FILOLOGIA ROMANZA.PDF

May 5, 2017 | Author: giada999 | Category: N/A
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LA FILOLOGIA ROMANZA Alla fine dell’Ottocento nasce il metodo di analisi storico-linguistico detto storico-comparativo. La comparazione delle lingue consente di accomunare quelle che hanno la stessa origine (parentela genetica). Arbitrarietà del segno linguistico. Le parole sono arbitrarie non significa che un qualsiasi parlante può scegliere a proprio arbitrio il significato (la parola) per il significante, ma vuole dire che in una qualsiasi lingua non c’è alcun rapporto tra significato e significante. Lo spagnolo perro, ad esempio, esula dalla tradizione classica (anzi, le origini di questa parola sono oscure) per cui il cane viene chiamato così e non cane, dal latino canis. Il caso può fare in modo che ci siano lingue diverse, segni uguali ma che indicano significati diversi. Ad esempio, nombre: in francese significa numero; in spagnolo nome. Questa parola in francese deriva dal latino < numerum, mentre in spagnolo dal latino < nominem. La comparazione si deve fare su serie di parole per escludere l’identità casuale di parole che hanno forma uguale ma origini diverse. Una serie può essere ad esempio i primi dieci numeri, perché non può essere casuale la serie di numeri. LATINO

OCTO

velare sorda + dentale sorda

portoghese spagnolo italiano francese rumeno catalano

OITO OCHO OTTO HUIT OPT UYT

assimiliazione CT > TT si passa a semivocale + dentale

LATINO

NOCTEM

portoghese spagnolo italiano francese romeno catalano

NOITE NOCHE NOTTE NUIT NOAPTE NUYT

Metodo ricostruttivo. Una volta riconosciuto che la base è la lingua latina, si possono definire le regole della trasformazione. L’asterisco nei vocabolari indica che la parola non è attestata, ma ragionevolmente si può affermare che doveva esistere in quella forma perché ha originato, nelle lingue derivate, nuove forme seguendo un processo coerente per tutte le lingue. Ad esempio, il pronome italiano Questo, francese Ce, francese antico Ceste, dovrebbe derivare dalla forma di transizione < *Ecce+Iste. Attraverso il metodo comparativo-ricostruttivo possiamo riconoscere qualsiasi parola in uno stadio precedente della lingua, cioè la sua origine, ovvero l’etimologia. Analisi diacronica. Si ricava una origine dall’analisi dello sviluppo nel tempo che ha avuto il latino (che era a due livelli, quello classico e quello usato dal popolo, il volgare). Legge fonetica. In base alla legge fonetica vigente in ciascuna delle lingue, si può riconoscere la parola latina d’origine. Il sistema ricostruttivo funziona meglio se viene applicato ad una comparazione con il più ampio numero di lingue, ad ampio raggio. Lo studio dell’etimologia della parola ci fa risalire, oltre che all’etimo, anche al significato della parola. Prendiamo ad esempio una parola che non è più in uso nella lingua attuale, ma lo è stata un tempo nella lingua letteraria: ghiado, ‘spada’, dal lat. gladium (a ghiado, ‘di spada’). Non basta la somiglianza, ma questa deve essere coerente con le formule di corrispondenza, quindi bisogna vedere altre parole che hanno lo stesso aspetto di gladius. 1

GLAREA GLACIUM GLANDAM

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ghiaia ghiaccio ghianda

Il nesso è che velare sonora + liquida dà come esito una velare sonora + I semivocalica (j = iod). Anche in altre parola con consonante + liquida ha avuto un esito analogo: PLANUM FLAMMA FLOREM CLAVEM CLARUM

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piano fiamma fiore chiave chiaro

La regola, in questo caso, è che L (liquida) preceduta da P, B, F, G, C abbiano un esito di consonante + semivocale. Queste regole si applicano alle parole anche di origine germanica, quindi alle lingue di superstrato. Queste verifiche ci danno la certezza che da gladium deriva ghiado, ma non basta: bisogna verificare anche la seconda parte della parola: GLA | DIUM RA | DIUM PO | DIUM HO | DIE ME | DIUM RU | DIUS

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ghiado < *gladus / –um raggio / razzo poggio oggi medio / mezzo rozzo

Abbiamo, nel caso di radium e di medium, una serie concorrente. Comunque sia, visto il caso di rudius, dobbiamo concludere che D + J può dare anche una doppia zeta. Quando vi è un esito non coerente, bisogna presumere l’esistenza di un’altra forma, non attestata, del latino volgare, che per analogia ci può far ricostruire la parola originaria. Abbiamo visto che ghiado non può discendere da gladium, perché l’esito di –DIUM è diverso. Allora dobbiamo ipotizzare che esistesse un’altra forma tipo *gladum. Il plurale gladii > gladi nella pronuncia potrebbe essere stato semplificato con una sola i, pertanto poteva introdurre in errore il popolo a ricavare il singolare scegliendo la forma gladum piuttosto che la corretta gladium. Le parole che hanno la stessa origine e lo stesso significato si dicono allotropi. Ad esempio, da florem abbiamo fiore, che è la forma di tradizione popolare con passaggio da FL a FJ; e abbiamo anche floreale, che è di origine colta. CLAVEM CLARUM MENSEM

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chiave, ma anche conclave (tradizione colta) chiaro, ma anche preclaro (tradizione colta) mese, ma anche mensile (tradizione colta)

Questo avviene anche in francese: DEBITO OSPITAL

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dette, ‘debito’; ma anche debit, ‘smercio’ hôtel, ‘albergo’; ma anche hôpital, ‘ospedale’

In latino gioia si diceva gaudium, mentre il suo plurale era gaudia, ma nel passaggio dal latino classico al volgare il neutro cade, restando solo il maschile e il femminile. Le terminazioni del neutro plurale vengono distribuiti nel genere femminile; le terminazioni del neutro singolare al maschile. Gaudia ci dovrebbe dare in italiano, secondo le regole appena viste, o goggia o gozza. Vediamo che dà invece in francese antico joie e in antico provenzale joia, secondo il sistema di evoluzione di queste due lingue. In verità l’esito provenzale è gauch, ma anche joia che deriva dall’antico francese. latino francese antico

G - AU - DIA (in cui I è breve) J - O - IE 2

L’italiano gioia viene dunque dal francese antico, ma anche dal provenzale joia ed è un termine tecnico della poesia cortese. Joia è un termine usato da Guglielmo IX. Gioia si deve pertanto considerare un prestito, perché non deriva direttamente dal latino. In latino mangiare si diveva edo (‘io mangio’), edi (‘io mangiavo’), esum (con e lunga, ‘mangiato’), esse/edere (‘mangiare’). In italiano si dice edule per mangereccio, come il fungo porcino (edulis). Edo voleva anche dire ‘partorire’, ‘portare fuori’, ‘pubblicare’. Era un verbo concorrente che si distingueva dall’altro solo per la quantita vocalica. Manduco, –as, –avi, –atum, –are era un’altra forma per ‘mangiare’. Si tratta probabilmente di un verbo composto che si potrebbe spiegare con manu ad os (‘bocca’) duco. L’infinito di questo verbo, dal latino all’italiano, non subisce variazioni. Manducare lo troviamo anche in Dante, nel canto XXXII dell’Inferno in cui il conte Ugolino si trova sopra l’arcivescovo Ruggieri a rosicchiargli la testa («Noi eravam partiti già da ello, / ch’io vidi due ghiacciati in una buca, / sì che l’un capo a l’altro era cappello; / e come ’l pan per fame si manduca, / così ’l sovran li denti a l’altro pose / là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca», vv. 124-26); e nelle Rime XLVI («Ché più mi triema il cor qualora io penso / di lei in parte ov’altri li occhi induca, / per tema non traluca / lo mio penser di fuor sì che si scopra, / ch’io non fo de la morte, che ogni senso / co li denti d’Amor già mi manduca: / ciò è che ’l pensier bruca / la lor vertù, sì che n’allenta l’opra», vv. 27-34), che fa parte delle rime “petrose”, così dette perché dedicate a una certa donna Pietra, ma anche per l’asprezza dei versi («Così nel mio parlar voglio esser aspro», Rime XLVI 1), perché il rapporto con la donna è aspro. Il verbo manducare in altre situazioni Dante non l’adopera, perché è attento al significato e al registro delle parole. In altri casi usa, al posto di manducare, il verbo manicare («ambo le man per lo dolor mi morsi; / ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia / di manicar, di subito levorsi», Inf. XXXIII 58-60). Più avanti ancora, quando ha esaurito questa fase cruda, usa mangiare, il termine più normale. Il termine più “standard” per Dante è mangiare che però non viene da manducare. Da dove viene mangiare? Dal francese! MANDU | CÁRE MAN DU D_C Á RE

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MAN la U cade perché è la finale della prima parola, quindi: J > G E (a tonica diventa e) R (e finale cade, resta r)

L’esito francese è dunque manger, da cui deriva l’italiano mangiare. Manger era un termine usato nelle corti francesi, per cui da noi era visto come un termine più signorile, elegante, e viene perciò preferito a manducare. Utor, uteris era il verbo latino che voleva dire ‘usare’, ed era un verbo deponente. Il deponente è scomparso nel processo di semplificazione del latino. Le forme che erano attive ma con funziona passiva vengono abbandonate. Non esiste pertanto un verbo che possa giustificare il verbo italiano usare, eppure esiste user in francese, lo stesso in catalano e in portoghese, quindi abbiamo nelle varie lingue gli esiti che ci potremmo attendere da un verbo latino con significato di ‘usare’. Dalle comparazioni possiamo ricostruire l’origine non attestata che indicheremo con un asterisco. *òvum > uovo Con la O breve perché questa in genere dittonga, ma il latino aveva ovum (con la O lunga) che non avrebbe dittongato.

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Dal latino classico al latino volgare. La grande differenza tra le lingue romanze e le lingue slave e germaniche sta nel fatto che queste ultime due famiglie non sono attestate. Il latino aveva una forma organica per il futuro. Ad es., da amabo, abbiamo in italiano amavo, in francese j’aimerai. Dalle forme derivate non si arriva alla radice originaria, perché in realtà l’origine del futuro è una forma perifrastica del volgare, ossia amare + habeo, che equivarrebbe a ‘amare ho’, ‘aimer j’ai’. Le trasformazioni che si sono avute è perché i parlanti tendevano a una concretizzazione delle espressioni, così il futuro viene contestualizzato nel presente del parlante. Nel volgare non c’è la declinazione dei nomi, mentre nel latino la declinazione garantiva il significato della frase. Le desinenze, infatti, indicavano la funzione che le parole avevano nella frase. Fatta eccezione per il romeno, che ancora oggi conserva un residuo di desinenze, bicasuale e limitato ad alcuni casi, tutte le altre lingue romanze hanno perso la costruzione con i casi, cioè le declinazioni. Il francese e il provenzale hanno mantenuto un caso diretto e un caso obliquo per tutto il XIII secolo. Le fonti del latino volgare. Tra il latino classico e il latino volgare possiamo distinguere delle fasi intermedie. Noi dobbiamo partire dal latino volgare per arrivare alle lingue romanze e questa è una lingua esclusivamente parlata, pertanto è facilmente esposta a delle variazioni, mentre il latino classico, in quanto scritto, era meglio fissato. Questo costituisce un limite nel metodo comparativo-ricostruttivo. Il latino volgare ci viene comunque attestato dalle iscrizioni fatte sui muri, anche ufficiali, che pure essendo in latino classico risentono dell’influsso della variante locale, per cui ci possono essere delle intrusioni volgari, dovute anche al livello culturale dello scrivente. Altre scritte possono essere i graffiti popolari, e una miniera di questo tipo di documenti sono gli scavi di Pompei ed Ercolano, colpite dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Altre fonti sono le attestazioni legate alla vita politica, quindi i trattati riguardanti le arti e le scienze, che ci tramandano il gergo delle professioni, e sono pertanto degli importantissimi repertori lessicali. Le fonti cristiane. Altre testimonianze del latino volgare che abbiamo sono gli scritti dei cristiani. Queste fonti richiedono però un discorso a parte, più complesso, perché questa nuova filosofia e religione ha avuto vari momenti di fissazione nella società romana. All’inizio lo scrivente ha necessità di informare il maggior numero di persone dell’esistenza della nuova religione, ai diversi livelli della società. Ecco quindi che da parte degli scrittori cristiani vi è un distacco dalle norme linguistiche che avrebbero potuto distanziarli dalla comprensione del popolo. Ma quando il cristiano viene accettato, da Costantino in poi, vi è anche il genere di autori cristiani che si rifanno alla grande tradizione degli autori latini classici. San Girolamo traduce dal greco la Bibblia, mantenendo un livello alto, data la materia, ma registra degli inserimenti del volgare che testimoniano la penetrazione di alcune forme nell’uso comune dell’epoca. Sviluppi del metodo comparativo-ricostruttivo. Il metodo comparativo-ricostruttivo, nato nell’Ottocento e che ha avuto un largo uso nel Novecento, ha evidenziato comunque dei limiti, per cui – pur non essendo stato abbandonato – è stato affiancato da altre discipline complementari come la dialettologia e la geografia linguistica. Gli studi dialettologici di Graziadio Isaia Ascoli nella zona dei grigioni, lo studio del ladino, ecc. Nella geografia linguistica si studia la comparazione delle parole sotto il profilo semantico e fonetico (significato e pronuncia). Le isoglosse sono le linee immaginarie, una sorta di confini, che distinguono geograficamente le zone in cui si verificano determinati fenomeni linguistici. Esistono quindi gli Atlanti linguistici, composti da carte geografiche dove si mostra lo stato linguistico di un determinato fenomeno. L’origine del latino. Il latino, per l’aggettivo ‘bello’, aveva tre forme: pulcher, formosus e bellus. L’ultimo è quello che ha avuto più fortuna in italiano e in francese, ma nelle aree laterali non ha avuto questa innovazione, mantenendo formosus (per esempio, lo spagnolo hermoso). Le lingue indoeuropee si dividono in vari rami, tra cui l’italico (umbro, sannitico, osco e latino). Il latino in origine era una lingua locale, ma dopo – a causa della sua espansione legata alle conquiste dell’impero romano – andandosi a sovrapporre alle lingue indigene, che chiamiamo di sostrato, ha dato origine alle lingue romanze.

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Elementi di fonetica storica LA STRUTTURA DELLA LINGUA LATINA E DELLE SUE MODIFICAZIONI Le sorti del sistema vocalico latino e il suo modificarsi nei sistemi in uso nelle lingue romanze. Abbiamo tre gradi di apertura timbrica e due serie vocaliche (lunghe e brevi). Vi era poi una distinzione di lunghezza vocalica di cui oggi possiamo trovare un esempio nella lingua inglese (che però non è una lingua latina!). Vi era in latino, per ogni vocale, una lunga e una breve, quindi un sistema formato da dieci vocali.

