Esposito, Roberto - Bìos. Biopolitica e Filosofia

September 29, 2017 | Author: Jack | Category: Homo Sapiens, Thought, Nazi Germany, Friedrich Nietzsche, State (Polity)
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Descripción: Esposito, Roberto - Bìos. Biopolitica e Filosofia...

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Roberto Esposilo Bios

© 2004 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www.einaudi.it ISBN 8 8 - 0 6 - 1 7 1 7 4 - 7

Roberto Esposito Biopolitica e filosofia

Einaudi

Indice

p. VII

Introduzione

I. 3

L'enigma della biopolitica I.

Bio/politica

i6

2. Politica, natura, storia

25

3. Politica della vita

32

4. Politica sulla vita

II.

Il paradigma di immunizzazione

41

I.

Immunità

54

2.

Sovranità

61

3. Proprietà

68

4. Libertà

III. Biopotere e biopotenza 79

I . G r a n d e politica

87

2. C o n t r o f o r z e

96 105

3. Doppia negazione 4. D o p o l'uomo

IV. Tanatopolitica (il ciclo del ghénos) 115

I.

124

2. Degenerazione

Rigenerazione

135

3. Eugenetica

146

4. Genocidio

Indice

V.

Filosofia del bios

159

I. La filosofia dopo il nazismo

171 185

2. La carne 3, La nascita

200

4. Norma di vita

Introduzione

I. Francia, novembre 2000. Una decisione della Corte di Cassazione apre un lacerante dissidio nella giurisprudenza francese, rovesciando due giudizi in appello, a loro volta contrari ad altrettante sentenze emesse in precedenti istanze. Essa riconosce ad un bambino, di nome Nicolas Perruche, nato con gravissime lesioni genetiche, il diritto di sporgere denuncia contro il medico che non aveva correttamente diagnosticato la malattia di rosolia alla madre incinta, impedendole cosi di abortire secondo la sua espressa volontà. Quello che, in tale vicenda, appare oggetto di controversia non risolubile sul piano giuridico è l'attribuzione al piccolo Nicolas del diritto di non nascere. Ad essere in discussione non è l'errore, accertato, del laboratorio medico, quanto lo statuto di soggetto di chi lo contesta. Come può, un individuo, ricorrere giuridicamente contro la circostanza - quella della propria nascita che sola gli fornisce soggettività giuridica ? La difficoltà è insieme di ordine logico ed ontologico. Se è già problematico che un essere possa invocare il proprio diritto a non essere, è ancora più difficile pensare a un non essere, come è appunto chi non sia ancora nato, che reclami il diritto a restare tale, e cioè a non entrare nella sfera dell'essere. Ciò che appare indecidibile, in termini di legge, è la relazione tra realtà biologica e personalità giuridica - tra vita naturale e forma di vita. E vero che, nascendo in quelle condizioni, il bambino ha subito un danno. Ma chi, se non egli stesso, avrebbe potuto decidere di evitarlo, eliminando anticipatamente il proprio essere soggetto di vita, la propria vita di soggetto? Non solo. Siccome ad ogni diritto soggettivo corrisponde l'obbligo di non ostacolarlo da parte di chi fosse in condizione di farlo, ciò significa che la madre sarebbe stata costretta ad abortire a prescindere dalla sua libera scelta. Il diritto del feto a non nascere configurerebbe, insomma, un dovere preventivo, da parte di chi lo ha concepito, di sopprimerlo, istituendo cosi una cesura eu-

vili

Introduzione

genetica, legalmente riconosciuta, tra una vita giudicata valida ed un'altra, come si disse nella Germania nazista, «non degna di essere vissuta». Afghanistan, novembre 2001. A due mesi dall'attacco terroristico dell'i I settembre, nei cieli dell'Afghanistan prende forma un nuovo tipo di guerra 'umanitaria'. L'aggettivo non riguarda più l'intenzione del conflitto - come era avvenuto in Bosnia e nel Kosovo, dove s'intendeva difendere intere popolazioni dalla minaccia di genocidio etnico - ma il^suo stesso strumento privilegiato, vale a dire i bombardamenti. E cosi che sul medesimo territorio, e nello stesso tempo, insieme a bombe ad alto potenziale distruttivo, vengono sganciati anche viveri e medicinali. Non bisogna perdere di vista la soglia che in questo modo si oltrepassa. Il problema non sta soltanto nella dubbia legittimità giuridica di guerre condotte in nome di diritti universali in base alla decisione arbitraria, o interessata, di chi ha la forza di imporle e di condurle; e neanche nella difformità che spesso si determina tra finalità proposte ed esiti conseguiti. L'ossimoro più acuto del bombardamento umanitario sta piuttosto nella sovrapposizione, che in esso si manifesta, tra dichiarata difesa della vita ed effettiva produzione di morte. Già le guerre novecentesche ci avevano abituato al rovesciamento della proporzione tra vittime militari - prima largamente prevalenti - e vittime civili, oggi di gran lunga superiori alle prime. Cosi come da sempre le persecuzioni razziali si basano sul presupposto che la morte degli uni rafforzi la vita degli altri. Ma proprio perciò tra morte e vita - tra vita da distruggere e vita da salvare - permane, e anzi si approfondisce, il solco di una netta divisione. Ora è proprio tale discrimine che è tendenzialmente cancellato nella logica di bombardamenti destinati a uccidere e proteggere le medesime persone. La radice di tale indistinzione non va ricercata tanto, come spesso si fa, in un mutamento strutturale della guerra, quanto, piuttosto, nella trasformazione, assai più radicale, dell'idea di humanitas che lo sottende. Assunta per secoli come ciò che pone gli uomini al di sopra della semplice vita comune alle altre specie viventi, e proprio perciò caricata anche di valore politico, essa torna sempre più ad aderire alla propria materia biologica. Ma, una volta schiacciata sulla sua pura sostanza vitale, e cioè sottratta ad ogni forma giuridico-politica, l'umanità dell'uomo resta necessariamente esposta a ciò che può contemporaneamente salvarla ed annientarla.

Introduzione

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Russia, ottobre 2002. Gruppi speciali della polizia di Stato fanno irruzione nel teatro Dubrovska di Mosca, dove un commando ceceno tiene in ostaggio quasi mille persone, provocando la morte, con un gas inabilitante dagli effetti letali, di 128 ostaggi, oltre che di quasi tutti i terroristi. L'episodio, giustificato ed anzi assunto a modello di fermezza da parte degli altri governi, segna un ulteriore passaggio rispetto a quello prima commentato. Anche se in questo caso non si è fatto uso del termine 'umanitario', la logica di fondo non è diversa: la morte di decine di uomini scaturisce dalla stessa volontà di salvarne quanti più è possibile. Senza soffermarci su altre circostanze inquietanti, come l'uso di gas proibiti dai trattati internazionali o l'impossibilità di predisporre antidoti adeguati pur di mantenere il segreto sulla loro natura, restiamo al punto che c'interessa: la morte degli ostaggi non è stata, come può accadere in casi del genere, un effetto indiretto e accidentale dell'azione delle forze dell'ordine. A sopprimerli non sono stati i ceceni sorpresi dall'assalto dei poliziotti, ma direttamente questi ultimi. Spesso si parla della specularità di metodi tra i terroristi e coloro che li fronteggiano. Ciò può essere spiegabile e, entro certi limiti, perfino inevitabile. Ma forse mai si sono visti agenti governativi, impiegati a salvare i prigionieri da una morte possibile, effettuare essi stessi la strage che i terroristi si limitavano a minacciare. In questa scelta da parte del presidente russo hanno inciso vari fattori: la volontà di scoraggiare altri tentativi del genere, il messaggio ai ceceni che la loro battaglia è senza speranza, uno sfoggio di potere sovrano nel tempo della sua apparente crisi. Ma, al suo fondo, c'è qualcosa d'altro che ne costituisce il tacito presupposto. Il blitz al teatro Dubrovska non segna, come pure è stato detto, il ritiro della politica di fronte alla nuda forza. E non è neanche riducibile allo svelamento del nesso originario tra politica e male. Esso è l'espressione estrema che la politica può assu-' mere quando si trova ad affrontare senza mediazioni la questione della sopravvivenza di uomini in bilico tra la vita e la morte. Per trattenerli a tutti i costi in vita, può perfino decidere di affrettarne la morte. Cina, febbraio 200}. La stampa occidentale diffonde la notizia, tenuta rigorosamente nascosta dal governo cinese, che nella sola provincia dell'Henan vi sono più di un milione e mezzo di sieropositivi, con percentuali che in alcuni villaggi, come quello di

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Introduzione

Donghu, raggiungono l'ottanta per cento della popolazione. A differenza che in altri paesi del terzo mondo, il contagio non ha una causa naturale o socioculturale, ma immediatamente economicopolitica. Alla sua origine non vi sono rapporti sessuali non protetti e neanche uso sporco di droga, bensì la vendita in massa di sangue, stimolata e gestita direttamente dal governo centrale. Il sangue, estratto a contadini bisognosi di danaro, viene centrifugato in grossi contenitori che separano il plasma dai globuli rossi. Mentre il primo è inviato a ricchi acquirenti, questi ultimi sono di nuovo iniettati ai donatori per evitare l'anemia e spingerli a ripetere l'operazione di continuo. Ma basta che uno solo di essi sia infetto, per contagiare l'intera partita di sangue senza plasma contenuto nei grandi calderoni. In questo modo interi villaggi si sono riempiti di sieropositivi quasi sempre destinati a morte certa per mancanza di medicine. E vero che proprio la Cina ha recentemente messo in commercio farmaci anti-Aids prodotti localmente a bas so costo. Ma non per i contadini dell'Henan, non solo ignorati dal governo, ma obbligati a tenere segreta la loro vicenda per non finire in carcere. La cosa è stata svelata da chi, rimasto solo per la morte di tutti i congiunti, ha preferito andare a morire in prigione anziché nella propria capanna. Basta spostare l'obiettivo su un altro fenomeno ancora più vasto, per accorgersi che la selezione biologica, in un paese che ancora si definisce comunista, non è solo di classe, ma anche di sesso: almeno da quando la politica statale del 'figlio unico', volta a bloccare la crescita demografica, unita all'impiego della tecnica ecografica, porta all'aborto di gran parte di quelle che sarebbero divenute future donne. Ciò rende inutile l'uso, tradizionale nelle campagne, di affogare le bambine già nate, ma è destinato ad incrementare la sproporzione numerica tra maschi e femmine: si calcola che tra meno di venti anni sarà difficile, per gli uomini cinesi, trovare una moglie, se non strappandola alla famiglia ancora adolescente. Forse è per questa situazione che in Cina il rapporto tra i suicidi femminili e quelli maschili è di cinque a uno. Ruanda, aprile 2004. Un rapporto dell'Onu ci informa che circa diecimila bambini della stessa età costituiscono il frutto biologico degli stupri etnici messi in atto dieci anni fa nel corso del genocidio consumato dagli Hutu nei confronti dei Tutsi. Come è poi accaduto in Bosnia e in altre parti del mondo, tale pratica modifica in modo inedito il rapporto tra vita e morte conosciuto nelle

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guerre tradizionali e financo in quelle, cosiddette asimmetriche, contro i terroristi. Mentre in esse la morte viene sempre dalla vita - e addirittura attraverso la vita, come negli attacchi suicidi dei kamikaze - nell'atto dello stupro etnico è anche la vita a venire dalla morte, dalla violenza, dal terrore di donne rese gravide ancora svenute per i colpi ricevuti o immobilizzate con un coltello alla gola. E un esempio di eugenetica 'positiva' che non si contrappone a quella, 'negativa', praticata in Cina o altrove, ma ne, costituisce il risultato controfattuale. Mentre i nazisti, e tutti i lo-| ro emuli, attuavano il genocidio mediante la distruzione anticipa-1 ta della nascita, quello attuale si compie mediante la nascita forzata e cioè nella più drastica perversione dell'evento che porta in sé l'essenza, oltre che la promessa, della vita. Contrariamente a coloro che hanno visto nella novità della nascita il presupposto, simbolico e reale, per un'azione politica rinnovata, lo stupro etnico ne ha fatto il punto più acuto di congiunzione tra politica e morte. Ma tutto ciò nel tragico paradosso di una nuova generazione di vita. Che le madri di guerra ruandesi, interrogate sulla propria esperienza, abbiano tutte dichiarato di amare il figlio nato dall'odio sta a significare che la forza della vita prevale ancora su quella della morte. Non solo: ma che la più estrema pratica immunitaria quella di affermare la superiorità del proprio sangue fino ad imporlo a chi non lo condivide - è destinata a rovesciarsi contro se stessa producendo esattamente ciò che voleva evitare. I figli hutu delle donne tutsi, o tutsi degli uomini hutu, sono l'esito oggettivamente comunitario - vale a dire multietnico - della più violenta immunizzazione razziale. Anche da questo lato siamo di fronte a una sorta di indecidibile, ad un fenomeno a doppia faccia, in cui vita e politica si legano in un vincolo la cui interpretazione richiede un nuovo linguaggio concettuale.

