Saggio dedicato al centenario della nascita di Albert Camus, contenente un'intervista inedita a Cathérine Camus....
CAMUS FILOSOFO DELL’AVVENIRE
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Paolo Flores d’Arcais
Camus filosofo dell'avvenire con un'intervista a Caterine Camus Mio padre: solitaire, solidaire
Roma, novembre 2013
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Camus filosofo dell'avvenire di Paolo Flores d’Arcais
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Mio padre: solitaire, solidaire Nella casa di Lourmarin, in Provenza, che il padre acquistò con il denaro del Nobel per la letteratura, Catherine Camus, da anni impegnata nella pubblicazione degli inediti del grande scrittore, ne passa in rassegna diversi aspetti del pensiero e della personalità: il doloroso isolamento dall’ambiente intellettuale parigino, la “volontà di parlare per coloro che non possono farlo da soli”, l’impegno contro ogni totalitarismo e il rifiuto della neutralità, la vocazione ‘mediterranea’ e la nostalgia per il sole d’Algeria, il legame con la natura. Catherine Camus in conversazione con Andrea Bianchi e Anna Sansa Nel 1957, ad Albert Camus viene assegnato il premio Nobel per la letteratura; ha 44 anni ed è, dopo Kipling, il più giovane vincitore. Tale consacrazione gli giunge nel pieno di un periodo molto difficile, in cui è massimo il suo isolamento all’interno dell’establishment intellettuale francese. Le sue posizioni di sinistra libertaria, egualmente rigorose nell’avversare l’ipocrisia e l’ingiustizia borghesi e nel denunciare le mistificazioni del socialismo «cesariano» e totalitario dei paesi dell’Est, gli valgono duri attacchi da destra e da sinistra. Pochi anni prima, nel ’52, la pubblicazione di L’uomo in rivolta, in cui contrappone all’idolatria del fatto e del successo, fondata in ultima analisi su di un nichilismo morale e sulla negazione dell’individuo, propria dei sostenitori dei regimi della «sinistra poliziesca», la sua difesa di una sinistra eretica ed il suo ideale di rivolta libertaria («Mi rivolto, dunque siamo»), era stata all’origine della celebre polemica e della rottura con il gruppo di Les Temps Modernes, guidato da Jean Paul Sartre, allora compagnon de route del Pcf. Le sue prese di posizione ed i suoi sofferti silenzi sulla guerra d’Algeria, che è per lui una ferita dolorosa e lacerante, ne acuiscono la solitudine. Sono lontani i giorni dell’immediato dopoguerra, in cui Camus era stato, agli occhi dei suoi compatrioti, per usare le parole dello stesso Sartre «l’ammirevole congiunzione di una persona, di un’azione e di un’opera». Il cartesiano dell’assurdo, l’autore dello Straniero e del Mito di Sisifo era anche l’eroe della Resistenza, il direttore di Combat, che, nelle Lettere a un amico tedesco, aveva fornito le più limpide ragioni alla lotta contro il nazismo. In pochi anni, le sue posizioni eretiche, nel clima della guerra fredda, hanno portato Camus dalla gloria al quasi totale isolamento. Certo, fuori dalla Francia la situazione è diversa e Hannah Arendt, al cui pensiero politico lo legano profonde affinità, manifesta la propria ammirazione per L’uomo in rivolta. Ma, a Parigi, Camus si sente in esilio. Un esilio intellettuale, per l’inattualità della sua difesa intransigente della tradizione libertaria e dell’autonomia del fatto morale (di una morale dell’assurdo), in piena guerra fredda, quando gli intellettuali engagés sacrificano all’idolo del realismo politico; ma anche un esilio sociale, per la sua condizione atipica di intellettuale di origine
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pied noir e proletaria, per ciò stesso alieno dai torbidi sensi di colpa alla base della cecità di tanti suoi colleghi di estrazione borghese di fronte ai crimini dello stalinismo. Tale sensazione di esilio prende la forma, sul piano esistenziale, di una nostalgia della patria perduta, di quel Mediterraneo nella cui civiltà Camus individua l’ideale di una misura che non è affatto il contrario della rivolta, ma l’antidoto alla dismisura delle ideologie che, in nome di ipostasi vecchie o nuove – ultima la Storia – asserviscono e sacrificano il singolo individuo, nella sua concretezza e finitudine. Nel ’58, con il denaro del Nobel, Camus acquista una casa nel delizioso villaggio di Lourmarin, in Provenza, regione che ha imparato ad amare anche grazie alla frequentazione di René Char, l’amico poeta in cui riconosce molte affinità, dall’impegno nella Resistenza alle posizioni anticonformiste del dopoguerra. In questo paesaggio, dove ritrova la luce e i colori d’Algeria, inizia la stesura di Il primo uomo, il romanzo in cui vuole ritrarsi a tutto tondo, partendo dalle proprie radici, nel modo più autentico possibile, e che lascerà incompleto. È tornando da Lourmarin a Parigi che Camus, nel 1960, muore in un incidente d’auto. Ora, nella casa di Lourmarin, modesta e quasi spoglia, ma con una splendida vista sulle colline del Luberon, vive la figlia Catherine, che da anni cura la pubblicazione degli inediti di Camus; è lì che l’abbiamo incontrata. I tratti del viso e il sorriso sono quelli paterni, così come la cortesia e semplicità dei modi; l’attenzione estrema a non sovrapporre le proprie interpretazioni al pensiero del padre e lo scrupolo d’autenticità sono in linea con la lezione di chi riteneva che la libertà – e il dovere – di uno scrittore consistano soprattutto nel non mentire.
È probabile che Albert Camus abbia scelto di acquistare una casa qui a Lourmarin perché ha trovato in questo paesaggio una luce che gli ricordava quella della sua infanzia, dell’Algeria, gli stessi colori del Mediterraneo, ha voluto in qualche modo ritornare alle origini, ritrovare quello di cui a Parigi soffriva l’assenza, non è vero? In effetti a Lourmarin si trova una luce particolare. «Qui», diceva sempre, «dietro le montagne c’è il mare». È un paesaggio che ricorda quello della Toscana, sulla quale ha scritto pagine meravigliose. La Toscana, l’Algeria, il Mediterraneo, insomma. Era profondamente mediterraneo. Era legato a questi luoghi anche attraverso amici molto importanti, come Jean Grenier e René Char. René Char, sì, era molto radicato in Provenza, in Vaucluse. Jean Grenier era venuto al castello e aveva scritto un breve testo, in cui descrive Lourmarin, che s’intitola Cum apparuerit, che non si trova più e fa parte delle pubblicazioni del castello.
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C’erano luoghi dei dintorni che Albert Camus amava in modo particolare? Credo che fosse solito passeggiare con René Char nella foresta di cedri, vero? Nella foresta di cedri, mi stupirebbe. Faceva il giro della conca di Lourmarin, il mattino presto, prima di iniziare a lavorare, ma non è restato a lungo. Un anno e mezzo, penso. Appena, perché ha fatto fare dei lavori alla casa, l’ha arredata, ha scelto tutto personalmente: le tende, i letti, le lenzuola… È vero che amava delle case molto semplici, un po’… Un po’ austere. Un po’ austere, spagnole; è ancora così? L’ho resa un po’ più confortevole, ma non da molto. Suppongo sia perché sono stata educata da lui, per cui il lusso, il superfluo sono quasi…. un peccato, ad ogni modo non valgono la pena. Ci sono molte persone, molti lettori che vengono qui a Lourmarin a vedere la casa che aveva scelto e la sua tomba? Sì, vengono a vedere la casa dall’esterno perché non è in visita, conservo un angolino per me e i miei figli e nipoti, poi vanno al cimitero. Vengono da tutto il mondo, ci sono molti coreani, molti giapponesi… È vero che aveva il biglietto del treno, ma è partito in auto su insistenza di Michel Gallimard? Sì, a Michel non poteva rifiutare niente. Perché Michel Gallimard era una persona adorabile, veramente adorabile. Camus diceva che vi erano due luoghi in cui si sentiva particolarmente a suo agio, lo stadio e il teatro. Ha davvero finanziato la squadra di calcio locale? Paghiamo ancora una quota alla squadra locale, le JSL, è una tradizione Camus. Ha offerto delle maglie nuove a ogni giocatore. Andava a tutti gli incontri, quando era a Lourmarin, e aveva accese dispute con il pescivendolo di Bonnieux! Ha iniziato qui Il primo uomo? Penso lo avesse cominciato prima, ma, in effetti, lo ha praticamente scritto tutto qui, seduto in terrazza, stando ai racconti di M.me Ginoux, la donna che lo aiutava nelle faccende domestiche.
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Il periodo in cui ottenne il Nobel fu piuttosto difficile, si sentiva molto isolato negli ambienti intellettuali parigini dopo la rottura con Sartre e Les Temps Modernes. In più era appena iniziata la guerra in Algeria e credo cercasse a Lourmarin la pace e le energie per completare questo romanzo, che contava molto per lui. Leggendo i Taccuini degli anni Cinquanta, si vede che erano per lui anni alquanto duri. Sì, erano duri, era molto solo, molto isolato. C’erano delle ragioni politiche, perché Camus ha sempre affermato che era di sinistra, un uomo di sinistra «all’antica». Diceva: «Sono di sinistra malgrado lei e malgrado me». Comunque di sinistra, quindi per la gente di destra era sempre troppo a sinistra; per la sinistra, denunciare i gulag significava tradire l’ideologia, quindi essere l’alleato oggettivo della destra. Era inoltre uno dei rari scrittori francesi che non erano nati borghesi, e questo nei suoi rapporti con l’intelligencija parigina costituiva un problema centrale. Veniva dal Sud, dalla periferia di Algeri, con quell’aria un po’ «canaglia», troppo persino per dei borghesi di sinistra che amavano molto incanaglirsi. All’epoca, la maggior parte degli intellettuali francesi veniva dall’École normale, erano dei professori o, ad ogni modo, salvo Genet e Guilloux, dei borghesi, che avevano avuto tutto fin dalla nascita. Invece è proprio dall’origine sociale di Camus (sua madre era analfabeta) che deriva il suo profondo rispetto della lingua francese. Prima di tutto, perché non ne aveva ricevuto la padronanza per nascita, aveva dovuto acquisirla con fatica. Poi, da scrittore, rivolgendosi ai suoi lettori, non voleva in alcun modo ingannarli. Era quindi molto attento alle parole che usava. E questa attenzione derivava dall’ambiente sociale in cui, a differenza di quasi tutti gli intellettuali francesi, era cresciuto. In terzo luogo, era un mediterraneo. Occorre ricordare che allora, e anche a lungo successivamente, la Francia voltava la schiena al Mediterraneo. Italia e Spagna erano ancora paesi arretrati e i francesi erano più affascinati dal Nord, dall’Inghilterra, dalla Germania. Camus, invece, era profondamente mediterraneo. D’altronde, c’è un bel testo in cui dice che l’Europa ritornerà ad abbeverarsi alle sorgenti del Mediterraneo. Questi tre aspetti erano, ritengo, alla base della sua solitudine. E poi, per un mediterraneo, un’offesa è un’offesa, tradire un’amicizia è tradire un’amicizia. Se uno ti offende pubblicamente, il rapporto si chiude. Negli ambienti parigini, tu insulti qualcuno oggi e vai a cena con lui domani. Ma mio padre non era così, per lui l’amicizia era sacra e non intendeva venirle meno. Conobbe un periodo di autentica gloria parigina alla fine della guerra, anche perché aveva avuto un ruolo importante nella Resistenza, in particolare come caporedattore del giornale Combat, mentre, pochi anni dopo, era del tutto isolato… Sì, in più i suoi libri avevano avuto grande successo. Imperdonabile, soprattutto quando si è cresciuti nella periferia malfamata di Algeri, mediterraneo e povero.