Le vocali lunghe o brevi avevano un valore fonetico, per cui erano dei fonemi. Lo stesso in italiano per pésca (l’atto del pescare) e pèsca (il frutto). In latino non c’erano i suoni C, G, V, GL. vìncit vincit

> vince (vìncit, pron. /uinkit/ ) > lega

mèto meto

> io mieto > io misuro

màlum > male malum > melo sòlum > sole solum > solo Queste opposizioni avevano la funzione anche di distinguere i tempi verbali: vènit venit

> io vengo > io venni (tempo perfetto)

Vi erano fenomeni anche nei casi latini e quindi la distinzione della pronuncia breve da quella lunga portava delle differenze profonde nel significato, come ad esempio in questo caso della IV declinazione: fructùs > frutto fructus > del frutto (genitivo)

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La semplificazione vocalica. La coppia lunga breve entra in crisi al momento di collocare l’accento nella parola (ad es., àncora e ancóra). L’accento latino non era intensivo, cioè dando più fiato sulla sillaba accentata, ma melodico, cioè dando una maggiore altezza melodica alla vocale, imprimendo una nota più alta. Sappiamo ciò dalle descrizioni dei grammatici, ma non possiamo immaginare come ciò si esprimesse. Ad un certo tempo, però, l’accento ha cominciato a passare dal melodico all’intensivo. Siccome più è alta la frequenza e più il suono è acuto, quindi per accentuare la vocale viene innalzato il suono. Ma quando non si ricorre più al maggior numero di vibrazioni, ma a una maggiore intensità, con accento intensivo, mandando a pallino la distinzione tra lunghe e brevi, Questo cambiamento ha una ripercussione sulla durata delle vocali. Nel I secolo d.C., Quintiliano scrive: «Non possiamo parlare se non con sillabe lunghe e brevi». Nel II secolo, Terenziano Mauro accenna ad un accento tonico delle vocali, ovvero le vocali toniche prendono un suono maggiore. Nel III secolo, Sacerdote scrive: «La perdita della lunghezza delle vocali viene chiamato barbarismo». Altri grammatici, nel IV e V secolo d.C., denunciano esplicitamente il modo errato di parlare che si va affermando: «L’accento è in quella sillaba che più suona»; «è difficile conoscere le sillabe lunghe per natura». Per quanto riguarda la qualità delle vocali toniche, nel I secolo a.C. e nel I secolo d.C. dovevano avere lo stesso timbro. Cicerone e Quintiliano avrebbero usato difficilmente una parola che avrebbe potuto confondere per la quantità di suoni. Nelle iscrizioni di Pompei (79 d.C.) troviamo degli errori di lunghezza di parole, come, ad es., filix anziché felix). Uno che scrive ha nell’orecchio una E tanto chiusa da scriverla con la I perché così la ricorda. Nello stesso secolo, Petronio usa volpis anziché vulpis. Dobbiamo concludere che, tra l’ultimo secolo a.C. e il primo d.C., incominciano ad esserci delle prime testimonianze di incertezze che diventeranno sempre maggiori nel passaggio da vocali con timbro melodico a intensivo. Sant’Agostino, che originario di una località vicino Cartagine in Africa, nel De doctrina christiana scrive: «Le orecchie dei parlanti non afferrano della brevità o della lunghezza delle vocali». Un altro autore parla di «vitium afrorum familiare», come di vizio normale tra gli africani di lingua latina, perché probabilmente vi era una predisposizione per via del loro sostrato. Mutamenti relativi al sistema vocalico latino. Già dal II secolo d.C. si comincia ad avere gradualmente un cambiamento della qualità dell’accento che passa dal melodico all’intensità di aspirazione. Questa maggiore intensità tende che la tenuta della sillaba, cioè la sua durata, diventi maggiore. Le vocali a cui si dà un accento intensivo tendono ad allungarsi nella sua durata. Se in forza di questa maggiore intensità le vocali brevi si allungano, ecco che viene a cadere il sistema basato sulla distinzione tra vocali brevi e lunghe. Quindi si ha una modificazione per cui le vocali originarimente lunghe si riducono a brevi e quelle brevi a lunghe. Queste vocali avevano però valore di fonemi (Romà, ‘la città di Roma’; Roma, ‘in Roma’), per cui, a causa di questa innovazione, si verifica una rivoluzione nel sistema vocalico latino. Si introduce quindi una nuova differenziazione delle vocali che non si basa più tra lunghe e brevi, ma tra aperte e chiuse. Questa trasformazione avviene ovviamente nel corso dei secoli, ma questo fu il fenomeno. Sant’Agostino parlava, infatti, di orecchie africane che non riuscivano più a distinguere le vocali lunghe da quelle brevi. Il greco differenziava le E e le O tra lunghe e brevi con i segni e e h per la vocale E; o e v per la vocale O. Il fenomeno non è diffuso e generalizzato. Ci sono àmbiti culturali che rifiutano queste innovazioni (ad es. ambiente letterario, ceti alti istruiti) e il rifiuto ci fu anche in zone isolate, come nelle campagne e in luoghi remoti. E così le trasformazioni avvengono in modi e tempi differenti nelle varie zone. Il vocalismo classico evolve in cinque soluzioni diverse. Il tipo maggioritario si è espanso in Francia, Spagna, aree ladine, Istria, Italia del nord e del centro (escluso il centro-sud).

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Le vocali lunghe si pronunciano più chiuse, le vocali brevi in po’ più lunghe. Si passa da 10 vocali a 7, che è il sistema vocalico dell’italiano. Questo comincia a verificarsi dal II – III secolo d.C. Nelle iscrizioni epigrafiche si trovan tracce di questo mutamento: ligare anziché legare; menus anziché minus; fede anziché fide; oxor anziché uxor; colomnas anziché columnas; tutte forme che rispecchiavano la nuova pronuncia. Il grammatico Terenziano scrive che «tutte le volte che vogliamo pronunciare una vocale lunga, che sia vicina alla lettera I». Dai tre livelli di apertura del latino si passa a quattro livelli di apertura:

filum pìlum mela vocem nùcem lucem

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filo pelo mela voce noce luce

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Come in latino, in questo esito abbiamo solo tre gradi di apertura e la riduzione a sole cinque vocali. filum pìlum mela vocem nùcem lucem

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filu pilu mela boce nuge (nuke) luce

linea Lausberg > voci > nuci > luci

Esempi con I breve: cìcer > toscano cece > berbero akiker fìlicem > toscano felce > berbero ifilku Esempi con U breve: fùrca > toscano forca > berbero afurk ùlmu > toscano olmo > berbero ulmu Le forme del latino volgare dell’Africa settentrionale presentano un articolo agglutinato, cioè con l’articolo attaccato alla parola (a-furk, i-filku).

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Quindi ha tre gradi di apertura. filum > pìlum > retum > pomum > nùcem > lucem >

filu pilu riti pumu nuci luci

Rima siciliana. I termini siciliani della scuola poetica siciliana, nelle copie toscane, vengono tradotti quando possibile, mentre vengono solo adattati quando serve una conservazione per mantenere la rima. Il siciliano amorusu diventa in toscano amoroso; usu resta però usu; prisu, che darebbe in italiano preso, il copista toscano traduce priso; misu, che darebbe in italiano messo, il copista toscano traduce miso. Alessandro Manzoni, nell’ode Il cinque maggio fa rimare lui : nui, che è una tipica rima siciliana. Metafonesi meridionale. Nelle parlate meridionali italiane, come il napoletano, le i e le u non dipendono dalla convergenza del quarto tipo. Questo risultato si ha, infatti, per il fenomeno generale che si ha in varie lingue della Romània che si chiama metafonesi. nìgrum > niru rùssum > russu La metafonesi è l’influsso esercitato dalla vocale finale sulla vocale tonica. Se la vocale finale è di timbro chiuso, si estende e ha un’influenza sulla tonica. La u finale ha provocato un restringimento della vocale tonica, per cui abbiamo i a niru anziché una e come nel toscano nero. nìgram > nera rùssam > rossa I dialetti non sono delle forme fonetiche capricciose, ma seguono delle regole precise come tutte le lingue. Si dice questo sistema “alla greca” perché sarebbe influenzato dalle abitudini della lingua greca, quindi è un sistema che risente dell’influsso del sostrato. Secondo alcuni studiosi questo fenomeno era già presente nel IV secolo, al momento cioè della sovrapposizione del latino sul greco preesistente; secondo altri studiosi si sarebbe invece sviluppato intorno al secolo VIII. 9

Abbiamo a sinistra la serie palatale anteriore, a destra la serie palatale posteriore. Lo spazio tra le vocali, nella cavità orale, è più ampio di quello necessario per la pronuncia di una vocale; e questo spazio è più ampio nella parte posteriore (velari) che in quello anteriore (palatali). Ciononostante, in alcune zone è più sviluppata la parte palatale (ad es., il tipo III, orientale o rumeno). Dittongamento. Uno dei più importanti fenomeni che si verificano nelle lingue romanze è il dittongamento o dittongazione. In questo fenomeno le vocali toniche passano ad un elemento a due suoni che si chiama dittongo. Il rumeno elimina la dissimetria e produce una dittongazione della E aperta in IE, facendo tornare il sistema alla simmetria dei tre gradi vocalici, sia per le velari che per le palatali. Anche nel sistema maggioritario, nello spagnolo, la E aperta e la O aperta dittongano: la E aperta dittonga in IE; la O aperta dittona in IO e poi in UO. amicum pilum pàtrem am ore murum terra nòvum

> > > > > > >

amigo pelo padre amor muro tierra nuovo > nuevo

Dittongamento toscano. Anche in toscano la E e la O aperte vengono dittongate, ma non come nello spagnolo, perché è necessario che la vocale sia in sillaba libera e non implicata. frictum dictum tectum pèctum carrum c òrnum ornat fùrinum fructum

> > > > > > > > >

fritto detto tetto pètto carro còrno orna forno frutto

In questi casi il dittongamento non avviene perché la vocale si trova in una posizione di sillaba implicata. pè | dem c ò | cem

> piede > cuoco

In questi casi avviene il dittongamento perché la vocale è breve e libera, cioè non è implicata. In altri casi in cui la vocale è lunga non vi è il dittongamento. fedem

> fede

Il fenomeno del dittongamento in toscano ha avuto una conseguenza più limitata, in quanto avviene solo in sillaba libera, al contrario dello spagnolo che è incondizionato. Questo ha prodotto che il toscano è più ricco di suoni rispetto allo spagnolo. Ovviamente il dittongamento non lo abbiamo solo nelle lingue principali, ma anche nei dialetti. 10

La metafonesi. Abbiamo visto nel napoletano (I tipo) una evoluzione particolare della i breve e della u breve. nìgrum > niru rùssum > russu Ma la i e la u non dipendono dalla i e dalla u latine, ma dalla metafonesi, per cui il suono dell’ultima vocale influenza il suono della vocale tonica chiudendolo. Produce cioè una anticipazione del suono finale. Nel femminile, invece, non c’è più la metafonesi. nìgram > nera rùssam > rossa pòrtum > puort(e) pòrtam > porta Vi è con portum il dittongamento metafonetico nel napoletano, ma non nel toscano perché la vocale breve è in sillaba implicata (p òr-tum). Il sistema dell’Italia settentrionale fa parte del sistema maggioritario, ma è più affine all’evoluzione del francese, molto più avanzata e ricca di dittonghi. Il francese ha avuto delle condizioni di sviluppo più precoce e più avanzata (la prima attestazione del francese sono i Giuramenti di Strasburgo dello 842). Le prime attestazioni del volgare italiano sono di un secolo dopo, dal Placito capuano del 960.

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IL DITTONGAMENTO. È il fenomeno che riguarda la pronuncia delle vocali toniche. In spagnolo, avviene il dittongamento delle E e delle O toniche sia in sillaba libera che impedita. Dal dittongamento toscano va distinto il dittongamento napoletano, che avviene – quest’ultimo – per metafonesi. In francese, il dittongamento è spontaneo ed è limitato, come in italiano, solo alla sillaba libera. Dittongano però in francese anche le E e le O chiuse, oltre che quelle aperte, quindi dittongano tutte e quattro. Esempi: pèdem nòvum telam pìlum florem gùlam

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francese antico piéd nuéf téile péil flóur góule

> > > > > >

francese moderno pied neuf toile [pr. toil, prima del 1789; tuál, dopo il 1789] poil [pr. poil, prima del 1789; puál, dopo il 1789] fleur gueule

Le vocali aperte E e O danno luogo a dittonghi ascendenti, cioè l’accento cade sulla seconda vocale o secondo elemento; le vocali chiuse danno dei dittonghi discendenti, cioè l’accento cade sulla prima vocale del dittongo. Tra il francese antico e quello moderno, vi è un francese detto medio, che si colloca tra il XIII e il XVI secolo. Oltre al dittongamento nel francese, ci sono due fenomeni nuovi: la palatalizzazione, che sono spontanee e non dipendono dai suoni vicini alle vocali toniche, come il mutamento della A, che non si verifica in altre lingue, che si trasforma in una E aperta (es. mare > mer). Questa palatalizzazione da A a E avviene solo in sillaba libera. Infatti, in sillaba implicata non avviene (es. partem > part). La U non si restringe in italiano, mentre in francese sì, sia in sillaba libera che impedita. d U | rum nUl | lum

> dür > nul

Alcuni studiosi hanno riconosciuto una diminuzione di questo fenomeno dalla U del sostrato celtico. LA TRASFORMAZIONE DEL LATINO La scomparsa dei casi: dalla struttura analitica alla struttura sintetica HABITO ROMAE, ‘io abito nella città di Roma’ (Romae: genitivo locativo) IN URBE, nuova forma EO ROMAM, ‘io vado a Roma’; con verbo di movimento è sufficiente l’accusativo. AD URBEM, nuova forma VENIO ROMA (A lunga, ablativo), ‘vengo da Roma’ EX URBE, nuova forma Questi fenomeni annunciano una trasformazione che si accentuerà con la scomparsa dei casi e quindi attesta un mutamento già nel latino classico. Andando verso il traguardo di questa evoluzione, le preposizioni rendono superfluo l’uso dei casi, quindi la crisi di questo sistema dei casi si realizzerà nel latino volgare dove la struttura analitica verrà sostituita dalla struttura sintetica. Il latino antico, ai sei casi, si aggiungeva anche l’ablativo strumentale. Nella penisola iberica e in Italia, la trasformazione è drastica: oltre alla caduta delle vocali finali si riduce anche la distinzione tra maschile e femminile: siamo quindi alla riduzione dei casi a zero. In Gallia e in Rezia (dove si sviluppa il ladino) abbiamo il nominativo, il vocativo (che in latino era già simile al nominativo) e l’accusativo; gli altri casi vengono distinti dalla preposizione. Abbiamo qui il caso diretto e il caso obliquo. 12

Nella Dacia (in Romania) abbiamo un nominativo-accusativo, genitivo-ablativo, in opposizione a un vocativo. Nominativo Al nominativo veniva conferita maggiore solidità nella coscienza dei parlanti nelle parole: HOMO > uomo MULIER > moglie REX > re [rege deriva dall’accusativo] PRESBITER > prete SARTOR > sarto, ma sartore da accusativo Genitivo ILLORUM (gen. pl.) > italiano LORO

romeno LOR

francese LEUR

Composti: LUNA DIE > lunedì MOTUM TERRAE > terremoto AQUAE DUCTUM > acquedotto Forme colte con grado di fossilizzazione in cui permane l’aspetto del genitivo plurale: E MINISTERII Nel latino antico GEST FRANCOR, da Gesta francorum La Candelora da Festum candelorum Toponimi derivati dal genitivo plurale in –ORUM: BERTINORO PAGANORO Cognomi da genitivo singolare: PAULI CARLI DE SANTI, caso di genitivo scomposto con preposizione De + genitivo In francese antico abbiamo diversi modi per esprimere la funzione del genitivo possessivo: La fille du roi (de + le/lo) oppure con la preposizione À: La fille au roi (à + le/lo) Dante nel Paradiso parla di “porco sant’Antonio”, cioè del porco di sant’Antonio, che è quindi un francesismo.

