pensare al tribunale dell’Inquisizione. Ma è lecito supporre che la repressione pura e semplice non sarebbe stata sufficiente a rinsaldare i legami allentati della gerarchia con le masse dei fedeli. Era necessaria un’azione piú sottile, che si appropriasse, rendendoli innocui, dei temi religiosi agitati dai gruppi ereticali con il loro polemico richiamo alla scrittura tradita. Fu questa l’opera svolta – anche al di là delle proprie intenzioni – da Francesco d’Assisi20.

Nonostante la sua apparente semplicità – o forse proprio per questo – quella di Francesco è una figura profondamente enigmatica. Per intenderla, bisogna forse partire dalla sua profonda venerazione per la gerarchia, riaffermata enfaticamente nello stesso Testamento: ...Dominus dedit mihi et dat tantam fidem in sacerdotibus qui vivunt secundum formam sanctae Ecclesiae romanae propter ordinem ipsorum, quod si facerent mihi persecutionem, volo recurrere ad ipsos. Et si haberem tantam sapientiam, quantam Salomon habuit, et invenirem pauperculos sacerdotes hujus saeculi in parochiis quibus morantur, nolo praedicare ultra voluntatem ipsorum. Et ipsos, et omnes alios volo timere, amare et honorare, sicut meos dominos; et nolo in ipsis considerare peccatum quia Filium Dei discerno in ipsis, et domini mei sunt.

Qui il distacco dell’atteggiamento di Francesco da quello dei gruppi ereticali era nettissimo. Nessuna prevaricazione di funzioni tradizional19

Cfr. n. machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, l. III, cap. 1. Cfr. sempre p. sabatier, Vie de S. Francois d’Assise, Paris 1931. Vedi ora il succoso profilo di j. le goff, Francesco d’Assisi, Milano 1967. Ma in complesso, su nessuna questione di storia religiosa italiana la ricerca contemporanea è cosí gravemente inadeguata come su Francesco. 20

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mente riservate ai chierici: allorché i frati minori si lamentano perché i vescovi talvolta non li lasciano predicare, e chiedono a Francesco di ottenere al papa questo privilegio, Francesco risponde che devono essere i prelati stessi, scossi dall’umiltà e dalla santità della vita dei frati minori, a concedere loro la facoltà della predicazione21. È chiaro il proposito di distinguersi da quanti, proprio su questo punto decisivo, erano entrati in conflitto con la gerarchia fino a trovarsi sospinti su posizioni ereticali: Pietro Valdo, per esempio, la cui vocazione religiosa presenta peraltro tanti punti di contatto con quella di Francesco. Proprio perché riprendeva, in un contesto profondamente diverso, motivi originariamente ereticali, a cominciare da quello, centrale, della povertà, Francesco non poteva non insistere sul dovere dei frati minori di obbedire alla gerarchia. Ma in che cosa consisteva questa «novità», che salta agli occhi appena ci si accosta alla figura di Francesco? In che senso egli propose un nuovo modello di santità, un nuovo «stile di vita» religiosa? Forse la migliore caratterizzazione della sua esperienza è contenuta nell’epiteto tradizionale – poi ripetuto in contesti cosí dolciastri e apologetici da perdere quasi del tutto la propria carica paradossale – di «giullare di Dio». L’atteggiamento di Francesco di fronte al patrimonio folklorico recente o antichissimo – le leggende cavalleresche o il favoloso mondo degli animali – è infatti di totale adesione. Il suo stesso stile di vita è tipicamente carnevalesco. Carnevalesca è l’esortazione (sia pure temperata, talvolta, da affermazioni un po’ diverse) rivolto da Francesco al proprio corpo: «Godi, fratello corpo». Carnevalesca è l’insistenza sull’allegria, che compare addirittura nella regola del 1221, sotto forma di esortazione ai frati minori: «Caveant fratres quod non ostendant se tristes extrinsecus nubilosos et hypocritas; sed ostendant se gaudentes in Domino, hilares et convenienter gratiosos». Carnevalesco è il comportamento che una cronaca pressoché coeva attribuisce a Francesco dinanzi a Innocenzo III: quando il papa esclama «Tu somigli piú a un porco che a un uomo: va dunque a predicare la tua regola ai porci» Francesco corre a rotolarsi per l’appunto in un porcile, poi ritorna tutto lercio e dice «Ora però ascoltami». Sublimemente carnevalesco è il bacio di Francesco al lebbroso. L’originalità del genio religioso di Francesco consiste proprio in questo: nel tentativo di identificare il paradosso carnevalesco con il paradosso cristiano. Con la sua sola presenza egli testimonia la falsità dei valori comunemente accettati. Il rovesciamento carnevalesco 21

Cfr. Speculum perfectionis, a cura di P. Sabatier, Paris 1898, pp. 309-10, 86.

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delle consuetudini viene a coincidere con la sapienza cristiana che è follia agli occhi del mondo. I lebbrosi vengono baciati; perfetta letizia è non essere riconosciuti dai confratelli, essere picchiati e vilipesi, pernottare fuori dal convento nel freddo e nella tempesta22. Ma quella di Francesco è una mera testimonianza. Questa è la sua grande forza e la sua grande debolezza. Egli non lotta con gli eretici; va alla crociata, e si rifiuta perfino di evangelizzare il sultano. Ma dice anche: se gli altri ci fanno torto, dobbiamo subirli, e non cercare di far sí che diventino buoni cristiani23. La stessa povertà francescana non ha, in origine, una reale carica polemica. Francesco non vuole redimere il mondo, e tanto meno modificarlo. Vuole semplicemente riproporre nella sua nudità e semplicità l’esperienza di Cristo testimoniata dai Vangeli (donde l’esaltazione, ricorrente nella prima agiografia francescana, di Francesco come «alter Christus»). Era facile, perciò, trasferire questa esperienza in un contesto diverso, tale da snaturarla. È ciò che fece, mentre Francesco era ancora vivo, la curia romana. Fu usato finché serviva, e poi messo in disparte. Poco prima di morire egli guardò con doloroso distacco la realtà dell’ordine che aveva pur finito col fondare, e si sentí tradito. A torto, in un certo senso: date le premesse, l’esito storico del francescanesimo era probabilmente inevitabile. Ma la traccia che esso lasciò fu durevole. L’affermarsi di una nuova pietà religiosa, piú umana e affettuosa (fino a cadere, in certi casi, nel lezio) venne incontro alle richieste profonde delle masse dei fedeli. L’identificazione con la figura di Cristo, vissuta drammaticamente da Francesco nell’esperienza delle stimmate, fu proposta in varie forme dall’arte religiosa di questo periodo. Si trattava di tendenze convergenti, come mostra l’enorme influsso esercitato sull’iconografia da un testo come le Meditationes de passione Christi attribuite a san Bonaventura (in realtà del francescano Giovanni da San Gimignano), in cui la narrazione evangelica è continuamente arricchita da particolari toccanti o gustosi24. Tuttavia, gli aspetti piú scandalosamente folklorici o paradossali della tradizione francescana vennero eliminati o edulcorati. Attraverso l’intervento di Bonaventura la storia dell’esperienza di Francesco fu castrata, riscritta d’ufficio, riplasmata in un’immagine di comodo.

22 Cfr. anche un accenno di bachtin, L’oeuvre de François Rabelais cit., p. 66. Per il colloquio con Innocenzo III, cfr. m. paris, Chronica majora, III, London 1876, p. 132. 23 Cfr. g. miccoli, Dal pellegrinaggio alla conquista: povertà e ricchezza nelle prime crociate, in Povertà e ricchezza nella spiritualità dei secoli xi e xii (15-18 ottobre 1967), Todi 1969, pp. 45-80. 24 Cfr. e. mâle, L’art religieux de la fin du Moyen Age en France..., Paris 19495, pp. 27 sgg.

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Gli accenti sarcasticamente macabri che ricorrono nelle laudi di Jacopone («Alegome en sepoltura | ventre de lupo en voratura, | e l’arliquie en cacatura...»; oppure, rivolgendosi al proprio teschio: «Or ov’è ’l capo cusí pettenato? | ... Fo acqua buffita, che ’l t’ha sí calvato?») unendo echi della carnevalesca «umiltà» francescana ad anticipazioni di una sensibilità destinata ad affermarsi pienamente di lí a qualche decennio, costituiscono un’eccezione che conferma la regola25. In questa situazione, la volontà di ritorno alle origini dell’ala piú radicale dell’ordine si caricò di implicazioni anticlericali e antigerarchiche che in Francesco erano, come abbiamo visto, del tutto assenti. Il tema della povertà, su cui si combatte la grande battaglia tra conventuali e osservanti, divenne la pietra di paragone dell’atteggiamento verso il mondo e verso la Chiesa. La sconfitta dell’ala piú radicale fu definitiva: ma lasciò ai margini della Chiesa una frangia di tensione e d’inquietudine destinata, come si è detto, a perpetuarsi in forma piú o meno clandestina sino alla fine del Quattrocento. La speranza degli sconfitti si coagulò in aspettative apocalittiche, quasi sempre di derivazione gioachimitica. Gli ordini mendicanti cominciarono a operare in una società caratterizzata da una profonda vitalità anche religiosa, e percorsa da iniziative e movimenti che partivano dal basso. È il quadro dell’Italia tra la prima e la seconda metà del Duecento che emerge dalla cronaca di Salimbene. A volte sono fenomeni di religiosità popolare, prontamente fatti propri dagli ordini mendicanti, come il movimento dell’Alleluia (1233), che cerca di comporre i contrasti e le lotte delle fazioni cittadine. Altre volte, si tratta invece di sette come quella degli apostolici, che all’acuirsi delle differenziazioni economiche e sociali contrappongono un rigoroso evangelismo comunistico, percorrendo per intero la parabola, consueta in questo periodo, dal letteralismo scritturale all’eresia. Ma tutti questi fenomeni hanno in comune una caratteristica – quella di erompere dal basso, dal vivo stesso della vita cittadina. Anche un episodio marginale come l’effimero, straordinario successo del culto di un portatore di vino di Cremona, Alberto, è sintomatico, perché testimonia la volontà popolare di imporre un proprio santo, estraneo alle gerarchie ecclesiastiche e alla procedura, sempre piú rigidamente controllata dall’alto, della canonizzazione. A Parma nel 1279 i fedeli «faciebant societates per vicinias et egrediebantur ad vicos et plateas, ut pariter congregati processionaliter venirent ad ecclesiam sancti Petri, ubi istius Alberti reliquie habebantur. Et portabant cruces et vexilla et cantando ibant, et donabant purpuras, 25

Cfr. jacopone da todi, Laudi, trattato e detti, a cura di F. Ageno, Firenze 1953, pp. 194,

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xamitos et baldakinos et denarios multos». E ai frati dicevano polemicamente: «Vos creditis quod nullus possit miracula facere nisi sancti vestri, sed bene estis decepti, ut nunc apparet in isto». Ed è con sarcastico compiacimento fratesco che Salimbene racconta l’esito della vicenda: una delle reliquie di Alberto comincia a puzzare, i fedeli del nuovo santo rimangono sconcertati e confusi vedendo che il suo corpo non è incorruttibile, «et sic fuerunt truffati et derisi Parmenses»26. Ma non si tratta di un aneddoto isolato: lo stesso Salimbene ricorda che poco tempo prima a Padova e a Ferrara si erano verificati fatti analoghi. E certo, come dice Salimbene, all’origine di queste devozioni eterodosse c’era il risentimento contro gli ordini mendicanti, spesso sfruttato dai sacerdoti; oppure, il desiderio dei fuorusciti ghibellini di rientrare nelle città, nell’atmosfera di pacificazione suscitata dai miracoli dei nuovi santi. Ma c’era anche (è sempre Salimbene che parla) il desiderio degli infermi di riacquistare la salute, o la curiosità di gente bramosa di cose nuove – cioè, in definitiva, motivi religiosi, richieste che non venivano soddisfatte nell’ambito della religione ufficiale. La tensione escatologica e profetica (quanti profeti nelle pagine di Salimbene!) nasce e si sviluppa in questo clima di rinnovata, insistente richiesta religiosa dal basso. Era una tensione che poteva assumere forme culte e elaborate, sorrette da un’approfondita esegesi scritturale, come in Gioacchino da Fiore e nel suo seguace Gherardo da Borgo San Donnino, oppure forme rozze e immediate. Il risultato era lo stesso: un’inquietudine, un’impazienza diffuse, che inducevano a guardare con occhi duramente critici una Chiesa, un mondo destinati a una fine imminente. Ma le strutture ecclesiastiche, rafforzate dalla spregiudicata azione degli ordini mendicanti, erano abbastanza flessibili da accogliere queste spinte senza spezzarsi. Anche una devozione popolare cittadina come quella dei flagellanti, propagatasi nel corso del 1260 un po’ in tutta Italia, nonostante le sue implicazioni escatologiche fu sin dall’inizio controllata dalla gerarchia, e anzi utilizzata in funzione antiereticale27. Cosí, la grande fioritura di confraternite protette dagli ordini mendicanti, e legate piú o meno direttamente a questa devozione, forní un potente sfogo alle eventuali tensioni religiose del laicato. Tensioni religiose e so-

26 Cfr. v. fumagalli, In margine all’«Alleluia» del 1233, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 80, 1968, pp. 257-72; salimbene de adam, Cronica, a cura di G. Scalia, Bari 1966, II, pp. 733 sgg. 27 Cfr. a. frugoni, Sui flagellanti del 1260, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 75, 1963, pp. 211-37.

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ciali: nelle confraternite, vero modello di organizzazioni interclassiste, padroni e artigiani si ritrovavano su un illusorio piede di parità. All’inizio del nuovo secolo, il giubileo del 1300 suggellò la vittoria della gerarchia su tutte le spinte eversive provenienti dal basso. In tal modo, la stessa tensione escatologica veniva incanalata e utilizzata per glorificare la potenza politica e religiosa della Chiesa, nella persona del pontefice Bonifacio VIII. Nasceva, debitamente sollecitata, quella devozione per il pontefice destinata a diventare una delle componenti piú caratteristiche della società italiana. Cosí rafforzata, la Chiesa poté superare le crisi, non solo religiose, dei secoli successivi. Bisognerà arrivare al Cinquecento perché si riproduca una situazione altrettanto pericolosa di spinte incontrollate dal basso. E anche allora, soltanto a prezzo di un profondo rinnovamento la Chiesa riuscirà a sopravvivere.

5. Nuove devozioni e letteratura religiosa. L’elemento decisivo per l’affermazione della gerarchia erano stati gli ordini mendicanti. Nel corso del Trecento la loro storia finí col divergere. Mentre i francescani dovevano fronteggiare le polemiche e le lotte scoppiate nell’ordine a proposito della questione della povertà, i domenicani intensificavano l’attività di apostolato, insistendo sui temi devozionali piú popolari: in primo luogo, quelli legati al culto mariano. L’esigenza, vivissima in questo periodo, di un contatto il piú diretto possibile con la sfera del sacro portava a dare un peso sempre maggiore alla figura di Maria, «avvocata de’ peccatori», mediatrice per eccellenza anche nei confronti di Cristo. A questa tendenza i domenicani diedero, con prediche e scritti, un consapevole impulso. In un testo diffusissimo come lo Specchio della vera penitenza di Jacopo Passavanti, si legge per esempio la storia, ripresa da Cesario di Heisterbach, di un cavaliere che, per riacquistare le ricchezze perdute, ricorre a un castaldo esperto di negromanzia. Il diavolo, debitamente invocato, chiede al cavaliere di rinnegare Cristo: e il cavaliere obbedisce. Ma alla successiva, e suprema, richiesta di rinnegare la Vergine, resiste. Con l’aiuto di Maria riesce a fuggire: entrato in una chiesa «dov’era la immagine della Vergine Maria, col Figliuolo in braccio, di legname iscolpita», chiede perdono del peccato commesso. Si svolge quindi un vero e proprio «contrasto» tra Maria e Cristo. Maria intercede per il suo protetto: «alle quali parole niente rispondendo il Figliuolo, rivolse da lei la faccia». Solo quando Maria si getta in ginocchio, Cristo cede, esclamando che alla madre non Storia d’Italia Einaudi

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può negare niente28. Maria, dunque, non Cristo, è vicina agli uomini, alle loro pene e alle loro miserie; e Maria può tutto, perché le sue preghiere sono irresistibili. La crescente fortuna del tema della Mater Dolorosa nel corso del Trecento rientra anch’essa in questa tendenza a polarizzare la pietà attorno a situazioni e motivi di facile presa, provvisti di una immediata carica emotiva. Nelle terzine del Pianto de la gloriosa virgine Maria dell’eremitano Enselmino da Treviso, per esempio, di là dagli echi danteschi si scorge la volontà di agevolare l’identificazione psicologica del lettore con la madre di Cristo, attribuendo ad essa risentimenti e recriminazioni che escono dal solito stereotipo di mitezza e mansuetudine. Dapprima si rivolge alla croce: Dond’as tu, dis’io, tanta chrudeltate, ch’el mio dolze fiol tu tegni fermo choi piedi e chon le mane a ti fichate? Oimè, perché no naque qualche vermo che la radize t’avese roduta ... ?

Poi passa a lamentarsi dei profeti: Algun de lor mai no me dise chome per lo mio fio io dovese vegnire a portar de grameze tante some.

e infine addirittura dell’angelo Gabriele: Poi me lamento, o agnol Gabriele, che me dizesti parole suave, le qual io truovo tute false e fele... Tu me dizesti ch’io era benedeta fra le altre done, et anchuoi me reputo sopra tute le done maledeta... 29.

Siamo a un passo dal teatro, dalle sacre rappresentazioni. Il tono quasi popolaresco di una parte di questa letteratura religiosa obbediva a una precisa scelta stilistica e ideologica. Soprattutto tra i domenicani c’era un’acuta consapevolezza del tipo di fedeli a cui volta a volta ci si rivolgeva, e quindi la tendenza a proporre modelli di pietà religiosa diversificati socialmente. In una predica tenuta a Pisa nella quaresima del 1304, il domenicano Giordano da Rivalto ammoniva che «non 28 Cfr. j. passavanti, Specchio della vera penitenza, a cura di F. L. Polidori, Firenze 18632, pp. 67 sgg. 29 Cfr. Plainte de la Vierge en vieux vénitien, texte critique a cura di A. Linder, Upsala 1898, pp. 34, 71-73.

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è commesso ad ogni uomo l’ufficio del predicare; ché, innanzi innanzi, a tutte le femine è vietato in tutto e per tutto; appresso, tutti i laici e idioti che non hanno lettere; onde niuno può essere predicatore, se non è letterato e scientifico; e di questo è grave scomunicazione ed è grave peccato; però che la Scrittura è grave, e profonda e sottilissima ad intendere, e non è da ogni persona»30. Non solo si respinge recisamente la richiesta, ricorrente nei gruppi ereticali, di concedere ai laici il permesso di predicare, ma si ribadisce la difficoltà della Scrittura («grave, e profonda e sottilissima ad intendere»). Solo chi è dotto, chi è «letterato e scientifico» potrà dunque salvarsi? Naturalmente il domenicano pisano non vuole dire questo. La via della salvezza per il cristiano non passa attraverso il Libro – un libro, per di piú, di difficile comprensione e neppure scritto in volgare. Come nei secoli dell’alto Medioevo, la Bibbia rimane largamente ignota alla massa dei fedeli. Di qui l’importanza delle prediche e delle immagini. E in un’immagine – quella del crocifisso – viene a concentrarsi, almeno per i «laici e idioti che non hanno lettere», tutto il messaggio cristiano: in essa è abbreviata l’intera Scrittura. Come scrive un altro domenicano pisano, Domenico Cavalca, nel suo Specchio de croce, perho che Christo crucifixo ne mostra et insegna ogni perfectione et ogni scientia utile, possiamo veramente dire ch’egli è libro di vita nel quale ogni seculare idiota e d’ogni altra conditione può leggere e vedere la legge tutta abbreviata. Perho che Christo in croce observò tutti gli comandamenti e compite e fece intendere tutte le prophetie, et adimpí tutte le promissione di lui facte a gli sancti padri e patriarchi e misse in opera quello che predicò; e perho chi ben studia legiermente impara tutta la Bibia.

E prosegue tracciando un minuto, capzioso paragone tra il Cristo crocifisso e il libro: Tutti sapiamo che il libro non è altro se non pelle d’agnello bene rase, ligate fra doe tavole e scripte quasi per tutto di lettere nere, ma gli principali capoversi sono lettere grosse vermiglie. Per questo modo Iesu Christo in croce sta come libro, perho che la sua pelle è la sua carne, la quale è agnello senza macula e senza peccato, che non fu raso né purificato da altri, anci nacque tutto cosí puro... Questa pelle cosí nuda e pellata fu non legata, ma confitta fra doi legni de la croce, et era scripta tutta di littere nere, perho ché fu tutta dilividita et anegrita per gli colpi e per le guanciate, in tanto che dice la scriptura che baveva perduto ogni bellezza. Sonoci ancora le miniature e le lettere grosse di vermiglio, cioè le piaghe, principalmente del capo, che tutte colaveno sangue, e de le mane e di piedi e del costato, le quale sono vermiglie di sangue e sono molto grande e grosse...31. 30 Cfr. Prosatori minori del Trecento, I: Scrittori di religione, a cura di G. De Luca, Milano-Napoli 1954, p. 27. 31 d. cavalca, Incomincia il prologo nel devoto e morale libro intitulato Spechio de croce, s. l. n. d., cap. xxxvi.