E anche «pied noir»… Eh sì, bisogna saper stare al proprio posto…
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Dunque negli anni Cinquanta si volse di nuovo verso il Mediterraneo, soprattutto grazie alla sua amicizia con René Char, che è stato probabilmente il suo ultimo vero amico, non è così? Ah no, c’era Guilloux; Louis Guilloux è molto importante. Per quanto riguarda René Char, nella bellissima corrispondenza fra lui e Camus, si può vedere che fra loro c’era una splendida amicizia, non molto frequente fra intellettuali famosi. C’era Char, c’era Guilloux, c’era un amico di Algeri che si chiamava Robert Jusseaux, da Gallimard c’era Brice Parain. Anche se è vero che era abbastanza solo, era pur sempre circondato dal Mediterraneo, non ha mai potuto separarsene. A Parigi si sentiva in esilio. Nei Taccuini ci sono delle splendide pagine sull’Italia. Oh, magnifiche, ad esempio su Siena: «Vorrei ritornare a morire fra quegli italiani che amo…». Sì, anche quando scrive che a Firenze ha capito per la prima volta che al fondo della sua rivolta c’era un consenso. Ha visitato le regioni d’Italia che suo padre amava particolarmente? Conosce l’Italia? Sì, conosco l’Italia: naturalmente sono stata a Firenze, a Venezia, a Milano, a Roma, a Napoli, ma sempre invitata da un regista, perché si rappresentavano delle pièces di Camus. A Roma sono stata anche a Villa Medici per l’uscita di Il primo uomo. Ho poi fatto un viaggio con amici sulle tracce di Piero della Francesca (San Sepolcro, Arezzo) e ho imparato l’italiano così, ascoltandolo, la sera guardavo la Rai per imparare questa lingua così bella, così dolce, così musicale, la adoro. Torniamo al periodo del Nobel che è stato per lui, mi sembra, molto difficile da sostenere; era lacerato, c’erano state numerose polemiche, probabilmente temeva che la sua opera fosse considerata ormai compiuta. Quando ha saputo di aver vinto il Nobel ha avuto una crisi profonda. Credo che questo riconoscimento l’abbia angosciato molto, ma potrei anche sbagliarmi, d’altro canto ci tengo a precisare che non possiedo delle verità su Camus. Penso comunque che debba essere molto difficile vivere una vita tanto lontana dalle proprie origini, non solo dal proprio paese, ma dalla propria origine familiare: persone che non sanno né leggere né scrivere. Il Nobel segnava una differenza abissale e credo ne abbia sofferto. Il primo uomo è un libro con cui voleva ritrovare le sue radici, probabilmente resta sempre in noi qualcosa dell’infanzia. Nei Taccuini, esprime le sue inquietudini, tutti i suoi dubbi, credo fosse molto angosciato, ma, se occorre trovare una ragione per questo, penso sia lo scarto enorme fra la sua situazione e le sue radici. Io ho conosciuto mia nonna, il mio prozio, non avevano proprio nulla a che fare con tutto questo.
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Sua nonna paterna è stata una figura molto importante per Camus, ha dei ricordi di lei? Sì, era deliziosa. La difficoltà era far comprendere che qualcuno che è analfabeta non è per questo un idiota. Semplicemente, non aveva le parole. Era intelligente, parlava molto con le mani, aveva delle parole, ma parlava soprattutto con i gesti. Era spagnola? Di origine spagnola, di Minorca, ma era nata in Algeria. Soprattutto, credo che non sapesse nemmeno cosa fosse la malvagità. Perché era davvero perfettamente, totalmente innocente. Quando ero bambina, avevo paura che le si facesse del male. Avevo paura per lei, perché era fine, delicata, senza difese. E per questo penso che sia stata preoccupazione costante di Camus parlare per coloro che non ne hanno la possibilità. Viveva in Algeria anche dopo l’indipendenza? È morta nove mesi dopo mio padre.
È con il denaro del premio Nobel che Camus ha acquistato la casa di Lourmarin? Ah sì, almeno qualcosa di positivo del premio. Aggiungo che, ad ogni modo, era un artista e un artista ha bisogno di essere conosciuto e, in questo senso, il Nobel è la consacrazione suprema per uno scrittore. Se non ci fosse una certa soddisfazione nell’essere conosciuto, non ci sarebbe il problema cui accennavo prima riguardo alla distanza dalle origini. Il problema è questo, ed era davvero una consacrazione incredibile, era molto giovane. Il più giovane vincitore dopo Kipling. Sì. Aveva quarantaquattro anni. Nella prefazione alla seconda edizione di Il rovescio e il dritto, Camus scrisse che ciò che desiderava di più era trovare un perfetto equilibrio fra ciò che era e ciò che scriveva, scrivere soltanto tutta la verità. Paragonando i suoi ricordi con la lettura delle opere di suo padre, trova che sia riuscito a esprimere quella verità totale della sua vita, che ricercava? Dovrei credere che sia possibile esprimere una verità totale, che la si possa individuare e che sia statica. E io penso che mio padre non avesse una tale idea della verità, ma che ritenesse la verità cangiante e in movimento. Un essere evolve, con l’età, con gli incontri, le situazioni sociali. Non penso fosse una verità totale quella che cercava. Voleva soprattutto una cosa: non mentire, perché pensava che la menzogna sia mortifera e credo avesse ragione. La menzogna, in Camus, è la morte. È per questo che, nella pièce Il malinteso, il figlio muore, ucciso da sua sorella e sua madre, perché aveva mentito. Non ha mai detto loro chi era. Lo uccidono perché non lo
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riconoscono. Penso che oggi si menta troppo, a se stessi e agli altri, in Occidente, e lo pagheremo molto caro. Quello che posso dire è che l’uomo che ho conosciuto era uguale a quello che esprimeva il suo pensiero nei libri che scriveva. Era lo stesso. Quando lo ha letto la prima volta? Aveva letto già qualcosa prima della sua morte? Quando era vivo ho letto Caligola. Poi ha aspettato anni? No, sei mesi dopo la sua morte ho letto La peste, ma mi ha fatto troppo male. Dopo ho letto tutto a diciassette anni. Quando è morto ne avevo quattordici.
Esiste un libro in cui riconosce la sua voce in un modo che la tocca particolarmente? È difficile dirlo: nei suoi libri colgo la sua musica, vale a dire che, in situazioni assolutamente impensabili, lo riconosco, dico: «Questo è di Camus». Una volta è stato davvero incredibile, durante una trasmissione su TF1, tra mezzogiorno e l’una, colgo al volo una frase detta da un uomo e d’istinto penso che è di Camus. Subito mi sono detta: «Devo smettere un po’ di lavorare, questa è paranoia totale, sono malata». Ma una donna ha risposto all’uomo chiedendo: «Bello questo concetto. Di chi è?» e lui: «È di Camus ». Sono rimasta molto colpita. In ognuno dei suoi libri c’è qualcosa di lui, dovunque lo ritrovo, è sempre presente. Non posso dire ci sia un testo in particolare. Personalmente, amo molto i Discorsi di Svezia e adoro La caduta. Trovo che La caduta sia perfetto. Perché ha deciso di curare la pubblicazione di Il primo uomo una quindicina d’ anni fa? E perché ha atteso tanto prima di pubblicarlo? Prima di tutto perché avevo quattordici anni quando è morto e non avevo voce in capitolo. Mia madre ha chiesto agli amici di papà (Robert Gallimard, Jean Grenier, René Char eccetera), tutti erano contrari a pubblicarlo perché era solo un abbozzo. E siccome per denigrarlo si diceva che era uno scrittore finito, il testo incompiuto poteva fornire nuovi argomenti ai detrattori. Penso che a mia madre sia rimasta questa paura. È morta nel ’79, e per tutti era evidente che io avrei dovuto occuparmi dell’opera di mio padre. Per tutti tranne che per me; ma, alla fine, ho imparato il mestiere. Quando io ho ripreso in mano l’opera un anno dopo, il pensiero dominante era sempre lo stesso: Camus era un boy-scout con una morale da Croce Rossa. Faccio questo lavoro da trent’anni, con umiltà e ostinazione, è un lavoro enorme e non mi riesce mai di staccare. Quando ho riletto Il primo uomo mi sono detta che era sconvolgente e che bisognava pubblicarlo, perché per me Il primo uomo è una sorta di libro di liberazione totale, come se Camus dicesse: «Ecco chi sono veramente». È un libro molto lirico, molto sensuale. Per dire chi è, dice da dove viene. Secondo me è un libro davvero importante e, anche se era ben lungi dall’averlo terminato, dato che pensava a un’opera dalle 600 alle 800 pagine, vi si possono ritrovare i segni del suo impegno e il suo stile di scrittura tutto intero. Quel miscuglio di sensualità e austerità,
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la volontà di parlare per coloro che non possono farlo da soli. Mi sembra, osservando lo stile di Il primo uomo, che assomigli moltissimo a ciò che era lui come uomo, lo ricorda davvero molto. Comunque, quando il libro è uscito, ho avuto paura per lui, perché non avrei potuto difenderlo, non potevo parlare, ero l’ultima persona a poter dire qualcosa. E lei sente ancora dei legami con le radici algerine? Ah, certo, l’Africa, sì. Da là viene il mio lato selvaggio. L’Algeria, l’Africa, quella sorta di soffio nella schiena, quella selvatichezza, che trovo tuttavia meno pericolosa della ferocia che s’incontra a volte a Parigi.
Perdere suo padre a quattordici anni, quando era uno scrittore così conosciuto, le ha mai dato l’impressione di essere obbligata a dividere il suo ricordo con molte altre persone, vale a dire tutti i suoi lettori? Non sapevo che mio padre fosse famoso. Era scrittore, ma, un bambino, a scuola, non ha poi tanta voglia di dire che suo padre è scrittore. Cosa fa tuo papà? Scrive, è scrittore. Per chi ascolta non vuol dire niente. Ho capito che era celebre quando è morto. Un uomo celebre come lui non ha famiglia, quindi per gli altri io non avevo perduto mio padre. Quando vostro padre muore ed è celebre, a nessuno viene in mente che voi avete perduto vostro padre. Non è «vostro» padre, appartiene a tutti. Quando sono tornata al liceo, qualcuno mi ha detto: «Peccato, volevo chiedervi di farmi autografare La peste». Mentre voi non potete nemmeno esprimere il vostro dolore, perché nessuno ne vuole sapere. Certo lo divido con molte persone, ma per me papà è papà. Da giovane, non è stato facile, ero in rivolta permanente, sempre messa fuori dalla porta in classe, al liceo, una rivolta che mi ha salvato, credo. Nel contempo, la solitudine era abominevole: nessuno ha mai considerato che mio fratello e io avevamo perso nostro padre. Ma bisogna passare attraverso tutto questo. Dopo si è molto più attenti, sensibili, completamente ricettivi al dolore degli altri; si cerca di non ferire nessuno, di non dire del male. Da questo punto di vista, è stata un’esperienza positiva. Era un padre severo? Sì. Vi ha insegnato il rispetto del denaro, è così? Del denaro non si parlava. D’altronde, non ne avevamo. Avevamo un franco alla settimana, io ero molto golosa, ma con quel franco dovevamo comprare il biglietto dell’autobus per andare al liceo e io andavo sempre a piedi perché desideravo dei dolci. Con un franco alla settimana potevo comprarmi un dolce. Quindi facevo delle economie. Ma è bene così, papà non voleva che avessimo del superfluo. Diceva che avevamo tutto e aveva ragione: avevamo un tetto, non avevamo fame, avevamo dei libri, facevamo delle domande e sapevano risponderci, avevamo tutto. Quindi niente superfluo. A Natale, a partire dai dieci anni, dei regali utili, ad esempio una cartella.
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Parlavate della scuola, dei compiti? Non molto, perché se andavamo male eravamo rimproverati, ma se andavamo bene era normale, perché avevamo tutto. Era molto severo, soprattutto sul rispetto degli altri. Ci lasciava liberi, ma responsabili, come normale. Ma quando da bambini dite o fate una sciocchezza e vostro padre vi dice: «Che cosa ne pensi?», non è così semplice. Avrei preferito le sberle, si è pagato e si può ricominciare tranquilli. Essere responsabili dei propri atti e delle proprie parole: è un’educazione molto severa, perché non ci sono scappatoie. Ma era anche divertente, scherzava con voi? Era divertente, era tenero e, soprattutto, era giusto. Ci parlava molto, io stavo benissimo con lui. Avete avuto un’educazione laica? Ah sì, totalmente. C’erano dei libri che secondo lui dovevate leggere? Potevamo leggere tutto, tutto quello che volevamo. Lo stesso valeva per il cinema, la musica. Tutti si stupivano perché, a dodici anni, cantavo le canzoni di Georges Brassens. All’epoca Brassens era un anarchico, considerato pericoloso e volgare, e io cantavo Il gorilla senza nemmeno comprendere le parole. «Dove l’hai sentita? A casa? Ma dove l’hai trovata?». «Ma è papà che ci ha portato il disco». Nessuno ci credeva.