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Dativo In Romeno ha resistito più che in altre lingue. La porta di casa > casei, genitivo a cui viene sostituito il dativo Nelle altre lingue romanze il dativo resiste nei pronomi: il nostro CUI deiriva da cui latino, GLI da … Vocativo Il vocativo suonava molto spesso vicino al nominativo, quindi troviamo spesso il nominativo al posto del vocativo, anche se la forma corretta voleva la finale in E. Ablativo L’ablativo è il caso che ha lasciato più residui nelle lingue romanze: gli avverbi in –mente che si sono cristallizzati con questa desinenza avverbiale. Firenze nel toscano antico era Fiorenza (da Florentiam, acc.). Firenze risale invece dal genitivo locativo Florentiae, forma più cólta e meno comune. Rimini genitivo – invece di A Rimino che viene attestato in alcuni scrittori medievali – deriva da Riminum. IL GENERE Un altro elemento della lingua che si è mutato è quello del genere. Nelle lingue antiche vi erano tre generi: maschile, femminile e neutro. Questa distinzione tra esseri animati e inanimati che risaliva all’indoeuropeo non è una necessità assoluta. La distinzione tra generi è solo un aspetto di arbitrarietà per le cose inanimate. Ad esempio, porta e strada sono femminili solo per convenzione, perché non hanno sesso. La scomparsa del neutro non avviene per mutamento fonetico (con la caduta della M finale), ma perché già in età classica era caduta la concezione che distingueva il neutro dal maschile (troviamo, infatti, caelus, dorsus anziché caelum, dorsum). L’inserimento dei nomi neutri al femminile è più portato dal nominativo plurale che terminava in -a. sing. folium, pl. folia > foglia sing. fructum, pl. fructa > frutta Dei residui del neutro plurale classico lo troviamo per quelli che avevano desinenza in –ora focora (Cielo d’Alcamo) > fuochi pratora > prati ALFABETO ABC DEFGHIKLMNOPQRSTVXYZ La L si è trasformata, in continuità con segni palatali, in J o GL La V vale anche per U, sia breve che lunga, e per W (U semivocalica): wetus [pr. uetus], swavis [pr. suavis] In latino non c’era la lettera U, per cui si usava sempre la V: es. SERVVS, VULNVVS. Le lettere X, Y e Z si trovano in forestierismi. La caduta delle lettere finali In posizione finale la S e la M tendono a cadere, e anche le vocali finali, non più protette dalla consonante finale. Questo porta con sé la caduta del sistema sintattico dei casi latini. In latino vi era la massima libertà per la posizione delle parole: PAVLVS AMAT IVLIAM Paolo ama Giulia IVLIAM AMAT PAVLVS Paolo ama Giulia 14

Nel momento in cui il sistema segna la caduta delle S finali, delle M finali e il passaggio in italiano della V a O, avviene che PAOLO AMAT IVLIA Paolo ama Giulia IVLIA AMAT PAOLO Giulia ama Paolo In questo scenario la posizione riveste una importanza per il significato della frase che in latino non c’era. Il latino e le lingue di sostrato Per l’evoluzione del latino volgare bisogna tenere conto dello strato linguistico che era presente nelle varie zone dove è arrivato il latino man mano che le terre venivano conquistate dai Romani. Le lingue di sostrato erano le lingue italiche che erano intorno a Roma e via via nell’area iberica. Più si va verso una situazione arcaica del latino, più diventa difficile lo studio. Per quanto riguarda il sostrato etrusco, vi è un fenomeno del toscano, ma non dell’italiano, che è la gorgia, cioè la spirantizzazione di alcune consonanti tra due vocali. Essendo il Y, la X e F segni di lettere spirantizzate del greco presenti nell’etrusco, si pensa che la spirantizzazione toscana derivi dal sostrato etrusco. Nella Pianura Padana il latino incontra le lingue celtiche: in Liguria il celtico ligure; in Veneto, invece, vi erano i paleoveneti, che parlavano altre lingue. Il celtico, insomma, si parlava dalla Liguria alla Gran Bretagna. Il latino cancella questo sostrato, ma vivono elementi dell’uso precedente. Un altro elemento di sostrato importante è il greco, che riguarda la Grecia, ma anche l’Italia meridionale e il Mediterraneo orientale sottoposto alla dominazione greca. Il greco era un sostrato talmente forte che, quando il latino ha perso importanza, è tornato ad essere la lingua ufficiale. Nel periodo bizantino il greco era la lingua dominante. Un altro elemento importante di sostrato è quello relativo alla penisola iberica. Vi erano delle popolazione definite Iberi nella parte occidentale, Celti e Celtiberi nella parte centro-orientale. Della lingua di queste popolazioni si sa molto poco. Una base su cui si è sovrapposto il latino è anche il basco, che è una lingua antichissima ancora oggi esistente. Vi è poi un sostrato germanico, quando i Romani hanno traversato il Reno, che però va considerata più una lingua di adstrato, perché i Romani assumono degli elementi delle popolazioni con cui venivano a contatto. Il germanico divenne poi una lingua di superstrato quando ci furono le invasioni, successive alla caduta dell’Impero Romano (ad es., bianco ha origine dal germanico blanc, mentre il latino aveva albus). Su questo mosaico di lingue preesistenti si sovrappone il latino e l’evoluzione del latino risentirà di questi elementi di sostrato. Nel 212 d.C, a seguito dell’Editto di Caracalla, tutti diventarono cittadini romani. Nella tradizione latina abbiamo scrittori di tutte le province romane (ad es., Seneca era spagnolo). Questa grande area sottoposta all’Impero Romano era tenuta saldamente dai Romani e solo dal IV-V sec. d.C. è iniziato il declino. Nel V sec. d.C. si affacciano delle popolazioni con le loro lingue che vengono a sovrapporsi al latino dell’Impero Romano. Il latino e le lingue di superstrato Abbiamo due superstrati importanti: quello slavo nella parte orientale della Romània, e quello arabo. Già dalla sua esistenza l’Impero Romano ebbe a che fare con le popolazioni germaniche che cercavano di insediarsi nella Gallia. Cacciati da Giulio Cesare, si attestarono oltre tutti i confini dell’Impero Romano. Nel 9 d.C. ci fu il tentativo di respingere i germani oltre il fiume Elba, ma le truppe romane furono annientate dal condottiero germanico Arminio. Altre tribù germaniche, i Marcomanni, dilagarono nella provincia romana della Pannonia (l’attuale Ungheria). In tutta l’Europa occidentale ci sono escursioni di truppe germaniche; e ai confini c’erano contatti tra popolazioni latine e popolazioni germaniche per scambi commerciali.

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I Goti avevano invaso la Dacia (l’attuale Romania) e un vescovo goto, Walfila, iniziò a convertire i Goti, che erano ariani (seguaci dell’eresia di Ario). Il vescovo Walfilia aveva iniziato a tradurre la Bibbia in gotico. Altre due popolazioni importanti sono i Visigoti e i Vandali. Seguirono un percorso molto lungo che li portò dall’Europa orientale all’Europa occidentale. I Visigoti, impediti di entrare nell’Italia del nord, ripiegarono più a nord entrando in contatto con gli Svevi e con gli Alani. I Vandali nel 406 traversarono il Reno entrando in Gallia e poi in Spagna. Gli Alani vanno in Lusitania (Nord Portogallo). I Vandali e gli Svevi vanno nella Galizia (Nord Spagna). Una parte dei Vandali vanno nell’attuale Andalusia, nella parte meridionale (Andalusia viene da Vandalicia). Queste erano popolazioni aggressive e quindi note in questa parte della Spagna e nel percorso fatto per arrivare a quella regione. I Vandali entrarono in conflitto con i Visigoti. Gli Alani erano sconfitti e dispersi. I Vandali del sud vennero annientati, quelli del nord costretti ad abbandonare la Spagna e si rifugiarono in Africa. I Vandali in Africa durarono circa un secolo, finché non vennero attaccati e sconfitti dai Bizantini. Molto importanti per il superstrato furono i Visigoti, che nel V secolo erano i maggiori difensori dell’Impero Romano ed erano bravi ad amministrare i territori con una politica romana abbastanza germanica. Stilicone nacque nell'odierna Germania da padre vandalo, ausiliario romano, e da madre cittadina romana. Tuttavia si considerò sempre un romano, sebbene molti germani fossero di confessione religiosa ariana, considerata eretica dal resto del Cristianesimo. Parlava correttamente le tre lingue principali dell'epoca: il germanico d'uso corrente (una sorta di lingua franca per le tribù nomadi barbare), il latino e il greco (idioma principale dell'Impero Romano d'Oriente). È una figura che la storiografia trova estremamente controversa. Viene dai più considerato fedele alla causa dell’Impero d’Occidente, ma gli effetti che la sua politica ebbe sullo stesso Impero possono essere considerati ambigui. (Wikipedia)

Alarico condusse i Visigoti in tutta l’area italiana, occupò più volte Roma e viene ricordato come il condottiero più preoccupato di trovare una soluzione definitiva per la popolazione visigota. Ataulfo, successore di Alarico, condusse i Visigoti verso la Gallia e poi in Spagna, dove restarono a lungo. I Visigoti lasciarono tracce nelle lingue della penisola iberica; e lasciarono tracce anche in campo artistico. Questo avveniva tra il V e il VI secolo. I Visigoti erano stati romanizzati già prima del loro arrivo in Spagna. Da due secoli avevano assunto come loro lingua il latino. In Francia, la lingua dell’amministrazione non è la lingua visigota, ma quella latina. Tre popolazioni germaniche abitarono al di là del Reno: i Galli, i Burgundi e gli Alamanni (e con minore importanza i Baveri). I Burgundi vennero sconfitti e fatti arretrare nella regione che chiamiamo Borgogna (Burgundia), tra Svizzera e Francia. Ebbero uno sviluppo notevole e si consolidarono nel Ducato di Borgogna. Qui si sviluppò il franco-provenzale, perché il territorio toccava le aree dove si parlavano due lingue diverse. Verso il 600, i Baveri raggiunsero un’altra località, vicino la Pannonia (Austria-Ungheria), il Tirolo, e quindi si spinsero tra Austria e Svizzera, nella Rezia. La Romània è in procinto di avere il consolidamento di altre due popolazioni: gli Ostrogoti e i Franchi. Alla metà del V secolo le invasioni germaniche erano un aspetto presente della società romana. Nel 395 l’Impero Romano si divide tra Impero Romano d’Oriente e Impero Romano d’Occidente. Nel 476, Odoacre, capo degli Eruli, destituisce Romolo Augustolo conquistando il controllo dell’Italia e di parte della Gallia. Regnò 17 anni, segnando la fine dell’Impero Romano d’Occidente. Nel 493, Odoacre venne ucciso da Teodorico, re degli Ostrogoti. Dopodiché gli Ostrogoti iniziarono un periodo di decadenza che coinvolse tutta l’Italia. I Bizantini quindi dilagarono in tutto il territorio italiano e in Sardegna. In Sardegna i germanici ci restarono pochissimo, per cui nel sardo ci sono scarsissimi elementi di superstrato germanico. I Bizantini parlavano il greco. Gli Angli e i Sassoni, nel V secolo, invadono le isole britanniche e quindi si stanziano nell’Inghilterra. Verranno poi soppiantati dai Normanni che provenivano dalla Francia. Lo stanziamento dei Franchi nell’Europa centrale è quello più importante perché è quello più stabile e più precoce per l’aspetto linguistico. I Franchi Salii erano più a nord, i Ripuarii più a sud. 16

Gli insediamenti germanici (Visigoti e Ostrogoti) erano distribuiti con una densità molto forte che in altre regioni non si era verificata. I Franchi non avevano avuto una fase di “romanizzazione” prima del loro stanziamento in Gallia. Nel V secolo si ha quindi nella Francia una situazione di bilinguismo: i Germanici parlano il latino, i Franchi il franco o il francone. Mentre i Franchi Salii procedevano lungo la zona costiera del nord, i Franchi Ripuarii che provenivano dalle zone del Reno si impadroniscono della zona tra l’attuale Germania e Francia. I Franchi sono una popolazione germanica che si estende sulla Garmania e su tutta la Gallia. Sono quelli che hanno avuto lo stanziamento più solido, più duratuto, più compatto di tutte le popolazioni germaniche; e questo è l’effetto derivato dalla loro alleanza con i Galli romanizzati. I Franchi diedero libertà ai matrimoni misti e questo favorì l’integrazione. Nel 496, Clodoveo, re dei Franchi Salii, si convertì al cristianesimo, guadagnandosi la fedeltà della popolazioni da lui sottomesse, ed ebbe l’appoggio delle sue azioni contro i Visigoti che erano rimasti ariani. Con la conversione i Franchi iniziarono a parlare il latino, che era anche la lingua del cristianesimo e della giurisprudenza. Quindi il latino si introduce come lingua nella religione e nell’amministrazione. I Franchi poi rifondono la loro legge tribalica con il sistema giuridico salico, che è una commistione dell’uso germanico e del diritto romano. Il francone è molto importante per il francese. I Visigoti vanno poi a insediarsi al di là dei Pirenei. Un’ultima invasione che interessa il mondo romano è quella dei Longobardi (popolazione germanica) che avviene soprattutto nell’area italica, in un’area dove erano stati appena cacciati gli Ostrogoti dai Bizantini. É una popolazione rozza e primitiva, ma rapidamente si impadronirono del sistema dei Franchi, adattandosi molto presto agli usi delle popolazioni italiche cristianizzate. Erano originari della Germania settentrionale e non erano molto diversi, sotto il punto di vista linguistico, dai Franchi. Nel 568, i Longobardi guidati dal re Alboino invadono tutta la pianura padana. Molto presto cade la città di Mediolanum (Milano) e si impadroniscono di tutta quell’area che viene chiamata Lombardia. Incontrarono resistenza nella città di Ticinum (Pavia) per opera di Ostrogoti reduci al servizio di Bisanzio. Pavia, dopo tre anni di assedio, diventa la capitale della Lombardia. La capitale bizantina era Ravenna, più greca che romana. Alboino premeva su un’area che andava da Ravenna a Roma. Al sud, i Longobardi occupavano con il ducato di Benevento e di Napoli, mentre il Lazio restava alla Chiesa. La Toscana è longobarda, mentre tutto il resto del sud è dei Bizantini. I Longobardi restano per 500 anni, per cui gli elementi germanici sono molto presenti. La dominazione dei Longobardi viene fatta cessare alla morte del re Desiderio, nel 773, sconfitto dai Franchi di Carlo (il futuro Carlo Magno) sollecitati ad intervenire da papa Adriano I. Da quel momento i Franchi dilagarono nel nord dell’Italia. Si instaura così il binomio di Papato e Dinastia francese che dura da Carlo Magno ai successori. Il superstrato arabo. — Un altro superstrato importante è l’arabo, che ha la sua influenza soprattutto in Spagna e in Sicilia. Mentre in Sicilia l’elemento arabo di superstrato si fonde con elementi di adstrato, in Spagna invece l’influsso arabo ha una valenza di superstrato. Nel VII secolo, da Maometto in poi, c’è una serie di ondate di arabi che si espandono fino in Spagna. Nel 701 gli arabi passano lo Stretto di Gibilterra (nome arabo) e invadono tutta la Spagna, tranne negli strati più settentrionali e in quei regni cristiani dove si consolida una resistenza agli arabi e da cui partirà la reconquista che culminerà nella ripresa di Granada nel gennaio del 1492. L’invasione araba fu soprattutto militare, ma diversa da quella delle popolazioni germaniche. Gli arabi instaurarono un dominio abbastanza liberale, con una capacità di governare e produrre ricchezza, instaurando un’amministrazione e una vita culturale paragonabile a quella dei romani. L’arabo, sia per lo spagnolo che per il catalano, che per il portoghese, ma soprattutto per il castigliano, è una lingua di superstrato molto importante. Gli arabi instaurarono un dominio piuttosto liberale, religioso, con una capacità di governare e produrre ricchezza paragonabile ai Romani. Dopo il loro insediamento in Spagna, qui si ebbe un livello di civilizzazione molto elevato (Cordova, Siviglia, Granada erano eccezionalmente fornite e avanti). Coloro che, avendo contratto matrimonio misto, pur mantenendo la fede cristiana assunsero usi e costumi arabi, furono chiamati Mozárabed. Il mozarabeo, parlata mista arabo-romanza, è all’origine della poesia lirica provenzale. L’arabo nell’area iberica è una lingua di superstrato molto importante, mentre in Sicilia gli arabi hanno dominato per appena un secolo, cacciati poi dai normanni. Quindi in Sicilia l’arabo come lingua di superstrato ha una rilevanza minore. 17