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La meditazione sull’immagine dolorosa di Cristo crocifisso, «libro nel quale è abbreviata tutta la scriptura», s’inseriva in un orientamento generale verso una pietà emotiva e drammatica. È anche troppo facile scorgere un nesso tra questo tipo di pietà e la crisi che soprattutto nella seconda metà del Trecento scosse non solo la Chiesa, ma l’intera società a tutti i livelli. La stessa tragica esperienza della peste s’inserí, sia pure accentuandola e in parte modificandola, in una tendenza religiosa già esistente. Ma un confronto con la documentazione d’Oltralpe mostra che in Italia l’irruzione dell’elemento, nuovo e scandaloso, del macabro, avvenne in forme molto piú composte e stilizzate32. Anche gli elementi folklorici e in senso lato carnevaleschi, che si mescolano spesso al macabro d’Oltralpe (dall’accentuazione della finitudine corporea alle sfumature grottesche e irridenti, sarcasticamente egualitarie, presenti nel tema della danza macabra) in Italia sono quasi assenti, o comunque molto smorzati. Tuttavia il dilagare di questa ossessione della morte fisica costituí, nonostante i tentativi di incanalarla nei modi espressivi della pietà tradizionale, una cesura importante. All’ansia per la fine del mondo era subentrata quella per la fine individuale, vista nella sua irrimediabile fisicità. La crisi dell’Impero e del papato, lo spezzettamento del potere politico e religioso, impedivano ormai di riferirsi alla comunità cristiana nei termini tradizionali. In questo senso si può forse vedere nel macabro l’espressione della crisi, ricca di elementi di disgregazione, ma anche di rinnovamento, che investe a metà del Trecento la società non soltanto italiana33. E alla splendida involuzione della società italiana fra Trecento e Quattrocento corrispose in un certo senso il soffocamento delle potenzialità eversive della sensibilità macabra, esemplificato dalla fortuna del genere letterario dell’Ars moriendi. Lo scandalo della morte fisica fu velato e trasformato in tema di edificazione per i fedeli. Ma la decadenza delle aspettative escatologiche era ormai evidente, nonostante la fortuna incontrata da voci isolate come Brigida di Svezia o Angela da Foligno. Ciò appare chiaro allorché si confronta la devozione popolare dei bianchi propagatasi nell’Italia settentrionale e centrale alla fine del secolo (1399), con il moto dei flagellanti di piú di un secolo prima. I bianchi, scalzi, vestiti di abiti di lino candido, muovevano a piccole tappe per le campagne, entravano nelle città accolti e benedetti dal clero, facevano paci, ponevano fine alle discordie cittadine; la flagellazione era ridotta a proporzioni quasi simboliche. Era certo una 32 33

Cfr. a. tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Torino 1957. Cfr. r. romano, Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Torino 1971, pp. 13-34.

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devozione eccezionale, che rompeva il ritmo consueto della vita quotidiana – ma si trattava di un’eccezionalità controllata e priva di tensioni34. Dal minuzioso elenco delle spese per il vitto e per l’alloggio sostenute al seguito dei bianchi, e dal «ricordo» redatto in quella occasione dal mercante pratese Francesco Datini, emerge addirittura l’immagine di una pacifica scampagnata. Per un uomo come il Datini questo pellegrinaggio era anzi un’occasione di fare sfoggio di liberalità e magnificenza con amici e clienti, e quindi di consolidare il proprio prestigio. Dopo aver nominato coloro che l’avevano accompagnato al seguito dei bianchi, concludeva infatti, compiaciuto: Somma, in tutto, uomini dodici: i quali, come detto è, tutti vennono meco in mia compagnia per avere il perdono del detto pellegrinaggio: e io feci a tutti le spese di mangiare e di bere e di ciò che bisognava loro; come sarà iscritto ordinatamente in questo libro innanzi. E per avere ciò che ci bisognava da vivere, io menai meco le due mie cavalle e la muletta da cavalcare; in sulle quali bestie mettemmo un paio di forzeretti piccoli da soma, in che furono piú scatole di tutte ragioni confetti, e gran quantità di ciera in torchietti e candele, e formaggio d’ogni ragione, e pane fresco e biscottato, e berlingozzi zuccherati e non zuccherati, e piú altre cose che s’appartengono alla vita dell’uomo...35.

Certo, non tutti i bianchi si saranno recati al pellegrinaggio mangiando berlingozzi zuccherati e non zuccherati; ma il tranquillo distacco con cui il Datini parla della sua partecipazione è comunque degno di nota. Non era, quella dei bianchi, una devozione che richiedesse preliminarmente un difficile rinnovamento interiore. Chi vi partecipava poteva raggiungere senza fatica l’illusione di una pacificazione con se stesso e col mondo. Eppure, tra l’etica, esplicita e implicita, di un uomo come Francesco Datini e i valori fatti propri dalla Chiesa in questo periodo esisteva un margine di conflitto. L’ascesa del ceto mercantile e la crescente mobilità sociale mettevano a dura prova strutture ecclesiastiche formatesi nell’ambito di un’economia di tipo curtense. La lunghissima polemica sulla liceità dell’usura fu soltanto il sintomo piú esplicito di questa crisi. Ma molto tipica è, per esempio, l’insistenza con cui il pio notaio Lapo Mazzei rimproverava all’amico Francesco Datini il «troppo piacere del murare», che lo portava a trascurare la salvezza dell’anima: Do! pigliate questo murare con modo, e vinca la ragione; che se fate per Dio [ossia per i poveri], Iddio non ha bisogno siate in tutto manovale; ché gli basta l’in-

34 Cfr. a. frugoni, Sui flagellanti del 1260 cit., e La devozione dei bianchi del 1399, in L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del medioevo, Todi 1960, pp. 232-48. 35 Ser lapo mazzei, Lettere di un notaro a un mercante del secolo xiv, a cura di C. Guasti, I, Firenze 1880, p. ci.

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In questa passione del «murare» si concentravano il desiderio di prestigio e di fama, l’aspirazione a una sopravvivenza tangibile dopo la morte. A tutto ciò il mito umanistico della gloria darà consapevolezza e dignità culturale. E non è senza significato che proprio il piú tipico oppositore del nascente culto dei classici, il domenicano Giovanni Dominici, scrivesse nella sua Regola del governo di cura familiare, indirizzata a Bartolommea degli Alberti: Se vuogli spendere quantità di danari, piú ti consiglio rifacci una chiesa guasta e abbandonata, o spedal rifiutato per povertà, dotandolo di quel che puoi, che fabbricar di nuovo; però sarà maggiore onore di Dio avere una casa sofficiente, che due mendiche; e tu n’arai piú premio, perché arai minor fama nel mondo. Però che presuppongo, cosí faccendo tu fabbricherai in sull’altrui, e l’arme d’altri aranno fama; e cosí il nome del patronaggio rimarrà pure ne’ primi. E cosí non saprà la man manca quello fa la diritta, perché la limosina tua sarà in ascondito...37.

Apparentemente, era un contrasto molto netto. Il Dominici criticava con durezza il modo in cui venivano educati i «moderni figliuoli», a base di letture di Ovidio, Virgilio e altri scrittori lascivi: E che peggio è, quella teneruccia mente si riempie del modo del sacrificio fatto agli falsi iddii, e riverenzie grandi, udendo di loro falsi miracoli e vane transmutazioni; prima diventando pagani che cristiani, e prima chiamando dio Iuppiter o Saturno, Venus o Cibeles, che il sommo Padre, Figliuolo e Spirito santo: donde procede, la vera fede essere dispregiata, Dio non riverito, scognosciuto il vero, fondato il peccato.

Per lui, anche i giochi infantili dovevano essere imperniati sulle cose della religione: Farai uno altaruzzo o due in casa, sotto titolo del Salvatore... alcuna volta saranno occupati in fare grillande di fiori o d’erbe, e incoronare Iesu... fare candeluzze... sievi la campanuzza... non vietar loro di giucare alle cappanelle, a dicci a pari, a chi piú salta o meglio corre, se in casa si può fare o altrove nel conspetto tuo, ponendo per pegno che chi perde dica cotanti paternostri o avemmarie, o faccia innanzi a Cristo cosí le venie, o sia privato non entrare nella cappelluzza...38.

Ma di fatto questo contrasto si smorzava nell’esortazione a una pietà moderata, priva di eccessi e di slanci, imperniata sulle virtú familiari tra-

36

Ser lapo mazzei, Lettere di un notaro a un mercante del secolo xiv cit., pp. 4, 139. g. dominici, Regola del governo di cura familiare, a cura di D. Salvi, Firenze 1860, p. 122. 38 Ibid., pp. 135, 146-47.

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dizionali e sulla oculata salvaguardia del patrimonio. Cosí, dopo la tipica esortazione, «la necessità della cura della famiglia non posporre alla soperchia orazione...», il Dominici ricordava che sant’Agostino rifiutò il lascito di un vescovo che aveva destinato l’intero patrimonio alla propria chiesa, diseredando i figli. Accogliere amorevolmente i pellegrini, sí, ma «vagabondi e instabili non debbon tanto caritativamente essere ricevuti». Anche i quadri da tenere in casa (sulla cui utilità, dal punto di vista sia psicologico sia religioso, il Dominici insiste molto) dovevano ispirarsi a un gusto sobrio e discreto: Ti guardi da ornamenti d’oro o d’ariento, per non fargli [i figli] prima idolatri che fedeli; però che vedendo piú candele s’accendono, e piú capi si scuoprono, e pongonsi piú ginocchioni in terra alle figure dorate e di preziose pietre ornate, che alle vecchie affumate, solo si comprende farsi riverenzia all’oro e pietre, e non alle figure o vero verità per quelle figure ripresentate39.

Non stupisce che un devoto seguace del Dominici, il mercante Giovanni di Pagolo Morelli, riuscisse – come mostrano i suoi Ricordi – a conciliare benissimo pietà religiosa e amore dei classici. La lettura e lo studio di Virgilio, Boezio, Seneca, si pongono per il Morelli sullo stesso piano della lettura e dello studio dei profeti e della Scrittura. Dai primi, egli dice, apprenderai «quello hai a seguire nella presente vita e sí in salute dell’anima e sí in utilità e onore del corpo», mentre dai secondi «sarai ammaestrato pienamente della fede e avvenimento del Figliuolo di Dio, arai gran consolazione nell’anima tua, gran gaudio e gran dolcezza, isprezzerai il mondo, non arai pena di cosa che t’avvenga»40. Sia gli uni che gli altri contribuiscono alla «scienza», all’equilibrata valutazione di uomini e cose. In quest’armonica visione della realtà la religione ha un suo posto, importante e circoscritto, fonte di certezze, piú che di tensioni o inquietudini. Certo, nel momento piú grave e tragico della sua vita, il Morelli, dopo avere invocato Cristo, Maria e Giovanni per ottenere la salvezza del figlio morto, sperimenta la tentazione del demonio: Assalendomi durissimamente mi cominciò a combattere e a molestare, mettendomi moltissime cose nella mente. Volea mostrare la mia fusse istata vana orazione e fatica indarno operata, e che l’anima fusse niente o un poco di fiato, che bene né male potea sentire se non come cosa impassibile, che non vede né sente né è da caldo o da freddo o da alcuna passione o da alcuno diletto oppressata. E con questo, il bene e ’1 male era quello che nel mondo s’acquistava, e che in questo i’ era ignorante, però che mai me n’avea saputo dare [i.e. accorgere]; e che dalla fortuna i’ era

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g. dominici, Regola del governo di cura familiare cit., p. 133. giovanni di pagolo morelli, Ricordi, a cura di V. Branca, Firenze 1956, pp. 271, 273.

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C. Ginzburg - Folklore, magia, religione istato molto oppressato e che in tutto m’era contraria. E che a questo non era altro rimedio se non disperarsi contro ad essa in questo modo: che s’ella ti toglie cento fiorini, rubane altrettanti; s’ella ti dà infermità, quando tu se’ sano fa che ogni legge sia rotta e contenta ogni tua voglia e spregia ogni altra cosa.

Questo scatto amaro e disperato trae origine da riflessioni in cui non è difficile riconoscere l’eco di qualche centone di detti di filosofi dell’antichità («l’anima fusse niente o un poco di fiato, che bene né male potea sentire, ecc. ecc.»). Per un momento, l’armoniosa concordia tra fede cristiana e tradizione classica si rompe: ma la tentazione del «demonio» ha breve durata. Nella contemplazione del crocifisso il Morelli trova conforto: pensa che non lui soltanto, ma tutti sono afflitti – «il perché, preso riposo nell’animo, m’addormentai». Nel sonno ha una visione da cui apprende che le sue preghiere sono state accolte e il figlio è salvo. Poi «isparí ogni visione; ed io mi destai tutto ispaventato e ’n parte allegro»41. Si può parlare di religione non solo cittadina, ma mercantesca – e non solo per la diffusione in questo periodo di pratiche cultuali di tipo quasi contabile, come il rosario, ma anche, piú in generale, per il modo in cui la pratica del commercio s’innesta in una visione religiosa complessiva. Un testo come il ricordo redatto nel 1464 da Giovanni Rucellai e inserito nel suo zibaldone, sembra riepilogare un atteggiamento verso la realtà che abbiamo visto già testimoniato, per esempio, dal Datini. Il Rucellai ringrazia Dio in prima d’avermi dato l’essere et avermi facto creatura razionale e inmortale, ché cosí arebbe potuto farmi una bestia mortale e sanza ragione. Secondariamente debbo ringraziarlo che m’à facto nascere in luogo dove è la vera fede, cioè nel Cristianesimo, e ppuosi dire nel mezzo della fede, cioè vicino a Roma, dov’è la residenzia del nostro sanctissimo signore papa e de’ suoi honorevoli fratelli cardinali, che rapresentano Cristo cogli apostoli, ché cosí arebbe potuto farmi nascere turco, moro o barbaro, che saria stato perduto sanza rimedio... E piú lo ringrazio della buona fortuna che m’à conceduta nel mio traffichare, ché di poche sustanze che mi furno lasciate l’ò acresciute e multiplicate, e al dí d’oggi mi truovo bella richezza chon bello aviamento e chon gran credito e buona fede. E non tanto m’à conceduto grazia nel guadangnare, ma anchora nello spenderli bene, che non è minor virtú che il guadangnare. Et credo che m’habbi facto piú honore l’averli bene spesi ch’haverli guadangnati e piú chontentamento nel mio animo. E maximamente delle muraglie che io ò facte della chasa mia di Firenze, del luogo mio da Quarachi, della facciata della chiesa di Sancta Maria Novella e della logia principiata nella Vigna dirinpetto alla chasa mia...

Ritornano le «muraglie» care al Datini: ma questa volta si tratta di «muraglie» opera di Leon Battista Alberti. E con tranquilla serenità il Ru41

giovanni di pagolo morelli, Ricordi cit., pp. 492 sgg.

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cellai poteva scrivere, in un ricordo del 1474: «... non avendo mai fatto altro da cinquanta anni in qua se non ghuadangnare e spendere... n’ò preso grandissima dolcezza e grandissimo chontentamento, e achordomi che anchora sia maggiore dolcezza lo spendere che il ghuadangnare». Poco tempo dopo il Rucellai, truffato da un dipendente, perdeva 20 000 fiorini investiti nella compagnia di Pisa, e aggiungeva con apparente distacco nel suo zibaldone: «per modo che insieme con altra aversità di richo sono diventato povero. Che Dio di tutto sia lodato»42. Il coagularsi di questo tipo di religiosità si accompagna a un’accentuazione dell’interiorità, dell’importanza dell’esperienza religiosa individuale. Il successo di una devozione popolare come quella dei bianchi chiude in un certo senso tutto un periodo. Le devozioni popolari indifferenziate socialmente, di fatto si estinguono. Il Dominici, che era stato tra i piú caldi fautori del moto dei bianchi, al punto da finire in esilio per avere voluto introdurlo a Venezia, consigliava nella sua Regola del governo di cura familiare, rivolta, come si è detto, a fedeli di ceto elevato: «Come spesso pecchi, spesso t’accusa; e almeno una volta il dí ti confessa da Dio, come se fussi a piè del sacerdote, e la penitenzia ne piglia, Miserere mei Deus o simile». Questo invito alla meditazione, addirittura slegata dalle occasioni della confessione sacramentale, non era rivolto a tutti. Poco piú avanti, riprendendo con forza un motivo tradizionale, il Dominici scriveva: Però che debbi sapere sono permesse e ordinate le dipinture degli Angeli e Santi, per utilità mentale de’ piú bassi. Le creature son libri de’ mezzani, le quali contemplate e intellette guidano nella notizia del sommo Bene. Ma le Scritture revelate son principalmente per li piú perfetti, nelle quali si truova d’ogni verità increata e creata quanto la mente è capace, tutto saporoso cibo per la vita presente43.

Il costituirsi di un ceto mercantile colto – e tra le sue letture c’era anche, come abbiamo visto, la Bibbia – faceva sí che i testi scritturali fossero sempre meno patrimonio esclusivo dei chierici. Senza dubbio, la possibilità di accostarsi al testo sacro ebbe profonde (anche se non immediatamente appariscenti) ripercussioni religiose. Anche all’altro estremo della scala sociale del laicato, vediamo che tra la fine del Trecento e la fine del Quattrocento si verifica una sorta di differenziazione religiosa. Lo strato di superstizioni, credenze, pratiche magiche che si era conservato silenziosamente per secoli grazie al-

42 Giovanni Rucellai ed il suo Zibaldone, I: Il Zibaldone quaresimale, pagine scelte a cura di A. Perosa, London 1960, pp. 117-18, 121-22. 43 dominici, Regola cit., pp. 56, 132.

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la paradossale fissità della tradizione orale, emerge in piú punti, come un magma sotterraneo affiorante attraverso una crepa del terreno. Due processi svoltisi verso la fine del Trecento indicano che le antiche tradizioni, forse di origine germanica, imperniate su una divinità femminile legata al mondo dei morti, dispensatrice di ricchezza e di fertilità, si erano mantenute sorprendentemente vive – e non in un ambiente contadino, ma in una città come Milano44. Il culto di questa divinità, ora chiamata Diana, come nei processi milanesi, ora Erodiade (come ci testimonia, per Firenze, il Passavanti a metà del Trecento) aveva radici remote. Difficile dire in che misura la loro ricomparsa fosse legata a un humus ereticale piú o meno decomposto – non per nulla Milano, celebre come «fossa di eretici», era stata a lungo un centro di dissidenza religiosa. La mescolanza di elementi magici e di motivi dualistici di origine verosimilmente catara, evidente in un gruppo di processi provenzali della metà del Trecento, non fu forse eccezionale. L’intreccio tra sopravvivenze ereticali e motivi folklorici a sfondo magico dovette essere frequente, come testimoniano forse anche le accuse rivolte ai fraticelli di darsi convegno sul Barlotto (piú tardi, nome tradizionale dei luoghi di riunione delle streghe) per commettere orge sessuali. Su un altro piano, il proliferare di istituzioni del tipo delle «abbazie degli stolti» piemontesi indica che in questo periodo il mondo folklorico, carnevalesco aveva acquistato una nuova vitalità. Alla lunga, tutto ciò non mancò di preoccupare la gerarchia. Le teorizzazioni dei demonologi, che descrivevano nei loro trattati le credenze sopravvissute, soprattutto nell’arco alpino, a ogni tentativo di evangelizzazione, cercando di comporle in un tutto coerente mediante nozioni giuridico-teologiche come quella del «patto» col diavolo, ebbero alla fine del secolo una sorta di riconoscimento ufficiale con la bolla Summis desiderantes affectibus (1484). La gerarchia lanciava una vera e propria offensiva – grazie soprattutto al tribunale dell’Inquisizione – contro questa cultura folklorica, a sfondo magico, in cui ormai si riconosceva la manifestazione, la presenza tangibile del demonio. Il versetto dell’Esodo «Maleficos non patieris vivere» che Salimbene aveva applicato volta a volta a generici «ribaldi» o agli odiati eretici apostolici, diventò il motto terribilmente chiaro della persecuzione diretta contro streghe e stregoni. Le superstizioni dall’apparenza piú innocente erano sempre piú spesso considerate indizio certo di stregoneria: e l’accusa di aver stretto un patto col diavolo evocava necessa-

44 Cfr. e. verga, Intorno a due inediti documenti di stregheria milanese del secolo xiv, in «Rendiconti del R. Istituto lombardo di scienze e lettere», s. 11, vol. 32, 1899, pp. 165-88.

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riamente le terribili immagini del sabba – la profanazione dell’ostia consacrata, le orge, il cannibalismo rituale. 6. «Reformare deformata». Questo polarizzarsi di tendenze nella vita religiosa italiana tra la fine del Trecento e la fine del Quattrocento aveva un elemento comune: si trattava di movimenti centrifughi, che testimoniavano l’esistenza di una crisi profonda nella Chiesa. Tale crisi ebbe la sua manifestazione piú clamorosa al vertice, con lo scisma d’Occidente, e la presenza simultanea di due o addirittura tre pontefici che si scomunicavano reciprocamente. Quali lacerazioni, nella pratica e nelle coscienze, tutto ciò provocasse, ci viene detto per esempio dalla Cronaca del Corpus Domini redatta al principio del Quattrocento da una suora legata al Dominici, Bartolomea Riccoboni. Una parte del convento parteggiava, col Dominici, per papa Gregorio XII, e un’altra, con i superiori dell’ordine, per papa Alessandro. Il vicario generale dell’ordine domenicano intervenne per sanare il contrasto, e comandò per obedientia soto pena de excomunication che tutte dovesse nominar ne la oration papa Alessandro e che chi questo non farà lui le punirà ben come rebelle. De che erano in grande tribolation, per che si quelle de papa Gregorio obediva, li pareva ofender misier Domenedio per che ne la sua conscienza li pareva che papa Gregorio fosse el vero pastor, e se le desobediva le incoreva nela excomunication; e sopra zò el se feva de grandissime oration con gran lacrime et a questo modo stevemo in grandissime angustie. Et in questo mezo, avanti che compisse l’anno [1409], questo Alessandro morite, de che tutti quelli che tengiva da Gregorio erano molto contenti, sperando de remagnir in paxe.

