Femminile e Saperi Illeciti. La Necromanzia Nel Mediterraneo Antico

February 7, 2017 | Author: alessandro coscia | Category: N/A
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di Laurea in Lettere Classiche

TESI DI LAUREA IN

STORIA DELLE RELIGIONI

FEMMINILE E SAPERI ILLECITI: LA NECROMANZIA NEL MEDITERRANEO ANTICO

Laureando: Alberto Cecon

Relatore: Chiar.ma Prof.ssa Ileana Chirassi Colombo Correlatore: Chiar.mo Prof. Ezio Pellizer

Anno Accademico 2004-2005

INDICE

1. AMBIGUITÀ LESSICALE, AMBIGUITÀ SEMANTICA

pag. 04

1.1 Nomi diversi, un concetto simile

pag. 05

1.2 Necromanzia e Psychagogía

pag. 07

1.3 Dalla “necromanzia” alla “negromanzia”

pag. 11

2. LA NECROMANZIA COME DIVINAZIONE

pag. 18

2.1 Il mondo come scrittura

pag. 19

2.1.1 Segni, simboli, saperi

pag. 21

2.1.2 Sorti, sogni, santuari

pag. 25

2.2 Divinazione e necromanzia

pag. 29

3. INGRESSI PER GLI INFERI. I NEKUOMANTEÍA

pag. 37

3.1 Acheron in Tesprozia

pag. 40

3.2 Avernus/Aornos

pag. 44

3.3 Tainaron

pag. 47

3.4 Herakleia Pontica

pag. 50

4. LA NEKYIA OMERICA

pag. 53

4.1 Premessa

pag. 53

4.2 Odysseus, l’evocatore d’ombre

pag. 54

4.3 Una divina consigliera. La “dea” Circe

pag. 61

4.4 Conclusioni parziali

pag. 67

2

5. UN CASO DI NECROMANZIA BIBLICA. LA “PITONESSA” DI EN-DOR

pag. 69

5.1 Il testo: I Samuele 28, 3-25

pag. 70

5.2 Il contesto

pag. 71

5.3 Pitoni e ventriloqui

pag. 73

5.4 Problemi testuali

pag. 77

Appendice: i testi dei “LXX” e della “Vulgata”

pag. 85

6. UN’ANOMALA EVOCAZIONE. I PERSIANI DI ESCHILO

pag. 88

6.1 Gli “attori”

pag. 88

6.2 Le azioni

pag. 92

6.3 Come piangere il morto

pag. 96

6.4 Parlare ai morti, parlare da morti

pag. 99

7. IL “FORNO” E LE “API” DI PERIANDRO. NECROMANZIA E NECROFILIA

pag. 105

7.1 Periandro il tiranno

pag. 107

7.2 Giochi testuali, giochi di potere

pag. 108

7.3 Assassino e Sapiente

pag. 112

7.4 L’ape, il miele, la morte

pag. 114

7.5 Possibili interpretazioni

pag. 118

8. UNA MALVAGIA SAPIENTE. LA “STREGA” ERICTHO 8.1 Pericolosi precedenti

pag. 120 pag. 120

8.1.1 Una potente straniera. L’herbaria Medea

pag. 121

8.1.2 Elena, divina sposa e assassina

pag. 123

8.1.3 Italiche veneficae

pag. 125

8.2 Mode e modelli in Lucano

pag. 128

8.3 Eritòn cruda e altre triste

pag. 133

9. CONCLUSIONI

pag. 135

3

1. AMBIGUITÀ LESSICALE, AMBIGUITÀ SEMANTICA

Da dove partire per una analisi che si propone di essere breve ma non superficiale di quell’esperienza d’interesse storico-religioso denominata “necromanzia”, se non da una semplice ma necessaria osservazione linguistica? Innanzitutto, ci potremmo chiedere, “necromanzia” o “negromanzia”? La distinzione non sembri del tutto oziosa. L’ “empia” e “scomoda” pratica di evocare le “anime” o “spiriti” dei defunti a scopo divinatorio, testimoniata – e forse effettivamente attestata, secondo alcune interpretazioni di fatti archeologici,1 fin dall’età protostorica – in diversi contesti geografici e storico-culturali, si presenta fin da subito, nel suo aspetto prettamente lessicale e semantico, come decisamente ambigua. I due termini, “necromanzia” e “negromanzia”, spesso usati in modo sinonimico nel più semplice e banalizzante significato di “arte magica”, conoscenza di tecniche non necessariamente divinatorie o “demoniache”, hanno origine dall’unione del termine greco mantei/a (divinazione) preceduto, rispettivamente, da nekro/» (morto, defunto), oppure dalla sua “variante” parzialmente omofona “negro-”, deformazione del latino niger (nero, scuro): «There is also a linguistic basis for the expanded use of the word: the term black art for magic appears to be based on a corruption of necromancy (from Greek necros, “dead”) to negromancy (from Latin niger, “black”)».2

Non solo i due termini sono spesso confusi nelle testimonianze antiche così come in alcuni commenti recenziori, ma la stessa idea di utilizzo di agenti “sovrannaturali” (“spiriti” di persone decedute, ma anche potenze “demòniche” come i nekudai/monej, divinità o “dèmoni” dei morti)3 si innesta e si mescola, secondo 1

Laffineur 1991.

2

Bourguignon 1987: 345.

3

Si vedano, a titolo puramente esemplificativo, le iscrizioni su tavolette di piombo riportate in SEG XXVI 1717 (dalla zona di Antinooupolis, Egitto, III-IV sec. d.C., ora al Louvre) e SEG XXXVIII

4

tragitti mentali e percorsi culturali spesso difficili da rilevare, nel più generico e banalizzante concetto di “magia”, secondo una “definizione ricorrente” (di incerta attribuzione) riportata nell’Enciclopedia Virgiliana, in un saggio che tratteggia il profilo di Virgilio “mago “ e “negromante” sorto a partire dal XII sec., la quale in parte anticipa quanto diremo nelle pagine seguenti: «Mantia enim graece divinatio dicitur et nigro quasi Nigra, unde Nigromanzia nigra divinatio, quia ad atra daemoniorum vincula utentes se adducit».4

1.1 Nomi diversi, un concetto simile Dal punto di vista prettamente lessicale, se il termine “negromanzia” rappresenta, come vedremo, un’evoluzione e una deformazione (non solo in senso grafico) da “necromanzia”, quest’ultimo è invece in diretta relazione al prolungato e documentato utilizzo del termine nekuomanteiªon (neut. sing.: “oracolo dei morti”), attestato almeno dal V sec. a.C.,5 e delle correlate forme nekuomantei/a (fem. sing.: “necromanzia”, nel senso della pratica vera e propria) e ne/kuia, attestate non prima del III sec. a.C. La prima attestazione del termine ne/kuia è costituita dal titolo del “resoconto” di tale rituale scritto dal cinico Menippo di Gàdara, vissuto nella prima metà del III sec a.C., che molto più tardi offrirà lo spunto al suo “imitatore” (o continuatore) Luciano di Samosata (ca. 120-dopo il 180 d.C.) in opere quali l’Icaromenippo o la Necromanzia, divenendone protagonista. È probabile che lo stesso Menippo abbia ripreso il termine, usato forse fin d’allora, per denominare l’XI Libro dell’Odissea, benché tale denominazione (tuttora in voga) non sia 1837 (da Ossirinco, Egitto, III-IV sec. d.C.) le quali costituiscono degli “incantesimi d’amore” contenenti “scongiuri” ad un nekudai/mwn o nekude/mwn. 4

Bronzini 1987: 684: l’Autore rimanda alla Chronique rimée de Ph. Mouskes, publiée par le Baron de Reiffenberg I, Bruxelles 1836, 628. 5

Ogden 2001: XX e sgg. (Introduction).

5

esplicitamente riferita prima di Diodoro Siculo, nel I sec. a.C. Secondo Anne-Marie Tupet, «the meaning of nekuia should be confined to “descent to the dead”»,6 con una sensibile riduzione, o delimitazione, del campo semantico. Necyomantia, la forma latinizzata di nekuomantei/a, è invece il titolo di un mimo sempre del I sec. del cavaliere e mimografo Decimo Laberio (106-43 a.C.). Nello stesso periodo Cicerone attribuisce ad Appio Claudio la pratica della nekuomanteia (divinazione per mezzo dei morti),7 riservando al suo trattato Sulla Divinazione la variante psychomantia (divinazione per mezzo delle “anime”)8 in un passo il cui parallelismo con quello precedente ci autorizza a pensare che fossero usati come sinonimi; ed ancora nelle Tuscolane, I 115, troviamo l’uso di psychomantíum come luogo preposto a tali riti. Ritroveremo ancora il femminile astratto psuchomanteia nel lessico del cristiano Enea di Gaza (V-VI sec.).9 Ancora, Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) conosce la forma latinizzata necyomantea in riferimento ad Odissea XI, anche se la lettura del passo è incerta.10 Nel secolo seguente, lo stesso termine designa il titolo alternativo del Menippo lucianeo sopra citato. La forma nekromantei/a (con “r”), che si trova come glossa a nekuomanteia in Esichio di Alessandria (V-VI sec.), è invece relativamente rara, benché già all’inizio del III sec. a.C. (o al II sec. a.C., a seconda dell’attribuzione) risalga il termine nekroma/ntij, nel probabile senso di “necromante”, nel poema Alessandra di Licofrone di Calcide o Pseudo-Licofrone.11

1.2 Necromanzia e Psychagogía

6

Ogden 2001: XXXI (Introduction). Il testo citato è A.M. Tupet, La magie dans la poésie latine, vol. I, Paris 1976. 7

Cicero Tusc. Disp. I, 37.

8

Cicero De Div. I, 132.

9

Ogden 2001: XXXII (Introduction).

10

Plinio Hist. Nat. XXV, 132.

11

Ogden 2001: XXXII (Introduction).

6

Semanticamente simile, ma di diversa costruzione etimologica (e forse concettuale), è il termine yuxagwgi/a, “evocazione delle anime” (da yuxh/, “anima” in quanto distinta dal corpo, “ombra”, in riferimento ai defunti;12 e da a)na/gw, condurre su, far salire), attestato per la prima volta, sembra, in Filostrato – probabilmente Flavio Filostrato, il più noto dei tre omonimi autori ricordati dal lessico Suda, nato verso il 160-70 d.C., e autore di una Vita di Apollonio di Tiana in otto libri13 – nel dialogo Eroico ((HRWIKOS), sebbene il nome che designa l’operatore di tale prassi, lo psycagogós, sia decisamente anteriore: Yuxagwgoi/ è il titolo di un frammento recentemente pubblicato di Eschilo (ca. 525-456/5), interpretato da A. Henrichs come «a dramatised version of the Homeric Nekyia»;14 nell’uso del termine si potrebbe cogliere la sottile ma sostanziale differenza tra “evocazione” vera e propria (genericamente “necromantica”) e “discesa agli inferi” (kata/basij), differenza che proprio nell’episodio omerico sembra a tratti venir meno ponendo non pochi problemi interpretativi: è nota infatti la discordanza (“logica”, più che testuale) presente nell’XI libro dell’Odissea, secondo la quale Odysseus inizialmente vede apparire le “anime” nei pressi della “fossa” da lui scavata, mentre a partire da un certo punto (v. 568) sembra che egli stesso scenda, fisicamente, nelle profondità della terra.15 Johnston sottolinea inoltre la frequenza del verbo a)na/gw, usato sia in età classica che nei periodi successivi nel senso di “evocare, condurre su le anime”, anche in senso metaforico, come in Simonide (556-468 ca.), dove è usato in riferimento ai soldati caduti in battaglia, il cui valore ne mantiene vivo il ricordo, facendolo salire, innalzare, dall’Ade.16

12

Impossibile dar conto in questa sede dell’ampio campo semantico e della lunga storia del termine. Sempre in riferimento alla sfera mortuaria, oltremondana, numerosissime e appositamente studiate sono le ricorrenze del termine psyché in Omero: si veda, solo a titolo d’esempio, il classico studio di E. Rodhe, Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci (1890-94), cit. in bibliografia. 13

Rossi 2003: 753.

14

Voutiras 1999: 79.

15

Johnston 1999: 85: «[…] it seems likely that Aeschylus presented Odysseus not as journeying to meet the dead at the entrance to Hades but as calling up into his presence». 16

Anth. Pal. VII 251, 4: a)na/gei dw/matoj e)c )Ai/dew, cit. in Johnston 1999: 85.

7

Interessante può essere il parallelo, suggerito dalla stessa studiosa, con la figura ed il lessico del filosofo “guaritore”, discepolo di Pitagora, Empedocle (ca. 480-ca. 420) al quale, coerentemente con una biografia presentata come “straordinaria” e in qualche modo “eccessiva”, tra gli altri aneddoti prodigiosi veniva attribuita la “resurrezione” di una donna morta, ovvero rimasta “senza respiro”.17 Considerato da Aristotele nel Sofista [fr. 65 Rose] l’inventore della retorica, e nelle fonti definito “filosofo della natura” e “poeta”, uomo dai costumi singolari e dai tratti “divini”, 18 la sua fama è legata in modo non secondario all’episodio della guarigione “miracolosa”: «Della donna rimasta senza respiro Eraclide [Sulle malattie, fr. 72 Voss] dice che si trattava di questo, e cioè che passò trenta giorni senza respirare e senza battiti di polso: onde chiama Empedocle medico e indovino».19 Stando al lessico Suda (X sec.), anche il medico Acrone di Agrigento, autore di un’opera Sulla medicina e che «dava dimostrazione della sua sapienza contemporaneamente ad Empedocle», era «uno di quelli che diagnosticarono un certo tipo di respiro».20 È forse di un certo interesse ricordare come il filosofo agrigentino si fosse guadagnato l’appellativo di “domatore (o trattenitore) dei venti” (Kwlusane/maj) per aver liberato, frenandone la corrente con una serie di pelli d’asino opportunamente disposte, la propria città da un vento particolarmente violento che rovinava i raccolti ed era causa di sterilità nelle donne.21 L’interesse di questo personaggio per l’elemento “ventoso”, etereo – uno dei quattro elementi (fuoco, aria, terra, acqua) dai quali, nella sua dottrina, hanno origine tutte le cose – e l’insistenza delle fonti sulle sue capacità “straordinarie” di gestire, manipolare, in qualche modo incanalare l’aria, il respiro, il soffio vitale (o mortifero, nel caso del vento pestilenziale) può essere oggetto di riflessione, anche in rapporto con il tema qui esaminato della “resurrezione” – meglio, “rianimazione” – dei corpi. Diog. Laert. VIII 61, Emped. 31 B 111 DK, line 9: a)/ceij d マ e)c )Ai/dao katafzime/nou me/noj a)ndro/j., cit. in Johnston 1999: 85. 17

18

Per le notizie biografiche riguardanti Empedocle cfr. Giannantoni 1983, tomo I: 323-36.

19

Diog. Laert. VIII 60-61, cit. in Giannantoni 1983: 326; ma cfr. la traduzione di Marcello Gigante, in Diog. Laert., Vite dei filosofi, Milano, Laterza, 1983: «[…] il caso della donna svenuta ed esanime era tale che egli per trenta giorni mantenne il suo corpo senza polso e senza respiro» (corsivo nostro), che sembra attribuire ad Empedocle la capacità di “sospendere” il respiro, suggerendo un diverso tipo di “controllo” su di esso. 20

Suda, s.v. )/Akron, cit. in Giannantoni 1983: 332.

21

Diog. Laert. VIII 60, Clem. Alex. Strom. VI 30, Suda s.v., cit. in Giannantoni 1983: 326-34.

8

La questione si inserisce nel più vasto problema della gestione, manipolazione dello “pneuma”, soffio, respiro, espressione sostanziale del “divino maschile” trattato nel Problema XXX dei Problemata Physika di Aristotele. Ricordiamo come la conoscenza e l’utilizzo di poteri “altri” in grado di guarire dalla morte, nell’ambito di una “scienza” medica, di una te/xnh terapeutica (i)atrikh\ e)pisth/mh, in Diodoro Siculo, IV 71, 1) avvertita come “estrema”, che la cultura greca tratta con grande sospetto, ha un riferimento mitico nella figura di Asklepios. Generato da Apollo, egli viene allevato dal centauro Cheiron dal quale apprende la medicina (i)atrikh/), divenendo abile (xeirourgiko/j) al punto da “resuscitare” anche i morti (a)nh/geire kai\ tou\j a)poqano/ntaj). Zeus lo punirà, fulminandolo, temendo che gli uomini possano apprendere questa sua “sapienza”.22 Non si dimentichi come lo stesso Empedocle per molti versi anticipi, figurandone tra i precursori, quella schiera di figure di “uomini divini”, “maghi” e taumaturghi, possessori e manipolatori di conoscenze altre, “superiori”, che operano e si spostano predicando le loro dottrine in tutto il bacino del Mediterraneo nella tarda antichità.23 Contemporanea è anche un’interessante prova archeologica proveniente dalle tavolette oracolari del santuario di Zeus a Dodona (Inv. M166) datata fine del V sec. a.C. (420-410 ca.), sulla quale un gruppo di persone, forse rappresentanti di una comunità, interrogano la divinità riguardo la necessità di utilizzo dello “psycagogo” Dorios (…h)= mh\ xrhuªntai Dwri/wi twª[i] yuxagwgwªi; – trad. ingl.: “should they really use Dorios the necromancer?”). L’uso della particella “mh\” – sottolinea l’editore del testo – che dimostra come gli interroganti si aspettassero una risposta 22

Apollodoro, Biblioteca III 10, 3-4. Molto importante è il ruolo del culto iatromantico organizzato attorno alla figura di Asklepios; cfr. ad es. Ustinova 2002: 275-76. 23

Cfr. a questo proposito Dzielska 1988: l’articolo, incentrato in gran parte sulla rimarchevole figura di Apollonio di Tiana, andrebbe forse preso con una certa cautela per l’uso acritico di termini come “magia”, “santità”, “religiosità” e simili che sembrano usati come categorie date a priori; citiamo a titolo d’esempio il paragrafo finale: «Un altro capitolo della santità greco-romana verrà scritto dall’epoca degli uomini divini neoplatonici del basso impero romano. La loro santità, anche se arricchita di nuovi elementi, sarà sempre basata sulla filosofia e sulla magia come fondamento archetipico della divinità umana e ancorata alle esperienze degli uomini divini del passato: Pitagora, Platone, Apollonio di Tiana e tutti quelli che li veneravano» (corsivo nostro).

9

negativa, può significare che essi considerassero come straordinario l’impiego di un “necromante”.24 Troviamo un’accezione decisamente negativa del termine in Frinico, il grammatico atticista (seconda metà del II sec. d.C.): nella sua Preparazione sofistica (Sofistikh\ Proparaskeuh/, in 37 libri) yuxagwgo/j vale, in sintonia con il senso “moderno” dell’uso, “rapitore di bambini”, che sembra quasi anticipare la figura del “negromante” inteso come operatore negativo, come maleficus, termine tecnico che farà la sua comparsa e avrà un suo uso preciso nel lessico legislativo romano a partire dall’età imperiale.25 Dobbiamo infine giungere al commentatore virgiliano del IV sec. Servio per incontrare una distinzione “tecnica” piuttosto marcata tra il termine sciomantia (latinizzazione di skiomanteia), “divinazione per mezzo delle ombre”, ed il già noto necromantia inteso ora quale “divinazione attraverso la rianimazione di cadaveri”, sulla scorta del noto episodio di Lucano, Pharsalia VI. Può essere incidentale, ma giova segnalarlo, che il grammatico, allievo di Elio Donato, si situa in quella fase di “rinascita pagana” contraddistinta da uno «sforzo sostenuto per diffondere largamente fra tutte le classi sociali ed in tutte le terre dell’impero la cultura classica», ed inoltre «si può constatare come Servio nutrisse anche interessi filosofico-religiosi, orientati nella direzione del neoplatonismo, allora in voga fra l’intellettualità romana».26 Ad ogni modo, è degno di nota – conclude Ogden nella sua Appendice dedicata alla storia dei termini (e relative varianti) indicanti la “necromanzia” presenti tanto nella lingua greca quanto in quella latina – che il latino sembra non aver mai sviluppato un termine astratto per “necromanzia” dal proprio vocabolario, quali che siano le possibili implicazioni di tale affermazione.27 24

Christidis 1999: 71.

25

Sull’uso e l’evoluzione semantica della coppia di termini “maleficus/veneficus” si veda l’apposita Appendice al saggio di D. Grodzynski 1982 (1974), e naturalmente l’indispensabile studio di R. Garosi 1976 (1974), entrambi citati in bibliografia, che prendiamo come punti di riferimento. Per l’uso “moderno” del femminile “malefica”, cfr. nota 40. 26

Lana 1987: 360-62.

27

L’Autore sembra quasi suggerire, implicitamente, che la “necromanzia” non è di origine latina; dal punto di vista linguistico, ciò sarebbe tautologico: il termine necromanteia (o comunque lo si voglia scrivere) è a tutti gli effetti greco. Che poi il concetto, l’insieme delle credenze legate a tale pratica, sia di origine non latina (greca? orientale?), è assunto superficiale, anche se non ovvio; nelle pagine

10

1.3 Dalla “necromanzia” alla “negromanzia” Cerchiamo di risalire per quanto sia possibile alla fonte dell’ “equivoco” linguistico che ha dato luogo alla doppia forma “necro-/negro-” e relative varianti, con tutto il carico di ambiguità formale e concettuale che ne deriva. Utile strumento d’indagine si rivela essere il Glossarium Mediae Latinitatis che ci offre una panoramica sull’uso dei principali termini latini tra l’800 e il 1200, dal quale ricaviamo le seguenti informazioni.28 Per il periodo in questione rileviamo l’uso della voce “necro-/nicromantia” e relativo aggettivo (anche sostantivato) “necro-/nicromanticus” alternata in modo apparentemente indifferenziato a “nigromantia” (o “nigromancia”), aggettivo “negro/nigromanticus”. La prima forma è attestata, per citare solo gli autori più notevoli, nelle opere del teologo e abate francese Radbertus Paschasius (785-860 ca.), Expositio in Evangelium Matthei, del teologo agostiniano Ugo di San Vittore (1096 ca.-1141), autore di un Didascalion e di un De sacramentis christianae fidei, nella Chronica sive Historia de duabus civitatibus del vescovo Ottone di Frisinga (1114 ca.-1158), nel Policraticus di Giovanni di Salisbury (1115/20-1180), e nel lexicon di Ugutio Pisanis († 1210) s.v. “manthos”; la seconda variante è invece presente nei Sermones del vescovo Ivo di Chartres (1040 ca.-1115), nelle Epistole di Papa Paschalis I (817-824), e nelle Gesta regnum Anglorum del monaco benedettino Guglielmo

di

Malmesbury

(1090/96-dopo

1142).

Interessanti

i

lemmi

“nichromanticus”, “nicromanthicus” e “nychromanticus”, dove l’etimologia originale sembra essere stata travisata se non addirittura dimenticata. Si segnala infine il meno

seguenti, con l’esplorazione anche di “modelli” estranei o non direttamente legati al mondo romano, si cercherà di interpretare alcune fasi della storia di tali credenze, senza la pretesa di spiegarne le origini, ammesso che sia possibile farlo. 28

Novum Glossarium Mediae Latinitatis ab Anno DCCC usque ad annum MCC, Hafniae, Ejnar Munksgaard, 1959-69, vol. M-N, pp. 1165-66. Per i dati biografici degli Autori citati: Mourre 1973 (1968).

11

comune sostantivo “necromantius” nel De Universo di Rabano Mauro (784 ca.-856), arcivescovo di Magonza. Il termine “negromanzia” e le forme correlate sono inoltre da mettere in relazione con la valenza negativa di “negro” come sinonimo di “scuro” in riferimento alle popolazioni d’origine africana, termine che alle soglie dell’età moderna ed in seguito alle grandi scoperte geografiche entra prepotentemente a far parte, con un duraturo strascico di diffidenza, nel lessico e nell’immaginario europeo che assiste alla nascita della pratica dello schiavismo coloniale. È a partire dalla scoperta dell’America che segna, antropologicamente, l’«incontro più straordinario della storia occidentale», quello con l’«altro assoluto», con il «diverso» per eccellenza, 29 che assistiamo al regolare sfruttamento lungo le rotte mercantili di schiavi “neri”, la cui inferiorità era naturalmente accettata o addirittura promossa anche dagli stessi “difensori” delle popolazioni indigene soggette alle cruente conquiste degli Europei.30 Non va trascurato, in linea sincronica, che lo stesso 1492 segna, con la presa di Granada ed il crollo della (tollerante) dominazione musulmana, la data della massiccia espulsione – che non poche ripercussioni avrà sullo sviluppo storico delle stesse culture respinte – da parte della cattolica Spagna degli Ebrei (i cosiddetti

29

Todorov (1982) 1992: VII (citato dalla Nota introduttiva di Pier Luigi Crovetto).

30

Indicativo l’atteggiamento ambivalente nei confronti dei “neri” dimostrato da chi si dedicò alla “causa” dei popoli conquistati, come il domenicano Bartolomé de Las Casas (al quale tra l’altro dobbiamo la trascrizione del Diario di bordo di Cristoforo Colombo). Citiamo ancora da Todorov (1982) 1992: 207: «[…] è un fatto che Las Casas non ebbe, inizialmente, lo stesso atteggiamento nei confronti degli indiani e nei confronti dei neri: egli accettò che questi ultimi, a differenza dei primi, fossero ridotti in schiavitù. Va ricordato che la schiavitù dei neri era allora un fatto acquisito, mentre quella degli indiani cominciava appena sotto i suoi occhi. […] È noto, tuttavia, che nel 1544 egli possedeva ancora uno schiavo nero (aveva rinunciato agli schiavi indiani nel 1514); e nell’Historia si trovano ancora espressioni come questa: “È una cecità inconcepibile quella di coloro che vennero in queste terre e trattarono i loro abitanti come fossero degli africani” (II, 27)» (corsivo nostro).

12

“marrani”) e degli Arabi, i “mori” (o “moriscos”), cioè “scuri”, appunto. 31 Segnali culturali che indicano come fosse in atto, nel coevo pensiero europeo tardomedioevale/rinascimentale, un processo di messa in sospetto, o di aperto rifiuto, quasi di “demonizzazione”, di tutto ciò che si presenta come non cristiano, non occidentale, pericoloso. In particolare, l’accusa di “stregoneria” o “magia nera” era – significativamente – associata alle pratiche “straniere” e “oscure” tanto degli Ebrei quanto dei musulmani: citando un saggio di Norman Cohn,32 l’antropologo Marc Augé ricorda come «la dottrina cristiana del X secolo sull’Anticristo, che fece testo per tutto il medioevo, ne faceva un ebreo della tribù di Dan, figlio di una prostituta penetrata dal diavolo al momento del concepimento; la sua educazione, veniva precisato, “in Palestina sarebbe stata diretta da maghi e stregoni, che lo avrebbero iniziato alla magia nera e a ogni sorta di iniquità” (trad. it. p. 88). Nel medioevo» – prosegue Augé – «l’odio verso gli ebrei si nutrirà della ripetuta identificazione tra l’Anticristo e Satana, gli ebrei e i diavoli, la stregoneria e la diavoleria: “Il popolino era convinto che nella sinagoga gli ebrei adorassero Satana sotto forma di gatto o rospo, invocando il suo aiuto con pratiche di magia nera” (ibid.)».33

31

“Moro”, in origine, designava gli abitanti della Mauritania; il termine fu poi esteso ad altre popolazioni africane (per es. gli Etiopi), e in particolare ai musulmani che nel sec. VIII invasero la Spagna: cfr. Vocabolario Treccani 1989, s.v. Più correttamente, i “marranos” (cioè “porci”, probabilmente dall’arabo “màhram”, “cosa proibita”) e i “moriscos” erano rispettivamente gli Ebrei e i musulmani che rimasero in Spagna dopo il 1492 accettando una forzata (e apparente) conversione al cristianesimo. Dei primi, circa 200.000 abbandonarono in seguito il Paese, dando luogo alla “dinastia” dei “Sefarditi”, mentre i rimasti (circa 100.000) furono oggetto di continue persecuzioni da parte dell’Inquisizione; i secondi subirono una serie di espulsioni e confische, seguite da una possente sollevazione araba repressa soltanto nel 1570, alla quale seguì una più definitiva espulsione di massa con la confisca dei beni immobili, mentre i bambini al di sotto dei quattro anni furono trattenuti per essere allevati nella religione cristiana. Cfr. Mourre 1973 (1968) s.v. “Marrani”, “Moriscos”; Vocabolario Treccani 1989 s.v. “Marrano” (qui riferito anche ai musulmani), “Morisco”. Si noti che «Nella prospettiva cattolica i marrani, essendo battezzati, rientrarono nella giurisdizione del tribunale dell’inquisizione, il quale invece non era competente rispetto agli ebrei non battezzati»: Stefani 1997: 97. 32

Cohn Norman, The Pursuit of the Millennium, London, Secker & Warburg 1957, trad. it.: Milano, Comunità 1965, cit. in Augé 1981. 33

Augé 1981: 689-90. Come tali pregiudizi fossero tutt’altro che nuovi ed occasionali, è precisato in Stefani 1997: 92-3: «Durante i secoli delle crociate si sviluppò un altro tenace stereotipo antigiudaico: l’accusa di omicidio rituale. Con questa espressione ci si riferisce alla presunta uccisione, attuata per scopi religiosi, di un cristiano per mano di ebrei. Le prime comparse di quest’accusa sono, in realtà, molto remote, trovandosi già nel retore greco Apione, vissuto ad Alessandria nel I sec. d.C. […] Nel sec. XV l’accusa, spesso collegata all’altro stereotipo antigiudaico della profanazione dell’ostia, si diffuse verso l’Oriente europeo».

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Alla luce di tali fatti, certo non esaustivi per comprendere i complessi fenomeni che agiscono alla base degli scontri tra realtà culturali diverse, ma sicuramente indicativi di una certa temperie culturale che trova puntuale riscontro nell’uso linguistico, il passaggio ideologico e quindi anche strumentale, funzionale, dalla “necromanzia” intesa come pratica “pagana” (in senso storico-religioso) alla magia “negra”, tenebrosa, in qualche modo altrettanto “pagana” (in senso dispregiativo), risulta facilmente comprensibile.34 Segnaliamo che “negro-/nigromanzia” è glossa ben attestata nella lingua italiana almeno a partire dal XIII sec. o al più tardi XIV sec.;35 sempre nel XIII e XIV sec. si riduce anche a “gramanzia”, in relazione con “scaramanzia” (dall’incrocio di chiromanzia e negromanzia), di cui rimane «traccia d’una evoluzione semipopolare della voce nel corso gramanti, folletti della montagna»,36 ma presente anche nella prosa della fine del Duecento-inizi Trecento, come nell’anonima Tavola Ritonda.37 Altri esempi sono nel Novellino, la raccolta di novelle composta nell’ultimo ventennio del XIII sec. (novella XXI: Come tre maestri di nigromanzia vennero alla corte dello ’mperadore Federigo), e in autori come Ricordano Malispini (ca. 1220ca. 1290, autore della Cronica Fiorentina, una delle principali fonti di Dante), Cecco d’Ascoli (ca. 1267-1327, accusato di magia e necromanzia e messo al rogo), e più

34

Può essere utile ricordare, in merito all’espulsione del 1492 e all’escalation dell’“attacco” ecclesiastico nei confronti del “diverso”, la quasi coincidenza di alcune date fondamentali di questo processo: nel 1478 viene fondata con la benedizione di Papa Sisto IV (1471-1484) l’istituto dell’Inquisizione spagnola, sotto il diretto controllo della Corona; al 5 dicembre 1484 data la bolla papale di Innocenzo VIII (1484-1492) Summis desiderantes affectibus che ispirerà direttamente il noto “manuale” (oltre che l’operato) dei domenicani tedeschi Heinrich von Kräus (Institoris) e Jacob Sprenger (sul cui contributo si discute), il Malleus Maleficarum (Strasburgo, 1487), e l’altrettanto fondamentale e di poco successivo “trilogus” (dialogo a tre) di Ulrich Molitor († 1501), De lamiis et pythonicis mulieribus (Costanza, 1489), la fortuna e diffusione dei quali – dovuta anche alla recente invenzione della stampa – ebbero una vastissima portata nel fenomeno della “stregoneria” europea. Cfr. Bonomo 1985 (1959), in partic. pp. 165-200; Castelli/Bosco 1994, pp. 107-11; Chirassi Colombo 1994/95. 35

Per Battisti-Alessio 1954: “negromante/-ico/negromanzia”: XIV sec., “negromantesco”: XVII sec.; per De Mauro 2000: “negromante/negromanzia”: 2^ metà del XIII sec., “negromantico”: 1351, “negromantesco”: 1711, “negromantica” (sost. femm., non agg.): sec. XX. 36

Battisti-Alessio 1954 s.v. “negromante”.

37

Prati 1951 s.v. “negromante”.

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tardi Bernardo Bibbiena (1470-1520), Torquato Tasso (1544-1595), fino ai poeti e prosatori moderni e contemporanei (Leopardi, D’Annunzio…).38 Interessante è il femminile “negromantessa” attestato in Fra Giordano da Pisa (1260-1311),39 che richiama sinistramente quel femminile plurale maleficae del manuale di Institoris e Sprenger.40 La glossa è naturalmente frequente nel Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-1375), ad esempio nella giornata X, novella V (ambientata a Udine, dove si ricorre ad uno che «dove ben salariato fosse» realizza l’incantesimo richiesto «per arte nigromantica») e novella IX (dove il “negromante” di turno è al servizio del Saladino); a queste si aggiunga la «nigromantica operazione» della giornata VIII, novella VII e l’ancor più significativa beffa dai toni scatologici della novella IX, in cui si fa esplicito riferimento, pur nel tono scherzoso, alla pratica dell’ “andare in corso”, costituita da licenziose riunioni notturne, sull’effettivo valore delle quali si è discusso.41 Nonostante la moltitudine di questi esempi, è forse nella letteratura epicocavalleresca che l’uso del termine diventa oltremodo frequente, inducendoci a supporre come tale “ridondanza” in ambito letterario possa aver contribuito non poco a rendere il vocabolo di uso comune, in parte svuotandolo del significato originario. Nell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (1441-1494) Atalante è il «grande incantatore e nigromante» (I, 76) che conosce «de l’erbe la natura / E le virtute e l’opre tutte quante» (XVII, 36); nel Morgante (XII 81-83) di Luigi Pulci (1432-1484) un «antico e sottil nigromante… ch’era maestro di somma dottrina» 38

Ampio repertorio di citazioni ordinate per singola voce in Battaglia 1981.

39

Battaglia 1981 s.v., e Prati 1951 s.v. “negromante” (masch. o femm.).

40

Per la stretta associazione tra i «soggetti dotati di facoltà stregoniche» – lamiae, striges, maleficae, pythonicae – e la sfera del femminile, cfr. Castelli/Bosco 1994: 108-9 e Bonomo 1985 (1959): 187212. Per la distinzione tra donne “pythonicae” (superstiziose) e “maleficae” (malvagie, le “streghe” vere e proprie), cfr. Bonomo 1985 (1959): 197 sgg., dove si insiste sulla vasta diffusione nella letteratura e nell’immaginario medioevale delle (false) etimologie negativizzanti tese a spiegare l’intrinseca “malvagità” della donna: «Femina dicitur a fe et minus, quia sempre minorem habet et servat fidem… Mala ergo mulier ex natura cum citius in fide dubitat, etiam citius fidem abnegat, quod est fundamentum in maleficiis», e ancora, «maleficae dictae sunt a male de fide sentiendo» (cit. dal Malleus Maleficarum, in Bonomo 1985 (1959): 203-4). 41

«Che in questa tipica novella municipale il Boccaccio descriva non la tregenda delle streghe, come dice il Graf [A. Graf, Miti leggende superstizioni del Medio Evo, Torino, 1925], ma la notturna riunione della “società di Diana”, è fuori di dubbio»: Bonomo 1985 (1959): 62, che dedica un apposito capitolo del suo libro all’argomento (La «società di Diana» nel Boccaccio e nella tradizione popolare).

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impiega le proprie arti al servizio del Soldano; in Ludovico Ariosto (1474-1533), Orlando Furioso, “negromante” ricorre non meno di una quindicina di volte nei primi ventiquattro canti (nel resto del poema è quasi del tutto assente; “negromanzia” ricorre un paio di volte in tutto), e due volte è designato come “moro” (VIII 18, XXII 24). Il Negromante è anche il titolo di una commedia ariostesca scritta tra il 1509 e il 1520 su insistenza di Papa Leone X e rappresentata a Ferrara durante il carnevale del 1528: tipica “commedia degli equivoci” di derivazione plautina (non senza spunti boccacceschi)42 e ricca di situazioni salaci, ritrae una figura di “negromante” – ripetutamente detto anche “astrologo”, senza alcuna distinzione di senso – caricata negativamente nei suoi aspetti più beffardi e ridanciani. Si tratta di qualcuno «che mal sapendo leggere e mal scrivere / faccia professione di filosofo, / d’alchimista, di medico, di astrologo, / di mago, e di scongiurator di spiriti» (vv. 528-31); è dunque un imbroglione, un impostore. Il testo è particolarmente interessante, in base a quanto detto qui sopra, in quanto questo “mago”, ritratto nel Negromante di Ariosto, «è, per dire il ver, giudeo d’origine, / di quei che fur cacciati di Castilia» (vv. 55152), precisazione eloquente della consolidata identificazione dell’ebreo con il lestofante avido e bugiardo, nonché “sapiente” nell’arte dell’inganno, che grande peso avrà ancora nel pensiero moderno e contemporaneo. Segnaliamo per mera curiosità (ma senza discostarci troppo dall’argomento) l’uso nella prosa garibaldina di “negromantismo” come sinonimo di «azione negativa e oscurantistica che, secondo l’anticlericalismo ottocentesco, la religione attuerebbe nei confronti dei fedeli»43: il “negromante”, con un vistoso ribaltamento di prospettiva, non è più il “Saracin crudele” nemico della cristianità, ma il vertice politico della stessa Chiesa. Notiamo infine, en passant, che – ad eccezione del Battaglia, affatto esauriente da questo punto di vista – ben tre su quattro tra i dizionari etimologici consultati, compreso il recente De Mauro, non riportano la voce “necromanzia”, se non come 42

Per il testo e le relative note: L. Ariosto, Commedie, a cura di Cesare Segre, Torino, Einaudi 1976 (ristampa parziale dell’edizione Commedie, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954). 43

Battaglia 1981 s.v. “Negromantismo”.

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semplice variante sotto la glossa “negromanzia” e derivati. Il termine è invece presente nel Vocabolario Treccani, dove però figura sempre come «variante di negromanzia, ma usato solo nella sua accezione specifica» (corsivo nostro): tale “accezione specifica” («evocazione dei defunti a scopo divinatorio») viene quindi riportata sotto la voce “negromanzia”, stabilendo così una precisa dicotomia semantica tra una forma “generica” ed una più “tecnica”, specializzata; le ragioni storiche di tale netta divisione non sono tuttavia palesate.44 Per toglierci subito dall’imbarazzo, d’ora innanzi utilizzeremo, tra le due forme, quella con il prefisso “necro-” preferendola, arbitrariamente, alla seconda che ci sembra aggiungere imprecisione ed inesattezza ad un concetto già di per sé sufficientemente confuso nel suo uso storico e nei suoi possibili significati.

44

Vocabolario Treccani 1989: vol. III*, s.v. “Necromanzia”, “Negromanzia”.

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2. LA NECROMANZIA COME DIVINAZIONE

In apertura dell’importante volume da lui curato, Divinazione e razionalità, lo studioso J.-P. Vernant nota a proposito della divinazione, facendo suo un assunto che fu già di Cicerone,45 come non vi sia «Nessuna società, nel corso della storia umana, che non l’abbia a suo modo conosciuta e praticata».46 Per quanto scontata possa sembrare tale affermazione, essa racchiude due fondamentali concetti: la “universalità” delle pratiche divinatorie avvertite come esigenza nelle più diverse culture di ogni tempo e paese, e al contempo la peculiarità con la quale tale esigenza si manifesta, dando luogo nei diversi contesti storico-culturali a molteplici e spesso non equiparabili (se non nelle loro linee generali) sistemi di gestione del sapere divinatorio, con tecniche, strumenti, presupposti concettuali – ed eventuali interdizioni, come si cercherà di evidenziare a proposito della divinazione necromantica – affatto caratteristici e differenti da società a società. Tale differenziazione induce a diffidare della tentazione di costruire modelli universali, onnicomprensivi, in cui inserire, secondo categorie tipologiche (ideologiche) date e definite una volta per tutte, i singoli “casi” di pratica divinatoria che la documentazione antichistica ed etnografica ci mettono a disposizione: si rende quindi necessario ricondurre il concetto di divinazione alla cultura che lo ha prodotto, che lo riconosce, che lo usa. Bisogna «relativizzarlo, cioè, ad un determinato sistema di valori».47 Proprio seguendo tale criterio, nei successivi capitoli cercheremo di analizzare alcune tra le più notevoli sequenze letterarie di consultazione necromantica a scopo divinatorio collocandole, pur nella brevità della nostra esposizione, nel contesto storico o storico-letterario che le ha prodotte, interpretate, diffuse, presentandole come modelli – o meglio, “anti-modelli”, modelli di valenza negativa, illegittima – di un sistema culturale storicamente definito.

45

Cic., De Divinatione I 2.

46

Vernant 1982 (1974): 5.

47

Sabbatucci 1999 (1994): 39.

18

A tale fine, facciamo un passo indietro, puntando l’attenzione sul concetto di divinazione e sulle sue possibili definizioni, il suo lessico, le sue azioni.

