Folco Terzani - A Piedi Nudi Sulla Terra
April 14, 2017 | Author: loopusinfabula | Category: N/A
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Il libro
U
N B A B A , U N S A D H U , È U N U O M O C H E HA R I N U N C IAT O : L A
sua città è la giungla, il suo tetto è una grotta, il suo letto la terra, la sua acqua quella del fiume, il suo cibo le offerte spontanee. Il sadhu non vuole possedere niente, tiene acceso il fuoco, si dedica all’esecuzione dei riti che scandiscono la giornata in accordo con i ritmi della natura, parla poco ma sa ascoltare. A volte si illumina in un sorriso: e comunica con il divino. Ma come si arriva fino a qui? Baba Cesare – l’asceta italiano protagonista di questo libro –, dopo essersi ribellato a un’esistenza ordinaria e a ogni ruolo sociale prescritto, si è avvicinato al mondo dei sadhu indiani. Il suo percorso è molto diverso da quello che potremmo immaginare noi occidentali, abituati ai “processi di beatificazione” con i quali si cercano tracce di ascesi nelle vite di chi sfiora la santità. Dal mondo senza frontiere e senza passaporti degli anni Settanta, attraversato dai magic bus che portavano in India passando per la Turchia, l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan, il suo cammino di uomo avventuroso e assetato di vita ci conduce fino a oggi, alle nazioni chiuse e blindate dei nostri tempi. Prima di costruire tra le antiche rovine di Hampi il suo ashram, oggi meta di pellegrinaggi e centro di devozione, Baba Cesare ha vissuto all’insegna dell’eccesso: giovane intriso di controcultura hippie, pittore alternativo a Torino, moderno bohémien nel paradiso psichedelico di Goa, uomo niente affatto insensibile alle lusinghe femminili. Ha oscillato vertiginosamente tra profano e sacro, con il coraggio e la fame di conoscenza di chi si butta a capofitto nelle esperienze, consapevole che il senso dell’esistenza scaturisce al di là delle scelte e della volontà, “perché il male e il bene, cosa ne sai? Allora te lo prendi tutto. Tutto. Prenditelo tutto, che poi dal male viene il bene”. Non è un caso se Folco Terzani, che per anni ha viaggiato per il mondo frequentando figure dalla spiritualità carismatica – da Madre Teresa ai moltissimi asceti delle terre himalayane –, ha riconosciuto in Baba Cesare un autentico cercatore, intimamente libero: un uomo abitato da una sete di assoluto, capace di spogliarsi di tutto per seguire una chiamata, in comunicazione silenziosa con l’universo ma insieme capace di raccontare la propria umanissima esperienza in maniera sorprendente, appassionante,
ironica. L’incontro tra Folco Terzani e Baba Cesare dà vita a un libro unico – romanzo di avventure, viaggio spirituale, inchiesta su un mondo svelato nel suo fascino controverso, dialogo sul senso ultimo della vita –, le cui pagine possono essere lette come un imprevedibile mémoire, un postmoderno romanzo di formazione e insieme come un testo sapienziale dal passo umile ma rivoluzionario, in grado di cambiare il nostro modo di camminare per le strade del mondo.
L’autore
Folco Terzani, quarantadue anni, scrittore e documentarista, è nato a New York e cresciuto tra Singapore, Hong Kong, Pechino, Tokyo, Bangkok e Nuova Delhi, seguendo gli spostamenti del padre attraverso tutto il continente asiatico. A Pechino ha frequentato le scuole pubbliche, si è laureato in Lettere Moderne a Cambridge e ha frequentato la New York University Film School. Ha lavorato per quasi un anno alla Casa dei Morenti di Madre Teresa di Calcutta, esperienza dalla quale ha tratto il documentario Il primo amore di Madre Teresa. Nel libro La fine è il mio inizio (Longanesi 2006), ha raccolto le sue ultime conversazioni con il padre Tiziano, a partire dalle quali ha poi scritto la sceneggiatura dell’omonimo film.
Folco Terzani
A PIEDI NUDI SULLA TERRA
A PIEDI NUDI SULLA TERRA
Ho nove anni, è la mia prima volta in India. Non mi piace per niente: sporcizia dappertutto, povertà, lebbrosi per le strade che si spingono sui carrelli con i moncherini insanguinati. Andiamo a visitare un grande tempio a Delhi. Per entrare bisogna togliersi le scarpe ed è l’ultima cosa che vorrei fare. Cammino scalzo, con il terrore di prendermi chissà quale malattia. Rimango scioccato e mi chiudo in albergo a guardare la televisione e mangiare noccioline. Non voglio più uscire. Poi, poco prima di partire, rimetto la testa fuori e in una piazza, in mezzo alla gran folla in movimento, vedo tre uomini accucciati, praticamente nudi. Hanno l’aria serena, composta, e i capelli lunghissimi avvolti sopra la testa come una specie di corona. Uno di loro ha in mano uno strumento musicale semplicissimo, con una sola corda. Hanno meno dei mendicanti, ma sembrano dei re. «Chi sono?!» Ci avviciniamo e la gente ci spiega che sono asceti. Vivono da soli nella giungla. Mi sembra incredibile che esistano persone così. Non me li scordo più. Poi siamo partiti e la vita è andata avanti. Il trasferimento in Cina, le scuole, gli amici... Quando dieci anni dopo si è trattato di iscriversi all’università ho scelto Filosofia a Cambridge. Mi interessavano le grandi domande sull’uomo, ma sono rimasto deluso dal loro metodo d’insegnamento basato sulla logica. Mi sembrava arido. Perciò ho preso una decisione: se alla fine del primo anno avessi preso un first class, cioè il massimo dei voti, avrei abbandonato. Se invece non me l’avessero dato voleva dire che non avevo capito qualcosa e allora sarei rimasto. Hanno fatto l’errore di darmi il first class e ho cambiato, mi sono messo a studiare letteratura inglese. Cioè, mi sono buttato sul letto per due anni a leggere. Il mio preferito era Shakespeare, credevo non ci fosse nulla di meglio al mondo.
Alla fine del corso di studi, come sempre succede, sono arrivati i rappresentanti delle grandi banche, delle multinazionali, e persino i servizi segreti, per arruolare gli studenti migliori. E lì mi trovo in una strana situazione. Non voglio farli questi colloqui, perché so che se mi offrissero un lavoro lo prenderei. Ma non sono più sicuro che la direzione della mia vita sia giusta. Ho la sensazione di non voler far parte di questo sistema. Immagino un enorme carro armato che per avanzare ha bisogno che ogni suo pezzo funzioni bene, ma in realtà sarebbe meglio se fosse arrivato alla fine della corsa. Ho in mente qualcos’altro, ma non so cosa. Comincia così un periodo lungo e difficile, di stallo. I miei compagni di studi iniziano a lavorare, hanno successo, e io non riesco a inserirmi. Non voglio e non riesco. Mi ammettono alla scuola di cinema di New York, ma le cose non migliorano, anzi. La mattina mi sveglio e gli occhi vagano per gli scaffali pieni di libri, Shakespeare, i greci, i poeti romantici che mi hanno tanto appassionato, e niente mi attira. Prendo in mano i cd di musica, la più sublime che l’uomo abbia mai composto, ma non ho voglia di ascoltarla. Niente mi parla più. Il problema è ancora più complicato perché tecnicamente non ho problemi. Il mio corpo è sano, il frigorifero è pieno e ho anche una ragazza carina. Eppure mi sembra di vivere in un mondo di ombre. Non voglio discuterne con uno psicologo perché non sono in cerca di un’assoluzione; non voglio liberarmi da quella sensazione di disagio, al contrario, voglio entrarci dentro e capire cosa c’è che non va. In ogni caso, non posso andare avanti così. A ventitré anni decido di abbandonare la scuola di cinema. L’idea di girare un documentario mi viene durante un matrimonio in Svizzera. È notte fonda e tutti sono presi a ballare. Di solito mi piace ballare, ma questa volta non sono dell’umore. Le cornacchie gracchiano, l’alba sta per arrivare e io me ne sto seduto a un tavolo da solo a guardare la campagna. Vicino a me c’è un tipo molto silenzioso. Lo guardo per un po’ e poi attacco discorso. «Tu cosa fai?» «Mah, io non faccio niente, sono... A dire la verità, sono appena uscito da sette anni di ritiro in un monastero tibetano.» Questa proprio non me l’aspettavo. «E com’è stato?»
«Mah» dice lui, «è stata la cosa più bella che abbia mai fatto.» Mi sono fatto raccontare la sua esperienza e ho deciso di girare un documentario in quel monastero, che si trovava in Francia, in mezzo alla Dordogna. I praticanti erano tutti occidentali e parlavano con grande trasporto del loro maestro, un tibetano anziano che da tempo non viveva più con loro. Mi è sembrato importante parlargli. In un documentario sui buddhisti tibetani in Francia, il pezzo forte doveva essere l’intervista con il lama tibetano. Due mesi dopo c’è stato l’incontro. Mi ero preparato una decina di domande e mi sono presentato. Il maestro parlava solo tibetano, ma c’era un interprete. Le prime risposte sono andate lisce, niente di sorprendente. La sua cantilena, però, e l’espressione sincera e divertita dei suoi occhi... non so cosa sia stato, ma d’un tratto intorno a me tutto è diventato trasparente e poi è scomparso in un’esplosione di luce e di gioia. Anche le mie domande erano scomparse, erano diventate completamente irrilevanti. Appena mi sono ripreso ho afferrato la videocamera, che continuava a registrare, ho balbettato «Grazie», mi sono buttato fuori dalla stanza e sono scoppiato in lacrime. Il monaco francese che mi aveva accompagnato è accorso a chiedermi cosa fosse successo. «Boh... credo la cosa più forte della mia vita.» «Ah, bene! Allora rimani qui con noi?» «No, no, come rimango? C’è la mia ragazza che mi aspetta, devo fare il mio lavoro. L’intervista l’ho un po’ toppata, ma insomma, ora la rimetto a posto e finisco il documentario.» «Allora la tua esperienza è stata meno forte di quella che abbiamo avuto noi.» Probabilmente era vero, non mi andava di fare il monaco. Però era stato come vedere un colore nuovo, un viola che non avevo mai visto. Lì per lì mi è saltata in mente una frase che ho subito appuntato sul mio quaderno: “Ho appena visto qualcosa che è più vero di una tazza di tè”. Nei mesi successivi ho montato il mio primo breve documentario, che sono riuscito a vendere alla televisione, in cui racconto di vari aspetti curiosi del buddhismo tibetano in occidente. Di tutto, fuorché dell’incontro con il lama. In città si vive come in un labirinto di specchi. A ogni angolo, ovunque ti giri, solo persone e le loro creazioni: casermoni, macchine, cartelli... Diventa un’ossessione. Finisci per essere completamente assorbito dal ritmo e dalle
infinite invenzioni della nostra civiltà. È tutto spianato, spuntato, cementificato, illuminato, ridipinto e raddrizzato, e gli altri animali oltre a noi, che avrebbero potuto essere lì, sono stati cacciati via. A volte mi viene voglia di guardare fuori dal “nostro” giardino. Perché al mondo, nell’universo, non c’è solo quello, no? È facile dimenticarselo e lasciarsi prendere dalle nostre illusioni collettive. Di notte, la grande città è coperta da un guscio di luce attraverso il quale non riesci a vedere le stelle. E questa è un’enorme perdita, perché non c’è cosa che potrai mai vedere lontana quanto una stella. Ti dà una certa prospettiva, che in città manca. Ma per quella ci vuole il buio. Ci sono alcune cose che con la luce del giorno o con quella rassicurante dei lampioni proprio non si vedono. Il tibetano mi aveva aperto una finestrina e avevo voglia di continuare a guardare in quella direzione. Per questo, quando mi si è presentata la possibilità di andare a vedere come viveva una “santa”, non l’ho immediatamente scartata come assurda. Appena arrivato a Calcutta mi sono preso una specie di schiaffo in faccia. Camminando per strada, ho visto un uomo disteso per terra con un buco nel piede, profondo, infetto. Tutti passavano incuranti e quell’uomo stava lì, sembrava stesse per morire. Quando sei piccolo ti domandi come mai ci sono tante ingiustizie, da giovane te ne accorgi ancora, ma poi smetti di porti queste domande, dando per scontato che non ci si può fare nulla. Lì invece la violenza della situazione mi ha fatto sentire con forza che dovevo agire. Il giorno dopo sono andato a bussare a una porta di legno. Una suorina ha guardato dallo spioncino e mi ha aperto. «Cosa vuoi?» Due minuti dopo ero davanti a Madre Teresa. Lei era in carrozzella e mi ha detto di spingerla nella cappella. «Madre, sono venuto qui perché non so bene cosa...» Lei, secca, mi ha risposto: «Non fare tante domande, vai a lavorare con i morenti!». E io, che ero uno schizzinoso che non beveva dalla lattina di Coca-Cola di un altro, la mattina seguente sono andato dove mi aveva detto lei. In quello stanzone si vedeva di tutto, scene da film dell’orrore, e in mezzo a questo un ragazzo biondo rideva e abbracciava i malati, con due occhi come lanterne. D’istinto avrei voluto scappare via urlando, però a vedere quel ragazzo ho sentito che, ancora di più, avrei voluto essere come lui.
Così, in qualche modo ho retto. Il primo giorno non ho fatto quasi niente, il secondo le suore indiane mi hanno portato con loro in giro per le strade. Ero giovane e forte, quindi potevo sollevare le persone da terra e trasportarle fino alla Casa dei Morenti. Il tibetano mi aveva mostrato qualcosa in pochi minuti, da Madre Teresa mi sono fermato sette mesi. Qui c’erano gli insegnamenti che non avevo trovato all’università. In quel periodo ho cercato di fare tabula rasa, di ricominciare da zero guardando alle cose fondamentali: la povertà e la ricchezza, la salute e la malattia, la vita e la morte. Non c’era bisogno di tante teorie o spiegazioni. Come dicono gli indiani, la morte è il più grande dei guru. E lì ce l’avevamo davanti agli occhi tutti i giorni. Madre Teresa non stava a spendere tante parole. La pratica di quel luogo era la scuola del suo pensiero. Se le chiedevi: «Perché esiste la sofferenza?», lei buttava gli occhi al cielo e diceva: «Chiedi a Lui». Sosteneva che se ti fermi a ragionare sui grandi problemi non fai nulla, meglio aiutare la persona che in quel momento è di fronte a te. Era l’amore in azione. Anche a Calcutta ho finito per girare un documentario che mi ha permesso poi di trasferirmi a Los Angeles, sulle colline di Hollywood. Mi stimolava passare da un estremo all’altro. Purtroppo non sono riuscito a trovare un lavoro nel cinema. È stata una bella umiliazione, e anche quelle servono. Più i mesi passavano, più avevo bisogno di lavorare e meno, ovviamente, qualcuno mi voleva assumere. In quegli ambienti bisogna mantenere la faccia vincente, anche con gli amici. Va sempre “tutto bene!”. Facevo dei lavoretti sporadici in qua e in là per cercare di andare avanti, ma era la classica situazione in cui uno si dà un gran da fare per cose che non gli piacciono, solo per sopravvivere. Dopo un po’ ti senti incastrato in un meccanismo da cui non riesci a uscire. Se ti fermi non ce la fai a pagare l’affitto, però ti trovi sempre più spesso a domandarti: ma sono proprio nato per fare questo? È stato allora che mi sono tornati in mente gli asceti che avevo visto in India. Ho sentito nostalgia di un altro modo di vivere, che non conoscevo ma avevo appena intravisto. Volevo andarli a cercare per assicurarmi che fossero veri. Come vivevano, giorno per giorno? C’era un altro modo di tirare avanti? Ecco, avrei girato un documentario sugli asceti indiani. A questo punto i documentari erano diventati una scusa. Ero interessato alla ricerca
personale ma avevo bisogno di giustificarla con un’attività socialmente riconosciuta. La televisione era perfetta, dava addirittura un po’ di lustro. Siamo partiti in tre per quella che chiamavamo la guru hunt, la caccia al guru. C’ero io, un vecchio amico dell’università che era diventato un regista teatrale d’avanguardia a Londra, e una ragazza avventurosa. Non avendo l’indirizzo di nessun eremita, pensavamo di cominciare facendo un giro per gli ashram più famosi, quello di Sai Baba, il guru vivente più popolare del momento, l’ashram di Osho, di Aurobindo. Ma in fondo queste grandi istituzioni non facevano per me. Una volta là, però, dei viaggiatori ci parlano di un altro posto, un pochino fuori pista, per cui prendiamo un autobus di notte e la mattina dopo scendiamo in un luogo che mi incanta. Siamo circondati da antiche rovine, montagne di pietroni... difficile distinguere cosa è fatto dall’uomo e cosa dalla natura. Hampi è il posto più bello che abbia visto in India e sento subito una profonda familiarità. Mi infilo in una piccola, piccolissima libreria e chiedo al libraio se in zona ci sono degli asceti. Lui risponde che sì, ce n’è uno giusto dall’altra parte del fiume. Attraverso il fiume con una barchetta, una cesta rotonda di vimini con il fondo ricoperto di catrame. Arrivato sull’altra sponda proseguo a piedi, fra alberi e rovine. Finalmente intravedo una bandierina arancione e mi avvicino. C’è una specie di grotta. Sulla terra battuta, dietro a un fuoco, è seduto un uomo, drittissimo, severo, con i capelli avvolti come una corona sopra la testa e il corpo coperto di cenere. Mi mette soggezione. Forse non vuole nemmeno che io sia qui. «Siediti» mi dice in un inglese rudimentale, indicando un sacco di juta per terra. «Prendi un tè.» Accanto a lui è seduto un altro tipo strambo, più giovane. Dev’essere il suo discepolo. Il baba parla in hindi a degli indiani che poi salutano e se ne vanno. Vorrei fare tante domande, ma non so come comunicare. Mi sento lontanissimo dal mio mondo qui. Dalle poche parole che dice, mi sembra che il baba abbia un accento strano. «Baba, where are you from?» gli chiedo. «Italy.» Rimango di sasso. Il giorno dopo torno insieme ai miei due amici a trovare Baba Cesare. Gli faccio delle domande sulla sua vita e lui ha sempre delle risposte pronte – chiare, ironiche, dure. Mi dice che se sono veramente
interessato posso restare, c’è una grotticina lì vicino dove posso dormire. E io cosa farei in un posto così? «Puoi guardare il sole che sorge la mattina e tramonta la sera.» Non c’è cosa che mi piacerebbe di più per ricalibrare i pensieri e le priorità dopo anni di vita di città. Accanto alle mie gambe incrociate sfila una colonna di formiche che trasportano il cadavere di uno scorpioncino. I miei compagni mi lanciano sguardi severi. Anch’io non me la sento. Inoltre, dai brevi discorsi di quest’uomo mi sembra di aver intuito che ha avuto problemi con la legge, che è stato in prigione. Mi domando cosa avrà fatto, mi inquieta. «Forse un giorno ritornerò» dico. E me ne vado. Nei tre anni successivi mi sono avvicinato al mondo dei sadhu, gli asceti indiani, ma non sono tornato dal baba italiano. Viaggiavo soprattutto nelle zone himalayane e, sedendomi intorno a un fuoco con questi personaggi scarni, barbuti, che avevano rinunciato alle cose materiali, raccoglievo parole e immagini per il mio documentario. C’era qualcosa in loro che mi attraeva moltissimo. Non erano monaci o suore, come i tibetani o Madre Teresa, che vivono in monasteri, indossano un’uniforme, studiano gli stessi testi e seguono una dottrina. Erano ricercatori solitari che attraversavano il paese, spesso a piedi, come dei pellegrini. Mi aveva sempre colpito san Francesco, uno spirito libero vicino alla natura che girava in povertà e parlava non solo dell’amore per gli uomini, ma per tutte le creature: il lupo, gli uccellini... E i sadhu mi ricordavano lui. Ripartire dalla semplicità mi sembrava essenziale. Avevo spesso un senso di smarrimento di fronte alla complessità di quello che mi circondava: io uso il computer ogni giorno ma non ho la più pallida idea di come funzioni, l’aeroplano non so come faccia a volare, l’iPod a ricordarsi tutta quella musica o l’economia a fluttuare. Sono circondato da meccanismi che non capisco. Fra i sadhu invece ho riscoperto la bellezza degli elementi – l’acqua, la terra, il fuoco, l’aria. Mi sono sentito felice camminando sulla terra, facendo il bagno nei fiumi freddi dell’Himalaya, stando accucciato accanto alle fiamme di un fuoco che avevo acceso, respirando spazio. Sulla via della sorgente del fiume Gange mi sono fermato in un tempio. Lì, in fondo a una lunga fila di scalini, c’era una stanzina minuscola. Sembrava la casina di una strega, con le ragnatele annerite negli angoli e una finestra
piccolina da cui entrava un singolo fascio di luce. Un uomo scuro, coi capelli neri, gli occhi gialli, un sorriso bianco e un punto rosso in mezzo alla fronte mi ha fatto cenno di entrare. L’ho riconosciuto come uno di quelli che stavo cercando. Si chiamava Ana Baba ed era un giovane asceta, aveva la mia età. La gente passava in devozione, uno gli ha portato un casco di banane e nel giro di cinque minuti non ce n’erano più: una è andata a me, una al mendicante, una al toro, poi è passata una scimmia e Ana Baba ne ha data una anche a lei. Un’altra persona gli ha offerto cinquanta rupie e lui subito le ha date a un bambino. I soldi e le cose passavano come acqua dalle sue mani e a lui non rimaneva mai nulla. Verso sera è capitato lì un sadhu musicista che si è seduto con noi e ha cominciato a suonare dei bhajan indiani, bellissimi, ripetitivi, che inducevano una specie di trance. Dopo poco si è sentito del movimento fuori e sono arrivati i bambini: «Hari Om, maharaja! Hari Ooooom!». Si sono seduti intorno, hanno preso degli strumenti rudimentali e si sono messi a suonare e cantare tutti insieme. Bellissimo. Sono andato avanti e indietro varie volte tra Los Angeles e l’India. Ana Baba piano piano è diventato il mio punto di riferimento. Gli ho chiesto di accompagnarmi in un pellegrinaggio per l’Himalaya. Il bello di Ana Baba è che è un vero sadhu, quando decide di fare una cosa non si deve preparare. Si alza, prende la sua borsettina e va. Non deve spiegare niente a nessuno e quello che possiede ce l’ha già addosso. Così siamo partiti. Dovevamo fare il primo pezzo in autobus, perché il tempo a mia disposizione era come sempre limitato. L’Himalaya mi è sempre piaciuto tantissimo, quelle che per noi sono montagne, per loro sono soltanto i piedi, le creste più basse. L’intenzione era di fare un giro di una settimana, dieci giorni, per arrivare a Kedarnath. I luoghi più sacri dell’Himalaya sono spesso posti dove nascono grandi fiumi, molto in alto, in mezzo ai ghiacciai. D’inverno vengono chiusi perché restano sepolti sotto la neve, ma nelle altre stagioni sono meta di pellegrinaggi. Il pellegrinaggio è andare incontro al tuo karma. Vai, le cose succedono, e tu le guardi. Ci sono incontri con persone e luoghi che non hai mai visto, forse pericoli, forse illuminazioni... Giusto prima di salire sull’autobus è apparso un altro baba, che si è unito a noi. Aveva le pantofole e una barbetta non proprio bella lunga. Lo chiamavano Computer Baba, un po’ a presa in giro. Era stato un genio
dell’informatica nel sud dell’India, poi gli era successo qualcosa. Aveva mollato tutto ed era partito per l’Himalaya, ma non era ancora un sadhu affermato. Lui sosteneva che la sua barba avesse preso fuoco in un incendio e per questo non era molto lunga, ma io credo dipendesse semplicemente dal fatto che solo da poco era “sul sentiero”. Anche le pantofole facevano pensare che fosse poco esperto. Ana Baba andava sempre scalzo. Durante il cammino si sono accodati altri due baba. Eravamo una banda di cinque. Sulla strada abbiamo incontrato vari asceti che abitavano in capanne sparse per le montagne. Alcuni mi sono rimasti in mente. Shanti Das era di una tranquillità e bellezza fisica insolite. Era circondato da scimmie e attorno alla sua capanna crescevano ortiche enormi, come a dire “state lontani”. Io avevo un panforte preso dall’Italia. Cerco sempre di portare con me dei doni, i più semplici possibile, perché loro non mangiano molte cose, ma il panforte, fatto di mandorle, zucchero e uvetta, mi sembrava adatto e gliel’ho offerto. Allora ci ha invitati a pranzo, ha cucinato per tutti noi e solo alla fine ha mangiato anche lui, per ultimo. Lì, come in molti di questi viaggi, ho sperimentato che cos’è shanti, la pace, la tranquillità d’animo, una cosa della quale i baba gioiscono spesso. «Voi avete tutte le cose, ma noi abbiamo shanti» mi ha detto Shanti Das sorridendo. Il suo nome stesso vuol dire “servo della pace”. Avrei voluto rimanere lì qualche giorno, ma Ana Baba ha detto che era ora di rimettersi in cammino. Due sere dopo ci troviamo ad andare incontro a qualcosa che cercavo da tempo: una tempesta. In lontananza, sopra i monti, si scatenano tuoni e lampi. Cinque personaggi soli che vanno verso l’alto e davanti a loro dio parla, tuona, bestemmia... Io sono felicissimo, perché è come se stessimo andando a parlarci. Saliamo, saliamo, e intanto comincia a piovigginare. Io sono sempre più soddisfatto. “E ora vediamo come se la cavano, questi sadhu!” Loro sono tranquilli, continuano a camminare. Dopo un po’ il sole va giù e la pioggia si trasforma in nevischio. Resto fiducioso. Se hai bisogno e vai in fede, la grotta arriva, è dio che te la dà. Così almeno mi avevano detto i sadhu. Insomma, ci inerpichiamo su per la montagna e io aspetto la grotta in cui rifugiarci. Che però non compare. In compenso arriva il buio, inizia a far freddo sul serio, tira vento. Più saliamo e più fitta si fa la neve. Ana Baba ci cammina sopra con i suoi piedi nudi. Computer Baba ha le pantofole. Io
almeno ho le scarpe, due golf e lo zainone. Ana Baba è avvolto nella sua unica coperta. A un certo punto mi accorgo che sono tutti un po’ preoccupati, non conoscono la zona e hanno incominciato a camminare più veloci. Se il gioco è quello di fidarsi... be’, non sta funzionando. Poi, in lontananza, si scorgono due capanne di pietra, due stalle abbandonate. Ci mettiamo lì dentro, tutti pigiati l’uno accanto all’altro. Fa un freddo bestiale. Dormire è impossibile. Ana Baba inizia a recitare un mantra: «Om Namah Shivaya, Om Namah Shivaya, Om Namah Shivaya...». E per tutta la notte tutti e cinque recitiamo questo mantra, che almeno mi distrae dall’altro che ha preso a girare ossessivamente per la mia testa: “Ho freddo, ho freddo, ho freddo!”. Dopo una notte così, puoi assaporare davvero la gioia della prima luce. Quando arriva quella palla di fuoco e scaccia il buio e il freddo senti una profonda gratitudine. Ma la senti solo se hai lasciato il tuo corpo in balia degli elementi. Se stai al sicuro in una casa con la luce elettrica e il calore del riscaldamento, non ti rendi mai conto della sua importanza. Eppure basterebbe che il sole si spegnesse per un solo giorno e saremmo tutti morti. Sono di nuovo a Los Angeles. A una festa mi presentano un regista nominato a un Oscar per un documentario che mi è piaciuto moltissimo e gli propongo di accompagnarmi in India per girare il film sui sadhu, che ho in mente da tempo. «Se mi paghi il viaggio, vengo» fa lui. Insieme andiamo in India in tempo per il Kumbh Mela, un raduno di decine di migliaia di sadhu sulle sponde del Gange. Ci andiamo con Ana Baba, la nostra guida. A vederli in quel contesto di delirio ed esaltazione, i sadhu mi sembrano quasi degli sbandati: avvolti in nuvole di ganja, i capelli sciolti, nudi, coperti di cenere... Alcuni ricercano tramite la costrizione fisica: quello che tiene il braccio sollevato finché diventa uno stecco inerte con le unghie lunghissime, quello che sta sempre in piedi senza mai sdraiarsi, l’altro che sta sdraiato su un letto di chiodi. Tutto un po’ dispersivo. Dopo la grande festa abbiamo voglia di cercare qualcuno di più ritirato e tranquillo: l’asceta solitario che vive in una grotta – dato che quasi tutti i sadhu dicono di averci trascorso lunghi periodi. Quel che è certo è che durante il nostro giro scopriamo che, almeno in quella zona e durante l’inverno, le grotte sono vuote, in alcuni casi addirittura chiuse a lucchetto! Passava il tempo e il mio amico diventava sempre più scettico. In effetti quando ero insieme a lui sembrava non avvenissero più incontri speciali.
Perdevo fiducia anch’io. Eppure, girando da solo avevo vissuto delle esperienze forti, trovato persone belle, autentiche. Quando viaggi insieme a qualcun altro c’è un karma collettivo, la somma di tutti i karma di chi è presente in quel momento. Mentre il punto è che devi vivere il tuo karma personale: per questo vai da solo sui monti. Allora tutto quello che incontri, che vedi, è per te, è solo tuo. Non c’è nessuno accanto che possa contestare ciò che senti. Ma soprattutto cominciavo a capire quanto in questo mondo conti la purezza della tua intenzione. Se cerchi per la tua crescita, trovi. Se ti interessa documentare e filmare, non trovi granché. Scene fantastiche, ma senza anima. Il documentario non andava avanti, io attraversavo un brutto periodo e siamo ripartiti per Los Angeles. «Senti, così non funziona» ho detto al mio amico regista. «Io avevo la sensazione che qualcosa da imparare ci fosse, tu ci credi poco. E ora sta crollando tutto anche a me. Penso che l’unica speranza sia che io vada da solo. Cerco di ritrovare il filo, e quando ce l’ho ti chiamo.» Dopo qualche mese riparto per l’India. A una festa a Delhi mi trovo a discutere di sadhu con un giornalista indiano e faccio il cinico. Lui allora mi parla di un baba molto interessante, pieno di conoscenze sulla natura. Lo sfido a farmelo incontrare, ci accordiamo per la settimana successiva. Che avventure in quel viaggio! Per strada abbiamo visto un uomo buttato in terra, sofferente. «Guarda, sta morendo» ho detto al mio compagno. «È il suo karma» dice lui. Ma io non riuscivo ad accettarlo. Sono tornato indietro e ho fatto quello che mi aveva insegnato Madre Teresa: l’ho preso in braccio. Ero in mezzo a una strada, c’era traffico, avevo quest’uomo tra le braccia e ho fermato un risciò. «All’ospedale, per favore.» Arrivati all’ospedale, tutti ci guardavano. L’ho messo lì sul tavolo e ho chiesto ai dottori se potevano curarlo, avrei pagato io le spese. «È uno di noi» mi hanno risposto. «Non ti preoccupare, ci prenderemo cura di lui.» Dopo essere stati dal baba, sono tornato in ospedale a vedere come stava. Ci hanno portato al suo letto: vuoto. Brutto segno. Poi si è aperta la porta, è entrata l’infermiera e lui dietro. Appena mi ha visto si è buttato in terra e mi
ha abbracciato i piedi: gli avevo salvato la vita. Allora ho preso i soldi che avevo nel portafoglio, glieli ho dati e gli ho detto: «Vita nuova!». Comunque, dopo aver lasciato l’uomo in ospedale abbiamo proseguito il viaggio fino all’abitazione del baba. Avrà avuto un’ottantina d’anni, ma aveva i capelli corti, una moglie e sette figli. Tutto l’opposto di quello che mi ero immaginato! Viveva in una casetta in un paesino, non in una grotta in giungla, proprio in una casettina con l’ingresso, il cancello, tutto perbenino. Però lui aveva una faccia straordinaria, con due occhioni intensi e un naso lungo e sporgente. Mi sono seduto accanto a lui. Si chiamava Gangotri Baba. Veniva da una famiglia benestante; aveva avuto una governante europea e parlava un inglese meraviglioso, antico e colorato. Con voce fievole, quasi impercettibile, tanto che dovevo accostare l’orecchio alle sue labbra, ha preso a raccontarmi storie fuori da questo mondo. Sono tornato a essere un bambino che ascolta le favole, e ci crede. Una volta si era reso invisibile per attraversare una folla. Non è impossibile. Devi non guardare gli altri e ritirare la tua energia in te stesso, che è anche una pratica delle arti marziali. In uno dei suoi innumerevoli viaggi aveva risuscitato una giovane ragazza, e raccontava come lui stesso fosse morto già due o tre volte, o meglio: avesse lasciato il suo corpo per andare a salvare qualcuno da un’altra parte. Durante quelle morti temporanee la moglie aveva tenuto in vita il suo corpo versandogli dell’acqua in bocca. Il suo guru era stato una donna che aveva centosessant’anni, che aveva fatto da guru a sua mamma e prima ancora a sua nonna. Lei gli aveva dato una serie di istruzioni. La prima era andare nella giungla e trovare un albero di banyan al quale appendersi per i piedi per un certo numero di mesi. Raccontava in prima persona, senza battere ciglio, come fosse vero. Mi affascinava. Poi sua moglie ha tirato fuori una fotografia di lui da giovane. Pazzesco, coi capelli lunghi fino a terra, sembrava lo Yeti. Forte, con quel naso deciso, uscito da una famiglia colta per andare nella giungla più profonda – era una commistione particolare. A un certo punto, in giungla era arrivata una diciassettenne che gli aveva detto: «Insegnami, guru». Era una bellissima ragazza, lui si era innamorato e avevano fatto sette figli. Si era tagliato i capelli ed era diventato un uomo di famiglia. Faceva il dottore ayurvedico, era esperto di erbe. Per arrivare a conoscere le pozioni diceva di aver sperimentato tutto su se stesso, anche il veleno dello scorpione. In ogni caso, fossero vere o no le sue storie, a me quell’uomo piaceva. A
ognuno il suo. Mi interessava quel mondo e gli ho chiesto di insegnarmi qualcosa. «No, non mi resta più tanto tempo su questa terra. Fare il guru è una grande responsabilità e io non potrò seguirti.» Era restio e questo già mi sembrava un segno di affidabilità. Ho insistito. Non cercavo niente di troppo impegnativo. Dopo tutto, anch’io avevo a disposizione solo qualche settimana. «Se hai meno di un mese è inutile che tu rimanga qui con me» mi ha detto. «Non c’è niente che ti possa insegnare in questo breve tempo. Il modo più veloce è andare in giungla. C’è un posto dove sono stato anni fa, conosco le persone che ci abitano. Si occuperanno di te.» Mi ha suggerito di girare per la giungla a piedi nudi, di guardarmi intorno e prendere nota di quello che vedevo. «Se ti entra una spina nel piede» ha aggiunto, «fermati e toglila subito. L’unico grosso pericolo sono i serpenti. Se ne incontri uno che vuol fare il furbo, prendi un bastone, dagli una botta e mandalo via.» Mi ha assicurato che i contadini mi avrebbero dato da mangiare una volta al giorno e mi ha fornito qualche indicazione: la mattina dovevo andare al fiume, lavarmi, leggere un capitolo della Bhagavad Gita e le Upanishad, i testi sacri più importanti, recitare il mantra che mi aveva dato, rientrare la sera e dormire in una casetta al limite della giungla. In giungla sono rimasto due settimane. Un’eternità, per chi è sprovveduto e deve mantenere i sensi sempre all’erta. Risalendo per un po’ il fiume si arrivava in un posto stupendo: un laghetto verde e azzurro con accanto una roccia sporgente sotto la quale per un periodo aveva vissuto un gruppetto di sadhu. Per la prima volta ho fatto un po’ di pratica in prima persona invece di stare insieme a qualcuno e fargli domande. C’erano momenti molto poetici: una notte è passato un sadhu, io recitavo il mantra e lui mi ha detto: «Sai chi sono gli esperti mondiali del mantra? I grilli!». E infatti, ogni notte si alzava un coro di cricche-cricche-cricche, un mantra collettivo, un ritmo in crescendo e diminuendo da cui si veniva trascinati. Era meraviglioso, gli alberi enormi, i richiami degli uccelli, poi il silenzio, mosso soltanto dal gorgogliare del fiume. Stavo ore ad ascoltare l’acqua che scorreva, con l’aiuto del mio mantra. Non avevo mai capito a cosa servisse il mantra, ma provando e riprovando notavo che per ripeterlo correttamente
dovevo concentrarmi al punto che la testa mi si svuotava di tutte le altre parole, dei pensieri e dei giudizi. Una notte sento in lontananza delle urla di donna: «Hathi, hathi!». L’elefante! I contadini che mi ospitano sono in subbuglio, di colpo sono tutti in piedi, i cani abbaiano con furia, le donne prendono i bambini e si barricano in casa. Il capofamiglia invece arriva con una bracciata di rami secchi di bambù, che probabilmente teneva già pronti. Li infila nel fuoco e me ne passa alcuni. Intanto arrivano altri due o tre uomini armati di rami infiammati, una scena da preistoria. Con urla animalesche si buttano contro il buio. L’elefante non si vede, si vedono solo le cime degli alberi che sbatacchiano al suo passaggio. Poi la bestia emerge dalla giungla e avanza verso di noi. Io sono in estasi: è enorme, calpesta i campi. I cani, impegnati tutto il giorno a scacciare le scimmie, hanno fiutato il pericolo ma non possono fare assolutamente niente. È un gigante, una forza della natura. Prendiamo dei pietroni e glieli scagliamo contro per respingerlo. Mi piace la primitività del momento, questa specie di caccia al mammut. Il contadino si volta verso di me: «Se si dovesse girare e caricare, non correre via dritto!». L’elefante è come una nave, un tir, spazza via ogni cosa sul suo cammino, ma è troppo grosso per andare a zig-zag. Può acchiapparti con la proboscide, sbatterti a terra e poi pestarti. E lì è finita. È una bestia di cui hanno veramente paura, più che della tigre, perché mentre con gli altri animali basta rinchiudersi in casa, l’elefante con una spallata la butta giù. La lotta intanto va avanti. Lo inseguiamo, lui si infila nel buio, poi a un certo punto si ferma e tutti battono in ritirata. E io, dimenticandomi completamente lo zig-zag, scappo drittissimo! Per fortuna l’elefante decide di non caricare, gli sarà parso troppo complicato, e riparte per la giungla. Quando rientriamo in casa, le donne ci danno delle piccole banane come compenso per gli atti di coraggio. La mattina dopo vado in cerca delle tracce di quella notte, come per assicurarmi che non sia stato tutto un sogno. Ma non ne trovo. Allora chiamo il contadino. «Come mai? Eppure l’elefante c’era.» «Ma se sei in mezzo a un’impronta!» È enorme, molto più grande di quel che stavo cercando: un piedone con la mota tutt’attorno. È stato dopo l’incontro con l’elefante che ho capito davvero dove mi
trovavo. In fondo la giungla, per rubare le parole a un avventuriero che ho incontrato, è “fucking and dying”. È una definizione perfetta, perché ovunque guardi tutto si accoppia, le libellule gialle, le rane, i serpenti, le farfalle... e poi si putrefà. Una mattina, durante i miei giri, ho scoperto un daino morto avvolto in una coperta nera di mosche che lo stavano risucchiando. Un ciclo continuo di morte e risurrezione. E io a piedi nudi che vagavo a guardare cos’era il mondo. «E questo è stato solo l’A B C...» mi ha detto il vecchio baba quando sono tornato da lui. Gli ho parlato di Madre Teresa, in un certo senso la mia prima maestra, e del suo insegnamento d’amore che mi aveva così tanto colpito. Lui mi ha guardato a lungo e poi, sempre con quella voce appena udibile: «L’amore è la cosa più bella del mondo. Ma l’amore è solo metà della storia. Osserva il mondo così com’è. Osservalo senza paura, senza speranza. Ogni cosa sorge, permane un breve tempo e scompare. E poi sorge ancora.» E io ho visto davanti a me le stagioni, le nuvole che si formano e si dissolvono nel cielo, i fiori nei campi che arrivano come onde di colore e poi scompaiono, le generazioni umane, tutto. Questa è verità, tutto il resto è speranza, fede. Sono rimasto senza parole per un momento, spaesato. È stata una rivelazione. Con Madre Teresa mi ero fatto un’idea di cosa potesse essere una santa, reale, contemporanea. Noi siamo abituati a identificare la santità con l’amore. Qui invece ascoltavo un’altra concezione: la santità è la comprensione della totalità, perché dio è il tutto. Questa cosa del “solo metà della storia” continuava a girarmi per la testa. Cos’era allora l’altra metà? Poco alla volta lo stavo scoprendo. Non c’è solo amore, c’è tutto il resto. In questo anche la giungla è stata una maestra. Quando ci siamo salutati ho chiesto al vecchio baba se ci saremmo incontrati al Kumbh Mela. Ricordo ancora la sua bellissima risposta: «Mi piacerebbe tanto andare al raduno, ma il mio corpo è vecchio ormai. Se sarò ancora in questo corpo non credo di potercela fare. Se invece lo avrò già lasciato, ci sarò sicuramente!» Qualche mese dopo Gangotri Baba è morto, e questa volta non è risuscitato. Sono tornato in Italia, ed è stato allora che ho sentito che c’era in giro un baba italiano che viveva da moltissimi anni in India. Che fosse quello che
avevo incontrato a Hampi anni prima? Ho fatto di tutto per contattarlo e infine ci siamo dati appuntamento in una piazza di Firenze. Da lontano l’ho adocchiato subito, coi suoi abiti arancione-rosati e i lunghi capelli avvolti in un turbante. Lui ha fatto per attraversare la strada, senza guardare né a destra né a sinistra, e il traffico si è bloccato davanti a questa figura ricurva come una specie di Mago Merlino. Lui non si ricordava di me, ma io ho riconosciuto Baba Cesare – nonostante fosse molto invecchiato negli otto anni trascorsi, e quella schiena che ricordavo dritta si fosse piegata. L’ho portato a casa da me in montagna e gli ho mostrato il documentario sui sadhu, che a quel punto avevamo quasi finito. Io ero rimasto con tante domande ma lui aveva per ogni scena dei lampi di intuizione che mi portavano oltre la bellezza e l’esoticità delle immagini, al senso profondo del percorso. Forse è stato allora che mi è venuta l’idea di abbandonare il documentario per raccogliere la sua storia. Lui era il ponte fra due mondi. Abbiamo cominciato a parlare ed è nata un’amicizia. È così che, qualche mese dopo, mi sono ritrovato a Hampi in quella grotticina sotto le stelle. Una mattina, svegliandomi per terra e guardando in alto verso un gruppo di scimmie che correvano per i rami del banyan, mi sono reso conto di aver maturato un sogno che non avevo ancora realizzato: andare in giro per l’India da solo, a piedi nudi e senza soldi. Allora ho chiesto a Baba Cesare delle dritte. «Siamo nelle mani di dio. Lui si occuperà di te.» Mi sembrava una risposta irresponsabile. Io ero un po’ preoccupato. Avrei voluto delle indicazioni concrete: dove andare, cosa portare, come comportarmi. Ma lui, ostinatamente, si rifiutava di darmele. Alla fine ha mandato un bambino al mercato a comprare un gilet di cotone, l’ha tinto di un colore arancione, e me l’ha dato. «Mettiti questo e ora fai Baba Folco, per una settimana.» Mi restava un dubbio. Dato che non parlavo bene l’hindi, come avrei fatto a spiegare chi ero e cosa facevo? Baba Cesare mi ha consigliato di fare il mauni, il voto del silenzio, così avrei evitato di perdermi in discorsi. Cosa facevo lo si doveva percepire e basta. Questo è stato un consiglio indispensabile per il viaggio. Il cammino si sarebbe svolto lungo il fiume Narmada, una specie di
campo di addestramento per i sadhu e coloro che aspiravano a quel sentiero. Lì le cose sembravano funzionare più facilmente, perché il luogo era legato a una lunghissima tradizione e la popolazione attorno era disposta all’accoglienza. Ho raggiunto un piccolo ashram, punto di partenza per il pellegrinaggio, e lì ho lasciato tutte le mie cose – zaino, vestiti, documenti, soldi, carte di credito. Ed è stato allora che si è realizzato un altro dei miei sogni. Più di una volta avevo sentito parlare di una grotta gigante, una specie di università dei sadhu, ma non l’avevo mai trovata, tanto che mi ero convinto non esistesse. L’ho raccontato al sadhu dell’ashram, e lui mi ha detto che nelle vicinanze una grotta simile esisteva, c’era stato. Così abbiamo organizzato un viaggio in auto, dopo alcune ore siamo scesi e abbiamo proseguito a piedi. Siamo arrivati a un villaggio. Il sadhu ha chiesto agli abitanti dove fosse la grotta gigante e loro hanno risposto di non saperne nulla. Abbiamo comunque continuato a camminare, siamo saliti per un po’ e abbiamo trovato una piccola grotta. Non poteva essere quella che stavamo cercando. Siamo saliti un altro po’ e ne abbiamo incontrata un’altra, ancora più piccola. «È questa» ha detto il sadhu facendomi cenno di entrare. Dentro non c’era nulla, a parte un buco in terra. Bisognava infilarsi proprio lì. Un terzo sadhu ci accompagnava con una pila. Tutti ci siamo calati giù, spingendoci attraverso la roccia umida e scivolosa. La situazione cominciava a non piacermi, mi stava venendo un attacco di claustrofobia. Superato quel traguardo si è aperta una grotta enorme, così enorme che non se ne vedeva la fine. Il raggio di luce dell’unica pila che avevamo illuminava vari livelli, alcove, nicchie... Diversi percorsi si aprivano, come un labirinto. Guidati dal sadhu abbiamo proceduto per venti minuti sottoterra, quando d’un tratto siamo sbucati sotto una specie di cupola di roccia, perfetta come un duomo. Lì c’erano sette dhuni, fosse per fuochi sacri con altrettanti tridenti. Il sadhu mi ha detto che appartenevano ai sette rishi, i saggi che ci avevano abitato nell’antichità. Il posto era magnifico: un buio e un silenzio totali. Era come stare sott’acqua. Non si sentiva né caldo né freddo, la grotta conservava la temperatura dell’interno della terra, un po’ come il nostro corpo, che rimane intorno ai 37 gradi. In mezzo a quella perfetta assenza di stimoli esterni, abbiamo spento la pila e siamo stati lì per un’oretta, immobili, a fare esperienza del niente. Poi mi hanno chiesto se volevo proseguire. Ero tentato, ma quando mi hanno detto che la grotta andava avanti per chilometri e
arrivava fino a un fiume sotterraneo che si poteva attraversare per poi risalire da un’altra parte, ho deciso di fidarmi della loro parola e di fermarmi lì. Temevo che la torcia potesse cadere per terra e rompersi: non saremmo più usciti vivi da quel labirinto sotterraneo. Mi stupiva però che un posto così unico non fosse conosciuto e che persino gli abitanti del villaggio avessero detto di non saperne nulla. Il secondo accompagnatore allora mi ha raccontato che fino a qualche tempo prima lì aveva vissuto un sadhu, esperto di comunicazione con gli spiriti. La grotta era il posto ideale per lui, ci aveva vissuto per molti anni ed era abituato a girarla anche senza luce. Una volta alla settimana, all’imboccatura della grotta, incontrava le persone che andavano a trovarlo. Negli anni però si era montato la testa, pare volesse diventare famoso, aprire la grotta, farne una meta di pellegrinaggio. Allora, una notte, ventisette uomini del villaggio erano andati da lui e gli avevano tirato una coltellata per uno. L’avevano scuoiato vivo. Non volevano che la grotta si conoscesse. Era un antico luogo di culto, con quei sette fuochi dei sette rishi, protetto dal villaggio con il sangue. Quando cercavo questi luoghi per documentarli non apparivano mai, ora che andavo senza nemmeno una macchina fotografica me li trovavo davanti. Siamo tornati all’ashram e mi sono preparato a partire, spogliandomi di tutto, trattenendomi perfino dal portare penna e quadernetto per gli appunti. Avevo pochissimo tempo – volevo averne poco, perché avevo molta paura. La notte prima di mettermi in cammino si è sentito un pianto inquietante di là dal fiume. Il baba mi ha detto che erano gli sciacalli. Ha aggiunto di stare attento anche ai varani e al loro sputo, e alle piante di datura che crescono dappertutto. Mi ha spiegato che il fiume è come una dea, è a lei che devi rivolgerti per ogni necessità. Se qualcuno mi avesse regalato qualcosa, sarebbe comunque venuto da lei. E così sono partito. È stato uno dei più bei viaggi della mia vita, quello in cui più mi sono esposto. Sapevo solo che dovevo seguire il fiume. A tratti era impossibile perché mi si parava davanti la giungla, c’erano passaggi impraticabili, e allora dovevo tornare nei villaggi e da lì riavvicinarmi al fiume. L’unica regola era che il fiume non si poteva attraversare, bisognava sempre seguire il suo corso. La prima notte mi fermo in un grosso tempio. Ci sono centinaia di sadhu perché è in corso una festa. Senza parlare, solo a gesti, faccio capire che sono
un pellegrino e cerco un posto per dormire. Mi rispondono che è tutto pieno. Allora interviene un sadhu giovane e robusto, che sembra il capo. È seduto su una branda, rialzato, mentre gli altri sono distesi per terra, e mi dice di sedermi accanto a lui. Scoppia un litigio. Un vecchio sadhu vuole buttarmi fuori. Secondo lui non sono uno di loro. Io non capisco molto perché parlano in hindi, ma in ogni caso non potrei giustificarmi, ho fatto il voto del silenzio. Cerco di mantenere una calma assoluta. Accetterò qualsiasi verdetto, anche se ormai è tardi e non saprei dove altro andare. D’un tratto salta su un altro asceta: «Vieni con noi a fare il bagno nel fiume.» So che è un tranello, perché se andassi a fare il bagno con loro vedrebbero che sotto il mio pareo non porto il perizoma, ma le mutande. Che un vero sadhu non indossa mai. Mi sento giudicato male. Forse è vero, non sono uno di loro, ma anche io sto cercando, e da qualche parte dovrò pure cominciare! Il sadhu giovane mi difende, mentre io mi rifiuto di fare il bagno spiegando a gesti che l’ho già fatto, grazie, lo rifarò domattina. Alla fine raggiungono un compromesso. Mi portano al piano di sopra, anche questo pieno di asceti che riposano, e mi indicano un angolo dove hanno appena rifatto il pavimento con lo sterco di vacca ancora fresco. E io, senza esitazioni, mi ci distendo sopra. Da quel momento tutto va liscio, mi concedono il privilegio di assistere alla festa notturna. Mi addormento, ma in mezzo alla notte sento della musica. In una grande sala tre donne in sari ballano, circondate da centinaia di sadhu. Una situazione che è dinamite: tre donne in mezzo a tutti quegli uomini – asceti, certo, però... Nella borsa ho dei cimbali e mi metto a suonarli. Guardando con attenzione le danzatrici, d’un tratto mi rendo conto che non sono donne. Sono travestiti, eunuchi! La mattina dopo, per evitare il dramma del bagno, vado prestissimo dal capo del tempio, lo ringrazio silenziosamente e mi inchino davanti a lui. Lui mi mette in mano cinquanta rupie, meno di un euro. Mi vengono le lacrime agli occhi. Come straniero, specie nei posti turistici, ero abituato a essere visto come un portafoglio vivente. Adesso che sono vulnerabile, quel gesto di generosità mi tocca profondamente. Riparto fiero con gli ottanta centesimi in borsa: se le cose si mettessero male potrò comprarmi un pezzo di pane. Ogni giorno succedeva qualcosa. Ero in un’India profonda, antica. Ho
incontrato un gruppo di pellegrini, pensionati, tutti vestiti di bianco, uomini e donne che sulla testa portavano grossi pacchi con pentole e cibo. Si erano concessi quel viaggio ed erano in strada da mesi. Subito mi hanno dato da mangiare e mi hanno proposto di proseguire con loro. La sera siamo arrivati a un tempio gestito da un baba dolcissimo, con una lunga barba a fili bianchi, che mi ha invitato a cenare solo con lui. E mi ha raccontato una storia. «Quando ero giovane come te, una volta camminavo lungo il fiume e avevo dei soldi con me. Sono andato in un negozietto e quei pochi soldi li ho spesi tutti per comprare un sacchetto di caramelle. Quelle caramelle le ho date ai bambini che incontravo per strada, e sono tornato a non avere niente.» Avevo capito. Il giorno dopo ho tirato fuori le cinquanta rupie che mi avevano dato al tempio, ho comprato delle caramelle e le ho regalate, rimettendomi così completamente in gioco. Piano piano cominciavo a entrare nello spirito: quello che avevo non era mio, me lo aveva dato qualcuno, e quel qualcuno l’aveva avuto da qualcun altro ancora... A chi appartengono, in fondo, tutte le cose? A volte mi accodavo a dei sadhu, oppure loro decidevano di fare un pezzo di strada con me. Per mezza giornata ho camminato con un giovane baba, costeggiando il fiume in una zona isolata dove non arrivavano autobus perché il ponte era crollato già due volte. Dicevano che la dea Narmada non lo voleva. Il fiume era grande, si allargava e si contraeva, c’erano uccelli che vi volteggiavano sopra, cormorani e martin pescatori, e i pesci guizzavano fuori dall’acqua. Stavamo attraversando un’area sabbiosa quando in lontananza abbiamo visto avvicinarsi un sadhu vestito di nero, col turbante. La cosa mi interessava, sapevo che a vestirsi di nero sono gli aghori, asceti che vivono nei crematori, in mezzo ai morti. Ci siamo incrociati. Io stavo zitto, ma a un certo punto il mio accompagnatore si è messo a discutere con lui. Non riuscivo assolutamente a seguire la conversazione, loro urlavano, erano arrabbiati e non ne capivo il motivo. Poi l’aghori ha mostrato il petto e con voce stentorea ha detto l’unica cosa che sono riuscito ad afferrare: «Stai attento, non giocare con un aghori!» Improvvisamente ha aperto il fagottino che portava con sé – anche quello nero – e ha tirato fuori un teschio umano. L’ha rovesciato, ci ha fatto la pipì
dentro e l’ha bevuta. Ma il giovane sadhu che era con me non si è fatto intimidire da questa scena un po’ heavy metal, e gli ha risposto a tono. L’aghori si è azzittito e noi ci siamo potuti allontanare. Gli aghori sono personaggi che possono sembrare al limite della follia. Per loro non esistono il bene e il male, tutto è dio, per cui trasgrediscono anche ai regolamenti dei sadhu, che in genere sono vegetariani, non bevono alcol e rinunciano al sesso. Gli aghori invece fanno quello che gli pare: bevono alcol, non sono celibi e mangiano carne, persino – così si dice – assaggiano quella umana. Vanno oltre ogni limite. Più avanti nel pellegrinaggio sono arrivato in un posto dove, per l’appunto, bruciavano i morti. Attraversavo un ponte e ho visto venire verso di me una lunghissima colonna di persone. Su una portantina era seduto un uomo in un vestito immacolato, ricoperto di fiori. Solo quando ci siamo avvicinati mi sono reso conto che era il cadavere di una persona importante, che stavano portando in riva al fiume. Quelli del corteo mi hanno fatto andare con loro, per cui ho assistito alla cremazione in prima fila. L’aghori del posto, divertito dalla mia presenza, mi ha preso in simpatia e mi ha invitato a rimanere lì per la notte. Era una grande occasione. Qualche volta avevo immaginato di fermarmi in un crematorio, in mezzo al fumo dei morti, a riflettere sulla nostra impermanenza, ma non ce l’ho fatta. Camminare sulle ceneri dei cadaveri mi era bastato. E mi sono rimesso in viaggio. Un altro giorno incontro un sadhu che per un po’ mi fa da guida. Da un lato mi scoccia l’idea di non farcela con le mie forze, ma insieme incappiamo in un’avventura che da solo non avrei saputo affrontare. Mentre passiamo per un piccolo villaggio, davanti a noi si para una dozzina di ragazzi armati di bastoni. Ci fermano e ci dicono di accomodarci su due seggiole di plastica. «Grazie!» dice il mio accompagnatore, e si siede per terra. Lo imito. Mi avevano avvertito che in quella zona la gente sostiene i cercatori in pellegrinaggio, ma avevo anche sentito dire che se vai lungo il fiume Narmada e te ne approfitti, ti riempiono di botte e ti tolgono ogni cosa. I ragazzi sono dei guardiani, vogliono vedere cosa c’è nelle nostre borse, controllare se abbiamo qualcosa in più. Io sono preoccupato perché il mio compagno ha con sé una vecchia scacchiera: qualcuno gliel’ha regalata il giorno prima. Lui è stato bravissimo a non cadere nel tranello della seggiola, ma loro vogliono interrogare me, sono io quello più sospetto. Non rispondo alle loro
domande, il sadhu lo fa per me. Mentre discutono passa un bruco e mi occupo di prenderlo in mano e metterlo in salvo. Allora, piano piano, i ragazzi cominciano a sorridere, ci offrono del tè e ci rimandano per la nostra strada. Poco dopo mi entra una grossa spina nel piede. Sento male a camminare, la ferita comincia a infettarsi. Ci fermiamo per la notte sotto un albero e io cerco di capire dal mio accompagnatore cosa farebbe al mio posto, se andrebbe da un dottore. Lui mi risponde che chiederebbe aiuto al fiume. Ci provo, ma la situazione non migliora. Ugualmente non voglio mollare, anzi, decido di separarmi dalla mia guida. So bene che nella vita quest’esperienza non la rifarò tante volte e ci tengo a viverla fino in fondo, da solo. Vado avanti un po’ zoppicante quando un vecchio, un contadino, mi chiama da un campo. Vuole farmi un tè, immagino, ma io non voglio nulla. Lui insiste, mi porta nella sua capanna e mette a bollire dell’acqua mentre io aspetto spazientito. Non sto bene, non so dove sono, ho poco tempo, devo trovare un posto dove dormire... non è un gran momento. Quando l’acqua è ben calda, il vecchino invece di farmi un tè mi prende i piedi e si mette a lavarli. La sua acqua e le sue attenzioni sono come una medicina. Io non so più che fare. Sono un pellegrino sporco, coi capelli che non vedono lo shampoo da chissà quanto tempo, la barba incolta... Poi mi invita a pranzo, mi mette in mano tre guava, che sono fra i miei frutti preferiti. Le donne mangiano da una parte e gli uomini dall’altra, ma tutta la famiglia si è riunita per me. Quando faccio per andarmene, lui si inchina e mi tocca i piedi. Ora sta proprio esagerando! Mi sdraio completamente davanti a lui prendendo i suoi, di piedi, come per dirgli: “Sei tu quello degno di tanto rispetto, non io”. Lui tenta di tirarmi su, ma io lo guardo negli occhi e, sempre muto, lo ringrazio così. «Non ringraziare me, ringrazia il fiume» dice. A quel punto, dopo aver ringraziato entrambi, riparto. Ero arrivato in fondo alla mia settimana. La situazione era questa: dovevo tornare presto all’ashram dove avevo lasciato il mio zaino, perché due giorni dopo partiva il mio volo da Delhi, ma a piedi ci avrei messo un’altra settimana. Dovevo per forza prendere l’autobus. Mi trovavo in un tempio, il sadhu mi ha spiegato quali autobus dovevo prendere e mi ha chiesto se avevo dei soldi. Ho annuito. «Fammeli vedere» ha detto lui. Mi sono messo a ridere e lui ha riso con me. Ha aperto la sua borsina, ha
tirato fuori tutti i soldi che aveva e me li ha dati. È questo il bello: i poveri, a differenza dei ricchi, possono darti tutto quello che hanno. Lui sapeva che, tanto, nel giro di poche ore, qualcuno gli avrebbe ridato qualcosa. Credo fossero venticinque rupie, nemmeno mezzo euro, esattamente la cifra di cui avevo bisogno per ritornare al mio punto di partenza. All’ashram ho ritrovato il mio zaino, nessuno lo aveva toccato, che mi ricollegava alla mia vecchia vita. Da lì ho preso un taxi fino all’aeroporto e sono tornato a casa. Tutto aveva funzionato alla perfezione. Per un brevissimo momento mi sono sentito “nelle mani di dio”. Il mondo gira, ogni giorno tutti gli animali mangiano, anche senza le banche e i supermercati. Sono passati più o meno quattro anni da quel pellegrinaggio. E un giorno, quando sarò vecchio, vorrei rifarlo. Da anni, tutti gli anni ormai, torno all’ashram di Baba Cesare. Mi piace la semplicità di quel posto. Fare il bagno nel fiume in mezzo ai fiori viola galleggianti, osservare gli animali che si aggirano, esplorare le grotte nascoste fra le pietre, rigovernare senza sapone usando la cenere del fuoco: in questa essenzialità ci sono momenti irripetibili, difficili da spiegare a parole, in cui mi sento parte di movimenti più grandi. Ogni giorno, all’alba, seduti comodi davanti al tempietto, si guarda il sole che sorge dietro alle fronde degli alberi, alle rovine di antichi templi, ai cumuli di pietroni immensi, e che a un certo punto si tuffa nell’acqua del fiume Tungabhadra, colorandolo d’oro e d’arancione. In quel momento la veste del baba, che è della stessa tinta, si infiamma. Baba Cesare sta seduto lì, aspetta. Dice poco. Fa poco. Ma tutto quello che fa, lo fa con attenzione. Vado e torno, vado e torno, ma lui è sempre lì. Mentre attizza il fuoco con mano esperta, mi faccio raccontare la storia della sua ricerca. È un percorso visto dal di dentro, con gli occhi di qualcuno che ci si è messo in gioco non per una settimana, un mese o un anno, ma per una vita. E, anche se la sua strada è stata paurosamente tortuosa, capisco che lui ha veramente cercato. Passo dopo passo è entrato a far parte di una ricerca arcaica, che porta alla grotta. Ma poiché la sua è partita dalle nostre città, le parole di Baba Cesare riescono a fare da ponte fra me e quel modo di vivere che d’istinto mi attraeva, ma mi sembrava irraggiungibilmente lontano. È una ricerca che va controcorrente. Mentre tutto il mondo è mosso dal desiderio del “sempre di più”, i sadhu cercano di avere sempre di meno.