Ma lo scisma continua: viene eletto un nuovo papa, Giovanni, e le autorità veneziane impongono di prestargli obbedienza. Per la qual cosa – scrive la Riccoboni – el se faceva de grandissimi pianti e lamenti a vederse constrecti a dover dir contra la sua conscientia; era una grandissima compassion a veder tanti servi de Dio afflicti et non sapeva che partito li dovesse prender, o de dir contra conscientia credendo peccar mortalmente, over andar ramenghi per el mondo...45.

Riflesse nel microcosmo del chiostro, queste lacerazioni assumevano certo forme particolarmente gravi: ma l’inquietudine suscitata dallo scisma era diffusa. Ci fu chi, come il domenicano Manfredo da Vercelli, vide 45 Cfr. g. dominici, Lettere spirituali, a cura di M.-T. Casella e G. Pozzi, Friburgo 1969, pp. 277-78.

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in questi disordini il segno dell’approssimarsi della fine dei tempi. Ma questa predicazione apocalittica imperniata sul tema dell’Anticristo rimase un fatto isolato. Lo straordinario successo di Bernardino da Siena, che elargiva a un pubblico composto prevalentemente da artigiani o commercianti un’oratoria semplice, facilmente pittoresca, attenta ai fatti minuti della vita quotidiana, incline alla morale pratica piú che all’illustrazione di grandi temi religiosi, è sintomatico. Altrettanto sintomatico lo scetticismo con cui Bernardino affrontava il tema dell’Anticristo: Tu sai che molte volte è stato detto, insino quando era fanciullo udii che Anticristo era nato. Ma che dico io? insino al tempo delli Apostoli si disse che elli era nato, e anco al tempo di santo Bernardo. E cosí anco oggi si dice, e poco tempo è che si diceva fermamente. Doh, che pazzia è questa di coloro che vogliono sapere piú che Iddio non vuole che si sappia? Chi è colui che il sa? Non è creatura al mondo che il possa sapere, imperò che Iddio Cristo Gesú non volse dire alli discepoli, né Cristo, in quanto uomo, nol seppe mai46.

Bisognerà aspettare la fine del secolo perché i temi apocalittici riprendano vigore. Nella sua predicazione, Bernardino insisté moltissimo su una devozione elementare e facilmente comprensibile anche agli indotti come quella del nome di Gesú – attirandosi perciò l’accusa di favorire atteggiamenti idolatrici. Per diffonderla, egli riprese quella predicazione itinerante che i francescani avevano di fatto abbandonato da tempo. Non è un episodio isolato: nel corso del Quattrocento si assiste a una serie di tentativi convergenti di ridar vigore agli ordini religiosi. Fin dal secolo precedente il prestigio di questi ordini era fortemente diminuito, come testimonia se non altro il sarcasmo corrente nei confronti dei frati ipocriti e gaudenti. Si erano avuti tentativi come quello del mercante senese Giovanni Colombini, che aveva riproposto in termini di chiara derivazione francescana l’antico, e ormai scaduto ideale della povertà – riproposta che era stata smorzata e istituzionalizzata con la fondazione di un nuovo ordine, quello dei gesuati. Qualche decennio prima, sempre nel Senese, un gruppo di nobili si era ispirato invece alla regola benedettina, finendo col dar vita a una nuova congregazione, quella di Monte Oliveto47. Nel Quattrocento questi tentativi s’intensificano, si delinea un movimento mirante al ritorno all’osservanza delle regole primi46 Cfr. Le prediche volgari di San Bernardino da Siena dette nella piazza del Campo l’anno mccccxxvii, ora primamente edite da L. Banchi, I, Siena 1880, pp. 68-69. 47 Cfr. c. gennaro, Giovanni Colombini e la sua «brigata», in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e archivio muratoriano», n. 81, 1969, pp. 237-71; p. lugano, Inizi e primi sviluppi dell’istituzione di Monte Oliveto, in «Benedectina», 1, 1947, pp. 44-81.

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tive: cosí, tra i domenicani, il Dominici fonda un convento dell’Osservanza a Venezia e poi a Fiesole. Anche iniziative aristocratiche e socialmente chiuse, come quella dei nobili veneziani che si erano riuniti nel convento di San Giorgio in Alga per vivere poveramente in comune, senza vincolo di voti, finiscono col confluire negli ordini esistenti, sia pure per rinnovarli: da San Giorgio in Alga prende le mosse Ludovico Barbo, fondatore della congregazione di Santa Giustina, basata sul ritorno alla lettera della regola benedettina48. Per quanto decaduti, gli ordini rimanevano realtà cospicue – non solo e forse neppure prevalentemente dal punto di vista religioso – che era difficile ignorare. La loro forza d’inerzia spense o riassorbí le iniziative compiute in questo periodo da piccoli gruppi di laici, di varia estrazione sociale. Partiti da un silenzioso ma netto rifiuto delle istituzioni religiose esistenti, questi gruppi finirono tutti inquadrati negli ordini – attraverso la fondazione di conventi dell’osservanza o addirittura di congregazioni nuove, come quella dei canonici lateranensi. E tuttavia, queste iniziative dei laici, questa propensione a riunirsi per vivere esperienze religiose in comune, sono significative. C’è un indubbio parallelismo con quanto si verifica nei Paesi Bassi, negli ambienti della Devotio moderna – anche se i rapporti di un personaggio come il Barbo con la spiritualità della Devotio moderna sono stati indubbiamente esagerati49. Si prenda per esempio un testo come il Libro devoto e fruttuoso a ciascuno fedel christiano chiamato giardino de orationi attribuito a Niccolò da Osimo, redatto nel 1454, e poi piú volte stampato tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento. Avvertendo che se nel libro c’è qualcosa di men che benedetto, il lettore deve sottoporlo alla correzione di «ciascaduno vero spirituale et servo di Dio specialmente a correttione della santa chiesia catholica», l’anonimo autore afferma che «sopra tutte le altre virtude singulare e specialissima è la virtude della oratione, però che essa è quella che fa parlar l’anima con Dio»; perciò, se «chi non ha la intelligentia di questa oratione» si dedica alle «abstinentie et altre fatiche corporale, bene che anche queste cose faccia per piacere a Dio, molto è dilongato dalla via spirituale». Svalutazione delle pratiche esteriori, insistenza sull’importanza della meditazione: il tutto rivolto ai laici, anzi ai laici incolti, che tradizionalmente venivano invece indirizzati verso forme di pietà elementari e semplificate. Scrive infatti l’anonimo:

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Cfr. i. tassi, Ludovico Barbo ( 1381-1443), Roma 1952. Cfr. ibid., pp. 118 sgg.

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C. Ginzburg - Folklore, magia, religione della quale oratione, e della sua eccellentia et grandezza e utilità, molti hanno scritto copiosamente huomini prudenti esperti e spirituali; ma io indotto e grosso, considerando la indigentia di me stesso, et de molte altre persone, maschi e femine, le quale hanno poca scientia, e non possono intendere li libri litterali e scientifici, e nondimeno anche lor cercano de accostarsi a Dio, e per lor anche è fatto il regno del cielo, e forsi piú tosto che per li superbi delle grande scientie, mi ho pensato di componere questa opera, et questo trattato de l’oratione in vulgare: acciò che queste anime idiote e simplice possano havere intendimento di questa oratione, e in essa esercitarsi […] volendo piú presto fare utilità che satisfare alla vanità e curiosità di quelli che cercano pur de haver parlamenti ornati, rhetorici et esquisiti...

Di fatto, il libro si dilunga soprattutto sull’orazione mentale: quella cioè che si fa «senza sono di voce e senza parola, ma con la mente sola e con lo spirito». Non è una strada aperta a tutti: «questa oratione è difficile, e senza difficultà non si può ad essa pervenire. E quando se è intrato in essa è difficile et in essa perseverare [...] et tutto il corpo et il spirito bisogna che ad essa si dia». Tutto il discorso è rivolto agli «spirituali», contrapposti, secondo la terminologia paolina, ai «carnali»: ma si tratta di spirituali laici. Ad essi l’anonimo consiglia di pregare in un «loco remoto e segregato dalli strepiti e romori delle gente». Perché «alla oratione vocale la chiesia publica è lo loco proprio»; ma per l’orazione mentale, «senza sono di voce e senza parola», le cose stanno in un altro modo. Essa ha bisogno di una tecnica particolare, su cui l’anonimo si sofferma, riecheggiando temi già presenti nelle francescane Meditationes de passione Christi, il cui volgarizzamento era nel Quattrocento diffusissimo. Cosí, per meditare sulla vita di Cristo, «utilissima e giocunda meditatione», consiglia: habbi come uno specchio davanti dalli occhi della mente tua la vita sua. E singularmente havere nella mente la forma e l’habito del suo corpo sacratissimo [...]: e questo acciò che piú de lui ti possi inamorare, e piú caldamente nel suo amore accendere et infiamare. Anchora ti serà utile formarti nella mente li luogi e le terre e le stantie dove lui conversava, e le persone che singularmente erano in sua compagnia, come era la nostra Madonna, santa Maria Maddalena, Marta, Lazaro e gli dodeci apostoli, formandoti nella mente alcune persone di santitade e vertú delle quale ti representino le sopraditte persone con le quale conversava messer Giesú Christo frequentemente. E cosí essendoti representate quelle persone e quelli luogi per questa memoria locale, piú facilmente reduchi a memoria tutti li fatti e le operatione che fece in questa vita messer Giesú Christo.

E prosegue, intrecciando caratteristicamente la volontà di rapimento interiore e l’esigenza di rappresentarsi fisicamente gli oggetti della meditazione: e cosí intrando nel tuo cubiculo incominciarai a pensare la vita de parte in parte, con indusia di tempo, non trascorrendo, ma con riposo e dimoranza, ogni cosa par-

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ticularmente ruminando, altramente non senteresti frutto della tua oratione. Et perché sopra tutto ti è bisogno continovamente havere nella memoria el tuo sposo, fa mistiero che nella mente tua ti formi uno huomo, el quale habbia la statura, l’habito, le fattezze, e gesti, e membri del corpo le quale havea messer Giesú Christo fin che lui era in questa vita: le qual cose benché gli evangelii non porgano

tuttavia si trovano in un’epistola scritta da Lentulo, «canzeliero» di Erode – un’epistola naturalmente apocrifa, contenente una minuziosa descrizione dell’aspetto fisico di Cristo, redatta forse nel Trecento, e poi ripetutamente stampata fino almeno agli ultimi anni del Cinquecento50. A questa tecnica della meditazione, a quest’uso della «memoria locale» darà una larghissima diffusione, di lí a qualche decennio, Ignazio di Loyola: e l’accostamento ha una base concreta, perché Ignazio si riallacciò proprio a quelle Meditationes de passione Christi con cui questo Giardino de orationi ha precisi punti di contatto. Dai gesuiti, questa tecnica introspettiva verrà naturalmente piegata a fini molto diversi. Qui, nel Giardino de orationi, essa mira a fornire ai laici – forse a gruppi di laici, «maschi e femine»? – il modello di una pietà severa o appartata, lontana sia dalla «vanità e curiosità» dei dotti che dagli «strepiti e romori delle gente». Questo filone di Pietà destinato alle «anime idiote e simplice» era destinato a arricchirsi di nuove implicazioni (e non si può non sottolineare l’importanza della fortuna cinquecentesca del Giardino de orationi). Ma fin d’ora alcune caratteristiche sono evidenti: accentuazione dell’interiorità, indifferenza per i dogmi e le cerimonie, esigenza di purificazione individuale, assenza di qualsiasi accenno all’esigenza della riforma della Chiesa. Quest’esigenza era invece al centro del movimento per il ritorno all’osservanza. La necessità di «reformare deformata» non era presente soltanto ai nobili veneziani riuniti a San Giorgio in Alga51. La condanna della corruzione del clero e della mondanizzazione della Chiesa, ricorre con frequenza sempre maggiore nell’oratoria sacra quattrocentesca52. Sul finire del secolo essa si caricò di attese apocalittiche, in cui confluivano, a livelli diversi, calcoli astrologici e inquietudini religiose. Erano aspettative confuse, che andavano dalla predicazione, fondata sugli scritti ermetici tradotti e messi in circolazione dal Ficino, di un’imminente età dell’oro, al pronostico dell’Arquato «de eversione Euro50 La stampa del Giardino de orationi da me consultata è quella apparsa a Venezia, per Pietro de’ Nicolini da Sabbio, 1535: cfr. cc. A ii v sgg., F iii r sgg., O viii r sgg. 51 Cfr. tassi, Ludovico Barbo cit., p. 15. 52 Cfr. e. garin, Desideri di riforma nell’oratoria del Quattrocento, ora in La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1961, pp. 166-82.

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pae», alla riscoperta dei grandi testi dell’escatologismo medievale53. La discesa di Carlo VIII, l’inizio delle guerre d’Italia, la fine della «libertà» italiana furono avvertiti come eventi traumatici. Agli occhi di molti, la riforma della Chiesa doveva sfociare in un rinnovamento universale. A queste tensioni, a queste aspettative le gerarchie ecclesiastiche non riescono a far fronte. Tra la fine del Quattrocento e il principio del Cinquecento molte città italiane sono percorse da predicatori improvvisati che lanciano oscure profezie. La vicenda del Savonarola va vista su questo sfondo – anche se ovviamente la personalità del frate e l’eccezionalità della situazione fiorentina ne fanno un caso a parte. Ma anche dopo il supplizio del Savonarola l’atmosfera religiosa di Firenze rimane tumultuosa. L’orafo Pietro di Bernardo, già capo dei «fanciulli» savonaroliani, rivendica il dono della profezia ai laici «indotti» e «idioti», affermando che essi comprendono gli arcani della Scrittura meglio del clero. Divenuto capo della setta degli «Unti», cominciò a sua seghuaci a dare nuovi precepti, dicendo che la Chiesa s’aveva colla spada a rinnovare, e che doppo la morte di fra’ Girolamo non era rimasto huomo giusto in terra; in perché non era piú necessario confessarsi, perché tutti e’ frati e preti della Chiesa d’Iddio erano tepidi; e per questo nessuno, se non facta la renovatione, se confexassi.

Di qui, l’insistenza sull’orazione mentale, il rifiuto di sentir messa, la scelta della povertà54. Con gli «Unti» siamo in un ambito nettamente ereticale. Ma la pungente, ansiosa preoccupazione per la salvezza individuale, cosí caratteristica di quest’età, portava anche coloro che non avevano alcuna volontà di eterodossia a guardare con diffidenza e distacco i veicoli sacramentali offerti dalla Chiesa. Tra i confessionali del tempo, cosí minuziosi nello sforzo di racchiudere e ordinare tutte le colpe, tutte le infrazioni possibili – dai vari tipi di contratti fraudolenti alle varie combinazioni di rapporto sessuale –, cosí sottilmente schematici, cosí fondamentalmente aridi, e la spasmodica tensione di Pietro Paolo Boscoli condannato a morte, che dopo aver allontanato come una distrazione le immagini sacre, si sforza di «unir lo spirito a Dio», e teme di non riuscirci, si avverte uno scarto profondo55. Certo: l’esperienza del condannato a 53 Sull’Arquato cfr. e. garin, L’età nuova. Ricerche di storia della cultura dal xii al xvi secolo, Napoli 1969, pp. 105-11 (con bibliografia). 54 Cfr. c. vasoli, L’attesa della nuova èra in ambienti e gruppi fiorentini del Quattrocento, in L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del Medioevo, convegni del Centro di Studi sulla spiritualità medievale, III, Todi 1962, p. 398. 55 La morte di Pietro Paolo Boscoli cit., p. 69.

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morte, o comunque di chi sa di dover morire, non è paragonabile a nessun’altra, e comporta una tensione (eventualmente anche religiosa) eccezionale. Ma proprio quest’esperienza diventò in questo periodo, sintomaticamente, oggetto di numerosi scritti di pietà. In primo luogo, le Artes moriendi. Lo sforzo di consolare il morente che si sentiva angosciato anche perché non aveva piú la possibilità di compiere opere buone, induceva a sottolineare la centralità della fede in Cristo ai fini della salvezza. La dottrina della giustificazione per fede, cosí largamente diffusa nell’Italia dei primi decenni del Cinquecento, si affermò anche per questa via56. Nella maggior parte delle Artes moriendi quest’esortazione alla fiducia era accompagnata dalla raffigurazione degli orrori della morte, del peccato e dell’aldilà, che dovevano indurre il morente al pentimento. Ma in un testo come il Ricordo di fare il transito felice de la morte inserito dal minorita milanese Francesco da Mozzanica in calce a un confessionale apparso al principio del Cinquecento, si trovano accenti diversi. A proposito della tentazione della disperazione che coglie gli infermi, si dice che el diavolo, quando lo infermo sarà in angonia, tuti li peccati ge representa e porta lí davanti, maxime quelli che non haverà confessati, aciò per questo modo il conduca a desperatione. E nondimeno nullo per questo si desperi de la misericordia de Dio, etiamdio se lo havesse ben comesso piú latrocinii, furti e homicidii e altri grandissimi e laydi peccati che non sono le gozze de l’aqua del mare e li granelli de l’arena, etiamdio se in vita sua non havesse facto penitentia, né se ne fusse confessato, né etiamdio morendo non se ne potesse confessare, nondimeno non se debe desperare [...]. Solo il peccato de la desperatione he quello che non se po’ medicare [...]. E se caso fusse ch’el fusse certo e chiaro de essere nel numero de li dainnati, nondimeno per questo non se debe desperare.

Rimedio alla disperazione, afferma Francesco da Mozzanica citando Bernardino da Siena, è la meditazione del Cristo crocifisso57. Queste affermazioni non avevano nulla di eterodosso, ma estratte dal contesto, esprimevano senza dubbio una netta svalutazione dell’importanza della confessione, e in generale della mediazione ecclesiastica ai fini della salvezza. Portando all’estremo questi motivi, l’anonimo autore (quasi certamente un francescano) del Libro devotissimo della misericordia de Dio apparso a Bologna nel 1521, e dedicato anch’esso ai condannati a morte in generale e ai moribondi, arrivava a sostenere che lo

56 Cfr. r. klein, La dernière méditation de Savonarole, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 23, 1961, pp. 441 sgg. 57 francesco da mucianica, In nomine Iesu. Questo si è una brevissima introductione, Milano 1510, cc. K viii – L r.

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stesso peccato contro lo Spirito santo, che nella Scrittura è dichiarato irremissibile, può essere perdonato: ...Retorna adoncha, anima illaqueata e ligata da molti peccati, a Giesú Christo misericordioso, benegno e pietoso, el quale è apparecchiato a remettere e perdonarte tutte le tue iniquitade e sceleritade, se bene etiandio havesse peccato in Spirito santo, del qual se dice che non se remette né in questo mondo né in l’altro. Ma io te dico cosí, che se tu havesse le migliara de millioni de peccati in Spirito santo, e tu te voglie convertire a Dio, ello si è tanto benigno, caritativo e misericordioso che tutti te li remetterà, e perdonerà, se veramente ne serai bene contritto...58.

Qui si andava ben al di là della possibilità di un perdono divino del peccato contro lo Spirito santo, cautamente ammessa in circostanze eccezionali dallo stesso san Tommaso. Le affermazioni dell’anonimo autore del Libro devotissimo anticipavano temi ereticali, che ricorreranno per esempio negli scritti di Ochino. Ma soprattutto riducevano il problema della salvezza a un rapporto personale tra il fedele e il Cristo misericordioso. 7. La crisi del primo Cinquecento. Questa pietà cristocentrica, dalle tonalità appassionate e sentimentali, era, nell’Italia del primo Cinquecento, comune agli ambienti piú vari, da quelli ortodossamente cattolici a quelli ereticali59. Era una pietà che erompeva fuori dai quadri tradizionali, perciò quasi inesprimibile – e di fatto espressa, per una scelta stilistica che era anche una scelta religiosa, con un ricorso, ora deliberato ora spontaneo, all’arcaismo. Ciò fu reso possibile dalla diffusione della stampa. Tra la fine del Quattrocento e il principio del Cinquecento il pubblico dei lettori si trovò improvvisamente a poter disporre di una quantità di testi religiosi – raccolte di preghiere, scritti di pietà, commenti scritturali – risalenti a cinquanta, cento, trecento anni prima. Non c’è dubbio che per il lettore comune questi testi, per il loro carattere, e per il fatto di essere stati dati alle stampe, erano avvertiti come testi contemporanei. Gli scritti maggiori di Gioacchino da Fiore, il commento all’Apocalisse redatto dall’oscuro domenicano Federico Veneto nella seconda metà del Trecento, e la raccolta di incisioni apocalittiche ricalcate su quelle di Dürer – tutti libri stampati a Venezia tra il 1510 e il 1520 – furono letti o sfo58

Libro devotissimo cit., Bologna, per maestro Benedetto libraro, 1521, c. 14r. Cfr. d. cantimori, Le idee religiose del ’500, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. V, Milano 1967, pp. 7 sgg. 59

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gliati come testi che rispondevano alle inquietudini del presente60. Questo rigurgito di un passato dimenticato contribuisce certamente a spiegare certe caratteristiche arcaicizzanti della letteratura religiosa del primo Cinquecento, in cui nuovo e antico creano spesso un intreccio stupefacente. Ma l’arcaismo deliberato è ancora piú significativo. Si prenda il caso delle Meditationes de passione Christi dello pseudo-Bonaventura – un testo, cioè redatto nella seconda metà del Duecento o al principio del Trecento, e volgarizzato durante il Trecento. Nel corso del Quattrocento il volgarizzamento conobbe una straordinaria fortuna, che implicò ampliamenti e rielaborazioni, tendenti, in un testo già ricco di notazioni patetiche, a rispondere a quelle richieste di maggiore emotività e immediatezza che caratterizzavano, come abbiamo visto, la pietà religiosa di questo periodo. Cosí, il passo sul compianto del Cristo morto, che nel testo latino (qui ricalcato dal volgarizzamento) suonava semplicemente «Alii circumstant et omnes faciunt planctum magnum super eum: omnes enim plangunt eum amarissime, quasi unigenitum» diventò, in una stampa delle Meditationi apparsa a Firenze verso il 1495: «...tanto amaro pianto facevano che pareva ben verificato el prophetico decto di Hieremia: Lugebam unigenitum: fac tibi planctum amarum. Ma sopra tucte l’addolorata madre faceva piatoso lamento. O con quanta affetione riceveva et pigliava le pendente braccia del suo charo figluolo [...]. Et apena poteva pel dolore alchune parole proferire, ma sforzata dal materno amore con pia voce gridava come poteva, dicendo: “Che hai commesso, o dolcissimo figluolo, che in tanta acerba morte se’ stato condemnato? Che farà da hora innanzi la tristissima et mestissima madre tua? Oimè, amantissimo figluolo mio Giesú, in quante amaritudini mi sono convertite le dolceze che solevo da te havere” ... etc. etc.». Ma in un’edizione delle Meditationi apparsa a Venezia ai primi del Cinquecento il passo subí un’ulteriore modificazione, attraverso l’inserzione (non isolata) di una lauda di Jacopone, che veniva a creare un singolarissimo impasto stilistico-emotivo: ... Et cosí sopra tutti li membri del fiolo piangendo et basandoli mo l’uno mo l’altro, faceva pianto tanto amaro che quasi haveria provocato al lamento etiam li saxi, s’el fusse stato possibile [...]. Et perché apena per dolore poteva parlare, pur sforzata da l’amore con pietosa voce gridava come poteva dicendo, et insieme con lei quello innamorato Jacopone: 60 Su questa letteratura apocalittica cfr. in generale m. reeves, The Influence of Prophecy in the Later Middle Ages. A Study in Joachimism, Oxford 1969. Per i testi citati, vedi in particolare Apocalipsis Iesu Christi... cum nova expositione in lingua volgare composta per el reverendo theologo et angelico spirito frate Federico Veneto ordinis predicatorum, Venetia, Alexandro de Paganini, 1515; Apochalypsis Ihesu Christi, Venetiis, Alexander Paganinus, 1516.