2.1 Il mondo come scrittura Prendendo a prestito la terminologia di un illuminante saggio di D. Sabbatucci sull’argomento, Divinazione e cosmologia, potremmo definire la divinazione come il tentativo di “descrivere” il mondo sulla base di un determinato e storicamente definito sistema culturale: «Un sistema di valori determina una altrettanto sistematica concezione del mondo, ovvero una cosmologia. A livello più elementare la cosmologia sembra equivalere ad una “descrizione” del mondo; potrei dire: una rappresentazione del mondo in termini di “scrittura”».48 Qualora si assuma tale impostazione metodologica, che tra l’altro presenta il merito – tutt’altro che accessorio: anzi auspicabile e necessario in una valutazione di tipo storico – di «neutralizzare il giudizio negativo che la nostra cultura attribuisce alle pratiche divinatorie»,49 ci si accorgerà che tale modello, la metafora delle pratiche divinatorie come “scrittura”, presenta un duplice aspetto: come alla “scrittura” si contrappone (in modo complementare, non antitetico) la “lettura”, analogamente ad una visione cosmologica di un “mondo da scrivere” si affianca quella di un “mondo da leggere”: «In verità, restando ai termini della divinazione, si tratta in entrambi i casi di un “mondo da indovinare”: nel primo caso lo si indovina scrivendo, come una realtà sempre mutevole da fissare per iscritto ogni volta che la si debba contattare; nel secondo caso lo si indovina leggendo, come una realtà fissata una volta per sempre con cui si entra in contatto mediante l’osservazione diretta».50

48

Sabbatucci 1989: VII.

49

Sabbatucci 1989: VIII.

50

Sabbatucci 1989: VIII.

19

Qualunque sia la civiltà presa in esame, e indifferentemente dal tipo di concezioni cosmologiche ad essa relative, la finalità (ma anche la difficoltà) dello studioso è quella di riuscire a ricondurre, relativizzandolo, il nostro concetto di divinazione – moderno, “occidentale” (e cristiano) – al sistema di valori preso in esame. Analogo problema si posero gli antichi, a partire dai filosofi greci le cui principali scuole di pensiero di volta in volta attribuirono alla divinazione, intesa come comunicazione tra l’umano e il divino, grande attendibilità (come gli stoici) oppure completa sfiducia (come gli accademici), assumendo in questo modo un giudizio morale sulla natura della divinazione, ovvero su coloro che dovrebbero renderla possibile: gli dèi. Troviamo così delineato nella speculazione antica il problematico rapporto tra divinazione e religione, che trova puntuale riscontro nelle spiegazioni etimologiche adottate dalla cultura greca e riprese – polemicamente – da quella romana: lo stesso termine latino divinatio (dal quale il vocabolo moderno deriva) implica infatti l’idea della divinitas, il concetto di un mondo che non può rinunciare al “divino”. I Greci invece, «pur mettendo anch’essi la divinazione in connessione con gli dèi, la considerarono soprattutto proprio quale forma di conoscenza; la chiamarono mantica (manteia) da una radice che ha forse prodotto anche il verbo manthanein, “apprendere”».51 Platone, dal canto suo, in un passo del Fedro (244a-d) citato non a caso da Cicerone in apertura al proprio saggio,52 faceva derivare la mantikh/, appunto l’arte divinatoria, dalla manikh/, lo stato “maniacale”, che possiamo definire antropologicamente come “stato alterato di coscienza”, che secondo Platone è sempre all’origine del sapere divinatorio.53 A prescindere dalle etimologie, più o meno probabili, e trasportando il discordo dal mondo greco a quello romano – di cui Cicerone è ottimo e qualificato interprete 51

Sabbatucci 1989: 197-98.

52

Si può considerare il De Divinatione ciceroniano «l’unico grande trattato sull’argomento che ci sia giunto completo dall’antichità, composto nel 45 a.C. a Roma ma con alle spalle l’esperienza diretta di una varia trattatistica, soprattutto greca, sull’argomento»: Chirassi Colombo 1990: 47. 53

Chirassi Colombo 1990: 48; Encicl. d. Religioni 1970: 729. Celebre il passo di Cicerone, De Div. I 1: «Itaque ut alia nos melius multa quam Graeci, sic huic praestantissimae rei nomen nostri a divis, Graeci, ut Plato interpretatur, a furore duxerunt» («E come in altri casi noi romani ci esprimiamo molto meglio dei greci, così anche a questa straordinaria dote i nostri antenati dettero un nome tratto dalla divinità, mentre i Greci, come spiega Platone, derivarono il nome corrispondente dalla follìa»: la trad. dei passi citati è di S. Timpanaro, ed. Garzanti, 2001; l’ampio commento al testo di questa edizione è curato dallo stesso Timpanaro, che riprende – spesso contestandolo – il “classico” commento di A.S. Pease, University of Illinois Studies, Urbana, 1920-23, rist. Darmstadt, 1963).

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(anche in virtù della propria esperienza personale di àugure) – la dicotomia si traduce nell’opposizione tra ars e furor, tra un genus divinandi artificiosum ed un genus naturale: in altre parole, secondo una terminologia tuttora valida anche se non universalmente accettata, si distingue tra una mantica “tecnica” ed una “non tecnica”.54

2.1.1 Segni, simboli, saperi Campo privilegiato della mantica “tecnica”, e sistema di primaria importanza nelle culture antiche per accedere alla conoscenza divinatoria è l’extispicina, l’osservazione delle viscere (exta) degli animali sacrificali. Benché in Grecia il suo ruolo sia meno rilevante rispetto al modello babilonese (che ne ha fatto la forma di divinazione “per antonomasia”, presente com’è fin dall’epoca sumerica, documentata già all’inizio del II millennio a.C.)55 ed alla prassi etrusca che troviamo largamente impiegata presso i Romani (i quali, ritenendola “non romana”, marginalizzarono la figura degli indovini incaricati, gli aruspici, ma non il suo impiego), l’extispicina deve la propria rilevanza alla connessione con quell’istituto che ricopre un ruolo centrale nel mondo antico, il sacrificio: così come questo è il mezzo per comunicare con gli dèi, i segni contenuti nelle interiora animali sono, in un reciproco e inverso scambio comunicativo, il modo con cui gli dèi comunicano con gli uomini. 56 La lettura dei segni presenti negli organi delle vittime, dei messaggi cifrati che la divinità trasmette agli uomini e che vanno interpretati da appositi specialisti, è parte di un più complesso sistema semiotico che vede come “interpretabile” e quindi traducibile in linguaggio umano l’intero rito sacrificale: la stessa uccisione della vittima, il modo in cui essa cadeva, in cui si dimenava, la cottura stessa e addirittura

54

Cic., De Div. I 11: «Duo sunt enim divinandi genera, quorum alterum artis est, alterum naturae» («Due sono i generi di divinazione, l’uno che riguarda l’arte, l’altro la natura»). Cfr. Chirassi Colombo 1990: 48. 55

Sabbatucci 1989: 201-2.

56

Sabbatucci 1989: 202.

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la direzione e la forma assunta dal fumo che ne derivava. 57 Un suggestivo parallelo con la cultura moderna può aiutarci a comprendere l’importanza dell’extispicina (e dell’epatoscopia, l’osservazione del fegato, hÂpar h/patoj, in particolare) nel mondo antico, e la sua funzione “cosmologica”, di “lettura” del mondo: «Il fegato veniva inteso come il vero e proprio “mondo da leggere”. Si costruirono modelli di fegato, così come noi ci costruiamo mappamondi, modelli del mondo; in essi si ricomponeva la settorialità politeistica così come nei nostri mappamondi si ricompone la settorialità geografica».58 Si citerà inoltre, a questo proposito, non tanto per la sua dubbia importanza storica quanto per gli inquietanti collegamenti che potrebbe offrire con l’argomento del nostro lavoro, l’esistenza di una antropomantica, una divinazione con uso di esseri umani, nella fattispecie cadaveri di vittime umane, dalle fonti «prudentemente attribuita a popolazioni non greche, i Lusitani ad ovest, e gli Albanesi del Caucaso ad est (Strabone XI 4.7)».59 L’extispicina tuttavia è solo una parte del vastissimo sistema interpretativo dei simboli – intesi, etimologicamente, come ogni occorrenza fortuita (evento, oggetto, suono, persona: genericamente, ogni circostanza) che divenendo segno acquista valore significante – messo in atto dalle culture antiche dando luogo ad altrettanti mezzi divinatori. A titolo d’esempio si possono ricordare la libanomanzia (da li/banoj, incenso), l’osservazione delle spirali di fumo (dell’incenso), la phyllomanzia (da fu/llon, foglia), l’osservazione del modo in cui cadono le foglie, la piromanzia e l’empiromanzia (da puªr puro/j, fuoco), rispettivamente l’osservazione del movimento delle fiamme e del comportamento di oggetti gettati nel fuoco; ricco di implicazioni è il caso della palmica (da palmo/j, agitazione, pulsazione, movimento ondulatorio etc.), l’osservazione dei movimenti involontari del corpo umano, che trova riscontro nella prognostica medica inaugurata dalla scuola ippocratica60: esempio non privo di riscontri letterari è lo starnuto, segno che già in Omero (Od. XVII 541) troviamo associato al presagio di un evento futuro 57

Sabbatucci 1989: 202. Per un’ampia panoramica sul sacrificio nel mondo antico, cfr. Grottanelli/Parise (a cura), Sacrificio e società nel mondo antico, Roma-Bari, Laterza, 1988. 58

Sabbatucci 1989: 203.

59

Chirassi Colombo 1990: 49.

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dall’esito positivo, e i cui significati convenzionali la cultura moderna non ha del tutto scordato.61 Grande importanza riveste l’osservazione effettuata mediante superfici riflettenti – acqua o altri liquidi,62 specchi, cristalli – che prende il nome di lecanomanzia (leka/nh, piatto, bacino): l’immagine che vi si vede riflessa può essere un “fantasma” o “spirito” il quale, opportunamente invocato, può essere interpellato per riceve il messaggio (divino, oltremondano: in ogni caso extraumano) che si desidera conoscere; curiose, ma non di meno interessanti, possono apparire ai nostri occhi moderni alcune “applicazioni pratiche” di tale diffusissimo metodo presenti in un ambito cultuale pubblicamente riconosciuto, “ufficiale”.63 Non è difficile scorgere i possibili rimandi all’agire necromantico, con il quale spesso la lecanomanzia è associata, quando si pensi che la “figura” evocata può essere, oltre che quella di uno spirito “anonimo” di defunto, anche di tipo “demonico”, di un’entità di natura extraumana o addirittura divina, come la dea Hecate o Apollo. Svariatissime sono le tecniche che prevedono l’osservazione e l’interpretazione dei segni in vari modi connessi al mondo naturale: importantissima l’oionistica o ornitomanzia (da oÃrnij o/rniqoj, uccello), l’insieme delle conoscenze che si ricavano dal comportamento degli uccelli – la direzione del volo, ma anche il modo in cui si posano sugli alberi, in cui dispiegano le ali, etc. – alla quale può essere in 60

Chirassi Colombo 1990: 49. Ricordiamo di passaggio che la disciplina della scienza medica che studia i segni del corpo prende tuttora il nome di semeiotica, da non confondersi con la semiotica, con la quale condivide, più che la semplice etimologia, l’origine. 61

Per curiosità folkloristica si riporta che «Lo starnuto, che i Calabresi chiamano “segnale”, è fra i segni infausti; onde non solo si scongiura esclamando: Evviva! salute! Felicità! ecc., ma si osserva quante volte si ripete, la direzione in cui avviene (verso occidente è buon segno; alle spalle di una persona è cattivo), il giorno (di giovedì è triste annunzio), e perfino l’ora»: Treccani 1950 (1932) s.v. “Divinazione”. Per i diversi tipi di classificazione dei sistemi divinatori: Encicl. d. Religioni 1970. 62

Può trattarsi di semplice acqua o di olio, ma più significativo è l’incontro dei due liquidi: assumerà valore semantico la conformazione delle gocce d’olio in un bacile d’acqua o, al converso, delle gocce d’acqua in un bacile d’olio; anche il vino può servire allo scopo; si segnala l’uso, per il mondo ebraico, di una mistura di olio e miele all’interno di un recipiente di vetro per un particolare rito di evocazione da compiersi nei pressi di una tomba, in cui la miscela viene definita come “offerta” al morto invocato (con interessante parallelo con il mondo greco: cfr. capitolo 6): Treccani 1950 (1932) s.v. “Divinazione”. 63

Esempi sono offerti dal santuario di Demetra a Patrasso, dove si poteva conoscere l’esito di una grave malattia per mezzo di uno specchio fatto oscillare sopra una fontana sacra, in cui appariva l’immagine del malato; a capo Tenaro, invece, una fonte permetteva di “visualizzare” tutti i porti e le navi del Mediterraneo (Pausania III 25): la proprietà fu per sempre annullata quando una donna vi lavò i panni sporchi; cfr. Chirassi Colombo 1990: 49.

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qualche modo associata la conoscenza del “linguaggio degli uccelli”, prerogativa di molti personaggi speciali, uomini “divini”, a partire dalle paradigmatiche figure di indovini mitici quali Tiresia o Melampo, ma riscontrabili anche in contesti perfettamente storici lungo le rotte culturali del Mediterraneo antico.64 Al medesimo ambito potremmo attribuire anche tutti quei segni che, prodotti dalla natura, ne sembrano violare le leggi interrompendo o modificando il corso consueto degli eventi: stiamo parlando dei numerosi te/rata, prodigi, eventi portentosi, la cui straordinarietà indica l’imminenza di un fatto notevole, non necessariamente negativo; fenomeni meteorologici inconsueti, nascite mostruose, movimenti tellurici, statue trasudanti umori,65 ma anche l’intervento “miracoloso” da parte di animali inviati dagli dèi, come nel II canto dell’Iliade, dove il serpente che divora i nove passeri preannunzia, dietro spiegazione del mantis Calcante – l’indovino “ufficiale” della spedizione troiana66 – i nove anni che separano gli Achei dalla presa di Troia.67

2.1.2 Sorti, sogni, santuari Una netta distinzione tra mantica che richiede l’applicazione di una particolare “tecnica” (te/xnh, ars) interpretativa e mantica “ispirata”, che si esplica mediante messaggi che la divinità invia a persone particolari, diverse, “naturalmente” ricettive a questo tipo di comunicazione per così dire “diretta”, è tuttavia di impiego 64

Si veda quanto accennato alla nota 22, su Empedocle e Apollonio di Tiana, ai quali andrebbe aggiunto lo “pseudoprofeta” (così definito da Luciano) Alessandro di Abonuteichos: per un inquadramento storico del personaggio, cfr. Nock 1928; G. Sfameni Gasparro, “Alessandro di Abonotico ovvero come crearsi un'identità religiosa. II. L'oracolo e i misteri”, in Colloque international sur "Les Syncrétismes religieux dans le monde mediterraneén antique", Roma 25- 27 settembre 1997, Roma 1999, 275-305. La comprensione della “lingua degli uccelli” possiede una certa rilevanza anche nel mondo ebraico, dove, analogamente alla Grecia, particolarmente significativi sono i messaggi del corvo (negativi), della colomba (positivi) o di altri particolari tipi di volatili: Encyclopaedia Judaica 1972: s.v. “Divination”; cfr. Chirassi Colombo 1990: 48. 65

Cfr. Cic. De Div. I 36 e 97-99, II 58 (nascite mostruose, piogge di pietre, di sangue, di latte etc.), I 78 (terremoti). 66

Il fatto che Calcante, pur «possedendo uno statuto sacerdotale ben definito (è sacerdote di Apollo)», debba «continuamente provare la sua abilità» indica eloquentemente la diffidenza che il mondo omerico nutre per la mantica in generale, riconoscendo – con riserva – quasi esclusivamente quella “tecnica”, interpretativa, ed ignorando (tranne qualche allusione) quella “estatica”, ispirata: Chirassi Colombo 1994 (1983): 72-3. 67

Episodio puntualmente discusso da Cicerone (II 63-65); sempre nel De Div. (I 36) si veda, per una possibile analogia in chiave storica e “domestica”, l’episodio dell’apparizione di una coppia di serpenti (maschio e femmina) a Tiberio Gracco, forieri di morte per lui o la sua sposa, a seconda di quale dei due serpenti egli avesse scacciato.

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disagevole quando si affrontino tipologie che sembrano possedere caratteristiche comuni ad entrambe le categorie. Gli esempi più notevoli sono rappresentati dalla cleromanzia, il ricorso alle sortes, i segni prodotti dal caso (xlhªroj, sorte, sorteggio, anche “oracolo”) e dall’oniromanzia (da oÃnar o)nei/ratoj, sogno), con le quali si entra nell’ambito di tutta una serie di pratiche divinatorie complesse e largamente attestate nel mondo antico. L’esigenza di brevità ci induce a citare rapidamente la prima delle due categorie, la mantica che affida il responso alla sorte, all’ambiguità del caso che «contrappone alla fatica spesso non premiata della deduzione ed agli inganni del credere l’affidabilità del probabile. Anche lasciando da parte il ricorso ad una guida divina, il sorteggio contiene la possibilità effettiva di ottenere l’indicazione migliore in assoluto».68 La casualità tuttavia non esclude la possibilità di poter – o dover – interpretare i risultati ottenuti: possediamo notizie relative a santuari della Grecia in cui si praticavano consultazioni cleromantiche effettuate per mezzo di fave (utilizzate tra l’altro nella democratica Atene per la scelta dei suoi rappresentanti pubblici), sassolini, dadi etc., i cui risultati, ottenuti dalla gamma di possibili combinazioni numeriche, trovavano rispondenza in apposite tabelle esplicative prestabilite a disposizione dei consultanti; il passaggio a «quella numerazione convenzionale del cosmo che, iniziata dai Pitagorici, porta alle sofisticate previsioni della aritmomanzia e della cabbala» non è lontano.69 Opportuno ci sembra il rimando alla pratica ebraica della consultazione degli

Urim e Tummim, la sola permessa (assieme

all’interpretazione dei sogni, di valenza però molto più ambigua) e istituzionalizzata dall’ortodossia veterotestamentaria: basata su un polarismo rigidamente binario, permetteva di ottenere una risposta che ammetteva due sole possibilità (si/no, vero/falso) ad una domanda precisa.70

68

Chirassi Colombo 1990: 53.

69

Chirassi Colombo 1990: 53.

70

Encyclopaedia Judaica 1972: s.v. “Divination”. Merita una citazione anche la balomanzia, divinazione per mezzo delle frecce (be/loj, dardo, giavellotto), attestata in ambito ebraico (Ezechiele 21:26) ma praticata, stando al Corano (che naturalmente la proibisce, Sura 5:4, 92), anche dalle tribù arabe pre-islamiche: dal lancio o dall’estrazione da una serie di frecce incise con parole “chiave” (di cui rimangono punte di bronzo di XI-X sec.) di una di esse si otteneva il responso: Encyclopaedia Judaica 1972: s.v. “Divination”.

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Più complesso è il discorso sulla gestione – produzione, interpretazione, utilizzo – dei saperi derivanti dai sogni. La cultura greca li studia, li classifica, li ordina in schemi interpretativi che li rendano fruibili a scopi anche (non solo) divinatori, distinguendo due distinte forme di produzione onirica: l’enypnion (qualcosa che sta dentro al sogno), di natura essenzialmente patologica, utile per individuare le affezioni del corpo; e l’onar, che si presenta come sostanza quasi materiale, o essere consistente, “persona” sovrannaturale la cui “apparizione” è motivata, finalizzata ad uno scopo. L’inizio del XXIV canto dell’Odissea cita il “paese dei Sogni” (dhªmon 'Onei/rwn) che confina e si confonde, nell’immaginaria topografia omerica, con le regioni dei morti; la ripartizione tra sogni veri e sogni falsi è presente in una famosa pagina di Virgilio (Eneide VI 893-96), ripresa da Ovidio (Met. XI 592 sgg.), che descrive con la consueta eleganza la “caverna dei sogni” situata presso il paese dei Cimmeri: originando da essa, i due tipi di sogni escono rispettivamente dalla porta “di corno” e da quella “d’avorio”. A discapito di ogni infruttuoso tentativo (analogico, etimologico) d’interpretazione di tale sfuggente simbologia, risulta quanto mai chiaro come gli antichi (ma noi moderni non siamo da meno) situassero il messaggio onirico sotto il segno dell’ambiguità. Di notevole interesse è il discorso sulle implicazioni terapeutiche del sogno: all’interno di un sistema di santuari iatromantici, uno dei cui centri era rappresentato da Epidauro, ci si affidava alla pratica del sonno incubatorio che garantiva, previa accurata purificazione, l’intervento del dio guaritore per eccellenza, Asklepios, con il quale si stabiliva in questo modo – attraverso le immagini da lui inviate nel sonno/sogno – un contatto, una comunicazione: il corpo diventa così ricettacolo, destinatario del messaggio divino, quale che sia il mittente – dio, daimon, potenza superiore inequivocabilmente extra-umana.71 Pur nella diversità dei mezzi e delle applicazioni pratiche, la ricerca di una comunicazione con il sovraumano tramite un’immagine, un’esperienza prevalentemente visiva, avvicina il sogno alla già viste pratiche lecanomantiche, e con queste all’esercizio necromantico, in quanto le “sembianze” che appaiono in sogno possono essere quelle di un defunto, di un morto “sapiente”, al quale rivolgersi per acquisire una determinata conoscenza, 71

Cfr. Chirassi Colombo 1990: 52-53.

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informazioni precise: in un campo d’indagine quanto mai scivoloso, refrattario a schematizzazioni nette e prestabilite, si nota come tecniche anche molto diverse tra loro si confondano e si sovrappongano, rifuggendo aprioristiche distinzioni tra pratiche lecanomantiche o cleromantiche, tecniche incubatorie e terapeutiche, e istituti di non facile o immediata collocazione nella gamma del simbolico religioso, come i cosiddetti “oracoli dei morti”. Il termine oracolo rimanda ad una serie di modelli cultuali ampiamente utilizzati e diversamente organizzati nell’ambito dei politeismi antichi (ma anche moderni: si pensi alle culture indiana e cinese, e all’importanza da esse accordata ai sistemi oracolari)72: la consultazione avviene in appositi santuari, i quali, anche quando situati in posizione periferica rispetto ai centri urbani, si inseriscono in modo funzionale nel tessuto comunitario, cittadino, del quale sono parte integrante; l’appartenenza al corpo sacerdotale non implica quasi mai un isolamento o tanto meno una marginalità sociale rispetto alla vita quotidiana, pubblica,73 come si potrebbe pensare per certe forme particolari, in qualche modo speciali, quali i santuari “di guarigione” o i luoghi destinati al culto funerario di particolari categorie (eroi, morti in battaglia) di defunti di interesse collettivo, in senso lato “politico”.74 Discorso parzialmente diverso andrebbe fatto per Delfi, il grande santuario panellenico e “sopranazionale” dell’antichità, miticamente fondato dal dio Apollo sul cadavere “in putrefazione” del pitone di sesso femminile da lui ucciso, Pytho (da pu/qein, imputridire).75 Fulcro e signore di un grande “progetto semiologico” nel quale il cosmo si configura come un “libro da leggere”,76 il dio che “non rivela né nasconde il suo pensiero, ma lo segnala (shmai/nein)”77 si propone quale garante di una comunicazione privilegiata, che può attuarsi anche mediante la parola umana, il 72

Si rinvia per l’argomento al citato volume di Sabbatucci 1989.

73

Chirassi Colombo 1994 (1983): 64 sgg.; sul tema in generale, cfr. l’intero cap. terzo (“L’organizzazione del sacro: sacerdoti, riti, feste”). 74

Chirassi Colombo 1994 (1983): 69-70.

75

Per l’etimologia del “pitone”, cfr. paragrafo 5.3.

76

Chirassi Colombo 1990: 50-51 e 1996: 430.

77

Secondo la famosa asserzione di Eraclito (fr. Diels-Kranz 93).

27

suono disarticolato ma “traducibile” – in verso esametrico78 – della sua profetessa, la Pythia: “posseduta” in uno stato di transe dal dio, che la “ispirava”, rendendola cioè “piena” del suo “spirito”, la portavoce del messaggio di Apollo (la quale poteva essere di umili condizioni, incolta)79 si faceva docile strumento del dio, partecipando per così dire “passivamente” alla trasmissione del sapere divino.80 Giova insistere ancora sui due aspetti dell’oracolo delfico che ne hanno decretato l’importanza: la centralità, il suo ruolo «funzionale al mondo delle poleis» in quanto «centro di potere come luogo privilegiato di manipolazione delle tecniche mantiche e come punto di riferimento obbligato delle relazioni interpolitiche»,81 e la sua azione immediata, concreta nel divenire storico, anche quotidiano; entrambi gli aspetti distinguono nettamente l’agire del dio e della sua messaggera da quello, da un lato, dei tanti “profeti” itineranti, incontrollati e incontrollabili che la Grecia delle po/leij conosce e tratta con cautela se non proprio ostilità,82 e dall’altro da quelle figure (ancora femminili) di “profetesse” a-storiche ovvero operanti in un tempo mitico, del tutto passato,

qualitativamente

diverso

da

quello

attuale,

che

propongono

«un’enunciazione decentrata, discontinua, atemporale»83. Sono le Sibyllai, le signore della profezia ispirata alle quali, in un lungo arco di tempo che vede il loro numero e i loro nomi moltiplicarsi assumendo identità e “nazionalità” diverse, è affidato il messaggio divino che, originato nell’ambito del politeismo greco, sarà ripreso e rielaborato dal monoteismo giudaico, infine cristiano. 78

Sui versi della Pizia (e sulla possibilità di un controllo su di essi da parte del clero delfico) cfr. anche le osservazioni di Dodds 1997 (1951): 97-98, che cita anche esempi di moderni “improvvisatori” di versi (un profeta greco “pazzo” ed una donna cinese “ossessa”), con ripetuti riferimenti alle esperienze dello spiritismo, al quale l’Autore sembra prestare un certo interesse. 79

Cfr. Dodds 1997 (1951): 91-92 (basandosi su Plutarco, De Pyth. Orac. XXII 405 c): «[…] la Pizia dei tempi di Plutarco era figlia di un povero agricoltore, donna onesta e rispettabile, ma non molto istruita e senza esperienza». 80

Sul ruolo “passivo” della Pizia, si veda l’articolo di Seidel 2002 (sulla “Prassi necromantica nel Midrash”): 102 (n. 16), che mette in relazione lo “spirito che parla dall’ascella” dei testi ebraici con la nozione ellenistica che le donne “oracolari” parlino attraverso i loro “orifizi”: «Tale funzione corporale va distinta ma non separata dai meccanismi della vergine pizia di Delfi» (trad. nostra); l’Autore cita il saggio di G. Sissa, Greek Virginity, Cambridge, Harvard Univ. Press, 1990 (trad. it. La verginità in Grecia, Roma-Bari, Laterza, 1992), la quale punta l’attenzione «to the nature of the possession and the portrait of the body of the virgin». 81

Chirassi Colombo 1994 (1983): 84.

Si tratta degli eÃnqeoi, “posseduti dal dio”, dei quali si occupa specificamente il XXX dei Problémata Physiká di attribuzione aristotelica: cfr. Chirassi Colombo 1996: 430. 82

83

Chirassi Colombo 1996: 431.

28

2.2 Divinazione e necromanzia Alla luce di quanto detto nelle precedenti pagine non sarà troppo difficile comprendere il senso di una pratica – di una serie di pratiche – che convenzionalmente definiamo “necromantiche” collocandole, spesso indistintamente, in una zona liminale, al confine tra i grandi e documentati modelli di interpretazione del cosmo, e quel territorio in parte inesplorato nel quale confluiscono confusamente le definizioni, i concetti, le teorie relative al “magico”, inteso nella sua valenza negativa di “illecito”. Ma ricordiamo ancora una volta che queste schematizzazioni (o tentativi di schematizzare) corrispondono ad interpretazioni moderne (occidentali) di fatti e idee antichi o etnograficamente distanti che, estrapolati dal contesto – storico, culturale, linguistico – perdono di valore, ovvero ne acquistano uno nuovo, ma fuorviante, anacronistico, metodologicamente discutibile; capita così di riscontrare – non solo in ambito divulgativo – l’uso di termini o categorie relativamente “moderni” in riferimento

a

concetti

e

comportamenti

cronologicamente

anteriori

o

antropologicamente “diversi”: esempio banale ma indicativo (e molto frequente) può essere l’utilizzo acritico di vocaboli come strega o magia, che tanti equivoci hanno generato e continuano a generare, nonostante i molti tentativi di classificazione lessicale anche da parte di illustri studiosi.84 Da questo punto di vista è forse utile insistere ancora sull’appartenenza di ciò che chiamiamo “necromanzia” ad un complesso sistema simbolico, divinatorio, cioè in senso lato “cosmologico” (secondo la suddetta accezione) che non trova riscontro diretto nei nostri attuali (occidentali) sistemi culturali.

84

Si pensa soprattutto al “classico” testo di Evans-Pritchard, Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande (Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, London, Oxford Univ. Press, 1937, trad. it.: 1976), le cui distinzioni tra “Witchcraft”, “Sorcery”, “Magic”e simili (almeno per il mondo anglofono: l’ed. italiana riporta la tabella delle corrispondenze tra i termini azande, inglesi e relative traduzioni – interpretazioni? – italiane) hanno fatto scuola, pur senza eliminare il problema.

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Indubbiamente interessanti, anche se non sempre pertinenti o tipologicamente confrontabili, sono i paralleli con pratiche relativamente recenti quali lo spiritismo che, nato ufficialmente in America, in un sobborgo dello stato di New York, nel 1848 ad opera delle sorelle Fox, ha dato origine a tutta una serie di “tecniche”, talora con pretese “scientifiche”, mentre un caso di sincretismo complesso investe la Macumba, rituale di evocazione dei morti, contaminazione molto interessante tra i culti di transe o SMC (Stati Modificati di Coscienza) afrobrasiliani tipo Candomble e lo spiritismo di importazione europea. Nel caso dello spiritismo, il “contatto” con il defunto solitamente assume la forma di un’interrogazione sull’“aldilà” finalizzata alla conoscenza, da parte del vivo, dello stato di “salute” e del tipo di “vita” del defunto stesso (laddove nelle testimonianze antiche la consultazione del morto avviene, in modo inverso e significativo, per ottenere informazioni su questa vita, su eventi futuri o azioni che la riguardano);85 negli altri casi, una serie di culti “di possessione” di importazione africana, “sincretisticamente” influenzati e condizionati dallo spiritismo, e mescolandosi a varie credenze (non ultime cristiane) – culto degli antenati, culto dei santi – ha dato origine a tipi diversi di prassi cultuale in cui l’aspetto divinatorio, rilevante ma non sempre esclusivo, prevede il “richiamo” dello “spirito” di determinati defunti all’interno di un corpo, che diventa così “recipiente”86 e strumento di conoscenza “superiore”, con suggestive – ma talora pericolose – analogie formali con alcuni dei modelli antichi finora esaminati.87

85

Si obietterà che in alcuni casi, come quello di Periandro (capitolo 7), lo scopo della consultazione non è il futuro di per sé, ma l’ottenimento di un’informazione pratica (l’ubicazione di un deposito di denaro): ammesso che simili distinzioni fossero negli interessi degli antichi, si può argomentare che l’azione – e le eventuali conseguenze – derivanti dalla notizia ricevuta avranno luogo, effettivamente, nel futuro. 86

Il corpo, ricevendo lo “spirito” evocato, perde la propria individualità: si ricorda la curiosa pratica di creare “zombi”, corpi viventi ma privi di “anima”, il cui utilizzo non è privo di connotazioni sociali o addirittura politiche; sul Vodu, cfr. Métraux 1971 (1958): 282-85. L’uso di cadaveri (non documentabile ma sospettato) avvicinerebbe alcuni culti afro-americani alla “necromanzia” nella sua accezione più negativa, del tipo “per rianimazione”. Il pensiero va al “corpo” della Pizia, che si fa oÃrganon, strumento della divinità (paragrafo 2.1.2); ma le suggestioni, anche quando utili a livello comparativo, sono da prendersi con cautela. 87

30

Sull’aspetto divinatorio, sullo scopo dell’agire necromantico – «la rivelazione delle cause sconosciute del futuro corso degli eventi» – punta subito l’attenzione l’efficace definizione contenuta nell’Encyclopedia of Religion: «Necromancy, the art or practice of magically conjuring up the souls of the dead, is primarily a form of divination»88

La conoscenza non solo, e non sempre, del futuro, quindi, ma anche delle cause che hanno prodotto un certo evento presente può fornire la “giustificazione” di tali pratiche, almeno nella loro rappresentazione letteraria; in questo modo si spiegano alcuni esempi di evocazioni “anomale”, come il divertente ma problematico episodio descritto in Apuleio;89 tuttavia, come si è cercato di evidenziare nelle pagine precedenti, il ricorso alla sapienza “oltremondana” rispecchia una certa visione del mondo, risponde ad esigenze di organizzazione (o controllo) del “cosmo”: anche quando sia determinato da necessità contingenti, esprime un modo di “essere al mondo”, e di relazionarsi mediante atti simbolici con la sfera dei morti, che di ogni cultura costituisce parte integrante e la cui gestione – la sistemazione dei valori e dei concetti relativi ai propri defunti: la natura, i modi e i termini del loro agire in relazione alla società dei vivi – accomuna e al tempo stesso diversifica ogni cultura dalle altre. In quest’ottica è possibile comprendere l’esistenza di particolari classi di defunti, per i quali la lingua greca conosce un lessico preciso, la cui suddivisione corrisponde alla natura ed al “comportamento” loro attribuiti. Particolarmente funzionali e “utilizzabili” sono gli aÃtafoi, gli insepolti, gli aÃwroi, i morti di morte prematura, e i biaioqa/natoi, i morti di morte violenta, a loro volta distinguibili in quattro categorie: i condannati, i suicidi, le vittime di Eros (Amore) e i morti in 88

Bourguignon 1987: 345, che sembra riprendere, in qualche modo aggiornandola, la “classica” definizione dell’Oxford English Dictionary: «The pretended art of revealing future events, etc., by means of communication with the dead, more generally, magic, enchantment, conjuration»: Oxford, The Clarendon Press, 1933, vol. VII, 67 (cit. in Ritner 2002: 89). Cfr. anche la definizione di Kleine Pauly 1949, che insiste sull’origine orientale della necromanzia, e le forme da essa assunte in ambito romano. 89

Apuleio Metam. II, 28-30, dove il cadavere rianimato dall’egizio Zatchlas è tenuto a svelare l’infedeltà della moglie, causa del proprio decesso; l’intento parodistico lo rende però un caso isolato.

31

guerra, secondo la dettagliata descrizione che troviamo in Virgilio, Eneide VI (la catabasi o “discesa agli inferi” di Enea), e nella “discesa” (Kata/plouj h)\ tu/rannoj 5-6) di Luciano; schema che sarà ripreso quasi invariato, pur nel cambio di prospettiva, dagli autori cristiani come Tertulliano (De anima).90 Una tale “specializzazione” dei defunti (o di alcuni defunti) è facilmente immaginabile anche per culture precedenti quella greca, come quella assira, dove troviamo «tracce non equivoche, ma poco numerose» di consultazioni agli “Spiritidei-morti” (etemmu) fin dall’inizio del II millennio come la lettera paleoassira databile attorno al 1800 a.C.: Qui consultiamo indovine-šâ’ilâtu, indovine-bâriâtu e Spiriti-dei-morti per sapere se il dio Aššur continuerà a curarsi di te.91

Anche l’Egitto conobbe delle forme “necromantiche”, benché le testimonianze, di natura prevalentemente letteraria, non offrano situazioni paragonabili a quelle – per rimanere in un contesto storico-geografico non troppo lontano – del mondo ebraico, come il noto episodio della “necromante” di En-dor.92 Accenni si trovano in testi papiracei quali la cosiddetta Storia di Setna Khamuas o L’insegnamento di Re Amenemhat I al figlio Sesostris, e nelle numerose Lettere ai morti, nei quali gli “spiriti” di persone decedute (anche in modo violento) sono interrogati in merito agli eventi futuri. È nota anche l’esistenza di una necromanzia “istituzionalizzata”, a carattere “statale”, della quale lo stesso faraone defunto costituiva il fulcro, e che

90

Cfr. Bidez/Cumont 1973 (1938): 180-81; per Virgilio: insepolti (325 sgg.), bambini (426-9), condannati ingiustamente (430-3), suicidi (434 sgg.), morti in battaglia (477 sgg.); in Luciano: neonati, “non pianti” (vecchi), “morti per ferite”, suicidi per amore, “quelli dei tribunali”, naufraghi. A ogni “categoria” di morti corrisponde una precisa collocazione “geografica”, la quale può essere determinante ai fini dell’evocazione necromantica, come accade nell’episodio lucaneo di Erictho (capitolo 8), dove si ricerca un’“anima” che non sia ancora “sprofondata nel Tartaro” (Pharsalia VI 712-16). 91

Bottéro 1982 (1984): 103-4, dove si legge: « Non è impensabile che l'attività dei negromanti, almeno negli ambienti ufficiali, fosse in genere confusa, più o meno, con quella di stregoni, fattucchieri e altri tenebrosi e inquietanti personaggi, e, come tale, o riservata a circoli chiusi e poco loquaci, o, ritenuta funesta e pericolosa, utilizzata soltanto in caso di estrema necessità – e passata prudentemente sotto silenzio». 92

Ritner 2002: 89, prendendo spunto dalle osservazioni di Schmidt 1995, che nega l’esistenza di una “comparable necromancy” nell’antico Egitto.

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solo in epoca ellenistica fu estesa a “spiriti non regali”;93 non desta eccessiva sorpresa la presenza, in molte tombe private, di graffiti relativi a consultazioni oracolari rivolte ad animali (ibis, falchi, gatti etc.) imbalsamati, con l’effetto di un vero e proprio “necromantic zoo”.94 Si fa presente però che la “scena” di En-dor assume, come si vedrà più sotto (capitolo 5) un preciso valore paradigmatico in senso negativo. Dobbiamo comunque tener presente che nel modello religioso del monoteismo (il primo, quello ebraico, ma non solo) la conoscenza può derivare solo da Dio, il Dio unico (Yahweh), che non ammette il ricorso personale, privato, a forme di acquisizione di sapere diverse, “altre”; quelle forme culturalmente riconosciute e considerate “tecnicamente” possibili nei sistemi simbolici altri, nei politeismi. La grande insistenza dei testi biblici sulla proibizione, l’assoluta condanna di ogni pratica divinatoria – eccezion fatta per quella “ufficiale” degli Urim e Tummim, in cui il responso ricevuto è quello divino – si spiega fondamentalmente in questo modo, anche tralasciando altri aspetti pur importanti, come il concetto di identità nazionale/religiosa, genericamente culturale.95 La necromanzia biblica, con la sua connotazione fortemente “illecita”, “illegale”, in quanto la Legge stessa è emanazione di Dio (chi agisce contro la Legge, agisce contro Dio) va collocata in questo ordine di problemi, piuttosto che in banalizzanti e storicamente inadeguate spiegazioni basate sulla “naturale” avversione o repulsione che ogni cultura avrebbe provato e proverebbe nel “commercio” con i defunti, associandolo ad un aspetto “demoniaco” che è interno alla nostra cultura96: 93

Ritner 2002: 94: sotto il regno di Ramses II vi era ad Abydos un oracolo di Amhose, fondatore della XVIII Dinastia; lo stesso Ramses II divenne poi “spirito” preposto alle procedure oracolari di Egitto e Nubia. Sullo stretto rapporto tra istituto oracolare (divinazione) e regalità, si rinvia ancora a Sabbatucci 1989 (nota 250). 94

Ritner 2002: 94.

95

Sulla questione delle proibizioni intese a distinguere, separare nettamente Israele dalle popolazioni confinanti (dalle quali tuttavia dovette ricevere non pochi apporti), si veda il capitolo di Douglas 1975 (1966): “Gli abominî del Levitico”; cfr. più sotto, n. 224. 96

Pur nella diversità del tema trattato, è utile notare come un’“idea immaginaria” possa influire sui processi culturali, come dimostra Cohn 1980 (1970): 35-6: «Nella sua qualità di maggiore oppositore di Dio e supremo simbolo del male, Satana è meno antico di quanto si potrebbe pensare. Nel Vecchio Testamento egli non appare affatto con tali caratteristiche. Per gli antichi ebrei Yahveh era un dio tribale; essi consideravano nemiche loro e di Yahveh le divinità dei popoli circostanti, e non sentivano il bisogno di altre personificazioni del male. Più tardi, naturalmente, la religione tribale evolse in monoteismo; ma il monoteismo è così assoluto, l’onnipotenza e l’onnipresenza di Dio sono ribadite così incessantemente, che le potenze del male appaiono, al confronto, insignificanti. In tutti i libri del Vecchio Testamento si fa allusione a queste potenze soltanto in pochi passi scoordinati». Si veda

33

gli esempi provenienti da realtà diverse, anche se geograficamente (talvolta anche storicamente) vicine – il bacino del Mediterraneo – sembrano dimostrare il contrario. La comprensione dello scarto qualitativo (non in senso morale, ovviamente) tra i modelli monoteistici, centrati sull’idea di un dio unico, onnipotente e onnisciente, «costruttore continuo di storia», e i vari politeismi del mondo antico, nei quali gli dèi, immaginati come potenti ma non onnipotenti né onniscienti, «non si trovano nella posizione di avere con l’umano un rapporto di guida diretta, di comandoesecuzione», e sono anzi «continuamente in contatto con l’umanità, ma senza un progetto preciso»,97 è condizione necessaria per poter affrontare e in qualche modo spiegare un “fenomeno” complesso quale quello delle pratiche definite (convenzionalmente, lo ripetiamo) “necromantiche”. L’elenco di esempi storico-etnografici potrebbe essere lungo e dispersivo; citeremo ancora, esulando completamente dal contesto “mediterraneo” che ispira il presente lavoro, soltanto il caso delle due classi di indovini peruviani dei tempi della Conquista, specializzati a “trattare”, rispettivamente, con le mummie di defunti e con vari “spiriti” (dagli Spagnoli considerati “idoli”).98 Si dimostra così ancora una volta l’estrema varietà e complessità di un fenomeno refrattario a schemi interpretativi definiti e collocabili in tipologie “universali”: se è vero – per riprendere l’assunto con il quale abbiamo aperto il presente capitolo – che tutte le società umane hanno conosciuto e praticato la divinazione, e che tutte (o molte di esse) hanno praticato particolari forme di divinazione dei morti (che la cultura greca ha chiamato “necromanzia”, condizionando tutto il lessico posteriore, fino a noi), sembra altrettanto veritiero il fatto che ogni società l’ha conosciuta e praticata in forme sempre nuove e diverse, rielaborandola e adattandola ad esigenze peculiari, difficilmente ascrivibili (se non in un’ottica comparativa) a categorie “universali” o, per usare una terminologia vicina ad approcci “fenomenologici”, ad “archetipi” originari ed assoluti. anche, per l’evoluzione in senso “peggiorativo” del concetto di “dèmone”, Détienne 1978. 97

Chirassi Colombo 1998 (1994): 86 e 88.