2. Al suo centro vi è la nozione di biopolitica. Solo a partire da essa eventi sfuggenti ad un'interpretazione più tradizionale, come quelli appena richiamati, ritrovano un senso d'insieme che va al di là della loro semplice manifestazione. E vero che essi restituiscono un'immagine estrema, ma certo non infedele, di una dinamica che ormai coinvolge tutti i grandi fenomeni politici del nostro tempo. Dalla guerra del e contro il terrorismo alle migrazioni di massa, dalle politiche sanitarie a quelle demografiche, dalle misure di sicurezza preventiva all'estensione illimitata delle legisla-

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zioni di emergenza, non c'è fenomeno di rilievo internazionale estraneo alla doppia tendenza che situa le vicende cui si è fatto riferimento su un'unica linea di significato: da un lato una crescente sovrapposizione tra l'ambito della politica, o del diritto, e quello della vita, dall'altro un'implicazione altrettanto stretta, che sembra derivarne, nei confronti della morte. E esattamente il tragico paradosso sul quale Michel Foucault, in una serie di scritti risalenti alla metà degli anni settanta, si era interrogato: perché, almeno fino ad oggi, una politica della vita minaccia sempre di rovesciarsi in opera di morte ? Credo si possa affermare, senza disconoscere la straordinaria potenza analitica del suo lavoro, che Foucault non abbia mai fornito una risposta esauriente a tale interrogativo - o meglio che abbia sempre esitato tra risposte diverse, a loro volta tributarie di differenti modi di impostare la questione da lui stesso sollevata. Le opposte interpretazioni della biopolitica - l'una radicalmente negativa e l'altra addirittura euforica - che oggi tengono il campo non fanno che assolutizzare, divaricandole, le due opzioni ermeneutiche tra le quali Foucault non si risolse mai a compiere una scelta di fondo. Senza anticipare qui una ricostruzione più dettagliata della vicenda, la mia impressione è che questa situazione di stallo, filosofico e politico, si origini da una domanda mancata, o insufficiente, sui presupposti stessi del tema in questione: non solo cosa vuol dire, ma quando è nato, il concetto di biopolitica ? Come si è di volta in volta configurato e quali aporie continua a portare dentro? E bastato estendere le ricerche sull'asse diacronico, ma anche sul piano orizzontale, per riconoscere che le pur decisive teorizzazioni di Foucault non sono che il segmento finale, e certo più compiuto, di una linea di discorso risalente assai più indietro nel tempo e originata all'inizio del secolo scorso. Riportare alla luce - direi per la prima volta - questo filone lessicale, rilevandone contiguità e scarti semantici, non ha evidentemente soltanto un rilievo filologico. Intanto perché solo simile operazione di scavo rende ragione, per differenza, della forza e dell'originalità delle tesi foucaultiane. Ma soprattutto perché essa consente di penetrare da più lati, e con maggiore ampiezza di sguardo, nella scatola nera della biopolitica, rendendo possibile una prospettiva critica anche sul percorso interpretativo avviato dallo stesso Foucault. Per esempio in merito al complesso rapporto, da lui istituito, tra regime biopolitico e potere sovrano. Anche su questo specifico punto torneremo più avanti in dettaglio. Ma ciò su cui conviene fin d'ora

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fermare l'attenzione, perché coinvolge il senso stesso della categoria in oggetto, è la relazione che, dentro quel rapporto, si gioca tra la politica della vita e il complesso delle categorie politiche moderne. La biopolitica precede, segue, o coincide temporalmente" con la modernità? Ha una dimensione storica, epocale o originaria ? Anche su tale interrogativo - decisivo perché logicamente connesso all'interpretazione della nostra contemporaneità - la risposta di Foucault non è del tutto perspicua, nel senso che oscilla tra un'attitudine continuista ed un'altra più incline a marcare soglie differenziali. La mia tesi è che tale incertezza epistemologica sia riconducibile al mancato uso di un paradigma più duttile - capace di articolare in maniera più intrinseca i due lemmi racchiusi nel concetto in questione - cui io stesso da tempo faccio riferimento in termini di immunizzazione. Senza diffondermi adesso sul suo significato complessivo, che ho già avuto modo di definire in tutte le sue proiezioni di senso, l'elemento che va subito fissato, perché restituisce l'anello assente dell'argomentazione foucaultiana, è il nesso peculiare che esso istituisce tra biopolitica e modernità: vo-\ glio dire che solo se vincolata concettualmente alla dinamica immunitaria di protezione negativa della vita, la biopolitica rivela la sua genesi specificamente moderna. Non perché una sua radice non sia riconoscibile anche in epoche precedenti, ma perché solo la modernità fa dell'autoconservazione individuale il presupposto di tutte le altre categorie politiche, da quella di sovranità a quella di libertà. Naturalmente, il fatto stesso che la biopolitica moderna prenda corpo attraverso la mediazione di categorie ancora riconducibili all'idea di ordine, inteso come il trascendentale del rapporto tra potere e soggetti, significa che la politicità del hios non è ancora affermata in maniera assoluta. Perché ciò accada - perché la vita sia traducibile immediatamente in politica, o perché la politica assuma una caratterizzazione intrìnsecamente biologica - bisogna aspettare la svolta totalitaria degli anni trenta, in particolare nella sua versione nazista. Allora non soltanto il negativo, vale a dire l'incombenza della morte, sarà funzionalizzato allo stabilimento dell'ordine, come ancora accadeva nella stagione moderna, ma verrà prodotto in quantità crescente secondo una dialettica tanatopolitica destinata a condizionare il potenziamento della vita all'effettuazione sempre più allargata della morte. Nel punto di passaggio dalla prima alla seconda immunizza-

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zione c'è l'opera di Nietzsche, cui è dedicato un intero capitolo del libro non solo per la sua intrinseca rilevanza biopolitica, ma perché costituisce uno straordinario sismografo dell'esaurimento delle categorie politiche moderne nel ruolo di mediazione ordinativa tra potere e vita. Assumere la volontà di potenza come il fondamentale impulso vitale significa affermare nello stesso tempo che la vita ha una dimensione costitutivamente politica e che la politica non ha altro scopo che il mantenimento e l'espansione della vita. E appunto nel rapporto tra queste due ultime modalità di riferimento al bios che si gioca il carattere innovativo o conservativo, attivo o reattivo, delle forze in campo. Lo stesso Nietzsche - il significato della sua opera - è parte di questo confronto e di questa lotta, nel senso che esprime insieme la più esplicita critica della deriva immunitaria moderna e un suo elemento di accelerazione interno. Da qui uno sdoppiamento, categoriale e anche stilistico, tra due tonalità di pensiero contrapposte ed intrecciate, che costituisce la cifra più tipica del testo nietzscheano: destinato da un lato ad anticipare, almeno sul piano teorico, lo scivolamento distruttivo ed autodistruttivo della biocrazia novecentesca e dall'altro a prefigurare le linee di una biopolitica affermativa ancora a venire.

3. L'ultima sezione del libro è dedicata alla relazione tra filosofia e biopolitica dopo il nazismo. Perché questo riferimento insistito a quella che ha voluto essere la più esplicita negazione della filosofia così come essa si è configurata a partire delle sue origini ? Intanto perché proprio una simile negazione richiede di essere penetrata filosoficamente nel suo fondo più oscuro. E poi perché il nazismo negò la filosofia non in maniera generica, ma a favore della biologia - di cui si considerò l'effettuazione più compiuta. Un ampio capitolo esamina in dettaglio questa tesi, confermandone la veridicità, almeno nel senso letterale che il regime nazista portò la biologizzazione della politica ad una misura mai raggiunta in precedenza: esso trattò il popolo tedesco come un corpo organico bisognoso di una cura radicale consistente nell'asportazione violenta di una sua parte spiritualmente già morta. Da questo lato, a differenza del comunismo, cui è ancora accostato in omaggio postumo alla categoria di totalitarismo, esso non è più inscrivibile nelle dinamiche autoconservative sia della prima che della seconda modernità. E ciò non certo perché estraneo alla logica im-

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munitaria. Al contrario, perché interno ad essa in una maniera talmente parossistica da rivolgerne i dispositivi protettivi contro il suo stesso corpo, come appunto accade nelle malattie autoimmuni. Gli ordini finali di autodistruzione emanati da Hitler asserragliato nel bunker di Berlino ne costituiscono una testimonianza di impressionante evidenza. Da questo punto di vista si può ben dire che l'esperienza nazista rappresenti il culmine della biopolitica almeno in quella espressione qualificata da una assoluta indistinzione con il suo rovescio tanatopolitico. Ma proprio per questo la catastrofe in cui è affondata costituisce l'occasione per un ripensamento epocale di una categoria che, ben lungi dallo scomparire, acquista ogni giorno più rilievo, come dimostrano non solo gli eventi più sopra ricordati, ma la configurazione complessiva dell'esperienza contemporanea - soprattutto da quando l'implosione del comunismo sovietico ha sgombrato il campo dall'ultima filosofia della storia moderna per consegnarci un mondo integralmente globalizzato. E a questo livello che va oggi condotto il discorso: il corpo che sperimenta in maniera sempre più intensa l'indistinzione tra politica e vita non è più quello dell'individuo, né quello, sovrano, delle nazioni, ma quello, contemporaneamente lacerato e unificato, del mondo. Mai come oggi i conflitti, le ferite, le paure che lo dilaniano sembrano mettere in gioco nulla di meno che la sua stessa vita in un singolare rovesciamento tra il motivo filosoficamente classico del «mondo della vita» e quello, attualissimo, della «vita del mondo». Perciò la riflessione contemporanea non può illudersi, come ancora accade, di attestarsi in una difesa attardata delle categorie politiche moderne sconvolte e rovesciate come un guanto dal biopotere nazista. Non può, e non deve, intanto perché proprio da esse la biopolitica si è originata - prima di ribellarsi contro la loro presenza. E poi perché il nucleo del problema che abbiamo di fronte - la modificazione del btos da parte di una politica identificata con la tecnica - è stato posto per la prima volta, in una maniera che è ancora poco definire apocalittica, precisamente dalla filosofia antifilosofica e biologica dell'hitlerismo. Mi rendo conto di quanto questa affermazione sia delicata nei suoi contenuti e più ancora nelle sue risonanze. Ma non è possibile anteporre questioni di opportunità alla verità delle cose. D'altra parte il grande pensiero novecentesco lo ha fin dall'inizio compreso accettando il confronto, e lo scontro, col male radicale sul suo stesso terreno. E stato così per Heidegger, lungo un itinera-

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rio talmente ravvicinato con quel gorgo da rischiare di lasciarsene inghiottire. Ma è stato così anche per la Arendt e per Foucault entrambi diversamente consapevoli che dal fondo si poteva risalire soltanto conoscendone le derive e i precipizi. E la via che io stesso ho cercato di seguire lavorando, a rovescio, dentro i tre dispositivi nazisti della normativizzazione assoluta della vita, della doppia chiusura del corpo e della soppressione anticipata della nascita. Le tracce che ne ho ricavato intendono profilare i contorni, certo approssimativi e provvisori, di una biopolitica affermativa capace di capovolgere la politica della morte nazista in una politica non più sulla, ma della, vita. Qui c'è un ultimo punto che mi pare utile chiarire in anticipo. Senza escludere la legittimità di altri percorsi interpretativi, o di altri progetti normativi, io non credo che il compito della filosofia - anche davanti alla biopolitica - sia quello di proporre modelli di azione politica, di fare della biopolitica la bandiera di un manifesto rivoluzionario o anche semplicemente riformista: non perché ciò è troppo radicale, ma perché lo è troppo poco. Ciò, del resto, contraddirebbe il presupposto di partenza secondo cui non è più possibile disarticolare politica e vita in una forma che affidi la seconda alla direzione esterna della prima. Questo non vuol dire, naturalmente, che la politica non possa agire su ciò che è contemporaneamente il proprio oggetto e il proprio soggetto, allentando la stretta dei nuovi poteri sovrani dovunque ciò sia possibile e necessario. Ma forse quello che oggi si richiede, almeno per chi fa professione di filosofia, è il cammino inverso: non tanto pensare la vita in funzione della politica, ma pensare la politica nella forma stessa della vita. E un passaggio tutt'altro che facile: si tratterebbe di rapportarsi alla biopolitica non dall'esterno - nella modalità dell'accettazione o del rifiuto - ma dal suo interno. Di aprirla al punto da farne emergere qualcosa che fino ad oggi è rimasto precluso allo sguardo perché afferrato nella morsa del suo contrario. Di tale possibilità - e di tale esigenza - ho cercato di offrire più di un esempio: relativamente alle figure della carne, della norma e della nascita pensate nell'inversione di quelle del corpo, della legge e della nazione. Ma forse la dimensione al contempo più generale e più intensa di questa decostruzione costruttiva riguarda proprio quel paradigma immunitario che costituisce il modo peculiare in cui finora la biopolitica si è proposta. Mai come in questo caso la sua semantica - quella della protezione negativa della vita - rivela un intrinseco rapporto con il suo

Introduzione

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opposto comunitario. Se Vimmunìtas non è neanche pensabile al di fuori del munm comune che pure nega, forse anche la biopolitica, che ne ha fino adesso sperimentato la piega costrittiva, potrà rovesciare il suo segno negativo in una diversa affermazione di senso.

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Capitolo primo L'enigma della biopolitica

I.

Bio/politica.