LA PRODUZIONE LETTERARIA Gaio Sollio Sidonio Apollinare (latino: Gaius Sollius Sidonius Apollinaris; Lione, 5 novembre 430 circa – Clermont-Ferrand, 486) fu un nobile gallo-romano, alto funzionario dell'Impero romano, poeta, epistolografo, vescovo di Alvernia e santo. Il suo rango e le sue conoscenze fecero sì che fosse al centro della vita pubblica della sua epoca. Nella sua opera, tradizione classica e cristianesimo convivono senza difficoltà sia sul piano dei contenuti che su quello formale; è proprio con lui che comincia quel fenomeno di definizione di un patrimonio culturale atto a superare le precedenti contrapposizioni, da cui erano state angosciate personalità come Girolamo, in nome di una nuova distizione che vede uniti gli ex “nemici” greci, latini, pagani e cristiani contro il nuovo mondo dei germani. Boezio, vissuto tra il 480 e il 524, era nato a Roma durante il regno di Odoacre, generale erulo che aveva destituito Romolo Augustolo. Era coltissimo, conosceva Platone e aveva tradotto Aristotele. Ci ha lasciato un’opera che era la Consolatio Philosophiae che è uno dei testi più importanti della tradizione cristiana medievale. Ebbe una vicenda sfortunata e il suo libro venne composto in carcere. Venne accusato di partecipare al complotto per la destituzione del console Teodorico con l’aiuto dell’imperatore d’Oriente. In questo periodo in cui vi era una tensione tra Teodorico e i sudditi romani, Boezio venne accusato di complotto, incarcerato e poi ucciso. La Consolatio Philosophiae è un’allegoria in cui Boezio immagina che la filosofia personificata lo va a trovare in carcere e lo consola. Altri autori importanti sono san Benedetto, contemporaneo di Boezio, e Cassiodoro, anche lui vissuto tra il 480 e il 570. Nativo dell’Italia meridionale, anche Cassiodoro fondò un monastero. Fu segretario di Teodorico e divenne anche console. La sua produzione è soprattutto storiografica. La sua Historia Gothorum è andata perduta, ma ne abbiamo notizia dal riassunto che ne ha fatto Giordano, scrittore goto. Dalla metà del VI alla metà del VII secolo, il flusso di produzione letteraria non diminuisce, ma diminuisce la frequenza di lettura di opere classiche e questo comportò una perdita dell’abitudine di ricorrere ai modelli stilistici degli autori classici. La Chiesa instaura un nuovo modo di scrivere (la scrittura classica cristiana) con san Girolamo e sant’Agostino, in cui entrava l’esigenza di farsi capire dai lettori, da gente sempre più lontana dai modelli classici, che assume nuovi strumenti stilistici per farsi comprendere dalla nuova società cristianizzata. Sant’Agostino era vescovo d’Ippona, vicino Cartagine. Nella sua azione di vescovo si trovò a dover contrastare gli scritti di alcune sette ereticali (donatista) che componevano inni facili a memorizzare. Sant’Agostino compose allora un Salmo contra donatista in cui elimina tutte le parole che potevano non essere comprese dai suoi ascoltatori. Il problema era che le regole metriche della poesia latina non potevano più essere seguite dal momento che si era persa la quantità delle vocali lunghe e brevi. Quindi, crea una nuova struttura metrica e introduce l’omoteleuto, cioè la fine uguale dei versi, che è un’idea primitiva della rima. Peregrinatio ad loca sancta e le opere di Piacentino sono delle descrizioni di viaggio, in un latino d’uso comune, quindi un latino non classico e che protende al volgare. Tra il 600 e il 700, sia in Spagna che in Italia, una delle produzioni che aveva più diffusione, Vitae Patrum, esempi morali di santità come modello di vita cristiana, È una letteratura agiografica in latino a cui si riferiscono alcune produzioni di letterature volgari in francese. Un altro latino è quello della giurisprudenza. Un esempio è la Lex Salica dei Franchi Salii, un codice che ha avuto influenze su altri codici, come la Lex Rituaria, l’Edictus Rotari (del re longobardo Rotario), la Lex Visigotorum, il Burgundorum Legi. Molti testi composti in un tempo lontanissimo sono giunti fino a noi grazie agli amanuensi che copiavano i testi. Ogni copia però poteva introdurre degli errori, anzi sicuramente ne introduceva. Quindi il compito della filologia è quello di cercare di ricostruire il significato originario. Le trascrizioni della Bibblia tradotta dal greco di san Girolamo sarà più accurata perché è un testo sacro; negli altri testi, come quelli giuridici, risentono della lingua degli amanuensi, quindi di una topicizzazione.

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L’origine della parola « maiale » La parola latina per designare il maiale è porcellus. L’animale veniva però allevato fino al mese di maggio (in latino mai) per essere immolato sull’ara votiva. Condizioni di sostrato e di superstrato Dopo la caduta di Roma (dopo grandi migrazioni che hanno portato mutamenti politici), la tradizione del latino letterario non era stata persa; ma nuove scuole avevano soppiantato quelle che erano sotto Roma: le scuole ecclesiastiche, dove si studiava il latino sulla base di testi cristiani. In questi centri di cultura — monasteri e scuole improntate sulla dottrina cristiana — si diffuse molta parte del patrimonio culturale della letteratura pagana. Nella Gallia ci sono autori importanti come Sidonio Apollinare, poeta di valore notevole, nato a Lyon, zona d’influenza dei Burgundi, da famiglia romana. Fece frequenti visite a Roma e sposò la figlia di un imperatore del tardo Impero Romano. Verso il 470 si ritirò da vita pubblica e divenne un religioso: prima sacerdote cristiano e poi vescovo. Sidonio quindi fu un poeta importante che scrisse in latino. Ci sono altri personaggi che tennero viva la tradizione della letteratura latina, in verità non molti ma che scrissero opere di grande valore.

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GLOSSE DI REICHENAU Abbazia di Reichenau, sec. VIII Il termine glossa deriva dal greco e significa ‘lingua, linguaggio, locuzione, parola straniera o inusuale’. In latino ha assunto il significato di ‘parola difficile che richiede una spiegazione più estesa’. Glossa voleva, quindi, dire ‘spiegazione’, che spiega o traduce una parola o un’espressione che per il lettore di quel posto poteva essere incomprensibile. Nei testi cristiani, tra il IV e il V secolo, si scriveva in latino corretto, ma già allontanato dal latino classico. Era necessario inserire un sistema di glosse che rendesse del tutto comprensibile il testo al lettore. In qualche caso, poi, tutte le glosse venivano raccolte e messe in ordine a parte come per un vocabolario (che è anche detto glossario). I glossatori erano giuristi dell’Università di Bologna che nel Medioevo glossavano, ovvero commentavano, i testi giuridici presso la Facoltà di Giurisprudenza. Ci sono vari testi di glosse e alcuni sono utili per comprendere lo sviluppo del latino nel tempo. L’opera più importante sono le Glosse di Reichenau. Reichenau è un’abbazia benedettina fondata nel 724. Non fu il luogo dove venne compilato il glossario, ma è l’abbazia di Reichenau che lo conserva. Le glosse di Reichenau sono una serie di voci latine della Bibbia di san Girolamo. Al fianco delle parole latine vengono messe delle parole, sempre in latino, ma non in quello classico, in quello corrente, quindi più comprensibili per quel tempo. Il glossario è in due parti: la prima, è una serie di note che seguono il testo; la seconda, il riepilogo della prima parte. La prima parte comprende più di 3000 glosse e inizia dalla Genesi («Genesis dictu eo exordium generationis»). Dopo la Genesi, i libri del Vecchio Testamento fino ai Maccabei, per poi passare al Nuovo Testamento, e poi torna ai Maccabei del Vecchio Testamento. Questa irregolarità fa pensare che si tratti di un antigrafo, ossia di un manoscritto che è copia diretta di un altro manoscritto o codice, di un originale la cui successione delle pagine era stata messa in disordine. La datazione che si dà a questo glossario è l’ottavo secolo. Interessante è la collocazione di questo glossario. Questa opera dove è stata composta? E per chi è stata pensata? L’esame delle parole scelte da glossare tendono a far pensare che sia stato composto nella Francia settentrionale. Il glossatore doveva avere degli strumenti, quindi l’Ethimologiae di Isidoro di Siviglia. Le glosse più interessanti di questo glossario indicano una tendenza verso il francese e quindi ciò avvalora l’ipotesi che sia stato composto nella Francia del nord. ager > campus > champ umo > terra > terre (umile, vicino alla terra) arenam > sabulo > sable amne > fluvio > fleuve litus (lido) > ripa coturnices > quacoles (quaglia) QUÀCOLES : la vocale postonica tende a cadere dando QUACLES. CL si trasforma in GL dando in italiano quaglia, in francese quaille. Ci sono dei termini validi sono in area francese: oves > berbices > brebis (pecore; pecus, -oris era il bestiame in generale, poi riferito solo alle pecore). uvas > racemos > raisin (uva; non era necessaria la glossa per l’italiano o lo spagnolo, ma per il francese sì) caseum > formaticum > fromage (cacio; la parola italiana “formaggio” è un francesismo). FORMÁTICUM : quattro sillabe, la postonica cade dando FORMA-C (UM); vi è poi l’inversione di OR in RO e la trasformazione di C a G, dando come risultato FROMAGE. Il formaticum era la forma per confezionare il cacio. Gallia > Frantia (dovuto alla dominazione dei Franchi) Italia > Longobardia (dove avevano regnato i Longobardi, finché nell’800 non sono stati eliminati da Carlo Magno). 20

Vi sono poi nel glossario molti termini militari, legati alle armi, e molti prestiti dal francone: castro viene glossato con la parola da cui è derivato auberge. saniore > plus sano optimus pingues > quae naturalibus grassi sunt I superlativi organici in latino vengono sostituiti con particelle o perifrasi. LE GLOSSE DI KASSEL Le Glosse di Kassel sono dello stesso periodo di quelle di Reichenau, ma profondamente diverse. Il manoscritto proviene dal monastero di Fulda, fondato dai Benedettini nella regione tedesca di HesseNassau, oggi conservato nella Biblioteca di Kassel. In questo glossario le parole latine vengono tradotte con parole tipiche del bavarese. Si tratta quindi di una traduzione. Risale agli inizi dell’800, quando Carlo Magno stava consolidando i suoi stanziamenti in area germanica. Forse questo glossario serviva a facilitare il contatto tra i soldati franchi e la popolazione germanica. Conta 780 voci divise per argomenti: l’essere umano, animali domestici, la casa, vestiario, attrezzi e utensili, varie. La seconda parte del glossario è in latino più corretto, ma è più un manuale di conversazione. È un glossario per i bavaresi ed è pieno di inflessioni germaniche, con consonanti sorde al posto delle sonore (bodellum > potellum ; vitelli > fitelli). La frase più lunga che viene dopo le glosse di sapiens homo e stultus, e senza dubbio da questa suggerità è la seguente: « Stulti sunt romani, sapienti sunt paioari [bavari], modica est sapienti(a) in romana plus habent stultitia quam sapientia », che fotografa il punto di vista bavarese. L’INDOVINELLO VERONESE Gli amanuensi davano sfogo alla loro insoddisfazione con delle brevi frasi per provare il pennino, la piuma d’oca appena tagliata. L’indovinello veronese dovrebbe trattarsi di una scritta di questo genere. Dagli scrittori latini la metafora di arare per scrivere era già usata: il problema è capire se l’indovinello veronese dia un testo in latino o un testo in volgare. + separebabouesalbaprataliaarabaetalboversoriotenebaetnegrosemenseminaba + gratiastibiagimusomnipotenssempiternedeus Non è per niente sicuro che sia stata la stessa mano a vergare nella pergamena l’indovinello veronese, l’indovinello e la frase in perfetto latino che segue. Anzi, quasi certamente furono due. Se pareba boves, alba pratalia araba, (et) albo versorio teneba, (et) negro semen seminaba. Parare nel nord Italia significa ancora oggi ‘spingere davanti a sé’. «Parebat» potrebbe venire anche da parere, cioè ‘somigliare’, in tal caso «pareba boves» significherebbe ‘somigliare ai buoi’, quindi pare più congrua la prima spiegazione. Il problema è il «Se», che non è sibi ma ha lo stesso valore e non dovrebbe essere all’inizio. La legge Tobler-Mussafia nota come il pronome nelle parlate antiche, quando il verbo è all’inizio della frase, il pronome dovrebbe essere posto dopo il verbo. Quindi «pareba», per la mancanza della « t » finale, va verso il romanzo, ma la conservazione della « b » per « v » è forse dovuto a un’incertezza nell’attribuzione dei suoni alle lettere. L’aggettivo « bianco » non è più la derivazione dal latino albula, ma dal germanico blanc. Nell’indovinello c’è invece « alba » e « albo ». « Pratalia » è un neutro plurale latino, ma potrebbe essere anche un singolare femminile. Il termine « versorio » è ‘aratro’, termine regionale comune nell’area settentrionale. « Negro », da niger, gen. nigris, acc. nigrum, abbiamo il passaggio di i a e e la caduta della m, nonché il passaggio da u a o secondo le regole del volgare.

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IL GRAFFITO DELLA CATACOMBA DI COMMODILLA Roma, prima metà del IX secolo. Poco dopo l’indovinello veronese abbiamo una brevissima scrittura che appartiene alla prima metà del IX secolo. È interessante perché è ancora in area italiana e contemporaneo al testo più importante in volgare francese che è i Giuramenti di Strasburgo. NON DICERE ILLA SECRITA A BBOCE Non dire le cose segrete [la parte segreta della liturgia] a voce (alta) « Non dicere »: il non + infinito è una forma romanza per l’imperativo. « secrita » potrebbe essere un neutro plurale e il pronome dimostrativo « illa » qui non ha la funzione di pronome ma di articolo. « a bboce » è un tratto tipico delle parlate centro-meridionali, con raddoppiamento fonosintattico.

I GIURAMENTI DI STRASBURGO Fra l’VIII e il IX secolo l’Europa cristiana ha sperimentato una fase di consolidamento dovuta alla dinastia carolingia. Carlo Magno aveva realizzato il sogno della ripresa di un nuovo Impero romano d’Occidente. Alla morte di Carlo Magno nell’814, questo nuovo impero, che comprendeva la Francia, la Germania, una vasta parte dell’Italia, la parte nord-orientale della Spagna, si mantiene unito sotto Ludovico il Pio, che regna fino all’840. Ludovico il Pio era mite e religioso, benché i figli fossero di tutt’altra natura, e l’impero si disgregò proprio per l’ereditra tra i tre figli: Lotario, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico. Nell’842, due anni dopo la morte di Ludovico il Pio, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico si alleano contro il fratello maggiore Lotario. In eredità dal padre a Lotario fu lasciato il titolo di imperatore, una fascia di territorio che va dall’Olanda alla Pianura padana, e la Lorena (Lotaringia); a Carlo il Calvo la parte occidentale fino alla Spagna; a Ludovico il Germanico la parte germanica. Per una decina d’ammi questi fratelli mantennero la pace, finché scoppia una guerra tra Carlo e Ludovico. Poi muore Lotario. I fratelli si combatterono e si divisero il territorio in un altro modo. Nell’842, quando i fratelli si alleano, è il momento del testo dei Giuramenti di Strasburgo. Il quadro storico-culturale Il periodo che va dal 700 all’800 è un periodo sfavorevole per la cultura, soprattutto per la Francia e il centro Europa, per il livello basso del latino con i Marovingi (non cristiani). Nell’Irlanda e in Britannia, invece, penetrò il cristianesimo nel IV secolo, con san Patrizio, e questo favorì lo studio del latino. In Irlanda e in Britannia il latino era però una lingua straniera e non fu sottoposto a un processo di evoluzione che portò alla lingua romanza. Più tardi, dall’Irlanda vanno dei missionari in Britannia e poi nel continente. Vengono creati dei monasteri, come quello di San Gallo in Svizzera, che venne riconosciuto molto importante per la conservazione dei manoscritti. Dalla seconda metà del 700 inizia una riforma culturale alla quale Carlo Magno chiama a intervenire i più grandi filosofi del tempo, come Alcuino, arcivescovo di York, chiamato a corte nel 782, che fu una sorta di ministro della cultura, consigliere di Carlo Magno. Alla Scuola Palatina confluiscono molti studiosi che formarono un’élite culturale che introduce uno studio del latino più vicino al latino classico e una scrittura nuova, quella carolina, che introduce chiarezza nella scrittura. La corte di Carlo Magno era a Aix-la-Chapelle, località termale in territorio germanico, al confine con Francia e Belgio, che poi si è chiamata Aquisgrana. In questa corte troviamo Paolo Diacono, l’autore della Historia Longobardorum; e Iginardo, il biografo di Carlo Magno, che si rifà allo stile di Svetonio. Questa ripresa del latino come lingua di riferimento ha delle conseguenze importanti a livello linguistico. Quando vi è una ripresa del latino, si crea lo stacco tra il volgare imbarbarito e il latino classico. Questo fa sì che la competenza linguistica dei sudditi di Carlo Magno sia spostata verso una lingua sempre più