Camus amava Brassens? Lo adorava. Ci ha portato Brassens e ce lo ha fatto ascoltare quando avevamo dodici anni; all’epoca era del tutto scioccante, era un libertario, come Camus del resto. Nell’ultima edizione della Pléiade c’è un inedito, L’impromptu des philosophes, che è piuttosto divertente, è una satira della Saint-Germain-des-Prés esistenzialista. Ma anche di se stesso.
Sì. E di Sartre, monsieur Néant. Monsieur Néant, sì, è abbastanza trasparente. Non se ne è parlato molto. In Francia ci sono stati degli ottimi articoli su questa edizione della Pléiade, è stata bene accolta, ma ho trovato sorprendente che nessuno abbia parlato di L’impromptu des philosophes. Penso che sia un’autocensura inconscia che non deriva
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più dall’influenza di Sartre, ovviamente, ma dai tanti sartriani rimasti. É un testo curioso, perché è divertente, non è un capolavoro, ma è divertente, Camus si prende un po’ gioco di se stesso e un po’ di Sartre. È vero che Sartre ha proposto di aiutarvi, dopo la morte di Camus? Sì, è Robert Gallimard che ci ha detto che Sartre ha sempre chiesto: «Come vanno Francine e i ragazzi?» e che, se ci fosse stato un problema, ci avrebbe aiutati. Io di questo sono convinta. Ci sono ancora persone che pensano fosse meglio avere torto con Sartre che ragione, si diceva con Aron, ma si potrebbe dire con Camus? Sì, molte. È un peccato per loro, avrebbero un pò più d’ossigeno se pensassero diversamente. Pensa che il pensiero di Camus sia adesso più attuale, più di moda? Ci sono sempre dei lettori e ci sono anche molte persone che comprendono veramente quello che ha detto. Bisogna distinguere fra la Francia e gli altri paesi. Negli Stati Uniti, in questo momento, c’è un crescendo di interesse. Ho visto uno studente americano, di Yale, che è arrivato per studiare Camus e Simone Weil e mi ha chiesto: «Che cosa fate in Francia? Perché da noi, a Yale, il professore migliore, e uno dei più importanti degli Stati Uniti, fa un corso su Camus, quest’anno. E abbiamo dovuto rifiutare molti partecipanti, perché vi sono accorsi numerosi non solo gli studenti, ma anche i docenti». Una partecipazione, mi ha detto, assolutamente enorme. Anche in Inghilterra l’interesse è in crescita, idem in Spagna. Rappresentano spesso le sue pièces in India, in Giappone; hanno fatto un adattamento di Lo straniero in srilankese per la televisione srilankese. In Italia, i suoi testi teatrali vengono spesso rappresentati. Io adoro venire in Italia, perché gli italiani amano davvero fraternamente Camus. Ma la Francia… Che cosa vuole che le dica? Arrivo a Milano all’Istituto culturale francese, e mi dicono: «Abbiamo preso una sala piccola, perché non ci sarà nessuno». E poi arriva un sacco di gente e ogni volta è la stessa cosa. Questa è la Francia. Ma occorre dire che, anche in Francia, non è mai stato abbandonato dai suoi lettori. Camus è estremamente letto. È l’autore più venduto dell’intera collezione Gallimard ed è così da ormai molti anni. Le vendite non sono mai calate, quindi parlare di riscoperta lascerebbe intendere che in precedenza non sia stato letto, il che non è vero. Certo è che pochi sono gli universitari che frequentano il Centro di documentazione su Camus di Aix-en-Provence. La Francia è così, ci mette del tempo. Comunque fra i giovani è sempre lo scrittore, anche in Francia, più amato e molti che lo hanno letto da giovani ritornano a lui da adulti. Anche nei paesi dell’Est è sempre stato molto amato. Per il suo sostegno ai dissidenti. Sì, era il loro ossigeno. Ci sono persone che sono morte perché hanno tradotto Camus, l’hanno divulgato, o che sono state rinchiuse in ospedali psichiatrici. E, dicono, il che è ancora più sorprendente, che oggi nei paesi dell’Est, che sono giunti al capitalismo, è ancora Camus che li aiuta a sopportare la disillusione riguardo al
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capitalismo. In generale, ciò che fa che si ritorni a lui è la sua posizione nei confonti dell’ideologia: ha mostrato i suoi limiti e anche i suoi morti. Camus ha sempre detto che l’ideologia dovrebbe essere al servizio dell’uomo e non il contrario. Oggi, dunque, che cosa può proporre? Propone di trovare ciascuno il proprio cammino e dice che, essendo data l’assurdità, il tragico della condizione umana, esistere e scegliere ogni giorno il proprio cammino è già molto coraggioso. Non assume mai una posizione estrema, ma quando si dice che «la pensée de midi», cioè il concetto di «misura» espresso in L’uomo in rivolta rappresenta il ventre molle del pensiero, io dico no. La misura è nella quotidianità, significa scegliere fra molte contraddizioni e trovare un movimento, un’azione valida, in costante verifica, permanentemente in allerta: questo è Camus. È per questo che aiuta. Dice: «Reggetevi sulle vostre gambe e cercate di trovare ogni giorno, fra le vostre proprie contraddizioni e le contraddizioni che la vita vi oppone, un movimento». Cos’è un movimento? Due forze opposte, è esattamente questo in fisica e nella vita è lo stesso. Bisogna trovare una soluzione alle contraddizioni che tenga conto del contesto umano. Guardate l’economia. L’economia vuole appoggiarsi sulla teoria, senza considerare i criteri umani, il parametro «uomo». Ma, se si fa astrazione dell’uomo, le cose non vanno. È per questo che Camus è più alla moda oggi, perché dice sempre: «Sì, ma c’è l’uomo». È la prima cosa: «perché io sono uomo»; e sta in questo, la solidarietà.
In Francia c’è ancora un pregiudizio riguardo al suo valore come filosofo, mentre non c’è dubbio che sia stato un autentico filosofo, non soltanto uno scrittore che si occupa di filosofia. Ha sempre detto che non era un filosofo, se per filosofia si intende un sistema, non aveva «esprit de système». In questo senso non è un filosofo. Se la filosofia è riflettere sulla condizione umana, allora è un filosofo. Che però non ha mai edificato sistemi. In più, non amava molto la filosofia tedesca, vero, salvo Nietzsche? Eccezione di non poco conto. Ma non amava molto la tradizione hegeliana. Camus insisteva sempre sul fatto che i criteri storici e l’argomentazione storica non erano le sole cose che occorreva considerare, che non erano onniscienti e che la storia poteva sempre ingannarsi di fronte all’uomo. È così che cominciamo a pensare oggi, ma, a quel tempo, era abbastanza solo. Tuttavia, quando Hannah Arendt è venuta a Parigi, ha scritto che voleva vedere solo Camus. Aveva apprezzato molto L’uomo in rivolta… Dicono più o meno la stessa cosa e sono stati altrettanto malvisti, perché è più confortevole…
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Riposarsi su un’ideologia. Sì, avere il bene e il male belli e pronti a colazione. Hannah Arendt, come Camus, dice: «Non è così semplice». E condividono lo stesso odio per la menzogna. Come cercava Camus di vivere il paradosso di essere, nel contempo, «solitaire et solidaire»? Penso che Camus si sentisse molto solitario. Si può vederlo in tutti i suoi libri. Lo straniero non è Camus, ma in Lo straniero ci sono degli elementi di Camus. C’è questa impressione di esilio. E non è da Parigi né da altrove che è in esilio, ma dal mondo intellettuale, a causa delle sue origini. E questo è un esilio completo. E, tuttavia, una cosa che è evidente è che Camus non poteva mai essere un uomo neutrale. Si è impegnato veramente e fisicamente nella Resistenza, nella lotta contro il nazismo. E ha conservato sempre un impegno profondo, un’autentica resistenza contro ogni totalitarismo. Si dimentica spesso che Camus era un oppositore accesissimo del regime di Franco, e fino all’ultimo. Rifiutava di recarsi in Spagna, ha lasciato l’Unesco perché l’Unesco aveva accettato la Spagna di Franco e aveva permesso un discorso al dittatore. Camus era del tutto intransigente – questa non è affatto neutralità. È schierarsi, essere un uomo che si è impegnato. Certo, non era esistenzialista, ma era impegnato, un uomo che si batteva. Non per niente dirigeva il giornale della Resistenza intitolato Combat. In Il rovescio e il dritto, si può leggere: «Fui posto a metà strada fra la miseria e il sole. La miseria mi impedì di credere che tutto è bene sotto il sole e nella storia, il sole mi insegnò che la storia non è tutto». E, nell’Estate: «Viviamo così il tempo delle grandi città. Deliberatamente, il mondo è stato amputato di ciò che costituisce la sua permanenza: la natura, il mare, la collina, la meditazione delle sere». Tra le cose che hanno impedito a Camus di essere schiavo di un’ideologia, di idolatrare la storia, di credere che tutto sia storico e la storia sia tutto, di farne un’ipostasi, e che gli hanno sempre fatto preservare nell’uomo, senza rifiutare le lotte del suo tempo, ciò che non appartiene alla storia, c’è senza dubbio la presenza della natura, molto forte nella sua opera e nella sua sensibilità. Condivide questo sentimento? Completamente. L’urbanizzazione sempre più tentacolare mi fa paura, perché separa l’uomo da tutta una parte della sua umanità e, soprattutto, dalla dolcezza e dalla bellezza. Quando la vita è difficile, e lo è di frequente, se non avete la dolcezza e la bellezza, allora è davvero atroce. Ha spesso detto che, nelle città, non è il meglio di noi che viene alla luce. Ed io sono del tutto d’accordo. Penso anche che, nell’infanzia, stesse meglio fuori che in casa e penso che, quando è così, quando casa vostra non è davvero un luogo rassicurante, quando è più rassicurante l’esterno, allora il vostro mondo è il mondo, il cosmo, vale a dire che casa vostra è fuori, con il cielo, la terra, gli alberi, gli animali… Credo che anche questo possa aver avuto un peso.
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L’assurdo e la rivolta: Albert Camus filosofo del finito Il percorso filosofico del grande scrittore francese è vincolato alla finitezza e alla temporalità dell’esistenza. L’assurdità della condizione umana e la necessità della rivolta. La politica del riformismo libertario. Paolo Flores d’Arcais 1 L’éternité n’est guère plus longue que la vie René Char
Dall’abitudine all’esistenza Il percorso filosofico di Albert Camus è una testimonianza di lucida fedeltà: al finito dell’esistenza, al disincanto del mondo, all’essere-per-la-responsabilità quale ineludibile orizzonte per l’individuo. Riconoscere qualche evidenza, e pensarla fino alle conseguenze estreme. Nulla di più, nulla di meno. Questo il compito in apparenza mediocre che Camus si assegna. Nessuna pretesa di originalità, infatti. Altri hanno pensato l’esistenza finita come punto di partenza della filosofia. Camus si vincola però al dolore appassionato della coerenza. Assumere il finito non basta, infatti. Si tratta piuttosto di tenerlo fermo, contro la tentazione di eluderlo proprio dopo averlo affermato. Tentazione ricorrente e dominante della filosofia dopo (e contro) Kant, che alle illusioni dell’infinito si era illuso di aver decretato un definitivo ostracismo. Quella di Camus è dunque una filosofia che si impegna a non barare, a non almanaccare nuove vie postmetafisiche (oggi potremmo aggiungere: postmoderne) per evadere dal finito. E che perciò disegna anche la mappa dei molteplici tradimenti del finito operati dalla filosofia a noi più vicina, spesso proprio in nome della temporalità dell’esistenza. In questo lavoro critico, però, la fedeltà al finito diviene originalità. Isolata, rara, controcorrente. E perciò più che mai necessaria nella sua sconcertante inattualità.
