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February 16, 2023 | Author: Anonymous | Category: N/A
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GÉRARD GENETTE

FIGURE II LA PAROLA LETTERARIA   Titolo originale Figures II  Copyright © Editions du Seuil, 1969 Copyright © 1972 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino  Traduzionee di Franca Mado  Traduzion Madonia nia

Giulio Einaudi editore

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Indice generale Ragioni della critica pura......................................... pura................................................................ .............................................. .............................................. ................................. .......... Diegesis e mimesis................................................ mimesis....................................................................... .............................................. .............................................. ............................... ........  Narrazione e descrizione.............................................. descrizione..................................................................... .............................................. ............................................... ........................ Racconto e discorso......................................... discorso................................................................ .............................................. ........................................................... .................................... Verosimiglianza e motivazione................... motivazione.......................................... .............................................. .............................................. ......................................... .................. Il giorno, la notte........................................ notte............................................................... .............................................. ..................................................................... .............................................. Linguaggio poetico, poetica del linguaggio..................................... linguaggio............................................................ .......................................... ............................... ............ « Stendhal »......................................... »................................................................ .............................................. .............................................. ..................................................... .............................. Mocenigo. ............................................ ................................................................... .............................................. .............................................. ......................................... ........................ ...... Aporia dello stendhalismo. ......................................... ................................................................ .............................................. ......................................... ........................ ...... Proust e il linguaggio indiretto.............................. indiretto..................................................... .............................................. ........................................................ ................................... ..

 

Ragioni della critica pura

 V  Vorrei orrei indicare per sommi capi quali dovrebbero dovrebbero essere le principali principali caratteristiche di una critica veramente veramente attuale, di una critica, cioè , capace di rispondere nel modo piú adeguato possibile alle esigenze e alle risorse della nostra intelligenza e del nostro uso della letteratura, hic et nunc. [Comunicazione alla decade di Cerisy-la-Salle su « Les chemins actuels de la critique», settembre 1966 [pubblicata in Les chemins actuels de la critique, a cura di J. Ricardou, Plon, Paris 1967]. 

Per ribadire però che con «attuale» non si intende semplicemente e necessariamente il nuovo – e d'altronde non si sarebbe (per quanto poco lo si sia) critici, senza l'abitudine e il gusto di parlare facendo finta di lasciare parlare gli altri (quando non sia l'opposto) – prenderemo come testo di questo breve discorso qualche pagina scritta tra il 1925 e il 1930 da un grande critico dell'epoca, che potrebbe anch'egli figurare, a suo modo ma per piú ragioni, nel novero di quei grandi predecessori di cui ha parlato Georges Poulet. Ci riferiamo infatti ad Albert  Thibaudet, ed è ovvio che questa questa scelta non è del tutto priva in questo caso d'intenzioni eristiche: eristiche: basta pensare all'antitesi esemplare che unisce il tipo d'intelligenza critica incarnata da Thibaudet e quello rappresentato nella stessa epoca da un Charles du Bos senza dimenticare peraltro l'opposizione di gran lunga piú profonda che poteva separarli entrambi da quel tipo d'intelligenza critica che rispondeva allora al nome di Julien Benda. In una cronaca letteraria pubblicata da Thibaudet sulla «Nouvelle Revue Française» del 1° aprile 1936 e ristampata dopo la sua morte in Réflexions sur la critique

possiamo leggere il seguente brano: « Qualche giorno fa sull'“Europe s ull'“Europe Nouvelle” Gabriel Marcel indicava come una delle qualità principali d'un critico degno di questo nome l'attenzione all'unico ossia “l'attenzione al modo in cui il romanziere di cui egli si occupa ha sentito e vissuto l'esistenza”. Elogiava Charles du Bos per avere saputo porre il problema in termini precisi... Si rammaricava che un altro critico, ritenuto un bergsoniano, non avesse abbastanza, o anzi avesse sempre meno tratto profitto dalla lezione del bergsonismo in tale campo, e imputava questo cedimento, questo calo di temperatura a un eccesso di spirito classificatore. Il che è anche possibile. Ma se è vero che non esiste esist e critica letteraria degna di questo nome senza l'attenzione all'unico, ossia senza il senso dell'individualità e delle differenze, siamo però proprio certi che ne possa esistere una al di fuori di un certo senso sociale della Repubblica delle Lettere, ossia di un sentimento delle rassomiglianze, delle affinità, che deve pure esprimersi di tanto in tanto con delle classificazioni? » Réflexions sur la critique, Gallimard, Paris 1939, P. 244.

Notiamo innanzi tutto che Thibaudet non ha difficoltà qui a riconoscersi un « eccesso di spirito classificatore» e confrontiamo subito questa confessione con una frase di Jules Lemaitre su Brunetiè re, che Thibaudet citava in un'altra cronaca del 1922 e che, salvo un'unica riserva, riser va, potrebbe benissimo applicarsi anche a lui: « Brunetiè re è incapace, a quanto sembra, di considerare un'opera, qualunque essa sia, grande o piccola, se non nelle sue connessioni con un gruppo di altre opere, di cui coglie immediatamente, attraverso il tempo e lo spazio, il rapporto con altri gruppi, e cosí via... Si potrebbe dire che, mentre legge un libro, libr o, pensi a tutti i libri che son sonoo stati scritti dall'inizio del mondo. Nulla gli passa per le mani che egli non classifichi, e per l'eternità ». ». [ Ibid., Ibid., p. 136. Il corsivo è nostro.]

La riserva riguarderebbe evidentemente l'ultimo frammento della frase, giacché Thibaudet, diversamente da Brunetiè re, non era di coloro che pensano di lavorare per l'eternità, oppure che l'eternità lavori per loro. Probabilmente avrebbe volentieri adottato il motto di Monsieur Teste – Transiit classificando – che, in fondo, e secondo che si« ponga l'accento sul verbo o sul gerundio, tanto « Passò (la vita) classificando », quanto anche Classificò en passant ». E,principale a parte i giuochi di parole,significa c'è in quest'idea che una classificazione possa valere diversamente che per l'eternità, che una classificazione possa anche passare col tempo, t empo, appartenere al tempo che passa e portare la sua impronta, c'è in questa idea, certamente estranea a Brunetière, ma non a

 

 Thibaudet, qualcosa di molto importante oggi per noi, in letteratura e altrove. altrove. Anche la storia transit classificando. Non discostiamoci però troppo dai nostri testi e lasciamoci piuttosto condurre, dal riferimento a Valéry, Valéry, verso un'altra pagina delle Réflextons sur la critique, datata giugno 1927. Vi ritroviamo quella mancanza d'attenzione all'unico che Gabriel Marce! rimproverava rimproverava a Thibaudet, attribuita questa volta, e in modo ancora piú legittimo, a colui che faceva dire al suo eroe: « Lo spirito non deve occuparsi delle persone. De personis non curandum ». Ecco il testo di Thibaudet: « Immagino che una critica filosofica ringiovanirebbe la nostra intelligenza della letteratura pensando dei mondi laddove la critica classica pensava degli artigiani che lavorano come il demiurgo del Timeo sopra modelli eterni dei generi, e dove la critica del xix secolo ha pensato degli uomini che vivono in società. Possediamo d'altronde un campione non approssimativo, approssimativo, ma paradossalmente integrale, integ rale, di questa critica. è il Léonard di  V  Valéry. aléry. Da Leonardo Leonardo V Valéry aléry ha tolto deliberatamente tutto quello che che era il Leonardo uomo, uomo, per conservare soltanto ciò che costituiva il Leonardo mondo. L'influsso di Valéry sui poeti è abbastanza evidente. Dal canto mio incomincio già a intravedere un influsso di Monsieur Teste sui romanzieri. Perché non potrebbe essere a buon diritto auspicato un influssodel Léonard sui nostri giovani critici filosofi? In ogni caso, non avranno nulla da perdere a leggerlo ancora una volta » . [ Réflexions Réflexions sur la critique, p. 191.]

Decliniamo gentilmente l'appellativo di critici filosofi, di cui si può facilmente immaginare che cosa avrebbe pensato lo stesso Valéry, Valéry, e completiamo questa citazione con un'altra che sarà l'ultima e la piú lunga, tratta questa Shakespeare,  volta dalla Physiologie de la critique. Thibaudet, dopo avere avere citato e commentato una pagina del del William Shakespeare, aggiunge: «Leggendo queste righe di Hugo e il commento che le accompagna, si sarà forse pensato a Paul Valéry. Valéry. E infatti l'Introduction à la méthode de Léonard de Vinci è proprio concepita in modo analogo al William Shakespeare, e tende al medesimo scopo. Semplicemente la sua presa di posizione è ancora piú netta. Valéry previene il lettore che il suo Leonardo non è Leonardo, Leonardo, bensí una certa idea del genio, per la quale si è ser servito vito di alcune qualità di Leonardo ma senza limitarsi ad esse ess e e integrandole con altre. Qui come altrove, ciò cui mira Valéry è proprio quell'algebra ideale, quel linguaggio non già comune a diversi ordini, ma indifferente a diversi ordini, che potrebbe altrettanto bene cifrarsi nell'uno come nell'altro e che che d'altronde assomiglia alla forza di suggestione sugg estione e di  variazione che che assume una poesia ridotta a pure essenze essenze.. L'Introduction à la méthode de Léonard, come altre opere di  V  Valéry, aléry, non non sarebbe probabilmente stata scritta se non gli fosse stato dato di convivere convivere con un poeta poeta che avev avevaa anch'egli giocata la vita su quell'impossibile algebra e quell'ineffabile mistica. Ciò che era presente alla meditazione di Valéry e di Mallarmé lo era anche a quella di Hugo. La critica pura nasce qui dalle stesse algide quella critica che ha come oggetto non gli esseri o le opere, bensí le essenze, e che sorgenti della poesia pura. Per critica intendo quella non vede nella visione degli esseri e delle opere altro che un pretesto per la meditazione delle essenze. [Il corsivo è nostro.]

« Tre sono le essenze che io scorgo e tutte e tre hanno occupato, hanno tormentato Hugo, Mallarmé, Valéry; esse sono loro apparse come il giuoco trascendente del pensiero letterario: il genio, il ggenere, enere, il Libro. « Il genio: ad esso sono consacrati il William Shakespeare e l'Introduction. è la forma piú alta dell'individuo, il  vertice dell'individuale, eppure eppure il segreto del genio è d'infrangere le barriere dell'individualità, di essere Id Idea, ea, di rappresentare, al di là dell'invenzio dell'invenzione, ne, il fflusso lusso inventivo inventivo.. « Ciò che in letteratura rappresenta, al di sopra dello stesso genio individuale, quest'Idea, e al di sotto di esso il flusso che lo porta, sono quelle forme dello slancio vitale letterario che sono chiamate i generi. Brunetiè re ha avuto ragione quando ha visto qui il problema fondamentale della grande critica, per la quale una teoria dei generi rimarrà sempre la piú alta ambizione. Il suo torto è stato quello di confonderne il movimento con un'evoluzione ricalcata sulla falsariga di un'evoluzione naturale, i cui elementi arbitrarie sommari gli erano forniti da una scienza male assimilata... assim ilata... è cert certoo però che i generi sono, vivono vivono,, muoiono, si trasformano, e gli artisti, ar tisti, che lavorano nella fucina stessa dei generi, lo sanno ancora meglio dei critici... Mallarmé non ha fatto della poesia che per precisare l'essenza della poesia, non è andato a teatro che per cercare quell'essenza del teatro che gli piaceva  vedere nello sfolgorio della sua luce. luce. « Infine il Libro. La critica, la storia letteraria hanno spesso il torto di mescolare in una stessa serie, di confondere in uno stesso ordine ciò che si dice, ciò che si canta, ciò che si legge. La letteratura si compie in funzione del Libro, eppure non c'è niente a cui “l'uomo dei libri” [Si tratta qui del critico.]

 pensi meno che al Libro... Sappiamo fino a quali paradossi Mallarmé abbia spinto l'allucinazione del Libro» Physiologie de la critique, Editions de la Nouvelle Revue Critique; Paris 1930, pp. 120-24.] [ Physiologie

Interrompiamo qui la citazione e cerchiamo ora di ritrovare il movimento di pensiero che scaturisce da questi

 

pochi testi e che può aiutarci a definire una certa idea della critica, per la quale conserveremo volentieri; se non altro per il valore provocatorio che hanno a uso delle anime semplici, i termini di critica pura e anche il patrocinio di Valéry: Valéry Valéry di cui non si ricorderà mai abbastanza proponeva allo stesso scopo una sstoria toria della stanza che pr letteratura intesa come una «Storia dello spirito in quanto produttore o consumatore della letteratura » e che potrebbe essere fatta « senza che mai vi fosse pronunziato il nome d'uno scrittore ». Notiamo comunque che  Thibaudet, meno assoluto di Valéry, Valéry, non rifiuta affatto l'attenzione all'un all'unico ico (da lui interpretato, interpretato, d'altronde, in modo assai caratteristico, come il senso delle individualità e delle differenze, il che significa già uscire dall'unicità per entrare, attraverso il giuoco dei 'confronti, in quello che Blanchot chiamerà l'infinito letterario), ma semplicemente che egli vi vede non un termine bensí il punto di partenza di una ricerca che alla fine verterà non sulle individualità ma sulla totalità d'un universo di cui egli aveva aveva spesso sognato di farsi il ggeografo eografo (il geog geografo, rafo, ripetiamo, non lo storico) e che chiama, qui e altrove, la Repubblica delle Lettere. C'è C' è in questo appellativo qualcosa che indica un'epoca e che connota un po' pesantemente, secondo noi, l'aspetto « sociale », e quindi troppo umano, di ciò che chiameremmo oggi piú sobriamente, s obriamente, con una parola che conserva ancora la sua curiosa modernità, la Letteratura. Ricordiamo soprattutto questo movimento caratteristico di una critica forse ancora « impura », che potrebbe benissimo anche essere chiamata critica  paradigmatica, nel senso che le circostanze, ossia gli autori e le opere, vi fanno ancora la loro comparsa, ma soltanto alla stregua di casi o d'esempi di fenomeni letterari che li superano e a cui servono si può dire da indice, un po' come quei poeti eponimi, Hoffmann per esempio, o Swinburne, di cui Bachelard fai portavoce di un complesso, senza lasciare loro ignorare che un complesso non è mai molto originale. Studiare l'opera di un autore, diciamo Thibaudet per fare un esempio del tutto immaginario, vorrebbe quindi dire studiare un Thibaudet che non sarebbe piú Thibaudet T hibaudet di quanto il Leonardo di Valéry Valéry non è Leonardo, bensí soltanto una certa idea del genio per la quale ci si ser servirebbe virebbe di alcune qualità di  Thibaudet, senza limitarsi a queste e integrandole con altre. altre. Non sarebbe studiare un essere e neppure studiare un'opera, ma attraverso quest'essere e quest'opera, inseguire un'essenza. Dobbiamo ora considerare un po' piú attentamente i tre tipi d'essenze di cui parla Thibaudet. Il primo porta un nome di cui oggi si è un po' perduto l'uso, l'uso, nella sua apparente indiscrezione, ma che non abbiamo saputo sostituire con nessun altro. Il genio, dice Thibaudet in modo m odo un po' enigmatico, è al tempo stesso il vertice dell'individuale e la rottura delle barriere dell'individualità. Il commento piú illuminante di questo paradosso va cercato in autori come Maurice Blanchot (e Jacques Jacques Lacan), in quell'idea oggi familiare alla letteratura, ma da cui probabilmente la critica non ha ancora tratto tutte le conseguenze, che l'autore, l'artigiano di un libro come diceva Valéry, non è effettivamente nessuno – o anche che una delle funzioni del linguaggio, e della letteratura come linguaggio, è distruggere distrug gere il parlante e designarlo come assente, Quello che Thibaudet chiama il genio potrebbe allora essere qui quell'assenza del soggetto, sog getto, quell'esercizio del linguaggio decentrato, privo di centro, di cui parla Blanchot a proposito dell'esperienza di Kafka scoprendo « che egli fece il suo ingresso nella letteratura non appena poté sostituire l'egli all'io... Lo scrittore – aggiunge Blanchot –appartiene a un linguaggio che nessuno parla, che non si rivolge a nessuno, che manca di centro, che non rivela nulla ». [ L'espace littéraire,  Gallimard, Paris 1955, P. 17 [trad. it. Lo spazio letterario, trad. di Gabriella Zanobetti, con un saggio di J. Pfeiffer e una nota di G. Neri, Einaudi, Torino 1967].]

La sostituzione dell'egli all'io è evidentemente qui soltanto un simbolo, fors'anche troppo chiaro, chiaro, di cui potremmo trovare una versione meno appariscente e apparentemente inversa, nel modo in cui Proust rinuncia all'egli troppo ben centrato di Jean Santeuil per l'io decentrato, equivoco, della Recherche, l'io di un Narratore che non è effettivamente nessuno, né l'autore né qualsivoglia d'altri e che mostra benissimo come Proust abbia incontrato il suo genio nel momento in cui trovava nella sua opera il luogo linguistico ove la sua individualità poteva frantumarsi e dissolversi in Idea. Cosí, per il critico, parlare di Proust o di Kafka sarà forse parlare del genio di Proust o di Kafka, non della loro persona. Sarà parlare di quello che lo stesso Proust chiama l'« io profondo », quell'io che, com'egli ha asserito con piú vigore di chiunque altro altro,, si rivela soltanto nei suoi libri e che, com'egli ha dimostrato proprio nella sua opera, è un io senza fondo, un io senza io, ossia quasi l'opposto di quello che si suole chiamare un soggetto. E, sia detto di sfuggita, questa riflessione potrebbe togliere gran parte dell'interesse a tutte le controversie sul carattere oggettivo o soggettivo sogg ettivo della critica: propriamente parlando per il critico (per il lettore) il genio di uno scrittore non è né un oggetto ogg etto né un sogget soggetto, to, e il rapporto critico critico,, il rapporto di lettura, potrebbe appunto rappresentare ciò che in letteratura dissolve e liquida questa opposizione troppo semplicistica. La seconda essenza di cui ci parla Thibaudet, in termini term ini forse non del tutto appropriati, sono quei generi in cui egli vede « delle forme dello slancio vitale letterario », formula piuttosto avventurosa ove il suo personale bergsonismo viene a sostituirsi allo pseudodarwinismo di Brunetiè re, e che sarebbe probabilmente meglio chiamare, al di fuori di ogni riferimento vitalistico, le strutture fondamentali del discorso letterario. La nozione di genere non è oggi molto bene accetta, forse proprio a causa di quell'organicismo grossolano di cui è stata inficiata alla fine del secolo scorso, s corso, e inoltre e soprattutto perché viviamo un'epoca letteraria che è quella del dissolvimento dei generi e dell'avvento della letteratura come abolizione delle frontiere interne dello scritto. Se è  vero,, come è stato già detto, cche  vero he uno dei compiti della critica critica è quello di riversare sulla letteratura del del passato

 

l'esperienza letteraria del presente e di leggere gli antichi alla luce dei moderni, può sembrare strano e addirittura assurdo, in un'epoca dominata da nomi quali Lautréamont, Proust, Joyc Joyce, e, Musil, Bataille, di darsi da fare per risuscitare, sia pure rinnovandole, le categorie di Aristotele e di Boileau. Resta il fatto tuttavia che quando  Thibaudet ci ricorda che Mallarmé Mallarmé non ha fatto della poesia che per per precisare l'essenza della poesia poesia e non è andato a teatro che per cercare l'essenza del teatro, questo ci dice qualcosa e ci sollecita. Forse non è vero, vero, o non è più vero vero,, che i ggeneri eneri vivano vivano,, muoiano e si trasformino, resta però vero che il discorso letterario si produce e si sviluppa secondo strutture che non può trasgredire se non perché le trova ancora oggi nel campo del suo linguaggio linguag gio e della sua scrittura. Per non riportare qui che un esempio Problèmes mes de particolarmente chiaro, Benveniste ci ha appunto dimostrato, in uno o due capitoli' dei suoi s uoi Problè linguistique générale, [Problème s de linguistique générale, GaIlimard, Paris 1966, cap. xix: Les relations de temps dans le verbe français, e cap. xxi: De la subjectivité dans le langage [trad. it. Problemi di linguistica generale, Il Samlatore, Milano 1971].]

 in che modo i sistemi del racconto e del discorso si oppongono nelle strutture stesse della lingua, della lingua francese per lo meno, meno, attraverso l'uso riservato di certe forme form e verbali, di certi pronomi, di certi avverbi, ecc. Da tali analisi e dai loro successivi sviluppi e ampliamenti si ricava quanto meno che il racconto rappresenta, pur nelle sue forme piú elementari e anche solo dal punto di vista strettamente grammaticale, g rammaticale, un uso molto particolare del linguaggio, linguagg io, ossia all'incirca quello che V Valéry aléry chiamava, a proposito della poesia, un lingu linguaggio aggio nel linguaggio, e qualsiasi studio delle grandi forme for me narrative (epopea, romanzo, romanzo, ecc.) dovrebbe se non altro tenere conto di questo dato, cosí come qualsiasi studio s tudio delle grandi creazioni poetiche dovrebbe cominciare col riflettere su quella che di recente è stata chiamata la struttura del linguaggio poetico. Lo stesso si dovrebbe evidentemente fare per tutte le altre forme dell'espressione letteraria, e tanto per fare un esempio può sembrare strano che nessuno abbia mai pensato (almeno per quanto mi risulta) a studiare in se stesso, nel sistema delle sue risorse e delle sue esigenze specifiche, un tipo di discorso fondamentale come la descrizione. descrizione. Questo genere di studi, che si sta appena affermando adesso e d'altronde solo ai margini dell'insegnamento letterario ufficiale, potrebbe, è vero, essere battezzato con un nome antichissimo e piuttosto screditato: è la retorica, e da parte mia non vedrei nessun inconveniente ad ammettere che la critica quale noi la concepiamo sia, almeno in parte, qualcosa come una nuova retorica. Aggiungiamo soltanto (e il riferimento a Benveniste volev volevaa in parte tendere a questo) che questa nuova retorica verrebbe a porsi con tutta naturalezza, come aveva d'altronde previsto Valéry, Valéry, alle dipendenze della linguistica, che è probabilmente la sola disciplina scientifica che abbia oggi qualcosa da dire sulla letteratura in quanto tale o, per riprendere ancora una volta l'espressione di Jakobson, sulla letteralità della letteratura. La terza essenza nominata da Thibaudet, la più alta indubbiamente e la piú ampia, è il Libro. Nessun bisogno di trasposizione in questo caso, e il riferimento a Mallarmé basterebbe già a esimerci da ogni commento. Dobbiamo però essere grati a Thibaudet per averci rammentato cosí vigorosamente che la letteratura si realizza in  funzione del Libro e che la critica ha torto di pensare cosí poco al Libro e di mescolare in un'unica serie « ciò che si dice, ciò che si canta, ciò che si legge ». Che la letteratura non sia soltanto linguaggio, linguagg io, ma piú precisamente e piú ampiamente al tempo stesso, anche scrittura, e che il mondo sia per essa, dinanzi ad essa, in essa, come diceva cosí giustamente Claudel, non come uno spettacolo s pettacolo,, ma come un testo da decifrare e da trascrivere, è una verità che la critica non ha forse ancora oggi abbastanza accettato e di cui la meditazione mallarmeana sul Libro ci deve insegnare l'importanza. Contro una tradizione antichissima, pressoché originaria (visto che risale a Platone) della nostra cultura, che faceva della scrittura un semplice ausilio della memoria, un semplice strumento d'annotazione e di conservazione del linguaggio, o piú precisamente della parola – parola viva, giudicata insostituibile come presenza immediata del parlante al suo discorso –, stiamo oggi scoprendo o meglio capendo capendo,, grazie specialmente agli studi di Jacques Derrida sulla  grammatologia, ciò che le piú penetranti intuizioni della linguistica saussuriana implicavano già, ossia che il linguaggio, o piú precisamente la lingua, è essa stessa innanzi tutto una scrittura, cioè un giuoco fondato sulla differenza pura e la spaziatura, ove è la relazione vuota quella che significa e non il termine pieno. «Sistema di rapporti spaziali estremamente complessi – dice Blanchot – del quale né lo spazio geometrico ordinario,, né lo spazio della vita pratica ci permettono di cogliere l'originalità». ordinario l'originalità ». Le livre à venir , Gallimard, Paris 1959, P. 286 [trad. it. Il libro a venire, trad. di G. Ceronetti e G. Neri, Einaudi, Torino 1969].] [ Le

Che il tempo della parola sia sempre già situato e, in un certo senso, preformato nello spazio della lingua e che i segni della scrittura (nel senso banale) siano in qualche modo modo,, nella loro disposizione, meglio accordati alla struttura di questo spazio dei suoni della parola nella loro successione temporale, non è una cosa indifferente all'idea che possiamo farci della letteratura. Blanchot dice bene che il Coup de dés voleva essere questo questo spazio « divenuto poesia ». Ogni libro, libro pagina, è a suo il poema dello spazio delfare linguaggio che si svolge e siha compie sotto lo sguardo della, ogni lettura. La critica nonmodo ha forse fatto nulla, non può nulla fintanto che non deciso – con tutto ciò che questa decisione comporta – di considerare ogni opera, o ogni frammento di opera letteraria, innanzi tutto come un testo, ossia come un tessuto di figure in cui il tempo (o, come si dice, la vita) dello

 

scrittore che scrive e quello (quella) del lettore che legge si annodano e si intrecciano in quel luogo paradossale che è la pagina e il volume. La qual cosa implica ssee non altro, come ha detto con molta precisione Philippe Sollers, che « il problema essenziale oggi non è piú quello dello scrittore e dell'opera, bensí quello della scrittura e della lettura e che dobbiamo quindi definire un nuovo spazio in cui questi due fenomeni f enomeni potrebbero essere compresi come reciproci e simultanei, uno spazio curvo, un luogo di scambi e di reversibilità in cui saremmo finalmente dalla stessa parte del nostro linguaggio... linguag gio... La scrittura è legata a uno spazio in cui il ttempo empo avrebbe in qualche modo girato, in cui non sarebbe altro che questo movimento circolare e operativo». [ Le Le roman et l'expérience des limites, conferenza «Tel Quel» dell'8 dicembre 1965, in Logiques, Editions du Seuil, Paris 1968, pp. 237-38.]

 Il testo è quell'anello di Möbius in cui la faccia interna e la faccia esterna, faccia significante e faccia significata, di scrittura e faccia letturaegirano invertendosi continuo , in cui la scrittura non dicessa di leggersi, in faccia cui la lettura non cessa di di scriversi d'inscriversi. Anchediilcontinuo, critico deve entrare nel giuoco questo strano circuito reversibile e diventare, diventare, cosí, come dice Proust e come ogni vero lettore, « il lettore di se stesso ». Chi glielo rimproverasse dimostrerebbe semplicemente di non avere mai saputo che cosa significa leggere. Ci sarebbe certo molto di piú da dire sui tre temi proposti da Thibaudet T hibaudet alla meditazione della « critica pura », ma dobbiamo limitarci qui a questo breve commento. commento. è evidente d'altronde che queste tre essenze non sono le uniche cui si possa e si debba arrestare la riflessione critica. Sembra piuttosto che Thibaudet ci indichi qui delle specie di schemi o di categorie a priori dello spazio letterario e che il compito della critica pura sarebbe, all'interno di questi schemi generali, di occuparsi anche di essenze piú particolari, benché trascendenti l'individualità delle opere. Io proporrei di chiamare queste essenze particolari semplicemente s emplicemente « forme » — a condizione di prendere qui la parola forma in un senso un po' speciale che corrisponde all'incirca a quello che le dà in linguistica la scuola di Copenaghen.. È noto infatti che Hjelmslev opponeva la forma non al « fondo » ossia al contenuto, come fa la tradizione scolastica, bensí alla sostanza, ossia alla massa inerte sia della realtà extralinguistica (sostanza del contenuto), sia dei mezzi, fonici o altri, usati dal linguaggio (sostanza ( sostanza dell'espressione). Ciò che costituisce la lingua come sistema di segni è il modo in cui il contenuto e l'espressione si tagliano e si strutturano nel loro contenuto reciproco rapporto d'articolazione, l'apparizione congiunta di una  forma e di una forma dell'espressione. Il vantaggio di questa determinando nuova suddivisione, per quello che ci riguarda qui, èdelche essa svuota l'opposizione volgare tra forma e contenuto, intesa come opposizione opposizione tra le parole e le cose, tra « il linguaggio linguag gio » e « la vita », e che insiste invece sulla reciproca implicazione del significante e del significato, implicazione che regola l'esistenza del segno. Se l'opposizione pertinente non è tra forma e contenuto, bensí tra forma e sostanza, il «formalismo» non consisterà nel privilegiare le forme a spese del senso — il che non vuole dire nulla — ma a considerare il senso stesso come una forma impressa nella continuità del reale, secondo un taglio d'insieme che è il sistema della lingua: il linguaggio può «esprimere» il reale soltanto articolandolo e questa articolazione è un sistema di forme, tanto sul piano significato quanto sul piano significante.

Orbene ciò che vale per il fatto linguistico elementare può valere a un altro livello, mutatis mutandis, per quel fatto « sovralinguistico » (secondo l'espressione applicata da Benveniste al linguaggio onirico) che costituisce la letteratura: tra la massa letterariamente amorfa del reale e la massa, anch'essa letterariamente amorfa, dei mezzi espressivi, ogni «essenza» letteraria interpone un sistema d'articolazione che è , inestricabilmente, una forma d'esperienza e una forma d'espressione. Queste specie di nodi formali potrebbero costituire l'oggetto per eccellenza di un tipo di critica che chiameremo indifferentemente formalista o tematica — se si vuole dare alla nozione di tema un'apertura sul piano del significante simmetrica a quella che è stata appena data alla nozione di forma sul piano del significato. E infatti un formalismo quale lo immaginiamo immagi niamo qui non si oppone a una critica del senso (non c'è critica se non del senso), ma a una critica che confondesse senso e sostanza e che trascurasse la funzione della forma nel lavoro del senso. Notiamo d'altronde che si opporrebbe ugualmente (come appunto hanno fatto certi formalisti russi) a una critica che riportasse l'espressione alla sua sola sostanza, fonica, grafica o altra. Ciò che esso ricerca di preferenza sono quei temi-forme, quelle strutture a due facce in cui si articolano insieme le scelte di linguaggio e le scelte d'esistenza, il cui legame costituisce quello che la tradizione chiama, con termine felicemente equivoco, uno stile. Per fare un esempio tratto dalla mia stessa esperienza critica (il che, se non altro, mi eviterà di compromettere altri in un tentativo teorico d'esito incerto) tempo fa mi parve appunto di individuare nel barocco francese, quale ce l'hanno rivelato Marcel Raymond e Jean Rousset, Rousset, una certa predilezione per una situazione che può sembrare sembrare caratteristica al tempo stesso della sua « visione del mondo » e, diciamo cosí, della sua retorica. Questa situazione è la vertigine, e piú precisamente quella vertigine della simmetria, dialettica immobile dello stesso e dell'altro, della differenza e dell'identità, che si manifesta altrettanto bene, per esempio, in un certo modo di organizzare org anizzare il mondo intorno a ciò che Bachelard chiamerà la « reversibilità dei grandi spettacoli dell'acqua », quanto nel ricorso a una figura stilistica consistente nel conciliare due termini ter mini ritenuti antitetici in una paradossale combinazione di parole: uccello dell'onda, pesce del cielo. Il fatto di stile appartiene chiaramente qui, per fare ricorso al vocabolario proustiano, all'ordine della tecnica e insieme all'ordine della visione: non è né un puro « sentimento » (che cercherebbe d'« esprimersi » meglio che può), né un semplice « modo di

 

dire » (che non esprimerebbe nulla): è appunto una forma, un modo che ha il linguaggio di dividere e ordinare insieme le parole e le cose. Naturalmente questa forma non è privilegio esclusivo del barocco, anche se si può costatane che esso ne fa un uso particolarmente smodato; possiamo benissimo ricercarla anche altrove ed è certamente legittimo interessarsi piú di quest'« essenza » in se stessa che non delle diverse circostanze attraverso cui le è accaduto di manifestarsi. Per chiarire maggiormente questo discorso con un secondo esempio altrettanto personale e quindi altrettanto poco esemplare, dirò che la forma del  palinsesto, o della sovrimpressione, mi è parsa come una caratteristica comune della scrittura di Proust (è la famosa « metafora m etafora »), della strut struttura tura della sua opera e della sua visione delle cose e degli esseri, e che essa non ha suscitato in me, se posso permettermi l'espressione, il desiderio critico se non perché organizzava in lui, in un unico e medesimo movimento, lo spazio del mondo e lo spazio del linguaggio. Per terminare, e senza discostarsi troppo t roppo da quella che è stata s tata la nostra guida d'un momento, diciamo qualche parola su un problema che Thibaudet stesso ha sollevato piú volte nelle sue riflessioni critiche e che da allora non ha mai smesso si può dire di alimentare discussioni. Si tratta del problema dei rapporti tra l'attività critica e la letteratura, o, se si vuole, di sapere se il critico è o non è uno scrittore. Notiamo innanzi tutto che Thibaudet è il primo ad avere dato il giusto posto nel panorama critico a quella che egli chiamava la critica dei Maestri. Si tratta evidentemente dell'opera critica di coloro che vengono comunemente considerati dei creatori, e basta ricordare i nomi di Diderot, di Baudelaire, di Proust per sapere che, da quando è nata, forse, il meglio della critica si trova proprio li.

Sappiamo però altrettanto bene che quest'aspetto dell'attività letteraria è in continua espansione da un secolo in qua, e che le frontiere tra opera critica e opera non critica tendono sempre piú a cancellarsi, come già dimostrano da soli i nomi di Borges e Blanchot. Cosí la critica letteraria potrebbe essere definita senza ironia come una critica di creatori senza creazione, o la cui creazione sarebbe in un certo senso quel vuoto centrale, quella carenza profonda di cui la loro opera critica disegnerebbe come la forma in cavo cavo.. A questo titolo l'opera critica potrebbe apparire come un tipo di creazione molto significativo sig nificativo della nostra epoca. Ma a dire il vero, il problema non è forse del tutto pertinente, giacché la nozione di creazione è una delle piú confuse che la nostra tradizione critica abbia generato. La distinzione significativa non è tra una letteratura critica e una letteratura « creatrice », ma tra due funzioni della scrittura che si oppongono all'interno di uno stesso « genere » letterario. Ciò che definisce secondo noi lo scrittore – in opposizione a quello che Barthes ha chiamato lo scrivente –, è che la scrittura non è per lui un mezzo d'espressione, un veicolo, uno strumento, ma il luogo st stesso esso del suo pensiero. Come è stato detto molto spesso lo scrittore è colui che non sa e non può pensare se non nel segreto della scrittura, colui che sa e sperimenta ad ogni istante che quando scrive non è lui che pensa il suo linguaggio ma il suo linguaggio che lo pensa e pensa fuori di lui. In questo senso ci sembra evidente che il critico non può dirsi pienamente critico finché nondella è entrato egli pure che va appunto chiamata la vertigine, se si preferisce, il giuoco seducente e mortale scrittura. Comeinloquella scrittore – come scrittore – il critico non sioriconosce che due compiti che sono poi uno solo: scrivere, tacere tacere..

 

Frontiere del racconto

Se accettiamo per convenzione di rimanere nel campo dell'espressione letteraria possiamo senza difficoltà definire il racconto come la rappresentazione d'un avvenimento o di una serie di avvenimenti reali o fittizi per mezzo del linguaggio, e piú specificamente del linguaggio scritto. Questa definizione positiva (e corrente) ha il merito dell'evidenza e della semplicità: il suo principale inconveniente è forse proprio quello di chiudersi e di chiuderci nell'evidenza, di mascherare ai nostri occhi ciò che appunto, nell'essere stesso del racconto, costituisce problema e difficoltà, cancellando in un certo senso le frontiere del suo esercizio, le condizioni della sua esistenza. Definire il racconto positivamente significa accreditare, pericolosamente forse, l'idea o la sensazione che il racconto sia qualcosa che va da sé, che non vi sia nulla di piú naturale che raccontare una storia o collegare un insieme di azioni in un mito, una novella, un'epopea, un romanzo romanzo.. L'evoluzione della letteratura e della coscienza letteraria da mezzo secolo in qua avrà avuto avuto,, tra altre felici conseguenze, anche quella di attirare la nostra attenzione proprio sull'aspetto singolare, artificiale ar tificiale e problematico dell'atto narrativo. Bisogna ritornare ancora una volta allo stupore di Valéry nell'atto di considerare un enunciato come «La marchesa usci alla cinque ». Si sa in quante forme diverse e a volte contraddittorie la letteratura moderna abbia vissuto e reso questo stupore fecondo, quanto si sia voluta e si sia fatta, nella sua stessa sostanza, interrogazione, esitazione, contestazione del discorso narrativo. Una domanda falsamente ingenua come:  perché il racconto? – potrebbe per lo meno indurci a ricercare o piú semplicemente a riconoscere i limiti in certo qual modo negativi del racconto, a riflettere sui principali giuochi d'opposizioni attraverso cui il racconto si definisce, si costituisce di fronte alle diverse forme del non-racconto.

Diegesis e mimesis. Una prima opposizione è quella indicata da Aristotele in alcune rapide frasi della Poetica. Per Aristotele il racconto (diegesis) è uno dei due modi dell'imitazione poetica (mimesis), mentre l'altro è la rappresentazione diretta degli avvenimenti fatta da attori che parlano e agiscono davanti al pubblico. pubblico. [1448a.]

 Si instaura qui la distinzione classica fra poesia narrativa e poesia drammatica, distinzione che era già stata accennata da Platone nel III libro della Repubblica, con queste due differenze però, che da un lato Socrate negava al racconto la qualità (ossia per lui il difetto) dell'imitazione, e dall'altro teneva conto degli aspetti di rappresentazione diretta (dialoghi) che poteva comportare un poema non drammatico come quelli d'Omero d'Omero.. Ci sono dunque alle origini della tradizione classica due partizioni apparentemente contraddittorie, in cui il racconto  verrebbe ad opporsi all'imitazione, all'imitazione, qui come sua antitesi, là come uno dei dei suoi modi. Per Platone il campo dì quella che chiama la lexis (o modo di dire, in opposizione a logos che designa ciò che  viene detto), si divide teoricamente in imitazione propriamente detta (mimesis) e semplice racconto (diegesis). s). Per semplice racconto Platone intende tutto ciò che il poeta narra « parlando a suo nome, senza cercare di farci credere che sia un altro a parlare»: [393a]

 ad esempio quando Omero, nel canto I dell' Iliade, ci dice a proposito di Crise: « Giunse costui alle navi snelle degli Achei per liberare la figlia, con riscatto infinito, avendo tra mano le bende d'Apollo che lungi saetta, intorno allo scettro d'oro, e pregava tutti gli Achei ma sopra tutto i due Atridi, ordinatori d'eserciti ». [Iliade, I, vv. 1216, trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1963.]

 Invece l'imitazione consiste, a partire dal verso successivo, nel fatto che Omero fa parlare Crise stesso, o meglio, secondo Platone, che parla facendo finta d'essere divenuto Crise e « sforzandosi in tutti i modi di darci l'illusione che non è Omero a parlare, bensí proprio il vegliardo, sacerdote d'Apollo ». Ecco il testo del discorso di Crise: « Atridi, e voi tutti, Achei schinieri robusti, a voi diano gli dei, che hanno le case d'Olimpo, d'abbattere la città di Priamo, di ben tornare in patria; e voi liberate la mia creatura, accettate il riscatto, venerando venerando il figlio di

 

Zeus, che lungi saetta ». Ora, aggiunge aggiung e Platone, Omero avrebbe potuto benissimo proseguire l'esposizione in forma puramente narrativa, raccontando le parole di Crise, invece di riferirle, il che, per il medesimo brano brano,, avrebbe dato in stile indiretto e in prosa: « Una volta giunto il sacerdote pregò gli dei di concedere loro di prendere Troia scampandoli da morte, e chiese ai Greci che gli venisse resa la figlia in cambio di un riscatto e per rispetto verso gli dei ». [393e]

 Questa divisione teorica che contrappone all'interno della dizione dizione poetica, i due modi puri ed eterogenei del racconto e dell'imitazione, comporta e instaura una classificazione pratica dei generi che comprende comprende i due modi puri (il modo narrativo, rappresentato dall'antico ditirambo, e il modo mimetico rappresentato dal teatro), piú un Iliadepoesia modo o piú precisamente che ècompletamente quello dell'epopea, comeperché l'esempio dell'ogni ci ha mostrato. La misto, classificazione aristotelica alternato, è a prima vista diversa, riporta all'imitazione, distinguendo soltanto due modi imitativi, il diretto, che è quello che Platone chiama propriamente imitazione, e il narrativo che chiama, come Platone, diegesis. D'altra parte Aristotele sembra identificare non solo, come Platone, il genere drammatico al modo imitativo imitat ivo,, ma anche, senza tenere conto in linea di principio del suo carattere misto, il genere epico al modo narrativo puro. Questa riduzione può dipendere dal fatto che Aristotele definisce, piú strettamente di Platone, il modo imitativo in base alle condizioni sceniche della rappresentazione drammatica. Può inoltre giustificarsi per il fatto che l'opera epica, qualunque sia la parte materiale dei dialoghi o dei discorsi in stile diretto, e anche se essa eccede quella del racconto racconto,, rimane essenzialmente narrativa in quanto i dialoghi  vengono necessariamente inquadrati e introdotti da parti narrative che costituiscono costituiscono in senso vero e proprio proprio il  fondo o, se si vuole, la trama del discorso. discorso. Del resto Aristotele riconosce ad Omero la superiorità, sugli altri poeti epici, di intervenire personalmente il meno possibile nel suo poema, mettendo il piú delle volte in scena personaggi caratterizzati, conformemente al compito del poeta che è d'imitare il piú possibile. [1460a]

Con ciò egli sembra riconoscere implicitamente il carattere imitativo dei dialoghi omerici e quindi il carattere misto della dizione epica, narrativa nel fondo ma drammatica nella sua dimensione maggiore. La differenza tra la classificazione di Platone e quella d'Aristotele si riduce quindi a una semplice variazione di terminologia: le due classificazioni convergono nell'essenziale, ossia nell'opposizione fra genere drammatico e genere narrativo, giacché il primo viene considerato da entrambi i filosofi come piú compiutamente imitativo del secondo – accordo di fatto, in un certo senso sottolineato dal disaccordo sui valori: Platone, infatti, condanna i poeti in quanto imitatore, a cominciare dai drammaturghi, senza far eccezione per Omero considerato ancora troppo mimetico per un poeta narrativo nar rativo,, poiché egli non ammette nella Città che un poeta ideale la cui dizione austera dovrebbe essere il meno mimetica possibile; mentre Aristotele simmetricamente pone la tragedia sopra l'epopea e loda in Omero tutto ciò che avvicina la sua scrittura alla dizione drammatica. I due sistemi sono quindi identici, salvo un rovesciamento di valori: tanto per Platone, quanto per Aristotele, il racconto è un modo attenuato della rappresentazione letteraria – e non si vede bene sulle prime che cosa potrebbe indurre a un punto di vista diverso diverso.. Bisogna tuttavia introdurre qui un'osservazione di cui né Platone né Aristotele sembrano essersi preoccupati e che restituisce al racconto tutto il suo valore e la sua importanza. L'imitazione diretta, cosí come funziona sulla scena, si avvale di gesti quanto di parole. In quanto si avvale di gesti può evidentemente rappresentare delle azioni, ma sfugge sfugg e in questo caso al piano linguistico che è quello in cui si esercita l'attività specifica del poeta. In quanto si avvale di parole, discorsi tenuti da personaggi ( è ovvio che in un'opera narrativa la parte d'imitazione diretta si riduce a questo), non è propriamente parlando rappresentativa poiché poiché si limita a riprodurre tale e quale un discorso reale o fittizio. Possiamo dire che i versi 1520 dell'Iliade citati prima ci danno una rappresentazione  verbale degli atti di Crise, ma non non possiamo dire la stessa cosa dei sette successivi; essi non rappresentano il discorso di Crise: se si tratta di un discorso realmente pronunziato, lo ripetono, letteralmente, e se si tratta di un discorso fittizio, altrettanto letteralmente lo costituiscono, in entrambi i casi il lavoro della rappresentazione è nullo; in entrambi i casi i cinque versi d'Omero si confondono strettamente con il discorso di Crise: non è evidentemente lo stesso per i cinque versi narrativi che precedono e che non si confondono minimamente con gli atti di Crise: « La parola cane – dice William James – non morde ». Se si chiama imitazione poetica il fatto di rappresentare con mezzi verbali una realtà non verbale ed, eccezionalmente, verbale (cosí come si chiama imitazione pittorica il fatto di rappresentare con mezzi pittorici una realtà non pittorica ed, eccezionalmente, pittorica), bisogna ammettere che l'imitazione si trova nei cinque versi narrativi e non si trova affatto nei cinque  versi drammatici, che consistono consistono semplicemente nell'interpolazione nell'interpolazione,, dentro un testo che rappresenta rappresenta degli avvenimenti, d'un altro testo direttamente tratto da questi avvenimenti come se un pittore olandese del xvii secolo, anticipando anticipando certi procedimenti moderni avesse messo in mezzo a una natura morta non la pittura di un guscio d'ostrica, ma un vero guscio d'ostrica. Questo paragone semplicistico vuole fare toccare con mano il carattere profondamente eterogeneo d'un modo d'espressione cui cui siamo talmente abituati da non accorgerci piú

 

dei suoi cambiamenti di registro, neppure di quelli piú bruschi. Secondo Platone il racconto « misto », il tipo di relazione piú corrente e piú universale, « imita » alternativamente, con lo stess stessoo tono, e come direbbe Michaux «senza neppure vedere la differenza », una materia non verbale che deve effettivamente effettivamente rappresentare come può, e una materia verbale che si rappresenta da sola s ola e che si accontenta il piú delle volte di citare. Se si tratta di un racconto storico rigorosamente fedele, lo storico-narratore deve sí essere sensibile al cambiamento di regime, allorché passa dallo sforzo narrativo nel riferire gli atti att i accaduti alla trascrizione meccanica delle parole pronunciate, ma quando si tratta di un racconto parzialmente o totalmente fittizio, il lavoro di finzione che concerne ugualmente contenuti verbali e contenuti non verbali probabilmente l'effetto di dissimulare la differenza che separa i due tipi d'imitazione, di cui una è , oserei dire, in presa diretta, mentre l'altra fa intervenire un sistema piuttosto complesso di meccanismi. Anche ammettendo (il che è d'altronde difficile) che immaginare atti e immaginare parole sia frutto della medesima m edesima operazione mentale, « dire » questi atti e dire queste parole sono due operazioni verbali profondamente diverse. diverse. O meglio, soltanto la prima costituisce una vera operazione, un atto di dizione in senso platonico, comportante una serie di trasposizioni e d'equivalenze d'equivalenze,, e una serie di scelte inevitabili fra gli elementi della storia da conservare e quelli da scartare, tra le diverse prospettive possibili, ecc. – tutte operazioni evidentemente assenti quando il poeta o lo storico si limitano a trascrivere un discorso. Si può certo (anzi si deve) contestare questa distinzione fra l'atto di rappresentazione mentale e l'atto di rappresentazione verbale – fra il logos e la lexis –, ma questo significa contestare la teoria stessa dell'imitazione che concepisce la finzione poetica come un simulacro di realtà altrettanto trascendente il discorso che l'assume quanto l'evento storico è esterno al discorso dello storico oppure il paesaggio rappresentato al quadro che lo rappresenta: teoria che non fa alcuna differenza differenza tra finzione e rappresentazione poiché pe perr essa l'ogg l'oggetto etto della finzione si riduce a un reale finto e che aspetta di essere rappresentato rappresentato.. Ne viene che in questa prospettiva la nozione stessa d'imitazione sul piano della lexis è un puro miraggio che svanisce man mano che ci si avvicina: il linguaggio non può imitare perfettamente altro che il linguaggio, linguagg io, o piú precisamente un discorso può imitare perfettamente soltanto un discorso perfettamente identico; un discorso insomma può imitare soltanto se stesso. In quanto lexis, l'imitazione diretta è né piú né meno una tautologia. Ci troviamo dunque di fronte a questa conclusione inattesa, che il solo modo che la letteratura in quanto rappresentazione conosca è il racconto, racconto, equivalente verbale d'eventi non verbali e anche (come dimostra l'esempio portato da Platone) d'eventi verbali, salvo cancellarsi cancellarsi in quest'ultimo caso di fronte a una citazione diretta in cui si annulla ogni funzione rappresentativa, all'incirca come un oratore forense può interrompere il discorso per lasciare che il tribunale esamini personalmente una prova. La rappresentazione letteraria, la mimesis degli antichi non è quindi il racconto piú i « discorsi », è il racconto e soltanto il racconto. Platone opponeva mimesis a diegesis come un'imitazione perfetta a un'imitazione imperfetta; ma l'imitazione perfetta non è piú un'imitazione, è la cosa stessa, e in ultima analisi la sola imitazione è quella imperfetta. La mimesis è diegesis.

Narrazione e descrizione. Ma se cosí definita la rappresentazione letteraria si confonde con il racconto (in senso largo), non si riduce però agli elementi puramente narrativi (in senso stretto) del racconto. Dobbiamo ora tenere conto, nel seno stesso della diegesi, di una distinzione che non è presente né in Platone né in Aristotele e che segnerà una nuova frontiera all'interno stesso della rappresentazione. Ogni racconto comporta infatti, per quanto intimamente mescolate e in proporzioni assai variabili, tanto rappresentazioni d'azioni e d'avvenimenti, che costituiscono la narrazione propriamente detta, quanto rappresentazioni rappresentazioni d'oggett d'oggettii o di personaggi, che appartengono piú specificamente a quella che oggi viene chiamata la descrizione. L'opposizione tra narrazione e descrizione, accentuata d'altronde dalla tradizione scolastica, è uno dei caratteri salienti della nostra coscienza letteraria. Eppure si tratta di una distinzione relativamente recente di cui sarebbe interessante una volta o l'altra studiare l'origine e gli sviluppi nella teoria e nella pratica della letteratura. Non sembra, a un primo sguardo, che sia stata molto operante prima del xix secolo, epoca in cui l'introduzione di lunghi passi descrittivi in un genere tipicamente narrativo come il romanzo mette in evidenza le possibilità e le esigenze del procedimento. [La troviamo tuttavia in Boileau a proposito dell'epopea: Soyez vif et pressé dans vos narrations; | Soyez riche et pompeux dans vos descriptions [Sii vivace e rapido nelle narrazioni, | ricco e pomposo nelle descrizioni] (Art Poét. III, 257-58).]

Questa persistente confusione o meglio indifferenza a distinguere, come indica molto nettamente in greco l'uso del termine comune diegesis, dipende forse soprattutto dal diverso statuto letterario dei due tipi di rappresentazione.. In teoria è evidentemente possibile concepire testi puramente descrittivi, miranti a rappresentazione rappresentare un oggetto nella sua mera esistenza spaziale, al di fuori di ogni evento e anche di ogni dimensione temporale. è anzi piú facile concepire una descrizione scevra di ogni elemento narrativo che l'inverso l'inverso,, giacché anche la piú sobria designazione degli elementi e delle circostanze di un processo può già passare per un inizio di descrizione: una frase come « La casa è bianca, con il tetto d'ardesia e le persiane verdi », non comporta nessun

 

elemento narrativo, mentre una frase come « L'uomo si avvicinò al tavolo e prese un coltello », contiene almeno, almeno, accanto ai due verbi d'azione, tre sostantivi che, per quanto poco qualificati, possono essere es sere considerati come descrittivi per il solo fatto che designano esseri animati o inanimati; anche un verbo può essere più o meno descrittivo,, nella precisione che dà allo spettacolo dell'azione (basta, per convincersene, paragonare per esempio « descrittivo afferrò un coltello » a « prese un coltello ») e di conseguenza nessun verbo è totalmente esente da risonanza descrittiva. Si può dire dunque che la descrizione è piú indispensabile della narrazione, poiché è piú facile descrivere senza raccontare che raccontare senza descrivere descrivere (forse perché gli og oggetti getti possono esistere ssenza enza movimento,, ma non il movimento senza ogg movimento oggetti). etti). Questa condizione di principio indica però già la natura del rapporto che unisce le due funzioni nella grande maggioranza dei testi letterari: la descrizione potrebbe essere concepita anche indipendentemente indipendentemente dalla narrazione, ma in realtà non la si trova per cosí dire mai allo stato libero; dal canto suo la narrazione non può esistere senza descrizione, ma questa dipendenza non le impedisce di avere costantemente la parte principale. La descrizione è per natura ancilla narrationis, schiava sempre necessaria ma sempre sottomessa, mai emancipata. Esistono generi narrativi come l'epopea, il racconto, la novella, il romanzo, in cui la descrizione può occupare uno spazio vastissimo, addirittura lo spazio maggiore mag giore in senso materiale, senza cessare di essere, come per vocazione, un semplice sussidio del racconto. Non esistono in compenso generi descrittivi e si stenta a immaginare, al di fuori dell'ambito didattico (o di finzioni semididattiche come quelle di Jules Verne) un'opera in cui il racconto funga da sussidio alla descrizione. Lo studio dei rapporti tra narrazione e descrizione si riduce quindi essenzialmente a considerare le  funzioni diegetiche della descrizione, ossia il fine che assolvono i brani o gli aspetti descrittivi nell'economia generale del racconto.. Senza entrare qui nei par racconto particolari ticolari di questo studio possiamo almeno riconoscere, nella tradizione letteraria «classica» (da Omero sino alla fine del xix secolo), due funzioni relativamente distinte. La prima è d'ordine in un certo senso decorativo decorativo.. Com'è noto la retorica tradizionale colloca la descrizione, al pari delle altre figure stilistiche, tra gli ornamenti del discorso: la descrizione ampia e particolareggiata appare in questo caso come una pausa o una ricreazione nel racconto, con funzione pura.mente estetica, simile a quella della scultura in un edificio classico. L'esempio piú celebre è forse la descrizione dello scudo d'Achille nel canto XVIII dell' Iliade. [Se non altro come l'ha interpretata e imitata la tradizione classica. Bisogna però notare che la descrizione tende qui ad animarsi e quindi a narrativizzarsi.].

È probabile che proprio a questa funzione ornamentale pensi Boileau quando raccomanda la ricchezza e il fasto in questo genere di brani. L'epoca barocca si è distinta per una sorta di proliferazione dell'excursus descrittivo,, assai evidente per esempio nel Moyse sauvé di Saint-Amant, e che ha finito col distruggere l'equilibrio descrittivo del poema narrativo ormai in declino. La seconda grande funzione della descrizione, quella piú appariscente appariscente oggi poiché si è imposta, con Balzar, nella tradizione del genere romanzesco, è d'ordine esplicativo e simbolico insieme: i ritratti fisici, le descrizioni di certi capi di vestiario e di certi arredamenti ar redamenti tendono in Balzac e nei suoi successori realisti a rivelare e insieme a giustificare la psicologia dei personaggi, personag gi, di cui sono al contempo segno, causa ed effetto. La descrizione diventa qui quello che non era nell'epoca classica, un elemento importante dell'esposizione: si pensi alle case della falle o di Balthazar de l'absolu. Tutto signorina nella Vieilled'insistervi. Claéssoltanto nella Recherche questonarrative, è fin troppo troppo noto perché ci siCormon possa permettere Osserviamo che l'evoluzione delle forme sostituendo alla descrizione ornamentale la descrizione significativa, ha mirato (almeno sino agli inizi del xx secolo) a rafforzare il predominio del narrativo: la descrizione ha indubbiamente perduto in autonomia quello che ha guadagnato in importanza drammatica. Quanto a certe forme del romanzo contemporaneo che sono apparse sulle prime come tentativi per liberare il modo descrittivo dalla tirannia del racconto, non è detto che  vadano davvero davvero interpretate cosí: considerata sotto questo aspetto, aspetto, l'opera di Robbe-Grillet appare appare,, se mai, piú come un tentativo per costruire un racconto (una storia) quasi esclusivamente mediante descrizioni impercettibilmente modificate di pagina in pagina — il che può passare al tempo stesso per una strepitosa promozione della funzione descrittiva e per una clamorosa conferma della sua irreducibile finalità narrativa. C'è da osservare infine che tutte tut te le differenze che separano descrizione e narrazione sono differenze di contenuto,, che non hanno contenuto hanno,, propriamente parlando, esistenza semiologica: la narrazione s'interessa d'azioni o d'eventi considerati come puri processi, e perciò pone l'accento sull'aspetto temporale tem porale e drammatico del racconto; la descrizione invece, indugiando su certi oggetti e certi esseri colti nella loro simultaneità, e anzi considerando i processi stessi come spettacoli, sembra sospendere il corso del tempo e contribuisce a dilatare il racconto nello spazio. spazio. Questi due tipi di discorso sembrerebbero quindi esprimere due atteggiamenti antitetici davanti al mondo e all'esistenza, uno piú attivo, l'altro piú contemplativo e perciò, secondo un'equivalenza tradizionale, piú « poetico ». Ma dal punto di vista dei modi di rappresentazione raccontare un avvenimento e descrivere un oggetto sono due operazioni simili che impegnano le medesime facoltà del linguaggio. La

 

differenza piú significativa sarebbe forse che la narrazione riesce a rendere, nella successione temporale del suo discorso, la successione ugualmente temporale degli eventi, _mentre la descrizione deve modulare nel successivo la rappresentazione d'oggetti simultanei e coesistenti nello spazio: il linguaggio linguag gio narrativo si distinguerebbe cosí per una specie di coincidenza temporale col proprio oggetto, di cui il linguaggio descrittivo sarebbe irrimediabilmente privo. Questa opposizione perde però molta della sua forza nella letteratura scritta, ove nulla impedisce al lettore di ritornare indietro e di considerare il testo nella sua simultaneità spaziale come un analogon dello spettacolo che descrive: i calligrammi di Apollinaire o le disposizioni grafiche del Coup de dés non fanno che spingere all'estremo lo sfruttamento di certe possibilità latenti dell'espressione scritta. D'altra parte nessuna narrazione, neppure quella della cronaca radiofonica, è rigorosamente sincrona s incrona dell'avvenimen dell'avvenimento to che riporta, e la  varietà di rapporti che possono possono intercorrere tra il tempo della storia e ilil tempo del racconto finisce col col ridurre la specificità della rappresentazione narrativa. Aristotele osservava già che uno dei dei vantaggi del racconto sulla rappresentazione scenica è di potere trattare varie azioni simultanee: [1459b.]

 deve però trattarle successivamente e quindi la sua situazione, le sue risorse e i suoi limiti sono analoghi a quelli del linguaggio descrittivo descrittivo..  Appare dunque chiaro chiaro che, in qu quanto anto modo della rappresentaz rappresentazione ione letteraria, la descrizione non non si distingue abbastanza nettamente dalla narrazione, né per autonomia di fini né per originalità di mezzi, perché sia necessario rompere quell'unità narrativo-descrittiva (a dominante narrativa) che Platone e Aristotele hanno chiamato racconto.. Se la descrizione segna una frontiera del racconto, è però una frontiera interna, e in ultima analisi racconto piuttosto incerta: si potrà quindi tranquillamente includere nella nozione di racconto tutte le forme della rappresentazione letteraria e si considererà la descrizione non come uno dei suoi modi (il che implicherebbe una specificità di linguaggio) ma, piú modestamente, come uno dei suoi aspetti – sia pure, da un certo punto di vista, il piú avvincente.

Racconto e discorso. Stando alla Repubblica e alla Poetica si direbbe che Platone e Aristotele abbiano voluto esplicitamente ridurre il campo della letteratura alla sola letteratura rappresentativa: poiesis = mimesis. Se pensiamo a tutto ciò che questa decisione viene ad escludere dalla sfera del poetico poetico,, vediamo profilarsi un'ultima frontiera del racconto che potrebbe essere la piú importante e la piú significativa. Si tratta nientemeno che della poesia lirica, satirica e didattica: ossia, per limitarsi ai nomi che un greco del v o del iv secolo s ecolo doveva conosce conoscere: re: Pindaro, Alceo Alceo,, Saffo,  Archiloco,, Esiodo. Così Emped  Archiloco Empedocle, ocle, sebbene si serva dello stesso metro d'Omero, d'Omero, non è considerato un po poeta eta da  Aristotele: « Bisogna chiamare Omero un poeta e l'altro altro più un fisico che un poeta ». [1447b.]