Invece di buttarsi nell’oceano della complessità, risalgono come pesci il fiume della vita per tornare alla fonte, all’Uno dal quale tutto ha inizio. Tornano a verità che non sono antiche, ma eterne, e che d’improvviso, quando ne senti il bisogno, ridiventano completamente attuali. Adesso il baba pensa di fare un viaggio in Italia e io lo voglio aiutare. C’è un problema, però. È fuori visto, come tante altre volte in vita sua. Che fare? «Andiamo dal capo della polizia» dice. «Mi accompagni?» Mi sembra un’idea assurda. Arriviamo su un risciò traballante davanti a un enorme recinto con aiuole perfettamente curate e un edificio imponente. È il comando della polizia del distretto. Le guardie al cancello ci guardano male – chi è questo vecchio baba accompagnato da uno straniero? – ma ci fanno passare. Dopo una breve attesa entriamo nell’ufficio del capo della polizia. È un uomo grosso, con i baffi, seduto dietro a un tavolone. La situazione mi preoccupa, ma visto che il baba non sembra voler dire una parola, tocca a me spiegare il problema. «Il baba è fuori visto» dico, «ma vorrei portarlo in Italia.» «No, no! Non possiamo lasciarlo andare.» Mi cadono le braccia. «Perché?» «Perché questa zona di Hampi è una terra sacra. Abbiamo bisogno di persone come il baba, qui.» E così, dopo anni in cui Baba Cesare è dovuto sfuggire alla legge, adesso il capo della polizia gli mostra grande rispetto. Alla fine sorride, timbra un lasciapassare ufficiale e ci fa partire. Me lo presta, il baba, e io mi impegno a riportarlo a Hampi.
Eccolo il Sole, sta arrivando! Guardalo che bello, con la sua corona di raggi. Vedi come si distribuisce a tutti? Per i belli, per i brutti, per i poveri, per i ricchi, esce tutte le mattine per tutti. Si dà, libero. È questa l’idea di dio. Anzi, semmai un povero se lo prende un po’ di più, perché ai ricchi piace stare all’ombra. Invece per i poveri è la benedizione. Quando c’è il sole possono andare a lavorare nei campi, a zappare. Sono più in grazia di dio. E i baba? Loro non notano le differenze. Notte, giorno, pioggia, sole, è tutt’uno. Vanno alla ricerca di questa unicità.
ALBA
E niente. Com’è andata lì, la cosa? Mia sorella è nata nel ’42, aveva già tre anni quando sono nato io a Castroreale. Mio padre faceva il militare a Torino, era in aviazione, nella équipe dei piloti, e mia madre era in Sicilia. Suppongo che in una licenza si era saltato mia mamma e lei è rimasta incinta. Adesso, come è andata nessuno me l’ha mai raccontato. Dovevo nascere io, sono nato. Lui se n’era già ripartito. Mia madre l’ha aspettato qualche mese e poi, visto che non tornava e la guerra era finita, ci ha preso ed è andata alla ricerca di mio padre a Torino. Ci ha messo quindici giorni o più ad arrivarci. C’erano le linee interrotte. Lui si era fatto un suo giro, ma quando si è visto arrivare questa moglie ha dovuto affittare una camera con un bagno. Poi vissero felici e contenti. Mio padre si era trovato un posto alla Rai, come impiegato negli uffici. Però aveva un’amante, chiaramente. Per cui alla fine, quando io avevo nove o dieci anni, ha lasciato mia madre e si è messo con l’amante. Mia madre è andata alla Rai a parlare con i dirigenti. «Mio marito se n’è andato con l’amante, io non so cosa fare. Ho due figli...» Allora questi qua hanno licenziato mio padre e hanno assunto mia madre. E lei ha lavorato al guardaroba della Rai per tutta la vita. Lui era un po’ incasinato con i soldi. Lavorava e studiava e poi ha trovato un altro posto, all’ufficio delle tasse. E lì in quel periodo era un po’ come l’India, andava molto a bustarelle. Va ancora adesso così, eh, ma allora era ancora più marcato. Specialmente per le feste arrivavano sempre buste di soldi, casse di doni. Sai, lui si metteva d’accordo con le ditte per le dichiarazioni dei redditi, per farle pagare parecchio di meno. Per cui in casa c’era di tutto. Mentre da mia madre c’era lo stipendio. Per mandare avanti una casa e due figli era un po’ tirata, mentre lui aveva macchinoni e cose. Quando hanno fatto la separazione legale, mia sorella è andata con mia madre e io sono stato assegnato a mio padre, con questa gran bella giovane ragazza che stava con lui. Io ero innamoratissimo di questa tipa che si svegliava al mattino in
mutande. Ero un ragazzino. Fatto sta, niente, ho vissuto lì e praticamente sono stato allevato da questa tipa dall’età della ragione. Mi hanno dato una mano loro. Non mi piaceva studiare, non mi piaceva andare a scuola. Tante volte marcavo visita, dicevo che stavo male, quindi ero costantemente in recupero. Ok, mi hanno sempre promosso – quasi sempre – più per pena che per merito. Ma non mi trovavo. Ero abbastanza nel trip di disegnare i cavalli e le cose, allora ho fatto il liceo artistico. Avevo questa vocazione del disegno. Avrei dovuto essere un pittore. Finito l’artistico ho trovato un lavoro in una oreficeria che faceva sculture in oro, anche di due o tre chili. È in quel periodo che ho conosciuto una ragazza in un club di jazz, un locale di alternativa. Lei era giovane, faceva parte di un certo movimento d’avanguardia. Con questa ragazza, poco o tanto, stavo bene. Era educata, gentile, una ragazza di paese. Alba si chiamava, “la mia alba!”. Prima non avevo avuto grandi relazioni con donne, quindi con lei è stata la mia prima espressione sessuale. Mio padre mi rimproverava quando rientravo a casa dopo mezzanotte, era parecchio severo, e sentivo che volevo avere una casa mia. Autogestirmi. Per cui mi sono sposato subito, a vent’anni. Non ero ancora maggiorenne, maggiorenne si diventava a ventuno. Mi sono sposato. Mio padre si è preoccupato per la casa e la famiglia di lei ci ha organizzato questo matrimonio, i mobili e tutte le cose. Mi sono sposato in tight, sai il tight cos’è? Quella giacca con le code, non il frac. Il tight è più a coccinella, con i pantaloni a righe, il gilet grigio perla e la giacca nera, con il papillon. Tutto serissimo. Per l’occasione avevo comprato una macchina d’epoca, una di quelle Citroën francesi coi predellini e la ruota attaccata dietro, da Al Capone. Grossa. “La Traction” la chiamavano. Era nera ma l’avevo fatta dipingere a due colori, panna e nocciola, con il bordino stile Liberty. Per fare un po’ di dramma avevo anche messo un amico col cappello al volante a fare da autista. Lui mi ha accompagnato da Torino a Torre Pellice e ci siamo sposati lì, in riva al laghetto, con tutto il pubblico di Torre Pellice perché questa famiglia di lei era conosciuta. Io ero già estroverso, ero simpatizzante del Partito fascista, che era un partito di controindicazione, perché tutti dovevano essere comunisti dopo la guerra. I fascisti erano quei pochi sfiancati che si vedevano in giro, quegli ultimi rimasugli che alle manifestazioni venivano sempre presi a botte eccetera. Dovevano essere i più duri perché erano sempre additati, “Ah, quello è fascista!”. E niente, mi era simpatico questo gruppo perché era d’inferiorità rispetto alla maggioranza. Il padre di mia moglie invece era stato partigiano, per cui sono presto nati dei contrasti. Allora quando è nata mia figlia l’ho chiamata Germana Vittoria Romana, per fargli un dispetto.
Anche quello di sposarmi era stato un dispetto, a mio padre però, perché mi doveva comprare le cose. A questo punto, anche se lui ci pagava l’affitto e ci dava quanto ci poteva bastare, coi miei quadri non si riusciva a vivere. Per cui ho elaborato questa storia del vetrinista. Giravo nei negozi del centro dicendo che addobbavo le vetrine per presentare i loro vestiti in modo diverso al pubblico. Era un lavoro molto nuovo a quell’epoca. La prima volta l’avrei fatto gratuito poi, se loro pensavano che era una cosa commerciale, facevamo un contratto di tot a vetrina, di solito 25.000 lire al mese a vetrina. C’erano negozi che avevano due, tre, sei vetrine e mi ero fatto un certo numero di clienti. Era un momento che lo stipendio medio di un operaio andava dalle 80.000 alle 90.000 lire al mese mentre io riuscivo a guadagnare a volte persino un milione al mese. Con un lavoro in autogestione. Era molto ben retribuito, mi rendeva parecchio. C’era anche una buona armonia in casa, era nata la prima figlia e Alba mi aveva già detto di essere di nuovo incinta. È lì che mi hanno arrestato e mi hanno rivoltato la situazione. Alba era bravissima, se la gestiva lei la bambina. Io giravo e lavoravo tutto il giorno per il centro, frequentavo i miei amici o andavo al bar. Avevo un lavoro abbastanza libero. E quando ritornavo a casa la sera, lei aveva la bambina in braccio o l’aveva già messa nella culla nella nostra stanza da letto. Qualche volta la bambina piangeva. «Senti, per favore» dicevo, «valla a portare nell’altra stanza, chiudi la porta.» «E dài, Cesare!» diceva lei. «Se la metto nell’altra stanza ci vado anch’io.» Devo dire che si possono riscontrare le prime indicazioni proprio nel fatto che non avevo attaccamento ai bambini, sinceramente. Cioè, io ho avuto questa prima figlia e non mi ricordo di averla mai presa in braccio. A un certo punto, quando era già più grande, l’ho portata a fare un giro. Non è che uno vuole essere così o essere cosà, è un fatto emotivo. Specialmente i bambini piccoli, pensavo fossero una cosa della madre. Poi io stavo fuori tutto il giorno. Ero un prodotto sociale. Lavoravo bene nella società, gestivo questa famiglia, avevo una moglie e una bambina e due macchine, una per lavorare e l’altra per divertirmi. Fin quando ho cominciato a fumare e mi si è aperta tutta una dimensione nuova con relazioni diverse. In quel periodo a Torino avevano aperto un locale di controindicazione di jazz, per cui c’era un minimo di pubblico. Io ero un pittore, frequentavo ambienti artistici e quello lì era frequentato appunto da artisti, musicisti eccetera. Ci si tesserava e si andava. Mia moglie l’avevo conosciuta proprio in quel contesto. I prezzi erano modici, servivano panini e vino. Prima, in quel club si beveva solo un bicchiere di vino, poi c’erano stati dei focolai di questa cosa nuova che era
dell’erbetta tutta sbriciolata, il kif, la chiamavano. Era arrivata da pochissimo. Questo qua, il proprietario del locale, era andato in Marocco o in India e l’aveva trasportata nella macchina. Ogni tanto faceva questi viaggi. Aveva comprato un po’ d’erba, e si sono fatti i primi spinelli. È andata avanti un anno questa cosa. In quel periodo non si parlava di marijuana. In una città come Torino, forse tre o quattro persone fumavano quest’erba. Lui la distribuiva volentieri, a chiunque riempiva una scatola di fiammiferi e la faceva girare. Non ne faceva una storia di mercato, si sentiva un promotore del movimento hippie in Italia. E poi magari la vendeva anche, ma la faceva girare molto facilmente in tutte le classi sociali, anche alle puttane. Lo sai, no, che le puttane fumano tante sigarette? Perché gli danno un tono. Insomma, la cosa ha preso piede, ha cominciato ad allargarsi, un giorno tre, il giorno dopo cinque, un mese dopo venti, il mese dopo cinquanta persone. Ed è divampata la fiamma. Quando ho cominciato a fumare l’erba, devo dire che ho sentito una sensazione liberatoria. Cioè, era un’emozione diversa da quella che sentivo mangiando e bevendo. Perché fino ad allora bevevo anch’io, mi ubriacavo, cioè succedeva. Si andava di qua e di là la sera, nelle discoteche o dove. Adesso non ti dico che ho visto dio, ma ho visto una via. All’inizio continuavo a lavorare, ero preso da quello. Usavo quest’erba così, come diversivo la sera con gli amici, non mi interessava troppo. Poi ho dato un mio quadro a quello del locale in cambio di un po’ d’erba, e lui me n’ha data un paccone. Allora lì fumavo di più. E fumando questa cosa uno si sentiva meno condizionato dai valori sociali. Si sentiva più libero, più sorridente, più colorato. Nessuno aveva mai sentito dire che potesse essere una cosa fuori legge. Erano delle foglie che qualcuno aveva portato dall’estero e che si potevano fumare. Niente, dava questa pace mentale, ravvivava colori e sensazioni, amplificava tutto un sistema, appunto. Anche nel mio lavoro riuscivo a guardare le forme e i colori in altro modo. I vestiti li appendevo con dei fili di nylon, senza manichino. Era uno stile mio, faceva attrazione. Le vetrine si facevano a soggetto, con gruppi di persone che non erano solo dei vestiti ma erano messi in modo che sembravano vivi. Mi immedesimavo nella storia. Era un lavoro che mi piaceva e avevo uno stile particolare che piaceva molto a questi negozianti. In quel periodo ho fatto una prima mostra, poi ne sono seguite altre qua e là. Vendicchiavo anche qualche quadro ai miei clienti, alla gente che conoscevo. Alla fine avevo preso un appartamento alla Crocetta, che è un quartiere bene di Torino. È lì che c’è stato questo crac per una mezza sigaretta. Incuranti che lavoravo nella loro società, che avevo moglie incinta e figlia piccola, i poliziotti mi hanno
portato via e mi hanno messo dentro. Avevo ventitré, ventiquattro anni. È poi venuto fuori che il proprietario del club aveva portato un pacco d’erba dal Marocco. Gliel’avevano trovata e lui aveva fatto il nome di tutti quelli a cui la dava perché pensava: “Metto in mezzo più gente possibile, mica arrestano tutti. Mica fanno una cosa popolare!”. Invece lì hanno arrestato tutti e basta. Hanno fatto un processone, e tutti dentro. Nel ’68 ti dico, in una città come Torino, c’erano metti venti persone che fumavano l’erba. E le hanno arrestate tutte in quel contesto, tutte. Mi sono venuti a fare una perquisizione a casa mentre non c’ero. C’era mia moglie in lacrime, la bambina che piangeva. L’avevano sollevata dalla culla per guardare se c’era nascosto qualcosa sotto. E non hanno trovato niente. Poi sono arrivato e c’era la casa piena di polizia, che mi ha trovato questo mezzo spinello in tasca. Io avevo anche dell’erba in macchina, ma quando mi hanno chiesto se avevo una macchina ho detto di no. Nonostante questo sono finito dentro per un anno, solo per questa mezza sigaretta spenta. Questa è un’assurdità che secondo nessuna scala di valori è accettabile. È lì che sono nate le incomprensioni. Cioè, non capivo in che società ero capitato. E non solo io, tutto un movimento, una generazione, si è mossa per liberarsi da questo condizionamento sociale. Nel ’68 c’è stata una mezza rivoluzione popolare, volevano la libertà. Un paese democratico che si fondava sulla libertà individuale e poi, per mezza sigaretta...? La marijuana e altre droghe si sono evidenziate proprio in quel contesto, prima non esistevano. Poi il mercato delle droghe è stato proibito e quelle hanno invaso il mondo. In quel periodo non c’erano né eroina né cocaina in Europa. Per cercare le droghe più spinte bisognava andare ad Amsterdam, per trovare l’oppio che importavano dalla Cina. È stato il proibizionismo stesso a creare tutto un mercato nero della droga, con leggi assurde. Per procurarsi due sigarette di marijuana uno ha bisogno di mettersi in contatto con i bassifondi, la malavita?! Ma ti pare? Mi ricordo che mia moglie veniva sempre a trovarmi in prigione. C’era il colloquio una volta alla settimana e mi portava pacchi di cose. Era incinta, per cui con il pancione arrivava con borse cariche di roba, per darmi supporto dentro. Noi non si poteva prendere la carne dall’esterno. Potevano passare degli insaccati, salami, salamini, prosciutto, ma la carne non passava, chissà come mai, forse perché andava a male. Fatto sta che per farmi avere la carne – la sua famiglia aveva un negozio di alimentari – mi insaccavano la carne fresca in dei salami. Quindi io disfacevo questi salami e facevo delle polpette o la pasta al sugo. Preparavo la cena per tutti, per tutta la cella, eravamo quattro o cinque. È lì che mi sono scoperto cuoco. Avevo anche il materiale perché me lo portavano.
In carcere c’erano ancora le napoleoniche. Non c’erano i servizi igienici, c’era il “buiolo”, come lo chiamavano, che al mattino dovevi andare a svuotare, e c’era il “paglione”, che era un materasso di paglia. Poi, mentre c’ero io appunto, ci sono state delle rivolte, il carcere in mano ai detenuti che incendiavano, facevano, rompevano. E lì poi ci sono state delle riforme e hanno dato i fornellini a gas e i materassi e le brandine. Hanno portato avanti la cosa. Ma prima era assurdo, era il medioevo. Mi avevano dato le tele e i colori per dipingere e facevo quadri. Figurativi, non astratti. Erano commerciali e li vendevo agli ufficiali e agli impiegati che lavoravano lì nel carcere e loro mi depositavano i soldi su un conto. Avevo conosciuto questo dottore, dentro, che gli piaceva il mio stile, ci avevo fatto amicizia. Ero entrato in confidenza con lui per cui anche quando sono uscito ho continuato a seguirlo, gli portavo dei quadri, era diventato un cliente. Per fortuna, anche dentro, dio mi ha sempre aiutato e sono riuscito a cavarmela. Il maschio poi è nato quando ero dentro. Alba me lo è venuta a portare appena nato dall’ospedale. I colloqui erano per venti o trenta detenuti alla volta. Duravano mezz’ora. C’era tutto un tavolo lungo e un poliziotto in piedi in fondo che controllava. C’era il vetro spesso in mezzo, alto mezzo metro dal tavolo, per cui lei ha alzato il bambino al di sopra del vetro per passarmelo e io l’ho preso in braccio. Aveva qualche giorno. È qui, in questo periodo in galera, che ho cominciato anche a toccare roba pesante. Me l’aveva proposta uno del mio giro che era dentro per il mio stesso caso. Lui aveva già fatto della morfina fuori, quindi aveva questa connection con gli infermieri del centro clinico, che erano tutti detenuti. La vendevano a cinquecento lire a fiala. Poco. Questo amico mi aveva anche insegnato come si adoperava una siringa. Era un siringone di vetro, e mi facevo. Di morfina. Non tutti i giorni, ma ogni pochi giorni succedeva. C’era il centro clinico dentro alla galera, con degli stock per fare le operazioni, per cui arrivava da lì. La morfina è una cosa che ti tranquillizza. In una situazione come quella, che hai sempre la testa con mille pensieri perché ti trovi chiuso in cella come un leone che passeggia dentro la gabbia, avere qualcosa che ti sdrai un attimo e ti rilassi e che ti cattura la mente mi sembrava più che naturale. L’ho presa per ribellione. Mi avevano messo dentro per droga, per cui mi sembrava giusto drogarmi. Era diventato il mio lavoro. Mi chiamavano tutti “drogato”, anche se avevo avuto ben poca esperienza, avevo fumato solo qualche spinello. Quando sono uscito dalla galera è venuta mia moglie a prendermi. È stato dopo il processo. Al processo alla fine i giudici hanno realizzato che io in fondo
ero lì per caso e non avevo nessuna responsabilità in quella storia. Non l’avevo né venduta né transitata, avevo fumato una sigaretta. «Lei cosa credeva di fumare quando le hanno dato questo tabacco?» mi hanno solamente chiesto. «Mah, io credevo di fumare qualcosa di più di una Marlboro.» Basta, non ho detto altro. Mi hanno assolto per insufficienza di prove. Perché era assurdo condannare uno per mezza sigaretta d’erba, capito? Fra l’altro io non avevo mai avuto niente a che fare con la legge, non avevo nemmeno avuto un fermo di polizia. Non ne sapevo niente di tutta quella storia, dei ladri, cose eccetera – non mi ero mai relazionato con nessuno così. Non avevo questa energia negativa che ti fa vivere cose negative, hai capito? Fumare, non si sapeva che era una cosa negata. Cioè, non ti viene l’idea della trasgressione. Invece mi è cascato il mondo. Se ne sono resi conto anche i giudici, quando hanno fatto questo processo, che io cadevo proprio dalle nuvole. Avevo fatto quindici mesi dentro e non si capiva come mai. Perché c’era una legge che diceva che “stupefacenti” era uno dei reati per i quali non era contemplata la libertà provvisoria, con rapina, delitto contro lo stato, estorsione e omicidio. Così, dopo più di un anno di galera sono uscito e non mi sono più ritrovato. A parte che avevo perso tutti i clienti e mi ero fatto un cattivo nome nell’ambiente, mi era anche passata la voglia. Nell’anno in cui ero stato dentro erano nati tanti vetrinisti, era nata tutta una scuola per vetrinisti. Ho tentato di ritornare dai miei vecchi clienti ma avevano già delle altre persone. «È una situazione un po’ delicata» dicevano. «Sa, lei è stato dentro...» Non avevo nemmeno più la voglia di inserirmi. Ok, avevo avuto una trasformazione, perché quando sono uscito fuori sapevo rubare le macchine, perché al limite, teoricamente, me lo avevano spiegato mille volte! Lì ognuno raccontava le sue storie. Non mi sentivo più parte di questa società. Mi sentivo in contrasto con questa società. “Ma dove sono capitato?!” Il carcere è stato un insegnamento, nel senso che uno guarda il mondo come è combinato e realizza che deve esserci un altro sentiero e quindi parte a scoprirlo. Lasciandosi dietro tutte le vesti sociali. Lì ero all’inizio di un certo tipo di percorso che mi allontanava dagli schemi sociali classici. La ricerca di dio è venuta dopo. Uno non ha subito la coscienza di queste cose. Con Alba avevo ripreso, però c’erano già dei dissapori perché lei era una maestra di provincia, non fumava l’erba e non voleva che fumassi in casa. Per cui dopo uscito, quando mi diceva: «Non fumare davanti ai bambini. Non fumare in
casa», a me sembrava che lei era dalla parte dei giudici, dalla parte della polizia. Che anche lei faceva parte di quella società con cui io mi sentivo in contrasto. Sono momenti in cui o cali le brache davanti al sistema e dici “Avete ragione voi, perdono!” o... Non era vero, non era né vero, né giusto! Per cui quando mia moglie mi ha detto: «Scegli, o noi o l’erba!», io ho scelto l’erba. Perché mi sembrava dalla loro parte, lei. Quando sono uscito di galera c’erano già centinaia di persone che fumavano. Era esploso questo boom in tutta Italia. Il primo ciocco era scoppiato a Torino e mi aveva coinvolto. E da lì a catena. Nel periodo in cui ero in galera si sono accesi i primi focolai in tutto il paese. Il secondo è stato in un barcone a Genova, anche a Roma avevano trovato un gruppo, poi a Milano... Incominciavano ad arrestare gente da tutte le parti. Erano casi molto particolari, quindi li mettevano sul giornale per dieci giorni di seguito perché non si era mai sentito dire. Era arrivato anche in Italia questo fenomeno, proprio in quel momento. Lì poi c’erano tutti gli hippie che si muovevano, c’era l’America, il resto dell’Europa più avanzata, l’Inghilterra. I primi movimenti hippie erano già maturati quando sono uscito. Quindi mi sono messo nella scia. Poco dopo ho conosciuto la Gilda. La Gilda fumava già. La sorella della Gilda era la ragazza di un mio amico che me l’aveva presentata. Io avevo già avuto un passato, un passato dentro. Con Gilda infatti avevo preso a uscire quando ancora abitavo con mia moglie, alla quale dicevo che andavo a fare delle mostre di quadri ora a Parigi, ora in altri posti. Invece me ne andavo in giro con l’altra. Così, quell’estate Alba mi ha detto: «Senti, tu non ci stai mai. Accompagnami per lo meno al mare per quindici giorni». E io li ho accompagnati e le ho detto che li sarei andati a riprendere alla fine delle ferie. E niente, sono andato in Turchia. Con Gilda siamo arrivati fino a Istanbul e vivevamo lì. Era facile trovare il fumo e le cose e le storie. La Gilda aveva anche trovato lavoro, faceva la modella all’Accademia delle belle arti. Era una bellissima ragazza, alta, bruna, slanciata, tipo indossatrice. Ci siamo stati sei mesi e poi siamo tornati in Italia. Quando sono tornato mia moglie aveva già lasciato la casa che avevamo insieme. Era rientrata dal mare, chiaramente, perché dopo quindici giorni, visto che io non arrivavo, aveva chiamato la sua famiglia che l’aveva recuperata, ed era andata ad abitare con i suoi. Poi ci siamo rivisti e abbiamo parlato. Abbiamo fatto la separazione legale e poi io sono restato con Gilda. Alba ha raccontato per tutta la vita ai bambini che io ero un demonio, che li avevo abbandonati dopo che li avevo portati al mare dicendo che sarei tornato a
prenderli, invece ero partito per la Turchia con sta tipa. Che poi con Gilda sono finito di nuovo in galera. Siamo andati ad Amsterdam, perché il centro era quello, il ritrovo hippie, giovani, droghe. Andavamo, ritornavamo e una volta, era nel ’70, andando ad Amsterdam siamo stati fermati alla frontiera svizzera, dalla parte italiana. Lei c’aveva questo pezzettino di fumo nel portafoglio. È entrata nel gabbiotto dei poliziotti e mentre era lì le è venuta la paranoia, no? Ha preso questa cosa e se la voleva infilare nei pantaloni. E questi l’hanno vista. «Faccia vedere!» eccetera. Le hanno trovato questo minuscolo pezzo. Minuscolo come un’unghia. L’hanno trovato a lei, nel suo portafoglio. Mi hanno fatto perquisire anche a me e non hanno trovato niente. Lei chiaramente diceva che era il suo e che io non ne sapevo niente. Però, cos’è successo? È successo che poi ci hanno portati a Torino e che mi è capitato lo stesso giudice che mi aveva dato l’assoluzione per il primo processo! Per cui mi ha dato “concorso in detenzione di stupefacenti”, giusto perché io avevo avuto un processo prima. E quindi mi hanno rimesso in galera un altro anno. Vabbè, è andata così. Non si è nemmeno fatto il processo, perché si coprivano di ridicolo a mandare davanti a un tribunale due persone per 0,35 grammi. Però, se non chiudevano l’istruttoria in un anno ti dovevano mettere fuori, allora lì hanno proprio voluto far passare questo tempo, poi hanno insabbiato la cosa e ci hanno fatti uscire. Ero incazzatissimo. Per cui lì poi sono uscito e sono partito. Tutte queste cose mi avevano messo proprio in condizione di dover partire. Sono partito per disperazione, perché mi avevano irritato con tutte queste cose. Sono andato ad abitare con Gilda fin quando ho incontrato Claudia. Claudia stava con uno e io stavo con Gilda, capito? Claudia era una ragazza di quelle che avevano casa nel centro di Torino, quindi di una famiglia benestante. Era la moglie di un mio amico che era appunto di alternativa, era proprio della new generation. Quando si erano sposati era apparso un articolo sul giornale che lei si era vestita in bianco, ma in minigonna, che era una cosa per quel momento ancora piuttosto... Le donne erano ancora alla ricerca, le minigonne erano proprio le prime che si vedevano. Lei era giovane, moderna, per cui aveva svoltato questo affare di sposarsi facendo un po’ di scalpore nell’ambiente, nella chiesa. L’abito bianco, però mini! E quindi si era evidenziata. Mi piaceva questa cosa. Frequentavo la sua casa e piano piano è nata questa storia. Anche perché lei in casa non stava più con il marito, stava con l’amico, e il
marito era amico dell’amico. Quindi era una cosa che era nata in famiglia, senza molti drammi o discussioni. Dato che erano dei freak, quindi liberati, non avevano questi contrasti. L’altro era un musicista e vivevano insieme così. Io li andavo a trovare, fumavamo insieme eccetera, per cui era nata sta fiamma. Allora le avevo proposto di prendere un acido insieme, che vedevamo cosa c’era. Per guadagnare tempo, dato che non ne avevamo molto per stare insieme perché ognuno aveva una relazione con un altro, abbiamo deciso di prenderlo un’ora prima di vederci, così ci incontravamo già in acido e avremmo avuto la soluzione. Perché era un momento di chiarezza. L’acido stava a fare da oracolo, doveva dirci la verità, senza inibizioni. E niente, quel trip ci ha unito. Sì, abbiamo deciso di metterci insieme perché era un bel feeling di incontro. Poi abbiamo organizzato di andare via insieme. Perché, sai, anche lì, mettersi a confronto con i partner... Pochi mesi dopo siamo partiti. Lei aveva un passaporto, ma io no. Ero abbastanza incasinato. Speravo sempre in questo passaporto ma alla fine non me lo avrebbero mai dato. Ero preoccupato per questa cosa. Un giorno prendo una rivista e fra gli articoli c’è la storia di uno che aveva fatto il giro del mondo con la foto di un cane sul passaporto al posto della sua. E nessuno se n’era mai accorto. Era una curiosità. C’era persino la foto, sulla pagina della rivista, del suo passaporto con la foto di un cane con le orecchie lunghe, messa al posto della foto del tipo. In quel periodo si cambiavano bene le foto, non erano plastificate. E questo qua aveva fatto il giro del mondo! Allora mi sono detto: “Io cosa mi preoccupo più di tanto?”. Avevo un passaporto che, non so come, l’aveva lasciato qualche anno prima una signora francese che faceva l’infermiera. Era lì, nel cassetto, così. La gente andava e veniva da casa e a un certo punto c’era quel passaporto francese di una di trentacinque o quarant’anni. Io ne avevo venti e qualcosa. Allora ho solamente tolto la sua foto, ho messo la mia (non quella di un cane), ho fatto il timbro e siamo partiti per l’India, via terra. Non c’ero mai stato in India. Se andavi sempre dritto era un mese, invece se ti fermavi, rilassato – una settimana, quindici giorni in un posto o un altro –, ci mettevi di più. Siamo andati in Grecia. Poi abbiamo seguito la pista fino alla Turchia, dalla Turchia all’Iran, dall’Iran all’Afghanistan, Pakistan, India. Ci abbiamo messo cinque o sei mesi. E non mi hanno mai fermato. All’epoca erano diversi i controlli alle frontiere. Io viaggiavo con un passaporto al femminile di una che avrà avuto quindici anni più di me, con un nome di donna francese. Ma per loro non cambiava niente. Sai,
c’hai un passaporto con la foto, un nome, gli anni, del resto che gliene importa? Era un pro forma, non c’erano i terroristi, allora. Poi il francese un po’ lo parlavo. L’inglese invece no. Quel primo viaggio in India lo chiamavamo “il viaggio dei cessi” perché in tutti i cessi ci fermavamo. In Afghanistan – sai come erano i cessi in Afghanistan? Da campo, senza nemmeno le serrature – ogni volta che si fermava il bus c’erano sempre cinquanta persone che dovevano andare. Noi ci si infilava per primi, in due, un uomo e una donna, e gli altri aspettavano. Quindi eravamo stressati, sempre con questa gente che bussava. «Ma che ci fate lì dentro? Sbrigatevi, dài!» Io mi mettevo con la schiena contro la porta, con la siringa, e gridavo a quelli che spingevano. «Wait, wait! Aspettate...!» La pista dei cessi. Io qualcosa avevo fatto nella prima carcerazione, poi con Gilda, ma non ero un habitué. Invece in viaggio con Claudia abbiamo maturato un lavoro serio. Facevamo delle iniezioni d’oppio sciolto. Era pesante, non una cosa di farmacia controllata e antisettica. Si scioglieva in un cucchiaino e c’era ancora tutta la paglia perché lo impastavano nei campi. Poi si metteva un pezzo di cotone e si filtrava. Ma se ti andava una goccia fuori vena ti faceva fare i salti. Era abbastanza ricorrente in quel tipo di società, quella degli hippie. Uno su dieci faceva robe pesanti, per ricerca. È un bello star bene, uno resta rilassato, fisicamente e di testa. Non si sapeva niente allora delle controindicazioni. E poi, pian piano arriva questa dipendenza fisica, e i pensieri sono rivolti a quella. Viene questa sensazione come di fame. Era una cosa un po’ scabrosa, farsi le pere. La sera in camera si era tranquilli. Invece quando si viaggiava di continuo non ci si poteva fare. Quindi si approfittava dei cessi. La pista dei cessi era una scuola. Era un movimento alternativo, infatti si chiamava così, che si confrontava con una società che aveva altri schemi. Il movimento degli hippie è stato un movimento di liberazione che ha dato inizio al cambiamento di un’epoca. C’erano dei valori di ricerca in questo movimento, che erano le droghe – la mescalina, l’oppio, l’LSD , quello e quell’altro. Cercavi di uscire fuori dal condizionamento sociale. In quel periodo prendeva parecchio. La prima volta, di botto, ti funzionano più cellule cerebrali e quindi ti dà confusione, questa overdose di pensieri a quella velocità. Poi riesci a organizzare questa confusione mentale in momenti di maggiore percezione. Questa sensazione della grandezza che c’è intorno a noi ho cominciato a sentirla forse quando ho preso l’acido. Ho avuto una liberatoria delle cellule del cervello, per cui hanno spaziato oltre ai sensi, no?
Una volta, in carcere avevo preso un acido. Sono uscito nel cortile e mi sono sentito proiettato in alto, sempre più in alto, come su un elicottero che si sollevava. Io guardavo giù e vedevo il cortile con tutte quelle testoline che giravano, tutti questi uomini portati fuori all’aria. Poi sono andato un po’ più su e vedevo i bordi del cortile e fuori dal cortile e le strade. Poi sono andato ancora più in alto e allora non vedevo nemmeno più i muri, solamente questi puntini in movimento. Il carcere non era più delineato, c’era il pianeta, senza più fuori né dentro. “Cosa vuol dire essere fuori o essere dentro? Da quali valori viene?” ho pensato. “Sono sul pianeta, a casa, in un momento di eternità.” Cioè, questo dentro e fuori è illusorio. Uno vive la propria vita, cerca di viverla nel tenore più accettabile possibile, sia dentro che fuori. Ah, questo è stato un pensiero liberatorio. Poi dipende, c’è chi mangia un panino per fare una rapina, chi mangia un panino e invece pensa a dio. Dipende, appunto. In Europa c’erano le leggi sugli stupefacenti ed erano pesanti. Ma come uscivi, già in Turchia c’era più libertà. Poi in Iran c’era l’oppio aperto, lo mangiavano da tutte le parti. Gran parte della popolazione era inscimmiata d’oppio, ma non trovavi il fumo. Invece, come passavi la frontiera ed entravi in Afghanistan arrivavano con i vassoi pieni di hashish. Lì lo facevano a manetta, i vecchi lo fumavano agli angoli delle strade con le pipe ad acqua, come qua bevono il vino. In tutte queste società queste cose erano inserite nel loro contesto, nel loro sistema. Facevano parte di tutte le età, era proprio un tipo di vita. Le droghe ti riavvicinavano alla natura, mentre la società è una cosa artefatta. Ci si muoveva bene in quegli anni. Tutti i paesi musulmani, l’Afghanistan, l’Iran, il Pakistan, erano posti tranquillissimi. In Pakistan la frontiera erano due bidoni e un’asta. Tranquillissimi, ti dico, non c’era violenza. E c’erano centinaia, migliaia di persone che si muovevano lungo questa pista, continuamente. Era incominciata negli anni ’60, era una cosa che veniva dall’America. Prima c’erano stati i beatnik, i viaggiatori, poi gli hippie. Servivano pochi soldi, andavi in bus, in treno, svoltavi poco poco, giusto per arrivare alla prossima destinazione. Fra gli italiani mi sa che sono stato uno dei primi a muoversi. Ci avremo messo cinque o sei mesi ad arrivare. Abbiamo attraversato la frontiera del Pakistan, tra Lahore e Amritsar, e lì luci, cose, colori, le donne in sari... Eravamo in India.
DROGA
Siamo arrivati a Delhi verso la fine del ’72. In India c’era di tutto, alla grande. C’era la morfina che costava una rupia a fiala, c’erano i negozi governativi di erba, cioè un commercio proprio del governo. In quel periodo c’era solamente un albergo dove si riunivano i viaggiatori, nel quartiere di Fatehpuri, di fronte al Red Fort. Adesso lì c’è tutto un quartiere pieno di confusione. Ma al tempo c’era solo questo Crown Hotel, coi ballatoi circolari, una terrazza interna, un cortile e parecchie camere spaziose. Ci stavano un centinaio di persone, tutti hippie fattissimi. La stessa gente che aveva viaggiato dall’Europa o l’America si riproponeva lì. Il punto di ritrovo era quello. Noi non avevamo mete turistiche, avevamo più che altro mete esistenziali. Dove trovavamo una situazione accogliente si restava dei mesi. A Delhi, infatti, siamo rimasti due o tre mesi perché era tutto facile. Ti portavano il tè in camera e la vita costava particolarmente poco. Noi vivevamo giorno per giorno, giorno per giorno si pagava l’albergo. Si viveva di piccoli espedienti. Si viveva insieme. La vita degli hippie era così, che chi aveva dei soldi li metteva. Poi se mancavano scrivevo a mio padre. Da qualche parte arrivavano. L’India era la meta del pellegrinaggio perché era un posto free, libero, dove la società non ti condizionava quanto in Europa. La polizia era praticamente inesistente, erano quattro straccioni che giravano per le strade, tutti rattoppati e con questi fucili antichi. C’era una tale confusione che sembrava di essere nell’anarchia. Anche il traffico era anarchico. Agli incroci, agli indiani – se arrivavano da destra o sinistra, in bici, risciò, camion o coi carri tirati dai buoi –, non gliene fregava niente, loro andavano. Dopo qualche mese siamo scesi verso il sud, a Bombay, e da lì abbiamo preso la nave per Goa. Si viaggiava tutta la notte e al mattino si arrivava in questo paradiso terrestre. In quel periodo non c’erano né elettricità né violenza. C’erano queste spiagge tropicali, palme, cocchi, manghi in abbondanza e il mare tiepido. Qualcuno si faceva delle capanne sulle spiagge o dove voleva, perché non erano
nemmeno organizzati con gli alberghi. Oppure si affittavano delle casette dai pescatori. Si pagava l’affitto e ci si rimaneva per la stagione, da ottobre a marzo, aprile. Si stava tranquilli. Goa era proprio in un momento così, era un avamposto dei movimenti hippie sul mare. Dopo si è sviluppata, si è organizzata come dappertutto, con case, cose, ristoranti, hotel. Ma allora i freak erano tutti giovani, diciotto, venti, trent’anni, quindi meno esigenti. Si facevano questi megaparty sulla spiaggia per la notte della luna piena. Era proprio un punto d’incontro di musicisti di tutto il mondo, di artisti. Molti suonavano benissimo ma non gliene fregava niente di fare musica commerciale. Si trovavano insieme e vedevano di fare dei gran concerti in armonia, senza amplificatori perché non c’era elettricità, mentre noi ballavamo sulla spiaggia. Restavamo per la stagione a Goa, quei cinque o sei mesi, fin quando diventava troppo caldo e afoso. Poi ritornavamo a nord, in montagna, nell’Himalaya. Anche lì si poteva affittare una casa. Niente, poi giravamo per l’India, di qua, di là, a Benares, Pushkar, Jaipur – anche se Jaipur era più per quelli che facevano il business, che compravano le chincaglierie. Nella stagione fredda uno si spostava al sud e nella stagione calda al nord. Erano movimenti stagionali. Abbiamo girato abbastanza anche per il Nepal. Prima, tutta la gente era diretta a Kathmandu perché lì c’erano i negozi del re, di fama internazionale, che vendevano oppio, fumo, torte di ganja o che. Era come andare in un’erboristeria antica piena di ampolle di vetro con l’etichetta. Facevano persino i calendari di propaganda. “A Kathmandu vivi di più!” C’era un avanti e indietro di ragazzi e ragazze che venivano dal mondo intero per questi negozi, in una strada che si è poi chiamata Freak Street. C’è stato tutto questo trip con la Claudia. Con lei sono stato sette anni. Siamo rimasti insieme, ci siamo fatti insieme. Dato che era problematico andare e venire, quella di stare lontano dall’Italia era più o meno una scelta. Volevamo vivere le nostre scelte. E poi c’era il movimento hippie, come una grande famiglia, con cui si facevano le esperienze insieme. Si conoscevano sempre tutti, in qualsiasi posto ti spostavi incontravi la solita gente che girava, o gente nuova che era arrivata e si stabiliva in India. Noi eravamo più o meno permanenti. Era una via di ricerca, la ricerca di una vita alternativa. Molti confondono questa “alternativa” con una linea politica. Scegli di essere di sinistra o di destra, in opposizione al governo del momento. Invece la politica è tutto un pentolone solo. Ero stato fascista, ma poi ho capito che non valeva la
pena in questo tipo di società stare con una parte o l’altra. E sono uscito da tutte queste idee. Quella era la strada del disincanto. Noi tutti siamo una composizione sociale, no? Uno è stato fatto da una madre che è geneticamente e mentalmente condizionata dalla società. Beve il latte di quella madre, prende l’essenza del suo pensiero, di tutto quello che è lei. Viene allevato fino a una certa età da quel condizionamento, assorbe i modi di essere, i modi di dire del padre, degli zii e dei nonni. Loro cominciano a raccontargli che giocare a pallone è una bella cosa, bisogna andare alle partite eccetera. Poi va a scuola e lì incomincia la sua formazione sociale organizzata. Gli si organizza la testa, gli si dà una linea di studi in funzione di un lavoro sociale. Non gli si dà nessuna alternativa, nemmeno quella religiosa. Le droghe invece erano una ricerca dell’extrasensoriale, di ciò che sta oltre i sensi, oltre la struttura intellettuale del nostro Io. Potevano essere strumenti di liberazione sia dall’Io che dagli schemi sociali. Provi questo, l’altro, provi il peyote, la mescalina, l’erba, i funghi, il veleno degli scorpioni e prendi conoscenza della natura, di quello che cresce sul pianeta, no? Alimentarsi non significa solamente alimentare la parte fisica, significa alimentare anche la mente di conoscenza. Perché non fare certe esperienze, altre esperienze? Adesso le chiamiamo droghe. Quando non c’erano schemi sociali o leggi o minchiate varie, erano le piante, i fiori e i frutti del nostro pianeta. Secondo quali schemi, quali paure uno non dovrebbe farne l’esperienza? È dall’inizio del pianeta che l’umanità scopriva le piante, cos’era nutrimento, cos’era medicina, cosa dava un effetto particolare. Una volta la gente beveva un infuso di ganja, mangiava l’oppio, in Perù masticava le foglie di coca. Non erano dannose. Ti tiravano un po’ su, ti levavano i morsi della fame. È chiaro che dopo anni davano assuefazione, come dà assuefazione tutto, hai capito? Ma niente più di tanto, era a livello naturale. Poi, cosa è successo? La chimica ha alterato queste possibilità. Hanno iniziato a fare le cose potenziate. “Se questa foglia fa bene, noi la concentriamo 1 a 1000! La alteriamo per farne un prodotto di mercato.” Quindi la cocaina, l’eroina eccetera. La cocaina non è che la foglia di coca concentrata, l’eroina è l’oppio concentrato. Anche le medicine le fanno così. Cioè prendono foglie, fiori, radici, le elaborano, ci applicano tutte le loro tecniche e le concentrano. Fanno delle precipitazioni chimiche di cose naturali, perché al mondo ci sono solo cose naturali, no? E il corpo resta squilibrato dagli eccessi. La grande cosa poi è stato l’acido, l’LSD . Queste droghe hanno proprio segnato un’epoca, hanno determinato la musica, la scrittura, il cinema, un sacco di cose.
Era un fenomeno che si ingrandiva. Era cominciato che eravamo in dieci, dopo una settimana eravamo in venti, dopo un mese in quaranta. C’è stata proprio una escalation. E continua tuttora. Prima era una cosa per gli hippie, per i ricercatori. Adesso c’è un’intera popolazione che usa droghe. Le vendono come il pane in ogni città, fuori dai locali. La cocaina è inserita in tutte le classi sociali, anche quella dirigente. Allora, nel ’54, gli americani hanno fatto una proposta di legge internazionale, perché avevano avuto degli scontri molto incisivi con i nuovi gruppi di alternativa che si erano formati. E così sono entrati in contrasto con tutta una generazione. Gli hippie, fumando, promuovevano un movimento la cui essenza era peace and love, ti dice niente? L’America invece era fondata da cowboy e chi tirava fuori per primo la pistola vinceva, quindi non gli quadravano queste cose. Alteravano la gente in un modo diverso da come erano loro. Allora hanno penalizzato il fumo, appunto perché ti libera da questo tipo di condizionamento. Perché di solito chi si droga si trova meno condizionato dai consumi, quindi dal lavoro. Produce di meno e consuma di meno. Invece loro vogliono uno schiavo che consumi e che produca, non si capisce per che cosa. Al limite, consumare di meno e produrre di meno mi sembra una storia più giusta, no? Si lavora per ciò di cui si ha davvero bisogno. Ma il nostro era il movimento di alternativa ai tabù sociali, al sistema. Quindi del proibizionismo che era nato proprio in quel periodo i giovani non ne volevano sapere. Per anni l’Iran è stato un posto abbastanza libero, si andava e veniva facile. Poi hanno buttato fuori lo Shah, è arrivato l’Ayatollah, e hanno fatto una superfrontiera. Ti incanalavano in un corridoio con tutte queste vetrinette ai lati con il caso di qualcuno che mentre passava la frontiera era stato catturato. C’era la foto del malcapitato con i gendarmi che lo tenevano per le braccia, insieme all’imbosco: chi c’aveva le mutande con il doppiofondo, chi le scarpe, il dentifricio, la chitarra con il fumo dentro. Tutte le elaborazioni più sofisticate erano esposte in queste bacheche per terrorizzarti. Perché c’era un gran movimento di hippie che facevano su e giù. In quegli anni spesso andavo anche in Afghanistan, il nostro fumo lo prendevo lì e lo riportavo in India. Ho passato un lungo periodo nelle montagne di Mazari-Sharif, in una zona al confine con l’Unione Sovietica dove cresce questo fumo incredibile. Molti avevano paura d’andarci perché erano posti inesplorati, dei tribali. C’erano queste farms isolate una dall’altra, in questo altopiano desertico, chiuse da mura di cinta, tipo fortini, con centocinquanta persone, tutta una
grande famiglia che ci stava dentro. Non si fidavano di nessuno. Nemmeno la polizia ci andava perché erano armati, avevano persino le torrette con i mitra. Quindi, capito, anche se ci andava una jeep della polizia, loro prima sparavano e poi chiedevano chi era. Ma quando vedevano un poveretto come me che si avventurava così, a piedi, in queste zone, ti accoglievano ed era la festa. Arrivavi in mezzo a questo deserto, ti facevano entrare e gli regalavi un orologio, un fon, due minchiatine così, e loro ti davano tre o quattro chili di polline. Poi passavi la serata con i giovani che si mettevano davanti al fuoco a pressarlo e facevano tutti questi panetti a mano. Per dire, per loro non era nemmeno lo scambio dei soldi, era la felicità di ritrovarsi e di vedere gente nuova. Loro stavano tutta la vita lì. Era brava gente, erano umani. Non erano ladroni. Occupavano un corso d’acqua, si facevano un fortino e lavoravano la terra, in autogestione nel deserto. Più volte ci sono andato, con Claudia o da solo. Poi è successo che i russi hanno invaso l’Afghanistan e hanno chiuso le frontiere. Visto che era il mio lavoro, io dipingevo. Ma in India non c’era nessun mercato per i quadri, allora facevo business. Questa è stata la mia attività per un po’ di tempo. A Delhi, a Goa, a Kabul avevo dei falegnami a cui spiegavo cosa volevo e loro facevano il lavoro. Si prendeva questa tavola di legno, la si scavava da un lato, la si riempiva di fumo, la si richiudeva con un coperchio e si stuccava. Poi, sopra, con colori a olio, ci dipingevo delle icone in stile antico che invecchiavo con la cenere per far crepare i colori. Se prendevi l’icona in mano non sembrava né tagliata né incollata, sia dietro che sui fianchi vedevi i disegni del legno naturale, mentre sul frontale c’era questa icona antica. L’unico problema era che per aprirle bisognava rompere il quadro. Ogni volta che tornavo dall’Afghanistan portavo con me quattro o cinque icone. In Afghanistan il fumo non costava niente, in India c’era un pacco di gente che fumava, quindi più o meno si sopravviveva. A Goa era nato un mercatino delle pulci. Ognuno portava quello che aveva da vendere, sai, i jeans, le macchine fotografiche, le cose in più. Anch’io avevo una bilancina col fumo afghano e una scritta sopra: IF YOU REALLY WANT TO BUY – TRY. La gente si gestiva così. La malavita non aveva ancora in mano la cosa, anzi, all’inizio loro erano in contrasto con la droga. «No, noi la droga non la tocchiamo!» dicevano. Loro trattavano altri argomenti: puttane, rapine eccetera. Per tanti anni la droga è stata un monopolio degli hippie. Loro la portavano, loro la vendevano, loro la fumavano. Poi, a un certo punto, quando la cosa è diventata di interesse commerciale, l’ha presa in mano la mafia ed è diventata un’altra
storia. Grossi business con gli aerei, i container, movimenti di centinaia di chili. Arrivano con le navi piene. Per sbarcare del materiale nei porti senza farlo passare dalla dogana devi essere organizzato a quel livello, alla grande. Prima era un fenomeno troppo piccolo perché la mafia lo assorbisse. Era in mano alla gente che viaggiava, Marocco, Afghanistan, Turchia. In India era proprio una questione di pochi soldi. Piccoli trasbordi dei freak per i freak. Nel territorio di Goa, Arambol era l’ultima tappa, bisognava attraversare due fiumi per arrivarci. E lì c’era il famoso albero di banyan. Era un albero gigantesco, di quelli con le radici che escono dai rami, pendono giù e formano tutta questa rete di tronchi e liane. Copriva un’area di cento metri, però sotto questo grande ombrello c’era un bello spazio con diverse piazzole dove la gente si raccoglieva. Era parecchio in giungla e c’erano tante scimmie nere che saltavano. A volte sotto quest’albero si fermavano anche dei sadhu, dei baba, degli asceti indiani. Non stavano tanto, forse qualche giorno, poi ripartivano. Quella dei sadhu era una dimensione molto viva, una società diversa anche rispetto al pubblico medio del resto dell’India. Erano dei liberi. Spesso avevano solo uno straccetto intorno alla vita, o un longi, un pareo, color arancione. Non erano condizionati dalle camicie, dalle giacche e dai pantaloni come noi. Erano colorati, fumavano tutti, il loro modo d’essere e il nostro sembravano quasi uguali, ci accomunavano. Sembravano degli hippie organizzati, mentre noi eravamo semplicemente dei matti non organizzati in viaggio. Gli hippie erano un po’ dei fuori di testa mentre i sadhu, quando venivano sotto l’albero di banyan, erano sempre superorganizzati con pentole e coperte e la gente veniva a portargli delle offerte. Erano inseriti in quella società, riuscivano a vivere senza lavorare, sapevano come far sedere il pubblico e come farlo andare via. Perché se un sadhu dice a qualcuno “Vai!”, questo prende e va. Capito? Hanno questo potere di impatto sull’ambiente. Io avevo già i capelli lunghi quando sono arrivato in India, poi non li ho curati e dopo un po’ mi si sono infeltriti. Ora li chiamano capelli “rasta”, ma sono molto pre rasta. Vengono automaticamente, basta che uno non si pettini e si annodano per i fatti loro. In India, appunto, ce li hanno questi asceti, spesso lunghissimi, avvolti sopra la testa come grossi serpenti. Sembra che i sadhu li tengano così da migliaia di anni, come simbolo di liberazione dai valori estetici. Se uno non sta davanti allo specchio ogni mattina a spazzolarsi, a pensare “Mi faccio la riga in mezzo o di lato?”, e non li taglia, crescono così, come cresce un fiore in giungla. Si suppone che all’inizio dell’umanità ce li avevano tutti così, i capelli, perché non avevano pettini. I sadhu li chiamano jata. Sono i capelli di Shiva.