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C. Ginzburg - Folklore, magia, religione El cortello del gran dolore M’ha passato fin al core Ben m’el disse Symeone Quando al tempio io te hebi dato. O dolceza del mio core O fonte pieno de dolore O percosso mio splendore O dolce mio viso rosato. Apri li ochii o vita mia Risguarda la trista de Maria L’anima già se parte via Dal mio corpo amaricato etc. etc.

In questa complessa stratificazione – il testo, probabilmente duecentesco; il volgarizzamento trecentesco; le sovrapposizioni quattrocentesche – si ricorreva a Jacopone per far corrispondere a un momento di massima tensione emotiva una scelta stilistica che unisse insieme i valori della «semplicità» e della «schiettezza». Del resto, il proemio all’editio princeps di Jacopone (Firenze 1490) avvertiva: «Siano adunque confortati li lectori a legere con attentione esse laude simplici quanto al stilo et parole, ma piene di sancta doctrina et de alti sentimenti...»61. Non sappiamo se l’inserzione di testi di Jacopone in questa stampa veneziana delle Meditationi sia da attribuire a influssi di tipo fraticellesco62. Essa testimonia comunque una tendenza generale, riscontrabile anche nella pittura di questo periodo. Gli elementi deliberatamente arcaici, medievaleggianti, di uno dei capolavori del primo manierismo fiorentino, la Deposizione dipinta nel 1521 dal Rosso per una confraternita laicale controllata (si noti) dai francescani, la Compagnia della Croce di giorno di Volterra, dànno luogo a un impasto stilistico composito che richiama per analogia il passo già citato delle Meditationi apparse a Venezia63. Anche l’emergere, negli stessi anni, di una pittura inquieta, agitata, anticlassica come quella del Pontormo, si spiega probabilmente alla luce di queste esigenze nuove della pietà religiosa, e non di motivazioni esclusivamente formali. 61 Cfr. in generale sulla fortuna delle Meditationes, a. vaccari, Le «Meditazioni della vita di Cristo» in volgare, in Scritti di erudizione e di filologia, I, Roma 1952, pp. 341-78. 62 Cfr. c. dionisotti, Resoconto di una ricerca interrotta, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Lettere, storia e filosofia», s. II, XXXVII, 1968, pp. 264-65. 63 Cfr. a. cinci, La chiesa di S. Francesco e la Madonna di S. Sebastiano, Volterra 1884, pp. 8-9; il Cinci, contrariamente alla tradizione, afferma che il dipinto fu commissionato dalla contigua Compagnia della Croce di notte che del resto era anch’essa legata alla chiesa di San Francesco. Sulle connessioni della Deposizione del Rosso con l’arte medievale hanno insistito studiosi come Friedländer, Kusenberg, Hartt.

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All’aspetto piú appariscente della crisi religiosa italiana, e cioè il profetismo, la gerarchia cercò di porre rimedio con la condanna pronunciata nel V concilio lateranense (1516). E di fatto, dopo qualche anno quest’ondata sembrò placarsi – anche se filoni profetici riapparvero dopo qualche tempo, soprattutto in ambienti ereticali. In un certo senso, la condanna del profetismo non autorizzato chiudeva un periodo, in cui la riforma della Chiesa aveva assunto apparentemente i caratteri di un moto incontrollato e tumultuoso, ricco soprattutto di iniziative dal basso: ora, con il Concilio lateranense, la gerarchia sembrava aver ripreso saldamente la guida della Chiesa. Appare perciò emblematica la lettera scritta dal Contarini, proprio nel 1516, all’amico camaldolese Paolo Giustiniani, che gli chiedeva un giudizio articolato sul Savonarola – e cioè su colui che, a torto o a ragione, aveva finito col simboleggiare, per la sua tragica morte, questo periodo di riforma della Chiesa condotta sotto il segno del profetismo. La risposta del Contarini era complessa. Anzitutto, sottolineava (per prudenza, in greco) che non bisogna ubbidire al papa se ordina qualcosa contro l’onor di Dio. Poi, parlava di Savonarola con ironico distacco: quando non vedessi in quello huomo una profondissima doctrina et non havessi inteso della sua sancta vita, io di quelle revelationi ne haveria riso. Et dipoi il grande ingegno et gran doctrina mi danno sospecto di fictione; pure il fingere una cosa cosí puerile mi pare da nuovo, in un tale huomo non so quello mi creda. Tamen cum dubia in meliorem partem sint trahenda, io non faria mai iudicio di questa cosa et credo che solo Dio possi fare.

Certo, Savonarola non era un eretico («non ci è cosa alchuna contro alla fede»); ma sulla sua figura, e su tutta la questione del profetismo, su cui il concilio lateranense aveva assunto una posizione cosí recisa, il Contarini finiva col sospendere il giudizio. Ciò che gli premeva dire era altro: Questa rennovatione della chiesa io non lla so per prophetia, ma la ragion naturale et divina me la decta. La naturale perché le cose humane non vanno secondo una linea recta infinita ma vanno secondo una linea circulare; benché tutte non fanno el perfecto circulo et quando son venute a un certo termine di augumento vanno poi in giú. Applicate voi. La rag[i]on divina mi decta etiam che qualche volta Dio debba regulare la sua chiesa, il che debba [essere] sommamente desiderato da tutti li christiani64.

La ragione naturale e quella divina erano cosí nettamente contrapposte alla profezia. Con questa serena fiducia nella possibilità di condurre una riforma della Chiesa dall’interno, senza cataclismi, in un ambito circo64 Cfr. f. gilbert, Contarini on Savonarola: An Unknown Document of 1516, in «Archiv für Reformationsgeschichte», 59, 1968, p. 149.

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scritto, il Contarini doveva condurre la sua battaglia, ed essere infine sconfitto, sia pure dopo un quarto di secolo. Accanto al profetismo, e distinto da esso, un altro elemento di crisi e quindi di preoccupazione per la gerarchia era dato dalla diffusione, in ambienti colti, di dottrine eterodosse come quella della mortalità dell’anima. La polemica contro Pomponazzi, che vide impegnato in prima fila, tra gli altri, lo stesso Contarini, fu certo importante. Ma accanto agli opuscoli polemici di un Contarini e di un Bartolomeo Spina, scritti in latino, con abbondanza di citazioni e di glosse aristoteliche, rivolti quindi ai soli dotti, troviamo anche reazioni piú elementari, che sembrerebbero indicare una diffusione (o almeno il timore di una diffusione) di queste dottrine anche tra un pubblico culturalmente meno preparato. Fin dal 1515, un certo Gerolamo da Bologna stampava a Venezia una Operetta nova spirituale dedicata prevalentemente a una polemica contro gli ebrei, che tuttavia conteneva un’appendice scritta «a confusione... de li heretici christiani che dichano non essere altro vivere che questo et che morto el corpo è cassato ogni cosa...» L’autore, che fin dal titolo si definiva «ispirato da Dio», dopo aver dichiarato apertamente la propria ignoranza («io non ho aperto libro né ho havuto compagno né maestro che me dicesse una parola, excepto lo scriptore che scriveva quello che Dio me inspirava... io non so parlare taliano...») si lanciava in argomentazioni di questo genere: Io te dico che la potentia del mantenimento con el quale l’huomo è mantenuto non è come quella potentia che è nel cavallo e l’asino: per quanto e l’homo è mantenuto da quello mantenimento della parte de l’anima che ha lui de homo, e l’asino è mantenuto in la parte del mantenimento asinale; e l’aquila è mantenuta da l’anima che ha essa. E certo, per tutto se dice mantenimento: e questo se intende in el partecipare del nome solamente, e non perché li casi siano uno in sé medesimo.

Infine concludeva: «Intendi bene questi casi che sono assai sotili, e molti inzampano in esso, e specialmente di quelli philosophi antiqui». Ma la polemica non era rivolta evidentemente contro i filosofi antichi, bensí, come avvertiva il titolo stesso dell’operetta, contro non meglio specificati «heretici christiani». Che un frate ignorante come questo Gerolamo da Bologna fosse indotto a occuparsi di tali argomenti, dà da pensare. È verosimile che questi atteggiamenti di miscredenza non fossero piú limitati a conventicole ristrette, inclini magari a un culto estetizzante dell’antichità, come quella riunita a metà del Quattrocento attorno a Pomponio Leto. Comunque, Gerolamo da Bologna finiva esortando il suo ipotetico lettore in questi termini:

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como el salvatore Christo Iesu benedetto per la sancta passione t’ha recomperato, per la sua sancta passione, la quale te priegho che tu con tua mente l’abbi inanti al conspecto tuo, e non sia ingrato de tanto grandissimo beneficio che lui te ha voluto comperare per lo sangue suo; questo è quello che dice: Redemisti me domine deus veritatis65.

Ritorna la consueta pietà cristocentrica, l’enfatica accentuazione dell’efficacia esclusiva, ai fini della salvezza, della passione di Cristo, qui accompagnata dall’espressione «beneficio di Cristo» destinata a tanta fortuna, da Erasmo (che l’usò per la prima volta in quello stesso anno 1516) a Melantone, fino al Trattato utilissimo del beneficio di Giesu Christo, lo scritto piú celebre e diffuso del movimento riformatore italiano66. Il ricorrere di quest’espressione in un testo come l’Operetta nova spirituale di fra Gerolamo da Bologna sembra quasi simboleggiare i molteplici fili che congiungono gli atteggiamenti religiosi del primo Cinquecento, ancora cosí poco studiati, a quelli, tanto piú complessi (e diversi) della metà del secolo. In questa situazione inquieta e confusa cominciarono a arrivare in Italia, verso il 1520, le prime notizie e i primi scritti dei riformatori d’Oltralpe. Le idee di questi uomini cominciarono a circolare prima ancora che si potesse parlare di gruppi organizzati su posizioni favorevoli alla Riforma. Nella generale incertezza sulla liceità di questa o quella dottrina, gente che avrebbe respinto recisamente la prospettiva di abbandonare la Chiesa in cui era nata e vissuta prestava volentieri orecchio ai temi della propaganda dei riformatori. Questa situazione d’incertezza, che favoriva oggettivamente la diffusione delle nuove idee, durò un paio di decenni. L’alternarsi in una stessa città, a poche settimane di distanza, di predicatori appartenenti magari allo stesso ordine che sostenevano tesi opposte non poteva non stimolare l’attenzione dei fedeli. Gli stessi sotterfugi adoperati dai fautori delle dottrine riformate, il loro dire e non dire, il loro parlare per accenni e implicazioni, accrescevano la sensibilità dell’uditorio67. Ma l’elemento di attrazione maggiore era dato forse dalla lettura e dalla spiegazione della Scrittura. Si verifica in questo periodo una vera riscoperta dei testi sacri, e in particolare di san Paolo. Quando l’Ochino predica a Napoli sulle lettere di san Paolo, i cuoiai discutono per le strade sui problemi della giustificazione e della 65

gerolamo da bologna, Operetta nova cit., e. d 3 v sgg. Cfr. s. caponetto, Erasmo e la genesi dell’espressione «Beneficio di Cristo», in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. II, vol. XXXVII, 1968, pp. 271-74. 67 Cfr. a. rotondò, Atteggiamenti della vita morale italiana del Cinquecento: la pratica nicodemitica, in «Rivista storica italiana», LXXIX, 1967, pp. 1012 sgg. 66

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grazia. Questa passione diffusa si spiega in una situazione di privazione scritturale come quella che si era creata non solo in Italia. Il testo biblico circolava sepolto dalle glosse, l’oratoria sacra tendeva spesso alla divagazione o allo sfoggio erudito. Soprattutto, la possibilità di disporre di testi maneggevoli e relativamente a poco prezzo, determinata dal progresso della stampa, aveva creato un pubblico di lettori potenziali. Allorché, nel 1539, il Brucioli pubblicò la sua traduzione della Scrittura, sottolineò nella dedicatoria l’importanza, sul piano religioso, dell’uso del volgare: Cristo aveva parlato ai pescatori, alle donne, alla povera gente, in un linguaggio piano e elementare; coloro che cercano di impedire la traduzione della Scrittura vogliono far sí che la parola di Dio non arrivi alle persone a cui è realmente destinata68. Per molti, la riscoperta della Scrittura e l’adesione, magari inizialmente inconsapevole, alle dottrine riformate furono una cosa sola. Ma quest’adesione non significò accoglimento passivo. A tutti i livelli, la situazione religiosa preesistente agí come una griglia, che lasciò filtrare certi temi e non altri. Ciò è evidente in un caso come quello dell’umanista Lisia Fileno, che recatosi a Strasburgo spinto da precisi interessi religiosi, entra in contatto con ambienti che verosimilmente lo spingeranno ad assumere, al suo ritorno in Italia, posizioni radicali. Ma questo è, ovviamente, un caso speciale. Tuttavia, anche in individui provvisti di una consapevolezza molto minore si scorge la tendenza ad accentuare temi come la giustificazione per fede o il rifiuto della mediazione ecclesiastica, accanto a una piú o meno accentuata indifferenza (o addirittura insofferenza) nei confronti delle sottigliezze teologiche. Per questa via si arrivava spesso alla svalutazione dei sacramenti o alla loro interpretazione in chiave spiritualistica – e quindi a posizioni ereticali, o a comportamenti nicodemitici, o a entrambe le cose. Uno degli elementi decisivi dell’atteggiamento italiano nei confronti della Riforma sembra essere stato, quindi, la presenza di questo humus religioso indifferenziato, comune a cattolici, riformati e eretici in senso proprio. Si può fare un esempio abbastanza caratteristico. Nel 1536 apparve a Genova una traduzione in volgare delle visioni di Angela da Foligno, intitolata Libro utile et devoto nel quale si contiene la conversione, penitentia, tentatione, dottrina, visioni et divine consolationi della beata Angela da Foligni. L’opera era già stata stampata, nel testo latino, a Venezia verso il 1520 da Lucio Paolo Roselli, futuro corrispondente di Melantone. L’anonimo curatore di quest’edizione genovese avverti68 Cfr. Il Nuovo Testamento di Christo Giesu signore et salvatore nostro, tradotto di greco in lingua thoscana da Antonio Brucioli, Venezia 1541, dedicatoria.

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va nella dedicatoria di aver voluto tradurre questi scritti in volgare perché fossero piú diffusi, senza però badare ad ellegante parlare né a lingua tosca o cortigiana, ma solo a farlo intelligibile: però si eshorta ogniuno ad legerlo solamente per il suo utile et salute dell’anima, quale tanto piú gli ritroverà quanto piú consideratamente legendo lo masticherà, et il masticato et considerato metterà con la opera in essecutione. Perché non li lettori, ma li fattori delle bone opere acquistano la gratia.

Quest’insistenza su un cristianesimo pratico e fattivo era ribadita subito dopo con forza ancora maggiore: hora si pregha et eshorta ogniuno universalmente che non si fastidisca legere (per lo bene suo) questo utilissimo libro, ove ritroverà la via regia piana et facile a trovar Dio (cioé della povertà, dolore, et disprezo) della quale nisciuno si puotrà scusare, come si potrebbe della contemplatione della incomprensibile trinità.

Difficile dire in quale ambiente nasca questo testo. Francescano, molto probabilmente; forse legato a qualche estrema propaggine di tipo fraticellesco? In ogni caso, è anche partendo da contrapposizioni come queste (povertà, dolore, disprezzo / incomprensibile trinità) che si comprende l’evoluzione di tanti eretici italiani – basti pensare all’Ochino. 8. Gruppi riformatori e ripresa di antiche superstizioni. Un movimento riformatore organizzato in Italia non ci fu. Ci furono comunità sparse, o, piú spesso, raggruppamenti dai confini mutevoli o incerti. Troviamo, cosí, nuclei di artigiani o di mercanti che si riunivano per leggere insieme la Scrittura, o per celebrare la cena calvinista, riuscendo talvolta a sottrarsi per anni e anni alla vigilanza dell’Inquisizione. Mancavano tuttavia legami organizzati e stabili, tali da superare la frammentazione delle situazioni locali, piú o meno favorevoli. Certo, le idee e gli uomini circolavano, c’erano contatti, incontri; gli esuli religionis causa mantenevano spesso rapporti, economici o di altro tipo, con il luogo d’origine. Libri e fogli volanti venivano diffusi clandestinamente. La possibilità che avevano i membri degli ordini religiosi di spostarsi da un capo all’altro della penisola (cosí, il benedettino don Benedetto da Mantova passa da Mantova a Venezia, a Catania, a Ferrara, allacciando rapporti con gli ambienti piú vari) era eccezionale: ma in generale questi gruppi eterodossi appaiono caratterizzati da una grande mobilità e vivacità. In questo modo le idee della Riforma penetrarono largamente nella società italiana, toccando ambienti colti e aristocratici, come il circolo riunito a Napoli attorno al Storia d’Italia Einaudi

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Valdés, entrando nei conventi, arrivando fino agli strati artigiani delle città. Ma fu una penetrazione limitata ad ambienti cittadini: tranne trascurabili eccezioni, le idee, le inquietudini, le aspettative riformatrici non si diffusero nelle campagne. Se si pensa – è un accostamento rozzo ma illuminante – a quella che era stata la parabola storica dei gruppi ereticali medievali, il contrasto è evidente. Nati nelle città, quei gruppi avevano mantenuto fino all’ultimo legami col mondo contadino (la disperata resistenza di fra Dolcino in Valsesia si può considerare emblematica). Nell’Italia del Cinquecento, caratterizzata da una profonda, e ormai consolidata frattura tra città e campagna, ogni tensione religiosa eterodossa si esaurí nell’ambito urbano. Cosí, nonostante l’ampiezza e la capillarità della loro penetrazione, le correnti riformatrici finirono con lo scontare un limite politico e religioso che aveva origini antiche. Anche l’audacia degli intellettuali italiani in materia di religione (un’audacia destinata ad alimentare, attraverso l’azione e gli scritti degli esuli, il pensiero europeo di quasi due secoli) si tradusse, in pratica, nell’incomprensione dell’importanza storica delle chiese organizzate: la lucida intuizione di Machiavelli sull’efficacia politica della religione, rimase isolata69. D’altra parte, la presenza incombente nella penisola del dominio spagnolo rendeva impossibile una politica di alleanza tra i riformatori e i principi, quale si era avuta in Germania. In qualche decennio, con l’aiuto di efficaci strumenti repressivi come il tribunale del Sant’Uffizio, la Chiesa di Roma riuscí a riprendere il sopravvento, spegnendo uno dopo l’altro gli sparsi focolai di dissidenza religiosa. L’unico gruppo che seppe darsi una base settaria organizzata fu quello degli anabattisti. Di qui, oltre che dal radicalismo delle loro dottrine, essi derivarono quella consapevolezza di costituire un’entità inassimilabile al resto del movimento riformatore, che non mancò di imporsi alle stesse gerarchie cattoliche. Abituate a combattere con una imprecisata e indifferenziata «eresia luterana» (un opuscolo polemico specificamente antizwingliano come l’Enchiridion del domenicano Gerolamo da Monopoli, apparso postumo a Napoli nel 1539, è assolutamente eccezionale)70 esse scoprirono, verso la metà del secolo, l’esistenza di una setta nettamente caratterizzata, sparsa un po’ per tutta la penisola. La repressione, nei confronti di uomini che rifiutavano dogmi fondamentali del cri69 Cfr. d. cantimori, Niccolò Machiavelli: il politico e lo storico, in Storia della letteratura italiana cit., vol. IV, Milano 1966, pp. 7 sgg. 70 Enchiridion magistri Hieronymi Monopolitani ordinis predicatorum de necessitate bonorum operum et veritate sacramenti eucbaristie adversus Zuinglium, Neapoli, Ioannes Sultzbacchius, 1539.