 Ma certamente Archiloco, Saffo, Pindaro non possono essere chiamati fisici: ciò che hanno in comune tutti Poetica reale gli esclusididalla è cheolafittizia, loro opera nonalla consiste nell'imitazione, mediante conto o una rappresentazione scenica, un'azione, esterna persona e alla parola del poeta, ma semplicemente in un discorso che questi tiene direttamente e a nome proprio. Pindaro canta i meriti del vincitore dei giuochi olimpici,  Archíloco inveisce inveisce contro i suoi nemici ppolitici, olitici, Esiodo dà consigli agli agricoltori. Empedocle, o P Parmenide, armenide, espongono la loro teoria dell'universo: non vi è qui nessuna rappresentazione, nessuna finzione, semplicemente una parola che s'investe direttamente nel discorso dell'opera. dell'opera. Altrettanto si può dire della poesia elegiaca latina e di tutta quella che oggi chiamiamo in senso molto largo larg o poesia lirica e, passando alla prosa, di tutto tutt o ciò che è eloquenza, riflessione morale e filosofica, [Siccome ciò che conta qui è la dizione, e non quello che viene detto, escluderemo da questa lista, come fa Aristotele (1447b), i dialoghi socratici di Platone e tutte le relazioni in forma for ma drammatica, che appartengono al campo dell'imitazione in prosa]

 dissertazione scientifica o parascientifica, saggio, carteggio, carteg gio, diario diario,, ecc. Tutto questo immenso campo dell'espressione diretta sfugge, qualunque siano i modi, le costruzioni, le forme, alla riflessione della Poetica, in quanto esso trascura la funzione rappresentativa della poesia. Abbiamo qui una nuova divisione di grande ampiezza perché taglia in due parti d'importanza grosso modo uguale l'insieme di quella che oggi costituisce per noi la letteraura. Questa divisione corrisponde press'a poco alla distinzione già proposta da Emile Benveniste [Cap. xix: Les relations de temps dans le verbe français, in Problèmes  de linguistique générale, pp. 237-50.]

 fra racconto (o , storia) e discorso, con la differenza però che Benviste include nella categoria del discorso tutto

 

quello che Aristotele chiamava imitazione diretta e che consiste effettivamente, almeno nella parte verbale, in discorsi che il poeta o il narratore attribuisce a uno dei suoi personaggi. Benveniste dimostra che certe forme grammaticali, come il pronome io (e il suo referimento implicito tu  ) , , gli « indicativi » pronominali (alcuni dimostrativi) o avverbiali (come qui, ora, ieri, oggi, domani, ecc.) e, almeno in francese, certi tempi del verbo, come il presente, il passato prossimo o il futuro si trovano specificamente riservati al discorso, mentre il racconto in senso stretto si contraddistingue per l'uso esclusivo della terza persona e di forme come l'aoristo (passato remoto) e il trapassato prossimo prossimo.. Qualunque siano le variazioni particolari da un idioma all'altro, tutte queste differenze si riducono chiaramente a un'opposizione fra l'oggettività del racconto e la soggettività del discorso; bisogna però precisare che si tratta in questo caso di un'oggettività e di una soggettività definite da criteri d'ordine prettamente linguistico: è « soggettivo sogg ettivo » il discorso in cui si rivela, esplicitamente o no, la presenza di (o il riferimento a) io, ma questo io non si definisce altro che come la persona che tiene questo discorso, allo stesso modo in cui il presente, che è per eccellenza il tempo del modo discorsivo, non si definisce altro che come il momento in cui è tenuto il discorso, poiché il suo uso marca « il coincidere dell'avvenimen dell'avvenimento to descritto con l'istanza di discorso che lo descrive ». [ Cap. xxi: De la subjectivité dans le langage, in Problèmes de linguistique générale, p. 262.]

 Inversamente l'oggettività del racconto è definita dall'assenza di ogni riferimento al narratore: « In realtà non esiste nemmeno piú un narratore. Gli avvenimenti vengono disposti come si sono prodotti a mano a mano che appaiono all'orizzonte della storia. Nessuno parla qui. Gli avvenimenti sembrano raccontarsi raccontarsi da soli »».. Ibid., p. 241] [ Ibid.,

 Abbiamo indubbiamente qui una descrizione perfetta di quello quello che è , nella sua essenza specifica e nell'opposizione radicale a qualsiasi forma d'espressione personale del parlante, il racconto allo stato puro, quale lo si può idealmente concepire ed effettivamente cogliere in certi esempi privilegiati che Benveniste Benveniste stesso attinge dallo storico Glotz e da Balzar. Riportiamo qui il passo di Gambara su cui ci soffermeremo con una certa attenzione: « Dopo un giro in galleria, il giovanotto guardò alternativamente il cielo e l'orologio da polso, fece un gesto di impazienza, entrò in una tabaccheria, accese un sigaro, andò a porsi di fronte a uno specchio e diede un'occhiata al proprio abito, abito, un po' piú sfarzoso di quanto sia consentito in Francia dalle leggi del buon gusto. Si aggiustò aggiust ò il bavero e il panciotto di velluto nero su cui si incrociava piú volte una di quelle grosse g rosse catene d'oro fabbricate a Genova; poi, dopo avere avere gettato con un solo gesto sulla spalla sinistra il mantello foderato di velluto, drappeggiandolo con eleganza, riprese la passeggiata senza lasciarsi distrarre dalle occhiate borghesi che riceveva. riceveva.  Allorché i negozi incominciarono incominciarono a illuminarsi e la notte gli parve abbastanza scura, scura, si diresse verso la piazza del Palais-Royal Palais-Ro yal con l'atteggiam l'atteggiamento ento di qualcuno che teme di essere riconosciuto riconosciuto,, giacché rasentò la piazza sino alla fontana, per raggiungere al riparo delle carrozze l'imbocco di via Froidmanteau... »  A questo livello di purezza, purezza, la dizione propria propria del racconto è in un certo senso la transitività assoluta de dell testo, l'assenza perfetta (se si trascura qualche strappo su cui ritorneremo tra un momento) non soltanto del narratore ma anche della narrazione stessa, attraverso l'abolizione rigorosa di ogni riferimento all'istanza di discorso che la costituisce. Il testo è qui, sotto i nostri occhi, senza che nessuno lo proferisca, senza che nessuna (o quasi) delle informazioni che contiene esiga, per essere capita o valutata, di essere riferita alla fonte, di essere giudicata secondo la distanza o il rapporto che ha col (dal) parlante e con (dal) l'atto del parlare. Se si paragona un tale enunciato a una frase del tipo: « Aspettavo per scrivervi scrivervi d'avere una dimora fissa. Alla fine mi sono deciso: passerò l'inverno qui » [SENANCOUR, Oberman, Lettera V. ] ]

 si può misurare fino f ino a che punto l'autonomia del racconto si opponga alla dipendenza del discorso, le cui determinazioni essenziali (chi è lo, chi è voi, quale luogo designa qui?  ) possono essere decifrate solo in rapporto rapporto alle condizioni in cui è stato emesso. Nel discorso qualcuno parla e la sua situazione nell'atto stesso in cui parla è la fonte delle informazioni inform azioni più importanti; nel racconto racconto,, come dice incisivamente Benveniste, nessuno parla, nel senso che non c'è mai un momento m omento in cui dobbiamo chiederci chi parla, dove e quando, ecc., per recepire integralmente il significato del testo. Bisogna però aggiungere immediatamente che queste essenze del racconto e del discorso non si trovano quasi mai allo stato puro in nessun testo: c'è quasi sempre una certa proporzione di racconto nel discorso, una certa dose di discorso nel racconto. racconto. In realtà la simmetria finisce qui in quanto la contaminazione sembra poi agire molto differentemente sui due tipi d'espressione: l'inserzione di elementi narrativi sul piano del discorso non basta a emancipare quest'ultimo, perché perché essi rimangono il piú delle volte legati al riferimento al parlante, il quale resta implicitamente presentecome nelloun« sfondo e può».intervenire di nuovoleggiamo quando nei vuole, senza che questo reinserimento sia percepito intrusione Cosí per esempio  Mémoires d'outretombe questo passo apparentemente oggettivo: « Quando il mare era grosso e c'era tempesta, l'onda, sbattuta ai piedi del

 

castello dalla parte della grande spiaggia spiag gia di sassi, sprizzava fino alle grandi torri. A venti piedi d'altezza sopra la base di una di queste torri si ergeva un parapetto di granito stretto e scivoloso, inclinato, attraverso il quale si comunicava col rivellino rivellino che proteggeva il fossato: si trattava di cogliere l'istante fra due onde, superare il punto pericoloso prima che l'onda si frangesse e coprisse la torre... ». [ Libro I, cap. v.]

 Noi sappiamo però che il narratore, rimasto momentaneamente nell'ombra durante questo passo, non si è allontanato di molto e non siamo né meravigliati né infastiditi quando riprende la parola per aggiungere: « Non uno solo di noi si rifiutava all'avventura, ma io ho visto molti impallidire prima di tentarla ». La narrazione non era  veramente uscita dall'ordine del discorso in prima persona, ed esso l'aveva assorb assorbita ita senza sforzo né distorsioni, e senza smettere essere se stesso. Invece ogni intromissione di elementi discorsivi un racconto è avvertita ce me di uno strappo al rigore del partito nar rativo.. Cosí narrativo avviene per la breveall'interno riflessionediinserita da Balzar nel testo riferito sopra: il « suo abito un po' piú sfarzoso di quanto sia consentito in Francia dalle leggi del buon gusto »  Altrettanto si può dire dell'espressione dell'espressione dimostrativa «una di quelle catene d'oro fabbricate a Genova » che contiene evidentemente l'invito a un passaggio al presente (  fabbricato corrisponde non a che si fabbricavano bensí a che si fabbricano) e di una allocuzione diretta al lettore implicitamente preso a testimonio. Altrettanto ancora si può dire dell'aggettivo « occhiate borghesi » e della locuzione avverbiale « con eleganza » che implicano un giudizio la cui fonte è qui chiaramente il narratore; narrat ore; della relativa « qualcuno che teme » che in latino sarebbe marcata da un congiuntivo per la valutazione personale che comporta; e infine della congiunzione «  giacché rasentò » che introduce una spiegazione proposta dal narratore. è evidente che il racconto non integra queste parentesi discorsive, giustamente chiamate da Georges Blin « intrusioni d'autore », con la medesima facilità con cui il discorso accoglie quelle narrative: il racconto inserito nel discorso si trasforma in elemento di discorso, il discorso inserito nel racconto rimane discorso e costituisce una specie di cisti molto facile da riconoscere e da localizzare. La purezza del racconto, si direbbe, è piú palese di quella del discorso. La ragione di questa dissimmetria è del resto assai semplice ma rivela un carattere decisivo de dell racconto: il discorso in realtà non ha alcuna purezza da preservare perché è il modo «naturale» del linguaggio, il piú ampio e il piú universale, aperto per definizione a tutte le forme; il racconto invece è un modo particolare, marcato, definito da un certo numero d'esclusioni e di condizioni restrittive (rifiuto del presente, della prima persona, ecc.). Il discorso può « raccontare » senza smettere di essere discorso, il racconto non può « discorrere » senza snaturarsi. Ma non può neppure astenersene senza finire con l'essere arido e monco: ecco perché si può dire che il racconto non esiste mai nella sua forma rigorosa. La minima osservazione di carattere generale, il minimo aggettivo che non sia semplicemente descrittivo, il piú discreto paragone, il piú modesto «forse», la piú inoffensiva delle articolazioni logiche introducono nella trama un tipo di discorso che le è estraneo e come refrattario refrattario.. Per studiare particolareggiatamente questi accidenti talvolta microscopici sarebbero necessarie numerose e minuziose analisi di testi. Uno scopo di questo studio potrebbe essere quello d'inventariare e di classificare i mezzi con cui la letteratura narrativa (e in particolare quella romanzesca) ha cercato di organizzare in modo accettabile, all'interno della sua particolare lexis, i delicati rapporti che intercorrono tra le esigenze del racconto e le necessità del discorso. Sappiamo infatti che il romanzo non è mai riuscito a risolvere in modo convincente e definitivo il problema posto da l'autore-narratore questi rapporti. A sivolte, come di ci mostra durante l'epoca classica l'esempio nel di Cervantes, Scarron, Fielding, compiace assumere il proprio discorso e interviene racconto con un'indiscrezione ironicamente insistita, rivolgendosi al lettore col tono disinvolto della conversazione familiare; a  volte invece, invece, come si può ugualmente ved vedere ere nella medesima epoca, trasferisce tutte le responsabilità responsabilità del discorso su un personaggio principale che parlerà, ossia al tempo stesso racconterà e commenterà gli avvenimenti in prima persona; è il caso dei romanzi picareschi, da Lazarillo a Gil Blas, e di altre opere fittiziamente autobiografiche come Manon Lescaut e La vie de Marianne; a volte ancora, non potendo decidersi né a parlare a nome proprio né ad affidare quest'incarico a un unico personaggio, suddivide il discorso fra i vari attori, sia in forma di lettere come fa spesso il romanzo nel xviii secolo (La nouvelle Héloise, Les Liaisons dangereuses), sia, alla maniera piú sciolta e piú sottile d'un Joyce o d'un Faulkner, facendo successivamente assumere il racconto dal discorso interiore dei personaggi principali. Il solo momento in cui l'equilibrio fra racconto e discorso sembra essere stato assunto con perfetta buona coscienza senza scrupoli né ostentazione, è evidentemente il XIX secolo, l'età classica della narrazione oggettiva, oggett iva, da Balzar a Tolstòj; vediamo invece fino a che punto l'epoca moderna abbia accentuato la coscienza della difficoltà, rosi da rendere certi tipi d'eloquio come fisicamente impossibili agli scrittori piú lucidi e piú rigorosi. Sappiamo bene per esempio come lo sforzo per portare il racconto al suo piú alto livello di purezza abbia spinto certi scrittori americani, come Hammet o Hemingway Hemingway,, a escludere l'esposizione delle motivazioni psicologiche, sempre difficili da trattare senza far ricorso a considerazioni generali di carattere discorsivo, le

 

qualificazioni implicanti una valutazione personale personale del narratore, i nessi logici, ecc., fino a ridurre la dizione romanzesca a quella successione di frasi corte, a scatti, senza articolazioni, che Sartre riconosceva nel 1943 nell' Etranger  Etranger di Camus e che abbiamo potuto ritrovare dieci anni dopo in Robbe-Grillet. Ciò che è stato sovente interpretato come un'applicazione alla letteratura delle teorie behavioriste era forse soltanto l'effetto di una sensibilità particolarmente acuta a certe incompatibilità di linguaggio. Tutte le fluttuazioni della scrittura romanzesca contemporanea andrebbero probabilmente probabilmente analizzate da questo punto di vista, e in par particolare ticolare la tendenza attuale, forse inversa alla precedente, e ben chiara in un Sollers o in un Thibaudeau per esempio, a riassorbire il racconto nel discorso presente dello scrittore intento a scrivere, in quello che Michel Foucault chiama « il discorso legato all'atto di scrivere, contemporaneo al suo sviluppo e chiuso in esso ». L'arriè refable , « L'Arc » nu mero [ L'arriè mero speciale su Jules Verne, p. 6.]

È come se la letteratura avesse esaurito o sfogato tutte le possibilità del suo modo rappresentativo e vvolesse olesse ripiegarsi sul mormorio mor morio indefinito del proprio discorso. Forse il romanzo, romanzo, dopo la poesia, sta per uscire definitivamente dall'età della rappresentazione. rappresentazione. Forse il racconto, nella singolarità negativa che gli abbiamo riconosciuta, è già per noi, come l'arte per Hegel, una cosa del passato, che dobbiamo affrettarci a osservare nel suo ritrarsi, prima che abbia definitivamente abbandonato il nostro orizzonte.

Verosimiglianza Verosi miglianza e motivazione

Il xvii secolo francese conobbe, in letteratura, due grandi processi di verosimiglianza. Il primo si colloca sul terreno propriamente aristotelico della tragedia – o piú esattamente, nel caso specifico, della tragicommedia –: è la « disputa del Cid » (1637); il secondo estende la sua giurisdizione sino al racconto in prosa: è la polemica della Princesse de Cl è ves (1678 ). In entrambi i casi infatti l'esame critico d'un'opera si ridusse essenzialmente a una discussione sulla verosimiglianza di una delle azioni costitutive della vicenda: il comportamento di Chimè ne nei confronti di Rodrigo, dopo la morte del conte, la confessione fatta dalla signora di Clèves al marito. [Non torneremo qui sui particolari di queste due polemiche di cui possiamo trovare la documentazione da una parte in A. GASTÉ, La querelle du Cid, Paris 1898, e dall'altra nella collezione dell'annata 1678 del «Mercure Galant », in VALINCOUR, Lettres sur le sujet de la Princesse de Clèves (1678), edizione curata da Cazes, Paris 1925, e nelle Conve Conversatio rsations ns sur la critique de la Princesse de Clèves, Clèves, Paris 1679. Una lettera di Fontenelle al «Mercure » e un'altra di BussyRabutin alla marchesa di Sévigné sono in appendice all'edizione Cazes della Princesse, Les Belles Lettres, Lettres, Paris Paris 1934, a cui rinvieranno rinvieranno qui tutte le citazioni del romanzo. Sulle teorie classiche del verosimile consultare BRAY, Formation de la dottrine classique en Frante, Nizet, Paris 1927, e SCHÉRER, La 2 dramaturgie classique en Frante Frante,, Nízet, Paris 1962 .]

 In entrambi i casi vediamo anche quanto la verosimiglianza si distingua dalla verità storica o particolare: « è  vero – dice Scudéry – che che Chimè ne sposò il Cíd, ma non è affatto verosimile che una damigella sposi l'assassino del proprio padre » Observations sur le Cid, in GASTÉ, La querelle du Cid, P. 75 ] [ Observations  .]

 e Bussy-Rabutin: « La confessione della signora di Clèves al marito è stravagante e può essere fatta soltanto in una storia vera; ma quando se ne inventa una liberamente è ridicolo attribuire alla propria eroina un sentimento cosí fuori dal comune». [ La La Princesse de Clèves, ed. Cazes, p. 198.]

 In entrambi i casi inoltre risalta chiaramente il legame stretto, anzi per meglio dire l'amalgama, tra la nozione di verosimiglianza e quella di buona creanza, amalgama perfettamente rappresentato dalla ben nota ambiguità (come obbligo e come probabilità) del verbo dovere: il soggetto del Cid è «cattivo» perché Chimè ne non doveva ricevere Rodrigo dopo il duello fatale, desiderare la sua s ua vittoria su don Sancio Sancio,, accettare, sia pure tacitamente, la prospettiva di un matrimonio, ecc.; l'azione della Princesse de Cl è ves è « cattiva » perché la signora di Clè ves non doveva prendere il marito come confidente – il che evidentemente significa che queste azioni sono contrarie ai buoni costumi [Come li si concepi concepisce sce all'ep all'epoca. oca. Lasciand Lasciandoo da parte l'ins l'insulsa ulsa disputa di fondo, fondo, notia notiamo mo soltanto il carattere carattere piuttost piuttostoo aristocrati aristocratico co di entrambe le Cid, lo spirito Princesse critiche nel lorodel insieme: propositoedel di intimità vendettaaffettiva e di pietàtrafamiliare che prevalgono sentimenti caso della (Madame edenel la Fayette par ellemême, l'allentamento legamea coniugale il disprezzo d'ogni sposi. Bernard Pingaud sui riassume benepersonali, Editions du Seuil, Paris 1959, P. 145) l'opinione della maggior parte dei lettori, contrari alla confessione, con questa frase: «Il modo di procedere della signora di Clè ves sembra loro essere l'ultimo grido della borghesia » ] .]

 e al tempo stesso che sono contrarie a ogni ragionevole previsione: infrazione e accidente. L'abate

 

d'Aubignac, nell'escludere dalla scena un atto storico come l'assassinio di Agrippina da parte di Nerone, scrive d'Aubignac, parimenti: « Questa barbarie non soltanto parrebbe orribile a chi la vedesse, ma addirittura incredibile, per la ragione che una cosa del genere non sarebbe dovuta accadere »; oppure ancora, in modo piú teorico: « Il teatro non rappresenta le cose come sono state ma come avrebbero dovuto essere » [  La  La pratique du théâtre (1657), ed. Mattino, Algeri 1927, pp. 76 e 68. Il corsivo è nostro.]

Sappiamo dopo Aristotele che il soggetto teatrale – e, per estensione, di ogni finzione – non è né il vero né il possibile, bensí il verosimile, ma si tende a identificare sempre piú il verosimile col dovente essere. Questa identificazione e l'opposizione tra verosimiglianza e verità sono enunciate contemporaneamente da P P.. Rapin, in termini platonici: « Lasempre verità non fa le cose altrorisulta che come la verosimiglianza le particolari. fa come debbonotipicamente essere. La verità è quasi imperfetta perché dallasono, mescolanza di condizioni Nulla nasce al mondo che nascendo non si allontani dalla perfezione della sua idea. Bisogna ricercare gli originali e i modelli nella verosimiglianza e nei principi universali delle cose; ove nulla entra di materiale e di individuale a corromperli ». [Réflexions sur la poétique (1674), O Euvres, Amsterdam 1709, II, pp. pp. 115-16.]

 Cosí le buone creanze interne si confondono con la conformità o convenienza o proprietà dei costumi pretesa da  Aristotele e che è evidentemente evidentemente un elemento della verosimiglianza. verosimiglianza. « Per la proprietà proprietà dei costumi – dice La Mesnardiè re – il poeta deve tenere presente che non bisogna mai introdurre senza necessità assoluta né una fanciulla valorosa, né una donna sapiente, né un servo ser vo assennato... Mettere in scena queste tre specie di persone con queste nobili condizioni significa offendere direttamente la verosimiglianza. ordinaria... (Sempre salvo necessità) non faccia mai di un asiatico un guerriero, di un africano un fedele, di un persiano un empio, di un greco un verace, d'un trace un generoso g eneroso,, d'un tedesco un ssagace, agace, d'uno spagnolo un modesto, di un francese un incivile ». [ La La poétique (1639), citato da BRAY, Formation de la dottrine classique, p. 221.]

 In effetti verosimiglianza e buona creanza s'incontrano in un unico criterio, vale a dire « quello che è conforme all'opinione del pubblico » [RAPIN, Réflexions sur la poétique, p. 114. È la sua definizione del verosimile.]

 Questa « opinione », reale o supposta, corrisponde abbastanza precisamente a ciò che chiameremmo oggi un'ideologia, ossia un corpo di massime e di pregiudizi che costituisce al tempo stesso una visione del mondo e un sistema di valori. Si può dunque indifferentemente enunciare il giudizio d'inverosimiglianza in una forma etica: Il Cid è un cattivo testo drammatico perché porta come esempio il comportamento di una figlia snaturata, [Scudéry (GASTÉ, La querelle du Cid, pp. 798o): lo scioglimento del Cid « urta i buoni costumi », tutta la commedia «è di pessimo esempio».]

 o in una forma logica, cioè : Il  Cid è un cattivo testo drammatico perché attribuisce un comportamento riprovevole riprovevo le a una fanciulla presentata come onesta. [Chapelain (GASTÉ, La querelle du Cid, P. 365): «Il soggetto del Cid pecca proprio nella parte piú essenziale... perché... l'ossequio alla morale di una ragazza presentata come virtuosa non è salvaguardato dal poeta».]

 È ben chiaro però che una medesima massima mass ima sottende questi due giudizi, ossia che una ragazza non deve sposare l'assassino del padre, o anche che una ragazza onesta non sposa l'assassino del padre; o meglio ancora e piú modestamente che una ragazza onesta non deve sposare ecc.: il che significa che un tale fatto è al limite possibile e concepibile, ma come un accidente. Ora il teatro (la finzione) deve rappresentare solo l'essenziale. La cattiva condotta di Chimè ne, l'imprudenza della signora di Clèves sono azioni « stravaganti », per usare il term termine ine cosí espressivo di Bussy, e la stravaganza è  un privilegio del reale. Questo, sommariamente delineato, delineato, l'atteggiamento mentale su cui poggia esplicitamente la teoria classica del  verosimile, e implicitamente tutti i sistemi di verosimiglianza verosimiglianza ancora in vigore nei generi popolari quali quali il romanzo poliziesco, la letteratura rosa d'appendice, il western, ecc. Da un'epoca all'altra, da un genere all'altro, il contenuto del sistema, ossia il tenore delle norme che lo costituiscono, costituiscono, può variare in tutto o in parte (d'Aubignac osserva per esempio che ciò che era politicamente verosimile per i Greci, i quali erano repubblicani e ritenevano « la monarchia sempre tirannica », non può piú essere accettato da uno spettatore francese del xvii secolo: « noi ci rifiutiamo di credere che i re possano essere ess ere cattivi »; [ Pratique Pratique du théâtre, pp. 72-73.]

 ciò che permane e definisce il verosimile è il principio formale di rispetto alla norma, nor ma, ossia l'esistenza d'un rapporto d'implicazione tra il comportamento particolare attribuito a un certo personaggio e una certa massima generale [Per Aristotele, com'è noto, una massima è l'espressione d'una generalità riguardante i comportamenti umani (Retorica II, 1394a): si tratta però qui delle massime dell'oratore. Le massime del verosimile possono essere d'un grado molto vario di generalità, poiché sappiamo bene, per esempio, che il verosimile della commedia non è quello della tragedia o dell'epopea.]

 

 implicita e universalmente riconosciuta. Questo rapporto d'implicazione funziona anche come principio di spiegazione: il generale determina e quindi spiega il particolare, capire il comportamento d'un personaggio (tanto per fare un esempio) significa riferirlo a una massima accettata e al tempo stesso risalire anche dall'effetto alla causa: Rodrigo provoca il conte perché « nulla può impedire a un giovane bennato di vendicare l'onore del padre »; inversamente un comportamento è incomprensibile o stravagante allorché nessuna massima accettata può renderne conto. Per Per capire la confessione della signora di Clèves bisognerebbe poterla riferire a una massima quale: « una donna onesta deve confidare tutto al marito »; nel xvii secolo questa massima non è ammessa (il che equivale a dire che non esiste); sarebbe piú accetta quest'altra, che un lettore scandalizzato propone sul « Mercure Galant »: « una donna deve sempre evitare di mettere in allarme il marito »; il comportamento della principessa è dunque incomprensibile nel senso preciso che è un'azione senza massima. Sappiamo d'altronde che Madame de La Fayette è la prima a rivendicare, per bocca della sua eroina, la gloria un po' scandalosa di questa anomalia: « Vi farò una confessione che non è mai stata fatta a un marito »; e ancora: « La singolarità di una simile confessione di cui non conosceva l'esempio »; e ancora: « Non c'è al mondo un'altra avventura simile alla mia »; e addirittura (bisogna qui tenere conto delle circostanze che le impongono di dissimulare davanti alla Delfina, però il termine è da notare): « Questa storia non mi par quasi verosimile». [La Princesse de Clèves, pp. 109, 112, 126, 121.]

 Un tale sfoggio di originalità è di per se stesso una sfida allo spirito classico; bisogna tuttavia ag aggiungere giungere che l'autrice ha cercato di garantirsi da un altro lato mettendo la sua eroina in una situazione tale che la confessione diventavaa l'unica via d'uscita possibile, gius diventav giustificando tificando cosí col necessario (nel senso greco dell'anankaion aristotelico, ossia l'inevitabile) quello che non era giustificato dal verosimile: poiché il marito voleva voleva obbligarla a ritornare a corte, la signora di Clèves si trova costretta a rivelargli la ragione del suo ritiro, come d'altronde aveva aveva già previsto: « Se il principe di Clèves si ostinasse a impedirlo o a volerne conoscere le ragioni forse farò a lui e a me il male di fargliele sapere ». Si vede bene però che questo tipo di motivazione non è decisivo, giacché questa frase si trova negata da quest'altra: « Si chiedeva perché mai avesse fatto una cosa cosí arrischiata e le pareva d'essersi impegnata senza quasi averne avuto il proposito »; [La Princesse de Clè ves, pp. 105, 112.]

 e in effetti un proposito forzato non è piú un proposito; la vera risposta al perché è :  perché non poteva fare altrimenti, ma questo perché di necessità non è di una grande dignità psicologica e non sembra essere stato molto preso in considerazione nella polemica sulla confessione: nella « morale » classica le sole ragioni rispettabili sono le ragioni della verosimiglianza. Il racconto verosimile è dunque un racconto le cui azioni corrispondono come altrettante applicazioni o casi particolari a un corpo di massime riconosciute come vere dal pubblico cui esso si rivolge; queste massime però, per il fatto stesso di essere condivise e accettate restano il piú delle volte implicite. Il rapporto tra il racconto  verosimile e il sistema di verosimiglianza cui cui esso si adegua è dunque essenzialmente muto: le convenzioni convenzioni di genere funzionano come un sistema di forze e di costrizioni naturali, cui il racconto obbedisce come senza percepirle, e a fortiori senza nominarle. Nel western classico, per esempio, anche le piú rigide regole di condotta sono applicate senza essere mai spiegate, perché esse sono assolutamente scontate nel tacito contratto che esiste tra l'opera e il suo pubblico. Il verosimile verosimile è dunque qui un significato senza significante o piuttosto non ha altro significante che l'opera Donde gradimento opere verosimili » che spesso supera – la povertà o la stessa. piattezza dellaquel loro palese ideologia: il relativodelle silenzio del«loro funzionamento funzionamento. . compensa – o  All'altro capo della catena, ossia all'estremità opposta di questo stato di verosimiglianz verosimiglianzaa implicita, starebbero le opere piú affrancate da ogni sudditanza nei confronti dell'opinione del pubblico. Qui il racconto non si preoccupa piú di rispettare un sistema di verità generali; esso non dipende altro che da una verità particolare o da un'immaginazione profonda. L'originalità radicale, l'indipendenza di una tale scelta si colloca sí, ideologicamente, agli antipodi del servilismo del verosimile, però i due atteggiamenti hanno un punto in comune e cioè la medesima mancanza di commenti e di giustificazioni. Citiamo soltanto come esempi di questo secondo atteggiamento lo sdegnoso silenzio di cui si circonda, in Le rouge et le noir, il tentativo di assassinio di Julien contro Madame de Renal, o in Vanina Vaniní il matrimonio finale di Vanína col principe Savelli: queste azioni brutali non sono, in se stesse, piú « incomprensibili » di molte altre e anche il piú maldestro romanziere realista avrebbe saputo facilmente giustificarle per mezzo di una psicologia, diciamo cosí, di comodo; si direbbe però che Stendhal abbia deliberatamente scelto di conservare, o forse di conferire loro, col suo rifiuto di ogni spiegazione, spieg azione, quell'indívidualítà selvaggia che fa l'imprevedibile delle grandi azioni – e delle grandi opere. L'accento di verità, a mille miglia da ogni specie di realismo, non si distacca qui dal sentimento violento d'un'arbitrarietà pienamente de che Clèves, assunta e che disdegna di giustificarsi. forse qualcosa questo nella enigmatica alla quale BussyRabutin rimproverav rimproverava a d'essersi « C'è preoccupata piú didinon rassomigliare agli altriPrincesse romanzi di seguire il buon senso ». Ne deriva in ogni caso questo effetto particolare che dipende forse altrettanto dalla sua parte di « classicismo » (ossia di rispetto del verosimile) quanto dalla sua parte di « modernismo » (ossia di disprezzo delle

 

 verosimiglianze): l'estrema riservatezza del commento e l'assenza pressocché comple completa ta di massime generali, [Bernard Pingaud (Madame de la Fayette, p. 139) afferma il contrario, il che è un po' strano, anche se si tiene conto di qualche rara massima pronunziata da qualcuno dei personaggi, che non rientra nel nostro discorso (unica eccezione, eccezione, e per questo tanto piú notevo notevole: le: la serie di massime di Nemou Nemours rs sul ballo, pp. 37-38).]

 che può stupire in un racconto la cui redazione finale viene a volte attribuita a La Rochefoucau Rochefoucauld ld o che figura comunque come opera di « moralista ». In realtà nulla è piú estraneo al suo stile dell'epifrase [Il termine è qui deviato dal suo senso retorico stretto (sviluppo imprevisto dato a una frase apparentemente compiuta), per designare ogni intervento del discorso nel racconto: ossia all'incirca ciò che la retorica chiamava con una parola che è diventata, per altre ragioni, scomoda: epifonema.  ]]

 sentenziosa: come se le sue azioni fossero sempre o al di sotto o al di sopra di ogni commento. A questa situazione paradossale La Princesse de Cléves deve forse il suo valore esemplare come tipo ed emblema del racconto puro. Il modo in cui questi due «estremi» rappresentati dal racconto verosimile piú acquiesciente e dal racconto non  verosimile piú emancipato confluiscono confluiscono in uno stesso mutismo nei confronti confronti dei moventi e delle massime dell'azione, là troppo evidenti, qui troppo oscuri per essere esposti, induce naturalmente a supporre supporre nella scala dei racconti una «gradazione» alla maniera pascaliana, in cui la parte del primo grado, corrispondente all'ignoranza naturale, sarebbe tenuta dal racconto verosimile, e quella del terzo grado, l'ignoranza dotta che conosce se stessa, dal racconto enigmatico; resterebbe da individuare il tipo di racconto di  grado intermedio, ovverossia uscito dal silenzio naturale del verosimile e non ancora giunto al silenzio profondo di quello che chiameremmo volentieri, riprendendo il titolo d'un libro d'Yves Bonnefoy, l'Improbable. Evitando per quanto possibile di dare a questa gradazione ogni connotazione di valore, si potrebbe collocare nella regione mediana un tipo di racconto troppo discosto dai luoghi comuni del verosimile per riposare sul consenso dell'opinione dell'opinione volgare, ma nello stesso tempo troppo attaccato all'assenso di quest'opinione per imporle senza commento certe azioni la cui ragione rischierebbe allora di sfuggirle: racconto troppo originale (forse troppo « vero »), per essere ancora trasparente al suo pubblico, ma ancora [Il termine non va preso in senso temporale. Se c'è qui evoluzione storica, essa è ben lungi dall'essere rigorosa.]

 troppo timido o troppo compiacente per assumere assum ere coscientemente la propria opacità. Un racconto del genere dovrebbe allora cercare di darsi la trasparenza che gli manca moltiplicando le spiegazioni, fornendo a ogni occasione le massime, ignorate dal pubblico, pubblico, capaci di rendere conto del comportamento dei personaggi e del concatenarsi degli eventi, insomma inventando i suoi stessi luoghi comuni e simulando di sana pianta, per i bisogni della propria causa, un verosimile artificiale che sarebbe la teoria – questa volta necessariamente esplicita e dichiarata – della propria pratica. Questo tipo di racconto non è puramente ipotetico: lo conosciamo conosciamo tutti, e in forma degradata, infarcisce ancora la letteratura dei suol inesauribili sproloqui. Meglio considerarlo qui nel suo aspetto piú glorioso che è anche quello piú pregnante e piú caratteristico: il racconto balzacchiano. balzacchiano. Spesso sono state irrise (e spesso anche imitate) quelle clausole pedagogiche che introducono introducono in modo greve ma possente, i ritorni indietro esplicativi della Comédie humaine: Ecco perché,.. Per capire quello che seguirà sono sono forse necessarie alcune spiegazioni... Questo abbisogna d'una spiegazione... è necessario qui addentrarci in qualche spiegazione... è necess necessario ario per la comprensione di questa storia, ecc. Ma il demone esplicativo in Balzar non riguarda esclusivamente e neppure essenzialmente l'intreccio; la sua manifestazione piú frequente e piú caratteristica è proprio la giustificazione del fatto particolare mediante una legge generale che si suppone sconosciuta o forse dimenticata dal lettore e che il narratore deve insegnargli oppure ricordargli; donde quei triti ritornelli: Come tutte le zitelle... Quando una cortigiana... Soltanto una duchessa... La vita di provincia, per esempio, immaginata a una distanza quasi etnografica dal lettore parigino, è occasione d'una sollecitudine didattica inesauribile: « Grandet godeva g odeva a Saumur di una reputazione le cui cause ed effetti non potranno essere valutati in tutta la loro estensione da coloro che non sono mai vissuti in provincia... Queste parole debbono sembrare oscure a coloro che non hanno ancora osservato osser vato le abitudini particolari delle città divise in città alta e città bassa... Soltanto voi, poveri iloti di pro provincia vincia per cui le distanze sociali sonopiú lunghe da percorrere che per i parigini agli occhi dei quali si accorciano di giorno in giorno... voi soli potete capire...». [Eugénie Grandet, ed. Garnier, p. io; Illusione perdues, P. 36; ibid., p. 54.]

Compreso com'era di questa difficoltà, Balzac non risparmiò nulla per fondare e imporre, e sappiamo con che risultato, un « verosimile provinciale » che è una vera e propria antropologia della provincia francese, con le sue strutture sociali (come abbiamo appena visto), i suoi caratteri (l'avaro pro provinciale vinciale tipo Grandet contrapposto all'avaro parigino tipo Gobseck), le sue categorie professionali (vedi il procuratore legale di provincia nelle Illusions perdues), i suoi costumi (« la vita limitata che si conduce in provincia.., i costumi probi e severi della provincia... una di quelle guerre senza esclusione di colpi quali si conducono in provincia »), le sue caratteristiche intellettuali (« quel genio dell'analisi che posseggono possegg ono i provinciali... poiché la gente di provincia calcola tutto tutto... ...

 

com'è capace di dissimulare la gente di provincia »), le sue passioni (« uno di quegli odi sordi e mortali m ortali come se ne trova in provincia »): tutte formule [Eugénie Grandet, Le curé de Tours Tours,, La vieille falle, Le cabinet  des Antiques, passim. ] ]

che, con molte altre, compongono come il background ideologico « necessario all'intelligenza » di una buona parte della Comédie humaine. Balzac, è noto, ha « delle teorie su tutto », cl assiques, Gallimard, Paris 1953, p. 191.] [CLAUDE ROY ROY,, Le commerce des classiques,

 ma queste teorie non sono là per il mero piacere di teorizzare, esse sono innanzi tutto al servizio del racconto: gli servono a ogni piè sospinto di cauzione, di giustificazione, giust ificazione, di captatio benevolentiae, tappano tutte le falle, indicano a ogni incrocio la direzione da seguire. s eguire. Il racconto balzacchiano rimane infatti spesso piuttosto lontano da quell'infallibile concatenatio rerum che gli si attribuisce sulla fede del suo piglio sicuro e di ciò che Maurice Bardè che chiama il suo « apparente rigore »; il medesimo critico nota cosí nel solo Curé de Tours come « la potenza del reverendo Troubert, Troubert, capo occulto della Congregazione, la pleurite di Mademoiselle Gamard e la cortesia che mette a morire il vicario generale g enerale quando si ha bisogno della sua mozzetta m ozzetta » siano « coincidenze un po' troppo t roppo numerose perché passino inosservate ». [ Balzac Balzac romancier, Plon, Paris 1945, P. 253.]

Ma non sono soltanto queste compiacenze del caso a mostrare a ogni svolta al lettore un po' diffidente quella che  V  Valéry aléry avrebbe chiamato la mano di Balzac. Meno evidenti, ma piú numerosi e in fondo piú importanti, gli interventi che riguardano la determinazione deter minazione dei comportamenti, individuali e collettivi, e che rivelano la volontà dell'autore di condurre l'azione, costi quel che costi, in una determinata direzione e non in un'altra. Le grandi sequenze d'intreccio puro, puro, intreccio mondano come l'« esecuzione » di Rubempré nella seconda parte delle Illusions perdues, o giuridico come quello di Séchard nella terza parte, sono piene di queste azioni decisive le cui conseguenze potrebbero anche anche essere tutt'altre, di questi « errori f atali » che avrebbero potuto decidere della  vittoria, di queste « consumate abilità » che avrebbero avrebbero dovuto finire finire in catastrofe. Quando un personaggio balzacchiano è sulla strada del successo tutti i suoi atti rendono; quando è sulla china del fallimento tutti i suoi atti – gli stessi – cospirano alla sua perdita: [«Nella vita degli ambiziosi e di tutti coloro che arrivano soltanto con l'appoggio degli uomini e delle circostanze, seguendo un piano di condotta piú o meno ben programmato programmato e mantenuto mantenuto,, sopraggiunge un momen momento to cruciale in cui non si sa bene quale forza li sottopone a dure prove: prove: r utto cede nello stesso momento, da tutte le parti i fili si rompono o s'ingarbugliano, in ogni punto si mostra la sfortuna» (Illusions perdues, P. 506). In Balzac, questa forza si chiama spesso Balzac.]

 non c'è migliore esempio dell'incertezza e della reversibilità delle cose umane. Balzac però non si rassegna a riconoscere quest'indeterminatezza di cui tuttavia approfitta senza scrupoli, e meno ancora a lasciare vedere il modo in cui egli stesso manipola il corso degli eventi: e qui appunto intervengono le giustificazioni teoriche. « Spesso – riconosce egli stesso in Eugénie Grandet –  [  Eugénie Grandet, p. 122. Il corsivo è nostro.]

certe azioni della vita umana appaiono, appaiono, letteralmente parlando, inverosimili, benché vere. Ma ciò non avviene forse perché quasi sempre si omette di spandere sulle nostre decisioni spontanee una sorta di luce psicologica, evitando cosí di spiegare le ragioni misteriosamente concepite che le hanno rese necessarie?... Molti preferiscono negare gli eventi piuttosto che misurare la forza dei nodi, vincoli che saldano segretamente fatto a un altro nell'ordine morale ». è chiaro chedei quilegami, la funzione delladei « luce psicologica » è proprio quella un di scongiurare l'inverosimile rivelando – o presupponendo – i legami, i nodi, i vincoli che assicurano bene o male la coerenza di quello che Balzac chiama l'ordine morale. Di qui quegli entimemi caratteristici del discorso balzacchiano che fanno la gioia dei conoscitori e che a volte riescono solo a malapena a dissimulare la loro fun. zione di tappabuchi. Cosí, ad esempio, perché Mademoiselle Cormon non indovina i sentimenti di Athanase Granson? « Capace d'inventare quelle raffinatezze di grandezza sentimentale che l'avevano inizialmente perduta, non le riconosceva in Athanase. Questo  fenomeno morale non sembrerà straordinario a quanti sanno che che le qualità del cuore sono altrettanto indipendenti da quelle dello spirito quanto le facoltà del genio lo sono dalle nobiltà dell'anima. Gli uomini completi sono rari come Socrate, ecc. ». [  La  La vieille fille, p. 101 Il corsivo è nostro.]

 Perché Birotteau non è pienamente soddisfatto della sua esistenza dopo avere ricevuto l'eredità di Chapeloud? « Benché gli fosse toccato in sorte s orte il benessere da tutti desiderato e che aveva spesso sognato, siccome riesce difficile a tutti, e persino a un prete vivere senza un ideale, da diciotto mesi l'abate Birotteau aveva messo al posto delle due

passioni soddisfatte il desiderio di un canonicato ».

[ Le Le curé de Tours, Tours, p. 11. Seguiamo qui la concatenatio rerum sino alla fine, in cui vediamo una grande causa partorire un piccolo effetto: ... «Perciò la probabilità della sua nomina, le speranze che gli avevano appena date in casa della signora di Listomère, gli facevano girare cosí bene la testa che non si ricordò d'avere dimenticato il paracqua che arrivando a casa». Il corsivo è nostro.]

 

 Perché il medesimo abate Birotteau abbandona il salotto di Mademoiselle Gamard (la qual cosa, come è noto, è all'origine del dramma)? « La causa di questa diserzione è facile da capire. [Bell'esempio di « denegazione » ] .]

 Benché il vicario fosse uno di quelli cui cui il paradiso dovrà un giorno appartenere appartenere in virtú della sentenza: “Beati i poveri di spirito!” non era capace, come molti sciocchi, di sopportare la noia che gli procuravano altri sciocchi. Le persone prive di spirito assomigliano all'erba cattiva che che si compiace dei terreni godono g odono fertili, e godono tanto piú a essere divertite in quanto vanno soggette alla noia ». [ Le Le curé de Tours, P. 23. Il corsivo è nostro.]

È che in caso di bisogno si potrebbe benissimo il contrario non ci sono massime richiamino piúevidente irresistibilmente il rovesciamento ducassiano ducassiano. . Se fossedire stato necessarioe Mademoiselle Cormonche avrebbe riconosciuto in Athanase le sue stesse delicatezze, perché i grandi pensieri vengono dal cuore; Birotteau si sarebbe accontentato del suo appartamento perché uno sciocco non ha abbastanza stoffa per essere ambizioso; ambiz ioso; si sarebbe trovato a suo agio nel salotto beota della signorina Gamard perché asinus asinum fricat, ecc. Succede d'altronde che lo stesso dato comporti successivamente due conseguenze opposte, a distanza di qualche riga: « Siccome la natura degli spiriti gretti E induce a scrutare scr utare le minuzie, egli si abbandonò subito a grandi riflessioni su questi quattro avvenimenti che per altro sarebbero risultati impercettibili »; ma: « Il vicario aveva ormai riconosciuto, un po' tardi in verità, [La vera ragione di questo ritardo è che a Balzac serviva un inizio in mediar res. ] ]

 i segni di una persecuzione sorda... le cui malvagie intenzioni sarebbero state probabilmente indovinate assai prima da una mente acuta ». [ Le Le curé de Tours, pp. 13 e 14.]

 O ancora: « Con quella sagacia indagatrice propria dei preti avvezzi a dirigere le coscienze e a scavare dei nulla in fondo al confessionale, l'abate Birotteau... »; ma: m a: « L'abate Birotteau... che non aveva nessuna esperienza del mondo e dei suoi costumi, e che viveva tra la messa e il confessionale, grandemente occupato a decidere i piú lievi casi di coscienza, nella sua veste di confessore delle collegiali della città e di alcune anime belle che l'apprezzavano, l'apprezzavan o, l'abate Birotteau poteva essere considerato un bambinone ». [ Ibid., Ibid., pp. 14 e 16.]

 C'è naturalmente una certa trascuratezza in queste piccole contraddizioni che Balzac avrebbe facilmente eliminato se se ne fosse accorto: però questi lapsus rivelano anche delle profonde ambivalenze ambivalenze che la « logica » del racconto non riesce a ridurre altro che in superficie. L'abate Troubert ha successo perché a cinquant'anni decide di dissimulare e di fare dimenticare la sua ambizione e le sue capacità e di farsi passare per gravemente ammalato, come Sisto V, V, ma una cosí brusca conversione potrebbe anche suscitare la diffidenza del clero turingio (e suscita quella del reverendo Chapeloud); d'altra parte riesce anche perché la Congregazione ha fatto di lui il « proconsole segreto della Turenna »; perché questa questa scelta? a causa della « posizione del canonico in mezzo al senato femminile che con tanta sottigliezza faceva la polizia della provincia », a causa anche della sua «capacità personale »: Le curé de Tours, P. 72.] [ Le

 vediamo qui come altrove che la « capacità » d'un personaggio è un'arma a doppio taglio: ragione per innalzarlo, ragione per diffidarne e dunque per abbatterlo. Simili ambivalenze di motivazione lasciano quindi intera la libertà del romanziere a patto per lui d'insistere, per via d'epifrase, ora su un valore ora su un altro. Tra un imbecille e un intrigante consumato, per esempio, esempio, la partita è pari: secondo quello che decide l'autore il furbo la spunterà grazie alla propria abilità (è la lezione del Curé de Tours), oppure sarà vittima di questa stessa abilità (è la lezione della Vieille falle). Una donna schernita può a volontà vendicarsi per dispetto o perdonare per amore: la signora di Bargeton finisce piú o meno col fare successivamente onore a entrambe le possibilità nelle Illusione perdues. Poiché qualsiasi sentimento può benissimo, a livello della psicologia romanzesca, giustificare qualsiasi condotta, le determinazioni sono quasi sempre, qui, delle pseudo-determinazioni; e sembrerebbe quasi che Balzac, conscio e preoccupato di questa compromettente libertà, abbia tentato di dissimularla moltiplicando un po' a caso i  perché, i dunque, i perciò, tutte quelle motivazioni che chiameremmo volentieri  pseudosoggettive (come Spitzer chiamava « pseudooggettive » le motivazioni attribuite da CharlesLouis Philippe ai suoi personaggi), e la cui abbondanza sospetta non fa secondo noi che sottolineare in ultima analisi, quello che esse vorrebbero mascherare: l'arbitrarietà del  A racconto. questo disperato tentativo tentativo dobbiamo se non altro uno uno degli esempi piú avvincenti di quello quello che si potrebbe

chiamare l'invasione del racconto da parte del discorso. Certo in Balzac il discorso esplicativo e moralista resta ancora il piú delle volte (e qualunque sia il piacere che ne ricavi l'autore e in via subordinata il lettore),

 

strettamente ancorato agli interessi del racconto, e la bilancia tra queste due forme della parola romanzesca sembra restare in equilibrio; tuttavia anche se tenuto a freno da un autore loquace ma pur sempre attaccato al movimento drammatico, drammatico, il discorso si dilata, prolifera e sembra spesso sul punto di soffocare il corso degli eventi che ha il compito d'illuminare. Tanto che il predominio del narrativo si trova già ad essere, se non contestato, almeno minacciato, in quest'opera peraltro considerata sinonimo di «romanzo tradizionale». Un passo ancora e l'azione – drammatica passerà in secondo piano, piano, il racconto perderà la sua pertinenza a vantaggio del discorso: preludio alla dissoluzione del genere romanzesco e all'avvento della letteratura, nel senso moderno del termine. Da Balzac a Proust, per esempio, c'è meno distanza di quanto si creda – e Proust d'altronde lo sapeva meglio di chiunque altro. Ritorniamo ora alle nostre due dispute sulla verosimiglianza. In mezzo a quelle testimonianze cosí impregnate d'illusione realista – giacché si discute per sapere se Chimè ne o Madame de Clè ves hanno avuto torto o ragione ad agire come hanno fatto, in attesa di interrogarsi, inter rogarsi, due secoli dopo dopo,, sui loro «veri» m moventi oventi [Esempio di tale atteggiamento, Jacques Chardonne: «Questa confessione fu criticata nel xvii secolo. Fu trovata crudele e soprattutto inverosimile. C'è un'unica spiegazione: è un atto sventato. Ma una simile sventatezza è possibile soltanto se una donna ama il marito». E subito sopra: «La signora di Clèves non ama molto (il marito). Crede d'amarlo. Ma l'ama meno di quanto non creda. E tuttavia l'ama molto di piú di quanto non sappia. Queste incertezze intime fanno la complessità e tutto il movimento dei sentimenti reali » (Tableau de la littérature française xviie et xviiie si è cles (...) de Corneille à Chénier, Gallimard, Paris 1939, P. P. 128). 128). La spiegazione spiegazione è seduce seducente; nte; ha solta soltanto nto il difetto difetto di diment dimenticare icare che i sentimenti sentimenti della signora di Clèves – per il marito marito come per Nemours – non sono dei sentimenti reali, ma dei sentimenti di finzione e di linguaggio: ossia dei sentimenti che la totalità degli enunciati attraverso cui il racconto li significa esaurisce completamente. Interrogarsi sulla realtà (fuori dal testo) dei sentimenti della signora di Clèves è chimerico come domandarsi quanti figli avesse realmente Lady Macbeth, o se Don Chiscíotte avesse davvero letto Cervantes. è certamente legittimo cercare il significato  profondo d'un atto come quello della signora di Clèves, considerato come un lapsus (una «sventatezza») che rimanda a qualche realtà piú oscura: ma allora, lo si voglia o no, non è la psicanalisi della signora di Clèves che viene intrapresa, ma quella di Madame de la Fayette, o (e) quella del lettore. Per esempio: «Se la signora di Clèves si confida col principe di Clèves, è perché ama lui; ma il principe di Clèves non è suo marito, è suo padre ».]

 –, esamineremo ora due testi il cui tenore e i cui intenti sono s ono molto lontani da tale atteggiamento e che hanno in comune (nonostante grandi differenze d'estensione e di portata) una sorta di cinismo letterario abbastanza sano. Il primo è un pamphlet d'una decina di pagine, generalmente attribuito a Sorel e inti intitolato tolato Le  jugement du Cid, composé par un bourgeois bourgeois de Paris, marguillier de sa paroisse. [ GASTÉ, La querelle du Cid, pp. 230-40]

 L'autore intende esprimere, contro il parere dei «dotti» rappresentati da Scudéry, Scudéry, l'opinione del « popolo », il

quale nebel infischia di Aristoteleper e decide d'unache commedia soltanto piacere ».che ne ricav ricava: a: « Ritengo (Il Cid)seun testo drammatico questadei solapregi ragione, ha riscosso grandidalconsensi Questo ricorso al giudizio del pubblico sarà, come sappiamo, l'atteggiamento costante degli autori classici, e in particolare di Moliè re; argomento d'altronde decisivo contro regole che pretendono di fondarsi unicamente sulla preoccupazione dell'efficacia. Meno classica e anzi, potremmo dire, tipicamente barocca, questa precisazione precisazione che il gradimento del Cid sta « nella sua bizzarria e stravaganza ». Questo piacere della bizzarria, che Corneille conferma nel suo  Examen del 166o ricordando che la visita tanto criticata di Rodtigo a Chimè ne dopo la morte del Conte, provocò « un certo fremito nell'assemblea che rivelava una stupefacente curiosità e un subitaneo aumento d'interesse e d'attenzione », sembra proprio provare che l'essere conformi all'opinione non è il solo mezzo m ezzo per ottenere l'adesione del pubblico: di qui alla distruzione di tutta la teoria del verosimile, o per lo meno alla necessità di porla su nuove basi non corre molto. Ma ecco il punto cruciale dell'argomentazione in cui vedremo che questa difesa non è esente da una certa forma impertinente imper tinente di quella che si chiamerà piú tardi la messa a nudo del procedimento: « So bene  – dice Sorel – che non non è verosimile ch chee una ragazza voglia sposare l'assassino del padre, padre, ma questo dà adito a un bello scambio di battute... So bene che il Re sbaglia a non fare arrestare don Gormas, invece di invitarlo a un accomodamento, ma stando cosí le cose non sarebbe morto... So che il Re doveva avere dato ordini al porto, essendo se lo avesse fatto il Cid non gli avrebbe reso quel gran servizio che lo obbliga a stato avvertito dei piano dei Mori,  perdonarlo. So bene che l'Infanta è unmapersonaggio inutile, ma bisognava riempire la commedia. So bene che don Sancio è un'innocua macchietta, ma bisognava che portasse la spada per fare paura a Chimène. So bene che non c'era bisogno che don Gormas parlasse alla serva di quello che si sarebbe deliberato al Consiglio, ma l'autore non aveva saputo farlo dire diversamente. So bene che la scena è ora il Palazzo, Palazzo, ora la piazza pubblica, ora la stanza di Chimène, ora

l'appartamento dell'Infanta, ora quello del Re, e tutto questo cosí confuso che talvolta talvolta si passa dall'uno all'altro come per miracolo, senza avere varcato nessuna porta: ma l'autore aveva bisogno di tutto questo » . [Il corsivo è nostro.]

 Nel momento culminante della polemica, a qualche settimana dal verdetto dell'Accademia, dell'Accademia, una simile difesa era meglio perderla che trovarla; oggi però che Scudéry Scudéry,, Chapelain e Richelieu sono morti, e Il Cid è ben vivo,

possiamo riconoscere che Sorel dice parole d'oro e che egli esprime ad alta voce quello che ogni autore deve pensare piano: all'eterno perché? della critica verosimilista la vera risposta è : perché mi serve.  V  Verosimiglianze erosimiglianze e convenienze convenien ze sono spesso soltanto delle oneste foglie di fico, e non è male di tanto in tanto t anto che un fabbriciere [Il «marguillier » che si proclama nel titolo autore del volumetto],

 funzioni. arrivi cosí du – con grande essere, scandalo – a svelare certe  jugement Cid voleva Madame la Il purdelle pur nellabeghine sua indiscrezione, una difesa della commedia; le Lettres à Madame  Marquise de *** sur le sujet de la Princesse de Clèves, di V  Valincour alincour (1679), si presentano piuttosto come una una critica del romanzo; critica spesso severa nei particolari, ma la cui serietà costituisce più un omaggio che un attacco. Il libro

 

si compone di tre «Lettere» di cui la prima riguarda il trattamento della storia e il modo in cui vengono introdotti gli eventi, la seconda i sentimenti dei personaggi, e la terza lo stile. Tralasciando qui la terza, bisogna intanto osservare che la seconda riprende spesso la prima e che i « sentimenti » non sono la cosa piú importante per Valincour Valincour.. Perciò la confessione, documento fondamentale del dibattito promosso sul « Mercure Galant », non gli ispira (astensione interessante) alcun commento psicologico riguardante la Signora di Clèves, ma soltanto un elogio dell'effetto patetico prodotto dalla scena, seguito da una critica dell'atteggiamento del marito, e dal richiamo a una scena simile in un romanzo di Mademoiselle de Villedieu. Se Valincour se la prende spesso, secondo il costume dell'epoca, con il comportamento dei personaggi (imprudenza della signora di Clèves, goffaggine goffag gine e indiscrezione del duca di Nemours, mancanza di perspicacia e precipitazione del principe di Clèves, per esempio) è soltanto in quanto esso incide sul trattamento della storia, che è la sua vera preoccupazione. Come Sorel, benché in modo meno disinvolto, disinvolto, Valincou Valincourr mette l'accento sulla funzione dei diversi episodi: abbiamo già visto la scena della confessione giustificata da quella che si può chiamare la sua  funzione immediata (il patetico); Valincour l'esamína anche nella sua funzione a termine, che è piú importante ancora. La principessa non soltanto confessa al marito il sentimento che prova per un altro uomo (che (che non nomina: di qui il primo effetto a termine, curiosità e indagini del principe di Clè ves); lo confessa anche, senza saperlo, saperlo, a Nemours, nascosto a due passi di lí, che ode tutto, e che si riconosce da certi particolari. [«Questo risente un po' dell' Astrée   Astrée » , dice Fontanelle (ed. Cazes, p. 197). Indubbiamente: ma il fatto è che La Princesse de Cl è ves, al pari dell 'Astrée, è un romanzo.]

 Di qui impressione prodotta su Nemours, diviso fra la gioia e la disperazione; di qui confidenza da lui fatta di tutta l'avventura a un amico, che la riferirà alla sua amante, che la riferirà alla Delfina, che la riferisce alla signora di Clè ves in presenza di Nemours stesso (scena! ); di qui rimproveri della principessa al marito, che ella sospetta naturalmente d'essere all'origine delle indiscrezioni; reciproci rimproveri del principe di Clè ves alla moglie: ecco alcuni effetti a lunga scadenza di questa scena della confessione che sono stati e sono ancora [Sulla particolare situazione di Nemours in quest'episodio e anche in un altro, cfr. tuttavia tuttavia NICHEL BUTOR, Répertoire, Editions de Minuit, Paris 1960, pp. 74-78, e JEAN ROUSSET, Forme et signífccation, Co rti, Paris 1962, PP. 26-27.]

 trascurati dalla maggior parte dei lettori, affascinati dalla discussione sui motivi, tanto è vero il fatto che il come si spiega? serve a fare dimenticare l'a che cosa serve? V  Valincour alincour invece invece non lo dimentica: « So anc anche he bene —dice a proposito delle confidenze di Nemours — che è stata stat a messa  per preparare la confusione in cui vengono a trovarsi in seguito la signora di Clè ves e il duca di Nemours di fronte alla Delfina », e ancora: « La verità è che se entrambi non avessero commesso questi errori l'avventura della camera della Delfina non sarebbe successa ». Il rimprovero che rivolge a questi mezzi è soltanto di produrre i loro effetti a prezzo troppo alto e di compromettere cosí, in senso forte, l'economia del racconto: « Un'avventura non costa forse troppo cara, cara, quando costa errori di senso e di comportamento all'eroe del libro? » oppure: « Peccato che essa abbia potuto essere introdotta nella storia soltanto a spese del verosimile » [ La La Princesse de Cl è ves, pp. 11314. Il corsivo è nostro.]