1 Questo testo è una versione rivista della conferenza - mai pubblicata - presentata a Grosseto il 25 maggio 1984, in occasione del convegno internazionale dedicato a: «Albert Camus: la scrittura e l’impegno». Tranne che per le pagine conclusive, aggiunte ex novo, le modifiche consistono di ininfluenti correzioni stilistiche.
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Due dunque gli oggetti privilegiati della riflessione di Camus. Da una parte la dimensione ontologica del finito, come orizzonte ineludibile dell’esistenza, e le sue implicazioni etiche e politiche all’insegna del disincanto. Dall’altro, l’interminabile vicenda del tradimento del finito che accompagna l’esistenza dell’uomo moderno, nella forma di negazione della realtà, consolazione dalla realtà, disprezzo per la realtà. Oppio e ideologia. Vediamo. Nella filosofia di Camus la condizione finita dell’uomo si presenta due volte, come assurdo e come rivolta. Descrizione dapprima di un essere e prescrizione poi di una scelta, un dover essere che non si trova già dato ma di cui ciascuno si assume la responsabilità. Del resto, ogni filosofia si caratterizza innanzitutto come scelta: per i problemi che privilegia e la gerarchia che fra essi stabilisce, prima ancora che per le risposte che formula. La filosofia per Camus nasce comunque shakespeariana: Essere o non essere. «Giudicare che la vita valga o non valga di essere vissuta, significa rispondere alla domanda fondamentale della filosofia» (99)2. Dunque sapere la realtà per quello che è, senza pagare dazio all’umano desiderio di favole, ma per decidere coerentemente come viverla. Come viverci. Questo diventa in Camus l’heideggeriano esserci. Il mondo è assurdo, dirà Camus. E tuttavia il punto di partenza, l’evidenza da assumere, dovrà essere un altro: il mondo è. Perché mai questo mondo, che semplicemente è, deve valere come assurdo? Perché interrogarlo significa riconoscerlo indifferente. Universo di cose, non già dimora per l’uomo. Universo estraneo, dove dunque straniero è l’uomo. Ma la domanda era una domanda di senso. E la risposta è invece un «vuoto che diventa eloquente» (106). Nell’esperienza individuale l’assurdo si manifesta come rottura dell’abitudine. L’ovvietà quotidiana viene improvvisamente percepita come insensata. Dentro l’abitudine l’uomo fa tutt’uno col mondo, poiché non se lo pone come problema. Ma quando il vivere lascia irrompere l’interrogare, il mondo collassa come mondo familiare. «Cominciare a pensare vuol dire cominciare a essere minati» (100). Si è rotto l’incanto. L’asilo del mondo diventa l’esilio nel mondo. L’uomo che interroga è un uomo alla lettera spaesato: «Il mondo ci sfugge poiché ritorna se stesso (…) questo spessore e questa estraneità del mondo è l’assurdo» (108). Non è tutto. Un’altra forma di abitudine e opacità è anche vivere sull’avvenire: «domani, più tardi, quando avrai una posizione» (107). Anche su questo versante, però, si spezza l’incantesimo e l’incessante «domani» cessa di fornire illusorio senso all’oggi, poiché il domani del domani del domani è il nulla. Non un fine che possa dare senso, ma la fine, il non senso per eccellenza. La logica dell’avvenire si regge solo su «mirabili incongruenze, poiché alla fine si tratta di morire» (ibid.). Dunque, l’estraneità del mondo diventa ostilità ed orrore, non appena si presenta come finitezza nel tempo. Non appena il domani si rivela come la fine che destituisce di senso ogni pretesa di trovare nel domani il fine di un oggi altrimenti insensato. Il mondo non è dimora per l’uomo anche e soprattutto perché il suo tempo non è quello dell’esistenza dell’uomo. Il tempo della cosa è inumano, perché va sempre oltre l’esistenza. Questa presa di coscienza, che risveglia dall’opacità e sottrae all’abitudine, è in qualche modo inevitabile. Prima o poi, arriva comunque il momento della
Per le citazioni di Camus i numeri si riferiscono sempre alle pagine del volume Essais, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, Gallimard, 1977. 2
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domanda, del «darsi pensiero». E «la semplice preoccupazione, la cura nel senso heideggeriano, è all’origine di tutto» (107 e 1433).
La scoperta del finito Quello che Camus chiama l’assurdo, altro non è che il finito, dunque. L’esistenza che è separata dal tutto e collocata nell’orizzonte di un tempo chiuso. Perché mai, tuttavia, il finito non potrebbe rivelarsi come finito e basta? Perché mai il finito dell’esistenza è anche e in primo luogo assurdo, qualcosa contro cui rivoltarsi? Il mondo non ha senso, ma non ha neppure bisogno di senso. Il mondo è. L’uomo, invece, «la sola creatura che rifiuti di essere ciò che è» (420), ha un bisogno inestinguibile che il mondo non sia quello che è, alla lettera in-sensato. La sua «natura» è contro natura: dover chiedere conto alla realtà. Ma questa domanda di senso riposa poi sull’abisso fra la misura dei desideri dell’uomo e la misura in cui il mondo può soddisfarli. Cioè, non può soddisfarli. «L’assurdo nasce da questo confronto fra la richiesta dell’uomo e il silenzio irragionevole del mondo» (117-118). L’uomo, ricorda Camus, è desiderio di felicità e di ragione (117). Al primo desiderio, quello di felicità, si oppone la condizione di straniero fra le cose e nel tempo. «L’assurdo è essenzialmente un divorzio. (…) So cosa vuole l’uomo, so cosa gli offre il mondo» (120). La felicità viene identificata col sottrarsi a questo destino di separazione, col ritrovare l’unità, col ricongiungersi alla totalità. Porre fine all’esilio. Non si tratta, si badi, di notazioni psicologiche, di umori adolescenziali. Gran parte del pensiero occidentale – dalla caverna di Platone alla fenomenologia di Hegel, all’oblio dell’Essere di Heidegger – non fa che raccontare questa stessa storia, di esilio dalla totalità e di ritorno ad essa, come storia dell’alienazone. Dunque: l’uomo è finito, ma è capace di pensare l’infinito e soprattutto di desiderarlo. Nel cuore della condizione umana si apre una lacerazione costitutiva. «L’assurdo dunque non è nell’uomo né nel mondo, ma nella loro presenza comune» (120). Alla radice dell’assurdo, perciò, la dismisura del desiderio dell’uomo, la pretesa che il mondo sia per l’uomo (a sua immagine e somiglianza!). La tentazione ricorrente: perché vivere se non sono Dio? Prepotente appetito di assoluto, di familiarità con la totalità del mondo e con l’eterno. Sono questi i colori dell’umano desiderio di felicità che si dispiegano in tutti gli affreschi metafisici. O tutto possedere o a tutto appartenere. Essere partecipe del tutto, non avere separata esistenza, poiché essere individuo vale essere in-sensato. Felicità sarà dunque non nascere, non separarsi dalla madre. Ma, se nati, partecipare dell’onnipotenza di Dio o di un suo surrogato. Condividere la potenza della specie, invece che vivere i limiti dell’individuo. Quanto sia insopportabile all’uomo il riconoscimento della sua finitezza in un mondo in-sensato, è proclamato del resto da millenarie e inestirpabili tradizioni di religione. Ma si faccia attenzione. La loro testimonianza riabilita in qualche modo anche l’esistenza priva di interrogativi, l’esistenza nell’abitudine (il «si» heideggeriano), che è poi l’esistenza acritica che precede l’improvviso risveglio alla coscienza dell’assurdo. Di contro: l’abitudine è il finito dell’esistenza che riesce a distrarsi, che prova a «non pensarci» (a non pensarsi!), cioè a non pensare né la fredda oggettività del mondo, né la costitutiva e irredimibile separazione del-
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l’individuo dall’infinito e dall’eterno. L’opacità dell’abitudine funziona dunque come rimozione preventiva per non guardare in volto l’orrore del finito. Non diversamente le tradizioni religiose e metafisiche, però. E infatti: l’assurdo nasce con e dalla domanda sul senso. Per rimuoverlo, dunque, e restituire all’uomo l’illusione che l’universo sia apparecchiato per lui, si tratta di annientare la domanda stessa. Ma questo può avvenire sia impedendo che la domanda affiori, soffocata nell’opacità dell’abitudine, sia schiacciandola sotto il tripudio della Risposta, nello splendore accecante della Verità. I due meccanismi spesso convivono, si combinano, si rafforzano a vicenda. Del resto, congiurano allo stesso scopo: distrarre e consolare dalla finitezza. E così, una volta che religione e metafisica abbiano fornito la risposta, l’esistenza si sentirà legittimata e nobilitata a svolgersi nell’abitudine, poiché ora «sa» che ogni curiosità è in anticipo appagata. La cultura che nega il finito si intreccia perfettamente con l’opacità dell’abitudine, poiché entrambe tengono a distanza l’inquietudine della curiosità critica. L’universo del sacro si concilia perfettamente, e si confonde, proprio con l’orizzonte opaco dell’abitudine. Autenticità sarà perciò la fedeltà al finito che tiene ferma la dimensione della domanda, che disincanta il mondo e lo smantella quale destinata dimora, che congeda le illusioni di ogni pienezza dei tempi. Di contro a questa possibilità di autenticità, lavora infaticabile la pulsione dell’uomo che rifiuta di staccarsi dal tutto, di riconoscersi finito e in-sensato frammento. La volontà di potenza come prepotente volontà di non essere individuo. A seconda che privilegi il passato o il futuro, il desiderio di totalità imboccherà allora le strade (non di rado circolari) della nostalgia o della profezia. Poiché «lo spirito desidera ma il mondo delude» (135), il finito che è l’uomo non rinuncerà all’infinito ma lo sposterà in altri tempi e in altri mondi: terra promessa o paradiso perduto, Gerusalemme celeste o futura umanità, dove il confine tra essenza ed esistenza scolora.