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stianesimo come la divinità di Cristo, e minavano le basi stesse del potere politico dichiarando l’illiceità del portare armi e di esercitare la magistratura, fu durissima. Perfino la repubblica di Venezia, cosí gelosa della sua indipendenza nelle materie ecclesiastiche, collaborò in questa occasione con la curia romana. Cosí l’anabattismo, che si era diffuso, grazie a una propaganda capillare condotta soprattutto tra i ceti artigiani, dal Veneto, all’Emilia, alla Toscana, con propaggini che arrivavano fino in Calabria e nelle Puglie, fu sradicato, cancellato dalla realtà italiana. Rimasero soltanto poche tracce, che si spensero o furono spente nei decenni successivi. I semi del radicalismo religioso furono affidati, come si è detto, alla diaspora ereticale. Ma anche l’anabattismo, e cioè lo sforzo piú coerente allora tentato di mettere in discussione, su basi religiose, la religione e la società costituite, non era penetrato nelle campagne. Nella tumultuosa agitazione religiosa che percorre gran parte del Cinquecento italiano, i contadini appaiono in sostanza assenti. Un caso come quello della Calabria non è generalizzabile, per la presenza di un’antica comunità eterodossa come quella valdese – del resto, destinata anch’essa a una brutale distruzione71. La storia religiosa delle campagne italiane del Cinquecento segue strade proprie, che vanno viste a parte. Nella crisi generale della società italiana si assiste a una vera eruzione di quel mondo folklorico che era stato compresso per secoli, e che aveva cominciato a venire alla superficie già nella seconda metà del Quattrocento. L’indebolirsi delle capacità di controllo da parte della gerarchia ecclesiastica, diede a questo mondo folklorico la possibilità di esprimersi con una straordinaria ricchezza di forme. La quantità e varietà di credenze superstiziose registrate nei confessionali del principio del secolo, di solito sotto la rubrica «Trasgressioni del primo comandamento», dà un’idea della loro diffusione. Il già ricordato Francesco da Mozzanica, per esempio, elencava: De le superstitione. De uceli maxime de corvi. Animali. Che le strie se converteno in gatte. De farse guardare in su le mane. De la observatione de alcuni dí o luna o altri pianeti... De dare fede alli soni. De voltare il crivello. De li brevi al collo. De li incanti alla febre o animali o a fluxo de sangue o de denti o de ferite o simile cose...72.

Erano credenze vecchie di secoli, verso cui tuttavia l’atteggiamento stava cambiando. La trasformazione delle streghe in gatte per recarsi al sab71 Cfr. m. scaduto, Tra inquisitori e riformati, in «Archivum historicum Societatis Iesu», XV, 1946, pp. 1-76. 72 In nomine Iesu. Questo si è una brevissima introductione cit., cc. a iii v – a iv r.

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ba, qui considerata ancora una mera credenza erronea (e condannata come tale) era ormai per quasi tutti gli autori dei trattati di demonologia una realtà di fatto. Inoltre, Francesco da Mozzanica vedeva in queste superstizioni delle deviazioni religiose, tant’è vero che nel mezzo dell’elenco scriveva: «De havere qualchi errori contra la fede de la sancta madre gesa. De li maleficii...» Ma in un confessionale apparso a Venezia due anni prima, a cura di Antonio da Butrio, l’invocazione dei demoni figurava, sulla traccia del codice giustinianeo, tra le manifestazioni di un particolare tipo di superbia, la ribellione: Et confiteor de decimo gradu superbie, sive de rebellione: per quam superbiani ultra et praeter inobedientiam per quam maiores meos offendi, ego superbus corde lingua et opere contra eos egi, et precipue contra dominuni deum, invocando et replicate nominando demonium, eius auxilium imploravi; et si fui rebellis ecclesie aut in aliquo favorem rebellibus dando, et e contrario rebelles in terra mea tenui et acceptavi, aut rebelles mee civitati vel comitatui defendi...73.

È chiaro dal contesto che questo confessionale era destinato a individui di ceto superiore, addirittura a personaggi che detenevano un potere politico: ma proprio il diffondersi delle credenze magiche e demoniache a livelli sociali e culturali diversi, creava nelle gerarchie ecclesiastiche un indubbio sconcerto. Certo, il pullulare di questi motivi magici nella cultura del Quattrocento e Cinquecento non aveva un significato irreligioso – anzi, si conciliava benissimo con l’interpretazione dei dogmi cristiani in chiave neoplatonica, diffusa in determinati ambienti umanistici. La magia popolare sembrava invece, ed era in realtà, un fenomeno diverso, e potenzialmente piú pericoloso. Non per nulla la distinzione tra «alta» e «bassa» magia rimase netta: soprattutto ad opera di chi non voleva confondere i propri calcoli e le proprie speculazioni sugli arcani della natura con gli intrugli delle donnette. Un caso come quello del poeta e umanista modenese Panfilo Sassi, che si fece maestro di incanti amorosi alla strega Anastasia la Frappona, dovette essere del tutto eccezionale74. Piú esigui e incerti, invece, erano i confini tra preghiere e invocazioni superstiziose, tra incantesimi e esorcismi. Un libriccino come la Coniuratio malignorum spirituum, di cui si ebbero, tra il 1477-78 e il 1500 circa, ben 29 stampe, contiene testi come questi: Obsecro te domine Ihesu Christe ut extrahas omnes languores ab omnibus membris huius hominis, a capite, a capillis, a cerebro, a fronte, ab oculis, ab auribus, a naribus, ab ore, a lingua, a dentibus, a faucibus, a gutture, a collo... etc. 73 Confessionale domini Antonio de Butrio, impressum in alma Venetiarum civitate per Simonem de Luere, 1508, cc. b v. 74 Cfr. di chi scrive, Un letterato e una strega al principio del ’500: Panfilo Sasso e Anastasia la Frappona, in Studi in memoria di Carlo Ascheri, «Differenze», 9, 1970, pp. 129-37.

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Coniuro te diabole per patrem et filium et sanctum spiritum et per patriarchas et prophetas apostolos evangelistas martyres confessores virgines et omnes sanctos et sanctas dei... Coniuro te diabole per passionem domini nostri Iesu Christi quam recepit pro humana generatione ut recedas ab hoc famulo dei N. Coniuro te diabole per sanctam crucem in qua dominus noster Iesus Christus fuit suspensus... Coniuro te diabole per clavos domini nostri Iesu Christi... Coniuro te diabole per lanceam quam habebat Longinus... etc. etc.75.

È difficile distinguere tra giaculatorie e scongiuri. Certo, la quantità di ristampe testimonia una richiesta precisa. È un filone che continua, in volgare, fino al Seicento inoltrato. Solo una piccolissima parte di questa produzione (L’oratione di san Jacopo Maggiore, La devota oratione de S. Elena...) viene messa all’Indice come superstiziosa. Si prenda un esempio tipico, la Devotissima et efficacissima [nei titoli viene vantata spesso l’efficacia di queste preghiere] oratione detta le tanaglie d’oro: Per l’immenso dolore che sentisti, quando in croce per forza ti furono tirate le braccia, e le gambe al loco delli chiodi Dio habbi misericordia di me. Per il chiodo, col quale ti fu fitta in croce la man destra Dio habbi misericordia di me. Per il chiodo, col quale ti fu fitta la man sinistra in croce Dio habbi misericordia di me. Per l’asprezza del chiodo, che ti trafisse li nervi etc. etc.76.

Come si vede, è una preghiera che ricalca da vicino la Coniuratio citata piú sopra. Ci si rivolge al diavolo o a Cristo con gli stessi termini e nello stesso spirito: ciò che conta è l’efficacia intrinseca delle parole e dell’iterazione. Al fedele non è richiesta nessuna forma di partecipazione interiore, ma soltanto unmeccanica. Siamo in un certo senso all’estremo opposto del tipo di preghiera mentale consigliato nel Giardino de orationi piú di un secolo prima, tutto imperniato sull’interiorità, addirittura sul rifiuto della «vocalità». Questa produzione in cui confluivano magia e pietà religiosa circolò senza dubbio anche nelle campagne. Ma il folklore contadino trovò il modo di esprimersi in forme originali e relativamente autonome. L’estraneità dei contadini nei confronti della religione dei colti, di quelli che sanno leggere e scrivere, appare formulata senza mezzi termini in quel grande testo che è l’Alfabeto dei villani (chiunque ne sia stato l’«autore»): La Santa Croce, l’Ave, el Pater nostro Non se l’haom possú tegnir a mente Né littra fatta a stampa o con inchiostro. Arare e rampegare con gran stente

75

Cito da un incunabulo conservato presso la Biblioteca Angelica, Roma (segnatura: Inc. 95

[81]). 76

In Venetia, presso il Bonfadino, 1616.

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C. Ginzburg - Folklore, magia, religione Questa è la nostra prima lettion Che n’ha insegnò i nostri mazorente.

Naturalmente non era uno sfogo irreligioso (allora, a questo livello, non sarebbe stato possibile). Il Pater noster apparso insieme all’Alfabeto esprimeva in versi amari e burleschi, ricorrendo alla forma tipicamente folklorica della parodia religiosa, il lamento dei contadini oppressi e tormentati da «Francesi, Spagnoli et Alemani», e invocava l’intervento del Dio vendicatore dell’antico testamento: Summergeli Signor de passione Sí como summergesti Pharaone Et dalli in cielo la maledittione Et in terra [...] Signore Dio tutti ingenoccione Noi ti pregamo con devotione Che da noi discazzi queste maledittione Et ne nos inducas in tentationem. Liberaci Signor giusto clemente Da questa falsa dispietata gente Che ne consuma et guardaci al presente A malo. Amen.

Ma a queste aspettative apocalittiche l’Alfabeto dei villani sembrava dare una sconsolata risposta. Dio non ascolterà le preghiere dei contadini: Christo fu da vilan crucificò E stagom sempre in pioza in vento in neve Perché haom fatto cosí gran peccò.

La conclusione era senza speranza: Martori semo, et martori sarom A seom proprio la schiuma de sto mondo77.

L’Alfabeto dei villani si riallacciava, riempiendola di contenuti nuovi, alla tradizione, complessa e ambigua, della satira del villano78. Anche in questi scritti s’insiste spesso sull’ignoranza religiosa del villano che è uno dei tanti segni della sua inferiorità e brutalità. Ma uno di essi, la Santa Croce dei villani dice di piú: 77 Cfr. e. lovarini, L’Alfabeto dei Villani in pavano nuovamente edito ed illustrato, in Studi sul Ruzzante e la letteratura pavana, a cura G. Folena, Padova 1965, pp. 411 sgg. Alle due stampe dell’Alfabeto menzionate dal Lovarini aggiungerne una terza, conservata presso la Biblioteca Vaticana, da cui cito. 78 Cfr. d. merlini, Saggio di ricerche sulla satira contro il villano, Torino 1894, in particolare pp. 23 sgg.

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El villan non sa fare Alcun atto honesto, Non sa lege né testo Né alcun comandamento […] El te roba e va in striazo...79.

Lo «striazo», cioè il sabba, diventa in questo periodo il grande mito religioso alternativo del folklore contadino. In esso confluiscono anche due grandiose fantasticherie che proprio nel corso del Cinquecento trovano un’articolata (e piú o meno mediata) espressione letteraria: il mondo alla rovescia, e il paese di Cuccagna. Sono miti carnevaleschi, in cui si esprime l’aspirazione a un universo dominato dall’inversione rituale, dall’abolizione delle distanze, dall’esplosione dell’osceno e del burlesco. Il sabba è un mondo alla rovescia, cui si accede con invocazioni magiche che sono preghiere invertite (il padre nostro detto all’incontrario), in cui la messa viene parodiata, le ostie sono nere, i cibi sono insipidi, il coito è doloroso e non dà piacere, la divinità è il diavolo, cui si rende omaggio baciandogli il sedere. Ma il sabba realizza anche, in forma allucinatoria, la terrestre utopia del paese di Cuccagna: si mangia a crepapancia, si godono le donne piú belle, si indossano velluti e broccati, ci si riempie le tasche di monete d’oro – anche se naturalmente poi tutto scompare e si ritorna alla vita miserabile di tutti i giorni. Il sabba, infine, è un mondo carnevalesco, in cui si è mascherati o travestiti da animali, in cui si celebrano orge, in cui il diavolo spegne le candele a forza di peti. Questa immagine del sabba non è di origine popolare. Debitamente istituzionalizzata e codificata nei trattati di demonologia, essa fu diffusa da predicatori e inquisitori nel corso di un secolo. Con l’aiuto di interrogatori e di torture venne sovrapposta a uno strato molto piú antico di credenze contadine imperniate su culti di fertilità. La progressiva cancellazione compiuta dagli inquisitori del culto di Diana, nel Modenese e altrove, e la trasformazione coatta dei benandanti friulani in stregoni secondo tutte le regole, esemplificano chiaramente questo processo80. Ora, tra questi culti agrari prestregoneschi e il sabba diabolico inquisitoriale esistevano indubbiamente delle analogie. Soprattutto analogie di carattere funzionale: entrambe le credenze fornivano una protezione, una consolazione nei momenti critici, traumatici dell’esistenza. Nel caso dei benandanti, e cioè di un culto saldamente radicato, e provvisto di una forte coerenza interna, questi momenti critici erano legati alla vita dell’intera comunità, alle scadenze stagionali dell’annata 79 80

Cfr. d. merlini, Saggio di ricerche sulla satira contro il villano cit., pp. 184-85. Cfr., di chi scrive, I benandanti, Stregoneria e culti agrari nell’Europa del ’500, Torino 1966.

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agricola – semina, raccolto, vendemmia. Nel caso di un culto molto piú. disgregato e artificiale come quello stregonesco, i momenti critici coincidevano invece con determinati traumi individuali: una mezzadra viene cacciata dalla proprietà, si dispera, e le appare il diavolo; una donna rimane vedova, si aggira smarrita per la campagna, e anche a lei appare il diavolo81. Ma c’erano anche profonde diversità: anzitutto, nei culti agrari prestregoneschi mancava il diavolo (che è una creazione cristiana). C’erano invece i morti, le anime dei morti vaganti – ambigue figure, benefiche e malefiche insieme, oggetto di pietà e di terrore. Questa cultura folklorica fu quindi sradicata due volte. Una prima volta, attraverso lo snaturamento dei culti agrari prestregoneschi in culti demoniaci. Una seconda volta, attraverso la repressione e il soffocamento di questi ultimi. Perché anche in un culto tutto sommato imposto dall’esterno come quello diabolico, diffuso e perseguitato dagli inquisitori, trovavano sbocco sentimenti religiosi autonomi, talvolta vigorosissimi. Il caso di una contadina del Modenese, Domenica Barbarelli, che dopo aver confessato di essersi recata di notte al «gioco di Diana», orina sul crocifisso che le è stato piamente donato dagli inquisitori, esclamando che preferisce el suo – la sua divinità, il demonio – «che vesti d’orro, cum la bacheta d’orro», è esemplare82. Il sabba aveva finito col diventare l’espressione forse piú autentica della religiosità contadina.

9. La Controriforma. Il soffocamento di ogni manifestazione religiosa alternativa, o in grado di diventarlo, fu perseguito con impegno e sistematicità dalla Chiesa uscita dal Concilio di Trento. Anche l’attività di chi, come il vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, aveva cercato di giungere a un rinnovamento religioso per vie diverse da quelle poi sancite a Trento, fu irrigidita nell’astratta perfezione di un modello, e di fatto lasciata cadere83. Gli stessi tentativi di Carlo Borromeo di garantire un peso maggiore alla figura del vescovo e di salvaguardare le particolarità – liturgiche o di altro tipo – delle chiese locali, urtarono contro la volontà cen81 c. ginzburg, Stregoneria e pietà popolare: un processo modenese del 1519, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Lettere, storia e filosofia, s. II, XXX, 1961, pp. 269-87. 82 Cfr. I benandanti cit., p. 145. 83 Cfr. a. prosperi, Tra evangelismo e Controriforma: G. M. Giberti, Roma 1969.

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tralizzatrice della curia, e furono sconfitti84. Saldamente subordinata al pontefice, riorganizzata nelle sue strutture diocesane, la gerarchia posttridentina si dedicò all’opera grandiosa che va sotto il nome di Controriforma. Ciò che colpisce soprattutto in quest’opera è la sua modernità (si potrebbe sostenere che la Compagnia di Gesú, in particolare, è stata la prima istituzione consapevolmente, deliberatamente «moderna»). Il problema centrale era quello del rapporto con le masse dei fedeli. Bisognava saldare le fratture che si erano create, riguadagnare il terreno perduto – e nello stesso tempo, sottrarre al laicato, nei limiti del possibile, ogni capacità di iniziativa autonoma (di qui, la tensione crescente tra clero e confraternite). Già nel corso delle controversie antiprotestanti si era palesata la tendenza – espressa anche esplicitamente – a non formulare in maniera troppo particolareggiata gli argomenti degli avversari, perché questo poteva essere pericoloso: il gregge dei fedeli indotti doveva respingere l’errore possibilmente senza conoscerlo85. Questo atteggiamento di paternalistica sollecitudine verso la massa dei fedeli, continuò e si generalizzò anche dopo il 1570, allorché ogni forma, o quasi, di dissidenza religiosa si era ormai spenta. Non si insisterà mai abbastanza sulla importanza del divieto di accesso alla Scrittura in volgare. Era un divieto perfettamente coerente con la volontà di mantenere un netto distacco tra la fede colta, consapevole dei teologi e la fede immediata e irriflessa dei laici ignoranti. A questi ultimi era riservato l’indottrinamento sistematico delle verità fondamentali della fede, inculcate in maniera elementare mediante il catechismo. L’opera svolta dalle compagnie della dottrina cristiana e dalle altre organizzazioni catechistiche (appoggiata ufficialmente da Pio V con un breve del 1567) fu capillare. Giovanni Battista Eliano, autore di una diffusissima Dottrina cristiana illustrata (secondo una formula che ebbe molto successo), cercò di raffigurare questa diffusione del catechismo inserendo nel suo libretto un’incisione che mostra un gesuita intento a insegnare la dottrina; attorno a lui si vede un gruppo di bambini seduti, e un po’ in disparte, in piedi per sottolineare la diversa posizione gerarchica, tre contadini rozzamente vestiti, con sulle spalle gli strumenti di lavoro. È un’immagine che dà bene il senso di un fenomeno che ebbe conseguenze tanto profonde. La preoccupazione per le immagini, per il loro valore emotivo e infor84 Cfr. p. prodi, Charles Borromée, archevêque de Milan, et la Papauté, in «Revue d’histoire ecclésiastique», LXII, 1967, pp. 379 sgg. 85 Cfr. f. chabod, Per la storia religiosa dello Stato di Milano cit., p. 364, nota 1.

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mativo, fu vivissima durante la Controriforma (le discussioni su questo problema svoltesi al Concilio di Trento sono note)86 come del resto in tutte le fasi di grande proselitismo della storia della Chiesa. Ma nonostante il fervore di tanta pittura sacra di questo periodo, è chiaro che essa non bastava a soddisfare le richieste religiose delle masse dei fedeli. Ad esse si cercò di far fronte con un torrente di opuscoli devoti che si riversò sull’Italia per piú di un secolo e mezzo, lasciando sedimenti che non sono stati spazzati via definitivamente neppure oggi. Erano opuscoli da pochi soldi, stampati su carta cattiva, adorni di rozze xilografie: preghiere, vite di santi, narrazioni di miracoli, litanie. Nel giro di pochi anni, o a distanza di decenni lo stesso testo veniva ristampato a Venezia, Perugia, Macerata, Messina. È difficile valutare esattamente l’influsso esercitato da questo opuscolame devozionale. Senza dubbio, la maggior parte dei libriccini smerciati nelle campagne erano di questo tipo – accanto agli almanacchi, le ricette, i cantari. E in questa letteratura devota – specialmente nelle vite dei santi – la gente trovava un po’ di tutto. Esotismo e avventure in un testo come la Relatione della morte di un padre dell’Ordine di San Francesco, ch’è stato scorticato vivo in Algieri. Con la morte d’altri christiani impalati, brusciati et inancinati alla Turchesca. Caso veramente compassionevole et degno di grandissima ammiratione, tradotta di Spagnolo in Italiano dal dottor Antioco Strada Sardo Calaritano, in Fiorenza et di nuovo in Viterbo 1603. Amori e avventure in un testo come la Historia de santa Theodora, come fu ingannata da una vecchia, e fecela peccare. Et come hebbe molte battaglie dal Demonio, e fece grandissima penitenza, composta per Francesco Marinozzi, in Ronciglione, in ottave. Devozione e perversione sessuale in un testo come La oratione di S. Barbara vergine et martire di Nostro Signor Giesu Christo, in Siena et in Orvieto, con licenza de’ Superiori. Maliziosi indugi erotici nella Historia di Susanna et de due vecchi... nuovamente data in luce per Tommaso Filippini, stampata in Fiorenza con licenza de’ Superiori, et in Orvieto 1618. Si tratta di una letteratura in gran parte anonima, generalmente (ma non sempre) di infimo livello, di andamento popolaresco. Talvolta il tono è da cantastorie: Huomini e donne io vi voglio pregare Che tutti quanti ci stiate ascoltare E chi ha de’ figlioli un bel esempio po’ pigliare Col nome di Maria io mi metto a cominciare

86 Cfr. p. prodi, Ricerche sulla teorica delle arti figurative nella Riforma cattolica, in «Archivio italiano per la storia della pietà», iv, 1962, pp. 123-212.

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(Esempio bellissimo d’un peccatore chiamato Tito, divoto di san Girolamo, dove per mezzo di detto santo si rividde della vita pessima, che lui tenne molto tempo, si converti lui, et molti altri suoi compagni. Cavato dal Giardino d’Esempi del R. P. F. Serafino Razzi dell’Ordine Domenicano, composto in ottava rima d’Alessandro Parnino da Siena, in Macerata 1631).