Possiamo vedere che Valincour Valincour è lontano dal lassismo beffardo di Sorel: gli errori contro la verosimiglianza (imprudenze di una donna presentata come saggia, indelicatezze di un gentiluomo g entiluomo,, ecc.) non lo lasciano indifferente; ma invece di condannare queste inverosimiglianza in sé (il che costituisce appunto l'illusione realista), come fa uno Scudéry Scudér y o un Bussy, le giudica in funzione del racconto, secondo il rapporto di produttività che l'effetto al suo della mezzo e le condanna soltanto in cuifelice questo rapporto risulta deficitario. Cosí, se lalega scena nella stanza Delfina costa cara, è perònella in semisura stessa cosí « che il piacere che mi ha dato mi ha fatto dimenticare tutto il resto » [ La La Princesse de Clèves, p. 115.]

ossia l'inverosimiglianza dei mezzi: bilancia in equilibrio. Invece per la presenza di Nemours al momento della confessione: « Direi che dipendeva solo dall'autore creargli un'occasione meno pericolosa e soprattutto piú naturale (= meno onerosa), per udire quello che voleva che sapesse ». Ibid., p. 110 ] [ Ibid.,

 Stessa cosa per la morte del principe, provocata da un rapporto incompleto della sua spia che vede Nemours entrare nottetempo nel parco di Coulommiers, ma non sa vedere (o dire) che la visita era rimasta senza conseguenze. La spia si comporta da imbecille e il padrone da stordito e: «non so se fautorenon avrebbe fatto meglio a servirsi del suo potere assoluto per fare morire il principe di Clè ves, piuttosto di dare alla sua morte un pretesto tanto poco verosimile come quello di non avere voluto ascoltare tutto ciò che il suo ggentiluomo entiluomo aveva da dirgli »: [ Ibid., Ibid., pp. 217-18.]

 ancora un effetto che costa troppo caro; sappiamo bene che il principe di Clè ves deve morire a causa dell'amore della moglie per Nemours, ma la connessione scelta è maldestra. La legge del racconto quale la rivela

 

implicitamente Valincour Valincour è semplice e brutale: il fine deve giustificare giustificar e il mezzo. « L'autore non dirige troppo scrupolosamente la condotta dei suoi eroi: non si preoccupa che dimentichino un poco se stessi purché questo gli prepari delle avventure »; e ancora « Quando viene detto o commesso da un personaggio... quello che ci sembra un errore, non bisogna giudicarlo come negli altri libri, come qualcosa che andrebbe tagliato; al contrario si può stare sicuri che è messo apposta per preparare qualche evento straordinario ». [ Ibid., Ibid., pp. 119 e 125. Il corsivo è nostro.]

 La difesa dell'autore è felix culpa; compito del critico non è condannare l'errore a priori, ma ricercare che bene ne venga, commisurare l'uno all'altro e decidere se il bene sia tale da scusare l'errore. E quindi il vero peccato per lui sarà l'errore senza risultato felice, ossia la scena costosa e al tempo stesso stess o inutile come l'incontro tra la signora di Clè e il duca di Nemours in un sia giardino la morte principe: cosa che un mi evento è sembrata in tuttaves l'avventura è scoprire quanto inutile.dopo A quale scopodeldarsi la pena« La di supporre così piú strana straordinario... straordinario ... per concluderlo in modo così assurdo? Si tira fuori la signora di Clè ves dalla sua solitudine, la si porta in un luogo dove non ha l'abitudine di andare, e tutto per darle il dispiacere di vedere il duca di Nemours uscire da una porta secondaria »: La Princesse de Cl è ves, pp. 12930.] [ La

 il giuoco non vale la candela. Una critica così pragmatista non è certo fatta per soddisfare i patiti dell'anima, e si capisce bene che il libro di  V  Valincour alincour non abbia buona buona stampa: aridità di cuore, grettezza di spirito spirito,, formalismo sterile, rimproveri del genere sono in simili casi inevitabili – e privi d'importanza. Cerchiamo piuttosto di estrarre da questa critica gli elementi di una teoria funzionale del racconto e, subordinatamente, di una definizione, anch'essa funzionale (forse sarebbe meglio dire economica  ) del verosimile. Bisogna partire, come da un dato fondamentale, da quell'arbitrarietà del racconto, cui abbiamo già accennato prima, cheaaffascinava disgustava Valéry, Valéry, da quella libertà vertiginosa per primaLacosa il racconto marchesa..., d'adottare ogni passoeuna direzione o un'altra, e cioè la libertà, avendoche giàhaenunciato di continuare con usci, oppure ugualmente bene con rientrò, o cantava, o s'addormenta, ecc.: arbitrarietà dunque di direzione; e inoltre di rimanere fermo sul posto e di dilatarsi attraverso l'aggiunta di qualche circostanza, informazione, indizio, catalisi [Cfr. ROLAND BARTHES, Introduction à l'analyse structurale du récit, in « Communications », n. 8, p. g.]

(e cioè la facoltà di proporre dopo La marchesa... degli enunciati come de Sévigne, oppure una donna alta, magra e altera, oppure chiese la sua vettura e...): arbitrarietà d'espansione. « Sarebbe forse interessante scrivere una volta un'opera che mostrasse in ogni connessione tutta la diversità che può presentarsi allo spirito e in mezzo alla quale questo sceglie la sequenza unica che passerà nel testo. Ciò significherebbe sostituire all'illusione di una determinazione unica e imítatrice del reale quella del possibileo,ognimomento che mi sembra piú vera ». [VALÉRY, OEuvres, «Bibliothè que de la Pléiade», I, Gallimard, Paris 1957, P. 1467.]

Bisogna tuttavia osservare che questa libertà non è in realtà infinita, e che il  possibile di ogni momento è soggetto a un certo numero di restrizioni combinatorie paragonabili a quelle che impone la correttezza sintattica e semantica d'una frase: anche il racconto ha i suoi criteri di « grammaticalità », che fan sí per esempio che dopo l'enunciato: La marchesa chiese la vettura e... ci si aspetterà piuttosto: uscì per fare una passeggiata che: si mise a letto. È comunque piú giusto come metodo considerare il racconto come totalmente libero all'inizio, poi registrare le sue diverse determinazioni come altrettante restrizioni accumulate, piuttosto che postulare in partenza una « determinazione unica e imitatrice del reale ». Inoltre bisogna ammettere che quelle che appaiono al lettore come tante determinazioni meccaniche non sono state prodotte come tali dal narratore. Avendo scritto: La marchesa, marchesa, disperata..., non è probabilmente altrettanto libero di concludere con: ... ordinò una bottiglia di champagne che con:  prese una pistola e si fece saltare le cervella; cer vella; in realtà però le cose non si svolgono affatto cosí: scrivendo La marchesa..., marchesa..., l'autore sa già se terminerà la scena con una baldoria o con un suicidio suicidio,, e quindi sceglie il centro in funzione della fine. Contrariamente a quanto suggerisce il punto di vista del lettore, lett ore, non è dunque disperata che determina la pistola, bensí proprio la pistola che determina disperata. Per ritornare ad esempi piú canonici, il principe di Clèves non muore perché il suo gentiluomo si comporta stupidamente, bensí il gentiluomo si comporta stupidamente  perché l'autore vuole fare morire il principe di Clèves e questa finalità del racconto è l'ultima ratio di ogni suo elemento.  Citiamo un'ultima volta Valincour: elemento. « Quando un autore fa un romanzo lo guarda come un piccolo mondo creato da lui; e considera tutti i

 

personaggi come creature sue s ue di cui è il padrone assoluto. Egli può attribuire loro pregi e ricchezze finché vuole, farli morire o vivere finché gli piace, senza che nessuno di essi ess i abbia diritto di chiedergli ragione della sua condotta: neppure i lettori possono farlo e se c'è qualcuno che biasima un autore per avere fatto morire un eroe troppo di buon'ora è perché non riesce a indovinare le ragioni che egli ha avuto, a che cosa questa morte doveva servire nella continuazione della storia ». [VALINCOUR, Lettres, p. 216. Il corsivo è nostro.]

Queste determinazioni retroattive costituiscono precisamente quella che chiamiamo l'arbitrarietà del racconto, ossia non proprio l'indeterminazione, ma la determinazione dei mezzi attraverso i fini, in parole povere delle cause cause attraverso gli effetti. Questa è la logica paradossale della finzione, che obbliga a definire ogni elemento, ogni unità del racconto in base al suo carattere funzionale, ossia alla sua correlazione con un'altra unità,

[cfr. ROLAND BARTHES, Introduction à l'analyse strutturale du récit, P. 7: «L'anima di ogni funzione è, se cosí possiamo dire, il suo germe, ciò che le permette di inseminare il racconto con un elemento che maturerà piú tardi».]

e a motivare la prima (nell'ordine della temporalità narrativa) attraverso la seconda, e via di seguito – per cui l'ultima è quella che regge tutte tutt e le altre e che non è retta da nessuna: luogo essenziale dell'arbitrarietà almeno nell'immanenza del racconto stesso, giacché è lecito in seguito cercargli tutte tutt e le determinazioni psicologiche, storiche, estetiche, ecc. che si vorrà. Secondo questo schema tutto nella Princesse de Clèves, sarebbe legato a questo, che costituirebbe appunto il suo telos: la signora di Clè ves, vedova, non sposerà il duca di Nemours, che ama, cosí come tutto, in Bérénice, è legato all'epilogo all'epilog o enunciato da Tacito: invitus invitarn dimisit. Schema, sí certo, e anzi schema il cui effetto riduttivo è meno avvertibile a proposito di un'opera il cui disegno è (come si sa) estremamente lineare. Esso tuttavia sacrifica quella che dianzi abbiamo chiamata la  funzione immediata di ogni episodio: ma tali funzioni non cessano per questo di essere delle funzioni e la loro reale determinazione (la preoccupazione dell'effetto) dell'eff etto) di essere una finalità. C'è dunque in realtà, e persino nel racconto piú unilineare, una sovradeterminazione funzionale sempre possibile (e auspicabile): la confessione della signora di Clèves detiene cosí, oltre alla sua funzione a lunga scadenza nell'intreccio nell'intreccio, grandinumero di funzioni a breve e medianon scadenza, di cui visto le principali. anche esistere, un forme racconto la cui finalità si esercita attraverso un abbiamo concatenamento lineare maPossono attraverso una determinazione a fasci: tali le avventure di Don Chisciotte nella prima parte del romanzo, le quali piú che determinarsi l'una con l'altra sono tutte determinate deter minate (apparentemente, ricordiamolo, ricordiamolo, poiché la determinazione reale è inversa) dalla «follia» del cavaliere, che detiene un fascio di funzioni i cui effetti saranno scaglionati nel tempo del racconto ma che logicamente sono sul s ul medesimo piano. Esistono certamente altri schemi funzionali possibili, ed esistono anche delle funzioni estetiche diffuse il cui punto d'applicazione resta fluttuante e apparentemente indeterminato. Non si potrebbe certo dire senza danno per la verità dell'opera che il telos della Chartreuse de Parure è che Fabrizio del Dongo muoia in un convento a due leghe da Sacca, o quello di  Madame Bovary che Homais riceva la legion d'onore e neppure che Bovary muoia solo e disilluso sotto il pergolato, perg olato, e neppure... La vera funzione globale di ciascuna di queste opere ce la indicano abbastanza giustamente [Non bisogna tuttavia confondere funzione e intenzione: una funzione può essere in larga misura involontaria, un'intenzione può fallire o essere trascesa dalla realtà dell'opera: l'intenzione globale di Balzar nella Comédíe humaine era, come si sa, di fare concorrenza allo stato civile.]

gli autori stessi: quella di Bovary è di essere un romanzo color pulce, come Salammbó sarà color porpora; quella della Chartreuse è di dare la medesima « sensazione » della pittura del Correo gio e della musica di Cimarosa. Lo studio di tali effetti supera i mezzi attuali dell'analisi strutturale str utturale del racconto,

soltanto un [ Del resto la narratività d'un'opera narrativa non esaurisce la sua esistenza, e neppure la sua letterarietà. Nessun racconto letterario è soltanto racconto.]

ma questo fatto non autorizza a ignorare il loro statuto funzionale. Chiamiamo dunque qui arbitrarietà del racconto la sua funzionalità, ma questo appellativo può a buon diritto sembrare mal scelto; la sua ragion d'essere sta nella volontà di connotare un certo parallelismo di condizioni tra il racconto e la lingua. Sappiamo che anche in linguistica il termine di arbitrarietà, proposto da Saussure, è soggetto a contestazioni, ma ha il merito, che l'uso ha oggi reso imprescrittibile, di opporsi a un termine simmetrico s immetrico che è motivazione. Il segno linguistico è arbitrario anche in questo senso che esso è giustificato soltanto dalla sua funzione, e sappiamo che la motivazione del segno, e particolarmente della « parola », [Esempio classico, citato (o inventato) da GRAMMONT GRAMMONT,, Le vers français, P. 3: «E la parola table? Sentite come rende bene l'impressione d'una superficie piana poggiata su quattro piedi ».]

 è nella coscienza linguistica un caso tipico d'illusione realista. Ora il termine ter mine di motivazione (motivacija) è stato felicemente introdotto (come quello di funzione) nella teoria letteraria moderna dai formalisti russi per designare il modo in cui la funzionalità degli elementi del racconto si dissimula sotto una maschera di determinazione causale: cosí il «contenuto» può non essere es sere altro che una motivazione, ossia una giustificazione a posteriori della forma che, in realtà, lo determina: Don Chisciotte è presentato come erudito per giustificare l'intromissione nel romanzo di brani critici, l'eroe byroniano è lacerato per giustificare il carattere frammentario della composizione

 

dei poemi di Byron, ecc. [Cfr. V. ERLICH, Russian Formalism, Mouton, L'Aia 1964, cap. xi [trad. it. Il formalismo russo, trad. di M. Bassi, Bompiani, Milano 1966].]

 La motivazione è quindi l'apparenza l'apparenza e l'alibi causalista che si dà la determinazione determ inazione finalista che è la regola della finzione: [L'importanza dell'alibi è evidentemente variabile. Sembra raggiungere il massimo nel romanzo realista alla fine del xix secolo. In epoche piú antiche (Evo Antico, Medioevo, per esempio) un livello piú rozzo o piú aristocratico del racconto non cerca si può dire affatto di dissimulare le sue funzioni. «L'Odissea non comporta nessuna sorpresa; tutto è detto in an, ticipo, e tutto ciò che è detto s'avvera... Questa fiducia nella realizzazione degli avvenimenti preannuncia preann unciatiti incide profondamen profondamente te sulla nozione nozione d'int d'intreccio reccio... ... Che cosa ha in comune l'intrecci l'intreccioo causale causale che ci è abituale abituale con l'intreccio l'intreccio di predestinazione proprio dell'Odissea?» (TZVETAN TODOROV TODOROV,, Le récit primitif, «Tel Quel », n. 30, P. 55)]

 il poiché incaricato di fare dimenticare il in vista di che? – e dunque di naturalizzare, o di realizzare (nel senso di:  fare passare per reale) r eale) la finzione, dissimulando ciò che essa ha di concertato, come dice Valincour, Valincour, ossia d'artificiale: insomma di fittizio. Il rovesciamento di determinazione che trasforma il rapporto (artificiale) da mezzo a fine in un rapporto (naturale) da causa a effetto, è lo strumento vero e proprio di questa realizzazione, evidentemente necessaria per il consumo corrente, che esige esig e che la finzione sia presa in un'illusione, sia pure imperfetta, di realtà. C'è dunque un'opposizione diametrale, dal punto di vista dell'economia del racconto, tra la funzione di una unità e la sua motivazione. Se la sua funzione è (grossolanamente parlando) ciò a cui essa serve, la sua motivazione è ciò che le abbisogna per dissimulare la sua funzione. In altre parole la funzione è un profitto, la motivazione è un costo. [Bisogna tuttavia tenere conto, fuori dal piano narrativo, dell'eventuale funzione immediata del discorso motivante. Una motivazione può essere onerosa dal punto di vista della meccanica narrativa e gratificante su un altro piano, quello estetico per esempio: ossia il piacere piú o meno ambiguo che il lettore di Balzac trae dal discorso balzacchiano – e che può benissimo arrivare fino a eliminare del tutto il punto di vista narrativo. Non è per la storia che  vengono letti SaintSimon o Michelet.]

 Il rendimento di un'unità narrativa, o se si preferisce, il suo valore, sarà dunque la differenza data dalla sottrazione: funzione meno motivazione. V = F–M è quello che potremmo chiamare il teorema di Valincour Valincour.. [È tempo di rammentare qui che esimi studiosi attribuiscono la paternità reale delle Lettres sur la Princesse de Cl è ves, non a Valincour ma al P. Bouhours.]

 Non bisogna troppo ridere di questo sistema sist ema di misura, un po' spicciativo forse, ma che vale quanto un altro. Esso fornisce in ogni caso una definizione abbastanza spedita del verosimile che tutto ciò che precede ci dispenserà dal giustificare maggiormente: il verosimile è una motivazione implicita e che non costa nulla. In questo caso dunque, V = F0, ossia, se non mi sbaglio, V = F. Quando si sia sperimentata una volta l'efficacia di una tale formula, non ci si stupisce piú del suo uso e neppure del suo abuso. Che cosa si può immaginare di piú economico,, di piú redditizio? L'assenza di motivazione, economico motivazione, il nudo procedimento caro ai formalisti? Ma il lettore, umanista per essenza, psicologo per vocazione, mal respira quest'aria rarefatta; o meglio l'orrore del vuoto e l'urgere del senso sono tali che quest'assenza di segno diventa ben presto significante. La non motivazione diventa allora, cosa ben diversa, ma altrettanto economica, una motivazione zero. Nasce cosí un nuovo verosimile, [Se si ammette che il verosimile sia caratterizzato da M =   zero. Per chi giudicasse sordido questo punto di vista economico, ricordiamo che in matematica, tanto per fare un esempio, l'economia definisce l'eleganza.]

 che è il nostro, che abbiamo venerato e che  pure dobbiamo bruciare: l'assenza di motivazione come motivazione. Formuleremo ora in maniera piú agevole il discorso un po' aggrovigliato di questo capitolo: Distinti verosimile, tre tipi di oracconto: a) Il1)racconto a motivazione implicita, esempio: « La marchesa chiese la vettura e andò a passeggio ». b) Il racconto motivato, esempio: « La marchesa chiese la vettura e si mise a letto, perché era molto capricciosa » (motivazione di primo grado o motivazione ristretta) o, ancora: «... perché, come tutte le marchese, era molto capricciosa » (motivazione di secondo grado, o motivazione generalizzante). c)Il racconto arbitrario, esempio: « La marchesa chiese la vettura e si mise a letto ».

2) Po Possia ssiamo mo oss osserva ervare re al allor loraa che fforma ormalme lmente nte null nullaa separa separa il titipo po a dal tipo c. La differenza fra racconto «arbitrario» e racconto «verosimile» dipende soltanto da un giudizio che in fondo, di qualsiasi ordine sia, rimane sempre esterno al testo ed estremamente variabile: secondo l'ora e il luogo, ogni racconto «arbitrario» può diventare «verosimile» e viceversa. La sola distinzione pertinente è dunque tra racconto motivato e racconto non motivato (« arbitrario » o « verosimile »). Questa distinzione ci riporta, in modo m odo evidente, all'opposizione già individuata tra racconto e discorso.

 

Il giorno, la notte Ci proponiamo d'affrontare qui, a proposito di un caso molto limitato, lo studio di un settore ancora vergine, o quasi, della semiotica letteraria, che vorremmo chiamare, con una locuzione volontariamente ambigua e che non cerca di dissimulare diss imulare la propria derivazione bachelardiana, la  poetica del linguaggio. Non si tratterebbe tanto in questo caso di una semiologia « applicata » alla letteratura quanto di un'esplorazione, in un certo senso preletteraria, delle risorse, delle occasioni, delle inflessione, dei limiti, delle costrizioni che le lingue naturali sembrano offrire o imporre allo scrittore s crittore e particolarmente al poeta che ne fa uso. Abbiamo detto sembrano, sí, perché il piú delle volte la « materia » linguistica è meno data che costruita, comunque sempre interpretata e quindi trasformata da una sorta di fantasticheria attiva che è insieme azione del linguaggio sull'immaginazione e dell'immaginazione sul linguaggio: reciprocità palese, per esempio, nelle pagine che Bachelard stesso consacra alla fonetica acquatica di parole come rivi è re, ruisseau, grenouille (fiume, ruscello, rana) ecc., nell'ultimo capitolo de l' eau: et les rêves. Queste mimologie immaginarie sono indissolubilmente, come quelle che Proust ci ha lasciato, tra l'altro, in una celebre pagina di Swann, fantasticherie di parole [«Sí, davvero, le parole sognano» (BACHELARD (BACHELARD,, La poétique de la rêverie, Presses Universitaires de France, Paris 1961, p. 16).]

e fantasticherie sulle parole, suggerimenti fatti dalla lingua e alla lingua, immaginazione del linguaggio nel duplice senso, oggettivo e soggettivo, sog gettivo, che possiamo dare qui al complemento di specificazione.  V  Vorremmo orremmo quindi esplorare, animati da questo questo spirito e in via in un certo senso sperimentale, sperimentale, il semantismo im maginario d'un sistema parziale e molto elementare, ma che per la sua frequenza, la sua ubiquità, la sua importanza cosmica, esistenziale e simbolica può assurgere a valore d'esempio: si tratta della coppia formata, nella lingua francese moderna, dalle parole  jour (giorno) e nuit (notte). Non è evidentemente il caso qui di pretendere l'esaustività e neppure di stabilire un « campione » veramente rappresentativo. Si tratta piú modestamente, e in modo affatto artigianale, di riconoscere e di abbozzare la configurazione di una particella (infima, ma centrale) dello spazio verbale all'interno del quale la letteratura trova il suo posto, il suo ordine e il suo giuoco. Coppia di parole, giacché – ed è la prima osservazione che ci si impone – i due termini sono chiaramente uniti da una relazione molto forte for te che non lascia loro nessun valore autonomo. Dobbiamo dunque per prima cosa prendere nota di questo rapporto d'implicazione reciproca che designa con evidenza immediata e massiccia il giorno e la notte come due « contrari ». Dobbiamo anche osservare che quest'opposizione non è nelle cose, non è tra i « referenti », giacché in fondo nessun oggetto ogg etto al mondo può essere realmente considerato come il contrario d'un altro; l'opposizione è soltanto tra i significati: è la lingua qui che fa una divisione netta, imponendo una discontinuità che le è propria a realtà che di per sé non ne comportano affatto. La Natura, almeno alle nostre latitudini, passa insensibilmente dal giorno alla notte; la lingua invece non può passare insensibilmente da una parola all'altra: tra giorno e notte può introdurre qualche vocabolo intermedio come alba, crepuscolo, ecc., ma non può dire contemporaneamente giorno e notte, un po' giorno e un po' notte. O almeno almeno,, nello stesso modo in cui l'articolazione intermedia tra /b/ e /p/ non permette di designare nare un concetto intermedio tra « biè re » e « pierre » Paris 1960, p. 28 [ trad. it. Elementi di linguistica generale, Laterza, Bari 1966  196 6  [MARTINET, Eléments de linguistique générale, Armand Colin, Paris  ]

 in francese oppure tra « bollo » e « pollo » in italiano, la mescolanza sempre possibile dei significanti non comporta una mescolanza dei significati: il segno totale è una quantità discreta. Aggiungiamo Ag giungiamo ancora che quest'opposizione si trova rafforzata, in francese, dall'isolamento di ciascun vocabolo: un'antonimia è evidentemente tanto piú netta quanto piú contrappone due termini sprovvisti di sinonimi. Se per esempio  vogliamo designare l'antonimo di di lumière (luce) possiamo esitare tra ombre (ombra), obscurité (oscurità) e magari tenè bres (tenebre), e reciprocamente per fare antitesi a obscurité possiamo scegliere tra lumière e clarté (chiarore) per quello che concerne jour e nuit non è possibile nessuna incertezza, in nessun senso. Questa drastica opposizione non esaurisce però la relazione che unisce i due termini e, nonostante il suo carattere d'evidenza immediata, non è probabilmente neppure il primo tratto che un'analisi semantica rigorosa dovrebbe prendere in considerazione. considerazione. In effetti l'opposizione tra due termini ter mini non acquista un senso se non in rapporto a ciò che fonda il loro accostamento e che è il loro elemento comune: la fonologia ci ha insegnato che, in linguistica come altrove, la differenza è pertinente soltanto su un fondo di rassomiglianza. Ebbene, se  vogliamo definire la notte con con un minimo di precisione dobbiamo dobbiamo dire che è , all'in all'interno terno della durata di  ventiquattr'ore determinata dalla rotazione della della terra, la frazione che passa tra il tramonto e il sorgere visibili del sole, e inversamente definiremo il giorno come quella frazione della medesima durata totale, compresa tra il sorgere e il calare del sole. L'elemento comune di significazione è quindi l'inclusione nella durata di

 

 ventiquattr'ore. Ci imbattiamo imbattiamo però qui nel primo paradosso paradosso del nostro sistema: infatti per designare questo elemento comune senza ricorrere a una perifrasi, la lingua francese, come tutti sanno, sanno, dispone di un solo lessema, che è evidentemente la parola  jour (giorno), ed è dunque lecito dire che « la notte è la frazione del giorno compresa, ecc. ». In altre parole la relazione tra  jour e nuit non è soltanto d'opposizione, e quindi di reciproca esclusione, ma anche d'inclusione: in uno dei suoi significati il giorno esclude la notte, nell'altro la comprende poiché allora è , come dice Blanchot, « il tutto del giorno e della notte ». [L'espace littéraire,  Gallimard, Paris 1955, P. 174 [trad. it. Lo spazio letterario, trad. di G. Zanobetti, con un saggio di J. Pfeiffer e una nota di G. Neri, Einaudi, Torino 1967].]

 Abbiamo dunque qui un paradigma a due termini, uno dei quali serve ser ve a definire l'insieme del paradigma. Questa situazione difettiva, frequentissima d'altronde, può apparire in questo caso priva di pertinenza, visto che il contesto provvede di solito, anche in poesia, a eliminare gli equivoci piú gravi, e quando ad esempio Racine R acine contrappone La lumière du jour, les ombres de la nuit  [La luce del giorno, gior no, le ombre della notte]

il lettore sa subito s ubito in che senso deve prendere la parola  giorno. Bisogna però andare piú lontano e considerare la ragione di questa polisemia che invece non può non avere un'incidenza sul discorso. Un paradigma difettivo è sempre, a quanto pare, la traccia t raccia d'una díssimmetria semantica profonda tra i suoi termini. La confusione lessematica tra il giorno in senso ristretto e quello che potremmo chiamare l'archigiorno indica chiaramente che l'opposizione tra  giorno e notte è una di quelle opposizioni che i fonologi chiamano  privative, tra un termine marcato e un termine ter mine non marcato. Il termine non marcato, quello che fa tutt'uno col paradigma, è il giorno; il ter termine mine marcato, quello che marchiamo e rimarchiamo,, è la notte. Il giorno viene cosí designato come il ter rimarchiamo termine mine normale, il versante non specificato specificato dell'archigiorno,, quello che non ha bisogno di essere specificato perché è già ovvio dell'archigiorno ovvio,, perché è l'essenziale; la notte invece rappresenta l'accidente, la divergenza, diver Facendo ricorso paragone un po'esomm sommario, che s'impone, e di cui ritroveremo piú genza, avanti l'alterazione. altre implicazioni, diremo che ail un rapporto tra  giorno notte –ario, ma omologo, su questo piano, al rapporto tra uomo e donna –  che  che traduce il medesimo complesso di valorizzazioni contraddittorie e complementari: infatti se da un lato il giorno si trova valorizzato in quanto termine forte del paradigma, dall'altro la notte si trova in altro modo valorizzata in quanto termine marcato, significativo significativo per la sua divergenza e la sua alterità, e crediamo di non anticipare troppo sulla disamina dei testi dicendo fin d'ora che l'immaginazione poetica s'interessa piú della notte che del giorno. V Vedremo edremo piú avanti qualcuna delle for forme me che può assumere questa valorizzazione secondaria e inversa che cerca di compensare la valorizzazione primaria cristallizzata nella lingua; prendiamo almeno nota per il momento di questo fatto caratteristico: quando la poesia paragona fra loro il giorno e la notte, il paragone, sia esso esplicito oppure implicito in una metafora, opera quasi sempre nella stessa direzione che è , come sappiamo, di riferire il meno noto al piú noto, il meno naturale al piú naturale, l'accidentale all'essenziale, ossia, in questo caso, la notte al giorno. Quando si scrive: Et nous avons des nuits plus belles que vos jours [E abbiamo notti belle piú dei vostri giorni].

quando si nominano le stelle, questi fiori dell'ombra, la notte è appunto allora il « paragonato », ossia il soggetto del paragone, e il giorno è soltanto il « paragonante », ossia il mezzo. Il percorso inverso inverso sembra molto piú raro: c'è, sí, quel giorno nero piú triste delle notti, al quarto verso dell'ultimo Spleen, ma si vede subito tutto quello che c'è di paradossale, d'abbastanza paradossale per ispirare un paragone contro natura. Abbiamo ancora in Michel Deguy un esempio che è solo apparentemente anomalo, e che in realtà conferma sottilmente la regola: reg ola:  Au coeur de la nuít le jour Nuit de la nnuit uit [In mezzo alla notte il giorno | Notte della notte...] Oui dire, P. 35

Qui certo è il giorno che viene paragonato alla notte, definito in rapporto alla notte, come in genere viene definita la notte in rapporto al giorno; ma è la notte a scatola cinese, la notte della notte, l'alterazione notte, giorno del dell'alterazione: resta la norma. Nessun poeta, penso, avrebbe spontaneamente scritto all'inverso: la notte,  giorno, perché una metafora del genere sarebbe inconcepibile: inconcepibile: la negazione della negazione può essere affermazione, ma l'affermazione dell'affermazione non può mai produrre alcuna negazione. L'algebra dice piú semplicemente: meno per meno fa piú, ma piú per piú fa sempre piú. La notte della notte può essere il giorno, ma il giorno del giorno è ancora il giorno... gior no... Cosí la coppia giorno/notte non oppone due contrari a pari diritto, perché la notte è molto piú il contrario del giorno di quanto il giorno non sia il contrario della notte. La notte in realtà è soltanto l'altro del giorno, o anche, come è stato detto [GILBERT DURANO DU RANO,, Structures anthropologiques de l'imaginaire, P. 512.]

con parola spiccia e decisiva, il suo rovescio. E questo evidentemente è senza reciproco.

 

Ecco perché la valorizzazione poetica della notte è quasi sempre sentita come una reazione, come una controvalorizzazione. controvalorizz azione. Amata o temuta, esaltata o esorcizzata, la notte è ciò di cui si parla: ma si direbbe che questa parola non possa fare a meno del giorno. Si potrebbe parlare del giorno senza pensare alla notte, non si può invece parlare della notte senza pensare al giorno: « La notte – dice Blanchot – non parla che del giorno ». [ L'espace L'espace littéraire.  ]]

 Esaltare la notte significa quasi per forza prendersela col giorno – e questo inevitabile riferimento è un omaggio involontario a quella dominanza che si vorrebbe contestare... Ne troviamo un esempio caratteristico in quell'inno alla notte che conclude Le porche du mystère de la deuxiè  me vertu. Qui la controvalorizzazione è spinta all'estremo poiché l'autore, con l'ostinazione retorica che gli è propria, si sforza di stabilire contro il giorno la preminenza della notte, come priorità di fatto (« Ti ho creata per prima ») e come supremazia di diritto, riducendo il giorno a una specie d'infrazione, a uno strappo irrisorio nella grande coltre notturna: « Continua è la notte... è la notte che fa un lungo tessuto continuo, un tessuto continuo, senza fine in cui i giorni sono soltanto dei giorni, si aprono come dei giorni, ossia come buchi in una stoffa trapunta a giorno ». » . Questa rivendicazione dell'essenzialità a favore della notte, questa relegazione del giorno nell'accidente acquistano un risalto particolare nell'opposizione tra singolare e plurale: prendendo alla rovescia, rovescia, a quel che sembra, l'andamento normale della lingua, che contrappone per esempio l'astro del giorno all'astro delle notti, il Dio di Péguy non vuole conoscere che i  giorni e la notte: « O Notte, tu sei la notte. E tutti i giorni gior ni insieme non sono mai il giorno, sono sempre soltanto dei giorni ». Ma chi non vede al tempo stesso che proprio quest'ostinazione a glorificare la notte a spese del giorno giorno smentisce quell'autonomia che il suo discorso vorrebbe fare riconoscere? In fondo ciò che questa pia sofistica non arriva a dissimulare, giacché il linguaggio linguag gio rivela sempre quello che vuole nascondere, è che la preferenza accordata alla notte non è , come essa pretende, una scelta lecita e sanzionata (santificata) dall'adesione divina, bensí una scelta colpevole, un partito preso del proibito, una trasgressione. Questa dissimmetria è evidentemente fondamentale nell'opposizione dei due significati. Se si volesse sviscerare sino in fondo questa opposizione, bisognerebbe studiare ancora altri squilibri s quilibri meno immediatamente percepibili. In realtà la sola relazione semica davvero simmetrica è quella che contrappone il giorno e la notte sul piano temporale, come frazioni separate dal sorgere e dal calare del sole, e anche, metaforicamente, metaforicamente, come simboli della vita e della morte. In compenso l'antitesi tra il giorno come luce e la notte come oscurità è piú zoppicante: in effetti, jour è sinonimo di luce nel linguaggio comune, per una metonimia d'uso assolutamente corrente in francese, quando si dice per esempio laisser entrer le jour dans une piè  ce; nuit invece può designare l'oscurità, come ne la nuit du tombeau solo per una decisione stilistica che certamente deriva anch'essa da un uso, ma piú limitato e specificatamente letterario (e anzi direi piú strettamente poetico e oratorio). In altre parole i rapporti semantici iour/lumi è re e nuit/obscurité sono, per quello che riguarda la pura denotazione, strettamente identici, [A livello della sincronia, per lo meno. Lo studio delle origini apporterebbe forse maggiori precisazioni ma queste non avrebbero pertinenza per coscienza enza lingu linguistica istica del «francese moderno », che non sembra (ma quest'impressione avrebbe bisogno di essere un'analisi un'an alisi che riguarda tipicamente tipicamente la cosci  verificata piú da vicino) avere subito notevoli variazioni su questo punto da quattro secoli secol i in qua. Cosí non abbiamo bisogno di chiederci se il significato «luce» è anteriore o posteriore al significato temporale di  giorno e neppure se l'etimologia – ossia la ricerca attraverso il latino delle radici indoeuropee – lascia un senso alla questione: è sufficiente che la coscienza linguistica attuale percepisca il seme luminoso come secondo e derivato, anche se il percorso diacronico è inverso.]

ma la loro estensione e il loro livello d'uso, e quindi la loro connotazione, è diversa: prendiamo nota di questa nuova dissimmetria che ritroveremo piú avanti avanti sotto un altro aspetto, e che già sembra indicare, ci si perdoni se lo diciamo un po'dil'effetto, la coscienza linguistica sperimenta di il seme « oscurità » come meno il nuit, delche  jour. Altro essenzialeesagerandone alla significazione seme « luminosità » alla significazione difetto di simmetria, senso derivato di jour in francese come apertura, soluzione di continuità, che abbiamo incontrato prima in Péguy, Péguy, non ha nessun corrispondente nel semantismo di nuit; in compenso si troverà facilmente in nuit un seme spaziale dans le di cui invece jour sembra privo: marcher dans la nuit è un enunciato piú « naturale » alla lingua, che m archer dans  jour. C' è una spazialità (meglio sarebbe dire spaziosità) privilegiata della notte, che dipende forse dalla dilatazione cosmica del cielo notturno, alla quale molti poeti sono stati sensibili. Citiamo per esempio Supervielle: ... la Nuit, toujours reconnaissable  A sa grande altitude où n'atteint pas le vent. [ [ ... La notte riconoscibile sempre I Per la sua grande g rande altezza ove non giunge il vento]. Les amis inconnus, Gallimard, Paris 1934, P. 139.]

Il medesimo poeta ci mette sull'avviso di un altro valore metaforico di nuit, di grandissima importanza simbolica: è il senso di profondità intima, dìnteriorità fisica o psichica: rimandiamo qui, per esempio, alle analisi di Gilbert Durand, che non per niente ha posto i simboli dell'intimità nella categoria del regime notturno notturno dell'immagine. La spazialità notturna è dunque ambivalente, la notte « porosa e penetrante » è contemporaneamente metafora d'esteriorità e d'interiorità, d'altezza e di profondità, e sappiamo quanto l'intimismo cosmico di Supervielle debba a questa ambivalenza:

 

Nuit en moi, nuit en dehors, Elles risquent leurs étoiles, Les mêlant sans le savoír... Mais laquelle des deux nuits, Du dehors ou du dedans?  L'ombre est une et circolante, Le ciel, le sang ne font qu'un. [[Notte in me, notte fuori, | Rischiano le loro stelle, | Mescolandole senza saperlo... | Ma quale delle due notti, | Quella di dentro o quella di fuori? | monde, p. 88.  ]] L'ombra è una e circolante, | Il cielo, il sangue fanno una cosa sola].  Notturne en plein jour, La fable du monde,

O anche:

Le jour monte, toujours une côte à gravir,  Toi,  Toi, tu descends en nous nous,, sans jamais en finir,  Tu te laisses glisser, nous nous sommes sur ta pente, Par toi nous devenons étoiles consentantes.  Tu nous gagnes, gagnes, tu cultives nos profon profondeurs, deurs, Où le jour ne va pas, tu pénè tres sans heurts. [ [Il giorno sale sale,, sempre un pendio da scalare scalare,, I Tu, inv invece, ece, scendi in noi, scendi senza fine, | Ti lasci sciv scivolare, olare, siam siamoo sulla tua china, | Per te noi diveniamo stelle consenzienti. | Tu ci vinci, tu lavori nel nostro profondo, | Ove il giorno non va, penetri incontrastata]. A la nuit, L'escalier, p. 57.  ]]

Le osservazioni precedenti si situavano tutte, come abbiamo visto, a livello del significato, o per servirci liberamente del termine di Hjelmslev designando con ciò il taglio e i raggr raggruppamenti uppamenti di senso propri a uno stato di lingua, della forma del contenuto. Considereremo ora gli effetti di senso prodotti dagli stessi significanti al di fuori del loro semantismo esplicito, nella loro realtà sonora e grafica e nelle loro determinazioni grammaticali. Simili effetti di che senso sono in linea diassenti principio nella funzione significa siano totalmente dal inoperanti suo uso corrente, il quale denotativi non mancadel di linguaggio fare appello(laa qual quellicosa chenon Bally chiama i « valori espressivi »), ma trovano il loro pieno impiego nell'espressione letteraria, e particolarmente nell'espressione poetica, nella misura in cui questa sfrutta, coscientemente o no, quelle che V Valéry aléry chiama le  proprietà sensibili del linguaggio. Bisogna notare innanzi tutto che le parole  jour e nuit considerate nella loro faccia significante sono due di quelle parole semplici, isolate, indecomponibili, che i linguisti generalmente giudicano come le piú caratteristiche della lingua francese; e che, contrariamente al tedesco per esempio, la schierano con l'inglese dalla parte delle lingue piú « lessicologiche » che « grammaticali ». [F. DE SAUSSURE, Cours de lingu linguistiq istique ue géné générale, rale, Pay Payot, ot, Paris-Lausann Paris-Lausannee 1922 1922,, p. 183 [trad. it. Corso di lingu linguistic isticaa generale, generale, a cura di T. De Mauro, ed. riveduta, Latenza, Bari 1970]. Cfr. anche CH. BALLY, Linguistique générale et linguistique française, Francke Verlag, Berna 1950 [trad. it. Linguistica generale e linguistica francese, trad. di G. Caravaggi, introd. di C. Segre, Il Saggiatore, Milano 1963].]

 Ora, se si paragona la coppia j our/nuit ad altre coppie antonimiche quali  justice/injustice o clarté/obscurité in cui si esercita il giuoco visibile degli elementi comuni e degli elementi distintivi, risulta evidente che lo stato lessicale puro, l'assenza di ogni motivazione morfologica e quindi di ogni articolazione ar ticolazione logica, tende ad accentuare il carattere apparentemente « naturale » della relazione tra jour e nuit. Queste due parole semplici, senza morfema reperibile, ridotte entrambe al loro radicale semantico, ma ciascuno dalla propria parte e senza alcun tratto comune, sembrano cosí contrapporsi contrapporsi non come due forme, ma come due sostanze, come due « cose » o piuttosto, la parola s'impone da sé, come due elementi. Il carattere sostanziale dei vocaboli sembra qui corrispondere a quello dei significati, di cui contribuisce forse a suscitare l'illusione. Quando utilizza parole derivate, a forte articolazione morfologica, quali clarté o obscurité, il lavoro della poesia, nel suo sforzo generale per naturalizzare e reificare il linguaggio, consiste nel cancellare la motivazione intellettuale a vantaggio d'associazioni piú fisiche, e quindi piú immediatamente seducenti s educenti per l'immaginazione. Con dei lessemi « elementari » come  jour e nuit, questa riduzione preliminare gli viene in un certo senso risparmiata e si può pensare che il valore poetico di tali vocaboli dipenda in gran parte dalla loro stessa opacità, che li sottrae in anticipo a ogni motivazione analitica e che, appunto per questo, li rende piú « concreti », piú aperti alle ssole ole fantasticherie dell'immaginazione sensibile. Nell'esempio di cui ci occupiamo, occupiamo, questi effetti legati alla forma del significante si riducono essenzialmente a due categorie che considereremo successivamente per necessità d'esposizione, benché le azioni possano in realtà essere simultanee: si tratta innanzi tutto dei valori d'ordine fonico o graf grafico, ico, e poi di quelli che dipendono dall'appartenenza di ciascun termine della coppia a un genere grammaticale g rammaticale diverso diverso.. La prima categoria si richiama a fenomeni semantici sulla cui esistenza e sul cui valore non si è mai smesso sm esso di discutere dopo il Cratilo; non potendo entrare qui in questo dibattito teorico t eorico,, postuleremo come ammesse un

 

certo numero di posizioni che non lo sono in modo universale. Possiamo Possiamo comunque prendere l'avvio da una memorabile osservazione di Mallarmé il quale, rammaricandosi «che il discorso non riesca a esprimere gli oggetti ogg etti con tocchi ad essi rispondenti in colorito o andamento, tocchi esistenti nello strumento della voce », cita a sostegno di questo rimprovero rivolto all'arbitrarietà del segno due esempi convergenti, di cui uno solo fermerà qui la nostra attenzione: « A côté d'ombre, opaque, ténè bres se fonce peu; quelle déception, devant la perversité conférant à jour comete à nuit, contradictoirement, des timbres obscur ici, là clair ». [[Accanto a ombre, opaco, tén è bres incupisce poco; quale delusione di fronte alla perversità che conferisce a  jour e a nuit, contraddittoriamente, dei timbri qui oscuro, là chiaro]. OEuvres compl è tes, «Biblioth è que de la Pleiade », Gallimard, Paris 1945, P. 364. Identica osservazione troviamo in Paulhan: «La parola nuit è chiara come se volesse dire il giorno, invece la parola  jour è scura e cupa come se designasse la notte» (O Euvres compl è tes, Cercle du Livre précieux, Paris, tomo III [1968] 3, p. 273).]

Questa osservazione si fonda su uno del dati, diciamo meno frequentemente contestati, dell'espressività fonica, e cioè che una vocale definita acuta come l'/ ʮ/ semiconsonante e l'/i/ di nuit, possa richiamare, per una sinestesia naturale, un colore chiaro o un'impressione luminosa, e che invece una vocale definita grave, come l'/u/ di jour possa richiamare un colore cupo, un'impressione d'oscurità: virtualità espressive notevolmente rafforzate nella situazione di coppia, in cui una specie di omologia, o proporzione a quattro termini viene a sottolineare (o a sostituire) le corrispondenze a due termini eventualmente carenti, nel senso che, se anche si contestano le equivalenze termine a termine /i/ = chiaro e /u/ = scuro, si ammetterà con maggiore facilità la proporzione /i/ sta a /u/ come chiaro sta a scuro. scuro. Sul conto di questi effetti sonori c'è da aggiungere ag giungere un'altra osservazione, che riguarda il solo nuit, e cioè che il suo vocalismo consiste in un dittongo costituito da due vocali « chiare », molto vicine di timbro, separate da una sfumatura assai leggera legg era paragonabile diciamo a quella che distingue lo scintillio giallo dell'oro dallo scintillio bianco dell'argento, dissonanza che ha il suo peso nella luminosità sottile di questa parola. Bisognerebbe inoltre tenere conto di certi effetti visivi che contribuiscono a rafforzare o a flettere il giuoco delle sonorità, giacché, come è noto, la poesia e piú generalmente l'immaginazione linguistica, non giocano soltanto su impressioni auditive, e poeti come Claudel La philosophie du livre et idéogrammes occidentaux (OEuvres en prose, pr ose, La

[Cfr. in particolare Pléiade, pp. 68-95).] hanno avuto ragione ad attirare l'attenzione sull'incidenza delle forme form e grafiche nella fantasticheria delle parole. Come Bally dice assai bene, « le parole scritte, soprattutto nelle lingue con un'ortografia capricciosa e arbitraria, come l'inglese e il francese, assumono per l'occhio la forma d'immagini globali, di monogrammi; in piú questa immagine visuale può essere associata, bene o male che sia, al suo significato, cosicché il monogramma diventa ideogramma ». [ L Linguistique inguistique générale et linguistique française, p. 133. ]  ]

 Non è quindi privo d'interesse per il nostro discorso notare tra le lettere u ed i, una sfumatura grafica analoga a

quella che abbiamo notata tra i fonemi corrispondenti, un doppio effetto d'esilità e acutezza, che la presenza contigua delle gambe della n iniziale e dell'asta della t finale, nel suo slancio verticale, non fa che sottolineare maggiormente: sul piano visuale come sul piano sonoro, nuit è una parola leggera, viva, acuta. Dall'altra parte bisogna se non altro notare in jour quell'effetto di pesantezza e di spessore un po' opprimente che si sprigiona dal « falso dittongo » ou, e che le consonanti che lo circondano non attenuano affatto: è evidente che la parola risulterebbe piú leggera in una grafia g rafia fonetica. Infine questi richiami sinestesici vengono ad essere confermati, se non forse provocati, da alcune di quelle associazioni chiamate lessicali che muovono da rassomiglianze foniche e/o grafiche tra le parole per suggerire una specie d'affinità di senso, storicamente illusoria, ma di cui le conseguenze semantiche dell'« etimologia popolare » dimostrano la forza di persuasione, persuasione, sul piano della lingua naturale. Questa azione è probabilmente meno semplicistica e piú diffusa nel linguaggio poetico, ma questa stessa diffusione ne accresce l'importanza, soprattutto quando la rassomiglianza formale, in posizione finale, è sfruttata e sottolineata dalla rima. Si troverà cosí una conferma della luminosità di nuit nella sua stretta consonanza col  verbo luire (scintillare) e piú alla lontana con lumière (luce), per cui indirettamente con lune (luna). Ugualmente la sonorità grave di jour si rafforza per contagio paronimico con aggettivi come sourd (sordo) o lourd (denso, pesante). Come dice piú o meno Bally, Bally, il carattere puerile o fantasioso di simili accostamenti non li rende per questo trascurabile. Aggiungerei volentieri: anzi proprio al contrario. contrario. Esiste nel linguag linguaggio gio un inconscio che Proust e Freud, se non altro, ci hanno insegnato a considerare con tutta la serietà che merita. Questo è dunque lo scandalo linguistico di cui Mallarmé si crucciava, cr ucciava, come è noto noto,, soltanto in maniera del tutto provvisoria e non senza averne un risarcimento perché proprio queste specie di « difetti delle lingue » rendono possibile, in quanto necessario per « compensarli », il verso « il quale di parecchi vocaboli fa una parola totale, nuova, estranea alla lingua e come incantatoria » Oeuvres compl è tes, p. 858.] [ Oeuvres

assegnando cosí al linguaggio poetico il compito d'abolire, o di dare l'illusione d'abolire l'arbitrarietà del segno linguistico. Bisogna dunque esaminare, nel caso specifico delle due parole che ci interessano, in che modo il «  verso », ossia evidentemente il linguaggio poetico in generale, possa possa corregg correggere ere il difetto o persino trarne

 

 vantaggio. Ci può servire qui un commento, commento, breve ma prezioso, prezioso, del testo di Mallarmé fatto da Roman Jakobson: Jakobson: « Nel caso di un conflitto tra suono e senso come quello notato da Mallarmé, Mallar mé, la poesia francese o cercherà un'alternativa fonologica a tale tale discordanza e smorzerà la distribuzione distribuzione “inversa” degli elementi vocalici circondando nuit di fonemi gravi e jour di fonemi acuti, ovvero ricorrerà a uno slittamento slitt amento semantico, sostituendo alle immagini di chiaro e di scuro associate al giorno e alla notte, altri correlati sinestesici dell'opposizione fonematica grave/acuto, grave/acuto, creando ad esempio contrasto tra il calore afoso del giorno gior no e la freschezza ariosa della notte ». [  Essais de linguistique générale  générale , Editions de Minuit, Paris 1963, p. 242 [Saggi di linguistica generale, a cura di L. Heilmann, Feltrinelli, Milano 1966].]

 Insomma per abolire oppure attenuare il disaccordo tra il suono, o piú generalmente la forma, e il senso, il poeta può sia sullaviolenta, forma sia sul senso. Correggere forma for ma modopoeti diretto, modificare il significante sarebbe unaagire soluzione un'aggressione contro la lalingua cheinpochi si sono sentiti di commettere. [È in compenso quello che fa l' argot, che nell'operare le sue sostituzioni si fa forte di un consenso sociale, per ristretto che sia. Tra le designazioni argotiche del giorno e della notte troviamo (attestata da VIDOCQ nella prefazione de Les Voleurs  )  la coppia le reluit / la sorgue, che sembra scelta per rimediare l'inversione fonica di cui soffre la lingua comune.]

Spetterà dunque al contesto modificare il suono venuto male « diesizzandolo » o « bemollizzandolo », come dice  Jakobson, per per contagio indiretto: è in questo app appunto unto che il poeta utilizza utilizza il « verso », il sintagma poetico, poetico, come una parola nuova e incantatoria. Ecco due esempi insigni tratti da Racine in cui il procedimento appare abbastanza chiaro: Le jour n'est pas plus pur que le fond de mon cceur e C'était pendant l'horreur d'une profonde nuit. [Il giorno è meno limpido del fondo del mio cuore] e [Fu durante l'orrore di una notte profonda].

Bisogna tuttavia osservare osser vare che la correzione viene qui non solo, come dice Jakobson, dal contesto limpido, orrore, profonda,giàagiscono fonematico,per fonematico , marischiarare anche, e forse piú, edaiincupire valori semantici scelti:l'altro significato il giorno la notte. Cosí verso di Racine, citato: fortemente col loro

La lumiè re du jour, les ombres de la nuit [La chiarítà del giorno, le ombre della notte]

non ha, contrariamente a ciò che pensano gli animi insensibili all'esistenza fisica del linguaggio, nulla di pleonastico: ombres e lumi è re sono qui pienamente necessari a fondare l'opposizione tra il giorno e la notte su quella che Greimas chiamerebbe l'isotopia del semantismo luminoso, che i due vocaboli sarebbero impotenti a costituire da soli. Alla stessa necessità risponde, ancora in Racine, l'epiteto in apparenza molto ridondante: « nuit obscure ». [[Notte oscura]. Phèdre, v  v.. 193.]

 In Hugo, piú sensibile di qualsiasi altro forse, alle impressioni luminose e insieme ai vincoli della lingua, si trova

abbastanza spesso, per designare la notte senza stelle, questo sintagma piuttosto banale ma assai efficace, in cui il contesto, anche se elementare, apporta una potente correzione fonetica e semantica insieme: nuit noire. [[Notte nera]. Oceano nox, A Théophile Gautier... ] ]

L'azione inversa che che consiste nel flettere il senso per adattarlo all'espressione, è in certo qual modo piú facile, giacché come abbiamo visto prima, il significato di una parola è un dato piú malleabile della sua forma, ess essendo endo generalmente composto di un insieme di semi tra cui l'utente resta spesso libero di scegliere. Cosi, come nota  Jakobson, il poeta poeta francese potrà optare preferibilmente per i semi di leggerezza trasparente, di « fresc freschezza hezza luminosa» che si accordano meglio col fonetismo di nuit e, inversamente, per i semi di «calore afoso », e diremmo anzi, discostandoci un po' dall'impressione mallarmeana, di biancore opaco e diffuso che suggerisce il vocalismo di jour, evocatore, ci sembra, non tanto di oscurità quanto di una luminosità brumosa e come soffocata, opposta alla chiarezza scintillante del dittongo ui. È ovvio che una simile interpretazione comporta una gran parte di suggestione attraverso il senso, come gli avversari dell'espressività fonica [Come d'altronde anche i suoi sostenitori, a cominciare da Grammont, che per lo meno l'ammette in teoria prima di dimenticarla in pratica. Si può trovare una copiosa raccolta d'opinioni su quest'argomento nel libro di PAUL DELBOUILLE, Poésie et sonorité, Liège 1961.]

 non si stancano (a ragione) di ripetere; ma proprio in questo consiste l'illusione di motivazione, e Piene Guiraud dice giustamente che nella parola espressiva (aggiungiamo: o accolta come tale) «il senso significa la forma... Là dove c'è analogia tra la forma e il senso, c'è non soltanto espressività per concrezione dell'immagine significata ma effetto»diper rimbalzo; dinamizza certe sostanza sonora, altrimenti non percepite:».esso la « significa una verail esenso propria inversione delproprietà processodella che potremmo chiamare « retrosignificazione [Pour une Sémiologie de l'expression poétique,  in Langue et Littérature (atti del VII congresso della FILLM), Liè ge 1961, p. 124.]

 

 Risulta cosí che la « correzione » poetica dell'arbitrarietà linguistica potrebbe essere molto piú giustamente g iustamente definita come un reciproco adattamento consistente nell'accentuare i semi compatibili e nel dimenticare o attenuare i semi incompatibili, tanto da una parte quanto dall'altra. La formula di Pope, « il suono deve sembrare un'eco del senso » sarebbe quindi da correggere con l'altra, meno unilaterale, meglio atta a caratterizzare la reciprocità, di Valéry « prolungata esitazione tra il suono e il senso »: [ OEuvres, OEuvres, «Bibliothè que de la Pléiade», II, Gallimard, Paris 196o, p. 637; le due formule sono citate da JAKOBSON,  Essais de linguistique générale, générale, pp. 240 e 233]

 esitazione che si marca qui come una specie di andata e ritorno semantica il cui approdo è una posizione di compromesso. impresadeldelgiorno tutto eimpossibile, verificare e da misurare le deviazioni subite per questo fatto dallaRimarrebbe, rappresentazione della notte da nella poesia francese. Per quanto Per concerne il primo termine, ci si ricorderà che il discorso poetico s'interessa poco « per natura » al giorno in sé e per sé. Possiamo tuttavia ricordare il giorno parnassiano, il  Midi soffocante di Leconte de Liste e il giorno bianco cantato da Baudelaire: i « giorni bianchi, tiepidi e velati » di Ciel brouillé, « l'estate bianca e torrida » (Chant d'automne), il giorno tropicale di Parum exotique,

Qu'éblouissent les feux d'un soleil monotone, [Abbagliate dalle luci di un sole monotono]

il « cielo puro in cui freme l'eterno calore » (La chevelure). È vero che la parola giorno è pressoché assente da questi testi e sembrerà forse sofistico o disinvolto dire che essi ne costituiscono la parafrasi. Dovremo inoltre riconoscere nel giorno di Valéry, Valéry, diurnità lucida e senza bruma, un'eccezione ancora maggiore. mag giore. In compenso la deviazione del semantismo notturno verso i valori di luminosità appare molto evidente nella poesia francese di tutte le epoche: Notte piú chiara del giorno è uno dei suoi paradossi piú abituali, che trova il suo pieno investimento simbolico nell'età barocca, nel lirismo amoroso (« O Notte, giorno degli amanti ») e nell'effusione mistica (« Notte piú chiara del giorno », « Notte che splendi piú del giorno gior no », « O Notte, o torrente di luce») [BOISSIÈRE, in L'amour noir, poesie raccolte da A.M. Schmidt, P. 58 HOPIL, MADAME GUYON GUYON,, in JEAN ROUSSET ROUSSET,,  Anthologie de la poésie baroque  française, Armand Colin, Paris 1961, pp 192 e 230.]

 – al punto che ci si chiede se non bisognereb bisognerebbe be opporre, sotto questo riguardo, riguardo, la notte di luce dei mistici francesi alla notte oscura di san Giovanni della Croce –; ma lo si ritrova facilmente anche altrove. Citiamo ancora Péguy: Ces jours ne soni jamaís que des clartés Douteuses, et toi, la nuit, tu es ma grande lumière sombre [[I giorni non sono che chiarezze | Incerte, e tu, notte, sei la mia grande luce oscura]. OEuvres poétiques, La Pléiade, p. 662.]

La notte esemplare, qui, la Notte per eccellenza, è la notte vaporosa, la notte estiva di Hugo, trasparente e profumata, in cui L'aube docce et pale, attendant heure, Semble toute la nuítenerrer au bascon du ciel, [[L'alba dolce e pallida neLl'attesa dell'ora 1 Pare errar er rar tutta notte si fondo dei cielo]. OEuvres poétiques. La Pléiade, 1, p. 1117]

e che ritroveremo intorno al sonno di Booz: la notte chiara, lunare, stellata, per dire infine la parola fondamentale, notte che cosí volentieri, come abbiamo già visto in Supervielle, si confonde, s'identifica con il firmamento, la volta notturna in cui essa trova la sua piena verità semantica, nell'unione felice del significante e del significato Per collegare, in maniera indiretta ma stretta e per così dire automatica, la parola étoiles (stelle) alla parola nuit. (proiettando cosí, secondo la formula jakobsoniana, il principio d'equivalenza d'equivalenza sulla catena sintagmatica), il discorso dis corso poetico classico disponeva d'un comodo cliché che era la rima étoiles/voiles (veli della notte). Eccone alcuni esempi presi a caso: ... encore les étoiles De la nuit taciturne illuminaient les voles [... e ancora le stelle | Della tacita notte illuminavano i veli].

(Saint-Amant, Moyse sauvé).

Dieu dit, et les étoiles De la nuit éternelle éclaircirent les voiles.

[Dio disse, e le stelle | Della notte infinita rischiararono i veli].

 

(Lamartine, Médittjons). Questi due esempi, presi alle due estremità della catena diacronica, rappresentano la versione piú tradizionale; piú sottile invece quest'altro, tratto da Deffile (Les trois r è gnes), in cui le stelle rappresentano delle lucciole: Les bois mêmes les bois, quand la nuit tend ses voiles, Offrent aux yeux surpris de volantes étoiles, [I boschi stessi, i boschi, quando la notte stende i suoi veli | Offrono allo sguardo stupito un volo di stelle].

o quest'altro, di Corneille, in cui les voiles, con un piacevole rinnovamento del luogo comune, non sono piú i  veli della notte ma, come è noto, noto, le vele della flotta maura: Cetre obscure clarté qui tombe des étoiles Enfin avec le flux nous fit voir trente voiles. [Nell'incerto chiarore che cade dalle stelle | infin con la marea, vedemmo trenta vele].

Secondo un paradosso d'un'evidente verità questa notte stellare è una notte che s'accende; che « accende le sue luci », dice Supervielle, [ Les Les amis inconnus, p. 139.  ]]

 le sue « onici », dice Mallarmé in una prima versione del sonnet en -x, tutta dedicata attraverso le raffinatezze d'una messa in scena sofisticata, al tema secolare della notte scintillante (e per ciò stesso) benefica — il che va letto qui con una parola: approvatrice. OEuvres complètes, p. 1488.] [ OEuvres

Rimane da considerare l'incidenza di un fatto d'ordine non piú fonico o ggrafico rafico,, ma ggrammaticale, rammaticale, che è l'opposizione di genere tra i due termini. Non staremo qui a ricordare tutto quello che è stato cosí ben esposto da Bachelard, specialmente nella Poétique de la réverie , sull'importanza del genere delle parole per la fantasticheria sessualizzante delle cose, e sulla necessità, per lo studio dell'immaginazione poetica, di quella che egli proponeva di chiamate la genosanalisi. La fortuna — non certo cer to esclusiva, però non universalmente condivisa, pensiamo se non altro all'inglese per il quale tutti gli esseri inanimati sono neutri — la fortuna della lingua francese è d'avere totalmente mascolinizzato il giorno e femminilizzato la notte, [Ricordiamo che il latino dies è a volte maschile e a volte femminile, e che il tardo latino diurnum, antenato di jour e di giorno, è neutro.]

 d'avere fatto di essi in senso pieno una coppia, il che rafforza il carattere inclusivo dell'opposizione che abbiamo notato sopra. Per l'utente della lingua francese il giorno è maschio e la notte femmina a tal punto che ci è pressocché impossibile concepire una suddivisione differente o inversa; la notte è femmina, è l'amante o la sorella, l'amante e la sorella del sognatore, del poeta; in pari tempo è l'amante e la sorella del giorno: e appunto sotto gli auspici della femminilità, della bellezza femminile, tanti poeti barocchi, cantando dopo Marino la bella in lutto, la bella négresse, la bella sognante, la bella morta, tutte le belle notturne, hanno vagheggiato l'unione, le nozze miracolose del giorno e della notte, [Cielmerveilleux brun, Soleildeàlal'ombre, obscur et [Cielo clair séjour, séjour | LainNature s'admire et se surpas surpasse, se, | Entretenant Entret sans cesse en ton divin espacesempre | Un accord nuit et du jour |. buio,, Sole ombra,dans scuratoie chiara dimora, | La Natura in te sienant supera e s'ammira, | Alimentando nel tuo divino spazio | Un mirabile accordo accord o della notte e del giorno]. gior no]. ANONIMO, ANONIMO, in L'amour noir, p. 92.]

 chimera di cui cogliamo quest'eco in Capitale de la douleur : O douce, quand tu dors, la nuit se méle au jour. [O dolce, mentre dormi, la notte si mescola al giorno].