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lontana dal latino. Prima c’era una lingua mista che viene capita da tutti e parlata da tutti, con il rinnovamento scolastico e linguistico del latino con regole rigide si creano due registri linguistici distinti. Nell’813, anno che precede la morte di Carlo Magno (avvenuta nell’814), il Concilio di Tours — considerato il concilio delle lingue romanze — delibera all’unanimità che il vescovo insegni in volgare, affinché sia compreso da tutti, e quindi invita a tradurre (transferre) dalla « romanam linguam » (il latino) o in « rusticam » (volgare) o in « teudiscum » (tedesco) le omelie, quindi nelle uniche due lingue parlate nei territori di Carlo Magno. È un indizio per la comprensione della situazione che si era già creata al momento dei Giuramenti di Strasburgo. I Giuramenti di Strasburgo I figli di Ludovico il Pio sono in lotta. Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico si alleano contro Lotario. Nitardo, cugino dei fratelli, scrive la storia dei figli di Ludovico il Pio, in cui riporta questo avvenimento dell’842. Il patto viene stipulato a Strasburgo, nel febbraio dell’842. Ludovico e Carlo si incontrano con i rispettivi eserciti alle spalle, giurano fedeltà reciproca contro il fratello Lotario secondo una formula in latino tradotta in francese e in tedesco per farsi capire dai soldati. L’uno giura nella lingua dell’altro, quindi Ludovico il Germanico giura in francese, Carlo il Calvo in tedesco. A loro volta, con una formula più semplice, i due eserciti giurano fedeltà a quanto hanno udito nella rispettiva lingua. Di queste due formule, quella che a noi interessa è quella in francese. I due testi hanno caratteristiche diverse. Il testo francese presenta alcuni problemi, mentre il testo tedesco è molto più corretto. Bisogna dire che il manoscritto di Nitardo ci giunge da una sola copia che risale a 150 anni dopo rispetto al testo originario e quindi potrebbe esserci un problema di trasmissione. Ergo xvi kal. marcii Lodhuvicus et Karolus in civitate que olim Argentaria vocabatur, nunc autem Strazburg vulgo dicitur… XVI kal. marcii : XVI giorno ante (prima) delle calende di marzo, corrisponde al 14 febbraio. I Romani avevano il nome per tre giorni di ogni mese. Il primo era il giorno delle Calende, da cui deriva la parola Calendario, questo era il primo giorno di ogni mese. Gli altri due giorni erano le None e le Idi. Questi due giorni erano mobili: in molti mesi cadevano rispettivamente il quinto ed il tredicesimo giorno, ma in marzo, maggio, quintile e ottobre, le None cadevano il settimo e le Idi il quindicesimo giorno. Questo sistema era in origine basato sulle fasi lunari. Le Calende erano il giorno della luna nuova. Le None erano il giorno della mezza luna (primo quarto). Le Idi erano il giorno della luna piena. olim : una volta era chiamata Argentaria. Prima del giuramento arringarono alla plebe che stava intorno, uno in lingua rustica romana, l’altro in lingua germanica. Ludovico il Germanico dice in tedesco (ma è riportato da Nitardo in latino): « Quotiens Lodharius me et hunc fratrem meum, post obitum patris nostri, insectando usque ad internecionem delere conatus sit nostis. Cum autem nec fraternitas nec christianitas nec quodlibet ingenium, salva justicia, ut pax inter nos esset, adjuvare posset, tandem coacti rem ad juditium omnipotentis Dei detulimus, ut suo nutu quid cuique deberetur contenti essemus... ». Voi sapete (nostis) quante volte (quotiens) Lotario ha tramato contro di noi e ha cercato di distruggere me e mio fratello. Dato che neanche un qualsiasi ingegno che facesse giustizia affinché tra di noi ci fosse la pace, siamo stati costretti di porre la questione sotto il giudizio di Dio onnipotente. Cumque Karolus haec eadem verba romana lingua perorasset Lodhuvicus, quoniam major natu erat, prior haec deinde se servaturum testatus est: E quando Carlo con queste stesse parole ebbe perorato la stessa causa in romana lingua, allora Lodovico, che era maggiore d’età, per primo proferì la formula di giuramento (Lodovico il Germanico giura in francese) Quod cum Lodhuvicus explesset, Karolus teudisca lingua sic hec eadem verba testatus est: Quando Ludovico ebbe finito, Carlo in lingua tedesca disse le stesse parole:

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Il giuramento in francone di Lodovico il Germanico « Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament, d’ist di in avant, in quant Deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon fradre Karlo et in ajudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fradra salvar dift, in o quid il mi altresi fazet, et ab Ludher nul plaid nunquam prindrai, qui, meon vol, cist meon fradre Karle in damno sit ». [Traduzione: « Per l’amore di Dio e per la salvezza del popolo cristiano e nostra comune, da questo giorno in avanti, in quanto Dio mi conceda sapere e potere, così assisterò io questo mio fratello Carlo, e con l’aiuto e con ciascuna cosa, si come secondo giustizia si deve assistere il proprio fratello, in ciò che egli faccia altrettanto a me, e con Lotario nessun accordo mai prenderò che, per mio volere, di questo mio fratello Carlo sia in danno ».] « Pro Deo amur et pro christian poblo » : sono due genitivi che non vengono ancora segnalati dalle preposizioni di o de. Il provenzale ha solo due casi (fino al XIII secolo), il nominativo e l’accusativo. La differenza è la S che è al caso retto singolare e al caso obliquo plurale. provenzale MURUS MURUM MURI MUROS

nom. sing. acc. sing. nom. pl. acc. pl.

francese MURS MUROS MUR MURS

« amur » : da amorem, la U potrebbe essere una realizzazione grafica della pronuncia amor che anticipa la tendenza alla chiusura verso la U presente nel francese moderno: amour. « d’ist di in avant » : da questo giorno in poi; ist dal lat. iste; di dal lat. die; in ha ancora la grafia latina, perché poi muterà in en; avant dal lat. de ab ante. Quindi in resta come in latino, mentre avant procede verso il francese. « avant » : dal lat. de ab ante, in cui la b si spirantizza, subendo una lenizione, e si trasforma in v. Anche la parola amica si lenisce in spagnolo e in provenzale diventando amiga, in francese amie, in cui la velare va al dileguo e sparisce del tutto. « in quant » : nella misura in cui. « Deus savir et podir me dunat » : Dio mi dà potere di sapere e decidere (formula latina). « me » : dal lat. mihi, forma romanza. « dunat » : dal lat. donat, che avrebbe dovuto dare donat anche in francese, perché oggi abbiamo in francese il verbo donner, ma evidentemente la U è una rappresentazione grafica della pronuncia chiusa. « savir » : SÀPERE, ‘avere il sapore di qualche cosa; poi assume il significato di avere conoscenza di qualche cosa’ > SAPÉRE > SAVEIR (lenizione di P in V spirante sonora e la E lunga diventa EI e poi OIR in savoir). Nel testo abbiamo savir : è un problema aperto, perché lo troviamo solo nei Giuramenti. La soluzione di questa incertezza può essere quella di pensare che il dittongamento della E già si pronunciava ma non era stabilito graficamente. In tal caso, è il segno di un processo in atto non ancora regolarizzato nella scrittura. « podir » : dal verbo latino irregolare posse, che va poi verso una semplificazione, una regolarizzazione: POSSE > POTÉRE > PODEIR. Avremmo dovuto avere un dittongo anche in questo caso, ma non viene rappresentato e quindi abbiamo podir. Per arrivare alla forma moderna pouvoir, la O dittonga in OU, la D si spirantizza in V e IR si trasforma in OIR. « salvarai » : dal lat. salvabo. Il futuro qui è perifrastico, cioè viene composto dall’infinito + verbo avere. « cist » : dal lat. ecce + iste, ‘questo’. « fradre » : dal lat. fratrem > frade > fr. mod. frère. La A tonica in francese passa a E, la T si lenisce in D; la E è evanescente; la M cade. « Karlo » : nel testo abbiamo Karlo e Karle, sono due modi per indicare una pronuncia evanescente della vocale finale, probabilmente di una E. « et in ajudha et in cadhuna cosa » : formula ridondante. « ajudha » : dal latino adiutum (infinito adiutare). Il nesso D+I è rappresentato da J; la T è passata a D, ma con un suono semispirante DH (come il TH inglese); UM cade lasciando il posto a una A che va pronunciata E evanescente come nel francese moderno.

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« si cum om per dreit son fradra salvar dift » : letteralmente, ‘così come uomo per diritto suo fratello salvare deve’, ma avendo om valore impersonale ‘a buon diritto si deve salvare il proprio fratello’. « om » : dal lat. homo; diventerà poi on nel francese moderno, soggetto della forma impersonale. « dreit » : dal lat. directum, ‘diritto’. Il nesso CT si risolve in EIT, per arrivare a dreit ; ma nel francese attuale droit. « son » : dal lat. suum. « fradra » : vd. supra; evidentemente anche in questo caso la A finale corrisponde a una E evanescente. « dift » : ‘deve’, dal lat. débet > deit > doit. Il dittongo non è rappresentato, come in savir e podir. Abbiamo il passaggio da E a I, da B a spirante sorda F, cade la E, quindi dift. « in o quid il mi altresi fazet » : in hoc quid, ‘in ciò che’ (persistenza del latino); il, ‘egli’; mi, dal lat. mihi, ‘a me’; altresi, dal lat. alter sic, ‘altrettanto’; fazet, dal lat. faciat, ‘che egli faccia’, la C velare (/k/) diventa palatale, passando a Z. « ab Ludher nul plaid nunquam prindrai » : ‘con Lotario nessun patto mai prenderò’. « ab » : dal lat. apud, ‘presso’. Ma ab ha qui lo stesso significato di cum : « ab Ludher », ‘con Lotario’. Naturalmente la pronuncia della B sarà un po’ sorda, cioè simile alla P, perché le consonanti finali sonore si pronunciano sorde. Il francese moderno avec viene da apud + haec, e testimonia che la sonorizzazione della B non si è fermata alla P, ma è arrivata fino alla consonante V. « Ludher » : ‘Lotario’. La T è sonorizzata in D e poi, come la grafia con H, è semispirante. « nul » : ‘nessuno’. « plaid » : dal lat. placitum, ‘patto’, ma anche ‘sentenza’, ‘processo’. La I postonica cade e C + T, ora a contatto, danno un esito ID. « nunquam » : ‘mai’. « prindrai » : dal lat. prehendere + habeo. Prehendere (cade HE) > préndere (cade E postonica) > prendr + ai. « qui, meon vol » : ‘che, per mio volere’, ‘secondo la mia volontà’. « cist meon fradre Karle in damno sit » : ‘di questo mio fratello Carlo sia in danno’. « in damno sit » : ‘sia a danno’, espressione latina (che testimonia la persistenza del latino) ripresa da altri giuramenti presi a modello per queste formule. Questa è la formula pronunciata da Ludovico il Germanico in francese, nella lingua dell’altro esercito, perché questo intenda. Poi segue la stessa formula in tedesco pronunciata da Carlo il Calvo. Alla fine, vi è il giuramento dei due eserciti — più semplice — nelle rispettive proprie lingue.

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Il giuramento in francone dell’esercito di Carlo il Calvo « Si Lodhuuigs sagrament que son fradre Karlo jurat conservat et Karlus, meos sendra, de suo part lo fraint, si io returnar non l’int pois, ne io ne neuls cui eo returnar int pois, in nulla ajudha contra Lodhuuuig nun li iv er ». [Traduzione: «Se Ludovico il giuramento che a suo fratello Carlo ha giurato mantiene e Carlo, mio signore, da parte sua lo infrange, se io volgerlo da ciò non posso, né io né alcuno che io possa volgere a questo, di nessun aiuto contro Ludovico non gli sarò»]. « Si Lodhuuigs » : c’è la s finale perché è nominativo. « sagrament » : dal lat. sacramentum. Manca l’articolo, perché vi è una persistenza del latino, in quanto il testo è legato al modello latino. « que son fradre Karlo » : ‘che (a) suo fratello Carlo’. Manca una A. « jurat » : dal contesto capiamo che è un perfetto, ‘ha giurato’, quindi si pronuncia /iuràt/, non /iùrat/. « Karlus » : nominativo. « meos sendra » : sendra è una forma particolare che viene da senior (nom.), seniorem (acc.), che è il comparativo dell’aggettivo senes, ‘vecchio’, e voleva quindi dire ‘più vecchio’. Sénior, con la caduta del gruppo vocalico postonico, si trovano a contatto la N e la R, che è difficilmente pronunciabile, quindi sénra diventa sendra (A finale si legge E evanescente) — come avviene pure in altri casi: cinerem, dove tra N e R s’inserisce una D (detta consonante di transizione) > sendre; moindre da mínor; pondre da pónere, ecc.; oppure la consonante di transizione può essere una B quando entrano in contatto M e R, come ad. es. camera > cambre > chambre. Da *seior > sire, da meus *seior > messire (nominativo) o monseigneur. « lo fraint » : questa scrittura è un’interpretazione, perché nel testo è scritto « n (con titulus) lostanit ». « meos sendra » : ‘mio signore’. « int pois » : ‘non posso’. « nun li iv er » : ‘non lì ci sarò’.

Il problema linguistico della formula in francone La formula di giuramento in lingua romana è molto compatta, regolare, sicura, mentre la formula in francese è piena d’incertezze, e quindi ci s’interroga sul perché di questa traduzione così spigolosa. La considerazione principale per spiegare questo problema della diversità è che la formula tedesca è una traduzione dal latino, invece la trasposizione di una formula latina in una lingua romanza fa sì che ci siano delle tendenze a conservare la lingua di partenza che si scontrano con le tendenze a innovare. La lingua della formula francese è quindi innovativa e conservativa, mentre la formula tedesca è una traduzione tout court che non presenta di questi problemi e perciò è più lineare. Nei Giuramenti di Strasburgo non c’è l’articolo, mentre nella Sequenza di sant’Eulalia, che è di circa 40 anni dopo, c’è l’articolo. È anche ipotizzabil che la formula di giuramento sia stata elaborata da una cancelleria, abituata al latino, e quindi ha mantenuto un’aderenza alla lingua della cancelleria, al latino, che risente le incertezze della lingua romanza e della vicinanza al latino. Il genitivo senza la preposizione di o de è un tratto del francese antico (es. La fille roy, la figlia del re). Il francese ha solo due casi: il caso retto e il caso obliquo. La differenza è che, al singolare, il caso retto ha la S finale; al plurale, invece, il caso retto non ha la S, mentre ce l’ha il caso obliquo.