98

Bourguignon 1987: 346; i resoconti – nota l’Autrice – sono scritti con la prospettiva degli Spagnoli del XVI secolo, epoca in cui, nel loro Paese, l’Inquisizione perseguitava i “necromanti” e gli “eretici”. Si veda quanto detto al paragrafo 1.3.

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L’uso di definizioni categoriche spesso ideologicamente orientate in senso confessionale è tuttavia frequente. Riconoscendo la sua funzione divinatoria, ma puntando il dito sulla dicotomia “magia bianca/magia nera” e sulla natura degli operatori, sovrumani o umani – in ogni caso malevoli – e dunque colpevolizzandola a priori, la necromanzia è ad esempio associata dalla nota e diffusa Catholic Encyclopedia con quell’aspetto “demoniaco” qui sopra accennato.99 Non stupisce quindi la presenza anche in testi recenti e non esplicitamente confessionali di affermazioni che puntano l’attenzione sull’aspetto morale (“spirituale”) della questione: «La divinazione non è mai una procedura astratta utilizzata per svelare un futuro oggettivo, ma una consultazione sempre personale e interessata […]. Il pronostico fornito permetterà di sapere se l’azione progettata dall’uomo ha o meno delle possibilità di riuscita: in questo senso la divinazione tende a escludere il caso» (corsivo nostro).100 Simili asserzioni sembrano in parte contraddire o voler ignorare la portata storica dei profondi significati simbolico-religiosi delle pratiche divinatorie, ad alcuni dei quali si è cercato, pur nella limitatezza del presente lavoro, di accennare nelle pagine precedenti.

99

Dubray 2003 s.v. “Necromancy”: «Necromancy is a special mode of divination by the evocation of the dead. […] the term suggests “black” magic or “black” art, in which marvellous results are due to the agency of evil spirits, while in “white” magic they are due to human dexterity and trickery». 100

Meslin 2001: 462. Eloquente, dello stesso Autore, schierato comunque sul fronte non laico, anche La magia, le sue leggi e il suo funzionamento, in cui le “leggi” della magia sono spiegate in termini di “transfert psicologico”, riproponendo la vecchia opposizione tra “magia e religione”: «Per costringere la divinità, il mago manipola alcune forze numinose per mezzo di una selva di azioni simboliche […], trasgredendo anche alcune regole sociali»; ancora: «[…] l’atto magico va inserito nel campo del sacro, ma non del religioso. […] Ci si può chiedere se il politeismo, nel quale la trascendenza divina non è affermata (o lo è meno nettamente), non costituisca un terreno particolarmente favorevole per la magia […]» (corsivo nostro). Più utilmente, cfr. Versnel 1991.

35

3. INGRESSI PER GLI INFERI. I NEKYOMANTEIA

Le numerose attestazioni linguistiche relative alla “prassi” necromantica che abbiamo cercato, in una rapida e certo non esaustiva carrellata, di esplorare nei precedenti capitoli trovano conferma in una serie di dati di natura letteraria, ai quali si affiancano alcuni controversi riscontri di tipo archeologico. I dati convergenti sembrano indicare come la presunta pratica (o le presunte pratiche) di consultare i defunti in luoghi appositamente destinati non fosse un semplice topos. Numerosi sono infatti negli autori antichi le citazioni e i riferimenti diretti o indiretti – quando non delle vere e proprie descrizioni del funzionamento di alcuni di essi101 – ai luoghi in cui la divinazione di un morto (solitamente un morto “speciale”, una figura mitica, un eroe eponimo etc.) era considerata possibile, ed anzi ufficialmente riconosciuta, se non addirittura in qualche modo “istituzionalizzata”, controllata cioè da un potere centrale e gestita da un’apposita “casta sacerdotale” che ne garantiva il funzionamento.102 Ciononostante, i tentativi moderni di individuare fisicamernte tali “oracoli”, soprattutto sulla spinta degli scavi e delle suggestive ipotesi dell’archeologo greco Dakaris (concretizzate in una serie di pubblicazioni tra il 1958 e il 1993), si sono però rivelati a più riprese infruttuosi o quantomeno poveri di dati concreti, originando annosi dibattiti tra “sostenitori” ed “avversatori” dell’effettiva esistenza dei nekromantei/a, con un coinvolgimento che desta interesse più che meraviglia. Anche prescindendo dall’oggettiva difficoltà di localizzare in modo inequivocabile tali siti, un ulteriore svantaggio è dato dalla possibile confusione tra almeno due concetti che nelle fonti sovente sembrano sovrapporsi, quasi integrandosi 101

Esemplare in questo senso la descrizione del “funzionamento” dell’oracolo di Trofonio in Pausania IX 39, al quale si riferisce in termini ironici Luciano nel Menippo o La necromanzia 22 (MENIPPOS H NEKUOMANTEIA): al termine della sua catabasi (discesa agli inferi) – una parodistica citazione della nekyia omerica – Menippo è invitato dal magos Mithrobarzanes ad infilarsi nella stretta imboccatura che porta – direttamente dalle profondità dell’Ade! – a Lebadea, in Beozia, nel “tempio di Trofonio”. 102

Sembra si possa parlare di un ruolo “istituzionale” per il solo “oracolo” di Tainaron (cfr. pagg. seguenti), integrato in un santuario “statale”, quello di Poseidon, controllato da Sparta: Ogden 2001: 22.

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e completandosi a vicenda, ma che è utile distinguere nei loro tratti essenziali, e che rendono difficoltoso per lo studioso moderno il tentativo di ricostruire il sistema di credenze – in termini di reali aspettative, di eventuali speranze o timori – relativi a tali luoghi. Spesso non è infatti agevole distinguere, nella percezione antica, il ruolo di nekuomanteiªon inteso come “oracolo” destinato ad una funzione divinatoria, ma in ogni caso legata alla evocazione di defunti, da quello di “ingresso” al mondo infero, di cavità ipogea comunicante con l’“aldilà”, sotto forma di fenditura nel terreno, tunnel, pozzo, ma anche di lago, palude, o più genericamente di incavo – anche artificiale – non di rado connesso all’elemento acquoreo, liquido, preferibilmente di natura sulfurea, vaporosa, miasmatica. Le “entrate” alle “case ammuffite di Ade” (Od. X 512) erano notoriamente numerose,

apparentemente

interscambiabili,

comunicanti,

costituivano

una

complessa e confusa geografia sotterranea i cui accessi – conosciuti con i nomi di ploutw/nia e xarw/nia, i luoghi di Plou/twn (Plutone) e di Xa/rwn (Carone, Caronte) – mettevano in comunicazione il mondo soprastante, dei vivi, con le regioni dei morti: attraverso di essi erano entrati ed usciti, nelle loro ripetute catabasi, gli dèi e gli eroi del mito, Herakles, Orpheus, Dionysos, spesso legando il proprio nome a quello dei luoghi di culto locali, che trasmettevano il ricordo delle loro gesta. Ancora una volta scegliamo di partire dall’esame dei fatti linguistici. Più sopra abbiamo visto come le varianti del termine indicante la “pratica” – la nekromantei/a – siano molteplici e facilmente confondibili; noteremo un’analoga varietà nell’uso delle voci indicanti gli “oracoli dei morti”. Nekuomanteiªon si trova in Erodoto (V sec.), nell’episodio di Periandro (capitolo 7), che ne fa una delle attestazioni più antiche del termine. Teofrasto conosce la forma yuxagwgi/on;103 yuxomanteiªon è invece usato, nello stesso IV sec. a.C., da Crantor di Soli in un passo confrontabile con Plutarco (Consol. ad Apoll. 109 bd: la storia di Euthinos, di ambientazione italica); ancora Plutarco usa anche yuxopompeiªon (De Sera Num. Vind. 555c); meno consueto è

103

Si ricorda come la forma appartenga propriamente al lessico del V sec.: Psychagogoí è il titolo di un dramma frammentario di Eschilo, Psychagogós compare nella tavoletta di Dodona.

37

infine Nekuor(i)on, che figura, alla voce omonima, nel lessico di Esichio (V-VI sec.). È interessante notare che queste voci, quando sono usate in modo specifico, riferendosi ad un oracolo preciso, identificano sempre uno dei “quattro grandi” oracoli: Acheron in Tesprozia, Averno in Campania, Herakleia Pontica sulla costa del Mar Nero e Tainaron, presso l’attuale Capo Matapan.104 Ciò non esclude i riferimenti letterari ad altri siti. Tuttavia se vogliamo identificarli in mancanza di riscontri precisi, si deve ricorrere ad emendazioni congetturali che li assimilano ad uno dei “quattro”. Indicativo è il caso di Phigalia: Plutarco (De Sera Num. Vind. 555c) riferisce di come il re di Sparta Pausania si fosse recato a consultare lo “spirito” di Cleonice presso il nekuomanteiªon di Herakleia; Pausania (III 17, 9) colloca la consultazione a Phigalia, in Arcadia; in uno scolio ad Euripide, Alcesti 1128, il commentatore, forse suggestionato dall’ambientazione tessalica del dramma, interpreta il termine yuxagwgo/j come sinonimo di go/hj,105 chiamando in causa Plutarco. La “svista” ha creato non poca confusione anche tra gli studiosi moderni che, basandosi sull’assonanza dei possibili siti (Figali/aj¡Itali/aj-Qessali/aj), hanno cercato di risolvere un errore forse solo apparente; la mancanza di riscontri archeologici per Phigalia ha di certo avuto il suo peso nell’equivoco.106 Anche limitando l’esame ai “quattro” più noti oracoli, e a quei riferimenti che sembrano coinvolgerli in modo inequivocabile, i problemi non sono pochi. I tentativi di comparazione tesi a riscontrare, attraverso possibili analogie formali o affinità “ideologiche” (il modo in cui si riteneva funzionassero), uno schema generale, un “modello” di nekuomanteiªon, sono piuttosto deludenti: non solo il modus operandi, ma la stessa natura di “oracolo” attribuita a tali siti è stata oggetto di speculazioni teoriche, o di vere discussioni accademiche, a partire dalle suggestive e interessanti – ma tuttora indimostrate in modo definitivo – ricerche di Dakaris presso 104

Ogden 2001: 17.

105

Solitamente reso in italiano con “stregone”; cfr. Liddell-Scott 1983 (1843): “sorcerer, wizard… juggler”; Stephanus 1954: “Incantator, Praestigiator… generaliter etiam Impostor”. 106

Ogden 2001: 23.

38

il presunto nekuomanteiªon di Acheron.107 L’equivoco di fondo è alimentato dall’idea, comune già agli antichi, che un “vero” nekuomanteiªon debba identificarsi con una caverna, cavità o recesso, naturale o artificiale che sia. Iindicativo il caso della “grotta” o “antro” della Sibilla Cumana, che ha generato molte identificazioni fantasiose ed è stato archeologicamente demolito. L’evidenza archeologica non incoraggia una simile associazione: lo dimostrano la massiccia costruzione a pianta “labirintica” dell’Acheron e la sua “cripta” sotterranea (o cisterna?) scavata da Dakaris,108 ma anche la struttura di Tainaron, costituita da una modesta cavità naturale il cui ingresso è ricavato in un’opera di muratura, affiancata da un cordolo (o recinto) artificiale, che scoraggia frettolose immagini “ipogee”. Proviamo a dare uno sguardo più da vicino ai quattro siti principali per verificare la loro situazione.

3.1 Acheron di Tesprozia Le fonti che fanno esplicito riferimento al nekuomanteiªon di Acheron sono quattro: Erodoto (nel già citato episodio di Periandro), Pausania (IX 30, 6), uno scoliasta dell’Odissea e Lucio Ampelio (Liber Memorialis 83). Il fatto che molti autori vi abbiano visto, assieme a Pausania, l’effettiva sede della nekyia omerica non è casuale: si spiega con il riferimento, nella dettagliata descrizione fatta da Circe a Odysseus (Od. X 513-15), ai nomi dei fiumi “infernali”, effettivamente attestati nella toponomastica locale:

107

Ogden 2001: 19-21 (dove si riporta la pianta dell’edificio).

108

Ogden 2001: 19-20: «a square structure with walls over three meters thick». Privo di qualsiasi pretesa scientifica, Vandenberg 1982 (1979) si segnala per la dettagliate piantina disegnata (e interpretata) dallo stesso Dakaris, e per le foto della “cripta” ripiena di “sangue stratificato” («degli animali sacrificati») e delle ruote dentate del macchinario con cui le “apparizioni” venivano fatte calare, scenograficamente, dal soffitto (più verosimilmente appartenute a catapulte difensive: Ogden 2001: 21).

39

«e)/nqa me\n ei)j 'Axe/ronta Puriflege/qwn te r(e/ousi / Kw/kuto/j q', o(\j dh\ Stugo\j u(/dato/j e)stin a)porrw/c, / pe/trh te cu/nesi/j te du/w potamwªn e)ridou/pwn!»

«Sboccano lì in Acheronte il Piriflegetonte / e il Cocito, che è un ramo dell’acqua di Stige; / c’è una roccia e l’incontro dei due fiumi tonanti»109

Serve appena sottolineare come il Piriflegetonte, l’unico dei tre fiumi citati che non trova un reale riscontro geografico,110 occupi assieme allo Stige una posizione non trascurabile nel ricco immaginario “oltremondano” del mondo antico, che va ben oltre il mero dato topografico particolare.111 A ciò si aggiunga l’assonanza tra “Cimmerii” (Kimmeri/wn), il favoloso popolo che abitava “ai confini dell’Oceano profondo”, avvolti da una nebbia perenne (Od. XI 13 sgg.), nei pressi dei quali Odysseus deve svolgere il rito prescritto, e la lettura del possibile etnonimo “Cheimerii” (Xeimeri/wn), che ha ulteriormente incoraggiato anche tra i moderni la tendenza a intendere in modo letterale le indicazioni “geografiche” di Circe, anche sulla base di suggestioni topografiche.112 La questione, tuttavia, se la finzione letteraria (di Omero, o di chi ne ha seguito le tracce) abbia preso spunto dai luoghi – ciò che indicherebbe la presenza di un nekuomanteiªon in epoca pre-omerica113 – o se questi, al contrario, abbiano ricevuto il loro nome sulla scorta del testo in virtù di una sorprendente “coincidenza” nella loro conformazione geografica/idrografica, è aperta e, almeno se posta in questi 109

Le traduzioni dei passi omerici citati sono di G. A. Privitera, ediz. Classici A. Mondadori (Fondazione Valla, 1981), 2004. 110

Ogden 2001: 46: «[…] like the Styx from which the Cocytus is said to flow, Pyriphlegethon only existed at the mythological level». 111

Per una breve ma utile precisazione sul Flegetonte o Piriflegetonte, e la sua connessione con la sfera della piromanzia (che chiama in causa la scena di necromanzia in Stazio, Tebaide IV 425 sgg.), cfr. Chirassi Colombo 1985 (b): s.v. Flegetonte. 112

Cfr. Huxley 1958, il quale situa sicuramente la nekyia in Tesprozia, spostandone però la collocazione in una vicina valle scoscesa nei pressi di una cascata (la “roccia” del testo omerico), ciò che spiegherebbe l’oscurità e la nebbia attribuite al “paese dei Cimmeri”. È indicativa, in questo senso, la risposta di Dakaris, quando fu interrogato sul motivo della sua certezza nell’identificare l’oracolo di Acheron con il luogo della nekyia: «Ho semplicemente prestato fede a Omero»: Vandenberg 1982 (1979): 12. 113

Ogden 2001: 43-44.

40

termini, forse non risolvibile. Anche i riferimenti al “lago” e al “recinto” presso i quali ha luogo la nekromantei/a, presenti nella frammentaria opera di Eschilo Yuxagwgoi/ – una sorta di “drammatizzazione” dell’episodio omerico114 – si possono spiegare con l’elaborazione (una delle tante rielaborazioni) del modello omerico: il dio Hermes, citato da Eschilo e presente anche nella commedia I Tesprozi (Qesprwtoi/) di Alexis (ca. 370-270) nel ruolo di psicopompo (“conduttore di anime”),115 pur non apparendo nel rito di Odysseus, è citato nella cosiddetta deutero-nekyia (Od. XXIV 1-14), quando trasporta al “prato asfodelio” (a)sfodelo\n leimwªna) le yuxai/ dei Pretendenti uccisi da Odysseus: «[…] h)=rxe d' a)/ra sfin /

(Ermei/aj a)ka/khta kat' eu)rw/enta

ke/leuqa. / pa\r d' i)/san )Wkeanouª te r(oa\j kai\ Leuka/da pe/trhn, / h)de\ par' )Heli/oio pu/laj kai\ dhªmon )Onei/rwn / h)/i+san! […]»

«[…] il benefico Ermete / le conduceva lungo i sentieri ammuffiti. / Superarono le correnti di Oceano e la Candida Rupe, / superarono le porte del Sole e il paese dei Sogni, […]»

I luoghi ed i nomi di questa geografia “acherontica” diventeranno topici per ogni rivisitazione del tema, anche in chiave comica, come nella spassosa kata/basij di Dionysos nelle Rane di Aristofane, dove vengono nominati (vv. 465-78) le “rocce nere di Stige” (Stugo/j... melanoka/rdioj pe/tra) e lo “scoglio insanguinato” di Acheronte ('Axero/ntio/j te sxo/peloj ai)matostagh\j); segue un elenco di mostri “infernali” – i cani di Cocito, Echidna, la murena di Tartesso, le Gorgoni di Titrante – che mescolano, nell’esuberante linguaggio aristofanesco, aspetti ridanciani a motivi che dovevano suonare molto familiari ad un pubblico avvezzo a

114

Voutiras 1999: 79.

Kassel/Austin 1991: fr. 93 (89): « (Ermhª qewªn prorompe\ kai\ Filippi/dou / klhrouªxe, Nukto/j t' o)/mma thªj melampe/plou». 115

41

udire/vedere (se non leggere) varianti più o meno “serie” di “evocazioni” e “discese agli inferi”.116 Il gioco è ancora più scoperto negli Uccelli dello stesso Autore, dove troviamo Socrate (bersaglio prediletto del comico ateniese) nelle inconsuete vesti di “necromante”, intento ad “evocare anime” (yuxagwgeiª, v. 1555) nel paese degli “Skiapodi” (“Piedi d’ombra”, gustoso pendant dei “Cimmerii”), in un esplicito contesto “omerico” (w(/sper ou(dusseu\j, v. 1561). Il riferimento alla “palude” (o lago: li/mnh) rende questa parodia degli Yuxagwgoi/ di Eschilo l’ennesima variante di un motivo che forse poteva essere sentito come consueto.117 L’accostamento dell’“oracolo” di Acheron (ma non solo di quello, come si vedrà qui sotto) all’elemento acquoreo – fiume, lago, palude – è destinato a divenire indissolubile. Un passo di Clemente Alessandrino, noto autore della patristica di lingua greca (Protrept. 10 P), cita il “lebete tesprozio”. Questo dato ha indotto alcuni a pensare che presso l’“oracolo” di Acheron si praticasse la lecanomanzia, cioè quella particolare tecnica divinatoria che interpreta le immagini riflesse. In questa prospettiva è interessante osservare che il commentatore bizantino Tzetzes (Exeg. in Iliadem 110, 5), ha voluto vedere nella kata/basij di Odysseus al regno di Ades l’allegoria di un’originaria consultazione lecanomantica, spiegando come questa, in origine, consistesse nell’osservazione di sangue – animale o umano – contenuto in una pozza.118 Il dato rimanda ancora una volta all’idea di un oracolo organizzato, dotato di un apposito personale; la vicinanza con il santuario oracolare di Dodona ci riporta di nuovo alla tavoletta che abbiamo riportato sopra nella quale si cita uno yuxagw/goj. L’impressione è di muoversi, quasi in un circolo vizioso, in una serie di dati di difficile valutazione, tesi a dimostrare in modi diversi come in Tesprozia – nella communis opinio, dall’età omerica e per un lunghissimo arco di tempo – fosse ritenuta possibile (plausibile) la consultazione dei morti.

116

Alla località di Tartesso, nella penisola iberica, uno scolio a questo passo di Aristofane associa un nekuomanteiªon: Ogden 2001: 26. 117

Ogden 2001: 51.

118

Ogden 2001: 54.

42

3.2 Avernus/Aornos Il gioco delle interpretazioni del “luogo” utilizzato nel testo mitico ovviamente non si esaurisce. Il testo omerico non viene messo in relazione soltanto con il sito di Acheron. La sua associazione con il “lago” Averno risale almeno alla fine del VI sec. a.C., quando la colonia di Circeii, tradizionalmente fondta al tempo del regno di Tarquinio il Superbo (543-510), è menzionata nel trattato cartaginese del 508.119 Il nome la collegava a Circe, identificando l’isola della “dea” con il promontorio situato tra Roma e Cuma, coerentemente con la lunga tradizione – tuttora prevalente in ambito divulgativo – che colloca parte della “topologia omerica” ad ovest dell’Egeo, nella penisola italica.120 Il primo autore ad aver collocato la nekromantei/a di Odysseus presso l’Averno è Eforo (ca. 405-330 a.C.), in un passo citato in Strabone (64 a.C.-ca. 24 d.C.), che assegna al luogo la residenza dei Cimmerii: essi vivono in abitazioni sotterranee ricavate nell’argilla, comunicanti tra di loro attraverso una serie di tunnel, non vedono mai la luce del sole in quanto escono soltanto di notte (e non a causa della “nebbia”, quindi), e la loro sussistenza si basa sul profitto derivante dalle miniere e da coloro che vengono a consultare l’oracolo situato presso di loro, nelle profondità della terra. Strabone, razionalizzando in qualche modo la storia, narra come la presenza di una serie di tunnel effettivamente attestati nella zona, soprattutto in seguito a lavori di disboscamento fatti eseguire da Agrippa, possa essere all’origine di tali racconti.121 Lo stesso Autore si sofferma inoltre sulla natura vulcanica, sulfurea del terreno e delle acque locali, che sembra essere all’origine della toponomastica: non solo nel caso, riferito da Strabone, di Puteoli (da puteo, riferito ai miasmi provenienti dalle acque dell’intera zona), ma anche dello stesso termine latino Avernus, indicante, con un presunto gioco di parole di sapore ironico, un “luogo degli uccelli” (avis), che 119

Ogden 2001: 61.

120

Moderni tentativi di collocare parte del viaggio di Odysseus molto più a nord, nell’Adriatico o addirittura nel Mar Baltico, o di identificare questa o quella precisa località omerica (come l’isola dei Feaci in Sardegna), sono tuttora proposti e divulgati sulla scorta dei più illustri tentativi antichi; cfr. Pellizer, Skheríe, l’Isola che non c’è…, cit. in bibliografia. Si veda anche l’ironico commento di Eratostene, cit. alla n. 160. 121

Ogden 2001: 64-66.

43

trova un corrispettivo nella falsa etimologia del greco Aornos, che vale, al contrario, “luogo senza uccelli” (a-ornis); si riteneva infatti che i gas miasmatici, provenienti da questo o altri simili “laghi” (o stagni, bacini, pozze d’acqua) sprigionanti vapori “mefitici”;122 fossero fatali ai volatili che li avessero sorvolati. Così leggiamo in Virgilio (Eneide VI 237-42): «Spelunca alta fuit vastoque inmanis hiatu, / Scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris, / Quam super haut ullae poterant inpune volantes / Tendere iter pinnis: talis sese halitus atris / Faucibus effundens supera ad convexa ferebat. / [Unde locum Grai dixerunt nomine Aornon]» «C’era una grotta profonda, per vasta voragine orrenda, / difesa dal lago nero e dall’ombra dei boschi. / Su quella nessun uccello impunemente poteva / tender sull’ali la via: tale fiato esalando / dalla nera voragine al cielo convesso saliva. / [Da ciò i Greci chiamarono il luogo col nome d’Aorno]»123

L’Averno – che Virgilio, rifacendosi ad una tradizione precedente,124 mette in diretta relazione con la Sibilla Cumana – è un caso tutt’altro che isolato. Sono noti attraverso Strabone (XIII 4, 14) – ma sembra fossero conosciuti già al poeta Alcmane, nel VII sec. a.C.125 – altri luoghi simili. Un’analogia diretta si stabilisce con gli effetti del ploutw/nion di Hierapolis, in Frigia. Il centro cultuale qui è dedicato alla Mega/lh Mh/thr, Kube/lh.126 Qui una stretta apertura, contraddistinta da una spessa caligine e circondata da un recinto artificiale. Le sue esalazioni nocive che sono fatali a qualunque essere venga introdotto all’interno del recinto stesso; ne sono immuni, almeno per il lasso di tempo in cui riescono a 122

Sul termine “mefitico”, e il suo uso innovativo da parte di Virgilio (Eneide VII 84), oltre che, in generale, sull’importanza delle “acque solforose”, cfr. Chirassi Colombo 2004: 310-12: «[…] ci si deve chiedere perché nella Roma di fine repubblica la Mefitis dell’Irpinia nella prospettiva del poeta augusteo Virgilio viene proposta come un’entità infernale […]». 123

Traduzione di R. Calzecchi Onesti, ediz. Einaudi, (1967) 1989.

124

Già Nevio (ca. 275-200) collegava la visita di Enea all’Averno e alla Sibilla Cimmeria, in Strzelecki, Cn. Naevii Belli Punici Carminis Quae Supersunt, 1959, fr. 12. 125

Ogden 2001: 26.

126

Sul tema, si veda ad es. Sfameni Gasparro 1985.

44

trattenere il respiro, i Galloi, gli eunuchi, “castrati cultuali” della dea.127 La loro resistenza si spiega, per Strabone, con la loro mutilazione, o con il loro rapporto con il tempio, o ancora in virtù di una sorta di “provvidenza” divina (qeiªa pro/noia); non è escluso però che si tratti di una «tecnica speciale che utilizza le modalità dell’intossicazione controllata per ottenere particolari effetti».128 A prescindere da etimologie più o meno plausibili e dai singoli casi, un’analisi attenta dei luoghi d’interesse vulcanico, sulfureo, eventualmente termale, rivelerebbe la relazione – già nota agli antichi, studiata e interpretata da vari autori (in Probl. Phys. XXX, De mirab. 102, di scuola aristotelica, ma anche da Plinio, Nat. Hist. II 207 sgg., Apuleio, De mundo, etc. – tra particolari siti di natura “gassosa”, fenditure del terreno da cui fuoriescono getti d’acqua, soffi, esalazioni, e le loro proprietà o capacità di tipo “oracolare”, profetico, che permettono (quando non siano letali) di conoscere il fatum, il futuro, la volontà divina: «Non si tratta solo di acque ma di situazioni fluide gassose in movimento, i ges stomia della terra che lasciano sfuggire pneumata che provocano stati modificati di coscienza, qualche volta spingono all’enthousian (agitazione da possessione) o all’atrophein (svenimento), ma altre volte a chresmodein, pronunciare oracoli».129 In un’interpretazione “razionalistica”, Cicerone cita a questo proposito gli esempi – di grandissima rilevanza nel mondo antico nella costruzione di modelli di mantica legata ad esperienze di tipo visionario, “estatico” o “entusiastico” – dell’oracolo apollineo di Delfi e di quello “ad incubazione” di Trofonio, a Lebadea in Beozia,130 adducendo per entrambi i casi cause “naturali”. Le notizie che ci informano, per quanto inadeguatamente, sul “funzionamento” del presunto nekuomanteiªon di Avernus sono di valore eterogeneo: ancora da Strabone si desume che i consultanti raggiungessero l’“oracolo” direttamente dal mare, navigando fin dentro il lago (diversamente da Enea…), mentre da Massimo di 127

Ogden 2001: 26, e soprattutto Chirassi Colombo 2004: 306.

128

Chirassi Colombo 2004: 306.

129

Chirassi Colombo 2004: 305-6.

130

Si veda anche, per Trofonio, il viaggio “sciamanico” (ovvero, che utilizza modelli “sciamanici”) compiuto da Timarco, descritto da Plutarco nel De Genio Socratis: Chirassi Colombo 1996: 437-39.

45

Tiro (metà del II sec. d.C.) apprendiamo il consueto schema dell’apparizione dello “spirito” (eiÃdwlon) o anima (yuxh/) resa possibile dagli evocatori (yuxagwgoi/) dopo gli usuali riti sacrificali e libatori. Ancora una volta il contributo dell’archeologia, per quanto importante, può portare a risultati fuorvianti qualora i dati vengano interpretati solo sulla base di consolidate suggestioni letterarie, senza coinvolgere una prospettiva storico religiosa. Una mancanza più volte sottolineata da Angelo Brelich soprattutto attraverso il suo lungo contributo di recensore sulla sua rivista, la pettazzoniana Studi e Materiali di Storia delle Religioni131. Tali suggestioni sono tanto più tenaci nei casi dell’Acheron e dell’Avernus di quanto non lo siano per gli altri nekuomanteiªa. Lo dimostra ampiamente il fatto che la lunga galleria artificiale scavata nei pressi di Cumae nel 1932 risulta essere qualche cosa d’altro. Le caratteristiche in effetti presentano di primo acchito stimolanti analogie con l’“antro” virgiliano 132 – le aperture nella roccia che ricordano i “cento aditi” e le “cento porte” (aditus centum, ostia centum: VI 43 e 81) e la camera interna, a pianta cruciforme, che “sembra” quella della Sibilla. Tutto questo fa sì che il sito sia tuttora indicato come l’antrum immane visitato da Enea, pur essendo per lo più riconducibile ad epoca romana o addirittura al periodo tardo-imperiale.

3.3 Tainaron Alle problematiche inerenti il sito di Tainaron, presso Capo Malea (attuale Capo Matapan) si è brevemente accennato. L’identificazione del sito con un nekuomanteiªon – nonostante la sua “fama” di “ingresso agli inferi”, che avrebbe visto il passaggio di Herakles,133 Orpheus e Theseus – è difficoltosa sia che lo si voglia collocare nella piccola caverna naturale adiacente la baia oppure nel recinto 131 132

Chirassi Colombo 2005. Ogden 2001: 71.

133

Cfr. ad es. Apollodoro, Biblioteca II 12; ma altre versioni conoscono la discesa di Herakles ad Herakleia Pontica, come in Senofonte, Anabasi VI 2, 2.

46

rettangolare antistante la sua entrata, sia che lo si voglia collegare in qualche modo al limitrofo tempio di Poseidon, tra i cui resti figurano tra l’altro elementi architettonici di età ellenistica.134 Lo stesso Pausania fu colpito dalla mancanza di passaggi o sentieri che mettessero in comunicazione l’Ade con il mondo soprastante; il luogo difficilmente avrebbe potuto ospitare una dimora (oiÃkhsij) sotterranea in cui gli dèi potessero radunare le anime dei defunti.135 La proposta di alcuni studiosi moderni di “spostare” la sede dell’“oracolo” nella vicina ed effettivamente più ampia grotta marina, oggi chiamata (forse senza troppa fantasia) “Caverna di Ade”, non trova alcun riscontro letterario.136 Di qualche interesse sono invece i resoconti di consultazioni ambientate nel nekuomanteiªon del Tainaron. Il passo che instaura con più evidenza un nesso tra il sito di Tainaron ed una consultazine necromantica è quello contenuto nel lessico Suda, alla voce “Archiloco”: vi si apprende di come Calondas, soprannominato “Corax” (Ko/rac, “Corvo”), dopo aver ucciso il poeta Archiloco (vissuto nella prima metà del VII sec. a.C.) si recasse a consultare la Pizia, ma questa, riconoscendo l’impurità dell’uomo, lo respinse; mosso a pietà dalle sue suppliche, il dio lo inviò allora a Tainaron, luogo di sepoltura di Tettix (Te/ttic, “Cicala”), per propiziarsi lo “spirito” del poeta defunto. Così fece, liberandosi dalla collera divina. Il riferimento alla figura di Tettix, presente anche nella versione plutarchea della storia e in Esichio (s.v.) – il quale spiega che il cretese Tettix aveva colonizzato il promontorio di Tainaron – ha indotto a pensare a questo nome come ad un “mediatore”, colui che introduce ai consultanti dell’“oracolo” gli “spiriti” richiesti;137 anche un’interpretazione figurata, nella quale il “corvo” si rivolge alla “cicala” – epiteto con il quale lo stesso Archiloco si era identificato nella sua opera (fr. 223 West) – è possibile.138 La ricca simbologia che la cultura greca associa a questo 134

Ogden 2001: 35.

135

Pausania III 25, cit. in Ogden 2001: 35.

136

Ogden 2001: 35.

137

Ogden 2001: 38.

138

Ogden 2001: 39: «The battle between Corax and Archilochus had, accordingly, been a battle between the crow and the cicada, and again we draw near the world of Aesop».

47

insetto rischia però di conferire a tali osservazioni un valore limitato. Indissolubilmente legata alla musica – cioè alle Muse, di cui è “profetessa” 139 – la cicala è una creatura “sacra” (i(ero/j),140 simile agli dèi, simbolo nel Fedro platonico dell’anima che perviene, liberata dal legame con la materia, alla contemplazione suprema; ma la sua natura “terrena”, al contempo, la inserisce in una dimensione ctonia che la accomuna a molti altri animali (ad es. talpe, topi, serpenti e rettili in genere, ma anche le api),141 ritenuti essere di origine sotterranea: «[…] la cigale s’est imposée d’abord comme l’agent intermédiaire, ensuite comme le symbole des forces vivifiantes que Gaia, mère commune et généreuse, partage entre tous ceux qu’elle a, originellement, engendrés».142 Lo stesso Platone (Simposio 191 c) la definisce ghgenh/j, nata dalla terra, ma il termine rimanda ad un altro ordine di significati simbolici, l’importante concetto di autoctonia, «l’étroite et riche corrélation qui a été, si soigneusement, cultivée entre la Terre, les Athéniens et l’insecte […]».143 Come ciò possa collegarsi in modo costruttivo al nekuomanteiªon di Tainaron, anche a prescindere dai singoli episodi di consultazione ad esso legati, fornendo di senso la menzione da parte di molti autori di un sito tradizionalmente associato alla prassi necromantica, è da dimostrare, a patto che si rifletta sulla possibilità di rinvenire, nelle scelte linguistiche e concettuali dei medesimi autori, significati profondi e complessi, che una lettura “allegorica” o superficialmente simbolica rischia di trascurare.

139

Platone, Fedro 262 d: «oi( twªn Mouswªn profhªtai».

140

Plutarco, Quest. conv. VIII 7, 3.

141

Sulla simbologia dell’ape, cfr. paragrafo 7.4.

142

Bodson 1975: 18; più ampiamente, sulla simbologia della cicala, cfr. pp. 16-20.

143

La “musicalità” della cicala si inserisce inoltre in un circuito molto interessante di comunicazione sonora dalle varie implicazioni: si rinvia ancora a Bodson 1975: 18.

48

3.4 Herakleia Pontica Un altro luogo di “passaggio” è il sito, ubicato presso la costa meridionale del Mar Nero. Si tratta di Herakleia Pontica, una colonia fondata dai Megaresi nella metà del VI sec. a.C. (ca. 560) nel territorio dei Mariandini, in uno dei vari luoghi associati ad una delle tradizionali mitiche imprese dell’eroe eccellente Herakles, la cattura del cane infernale Kerberos, secondo quel procedimento (cui si è solo vagamente accennato) che tende a “moltiplicare” le sedi legate ad un’impresa mitica adattandole di volta in volta alle circostanze (topografiche, linguistiche) locali. Il luogo è citato più volte in rapporto a consultazioni divinatorie per le quali possiamo ricostruire anche date precise. Una datazione è fornita dal resoconto di Plutarco (Cimone VI) che vi situa la consultazione del re spartano Pausania, che sarebbe avvenuta nel 479-77; Il commentatore Ammiano, nel IV sec. d.C., riferisce che ai suoi giorni il nekuomanteiªon esisteva ancora.144 Una bella e relativamente accurata (tenendo conto delle peculiarità del linguaggio poetico) raffigurazione del luogo è quella presente nel II libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio (vv. 727 sgg.), che nel descrivere la “grotta di Ade” (spe/oj 'Ai/dao), circondata da rocce e foreste, e dalla quale spira un soffio gelido, vi colloca naturalmente anche il fiume Acheronte e la profonda voragine (koi/lh fa/ragc) attraverso la quale scorre. Comunque la descrizione poetica è lontana dalla visione “reale” dell’accesso agli inferi di Herakleia. Almeno da come ce lo descrive un altro poeta, Quinto Smirneo (IV o III sec. d.C.), nei suoi Posthomerica (VI 469 sgg.): una vasta caverna dall’aspetto almeno parzialmente artificiale, dotata di molti oggetti ed elementi decorativi ricavati nella pietra; vi sono, è vero, due “sentieri” che permettono la “salita” e la “discesa” e vi è la presenza di acqua. Tuttavia il sito, studiato da Hoepfner negli anni ’60 e attualmente identificato con il nekuomanteiªon delle fonti, non rispecchia che in parte le descrizioni. La notizia di Senofonte (Anabasi VI 2,2), secondo la quale la cavità era profonda più di due stadi, getta ulteriore incertezza su quella che rimane un’ipotesi interpretativa.145 Ancora una volta la 144

Ogden 2001: 29-30.

145

Ogden 2001: 32-33.

49

“realtà” dell’archeologia sembra non tradurre i suggerimenti della ricerca storica letteraria. Il racconto plutarcheo è l’unico resoconto letterario di consultazione ambientato a Herakleia. La storia, che l’Autore riferisce anche in un’altra versione (De sera num. vind. 555 c), narra di come il re Pausania, dopo aver inavvertitamente ucciso la giovane moglie Cleonice, fosse in seguito tormentato dal “fantasma” di lei, che soleva visitarlo durante la notte, in sogno. Il re va al nekuomanteiªon di Herakleia per placare la sua collera, e Cleonice – la sua “ombra” – risponde ricorrendo al linguaggio enigmatico; al marito interrogante risponde con un “indovinello”, relativo alla morte che lo attendeva.146 La vicenda, che ricorda “stranamente” l’episodio di Calondas e Tettix (paragrafo precedente) e, per altri versi, quello di Periandro e Melissa (capitolo 7), può trovare varie interpretazioni; anche in questo caso, ad esempio, abbiamo dei “nomi parlanti”: quello di Cleonice (“dalla vittoria gloriosa”) può trovare riscontro nelle recenti imprese belliche di Pausania, mentre quello del padre di lei, Coronide (“figlio del corvo”) potrebbe riferirsi alla natura “spettrale” di questi volatili. 147 Segnaliamo di passaggio che i corvi sono uccelli divinatori per eccellenza. Questi dati rispecchiano una parte delle considerazioni che si possono trarre da tali problematici testi. Un riesame dei testi stessi può farci capire come si costruisce una tradizione. Accenniamo solo al fatto che il riferimento al “sogno” potrebbe far sospettare un nesso con la pratica dell’incubazione; se aggiungiamo l’incoerenza (almeno dal nostro punto di vista) da parte di Plutarco nell’uso dei termini riferiti all’“oracolo” – nekuomanteiªon nel Cimone, yuxopompeiªon nei Moralia – non è difficile comprendere come si sia giunti a proposte esegetiche come muxopo/ntion (“cavità, insenatura marina”), forma non attestata altrove ma che ha il non disprezzabile pregio di far collimare le “insenature” (o “recessi”, muxo/j) di Apollonio Rodio con quelle di Quinto Smirneo. Perché rinunciare alla possibilità di avere, con un accorgimento linguistico, non un semplice nekuomanteiªon, ma

146

Ogden 2001: 30-31.

147

Ogden 2001: 32, citando Plinio, Nat. Hist. VII 174.

50

proprio quello di Herakleia Pontica, dal quale nel mito lo stesso Herakles trasse il guardiano degli inferi, Kerberos?

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4. La Nekyia omerica

Molte sono le testimonianze letterarie che non solo citano o riferiscono esempi di consultazioni “estreme” come quelle di consultazione dei morti, e di tali pratiche offrono una descrizione talvolta non avara di particolari. E tuttavia dobbiamo ammettere che è difficile ricavare schemi coerenti, omogenei, regole valide per tutti i casi, tali da indurci a supporre l’esistenza effettiva, rituale, di una pratica omologata. È difficile cioè supporre l’esistenza della necromanzia come pratica riconosciuta in qualche modo “lecita” mentre sicuramente è documentata la sua esistenza come pratica diversamente illecita.