Il carattere sessuale, erotico, di quest'unione è sottolineato nella dizione classica da un rinvio alla rima la cui forma canonica ci è offerta da Boileau, sí proprio Boileau (Lutrin, canto II):  Ah! Nuit, si tant de foís, dans dans les bras de l'amour, JJee t'admis aux plaisirs que je cachais au jour.... jour....  [Ah, Notte, se tante volte, nelle braccia dell'amore del l'amore | Ti ho ammesso ai piaceri che io celavo al giorno...]

è l'amore che effettua il legame tra notte e giorno, sia che avvenga come qui per contrapporli, sia invece, come nell'invocazione nell'invocazio ne già citata di Boissière, Nuit, jour des amants, amants, per unirli mediante inversione   Jamais [ Et toi, nuit,m'est douxnuit support où jour. j'aspire, dans supporto mes yeux dei toujours séjour,| |Possa Jamais Phébus ses rais ne luire || Puisque le jour et quedes la songes nuit m'est [E |tu, Puisses o notte,tudolce sogni faire cui aspiro tu nei miei pour occhimoí soggiornare perfasce sempre, Mai Febo per me faccia risplendere i suoi raggi | Poiché il giorno m'è notte e la notte m'è giorno]. PYARD DE LA MIRANDE, in L'amour noir, P. 121.] 121 .]

In una tonalità a dire il vero piú satanica che amorosa, Lamartine usa, nei confronti di Byron, questa sintesi folgorante: La notte è il tuo soggiorno... soggior no...

(Méditation deuxième).

 

Ma in quanto femmina la notte è ancora – e qui attingiamo probabilmente il suo simbolismo piú profondo – la madre; madre essenziale, madre del giorno, che « esce dalla notte », [HUGO, Booz endormi, ma anche D'AUBIGNÉ Prière du matin. ] ]

 madre unica di tutti gli dei, [CLÉMENCE RAMNOUX, Le symbolisme du jour et de la nuit,  «Cahiers internationaux de symbolísme», n. 13.]

 « madre universale — come la chiama Péguy — non piú soltanto madre dei bambini (è cosí facile) ma madre anche degli uomini e delle donne, che è tanto difficile ». Non c'è bisogno di grandi conoscenze di psicanalisi per ravvisare nella notte un simbolo materno, simbolo di quel luogo materno, di quella notte delle viscere ove tutto inizia, e per vedere che l'amore per la notte è ritorno alla madre, discesa verso le Madri, viluppo inestricabile d'istinto vitale e d'attrazione mortale. Qui si rivela un ulteriore rovesciamento nella dialettica del giorno e della notte, giacché se il giorno dominatone è , nel pieno del suo splendore, la vita, la notte femminea è , nella sua profondità abissale, vita e morte insieme: è la notte che ci dà alla luce, è la notte che ce la riprenderà. [«Tutto [«Tu tto finisce nella notte, notte, ecco perché esiste il giorno. Il giorno è legato alla notte, notte, perché anch'es anch'esso so non è giorno che se ha un inizio e una fine» (BLANCHOT, L'espace littéraire).  ]]

Una parola ancora per finire pur senza concludere: è evidentemente deplorevole, oltre che arbitrario, arbitrario, studiare  — per quanto succintamente lo si faccia faccia — i nomi del giorno e della notte notte senza affrontare lo studio congiunto congiunto di alcuni vocaboli derivati che sono loro strettamente connessi, ossia minuit (mezzanotte), che raddoppia ancora, come ben mostra Mallarmé per esempio, lo scintillio della parola semplice, oppure  journée, femminilizzazione paradossale e ambigua del giorno — e soprattutto i due aggettivi, cosí vicini ai sostantivi nella loro derivazione latinizzante, e nello stesso tempo cosí autonomi nei loro valori poetici propri. Dopo quella del giorno e della notte, immaginare l'opposizione, la congiunzione [In questo caso la congiunzione sembra, forse a causa dell'omofonia, piú importante dei l'opposizione. In effetti notturno è dominante e diurno sembra essere soltanto un pallido calco analogico, dal semantismo marcato forse, nelle regioni oscure della coscienza linguistica, da qualche traccia di contagio da parte del suo omologo: non è possib possibile ile pensare diurno senza passare attraverso il riferimento a notturno, e senza che questo giro lasci il suo segno. Genét, Voleur, del mistero della Natura diurna?  ] per esempio, non parla forse, nel  Journal du Voleur,

del diurne (diurno) e del notturne (notturno) costituirebbe un altro compito del tutto simile e del tutto diverso.

Linguaggio poetico, poetica del linguaggio

Non c'è probabilmente in letteratura categoria piú antica o piú universale dell'opposizione tra prosa e poesia: a questa considerevole estensione abbiamo visto corrispondere per secoli, e addirittura per millenni, una relativa stabilità del criterio distintivo fondamentale. Sappiamo che che fino agli inizi del xx secolo questo criterio fu essenzialmente d'ordine fonico: si trattava appunto di quell'insieme di regole riservate alla (e per ciò stesso costitutive della) espressione poetica, che possono essere grosso g rosso modo ricondotte alla nozione di metro: alternanza regolata di sillabe brevi e lunghe, accentuate e atone, numero obbligato delle sillabe e omofonia delle finali di verso, e (per la cosiddetta poesia lirica) regole di costituzione delle strofe, ossia degli insiemi ricorrenti di  versi nel corso della poesia. poesia. Questo criterio poteva essere definito definito fondamentale nel senso che che le altre caratteristiche, d'altronde variabili, d'ordine dialettale (e cioè l'uso del dorico come modo degli interventi lirici nella tragedia attica, o la tradizione, conservata fino in epoca alessandrina, di scrivere l'epopea in dialetto ionico misto d'eolico che era quello dei poemi omerici), grammaticale (particolarità morfologiche o sintattiche dette « forme poetiche » nelle lingue antiche, inversioni e altre « licenze » nel francese classico), o propriamente stilistiche (lessici riservati, figure dominanti), non erano mai, nella poetica classica, considerate come obbligatorie e determinanti allo stesso titolo delle regole reg ole della metrica: si trattava in tutti questi casi d'abbellimenti secondari e in certi casi anche facoltativi, d'un tipo di discorso il cui tratto pertinente restava in ogni caso il rispetto della forma metrica. Il Problema, oggi cosí spinoso, del linguaggio poetico era allora d'una grande semplicità, poiché la presenza o l'assenza del metro costituiva un criterio decisivo e inequivocabile. Sappiamo anche che la fine del xix secolo e l'inizio del xx hanno assistito, specialmente in Francia, alla progressiva rovina e infine al crollo, probabilmente irreversibile, di questo sistema, s istema, e alla nascita di un concetto inedito che ci è divenuto familiare senza per questo divenirci del tutto trasparente: quello di una poesia affrancata

 

dalle regole metriche e tuttavia distinta dalla prosa. Le ragioni di un mutamento cosí profondo sono ben lungi dall'esserci chiare, ma sembra almeno che questa scomparsa del criterio metrico, metrico, possa essere messa in rapporto con un'evoluzione piú generale, il cui principio è lo scadimento continuo dei modi auditivi della consumazione letteraria. è noto che la poesia antica era essenzialmente cantata (lirismo) e recitata (epopea) e che, per ragioni materiali abbastanza evidenti, il modo fondamentale di comunicazione letteraria anche per la prosa, era la lettura o declamazione pubblica – senza contare la parte preponderante, in prosa, dell'eloquenza propriamente detta. È un po' meno noto invece, ma largamente attestato, che anche la lettura individuale era praticata ad alta voce: sant'Agostino afferma che il suo maestro Ambrogio (iv secolo) fu il primo uomo dell'antichità a praticare la lettura silenziosa, ed è assodato che il Medioevo vide un ritorno allo stato anteriore e che la consumazione « orale » del testo scritto si prolungò ben oltre l'invenzione della stampa e la diffusione massiccia del libro. [«L'informazione resta principalmente auditiva: anche i grandi dell'epoca ascoltano piú dì quanto non leggano; sono circondati di consiglieri che forniscono loro il sapere attraverso la parola, che leggono forte in loro presenza... Inoltre anche coloro che leggono volentieri, gli umanisti, hanno l'abirudine di farlo ad alta voce — e ascoltando il testo» (R. MANDROU, Introduction à la France moderne, Albin Michel, Paris 1961, P. P. 70).]

Ma è altrettanto certo che tale diffusione e quella della pratica della lettura e della scrittura dovevano alla lunga far scadere il modo auditivo di percezione dei testi a favore d'un modo visivo, [Valéry aveva già detto perfettamente tutto questo, tra l'altro: «A lungo, molto a lungo la voce umana fu base e condiz condizione ione della letteratura. La presenza della voce spiega la letteratura primitiva da cui quella classica prese forma e l'2m irevole temperamento: tutto il corpo umano presente sotto la voce e supporto, condizione condizi one d'equ d'equilibri ilibrioo dell'i dell'idea... dea...  Venne il giorno in cui si seppe leggere senza sillabare, senza ascoltare, e la letteratura ne fu stravolta. Evoluzione dall'articolato allo sfiorato, — dal ritmato e concatenato all'istantaneo — da ciò che esige un auditorio a ciò che comporta uno sguardo rapido, avido, libero sulla pagina» ( OEuvres, OEuvres, II, p. 549).]

 e quindi il loro modo d'esistenza fonica a vantaggio d'un modo grafico (ricordiamoci che gli albori della modernità letteraria hanno visto, insieme ai primi segni di scomparsa del sistema della versificazione classica, i primi tentativi sistematici, con Mallarmé e Apollinaire, d'esplorazione delle possibilità poetiche del grafismo e dell'impaginazione) – e soprattutto, e in quell'occasione, mettere in evidenza altri caratteri del linguaggio poetico, che possiamo definire formali in senso hjelmsleviano, in quanto non dipendono dal modo di realizzazione, o « sostanza » (fonica o grafica) del significante, ma dall'articolazione stessa del significante e del significato considerati nella loro idealità. Appaiono cosí come sempre piú determinanti gli aspetti semantici del linguaggio poetico,, e questo non soltanto nei confronti delle opere moderne, scritte senza preoccupazione del metro e della poetico rima, ma anche, necessariamente, nei confronti delle opere opere antiche che oggi non possiamo fare a meno di leggere legg ere e di apprezzare secondo i nostri criteri attuali – meno immediatamente sensibili, per esempio, alla melodia o al ritmo accentuale del verso raciniano che al giuoco delle sue « immagini », oppure piú inclini a preferire alla metrica rigorosa, o sottile, d'un Malherbe o d'un La Fontaine gli audaci « fuochi incrociati di parole » della poesia barocca. [Questoo cambi [Quest cambiamento amento di criterio non signi significa fica però che la realtà fonica, ritmic ritmica, a, metrica della poesia antica si sia cancellat cancellataa (il che sarebbe un gran peccato): essa si è piuttosto trasposta nel visuale e, in quell'occasione, in un certo senso idealizzata: c'è un modo muto di percepire gli effetti «sonori », una specie di dizione silenziosa, paragonabile a quella che è per un musicista esperto la lettura d'uno spartito. Tutta la teoria prosodica andrebbe ripresa in questo senso.]

Una tale modificazione che determina addirittura un nuovo tracciato della frontiera tra prosa e poesia, e dunque una nuova suddivisione del campo letterario, pone alla semiologia letteraria un compito che si distingue nettamente da quello che si prefiggevano le antiche poetiche o i trattati di versificazione dei secoli scorsi, compito arduo e fondamentale che Rerre Guiraud designa appunto come « semiologia dell'espressione poetica » . [ Pour Pour une sémiologie de l'expression poétique, in Langue et Littérature, Les Belles Lettres, Paris 1961.]

 Fondamentale perché nessun altro forse corrisponde piú specificatamente alla sua vocazione, ma anche arduo perché gli effetti in cui s'imbatte in questo campo sono d'una sottigliezza e d'una complessità che possono scoraggiare l'analisi e che, sordamente rafforzate da quel vieto e persistente tabú che grava sul «mistero» della creazione poetica, contribuiscono a tacciare il ricercatore che vi si avventura di sacrilego o (e) di beota: per quanto si circondi di precauzioni onde evitare gli errori e le ridicolaggini dello scientismo, l'atteggiamento «scientifico» è sempre come intimidito davanti ai mezzi dell'arte, i quali in generale si fanno stimare proprio per ciò che in essi, « inviolabile nodo d'oscurità », si sottrae allo studio e alla conoscenza. Bisogna essere grati a Jean Cohen [ Structure Structure du langage poétique, Flammarion, Paris 1966.]

 d'avere bandito tutti gli scrupoli e di essere penetrato in questi misteri con una fermezza fer mezza che può essere giudicata brutale, ma che non si chiude alla discussione né eventualmente alla confutazione. confutazione. « Una delle due, – dice giustamente: – o la poesia è una ggrazia razia venuta dall'alto che bisogna ricevere in silenzio e in raccoglimento, oppure decidiamo di aparlarne allora bisogna di farlo in modo Bisogna porre ilsiproblema in modo che sia aperto possibilie soluzioni. Può cercare darsi naturalmente che lepositivo... ipotesi che presentiamo rivelino false, ma almeno avranno offerto l'occasione di provare che lo sono. Sarà allora possibile correggerle o sostituirle fino a quando si trovi quella buona. Niente d'altronde ci garantisce che in questa materia la verità sia accessibile, e

 

l'investigazione scientifica può alla fine rivelarsi inoperante. Ma come saperlo, questo, prima di averlo tentato? ». [ Ibid., Ibid., p. 25.]

Il principio maggiore della poetica così proposta alla discussione è che il linguaggio poetico linguaggio si definisce, in rapporto alla prosa, come uno scarto in rapporto a una norma e perciò (essendo lo scarto o deviazione, per Guiraud come per V Valéry, aléry, per Spitzer come per Bally Bally,, la marca stessa del « fatto di stile ») che la poetica può essere definita coine una stilistica di genere che studia e misura le deviazioni caratteristiche non d'un individuo ma d'un genere di linguaggio, [p. 14  Un esempio sorprendente dell'influsso del genere sullo stile è dato a p. 122 dal caso di Hugo che usa il 6 per cento d'epiteti «impertinenti» nel romanzo e il 19 per cento in poesia.]

ossia abbastanza esattamente di quella che Barthes ha proposto di chiamare una scrittura.

[Con questa riserva tuttavia che secondo Barthes la poesia moderna ignora la scrittura come « figura della Storia o della socialità », e si riduce a una miriade di stili individuali (Le degré zero de l'écriture, Editions du Seuil, Paris 1953, cap. iv).]

 Rischieremmo però di sminuire l'idea che Jean Cohen si fa dello scarto scar to poetico se non precisassimo che quest'idea corrisponde meno al concetto di deviazione che a quello d'infrazione: la poesia non devia in rapporto al

codice della prosa come una variante libera in rapporto a una costante tematica, la viola e la trasgredisce, ne è la contraddizione in persona: la poesia è l' antiprosa. Structure du langage poétique, pp. 51 e 97] [ Structure

 In questo senso preciso si potrebbe dire che lo scarto poetico, per Cohen, è uno scar scarto to assoluto.

Un secondo principio, che chiameremo il principio minore; potrebbe incontrare altrove la piú viva opposizione, se non addirittura una fin de nonrecevoir pura e semplice: questo principio è che l'evoluzione diacronica della poesia va regolarmente nel senso d'una poeticità sempre crescente, nello stesso modo in cui la pittura si sarebbe fatta, da Giotto a Klee, sempre piú pittorica, « poiché ogni arte in un certo senso si involve per un approccio sempre crescente della propria forma pura » Ibid., p. 21.] [ Ibid.,

o della propria essenza. Si vede immediatamente tutto quello che c'è di contestabile in teoria in questo postulato d'involuzione [Ci si può domandare se questo postulato vuole applicarsi a «ogni arte» nel senso di tutte le arti: in che cosa si potrebbe dire che l'arte di Messiaen è piú puramente musicale di quella di Palestrina, o quella di Le Corbusier piú puramente architettonica di quella di Brunelleschi? Se l'involuzione si riduce, come può fare pensare l'esempio della pittura e della scultura, a un progressivo abbandono della funzione rappresentativa, bisogna domandarsi piú precisamente che cosa quest'abbandono può significare nel caso della poesia.]

 e vedremo piú avanti come la scelta delle procedure di verifica ne accentui la gratuità; inoltre quando Cohen afferma che «l'estetica classica è un'estetica antipoetica», [ Structure Structure du langage poétique, p. 20.]

fa un'asserzione che può gettare qualche dubbio sull'oggettività del suo intento. Ma non ci lasceremo fermare qui da questa discussione, giacché noi abbiamo accolto Structure du langage poétique come uno sforzo per costituire una poetica movendo dai criteri rivelati dalla pratica stessa della poesia « moderna ». Si può dire semplicemente che una coscienza píú dichiarata di questo partito preso avrebbe permesso l'economia di un assioma che, posto invece come atemporale e oggettivo, solleva gravissime difficoltà metodologiche perché dà spesso l'impressione d'essere stato introdotto ai fini della dimostrazione — ossia píú precisamente per far sí che la costatazione d'un'evoluzione (la poesia è sempre piú scarto) servisse a stabilire il principio maggiore mag giore (lo scarto è l'essenza della poesia). In realtà i due postulati si sostengono un po' surrettiziamente sur rettiziamente l'un l'altro in un implicito mulinello di premesse e di conclusioni che potrebbe essere esplicitato all'incirca cosi: primo sillogismo, sillogismo, la poesia è sempre piú scarto, essa è sempre piú vicina alla sua essenza, dunque la sua essenza è lo scarto; secondo sillogismo, la poesia è sempre piú scarto, lo scarto è la sua essenza, dunque essa è sempre piú vicina alla sua essenza. Ma poco importa, probabilmente, quando si sia deciso di accettare senza dimostrazione (e c'è di che) il principio minore come esprimente l'inevitabile, e in un certo senso legittimo anacronismo del  punto di vista. La verifica empirica, che occupa la maggior maggi or parte del lavoro, verte dunque essenzialmente sul fatto evolutivo, di cui abbiamo appena visto la funzione strategica determinante. Essa è affidata a un test statistico molto semplice e rivelatore che consiste nel paragonare su qualche punto decisivo decisivo,, sia tra loro, sia invece a un campione di prosa scientifica della fine del xix secolo (Berthelot, Claude Bernard, Pasteur), un corpus di testi poetici presi in tre epoche diverse: classica (Corneille, Racine, Moliè re), romantica (Lamartine, Hugo, Hugo, Vigny) e simbolista (Rimbaud, Verlaine, Mallarmé). [In ragione di cento versi (dieci serie di dieci) per poeta.]

Il primo punto esaminato, che ovviamente può mettere a confronto soltanto i testi poetici tra loro, è quello della versificazione, considerata innanzi tutto sotto l'aspetto del rapporto tra la pausa metrica (fine di verso) e la pausa sintattica; il semplice conteggio delle fini di verso non punteggiate (e quindi in discordanza con il ritmo frastico)

 

fa apparire una proporzione media dell'11 per cento nei tre classici, 19 per cento nei romantici e 39 per cento nei simbolisti: scarto dunque in rapporto alla norma prosastica dell'isocroma tra frase-suono e frase-senso; considerata inoltre dal punto di vista della grammaticalità delle rime: le rime « non categoriali », ossia quelle che uniscono vocaboli non appartenenti alla stessa classe morfologica, passano, passano, su cento versi, dal 18,6 di media nei classici al 28,6 nei romantici e al 30,7 nei simbolisti: scarto qui, in rapporto al principio linguistico di sinonimia delle finali omonime (essenza-esistenza, partiranno-riusciranno). Il secondo punto è quello della  predicazione, studiata sotto l'aspetto della pertinenza degli epiteti. Il confronto tra i campioni di prosa scientifica, di prosa romanzesca (Hugo, Balzac, Maupassant) e di poesia romantica fa apparire nel xix secolo delle medie rispettive dello o per cento, cento, 8 per cento e 23,6 per cento d'epiteti «impertinenti morto» o « vento increspato » ).  ).46Le », ossia logicamente inaccettabili nel loro senso letterale (esempi: epoche poetiche considerate si differenziano differen ziano come segue: classica:« cielo 3,6; romantica: 23,6; simbolista: . tre Bisogna inoltre distinguere qui due livelli d'impertinenza: il livello debole è riducibile per per semplice analisi e astrazione, come in « erba di smeraldo » = erba verde perché smeraldo = (pietra +) verde; il livello forte non è passibile di una analisi del genere e la sua riduzione esige un giro piú complesso, ossia quello di una sinestesia, come in « celesti angelus » angelus sereni, in virtú della sinestesia celeste = pace. [Questa interpretazione in particolare, e l'idea in generale che tutte le impertinenze del secondo livello livello sono riconducibili a delle sinestesie appaiono molto discutibile discutibile.. Si potrebbe altrettanto altrettanto bene leggere celest celestii angelus come una predicazione metonimica (l'angelus che risuona nell'azzurro del cielo); l'ipallage ibant obscuri è tipicamente metonimica; uomo bruno per uomo dai capelli bruni è evidentemente sineddochica, ecc. Esistono certamente per lo meno tante specie d'epiteti impertinenti quante sono le specie di tropí: l'epiteto « sinestesico » corrisponde semplicemente alla specie delle metafore, di cui le poetiche «moderne» sopravvalutano generalmente l'importanza.]

Se consideriamo da questo punto di vista il numero degli epiteti di colore impertinenti, i classici si trovano esclusi dal quadro per via del loro troppo scarso numero di epiteti di colore, e si passa dal 4,3 nei romantici al 42 nei simbolisti; lo scarto in aumento è qui evidentemente l'impertinenza della predicazione, predicazione, l'anomalia semantica. Il terzo test riguarda la determinazione, cioè in effetti la carenza di determinazione palesata dal numero degli epiteti ridondanti, del genere « verde smeraldo » o « elefanti rugosi ». La nozione di ridondanza è qui giustificata dal principio,, linguisticamente contestabile, e d'altronde contestato, secondo cui la funzione pertinente d'un epiteto è principio di determinare una specieè dunque all'interno genereridondante. designato dal nome, come in « gli elefanti sono rarissimi Ogni epiteto descrittivo perdel Cohen, La proporzione di questi epiteti bianchi in rapporto al numero». totale d'epiteti pertinenti è del 3,66 in prosa scientifica, 18,4 in prosa romanzesca e 58,5 in poesia del xix secolo, giacché il corpus poetico opposto agli altri due non è piú ora, come per gli epiteti impertinenti, quello dei romantici, ma quello che forniscono insieme Hugo, Baudelaire e Mallarmé (perché questo slittamento verso l'epoca moderna?) All'interno del linguaggio poetico, il quadro evolutivo dà 40,3 ai classici, 54 ai romantici, 66 ai simbolisti: progressione piú debole, da correggere, corregg ere, secondo Cohen, col fatto (allegato senza verifica statistica) che gli epiteti ridondanti dei classici sono « nella stragrande maggioranza» di primo grado, ossia riducibili a un valore circostanziale (Corneille: « E il mio amore adulatore già mi persuade... » = E il mio m io amore, poiché è adulatore adulatore...), ...), mentre quelli dei moderni (Mallarmé: « ... d'azzurro blu vorace ») non possono generalmente essere interpretati cosí. Scarto dunque e anche qui crescente in rapporto alla norma (?) della funzione determinativi dell'epiteto. [Il totale degli epiteti «anormali» » (impertinenti + ridondanti) dà la seguente progressione: 42 per cento, 64,6 per cento e 82 per cento.]

Quarto punto di paragone: l'incongruenza l'incongr uenza (crescente) delle coordinazioni. coordinazioni. La progressione è qui caratterizzata, senza apparato statistico, dal passaggio dalle coordinazioni quasi sempre logiche del discorso classico (« Me ne vado vado,, caro Teramene, e lascio la dimora del gentile Trezen Trezenee ») alle rotture momentanee del discorso romantico (« Ruth pensava e Booz sognava; sognava; l'erba era nera »), quindi all'incongruenza sistematica e, se cosí possiamo dire, continua, inaugurata dalle Illuminations, e sbocciata poi nella scrittura surrealista. Il quinto e ultimo confronto riguarda l'inversione, e più precisamente l'anteposizione degli epiteti. Il prospetto comparativo dà qui il 2 per cento alla prosa scientifica, 54,3 alla poesia classica, 33,3 alla romantica, 34 alla simbolista. La dominanza dei classici in un quadro delle inversioni poetiche non ha niente di sorprendente in teoria, ma il postulato d'involuzione caro a Cohen gli impedisce di accettare un simile fatto: cosí non gli dispiace di potere ristabilire quello che è la sua norma eliminando dal conto gli epiteti « valutativi », piú suscettibili d'anteposizione normale (un gran giardino, una bella donna). La tabella cosí corretta dà lo o per cento alla prosa scientifica, 11,9 ai classici, 52,4 ai romantici; 49,5 ai simbolisti. Questa Q uesta correzione è probabilmente giustificata, non serve però a dissimulare un fatto noto a tutti, ossia la frequenza relativamente maggiore in poesia classica dell'inversione in genere, che non si riduce all'anteposizione dell'epiteto [« Spesso l'inversione è – come dice Laharpe – il solo tratto che distingue i versi dalla prosa» (FONTANIER, Les figures du discours, 1827; riedizione Flammarion. Paris 1968, P. 288).]

Ci potremmo allo stesso modo interrogare sul perché dell'assenza di altri paragoni che sarebbero stati altrettanto istruttivi: sappiamo per esempio che il Pietre Guiraud ha stabilito [Langage et versification d'après l'oeuvre de Paul V Valéry: aléry: Etude sur la forme poétique dans ses rapports avec la lingue, Klincksieck, Paris 1952.]

 sulla base di un corpus a dire il vero stranamente scelto (Phèdre, Les fleurs du mal, Mallarmé, Valèry, le Cinq

 

 grandes odes), un lessico poetico di cui ha confrontato le frequenze con quelle date, per la lingua normale, dalla

tavola di Van Van der Beke, e che questo confronto rivela uno scarto di vocabolario molto rilevante (sulle duecento parole piú frequenti in poesia, o  parole-temi, se ne trovano centotrenta la cui frequenza frequenza è anormalmente forte in rapporto a quella di Van der Beke; tra queste centotrenta  parole-chiave, soltanto ventidue appartengono alle prime duecento della lingua normale). Sarebbe interessante sottoporre a un paragone analogo i campioni scelti da Cohen, ma non è detto in anticipo che lo scarto di vocabolario sarebbe piú rilevante nei simbolisti, e a fortiori nei romantici, piuttosto che nei classici: il xvii e xviii secolo non sono forse stati per la poesia l'epoca per eccellenza del lessico riservato, riser vato, con le sue onde i suoi corsieri, i suoi mortali, le sue labbra di rubino e i suoi seni d'alabastro? E il gesto rivoluzionario di cui si compiace Hugo nella Réponse à un acre d'accusation non fu precisamente, nella di come scarto? probabilmente altre simili, non inciderebbe sull'intento essenziale di Jean circostanza, una riduzione Questa obiezione però, Cohen: secondo questi, infatti, lo scarto non è per la poesia un fine ma un semplice mezzo, la qual cosa respinge fuori dal suo campo d'interesse certe deviazioni del linguaggio poetico tra le piú appariscenti quali i suaccennati effetti di lessico o i privilegi dialettali di cui abbiamo parlato prima: uno scarto linguistico che arrivasse addirittura a riservare alla poesia un idioma speciale, non sarebbe un caso esemplare, giacché lo scarto adempie la sua funzione poetica solo in quanto è lo strumento d'un cambiamento di senso. Bisogna dunque al tempo stesso che stabilisca, all'interno della lingua naturale, un'anomalia o impertinenza, e che questa impertinenza sia riducibile. Lo scarto non riducibile, come nell'enunciato surrealista « l'ostrica del Senegal mangerà il pane tricolore », non è poetico; lo scarto poetico si definisce per la sua possibilità di riduzione, [Ma come sapere dove passa la frontiera? Vediamo bene qui che per Cohen celesti angelus costituisce uno scarto riducibile e ostrica del Sene gal... uno scarto assurdo (il che è d'altronde discutibile). d iscutibile). Ma dove mettere per esempio «il mare dalle viscere d'uva» (Claudel) o «la rugiada dalla te sta di gatto» (Breton)?]

 che implica necessariamente un cambiamento di senso, senso, e più precisamente un passag passaggio gio dal senso « denotative », ossia intellettuale, al senso « connotativo », ossia affettivo: la corrente di significazione bloccata al livello denotativo (angelus celesti) si rimette in moto al livello connotativo (angelus sereni), e questo blocco della denotazione è indispensabile per liberare la connotazione. Un messaggio non può, secondo Cohen, essere al tempo stesso denotativo e connotativo: « Connotazione e denotazione sono antagoniste. Risposta emozionale e risposta intellettuale non possono prodursi contemporaneamente. Esse sono antitetiche, e perché sorga la prima bisogna che la seconda scompaia ». Strutture du langage poétique, P. 214] [ Strutture

 Cosí tutte le infrazioni e impertinenze notate nei diversi campi della versificazione, della predicazion predicazione, e, della determinazione, della coordinazione e dell'ordine delle parole sono tali solo sul piano denotative: è il loro momento negativo, che s'annulla subito in un momento positivo in cui pertinenza e rispetto del codice si ristabiliscono a vantaggio del significato di connotazione. Cosí l'impertinenza denotativi che separa i due termini della rima soeur – douceur nell'Invitation au voyage si cancella davanti a una pertinenza connotativa: « La verità affettiva corregge l'errore nozionale. Se la “sororità” connota un valore, sentito tale, d'intimità e d'amore, è vero che ogni sorella è dolce, e anche, reciprocamente, che ogni dolcezza è “sororale”. Il semantismo della rima è metaforico ». Ibid., p. 220.] [ Ibid.,

Se si vuole applicare a questo libro che ha il merito di sollecitare quasi a ogni pagina la discussione per il sue piglio vigoroso e l'incisività del suo discorso, quello spirito di contestazione rigorosa che lo stesso autore tanto garbatamente sollecita, bisogna innanzi tutto notare nella procedura di verifica adottata tre partiti presi che dispongono un po' troppo opportunamente la realtà in senso favorevole favorevole alla tesi. Il primo concerne la scelta dei tre periodi presi in considerazione. è ovvio intanto che che la storia della poesia francese non si ferma a Mallarmé: Mallar mé: possiamo però ammettere senza troppa difficoltà che un campione prelevato dalla poesia del xx secolo non farebbe che accentuare, almeno per alcuni dei criteri da lui scelti, l'evoluzione rivelata da Cohen nella poesia romantica e simbolista. In compenso è davvero troppo comodo prendere come punto di partenza il xvii secolo (e addirittura anzi la seconda metà di esso) col pretesto [ Structure Structure du langage poétique, p. 18.]

che risalire piú indietro significherebbe far intervenire degli stati di lingua troppo eterogenei. Un corpus della seconda metà del xvi secolo composto per esempio da Du Bellay B ellay,, Ronsard e d'Aubigné non avrebbe adulterato in maniera rilevante lo stato di lingua costituito, in ogni caso in un senso molto relativo, relativo, dal « francese moderno » – soprattutto in un'inchiesta che non faceva intervenire le divergenze lessicali; è invece probabile che avrebbe avrebbe compromessa la curva d'involuzione sucriteri, cui poggia di Cohen, e che avremmo visto apparire all'inizio del ciclo, almeno per qualcuno dei suoi un « tutta tassoladitesi poesia », [ Ibid., p. 15.]

ossia una tendenza allo scarto superiore, c'è da giurarlo, a quella del classicismo, ma fors'anche a quella del

 

romanticismo. L'inconveniente L'inconveniente sarebbe probabilmente stato per l'autore dello stesso ordine se, invece di scegliere per il xvii secolo tre « classici » tosi canonici come Corneille, Racine e Moliè re, si fosse orientato verso Régníer, Régníer,  Théophile, SaintAmant, Martial de Brives, Brives, T Tristan, ristan, Le Moyne Moyne,, che non sono pproprio roprio dei minori. So bene che Cohen giustifica questa scelta, che non è la sua ma quella della « posterità », [Ibid., pp. 17-18.]

con una preoccupazione d'obiettività: ma per l'appunto il consenso del pubblico non è immutabile, im mutabile, e c'è una certa discordanza tra la scelta di criteri moderni (poiché essenzialmente semantici) e quella di un corpus chiaramente accademico. accademico. Discordanza sorprendente sulle prime e che diventa indisponente una volta che si sia intuito che il suo principale effetto è di facilitare la dimostrazione: il classicismo, che è nella storia della letteratura francese un episodio, una reazione, diventa qui un'origine: quasi un primo timido stato stat o di una poesia ancora 12 nell'infanzia e che dovrà progressivamente assumere i suoi caratteri adulti. Cancellati con un colpo di spugna la Pléiade e il barocco barocco,, dimenticati il m manierismo anierismo e il preziosismo! Boileau diceva: « Finalmente venne Malherbe... », il che era almeno un omaggio involontario alla storia, la confessione inconscia di un passato sconfessato. In Cohen questo diventa all'incirca: in principio era Malherbe. Il quale d'altronde non è gran che ripagato della sua fatica, perché non figura nemmeno nella lista dei tre poeti classici: lista piuttosto singolare sing olare che non ha a suo favore né (probabilmente) (probabilmente) la sanzione della posterità, né (di certo) la pertinenza metodologica. Che sulla rosa dei tre maggiori mag giori  poeti classici, in un'inchiesta che verte dichiaratamente sul linguaggio poetico, Racine sia quasi fatalmente nominato, questo è già scontato; il caso di Corneille è molto piú incerto, e quanto a Molière... Eleggere o pretendere di fare eleggere dal consenso questi tre nomi per formare il corpus della  poesia classica, e contrapporli successivamente ai romantici e ai simbolisti che sappiamo, significa davvero davvero scegliersi le carte migliori e dimostrare con poca spesa che « l'estetica classica è un'estetica antipoetica ». Una lista composta per esempio da Malherbe, Racine, La Fontaine sarebbe stata un po' piú rappresentativa. Non si tratta d'altronde soltanto del valore poetico delle opere considerate, si tratta soprattutto dell'equilibrio dei generi: Cohen si lusinga [ Structure Structure du  langage poétique, p. 19.]

d'avere coperto « una gamma molto varia di generi: lirico, tragico, epico, comico, comico, ecc. » (ecc.?), ma come fa a non  vedere che tutto il drammatico è nel campione classico e vviceversa, iceversa, e che di cconseguenza onseguenza tutto il suo confron confronto to si riduce a opporre tre drammaturga classici a sei poeti moderni essenzialmente lirici ?  [Anche se certi esempi presi dalla Légende des siècles sono stati valutati come epici, il che si presterebbe evidentemente a discussione.]

E quando si sa quale differenza i classici mettevano (per ragioni evidenti) tra il tenore poetico richiesto da una poesia lirica e quello di cui poteva (e doveva) accontentarsi una tragedia e a fortiori una commedia, si può misurare l'incidenza di una simile scelta. Un solo esempio (il meno evidente) basterà forse a illustrarla: Jean Cohen nota una progressione delle rime non categoriali che va dal 18,6 al 28,6 e al 30,7. Chi non sa però che le rime della tragedia (e, ancora una volta, a fortiori della commedia) erano per cosí dire statutariamente piú  facili (il che significa, tra l'altro, piú categoriali) di quelle della poesia lirica? Che ne sarebbe stato della dimostrazione di Cohen con un altro campione? Il principio di Banville da lui citato (« Farete rimare insieme il piú possibile, parole simili tra loro come suono e differenti come senso ») è di spirito tipicamente malherbiano; ma le esigenze malherbiano non si applicano al verso teatrale, il cui merito maggiore sta nella semplicità e nell'intelligibilità immediata. Paragonare i « tassi di poesia » dele quello classicism classicismo o e della prendendo modernità in questelacondizioni, è un po' ecome se paragonassimo il clima di Parigi di Marsiglia a Parigi media di dicembre a Marsiglia quella di luglio: significa cambiare le carte in tavola. Si potrà rispondere che questi incidenti di metodo non inficiano quella che è l'essenza del discorso, e che un'inchiesta condotta in modo piú rigoroso metterebbe ugualmente in luce nella poesia « moderna », se non altro sul piano propriamente semantico, un aumento dello scarto. Bisognerebbe inoltre vedere d'intendersi sul significato e sulla portata di questa nozione che non è forse cosí chiara e pertinente come sulle prime si potrebbe pensare. Quando Cohen qualifica come scarto l'impertinenza o la ridondanza d'un epiteto e parla a questo proposito di figura, sembra proprio si tratti in questo caso di uno scarto in rapporto a una norma di letteralità, con slittamento di senso e sostituzione del termine; ter mine; è in questo modo appunto che angelus celeste si oppone ad angelus sereno. Allorché afferma però che che una metafora dell'uso (per esempio: esempio:  fiamma per amore) non è uno scarto e, quel che piú conta, non lo è « per definizione », negando per esempio ogni valore di scarto alla doppia metafora raciniana «fiamma cosí nera » per amore colpevole, perché questi due tropi « sono in quell'epoca d'uso corrente », e aggiungendo che « se la figura è scarto, il termine figura dell'uso è una contraddizione in termini, giacché l'usuale è la negazione stessa dello scarto », [  Strutture  Strutture du langage poétique, p. 114, nota, e p. 46.]

non definisce piú lo scarto, come Fontanier definisce la figura, dall'opposizione al letterale, ma dall'opposizione

 

all'uso, misconoscendo se non altro quella verità cardinale della retorica che si fanno piú figure in un giorno di mercato che in un mese d'Accademia — in altre parole che l'uso è saturo di scarti-figure e che né l'uso né lo scarto ne risentono alcun danno semplicemente perché lo scarto-figura si definisce linguisticamente, come differente dal termine proprio, e non, psico-sociologicamente, come differente dall'espressione usuale; non è il fatto di « essere entrata nell'uso » che fa scadere una figura in quanto tale, ma la scomparsa del termine proprio. Téte (testa) oggi non è piú figura, non per avere troppo servito, ma perché cbe beff (capo) in questo senso è scomparso in francese; gueule o bobine (faccia), per quanto usuali e usati siano, saranno sentiti come scarti fintanto che non avranno eliminato o sostituito téte. E fiamma nel discorso classico non cessa di essere metafora per il fatto d'essere d'uso corrente: avrebbe cessato di esserlo soltanto se l'uso della parola amore si fosse perso. Se la retorica distingue figure dell'uso figure d'invenzione e appunto perché a considerare prime delle e mi sembra che essa abbia eragione. Il monello che ripete « Provaci Prov aci continua se sei capace » o « Va alefarti frigg friggere ere »figure sa benissimo d'usare qui dei cliché e anzi delle espressioni trite e ritrite della sua generazione, e il suo piacere stilistico non è d'inventare un'espressione ma d'impiegare un'espressione deviata, un giro d'espressione che sia alla moda: la figura sta in questo giro e la moda (l'uso) non può cancellarlo. Bisogna dunque scegliere tra una definizione dello scarto come infrazione oppure come giro, anche se alcuni di questi scarti si trovano ad essere contemporaneamente entrambe le cose, cosi come Archimede è contemporaneamente principe e geometra: Jean Cohen invece si sottrae a questa scelta, [Sulla scia di molti altri, è vero, vero, tra cui i retori stessi, che contrappongono cosí spesso nelle loro definizioni la figura all'espressione «semplice e comune », senza distinguere oltre tra la norma di letteralità (espressione semplice) e la norma d'uso (espressione comune), come se esse coincidessero per forza, cosa che viene infirmata dalle loro stesse osservazioni sull'impiego corrente. popolare, ossia « selvaggio », di ogni sorta di figure.]

 e gioca ora su un carattere ora su un altro, il che gli permette di accettare la metafora moderna, perché d'invenzione, d'invenzion e, e di respingere la metafora classica, perché dell'uso, benché l'« impertinenza », e quindi secondo la sua stessa teoria il passaggio dal denotativo al connotativo vi siano ugualmente presenti: sembrerebbe quasi che il criterio semantico (scarto = giro) gli serva ser va per fondare la sua teoria del linguaggio poetico, e il criterio psicosociologico (scarto = invenzione) per riservarne i benefici alla poesia moderna. Equivoco certamente involontario,, ma probabilmente favorito dal desiderio inconscio di aumentare l'effetto del principio involontario d'involuzione. Se la nozione di scarto non è del tutto esente da confusioni, non è nemmeno, applicata al linguaggio poetico, d'una pertinenza decisiva. Abbiamo visto che era mutuata dalla stilistica stil istica e che Cohen definisce la poetica come una « stilistica di genere »: discorso forse sostenibile ma a condizione che sia nettamente mantenuta la differenza d'estensione e di comprensione tra i concetti di stile in generale e di stile poetico in particolare. Ora questo non sempre avviene, e l'ultimo capitolo si apre con uno slittamento molto caratteristico. Preoccupato di rispondere all'obiezione: «è sufficiente che vi sia scarto perché vi sia poesia? », Cohen risponde cosí: « Noi crediamo che effettivamente non basti violare il codice per scrivere un poema. Lo stile s tile è infrazione, ma non ogni infrazione è stile ». Structure du langage poétique, p. 201.] [ Structure

Questa puntualizzazione è forse necessaria ma non per questo sufficiente, giacché trascura trascura la questione piú importante: ogni stile è poesia? Cohen sembra incline a pensarlo a volte, come quando scrive s crive che « dal punto di vista stilistico (la prosa letteraria) differisce dalla poesia solo per un aspetto quantitativo. La prosa letteraria è solo una poesia moderata o, se si vuole, la poesia costituisce la forma veemente della letteratura, il livello parossistico dello stile. Lo stile è uno. Comporta un numero finito di figure, sempre le stesse. Dalla prosa alla poesia, e da uno stato della poesia all'altro, la differenza sta soltanto nell'audacia con cui il linguaggio utilizza i procedimenti potenzialmente iscritti nella sua struttura». [ Structure Structure du langage poétique, p. 149]

Si spiega così che Cohen abbia adottato come punto di riferimento unico la « prosa scientifica » della fine del xix secolo, che è una scrittura neutra, volutamente spoglia d'effetti stilistici, quella stessa di cui si serve Bally per scoprire a contrario gli effetti espressivi del linguaggio, compresi quelli del linguaggio parlato. Ci sarebbe da chiedersi quale risultato avrebbe dato un paragone sistematico, epoca per epoca, della poesia classica con la prosa letteraria classica, della poesia romantica con la prosa letteraria romantica, della poesia moderna con la prosa moderna. Tra Racine e La Bruyère, Delille e Rousseau, Hugo e Michelet, Baudelaire e Goncourt, Mallarmé e Huysmans, lo scarto non sarebbe forse cosí grande, né cosí crescente, e in fondo Cohen stesso ne è convinto in partenza: « Lo stile è uno ». La « struttura » che egli scopre è forse meno quella del linguag linguaggio gio poetico che quella dello stile in generale, e infatti mette in luce alcuni tratti stilistici che la poesia non detiene m proprio, ma condivide con altri generi letterari. Non c'è da stupirsi quindi che egli concluda con una definizione della poesia che è all'incirca che Bally dà dell'espressività in genere: sostituzione del linguaggio affettivo (o emozionale) al linguaggioquella intellettuale. Il fatto piú sorprendente è che Cohen abbia chiamato connotazione questa sostituzione, insistendo con forza, come abbiamo visto sopra, sull'antagonismo tra i due sistemi di significazione, e sulla necessità che uno si cancelli

 

perché appaia l'altro. l'altro. In effetti, anche senza attenersi strettamente alla definizione linguistica rigorosa rig orosa (HjelmlevBarthes) della connotazione come sistema significante sganciato a partire da un sistema di significazione primario, il prefisso sembra indicare abbastanza chiaramente una conotazione, ossia una significazione che viene ad aggiungersi a un'altra senza peraltro scacciarla. « Dire fiamma per amore è per il messaggio portare il contrassegno: io sono poesia »:  [Structure du tangage poétique,  p. 46. ] ]

ecco una tipica connotazione, e si vede bene qui che che il senso secondo (poesia) non scaccia il senso « primo » (amore); fiamma denota amore e al tempo stesso connota poesia. Ora gli effetti di senso caratteristici del linguaggio linguag gio poetico sono sí delle connotazioni, ma non soltanto perché, come si vede qui, la presenza di una figura dell'uso connota per noi lo « stile poetico » classico: per chi prende sul serio la metafora,  fiamma connota anche, e in primo luogo, il giro attraverso l'analogia sensibile, la presenza del paragonante nel paragonato, ovverossia qui: il  fuoco della passione. [Il rapporto tra l'opposizione letterale/figurato e l'opposizione denotato/connotato è abbastanza complesso come ogni volta che si cerca di far denotato ato nel tropo, benché corrispondere categorie appartenenti corrispondere appartenenti a campi epistem epistemologic ologicii disparati. disparati. La cosa piú giusta giusta ci sembra sia consid considerare erare come denot «secondo», il senso figurato (qui: amore), e come connotato sia la traccia del senso letterale (fuoco) sia l'effetto di stile, in senso classico, della presenza stessa del tropo (poesia).]

È una strana illusione retrospettiva quella d'attribuire al pubblico e ai poeticlassici un'índifferenza nei confronti delle connotazioni sensibili delle figure che sarebbe piuttosto da attribuire, dopo tre secoli d'usura d'usura e di nausea scolastica, al lettore moderno, oramai disincantato, prevenuto, prevenuto, ben deciso in anticipo a non trovare alcun sapore, alcun colore, alcun rilievo, in un discorso ritenuto da cima a fondo « intellettuale » e « astratto ». I retore dell'epoca classica, per esempio, non vedevano in queste specie di tropi degli indici stereotipati della poeticità dello stile, ma vere e proprie immagini sensibili. [«Piacciono le espressioni che creano nell'immaginazione una pittura sensibile di ciò che si vuoi fare pensare. Ecco perché i poeti, il cui scopo principale è piacere, usano soltanto quest'ultime espressioni. Ed è per la medesima ragione che le metafore, che rendono sensibili tutte le cose, sono cosí frequenti nel loro stile» (LAMY, Rhétorique, 1688, IV, 16). Si potrebbero trovare nei trattati posteriori sui tropi giudizi concordanti, ma noi ci atteniamo  volontariamente a un retore della piena epoca classica. E, per sovrammercato, sovrammercato, cartesiano.]

 fiamma neradidiintendere Cosí voglia bisognerebbe forse vedere un nella Racine unil po' piú diraciniano: fiamma e tra un una po' piú di nero di quanto non Cohen per ritrovare modo giusto discorso lettura « superattivante » e quella che – col pretesto di lasciare alle parole il loro « valore d'epoca » – riduce sistematicamente lo scarto sensibile delle figure, la piú anacronistica non è forse quella che si crede. La denotazione e la connotazione sono insomma ben lontane dall'essere dall'essere « antagoniste » quanto pensa Cohen, ed è proprio la loro doppia presenza simultanea ad alimentare l'ambiguità poetica, tanto nell'immagine moderna quanto nella figura classica. Angelus celeste non « significa » soltanto angelus sereno: anche se si accetta la traduzione proposta da Cohen, bisogna ammettere che il giro giro attraverso il colore importa al senso « affettivo », e quindi che la connotazione non ha bandito la denotazione. denotazione. Ciò che spinge Cohen ad affermarlo è il suo desiderio di trasformare interamente il linguaggio linguag gio poetico in un linguaggio dell'emozione: avendo legato il destino dell'emozionale al linguaggio connotativo e quello del nozionale al linguaggio denotativo denotativo,, bisogna per forza che espella il secondo a vantaggio vantag gio esclusivo del primo. « Il nostro codice – dice un po' spicciativamente a proposito della lingua naturale – è denotativo denotativo.. Appunto per questo il poeta è tenuto a forzare il linguaggio linguag gio se  vuole fare sorgere il volto patetico del mondo mondo... ... ». Structure du langage poétique , p.225] [ Structure

Questo significa al tempo stesso equiparare troppo largamente la funzione poetica all'espressività dello stile affettivo (cosí consostanziale, come sappiamo per lo meno dopo Bally, al linguaggio parlato stesso), e separare troppo drasticamente il linguaggio poetico dalle risorse profonde della lingua. La poesia e insieme un'operazione piú specifica e piú strettamente legata all'essere intimo del linguaggio. La poesia non forza il linguaggio: Mallarmé, con maggiore misura e ambiguità, diceva che « ne compensa il difetto ». Il che significa al tempo stesso che lo corregge, corregg e, che lo compensa e che lo ricompensa; che lo adempie, adempie, lo sopprime e l'esalta: che lo colma. Che, lungi dal discostarsi dal linguaggio, si costituisce e si compie proprio in suo diletto. In quel difetto appunto che lo costituisce. [Sarebbe opportuno confrontare il libro di Cohen con un'altra opera, che rappresenta uno dei piú interessanti tentativi di teoria del linguaggio poetico:

Les constantes du poè me, di A. KIBúDl VARGA (Van Goor Zonen, L'Aja 1963). La nozione d'estr d'estraneit aneità, à, nozione centrale di questa poetica «dialettica», ricorda evidentemente l'ostranenie dei formalisti russi. A noi pare piú felice di quella di scarto, in quanto non erige la prosa a riferimento obbligatorio della

definizione defini zione della poesia e inolt inoltre re s'acco s'accorda rda meglio con l'ide l'ideaa del linguaggio poetico come stat statoo intransiti intransitivo vo del lingu linguaggio aggio,, d'ogni testo ricevut ricevutoo come «messaggio centrato su se stesso» (Jakobson): la qual cosa, forse, ci libera di Monsieur Jourdain – intend intendoo dire del tourniquet prosa/poesia.]

Per giustificare in qualche modo queste formule che Jean Cohen probabilmente respingerebbe, non senza qualche parvenza di ragione, come « vane, perché non sono né chiare né verificabili », dobbiamo soffermarci un po' piú da vicino su questo testo di Mallarmé che ci sembra cogliere l'essenziale della funzione poetica: «Le lingue imperfette in questo che sono molte, manca la suprema: pensare essendo scrivere senza accessori né mor mormorio, morio, ma tacita ancora l'immortale parola, la diversità sulla terra degli idiomi impedisce di proferire le parole che altrimenti si troverebbero ad essere, in un conio unico, materialmente la stessa verità... Il mio sentire rimpiange che il discorso non riesca a esprimere gli oggetti con tocchi ad essi rispondenti in colorito e andamento, andamento, tocchi

 

esistenti nello strumento str umento della voce, fra i diversi linguaggi e qualche volta nel singolo. Accanto a ombra opaco, tenebre incupisce poco; quale delusione di fronte alla perversità per versità che conferisce a  giorno e a notte contraddittoriamente un timbro oscuro qui e là chiaro. Il desiderio di un termine di splendore brillante, o che si spenga, inverso; quanto ad alternative luminose semplici. Solamente, sappiamolo, non esisterebbe il verso: esso filosoficamente ci compensa del difetto delle lingue, complemento superiore». [ OEuvres OEuvres complètes, p. 364.]

Lo stile di questa pagina non deve dissimulare la fermezza del suo discorso, né la solidità del suo fondamento linguistico: il «difetto» del linguaggio, linguag gio, attestato per Mallarmé come piú tardi per Saussure, dalla diversità degli idiomi, e illustrato dalla discordanza tra le sonorità e i significati, è evidentemente quello che Saussure chiamerà l'arbitrarietà del segno, il carattere convenzionale dei legame tra significante e significato; s ignificato; ma proprio questo difetto è la ragione d'essere della poesia, che esiste appunto in virtú di essa: se le lingue fossero perfette, non esisterebbe il verso, perché ogni parola sarebbe poesia; e quindi nessuna. « Se capisco bene – diceva Mallarmé a  Viélé-Griffin (secondo quest'ultimo) – voi voi fondate il privilegio creatore creatore del poeta sull'imperfezio sull'imperfezione ne dello strumento che deve suonare; una lingua ipoteticamente adeguata a tradurne il pensiero sopprimerebbe il letterato, che si chiamerebbe allora di fatto signor si gnor Tutti Quanti». Stéphane Mallarmé, esquisse orale, «Mercure de France», febbraio] [ Stéphane

 La funzione poetica consiste infatti proprio in questo sforzo per « compensare », sia pure illusoriamente, l'arbitrarietà del segno, ossia per motivare il linguaggio. V  Valéry aléry che aveva aveva lungamente meditato sull'esempio e sull'insegnamento di Mallarmé, tornò piú volte su quest'idea, opponendo alla funzione prosastica, essenzialmente transitiva, in cui si vede « la forma » abolirsi nel suo s uo senso (comprendere essendo tradurre), la funzione poetica in cui la forma si unisce al senso e tende a perpetuarsi indefinitamente con esso: sappiamo che paragonava la transitività della prosa a quella del camminare, e l'intransitività della poesia a quella della danza. La speculazione sulle proprietà sensibili della parola, l'indissolubilità della forma e del senso, l'illusione di una rassomiglianza tra la « parola » e la « cosa » erano per lui, come per Mallarmé, [O per Claudel: «Nella vita quotidiana adoperiamo le parole non propriamente in quanto significano gli  oggetti, ma in quanto li designano e in quanto praticament pratic amentee ci permett permettono ono di prender prenderlili e di servirci di essi. Ce ne dànno come una specie di riduzione riduzione portatile e spicciati spicciativa, va, un controvalore, controvalore, banale banale come il denaro. Il poeta invece non si serve delle parole nello stesso modo: se ne serve non per l'utilità, ma per costituire di tutti quei fantasmi sonori che le parole mettono a sua disposizione un quadro intelligibile e dilettevole al tempo stesso» (  OEuvres en prose, pp. 4748). La teoria di Sartre, in  Qu'estce que la littérature? e in Saint-Genet non presenta sostanziali differenze.]

l'essenza stessa del linguaggio poetico: « Il potere dei versi dipende da un'armonia indefinibile tra quello che dicono e quello che sono ». [OEuvres, II, p. 637.]

  Vediamo Vediamo cosi l'attività poetica legarsi strettamente in alcuni, come nello stesso Mallarmé (vedi i suoi  Mots anglais e l'interesse che dimostra per il famoso Traité du verbe di René Ghil), a un'incessante immaginazione del linguaggio, che

è in fondo una fantasticheria motivante, una fantasticheria della motivazione linguistica, caratterizzata da una sorta di nostalgia per quell'ipotetico stato «primitivo» della lingua in cui la parola sarebbe stata quello che diceva. « La funzione poetica, nel senso piú largo del termine – dice Roland Barthes – si definirebbe cosí per una coscienza cratilea dei segni, e lo scrittore sarebbe la voce recitante di quel gran mito secolare che vuole che il linguaggio imiti le idee che, contrariamente alle affermazioni della scienza linguistica, i segni siano motivati » [ Proust Proust et les noms, in To honor R. Jakobson, Mouton, L'Aia 1967. ]

Lo studio del linguaggio poetico definito in questi termini ter mini dovrebbe poggiare su un altro studio che ancora non è mai stato sistematicamente intrapreso e che dovrebbe vertere sulla  poetica del linguaggio (nel senso in cui Bachelard parlava, per esempio, esempio, d'una poetica dello spazio), ossia sulle innumerevoli forme dell'immaginazione linguistica. Gli uomini, infatti non sognano soltanto con le parole, sognano anche, e persino i piú rozzi, sulle parole, su tutte le manifestazioni del linguaggio: abbiamo qui appunto dopo il Cratilo, quello che Claudel chiama un «formidabile dossier » [ OEuvres OEuvres en prose, p. 96.]

 – che bisognerà pure decidersi ad aprire un giorno. Bisognerebbe d'altra parte analizzare a fondo tutto l'insieme dei procedimenti e degli artifici cui fa ricorso l'espressione poetica per motivare i segni; qui non possiamo fare altro che indicarne le principali specie. La piú nota, perché la piú immediatamente percepibile, comprende i procedimenti che, prima di affrontare il « difetto » del linguaggio, si studiano di ridurlo, sfruttando in un certo senso il difetto del difetto, ossia quelle poche poche  vestigia di motivazione, motivazione, diretta o indiretta, che troviamo troviamo naturalmente nella lingua: onomatope onomatopee, e, mimologismi, armonie imitative, effetti d'espressività fonica o grafica,

[ I primi sono ben noti (anche troppo, probabilmente) dopo Gramont e Jespersen. I secondi sono stati studiati molto meno nonostante l'insistenza di Claudel (cfr. in particolare Idéogrammes occidentaux, p. 81).]

evocazioni per sinestesia, associazioni lessicali.

 

[Possiamo chiamare così, nonostante qualche ondeggiamento nella terminologia linguistica il contagio semantico tra parole vicine per la forma: cosí la frequente associazione, nella rima per esempio, con  funebre, può scurire, come desidera Mallarmé, il semantismo «naturale» di tenebre.  ]]

 Valéry, che pure ci sapeva fare quanto un altro, [Per esempio: «L'insetto netto gratta la secchezza» (Le cimeti è re marin). ] ]

 non aveva molta stima per questo genere d'effetti: l'armonia tra l'essere e il dire « non deve – scriveva – essere definibile. Quando lo è si tratta d'armonia imitativa, e questo non è bello ». OEuvres, II, p. 637.] [ OEuvres,

 certo comunque che sono questi i mezzi piú facili, visto che sono dati nella lingua, e quindi alla portata del « signor Tutti Quanti », e soprattutto che il mimetismo da essi realizzato è del tipo piú grossolano. g rossolano. C'è piú finezza finezza negli artifici che (rispondendo cosí piúil direttamente formula diseparati Mallarmé) sforzano di correggere il difetto avvicinando, adattando l'uno all'altro significante e alla il significato dallasidura legge dell'arbitrarietà. Schematicamente parlando, parlando, questo adattamento può essere realizzato in due modi diversi. Il primo consiste nell'avvicinare il significato al significante, ossia nel flettere il senso o, piú esattamente forse, nello scegliere tra le virtualità semiche quelle che meglio si accordano alla forma sensibile dell'espressione: cosí appunto Jakobson Jakobson indica come la poesia francese possa sfruttare, e con ciò stesso giustificare, la discordanza notata da Mallarmé tra i fonetismi delle parole  giorno e notte, e da parte nostra si è cercato di dimostrare [Qui stesso, pp. 111-19.]

in che cosa gli effetti di questa discordanza e del suo sfruttamento possono contribuire a quella particolare sfumatura che la poesia francese dà all'opposizione tra il giorno e la notte: è soltanto un esempio tra migliaia d'altri possibili: ci vorrebbero qui numerosi studi di semantica prepoetica, in tutti i campi (e in tutte le lingue) anche solo per cominciare ad apprezzare l'incidenza di questi fenomeni su quella che viene v iene chiamata, forse impropriamente, la « creazione » poetica. Il secondo consiste, inversamente, nell'avvicinare il significante al significato. Questa azione sul significante può essere di due ordini molto diversi: d'ordine morfologico morfologico,, se il poeta, non soddisfatto delle risorse espressive del suo idioma, si sforza di modificare le forme form e esistenti o anche di foggiarne delle nuove; nel xx secolo questo capitolo dell'invenzione dell'invenzione verbale ha trovato i suoi illustratoci in poeti come Fargue o Michaux, ma il procedimento,, per ngioni evidenti, è rimasto fino a questo momento eccezion procedimento le. L'azione piú frequente sul significante, la piú efficace, probabilmente – in ogni caso quella piú conforme alla vocazione del giuoco poetico che che è di situarsi all'interno della lingua naturale e non accanto ad essa –, è d'ordine semantico e consiste non nel deformare dei significanti o nell'inventarne altri, ma nello spostarli, ossia nel mettere al posto di un termine proprio un altro termine ter mine che viene distolto dal suo uso e a cui viene affidato un uso e un senso nuovi. Questa azione di spostamento, che Verlaine Verlaine ha finemente chiamato la « méprise » , è evidentemente all'origine di tutte quelle « figure di parole prese fuori dal loro significato » che sono i tropi della retorica classica. Si tratta di una funzione della figura che non è forse stata messa sufficientemente in luce fino ad ora Le langege et la vie, Niehans, Zurigo 19361, p. 95)] [Cfr. tuttavia Bally: «Le ipostasi sono tutte segni motivati» ( Le

e che concerne direttamente il nostro discorso: contrariamente al termine « proprio » o letterale, che è normalmente arbitrario, il termine figurato è essenzialmente motivato, e motivato in due sensi: innanzi tutto e scelto semplicemente perché in un larepertorio tradizionale come quellosempre dei tropi corrente) invece di essere imposto dalla èlingua;(anche inoltreseperché sostituzione di termine procede da d'uso un certo rapporto tra i due significati (rapporto d'analogia per una metafora, d'inclusione per una sineddoche, di contiguità per una metonimia, ecc.) che resta presente (connotato) nel significante spostato s postato per cui questo significante, benché generalmente altrettanto arbitrario, nel suo senso letterale, del termine ter mine soppiantato, diven diventa ta motivato nel suo uso figurato. Dire fiamma per designare la fiamma, amore per designare l'amore, è sottomettersi alla lingua accettando le parole arbitrarie e transitive che essa ci impone; dire fiamma per amore è motivare il proprio linguaggio (dico  fiamma perché l'amore brucia) e con ciò stesso dargli lo spessore, il rilievo e il peso d'esistenza che gli mancano nella circolazione quotidiana dell'universel reportoge.