I. Nel giro di qualche anno la nozione di 'biopolitica' non solo si è installata al centro del dibattito internazionale, ma ha aperto una fase completamente nuova della riflessione contemporanea. Da quando Michel Foucault ne ha, se non coniato il termine, riproposto e riqualificato il concetto, l'intero quadrante della filosofia politica ne è risultato profondamente modificato. Non che categorie classiche, come quelle di 'diritto', 'sovranità', 'democrazia', siano di colpo uscite di scena. Esse continuano a organizzare l'ordine del discorso politico più diffuso. Ma il loro effetto di senso risulta sempre più indebolito e deprivato di reale capacità interpretativa. Anziché spiegare una realtà che sfugge da ogni lato alla loro presa analitica, tali categorie richiedono di essere esse stesse sottoposte al vaglio di uno sguardo più penetrante che al contempo le decostruisca e le spieghi. Prendiamo l'ambito della legge. Diversamente da quanto si è a volte sostenuto, nulla lascia pensare ad una sua riduzione. L'impressione, al contrario, è che esso guadagni sempre più terreno sul piano interno ed internazionale - che il processo di normativizzazione investa spazi sempre più ampi. Ciò non toglie, tuttavia, che il linguaggio giuridico in quanto tale si riveli incapace di portare alla luce la logica profonda di tale mutamento. Quando si parla di 'diritti umani', per esem- ! pio, anziché a determinati soggetti giuridici, ci si riferisce ad individui definiti non da altro che dal loro semplice statuto di esseri viventi. Qualcosa di analogo può dirsi del dispositivo politico della sovranità. Non solo sembra tutt'altro che destinato a dileguarsi, come pure con qualche precipitazione ci si era affrettati a pronosticare, ma, almeno per quanto riguarda la maggiore potenza mondiale, esso pare estendere e intensificare il proprio raggio di azione. E tuttavia, anche in questo caso, fuori dal repertorio che per qualche secolo ne ha profilato i contorni nei confronti sia dei cittadini sia degli altri organismi statali. Venuta meno quella

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Capitolo primo

distinzione netta tra interno ed esterno, e dunque anche tra pace e guerra, che aveva caratterizzato a lungo il potere sovrano, esso si trova a diretto contatto con questioni di vita e di morte che riguardano non più singole aree, ma il mondo in tutta la sua estensione. Insomma, da qualsiasi lato li si guardi, diritto e politica appaiono sempre più direttamente coinvolti da qualcosa che ne eccede il linguaggio consueto, trascinandoli in una dimensione esterna ai loro apparati concettuali. Questo 'qualcosa' - questo elemento e questa sostanza, questo sostrato e questa turbolenza - è appunto l'oggetto della biopolitica. Eppure al suo rilievo epocale non sembra corrispondere una adeguata chiarezza categoriale. Lungi dall'aver acquisito un assetto definitivo, il concetto di biopolitica appare percorso da un'incertezza, da un'inquietudine, che ne impedisce ogni stabile connotazione. Direi anzi qualcosa di più: esso è esposto ad una pressione ermeneutica crescente che sembra farne non soltanto lo strumento, ma anche l'oggetto, di un aspro scontro, filosofico e politico, sulla configurazione e il destino del nostro tempo. Da qui la sua oscillazione - ma si potrebbe ben dire, il suo sbandamento - tra interpretazioni, e prima ancora tonalità, non solo diverse, ma addirittura contrapposte. Quello che in esse è in gioco è naturalmente la natura del rapporto che stringe i due termini da cui la categoria di biopolitica è composta. Ma prima ancora la loro stessa definizione: cosa deve intendersi per biosì E come va pensata una politica ad esso direttamente rivolta? A poco serve, in relazione a simili domande, il riferimento alla figura classica del btospolitikós, dal momento che la semantica in questione sembra trarre senso precisamente dal suo ritiro. Volendo restare al lessico greco, e in particolare aristotelico, infatti, più che al termine btos, inteso nel significato di «vita qualificata» o di «forma di vita», la biopolitica rimanda semmai alla dimensione della zoé, vale a dire alla vita nella sua semplice tenuta biologica; o almeno alla linea di congiunzione lungo la quale il bios si affaccia sulla zoé naturalizzandosi anch'esso. Ma proprio in ragione di questo scambio terminologico l'idea di biopolitica appare situarsi in una zona di doppia indiscernibilità. Intanto perché abitata da un termine che non le conviene - e che anzi rischia di distorcerne il tratto più pregnante. E poi perché intenzionata ad un concetto - quello appunto di zoé - esso stesso di problematica definizione: cos'è, se pure è conj cepibile, una vita assolutamente naturale - cioè spogliata di ogni ; connotato formale ? Tanto più oggi, quando il corpo umano appa-

L ' e n i g m a della biopolitica

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re sempre più sfidato, e anche letteralmente attraversato, dalla tecnica'. La politica penetra direttamente nella vita, ma nel frattempo la vita è diventata altro da sé. E allora, se non esiste una vita ) naturale che non sia, contemporaneamente, anche tecnica; se il/ rapporto a due tra bws e zoe deve ormai, o forse da sempre, includere, come terzo termine correlato, la téchne, come ipotizzare una ; relazione esclusiva tra politica e vita ? Anche da questo lato il concetto di biopolitica sembra ritrarsi, o svuotarsi di contenuto, nel momento stesso in cui è formulato. Quello che resta chiaro è la sua determinazione negativa ciò che esso non è. O anche l'orizzonte di senso di cui segna la chiusura. Si tratta di quel complesso di mediazioni, opposizioni, dialettiche, che per una lunga fase ha reso possibile l'ordine politico moderno, almeno secondo la sua interpretazione corrente. Rispetto ad esse, alle domande cui rispondevano e ai problemi che sollecitavano - relativi alla definizione del potere, alla misura del suo esercizio, alla delineazione dei suoi limiti - il dato inoppugnabile è uno spostamento generale del campo, della logica e dello stesso oggetto della politica. Nel momento in cui da un lato j crollano le distinzioni moderne tra pubblico e privato. Stato e società, locale e globale, e dall'altro si inaridiscono tutte le altre fonti di legittimazione, la vita stessa si accampa al centro di ogni procedura politica: non è ormai concepibile altra politica che una po- j litica della vita, nel senso oggettivo e soggettivo del termine. Ma proprio in merito al rapporto tra soggetto e oggetto della politica torna a riaffacciarsi la divaricazione interpretativa cui prima si al- 1 ludeva: cosa vuol dire, come intendere, il governo politico della vita? Nel senso che la vita governa la politica o in quello che la politica governa la vita ? Si tratta di un governo della o sulla vita? E la stessa alternativa concettuale che si può esprimere attraverso la biforcazione lessicale tra i termini, altre volte usati indifferentemente, di 'biopolitica' e di 'biopotere' - intendendo con il primo una politica in nome della vita e con il secondo una vita sottomessa al comando della politica. Ma ancora una volta, anche in questo modo, quel paradigma che cercava una saldatura concettuale risulta sdoppiato e come tagliato in due dal suo stesso movimento. Compresso e al contempo destabilizzato da letture concorrenti, soggetto a continue rotazioni intorno al proprio

' Cfr. in merito la raccolta CH. GEYER (a cura di), BiopoUtik, Frankfurt am Main 2001.

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asse, il concetto di biopolitica rischia di smarrire la propria identità e di assumere il volto dell'enigma. (2. Per coglierne il motivo, non basta limitare il proprio angolo di visuale alla trattazione di Foucault. Bisogna risalire ai testi e agli autori da cui, pur senza mai citarli, essa prende le mosse in forma di riproposizione e contemporaneamente di decostruzione critica. Essi - almeno quelli che si richiamano esplicitamente al concetto di biopolitica - possono essere catologati in tre blocchi distinti e successivi nel tempo, caratterizzati rispettivamente da un approccio di tipo organicistico, antropologico e naturalistico. Sono riconducibili al primo una nutrita serie di saggi, prevalentemente tedeschi, accomunati da una concezione vitalistica dello Stato, come Zum Werden undLeben derSùaaten (1920) di Karl Binding (del quale avremo modo di parlare più avanti)^ Der Staat ah lebendiger Organismus di Eberhard Dennert (1922)', Der Staat, eìn Lebenivesen (1926) di Eduard Hahn'*. Ma colui su cui va concentrata l'attenzione, perché probabilmente è il primo ad adoperare il termine 'biopolitica', è lo svedese Rudolph Kjellen, cui si deve anche il conio dell'espressione 'geopolitica', poi elaborata da Friedrich Ratzel e da Karl Haushofer in chiave decisamente razzista. Rispetto a tale deriva - sfociata di If a poco nella teorizzazione nazista dello «spazio vitale» {Lebensraum) - va detto che la posizione di Kjellen resta più defilata, nonostante una conclamata simpatia per la Germania guglielmina ed anche una certa propensione per una politica estera di tipo aggressivo: come è sostenuto già nel libro del 1905 sulle grandi potenze', gli Stati vigorosi, dotati di un territorio limitato, si trovano nella necessità di dover ampliare i propri confini attraverso la conquista, la fusione e la colonizzazione di altre terre. Ma è nel volume del 1916, intitolato Stato come forma di vita {Stateri som livsformY, che questa esigenza geopolitica viene affermata da Kjellen in stretto rapporto con una concezione organicistica irriducibile alle teorie costituzionali di matrice liberale. Mentre queste rappresentano lo Stato come il prodotto artificiale

^ K, BINDING, Zum Werden und Lehen derUtaaten, Mùnchen-Leipzig 1920. ' E. DENNERT, DerStaut als lebendiger Orgamsmus, Halle 1922. E. HAHN, Der Staat, ein Lebenwesen, Mùnchen 1926. ' R. KJELLEN, Stormaktema.KonturerkrìngsamtidensstorpoUtik (1905), Stockholm 1 9 1 1 , pp. 67-68. ' ID., Staten som livsform, Stockholm 1 9 1 5 .

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di una libera scelta degli individui che lo hanno posto in essere, egli lo intende come «forma vivente» {som Uvsform, in svedese, o als Lebensform, in tedesco), in quanto tale fornita di istinti e pulsioni naturali. Già in questa trasformazione dell'idea di Stato, secondo cui esso non è più un soggetto di diritto nato da un contratto volontario, ma un insieme integrato di uomini che si comportano come un unico individuo allo stesso tempo spirituale e corporeo, è rinvenibile il nucleo originario della semantica biopolitica. Scrive Kjellen nel Sistema di politica in cui vengono compendiate le tesi precedenti: Questa tensione caratteristica della vita stessa [...] mi ha spinto a denominare tale disciplina, in analogia con la scienza della vita, la biologia, biopolitica-, ciò si comprende tanto più, considerando che la parola greca 'bios' designa non solo la vita naturale, fisica, ma forse e in misura altrettanto significativa proprio la vita culturale. Questa denominazione mira anche ad esprimere quella dipendenza dalle leggi della vita che la società qui manifesta, e che promuove lo Stato stesso, più di qualsiasi altra cosa, al ruolo di arbitro o almeno di mediatore'.

Sono espressioni che ci portano oltre l'antica metafora dello Stato-corpo con tutte le sue molteplici metamorfosi di ispirazione postromantica. Ciò che comincia a profilarsi è il riferimento ad un sostrato naturale, ad un principio sostanziale, resistente e sottostante a qualsiasi astrazione, o costruzione, di carattere istituzionale. Contro la concezione moderna, di derivazione hobbesiana, che si possa conservare la vita solo istituendo una barriera artificiale nei confronti della natura, di per sé inabilitata a neutralizzare il conflitto ed anzi portata a potenziarlo, torna a farsi strada l'idea dell'impossibilità di un vero superamento dello stato naturale in quello politico. Quest'ultimo, tutt'altro che negazione del primo, non ne è che la continuazione ad un altro livello, e perciò destinato ad incorporarne e riprodurne i caratteri originari. Se in Kjellen questo processo di naturalizzazione della politica si inscrive ancora all'interno di un impianto di tipo storico-culturale, esso sperimenta una decisa accelerazione nel saggio di un autore poi destinato a divenire celebre proprio nel campo della biologia comparata. Mi riferisco a Staatsbiologie, pubblicato, anch'esso nel 1920, dal barone Jacob von Uexkùll con il sintomatico sottotitolo Anatomie, Phisiologie, Pathologie des Staates. Anche in questo caso, come già in Kjellen, il discorso ruota intorno alla ' ID., Grundriji zu cinem System derPolitik, Leipzig 1920, pp. 93-94.

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configurazione biologica di uno Stato-corpo saldato dalla relazione armonica dei propri organi, rappresentativi delle differenti professioni e competenze. Ma con un duplice, e tutt'altro che irrilevante, spostamento lessicale rispetto al modello precedente: intanto quello di cui si parla non è più uno Stato qualsiasi, ma lo Stato tedesco, con le sue peculiari caratteristiche ed esigenze vitali. A fare la differenza è, però, soprattutto il rilievo che, proprio in rapporto ad esso, assume il versante della patologia rispetto a quelli, ad essa subordinati, della anatomia e della fisiologia. Già qui si intravedono i prodromi di una filiera teorica - quella della sindrome degenerativa e del conseguente programma rigenerativo - destinata a conoscere i suoi macabri fasti nei decenni immediatamente successivi. A minacciare la salute pubblica del corpo germanico è tutta una serie di malattie che, con evidente riferimento ai traumi rivoluzionari del tempo, vengono individuate nel sindacalismo sovversivo, nella democrazia elettorale e nel diritto di sciopero - tutte formazioni cancerose che si annidano nei tessuti dello Stato portandolo all'anarchia e alla dissoluzione: «come se nel nostro corpo fossero la maggioranza delle cellule, anziché quelle del cervello, a decidere quali impulsi comunicare ai nervi »^ Ma ancora più rilevante, in direzione dei futuri sviluppi totalitari, è il riferimento biopolitico a quei «parassiti» che, penetrati all'interno del corpo politico, si organizzano reciprocamente a svantaggio degli altri cittadini. Essi vanno distinti tra «simbionti», anche di razza diversa, che in determinate circostanze possono essere utili allo Stato, e parassiti veri e propri, installati come un corpo vivente estraneo all'interno di quello statale e destinati a nutrirsi della sua stessa sostanza vitale. Contro questi ultimi - è la conclusione minacciosamente profetica di Uexkùll bisogna formare un ceto di medici di Stato, o conferire allo stesso Stato una competenza medica, capace di ricondurlo alla salute rimuovendo le cause del male ed espellendone i germi portatori: «manca ancora un'accademia di larghe vedute non solo per la formazione di medici di Stato, ma anche per la istituzione di una medicina di Stato. Non possediamo nessun organo cui poter affidare l'igiene dello Stato»'. Il terzo testo su cui conviene fermare l'attenzione - anche ' j. VON UEXKULL, StaaUbiologie. Anatomie, Phisiologie, Pathologie des Staates, Berlin 1 9 2 0 , p. 46.