4.1 Premessa La Nekya omerica – al contrario dei casi dei quali ci siamo sino a qui occupati – ci propone una pratica di consultazione dei morti collocata tutta nel tempo del “mito”, cioè in quella dimensione tutta altra, in quel passato sentito come “mitico”, cioè totalmente diverso dall’attuale. La prospettiva omerica propone infatti l’esperienza di Odysseus eroe greco, quindi essere extra-umano mitico per eccellenza, che agisce «non in un passato qualsiasi, bensì in un tempo che era differente da quello presente: vi erano condizioni differenti da quelle che nel tempo della narrazione si ritengono normali […]», per dirla con il Brelich.148 In questa prospettiva la cosiddetta “nekyia” omerica (Odissea, XI) si propone come emblematico evento mitico. Come tale da confrontare con il noto passo biblico della “necromante” di En-dor (Samuele I 28, 3-25) nella contrapposizione del mito e della storia.

4.2 Odysseus, l’evocatore d’ombre 148

Brelich 1966: 9.

52

L’arrivo di Odysseus alle “ammuffite” dimore (do/mon eu)rw/enta, Od. X 512)149 di Ade e la successiva evocazione dello “spirito” dell’indovino Tiresia non è, come sappiamo, frutto di una libera scelta, né uno dei tanti espedienti dell’“astuto” e “multiforme” principe acheo, ma un penoso dovere, una tappa dolorosa e dovuta. Con una battuta, saremmo tentati di dire che il protagonista dell’epos omerico ad un certo punto diventa, si improvvisa quasi, necromante suo malgrado. All’uomo del no/stoj, al guerriero sulla via del ritorno, al viaggiatore infaticabile, dopo aver vagato in lungo e in largo, e prima di altrettante peregrinazioni che si sviluppano in un ampio arco di tempo e di spazio, tocca il difficile compito di affrontare e confrontarsi con le schiere dei trapassati, le “stirpi illustri dei morti” (kluta\ eÃqnea nekrwªn, Od. X 526) in un contesto “favoloso”, cupamente tratteggiato, dalle coordinate geografiche e temporali incerte, ambiguamente tracciate. Ne deduciamo che la consultazione dei defunti, il loro richiamo in “vita” – ad una “vita” illusoria in una forma inconsistente, fugace e sempre transitoria150 – nell’immaginario omerico è dunque un atto increscioso, sgradevole, e in quanto tale non ricercato se non in vista di una reale, o presunta tale, necessità. È forse lecito interrogarci, a questo punto, sulla funzionalità della nekyia all’interno della struttura del poema: l’“evocazione” di Odysseus è proprio necessaria? Tra gli studiosi vi è chi lo ha negato in questi termini: «Circe comanda ad Ulisse di andare all’Ade, affinché laggiù Tiresia «gli mostri la via ed il modo del ritorno e come possa tornare in patria sul pescoso mare» (Od., 10, 539 sg.). Tiresia, rintracciato nel regno delle ombre, soddisfa a questa domanda in modo affatto incompleto e molto alla sfuggita; quando poi Ulisse ritorna da Circe, ella lo informa più completamente e gli dà anche informazioni più chiare su un certo punto già toccato da Tiresia, sui pericoli che lo aspettano

149

Le traduzioni dei passi omerici citati sono di G.A. Privitera, ediz. Classici A. Mondadori (su licenza Fondazione Valla, 1981), 2004. 150

Si veda a proposito la curiosa “fretta” di Dario, evocato da Atossa (meglio, da Atossa e dal Coro dei Persiani), in Eschilo, Persiani 692 sgg. (paragrafo 6.4).

53

ancora nel ritorno. Il viaggio nel regno dei morti non era dunque necessario; non c’è nessun dubbio che in origine mancava assolutamente»151

Tralasciando qualsiasi conclusione di natura filologica o testuale, dal passo citato ricaviamo due assunti interessanti per il nostro argomento. In primo luogo, Odysseus compie il suo viaggio all’ingresso del regno dei morti di malavoglia, su inderogabile ordine e dietro le precise indicazioni di Circe, la dea “esperta di filtri” (Ki/rkhj... polufarma/kou, Od. X 276), conoscitrice di “astuzie funeste” (o)lofw/i+a dh/nea, Od. X 289), “maga” potente, consigliera sapiente, e tuttavia contraddistinta da tratti tipicamente umani, che la pongono quasi in una zona d’incontro tra l’umano e il divino, in un ambiguo statuto tra donna e dea, rendendola partecipe di entrambe le nature.152 Inoltre Tiresia, il cieco veggente, l’indovino per antonomasia la cui sofferta figura appare in molteplici vicende dell’immaginario mitico greco, al quale Persefone ha permesso di mantenere i suoi dolorosi saperi anche da morto (Od. X 492-5), è chiamato a dare un responso incompleto, insufficiente, inferiore per qualità – e quantità – a quello che la stessa Circe, molto più esaustivamente, fornirà in seguito. In numeri, la “profezia” di Tiresia si limita a 38 versi: Od. XI 100-137 – più la stringata e insoddisfacente risposta alla precisa domanda di Odysseus “come può [mia madre] riconoscere che sono io?” – contro i 100 versi esatti di Circe (Od. XII 37-110 e 116-141). Gli ultimi ripetono, in modo formulare, gli stessi dell’indovino – o viceversa, quelli riprendono questi). Portando l’idea alle estreme conseguenze, si potrebbe forse affermare che l’evocazione necromantica di Tiresia sia, se non del tutto inutile, funzionalmente inefficace. Le “vere” ragioni dell’inserimento dell’episodio in questione nel testo omerico sono al di là degli interessi (oltre che delle possibilità) del presente lavoro. Riportiamo la tesi del Rohde, autore di Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i

151

Rohde 1970: 52 (corsivo nostro).

152

Al riguardo, si veda più oltre, paragrafo 4.3.

54

Greci, solo per completezza, limitandoci a sottolineare come il dialogo con il defunto indovino serva «soltanto minimamente a far conoscere lo stato e la disposizione degli spiriti»: a fronte del notevole disagio di dover compiere, con una sensibile deviazione del proprio percorso, un rito sentito (descritto) come pericoloso – quasi una vera e propria “discesa agli inferi” o kata/basij153 – relativamente poche, secondo lo studioso, sono le informazioni che Odysseus ricava non solo su ciò che più gli sta a cuore, il futuro, l’esito del proprio viaggio, ma anche sullo stesso mondo infero.154 «[Omero] si servì della (superflua) informazione da richiedersi a Tiresia, soltanto come di un pretesto, in vero poco saldo, per avere un’occasione esterna di inserire il suo racconto nell’Odissea. Il vero scopo del poeta ed il reale motivo della poesia si deve cercare in qualche cosa che non sia la profezia di Tiresia, che è poi così stranamente breve ed insignificante […]. Si vede allora che il nucleo originario del componimento non è altro che una serie di dialoghi di Ulisse con le anime di quei morti, con cui egli ha avuto stretti rapporti personali […]. Queste conversazioni nel regno de’ morti […] servono soltanto minimamente a far conoscere lo stato e la disposizione degli spiriti nell’enimmatico al di là, poiché domande e risposte si riferiscono puramente a fatti che riguardano il mondo di su. Esse congiungono spiritualmente Ulisse, che da tanto tempo erra solitario, lontano dai regni dell’umanità operosa, colle sfere della realtà, cui tendono i suoi pensieri, in cui egli ha operato un giorno, ed in cui tornerà ad operare nella pienezza delle sue forze»155

Il senso della nekyia, del dialogo oltremondano di Odysseus va ricercato, secondo il Rohde, non tanto nella ricerca di un sapere escatologico, di una conoscenza “sovrumana” naturalmente preclusa ai vivi, ma nella funzione di “legame”

Si veda l’eloquente appellativo usato da Circe al ritorno di Odysseus e compagni: disqane/ej, “mortali due volte” (Od. XII 22). 153

154

In realtà, si vedano le dettagliate ed istruttive informazioni di Anticlea sul processo di “disfacimento” dei corpi al momento della morte (Od. XI 216-224), con la curiosa avvertenza: “tutto questo tu sappilo, per dirlo anche dopo a tua moglie”. Un indiretto resoconto del mondo infero ci viene anche dalla problematica descrizione dei tormenti di Tizio, Tantalo e Sisifo, Od. XI 576-600. 155

Rohde 1970: 52-53 (corsivo nostro).

55

(“magico”? psicologico?) dello stesso Odysseus con il mondo che ha abbandonato e al quale il suo viaggio tende, la propria dimensione umana, familiare (della quale l’incontro con la madre defunta sembra quasi essere un’anticipazione), come se le “rivelazioni” di Tiresia non servissero tanto ad anticipare i futuri pericoli del viaggio – a questo penserà Circe con maggior precisione di dettagli – quanto a confermare la sua possibile riuscita, il presumibile ritorno. Tiresia non dà certezze, ma una serie di ammonimenti o indicazioni presentate sotto forma di alternativa: “Ma anche così potresti arrivare […] se sai trattenere l’animo tuo…; Se queste le lasci illese […] potrete ancora arrivare ad Itaca…; se però le molesti…; e tu, seppure ne scampi…” (Od. XI 104-113); le “parole veraci” (nhmerte/a eiÃpw, Od. XI 96) promesse all’inizio dall’indovino tebano in cambio del sangue versato da Odysseus si concludono, dopo un breve accenno (veritiero) alla strage dei pretendenti, con la celebre e discussa “profezia del ventilabro” il cui assunto finale – “Per te la morte verrà fuori dal mare…” (qa/natoj de/ toi e)c a(lo\j [...] e)leu/setai, Od. XI 1345) – è quanto mai ambiguo e tuttora oggetto di discussione, nonostante la rinnovata dichiarazione di veridicità: “Questo senza errore ti annunzio” (ta\ de/ toi nhmerte/a eiÃrw, Od. XI 137).156 Ma quali sono le condizioni, le modalità in cui avviene il rito descritto nella nekyia? Una prima osservazione ci viene offerta dal luogo. Odysseus giunge per mare, dopo un giorno di viaggio, “ai confini dell’Oceano profondo” (e)j pei/raq' iÀkane baqurro/ou 'Wkeanoiªo, Od. XI 13), nella misteriosa terra dei Cimmeri, nebbiosa, perennemente buia, dalla vegetazione sterile (Od. X 510), sede, tra l’altro, del luogo nel quale hanno origine i sogni157: qui vi sono le selve di Persefone e le dimore di Ade, e qui va consumato il rito. L’indicazione di Circe non manca di precisione, 156

Devo a E. Pellizer molte riflessioni sulla composizione e la struttura narrativa dell’Odissea; segnalo qui solo l’idea dell’ambiguità della “profezia del ventilabro”, e i numerosi, irrisolti problemi sulla “spazialità” dei viaggi omerici, più sotto appena accennati. Si veda a tale riguardo anche: E. Pellizer, “Skheríe…” (inedito, cit. in bibliografia). Sulla “morte dal mare” inflitta a Odysseus dal figlio Telegono (avuto da Circe) con un’asta avente “come punta la spina di una tracina”, si veda Apollodoro, Biblioteca, Epitome VII 36 e relative note nel commento di J.G. Frazer: ediz. Adelphi, 1995, a cura di G. Guidorizzi, oppure A. Mondadori-Fond. Valla, 1996, a cura di P. Scarpi, trad. di M.G. Ciani. Anche Pellizer 1982(b). 157

Cfr. più sopra, paragrafo 2.1.2.

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segnalando il punto preciso nella confluenza dei fiumi Piriflegetonte e Cocito (un ramo dello Stige) nell’Acheronte. Non fa meraviglia che gli stessi antichi abbiano voluto identificare lo scenario della nekyia. Una proposta chiama in causa l’odierno sito presso Ammoudià, nell’Epiro, Tesprozia, caratterizzato dagli omonimi fiumi, fino alle identificazioni moderne, come quella di Dakaris (a partire dal 1958), dell’edificio ivi presente con un nekuomanteiªon (in seguito riconosciuto come una “tower-farm” di epoca ellenistica),158 puntualmente riprese anche a livello divulgativo.159 Tralasciamo i numerosi, improbabili benché spesso ingegnosi tentativi di localizzare geograficamente il luogo, che si susseguono fin dall’antichità (e che già Eratostene di Cirene derideva).160 Nel poema si nota subito l’ingresso in uno spazio diverso, totalmente altro, negativamente delineato (mancanza di luce/di vita – posto di tenebre/di morte) rispetto allo spazio “civile”, “politico” – e contrapposto quasi simmetricamente alla po/lij “perfetta” dei Feaci, luminosa, accogliente – dei vivi. È il luogo più adatto – l’unico, forse, almeno nell’epos omerico – in cui l’evocazione dei morti sia non solo permessa, ma facilmente eseguibile.161 Più articolata è la riflessione riguardo il modo, cioè sulla prassi rituale che richiede l’attenzione scrupolosa “religiosa” nel senso dell’etimo latino, di ogni singolo atto. Secondo le prescrizioni di Circe, Odysseus scava una fossa “di un cubito” per ogni lato, versa la triplice offerta “per tutti i defunti” (pa/sin neku/essi) di latte e miele, 158

Sulla teoria di Dakaris e la sua demolizione, vedi Ogden 2001: 19-21.

159

Polacco 2003, dove l’Autore, accettando senza riserva l’interpretazione di Dakaris, accosta il presunto nekyomanteion «all’idea di un ombelico negativo del cosmo, di una specie di anti-Delfi. Nulla che sia più lontano da Apollo da tutto ciò», secondo l’antitesi Delfi/nekyomanteion (oracolo solare/oracolo dei morti) priva di giustificazioni storiche, che ricorda l’annosa questione della contrapposizione – tutta moderna – “apollineo/dionisiaco” (sul tema, cfr. C. Isler-Kerényi, “Mitologie del moderno: «apollineo» e «dionisiaco»”, in S. Settis (a cura), I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. 3, Torino, Einaudi, 2001). Eratostene (III sec. a.C.) nei suoi GEWGRAFIKA contestava l’accanimento nel voler considerare Omero una fonte storica, sostenendo che scopo dei poeti è dilettare, non insegnare: sua la battuta per la quale “qualcuno potrà scoprire dove vagò Odysseus se troverà il cuoiaio che cucì l’otre dei venti” (Rossi 2003: 30; 570). 160

161

Il pensiero va, per contrasto, alle numerose attestazioni di riti “magici” dei più tardi papiri, che sembrano calati in una dimensione “quotidiana”, quasi domestica, privata, come sembra indirettamente suggerire anche lo studio di Eitrem 1991.

57

vino e acqua cospargendola di farina bianca di orzo (troveremo la stessa tipologia in molti casi di necromanzia: si veda ad esempio l’“offerta funebre” nei Persiani di Eschilo). Dopo aver assicurato il sacrificio, una volta tornato a Itaca, di una vacca sterile e, soltanto per Tiresia, di un montone nero, avviene il sacrificio vero e proprio (quasi replica e promessa, non mantenuta, di quello futuro): Odysseus immola (r¸e/cein) un montone nero ed una pecora nera “piegandoli giù verso l’Erebo” (ei)j ÃEreboj stre/yaj, Od. X 528) ovvero verso la fossa nella quale il sangue scorre “fosco come nube” (Od. XI 36). Quindi, appena giungono, accalcandosi, le “anime dei morti defunti” (yuxai\ [...] neku/wn katateqneiw/twn, Od. X 530 e XI 37), i compagni di Odysseus devono scuoiare e bruciare le bestie sgozzate, pregando “Ade possente e la tremenda Persefone” (i¸fqi/m% t¡ ¡Ai+/d$ kai\ e)pain$ª Persefonei/$, Od. X 534 e XI 47). Così ci descrive la scena un grande studioso e “narratore di miti”: «[Odysseus] Vede allora avanzare verso di lui la folla di coloro che sono nessuno, outis, come lui stesso ha preteso di essere, i senza nome, i nonymoi, coloro che non hanno più un volto, che non sono più visibili, che non sono più nulla. Formano una massa indistinta di parvenze, di esseri che sono stati un tempo individui, ma di cui adesso non si sa più niente. Da tale massa che sfila compatta di fronte a lui, sale un rumore spaventoso e indistinto. Gli esseri non hanno nome, non parlano, un rumore caotico li circonda. Ulisse è assalito da un terrore fortissimo di fronte a uno spettacolo che presenta ai suoi sensi la minaccia di una dissoluzione totale in un magma informe. La sua parola così accorta è sommersa in un rumore non udibile, la sua gloria, la sua fama, la sua celebrità sono dimenticate, con il rischio di perdersi in questa notte. Appare nel frattempo Tiresia»162

162

Vernant 2000: 107-8 (“I senza nome, i senza volto”).

58

Allora, tratta la spada, Odysseus impedirà alle anime di avvicinarsi al sangue prima che ne abbia bevuto Tiresia.163 Si tratta dell’ai¸makouri/a, offerta di sangue ai (o libagione da parte dei) morti (da kore/nnumi, saziare, saziarsi), che dovrebbe restituire alle “teste senza forza dei morti” (neku/wn a)menhna\ ka/rhna, Od. X 536 e XI 49) la perduta capacità (propria dei vivi) di riconoscere e ricordare cose persone ed eventi – non necessariamente quelli futuri: Tiresia viene richiesto ed interrogato non in quanto morto, ma in quanto “sapiente” (indovino/veggente) già in vita: il sangue non dovrebbe essere necessario per la sua predizione in quanto, lo si è visto sopra, anche da morto ha mantenuto i suoi “saperi”. Ciò dovrebbe valere, analogamente e a maggior ragione, per tutti gli altri conoscenti che Odysseus incontra, pur non “reclamati”, che non hanno posseduto in vita simili capacità e che dimostrano, com’è prevedibile, scarsa o nulla conoscenza delle cose “mondane”: la madre Anticlea, informata degli eventi recenti (ma non del futuro) ed i vecchi compagni d’arme come Agamennone, il quale si dilunga sul racconto della propria morte, ed Achille, che esprime l’amarezza della nuova condizione. Costoro, quasi con un ribaltamento di ruoli, chiedono a Odysseus, che da interrogante si fa interrogato, notizie su lui stesso o sui loro cari ancora vivi. Sembra quasi che l’ai¸makouri/a sia un espediente consueto, tipico, associato a tale genere di riti: se non proprio un topos letterario, quantomeno un accorgimento o “ingrediente” tradizionalmente accolto nella descrizione – letteraria o documentaria – delle pratiche di “evocazione”. Un’ultima osservazione, a proposito dell’ efficacia del sangue, che può farci riflettere se non riconsiderare quanto appena detto, è legata alla prescrizione di Circe di voltare lo sguardo durante lo sgozzamento degli animali. Citando ancora da Ogden: «Odysseus holds his gaze back toward the river of Ocean. Clearly at the moment of sacrifice the gaze creates a devotional bond with its object, so that Odysseus must 163

Notevole in questo senso l’irrisolta, e irrisolvibile, contraddizione tra l’“inconsistenza” delle “anime” e la possibilità (necessità) di tenerle lontane dal sangue tramite un oggetto fisico, la spada, quasi potessero esserne danneggiate. Sul “potere” del bronzo o del ferro sugli “spiriti” vedi però Ogden 2001: 180; ancora, sulla spada di Odysseus quale “controparte” della bacchetta di Circe o del bastone di Tiresia, Ogden 2001: 183; in modo più incisivo, per una analisi approfondita in chiave strutturalista dell’“incontro/scontro” tra Odysseus e Circe (di cui si tratterà nel seguente paragrafo), cfr. Pellizer 1982 (b).

59

look back to the land of the living if he wishes to return to it».164 Il concetto è ancora una volta quello del “legame” che si instaura tra l’officiante (o gli officianti, visto che i compagni partecipano attivamente al rito) e le “potenze” – i morti, o più ragionevolmente le divinità preposte, Ade e Persefone – che vengono evocate affinché il rito abbia buon fine. In altre parole, e in un certo senso, il sangue della ai¸makouri/a sembra essere più importante, più funzionale, per chi lo versa, che per chi lo riceve e ne fa uso.

4.3 Una divina consigliera. La “dea” Circe Se Odysseus è l’involontario “officiante” del rito, colui che fa, che agisce attivamente sulla “scena”,165 Circe è colei che lo guida, anche se a distanza, con le parole, che indica la via e descrive gli atti necessari: se Odysseus è l’“attore” (per usare ancora la metafora teatrale), Circe è la sua “regista”. Ma qual è il suo ruolo, ovvero quali sono le caratteristiche che la legano e la collegano alla nekyia omerica? Non si tenterà certo di delineare il profilo di una figura complessa come questa, ma solo di mettere in evidenza alcune sue caratteristiche: dea, donna, tradizionalmente “maga” – anche se non viene mai definita così nel testo: il termine ma/go» non è ancora noto al lessico di Omero – Circe è la figlia di Helios (il Sole), il cui statuto “marginale” sembra non impedire l’accostamento (semmai favorirlo), in apparente contraddizione, tra la propria natura “solare” e la sfera ctonia, terrena, “mortale” nel senso di connessa alla morte e alla dimensione dei morti. K. Kerényi sottolinea per Kirke: «L’elemento arcaico affiora attraverso lo stile omerico-classico e ci trasporta nell’atmosfera di un mondo selvaggio, senza tempo, proprio di un’antichissima 164

Ogden 2001: 172 (corsivo nostro).

165

Usiamo il termine pensando ancora al dramma eschileo Psycagogoi sopra citato, e al parallelo con i Persiani del medesimo Autore: per i possibili adattamenti scenografici – passaggi sotto il palcoscenico o “tumuli” al di sopra per la “salita” dello “spirito” evocato – vedi Broadhead 1960: 309 e Ogden 2001: 3; cfr. n. 276.

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poesia di miti». «[…] questa divina incantatrice ha da fare anche con la sfera ctonia, come Demetra e Persefone, i cui animali sacri sono i porci»166

Tentiamo di evidenziare alcuni dei tratti che la definiscono, confinandola nel mondo del “mito” (del tempo “senza tempo”), del “selvaggio”,167 e al tempo stesso accomunandola ad alcuni aspetti del vivere umano, “civile”: «Il mitologema di questa donna solare ha il fascino del favoloso. È la storia di una dea “dalle belle trecce, terribile, dalla voce umana”, in virtù del suo canto seducente e forse più stridulo che melodico».168 Il riferimento è all’espressione li/g¡ aÃeiden (“voce spiegata”, Od. X 254) messa in relazione con il ligur$ª... a)oid$ª (“limpido canto”, Od. XII 44) che la stessa Circe attribuisce alle Sirene e che Odysseus puntualmente riprende nel proprio racconto (Od. XII 183), laddove liguro/j può ambiguamente definire anche un suono stridente o sibilante (nello stesso Omero, Il. XXIII 215 è associato al vento) – mentre le Sirene, astutamente, definiscono la propria voce meli/ghrun, “suono di miele”, Od. XII 187. Si noterà solo di passaggio che il termine li/ga, ammesso che effettivamente possieda un qualche valore negativo, è utilizzato dal solo Euriloco – che ha assistito alla trasformazione dei compagni e desidera sfuggire, anziché incontrare, Circe – nel suo resoconto, che ha il presumibile scopo di metterla per così dire in cattiva luce presso Odysseus e gli altri; i primi che la incontrano, quasi fossero già sotto l’effetto di un incantesimo sonoro (come avverrà per le Sirene!), trovano anzi che “con voce bella cantava” (a)eidou/shj o)pi\ kal$ª, Od. X 221) e che “canta in modo perfetto” (kalo\n a)oidia/ei, Od. X 227). L’ambivalente connessione di Circe con le Sirene (anch’esse definite, non a caso, qespe/siai, “divine”, ma anche “dalla voce divina, profetica”, 169 Od. XII 158), da un lato, e dall’altro con la sfera umana è suggerita anche in relazione al suo 166

Kerényi 1991: 66-67.

167

Frontisi-Ducroux 2003: 67: «Dans l’Odyssée, l’île de Circé est située en marge de la civilisation, dans ce monde de Nulle Part où Ulysse erre longuement avant de retrouver Ithaque». 168

Kerényi 1991: 65.

169

Con questa valenza, il termine ricorre ad es. in Eschilo, Agamennone 1154 ed Euripide, Andromaca 296.

61

agire, ai suoi gesti ed azioni: «Ma Circe, […] rimane in tutte le sue azioni umana. […] E umana è anche quando canta intenta “alla grande tela”, benché a questo seducente canto ci ricordiamo sinistramente della voce mortalmente incantatrice delle Sirene».170 Un nesso non trascurabile ci sembra intercorrere tra Circe e le Sirene, il ruolo delle quali è stato evidenziato in modo suggestivo da J.-P. Vernant: «[…] Le Sirene rappresentano insieme il richiamo del desiderio di sapere, l’attrazione erotica – la seduzione stessa –, e la morte. Ciò che dicono a Ulisse, in un certo senso, è ciò che si dirà di lui quando non ci sarà più, quando avrà superato la frontiera fra il mondo della luce e quello delle tenebre, quando sarà diventato l’Ulisse dei racconti che gli uomini hanno creato e del quale io sto qui rammentando le avventure. Le Sirene gliele narrano mentre è ancora vivo, come se fosse già morto»171

È forse lecito chiedersi se il canto di Circe – che forse spiega in parte l’impellente necessità che spinge Odysseus ad andare da lei172 – non abbia analoghi intenti. La “dea tremenda con voce umana” (deinh\ qeo\j au)dh/essa, così definita in Od. X 136, XI 8, XII 150) viene dunque presentata, fin da subito, come intenta in due attività significative: il canto, l’impiego della voce – sul quale ci soffermiamo ancora un attimo – e l’atto del tessere, tipicamente femminile, familiare, domestico: «Ora, a parecchie riprese, l’Odissea parla di una theòs audéessa: così, a fianco di Ino, figlia di Cadmo, con la morte innalzata agli onori divini ma che, durante la vita, era mortale e dunque normalmente dotata di voce (brotòs audéessa), Circe e Calipso – la prima tre volte, la seconda una sola – sono qualificate deinè theòs audéessa: “terribile dea dalla voce umana”. […] Bisogna dunque cimentarsi con il testo, visto che l’espressione giustappone in un superbo oxymoron l’essere dio, la voce umana e il femminile. Così in due dee minori si affrontano il divino e la donna, in una contiguità il cui disaccordo tra i generi 170

Kerényi 1991: 70-71.

171

Vernant 2000: 110 (“I senza nome, i senza volto”)

172

Pellizer 1982 (b): 85: «[…] una necessità cogente, anànke, lo spinge. Non si tratta, si può supporre, soltanto di sollecitudine per la sorte dei compagni. L’eroe deve, in un modo o nell’altro, affrontare il pericolo che si cela nell’incontro con la bella incantatrice».

62

(una terminazione femminile, deinè/una di forma maschile, theòs/un femminile, audéessa) suggerisce che essa dissimuli qualcosa d’inconciliabile»173

Prendendo atto di tale inconciliabilità, notiamo ancora come la dea, con medesima voce e senza bisogno di intermediari o intercessori, parli direttamente, dialoghi e si faccia chiaramente capire da Odysseus e compagni, in linguaggio “naturalmente” umano, immediatamente comprensibile, che non dev’essere tradotto o interpretato, come solitamente avviene nei frequenti ma non semplici rapporti di comunicazione tra uomini e dèi, tra sfera umana e divina. Circe è una dea-donna che dispensa consigli, ma lo fa in modo da essere facilmente compresa, non equivocata: le sue istruzioni “di viaggio” – nekyia compresa – devono essere, e sono, chiare ed efficaci. La seconda attività in cui si rivela la sua doppia natura – divina e umana (solare e notturna?) – è quella della tessitura, del lavoro al “grande ordito” (me/gan i¸sto\n, Od. X 226) che sembra accostarla per analogia (o simmetrica inversione) al lavoro di Penelope,174 collegando entrambe alle Tessitrici per eccellenza, le Moire, anche se la sposa di Odysseus, «colei che in apparenza è la tessitrice puramente umana dell’Odissea, è a un tempo quella che disfa il proprio lavoro. Il suo tessere corrisponde a questo riguardo al filare delle Moire»;175 la “trama” di Circe, invece, vogliamo immaginarla ininterrotta e imperitura. Dea dalle parole (e dalle attività) umane, donna dai saperi (e relativi poteri) divini: in questa inconciliabile ma funzionale (e affascinante, ci permettiamo di aggiungere) contraddizione giace forse il segreto e la natura del suo ruolo “magico”, di grande incantatrice. I suoi saperi, facilmente comprensibili in quanto extra-umani, nel campo della farmacopea e della preparazione di fa/rmaka (filtri, unguenti, più genericamente preparati ad uso “magico”)176 – contrastati ed annullati soltanto 173

Loraux 1990: 23.

174

Sul rapporto tra le tre grandi figure femminili dell’Odissea – Circe, Penelope, Calipso – e sull’opposizione simmetrica tra l’immortalità donata da Circe a Penelope («la moglie saggia e paziente») e ai figli di Ulisse e il rifiuto di quest’ultimo dell’immortalità offertagli da Calipso, cfr. Pellizer 1982 (a): 74 sgg. 175

Kerényi 1991: 73.

176

Altra grande herbaria e “maga” del mito è Medea, la cui sapienza è in qualche modo tanto più notevole – e pericolosa – in quanto lei è prevalentemente (rispetto alla “zia” o “sorella” Circe) donna

63

dall’intervento salvifico e (narrativamente) antitetico di Hermes, messaggero e mediatore tra gli dèi e l’uomo177 – vengono impiegati e trovano effettivo compimento (tranne che con Odysseus) in quanto preparati ed “offerti”, nel senso letterale del termine, con l’“arte”, la “tecnica” cioè, ingannatrice, tipicamente femminile, della seduzione, che ha già nel canto, verrebbe da dire, il suo avvio. Si stabilisce infatti «in una specie di prova di forza fra una maga, zia di Medea, e Ulisse – e, attraverso lui, Hermes, dio mago e artefice di fantasmagorie –, una sorta di scontro e, alla fine, di accordo»178 che prevede uno “scambio” di tipo erotico: «Resi innocui i phàrmaka dall’erba môly, e la bacchetta magica (rhàbdos) dalla spada sguainata, l’infida seduttrice gli offrirà allora all’istante di dividere il suo letto, esortandolo nel contempo a “mettere la spada nel fodero”, con un’allusione che appare fin troppo palese».179 C’è chi si è spinto più in là, accostando la figura di Circe a quella dell’“etéra”,180 indagando l’etimologia del nome: «Il cerchio, quella delimitazione essenziale nell’interno della quale la potenza incantatrice crea il suo particolare mondo magico, è per così dire intorno al palazzo di Circe, e anche nel suo stesso nome. Kirkos, foneticamente corrispondente al latino circus, che sta alla base di circulus, si chiama in greco un volteggiante uccello da preda, e anzi una volta una specie di lupo aggirante in cerchio, in Omero un falco».181 Inoltre: «Nell’incantesimo d’amore i Greci impiegarono un piccolo uccello con voce di sparviero: il torcicollo, che però nell’azione incantatrice facevano volteggiare in cerchio»182 mortale, umana, e non esplicitamente dea. Si veda più sotto, paragrafo 8.1.1. Sull’erba mwªlu donata da Hermes a Odysseus, si veda Scarborough 1991, ma anche, per una possibile identificazione con la ruta selvatica, o pèganon àgrion, pianta “maleodorante” dall’interessante simbologia, Pellizer 1982 (b): 85-88. 177

178

Vernant 2000: 105 (“Idillio con Circe”).

179

Pellizer 1982 (b): 92. Frontisi-Ducroux 2003: 67 punta l’attenzione sul rapporto “gerarchico” che si instaura tra i due: «L’union sexuelle ne s’effectuera que lorsque le héros se sera assuré de conserver la position dominante du mâle, lui dont la supériorité virile s’est manifestée dès la premièr séquence, lorsqu’il a, contre la baguette inefficace, tiré son epée. Cette arme, aussi phallique que guerrière, comme le souligne sa position sur plusieurs images, a fait trembler la déesse». 180

Kerényi 1991: 74 sgg.

Kerényi 1991: 69-70; cfr. Od. XV 525-26: «ki/rkoj, 'Apo/llwnoj taxu\j a/)ggeloj […]» («un falcone, il celere nunzio di Apollo»): cfr. Bodson 1975: 95. 181

Kerényi 1991: 70. Sulla i)/ugc, lo strumento utilizzato nella “magia amorosa” (gli esempi più noti, la IV Pitica di Pindaro e il II Idillio di Teocrito), e la sua relazione con il “torcicollo”, cfr. Pirenne182

64

Dea, donna, incantatrice, etéra, donna-lupo (“lupa aggirante”)183: potrebbe sembrare quasi una regressione morale, un’involuzione peggiorativa se non si trattasse di un’interpretazione necessariamente parziale, una forzata schematizzazione che attinge all’iconografia moderna non meno che alle possibili interpretazioni che gli stessi Greci – creatori e fruitori ad un tempo del racconto mitico184 – potevano o volevano fornire. Ciò che interessa, pur nei limiti evidenti del presente discorso, è rilevare come lo statuto ambiguo, anomalo di Circe – e tuttavia perfettamente coerente con le istanze mitiche, “favolose”, decisamente non storiche della narrazione – si delinei anche nel suo aspetto meno evidente ma non meno importante di consigliera, “istruttrice” del rito necromantico: Circe è colei che insegna, indica i luoghi e i modi, detta le direttive del rito; la sua parola è diretta ed efficace 185 e, cosa non secondaria, veritiera, soprattutto dopo che ha formulato il “gran giuramento” (me/gan oÀrkon, Od. X 299 e 343) di non nuocere a Odysseus, ed aver riconosciuto che l’arrivo di lui le era stato anticipato, predetto, dallo stesso Hermes che contrasta, rendendole vane ed inefficaci, le sue “arti”. All’insegna dell’ambivalenza, quindi, di quell’ambiguità che sembra essere una costante di chi opera nella sfera del “magico” e a maggior ragione in quella ctonia – di cui dimostra di possedere determinati saperi/poteri – si colloca non solo la natura di Circe, la dea «che tesse e di nuovo scioglie nascite e morti – l’etéra immortale che procura il piacere e divora gli uomini», ma anche le sue azioni: «ella non accompagna Ulisse agli Inferi, ve lo manda soltanto. Ella relega soltanto i compagni di Ulisse nella condizione terrestre di porci, ve li tieni quasi in una specie d’inferno, ma lei né condivide la loro condizione, né assume una corrispondente

Delforge 1993. 183

«[…] l’etéra viene in latino chiamata lupa, mentre l’Ade etrusco compare in una celebre pittura funeraria come dio Lupo»: Kerényi 1991: 75. 184

«[…] il mito greco, cioè l’insieme dei racconti, mythoi, che i Greci in vario modo hanno inventato per costruire la propria immagine autoidentificante innestando una successiva, vasta produzione di narrazioni e interpretazioni»: Chirassi Colombo 2001: 341. 185

Sul “buon funzionamento” della comunicazione tra Circe e Odysseus, cfr. Frontisi-Ducroux 2003: 68: «Entre Ulysse, l’homme dont la métis égale celle de Zeus, le polytropos aux mille tours – pour cette raison « in-charmable » - et la redoutable déesse magicienne, la communication est un succès sur les deux plans, érotique et verbale».

65

forma animale».186 Lo stesso “trattamento” che riserva ai compagni di Odysseus – trasformandoli in animali ma conservandone la “ragione”, la capacità di pensare e quindi soffrire per la nuova condizione187 – ha infatti qualcosa di mostruoso, di “bestiale”, che getta un’ombra inquietante sull’aspetto “solare” (è pur sempre figlia si Helios) della “divina consigliera”, avvicinandola – creatura “serpentina” dall’aspetto umano188 – agli uomini dall’aspetto bestiale da lei stessa mutati.

4.4 Conclusioni parziali La nekyia omerica, il più celebre e studiato passo di “necromanzia letteraria” a noi giunto, da un certo punto di vista è forse proprio il meno adatto a dare un’idea, a noi moderni, dell’ideologia e dell’effettiva prassi – o di come s’immaginava che la prassi avvenisse – dei “reali” riti necromantici. Ci arrischiamo di affermare che la necromanzia omerica ci dice molto, a prescindere dall’ovvio aspetto poetico e letterario, sulla mentalità ovvero sull’uso anche linguistico di un certo tipo di immaginario “religioso”, ma paradossalmente ci dice relativamente poco sulla necromanzia stessa; per dirla in altro modo, la nekyia sembra essere una fonte interessantissima e al contempo poco utilizzabile ai fini di uno studio teso a documentare la “storia” di una pratica che – a discapito di una vasta casistica di segnalazioni che vanno dall’età arcaica all’ellenismo e al primo cristianesimo, per riversarsi e sopravvivere in modo più o meno distorto attraverso il Medioevo fino all’immaginario moderno – rimane sfuggente e reticente. Per questo motivo ci rivolgiamo ora ad altri contesti e ad altri testi, cercando di analizzare l’unica, ma per molti versi notevole, “scena” di necromanzia biblica, che 186

Kerényi 1991: 75.

187

Frontisi-Ducroux 2003: 64: «Enfermés dans des corps d’animaux, ces humains ne vivent que superficiellement, sur le seul plan formel, leur descente dans l’échelle des êtres, dont la hiérarchie est incontestable selon les critères des poèmes homèriques. Leur transformation aboutit à un nouveau type d’hybridation entre l’humain et l’animal : une enveloppe bestiale est greffée sur un esprit humain». 188

È definita “dràkaina” in Licofrone, Alexandra, 673-74, cit. in Pellizer 1982 (b): 83. È inopportuno, ma nondimeno suggestivo, paragonare questa “serpentessa” alle tante “pitonesse” coinvolte con il concetto di necromanzia (cfr. paragrafo 5.3).

66

l’ideologia veterotestamentaria presenta – a differenza della nekyia – come storica, realmente avvenuta, secondo i criteri che abbiamo già parzialmente anticipato.189

189

Paragrafo 2.2.

67

5. Un caso di necromanzia biblica. La “pitonessa” di En-dor

Nel mondo biblico la pratica necromantica s’inserisce nel più ampio discorso sulla proibizione e la condanna di ogni pratica divinatoria che si frapponga al solo sistema lecito di conoscenza che è la rivelazione profetica; ad eccezione infatti del «sistema di cleromanzia, simile al nostro “testa o croce”, basato sull’estrazione alla cieca di uno fra due tipi di oggetti detti urim e tummim»,190 i numerosi mezzi divinatori, che sono attestati nella Bibbia sotto forma di pochi e non univoci accenni, «presentano tutti un grave difetto agli occhi dei profeti, e cioè l’essere essi usati anche dai popoli pagani; essi possono quindi facilmente indurre Israele in tentazione e distoglierlo dal temere e dall’adorare l’unico Signore».191 La Legge mosaica proibisce infatti in modo categorico la consultazione di “spiriti” tramite il ricorso a persone “qualificate”, esperte in questa pratica – i termini per designare le quali, pur tra varie incertezze, sono comunque usati e conosciuti (vedi qui sotto, paragrafo 5.3) – pena l’acquisizione dello stato d’impurità per chi vi ricorre (Lv. 19, 31) e la morte per lapidazione per chi, uomo o donna, materialmente la opera (Lv. 20, 27). 192 Da ciò deriva la difficoltà di rintracciare nei testi informazioni precise, storicamente utili, il cui valore è necessariamente di natura indiretta: «[…] conosciamo la necromanzia presso gli Ebrei soprattutto attraverso le leggi che la vietano. Esse tuttavia ci fanno pensare che dovesse essere abbastanza diffusa, per giustificare misure così drastiche come quelle previste nel Pentateuco. La stessa opera risanatrice di Giosia e, in un primo tempo, dello stesso re Saul (I Sam. 28,3), che distrussero ambedue ogni pratica necromantica, è una prova di quanto simili “abominazioni” fossero diffuse»193 190

Grottanelli 1987: 193; cfr. paragrafo 2.1.2.

191

Cavalletti 1958: 77.

192

Cavalletti 1958: 83.

193

Cavalletti 1958: 84. Cfr. anche Caquot 1988 (1970-76): 59: «L’onnipotenza di YHWH, sottolineata dalle fonti, che hanno quasi tutte un carattere normativo, non deve essere riuscita, per esempio, ad eliminare la credenza negli stregoni e nei dèmoni»; e aggiunge: «La negromanzia era vietata, ma l’episodio della maga di Endor consente di rendersi conto di quanto distasse la pratica dalla teoria».

68

In questa difficile situazione documentaria spicca per converso, curiosamente, una delle poche – assieme alla nekyia omerica e alla scena dei Persiani – (relativamente) ampie sequenze descrittive di “evocazione”, l’eloquente e problematico episodio della “necromante di En-dor” (I Samuele 28), che vede protagonista lo stesso re Saul, strenuo avversatore di ogni pratica “stregonesca” prima di cadere in disgrazia davanti a Yahweh, il solo dispensatore, nell’ideologia veterotestamentaria ripresa dalla tradizione rabbinica ed esegetica, del “vero” sapere legato alle cose future.

5.1 Il testo: I Samuele 28, 3-25 «28. 3 Samuele era morto, e tutto Israele l’aveva pianto e l’aveva sepolto in Ramah, nella sua città. E Saul aveva eliminato i maghi e i necromanti dalla terra. 4 I Filistei si adunarono, e vennero e si accamparono in Shunem; e Saul adunò tutto Israele, e si accamparono a Gilboa. 5

Quando Saul vide l’esercito dei Filistei, ebbe paura, e il suo cuore tremò grandemente. 6 E

quando Saul consultò Yahweh, Yahweh non gli rispose, né con sogni, né con profeti.

7

Allora Saul disse ai suoi servi: “Cercatemi una donna, che sia una necromante (bclt ’wb), che possa andare da lei a consultarla”. E i suoi servi gli dissero: “Ecco, c’è una necromante (bclt ’wb) a En-dor”.