Tra scienza e desiderio Nella dimensione del presente, tuttavia, familiarità e possesso del mondo sembrano a portata di mano nella forma, surrogatoria ma praticabile, di conoscenza. In realtà, anche per l’uomo «desiderio di ragione» (117) e non di chimerica felicità, si apre solo l’orizzonte di un nuovo dissidio. Capace di soddisfare l’appetito di infinito, infatti, sarà solo una «scienza» che fornisca la verità completa, globale, esaustiva, definitiva. Un Sapere-Tutto. Che la realtà sia almeno totalmente trasparente, perché l’uomo possa viverla, se non altro intellettualmente, come propria dimora. Ma la scienza non ci fornisce neppure questo simulacro di assoluto (per questo, forse, metafisiche e postmetafisiche si pretendono «scienze» e «verità» di ordine superiore). La conoscenza scientifica, come a più riprese Camus sottolinea, ci fornisce solo conoscenza di frammenti. «Ci sono delle verità, ma niente affatto la verità» (111). Non si tratta, però, di una inadeguatezza della scienza (benché in qualche occasione Camus sembri flirtare con languori antiscientifici). Poiché la verità parziale e sempre provvisoria della scienza non appaga il bisogno di assoluto, l’umana nostalgia di totalità, si tratterà non già di mettere sotto processo la scienza, ma di rinunciare alla dismisura che occupa dispoticamente il cuore dell’uomo. Di non chiedere alla scienza ciò che non può darci, e che pure resta il più importante (come ricorderà anche Wittgenstein): la risposta alla domanda sul senso. E di tener ferma
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l’immagine del mondo che la scienza moderna ci presenta, malgrado essa faccia a pezzi le illusioni che il nostro desiderio produce, e ci racconti il mondo come estraneo, indifferente, privo di anima e di finalismo, «questo caos, questo caso re» (136). Con le stesse parole si esprime infatti la scienza moderna. Scrive Jacques Monod: «Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell’evoluzione: oggi questa nozione centrale della biologia non è più un’ipotesi fra le molte possibili o perlomeno concepibili, ma è la sola concepibile» (113)3. E invece noi uomini «vogliamo essere necessari, inevitabili, preordinati da sempre. Tutte le religioni, quasi tutte le filosofie, perfino una parte della scienza, sono testimoni dell’instancabile, eroico sforzo dell’umanità che nega disperatamente la propria contingenza» (52). È una leggenda, dunque, quella che racconta il dominio della scienza nel mondo moderno. Le nostre società «hanno accettato le ricchezze e i poteri che la scienza svelava loro (…) ma non ne hanno accettato il messaggio più profondo (…) l’esigenza di una revisione totale delle basi dell’etica» (163), la radicale separazione tra fatti e valori. La logica di un definitivo e irredimibile disincanto. E anzi, «le società “liberali” dell’Occidente propugnano ancora a fior di labbra come base della loro morale una scoraggiante miscellanea di religiosità giudaico-cristiana, di progressismo scientistico, di fede in alcuni diritti “naturali” dell’uomo e di pragmatismo utilitaristico» (164) L’etica del disincanto, fedele alla scienza, affiora invece nitida in Camus. «Cercare ciò che è vero» pur sapendo che non coincide e anzi si oppone a «ciò che è desiderabile» (128). L’uomo deve «vivere solamente con ciò che sa, farcela con ciò che è, senza far intervenire nulla che non sia certo» e in questa lucidità del finito «ritrovare infine il vino dell’assurdo e il pane dell’indifferenza, di cui si nutre la sua grandezza» (137). L’uomo ha incontrato ciò che è, ma non è desiderabile, fin dal momento dell’improvvisa rottura che lo strappa all’opacità dell’abitudine: l’estraneità, il molteplice, la morte. La sua esistenza finita, irrimediabilmente e irredimibilmente. Questo ci dice anche la scienza moderna. Si tratta allora di non tradirla, poiché è l’esistenza stessa che verrebbe tradita. Camus rifiuta dunque la sirena di Kierkegaard quando, a imitazione di Ignazio di Loyola, predica «che l’intelletto sacrifichi il suo orgoglio e la ragione si pieghi» (127). La ragione è bensì vana, se pretendiamo che la scienza ci riveli il senso dell’universo. Ma è vana solo perché la dismisura del nostro desiderio di assoluto e di consolazione la ha caricata di un compito che non è il suo. Quanto al resto, «non vi è nulla oltre la ragione» (124) e l’assurdo altro non è che «la ragione lucida che prende atto dei suoi limiti» (134). Monod scriverà che «le idee dotate del più elevato potere di penetrazione sono quelle che spiegano l’uomo, assegnandogli un posto in un destino immanente, in seno al quale la sua angoscia si dissolve» (159), ma proprio in ciò consiste «la menzogna» di una modernità «in definitiva ostile alla scienza» (164). La filosofia di Camus è tessuta con opposta fibra. Non concede spazio alla consolazione e alla sua logica. Meglio la disperazione alle «rose dell’illusione» di cui si nutre l’asino e con cui ci si rassegna alla menzogna (128). Contro questa menzogna, anche Camus tiene
Qui e in seguito, le citazioni di Jacques Monod sono tratte da: Il caso e la necessità, Milano, Mondadori, 1974. 3
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fermo che «il destino dell’uomo non è scritto in nessun luogo. A lui la scelta tra il Regno e le tenebre» (Monod, 172)4.
Filosofie dell’evasione L’uomo ha ormai assaggiato la mela del disincanto. Di fronte ad un universo che non (cor)risponde alla sua domanda di senso, si aprono all’uomo due possibilità: la coerenza o la fuga. Le filosofie che pure si dicono dell’esistenza scelgono, secondo Camus, questa seconda. Sono, alla lettera, filosofie dell’evasione. Invece che tenere ferma la realtà vogliono consolarci, e condannarci alla speranza forzata (122). Per Kierkegaard e per Sestov, per Husserl e per Jaspers, «la nostalgia è più forte della scienza» (133). E poiché si tratta di filosofie che «partono dall’assurdo (…) in un universo chiuso e limitato all’umano», «merita che ci si soffermi» (122) sul rovesciamento mistico che costituisce l’esito della loro avventura. Il punto di partenza è l’assurdo, abbiamo visto. Rotto con la scienza moderna quell’incanto che era un mondo animato, simile a noi, apparecchiato per noi, si elude l’assurdo non più negandolo ma divinizzandolo. L’assurdo – come sappiamo – è la lucidità che riconosce l’abisso incolmabile tra il mondo qual è – caso più necessità – e quale lo vagheggia la nostalgia inesauribile di totalità e di assoluto – dimora intessuta di finalismo. Ma poiché la nuda realtà di un mondo disincantato risulta, come scriverà Freud, una ferita inferta al narcisismo dell’uomo, l’intollerabile verrà dapprima dichiarato irrazionale, e infine santificato in assoluto: l’irrazionale è Reale, l’irrazionale è Dio. Così, «quando Sestov scopre l’assurdità fondamentale di ogni esistenza, non esclama: “Ecco l’assurdo”, bensì: “Ecco Dio”» (123). Si trattava di una relazione – tra la smisurata richiesta dell’uomo e il silenzio del mondo – e diviene un’ipostasi. Attraverso cui «l’ebbrezza dell’irrazionale e la vocazione all’estasi» (124), rinnova il tradimento dell’assurdo e del finito anche in seno all’esistenzialismo, che di essi si presenta dapprincipio come intransigente custode. In Kierkegaard è il paradosso stesso dell’esistenza, «l’antinomia della condizione umana» (126) che viene ipostatizzata e riconosciuta nel Dio cristiano. Poiché vivo il mondo come paradosso e scandalo, allora paradosso e scandalo costituiscono l’essere, sono la verità del mondo. Verità, perciò, sarà proprio quella religione che pone al suo centro il paradosso per eccellenza, lo scandalo della croce. Abbiamo a che fare con versioni esistenzialiste della prova ontologica. Funzionano così: la realtà è vana, come pure la ragione. Dunque, vi è una Realtà oltre la ragione e oltre la realtà mondana del molteplice e del finito. «Mi prendo la libertà di chiamare suicidio filosofico questo atteggiamento esistenziale» (128), dichiara Camus. Si tratta, infatti, di «negazioni redentrici» (129) della realtà. Un ragionamento non predisposto a conclusioni mistico–metafisiche suonerebbe invece: realtà e ragione ci appaiono vane, poiché vanamente ci attendiamo che soddisfino le
4 Una considerazione a margine: Camus e Monod, entrambi premi Nobel, entrambi di sinistra ma critici senza diplomazie dei regimi dell’Est e dei loro orrori, una sola volta si impegnano direttamente ed esplicitamente in una campagna elettorale. A distanza di molti anni, ma l’uomo è lo stesso: Pierre Mendès-France.
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nostre smisurate esigenze. In questo scarto costitutivo fra realtà e desiderio, in questo appetito di assoluto, si radica l’angoscia per la fine che caratterizza quel finito che tutti noi siamo. Per sfuggirla, la frustrazione diviene prova. Se vi è mancanza, vuol dire che una misura soddisfacente deve esistere. Poiché ferisce riconoscere che la vita finisce con la morte, ciò dimostra l’eternità. Il concetto di Dio implica la sua esistenza, ragiona Anselmo. Il desiderio di assoluto dimostra l’assoluto, completano i filosofi di una infedele vocazione al finito dell’esistenza, a cui devono tutta la loro esistenza filosofica. La volontà di evasione, assuma essa veste filosofica o si rifugi nell’opacità dell’abitudine, è ora però messa in scacco. Ne conosciamo i trucchi. E allora: se non si fugge, ci si rivolta. La lucidità che abbiamo visto come assurdo e disincanto sarà anche rivolta. «Mi rivolto, dunque siamo» (432). E infatti. Questo mondo dove contingenza è l’uomo, e non compimento di un creato-per-lui, resta tale – cioè disincantato – solo per una coscienza costantemente esercitata a rifiutare le seduzioni dell’abitudine e il miraggio delle ipostasi. Ma una coscienza costantemente vigile è una coscienza che necessariamente «rimette il mondo in questione a ciascuno dei suoi istanti» (138). In altri termini. Una esistenza priva di necessità in un mondo privo di scopi, è un’esistenza per necessità giudicante. Cosa possa essere il senso del mondo e della propria esistenza viene scelto, momento per momento. Poiché non è dato, non può accadere altrimenti. Venire al mondo equivale a far nascere un dover essere. «Respirare è giudicare» (417). Laddove non si dà giustificazione deve inevitabilmente darsi giudizio. E il giudicare non può tradirsi in accondiscendere, accomodarsi, rassegnarsi, perché se Dio non è, il male comunque è. La rivolta si presenta perciò come la dimensione etica cui l’individuo non può sfuggire non appena abbia riconosciuto e tenuto fermo il finito. Non c’è più un Dio o una Verità/senso cui affidarsi, infatti, cui obbedire, presso cui coltivare la propria irresponsabilità. L’esserci è allora fatalmente normativo, a meno di non ricadere nel cerchio magico che lo trasfigura in pastore dell’essere. Dunque: il disincanto comanda l’elaborazione di un’etica del finito, dove l’individuo non può sfuggire al potere di giudicare, proprio in virtù del non senso del mondo. L’uomo, cioè ogni uomo, padrone e signore della norma. Questa l’ineludibile conseguenza del disincanto. Questo l’insostenibile potere dell’uomo assurdo. Ma si tratterà allora di affrontare il problema: se il disincanto non ci trascini nel gorgo di un nichilistico relativismo morale, dove «si possono attizzare i forni crematori esattamente come ci si può dedicare a curare i lebbrosi» (415). La risposta sarà inequivoca: l’assurdo, la coerenza nel tener fermo il finito e nel rifiutare ogni finalismo, non mette affatto necessariamente capo al nichilismo, ma semmai alla rivolta. Il tema della rivolta diventa allora cruciale non solo perché ineludibile problema dell’individuo, ma perché decisive culture della nostra epoca – a lungo egemoniche – si presentano proprio come rivolta contro quella «abitudine» secolare che rimuove il finito e preferisce perciò Dio all’uomo. Ma Camus capovolge l’interpretazione tradizionale. La sua tesi è che proprio le filosofie che percorrono la modernità, e che più si presentano come negazione e critica di una tradizione secolare che si è retta su Dio, a un esordio che rifiuta ogni ordine metafisico, facciano seguire sistematicamente una conclusione che rovescia le premesse. E costituiscano, dunque, non già filosofie della rivolta ma culture del conformismo e della resa. Filosofie che anziché rinunciare a Dio, e rifiutare l’idea di un «dover essere» già geneticamente
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iscritto nello svolgersi finalistico del mondo, elaborano surrogati di spiegazioni teologiche. Ennesimo capitolo del tradimento del finito, perpetrato questa volta nella forma di tradimento della rivolta. Seguiamo la vicenda in alcuni suoi tratti salienti.