Ma tutti questi scritti battono e ribattono su alcuni temi ben precisi. La devozione mariana, anzitutto: in generale il testo vero e proprio è preceduto da una dedica a Maria, come quella ora citata. Nel frontespizio de Il prego alla gloriosa Vergine Maria nostra avvocata, stampata in Siena con licentia de’ Superiori, e ristampata in Orvieto s. d., Maria appare (secondo un’iconografia tradizionale, ma comunque significativa) incoronata da Cristo e Dio padre, rispettivamente alla sua sinistra e alla sua destra, mentre lo Spirito santo in forma di colomba protegge la scena. Le lodi di Maria vengono dette in versi facili e cantanti: O Maria che bionda testa, Li capelli son fila d’oro, Rimirando quel tesoro, Tutti gli Angioli ne fan festa, O Maria che bionda testa (Laude della beatissima sempre Vergine Maria).

Questa devozione zuccherosa e bamboleggiante non risparmia né Cristo – che non è mai il Cristo giudice ma, quasi sempre, Gesú bambino – né misteri della teologia cristiana come quello dell’Incarnazione: Verbum caro factum est, De Maria per dolce amor. [...] Verbum caro fantinello, Circonciso col coltello, Fu per noi con gran dolor. [...] Verbum caro in Egitto Fu portato fanciulletto A fuggire il gran furor. [...] Verbum caro humilemente, Adorò cosí fervente, Che de sangue fé sudor. etc. etc. (El verbum caro, in Venetia 1620).

Inoltre, si insiste di continuo sull’importanza dei sacramenti. La loro efficacia è indipendente dalla virtú del sacerdote che li somministra, sottolinea, rispondendo evidentemente a un dubbio popolare diffuso, il Contrasto dell’angelo, et del demonio, e come l’angelo mostra la via de salvatione al peccatore di questa vita presente, per andare alla gloria di vita eterStoria d’Italia Einaudi

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na: il demonio sostiene che il peccatore è dannato pur avendo ricevuto l’assoluzione, in quanto Assolver non lo può giamai quel prette Perché quel prette fu homicidiale E tal confession giamai non vale,

ma l’angelo lo rimbecca duramente: ...Se tutti peccati che fanno al mondo Havesse un prette in sua libertade, Il nostro Padre Dio Signor giocondo Non leva però a quel l’autoritade Che lui non possa sempre confessare Chi puramente Christo vuol perdonare.

La conclusione di un testo come La vera lygenda del Santiss. Corpo di Christo, converso in carne, sangue et hostia..., composta dal R.P.F. Tiberio Franco del Monte S. Martino dell’ordine heremitano, in Venetia 1614, è questa: Cristo apparendo miracolosamente «in hostia, in carne, in sangue», Volse mostrarsi a chi fu ostinato Della auttorità sacerdotale Quanto sia grata a Dio, e quanto vale.

Il modello di vita religiosa proposto in questa letteratura devozionale popolare della Controriforma, si riassume in sostanza nella devozione verso Maria e i santi, nella pratica dei sacramenti, nella frequenza alla messa. Sono le esortazioni rivolte dal morto al vivo nella Leggenda del vivo e del morto, utilissima ad ogni fedel Christiano, novamente ristampata et coretta, in Venetia 1607: Prima, compagno mio, trovate un Santo Che avanti a Dio per te preghi ogn’ora A quel fagli riverentia in ogni canto, Ogni dí innanzi a lui si adora, A la Vergine Maria sopra tutte quante, Et ogni dí risguarda la sua figura, Lei ha possanza in Cielo et anche in terra, Quel che lei fa, il fa avanti a Dio. Ancora disse il morto, sii leale A chi tu sei tenuto per ragione, Prima il matrimonio dei guardare, Perché gli è opera di salvatione. Con tutta la gente usa veritade, Va a la chiesa a vedere il Signore; Se havessi fatto questo in vita mia, L’anima mia in cielo salita saria.

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Il generico imperativo «con tutta la gente usa veritade» passa quasi inosservato di fronte a quelli, ben piú precisi e circostanziati, di obbedire ai superiori («...sii leale | A chi tu sei tenuto per ragione») e di partecipare alle devozioni e ai riti della Chiesa. La mera osservanza di queste prescrizioni è considerata sufficiente a garantire la salvezza. Ma lo smercio di questa letteratura devozionale lasciava insoddisfatta una richiesta scritturale che pure esisteva. Sintomo evidente di ciò non è solo la diffusione degli apocrifi, o di testi, per cosí dire, parascritturali. Nel 1580 una compagnia di commedianti provenienti dalla Francia si fermò a Pisa a recitare. Tra i canovacci messi in scena, ce n’era uno intitolato Il figliuol prodigo. L’inquisitore intervenne, vietando la rappresentazione perché sacrilega. I comici, interrogati, si difesero affermando di aver recitato il canovaccio incriminato anche a Milano, previa approvazione del vescovo Borromeo (la cui indulgente politica teatrale è del resto nota). Ma uno di essi, all’inquisitore che gli chiedeva se conoscesse la parabola evangelica del figliuol prodigo, rispose di no87. Questa risposta non doveva avere nulla di eccezionale. Non potendo leggere la Scrittura, la si metteva in scena, con l’aggiunta di qualche lazzo e di qualche capriola. Ma la pietà controriformistica non si esauriva nelle forme meccaniche e elementari esaminate finora. C’era un filone, sottile ma tenace, rivolto a un pubblico piú selezionato socialmente e culturalmente, che insisteva su motivi di tutt’altro genere – misticismo, annullamento della volontà, amore «unitivo» di Dio. Questo filone, che da un lato si ricollegava addirittura alla Devotio moderna, e dall’altro anticipava temi quietistici, può essere esemplificato da una raccolta come il Fruttuoso giardino di opere spirituali, fatti da alcuni servi di Dio per salute dell’anime, raccolti per Gio. Battista Maringo, in Palermo 1619. In essa, brani del minorita Herp, morto poco dopo la metà del Quattrocento e legato agli ambienti dei Fratelli della Vita Comune, erano accompagnati da slanci come questo: E quando, Dio mio onnipotente, io sospirando dirò o Signor mio vivo e vero, unitemi perfettamente con voi, e senza piú dire rimanendo sospeso, io intendo con tutto l’affetto e con tutti i desiderii che voi intendete potersi fare, di transfondere perfettamente la mia volontà nel vostro beneplacito, e rinegando me stesso, senza ritrattatione alcuna divenire la mia volontà con la vostra, talmente che io non voglio havere, né volere, né non volere se non come volete e non volete voi etc. etc.88.

87 Archivio Arcivescovile di Pisa, S. Uffizio, fasc. 1, cc. 626r sgg. (il fondo non è inventariato. Ringrazio l’archivista, don Virgili, che ha gentilmente facilitato le mie ricerche). 88 Fruttuoso giardino cit., pp. 86-87.

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Il relativo successo – ma limitato ad ambienti molto circoscritti, come poi in seguito quelli toccati dal quietismo – di una meditazione interiore come questa, tutta sospiri e fervori, si spiega come reazione alla contemporanea larghissima diffusione della pietà di tipo gesuitico, insieme controllata e teatrale. Si veda un opuscolo come quello del prete Antonio Maria Cortivo dei Santi, Pugna spirituale per gl’incipienti e novelli soldati di Christo, overo regola pratica facilissima per finalmente risolver l’animo amatore del mondo, di darsi a Dio... la qual serve la mattina, fra il giorno, la sera et notte, in Padova 1620, in cui, a parte il richiamo del titolo al Combattimento spirituale dello Scupoli, erano rielaborati temi degli Esercizi ignaziani e degli scritti del gesuita Pinelli. Il Cortivo ammoniva: quanto poi al gusto spirituale che alle volte si prova nell’oratione, non lo devi stimar molto, se non in quanto mezzo alla perseveranza, per la debilità tua; perciò starai sempre indifferente tanto al gusto, quanto all’aridità interiore. Non creder a lumi et visioni. Habbi te stesso in continuo sospetto...

Caratteristicamente, dichiarava la superiorità di quelle orationette giaculatorie da se stesse messe nel cuore, et fabricate senza industria, dal solo et semplice buon animo, et accesa, giusta et retta volontà, che quelle promosse per arte, et lette nei libri, se bene ancor queste vagliono assai.

E subito dopo, con un brusco passaggio: Quando non puoi esser udito, et che non sia alcun pericolo di scandalo, t’apporterà mirabil aiuto il proferire fuori con la lingua quei concetti che senti dentro nel cuore, fortemente, con gridi amorosi, hor con gl’occhi al cielo, hor alla terra, hor chiusi, hor lagrimanti, con le mani or gionte, hor insieme serrate in pugno, hor crociate al petto, hor sollevate e gionte, hor sollevate et estese, con allargate braccia in forma di traversi di croce, o crociate insieme in modo di croce, o talmente unite che eccitino il core a eccesso, o di dolore o allegrezza, etc. etc.89.

C’è un senso preciso della convenienza sociale: certe manifestazioni di pietà religiosa sono lecite (anzi auspicabili) in privato, non in pubblico. O meglio: sono lecite anche in pubblico, ma nella misura in cui non sono piú un fatto individuale, bensí un fenomeno collettivo. Nelle loro missioni evangelizzatrici i padri gesuiti si servirono per l’appunto delle forme di teatralità controllata descritte nell’opuscolo del Cortivo. Queste missioni, condotte in prevalenza, ma non esclusivamente, dai gesuiti, sono il fenomeno piú caratteristico e importante della storia religiosa italiana del Seicento. Proseguendo e ampliando un’iniziativa che risaliva al secolo precedente, esse riuscirono a imporsi là dove il movi89

cortivo de i santi, Pugna spirituale cit., pp. 7r, 8v-9r.

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mento riformatore cinquecentesco era fallito: nelle campagne. In questo modo, una delle costanti della storia religiosa italiana – la separazione e contrapposizione tra città e campagna – veniva intaccata, e si creavano le premesse del rovesciamento che avrà luogo nel corso del Settecento. Ma ciò che rese ancora piú significativa quest’opera di cattolicizzazione fu il fatto che essa fosse rivolta, soprattutto grazie ai gesuiti, in direzione del Mezzogiorno. La frase, tanto spesso citata, sulle «Indie di quaggiú» – e cioè l’Italia meridionale – non era un’espressione retorica. Nel momento in cui la Chiesa assumeva, non senza contraddizioni un’ottica missionaria mondiale, la penetrazione religiosa nelle campagne dell’Italia meridionale si configurava come un corrispettivo, su un altro piano, delle iniziative di evangelizzazione in Asia o nelle Americhe. Il resoconto della memorabile campagna propagandistica condotta dai padri gesuiti nel Mezzogiorno, redatto da Scipione Paolucci S. J. (Missione de’ padri della Compagnia di Giesú nel Regno di Napoli, in Napoli 1651) era dedicato «al santo apostolo dell’Oriente Francesco Saverio della Compagnia di Giesú», con questa giustificazione: «Stimasi, et a raggione, questo impiego [i.e. nel regno di Napoli] poco inferiore alla vocatione dell’Indie: posciaché toltane la speranza, che ivi si ha, di spargere il sangue per la Fede, qui le fatiche non son minori, et il fatto è forse maggiore». E certo, l’inizio dell’unificazione religiosa della penisola non era cosa da poco. Il dislivello economico, politico, civile tra l’Italia settentrionale e quella meridionale – un dislivello che durava, in forme diverse, fin dal secolo xi – aveva dato luogo a due storie religiose diverse. Tutti i fenomeni religiosi piú importanti della storia italiana avevano avuto il loro epicentro al di fuori del Mezzogiorno: la riforma gregoriana, le eresie medievali, la nascita degli ordini mendicanti, i movimenti popolari come quello dei Flagellanti, o i movimenti partiti dalla gerarchia come quello del ritorno all’osservanza. Solo con la Riforma la situazione aveva cominciato a modificarsi, anche se a un livello socialmente molto circoscritto, con la comparsa di un gruppo come quello valdesiano a Napoli, e il diffondersi di atteggiamenti eterodossi in Sicilia. Alla fine del secolo, tuttavia, il tentativo insurrezionale a sfondo utopistico e astrologico di Campanella rifletteva, nella sua esasperazione e disperazione, una realtà di tremenda arretratezza. Ma nel corso del Seicento questa arretratezza in un certo senso si generalizza, diventa un fatto italiano, addirittura mediterraneo, di fronte a un’Europa settentrionale che supera la crisi e imbocca la via dello sviluppo. La conquista religiosa del Mezzogiorno ad opera dei gesuiti avviene in una situazione di crisi, di degradazione sociale, in cui lo stesso scarto tra Italia setStoria d’Italia Einaudi

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tentrionale e Italia meridionale tende a cancellarsi. E assume, questa conquista, le forme di una regressione genialmente calcolata e controllata. L’azione dei gesuiti si svolse prevalentemente nelle zone costiere, senza inoltrarsi troppo nell’interno. Ma anche nelle zone meno remote da traffici e comunicazioni, i padri s’imbattevano in situazioni stupefacenti. Racconta il Paolucci: Eranvi nella campagna d’Evoli da cinquecento guardiani d’armenti divisi in varie ville e poderi di quel contado; huomini, che d’huomo non haveano che la figura, nella capacità e scienza poco dissomiglianti a quelle bestie medesime che custodivano: affatto ignoranti, non che dell’orationi, o altri misterii particolari della santa Fede, anche della stessa cognitione di Dio. E se non che la miseria di quei poveracci meritava piú tosto compassione, fora stata cosa degnissima di riso l’udire le sproportionate e goffe risposte che davano a chi gl’interrogava de’ misterii christiani. Domandati quanti Dei ci fossero, chi rispondeva cento, chi mille, chi altro numero maggiore, stimandosi piú saccente quanto piú ne cresceva il conto, come se si trattasse d’accrescer il numero delle lor bestie. Richiesti, che cosa mai pensavano che fosse Iddio, con inettie stravagantissime altri dicevano essere il papa, altri il lor padrone, altri quei stessi padri che gl’instruivano [...]. Hor la fatica nell’ammaestrare gente sí rustica fu senza dubbio grandissima; si ripetevano cento e mille volte l’istesse cose, si dichiaravano in comune, si spiegavano in particolare, si esaminavano hor questi hor quelli; coll’esempio de’ piú capaci s’inanimavano gli altri; e si fé in fatti in modo, che coll’aiuto della divina gratia [...] s’impresse in quei cuori sí rozzi tanta cognitione delle cose di Dio, che si poterono tutti, se bene in diversi giorni, con molto divoto sentimento confessare e communicare. Corrisposero anche essi i buoni huomini alle diligenze de’ padri, et accordandosi tra di loro lasciavano a vicenda la guardia delle proprie gregi a’ compagni, et accorrevano ad una vicina chiesa ove habitavano i padri, a farsi instruire; benché sovente andassero questi a trovarli dentro alle loro mandrie o capanne, sí per dare maggior fretta e calore all’opera, si per dubbio non si stancassero d’attendere a sí fruttuoso e necessario esercitio. Riconosciuto il loro obbligo s’invitarono da se stessi a far delle penitenze per sodisfattione de’ peccati commessi; et anco in queste comparve, unita colla loro goffaggine, un’ottima volontà, cosí furono e rigorose e sciocche le maniere da tormentarsi: si battevano con gli staffili da bovi o colle spine affasciate delle siepi; si davano delle gagliarde guanciate, o pure con sassi si percotevano il petto alla peggio. Non sapendo poi come sodisfare al molto che dovevano a’ loro instruttori, e con semplici ma affettuosi ringratiamenti, e con rustici ma cordiali presentucci testificarono il loro affetto, non mancando molti di spargere copiosissime lagrime per tenerezza della loro partita. Tanto seppe operare il Maestro divino in pochissimi giorni con iscolari sí rozzi.

Cosí Cristo arrivò a Eboli e vi si fermò per trecento anni. La tecnica usata dai gesuiti durante le loro missioni è minutamente descritta dal Paolucci. Anzitutto, il tipo di predicazione: ...hora con poche ma efficaci parole, quasi fulmini del cielo, che veloci sí, ma non vani spariscono e feriscono in un punto; hora con vehementi schiamazzi e spaven-

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tose grida, quanto piú importune e fuor d’hora, tanto piú a tempo e giovevoli per ispaventare gli uccellacci dell’Inferno; hora con sermoncini proportionati al bisogno nelle piazze piú habitate, accioché alla fatica possa corrispondere il frutto, si rinfaccia a’ peccatori la miseria del loro stato, si minacciano vicini i gastighi etc. etc.

Poi, l’uso sottile e consapevole della situazione ambientale e dei mezzi di comunicazione: Niente proibisce il praticare questo stesso modo anche di giorno, et ove le circostanze lo richiedevano, si è costumato; ma giovano non poco al compungimento de’ cuori le tenebre della notte, che coll’horrore natio intimorendo gli animi, gli dispongono piú attamente a’ colpi del divino timore [...]. A tutto ciò aggiunge alcuno ne’ luoghi ove commodamente si può, la compagnia d’una divota musica indirizzata alla compuntione e dolor delle colpe; riuscendo spesso il passare dall’armonia delle corde a quella delle passioni...

Infine, le processioni. Nelle processioni l’inventiva e la passione teatrale dei gesuiti trionfava. Con vera genialità essi recuperavano la dimensione folklorica del carnevalesco. La processione era un evento eccezionale, un evento nel corso del quale la comunità si purificava attraverso una serie di comportamenti eccessivi, abnormi, generalmente vietati dalle convenienze sociali. Nella processione le gerarchie sociali erano rovesciate (i nobili vi partecipavano vestiti da penitenti) e le distanze sociali abolite (il povero vi camminava accanto al ricco). La presenza di indemoniati e invasati introduceva un elemento di trasgressione o addirittura di licenza. Soprattutto, la processione era una grande, carnevalesca mascherata. Sono in essa notabili – scrive il Paolucci – anzi eccessive sí le strane inventioni e dolorose asprezze delle penitenze, come il numero e qualità de’ penitenti. L’inventioni, per cominciare da quelle, eccedono altre in genere di mortificationi, altre di tormento, benché quasi tutte accoppino l’uno e l’altro. Pongo nel primo luogo l’andare huomini principalissimi, e per nobiltà o per officio riguardevoli, senza mantello, senza cappello, senza collare o altro solito ornamento, et in vece di fregi, spargersi e ’l capo e le vesti di ceneri, con cenci logori in dosso, con corone di spine in testa, corde al collo, et in mano ossa o teschi di morti, o pure piccioli crocifissi, girare lungo tratto di strada scalzi e mezzi ignudi [...]. E vi fu piú d’uno che al modo del caminare aggiunse anche quello del vestire, ammantatosi con una rozza et hispida pelle di porco, d’orso e simili; et altri, che con briglie e morsi da bestie, stimandosi meno che huomini s’uguagliavano a gli angioli...90.

Ma naturalmente quest’elemento carnevalesco era assunto per essere mistificato e compresso, deviato a fini penitenziali. Con esatto giudizio il Paolucci distingueva le processioni dei Flagellanti («importune e mal regolate penitenze») dalle moderne processioni dei gesuiti, condotte «con 90

paolucci, Missioni de’ padri cit., pp. 21-22, 13-14, 29 sgg.

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regolato indirizzo de’ padri spirituali». Per quanto controllata dal clero, la devozione dei Flagellanti era nata da un’iniziativa popolare, ormai impensabile nell’età della Controriforma. 10. Il nuovo ruolo delle campagne La penetrazione della Chiesa nelle campagne aveva inferto un colpo definitivo al mondo magico contadino. Certo, esso non scomparve (non è scomparso nemmeno oggi): ma la sua pericolosità per la gerarchia divenne minima. Ormai le credenze magiche non potevano piú porsi come una cultura in qualche modo alternativa: potevano soltanto mescolarsi alle credenze cattoliche, e sopravvivere in forme via via piú marginali. Già a metà del Seicento la stessa Inquisizione romana poteva permettersi il lusso di diffondere un memoriale (poi dato alle stampe) in cui invitava gli inquisitori locali a affrontare le cause di stregoneria e di magia con cautela molto maggiore che in passato91. I processi non cessarono d’un tratto: ma ormai streghe e maghi non erano piú temibili. Un secolo dopo, gli scrittori illuministi ne condannarono la persecuzione (che continuava, soprattutto nelle terre imperiali, per opera dei tribunali secolari) in nome della ragione92. Naturalmente, la tendenza a giudicare con maggiore prudenza gli imputati di stregoneria e di magia, non significava che le gerarchie cattoliche, e meno che mai l’Inquisizione romana, si fosse convertita al razionalismo. Anzi: proprio nella seconda metà del Seicento s’infoltisce la produzione letteraria rivolta a confutare razionalisti e libertini, e a convincerli dei loro errori. Queste polemiche proseguirono nel secolo successivo, in forme sempre piú accese e allarmate, ma senza variazioni sostanziali. In realtà, di fronte al diffondersi di atteggiamenti giurisdizionalisti, e al ristabilirsi dei contatti tra i ceti intellettuali italiani e la cultura europea – la cultura di Bayle, dell’Encyclopédie, dell’illuminismo – una parte della gerarchia cattolica aveva capito molto presto che le posizioni piú retrive erano destinate, di fatto, alla sconfitta, anche se era utile continuare a difenderle. In complesso, il centro dell’impegno della gerarchia si spostò dalle città alle campagne. Per secoli e secoli l’azione della Chiesa in Italia era stata imperniata sulle città, e le campagne erano state considerate zone da evangelizzare, in cui perduravano l’igno91 92

Cfr. I benandanti cit., p. 135, nota 2. Cfr. f. venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 355-89.