Shiva era un asceta, come Gesù Cristo. È il capostipite della religione hindu. Ma mentre Gesù va vestito con le tuniche, Shiva si veste con la pelle di tigre. E al collo invece che una collana ha un cobra vivo. È proprio una figura del tempo dei tempi. Quando è vissuto? C’è chi dice settemila anni fa, c’è chi dice di più. Di lui non si sa quasi niente, ma girando per l’India lo si vede raffigurato dappertutto che abita fra le nevi dell’Himalaya. Di solito in meditazione. Ha i capelli lunghi, queste jata appunto, e un tridente che è simbolo della trinità, ma fa subito pensare anche a un’arma di sopravvivenza. Perché viveva in giungla. I canti raccontano che mangiava l’erba, la ganja che cresce lassù. Per questo i sadhu fumano da sempre, perché per loro chiaramente la ganja è un veicolo, è la medicina di Shiva, la medicina di dio. Io le jata le avevo scoperte in India. In quel periodo non è che ce l’aveva molta gente. Qualche anno dopo è venuto fuori questo gruppo, Bob Marley, ed è diventata una cosa pubblica, una moda. Ma quando Bob Marley ce l’aveva ancora corte, io ce l’avevo già fino alle spalle. Capitava allora che questi sadhu mi si avvicinassero, avevano questo senso di riconoscimento nei miei confronti. Ero vestito leggero, da hippie, mi mettevo anch’io solo un longi, per cui i sadhu mi venivano vicino e mi chiedevano chi ero, come mai avevo le jata? Mi attirava un po’ il loro stile, il loro modo d’essere. Si cercava di comunicare, così. Però, nel mio primo periodo in India io ero in pieno trip junkie. Non mi preoccupavo molto né dei sadhu né della lingua hindi. All’inizio dovevo imparare l’inglese, che non parlavo. Quello che sapevo lo avevo imparato dai dischi dei Rolling Stones e un po’ dalla Claudia, che suonava la chitarra. Aveva una bella voce e una chitarra folk a dodici corde che si portava sempre dietro. Quando cantava, io l’ascoltavo e l’accarezzavo. Avevamo tutta una cultura di interesse, leggevamo Siddharta e i libri di Hermann Hesse in generale – anche lui era un freak, un ricercatore, no? Poi c’era Carlos Castaneda, la serie di Tolkien, c’era Il libro tibetano dei morti, l’Autobiografia di uno yogi, La vita di Milarepa. Girava un mix della cultura tibetana, buddhista, induista assieme a Timothy Leary, che era uno dei fondatori dei movimenti psichedelici. Erano tutti libri correnti che erano venuti fuori da una cultura di ricerca di una generazione che cresceva. Per anni siamo andati su e giù, India, Afghanistan, Nepal, Pakistan, di nuovo a Goa, e a volte tornavamo anche in Europa. Continuava questo giro di passaporti falsi che venivano, scadevano, li buttavo via, ne trovavo altri. Claudia aveva il suo
passaporto originale per cui ogni tanto partiva, andava in Italia, si faceva un visto nuovo e tornava. Con i miei, invece, al massimo potevo girare per l’oriente. Una volta, in un albergo a Bombay, sono arrivato con un passaporto inglese e il tipo se ne è accorto. «Ma come, l’altra volta eri francese, poi italiano e adesso sei inglese?!» «Vabbè, sono andato in Inghilterra, ho preso la nazionalità...» ho detto scherzoso. L’hanno presa per buona. Adesso, sinceramente, se dovessi dirti quante volte sono andato su e giù tra l’Europa e l’India via terra non te lo saprei dire. Tante volte. Mi ricordo che arrivavo sempre senza soldi in Grecia perché c’era stato tutto questo lungo viaggio. C’era un po’ di supporto se andavi nelle ambasciate, ti davano un minimo di soldi, ma visto che avevo sempre dei passaporti falsi... Poi lì, a Thessaloniki, si vendeva il sangue e ti davano qualcosa come 50.000 lire, un panino e una CocaCola, quindi potevi prendere un battello e arrivare in Italia, a Brindisi. Eravamo una élite di persone che si ritrovava di qua e di là, c’era una connection fra di noi, riconoscimenti. Ci ritrovavamo ogni giorno in posti diversi, ogni sera in guest houses o alberghi diversi. C’erano dei meeting points, dei punti di ritrovo in ogni città, Peshawar, Lahore, Teheran, Mashhad, in tutti i centri lungo la pista, la hippie trail. Ci si ritrovava a gruppi, si fumava, ci si faceva insieme. Due o tre volte ho rischiato l’overdose. Una volta ero solo a Delhi, al Crown Hotel, non c’era la Claudia. Però nella camera c’era altra gente che si faceva come mi facevo io, c’erano sempre due o tre persone in una camera. A un certo punto si era trovata della cocaina molto forte nelle farmacie, la davano ai cavalli mi è parso di capire, per cui la scioglievamo e la mischiavamo ad altre sostanze. Facevamo di tutto. Ebbè, una volta ho messo una dose di cocaina troppo forte che mi ha bloccato tutte le braccia, non riuscivo più a muovermi. E i battiti del cuore erano molto accelerati. Ero paralizzato sul letto. Ho chiesto a quelli nella stanza di farmi subito una puntura di eroina, per bilanciare. «Ma no, no!» Gli altri erano spaventati. «Sei in questo stato e vuoi farti una puntura di eroina?!» Nessuno me la faceva. Fin quando hanno chiamato uno della camera vicina, uno più svoltato nel trip dei junkie, che ha preparato l’eroina e me l’ha iniettata. Senza dubbi. In quel momento i battiti del cuore si sono regolarizzati e ho ripreso l’uso delle braccia. Erano momenti un po’ tragici. Mentre l’eroina rallenta i battiti, la cocaina li fa andare veloci. Sono due morti diverse, una per collasso, quando il cuore va troppo
piano, l’altra per infarto, quando il cuore va a dei battiti massimi ed eccede. Per cui c’era questo dover adoperare il corpo come si adopera una radio o un registratore: schiacci quel bottone, giri quell’altro, dormi o stai sveglio, dipende appunto dall’uso che fai delle droghe. Diventavi consapevole del tuo corpo e della tua mente, era un insegnamento di vita. A Bombay ci andavamo, con la Claudia. C’era di tutto, era un porto di mare. C’erano le fumerie d’oppio governative al Bhendi Bazaar che avevano delle camere con i lettini. Erano legali. Io per parecchio sono caduto nell’oppio. Ti sdraiavi per terra su questo materassino e il preparatore di pipe, che importavano dall’Indonesia o dalla Malesia perché erano i più abili, infilava una pallina d’oppio in un ago e la girava sopra una fiamma. Man mano che la goccia tentava di scendere, la raggomitolava sull’ago finché non si seccava completamente. Quando la resina era secca lui la infilava nella pipa, un bambù lungo con un vasino di terracotta in fondo, la accendeva e si fumava. Era una conoscenza preparare queste pipe. Un preparatore era molto valorizzato. Dall’oppio si fanno la morfina e l’eroina. La morfina la vendevano in farmacia come antidolorifico, senza ricetta, l’eroina è un po’ più forte, se vuoi. Sempre oppiacei sono, derivati dalla stessa pianta. La morfina ti tira dentro, ma non troppo, ti tira dentro dopo mesi, anni che ne fai uso. Infatti io, dopo aver iniziato in prigione, poi ho continuato a usarla alternativamente. La facevo, smettevo, ma non mi sentivo mai catturato, intossicato. Smettevo e ricominciavo molto facilmente. È stato nella ripetizione, dopo anni, che tutte le volte che smettevo stavo un po’ peggio, fin quando ti arrivano dei crampi allo stomaco, vomiti, non mangi, non dormi se non ce l’hai. Non stai bene. Lì poi ci è voluto un po’ a smettere, sono andato avanti parecchi anni. Mi ricordo che in Pakistan vendevano queste famose pasticche che chiamavamo “le Peshawar”. Erano fortissime. Le faceva la Merck, però con l’andar del tempo sono finite e la Germania ha interrotto la produzione. In Europa non si trovavano. A un certo punto le hanno scoperte gli hippie in Pakistan e per qualche anno c’era un mercato di queste pasticche. Una volta, passando con la Claudia da Peshawar, abbiamo finalmente trovato una farmacia che ce l’aveva, quelle classiche bottigliette piccole della Merck con sopra un tappino in alluminio sigillato, che stava a garanzia. Bene, o forse dovrei dire male... Ho sciolto le pasticchine nell’acqua, ho fatto l’iniezione e ho visto come un flash di luce, un’esplosione. «Non farla, non farla!» ho gridato a Claudia che stava giusto preparandosela.
Sono rimasto accecato per due giorni. È venuto fuori in seguito che era un bidone. Un business. Questi qua avevano visto gli hippie talmente interessati che facevano queste bottiglie sigillate, false, con dentro delle altre pastiglie, di atropina, perché avevano la stessa taglia delle Peshawar, incuranti degli effetti che potevano avere. Ma in farmacia ce l’hanno date! Erano degli assassini in potenza. Uno poteva morire di queste cose. Ma sai, è tutta una cosa underground, non è che vai a denunciarla alla polizia, capito? Te la prendi e basta. Molte volte prendevi bidoni. Era sempre un rischio. O ti facevi un fuori vena e ti veniva un bozzolo così. O davi un giro al cucchiaio e ti si rompeva la siringa. A farlo tutti i giorni, quante ne succedevano. Tutto il periodo che sono stato con Claudia, fin dall’inizio quando siamo partiti, una cosa o un’altra noi si prendeva sempre. Una volta questa, una volta quest’altra. Dovunque andavamo avevamo le connection. Vivevamo per farci, ci facevamo per vivere. Eravamo drogati pesanti. Le chiamavamo “iniezioni di inconsapevolezza”. Restavi in un dormiveglia, rilassato fisicamente e con nella testa questa assenza di pensieri. Ti sdrai sul letto, la mente viaggia e passano le giornate così. È un mondo in cui non si sente niente. Uno resta fuori dal mondo, si deve nascondere. Sei abbandonato da tutti, ti trovi solo nel trip, devi sopravvivere con le tue mani. Nemmeno quelli che si fanno ti possono aiutare perché è una cosa talmente personale che te la devi risolvere da solo, devi vedere come procurarti la roba, i soldi. Non senti proprio più le idee della società, non devi nemmeno pensare se le condividi o no. Tutta l’essenza della società stessa, cosa fa, come si muove, il traffico, l’inquinamento, ti estranei da tutto. Resti fuori da qualsiasi problema, da qualsiasi cosa che non sia quella di procurarti la roba e di fartela. Ti liberavi anche dai desideri sessuali. Stavo con Claudia dei mesi senza fare l’amore perché non se ne sentiva il bisogno. Ma stavamo insieme. Ci legava il fatto che eravamo da soli in India. Avevamo fiducia l’uno nell’altra. Le amicizie andavano e venivano, cambiavano da posto a posto, ma di fondo c’eravamo noi. Ogni tanto si smetteva. Per poco, tre mesi, due, e si ricominciava. Insieme era difficile smettere, anche se era forte il desiderio. Parecchie volte con Claudia abbiamo deciso di smettere perché eravamo esausti. Solo che lei era più fragile. Era convinta, almeno sembrava, però non riusciva a sopportare il vomito, le diarree, la depressione, i dolori. Gli effetti negativi li senti quando vuoi smettere. C’è un periodo che stai male, non riesci a mangiare, non riesci a dormire. Claudia, quando stava male, mi chiamava. «Cesare, un cicinìn!»
Allora, sai, già stai male di tuo, se qualcuno per giunta ti fa pressioni... «Vabbè, l’ultima e poi domani smetto. Anzi, la finisco tutta così domani non ci penso più.» È scabroso, è quel che è. Ma anche quella è stata una scuola. Com’era una scuola andare in galera, come sono una scuola tutte le cose negative. Uno le attraversa. Uno deve appunto attraversarle e andare oltre. Poi c’è chi può morire a scuola, chi ci resta. Tanti di quel giro ci sono restati perché per loro non era una ricerca, si sono fermati all’uso e abuso crudo delle droghe senza mai pensare di andare oltre. Tanti che si bucavano sono morti. Fino a quanto resisti? Era un po’ una dimensione da malati. Ti facevi o non ti facevi, stavi sempre male. Era un periodo di stasi determinato dalla nausea di queste cose. E alla fine ti accorgi che sei ancora più condizionato dalla società perché hai bisogno della roba, che è un prodotto sociale; hai bisogno dei soldi, che sono un prodotto sociale. Per cui ti trovi a sbatterti nella società per procurarti sia l’uno che l’altro. E allora, se uno solamente ci pensa, deve vedere seriamente come fare a uscirne. Io ci ho messo alcuni anni a liberarmene. Ma finché uno vive nella bambagia, come dicono, resta lontano dalla realtà della vita. La realtà della vita è tutto, sono le pietre, le spine, questo e quell’altro. Gli insegnamenti li prendi da tutto, no?
EVASIONE
Bisogna svoltare, specialmente in pista. La caratteristica della pista è: volta per volta si svolta. Altrimenti vai sempre dritto. “Svoltare” è una classica espressione del gergo freak, vuol dire “risolvere”. Se vuoi puoi svoltare con una figa, puoi svoltare con un posto da dormire, puoi svoltare con un milione di cose. Ma su un circuito di pista, lì la soluzione è la svolta, no? Perché se vai dritto ti ammazzi! Per cui ti devi concentrare sulla svolta. La svolta è tutto. Vabbè, in ogni caso niente, dài. Dopo due anni in India sono riuscito anch’io a tornare in Italia e ho subito fatto una mostra di pittura. L’ho fatta non per cercare di fare chissà che, ma proprio per svoltare soldi nell’immediatezza. Era un mestiere, sapevo fare i quadri e quindi facevo quello. Subito in battuta, a Torino, ho preparato una quarantina di pezzi. Prima, quando vivevo in città, dipingevo i soggetti classici, perché vedevo sempre questi profili: paesaggi, ponti, città. Di solito sui grigi, per dare l’idea delle soluzioni che si erano create sul pianeta. Poi facevo i Cristi, questi li riproducevo parecchio. Studiavo l’espressione di Cristo: che espressione poteva avere Cristo in croce? Cosa doveva trasmettere dio con la sua espressione? Facevo questi ritratti di dio mettendoci uno sguardo particolare, una forza che non è di una persona normale. L’espressione, tutti i pittori l’hanno studiata, l’espressione di gioia, dolore e tranquillità spirituale. Come quella di Shiva, l’asceta con gli occhi chiusi in meditazione; o di Shiva quando ha gli occhi aperti e guarda, sorpreso, tutto quello che c’è intorno. Perché lui è in una dimensione divina, quindi vede il mondo con i casini, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato. Per questo si è poi ritirato sull’Himalaya a vivere nelle nevi, per avere un contatto continuo con dio senza sentire la pressione dell’ambiente. Anche i clown richiedono uno studio dell’espressione, perché cosa esprimi nel clown? Non solamente il naso colorato. Un clown è questo qua che ha le sue storie, i cazzi suoi. A volte il figlio è ammalato, però lui a un certo punto si deve mettere la maschera da clown e andare a fare ridere la gente. È clown, hai capito? Mentre
fa il clown gli viene da piangere ma non può piangere perché deve far ridere. Allora porta avanti la sua missione. Quindi i clown, e tante altre cose. La maternità, la mamma con il bambino in braccio. Questo attaccamento del bambino alla mamma, questa tenerezza, questo sdoppiamento nel bambino, che lei guarda come parte di se stessa, è un miracolo. È un’espressione da trovare nella piega della bocca, nella luce degli occhi eccetera. Avevo dipinto tutte queste cose. I soggetti correnti erano più o meno questi. Però poi ero stato in India e lì ero rimasto colpito dai gruppi di bambini che si fermano a guardarti per strada. Allora facevo dei quadri grandi, con gruppi di bambini tutti nudi, col pancione e le treccine, che ti guardavano. Io ero legato al mondo social-commerciale, per cui mi sono reso conto che gli artisti erano quelli che i quadri li vendevano, non quelli che li facevano. Infatti il lavoro più difficile era venderli, questi quadri. Farli, cos’era? Alla fine fai dei quadri commerciali perché devi presentarli al pubblico, quindi fai quello che la gente ti compra, no? Se ti metti a fare dei quadri di ricerca, perdi il tuo tempo, restano lì. Vivi in quell’ambiente, vivi in una società in cui bisogna mangiare, bisogna aver soldi, sei un po’ condizionato. Si dice: “Impara l’arte e mettila da parte”. Infatti l’ho messa da parte. In seguito a quella mostra ho smesso di dipingere. Il giorno dell’inaugurazione ho venduto una decina di quadri, subito. Erano commerciali. Avevo incassato tutti questi soldi, per cui mi era venuta l’idea di partire per il Pakistan, Peshawar. Volevo andare e tornare nel giro di quindici giorni. Ma era nel periodo in cui dovevo andare a firmare una volta alla settimana dai carabinieri, per una sciocchezza che era avvenuta poco prima, quindi la settimana che mancavo è andata la Claudia al distretto di polizia. «Senta, il mio ragazzo, Cesare, sta facendo una mostra» gli ha detto, mostrando il dépliant. «Tutti i giorni ha da lavorare, è lì con il pubblico, non può lasciarla. Per cui sono venuta io a dirvelo. Poi lui viene la settimana prossima.» Claudia è restata a Torino di guardia alla mostra, che è andata molto bene. Ha venduto tutti i quadri, tutti. Mentre ero in Pakistan ho telefonato a mio padre per sapere come andavano le cose e lui mi ha detto che avevano arrestato Claudia. Era incazzatissimo perché per di più avevo scritto a lei dicendo: “Per qualsiasi cosa che hai bisogno, vai da mio padre...”. La polizia l’aveva interpretata male ed era andata da lui a fare una perquisizione di tutto lo studio. Chissà cosa pensavano di trovare. Fatto sta che Claudia era andata dentro perché aveva ospitato una ragazza ricercata per stupefacenti. La polizia aveva fermato anche Claudia, solo per qualche giorno probabilmente, perché non c’erano le condizioni per trattenerla.
Ma nel frattempo le era arrivata una lettera a casa. La padrona di casa aveva informato la polizia che era arrivata questa lettera e l’avevano portata in carcere. Ma invece di consegnargliela l’avevano data al giudice istruttore, che aveva chiamato Claudia. «Senta, è arrivata una lettera per lei dal Pakistan. La apriamo?» E lì – puff! – gli era caduta tutta la polvere sul tavolino. Non c’era nemmeno “uso”, né niente, e poi gliel’avevo mandata io, per cui il reato l’avevo fatto io. In ogni caso l’hanno tenuta dentro per quattro o cinque mesi. Quando ho saputo che lei era andata dentro sono ritornato subito dal Pakistan. Ho preso un’altra casa, un po’ imboscata in campagna, molto anonima, e l’ho rimessa a posto. Quando è uscita, Claudia è venuta lì. La roba che avevo portato dal Pakistan era finita, per cui giravamo per le farmacie a fare dei ritiri di morfina. Sai, scrivevo le ricette. Fai stampare un blocchetto di ricette, poi ci metti quello che vuoi e vai in farmacia, mi segui? A Torino ormai le farmacie erano smaliziate per le ricette false, invece nei dintorni c’erano dei paesetti vergini che non avevano mai visto dei drogati. Con un po’ di paranoia andavamo lì e a volte il dottore leggeva la ricetta e ci guardava in faccia, sospettoso. «No, guardi, non ne abbiamo» e gentilmente ci permetteva di andarcene via. Altre volte invece leggeva la ricetta, serio, poi ti squadrava dalla testa ai piedi. «Aspetti un attimo, bisogna cercarle» diceva, e prendeva il telefono in mano. A quel punto dovevi andartene via di corsa. Ma a volte erano troppo presi dal loro lavoro e ti davano il medicinale, due scatole di fiale per volta, come era segnato nella ricetta, senza avere dubbi. Dopo un paio di mesi la polizia è venuta e mi ha arrestato. Avevo appena fatto un ritiro e c’era la polizia in casa. Così mi ha trovato queste fiale in tasca e il ricettario, inoltre avevo un mandato di cattura per aver spedito la polvere alla Claudia dall’oriente. Allora sono ritornato dentro. Avevo già esperienza, avevo fatto due anni e mezzo per un niente, per quella mezza sigaretta. Ora invece avevo il processo per la morfina che avevo mandato dal Pakistan per la Claudia, mi avevano arrestato per altra morfina che avevo ritirato nelle farmacie con delle ricette false, per cui mi son detto: da qua non esco più! Quindi ho deciso di cercare di evadere. Dentro conoscevo abbastanza bene questo dottore al quale la volta prima avevo venduto dei quadri. Allora entrando sono andato subito da lui, eravamo in confidenza. «Guarda, questa volta mi va male» gli ho detto. «In India mi facevo parecchio,
adesso sento la carenza, ho la testa che mi scoppia. Cosa posso fare? Insomma, dammi una mano, mandami in una clinica privata...» La cosa più semplice infatti era di farmi ricoverare per poi cercare di evadere dall’ospedale, che è meno controllato delle carceri. Nelle carceri c’è il muro di cinta, ci sono le guardie nelle torrette, i mitra. Invece negli ospedali è più easy. «Non posso» mi ha detto. «È una cosa da privilegiati. Nelle cliniche private ci vanno i grandi industriali, i figli dei ministri. Che faccio, ci mando te?! Però, forse ti posso mandare al manicomio civile.» Allora mi ha mandato al manicomio di Torino, sempre con la scorta, due guardie davanti alla porta perché ero detenuto. Da lì ho potuto contattare la Claudia per dirle di portarmi un cric. Io stavo al piano terra, dove si poteva circolare abbastanza liberamente. Claudia ha preso il cric dalla sua Cinquecento e me l’ha appoggiato alla finestra. Niente. La notte ho messo questo cric alle sbarre, ma l’ho messo male. Per cui quando ho girato la manovella è uscito di sede ed è rimasto incastrato. Non andava né su né giù. Allora sono stato lì un po’ in panico, poi ero stanchissimo, mi sono sdraiato un attimo sul letto e mi sono addormentato. Quando mi sono svegliato pensavo di aver sognato. Ho guardato lì dietro e c’era questo cric incastrato nelle sbarre della finestra! Al mattino presto c’era il cambio delle guardie, per cui venivano a controllare. Allora con la forza della disperazione ho tirato un colpo forte a questo cric ed è uscito. Però c’è stato un rumore di ferro. Ho preso il cric in braccio e mi sono buttato sul letto, sotto le coperte. In quel momento si è accesa la luce, hanno guardato dallo spioncino, hanno visto che ero sul letto che dormivo e hanno pensato che il rumore fosse venuto da un’altra parte. Poi, niente, avevo questo cric da sbolognare. Non potevo buttarlo dalla finestra, lo trovavano. C’era un ragazzo lì, un sardo, che era ricoverato perché s’era messo a fare il matto per non andare a militare. Era un tipo un po’ malavitoso e ne ho parlato con lui. «Senti, ho questo cric sotto il materasso e tra poco vengono quelli a cambiare le lenzuola.» «Dài, dammelo che lo metto nel mio armadietto» ha detto lui. «Lì nessuno ci guarda.» Poi l’ha visto. «Ma questi cric non vanno mica bene per allargare le sbarre! Ci vogliono quelli a pressione a olio, quelli che usano per i camion.» Suo fratello era uno che faceva questi lavori. Allora mi ha detto di mandare mia moglie da lui, che le avrebbe dato il cric. E ho mandato la Claudia da suo fratello. «Guarda, il cric è troppo pesante per te» le ha detto. «Vengo io a darti una
mano. Ci andiamo di notte, apriamo e lo tiriamo fuori.» Allora in mezzo alla notte sento tra-tra-trac! E c’è questo qua che gira la manovella e le sbarre si allargano. «Che ore sono?» dico. «Mezzanotte.» «Guarda che a mezzanotte arriva il cambio delle guardie!» Lui riguarda l’orologio: «Dài, mancano cinque minuti, andiamo via subito!». In quel momento ho sentito il rumore delle guardie che arrivavano. Allora, senza nemmeno avvertirlo, mi sono affacciato alla porta. Le guardie vecchie si sono allontanate e sono arrivate le due guardie nuove, lì fuori, che mi hanno visto. «Ehi, ma tu cosa fai?!» «Non riesco a dormire. Son venuto a chiedervi qualcosa per il mal di testa. Ho chiamato ma nessuno mi sentiva.» «Ma come, vestito?» Io ero già tutto vestito, a mezzanotte. «Eh...» «Mah. Vai a chiamare l’infermiere!» Mentre uno andava a chiamare l’infermiere, il fratello del sardo aveva finito di allargare le sbarre e da fuori mi chiamava. «Cesare, Cesare. Ehi, Cesare!» Il poliziotto ha sentito questa voce. «Guarda, c’è qualcuno che chiama, lì. Spostati un attimo!» Ha aperto la porta e ha visto la finestra spalancata con le sbarre allargate. Quell’altro deve aver visto il movimento del poliziotto che entrava nella stanza perché ha mollato tutto e se n’è andato. E io ero lì. Arriva poi l’altro poliziotto con l’infermiere e le pastiglie per l’insonnia. «Ma che succede qua?» «Io non so. Ero qui fuori con voi...» In galera bisogna andare sempre negativi, anche davanti all’evidenza. «Dài, come non sai?!» C’era l’appuntato che con voce benevola dice: «Guarda, Cesare, io ti voglio bene, potrei essere tuo padre. Quindi, secondo te cos’è successo qui?». «Be’, secondo me, non ti so dire. Io ero lì a prendere le medicine, magari c’era un ladro che voleva rubare negli uffici, ha visto la cameretta vuota e ha aperto per entrare da lì. Poi siete arrivati voi ed è scappato. Non so. Perché io, come faccio ad allargare le sbarre, io?» E lui mi guarda e dice: «No, non mi è chiara questa storia. Devo avvertire la centrale». L’infermiere lo accompagna in ufficio a telefonare. Escono tutti e due e io resto
un minuto così, solo nella cella con la finestra aperta. Allora mi sono buttato. Nel momento che mi sono buttato l’altro carabiniere è entrato e mi ha visto che uscivo dalle sbarre. Solo che io ero magrissimo, e lui era troppo grosso, non poteva inseguirmi. Mi sono messo a correre e sono arrivato al muro di cinta, ma era altissimo. Riuscivo ad arrivare in cima al muro con le mani, ma non riuscivo a tirarmi su coi muscoli perché ero esausto, avevo passato parecchi giorni in ospedale a farmi la flebo. Son corso un po’ attorno al muro per cercare un punto favorevole finché ho trovato una rete appoggiata e, aiutandomi con la rete, mi sono arrampicato su e mi sono buttato di sotto dall’altra parte. Ero già stanco per aver scalato questo muro, mi sono lasciato cascare malamente e lì mi sono rotto un piede. Poi mi guardo attorno e mi trovo davanti il tipo, il fratello del sardo. Anche lui era saltato giù nello stesso posto, ma lui era più agile, più svoltato. Aveva forse più pratica coi muri di cinta, no? «Ce l’hai fatta!» dice. «Sì, andiamo via subito!» «Ma non c’è più la macchina. Se la sono portata via, col mio amico e tua moglie.» Glielo avevano detto quelli del bar d’angolo. Avevano parcheggiato la macchina, che era una Giulia rubata, proprio sotto il muro di cinta, no? La Claudia voleva venire con la sua Cinquecento ma l’altro le aveva detto: «No, andiamo con la Giulia, dài, che è più veloce». Allora avevano messo questa Giulia sotto il muro, erano montati sulla Giulia e lui aveva scavalcato il muro di cinta. Quando è passata una volante della polizia e ha visto questa macchina attaccata al muro con due sopra – la Claudia e un altro dei complici –, gli ha chiesto i documenti. La macchina era rubata e la polizia li ha portati via. Il sardo ci pensa un po’. «Trovo un’altra macchina» dice. «Nasconditi in quel giardino.» Mi sono infilato fra dei cespugli e lui non è più tornato indietro, è scappato a piedi. Io avevo il piede che mi ero rotto saltando dal muro di cinta, lui stava benissimo, per cui trascinarmi via con sé era un problema. Allora se n’è andato via da solo. C’era un po’ di polizia che girava, le sirene spiegate. Hanno cercato con le pile lì intorno fin quando non mi hanno trovato. Mi hanno dato un po’ di calci e sberle e vabbè, mi hanno riportato in cella. Mi hanno fatto l’ingessatura, ma questi qua che mi aggiustavano il piede parlavano di sport, chi aveva vinto e non aveva vinto la domenica prima. Infatti me l’hanno ingessato male. E il giorno dopo mi hanno rimandato in carcere.
Dentro adesso c’era anche la Claudia per “procurata evasione”, che sembrava fosse un reato maggiore dell’evasione. Io c’avevo ancora tutti i reati di prima, in più mi avevano messo “tentata evasione”, che però per un detenuto comportava il minimo della pena perché è giustificato che uno che è dentro voglia uscire. Mentre per uno fuori andare a fare uscire qualcuno è più problematico. Allora lei lì si è fatta altri mesi. In carcere ci avevano dato il colloquio interno una volta alla settimana. Gentile, il giudice, perché non lo danno facilmente. Voleva dire che non avevamo il colloquio esterno, cioè i parenti non potevano venirci a trovare, ma visto che eravamo tutti e due dentro, dalla sezione maschile mi portavano alla sezione femminile, con la guardia e la suora in camera, e stavamo un’ora così, insieme. In ogni caso lei era stata già parecchio dentro prima, era uscita da poco, si era ritrovata dentro, per cui il giudice dopo tre o quattro mesi l’ha fatta uscire. E dopo un altro mese e mezzo il giudice si è impietosito e ha dato la libertà provvisoria anche a me. Quella volta lì ho fatto sette mesi soltanto perché, non so com’è, eravamo simpatici al giudice, non eravamo veramente dei delinquenti. Siamo stati a Torino più o meno un anno e la carcerazione sarà stata di otto, nove mesi. C’è stato un momento che ero sempre dentro. Le cose si sono susseguite con una tale velocità! Stavo dentro cinque mesi, uscivo, tornavo dentro altri sei mesi. Non avevo tempo per riprendermi che mi ritrovavo di nuovo dentro. La prima volta a Torino, poi la seconda, la terza, poi l’evasione a Torino. Dopo che ho lasciato mia moglie ero in quella situazione lì. Il tempo che ho passato in Italia l’ho passato dentro. Poi uscivo, ripartivo, succedevano altre cose e ritornavo dentro. Quando sono uscito l’ultima volta ero overdosato di queste storie. Mi sono organizzato un altro passaporto falso e con la Claudia abbiamo deciso di lasciare l’Italia definitivamente, lasciare perdere tutto e non tornare più. I passaporti noi li chiedevamo alla gente, agli amici, ce n’erano a manetta in giro. Chiedevamo un passaporto che loro denunciavano dopo che eravamo partiti e ne ottenevano subito uno nuovo. Perché farsi fare un passaporto falso dalla malavita costava un sacco di soldi. Li rubavano nelle prefetture, nuovi, e li compilavano con il nome che volevi. Poi facevano un lavoro con la foto, i timbri. Avevano tutti i timbri, loro, ma costava un milione, un milione e mezzo farsi fare un passaporto. Questo fra di noi era un sistema più semplice. Poi la foto ce la mettevo io, avevo le tecniche, lo facevo anche per gli altri. Per l’artigianato, i timbri eccetera, ero molto bravo.
Smontiamo tutta la casa, diamo via tutto quello che abbiamo e decidiamo di partire l’indomani. Quella notte andiamo a dormire in un albergo. Io ho dato una carta d’identità falsa. Non si sapeva nemmeno di chi era. Insomma, fatto sta che mentre siamo lì in camera, di notte, toc-toc. La polizia. Di nuovo. E allora, niente. Questi qua arrivano, fanno il check del portacenere, sotto il materasso, di qua e di là, e mi dicono che la carta d’identità che avevo lasciato alla reception era stata denunciata. «Lei come si chiama?» mi chiede. Ero titubante, non sapevo come rispondere. Lui aveva la carta d’identità in mano e io volevo guardare il nome. «Dove abita?» «E va bene» dico. «Guardi, alla fine ero senza documenti, volevo andare a stare in albergo con la mia ragazza, avevo questa carta d’identità che qualcuno aveva lasciato da me...» Allora ci riportano in centrale. Fanno verbali e non verbali e, niente, io ero sicuro di tornare dentro perché ero uscito da poco. Anche lei, con storie così, figurati. «Dammi i libri che me li leggo dentro» ho detto a Claudia. Li avevamo in borsa pronti per la partenza. Be’, a un certo punto arrivano e dicono: «Passi domani mattina che arriva poi il brigadiere per farle firmare il verbale. Domattina alle dieci». Ci ha mollati lì. Ci ha lasciati andare. E noi al mattino presto siamo partiti per l’India. Siamo andati a prendere l’Istanbul Express che partiva dalla Germania, faceva l’Austria, tutta la Jugoslavia e arrivava fino a Istanbul. E da lì avanti, sempre via terra. A volte passavano dei Magic Bus che raccoglievano nelle diverse stazioni tutti gli hippie che c’erano. Erano gestiti da vecchi freak, arrivavano dall’Olanda, dall’Inghilterra e andavano in India. Erano organizzati con la musica e qualche materasso. Ogni tanto ne passava uno. Noi preferivamo viaggiare per i fatti nostri perché se no dovevi seguire i tempi del bus, dovevi seguire un po’ il karma del bus che a volte si rompeva e aspettavi quindici giorni in un posto sperduto. C’era sempre movimento, su e giù per la pista. Era l’unica pista fra oriente e occidente con bus, minibus e anche tir che ci viaggiavano. Si poteva anche andare in autostop attraverso i paesi arabi e molti lo facevano. Era tutto abbastanza semplice. A un certo punto siamo arrivati a una frontiera, io, Claudia e un altro ragazzo che viaggiava con noi, ma erano già le cinque del pomeriggio e l’avevano chiusa.
Quindi abbiamo dovuto passare la notte lì, fra Afghanistan e Pakistan, sul Khyber Pass. C’era un dormitorio vicino, a buon mercato, che aveva tutti i lettini con le coperte nuove. La mattina dopo passiamo la frontiera e partiamo per Peshawar. A metà strada troviamo uno squadrone di polizia che aveva fatto un blocco stradale e fermava tutti i bus. Appena ci hanno visto: «Voi tre, scendete!». L’autobus l’hanno fatto ripartire, ci hanno portati in una cella e ci hanno chiusi dentro. Dopo mezz’ora arriva uno a tre stelle, un capo grosso. «Restituite la coperta!» Io cado dalle nuvole. «Coperta, che coperta? Claudia, tu hai preso una coperta?» «No.» «Tu, hai preso la coperta?» «Sì» dice l’altro ragazzo. «Ma dài, diamogliela questa coperta!» Allora questo ha aperto il suo bagaglio e ha restituito la coperta. Avevamo anche tutto il fumo imboscato dentro, ma non ci ha fatto nessuna perquisizione. Niente, gli abbiamo reso la coperta e questo non ci ha nemmeno rimproverato. «Be’, andate.» E ci ha fatto ripartire con il primo bus che passava. Non si capisce, per una coperta avevano smosso i militari! Ero un po’ preoccupato perché un’altra volta, sempre in zona, in Afghanistan, ero stato con un altro amico ed era successo che... Era un freak anche lui, con gli occhiali rotondi alla Gandhi, e in un negozietto che vendeva cose antiche – c’erano tutti questi negozi per turisti lì, con anticaglie eccetera – aveva rubato un orologio da taschino. Gli afghani, che controllavano bene gli hippie che entravano nei negozi, lo avevano visto, ci hanno fermato per strada e gli hanno trovato l’orologio addosso. L’orologio lui gliel’ha dato anche indietro, però questi non sentivano ragioni. Dicevano che dovevano tagliargli la mano. Capisci, c’erano delle leggi lì del tipo wild, locali. Per cui i ladri erano molto rari, non c’erano ladri in giro. Alla fine, giusto perché era straniero, questo qua l’hanno lasciato perdere e si è salvato. Abbiamo anche pagato l’orologio, dopo averlo reso, e il negoziante si è calmato. Faceva un po’ di dramma, diceva che doveva tagliargli il braccio. Forse bluffava, ma dopo la gente ci ha detto che ci era andata bene.
HAMPI
Mauro era più vecchio di me, io ero un ragazzo in confronto a lui. Viveva in giungla a Goa, dietro la spiaggia. Io invece stavo con Claudia in una casa. C’era un’ora di cammino fino al posto dove stava. Erano tutti sentieri di montagna e lui viaggiava a piedi nudi. Io invece avevo le scarpe, delle belle scarpe afghane, tutte di cuoio, lavorate. Ci tenevo alle mie scarpe, ci camminavo bene. Sai, quando le scarpe è un po’ che ce l’hai e sei affezionato? In quel periodo mi ricordo che Mauro veniva a casa nostra e non mi dava l’impressione di stare assieme a un sadhu. Non era mai riuscito ad avvicinarsi più di tanto alla società dei sadhu perché non parlava bene l’hindi. Ma era molto intuitivo e capiva comunque tutto quello che la gente diceva. Lo riconoscevo come un ricercatore spirituale libero, senza schemi, italiano. Questo qua era simpatico perché non aveva strutture. Mauro viveva senza passaporto in India, come me, al limite. In quel periodo non era tanto grave. La sua evidenza era di vivere. Stava lì, in giungla, e andava tutte le mattine all’alba a camminare lungo il mare a trovare conchiglie. Si infilava nelle rocce e arrivava con delle conchiglie bellissime che io non trovavo mai. E niente, mi parlava appunto di conoscenza. È stato uno dei primi che ho sentito in un trip di ricerca di dio. Parlava di dio e dello sviluppo che poteva avere la conoscenza nella mente di un uomo. La conoscenza di che? La conoscenza di dio. La conoscenza di tutta questa dimensione extrasensoriale che chiamiamo dio. Tutti i perché e per come dell’esistenza, del perché ci siamo e cosa ci stiamo a fare e cos’è la vita. Le grandi questions dell’umanità. Se non ce le poniamo, allora cosa ci stiamo a fare su questo pianeta per un flash di tempo che nell’eternità è come un battito di mani? Che ragione c’è? Allora ci diamo una ragione, e quella ragione è la conoscenza di dio. Sembra che rispetto al resto della fauna del pianeta dio ci abbia superdotati di pensiero, appunto per raggiungere questa coscienza d’essere. E sembra che l’umanità non l’abbia mai raggiunta. Ci sono stati dei momenti in cui dio ha
mandato delle evidenze da cui è nata questa o quell’altra religione. C’è stata l’evidenza di Shiva, l’evidenza di Buddha, l’evidenza di Cristo o l’evidenza di Maometto da cui in diversi tempi, in diversi posti, si è sviluppata nell’ambiente una religione locale. Parlare di dio era una cosa che pochi portavano avanti, un argomento inusuale fra gli hippie o la gente comune. Guarda che in occidente quando parli di dio ti prendono per matto. Devi girarci tutto attorno, no? Uno difficilmente riesce a parlare di dio. Ecco, devi creare un gradimento nell’ambiente che lo possa avvicinare alla formazione di questa idea. Perché è proprio un’idea, dio. Cos’è dio? Una bhakti, un movimento devozionale, un fuoco, un sogno che devi immaginarti. Non è che lo puoi vedere. Una volta dovevo andare da Mauro che stava in giungla ad Anjuna. Io stavo sul versante opposto, a Vaga. E niente, non avevo mai camminato senza scarpe e quello, sai, è un sentiero un po’ pietroso, bisogna attraversare tutta la collina per arrivare dall’altra parte. Fatto sta che avevo deciso di andare scalzo. Ad Anjuna ci sono arrivato, ma al ritorno cominciava a diventare buio e mi sono ritrovato su questo sentiero che non vedevo dove mettevo i piedi, già ultradoloranti. Allora, mentre scendevo – avevamo la casa proprio in fondo a questa collina –, chiamavo: «Claudia, Claudia, Claudiaaa...!». Era tramontato il sole e a un certo punto è arrivata Claudia con le mie scarpe in mano per darmi supporto. L’aveva capito, era molto ricettiva. Quel Natale, dopo che avevo incontrato Mauro, Claudia mi ha regalato uno shankh, una conchiglia grossa a cui è stata tagliata la cima e uno ci soffia dentro come in una tromba. Vedeva che io ero attratto da questo mondo dei sadhu ed è stato un regalo che ho molto apprezzato. Avevo già avuto degli incontri con diversi sadhu, avevo abitato a Benares, avevo conosciuto parecchi baba in giro per Haridwar, Rishikesh, di qua e di là. I sadhu li notavi da tutte le parti. Una volta con Claudia eravamo capitati a Haridwar, per caso, mentre c’era il Kumbh Mela, che è l’incontro di tutti i sadhu, gli asceti, gli yogi dell’India. Ce n’erano a migliaia! Una confusione della madonna. E niente, c’erano baba che fumavano in tutti gli angoli, nudi, coperti solo di cenere, poi è passata la sfilata: chi si era preso l’elefante, chi andava a cavallo, chi col camioncino, chi a piedi. Om Namah Shivaya, Namah Shivaya, Namah Shivaya! Io non ero ancora nel trip sadhu. Ci facevamo, eravamo andati lì in zona per comprare la roba. Però avevo già i capelli lunghi, le jata, allora questi qui mi si riproponevano, mi si avvicinavano perché sembrava che c’entrassi anch’io.
Ormai avevo proprio voglia di smetterla con le droghe. Claudia invece voleva continuare a farsi. Così, una mattina ho preso lo shankh, la conchiglia dei sadhu che mi aveva regalato, e me ne sono andato. Ho lasciato tutto, casa e cose e soldi e roba e sono andato via. Mi sono tolto le scarpe e sono andato a piedi nudi, con solo una borsetta e una coperta. Che ragione c’era? È proprio un desiderio di purezza, di semplicità quello di abbandonare le case, le cose, il business, non ti pare? E lì è iniziato veramente il sentiero verso la mia vita di asceta. Sono andato alla stazione e ho preso un treno per Hampi, dove non ero mai stato. Avevo un appuntamento con Mauro. A quel tempo non vestivo di arancione, il colore dei sadhu, né vestivo proprio normale coi pantaloni. Avevo il longi, il pareo indiano, ero praticamente senza bagagli ed ero scalzo. Cioè, potevo essere riconoscibile. Ci sono tanti sadhu che non si mettono il colore, però si fanno crescere la barba e i capelli, li riconosci così. Avevo anch’io la barba e le jata, e anche se non ne avevo il titolo volevo semplicisticamente presentarmi come un sadhu, in evidenza. Perché ero senza soldi e senza biglietto e i sadhu si sa che girano così. Ero all’inizio della ricerca, ma sei un ricercatore sia all’inizio che alla fine, no? Quindi non truffavo nessuno. È passato il controllore. «Biglietto.» «Ma io sono un sadhu.» «Ah, tu sei un sadhu?!» Il tipo era abbastanza divertito. «E non sai che i sadhu viaggiano di notte? Di giorno ci vuole il biglietto.» Non sapevo se era troppo vero. «Vabbè, allora come facciamo?» «Tu scendi e prendi il treno di notte.» Il treno si è fermato nella giungla e lui mi ha fatto scendere lì. Non c’era stazione, non c’erano né strade né sentieri, c’era solamente la strada ferrata. O camminavi sulla rotaia, che non era facile, oppure camminavi sulle pietre, che erano taglienti. Io mi ero appena tolto le scarpe, avevo ancora i piedi fragili. Ho camminato dei chilometri prima di arrivare a un villaggio. Ci sono arrivato in uno stato pietoso, coi piedi insanguinati. Mi sono fermato sotto un albero e i locali mi hanno dato subito supporto. Hanno riconosciuto un baba dalla sofferenza. «Ma tu, da dove vieni?!» Io parlavo poco poco hindi, si vedeva che ero straniero. Allora mi hanno dato da mangiare, un tè, ed è subito saltato fuori uno con la ganja e una pipa. Appena è arrivato un treno mi ci hanno messo sopra e così sono arrivato a Hubli. Lì ho cercato il treno che andava a Hospet. Mi hanno detto che partiva dal
primo binario ma non l’ho trovato perché questo binario era più avanti, nella vecchia stazione. L’ho cercato per due ore e alla fine mi sono messo a piangere. Allora è venuto uno che mi ha chiesto cosa c’era. «Perché piangi, baba? Vieni con me» e mi ha portato al treno. Partiva proprio in quel momento e sono arrivato a Hospet, sempre senza soldi. Hospet è vicino a Hampi, per cui sono andato alla bus station dove mi hanno detto che il bus per Hampi partiva ogni mezz’ora e costava una rupia. Ho provato a fare un po’ un giro lì, per la bus station, a chiedere una rupia, ma nessuno me l’ha data. Ebbè, era già quasi il tramonto e ho preso la strada. Sono dodici chilometri per Hampi, non ci voleva nulla a camminare. Ero alla ricerca della Luce, quindi non è che mi formalizzavo. Mi son fermato a dormire in un tempio per strada. Il tempio era sia a destra che a sinistra della strada e la strada passava proprio sotto un’arcata. E lì c’erano i viandanti che si fermavano, i sadhu, o chi, che preparavano da mangiare accendendo i fuochi come fanno gli indiani. Ho bevuto e ho mangiato del riso con loro, mi sono addormentato e la mattina all’alba ho ripreso la strada. Quando arrivavo in un posto bello, tiravo fuori il mio shankh e lo suonavo. Anche se non avevo ancora conoscenza, mi sembrava che il suono mi desse un certo contatto. Si suppone che dio, anche se ha tanto da fare, quando suoni lo shankh ti sente e ti segue. Era un suono celestiale, come il rintocco delle campane, come le trombe degli angeli! La strada era sterrata e ai due lati c’era un’infinità di campi di canna da zucchero. Quindi, sai, la vedevi, la mettevi in bocca, la masticavi ed era come mangiare un’arancia piena di succo dolcissimo. Non hai mai masticato una canna da zucchero? Masticando, masticando, sono arrivato a Hampi, tranquillo. Ho sentito subito la facilità del vivere lì, con questa accoglienza delle canne da zucchero. D’improvviso a Hampi le coltivazioni finivano e iniziava un paesaggio di pietroni immensi attraversato da un bel fiume pulito. Era spettacolare. Tutta una zona di pietre, come essere su un altro pianeta. Si saliva verso un valico, poi c’era un discesone ripido che portava nel paese. Era un posto piccolo, non troppo battuto, con un bazar molto ristretto e delle catapecchie ai lati. La cosa più evidente quando arrivi nel paese è questo tempio di dieci piani, in granito, con tutte le sculture, e mi sono diretto lì. Entrando nel portone, ai due lati, all’ombra, c’erano queste file di poveri che chiedevano l’elemosina alla gente che passava. E niente, quelli erano poveri, io ero senza soldi, avevo fatto tutta la strada a piedi senza nemmeno bere un tè, e mi sono seduto con loro.
Fra i poveri c’era la tecnica che quando qualcuno buttava una moneta, quella veniva immediatamente cambiata e distribuita fra tutti. All’epoca c’erano ancora i paisa, monetine piccoline come i centesimi, quindi se un tipo dava una rupia a chi gli era simpatico e se ne andava, questa veniva divisa in cento paisa e ne distribuivano cinque per uno. Erano organizzati così. Per cui io, senza chiedere niente a nessuno, solamente stando seduto, mi trovavo continuamente con delle monetine davanti. All’epoca mangiare costava una rupia, con riso e verdure ti riempivano una foglia di banana che faceva da piatto. Ho raccolto qualche moneta e sono andato al ristorante. C’erano solo due o tre ristorantini per i locals che andavano a visitare il tempio, turisti ancora non ce n’erano. Dopo pranzo mi sono incamminato verso il fiume, dove c’era il tempio di Rama, e ho rincontrato Mauro. Ci siamo fermati parecchio al Rama Temple. C’era una bella situazione, un andirivieni di devoti e una donna, una sadhuessa, che faceva i servizi ai sadhu. Uno si fermava volentieri, perché la sera preparava una specie di risotto per tutti. Dopo forse due settimane io e Mauro ci siamo addentrati lungo l’ansa del fiume e ci siamo organizzati per la stagione negli antichi templi diroccati nascosti qua e là fra i cumuli di pietroni nella zona. Arrivavi, facevi delle scope con dei ramoscelli, davi una spazzata, toglievi le piante che ci erano cresciute dentro e dormivi. Erano spazi disabitati, pieni di formiche, ragni eccetera. Ci si aggiustava. Mauro aveva già passato del tempo lì a Hampi. Una volta ci aveva passato tre giorni “fuori”, in datura, una pianta che dà fortissime allucinazioni. Prima aveva dato via la sua coperta, poi aveva dato via le ultime due cose che possedeva: i suoi occhiali da vista pesanti, perché ci vedeva poco, e la dentiera. Ed era rimasto in palla finché era arrivata una banda di zingare rajasthane. L’avevano preso fra le braccia, se lo sono messo sulle gambe e gli avevano tatuato un terzo occhio. Per questo lui aveva un cerchio nero in mezzo alla fronte. C’era stato proprio un riconoscimento di santità da parte di quelle donne. Alla fine gli hanno dato una pallina d’oppio che gli ha fatto scendere il trip. Infatti si è ritrovato di nuovo in una dimensione normale, però è rimasto così segnato. Abbiamo vissuto un po’ insieme in quelle rovine lungo il fiume. All’alba si vedevano i panikutta, i cani dell’acqua, come delle piccole foche nere, che stavano sulle rocce e facevano i loro squittii. Forse ci siamo stati qualche mese. Eravamo abbastanza affiatati, io e lui. Avevo trovato un fratello in Mauro. Mauro probabilmente era stato un professore di botanica in Italia. In India faceva esperimenti con tutte le qualità di erbe. Forse il mio primo maestro posso
dire che è stato lui, perché aveva quindici, vent’anni più di me. Insieme abbiamo fatto esperienze di datura. Siamo andati in giro a raccoglierne le foglie e i fiori. Prendevamo solo quelli bianchi, non quelli neri e nemmeno i semi, perché sono più forti e bisogna fare un altro percorso. Mauro aveva una conoscenza molto avanzata della datura e delle tecniche di preparazione. Mi ha insegnato come fare una tisana cuocendola con il legno della pianta secca. È sconsigliabile, se non sei preparato e non sai cosa stai facendo. Magari le altre piante le puoi provare, invece la datura è per i conoscitori. Chi la prende per drogarsi rimane violentato dagli effetti negativi. Però almeno non ti dà assuefazione. Se la fai una volta sei restio a rifarla, perché ti mette in una dimensione così fuori dall’ordinario. Ti porta in una dimensione di spiritismo. L’abbiamo fatta all’aperto, di notte, sdraiati su un pietrone gigante, fuori dal tempietto dove ci eravamo accampati. Sotto c’era il fiume, sopra la luna. «Senti, vai a prendere le coperte dal tempio e portale qua» ha detto Mauro prima di iniziare. «Ma dài, è qua a due passi. Quando siamo stanchi andiamo a dormire lì.» «No, guarda, portale qua, è meglio. E una brocca d’acqua. Così c’hai tutto quello che ti può servire a portata di mano.» Il decotto aveva un odore e un sapore di scarafaggi. Non avevo nessuna esperienza di questo trip. Mi dava confusione. Sentivo tutte queste voci senza sapere da dove venivano. Mentre le altre sostanze ti lasciano nella dimensione ordinaria, la datura ti porta in una dimensione di spiriti, all’incontro con un mondo d’oltretomba. Oltre ai cinque sensi c’è tutta una dimensione dove sembra proprio che questa realtà fisica sia un’illusione. Si cercava quindi di comunicare con queste entità che non si vedevano. Se riesci a sguazzarci dentro, probabilmente ti danno anche i numeri del lotto! Nel momento del trip ho capito che alzarmi e camminare sarebbe stato molto problematico, specialmente per raggiungere un posto preciso. Perdevo la cognizione dello spazio e del tempo, l’equilibrio. Non sapevo più nemmeno camminare. Perché in datura hai percezioni del movimento rotatorio del pianeta. Ahhh, incominciare a sentire la terra che si sposta! Noi siamo talmente assuefatti a questo movimento che non lo sentiamo. Lo recepisci all’alba, quando vedi il sole che si muove, veloce, che saremmo noi poi che ruotiamo verso il sole. In quel momento hai un attimo di percezione di movimento. Poi non lo senti più. Quando lo percepisci, invece, proprio a livello fisico, perdi l’equilibrio, ti sembra di camminare su una palla che gira. Il primo trip è andato avanti tutta la notte e ci siamo addormentati lì fuori
sotto le stelle. Dicono che Shiva mangiava anche la datura. Bhang, datura pindara tindara, Shiva Shiva Shankara... Sono piante di conoscenza. In tutti i tempi i maghi e i ricercatori arrivavano, attraverso le piante, ad altri stati di coscienza e di conoscenza. Il Don Juan di Castaneda appunto è tutto basato su queste cose. Adesso è arrivata la tecnologia e la magia la fa lei. Per cui la vecchia magia, stile Signore degli anelli, è stata dimenticata. Forse gran parte di quella vecchia magia era conoscenza delle piante, dei funghi. Basta pensare all’effetto dei funghi che crescono nei boschi. Ogni tipo di droga nasce dalla conoscenza di un diverso tipo di pianta, no? Una pianta ti guarisce dal mal di pancia, un’altra ti guarisce dalla tosse. La pianta più comune nella zona dell’Himalaya è la ganja, la marijuana, che ti predispone mentalmente a incontrare dio, a guarire dai condizionamenti sociali, che sono un grosso intoppo per l’umanità. A farti sedere e a meditare. Eh, capirai, una società che ha una popolazione che si siede a meditare, cosa se ne fa? Però è proprio questa autocoscienza la funzione e la ragione dell’uomo. Quando si parla di presa di coscienza, si parla di essere coscienti del sole, del nostro girare intorno al sole, del nostro posto nell’universo. Siamo stati un po’ lì con Mauro, soli, a volte con gente che veniva e si fermava con noi. Poi Mauro è ripartito, o sono andato via io, non mi ricordo. C’è stato un po’ di andirivieni. Ma avevamo dei modi d’essere simili, vivevamo più o meno allo stesso modo. Entrambi avevamo lasciato case e cose e mogli per fare quel tipo d’esperienze. Lì a Hampi ho imparato a fare i chilum, le pipe di terracotta, perché c’era un sadhu, chiamato proprio Chilum Baba, che ne era un maestro. Faceva i più bei chilum dell’India. Ho fatto appena in tempo a conoscerlo perché poi si è sparsa la voce e un anno dopo degli hippie lo hanno portato a Goa, dove ha cominciato a ubriacarsi. Questo poveretto si è trovato nella maya, nel mondo dell’illusione, a bere, a fare, a mangiare pesce e uova, quando invece lui era un sadhu, quindi vegetariano. Della serie: tanto fumo e poco arrosto! Si è ammalato, lo hanno riportato a Hampi e poco dopo è morto. Peccato, perché era un artista, uno scultore, faceva delle gran belle pipe con la testa di cobra, di elefante, in tutti i modi le faceva. Preparava un buon miscuglio di nove terre diverse e venivano questi chilum così duri che, secondo la leggenda, a gettarli contro una pietra rimbalzavano. Io ho imparato guardandolo. Il primo anno mi si rompevano sempre. Non avevo la conoscenza della terra, delle sue reazioni: come mai si crepa o si schianta
nel fuoco? Alla fine uno impara. Più la terra è grassa o oleosa, per esempio, e più, seccando, rimpicciolisce e si crepa. Anche un bambino può fare qualcosa con la terra che si compra al negozio d’arte, ma per trovare quella giusta in giungla ci vuole conoscenza. Al limite puoi prenderla da un termitaio. Hai presente i termitai, quelle costruzioni che si trovano in giungla? Le termiti vanno in giro, scelgono la terra chicco per chicco e la riportano lì. È una soluzione veloce per fare un chilum perché non la devi né filtrare né pestare, è già filtrata. È vero che apri una breccia nel loro fortino, ma se lo ricostruiscono subito. Come tu glielo rompi, in giornata proprio, ta-ta-ta, rifanno il pezzo che gli hai preso. Sono incredibili! A sprazzi ci si incontrava con Mauro e ci si riperdeva. Avevamo sentieri abbastanza paralleli. Fino a quando lui è andato in Italia e ci è rimasto qualche anno. Aveva svoltato una ragazzina di ventun anni, lui ne aveva già sessanta almeno. Poi è ritornato in India con lei e ci teneva a trasmetterle qualcosa. Stavano vicino alla frontiera col Maharashtra, in una capanna lontano da Goa e da tutti gli ambienti freak e hippie, perché se no gliela travolgevano questa ragazza. Lui la faceva stare in un villaggio sperduto e lei non capiva niente di niente. Non c’era nessuno che parlava inglese, erano pescatori. E lui andava, comprava, faceva le cose. Be’, un giorno ha preso l’autobus al volo, si è aggrappato alla maniglia della porta, all’indiana, all’ultimo momento. Il bus era pieno e a una curva lui è caduto ed è morto. Va’ a capire. Si è pagato questo risvolto karmico. Per cui non se l’è goduta per tanto, lei è rimasta vedova subito. Il fachiro l’ho visto mentre andavo a Hampi. Mi piaceva ancora andare “in città” per bere uno yogurt dolce, prendere dei biscotti, questo e quell’altro. Le proposte del mercato. Lui invece non andava mai a Hampi, che era a pochi chilometri di distanza. Restava sul fiume. C’era una piccola moschea musulmana con un gruppo di alberi intorno e un grottino dove stava lui. Stava lì, o stava da qualsiasi altra parte. Non aveva bagagli. Solo una semplice canna da pesca. Girava, metteva un fazzoletto per terra, tipo materasso, e si fermava. Era piccolino, secco, vestito con un longi, e aveva questa copertina verde che di giorno si metteva in testa a mo’ di turbante, e di sera si metteva sulle spalle. Lui capiva i posti dove pescare. Stava sul costone del fiume dove l’acqua è mossa, tipo torrente, e i pesci viaggiano. Non pescava mai più di cinque minuti. Entrava nell’acqua appena fino alle ginocchia, buttava l’esca e un pesce abboccava. Giusto quanto gli bastava. Dopo che l’ho incontrato sono andato con lui e siamo stati insieme un mese o due. Però a me non mi ha fatto una canna da pesca.