' Ibid., p. 55.

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perché espressamente intitolato alla categoria in oggetto - è BzopoUtics, dell'inglese Morley Roberts, pubblicato a Londra nel 1938 con il sottotitolo An Essay in the Physiology, Pathology and Politics of the Social and Somatic Organism. Anche in questo caso il presupposto di fondo, richiamato fin dalle pagine dell'introduzione, è la connessione non soltanto analogica, bensì reale, concreta, materiale della politica con la biologia e in particolare con la medicina. Si tratta di una prospettiva non lontana, nei suoi assi portanti, da quella di Uexkùll: se la fisiologia è indissociabile dalla patologia da cui deriva significato e rilievo, anche l'organismo statale non potrà essere conosciuto, e guidato, che a partire dalla qualificazione delle sue malattie attuali o potenziali. Queste, più che un semplice rischio, rappresentano la verità ultima, perché prima, di un'entità vivente di per sé peribile. Perciò la biopolitica ha il compito da un lato di riconoscere i rischi organici che insidiano il corpo politico e dall'altro di individuare, e predisporre, i meccanismi di difesa nei loro confronti, anch'essi radicati nello stesso terreno biologico. E proprio a quest'ultima esigenza che si connette la parte più innovativa del libro di Roberts - costituita da uno straordinario paragone tra l'apparato difensivo dello Stato e il sistema immunitario che conferma in anticipo un paradigma interpretativo su cui torneremo più avanti: Il modo più semplice di considerare l'immunità è guardare al corpo umano come a un complesso organismo sociale e all'organismo nazionale come a un individuo funzionale più semplice, o come a una 'persona', entrambi esposti a rischi di diversa specie nei confronti dei quali è necessario intervenire. Tale intervento è l'immunità in azione".

A partire da questa prima formulazione, l'autore sviluppa un parallelo tra Stato e corpo umano che coinvolge l'intero repertorio immunologico - dagli antigeni agli anticorpi, dalla funzione della tolleranza al sistema reticolo-endoteliale - individuando per ciascun elemento biologico il corrispettivo politico. Ma il passaggio più significativo, nella direzione già imboccata da Uexkùll, è forse costituito dal richiamo ai meccanismi di repulsione ed espulsione immunitaria di tipo razziale: L o studente di biologia politica dovrebbe studiare i comportamenti nazionali di massa e i loro risultati come se fossero secrezioni ed escrezioni in atto. L e repulsioni nazionali o internazionali possono dipendere da poco. Po-

" M. ROBERTS, Bio-politics. An Essay in the Physiology, Pathology and Politics of the Social and Somatic Organism, London 1938, p. 153.

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nendo la questione a livello più basso, si sa bene che l'odore di una razza può o f f e n d e r e un'altra razza tanto e più di differenti abitudini e costumi".

Che, nell'anno di inizio della seconda guerra mondiale, il testo di Morley si chiuda con un accostamento tra il rigetto immunitario inglese nei confronti degli Ebrei e una crisi anafilattica del corpo politico è indicativo dell'inclinazione sempre più ripida assunta da questa prima elaborazione biopolitica: una politica costruita direttamente sul bios rischia sempre di sottoporre violentemente il bios alla politica. 3. La seconda ondata di interesse per la tematica biopolitica si registra nella Francia degli anni sessanta. La differenza dalla prima è fin troppo palese, come non poteva non essere in un quadro storico profondamente mutato dalla sconfitta epocale della biocrazia nazista. Non solo rispetto ad essa, ma anche alle teorie organicistiche che ne avevano in qualche modo anticipato motivi ed accenti, la nuova teoria biopolitica appare consapevole della necessità di una riformulazione semantica - anche a costo di indebolire la specificità della categoria a favore di una più addomesticata declinazione neo-umanistica. Il volume che nel '60 apre virtualmente questa nuova stagione di studi con il titolo programmatico La biopolitique. Essai d'interprétation de l'histoire de l'humanité et des civilisations dà l'esatta misura di questo passaggio. Già il doppio riferimento alla storia e all'umanità, come coordinate di un discorso intenzionalmente orientato al bios, esprime la direzione mediana e conciliativa percorsa dal saggio di Aroon Starobinski. Quando egli scrive che «la biopolitica è un tentativo di spiegare la storia della civiltà sulla base delle leggi della vita cellulare e della vita biologica più elementare»'^, infatti, non intende affatto spingere la propria trattazione verso un esito di tipo naturalistico. Al contrario, pur ammettendo il rilievo, a volte anche negativo, che hanno le potenze naturali della vita, l'autore sostiene la possibilità, ed anche la necessità, che la stessa politica incorpori elementi spirituali capaci di governarle in funzione di valori metapolitici: L a biopolitica non nega in alcun modo le forze cieche della violenza e della volontà di potenza, cosi come le forze d'autodistruzione che esistono " Ibid., p. 160. A. STAROBINSKI, La hiopolitìque. Essai d'interprétation de l'histoire de l'humanité et des civilisations, Genève i960, p, 7.

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nell'uomo e nelle civiltà umane. A l contrario essa a f f e r m a la loro esistenza in una maniera tutta particolare, perché tali forze sono le forze elementari della vita. M a la biopolitica nega che queste forze siano fatali e che non possano essere contrastate e dirette dalle forze spirituali - le forze della giustizia, della carità, della verità

Che in questo modo il concetto di biopolitica rischi di assottigliarsi al punto di smarrire la propria identità, rovesciandosi in una forma di tradizionale umanismo, .è reso evidente anche da un secondo testo pubblicato a quattro anni di distanza da un autore destinato a maggior fortuna. Alludo a Introduction à une politique de l'homme di Edgar Morin. In esso i «campi» propriamente «biopolitici della vita e della sopravvivenza», vale a dire quelli della «vita e della morte dell'umanità (minaccia atomica, guerra mondiale), della fame, della salute, della mortalità», vengono inclusi in un insieme più ampio di tipo «antropolitico» che a sua volta rimanda al progetto di una «politica multidimensionale dell'uomo»". Anche in questo caso, anziché stringere sul nesso biologia-politica, l'autore situa la propria prospettiva nel punto di raccordo problematico in cui i motivi infrapolitici della sopravvivenza minima si incrociano produttivamente con quelli sovrapolitici, cioè filosofici, relativi al senso della vita stessa. Il risultato, più che una biopolitica nel senso stretto dell'espressione, è una sorta di «ontopolitica» cui si attribuisce il compito di sottrarre lo sviluppo del genere umano alla sua attuale tendenza economicistica e produttivistica: «Così tutte le strade del vivere e tutte le strade della politica cominciano ad incontrarsi e a compenetrarsi, e annunciano un'ontopolitica, concernente sempre più intimamente e globalmente l'essere dell'uomo»". Benché nel libro successivo, dedicato al paradigma di natura umana, Morin contesti, anche in chiave parzialmente autocritica, la mitologia umanistica che definisce l'uomo in opposizione all'animale, la cultura in opposizione alla natura e l'ordine in opposizione al disordine"^, da tutto ciò non sembra emergere un'idea di biopolitica dotata di una convincente fisionomia. Si tratta di una debolezza teorica, e insieme di un'incertezza semantica, cui non mettono certo fine i due volumi dei «Cahiers » " " "

ibid., p. 9. E. MORIN, Introduction à une politique de l'homme (1965), Paris 1969, p. 1 1 . Ibid., p. 12. Cfr. E, MORIN, Le paradigme perdu: la nature humaine, Paris 1973, p. 22.

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de la biopolitique», pubblicati a Parigi alla fine degli anni '60 dairOrganisation au Service de la Vie. E vero che in essi, in rapporto ai saggi precedenti, è possibile riconoscere un'attenzione più concreta alle reali condizioni di vita della popolazione mondiale, esposta al doppio scacco del neocapitalismo e del socialismo reale - entrambi incapaci di guidare lo sviluppo produttivo in una direzione compatibile con un incremento significativo della qualità della vita. Ed è anche vero che in alcuni di questi testi la critica del modello economico e politico vigente si sostanzia di riferimenti attinenti alla tecnica, all'urbanistica, alla medicina - cioè agli spazi e alle forme materiali dell'essere vivente. Ma neanche in questo caso si può dire che la definizione di biopolitica sfugga ad una genericità categoriale che finisce per ridurne nettamente la portata ermeneutica: «La biopolitica è stata definita come scienza delle condotte degli stati e delle collettività umane, tenuto conto delle leggi e dell'ambiente naturale e dei dati ontologici che reggono la vita e determinano le attività dell'uomo»", senza però che tale definizione comporti né un'indicazione sullo statuto specifico del suo oggetto né una disamina critica dei suoi effetti. Come già le Giornate di studio sulla Biopolitica, tenute a Bordeaux dal 2 al 5 dicembre del '66, anche questi lavori evidenziano più una difficoltà di sottrarre il concetto di biopolitica ad una formulazione di maniera che un reale sforzo di significativa elaborazione concettuale'®. 4. La terza ripresa di studi biopolitici, tuttora in corso, ha avuto luogo nel mondo anglosassone. Il suo esordio formale può essere fissato nel 1973, allorché l'International Politicai Science Association apri ufficialmente un sito di ricerca su biologia e politica. A partire da quella data sono stati organizzati vari convegni internazionali - il primo dei quali a Parigi nel '75 presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Humaines, poi a Bellagio (in Italia), a Varsavia, a Chicago e a New York. Nel 1983 è stata creata l'Association for Politics and the Life Sciences e, due " A, BIRRE, Introduction: si l'Occident s'est trompé de conte?, in «Cahiers de la biopolitique», I, n. I, 1968, p. 3. ^^ Questa prima produzione francese è richiamata anche da A. Cutro in un volume (Michel Foucault, Tecnica e vita. Biopolitica e filosofia del «hios», Napoli 2004) che costituisce un primo, utile, tentativo di sistemazione della biopolitica foucaultiana. Più in generale sulla biopolitica si veda L. BAZZICALUPO, R. ESPOSITO (a cura di), Politica della vita, Roma-Bari 2003 e p. PER'ncARi (a cura di), Biopolitica minore, Roma 2003.

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anni più tardi, la rivista «Politics and Life Sciences», insieme alla collana, di cui sono pubblicati vari volumi, Research in Biopolitics". Ma per individuare la genesi effettiva di questo filone di ricerche bisogna risalire alla metà degli anni sessanta, quando compaiono i primi testi riconducibili al suo lessico. Se è stato Lynton K. Caldwell il primo ad adoperare il termine in questione nell'articolo del 1964 Biopolitìcs: Science, Ethics and Public IPolicy™, le due polarità all'interno delle quali si inscrive il senso generale di questa nuova tematizzazione biopolitica vanno rintracciate nel libro, pubblicato l'anno precedente da James C. Davies, Human Nature in Politics". Non a caso quando, a più di un ventennio di distanza, Roger D. Masters cercherà di sistemarne le tesi in un volume dedicato peraltro a Leo Strauss, finirà per conferirgli un titolo analogo, The Nature of Politics^\ Sono precisamente i due termini che costituiscono l'oggetto, e insieme l'angolo di visuale, di un discorso biopolitico che, dopo la declinazione organicistica degli anni venti e trenta, dopo quella neoumanistica degli anni sessanta in Francia, acquista adesso una marcata cifra naturalistica. Anche a prescindere dalla qualità - in generale piuttosto modesta - di tale produzione, il suo valore sintomatico sta proprio in questo riferimento diretto e insistito alla sfera della natura come parametro privilegiato di determinazione politica. Ciò che ne emerge - non sempre con piena consapevolezza teorica da parte degli autori - è un rilevante spostamento categoriale rispetto alla linea maestra della filosofia politica moderna. Mentre questa assume la natura come il problema da risolvere, o l'ostacolo da sormontare, attraverso la costituzione dell'ordine politico, la biopolitica americana vede in essa la sua medesima condizione di esistenza: non solo l'origine genetica e la materia prima, ma anche l'unico riferimento regolativo. Tutt'altro

" I titoli dei primi volumi, editi da S. A. Peterson e A. Somit (Amsterdam - I.ondon - New York - Oxford - Paris - Shannori - Tokyo) sono: I. Sexual Politics and Politicai Feminism, 1 9 9 1 ; II. lìiopoUtìcs in the Mainstream, III. Human 'Hature and Politics, 1995; IV. Research in Biopolitics, 1996; V. Recent Explorations Bio and Politics, 1997; VI. Sociology and Politics, 1998; VII. Etbnic Conflicts Expkined by Ethnic Nepotism, 1999; V i l i . Evolutionary Approaches in the Behavioral Sciences ; toward a Better iJnderstanding of Human Nature, 2001. L. CALDWELL, Biopolitics:Science, Ethics and Public Policy, in «The Yale Review», n. 54, 1964, pp. 1 - 1 6 . " J. DAVIES, Human Nature in Politics, New York 1963. " R. D. MASTERS, The Nature of Politics, New Haven - London 1989.