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La questione di « lo fraint ». I Giuramenti di Strasburgo furono trascritti poco tempo dopo l’evento. Il manoscritto invece è del X-XI secolo, quindi non è l’originale ma una copia. È l’unico che ci riporti tale storia, altri non ce ne sono, quindi ci si deve basare su questo. Per rappresentare al lettore il testo del manoscritto, bisogna fare un’edizione interpretativa e fare delle scelte grafiche moderne. Queste scelte sono a carico dei filologi. Da Elcock, Le lingue romanze, p. 325: Abbiamo preferito sostituire a non l’ostanit dell’ed. Lauer il più generalmente accettato lo fraint: ambedue sono tentativi per rimediare alla difficoltà offerta dalla lezione del manoscritto ñ lostanit, che è stata variamente interpretata. I primi editori, da F. Diez in poi (Diez legge non lo se tanit), pensavano che questo stanit potesse rappresentare sia SE TENET che EX TENET, e traducevano la frase ‘non lo mantiene’ […]. Nella versione del Lauer ostanit è considerato analogo all’a. fr. obstenir ‘difendere’, ‘mantenere’. La principale obiezione a queste interpretazioni è che il testo germanico usa la parola forbrihchit (mod. ted. verbricht) ‘rompe’; poiché il testo francese è sotto molti aspetti strettamente parallelo, ci si aspetterebbe anche qui una parola per ‘rompe’. Normalmente dovrebbe essere fr. fraint da FRANGIT, che nei Giuramenti si potrebbe trovare scritto franit. Di qui la teoria più accettata secondo la quale un copista avrebbe scritto stanit in luogo di franit (errore facile da verificarsi, dato che st e fr hanno una forma molto simile nella scrittura carolingia) e avrebbe introdotto un ulteriore errore usando l’abbreviazione ñ che dovrebbe stare per un non, ovviamente fuori luogo se il verbo vuol dire ‘rompe’. Poiché questa interpretazione non è del tutto soddisfacente, abbiamo riprodotto qui sotto […] quella più drastica proposta da Ewert […]. p. 328: Il passo de suo part ñ lostanit, tanto diverso dal testo germanico che invece è facilmente traducibile in latino, è ritenuto « spurio dal principio alla fine ». Una teoria del tutto nuova e che sembrerebbe convincente viene formulata per spiegare l’apocrifia: L’emendamento che finora ha riscosso il maggior favore è quello che considera lostanit come una cattiva lettura di lo fraint: l’ipotesi tuttavia è sempre stata ostacolata dalla presenza del precedente ñ, che renderebbe negativo quel che dovrebbe essere affermativo. Ma a mio avviso nella versione originale questo ñ stava per nomen, e non per non, e l’errato scioglimento in non ha fatto sì che l’intera frase venisse rimaneggiata. La versione originale era secondo me una traduzione letterale del latino, e ciò ha permesso a ñ di conservarsi o di introdursi nel testo francese invece di essere sostituito dal nome proprio Lodhuwig. In tal modo avremmo il testo originale francese que suon fradre ñ jurat infraint, con la forma tonica suon come corrispettivo della forma tonica meos.

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LE GLOSSE DI SAN MILLÁN (inizio del sec. X) Rispetto ai precedenti documenti esaminati, cambiando terreno e andando nella penisola iberica, incontriamo due testi, due glossari, che sono stati costituiti in due monasteri spagnoli che — così come le Glosse di Raichenau — ci fanno vedere una situazione in cui, a fronte di testi latini che inducevano delle difficoltà da parte degli utenti, si ovviava a queste difficoltà con delle esplicazioni, con delle glosse, questa volta in volgare spagnolo. Le Glosse di Raichenau erano da latino difficile a latino facile, dal latino classico al latino volgare, queste sono invece da latino a volgare di tipo ispanico, già in atto. Queste glosse sono le Glosse silensi, che prendono il nome dal monastero benedettino di Santo Domingo de Silos, che si trova nella regione di Burgos, cioè nella vecchia Castiglia, nella parte settentrionale della Spagna, a nord di Madrid. Queste Glosse silensi sono costituite da un ampio complesso di spiegazioni puntuali disposte a fianco del testo latino. L’aspetto di queste glosse che cronologicamente si possono attribuire ai primissimi anni del secolo XI, sembra chiaro dal loro aspetto che il copista trascriveva da un esemplare, cioè da un manoscritto, che già conteneva queste glosse, quindi era una copia di un manoscritto in cui a fianco del testo latino, che erano sermoni e altri testi religiosi, c’erano già delle glosse; e l’amanuense copia da questo manoscritto glossato. Per esempio, vicino al latino cibum sumserit (‘assunse del cibo’), c’è scritto manducaret; accanto al verbo ederit, il vecchio verbo latino edo (‘mangiare’), c’è scritto anche qui manducaret; reus (‘reo’) è tradotto culpabiles; e via di questo passo. Insieme alle Glosse di Silos vanno considerate le Glosse emilianensi, che sono anch’esse un insieme di annotazioni esplicative che sono contenute in un manoscritto conservato nel monastero di San Millán, che si trova nella provincia di Logroño, nella Spagna centro-settentrionale. Si tratta di un codice alto medievale nel quale ci sono dei testi latini di carattere religioso, come esempi di vita ascetica, litanie, il racconto del martirio dei santi Cosma e Damiano, vari altri testi religiosi; e infine i sermoni attribuiti a sant’Agostino. In questi ultimi, che erano testi di impegno maggiore, si concentra il maggior numero di glosse, ossia di note esplicative. Questo manoscritto di San Millán è stato compilato a cavallo fra la fine del secolo IX e l’inizio del X. Le note, invece, sono della prima metà del secolo XI, quindi il manoscritto con questi testi latini già circolava e nella prima metà del secolo undecimo vengono apposte queste glosse. Anche qui il latino è glossato sia con elementi che contengono ancora una forma latina, sia con delle spiegazioni che vanno invece verso il versante del volgare. Per esempio, bellum viene glossato con pugna; certamina con pugna; l’aggettivo inermis (‘inerme’) con sine arma, cioè si semplifica l’espressione latina. Ma poi certe volte si va anche proprio verso la definizione volgare: per esempio, indica viene glossato con amuestra; sicut con como; talia plura committunt con tales multus faces; concessit con donavit; et tertius veniens con et lo terciero diabolo menot. Ci sono quindi delle glosse che — come quelle di Raichenau — traducono dal latino classico al latino volgare, delle altre dove invece dal latino si passa direttamente al volgare. Quello che noi leggeremo puntualmente è una glossa che si trova nell’invocazione di chiusura di un sermone di sant’Agostino (abbiamo detto che i sermoni di sant’Agostino sono quelli che raccolgono il maggior numero di glosse). Testo latino: (…) adjubante domino nostro Jhesu Christo cui est honor et imperium cum patre et Spiritu Sancto in secula seculorum. Glossa: (…) cono ajutorio de nuestro dueno, dueno Christo, dueno Salbatore, qual dueno get ena honore, e qual duenno tienet ela mandatione cono Patre, cono Spiritu Sancto, enos sieculos delos sieculos. Facanos Deus omnipotens tal serbitio fere ke denante ela sua face gaudioso segamus. Traduzione: Con l’aiuto di nostro Signore, Signore Cristo, Signore Salvatore, che è signore nei cieli (lett. “in onore”) ed è il Signore che ha il potere con il Padre e con lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Ci faccia Dio Onnipotente tale servizio che noi possiamo sedere dinanzi alla sua presenza gaudiosa. Si noti come la glossa di una riga e mezzo di testo latino richieda tre righe. Ciò è una prima indicazione del fatto che dalla sinteticità della lingua latina si passa a una scrittura più analitica che fa uso, anche da un punto di vista quantitativo, di un numero di espressioni maggiori di quanti non ne faccia il testo latino. 28

« adjubante domino nostro Jhesu Christo » è una costruzione normale del latino classico, ed è quella dell’ablativo assoluto. Il participio adjubante viene da adjuvare ed è la forma che introduce questo tipo di costruzione. Indica uno strumento, un mezzo, un modo, e viene reso con un participio presente, seguito da altre forme all’ablativo. Adhjubante sarebbe letteralmente ‘aiutante’. Naturalmente una costruzione come l’ablativo assoluto viene a cadere nel momento in cui non viene riconosciuto più come ablativo, e quindi come modo avente questa funzione, non riconoscendo più la desinenza. E c’è da notare che adhjubante, che deriva dal verbo latino adhjuvare, presenta una B al posto della V, che è un elemento caratteristico della fonetica ispanica. Nella fonetica ispanica la B e la V si confondono in un suono che sta a metà tra la B e la V, perciò l’amanuense, di fronte alla memoria di un verbo latino che gli si presentava con una V, avendo però coscienza del fatto che la pronuncia nella sua lingua è diversa dalla V e tende ad essere una B, ha deciso di scrivere una B. Questo per quanto riguarda l’aspetto fonetico, mentre per quanto riguarda la forma ecco che questo participio presente da adhjuvare viene sciolto cono ajutorio, cioè ‘con l’aiuto’, in cui quel cono è una preposizione articolata (sarebbe cum illo). Illo, infatti, ha dato l’articolo lo in italiano come anche in spagnolo. Nella glossa, quindi, oltre a vedere la presenza delle preposizioni (cono, de ecc.), ci sono anche numerosi dittongamenti tipici dello spagnolo. La O tonica ha lo sviluppo normale dello spagnolo, cioè dittonga in UE: nostro diventa nuestro; e domino, parola ripetuta più volte, dueno. Nel caso di dueno, questa parola non presenta la tilde sulla N, quindi saremmo portati a pronunciarla come è scritta, in realtà, visto che nella seconda riga della glossa troviamo duenno con due N, allora possiamo essere indotti a pensare che (dal momento che non ci sono segni di punteggiatura, di accentuazione o altri segni diacritici com’è uso nella scrittura del medioevo), anche senza il tilde, quella N fosse già pronunciata come ñ (/gn/) palatale, anche se ancora non fosse stata stabilita una grafia precisa. Stesso discorso vale per la doppia L, che in spagnolo si legge /j/. « Salbatore » : la B indica una pronuncia labiale-spirante, simile alla V. « get » : va pronunciato /iet/ e sarebbe est, prima persona singolare del verbo essere latino, che nella grafia di questo manoscritto è realizzato get, dove il suono J è reso in una maniera impropria con la G. Sappiamo che get vale per est perché nello stesso testo troviamo l’espressione suave est che viene glossata con dulse get. « ena » : en la, preposizione articolata, con la femminile perché honor, termine neutro, come spesso avviene nelle lingue romanze ai termini neutri (es. onore, amore, dolore, che in spagnolo sono tutti femminili), viene assimilato al genere femminile. « qual dueno get ena honore »: lett. ‘è signore nell’onore’, ovvero ‘è signore nei cieli’. Onore nel Medio Evo assume il significato di ‘regno’, quindi ‘regno dei cieli’. « enos »: preposizione articolata da en los, ‘nei’. « segamus »: dal lat. sedeamus.

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PLACITI CAMPANI (secolo X : 960-963) La parola placito sappiamo cosa vuole dire, l’abbiamo incontrata nei Giuramenti di Strasburgo (« nul plait nunquam prindrai », ‘non farò nessun accordo’): questo termine, dal latino placitum, vuole dire non solo ‘accordo’, ‘patto’, perché è anche un termine giuridico e indica sia il giudizio sia il testo in cui si esprime il giudizio, cioè la scrittura relativa alla causa giuridica, ovvero la sentenza. I Placiti cassinesi, anche detti Placiti capuani o Placiti campani, sono degli strumenti giuridici, dei testi che verbalizzano quello che è successo in tribunale tra due parti in causa che si contendevano il possesso di terreni. Ce ne sono rimasti cinque: uno di Capua (marzo 960), due di Sessa Aurunca (marzo 963), e due di Teano (uno di luglio e uno di ottobre del 963). Capua, Sessa Aurunca e Teano sono tre località che attualmente sono tutte in provincia di Caserta; e sono in quella zona della Campania verso il Lazio, più o meno lungo il fiume Volturno, che in quel periodo erano sotto la giurisdizione del monastero benedettino di Montecassino. Questa abbazia di Montecassino era un elemento molto importante, sotto il punto di vista storicogiuridico di quel momento, e anche per questo i placiti vengono chiamati cassinesi, perché sono dei placiti che ci mettono al corrente di contrasti avvenuti tra laici e l’abbazia di Montecassino sulla rivendicazione del possesso di alcuni terreni. In quel periodo l’abate di Montecassino, il superiore di questa abbazia, era un personaggio che si chiamava Aligerno, e che aveva preso in mano la situazione economica di questa abbazia molto importante anche dal punto di vista culturale, essendo stata un centro di raccolta e di diffusione di una quantità enorme di testi latini e della cultura medievale. Anni prima, l’abbazia di Montecassino era stata saccheggiata e distrutta dai Saraceni e, negli anni successivi, nella situazione di annullamento della capacità di gestire i propri possedimenti — anche i monaci erano dispersi —, i signori del circondario, approfittando della situazione, si erano appropriati di alcuni di questi terreni che in origine erano dell’abbazia. L’abate Aligerno, negli anni a cui risalgono questi placiti, aveva intrapreso un’azione di ripristino e di riacquisto delle proprietà dell’abbazia, entrando ovviamente in contrasto con coloro che, a vario titolo, erano in quel momento possessori dei terreni rivendicati dall’abbazia. Essendo i placiti dei documenti ufficiali, possiamo essere certi della datazione di questi documenti, che risalgono agli anni tra il 960 e il 963. I giudici che amministravano la giustizia e che quindi dovevano decidere sulla proprietà di queste terre erano i giudici del Principato di Benevento e Napoli, di una zona cioè in cui era ancora molto forte l’impronta Longobarda. Questi giudici si trovano a dover mettere in pratica una legge che era stata emanata dal re longobardo Astolfo nel 754 che prendeva le mosse da delle situazioni, probabilmente assai frequenti, di contrasto per la rivendicazione di proprietà terriere e da parte di signori longobardi e da parte di amministrazioni religiose (monasteri, conventi, ecc.). I Longobardi scesero in Italia nel 568, regnarono per due secoli finché non furono sottomessi dai Franchi. Pipino, re dei Franchi e padre di Carlo Magno, venne chiamato dal papa, che era in contrasto con i Longobardi, e prima sottomise Astolfo, poi il suo successore Desiderio; infine Carlo Magno, nel 763, sconfigge definitivamente Desiderio assumendo egli stesso il titolo di Rex Longobardorum. I Longobardi erano un popolo germanico che scese in Italia senza aver conoscenza della lingua latina né degli usi latini, ma che molto presto si rese conto che per avere un effettivo dominio sul territorio italiano doveva venire a patti con la Chiesa (ma mantenere i patti con la Chiesa non fu mai semplice, tant’è vero che alla fine il papa chiese aiuto ai Franchi per liberarsi delle aggressioni dei Longobardi) e — cosa molto importante — doveva avere la conoscenza del latino e anche dell’amministrazione latina. Così, le leggi di cui facero uso i Longobardi erano basate sul diritto romano in cui si innestavano però norme del diritto longobardo. Una di queste leggi era quella promulgata da Astolfo che stabiliva in sostanza che un longobardo possessore di una proprietà terriera che gli veniva contestata da un’amministrazione religiosa, dimostrando di aver posseduto quella proprietà terriera per trent’anni poteva conservarla e poteva quindi considerarla di sua proprietà. Nel corrispettivo, la legge stabiliva anche che qualora fosse stata un’amministrazione religiosa ad avere una terra rivendicata da un longobardo, dimostrando di averla posseduta per trent’anni, anch’essa poteva considerare il terreno di sua proprietà. Questa legge emessa da Astolfo faceva, in pratica, uso di un elemento giuridico del diritto romano, che è l’usucapione. Per questa norma, se si è in possesso (ma non proprietari) di un bene per più di trent’anni senza che nessuno lo reclami, si diventa anche proprietari di quel bene di cui si è venuti in possesso, anche senza mai acquistarlo. Nel momento in cui l’abbazia di Montecassino va in giudizio per rivendicare il possesso di alcune terre, possesso che veniva rivendicato anche da dei signori discendenti dei longobardi, la preoccupazione 30