Entrava nell’acqua lui e pescava due pesci – eravamo in due. Anch’io a quel tempo non ero troppo vegetariano, come invece lo sono molti hindu. Facevamo il pesce fresco alla brace. Lui accendeva il fuoco con una pietra focaia. Anche i chilum li accendeva così. Ci vuole pratica per accendere il chilum con la pietra focaia, ma lui lo faceva più rapidamente di uno col fiammifero. Aveva la tecnica di metterci sopra una paglietta secca, che è ricettiva alle scintille e brucia subito. Aveva i capelli non troppo lunghi ma incolti e la barba. Senza barba hai un look più sociale. Però non è naturale. Perché naturalmente dio ci ha dato la barba e tagliarla sembra una violenza. Alle donne non l’ha data. Se voleva che non avessimo la barba non ce la dava nemmeno a noi. Questo omino aveva sempre addosso qualcosa di verde, una sciarpa verde, il longi verde o il turbante. Di solito si vestono di verde, i baba musulmani. E si chiamano fachiri. Era una bella persona, un personaggio. Viveva nel suo piccolo. Era senz’altro una bella evidenza così com’era, uno in grazia di dio. Nel primo anno a Hampi mi sono arrivate cinque malarie. Chiunque altro avrebbe preso paura e se ne sarebbe andato. Ma io sono restato. Se dio me le manda, vuol dire che me le merito. Allora me le prendo. Mi è successo di stare anche un mese senza dottore o medicine, con questi attacchi di febbre tutti i giorni. Mi sono visto la morte vicina, davvero me la sono vista. Anche se fuori faceva caldissimo, io sentivo freddo, ero scosso dai brividi, avevo bisogno di più di una coperta e continuavo ad aver freddo. Poi diventavo caldo, sudavo, e mi passava. La malaria non è come una malattia vera e propria, che hai sempre la febbre. Stai male per due o tre ore durante la crisi, però finiti gli attacchi sei normalissimo. Non ci pensi più. Puoi mangiare, girare. Tutti i giorni la febbre mi saliva a quarantuno, andava via e stavo bene fino all’indomani, quando mi tornava alla stessa ora. La prima volta non ci pensavo di andare dal dottore, non sapevo nemmeno che era malaria. Però sulla lunghezza queste scariche di febbre ti sfiancano, specialmente in un posto così caldo. Mi venivano delle visioni. Più che visioni, delle confusioni di pensiero. Pensavo cose assurde, che non esistevano, avevo dei flash: un topo che mi camminava sulla faccia. “Ma cosa sto pensando?!” Sentivo proprio la mia mente andare. Allora stavo lì, bagnavo uno straccio nell’acqua fresca e me lo mettevo sulla fronte. Quando si riscaldava, lo giravo dall’altra parte. L’unica medicina per non impazzire quando si è soli con la febbre
alta è questa. Dopo un mese è passata da sola. Come con tutte le cose, ci sono degli anticorpi che lavorano per noi. Poi ho imparato a riconoscerla, la malaria, e la debellavo con il chinino. Però sembra che se la prendi una volta, ritorna. A me tornava tutti gli anni, di solito nella stagione del vento, prima che porti le nuvole del monsone, quando fa caldo caldo e ancora non piove. Pian piano Hampi è diventato il mio posto. Ci tornavo ogni anno. Sono stato parecchio dall’altro lato del fiume Tungabhadra, là dove ora arrivano con le barche. A quel tempo lo si attraversava a guado dove l’acqua non era troppo alta. Ma la corrente era forte e bisognava spogliarsi e mettersi le cose sulla testa, con l’acqua che ti arrivava fino alle spalle. Spesso era più facile andare a nuoto. Ho vissuto in tutti quei templi lungo il fiume perché in quel periodo a Hampi non c’era nessuna camera disponibile, nessun albergo. La gente che ci andava era disposta a vivere in giungla, sulle pietre al lato del fiume, all’aperto. C’era un tempio diroccato dove andavo sempre. Cominciavo a farmi conoscere dai local che passavano. Venivano a portarmi il latte al mattino o la frutta, o che. Si sapeva che ero lì, quindi venivano. Facevo da mangiare, la gente arrivava intorno a me perché creavo atmosfera, facevo situazione. Avevo già vissuto, ero già stato in India un po’, ero già stato dentro, fuori, e, anche se non ero ancora un maestro del fuoco, avevo una certa conoscenza.
FUOCO
Quando ero ancora all’inizio del sentiero, agli albori, mi sono trovato in montagna, dalle parti di Kullu-Manali. L’Himalaya è una zona bella perché l’erba cresce dappertutto, è una pianta infestante per loro. Ma quella regione era particolarmente famosa fra i freak perché c’era una produzione di fumo speciale. Be’, io mi sono trovato lì perché mi ci aveva portato un freak inglese che girava col suo camper, attrezzato con lettini e cucina. L’avevo incontrato a Rishikesh. Abbiamo viaggiato insieme tutto il giorno e finalmente, passato il paese di Mandi, siamo usciti dalla strada e abbiamo parcheggiato lungo il fiume. Era un fiume fresco, irruente, con la schiuma bianca. Ci siamo fermati lì sulla sabbia, abbiamo fatto da mangiare e ci siamo addormentati. Al mattino, dopo un tè, colazione eccetera, lui mi dice che ha questi trip portati dall’Inghilterra. Allora prendiamo un acido per uno e guardiamo le montagne imponenti intorno a noi. Il trip è salito in una mezz’oretta, poi non so quali visioni ha avuto lui, gli avrò fatto una battuta, una parola tira l’altra, non capisco bene che succede, fatto sta che a un certo punto questo si accende, impacchetta tutto, mette in moto il camper e se ne va via. Mi molla lì, così. Vedo questo furgone sparire e mi ritrovo in mezzo alle montagne, senza soldi e ancora sotto acido. Per cui niente, ho imboccato la strada e ho continuato ad andare dritto. Sapevo che c’erano ancora sessanta chilometri per Kullu. La strada era scavata nel costone della montagna e andava su ripida. Ma io camminavo deciso. Cammina, cammina, cammina, non incontro nessun’anima. Finalmente arrivo in cima a una collina e non c’è niente, solo un vento forte che mi fischia nelle orecchie e mi entra nelle ossa. Poi, lungo la strada, vedo un santuario con dentro una statuina. Era in pietra, sollevato da terra, forse un metro per due, tipo tomba. Allora mi sono raggomitolato lì dentro, accanto alla statuina, per riposarmi. Dopo un po’ sono arrivati due local. «Che fai qui?» «Kullu!»
Mi hanno detto che mancavano ancora venticinque chilometri, ore e ore di cammino. «Perché non ti fermi e mangi qualcosa con noi?» «Kullu, Kullu, Kullu...» continuavo a ripetere, come se fosse un mantra per raggiungere il paradiso. Anche perché non parlavo hindi più di tanto, per offrire maggiori spiegazioni. Ho proseguito e nel pomeriggio sono passato da un paesino. Avevo camminato per quaranta chilometri e la gente mi vedeva arrivare a piedi, che mi trascinavo stanco e tirato. «Vieni qua, beviti un tè!» ho sentito. Allora mi sono fermato. E niente, questo vecchietto è venuto lì e si è messo a farmi un massaggio alle gambe indurite. Mi ha rilassato tutti i muscoli. Era completamente nuovo per me, era la prima volta che uno sconosciuto mi faceva una cosa così. Non comprava niente, non vendeva niente. È stata una bella emozione, d’offerta, vera, una dimensione di amore. A me mi sembrava di prendere questo massaggio a truffa! Non capivo bene, non conoscevo ancora questa devozione, che è la devozione per i sadhu, la devozione di quando incontrano uno che fa una cosa così, di cui l’unica ragione è il farla per dio. L’unica ragione è il fachirismo, la mortificazione della carne. Lo riconoscono, loro, che sono atti di devozione. È una dimensione che conoscono anche loro, quella della sofferenza, per cui ti danno subito una mano. Nel riconoscimento della dimensione di dio. Se vai con i soldi è tutta un’altra cosa. Uno senza soldi, invece, che gira a piedi nudi, se non è nella dimensione di dio in che dimensione è? Della ricerca, almeno. E loro in quei momenti di riconoscimento fanno la seva, il servizio al sadhu, al dio che è in lui. Sanno che rendendo un servizio a dio, o a chi è nella sua dimensione, entrano in quel movimento anche loro. Dopo il massaggio ai piedi riprendo a camminare. Cammina, cammina, dopo parecchi chilometri mi ritrovo finalmente a Kullu. Quando arrivo nel paese chiedo in giro se c’è un tempio dove posso stare. Quelli mi guardano, ero come uno zombie. «Vai al Bhutnath, dove bruciano i morti!» Il Bhutnath era un tempio lungo il fiume, un po’ fuori dal paese. Mancavano ancora un paio di chilometri e ho arrancato fino a lì. Era già dopo il tramonto e veniva buio quando sono arrivato. Ero senza scarpe, vestito con il longi. Preferivo andare in giro in longi in India, mi sentivo più a mio agio. Poi ero già nel trip della liberazione, cioè viaggiavo come i sadhu, anche se
non lo ero. Sotto una grossa tettoia c’erano tanti sadhu. Stavano a gruppi attorno a dei fuochi e preparavano la cena. Quando mi hanno visto arrivare in quelle condizioni, esausto, i baba mi hanno accolto subito come uno di loro. «Ah, baba, baba vieni!» Mi hanno fatto sedere e mi hanno servito la cena. «Tu non andare da nessuna parte» mi ha detto il guru. «Dormi qua accanto al dhuni!» Mi ha indicato un posto proprio accanto al fuoco sacro. Era un posto d’onore. C’era un riquadro in terra, con un tridente di Shiva infilato dentro e un fuoco che veniva tenuto sempre acceso. Tutti gli altri sadhu avevano il loro posto fuori, sotto la tettoia, ma lui non mi ha messo con loro, mi ha fatto fermare proprio lì al dhuni. Era un gesto significativo, voleva dire qualcosa nella loro scala dei simboli. Nessun altro dormiva lì. «Se uno va in giro così» aveva detto il guru del tempio, «se è venuto da lontano a piedi nudi, senza coperte, allora è attraversato da dio.» Aveva visto subito che ero vestito leggero, che non avevo bagagli a parte una borsettina con quasi niente dentro. Ed ero provato, paralizzato dalla stanchezza. Tra l’altro arrivavo dal sud, per cui avevo solo una copertina leggera che certo non bastava. Faceva freddo lassù. Quindi mi hanno dato delle coperte per dormire. Arrivi e trovi amore. Loro lo sanno che le pietre per la strada sono taglienti e che dopo aver camminato un giorno ne hai due palle così, per cui ti devono dare supporto, non ci sono storie! Oltre il nome e la forma, oltre il fatto che ero straniero, per loro rappresentavo un’evidenza. Quando mi sono risvegliato non potevo più camminare. Le gambe mi facevano male, la schiena mi faceva male, ero completamente snervato, non riuscivo a muovermi. Sono stato tre giorni bloccato al Bhutnath di Kullu. Poi sono rimasto altri dieci giorni. Era la prima volta che mi fermavo così vicino a un dhuni. I sadhu li conoscevo ormai, li avevo incontrati in tutta l’India, ma non mi avevano mai accettato, mai mollato accanto a un loro fuoco. Di solito ai dhuni si fermavano solamente i baba, il pubblico lo facevano stare a distanza. Infatti, in tutti gli altri templi dove ero andato prima, mi avevano consigliato di stare lontano dal dhuni. Era una difesa, quella di tenersi lontani, per non sbagliare, questo lo avevo imparato. Perché come buttavi una minima cosa, un fiammifero o che dentro al loro fuoco, ti partivano dei casini! «Nella cenere di chi metti i tuoi rifiuti?!» Il dhuni era un avamposto dei baba. Quindi, facendomi dormire lì, per la prima volta mi vedevano come un baba. Per me voleva dire qualcosa. Quella è
stata un po’ la mia iniziazione. Da lì ho iniziato a sentirmi un po’ sadhu anch’io. Da lì ho cominciato a frequentare i templi. A Kullu ho visto da vicino la cura del dhuni. Il sadhu si sedeva accanto al fuoco e produceva la cenere purissima che poi veniva data al pubblico, ai pellegrini, ai devoti. A chiunque arrivava, lui faceva un marchio con questa cenere sulla fronte o gliene metteva in bocca un pizzico, tipo ostia. I baba che passavano, soli o in gruppi, venivano lì e si sedevano attorno. Era proprio un punto di devozione. Ogni mattina il sadhu puliva bene tutto attorno, setacciava attentamente la terra mischiata alla merda di vacca, ci disponeva sopra dei fiorellini. Come toccavano il dhuni, come lo curavano era tutta una scoperta. Il dhuni è un fuoco acceso per devozione. È come avere una statua di dio in movimento. È lì che all’alba e al tramonto si fa la puja, la cerimonia religiosa. Perché il dhuni è l’elemento fuoco. E il sole cos’altro è? Quindi, quando fai la celebrazione al dhuni è come farla al sole, al dio Sole. Il sole nella tradizione hindu è molto considerato. C’è il saluto al sole nello yoga eccetera, e tutti i sadhu hanno una devozione particolare per il sole, perché vivono all’aperto. La luna ha un altro tipo di importanza, è legata a noi, è un nostro satellite. Mentre il sole è il padre di tutti, no? Gli giriamo intorno assieme agli altri sette fratelli, i pianeti. Adesso non mi ricordo da quale baba ho sentito questa storia. Forse me l’ha raccontata Mauro. Lui raccontava cose così. Allora c’era sto brahmano che aveva un pappagallo del Kerala. Lo curava con amore e lo teneva in una gabbietta tutta di fili d’oro. Ogni mattina gli dava il biscottino, l’uvetta, l’insalatina, il miglio, i pakora. Tutto quello che di buono facevano in casa, lui lo dava al pappagallino. A un certo punto il brahmano deve partire per il suo business. «Senti, carissimo, io devo andare nel Kerala e lì ci saranno tutti i tuoi amici. Se li incontro, gli devo dire qualcosa?» «Sì, sì» dice il pappagallo. «Racconta a loro di come sto bene qua, in questa gabbietta tutta d’oro, con il biscottino e l’uvetta e l’insalatina e tutte le cose più buone che hai.» «Va bene, prometto che glielo dirò.» Attraversando un bosco nel Kerala il brahmano incontra uno stormo di pappagalli. «Ehi, ehi, venite! Venite che devo parlarvi!» Allora un pappagallino scende e si posa sul suo braccio. «Senti» dice il brahmano. «Io ho un pappagallo piccolo così, colorato così,
esattamente come te. Mi ha detto di salutarti e di dirti che lo tengo in casa mia, in una gabbietta tutta d’oro e gli do il biscottino e l’uvetta e l’insalatina e tutte le cose più buone che facciamo in casa, e lui è felice...» Mentre parla così, il pappagallo strabuzza gli occhi e cade per terra con le alette spalancate. Il brahmano raccoglie quel corpicino nelle sue mani. «Ma cosa gli è successo, come mai è morto?! Cosa gli ho detto? Gli sarà preso un colpo al cuore a sapere come stava bene il suo amico ed è morto di felicità?!» Triste e perplesso, il brahmano ritorna a casa e va subito dal suo pappagallo. «Senti, carissimo, io ho incontrato il pappagallo amico tuo nel Kerala e gli ho raccontato quanto stavi bene, come ti curavo, cosa mangiavi e come stavi in una gabbietta tutta d’oro. Tutto, gli ho detto. E lui ha strabuzzato gli occhi ed è caduto in terra morto!» A sentire questa storia il suo pappagallino, che dondolava sul trespolo della gabbietta, stramazza sul fondo ad ali spalancate. Il brahmano prende la chiavetta d’oro, apre la porticina, tira fuori delicatamente il pappagallo e lo posa sul tappeto. Si mette lì a mani giunte. «Dio mio, dio mio, che cosa ho fatto, che cosa ho detto?! C’è una epidemia di pappagalli, mi muoiono tutti tra le mani.» È disperato. Chiama la cameriera. «Sita, Sita, un lenzuolino! Sita-a-a, dove sei?» Ma visto che non c’è risposta, corre nell’altra stanza e prende un lenzuolino bianco per coprire il morticino. Quando ritorna, il pappagallo non c’è più. «Caro, carissimo pappagallo, dove sei?!» «Sono qua!» risponde il pappagallo dal davanzale della finestra. «Vieni qui...!» Ma il pappagallo si butta e vola via nel cielo gridando: «Lasciatemi morire, lasciatemi morire!». Questo “Lasciatemi morire!” è il mantra che dico di più. Uno deve darsi assente, darsi morto per la società per essere libero. Quando ho ricominciato a muovermi ho lasciato quel posto dove mi avevano accolto così bene e sono arrivato finalmente al paesino di Manali. C’era un altro tempio lì, con al centro un dhuni, allora sono subito andato a sedermici vicino. «Chalo, chalo!» Il baba del posto si è messo a urlare e mi ha cacciato immediatamente. Ma mi era talmente piaciuta l’atmosfera accanto al dhuni di Bhutnath, ben curato, con la merda di vacca messa fresca tutti i giorni tipo intonaco, che ho deciso di farmene uno mio. Il mio primo dhuni me lo sono costruito a Dhungri, vicino a Manali, in una
casetta col tetto un po’ crollato che avevo trovato. Mi sono messo dal lato sano, ma quando pioveva l’acqua entrava comunque nella stanza. Dopo un po’ è arrivata anche Claudia, per conto suo. Lei era rimasta a vivere a Goa, ma ci vedevamo ancora, a tempi alterni. Claudia, però, non era in rinuncia, ed è andata ad abitare in una locanda vicina, perché da me ci pioveva. Ho acceso questo fuoco e curavo la cenere. Toglievo le braci nere, la ripulivo dai pezzi non bruciati, mi creavo una conoscenza di quale legna bruciare e delle tecniche per produrre la cenere più bianca. E mi creavo una conoscenza del fuoco, dell’elemento stesso. Ci devi vivere insieme, lo guardi nelle sue espressioni, come reagisce, come si comporta, come fai a tenerlo acceso tutta la notte. È un alleato, il fuoco, vedi? Riempie l’ambiente. È una casa, ci sono luce e calore ed esistenza. Tutto. Può crearti un tè o può bruciarti le mani. È creazione e distruzione, come Shiva, come dio. Vaglielo a chiedere a quelli dell’età della pietra quando hanno scoperto il fuoco cos’era per loro! Per me il fuoco del dhuni era una grande compagnia. Ci potevo stare delle ore a osservarlo, come una televisione. C’è chi ci ha passato la vita. I fuochi li avevo accesi da tutte le parti, per farmi da mangiare. Ci mettevo tre pietre intorno, una pentola sopra e cucinavo. Però non avevo ancora il concetto del dhuni come una goccia di sole in terra. Questo invece era un dhuni vero, come me lo avevano trasmesso nei templi. Avevo fatto un buco in terra per contenere la cenere e attorno avevo steso un pavimento di merda di vacca per sterilizzare. Se no, quando fai da mangiare ti cade una goccettina oggi, una domani, fai un tè e ti cade un po’ di zucchero, arrivano le formiche e dopo due giorni devi scappare. Quando hai un dhuni, prima di mangiare un pezzetto di quello che hai cucinato lo offri sempre al fuoco. Così il cibo viene consacrato. Il resto lo distribuisci come un’ostia a tutti quelli che ci sono intorno. La gente veniva, poca o tanta. E allora, sai, per chi ci crede in quel momento è una parte di dio che ti metti dentro. Se non ci credi, che senso ha? Mica mangi l’ostia per riempirti lo stomaco. Devi avere la coscienza che ti va nello spirito, che è un nutrimento di dio, un suo potere che entra in te. E dio, cos’è? È un’idea, una visione. È questa visione che bisogna raggiungere, elaborandola, cercandola, no? Anche solamente muovere un’informazione nella ricerca dell’idea di dio... È questo il sentiero. Qui a Dhungri mi sono dichiarato sadhu. Senza avere nessuna regola precisa.
PRIMO GURU
Al mercato di Bombay mi sono comprato un gilet e un longi arancioni. Al mio dhuni a Dhungri mi ero già fatto una collana di pietre e semi di rudraksha, tipo rosario. E giravo così, perché i baba si vestono così. Ero un esteta nel vestire, un modaiolo, avevo sempre scelto modelli e tessuti particolari, anche quando ero in Italia. Avevo fatto il vetrinista e andavo, come si dice, all’ultimo grido. Camminavo nel quartiere vicino all’albergo dove stavo quando mi si è avvicinato un sadhu indiano. «Ok, tu sei vestito da baba, hai il rosario, di qua e di là. Ma che pensieri hai portato avanti?» Parlava bene l’inglese. Sono ben pochi i sadhu che parlano l’inglese, e quelli che lo sanno sono abbastanza strani. Questo si chiamava Ganesh Baba. Era uno che svoltava, lì, fra gli hippie. Si appostava dove facevano i succhi di frutta e tutti gli hippie che passavano gliene offrivano uno. Dopo quattro o cinque non aveva più bisogno di mangiare. Ma era un baba, per cui poteva trasmettere un minimo di informazione a quelli che altrimenti non avevano nessuna chance di capire. «Perché ti metti questo colore?» mi ha chiesto. «Chi è il tuo guru?!» «Ma che guru? Io non ce l’ho.» «Allora cosa fai col colore?» «Sono andato al mercato, mi sono comprato il longi di questo colore e me lo sono messo.» Questo mi ha guardato negli occhi con grande verità. «Guarda che non è così!» E aveva un’espressione... come a dire: “Ma che cazzo fai? Tu ti vesti così solo per l’estetica, ma noi mica stiamo giocando. Vedi di essere vero”. Quando ti metti il colore, la gente ti tocca i piedi. Me lo sentivo che ero una truffa, che non ero pronto. Quindi a un certo punto ho maturato che la ricerca doveva portare più avanti, no? Non è che uno faceva il sadhu per finta perché era bello mettersi quei colori. Cioè, è come se da noi uno si veste da prete senza essere un prete, capito? Non ha senso. Già i più di quelli che si vestono da prete non
sono preti in potenza, sono mestieranti. Però al limite loro hanno la licenza perché hanno fatto il seminario. Io non avevo nemmeno fatto il seminario. Allora lì c’è stato un crac nella mia mente, una presa di coscienza, mi sono tolto quei vestiti arancioni e non mi sono più messo il colore per molto tempo. Più in fede credevo e più dio mi faceva capire e avanzavo sul sentiero. Ho trovato il primo guru a Bombay, quando avevo una trentina d’anni. Il mio viaggio nel dharma, nella religione, lì è diventato più consapevole. Ci tornavo spesso a Bombay e a un certo punto ho rincontrato questo Ganesh Baba che mi ha portato a Banganga, un quartiere di Bombay dove c’è un laghetto sacro circondato da templi, sopra Chowpatty Beach. Lui abitava lì, proprio sul lago, e niente, mi ha presentato un attimo all’ambiente. Come sono sceso giù per la scalinata, sulla sinistra, ho visto quest’altro baba che stava sulla porta del suo tempietto aperto. Aveva un canone grossissimo e gli dava da mangiare in un piatto. Chiaramente questo cane era vegetariano, leccava il riso e mentre lo leccava il riso andava fuori. Il baba velocemente raccoglieva tutti i chicchi e glieli rimetteva nel piatto, fin quando il cane non aveva mangiato tutto. Lui praticamente mangiava con il cane, con più attenzione per il cane! E proprio dall’espressione della sua vita, da come dava da mangiare al cane... Cioè, un santo lo vedi da come si adopera, da come lava un bicchiere. Il Buddha lo chiamavano “il Perfetto”. Come si può raccontare questa perfezione? La vedi nella sua espressione, nel suo modo di essere, nella luce che ha e nel modo in cui si relaziona con quello che gli sta attorno. Mi sono messo a parlare, a fumare con questo babetto, che non mi ricordo un attimo come si chiamava. Dovrei ricordarmelo. In ogni caso, era uno sui cinquant’anni e dicevano che era un maestro di ektara, uno strumento apparentemente molto semplice fatto da un bastone attaccato a una grossa zucca, che funziona come cassa di risonanza. Un po’ come una chitarra, ma con una corda sola. Era una bella persona con cui fumare un chilum. Gestiva questo tempietto, preparava da mangiare, faceva la puja a Krishna e viveva in quel piccolo spazio. Ebbè, si mangiava, si fumava, si stava insieme e di tanto in tanto arrivava il pubblico che visitava il tempio. Io non capivo ancora l’hindi abbastanza da poter comunicare bene con lui, e lui non parlava una parola di inglese. Però si era stabilita una bella vibrazione. Non c’era bisogno di dirsi più di tanto. Io non sono mai stato un grande parlatore. Seguivo un po’ che aria tirava. Lui non suonava mai lì. Però un giorno mi ha detto che lo avevano chiamato a
esibirsi in un grande tempio in città. «Dài, vieni con me» ha detto. Ci siamo trovati insieme ad altri musicisti con tabla, tamburi, cimbali eccetera, e il guru suonava il suo strumento a una corda e cantava questi canti di preghiera con grande trasporto. I musicisti e il pubblico lo seguivano, le canzoni diventavano sempre più emozionanti, sentivo che mi prendevano. A un certo punto, quando lui ha intonato un canto a Shiva, tanta è stata la mia emozione che sono scoppiato a piangere rumorosamente. Per cui i musicisti hanno smesso di suonare, il pubblico ha smesso di cantare e tutti un po’ stupefatti hanno indirizzato l’attenzione su di me. In quel momento è saltata la luce. Così mi sono ritrovato al buio. Mi sono alzato e ho cominciato a brancolare nell’oscurità, di qua, di là, senza vedere assolutamente niente, singhiozzando. “Ma dove vado?!” mi sono chiesto. Non vedevo dove mettevo i piedi, per cui mi sono seduto per terra con le gambe incrociate. Improvvisamente è tornata la luce e mi sono ritrovato proprio davanti a un lingam, una grossa pietra liscia e nera, simbolo fallico di Shiva, infossata almeno di un metro e mezzo nel pavimento davanti a me. Se avessi fatto un altro passo sarei caduto sul lingam, di faccia! Niente, ora che si erano riaccese le luci tutti mi guardavano sorpresi e discutevano animatamente fra loro. Sembrava che dio mi avesse condotto proprio sul bordo di questa fossa del lingam e poi mi avesse fermato. Dal gruppo di brahmani che officiavano la cerimonia questo è stato considerato un fatto quasi miracoloso. Alla fine sono sfilati uno a uno davanti a me, in riconoscimento della parte che avevo avuto nel dramma. A mani giunte si inchinavano e lasciavano un’offerta ai miei piedi: chi dieci rupie, chi venti, chi cinque, chi due. Avevo avuto questa emozione positiva, secondo loro, perché ero stato attraversato da dio. Per cui dovevano fare questa offerta simbolica all’evidenza. È stato come un riconoscimento popolare che ero sul sentiero. Mi ha spronato a continuare. È stata anche la prima volta in cui mi sono visto fare un’offerta. Con questo pianto mi sono liberato di tutto e mi sono sentito ormai accettato come uno di loro. E il guru suonatore di ektara mi ha chiesto di restare con lui al suo tempio. E così, per un anno mi sono fermato a Bombay, a Banganga, sulla collina sopra la spiaggia di Chowpatty. Niente. Lui mi ha insegnato cos’è il lingam e come si siede uno yogi e come ci si sveglia al mattino e si fa la puja. Anche se io non partecipavo, perché non ci si capiva troppo a parole, guardavo i suoi movimenti. Mi ha dato le prime indicazioni.
Gli insegnamenti di un guru, più che in quello che dice, stanno in come si adopera. Nel suo modo d’essere, in questa tranquillità di spirito nello svolgere le sue funzioni, anche nel lavare i suoi secchi in uno spazio così piccolo. Mi ha dato anche un nome. Gliel’ho chiesto io. Perché ero già nel trip sadhu, più o meno, per cui molti baba che mi si avvicinavano mi chiedevano: «Tu come ti chiami?». «Mi chiamo Cesare.» «No, il tuo nome religioso.» «Il nome religioso non ce l’ho...» Tante volte mi era capitato. Non avere il nome, nella società dei sadhu, è visto male, perché è dal nome che capiscono a quale gruppo appartieni. «Ma chi è il tuo guru?» «Il guru non ce l’ho.» Sembrava invece che fosse indispensabile avere un guru, tutti me lo chiedevano. Quindi, visto che le cose si erano sviluppate così, mi sono rivolto a lui. «Senti, dammi subito un nome, così a chi mi chiede come mi chiamo gli si mette il cuore in pace!» Allora lui mi ha dato l’iniziazione. Non era proprio un’iniziazione, perché quella arriva più lentamente. Ci vogliono almeno due o tre anni di solito. Ma almeno lui mi ha dato il nome. Mohan Giri. Andavo e venivo, l’anno dopo sono anche andato in Afghanistan e al guru gli ho portato delle sigarette buone. Sono restato con lui un po’ di tempo, fin quando non ho conosciuto una ragazza. Io vivevo per lo più al tempio. Stavo dal guru, mangiavo con lui, facevamo la puja con i local. Però mi identificavo ancora con gli hippie. Perché il fumo, le cose e i soldi il guru non me li dava. Allora prendevo l’autobus e andavo a Colaba, nel quartiere turistico di Bombay, dove c’era tutto il raduno dei freak. Lì svoltavo fumo, cose, soldi, perché ero uno svoltone in pista. Dopo forse un anno e mezzo è successo che un giorno, durante un mio giro a Colaba, ho conosciuto una ragazza. Quella sera non ho mangiato con il guru. Avevo portato questa ragazza al tempio, ma non volevo farla dormire lì dentro, per cui ho chiesto al guru di darmi la padella per cucinare in riva al lago. Lui mi ha dato tutte le cose che mi servivano e con questa ragazza siamo andati al laghetto lì vicino, abbiamo mangiato e dopo un po’ ci siamo infilati sotto una coperta provocando strani sommovimenti. All’indomani sono ritornato al tempio e il baba non c’era. Sono tornato il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Ma il baba era partito e non è più tornato.
Non ho mai più ritrovato il mio primo guru.
PRIGIONE
Erano già diversi anni che ero in India, clandestino, quando ho avuto il mio primo caso di “No passport”, e sono finito in galera. Ero tornato su in montagna per la stagione, al mio dhuni nella casetta col tetto crollato, ed è arrivata la polizia. «Passport!» No passaporto. E mi hanno portato via. Questa è stata la prima volta che sono andato in prigione in India. Da lì è iniziata la mia via crucis, questa storia di “No passport”, con un pacco di prigioni a sei mesi per volta. Ma cos’è il passaporto? Non c’è proprio scritto nei dieci comandamenti che bisogna avere il passaporto, no? In India comunque lo prendevo bene, questo fatto delle prigioni. Non era un grosso shock. Quando entravo mi davano delle coperte e io mi facevo il mio lettino. A Kullu ce ne davano sette o otto, di coperte. Ne mettevi due sotto e cinque sopra. Faceva freddo, su in montagna, pioveva, nevicava, c’era umidità. Poi le celle erano aperte, avevano le finestre con le sbarre ma senza vetri. Era come dormire fuori. Già dall’inizio ero abituatissimo e poi, appunto, qui era anche facile trovare le cose da fumare. Nella prigione di Kullu le guardie stesse portavano l’erba. Te la facevano pagare il doppio di quanto la pagavano fuori, ma era sempre poco. Poi lì le piante di ganja crescono dappertutto lungo la strada, violente. È proprio una zona così. Quando mi tiravano fuori per il processo (ogni dieci giorni, praticamente, poi rinviavano) bastava che chiedessi al poliziotto di scorta «Faccio la pipì», e lui mi accompagnava dietro al tribunale e anche lì c’erano le piante alte cinque metri. Facevo presto, le strappavo e me le imboscavo nella camicia. Quando ritornavo in carcere le mettevo sotto il materasso a seccare. Cioè, era un po’ più accettabile la prigione, lì. Quando avevo l’erba stavo tranquillo. Quando non avevo l’erba non rientravo in cella, facevo resistenza passiva. «Senta, lei faccia come vuole» dicevo al giudice, affrontandolo a viso aperto. «È il suo lavoro. Consideri solo che io sono un baba e i baba fumano. Quindi, dove
mi mettete mi sta bene, purché mi diate l’erba.» Ero deciso. Non avevo l’espressione sottomessa di quelli che gli andavano davanti guardando il pavimento perché avevano il mito del giudice che decide la vita e la morte. Io ero palpitante. E il giudice me la dava. «Comprategli due tole di erba» diceva alle guardie, «e riportatelo dentro.» Così si sentiva la coscienza a posto. Sembrava che gli fossi simpatico. Forse perché non mi interessava chiedere “Quando esco, come esco?”, come facevano tutti. A loro uno così può sembrare un siddha, uno incurante della vita. Uno che non ha bisogno di altro che di un po’ d’erba che si comprava per poche rupie al mercato vicino e le cui piante sfioravano le mura stesse della stazione di polizia di Kullu. Avevo abbastanza spazio dentro e mi sono messo a fare i chilum di terracotta, come avevo imparato. Con tutte le terre in fondo si possono fare i chilum e io usavo quella che trovavo dentro al carcere. C’era uno dei guardiani di notte che fumava e gli avevo modellato questo chilum che gli volevo regalare. Però prima bisognava cuocerlo, no? «Dammi della legna e lo cuocio qua nella cella» dicevo. «No, dentro la cella è vietato dal regolamento. Non si possono accendere fuochi.» Allora l’abbiamo acceso fuori dalle sbarre, al confine fra dentro e fuori. Io ero dentro con altre dodici persone, lui era fuori. Abbiamo cotto il chilum e poi l’abbiamo fumato insieme. Cotto e fumato. Dopo un mese e mezzo a Kullu, mi hanno fatto il processo, mi hanno condannato a sei mesi e trasferito al carcere di Dharamsala. Lì avevo una cella tutta per me e sono riuscito ad accenderci un dhuni. Il segreto della legna? C’erano i cuochi della cucina che quando avevano finito di cucinare rimanevano con tutta questa brace e la portavano a me. Poi c’erano quelli che andavano a lavorare nell’orto e che zappando trovavano qualche pezzetto di legno. C’era tutta la popolazione che si adoperava per questo fuoco, perché era l’unico dhuni acceso nel carcere. Se qualcuno voleva riscaldare qualcosa, o fare un tè, veniva lì da me, perché poi avevo anche lo zucchero e le spezie. Mi ero organizzato per mettere insieme qualche soldo facendo chilum che vendevo all’esterno. Quando per esempio mi portavano incatenato dal dottore, si dovevano fare due o tre chilometri di strada a piedi e, non sempre, ma a volte si incontravano degli stranieri per strada e io li fermavo. «Ehi-i-i! Cammina, avanti!» dicevano subito i poliziotti. Allora io gli parlavo chiaro. Perché già ero dentro per un niente, no? Non è che
avevo commesso delitti, furti o un atto contro dio. Ero semplicemente senza passaporto, in crisi d’identità. «Calma!» dicevo. «Aspettate un attimo, sto facendo le public relations. Lasciatemi almeno provare a vendere i miei chilum. Già sono in galera per un niente.» Alla fine loro lasciavano andare. E io offrivo i miei chilum ai passanti a buon mercato. Una volta per strada ho incontrato uno straniero che si è interessato a me e ai miei chilum. Veniva a trovarmi ogni settimana, prendeva tutta la produzione e mi dava dei soccorsi. Con quelli io compravo cose alla grande, facevo il chai, il tè indiano con latte e spezie, per tutti quelli che passavano da me. In cella ero solo, ma al mattino la aprivano e restava aperta. Di giorno potevi avere incontri, andare nella cella di uno, di un altro, girare per questo carcere, sempre all’interno delle mura di cinta. Dopo cena ti richiudevano dentro. Quindi questo fuoco rimaneva sempre acceso in un posto dove non c’erano fuochi. Era alimentato da tutti, perché era a fin di bene. Era diventato un po’ il tempio del carcere. Mentre ero in galera e stavo per finire i miei sei mesi, hanno arrestato un italiano per mezzo chilo di fumo e gli hanno dato la cella di fronte alla mia. Anche in India i tempi erano cambiati. Le pene erano aumentate, cominciava a diventare esecutiva una nuova legge contro la droga e dicevano che lui doveva stare dentro dieci o vent’anni. Niente, questo qua impazziva, non dormiva la notte con questi vent’anni nel pensiero. Una bella mattina si sente dlang-dang-bang! La guardiana della sezione femminile aveva sbattuto la porta del cesso ed era caduta per terra una stanga di ferro, tipo piede di porco. Guardano bene e vedono che questo piede di porco era caduto da un angolo da cui si vedeva della luce, addirittura. Cioè, qualcuno aveva scavato un buco di notte per buttare giù il muro del cesso, ci aveva messo dentro la stanga e aveva coperto il tutto con il calcinaccio bagnato. Allora è cominciato questo dramma: il carcere bloccato, tentata evasione, di qua, di là... “Chi è stato?” È partita tutta una inchiesta, ma la risposta si è saputa quasi subito perché le guardie notturne avevano beccato alcune volte questo italiano sveglio, seduto sul suo letto. Inoltre, proprio due o tre giorni prima, era mancato il cuoco della prigione ed ero andato io a fare i chapati, le piadine. Di solito non li facevo, però non erano organizzati e li ho fatti io per un paio di giorni. Mentre facevo questi chapati, l’altro italiano era entrato in cucina, dove di solito non può entrare
nessuno. Aveva trovato questo ferro, se l’era imboscato e se l’era riportato in camera. E niente, l’hanno chiamato, questo qua. C’era la sezione punitiva ad aspettarlo, con i bastoni di bambù in mano, e l’hanno spolpato di bastonate. L’hanno disfatto. Quando hanno chiamato me lui era ancora lì, sdraiato per terra, svenuto. C’era il direttore del carcere con tutti i poliziotti. «Qua qualcuno voleva evadere» dice. «Guardi, non sono io» ho detto, «perché io sto per uscire.» «Però lui stava proprio nel letto di fronte a te. È straniero come te. È mancata questa stanga di ferro proprio mentre tu facevi i chapati in cucina. Adesso non mi venire a dire che non ne sapevi niente!» «Guardi, qua in cella ognuno ha un caso particolare. Anche se scorre il sangue io salgo sul mio lettino per non metterci i piedi dentro. Ho la mia realtà. Ciò che pensa questo, cosa fa quell’altro, chi si fa una sega in camera, io non lo tengo in mente. Cerco di fare la mia vita e uscire di qua al più presto possibile.» Tonggg! – mi è arrivato uno sberlone. A quel punto, con tutti quei poliziotti con il bastone intorno, bastava un niente, un nervosismo, una rivalsa, un “Ehi, cosa fai?!” e mi avrebbero spolpato di bastonate come l’altro. Invece lì ho preso un attimo di tempo e ho pensato agli insegnamenti del Cristo. «Me ne dia un’altra di qua» ho detto, porgendo l’altra guancia. «Così magari capiamo meglio che succede.» Allora si sono fermati. Io davvero non ne sapevo niente. L’italiano non mi aveva detto una parola. Chiaramente, se voleva evadere non è che faceva troppa propaganda. Ognuno ha la sua storia. Anzi, lui sapeva che io non avrei rischiato, ero fuori, mi mancava poco alla fine della pena. Questo l’hanno poi legato con le catene al cancello della porta per quindici giorni. Doveva mangiare con le catene, dormire con le catene. Quando sono uscito io, lui era ancora lì, incatenato. Venti giorni prima che finisse la pena mi hanno liberato perché la direzione aveva determinato che ero un sadhu, che ero sul sentiero. Proprio per il mio modo di essere. Nel carcere non c’era legna eppure questo dhuni restava sempre acceso, non si capiva come mai. L’avevano detto al direttore e il direttore era venuto a vedere cosa faceva questo baba italiano dentro la cella. Quando è arrivato, l’ha investito un volume di fumo tale che non ce l’ha fatta a entrare ed è dovuto scappare! Mentre io stavo seduto lì, tutto il giorno, in apnea in una densa nuvola.
«Guarda, se questo sta con tutto quel fumo lì dentro» ha detto, «allora è un sadhu di sicuro. È un fachiro!» Io ero abituato. Un po’ di tempo prima avevo scritto a mia madre che ero dentro e proprio il giorno in cui uscivo è arrivata una sua lettera con un pacco. C’erano dolci, dolcetti, caramelle, cioccolate, olive nere e altre cose strane. Roba italiana. L’ho distribuita come prasaad, come una specie di ostia, a tutti quelli del carcere, anche alle guardie, e abbiamo fatto una festa d’addio. In carcere, se ti arriva un pacco non è che ti imboschi e te lo mangi da solo. Scontata la pena ti rilasciano un foglio che hai finito i tuoi sei mesi per il reato di “No passport”. Così se ti rifermano glielo fai vedere. “Ehi, guardi, c’ho il foglio, sono appena uscito!” E ti lasciano in pace. Se sono magnanimi. Ma se trovi delle carogne... E così sono andato dentro parecchie volte. Tre volte nella zona di Kullu-Manali, una in Andhra Pradesh e una a Goa. Cinque mesi qua, due mesi là, otto mesi lì. D’altronde in Italia non potevo rientrare per via di altri carichi pendenti, quindi me la facevo in India, la galera. Mi prendevano sempre per “No passport”, mai per fumo. Non me l’hanno mai trovato. Allora mi facevo i miei mesi, uscivo con il foglio eccetera eccetera e continuavo a stare in India. Ma ti dirò che io in galera ho sempre fatto la bella vita. Avevo un modo di essere che era maturato nelle tante volte che ero stato dentro. Quando arrivavo salutavo tutti, lavavo professionalmente le coperte che mi passavano e davo questo senso di tranquillità, né afflitto, né triste. Poi lì ci incontravo l’India. Erano già diversi anni che ero in India, però prima ci si arrangiava con l’inglese e non mi ero mai curato di parlare l’hindi. Come sono andato dentro, mi sono accorto di saperlo già un pochino, riconoscevo i suoni, le espressioni, le frasi fatte. Da allora si è arricchito, perché in carcere parlavano solo quello. Ho imparato la lingua dell’India in galera. E così ho incominciato a frequentare sempre di più i templi.
TEMPLI
«Mi chiamo Mohan Giri. Il mio guru è Pincopallino del tempio di Krishna a Banganga, a Bombay. Sono in pista.» Questa nei templi era come una garanzia che non ero uno appena scappato di casa, che ero nel loro contesto sociale. Se volevano sapere a quale lignaggio di sadhu appartenevo avevo una risposta. «Sono alla ricerca del dio oltre i nomi e le forme.» Era un po’ penalizzato nell’ambiente non appartenere a ordini religiosi particolari, però mi accettavano. Di solito i templi sono aperti. Vai lì, fai il darshan – cioè guardi il tempio com’è, come non è –, poi vai a trovare il gestore e gli tocchi i piedi in devozione, mettendoti a disposizione. Stavo in India senza passaporto. Dove vai? I templi erano una tappa obbligata, non ti chiedevano i documenti. Quindi mi muovevo da tempio a tempio, da ashram ad ashram. Fin dall’inizio avevo imparato i salamelecchi, come si adoperavano, i saluti convenzionali, gli inchini e le funzioni, giusto per trovare un posto dove mangiare e dormire gratis. Anche prima, quando ero con Claudia, a volte capitava che si girava così. Io avevo al massimo un passaporto falso, con un visto che durava sei mesi. Quando scadeva si andava a stare nelle case degli altri, o nei templi. Frequentavamo templi anche se non ci capivamo molto. Marcavamo strano. Ma anche se non eravamo veramente dei sadhu dichiarati, c’era sempre una certa accoglienza. «Maharaja, grande re» dicevo, perché usa rivolgersi così a un sadhu. «Io italiano. Apna aurat. Lei è la mia compagna. Siamo venuti in India per il darshan. Facciamo il darshan in tutti i templi. Apka darshan leneke liye. Sono venuto a vederti. Dove mi posso fermare?» E lui ci dava un posto. Oppure diceva: «Vai via!». Qualcuno ogni tanto diceva: «Qua le donne non si possono fermare». Allora cambiavamo tempio, al limite. Di solito, quando ero con Claudia ci facevano dormire separati. A
Omkareshwar, lungo il fiume Narmada, abbiamo dormito in due lettini e la mattina Claudia si è svegliata e si è trovata scoperta. «Oh, non trovo più le mie mutande!» ha detto. «Ma ieri sera ce l’avevo di sicuro, quando sono andata a dormire!» Le ha cercate dappertutto ma non le ha più trovate. Durante la notte gliele avevano sfilate così delicatamente che non se n’era nemmeno accorta. E vabbè, era stanca dal viaggio. C’erano sadhu che dormivano da una parte e dall’altra, con chi mi dovevo incazzare? Non ho fatto nessun dramma e siamo andati via, nel dubbio che magari la notte dopo le toglievano anche a me! Con Claudia ci si faceva, per cui dovevamo trovarci delle situazioni appartate. C’è stato un periodo che ero a cavallo delle due cose, mi facevo nei templi. Quando dovevo dare spiegazioni, dicevo che ero ammalato e mi facevo questa medicina. Non c’era informazione su questa cosa, i sadhu la prendevano per buona. Da quando ho lasciato la Claudia in avanti c’è stato un po’ di strascico qua e là per qualche anno, però ero nel trip di smettere. Smettevo un mese, mi rifacevo quell’altro. Conoscevo quell’ambiente e, giocoforza, dovunque andavo c’era sempre qualcuno che mi riconosceva e mi offriva le droghe pesanti, perché erano abituati a questa versione che avevo dato di me. Quindi ho dovuto cambiare vita, viaggiare fuori pista. Non andavo più nei posti che frequentavo prima. Né al Crown Hotel a Delhi, né a Bombay, né a Manali, né a Goa. Non frequentavo più gli stranieri, i freak, gli hippie e i rivenditori d’oppio. Ho cominciato a viaggiare proprio dentro l’India, nell’India, per intendersi, che parlava solo hindi, dove non ero mai stato. Ho voluto allontanarmi dalla roba perché era in contrasto con la vita di un sadhu, con la vita di ricerca. Più avanzavo su questo sentiero, più retrocedevo sull’altro. Ma smettere di farsi è complicatissimo. Mi avevano portato nelle galere e negli ospedali, ma non erano mai riusciti a farmi smettere. Dopo dieci anni non è che uno smette per niente, ci vuole sempre un’alternativa. Questa ricerca del dharma, del vivere giusto, era un’alternativa per poter cancellare tutto quello con cui mi ero identificato fino a quel momento. Avevo ormai la pretesa di vivere come un sadhu, di acquisire la conoscenza dei sadhu. O lo facevo a truffa o, per farlo bene, abbandonavo l’altra via. Ho smesso a Hampi, in questo posto liberatorio dove non c’erano assolutamente droghe pesanti. L’ho maturato in testa di farla finita con l’eroina. Devi volerlo veramente. Ho smesso con l’eroina in tasca – ed è difficile smettere così! Ma se uno smette perché lo mettono in galera o perché finisce la roba o per
mille altre ragioni, non è mai valido. L’ultima dose l’ho sepolta sotto un lingam di sabbia che ho fatto accanto al fiume, cosciente che l’acqua di notte si sarebbe alzata di quei dieci centimetri e l’avrebbe portata via. Il fumo è una cosa, la roba è un’altra. La roba ce l’hai nel sangue, ti tira in mezzo, crea attaccamento, desiderio. Pensi sempre a quella, a dove trovarla, a come fare business per averla. Mentre la ganja si trova da tutte le parti in India, cresce libera. I sadhu hanno sempre consumato tantissima erba, è un discorso loro, culturale, antico. Forse l’80 per cento dei sadhu fuma. Poi di solito a una certa età, verso i cinquant’anni, smettono. Per quanto riguarda la religione hindu, la ganja è inserita in quel contesto perché la mangiava Shiva. Gesù Cristo beveva il vino, no? Shiva mangiava l’erba. Sembrerebbe che non la fumasse, però la mangiava, tipo spinaci. Quindi si è creata questa forma culturale. Nelle grandi feste, come Shivaratri, “la notte di Shiva”, fanno questi succhi di ganja mischiati al latte e alle mandorle e li distribuiscono a tutti, anche ai bambini. Come un latte mandorlato. Sono tutti felici e contenti e rilassati. Invece l’alcol è un po’ il veicolo del demonio, è negativo, è inteso così dall’ambiente hindu medio. Sai, Gesù alle nozze di Canaan diceva: «Riempite tutto d’acqua!». Poi pronunciava il mantra, l’acqua diventava vino e lo distribuiva alla popolazione. Li voleva ubriacare tutti? Ancora adesso i preti durante la messa prendono il vino. Per gli hindu sono cose un po’ diaboliche, queste. Cioè, i cristiani la menano agli hindu, dicono che la loro è una religione del cazzo, una religione fallica, una religione pagana, fanno tutte le critiche. Mentre per un hindu medio è una religione di diavoli quella dei cristiani, che bevono il vino perfino durante la puja, la cerimonia religiosa. C’è il prete che si volta e si beve questo bicchierone, capito? Mangiano carne di mucca sei giorni alla settimana e, un giorno alla settimana, pesce. Per dire, per un vegetariano è assurda una linea così, no?! Prima in India l’alcol era vietato ma c’erano i rivenditori governativi di ganja. Dopo l’assassinio del primo ministro Indira Gandhi, ci sono state pressioni internazionali per mettere leggi pesanti sugli stupefacenti. Poco dopo il governo ha tolto le leggi che vietavano l’alcol e ha incominciato ad aprire negozi che vendono alcolici, stile americano-occidentali. Gli uomini ci si sono buttati subito sopra, proprio perché prima erano proibiti, e adesso c’è tutta una popolazione che beve alcol senza averne alcuna conoscenza. In Italia ci salviamo perché abbiamo una conoscenza di migliaia di anni di come bere, di quanto bere, mentre in India non ne hanno alcuna. La gente beve
disordinatamente, a stomaco vuoto perché fa più effetto – quindi ci guadagna di più! Beve a “lasciateci morire”, senza nessun limite. Si rovina. Tutti bevono, per primi i poliziotti. Per cui, sai, è diventata più violenta l’India. È proprio cambiata. In quarant’anni io l’ho vista cambiare, geneticamente. Prima era molto più tranquilla. La non-violenza è anche un fatto di nutrimento. Rinunciare ai soldi vuol dire rinunciare alla garanzia dei soldi. Una garanzia negativa, illusoria. Per uno che va con dio, la garanzia è dio. È quello che ti muove. Nella società la garanzia sono i soldi, le case, le cose. Ti danno una garanzia anche quelle, no? È da lì che ho incominciato a viaggiare per l’India prendendo conoscenza di come si vive senza soldi. All’inizio, dove trovavo un sadhu gli andavo subito dietro, cercavo di comunicare con lui. E lui, nel riconoscimento di un ricercatore più giovane, mi offriva un tè o qualcosa da mangiare. Mi muovevo così, lungo i percorsi dei pellegrinaggi importanti, da gruppo di sadhu a gruppo di sadhu, perché loro erano organizzati, io non lo ero assolutamente. Loro avevano sempre da mangiare, non capivo proprio come facessero. Ce l’avevano, davo per scontato che ce l’avevano. Una volta avevo finito i miei ultimi soldi comprando un bel secchiello di rame. Era comodo averlo dietro, serviva per tutto questo secchiello, per portare l’acqua, per farsi da mangiare, per lavare le cose, per farsi il bagno a una fontana. Be’, sul treno ho incontrato altri due sadhu e questi, arrivati a una stazione, mi fanno: «Andiamo a mangiare, sediamoci». «Ma guardate» ho detto, «io soldi non ce n’ho.» «Non c’è problema. Sai, scendiamo, mangiamo.» Siamo scesi. «Tu fermati qua cinque minuti» mi hanno detto. Hanno fatto un attimo il giro del bazar, sono tornati con riso e verdure e hanno messo tutto lì. Mentre mangiavo uno dei sadhu mi ha fatto notare che alcuni chicchi di riso mi erano caduti per terra. «Raccoglili» mi ha detto. «Mangia tutto, fino all’ultimo chicco!» Questo ti creava un senso del valore del chicco. Salvare il salvabile. Quando poi per l’ennesima volta mi spostavo con un gruppetto di sadhu facendomi offrire da loro la colazione e il chai, uno dei guru mi ha detto: «Vieni un po’ con me». Mi ha preso per mano e mi ha portato lungo il bazar. A ogni negozio si fermava. «Bolé, bom Shankar!» diceva forte. Lo declamava come un maharaja, un re che saluta il suo popolo. Si fermava,
salutava, dava la benedizione a tutti e quelli arrivavano e gli mettevano i soldi o le offerte in mano. Non era un chiedere l’elemosina! Cioè, lui non aveva la faccia sofferente che di solito presenta un povero. C’era un riconoscimento popolare del maharaja che rendeva doveroso fargli un’offerta. «Bolé, bom Shankar!» Quindi niente, ho imparato le tecniche, che sono tecniche dell’incontro, e poi è stato più semplice. Porgevo la mia ciotola al chai shop e il tipo la riempiva di tè senza che io dovessi dire una parola. Crescevo. Allora ho cominciato seriamente a fare un tirocinio, a conoscere guru, a fermarmi. All’inizio negli ashram venivo trattato bene dai sadhu, erano tutti accoglienti, gentili, pieni di premure. C’erano pochissimi altri stranieri all’epoca che giravano e andavano a stare nei templi. Quando però diventi sadhu anche tu, le cose cambiano. Essendo l’ultimo arrivato ti trattano un po’ come quando fai il militare e sei il sottoschiaffo dei “nonni”. Quando vai a vivere nella società dei sadhu vedi che sono dei militari del dharma, cioè hanno diversi gradi, diversi ruoli. C’è quello che dice “Ehi, fai quello!”, e l’altro, zitto zitto, lo fa. Dipende dal punto in cui si è lungo il sentiero. Di solito, uno più giovane fa il servizio all’anziano. Perché è una società che è come una famiglia. Il nipote o il figlio sono a disposizione, senza nessun perché. Perché è di ruolo! Dove vai vai, e con qualsiasi sadhu che incontri in giro ti relazioni come se incontrassi un fratello. Ma cosa ci stavano veramente a fare i baba, oltre a fumare, farsi un chai sul fuoco e vivere di offerte? Sono andato a cercare delle evidenze di tempio in tempio. Dove mi dicevano che c’era un guru valido andavo a vederlo, stavo con lui, sentivo cosa diceva. Da lì andavo in un altro ashram. Non più solamente per mangiare e dormire, ma proprio come ricerca, per conoscerli, questi guru. E così ho fatto il giro dell’India, da nord a sud, da est a ovest. Ero già più o meno preparato quanto al loro modo d’essere, ai loro schemi. Quando arrivavo in un tempio toccavo addirittura lo scalino dell’entrata e mi mettevo un pizzico di quella polvere sulla fronte. Erano simboli di riconoscimento, un po’ di dramma da parte di uno che sapeva dov’era. Sentivo comunque che un tempio è un posto in cui concentrarsi sul fatto che vai a incontrare dio. Questo lo sentivo. Quindi ero abbastanza accettato. C’era tutta un’organizzazione yogi alla quale mi appoggiavo. Se un sadhu va in un tempio non ha bisogno di fare il giro del bazar, come fa un poveretto. Il poveretto che arriva in un paesino, anche se si mette il colore e si presenta al tempio, lo smascherano subito.