Rivolta, ipocrisia, solidarietà Camus riconduce la rivolta alla sua manifestazione più elementare, quell’improvviso no! che intende stabilire un limite invalicabile poiché «afferma l’esistenza di una frontiera» (423). Qualcosa diventa intollerabile. Non perché porti in sé tale «qualità», tuttavia, ma perché un gesto – la rivolta, appunto – lo decreta intollerato. In nome di che cosa? Non di una «natura» violata (anche il comportamento contro cui ci si rivolta è manifestazione della «natura» umana) bensì di ciò che viene deciso come umanamente intollerabile. Dietro quel semplice «basta!» agisce in realtà un ideale positivo di umanità. Una «realtà» di umanità non deducibile dalla realtà, ma progettata dalla rivolta, implicita in essa – lo si sappia o meno. Nessuna rivolta senza un implicito dover essere dell’umanità, senza una norma di umanità. Quel mero «no!» è già l’espressione di un articolato sì. Ma questo vuol dire che la rivolta non può essere semplice rovesciamento delle parti. Se dice no! a un comportamento lo dice per tutti. La rivolta definisce infatti un territorio di comportamenti rivoltanti, che tali restano anche se sovrano e suddito, padrone e schiavo, libertà e soggezione si scambiano i ruoli. La rivolta e il risentimento sono intessuti di fibre incompatibili. Ma la rivolta è soprattutto rivolta contro l’ipocrisia. La rivolta vive infatti di un paradosso: diventa concretamente possibile solo laddove è già in qualche modo presente come valore (sebbene nella forma di extrema ratio). Solo in società dove siano affermati (o meglio: stiano contraddittoriamente emergendo) valori che definiscono l’individuo come ambito di dignità umana inviolabile. Laddove, al contrario, il singolo venga percepito (e indotto a percepirsi) come mero momento di un ordine complessivo superiore e già dato, qualsiasi dismisura di potere – purché coerente a quell’ordine – non potrà neppure essere avvertita come umiliazione e negazione di dignità. Sarà vissuta, piuttosto, come natura, come destino, che incardina ciascuno al posto che gli spetta. Unicuique suum, questo inevitabile tautologico del teologico, contro cui è impensabile, è vano, è bestemmia l’insorgere. Ecco perché «il problema della rivolta sembra prendere un senso preciso solo all’interno del pensiero occidentale» e dilaga quando «una eguaglianza teorica ricopre grandi diseguaglianze di fatto» (429). E ancora. La dimensione della rivolta è comunque collettiva. Anche l’isolato gesto esemplare vuole comunicare e suscitare. Una rivolta radicalmente individuale sarebbe anche radicalmente silenziosa. Neppure avvertibile. Anche lo scandalo più estremo ha bisogno del consenso di qualche discepolo. Altrimenti, non verrà neppure registrato. La rivolta, inoltre, stabilisce un territorio di inviolabile dignità per tutti. Lo schiavo che diventa padrone rendendo il padrone schiavo non produce rivolta, abbiamo visto, ma realizza risentimento. La fratellanza è già un contenuto della rivolta. Ma a differenza che nella sartriana Critica della ragion dialettica, la fratellanza – l’unificazione di chi entra in rivolta – non è governata in Camus da quel «fuori» che è il nemico da rovesciare, ma da un «dentro» di valori diffusi e calpestati. Le «parole» di una società, umiliate e offese dai «fatti» del potere. La rivolta è
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l’azione contro lo scarto fra parole e fatti, quello scarto che percorre e costituisce l’Occidente. Non dunque la fratellanza contro, sempre in precipizio verso una ricaduta nella serialità, non appena l’unificante nemico sia stato rovesciato, ma la fratellanza per, autonomamente fondata su valori scelti e non strumentali. La rivolta è anche un «contro», beninteso. Ma, soprattutto, è l’agire umano che decide il «per» irrinunciabile di ciò che vale (cioè vuole) come uomo. E benché una rivoluzione possa permanere nella rivolta, la rivoluzione sarà più spesso una rivolta tradita. Mancano dunque le precondizioni della rivolta, laddove venga riconosciuto come indiscutibile un ordinamento della società (perché della natura o del cosmo, magari). Dove la domanda non trova spazio, già occupato dalla totalità della risposta. Dove c’è senso, perché domina l’opaco e onnilaterale con-senso dell’abitudine. Perché la rivolta venga ad esistenza, infatti, è necessario che possa venir formulata la domanda sulla giustizia. Ma l’orizzonte del sacro è anche già sempre una risposta anticipata che neutralizza tale domanda. Il sacro è teologia, infatti, ma, insieme e soprattutto, teodicea. Il sacro non è solo rimozione dell’assurdo, cioè consolazione rispetto alla finitezza, ma anche prevenzione della rivolta come progetto di un ordine fondato su valori scelti anziché subiti.
Le metamorfosi del sacro E torniamo, così, all’inestricabile connessione tra interrogazione e rivolta. Ambedue appartengono alla logica del finito, alla coscienza che il mondo non è animata persona o te(le)ologica finalità. Di contro invece la logica del sacro, dove «tutte le risposte sono già date in una volta sola» (430). Due logiche che si escludono. Di modo che «per uno spirito umano sono possibili solo due universi, quello del sacro (o, per parlare il linguaggio cristiano, della grazia) e quello della rivolta» (ibid.). Aut aut. «Tutto o Niente» (431). Se assumiamo l’esistenza nel senso di Camus, fuori e contro l’abitudine, l’esistenza come assurdo e rivolta, allora: il sacro è l’annientamento dell’esistenza. Ma il sacro, beninteso, anche in tutti i suoi travestimenti, le sue «forme sconcertanti» (430-431). Sono le inesauribili fantasie mimetiche del sacro, le sue metamorfosi «laiche» e i suoi «atei» travestimenti, che Camus insegue e disocculta in tanta parte della cultura contemporanea. In questo labirinto di apparente disincanto, il finito viene tradito secondo modalità diversissime, il cui tratto comune è la dismisura. Nella forma di ipostasi, innanzitutto. Vediamo. L’uomo è individuo, l’uomo è solitudine. Questa condizione, questi predicati dell’esistenza, vengono trasmutati in sostanza. La solitudine diventa l’Unico, e la clinica precisione con cui Stirner aveva diagnosticato come astrazioni di menzogna le ipostasi Dio, Stato, Società, Umanità, conclude con un’ennesima menzogna e ipostasi: «un io che si leva contro tutte le astrazioni, divenuto esso stesso astratto» (474). La solitudine dell’individuo di fronte alla natura e agli altri, questo duplice smarrimento di fronte ad un mondo privo di scopi, viene assolutizzata e personificata. Battezzata Unico, indica in realtà niente altro che il farsi Dio di un individuo rispetto agli altri individui. Perché l’Unico sia, la molteplicità umana deve dileguare. L’Unico sarà dunque il Tutto, a rovesciamento e soppressione di quella solitudine degli individui finiti da cui aveva preso le mosse.
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Nel frattempo, questo «individuo»–Tutto avrà giustificato il suo diritto a compiere qualsiasi azione, ad annientamento del molteplice «gli altri». «Vivere è trasgredire» (ibid.). Ci arriviamo attraverso una seconda ipostasi. L’uomo finito è frammento della natura, impasto di istinti e passioni. Di pulsioni. È per tener ferma questa finitezza che deve essere riconosciuta l’illusione di un ordinamento divino. Questa lucidità è clamorosamente tradita, però, non appena l’istinto, questo finito per eccellenza, viene intronizzato al posto di Dio. Questa l’astuzia metafisica che Camus smaschera nel marchese de Sade: gli istinti che diventano essi cosmo, nomos, necessità. L’ordine divino sembra negato, in realtà muta solo nome. L’ordine istintivo, divinizzato, sarà altrettanto vincolante. La scelleratezza diventa norma. La trasgressione dovere. Segue, puntualmente, l’annientamento del molteplice che sempre accompagna l’ipostasi. «La libertà illimitata del desiderio significa la negazione dell’altro» (453). E non solo: «Ogni potenza tende ad essere unica e solitaria. Bisogna uccidere ancora: i dominatori si scanneranno a loro volta» (455). Attraverso questo «stoicismo del vizio» (ibid.) Sade secondo Camus «con due secoli di anticipo e su scala ridotta, ha esaltato le società totalitarie in nome di una libertà frenetica che la rivolta in realtà non esige affatto» (457). Ma anche l’ineludibile necessità di giudicare il mondo, di non subirlo, che abbiamo visto caratterizzare l’uomo in rivolta e ogni esistenza autenticamente finita, può, in balìa della dismisura, rovesciarsi nel suo opposto. Diventa il delirio di onnipotenza con cui l’ideologia pretende di creare il mondo daccapo. Quello esistente diventa allora la «pagina bianca» buona per ogni esperienza in corpore vile. È l’ossessione di Mao Zedong e la logica delle rivoluzioni totalitarie. Creare il mondo, cioè sostituirsi a Dio: l’hybris realizza la mutazione alchemica facendo dell’individuo finito l’Unto dell’ideologia, vaso d’infinito. Malgrado nei casi sopra accennati il primo movimento sembri antimetafisico, l’orrore sistematico verso il molteplice segnala che ci troviamo in realtà in pieno pensiero superstizioso, in pieno esorcismo contro il finito e la morte, dentro l’orizzonte della religione surrogata. E un identico meccanismo – di trascendimento e negazione del finito, della molteplicità, degli individui – opera in altre categorie, spesso egemoni nella cultura della modernità: il popolo, la volontà generale, la storia, il genere umano.
Nel labirinto delle ipostasi Il popolo sembra un punto di partenza che assume il finito. Nasce infatti contro e a distruzione di una tradizione che vede Dio stabilire i sovrani, e attraverso questi ultimi costituire i popoli, altrimenti introvabile volgo disperso. Dunque, se ci teniamo fermamente al finito, a costituire un popolo non è Dio ma sono tanti singoli individui, distinguibili per interessi, passioni, opinioni, volontà. Il popolo come molteplicità, insomma. Diversamente il popolo di Rousseau, e ancor più quello di Robespierre e Saint Just. Qui il popolo è il sovrano, una persona non una molteplicità. Uno, come il sovrano di diritto divino. Ma divino egli stesso, dal momento che possiede tutti gli attributi che la teologia attribuisce alla divinità. «È tutto ciò che deve essere» (524), causa sui dunque. Pienamente libero, poiché nulla trova fuori di sé, la sua legge è, tautologicamente, volontà giusta. Essere e dover essere in lui coincidono, dando mondana soluzione al travagliato problema della teodicea. È infatti sommo bene,
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poiché in lui – liberato dalla corruzione e dagli artifici di un potere che ne negava la sovranità – libertà e virtù finalmente coincidono. Questo Popolo, diventato maiuscolo, parla allora lo stesso linguaggio della Natura. Che nell’uomo, beninteso, fa tutt’uno con la Ragione. Dunque «la morale altro non è che la natura infine recuperata dopo secoli di alienazione» (531). Il prezzo che si paga è quello ormai consueto. Perché la volontà generale sia, la volontà di tutti deve coincidere con essa. Dileguare, cioè. I tutti devono volere all’unisono, mutarsi in Tutto. Laddove manchi unanimità è opportuno sospettare la corruzione all’opera. Qui il peccato di dissenso è l’equivalente del peccato di orgoglio contro Dio, peccato per eccellenza imperdonabile. Camus coglie nel segno: nella logica della volontà generale, il punto di vista non solo è crimine ma anche bestemmia. Crimine, anzi, proprio perché bestemmia. La volontà generale deve dunque generare l’epurazione permanente, per realizzare la virtù. L’Unico si chiama ora Popolo, ma a patto di fare il deserto delle concrete volontà autonome. Camus individua perciò valenze fasciste nella linea della volontà generale che da Rousseau arriva a Lenin. Il popolo uno implica un solo capo, una sola voce. Perché la volontà generale parli, il molteplice empirico e finito – i singoli uomini – deve tacere. Tali le folle plebiscitarie, dove il silenzio di ciascuno si esprime nell’acclamazione collettiva, dove l’oblio dell’opinione grida nella cadenza ritmata delle parole d’ordine (587-588). Senza perifrasi, perciò: realizzare il genere umano vuol dire intanto opprimere i singoli uomini, sopprimere le concrete volontà, refrattarie a identificarsi con la loro ipostasi. Tiriamo le fila. Una singolare aria di famiglia accomuna queste diversissime filosofie dell’ipostasi, costrette dalla loro stessa logica a sacrificare gli uomini concretamente esistenti. Tale il perdersi dell’individuo nella specie e nel divenire, secondo il rovesciarsi nicciano della rivolta in amor fati (482). Tale la sociolatria di Auguste Comte (601). Tale la futura umanità, che dovrà scaturire riconciliata (cioè priva del male del conflitto) a conclusione del processo rivoluzionario. La logica dell’ipostasi conosce però insanabili antinomie. Prendiamo il caso della rivoluzione, quello che più sta a cuore a Camus. La rivoluzione prescrive dedizione per l’uomo nuovo, che ancora non esiste, e intanto repressione degli uomini esistenti che – nel presente – si oppongono ai rappresentanti dell’uomo futuro. Non a caso. Se l’uomo diventa il genere umano, la divinizzazione della specie, ovvio che restare individuo, tener fermo il finito dell’esistenza – con il suo molteplice di opinioni e interessi – equivalga a sabotare che l’Umanità venga alla luce. Restare individui sarà crimine di lesa umanità. Lo sapevamo già: la minoranza è il peccato, «chi critica è un traditore» (534). E tuttavia. Fissiamo l’attenzione su una «svista» cruciale. Chi sia portatore di critica, di divisione, dunque di tradimento e disumanità, lo si accerterà solo dopo. La volontà generale non nasce mai tale, infatti. È semplicemente l’opinione che ha vinto, che è diventata potere. L’eresia è solo la verità che è stata sconfitta. Ecco perché il boia e la ghigliottina sono i ministri più autentici della volontà generale. Assicurano che essa diventi Una, e si mantenga tale. Che libertà, razionalità, giustizia, sovranità, finiscano tra virgolette, diventino una cosa sola e si identifichino in ciò che il potere decide. Qualsiasi cosa decida. Ma soprattutto: chiunque vinca nella lotta per il potere. In altri termini. La logica dell’ipostasi e della divinizzazione del finito si rivela essere niente altro che una metafisica del successo. Chi ha vinto, per il fatto che ha vinto, è l’Unto del Signore, sta realizzando l’Umanità. Il successo è la prova
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irrefutabile che viene esibita di fronte all’unico tribunale di un mondo senza Dio, ma ancora impregnato di logica religiosa: il tribunale della storia. E la storia in tal modo acquista bensì un senso – è movimento dialettico, inarrestabile malgrado i detours, verso la realizzazione dell’essenza umana – ma il senso di questo «senso» coincide poi con l’empirica volontà del vincitore. L’ipostasi che nasce dall’orrore per il contingente e dal bisogno di rimuoverlo, mette poi capo alla sacralizzazione di un qualsiasi finito empirico, contingente appunto, purché provvisoriamente «sovrano». Quando la Storia o il Genere umano si sostituiscono ai concreti individui, al loro agire libero e improbabile proprio perché contingente, trionfano le filosofie del conformismo e le dottrine dell’obbedienza. Con Hegel il fatto compiuto, con Marx il fatto futuro ma già iscritto nel presente come contraddizione dialettica dall’esito ineludibile, con Nietzsche il fatto eterno, l’istante ciclico dell’ordine cosmico. Siamo di fronte a filosofie che, tutte, hanno tradito la rivolta per concludere in un grande sì. Niente affatto ovvia, perciò, la diagnosi camusiana. Queste filosofie surrogano Dio con una Necessità dalle modalità diversissime, ma struttura e conseguenze sono analoghe. Fare di necessità estasi (come in Nietzsche), o di necessità ragione (come in Hegel), o di necessità futuro (come in Marx), è pur sempre un fare di necessità virtù. Ciò che è accaduto e ciò che accadrà, il prodotto delle azioni umane, viene santificato come necessario, sanzionato come universale. Ogni tematica morale qui si dissolve. Tutto è lecito e anzi doveroso, purché riesca, purché diventi un fatto. La sconfitta è il marchio del male.