È comunque opportuno precisare qui che non ogni sorta di motivazione risponde al voto poetico profondo che è , secondo l'espressione di Eluard, [Sans áge (Cours naturel),  in (Euvres compl è tes, «Bibliothè que de la Pléiade», Gaffimard, Paris 1968, I.]

 di parlare un linguaggio sensibile. Le « motivazioni relative », d'ordine essenzialmente morfologico (vaccalvaccaro, uguale/disuguale, scelta/scegliere, ecc.) di cui parla Saussure e che egli vede dominare nelle lingue piú « grammaticali », [ Cours Cours de linguistique générale, pp. 180-84.]

non sono tra le piú felici per il linguaggio poetico, forse perché la loro origine è troppo intellettuale e il loro

 

funzionamento troppo meccanico. Il rapporto tra oscuro e oscurità è troppo astratto per dare a oscurità una vera motivazione poetica. Un lessema non analizzabile come ombra o tenebre, con le sue qualità e i suoi difetti sensibili immediati e la sua rete d'evocazioni indirette (ombra-tomba, tenebre-funebre) offrirà probabilmente lo spunto a una azione motivante piú ricca, nonostante la sua maggiore immotivazione linguistica. E la stessa parola oscurità per acquistare una certa densità poetica, dovrà darsi una sorta di freschezza verbale facendo dimenticare la sua derivazione e riattivando gli attributi sonori e visuali della sua esistenza lessicale. Questo implica tra l'altro che la presenza del morfema non sia sottolineata da una rima « categoriale » del genere g enere oscurità-verità e possiamo, sia detto di sfuggita, immaginare che questa ragione – sia pure inconsciamente e con varie altre, abbia contribuito contribuito alla proscrizione delle rime grammaticali. Guardate invece come la parola si rigenera e si sensibilizza in un contesto appropriato, appropriato , comeà indemi questi versirté, di Saint-Amant:  J'écoute, transpo transporté, Le bruit des ailes du silence Qui vole dans l'obscurité. [[Ascolto quasi trasportato | Il fruscio delle ali del silenzio | Che vola nell'oscurità]. Le contemplateur.  ]]

Oscurità ha trovato qui il suo destino poetico; essa ess a non è piú la qualità astratta di ciò che è oscuro, è diventata

uno spazio, un elemento, una sostanza; e – contro ogni logica, ma secondo la segreta verità del notturno – quanto luminosa! Questa digressione ci ha allontanato dai  procedimenti di motivazione, ma non dobbiamo rimpiangerlo giacché in realtà l'essenziale della motivazione poetica non è in questi artifici, che funzionano probabilmente solo da catalizzatori: piú semplicemente e piú profondamente è nell'atteggiamento di lettura che la poesia riesce (o, piú spesso, non riesce) a imporre al lettore, atteggiamento motivante che, al di là o al di qua di tutti gli attributi at tributi prosodici o semantici, accorda a tutto o a parte del discorso quella specie di presenza intransitiva e d'esistenza assoluta che Eluard chiama l'evidenza poetica. Il linguaggio poetico rivela qui, ci sembra, la sua vera « struttura str uttura », che non è di essere una  forma particolare, definita dai suoi accidenti specifici, ma piuttosto uno stato, un grado di presenza e d'intensità cui può essere portato, per cosí dire, qualsiasi enunciato, alla sola condizione che si stabilisca intorno ad esso quel margine di silenzio [« Le poesie hanno sempre grand grandii margini bianchi, grandi margini di silenzio» (P (P.. ELUARD ELUARD,, Donner à voir, in (Euvres compl è tes, I, p. 81). Si osserverà che anche la poesia piú libera dalle forme tradizional tradizionalii non ha rinunciato rinunciato (anzi al contra contrario) rio) al potere della messa in condizione condizione poetica che dipende dalla disposizione della poesia nel bianco della pagina. Esiste, in tutti i sensi del termine, una disposizione poetica. Cohen lo dimostra benissimo con quest'esempio fabbricato: «Ieri sulla Nazionale sette | Un'automobile | Che marciava marciava a cento allora è finita | Contro un platano | I quattro occupanti sono rimasti | Uccisi ». « Cosí disposta disposta – dice giusta giustamente mente – la frase non è già piú prosa. Le parol parolee si anima animano, no, si elettrizzano» elettrizzano» (p. 76). Questo Questo dipende non soltanto, soltanto, com'eglili dice, dal tagli com'eg taglioo gramma grammatical ticalmente mente aberrante, aberrante, ma anche, e prima di tutto, tutto, da un'im un'impagin paginazion azionee che chiameremmo chiameremmo volentieri volentieri intimid intimidatori atoria. a. La soppressione della punteggiatura in gran parte della poesia moderna, di cui Cohen sottolinea giustamente l'importanza (p. 62), va anch'essa nella medesima direzione: annullamento dei rapporti grammaticali e tendenza a costruire la poesia, nello spazio silenzioso della pagina come una pura costellazione verbale (sappiamo quanto quest'immagine abbia ossessionato Mallarmè ).]

 che l'isola in mezzo al linguaggio quotidiano pur senza estraniarlo da esso. Per questo probabilmente probabilmente la poesia si

distingue da tutte le sorti di stile, con le quali condivide soltanto un certo numero di mezzi. Lo stile è sì uno scarto, nel senso che si allontana dal linguaggio neutro per un certo effetto di differenza e d'eccentricità; la poesia non procede allo stesso modo: si direbbe piuttosto che essa si ritiri dal linguaggio comune dall'interno, attraverso un'azione – certo in larga parte illusoria – d'approfondimento e di risonanza paragonabile a quelle percezioni esaltate dalla droga che secondo quanto afferma Baudelaire trasformano « la grammatica, perfino l'arida grammatica » in una sorta sor ta di *magia evocatoría: le parole risuscitano rivestite di carne e di ossa, il sostantivo nella sua maestà sostanziale, l'aggettivo, l'ag gettivo, manto trasparente che lo veste e lo colora come uno smalt smalto, o, e il verbo verbo,, angelo del movimento, che dà l'impulso alla frase ». [ Le poème du baschisch, parte IV. IV. La menzione fatta qui della grammatica non contraddice l'idea, che condividiamo nell'essenzíale con Jean Cohen, (Une microscopíe dernier «spleen » , «Tel della poesia degrammaticalizzazione del linguag l'arida gio, e non appoggia, come vorrebbe vorr«ebbe Roman Jakobson n. della grammatica. Per Baudelaire 2 9), 9), l'idea di come una  poesia grammatica non diventa magia evocatoria » (formula cardinale,ducome sappiamo, che siQuel», ritrova Fuséess e nell'articolo in Fusée nell'articolo su Gaut Gautier, ier, in conte contesti sti che non debbono piú nulla allo stupefacent stupefacente) e) se non perdendo il carattere carattere puramente relazionale relazionale che costituisce la sua «aridità», ossia degrammaticalizzandosi: le  partes orationis risuscitano vestendosi di carne e di ossa, ritrovando un'esistenza sostanziale, le parolee diventano parol diventano esseri materiali, materiali, colorati e anima animati. ti. Non c'è nulla di piú lontano da un'es un'esaltaz altazione ione della grammatica come tale. Esist Esistono ono forse delle immaginazioni linguistiche centrate sul grammaticale e Mallarmé, per lo meno, si diceva un «syntaxier ». Ma il poeta che lodava in Gautier «quel magnifico dizionario i cui fogli, mossi da un soffio divino s'aprono al punto giusto per lasciare scaturire la  parola approp appropriata riata,, la  parola unica», e che scrive anche nell'articolo nell'a rticolo del 1861 su Hugo: «Vedo nella Bibbia un profeta al quale Dio ordina di mangiare un libro. Ignoro in quale mondo Vietor Hugo abbia mangiato in anticipo il dizionario della lingua che era chiamato a parlare: vedo però che il lessico francese, uscendo dalle sue labbra, è diventato un mondo, un universo colorato, melodioso e mutevole» (sottolineato da noi), questo poeta non è invece un esempio caratteristico di quella che potremmo chiamare l'immaginazione lessicale? Citiamo ancora l'articolo del 1859 su Gautier: «Ero stato colpito colp ito molto giovane da lessicomania ».]

Del linguaggio poetico cosí inteso – che sarebbe forse meglio chiamare il linguaggio allo stato poetico, o lo stato poetico del linguaggio – diremo senza troppo forzare la metafora, che è il linguaggio allo stato di sogno, e si sa bene che il sogno in rapporto alla veglia non è uno scarto, scart o, anzi il contrario contrario... ... ma come dire quello che è il contrario di uno scarto? In verità ciò che si lascia piú giustamente definire dallo scarto, come scarto, non è il linguaggio poetico, bensí proprio la prosa, l'orario soluta, la parola disgiunta, il linguaggio stesso come divergenza e disgiunzione dei significanti, dei significati, dei significante e del significato. La poesia sarebbe sí allora, come dice Cohen (ma in senso diverso, o piuttosto in direzione opposta), antiprosa e riduzione dello scarto: scarto scartato, negazione, rifiuto, oblio, annullamento dello scarto, di quello scarto scar to che costituisce il linguaggio; sc scar arto to sti scar scarti ti costit [Quest [Questoo rim rimand andoo dallo dal stilis listic ticoo aglisulla costitutiv utividell'opposizione i di ogni linguaggio può apparire appar ire sofistico sofist ico.. Vogliam ogliamo sempli semplicement cemente, e, Sesfruttando sfrutta ndo quest'equivoco, quest'equivoco , attirare (o lo riportare) l'attenzione reversibilità prosa/poesia e sull'artificio essenziale dellao« lingua naturale». la poesia è scarto in rapporto alla lingua, la lingua è scarto in rapporto a tutte le cose, e in particolare a se stessa. De Brosses designa con questo termine la separazione, secondo lui progressiva (e spiacevole), nella storia delle lingue, tra oggetto, idea e significanti (fonici e grafici): «Per quanti scarti vi siano nella composizione delle lingue, per quanta parte possa avervi l'arbitrario... »; «Quando si penetra questo difficile mistero (dell'unione, nella lingua primitiva, dell'essere reale”, dell'idea, del suono e della lettera), non ci si stupisce, progredendo nell'osservazione, di riconoscere a quale eccesso queste quattro cose, dopo essersi cosí avvicinate a un centro comune, si discostino di nuovo attraverso un sistema di derivazione... » (Traité de la formation mécanique des langues, Paris 1765, pp. 6 e 21. Il corsivo è nostro).]

 

illusione, sogno, utopia necessaria e assurda d'un linguaggio linguagg io senza scarto, senza iato – senza difetto.

« Stendhal »

Il vero melomane, macchietta piuttosto rara in Francia, ove di solito non è che una pretenziosa vanità, si incontra a ogni angolo in Italia. Quando ero di guarnigione a Brescia ebbi modo di conoscere la persona del luogo forse piú sensibile alla musica. Era uomo molto mite e cortese, ma quando si trovava a un conc concerto erto e la musica gli piaceva oltre un certo limite, senza accorgersene si toglieva le scarpe; si giungeva a un passaggio passag gio sublime, ecco che immancabilmente lanciava le scarpe dietro di sé sugli spettatori. [ Vie Vie de Rossini (Divan), I, p. 31. La menzione Divan rinvia qui all'edizione in 79 volumi (1927-37); Divan critique rinvierà alle edizioni critiche, curate sempre per il Divan da Henri Martineau.]

C'è nel beylismo, nello Stendhal-Club, e in altre manifestazioni – particolarmente appariscenti nel caso di Stendhal – non di feticismo dell'autore, almeno questoche di buono, buono , che ci preservano ci distolgono sorta d'idolatria, meno grave e oggi piú pericolosa, è il feticismo dell'opera –oconcepita comedaunun'altra ogg etto oggetto chiuso, compiuto, assoluto. Da un altro canto però, non v'è impresa piú vana che cercare negli scritti di Stendhal, o nelle testimonianze dei suoi contemporanei, la traccia d'un essere definito e sostanziale che si potrebbe legittimamente, in accordo con lo stato civile, chiamare Henri Beyle. Quanto piú giusta, pur nei suoi eccessi, la riserva di Mérimée che laconicamente intitola H. B. una specie di necrologia clandestina nella quale sostiene che il defunto non scriveva mai una lettera senza firmarla con un nome falso o datarla da un luogo luog o fantasioso, che gratificava tutti i suoi amici di un nome di battaglia e che « nessuno ha mai saputo esattamente quali persone frequentasse, quali libri avesse scritto, quali viaggi avesse fatto ». Le scoperte dell'erudizione da allora in poi non hanno fatto che infittire il mistero, moltiplicando semplicemente il numero dei dati. Le due cariatidi dell'antico «sapere» letterario si chiamavano chiamavano,, forse lo si rammenta ancora: l' uomo e l'opera. Il  valore esemplare del fenomeno fenomeno Stendhal dipend dipendee dal modo in cui esso scombussola queste due nozioni nozioni alterandone la simmetria, confondendone la differenza, distorcendone distorcendone i rapporti. In questo « nome di battaglia » che è Stendhal confluiscono, si incrociano e s'annullano vicendevolmente e incessantemente la « persona » d'Henri BeyleBeyle e la sua « opera infatti se,veramente per ogni stendhaliano l'opera di di Stendhal designa Beyle, Henri a sua volta »: non esiste che attraverso l'opera Stendhal. Non costantemente c'è nulla di piú Henri improbabile, di piú fantomatico del Beyle dei ricordi, delle testimonianze, dei documenti, il Beyle « raccontato da coloro che l'hanno visto », quei Beyle appunto di cui Sainte-Beuve chiedeva informazioni a Mérimée, ad Ampère, a Jacquemont, «a tutti coloro insomma che l'hanno visto e assaporato nella sua forma originaria ». La forma originaria di Beyle, quel Beyle anteriore a Stendhal che Sainte-Beuve Sainte-Beuve ricerca, è soltanto un'illusione biografica: la  vera forma di Beyle è essenzialmente seconda. Beyle per noi è legittimamente soltanto un personaggio di Stendhal. Dice di se stesso: « il vero mestiere dell'animale è scrivere romanzi romanzi in una soffitta », cosa che avrebbero potuta affermare altrettanto bene Balzac o Flaubert o qualsiasi altro romanziere — a meno che il fatto stesso d'avere bisogno d'affermarla non sia indicativo della singolarità d'uno « scrittore » che, a differenza della maggior parte dei suoi confratelli, « si è sempre preferito alla propria opera », [JEAN POUILLON, «La Création chez Stendhal » , «Temps modernes », », n. 69.]

e che, lungi dal sacrificarsi ad essa, sembra soprattutto desideroso di metterla al servizio di quello che egli stesso ha battezzato, con parola introdotta circostanza, il suo egotismo. Ma se, secondo il parere generale,per la «lapresenza dell'autore » è in quest'opera piuttosto ingombrante, bisogna però anche notarne il carattere costantemente ambiguo e come problematico problematico.. La mania pseudonimica assurg assurgee qui a valore di simbolo: nei romanzi come nella corrispondenza, nei saggi come nelle memorie, Beyle è sempre

 

presente, ma quasi sempre mascherato o travestito ed è significativo che la sua opera piú direttamente « autobiografica » porti come titolo un nome che non è né quello dell'autore, né quello dell'eroe: Stendhal copre Henry Brulard, che copre Henry Beyle — che a sua volta sposta impercettibilmente Menri Beyle dello stato civile, il quale non si confonde con nessuno degli altri tre e ci sfugge per sempre. Il paradosso dell'egotismo è press'a poco questo: parlare di sé, nella maniera piú indiscreta e piú spudorata, può essere il modo migliore per nascondersi. L'egotismo è , in tutti i sensi del termine, una « parata ». La dimostrazione piú efficace è probabilmente la sconcertante confessione edipica di Brulard: « Mia madre, Henriette Gagnon, era una donna incantevole e io ero innamorato di mia madre... « Volevo Volevo coprire mia madre di baci e desideravo che non ci fossero abiti. Ella mi amava appassionatamente e mi baciava spessissimo; io le rendevo nostri i baci con un tal fuoco che sovente era era obbligata a fuggire. fug gire. Detestavo mio padre quando veniva a interromperei baci... « Una sera, poiché mi avevano messo, per non so quale ventura, a dormire nella sua stanza in terra su un materasso, questa creatura viva viva e legg leggera era come una cerbiatta saltò sopra il mio materasso per raggiung raggiungere ere piú in fretta il suo letto ». [Vie de Henry Brulard (Divan cric.), I, pp. 42 e 45.]

Per gli specialisti un simile testo dovrebbe costituire una specie di scandalo: che cosa las lascia cia da interpretare? Immaginiamo Edipo, al levarsi dei sipario che dichiara senza preamboli al popolo tebano: « Brava gente, ho ammazzato mio padre Laio e fatto fare quattro figli a mia madre Giocasta: due maschi e due femmine. Non state a cercare oltre, tutto il male viene di qui ». Faccia stupita di Tiresia. (Faccia stupita di Sofocle). Scandalo,, tra l'altro, in senso etimologico: scandalon significa « trappola », e dire l'indicibile è una trappola senza Scandalo fine. Grazie a Brulard siamo ancora crudelmente privi di una psicanalisi di Stendhal. Il che dà una sorta di comica  verità a questa affermazione di Alain: « Stendhal Stendhal è lontano piú di quanto si può pensare dai nostri freudiani ». Sul margine del manoscritto di Leuwen, a proposito di un particolare del carattere dell'eroe, Stendhal annota: « Modello: Dominique himself. – Ah! Dominique himself! ». [Ed. Hazan, p. 671]

Questa strana designazione di sé è tipicamente stendhaliana, nel tutto come nelle parti. Dominique, come è noto, è da tempo il suo soprannome piú intimo, quello che riserva, riser va, quasi esclusivamente, al suo uso personale: è cosí che egli si nomina. Il « sabir » internazionale è anch'esso uno dei suoi procedimenti crittografici favoriti, nelle note che destina soltanto a se s e stesso. Ma la convergenza dei due codici sul medesimo oggetto, che si trova ad essere qui precisamente il soggetto, è di un effetto sorprendente. L'« io » stendhaliano non è precisamente « odioso »: è propriamente (e profondamente) innominabile. Il linguaggio non può avvicinarglisi senza disintegrarsi in una miriade di sostituzioni, spostamenti e circonlocuzioni al tempo stesso ridondanti ed elusivi. Dominique nome italianizzante, può essere attento a mo' d'omaggio, dall'autore del Matrimonio segreto; himself, « riflessivo » inglese il cui idiomatismo bicorne scusa, relegandolo in un'eccentricità vagamente ridicola, l'insopportabile riferimento a sé. Ah! Dominique himself! Si può esprimere in modo piú netto il decentramento del soggetto, l'alterità, l'estraneità dell'ego? O ancora, a diverse riprese nel  Journal : «Mr (oppure il Sig.) Myself ». Rifiuto edipico del patronimico, probabilmente. probabilmente. Ma che cosa significa d'altronde la soppressione o l'alterazione del nome (pratica certamente banale) e, cosa piú rara, il tabú posto qui sulla lingua materna? (A meno sermo patrius  che non si debba dire paterna [ sermo  ] , , la lingua originaria, da parte dei Gagnon, essendo invece – miticamente – l'italiano).

La proliferazione pseudonimica [Cfr. JEAN STAROBINSKI STAROBINSKI,, Stendhal pseudonyme, in L'oeil vivant, Gallimard, Paris 1961, pp. 193-244.]

 non riguarda soltanto Beyle stesso (piú di cento nomignoli nella corrispondenza e nelle carte intime, due pseudonimi letterari, senza contare i prestanome di Rome, Naples et Florence o dell'Arnour), o i suoi amici piú cari (Mérimée diventa Clara, la signora Dembowsky Léonore, Alberthe de Rubempré la signora Azur o Sanscrit) o i luoghi familiari (Milano si scrive i000 ans. Roma è Ornar o Omer, Grenoble Cularo, Civitavecchia Abeille; e Milano designa a volte, gloriosamente, Napoleone). Riguarda anche i titoli di certe opere. Cosí De l'amour è quasi costantemente battezzato Love, e il Rouge: Julien. Sappiamo che Stendhal esitò per Lucien Leuwen tra Leuwen, L'orange de Malte, Le télégraphe, Le chasseur vert, Les bois de Prémol, L'amarante et le noir, Le rouge et le blanc: ma, piú d'una  vera e propria indecisione, indecisione, sembrerebbe quasi trattarsi d'una specie di reazione a catena, come se il primo titolo

 

adottato richiamasse immediatamente una sostituzione pseudonimica che, non appena stabilizzata come denominazione propria, richiama richiama a sua volta un'altra sostituzione e cosí via. L'argot conosce bene questa perpetua fuga delle denominazioni, il cui principio sta forse nel desiderio sempre deluso e sempre rilanciato di chiamare altrimenti quello che ha già un nome. E lo pseudonimismo, come le altre tecniche tecniche di scrittura cifrata care a Stendhal (abbreviazioni, anagrammi, anglicismi, ecc.) proviene da questa rabbia metalinguistica. Le crittografie stendhaliane rivelano probabilmente non tanto una fissazione poliziesca quanto una certa ossessione del linguaggio, la quale si esprime in tutta una serie di fughe e rilanci. Se si presta fede a Mérimée capitò una volta al console francese a Civitavecc Civitavecchia hia d'inviare al proprio ministro degli affari esteri una lettera cifrata con la cifra messa nella stessa busta. Mérimée spiega l'accaduto con la sbadataggine, se si vuole interpretare stessa, èsialè tempo tentati di vedere in questo lapsus iluna confessione: lama cifratura è lì per il piacere.laEsbadataggine il piacere di cifrare stesso quello di escludere linguaggio e di parlare due volte.

Mocenigo. Che cosa designa esattamente questo nome venero che ossessiona il diario tra il 1811 e il 1814? Un'opera in ideazione, cosí battezzata dal nome dell'eroe? « I will be able to work to Mocenigo ». Un certo ruolo o tipo sociale, o psicologico? « The mestiere of Mocenigo makes bashfull procurando gioie intime che si vorrebbe non turbare con niente ». Beyle stesso? « Angélique Delaporte che ha attualmente sedici anni e dieci mesi, e che viene giudicata nell'attimo in cui scrivo, scrivo, mi sembra un essere degno di tutta l'attenzione di Mocenigo ». Il genere drammatico, come vuole Martineau? « Con questa parola bisogna intendere l'arte teatrale nella quale pensava sempre di diventare famoso ». Piú genericamente la « conoscenza del cuore umano » e tutta la letteratura d'analisi? « Le Memorie scritte con verità... vere miniere for the Mocenigo ». O ancora il diario stesso? « Avevo in t) animo di scrivere oggi la parte di Mocenigo della giornata di ieri. Ma rientro stanco a mezzanotte e ho soltanto la forza di annotare la giornata di oggi». [  Journal (Divan), V, pp. 258, 94, 85; MARTINEAU, Le coeur de Stendhal, historie de sa vie et de ses sentiments,  Albin Michel, Paris 195253, 2 voll., P. 361;  Journal, IV IV,, p. 254, V, p. 153]

 Allo stato attuale degli studi stendhaliani sembra che che queste domande restino senza risposta e forse lo resteranno per sempre. Ma che Mocenigo possa apparire, secondo le circostanze, come un nome di personaggio, personag gio, un titolo, uno pseudonimo,, o anche come la designazione di qualche entità letteraria piú vasta, questa stessa pseudonimo st essa polivalenza è rivelatrice e in un certo senso esemplare. Mocenigo: né l'« uomo » né l'« opera », bensì qualcosa come il lavoro reciproco,, o reversibile, che li unisce e li fonda l'uno attraverso l'altro. Fare Mocenigo, essere Mocenigo è una cosa reciproco sola. Nello stesso modo forse, negli anni 18i82o, Beyle designa volentieri col nome di Bombet, con cui le aveva firmate, le Vies de Haydn, Mozart et Métastase, e con Stendhal, la prima versione di Rome, Naples et Florence: « Invece di fare un articolo su Stendhal, fatelo su Bombet... I centocinquantotto Stendhal si venderanno da soli ». Correspondance (Divan), V, pp. 108-9.] [ Correspondance Il nome Stendhal è per lui ancora soltanto quello di un libro. Diventerà egli stesso Stendhal per metonimia, identificandosi con questo libro e con il suo problematico autore. Frédéric-Gasse, bella strada di Kdnigs L'imponente Pierre Wanghen occupa nord della Kdnigsberg, berg, cosícase. interessant interessante e per gli stranieri a causa palazzo del gran costruito numero didapiccole scalinate dai sette l'estremità agli otto gradini sporgenti sulla via,lache conducono ai portoni delle Le ringhiere di queste piccole scalinate, splendenti di pulizia, sono di ferro fuso di Berlino, credo, e ostentano tutta la ricchezza un po' stravagante del disegno tedesco. In complesso questi ornamenti involuti non sono sgradevoli: hanno il vantaggio della novità e si accordano a meraviglia con quelli delle finestre dell'appartamento nobiliare che a Kónigsberg si trova al pianterreno, rialzato di quattro o cinque piedi sul livello della strada. Le finestre sono munite nella parte inferiore di telai mobili che portano delle telette metalliche d'un effetto molto particolare. Questi tessuti brillanti, comodissimi per la curiosità delle signore, sono impenetrabili all'occhio del passante abbagliato dallo scintillio che si sprigiona dal tessuto metallico. Gli uomini non scorgono affatto l'interno degli appartamenti, mentre le dame che lavorano vicino alle finestre vedono perfettamente i passanti.

Questo genere di piacere e di passeggiata sedentaria, se mi è consentita l'espressione ardita, costituisce una delle caratteristiche salienti della vita sociale in Prussia. Da mezzogiorno alle quattro, se si passeggia a cavallo e si fa fare un po' di rumore al cavallo, si è sicuri di vedere tutte le bellezze della città che lavorano proprio contro il vetro inferiore della finestra. C'è anche un tipo particolare d'abbigliamento che ha un suo nome speciale ed è indicato dalla moda per figurare cosí dietro il vetro che, nelle case tenute un po' con cura, è assai trasparente. La curiosità delle donne è aiutata da un'ulteriore risorsa: in tutte le case signorili si vedono, ai due lati delle finestre del pianterreno, rialzato di circa quattro piedi sul livello della strada, degli specchi alti un piede, sorretti da un piccolo braccio di ferro e un po' inclinati verso l'interno. Per effetto di questi specchi inclinati le donne vedono i passanti che arrivano dal fondo della strada, mentre, come abbiamo detto, l'occhio curioso di questi signori non può penetrare nell'appartamento, attraverso attraverso le telette metalliche che accecano la parte inferiore delle finestre. Essi però, anche se non vedono, sono sicuri di essere visti e questa certezza dà una rapidità particolare a tutti i romanzetti che animano la società di Berlino e di Königsberg. Un uomo è certo d'essere  visto tutti i giorni giorn i e diverse volte dalla donna che preferisce; non è anzi del tutto impossibile che il telaio di tela metallica sia a volte per puro caso un po' fuori posto e permetta a colui che sta passeggiando di scorgere la manina della dama che cerca di rimetterla a posto. Si arriva persino a dire che la posizione di questi telai può avere un linguaggio. Chi potrebbe potrebbe capirlo od offendersene?. [Le rose et le vert, Romans et Nouvelles (Divan), I, p. 17.]

La comunicazione indiretta è una delle situazioni privilegiate della topica stendhaliana. st endhaliana. Conosciamo la condanna lanciata da Rousseau contro la funzione funzione mediatrice del linguaggio e quella per lui doppiamente mediatrice invece che Stendhal respin ga, o per decisivi lo menodella si riser riservi vi quella relazione di trasparenzadella in cuiscrittura; « l'animasembra parla direttamente all'animarespinga, ». I momenti comunicazione (confessioni, rotture, dichiarazioni di guerra) sono generalmente affidati nelle sue opere alla scrittura: cosí è per la corrispondenza tra Lucien Leuwen e la signora di Chasteller che traspone in termini di passione vera l'insidiosa

 

tecnica di seduzione epistolare presa a prestito da Laclos (di cui l'episodio delle lettere lett ere ricopiate per la signora di Fervaque, nel 1Zouge, ("0 stituisce invece una sorta di parodia), o per lo scambio di lettere fra Julien e Mathilde nei capitoli xiii e xiv della seconda parte del Rouae. Il modo di trasmissione, in quest'ultimo episodio, è anch'esso caratteristico: Julien e Mathilde abitano sotto lo stesso tetto, si incontrano tutti i giorni, ma la confessione che Mathilde sta per fare eccede la parola: « Riceverete stasera una mia lettera, —gli disse con una voce talmente alterata, che il suono non era riconoscibile... Un'ora dopo, un servo consegnò una lettera lett era a Julien; era una vera e propria dichiarazione d'amore ». Questa lettera compromettente viene affidata in custodia da Julien all'amico Fouqué non senza precauzioni iperboliche: iperboliche: nascosta nella copertina di un'enorme Bibbia acquistata all'uopo da un libraio protestante. Poi redige una risposta prudente pr udente che consegna direttamente nelle mani di lei. « Pensava che fosse doveroso era la cosa piùche comoda, ma la signorinalettera de la M Môle nonlde: volle ascoltarlo  Julien ne fu deliziato,parlarle; deliziato, non avrebbe saputo ccosa osa dirle ». Seconda diôle Mathilde: Mathi « La signorinae scomparve. de la Môle apparve sulla soglia della biblioteca, gli gettò una lettera e fuggi. — A quanto pare sta diventando un romanzo epistolare, — disse raccogliendo la lettera» . Terza lettera: « Questa gli fu lanciata dalla porta della biblioteca. La signorina de la Môle scappò nuovamente. — Che mania di scrivere, — disse tra sé ridendo, — quando c'è modo di parlarsi tanto comodamente! » Julien ne parla con disinvoltura: non è innamorato. Mathilde invece invece non solo non può dire «comodamente» duello che ha da dire, ma solo con grande sforzo può tenere o far tenere in mano quello che ha scritto e che brucia: fa recapitare le sue lettere oppure le getta di lontano come fossero granate. La scrittura è presto accompagnata, dunque, come mediazione, da un atto o da un sistema di trasmissione che ne aggrava il carattere indiretto e differito. Lucien fa sei leghe a cavallo per andare a impostare le sue lettere a Darney,, sulla strada da Nancy a Parigi. La signora di Chasteller gli risponde al supposto indirizzo del suo Darney domestico. Corrieri che si incrociano e si scontrano, quiproquo postale a beneficio della cristallizzazione. Octave e Armance affidano le loro lettere, vere e false, alla cassa d'un arancio. In Ernestine ou la naissance de l'amour, [De l'amour (Divan crit.), pp. 320-43]

i biglietti di Philippe Astézan sono attaccati al nodo di mazzi di fiori deposti nel cavo di una grande quercia sulla riva del lago. Sempre in un mazzo di fiori fissato all'estremità di una serie di canne di bambú Giulio Branciforte nell'Abbesse de Castro issa la sua prima lettera all'altezza della finestra di Elena Campireali; la risposta favorevole sarà l'invio d'un fazzoletto. L'amore stendhaliano è tra l'altro un sistema e uno scambio di segni. La cifra non è soltanto un ausilio della passione: il sentimento tende per cosí dire naturalmente alla crittografia, come per una specie di superstizione profonda. La comunicazione amorosa si compie, con l'aiuto di reclusioni talvolta compiacenti (conventi, prigioni, clausure familiari), attraverso codici telegrafici la cui ingegnosità simula molto bene quella del desiderio. In Suora Scolastica, Gennaro usa il linguaggio a gesti g esti dei sordomuti, ben noto, sembra, alle ragazze napoletane napoletane,, per far giungere a Rosalinda questo messaggio: messag gio: «Da quando non vi v i vedo sono infelice. Voi Voi siete felice in convento? Siete libera di venire spesso sul belvedere? Vi piacciono sempre i fiori? » Nella prigione della torre Farnese, Clelia si rivolge a Fabrizio accompagnandosi col pianoforte, facendo finta di cantate un recitativo dell'opera alla moda. Fabrizio risponde tracciandosi tracciandosi delle lettere col carbone sulla mano: è per domandare carta e matita. La giovino a sua volta « strappò le pagine d'un libro e cominciò a tracciarvi su in tutta fretta grandi lettere a inchiostro, con immensa gioia di Fabrizio che vide finalmente stabilito, dopo tre mesi di pene, quel mezzo di corrispondenza cosí vanamente sollecitato. Si guardò bene dallo smettere quella piccola astuzia cosí ben riuscita: egli aspirava a comunicare per iscritto e fingeva a ogni momento di non afferrare bene le parole di cui Clelia gli mostrava successivamente tutte le lettere ». Il legame (di sostituzione) tra lo scambio s cambio di scrittura e il rapporto amoroso è qui fin troppo palese. Fabrizio riceverà anche in seguito « un pane abbastanza grosso, ornato di tante crocette tracciate a penna: Fabrizio le coperse di baci », poi dei messaggi sul margine di un breviario, da cui strapperà alcune pagine per fabbricare un alfabeto, e questo sistema di corrispondenza durerà fino all'evasione. Con Gina comunica all'inizio mediante segnalazioni luminose: uno per A, due per B, ecc ecc.. « Chiunque però avrebbe potuto  vederle e capirle; si cominciò cominciò da quella prima notte a stabilire certe certe abbreviazioni: tre apparizioni susseguentisi susseguentisi rapidamente indicavano la duchessa; quattro il principe, due il conte Mosca; due apparizioni rapide seguite da due Monaca lente avrebbero voluto dire evasione. Fu poi convenuto di seguire per l'innanzi l'antico alfabeto detto alla Monaca che, per non essere indovinato da indiscreti, cambia il numero ordinario delle lettere e ne dà loro uno arbitrario:  A, per esempio, esempio, porta il numero dieci; B B,, il numero tre; cioè tre apparizioni successive ddella ella lampada significavano B, dieci apparizioni successive successive significavano A, ecc. Un momento d'oscurità contrassegnava la separazione delle parole». [Abbesse de Castro, Chroniques italiennes (Divan), 1, pp. 33-37; Suora Scolastica, ibid., II, p. 236; Chartreuse (Garnier), pp. 315, 317, 318, 324-25]

Ma certo che nessuno di questi alfabetie di supera per attrattiva e per comodità il misterioso linguaggio dei telai di Königsberg, nessuno può capire cui nessuno può offendersi. Ho passeggiato stamane con un giovane di bell'aspetto, molto istruito e di una gentilezza perfetta. Scriveva le sue confessioni, e con tanta grazia che il confessore glielo ha proibito. – Lei gode una seconda volta dei suoi

 

peccati scrivendoli cosí, me li dica a voce. [  Mémoires d'un touriste (Calmann-Lévy), II, p. 140.]

 Tutti gli stendhaliani conoscono conoscono quella strana abitudine dell'iscrizione memorativa che induce Beyle Beyle,, per esempio, a tracciare sulla polvere d'Albano le iniziali delle donne che l'hanno diversamente occupato nel corso della vita, o a scrivere sull'interno della cintura, il 16 ottobre 1832, « sto per toccare la cinquantina, cosí abbreviato per non essere capito: S. Topertocca rela 5 ». Brulard, I, p. 15] [ Brulard,

Una ventina d'anni prima, celebrando dentro di sé il secondo anniversario della sua « vittoria » su Angela Pietragrua, annotava nel diario questo fatto che illustra in maniera a dir poco singolare il detto scripta manent: «  V  Vedo edo sulle mie bretelle che fu il 21 settembre 1811, alle undici e mezza del mattino ». [Journal, V, p. 211.]

Non si sa, a proposito di questi graffiti intimi su che cosa ci si debba interrogare di píú, se sul messaggio, sul codice o forse sulla natura del supporto. V Valéry, aléry, che già mal digeriva i fogli cuciti nelle fodere di Pascal, si stupi sce (a proposito del secondo esempio) di « quell'atto poco comune » e pone una domanda pertinente: « Che senso ha l'atto secondo di annotarlo? ». [OEuvres, «Bibliothèque de la Pléiade», I, Gallimard, Paris, p. 567]

C'è in effetti nel journal e in Brulard un raddoppiamento dell'iscrizíone che ne aggrava agg rava il carattere. Questione accessoria, probabilmente, ma non per questo meno irritante: ir ritante: tra il Beyle che scrive sulla polvere, sulla cintura, sulle bretelle, e lo Stendhal che trascrive sulla cart carta, a, ove comincia la letteratura? Questo feticismo epigrafico colpisce per lo meno altri due eroi stendhaliani, nei quali si può notare di sfug sfuggita gita che esso accompagna una certa incapacità fisica (in Ottavio) o di sentimenti (in Fabrizio, prima dell'incontro con Clelia). Ottavio segna su un piccolo promemoria, celato nel « segreto » del suo scrittoio: « 14 dicembre 182... Gradevole effetto di due m. – Amicizia raddoppiata. –Invidia di Ar. – Finire. – Sarò piú grande di lei. – Specchi di Saint-Gobain ». [Armance (Garnier), p. 27. Chartreuse, p. 206.]

Stendhal riporta questa annotazione senza spiegazione né commento, commento, come se la sua oscurità ser servisse visse a illuminarla. Quanto a Fabrizio, egli incide sul quadrante dell'orologio, con caratteri abbreviati, questa importante risoluzione: « Quando scrivo alla D(uchessa) mai dire quando ero prelato, quando ero un uomo di Chiesa, sono frasi che l'indispettiscono »  [Chartreuse, p. 206]

Per il lettore di Brulard la prima sorpresa viene dall'importanza degli schizzi in rapporto al testo. L'abitudine di disegnare sul margine o tra le righe dei manoscritti è costante in Stendhal, ma qui il grafismo prolifera e invade la pagina. Non si accontenta piú di illustrare il discorso, diventa spesso indispensabile alla sua stessa stess a comprensione, e i numerosi riferimenti agli schizzi s chizzi rendono impossibile o assurda l'idea di un'edizione di Brulard ridotta al solo testo. O piuttosto il disegno fa parte qui del testo: prolunga la scrittura con un movimento naturale che conferma come Stendhal, pur nella fretta e nell'improvvisazione, e anche se a volte gli è accaduto di dettare qualche pagina, rimane lontano daellissi, ogni letteratura « orale », declamata, o conversata. Le concise, sue stesse trascuratezze sono legate allo scritto: scor rettezza, scorrettezza, rotture. Stile fattomormorata di annotazioni, espressioni impazienze e audacie proprie della scrittura. Oratio soluta. La presenza del disegno taglia netto a ogni tentazione d'eloquenza ed esercita a volte effetti molto strani sul linguaggio: « Quel giorno vidi scorrere il primo sangue sparso dalla Rivoluzione francese. Era un operaio cappellaio (S), colpito a morte da un colpo di baionetta (S') in fondo alla schiena» . [Brulard, I, p. 68.]

Sappiamo anche che i margini dei libri appartenuti a Stendhal, e particolarmente degli esemplari personali delle sue opere, sono costellati di quelle annotazioni intime, generalmente cifrate e pressoché illeggibili, che gli eruditi stendhaliani hanno messo tutto il loro accanimento a trasmetterci e a tradurci. Esse costituiscono in particolare la materia di due volumetti di Marginalia et mélanges intimate santuario del beylismo devoto devoto.. Quando queste note occupano i margini di un manoscritto, come è il caso per Lucien Leuwen, il compito dell'editore postumo è evidentemente fondamentale: sta a lui decidere tra quello che apparterrà all'opera propriamente detta, quello alle note ammesse a piè di pagina, quello infine ai margini, relegati in appendice critica con varianti, piani, abbozzi, cancellature, ecc. Cosí per Leuwen Henri Martineau ha lasciato in nota riflessioni come queste: « chi parla è un repubblicano », oppure: « è l'opinione dell'eroe che è pazzo ma si correggerà », la cui sincerità beylista è contestabile e che sono quindi da ricollegare alla commedia dell'opera: non è Beyle a parlare, è « l'autore ». Ma

 

come dire la stessa cosa di quest'altra nota a piè di pagina che risponde con una certa bruschezza alla signora di Chasteller che, presa dal desiderio improvviso di baciare la mano di Lucien, si chiede di dove le possano venire simili orrori: « Dalla matrice, mia cara! » E in tal caso, perché non ammettere allo stesso titolo i vari « Modello: Dominique himself »; « With Métilde, Dominíque ha parlato troppo »; « Lettere inviate al giardino per la cameriera. E 16 anni after I write upon! Se Méti l'avesse saputo»

[ pp. 257, 671, 680, 675. Le parole in corsivo sono in italiano nel testo.]

che, nello spirito del vero stendhaliano appartengono di pieno diritto al testo di Leuwen. Il testo stendhaliano stendhaliano,, margini e bretelle compresi, è uno. Nulla autorizza a isolarvi quella specie di supertesto preziosamente elaborato che sarebbe, ne varietur, l'opera di Stendhal. Tutto ciò che traccia traccia la penna di Beyle (o il suo bastone, o il tuo temperino, o Dio sa che cosa) è Stendhal, senza distinzione né gerarchia. Stendhal stesso ne era probabilmente conscio, o forse qualche proto già beylista, che lasciava passare nel testo stampato del Rouge, della Chartreuse o delle Promenades dans Rome note come queste: « Esprit per. pre. gui. II. A. 30 ». (Esprit perde prefettura, Guizot, i i agosto 1830. – Allusione alla piú ggrossa rossa delusione professionale di Beyle); « Para v. v. P P.. y E. 15 x 38 » (Per voi Paquita ed Eugenia 15 dicembre 1838: dedica di Waterloo alle signorine di Montijo); « The day of paq, 1829, nopr. bylo bylov» v» (Il giorno di Pasqua 1829, niente bozze corrette, per amore): Rouge (Garnier), P. 325; Chartreuse, p. 49; Promenades dans Rome (Divan), III, p. 237.] [ Rouge

specie di a parte criptologici (l'espressíone è di Georges Blin) che probabilmente non si rivolgono a noi. Ma sappiamo mai esattamente a chi si rivolge Stendhal? uncon effetto che midurante sarà contestato, e che nonamore indicoostacolato se non aglidauomini, diròinsorm cosí, abbastanza averEcco amato passione lunghi anni, e d'un difficoltà insormontabili. ontabili. infelici per La vista di tutto ciò che è estremamente bello, in arte o in natura, richiama in un lampo il ricordo di chi si ama. Perché, per il meccanismo del ramo d'albero fiorito fiorito di diamanti nella miniera di Salisburgo, tutto ciò che al mondo è bello e sublime fa parte della bellezza di chi si ama, e quest'imprevisto apparire della felicità riempie di colpo gli occhi di lacrime. Cosí l'amore del bello e l'amore si danno vita l'un l'altro. Una delle disgrazie della vita è che la gioia di vedere l'amata e di parlarle non lascia ricordi precisi. L'anima è come troppo turbata dalle proprie emozioni per potere porre attenzione a ciò che le produce o le accompagna. Essa è la sensazione stessa: forse appunto perché gioie di quella natura non possono richiamarsi alla mente quando si voglia, si rinnovano con tanta forza appena qualcosa viene a distrarci dal fantasticare intorno alla donna amata e a rammentarcela piú vivacemente sotto nuova forma *. Un vecchio architetto arido la incontrava ogni sera in società. Un giorno, gior no, senza porre attenzione a quel che dicevo **, con tutta naturalezza io le feci un elogio tenero e pomposo di lui ed ella si burlò di me. Non ebbi il coraggio di dirle: « Egli vi vede tutte le sere ». Quest'impressione è tanto forte che si comunica persino alla persona della mia nemica che l'avvicina continuamente. Quando la vedo mi ricorda tanto Leonora, che in quel momento, per quanti sforzi io faccia, mi è impossibile odiarla. Si direbbe che per una strana bizzarria del cuore, la donna amata emani piú seduzione di quella che possiede in se stessa. La visione della città lontana dove la vedemmo un momento ***, ci getta in una fantasticheria piú dolce e profonda che non la sua stessa presenza. *I profumi. **L'autore usa qui il pronome di prima persona nel riferire sensazioni che gli sono estranee solo allo scopo di abbreviare e di descrivere intimamente il cuore umano; nulla di personale meritava di essere citato. *** ... Nessun maggior mag gior dolore | Che ricordarsi del tempo felice | Nella miseria... (DANTE, Francesca ). [ De l'amour, p. 33]

Dove inizia l'opera? Dove finisce? Anche se si vogliono ritenere patologici (ma quello che è patologico non è forse per questo tanto piú significante?) i casi estremi ricordati or ora, ogni lettore di Stendhal che non si sia fermato ai cinque o sei « capolavori » canonici sa bene quale infrangibile infrangibile continuità si stabilisca dalla Correspondance al Journal, dal Journal ai saggi, dai saggi ai racconti. L'opera « romanzesca » non gode di alcuna autonomia definibile in rapporto all'insieme degli scritti. L' Histoire de la peinture, De l'amour, Rome, Naples et Florence, dans Rome,tutto d'un all'universo touriste contengono le Promenades le Mémoires decinestendhaliano. d'aneddoti .che talvolta con un risalto particolare, del racconto stendhaliano Traappartengono i saggi italiani pienamente, e il diario dele 1811, da una parte, e le Chroniques e la Chartreuse dall'altra, la frontiera è indiscernibile. Le prime pagine della Chartreuse  vengono dai Mémoires sur Napoléon. La prima idea del Rouge è annotata nelle Promenades.. E quale lettore

 

di Leuwen non ne ritrova lo spunto essenziale in queste poche righe di Racine et Shakespeare: « Cosí, un giovane che abbia ricevuto dal cielo un animo delicato, delicato, se il caso fa di lui un sottotenente e lo sbatte s batte in una guarnigione nella società di certe donne, crede in buona fede, vedendo i successi dei camerati e il genere dei loro piaceri, di essere insensibile all'amore. Un giorno infine la sorte gli fa incontrare una donna semplice, naturale, onesta, degna d'essere amata, ed egli sente d'avere un cuore». [Racine et Shakespeare (Divan), p. 112. L'accostamento è di MARTINEAU, MARTINEAU, Leuwen, p. xi.]

Nessuno dei grandi romanzi stendhaliani, anche se compiuti, è comunque assolutamente chiuso in se stesso, autonomo nella sua genesi e nel suo significato. Né Julien né Fabrizio arrivano mai a rompere del tutto il cordone che li ricollega all'Antoine Berthet della Gazette des Tribunaux e all'Alessandro Farnese della Cronaca. Il Rouge ha inoltre il suo centro spostato da un'altra parte dall'esistenza di quel progetto d'articolo destinato al conte Salvagnoli, [Rouge, pp. 509-27]

che non ne è soltanto un commento, decisivo su parecchi punti, ma anche, e in modo piú inquietante, un riassunto, e quindi un doppione doppione del racconto che al tempo stesso lo contesta e lo conferma, e di certo lo decentra, non senza un curioso effetto di «mosso» nel raffronto dei due testi. Un contro-testo del genere accompagna anche la Chartreuse, è il celebre articolo di Balzac; ma si tratta piuttosto in questo caso d'una traduzione: trasposizione anch'essa sconvolgente dell'universo stendhaliano nel registro balzacchiano balzacchiano.. Per Leuwen il controtesto ci manca, ma per lo meno ne conosciamo l'esistenza giacché sappiamo che in linea di principio questo romanzo, almeno per quanto riguarda la prima parte, non è altro che una sorta di rewriting, un rifacimento del manoscritto Le lieutenant, affidato a Stendhal dall'amica signora Adèle-Jules Gaulthier. Sappiamo anche che  Armance è nata da una specie di competizione con la duchessa di Duras e Henri de Latouche sul tema del « babilanismo », ovvero dell'impotenza; ma soprattutto questo romanzo costituisce l'esempio forse unico in tutta la letteratura di un'opera a chiave la cui chiave si trovi altrove: ossia in una lettera a Mérimée e in una nota in margine d'un esemplare personale, che affermano formalmente l'impotenza d'Ottave. [Armance, pp. 249-53 e 261.]

Caso estremo di decentramento, giacché giacché qui il centro è l'esterno: si immagini imma gini un romanzo poliziesco il cui colpevole venisse indicato solo da qualche confidenza postuma dell'autore. D'altronde Stendhal stava per trovarsi in una situazione meno paradossale, ma piú sottile, ossia né completamente dentro né completamente fuori. Stendhal aveva infatti pensato di intitolare il suo romanzo come quelli dei concorrenti, 0livier, la qual cosa, nel 1826 non poteva mancare di « essere indicativa ». Sarà il caso di Ulysses, con la differenza che la menomazione d'Ottavio è molto piú essenziale al significato del racconto stendhaliano di quanto non sia il riferimento all'Odissea per il romanzo di Joyce. Certo il lettore può benissimo « indovinare » da solo questa menomazione: essa resta però un'ipotesi, un'interpretazione. Il fatto che tale interpretazione si trovi invece corroborata su un margine del testo modifica radicalmente, dobbiamo convenirne, convenirne, il suo statuto in rapporto all'opera e in particolare questo soltanto autorizza l'uso del verbo indovinare: infatti si può indovinare soltanto ciò che è , e dire « Ottavio è impotente » non significa altro che « Stendhal dice che Ottavio è impotente ». Lo dice sí, ma lo dice altrove, e questo è il punto.  Allo stesso modo il lettore della Chartreuse, soprattutto se ha dimestichezza col tema beylista della bastardaggine come rifiuto padre,attribuiti potrà provare qualche « sospetto » sulla in « vera eredità didiFabrizio. Ma è tutt'altra cosa trovare questidel sospetti all'opinione pubblica milanese, quel »progetto correzione dell'esemplare Chaper: « Passava persino a quel tempo per il figlio del bel luogotenente Robert... ». [p. 585]

Per Armante il fuori testo (o meglio l'extra testo, il testo esterno) risolve il mistero; per la Chartreuse contribuisce piuttosto a crearlo; in entrambi i casi però la trascendenza dell'opera — l'aprirsi del testo sull'extra testo — respinge il discorso di una lettura « immanente ». Quanto alle Chroniques italiennes, tutti sanno, o credono di sapere che che costituiscono per la maggior parte soltanto un lavoro di traduzione e d'adattamento. Ma, senza il riferimento al testo test o originale, chi può misurare la parte della « creazione » stendhaliana? (E chi se ne preoccupa? ) Quest'altro caso limite serve ser ve a ricordarci che varie opere di Stendhal, dalla Vie de Haydn alle Promena Promenades des dans Roine non possono essergli attribuite in maniera incontestabile ed esclusiva. La parte del plagio, dell'imitazione, dell'apocrifo,, dell'imprestito è in lui quasi impossibile da determinare. Mérimée, rammentiamo, diceva nel 1850 dell'apocrifo che nessuno sapeva esattamente quali libri Beyle avesse scritto, e nel 1933 Martineau, nella prefazione alla sua s ua edizione dei Mélanges de littérature, si confessava incapace di dire con certezza quali pagine gli appartenessero autenticamente pubblicato ». e aggiungeva: « È probabile che tutto quello che la sua penna ha tracciato non sia ancora stato [Divan, p. 1.]

Nessuno può ancora e probabilmente nessuno potrà mai tracciare i limiti del corpus stendhaliano.

 

L'incompiutezza ha una parte immensa nell'opera di Stendhal. St endhal. Testi dell'ímpottanza di Henry Brulard, Lucien Lucien Leuwen, Lamiel e i Souvenirs d'égotisme sono stati abbandonati in pieno lavoro e si sono insabbiati, cosí come  Napoléon, l'abbozzo di romanzo Une position sociale e parecchie cronache e novelle, tra cui Le rose et le veri che, riprendendo i dati di Mina de Vangbel, Vangbel, doveva ricavarne ricavarne un vero e proprio romanzo. Se si aggiunge ag giunge l'epilogo chiaramente precipitoso della Chartreuse e la pubblicazione interrotta e scorciata dell'Histoire de la Peinture e dei  Mémoires d'un touriste, non è eccessivo dire che almeno sull'essenziale dell'opera pesa un destino di mutilazione. Gli abbozzi e le minute che Stendhal ha lasciato non impediscono al lettore di fantasticare sull'ipotetica continuazione di Leuwen e di Lamiel, o d'immaginare che cosa sarebbe stato un Brulard che si congiungesse col  Journal, integrando, superando l'Egotisme e si spingesse fino a quella riva del lago d'Albano ove il « Baron Dormant » Chartreuse traccia nella polvere la filza malinconica dei suoi dei amori passati. O ancora d'osser d'osservare varesenza che larotture inizia all'incirca là dove s'interrompe Brulard, all'arrivo francesi a Milano: incatenando la finzione all'autobiografia, il destino del tenente Robert a quello del sottotenente Beyle — con tutte le conseguenze che ne derivano.

 Aporia dello stendhalismo. Potrebbe essere formulata piú o meno come segue: quella che viene chiamata l'« opera » di Stendhal è un testo frammentario spezzettato, lacunoso, lacunoso, ripetitivo, e d'altro canto infinito, o per lo meno indefinito, ma in cui nessuna parte può venire separata dall'insieme. Chi tira un solo filo deve portarsi dietro tutto l'intreccio con i suoi buchi e perfino la smarginatura. Leggere Stendhal significa leggere tutto Stendhal; ma leggere tutto Stendhal è impossibile, se non altro per questa ragione che tutto Stendhal non è ancora pubblicato, né decifrato, né scoperto e neppure scritto: intendo dire proprio tutto il testo stendhaliano stendhaliano,, giacché la lacuna, l'interr l'interruzíone uzíone del testo non è una semplice assenza, un puro non testo: è una mancanza, attiva e avvertibile come mancanza, come non scrittura, come testoanon Contrariamente ogniscritto. aspettativa quest'aporia non uccide lo stendhalismo che, al contrario, vive solo di essa, cosi come ogni passione si nutre delle proprie impossibilità. Statuto ambiguo dell'Italia stendhaliana: esotica, eccentrica, alibi costante dell'eccentricità e della differenza,  fame italienne copre e giustifica le piú flagranti infrazioni al codice implicito della psicologia comune: luogo dei sentimenti problematici e degli atti imprevedibili, luogo d'un romanzesco liberato dalle pastoie del verosimile  volgare. E al tempo stesso luogo centrale, originario, originario, intimamente legato alla filiazione filiazione materna e alla negazione del padre. Per il discendente esclusivo esclusivo dei Gagnon (Guadagni, Guadagnamo), la partenza per l'Italia è un ritorno alle origini, un ritorno al seno materno. Il « carattere francese » dominato dall'interesse e dalla vanità, è soltanto per l'ex discepolo d'Helvétius e di Tracy un riferimento esteriore che funziona da contrasto. contrasto. Il centro del conflitto intimo stendhaliano è in Italia: conflitto tra energia (Roma, l'Ariosto) e tenerezza (Milano, il Tasso). Tasso). L'Italia è il centro paradossale del decentramento beylista, patria (matria?) dell'espatriato dell'espatriato,, luogo del senza luogo, del non luogo: utopia intima. Pesaro,, 24 mag Pesaro maggio gio 1817. – Qui le persone non passano il loro tempo a  giudicare la loro felicità. Mi piace oppure non mi piace è il grande modo di decidere di tutto. La vera patria è quella in cui si incontra il maggior numero di persone che vi assomigliano. In Francia temo che troverei sempre un fondo di freddezza in ogni società. Provo un incanto in questo paese di cui io stesso non so capacitarmi: è come se fosse amore, eppure non sono innamorato di nessuno. L'ombra dei begli alberi, la bellezza del cielo durante le notti, l'aspetto del mare, tutto ha per me un Lascino, una forza d'impressione che mi ricorda una sensazione del tutto dimenticata, ciò che provavo a sedici anni durante la mia prima campagna. Capisco che non riesco a esprimere il mio pensiero: tutte le circostanze con cui cerco di renderlo sono deboli. Qui tutta la natura ha il potere di commuovermi di piú; essa mi appare come nuova, non vedo piú nulla di piatto e d'insipido. Spesso alle due di notte, ritornando verso casa, a Bologna, attraverso attraverso quei grandi portici, l'anima ancora presa da quei begli occhi che avev avevoo appena visti, passando davanti a quei palazzi di cui la luna, con le grandi ombre, disegnava le masse, mi accadeva di fermarmi, come oppresso dalla gioia per dirmi: Che meraviglia! Contemplando quelle colline cariche d'alberi che avanzano fin sopra la città, rischiarate da quella luce silenziosa in mezzo a quel cielo scintillante, avevo un fremito; gli occhi mi si riempivano di lacrime. – Per ogni nonnulla m'avviene d'esclamare: Dio mio, come ho fatto bene a venire in Italia! . [Rome, Naples et Florence en 1817 (Divan crit.), pp. 118-19.]

L'unità (spezzettata) del testo stendhaliano stendhaliano,, l'assenza d'autonomia di ciascuna delle sue s ue opere, la costante perfusione del senso che circola dall'una all'altra, spiccano meglio per contrasto se si confronta questa situazione a quella, per esempio, della Comédíe humaine. Ogni romanzo di Balzac è un racconto chiuso e compiuto, separato

 

dagli altri dalle pareti invalicabili della costruzione drammatica, e sappiamo che è stata necessaria la trovata della riapparizione dei personaggi per assicurare, un po' tardivamente, l'unità del mondo balzacchiano. L'universo stendhaliano procede da dati del tutto diversi. Nessuna unità di luogo o di tempo, nessun ritorno completa e coerente; alcuni romanzi erratici, sprovvisti di ogni principio federatore e d'altronde dispersi in una produzione eteroclita e di cui sono ben lontani, almeno come quantità, dal costituire la parte essenziale: come Rousseau, o Barrè s, o Gide, Stendhal è evidentemente un romanziere « impuro ». L'unità del mondo romanzesco stendhaliano è tuttavia incontestabile, ma non è di coesíone, e meno ancora di continuità: essa è dovuta a una sorta di costanza propriamente tematica: unità di ripetizione e di variazione che apparente fra loro questi romanzi piú di quanto non li colleghi. [Le décor Gilbert mythique Durand de la Chartreuse, Char treuse, Corti, Paris 1961.]

 ha messo in luce i piú importanti temi t emi ricorrenti. Solitudine dell'eroe e accentuazione del suo destino attraverso il raddoppiamento (o l'incertezza) della sua nascita e la sovradeterminazione oracolare; prove e tentazioni qualificatricí; dualità femminile e opposizione simbolica tra i due tipi dell'amazzone (o « catin sublime » ), (Mathilde,  V  Vanina, anina, Mina de Vanghel, Vanghel, la signora d'Hocquínc d'Hocquíncourt, ourt, la Sanseverina) e della donna donna tenera, custode dei segreti del cuore (la signora di Rénal, la signora di Chasteller, Clelia Conti); conversione dell'eroe e passaggio dal registro epico a quello dell'intimità tenera (simboleggiato almeno due volte nel Rouge e nella Chartreuse dal motivo paradossale della prigione felice), che definisce appunto il momento del romanzesco stendhaliano: anche, mi sembra, – e contrariamente al giudizio di Durand, – nella prima parte di Leuwen, ove si vede un eroe, originariamente convinto, convinto, proprio come Fabrizio Fabrizio,, d'essere insensibile all'amore, e prevenuto contro questo sentimento per pregiudizio politico (« Come! mentre tutta la gioventú di Francia si schiera per ideali cosí grandi, tutta la mia vita trascorrerà a guardare due begli occhi! ». [Leuwen, p. 145 (cfr. p. 146: «Da un momento all'altro la voce della patria può farsi udire; posso essere chiamato... E io scelgo questo momento per diventare lo schiavo di una piccola altra di provincia! »)]

« Dopo il 1830 – commentano i  Mémoires d'un touriste, – l'amore sarebbe il peggior disonore per un giovane ») [Touriste,  scoprireI, p.« 59] che possiede un

cuore » e convertirsi alla sua passione.