“Dimmi, tu quando saluti il dhuni, come lo saluti?” Se non lo sa capiscono che non è un vero sadhu. Tanti truffatori si mettono il colore per svoltare meglio nei bazar. Invece il sadhu che arriva in un tempio fa un attimo di relazione con l’ambiente e trova subito qualche baba che gli dice quali negozi sono ben disposti verso gli asceti. Di solito in un paesino ci sono quattro o cinque botteghe con brava gente, più incline all’offerta e contenta di vedere un sadhu nuovo. Ti siedi un attimo, fai due parole e ti danno qualcosa. Inoltre è usanza che il gestore del tempio dà ai sadhu erranti, quando partono, quanto basta per arrivare al tempio successivo. Non ti dà niente di più, però quando ci arrivi troverai ciò di cui hai bisogno domani. Se dio vuole. Se uno percorre un sentiero religioso viene gestito direttamente da dio. Dicono che dio scrive su ogni chicco di riso in che bocca deve andare. La gente comune deve lavorare per vivere, no? Tanto zappa quanto mangia: azione e reazione. Invece un prete, che lavoro fa? I baba non fanno nient’altro che fare i baba, che fare i preti, i frati. C’è chi lo fa bene e chi lo fa male, chi lo fa convinto e chi meno convinto, chi è più avanti e chi più indietro, come in tutto. Ma i santi devono rappresentare questa evidenza di fede, per cui non fanno né business, né lavori. Parecchie volte è successo che andavo a una stazione dove c’erano tanti treni e prendevo il primo che partiva. Arrivava il controllore. «Tu dove vai?» «Non lo so. Sei tu il controllore! Dimmelo tu dove va il treno e dove bisogna andare, perché io non te lo so dire.» Ed era vero. Non avevo né biglietto, né soldi, né direzione. E lui, niente, mi diceva dove andava il treno. Dipende da che relazione scegli di avere con il tipo. Magari, se sei sincero e come stile non ti siedi in mezzo al pubblico ma davanti ai cessi, lui ti lascia andare. Ma se in India un sadhu dice una parola sbagliata gli tirano via la borsa. “Fammi vedere cosa c’hai qui dentro!” Se ci trovano dei soldi lo spogliano nudo e gli prendono tutto. Se invece nella borsa non c’è davvero niente di valore, non c’è problema. Quando potevo, il biglietto lo facevo, ma ero abituato a vivere di questo potere personale che dipende dal tuo modo di essere. Capito? Avere o essere. «Dimmi tu dove devo andare, dove devo scendere, dove devo dormire. Io scendo, stendo le mie coperte e mi metto a dormire.» Allora al controllore gli risultavo simpatico, mi offriva un chai e mi lasciava sul treno.
Man mano che mi avvicinavo ai baba riuscivo a chiedere questo e quello. Allora la vita diventava una ricerca. «Perché ti vesti così?» Non volevano essere condizionati dai valori estetici sociali. Chi vive nella società magari può non mettersi la cravatta tutte le mattine, ma almeno la maglietta la deve avere. Se invece sei sul sentiero e vivi in giungla, ti metti appena uno straccetto per coprirti l’uccello e te ne freghi del sorriso degli scemi, dei galloni dei caporali. «Perché siete tutti vegetariani?» Quando ero con Claudia mangiavo carne e pesce, vivevo un tipo di vita molto disordinata, quella del drogato. È proprio vivendo insieme ai sadhu che mi sono ricreduto e più riuscivo a comunicare, più sono arrivato a delle conclusioni. «Per raggiungere certe percezioni extrasensoriali non devi più mangiare la carne, maharaja» mi ha detto un baba. «Ci vuole qualche mese e vedrai un cambiamento, credimi.» Mangiare mucca è più che un peccato capitale per l’indiano medio. Perché la mucca è la madre, dà il suo latte per dare vita ai tuoi bambini. La sua cacca, invece di essere inquinante come la cacca di tutti gli animali (compresa la nostra), sterilizza i muri delle capanne e la terra intorno al dhuni. Quando bruci la cacca secca, depura l’aria e manda via le zanzare. E anche in mezzo al caos delle città, la vacca è un animale sempre pacifico. Uno che mangia carne di mucca rinascerà mucca. Il karma è questo, no? Ti reincarni continuamente, in basso o in alto, secondo il tipo di vita che hai fatto. E mentre ti portano al macello avrai un attimo di consapevolezza: “Ma guarda, mangiavo le mucche senza mai pensare che mi avrebbero portato al macello!”. Uno dei sentieri di liberazione sono i digiuni. Perché il nutrimento è di per se stesso un attaccamento. Uno vede non solo cosa mangiare, ma quanto mangiare, perché mangiare. Normalmente si mangia troppo. La scuola dei sadhu, invece, è di lasciare sempre lo stomaco per un terzo vuoto. Tutto questo rende più facile l’ascesa perché hai meno attaccamenti alla terra. Diventi meno carne, più spirito. Forse un giorno potrai perfino alzarti in aria! Il nutrimento è importante, ti costruisce il corpo. E non solo la formazione fisica, la formazione mentale. L’uomo adesso non si nutre più della terra ma di un’elaborazione tecnologica di prodotti alimentari ultrachimici, alterati di conservanti eccetera, che non sono salutari. Abbiamo subìto proprio un cambiamento genetico che ci indebolisce, no? Hanno delle teste, i ragazzi d’oggi, che sono fatte da tutte queste cose chimiche, dal pane, il latte, le bibite, le merendine. Se da bambino ti hanno dato tutte queste minchiate sociali diventi un
prodotto sociale, geneticamente vieni formato così. È la società che prende in mano le cose. Adesso la società ha preso in mano tutto. Se non c’è la società non si beve più nemmeno l’acqua, perché è la società che la depura! Invece prima non era così potente, no? La popolazione è sempre più condizionata. Imparare a non essere dipendenti dalla società diventa sempre più difficile. L’uomo ha perso più conoscenza negli ultimi cento anni di quanta ne ha acquistata. Nel senso che la conoscenza della natura, dei cicli naturali delle piante è nata con l’umanità. Era una conoscenza abbastanza complessa perché non è che mangiando una foglia uno capisce subito cos’è nutrimento, cos’è medicina. Bisogna mangiarla più volte, concentrarsi sugli effetti, discuterne in gruppo. Non credi? Per migliaia di anni il pianeta è rimasto a un certo livello, con i buoi, i cavalli e le cose di campagna. Si sapeva quali foglie, quale medicina prendere per stare bene, cosa mangiare d’inverno, cosa mangiare d’estate. Negozi prima ce n’erano pochi, al massimo vendevano attrezzi per lavorare la terra. Poi, nel dopoguerra, è nato questo boom della tecnologia per cui nel Novecento, cioè nell’ultimo secolo, hanno inventato tutto. E il bagaglio di conoscenze notevoli che veniva tramandato da genitori a figli è stato dimenticato. C’è chi pensa che è una cosa buona perché abbiamo imparato a mettere i pomodori nelle scatolette, abbiamo i computer, gli aerei e tutto quello che vuoi. Ma guarda le controindicazioni che si creano! C’è un’overdose di tecnologia, e si vedono già gli effetti: l’immondizia che non si riesce a smaltire, l’inquinamento, i gas e non gas. Addirittura sembra che abbia portato a un surriscaldamento del pianeta per cui si sciolgono i ghiacciai. Ma vuoi scherzare?! Cos’è che ci si guadagna? C’è solo da perdere. Gli animali in giungla sono organizzati comodamente per nutrirsi sul pianeta, mentre l’uomo deve lavorare per vivere. Ma adesso sembra che non gli basti mai. È stressatissimo. Si sono create tutte queste necessità fittizie per cui uno si deve sbattere un casino per i vestiti, per la televisione, per la macchina, per la benzina. Ci hanno catturato proprio tutti con la storia dei consumi, delle proposte di mercato. “Il mio”, “il tuo”, lo impacchettano, lo imbottigliano, lo contengono... Cosa sono tutte queste proposte di mercato? È il diavolo che ha preso posizione. Più che il bene o il male, il diavolo cos’è? Diaballein in greco significa “dividere”, perciò il diavolo è quello che divide. Dio unisce e il mercato divide. Ecco il diavolo! Invece, a grandi linee uno può pensare che tutto è la creazione, è il tempio di
dio, quindi che mercato bisogna farci dentro? È tutta terra, arriva tutto dalla terra. Basta che uno si sieda su un fazzoletto di terra, dia due zappate e crescono le cose, l’insalata, le patate. E le mangia. Hai capito? Il vero mercato è questo. Guarda come è già tutto organizzato. Se ci metti un seme ne vengono cento. Cosa vuoi di più? Non ci vuole tanto per stare bene. Una manciata di riso e lenticchie. Niente di che, no? Se uno si accorge di aver sbagliato strada dovrà ritornare al bivio e riprendere quella giusta. Prima leggevo tanto, poi ho determinato che dal leggere non ti viene la vera informazione. L’informazione è esperienza, è vedere. Quando passi le giornate in un libro dimentichi di vivere la realtà. Per questo ho letto sempre di meno. Perché l’informazione che leggi è passata, è l’idea che un altro si è fatto di un certo soggetto, fatto o posto. Invece è la tua idea che devi realizzare, no? Creati una conoscenza tua, individuale. Uno gira e guarda, poi si ferma e pensa a quello che ci circonda. Ogni formica, se la osservi, è perfetta, con i suoi due occhini, le sue antennine. Viaggia da sola, non le devi mettere benzina. Riceve vibrazioni. Se non ci sono interferenze va tranquilla, se le metti un dito davanti va in allarme. Si ferma, le antennine si muovono come dire “Qua cosa c’è? Come mai?”. Non ti sembra perfetta? Anche se, in verità, mentre le altre creature vivono alla giornata, loro accumulano e mettono da parte. Sono un po’ piccoloborghesi. Io cercavo gli insegnamenti nell’evidenza. E l’evidenza erano i guru: come si muovevano, come parlavano, come comunicavano. Sul sentiero della realizzazione la religione hindu è molto avanzata, ed è ancora una cosa viva. Ci sono queste scuole di sadhu, ognuna con i suoi ordinamenti e le sue tecniche. Lo yoga, per esempio, o il pranayama, cioè la regolazione del respiro, o la meditazione. Così come la vita di Gesù Cristo o quella di Buddha sono diventate un insegnamento da cui poi è nata una religione, così ci sono stati vari guru che hanno determinato sentieri di realizzazione diversi. Ho avuto un monte di incontri con sadhu, uno così, l’altro cosà, ma non è facile riassumere le indicazioni che ti danno. Magari sul momento sono più a livello emotivo, un’espressione, un tono di voce, una luce che hanno negli occhi, di verità, di ricerca. Perché erano guru? Ognuno aveva una sua ragione. Ma in fondo quello che li accomunava era che vivevano con attenzione. In questa evidenza ti veniva l’idea di una perfezione che è divina, al di fuori di una routine sociale classica. Una loro particolarità è vivere nel presente, tenere la mente attenta a tutte le
situazioni che si stanno evolvendo. Anche il transito di una formica. Qualsiasi cosa è perfezione, quindi metterla in risalto, vederla, viverla. È questo l’essere guru. Risolvere in pace tutte le situazioni che si creano, vivere in modo giusto, giusto nei confronti dell’ambiente, di te stesso, di dio. Vedersi come un veicolo di dio. E un veicolo di dio vive da dio, mangia da dio, cammina da dio e dorme da dio. In pace, no? Gli insegnamenti dei guru sono oltre le parole, è proprio nella loro evidenza di vita che sono dei maestri. Maestri di che? Di vita, appunto. “Tutti parlano, solo i sadhu fanno.” E di solito parlano poco. C’era un baba che aveva fatto il voto del silenzio e si era seduto sotto un albero. Con gli anni sempre più gente veniva a trovarlo, a vederlo, finché gli hanno costruito un tempio alle spalle e una piazzetta davanti. Un giorno il baba si è alzato, ha fatto venti passi e si è seduto sotto un altro albero. Lo spirito di un sadhu è questo. Dio riaffiora molto in India, come espressione. Si evidenzia nella forza della devozione, nei pellegrini che si fermano a mani giunte davanti a un lingam, a un simbolo, o toccano i piedi a un guru. Mentre queste emozioni non le hai in occidente, in India, a vivere con i sadhu nei templi, le sentivo spesso. Il punto è che quando vedi i sadhu e tutto quel loro mondo, hai una evidenza di dharma, di religione, come noi non l’abbiamo più. Non l’abbiamo né nei preti né nei vescovi: non è un’evidenza, la loro. Cioè, si suppone che facciano religione, però incontrandoli lo avverti raramente. Guarda come in occidente hanno allontanato la gente dalla religione! I preti (come tanti guru, ormai) si sono persi nel mestiere del prete e non si interessano più ad avere contatti con dio. Fare delle ricerche in quel senso, chi è che le fa? Vivono nel loro mondo di interessi e non si chiedono nemmeno più se servono, se trasmettono all’ambiente l’idea di dio. Un tempo si sentiva in molti sadhu che cercavano veramente qualcosa. Oggi anche i sadhu inseguono i valori di avere tutte le cose. Si lavano con il sapone, per dirti. Fanno parte di tutte queste esigenze sociali nuove che poi sono venute fuori. A un Kumbh Mela dove sono andato, a Ujjain, talmente tante persone avevano fatto il bagno nel fiume, lavandosi col sapone, che l’avevano inquinato e i pesci sono morti. A un certo punto i pesci sono venuti a galla, poveretti, pensa tu. Sono morti scioccati! Ram Giri, Kalyan Puri, Guru Gao... i sadhu li conoscevano e giravano per andare a trovare persone che nella loro società avevano preso valore, avevano un potere, avevano raggiunto gradi di conoscenza avanzati.
«Ce n’è uno in quel paesino del Rajasthan...» Allora andavo anch’io. Ma non in cerca di un mio guru. Perché non mi interessava in fondo questa storia del mio guru, del tuo guru. I guru ci sono per l’umanità, no? Quando ne incontravo uno mi fermavo un attimo con lui, vedevo come si muoveva e ascoltavo cosa aveva da dire, mentre facevo qualche servizio al suo ashram. C’era quello nell’Haryana, dove sono andato con due o tre altri, Guru Gao si chiamava. Stava addirittura in una gabbia, tipo quella dei leoni, con il dhuni dentro. Il pubblico stava fuori, lui nella gabbia non ci faceva entrare nessuno. Era un guru abbastanza conosciuto. Anche perché se uno gli dava mezza rupia lui, attraverso le sbarre, gli passava un casco di banane. C’erano questa offerta e controfferta che non erano razionali. Di solito dai qualche rupia e il sadhu ti dà un pizzico di cenere, non un casco di banane! Al suo tempio giravano parecchi devoti, persino dei ministri del governo venivano a trovarlo. Ma lui non voleva che nessuno gli si avvicinasse. «A-le-e-e-e-k!» intonava. Alek vuol dire “da solo”. Per tutti, ma soli. Perché sul sentiero si è soli. Gesù Cristo non era da solo? Degli apostoli che erano con lui, parte di lui, appena sono successi due guai non ce n’era più uno. Guarda come si è da soli sul sentiero! “Alek!” è il mantra dei sadhu. Prima l’India era povera e in quel contesto i sadhu erano tutto. Quando non c’erano medicine e non c’erano scuole, c’erano loro che giravano da nord a sud con le piante dell’Himalaya e i semi delle pianure, con conoscenze di ogni tipo tramandate da guru in discepolo. Arrivando nei villaggi suonavano l’ektara, davano delle dritte, delle foglie medicinali, raccontavano la storia di Rama e insegnavano le scritture. Avevano una funzione sociale. Oggi per loro è più difficile trovarsi un ruolo. La musica è scaricata da internet, le medicine si prendono nelle farmacie e non nelle foreste, le notizie arrivano con la radio e la televisione. La tv è il nuovo guru. “Chi l’ha detto?” “La televisione.” “Ah, allora va bene!” Così, anche i valori sono cambiati. Mentre prima un sadhu veniva valorizzato per la rinuncia che faceva – cioè veniva valorizzato il sadhu nudo che dormiva per terra all’angolo della strada –, adesso è più valorizzato quello che ha l’ashram grosso e la macchina con l’autista. Più cose ha e più vale. Nella società di oggi non si guarda chi è o non è una persona, si guarda cosa ha o non ha. Quindi di un
guru ricco, con un grosso ashram e una flotta di Rolls-Royce, tipo Rajneesh che ne aveva una per giorno, dicono: “Ah, quello sì che è un guru alla grande!”. Mentre uno che sta seduto all’angolo di strada coperto solo di cenere lo cacciano via. “Ehi, chalo, chalo! Vai via! Cosa fai qui?!” Hai capito? Disturba. Non rientra più nei loro schemi. Se sei in rinuncia, rinunci a tutti i valori sociali, metti tutto sullo stesso piano: l’oro, i diamanti, una pietra, un cavallo, una foglia, tutto fa parte della composizione del pianeta, no? Di cui siamo parte anche noi. Siamo tutti granelli che compongono il pianeta. Non è una teoria, è proprio così. Dobbiamo avere coscienza di quello che realmente siamo. Appena non dai dei valori sociali alle cose, realizzi che tutto è la creazione del creatore. Segui quello che voglio dire? Per cui il pensiero che un granello sia più importante o più prezioso di un altro granello solo perché sul mercato vale di più è un pensiero, come si dice, illusorio. Perché di fondo sono tutte composizioni della terra. Siamo tutti microrganismi che compongono il pianeta. In evidenza siamo quello, siamo parte del pianeta, del suo disegno. Uno più la vive questa idea e più si sente parte di... E quando la vive davvero, questa idea, a quel punto è dio. La dimensione di dio è eterna, è oltre tutte le differenze, oltre il bello e il brutto, il giorno e la notte, il buono e il cattivo. Dio è una cosa sola. Questa ricerca dell’unicità, oltre al gioco delle differenze, è la ricerca di dio. Quando uno è oltre le differenze, gli arriva l’aureola di brutto! L’aureola è un simbolo della luce che uno emana, proprio per la sua perfezione d’essere. Per cui capita che incontri persone che hanno una luce particolare. Magari non ce l’hanno al 100 per cento, però in certi guru vedi una luce diversa. Dato che fai parte del tutto, che fai parte del pianeta, che fai parte del movimento del cosmo, puoi avere addirittura delle percezioni di quello che sta succedendo altrove. Non ti è mai successo di pensare una cosa e quella si avvera? Non è che pensi una cosa e quella si avvera. Pensi la cosa nel momento in cui si sta avverando perché percepisci il tipo di movimento che si sta creando. Lo percepisci un attimo prima che si crei, perché sei parte del movimento stesso. Basta vivere un attimo concentrati.
PIAZZA
Non sapevo nemmeno se potevo tornare. Dopo la mostra a Torino nel ’74 c’avevo tutti questi processi, mi avevano dato la libertà provvisoria, per cui avrei dovuto presentarmi in tribunale, curarmene. Invece ero partito, quella volta lì, avevo lasciato tutta una situazione in sospeso e non ero più ritornato. Sono rientrato in Italia in modo rocambolesco nell’autunno del ’79, con un nome falso. Mi avevano arrestato nell’Himalaya, io non avevo passaporto e avevo dato tutte le generalità dell’ultimo passaporto con cui ero entrato in India, e che non era il mio. «Tu come ti chiami?» mi hanno chiesto. «Pincopallino.» Ho dato il nome che avevo usato per entrare. «Da dove sei entrato in India?» «Dalla frontiera di Amritsar» ho detto, specificando l’anno e il mese. Sono andati a controllare e risultava corretto, c’era la copia del visto. E così mi hanno fatto il processo e condannato, tutto a nome di Pincopallino. Finiti i sei mesi mi hanno detto di presentarmi all’ambasciata italiana. All’ambasciata mi hanno dato subito un foglio di rientro con la mia foto, e un biglietto aereo per tornare in Italia. Sempre intestato a quest’altro. Ormai era passato qualche anno e, visto che rientravo con un altro nome, nella mia incoscienza ero tranquillo. Quando sono arrivato all’aeroporto di Roma hanno visto questo foglio (“Dichiara di chiamarsi Pincopallino”) e mi hanno preso un attimo da parte. La prassi era quella. «Senta, adesso qua ci vorrebbe qualcuno che la identifichi, che firmi un foglio di riconoscimento che lei è davvero Pincopallino. Com’è il numero di telefono dei suoi?» «Mah, i miei non hanno il telefono...» Una cosa e un’altra. Alla fine questo qua dice: «Vediamo se ha precedenti». Hanno guardato nei loro archivi e, combinazione, questo era un passaporto di uno completamente senza precedenti. «No, negativo. Vai, vai!»
E mi hanno mandato via. A Torino per prima cosa sono andato da mio padre, che mi ha detto che dovevo tagliarmi i capelli per andare in ufficio da lui. Mi avrebbe organizzato qualcosa da fare. «Perché in Italia non si può mica vivere così, qua bisogna lavorare!» E niente, allora ho girato un po’, ho cercato di qua e di là dove poter stare. Prima sono andato a casa di una pittrice, ma a un certo punto non le andavo più bene. Poi ho trovato l’Eremo. C’è un posto su una collina vicino a Torino che chiamano l’Eremo. Non c’ero mai stato, allora sono andato a vedere com’era. C’era stato un eremita lì, nei tempi dei tempi, ma adesso era tutto abbandonato. Dove aveva vissuto l’eremita c’era una grottina, poi ci avevano fatto un convento grossissimo. Col tempo anche il convento era stato abbandonato. Il giardino aveva alberi con la frutta sui rami e c’era un bosco cadente pieno di legna. Mi sembrava l’America. Sono restato lassù quasi un mese. Sul terreno confinante c’era un ospedale. Io in questo eremo ci ho trovato tutto, anche un pozzo dove si poteva tirare su l’acqua con un secchio. Vicino al pozzo c’era un orto con cavolfiori, melanzane eccetera. Chi era che lo manteneva? Era il cuoco dell’ospedale, un sardo che, dato che c’era questo terreno abbandonato e l’acqua nel pozzo, veniva a coltivarsi l’orto. Così si faceva la sua verdura e la portava a casa. Un giorno mi ha incontrato ed è rimasto contento. I sardi sono attaccati alla vita naturale e io vivevo lì “in giungla” con il fuoco acceso, senza problemi. «Oh, quello di cui hai bisogno dall’orto prendilo!» A volte mi portava anche le cose dall’ospedale, pezzoni di formaggio, cassoni di latte, un pacco di cose. Mentre io con la frutta degli alberi riempivo cassette di cachi, mele, pere. Era un periodo che c’era di tutto in questa sorta di ashram. A un certo punto, non so com’è, come non è, è arrivata la polizia. L’avevano mandata dalla segreteria dell’ospedale perché era trapelato in cucina che il tipo mi portava tutte queste cose. Quindi avevano denunciato lui per furto e me per concorso in furto, per ricettazione del formaggio e del latte. Lui lo hanno licenziato dal lavoro, da me è venuta la polizia e ha rotto tutto. «Vai via!» hanno detto, sfasciando le cassette. «Questo è terreno privato della curia, tu non ci puoi restare! Vai via o rompiamo anche te!» «Ma io dove devo andare, scusi? Arrivo dall’India, ho svoltato qua, dove posso vivere?» «No, no, no, no!» «E dove vado, nei giardini pubblici?»
«Vai dove vuoi!» Allora sono andato. C’era un posto al centro di Torino, una grande piazza con fiori, cespugli, alberi, tutto curato, dove ho acceso un dhuni e mi sono fermato. Mi sono messo lì, in mezzo alla piazza, appoggiato a un platano grossissimo. E lì sono restato tre mesi, da novembre a gennaio. D’inverno a Torino, all’aperto, era una bella evidenza, no? All’inizio non faceva troppo freddo. È venuta la pioggia, poi la neve, e attaccata all’albero ho costruito una capannina. Ero vestito con il longi, il solito pareo indiano, e andavo a piedi nudi. Non accettavo compromessi. La mattina l’acqua della fontana era gelida e avevo svoltato una grossa latta per riscaldarla sul fuoco, che era sempre acceso, per farmi il bagno. Ormai era quella la mia vita. Non facevo niente di male, cioè, non è che facevo delle grosse cose, non facevo business. Stavo lì, in questa piazza dove la gente faceva business. C’era chi comprava e chi vendeva. E io ero lì nel mezzo. Basta, mi salvavo. Poi, come è andata? Dal momento che ero lì, il pubblico che prima era disperso nella piazza passava da me. Con questo fuocone sempre acceso ne venivano di tutti i colori, veniva la bella vita, la malavita e tutti quelli che giravano di notte. Venivano sia quelli che compravano che quelli che vendevano, e una sera è arrivata la polizia. Qualcuno aveva buttato via il fumo e l’avevano trovato sotto l’albero. «Arrestate il santone!» Hanno portato via me e lasciato lì quaranta persone. «Ma che gioco è questo?!» ho detto. «Avete trovato il fumo sotto l’albero e arrestate me? Cioè, non è mica casa mia. Ci abito anch’io, ma...» Hanno provato a mettermi in mezzo, però che responsabilità potevo avere io? Gliel’ho detto: non era mio quel fumo. Mio o non mio, io fumavo con la gente che arrivava. «Aaah, sei il babbba, sei? E allooora fuma!» diceva la malavita, e mi dava le stecche di sigarette di contrabbando. Ero esposto all’ambiente. Ma il giudice, che era una donna, ha deciso con l’avvocato d’ufficio che l’accusa era tutta una palla. «Lei dove abita?» mi ha chiesto. Io le ho detto le cose com’erano. «Prima abitavo all’Eremo. Poi è arrivata la polizia e mi ha mandato via. Era un posto pulito, quello.» Lo conoscevano tutti l’Eremo, su in collina. «Adesso invece sono in una piazza pubblica. Ditemi voi
dove devo andare. Mi porti a casa sua, mi siedo accanto al termosifone. Trovatemi una soluzione.» «Insomma, ma lei dov’è residente? Dov’è che le possiamo scrivere se abbiamo bisogno di comunicare con lei?» «Mah, io abito lì in piazza, sotto il platano. È la soluzione che ho trovato.» “Residente in piazza Cavour” ha scritto. E mi ha subito rilasciato. Da allora in poi la polizia non mi ha più detto niente, anzi, eravamo entrati in rapporti amichevoli. Venivano a chiedermi se avevo visto le ragazze scappate di casa. E quando venivano a fare le perquisizioni, a me mi lasciavano stare. «Ah, il baba lo conosciamo.» Tutti mi conoscevano come “il baba”. Io giravo a piedi nudi, anche in Italia ero nel trip. Mi si era creata una soletta protettiva sotto i piedi, dura come il granito. Come avere ultrapoteri. Quando uno è giovane cammina sui vetri, sulle spine, nel caldo, nel freddo, dappertutto. Adesso ho meno resistenza fisica. Mi metto le infradito, più che altro per la società, che è talmente condizionata dalle scarpe che altrimenti si sciocca! Puoi essere vestito di che colore vuoi, puoi essere senza tutto, ma se sei senza scarpe sembra che questo sia un peccato grave. Ti guardano allucinati. Hanno difese a relazionarsi con te. E allora metto le ciabatte. Niente, per non creare emozioni negative. In India, quando sono arrivato la prima volta a Hampi, erano tutti scalzi. Ne vedevi uno su cento con le ciabatte. Adesso ce l’hanno tutti. Quando mi ritrovo ad andare scalzo la gente mi guarda strano, anche se sono un baba. Marca strano. Come mai? Vai a sapere perché c’è questo giudizio negativo su uno che non porta le scarpe. È un condizionamento sociale. Comunque in India c’è ancora un minimo di riconoscimento. Una parte del pubblico può non riconoscerti, perché vuole il turista ricco e un hippie che viaggia da povero non ha ragione di esserci. Però, per quelli che capiscono, sei doppiamente meritevole, perché pensano che sei chiaramente in rinuncia. In occidente invece il riconoscimento di dio non c’è più. Perché, se ci fosse, uno vedrebbe subito una relazione fra uno che cammina a piedi scalzi e il povero Cristo, mi segui? È quella la dimensione di ricerca, di liberazione. Invece, quando non c’è l’idea di dio, tu sei un matto che va a piedi nudi perché non ha senno, non sa organizzarsi per mettersi le scarpe. O vai a piedi nudi per eccentricità, per creare attenzione. Tutte le ragioni che si possono trovare meno quella principale: che per la liberazione ti spogli di tutto, ti copri di cenere e vai.
Quindi stavo lì. C’avevo proprio una capanna fatta con le assi di un cantiere vicino e una pedana su cui dormivo, sotto la quale scorreva l’acqua quando pioveva. E fuori avevo il fuoco, coperto da una tettoia. Alla fine ti accettano come un dato di fatto, capito? Dipende proprio dai tuoi valori organizzativi, da come sviluppi le cose, se ti prendono bene. Se ti prendono per un barbone ti mandano via. Quella volta invece avevano visto qualcosa in più. Facevo da mangiare per tutti già allora, lì sulla piazza. Avevo il fuoco, ci mettevo sopra una pentola e facevo i risotti, le pastasciutte. A chi passava gli davo da mangiare. In ogni caso c’era sempre un pacco di gente. Avevamo di tutto. Ogni tanto veniva qualcuno dall’università con una pila di piatti, di quelli della mensa già pronti, con più cose. Magari quando avanzavano trenta o quaranta piatti questo diceva “Li prendo io!”, dava un tot, faceva un forfait e li portava al dhuni. Mi portavano le verdure, il caffè, lo zucchero, il tè, le cose. Eh, eravamo in piazza, come in giungla! Niente. In quella occasione sono arrivate anche la radio, la televisione. Tutta questa documentazione c’è in qualche pubblico registro perché hanno fatto delle riprese di questo baba che se ne stava lì, in una piazza e aveva questo fuoco. Demolivano una casa del ’500 proprio di fronte al dhuni, quindi avevo fatto amicizia con l’architetto, che mi mandava dei travi di ciliegio. Vrummm! – con la gru che stava nel cortile del palazzo me li consegnava proprio lì. Ne mettevo due o tre sul fuoco e stavo tranquillo. Sai, quanto freddo prendi, tanto caldo assorbi. Bilanci gli elementi. All’inizio tutta la gente del posto guardava un po’ di brutto questo qua che si era fermato sotto un albero. Il primo mese spiavano quel matto dalle finestre. Poi, quando a dicembre io ero sempre lì e c’era il fuoco sempre acceso... Venivano fuori delle evidenze, se vuoi, proprio di magia. Perché spesso calava una nebbia fitta sulla città, ma tutto intorno al fuoco non riusciva a condensarsi. Quindi in mezzo alla nebbia c’era questo campo di luce, questa cupola di luce di dieci metri di diametro. Chi apriva le finestre vedeva un alone di luce lì, in mezzo alla piazza, e restava stupito dell’effetto. Pian piano si è creata una simpatia con tutto l’ambiente. Tutto intorno alla piazza c’erano case, casoni grossi, e mi portavano giù le offerte. Pentole di pasta, maglie, vestiti pesanti, coperte. “Ci sono questi poveretti lì...” pensavano. Quell’inverno a Torino all’addiaccio tenevo sempre questo fuocone acceso. Mi fumavano le coperte di notte, tanto caldo c’era in mezzo alla piazza, in mezzo ai giardini pubblici. E niente, veniva sempre la polizia a fare i raid, che lì c’erano le puttane, gli
orecchioni, gli studenti, ne passavano di tutti i colori. C’era sempre gente perché girava voce che di notte c’era un posto con un fuoco acceso dove si poteva sedersi e stare al calduccio. In una città così si era creato un bel precedente, no? Alla fine è venuto un ragazzo che è rimasto affascinato da quel tipo di vita. Si è avvicinato al dhuni e si è fermato qualche giorno a dormire, che era una cosa notevole perché non si fermava nessuno a dormire, passavano. Galeno, si chiamava. Aveva un suo appartamento in affitto, aveva tutte le cose, ma ha avuto il coraggio di restare a dormire qualche giorno con me. «Baba» ha detto finalmente. «Io c’ho casa e cose. Io quello che ho lo vendo tutto e andiamo in India.» In piazza, quando abbiamo detto che si voleva andare in India, sono apparse altre tre persone che volevano venire con noi. Saranno stati i primi di febbraio quando, con questo gruppetto, abbiamo preso la strada. Due di noi avevano il passaporto, e tre no. Galeno aveva il suo passaporto nuovo, io avevo la sua carta d’identità, e a un terzo Galeno aveva dato il suo passaporto scaduto. Per cui per arrivare a Istanbul, alle frontiere in Grecia e poi in Turchia, molti di noi avevano lo stesso nome. Siamo partiti in cinque e siamo arrivati in India in tre. A Istanbul l’altro con il passaporto buono ha finito i soldi e si preoccupava. Noi, al limite, eravamo tutti senza soldi, anzi, lui era l’unico che li aveva avuti. Ma quando li ha finiti ha dato il suo passaporto a uno degli altri ed è tornato indietro. Lì alle porte d’oriente io ho scambiato la mia carta di identità per un passaporto. A Sultanahmet c’era proprio un meeting point con un miscuglio di gente internazionale. Ho trovato uno che tornava dall’India con il passaporto tutto inciuccato e cercava una carta d’identità per rientrare in Italia, mentre io cercavo un passaporto, quindi abbiamo fatto a scambio. Nel movimento hippie le storie erano tutte così. C’erano queste relazioni da fratelli. Per i visti, c’era tutto un mercato di quelli che li facevano falsi. Li facevano a mano, come stampati. Facevano dei chiaroscuri più belli degli originali. Erano degli artisti del pennello. C’era un omino così bravo che lo chiamavano “il Console”. Alla frontiera iraniana hanno bloccato un altro amico, quello con il passaporto scaduto di Galeno. Era truccato un po’ male, si vedeva la correzione, e l’hanno rimandato a casa. Quindi siamo rimasti in tre: io, Galeno e quest’altro che aveva il passaporto buono di quello che ci aveva mollati a Istanbul. Era verso la fine del periodo in cui si viaggiava via terra così, ma funzionava ancora. L’Afghanistan era
già chiuso perché l’avevano appena invaso i russi, per cui abbiamo attraversato tutto l’Iran fino ad arrivare in Pakistan, senza fare il Khyber Pass. È stato un viaggio duro, d’inverno. A un certo punto eravamo alla frontiera fra l’Iran e l’Urss. Cosa c’era di freddo! Il treno era guasto, si era fermato lì e per giorni non ripartiva. Tutta la neve fitta per terra, secca tipo sabbia, sai, come nelle steppe della Russia quando ti ci imbatti dentro e si solleva tutta. Niente, io avevo i piedi nudi e sono andato a cercare un tè da bere. Di solito ci andavano gli altri, che avevano le scarpe, ma quella volta sono andato io. Oh, mi sono preso la broncopolmonite e la febbre alta. Sul treno, ti dico, un dramma. Mi hanno dovuto mettere tutti i sacchi a pelo addosso. Dopo qualche mese che eravamo in India, il terzo uomo venuto con noi si è perso. Non so che storia ha avuto, sarà ritornato in Italia. Era un ragazzo di strada, non si spaventava di niente. Galeno invece è stato due o tre anni con me. Era tipo discepolo. Io erano già un po’ di anni che giravo per l’India e così lui è subito entrato dentro a un tipo di società, il movimento underground, che di solito ci vogliono anni a conoscere. Dopo questo tempo con me si è messo in proprio e poi, niente, ha svoltato una grotta non lontano da Malana. Non so come ha fatto a rimanerci degli anni. Era umidissima e così bassa che non potevi stare dritto. Ci passavano solamente i pecorai che portavano il gregge su e giù, e da loro ha imparato un mucchio di cose. Gli portavano le radici di una pianta d’incenso che lui ha imparato a preparare, pestare, ad aggiungere un po’ di ghee... Vabbè. E ha imparato a filare la lana, a fare maglioni, le calze, i calzettoni, a fare il fumo e le marmellate coi mirtilli e le fragole che crescono tutto intorno. Di queste cose locali ha preso una bella conoscenza. Malana è uno dei posti da dove viene fuori il fumo migliore. La prima volta che è andato lì era con me e gli ho insegnato a rollarlo. In quelle zone lo fanno a villaggi interi: donne, bambini, tutti, e lui ha preso una bella mano. Ormai sono vent’anni che Galeno è lassù, in questo posto sull’Himalaya a più di 2600 metri. Non cresce niente lì, fuorché le patate e due o tre qualità di grano. Lui si è fermato lì e non è mai più tornato giù. Lassù non ci andava nessuno. Anche la polizia non ci andava perché è un paese isolato, parecchio incazzato. Figurati che non potevamo nemmeno toccare le case con le mani. Perché ci vive una casta di gente che né la puoi toccare, né loro toccano te. C’erano però in questo villaggio due o tre famiglie di harijan, di fuoricasta, e da loro potevamo stare. Erano gli unici che potevi toccare. Gli altri sono di una casta particolare, hanno tante regole. Se tocchi la loro casa
devono fare una puja, prendere un capretto e ucciderlo. Anche se ci fumi insieme non prendono il chilum dalla tua mano. Lo devi lasciare lì e loro se lo raccattano da terra. È tutto un fenomeno così. Sono tribali, sono parecchio diversi dagli altri, anche fisicamente, perché sono incrociati fra loro. È una casta che discende da un rishi, un maestro che si era fermato lì. Si sposano fra di loro, anche fra fratelli e sorelle. Infatti sono tutti un po’ malandati. Vivono da soli a questa altezza notevole, in questo posto impervio. Un bel posto, uno dei posti belli. Galeno è ancora lì, in questa grotta assurda che si riempie di fumo e non puoi nemmeno alzarti in piedi. È un po’ acciaccato, gli fanno male le ginocchia a stare sempre accucciato, però è la sua vita. Sta completamente da solo, sui monti, a tre o quattro ore da Malana, che già è un paese isolato. Più che un baba è diventato un perfetto montanaro, uno di loro. Ora, non è che ci sia tutta questa differenza fra un baba e un montanaro, è solamente una definizione sociale. Siddharta, quando traghettava la gente sul fiume, non era un baba, era un barcaiolo. Quindi non vuol dire più di tanto. I baba in teoria non si mettono i pantaloni e le scarpe. Galeno finché era con me seguiva un sentiero da sadhu, andava a piedi nudi. Ma a Malana ci sono altri valori, è un posto freddo, per cui ha dovuto mettersi i pantaloni pesanti e gli scarponi. Si è organizzato per stare in montagna a quell’altezza, come la gente del posto. Non si può andare a piedi nudi lassù. D’inverno nemmeno i sadhu ci vanno. Perché la montagna è un posto che o ce la fai o ritorni giù. Dopo anni che viveva in questa grotta umidissima, la gente ha incominciato a pensare che era attraversato da dio e l’ha riconosciuto, l’ha gestito e gli ha dato quello di cui aveva bisogno. Infine gli ha costruito una casa accanto alla grotta, una stanzetta. Perché Galeno è il baba, lì. Bravo, Galeno. E l’ho trovato in piazza a Torino.
SERPENTE
Ero un fumatore, quindi mi facevo sempre qualche mese in montagna. Era un punto d’incontro. Finivamo per ritrovarci tutti lì perché in pianura d’estate fa troppo caldo, poi vengono i monsoni e diventa umido e afoso, mentre in montagna i monsoni sono molto più accettabili perché l’acqua non stagna. In montagna la stagione del monsone è la stagione del fumo. Verso giugno incomincia a piovere e a settembre c’è la foglia. Dal dieci settembre le piante sono pronte e si raccoglie il charas, la resina della ganja, fino a novembre, quando incomincia a nevicare. E poi tutti via. Passavo tanto tempo in montagna. E lì, a Manikaran, nell’Himachal Pradesh, ho incontrato il mio secondo maestro, Mohan Puri. Fra i sadhu era conosciuto. Con lui sono rimasto a vivere per qualche anno, anche perché ormai mi sembrava di avere una identità che prima non avevo: avevo un nome di dharma, venivo dal tempio di Chowpatty Beach, il mio maestro era stato il tal dei tali. Quindi ero riconosciuto come un vero sadhu. Manikaran era una meta dei sadhu in pellegrinaggio, perché c’è l’acqua calda. Ci sono questi ruscelletti di acqua bollente che girano per la città. Puoi vivere senza pentole, senza fuoco, senza niente. Racchiudi il riso in uno straccio, lo butti nell’acqua e in venti minuti è cotto. Anche le lenticchie le lasciavano dentro un paio d’ore e venivano a galla, tipo gnocchi. Si dice che Shiva era andato lì, ci aveva piantato il suo tridente ed era scaturita quest’acqua bollente. Tutta la zona è piena di sorgenti e rivoletti fra i pietroni. Di notte, se non fai attenzione e ci metti i piedi, ti scotti. Ogni tanto qualcuno ci cadeva dentro e moriva. Lì vicino passa la Parbati, un fiume gelido con le rapide che viene dalle nevi. Avevano convogliato le due acque in vasche dove l’acqua bollente incontrava quella fredda e ci si poteva fare il bagno. Il guru aveva il suo posto proprio lì, sulle pietre calde. A tutti quelli che arrivavano, lui chiedeva una sigaretta. Ma solo per creare relazioni. Se poi cercavi di regalargli tutto il pacchetto, non le prendeva.
«No, no, non ho né tasche, né borse, tienile tu!» diceva. Di fronte c’era un gurudvara, un grosso tempio dei sikh, lui invece si era costruito questa catapecchia di assi. Era un quarto di una stanza, ci stava dentro proprio solo lui. Il pavimento era caldo, come se avesse il riscaldamento sotto, perché accanto ci passavano le acque bollenti. La notte ci metteva sopra due coperte e dormiva lì, sulla pietra. Questo mio nuovo maestro, Mohan Puri, era arrivato quarant’anni prima a Manikaran con un amico della setta dei sikh. Sai, i sikh? I seguaci del Guru Nanak, quelli che si mettono il turbante. Era cresciuto assieme a quest’altro giovane aspirante asceta, un sikh che si chiamava Sant Baba. Avevano la stessa formazione, solo che il sikh non fumava (la sua è una setta che non fuma) e Mohan sì. Ma per il resto erano uguali. Nello stesso posto, saranno stati cinquanta metri di diametro, sono arrivati in due. Insieme lo hanno colonizzato e hanno cercato di contenere un po’ le acque che zampillavano dalla terra. Col tempo, uno, Sant Baba, era diventato un grande guru. Si era costruito un tempio di sette piani, faceva ponti, aveva case e terreni tutt’attorno, macchine che andavano e venivano e dava da mangiare a tutti; mentre l’altro, il mio guru, era rimasto povero, con solo una coperta addosso. Sant Baba, in quarantanove metri quadri, ha fatto un ashram con bagni eccetera, e pian piano il posto con le acque lo ha recintato e ci ha messo i cancelli. Mohan Puri è rimasto sul metro quadro dov’era arrivato, nella sua capannetta di legno. Secondo te, chi era più vicino ai santi? Mohan Puri fumava, e fra gente che fuma ci si trova sempre. C’è stato un riconoscimento istantaneo quando l’ho incontrato. Ho visto questo vecchietto vestito con una coperta grigia, un cappellino di panno, un po’ pelato. Non aveva un grande aspetto da guru. Però era molto disponibile. «Fermati qui» mi ha detto appena mi ha conosciuto. Era uno libero, un liberato. Aveva una sessantina d’anni, forse di più. Quando faceva caldo restava a petto nudo. Quando faceva tanto freddo metteva due o tre longi insieme e ci cuciva dentro una vecchia coperta. Veniva una cosa spessa, che si infilava a mo’ di saio, con cui andava in giro. Cioè, non aveva particolari schemi di comportamento. In genere i sadhu non si mettono il maglione, hanno la coperta. Loro sono senza casa né cose, quindi cercano di girare con un bagaglio limitato. Una coperta ha mille usi, ti ci puoi sedere sopra, ti ci copri di notte, te la metti addosso per camminare se hai freddo. Invece le maglie e magliette sono una cosa in più che ti
appesantisce il bagaglio. Inoltre i sadhu non dovrebbero mettersi cose cucite, composte, confezionate. Sai, sono tutti piccoli dettagli che determinano il pensiero nella ricerca della semplicità. Il mio nuovo maestro era molto simpatico e mi ha fatto conoscere tutti gli abitanti del luogo da una posizione privilegiata, non da turista. Andavamo di casa in casa dalla gente e questi mungevano le loro mucche facendoci offerte di latte e burro. Insomma, mi sentivo finalmente a mio agio, in quella valle. La sua capanna era troppo piccina perché io stessi con lui, non c’era nemmeno lo spazio per un dhuni. Invece del fuoco teneva sempre acceso un lumino a olio. Quindi il suo lavoro era di andare a farsi dare l’olio per mantenere questo lumino. Andava con un boccettino piccolo e quando glielo riempivano gli bastava giusto per ventiquattr’ore. Accanto al posto del guru c’erano un piazzale e un vecchio edificio stile caravanserraglio dove si fermavano i sadhu. Ma non c’era dhuni. «Fai il dhuni» mi ha detto. C’era un posto dove si andava a raccogliere la merda di vacca e quando lui la prendeva con le sue mani traspirava proprio gioia. Ha mescolato lo sterco con la terra, l’ha spianata e mi ha aiutato a fare il dhuni. Poi me l’ha dato da gestire, e quando venivano i sadhu si fermavano lì. Mohan Puri era antico del posto. Aveva la santa pazienza, era tranquillissimo. È stato un guru per me perché mi sono fermato parecchio con lui. Con questo mio secondo guru parlavo già l’hindi e il rapporto è diventato più brillante, perché capivo cosa diceva. Con lui ho cominciato a indossare il colore arancione fuoco dei sadhu. Prima mi mettevo le cose che mi capitavano, come uno straccione. Siccome vivevo di offerte, se un amico mi dava un longi bianco me lo mettevo bianco, se me lo dava a righe mi mettevo le righe. Poi il guru mi ha dato il colore. Vedevo però che vestirmi di colore mi impegnava troppo. Il pubblico si aspettava comportamenti di un certo tipo. In India l’arancione è riconosciuto come il colore di dio e quindi quando la gente lo vede fa la devozione al sadhu che lo indossa. Gli fa un’offerta, un bicchiere di riso o un chai, o gli fa servizio. Succedeva anche che la gente veniva a toccarmi i piedi. Appunto per questo fatto mi sentivo troppo responsabilizzato dal colore e da un modus vivendi da santo di cui ancora non ero padrone. Per cui, anche se il guru mi aveva dato il colore, spesso non me lo mettevo. Preferivo andare in giro in incognito. C’è stato poi uno sviluppo, come dire, su pubblica richiesta. «Ma tu ti comporti come un sadhu, ti siedi come un sadhu, fai il dhuni, vivi da sadhu» mi ha detto qualcuno. «Allora mettiti il colore!» E poi Mohan Puri, il guru di Manikaran, mi ha dato un nuovo nome.