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ranza e la superstizione. Ora tutto questo cambiò. Lo stereotipo del contadino rozzo e superstizioso venne sostituito da quello del contadino pio e probo, devoto alla religione degli avi. Anche l’ignoranza mutò di segno, non fu piú considerata un fatto negativo. Il contadino ignorante era ben piú apprezzabile del cittadino colto, corrotto dalle pericolose novità d’Oltralpe. Gli strumenti di questa azione furono soprattutto le parrocchie e le missioni. Nel desiderio di rafforzare l’istituto della parrocchia e la sua presa sui fedeli, si moltiplicano le Istruzioni ai parroci. Si vuole fare delle campagne un contrappeso all’effervescenza delle città, un serbatoio di conservazione religiosa e politica, di fronte al manifestarsi di tendenze giurisdizionalistiche, spesso accompagnate da critiche alle forme religiose tradizionali. È tipico di questa volontà immobilistica il fatto che tra queste Istruzioni ai parroci settecentesche si trovino testi vecchi di quasi due secoli, concepiti in una situazione completamente diversa. Cosí, la Lettera pastorale e altri avvisi utilissimi per amministrare con frutto la parola di Dio alle genti rozze di campagna nuovamente dati in luce per uso de’ parochi e predicatori della diocesi di Fiesole (in Firenze 1720) riproduce le istruzioni ai parroci redatte a metà del Cinquecento dal Paleotti, arcivescovo di Bologna – istruzioni che erano state ristampate pochi anni prima a Padova e nella stessa diocesi di Fiesole. La sezione intitolata Ragioni per acquietare le doglianze de’ Poveri invitava i parroci a riproporre ai propri fedeli l’eterna analogia di Menenio Agrippa debitamente adattata in chiave religiosa («...siccome nel corpo umano varie sono le membra, e vario il loro uso, tutte però si uniscono al servigio del corpo medesimo; cosí nel mondo è stato necessario che vi sieno diverse condizioni e stati di persone, le quali servano all’istesso corpo, che è la Santa Chiesa, della quale è capo Gesú Cristo Salvator nostro») insieme a esortazioni a subire supinamente, o meglio con animo lieto le ineguaglianze sociali («Il fare che alcuno nasca povero e privo di lettere non è segno di disamore, né di durezza nel Creatore, ma piuttosto di alta paterna sollecitudine e provvidenza. E come il medico ad alcuni infermi leva il vino, ad altri le carni, e ad altri vieta l’uso di varie cose, secondoché egli vede esser loro piú giovevole; cosí Iddio prevedendo le male nostre inclinazioni ci tiene scarsi di alcune cose ad oggetto di meglio sanarci e farci bene»93. In ogni caso, comune a questo tipo di produzione letteraria, finora ben poco analizzata, era la precisa consapevolezza dell’impossibilità di trasporre meccanicamente nelle campagne il tipo di predicazione adoperato nelle città. Scriveva G. B. Guidi, nel suo Du93

Lettera pastorale cit., pp. 73-5.

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plicato annuale di parrocchiali discorsi per tutte le Domeniche, e Solennità del Signore, ad uso massime delle persone di campagna, in Venezia 1756: tutti i parroci devono soddisfare all’obbligo «di sminuzzare al popolo le verità della Fede, i dogmi sacrosanti dell’Evangelio», ma parmi che [quest’obbligo] sia maggiore per quelli della campagna, mentre i popoli delle città, oltre ciò che imparano alle proprie chiese, s’imbattono anche altrove frequentemente in predicatori e catechisti; hanno maestri nelle scuole; padri spirituali negli oratorj; direttori nelle congregazioni, ed altre pie adunanze, in guisa tale, che da piú bocche odono spesso le massime della salute; laddove i nostri, per l’ordinario, dal solo parroco apprender possono come credere ed operare per vivere cristianamente. Che se pur la Quaresima escono fuori i banditori evangelici, o vanno in giro a piú chiese, e l’affare si riduce a poche prediche per ciascheduna parrocchia; o si fermano ad una sola, e quando abbiano cavata fuori una dozzina in circa di feste, negli altri giorni o non si predica, o pochi vengono ad ascoltarli, per dover attendere alle faccende dimestiche.

Di qui l’importanza della figura del parroco rurale, di colui che aveva il compito, come si esprimeva un altro di questi testi, «d’ammaestrare, dirigere, e correggere le coscienze di quelle persone idiote, e semplici, che consumano la loro vita fra gli stenti dell’aratro nelle campagne, e non di quelle che vivono fra gli agi, in mezzo alle comodità d’ogni bene spirituale nelle cittadi»94. Ai parroci delle campagne si rivolgeva anche un manuale come quello di Alfonso de’ Liguori (Confessore diretto per le confessioni della gente di campagna con gli avvertimenti ai confessori...) ristampato ancora nei primi decenni dell’Ottocento e condito di esortazioni bonariamente paternalistiche («[i buoni confessori] quando viene uno di costoro, quanto piú quegli è lordo di peccati, tanto piú l’accolgono con carità, affin di strapparlo dalle mani del Demonio, dicendogli per esempio: Orsú figlio mio allegramente, fatti una bella confessione. Di tutto con libertà. Basta che vogli mutar vita, Dio ti perdona. A posta t’ha aspettato finora. Allegramente etc.»), che erano la spia psicologica della sollecitudine, nata con la Controriforma, di accostarsi ai «rozzi»95. E proprio i redentoristi, seguaci del Liguori, continuarono in nuove terre di missione – la Maremma toscana, la Sicilia – l’opera iniziata dai gesuiti, divulgando una pietà facile e esteriore, in cui il fasto delle processioni e le commozioni suscitate,dalle prediche avevano una parte essenziale96. 94

Cfr. g. malatesta garuffi, Il parroco all’altare, Venezia 1799, dedicatoria.

95 Cfr. alfonso de’ liguori, Confessore cit., p. 327. Alle pp. 530 sgg. sono elencate le Domande

da farsi a’ rozzi. 96 Cfr. per la Sicilia s. giammusso, Le missioni dei Redentoristi in Sicilia fino al 1800, in «Spicilegium historicum Congregationis SS. Redemptoris», 1962, pp. 51-176. Per la Toscana, cfr. nota successiva.

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Anche contro questo tipo di religiosità reagirono i giansenisti. Ma la loro polemica, diretta nello stesso tempo contro l’eccessivo potere della curia e la diffusione di forme di pietà teatrali e esteriori, rimase un fenomeno circoscritto, che riuscí a coinvolgere tutt’al piú alcuni strati del basso clero. Nonostante alcuni successi parziali, soprattutto in Toscana (cosí, nel 1777, nella diocesi maremmana di Soana veniva vietata espressamente la flagellazione, anche in forme attenuate), essi non riuscirono a intaccare la massiccia sedimentazione della pietà popolare. Nei tumulti annonari scoppiati a Livorno nel 1780, uno dei bersagli immediati furono proprio i giansenisti. Iniziava cosí quell’intreccio, tempestivamente notato da un osservatore contemporaneo, di «fame» e di «fede» che assumerà forme piú ampie e tragiche nel 179997. L’odio di classe del «popolo basso» contro i borghesi, contro i giacobini «nemici della religione», manovrato dalla reazione cattolica con un’impressionante proliferazione di miracoli mariani, mostrò quali profonde radici avesse la Chiesa nelle campagne. Tutti i nodi del riformismo settecentesco – in un certo senso, tutti i nodi della storia italiana – vennero al pettine in quest’offensiva delle campagne contro le città. Quello delle bande dei «lazzari» al seguito del cardinale Ruffo fu l’ultimo grande moto religioso della storia d’Italia. Nel corso dell’Ottocento il rapporto del clero con il laicato cominciò lentamente a cambiare. Fu un processo lento: dopo la frattura provocata dalla rivoluzione francese, la Chiesa assunse in un primo tempo una posizione sostanzialmente difensiva, insistendo lungo vie collaudate da tempo. Da un lato, quindi, si ebbe uno sviluppo delle attività caritative e assistenziali (basterà ricordare la figura del Cottolengo); dall’altro, si cercò di perfezionare il controllo delle masse dei fedeli, esercitato capillarmente attraverso le parrocchie. La voluminosa opera redatta da N. Abbate (Lo spirito del parroco esposto ad un giovane sacerdote chiamato alla cura delle anime, 2 parti, 4 tomi, Roma 1838-41) è, a questo proposito, estremamente eloquente. Dopo un rapido, prudentissimo accenno alla tesi – giansenistica – dell’istituzione divina dei parroci («giudico affatto fuori di proposito simile questione») l’Abbate tracciava un minuzioso ritratto di «parroco ideale». Doveva essere colto: infatti si abusano gli empii dell’astrologia [sic], della geologia per tentare di togliere la cronologia sacra; si abusano della zoologia per eliminare la spiritualità dell’anima; della metafisica per avviluppare gli incauti; della storia per frangere l’au97 Cfr. c. giorgini, La Maremma toscana nel Settecento. Aspetti sociali e religiosi, Teramo 1968, p. 171; g. turi, «Viva Maria». La reazione alle riforme leopoldine (1790-1799); Firenze 1969.

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C. Ginzburg - Folklore, magia, religione torità della Bibbia; per sino le cose proprie negano, i fatti stessi del giorno stravolgono con impudenza sfacciata, affine di sostenere le tesi di Belial... Non sarà mai tempo gettato quello che consumasi sui libri... nei remoti villaggi ed isolati, piú o meno serpeggia pure la pestilenza delle letture perverse, e dovunque vi ha od un notaio principiante, od un farmacista or ora ritornato dalla città, od un flebotomo di fresco patentato, o qualche altro filosofastro di moda, che tiene banco per far pompa di moderne idee, et sermo eorum ut cancer serpit.

Ma questa cultura doveva permettergli di «stare al livello de’ continui progressi dell’inferno, affine di scoprire i suoi strattagemmi», senza tradursi in ostentazione libresca nei confronti dei fedeli indotti. Ad essi il parroco doveva predicare «come comunemente si parla»; e l’Abbate aggiungeva: «non abbiate il menomo scrupolo nelle ville e tra contadini di adoperare il loro dialetto». Accostarsi al popolo, dunque, proponendogli un cristianesimo equilibrato e mediocre, accuratamente purgato da ogni elemento di scandalo e di paradosso. Certo, per l’Abbate l’affermare che «dei novissimi piú non si debba predicare a tempi nostri, perché sono cose troppo trite e dozzinali, le quali o per la cattiva indisposizione generale degli ascoltanti, ovvero per essersi tante volte sentite, sembrano dover cagionare noja a chiunque siasi», non era altro che «un’altra astuzia del libertino per distogliere ogni idea funesta che possa frenare i suoi delirii». Tuttavia ammoniva: né già abbiate timore d’infastidire il vostro uditorio col predicare la morte, ma sappiate predicarla con vantaggio rallegrando il buono, sorprendendo il malvagio, e cercando di avvertire tutti onde nessuno cada all’improvviso sua vittima; affine poi di non atterrire inutilmente chiunque siasi, lasciate pure certe immagini e descrizioni che sanno di bassezza e d’indecenza.

Rifuggire dal macabro, non solo, dall’apocalittismo, dalle profezie: predicando però la morte o gli altri novissimi non state a contare favole, poiché è troppo imponente e seria la materia, non narrate miracoli o storie apocrife né approvate dalla santa Chiesa, non ardite interpretare cosa alcuna in proposito della sacra Scrittura che non sia conforme al consenso unanime dei Padri, non ardite profetizzare ai popoli avvenimenti di sorte alcuna, se non quelli assicurati dai savii interpreti e dai dottori della Chiesa.

Al centro della predicazione del savio parroco non vi sarà quindi né il Dio corrucciato del Vecchio Testamento, né il Cristo giudice, ma il Cristo zuccheroso ed effeminato delle immaginette sacre (uno strumento di propaganda tutto da studiare): Guardatevi in oltre dall’associarvi al numero di que’ terroristi, i quali senza discretezza e senza cognizione parlano sempre del Dio vivente con un tuono sí spaventoso, che in vece di farlo amare, e renderlo ammirabile nella sua grandezza di

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sviscerato affetto per le creature, lo rappresentano sempre sotto la sembianza di un nemico implacabile e vendicativo.

Per questa pietà circoscritta ed esclusiva, anche le confraternite laicali sono viste come un elemento di disturbo, o addirittura un pericolo potenziale: Per lo piú ogni compagnia o confraternita tiene un qualche esercizio di divozione speciale da adempiersi particolarmente nelle feste in cui si adunano i confratelli per il santo loro officio; non sia questa l’occasione di inquietudine, né si permetta che tali pratiche di pietà siano per divenire l’impedimento di quelle che compiere si devono nella parrocchia; le confraternite devono sostenersi in edificazione, non mai in destruzione del bene maggiore; il loro obbligo è di formare il decoro e l’ornamento della parrocchia e delle stesse sue funzioni: non mai pertanto loro sarà lecito di innalzarsi per fomentare la contraddizione; all’onore della parrocchia ed allo stesso di lei servizio pieghino piuttosto volentieri.

L’iniziativa religiosa spetta soltanto al parroco: ogni manifestazione autonoma del laicato è considerata con sospetto. Questa immagine del parroco ideale è indizio, come si è detto, di una strategia sostanzialmente difensiva. Nonostante l’accentuazione, relativamente recente, dell’importanza della parrocchia come centro di vita religiosa, si seguono vie che ricalcano in sostanza le indicazioni immediatamente post-tridentine. Questa visione anacronistica, della società emerge in maniera involontariamente caricaturale da un opuscolo come L’artiere cristiano, ovvero preghiere meditazioni orazioni e laudi spirituali adattate ad una comunità di artieri cristiani (2 parti, Roma 1827). Per l’autore, i pericoli maggiori che minacciano gli apprendisti (a cui il discorso è rivolto) sono la diffusione della bestemmia e di «certe canzonettaccie nulla meno infami di quello fossero quelle antiche inventate da poeti pagani adoratori di divinità oscenissime». Perciò, soggiunge rivolto ai lettori «perché voi non abbiate ad accusare mancanza di belle canzoncine da cantare fra giorno di mezzo a’ vostri lavori, si è qui, come a coronar tutta l’opera, stampata una scelta di laudi spirituali di vario metro, alle quali potrete applicare le varie ariette, che già sapete, o che verrete in seguito apprendendo». Si proponeva cosí agli apprendisti artigiani di cantare «ariette» su versi di sant’Alfonso de’ Liguori, del padre Pastorini, del padre Muzzarelli98. Era la stessa visione idillica e dolciastra che ispirava versi come quelli, intrisi di populismo ante litteram, pubblicati da una tal Fanny Ghedini sul giornale bolognese Il povero il 13 marzo 1847: 98

Cfr. L’artiere cristiano cit., II, pp. vi-vii.

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C. Ginzburg - Folklore, magia, religione Sono artigiano! sono artigiano! Non ho altre rendite che il mio sudor. Ma il prego mio Fervente e puro A’ piè di Dio Levo sicuro; Ché nella prece del popolan Speranza e fede congiunti stan99.

11. Chiesa e società nello Stato unitario. Nonostante tutti i suoi limiti, l’età detta del Risorgimento rappresentò la fine di una situazione esasperatamente provinciale, caratterizzata da inverosimili chiusure. Per il rapporto tra Chiesa e società, in particolare, essa ebbe, fatte le debite proporzioni, un significato analogo a quello della rivoluzione in Francia100. La reazione immediata degli ambienti dei cattolici intransigenti al trauma della fine del potere temporale, che cercò di ricreare un nuovo 1799, dando grande pubblicità ad apparizioni della Vergine e ad altri miracoli mariani, divulgando attese apocalittiche per mezzo di profezie redatte da personaggi influenti come don Bosco, non ebbe seguito101. In un brevissimo giro d’anni il profetismo apocalittico cessò (non, però, i miracoli mariani) e gli stessi intransigenti si diedero ad attività di tipo diverso: fondazione di banche e di istituti di credito rurale, creazione di associazioni di laici come l’Opera dei Congressi. Contro le speranze iniziali, lo Stato italiano nato dall’usurpazione minacciava di durare, e bisognava prepararsi a una lotta di lungo respiro, politica e religiosa. Si gettarono cosí le basi di quelle che sarebbero state le forme nuove d’impegno del laicato cattolico nella società: l’Azione cattolica e il partito cattolico. Come succede spesso, erano i reazionari ad avere la vista piú lunga. In quell’incunabulo del populismo reazionario italiano che è il Portafoglio d’un operaio. Libro di lettura e di premio, Cesare Cantú affrontava di petto, già nel 1871, la «quistione operaja». L’industrializzazione ita99

Cit. in I periodici popolari del Risorgimento, a cura di D. Bertoni Jovine, I, Milano 1959, p.

217. 100 Cfr. g. sofri, Sulla storia del partito cattolico. Osservazioni a proposito di due libri recenti, in «Studi storici», v, 1964, pp. 533 sgg. 101 Cfr. p. stella, Per una storia del profetismo apocalittico cattolico ottocentesco. Messaggi profetici di don Bosco a Pio IX e all’imperatore d’Austria (1870-1873), in «Rivista di storia e letteratura religiosa», iv, 1968, pp. 448 sgg.

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liana era ancora agli inizi: ma gli sviluppi d’Oltralpe erano eloquenti. Una scorsa ai titoli dei capitoli basta a testimoniare la tempestività dello sguardo del Cantú: Lavoro. Produzione. Uno per tutti e tutti per uno; La proprietà. L’eguaglianza. Ricchi e poveri; I salari, le macchine e cose simili; Gli scioperi; Rivoluzione; La politica dell’operajo, e cosí via. Il tutto era dedicato «al senatore Alessandro Rossi industriale a Schio». Certo, il Cantú non mancava di inserire di tanto in tanto le tradizionali note mielosamente retoriche. Il capitolo Lavoro. Produzione. Uno per tutti, e tutti per uno termina cosí: I migliori operaj che gli ascoltavano partirono cantando: Lavoriam, lavoriam. Quanto ci mostra Di ricco il mondo, è passeggiero spettro. Il crin sudato è la corona nostra, Il piccone e la marra il nostro scettro.

Ma il Cantú capiva anche che per distogliere gli operai da scioperi, rivoluzioni e simili abomini non bastava cantare in versi alati le lodi del lavoro, o esortare i padroni a comportarsi umanamente con i salariati. Solo la Chiesa poteva condurre efficacemente una politica di collaborazione tra le classi: ma per far questo doveva abbandonare il suo prudente immobilismo, e far fronte alle situazioni nuove (ormai imminenti anche in Italia) con metodi nuovi. Non per nulla il Cantú citava con elogio il famoso vescovo di Magonza, Ketteler, e il suo «aureo libro sugli operaj». «Che cosa desidera l’operajo?» si chiedeva; e replicava: pace, giustizia, trovarsi con uomini di buona volontà, convincere il ricco ch’egli pure è sotto l’occhio di Dio quanto il povero e sarà giudicato da Dio con eguale imparzialità; con esso pregar nella stessa chiesa, sullo stesso panco; colle parole stesse domandare il pane quotidiano al padre di tutti; sentirsi dire: Rispettate l’autorità; lavorate e siate fedeli; se anche non è presente il padrone, v’è in alto un occhio sempre aperto sopra di voi (san Paolo agli Efesi): ma anche sentir intimare al ricco: Paga la mercede a chi lavora per te, se no il gemito dell’operaio salirà al cielo gridando vendetta (Eccli XXIII 13), e che al giudizio finale Iddio dirà: – Ebbi fame e sete, e non mi saziaste; fui nudo e non mi copriste. Andate in eterno lungi da me.

La Chiesa deve riallacciarsi alla sua millenaria tradizione interclassista, come dice il vescovo nel capitolo Un vescovo dice l’ultima parola (sic): Al tempo degli schiavi, invece di ammutinar questi contro i padroni, i primi cristiani cercavano formare de’ padroni buoni. Cosí adesso al padrone intimano ch’egli è fratello dell’operajo; che deve ajutarlo a portare i pesi; che de’ suoi capitali può vantaggiarsi, ma non arraffare senza volgersi a destra né a sinistra per non vedere i patimenti de’ suoi simili.

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Ma la carità non basta: E deh il clero capisse l’importanza della quistione operaja, e vi applicasse non solo la carità, ma le piú consentite dottrine; senza pregiudizj antiquati né utopie sovvertitrici, esaminasse la cagione dei mali e i rimedj; penetrasse nelle grandi fabbriche; ne trattasse in pulpito; ispirasse carità ai padroni, pace e accordo agli operaj; il distacco dalle famiglie correggesse con istituzioni morali; e per quanto i governanti ne attraversino la santa opera, perseverasse con zelo, rassegnandosi al nuovo martirio a cui lo sottopone il dominio d’una minoranza per niente nazionale, e imitatrice de’ forestieri.

E nel capitolo Il prete e gli operai, il Cantú arriva a ipotizzare l’ordine de’ cappellani degli operaj, che li seguissero ne’ loro lavori come i cappellani d’armata, ne studiassero le pene morali, gli isolamenti terribili, le sofferenze d’ogni guisa per ripararle o guarirle o alleviarle, e con buone aspirazioni dirigerli al bene102.