Questo tema fondamentale della Rücksickt, dell'abbandono alla tenerezza femminile come ritorno alla madre, accentuato inoltre dall'aspetto e dalle funzioni tipicamente materni dell'eroina trionfatrice (ivi compresa Clelia, piú materna, a dispetto dell'età e della parentela, della conquistatrice Sanseverina), si trova dunque alla base di quella che è l'essenza della creazione romanzesca stendhaliana, la quale non fa quasi che variarne, da un'opera all'altra, il ritmo e la tonalità. Il lettore è così spinto a operare incessanti paragoni tra le situazioni, i personaggi, personag gi, i sentimenti, le azioni, scoprendo istintivamente le corrispondenze attraverso un lavoro di sovrapposizione e di prospettive. Una rete d'interferenze si stabilisce allora tra Julien, Fabrizio, Lucien, tra Mathilde e Gina, la signora di Rè nal, la signora di Chasteller e Clelia, tra Francois Leuwen, il signor de la Môle M ôle e il conte Mosca, Chélan e Blanè s, Sansfin e Du Poirier, Frilair e Ressi, le paternità sospette di Julien e di Fabrice, il loro culto comune per Napoleone, tra la torre Farnese e la prigione di Besancon, tra il seminario, la guarnigione di Nancy e il campo di battaglia di Waterloo, Waterloo, ecc. Piú di qualsiasi altra, probabilmente, l'opera di Stendhal invita a una lettura  paradigmatica, in cui armonica la considerazione intreccilettura nar rativi narrativi si cancella davanti delle relazioni d'omologia: lettura dunque degli o verticale, a due o piú registri, perall'evidenza cui il vero testo comincia con il

raddoppiarsi del testo. Qualche mese fa una donna sposata di Melito, nota per la sua devozione ardente quanto per la rara bellezza, ebbe la debol debolezza ezza di dare appuntamento all'amante in una foresta della montagna, a due leghe dal d al villaggio. L'amante fu felice. Dopo questo momento di delirio l'enormítà l'enor mítà della colpa oppresse l'animo della colpevole che restò immersa in un cupo silenzio. « Perché tanta freddezza – chiese l'amante. – Pensavo a come vederci domani; questa capanna abbandonata, in questo bosco oscuro, è il luogo piú adatto ». L'amante s'allontana; l'infelice non ritornò al villa,,Rio e ppassò assò la notte nella foresta, occupata, come ella stessa ha confessato, a pregare e a scavare due fosse. Viene il giorno, e ben presto pr esto l'amante, che riceve la morte dalle mani di quella donna da cui si credeva adorato. Quell'infelice vittima del rimorso seppellisce il suo amante con la massima cura, scende al villaggio villag gio ove si confessa al parroco e abbraccia i figli. Poi ritorna nella foresta ove viene trovata senza vita, stesa nella fossa scavata accanto a quella dell'amante. [Rome, Naples et Florence (Divan)]

Questo breve aneddoto offre un esempio abbastanza rappresentativo di quello che possiamo chiamare, senza esagerare la sua specificità, il racconto stendhaliano. Non soffermiamoci sull'esempio (folgorante) dell'« âme  italienne » , mandataria del verosimile beylista, e soffermiamoci a esaminare meglio gli elementi caratteristici del trattamento narrativo mediante il quale questo « fatterello vero » diventa un testo di Stendhal. Il primo elemento è probabilmente lo spostamento quasi sistematico del racconto in rapporto all'azione, che risulta contemporaneamente dall'elisione degli avvenimenti principali e dall'accentuazione delle circostanze accessorie. L'atto adultero è designato tre volte con delle specie di metonimie narrative: l'appuntamento dato all'amante; la «felicità» di questi (figura banale, rinnovata qui dalla concisione dell'enunciato); dell'enunciato); il « momento di

 

delirio» qualificato retrospettivamente a partire dallo stato di coscienza virtuosa che gli succede. Non per se stesso dunque, ma attraverso gli avvenimenti che lo preparano, l'accompagnano o lo seguono. L'uccisione dell'amante attraverso una perifrasi accademica sottilmente relegata in una proposizione subordinata il cui accento principale è altrove. Infine, e soprattutto, il suicidio della giovane subisce una completa ellisse, tra il suo ritorno nella foresta e il momento in cui verrà ritrovata senza vita; ellisse rafforzata inoltre dall'ambiguità temporale del presente narrativo e dall'assenza di qualsiasi avverbio di tempo che rendono i due verbi apparentemente simultanei, facendo sparire tutta la durata che separa le due azioni. Questa elisione dei tempi forti for ti è uno dei tratti che caratterizzano il racconto stendhaliano. Nella Chartreuse il primo abbraccio di Fabrizio e Clelia, nella torre Farnese, è cosí discreto che passa generalmente inosservato (« Era cosí bella, semivestita e in quello stato opposta d'estrema»),passione, che Fabrizio noncon poté poté impedirsi un attoVquasi involontario. involontario . Nessuna resistenza gli venne e il « sacrificio » di Gina Ranuccio-Ernesto scompare tra due frasi: « Egli osò ripresentarsi alle dieci meno tre minuti. Alle dieci e mezza la duchessa saliva in carrozza e partiva per Bologna ». La morte di Fabrizio è piú sottintesa che menzionata nell'ultima pagina: « Gina non sopravvisse che pochissimo tempo a Fabrizio, ch'ella adorava, adorava, e che non trascorse piú d'un anno nella sua Certosa ». [pp. 423, 455, 480]

 Si può qui incolpare la mutilazione forzata dell'epilogo, ma nel Rouge l'esecuzione di Julien cosí attesa e preparata, all'ultimo momento scompare: « Mai quella testa aveva avuto pensieri cosí poetici come nel momento in cui stava per cadere. I piú dolci momenti vissuti un tempo nei boschi di Vergy gli tornavano a frotte alla mente con singolare intensità ». « Tutto avvenne semplicemente, nel modo piú corretto, e da parte sua, senza alcuna ostentazione ». Segue una scena retrospettiva (procedimento invece assai raro in Stendhal, piú propenso, pare, ad accelerare i tempi che a ritardarli) che contribuisce anch'essa a questo eclissamento della morte m orte risuscitando Julien nello spazio di una mezza pagina. [p. 506]Prévost  Jean Prévost parlava giustamente a pro proposito posito di queste morti silenziose e come furtive, d'una specie d'eutanasia

letteraria. [La création chez Stendhal, Mercure de Franco, Paris 195 1951] 1]

 A questa discrezione sulle funzioni funzioni cardinali del racconto racconto si oppone evidentemente l'importanza data data ai particolari marginali e quasi tecnici: localizzazione precisa della foresta, capanna abbandonata, scavo delle due fosse. Questa « attenzione alle piccole cose », che Stendhal lodava in Mérimée, è piú caratteristica ancora della sua maniera: ne abbiamo già visto alcuni effetti. Stendhal stesso si descrive nell'atto di gareggiare gare ggiare in precisione con Mérimée: « “La fece scendere da cavallo con un pretesto”, direbbe Clara. Dominique dice: “La fece scendere scendere da cavallo fingendo di vedere che il cavallo perdeva un ferro e che voleva attaccarlo con un chiodo” ». [Marginalia, II, p. 96.]

Ma bisogna soprattutto osservare che questa attenzione agli oggetti e alle circostanze – accompagnata tuttavia, come sappiamo, da un gran disdegno per la descrizione – serve quasi sempre a mediare l'evocazione di atti o di situazioni fondamentali lasciando parlare al loro posto delle specie di sostituti materiali. Nell'ultima scena di Vanina Vanini, le catene fredde e puntute che fasciano Missirilli e lo sottraggono sottrag gono agli abbracci di Vanina, i diamanti e le limette, strumenti tradizionali dell'evasione, che ella gli consegna e che il prigioniero finirà per gettare « con la forza che gli permettevano le catene », tutti questi particolari brillano d'una tale intensità di presenza, nonostante la secchezza della loro menzione, da eclissare il dialogo tra i due amanti: in essi molto piú che nelle parole scambiate riposa tutto il senso. [Chroniques italiennes (Divan), II, p. 125.]

 Altra forma d'ellissi, e forse ancora piú specifica: la si potrebbe potrebbe chiamare l'ellissi delle in intenzioni. tenzioni. Consiste nel riferire gli atti d'un personaggio senza illuminare il. lettore sulla loro finalità, la quale apparirà soltanto a cose fatte. Il secondo appuntamento dato per l'indomani nella capanna abbandonata inganna qui il lettore quanto l'amante, e se il fatto di scavare due tombe non lascia quasi nessuna incertezza sulla continuazione della storia, resta tuttavia che il racconto tace deliberatamente il proposito che dà significato a una serie di atti (scendere al  villaggio, confessarsi, abbracciare i figli), lasciando a noi la cura di riempire retr retroattivamente oattivamente la lacuna. Cosi nell'Abbesse de Castro Stendhal ci dice che Elena nota il furore del padre contro Branciforte. Branciforte. « Subito – ag aggiunge giunge – andò a spargere un po' di polvere sul calcio di legno dei cinque magnifici archibugi che suo padre teneva appesi accanto al letto e copri allo stesso modo di un leggero strato di polvere i suoi pugnali e le spade ». Il rapporto tra la collera del padre e il fatto di cospargere di polvere le sue armi non è evidente e la funzione di quest'atto ci rimane oscura fino al momento in cui leggiamo che « essendosi recata a ispezionare verso sera le armi arm i del padre, si accorse che due archibugi erano stati caricati e che quasi tutti i pugnali erano stati maneggiati »: [  Chroniques  Chroniques Italiennes, I, pp. 39-40]

aveva sparso la polvere per potere sorvegliare i preparativi del padre, ma il racconto ci aveva accuratamente

 

dissimulato questa motivazione. L'esempio piú celebre di quest'abitudine stendhaliana è evidentemente la fine del capitolo xxxv della seconda parte del Rouge, ove vediamo Julien Julien lasciare Mathilde, precipitarsi in diligenza dilig enza fino a  V  Verriè erriè res, acquistare un paio di di pistole dall'armaiolo e entrare nella chiesa, senza senza essere informati sulle sue intenzioni se non dalla loro realizzazione nell'ultima riga: « Sparò su di lei un colpo e la mancò; tirò un secondo colpo, ed ella cadde ». [p.450]

Bisogna insistere qui sul carattere voluto del procedimento: se il racconto stendhaliano fosse, alla maniera posteriore d'un Hemingway, Hemingway, una mera relazione « og oggettiva gettiva » degli atti compiuti, senza incursioni nella coscienza dei personaggi, l'ellissi delle intenzioni sarebbe conforme all'atteggiamento all'atteg giamento d'insieme e quindi molto meno marcato. Sappiamo bene però che Stendhal nonsue si èinnovazioni mai attenutoe delle a questo preso « behaviorista » e anzi che il ricorso al monologo interiore è una delle sue partito abitudini piú costanti. Qui non rinuncia minimamente a informare il lettore che « l'enormità della colpa oppresse l'animo della colpevole » e se non gli concede di saperne di piú sui propositi della donna, è evidentemente per un'omissione volontaria. Allo stesso modo quando Vanina ode Missirilli proclamare che alla prossima sconfitta, abbandonerà la causa del carbonarismo,, Stendhal aggiunge soltanto che queste parole « illuminarono di luce fatale il suo spirito. Ella si carbonarismo disse: “I carbonari hanno ricevuto da me migliaia di zecchini e non possono dubitare della mia devozione alla loro causa” ». [p. 103]

Questo monologo interiore è truccato come il racconto del narratore-criminale in Dalle nove alle dieci, giacché Stendhal, facendo finta di riferirci in quel momento m omento i pensieri di Vanina, ha cura di dissimularne l'essenziale che è all'incirca, come si capisce qualche pagina dopo: « Posso denunciare la vendita senza che Pietro mi sospetti ». L'accessorio,, anche qui, si ssostituisce L'accessorio ostituisce all'essenziale, cosí come nel racconto di Melito i particolari sulla capanna abbandonata dissimulano per la futura vittima e per il lettore, il proposito d'assassinio. [Ecco un altro esempio di quest'ellissi delle intenzioni, accompagnato anche qui da un effetto di silenzio di grande bellezza: «Il curato non era vecchio; la serva era graziosa: circolavano cir colavano delle chiacchiere, il che però non impediva a un giovanotto del paese vicino di fare la corte alla serva. Un giorno egli nasconde le molle del camino della d ella cucina nel letto della donna. Quando ritornò otto giorni dopo, la serva ser va gli disse: “Suvvia, ditemi dove avete messo le molle che ho cercato dappertutto dopo che ve ne siete andato. È proprio uno scherzo molto sciocco”. L'innamorato l'abbracciò con le lacrime agli occhi e s'allontanò» (Voyage dans le Midi, Divan, p. 115),]

Questo tipo d'ellissi implica una grande libertà nella scelta del punto di vista narrativo. Com'è noto Stendhal Stendhal inaugura la tecnica delle « restrizioni di campo » [GEORGES BLIN, BLIN, Stendhal et les problèmes du roman, Corti, Paris]

 che consiste nel ridurre il campo narrativo alle percezioni e ai pensieri di un personaggio. Ma altera questa scelta intanto, come abbiamo visto, tenendo per sé alcuni di questi pensieri, sovente i piú importanti; e poi anche cambiando spesso il personaggio focale: persino in un romanzo cosí imperniato sulla persona dell'eroe come il Rouge, avviene che la narrazione adotti il punto di vista d'un altro personaggio, come la signora di Rénal, o Mathilde, o anche il signor di Rénal. Nel nostro caso il punto focale è quasi costantemente Peroina, ma il racconto fa almeno un'incursione, d'altronde retrospettiva, nella coscienza dell'amante (« quella donna da cui si credeva adorato »). Infine, e soprattutto, la focalizzazione del racconto è disturbata, come lo è piú o meno quasi sempre in Stendhal, da quella pratica che George Blin ha chiamato « l'intrusione d'autore », e che sarebbe probabilmente meglio chiamare intervento del narratore, facendo una riserva, particolarmente necessaria nel caso di Stendhal, sull'identità di questi due ruoli. È estremamente determinare perèmomento qual eè che la fonte potenziale del discorso stendhaliano poiché difficile i soli datiinfatti evidenti sono chemomento questa fonte variabilissima raramente si confonde con la persona di Stendhal. Conosciamo il suo gusto quasi isterico per il travestimento e sappiamo per esempio che il  viaggiatore immaginario dei Mémoires d'un touriste è un certo M. L...., un commesso viaggiatore per il commercio dei metalli le cui opinioni non sempre si confondono con quelle di Beyle. Nei romanzi e racconti lo statuto del narratore è generalmente mal determinato. Il Rouge e Lamiel iniziano come una cronaca tenuta da un testimonenarratore che appartiene all'universo diegetico: quello del Rouge è un anonimo abitante di Verrières che spesso ha contemplato la vallata del Doubs dall'alto della passeggiata allargata allarg ata dal signor di R Rênal ênal e che loda quest'ultimo « benché sia ultra ed io liberale ». Quello di Lamiel, piú precisamente identificato, è figlio e nipote dei Lagíer, notai a Carville. Il primo si eclissa nello spazio di poche pagine, senza che la sua sparizione venga notata da nessuno, il secondo, piú chiassosamente, annuncia annuncia la sua scomparsa s comparsa in questi ter termini: mini: « Tutte queste avventure... girano intorno alla piccola Lamiel... e mi è venuto l'estro di scriverle allo scopo di diventare un letterato. Cosí addio, addio, benevolo lettore, tu non sentirai piú parlare di me ». [Lamiel (Divan 1948), P. 43]

Per la Chartreuse Stendhal vuole sí confessare, retrodatandola, la redazione di questa « novella » ma non senza addossarne la responsabilità essenziale a un preteso canonico padovano di cui egli avrebbe soltanto rivedute e adattate le memorie. Chi dei due si assume l'« io » che compare tre o quattro volte almeno,

[pp. 6,8, 149...]

e sempre inaspettatamente, nel corso di una cronaca in teoria del tutto impersonale? La situazione delle Chroniques italiennes, e in particolare dell' Abbesse  Abbesse de Castro, è al tempo stesso piú chiara e piú

 

sottile poiché Stendhal vi compare in teoria soltanto come un traduttore, ma un traduttore indiscreto e attivo, che non si perita di commentare l'azione (« la franchezza e la rudezza, naturali conseguenze della libertà di cui soffrono le repubbliche, e l'abitudine delle passioni franche non ancore represse dai costumi della monarchia, si  _mostrano scopertamente nel primo passo compiuto compiuto dal signor Campireali »), né d'autenticare llee sue fonti (« Ormai il mio triste compito si limiterà a dare un estratto necessariamente molto arido del processo, in seguito al quale Elena trovò la morte. Questo processo, da me letto in una biblioteca di cui debbo tacere il nome, non forma meno di otto volumi in folio »), né di giudicare il testo che egli dovrebbe limitarsi a ricopiare (« Verso Verso sera Elena scrisse al suo innamorato una lettera ingenua e, a nostro parere, assai commovente »), e neppure d'esercitare di tanto in tanto una censura piuttosto insolente: « Ritengo di dover passare sotto silenzio molte circostanze in realtà, ritraggono i costumi cheesatta mi paiono da raccontare. L'autore manoscrittoche, romano si è dato molto da fare perdell'epoca, stabilire lama data dei particolari parttristi icolari che io sopprimo ». del [pp. 31, 157, 107, 154]

Questa situazione marginale in rapporto a un testo di cui egli non sarebbe l'autore e nei confronti del quale non sentirebbe nessuna responsabilità viene spesso come trasferita di peso da Stendhal, dalle Chroniques e dagli aneddoti raccolti nei primi saggi italiani, nelle grandi g randi opere romanzesche: Georges Blin ha messo in evidenza il passaggio del tutto naturale che porta dai supposti tagli dell' Abbesse  Abbesse de Castro ai famosi ecc. che nei romanzi tagliano corto a tante tirate ritenute troppo piatte o noiose. [Stendhal et les problèmes du roman, p. 235]

Questo è vero non solo per la censura ma anche per tutte le altre forme di commento e d'intervento. Si direbbe quasi che Stendhal avendo preso l'abitudine d'annotare i testi altrui, altr ui, continui a chiosare anche i propri come se non vi vedesse differenza. Sappiamo in particolare come moltiplichi all'indirizzo dei suoi giovani eroi, i giudizi, le rimostranza e i consigli, ma è stata anche notata la dubbiosa sincerità di quelle parafrasi in cui Stendhal sembra a  volte deresponsabilizzarsi deresponsabilizzarsi ipocritamente dai suoi personaggi preferiti, presentando ccome ome difetto o goffaggine Chartreuse se – quelli che in realtà giudica come tratti simpatici o ammirevole. amm irevole. « Perch Perchéé – dice nel vi capitolo della Chartreu perché maiÈdovrebbe essere lo storico trascriveche fedelmente minutocadono particolare del disgrazia racconto riferitogli? forse colpa sua biasimevole se i personaggi sedottiche da passioni egli non ogni condivide, pe perr sua in azioni profondamente immorali? Vero è che in un paese dove l'unica passione che sopravviva a tutte le altre è il denaro, mezzo di vanità, d'azioni simili non se ne commettono piú ». [p. 104]

È quasi impossibile distinguere in queste occasioni l'intervento ironico dell'autore dal supposto intervento d'un narratore distinto da lui di cui Stendhal si divertirebbe a contraffare lo stile e l'opinione. L'antifrasi, la parodia satirica, lo stile indiretto libero, il pastiche (« “Quel ministro, nonostante, Paria fatua e i modi brillanti, non era dotato d'un animo alla francese, non sapeva dimenticare i crucci. Quando il suo capezzale aveva qualche spina era costretto a spezzarla e a smussarla a forza di pungervi contro le membra palpitanti”. Chiedo venia per questa frase tradotta dall'italiano ») [p.94]

si susseguono e a volte si sovrappongono in un contrappunto di cui le prime pagine della Chartreuse costituiscono un esempio caratteristico, mescolando l'enfasi epica dei bollettini di vittoria vit toria rivoluzionari, le recriminazioni aspre o furibonde del partito dispotico, l'ironia dell'osservatore volterriano, l'entusiasmo popolare, le circospezione del linguaggio amministrativo, ecc. Lalascia, figurasiadelpure narratore è dunque in Stendhal essenzialmente problematica, problematica, allorché il racconto stendhaliano per poco poco, , la parola al discorso, è spesso difficilissimo e anzie talvolta impossibile rispondere alla domanda in apparenza semplicissima: chi parla?  Sotto questo aspetto il nostro testo di riferimento si distingue innanzi tutto per la sobrietà del discorso, l'assenza di ogni commento esplicito (è quello che Stendhal chiama «raccontare narrativamente »). Quest'assenza non è priva di significato, ha anzi un valore pieno e d'altronde evidente per i lettori che hanno una certa familiaritá con l'Italia stendhaliana. E silenzio del racconto sottolinea eloquentemente la grandezza e la bellezza dell'azione: contribuisce quindi a qualificarla. è un commento di grado zero, zero, lo stesso che la retorica classica raccomandava per i momenti sublimi, in cui l'evento parla da solo meglio di quanto potrebbe fare qualsiasi sorta di parola: e sappiamo che il sublime non è per Stendhal una categoria accademica, bensí uno dei termini piú attivi del suo sistema di valori. Il discorso tuttavia non è totalmente assente da questo racconto: una simile esclusione è d'altronde soltanto un'ipotesi accademica, pressocché impossibile nella pratica narrativa. Noteremo innanzi tutto l'indicazione temporale iniziale « qualche mese fa », che situa l'avvenimento in rapporto all'istanza di discorso costituita dalla narrazione stessa, in un tempo relativo che sottolinea e valorizza la situazione del narratore, unico punto cronologico di riferimento. riferimento . E cosí la formula testimoniale(l'azione), « come ella ha confessato », che collega, secondo lee « categorie di Roman Jakobson, il processo dell'enunciato il processo dell'enunciazione (il racconto) un processo d'enunciazione enunciato »: la testimonianza della donna che non sembra possa essere stata raccolta altro che durante la confessione menzionata piú sotto, confessione dunque designata in maniera indiretta come la

 

fonte delle determinazioni essenziali del racconto e in particolare di tutto ciò che riguarda le motivazioni dell'azione. Questi due shifters pongono dunque qui il narratore nella situazione dello storico, in senso etimologico, ossia dell'inquisitore-relatore. Situazione del tutto normale in un testo etnografico come Rome,  Naples et Florence (o le Promenades o i Mémoires d'un touriste) ma di cui abbiamo visto che Stendhal, forse per semplice abitudine, conserva certi segni anche nelle grandi opere di «fantasia»: donde certe strane precauzioni come quel « io credo » che abbiamo incontrato senza meravigliarcene in una situazione di cronaca nella pagina già citata del Rose e le vert, ma che ritroviamo con piú stupore in una pagina del Leuzven come la seguente (si tratta del vestito della signorina Berchu): « Era una stoffa d'Algeri, a righe molto larghe, marrone, credo, e giallo pallido » o della Cbartreuse: « La contessa sorrise, non sapendo come regolarsi credo... ». [Leuwen, p. 117; Chartreuse, Char treuse, P P.. 76.]

Il caso del dimostrativo (« Quell'infelice... ») di cui Stendhal fa un uso molto accentuato è un po' piú sottile, giacché se si tratta (astrazion fatta dal valore stilistico d'enfasi, di gusto forse italianeggiante) italianeg giante) essenzialmente d'un rinvio anaforico del racconto a se stesso (l'infelice di cui si è già parlato), questo rinvio passa necessariamente attraverso l'istanza discorsiva e perciò attraverso il riferimento al lettore che si trova impercettibilmente preso a testimonio: lo stesso dicasi dell'intensivo tosi, anch'esso tipicamente stendhaliano e che implica un ulteriore ripiegarsi del testo su se stesso: le due espressioni sono d'altra parte molto spesso congiunte: « quella donna cosí tenera... » Quanto alle locuzioni che implicano una valutazione, rimangono, nonostante la loro discrezione, difficili da assegnare. « L'infelice », « infelice vittima del rimorso » possono tradurre l'opinione compassionevole di Stendhal, ma debolezza, colpa, colpevole e anche delirio comportano un giudizio morale che sarebbe molto imprudente attribuirgli. Questi temi moralizzanti vanno piuttosto attribuiti all'eroina stessa, con una leggera legg era inflessione di discorso indiretto, a meno che non siano un'eco dell'opinione comune del villaggio, veicolo dell'episodio, di cui Stendhal non esiterebbe a riprodurre i qualificativi senza tuttavia assumerli in proprio, come quando riferisce in corsivo certe espressioni prese dalla vulgata di cui egli rifiuta però di prendere la responsabilità: troppo preoccupato di salvaguardare una sua distanza che ci lascia intravvedere senza permetterci di valutarla, fedele alla sua politica che è d'essere sempre presente e sempre inafferrabile. 154 Rapporto equivoco tra l'« autore » e l'« opera »; difficoltà di separare il testo « letterario » dalle altre funzioni della scrittura e del grafismo; trasposizioni, plagi, pastiches; incompiutezza quasi generalizzata, proliferazione delle minute, delle varianti, delle correzioni, delle postille, decentramento del testo in rapporto all'« opera »; forte rapporto tematico tra un'opera e l'altra che compromette l'autonomia, e quindi l'esistenza stessa di ciascuna; confusione tra discorsivo e narrativo; spostamento del racconto in rapporto all'azione; ambiguità della focalizzazione narrativa, indeterminazione del narratore, o, piú rigorosamente, della fonte del discorso narrativo: ovunque, a tutti i livelli, in tutte le direzioni, si ritrova la marca essenziale dell'attività stendhaliana che è trasgressione costante ed esemplare dei limiti, delle regole reg ole e delle funzioni apparentemente sostitutive del giuoco letterario. È sintomatico che, oltre la sua ammirazione per il Tasso Tasso,, Pascal, SaintSimon, Montesquieu o Fielding, i suoi veri modelli siano un musicista, Mozart o Cimarosa, e un pittore, il Corteggio, Corteg gio, e che la sua piú cara ambizione sia stata di rendere con la scrittura le qualità mal definibili (leggerezza, grazia, brio, voluttà, limpidezza, fantasticheria tenera, magia delle lontananze) che trovava nella loro opera. Sempre a margine, un po' a lato, di qua o di là delle parole, in direzione di quell'orizzonte mitico che designa coi termini di musica e di pittura tenera, la sua arte non finisce di eccedere e forse di ricusare, l'idea stessa di letteratura.  Ave Maria Maria (twilight), in Italia, ora della tenerezza, dei piaceri dell'animo e della malinconia: sentimenti ingigantiti dal suono di quelle belle camp campane. ane. Ore dei piaceri che sono legati ai sensi solo dai ricordi [De l'Amour, p. 233.]

La caratteristica del discorso stendhaliano non è la chiarezza e meno ancora l'oscurità (ch'egli detestava come complice dell'ipocrisia e paravento della stupidità); bensí qualcosa come una trasparenza enigmatica, che sempre, una volta o l'altra, sconcerta certe abitudini dello spirito: perciò fa qualche persona felice e offende o, come diceva Stendhal stesso [«Avrete ancora occasione di stendhalizzarvi» stendhalizzar vi» (a Mareste, 3 gennaio 1818), Corr Correspondance, espondance, V V,, P P.. 92.]

« stendhalise » (scandalizza) tutti gli altri. (Sul vaporetto nella baia di Tolone) Mi ha divertito l'atteggiamento galante di un marinaio infreddolito (?) con una donna assai graziosa a dire il vero, appartenente alla classe popolare agiata che il caldo aveva fatto fuggire dalla stanza in basso insieme con un'amica. L'ha coperta con una vela per ripararla un poco, lei e il suo bambino, ma il vento violento s'infilava nella vela e la scompigliava; lui faceva il solletico alla bella viaggiatrice e la scopriva fingendo di di coprirla. C'eradimolta allegria, spontaneità e anche quest'azione è durata un'ora. Tutto dovuto questo accadeva a un e mezzo da me. L'amica non fatta oggetto g alanterie galanterie prestava attenzione a megrazia e mi in diceva: « Quelloche si compromette ». Avrei parlare con lei;piede era una bella creatura, ma la vista della grazia mi faceva piú piacere. La bella cercava cer cava come poteva di prevenire il marinaio. A una delle sue prime galanterie, che era una parola a doppio senso, Voyage dans le Midi , pp. 284-85.] lei gli risposto vivamente: Merde! [ Voyage

 

Proust e il linguaggio indiretto

Il dovere e il compito d'uno scrittore sono quelli di un traduttore. (III, p. 890).

L'interesse di Proust per i « fatti di linguaggio linguag gio » è nota, [Cfr. R. LE , Le langage parlé des personnages de Proust, «Le Francais Moderne », giugno-luglio 1939; J.J. VELNDRYPS, Proust et les noms propres, Mélanges Huguet, , Paris 1940; . BARTHES, Proust et les noms in To honor Roman Jakobson , Mouton, L'Aia 1967; sulla semiotica proustiana in generale, G. DELEUZE, Marcel Proust et les signes, , Paris 1964 [Marcel Proust e i segni, . di Clara Lucignoli, Einaudi, Torino 1967]; ed. accresciuta, PUF, PUF, Paris 1970.]

 e comunque evidente per chiunque abbia letto, sia pur superficialmente, la Recherche du temps perdu. I successi e talvolta anche i fastidi che gli furono procurati da un eccezionale dono dell'osservazione e dell'imitazione verbale, e come questo mimetismo, di cui egli stesso denuncia, a proposito dello stile di Flaubert [Chroniques, , Paris 1928, p. 204.]

 il potere d'ossessione e persino d'« intossicazione », si sia al tempo stesso s tesso esercitato ed esorcizzato nella serie dei pastiches l  Affaire  'Affaire Lemoine. anche vedere quanto della della loro esistenza certi personaggi, di primo piano come Charlus, oppure episodici come il direttore del Grand Hôtel di Balbec, debbano a questa sensibilità linguistica. Nell'universo essenzialmente verbale della Recherche, esseri si manifestano pressoché soltanto come esemplari stilistici (Norpois, Legrandin, Bloch) o come collezioni d'accidenti di linguaggio (il direttore già nominato, il liftier, Françoise). La carriera professionale di un Cottard si cancella dietro la storia delle sue difficoltà con la lingua – e d'altronde la medicina, che ha fatto « qualche piccolo progresso nelle conoscenze dopo Molière ma nessuno nel  vocabolario », [A la recherche du temps perdu, per du, «Bibliothè que de la Pléiade», II, Gallimard, Paris , 641]

 è forse qualcosa di diverso in Proust da un'attività di linguaggio? linguag gio? « Il medico, immediatamente chiamato chiamato,, dichiarò di preferir  preferiree serietà, virulenza dell'accesso febbrile che accompagnava la mia congestione polmonare e non sarebbe stato che un fuoco di paglia, forme piú insidiose larvate »; « Cottard, docile, aveva detto alla Padrona: “Sí, agitatevi ancora cosí e domani mi farete quaranta di febbre”, come avrebbe detto alla cuoca: “Domani mi farete risotto con vitella”. La medicina, non potendo guarire, bada a mutare il senso dei verbi e dei pronomi ». Recherche, I, . 496; II, p. 900.] [ Recherche,

- Proust non rinuncia neppure a notare e a trascrivere, trascrivere, come fa Balzac per un Gobseck o un Nucingen, i difetti di pronuncia del marchese di Bréauté, per esempio (« Mia 'ara du'hessa »), o del principe Sherbatoff (« Sí, mi piace questa piccola celchia intelligente, gladevole... e dove si ha dello spilito fino alla punta delle unghie ». [III, P. P. 41; II, P P.. 893; o anche i «chuintements» entusiasti della signora ddii Cambremer e l'accento del principe von Faffenheim. «Vi sono momenti in cui dice Proust – per dipingere dipinger e compiutamente una persona, bisognerebbe che l'imitazione fonetica s'unisse alla descr descrizione» izione» (II, P P.. 942).]

 Personaggi come Octave (nel periodo di Balbec).o la signora Poussin s'identificano talmente col loro principale tic di linguaggio, che esso resta loro come soprannome: « Nelle canne », « Me lo farai sapere »; la breve esistenza Recherche (una pagina di Sodome et Gomorrhe) è 'altra parte puramente linguistica, poiché della signora Poussin nella si riduce all'abitudine che le vale questo nomignolo e alla sua mania di addolcire la pronuncia di certe parole. La stessa cosa, o quasi, si può dire del servitorello Périgot Joseph la cui esistenza ha come sola giustificazione l'indimenticabile lettera che egli lascia un giorno inavvertítamente sulla scrivania di Marcel (« Come tu lo sai, la

 

madre di Madama è trapassata con delle sofferenze inesprimibili che la hanno molto stancata perché essa ha visto fino a tre medici. Il giorno delle sue esequie fu un bel giorno perché tutte le relazioni del Signore erano venute in folla cosí come parecchi ministri. Abbiamo messo più di due ore per andare al cimitero, ciò che che vi farà tutti spalancare gli occhi nel vostro villaggio perché non si farà certamente altrettanto per mamma Michu. Cosí la mia  vita piú non sarà che un eterno singhiozzo singhiozzo.. Io mi diverto enormemente colla motocicletta di cui ho imparato ultimamente, ecc. »). [II, p. 771; II, p. 566.]

 Marcel non pronunciata si sarebbe probabilmente alla « vecchio, piccola ,brigata di Balbec senza», la virtú magica di questa frase da Gisèle: « Mimai fa affezionato pena 'sto povero vecchio sembra» mezzo andato [p. 792]

 e se Albertine diventa piú tardi la sua amante è avere aggiunto al suo vocabolario espressioni come: distinto, select, lasso di tempo, a mio giudizio, cui si può chiaramente vedere un'emancipazio un'emancipazione ne che è dei piaceri piú vivi, e ancor ú r l'apparizíone propriamente afrodisiaca della parola musmé: « quello che mi decise, – commenta Marcel, – fu

un'ultima scoperta filologica ». [Il, p. 357]

Potere delle parole, potenza della connotazione. È significativo che parecchi personaggi della Recherche di qualche difficoltà nell'uso della lingua –e non meno significativa è minuziosità con la quale Proust osserva i minimi accidenti del loro comportamento linguistico.  Accidenti che non non si producono soltanto nell'ap nell'apprendimento prendimento d'una lingua straniera straniera – come quando Bloch Bloch,, per iperanglicismo, crede di dovere pronunciare laift Venaise quando il principe von Faffenheim dice arsceologo, o  periferia  vicinanze [ I, p. 739; II, pp. 527, 510.]

 –; o in esseri incolti come Françoise o il liftier di Balbec; ma anche, e in modo forse piú rilevante, in persone istruite come il dottor Cottard, o d'un'origíne sociale elevata come il duca di Guermantes. Questi « strafalcioni » possono essere errori di « pronuncia » come lai/t o arsceologo; come settembre o rammendatora, [II, pp. 392, 736.]

 (   parentesi per parentela, Camembert per Cambremer) [p. 154; II, pp. 805, 825, 857.]

 o improprietà: restare per abitare, in tesi generale, [III, p. 515; II, p. 720.]

 e quasi tutti gli strafalcioni del direttore di Balbec che «fioriva i suoi discorsi commerciali di espressioni scelte, ma a sproposito ». [I, p. 663.]

per estetico. origine eQuelli per natura questi «errori» differiscono anche nel tanto loro significato psicologico o sociale nel Diversi loro valore del direttore cosmopolita, non connotano la sua « originalità rumena », e quanto una certa pretesa senza fondamento; quelli di Basin che « non era mai arrivato ar rivato a conoscere il significato preciso di certe parole », [II, p. 239; cfr. p. 725: «la sua incapacità di assimilare con precisione le sfumature della lingua francese». ]

partecipano, con i suoi volgarismi affettati e stravaganti, [«Rimasto al verde» (II, p. 826), «Arrivedercela» (p. 724), «me ne frego» , « la mia padrona», (p. 580), « la vostra buccia» (p. 547).]

 le sue involontarie stonature [«Egli mi trascinò verso la mamma dicendomi: “Volete farmi il grande g rande onore di presentar mi alla signora vostra madre?” deragliando un po' sulla parola “madre”» (II, p. 338).]

 e i suoi improvvisi rossori, della personalità un po' disadattata, come smarrita, forse f orse talvolta al limite d'una sorta d'ebrezza, del fratello di Charlus; forse indicano quello che c'è d'altrettanto cosmopolita, benché in modo diverso che nell'albergatore monegasco, in quella dinastia per metà bavarese, bavarese, i cui feudi e i cui diritti (senza parlare dei matrimoni) si estendono su tutta l'Europa. [Dobbiamo tuttavia citare un'altra spiegazione secondo cui Basin dovrebbe il suo cattivo francese, al pari di «tutta una generazione d'aristocratici », all'educazione impartita da monsignor Dupanloup (II, p. 720).]

 Oriane invece, col suo accento contadino (« stupida come ugn'oca » ) ) e il vocabolario provinciale accuratamente conservato come mobili antichidioFrançoise gioielli di efamiglia, ne incarna il lato dallo « vecchia Francia cia »; in questo i suoi arcaismi sono affini agli errori l'accostamento è notato stessoFran Proust. [III, p. 34]

 Infatti il linguaggio della vecchia contadin contadina, a, persino nei suoi strafalcioni, rappresenta per lui, come una volta per

 

Malherbe quello degli scaricatori del Port au Foin , il « genio linguistico linguist ico allo stato vivo, l'a l'avvenire vvenire e il passato del francese »: [II, p. 736]

 l'autenticità originaria di una lingua che le affettazioni volgari dell' argot parigino, nella stessa figlia di Françoise (« La principessa Taitú! credo che possiate aspettarla in sempiterno»), [II, p. 728.]

 adulterano invece al pari degli anglicismi demimondains di Odette di Crécy, del gergo da iniziati di Saint-Loup, o dello stile « da studente » di Bloch. Ma cosi come la moneta cattiva scaccia la buona, Françoise subirà a poco a poco l'influsso della figlia e crederà d'avere fatto dei progressi nelle eleganze parigine perché avrà imparato a dire « Corro a scavallarmi e presto ». Questa « decadenza del linguaggio di Françoise, ch chee avevo conosciuto nella sua età aurea » [III, p. 154.] è uno degli indici piú evidenti della degradazione generale che travolge ogni cosa nelle ultime parti della Recherche du temps perdu.

Nonostante questa disparità di valore, alcune leggi generali presiedono alla genesi e alla persistenza di questi errori linguistici. La prima e la piú im importante portante dipende da un desiderio, apparentemente universale e che ritroveremo all'opera altrove, altrove, di motivazione del segno; i linguisti l'hanno spesso notato a proposito di quella che si chiamava una volta l'« etimologia popolare », e che consiste in una tendenza a riportare ogni forma nuova a una forma vicina piú conosciuta. Cosí Françoise dice Julien per Jupien e Algeri per Angers, o il lift già citato Camembert per Cambremer. Per quanto riguarda il primo caso, Proust stesso nota che Françoise assimilava «volentieri le parole nuove a quelle che già conosceva »; e per il secondo s econdo che « era assai naturale che egli avesse percepito un nome che già conosceva »; « le sillabe familiari e piene di significato (del nome primitivo) – precisa piú avanti –  venivano in aiuto al giovane domestico qquand'era uand'era in difficoltà per quel quel nome difficile, ed erano erano immediatamente preferite e riadottate, non con pigrizia e come una vecchia abitudine inestirpabile, inestirpabile, ma per l'esigenza di logica e di chiarezza ch'esse soddisfacevano »; [II, pp. e19,chiarezza 825, 857.] logica

evidentemente designano qui il bisogno di semplificazione e di motivazione (sillabe piene di significato ) che s'oppone alla proliferazione proliferazione arbitraria de delle lle forme: se Françoise dice prosciutto di NevYork NevYork è perché crede « la lingua meno ricca di quanto non sia » e le pare « d'una prodigalità inverosimile nel vocabolario che possa esistere al tempo stesso York e New Y York ork ». [III p. 445.]

La seconda legge, che dipende dalla prima, spiega non piú l'origine degli errori ma la loro resistenza a ogni correzione: è la perseveranza nell'errore e il rifiuto ostinato dell'orecchio a percepire la forma corretta rifiutata nell'intimo. « L strano, – dice Marcel, – come una persona che cinquanta volte al giorno g iorno sentiva i clienti gridare: g ridare: “ascensore! “, non dicesse mai altro che “ascensore” »; ma il liftier ode solo quello che può udire e la meraviglia di Marcel non è qui piú giustificata di quella che prova a udire il nome della sogliola « pronunciato storpiato da un uomo che ne aveva ordinate chissà quante in vita sua ». [III pp. 791, 765.]

Capirà piú tardi che in materia di linguaggio come in ogni altra « la testimonianza dei sensi è anch'essa un'operazione spirituale in cui la convinzione crea l'evidenza ». [ I, p. 697]

Questa speciedidiVilleparisis sordità linguistica risalta forzatestualmente nel modo inlecui imitando il piú possibile voce di della signora e credendo di con ripetere sueFrançoise, parole, « mentre le deformava nonlameno quanto Platone deformasse quelle di Socrate o san Giovanni quelle di Gesú », trasmette da parte sua al Narratore e a sua nonna questo messaggio inconsciamente tradotto nel solo linguaggio che essa adopera e quindi percepisce: « Salutateli tanto tanto ». [III p. 190. E qualche riga piú sotto: «L'errore è piú pertinace della fede e non esamina mai le proprie cr credenze». edenze». Già a Combray, «una delle piú ferme convinzioni d'Eulalie, che l'imponente somma delle smentite portate dall'esperienza non era bastata a scalfire, era che la signora Sazerat si chiamasse Sazerin» (I, p. 70). Stesso errore in Françoise, III, p. 573.]

È vero che a questa ostinazione naturale può aggiungersi in certi casi una sorta sor ta di pertinacia volontaria e per cosí dire dimostrativa, come quando il maggiordomo mag giordomo del Narratore, debitamente avvertito dal padrone che deve pronunziare saliente, ripete sagliente con un'insistenza intesa contemporaneamente a dimostrare che non ha ordine da ricevere al di fuori del servizio ser vizio e che la Rivoluzione non è stata fatta invano invano,, e a ffare are credere «che quella pronuncia era frutto non d'ignoranza ma di maturata e ponderata determinazione ». [III p. 842.]

Se l'arroganza di Bloch non nascondesse un profondo sentimento d'inferiorità, egli avrebbe potuto, in questo medesimo spirito d'indipendenza e d'autogiustificazione, decidere d'imporre la sua pronuncia laift e possiamo supporre l'ignoranza della lingua sia alimentata in Basin dal sentimento un Guermantes « non è tenuto ache » piegarsi a quella norm norma a plebea che è l'uso. Si congiungono cosí,orgoglioso forse con lache stessa dose di cattiva coscienza e di malafede, la rivendicazione popolare e la boria aristocratica. Ma dobbiamo anche tenere conto qui di una terza legge che si applica almeno a tre personaggi diversi come il maggiordomo, il direttore di Balbec e il

 

principe di Faffenheim. Vediamo Vediamo infatti che anche in mancanza d'ogni opposizione, e quindi d'ogni obbligo d'amor proprio, il primo dice  pistoio (per pisciatoio), « scorrettamente ma eternamente »; cosí come i benché sono dei poiché misconosciuti, questo « ma » è un quindi che s'ignora: a proposito del direttore Proust scrive in modo m odo già piú neutro che « gli piaceva usare le parole che pronunciav pronunciavaa male », e il principe infine gli ispira questa osservazione in cui la causalità proustiana ritrova ritrova il suo ordine: « non non sapendo pronunziare pronunziare la parola archeologo, non perdeva un'occasione per servirsene ». [III, p. 750; II, pp. 778, 526.]

La legge di Proust su questo punto, potrebbe dunque venire enunciata enunciata cosí: l'errore, cosciente o no, tende non soltanto a perseverare nel suo essere, ma a moltiplicare le sue occorrenze. Forse la spiegazione del fatto non va cercata (anche se Proust sembra qualche volta propendervi) in una volontà deliberatamente « cattiva » o in una specie di voluttà immanente dell'errore, ma piuttosto nel carattere necessariamente compulsionale di tutto ciò (errore, colpa morale, vizio nascosto, inferiorità, ecc.) che lo spirito censura e vorrebbe reprimere: ne vedremo altrove altri esempi.  Tuttavia l'imperfettibilità l'imperfettibilità assoluta che queste leggi sembrano implicare subisce qualc qualche he eccezione nel mondo della Recherche. In fondo il modo con cui Françoise finisce per adottare le espressioni d'argot della figlia è in un certo senso un apprendistato, così come la maturazione progressiva del vocabolario d'Albertine. Il caso piú interessante è però quello di Cottard. Ai suoi esordi, quali ci vengono presentati in Un  amour de Swann, il futuro professore si trova nei confronti del linguaggio linguagg io sociale in una condizione d'incompetenza caratteristica, che si manifesta innanzi tutto attraverso quella che Proust chiama la sua « ingenuità », ossia la sua incapacità a distinguere nel discorso altrui la componente « seria » da quella ironica o di cortesia, cort esia, la sua tendenza « a prendere tutto alla lettera »: gli viene reso un grande g rande favore e si aggiunge che è cosa da poco, e lui crede subito di dovere confermare che in effetti non è nulla e anzi lo disturba; l'altra componente del complesso di Cottard è la sua ignoranza del significato e perciò dell'opportunità d'usare i luoghi comuni, quali sangue blu, dare carta bianca, ecc. La caratteristica comune di queste due menomazioni è evidentemente una sorta d'insufficienza retorica retorica (nel senso in cui egli stesso parlerebbe d'insufficienza. epatica) che gli impedisce costantemente di superare il senso letterale per raggiungere quello figurato e probabilmente di concepire il fatto in sé della figurazione. Ma invece di chiudersi come gli altri nella ssoddisfazione oddisfazione della propria ignoranza, Cottard manifesta sin dall'inizio un desiderio d'emendarsi che finirà coll'avere la sua ricompensa: impara a memoria giochi di parole, non perde occasione occasione d'istruirsi in materia d'idiotismi e questo «zelo di linguista» [I, p. 217]

costituisce a lungo il tema unico della sua parte nella Recherche du temps perdu, di quella mondana, beninteso, giacché il personaggio del medico infallibile è in lui totalmente distinto dal personaggio del commensale sciocco, o meglio i due sono uniti soltanto da un rapporto paradossale: « E noi capimmo che quell'imbecille era un grande clinico ». [I, p. 499]

Come quasi sempre in Proust, la fine dell'evoluzione appare di colpo, senza tappe intermedie, quando, ingolfandosi nel trenino della Raspelière, il Professore esclama: « Questo sí che si chiama prenderlo per un pelo! » strizzando l'occhio « non per domandare se l'espressione era esatta, perché egli adesso traboccava di sicurezza di sé, ma per soddisfazione ». La sua perfetta padronanza è d'altronde confermata dalla signora di Cambremer: « Eccone uno che ha sempre la parola pronta ». Egli padroneggia ormai cosí bene gli stereotipi, st ereotipi, ne conosce talmente « i pregi e i difetti » che può concedersi il piacere criticare altrui: « Perché stupido una rapa?bene – chiede al signor di Cambremer. – Credete che le rapedisiano piú quelli stupide d'un'altra cosa?... ». come [II, pp. 869, 1094, 923 ] Naturalmente quest'aggressività trionfante t rionfante ha ancora qualcosa d'inquietante: il Professore non è affatto guarito della sua nevrosi linguistica, semplicemente essa ha mutato di segno, invertito il suo sintomo. Cottard è passato per quello che riguarda lui dal Terrore Terrore alla Retorica, e per quello che riguarda gli altri (com'è di regola) dalla Retorica al Terrore: il che significa che non si è affatto sottratto al fascino del linguag linguaggio. gio.  A questo fascino neppure Proust Proust sembra essere del tutto sfuggito. O per lo meno lo attribuisce, sotto una certa forma e a un certo punto della sua evoluzione, al Narratore della Recherche. Il suo oggetto d'elezione è costituito, com'è noto, noto, da quello che Proust chiama il Nome, ossia il nome proprio proprio.. La differenza tra il Nome e la Parola (nome comune) è indicata in una celebre pagina della terza parte di Swann in cui Proust ricorda le fantasticherie del suo eroe sui nomi di alcuni paesi ove spera di passare le prossime vacanze di Pasqua: « Le parole ci offrono delle cose una piccola immagine chiara e usuale come le immagini che si tengono appese alle pareti delle classi per dare ai bambini un esempio di quel che sia un banco di lavoro, un uccello, uccello, un for formicaio, micaio, cose simili a tutte quelle dellaal stessa I nomi invece offrono delleche persone e delle città che ciconcepite abituano come a credere individuali, uniche pari dispecie. persone – un'immagine confusa trae da–loro, dalla loro sonorità risplendente od oscura, il colore di cui è dipinta uniformemente». [ I, pp. 387-88.]

 

 V  Vediamo ediamo qui che la tradizionale tradizionale (e contestabile) opposizione tra l'individualità del nome proprio proprio e la generalità del nome comune si accompagna a un'altra differenza, apparentemente apparentemente secondaria ma che riassume in realtà tutta la teoria semantica del nome secondo Proust: l'« immagine » che il nome comune presenta della cosa è « chiara e usuale », ossia è neutra, trasparente, inattiva e non modifica in niente la rappresentazione mentale, il concetto d'uccello,, di banco di lavoro o di formicaio; al contrario l'immagine offerta dal nome proprio è confusa in quanto d'uccello riceve il suo colore unico dalla realtà sostanziale (la «sonorità») di questo nome: confusa dunque, nel senso d'indistinta, per unità o piuttosto per unicità di tono; ma anche confusa nel senso s enso di complessa, per la confusione che si stabilisce in essa tra gli elementi che provengono dal significante e quelli che provengono dal significato: la rappresentazione extralinguistica della persona o della città che, come vedremo, coesiste sempre in realtà con, e spesso preesiste allesignificante sugg estionie presentate suggestioni Pensiamo quind chelinguaggio, Proust riservi nomi propri quel rapporto attivo tra significato dal chenome. definisce lo stato quindi poeticoi del e che ai altri – Mallarmé e Claudel, per esempio – attribuiscono altrettanto bene ai nomi comuni e a ogni altra specie di parole. [Salvo dimenticanza la sola osservazione fatta da Proust concernente concern ente la forma d'un nome comune (il quale oltretutto lo è ben poco) riguarda musmè : «a udirlo si prova lo stesso male ai denti di quando ci siamo messi in bocca un pezzo troppo grande di gelato» (II, P P.. 357); ma come si vede abbiamo qui soltanto una notazione sensibile senza l'accenno d'una motivazione semantica.]

Una simile restrizione può in effetti meravigliare da parte d'uno scrittore cui il rapporto metaforico era cosí connaturale; ne possiamo trovare la causa nel predominio, in lui cosí accentuato, della sensibilità spaziale e per meglio dire geografica: infatti i nomi propri che cristallizzano la fantasticheria del Narratore sono in realtà qua, si sempre (e non soltanto nel capitolo che porta questo titolo) nomi di paesi – o nomi di famiglie nobili che traggono tragg ono il loro valore immaginativo essenzialmente dal fatto ch chee sono « sempre nomi di luoghi ». [ Contre Contre Sainte-Beuve , Gallimard, Paris 1954, p. 274. Cfr. la pagina di Sodoma et Gomorrhe in cui Marcel riceve una partecipazione di morte fir mata da una folla di nomi di nobili normanni terminanti in ville , in court  e  e in tot : «vestiti delle tegole dei loro castelli o dell'intonaco delle loro chiese, la cui testa malferma supera a malapena la volta o il corpo centrale del fabbricato e soltanto per acconciarsi col lanternone nor normanno manno o con qualche colombaia dal tetto a pinnacolo, pareva avessero avessero chiamato a raccolta tutti i graziosi villag gi scaglionati o dispersi a cinquanta leghe all'intorno » (II, p. 786).]

L'unicità, l'individualità dei luoghi è uno degli articoli di fede del giovane Marcel, come del narratore di  Jean Santeuil, e nonostante le ulteriori smentite dell'esperienza egli ne serberà almeno la traccia onirica, poiché può ancora scrivere a proposito del paesaggio di Guermantes che «a volte, nei sogni, la sua individualità (lo) afferra con una forza quasi fantastica ». [Jean Santeuil, Gallimard, Paris 1952, II, P. 317; Recherche, I, p. 185]

La supposta singolarità del nome proprio corrisponde alla singolarità mitica del luogo luog o e la rafforza: «I nomi esaltarono l'idea che io mi facevo di certi luoghi della terra, rendendoli piú particolari e di conseguenza piú reali...  A qual segno essi acquistarono qualcosa qualcosa di ancor piú individuale, nell'essere nell'essere designati con dei nomi, dei nomi nomi che non erano che per loro, dei nomi come ne posseggono posseg gono le persone». [I, p. 387]

Non bisogna tuttavia lasciarsi prendere da questa pigrizia di linguaggio che sembra fare qui della «persona» il modello stesso dell'individualità (« le città... individuali, uniche come persone »): per quanto mitica sia, l'individualità dei luoghi è in realtà molto piú marcata, in Proust, di quella degli esseri. Fin dalle loro prime apparizioni un Saint-Loup, Saint-Loup, un Charlus, un'Odette, un'Albertina manifestano la loro inafferrabile inaffer rabile moltiplicità e la rete di parentele e di rassomiglianze confuse che li collega ad altre persone anch'esse poco uniche come lo sono loro; cosi i loro cognomi, come vedremo meglio piú avanti, non sono davvero davvero fissi e non apparteng appartengono ono loro in maniera sostanziale: Odette cambia piú volte il suo, Saint-Loup e Charlus ne hanno parecchi, lo stesso nome d'Albertina e quello di Gilberte Gilber te sono calcolati per potersi un giorno confondere, ecc. Almeno in apparenza i luoghi sono assai piú « persone » [Jean Santeuil, II, p. 336.]

delle persone stesse: cosí essi sono molto piú legati al loro nome. Rimane da precisare la natura di quel « rapporto attivo » tra significante e significato in cui abbiamo visto l'essenza dell'immaginazione nominale in Proust. Se ci attenessimo all'enunciato teorico già citato si potrebbe pensare a una relazione unilaterale, in cui l'« immagine » del luogo trarrebbe tutto il suo contenuto dalla «sonorità» del nome. Il rapporto reale, quale lo possiamo analizzare sulla base degli esempi che troviamo nella Recberche, è piú complesso e piú dialettico. Bisogna però innanzi tutto introdurre una distinzione tra i nomi inventati da Proust per località immaginarie, come Balbec, e i nomi (reali) di luoghi reali come Firenze o Quimperlé Quimperlé – restando inteso che questa distinzione è pertinente soltanto nei confronti del lavoro (reale) dell'autore e non delle fantasticherie fittizie del suo eroe, per il quale Firenze e Balbec si collocano al medesimo livello di « realtà ». [Un caso intermedio è quello dei nomi presi dalla realtà e attribuiti a un luogo fittizio come Guermantes: la libertà del romanziere non sta allora nella combinazione dei fonemi, ma nella scelta globale d'un vocabolo appropriato.] appropriato.]

 Secondo un'osservazione di Roland Barthes, il ruolo del narratore è qui di decodificare (« decifrare nei nomi che gli sono dati una sorta d'affinità naturale tra il significante e il significato »), quello del romanziere, è invece invece di codificare: dei « dovendo inv entaresuono qualche al tempo normanna,diggotica otica esignificati ventosa, cercare nella tavola generale fonemi,inventare qualche chelocalità si accordi con lastesso combinazione questi ». [ Proust et les noms, p. 154]

Questa osservazione però può valere soltanto per i nomi inventati, come quello di Balbec al quale evidentemente Barthes pensa qui, ossia per un numero piuttosto scarso dei nomi di paese che dànno luogo nella Recherche a una

 

fantasticheria « linguistica »; per i nomi reali, la situazione s ituazione dell'eroe e quella del romanziere no nonn sono piú simmetriche e inverse, bensí parallele poiché Proust attribuisce a Marcel un'interpretazione della forma nominale necessariamente inventata, e quindi (le due attività essendo nel caso specifico equivalenti) provata da lui stesso. Non si può dire tuttavia che queste due situazioni si confondano in senso assoluto, giacché almeno su un punto l'esperienza dell'eroe non coincide con quella dello scrittore: quando pensa a Venezia o a Bénodet, il giovane Marcel non si è ancora mai recato in nessuna delle due località, ma quando scrive quella pagina Proust invece le conosce già e forse non fa totalmente astrazione dai suoi ricordi personali – dalla sua esperienza reale – quando attribuisce al suo eroe delle fantasticherie i cui due unici alimenti dovrebbero in teoria essere i nomi di questi paesi e qualche conoscenza libresca o per sentito dire.  Appare chiaroe che infatti, infatti, a una lettura un èpo' attenta, ch che nessuna di queste immagini determinata dalla sola forma del nome viceversa ciascuna il risultato di eun'azione reciproca traquesta èforma e qualche nozione,  vera o falsa, ma in ogni caso indipendente indipendente dal nome e venuta venuta da altrove. altrove. Quando Marcel dic dicee che il nome P Parma arma gli appariva « compatto, liscio, color malva e dolce » è evidente che almeno la notazione del colore ha piú a che fare con le violette della città che con la sonorità del nome, e questa evidenza è confermata qualche riga in basso: « io l'immaginavo soltanto (la dimora parmense ove sogna di abitare un giorno) in virtú di quella sillaba pesante del nome di Parma ove non circola brezza alcuna, e di tutto quello che le avevo fatto assorbire  [Il corsivo è nostro. Questa parola molto incisiva per indicare l'azione del significato sul significante si trovava già all'inizio all'inizio di questo brano col med medesimo esimo  valore: «Ma se quei nomi assorbirono per sempre l'immagine ch'io avevo avevo di quelle città, ciò avvenne solo trasformandola, sottomettendo la sua riapparizione in me alle loro proprie leggi» (I, P. 387). La reciprocità è qui ben caratterizzata.]

di dolcezza stendhaliana e del riflesso delle violette ». L'analisi semantica c'è quindi offerta qui da Proust stesso, che attribuisce chiaramente le qualità di compatto e probabilmente di liscio all'influsso del nome, il color malva alla conoscenza per sentito dire delle violette, e la dolcezza al ricordo della Charireuse: il significante agisce sí sul significato per fare immaginare a Marcel una città ove tutto è compatto e liscio, ma il significato agisce a sua volta sul significante per fargli percepire il « nome » di questa città come color malva e dolce. [I, p. 388; cfr. II, p. 426: « il suo nome compatto e troppo dolce ». ]  ] Ugualmente sua immagine « miracolosamente e simile a una corolla » tanto giglio rosso del suoFirenze stemmadeve e allalacattedrale di Santa Maria del Fiore,fragrante quanto all'allusione floreale della primaal sillaba: contenuto ed espressione non essendo piú qui in un rapporto di complementarità e di scambio, ma di ridondanza, poiché il nome si trova ad essere nel caso specifico effettivamente motivato motivato.. Balbec deriva la sua immagine arcaica (« vecchi vasellami normanni », « uso decaduto », « diritto feudale », « condizione antica di luoghi », « modo desueto di pronunziare ») dalle « sillabe eteroclite » del suo nome, ma sappiamo che il tema fondamentale delle « onde sollevate intorno a una chiesa di stile persiano », contamina, senza alcun riferimento al nome, due indicazioni di Swann e Legrandin; qui la congiunzione della suggestione verbale e della nozione extralinguistica non è del tutto riuscita, giacché se l'essenza normanna del paese e anche lo stile pseudopersiano della sua chiesa si « riflettono » bene nelle sonorítà di Balbec , [L'essenza normanna, per analogia con Bolbec. Caudebec, ecc. Lo stile persiano del nome (I, p. 658: « il nome Balbec, quasi di stile persiano») dipende probabilmente dall'ornofonia con nomi come L'Usbek delle Lettres persanes, senza contare il Baalbek libanese.]

è piú difficile trovarvi un'eco delle tempeste annunciate da Legrandin. [Salvo passare, come suggerisce Barthes « attraverso il relais concettuale del «“rugoso”» che gli permetterebbe d'evocare «un complesso di onde dalle alte creste, di scogliere irte ir te e d'architettura a punte » (p. 155).]

 Le rievocazioni seguenti realizzano piú efficacemente, come nel caso di Parma, il contagio reciproco del nome attraverso l'idea edidell'idea il nomenei chesuoi costituisce motivazione immaginaria segno linguistico: cosi la cattedrale Bayeuxattraverso « alta e slanciata merletti larossastri », riceve sulla vetta del la luce « oro vecchio dell'ultima sillaba »; le invetriate antiche delle case giustificano il nome di Vitré il cui  accento acuto (da notare qui l'azione non piú della sonorità ma della forma grafica) nel suo movimento diagonale, diag onale, « taglia a losanghe di legno ic  nero » le antiche facciate; il « dittongo ( ssic   ) finale » di Coutances rende molle la « torre di burro » della sua cattedrale; i ruscelli limpidi che già affascinavano il Flaubert di Par les champs et par les grèves corrispondono al perlato trasparente con cui termina il nome di  Quimpertè  , , ecc. La medesima interazione anima altre fantasie nominali disseminate nei primi volumi della Recbercbe come quella che alimenta il nome, magico tra tutti, di Guermantes, evocatore di un « torrione quasi immateriale, un luminoso fantasma color arancione»: [ II, p. 13]

 il torrione appartiene evidentemente alla roccaforte che è la supposta culla di questa famiglia feudale, la luce arancione « emana » dal canto suo dalla sillaba finale del nome. [I p171: « La luce arancione che emana da quella sillaba: antes ».]