8

Allora Saul si travestì e mise abiti diversi, e andò, lui e due uomini, e

giunsero dalla donna di notte. E (Saul) disse: “Vaticina per me a mezzo dell’ob (qswmy-n’ ly b’wb) e portami su (whcly ly) chiunque ti dirò”. 9 E la donna gli disse: “Certamente sai quello che Saul ha fatto, e cioè che ha eliminato dalla terra i maghi e i necromanti. Perché dunque mi tendi una trappola, per farmi morire?”.

10

Ma Saul le giurò per Yahweh: “Come (è vero

che) vive Yahweh, così nessuna punizione ti verà per questa azione”.

11

E la donna disse:

“Chi ti farò salire (’clh-lq)?”; e (Saul) le rispose: “Samuele fammi salire (hcly ly)”. 12 Quando la donna udì il nome di Samuele, gridò con alta voce, e disse a Saul: “Perché mi hai ingannato? Tu sei Saul!”.

13

Il re le disse: “Non temere (’l-tyr’y), ma dimmi piuttosto quello

che vedi”. E la donna disse a Saul: “Vedo uno spirito (’lhym) che sale su dalla terra (r’yty c

lym mn-h’rs)”.

14

Ed egli le chiese: “Che aspetto ha?”. E rispose: “Un vecchio sale su (clh)

ed indossa un mantello”. Allora Saul comprese che si trattava di Samuele, s’inchinò con la faccia a terra, e gli rese omaggio.

15

Allora Samuele disse a Saul: “Perché mi hai disturbato

69

(hrgztny) facendomi salire (lhclwt)?”. Saul rispose: “Sono in grande angoscia: i Filistei fanno guerra contro di me, e Yahweh si è distolto da me e non mi risponde più, né con profeti, né con sogni, perciò ti ho chiamato perché tu mi dica che cosa devo fare”.

16

E Samuele disse:

“Perché m’interroghi, se Yahweh si è distolto da te ed è divenuto tuo nemico?

17

Yahweh ha

fatto a te ciò che aveva comunicato per mezzo mio; Yahweh ha tolto il regno dalle tue mani per darlo a un tuo simile, David.

18

Siccome non hai obbedito alla voce di Yahweh, e non hai

dato corso alla sua collera contro Amalek, perciò oggi Yahweh ha fatto a te questa cosa.

19

Inoltre, Yahweh darà Israele con te nelle mani dei Filistei, e domani tu e i tuoi figli sarete con me; Yahweh darà l’esercito di Israele nelle mani dei Filistei”. 20 Allora Saul cadde a terra (’rsh) di schianto, lungo disteso, ed era pieno di terrore per le parole di Samuele; e non c’era forza in lui, perché non aveva mangiato nulla tutto il giorno e tutta la notte.

21

E la donna

venne a Saul, e quando vide che era pieno di terrore, gli disse: “Ecco, la tua schiava ha ascoltato la tua voce, e ho rischiato la mia vita;

22

ora dunque ascolta la voce della tua

schiava: ti porrò davanti un po’ di cibo (lhm); e tu mangia, che tu possa avere un po’ di forza quando te ne andrai per la tua strada”.

23

Ma rifiutò, e disse: “Non mangio”. Ma i suoi servi,

insieme con la donna, lo pressarono, ed egli ascoltò le loro voci, e si alzò dalla terra (wyqm mh’rs) e si sedette sul letto. 24 E la donna aveva in casa un vitello grasso, e lo uccise in fretta, e poi prese la farina, l’impastò e cosse dei pani azzimi,

25

e pose ciò davanti a Saul e ai suoi

servi; e ne mangiarono. Poi si alzarono e andarono via quella notte stessa».194

5.2 Il contesto Si è cercato, in parte forse per compensare la suddetta lacuna documentaria, di ritrovare nei testi letterari ed epigrafici (iscrizioni funerarie) la prova di influssi o di derivazioni dalle altre culture dell’antico Oriente, assiro-babilonese in primis – dove l’evocazione dei defunti era riservata a sacerdoti specializzati195 – ma anche dai popoli confinanti (vedi le osservazioni di Cavalletti in proposito all’ornitomanzia

194

Trad. Di C. Grottanelli, in Grottanelli 1987. La traduzione degli altri passi biblici in italiano citati più avanti sono tratti dalla Bibbia di Gerusalemme, cit. in bibliografia. 195

Cavalletti 1958: 83, che cita Contenau, La Divination chez les Assyriens et les Babyloniens, Paris 1940, pp. 228-31; cfr. anche Bottéro 1982 (1974), e quanto detto al paragrafo 2.2.

70

presso i Cananei, gli Hittiti e nel mondo arabo);196 il parallelo più immediato (forse l’unico direttamente confrontabile) è quello che si può instaurare con il poema di Gilgamesh: «Après un essai infructueux soit pour descendre aux enfers, soit pour évoquer Enkidu grâce aux opérations musicales magiques du pukku et du mikku, Gilgamesh obtient que l’esprit (edimmu) de son compagnon revienne pour quelques instants. Cette fois l’opération n’a rien de magique; de dieu en dieu la requête est finalement présentée à Nergal qui y accède»197

Contenau mette in relazione, come si accennava poc’anzi, il testo appena citato e il passo biblico del I libro di Samuele con il linguaggio, il lessico dell’iscrizione funeraria di Tabnit, re di Sidone;198 anche se, avverte Cavalletti, «È incerto, a nostro avviso, che le iscrizioni rinvenute su numerose tombe fenice, e nelle quali si scongiurano i viventi di non turbare i morti nel sepolcro, si riferiscano a pratiche necromantiche; sembra più probabile che si cerchi con tal mezzo di evitare la profanazione delle tombe a scopo di furto».199 Tornando all’ambiente ebraico, noteremo come proprio la frequentazione dei sepolcri sia attestata in relazione a presunte pratiche divinatorie: così forse si spiega l’espressione doresh el ha-me-tim, con il possibile senso di colui che «soffre la fame e va a passare la notte nei cimiteri, perché si posi su di lui uno spirito immondo» 200 (di sfuggita notiamo che anche Saul, prima di consultare Samuele, “non aveva mangiato nulla tutto il giorno e tutta la notte”, ma la similitudine può essere casuale),201 che lo metterebbe in relazione con un passo di Isaia (Is. 65,4), che sembra riferirsi a quella particolare forma di necromanzia per “incubazione” (paragrafo 2.1.2), con la quale si ricercava l’incontro con lo “spirito” del defunto attraverso il sogno. La tradizione talmudica è inoltre ricca di aneddoti che riferiscono di persone 196

Cavalletti 1958: 79-80.

197

Contenau 1947: 197.

198

Contenau 1947: 198.

199

Cavalletti 1958: 84.

200

Cavalletti 1958: 86.

201

Cfr. Grottanelli 1987: 196.

71

che, trascorrendo la notte in un cimitero, apprendono – ma non necessariamente nel sonno – la conoscenza di eventi futuri, spesso in riferimento a questioni economiche (l’andamento del raccolto, l’ubicazione di un deposito di denaro, etc.), acquisendola direttamente dalla voce degli “spiriti”.202 Ma cerchiamo ora di analizzare meglio il lessico “necromantico”, l’uso dei termini che esprimono gli “operatori” della prassi.

5.3 Pitoni e ventriloqui «Per quel che riguarda la terminologia, nel Deuteronomio ricorrono tre vocaboli: sho’el obh, jidde‘oni e doresh el ha-me-tim, mentre negli altri testi obh jidde‘oni soltanto. Non è facile chiarire la natura di essi e le differenze che li separano. […] Fra i commentatori moderni c’è chi ha voluto vedere in obh non una persona, ma un oggetto usato a scopo magico, ed esattamente un teschio. Si tratta tuttavia di supposizioni senza un appoggio preciso; sembra perciò più probabile l’interpretazione di “spirito, fantasma” […]. Il necromante quindi non è un obh, ma un ba‘al-obh, cioè uno che possiede uno spirito. Secondo il Talmud (Sanh. 25c) e Rashj (ad Lv. 19,31 e Dt. 18,11), il ba‘al-obh è il pitone».203

Il senso di ba‘al-obh, che secondo il Talmud babilonese è il “ventriloquo”, non è però chiaro, e con la stessa espressione si designano due distinte categorie di “evocatori professionisti”, delle quali l’una «fa salire il morto con i piedi in su e la testa in giù e di sabato non può operare», mentre l’altra «lo fa salire “naturalmente” cioè con la testa in su, ed è libero di operare anche di sabato».204 Analoga incertezza ed ambiguità ricopre il termine jidde‘oni che è «colui che si mette in bocca un osso di un uccello detto jiddo‘a e parla attraverso di esso»;205 più precisamente, «Secondo il Talmud palestinese (Sanh. 25c), la differenza fondamentale tra ba‘al-obh e 202

Cohen 1981 (1935): 339-41.

203

Cavalletti 1958: 85.

204

Cavalletti 1958: 86.

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jidde‘oni è che il primo parla dalla cavità del busto, l’altro attraverso la bocca»;206 ma inoltre, secondo i rabbini, il primo “batte le braccia” e “offre incenso ai demoni”: «Pare che il costume di offrire incenso ai demoni a scopi magici fosse piuttosto diffuso fra le donne (Berak. 59a); probabilmente gli “scopi magici” (lekashephim) altro non sono che pratiche necromantiche, che – come pare – sono spesso riservate alle donne»207

Di questi, è proprio il “ventriloquio” il concetto che viene ripreso dai Settanta, gli estensori, secondo la tradizione, della prima traduzione in greco (e quindi fissazione) dei testi biblici dell’Antico Testamento – più correttamente, della prima edizione scritta storicamente nota – avvenuta nell’Egitto ellenizzato di Tolemeo Filadelfo (285-246 a.C.): i Settanta traducono obh con “ventriloquo” (e)ggastri/muqoj) identificandolo con il “necromante” e caricandolo di un’accezione o almeno di una sfumatura sempre negativa; anche se interpretazioni in chiave “razionalistica” di tale scelta lessicale non sono escluse: «[…] sembra verosimile la teoria che l’apparenta [il termine ob] al nome ittita di una fossa sacrificale scavata nella terra, e ne fa dunque una sorta di cavità ipogeica, che avrebbe messo il vaticinatore in comunicazione con lo spirito evocato. La traduzione greca che spesso si trova nei Settanta, eggastrimuthos, sembra riferirsi a un ventriloquo: si tratta evidentemente di una sorta di “razionalizzazione demistificatrice” delle pratiche di tali indovini, che avranno sostenuto di “far parlare” i morti, da parte dei redattori yahwisti»208

Riguardo l’aspetto “sonoro”, riprendendo la notizia sopra accennata, è ancora degno di nota che «I necromanti nell’esercizio delle loro funzioni compivano determinati 205

Il vocabolo pare che invece denoti il necromante come “colui che sa”, in relazione alla radice jada‘ “conoscere”; cfr. acc. mudu “indovino”. Citazione e nota: Cavalletti 1958: 86. 206

Cavalletti 1958: 86.

207

Cavalletti 1958: 88.

208

Grottanelli 1987: 195.

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movimenti con le braccia ed emettevano suoni più o meno artificiali; è a tali suoni che allude forse Isaia (8,19), quando definisce i necromanti come “pigolanti e mormoranti”».209 Interessante e contestuale, anche ai fini di quanto segue, è il riferimento di natura etnografica che troviamo in Seidel: «Usually, though not universally, it is the voice of a male spirit coming into the body of a woman. This tradition of male impersonation is consistent with the ethnographic testimony concerning divinatory or shamanistic séances involving female mediums. It is also significant that the divinatory procedure is not public and is performed at night, while divination performed by men is public and widely accepted»210

Una digressione sul concetto di “ventriloquia” e sul termine “pitone/pitonico” ad esso collegato ci sembra opportuna. Pu/qon (Python) nella lingua greca designa innanzitutto il “pitone”, il serpente che custodiva l’oracolo di Delfi prima che il dio Apollo lo uccidesse.211 Allora gli oracoli erano pronunciati da Temi o, secondo il commentatore latino Igino (ca. 64 a.C.-17 d.C.), dallo stesso “draco ingens”;212 non manca chi ha supposto che in origine Delfi fosse un oracolo ctonio. 213 Ad ogni modo, dal nome del serpente Apollo riceve l’appellativo di “Pizio”, che si trasmette al nome

Cavalletti 1958: 90. Septuaginta: “Zhth/sate tou\j a)po\ thªj ghªj fwnouªntaj kai\ tou\j e)ggastrimu/qouj, tou\j kenologouªntaj oi(\ e)k thªj koili/aj fwnouªsin...”; Vulgata: “quaerite a pythonibus et a divinis qui stridunt in incantationibus suis…”; Bib. Gerus.: “Interrogate gli spiriti e gli indovini che bisbigliano e mormorano formule…”. Interessante il confronto tra i termini indicanti il “suono” prodotto dai morti in contesti extra-biblici: tru/zein o tri/zein in Iliade XXIII 101 e Odissea XXIV 4, u(potru/zein in Eliodoro, Etiopiche VI 15, stridere in Stazio, Tebaide VII 770. 209

210

Seidel 2002: 103-4 (corsivo nostro).

211

Cfr. Apollodoro, Biblioteca, I 4.

212

Igino, Fabulae 140, cit. in Grande Lessico del Nuovo Testamento, s.v. “Pu/qwn”.

213

H.W. Parke e D.E.W. Wormell, The Delphic Oracle I (1956), 3-16, cit. in Grande Lessico…, s.v. “Pu/qwn”.

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della profetessa, la Pizia, “ispirata” dal dio.214 È degna di nota anche la tradizione secondo la quale ad ispirare la Pizia sarebbero state le esalazioni provenienti dalla carogna in putrefazione del serpente, la diffusione della quale tradizione – propone Amandry – potrebbe essere all’origine del cambiamento di nome dei ventriloqui, da eggastrimythos a python: a maggior ragione, in quanto, avverte lo studioso, l’etimologia che fa derivare il nome Pytho dal verbo Pu/qw (imputridire, andare in putrefazione) è antica, trovandosi già nell’Inno omerico ad Apollo.215 Notevole è un passo di Plutarco (ca. 50-ca. 120) in cui si parla dei «ventriloqui detti un tempo Euriclei e ora Pitoni».216 Euricle, apprendiamo, era un famoso ventriloquo vissuto ai tempi di Platone ed Aristotele, il cui prestigio gli valse un monumento innalzatogli dagli Ateniesi: Platone ne parla nel Sofista (252 c), Aristofane lo cita nelle Vespe.217 Una testimonianza coeva a Plutarco ci viene da un commentatore di Ippocrate, il grammatico di età neroniana Eroziano, il quale così ci informa: «ventriloqui, che certi chiamano pitoni; è un hapax legomenon».218 Secondo Agostino (354-430) i pythones vanno collocati sullo stesso piano dei sortilegi e mathematici. Esichio di Alessandria (V-VI sec.) identifica la glossa “Pu/qwn” con

214

Cfr. Dictionnaire de la Bible s.v. “Python”, in cui è ancora proposta la tradizione dei “vapori solforosi” che avrebbero prodotto nella Pizia lo stato di “eccitazione violenta” sotto l’azione dello “spirito divino”; ma cfr. Dodds 1997 (1951): 94-5: «Ho buoni motivi per ritenere che la trance della Pizia fosse indotta per autosuggestione, come quelle dei medium odierni. La precedevano una serie di atti rituali: […]. Tutti questi procedimenti magici sono assai conosciuti, e potevano favorire l’autosuggestione, ma nessuno di essi aveva effetti fisiologici […]. Quanto ai famosi “vapori” ai quali un tempo si attribuiva con una certa confidenza l’ispirazione della Pizia, sono un’invenzione ellenistica; credo che il Wilamowitz sia stato il primo a farlo notare [in Hermes, 38 (1904), 579]»; cfr. paragrafo 2.1.2. Amandry 1950: 65; Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”. Amandry suggerisce poi un interessante parallelo fra l’uso di designare i ventriloqui con il nome di Pu/qwn e pratiche come quelle (denunciate da Luciano, ALECANDROS H YEUDOMANTIS 13-14) del “falso profeta” Alessandro che «grâce à un système de tubes, faisait rendre les oracles par son serpent familier, censé être Asclépios lui-même». Cfr. paragrafo 2.1.1, n. 64. 215

Plutarco, De defect. oracul., 9, 414 E: «tou\j e)ggastrimu/qouj, Eu)rukle/aj pa/lai, nuni\ Pu/qwnaj prosagoreuome/nouj», cit. in Dodds 1997 (1951): 90; Dictionnaire de la Bible s.v. “Python” ; Grande Lessico… s.v. “ Pu/qwn”. 216

217

Dodds 1997 (1951): 90-1; Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”.

Eroziano, fr. 21 (ed. E. Nachmann [1918] 105,19 s.): «e)ggastri/muqoi! ou(\j pi/qwnaj tinej kalouªsin! e)/sti de\ twªn a(/pac ei)rhme/nwn», cit. in Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”. 218

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“e)ggastri/muqoj h)\ e)ggastri/mantij”. Similmente il lessico Suda, per il quale “Pu/qwnoj” è “daimoni/ou mantikouª”.219 Diversa, e non meno problematica, è la presenza del termine “pitone” nel lessico neotestamentario, in particolare nel passo degli Atti 16, 16 in cui si narra della giovane donna «e)/xousan pneuªma Pu/qwna», dotata cioè di uno “spirito pitonico” o “profetico” (come si trova nelle correnti traduzioni moderne), ma l’incertezza riguarda il punto di vista teologico in chiave cristiana220 piuttosto che l’analisi linguistica in prospettiva storica.

5.4 Problemi testuali Il passo di I Samuele 28, 3-25, riportato ad inizio capitolo, fornisce la trascrizione dei termini ebraici più notevoli, quelli che si riferiscono alle figure dell’evocatrice e dello “spirito” evocato ed ai verbi chiave dell’evocazione. Il contesto narrativo, come si è visto, è quello del ricorso di re Saul, che dopo un primo peccato ha perso il favore di Yahweh – «e questo sfavore causa un secondo, irrecuperabile peccato (la necromanzia)»221 – alla “strega” (“Pitonessa” nella Vulgata)222 di En-dor per conoscere dal defunto profeta Samuele l’esito dell’imminente battaglia contro i Filistei. Lo studioso mette subito in evidenza la “qualità”, linguisticamente rilevabile, della praticante e del morto “fatto salire”:

219

Per questi riferimenti, sempre Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”.

Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”: «Non è facile determinare […] se si debba intendere nel senso di “uno spirito di nome Pitone” o se tutta l’espressione vada tradotta con “uno spirito pitonico”. […] In ogni caso Act. 16,16 significa che la giovinetta era una indovina ventriloqua e pertanto aveva rapporti col mondo demoniaco». 220

221

Grottanelli 1987: 198; si veda anche, a conferma, I Cronache 10, 13.

Grande Lessico… s.v. “Pu/qwn”: «La Vulgata ha tradotto ’ôb in parte con magus, in parte con python o con pythonicus spiritus». Per l’uso del termine “pitonico” in associazione alle donne “malefiche”, e la sua importanza nell’immaginario “stregonesco” occidentale, si veda quanto detto nel paragrafo 1.3, n. 39. Smelik 1979: 160, n. 3: «To call her a witch is, of course, an anachronism, but not unsuitable». 222

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«La necromante è detta il più delle volte semplicemente “donna”; quando è necessario un termine più specifico, è chiamata ba‘alat ’ob, “padrona”, “signora dell’ob” (il greco dei Settanta ha gunaika eggastrimuthon). Le si richiede di “vaticinare per mezzo dell’ob” (il greco ha manteusai en to eggastrimutho)»223

Semplice donna, quindi, ma anche signora di “spiriti” (?) e ventriloqua: uno statuto ambiguo, incerto, dunque, che se da un lato confina la “donna pitonica” nella zona della marginalità morale (agisce contro le leggi di Yahweh) e legale (agisce contro le leggi del re, Saul) – forse anche geografica: è posta in una zona periferica, lontana da Gerusalemme (ma l’idea è tutta da verificare)224 – dall’altro la allontana, la esclude da qualsiasi natura divina, sovrumana, “mitica” (come nel caso di Circe) calandola in un contesto “storico”, anche se la storicità dell’episodio in sé è tutt’altro che certa, e in un certo senso relativa. Anche se straordinariamente sapiente, è pur sempre una donna: «timorosa (nella parte iniziale della struttura tripartita), potente evocatrice di morti (nella seconda), materna consolatrice del re spaventato (nella terza parte)».225 La “capacità” – effettiva o solo presunta – della donna di En-dor di evocare Samuel ha dato luogo a notevoli discussioni di carattere teologico tanto in ambito rabbinico 223

Grottanelli 1987: 197.

224

Ma cfr. anche Ogden 2001: 134: «The witch’s “Canaanite” designation identifies her merely as some sort of non-Israelite inhabitant of Israel». L’ipotesi – già presente, in forma diversa, in Schmidt 1995: 111 – è che questa figura femminile venga connotata, in modo più o meno consapevole, come “straniera”, “diversa” secondo quella identificazione tra pratiche “illecite” e origini “straniere” (“barbare”, nell’accezione greca) che sembra riscontrarsi nella costruzione dei modelli culturali (greco, romano, ora anche ebraico) presi in esame (cfr. paragrafo 2.1). Per l’introduzione di pratiche “straniere/illecite” nell’antico Israele, cfr. anche Douglas 1975 (1966), cap. III (“Gli abominî del Levitico”), in partic. pp. 83 sgg.: «Un’altra interpretazione tradizionale […] è quella che afferma che ciò che è proibito per gli Israeliti lo è soltanto per proteggerli dall’influenza straniera. Per esempio Maimonide sosteneva che ad essi era proibito far bollire il capretto nel latte della madre, poiché questo era un atto di culto nella religione dei Canaaniti. Non può essere esauriente questo tipo di prova, dal momento che non è sicuro che gli Israeliti respinsero coerentemente tutti gli elementi delle religioni straniere e crearono qualcosa di completamente originale per se stessi.». In modo analogo, ma forse meno incisivo, Caquot 1988 (1970-76): 59: «Nulla prova che si sia conservato il ricordo di antichi totem o che si sia tenuto conto del carattere ctonio o infernale di certe specie […]. Le cose stanno come se gli antichi Israeliti avessero stabilito delle categorie concrete, il cui sistema sarebbe interpretabile in base a un’impostazione strutturalista se lo conoscessimo meglio e se riuscissimo a cogliere fin nei dettagli le antiche strutture sociali.». Per una minuziosa descrizione del sito di En-dor si veda Dictionnaire de la Bible s.v. “Endor”, in cui è suggerita l’identificazione del vasto sistema di caverne, cisterne scavate nella roccia e vasche sepolcrali con la “scenografia” dell’episodio in questione. 225

Grottanelli 1987: 199.

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che, naturalmente, in quello cristiano: a seconda del punto di vista adottato, infatti, la “consistenza” dell’apparizione di Samuel e la veridicità dell’intero episodio possono essere messe in discussione o, al converso, costituire ulteriore prova del “potere” divino. Tre sono gli atteggiamenti principali adottati dai commentatori cristiani, che includono al loro interno posizioni più radicali così come interessanti tentativi di conciliare aspetti opposti e contraddittori della questione226: 1. l’intervento di Samuel è frutto dell’inganno della “pitonessa”, la quale “finge” di evocare lo spirito: così, ad esempio, in vari passi di S. Gerolamo; a sostegno dell’ipotesi della frode può intervenire la circostanza, la cui evidenza sembra volutamente enfatizzata nel testo, secondo la quale Saul non vede Samuel, ma deve farselo descrivere dalla donna per poterlo riconoscere; 2. l’apparizione è di natura “demonica”: sia che la donna obbedisca all’influsso dei “dèmoni” rispondendo come se in realtà vedesse Samuel, sia che menta quando dice di vedere i morti (S. Basilio, In Is. VIII 218), non può che trattarsi di un inganno del demonio (S. Gregorio di Nissa, De pythonissa; Tertulliano, De anima 57); 3. l’apparizione è reale, ma avviene con il permesso di Dio: è la convinzione di Origene, espressa in testi come In I Reg. XXVIII e De engastrimytho, vivamente attaccata da Eustazio d’Antiochia. A sostegno della “realtà” concorrono gli unici due passi biblici in cui l’episodio della necromanzia di En-dor è ricordato, anche se molto rapidamente: in Siracide (Ecclesiastico) 46, 23 si legge infatti: “Perfino dopo la sua morte [Samuel] profetizzò, predicendo al re la sua fine”; 227 in I Cronache 10, 13, inoltre, si dice: “Così Saul morì a causa della sua infedeltà al Signore, perché non ne aveva ascoltato la parola e perché aveva evocato uno spirito per consultarlo”: il riferimento ad uno “spirito” generico è vago, ma la traduzione dei LXX aggiunge la frase: “E il profeta Samuel gli rispose”, che manca nella Vulgata e nelle traduzioni italiane.228 226

Dictionnaire de la Bible, 1912, s.v. “Évocation des morts”. Un’ampia carrellata del dibattito e delle opinioni adottate nell’esegesi rabbinica e cristiana è presente in Smelik 1979. Septuaginta: “kai\ meta\ to\ u(pnwªsai au)to\n proefh/teusen kai\ u(pe/deicen basileiª th\n teleuth\n au)touª”; Vulgata: “et post hoc dormivit et notum fecit regi et ostendit illi finem vitae suae”. 227

Septuaginta: “o(/ti e)phrw/thsen Saoul e)n t%ª e)ggastrimu/q% touª zhthªsai, kai\ a)pekri/nato au)t%ª Samouhl o( profh/thj”. 228

78

La questione sembra lontana dal trovare una soluzione definitiva e soddisfacente; può essere indicativo, o di interesse non trascurabile, che fra gli studiosi moderni vi sia chi non lesina di sottolineare l’aspetto “umano”, al quale si faceva più sopra riferimento, della negromante, quasi volendo sottrarla al plurisecolare pregiudizio che ne ha fatto una figura “demonica”. La “pitonessa” – come si è visto anche nelle parole di Grottanelli – è prima di tutto una donna, ed il suo atteggiamento nei confronti del re, il suo persecutore, ha qualcosa della pietas che proprio lui, Saul, ha perduto: «The persecutor of all necromancers has to resort to necromancy himself. At Endor Saul is told by the prophet, who once anointed him, that he has to die. Only his former adversary, the witch, is willing to show some kindness to him».229 Ancora più problematico e “scandaloso” è l’uso dei termini, ebraico e greco, usati per designare la “potenza” evocata, il defunto. Giova ricordare che anche in questo caso, come nell’episodio omerico (fatte le dovute distinzioni) è richiesto l’ausilio non di un morto qualsiasi ma di uno che già in vita era “sapiente”, il profeta Samuele: in questo senso il parallelo, almeno dal punto di vista della struttura narrativa, con il profeta Tiresia è lecito, e rende difficile sottrarsi alla suggestione che nella stesura dei due passi (nella mentalità degli estensori o delle culture che li hanno prodotti) operasse un’idea simile, o almeno comparabile: «Ciò che soprattutto colpisce, tuttavia, è il termine che viene usato per indicare il morto che sorge dalla terra: ’elohim vuol dire “divinità”, e com’è noto, è proprio uno dei due nomi principali del dio nazionale, fin dal primo capitolo della Genesi. D’altronde, che proprio così, e non in modo più generico, fosse percepito il significato del termine anche in ambiente “ortodosso”, è mostrato chiaramente dalla traduzione greca che ha theous eoraka anabainontas ek tes ges, con un plurale che, mentre rispecchia precisamente la forma, plurale, del termine ’lhym, tradisce forse un certo imbarazzo. Nel contesto della necromanzia, dunque, il morto è in qualche modo “divino”, e a spiegar ciò non basta il fatto che Samuele è un morto “speciale”»230 229

Smelik 1979: 161.

230

Grottanelli 1987: 197.

79

Uno studio comparativo dei termini indicanti la divinità in area mesopotamica ha suggerito che la forma ’elohim non si riferisca allo “spirito” di Saul, ma proprio agli dèi ritenuti essere coinvolti (o responsabili) nel rito, che interverrebbero in modo quasi “fisico” nella “scena”: «In necromancy, both the dead and the gods “bodily” invade the world of the living; therefore it is the quintessence of liminality». 231 Non mancano interpretazioni per così dire più “caute”, che attribuiscono lo “scandaloso” plurale al “rispetto” ispirato dall’apparizione “sovrannaturale”, spiegandolo come un “pluriel de majesté”: «[…] par le titre d’élohim elle veut simplement exprimer le respect que lui inspire l’être surnaturel qui s’éleve de terre».232 Nell’impossibilità di stabilire i criteri seguiti dagli estensori del passo in questione, e la precisa ideologia soggiacente a tale scelta, si può solo richiamare l’attenzione sul concetto generico di “morto divino” che – come si vedrà nel caso dei Persiani (capitolo successivo) – può in parte aiutare la comprensione di un concetto complesso quale quello della “natura” dei morti nel mondo antico. A maggior ragione, si noterà come il “passaggio” dal “morto potente” alla divinità vera e propria diventi forse ancora più problematico al modificarsi delle circostanze in cui agisce l’“operatore”, colui che è ritenuto in possesso delle conoscenze, delle tecniche o dei mezzi atti a evocare “potenze”: «L’evocazione dei morti di età ellenistica e romana appare infatti meno selettiva nella scelta del morto da evocare […]; inoltre al potere sui morti del “mago” si affiancherà in modo simmetrico un crescente, e scandaloso, potere sugli stessi dèi»233. Con il riferimento alla “teurgia” si aprono altre, interessanti prospettive che escono dai limiti del presente lavoro, coinvolgendo l’idea di sapienza/potenza che giocherà un ruolo importante nella costruzione della figura del “mago” tardo-antico, medioevale e rinascimentale. Anche tralasciando le interessanti osservazioni che di possono trarre sulla natura delle “entità” coinvolte nel rito, lo studio di Grottanelli istituisce un confronto con un 231

Schmidt 1995: 128: «[…] it is our conclusion that the term ’elohim in 1 Sam 28:13 designates those gods known to be summoned – many from the world below – to assist the necromancer in the retrival of a ghost». 232

Sainte Bible: 455.

233

Grottanelli 1987: 204-6.

80

altro passo biblico, quello relativo alla profezia di Michea (I Re 22, 1-28),234 riassumendone i risultati in uno schema dichiaratamente provvisorio ma estremamente illuminante, dal quale si ricava il carattere di (volontario?) “rovesciamento” dell’episodio di En-dor rispetto al primo, che dimostra la “doppia ambiguità” dell’agire necromantico: esso è efficace, funziona, ma al tempo stesso è del tutto inutile: «L’opposizione diametrale [tra i due passi] è completa e chiarissima. Al vaticinare profetico, yahwistico, celeste, maschile, diurno, prescritto, ufficiale, si contrappone, in modo certo non casuale, il vaticinare necromantico: non yahwistico, infero, femminile, notturno, proibito, clandestino. Resta – anzi spicca! – il fatto che, mentre il vaticinare profetico può essere (per volere di Yahweh) fallace, l’unico caso biblico di vaticinare necromantico (di “profezia rovesciata”, di “anti-profezia”) che sia effettivamente descritto ha come esito una profezia vera, che puntualmente si realizza. […] ma la prospettiva biblica era differente, e, se si cerca di mettersi da quel punto di vista, ecco che l’esito “giusto”, e quindi l’efficacia, della performance necromantica di En-dor svaniscono», non solo perché Samuele è «l’unico tramite fra Saul e il sapere più-che-umano, ma anche, anzi soprattutto, perché il ricorso di Saul alla necromanzia è l’esito di una situazione insostenibile, causata dal peccato del re e caratterizzata appunto dalla impossibilità di ottenere vaticinii. Infine, tale impossibilità è anche una inutilità, perché a Saul peccatore le cose non possono in nessun modo andar bene»235

234

Grottanelli 1987: 192-93: alla vigilia della spedizione dei re Giosafat di Giuda e Acab d’Israele, contro gli Aramei, il re d’Israele convoca circa quattrocento profeti chiedendo loro se sia il caso di partire oppure di astenersi; nonostante il responso positivo, al re di Giuda resta un dubbio, e chiede se vi sia un altro profeta di Yahweh. Il re d’Israele risponde che uno ancora ce ne sarebbe, Michea figlio di Imla, ma costui ha la cattiva abitudine di vaticinare sventure; il re di Giuda insiste, e Michea viene mandato a chiamare. Il messo gli suggerisce di predire il successo, ma Michea risponde: “Per il vivente Yahweh, ciò che Yahweh mi dirà, quello dirò”. Inizialmente Michea predice il successo, ma in seguito all’insistenza del re che gli intima di dire la verità, predice la sventura, e riferisce una visione in cui Yahweh, seduto sul trono con tutte le schiere celesti, chiede: “Chi ingannerà Acab, perché salga e cada in Rabot Galaad?”. Allora esce uno spirito (ruah) che stando davanti a Yahweh dice: “Io lo ingannerò”; alla domanda di Yahweh, “Come?”, risponde: “Uscirò e diverrò uno spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti”. Yahweh dice: “Tu puoi ingannarlo, anzi ci riuscirai: va’ e fa’ così!”. In seguito alle sue parole, Michea viene schiaffeggiato da uno dei profeti e arrestato per ordine di Acab; ma la sua profezia si avvera. 235

Grottanelli 1987: 201.

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Il “peccato” di Saul all’origine della sua “impossibilità di ottenere vaticinii” è forse da rintracciarsi nella natura di “cattivo sacrificatore” che viene chiaramente delineata dallo stesso studioso in un saggio dedicato al sacrificio che, pur non trattando dell’episodio di En-dor, precisa il ruolo “negativo”, lo statuto fallimentare di Saul quasi diametralmente opposto a quello “positivo”, efficace, di Samuele, «come sempre corretto sacrificatore, e portavoce inflessibile della volontà di Yahweh»236: infatti «[…] la carriera di Saul è una serqua di goffaggini e di colpe relative al sacrificio, coronate e aggravate dallo sterminio dei Gabaoniti (v. II Samuele, 21) e dei sacerdoti di Nob (I Samuele, 22), e dalla persecuzione di David». La gravità della colpa è tale che «La responsabilità personale di Saul, in quanto sacrificatore “erroneo” nei casi in cui agisce in prima persona, e in quanto re e condottiero del popolo […] non è mai cancellata dal fatto che anche il popolo ha, nei tre episodi più gravi (1 Samuele, 13, 14 e 15) le sue colpe».237 Naturalmente, alla luce dell’interpretazione veterotestamentaria, yahwistica, è chiaro che non si tratta di una semplice “mancanza” negli atti cultuali, un’omissione o trasgressione di natura, genericamente, “religiosa”: ciò che è in discussione, che causa l’allontanamento di Saul dal favore divino, e che determina la sua perdita di potere, è il suo cattivo uso dello statuto regale concessogli da Yahweh: «Saul, nel comportarsi come cattivo sacrificatore, si mostra nel contempo cattivo re».238 Infatti: «Come il profilo “sacrificale” di Samuele giustifica il suo successo e il suo potere, così il profilo “sacrificale” di Saul causa (e rappresenta) il suo fallimento. Il sacrificio, principale mezzo di contatto fra Israele e il suo dio, sistema simbolico dei rapporti sociali, dei ranghi, del prestigio e della potenza, è anche, anzi soprattutto, un banco di prova. […] Come banco di prova della coerenza verso Yahweh, il sacrificio completa il proprio carattere di «fatto sociale totale», e si presta a essere regola prima di quella costruzione insieme utopica e concretamente normativa che è il testo della Bibbia ebraica»239 236

Grottanelli 1988: 152.

237

Grottanelli 1988: 152.

238

Grottanelli 1988: 152.

239

Grottanelli 1988: 153. Sul rapporto tra regalità e divinità (a prescindere dal contesto biblico/ebraico), illuminanti osservazioni in Sabbatucci 1989; cfr. capitolo seguente, n. 250.

82

Nel saggio dedicato alla “scena” di evocazione biblica Grottanelli conclude osservando come la necromanzia di En-dor dimostri una coerenza di fondo con «quella di altri ambienti, agrari e politeistici» e precisando che «la necromanzia di I Samuele 28 è troppo simile a quella omerica e eschilea per essere una pura invenzione dei redattori biblici». L’assunto ci sembra di non poco interesse, e ricco di implicazioni che dovrebbero incoraggiare i pur difficoltosi tentativi di ricercare possibili scambi, contatti, influenze che di certo non mancavano nell’ambito del Mediteraneo antico, pur nella diversità dei sistemi culturali – linguistici, politici, religiosi – coinvolti.

83

Appendice al capitolo 5: i testi dei “LXX” e della “Vulgata” 3

Kai\ Samouhl a)pe/qanen, kai\ e)ko/yanto au)to\n paªj Israhl kai\ qa/ptousin

au)to\n

e)n

Armaqaim

e)n

po/lei

au)touª.

kai\

e)ggastrimu/qouj kai\ tou\j gnw/staj a)po\ thªj ghªj.

Saoul 4

perieiªlen

tou\j

kai\ sunaqroi/zontai oi(

a)llo/fuloi kai\ e)/rxontai kai\ paremba/llousin ei)j Swman, kai\ sunaqroi/zei Saoul pa/nta a)/ndra Israhl kai\ paremba/llousin ei)j Gelboue.

5

kai\ eiÅden

Saoul th\n parembolh\n twªn a)llofu/lwn kai\ e)fobh/qh, kai\ e)ce/sth h( kardi/a au)touª sfo/dra.

6

kai\ e)phrw/thsen Saoul dia\ kuri/ou, kai\ ou)k a)pekri/qh au)t%ª

ku/rioj e)n toiªj e)nupni/oij kai\ e)n toiªj dh/loij kai\ e)n toiªj profh/taij.

7

kai\

eiÅpen Saoul toiªj paisi\n au)touª Zhth/sate/ moi gunaiªka e)ggastri/muqon, kai\ poreu/somai pro\j au)th\n kai\ zhth/sw e)n au)t$ª! kai\ eiÅpan oi( pai/dej au)touª pro\j au)to/n 'Idou\ gunh\ e)ggastri/muqoj e)n Aendwr.

8

kai\ sunekalu/yato

Saoul kai\ perieba/leto i(ma/tia e(/tera kai\ poreu/etai au)to\j kai\ du/o a)/ndrej met' au)touª kai\ e)/rxontai pro\j th\n gunaiªka nukto\j kai\ eiÅpen au)t$ª Ma/nteusai dh/ moi e)n t%ª e)ggastrimu/q% kai\ a)na/gage/ moi o(\n e)a\n ei)/pw soi.

9

kai\\ eiÅpen h( gunh\ pro\j au)to/n 'Idou\ dh\ su\ oiÅdaj o(/sa e)poi/hsen Saoul, w(j e)cwle/qreusen tou\j e)ggastrimu/qouj kai\ tou\j gnw/staj a)po\ thªj ghªj! kai\ i(/na ti/ su\ pagideu/eij th\n yuxh/n mou qanatwªsai au)th/n;

10

kai\ w)m / osen au)t$ª

Saoul le/gwn Z$ª ku/rioj, ei) a)panth/setai/ soi a)diki/a e)n t%ª lo/g% tou/t%.

11

kai\\ eiÅpen h( gunh/ Ti/na a)naga/gw soi; kai\\ eiÅpen To\n Samouhl a)na/gage/ moi.

12

kai\\ eiÅden h( gunh\ to\n Samouhl kai\\ a)nebo/hsen fwn$ª mega/l$! kai\\ eiÅpen h( gunh\ pro\j Saoul (/Ina ti/ parelogi/sw me; kai\\ su\ eiÅ Saoul.

13

kai\\ eiÅpen au)t$ª

o( basileu/j Mh\ fobouª, ei)po\n ti/na e(o/rakaj. kai\\ eiÅpen au)t%ª Qeou\j e(o/raka a)nabai/nontaj e)k thªj ghªj.

14

kai\\ eiÅpen au)t$ª Ti/ e)/gnwj; kai\\ eiÅpen au)t%ª

ÃAndra o)/rqion a)nabai/nonta e)k thªj ghªj, kai\\ ouÂtoj diploi+/da a)nabeblhme/noj. kai\\ e)/gnw Saoul o(/ti Samouhl ouÂtoj, kai\\ e)/kuyen e)pi\ pro/swpon au)touª e)pi\ th\n

ghªn

kai\\

proseku/nhsen

au)t%ª.

15

kai\\

eiÅpen

Samouhl

(/Ina

ti/

parhnw/xlhsa/j moi a)nabhªnai me; kai\\ eiÅpen Saoul Qli/bomai sfo/dra, kai\\ oi(

84

a)llo/fuloi polemouªsin e)n e)moi/, kai\\ o( qeo\j a)fe/sthken ap' e)mouª kai\\ ou)k e)pakh/koe/n moi e)/ti kai\\ e)n xeiri\ twªn profhtwªn e)n toiªj e)nupni/oij! kai\\ nuªn ke/klhka/ se gnwri/sai moi ti/ poih/sw.

16

kai\\ eiÅpen Samouhl (/Ina ti/ e)perwt#ªj

me; kai\\ ku/rioj a)fe/sthken apo\ souª kai\\ ge/gonen meta\ touª plhsi/on sou!

17

kai\\

pepoi/hken ku/rio/j soi kaqw\j e)la/lhsen e)n xeiri/ mou, kai\\ diarrh/cei ku/rioj th\n basilei/an sou e)k xeiro/j sou kai\\ dw/sei au)th\n t%ª plhsi/on sou t%ª Dauid.

18

dio/ti ou)k h)/kousaj fwnhªj kuri/ou kai\\ ou)k e)poi/hsaj qumo\n o)rghªj

au)touª e)n Amalhk, dia\ touªto to\ r(hªma e)poi/hsen ku/rio/j soi t$ª h(me/r# tau/t$.