A queste audacie proposte dal Cantú (che richiamano esperienze recenti, del resto sconfessate) non arrivò certo la Rerum novarum, l’enciclica con cui, vent’anni dopo, la Chiesa cercò di sottrarre il movimento operaio al monopolio dei socialisti. Accanto al manifestarsi della questione operaia (e ad esso almeno in parte legata) si ebbe dopo l’unità una notevole diffusione di atteggiamenti anticlericali, che non mancarono di preoccupare le gerarchie cattoliche. Ma l’anticlericalismo era da secoli una componente tradizionale della mentalità italiana, e anche se alla fine dell’Ottocento si caricò di implicazioni politiche nuove, esso non era comunque che un sintomo, di per sé non molto rilevante. Piú pericoloso sembrò, per un certo periodo, il proselitismo protestante, soprattutto valdese e metodista. I «colportori» che giravano le campagne vendendo bibbie e opuscoli propagandistici impensierivano la gerarchia cattolica. Probabilmente esagerando, il coadiutore del vescovo di Lodi, A. Bersani, nel suo diffusissimo Catechismo spiegato al popolo per via di esempi e di similitudini, parlava di «certe Bibbie adulterate che insieme coi romanzi son divenute un mobile necessario di quasi tutte le case». Ma poco dopo mostrava qual era il vero fondo delle sue preoccupazioni: i protestanti vendono la Bibbia «a tenuissimo prezzo, cosiché la può comperare anche l’uomo il piú povero [...] si presentano con questo libro ai contadini, alle donnicciuole, ai sarti, ai fruttivendoli, e dicono loro: Prendete e studiate, qui sta la

102 Cfr. Portafoglio d’un operajo ordinato e pubblicato da Cesare Cantú cit., pp. 87, 71-72, 288, 283, 36.

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vostra fede. Non è un canzonarli?» La Bibbia è difficilissima a intendersi: soprattutto vi sono certe parole, certe frasi che hanno un senso ambiguo; chi le interpreta in una maniera, chi in un’altra, donde nasce la diversità delle opinioni e delle credenze. Per esempio, come spieghereste voi queste massime dell’evangelio: A colui che vuol muoverti lite, e toglierti la tunica, cedigli anche il mantello? (Matth. V 40). Chiunque di voi non rinunzia a tutto quello che possiede, non può essere mio discepolo? (Luc. XIV 33). Dunque non si possono difendere i propri diritti?... Dunque il vangelo proibisce l’essere ricco?... Dunque si è obbligati a vendere tutto e ridursi all’asse per andare in paradiso?... Stando alla parola dell’evangelio sembrerebbe cosí.

Per questa ambiguità e oscurità molti «col loro corto e matto cervello» cavarono fuori «dei perniciosissimi errori, e degli spropositi madornali». E finiva con quest’esortazione: per voi che non avete fatti quegli studi che sono necessari, che non avete perciò una particolare licenza della chiesa, [le Scritture] possono essere un veleno di morte, a guisa di quel frutto vietato, cui il serpente offeriva alla povera Eva nel paradiso terrestre. La chiesa vostra madre ve lo proibisce.

Altrove il Bersani spiegava a un fittizio interlocutore contadino la provvidenzialità della disuguaglianza sociale: È [...] questa disuguaglianza stessa un tratto della provvidenza di Dio. Se non vi fosse questa varietà, sparirebbero di botto tutti i negozii, tutte le botteghe, tutte le industrie, e la terra, con tutto il suo oro, si ridurrebbe a un vero deserto. Vedete che cosa vuol dire parlare senza riflettere?

«Qualche cosa comincio a capire...» era la risposta del docile interlocutore103. Questa esplicita, e frequentissima difesa dei privilegi sociali da parte del clero non era certo, in sé, un fatto nuovo: tutt’altro. Ma la presenza di un movimento operaio che si veniva organizzando, anche politicamente, e affrontava dure lotte, accentuò un fenomeno che era già cominciato probabilmente nel corso del Settecento, ma che tra l’Ottocento e il Novecento assunse forme sempre piú massicce, anche se in proporzioni molto diverse a seconda delle regioni: la diminuzione della pratica religiosa. La scoperta che il clero «stava con i padroni» portava in molti casi a un distacco dalla Chiesa, distacco che non era, di per sé, scristianizzazione, e che anzi era generalmente accompagnato da affermazioni del tipo «Gesú Cristo era il primo socialista», e cosí via. Certo, era difficile superare l’atteggiamento contraddittorio testimoniato dal vecchio proverbio siciliano «A preti e parrini [=frati] sentici la mes103

bersani, Il catechismo cit., 5a ed. Lodi 1879, I, pp. 28, 384 sgg., 127.

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sa e stoccaci li rini»: l’anticlericalismo tradizionale si conciliava benissimo col «sentir messa», con l’ossequio alle pratiche religiose tradizionali. Ma insomma, in molti casi si arrivò anche a questo: il censimento del 1911 parla chiaro104. 12. Mondo cattolico e vita politica dalla Resistenza a oggi. Questa tendenza al distacco dalla pratica religiosa di larghi settori della società italiana fu in parte bloccata da eventi come la prima guerra mondiale, l’ingresso ufficiale dei cattolici nella scena politica, la Conciliazione. L’appoggio concesso al regime fascista consentí alla Chiesa di attestarsi nella società italiana su posizioni abbastanza solide da offrire in un secondo tempo – allorché il regime cominciò a vacillare – la possibilità di un’abilissima operazione di sganciamento. Grazie alla partecipazione delle masse cattoliche alla Resistenza, il partito democratico cristiano poté presentarsi alla fine della seconda guerra mondiale come l’erede del vecchio moderatismo, un erede in cui la componente moderata era rafforzata dalla tradizione paternalistica e interclassista della Chiesa, e dal prezioso appoggio fornito dalla gerarchia e dalle organizzazioni cattoliche. In questa situazione Togliatti sviluppò la propria politica, prudente fino alla rinuncia, di «mano tesa» verso la Chiesa. Era una politica che inseriva un nucleo realistico, già presente nelle posizioni dell’«Ordine Nuovo» – il riconoscimento delle masse cattoliche, soprattutto contadine, come una delle componenti fondamentali della società italiana – in una strategia complessiva guidata da un giudizio profondamente scettico sulle possibilità di modificare la situazione postbellica in senso favorevole al proletariato. In questo modo, certo, Togliatti garantiva al movimento operaio italiano la possibilità di tener duro in una fase difficile della propria storia. Ma la gerarchia cattolica, proprio perché abituata alle finezze della grande politica, capí che nel breve periodo – e la politica è fatta anche di brevi periodi – la politica della «mano tesa» dell’avversario significava che era possibile passare all’attacco. Allorché gli effetti dello scossone impresso alla società italiana dalla lotta armata e dall’insurrezione cominciarono a placarsi, la gerarchia cattolica scatenò una crociata in piena regola, condotta però con mezzi tecnicamente aggiornati (non per nulla uno dei protagonisti di

104 Cfr. l. bedeschi, Il comportamento religioso in Emilia-Romagna, in «Studi storici», x, 1969, pp. 387 sgg.

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questa vicenda fu il gesuita padre Lombardi, detto «il microfono di Dio»). In una crociata, l’avversario dev’essere raffigurato come l’incarnazione stessa del male e della turpitudine, per poter diventare l’oggetto di un odio cieco e fanatizzato; e proprio padre Lombardi riprendeva, per esempio, sulle colonne della «Civiltà cattolica» (1946) una sedicente «circolare riservatissima del Partito [comunista], recante Disposizioni segrete ai propagandisti comunisti», già apparsa su un giornale genovese, e redatta – il rozzo candore dello stile è inconfondibile – da qualche prete in vena di provocazione: Compagno propagandista... eccoti un «decalogo»:... 2) Lottare contro quanto, specie gli ipocriti preti, vanno dicendo di meno vero sui nostri scopi; negare recisamente quanto essi affermano; negare recisamente che noi non vogliamo religione, patria, famiglia. 3) Mostrare con scherzi, sarcasmi e con condotta piacevole, contenta, che tu sei piú libero senza le pastoie della religione; far capire che si vive bene anche senza religione, anzi si vive meglio se si è piú liberi. 4) Specialmente è tuo compito distruggere la morale insegnando agli inesperti, creando un ambiente saturo di quello che i pudici [sic] chiamano immoralità. Questo è tuo supremo dovere: distruggere la moralità! 5) Allontana sempre dalla Chiesa i tuoi compagni con tutti i mezzi, specialmente mettendo in cattiva luce i preti, i Vescovi, ecc. Calunniare, falsare; sarà opportuno prendere qualche scandalo antico o recente e buttarlo in faccia ai tuoi compagni. 6) Altro grande ostacolo al nostro lavoro: la famiglia cristiana. Distruggerla, seminando idee di libertà di matrimonio: eccitare i giovani e le ragazze quanto piú si può: creare l’indifferenza in famiglia, nello stabilimento, nello Stato: staccare i giovani dalla famiglia. 7) Portare l’operaio ad amare il disordine, la forza brutale, la vendetta: a non aver paura del sangue.

Il «decalogo» terminava naturalmente cosí: «10) Lotta, lotta, lotta contro i preti e la morale cattolica»105. Certo, mundus vult decipi: e questa «circolare riservatissima» è un caso estremo, che tuttavia non stona nel contesto della propaganda politico-religiosa di quegli anni. Parlando ad Assisi, alla chiusura del IV Corso di studi cristiani, il solito padre Lombardi inserí, tra gli immancabili accenni giobertiani alla «missione d’Italia», questa vibrante apostrofe dal tono tra escatologico e mussoliniano: Italia di san Francesco, di santa Chiara, di santa Caterina, di san Bernardino Italia di san Pio V, di san Luigi, di don Bosco, del Cottolengo, di santa Francesca Cabrini, ancora una volta drizzati in piedi; ancora una volta ti guarda la storia, e da te aspetta la nuova parola. Ricordati: a questo sforzo è connesso il tuo avvenire morale e materiale; è connessa la fraternità nuova dei popoli, da riedificarsi sul tuo piú recente martirio; è connesso l’esperimento della nuova età. Viene, la nuova età: sarà certamente nel nome di Cristo: noi la vogliamo sposata col nome d’Italia!

105 Cfr. r. lombardi s. j., Il programma politico comunista, in «La Civiltà cattolica», 11, 1946, pp. 350-51, nota.

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Punto di riferimento dei cattolici italiani in quest’ora decisiva, doveva essere naturalmente il papa: Misureremmo insieme l’altezza vertiginosa dell’Uomo bianco che vive in Vaticano, al di sopra degli spazi e dei millenni: l’unico che nella sua stabilità conti la storia a secoli e non ad anni, onde può veder di lontano le conseguenze delle passioni di un giorno...106.

Si avvicinava il 18 aprile, 1948, data delle elezioni politiche, e l’oratoria dell’«Uomo bianco che vive in Vaticano» seppe essere all’altezza di questo clima insieme agonistico e millenaristico. Parlando nel 1947 agli uomini di Azione Cattolica, Pio XII esclamava: 6) Il tempo della riflessione e dei progetti è passato; è l’ora dell’azione. Siete pronti? 7) I fronti contrari, nel campo religioso e morale, si vengono sempre piú chiaramente delineando: è l’ora della prova. 8) La dura gara, di cui parla san Paolo, è in corso; è l’ora dello sforzo intenso. Anche pochi istanti possono decidere la vittoria. Guardate il vostro Gino Bartali, membro dell’Azione Cattolica: egli ha piú volte guadagnato l’ambita «maglia». Correte anche voi in questo campionato ideale, in modo da conquistare una ben piú nobile palma: Sic currite ut comprehendatis (1Cor. 9.24)107.

Ma anche questo inverosimile miscuglio di Gino Bartali e san Paolo non era sufficiente: per mobilitare le masse bisognava ricorrere alla vecchia, collaudatissima arma della devozione mariana. L’idea di lanciare una devozione popolare imperniata sulla «Madonna Pellegrina» (la Peregrinatio Mariae) fu indubbiamente efficace. All’inizio del 1948 il gesuita D. Mondrone trae buoni auspici dall’intervento di «colei che salverà l’Italia» (dallo spettro del comunismo, s’intende) scrivendo: È consolante rilevare come la Madonna ha ancora tanto fascino sull’anima del nostro popolo. Ondate d’indifferentismo e di miscredenza finora non son riuscite a strappare dal cuore degl’Italiani la stima e la fiducia nella Madre di Dio. I suoi santuari sono tuttora visitati da folle innumerevoli di popolo. Quello che abbiamo visto a Roma attorno alla Madonna del Divino Amore è indimenticabile. Quello che si è veduto in questi ultimi mesi nella «Peregrinatio Mariae» nel Milanese, ad Ancona, in quel di Siena, ha superato ogni aspettazione. Anche nei Paesi piú devastati dalla propaganda comunista, socialista e comunque anticlericale, tolta qualche rarissima eccezione, l’affacciarsi di Maria ha destato entusiasmi da far stupire anche i piú scettici. Tutto questo è bello, è grandemente significativo, è promettente. In un paese dove la Madonna trova ancora tanti cuori che si lasciano prendere dal suo sorriso materno, Essa non permetterà che abbiano a prevalere i nemici di Dio. Potranno venire i «giorni difficili» preannunziati dall’onorevole Scelba,

106

r. lombardi, L’ora presente e l’Italia, in «La Civiltà cattolica», 1, 1947, pp. 24, 21. Discorso di S. S. Pio XII agli uomini di Azione Cattolica, in «La Civiltà cattolica», iii, 1947, p. 553 (la suddivisione in paragrafi numerati è nel testo). 107

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potremo soffrire un poco, vi potranno essere ancora delle vittime, ma la vittoria sarà sua108.

E questa insistente propaganda mariana partorí gli immancabili miracoli. Nel ’48, l’«anno dei prodigi», se ne contarono a decine. In stragrande prevalenza, per l’appunto, miracoli mariani (a parte episodi isolati come l’apparizione del volto di Cristo su un muro della casa dello «scienziato» razzista Nicola Pende): madonne lacrimanti, madonne sanguinanti, madonne sfavillanti apparvero a bambini, adulti, vecchi. Solo dopo il vittorioso esito delle elezioni questa febbre mariana a poco a poco si calmò109. Ma dietro quest’esaltazione, questo clima di fanatismo, c’era da parte delle gerarchie cattoliche una volontà lucida e consapevole di penetrare in tutti i gangli vitali della società e dello Stato italiani, per impadronirsene e trasformarli in strumenti di potere. Forse nessuno formulò questo programma con la chiarezza di padre Lombardi, in un lungo saggio intitolato Vigilia di mobilitazione generale apparso a puntate sulla «Civiltà cattolica», tra il 1947 e il 1948. Urge – scriveva – la mobilitazione generale dei cattolici italiani. Per un’armata di pace, di ricostruzione e d’amore, ma per una vera armata.

E proseguiva, toccando via via i punti principali. I partiti: i cristiani intervengano, e sentano il preciso obbligo morale di intervenire, soprattutto mediante l’azione politica, organizzandosi in uno o piú partiti...

I sindacati: formazione delle masse dei lavoratori ai principî sociali del cristianesimo, perché nella vita del sindacato unico (che si è costituito per non indebolirli con divisioni ideologiche) se ne facciano propugnatori coscienti ed efficaci... Bisogna formare i cattolici all’attività sindacale...

I giornali: c’è il problema del giornale cattolico, da risolvere con vari quotidiani a carattere regionale, ma possibilmente anche con un grande giornale d’importanza nazionale, che non sia neppure cattolico per affermazioni troppo esplicite e frequenti, riveli però in ogni giudizio una piena sanità d’ispirazione... C’è il problema della stampa periodica non quotidiana...

L’università: 108

d. mondrone s. j., Colei che salverà l’Italia, in «La Civiltà cattolica», 1, 1948, p. 25. Cfr. c. falconi, La Chiesa e le organizzazioni cattoliche in Italia (1945-1955), Torino 1956, pp. 98-102. 109

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C. Ginzburg - Folklore, magia, religione …necessità di mirare da parte cattolica anche in alto, molto in alto, alle fonti della pubblica istruzione: alla conquista delle cattedre in generale, e in particolare di quelle cattedre universitarie, che potrebbero considerarsi chiave, nella cultura che riguarda direttamente la Chiesa: Filosofia teoretica, Filosofia morale, Storia delle religioni, Storia del cristianesimo, Storia medievale e moderna, Filosofia del diritto, Diritto del lavoro ed altre simili. La bonifica delle idee non sarà mai profonda né definitiva in Italia, finché le aule dove si creano gli indirizzi speculativi delle nuove generazioni saranno quasi tutte infestate dalla malaria ...

La radio: Forse la radio potrebbe aiutare non poco la larga diffusione della verità, nella duplice forma di istruzione ed esortazione, raggiungendo molti nelle loro case, e valorizzando al massimo le capacità espositive di alcuni apostoli piú adatti. Ma essa stessa costituisce di per sé un nuovo problema, un altro compito del campo cattolico: entrarvi, saperla usare...

Il cinema: l’influsso del cinema si allarga, per l’efficacia impareggiabile con cui imprime le idee mediante semplici immagini, anche in gente che non sarebbe capace di ragionare...;

bisogna favorire la diffusione dei film migliori, farne fare di nuovi e piú attraenti, «acquistare o costruire belle grandi sale sorvegliate con spirito morale sicuro e insieme aperto, e non soltanto locali a carattere ristretto quale avranno sempre le sale parrocchiali...» Non mancava, alla fine, un discreto accenno alla possibilità di fare «un censimento dei capitali in mani cattoliche, che a parità di rendimento s’impiegherebbero piú volentieri in opere cattoliche, anziché in altre»110. Questo minuzioso programma fu in sostanza coronato dal successo. Dieci anni dopo, un prete esiliato in una piccolissima parrocchia di montagna, perché sospettato (quanto a torto!) di «sinistrismo», scriveva amaramente: Per un prete, quale tragedia piú grossa di questa potrà mai venire? Esser liberi, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’essere derisi dai poveri, odiati dai piú deboli, amati dai piú forti. Aver la Chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di piú. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri. Non ti vien fatto perfino di domandarti se la persecuzione potrà esser peggio di tutto questo?111.

110

r. lombardi s. j., Vigilia di mobilitazione generale, in «La Civiltà cattolica», iv, 1947, pp.

15 sgg. 111

l. milani, Esperienze pastorali, Firenze 1957, pp. 464-65.

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La contraddizione formulata drammaticamente da don Milani continua in forme piú acute ancora oggi, dopo che il pontificato di Giovanni XXIII e il concilio hanno aperto un processo contraddittorio e certamente lungo (ma probabilmente irreversibile) di rinnovamento della Chiesa. Fenomeni come quelli della crisi delle vocazioni del clero, e del distacco dalla pratica religiosa delle masse soprattutto operaie, sono considerati dalla gerarchia con comprensibile inquietudine. D’altra parte, dichiarazioni come quelle sulla «fine dell’età costantiniana» sono ancora affermazioni teoriche, che faticano a tradursi in realtà. In un certo senso questa contraddizione vale non solo per la Chiesa come istituzione, ma per la religione stessa. Da piú di dieci anni, a Serra d’Arce, un paese vicino a Salerno, una donna, Giuseppina Gonnella, assume periodicamente la personalità del nipote morto, Alberto. Uomini e donne si accalcano per vedere «Alberto», parlare con lui, chiedergli consigli, conforto, guarigioni miracolose; gli scrivono lettere (a «santo Alberto», «al beato Alberto»), gli portano elemosine con cui è stato eretto una specie di tempio, comprano dischi con la «sua» voce112. Questi uomini e queste donne cercano e trovano conforto. Non chiedono altro, e «Alberto» non può dare loro altro. In una situazione miserabile, disgregata, la religione non può essere che questo, un aiuto a sopportare un po’ meglio una vita di per sé intollerabile. È forse poco, ma non è lecito disprezzarlo, sia che provenga da «Alberto», sia che provenga dalla Madonna (che da questo punto di vista si equivalgono). Ma proprio perché proteggono dalla realtà e non incitano, né aiutano a prenderne coscienza e a modificarla, questi culti popolari sono in ultima analisi una mistificazione: sopravvalutarli populisticamente (come è stato fatto) è assurdo e dannoso. (Anche le visioni del Lazzaretti, piú legate di quanto non sembri all’ambiente in cui nascevano le contemporanee profezie di don Bosco, non fanno eccezione alla regola, nonostante gli sparsi accenni in esse contenute a una confusa palingenesi sociale113). A questo livello elementare, le sorti della religione appaiono legate al perpetuarsi o alla scomparsa di una situazione di sottosviluppo e di disgregazione sociale. A un livello piú complesso, in cui la religiosità immediata, popolare e non, viene incanalata e filtrata da strutture ecclesiastiche efficienti e 112 Cfr. a. rossi, Un nuovo culto, in «Conoscenza religiosa» 1, 1970 pp. 90-96, e in generale, della stessa, Le feste dei poveri, Bari 1970. [Nel gennaio 1972 Giuseppina Gonnella ha concluso tragicamente la sua vicenda: un «cliente» l’ha assassinata]. 113 Cfr. a. moscato, Il movimento millenarista di Davide Lazzaretti, in a. moscato - m. n. pierini, Rivolta religiosa nelle campagne, Roma 1965, p. 60 (per l’incontro tra il Lazzaretti e don Bosco).

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capillari, le capacità di sopravvivenza della religione sono, è chiaro, infinitamente maggiori. E tuttavia, anche qui sembra profilarsi una contraddizione. Da un lato, la Chiesa, anche per effetto del movimento ecumenico, tende lentamente a desacralizzarsi (ma i miracoli di san Gennaro e i culti mariani rimarranno in piedi per chissà quanto tempo). Dall’altro, la società del capitalismo maturo, sempre piú ossessivamente razionalizzata, fa esplodere la spinta originaria alla liberazione carnevalesca. È un bisogno, questo, che il carnevalesco coatto, il carnevalesco spurio controllato dai detentori del potere (quello del pubblico delle partite di calcio, per intendersi) non basta piú a soddisfare. Forse, diversamente che in passato, questa sete di carnevalesco non troverà sfogo nella religione (anche se è subito comparso un furbissimo teologo americano alla moda, che ha teorizzato il cristianesimo come religione carnevalesca, e Gesú Cristo come prototipo di Arlecchino114). Da certi indizi, sembra che questa esplosione carnevalesca e liberatoria tenda piuttosto a invadere le sfere dell’arte (il nuovo rapporto col pubblico proposto da certi spettacoli teatrali) o della politica (certi aspetti del «maggio» francese). Anche se, a proposito di quest’ultima, sarà forse opportuno ricordare l’osservazione di un illustre esperto, che la rivoluzione è una faccenda «lunga e noiosa».

114

h. cox, The Feast of Fools, Cambridge, Mass. 19703.

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