«Il nome “Puri” è per i sadhu che vivono nei villaggi in una relazione con il pubblico» mi diceva. «Tu invece sei di giungla, per cui il tuo karma è di essere “Giri”. Hans Giri.» Hans è l’oca e giri la montagna, per cui mi ha chiamato “Oca della montagna”, anche per il mio modo di camminare. Da quando mi ero rotto un piede nell’evasione dal carcere, era rimasto sensibile. In montagna cercavo di camminare accorto sulle pietre, come un’oca in giungla. Dopo quell’incidente non potevo più correre e se facevo troppa strada, anche camminando, il giorno dopo mi bloccavo. Specialmente al mattino, col freddo, non riuscivo a muovere il piede e spesso mi faceva male. Però non avevamo fretta, ci fermavamo un giorno, anche due, fin quando potevo proseguire. Insieme a questo guru abbiamo girato per l’Himalaya in lungo e in largo. Mi ricordo di una volta che camminavamo assieme in montagna e io volevo darmi un’aria di asceta, incurante. Come il matto dei tarocchi che con un cane che gli morde il culo sta sull’orlo di un precipizio e guarda il sole. Così cercavo anch’io di camminare in fede, guardando il cielo. «Perché guardi in alto e non guardi dove metti i piedi?» mi ha detto il guru. Aveva questo modo di fare umile, non diceva le cose sgridandoti. Né diceva: “Guarda il sole che ti fa bene”. Diceva: “Guarda per terra, che ci sono le pietre e le spine!”. Molto realisticamente. Mi ricordo un’altra volta che lui si è fermato davanti a un immenso panorama di valli e foreste e picchi innevati. «Vedi quello, e quello, e la montagna di fronte, lo vedi? È tutto mio! Tutto mio!» «Ma come, è tutto tuo?» «Eh sì, e di chi è?! È tutto nostro. Siamo noi che ci abitiamo. È la nostra terra!» Era un bel baba, perché era molto gioviale, molto semplice. Quando vivi in uno stato naturale ti è più facile raggiungere la nozione di dio. Camminare in montagna, vivere in giungla, dormire sotto un albero, fare il bagno nei fiumi freddi ti ci avvicina, perché ti libera. Se arrivare è liberarsi di ogni condizionamento sociale, questo avviene in giungla, dove non c’è società che tenga. Ecco perché i discepoli tradizionalmente si ritirano con un guru in montagna o in giungla per dodici anni – lontani dal bazar, i colori, i dolci e le fighe, da tutte le cose dei sensi che si muovono intorno a te e rendono difficile tenere la mente ferma. È una scuola, quella, per imparare a vivere senza essere assorbiti e catturati dall’ambiente. Il ricercatore è uno che sa essere autosufficiente, deve imparare a
nutrirsi delle piante che trova nel posto dove vive, come facevano una volta, e riconoscere la foglia buona da quella cattiva. Già riacquistando questo tipo di conoscenza uno si avvicina di più a dio. A un certo punto realizzi che questo è un mondo più vero, più legato alla natura, più pulito. Allora ti togli dal bazar. Il bazar sono le luci al neon. Questo è la cenere e il fuoco. È un’altra soluzione. È difficile stare senza attaccamenti. L’eremita cerca di tornare alle cose essenziali, quelle di cui abbiamo veramente bisogno, evitando di mischiarsi al mondo delle apparenze. Ormai da parecchi anni le ciabatte non me le mettevo mai. Andavo a piedi nudi anche se viaggiavo su lunghe distanze e prendevo treni eccetera. Non mettevo le ciabatte neanche per andare al cesso. Se uno non le porta, non le porta. Allora, sai, ogni volta che uscivo dal cesso dovevo lavarmi i piedi. Mica puoi lasciarli sporchi. Specialmente se sei sadhu e te li toccano a tutte le ore, devi sempre curarti. Quando vai a piedi nudi ti viene la testa sotto i piedi. Cioè, riconosci dove sei, se sei sull’erba, sulle pietre, sulle spine. Con le scarpe non senti niente, puoi camminare guardando per aria, pensando ai cazzi tuoi; ma senza scarpe guardi bene dove vai. Sviluppi la tua attenzione e impari a conoscere il terreno su cui stai. Ti senti connesso con la terra, ti senti “terra terra”. I piedi sono le radici dell’uomo. Le scarpe sono come un isolante che interrompe la corrente elettrica tra te e la terra. Camminare senza scarpe ti fa dei continui massaggi naturali sotto i piedi e i piedi ti si aprono, mentre con le scarpe restano chiusi in queste scatole di cuoio. In termini di paragone, le mani e i piedi sono più o meno la stessa cosa, no? Tu prova a chiudere le mani in delle forme rigide per tutta la vita – si paralizzano. Senza scarpe i piedi si rafforzano, cresce uno strato duro sotto, tipo calli, e dopo due o tre mesi non ti entra nemmeno più una spina. Cammini dove vuoi. Anche di notte io ho sempre camminato a piedi nudi. Per cui non so perché la gente continui a portare le scarpe. In ogni caso uno che è entrato nel trip, che vuole provare ad andare a piedi nudi, non importa chi sia, è già un discepolo. È già uno che vuole conoscere da vicino com’è questa storia. Allora vedrai “i gioielli del dharma”, perché ti farà male ai piedi andare sulle pietre e sulle spine, però la mente ti si rafforzerà e prenderai coscienza dell’idea che dal male viene il bene. Anche dormire sul duro, per me era diventato normale. Uno che è abituato a riposare per terra, quando si trova su un materasso dorme da dio! Dal brutto viene il bello. Mentre chi è abituato ai materassi, quando si distende per terra non riesce a dormire tutta la notte. Non ti sembra logico? Il bello e il brutto, il buio e la
luce, l’uno è la ragione dell’altro. Con i valori dell’uno si valuta l’altro. Quindi, cosa vuol dire? Che da una situazione negativa ne viene una positiva, mentre da una positiva ne viene una negativa. L’asceta coglie le spine prima delle rose. I fachiri camminano sul fuoco o dormono su un letto di chiodi nella consapevolezza che facendosi male arrivano al bene. Come i santi che si facevano mangiare dai leoni per andare in paradiso. Eh sì, in tutte le religioni c’è l’idea della rinuncia, dell’umiltà e della mortificazione della carne. Cos’è sta “mortificazione della carne”? Quando Gesù diceva che bisogna odiare il padre, la madre, i figli e persino la propria vita, cosa voleva dire? Cosa vorrà mai dire? Sono solo parole? Odiare la propria vita per raggiungere dio è dura, eh! La mortificazione della carne è la liberazione dall’ego. Mortifichi questo ego, lo porti sotto la pioggia o non ti curi di te e di quello che ti può succedere, perché sei parte del tutto. Quindi hai un’idea più ampia, che ti viene dal perdere l’identità, dall’andare oltre gli attaccamenti dell’ego. Perché l’ego cos’è? L’ego è quello che ti dà le paure, no? “Io ho paura.” Se non ci sei, di cosa hai paura? Sei uno zombie, e uno zombie non ha paura di niente. Non ha paura di essere distrutto, di non essere più “io”, di scomparire, cioè di morire. “Lasciatemi morire!” Il punto è la liberazione dell’io, in nome di dio. E se ci riesci e non ci sei più come entità separata, allora vai oltre la vita e la morte. Sei il Tutto, e il Tutto né nasce, né muore. Mi segui? La mortificazione della carne è un esercizio di umiltà e rinuncia. Come lo sono i digiuni, come lo sono tutte le pratiche di liberazione dagli attaccamenti. I musulmani, che sono più ferventi, si flagellano con le catene, ta-ta-ta, giusto per liberarsi dalla paura del dolore. E c’è un gruppo di sadhu, gli aghori, che vivono dove si bruciano i corpi dei morti e a volte ne mangiano anche un pezzettino. Avevano costruito una nuova stazione di polizia a Manikaran perché si sviluppava questa storia della produzione del fumo, il business locale era quello. Una volta i poliziotti sono arrivati dal guru. Mi hanno visto lì, mi hanno fatto delle domande e volevano portarmi via. «No, lui è con me» ha detto il guru. Il poliziotto si è incazzato. «Come ti permetti di dire cosa devo o non devo fare? Come ti chiami?» «Mi chiamo Mohan Puri.» «E tu chi sei di tanto?» «Niente di tanto.» Allora questo maresciallo ha guardato un po’ le facce dei local che dicevano che lui andava bene, che era un buon guru per l’ambiente, che da quarantacinque
anni era lì. Sai, quarantacinque anni che uno è in un posto contano. E alla fine non mi hanno portato via. Avevo avuto la garanzia di questo qua. Lui era positivo, era un bel baba, era tenuto di conto lì, perché non aveva niente. I guru io li prendevo come una medicina, un cucchiaino alla volta. Se ne prendevo due o tre mi veniva il mal di pancia. Per cui andavo e tornavo, ma Mohan Puri era un punto fisso. Avevo persino dato il suo indirizzo a mio padre e gli avevo scritto: “Dài, vieni a vedere com’è la situazione”. Volevo fargli conoscere il guru, perché mio padre faceva il commercialista e aveva sempre avuto delle difese ad accettare la dimensione di ricerca. Purtroppo, quando mio padre è venuto a cercarmi a Manikaran io non c’ero e nessuno sapeva dov’ero. In verità ero in un paesino a una ventina di chilometri da lì, senza potermi muovere perché ero stato morso da un serpente. Ero andato a trovare un amico, Beppe di Milano, che aveva affittato una casa fuori mano. Una mattina, dopo che ero stato a cagare in giungla, stavo ritornando lungo il sentiero quando d’improvviso ho sentito uno strappo violento al piede. Mi è venuto subito da pensare che mi aveva morso un serpente, anche se non sapevo come mordevano i serpenti. Però non poteva essere un topo. Ero senza pila ma sono giusto riuscito a vedere quest’ombra che andava via nell’erba. Preoccupato, correvo un po’ mentre tornavo a casa. E niente, c’erano due amici che stavano lì con me. «Svegliamo il padrone di casa che è del posto, se ne intende!» L’indiano ha guardato la ferita e mi ha chiesto quanto lungo era il serpente. «Sì, questo è uno velenoso.» In zona ce n’erano parecchi, ha detto, erano tipo vipere. Ogni tanto qualcuno moriva di questi morsi. «Bisogna chiamare subito il dottore!» Ha allacciato la mia gamba stretta, alla caviglia e al polpaccio, ed è partito di corsa con il mio amico Beppe. Stavamo a due o tre chilometri dal paese, quindi dovevano fare in fretta. Io sono rimasto lì e il punto in cui mi aveva morso il serpente ha cominciato a gonfiarsi. Si gonfiava così velocemente che si vedeva a occhio nudo, come quando gonfi un palloncino. Io avevo visto i film di Tex Williams, dove in questi casi facevano un taglio e succhiavano il veleno. «Dài, tagliamo, tagliamo!» ho detto all’altro ragazzo che era rimasto con me. C’era un coltello arrugginito e questo tipo ha fatto due tagli sulla ferita, è uscito il sangue e lui me l’ha succhiato. Succhiava e sputava, succhiava e sputava. Nell’attesa, con la gamba che mi si gonfiava come una zampogna, ho preso i filtrini che erano rimasti dalle dosi di eroina che ci eravamo fatti e me li sono sparati uno dopo l’altro. Era la fine di questa storia del sali e scendi con l’eroina e
ho finito tutta la roba che avanzava perché ero così preoccupato di questa storia del serpente. Probabilmente non era la migliore medicina, ma mi toglieva un po’ di paranoie. Finalmente è arrivato il dottore ayurvedico. Ha subito messo sulla ferita una pappetta di un legno grattugiato su una pietra e mi ha fatto bere un cucchiaio di un olio di foglie. Io cadevo dal sonno, la testa mi ciondolava qua e là e gli occhi erano a mezz’asta. «Mi raccomando, assolutamente non lasciatelo dormire!» Mi ha fatto un’iniezione di qualcosa che non era proprio un vaccino ma mi aumentava un po’ i battiti cardiaci, che erano rallentatissimi, e se n’è andato. A causa del veleno acido del serpente mi è venuta un’infezione che è divampata e ha preso tutto il piede. Invece che rimarginarsi, intorno alla ferita la carne si sgretolava. La gamba era ingrossata moltissimo e non potevo camminare. Quindi ci ho messo più di un mese a organizzarmi per ripartire. Il ragazzo che aveva succhiato il veleno ha avuto gravi problemi di stomaco e se l’è passata ancora peggio. Mentre il mio amico Beppe andava in giro a scherzare che avevano ritrovato il serpente morto stecchito. «Dopo aver morso Cesare il serpente, poveretto, è rimasto avvelenatissimo!» Circolava questa favola che il serpente era morto mentre io ero sopravvissuto. Quando finalmente sono tornato a Manikaran, mi hanno detto che mio padre era appena andato via. Allora sono andato a cercarlo nella capitale, a Delhi, ma lui non c’era già più. Era tornato in Italia perché gli avevano fregato il portafoglio lasciandolo senza una lira, proprio come un fricchettone. Ma lui ha mostrato un grande spirito imprenditoriale, perché mentre alloggiava in albergo, in attesa che gli arrivassero i soldi dall’Italia, andava ad accompagnare i turisti appena arrivati nel bazar, dove ormai conosceva i commercianti, e riusciva a svoltare. Per colpa del serpente io non ho incontrato mio padre, che era venuto fino in India a cercarmi. Qualche anno dopo sono tornato a Manikaran. Era molto cambiata. In passato c’era poca gente, perché la strada si fermava qualche chilometro prima. Adesso c’erano autobus, pensioncine e turisti che andavano a rilassarsi nei bagni termali. E il guru non c’era più. Nessuno sapeva che fine avesse fatto, se era morto o no. Quando un sadhu va, va – vai a sapere dove va.
DIGIUNO
Dopo la Claudia sono passati alcuni anni che non mi accoppiavo con nessuna donna. Ho fatto un periodo di celibato, perché avevo già avuto varie esperienze, quei percorsi li avevo attraversati. Ma, tornato a Hampi, mentre stavo nel tempietto diroccato vicino al fiume, ho conosciuto una ragazza che mi piaceva moltissimo. Era francese. L’avevo vista una volta lungo il fiume e avevamo fatto il bagno insieme. Un incontro, mezz’ora, baci e carezze eccetera, però senza fare l’amore. Io di solito stavo davanti al tempietto perché da lì vedevo i passaggi, la gente che andava e veniva. Vivevo di pubblico, mi portavano qualcosa. Ero un baba seduto in questa vecchia struttura di granito e, a forza di fumare, erano caduti i semi ed erano cresciute delle piante di ganja. Il tutto aveva un certo impatto. Qualche giorno dopo è ripassata la francese. Se uno entra dentro il tempietto diroccato, dietro c’è un pianoro e poi una grotta molto spaziosa. Era nascosta, il pubblico non la vedeva e non immaginava la sua esistenza. Per cui noi andavamo là dietro quando volevamo imboscarci. Lei era molto bella e sentivo che mi sarei innamorato, anche perché abbiamo fatto l’amore per qualche giorno e quindi ero impregnato di liquidi. Avevo molto trasporto verso di lei. Poi un giorno lei ha detto: «Vado in banca a prendere dei soldi». Fino a quel momento si viveva lì, al dhuni, io facevo da mangiare e mangiavamo. Non si era mai parlato di soldi, anche perché non ne avevamo bisogno. Stavamo lì, insieme. Le cose arrivavano in offerta. Be’, lei era abituata così, con i soldi, e quando non ne aveva andava in banca. È normale, no? Io invece ero abituato a vivere senza le banche. Il mattino mi alzavo, bevevo un tè caldo, ascoltavo il corvo nell’albero che faceva ka-ka-ka, e poi vedevo come si svoltava la giornata. È una voce popolare che, quando i corvi gracchiano tanto la mattina, in giornata arriverà pubblico. Però lei mi aveva riportato in una realtà sociale. Mi rivedevo in una relazione di coppia con tutti gli annessi e i connessi, le responsabilità e i valori legati a quel tipo di relazione, che mi avrebbero tolto da una vita di ricerca libera.
Per cui, quando lei è andata in banca, io ho preso la mia coperta e la mia borsettina, sono andato alla fermata dell’autobus e sono partito. Avevo avuto l’informazione che ci sarebbe stato un incontro di sadhu molto importante nel sud dell’India, in un posto che si chiamava Srisailam. In quella zona ci sono chilometri di giungla in cui, avevo sentito, abitavano ancora dei gruppi di eremiti che mantenevano i vecchi valori. In ogni caso ho preso il bus per Srisailam, in modo da arrivare in tempo per Shivaratri. Shivaratri è la festa più importante di Shiva, come il Natale lo è per i cristiani, e la prassi è che nei tre giorni prima di quella notte si fa il digiuno. Al limite si può mangiare un po’ di frutta e noccioline. Dopo due giorni io avevo una gran fame. Sono andato davanti a un ristorante dove davano da mangiare ai poveri, funzionava a ticket. Quando un’anima generosa passava e pagava un ticket, la prima fila dei poveri accucciati lì davanti poteva entrare e prendersi un riso con lenticchie. Io mi sono seduto in fila con loro. È passato un ispettore della polizia e mi ha visto vestito da sadhu che aspettavo di mangiare. «Tu chi sei?» «Cesare. Italian baba.» Non raccontavo bugie. Allora mi ha preso e mi ha portato via. Mi ha tirato via per un mio errore, per un mio gioco karmico. Non avevo fatto nulla di male, però non avrei dovuto mangiare. Un sadhu in particolare non dovrebbe toccare cibo in quel periodo. Per cui ho dato un’evidenza negativa. Quando mi hanno portato alla stazione di polizia parecchi baba sono venuti a difendermi. Perché ero con loro, ero uno di loro. «Rilasciatelo, rilasciatelo!» Per loro era un’altra azione del governo contro la religione. Ok, avevo sbagliato perché avevo fame, ma da lì a mettermi dentro... I sadhu erano già incazzati con il governo perché per generare più elettricità aveva fatto una diga sul fiume Krishna e l’acqua aveva sommerso degli antichi bagni. «Ormai ho firmato il mandato di carcerazione» ha detto il giudice. «Non posso più tornare indietro.» Allora questi sadhu, per ripicca, sono tornati da me e mi hanno dato una dritta. «Tu non ti preoccupare, ma non mangiare più. Il resto lo facciamo noi. Vedrai che esci.» Quando sono arrivato in carcere non ho mangiato. Da quel momento in poi, dagli altoparlanti del tempio grande, i baba, quando facevano i canti della sera,
parlavano sempre di me. Cantavano la storia di questo baba straniero che era stato messo dentro solo perché era un baba. Intanto, in cella, io avevo il supporto dei tre detenuti che stavano con me. Non prendevo cibo, ma bevevo il tè, per cui quando al mattino e al pomeriggio portavano il chai bollente, gli altri dividevano i loro tre chai in quattro per darne uno in più a me. Visto che non mangiavo, chiaramente nemmeno defecavo. Però tutte le mattine i detenuti li portavano fuori dalle mura del carcere, scortati dalla polizia, a cagare. Non c’erano servizi all’interno di quel carcere. Ci mettevano tutti in cerchio, lì in giungla, i più pericolosi per giunta incatenati, e sotto i fucili puntati i detenuti dovevano cagare. Non era proprio la situazione più rilassante. Io non cagavo, andavo a fare un giro. Ero rinchiuso tutto il giorno e questo era l’unico momento che si usciva a prendere una boccata d’aria. Fatti i bisogni, ci scortavano fino a una fontana all’aperto a fare il bagno. I digiuni ti avvicinano sempre a dio. Sono una delle pratiche più correnti per arrivare a certe concezioni, a un contatto. I primi tre o quattro giorni sono i più difficili, poi uno non sente nemmeno più il bisogno di mangiare. Ti senti leggero, con sempre meno attaccamento alla terra. Una mattina, quando siamo usciti a cagare, il sole stava giusto sorgendo. Era metà fuori e irradiava tutto di rosso. Io camminavo in fila con gli altri detenuti, avevo gente dietro e davanti, ma lì mi sono fermato. Sono uscito dalla fila e, mentre gli altri continuavano ad andare avanti, io in un modo lento, concentrato, ho guardato il sole. «Fratello, qui succede di tutto, però tu sei sempre lì, grande...!» E a mani giunte ho salutato il sole nascente e ho fatto un piccolo inchino. Nel momento che ho fatto questo inchino mi sono sentito sollevare. Ho vissuto questa sensazione proprio di levitazione. Ho provato a camminare, a muovere le gambe, ma ho sentito che i miei piedi fluttuavano nell’aria. Poi, qualche secondo dopo, li ho sentiti tornare a terra. Ho guardato gli altri, ma sembrava che nessuno si fosse accorto di niente. Imperterriti, continuavano la loro marcia. E niente, sono rientrato nella fila e mi sono rimesso a camminare. Mi è venuto poi il dubbio di aver sognato. In fondo non mangiavo da molti giorni e potevo aver avuto delle allucinazioni. In ogni caso la cosa mi aveva pompato. Già mi pompava la situazione in cui mi trovavo, il fatto di essere il pupillo del villaggio, di essere sulla bocca di tutti. Più andava avanti questa storia e più montava, fino a che il caso è stato inoltrato al governo di Bombay.
«Guardate, c’è un baba italiano qui che continua a non mangiare. Adesso è già passato un mese.» La notizia di questo straniero è apparsa anche sul giornale e due del governo sono venuti a parlarmi. Io non li ho trattati tanto bene. Mi venivano a chiedere chi ero, come mi chiamavo, cosa volevo mangiare e perché non avevo passaporto. «Ma cosa volete da me con queste storie?! Anche il mio guru me l’ha detto, un sadhu deve stare senza niente, deve cambiare nome e perdere la sua identità. Si chiama “baba” e basta. E adesso voi venite a chiedermi il passaporto?» Quindici giorni dopo ne hanno mandati altri due. Facevano le solite domande. “Chi sei? Da dove vieni? Di chi sei figlio?” eccetera, e trascrivevano. Io ero incazzato con questa gente, nessuno aveva una relazione vera con me. Li affrontavo a viso aperto. «Ehi, ma sono un sadhu. Alzatevi in piedi e fate un inchino! Cosa succede qui?!» Ero molto nella dimensione di dio, perché appunto non mangiavo. Mi sentivo leggerissimo. E niente, comunicavo così con questi tipi, aspro. Mi veniva di fare così. Facevo un po’ di dramma, gli dicevo due o tre battute e li mollavo lì per tornarmene in cella. Adesso non voglio dire cose grosse, perché non è che me l’hanno presentato, però a un certo punto mi è giunta voce che era venuto uno dei figli della Indira Gandhi, il primo ministro, a vedere la situazione. Ma a differenza degli altri politici che mi venivano a incontrare, di lui ho solo sentito la voce mentre parlava col direttore del carcere. Il carcere era molto piccolo, era composto di tre celle e la stanza del direttore. «È venuto Gandhi, è venuto Gandhi!» cantava un poliziotto. Era proprio uno stile della zona, nell’Andhra Pradesh si usa parecchio fare così. È molto colorata la gente lì. Il poliziotto che faceva la ronda cantava per trasmettere questa notizia ai detenuti. Anche i detenuti la sera cantavano da cella a cella le storie che erano successe. Specialmente dalla cella dove ero io cantavano alle altre celle cosa facevo, perché ero un po’ la favola del momento. Niente, è arrivata questa notizia che c’era il giovane Gandhi. Adesso, se c’era o non c’era non te lo so dire. In ogni caso, a questo personaggio politico gli spiegavano com’era e come non era. «Non vuole mangiare niente.» «Ma è davvero un sadhu?» «Mah, lui dice di esserlo.» «Allora è normale che faccia un digiuno!» Ha fatto questa battuta e se ne voleva andare. Ma appena è uscito dal carcere
ha trovato tutta una popolazione condizionata dai canti del tempio. Era un paese piccolo e i baba che gestivano il tempio avevano mandato avanti la protesta. La cantavano dagli altoparlanti. Quindi tutto il paese era con me. «Ma che fate, mettetelo fuori, quello là!» «Perché tenete dentro quell’uomo? Non ha fatto niente!» «È un sadhu, non deve avere passaporto!» «Fatelo uscire, fatelo uscire!» Io sentivo tutto da dentro e a un certo punto mi è sembrato di sentire la risposta. «Va bene, è uscito. È fuori!» E allora mi sono detto: “Sono fuori a questo punto. L’ha detto Gandhi che sono fuori”. Il personaggio importante è partito, ma alla fine della giornata io ero sempre dentro. Sentivo un continuo mormorio del pubblico che passava davanti al carcere. Il paese si era surriscaldato. Sembrava che persino le guardie carcerarie avessero timore di andare in strada, perché la gente del paese gridava: «Ma dài, quando lo fate uscire?!». Li prendevano di punta. C’era una situazione abbastanza tesa. All’alba sono arrivati due poliziotti. «Prepara le tue cose. Andiamo via!» Quali cose? Giravo con una coperta quando mi avevano arrestato, ma quella l’aveva già presa qualcun altro. Ero rimasto con un gonnellino nero e nient’altro. Ero magrissimo, lo stomaco tutto all’interno, le ossa tutte fuori. Dopo un mese di digiuno, capirai, sembravo Mata Kali, cazzo, la dea della distruzione! Quando le guardie mi hanno portato alla stazione degli autobus, volevano farmi aspettare dentro agli uffici. «No, no» ho detto. «Sono stato dentro fino adesso!» Mi sono seduto proprio lì, sulla piattaforma della fermata del bus. Dopo due minuti è arrivato un sadhu con un grappolo d’uva incartato in un foglio di giornale e me l’ha messo in mano. Poi è arrivato un altro tipo, mi ha toccato i piedi, mi ha chiamato “baba” e mi ha dato due pakora. Poi è incominciata ad arrivare tutta la popolazione del paese, a portare questo e quell’altro su piatti, vassoi, o avvolto nelle foglie. Presto c’erano centinaia di persone e io chiaramente non potevo mangiare tutto quello che mi offrivano. Prendevo e ridistribuivo. Era una scena, guarda, un miracolo della vita! E così ho ricominciato a mangiare alla grande. Lì mi sono sentito veramente baba. Dopo il lungo digiuno ho incontrato il dharma, l’offerta e il riconoscimento popolare che mi ripagava di tutto quel che
avevo passato. Ma non è che lì mi abbiano liberato – no, no! Mi hanno solo sbloccato da quel villaggio in tensione per trasferirmi in un carcere più grosso. Hyderabad è una grande città e lì c’è questo carcere con mille detenuti musulmani e mille detenuti hindu. Nel reparto musulmano c’è una moschea e nel reparto hindu c’è un tempio di Shiva. Una prigione di più di duemila detenuti è come un paesino. Tu pensa a tutte quelle camere, le mense, i cortili! Vabbè. Mi hanno messo nel reparto musulmano, vai a sapere perché. C’erano queste celle, ognuna di settanta o ottanta persone, stanzoni lunghissimi pieni di gente da parte a parte, con un cesso in fondo. I posti letto arrivavano fino quasi al cesso. Davanti, per un’area di qualche metro quadro, c’era bagnato, perché cento persone che vanno al cesso tutto il giorno creano proprio umidità. E una puzza che non ti dico. Il primo giorno mi fanno vedere il mio posto: l’ultimo della fila, proprio di fronte al cesso. Ero debole, tutto ossa per il digiuno, e non mi andava bene stare lì. Ho preso le mie cose e le ho messe dove c’era la porta. C’era uno spazietto vicino alla porta. «Io mi metto qua.» E ho messo giù le mie cose. Arriva uno che dice: «No, tu non puoi stare qua. Torna laggiù!». «No, guarda, sono appena arrivato, sono stanco. Lasciami perdere, mi fermo qui, poi quando vengono le guardie vediamo di trovare un’altra cella.» Non era la prima volta che andavo in galera, più o meno sapevo come relazionarmi. Poi ne arriva un altro. «Ehi, vai là. Qua non ci puoi stare!» «Come non ci posso stare? Perché me lo dici tu? Sei uno come me qua dentro, no? Non me l’ha detto ancora nessun guardiano, e ne sono passati due o tre. Fatemelo dire da loro, no, dove posso stare e non posso stare. Tu chi sei, cosa mi devi venire a dire?» Lui mi prende per il braccio e cerca di strapparmi dal posto. Lì ci davano delle gavette di alluminio grosse. Allora prendo questo piattone e glielo sbatto in faccia. Non l’avessi mai fatto! Ottanta persone si sono alzate a darmi botte. Poi è arrivato il più grosso della cella, un bestione che mentre mi tenevano si è messo a darmi pugnoni in faccia. Mi hanno ridotto tipo chutney, una poltiglia. Proprio fine fine mi hanno fatto! Dopo un quarto d’ora, venti minuti, sono arrivate le guardie, hanno aperto la porta e mi hanno tirato via da lì. Ero in condizioni disastrose. Dal reparto musulmano mi hanno portato al reparto hindu. E lì i detenuti mi hanno preso, mi hanno accudito, curato, dato un bicchiere di latte, mi hanno asciugato il sangue, “Baba, baba...” eccetera. Ero distrutto, cazzo, mi avevano menato e loro hanno aiutato un poveretto. Lì ognuno è solo. C’è competizione fra
hindu e musulmani, no? Menato dagli uni quando ero ancora così magrolino, vengo aiutato dagli altri. Il dottore mi ha ordinato la carne due volte alla settimana e un litro di latte al giorno. E piano piano mi sono rimesso in forze. Però mi hanno tagliato le jata, i miei capelli infeltriti che erano cresciuti molto da quando era cominciata questa storia. Girando da un carcere all’altro mi si erano ammassati in testa milioni di pidocchi. Di solito con la cenere si regola la loro popolazione, ma lì non avevo né cenere né altro. Avevo notato che quando sbattevo i capelli e cadevano fuori i pidocchi, le formiche che passavano accorrevano subito e se li portavano via. Erano formiche abbastanza grosse ma non mordevano, allora avevo studiato la difesa di dormire con la testa su un formicaio. C’era una colonna di formiche che mi salivano in testa e le vedevo ripartire ognuna con un pidocchino in bocca. Ma alla fine era proprio indispensabile tagliarli. Ricordo che il tipo, il parrucchiere del carcere, si teneva molto indietro e mi prendeva i capelli con la punta delle dita, perché saltavano fuori i pidocchi. Poi li hanno portati via e bruciati. Basta. Anche lì, a Hyderabad, sia dai musulmani che dagli hindu, c’erano due o tre celle dove vendevano pacchettini di ganja a venticinque paisa la busta. Un quarto di rupia, quindi era un prezzo molto popolare, forse più basso di quanto potevano costare fuori. L’alcol era supervietato, invece l’erba, se qualcuno la fumava, non gliela menavano più di tanto. Però io ero senza soldi. Figurati che lì i detenuti fumavano con pipe raschiate da pezzi di mattone. Poi sono arrivato io. Avevo visto che c’era della bella terra, grossa, nel cortile del carcere. Allora mi sono messo a fare i chilum. Facevo delle pipe professionali: serpenti, cobra, elefanti, che andavano a ruba. Per un chilum mi davano due o tre pacchettini d’erba. Ero ben organizzato. Pensa che era un carcere dove nessuno usava i fiammiferi. C’era una qualità di pietra, un quarzo bianco, che era mischiata alla terra del carcere. Tutti usavano questa pietra con l’acciarino, un pezzettino di metallo che – zic-zic – faceva la scintilla. All’antica. Per cui più di duemila detenuti si accendevano le sigarette – fumare in carcere è l’attività principale, no? – con la pietra focaia. Era lo stile del carcere da sempre, e chi arrivava lo imparava subito. Risparmiavi i soldi per i fiammiferi. Mi ricordava il fachiro musulmano che avevo conosciuto anni prima a Hampi e che diceva che i fiammiferi sono un peccato! Accendi con una pietra proprio perché sei un ricercatore, cercando una dimensione che non sia condizionata dalla società e dai suoi prodotti. In qualsiasi posto ti trovi hai la conoscenza che ti serve per accenderti un fuoco, anche in carcere. È una presa di potere individuale. A un certo punto uno mi chiede: «Tu quando esci?».
«Che ne so. Fanno tutto loro, ti mettono dentro, ti tirano fuori. Un giorno mi faranno anche uscire.» «Ma vai su in ufficio, chiedi e te lo dicono, no?» Allora vado su in ufficio. «Senta, io quando esco?» Il tipo guarda fra le carte. «Domani.» Dato che avevo sempre solo questo longi nero, per andare in città mi hanno dato una camicia con sopra un disegno di barche a vela, e cinque rupie. Appena uscito dal carcere sono andato dritto al negozietto lì di fronte e ho preso due pakora e un tè. Poi sono andato a piedi fino alla stazione. Nella stazione di Hyderabad c’era un guru che si chiamava Sri Ram Das. Adesso è morto. È morto in un pellegrinaggio sull’Himalaya, mentre andava ad Amarnath. È venuta giù una slavina che ha sepolto trenta persone e c’era anche lui, poveretto. Dimmi tu. E vabbè. Sono arrivato e lui mi ha detto di fermarmi lì e, dato che il suo ashram era nella stazione stessa, dopo qualche giorno mi avrebbe risolto un biglietto per dove volevo andare. L’ashram era lì da sempre, e lui li conosceva tutti quelli dei treni, gli impiegati, i bigliettai eccetera. Era un tempietto piccolo, sul primo binario. Poi si è sviluppato in un tempione. Hanno occupato tutto il primo binario e la stazione comincia dal secondo binario in avanti. Se tu vai in quell’ashram adesso, non ti accorgi nemmeno di essere in una stazione. Ci sono storie, cose, muri, bagni, e cantano il Ramayana giorno e notte, ventiquattr’ore. Ci sono un pacco di devoti che ci vanno. Tengono delle mucche grossissime, non ho mai visto in India delle mucche così grosse. E dire che in quell’ashram non bevono nemmeno il latte. Non lo prendono, lo lasciano tutto ai bambini delle mucche. L’ashram di Nampally Station, la stazione più grossa di Hyderabad, che è una città della madonna. Proprio un ashram da vedere! Quando è morto il guru hanno chiamato il suo discepolo, che abitava sull’Himalaya, e lui è venuto giù e ha preso in mano la situazione. Va alla grande. Ogni tanto ci passo ancora. L’ultima volta mi hanno fatto trovare un biglietto per un treno con l’aria condizionata. Dopo la prigione di Hyderabad sono arrivato in Italia con i capelli corti, perché me li avevano tagliati. Quindi niente, ero più accettabile, no? «Senti, è tutta la vita che giri, che fai. Dài, adesso fermati un attimo» mi ha detto mio padre. «Sei arrivato fino a qui, stavolta ti do una mano. Tutto quello di cui hai bisogno me lo dici e io ti do un supporto. E tu fai il pittore.» Mi ha preso una casa che costava due milioni al mese. Era un appartamento grossissimo, con la scala che scendeva giù nel negozio. Una cosa di lusso.
Combinazione, trovo Galeno, che, mentre ero stato in galera a Hyderabad, era stato in galera anche lui, a Manikaran. Siamo usciti parallelamente e magicamente ci siamo ritrovati a Torino. Così mi ha dato una mano a rimettere a posto casa, negozio e tutto. Quella volta lì ero provato. Per l’ennesima volta ero stato in galera, c’era stato tutto quello stress a Hyderabad e storie assurde. Ero stressatissimo, avevo fatto il digiuno, e quando sono tornato a Torino ero proprio esausto. Probabilmente sarei restato in Italia, mi ero già lasciato convincere a una vita borghese, alle case e le cose e a riprendere l’attività di pittore. E lì è dio che mi ha ripreso per la cuffia. Mentre cercavo di avere la residenza per poter registrare il contratto della casa, l’ufficio del registro ha capito dov’ero e mi è arrivata una notifica definitiva per uno dei miei tanti casi. Dovevo farmi sette mesi. Quindi sono andato da mio padre. «Senti, papà, non posso. Molliamo tutto.» «Ma dài! L’hai appena messa a posto. Adesso fatti questi sette mesi. Io ti tengo la casa e tu vai in carcere. Vediamo di trovare un bel carcere mandamentale, una situazione accettabile, così finisci e basta.» «Mi sono appena fatto sette mesi a Hyderabad. Adesso mi chiedi di farmene altri sette. Passo la vita in galera! No, no, lasciamo perdere tutto, ritorno in India. Dammi una mano.» Mio padre mi ha aiutato anche quella volta lì. Mi ha dato i soldi, mi sono organizzato un passaporto, e sono ripartito con Galeno per nuove avventure.
DEVATA
Per un periodo ho abitato nelle grotte alte dell’Himalaya, a quattromila metri, sulla frontiera con il Tibet. C’era un’altra aria lassù. A volte scendevano le nuvole e c’eravamo proprio nel mezzo. Era come essere in cielo. Dalla valle di Manikaran, dove avevo vissuto per un po’ con il mio secondo maestro, il sentiero continua a salire verso i paesini sparsi per le montagne. L’erba ci cresce da tutte le parti e durante la stagione veniva gente su per quella pista a strofinare le piante per fare il fumo. C’era un altro posto, Khirganga si chiamava, con una cascata di acqua calda dove tutti quelli che lavoravano in zona venivano a fare il bagno. Intorno si vedono delle belle montagne nevose, ma lì svallano un po’ e c’è questo altopiano dove la pendenza è dolce. Era un posto d’incontro e di smistamento. Proprio lì vicino c’erano un paio di grotte e io mi ero organizzato con un altro sadhu in una di quelle. Avevamo fatto un dhuni con lo sterco di vacca eccetera. Due baba in grotta, così organizzati, erano un darshan, una bella visione, no? Dopo il bagno la gente veniva a trovarci e svoltavano il tè, lo zucchero, le cose, le storie. Arrivavano quelli che portavano il fumo e gli altri che avevano raccolto la dhoop per fare l’incenso. Bastava fermarsi ad aspettare. Te ne lasciavano un pezzettino e dopo tre mesi tornavi giù con due o tre sacchi di incenso e un raccolto di charas di qualità. Era un buon posto. Ci sono tanti villaggi nell’Himalaya che si possono raggiungere solo a piedi. Per andare a scuola i bambini si fanno dieci chilometri, d’inverno per giunta nella neve. Sono bambini di montagna, gujjar, si chiamano. Quando sono un po’ più grandi portano le mucche in alto nelle montagne a pascolare. La mattina le mungono e poi scendono giù di corsa con due tanicone di latte, quaranta o cinquanta litri legati sulle spalle, per venderlo al bazar di Manikaran. Lì devono prendere lo zucchero, le mele, tutto quanto, perché non cresce molto all’altezza dove vivono loro. Poi tornano su, di corsa. Il sentiero è tutto in salita, quando lo facevo io partivo al mattino e arrivavo dopo il tramonto. Vivere in quelle
montagne vuol dire saper portare chili di cose dalla valle fino su al villaggio. Chi lo fa è un uomo. Lassù ogni villaggio ha la sua devata, la sua dea o divinità. Sono statuine in oro o argento, vestite di stoffe raffinate, che durante le feste vengono portate in giro in portantina. Due persone davanti e due dietro. Durante queste feste facevano una cerimonia molto forte, con un medium che andava in trance e veniva posseduto dalla devata. In molti posti le cerimonie le fanno un po’ false: solamente il dramma, i tremiti, la danza. Sono sempre meno i medium veri disposti a fare questo tipo di cosa, perché è abbastanza pericolosa, no? Tipo morte apparente. Chi, invece, lo fa in fede viene attraversato dalla dea, e il villaggio prospera perché resta regolato da questa entità superiore. Malana, per esempio, era un villaggio isolato che per la qualità del suo fumo era diventato molto famoso. Ci arrivava un flusso di soldi e di illusioni. Molti avevano incominciato a bere alcol e a divertirsi in modo pesante, c’erano stati dei disordini. Lì ci abitava un medium autentico che faceva la cerimonia con tecniche antiche. E a un certo punto, mentre era in trance, lo spirito della dea aveva annunciato che non si doveva più bere nel villaggio. Tutti hanno smesso di bere. Chi voleva continuare ha dovuto scendere a valle e cambiare villaggio. Quindi, in un momento in cui l’alcol incominciava a prendere piede, la devata aveva frenato questo fenomeno e il paese si era dato una regolata. C’era un altro villaggio sul costone della montagna, attorniato da un bosco di pini centenari, con poco più di una ventina di case in pietra e legno, e un tempio. Quando ci sono capitato, il tempio era disabitato. Ho acceso un fuoco e mi sono fermato. La struttura era chiusa ai tre lati e aperta davanti, con una vista sulla valle di Manali. In mezzo al villaggio passava un ruscello di montagna, limpido, in cui avevano sistemato un grosso tronco che convogliava le acque in un posto dove la gente andava a farsi il bagno. La gente di montagna non si lava troppo, al massimo una volta alla settimana perché i fiumi sono molto freddi, ma per i sadhu, specialmente se si occupano dei templi, è di prammatica lavarsi una volta al giorno. Io facevo il bagno al mattino, non troppo presto, aspettando che il sole battesse sulla sorgente. Cinque minuti di paura! Con la gente del posto non avevo molte relazioni. A sto baba straniero ci credevano e non ci credevano, esistevano delle opposizioni. «Ma chi è questo qui che arriva e si mette nel tempio? Sono due anni ormai che va e che viene...!» Avevo comprato una campana nuova, perché mancava al tempio, e volevo installarla nel giorno della festa. Ma è venuto fuori un brahmano, uno di casta alta, della famiglia che aveva costruito il tempio.
«Il tetto del tempio è tutto intarsiato e coperto di sculture di legno. Per metterci la campana bisogna farci un buco, rovinando quest’opera che a farla ci hanno messo degli anni. Quindi, no, non va bene.» Ha tirato fuori una storia così. Allora mi sono rivolto al gruppo degli harijan, i fuoricasta, che però dicevano di non poter decidere. «Chiediamolo alla devata» hanno detto. Io ero un po’ scettico, ma la mattina della festa ho voluto assistere alla cerimonia della dea che parlava, per farmi un’idea se era finta o no. I medium che vanno in trance non sono brahmani, sono gli harijan ad avere questa conoscenza. Usano delle tecniche sciamaniche. Di solito i medium sono persone che nella vita non fanno niente, si ubriacano, fanno i fannulloni, sono abbastanza deboli di mente. Non hanno un’intelligenza forte da contrapporre a questo fenomeno della trance, capito? All’inizio la musica seguiva i battiti del cuore: ta-tum, ta-tum, ta-tum, tatum, ta-tum, ma via via il ritmo accelerava sempre di più. Le trombe suonavano, i tamburi battevano forte. A un certo punto sembrava che il medium opponesse resistenza. È pur sempre un volo nell’aldilà, deve perdere conoscenza e passare in un altro mondo. Per cui a volte ha paura. «Ehi, cosa fai?!» Uno del villaggio l’ha preso violentemente per il bavero. «Cosa ti teniamo a fare qui, per ubriacarti tutti i giorni? Adesso vai!» Mi pareva che i local avessero provocato questa discussione apposta per agitarlo. Ta-ta-tum-tum, ta-ta-tum-tum, TA-TA-TUM-TUM, TA-TA-TUMTUM! Il ritmo dei tamburi si faceva sempre più incalzante. Un uomo continuava a far passare nuvole d’incenso sotto la faccia del medium. Era una scena da magia nera. D’improvviso il medium è cascato all’indietro, gli è rotolato via il cappello, gli si sono sciolti i capelli e gli è venuta la bava alla bocca. Sembrava un moribondo. Tutto il villaggio gli è andato intorno e si è inchinato davanti a lui. «Quando devo sposare mia figlia?» «Devo vendere quella terra?» «Dove devo costruirmi la casa?» L’oracolo rispondeva alle domande con una voce cavernosa. La voce dello spirito. Io mi guardavo questa storia, quando degli harijan gli si sono avvicinati. «Il baba ha comprato una campana nuova. Cosa dobbiamo fare, la dobbiamo mettere o non la dobbiamo mettere nel tempio?» «Il tempio è casa mia!» ha risposto lo spirito. «Tutto quello che succede nel tempio lo gestisco io. Quindi anche il baba è venuto a stare qui perché gliel’ho chiesto io. Ha comprato la campana perché gliel’ho detto io. Mettetela subito!»
C’è stato un momento di silenzio, di stupore. Poi la devata, attraverso il medium, ha continuato. «Toglietemi un velo...» C’era la statuina della devata lì, con la sua faccia dorata, coperta di sete. «E mettetelo addosso al baba!» Allora hanno tolto una stoffa giallo oro alla devata e me l’hanno messa in testa. È stata un po’ come un’incoronazione e io lì sono scoppiato in lacrime. Poi il medium, sempre in trance, è partito danzando e ha preso in mano una spada. C’era un caprettino nero che urlava terrorizzato. Degli uomini a torso nudo lo tiravano con una corda. La spada si è alzata in aria. Il capretto si è chetato improvvisamente, ha spalancato gli occhi e ha aspettato in silenzio. Aveva preso coscienza. In quel momento, dicono, lo spirito esce dal medium e passa nel capretto. Trac! – gli hanno tagliato la testa. Il sangue è schizzato. L’hanno portato via di corsa, scuoiato, tagliato a pezzettini e buttato dentro a un pentolone per fare il sugo, il prasaad, che è stato distribuito a tutto il villaggio. Sono pecorai di montagna, lì. È questa la loro cultura, molto dura. Io sono tornato al mio dhuni e mi sono fatto un chilum, cos’altro dovevo fare? Per coprire quell’emozione fortissima che mi era venuta fuori in pubblico. Avevo ricevuto questa indicazione – che indica quel che indica. Dopo quel fatto le donne facevano a gara per chi mi portava i mangiari migliori. Si era sparsa la voce che c’era un baba straniero lì che aveva una connection con la devata. La cosa si è sviluppata al punto che è venuto da me uno del villaggio per avvertirmi che anche altri volevano venire a vedere. «Baba, domattina arriva la polizia!» Sono andato via il giorno stesso. La polizia non sente ragioni. Devata o non devata, baba o non baba, fanno il loro lavoro e basta. Ero sceso in città e stavo per attraversare la strada a un incrocio quando mi sono trovato con la polizia davanti. Sai, i poliziotti stanno agli incroci perché c’è gente che va e che viene e se la vedono tutta, no? Come passa uno con una coperta sulla spalla e un secchiello d’acqua in mano, in assetto da sadhu, è probabile che gli facciano delle domande. I sadhu sono molto duplicati in India. Ci sono tanti mendicanti che si travestono da sadhu per ricevere più offerte e girano nei bazar e nelle stazioni. Sono ladruncoli. Ma spesso anche delle persone pericolose si fingono sadhu, questo è un dato di fatto. Io camminavo cercando di non guardare il gruppo di poliziotti, ma loro hanno notato questo sadhu un po’ strano che si girava dall’altra parte. Appena ho attraversato la strada, qualcuno mi ha messo una mano sulla spalla.
«Baba, vieni con me. C’è il capo che ti vuole parlare.» Mi ha portato dal graduato e per un attimo mi sono sentito crollare il mondo addosso. Mi sono ripassati davanti agli occhi tutti i drammi precedenti, “Tu chi sei? Da dove vieni?”, e mi portavano dentro un’altra volta. Era sempre successo così. In quei momenti pensi veloce. Avevo imparato che c’è sempre un modo per affrontare le cose e ho deciso di bluffare, di comportarmi come un sadhu indiano. Sapevo l’hindi già abbastanza da sostenerlo, avevo un accento del nord perché l’avevo imparato nell’Himachal Pradesh. Così, prima che il capo mi potesse fare una domanda l’ho affrontato io. «Bolé, bom Shankar!» ho declamato. «Ehi, allora tu, com’è, come va la vita? Quanti bambini hai?» Ne aveva tre o quattro. «Bene, bene! Io invece ho appena perso il mio guru e mi trovo qua. Quando l’ashram lo gestiva lui, c’era da mangiare tutti i giorni. Adesso che è morto sono venuto da lassù e sceso quaggiù.» Facevo dei giochi di parole per mantenermi sul vago: “Vengo da lassù, arrivo quaggiù” è un classico modo di dire dei sadhu per non dare spiegazioni più precise. «Il mio guru era un brahmano» ho continuato. «Finché c’era lui eravamo ben organizzati. Perché tu sai che i brahmani danno cento e prendono duecento!» E ci siamo fatti una risata. Quella storia del brahmano mi è proprio venuta così. Era una battuta che faceva qualche volta il mio guru a Manikaran, perché il suo guru era stato un brahmano, e mi era restata in testa. Il poliziotto era meravigliato. Mi vedeva con la carnagione un po’ chiara, ma ero talmente sciolto nel trip che... «Oh, baba, bevi qualcosa? Vuoi un chai?» «No, ho già bevuto stamattina.» Nel mio secchiello con l’acqua avevo dei fiorellini freschi. Li ho presi e li ho messi in mano, uno per uno, ai quattro poliziotti. «Shivaya namaha! Sia lodato Shiva!» Così li ho salutati e me ne sono andato. Ero felicissimo, mi sentivo padrone del mondo. Era la prima volta che dicendo balle ero riuscito a salvarmi. Mi sono ricordato di quando in Italia mi avevano arrestato per quella mezza sigaretta in tasca e l’avvocato mi aveva detto: «Il suo guaio è che lei ha confessato di aver fumato l’altra mezza!». Da allora non è più successo che io sia finito in prigione, perché avevo sviluppato una tale capacità nella lingua che riuscivo a fondermi con l’ambiente. E
a un certo punto mi ero anche liberato della paura di andar dentro.
BORSA
Ogni tanto tornavo a salutare Claudia, che abitava a Goa. Ma non stavo nelle case, andavo a dormire in giungla, sotto il grande albero di banyan. Una volta a Goa c’erano piccoli villaggi di pescatori, adesso è diventata un bazar. Dalla fermata dell’autobus fino alla spiaggia, una sfilza di negozi ai due lati della strada, chincaglierie, italian pizza e french restaurant, handicraft, shopping e hotel per chilometri. Il business si era andato sempre più elaborando: era arrivata l’elettricità e si erano organizzati con dj e altoparlanti per fare grandissimi rave party, con goa trance e techno music e migliaia di persone che arrivavano apposta da tutto il mondo. Le feste andavano avanti per tutta la notte e la musica migliore la tenevano per l’alba, quando sorgeva il sole. In giro per Goa avevo rincontrato lo spagnolo, Mariano, e con lui eravamo sempre in pista. Andavamo insieme a questi party. Io quando ballavo era un po’ tipo crisi epilettica, dita aperte e mani in aria. Prendevo un acido e ballavo tutta la notte alla ricerca di un punto di equilibrio. Avevo un modo di ballare, ma era proprio voluto, che sembrava dovessi cadere da tutte le parti. Mariano l’avevo conosciuto l’anno prima al dhuni in montagna e gli era piaciuto l’andazzo. Poi rollavamo nella stessa zona, sopra Manikaran, e abbiamo fatto un po’ di charas insieme. Mariano faceva business, i soldi se li guadagnava. Io invece giravo così, vivevo di offerte. «Stamattina scendo giù a Manikaran» fa un giorno Mariano. «Be’, vengo anch’io» dico. «Così scendendo mi fai svoltare un chai.» «Eh, ma tu sei sempre a chiedere. No, basta!» E parte da solo. A metà strada lo ritrovo davanti a un piccolo chai shop. C’erano tre indiani che giocavano a carte, tra cui il padrone della botteghina, e Mariano che chiedeva un tè a questo qua. «No, non te lo faccio. Vai più avanti!» «Ma come?! Voglio solo un chai, i soldi ce li ho per pagare.» «No, no, no, niente chai. Adesso c’abbiamo da fare!» Ce l’avevano con gli hippie che rompevano le palle. In quel momento arrivo io.
«Oh, baba, maharaja! Bevi un chai?» dice il proprietario. «Sì, volentieri» dico. Mariano si è incazzato con il tipo. «Lascia stare, è un amico» ho dovuto dire al padrone. «Se fai il chai, fallo anche per lui.» Da allora Mariano e io abbiamo incominciato ad avere un minimo di connection. Mi è venuto naturale a un certo punto rimanere più stabile a Goa. Ho acceso un dhuni, un dhuni stagionale, in giungla. Sotto gli alberi uno rimane un po’ più protetto. Accanto al dhuni avevo persino l’acqua di una sorgente che scorreva continuamente e l’ho regolata con una tegola, in modo da raccoglierla in una vaschetta. Tipo camera con bagno. Il tutto si affacciava sulla spiaggia, con la vista un attimo coperta da una fila di cocchi. E poi c’era il mare. Mariano era un frequentatore del dhuni, ogni tanto passava di lì a fumare qualche chilum. Lui in quel periodo era ricco, lavorava appunto, e stava con una ragazza tedesca che aveva la casa a Goa. Ma c’erano dei contrasti. Quando la ragazza è partita, lui è venuto a stare con me al dhuni. Mi stava vicino, anche se non si era ancora dichiarato baba. Gestivamo insieme questo dhuni e ci siamo restati un paio d’anni, senza muoverci. Io ero abbastanza conosciuto, era da sempre che ero in giro, per cui veniva parecchia gente. La sera la spiaggia davanti diventava un meeting point di decine di freak che si sedevano a farsi un chilum e guardare il tramonto. A buio ognuno tornava a casa sua. Ogni mattina, prima di iniziare la sua attività, c’era un ragazzo indiano, Mahadev, che passava con un vassoio di dolci e faceva un’offerta al dhuni. C’era questa idea dell’offerta a dio in segno di devozione. Poi portava i dolci al suo stand in spiaggia per venderli. Io non mi muovevo dal dhuni. Facevano tutto loro, la spesa, tutto. Andava in automatico. Cucinavo senza mai sapere bene chi c’era o chi non c’era. A volte facevo da mangiare per due, poi d’improvviso ne arrivavano altri cinque. Però il cibo era in offerta, eravamo insieme e il messaggio era di condividere, quindi: «We share». «Venite, venite, restate a mangiare!» «Ma ne avete fatto poco...» Cosa gli dici tu? «We share, no problem!» In un buco nella pietra accanto al dhuni abitava un serpentino verde. E niente, una volta era capitata una decina di persone lì al sole e il serpente aveva
appoggiato la sua testina fuori dalla tana per osservarle. Alcuni avevano portato della frutta, papaya, ananas, manghi, non so che altro, e come al solito l’abbiamo tagliata a fette per darne un pezzo per uno. Il primo pezzetto si è dato al fuoco, poi Mariano ha fatto il giro della gente. Quando è arrivato al serpentino, per scherzo gli ha avvicinato una fettina di banana. Questo è uscito, tutto dritto, gliel’ha presa di mano e – drinnn! – è rientrato nella sua tana. È per assurdo una cosa così, perché di solito i serpenti mica mangiano le banane. Ma è stato un fatto scenico davvero davanti a tutto questo pubblico. È una vita ormai che vivo così, da posto a posto, da quando ho iniziato questa storia. E chi me li dà, i soldi? La mia conoscenza, se vuoi, è come vivere in India senza soldi. Non ci vuole tanto. Mangi del riso, un pakora, bevi un bicchiere di latte e hai finito. Niente, non mi interessa nemmeno più tutto il resto, perché ti abitui a vivere facendone a meno volentieri. Anzi, a un certo punto mi sono accorto che i soldi... Ero con Mariano e mentre eravamo lì a riscaldarci un chai sul fuoco è arrivato un freak. Si è seduto per un po’ e ha guardato la situazione. Il fuoco, le palme, la tranquillità. Stava zitto. Non so cosa aveva preso, un trip o cosa. D’un tratto ha afferrato la sua borsa e me l’ha svuotata tutta davanti. Poi ha lasciato anche la borsa e se n’è andato. C’erano marchi tedeschi, un po’ di dollari, parecchie rupie, due orologi, carte, portafoglio, un coltellino eccetera. Tutte le cose di uno che va in giro. E niente, siamo rimasti un po’ così, in aspettativa. «Che cosa sarà? Adesso aspettiamo un attimo, tornerà.» Abbiamo rimesso tutte le cose nella borsa, l’abbiamo richiusa, appoggiata in un angolo e poi abbiamo aspettato due giorni. Ma questo non è tornato. Intanto, appena sono arrivati questi soldi sono nati dei contrasti. «Allora, dài» diceva Mariano. «Andiamo a comprare e a spendere!» E uno inizia a pensare a tutte le cose che potrebbero far comodo. Però la borsa l’aveva messa davanti a me, no? «Aspetta un attimo, che magari arriva al mattino.» Un orologio l’ho regalato a una ragazza che era lì. Poi, quando era chiaro che questo tipo non sarebbe più tornato, ho preso i soldi e sono partito per Hampi. Lì mi sono accorto di trovarmi per la prima volta in contrasto con l’ambiente. Mentre in passato mi relazionavo sempre in un certo modo, perché vivevo d’offerte, vivevo dell’ambiente nell’ambiente, d’un tratto ero chiuso e pieno di difese. Non volevo farli vedere, sti soldi, non volevo tanto spenderli, non volevo che me li chiedessero, non volevo questo, non volevo quello. Sono venute fuori
tutte queste emozioni non ordinarie e a un certo punto vedi il lato negativo dei soldi. Quando giravo senza niente avevo dei rapporti di umiltà con l’ambiente. Mentre se hai soldi arrivi e dici: “Quanto costa?”.