Emanazione d'altronde meno diretta di quanto non si supporrebbe a prima vista, giacché al medesimo nome di Guermantes viene attribuito altrove [II p. 209: « il color amaranto dell'ultima sillaba del suo nome ». ]

il color amaranto, poco compatibile con l'arancione, la cui risonanza è dovuta al biondo dorato dei capelli Guermantes: queste due indicazioni, contraddittorie sotto l'aspetto dell'« audizione colorata » cara ai teorici dell'espressività fonica, provengono dunque non da una sinestesia spontanea,

 

[ come lo è in compenso, a quanto sembra, l'associazione i – porpora, attestata almeno due volte (I, p. 42 e Contre Sainte-Beuve, p. 168. Osservazione di Barthes, Proust et les noms, p. 155]

 ma piú probabilmente da un'associazione lessicale, ossia dalla presenza comune del suono an nel nome Guermantes e nei nomi dei colori orange e amarante, cosí come l'acidità del nome di battesimo di Gilberte, « fresco e acidulo come le stílle dell'ínnaffiatoio verde »' dipende probabilmente meno dall'azione diretta delle sue sonorítà che dall'assonanza Gilberteverte: le vie della motivazione sono spesso molto piú indirette di quanto non si immagini. Ultimo esempio: se il nome  di Faffenheim ricorda, nell'energia dell'attacco e nella « balbettante ripetizione » che scandisce le prime sillabe, « lo slancio, la manierata ingenuità, il peso delle “delicatessen” tedesche », e nello « smalto blu cupo » dell'ultima, « il misticismo di una vetrata renana dietro le dorature pallide e finemente cesellate del settecento germanico », non è soltanto s oltanto a causa delle sonorità, ma anche perché è un nome di Principe Elettore; [II, p. 256. Cfr. J. POMMIER, La mystique de Marcel Proust , Droz, Genève 1939, p. 50.]

 l'energia e la ripetizione sono si iscritti nel Fa§en, ma la loro sfumatura specificamente tedesca viene dal significato e piú ancora dal ricordo, che già richiamava alla mente la prima versione del medesimo passo nel

Contre Sainte-Beuve, [Dove il nome, stranamente, era analizzato senza essere citato, il che può lasciar supporre (ma è poco probabile) che fosse inventato dopo (p. 277 277)] )]

 dei « bonbons colorati mangiati in una piccola drogheria di una vecchia piazza tedesca »; l'audizione colorata del Heim  finale  finale può ricordare la trasparenza d'una vetrata blu cupo, ma la renanità di questa vetrata, e le dorature

rococò che la incastonano non escono armi e bagagli da quella che la versione primitiva chiamava la « sonorità  versicolore dell'ultima sillaba ». Avviene Avviene per queste interpretazioni prevenute prevenute e guidate la stessa cosa cosa che avviene per quelle musiche a programma o per quei leitmotive « espressivi » che, come Proust osserva giustamente « dipingono splendidamente lo scintillio della fiamma, il mormorio del fiume e la pace della campagna per gli ascoltatori che scorrendo precedentemente il libretto, hanno aguzzato l'immaginazione nel senso giusto »».. [I, p. 684; cfr. p. 320]

L'espressività di un vocabolo gli deriva spesso dal contenuto che deve provocare; basta che gli manchi questa connivenza del significato ed ecco che non « esprime » più niente, o qualcosa di totalmente diverso diverso.. Nella piccola ferrovia che conduce da BalbecenTerre BalbecenTerre a BalbecLido Marcel percepisce come estranei certi nomi di villagg villaggii come Incarville, Marcouville, Arambouville, Maineville, « tristi nomi fatti di sabbia, di spazio troppo aerato e vuoto, e di sale, al di sopra dei quali la parola ville fuggiva via come “vola” in Piccione-vola-vola » insomma nomi le cui connotazioni gli appaiono tipicamente marine, senza che egli si renda conto della loro rassomiglianza con altri nomi, tuttavia familiari come Roussainville o Martinville il cui « fascino oscuro » dipende invece da un sapore di marmellata o da un odore di camino acceso legati al mondo dell'infanzia a Combray; le forme sono assai simili, ma l'invalicabile distanza dei contenuti contenuti investiti gli impedisce anche soltanto di scorgere la loro analogia: cosí, « all'orecchio di un musicista due motivi, materialmente composti di parecchie note uguali, possono non presentare nessuna somiglianza se differiscono per il colore dell'armonia e dell'orchestrazione ». [1, p. 661.]

Ritroviamo dunque all'opera nelle fantasticherie poetiche di Marcel quella medesima tendenza alla motivazione del linguaggio che già ispirava is pirava gli strafalcioni di Françoise o del liftier di Balbec: ma invece d'agire sulla materia di un significante sconosciuto per ricondurla a una forma « familiare e piena di senso » e per ciò stesso giustificata, s'esercita, piú sottilmente, tanto sulla forma for ma di questo significante (il modo in cui la sua « sostanza », fonica o altra, è percepita, attualizzata e interpretata), quanto su quella del suo significato (l'« immagine » del paese) per renderle compatibili, armoniche, reciprocamente evocatrici l'una dell'altra. Abbiamo  visto tutto quello che c'è d'illusorio d'illusorio in quest'accordo tra « suono » e « senso » — e particolarmente nella parte attribuita al primo dall'immaginazione — e vedremo piú avanti come si traduce nella Recherche la presa di coscienza e la critica di quest'illusione. Ma un altro miraggio riguarda il senso stesso: Roland Barthes insiste giustamente sul carattere immaginario dei complessi servici evocati dalla fantasticheria dei nomi e sull'errore che si farebbe, qui come altrove, confondendo il significato col referent, ossia con l'oggetto reale: ma quest'errore è proprio quello di Marcel, e la sua correzione è uno degli aspetti essenziali del doloroso apprendistato in cui consiste l'azione del romanzo. La fantasticheria sui nomi ebbe come conseguenza, dice Proust, di rendere l'immagine di questi luoghi piú bella, « ma anche piú diversa da quel che le città della Normandia o della Toscana potessero essere nella realtà, e, accrescendo in me le gioie arbitrarie della mia fantasia, di rendere piú grave la futura delusione dei miei viaggi». [I, p. 387]

Sappiamo per esempio che amara disillusione proverà Marcel scoprendo che l'immagine sintetica che si era fatto di Balbec (chiesa di stile persiano battuta dalle onde) aveva soltanto una lontana rassomiglianza con la Balbec reale, in cui chiesa e spiaggia spiag gia distano tra loro parecchie leghe. [1, p. 658]

Medesima delusione, un po' piú tardi, davanti allo spettacolo del duca e della duchessa duchessa di Guermantes « staccati da quel nome in cui un tempo li immaginavo condurre una vita inconcepibile », o davanti alla principessa di Parma, una donnetta nera (e non color malva) piú occupata d'opere di carità che di dolcezza stendhaliana, davanti al principe d'Agrigento, « estraneo al suo nome ("vetro trasparente sotto il quale io vedevo vedevo,, sulla riva di un mare

 

 violetto, illuminati dai raggi obliqui di un sole d'oro, i cubi cubi di marmo rosa di una città antica") quanto a un'opera un'opera d'arte che avesse posseduta senza ricavarne ricavarne per sé nessun riflesso, senza magari averla mai ammirata », e anche davanti al principe di Faffenheim-Munsterbourg-Weinigen, Faffenheim-Munsterbourg-Weinigen, Ringravio ed elettore palatino, che spreca le rendite e il prestigio del suo feudo wagneriano per mantenere « cinque automobili Charron, un palazzo a Parigi Parigi e uno a Londra, un palchetto il lunedí all'Opera e uno ai martedì dei Francesi » , , e la cui unica ambizione è d'essere eletto membro corrispondente dell'Accademia delle Scienze morali e politiche. [pp. 524, 427, 433, 257]

Cosí quando Proust afferma che i nomi, « disegnatori fantasiosi », [I, p. 548]

sono responsabili dell'illusione in cui si chiude il suo eroe, non bisogna intendere con nome il solo vocabolo, bensí il segno totale, l'unità costituita, secondo la formula hjelmsleviana, dalla relazione d'interdipendenza posta tra la forma del contenuto e la forma dell'espressione: non è il succedersi di suoni o di lettere Parma che crea il mito poetico d'una città compatta, color malva e dolce, è la « solidarietà » (altro termine hjelmsleviano) stabilita a poco a poco tra un significante compatto e un significato color malva e dolce. Il «nome» non è dunque la causa dell'illusione, ma ne è precisamente il luogo, il posto dove essa si concentra e si cristallizza. L'indissolubilità apparente del suono e del senso, la densità del segno favoriscono la credenza infantile nell'unità e nell'individualità del paese che esso designa. Abbiamo visto come l'arrivo a Balbec dissipi la prima; le passeggiate passegg iate in carrozza con  Albertina, in Sodoma et Gomorrhe, faranno a loro volta giustizia della seconda. In realtà contrariamente al viaggio in ferrovia, che è in Proust passaggio brusco br usco (d'una bruschezza favorita dal sonno del viaggiatore tra due stazioni) da un'essenza a un'altra, essenze materializzate dal « cartello segnaletico » che reca in ogni stazione il nome individuale e distinto d'un nuovo paese, [III p. 644.]

 in carrozza l'ininterrotto procedere mette in risalto la continuità del paesaggio, la solidarietà dei luoghi, e questa scoperta [II p. 1005]

annulla il mito della loro separazione e delle loro rispettive singolarità,  cosi come Gilberte, all'inizio del Temps retrouvé, abolirà l'opposizione cardinale delle « due parti » dicendo semplicemente a Marcel: « Se volete si potrebbe andare a Guermantes passando per Méséglise, è la strada píú bella ». [III, p. 693]

Cosí distrutto dal contatto con la realtà geografica, g eografica, il prestigio dei nomi subisce un altro fiero colpo quando il narratore, ascoltando le compiacenti spiegazioni genealogiche del duca di Guermantes, scopre la rete continua di matrimoni e d'eredità che uniscono tra loro tanti nomi nobili – nomi di paesi – che fino ad allora aveva ritenuto essere altrettanto inconciliabili, altrettanto radicalmente dissociati per « una di quelle distanze nello spirito che possono soltanto allontanare, che separano e mettono su un altro piano », di quelli di Guermantes e Méséglise, di Balbec e di Combray Combray.. Sappiamo con quanta meraviglia, nonostante le spiegazioni s piegazioni precedenti di Saint-Loup, aveva appreso nel salotto della signora di Villeparisis che il barone di Charlus era il fratello del duca di Guerm Guermantes; antes; quando questi gli rivelerà, per esempio che un Norpois, al tempo di Luigi XIV aveva sposato una Mortemar Mortemart,t, che « la madre del signore di Bréauté era Choiseul, e sua nonna Lucinge» o che «la bisavola del signore d'Ornessan era sorella di Maria di Castiglia Montjeu, moglie di Timoleone di Lorena, e per conseguenza, zia d'Oriane », tutti questi nomi « venendo a porsi vicino ad altri da cui io li avrei creduti cosí lontani... ciascuno di essi spostato dall'attrazione di un altro nome col quale non gli sospettavo la minima affinità », [II, pp. 540, 542.]

sono altre distanze che si annullano, diaframmi che s'abbattono, essenze credute incompatibili che si confondono e per ciò stesso svaniscono. La vita dei nomi si rivela essere un susseguirsi di trasmissioni e d'usurpazioni che toglie ogni fondamento alla fantasticheria onomastica: quello di Guermantes finirà per cadere in possesso della plebeissima Padrona, ex Verdurin (via Duras); Odette è successivamente Crécy Crécy,, Swann, Forcheville; Gilberte, Swann, Forcheville e SaíntLoup; la morte di un parente fa del principe des Laumes un duca di Guermantes, e il barone di Charlus è « anche duca di Brabante, donzello GI Montargis, principe d'Oléron, di Catency Catency,, di Vireg Vireggio gio e delle Dune »; [p. 942. Saint-Loup aveva aveva già avvertito Marcel a Balbec di quest'instabilità: «in quella famiglia cambiano di nome come di camicia» (I, p755).]

 e in modo piú laborioso, ma non meno significativo significativo,, Legrandin diventerà conte di Méséglíse. È una ben povera cosa un nome. E ancora Marcel poteva provare di fronte al balletto onomastico del Côté de Guermantes una specie di vertigine [lo stesso nome Guer mantes riceveva, da tutti quei bei nomi estinti e tanto più vivamente riaccesi, cui apprendevo soltanto ora che era legato, una Guermantes non priva didipoesia; determinazione nuova, puramente poetica» (Il, pp. 542-43)]

diversa sarà invece un'ultima esperienza, puramente linguistica questa, che gli rivelerà, senza compenso estetico, la  vanità delle sue fantasticherie fantasticherie sui nomi di paese: si tratta delle etimologie di Bric Brichot hot nell'ultima parte di Sodom Sodomee et

 

Gomorrbe. [La relazione funzionale tra queste etimologie e le genealogie di Basin è chiaramente indicata da Proust: i nobili sono «gli etimologisti della lingua, non delle parole ma dei nomi » (Il, P. 532). Ma anche Brichot si limita all'etimologia dei nomi (di paese). Ricordiamo che le sue etimologie sono disseminate d isseminate tra le pp. 888938 del tomo Il della Pléiade. C'era stata prima qualche etimologia del curato di Combray (I, pp. 104-6), ma ancora sprovvista di valore critico: spesso d'altronde saranno confutate da Brichot. A proposito del legame tra genealogie ed etimologie, possiamo notare una «rivelazione» in un certo senso ibrida, quando Marcel apprende che il nome di Surgis-le-Duc dipende non da una filiazione ducale, ma da una mésalliance con un ricco fabbricante di nome Leduc (II, P. 706).]

 Ci si è spesso interrogati sulla loro funzione nel romanzo, e V Vendryès, endryès, che vedeva in queste tirate una satira del

pedantismo della Sorbona, aggiungeva che esse testimoniano anche una sorta di fascinazione. Questa ambivalenza è indubbia, ma la « passione etimologica etim ologica » non ha probabilmente il senso che le attribuisce Vendryès, Vendryès, allorché afferma che « Proust credeva nell'etimologia come in un mezzo razionale per penetrare penetrare il senso nascosto dei nomi e perciò di informarsi sull'essenza delle cose. P, P, una concezione – aggiunge ag giunge – che risale a Platone, ma che oggi nessuno studioso si sentirebbe di sostenere » [Proust et les noms propres, p. 126.]

Ciò significa ricollegare senza esitazioni le etimologie di Brichot a quelle di Socrate nella prima parte del Cratilo e metterle al servizio della « coscienza cratilea » [BARTHES, Proust et les noms, p. 158.]

di Marcel, per il quale in effetti, come abbiamo visto, l'essenza delle cose sta appunto nel senso nascosto dei loro nomi. Orbene, se consideriamo un po' piú attentamente queste etimologie e il loro effetto sullo spirito dell'eroe, ci si convincerà facilmente che la loro funzione è esattamente inversa. Qualunque sia il loro valore scientifico reale, è chiaro che si presentano e che sono accettate come altrettante correzioni de,li errori del senso comune (o del linguista dilettante incarnato dal curato di Combray), delle « etimologie popolari » o ingenue, delle interpretazioni spontanee dell'immaginario. Contro tutto questo, questo, e quindi contro il « cratilismo » istintivo del Narratore, convinto dell'esistenza d'un rapporto immediato tra la forma attuale del nome e l'essenza intemporale delle cose, Brichot ristabilisce la deludente verità della filiazione storica, dell'erosione fonetica, insomma della dimensione diacronica della lingua. Non tutte le etimologie sono necessariamente d'ispirazione realista: quelle di Socrate (che d'altronde nonrapporto pretendono scientifica) lo sono perché mirano stabilire attraverso analisiDionysos arbitrarie un tra ild'avere suono nessuna e il sensoverità che non appare abbastanza chiaro nella aforma globale del nome: si scompone in Didous oinon (che dà il vino), Apollon in Aei ballon (che non si può evitare), ecc. Quelle di Brichot, invece, sono quasi sistematicamente antirealiste. Se eccezionalmente Chanteple è proprio la foresta ove canta la gazza, la regina che canta a Chanteretne è una volgarissima rana con buona pace del signor di Cambremer; Loctudy non è il « nome barbaro » che vi vedeva il curato di Combray Combray,, è il latinissimo Locus Tudeni; Fervaches, checché ne pensi la principessa Sherbatoff, è Acquecalde (fervidae aquae); Pontà-Couleuvre non protegge alcuna serpe, significa Ponteapedaggio ( – Pont à qui Vouvre); Charlus ha sí il suo albero a SaintMartín du Chéne (cbén (cbénee = quercia), ma non a SaintMerre des Ifs ( if = tasso) perché il viene da aqua; in Torpehomme, « bomme non significa affatto quello che voi siete naturalmente incline a credere, barone », è kolm, che significa « isolotto »; infine la stessa Balbec non ha nulla di gotico, né di tempestoso, né soprattutto di persiano: deformazione di Dalbec, da dal « vallata », e bee, ruscello; e persino BalbecenTerre non significa Balbec tra le terre, allusione alla sua lontananza di qualche lega dalla spiaggia e dalle tempeste, ma Balbec di terraferma m opposizione alla baronia di Dover, da cui una volta dipendeva: Balbec d'Oltremanica. « Finalmente ora, quando tornerete a Balbec, saprete quello che Balbec significa », dice ironicamente V Verdurin, erdurin, ma la sua ironia non colpisce soltanto colui al quale è rivolta (il pedantee Brichot), poiché di è ben veroloche Marcel ha per molto tempo creduto di sapere significasse Balbec se le rivelazioni Brichot conquistano è perché perc hé finiscono col distrugg distruggere ere leche suecosa antiche credenze e introducono in lui il salubre disincanto della verità. Cosí vedrà svanire il fascino del fiore che non bisogna piú  vedere in Honfleur  fiord, (  « porto »), e la stranezza del bue ( bauf  bauf   ) che non bisogna piú piú cercare in Bricquebcc Bricquebccuf uf (budb = « capanna »); scoprirà cosí che i nomi non sono più individuali dei luoghi che designano, e che alla continuità (o contiguità) degli uni sul « terreno » corrisponde cor risponde la parentela degli altri e la loro organizzazione in paradigma nel sistema della lingua: « Ciò che mi era apparso particolare si generalizzava: Bricquebccuf si congiungeva con Elbeuf, e persino in un nome a prima vista altrettanto individuale quanto la località, come il nome di Pennedepie, ove le bizzarrie piú impossibili da elucidare con la ragione mi sembravano amalgamate da tempo immemorabile in un vocabolo villereccio, villereccio, saporoso e indurito come certo formaggio formag gio normanno, fui desolato al ritrovare il pen gallico che significa “montagna” e si trova tanto in Penmarch quanto negli Appennini ». Come l'esperienza del « mondo visibile », anche l'apprendistato linguistico spoetizza e demistifica: i nomi di paese  vengono « semísvuotati di un mistero che l'etimologia (sostituisce) col ragionamento ragionamento ». [II, p. 1009.]

Il fatto è che dopo questa lezione, le fantasticherie nominali scompaiono definitivamente dal testo della Recberche: Brichot le ha rese propriamente impossibili. Bisogna dunque stare attenti ad attribuire a Proust stesso quell'ottimismo del significante  [È l'espressione con cui J.P. J.P. Richard designa la credenza da parte di Chateaubriand, in un>« espressività espres sività immediata dei segni » (Paysage de Cbateaubriand, p. 162).]

di cui dà prova il suo giovane eroe: la fede f ede nella verità dei nomi è un privilegio ambiguo dell'infanzia, una di

 

quelle «illusioni da distruggere distrug gere » di cui l'eroe dovrà spogliarsi via via per accedere allo stato di disincanto assoluto che precede e prepara la rivelazione finale. Sappiamo da una lettera a Louis de Robert che Proust aveva pensato d'intitolare le tre parti della Reckercbe previste nel 1913: L'età dei nomi, L'età delle parole, L'età delle cose. [A. MAUROIS, A la recherche de Marcel Proust, Hachette, Paris 1949, P. 270]  Qualsiasi interpretazione si dia agli altri due titoli, il primo designa senza s enza ambiguità la passione dei nomi come una tappa transitoria, o meglio come un punto di partenza. L'età dei nomi è quella che il Côté de chez Swann chiama più crudelmente « l'età in cui si crede di creare ciò che si nomina »: [I p. 91]

cosí è detto a proposito della domanda che Bloch fa a Marcel di chiamarlo « caro maestro », e « creare » deve essere preso qui nel senso piú ingenuamente realista: l'illusione del realismo è di credere che ciò che si nomina sia quale lo si nomina.

Una specie di derisione anticipata di questa fallace « magia » dei nomi propri si può forse trovare in Un amour amour de Szvann, nelle facezie di dubbio gusto che si scambiano Charles e Oríane alla serata della marchesa di SainteEuverte a proposito del nome di Cambremer – decisamente uno dei punti vulnerabili dell'onomastica proustiana – giochi di parole e parodie d'etimologia cratilea su cui si consulterebbe volentieri l'illustre Brichot: « “Questi Cambremer hanno un nome stupefacente. st upefacente. Finisce proprio a tempo, ma finisce male!” diss'ella ridendo. “Non inizia meglio”, rispose Swann. “Effettivamente quella doppia abbreviazione!...” abbreviazione!...” “è una persona molto in collera e molto beneducata che non ha osato arrivare ar rivare al termine della prima parola”. “Ma poiché non poteva impedirsi di cominciare la seconda, avrebbe fatto meglio a terminare la prima per finirla una buona volta”». [I, p. 341]

Dell'inconveniente Dell'inconvenie nte che può capitare ad aprire (o a rompere) senza precauzioni quella che nel Contre Sainte-Beuve  [p. 278]

 viene chiamata l'« urna d'inconoscibile d'inconoscibile ». C'è dunque nella Recherche du temps perdu contemporaneamente una testimonianza ricchissima e molto precisa o ecome su quelladiche si propone chiamare la poetica del linguaggio una critica orarealista: esplicita,nella ora credenza implicita,inmaun'identità sempre severa, questa forma didifantasia, doppiamente denunciata illusione del significato (l'« immagine ») e del referente (il paese): è quella che verrebbe battezzata oggi l' illusi illusione one referenziale; nella credenza in una relazione naturale tra il significato e il significante: è quella che si potrebbe propriamente chiamare l'illusione semantica. Questa critica, pur giungendo talvolta a cogliere o ad anticipare certi temi della riflessione linguistica, rimane pur sempre strettamente legata in Proust al movimento e alla prospettiva d'un'esperienza personale, che è l'apprendimento della verità (proustiana) da parte dell'eroe-narratore. Questo tirocinio concerne fra l'altro il valore e la funzione del linguaggio e la successione delle due formule già citate – l'età dei nomi, l'età delle parole – indica abbastanza precisamente in quale direzione esso progredisca. Bisogna inoltre evitare, per quel che concerne la seconda, un controsenso che potrebbe trovare un'appar un'apparente ente giustificazione nell'opposizione già incontrata, tra il Nome (proprio) ( proprio) e la Parola intesa come nome comune (banco di lavoro, uccello, formicaio). Se il titolo pensato nel 1913 per la seconda parte della Recherche si riferisse a quest'opposizione, la sua pertinenza apparirebbe molto dubbia – e possiamo naturalmente immaginare che appunto per questa ragione sia stato abbandonato; ma il problema sarebbe allora di sapere come mai Proust abbia potuto pensarvi tanto a lungo da sottoporlo all'approv all'approvazione azione di Louis de Robert. Sembra perciò piú probabile che qui « parola » non sia usato nel senso di nome comune, che come sappiamo non è oggetto nella Recherche di nessuna esperienza né di nessuna riflessione di una certa importanza. Il solo significato pertinente pert inente che possiamo accordargli si riferisce non piú all'uso in certo qual modo solitario del linguaggio che è quello delle fantasticherie infantili, bensí all'esperienza sociale e interindividuale della parola: non piú al tête-à-tête  affascinante  affascinante della fantasia con le forme verbali prese come oggetti ogg etti poetici, ma al rapporto con l'altro, quale si allaccia nella pratica reale della comunicazione linguistica. La « parola » sarebbe qui, all'incirca nello stesso senso in cui si parla, a proposito di Moliè re o di Balzac, per esempio, di « mots de caract è re » , , la parola rivelatrice, il tratto o l'accidente di linguaggio in cui si manifesta, a volte volontariamente, il piú sovente involontariamente involontariamente e anche all'insaputa di colui che la proferisce, un aspetto della sua personalità o della sua situazione. La scoperta di questa nuova dimensione del linguaggio sarebbe allora una nuova tappa nell'iniziazione dell'eroe dell'eroe,, tappa al contempo negat negativa, iva, in quanto gli rivela il carattere essenzialmente deludente della relazione con l'altro, e positiva in quanto ogni  verità, sia pure la piú «desolante», va accettata accettata come qualcosa di buono: buono: l'esperienza delle « parole » si confonde confonde cosi con l'uscita (dolorosa) dal solipsismo verbale dell'infanzia, con la scoperta della  parola dell'Altro e della propria parola come elemento della relazione d'alterità. L'etàL'importanza delle parole sarebbe dunque realtà formula quella dell'apprendimento della verità e della menzogna umana. attribuita qui ainquesta e l'uso di un'espressione qualeumana «parola– rivelatrice» non debbono lasciar supporre, neppure un istante, che Proust accordi alla parola un potere di verità paragonabile, per esempio, a quello che invece suppone l'esercizio della dialettica platonica o il trasparente dialogo delle anime nella

 

 Nouvelle Héloise. La veridicità del logos non è maggiormente stabilita nell'età delle parole che in quella dei nomi:

questa nuova esperienza è invece una nuova nuova tappa nella critica del linguaggio – ossia nella critica delle illusioni che l'eroe (che l'uomo in generale) può avere nei confronti del linguaggio. linguag gio. Non c'è parola rivelatrice che sulla base d'una parola essenzialmente menzognera, e la verità della parola è oggetto di una conquista che passa necessariamente attraverso l'esperienza della menzogna: la verità della parola è nella menzogna. Bisogna in effetti distinguere la parola rivelatrice dalla parola – ammesso che vi sia – semplicemente veridica. Quando Orgon dice a Cléante che il rapporto con Tartufo distacca il suo cuore da tutti gli affetti e che vedrebbe « morire fratello, figli, madre e moglie » senza preoccuparsene minimamente, non verrebbe verrebbe neppure in mente di giudicare questa dichiarazione « rivelatrice »: Orgon dice semplicemente a qual punto è arrivata la sua infatuazione e la sua parola appare qui soltanto come l'espressione trasparente del suo pensiero. Rivelatore è invece il «E Tartufo? » della scena precedente, in cui la verità si esprime senza che Orgon lo voglia, forse senza che lo sappia, e in una forma che richiede di essere interpretata. La parola dice allora piú di quanto non voglia ed appunto in questo rivela, o, se si preferisce, tradisce. Si vede subito che enunciati di questo genere pongono un problema semiologico che gli enunciati « veridici » (ossia accolti come tali) non pongono affatto: mentre il messaggio veridico è univoco univoco,, il messag messaggio gio rivelatore è ambiguo ed è ricevuto come rivelatore soltanto perché è percepito come ambiguo: quello che dice è distinto dist into da quello che vuole dire e non è detto nello stesso modo. Orgon vuole dire che Tartufo è da compiangere e la maniera in cui lo dice, intempestiva e compulsionale, dice a sua volta che Orgon è « intartufato »; la sua parola denota l'ascetismo (immaginario) di Tartufo e connota la passione (reale) d'Orgon. Nell'enunciato N ell'enunciato riv rivelatore, elatore, l'organo della rivelazione – della verità –è questa connotazione, questo linguaggio indiretto che passa, come nota Proust, non attraverso ciò che dice il parlante ma il suo modo di dire. [I, p. 587]

 Alla fine di Sodoma et Gomorrhe, rammentiamo, è una frase d'Albertine d'Albertine a « rivelare » a Marcel il lesbismo dell'amica informandolo che ella era stata intima della signorina Vinteuil. Tuttavia noi non consideriamo quella frase come un enunciato rivelatore: e infatti non connota niente, non si presta a nessuna interpretazione, e se acquista per Marcel una tale importanza è perché un'esperienza anteriore ed esterna a quell'enunciato gli fa dare un valore inquietante a ciò che enuncia. La frase d'Albertine non è ambigua, ha un solo significato (intimità con la signorina  Vinteuil) e questo significato stesso a sua volta significa significa per Marcel il lesbismo d'Albertine: l'interpretaz l'interpretazione ione non riguarda dunque la parola ma il fatto; non siamo nell'ermeneutica della parola rivelatrice, ma semplicemente in una speculazione, esterna a ogni questione linguistica, sul rapporto necessario tra due fatti. In compenso, nella medesima dichiarazione d'Albertine, una parentesi come questa: « Oh' per niente il genere di donna che potreste credere! » provoca immediatamente il lavoro dell'interpretazione: la premura che mette Albertina nel combattere un'ipotesi che non è stata ancora formulata è evidentemente sospetta e ha un significato opposto a quello che ha la negazione stessa: la connotazione confuta la denotazione, il « modo di dire » dice piú di quello che è detto. Quando Swann arriva la sera dalla signora Verdurin, questa, mostrando le rose che egli le ha inviato il mattino, sussurra rapidamente: «Debbo sgridarvi» e senza dilungarsi oltre in gentilezze gli indica un posto accanto a Odette. [I, p. 218]

Questa antífrasi mondana («Debbo sgridarvi sgridarv i » = « Vi ringrazio »), che ha valore qui soltanto per l'economia l'economia di quella che i Guermantes chiamerebbero la sua « redazione », corrisponde con sufficiente precisione a ciò che la retorica classica chiamava asteismo: « giuoco delicato e ingegnoso mediante il quale si loda o si lusinga sotto l'apparenza del biasimo o del rimprovero » [FONTANIER, Les figures du discours, riedizione Flammarion, Paris]

ovvio che le figure della retorica mondana, come tutte le figure, sono forme dichiarate di menzogna, che si presentano come tali e s'attendono d'essere decifrate secondo un codice riconosciuto dalle due parti. Se Swann rispondesse alla signora Verdurin qualcosa come: « Voi Voi mi sg sgridate ridate quando vi offro dei fiori, non siete certo gentile, non ve ne offrirò piú », dimostrerebbe contemporaneamente la sua mancanza di buone maniere e quella che Proust chiamerebbe la sua ingenuità. Questa come abbiamo visto, è appunto la debolezza di Cottard (prima maniera), che prende tutto alla lettera e, come giustamente deplora la signora s ignora Verdurin, Verdurin, « si rimette a quello che gli si dice ». L'altro carattere « ingenuo » della società proustiana è il gaffeur g affeur Bloch che, quando la duchessa duchessa di Guermantes afferma affer ma « le cose mondane non sono il mio forte », risponde con tutta semplicità, credendo che abbia parlato sinceramente: « Ah! pensavo il contrario », [ II, p. 244. Altro letteralismo di Bloch, p. 222.]

o quando, durante la guerra, SaintLoup, pur « facendosi in quattro » per essere arr arruolato, uolato, pretende di non volere riprendere servizio « semplicemente per paura », lo tratta da « figlio di papà » e da imboscato, incapace com'è di concepire un eroismo « tacito », e anzi dissimulato sotto il discorso della viltà, che è precisamente quello che 2,

 

 vero vigliacco non pronuncerebbe pronuncerebbe mai: sappiamo sappiamo che un punto co comune mune al « milieu Guermantes » e allo « spirito di Combray » è appunto il principio che non si debbono « esprimere sentimenti troppo profondi e che il nostro animo giudica naturalissimi »; [III, P. P. 742. L Charlus a Balbec a ddare are a Marcel, che ha appena affermato affer mato di « adorare » la nonna, questa doppia lezione che varrebbe altrettanto bene per Bloch: «Voi siete ancora giovane, dovreste approfittarne per imparare due cose. Primo: d'astenervi dall'esprimere sentimenti troppo naturali per non essere sottintesi; secondo, di non partire lancia in resta r esta per rispondere alle cose che vi si dicono prima di averne inteso il significato» (I, P P.. 767).  ]]

ma per il letteralismo d'un Bloch o d'un Cottard, quello che non viene detto – a fortiori quello che è negato – non può essere, e inversamente quello che viene detto non può non essere. Entrambi potrebbero sottoscrivere questa frase di Jean Santeuil, enunciato emblematico di ogni ingenuità: « Ho la prova del contrario, lo ha negato lei stessa». [  Jean Santeuil , III, p. 57. ]  Allo stesso modo, allorcbé allorcbé un invitato afferma con Odette di non interessarsi del denaro, denaro, ella dice di lui: « Ma è un'anima adorabile, un essere sensibile, non l'avevo mai sospettato! » mentre la generosità di Swann che disdegna di mettersi in mostra la lascia fredda: « Quello che parlava alla sua fantasia – commenta Proust – non era la pratica, bensí il vocabolario del disinteresse ». [p. 245]

 V  Vediamo ediamo che gli « ingenui » sono piú piú numerosi di quanto si potreb potrebbe be credere. Addirittura, Addirittura, in un impeto di stizza, Proust arriva a includere tutta la società in questa qualifica, dicendo per esempio del signore di Bréauté che « il suo odio per gli snob dipendeva dal suo snobismo, ma faceva credere agli ingenui, ossia a tutti, che ne era esente ». [II, p. 204]

Questa generalizzazione supera però manifestamente il suo pensiero e nel caso preciso di Bréauté per esempio esempio,, il lettore non deve, ingenuo a sua volta, prendere alla lettera le proteste di Oriane (« Snob Snob,, Babal! Ma voi ssiete iete matto, caro mio; è proprio il contrario, detesta le persone del gran g ran mondo... »): basta che attenda l'ultimo ricevimento in casa della principessa per trovare, sempre sulla bocca d'Oriane, questa breve orazione funebre: «Era unoIII,snob». [II, p. 451; p. 1007.]

In realtà la vita sociale è in Proust una vera e propria scuola d'interpretazione e nessuno potrebbe farvi carriera (a meno d'avvenimenti come l'« Affaire » o la Guerra che rovesciano tutte le norme) senza almeno averne imparato i rudimenti. Quella dell'eroe dipende appunto dalla rapidità con cui assimila le lezioni dell'ermeneutica mondana.  Allorché, recatosi dal duca duca di Guermantes per cercare di sapere se l'in l'invito vito che ha ricevuto dalla principessa è autentico, urta contro la ben nota ripugnanza dei Guermantes a rendete questo genere di favori e Basin gli snocciola una serie di ragioni píú o meno contraddittorie per giustificare il suo rifiuto, egli sa capire al tempo stesso che si tratta d'una commedia e che deve comportarsi come se ne fosse rimasto convinto. [II, p. 577]  Si recherà dunque da « Marie-Gilbert » senza saperne di piú, e quando, eliminato ogni pericolo, Oriane gli dirà: « Credete forse che non avrei potuto farvi invitare in casa di mia cugina? » si guarda bene dal crederle e dal rimproverarsi la propria timidezza: « Incominciavo a conoscere l'esatto valore del linguaggio, parlato o muto, dell'amabilità aristocratica... Saper distinguere il carattere fittizio di quell'amabilità ecco ciò che i Guermantes definivano essere ben educati; credere che l'amabilità fosse reale, ecco la cattiva educazione ». Si capisce perché Bloch incarni contemporaneamente, in quel mondo, mondo, l'ingenuità e la grossolanità: sono la medesima cosa. E nell'iniziazione progressiva di Marcel al rituale mondano, può essere considerata come una prova qualificante e addirittura glorificante, la scenetta che si svolge poco tempo dopo a una matinée dalla duchessa di Montmorency: invitato a gran gesti dal duca di Guermantes che offre il braccio alla regina d'Inghilterra, ad avvicinarsi per esserle presentato, Marcel, che comincia a « perfezionarsi nella lingua delle corti », s'inchina senza sorridere e s'allontana. « Avrei potuto scrivere un capolavoro, capolavoro, i Guermantes non me ne avrebbero reso minor onore che di quel saluto ». ». La duchessa se ne complimenterà con la madre del Narratore, dicendo « che sarebbe stato impossibile racchiudervi piú cose »: il fatto è che vi si trovava la sola cosa che importasse mettervi metterv i e la cui importanza si misura dalla cura con la quale si evita di farvi allusione: « Non la smettevano piú di trovare in quel saluto ogni sorta di pregi, pur senza far parola di quello che era apparso loro il piú prezioso, la discrezione, e non la smettevano ugualmente piú di prodigarmi complimenti che io capii non erano tanto una ricompensa per il passato quanto piuttosto un'indicazione per l'avvenire ». [II, pp. 562-3]

 La lezione dell'episodio è evidentemente, come direbbe Cottard se potesse capirla e contemporaneamente formularla in quel linguaggio linguagg io degli stereotipi che ancora non padroneggia bene: « A buon intenditor poche parole! » Controprova: Controprov a: una volta che il ssignore ignore di Cambremer accenna il gesto di cedere il proprio posto a Charlus, questi finge di prendere il gesto come un omaggio omag gio reso al suo rango e pensando giustamente di non potere « affermare meglio il proprio diritto a tale precedenza che declinandola » si profonde in veementi proteste, appoggiando con forza le mani sulle spalle del modesto gentiluomo, che non si era affatto alzato, come per

 

costringerlo a risedersi. « “Mi facevate pensare, — aggiunge, — volendo che io prendessi il vostro posto, a un signore che stamane mi ha inviato una lettera con questo indirizzo: A sua Altezza il barone di Charlus, e che cominciava con: Monsignore”. “Effettivamente chi vi scriveva scriveva esagerava un po'” », rispose il signore di Cambremer abbandonandosi a un'ilarità discreta. Il barone di Charlus che l'aveva provocata non la condivise. « Ma in sostanza mio caro, — disse, — notate che, araldicamente parlando ha ragione lui... ». [II, p. 946]

Non si è mai troppo chiari in provincia. La vita mondana esige dunque, come la diplomazia, un'arte del codice e un'abitudine alla traduzione immediata. Nello stesso modo in cui in un discorso rivolto dallo Zar alla Francia l'uso della parola alleato al posto amico annuncia della aglidetta iniziati nella prossima la Russia invierà uominiilinsuo aiuto parola della Francia, una parola perche un'altra dal duca diguerra Réveillon significa checinque inviteràmilioni o nondiinviterà interlocutore al suo prossimo ballo. Pertanto Pertanto il duca sorveglia il proprio linguaggio linguag gio con la stessa cura di un capo di stato e centellina le cortesie che rivolge alle sue conoscenze delle vacanze, disponendo disponendo di quattro « testi » i cui relativi valori sono d'una chiarezza perfetta per chi « sa vivere », in altre parole sa leggere: « Spero di avere il piacere di rivedervi a Parigi in casa mia / a Parigi (e basta) / di rivedervi (senza specificare meglio) / di rivedervi qui (alle acque) ». Il primo costituisce un invito, l'ultimo è una condanna senz'appello, gli altri due sono lasciati all'interpretazione perspicace o ingenua dell'interessato; ma quest'ultima eventualità ha ancora ancora la sua copertura: « In quanto agli ingenui, anche coloro che lo erano in modo piú grave, si guardavano bene dal rispondere “Ma certo verrò a farvi visita”, perché il volto del duca di Réveillon era eloquente e si poteva in un certo senso leggervi legger vi quel che egli avrebbe risposto nei diversi casi. In quest'ultimo si poteva udire in anticipo il glaciale “troppo gentile”, seguito dalla brusca soppressione della stretta di mano, il che avre avrebbe bbe per sempre distolto il malcapitato dall'idea di dare corso a un proposito cosí insensato ». [Jean Santeuil, III, pp. 40-43]

L'espressione muta del volto serve dunque qui di chiosa o di falsariga a un eventuale Cottard o Cambremer di città termale. Quest'aspetto crittografico della conversazione mondana allorché essa coinvolge certi interessi spiega spieg a perché dei diplomatici professionisti rotti a tali esercizi di trascodificazione vi facciano scintille, anche se sono del tutto stupidi come il marchese di Norpois. La piú bella scena di negoziazione mondana, tutta giocata su un doppio registro, tra due attori di cui ciascuno traduce istantaneamente il discorso cifrato dell'altro, è quella che mette alle prese il sunnominato Norpois e il principe di Faffenheim nel Côté de Guermantes. [II, pp. 257-63]

Si tratta – situazione rivelatrice per eccellenza – d'una candidatura: quella del principe all'Accademia delle scienze morali e politiche. Bisogna però, per intenderla bene, tenere conto dell'atteggiamento di Norpois nel confronti di una prima candidatura, quella del padre di Marcel. L'influenza di Norpois che dispone dei due terzi dei voti, la sua «proverbíale » cortesia, la sua palese simpatia per il postulante non lasciano apparentemente nessun dubbio sulla sua posizione e Marcel, incaricato di «dirgli qualche parola» sulla questione, viene investito da un discorso del tutto inaspettato, dei piú calorosamente scoraggianti, sapiente variazione sul tema obbligato: vostro padre ha di meglio da fare, tutti i miei colleghi sono dei fossili, non bisogna che si presenti, sarebbe un passo falso, se lo facesse spingerei il mio m io affetto per lui fino a rifiutargli il mio voto, attenda dunque che vengano a supplicarlo... conclusione: « io preferisco per vostro padre un'elezione trionfale tra dieci o quindici anni ».

[II, p. 226]

Essendo semplicemente un postulante e non avendo nulla da offrire, Marcel non può evidentemente fare altro che inghiottire questo rifiuto: si tratta qui della candidatura semplice. Piú produttiva (testualmente) è la candidatura negoziabile, in cui il postulante può offrire una contropartita in cambio di quello che sollecita. Bisogna inoltre che questa contropartita corrisponda cor risponda al desiderio, per ipotesi non formulabile, del sollecitato. La storia della candidatura Faffenheim diventa dunque quella di una serie di avances per mettere la mano sulla « chiave buona ». Le prime offerte, menzioni d'encomio o decorazioni russe, russ e, non approdano ad altro che a cortesie senza conseguenza e a risposte quali: « Oh! ne sarei felicissimo! (di vedervi all'Accademia) », che potrebbero ingannare solo « un ingenuo, un dottor Cottard» (sempre campione dell'ingenuità), che si sarebbe detto: «  V  Vediamo ediamo un po'... mi dice che sarebbe sarebbe felice che iioo fossi con lui all'Accademia, le parole parole hanno pur da avere avere un senso, che diamine! » Orbene, contrariamente a ciò che pensa Cottard, le parole non hanno un senso: ne hanno piú d'uno. P, P, quello che d'altronde il principe sa bene quanto il suo interlocutore, « formato for mato alla medesima scuola ». L'uno e l'altro sanno benissimo che cosa può contenere una « parola ufficiale apparentemente apparentemente insignificante », e che il destino del mondo sarà annunziato non dall'apparizione delle parole guerra o pace, ma « da tutt'altra parola, banale in Ora, apparenza, terribile o benedetta, diplomatico,, all'Accademia diplomatico con l'aiuto del ilssuo uo cifrario, sapràusato immediatamente leggere... in un affare privato come lache sua ilpresentazione principe aveva lo stesso sistema d'induzione che gli era servito in tutta la sua carriera, lo stesso metodo di leggere certe espressioni simboliche ». Egli fa ottenere a Norpois il cordone di sant'Andrea che gli vale soltanto un discorso simile a quello

 

che abbiamo già riassunto prima. Un lungo articolo lusinghiero sulla « Revue des Deux Mondes »: l'ambasciatore risponde che non sa « come esprimere la sua gratitudine ». Leggendo Leg gendo in queste parole, come in un libro aperto, il suo nuovo scacco e attinendo nel sentimento dell'urgenza un'ispirazione salvatrice, Faffenheim risponde in apparenza come avrebbe fatto Cottard: « Io avrò la sfacciataggine di prendervi in parola ». Ma questo stesso « prendere in parola » non è qui, come invece sarebbe in Cottard, da prendere alla lettera. R ancora un asteismo, poiché la « domanda » che fa il principe è in realtà un'offerta — e questa volta, come lascia prevedere la sua presentazione antifrastica, segno di certezza e anticipazione di successo, successo, quest'offerta è la buona: si tratta d'ottenere dalla signora di Villeparisis (alla quale, come sappiamo, Norpois è legato da antica e quasi coniugale amicizia) che ella voglia acconsentire a venire a cena con la regina d'IInghilterra. nghilterra. L'esito è ora talmente sicuro che ilbisogna principe può fingere di ritirare laiosua candidatura: sarà l'ambasciatore a trattenerlo: « MaLeroy-Beaulieu, soprattutto nonecc. ». rinunciare all'Accademia: debbo far colazione proprio tra quindici giorni con In modo piú sbrigativo, che però ha il merito di far risaltare il carattere duplice del discorso mondano — una scena di Jean Santeuil  [III, pp. 9-14]

ci presenta le frasi pronunciate in un salotto seguite dalla loro « traduzione ». Jean era stato invitato come quattordicesimo dalla signora Marmet e la padrona di casa crede di dovere giustificare agli occhi degli altri invitati questa presenza mondanamente poco gloriosa: di qui tutta una serie di frasi come: « vostro padre non si sarà dispiaciuto di vedervi portar via cosí proprio al momento di andare a tavola? » (Traduzione: « Capite bene, voi tutti, era perché non si fosse in tredici, è stata una cosa fatta all'ultimo momento, ecc. »); « Su, Julien, hai presentato il tuo amico ai signori? » (Traduzione: « Non dovete credere che sia una mia conoscenza, è un compagno di scuola di mio figlio »); « Vostro padre è tanto gentile da raccomandare il mio julien ogni volta che si presenta a un esame agli Affari Esteri » (Traduzione: « Non è poi tanto stupido invitarlo visto che è utile a jullen »). Stesso modo di fare alla fine della serata: la signora Sheffler: « Com'è bella la principessa! Mi è molto simpatica perché dicono che sia intelligentissima, ma io non la conosco sebbene abbiamo le medesime amiche » (Traduzione: « Su, presentatemi »). — La signora Marmet: « Oh! è deliziosa. Ma non prendete una tazza di tè , non volete nulla, mia cara? » C'è bisogno di tradurre? Formato all'arte della traduzione da enunciati di questo genere, la cui duplicità è quasi dichiarata e che è pressocché indispensabile, per l'esercizio della vita mondana sapere interpretare correttamente, l'eroe proustiano è dunque pronto [Questa parola non deve tuttavia far pensare a una vera successione cronologica: le due forme d'iniziazione, nella Recbercbe, sono in realtà simultanee.]

ad affrontare forme d'enunciato piú vicine a quella che abbiamo chiamata la parola rivelatrice, e il cui vero significato può essere attinto solo malgrado — e generalmente all'insaputa di — colui che le proferisce. Il linguaggio, nel mondo della Recherehe, è uno dei grandi rivelatori dello snobismo, ossia al tempo stesso della gerarchizzazione della società in caste sociali e intellettuali e dell'ininterrotto movimento d'imprestiti e di scambi che non cessa d'alterare e di modificare la struttura di questa gerarchia. La circolazione dei modi d'espressione, delle particolarità e dei tic di linguaggio linguag gio caratterizza questa vita sociale almeno quanto quella dei nomi e dei titoli nobiliari, e sicuramente assai piú di quella dei beni e delle fortune. La stabilità stilistica è altrettanto eccezionale della stabilità sociale o psicologica e, nello stesso modo, sembra essere privilegio un po' miracoloso della famiglia del Narratore, e particolarmente della madre e della nonna, chiuse nel rifugio inviolabi inviolabile le del buon gusto classico e del parlare Sévigné. Un altro miracolo, miracolo, ma questo piú d'equilibrio che di purezza, protegge lo stile d'Oriane, sottile sintesi d'un'eredità provinciale, quasi contadina, e d'un dandismo ultraparigino ch'ella condivide con l'amico Swarin (e che l'insieme della coterie Guermantes cerca maldestramente d'imitare), fatto di litoti, d'una certa affettazione di leggerezza e di disdegno per i soggetti sog getti « seri », d'un modo distaccato di pronunciate sempre come in corsivo o tra virgolette le locuzioni giudicate pretenziose o saccenti. Norpois e Brichot resteranno sino alla fine fedeli ai loro stili, solenne collezione di clíchés per il diplomatico, diplomatico, miscuglio di pedanteria e di familiarità demagogica per il professore della Sorbona (« spiritosaggini da professore di scuola s cuola media in vena coi primi della classe il giorno di san Carlomagno, [III, p. 711]

ma questi due linguaggi finiranno per congiungersi, nei loro articoli di guerra, in un medesimo parossismo di retorica officiosa, al punto che gli editori arrivano [III, p. 1248]

a supporre una confusione di persona. L'invecc L'invecchiamento hiamento di Charlus è caratterizzato, all'inizio della Prisonnière, da una brusca femminilizzazione del tono e delle forme, fino allora imbrigliati in una retorica possente e dal « largo spazio preso nel suo linguaggio da certi modi di dire, i quali avevano proliferato e adesso ricorrevano di continuo come per esempio 1a concatenazione delle circostanze'',e in cui la parola del barone cercava, di frase in frase, un appoggio, come in un tutore necessario »: [III, p. 212]

invasione dello stile da parte dello stereotipo che spinge Charlus dalla parte di Norpois (ricordiamoci che

 

all'epoca del Contre Sainte-Beuve i due personaggi erano ancora confusi), o del fratello Basin, la cui goffaggine  verbale trova trova conforto a intervalli regolari in locuzioni pleonastiche pleonastiche quali «Che volete cche he vi dica? ». [II, P. P. 530. Proust aggiunge: «Era per lui, fra l'altro, come una clausola metrica », il che fa stranamente pensare al «Debbo proprio dirlo?» d irlo?» di Michelet ove egli  vede «non una preoccupazione di studioso, ma una cadenza di musicista» musicista» (III, p. 161 161).). ]

Persino l'eleganza di Swann non resiste al continuo contatto di piccoloborghesi pretenziosi che il matrimonio con Odette gli impone. Gli succederà di dire di un capo di gabinetto ministeriale: « Sembra che sia una cima, un uomo di prim'ordine, una persona veramente eccezionale. È ufficiale della Legion d'Onore», frasi ridicole sulla bocca di un intimo dei Guermantes, G uermantes, pilastro dello jockey Club, ma inevitabili su quella del marito d'Odette. [p. 513; «Una volta Swarin non parlava cosí », commenta Marcel.]

Nessuno, o quasi, si salva quindi da questo movimento del linguaggio sociale, e l'adozione di certe forme for me particolari può essere il segno infallibile d'una degradazione o d'una promozione, o anche d'una pretesa che il piú delle volte non fa che precorrere la prossima tappa d'una carriera mondana. Promozione intanto nella gerarchia del livello d'età: abbiamo visto quale conclusione Marcel poteva ricavare dall'apparizione di certe parole nel  vocabolario d'Albertine, d'Albertine, ma già a Balbec egli avev avevaa osservato che le fanciulle della piccola piccola borghesia acquisiscono in momenti ben precisi il diritto di usare certe locuzioni che i genitori tengono in serbo e come in usufrutto per loro: Andrée è ancora troppo giovane per potere dire di un certo pittore: « Pare che l'uomo sia affascinante »; questo verrà « insieme col permesso d'andare al PalaisRo PalaisRoyal yal »; per la prima comunione Albertine aveva ricevuto in regalo l'autorizzazione di dire: « Tro Troverei verei questo abbastanza terribile ». [pp. 909-10]

Promozione sociale, soprattutto. Marcel scopre nel salotto di Swann la raffinatezza e la voluttà di pronunziare « Coome staate? » strascicando la a e la o, e odioso con la o aperta, e s'affretta a impadronirsi di questi preziosi pegni d'eleganza. Sappiamo di quale collezione d'anghcismi sia infiorata, sin dai primi passi, la paziente carriera d'Odette; divenuta signora Swann, attingerà dal milieu Guermantes, tramite il marito, parole ed espressioni che ripeterà anche lei fino all'ebbrezza, poiché « le espressioni che abbiamo preso da poco a prestito dagli altri sono quelle che, almeno per un certo lasso di tempo, piú ci piace adoperare ». [I, pp. 504, 511, 510.]

 Il privilegio di potere chiamare « Grígrí », « Babal », « Mémé », « La Pomme » personaggi augusti come il principe d'Agrigento, il signor di Bréauté (Hannibal), il signor di Charlus (Palamède) o la signora di la Pommeraye è un segno esteriore d'aristocrazia che nessuna esordiente rinuncerebbe a esibire, e rammentiamo che la signorina Legrandín aveva sposato un Cambremer per potere dire un giorno se non, come altre giovani maritate di píú alto lignaggio, « mia zia d'Uzai » (Uzès) o « mio tzio di Rouan » (Rohan), almeno, almeno, secondo l'uso di Féterne, « mio cugino di Ch'nouville »: insomma il prestigio, alla fin fine fine modesto, del matrimonio matrimonio riceveva lustro dall'esclusività della pronunzia. [II, p. 819]

E siccome l'aristocrazia è una « cosa relativa » e lo snobismo un atteggiamento universale (la conversazione della « marchesa » nel piccolo padiglione dei Champs-Elysées è « del piú puro Guermantes Guerm antes e piccolo clan Verdurin » ) [II, p. 312]

 vediamo il liftier del Grand Hôtel adoperarsi da proletario moderno, moderno, a « cancellare dal suo idioma la traccia del regime della domesticità » sostituendo accuratamente livrea con « tunica » e salario con « trattamento », designando il portiere o il cocchiere come suoi « capi », per dissimulare sotto questa gerarchia tra « colleghi » la  vecchia e umiliante opposizione opposizione tra padroni e servitori che la sua funzione reale perpetua suo malgrado: cosi FranÇoise diventa nel suo discorso « la signora che è appena uscita » e l'autista « il signore con cui siete uscito », designazione inaspettata che rivela a Marcel « come un operaio sia s ia un signore non meno d'un uomo di società. Lezione di parole soltanto – precisa Proust – perché quanto alla cosa in sé io non avevo mai fatto alcuna distinzione tra le classi ». Distinguo in verità molto contestabile, smentita piú che sospetta per chi rammenta d'avere trovato nel discorso dello stesso Marcel un'asserzione di questo tenore: « l'appellativo d'impiegato è , come portare i baffi per i camerierí dei caffè , una soddisfazione d'amor proprio data ai domestici ». [I, p. 799; II, pp. 855, 790; I, p. 800; II, p. 1026; I, p. 800. II, p. 236.] Quando le «parole » sono cariche di connotazioni così grevi, la lezione di parole è anche una lezione di cose. Ma l'ambizione mondana, il prestigio delle classi superiori non sono la sola strada attraverso cui lo snobismo agisce sul linguaggio. Lo stesso Proust cita come una « legge del linguaggio » il fatto che ci si esprima « come le persone della propria casta mentale e non della propria casta d'origine »: [I, p. 763]

nuova spiegazione dei volgarísmi del duca di Guermantes e simbolo stesso del « gergo da cenacolo » che SaintLoup apprende da Rachel e attraverso cui il giovane aristocratico blas è s'integra spiritualmente a una nuova casta – casta socialmente inferiore alla sua, e la cui superiorità intellettuale su uno Swann o uno Charlus è lungi dall'essere ma che riveste ai suoi ode occhisuo tutto fascino dell'esotismo e la cui imitazione provare un fremitocerta, d'iníziazione. Cosí quando zio ilaffermare che c'è piú verità in una tragediaglidifaRacine checome in tutti i drammi di Victor Huao, s'affretta a sussurrare all'orecchio di Marcel: « “Preferire Racm«e a Victor è comunque un'enormità! ” Era – aggiunge aggiung e il narratore – sinceramente rattristato dalle parole dello zio, ma il

 

piacere di dire “comunque” e soprattutto “enormità” lo consolava ». [I, p. 763]

Una « legge legg e del linguaggio » che Proust invece di en enunciare, unciare, illustra in molti modi, sembra essere che ogni linguaggio fortemente caratterizzato nel lessico, nella sintassi, nella fraseologia, nella pronunzia o altrove, cche he si tratti di uno stile d'autore (vedi l'influenza dello stile di Bergotte), d'un gergo intellettuale, d'un parlare di gruppo, d'un dialetto, esercita su coloro che lo incontrano, oralmente o per iscritto, un fascino e un'attrazione proporzionali, non tanto al prestigio sociale o intellettuale di chi lo parla o lo scrive, quanto all'ampiezza del suo « scarto » e alla coerenza del suo sistema. Nella caserma caser ma di Doncières, il giovane laureato in lettere si adopera pedantemente a imitare le costruzioni dialettali e la sintassi popolare dei suoi compagni analfabeti (« Su, vecchio, tu vuoi farmene bere un litro »,solo « Ecco qua unofiero chedinon è certo uno sfortunato « sciorinando le nuove forme linguistiche che aveva apprese di recente, poterle introdurre nel suo »), discorso ». [II, p. 94]

 Nello stesso modo, durante la guerra, e senza che il patriottismo c'entri molto, tutta una società, dalla duchessa al maltre d'hotel, si esercita a parlare il linguaggio del giorno: G. O. G. (Gran Quartier Generale), poilus, censurare, silurare, imboscato, con un piacere uguale e identico a quello che procuravano qualche qualche anno prima l'uso del Babal e del Mémé; ed è forse piú per contagio verbale che per desiderio di darsi importanza che la signora Verdurin dice «Noi esigiamo dal re di Grecia, noi gli invieremo, ecc. », e Odette « No, non credo che prenderanno Varsavia Varsavia » o « Quello che non vorrei sarebbe una pace zoppicante zoppicante »: la sua ammirazione per i « nostri fedeli alleati » non è d'altronde l'esaltazione della sua vecchia analomania linguistica, e non proietta questa su SaintLoup quando annuncia con malaugurata fierezza che che suo genero « conosce ormai il gergo di quei bravi tommies »? . [ III, pp. 729,733,788,78 729,733,788,789] 9]

Per tutti infatti, salvo probabilmente per quelli che la « fanno », non come la « fa » Clémenceau, ma subendola — la guerra, come tante altre situazioni storiche, è prima di tutto un « gergo g ergo ».  Apparentemente queste forme elementari della commedia commedia sociale non comportano nessuna ambigui ambiguità tà e non presentano nessuna difficoltà semiologica giacché un tratto linguistico si trova apertamente proposto come connotatore d'una qualità cui è legato per una semiosi del tutto trasparente: anglicismo = « distinzione », uso del diminutivo = « familiarità con l'ambiente aristocratico », ecc. Bisogna tuttavia osservare che l'apparente semplicità del rapporto di significazione nasconde due tipi assai diversi di relazione secondo l'atteggiamento adottato dal destinatario del messaggio. messag gio. La prima, che può essere qualificata, nel vocabolario proustiano, di « ingenua » e che è evidentemente quella che desidera l'emittente e che è postulata dal suo discorso, consiste nel! 'interpretare il connotatore come un indice, nel senso corrente del termine, ossia come un effetto significante sig nificante della sua causa: « Questa giovane signora dice “Grigrí” perché conosce intimamente il principe d'Agrigento ». L'altro atteggiamento consiste invece nel ricevere il connotatore come un'indicazione intenzionale e quindi nel leggere legg ere un rapporto di finalità in quello che era presentato come un rapporto di causalità: « Questa giovane signora dice “Grigri” per mostrare che essa è amica intima del principe d'Agrigento ». Ma si vede immediatamente che questa modifica del rapporto semiotico comporta una modifica anche del significato stesso: infatti, se il connotatore ricevuto come indice significa proprio ciò che esso ha il compito di significare, questo medesimo connotatore ridotto allo stato d'indicazione può significare soltanto l'i ntenzione significante, e quindi l'esibizione dell'attributo connotato. Ora, nel sistema dei valori proustiani, un attributo esibito è inevitabilmente svalutato (per esempio, la « distinzione » ostentata diventa affettazione) e, quel che piú piú conta, quasi inevitabilmente contestato in virtú della leg legge ge che non si prova mai il bisogno d'esibire quello che si possiede e il cui possesso vi diventa, per definizione, indifferente: cosí Swann, tanto desideroso quando amava Odette, Odette, di mostrarle la sua indifferenza il giorno in cui si fosse staccato da lei, si guarda bene dal farlo quando ne è divenuto capace; al contrario le dissimula accuratamente le sue infedeltà; con l'amore, dice Proust, ha perduto anche il desiderio di mostrare che non prova piú amore; dal punto di vista che ci interessa qui, diremo piuttosto che acquistando quel vantaggio che è l'indifferenza ha perduto il desiderio di manifestarlo. [I, p. 525; medesima osservazione a proposito di Marcel distaccato da Gilberte. II, p. 713]

Quando Charlus, al momento della sua comparsa a Balbec, vuole darsi un « contegno » per stornare i sospetti di Marcel che ha sorpreso il suo sguardo insistente, tira fuori l'orologio, l'orologio, guarda in lontananza, fa « il gesto di malumore con cui si crede di far vedere che si è stufi d'aspettare, ma che non si la mai quando si aspetta realmente real mente ». [I, P. P. 752, il corsivo è nostro. Qualche riga sotto: «Sbuffò rumorosamente come fanno le persone che hanno non già g ià troppo caldo ma il desiderio di mostrare che hanno troppo caldo».]