19

kai\\ paradw/sei ku/rioj to\n Israhl meta\ souª ei)j xeiªraj a)llofu/lwn, kai\\ au)/rioj su\ kai\\ oi( ui(oi/ sou meta\ souª pesouªntai, kai\\ th\n parembolh\n Israhl dw/sei ku/rioj ei)j xeiªraj a)llofu/lwn.

20

kai\\ e)/speusen Saoul kai\\ e)/pesen

e(sthkw\j e)pi\ th\n ghªn kai\\ e)fobh/qh sfo/dra a)po\ twªn lo/gwn Samouhl! kai\\ i)sxu\j e)n aut%ª ou)k hÅn e)/ti, ou) ga\r e)/fagen a)/rton o(/lhn th\n h(me/ran kai\\ o(/lhn th\n nu/kta e)kei/nhn.

21

kai\\ ei)shªlqen h( gunh\ pro\j Saoul kai\\ eiÅden o(/ti

e)/speusen sfo/dra, kai\\ eiÅpen pro\j au)to/n 'Idou dh\ h)/kousen h( dou/lh sou thªj fwnhªj sou kai\\ e)qe/mhn th\n yuxh/n mou e)n t$ª xeiri/ mou kai\\ h)/kousa tou\j lo/gouj, ou(\j e)la/lhsa/j moi!

22

kai\\ nuªn a)/kouson dh\ fwnhªj thªj dou/lhj sou,

kai\\ paraqh/sw e)nw/pio/n sou ywmo\n a)/rtou, kai\\ fa/ge, kai\\ e)/stai e)n soi\ i)sxu/j, o(/ti poreu/s$ e)n o(d%ª.

23

kai\\ ou)k e)boulh/qh fageiªn! kai\\ parebia/zonto au)to\n oi(

paiªdej au)touª kai\\ h( gunh/, kai\\ h)/kousen thªj fwnhªj au)twªn kai\\ a)ne/sth a)po\ thªj ghªj kai\\ e)ka/qisen e)pi\ to\n di/fron.

24

kai\\ t$ª gunaiki\ hÅn da/malij noma\j e)n

t$ª oi)ki/#, kai\\ e)/speusen kai\\ e)qusen au)th\n kai\\ e)/laben a)/leura kai\\ e)furasen kai\\ e)/peyen a)/zuma

25

kai\\ prosh/gagen e)nw/pion Saoul kai\\ e)nw/pion twªn

pai/dwn au)touª, kai\\ e)/fagon. kai\\ a)ne/sthsan kai\\ a)phªlqon th\n nu/kta e)kei/nhn.

3

Samuhel autem mortuus est planxitque eum omnis Israhel et sepelierunt eum in Rama urbe

sua et Saul abstulit magos et ariolos de terra 4 congregatique sunt Philisthim et venerunt et castrametati sunt in Sunam congregavit autem et Saul universum Israhel et venit in Gelboe 5 et vidit Saul castra Philisthim et timuit et expavit cor eius nimis 6 consuluitque Dominum et non respondit ei neque per somnia neque per sacerdotes neque per prophetas 7 dixitque Saul

85

servis suis quaerite mihi mulierem habentem pythonem et vadam ad eam et sciscitabor per illam et dixerunt servi eius ad eum est mulier habens pythonem in Aendor

8

mutavit ergo

habitum suum vestitusque est aliis vestimentis abiit ipse et duo viri cum eo veneruntque ad mulierem nocte et ait divina mihi in pythone et suscita mihi quem dixero tibi 9 et ait mulier ad eum ecce tu nosti quanta fecerit Saul et quomodo eraserit magos et ariolos de terra quare ergo insidiaris animae meae ut occidar

10

et iuravit ei Saul in Domino dicens vivit Dominus

quia non veniet tibi quicquam mali propter hanc rem 11 dixitque ei mulier quem suscitabo tibi qui ait Samuhelem suscita mihi

12

cum autem vidisset mulier Samuhelem exclamavit voce

magna et dixit ad Saul quare inposuisti mihi tu es enim Saul

13

dixitque ei rex noli timere

quid vidisti et ait mulier ad Saul deos vidi ascendentes de terra

14

dixitque ei qualis est forma

eius quae ait vir senex ascendit et ipse amictus est pallio intellexit Saul quod Samuhel esset et inclinavit se super faciem suam in terra et adoravit

15

dixit autem Samuhel ad Saul quare

inquietasti me ut suscitarer et ait Saul coartor nimis siquidem Philisthim pugnant adversum me et Deus recessit a me et exaudire me noluit neque in manu prophetarum neque per somnia vocavi ergo te ut ostenderes mihi quid faciam

16

et ait Samuhel quid interrogas me

cum Dominus recesserit a te et transierit ad aemulum tuum

17

faciet enim Dominus tibi sicut

locutus est in manu mea et scindet regnum de manu tua et dabit illud proximo tuo David

18

quia non oboedisti voci Domini neque fecisti iram furoris eius in Amalech idcirco quod pateris fecit tibi Dominus hodie

19

et dabit Dominus etiam Israhel tecum in manu Philisthim

cras autem tu et filii tui mecum eritis sed et castra Israhel tradet Dominus in manu Philisthim 20

statimque Saul cecidit porrectus in terram extimuerat enim verba Samuhel et robur non

erat in eo quia non comederat panem tota die illa

21

ingressa est itaque mulier ad Saul et ait

conturbatus enim erat valde dixitque ad eum ecce oboedivit ancilla tua voci tuae et posui animam meam in manu mea et audivi sermones tuos quos locutus es ad me

22

nunc igitur

audi et tu vocem ancillae tuae ut ponam coram te buccellam panis et comedens convalescas ut possis iter facere

23

qui rennuit et ait non comedam coegerunt autem eum servi sui et

mulier et tandem audita voce eorum surrexit de terra et sedit super lectum

24

mulier autem

illa babebat vitulum pascualem in domo et festinavit et occidit eum tollensque farinam miscuit eam et coxit azyma

25

et posuit ante Saul et ante servos eius qui cum comedissent

surrexerunt ct ambulaverunt per totam noctem illam.

86

6. Un’anomala evocazione. I Persiani di Eschilo

Interessante può essere il confronto tra i testi precedenti e la tragedia di Eschilo, rappresentata nel 472 a.C., in cui l’evocazione di un defunto, la prassi della psycagogía – preferiamo questo termine a “necromanzia”, poiché la conoscenza del futuro, l’aspetto divinatorio, in questo caso sembra secondario – è esplicitamente rappresentata, e costituisce anzi il centro della vicenda, il fulcro del dramma. Limitandoci alla sola scena centrale (vv. 607-842) e tralasciando qualsiasi altro aspetto dell’opera, diamo uno sguardo agli elementi che ci sembrano rilevanti ai fini della nostra breve disamina.

6.1 Gli “attori” L’elemento femminile che contraddistingue questa scena di evocazione è, in questo caso (diversamente dalla “strega” biblica), un personaggio di rilievo: si tratta infatti della regina Atossa, madre di Serse – il perdente del recentissimo, epocale scontro tra Greci e Persiani a Salamina (480 a.C.) – e moglie del defunto re Dario. Come è noto, Eschilo presenta sorprendentemente (e forse coraggiosamente) al pubblico coevo, appena uscito dalla vittoria sul potente nemico asiatico, un dramma che racconta la storia dei vinti, la tragedia degli sconfitti. Il tema ideologico, “politico” – la vittoria della polis democratica e “libera”, l’Atene dell’“uomo nuovo” Temistocle, il decifratore dell’oracolo delfico (Erodoto, VII 141-43),240 sui “servi” e “barbari” Persiani – ed il fine apologetico e morale – la uÀbrij, la colpevole tracotanza del re nemico nei confronti degli dèi e la sua punizione – non inficiano lo spessore umano della figura di moglie e madre addolorata, che si reca sulla tomba del re per onorarlo con pietosi sacrifici. 240

Cfr. Chirassi Colombo 1990: 52.

87

La “scena” si svolge nelle vicinanze della reggia, presso il tumulo del re, in un’atmosfera mesta e solenne: la donna, anche dopo aver smesso le insegne della regalità,241 si rivolge con ieratica compostezza al Coro e al Messaggero, che le reca la notizia del disastroso esito della spedizione persiana; la sua condizione di moglie e madre di re, che non viene meno neanche nel momento del lutto, sembra investirla di una «autorità sacrale», la stessa che Dario morendo aveva trasmesso al figlio Serse: «La cerimonia si svolge privatamente alla presenza e per opera di poche persone legate alla famiglia del sovrano: il ruolo della sacerdotessa è coperto dalla regina assistita dal Coro che, prendendo parte viva al rito, assume esso pure funzioni sacerdotali».242 La natura, oltre che il ruolo, degli anziani consiglieri che costituiscono il Coro è stata al centro di un lungo dibattito. Riprendendo un “classico” articolo di Headlam,243 teso a dimostrare il carattere prettamente “magico” del rito descritto ne I Persiani, e a contrapporlo ai riti di natura “religiosa”, Lawson critica l’idea secondo la quale un rito necromantico non può esistere senza che vi sia un operatore dotato di “poteri magici”, in senso lato (e con la cautela che il termine richiede) “stregoneschi”;244 ma è credibile – si chiede Lawson – che gli Ateniesi del tempo di Eschilo vedessero tutti i Persiani, pur dopo i loro frequenti contatti con i Greci avvenuti “in pace e in guerra” nei molti anni precedenti la battaglia di Salamina, come Maghi (“magicians”)? Al contrario, i Persiani rappresentati dal drammaturgo dovevano apparire ai suoi concittadini per quello che erano, «simple old gentlemen, and not Magi».245 Il discorso si inserisce in un più ampio dibattito sulla natura “magica” dell’intero episodio eschileo, nel quale si sono volute vedere, di volta in volta, le tracce di “rituali necromantici barbari” dovuti ad 241

Jouan 1981: 405: «Lorsque la reine revient, c’est à pied (alors que précédemment elle était montée sur un char, avec tout l’apparat de la royauté perse), en vêtements simples et sombres (607-608) […]. Elle est effrayée, les yeux pleins de l’hostilité des dieux et les oreilles de la clamour du peuple (603605)». 242

Scazzoso 1952: 291.

243

W. Headlam, “Ghost Raising, Magic and the underworld”, in “Classical Review”, 16, 1902, pp. 5261. 244

Headlam, “Ghost Raising…”: «In literature always, when necromancy is performed, it is through the agency of one possessing magic powers», cit. in Lawson 1934: 81. 245

Lawson 1934: 81.

88

una diretta influenza “orientale”,246 oppure il ricordo di un rituale che, sulla scorta dei cosiddetti Papiri Magici, è stato definito di tipo “greco-omerico”, opposto a “orientale”;247 non è mancato chi, puntando sull’aspetto della “regalità” dei protagonisti, ha ipotizzato una “iniziazione misterica” ricevuta dai sovrani persiani da parte dei Magi: «[…] dopo l’iniziazione e l’incoronazione essi, oltre ad avere acquistato poteri taumaturgici venivano anche in possesso di un rituale riservato, atto a produrre in determinate circostanze fenomeni fuori dell’ordine naturale; tali segreti tradizionali erano legati all’istituzione monarchica ed indissolubili da essa».248 Si tratta dell’impostazione di falsi problemi. Certamente il mondo greco non conosce l’antitesi magia/religione che è propria del cristianesimo ad esempio, dei monoteismi in generale, ma anche della respublica romana. Per il mondo greco si può parlare di pratica “barbara”, “ straniera”, eventualmente non accettata, non normativa, anomos. Volendo cercare una posizione intermedia, si può ragionevolmente accogliere la tesi di Eitrem, noto esperto della materia, secondo il quale Eschilo avrebbe associato ricordi della nekyia omerica a credenze e usanze religiose del proprio tempo.249 Il terzo “attore” (postulando lo statuto di “dramatis persona” al Coro) è Dario. Non si tratta – fatto molto rilevante – di un defunto qualsiasi, ma del Grande Re, l’organizzatore dell’enorme e variegato, anche dal punto di vista etnico, Impero Persiano, esempio di sovrano potente e conquistatore, e al contempo “saggio” e tollerante verso le diversità religiose. Il suo statuto regale, la sua biografia eccezionale lo collocano (o lo assimilano) nella sfera della divinità. 250 E difatti il 246

È il caso di J. Bidez, “A propos des Perses d’Eschyle”, in “Bull. Ac. Roy. Belg.”, Cl. des L., 1937, pp. 206-35, cit. in Jouan 1981: 408. 247

Th. Hopfner, s.v. “Nekromantie”, RE, XVII, 2, 1935, cit. in Jouan 1981: 409.

248

Scazzoso 1952: 291.

249

S. Eitrem, “The Necromancy in the Persae of Aischylos”, in “Symboles Osloenses”, 6, 1928, pp. 117, cit. in Jouan 1981: 409. 250

Del rapporto tra regalità e divinità si è occupato, a più riprese, D. Sabbatucci; benché il discorso verta qui sulla divinazione (e il culto dei morti), citiamo da Sabbatucci 1989: 98: «In Mesopotamia, dove l’istituto regale emerge quattro o cinque secoli dopo la realtà faraonica egiziana, troviamo soltanto il morto indigente, ossia quello che ha bisogno dei vivi e non il morto potente di cui sono i vivi ad avere bisogno. La condizione del morto mesopotamico è quella tombale: è costretto a

89

Coro lo invoca appellandolo “re simile (o pari) agli dèi” (i)sodai/mwn basileu\j, v. 634) e addirittura “dio dei Persiani” (Persaªn... qeo/n, v. 644), “divino signore” (qeiªon a)na/ktora, v. 651) e “divino (o ispirato dagli dei) consigliere” (qeomh/stwr, vv. 654 e 655). Oltre a queste attestazioni dirette, esplicite, vi è un implicito, continuo richiamo alla sua “divinità” che continua anche dopo la morte, nonostante la morte o, forse, che proprio la morte permette di mantenere e rafforzare. Lo “spirito” o “fantasma” di Dario è infatti qualificato come il suo “dai/mwn” (dai/mona Dareiªon, vv. 620-21; daiªmona megauxhª, v. 642), laddove lo stesso termine serve a designare, notoriamente, anche le divinità, in questo caso quelle ctonie, come al v. 628 (xqo/nioi dai/monej).251 Sia che la lingua greca (in particolare il lessico eschileo) usi le due forme – dai/mwn e qeo/j – come sinonimi, sia che preveda un significativo scarto semantico tra di esse, resta il fatto che Dario, in quanto già in vita sovrano “divino”, nel suo nuovo stato mantiene (o acquisisce) lo statuto di “morto divino”. Siamo forse lontani, non solo e non tanto cronologicamente, dalla concezione che richiede, per la consultazione necromantica, un sapere “tecnico”, profetico, come quello di Tiresia, indovino prima e dopo la morte (e nonostante la morte). Forse è lecito un parallelo (che lo stesso Grottanelli indirettamente autorizza) con il mondo ebraico, in particolare con l’uso “scandaloso” di quel termine ’elohim (reso nella traduzione greca con qeou/j), “divinità” (plurale), per indicare lo “spirito” (singolare) di Samuele, anche lui profeta, ma non assimilabile – e soprattutto non sostituibile! – a Yahweh.252 Considerare il testo eschileo come più vicino, concettualmente, all’ambiente ebraico (coevo o successivo, ellenistico), che al precedente mondo omerico è probabilmente azzardato, ma la tentazione di ipotizzare un certo influsso indiretto, mangiare e a bere la terra in cui è sepolto, a meno che i vivi non versino sulla sua tomba acqua, vino e sangue di vittime sacrificali. In Egitto troviamo invece la formazione di una escatologia regale con la rappresentazione del morto potente, addirittura assimilato al dio Osiride». In riferimento allo “spirito” si parla anche di yuxh/ (v. 630), anche se in questo solo caso non è in diretta connessione con il nome di Dario; d’altronde anche gli dèi preposti sono ovviamente detti anche “qeoi/” (v. 689, kata\ xqono\j qeoi\). 251

252

Si veda sopra, paragrafo 5.4.

90

anche a livello meramente linguistico/lessicale, è molto forte, e varrebbe la pena di approfondire il discorso.253

6.2 Le azioni È stato notato come il “sacrificio” di Atossa non diverga molto da una semplice “offerta” funeraria, comparabile a quella di Ifigenia sulla tomba di Oreste, o alle libagioni di Elettra (accompagnate dalle “lamentazioni”, kwkutoi/, del Coro) sulla tomba di Agamennone nelle Choephoroi, suggerendo come i confini tra la devota frequentazione della sepoltura e la (quasi involontaria?) evocazione del sepolto siano affatto labili: «The easy glide between tomb attendance and evocation is illustrated by Aeschylus’s Persians and his Choephoroi. When, in the Persians, Atossa first arrives with her offerings of honey, water, wine, oil, and flowers for Darius, we do not realize that she intends anything other than ordinary attendance at the tomb of a relative […]».254 L’osservazione non è nuova: già presente, in modo diverso, nell’articolo di Jouan (e più recentemente ripresa da Johnston),255 essa suggerisce due diversi ordini di considerazioni. Il primo riguarda la qualità e l’efficacia delle “offerte”; il secondo, invece, l’intenzionalità dell’offerente/officiante (Atossa, ma anche il Coro, come vedremo), e l’efficacia delle sue azioni. Le offerte. Lunga e complessa, nonché istruttiva, sarebbe una comparazione tra gli “ingredienti” delle “offerte” delle principali scene di necromanzia che conosciamo; 253

Sull’uso “eufemistico” dei nomi dei morti, intesi come pericolosi daímones (in riferimento alla pratica delle defixionis tabellae), si può vedere Voutiras 1999: 79: «[…] although they treat them as lifeless corpses […], the operants must have felt that the souls of these same dead could become powerful and are potentially dangerous daimones of the nether world. This would explain the use of euphemistic names as if they were mighty divinities. One should note that in both cases the actual names of the dead were avoided». 254

Ogden 2001: 8.

255

Jouan 1981: 409; Johnston 1999: 97: «[…] Queen Atossa does not invoke Darius in the Persians herself. She pours libations and grieves, as a good wife should, but she asks the chorus of male Persian elders to sing the special songs that will bring Darius back into the light».

91

anche limitando lo sguardo ai principali testi teatrali, le evidenti analogie rimandano a significati connessi con la prassi cultuale dei defunti256: «Comme dans presque tous les autres passages tragiques, la libation est versée sur la tombe du défunt, à l’image des offandres que nous présentent les lécythes funéraires attiques».257 Ci limitiamo qui a sottolineare la ricorrenza, ne I Persiani, del meli/kraton (miscuglio di latte e miele) e di acqua e vino (come nella nekyia),258 accompagnati da olio di oliva e fiori,259 e la totale mancanza dell’uso di vittime animali (diversamente dalla nekyia). Le “offerte” di Atossa hanno una duplice destinazione: sono infatti rivolte dapprima, nell’esortazione del Coro, “alla Terra” e “ai morti”: «[...] deu/teron de\ xrh\ xoa\j G$ª te kai\ fqitoiªj xe/asqai […]» (vv. 21920)

e subito dopo, come dice lei stessa nella replica al Coro, “agli dèi” e “ai cari di sotterra”, genericamente, senza distinzioni precise: «pa/nta qh/somen qeoiªsi toiªj t マ e)/nerqe ghªj fi/loij» (v. 229).

Solo ai versi 609-10, al ritorno di Atossa sulla scena dopo la sua uscita, e all’inizio del rito, il destinatario principale è indicato in modo più preciso: la regina si propone infatti di versare libagioni per “il padre di mio figlio”, e che “addolciscano i morti”: «[…] paido\j patri\ preumeneiªj xoa\j / fe/rouj マ , a(/per nekroiªsi meilikth/ria». 256

In Jouan 1981: 411-12 vengono riassunti i vari tipi di “offerta funeraria” (latte, miele, vino, separatamente o mescolati tra loro) presenti nelle principali tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Nelle stesse pagine si nota come l’offerta presente nei Persiani – latte e miele, vino e acqua – trovi il suo riscontro più immediato solo in quella dell’Ifigenia in Tauride, ed un illustre precedente nel “ciceone” di Circe, nel poema omerico; inoltre, «Il n’y a d’offrande sanglante que dans l’Electre d’Euripide (brebis) et dans Hècube (sacrifice humain)». 257

Jouan 1981: 412.

Od. X 519-20 e XI 27-28: «prwªta melikrh/t%, mete/peita de\ h(de/i+ oi)/n%, / to\ tri/ton au)=q' u(/dati […]» («[un’offerta] prima di latte e miele, dopo di dolce vino, / poi una terza di acqua»), cosparsa di farina d’orzo. 258

259

Eschilo, Persiani: 607-618.

92

L’insistenza sulla doppia forma dell’invocazione (evocazione) di Atossa – per Terra (G$ª)/per i morti (fqitoiªj), per gli dèi (qeoiªsi)/per i morti (fi/loij), per Dario (paido\j patri\)/per i morti (nekroiªsi) – ha fatto pensare che le libagioni costituiscano due serie ben distinte: le prime per gli dèi inferi (nerte/roij qeoiªj, v. 619 e 622), più sotto nominati espressamente ( (Ermhªj, ¡Aidwneu/j, vv. 629 sgg.), le seconde per Dario (dai/mona Dareiªon, vv. 620-21), come dimostrerebbe il preciso uso dei dimostrativi taiªsde... ta/sde (vv. 619 e 622).260 È a questo punto, esattamente a partire dal verso 619, che l’invocazione (agli dèi) cede il posto all’evocazione (di Dario), alle suppliche (ai defunti) si aggiunge l’ordine (al Coro) di “far salire” il re, con quei due imperativi e)peufhmeiªte e a)nakaleiªsqe che rendono esplicita la volontà di Atossa, dando inizio alla lunga e lamentosa implorazione del Coro;261 il brusco passaggio non è privo di difficoltà, almeno per noi moderni, culturalmente condizionati dall’abitudine di segnare una netta dicotomia tra “magico” e “religioso”, “illecito” e “lecito”: «Mais il faut avouer que pour le lecteur moderne le glissement d’un type de cérémonie à l’autre n’est pas clair: sans doute les choses étaient-elles plus évidentes pour le public d’Eschyle».262 Ad ogni modo, le “offerte” di Atossa, unite ai “canti” (uÀmnouj) del Coro, funzionano, con l’effettivo risultato di richiamare l’“ombra” del defunto re Dario.263 L’intenzionalità. È stato in effetti osservato che il Coro riveste un ruolo determinante in tale evocazione. Ai vv. 619-22 infatti la regina invita il Coro degli uomini, gli anziani Persiani (definendoli fi/loi, “cari”, “amici”) ad intonare i canti, gli inni (le 260

Jouan 1981: 412.

261

Scazzoso 1952: 292: «[…] non si tratta di una semplice esortazione bensì di una vera e propria istruzione rituale». 262

Jouan 1981: 413.

263

Non potendo approfondire qui il discorso, segnaliamo un interessante parallelo con il mondo (moderno) rurale, in cui la devozione cristiana si mescola ad antichissime forme “pagane” nell’odierna Lucania descritta in De Martino 2002: 136: «Ultimo miserabile avanzo del pagano banchetto presso le tombe, alcune donne vanno versando da una bottiglietta di gazzosa un po’ di vino rosso su una grossa fetta di pane scuro, che depongono a piè della croce, nel fascio di fiori campestri».

93

lodi?) in grado di richiamare, evocare lo “spirito” di Dario (uÀmnouj e)peufhmeiªte, to/n te dai/mona Dareiªon a)nakaleiªsqe). Poco più sotto però il sovrano, appena “salito”, afferma di aver accettato di buon grado le offerte o libagioni della moglie (xoa\j de\ preumenh\j e)deca/mhn, v. 685), ma anche di esser stato richiamato dagli “acuti lamenti” del Coro; è interessante l’espressione usata: yuxagwgoiªj o)rqia/zontej go/oij (v. 687), sulla quale torneremo più sotto (paragrafo 6.3). È troppo poco per trarre delle conclusioni sull’“ideologia” soggiacente a questo episodio letterario: si può solo osservare che l’azione di Atossa, anche se intenzionale, forse è inefficace senza l’apporto, o la mediazione, degli anziani dignitari di corte che formano il Coro; viceversa, i loro “canti” forse non sortirebbero effetto alcuno senza le libagioni (e i lamenti) di Atossa. La sovrana ed il Coro sembrano costituire due operatori diversi e complementari di una medesima prassi che ha forse il suo modello diretto nelle consuete e comuni “lamentazioni” per i defunti, la cui pericolosità “sociale” comportò una serie di restrizioni.264

264

Si veda più sotto, paragrafo 6.3.

94

6.3 Come piangere il morto Desideriamo soffermarci un attimo sull’uso delle “lamentazioni”, ovvero sull’uso dei termini usati per designarle. Si è visto come Dario si riferisca ai lamenti del Coro parlando di yuxagwgoiªj go/oij (v. 687), cioè lamenti (gemiti, pianti) in grado di richiamare le “anime” dei morti; poco più sotto, dichiara di esser “salito” obbedendo ai lamenti (go/oij, v. 697) del Coro e, pochi versi dopo, con lo stesso termine invita la moglie a cessare i lamenti (go/wn, v. 705), gli stessi, è lecito presumere, che lo hanno fatto “salire”. Si potrebbe quasi ipotizzare uno scarto qualitativo tra due tipi di “lamenti”, o meglio tra due modi di impiegarli, che sortiscono due diversi effetti in relazione alla natura di chi li pronuncia: i go/oi del Coro, messi in connessione con il verbo qrhne/w (piangere, gemere, levare un lamento: v. 686), effettivamente richiamano l’“ombra” di Dario, mentre quelli di Atossa, associati al sostantivo klau/mata (di analogo significato: v. 705), non sembrano possedere un valore strumentale, intervengono – così sembra – quando Dario è già “salito”. L’uso, con valore sinonimico, del termine uÀmnoi (inni, canti celebrativi) da parte di Atossa (v. 620) e del Coro (v. 625) per designare i go/oi – ma sempre quelli del Coro, non quelli della regina – non conferma né smentisce l’ipotesi; sembra però dimostrare come nel lessico di Eschilo i termini legati al “sapere” necromantico seguano un impiego molto attento, mirato ad ottenere un effetto preciso, quasi un linguaggio “tecnico”, da specialisti. L’idea che il drammaturgo usasse parole che non solo il suo pubblico immediatamente associava all’agire necromantico, ma che trovavano reale riscontro nella prassi quotidiana, è oltremodo suggestiva (quanti “specialisti” di necromanzia esistevano, nell’Atene di V sec.?), ma non verificabile, anche se alcuni fatti – la frequenza nel vocabolario dell’epoca del termine yuxagwgo/j, la tavoletta di Dodona265 – induce a non escluderla a priori come una mera fantasia.

265

Cfr. paragrafo 1.2.

95

Ulteriori osservazioni possono nascere dal raffronto tra due termini che abbiamo visto associati, usati in modo complementare, qrhªnoj (verbo qrhne/w) e go/oj, dai significati accostabili ma non uguali, secondo una distinzione che ci sembra di un certo interesse: presenti già nella lingua omerica, essi designano due modi di esprimere il dolore per la morte o la mancanza (dovuta a lunga e forzata lontananza) di un individuo,266 con la differenza che il primo costituiva un atteggiamento più controllato, “ordinato”, e di norma associato agli uomini, mentre il secondo aveva un carattere spontaneo ed “eccessivo”.267 Scopriamo inoltre che questa distinzione, se storicamente oltre che concettualmente valida, implica delle non trascurabili conseguenze sul piano socioculturale, alle quali prima si accennava (paragrafo 6.2): ad un certo punto, infatti, i go/oi acquisirono il valore di pericoloso strumento di rivalsa nei casi di morte violenta, mettendo in evidenza presso gli ascoltatori non solo il dolore di chi li pronunciava, ma anche l’ingiustizia subìta dal morto, al punto che «the gooi of women, sung in the presence of male survivors, could drive a cycle of murder and counter-murder».268 Per scongiurare tali vendette personali/familiari, in età arcaica e classica entrambe le forme di “pianto” furono soggette a limitazioni da parte delle leggi che disciplinavano le pratiche funerarie; il go/oj, in particolare, fu indebolito restringendo il numero delle donne permesse a partecipare ai riti, e limitando la durata del lamento ed i luoghi in cui veniva eseguito.269 Questa contrapposizione tra un lamento composto, lecito, maschile, ed uno “scomposto”, “pericoloso”, femminile, forse non rientrava nella concezione ideologica (o nelle intenzioni) di Eschilo o del suo pubblico; se così fosse, le implicazioni sarebbero di non poco conto. Con analoga incertezza, affidandoci ai dati Per qrhªnoj, cfr. ad es. Il. XXIV 721: «a)oidou\j qrh/nwn e)ca/rxouj», cantori che intonano il lamento funebre (ma vedi anche Luciano, PERI PENQOUS 20: «qrh/nwn sofisth/n», professionista delle lamentazioni); per go/oj, cfr. Od. IV 102-103 (il “pianto” di Menelao) e 758 (il “pianto” di Penelope). 266

267

Johnston 1999: 91: «Thrênos was a more controlled and orderly expression of grief. Already in Homer, it consisted of composed songs, sometimes sung by professional mourners, and was the type of lament most often associated with men. Goös, in contrast, was spontaneous and emotionally powerful – sometimes excessively so». 268

Johnston 1999: 91-92.

269

Johnston 1999: 91-92.

96

linguistici proposti, è forse possibile instaurare un ulteriore confronto, che riconduce il go/oj ad una figura (già vista in precedenza) di operatore – nel testo in questione, eventualmente, operatrice – del sapere “altro”, “infero”, “pericoloso”, il go/hj: «[…] analysis suggests that the name was the precise term for a professional communicator with the dead. The most obvious evidence for this is linguistic: ‘goês’ is derived from the same root as ‘goös’ […]».270 Nell’articolo citato segue una serie di esempi dell’uso, anche metaforico, 271 del termine, tesi a dimostrare la natura “straniera” del termine gohtei/a, l’arte del go/hj, ed il suo ambito esclusivamente “maschile”, nonostante la sopra citata (ed inspiegata, nella sua apparente contraddizione) derivazione dalla sfera femminile.272 Il concetto è espresso in modo forse più contingente, con l’aggiunta di alcuni dettagli, da F. Graf nel suo studio sulla magia nel mondo antico greco-romano, a proposito del lessico relativo agli operatori del “magico”: «In tutto questo vocabolario, soltanto mágos e la sua famiglia sembrano di origine recente. Góes, parola di derivazione greca, conserva tracce di una funzione più arcaica, e sempre in armonia con la sua etimologia (la parola deriva da góos, il pianto rituale): quella di una figura sciamanica in rapporto con il mondo dei morti – figura certo marginale, e nondimeno ancora al servizio della società. In Eschilo, ritroviamo il góes come colui che fa uscire i morti dalle loro tombe, inversione di una funzione implicata nel góos»273

Johnston 1999: 92. Sul termine go/hj, cfr. le definizioni di Liddell-Scott 1983 (1843) e Stephanus 1954, capitolo 3, n. 105. 270

271

Johnston 1999: 93 cita l’esempio del Sofista, in cui lo Straniero descrive i sofisti come coloro che usano la goêteia per portare alla luce “fantasmi verbali” (eidôla legomena) con le loro parole. 272

Cfr. Johnston 1999: 97.

273

Graf 1995: 27-28. Qui come in altri luoghi, Johnston sembra seguire molto da vicino l’opera di Graf, ed entrambi, sull’origine straniera, orientale, del góes (se non della “magia” in generale) dichiarano il loro debito verso gli studi di W. Burkert. Si ricorderà, solo di passaggio, che il tema di un influsso “sciamanistico” nella cultura greca è uno degli assunti del saggio di Dodds, I Greci e l’irrazionale (cit. in bibliografia). In generale sull’influenza orientale, si veda ancora Graf 1995: 16468.

97

Proprio questa “inversione”, ribadita dall’Autore anche altrove,274 può essere una delle tante possibili chiavi di lettura con le quali avvicinare la “scena” necromantica contenuta in questo testo: gli stessi lamenti che Atossa pronuncia per placare il proprio dolore e lo stesso defunto, sono usati dal Coro per risvegliarlo, coerentemente con l’ambiguità – spesso linguistica e tutta concettuale – propria dell’agire necromantico.

6.4 Parlare ai morti, parlare da morti Accenniamo ancora ad alcune particolarità del comportamento – le “azioni”, in senso chiaramente verbale – di Dario, che ci sembrano degne d’interesse, pur se non immediatamente significative, anche in vista di un confronto con le scene di evocazione analizzate nei precedenti capitoli: ci riferiamo al “disturbo” che il morto interrogato dichiara di provare, alla sua “fretta” di ritornare alla propria sede infera, ed alla sua apparente “ignoranza profetica”, che caratterizzano – in un generale clima “pauroso” – alcuni passaggi del dramma eschileo. In seguito, dunque, alle libagioni di Atossa e ai lamenti (o “inni”) del Coro, e ad eventuali atti performativi come il battito ritmico delle mani o dei piedi congetturato da alcuni,275 l’“ombra” di Dario sale sulla sommità del tumulo, indossando i “calzari color zafferano” e la tiara regale, simboli del potere regio: così almeno i Coreuti lo invocano – o lo ricordano, immaginandolo nel suo aspetto da vivo – ai vv. 660-61; anche da morto, Dario è un sovrano “potente”, un reggente (de/spota despo/tou, v. 666; duna/ta duna/ta, 675).276 All’inizio della sua 274

Graf 1999: 296: «[…] the same specialist who could send the souls to the nether world […] could call them up again». 275

Lawson 1934: 79-83, rifacendosi a Headlam (“Ghost Raising…”, cit.), segnala l’ambiguità del v. 683 («ste/nei, ke/koptai, kai\ xara/ssetai pe/don»): se il soggetto è pe/don (anziché po/lij del v. precedente) si può intendere che la terra sia “battuta” dai piedi dei Coreuti (ma Headlam: «[…] imagine these aged venerable men skipping and scoring the ground with their old hoofs!»); cfr. ancora Lawson 1934: 89, per il quale Atossa, inginocchiata presso la tomba, batte le mani sulla terra, e Broadhead 1960: 309, in modo analogo. 276

Broadhead 1960: 309 menziona gli espedienti teatrali che permettevano le apparizioni di “spiriti” o altri “esseri” (divinità, Furie etc.), come le “scale caronie” (Xarw/nioi kli/makej) e la “botola”

98

apparizione, egli usa un’espressione curiosa: ho paura, timore (tarbwª, v. 685) – afferma – nel vedere la mia sposa presso la tomba; sebbene la natura di tale timore sia forse destinata a rimanere senza spiegazione,277 possiamo notare come il sentimento di “spavento” caratterizzi anche gli altri personaggi: Atossa, all’inizio del suo secondo ingresso sulla scena, dichiara di aver paura, di essere atterrita (e)kfobeiª, v. 606) per le sciagure che l’hanno colpita,278 mentre il Coro, subito dopo l’apparizione, esprime il proprio timore reverenziale (se/bomai, vv. 694-95) alla vista del sovrano (ma parla anche dell’“antica paura” di lui, a)rxai/% ta/rbei, v. 696). È poco per vedere il riflesso di un atteggiamento “psicologico” da ricondurre alle aspettative concettuali ed emozionali del pubblico (la solenne apparizione di Dario provocava, negli spettatori, lo stesso timore reverenziale?), ma è lecito vedere nell’intero passo una situazione di forte disagio, di straniamento, opportunamente preparato nelle sequenze che precedono l’evocazione con l’uso di effetti linguistici – ed eventualmente sonori279 – in sintonia con l’atmosfera “lugubre”, luttuosa, dell’intera tragedia. In questo contesto vanno probabilmente interpretate le parole, che hanno offerto non pochi problemi interpretativi, pronunciate dal Coro ai vv. 634-36: h)ª r(' a)i/ei mou magari/taj i)sodai/mwn basileu\j / ba/rbara safhnhª / i(e/ntoj ta\ panai/ol' ai)- / anhª du/sqroa ba/gmata;

(a)napi/esma) citate da Polluce, Onomasticon IV 132. Luck 1997: 560 aggiunge: «Ma se i teatri possedevano questo tipo di macchinari teatrali, è possibile che anche i santuari, dove erano evocate le ombre dei morti (yuxopompeiªa), disponessero di simili congegni»; anche Ogden 2001: 3. 277

Luck 1997: 563 si chiede, nel suo commento al passo (basato su quello di Broadhead 1960), «Che cosa dovrebbe temere Dario? Di venire a sapere tutta la verità sulla disfatta dei Persiani? Certamente non teme sua moglie o le libagioni di lei». Più interessante Lawson 1934: 86, il quale ipotizza che Atossa, che dovrebbe essere adusa a offrire al defunto, in questa occasione abbia un comportamento inusuale – ad es. l’atto di percuotere la terra – che desta preoccupazione (per la salute della donna?) nel sovrano. 278

Broadhead 1960: 307: «[…] she is in a very different frame of mind: she is filled with almost panic terror […]». 279

Non pochi commentatori, a partire da Headlam (“Ghost Raising…”, cit.), ipotizzano l’utilizzo, sul palco, di grida e suoni inarticolati dei quali non è rimasta traccia nei manoscritti: cfr. Lawson 1934: 82, Broadhead 1960: 308, e Jouan 1981: 408.

99

«M’ode il re beato pari a un dio / lanciare suoni barbari, distinti, variegati / insistenti, lamentosi?»280

A parte la questione filologica sul termine safhnhª, da Headlam emendato in a)safhnhª, con un’inversione di significato (le parole chiare, distinte, diventano

“oscure”, “incomprensibili”),281 anche l’uso di ba/rbara e di ba/gmata ha sollevato qualche perplessità. Sebbene ba/rbaroj, in quest’opera, sia probabilmente un semplice sinonimo di “Persiano”,282 è singolare che i Coreuti (persiani) avvertano il bisogno di specificare come le proprie parole (rivolte ad un persiano) siano “straniere”, non greche; anche supponendo l’intenzione di Eschilo di ribadire al proprio pubblico l’ambientazione asiatica, “esotica”, della vicenda (ricordando che gli attori recitano in greco, ma “traducendo” parole persiane: una finezza che non è necessario supporre), l’uso del termine rimanda a quel linguaggio “inintelligibile”, ai cosiddetti o)no/mata barbarika/ che nei secoli seguenti dilagheranno nei testi dei Papiri Magici e saranno indissolubilmente associati agli “operatori del magico”, come ben testimonia, con la consueta verve, un passo di Luciano.283 Meno problematici sono i suoni lamentosi, o grida di dolore ( ba/gmata), ma ci si è chiesto a chi fossero rivolti284: se lo sono alle divinità sotterranee, ha poco senso domandarsi se siano uditi dal re; se il destinatario è il re stesso, si può dedurne che solo un richiamo prolungato, forte, fatto di parole dalla sonorità “dura” (“barbara”?) può risvegliarlo dal letargo della morte. La sensazione è che tutta la scena relativa all’evocazione sia caratterizzata da una comunicazione in qualche modo distorta, alterata, in cui i protagonisti dialogano quasi senza capirsi, ovvero parlano tutti – Atossa, i vecchi Consiglieri, lo stesso Dario – un incomprensibile “gergo” del dolore, quasi un metalinguaggio costituito da gesti, gemiti, forse addirittura grida, ottenuto con un sapiente utilizzo della 280

La trad. it. di questo e dei successivi passi de I Persiani è di A. Privitera.

281

Lawson 1934: 82, Haldane 1972: 42.

282

Lawson 1934: 82.

Luc., MENIPPOS H NEKUOMANTEIA 9: «paramignu\j a(/ma kai\ barbarika/ tina kai\ a)s / hma o)no/mata kai\ polusu/llaba», parole “barbariche”, senza senso e lunghissime… 283

284

Ad es. Broadhead 1960: 308.

100

“dimensione

acustica”

dello

stile:285

«anaphores,

répétitions,

exclamations

intercalées, usage du refrain, échos entre strophe et antistrophe, fréquence des hiatus, contrastes de sonorités éclatantes et sourdes, de séries de syllabes longues et brèves, etc. […] Bref, tout est mis en œuvre pour donner l’illusion esthétique d’une grande scène de rite “barbare”»,286 come risulterà – ci auguriamo – anche dalle righe seguenti. Si accennava al senso di “disturbo”, quasi di fastidio, che Dario sembra provare fin dal suo primo apparire, che la stessa “ombra” spiega con la difficoltà che i morti – tutti, anche quelli che in vita erano potenti, ed ora conservano parte di quel potere (e)ndunasteu/saj e)gw\, v. 691) fra gli dèi ctonii – trovano nel ritornare, anche se per poco, al mondo dei vivi: le sue parole esprimono, con un’immagine di sicuro effetto, l’amarezza di chi è costretto a rimanere nell’Ade, in quanto «Non è agevole l’uscita» (e)sti\ d' ou)k eu)e/codon) dal momento che «gli dèi ctonii / sono più abili a prendere cha a lasciare» (labeiªn a)mei/nouj ei)si\n h)\ meqie/nai, vv. 688-90).287 Ciò spiega quell’urgenza, quella necessità di ritornare il prima possibile nella dimora sotterranea, espressa con l’esplicito invito ad affrettarsi (ta/xune, v. 692) e a parlare «facendo un discorso conciso, non lungo» (mh/ ti makisthªra muªqon, a)lla\ su/ntomon le/gwn, v. 698) rivolto agli anziani Consiglieri. L’angosciosa situazione dei trapassati, ribadita con altre parole nel corso del dialogo con i vivi, come la sconsolata sentenza che conclude la sua fugace “visita” – un’esortazione ad affrontare la vita con animo lieto (o a godere della vita: yux$ª dido/ntej h(donh\n kaq' h(me/ran, v. 841) anche nella sventura, poiché ai morti la ricchezza non è di alcuna utilità – sembra il riflesso di una concezione “pessimista” dell’aldilà, di cui troviamo un primo, illustre esempio ancora in Omero, nelle penose parole che Odysseus deve sentire da Achille (Od. XI 489-91),288 che potendo rivivere 285

Haldane 1972: 44.