ULTIMO GURU
Ero andato per qualche anno a Hampi prima di incontrare il guru. L’ho trovato per strada. Ero con tre o quattro persone e avevamo appena attraversato il fiume, un po’ a nuoto, un po’ a piedi dove si toccava, quando in un piccolo lago circondato da grosse pietre abbiamo notato un vecchietto che si faceva il bagno. Era magro, col perizoma, la barba e una criniera di capelli lunghissimi, color argento scintillante, che gli strascicavano dietro tipo vestito da sposa. Quando ci ha visti ha smesso di fare il bagno e – tra-tra-tra – con un balzo ci è piombato davanti. E niente, ci siamo fermati lì e dopo qualche parola di prammatica ci siamo fumati un paio di chilum insieme. Lui viveva in giungla, in questo posto dove passava poca gente. Aveva visto questo gruppetto che guadava il fiume e ci era venuto a salutare. Ci ha detto che abitava nel tempio, lì a Rishimukh, quest’isola in mezzo al fiume, dove in tempi remoti avevano vissuto i rishi, i veggenti. Poi noi abbiamo proseguito per Pampa Sarovar, dove eravamo diretti. In seguito sono andato a trovarlo spesso. Prima ero sempre stato dall’altra parte del fiume, fra i tempietti diroccati di Hampi, con le zanzare e le scimmie. Quella era la zona dell’antico regno delle scimmie e del dio scimmia Hanuman, di cui racconta il Ramayana. Ma adesso le scimmie erano un pericolo. Ci svegliavamo all’alba con loro che rovistavano, prendevano, facevano. Solitamente uno si teneva la borsa sotto la testa, di notte, come guanciale per dormire. Dovevi sempre stare lì a controllare. Se ti allontanavi per fare il bagno nel fiume, loro arrivavano. Una mattina era successo che mi ero alzato per andare a cagare e quando sono tornato non trovavo più la borsa. Sono andato in giro a cercarla e ho visto le scimmie in cima alle pietre che ce l’avevano in mano e buttavano tutto di sotto: passaporto, fogli, soldi. Ogni giorno si ripetevano cose così. Quando compravamo da mangiare loro sentivano l’odore. Allora noi facevamo delle costruzioni di pietra per imboscare le cose, ma le scimmie non sentivano ragioni. Ci mandavano i bambini dentro. Le scimmie non hanno la concezione del furto. È una cosa regolare mangiare quello che trovano, se
lo trovano vuol dire che non l’ha mangiato nessun altro, quindi quello che resta è per tutti. Erano sempre lì a buttare all’aria tutto. Facevano proprio azioni terroristiche. Invece nelle mie visite al guru ho scoperto che dalla parte del fiume dove stava lui non c’erano scimmie e c’erano molte meno zanzare. Allora sono andato a stare là. Anche per avvicinarmi un attimo a questo personaggio che mi ispirava fiducia, mi ispirava devozione. Mi sono organizzato non lontano da lui, ho acceso un dhuni sotto un albero di termatti, che dava una bella ombra. Ormai ero un professionista e l’ho fatto in modo che, mentre il sole girava, il dhuni si trovava all’ombra dell’albero dalle undici alle tre di pomeriggio, che erano le ore più calde. Accanto avevano buttato giù un altro albero di termatti, altissimo, che era seccato. Dicevano che era così alto che quando la gente ci saliva sopra vedeva la cupola del tempio di Hampi. Sul ceppo ci potevano dormire due o tre persone tranquillamente, quindi immaginati che albero era! C’erano tonnellate di legna intorno, di una qualità di legno molto famoso nella zona, perché è così duro che quando lo butti nell’acqua va a fondo. «Baba, non ti preoccupare» mi aveva detto il guru. «Resta e brucia tutta la legna che vuoi.» Il guru, Mahalinga Swami, era una persona interessante. Abitava in una piccola stanzetta, giusto fuori dal tempio della Luna. Era stato un tempio molto importante, quello, costruito intorno al 1500, quando Hampi era al centro del ricco e potente impero di Vijayanagar. L’avevano fatto con pietroni di granito e un ponte colossale attraversava il fiume per collegarlo alla città. Quando poi Vijayanagar era stata conquistata dai musulmani, gli invasori avevano raso tutto al suolo, avevano tolto il lingam dal tempio e distrutto le statue. Per alcune centinaia di anni il tempio era rimasto in giungla, abbandonato. Proprio nel periodo che io abitavo dall’altra parte del fiume, il tempio era stato occupato da un altro baba, Mauni Baba, che aveva “acceso” l’ashram. Si era piazzato lì e aveva piantato cento alberi di papaya. Quando ha fatto il primo raccolto ha venduto i frutti e ha organizzato l’ashram. Mauni Baba non ha toccato niente dell’antico tempio della Luna. Il suo ashram lo ha fatto accanto. Dentro al tempio teneva le mucche. Mauni Baba si chiamava così perché non parlava. Faceva una pratica di dodici anni senza parlare, così come ci sono quelli che stanno in piedi su una gamba per dodici anni, o tengono un braccio alzato in aria finché si atrofizza, o fanno meditazione al sole circondati da fuochi. Sono molto simpatici, i mauni, perché sviluppano questo modo di comunicare senza parole, molto espressivo. È proprio una scuola, quella di non parlare, che ti aiuta a semplificare i meccanismi della
testa. Allenandoti così, sviluppi in altro modo anche il pensiero. Invece di chiederti “Cosa devo dire?” ti chiedi “Cosa devo fare?”, che è diverso. Mauni Baba si faceva capire a gesti. Anzi, era una delle persone che si capivano di più, perché chi parla si perde in parole, invece lui era molto schematico nelle sue espressioni e le poche cose che comunicava si capivano. Hai mai incontrato qualcuno che ha fatto voto di silenzio? Sono semplici nelle loro espressioni, non è che dicono cose complicate coi segni. “Vuoi mangiare?”, “Vai a prendere l’acqua!” Mauni Baba gestiva il tempio della Luna con un lebbroso che stava alla porta. Il lebbroso era lì all’entrata a occuparsi del pubblico che andava e veniva, ma ne veniva poco, perché era un tempio franato. Aveva le dita delle mani e dei piedi consumate, e anche un po’ il naso. Metteva sempre le dita nelle ceneri per sterilizzarle, perché era ancora attivo. Ce n’è da tutte le parti in India di lebbrosi attivi. La gente ci parla ma non li tocca e quando gli deve dare la monetina non gliela mette in mano, gliela fa cadere dall’alto. Poi il lebbroso era morto e si era liberata la stanzetta in cui è andato a stare il mio guru. Il mio guru mi aveva molto colpito perché viveva in questa stanzina sempre aperta. Non aveva la porta, entravano gatti, cani, storie, persone, scoiattoli, corvi. Per cui lui la teneva completamente vuota. Ero affascinato da lui perché viveva proprio in semplicità. Se doveva fare qualcosa da mangiare, catturava un ragazzino e lo mandava al villaggio a comprargli quello che serviva al momento. Non teneva mai niente di più, né riso, né farina, né zucchero. Non comprava un litro d’olio, ne prendeva venti grammi, giusto per cucinare una volta sola. Mahalinga Swami aveva forse una settantina d’anni, era troppo vecchio per prendere posizione come gestore del tempio, che è sempre un’attività. Quella la lasciava a Mauni Baba. Lui stava nella sua cameretta all’ingresso del tempio e faceva la sua puja a parte. Non voleva la responsabilità di relazionarsi con il pubblico e preparare da mangiare per tutti. Il mangiare se lo faceva per sé. Due peperoncini e sei chapati al mattino, buoni, o un riso fritto, strapiccante. E niente, ogni tanto lui scendeva a trovarmi al mio dhuni sotto l’albero di termatti, o andavo io su da lui a bere un chai, in riconoscimento della religione espressa nella sua evidenza. Era molto ricettivo, sembrava che capisse tutto. Dicevi due parole e ne capiva quattro. Questo mi ha attirato. Capiva i disegni nelle menti della gente. «Come ti chiami?» ti chiedeva. Scandiva le sillabe del nome e poi ti dava delle indicazioni sulla tua vita, chiare e precise. Oppure a volte veniva qualcuno e gli chiedeva: «Baba, leggimi la mano!».
Lui non si offriva mai di leggere una mano, ma se glielo chiedevano lo faceva. Molti baba hanno questa conoscenza della palmologia. Però lui era molto craccoso. Voglio dire, nel rapporto con il samsara si sentiva un’entità separata, per cui tutto l’ambiente ce l’aveva un po’ con lui. Gli facevano un minimo di servizio eccetera, però avevano dei risentimenti perché lui non legava con nessuno. Sembrava un re che comanda i sudditi. «Tu prendi, tu fai, tu vai...!» Gli altri li teneva a distanza. «Il samsara» diceva. Il pubblico veniva a fare un servizio a dio. Lui, perché avrebbe dovuto ringraziare? Non diceva mai a nessuno di fermarsi a mangiare con lui. A meno che non era un fratello, un altro baba. O io. Ma nessun altro. Io gli stavo dietro. Una volta mi ha guardato la mano. Poi mi ha chiesto i piedi e ha guardato sotto, dove c’è la mappa. Diceva di vedere che in una vita precedente ero stato un rishi, un veggente, e avevo abitato lì in zona, a Rishimukh. Per questo avevo riconosciuto quel posto. Diceva che avevo fatto qualcosa di negativo che mi aveva mandato a nascere in Italia, ma poi avevo ritrovato la strada ed ero tornato. E ti dico, quando ci sono arrivato ho avuto la chiara impressione di essere già stato in quel posto. Come mai mi sono fermato lì?! E ti dirò di più: ho avuto la sensazione che sepolto sotto uno dei pietroni ci fosse un tesoro. Proprio mi è restato in mente per tanti anni. Ancora adesso quando guardo quel posto penso che lì c’è un tesoro, perché la zona è piena di cose così. Però non ho ancora guardato. Io, di che tesori ho bisogno? No, ho avuto un riconoscimento nella zona notevole per fermarmi lì. In fondo, se si vive e si rinasce in incarnazioni diverse, è possibile che a un certo punto, in un momento di consapevolezza, riesci a ricordare, no? Mahalinga Swami era diventato sadhu dopo aver incontrato un guru. C’è sempre un passaggio da guru a discepolo. Anche lui aveva avuto moglie e figli, prima. È facile che avesse avuto anche un lavoro. So che aveva ancora la famiglia in un paese a cento chilometri da lì, perché ogni tanto spariva e mi dicevano che andava in questo posto a trovarla. Però non ne parlava molto. Avevano terreni. I terreni ormai li gestivano i figli, la moglie, i fratelli, chi era restato lì. Lui invece era in giro da tanti anni. Aveva una vita fatta di esperienze, conosceva piante medicinali e rimedi, aveva viaggiato per tutta l’India a piedi, come al tempo dei tempi. Era un personaggio antico. Il suo modo d’essere era un
insegnamento. Come si alzava, come si sedeva, come cucinava, come trattava il pubblico. A volte anche malissimo! Non faceva niente di speciale. Al mattino andava al fiume, faceva il bagno e si riportava una brocchetta d’acqua. Con una brocca d’acqua si salvava tutta la giornata. Aveva due o tre piante di fiori violetti, tipo pervinche, che crescevano dove lavava il suo piatto: l’acqua che usava per rigovernare scorreva ad annaffiare questi fiorellini. Viveva così. Aveva degli schemi all’antica di vivere. Era un darshanamurti, una persona da vedere. Chi veniva in pellegrinaggio ci andava. In India fanno la visita ai sadhu che vivono in giungla. Lui stava lì, seduto tutto il giorno con le gambe incrociate, statuario. Con il guru a volte ci si bisticciava. Non era facile stare insieme a lui, per cui vivevamo un po’ distaccati. Io dormivo accanto al dhuni che mi ero fatto sotto l’albero di termatti accanto al fiume. L’albero era bello grosso, con un tronco bitorzoluto. Ci abitava la solita gente che sta negli alberi, gli uccelli, gli scoiattoli, le formiche. Era un posto strategico. Da lì si vedevano i pellegrini, anche gruppi di cinquanta persone, che arrivavano ed entravano nel fiume al guado. In quel punto l’acqua scorre forte, se ti lasci andare ti porta via. I giovani facevano una catena tenendosi per mano e i più vecchi si appendevano a loro per raggiungere l’altra sponda, tanta era la fede nel portare avanti questo pellegrinaggio. Ero diventato scuro a stare sempre al sole, con la pelle a scaglie, tipo serpente. La mattina mi alzavo e andavo al fiume a fare il bagno. Avevo tutto lo slargo del fiume davanti a me e sull’altra sponda, sulla destra, c’era il tempio di Vittala, dietro al quale vedevo il sole che nasceva. Mentre ero nell’acqua mi mettevo a mani giunte e la prima puja la facevo rivolgendomi al sole. Come: “O padre nostro che sei nei cieli, tu sia santificato...”. Non è la forma, è la relazione che hai che conta. Dio è oltre la forma. Adesso le preghiere sono fatte perché non tutti hanno la fantasia di inventarsi un modo di esprimersi, allora usano queste formule già composte. Ma in fondo il Padre nostro cos’è? È una relazione che hai con dio, in cui dici: “Tu che sei il grande, sopra tutti noi, vegliaci, controllaci, dacci la forza di cercarti, di vederti...”. Dici qualsiasi cosa. E anche se non dici niente lui capisce lo stesso, no? Dài, le preghiere te le inventi se proprio hai bisogno di parlare. Basta un momento vero, di raccoglimento sulla sua dimensione, sull’immenso movimento della creazione, no? Mahalinga Swami non aveva mai detto “Io sono il tuo guru, e tu sei il mio discepolo”, però ci trovavamo bene insieme. Per tradizione uno si taglia tutti i capelli quando viene iniziato dal guru. Io questo non l’avevo mai fatto. A me li
avevano tagliati in prigione. Ma dopo qualche mese che ero sotto l’albero non stavo bene, mi era venuta la febbre e avevo sempre i capelli impregnati di sudore. Ho sentito proprio un’emozione negativa per questi capelloni pesanti, sai, queste jata che mi arrivavano fin sotto le spalle, e senza che nessuno mi dicesse di tagliarmele, in riconoscimento per aver incontrato il guru, in automatico è venuta fuori questa idea. «Ma no, tienili i capelli» ha detto Mahalinga, quando gliene ho parlato. «Sono il bagaglio del guru!» Dopotutto, in quel mondo le jata sono una specie di passaporto, una garanzia del tempo che sei già sul sentiero. Ma io avevo un tale desiderio di tagliare capelli e barba che finalmente il guru ha chiamato il parrucchiere del villaggio e abbiamo organizzato una grande festa. Sono venuti musicisti a suonare e cantare i canti tradizionali e lì, sotto l’albero di termatti, mi hanno tagliato i capelli a zero e li ho offerti al fiume. Lì, per me è cominciato un nuovo periodo della vita. In quella cerimonia Mahalinga mi ha dato un longi bianco e mi ha trasmesso le tecniche di colorazione per le vesti del sadhu. È venuto fuori un arancione-rosa antico, come le nuvole quando prendono la luce del sole all’alba e al tramonto. Si chiama bhagvanrang, il colore di dio, e da allora me lo sono sempre messo. Prima avevo avuto delle resistenze, non mi ero mai sentito di mettermelo perché sapevo che era un riconoscimento serio, come avere la tonaca francescana. E poi abbiamo parlato della questione di darmi un nome spirituale, un nome da yogi. Ma io avevo già avuto così tanti passaporti falsi, con nomi sempre diversi, che non ne cercavo uno nuovo! Poi il primo guru mi aveva dato un nome, il secondo me ne aveva dato un altro, e ora per la terza volta... «Guarda, negli anni ci sono stati tanti tentativi di darmi nomi, ma poi si sono tutti persi» ho detto. «Prima mi chiamavo così, poi mi chiamavo cosà, se adesso ne proponiamo un altro ancora creiamo confusione. Io mi chiamo Cesare, tutti mi conoscono così. A me va benissimo.» Anche lui era d’accordo. «Sì, vai, allora fai lo swami. Swami Cesare Mahalinga.» Swami vuol dire “maestro”, Mahalinga era la corrente del guru. Poi, col tempo, sono diventato semplicemente Baba Cesare. Sono rimasto due anni sotto l’albero di termatti, poi per un anno mi sono spostato sotto un albero un po’ più in là sullo stesso costone del fiume, e in seguito ho passato una stagione su un pianoro di rocce in una “camera” naturale fra i pietroni. Ma erano tutti posti lungo il fiume e d’estate, quando incominciava
a far caldo e arrivavano i monsoni, il livello dell’acqua saliva e avevo il dramma che venivano spazzati via. Costruivo questi dhuni, li attrezzavo con tutto quello che mi serviva, per poi dovermi spostare in montagna. Era sempre un andare e venire. E l’anno seguente rifacevo tutto da capo. Pian piano è maturato il desiderio di fermarmi permanente in quella zona e realizzare un posto dove non arrivava l’acqua del fiume e dove avrei potuto stare tutto l’anno. Ne ho parlato con il guru. «Scegli un posto e stai» mi ha detto. «L’ho già scelto.» C’era una grottina, chiusa ai tre lati. L’avevo trovata per caso, girando in qua e in là, in un posto inaccessibile perché era pieno di spine. Davanti era coperta da una vegetazione fitta e nessuno ci andava, neppure a pisciare. Ero riuscito ad attraversare le spine e dentro la grotticina avevo trovato un pianoro, tutto pulito perché all’ombra permanente della pietra non cresceva niente. L’ho spianata un po’, ho fatto un piccolo passaggio e ho cominciato a metterla a posto. Le grotte stanno lì e ogni tanto qualcuno le va ad abitare. Sono luoghi che ispirano meditazione, all’ombra, al riparo dalla pioggia e dal vento. Un sadhu di solito vive in queste strutture di giungla invece che in mezzo alle città, dove si vive un karma collettivo. Vive da solo, appunto. Anche l’andare in grotta è un movimento di liberazione. Ti allontani dalla società, dalle case, dalla gente, dai bazar, da tutti i valori sociali e le imposizioni che il benessere ti può dare. E perché lo fai? Per raggiungere dio, per capirlo, per entrare nella sua dimensione. Per mischiarti alla terra e ritrovarti nel tutto. Il dhuni in questa grotticina l’ha voluto accendere il mio guru. Ha preso le sue pinze per il fuoco, ha fatto un buco simbolico nella terra, l’ha messa ai lati, e malgrado la mia insistenza che io ero un veterano del dhuni ormai, perché li avevo accesi da tutte le parti, ha preso due legni e immediatamente, lì in quel posto, con le sue mani, ha acceso il fuoco. Da allora è partita la storia.
SANTA
Ho conosciuto la Santa a Goa, in riva al mare. Aveva ventun anni ed era proprio bella. Per parecchi anni avevo evitato di andare con le donne. Non volevo nessuna storia perché ne avevo già avute parecchie. Sì, poteva succedere, qua e là, che incontravo una donna, però le tenevo lontano il più possibile. Se proprio succedeva, ok, cinque minuti di paura. Ma niente di permanente, delle storie volanti. C’era stata la francese, poi quella tedesca, simpatica, che quando una volta mi avevano arrestato si era fatta arrestare insieme a me, per starmi vicino. Era una psichiatra, allora forse aveva visto nella mia pazzia delle indicazioni! Succedeva. La vita è oltre le scelte. Ma c’era una ricerca che volevo portare avanti. Cercavo la pace e il vuoto mentale. In autogestione. Fai da te e vivi cent’anni da re. Anche a lei ho cercato di dire di no, ma al cuor non si comanda. La Santa era arrivata dall’Italia ed era capitata nel nord dell’India, a Manikaran. Lì aveva incontrato il guru nella capanna, Mohan Puri, che le aveva detto che doveva conoscere questo Baba Cesare, perché poteva essere la soluzione alla sua ricerca mistico-religiosa. Quindi era venuta a cercarmi a Goa, dove aveva sentito che avevo un dhuni. A Hampi non c’era molto movimento, quindi io facevo spesso un salto a Goa, per sbloccarmi un attimo. Ci stavo poco, una quindicina di giorni, ma proprio in uno di questi viaggi mi ha colpito questa ragazzina da sola sulla spiaggia, vestita da zingaretta. E niente, sono andato lì, ci siamo incontrati e lei mi ha detto che aveva sentito parlare di me ed era venuta a conoscermi. «Vieni, ti porto in un posto» le ho detto. Al dhuni principale c’era Mariano col pubblico, ma più in su, imboscato, mi ero fatto un altro dhuni privato. Ti dovevi arrampicare sulle rocce per arrivarci. «Ma dove sono?!» ripeteva lei. Era un posto bellissimo, un porto franco in giungla, la vera giungla con le liane. Giravano queste scolopendre, tipo millepiedi ma lunghe trenta centimetri, rosse, viola, nere, e velenose. E c’erano anche parecchi serpenti. In un posto dove avevo
notato un po’ d’umidità avevo scavato un buchetto e uscivano delle gocce d’acqua pura, che raccoglievamo per berle. Lei era una ragazzina che veniva dall’occidente, piena di buona volontà e di ispirazione. Io avevo la conoscenza di come vivere in giungla in India che avevo imparato in giro, dai sadhu. Per cui lei è stata trascinata in questa situazione e abbiamo avuto tutto un percorso di ricerca insieme. Quando è arrivato il monsone ci siamo fatti una capanna di foglie di palma con le nostre mani, senza chiamare qualcuno che ce la facesse. Quel posto l’abbiamo organizzato vivibile – vabbè, per fachiri! C’era una parete umida e rocciosa dietro a dove dormivamo, piena di queste scolopendre che entravano e uscivano. Ma né io né la Santa ci siamo mai preoccupati di loro, né loro sembravano preoccuparsi di noi. Era quel che si chiama “il buon vicinato”. Man mano che il dhuni si riempiva di cenere, la prendevamo e la spargevamo per terra, facendoci come un letto di cenere. Con una stuoia sopra. La cenere non piace agli insetti. Non è una cosa che riconoscono. È pura, asettica, non è fatta di microrganismi. Dentro non c’è niente da mangiare. Loro non la riconoscono come elemento. La cenere ci ha protetto. C’è sempre questa speranza di portare avanti il dharma, la religione, insieme a una compagna. Però io avevo il timore di mettermi con lei perché sapevo come l’amore prende la testa e trascina le situazioni. In India i ragazzi non fanno l’amore così facilmente, aspettano di sposarsi. C’è questa idea che è dal rapporto fisico, dal bacio, dal miscuglio dei liquidi che nasce l’amore. È un meccanismo dato da dio. Quindi è proprio facendo l’amore che sorge questa emozione per cui i due non sono più interessati ad andare con altri e restano assieme per la gestione del bambino che nascerà almeno per cinque anni, secondo le Scritture. Ero già stato sposato, ero stato con la Gilda e poi tanti anni con la Claudia e le cose erano sempre degenerate. Io non andavo alla ricerca di una moglie, al massimo potevo accettare una discepola con me. Quindi avevo parecchie resistenze. «Baba, vorrei stare con te» ricordo che lei mi diceva. «Io non sono esigente. Perché non mi baci?» «Perché vuoi baciare uno senza denti, cos’è di tanto?» Quando lei sorrideva si vedevano tanti bei dentoni. Io, poveretto, avevo il tridente quando l’ho incontrata: tre denti sopra e sotto niente. «Ma io ti voglio bene. Con o senza denti, ti prendo così!» Alla fine ho deciso. Ho visto tutta l’estroversione del samsara, mi sono tirato indietro e sono scappato, lasciandola lì.
Poi un giorno ero a raccattare le merde di vacca per il dhuni e lei è venuta a raccogliere quei gioielli con me. Con ispirazione. Trovavamo questi mucchi di sterco seccato e lì, basta, è stato il matrimonio della merda di vacca. Assieme ne abbiamo raccolto un sacco pieno e ci siamo innamorati. Ci siamo appartati e siamo rimasti insieme per sette anni. Siamo stati un paio di mesi lì a Goa, finché a lei finiva il visto. «No, io non torno a casa!» diceva. «Ma come, ti finisce il visto, hai il passaporto a posto. Non stare lì a farti scadere il visto, che poi è una vita da fuorilegge. Almeno tu vai in Italia.» «Io sto qui con te, anche senza visto.» «Ma dài, perché devi far delle violenze? Se mi vuoi bene puoi andare e tornare.» «Cosa vuoi che ti porto?» «I marrons glacés.» E così lei è partita, è andata in Italia, ha preso un visto nuovo ed è tornata. Aveva un valigione pieno di doni, dolci, champagne, e i marrons glacés! «Tu con questa ci stai tutta la vita» mi diceva la gente. Abbiamo deciso di partire insieme per Hampi. Le ho comprato della stoffa e gliel’ho tinta di rosa antico secondo le tecniche che mi erano state trasmesse, stropicciandoci sopra degli addensamenti di terra. Con quella lei si è fatta una bellissima gonna, un corpetto e un velo che le piacevano tanto. Ha indossato questi vestiti rosa ed è subito andata a farsi vedere dall’ambiente, come se fosse in un ballo di gala. Io avevo il guru a Hampi, quindi siamo andati là e gli ho proposto la Santa. Il guru ha visto che eravamo affiatati e all’inizio era un po’ così, scettico. Non capiva come mai una ragazza come lei si era messa con un vecchietto come me, che aveva venticinque anni di più. Però apparteneva, appartenevamo, a una casta di sadhu che contempla anche lo stare con le donne. Inoltre anche lui aveva avuto famiglia, quindi non era troppo scandalizzato. Un guru di conoscenza, proprio per la sua formazione, non dice “No, così non va bene”. Sarebbe come vedere male una struttura della creazione. Un baba pensa ad arrivare lui, non com’è o come non è che arrivi tu. Il pubblico magari può essere critico, ma un sadhu difficilmente lo è. Ha ben chiaro che ognuno ha il suo sentiero, la sua svolta. Nella religione hindu l’idea di castità non è così forte. Essendo una religione basata sull’idea dell’unione del maschile e femminile, una religione fallica, il sesso è studiato in tutti i suoi pro e contro. Il Kamasutra, con le sue dozzine di
posizioni per fare l’amore, è venuto fuori da una corrente hindu di ricerca. E non lo facevano da imboscati, ci sono templi con la gente scolpita sulle facciate che fa sesso. È un’elaborazione che i cristiani non si sono mai sognati di fare! Poi c’è la storia del tantra, dell’amore di gruppo, per svuotare la testa portando il sesso all’eccesso. Hai presente che quando fai l’amore, dopo l’orgasmo hai la testa svuotata? Dunque ci sono tecniche per arrivare a quello. Ci sono dei guru indiani che praticano il tantra tuttora, come quello che è passato da noi una volta, con sette discepole, una più bella dell’altra! Anche il fatto di andare con una donna... bisogna vedere a che livello è questo rapporto. Con la Claudia avevo avuto un passato da junkie insieme, con la Santa abbiamo fatto una ricerca insieme. Lei era proprio la discepola che faceva di tutto. E senza parlare. È stata un paio d’anni senza dire mai niente. Aveva imparato a pulire, scopare, rigovernare con la cenere, dare la merda di vacca e fare il dhuni. Faceva i lavori più pesanti. Si sbatteva da matti, con tanta devozione. Si svegliava all’alba, andava a prendere l’acqua al fiume. Doveva fare una decina di giri al giorno con le brocche, su e giù dal fiume, e tutti i giorni i muscoli le crescevano. Noi bevevamo solo l’acqua del fiume. Perché sul pianeta le acque sono state da sempre quelle di sorgente, di fiume o di pozzo, con caratteristiche diverse. Non c’erano altre acque, l’umanità da quando c’è è andata avanti così. Adesso è venuta questa cosa delle bottiglie di plastica, che non si capisce com’è strutturata. Per me è trattata, ci mettono qualcosa. Resta una cosa schifosa. Quest’acqua che sta degli anni nelle bottiglie mi fa un po’ paura. Preferisco l’acqua di fiume che al limite ha dei valori naturali, viaggia nelle foglie, nelle piante, nei fiori. Nel fiume ci sono i pesci, quindi vuol dire che è buona. Era notevole questa rinuncia in una ragazza così bella. Perché era molto bella questa ragazza che camminava a piedi nudi, pur essendo di buona famiglia, per cui con la possibilità di fare una vita in agio. Lei era la Santa, niente, per la sua evidenza di santità. Si metteva la tunica di colore, viveva in giungla, si faceva bagni di cenere e metteva la cenere nelle sue jata. Era la mia Cenerentola radiosa! Io ero uno che, al limite, viveva per riconoscere i santi, e l’avevo riconosciuta. Perché si vedeva che aveva la volontà di avere qualcosa di più che cazzi a manetta, come può avere una ragazza di vent’anni da sola. No, lei era alla ricerca di un’altra dimensione. Ci è riuscita perché era giovane, quindi si affacciava alla vita. Non aveva i condizionamenti che ha una donna più matura. E io ho avuto un risveglio fisico-sessuale. All’inizio non volevo, ma a un certo punto mi buttavo sempre, a tutte le ore mi buttavo sulla Santa. Perché era capitata nella mia vita.
Insieme abbiamo cominciato a rimettere a posto la grotticina che avevo scoperto. Nel posto dove il guru aveva acceso il fuoco abbiamo fatto un vero dhuni, abbiamo allargato, messo degli scalini, tagliato le spine, smosso pietre, aggiunto sabbia per spianare e fatto un pavimento di terra battuta mista con merda di vacca. Davanti alla grotta avevo sparso dei semi di zucca, quelle con cui si fanno le brocche per l’acqua, assieme a dei fiori secchi, e dopo il monsone lì si era riempito di questi fiori gialli, i tageti, e di queste zucche. Ne erano venute un casino, una cinquantina, grosse e piccole. Erano già secche, quindi bastava svuotarle dei semi e dentro ci stavano due o tre litri d’acqua. Era come ritrovarsi con tanti contenitori per l’acqua e una distesa di fiori spuntati in giungla. Allora abbiamo deciso di fermarci. Abbiamo chiuso la grotta con una parete di canna e una porticina e abbiamo vissuto lì, facendo da mangiare sul dhuni e dormendo accanto al fuoco. Dalla grotta non si vedeva nulla, né si era visti. C’era una vegetazione fitta davanti che abbiamo tenuto per parecchi anni, un po’ come difesa dall’ambiente. Non stendevamo nemmeno i panni fuori per non attirare l’attenzione. Però bastava uscire e si vedeva tutto, tutta la vista che volevi. Ci sedevamo fuori a guardare il sole che sorgeva ogni mattina. Nelle grotte c’è di positivo che quando fa tanto caldo rimangono freschissime per l’ombra naturale della pietra, che è molto più dell’ombra di un albero. Però quando piove restano sempre un po’ umide. Avevamo trovato un sistema con cui l’acqua che filtrava fra le pietre scorreva via da un buco, però quando questo scolo si otturava si allagava tutto. Nella stagione delle piogge, da luglio a settembre, si gonfiavano i fiumi, l’acqua era tantissima e andava forte, tipo rapida, e non si attraversava più per venire da questa parte. Quando il fiume si alzava così, noi rimanevamo più o meno isolati. C’era qualche barca ogni tanto che riusciva a portarci dei viveri. È bella quella stagione perché ha la particolarità dell’eremitaggio, no? Non viene nessuno, non c’è pubblico. Fai il chai – cosa devi fare? Preghi che iddio te la mandi buona. Non si sa chi c’era stato in quella grotta prima di noi. C’era chi diceva che una volta ci vivevano le pantere, perché erano state trovate delle ossa, o che era un posto di cobra. In India si dice che ai serpenti piace abitare dentro i termitai. Le termiti sono bianche e morbide e se le mangiano tipo budino! Fatto sta che proprio accanto alla grotta c’era un antico termitaio, una costruzione immensa, abbandonata. Era parecchio più alta di un uomo. Sembrava una formazione lunare. Con la sua terra finissima, senza pietre, abbiamo iniziato a costruire l’ashram. Era un posto molto tranquillo, lontano dal pubblico, e mi ci sono rifugiato con
la Santa dal mondo. Era un momento in cui avevo bisogno di questo, senza dover dare spiegazioni. Respiravamo, facevamo da mangiare ed eravamo felici. Io non avevo mai pensato più di tanto di fondare un ashram, ma le cose si sono sviluppate così. Un baba, svolgendo un’attività pubblico-sociale, quando si ferma non costruisce una casa, fa appunto un ashram, un luogo devozionale. Con la Santa abbiamo fatto questo percorso insieme. Abbiamo fondato l’ashram ed eravamo in due in questo giro. Se non era per lei non sarei riuscito a organizzarlo, perché da solo non ce n’era ragione. Io andavo e venivo, giravo. Mentre fino ad allora eravamo restati lì un po’ nascosti, poi il luogo si è allargato ed è diventato pubblico. Per fare le cose bene è venuto prima un gruppo di brahmani, di sacerdoti, poi sono arrivati tutti i sadhu della zona per fare una festa. Hanno benedetto il dhuni e abbiamo fatto la puja, come si fa per convalidare l’inizio dell’attività di un ashram. Non eravamo più dei clandestini, adesso era una situazione dichiarata. Facevamo questa offerta all’ambiente, al pubblico, di noi stessi. Però dopo un po’ si sono create delle discussioni con dei local che volevano mandarci via. Avevamo “occupato” un terreno in giungla e io non ero nemmeno residente. Gestivo l’ashram come il mio spazio e inoltre vivevo con una donna. “Come, degli stranieri vengono a occupare la nostra terra?” Una sera sono arrivati all’ashram una cinquantina di uomini agguerriti. Erano venuti con i bastoni a fare un po’ il braccio di ferro. Io li ho mandati dal guru. A chiunque mi chiedeva cosa ci facevo, dicevo che il guru del posto, Mahalinga Swami, mi aveva detto di fermarmi lì e mi aveva acceso il fuoco con le sue mani. Per cui io stavo lì! All’indomani siamo andati dal raja di Hampi a raccontargli questa storia. Lui è il discendente dei re di Vijayanagar ed è rimasto impressionato. Ha detto: «Non ti preoccupare, di sera non ci verrà più nessuno». Ed è venuta la regola che dopo le nove nessuno dei local poteva più attraversare il fiume per andare a Rishimukh. Lui aveva questo potere. Siamo rimasti perché abbiamo avuto il supporto dell’ambiente. Oltre al mio guru e al re, c’era Ram Das, il guru di Pampa Sarovar, il tempio più grande nella zona, che ci mandava un suo discepolo ragazzino con le fascine di legna o dei sacconi di juta pieni di sterco di vacca. Noi abbiamo sempre avuto devozione per Ram Das. Era un guru che gestiva bene il tempio di Pampa Sarovar, un posto di pellegrinaggio importante. Anche se era un meeting point, con sempre quaranta o cinquanta sadhu che andavano e venivano, e un lago pieno di fiori di loto davanti,
lui dormiva sotto un albero di mango, all’aperto. Aveva addomesticato un daino e di notte si sdraiava e metteva la testa sul daino, tipo cuscino. Bello lui, così, in offerta libera. Anche i local venivano a portarci fiori da piantare, o il latte delle loro mucche, oppure facevano dei lavoretti per noi. Venivano persino dal paese vicino facendo chilometri a piedi con in groppa dei fascioni d’erba così grossi che vedevi camminare solo l’erba. In offerta. Di resistenza ne hanno gli indiani. E lo facevano senza dire “Ma mi affatico! Lo faccio per chi, perché?”. Quando arrivavano si sedevano con soddisfazione. Bevevamo un chai assieme, o fumavamo un chilum, e loro sentivano questo – come dire? – questo valore del vivere giusto, perché avevano fatto qualcosa per dio. Ogni tanto nei suoi giri arrivava anche Mariano. Si metteva in longi di colore e quando ripartiva si rimetteva i pantaloni e la camicia. Cioè, la sua era ancora una via di mezzo. Sembrava che si vergognasse di evidenziarsi in giro come sadhu. Diceva che per viaggiare era più anonimo così. In automatico, quando gestisci un ashram, ti arrivano i pellegrini, i viaggiatori, i devoti. E tu gli dai supporto, gli fai un chai, gli dai da mangiare, da dormire. Così ci siamo riavvicinati al mondo e siamo stati riconosciuti nell’ambiente. Un ashram è un punto d’incontro, un avamposto dei baba. Sadhu ne abbiamo incontrati di ogni tipo, provenienti da tutta l’India. Hampi e Rishimukh sono posti sacri, per cui un mucchio di sadhu interessanti arrivavano in zona. Ci siamo trovati a gestire questo ashram che prendeva sempre più piede. Passavano anche i poveri e li supportavamo. C’era quello che tornava sempre e bisognava dargli un po’ di soldi e un chai, o lui non si spostava. Faceva il matto. «Ma come, sei venuto qua? Perché non vai al bazar a chiedere i soldi?!» «Ma se non vado a casa di dio» diceva, «chi è che mi dà niente a me?» Io controbattevo che se veramente era venuto in devozione, visto che arrivava la mattina presto, avrebbe almeno dovuto farsi un bagno nel fiume e presentarsi tutto rinfrescato e depurato davanti a dio. «Il bagno no, adesso fa freddo. Lo faccio dopo.» «Allora vieni dopo.» Usava l’argomento di dio solamente perché lo faceva svoltare. Non era fuori di testa. Ce l’aveva bella, la testa. Faceva il matto per non pagare le tasse, come si dice. Poi è arrivata anche la Durga. Avrà avuto trentatré anni ed era stata lasciata dal marito. Girava da sola. Anche di lei dicevano che era matta, ma era più che altro
una freak. Aveva dovuto trovare un altro modo di vivere, aveva fatto esperienze diverse. Ma i baba sono i più liberi della società e accettano chiunque. A un certo punto sono arrivate anche le scimmie, che erano riuscite ad attraversare il fiume. E passava un gattino magrissimo che miagolava insistentemente. I gatti, sono loro i veri fachiri! Senza borsa, senza coperta, vivono dell’amore del prossimo. Se non gli dai da mangiare tu, in qualche modo tre topini li troveranno. L’ashram era già avviato ma lo si poteva ancora lasciare, non c’erano né statue né tesori, allora spesso con la Santa giravamo per l’India insieme. Lei prendeva conoscenza della vita nei templi, che non era la vita di un turista nelle pensioncine e gli hotel, era entrare dentro Casa India. Bastava dire che gestivamo l’ashram a Rishimukh e ci davano ospitalità. Ci alzavamo anche noi all’alba, prendevamo l’appalto di qualche lavoretto, eravamo presenti alla puja, automaticamente. Mentre la Claudia non era una sadhu, e con dio non ci era mai andata d’accordo, la Santa si era subito vestita con il colore e girava a piedi nudi per le città e le stazioni dei treni. C’era una sorta di sentiero che prendevo dal nord al sud del paese per trasmettere a lei le mie esperienze, le conoscenze fatte in quasi vent’anni in India. E lei ha bruciato le tappe. Nel giro di un paio d’anni parlava abbastanza l’hindi, si muoveva con conoscenza, dormiva per terra, girava senza soldi. Era una bella evidenza vedere una ragazzina così uscire dai valori estetici comuni per seguire questa idea. Di fondo la accettavano, la Santa. Comunque, girare con una giovane ragazza era sempre il doppio dei casini che girare da solo, specialmente per un baba. Era sempre un dare spiegazioni, c’avevamo il fiato del pubblico sul collo. Per molti anni mi sono fatto un brutto nome. Una volta il capo di un tempio ci aveva dato una camera, però la camera chiaramente era una capanna con quattro porte per far passare l’aria, no? La Santa era stanchissima, si è sdraiata e si è addormentata. Però dormendo le sono salite le gonne sopra il culo, aveva le gambe scoperte, per cui si fermavano tutti davanti a queste quattro porte. È arrivato all’orecchio del guru. «Prendete le vostre cose e andate via!» ha detto. «Ma dove andiamo? È già il tramonto, siamo lontani dal villaggio...» «No, no, no, andate via!» «Quando, domani mattina?» «Subito.» Ma noi dormivamo anche nelle stazioni, sulle spiagge, in qualsiasi giardino, e
tante volte per strada. Mettevamo giù due coperte e, quando eravamo sotto le coperte, gli altri non sapevano nemmeno che eravamo stranieri. Ogni tanto ci penso, con una donna era abbastanza rischioso.
DISCEPOLO
Mariano diceva in giro che era mio discepolo, ma in quel periodo io non ero d’accordo. «Per favore, non mi fare un cattivo nome!» gli ho detto. «Vai al Kumbh Mela e trovati lì un tuo guru.» Il Kumbh Mela è il grandissimo incontro dei sadhu. «Ma che guru mi devo trovare?» «Trovati uno di quei Naga Baba che sollevano le pietre col cazzo. Visto che anche tu hai un coso così, impari le tecniche e lo fai. È una bella evidenza, dove vai vai, svolti col cazzo.» E così lui era andato al Kumbh Mela e aveva trovato questo guru indiano che gli aveva insegnato ad arrotolarsi il pene su un bastone, fare la chabi, si chiama. Il guru riusciva a tirare un risciò col cazzo, si teneva piccolo. Ci sono quelli che tirano un vagone del treno. Il guru gli ha insegnato alcune tecniche e Mariano poi infatti le ripeteva di qua e di là. Però questo guru non l’ha frequentato più di tanto, non è mai tornato a trovarlo al tempio dove stava, a Benares. Era proprio un guru dei Naga Baba. La loro corrente è quella di andare in giro nudi. Il concetto è la nuda terra, no? Liberarsi appunto dalle inibizioni culturali acquisite. Ogni tanto, pensati nelle grotte. Vedi di riconoscerti, come potevi essere nelle grotte come umano, senza società, senza costruzioni sociali, senza tabù. La gente quando viveva nelle grotte era nuda, no? Non aveva il pudore di nascondere il sesso. Perché, ok, uno si vestiva quando aveva freddo, si metteva pelli e pellicce, però coprirsi sempre è un po’ una deformazione culturale. Non so chi l’ha tirata fuori. Ora addirittura se tu vai con il cazzo fuori ti arrestano! No? Mentre in India, se sei un Naga Baba, hai ancora la licenza di andare in giro come dio ti ha fatto. È una bella evidenza, stile gli animali. Senza inibizioni. Essere nudo ti lega alle leggi naturali. Quando hai freddo prendi la legna, l’accendi, e ti vesti di fuoco, che è la cosa più calda. Stare nudi, per i Naga Baba, è anche un sentiero di liberazione. Determina tutto un modo d’essere, perché uno deve prendere coscienza di come sedersi, di come
alzarsi, di come essere in pubblico. Mentre tu, nudo, ti sentiresti a disagio, loro appunto nella ripetizione delle loro pratiche restano imperturbabili. È quello il darshan, vedi che sono normalissimi, senza paranoie, nudi. Mariano in ogni caso i vestiti se li metteva ancora. Ogni volta che lasciavo l’ashram per andare da qualche parte, lo prendeva in mano Mariano. Mariano però aveva un modo craccoso di gestire il pubblico, si surriscaldava e a volte succedeva una confusione. Come quella volta che ha buttato il pollo sul dhuni. Non l’ha nemmeno nascosto! L’ashram era all’inizio e lui se n’è arrivato con due amici e un pollo vivo in mano per cucinarselo lì, sul dhuni. Sai, in un posto dove non si mangia carne! Poi c’è stato quel dramma quando ha sputato in faccia ad Ananda Giri, il guru del tempio accanto, un vecchio di settant’anni. Lì si è riunito un consiglio di dodici brahmani per decidere se mandarlo via. Alla fine hanno concluso che, visto che erano molti anni che io ero lì, cominciavo ad avere una certa età e da solo era dura. Mariano era utile perché mi dava supporto nell’attività. Quindi per una volta potevano passarci sopra. Vabbè. In ogni caso, lì in giungla lui era una protezione per me. Era un duro, non tanto perché le sapeva dare, ma le sapeva incassare. Una volta un tibetano grande e grosso era arrivato all’ashram, ubriaco. Mariano ha tentato di mandarlo via, ma l’altro non ne voleva sapere e hanno bisticciato. Si sono rotolati insieme giù per le scale del tempio, figurati, su quelle pietre aspre! Nel rotolare, Mariano ha battuto la testa e si è reso conto di quanto fosse duro il granito. E così, arrivato in fondo, ha fatto in modo di rimanere sotto, per evitare che quell’altro si facesse troppo male. Mariano fin da ragazzino era per la strada. Io l’ho conosciuto in India, era arrivato dalla Spagna da poco. Era giovane, aveva vent’anni. Aveva lasciato casa e cose nel periodo dei beatnik e girava per l’Europa, dormiva nelle piazze, viveva di espedienti. Andava nei supermarket a rubare due pezzi di formaggio. Aveva vissuto in giro, conosceva un mucchio di posti. Era stato parecchio per strada anche in Italia, finché non l’avevano mandato via. Era “stradale”. Sono un ragazzo di strada, e tu ti prendi gioco di me... Io a Mariano non gli ho mai fatto l’iniziazione. L’iniziazione gliel’aveva fatta il suo guru. Ma non c’è mai stato, con l’altro, stava con me. E anche se io non volevo quella responsabilità, alla fine è diventato ufficialmente mio discepolo perché tutti dicevano che lo era. A un certo punto era con me come un figlio. Quello che avevo io ce l’aveva lui. Ha imparato come si vive in giungla, come si fanno i chapati,
come si accende e si gestisce un fuoco, come lavarsi le cose nel fiume. Con tutta questa trasmissione di conoscenza, ho cercato di indirizzarlo verso il nostro tipo di vita. Lui non aveva mai vissuto un’esistenza da sadhu, perché aveva avuto dei percorsi da hippie fino a un attimo prima. Ha vissuto questa evidenza e l’ha assorbita. Si svegliava presto al mattino in automatico, aiutava, prendeva l’acqua al fiume. Era forte, abituato a portare pesi. Nella ripetizione aveva sviluppato un modo di camminare con due secchi che sembrava danzasse. Dal fiume la strada è ripida, ma lui veniva su con questi secchi senza fermarsi, senza posarli. Io pensavo che era per questo che gli si erano un po’ allungate le braccia. Al tempio non ci sono i confini fra casa e giungla. Non è ben delineato che questo è l’ashram e quella è la giungla. Siamo appoggiati alla giungla. Giungla vuol dire non abitato, posti così, wild. I serpenti vivono in quelle zone, fra le pietre. Tante volte il cobra è venuto giù al tempio. Una volta che non c’ero e Mariano era da solo, il cobra è venuto ed è rimasto tre giorni. Mariano andava comunque tutte le mattine a fare la puja con il cobra lì accanto. Per le imprese pericolose c’era lui. A volte, quando faceva ancora buio, andava di corsa in un posto lontano accanto a un laghetto, dove crescono delle grosse campanule rosa che al mattino sono aperte, mentre durante la giornata appassiscono al sole. Le prendeva e tornava di corsa per metterle al dhuni. Lo faceva spontaneamente, per devozione sincera. Sentiva che voleva fare di più per dio. Gli apprendisti del dharma devono anzitutto crearsi questa idea di dio. Il primo passo è semplicemente quello di regolare la propria vita su quell’idea, “prendere le regole”, come dicono i cristiani. Vuol dire che uno deve regolare cosa mangia, quando va a dormire la sera e quando si sveglia al mattino. Perché se all’alba hai delle funzioni, ed è a quelle funzioni che incontri questa energia di dio, allora andrai a dormire presto per svegliarti all’ora giusta, no? Piano piano questa idea si concretizza e ti crea dei valori del vivere giusto. I valori nella società non ci sono più. Che valori ci sono? Ora vivere giusto vuol dire non farsi vedere dalla polizia perché se ti vede ti fa la multa! Quindi tu, prima di posteggiare, guardi per vedere se c’è un vigile e poi posteggi. Al limite, uno che fa una rapina e gli va bene è contento. Ma il vivere giusto è proprio confrontarsi con dio, comportarsi e vivere in suo nome. Da questo viene fuori il dharma, che è il vivere giusto. Qual è il vero inizio del sentiero? Non è né vestirsi in un certo modo, né mangiare, né prendere una droga, né partire per fare un viaggio: è cercare di avere un contatto con dio. Basta cominciare a pensare a queste cose. Poi la strada la
vedi volta per volta, mentre vai, camminando, vedi dove sono le pietre, le spine, l’acqua... Mariano avrebbe potuto continuare a fare quello che aveva sempre fatto: l’hippie, i viaggi, vendere, comprare, donne, cose. La sua rinuncia è stata che ha smesso di fare business. Col tempo è diventato un cavaliere del dharma, perché appunto era un militare, ci credeva. Era l’unica cosa che faceva. In fondo gli bastavano due pezzetti di pane. È diventato un sadhu, si comportava come un sadhu, seguiva tutte le pratiche e le prassi dei sadhu, viveva con me lì, all’ashram. Un discepolo fa di tutto, da mantenere in ordine l’ashram a fare un massaggio al guru, a trovare la legna, andare al mercato per comprare le cose di cui c’è bisogno, lavare le pentole, preparare la puja. Di tutto. Fa quello che c’è da fare al momento che c’è da farlo. Quando sei in rapporto con il guru, lui è il capitano. Come un militare, il discepolo non può discutere. Se il capitano gli dice di fare una cosa, non può rispondere “No, non voglio. Lo faccio dopo. Lo faccio domani”. Il tipo di formazione è: credere e obbedire. Facendo quello che ti dice il guru sviluppi l’umiltà e ti liberi dall’Io. Tutti i discepoli devono fare così. È oltre le scelte, perché se hai altre scelte allora non sei più discepolo, ma vai a fare qualcos’altro per i fatti tuoi, no? Anch’io, per dire, se arrivavo in un ashram quando c’era un grande raduno e mi dicevano “Lava le pentole!”, mi sedevo dentro al calderone nero e lo lavavo. L’insegnamento del guru non puoi riceverlo a parole, facendogli un’intervista. Devi essere il suo discepolo. Vai lì e gli fai un po’ di servizio, anche per degli anni, per capire com’è la sua vita. Devi essere presente, guardare. Dicono che il rapporto fra guru e discepolo è più di quello tra padre e figlio, perché magari col padre a volte si possono avere delle competizioni, mentre col guru uno non dovrebbe averle. Mariano verso di me aveva una sincera devozione. Mi ascoltava, faceva le cose che dicevo. È stato una quindicina d’anni con me all’ashram. Se ero severo è perché calcavo appunto la formazione di un discepolo di un certo valore. Poi ha incontrato una finlandese, si è innamorato ed è andato via. Ma in fondo è rimasto con me più dei dodici anni canonici di un discepolo. Forse era l’ora di sbloccarsi. Anche con Dimitri abbiamo fatto un pezzo di sentiero insieme. Dimitri aveva una ventina d’anni meno di me, ne aveva forse venticinque quando l’ho conosciuto. Deve aver visto qualcosa in questo tipo di ricerca, o in me, in questo modo d’essere. Per cui una volta che ci eravamo ritrovati a Goa, lui è voluto venire via con me. Quindi mi ha un po’ seguito. È uscito dalla pista degli hippie per vedere qualcos’altro. Io non avevo un programma, andavo spesso dove mi
capitava e le cose maturavano volta per volta. Così siamo arrivati fino all’Himalaya e abbiamo vissuto insieme in una grotta per un paio di mesi. In quel periodo mi hanno arrestato e quindi con Dimitri ci siamo messi d’accordo che ci saremmo trovati a Omkareshwar. Ci siamo dati appuntamento lì. Ma quando ci sono arrivato lui era già diventato discepolo di un altro baba che gli aveva dato l’iniziazione. Aveva cambiato nome: adesso Dimitri si chiamava Narayan Das. Però era sempre molto ben disposto. Siamo stati un attimo lì, poi lui è restato e io sono ripartito per la mia strada. Dimitri era un siddha, uno che andava dritto alla meta. È diventato un Naga Tyagi, della scuola di quelli col perizoma di foglie di banana. Se doveva andare al villaggio si metteva uno straccetto, altrimenti stava con questo perizoma e il corpo coperto di cenere. Aveva un modo di fare molto avanzato, si era messo a studiare il sanscrito, aveva fatto un lungo periodo di silenzio, poi aveva imparato a cantare i canti devozionali. Addirittura parlava in versi. Quando tu gli chiedevi qualcosa lui ti rispondeva nei versi della Bhagavad Gita e il Ramayana, o in aneddoti. Aveva una vasta conoscenza delle scritture. Entro poco tempo era molto più avanzato del suo guru, che si era perso un po’ nella maya, nell’illusione, e aveva casa, cose e una donna. Mentre Dimitri viveva, solo, tutto coperto di cenere, sulle sponde del fiume Narmada. Una volta sono tornato in Europa e ho incontrato sua madre, che mi ha chiesto se avevo visto Dimitri. Ma non l’avevo visto. «L’ultima volta che l’ho incontrato sarà stato tre anni fa, quando è venuto a trovarci al tempio a Hampi.» «Prima ogni tanto mi scriveva o telefonava. Adesso sono due anni che non dà più notizie.» «Ma sa, un sadhu si perde di qua e di là. Non è che sempre può scrivere.» «Per favore» mi aveva detto sua mamma, «tu che sei un sadhu, che hai delle porte aperte lì, vai a vedere dove sta. Magari puoi chiedere, puoi vedere... Se hai delle spese per cercarlo, tieni.» E mi aveva dato duecento euro. Io veramente non mi sono mai interessato troppo di cercarlo. Però quell’anno c’era un Kumbh Mela e tornando da questo incontro sono passato da Omkareshwar, dal tempio del suo guru che non era nemmeno più il suo guru. «Ma quello lì è morto» mi ha detto. «Da due o tre anni. Aveva un dhuni lungo il fiume e l’hanno trovato morto. Di febbre, di malaria.» «E non avete avvisato l’ambasciata, la famiglia? Sua madre non sa niente!» «Che famiglia? Non abbiamo avvertito nessuno. Un sadhu muore e basta.»
L’avevano bruciato lì, tanto era ormai inserito nella società dei sadhu.
FAMIGLIA
Erano già due o tre anni che eravamo insieme all’ashram, quando la Santa è rimasta incinta. Era naturale. Si sapevano le storie con i bambini se si facevano queste cose nella ripetizione! «Sarà meglio avvisare i tuoi genitori» ho detto. «Così ci mandano un pacco regalo con i marrons glacés.» Ebbè, ha avvisato i suoi e ha detto che voleva avere il bambino in India. Allora è venuto il padre per vedere com’era la situazione. È arrivato, serio, assieme al fratello, e hanno visto come vivevamo lì a Hampi, nella grotta, con tutta la vegetazione fitta di giungla attorno, le spine, il monsone e i fiumi alti. Però c’era tutto. Avevamo persino rimesso a posto uno stock di legna, appunto per la venuta del padre della Santa, per fargliela sembrare una buona casa. «No, guardate, ragazzi» ha detto. «Tu come fai ad avere un bambino qua, in questa situazione?! Poi tua madre vorrebbe assisterti nel parto...» «Io non ci vengo in Italia» ha risposto lei. «Perché lui non può venire. Non mi stacco da lui nel momento in cui sono incinta. Non importa dove faccio questo bambino, ma voglio essere con lui.» «Non c’è problema, sistemo tutto io. È il mio lavoro.» Il padre era un avvocato di Milano. «Adesso andiamo al consolato di Bombay e vediamo com’è la situazione.» Insomma, ci ha presi tutti e due e siamo andati a Bombay. Anche la Santa a questo punto era due anni fuori visto, ma il padre è riuscito a farle avere un permesso di uscita. Mentre a me il consolato italiano ha detto che non potevo né uscire dall’India né rientrare in Italia senza rischiare di essere immediatamente arrestato. Allora lei è partita per l’Italia prima, col padre che avrebbe poi sistemato anche le mie pendenze, così che avrei potuto raggiungerli. E infatti dopo qualche settimana la Santa mi ha contattato dicendomi che dovevo partire dal Nepal. Alla frontiera fra l’India e il Nepal non c’erano controlli, eri tu che dovevi andarla a cercare la polizia, se la volevi. Era tutta strada libera. Il padre della Santa mi aveva
mandato un biglietto aereo di prima classe, perché il volo Kathmandu-Milano era pieno e non c’erano biglietti più economici. Lui mi avrebbe anche dimenticato lì, però lei era incinta di un figlio mio, quindi mi voleva vicino e gli aveva fatto delle pressioni. Ho attraversato la frontiera a piedi, ho dichiarato lo smarrimento del passaporto e sono potuto partire. Appena arrivato in Italia sono andato a casa dei genitori della Santa e nella stanza della Santa, dove ci avevano messo il letto matrimoniale. Ci siamo preparati un chilum. In quel mentre entra il padre. «Ehi! Non credere che ti abbia fatto venire dall’India per fumare in casa mia!» «E allora dov’è che devo fumare? Che fumiamo lo sai, perché sei venuto in India e sai quali sono le nostre abitudini.» «Eh, ma qua non ve lo posso permettere. Ho un nome e un lavoro! Andate a fumare fuori!» «Ma come, sei nostro padre, tu?» ho detto. «Fammi capire come sei combinato. Al posto di dire “Mi raccomando ragazzi, chiudete la porta, imboscatevi che qui c’è la legge pesante, non è come in India”, mi mandi in mezzo alla strada a fumare un chilum?» Notare che questo era stato al dhuni da noi dove passava tanta di quella gente che stava tutto il giorno a fumare. Invece qui era l’avvocato, per cui “Non in casa mia!”. Ebbè... Capirai, abbiamo fatto epoca lì. Il padre mi aveva già conosciuto a Hampi, ma la madre no. Quando sono arrivato in casa lei era disperata. «Ma come, uno alleva una figlia per vent’anni e poi si mette in una situazione così? La porta via un baba. Com’è possibile?!» In ogni caso era un dato di fatto che la cosa era così. Sua figlia era incinta appunto di un figlio nostro. Loro cercavano di non contrastarci più di tanto, però alla fine non ce la facevano. «Sentite, io non sono venuto per essere così condizionato» ho detto. «È una vita che cerco di liberarmi da questi condizionamenti, da queste paure.» E così, dopo due giorni, ho preso la loro figlia e ce ne siamo andati. Conoscevamo dei ragazzi che ci erano venuti a trovare all’ashram in India e ci avevano dato il loro indirizzo. Allora siamo andati a elaborare la gravidanza in giungla in Toscana. Era terra demaniale, nel Mugello, lontano qualche chilometro da ogni paese. C’era un fiumicello con una cascata bella larga e lì accanto ci siamo
fatti una capanna. L’ho costruita io con l’aiuto dei nostri amici che abitavano lì vicino, in una casa distante un chilometro e mezzo. Era una stanza e basta. In mezzo alla capanna c’erano due alberi – non volevamo tagliarli – e da un lato c’era il dhuni, intorno al quale si poteva stare in quattro o cinque persone. Avevamo fatto dei muri in pietra per chiudere i lati e la parte che dava le spalle alla cascata, perché da lì veniva molta umidità, mentre davanti l’abbiamo lasciata aperta, così entrava il sole. In ogni caso era un bel nido, eravamo organizzati bene. Di sera tiravamo giù un telone di plastica spessa e chiudevamo, di giorno lo aprivamo come un teatrino del dramma. Ci siamo fermati lì, a quella cascata, per la gravidanza. Anche in questo periodo non ho mai abbandonato completamente le attività del sadhu. Continuavo a presentarmi come un sadhu, a vivere accanto a un dhuni e a fare lavoro di propaganda per dio. Anche lì veniva sempre gente, era il “dhuni alla cascata”. Tutte le mattine ripassavo il dhuni con lo sterco di vacca, che fa venire quell’effetto brillante dorato. Avevo l’abitudine, lo facevo anche a Hampi. Dall’altra parte del fiume, non lontano, c’era una cascina con un prato dove lasciavano libere le mucche. Allora andavamo a piedi in quei campi e raccoglievamo le loro merde, quelle fresche per fare l’intonaco del dhuni, quelle secche per bruciarle. Quando ci si alzava facevamo il bagno sotto la cascata, dove l’acqua era profonda, e poi ci sedevamo, freschi. Un giorno, era già da un po’ che eravamo lì, erano le sette del mattino e avevamo fatto il bagno, messo i fiori, acceso degli incensi, fatto la puja, cose e storie, e ci eravamo seduti accanto al fuoco a bere un tè, quando ho visto arrivare la polizia. Li ho visti arrivare da lontano, con i pistoloni. Quindi gli sono andato incontro. «Sentite, guardate, c’è mia moglie incinta. Per favore, non datele cattive emozioni.» Allora hanno subito messo via le armi. Ci hanno visti seduti lì, con il fuoco acceso, lei incinta, tutti e due in rosa brillante, con la tazza del tè, tutto profumatissimo, colorato, con i fiori attorno, per cui sono rimasti incantati. Hanno visto che c’era ordine, hanno visto che c’era qualcosa, hanno visto luce... Sono movimenti di percezione, no? Non davamo l’idea di due hippie accampati in riva al fiume. «Ah, lei è incinta?» ha detto il capitano. «E dove va a farlo, il bambino?» Siamo subito entrati in relazione e gli abbiamo detto che lo avremmo fatto a Fiesole. «Ah, perché mia moglie l’ha fatto a Borgo» dice. «Perché non lo fate lì, che
sono bravi?» «Ma sa, ho letto un articolo che a Fiesole fanno questo parto sperimentale, nell’acqua...» Li ho invitati a entrare. «No, no, non possiamo, c’abbiamo le scarpe» ha detto lui. Era uno svoltato, il capitano, uno di controcultura. Aveva visto che noi eravamo a piedi nudi e aveva capito che lì si entrava solo senza scarpe. E niente, abbiamo parlato così e cosà. Gli abbiamo chiesto come mai erano venuti e ha detto che avevano ricevuto una telefonata di un contadino che aveva visto due matti che andavano in giro a raccogliere la merda di vacca con le loro mani. Allora erano venuti a vedere. Ma non avevano niente da reclamare. «Sentite, in ogni caso» ha detto prima di andare via, «se avrete questo bambino dovete aggiustarvi bene qui. Perché così, con il plasticone sul tetto, non va bene. Dovete costruire una capanna seria, se no gli assistenti sociali vi fanno dei problemi.» Noi ci siamo poi organizzati, abbiamo chiuso tutto fitto e fatto un tetto serio, di assi di legno. Era diventato tipo un piccolo chalet svizzero! Al momento delle doglie sono andato con la Santa all’ospedale di Fiesole. Io le tenevo la mano mentre partoriva. Noi ci aspettavamo un bambino e quando è nata una bambina non eravamo preparati con il nome. «Come si chiama?» chiedevano tutti. «Mah, veda lei...» dicevo io. Allora le è restato il nome, Veda. Infatti poi la sera le cantavamo sempre quella canzone: Veda, Veda, Veda, Veda e provveda Veda provvederà. Veda, Veda, Veda Vedanta, Veda Veda dove si va Veda dov’è Shiva... Siamo rimasti più di un mese con la bambina neonata vicino alla cascata, fin quando non è venuta l’alluvione. Si avvicinava l’inverno e si sono ingrossati tutti i fiumi della Toscana. L’Arno a Firenze ha toccato il Ponte Vecchio. Da noi il livello del fiume si è alzato così tanto che la cascata è scomparsa e l’acqua batteva direttamente sul dietro della capanna. Con pietre e cemento abbiamo costruito un
muretto che la convogliava da una parte, però passava lo stesso. Il nostro posto sembrava un po’ un’isola nel fiume, con l’acqua che scorreva tutto intorno. Tenevamo sotto controllo la situazione. Era la nostra casa, ci abitavamo, per cui sorvegliavamo la situazione al minuto. Da una parte si passava ancora, con l’acqua che arrivava al ginocchio. Ma continuava a piovere a dirotto e, se il livello dell’acqua si alzava ancora, la sua violenza poteva buttare giù il muretto appena costruito e travolgerci. Questo era vero. Meditavamo di cambiare posto, infatti era venuto uno dei nostri amici per parlare di dove accompagnarci. Ma in quel momento è arrivata tutta la società: i vigili del fuoco, i carabinieri, la polizia, gli assistenti sociali. Una fila di gente e di macchine. Li avevano mandati quelli del paese che dicevano: «C’è un matto sul fiume. Cosa ci fanno lì con quella bambina piccola?». Pensavano che eravamo pienamente incoscienti. Con il fuoco fumante che mandavamo avanti a tutta forza per riscaldarci, la nostra capanna era come un battello a vapore in mezzo all’acqua. Allora i pompieri con gli stivaloni grossi ci hanno “salvato”. Ci hanno sfollato dalla capanna e ci hanno portato alla stazione di polizia, dove ci è venuto subito il raffreddore perché faceva un gran freddo, lì. Si sono radunati i capi di tutte le sezioni per decidere cosa dovevano fare di noi. Dopo la riunione, il capitano della polizia, una bella persona che ormai conoscevamo e che aveva tenuto la nostra parte, è venuto da me. «Guardi, io non me la sento di criticare il suo modo di vivere, perché lei mi sembra una persona a posto. Però, per la legge, lei non può tenere una bambina in quel modo. Rischia di farsela togliere.» Gli assistenti sociali potevano dire, al limite, che era maltrattamento tenere una bambina così, in giungla. «Non potete più restare in quella capanna perché è pericoloso, dovete abitare in una casa.» Quindi il capitano si è fatto dare il numero di telefono del padre della Santa e si è preoccupato di telefonargli. «Ma come, li lasciate fuori questi ragazzi?» l’ha rimproverato. «Mandate vostra figlia a partorire al fiume?» «Ma lui è intrattabile...!» diceva il padre. «Non avete una casa, voi?» «Sì, certo, case ne abbiamo, ma quello è intrattabile!» Lì poi hanno predisposto tutto. La famiglia aveva case e cose sparse da tutte le parti, per cui ci ha trovato una dépendance accanto alla villona dove viveva la nonna.