dell’abbazia è quella di produrre dei testimoni che possano affermare che le terre rivendicate anche dai signori longobardi erano state per trent’anni sono state possedute dall’abbazia di Montecassino — ed è questo il nucleo della testimonianza giurata che verrà resa. Dobbiamo considerare una cosa molto importante dal punto di vista storico-linguistico, e cioè che questi Placiti campani o capuani o cassinensi, sono considerati la prima attestazione scritta di un volgare di area italiana. Non possiamo usare l’espressione di « volgare italiano », perché a quest’altezza cronologica non c’è un solo volgare unificato, come poteva essere il castigliano o il francese, ma un volgare di area italiana (nel caso specifico, di area meridionale) nettamente differenziato dal latino. Una situazione del genere, oltretutto testimoniata in una forma analoga, è proprio quella dei Giuramenti di Strasburgo, dove abbiamo il primo esempio di volgare francese, assieme a quello tedesco (che però da un punto di vista linguistico non c’interessa), all’interno di un testo latino, da cui si differenzia decisamente. Nei placiti troviamo ugualmente, in un giudizio di tribunale scritto in latino, delle formule in volgare. Ci troviamo di fronte a due situazioni originate dalla stessa necessità: in un momento in cui la lingua ufficiale è ancora il latino e gli strumenti sono ancora redatti in latino, quando si presentavano situazioni che richiedevano la percezione precisa da parte di tutti, anche di coloro che il latino non lo conoscevano, s’iniziava a ricorrere al volgare. Ad un certo momento, si comincia a ricorrere al volgare quando i termini delle questioni devono essere chiari anche a chi il latino non lo capisce. La differenza tra il Giuramento di Strasburgo e i Placiti campani è cronologica: i Giuramenti sono dell’842, i Placiti sono del 960-63, a centoventi anni di distanza. Come mai in area italiana l’esigenza di esprimersi in volgare, insieme al latino, è venuta fuori più di un secolo dopo? Perché in Italia non c’erano le condizioni culturali e politiche che c’erano nella Francia successiva alla riforma di Carlo Magno. La riforma di Carlo Magno aveva fatto sì che il latino venisse riportato alla sua norma classica, creando un distacco tra il latino classico e il volgare imbarbarito. Proprio perché il latino classico non veniva più compreso dal volgo; infatti, già nell’813, anno che precede la morte di Carlo Magno (avvenuta nell’814), il Concilio di Tours — considerato il concilio delle lingue romanze — delibera all’unanimità che il vescovo insegni in volgare, affinché sia compreso da tutti, e quindi invita a tradurre (transferre) dalla « romanam linguam » (il latino) o in « rusticam » (volgare) o in « teudiscum » (tedesco) le omelie, quindi nelle uniche due lingue parlate nei territori di Carlo Magno. I Giuramenti di Strasburgo mettono in evidenza proprio questa necessità. La stessa cosa succede in Italia, ma 120 anni dopo, perché in area italiana non era venuta meno la competenza, almeno passiva, da parte del volgo, di percepire il latino. L’Italia è storicamente il luogo di irradiazione della lingua latina e c’è la Chiesa, quindi ci sono delle condizioni particolari che non ci sono in altre parti dell’Europa. Qui il latino, meglio protetto, si è mantenuto e anche chi non parlava latino era quanto meno in grado di capirlo. Questo ha rallentato il procedimento di differenziazione tra latino e volgare. D’altronde, non c’era stata una realtà politica unificante, anche a livello linguistico, come era successo in Francia. L’Italia era ancora un mosaico di realtà politiche diverse: al nord c’erano i Franchi, che erano subentrati ai Longobardi; lungo l’Adriatico e nel meridione c’erano i Bizantini; c’era la Chiesa; c’era una persistenza di Longobardi nel meridione. Era una situazione in cui non c’era alcuna unificazione linguistica e nessuna politica culturale unitaria come c’era stata per la Francia. Questo fatto, insieme a quello che in Italia bene o male il latino si capiva, ha fatto sì che la necessità dell’inserimento del volgare nei testi latini si verificasse assai più tardi che in Francia. Nei Placiti le formule di giuramento, circa il possesso dei terreni dell’abbazia di Monte Cassino, sono espresse dai testimoni che, nel caso specifico, sono due monaci (uno è monaco, l’altro è diacono e monaco), quindi persone che il latino lo conoscevano. Come mai, allora, recitano la loro testimonianza in volgare e in volgare viene trascritta dal segretario del giudice? Perché evidentemente non dovevano essere solo le due parti a conoscenza del giudizio, ma anche il pubblico. Non è, infatti, neanche certo che i due monaci abbiano reso la loro testimonianza in volgare, perché probabilmente era più consono per loro parlare in latino, ma per queste situazioni giudiziarie esistevano delle formule latine su cui era modellata l’espressione in volgare.

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Il testo Et tunc fecimus eos separari [ab] imbicem: predictum Teodemundum diaconum fecimus duci in partem unam, et memoratum Garipertum clericum et notarium duci in parte alia; predictum Mari clericum et monachum ante nos stare fecimus, quem monuimus de timore Domini, ut quod de causa ipsa veraciter sciret indicaret nobis. Ille autem, tenens in manum predicta abbrebiatura, que memorato Rodelgrimo hostenserat, et cum alia manu tetigit eam, et testifìcando dixit: « Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti ». Deinde ante nos benire fecimus predictum Teodemundum diaconum et monachum, quem similiter monuimus de timore Domini, ut quicquid de causa ista veraciter sciret diceret ipsos. Ille autem, tenens in manum predicta abbrebiatura, et cum alia manu tangens eam, et testificando dixit: « Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti ». Allora li facemmo separare l’uno dall’altro, e facemmo allontanare da una parte il predetto Teodemondo diacono, e allontanare da un’altra parte il menzionato Gariberto chierico e notaio, e facemmo restare innanzi a noi il predetto Mari chierico e monaco e lo ammonimmo che sotto il timor di Dio ci precisasse quel che della questione sapesse in verità. Egli, tenendo in una mano la predetta memoria prodotta dal sopra menzionato Rodelgrimo, e toccandola con l’altra mano, rese la seguente testimonianza: « So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni le ha tenute in possesso l’amministrazione patrimoniale di San Benedetto ». Poscia facemmo venire innanzi a noi il predetto Teodemondo diacono e monaco, e similmente lo ammonimmo che sotto il timor di Dio dicesse tutto quel che della questione sapesse in verità. Ed egli, tenendo in mano la predetta memoria, e toccandola con l’altra mano, rese la seguente testimonianza: « So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni le ha tenute in possesso l’amministrazione patrimoniale di San Benedetto ». L’inizio è proprio la descrizione della situazione che si sta svolgendo nell’ “aula del tribunale” di Capua, diremmo noi, redatta dal giudice Arechisi (invece il giudice di Sessa Aurunca si chiama Maraldo, mentre quello di Teano si chiama Bisanzio). Arechisi è un nome longobardo. Nel testo troviamo, in alcune parole, la sostituzione della V con la B. Questo fenomeno, che si chiama betacismo, lo abbiamo incontrato nelle Glosse di San Millán, ma anche nel graffito della catacomba di Commodilla (« a bboce » per « a voce »), essendo un tratto tipico del nostro centro-meridione. « [ab] imbicem » : dal lat. ab invicem (betacismo), ‘a vicenda’, ‘l’uno dall’altro’. « abbrebiatura » : dal lat. abbreviatura (betacismo), ‘memoria o documento in cui vengono espresse le ragioni della parte in causa’. Si riferisce alla memoria che Rodelgrimo (nome longobardo) aveva depositato in tribunale. Si può notare che le due testimonianze in volgare inserite nel testo latino (« Sao ko kelle terre… ») sono identiche, quindi ciò dimostra che si tratta di formule precostituite. Note linguistiche « Sao » : dal lat. sapio, ‘io so’. Nel meridione d’Italia il nesso P + semivocale I di sapio ha dato un risultato palatale C rafforzato: saccio. Sao probabilmente è una forma analogica, così come ao per ‘ho’, dao per ‘dò’, stao per ‘sto’, che sono in vigore in questa area, ma anche in altre aree italiane, e che perciò può essere considerata una forma interregionale, forse proveniente dalla Toscana. Quindi potrebbe essere letto come un indizio di superamento della parlata locale. « ko » : dal lat. quod, il quale più tardi, insieme a ka dal lat. quam e ke dal lat. quid, è passato alla forma unica italiana che. L’amanuense sceglie la grafia K per indicare il suono velare /k/. Chi si trovò a scrivere dei suoni in una parlata italiana con l’alfabeto tradizionale latino ebbe la difficoltà di rappresentare quei suoni che in latino non c’erano. Suoni come /ch/ e /gh/, infatti, se scritti con C e G avrebbero dato esito ci e gi. Si tenga presente che la nostra soluzione di mettere un H allora non era ancora stata stabilita, allora viene usata la K proprio per eliminare ogni dubbio. Le grafie, d’altronde, sono tutte arbitrarie e si reggono unicamente nel proprio ambito d’uso. Nel Placito di Sessa Aurunca il « ko » è reso graficamente con « cco ». « kelle » : il nesso labio-velare (Q velare e U labiale), con la perdita dell’elemento labiale tipico in questa area, si risolve con la sola presenza dell’elemento velare K. 32

« fini » : dal lat. fines, ‘confini, limiti di proprietà’, ed è di genere femminile come nel contesto latino. Ancora oggi, in quest’area del meridione, si usa dire le fini per i confini. « ki » : ‘qui’. « contene » : dal lat. tènet, ‘contiene’. Si noti l’assenza del dittongo, come ci si può aspettare in toscano nei casi in cui s’incontra una e breve. Nella formula del Placito di Sessa Aurunca troviamo la forma plurale conteno, ‘contengono’. « possette » : dal lat. possidere, registrando poi la caduta della D. È una forma tipica dell’area centromeridionale. « parte » : dal lat. pars. Si potrebbe interpretare ‘la parte in causa’, ma andando a vedere certe formule analoghe in altri testi giuridici, il termine latino pars viene usato per indicare ‘l’amministrazione patrimoniale di un ente’, in questo caso di un ente religioso, di un’abbazia. « sancti Benedicti » : ‘di san Benedetto’, genitivo latino a pieno titolo. Se andiamo a vedere le altre formule, possiamo constatare che il contenuto non varia di molto, se non in quanto è applicato a circostanze leggermente diverse. Per esempio, nel primo Placito di Sessa Aurunca, di tre anni dopo, la formula recita così : « Sao cco kelle terre per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette » [« Io so che quelle terre, per quei confini che a te ho mostrato, furono di Pergoaldo, secondo quello che qui è contenuto, e per trenta anni le possedette »]. Nel secondo, la formula è : « Sao cco kella terra per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki conteno, et trenta anni le possette » [« Io so che quelle terre entro quei confini che ti ho mostrato, furono di Pergoaldo, le quali qui si contiene, e trent’anni le possedette »]. La formula del Primo placito di Teano : « Kella terra per kelle fini qi bobe [vobis] monstrai sancte Marie è, et trenta. anni la posset parte sancte Marie ». Quella del secondo : « Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte sancte Marie ». Quindi sono tutte delle formule simili, che variano per delle piccole circostanze, e che con tutta probabilità sono ricalcate su delle formule giuridiche latine usate in questi casi di testimonianza, che ora però vengono verbalizzate nell’apparato latino in lingua volgare, proprio perché questa scelta linguistica mettesse in condizione anche chi non era parte in causa di essere sicuro di quello che si diceva e che si decideva a proposito della proprietà.

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BOECIS (composto poco dopo il 1000, ms. del sec. XI) Il Boecis (pr. /boèsi/) è il primo testo di tipo letterario che sia stato composto in una lingua che è indubbiamente della varietà meridionale del gallo-romanzo, anche se ci sono alcuni frammenti che preludono all’utilizzazione di questo volgare in modo organico. È scritto quindi in una lingua che si differenzia dal francese, cioè dalla parlata settentrionale del dominio gallo-romanzo. È un testo letterario, di argomento religioso, ma che non doveva servire alla liturgia. È stato composto intorno all’anno 1000 e tramandato a noi per un manoscritto del secolo XI. Questo manoscritto era stato già scoperto nel Settecento e poi, nel 1813, fu ritrovato nella biblioteca di Orléans e pubblicato dal filologo François Renoir, che è stato tra i primi ad occuparsi del provenzale. Il manoscritto dell’XI secolo raccoglie parti della Bibbia, altri testi a carattere religioso e, nell’ultima parte, il Boecis. Le ultime pagine del manoscritto sono andate perse, e con queste anche la parte finale del componimento, per cui il Boecis risulta mutilo. La parte che è giunta fino a noi consta di 257 versi. Questi versi hanno già una forma perfettamente in linea con la metrica dei primi testi medievali francesi e provenzali; e sono dei décasyllabes (il metro va indicato con il termine francese perché il décasyllabe è diverso, per quanto riguarda il computo delle sillabe, dal decasillabo italiano). Il décasyllabe è un verso che ha cesura 4 + 6 e quindi s’inserisce perfettamente nella tradizione dei decasillabi epici, quelli che sono stati usati nel Medioevo per la grande fioritura della poesia epica, come quella, per esempio, della Chanson de geste. Un decasillabo a struttura 4 + 6 vuole dire un verso che ha un primo emistichio di 4 sillabe e un secondo emistichio di 6 sillabe. Quando parliamo di versi e di componimenti in rima è importante la nozione che il numero delle sillabe si computa in base agli accenti, cioè in base alle sillabe toniche. Due versi sono in rima quando risulta uguale l’ultima parte del verso, a partire dall’ultimo accento tonico (« Nel mezzo del cammin di nostra vita / […] / ché la diritta via era smarrita », Inf. I 1 e 3). L’assonanza è invece l’identità di tutti i suoni vocalici, non necessariamente quelli consonantici, sempre a partire dall’ultimo accento tonico. Ora, il sistema della rima e quello dell’assonanza sono usati nella poesia romanza dei primi secoli. Tendenzialmente l’assonanza, quella cioè per cui basta che sono uguali le vocali, è più usata nella poesia epica, nella Canzone di gesta. Poi, invece, s’incomincia ad usare la rima, soprattutto nella poesia lirica, ma il Boecis è composto in rime, cioè i versi sono legati fra loro da rime, rime che sono uguali per ogni lassa. Le poesie rimate o assonanzate possono essere suddivise in strofe, cioè un raggruppamento di versi che si mantiene numericamente uguale nel corso del componimento; oppure in lasse, in raggruppamenti non uguali numericamente, come è il caso del Boecis dove la quinta lassa si compone di 6 versi, la sesta di 3, la settima di 3, la decima di 12. Anche la suddivisione in lasse è tipica delle Canzoni di gesta. Quindi il Boecis, per certi versi, fa parte della tradizione delle Canzoni di gesta, per la scelta del verso (il decasillabo epico) e la suddivisione in lasse, però ha già la rima e non l’assonanza. Il titolo indica il suo protagonista, Boezio, che nasce nel 480 e muore all’incirca nel 524. Nel 475 Odoacre, re della tribù germanica degli Eruli, aveva deposto quello che viene considerato l’ultimo imperatore romano, cioè Romolo Augustolo, e quindi nell’anno 476 tradizionalmente s’individua la fine dell’Impero Romano. Nel 489 Odoacre, re degli Eruli, viene sconfitto a Ravenna da Teodorico, re degli Ostrogoti. Teodorico si era messo d’accordo con l’imperatore d’Oriente Zenone, il quale gli aveva dato mano libera per deporre Odoacre e impadronirsi dell’Italia, cioè della parte occidentale dei residui dell’Impero Romano. Boezio, che era uno dei maggiori esponenti della letteratura cristiana alto-medievale, aveva una funzione importante nel governo di Teodorico. Questo testo fa invece di Boezio una figura di martire cristiano, facendo una certa confusione nella storia. Nell’alto Medioevo si faceva confusione tra i termini consul (‘console’) e comes (‘conte’); ma il « conte » è una figura legata alla struttura feudale, il « console » è invece una figura dell’alta amministrazione dell’Impero romano. Boezio fu console, ma nel primo verso del Boecis si legge « coms fo de Roma » (‘conte fu di Roma’), introducendo la figura del protagonista come se fosse un conte, quindi un nobile, inserito nella struttura feudale che faceva capo al re o all’imperatore. latino COMES COMITEM

> >

provenzale COMS nominativo CONTE accusativo

Il conte era una figura che, secondo la sua denominazione, faceva parte della cerchia dei più vicini al re: « comes tabulae » era il ‘commensale’, il nobile che aveva diritto di sedere alla stessa tavola del re. 34

Nel Medioevo, fra i titoli nobiliari, c’era anche il « connestabile » (dal lat. comes stabuli, addetto a sovrintendere alle scuderie del sovrano), che si perpetua anche nel Cinquecento e nel Seicento. Il « console », dal lat. consul, è invece un’alta figura amministrativa sia della Repubblica che dell’Impero romano. Nel testo Boezio viene introdotto come un conte, di famiglia nobile, legato da una dipendenza feudale con l’imperatore, il che naturalmente è un controsenso, perché è un anacronismo: « coms fo de Roma e ac ta gran valor / aprob Mallio lo rei emperador ». In questo testo, che è ispirato dall’opera più importante di Boezio, la Consolatio philosophiae, ha un andamento narrativo in cui si racconta la vicenda di Boezio così come si può raccontare quella di un santo o di un martire cristiano. In realtà Boezio ebbe una fine tragica perché nel 523 viene fuori alla corte di Teodorico il sospetto di una congiura fra esponenti romani e l’imperatore d’Oriente, che in quel momento era Anastasio (succeduto a Zenone, che era stato favorevole alla presa di potere di Teodorico); e Teodorico, sospettando che Boezio fosse un esponente della congiura contro di lui per detronizzarlo, lo fa imprigionare e, dopo un anno, lo fa giustiziare. Nel 523 Boezio viene imprigionato, nel 524 muore; due anni più tardi, nel 526, morirà anche Teodorico. Questa è la cornice storica in cui si svolge la vita di Boezio ed è quella che verrà poi narrata nel Boecis in termini quasi agiografici, cioè come se si stesse descrivendo la vita di un martire cristiano, e con alcune inesattezze dal punto di vista storico, tipiche del Medioevo, tempo in cui è d’uso schiacciare la realtà storica su quella attuale. Così il console Boezio viene fatto diventare un conte, in rapporto feudale con il re imperatore. Il testo con gli accenti grafici V. Coms fo de Róma e ac ta gran valór aprob [leggi aprò] Mallió lo rei emperadór el era·l méler [leggi mejer] de tota la onór, de tot l’empèri·l teníen per senór [leggi segnor]. Mas [leggi ma] d’una cáusa nom avia genzór: de sapiència [leggi sapiensia] l’apellavan doctór.