Questa incompatibilità tra l'essere e il sembrare annuncia dunque fatalmente lo scacco del significante, sia verbale sia gestuale. Marcel, sicuro di essere finalmente presentato da Elstir alla « piccola brigata » delle fanciulle, si prepara a ostentare « quella specie di sguardo interrogatore che rivela non la sorpresa bensí il desiderio d'apparire sorpreso  – tanto ciascuno – aggiunge – è un cattivo attore, o il prossimo un buon fisionomista ». [ I, p. 855, il corsivo è nostro. Da notare che Jean Santeuil (III, p. 30) diceva esattamente l'opposto: « 1 nostri interlocutori concedono a quanto stiamo dicendo un'attenzione cosí distratta o cosí indifferente che possiamo essere credutí distratti quando invece siamo attentissimi, mentre invece i moti del della la fisionomia le gaffes, gli equivoci che crediamo debbano saltare agli occhi passano fisionomia, sempre inosservati». Sarebbe assoluta mente vano tentare di ridurre questa contraddizione contradd izione con qualche differenza di contesto o «evoluzione» del ppensiero ensiero di Proust: le due «verità» coesistono senza conoscersi, voltandosi la schiena.]

 

Cosi il messaggio esibitore è immediatamente decifrato come messaggio simulatore, e la proposizione «Dice “Grigri ” per mostrare che... » trasformata in « Dice “Grigrí ” per fare credere creder e che... »: in tal modo l'indice ridotto  viene quasi infallibilmente a indicare il contrario di quello che che avrebbe do dovuto vuto indicare e il rapporto di causalità si inverte in extremis a detrimento dell'intenzione significante: dice « Grigri » perché non conosce il principe d'Agrigento, Charlus non aspetta nessuno perché guarda l'orologio, Marcel appare sorpreso, dunque non lo è . Il fallimento della significazione « menzognera » è cosí sancita non dalla semplice assenza del significato che ci si prefigge, ma dalla produzione del significato contrario, che si trova appunto ad essere la « verità »: in questa astuzia della significazione consiste appunto il linguaggio rivelatore, che è per essenza un linguaggio indiretto, linguaggio che « palesa » ciò che non dice e proprio perché non lo dice. «La verità – dice Proust – non ha bisogno d'essere detta per essere manifestata »; [II, p. 66.]

 ma non è probabilmente forzare il suo discorso tradurre: la verità può essere manifestata soltanto quando non è detta. Alla nota massima secondo cui il linguaggio linguag gio è stato dato all'uomo per dissimulare il suo pensiero, bisognerà dunque aggiungere: ma dissimulandolo lo rivela. Falsum index sui, et veri. Proust sembra accordate un'attenzione tutta particolare – e ne vedremo piú avanti la ragione – alle occasioni in cui la parola (dis)simulatrice è smentita dall'espressione mimica o gestuale. Ecco tre esempi chiarissimi di cui la coppia Guermantes farà ancora le spese. Oriane: « A quella notizia la fisionomia della duchessa spirò soddisfazione e le sue parole fastidio: “Oh! Dio, ancora dei principi” ». Basin: « “Mi pasticcio sempre coi nomi, che è una cosa davvero spiacevole” disse con aria di soddisfazione s oddisfazione ». Basin ancora: « “Io che non ho l'onore di far parte del ministero dell'Istruzione pubblica”, rispose il duca con finta umiltà, ma con una vanità cosi intensa che la sua bocca non poteva impedirsi di sorridere e i suoi occhi di gettare sugli astanti sguardi scintillanti di gioia ». [II, pp. 586, 231, 237]

possono La finta è evidentemente ogni volta nel discorso verbale e sono l'aria, la fisionomia, la bocca, gli occhi che non possono impedirsi d'esprimere il sentimento  profondo. È certo possibile che l'inconsapevolezza o la volontà di dissimulazione non siano particolarmente marcati qui in Basin, che non (si) fa davvero mistero del disprezzo in cui tiene gli altri in generale e i funzionari dell'Istruzione pubblica in particolare; e quindi che non potere impedirsi significhi qui non  potersi privare del piacere di manifestarlo. Secondo questa ipotesi noi saremmo ancora, con questi due ultimi esempi, nell'universo della retorica aperta – salvo che si tratterebbe non piú d'una retorica della cortesia bensí dell'insolenza, della quale non bisogna sottovalutare l'importanza nell'ambiente Guermantes. Questa interpretazione non si applica però al caso della duchessa, che non può in alcun modo desiderare e neppure sopportare che si sappia (ammettendo che ella lo confessi a se stessa) a qual punto la compagnia dei principi le sia gradita. Ancor meno pensabile che lo snobismo artistico della signora di Cambremer voglia confessare la propria ignoranza di Pelléas che ha appena definito un capolavoro, capolavoro, quando a un'allusione piú precisa di Marcel risponde « Credo bene che so »; ma « non so affatto » proclamavano invece «la sua voce e il suo volto che non si modellavano ad alcun ricordo, ricordo, e il ssuo uo sorriso privo d'appoggio, sospeso nell'aria ». [II, p. 822]

 Ritroviamo qui elementi di mimica (volto, incontrati in Basin e in verbale Oriane, di macui bisogna notate l'apparizione d'unglialtro elemento rivelatore chesorriso) è la voce,giàseparata dall'espressione è tuttavia lo strumento – ma uno strumento str umento ribelle e infedele. In effetti è come se in Proust il corpo, e tutte le manifestazioni direttamente legate all'esistenza corporale: gesti, mimica, sguardo, emissione vocale, sfuggissero piú facilmente al controllo della coscienza e della volontà e tradissero per primi, mentre il discorso verbale re« sta ancora soggetto allo spirito del parlante. Marcel parla dei segni « scritti come con l'inchiostro invisibile », nella fisionomia e nei gesti d'Albertine e, autoaccusandosi in un altro punto, ammette che gli era spesso capitato di dire « parole in cui non c'era un briciolo di verità, mentre la manifestavo con tante confidenze involontarie del mio corpo e dei miei gesti, confidenze che venivano interpretate perfettamente da Françoise »: [III, p. 424; II, p. 66.]

c'è dunque piú saggezza che ingenuità nel modo in cui Françoise (cosí come « controlla » 'guardando il giornale, che non sa leggere, le informazioni infor mazioni che le dà il maggiordomo) guarda il volto di Marcel per sincerarsi che non menta « quasi avesse potuto vedere se ci fosse scritto davvero »; [III, p. 467. Françoise è d'altronde capacissima, e questa volta volontariamente, d'esprimersí nel linguaggio del silenzio; condannata com'è dalla tirannia dei padroni a parlare « come Tiresia», per figure ed enigmi, «sapeva racchiudere tutto ciò che non le sarebbe stato permesso d'esprimere direttamente, in una che359).] noi non avremmo potuto incriminare senza accusare noi stessi: in meno ancora d'una frase, in un silenzio, nel modo con cui poggiava pog giava un oggetto »frase (Il, P.

 c'è scritto davvero ed ella legge perfettamente quell'« inchiostro invisibile ». Da questa autonomia del corpo deriva che l'espressione gestuale sia piú difficile da padroneggiare del

 

linguaggio verbale: Odette per esempio, sa mentire benissimo a parole, ma non è capace di reprimere, forse perché neppure se ne avvede, l'aria di disperazione che ogni volta le si dipinge diping e in viso. E siccome la bugia è diventata in lei una seconda natura, non solo non si accorge della mimica che la tradisce, ma neppure della bugia stessa: soltanto il suo corpo, in lei, sa ancora separare il vero dal falso, o piuttosto, aderendo fisicamente e come sostanzialmente alla verità, non può dire che la verità. Nulla è dunque piú imprudente che volere mentire a gesti: l'abbiamo visto con Charlus e Marcel a Balbec, nessuno è abbastanza buon attore per farlo. Allorché Swarin l'interroga sui suoi rapporti con la signora Verdurin, Verdurin, Odette pensa di poter negare questi rapporti con un solo gesto: ahimè quel segno (scuotere il capo increspando le labbra) ch'ella crede di produrre volontariamente è invece stato scelto dal suo corpo, con la chiaroveggenza infallibile dell'automa, nell'inventario non delle negazioni ma dei aver rifiuti,mai come se sinulla fosse» con ttrovato rovato a rispondere nontutto a unaquello domanda ma a auna proposta. Volendo Volendocorpo dimostrare di non « fatto la signora Verdurin, che riesce ottenere dal proprio è la mimica con la quale le è probabilmente capitato a volte, e piú per « convenienz convenienzaa personale » che per « impossibilità morale » , di respingere le sue avances. Una smentita che ha quindi il valore d'una semiconfessione: « Vedendo Odette fargli segno in quel modo che era falso, Swann capí che forse era vero ». [I, p. 362]

Le parole che sottolineiamo hanno qui il loro pieno significato: è il modo in cui Odette nega il fatto che ne ammette la possibilità ed è ovvio che basta questa possibilità (ossia la certezza del lesbismo d'Odette) a far disperare Swann. In una circostanza meno grave, vediamo la principessa di Parma, migliore attrice della signora di Cambremer, imporre alla sua fisionomia la mimica appropriata allorché le viene nominato un quadro di Gustave Moreau del quale ignora persino il nome, scuotendo la testa e sorridendo con tutto l'ardore della sua fittizia ammirazione; ma l'atonia dello sguardo, ultimo rifugio della verità bandita, basta a smentire tutta questa gesticolazione facciale: « l'intensità della sua mimica non riuscí a surrogare surrog are quella luce che resta assente dai nostri occhi finché non sappiamo quello di cui ci si parla ». [II, p. 520]

Queste situazioni apparentemente marginali in cui il discorso si vede confutato dall'esterno dall'atteggiamento di colui che lo proferisce, hanno in realtà in Proust un valore esemplare perché in certo qual modo proprio sul loro modello si elabora, almeno idealmente, la tecnica di lettura che permetterà al Narratore di reperire e interpretare i tratti, non piú esterni questa volta, ma interni al linguaggio, attraverso cui il discorso si tradisce e g si confuta da solo. Tali avvenimenti linguistici (un giro di frase inconsueto inconsueto,, una parola per un'altra, un accento inatteso, una ripetizione apparentemente superflua, ecc.) hanno « significato solo a un secondo livello », e non lo rivelano Che alla condizione, condizione, dice Proust, « d'essere interpretati alla stregua d'un improvviso rossore sul viso d'una persona colta da turbamento oppure d'un improvviso silenzio » [I p. 929; III, p. 88.]

ossia come un accidente fisico esterno alla parola. Questa interpretazione del linguaggio verbale considerato come non verbale ha un certo rapporto – e per questo l'abbiamo qualificata come lettura – con la decifrazione d'una scrittura ideografica o, piú esattamente, in mezzo a un testo in scrittura fonetica, e per il lettore abituato al tipo di lettura che esso richiede, d'un carattere improvvisamente aberrante, incapace di funzionare nello stesso modo di quelli che lo circondano e tale da rivelare il suo senso soltanto alla condizione d'essere letto non piú come fonogramma ma come ideogramma o pittogramma, pittog ramma, non piú come segno d'un suono ma come segno d'un'idea o immagine d'una cosa. [Per esempio molto comunemente in enunciati quali: «Dritto come un'i», che, anche in una comunicazione orale, implicano il passaggio attraverso la scrittura.]

Davanti a tali enunciati l'uditore si trova evidentemente in una situazione s ituazione simmetrica a quella del lett lettore ore di rebus, che deve prendere l'immagine d'un oggetto come equivalente di una sillaba, oppure anche dell'ipotetico primo uomo che avrebbe dovuto dovuto utilizzare un ideogramma per scopi puramente fonetici. Cosí Marcel paragona il suo tirocinio ermeneutico a un movimento « inverso a quello dei popoli che si servono della scrittura fonetica soltanto dopo avere considerato i caratteri come un sistema di simboli ». Cosí la parola diventa scrittura e il discorso verbale, abbandonando la sua linearità univoca, un testo non soltanto polisemico ma, se si può usare il termine in questo senso, poligrafico, ossia un testo che combina diversi sistemi di scrittura: fonetica, ideografica, talvolta anagrammatica: « Talvolta la scrittura nella quale decifravo le bugie d'Albertine, pur non essendo ideografica, esigeva soltanto d'essere letta a rovescio »; in questo modo una frase come « Non ho voglia d'andare domani dai Verdurin Verdurin » viene capita come « puerile anagramma di questa confessione: andrò domani dai Verdurin, è certissimo, è una cosa d'estrema importanza »; [III, pp. 88, gi. Cfr. I, p. 860, II, pP. pP. 1023: « i segni inversi in virtú dei quali esprimiamo i nostri sentimenti col loro contrario».]

 l'estrema importanza è appunto connotata dalla negazione, cosí come un messaggio scritto alla rovescia dimostra, già per questo solo sforzo, sia pure elementare, di crittografia, che non è del tutto innocente. Un primo tipo di questi accidenti di linguaggio da interpretare come segni in un certo senso extralinguis extralinguistici, tici,  va individuato in quella quella che potremmo chi chiamare amare l'allusione involontaria. Com'è noto l'allusione, che è una figura debitamente inventariata dalla retorica, e che Fontanier mette tra le figure d'espressione (tropi composti di piú parole) per riflessione, in cui cioè le idee enunciate ricordano indirettamente altre idee non enunciate – è una delle

 

prime forme di linguaggio linguag gio indiretto incontrate da Marcel giacché anima, fin dai tempi di Combray Combray,, il discorso delle due prozíe Céline e Flora («Non c'è soltanto Vinteuil che abbia dei vicini cortesi » = « Grazie di averci inviato una cassa d'Asti spumante »). [I, p. 25]

 Fontanier definisce l'allusione una figura che che consiste nel « fare sentire il rapporto tra una luogo che si dice e un'altra che non si dice ». [Les figures du discours, p. 125]

Il luogo di questo rapporto può benissimo ridursi a una sola parola (nel qual caso l'allusione rientra nella categoria dei tropi propriamente detti), come nell'esempio citato da Dumarsais, [Les tropes, Slatkine Reprints, Ginevra 1967, P. 189]

 in cui una signora piú spiritosa che gentile ricorda a Voiture la sua origine popolare popolare (era figlio di un mercante di  vino) dicendogli durante un gioco di proverbi proverbi:: « Questo non vale niente, spillatecene un altro ». Come si vede subito, se questa allusione fosse cagionata da disattenzione rientrerebbe in quella che che il linguaggio sociale chiama la « gaffe »: l'allusione involontaria quando può avere un significato offensivo offensivo è una forma di ga gaffe. ffe. Esempi semplici: il signor Verdurin, volendo dimostrare a Charlus che lo considera tra l'élite intellettuale, gli dichiara: « Fin dalle prime parole che abbiamo scambiate, ho capito che voi siete di quelli » , , o quando sua moglie seccata dalla volubilità del medesimo Charlus, esclama, mostrandolo a dito: « Ah, che bertarella! ». [II, p. 941; III, p. 278]

Esempi che hanno però un valore piuttosto limitato, perché dipendono soltanto dall'ignoranza e dalle coincidenze. E d'altra parte i Verdurin non si accorgono affatto dell'effetto prodotto dalle loro parole sul barone. Piú grave è la situazione del signore di Guermantes quando, volendo soltanto ricordare al fratello la sua precoce passione per i viaggi, gli g li dice in pubblico: « Oh, sei sempre stato un tipo speciale tu, si può dire che in nessuna cosa hai mai avuto i gusti degli altri », enunciato in cui la vicinanza delle parole « gusti » e « speciale », ancor piú dell'affermazione d'un'originalità innata, ricorda pericolosamente i « gusti g usti speciali » di Charlus. [Il quale ricostruisce subito il sintagma latente (II, p. 718).]

 Piú grave, ali prima di tuttoa perché conoscendo «offensiva: se non le cosí abitudini, fratello può temere che questi attribuisca torto un'intenzione gli salealmeno subito la al nomea viso unadelvampa di »,rossore ancora píú accusatrice delle due disgraziate parole; ma soprattutto perché, nel suo caso, l'allusione rischia fortemente di non essere né volontaria (come teme che essa appaia), né veramente casuale (come quelle dei Verdurin), ma proprio,, nel senso piú forte, involontaria, ossia determinata dalla spinta d'un pensiero represso, compresso, e proprio diventato appunto per questa ragione esplosivo. esplosivo. Si tratta del noto meccanismo della gaffe per prevenzione prevenzione,, di cui parla lo stesso Proust in un passo di  Jean Santeuil, nel quale l'eroe, andando dalla signora Lawrence che sa essere snob e adultera, è preoccupato « come se dovesse andare a fare visita a una persona colpita da una malattia particolare, nei cui confronti bisogna evitare accuratamente ogni allusione, e fin dalle prime battute che scambiò con la signora sorvegliò le sue parole cosí come uno che va a spasso con un cieco bada a non farlo inciampare. E aveva espulso per un'ora dal cervello le tre parole snob, poca serietà, Ribeaumont ». [III, p. 55]

 Questa « espulsione » lascia temere un « ritorno ritor no del rimosso » che prenderebbe inevitabilmente la forma d'una

gaffe, se nel caso specifico Jean non fosse salvato dalla premura che mette la signora Lawrence Lawrence stessa a parlare – in una forma indiretta, su cui ci soffermeremo s offermeremo piú attentamente tra un momento – di snobismo, d'adulterio e del signore di Ribeaumont. Ogni pensiero ossessivo è una minaccia costante per la sicurezza e l'integrità del discorso, « poiché il piú pericoloso di tutti gli occultamenti è quello della colpa stessa nell'animo del colpevole »: [ II, p. 715] della colpa o di non importa qual pensiero rifiutato dal linguaggio volontario e che spia l'occasione di esprimersi attraverso le sue falle. Rammentiamo per esempio come Swann, nell'impossibilità di confidare il suo amore per Odette, afferra l'occasione involontariamente offerta da Froberville, che ha pronunciato le parole « massacrato dai selvaggi » per ricordare Dumont d'Urville, d'Ur ville, poi La Pérouse – allusione metonimica (oh quanto!) all'oggetto amato, che abita in via La Pérouse. [I, p. 343]

Dei discorsi allusivi della signora Destoches, Proust scrive in Jean Santeuil, in modo enigmatico e decisivo, « una forza inconscia inalzava le sue parole e la portava a rivelare ciò che diceva di voler nascondere ». [III, p 167]

 Vediamo  Vediamo che l'allusione non fa soltanto parte del repertorio della commedia di salotto: con essa noi entriamo nel regno di quella che Baudelaire ci autorizzerebbe forse a chiamare la retorica profonda. Nella sua forma piú canonica l'allusione consiste nel prendere a prestito uno o piú elementi del discorso allusivo dal materiale (per esempio dal vocabolario) vocabolario) della situazione « allusa »: forme for me che appunto tradiscono la loro origine, come nella nota descrizione del mare a Balbec; la comparsa di parole come  punte, cime, valanghe, ecc., rivela il paragone implicito tra il paesaggio marino e il paesaggio montano; è chiaramente il caso, per esempio, dell'aggettivo « speciale » nel discorso di Basin al fratello. Quando Marcel riesce finalmente a incontrare la zia d'Albertine e annuncia quest'incontro ad Andrée Andrée come se si trattasse d'una corvée, cor vée, « “Non ne ho mai dubitato un solo istante”, esclamò Andrée con tono amaro, mentre i suoi occhi allargati e alterati dillo scontento fissavano

 

non so che d'invisibile. Queste parole d'Andrée d'Andrée » – aggiunge agg iunge il Narratore – « non costituivano l'esposizione piú ordinata di un pensiero che può riassumersi cosí: (So bene che amate Albertine e che vi fate in quattro per avvicinarvi alla sua famiglia). Ma erano i rottami informi e ricostituibili di questo pensiero ch'io avevo avevo fatto esplodere, urtandolo, malgrado Andrée ». [I, p. 929]

 Il commento di Proust, insistendo sul carattere frammentario informe e disordinato del discorso d'Andrée, rischia di celare quello che ci sembra essere il tratto essenziale: «Non ne ho mai dubitato », dice Andrée, apparentemente a proposito dell'invito d'Elstir che consentirà a Marcel di incontrare la signora sig nora Bontemps; ma questa frase si riferisce in realtà alla volontà di Marcel, e quindi al suo amore per Albertine – denunciando al tempo stesso la duplicità di questi, consapevolezza ne ha Andrée, probabilmen te anche confronti d'Albertine e quindi il suola amore per Marcelche (a meno che non esiprobabilmente debba piuttosto dire: lala sua sua gelosia gelosia nei nei confronti di Marcel e quindi il suo amore per Albertine). Anche qui piú che d'un enunciato enunciato deformato si tratta, come in Basin, d'un enunciato spostato. Mi pare che nella stessa categoria vadano messi altri due enunciati piuttosto confusi e apparentemente insignificanti, di cui Proust stesso, in ogni caso, non propone nessuna interpretazione. Il primo riguarda, una  volta ancora, il duca di Guermantes: bocciato alla presidenza dello jock jockey ey Club da una cabala che che è riuscita ad adoperare contro di lui le opinioni dreyfusarde e le amicizie ebraiche d'Oriane, il duca non manca di fare buon  viso e di manifestare il suo giusto disdegno per un incarico cosi al disotto del suo rrango. ango. « In realtà la collera collera non gli sbolliva. Fatto abbastanza singolare, il duca di Guermantes non s'era mai servito ser vito dell'espressione alquanto banale di “bell'e buono"; ma dopo l'episodio dello jockey, jockey, appena si parlava del caso Dreyfus, “bell'e buono” non tardava a infiorare i suoi discorsi: “Aff “Affare are Dreyfus, affare Dreyfus, è presto detto, è un'espressione impropria: non è una faccenda di religione ma una faccenda politica bell'e buona ””.. Passavan cinque anni senza che piú si sentisse “bell'e buono”, se durante quel periodo non si parlava dell'aff dell'aff are Dreyfus; ma se trascorsi quei cinque anni, tornava a galla il nome di Dreyfus, subito ricompariva automaticamente “bell'e buono” ». [III, p. 40.]

 È evidentemente rischioso proporre un'interpretazione per un esempio che può essere ess ere stato arbitrariamente creato da Proust (in realtà è poco probabile), ma non possiamo impedirci di pensare che il « bell'e buono » meccanicamente legato nel discorso di Basin all'affare Dreyfus, lo è nella sua mente a una conseguenza per lui non priva d'importanza di quell'affare, ossia il suo smacco allo Jockey Jockey,, ove si è visto un principe d'alto rango battuto bell'e buono come un volgare signorotto di provincia: smacco tanto píú assillante in quanto l'amor proprio gli impedisce di manifestare direttamente il suo dispetto, che viene cosí a esprimersi indirettamente, per una metonimia dall'effetto alla causa. L'altro esempio è preso da persone piú basse: Albertine, sorpresa da Françoise che entra nella stanza di Marcel mentre se ne stava «tutta nuda contro di lui », esclama: « Tob, ecco la bella Françoise ». Parole cosí « anormali » che « rivelarono da sole la loro origine » e Françoise « non ebbe bisogno di guardare nulla per capire tutto e se ne andò borbottando nel suo dialetto: “ puttana ” ». Notiamo qui che basta a Françoise l'« anomalia » dell'enunciato per inferire la colpevolezza d'Albertine; non ne consegue però che quest'anomalia sia da considerare cosí arbitraria nella sua forma quanto sembra indicare Proust allorché scrive che Françoise sentí queste parole come « raccolte a caso dall'emozione ». Evidentemente questo genere di raccolta non avviene a caso e se anche i particolari del meccanismo ci sfuggono, con tutto quello che il passato d'Albertíne può introdurvi di motivi particolari, il legame leg ame tra la situazione presente della ragazza e la « bellezza » che la sua frase attribuisce alla vecchia domestica è piuttosto lampante, e quindi, ancora una volta, il modo in cui l'enunciato di superficie mutua dall'enunciato profondo certi elementi che, come minimo, disturbano la « normalità » del primo e a volte consentono addirittura di ricostruire il secondo. Allo stesso tipo di meccanismo  vanno probabilmente probabilmente riferiti due accidenti di pron pronuncia uncia del tutto paralleli: quello dell'eexx signorina Bloch, alla quale viene domandato improvvisamente il suo cognome di ragazza e che, presa alla ssprovvista, provvista, risponde Bloch pronunciandolo alla tedesca, e quello di Gilberte che nelle medesime circostanze risponde Swann, ugualmente alla tedesca: probabilmente entrambe proiettano nell'enunciazione nell'enunciazione stessa del loro nome l'atteggiamento peggiorativo peg giorativo dell'ambiente antisemita cui si sono, per quanto possibile, integrate. [III, pp. 823 e 585. Nel secondo caso, Proust spiega la defor mazione col desiderio di «snaturare un po' quello che stava per dire» per rendere render e la confessione meno penosa: evidentemente questa spiegazione non esclude l'altra, il lapsus è qui sovradeterminato o, se si preferisce, determinato contemporaneamente da diversi aspetti del complesso di rinnegamento.] rinneg amento.]

 La presa a prestito allusiva riguarda qui un unico fonema, che produce nel discorso un semplice metaplasma, ma dove esso, come si vede, viene a dire piú cose di « un lungo lung o discorso ». [Ultimo esempio di questo genere, la frase del lift: «Lo sapete che non l'ho trovata (Albertine)» (II, p. 794): per la verità egli sa benissimo che Marcel  viene a saperlo dalla sua frase stessa e teme di essere sgridato per quella missione fallita; «perciò diceva: «Lo sapete» per evitare a se stesso le angosce che avrebbe sofferte pronunciando frasi destinate ad annunciarmelo». annunciarme lo». Qui un elemento dell'enunciato di superficie è preso a prestito dalla situazione desiderata in profondità, e che silerealizza utopicamente nel discorso.]

Benché in tutti questi casi (salvo gli ultimi due, per la precisione) si tratti di produzioni di linguaggio linguag gio più estese, il confronto s'impone tra queste allusioni involontarie e i lapsus studiati da Freud. In tutte e due le serie si i tratta d'una contaminazione, d'ampiezza variabile, dell'enunciato di superficie da parte dell'enunciato profondo

 

censurato. La presenza di « la bella » in « ecco la bella Françoise » può essere considerata come equivalente a censurato. quella di « dig » in « begleitdigen begleitdig en », amalgama  [Il termine è di Proust, III, p. 89.]

del « begleiten » che il parlante voleva pronunciare e del « beleidigen » che ossess ossessiona iona il suo inconscio. [FREUD,, Psicopatologia della vita quotidiana, Boringhieri, Milano] [FREUD

Le « alterazioni di linguaggio » [II, p. 794]

cui si interessa Proust, possono dunque, tanto nella forma quanto nella genesi, essere equiparate al lapsus freudiano,, qualunque siano d'altronde le differenze che separano le due tteorie: freudiano eorie: alle une come alle altre può essere applicata quest'analisi di Freud: « L'interlocutore si è deciso a non tradurre in parole (la tendenza rimossa), e allora egli commise la papera, cioè allora la tendenza respinta si fece valere contro la sua volontà trasformando l'espressione dell'intenzione da lui ammessa, mescolandosi ad essa o mettendosi addirittura al suo Posto ». [Introduzione allo studio della de lla Psicanalisi, Astrolabio, Roma 1947, p. 47]

 Alle une come alle altre, ugualmente, noi applicheremo questa formula di Proust, piú rigorosa forse, nella sua stessa ambiguità: « magnifico linguaggio, linguag gio, così diverso da quello che che parliamo di solito, in cui l'emozione fa deviare ciò che volevamo dire e fa sbocciare in sua vece tutt'altra tutt 'altra frase, emersa da un lago sconosciuto ove vivono espressioni senza nessun rapporto col pensiero e che appunto per questo lo rivelano ». [III, p. 822. Il corsivo è nostro. Esiste una definizione piú bella dell'inconscio?]

Una variante dell'allusione cui Proust accorda un'attenzione del tutto speciale è la presenza nell'enunciato d'un termine non piú attinto dalla situazione ossessiva, ma indicante in modo astratto e in un certo cert o senso vuoto il riferimento a una situazione che non è quella cui si riferisce esplicitamente l'enunciato. Esempio tipico di questa categoria, strumento privilegiato della gaffe (e non soltanto in Proust) è l'avverbio « appunto », che Proust cita... appunto nella pagina analizzata sopra per illustrare la sua teoria dell'interpretazione « ideografica »: il signor di Cambremer, credendo Marcel uno scrittore, gli dice parlando d'un ricevimento dai Ve Verdurin: rdurin: « C'era appunto de Borelli ». Questo avverbio avverbio,, la cui pertinenza nell'enunciato stesso è evidentemente nulla, funziona in realtà come un gesto, comea l'atto di volgersi in particolare uno degli ascoltatoti vi riguarda serve soltanto manifestare, senza specificarloverso espressamente, l'esistenza per d'unsignificargli: rapporto tra« questo la situazione cui si »: riferisce l'enunciato e quella in cui è proferito proferito,, e per questa funzione d'indice dell'enunciazione nelPenuncíato, nelPenuncíato, appartiene alla categoria di quelli che jakobson chiama sbilters. Proust lo dice « sprizzato in una conflagrazione per effetto del raccostamento involontario, involontario, e talora pericoloso pericoloso,, di due idee che il mio interlocutore non esprimeva, e dal quale potevo estrarle per mezzo di appropriati metodi d'analisi e di elettrolisi ». ». [III, p. 89]

Le due idee che si scontrano sono evidentemente qui l'idea (referenziale) della qualità di scrittore di Borelli, e l'idea (situazionale) della qualità di scrittore di Marcel: rapporto d'analogia o metaforico metaforico.. Metonimico, in compenso,, quello che lo stes compenso stesso so accidente rivela nel discorso d'Andrée, la quale dice a Marcel: « Ho visto appunto la zia d'Albertine ». [I, p. 928. Altro esempio, III, p. 178. Avverbio, Avverbio, aggiunge Proust, «parente non troppo lontano d'un'espressione cara alla signora Cottard: “Cade proprio a puntino” ».]

La traduzione dell'avverbio è data questa volta da Proust stesso: stes so: « Sotto le vostre parole, buttate come per caso, ho inteso come non pensavate che a entrare entrare in rapporto con la zia d'Albertíne ». Osserviamo Osser viamo di sfuggita che l'avverbio smaschera qui, come il « non ne ho mai dubitato un solo istante » di un momento fa, due insincerità in una volta, quella d'Andrée (che aveva finto fino ad allora di essere rimasta convinta) e quella dello stesso Marcel; ma notiamo soprattutto il commento con cui, ancora una volta, Proust paragona questi accidenti del discorso alle confidenze mute del corpo: « La parola “appunto” apparteneva alla famiglia di certi sguardi, di certi gesti, gest i, che pur non avendo una forma logica, razionale, direttamente elaborata per la comprensione di chi ascolta, gli giungono tuttavia col loro vero significato cosí come la parola umana, mutata in elettricità nel telefono, telefono, si rifà parola per essere udita », Ritroviamo qui il principio dell'interpretazione « ideografica »: parole del genere non possono essere direttamente assorbite (capite) dall'intelligenza dell'uditore, per il quale, nella continuità lineare del discorso, non « fanno » senso; debbono dapprima dapprima essere convertite in gesti o in sguardi, lette come un ggesto esto o uno sguardo, e di nuovo tradotte in parole. Questo primo tipo di rivelazione involontaria procede dunque per inserzione nel discorso proferito d'un frammento preso a prestito dal discorso represso (« bell'e buono », « bella Françoise »), o d'un termine che può essere spiegato solo facendo riferimento al discorso represso (« appunto »). Un secondo tipo comprende gli enunciati in cui la verità rimossa s'esprime in modo diciamo attenuato, sia per una diminuzione quantitativa, sia per un'alterazione che, strappandola alle sue circostanze autentiche, la rende meno virulenta e piú sopportabile. Esempio tipico d'attenuazione quantitativa, è nel discorso della zia Léoníe, e di riflesso nel discorso di Combray in generale, uno dei cui dogmi è l'insonnia perpetua della valetudinaria, l'uso di termini quali « riflettere » o « riposare » che designano in modo pudico il sonno di Léonie. [I, p. 51]

Quando Saint-Loup, Saint-Loup, lungamente e calorosamente sollecitato da Marcel perché lo presentasse a Oriane, deve

 

finalmente rendere conto della sua missione, comincia col dire che non ha avuto occasione di intavolare il discorso: è la bugía semplice; ma non riesce a limitarsi ad essa e si crede in dovere di aggiungere: « non è per niente gentile Oriane, non è piú la mia Oriane di prima, me l'hanno cambiata. Ti assicuro che non val la pena che tu ti occupi di lei ». Questa aggiunta ag giunta è evidentemente destinata nello spirito di SaintLoup a mettere fine alle istanze di Marcel sviando il suo desiderio, e in effetti gli propone immediatamente un altro oggetto nella persona di sua cugina Poitiers; ma la scelta del pretesto («Non è gentile ») è proprio una traccia (nel senso chimico del termine: una quantità debolissima, non misurabile) della verità, ossia che Oriane ha rifiutato, o magari che, sapendo che rifiuterebbe, Robert non ha neppure tentato di farle incontrare Marcel; cosí questi capisce benissimo che parlando in tal modo Saint-Loup « si tradisce ingenuamente ». [II, p. 146]

Però l'esempio piú caratteristico di quest'uso omeopatico della verità nella menzogna è il discorso in cui Bloch (cosí tipicamente ebreo, come sappiamo) parla della « parte, piccolissima in verità, che (nei sentimenti) gli può derivare dalle sue origini ebraiche », o d'un « lato abbastanza ebraico che riaffiora », « restringendo la pupilla come se si trattasse di dosare al microscopio una quantità infinitesimale di sangue ebreo” ». Egli ritiene coraggioso e insieme spiritoso dire la verità, verità che egli però fa in modo di « attenuare molto, come gli avari che si decidono a saldate i propri debiti, nla non osano pagarne piú della metà ». [I, p. 746]

 Evidentemente in questa confessione attenuata c'è ancora una parte di manovra cosciente, che che consiste (molto ingenuamente qui) nel tentare di stornare l'eventuale sospetto dell'interlocutore fissandolo sulla piccola quantità di verità che gli viene offerta, un po' come Odette mescola talvolta alle sue bugie un « particolare vero » e inoffensivo che Swann potrà controllare senza pericolo per lei. Ma l'esempio stesso d'Odette dimostra che quest'astuzia non è la ragione essenziale della presenza di questa specie di verità-testimonianza nel discorso menzognero; questa ragione è una volta ancora la presenza ossessiva osses siva del vero vero,, che cerca con tutti i mezzi di farsi strada e di esibirsi in mezzo al falso: « Non appena si trovava in presenza della persona a cui voleva mentire era colta da turbamento, tutte le sue idee sprofondavan sprofondavano, o, le sue facoltà inventiv inventivee e ragionative restavano paralizzate, ella non trovava piú nella sua testa che il vuoto, pure occorreva dir qualcosa, e a propria portata incontrava per l'appunto la cosa che aveva voluto dissimulate e che, essendo vera, era rimasta lí ». [I, p. 278]

 E possiamo inferire dalle altre forme che prende in Bloch, come vedremo piú avanti, l'involontaria confessione confessione del suo ebraismo, che questa parola per lui non è certo sconosciuta, ma rifiutata, repressa, e appunto per questo irreprimibile. Ma se tali attenuazioni quantitative dipendono da quella che la retorica considererebbe come una sineddoche discendente (dire una parte della verità per il tutto), altre possono invece procedere per sineddoche sineddoche ascendente: sono le generalizzazioni grazie alle quali la verità particolare si diluisce in un certo senso in un discorso piú vago e d'andamento teorico, universale universale o eventuale, come quando joas dice « pensando esclusivamente ad Athalie », ma in forma di massima generale, Le bonheur des méchants comune un torrent s'écoule. s 'écoule. [RACINE, Athalie , atto II, v. 688. Citato I, p. 108, a proposito delle recriminazioni indirette di Françoise.]

Cosí la principessa di Guermantes, Guer mantes, innamorata di Charlus, riesce a esprimere quest'amore attraverso considerazioni come: « trovo che una donna che s'innamorasse d'un uomo dell'immenso valore di Palamè de dovrebbe avere abbastanza dedizione, abbastanza ampiezza di vedute, ecc. » . [II, p. 715] L'ultimo modo d'attenuazione, per modifica delle circostanze, procede piuttosto per slittamento metonimico:  volendo ostentare in generale i suoi rapporti con Motel e insieme nascondere nascondere in particolare d'averlo d'averlo incontrato nel pomeriggio, Charlus dichiara d'averlo visto il mattino, il che non è né piú né m meno eno innocente; ma « tra questi due fatti la sola differenza – dice Proust – è che l'uno è falso e l'altro vero ». [III, p. 213]

 In effetti soltanto le circostanze differiscono, differiscono, la verità, nell'essenziale, resta detta. La necessità di mentire e il sordo desiderio di confessare si compongono qui non piú come due forze di direzione opposta, ma come due forze di direzione diversa la cui risultante è una deviazione: strano miscuglio di confessione e d'alibi. La terza e ultima forma di confessione involontaria risponde anch'essa a un principio enunciato, qualche anno dopo, da Freud: « Un contenuto rimosso di rappresentazione o di pensiero può introdursi nella coscienza alla condizione che si faccia negare. La negazione è un modo di prendere coscienza di quello che è rimosso senza tuttavia essere un'ammissione di quello che è rimosso ». [Die Verneinung, 1925.]

Quest'intrusione del contenuto rimosso nel discorso, ma in forma negativa, negat iva, che Freud chiama Verneinung e

 

che in Francia dopo Lacan viene generalmente tradotta con dénégation, [Il termine si trova d'altronde in Proust: « È proprio dell'amore il renderci al tempo stesso piú diffidenti e piú creduli, l'indurci a sospettare della donna amata prima che d'un'altra e a prestar fede piú facilmente alle sue denegazioni » (II, p. 833).]

risponde evidentemente alla forma retorica dell'antifrasi. [Abbiamo già visto che Proust chiama metaforicamente anagrammi i dinieghi di d i Albertine, perché debbono essere esser e letti al contrario.]

Proust cita almeno due esempi, d'altra parte molto prossimi a enunciati, per cosí dire, necessariamente denegativi, e che non vengono mai proferiti se non per dissimular(si) una realtà appunto inversa. Il primo (« questo del resto non ha alcuna importanza ») è prodotto da Bloch quando apprende che la sua pronuncia « laift » è scorretta: occasione certo futile, ma questa frase, osserva Proust,è « la medesima in tutti gli uomini che hanno un po' d'amor proprio, nelle circostanze piú gravi come in quelle irrilevanti; essa denuncia allora, come nel caso di Bloch, quanto importante sembri la cosa in questione a colui che la dichiara senza importanza ». [I, p. 740]

 Il secondo (« In fin dei conti chi se ne infischia? ») è la frase che ripete ogni due minuti, davanti sulla soglia della casa di piacere di Jupien, un giovane cliente chiaramente paralizzato da una « gran g ran tremarella » e che non si decide a entrare. [I, p. 822. Su questo cliché denegatívo, cfr. II, p. 960.]

 Sappiamo quale considerevole produzione di testi denegativi esigono, esig ono, nella Recherche, quei due grandi « vizi » che sono lo snobismo l'omosessualità, entrambi ossessiviMa ed bisogna entrambiosservare inconfessabili, per dello esempio i rispettiviediscorsi di Legrandin e di Charlus. subitocome che il testimoniano discorso antisnob snob e il discorso antíomosessuale dell'omosessuale rappresentano già uno stato d'enunciato denegativo piú complesso di quelli che abbiamo riferito: si tratta insomma e per continuare ad attingere dal vocabolario della psicanalisi, d'un amalgama di denegazione e di  proiezione, amalgama che permette al tempo stesso di respingere lontano da sé la passione colpevole, e di parlarne senza soste a proposito di altri. A dire il vero qui la denegazione è presente solo allo stato implicito e come presupposto: Legrandin non dice mai « io non sono snob »: questa negazione è il significato potenziale delle sue incessanti prediche contro lo snobismo; Charlus non ha bisogno di dire « io non sono omosessuale », egli conta che questo scaturisca con evidenza dalle sue dissertazioni sull'omosessualità degli altri. La confessione proiettiva è dunque una forma particolarmente economica e forse appunto a questo rendimento bisogna attribuire quella che Proust chiama « la cattiva abitudine di denunciare negli altri difetti del tutto analoghi a quelli che si hanno... hanno... come se fosse una maniera di parlare di sé, indiretta, e nella quale al piacere di assolversi si aggiunge quello di confessare » [I, p. 743]

Bloch ne offre un esempio naturalmente caricaturale in un passo delle Jeunes filles en fleurs che perderebbe molto a non essere citato nella sua schiacciante letteralità « Un giorno che si stava seduti sulla sabbia, Saint-Loup ed io, udimmo da una tenda a cui eravamo accosto accosto,, uscire imprecazioni contro il for formicolio micolio d'israeliti che infestava Balbec. “Non si possono fare due passi senza s enza incontrarne”, diceva la voce. “Non che io sia per principio irriducibilmente ostile alla razza ebraica, ma qui ce n'è una pletora. Non si sente altro che: 'Di' un po',  Abramo, ciaì fu Sciakop'. Pa Parr d'essere in via Abukir”. L'uo L'uomo mo che tuonava cosí contro Israele uscí alla fine dalla tenda, alzammo gli occhi a guardate quell'antisemita. Era il mio compagno di scuola Bloch ». [I, p. 738]

Possiamo vedere che in Bloch la confessione involontaria prende alternativamente alternativamente le for forme me della sineddoche (« il mio lato ebraico ») e d'un'antifrasi un po' iperbolica. In una forma al tempo stesso piú dissociata (poiché ( poiché si tratta di due vizi diversi) e piú sintetica (poiché nello stesso discorso) la signora Lawrence usa le due figure per discolparsi pur confessandosi: del suo snobismo (e anche della sua leggerezza), che attribuisce alla signora Marmet e del legame col sig signore nore di Ribeaumont, ch'ella riconosce chiamandolo però pura amicizia. La denegazione proiettiva trova evidentemente nella relazione amorosa un terreno privilegiato, poiché il colpevole designato si trova ad essere anche il nemico intimo. Cosí la sofferenza reciprocamente inflitta è quasi sempre accompagnata da un altrettanto reciproco rigetto della colpevolezza sulla vittima — rigetto il cui enunciato archetipo è costituito da quella « Bestiaccia Best iaccia » di cui Françoise, a Combray, gratifica il pollo che non  vuole farsi uccidere. [I, p. 122; cfr. p. 285]

Le bugie d'Odette non fanno spesso che rispondere a quelle di Swann,

 

[I, p. 360]

 e le due lettere che Marcel scrive ad Albertine dopo la sua fuga [III, pp 454 e 469]

sono abbastanza eloquenti sulle capacità di simulazione dell'eroe. Così non è affatto vietato considerare la gelosia di Swann, se non quella di Marcel, come una vasta proiezione della sua stessa infedeltà. Inversamente però il desiderio, la ricerca disperata dell'altro, dell'altro, si prestano altrettanto bene a questo genere di transfert, come mostra l'immortale Bélise delle Fem Femmes mes savantes. Lo stesso Charlus accarezza talvolta simili « chimere ». Cosí lo vediamo pretendere, molti anni dopo la loro rottura, che Morel rimpianga rimpianga il passato e desideri riconciliarsi con lui, aggiungendo che in ogni caso non sta a lui. Charlus, fare il primo passo — senza accorgersi, come osserva immediatamente Marcel, che il solo fatto di dirlo è appunto un primo passo: pass o: [III, p. 803]  situazione esemplare in quanto l'atto di enunciazione, in se stesso, confuta e ridicolizza l'enunciato, come quando un bambino dichiara ad alta e chiara voce: « lo sono muto ». In questo quadro del discorso denegativo bisogna fare un posto a sé all'emblematico Legrandin. La serniotíca del suo preteso antisnobismo è in effetti piú variata, piú ricca e stilisticamente più compiuta di ogni altra. Inizia col suo abbigliamento, in cui la corta giacchetta a un petto e la cravatta a fiocco, [I, pp. 68, 120, 125, 126; II, p. 154]

opponendosi direttamente alla redingote e alla cravatta foulard dell'uomo di mondo, e intonate al giovanile candore del volto, testimoniano molto efficacemente la semplicità e l'indipendenza del campagnolo, poeta e inaccessibile alle ambizioni. Di questa tenuta egli stesso dà una giustificazione del tutto prammatica quando incontra Marcel in una strada di Parigi: « Ah, eccovi qui uomo elegante, e in redingote! Ecco una livrea alla quale la mia Per indipendenza non si adatterebbe mai. È vero voiantica probabilmente sietedistrutta, un uomoladimia mondo e andate  visita! andare a fantasticare fan tasticare come medavanti a qualche quche alche tomba mezzo giacchetta e lain mia lavalliè re sono più intonate ». (Sembrerebbe di leggere una pagina di quei giornali di moda analizzati da Roland Barthes, in cui il valore simbolico di un abbigliamento si maschera da comodità: per il weekend autunnale uno shetland col collo alto; per fantasticare davanti a una tomba mezzo distrutta, una giacca a un petto e una lavallière svolazzante). Possiamo Possiamo misurare l'efficacia semiologica di quest'abbigliamento in almeno due occasioni: quando il padre del narratore, avendo incontrato Legrandin in compagnia d'una castellana cast ellana e non avendo ottenuto risposta al suo saluto, salut o, commenta cosí l'incidente: « Mi rincrescerebbe tanto piú saperlo in collera in quanto aveva, in mezzo a tutta quella gente vestita a festa, un che di cosí poco ricercato, una cosí vera semplicità, e un'aria come ingenua che lo rendeva proprio proprio simpatico »; e quando un secondo incontro conferma la sua scortesia e quindi il suo snobismo, la nonna rifiuta ancora l'evidenza in nome di quest'argomento: quest'arg omento: « Voi stesso riconoscerete che  viene là coi suoi abiti semplici che che non sono per nulla nulla quelli d'un uomo mondano ». Cosí in ogni circostanza, anche nella piú compromettente, la giacchetta a un petto continua a protestare contro « un lusso detestato » e la lavalliè re a pallini a sventolare su Legrandin « come il vessillo del suo fic.o isolamento e della sua nobile indipendenza ».  Anche mimicadiretta e dell'come eespressione spressione muta èlaincastellana lui níú sviluppata che che nei »comuni mortali. _Sorpreso la dallo Chocl'arte d'unadella domanda « Conoscete di Guermantes? non può certo dissimulare « piccola in taccatura bruna » che viene a incidersi negli occhi azzurri, l'abbassamento del cerchio della palpebra, la piega amara della bocca che significa chiaramente per il suo interlocutore: « Purtroppo no! », ma è almeno capace di mascherare questa confessione, non solo con un discorso denegativo (« No, non la conosco, non l'ho mai voluto, in fondo sono un vecchio orso, orso, una testa giacobina, ecc. ») ma anche e innanzi tutto riprendendo in mano, se cosí si può dire, la sua fisionomia, il che potrebbe fare esitare uno spettatore meno prevenuto: il rictus si « ricompone »in sorriso, la pupilla trafitta reagisce « secernendo flussi d'azzurro ». A una domanda poco gradita che egli preferisce non udire, sa ancora attraversare con lo sguardo il viso dell'interlocutore, come se lontano, dietro quel viso divenuto improvvisamente trasparente scorgesse « una nuvola dal vivo colore che gli creava un alibi mentale ». Il suo capolavoro capolavoro,, sotto quest'aspetto, è probabilmente il modo in cui riesce, al momento del secondo incontro in aristocratica compagnia, a rivolgere a Marcel e a suo padre uno sguardo che scintillava di simpatia per loro e insieme poteva passare assolutamente inosservato alla sua compagna, « illuminando allora per noi soli d'un languore segreto e invisibile alla castellana, una pupilla innamorata in un volto di ghiaccio ». [I, pp. 127, 131, 125-26. I, p. 68.]

Ma l'arte di Legrandin trova evidentemente il suo piú felice rigoglio nell'espressione verbale. La nonna del Narratore gli rimprovera di parlare « un po' troppo bene, un po' troppo come un libro », », [I, p. 68]

di non avere nel linguaggio la stessa semplicità che ha nel vestire; e potrebbe in effetti sembrare, a una lettura

 

superficiale, che l'antisnobismo e il parlare letterario siano in lui, come spesso in quegli esseri compositi che sono i « personaggi » di Proust, due tratti indipendenti l'uno dall'altro e accostati quasi a caso. Niente affatto: la produzione testuale (che non è d'altronde soltanto orale, poiché Legrandin è anche scrittore) è in lui in strettissima relazione funzionale con la protesta d'antisnobismo, d'antisnobismo, la denegazione dei suoi insuccessi mondani e la dissuasione degli importuni che potrebbero compromettere la sua difficile carriera. I discorsi piú elaborati, gli esemplari in apparenza piú puramente decorativi di ciò che può passare per un complesso pastiche dell'eredità stilistica chateaubrianesca di fine secolo, compongono in realtà il significante s ignificante proliferante d'un significato pressocché unico che è a volte « lo non sono snob » e a volte « non guastatemi quel po' di relazioni che ho ». E se questi semplicissimi significati possono prendere una forma letteraria cosí sontuosa, è perché passano attraverso il « relais » di un significato-significante intermedio che è all'incirca: io non mi interesso delle persone ma soltanto delle cose; « qualche chiesa, due o tre libri, un numero poco maggiore di quadri, e il chiaro di luna »; « talvolta è un castello in cui vi imbattete sulla scogliera, al ciglio della strada st rada dove s'è fermato per confrontare il suo dolore alla sera ancor rosea in cui s'alza la luna d'oro e della quale le barche che rientrano striando l'acqua screziata, screziata, issano sui loro alberi la fiamma e portano i colori; talvolta è una semplice casa solitaria, piuttosto br brutta, utta, con un'aria timida ma romantica, che cela a ogni sguardo qualche imperituro segreto di felicità e di disinganno... » . [I pp. 128, 132.]

Questa musica paesaggistica è sí un linguaggio, ma quello di cui parla non è quello che essa nomina: e sappiamo che piú tardi, diventato conte di Méséglise, frequentatore abituale dei ricevimenti Guermantes, Guer mantes, imparentato col barone di Charlus, sazio di mondanità, con l'omosessualità che ha in lui interamente soppiantato lo ssnobismo nobismo,, Legrandin perderà tutta la sua eloquenza; [III, p. 934]

Proust attribuisce alla vecchiaia questa decadenza verbale, non possiamo però impedirci di pensare che con lo snobismo è l'ispirazione stessa, la fonte del « bello stile » che si è inaridita. L'étymon  stilistico di Legrandin è l'efflorescenza rigogliosa d'un discorso integralmente antifrastico che non cessa di dire natura, paesaggio, paesag gio, mazzi di fiori, tramonti di sole, chiaro di luna roseo in cielo violetto, perché non cessa di pensare società, ricevimenti, castelli, duchesse. Proust ricorda a suo proposito quell'« imbroglione erudito » che impiegava tutto il suo daffare e tutta la sua scienza a costruire costr uire dei « falsi palinsesti », che vendeva come veri: tale è appunto la funzione di Legrandin, salvo il fatto che il suo discorso è un vero palinsesto, ossia piú che essere una parola è un testo, scritto su diversi strati e che bisogna leggere a diversi livelli: quello del significante paesaggista, paesag gista, quello del significato proposto (non sono un uomo di mondo); quello del significato reale, rimosso e ossessivo: non sono altro che uno snob. La nonna non pensava certo di dire una cosa cosí giusta: Legrandin parla come un libro. Quella parola ambigua, ripiegata più volte su se stessa, che dice ciò che tace e confessa ciò che nega, è uno dei piú begli esempi del linguaggio indiretto proustiano; ma non è anche in un certo senso l'immagine di ogni letteratura? Per lo meno forse della Recherche du temps perdu, che nell'atto stesso di presentarsi come un'instancabile ricerca e un messaggio di verità, non rinuncia però ad app apparire arire anche come un immenso testo contemporaneamente allusivo,, metonimico, síneddocchico, (metaforico, naturalmente) e deneg allusivo denegativo ativo,, di confessione involontaria, in cui si rivelano, ma dissimulandosi in mille trasformazioni successive, un piccolo numero d'enunciati semplici concernenti l'autore, le sue origini, le sue ambizioni, i suoi costumi, tutto quello che segretamente egli condivide con Bloch, con Legrandin, con Charlus, e di cui ha accuratamente esentato il suo eroe, immagine sbiadita e insieme idealizzata di se stesso. s tesso. Sappiamo con quale forse ingenua severità André Gide giudicava un tale inganno, al che Proust rispondeva che si può dire tutto alla condizione di non dire « io ». Potere significava qui, beninteso, « avere il diritto », ma forse bisogna dare al verbo un senso più forte: forse non esiste, in letteratura come altrove, linguaggio veridico fuori dal linguaggio indiretto. [Come in tutte le regole, in special modo quando si tratta di Proust, bisogna considerare la parte dell'eccezione. Se ne incarica, e due volte, l'infaticabile Bloch. Durante la matinée dalla marchese di Vílleparisis, siccome il duca di Chátellerault rifiuta di discutere con lui dell'affare Dreyfus, col pretesto che è un argomento di cui ha «come principio di parlare soltanto tra Jafetici», il nostro giovanotto sempre pronto a ironizzare sul suo «lato ebraico», si trova alle strette, e, abbandonata ogni difesa, può soltanto balbettare: «Ma come avete potuto saperlo? Chi ve lo ha detto?» (II, p. 247). Un po' piú tardi dalla stessa marchesa di Villeparisis, apprendendo che una vecchia signora con cui si è mostrato appena appena cortese è nientemeno che la signora Alphonse de Rothschild, esclama davanti a lei: «Se l'avessi saputo!» Dimostrazione, aggiunge Proust, «che talvolta nella vita, sotto il colpo d'una d 'una emozione straordinaria, si dice quello che si pensa» (II, p. 506).]

Forse anche qui la verità ha come condizione, nel doppio senso di clausola necessaria e di maniera d'essere, insomma cioè come luogo, la menzogna: [Come abbiamo già potuto notare, la « menzogna» non è quasi mai inProust un comportamento pienamente cosciente e deliberato. Chi mente mente anche a se stesso, cosí come Legrandin, Leg randin, se non è «del tutto veridico» non è per questo meno «sincer «sincero» o» quando tempesta contro gli snob, giacché «noi non conosciamo mai se non le Passioni degli altri» (I, p. 129). Swann per esempio, tiene a se stesso lunghi discorsi menzogneri; sulla magnanimità dei Verdurin quando favoriscono i suoi incontri con Odette (1, P. 249); 249); sulla bassezza degli stessi Verdurin dopo la rottura (pp. 286-88); sul desiderio che prova di andare a visitare Pierrefonds proprio quando Odette vi si trova (P. (P. 293); e soprattutto quando, pur mandando del denaro a Odette, protesta inter internamente namente contro la sua reputazione di « mantenuta », ove l'incontro molesto di queste due idee è evitato da uno ddii quegli accessi di cecità mentale che egli ha ereditati dal padre, tipico esempio di censura per « scotomizzazione»; «il suo pensiero brancolò un momento nelle tenebre, egli si tolse gli occhiali, ne deterse le lenti, si passò la mano sugli occhi, e non rivide la luce se non quando si trovò in presenza d'una idea del tutto diversa, la coscienza che il mese prossimo bisognava cercare di mandare a Odette sei o settemila franchi invece di cinque, per la sorpresa e la gioia che ciò le avrebbe causato» (p. 268). Marcel non è al riparo da questo genere di malafede interiore (vedi i discorsi che tiene dopo la partenza d'Albertine. (III, pp. 421-22), e dice bene che le bugie che rivolge a Françoise, per esempio, sono cosí automatiche che egli non ne è cosciente (II, p. 66). Quando uno snob come Legrandin o Bloch padre dice d'un personaggio per lui irraggiungibile «non voglio conoscerlo», il senso intellettuale (la verità, per l'interlocutore «perspicace») e «non posso

 

conoscerlo» ma il «senso passionale è proprio: “Non voglio conoscerlo”. Si sa che non è vero, ma non lo si dice per puro artificio, lo si dice perché lo si prova » (I, p. 771). La menzogna in Proust è dunque molto piú della menzogna: è per cosí dire l'esser l'esseree stesso di ciò che si chiama altrove la « coscienza ».]

abitante l'opera, cosí come abita ogni parola non in quanto vi si mostri, ma in quanto vi si nasconda. è dunque legittimo far risalire la « teoria » proustiana del linguaggio, linguag gio, quale viene prodotta esplicitamente o quale la si può ricavare dai principali episodi che la illustrano, a una critica di quell'illusione realista che consiste nel cercare nel linguaggio un'immagine fedele, un'espressione diretta della realtà: utopia cratilea (ignorante o « poetica ») d'una motivazione del segno, d'un rapporto naturale tra il nome e il luog luogo, o, la parola e la cosa (è l'età dei nomi), a poco a poco distrutta dal contatto col reale (viaggi, frequentazione della « società ») e del sapere linguistico (etimologie di Brichot); « ingenuità » d'un Bloch, d'un Cottard, che pensa che la verità s'esprima « alla lettera » nel discorso, dall'esperienza costante,ilossessiva, universale menzogna, della malafede e », dell'incoscienza, in cuismentita si manifesta in modo lampante decentramento delladella parola, foss'anche la piú « sincera in rapporto alla « verità » interiore, e l'incapacità del linguaggio a rivelare questa verità se non in modo dissimulato, deviato, deviato, rovesciato, sempre indiretto e come secondo: è l'età delle parole. [A questa critica della parola andrebbero naturalmente riportate ripor tate le pagine severe che conosciamo sull'amicizia (I, p. 736, e II, p. 394), considerata come pura conversazione, dialogo superficiale senza autenticità morale né valore intellettuale.]

Il titolo pensato un attimo per l'ultima parte, per il futuro Temps retrouvé quindi, sintesi e sfocio spirituale di tutta l'esperienza proustiana: l'età delle cose, potrebbe far pensare a una specie d'« ultima illusione da perdere » che non sarebbe stata perduta, a una ricaduta finale nell'utopia realista di un rapporto diretto e insieme autentico con il mondo. Evidentemente non è affatto cosí e già una pagina delle  jeunes filles en fleurs metteva in guardia il lettore contro quest'errore, contrapponendo il « mondo visibile » al « mondo vero » , e facendo un parallelo tra l'illusione nominale e quell'altro miraggio che è la percezione attraverso i « sensi ». [«Certo i nomi sono disegnatori di fantasia che ci dànno delle persone e dei luoghi schizzi cosí poco somiglianti da farci provare spesso una sorta di stupore quando ci troviamo dinanzi, invece del mondo immaginato, il mondo visibile (che del resto non no n è il mondo vero, perché ai nostri sensi il dono della rassomiglianza fa difetto quanto all'immaginazione, cosicché i disegni finalmente approssimativi che è possibile ottenere dalla realtà sono differenti dalle cose viste almeno quanto queste lo erano dalle cose immaginate) » (I, p. 548).]

La sola realtà autentica, come sappiamo, è per Proust quella che si offre nell'esperienza nell'esperienza della riminiscenza e si perpetua nell'esercizio della metafora – presenza d'una sensazione in un'altra, « balenio » del ricordo, profondità analogica e differenziale, trasparenza ambigua del testo, testo, palinsesto della scrittura. Lungi dal riportarci a una qualsiasi immediatezza del percepito, il Temps retrouvé ci sprofonderà senza uscita in quello che James chiamava lo « splendore dell'indiretto », nell'infinita mediazione del linguaggio. linguag gio. In questo senso, la teoria « linguistica » – critica delle concezioni « ingenue », privilegio di rivelazione riconosciuto al linguaggio « secondo », rinvio del discorso immediato alla parola indiretta, e dunque dal discorso alla scrittura (al discorso come scrittura) – tutto questo non occupa nell'opera di Proust un posto marginale; ne è invece, teoricamente e praticamente, una condizione necessaria e quasi sufficiente: l'opera per Proust, come il «  verso» per Mallarmé, «compensa il difetto delle lingue ». Sele parole parole fossero l'immagine delle cose, dice dice Mallarmé, tutti sarebbero poeti e la poesia non esisterebbe; la poesia nasce dal difetto delle lingue. La lezione di parallela: se il linguaggio « primo » fosse veridico veridico,, il linguaggio secondo non avrebbe ragion ragionee di essere. È il conflitto tra il linguaggio e la verità che  produce , come abbiamo potuto vedere, il linguaggio indiretto, e il linguaggio indiretto per eccellenza è la scrittura – l'opera.

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