Le antinomie del ‘realismo’ politico Camus contrappone la rivolta alla rivoluzione non certo per timore di impegnarsi, di opporsi alle ingiustizie dell’esistente. Al contrario. Camus è convinto che proprio l’ideologia rivoluzionaria apra la breccia al disimpegno e alla fuga dalla responsabilità. Fornisca, cioè, un micidiale arsenale di argomenti ad hoc, capaci di giustificare ogni tatticismo e ogni menzogna, sia verso le iniquità del presente sia verso quelle di una rivoluzione vittoriosa. L’ideologia in questione è, ovviamente, quella dei partiti comunisti dell’epoca, a matrice leniniana. Per Camus il leninismo è un impasto dottrinale dove confluiscono ingredienti nicciani e marxisti a fianco del nichilismo alla Necaev. La teoria del comunismo come «movimento reale che abolisce il presente stato di cose» (un fatto che si sta dialetticamente adempiendo, dunque), accanto alla volontà smisurata e omicida del gesto che si pretende esemplare, accomunati dal disprezzo per ogni «sentimentalismo» e «moralismo» dei socialismi riformisti o libertari. Anche perché «Marx, come Nietzsche, pensava strategicamente e come lui odiava la virtù formale» (488). Quanto a Nietzsche, «la sua definizione paradossale della libertà» per cui essa diviene «l’adesione totale a una necessità totale» (482) consente a Camus una conclusione allora «intollerabile»: non sono i fascismi a potersi proclamare eredi di Nietzsche. «Altrimenti logici e ambiziosi saranno quanti, correggendo Nietzsche con Marx, sceglieranno di dire sì solo alla storia invece che alla creazione tutta intera» (488). Il vero nicciano è il marxistaleninista ortodosso, insomma. Lo stalinista perinde ac cadaver. Con buona pace delle «eresie» marxiste che, alcuni decenni dopo, hanno scoperto in Nietzsche il balsamo per guarire la sinistra dal passato di stalinismo.
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L’ideologia dei partiti leninisti e stalinisti può tradursi tanto in ditirambica apologia dei crimini sovietici quanto in smaccato opportunismo «moderato» sul piano interno. Con l’adesione al patto Hitler-Stalin i due aspetti celebrano addirittura i fasti della sinergia. Il «realismo» e l’odio per il «moralismo» conciliano tutto, del resto. Ecco perché Camus contrappone la rivolta alla rivoluzione leninista: perché quest’ultima non è affatto «estremista» nel denunciare e combattere l’oppressione (presente e futura). L’ideologia leninista si trova in perfetta sintonia con il pensiero conservatore e reazionario, quando teorizza il cinismo politico e ne esalta il corrispettivo «realismo», contro ogni impegno che nasca invece da fedeltà a valori morali apertamente scelti e dichiarati. In nome del realismo verrà condannata come utopica l’indignazione della rivolta, e giustificata la violenza dell’oppressione quotidiana e dell’ingiustizia. Ma in nome della stessa logica realistica, benché ora arruolata nel campo rivoluzionario, verrà legittimata ogni violenza – purché riesca – per combattere la violenza dell’esistente, «aggiungendo omicidio a omicidio, fino a rendere la storia un’unica interminabile violazione di tutto ciò che, nell’uomo, protesta contro l’ingiustizia» (575). Sono questi, secondo Camus, i due volti – borghese e rivoluzionario – del nichilismo morale contemporaneo. Si tratta di un passaggio cruciale. Il realismo politico, infatti, non ha valori da poter contrapporre all’unico oro che conosca, quello del successo. Dove la vittoria, ivi l’universale. Per questo «i filosofi realisti delle nazioni vinte (da Hitler) si preparavano ad assolverlo» (592), a prendere coscienza di un verdetto della storia che non avrebbe perciò ripugnato alla loro coscienza. Se la battaglia d’Inghilterra e quella di Stalingrado non li avessero persuasi ad una moralità diversa. Quanto al realismo politico in veste rivoluzionaria, esso finisce non solo per giustificare ogni crimine del potere nato dalla rivoluzione, ma anche coltivare un inoffensivo burocratismo in seno all’oppressione borghese. La rivoluzione è sempre pronta, infatti, a sacrificare il presente in nome del futuro. Ma, rileva Camus, «l’avvenire è l’unico tipo di proprietà che i padroni concedano di buon grado ai loro schiavi» (599). La rivolta, al contrario, esige risultati concreti, in quella dimensione del «qui» e «ora» che è l’unica dimensione del singolo, l’uomo dell’assurdo e della rivolta, l’uomo realmente esistente. Quel ciascuno che tutti noi siamo e per il quale il conchiuso tempo della propria esistenza finita è l’unico Tutto che possa avere senso. Non tutti i realismi si equivalgono, però. «Non è giusto» osserva Camus «identificare i fini del fascismo e del comunismo russo. Il primo presenta l’esaltazione del carnefice da parte del carnefice stesso. Il secondo, più drammatico, l’esaltazione del carnefice da parte delle sue vittime. Il primo non ha mai sognato di liberare l’uomo nella sua interezza, ma solo alcuni uomini assoggettando gli altri. Il secondo, nel suo principio più profondo, mira a liberare tutti gli uomini asservendoli tutti, in via provvisoria. Bisogna riconoscergli la grandezza dell’intenzione. Ma è giusto, d’altro canto, identificare i loro mezzi con il cinismo politico, che entrambi hanno attinto alla medesima fonte, il nichilismo morale» (648-649). L’idolatria del fatto e del successo, appunto. Questa critica senza diplomazie dei comunismi al potere ha finito per farsi largo, sebbene con abissale ritardo, anche nella sinistra occidentale. E oggi, dopo la caduta del Muro, sembra perfino scontata. Ma si faccia attenzione. La critica del leninismo e della logica di ogni rivoluzione-totalità è condotta da Camus senza mai nulla concedere alla protervia conservatrice. Non scade mai, perciò, a conformismo verso il
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potere perché e purché anticomunista, malgrado sia assai più rigorosa di tanto anticomunismo di maniera. Il carattere anticipatorio – e intrattabile – della critica di Camus consiste nella logica libertaria su cui è costruita. E si vorrebbe poter dire che in questo risiede la sua attualità, mentre è piuttosto da riconoscere come proprio il carattere libertario della sua filosofia politica ne faccia ancora un’eccezione5.
La tradizione libertaria Camus – anticomunista senza perifrasi più che acomunista, come pure preferiva definirsi – non ha debolezze nei confronti del mondo borghese. Anzi, proprio l’ipocrisia di quel mondo finisce per fornire una qualche «giustificazione» alla fuga metafisica costituita dall’ideologia rivoluzionaria. «Sotto l’aspetto della critica, il movimento rivoluzionario del nostro tempo è in primo luogo una denuncia violenta dell’ipocrisia formalista che presiede alla società borghese» (543). Se i princìpi proclamati si rivelano menzogna, allora «sola la realtà del lavoro e della miseria resta vera» (606). L’ipocrisia borghese finisce per diventare corresponsabile della tragedia di un movimento operaio travolto dall’egemonia totalitaria, perché quell’egemonia ha alimentato, con lo scarto fra le parole e i fatti, i valori solennemente inscritti in ogni moderna costituzione e le pratiche di governo. Corresponsabilità non puramente virtuale, poiché per Camus l’egemonia di un socialismo militare, cesariano, in altre parole totalitario, è da imputare anche alla distruzione di una diversa tradizione operaia, quella libertaria appunto. Nella Comune di Parigi del 1871 i marxisti avevano un ruolo insignificante, rileva Camus, e la sanguinosa repressione borghese di quel movimento autenticamente democratico segna, a livello europeo, il tracollo del socialismo antiautoritario. Non è dunque per sottrarsi all’impegno, per coltivare un accomodante giardino privato dove il lavoro intellettuale sia al riparo dagli strazi del mondo, che Camus è critico così irriconciliabile della tradizione bolscevica. Anzi. Bisogna impegnarsi. Solo che per Camus questo è l’opposto del piegarsi alla ragion di partito (che pretende di fare tutt’uno con il senso della storia) cui si dedicano i compagnons de route del comunismo. L’impegno che nasce dall’assurdo è fedeltà ai valori libertari dell’individuo, non culto del fatto e del successo, non idolatria di un potere perché si definisce rivoluzionario. «Uccidere Dio e costruire una Chiesa, questo il movimento costante e contraddittorio della rivolta» (510). Proprio questa contraddizione, che è tradimento della rivolta, questa tentazione, che è tradimento del finito, Camus vuole riconoscere, combattere, superare. Già troppe volte la rivoluzione, «anche e soprattutto quando si dichiara materialista, è solo una smisurata crociata metafisica» (517), che all’inizio si manifesta attraverso i suoi martiri, e perciò si confonde con la rivolta autentica. Ben presto, però, «sopraggiungono i preti e i bigotti» (578), i funzionari dell’universale cui tutto è dunque permesso. Una Chiesa, un’obbedienza, insomma un regime, rappresenta l’estremo surrogato di Dio, anche se la liturgia si pretende rivoluzionaria.
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Esattamente come quella costituita dall’«esistenzialismo libertario» di Hannah Arendt.