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che poterla dominare, o 'formare' ai suoi fini, la politica ne risulta essa stessa 'informata' in una maniera che non lascia spazio ad altre possibilità costruttive. All'origine di tale impostazione si possono individuare due distinte matrici: da un lato l'evoluzionismo darwiniano - o, più precisamente, il socialdarwinismo - dall'altro la ricerca etologica, sviluppata soprattutto in area tedesca fin dagli anni trenta. Per quanto riguarda la prima, il punto di partenza più significativo va cercato in Physics and Volitici di Walter Bagehot, all'interno di un orizzonte che comprende a vario titolo autori come Spencer e Sumner, Ratzel e Gumplowitz. Ma con la precisa avvertenza - sottolineata con forza da Thomas Thorson in un libro pubblicato nel 1970 col titolo programmatico Biopolitics" - che il rilievo della prospettiva biopolitica sta nel passaggio da un paradigma fisico ad uno appunto biologico. Quello che conta, insomma, non è tanto conferire uno statuto di scienza esatta alla politica", quanto, piuttosto, ricondurla al suo ambito naturale - intendendo con questo precisamente il terreno vitale da cui essa di volta in volta emerge e a cui inevitabilmente ritorna. Ciò riguarda innanzitutto la condizione contingente del nostro corpo, che trattiene l'azione umana nei limiti di determinate possibilità anatomiche e fisiologiche. Ma anche la configurazione biologica o addirittura - nel lessico della nascente sociobiologia - il bagaglio genetico del soggetto in questione. Contro la tesi che gli eventi sociali richiedano spiegazioni storiche complesse, essi vengono ricondotti a dinamiche in ultima analisi legate alle esigenze evolutive di una specie, come la nostra, diversa quantitativamente, ma non qualitativamente, da quella animale che la precede e la comprende. In questo modo non soltanto l'atteggiamento prevalentemente aggressivo, come anche quello cooperativo, degli uomini viene riportato a modalità istintive di tipo animale^' ma, in quanto inerente alla nostra natura ferina, la stessa guerra finisce per assumere un carattere di inelutta-

" T. THORSON, Biopolitics, New York 1970. " Si veda in merito D. EASTON, The Relevance of BiopolHics to Politicai Theory, in A. SOMIT (a cura di), Biology and Politics, The Hague 1976, pp. 237-47; ma, ancor prima, w. j. M. MACKENZIE, Politics and Social Science, Baltimore 1967 e H. LASSWELL. The future ofthe Comparative Method, in «Comparative Politics», I, 1968, pp. 3-18. Classici, a questo riguardo, sono i volumi di w. c. ALLEE, Animai Life and Social Growth, Baltimore 1932 e The Social Life ofAnimals, London 1938; si veda anche L. TIGER, Men in Groups, New York 1969 e (con R. Fox) The Imperiai Animai, New York 1 9 7 1 , nonché D. MORRIS, The Human Zoo, New York 1969.

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bilità^'. Tutti i comportamenti politici che si ripetono con una certa frequenza nella storia - dal controllo del territorio alia gerarchia sociale, al dominio sulle donne - si radicano profondamente in una falda preumana cui non soltanto restiamo vincolati, ma che è destinata regolarmente a riaffiorare in superficie. Le società democratiche, in questo quadro interpretativo, non sono in sé impossibili, ma nella forma di parentesi destinate presto a richiudersi - o almeno a lasciare trapelare il fondale scuro da cui contraddittoriamente emergono. Qualsiasi istituzione, o opzione soggettiva, che non si conformi, o almeno adatti, a tale dato - è la conclusione implicita, e spesso anche esplicita, del ragionamento - è destinata al fallimento. La nozione di biopolitica che ne risulta è questa volta sufficientemente chiara. Come si esprime il teorico più accreditato di questa linea interpretativa, si tratta del «termine comunemente usato per descrivere l'approccio di quegli scienziati politici che usano i concetti biologici (specialmente la teoria evoluzionistica darwiniana) e le tecniche di ricerca biologica per studiare, spiegare, predire e talvolta anche prescrivere il comportamento politico»^''. Quello che resta, tuttavia, problematico è l'ultimo punto - vale a dire la relazione tra l'uso analitico-descrittivo e quello propositivo-normativo. Perché una cosa è studiare, spiegare, predire e un'altra prescrivere. Ma è proprio in questo slittamento dal primo al secondo significato - dal piano dell'essere a quello del dover-essere che si concentra la valenza più densamente ideologica dell'intero discorso^®. Il transito semantico è condotto attraverso il doppio versante, di fatto e di valore, del concetto di natura. Esso è usato contemporaneamente come dato e come compito, come presupposto e come risultato, come origine e come fine. Se il comportamento politico è inestricabilmente incastrato nella dimensione del btos e se il bws è ciò che connette l'uomo alla sfera della natura.

Per questa concezione 'naturale' della guerra, cfr. innanzitutto Q. WRIGIIT, A study of War (1942), Chicago 1965 e H, j. MORGENTHAU, Politics among Nations. The Struggale for Power and Peace (1948), New York 1967; ma anche, più recentemente, v. s. E. FALGER, Biopolitics and the Study of International Relations. ImpUcations, Results and Perspectives, in Research in Biopolitics cit., voi. II, pp. 1 1 5 - 3 4 . A. SOMIT and s. A. PETERSON, Biopolitics in the Year 2000, in Research in Biopolitics cit., voi. V i l i , p. 1 8 1 . ' ' Cfr., in questa direzione, c. GALLI. Sul valore politico del concetto di 'natura', in ID., 'Autorità' e 'Natura', Bologna 1988, pp. 57-94 e M. CAMMELLI. Il darwinismo e la teorìa politica-.un problema aperto, in «Filosofia Politica», n. 3, 2000, pp. 489-518.

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ne consegue che l'unica politica possibile sarà quella già inscritta nel nostro codice naturale. Naturalmente non può sfuggire il cortocircuito retorico su cui si regge tutta l'argomentazione: non è pili la teoria a interpretare la realtà, ma la realtà a determinare una teoria a sua volta destinata a confermarla. Il responso è emesso prima ancora di avviare la procedura di analisi: gli uomini non potranno essere altro da ciò che sono sempre stati. Ricondotta al suo fondo naturale, la politica resta presa nella morsa della biologia senza possibilità di replica. La storia umana non è che la ripetizione, talvolta deforme, ma mai realmente difforme, della nostra natura. Il ruolo della scienza - anche e soprattutto politica - è quello di impedire che si apra uno scarto troppo ampio tra la prima e la seconda: in ultima analisi di fare della natura la nostra unica storia. L'enigma della biopolitica appare risolto - ma in una forma che dà per presupposto esattamente ciò che andrebbe ricercato.

2. Politica, natura, storia. I. Da un certo punto di vista è comprensibile che Foucault non abbia mai fatto cenno alle differenti interpretazioni della biopolitica che precedono la propria trattazione - dal momento che il suo straordinario rilievo nasce proprio dalla distanza assunta nei loro confronti. Ciò non vuol dire che non esista almeno un punto di contatto, se non con i loro contenuti positivi, quantomeno con l'esigenza critica da cui essi scaturivano. Che, nel suo complesso, è riconducibile ad una generale insoddisfazione rispetto al modo in cui la modernità ha costruito la relazione tra politica, natura e storia. Solo che, proprio a questo riguardo, l'operazione avviata da Foucault a metà degli anni settanta manifesta una complessità e una radicalità del tutto incomparabili con le teorizzazioni precedenti. La circostanza che dietro, e dentro, la sua specifica prospettiva biopolitica vi sia in primo luogo la genealogia nietzscheana non è ininfluente a questo proposito. Perché proprio da essa gli deriva quella capacità obliqua di smontaggio e di rielaborazione concettuale che conferisce al suo lavoro l'originalità che da tutti gli è riconosciuta. Quando egli, tornando sulla domanda kantiana circa il significato dell'Illuminismo, si richiama al punto di vista dell'attualità, non allude semplicemente al differente modo di vedere le cose che il passato riceve dal presente, ma allo scarto che il punto di vista del presente apre tra il passato e la sua stessa au-

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tointerpretazione. Da questo lato la fine dell'epoca moderna - o almeno il blocco analitico delle sue categorie messo in luce già dalle prime teorizzazioni biopolitiche - non è pensata da Foucault come un punto, o una linea, che interrompa un percorso epocale, ma piuttosto come lo scompaginamento della sua traiettoria prodotto da un diverso tipo di sguardo: se il presente non è quello, o solo quello, che abbiamo fino adesso supposto; se le sue fila iniziano a raccogliersi intorno ad un differente epicentro semantico; se, al suo interno, emerge qualcosa di inedito, oppure di antico, che ne contesta l'immagine di maniera - ebbene ciò vuol dire che anche il passato, da cui comunque esso deriva, non è più necessariamente lo stesso. Che può rivelare un volto, un aspetto, un profilo prima in ombra o magari nascosto da un racconto sovrapposto, e a volte imposto - non necessariamente falso in tutti i suoi passaggi, anzi funzionale alla sua logica prevalente, ma proprio per questo parziale, se non anche di parte. Questo racconto - che comprime o reprime, sia pure con sempre maggiore difficoltà, qualcosa di eterogeneo al proprio linguaggio - è identificato da Foucault nel discorso della sovranità. Nonostante le infinite variazioni e metamorfosi cui è stato sottoposto, nel corso dell'epoca moderna, da parte di coloro che ne hanno fatto di volta in volta uso ai propri fini, esso si è sempre basato sul medesimo schema.figurale^ quello dell'esistenza di due entità distinte ed anche separate - l'insieme degli individui e il potere che a un certo punto entrano in relazione tra loro nelle modalità definite da un terzo elemento, costituito dalla legge. Si può dire che tutte le filosofie moderne, pur nella loro eterogeneità o apparente opposizione, si dispongano all'interno di questa griglia triangolare accentuando ora l'uno ora l'altro dei suoi poli. Che esse affermino l'assolutezza del potere sovrano, secondo il modello hobbesiano, o che, al contrario, insistano sui suoi limiti in linea con la tradizione liberale; che sottraggano, o invece sottopongano, il monarca al rispetto delle leggi da lui stesso promulgate; che sovrappongano, o distinguano, i principi della legalità e della legittimità - ciò che resta comune a tutte queste concezioni è la ratio che comunque le sottende. Che è appunto quella caratterizzata dalla pre"- j esistenza dei soggetti al potere sovrano che essi pongono in essere i e dunque dal diritto che in questo modo mantengono nei suoi con- i fronti. Anche a prescindere dall'ampiezza di tale diritto - che può ^ andare da quello, minimo, della conservazione della vita a quello, massimo, della partecipazione al governo politico - è evidente il

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ruolo di contrappeso che gli viene assegnato nei confronti della decisione sovrana. Il risultato è una sorta di relazione a somma zero: quanto più diritto, tanto meno potere e viceversa. L'intero dibattito filosofico-giuridico moderno si inscrive, con varianti marginali, all'interno di questa alternativa topologica che vede la politica e il diritto, il potere e la legge, la decisione e la norma situati ai poli opposti di una dialettica che ha per oggetto il rapporto tra sudditi e sovrano". Il loro peso rispettivo dipende dalla prevalenza che viene di volta in volta assegnata ai due termini a confronto. Quando, alla fine di questa tradizione, Hans Kelsen e Cari Schmitt sosterranno, l'un contro l'altro armato, rispettivamente normativismo e decisionismo, non faranno che replicare il medesimo contrasto tipologico che già da Bodin, e anzi entro Bodin, sembrava opporre il versante della legge a quello del potere. E alla rottura di questo quadro categoriale che lavora consapevolmente Foucault'". Contrapporre quello che egli stesso definirà una nuova forma di sapere, o meglio un diverso ordine del discorso, a tutte le teorie filosofico-politiche moderne, naturalmente non vuol dire cancellare la figura, o ridurre il ruolo obiettivamente decisivo, del paradigma sovrano, ma riconoscerne il reale meccanismo di funzionamento: che non è quello della regolazione dei rapporti tra i soggetti, o tra essi e il potere, bensì quello del loro assoggettamento a un determinato assetto allo stesso tempo giuridico e politico. Da questo lato il diritto risulterà non altro che lo strumento usato dal sovrano per imporre la propria dominazione e, corrispondentemente, il sovrano sarà tale solo in base al diritto che ne legittima l'operato. In questo modo ciò che appariva sdoppiato in una bipolarità alternativa tra legge e potere, legalità e legittimità, norma ed eccezione ritrova la propria unità in uno stesso regime di senso. Ma questo non è che il primo effetto del ribaltamento di prospettiva operato dall'autore. Che s'incrocia con un altro, relativo ad una linea di divisione non più interna all'apparato categoriale del dispositivo sovrano, bensì immanente al corpo sociale che quello pretendeva di unificare mediante la proceUn'acuta analisi storico-concettuale della sovranità - sia pure da altra prospettiva è quella proposta da B. DE GIOVANNI, Discutere la sovranità, in Politica della vita cit., pp. 51 5 . Ma, nello stesso libro, si veda anche L. ALFIERI, Sovranità, morte e politica, pp. 16-28. Per una ricostruzione analitica del problema si veda A. PANDOLFI, Foucault pensatore politico postmoderno, in ID., Tre studi su Foucault, Napoli 2000, pp. 1 3 1 - 2 4 6 . Sul rapporto tra potere e diritto, rimando a i.. D'AI.ESSANDRO, Potere e pena nella problematica di Michel Foucault, in ID., La verità e le forme giuridiche, Napoli 1994, pp. 141-60.