286

Jouan 1981: 421.

287

Si ricoderà l’infastidito esordio di Samuel: «15 Allora Samuele disse a Saul: “Perché mi hai disturbato facendomi salire?» (Sam. I 28, 15). 288 Jouan 1981: 407.

101

non esiterebbe a servire anche un uomo di umili condizioni, piuttosto che regnare tra i morti. Tralasciando il complesso discorso sulle concezioni escatologiche, che non possiamo indagare in questa sede, ci limitiamo ad osservare come la medesima “limitazione” possa essere all’origine della (relativa) “ignoranza profetica” che Dario sembra dimostrare, almeno in un primo momento, quando si rivolge ai suoi interlocutori chiedendo: “Quale pena la città soffre?” (v. 682), e ancora: “Qual è il nuovo danno che grava sui Persiani?” (v. 693); il successivo dialogo con Atossa, la quale promette a Dario di esporgli i fatti brevemente (e)n braxeiª xro/n%, v. 713), si riduce in effetti ad una sequela di domande e risposte in cui – paradossalmente, e in modo simile a quanto si è visto per l’interrogazione di Odysseus289 – è Dario a chiedere informazioni, dimostrando di ignorare ogni cosa: quale disgrazia si è abbattuta sulla Persia, quale mio figlio è stato battuto dai Greci, dove è successo, si è salvato o è morto, sono alcuni degli incalzanti quesiti (quasi un “interrogatorio” serrato, a partire dal v. 715) ai quali la regina offre immediata risposta. I ruoli in certa misura si invertono, ripristinando il “normale” rapporto tra interroganti e interrogato che dovrebbe sussistere in una consultazione necromantica, solo quando il Coro, riprendendo la parola (vv. 787 sgg.), s’informa sul futuro del Paese: ma la risposta del re, che esordisce con il consiglio di cessare ogni ostilità contro i Greci, si traduce in un’accusa (auto-accusa) della u(/brij – il tema di fondo del dramma, come si diceva ad inizio capitolo – dei “barbari” Persiani, la superba tracotanza che ha in spregio gli dèi, spingendo a rovesciare le loro statue e a bruciare i loro templi. I riferimenti all’attualità del tempo, per un cittadino greco (ateniese in particolare) del V sec., erano fin troppo chiari, e in parte forse dolorosi; la regina persiana e i suoi anziani dignitari – e con loro il pubblico di Eschilo – non si aspettavano da Dario la conoscenza del futuro, o tantomeno sconvolgenti rivelazioni sull’oltretomba: sapere di essere greci, orgogliosamente, e rispettosi degli dèi, e sentirlo dire – pur nella finzione scenica di quel luogo programmaticamente “politico” che era il teatro – dalla voce degli stessi “sconfitti”, in “parole barbare”, era sufficiente. 289

Cfr. paragrafo 4.2.

102

103

7. Il “forno” e le “api” di Periandro. Necromanzia e necrofilia

Episodio curioso, apologo morale, complesso gioco testuale: vari sono gli epiteti che potremmo attribuire ad un singolare brano erodoteo (V 92 h) che chiama in causa una consultazione “necromantica” il cui protagonista (o “attore/attante”, secondo la terminologia adottata dagli studi strutturalisti) è Periandro, tiranno di Corinto.290 Il passo, che si compone di poche righe, si colloca all’interno di un più ampio discorso che Erodoto fa pronunciare all’ambasciatore corinzio Socles (Swkle/hj) sui “mali” della tirannide, tema di grande interesse nel dibattito antico sulle possibili e più o meno auspicabili forme di governo.291 Riportiamo il testo: ÀOsa ga\r Ku/yeloj a)pe/lite ktei/nwn te kai\ diw/kwn, Peri/andro/j sfea a)pete/lese, mi$ª de\ h¸me/r$ a)pe/duse pa/saj ta\j Korinqi/wn gunaiªkaj dia\ th\n e¸wutouª gunaiªka Me/lissan. pe/myanti ga/r oi¸ e)j Qesprwtou\j

ep¡

¡Axe/ronta

potamo\n

a)gge/louj

e)pi\

to\

nekuomanth/ion parakataqh/khj pe/ri ceinikhªj ouÃte shmane/ein eÃfh h¸ Me/lissa e)pifaneiªsa ouÃte patere/ein e)n t%ª keiªtai xw/r% h¸ parakataqh/kh: r¸igouªn te ga\r kai\ eiÅnai gumnh/: twªn ga/r oi¸ sugkate/qaye ei¸ma/twn oÃfeloj eiÅnai ou)de\n ou) katakauqe/ntwn! martu/rion de/ oi¸ eiÅnai w¸j a)lhqe/a tauªta le/gei, oÀti e)pi\ yuxro/n to\n i)pno\n Peri/androj tou\j aÃrtouj e)pe/bale. tauªta de\ w¸j o)pi/sw a)phgge/lqh t%ª Peria/ndr% (pisto\n ga/r oi¸ h)=n to\ sumbo/laion, o)\j nekr%ª e)ou/s$ Meli/ss$ e)mi/gh), i)qe/wj dh\ meta\ th\n a)ggeli/hn 290

Per l’esame del passo, seguiamo da vicino l’analisi “strutturale” di E. Pellizer (Pellizer 1993, che l’ha cortesemente messa a nostra disposizione), integrandola con le informazioni contenute in Ogden 2001, in partic. pp. 54-60. 291

Per il dibattito sulla “tirannide” ed una rapida disamina dei principali “tiranni”, cfr. SteinHölkeskamp 1996. Devo la conoscenza e le informazioni relative all’importante questione della tirannide nel mondo greco a M. Faraguna ed alle sue stimolanti lezioni dedicate all’argomento.

104

kh/rugma e)poih/sato e)j to\ ÀHraion e)cie/nai pa/saj ta\j korinqi/wn gunaiªkaj. ai( me\n dh\ w¸j e)j o(rth\n h)/isan ko/sm% t%ª kalli/st% xrew/menai, o( d' u(posth/saj tou\j dorufo/rouj a)pe/duse/ sfeaj pa/saj

o(moi/wj,

ta/j

te

e)leuqe/raj

kai\

ta\j

a)mfipo/louj,

sumforh/saj de\ e)j o)/rugma Meli/ss$ e)peuxo/menoj kate/kaie. tau=ta de/ oi( poih/santi kai\ to\ deu/teron pe/myanti e)/frase to\ ei)/dwlon to\ Meli/sshj e)j to\n kate/qhke xwªron tou= cei/nou th\n parakataqh/khn.

toiou=to

me\n

u(mi=n

e)sti

h(

turanni/j,

w)=

Lakedaimo/nioi, kai\ toiou/twn e)/rgwn.

«Periandro finì completamente tutto quel che Cipselo aveva lasciato, uccidendo e scacciando e in un solo giorno fece spogliare delle vesti tutte le donne di Corinto in onore di sua moglie Melissa. [2] Infatti, avendo inviato messi presso i Tesprozi sul fiume Acheronte per consultare l’oracolo dei morti riguardo al deposito lasciato da un ospite, Melissa apparve e disse che non lo avrebbe indicato e non avrebbe detto in che luogo giaceva il deposito perché aveva freddo ed era nuda: infatti non traeva alcun vantaggio dai vestiti che erano stati sepolti con lei, perché non erano stati bruciati; [3] e per provargli che quel che diceva era vero aggiunse che Periandro aveva posti i pani nel forno freddo. Non appena questo fu riferito a Periandro – la prova certa era infatti per lui poiché s’era unito a Melissa quando era già morta – subito dopo questa comunicazione fece emanare un bando, che tutte le donne di Corinto andassero al tempio di Era. Esse vi andarono come ad una festa, con i loro abbigliamenti più belli, ed egli, appostate segretamente delle guardie, le fece spogliare tutte senza eccezione, le libere e le schiave, e accumulate le loro vesti presso la tomba, facendo preghiere a Melissa le bruciò. [4] Fatto questo, mandò a consultare una seconda volta l’oracolo, e l’ombra di Melissa indicò il luogo in cui aveva messo il deposito dell’ospite. Tale è la tirannide, o Spartani, e capace di tali azioni»292

292

Trad. di A. Izzo D’Accinni, ed. Rizzoli 1984.

105

7.1 Periandro il tiranno Prima di soffermarci sulle parole di Erodoto, ci sembra opportuno un breve cenno sulla figura del “tiranno” Periandro, cercando di inserirlo nel suo contesto storico. La tormentata “stagione” della tirannide – peculiare fenomeno della storia greca che vede la sua comparsa nel VII sec. a.C. – ha inizio proprio a partire dalla po/lij di Corinto: qui, attorno al 660, la stirpe regnante dei Bacchiadi, formata da un «gruppo chiuso di nobili di sangue che cercava di conservare la propria esclusività attraverso l’endogamia»,293 viene rovesciata da Cipselo, la cui nascita era stata predetta dall’oracolo di Delfi, e la cui morte, decretata dagli stessi Bacchiadi, la madre poté evitare celando l’infante in una cassa (kuye/lh, da cui il nome).294 Alla sua morte, dopo un governo trentennale, prese il suo posto il figlio Periandro, figura ambivalente fin dai più essenziali tratti biografici: «Nella documentazione antica, già molto presto Periandro fu considerato come il prototipo del tiranno cattivo e crudele: a lui venne addebitato ogni possibile eccesso e perversione», ma oltre a questa tradizione «ne esisteva però anche una più positiva: più volte infatti egli fu annoverato tra i Sette Sapienti»;295 non stupisce che tale “ambiguità biografica” abbia indotto alcuni commentatori antichi, come Diogene Laerzio (III sec. d.C.), a «distinguere due Periandri, uno il Sapiente, l’altro il Tiranno».296 È difficile giudicare in modo obiettivo se non riduttivo le valutazioni a posteriori di illustri commentatori come Platone e Aristotele, secondo i quali la tirannide mirava solo al profitto personale di chi la esercitava: «[…] vengono considerate tipiche componenti dello stile di vita di un tiranno le feste con profusione di cibo e di bevande inebrianti, gli abiti lussuosi, donne e fanciulli di piacere, e anche eccessi sessuali di ogni tipo. A tale vita di lussi e sprechi decadenti corrispondeva 293

Stein-Hölkeskamp 1996: 659.

294

L’elemento narrativo del bambino condannato a morte e salvato tramite un espediente, che ha lo scopo di celarlo ai persecutori, si ritrova in culture diverse: con le dovute e necessarie distinzioni, esso rammenta le vicende – per altri versi non assimilabili – di Perseo generato da Danae e Zeus (posto assieme alla madre in una “cassa” o “cesta”, la/rnac) oppure, in ambito extra-greco, di Mosè (condannato dal Faraone) o di Gesù Cristo (da Erode). 295

Stein-Hölkeskamp 1996: 662.

296

Pellizer 1993: 801.

106

quella smisurata avidità personale della quale furono tacciati tutti i tiranni […]».297 Va tuttavia segnalata la tendenza della ricerca moderna a diffidare dei categorici giudizi (negativi) degli autori più tardi, e a concentrarsi invece sulle (problematiche) testimonianze coeve e su «una prudente interpretazione» proprio dei passi erodotei rilevanti per il tema in questione.298 Le fonti non celano d’altronde i benefici ed il forte impulso allo sviluppo economico, culturale, urbanistico dato da alcuni regimi tirannici alla propria po/lij (l’esempio più notevole è forse l’Atene dei Pisistratidi): lo stesso Periandro, oltre ad essere considerato «come il prototipo del tiranno cattivo e crudele» nonché l’inventore delle tipiche misure di mantenimento violento del potere – corruzione, delazione, controllo e terrore – ebbe fama di «grande costruttore: fece erigere templi, una fontana e il di/olkoj», la strada lastricata che permetteva il trasporto su carro delle navi attraverso l’istmo.299

7.2 Giochi testuali, giochi di potere Da un punto di vista prettamente narratologico, è interessante notare come l’ordine degli eventi narrati subisca un curioso rovesciamento, anticipando all’inizio una delle “scene” finali, la denudazione delle donne di Corinto: espediente narrativo che in effetti, annullando la suspense, sembra tutt’altro che mirato a produrre nel lettore/ascoltatore un senso di curiosità.300 Il fatto può non essere casuale. Si osserva che il racconto prende l’abbrivio da una situazione di mancanza: Periandro desidera conoscere l’ubicazione di un deposito di denaro (parakataqh/kh) nascosto da un suo ospite. La cupidigia lo spinge a consultare colei che ne è a conoscenza (oltre all’ospite stesso, si presume, la cui “reticenza” rimane però inspiegata)301: si tratta

297

Stein-Hölkeskamp 1996: 654 (corsivo nostro).

298

Stein-Hölkeskamp 1996: 655.

299

Stein-Hölkeskamp 1996: 662.

300

Pellizer 1993: 804.

301

Pellizer 1993: 804: «si ha persino l’impressione che sia già morto!».

107

della moglie del tiranno, Mèlissa (Me/lissa), che questi aveva ucciso a calci in un accesso d’ira. Per interrogare il suo “fantasma” o “ombra” (eiÃdwlon) egli invia uomini all’oracolo dei morti (nekuomanth/ion) situato in Tesprozia, “presso il fiume Acheronte”, dove essa appare (e)pifaneiªsa) rifiutandosi però di rispondere adducendo il fatto di “aver freddo” e di “essere nuda” (r¸igouªn te ga\r kai\ eiÅnai gumnh/) in quanto lo sposo aveva trascurato di bruciare le vesti della donna al momento del seppellimento. Mèlissa lamenta cioè una mancanza, di tipo diverso ma, è ipotizzabile, speculare rispetto a quella di Periandro.302 Al fine di ottenere la desiderata risposta – e non, come ci si aspetterebbe, per placare lo “spirito” della moglie303 – il tiranno escogita il fraudolento espediente della spogliazione pubblica delle cittadine corinzie (libere e schiave, indistintamente);304 la sottrazione delle vesti, che vengono bruciate su un rogo, corrisponde, su un piano simbolico, alla loro acquisizione da parte di Mèlissa, che si concretizza in uno scambio: la donna defunta ottiene le vesti (ed il relativo “calore”), e fornisce a Periandro, durante una seconda consultazione, l’informazione voluta.305 Vi è chi ha voluto vedere nel valore simbolico del rogo delle vesti l’equivalente delle offerte solitamente rivolte ai defunti sulle loro tombe, con particolare riferimento alle non poche testimonianze provenienti dal teatro greco, come ad esempio nel caso dei Persiani, discusso nei precedenti capitoli: in altre parole, «L’offrande de nourriture est seulement remplacée par une offrande de vêtements».306 Un altro e forse più importante ordine di considerazioni si impone. Apprendiamo dall’Iliade (VII 410) come il fuoco della pira sia per i morti “dolce come il miele”; il confronto con un altro passo del poema è illuminante: «[…] 302

Pellizer 1993: 805.

303

Ma cfr. Ogden 2001: 57, secondo il quale, pur non essendo questo nelle intenzioni di Erodoto lo scopo iniziale della consultazione di Periandro, «the act of placation she then requests in the burning of the clothes constitutes the focus of his narrative». 304

Quasi l’attuazione, ci azzardiamo a proporre, di una forma aberrante ed “illecita” di isonomia o di eunomia, il “buon governo” che la tirannide avrebbe dovuto, almeno nelle aspettative del dhªmoj, stabilire: cfr. Stein-Hölkeskamp 1996: 679. 305

Pellizer 1993: 808.

306

Jouan 1981: 419. Cfr. quanto detto a proposito de I Persiani di Eschilo, paragrafo 6.2.

108

Erodoto capovolge con una buona dose di ironia il significato di un passo dell’Iliade in cui Andromaca, venuta a sapere della morte di Ettore, giura di distruggere con il fuoco i vestiti del marito, quei vestiti “che a lui non servono”, visto che Achille fa scempio del suo corpo nudo, privato degli onori funebri», così come “non servono” a Mèlissa, nel resoconto erodoteo. Oltre a farci intravedere «il rapporto sempre vivo che, nel suo testo, lo storico intrattiene ad ogni istante con l’epopea omerica», il parallelo ci suggerisce anche delle distinzioni: Andromaca desidera farlo per la “gloria” di Ettore, Periandro dovrà farlo per «riscaldare il gelido corpo di una morta».307 Ma non basta. La violenza perpetrata da Periandro sulle donne di Corinto – perché è proprio questo episodio, e non il suo comportamento sessuale, che Erodoto (attraverso la bocca di Socles) «qualifica senza mezzi termini come un misfatto da tiranno»308 – è un tratto caratteristico nella costruzione di una figura totalmente negativa, qui rappresentata da Periandro: «Quando non uccidono la popolazione maschile della loro città […] si dice che i tiranni amino disarmarle: se tra le armi e gli abiti femminili c’è un qualche rapporto, una sorta di equivalenza strutturale, al punto che un uomo senza armi è detto ‘nudo’ (gymnòs), spogliando le donne di Corinto Periandro ha, almeno simbolicamente, disarmato i loro mariti».309 Tra gli storici moderni, qualcuno ha inoltre inteso il “sacrificio” degli ornamenti delle Corinzie alla luce delle politiche “tiranniche” – quella di Periandro in particolare – caratterizzate da un divieto generalizzato del piacere, all’interno di una più ampia lotta contro il lusso degli aristocratici nell’ottica delle aspirazioni “popolari” ad una maggiore uguaglianza sociale;310 ma per quanto pertinente, in riferimento a questo testo specifico l’osservazione non può che avere un valore ipotetico. Come in un continuo gioco di rimandi testuali, quasi un gioco di specchi, anche l’“ombra” della donna gioca, per così dire, d’astuzia, utilizzando l’efficace 307

Loraux 1993: 9-10.

308

Loraux 1993: 14.

309

Loraux 1993: 14-15.

310

Loraux 1993: 12, facendo riferimento a Edouard Will, Korinthiaka. Recherches sur l’histoire et la civilisation de Corinthe des origines aux guerres médique, Paris 1955 (in partic. pp. 441-571 sulla tirannide dei Cipselidi).

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espediente linguistico dell’“indovinello”, la frase misteriosa – tranne che per Periandro, unico destinatario – tesa a dimostrare la veridicità delle proprie parole. Il riferimento metaforico, attraverso l’intuitiva coppia di analogie semantiche “forno = cavità = vulva femminile / pani = forma oblunga = membro maschile”, 311 all’atto sessuale consumato dal tiranno sul corpo della moglie dopo che era già morta (nekr%ª e)ou/s$ Meli/ss$ e)mi/gh, come spiega subito Erodoto) si presenta come un messaggio in codice la cui chiave di decifrazione, che solo Periandro possiede, sta in quell’aggettivo “freddo” (yuxro\n), che contraddice e ribalta l’altrimenti logica analogia tra il “calore” del forno e quello dell’atto sessuale.312 Vi è chi non ha mancato di enfatizzare in Mèlissa il ruolo di vittima, «ricettacolo inerte e passivo, in balìa delle pulsioni necrofile del tiranno»,313 e nel suo linguaggio metaforico – molto diffuso anche al di fuori della Grecia antica – un riferimento «all’inutile ‘deposito’ che il marito lascia nella moglie morta e che ricorda il deposito ben più concreto del quale Melissa, morendo, ha portato con sé il ricordo»;314 bisogna però tener presente – avverte Loraux – che questo “lamento femminista”, per quanto possa apparire verosimile agli occhi dei lettori moderni, è pur sempre una libera interpretazione di fatti antichi, anzi di un testo (oltretutto breve) antico. È degno di nota il fatto – che nell’economia di questo singolo racconto può sembrare trascurabile – che l’“ombra” debba provare la veridicità delle proprie parole, con un atteggiamento che già si è notato in alcune delle precedenti “scene” di evocazione che pur si svolgono in contesti narrativi diversi: si ricordi la promessa rivolta dall’“ombra” di Tiresia a Odysseus di riferire “parole veraci” (nhmerte/a ei)/pw, Od. XI 96), una profezia veritiera, dunque, non ingannevole.315

311

Pellizer 1993: 807.

312

Pellizer 1993: 807.

313

Il riferimento è a Page duBois, Showing the Body. Psychoanalysis and Ancient Representations of Woman, Chicago-London 1988, pp. 11-16 [trad. it.: Il corpo come metafora. Rappresentazioni della donna nella Grecia antica, Laterza, Roma-Bari 1990], cit. in Loraux 1993: 8. 314

Loraux 1993: 8.

315

Cfr. paragrafo 4.2.

110

7.3 Assassino e Sapiente Si possono azzardare a questo punto, se non delle vere e proprie conclusioni, alcune osservazioni che ci sembrano interessanti per il nostro argomento, la percezione delle rappresentazioni (letterarie) di rituali “necromantici” da parte di chi scriveva o leggeva tali testi. Iniziamo dai personaggi. Periandro. Le due principali caratteristiche che il racconto di Erodoto associa alla sua figura sono l’avidità e la lussuria; entrambe hanno il presumibile scopo di presentarci fin da subito il personaggio come negativo, intemperante, schiavo delle passioni. La prima s’inserisce in quella ambivalente tradizione aneddotica cui si accennava all’inizio del capitolo, che gli attribuisce tra l’altro, nelle vesti di “Sapiente”, due massime che condannano l’eccessiva bramosia per il denaro,316 che supponiamo fossero note ai fruitori dell’opera erodotea. In effetti, più che l’avidità in senso stretto (in senso economico), a segnare questa controversa figura sembra essere un eccesso di desiderio, una brama sproporzionata non solo nella gestione del potere, ma anche negli affetti personali o nei sentimenti, oltre che negli atti – la “lussuria”, ma anche l’assassinio della moglie: ma si segnala come il pensiero giuridico greco abbia annoverato l’omicidio commesso in preda all’ira tra quelli involontari317 – che sembra indicare una radicale difficoltà comunicativa a livello tanto verbale quanto gestuale, come dimostra «l’uso che gli è proprio – diremmo volentieri: il consumo che egli fa – di innumerevoli messaggeri, destinati a trasmettere le sue richieste, le sue suppliche le sue domande […] l’invio incessante e quasi maniacale di uomini di fiducia […]». Significativa, in questo senso, è anche la discordanza – nella quale si è visto qualcosa di tragico – tra i continui messaggi che egli invia al figlio Licofrone, rifugiato (auto-esiliato?) presso il nonno materno, e l’editto con il quale vieta a chiunque di accogliere lo stesso Licofrone o anche solo di parlargli: «[…] Periandro manda ovunque i suoi messaggeri, e, sulla base di ciò che essi riferiscono, si affretta, 316

Pellizer 1993: 801.

317

Loraux 1993: 18, citando il IX libro delle Leggi di Platone.

111

come Edipo nel’Edipo re, come Creonte nell’Antigone, in una parola come ogni tiranno che si rispetti, a promulgare un editto (kèrygma) avente forza di legge. Ma poi, proprio come Edipo, accade che, nella sua fretta di prendere decisioni, Periandro dimentichi che quel kèrygma potrebbe ritorcersi contro di lui».318 La natura dell’“intemperanza sessuale”, anche alla luce di quanto appena detto, è forse ancora più complessa, e ci spinge a fare un piccolo passo indietro. Lo stesso Periandro infatti era stato oggetto di illecito desiderio da parte della madre Crateia (Kra/teia, “nome parlante” che indica potenza, potere, autorità), la quale mediante lo stratagemma della “stanza buia” si era unita a lui, ignaro dell’identità dell’amante: solo la prodigiosa apparizione di un daimwni/on fa/sma poté impedirgli, una volta scoperto l’inganno, di uccidere la madre. Quest’ultima s’impiccò; lui divenne pazzo, ed incominciò ad uccidere i suoi concittadini.319 Qualunque significato (anche, forzatamente, psicanalitico) si voglia attribuire all’episodio, che conta numerosi paralleli,320 il tema di una sessualità deviata, distorta e quasi “ereditaria” caratterizzante una genealogia “sbagliata”, sembra funzionale alla costruzione di un personaggio del tutto negativo, figlio di Crateia, cioè di un potere distorto, a sua volta rappresentante di un potere sbagliato, improduttivo, sterile (come può essere il rapporto con un cadavere), tanto più illecito in quanto illegittimo. Ma si noterà come l’etimologia svolga un ruolo di prima importanza nella storia, a giudicare dai nomi “di potere” presenti nella genealogia di Periandro e Melissa trasmessaci da Diogene Laerzio321: essi manifestano potere concreto, politico, ma «anche e soprattutto potere simbolico, espresso nel nome di questa madre (Eristeneia, la Fortissima; e si ricordi anche Crateia, la madre di Periandro), figlia e sorella di re, essi stessi provvisti di

318

Loraux 1993: 21.

319

Pellizer 1993: 801; Ogden 2001: 57.

320

Ogden 2001: 58 cita, «Oedipus Tyrannos a parte», il tiranno ateniese Ippia ed un altro corinzio, Diocle, che abbandonò la città disgustato dalla passione incestuosa della madre, ma il tema dell’amore incestuoso ci sembra molto più complesso ed articolato: si veda, a titolo d’esempio, Pellizer 1982: 5170 (“Aria del cacciatore incestuoso”). 321

Vite dei filosofi I, VII: «Periandro, figlio di Cipselo, originario di Corinto, discendente degli Eraclidi, sposò Liside, che egli chiamò Melissa: era la figlia di Prole, tiranno di Epidauro, e di Eristeneia, figlia di Aristocrate e sorella di Aristodemo, che dominavano tutta l’Arcadia».

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nomi molto eloquenti, perché Aristocrate va inteso come ‘Potere del migliore’, mentre Aristodemo evoca il popolo scelto».322 Si può ragionevolmente pensare che un unico filo congiunga la sua spregiudicatezza nei confronti della moglie, dei suoi concittadini, e dei morti: avanziamo l’ipotesi che a questo triplice sistema di valori corrisponda una “triade” più profonda, i “veri” valori che, nelle parole di Socles, figurano calpestati da Periandro e da ogni tirannide: rispettivamente, il rispetto degli affetti personali (sfera privata), delle leggi e della po/lij (sfera pubblica), degli dèi e dell’oltretomba (dove pubblico e privato s’incontrano ai fini del “buon governo” del rapporto tra umano e divino).

7.4 L’ape, il miele, la morte Mèlissa. Il suo vero nome, che non viene mai usato da Erodoto, è Liside (Lusi/dh). L’affettuoso nomignolo usato da Periandro, Mèlissa (cioè “Ape”), rimanda ad una possibile serie di considerazioni. Prima di tutto, Melissa, l’Ape, è l’unica donna positiva, la donna migliore nella famosa carrelata di immagini femminili di Semonide. Poi l’ape è di per sé un essere, un insetto “strano”. Il mito conosce un’altra corinzia di nome Mèlissa, un’anziana donna legata al culto di Demeter (Dhmh/thr) e che sarebbe stata anch’essa (come la moglie del tiranno) miseramente uccisa; la dea avrebbe allora suscitato la nascita di api dal suo corpo, in una sorta di «ghostly resurrection».323 Un suggestivo parallelo, relativo ad una testa decapitata, è offerto dallo stesso Erodoto in un episodio riportato solo pochi 322

Loraux 1993: 26, che aggiunge: «Dovremmo trattare forse questa genealogia come fittizia o fantasiosa? Non ne sarei così sicura: se la scelta di nomi simbolici e il gusto dell’etimologia sono fatti squisitamente greci, tutto suggerisce che i tiranni, desiderosi di radicare la loro potenza nel discorso, abbiano cercato un sostegno anche in nomi molto espressivi […]». 323

Servio ad Virg., Eneide I 430: «De corpore vero Melissae apes nasci fecit (sc. Ceres). Latine autem Me/lissa apis dicitur», cfr. Ogden 2001: 56, e Bodson 1975: 30. Per uno studio approfondito sul ruolo degli insetti nell’immaginario simbolico greco, si veda Bodson 1975: 9-43; sull’ape, in partic., pp. 20-43, dove tra l’altro è evidenziato il suo stretto rapporto con il culto di Demetra; sull’associazione dell’ape con la Pizia di Delfi in Pindaro Pyth. IV 61, p. 37.

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paragrafi più avanti rispetto al passo analizzato; riportiamo solo il passaggio fondamentale (V 114): «Mentre la testa [di Onesilo] era appesa ed era ormai vuota, uno sciame di api (e)smo\j melisse/wn) vi penetrò e la riempì di favi. [2] A tale avvenimento, poiché gli Amatusi interrogarono l’oracolo (e)xre/wnto) riguardo alla testa, fu risposto loro di tirar giù la testa e di seppellirla e di offrir sacrifici a Onesilo ogni anno come a un eroe, e che se avessero fatto questo le cose sarebbero loro andate meglio»324

Le api, ritenute dotate di capacità profetiche,325 e spesso associate all’immagine dei defunti che affollano l’Ade, appunto, come “sciami” d’api,326 sono dunque connesse con la sfera della consultazione oracolare, necromantica in particolare.327 Ma c’è di più. Apprendiamo che al prodotto delle api, il miele, sostanza particolarmente gradita agli dèi,328 venivano attribuite grandi capacità curative e rigenerative, 329 ed era pertanto usato dai Greci come conservante: lo testimonierebbero i casi dei re spartani Agesipoli ed Agesilao, i cui corpi furono conservati nel miele o nella cera, e di Arconide, la testa del quale Cleomene re di Sparta trattò allo stesso modo ed “utilizzava” prima di ogni spedizione.330 Il miele ha un ruolo centrale anche nella 324

Trad. di A. Izzo D’Accinni.

325

Aristotele, Hist. anim. 627 b 10.

326

Come in Virgilio, Eneide VI 706-9, dove il contesto è proprio quello “necromantico” (in questo caso il termine va inteso in senso lato) della kata/basij o discesa agli inferi di Enea guidato dalla Sibilla Cumana. Analoghe connessioni, ma con valenze diverse, presenta la cicala (te/ttic), che troviamo ad esempio associata al nekuomanteion del Tainaron: Ogden 2001: 34-6 (cfr. paragrafo 3.3). Per la sua ricca simbologia, Bodson 1975: 16-20. 327

328

Bodson 1975: 23.

329

Bodson 1975: 25: «Substance d’immortalité et de régénération, le miel favorise aussi l’initiation des adeptes des mystères, il garantit le talent des poètes, il éclaire l’esprit des devins. Ses virtualités sont inépuisable, autant que celles de l’abeille. L’une et l’autre se situent au cœur d’un réseau de représentations symboliques et religieuses qui n’exclut aucun des différents aspects de l’existence». 330

Ogden 2001: 59 e 209, al quale si rinvia per le fonti. L’episodio di Cleomene è accostato dall’Autore alla saga islandese di Odino e Mimir (Snorri, Heimskringla I 12-3), ma sappiamo che le analogie con il materiale nord europeo non si limita ad un singolo episodio: citiamo, più per l’autorevolezza della fonte che per desiderio di completezza – ben più ampia trattazione meriterebbe l’argomento delle “teste profetiche” – un brano di Eliade 1995 (1951): 408: «È anche da Odino che trae origine la necromanzia. Sul suo cavallo Sleipnir egli penetra nel Hel e ordina ad una profetessa

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storia di Glaukos, figlio del re cretese Minosse, che dopo essere morto in una giara ripiena di tale sostanza viene “rianimato” da Polyidos (nome eloquente che indica ampie capacità di vista/visione) per mezzo di un’erba indicatagli da un serpente, animale spesso associato ad un contesto oracolare.331 Per desiderio di completezza, va tuttavia segnalata l’opinione di chi pensa che l’intervento di Mèlissa non implichi necessariamente un “potere profetico”332: forse perché, pensiamo di capire, l’“ombra” della donna è sapiente non in quanto morta, ma in quanto già da viva sapeva, cioè conosceva l’ubicazione del deposito. Ad ogni modo, il tema della sapienza mantenuta dopo la morte – già di per sé significativa – ci riporta ancora una volta alle “scene” descritte in precedenza: nell’episodio della Nekyia, il personaggio di Tiresia, al quale è stato concesso di conservare post mortem la propria sapienza/saggezza (paragrafo 4.2) e quello del re Dario eschileo, sapiente “divino” (paragrafo 6.1) ne sono esempi eloquenti. È difficile sottrarsi, alla luce di quanto detto, alla tentazione di vedere nella relazione tra l’“ape” Mèlissa e la sua “performance” post mortem un semplice rapporto di casualità: l’ascoltatore/lettore medio di Erodoto probabilmente associava il nome di Mèlissa alle capacità oracolari e alla sfera dei morti, e doveva sembrargli abbastanza ovvio che, per avere un responso, Periandro si rivolgesse ad un nekuomantei/on, e nella fattispecie a quello della Tesprozia, che si trovava ai morta da tempo di sorgere dalla tomba per rispondere alle sue domande (Baldrs Draumar vv. 4 sgg.). […] E si potrebbe anche citare la divinazione a mezzo della testa mummificata di Mimir (Völuspà 46, Ynglinga Saga IV), che ricorda la divinazione mediante crani di antenati sciamani, praticata dagli Yukaghiri». 331

Iginio, Fabula 136, cit. in Ogden 2001: 59; cfr. Apollodoro, Biblioteca III 3 e relative note di J.G. Frazer (ediz. Adelphi, 1995, e A. Mondadori-Fond. Valla, 1996, cit. in bibliografia): Polyidos scoprì l’ubicazione di Glaukos osservando un gufo che scacciava delle api; e sempre di Frazer, nella stessa edizione, cfr. Appendice VII (“La resurrezione di Glauco”) che offre un repertorio di dati folkloristici sul tema dell’erba magica che riporta in vita, spesso collegato con la figura del serpente. Sul rapporto serpente/oracoli cfr. Bodson 1975: 68 sgg., in partic. 89-92: “Présence du serpent dans la mantique”; interessante il legame con l’oracolo di Trofonio, dove i consultanti dovevano affrontare dai/monej kai\ o)/feij kai\ a)/lla tina\ e(rpeta/, ed il nesso serpente/api/miele: «Indépendamment des circonstances de la consultation, les abeilles et les serpents faisaient partie de sa légende: les Béotiens, guidés par des abeilles, avaient découvert le lieu de son inhumation gardé par deux serpents auxquels furent offerts les premiers gâteaux de miel». Si veda quanto detto, in questa stessa sede, sul “pitone” di Delfi, paragrafo 5.3. Anche: M. Corsano, Glaukos. Miti greci di personaggi omonimi, Pisa, Ateneo, 1992. 332

Jouan 1981: 419, dove il parallelo è ancora una volta con i Persiani di Eschilo: «l’explication des dêsastres passés est due à sa [di Dario] sagesse supérieure et à sa connaissance des oracles des dieux (739-740). Ses prédications mêmes sont une extrapolation à partir des oracles déjà accomplis (800802)».

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margini della sua ampia zona di influenza.333 Anche tenendo conto dell’interessante parallelo istituito da Ogden con un passo di Giuseppe Flavio334 in cui si narra dell’ossessivo amore di Erode il Grande per la moglie, che egli uccise in un accesso di gelosia conservandone poi il corpo nel miele per sette anni, durante i quali continuò a possederla, la conclusione cui giunge l’Autore – che la necrofilia di Periandro si risolvesse in un identico trattamento335 – ci sembra di interesse secondario. Non va infine trascurato il fatto che a quei medesimi fruitori dell’opera erodotea (meglio, ad un greco colto di V sec.) la figura di Mèlissa, doveva ricordare il famoso giambo di Semonide sui diversi “tipi” di donne, nel quale la “donna-ape”: «… si distingue tra tutte le altre donne / e una divina grazia le si diffonde intorno. / Non le piace sedere tra le amiche / quando fanno insieme chiacchiere d’amore. / Donne di questo genere, sono le migliori / e le più sagge che Zeus possa concedere / agli uomini; …»336 Sebbene non sfugga del tutto al biasimo dell’intera specie femminile, secondo «una tradizione misogina fortemente caratterizzata da Esiodo»,337 l’ape rappresenta infatti un modello femminile che si presta ad una gamma di interpretazioni positivamente orientate, in quanto «l’ape è saggia e laboriosa, l’ape odia la dissolutezza, in una parola l’ape è pura e, prendendola a modello, durante le Tesmoforie le donne si proclamano caste e fedeli ai propri mariti. Se a ciò si aggiunge che le Mèlissai di Demetra sono anche e soprattutto madri feconde di figli legittimi, si capirà fino a che punto l’attribuzione del nome di Melissa suggerisca l’idealizzazione della donna che lo porta».338 333

Ogden 2001: 55. Ma anche il “tempio di Era” forse non era estraneo a simili associazioni: «l’Heràion di Peracora probabilmente, forse un santuario necromantico (ancora uno in questa storia)»: Loraux 1993: 11. 334

Bell. Iud. I 436-44.

335

Ogden 2001: 59.

336

Trad. di E. Pellizer, in Pellizer/Tedeschi 1990: 110.

337

Loraux 1993: 30; Detienne 1971: 13 sgg.

338

Loraux 1993: 28-29. Cfr. Detienne 1971 per un’approfondita analisi della simbologia della “donnaape”, che rimanda anche sul piano rituale ad un preciso codice comportamentale, alimentare e sessuale, che nel rifiuto della carne/caccia e in una condotta improntata alla swfrosu/nh e all’ai)dw/j si inserisce in una serie oppositiva – «entre Déméter et Adonis, entre les céréales et les aromates, entre

116

7.5 Possibili interpretazioni In ultima analisi, ci permettiamo di suggerire – consapevoli che si tratta di una mera ipotesi di lavoro – che l’intero passo in questione sembra finalizzato ad enfatizzare la scandalosa condotta del “cattivo tiranno” (di cui Periandro è solo una rappresentazione) la cui gestione del potere, basata sulla perversione delle consuete regole del vivere civile, costituisce l’“anti-modello” del “buon governo” democratico.339 La “scena” della consultazione necromantica prima, poi lo scabroso dettaglio del necrofilo congiungimento non sortiscono alcun effetto sui personaggi del racconto, né su chi lo pronuncia (Socles)340: chi doveva sentirsi emotivamente coinvolto era l’ascoltatore/lettore, cittadino libero della po/lij democratica che associava, in un coerente ma capovolto sistema di valori, agire necromantico, necrofilia ed abuso di potere identificandoli con la tracotanza tirannica. A maggior ragione, poi, dal momento che la “vittima” era una certa Mèlissa, il cui nome una lunga e condivisa tradizione – non solo poetica, e che trovava immediato riscontro a livello simbolico nella prassi cultuale – associava all’idea di donna (rara, ma possibile!) “pura” ed innocente: Periandro o, meglio, il tiranno calpesta anche la “purezza”, non esitando, se necessario, a violare le donne ed i templi, i concittadini e gli dèi. Tutto ciò non esclude altre interpretazioni, e non offusca la suggestione del passo erodoteo e di questa emblematica figura (a prescindere dalla sua importanza storica) di tiranno: «Uomo enigmatico e signore degli enigmi, poiché vive egli stesso le mariage et la séduction» (p. 15) – che regola lo statuto femminile. Di particolare importanza la “delicata” posizione della nu/mfh, fanciulla non più ko/rh e non ancora mh/thr, “ape ambigua” che solo evitando l’“eccesso” (alimentare, sessuale) – anche all’interno del regolare rapporto matrimoniale – può divenire una “buona ape”/buona sposa. In quest’ottica si spiega anche il motivo di Orfeo ed Euridice che, lungi dall’essere una storia di amore “tragico” o passionale (come nell’interpretazione moderna e “romantica”), rappresenta «l’échec d’un couple incapable d’établir une relation conjugal à bonne distance» (p. 18), cioè regolamentata e in qualche modo correttamente codificata. 339

Stein-Hölkeskamp 1996: 679.

340

Pellizer 1993: 810.

117

nella dimensione dell’ambiguità e della dissimulazione, oltre che in quella della prevaricazione sessuale e della dismisura, sarà capace di commettere questa colpa su una scala di dimensioni cittadine, e i suoi inganni lasceranno ignude e vergognose le donne, libere e schiave, dell’intera Corinto».341 Proprio la sua natura contraddittoria, la sua duplice fama di violento e di sapiente, lo accosta in parte a figure “tragiche” e letterarie – Edipo, Creonte – anche nei modi in cui la sua figura viene tratteggiata, che è quella propria al “narrare” dei Greci: infatti, «se nel corso di questa ricerca l’epopea e la tragedia ci hanno offerto più di una volta elementi di confronto, è perché Erodoto, come i suoi contemporanei, pensava su uno sfondo di forme e schemi propri di questi generi letterari»,342 fatto sul quale è utile riflettere.

341

Pellizer 1993: 811.

342

Loraux 1993: 34.

118

8. Una malvagia sapiente. La “strega” Erictho

L’esempio più spettacolare di operazione necromantica, peraltro attuata tramite la particolare tecnica di far risorgere il cadavere in cui far entrare, richiamandolo indietro dagli abissi tartarei, lo “spirito” che si vuole interrogare, ci proviene dalla letteratura latina, dal poema di Marco Anneo Lucano (39-65 d.C.) Pharsalia o Bellum civile. Opera rimasto incompleta per la forzata morte dell’Autore, caduto in disgrazia presso Nerone, i dieci libri del poema narrano in toni coloriti, non senza ricchezza di scene macabre e raccapriccianti, lo scontro tra Cesare e Pompeo che rappresentava allora un tema di viva e recente attualità. Per comprenderne meglio la figura, e non per fini puramente compilativi, aggiungiamo che allo stesso Autore si devono, tra gli altri, titoli come Catachthonion e Orpheus, «sulla discesa agli inferi, i quali testimoniano gli interessi del Poeta per il mondo dell’oltretomba»,343 oltre ad una Medea, anch’essa incompleta; il tema di quest’ultima – che trova il suo modello diretto nella Medea di Euripide – era già stato trattato dall’omonima e più nota opera dello zio Lucio Anneo Seneca (5 a.C. ca-65 d.C.), dal quale Lucano verosimilmente derivò il gusto per le descrizioni e le tematiche dal forte impatto emotivo.