Conte fu di Roma ed ebbe tanto grande considerazione da parte di Manlio, il re imperatore egli era il migliore di tutto il principato, di tutto l’impero, lo ritenevano un signore. Ma per una cosa aveva rinomanza più nobile: di sapienza lo chiamavano dottore.

Già a una prima lettura vengono fuori diversi elementi che diversificano la lingua di testo testo, cioè l’occitanico-provenzale, dal francese. Nell’ambito gallo-romanzo, cioè nell’area che i Romani chiamavano Gallia, si sono venute a creare tre lingue romanze diverse dal latino: il francese, il provenzale e il franco-provenzale, che ha alcuni elementi dell’una e dell’altra, che si è sviluppata in un’area più ristretta corrispondente all’attuale Borgogna, a ridosso delle Alpi e della Svizzera. Le due lingue principali sono il francese, di cui abbiamo letto i Giuramenti di Strasburgo, e che ha avuto poi una fioritura letteraria grandissima, con gli autori e i testi più importanti della letteratura europea, prima dei grandi autori fra i quali menzioniamo anche Dante e Petrarca. A sud, abbiamo la lingua provenzale e il Boecis è il primo testo in questa lingua, ma la fama della letteratura in lingua provenzale è più legata alla grande fioritura della poesia lirica, quella dei trovatori provenzali. « fo » : dal lat. fuit, ‘fu’. « Roma » : il mantenimento della A finale è un elemento di differenza del provenzale dal francese. In francese, infatti, sarebbe Rome, con la E evanescente. « ac » : dal lat. habuit, ‘ebbe’, perfetto forte, così detto perché ha l’accento tema. La sequenza che porta a questa forma da habuit è spiegabile in termini fonetici. HABUIT > AVU > AW : la H iniziale, che nel latino classico aveva un valore di aspirata, si perde molto presto; la vocale finale I cade, così come la consonante sonora T; la consonante labiale sonora intervocalica B subisce un processo di lenizione e passa a consonante labio-dentale sonora V. La V unita alla U viene trattata come una doppia V germanica, che per esempio da werra ha dato guerra. La W si risolve in una velare sonora, che si pronuncia prima /ag/ e poi /ac/. Per questa forma abbiamo quindi un’evoluzione fonetica che è comprensibile e spiegabile grado per grado. In questo testo troveremo altri perfetti forti con la desinenza in –C, in velare; ebbene, questi altri perfetti non avranno una sequenza fonetica logica come nel caso di habuit > ac, ma — ed è una classe numerosa nell’ambito del provenzale — saranno dei perfetti forti analogici, basati cioè sui perfetti forti che hanno un’evoluzione fonetica regolare. « ta » : dal lat. tantum, ‘tanto’. Da registrare la caduta della N. « aprob » [pron. aprò] : dal lat. ab probe, ‘da parte di’, regge l’accusativo. 35

« Mallio » [pron. Mallió] : dal lat. Manlium, ‘Manlio’. Gran parte dei nomi classici vengono accentati sull’ultima vocale. In Manlium cade la M finale, la U passa a O; e il nesso NL seguito da I semiconsonantica dà l’esito palatale GL che qui è reso graficamente con LL. Questi esiti palatali, che in latino non esistevano, hanno avuto per la loro resa grafica una gestazione che per lungo tempo è stata oscillante, per cui — per il suono GL palatale, come figlio, coniglio ecc. — abbiamo tutta una serie di possibili soluzioni grafiche come LH, ILL, ILH. « rei » : dal lat. rex, rei (gen.), regem (acc.). « emperador » : dal lat. imperátor, imperatórem (acc.), ‘imperatore’. Questa parola ci dà modo di vedere come sono trattati nella declinazione bicasuale anche altri sostantivi, oltra alle parole che hanno la S al nom. sing. e all’acc. pl. IMPERATOREM (accusativo) : la I iniziale, in presenza di una nasale, passa a E; la T, che è intervocalica, passa a D; cade la M finale, e cade la E finale > EMPERADOR. Il nominativo, dal latino imperátor, è invece emperaire: la I iniziale, in presenza di una nasale, passa a E; le toniche sono mantenute; la O postonica cade, e il nesso dentale + vibrante TR passa a IR, come patrem > paire o petrum > peire, e si aggiunge una A come vocale di appoggio. « el era·l meler » : ‘egli era il migliore’. La frase presenta una forma enclitica: « era·l », cioè « era lo », dove lo articolo perde l’elemento vocalico, in quanto il verso deve avere una sua regolarità sillabica, appoggiandosi alla parola precedente e questo fenomeno viene segnalato nella grafia moderna con un punto in alto. « meler » [pron. mejer] : dal lat. melior, ‘migliore’. Altro termine imparisillabo (imparisillabi sono quelle parole che hanno un numero diverso di sillabe tra nominativo e gli altri casi, come ad es. imperator, imperatorem): melior, meliorem. La consonante L più J ha prodotto la palatizzazione del suono L. Da meliorem abbiamo melior, ma anche in questo caso dobbiamo supporre un suono della L palatale. « de tota la onor » : ‘di tutto l’impero’. Nelle Glosse di san Millán troviamo « get ena honore », ‘è nel regno dei cieli’ (letteralmente ‘è in onore’). « de tot l’emperi·l tenien per senor » : ‘di tutto l’impero lo ritenevano un signore’. — « l’emperi·l » : Abbiamo una proclitica e un’enclitica. — « senor » : dal lat. senior, ‘più vecchio’, però poi ha assunto il significato di ‘signore’, ‘saggio’. È probabile che la N palatale non fosse rappresentata ma fosse pronunciata. « Mas d’una causa » : ‘Ma per una cosa’. — « causa », dal lat. causam, ‘cosa’. Nei Giuramenti di Strasburgo troviamo cosa [pr. /cose/, con E evanescente] al posto di causa, perché il dittongo latino AU in francese chiude in O, invece in provenzale si mantiene AU. Quindi abbiamo incontrato finora un paio di casi in cui il provenzale differisce dal francese e sono tutti e due aspetti conservativi rispetto al latino: la finale A che in provenzale si mantiene, a differenza del francese cha passa a E evanescente; e il dittongo AU che si mantiene nel provenzale, a differenza del francese che passa a O, cioè si chiude. « nom avia genzor » : ‘nome aveva più nobile’. — « genzor » : dal comparativo lat. gentiorem, ‘più nobile’. Gens, gentis, ‘la famiglia nobile’, ha dato origine a tutta una famiglia di parole pure in italiano come, per es., gentile, che vuol dire ‘nobile’. In Dante, « tanto gentile e tanto onesta pare », gentile non vuole dire ‘cortese’ o ‘ben educato’, vuole dire ‘nobile’. « de sapiencia l’apellavan doctor » : ‘per la sua sapienza lo chiamano dottore’, ovvero ‘dottore di sapienzia, filosofo’. VI. Quan venc la fís Mallió Torquatór, donc venc Boécis ta granz dolors al cór ne cuid aprób altre dols li demór.

Quando giunse la fine di Manlio Torquato, allora a Boezio venne tanto grande dolore al cuore che non credo che dopo altro dolore gli dimori.

« venc » : dal lat. venit. È un perfetto forte, ma da venit non c’è un passaggio come per habuit > ac. Quindi è un perfetto forte, con l’accento sul tema, e con la finale in velare C [/k/] analogico. « fis » : ‘fine’. Da notare la caduta della N davanti a S, come prima si è notata la caduta della N in ta da tantum. « Mallio Torquator » : lett. ‘Manlio dei Torquati’, essendo Torquator non la prosecuzione di Torquatus, ma il residuo del genitivo plurale Torquatorum. In verità il nome corretto dell’imperatore è Manlio Torquato e non esiste una famiglia Torquati. « donc venc » : ‘allora venne’. Su venc cfr. supra. « Boecis » : dativo latino senza preposizione, ‘a Boezio’. 36

« ta granz dolors al cor » : ‘tanto grande dolore al cuore’. — « ta » : dal lat. tantum, con caduta della N, cfr. supra. — Boezio era consul di Manlio Torquato, lo reputava un bravo sovrano, lo amava moltissimo, e lui era il suo protetto; per cui il suo arresto gli procurò tanto dolore. « ne cuid » : ‘non penso’. Cuid da cogito ‘pensare, ritenere’. Con la caduta della vocale postonica vengono a contatto i suoni G e T (velare sonora + dentale) che danno una ID. Questo, in realtà, sarebbe un esito della Francia settentrionale, per quel nesso consonantico originario latino. L’esito più schiettamente meridionale o provenzale sarebbe un altro tipo di palatale, non ID ma C. Infatti, per questa forma di ‘io penso’ troviamo anche cuc. Nella lingua letteraria del provenzale, e questo sarà più evidente nella poesia lirica, convivono delle forme che sono proprie delle varie parlate in cui si suddivide il totale dell’occitanico provenzale. Noi diciamo provenzale perché facciamo riferimento alla letteratura provenzale lirica, ai trovatori provenzali, ma dire provenzale vuole dire utilizzare un aggettivo che fa riferimento soltanto a una parte di tutta l’Occitania, cioè alla Provenza vera e propria. Le parlate occitaniche sono di più, vanno dal Delfinato fino su al Pittavino, quella regione che è molto importante per la letteratura meridionale che sta più a nordovest, al confine con la Francia del nord. In questa regione, e anche nell’Alvernia e in altre regioni che confinano con la Francia del nord, si hanno degli esiti che sono affini ai risultati che si hanno per il francese. Ora questo testo è stato probabilmente scritto nel monastero di San Marziale di Limoges, che è appunto la capitale del Limosino, e questo monastero era stato un centro di cultura importantissimo nel Medioevo, quindi questo può spiegare come ci possano essere in questo testo, che si presenta abbastanza compatto dal punto di vista linguistico occitanico, degli esiti più settentrionali che meridionali. Questo è ancora più sensibile nella poesia lirica, che ha visto crescere una specie di lingua comune in cui venivano accettati vari esiti di varie regioni senza che questo creasse disturbo alla diffusione e alla crescita di questa poesia. I poeti erano tanti, di varie regioni, molto spesso nelle loro poesie erano presenti elementi della loro variante regionale, che poteva essere il Delfinato, l’Alvernia, il Poitou, il Limosino ecc. Ciò era ammesso e non creava nessuna difficoltà. « aprob altre dols li demor » : ‘presso di lui dimori altro dolore’. Per Boezio si trattò di un grande dolore e non ne ebbe altro di maggiore. VII. Morz fo Maillós Torquator dunt eu díg: ec vos e Róma l’emperador Teiríc; del fiel Déu no volg aver amíc « « « « « « « «

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Morto fu Manlio Torquato del quale io narro: ed eccovi a Roma l’imperatore Teodorico; fra i fedeli di Dio non volle avere amico

Morz fo » : ‘Morto era’. Il fo comunque ricarca la forma del perfetto latino fuit. dunt » : dal lat. de unde, ‘donde, del quale’. eu » : dal lat. ego, ‘io’. dig » [pron. dik] : dal lat. dico, ‘dico, racconto’. Si pronuncia dik perché, in provenzale come in francese, quando ci sono delle consonanti sonore in fine di parola, queste vengono pronunciate sorde. La pronuncia è confermata dalla rima dig : Teiric. ec vos » : dal lat. ecce vos, ‘eccovi’. e » : da en, con caduta della N finale. emperador » : cfr. supra. Teiric » : ‘Teodorico’. Si tratta del re degli Ostrogoti presso il quale si trovò a vivere, esplicando le sue funzioni pubbliche, Boezio e che lo mandò in prigione e poi lo fece giustiziare. Viene qui definito « emperador », ma continuando quella specie di equivoco storico, per cui anche Manlio Torquato viene indicato come imperatore, presso il quale Boezio sarebbe conte anziché console. del fiel Deu » : ‘dei fedeli di Dio’. no volg » [pron. volk] : ‘non volle’. Anche questo volg, come venc, come ac, è un perfetto forte analogico su quello del verbo avere ac, e quindi ha l’esito in velare. aver amic » : ‘avere amico’. Teodorico, in sostanza, era contrario ai cristiani; e questo crea la pregiudiziale proprio nella presentazione di questo personaggio, di nuovo regnante, che è Teodorico, nei confronti di Boezio che viene qui visto sotto l’aspetto di martire cristiano.

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X. El Capitoli l’endema, al di clar, lai o solíen las altras liz jutjar lai veng lo reis sa felnía menar. Lai fo Boecis, e foren i soi par. Lo reis lo pres de felni’ a reptar: qu’el trametía los breus ultra la mar, Roma volía a obs los Grex tradar. Pero Boéci anc no venc e pensar. Sal en estant e cuidet s’en salvar: l’om no·l laiset e salvament annar. Cil li faliren qu’el soli aiudar, fez lo reis e sa charcer gitar.

Nel Campidoglio l’indomani, al giorno chiaro, là dove solevano giudicare le altre vertenze, colà venne il re a perpetrare la sua fellonia. Là era Boezio, e là erano i suoi pari. Il re prese ad accusarlo di fellonia: [cioè] che egli inviava lettere oltremare, [che] voleva tradire Roma a favore dei Greci. Ma [ciò a] Boezio non venne mai in mente. Si alzò in piedi e pensò di salvarsi: l’uomo non lo si lasciò andare a salvamento. Gli vennero meno quelli che lui soleva aiutare, il re lo fece gettare nel suo carcere.

La lassa X racconta l’inizio della sventura di Boezio. « El » : da En lo, preposizione articolata ‘nel’. « liz » : ‘liti’. « felnia » : dal germanico fel, felon, ‘fellonia’, ma con vari significati: ‘inganno’, ‘malvagità’, ‘tradimento’. « foren » : ‘furono’, ‘erano’. « a reptar » : ‘a reputare’, qui nel senso di ‘ad accusare’. « felni’ » : cfr. supra: ‘fellonia’, cioè ‘tradimento’. « trametía » : dal lat. transmittere, ‘inviare’. « los breus » : ‘le brevi’, cioè ‘le lettere’. Nella terminologia del papato, il breve è una lettera in cui si danno delle istruzioni o si affermano degli elementi della dottrina. « ultra la mar » : ‘oltremare’, cioè all’imperatore d’Oriente. « a obs los » : obs dal lat. opus, ‘a opera’, ‘a vantaggio dei’. « tradar » : ‘tradire’. « anc » : ‘mai’. « e pensar » : e da en, ‘in pensiero’. « Sal en estant » : ‘Si alza in piedi’. Boezio, a sentire questa accusa che per lui è inaudita, sal en estant, lett. ‘sale in piedi’. — « estant » : dal lat. stantem.

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