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dura retorica delle opposizioni polari. E come se Foucault si impegnasse in un doppio lavoro di decostruzione, o di aggiramento, della narrazione moderna che, mentre ricuce un'apparente divaricazione, individua un reale discrimine. E proprio, insomma, la ricomposizione della dualità tra potere e diritto, scavata dal paradigma sovrano, ad aprire la visibilità su un conflitto, ben altrimenti reale, che separa e contrappone gruppi di diversa origine etnica per il predominio su un dato territorio. Al presunto scontro tra sovranità e legge subentra così quello, massimamente reale, tra potenze rivali che si contendono l'uso delle risorse e del comando in ragione di differenti caratteri razziali. Ciò non vuole affatto dire che il meccanismo di legittimazione giuridica venga meno, ma che esso, anziché antecedente e regolativo della lotta in corso, ne costituisce l'esito e lo strumento usato da coloro che di volta in volta ne risultano vincitori: non è il diritto a dirimere la guerra, ma la guerra ad adoperare il diritto per consacrare i rapporti di forza da essa definiti. 2. Già questa individuazione del carattere costitutivo della guerra - non più sfondo o limite, bensì origine e forma della politica - inaugura un orizzonte analitico di cui forse solo oggi possiamo misurare la portata. Ma il richiamo al conflitto delle razze - cui è dedicato il corso di Foucault al Collège de France del 1976 contiene un'altra indicazione che ci riporta direttamente al nostro tema di fondo. Che quel conflitto riguardi popolazioni connotate da un punto di vista etnico rimanda ad un elemento destinato a scardinare in maniera ancora più radicale l'apparato della filosofia politica moderna - vale a dire il bios, la vita assunta nel suo aspetto, al contempo generale e specifico, di fatto biologico. E questo l'oggetto - e insieme il soggetto - del conflitto e dunque della politica che esso mette in forma: M i sembra che uno dei fenomeni fondamentali del x i x secolo sia stata ciò che si potrebbe chiamare la presa in carico della vita da parte del potere. Si tratta, per cosi dire, di una presa di potere sull'uomo in quanto essere vivente, di una sorta di statalizzazione del biologico, o almeno di una tendenza che condurrà verso ciò che si potrebbe chiamare la statalizzazione del biologico".

Questa frase, che apre la lezione del 17 marzo del '76 con una formulazione apparentemente inedita, è in realtà già il punto di " M. L'oucAULT, 'Ilfaut défendre la société', Paris 1997 [trad. it. 'Bisogna difendere la società', a cura di M. Bertani e A. Fontana, Milano 1998, p. 206].

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arrivo di un percorso di pensiero inaugurato da almeno un biennio. Che la prima utilizzazione del termine, nel lessico di Foucault, risalga effettivamente alla conferenza di Rio del 1974, in cui era detto che «per la società capitalistica è il bio-politico a essere importante prima di tutto, il biologico, il somatico, il corporale. Il corpo è una realtà bio-politica; la medicina è una strategia bio-politica»", in fondo non ha molta importanza. Quello che conta è che tutti i suoi testi di quegli anni sembrano convergere in una stretta teorica entro la quale ogni segmento discorsivo viene ad assumere un senso non interamente percepibile se analizzato separatamente o al di fuori della semantica biopolitica. Già in Sorvegliare e punire la crisi del modello classico di sovranità - rappresentata dal declino dei suoi rituali mortiferi - è segnata dall'emergere di un nuovo potere disciplinare rivolto piuttosto alla vita dei soggetti che investe: mentre l'esecuzione capitale per smembramento del condannato ben risponde alla rottura del contratto da parte dell'individuo che si renda colpevole di lesa maestà, a partire da un dato momento anche ogni morte individuale va assunta e interpretata in relazione ad un'esigenza vitale della società nel suo complesso. Ma è nel corso contemporaneo sugli Anormali che il processo di decostruzione del paradigma sovrano - in entrambi i suoi versanti di potere statale e di identità giuridica dei soggetti - tocca il proprio culmine: l'ingresso, e poi la sottile opera di colonizzazione, del sapere medico nell'ambito prima di competenza del diritto determina un vero e proprio passaggio di regime, imperniato non più sull'astrazione dei rapporti giuridici, ma sulla presa in carico della vita nel corpo stesso di coloro che ne sono portatori. Nel momento in cui l'atto criminale non è più addebitabile alla volontà responsabile del soggetto, ma alla sua configurazione psicopatologica, si entra in una zona d'indistinzione tra diritto e medicina al cui fondo si profila una nuova razionalità centrata sulla questione della vita: della sua conservazione, del suo sviluppo, della sua gestione. Naturalmente non bisogna confondere i piani del discorso: tale problematica è stata sempre al centro delle dinamiche sociopolitiche. Ma solo ad un certo punto la sua centralità tocca una simile soglia di consapevolezza. La modernità è il luogo - più che il tempo - di questo tran-

" ID., Crìsìs de un modelo en la medicina?, in Dits et Ecrits, Paris 1994, voi. I l i [trad. it. Crisi della medicina 0 crisi dell' antimedicina?, in Archivio Foucault, IL 1971-1977, a cura di A. Dal Lago, Milano 1997, p. 222].

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sito e di questa svolta. Nel senso che, mentre per un lungo periodo la relazione tra politica e vita si pone in maniera indiretta, mediata da una serie di categorie capaci di filtrarla, o fluidificarla, come una sorta di camera di compensazione, a partire da una certa fase quelle paratie si rompono e la vita entra direttamente nei mec-1 canismi e nei dispositivi del governo degli uomini. Senza ripercorrere adesso le tappe - dal 'potere pastorale', alla ragion di Stato, ai saperi di 'polizia' - che nella genealogia foucaultiana scandiscono questo processo di governamentalizzazione della vita, restiamo al suo esito più evidente: da un lato tutte le \ pratiche politiche messe in atto dai governi, o anche da coloro che , li contrastano, si rivolgono alla vita - ai suoi processi, ai suoi bi- i sogni, alle sue fratture. Dall'altro la vita entra nel gioco del potere non soltanto dal lato delle sue soglie critiche o delle sue eccezioni patologiche, ma in tutta la sua estensione, articolazione, durata. Da questo punto di vista essa eccede da ogni parte le maglie ; giuridiche che tentano di ingabbiarla. Ciò non implica, come già si avvertiva, un qualche arretramento, o restringimento, del campo soggetto alla legge. E piuttosto questa a trasferirsi progressivamente dal piano trascendente dei codici e delle sanzioni, che ri- j guardano essenzialmente i soggetti di volontà, a quello, immanente, delle regole e delle norme indirizzate invece soprattutto ai corpi: «Questi meccanismi di potere [...] sono almeno in parte quelli che si sono occupati, a partire dal xviii secolo, della vita degli uomini, degli uomini come corpi viventi»". E il nucleo stesso del regime biopolitico. Esso, più che come una sottrazione della vita alla pressione su di essa esercitata dal diritto, si presenta piuttosto come una consegna del loro rapporto a una dimensione che insieme li determina e li eccede. In tal senso può essere intesa l'espressione, apparentemente contraddittoria, secondo cui «è la vita, molto più del diritto, che è diventata la posta in gioco delle lotte politiche, anche se queste si formulano attraverso affermazioni di diritto»'\ Ciò che è in questione, in definitiva, non è più la distribuzione del potere o la sua subordinazione alla legge, il tipo di regime o il consenso che riscuote - la dialettica che fino ad una certa stagione abbiamo nominato con i termini di libertà, uguaglianza, democrazia o, al contrario, con quelli di tirannide, impo-

" ID., La volante de savoir, Paris 1976 [trad. it. La volontà di sapere, Milano 1978, pp. 79-80]. '' lbid.,p. 128.

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sizione, dominio: ma qualcosa che la precede perché attiene alla sua 'materia prima'. Dietro le dichiarazioni e i silenzi, le mediazioni e i dissidi, che hanno caratterizzato le dinamiche della modernità, l'analisi di Foucault riscopre nel btos la forza concreta da cui esse si originano e verso cui sono dirette. 3. Rispetto a tale conclusione, la prospettiva di Foucault parrebbe non lontana da quella della biopolitica americana. Certo, anch'egli pone la vita al centro del quadro. E anch'egli, come si è visto, lo fa in polemica con il soggettivismo giuridico e lo storicismo umanistico della filosofia politica moderna. Ma il bws che egli contrappone al discorso del diritto e ai suoi effetti di dominio si configura anch'esso nei termini di una semantica storica, sia pure simmetricamente rovesciata rispetto a quella, legittimante, del potere sovrano. Nulla più della vita - delle linee di sviluppo in cui si inscrive o dei vortici in cui si contrae - è, fin nelle intime fibre, toccata, traversata, modificata dalla storia. Era questa la lezione che Foucault aveva tratto dalla genealogia nietzscheana entro una cornice teoretica che sostituiva alla ricerca dell'origine, o alla prefigurazione del fine, un campo di forze sprigionato dal succedersi degli eventi e dallo scontro dei corpi. Ma che aveva assorbito anche dall'evoluzionismo darwiniano, la cui perdurante attualità non sta nell'aver sostituito alla storia «la grande e vecchia metafora biologica della vita»" ma, al contrario, nell'aver riconosciuto anche nella vita i segni, gli scarti e gli azzardi della storia. Proprio da Darwin, infatti, ci viene la consapevolezza che «la vita evolve, e che l'evoluzione delle specie viventi è determinata, fino a un certo punto, da accidenti che possono essere di natura storica»". E dunque che non ha senso contrapporre, dentro il quadrante della vita, un paradigma naturale ad uno storico, vedere nella natura il guscio solidificato in cui la vita si immobilizza o smarrisce il proprio contenuto storico. Intanto perché, contrariamente al presupposto di fondo della biopolitics anglosassone, non esiste qualcosa come una natura umana definibile e identificabile in quanto tale, indipendentemente dai significati che la cultura, e dunque la storia, nel corso del tempo ha impresso in essa. E poi perché gli stessi saperi che l'hanno tematizzata contengono una precisa conno-

" M. FOUCAULT, Rekishi heno kaiki, in«Paideia», 1 1 , 1972 [trad. it. Ritornare alla storia, in II discorso, la storia, la verità, a cura di M. Bertani, Torino 2001, p. 99]. " ID., Crisi della medicina o crisi dell'antimedicina? cit., p. 209.

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razione storica fuori dalla quale il loro statuto teorico rischia di restare del tutto indeterminato. La stessa biologia è nata, intorno alla fine del xviii secolo, grazie all'apparizione di nuove categorie scientifiche che hanno dato luogo ad un concetto di vita radicalmente differente da quello precedentemente in uso: «A mio avvi- ; so - afferma a questo proposito Foucault - , la nozione di vita non è un concetto scientifico, ma un indicatore epistemologico che con- / sente la classificazione e la differenziazione le cui funzioni hanno ; un effetto sulle discussioni scientifiche, ma non sul loro oggetto»". • E fin troppo evidente il mutamento - ma si potrebbe ben dire il ribaltamento - che tale decostruzione epistemologica imprime alla categoria di biopolitica. Che essa, tutt'altro che schiacciata sul semplice calco naturale, sia sempre storicamente qualificata - secondo una modalità che Foucault definisce con il termine di 'biostoria' - implica un passaggio finora escluso da tutte le sue precedenti interpretazioni. Biopolitica non rimanda soltanto, o prevalentemente, al modo in cui da sempre la politica è presa - limitata, compressa, determinata - dalla vita, ma anche e soprattutto a quello in cui la vita è afferrata, sfidata, penetrata dalla politica: Se possiamo chiamare 'bio-storia' le pressioni attraverso le quali i movimenti della vita ed i processi della storia interferiscono gli uni con gli altri, bisognerà parlare di 'bio-politica' per designare quel che f a entrare la vita ed i suoi meccanismi nel campo dei calcoli espliciti e f a del potere-sapere un agente di trasformazioni della vita u m a n a " .

Già in questa formulazione s'intravede la radicale novità dell'impostazione foucaultiana. Quello che nelle precedenti decli- ! nazioni della biopolitica era presentato come un dato inalterabile j - la natura, o la vita, umana in quanto tale - diventa ora un prò- ' blema. Non un presupposto, ma un 'posto', il prodotto di una serie di cause, di forze, di tensioni che ne risultano esse stesse modificate in un inarrestabile gioco di azioni e reazioni, di spinte e resistenze. Storia e natura, vita e politica, s'intrecciano, si sollecitano, si violentano secondo un ritmo che fa dell'una contemporaneamente la matrice e l'esito provvisorio dell'altra. Ma anche uno sguardo sagittale che ne taglia e destituisce la pretesa pienezza, ogni presunzione di padronanza sull'intero campo del sapere. " ro., De la nature humaine: justice cantre pouvoir (discussione con N. Chomsky e F. Elders a Eindhoven nel novembre 1971), in Dits et Ecrits cit., voi. II, p. 474. Cfr. in merito s. CATUCCI, La 'natura' della natura umana. Note su Michel Foucault, in AA.vv., La natura umana, Roma 2004, pp. 74-85. " ID., La volontà di sapere, cit., p. 126.