8.1 Pericolosi precedenti Ciò che più colpisce nella compiaciuta descrizione di questa indimenticabile figura femminile – l’“efferata” Erictho (effera Erictho, v. 508) – è la sua caratterizzazione completamente negativa, la sua riduzione irrevocabilmente peggiorativa che la distanzia grandemente dalle “maghe” o sapienti mitiche e letterarie dell’immaginario greco, rendendola in qualche modo una precorritrice (o la più nota tra esse) di

343

Lana 1987: 249-52.

119

quell’idea di donna malvagia, malefica, “diabolica”, che tanta parte (e tristi, tardive conseguenze, sotto forma di processi e roghi) avrà a partire dall’età imperiale e nel nascente e trionfante Cristianesimo, attraverso il Medioevo, fino all’età moderna.344 L’“efferatezza” dell’operatrice “magica”, potente e pericolosa, e la sua associazione con una regione marginale – la Tessaglia, “luogo comune” dell’operare portentoso – e con pratiche che non rifuggono l’omicidio e lo spargimento di sangue, non è invenzione di Lucano né priva di precedenti.

8.1.1 Una potente straniera. L’herbaria Medea Basta spostarci ad est della Grecia, passando dalla Tessaglia alla Colchide, un altro luogo marginale, “estremo”, totalmente diverso dallo spazio civico e “civile” delle po/leij greche, al quale miticamente si contrappone, eppure ben noto già dal tempo delle colonizzazioni storiche e che «i Greci raccontano nel mito per indicare una frontiera estrema in una mappa ideologica nella quale situare la “centralità” greca»,345 per trovare la potente Medea. Questa figura del mito, di un passato remoto ed irripetibile, figlia di Aietes, figlio di Helios (il Sole), e nipote (o sorella) di Circe, è una farmaki/j, termine che designa una manipolatrice di fa/rmaka, sostanze, erbe, filtri, “pozioni magiche”, veleni o anche rimedi, medicamenti; la tentazione di fare di lei una prima “maga” (se non addirittura una prototipica “strega”),346 per quanto forte o comprensibile, trascura, oltre a non tener conto della complessità del personaggio, anche tutta l’ambivalenza del termine fa/rmakon: basti pensare alle “pozioni” di Circe che trasformano, creano ibridi umani, bestie pensanti, ma non uccidono.347 La percezione moderna di questo personaggio ambivalente ed “eccessivo” è fortemente condizionato dai due principali ritratti letterari che ci 344

Cfr. paragrafo 1.3.

345

Chirassi Colombo 2001: 344.

346

Non è raro tuttavia veder associati i due termini: «[…] pharmakís in greco significa infatti “strega”. La parola phármakon designa il filtro magico, la pozione, e dunque qui la Nemica è qualcuno che frequenta esplicitamente le pratiche della magia»: Bettini 1998: 92; ma si veda quanto detto al paragrafo 2.2, n. 83.

120

raccontano le sue gesta, la Medea di Euripide e le Argonautiche di Apollonio Rodio, ai quali si aggiungono varianti e digressioni che gettano uno sguardo diverso, più “conciliante”, su questa straordinaria, cioè propriamente “fuori dall’ordinario”, figura di donna. Il suo nome è legato alla ferocia degli omicidi che segnano, come una scia di sangue, il suo viaggio da “oriente” a “occidente”, durante la sua fuga con Iason, l’eroe del Vello, che lei stessa aveva aiutato a recuperare grazie all’unguento tratto dall’erba prometheion, nata dal sangue di Prometeo348: a partire dall’uccisione “rituale” del fratello Apsyrto, quasi una “messa a morte” sacrificale che rimanda ad un modello negativo, sbagliato, di sacrificio – quello umano – che la cultura greca rifiuta (o rimuove);349 ad esso seguirà lo sparagmo/j, lo smembramento del cadavere di Pelias e la sua “bollitura”, compiuti da lei o, secondo la versione più nota, dalle stesse figlie di Pelias, che lei convinse ad eseguire.350 Non ultimo per importanza, nella costruzione di questa figura problematica, è l’episodio dell’uccisione dei propri figli, come nel testo euripideo (ma altre versioni attribuiscono l’infanticidio ai cittadini di Corinto, aprendo un più complesso discorso riconducibile ai rituali connessi con l’iniziazione puberale, relativi a questa polis), ma ciò che preme sottolineare è che, a partire da un certo momento (V sec. a.C.),

347

Segnaliamo che la cultura greca, in modo molto significativo, e diversamente da quella romana (con tutte le implicazioni relative), non sembra aver mai sviluppato una legislazione “anti-magica”: troviamo, è vero, un esempio in un’iscrizione di V sec. a.C. da Teos che registra la pena di morte per chi faccia uso di “fa/rmaka dhlhth/ria”, rimedi o veleni deleteri, dannosi, ma il provvedimento sembra riguardare l’accusa di assassinio, ed aver poco a che fare con la “magia”: Chirassi Colombo 1994/95. 348

Così nei frammenti della perduta tragedia Kolchides di Sofocle, autore anche dei Rizotomoi (“Tagliatori di radici”), che descrive la pericolosa raccolta dell’erba “magica” da parte di Medea; cfr. Argon. III 845 sgg. Per Pindaro, IV Pitica, che accosta la figura di Medea a quella di una prophetis che opera senza l’“ispirazione” di Apollo, l’unguento usato è l’olio di oliva, prodotto tipicamente greco: Chirassi Colombo 2001: 353. 349

Si veda la precisa descrizione dell’omicidio compiuto da Iason (e del trattamento simbolico del cadavere, il masxalismo/j) in Argon. IV 464 sgg., dove Iason è esplicitamente paragonato al boutu/poj, l’abbattitore rituale di buoi: cfr. Chirassi Colombo 2001: 355-56. Per il sacrificio umano, si veda il breve accenno qui sopra, paragrafo 2.1.1. 350

Così in Apollodoro, Biblioteca, I 27.

121

Medea rappresenta nella cultura greca «un oriente determinato da una serie di abbinamenti significanti: il femminile, l’eros eccessivo, il sapere trasgressivo della pharmakeia e quello incontrollabile della profezia, un potere-sapere molto importante, esplicito nella Medea della IV Pitica di Pindaro».351 Medea, infatti, è una “vittima” di Eros, l’amore passionale, prettamente “femminile”, quell’amore che la cultura filosofica greca considera secondario, quando non inutile: un raffronto con alcune figure femminili – come le sovrane orientali ricordate nell’anonimo Tractatus de Mulieribus Claris in Bello – detentrici di un potere assoluto che amministrano con fermezza tutta “maschile”, può farci intendere come il modello di femminilità eccessiva, trasgressiva, “sbagliata”, rappresentato da Medea si contrapponga diametralmente a quell’ideale “virile”, “politico” di uomo, ampiamente ricercato e perseguito dall’immaginario simbolico greco, e al di fuori del quale si colloca il diverso, l’altro, spesso sotto la definizione di “barbaro”.

8.1.2 Elena, divina sposa e assassina Medea non è l’unica. Appartiene ad una serie (una stirpe, quasi) di farmaki/dej – alcune delle quali, come Agamede, Polymede, Perimede, condividono con Medea un nome «immediatamente significante» (mh/domai) che rinvia alle attività del pensiero, alla capacità di riflessione, all’elaborazione mentale352 – manipolatrici, esperte di rimedi/veleni, preparati “magici”, tutte rigorosamente femminili e soprattutto operanti fuori dalla storia, nel tempo destorificato del mito, in una simmetrica e non casuale opposizione ai “maghi”: depositari del sapere dei ma/goi persiani – gli specialisti delle “cose divine” e pedagoghi reali, dei quali ci informa

351

Chirassi Colombo 2001: 347.

352

Chirassi Colombo 2001: 352.

122

Erodoto353 – i “maghi” sono personaggi decisamente “storici”, appartenenti al tempo attuale, ed esclusivamente maschi, potenzialmente pericolosi ma, in quanto proiettati nel presente, il loro agire è soggetto ad essere valutato, discusso, criticato. La azioni di Medea, e delle altre figure inquietanti del mito a lei accostabili, sono date una volta per tutte, hanno “fondato” un modo di essere, creato una tipologia (fatte salve le peculiarità di ogni singolo caso) di donna sapiente, potente, “paurosamente” pericolosa. Di Circe si è già detto (paragrafo 4.3), e si è visto come i suoi tratti più “solari”, positivi, non la facciano sfigurare in questa lista di farmaki/dej (anzi, Omero la definisce polufa/rmakoj, dai molti fa/rmaka). Emblematico è piuttosto l’inserimento in tale “catalogo di herbariae” di una figura che sembra includere due atteggiamenti all’apparenza opposti, inconciliabili, riconducibili alla formula “sposa fedele/maga pericolosa”: parliamo di Elena, l’eroina che non poca parte gioca nelle vicende dell’epos omerico, la «donna seduttrice per la quale si sono mosse le immense forze che agiscono nell’Iliade». 354 Nell’Odissea (IV 120 sgg.), Elena interviene nel banchetto offerto dal marito Menelao ai suoi ospiti, Telemaco e Pisistrato, prendendo la parola (è lei ad intuire l’identità del figlio di Odysseus) e poi somministrando ai presenti un fa/rmakon nhpenqe/j t' a)/xolo/n (v. 221), che fa cessare il dolore e la “bile”, cioè l’ira, il rancore, con un effetto, per così dire, “calmante” sugli animi degli uomini prostrati dai dolorosi ricordi e dal pianto: tale è il potere del “filtro”, da rendere insensibile chiunque lo beva persino alla morte – anche la più violenta – dei più cari congiunti. Omero non ne tace l’origine: la sostanza è stata donata ad Elena da Polýdamna (“Colei che molti prostra”, nome loquace) in Egitto, terra che produce moltissimi “farmaci”, molti dei quali “benigni”, molti “funesti” (v. 230). Si noterà ancora una volta l’associazione di una figura mitica, femminile e sapiente, con una spazialità

I ma/goi sono descritti come un ge/noj (I 101), una stirpe appartenente ai Medi, ma da questi tuttavia divisa, separata, contraddistinta da uno statuto etico e comportamentale diverso (o inverso): sono interpreti di sogni (I 107-108; 120, dove si rivelano cattivi interpreti; 128), addetti alle funzioni “religiose” (I 132: senza la presenza di un Mago non è lecito compiere sacrifici), si occupano dei riti funebri (I 140), hanno potere sugli elementi (VII 191); inoltre è loro concesso uccidere qualsiasi essere vivente, tranne il cane e l’uomo (I 140) e, all’occorrenza, sacrificano cavalli (VII 113). 353

354

Pellizer 1982 (a): 75.

123

marginale, “orientale”, ed uno statuto ambivalente. «Questo aspetto pericoloso di Elena in veste di maga venefica viene generalmente sottovalutato»,355 e forse in parte offuscato dalla sua natura “divina”: gli dèi infatti concederanno a Menelao una sorta di “immortalità” grazie a lei (IV 561-69), in quanto figlia di Zeus (Dio\j e)kgegauiªa, v. 184); ma è anche donna dai sentimenti umani (piange al ricordo di Odysseus), nonostante alcune fonti (invero reticenti) le attribuiscano il ruolo attivo di “aiutante” – come Medea – nell’atroce sparagmo/j e successivo masxalismo/j operati da Menelao su Deìfobo.356

8.1.3 Italiche veneficae La cultura latina non mancherà di riprendere ed elaborare tali figure, adattandole ai propri interessi, finalità, necessità. La “maga”, l’operatrice di saperi orientati in senso negativo, spesso in connessione con la sfera della “magia erotica” (che trova nel II Idillio di Teocrito un preciso referente), è presente in molta poesia augustea, dalle elegie di Properzio e Tibullo ai testi di Ovidio, Virgilio, Orazio. È in quest’ultimo, in particolare, che notiamo però un decisivo “salto di qualità” per il quale la semplice “incantatrice”, che si diletta con “filtri” e nodi amorosi, si trasforma nella “venefica”, la maliarda che al consueto repertorio di concetti stereotipati (la provenienza “tessalica” dei suoi saperi, il potere di “far cadere la luna” dal cielo) aggiunge azioni ben definite e meno “letterarie”, atti spregevoli che la collocano decisamente dalla parte dell’illecito, anticipando – o contribuendo a formare – il “tipo” della strix, termine che designa un essere o animale (quindi non umano) notturno e pericoloso, del quale la “strega” è l’immediata derivazione: la venefica, esperta di “veleni”, sostanze, intrugli, con un percorso che ha in questi testi non certo l’origine, ma un punto di riferimento 355

Pellizer 1982 (a): 76, per il quale Elena «riassume in sé Circe e Penelope, il pericolo e l’appagamento, la sventura e la fortuna dell’uomo, che dipendono dal modo in cui egli affronta il grande problema dell’alterità che la donna per lui rappresenta». 356

Pellizer 1982 (a): 76-77.

124

privilegiato (vista anche la notevole autorità ed influenza esercitate da questi Autori nei secoli posteriori) diventa malefica, esperta nel nuocere per ottenere gli scopi desiderati (cfr. paragrafo 1.3). Rappresentativo, in questo senso, è il V Epodo oraziano, che rappresenta la messa a morte di un fanciullo da parte dell’“obscena anus” (v. 98) Canidia e delle sue aiutanti Sagana, Veia e Folia (“la riminese”), in pagine prive dell’ironia e dell’arguta leggerezza riscontrabili altrove357: dal midollo e dal fegato inaridito, ottenuti facendolo morire d’inedia (egli viene sepolto in terra, ad eccezione della testa, impossibilitato a raggiungere i cibi postigli davanti) si ricaverà un “filtro d’amore” (amoris poculum, v. 38) che farà ritornare un amante perduto; il fine, si noti, è lo stesso dell’incantatrice di Teocrito, ma la modalità degli “incantesimi” e soprattutto la natura delle esecutrici sono diverse, decisamente peggiori.358 Non basta, tuttavia, per rintracciare le possibili “antenate” di Erictho in terra latina, cercare tra i ritratti di veneficae, di donne dal comportamento “eccessivo”, ma pur sempre umane; è stato ad esempio notato359 come la descrizione di Erictho presenti grande affinità con quella di Invidia presente nelle Metamorfosi ovidiane (II 760 sgg.): anch’essa presenta un aspetto pallido ed emaciato, vive in un luogo privo di sole, si nutre di carne di vipera, lei stessa – come le vipere – ha la bocca e la lingua intrise di veleno, con il quale infetta le persone; la quasi corrispondenza delle espressioni usate,360 nonostante la diversità del contesto, induce a pensare che 357

Canidia è inoltre protagonista dell’Epodo III, dove il contesto è però ironico, e del XVII, dove la descrizione della megera è meno impressionante, stemperata dall’atteggiamento di mesta rassegnazione del Poeta, stanco delle sue “magie”; interessante, nell’Ep. XVII, la dichiarata capacità di poter “animare immagini di cera” (movere cereas imagines, v. 76) e “risuscitare i morti” (excitare mortuos, v. 79). La ricorrenza di Canidia in molti altri passi (Satire I 8, 24 e 48; II 1, 48; 8, 95) ha fatto pensare ad un personaggio reale (Gratidia?), negativamente deformato dall’odio di Orazio: cfr. il commento di Mario Ramous all’Ep. V nell’edizione Garzanti, 1988. 358

Sebbene Canidia non esiti a ricorrere all’infanticidio – pratica che diventerà quasi costante nelle accuse “moderne” di stregoneria – si noterà che l’“incantatrice” (Farmakeu/tria) teocritea non è del tutto innocua: dopo aver “legato” a sé l’amante con i filtri (fi/ltroij katadh/somai, v. 159), se necessario userà i “veleni” (kaka\ fa/rmaka) ricevuti da uno “straniero assiro” ('Assuri/w... cei/noio) che costringeranno l’amante a bussare alle porte di Ade ('Ai/dao pu/lan... a)raceiª); un’esplicita minaccia di morte! 359

Baldini Moscadi 1976: 159.

360

In Invidia pallor in ore sedet, macies in corpore toto (775), essa si muove adoperta nubibus atris (790); Erictho presenta ora profanae / foeda situ macies e Stygio pallore (515-17); esce dalle tombe quando le stelle sono oscurate da nimbus et atrae nubes (518-19), etc.: cfr. Baldini Moscadi 1976: 159.

125

«Lucano, in questa descrizione della figura di Erichtho, abbia tenuto presente l’Invidia ovidiana, anche se non si potrà parlare di vera e propria imitazione».361 Non abbiamo citato l’efficace rappresentazione della Sibilla Cumana di Virgilio, colei che nel VI libro dell’Eneide guida Enea agli inferi, conducendolo in una vera e propria kata/basij attraverso il regno di Ade. L’omissione non è casuale: la Sibilla non si presenta come venefica, donna potente e pericolosa, ma è una “profetessa”, una divinatrice che opera in preda al furor profetico, quando è “invasata”, posseduta dal dio Apollo, rivelando i disegni divini a chi la consulta; non è una “necromante” nel senso proprio del termine (ovvero nei possibili sensi che finora abbiamo visto attribuiti al termine): non è un’evocatrice di “ombre” né tanto meno rianima corpi, come fa Erictho, come forse già faceva Canidia (ammesso che l’espressione excitare mortuos si riferisca alla “rianimazione” di cadaveri, piuttosto che ad una generica “evocazione di morti”: l’ambiguità non sarà mai risolta del tutto), e come farà l’egizio Zatchlas nelle Metamorfosi di Apuleio (II 27-30), secondo una pratica che trova riscontro in quella sorta di “trattatistica” o manualistica “tecnica” indirizzata agli “operatori del magico” che è rappresentata dai Papiri Magici.362 Nel concludere questa breve ed incompleta galleria di “maghe” (sottolineando ancora la cautela con la quale usiamo il termine), si osserva che «Lucano poteva quindi attingere ad una vasta tradizione letteraria che gli forniva modelli o, per lo meno, spunti per il suo apparato magico».363

361

Baldini Moscadi 1976: 160.

362

Paradigmatico in questo senso PGM (Papyri Graecae Magicae) XIII, il cosiddetto Ottavo Libro di Mosè, 261-65 (ed. Preisendanz-Henrichs, Stuttgart 1973-74), che prescrive il rito necessario al “risveglio di un cadavere” ( ÃEgersij sw/matoj nekrouª). 363

Baldini Moscadi 1976: 145.

126

8.2 Mode e modelli in Lucano L’ambiente culturale in cui Lucano (e come lui Seneca) visse ed operò – che è quello della corte neroniana – è efficacemente tratteggiato nel già citato articolo dedicato all’“episodio magico” della Pharsalia, in apertura al quale è illustrato il «clima religioso» dell’epoca, che si presenta come diretta conseguenza del rifiorire, nel I sec. a.C., «dell’interesse per la magia e l’astrologia dovuto ai neo-pitagorici dell’“entourage” di Nigidio Figulo, ai quali si dovrebbe fra l’altro, secondo l’opinione comune, l’introduzione a Roma della negromanzia».364 Nigidio Figulo era un augure “privato”, autore di trattati sugli dèi, sull’aruspicina, sull’interpretazione dei sogni, etc., e particolarmente versato nell’astrologia (si ritiene avesse profetizzato la nascita di Augusto); amico di Cicerone, e di tendenze repubblicane, fu esiliato nel 46 a.C. per la posizione filopompeiana tenuta durante la Guerra Civile.365 Non fa troppa meraviglia che Lucano abbia scelto proprio questo personaggio reale, della storia recente, che aveva avuto una certa influenza (anche in senso politico) sulla cultura del tempo, per farlo portavoce delle proprie istanze anti-cesariane; le parole a lui attribuite all’inizio della Pharsalia (I 639-72), nel lungo passo dedicato alla triplice profezia – dell’haruspex etrusco Arruns, dello stesso Figulo e della matrona “invasata” da Apollo – sono esplicitamente eloquenti: solo durante la Guerra Civile Roma sarà libera, la pace verrà con un tiranno (cum domino pax ista venit, v. 670), con un preciso (e coraggioso?) riferimento ad Augusto.366 L’atteggiamento ideologico di Lucano espresso attraverso le sentenze di Nigidio Figulo, lungi dall’essere una “posa” letteraria, non è senza conseguenze per la comprensione dell’intera opera, e trova una corrispondenza non casuale nell’ultima e più eclatante profezia, quella del cadavere rianimato da Erictho (VI 777-820): un testo curiosamente “reticente”, nel quale il messaggio del soldato morto, pur vantando la propria “sapienza” (… e cunctis mihi noscere contigit umbris,

364

Baldini Moscadi 1976: 141.

365

Dick 1963: 38-39.

366

Dick 1963: 39.

127

v. 779), tace più di quanto sia disposto a rivelare; avverte anzi: «Tu non chiedere il tuo fato: te lo sveleranno le Parche, senza che parli io» (vv. 812-13).367 Il passo, che ha sollevato legittime perplessità,368 e che solo in apparenza sembra riconducibile alla singolare “ignoranza profetica” che abbiamo rilevato altrove (paragrafo 6.4; ma qui trattasi di reticenza, come appena visto: il morto sa, ma tace), ha precise connotazioni proprio in senso ideologico, che suggeriscono a Lucano scelte formali – più che i contenuti, il modo in cui egli li propone – che hanno il compito di veicolare un diretto messaggio “politico” attraverso la mediazione di elementi narrativi (stilistici, linguistici) cari ai lettori dell’epoca ed inscrivibili nella prosperante “moda” letteraria vicina a tematiche “esoteriche”.369 Ciò risulta più chiaramente dal confronto con quel modello imprescindibile di costruzione epica in lingua latina che è l’Eneide, che Lucano utilizza non in senso banalmente imitativo, ma sottoponendolo ad una sorta di “rovesciamento”, facendone quasi un “anti-modello” di sapore polemico: «L’atteggiamento lucaneo nei confronti della storia romana è diametralmente opposto a quello di Virgilio: se il Mantovano prevedeva nella sua opera la grandezza del popolo romano nel futuro, Lucano introduceva nella sua Farsalia una concezione storica che contemplava con pessimismo la decadenza politica del suo tempo. […] tutta la vicenda si presenta al poeta come la visione grandiosa e terribile del crollo di una civiltà […]».370

367

Trad. di L. Canali (ed. Rizzoli, 1987).

368

Paoletti 1963: 19: «Una prima constatazione si impone e piuttosto clamorosa: dopo che per circa 400 versi abbiamo assistito ad una vera e propria fantasmagoria dell’orribile e del ripugnante in attesa di sapere che cosa sarà predetto sulla sua sorte futura all’atterrito Sesto Pompeo, dopo che per ottenere quella risposta si sono mobilitate tutte le risorse di un’arte che il poeta di continuo giudica con epiteti infamanti, […] praticamente, non vien risposto nulla». L’Autore però spiega subito «la funzione di primo piano» di questo episodio nella struttura dell’intero poema. 369

Si è congetturato che lo stesso nome di Erictho, di cui esiste un rapido accenno in Ovidio (Heroid. XV 139), figurasse in qualche “dottrina esoterica” (da Carcopino, in “REL”, 1927, pp. 140-49): cfr. Paoletti 1963: 15 n. 12: «Per parte mia non mi stupirei se Lucano ne avesse parlato anche nell’Orpheus e nel Catachtonion, che gli vengono attribuiti dalla tradizione (a meno che non si tratti della stessa opera, il cui titolo sarebbe stato sdoppiato)». 370

Paoletti 1963: 20, che aggiunge anche: «Si sa che Lucano è l’anti-Virgilio, così come Seneca è l’anti-Cicerone […]».

128

Anche senza scomodare le posizioni filosofiche o le intenzioni concettuali dei due rispettivi poeti, la sola contrapposizione tra il “pessimismo” di Lucano e l’“ottimismo” di Virgilio – e la sua «concezione stoico-pitagorica della provvidenzialità della storia» in cui si colloca il programma della Pax Augusta371 – basterebbe forse a spiegare o quanto meglio a chiarire in parte l’“efferatezza” di Erictho, che la differenzia di molto dalla Sibilla virgiliana, e di cui è quasi una caricatura in negativo: mentre quest’ultima parla per ispirazione divina, apollinea, e si rivolge all’eroe troiano conducendolo alla scoperta dei luminosi destini di Roma, Erictho scomoda le potenze infere con pratiche infami, accoglie la richiesta di un uomo empio, Sesto Pompeo, che trascura “i tripodi di Delo e gli antri della Pizia” (VI 425) in favore di illeciti saperi esclusi agli stessi dèi (VI 434), per rivelargli – attraverso il “mesto cadavere” (VI 776) – la rovina di Roma. Proprio nel ritratto di Erictho, che a questo punto potremmo quasi definire “anti-Sibilla”, e nel suo rapporto con il consultante (un anti-Enea?),372 l’“inversione” si completa e si giustifica: «come alla virtus si sostituisce il crimen, così alla pietas che sovrintendeva ai rapporti con gli dèi si sostituisce l’impietas delle pratiche magiche»;373 la consultazione necromantica di Sesto Pompeo assume allora un valore di contro-consultazione rispetto a quella di Enea, lecita in quanto la risposta proviene direttamente dal dio (e si è vista l’importanza della mantica ispirata, apollinea – delfica in particolare – nella costruzione dei modelli divinatori nel mondo antico, paragrafo 2.1.2): «Lucano ha ben compreso la tecnica virgiliana di esaltare la gloria e la potenza di Roma per mezzo di profezie post eventum (Giove a Venere nel I libro, scudo di Enea nell’VIII) e per mezzo della kata/basij ei)j

ÀAidou di Enea (VI

libro) e la riprende, rinnovandola, per ottenerne gli effetti contrari […]. Una kata/basij vera e propria non poteva però non essere clamorosamente 371

Paoletti 1963: 22, ripreso da Baldini Moscadi 1976: 191.

372

Paoletti 1963: 14 segnala come Pompeo e i suoi discendenti fossero “tradizionalmente” associati a “pratiche magiche” (Druso Libone, in particolare, fu processato sotto Tiberio), anche se, avverte l’Autore della nota, almeno in alcune fonti (Paolo Orosio ed uno scoliasta) la notizia potrebbe costituire «uno sviluppo autoschediastico derivato proprio dall’episodio lucaneo». 373

Baldini Moscadi 1976: 192; si veda anche, con un approccio più specificatamente filologico ma con analoghe conclusioni, le due brevi pagine di Timpanaro 1967.

129

contraddittoria con la sua posizione ontologica: ha preferito darcene pertanto una, per così dire, alla rovescia, mediante la tecnica della nekuomanteiªa, che, pur non essendo neppure essa coerente con lo stoicismo, tuttavia rispondeva alle credenze ed ai gusti dell’età neroniana, anche perché pratiche magiche erano di moda fra i discendenti di Pompeo, in funzione anticesarea, sovversiva […]»374

Le derivazioni e le influenze – che abbiamo denominato “modelli” con una certa approssimazione – non sono da considerarsi limitati alla sfera prettamente letteraria. Si è accennato al clima apertamente favorevole alla “magia” nell’ambito della corte neroniana; è sufficiente accennare appena all’interesse personale dello stesso Imperatore e delle persone a lui vicine per le “arti magiche”, che dovette culminare in veri e propri “esperimenti” necromantici.375 Un passo molto discusso dell’“invocazione” di Erictho (VI 744-49) allude ad una misteriosa divinità, potentissima ed anonima, sull’identità della quale sono fiorite le più diverse congetture: «[…] Paretis, an ille / conpellandus erit, quo numquam terra vocato / non concussa tremit, qui Gorgona cernit apertam / verberibusque suis trepidam castigat Erinyn, / indespecta tenet vobis qui Tartara, cuius / vos estis superi, Stygias qui peierat undas?» «Obbedite. O dovrò chiamare colui che sempre, invocato, / scuote e sconvolge la terra e fissa apertamente la Gorgone / e castiga a colpi di frusta l’Erinni

374

Paoletti 1963: 25. Può essere interessante notare come il tema della catàbasi verrà ripreso e rielaborato in chiave squisitamente allegorica in ambito medioevale: a parte l’ovvio parallelo con la Commedia dantesca, si può citare il Commentum di Bernardo Silvestre (ca. 1100-1160) al VI libro virgiliano, in cui la discesa all’inferno, che rappresenta il mondo sensibile, da parte di Enea (lo “spirito”, figlio del “Creatore” Anchise) porta alla conquista della comprensione filosofica; la spiegazione dell’intero episodio «rivela come l’esperienza del mondo sotterraneo sia un avvicinarsi al dio attraverso realtà fisiche ed emotive, una gnosi compiuta con l’aiuto della Sibilla (scibile, id est divinum consilium), e il ramo d’oro (philosophia), i triviae lucos (trivium) e gli aurea tecta (quadrivium)». Il tentativo di fare di Enea il novus homo dell’umanesimo del XII secolo, per quanto eccessivo possa apparire ai moderni, non è stato privo di conseguenze sui più noti commentatori di Dante, come Boccaccio, se non addirittura su Dante stesso: Dronke 1984. 375

Baldini Moscadi 1976: 142, che cita Suet., Nero, 34, 36, 56, e Plinio, Nat. Hist. XXX 5-6, dove è ricordato Tiridates e le “cene magiche” (qualunque cosa fossero) con le quali il “mago” cercò (senza successo, specifica Plinio non senza sarcasmo) di “iniziare” Nerone alla magia.

130

atterrita, / colui che abita il Tartaro, in regioni a voi invisibili, / di cui siete gli dèi, e spergiura sulle onde stigie?»376

Oltre che al pessimus mundi arbiter, Plutone, nominato pochi versi prima, alcuni hanno pensato al Demogorgon, la «mistica divinità degli Orfici», altri hanno preferito identificarlo con il persiano Ahriman, o ancora con Hermes Trismegistos, assimilabile al dio egizio Thoth.377 Un confronto con alcuni passaggi di analogo tenore presenti nei Papiri Magici induce però ad avvicinare tale divinità «piuttosto al Dio supremo invocato nei papiri, divinità che non è mai assimilata a Hermes Trismegistos, ma, caso mai, al dio degli Ebrei»,378 il cui “nome segreto” – Yahweh – è così spesso presente in tali testi sotto le forme di Iao, Adonai, Sabaoth et similia. La natura di questo dio, che lo stesso Lucano definiva incertus,379 non era sconosciuta alla Roma neroniana, anzi «la fama di maghi che gli ebrei avevano fin dall’antichità, avrà certamente aumentato la curiosità riguardo al loro dio da parte di quanti, come Lucano, si interessavano di magia».380 Pur senza accogliere apertamente una tesi da altri definita “priva di consistenza”,381 vi è chi non ha potuto fare a meno di notare come il passo lucaneo presenti una “serie di analogie” con l’episodio di En-dor: il contesto della guerra civile, l’imminenza della battaglia, il rifiuto di consultare gli oracoli “ufficiali” (Sesto Pompeo) o la loro “inefficienza” (Saul), l’ambientazione notturna, e così via. Il raffronto richiede prudenza, anche se, sottolinea l’Autrice in questione, «non è da escludere che Lucano potesse conoscere, direttamente o indirettamente, la Bibbia o, almeno, alcuni episodi del libro sacro», dal momento che l’ambiente in cui visse guardava con favore agli Ebrei, come testimonierebbe anche una notizia di Giuseppe 376

Trad. di L. Canali (ed. Rizzoli, 1987).

377

Cfr. Baldini Moscadi 1976: 181-82, per gli autori delle congetture e relativi testi.

378

Baldini Moscadi 1976: 182.

379

Phars. II 593: «… dedita sacris /incerti Iudaea dei…» (“… i Giudei dediti al culto d’un dio vago...”). 380

Baldini Moscadi 1976: 183-84.

381

Paoletti 1963: 15: il riferimento è all’ipotesi di A. Arredondo, “Un episodio de magia negra en Lucano”, in “Helmantica”, XI, 1951 (ma Baldini Moscadi: “Helmantica”, III, 1952), il quale, riprendendo l’idea di un umanista del XVI sec., il cardinale don Francisco de Mendoza (ma dati ancora diversi in Baldini Moscadi), propone un influsso della scena biblica della “pitonessa” di En-dor su Lucano.

131

Flavio (XX 195, sull’accoglienza positiva riservata da Nerone alle richieste di una legazione ebraica a Roma).382 Volendo spingersi un po’ più in là, si può anche giungere a immaginare che «Lucano, interessato come era alla magia, avesse avuto modo di parlare di tale argomento con elementi della comunità ebraica di Roma nell’ambito della corte di Nerone, curioso anch’esso di esperienze magiche, e si fosse documentato in seguito sugli episodi magici della Bibbia, quel libro definito per altro da Giovenale arcanum volumen».383 Ferma restando la liceità di tali ipotesi, nel riportarne le conclusioni ricordiamo come la loro eventuale fondatezza, che andrebbe verificata non senza interesse, vada tenuta distinta dalla suggestione della materia.

8.3 Eritòn cruda e altre triste Con il ritratto di Erictho e la descrizione delle sue “efferatezze”, la figura letteraria della “maga” è completo. Altre rappresentazioni di “sedute” necromantiche seguiranno, ma pur nella loro vivacità poco aggiungeranno in termini di “effetto” all’episodio lucaneo. Il consueto e diretto confronto con il romanzo di Eliodoro (seconda metà del IV sec. d.C.?), Etiopiche, può farci intendere come i motivi associati a questa forma estrema di divinazione – e alla sua variante più “eccessiva”, la rianimazione dei corpi – siano ormai stereotipati e ripetitivi, quasi ridondanti, con l’uso per accumulazione di mezzi ed oggetti la cui funzione originaria (ammesso che ve ne fosse una, chiara ed univoca) si è via via degradata al valore di puro repertorio: la fossa, le libagioni di miele, latte e vino, l’uso di parole “barbare” (barba/roij te kai\ ceni/zousi), e ancora il “disturbo” del morto richiamato e la sua “sapienza” profetica, fanno del VI libro delle Etiopiche (che si propone forse come un voluto richiamo al VI dell’Eneide e al VI della Pharsalia) una rielaborazione 382

Baldini Moscadi 1976: 188.

383

Baldini Moscadi 1976: 189.

132

narrativamente efficace ma poco originale che nella lontana e illustre ascendenza (l’Odissea, i grandi tragici) trova forse la più credibile giustificazione. L’analisi di altri testi ad esso accostabili, anche precedenti – la Tebaide di Stazio (ca. 40/50-96 d.C.), ricca di situazioni raccapriccianti e compiaciute discese infere, le Metamorfosi di Apuleio (n. ca. 125 d.C.) e le sue tessaliche “streghe” – condurrebbe a risultati analoghi, per quanto interessanti, che rischierebbero di renderci ripetitivi, poco aggiungendo a quanto si è detto.

133

9. Conclusioni

Il concetto di “necromanzia”, che al di fuori di uno studio storico, accademicamente condotto (pur limitato come il nostro), può suscitare una certa diffidenza motivata dalla consueta associazione – che trova ampio riscontro nel cosiddetto “immaginario collettivo” – con la sfera della trasgressione comportamentale in ambito “religioso”, del moralmente “illecito”, qualora sia sottoposto ad una più ravvicinata analisi rivela la propria natura di pratica “speciale”, spesso vista e trattata con sospetto, ma ben integrata all’interno dei sistemi culturali che riconoscono la sua “praticabilità”, intesa come possibilità effettiva di manipolare (ricevere, utilizzare) saperi e conoscenze derivanti dal mondo dei morti. Nel tentativo di tracciare (capitolo 1) una storia necessariamente incompleta del termine (dei termini: ma qui consideriamo la sua forma principale, relegando per comodità le altre nel campo delle varianti concettuali), si è cercato di inquadrare il fenomeno nei vari contesti, entro i limiti di nostra pertinenza (il Mediterraneo antico), nei quali esso si presenta con maggiore evidenza, con il dichiarato obiettivo di collocarlo nell’ambito della “divinazione” cui appartiene (cap. 2): astraendo infatti dalle singole forme che può aver assunto nelle diverse circostanze storiche, la necromanzia è innanzitutto una forma di mantica. In questa prospettiva, abbiamo cercato di dimostrare o almeno di suggerire come la pratica necromantica, se da un lato ha mantenuto inalterato nel tempo il suo statuto di “rituale” – inteso come messa in atto di pratiche soggiacenti e funzionali ad un sistema coerente e convenzionalmente accettato di credenze e concetti in una determinata cultura o società – prettamente o prevalentemente divinatorio, teso cioè all’esplorazione del futuro del singolo individuo o dell’intera comunità ed alla ricerca di mezzi atti a prevenirlo se non a modificarlo, dall’altro ha subìto una continua trasformazione – diremmo forse meglio rielaborazione – delle caratteristiche formali e ideologiche che la rendono immediatamente riconoscibile (e isolabile da altre forme divinatorie) nei diversi contesti culturali.

134

La cultura greca, dalla quale abbiamo preso le mosse, sembra aver in qualche modo organizzato la variegata tipologia di prassi necromantiche in una griglia relativamente precisa non solo in senso linguistico e concettuale, ma anche geografico (cap. 3), oltre ad aver prodotto un modello letterario imprescindibile di un certo tipo di azione, destinato ad avere lunga eco nella cultura occidentale (cap. 4). Si è quindi passati al mondo ebraico (cap. 5), dove l’unico, problematico testo di riferimento ci ha fornito l’occasione per tracciare, con le dovute precauzioni, possibili similitudini e differenze nella ricezione ideologica di tale prassi tra un ambiente politeistico (greco) ed uno rigidamente monoteista come quello ebraico, dove la necromanzia si situa in uno statuto fortemente marginale, moralmente e socialmente squalificante, presentandosi come una risorsa estrema, gravemente illegale, e quindi illecita, nel ricorso al sapere “altro”, divino, del quale unico ed inalienabile destinatore è Yahweh; attorno al messaggio divino, costantemente teso a “fondare” la propria unicità, e accessibile solo attraverso pochi e controllati mezzi conoscitivi e con il concorso dell’istituto profetico, si organizza la costruzione di un potere unico, assoluto, rappresentato dalla monarchia, dove il re è prescelto da dio. La marginalità non sembra invece caratterizzare l’esperienza greca, alla quale ci siamo nuovamente rivolti (capp. 6, 7) per osservare, per contrasto, come il ricorso alla “sapienza” dei defunti possa assolvere delle funzioni di segno decisamente diverso, facendosi carico di istanze ideologiche, “politiche” (nel senso più ampio del termine), che sfuggono del tutto ad una dicotomia tra lecito ed illecito, e si inseriscono in un processo comunicativo volto ad organizzare il rapporto tra l’umano e il “divino” sulla base di una più fluida strutturazione del reale; il ricorso alla divinazione necromantica può essere periferico – geograficamente (il regno dei morti confina con il paese dei sogni), culturalmente (a praticarla sono preferibilmente gli altri, i “barbari”) – ma non comporta la caratterizzazione fortemente negativa che ritroviamo in altri contesti, forse complice l’assenza di un potere centralizzato, orientato in una direzione univoca: il fatto che l’unico “centro politico” sia proprio un santuario oracolare, Delfi, può indurre a riflettere. Nel decorso storicamente rintracciabile della necromanzia dal mondo greco (o dall’elaborazione greca di motivi orientali) alla cultura romana, attraverso il passaggio per l’ambiente ellenistico (egiziano, in particolare), contraddistinto da un

135

estremo, prolifico sincretismo culturale, per confluire poi, sulla base della tradizione ebraica (biblica e talmudica), nel lungo processo di “demonizzazione” di matrice giudaico-cristiana tutt’altro che conclusosi, notiamo come al mutare delle istanze e delle esigenze ideologiche e concettuali (genericamente, culturali) sia di pari passo avvenuta una graduale modificazione della ricezione dei modi e dei modelli dell’agire necromantico che, riconoscendone da un lato l’intrinseca ambiguità (termine che abbiamo usato più volte), ne ha sancito dall’altro l’apparente longevità e persistenza – anche in termini di “immaginario”, ed anche se in forme molto diverse da quelle originali – fino ai giorni nostri. È nella cultura romana, infatti, essenzialmente augustea ed imperiale, che si delinea in modo più deciso il ritratto di un’operatrice di saperi “pericolosi”, tipicamente femminile, che trova nel mito e nella letteratura precedente abbondanti fonti d’ispirazione, e che si inserisce in una precisa polemica “anti-magica” il cui carattere normativo, già consolidato dalla tradizione (Leggi delle XII Tavole), assume in piena età imperiale valore nettamente repressivo; in simile contesto, dove il ricorso agli strumenti divinatori è rigorosamente codificato e regolato, la necromanzia assume una connotazione negativa in chiave – ancora, ma in modo molto diverso – “politica”, mettendo in discussione il concetto stesso di potere imperiale, assoluto, del quale è ritenuta essere una minaccia per le capacità, che le vengono attribuite, di controllare o almeno conoscere la volontà divina, di cui l’impero è espressione, l’imperatore essendo prescelto dagli dèi. Potrebbe essere interessante proseguire questo percorso attraverso le rappresentazioni della necromanzia in ambito cristiano, che condurrebbe, come ci sembra di poter affermare dalle poche notizie raccolte, al suo “assorbimento” o fusione nel più ampio ed omologante concetto di “magia nera” (con la complicità dell’incomprensione etimologica), in cui il potere che può sentirsi da essa minacciato, oltre a quello monarchico o imperiale, è ora quello ecclesiastico, rappresentato in sommo grado dal Pontefice, prescelto da Dio. Molte altre considerazioni, che non hanno trovato posto in queste pagine, sono possibili: la loro omissione è dovuta ai limiti dell’estensore, non certo a quelli del tema trattato, il cui studio può riempire più estesi ed autorevoli volumi.

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