La nonna della Santa aveva una villa con un parco cinquanta volte più grande dei giardini pubblici. Possedevano anche la chiesa sul monte, prima di cederla alla curia. Ci hanno dato la casetta vicino alla villa, senza riscaldamento, ed era inverno. Però attingevamo alla sua legnaia e ci riscaldavamo con il camino. Noi giravamo sempre scalzi nel paese, con questa bambina piccola. E, niente, una domenica io, la Santa e la bambina siamo andati alla messa. Siamo entrati un po’ saltellanti nella chiesa e non dobbiamo essere piaciuti molto al prete, abituato a gente che entra mansueta, che non parla ma bisbiglia. All’ingresso io ho preso non tre gocce, ma una manciata d’acqua santa, e l’ho spruzzata in testa a mia moglie e mia figlia, all’indiana, così, a neve. E anche questo il prete l’ha notato e non deve essergli piaciuto tanto. In ogni caso siamo entrati in chiesa, con le tuniche rosa brillanti, a piedi nudi, e tutto l’ambiente si è girato per vedere chi era questa gente. Chi erano questi svolazzanti, barbuti, capelluti? Alla fine della messa la gente si è messa in fila per prendere l’ostia e io mi sono accodato ultimo, un po’ in umiltà. «No, tu no» ha detto il prete, quando stava a me. «Perché io no?» «Perché tu sei di un’altra religione.» Io l’ostia l’avevo già mangiata tante volte da bambino, avendo fatto la comunione e la cresima. Però il prete ci ha mandati via e così la Veda non l’abbiamo mai battezzata. Mentre noi pensavamo di battezzarla lì, perché nella zona quella era la casa di dio. La nonna era tra i notabili del posto, era della famiglia che aveva fondato il paese. Un tempo tutti i terreni intorno erano loro. E così la polizia mi ha dato pure la carta d’identità, che a Torino non mi avevano mai voluto dare dicendo che non avevano nessun dato su di me, che non avevo mai lavorato e non avevo una residenza da tanti anni. Mentre lì, con quelle coperture, sono riuscito persino ad avere il primo passaporto della mia vita, vero e proprio. Arriva il momento che finisci di fare il clandestino. Lì le cose si sono aggiustate perché ho avuto una garanzia attraverso il padre e la nonna della Santa, e il posto dove abitavo. Ti dico, avevano una proprietà che era la più grande del paese, con alberi secolari e cancelli che loro si raccomandavano sempre di chiudere. Era triste vedere i bambinetti del paese che si ammassavano lì fuori in uno sputo di giardino pubblico, subito fuori dal parco della villa. C’era questa proprietà vuota, completamente vuota. Ci stavano solo due vecchiette, la nonna e la sorella della nonna, che era matta, sempre rinchiusa in camera. Non era matta, ma loro avevano deciso di darla per matta perché i matti non hanno facoltà di intendere e di volere, e loro così potevano gestire meglio i
beni di famiglia. Praticamente, le due sorelle erano le sole eredi e la più furba si è presa tutto. Mi ricordo che noi andavamo sempre su alla camera della “matta”, perché era bello stare con lei. «Auguri!» ha detto una volta quando ci ha visti. «Auguri, perché? Non è mica il nostro compleanno.» «No, ma oggi è il 1° novembre, la festa dei santi!» Aveva una mente parecchio sviluppata. Dopo la nascita della bambina, ho chiamato Mariano per darci un supporto. È arrivato dall’India e io e lui ci siamo sbloccati per un mesetto. Siamo andati ad Assisi insieme, abbiamo girato un po’ e siamo tornati. Ad Assisi si sente ancora la presenza del santo. Lì c’è continuamente il pellegrinaggio, bus dalla Norvegia, dalla Francia, da tutta Europa arrivano a vedere il suo samadhi, la sua tomba. Vengono in devozione, con la voglia di aiutare i bisognosi. Sembra che la polizia controlli i poveri e non li faccia stare più di tre giorni, se no rimarrebbero a vita. Eh, lì guadagni un pacco di soldi. Con Mariano svoltavamo alla grande. In qualsiasi posto ci sedevamo, arrivava qualcuno a metterci dei soldi in mano. Ma ti giuro! Sempre, anche nelle piazze, arrivava qualcuno a darci qualcosa. Sarà stato il nostro modo di star seduti? Perché di solito il pubblico non si siede per terra. Cioè, se ti senti a tuo agio per terra marchi qualcosa di un po’ fuori dal normale. Il tuo modo d’essere dà informazioni. Basta come ti siedi. Basta tutto. Camminavamo per strada e usciva un negoziante che ci dava una bottiglia di vino, proprio secondo la regola di san Francesco. «Siete senza soldi?» «Sì.» «Allora fate un giro.» E ci ha detto tutti i conventi che c’erano. Lì la gente cerca il santo. È viva la presenza del santo. Anche i local vivono sul santo, perché vivono del pellegrinaggio. È un business, però la sentono anche, questa sua presenza. Altrimenti non ci sarebbe nessuna ragione perché i preti e le suore siano tutti là alle sei del mattino a fare messe cantate di devozione, tutte armoniche. Ci sono dei casi in cui la santità diventa un’evidenza per tutti. Francesco, nello sviluppo della sua vita, in tutte le ore è stato un’evidenza di santità. Lo era proprio nella semplicità, perché la dimensione di dio è la meno artefatta, la più semplice. Infatti san Francesco si avvicinava al lupo, si avvicinava al papa, si avvicinava ai nemici. Bella, Assisi, ci sono poi tornato ancora un paio di volte. L’ambiente ti dà
supporto. Mi ero fermato per guardare una vetrina di dolci. Non per fame, ma perché erano tutti ricamatissimi, elaboratissimi. Strudel, torte, pasticcini, cose così. Due signori si sono subito avvicinati. «Venga, prenda quello che vuole!» «No, no, sono a posto» ho detto. «Ero lì, guardavo solo meravigliato.» «Ma lei dove abita? Ha dove dormire?» «Sono arrivato da poco. Adesso sono qua. Qualcosa si farà.» Niente, poi siamo andati in un convento di suore che c’era lì vicino. Davano le camerette gratis ai devoti, quindi una toccava anche a noi. «Siamo due pellegrini che arrivano dall’India per visitare san Francesco» ho detto. «Gestisco questo piccolo ashram...» Fra l’altro c’erano anche delle suore indiane lì, con cui ho parlato un attimo. Allora hanno chiamato la superiora e ci ha dato una cameretta pulitissima con il bagno fuori. Avevano dieci letti che tenevano per quello, ma c’eravamo solo noi. Dopo la messa le suore ci hanno servito una minestra monacale con un po’ di formaggio e siamo andati a dormire. Dovunque ci fermassimo, a tutti gli ashram, cioè i conventi, ci davano una busta con i soldi dentro. Al monastero di san Francesco c’era una cassetta delle offerte all’entrata e il frate ha messo la mano dentro, ha preso una manciata di banconote e ce l’ha date. Assisi è stato un gran bell’incontro. Mariano si è divertito. In treno di solito noi pagavamo il biglietto, cioè, dipendeva se avevamo soldi o no. Per spostarci da Assisi a Roma ce l’ha pagato la Caritas, mentre ad Assisi eravamo andati senza biglietto, dicendo che andavamo in pellegrinaggio. E ci avevano lasciato stare. C’è tutta una generazione di gente, anche in Europa, che gira così: i punk, i non-punk, i beatnik, ragazzi e ragazze che vanno via di casa e viaggiano di festa in festa, di città in città. Hanno dei bei sacchi a pelo e di notte si fermano dove vogliono. Ci sono le stazioni, i porticati, ci sono un mucchio di posti per dormire al coperto. Hanno connection in tutte le città, in tutte le piazze. Quando vivi all’aperto è la corte dei miracoli, conosci sempre le cose che succedono. Sei in una piazza e vedi com’è l’andamento. È sempre un meeting point, gente che va, gente che viene. Quelli che vivono così sono degli svoltoni. Lo fanno perché si sono accorti che vivere senza soldi in questa società consumistica non è un grosso problema. C’è sempre una tale overdose di cose da mangiare, di sacchi a pelo, di piumini, che non mi dire che c’è bisogno di soldi per vivere! I soldi, le cose, girano. Quindi loro
non hanno bisogno di avere né case né attaccamenti. Poi dipende: se tu vuoi tutte le cose di consumo a cui è abituata la gente chiaramente hai bisogno di soldi, però se vivi a livello esistenziale, mangiare e dormire, non è un grosso problema. Viaggi, ti fermi. Lo fanno anche i barboni. Se sei barbone o sei baba dipende da quanto sei convinto. È tutta una questione di pensiero. Con Mariano siamo arrivati fino a Napoli. Siamo usciti dalla stazione, abbiamo fatto un po’ un giro, abbiamo visto due o tre piazze e poi in una ci siamo seduti su un muretto. Sono arrivati due marocchini e si sono seduti lì accanto. Mariano aveva il suo shankh e questi qua ci hanno chiesto cos’era. «Una conchiglia.» «A cosa serve?» «Eh, proprio per un contatto con dio. Come fargli una telefonata. Se hai bisogno di qualcosa la suoni e dio si preoccupa di te.» «Suonala, allora!» Mariano prende e suona lo shankh: Bu-bu-buuuuuu! Finito di suonarlo, di fronte a noi si sono materializzati un ragazzo e una ragazza che si facevano uno spinello. «Ehi, ragazzi, com’è?» C’è sempre una relazione fra gente che fuma, semplice, aperta. Non è una cosa troppo personale. Abbiamo fumato due chilum insieme con questi qui e abbiamo continuato per la nostra strada. «Oh, Mariano, cosa mangiamo adesso?» Lui era più stradale di me, era già stato povero in Spagna e in Italia, girando di piazza in piazza, quindi era un po’ più svoltato. «Chiediamo in giro» ha detto. «Ma non siamo mica in India! Qua non ti dà niente nessuno.» Invece no, aveva ragione lui. È entrato nella prima pizzeria. «Sentite, noi siamo pellegrini» ha detto. «Siamo arrivati a Napoli e volevamo provare anche noi la vostra pizza, la pizza napoletana!» Questi hanno subito preparato due pizze, speciali, come le fanno solo a Napoli, con il risvolto ben tostato, pomodori e formaggio eccetera, e ce le hanno messe in un sacchetto, con una bottiglia d’acqua minerale. Poi siamo tornati alla stazione per vedere dove si poteva dormire. «Senti, maharaja» ho detto a Mariano. «Qua, sai dove ci mettiamo? Non vorrei metterci da qualche parte che poi ci dicono che non va bene.» Allora abbiamo chiesto ai carabinieri dove ci consigliavano di dormire e loro sembravano abbastanza contenti di essere considerati. «Senta, noi ripartiamo domani mattina. Stanotte ci fermeremmo a dormire qua
in stazione. Dov’è che si può dormire senza...?» «Dormite pure sotto la galleria, lì» ci ha detto subito il carabiniere. «Proprio lì, perché se dormite qui, alle quattro del mattino vengono a fare le pulizie e vi fanno alzare. Invece lì non passano, potete dormire tranquilli.» La gente che dorme nelle stazioni stranamente si accuccia sui carrelli delle valigie. Si siede lì, con due cartoni sul carrello, con i sacchi di plastica appesi. Invece noi abbiamo steso le nostre coperte lì nel mezzo, tipo due lettoni, e ci siamo messi tranquilli a dormire. Come fanno a famiglie intere nelle stazioni in India. Per cui al mattino, quando ci siamo svegliati, niente, eravamo i divi della stazione. È subito venuto uno dei “residenti” della stazione a prelevarci e portarci a bere un cappuccino al bar. In tutte le stazioni ci sono sempre dei local che vivono lì, vivono chiedendo l’elemosina e qualcosa hanno sempre: soldi, soldini. Noi non chiedevamo l’elemosina, vivevamo di fede. «Arriviamo dall’India, questo e quest’altro...» Devi sempre dare delle spiegazioni. Poi ci ha accompagnato al binario e siamo ripartiti. Siamo rimasti qualche mese in Italia dalla nonna, ma mi ricordo che non ci stavo molto bene. Io ero già andato via dalla casa dei miei genitori, dalla moglie e dalle cose per fare un altro tipo di ricerca. Avrei potuto, come si dice, sedermi comodo in poltrona e prenderla facile, no? Invece niente. Contro tutto e tutti volevo ritornare nel mio ashram per portare avanti il discorso. Il padre della Santa ci aveva offerto una casa, giusto per farci restare in Italia, ma noi non l’abbiamo accettata. E quando la bambina aveva cinque o sei mesi siamo ripartiti per l’India. Subito.
SAMSARA
Quando nel 1993 siamo tornati a Hampi con la bambina, il mio guru ci giocava, la prendeva in braccio o si sdraiava e se la faceva salire sulla pancia. Gli piaceva. Tutti i giorni, per un anno, veniva una signora a farle bagni e massaggi con tecniche ayurvediche. Poi le passava intorno dell’incenso che tranquillizzava il suo sistema nervoso e la bambina si addormentava tutte le volte. La Santa l’allattava. Non si usavano pannolini, tanto lì fa caldo. Dove cagava si puliva e si passava subito la merda di vacca. Alla Santa le avevamo costruito una sua casettina separata per stare un po’ tranquilla con la bambina, mentre io stavo al dhuni con il pubblico. Ma era più duro gestire la bambina che gestire l’ashram. Poi, man mano che cresceva, abbiamo avuto un supporto dall’ambiente. Quando ha incominciato a camminare, i bambini che venivano a portare il latte la mattina se la portavano via al villaggio e la riportavano la sera. Sai, i bambini giocano con i bambini, stanno molto fra di loro. Una volta siamo scesi al fiume, mi ricordo. Veda era piccolissima, aveva due o tre anni, e si è messa a correre all’impazzata giù per questa discesa ripida e pietrosa. Io mi sono coperto gli occhi, ma miracolosamente è arrivata in fondo senza inciampare. In India non si vedono i bambini giocare con i giocattoli. Magari fanno girare una vecchia ruota di bicicletta con un bastone. O prendono gli scarabei, quelli verdi smaltati con le corna lunghe, gli legano un filo a una gamba e li portano in giro, li fanno svolacchiare. Ho visto addirittura un padre catturare uno scorpione lungo come una mano, togliergli la coda velenosa, legargli un filo e darlo al suo bambino. Lo scorpione camminava, tic-tic-tic, e il bambino lo seguiva col filo. Sembrava una macchinetta di quelle telecomandate! Così i bambini si fanno la conoscenza delle cose della natura che li circonda, no? Mentre se tu guardi i bambini in occidente, ultimamente hanno carretti pieni di giocattoli di plastica, a cui poi non restano nemmeno troppo interessati.
Giocano finché si sposano. In India invece li responsabilizzano molto presto. A un certo punto giocano alla vita. Quando il mio guru ha saputo di avere un cancro alla gola, ha ripreso a fumare finché è morto. Era andato a Solapur, in Maharashtra, ma aveva detto: «Voglio il samadhi a Rishimukh», allora hanno messo il cadavere su un pulmino e l’hanno riportato lì. E ci siamo occupati di fargli il samadhi. Sono venuti degli uomini, hanno scavato una buca abbastanza profonda, gli hanno fatto una grotticina sotto terra, ci hanno messo dentro il guru in posizione di yogi, rivolto verso il sole nascente, e poi l’hanno ricoperto con due sacchi di sale. In modo che restasse così, sotto sale, conservato tipo acciuga. Ci sono diversi tipi di morte per gli yogi. C’è il jivan samadhi, in cui uno si siede nella posizione del loto e si lascia morire. C’è il samadhi in vita, in cui uno, prima di morire, si siede e si fa interrare. C’è anche il ganga samadhi, in cui uno si siede sul fondo di un fiume e beve piano piano. Il guru era stato dalla mia parte, mi aveva dato le garanzie in zona. Ormai ero lì permanente. Mi è dispiaciuto chiaramente quando è morto, anche se verso la fine eravamo un po’ in rotta. Io ero stato affascinato da lui perché viveva proprio in semplicità, in questa cameretta completamente vuota. Poi gli avevo fatto conoscere un discepolo ricco e lì aveva incominciato ad accumulare cose, vestiti, sacchi di riso e di farina, borse e borsette. Aveva messo la porta. Anche quando ho incontrato delle donne eccetera, non ho mai detto: mi prendo la moglie e la casa e mi metto tranquillo. Giravamo periodicamente per l’India anche con la bambina piccola. In uno dei nostri pellegrinaggi siamo andati a Omkareshwar alla ricerca di un guru che, a dire di popolo, viveva in giungla con poco o niente. Abbiamo preso una barca per attraversare il fiume, ci ha lasciati in questo posto dove non c’erano villaggi, e se n’è andata. Noi ci siamo incamminati verso il tempietto, ma aveva l’aria d’essere stato abbandonato da un po’ e il baba non c’era. Magari era andato lì per stare per i cazzi suoi, poi si era sparsa la voce che c’era questo guru e ci capitava troppo pubblico, allora quello lì si era sbloccato. Fatto sta che ci siamo trovati all’ora di pranzo con la bambina piccola e niente da mangiare, in piena giungla. Allora: “Cosa facciamo? Cosa mangiamo?!” eccetera. Camminavamo con la bambina in braccio, un po’ sconsolati, quando abbiamo visto un grande albero. Sotto l’albero qualcuno aveva fatto una puja, quindi c’erano incensi e storie. E un’anfora di terracotta. Guardiamo dentro ed è piena di riso crudo. Di solito dopo una puja lo spargono, non succede quasi mai
che lasciano il riso così. Non avevamo pentole, ma c’era quest’anfora. Eravamo sulla riva del fiume, quindi c’era l’acqua subito lì. E il fuoco lo sapevo fare. Sembrava che iddio ci avesse messo davanti il pranzo per la giornata! Mancava solo il sale. Nel momento che c’è riconoscimento di dio, tu resti in contatto con lui e pensi: “Mangio? Se dio vuole”, lui è chiamato. Ti porta delle evidenze. Tu non puoi dire: “Be’, vediamo se c’è dio. Se mi fa svoltare a mezzogiorno vuol dire che c’è. Altrimenti non c’è”. Così non funziona. Quando quelli andavano da Gesù Cristo a dire: “Ah, tu sei quello che fa i miracoli? Dài, facci vedere cosa fai!”, chiaramente lì i miracoli non venivano fuori. Agli storpi, ai lebbrosi, lui chiedeva prima: “Ma tu credi davvero che io possa fare qualcosa per te?”. Nel momento in cui loro in fede dicevano: “Sì”, avveniva il miracolo. Quindi è proprio questo movimento di fede che può definirti il sentiero. Perché il dharma non si può capire: quando credi, ti sarà dato di capire. Uno deve affidarsi completamente a lui, che risolve tutte le cose. Quindi anche quando dici: “Io devo fare, io devo creare, io devo gestire...”, basta pensare che è dio che gestisce. E più lo pensi in fede e più lui prende in mano la situazione. È quella la chiave. Il dharma cos’è? È questa revisione dell’ego. È accendere un incenso seguendo un’idea, è fare una passeggiata in natura cercando la dimensione di purezza di dio, quella purezza che è la terra. Ho capito che non c’è niente da capire. Solo credere, senza paura. Tanto ci credi e tanto lui si evidenzierà in piccole storie che si sviluppano nella vita, a tutte le ore, da tutte le parti, a cui non puoi dare una spiegazione razionale. Di solito uno yogi, un baba, non si sposa. Però ci sono correnti di yogi che possono sposarsi, ci sono certi sadhu che vivono con una donna, e funziona. I rishi infatti, che migliaia di anni prima erano vissuti isolati sulle stesse pietre su cui vivevamo noi, facevano il dharma in famiglia. I brahmani anche si sposano e danno una formazione religiosa ai bambini. Anche la Santa aveva molta fede e la bambina è venuta una gran bella persona. Abbiamo fatto un bel lavoro. Quando una donna è in ricerca come te, i bambini sono un frutto dell’amore e non c’è niente di negativo. Però dipende dalle relazioni che si creano in questa dualità, bisogna vedere se la ricerca e la voglia di portare avanti la rinuncia sono condivise... Bisogna essere in due. La Santa all’inizio, rose e fiori, accettava questo modo d’essere. Ma con la nascita della bambina l’ha rifiutato, è diventata lei la guru, perché la madre è sempre il primo guru del bambino. Man mano che la Veda cresceva, le
competizioni fra di noi diventavano sempre più forti, con critiche dell’uno all’altra. La sera magari si bisticciava e al mattino io mi ritrovavo davanti a dio, a dover fare la puja, con tutta la mente offuscata. Eravamo andati avanti sette anni, ma non era più la relazione che avevamo portato avanti fino a quel momento. Era diventata una relazione fra moglie e marito. E tutto il colore è andato. Fino a quattro anni Veda è cresciuta a Hampi. Poi siamo tornati in Italia, come ogni anno, perché i genitori della Santa ci tenevano a vedere la bambina e ci mandavano il biglietto per l’aereo. E lì ci sono stati i soliti giochi sociali. I genitori le hanno consigliato di lasciarmi stare, che loro le avrebbero garantito le spese per la bambina e per lei. Chiaramente suo padre diceva che in giungla la bambina non avrebbe imparato niente di buono, che c’erano i serpenti, che giocando con i bambini stava iniziando a parlare la lingua locale, il kannada, di nessuna utilità. Per cui le facevano delle pressioni per restare in Italia. Sono andato insieme alla Santa a ritirare il visto per tornare in India, ma all’ultimo lei non è voluta più andare. Si è tirata indietro. Aveva visto i gioielli del dharma ma alla fine è stata condizionata dall’ambiente che le diceva: “Dài, tu sei bella, sei una mamma, hai una bambina che deve andare a scuola...”. E ha deciso di rimanere lì, a Milano. Sono tornato in India da solo. Io non barattavo il dharma per il karma. Cioè, finché loro seguivano la storia, ok, ma io non potevo seguire loro. Dovevo mandare avanti il mio lavoro, che era l’unica mia attività. Vabbè, adesso anche lì dipende dai valori, dipende da cosa uno pensa del bene e del male. Tenerla bene, la bambina, era tenerla in città o allevarla in giungla? La Santa avrebbe potuto rimanere. Non tanto con me, ma in quel mondo. Era una traditrice del dharma. Con me c’è stato un momento di ricerca, io l’ho sempre vista come un tipo di discepola, perché c’era un tale distacco di età. Poteva benissimo continuare per il sentiero, anche con un altro guru. Si gestiva, girava, vedeva, poteva continuare in quell’ambiente, senza diventare un prodotto sociale. Anche la bambina poteva crescere lì. Avrebbe vissuto fra gli yogi. Prima di partire per l’Italia avevamo dato disposizione che si costruisse un tempio nella casetta che era stata l’abitazione della Santa e la bambina. E quando sono tornato sapevo che il tempio sarebbe stato pronto. Mancava solo il lingam, il simbolo fallico, che è proprio la pietra miliare di un tempio di Shiva. Questo l’ho trovato sulla via di ritorno in circostanze particolari. Sono arrivato a Hampi che era notte. Allora sono sceso alla riva del fiume e ho
aspettato la prima luce dell’alba per poter guadare fino a Rishimukh. L’acqua era un po’ alta, la corrente era forte, mi spingevo per raggiungere l’altra sponda e a metà del fiume, fra le colonne sommerse dell’antico ponte crollato, mi sono imbattuto in una perfetta pietra nera e lucida, tipo onice. L’ho riconosciuta subito. Aveva un bel movimento, una simmetria come una scultura. Non la potevo prendere perché era troppo pesante, ma appena sono arrivato all’ashram ho raccontato di aver trovato questo lingam. Allora Mariano e altre quindici persone sono andati a cercarlo nel fiume. L’acqua era torbida e ci hanno messo molto a ritrovarlo. Finalmente un bambino, che portava le mucche a pascolare nella zona quindi la conosceva bene, ha cacciato un grido. «Il lingam, il lingam!» E l’hanno tirato fuori. Il lingam si è evidenziato così. L’induismo è basato sul maschile e il femminile, il lingam e la yoni. La creazione dell’umanità, come avviene? Con questo incontro. Perché, appunto, se non si incontrano non succede niente, no? Il lingam quindi è il fallo generatore. Da noi magari lo identifichiamo come Adamo. Adamo ed Eva erano i primi. Lì sono il lingam e la yoni. Visto che il tempio era già costruito, sono arrivati con questa pietra e l’hanno messa lì, nella ex abitazione della Santa che il caso, o dio, aveva voluto trattenere a Milano. Quindi finalmente avevamo via libera per organizzare un tempio seriamente. Un tempio è l’elaborazione di un ashram. Un ashram può essere anche solamente un punto d’incontro, mentre un tempio è un posto di devozione. Ram Das, il nostro amico, il guru di Pampa Sarovar, è venuto a vedere il lingam. Ha immediatamente voluto lasciare mille rupie e ha mandato due operai che rompessero mille pietre per l’ampliamento dell’ashram in un tempio. C’è stato tutto un fermento lì intorno. Per l’appunto sotto un albero a Pampa Sarovar c’avevano una yoni antica che avevano trovato mentre pulivano il lago di fiori di loto. Era stata lì, senza lingam, per tanto tempo. Allora, con un carretto di buoi e quattro persone, siamo andati a caricarla e l’abbiamo trasportata fino lassù da noi. Quindi è venuta fuori questa festa in cui le donne del villaggio facevano i lumini a olio e li piazzavano tutt’attorno al nuovo tempio, con fiori, frutti e offerte. Si erano riuniti dodici sadhu e numerosi brahmani che recitavano mantra mentre installavamo il lingam nella yoni, l’unione del maschile e il femminile. È stata una cosa di ore. A quel punto il posto aveva le qualifiche ufficiali di tempio di Shiva. Shiiiiiv, Shiv, Shiv, Shiv, Shiva... Dicono che ogni religione è un’evidenza di dio. Cioè, visto che in vari momenti si è persa l’idea di dio, lui, per evidenziarla, ha attraversato degli umani perché lo
rappresentassero e portassero avanti il suo messaggio. E continua ad attraversarli. Per cui ci sono state queste evidenze che hanno determinato le ere. L’era di Shiva, di Krishna, di Buddha, di Gesù, di Maometto eccetera. La religione, qual è quella giusta? Adesso, la religione è il sentiero di dio. Quale sia e come praticarla è al di fuori dalla coscienza di dio. Anzi, più hai la coscienza di dio e più ti indirizzi veramente, ti togli dalla religione. Cioè, Gesu Cristo o Shiva o Buddha sono compagni di ascesi, no? Ma non avevano una particolare religione con cui identificarsi. In India, Shiva viene considerato dio. Io ho vissuto in India, in un contesto hindu. L’India è stata la mia maestra, quindi prendo per buono un avatar, un attraversato da dio, come ne potrei prendere per buono un altro. Ognuno lo chiama a modo suo, no? Ma non considero Shiva più alto di altri. No, no, no assolutamente. Anzi, bisogna ritrovare il tutto in uno e l’uno in tutti. Mio padre mi aveva sempre dato parecchio supporto quando arrivavo e ripartivo per l’India. Bastava che gli facessi due o tre quadri e glieli portassi e lui era contento. Aveva la casa piena dei miei quadri, quando è morto. Mi ha telefonato mia sorella per dirmelo. Serviva la mia firma per sbloccare l’eredità, i liquidi in banca, e mi faceva pressione per tornare subito. Ma io non ero per niente in quell’ottica. Sono andato al consolato italiano a Bombay e ho rinunciato a tutta l’eredità. Non avevo mai fatto niente per mio padre e andare adesso a prendere la sua casa e le sue cose non mi sembrava giusto. Io ero sempre stato in contrasto con lui. Lui voleva che io stessi lì, che lavorassi, che mi occupassi delle sue cose e continuassi quel popò di studio di commercialista che aveva messo su. Lui voleva sempre tutte queste cose, e io non le ho mai fatte. Così ho firmato un certificato di rinuncia e automaticamente la mia parte è andata ai miei figli, a quelli che avevo avuto con Alba, la mia prima moglie. C’è chi mi dice: «Avresti potuto svoltare alla grande, e hai rifiutato?». Ma avrei potuto svoltare tutta la vita. Avrei potuto fare di tutto nella vita. Solo che non facevo niente per svoltare dei soldi, oltre a quel minimo che mi arrivava e che mi serviva per vivere. Non mi sono mai impegnato a fare i soldi, anche perché, appunto, non ti portano lontano. Tante persone, tipo mio padre, ci passano una vita a fare i soldi, e non è che raggiungano grandi mete. Infatti non dicono che è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli? Non sono io che lo dico. Per che cosa dovevo diventare ricco? La vita mi ha dato tutto quello di cui avevo bisogno. Ho avuto una vita senza stress sociali, senza grossi compiti penosi,
ho vissuto con dio per gran parte della mia vita, occupandomi di devozione. Cosa sperare di meglio? L’anno dopo sono tornato in Italia e ho chiesto a mia madre come era andata la storia con i figli, perché lei era rimasta in contatto con loro nel tempo. «Tutto bene.» Poi mi fa: «Perché non gli telefoni?». Così per la prima volta prendo su il telefono. «Pronto, sono Cesare.» «Cesare chi?» «Dài, vostro padre.» Silenzio. «E allora?» «E allora... Insomma, volevo sapere come è andata e conoscervi.» Così mi sono incontrato con mio figlio per la prima volta dopo tanto tempo a Torino. Aveva una quarantina d’anni. Abbiamo bevuto una cosa insieme, mi ha raccontato di come si sono divisi l’eredità con la sorella. Germana in quel momento non c’era e l’ho potuta incontrare solo qualche giorno dopo. Siamo stati insieme a pranzo, abbiamo parlato. Lei fa la designer di tessuti, è un’artista, ha preso da me, e va alla grande. Va in America, a Parigi, sfilate e storie. Si stava comprando una villa in collina. Dopo pranzo mi fa: «Be’, allora adesso, papà, cosa vuoi fare? Dove ti devo accompagnare?». «Mah, ditemi voi cosa devo fare, e lo faccio.» «Be’, tornatene in India!» E così da allora non ci siamo più visti, anche se qualche volta ci siamo sentiti per telefono. Insomma, i miei due figli di Torino sono ben inseriti nel sistema sociale. Il maschio ora ha un figlio, quindi sono nonno. Mi piacerebbe conoscere il mio nipotino, ma non troviamo l’occasione. Mi ricordo che una volta, appena arrivato dall’India, ho chiamato mio figlio dicendogli che volevo incontrarli, ma lui mi ha detto che non poteva perché aveva una partita di pallacanestro. La Santa non l’ho dimenticata subito. Anzi, per dei mesi mi svegliavo all’ashram al mattino, solo, e pensavo a lei. Ero stato parecchio con la Santa, per cui avevo tutto un sistema emotivo che era stato catturato. Poi, dopo nemmeno mezzo anno, si è proposta un’altra ragazza, è rimasta qualche giorno, è andata, è tornata in bicicletta dall’Europa per una stagione, è riandata e poi mi ha scritto che era incinta. Io più volte entro ed esco, entro ed esco dal samsara. Vuol dire che non mi è
bastata l’esperienza della prima volta, e nemmeno la seconda. Dovevo riattraversare questi percorsi segnati da dio, conscio di gioie e dolori precedenti. Se mantieni ancora i desideri, allora iddio ti dice: “Tieni, ok, è tutto qua, guarda! Vai e veditela un po’ tu!”. E ci sei di nuovo dentro. Con le stesse problematiche. Ci sono delle sequenze che poi rivedi, dio ti ripropone sempre le stesse situazioni giusto perché tu sia pronto per portare avanti il tuo cammino, capito? “Se uno non odia suo padre e sua madre, moglie e figli, fratelli e sorelle, non può essere mio discepolo.” Non diceva così Gesù? Così è la storia. Finché sei attratto dalle relazioni familiari o da qualsiasi cosa che propone la società, non riesci a liberarti. Lasciare i figli è proprio una prerogativa inserita in questo contesto. Il Buddha lascia la casa subito dopo la nascita del figlio, e nella storia di Siddharta lui fa business, si sposa, fa un figlio e poi abbandona tutto, arriva sul fiume e si realizza. Anche gli apostoli, quando hanno lasciato casa e cose per andare dietro a dio, nessuno ci ha mai detto quanti figli avevano. All’epoca ne facevano tanti, almeno una decina per uno. Chissà quanti figli aveva san Pietro che faceva il pescatore? C’aveva la barca, la famiglia, figli grandi e piccoli. Però ha mollato tutto, compresa la barca che era un simbolo di potere, e se n’è andato dietro a Gesù. Che era un’idea, insomma, un po’ così. Infatti i parenti glielo dicevano: «Guarda, hai visto poi quello lì, che fine ha fatto!». Sono proprio queste le assurdità. La religione, cioè il sentiero di dio, è per assurdo, mi segui? Perché è fuori da ogni schema, da ogni valore sociale. È fuori dal gioco del mondo, perché è un gioco più alto, un gioco universale. Dicono che bisogna lasciare tutto, padre, madre, moglie, figli e persino la propria vita, se è di impedimento al percorso spirituale. È una guerra di tutti i tempi.
ATTRAVERSATI DA DIO
Mi chiedono perché ho scelto di fare questa vita. Ma io non ho scelto. Non avrei mai pensato di vivere così. Chi è che sceglierebbe di fare il poveraccio? È dio che mi ha scelto. Si è tutto formato come un mosaico, pezzo per pezzo. Non c’è stata una rivelazione definitiva, un momento chiave delineato. I momenti sono proprio nel fluttuare di una vita fatta di tante piccole cose. Immaginati un sentiero senza “dove”, che uno vede strada facendo. La mia è stata una vita di eccessi e trasgressioni. Droghe, galere, mogli, bambini abbandonati: questo è stato il mio samsara. L’importante è che uno poi dalla trasgressione si riprenda e continui nel cammino giusto. Dalle stalle alle stelle. Se il percorso della trasgressione arriva a dio, allora è il sentiero naturale di un asceta che, appunto, deve attraversare mari e monti per arrivarci. Allora, che sia quello che sia. Così sia. Bisogna liberarsi dagli schemi sociali, dagli attaccamenti, prendere coscienza del nostro nutrimento, vivere in luoghi naturali, fare una vita di devozione e ridiventare puri. Io ho subito avuto l’impressione che anche la galera era come un monastero, un ritiro. Lì smetti questo rapporto fra pensiero e azione che c’è all’esterno. Sei compresso nei pensieri, allora maturi un modo di vedere. Da tutto quello che è successo ho tratto insegnamento. Tutto, sia il positivo che il negativo, è stato una scuola. Oltre le scelte. Sono tutte evidenze che dio ti porta nella vita giusto per farti arrivare a un certo tipo di idea. L’idea di dio è una pazzia. È un sogno, una visione. Tutti quelli che hanno cercato di descriverlo hanno finito per usare paroloni talmente grandiosi che a volte uno non riesce a focalizzarli, “l’Incommensurabile”, “Colui che pervade tutte le cose”...! È una cosa talmente sproporzionata, la creazione del creatore, che i valori terreni con cui si sono costruiti i linguaggi non hanno modo di contenerla. Persino i modi di descriverlo diventano una pazzia. Il creatore della creazione è oltre i nomi. Che nomi gli devi dare, a dio? È un’energia ad alto livello, senza forma e senza nome. E noi ci siamo dentro.
Cioè, non puoi leggere una spiegazione di dio in un libro, capito? Ci devi arrivare per stadi, prendendo coscienza di quello che sei. E cosa siamo? Siamo terra, il fermento della crosta terrestre. Siamo le molecole che compongono l’unità del pianeta Terra, così come le molecole che compongono noi sono noi. Quindi ci dobbiamo identificare col pianeta, non con noi stessi, perché questo identificarci con noi stessi è illusorio. Noi viviamo della luce e del calore del sole, sì o no? È per questo che tante religioni lo hanno preso come dio. Ce l’abbiamo lì, il sole, e vediamo che è una cosa alla grande. Dove vai, vai, lo guardi ed è lo stesso sole. In qualsiasi contesto, in qualsiasi società, il sole è e resta il sole, per tutti. Onnipresente e onnipotente. Perché più potente del sole, cosa c’è? Lui è il Grande, l’Eterno. Esce tutte le mattine, puntuale: “Sono di nuovo qua, eccomi!”. Si evidenzia, si distribuisce, ci dà supporto. Quindi è un dio per tutti, no? Se invece identifichi dio con le religioni correnti, ti confondi. Sembra che ognuno voglia avere il suo dio. Se fai parte della società cristiana lo identifichi come Gesù, se fai parte della società musulmana lo identifichi come Allah, se sei hindu lo identifichi come Shiva. Quindi è più un’identificazione sociale. Ma la ricerca di dio è oltre le società. È da lì che viene fuori la coscienza cosmica, che poi è il massimo. Non è nemmeno la coscienza del sole. Va oltre. La coscienza del sole è ancora una cosa piccola, è già molto evidente perché il sole ce l’abbiamo lì, no? E tu devi vederti che giri intorno al sole, devi cercare di sentire questo movimento di noi che ci spostiamo. Noi siamo nel sistema solare, cioè siamo parte del movimento del sole, parte del sole. Ed è per questo che si ha questo feeling di riconoscimento. Però questo riconoscimento non dovrebbe essere solo con il sole, ma con tutto, perché siamo un pianeta del sistema solare, fra milioni di sistemi solari... Vedi che dio – la creazione, si intende – è una cosa acrobatica? Milioni di sistemi solari! È tale la sua grandezza che non ha limiti, né di tempo, né di spazio. Non si riesce nemmeno a riceverla con i nostri occhi, i nostri cinque sensi. Dobbiamo proiettare il pensiero oltre, oltre le forme e i colori e le evidenze, oltre i sensi. Noi siamo nella composizione della creazione, ci siamo dentro fino al collo! Indipendentemente da come si muove e si sviluppa questo fermento che è il pianeta Terra, indipendentemente dai figli, dalle mogli, dalle strutture, dalle emozioni, dalle idee, cioè oltre a tutto ciò uno deve farsi la coscienza d’essere. Essere che cosa? Essere dio, no? O il figlio di dio, chiamalo come vuoi. Siamo uomini per avere la coscienza di questa che è la più grande cosa di cui possiamo avere coscienza. Quindi, una vita così.
Io ho cercato la realizzazione, la cerco. Cerco di fare degli avanzamenti. Il ricercatore ricerca l’idea di dio, oltre le religioni. Le religioni sono un po’ uno specchietto per le allodole. Perché dio è shivaita, buddhista, cattolico o che? Da quando sono partito dall’Italia, poco o tanto, ho sempre vissuto in oriente. Tipo rolling stone, giravo. Sono stato quasi quarant’anni in giro, più di vent’anni a Hampi dopo l’inaugurazione dell’ashram. Sono rimasto parecchio lì in zona. I bambini del villaggio che mi portavano un po’ di legna, una bottiglia di latte delle loro mucche, adesso sono uomini sposati e hanno bambini a loro volta. Io sono ancora impegnato nel lavoro al tempio, che è fare la puja, cioè la cerimonia religiosa, ricevere il pubblico, gestire, preparare da mangiare, andare a dormire a una certa ora per svegliarmi prima dell’alba. Tutta la giornata è organizzata in funzione del tempio. La sera crollo. Quando lavori per dio non puoi né imboscarti né dire “No!”, e pensare di non farlo, né cercare di farlo in fretta. Anzi, vedi di fare di più, perché facendo qualcosa in più la situazione fiorisce, facendo qualcosa in meno si disperde. E con amore lo devi fare. Se non c’è amore non fare un lavoro per dio. Perché se non puoi farlo, iddio non ti chiede di farlo. Faccio la puja ogni mattina intorno alle cinque e mezzo, quando dalla notte viene il giorno, quando dal buio viene la luce, la prima luce del sole. È un momento di magia. Prima non si vede niente, poi il sole si preannuncia: “Arrivo io!”. Gli uccellini cominciano a muoversi, si sentono i primi suoni nella natura. In India lo chiamano bhaktikatai, il momento della devozione. La puja è il riconoscimento che c’è dio, quindi bisogna occuparsene come prima azione di ogni giornata. Se lui è il creatore della creazione, a tanto gli dobbiamo tanto, no? Il primo pensiero della giornata è identificare il sole come espressione di dio, quindi facciamo questa cerimonia. Così tutti i giorni possiamo salutare la venuta di dio. Tutti i sadhu lo fanno. Ognuno fa il suo tipo di puja. Tutti hanno il dhuni o le loro statuine, le loro cose, oppure si rivolgono al sole. Sono momenti al mattino – il primo pensiero mentre uno fa il bagno, o fa scorrere il rosario, o si mette in meditazione, o fa il saluto al sole nello yoga – di concentrazione su questa idea di dio che, poco o tanto, regola la loro vita. Uno prima di tutto deve localizzarlo, solidificarlo questo pensiero. Se iddio è un’idea, bisogna rafforzare questa idea, servire questa idea e vederla materializzarsi, capito? Tu praticamente materializzi l’idea di dio con quelle quattro cose che la mattina metti lì per la puja. Sono una pietra, o quattro pezzi di ferro, però tu li tratti come se fossero dio. Li lavi con l’acqua fresca, gli metti l’incenso, gli metti i fiori. Perché dio cos’è? È un’idea. E siccome non puoi fare un’offerta a un’idea, la devi materializzare.
Sono cose che si fanno per il niente. Senza riscontri. Quello che io faccio a cosa serve? A niente. Ma poi a un certo punto il niente e il tutto si incontrano. Le striscette di cenere che mi faccio sulla fronte, il lumino a olio, l’odore d’incenso, le campane, lo shankh, il fuoco, i fiorellini, a che servono? Quello che noi facciamo, alla società non serve a niente. Non produce niente, non fa soldi, non aiuta nessuno. Forse nessuno sa nemmeno che lo si fa. Però lo si fa per dio. In tutta la giornata – come ti siedi, cosa dici, cosa pensi – pensi a lui. Quando devi parlare, ti fermi un momento e ti chiedi: fa piacere a lui? Se no, per chi lo fai, per la società, per far piacere alla polizia? Oltre alle leggi correnti uno si fa una scala di valori davanti a dio. Quando ti svegli la mattina dici: “Mio dio!”, quando bevi il primo tè caldo: “Mio dio!”, quando il bambino si addormenta finalmente la sera: “Mio diooo!!!”. Anche quando le cose vanno male. Perché il male e il bene, cosa ne sai? Allora te lo prendi tutto. Tutto. E ancor più dici: “Mio dio!”, no? Prenditelo tutto, che poi dal male viene il bene. Quando la mattina fai la puja alle quattro direzioni – alle abitazioni del villaggio, alle montagne di pietre, al fiume, al fuoco –, farà un po’ di bene a loro. Suoni la conchiglia per richiamare l’attenzione di dio in questo momento, su questo punto della terra, e per dirgli: “Oh, ci siamo! Siamo qui per te”. Ma non serve a niente. Al limite serve a dio, se per assurdo questo dio c’è. Io dormo sempre poco di notte. All’ashram dormo con il timore di dio. Mi sveglio alle due e guardo l’ora: “Posso stare ancora un’ora, due ore!”. Se mi sveglio alle due e mezzo: “Ah, sono solo le due e mezzo!”. Poi mi risveglio e riguardo l’ora. Fino alla tre e mezzo, quando mi tiro su. Perché così presto? Perché è giusto il tempo che serve per sviluppare la puja. Se ne servisse di meno mi alzerei più tardi. Si sta tanto bene a letto! Anche Mariano si svegliava sempre un po’ incazzato. Eh, fratello, è questa la disciplina che crea l’idea di dio. Nemmeno quando avevo la febbre della malaria ho smesso. Per me l’unica alternativa che può esserci alla società, l’unica controcultura, è la ricerca di dio. Non ce ne sono altre. Le piccole, grandi alternative che sono venute fuori adesso, quelle ecologiche per esempio, sono come un partito politico che è contrario a un altro partito politico, ma resta un partito politico. Come gli hippie – pace e amore, quello che vuoi – sono poi stati riassorbiti dalla società con il condizionamento del lavoro, dei soldi e quindi di tutte le altre cose. L’ansia di avere senza dare. Poi, meglio o peggio non lo so. I valori dipendono dal punto di vista. Per esempio, per i mass media, per il pubblico, un sadhu è rovinato, è un poveretto
perché rinuncia agli attaccamenti, alle case, alle cose. Mentre un sadhu, un fachiro, pensa che sono rovinati quelli che rimangono nel samsara. Sono loro che rinunciano, perché rinunciano alla conoscenza, alla dimensione di grandezza che può essere dio, per perdersi nelle storie materiali nell’“illusione”. Infatti si dice: “Ciò che è notte per la gente comune è giorno per i sadhu”. Il tempio a Rishimukh adesso si è elaborato, è una cosa in crescita. È ormai inserito nella via dei pellegrinaggi nella zona. In un tempio arrivi a capire che non sei in un mercato, che appunto sei arrivato in un posto in cui c’è tranquillità. Le questioni che di solito si trattano nel bazar sono di un tipo, mentre in un tempio c’è una dimensione più rilassante. I baba, prima di chiederti come ti chiami o di dove sei, ti dicono: “Vieni, siediti. Beviti un chai, fumati un chilum”. A un baba non interessa chi sei. Sei parte del tutto. Specialmente uno che è in viaggio, se arriva al tempio si sente a casa più che in qualsiasi altro posto. Riceve questa vibrazione diversa. È soggettiva l’impressione, però di fondo tutti sono del parere che, in un clima tropicale, arrivano in un posto immacolato, perché dà questa sensazione di purezza, di freschezza. L’acqua scorre sul lingam, i fiori restano freschi. L’ashram è una soluzione alternativa di vita. È come una scuola di vita in giungla. Bisogna andare a cagare fra le rocce, fare il bagno nel fiume, cucinare sul fuoco. A chi viene benvenuto, a chi resta ben restato, a chi va ben andato... Sono sempre di più i pellegrini indiani e i turisti stranieri che girano e vengono a visitarlo. Da una parte c’è il positivo, dall’altra il negativo. Tanti vengono solo per fumare o, prima, venivano per vedere i miei capelli. Da quando li avevo offerti al fiume erano cresciuti molto ed erano lunghi un metro e mezzo. Con quelle jata sulla testa si interessavano solo a quelle! Tiravano fuori la macchina fotografica. “Scioglile, rilegale...” Ma che valore hanno i capelli? Una volta, le jata, i dread, erano un simbolo della gente che vive per strada, di una rinuncia ai valori estetici. Poi sono diventate una moda. Allora, recentemente, me le sono tagliate. Ho trovato qualcuno che mi ha dato mille euro per le mie jata – non credevo proprio di avere qualcosa che avesse così tanto valore sul mercato! Così abbiamo unito l’utile al dilettevole e con il ricavato dei capelli siamo riusciti a rimettere un po’ a posto i tetti di paglia dell’ashram. Ora che non c’è più niente sulla testa, forse si domanderanno cosa c’è dentro? Il lavoro all’ashram mi porta via tanta energia. Questa struttura del tempio, non riesco a capire se mi ha allontanato o avvicinato. È per quello che a volte penso di mollare tutta questa storia e di tornare in Italia. Per quanto mi riguarda,
ho dei rapporti di maggiore umiltà in Italia. Perché là di fondo sono un poveretto, un extracomunitario, il più povero che c’è in giro. Mentre in India nei confronti dell’ambiente sono qualcuno, la gente mi tocca i piedi, si siede a sentire cosa dico eccetera, eccetera. Questo ti alza di un gradino, no? In India mi sento ricco, adesso. Ho cose, campane, coperte. Noi abbiamo sempre bevuto l’acqua del fiume, ma quest’anno ci hanno portato un filtro dell’acqua con il rubinettino. È arrivato anche uno che ci ha regalato il boiler, però dopo poco si è rotto. D’inverno, al mattino, per avere l’acqua calda bisogna di nuovo accendere il fuoco, mettere su un pentolone e sedersi lì davanti, al buio, ad aspettare. Per dodici anni siamo stati a Hampi senza elettricità, coi lumini a petrolio. Non tanto perché non avevo i soldi per metterla, ma non è che avevo pensato di lasciare mamma e papà per andare in giungla e mettere l’elettricità. Poi l’ashram si è ingrandito ed è venuta, qualcuno ce l’ha fatta mettere. Molti del villaggio di fronte non ce l’hanno. Per un po’ avevamo anche le mucche, allora venivano tutti questi qui a chiedermi i soldi. Ero diventato una figura con cui non c’entravo niente, io. Si è sviluppata troppo la cosa. All’inizio, quando all’ombra di una pietra, vicino a un fiume, avevo fatto un buco in terra e acceso due legni, ero più tranquillo. Avevo meno impegni, meno cose, meno da pulire, da fare, da gestire. E adesso che si fa? Io veramente non ci ho mai pensato al futuro. Vado in fede. Non ci sono progetti. Stiamo a vedere che succede, come si sviluppano le cose. Hanno un loro fermentare, no? Tutto viene fuori da se stesso. Si fa un chai, si fuma un chilum, vivo momento per momento. Basta essere tolleranti. Dio non è che mi fa i programmi prima. Mi lascia sempre in sospeso. Pensavo di tornare dove sono nato. A ringraziare la terra che mi ha fatto nascere e dirle che io ero nato lì, da lei, ma andavo a morire da un’altra parte. Le chiedevo scusa di andare a morire in India, dove morire mi riusciva meno complicato. Così, pensavo di presentarmi a Castroreale, propormi all’ambiente senza forzare l’idea della gente con i capelli lunghi o i vestiti di colore, senza particolari riconoscimenti che possano interferire coi loro schemi di identificazione. Se uno deve avere un riconoscimento deve averlo così, per se stesso. Sono loro che devono dire: “Questo è uno vicino a dio, da come si siede, da come parla, da come vive, dal suo modo di muoversi”. Lo devono vedere loro se sono un santo o no, lo capiranno loro. Uno arriva lì. Scende dall’autobus e si ferma in piazza. C’è un caffè lì vicino. Prende una granita al limone, perché la fanno buona la granita, lì.
Poi c’è chi chiede: “Da dove vieni?”. “Mah, io sono di Castroreale. Sono ritornato al paese a vedere chi c’è. Se c’è brava gente o no...”
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Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Questo volume è stato stampato presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa Mondadori - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in Italy
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