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Come la categoria di vita è adoperata da Foucault per fare esplodere dall'interno il discorso moderno della sovranità e dei suoi diritti, così, a sua volta, quella di storia sottrae la vita all'appiattimento naturalistico cui la espone invece la biopolitica americana: « E la storia che disegna questi insiemi [le variazioni genetiche da cui risultano le varie popolazioni], prima di cancellarli; non bisogna cercarvi dei fatti biologici bruti e definitivi che, dal fondo della 'natura', s'imporrebbero alla storia»". E come se il filosofo facesse uso di uno strumento concettuale necessario allo smontaggio di un dato ordine del discorso, per poi disfarsene, o caricarlo di altri significati, nel momento in cui esso stesso tende ad assumere un'uguale attitudine pervasiva. O anche, lo separasse da se stesso ponendosi nel suo scarto in modo da poterlo sottoporre allo stesso effetto di conoscenza che esso consente all'esterno. Da qui il continuo spostamento, il ruotare della prospettiva, lungo margini che, anziché discriminare i concetti, li scompongono e ricompongono in topologie irriducibili ad una logica monolineare. La vita, in quanto tale, non appartiene né all'ordine della natura né a quello della storia - non può essere né semplicemente ontologizzata né interamente storicizzata - ma si inscrive nel margine mobile del loro incrocio e della loro tensione. Lo stesso significato della biopolitica va cercato «in questa duplice posizione della vita, che la mette contemporaneamente all'esterno della storia, come suo limite biologico, ed all'interno della storicità umana, penetrata dalle sue tecniche di sapere e di potere»'*". Ma la complessità della prospettiva di Foucault - del suo 'cantiere biopolitico' - non si ferma qui. Non riguarda solamente la posizione dell'autore, situata precisamente a cavallo di ciò che egli denomina «soglia di modernità biologica»''^ sul limite in cui lo stesso sapere moderno si ripiega su se stesso portandosi in questo modo anche fuori di sé. Bensì anche l'effetto di senso che da quella soglia indecidibile si comunica alla nozione così definita: una volta ricostruita la dialettica tra politica e vita in una forma irriducibile ad ogni sintassi monocausale, qual è la conseguenza che ne deriva per ciascuno dei due termini e per il loro insieme ? Torniamo alla domanda di partenza sul significato ultimo della biopolitica.

" M. FOUCAULT, Bio-histoire et hio-politique, in Dits et Ecrits cit., voi. I l i , p. 97. "" ID., La volontà di sapere dt., p. 1 2 7 . « Ibid.

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Cosa significa, quale esito genera, come si configura un mondo sempre più da essa governato ? Si tratta certamente di un meccanismo, o di un dispositivo, produttivo - dal momento che non lascia inalterata la realtà che investe e coinvolge. Ma produttivo di cosa ? Qual è l'effetto della biopolitica ? A questo punto la risposta dell'autore sembra divaricarsi in direzioni divergenti che chiamano in causa altre due nozioni, fin dall'inizio implicate nel concetto di btos, ma situate agli estremi della sua estensione semantica: quella di soggettivazione e quella di morte. Entrambe - rispetto alla vita - costituiscono più che due possibilità. Sono allo stesso tempo la sua forma e il suo sfondo, la sua origine e la sua destinazione. Ma in ogni caso secondo una divergenza che sembra non ammettere mediazioni: o l'una o l'altra. O la biopolitica produce soggettività o produce morte. O rende soggetto il proprio oggetto o lo oggettiva definitivamente. O è politica della vita o sulla vita. Ancora una volta la categoria di biopolitica si richiude su se stessa senza svelarci il contenuto del proprio enigma.

3. Politica della vita. I. In questa divaricazione interpretativa c'è qualcosa che va al di là di una semplice difficoltà di definizione per toccare la struttura profonda del concetto di biopolitica. E come se esso fosse fin dall'inizio attraversato, e anzi costituito, da uno scarto, da una faglia semantica, che lo taglia e divarica in due elementi reciprocamente non componibili. O componibili solo al prezzo di una certa violenza che sottomette l'uno al dominio dell'altro che condiziona la loro sovrapposizione ad una necessaria 'sottoposizione'. Quasi che i due termini da cui è formato - cioè quelli di vita e di politica - non possano articolarsi che in una modalità che al contempo li giustappone. Più che comporsi, o anche disporsi, lungo una stessa linea di significato, essi paiono opporsi in una lotta sorda la cui posta è per l'uno l'appropriazione e il dominio dell'altro. Da qui quella tensione mai scaricata, quell'effetto di lacerazione da cui la nozione di biopolitica sembra non riuscire a liberarsi perché da essa stessa prodotta nella forma di un'alternativa senza scampo: o la politica è trattenuta da una vita che la inchioda al suo insuperabile limite naturale; o, al contrario, è la vita che resta presa, e preda, di una politica tesa ad imprigionarne la potenza innovativa. Tra le due possibilità una

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falla di significazione, un punto cieco, che rischia di risucchiare nel suo vuoto di senso l'intera categoria. E come se in essa mancasse qualcosa - un segmento intermedio o una giuntura logica capace di sciogliere l'assolutezza di prospettive inconciliabili nella elaborazione di un paradigma più complesso che, senza smarrire la specificità dei suoi elementi, ne colga la connessione interna o ne indichi un orizzonte comune. Prima di tentarne una definizione, va detto che neanche Foucault riesce a sfuggire del tutto a tale stallo. E anzi che, sia pure in un quadro profondamente rinnovato rispetto alle precedenti formulazioni, finisce per riprodurlo nella forma di un'ulteriore 'indecisione': non più relativa all'incidenza, ormai acquisita, del potere sulla vita, ma ai suoi effetti, valutati lungo una linea mobile che, come si diceva, ha a un capo la produzione di nuova soggettività e all'altro la sua radicale distruzione. Che tali possibilità contrastive convivano all'interno dello stesso asse analitico, di cui costituiscono come gli estremi logici, non toglie che la loro diversa accentuazione determini un'oscillazione dell'intero discorso in direzioni opposte sia dal punto di vista interpretativo che da quello stilistico. Tale discrasia è riconoscibile da una serie di smagliature logiche, di piccole incongruenze lessicali o di improvvisi mutamenti tonali su cui qui non è possibile soffermarsi in dettaglio ma che, nel loro insieme, segnalano una strettoia mai superata. O, appunto, una esitazione di fondo tra due vettori di senso dai quali l'autore è parimenti tentato, senza però mai optare decisamente per l'uno a detrimento dell'altro. La spia forse più sintomatica di tale irresoluzione è costituita dalle stesse definizioni della categoria che l'autore di volta in volta mette in campo. Nonostante difformità anche significative, dovute ai differenti contesti in cui appaiono, esse sono perlopiù espresse secondo una modalità indiretta - nella forma di una comparazione rispetto alla quale solamente acquistano significatività e rilievo. Già è così per la formulazione forse più celebre, secondo cui per «millenni l'uomo è rimasto qual era per Aristotele: un animale vivente ed inoltre capace di un'esistenza politica; l'uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente»''^ Ma ancora di più laddove la nozione di biopolitica è ricavata dal contrasto con il paradigma sovrano. Anche in questo caso prevale una modalità

Ibid.

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negativa: biopolitica è anzitutto ciò che non è sovranità. Più che da una luce autonoma, essa è illuminata dal tramonto di qualcosa che la precede, dal suo progressivo ingresso in una zona d'ombra. Proprio qui, tuttavia, nell'articolazione del rapporto tra i due regimi, torna a profilarsi quello sdoppiamento prospettico cui si è fatto cenno poc'anzi, destinato in questo caso a investire sia il piano della ricostruzione storica sia quello della determinazione concettuale. Come si rapportano sovranità e biopolitica? Nel modo della successione cronologica o in quello della sovrapposizione contrastiva? Si è detto che l'una emerge dallo sfondo dell'altra. Ma come va inteso tale sfondo ? Come il ritiro definitivo di una presenza precedente o come l'orizzonte che abbraccia, e trattiene al suo interno, anche la nuova emergenza? E tale emergenza è propriamente nuova, o è già, inavvertitamente, installata nel quadro categoriale che pure viene a modificare ? Anche su questo punto Foucault si astiene dal fornire una risposta definitiva. Continua a oscillare tra le due ipotesi contrapposte senza optare in maniera conclusiva per l'una o per l'altra. O meglio adottandole entrambe con quel caratteristico effetto di sdoppiamento, o di raddoppiamento, ottico che conferisce al suo testo una leggera vertigine da cui il lettore è contemporaneamente sedotto e disorientato. 2. I passi in cui sembra prevalere la discontinuità sono a prima vista univoci. Non soltanto la biopolitica è altro dalla sovranità, ma tra le due passa una cesura netta e irreversibile. Scrive Foucault di quel potere disciplinare che costituisce il primo segmento del dispositivo propriamente biopolitico: «nel xvii-xviii secolo si è prodotto un fenomeno importante: l'apparizione - si dovrebbe dire l'invenzione - di una nuova meccanica di potere che ha delle procedure sue proprie, degli strumenti del tutto nuovi, degli apparati molto diversi; una meccanica di potere che credo sia assolutamente incompatibile con i rapporti di sovranità»"', perché verte innanzitutto sul controllo dei corpi e di ciò che essi fanno, anziché sull'appropriazione della terra e dei suoi prodotti. Da questo lato il contrasto appare frontale e senza sfumature: «Mi sembra che questo tipo di potere si opponga esattamente, punto per punto, alla meccanica di potere che descriveva o cercava di trascrivere la

M. FOUCAULT, 'Bisogna difendere la società' cit., p. 38 (corsivo mio).

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teoria della sovranità»''^ Perciò esso «non può assolutamente più essere trascritto nei termini della sovranità»"'. Cos'è che rende il potere biopolitico del tutto inassimilabile a quello sovrano ? Foucault riassume tale differenza in una formula, giustamente famosa per la sua efficacia sintetica, che compare alla fine della Volontà di sapere: « Si potrebbe dire che al vecchio diritto di /a;' morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte»''^ L'opposizione non potrebbe essere più marcata: mentre nel regime sovrano la vita non è che il residuo, il resto, lasciato essere, risparmiato dal diritto di dare la morte, in quello biopolitico è la vita ad accamparsi al centro di uno scenario di cui la morte costituisce appena il limite esterno o il contorno necessario. E ancora: mentre nel primo caso la vita è guardata dall'angolo di visuale aperto dalla morte, nel secondo la morte acquista rilievo solo nel fascio di luce sprigionato dalla vita. Ma che significa, propriamente, affermare la vita? Fare vivere, anziché limitarsi a lasciare in vita ? Sono note le articolazioni interne del discorso foucaultiano: la distinzione - anche qui definita in termini di successione e insieme di compresenza - tra apparati disciplinari e dispositivi di controllo; le tecniche messe in atto dal potere nei confronti prima dei corpi individuali e poi della popolazione nel suo complesso; i settori - scuola, caserma, ospedale, fabbrica - in cui esse si esercitano e gli ambiti - nascita, malattia, mortalità - che coinvolgono. Ma per cogliere nel suo complesso la semantica affermativa che - almeno in questa prima declinazione del lessico foucaultiano - connota il nuovo regime di potere, bisogna rifarsi alle tre categorie di soggettivazione, immanentixzazione e produzione dalle quali esso è caratterizzato. Collegate tra loro in una medesima direzione di senso, esse sono distintamente riconoscibili nelle tre diramazioni genealogiche entro cui nasce, e poi si sviluppa, il codice biopolitico, vale a dire quelle che Foucault definisce il potere pastorale, le arti di governo e le scienze di polizia. Quanto al primo, esso allude a quella modalità di governo degli uomini che, soprattutto nella tradizione ebraico-cristiana, passa per un rapporto stretto e biunivoco tra pastore e gregge. Di-

•"' Ibìd. (corsivo mio).

Ihid., p. 39 (corsivo mio).

•" M. FOUCAULT, La Volontà di sapere cit., p. 1 2 2 .

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versamente dal modello greco, o da quello latino, ciò che in essa conta non è tanto la legittimità del potere fissata dalla legge, o anche il mantenimento della concordia tra i cittadini, quanto la cura rivolta dal pastore alla salvezza del proprio gregge. La relazione tra di essi è perfettamente biunivoca: come le pecore obbediscono senza esitazione al volere di colui che le guida, così questi è tenuto a badare alla vita di ciascuna di loro, al punto di potere arrivare, quando ciò sia necessario, a mettere in gioco la propria. Ma ciò che ancora di più connota la pratica del potere pastorale è il modo in cui tale risultato è conseguito: che è quello di una direzione capillare, insieme collettiva ed individualizzata, dei corpi e delle anime dei sudditi. Al centro di tale processo è quel dispositivo di lungo periodo costituito dalla pratica della confessione cui l'autore conferisce un rilievo peculiare precisamente perché è il canale attraverso il quale si produce il processo di soggettivazione di ciò che pure resta oggetto del potere". Qui, per la prima volta, si dischiude il significato intrinseco della complessa figura dell'assoggettamento. Lungi dal ridursi a una semplice oggettivazione, essa rimanda piuttosto ad un movimento che condiziona il dominio sull'oggetto alla sua partecipazione soggettiva all'atto della dominazione. Confessandosi - e cioè rimettendosi all'autorità di chi apprende e giudica la sua verità - l'oggetto del potere pastorale si fa soggetto della propria oggettivazione o è oggettivato nella costituzione della sua soggettività. Il medio di questo effetto incrociato è la costruzione dell'individualità. Costringendolo all'esposizione della sua verità soggettiva, controllando le più intime vibrazioni della sua coscienza, il potere individua colui che assoggetta come il proprio oggetto - ma, cosi facendo, lo riconosce come un individuo dotato di una specifica soggettività: «E una forma di potere che trasforma gli individui in soggetti. Vi sono due sensi della parola 'soggetto': soggetto sottomesso all'altro dal controllo e dalla dipendenza, e soggetto reso aderente alla propria identità attraverso la coscienza o la conoscenza di sé. Nei due casi, questa parola suggerisce una forma di potere che soggioga ed assoggetta

Sui processi di soggettivazione cfr, M. FIMIANI, Le vérìtahle amour et le souci comtnun du monde, in F, GROS (a cura di), Foucault. Le coumge de la vérité, Paris 2002, pp. 871 2 7 e Y. MICHAUD, T)es modes desubjectivation aux techniques desoiiFoucault et les identités de notre temps, in «Cités», n. 2, 2000, pp. 1 1 - 3 9 . Fondamentale sui tema resta il Foucault di G . Deleuze, Paris 1986 [trad. it. Foucault, Napoli 2002]. M. FOUCAULT, Le mjet et lepouvoir, in Dits et Ecrits cit., voi. IV, p. 227.