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La rivolta è animata da una logica opposta ed è legata ad un’altra, benché minoritaria, tradizione. Camus sarà sempre, senza riserve, dalla parte dei lavoratori e dei diseredati, «che sono del mio sangue». Ma, di conseguenza, auspica «la loro liberazione, non la vittoria di qualche luminare» (1708, sott. mia). La posizione politica di Camus non lascia adito a dubbi: «Sono nato in una famiglia, la sinistra, nella quale morirò». Di questa famiglia, tuttavia, gli è «difficile non vedere il decadimento» (1753). La sua non potrà essere che la sinistra eretica, perché fedele ai valori della rivolta, contro la dismisura dell’ideologia che dimentica gli uomini concreti a vantaggio di un’ipostasi. Questa, dunque, la scissione inevitabile: «ogni rivoluzionario finisce come oppressore o come eretico» (651). Due sinistre, perciò. E incompatibili. «Il comune6 contro lo Stato, la società concreta contro la società assolutista, la libertà consapevole contro la tirannia razionale» (702). La prima è quella dello spirito sindacalista e libertario, «che poggia in primo luogo sulle realtà più concrete, la professione, il villaggio, dove traspaiono l’essere e il cuore vivo delle cose e degli uomini. «La politica» per una tale sinistra «deve sottomettersi a queste verità» (701). A questa tradizione libertaria, spesso trattata da sognatrice e velleitaria, Camus fa risalire i risultati concreti che hanno cambiato la condizione operaia, dagli orari di lavoro alla previdenza sociale. Dall’altra sinistra, quella comunista che sembra ai tempi di Camus monopolizzare la scena, la divide solo una nuance: «la sfumatura che separa il sacrificio dalla mistica, l’energia dalla violenza, la forza dalla crudeltà, e infine quella ancor più debole sfumatura che separa il vero dal falso» (224). Nessuna meraviglia, allora, che si tratti di due sinistre agli antipodi, dove l’aggettivo – misurato senza perifrasi – decide di un sostantivo in bilico: «la sinistra poliziesca e la sinistra libera» (749). La morale borghese, formalista e mistificatrice, merita ogni disprezzo. «Ma la follia» della sinistra dominante «è stata di estendere questo disprezzo ad ogni rivendicazione morale» (653). Solo il primato della morale, invece – di una morale della rivolta, di una morale dell’assurdo, di una morale dell’esistenza finita – può suscitare una politica di sinistra all’altezza del suo unico, modesto, gigantesco compito: «diminuire aritmeticamente il dolore del mondo» (706). Questo quasi nulla, agli occhi di chi vuole dare l’assalto al cielo e creare l’uomo nuovo, è l’unico tutto degno dell’uomo e che sia dato approssimare al più estremo sforzo dell’uomo. Mentre il Tutto dell’ideologia altro non è che l’alibi all’ombra del quale coltivare ogni viltà di potenza. E allora: «la misura non è il contrario della rivolta» (704). Anzi. «se la rivolta potesse fondare una filosofia, sarebbe una filosofia dei limiti, dell’ignoranza calcolata e del rischio» (693). L’uomo incerto, l’uomo del relativo, e che perciò si impegna. Poiché nulla è garantito, poiché tutto è esposto allo scacco, e dunque ciascuno è responsabile di quel poco di senso – fragile, parziale, definitivamente provvisorio – che possiamo consegnare all’esistenza. La sinistra di Camus sarà perciò quella delle piccole riviste eretiche – da La révolution proletarienne a Temoins, da Preuves a Demain, alle quali in misura crescente e dichiarata riserverà i suoi interventi politici
Dove va ricordata l’eco duplice della parola in francese, che fa riferimento ai poteri locali ma anche alla rivoluzione comunarda del 1871 a Parigi, rivolta libertaria esemplare agli occhi di Camus. 6
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– dove sindacalismo di base, anarchismo senza terrorismo, post-trozkismo, danno vita al caleidoscopio libertario di un socialismo antitotalitario.
Giustizia e libertà La rivolta costituisce dunque un’azione «intransigente e limitata» (696). Deve sostenere «istituzioni che limitino la violenza» (695), proprio perché questo è il solo orizzonte in cui la rivolta possa continuare ad operare, giorno per giorno, come lievito e linfa. Nulla di nuovo, dunque. Tranne la coerenza, quest’introvabile dell’ipocrisia borghese e del delirio rivoluzionario. Nulla di nuovo: giustizia e libertà. Ma la sinistra deve sapere che talvolta possono entrare in conflitto. Esiste una priorità, dunque. «Uccidere la libertà per far regnare la giustizia» equivale a «restaurare il corpo mistico sotto le specie più basse», mentre «perfino quando la giustizia non è realizzata, la libertà preserva il potere di protestare e salva la comunicazione» (694). La possibilità della lotta, questo il bene più prezioso, perché in questa possibilità risiede la dignità. La libertà viene prima, dunque. Ma in vista della giustizia, non come alibi per rinunciarvi. La destra cercherà infatti di utilizzare Camus, vista la sua critica impietosa del comunismo, ma invano. Irremovibile la sua scelta per i lavoratori: «il nostro posto è al loro fianco» (706). Troppo refrattario, il suo rigore morale, allo spettacolo dell’establishment: «La cupidigia, l’egoismo infinito, la cecità soddisfatta, i bassi privilegi delle nostre classi dirigenti» condannano «la viltà della società borghese» (1708). I suoi giornalisti non sono migliori. Camus trova ripugnante che la stampa non consideri notizia la morte di un lavoratore edile che cade da un tetto, e inzuppi le prime pagine nei contrattempi sentimentali della principessa Margaret (l’Express, 8 novembre 1955). Non aveva visto ancora nulla. Moralismo, risponderanno i «realisti», ieri come oggi. Ma vale l’opposto. L’ipocrisia, questa legge dell’esistente borghese, anestetizza le libertà. «Il grande peccato della società borghese è stato di fare di questa parola (libertà) una mistificazione senza contenuto» (1745). In tal modo, però, si prepara l’indifferenza verso le libertà e si mitridatizzano i cittadini di fronte al rischio di nuove oppressioni. Contro questa deriva, appoggerà perciò la lista elettorale di Pierre Mendès-France, il Front Républicain (l’Express, 3 gennaio 1956). Anche perché dalla sinistra dominante lo dividerà, più che mai, il suo impegno a fianco delle rivolte dell’Est. Già si è sollevata Berlino nel ’53, e nel corso dell’anno sarà la volta di Poznan´ e infine della insurrezione ungherese («L’Ungheria sarà per noi ciò che fu la Spagna vent’anni fa», 1782). Contro i comunisti, nuovi conservatori, e contro i conservatori tout court, perciò. In entrambi i casi, non per fanatismo ma per misura. «Se ci fosse qualcosa da conservare nella nostra società non vedrei alcun disonore nell’essere conservatore. Purtroppo non è affatto così» (732). Ecco perché l’intellettuale non può sottrarsi all’impegno, malgrado i compagnons de route con il loro conformismo abbiano inquinato e logorato le ragioni dell’engagement. «La nostalgia del riposo e della pace deve essere respinta; essa coincide con l’accettazione dell’iniquità» (650). Sobrio e definitivo. Guai agli ipocriti che cantano dunque le felici società d’antan. Non erano felici affatto, ma silenziose d’oppressione. «Sia invece lodato il
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tempo in cui la miseria grida e ritarda il sonno dei sazi «(ibid.). Contro i conservatori, che hanno fatto dell’individuo un’ideologia, Camus proclamerà perciò non le perversioni del collettivismo ma le ragioni di un «nuovo individualismo. (…) Io ho bisogno degli altri che hanno bisogno di me e di ciascuno» (700). L’individualismo della rivolta sarà altruista, e combatterà la colonizzazione delle masse (702), che ipocrisia borghese e cinismo comunista contribuiscono invece entrambi a realizzare. Malgrado il Nobel e malgrado le alte tirature, a Camus toccherà perciò un destino di isolamento presso gli establishment di un mondo e di una cultura posseduti dalla guerra fredda e incapaci di pensare al di fuori delle obbedienze di schieramento. Contro un duplice nichilismo di Stato, l’imperativo politico di Camus sarà perciò quello di prendere sul serio la democrazia e di mantenere fede ai giorni della Resistenza. Senza alcuna fuga nella nostalgia, ma nel rifiuto ostinato della «clorosi degli anni che seguiranno la guerra»7, quando «i tempi dei monti furenti e dell’amicizia fantastica»8 lasceranno il posto al vitello d’oro di un machiavellismo d’accatto. Ma questa logica dove il successo è sovrano, già lo sappiamo, è eclisse delle libertà. «Il fine giustifica i mezzi? Può darsi. Ma cosa giustificherà il fine? La rivolta risponde: i mezzi» (696). Solo questo rifiuto del «realismo politico», che Camus ribadirà ad ogni occasione, realizza davvero una politica efficace. L’efficacia della linfa, non quella del tifone, beninteso (ibid.). La politica di Camus sarà perciò quella di un riformismo libertario. Contro la corrente della storia, che spinge per una «fusione della società poliziesca con la società mercantile» (1747), «la libertà consiste in primo luogo a non mentire» (726). La menzogna, infatti, distrugge «la complicità e la comunicazione scoperte attraverso la rivolta» (687). Programma minimo, forse. Cui quasi mai i politici sanno restare fedeli, però. Ineludibile lavoro di Sisifo della rivolta che diventa politica quotidiana. Non la Verità, perciò, ma il rifiuto della menzogna che si accompagna al rifiuto delle riposanti certezze delle fedi e delle ipostasi. «È possibile fare il partito di quelli che non sono sicuri di avere ragione? Sarebbe il mio» (383), perché completa è la sintonia col suo amico Char: «Il dubbio si trova all’origine di ogni grandezza»9.
Solitaire, solidaire Torniamo dunque alla domanda prima, da cui nasce la meditazione di Camus filosofo. «L’uomo può, da solo e senza il soccorso dell’eterno, creare i suoi valori? (1696). L’azione politica, questo miracolo che mette al mondo il radicalmente nuovo e (perché) gli uomini in simmetrica solidarietà fra loro – secondo il senso autentico della politica ricostruito da Hannah Arendt – è, insieme alla creazione artistica, «manifestazione essenziale della rivolta umana» (ibid.) capace di creare quei valori. Purché e finché «l’azione rimane possibile» (ibid.), infatti, la rivolta, questa comunità di finitezze, consente di mettere in scacco l’angoscia senza ricorrere alla dismisura
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René Char, Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1983, p. 228.
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Ivi, p. 209
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Ivi, p. 224.
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delle fedi, al tradimento del finito. Dare senso all’esistenza è condividere la rivolta. Solitaire, solidaire (1749). A ciascuno ritrovare, se lo vorrà, le incessanti ragioni della fulminante attualità di questa inattuale filosofia della rivolta. Filosofo dilettante, filosofo della domenica, questo invece il verdetto di risentimento con cui Sartre e la Beauvoir invitarono all’ostracismo verso Albert Camus filosofo. La filosofia ufficiale, a tutt’oggi, ha mantenuto quell’ostracismo con il più colpevole dei silenzi: quello che nasce da genuina indifferenza. Pure, Camus è stato uno dei pochi filosofi capaci di pensare il finito, di tenerlo fermo, di tracciare la mappa dei suoi tradimenti, di fornire il filo d’Arianna per sfuggire al minotauro delle ipostasi. Cioè di affrontare il compito ineludibile della filosofia oggi, se non vuole regredire a teologia o impantanarsi in frivolezze autoreferenziali. Ma proprio per questa fedeltà al finito, evidentemente, Camus appare superfluo ad una filosofia spesso più interessata a spacciare l’essere dopo il tramonto della metafisica, o a spaccare in quattro il capello analitico del significato, o a erigere monumenti tautologici a un’accademica giustizia. Nei confronti di una filosofia che irride al pensatore bricoleur scambiando se stessa con la serietà, Camus potrebbe però ricordare Pascal: «Prendersi gioco della filosofia è fare davvero filosofia»10.
Blaise Pascal, Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1969, p. 1095. 10
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Paolo Flores d'Arcais / Camus filosofo dell'avvenire In occasione della nascita del grande scrittore e filosofo francese, sono qui raccolti in un unico volume l'intervista in cui la figlia di Albert Camus, Catherine, ripercorre la vita del padre e le polemiche sulla sua memoria, e il saggio del direttore di MicroMega, Paolo Flores d'Arcais, pubblicato nell'Almanacco di filosfia 1996 ma che riprende il testo di una conferenza tenuta a Grosseto nel 1985. Quando il testo uscì, presentare Camus come un filosofo perfino superiore a Sartre sembrava una impronunciabile "eresia". Ora anche in Francia si comincia finalmente ad apprezzarne la grandezza come pensatore attualissimo e non solo come scrittore.
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