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3. Se la direzione di coscienza dei pastori d'anime apre il movimento di soggettivazione dell'oggetto, la condotta di governo teorizzata, e praticata, nella forma della Ragion di Stato traduce, e determina, il progressivo spostamento del potere dall'esterno all'interno dei confini di ciò su cui si esercita. Mentre ancora il principe machiavelliano conservava una relazione di singolarità e di trascendenza nei confronti del proprio principato, l'arte di governo induce un doppio movimento di immanentizzazione e di pluralizzazione. Da un lato il potere non si rapporta più circolarmente a se stesso - alla conservazione o all'ampliamento dei propri assetti - ma alla vita di coloro che governa, nel senso che il suo fine non è semplicemente quello dell'obbedienza, ma anche del benessere dei governati. Esso, più che dominare dall'alto uomini e territori, aderisce internamente alle loro esigenze, inscrive il proprio operato nei processi che queste determinano, trae la propria forza da quella dei sudditi. Ma per fare ciò, per raccogliere e soddisfare tutte le richieste che gli arrivano dal corpo della popolazione, esso è costretto a moltiplicare le proprie prestazioni per quanti sono gli ambiti cui esse attengono - da quello della difesa a quello dell'economia, a quello della sanità pubblica. Da qui un doppio movimento incrociato: uno, di tipo verticale, che va dall'alto verso il basso ponendo in comunicazione continua la sfera dello Stato con quella della popolazione, delle famiglie, fino ai singoli individui; e un altro, di tipo orizzontale, che mette in rapporto produttivo le pratiche e i linguaggi della vita in una forma che ne amplifica gli orizzonti, ne migliora le prestazioni, ne intensifica i rendimenti. Rispetto all'inflessione prevalentemente negativa del potere sovrano, lo scarto è palese. Se quello si esercitava in termini di sottrazione, di prelievo - di beni, di servizi, di sangue - ai propri sudditi, questo, al contrario, si rivolge alla loro vita non soltanto nel senso della sua difesa, ma anche in quello del suo dispiegamento, del suo potenziamento, della sua massimizzazione. Il primo toglieva, strappava, fino ad annientare. Il secondo rinsalda, aumenta, stimola. Rispetto all'attitudine salvifica del potere pastorale, quello governamentale sposta ancora più decisamente l'attenzione sul piano secolare della salute, della longevità, della ricchezza. Ma perché la genealogia della biopolitica possa manifestarsi in tutta la sua articolazione manca un ultimo passaggio - rappresentato dalla scienza di polizia. Essa non è affatto - come oggi la in-

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tendiamo - una specifica tecnica interna all'apparato dello Stato, ma la modalità produttiva che assume il suo governo in tutti i settori dell'esperienza individuale e collettiva - dalla giustizia alla finanza, al lavoro, alla sanità, al piacere. Prima ancora che evitare mali, la polizia deve produrre beni. Qui il processo di riconversione affermativa dell'antico diritto sovrano di morte tocca il suo apice. Se il significato del termine Politik resta quello, negativo, di difesa dai nemici esterni ed interni, la semantica della Volìzet è eminentemente positiva. Essa è ordinata a favorire la vita in tutto il suo spessore, lungo tutta la sua estensione, attraverso tutte le sue articolazioni. Non soltanto, come è detto nel compendio di Nicolas De Lamare, la polizia si occupa di ciò che è necessario, ma anche di ciò che è opportuno o piacevole: «Insomma, è la vita l'oggetto della polizia: l'indispensabile, l'utile e il superfluo. Che la gente sopravviva, viva e faccia anche di meglio: questo è ciò che la politica deve garantire»"'. Von Justi, nei suoi Elementi di polizia, punta l'obiettivo ancora più avanti: se l'oggetto della polizia è definito anche qui «come la vita in società di individui viventi»'", il suo intendimento più ambizioso è quello di creare un circolo virtuoso tra sviluppo vitale degli individui e potenziamento della forza dello Stato: «La polizia deve garantire la felicità della gente - intendendo per felicità la sopravvivenza, la vita e il suo miglioramento [...]: sviluppare gli elementi costitutivi della vita degli individui in modo che il loro sviluppo rafforzi anche la potenza dello Stato»". Ormai si delinea in tutta la sua pienezza il carattere affermativo che - almeno da questo lato - Foucault sembra assegnare alla biopolitica in contrasto con l'attitudine impositiva del regime sovrano. Al contrario di questo, essa non limita o violenta la vita, ma la espande in maniera proporzionale al suo stesso sviluppo. Più che di due flussi paralleli, bisognerebbe anzi parlare di un unico processo espansivo di cui il potere e la vita costituiscono le due facce contrapposte e complementari. Per potenziare se stesso, il potere è costretto a potenziare, nello stesso tempo, l'oggetto su cui si scarica. Non solo, ma, come si è visto, a renderlo soggetto del

ID., Omnes et singulatim:Toward a Criticism of PoliticaiReason, in Dits etEcrìts cit., voi. IV [traci, it. Omnes et singulati?n, Verso una critica della ragione politica, in Biopolitica e liberalismo, a cura di O. Marzocca, Milano 2001, p. 140]. Ibià., p. 1 4 1 . " Ihià., p. 142.

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proprio assoggettamento. Del resto, se vuole stimolare la loro azione, il potere deve non soltanto presupporre, ma anche produrre, le condizioni di libertà dei soggetti cui si rivolge. Ma - e qui il discorso di Foucault si tende al massimo della propria estensione semantica, fin quasi a battere contro se stesso - se siamo liberi per il potere, lo potremo essere anche contro di esso. Saremo in grado non solo di assecondarlo ed accrescerlo, ma anche di resistergli e contrastarlo. E infatti egli non manca di concludere «che là dove c'è potere c'è resistenza e che tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere»". X Ciò non significa - come subito chiarisce - che la resistenza sia già , da sempre soggiogata al potere cui pare contrapporsi. Piuttosto che ; il potere ha bisogno di un punto di contrasto su cui misurarsi in 1 una dialettica senza esito definitivo. E come se il potere, per rafforzarsi, dovesse continuamente dividersi e lottare contro se stesso. O produrre una sporgenza che lo trascina là dove non era. Questa linea di frattura - o questa sporgenza - è la vita stessa. E essa il luogo - insieme l'oggetto e il soggetto - della resistenza. Nel momento in cui è investita direttamente dal potere, la vita gli rimbalza contro con la stessa forza d'urto che la provoca: C o n t r o questo potere ancora nuovo nel x i x secolo, le forze che resistono si sono appoggiate proprio su quello ch'esso investe - cioè sulla vita e suU'uomo in quanto essere vivente [...] la vita come oggetto politico è stata in un certo qual modo presa alla lettera e capovolta contro il sistema che cominciava a controllarla".

Contemporaneamente interna ed esterna al potere, essa appare riempire l'intero scenario dell'esistenza: anche quando è esposta alla pressione del potere - e anzi mai come in questo caso - , la vita sembra capace di riprendere ciò da cui è presa e di assorbirlo nelle sue pieghe infinite. 4. Politica sulla vita. I. Eppure questa non è tutta, o la sola, risposta di Foucault. Non che essa non abbia una sua coerenza interna - come è testimoniato da una intera linea interpretativa che non solo se ne è fat-

" M. FOUCAULT, La volontà di sapere cit., pp. 84-85.

" Ihid., p. 128.

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ta portatrice, ma l'ha spinta assai al di là delle intenzioni manifeste dell'autore". Tuttavia ciò non elimina, da parte di questi, una impressione d'insufficienza, una riserva di fondo sul suo esito risolutivo. E come se lo stesso Foucault restasse non del tutto soddisfatto della propria ricostruzione storico-concettuale o la ritenesse parziale, inadeguata ad esaurire il problema; e anzi destina- j ta a lasciare inevasa una domanda decisiva: se la vita è più forte del potere che pure l'assedia, se la sua resistenza non si lascia pie- ' gare dalle pressioni di quello, come mai l'esito cui la modernità perviene è la produzione di massa della morte" ? Come si spiega che al culmine della politica della vita si sia generata uria potenza mortifera portata a contraddirne la spinta produttiva ? E questo il paradosso, l'insuperabile pietra d'inciampo, che non soltanto il totalitarismo novecentesco, ma anche il successivo potere nucleare pongono al filosofo in ordine a una declinazione risolutamente affermativa della biopolitica: come è possibile che un potere della vita si eserciti contro la vita stessa ? Perché non si tratta di due processi paralleli - o semplicemente contemporanei. Foucault mette, anzi, l'accento sulla relazione diretta e proporzionale che intercorre tra sviluppo del biopotere e incremento della capacità omicida: mai si sono registrate guerre tanto sanguinose e genocidi tanto estesi quanto negli ultimi due secoli, vale a dire in piena stagione biopolitica. Basti pensare che il massimo sforzo internazionale per l'organizzazione della salute - il cosiddetto piano Beveridge - è stato elaborato nel mezzo di una guerra che ha prodotto cinquanta milioni di morti: «Si potrebbe riassumere in forma di slogan questa coincidenza: andate a farvi massacrare, quanto a noi vi promettiamo una vita lunga e confortevole. L'assicurazione della vita fa tutt'uno con un ordine di morte»'^ Come mai? Perché un potere che funziona assicurando, proteggendo, incrementando la vita, esprime un tale potenziale di morte ? E vero che guerre e distruzioni di massa non sono più effettuate in nome di una politi-

Alludo a M. HARDT e A. NEGRI, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano 2002, pp. 38-54; ma anche al gruppo che fa capo alla rivista francese «Multitudes». Si veda in particolare il numero i , 2000, dedicato appunto a Biopolitiejue et biopouvoir, con interventi di M. Lazzarato, E. Alliez, B. Karsenti, P. Napoli e altri. Va detto che si tratta di una prospettiva teorico-politica in sé interessante, ma debolmente legata a quella di Foucault, cui pure si ispira. " Cfr. in merito v. MARCHETTI, La naissance de la biopolitique, in AA.VV., AU risque de Foucault, Paris 1997, pp. 237-47. " M. •eovcMiì-.r,Latechnologiepolitiquedesindividus, inDitsetEcriticit., voi. IV, p. 815.

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ca di potenza, ma - almeno nelle intenzioni dichiarate di chi le conduce - in quello della sopravvivenza stessa delle popolazioni coinvolte. Ma proprio ciò rafforza la tragica aporia di una morte necessaria alla conservazione della vita, di una vita che si nutre della morte altrui e, infine, come nel caso del nazismo, anche della propria". Siamo ancora una volta di fronte a quell'enigma, a quel terribile non detto, che il 'bio' anteposto a 'politica' trattiene al fondo del suo significato. Perché la biopolitica minaccia continuamente di rovesciarsi in tanatopolitica ? Anche in questo caso la risposta a tale interrogativo sembra custodita nel punto di incrocio problematico tra sovranità e biopolitica. Ma adesso guardato da un angolo di rifrazione che interdice un'interpretazione linearmente contrastiva tra i due tipi di regime. Il passaggio ad una diversa rappresentazione del loro nesso è segnato, nel testo foucaultiano, dal leggero, ma significativo, slittamento semantico tra il verbo «sostituire» - ancora improntato alla discontinuità - e il verbo «completare», allusivo, invece, ad un processo di mutazione progressiva e continuata: «Credo che una delle più massicce trasformazioni del diritto politico nel xix secolo sia consistita, se non esattamente nel sostituire, almeno nel completare il vecchio diritto di sovranità [...] con un altro diritto. Questo altro diritto non cancellerà il primo, ma lo continuerà, lo attraverserà, lo modificherà»'®. Non che Foucault sfumi la distinzione - e anche l'opposizione - tipologica tra i due tipi di potere: che resta quella precedentemente definita. Solo che, anziché disporla lungo un'unica linea di scorrimento, la riconduce ad una logica di compresenza. Da questo punto di vista gli stessi passi prima letti in chiave discontinuista appaiono adesso articolati secondo una differente strategia argomentativa: Indescrivibile e ingiustificabile nei termini della teoria della sovranità, radicalmente eterogeneo, il potere disciplinare avrebbe dovuto normalmente condurre alla scomparsa del grande edificio giuridico della sovranità. M a , in realtà, tale teoria ha continuato non solo ad esistere come ideologia del diritto, se volete, ma anche a organizzare i codici giuridici che l ' E u r o p a del x i x secolo si è data a partire dai codici napoleonici".

" Sul nesso tra politica e morte è recentemente intervenuto M. Revelli con un saggio di forte vigore etico e teorico intitolato La politica perduta, Torino 2003. Ma di lui si veda già Oltre il Novecento, Torino 2001. " M. l'ouCAULT, 'Bisogna difendere la società' cit., p. 207 (corsivo mio). " Ibid., p. 39-

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2. Di tale persistenza Foucault fornisce una prima spiegazione di tipo ideologico-funzionale, nel senso che l'uso della teoria della sovranità - una volta trasferita dal monarca al popolo - avrebbe consentito da un lato un occultamento e dall'altro una giuridicizzazione dei dispositivi di controllo messi in atto dal biopotere: da qui l'istituzione di un doppio livello intrecciato tra una pratica effettiva di tipo biopolitico ed una rappresentazione formale di carattere giuridico. Le filosofie contrattualiste avrebbero, da questo punto di vista, costituito il naturale terreno d'incontro tra il vecchio ordine sovrano e il nuovo apparato governamentale - applicato questa volta non solo alla sfera individuale, ma anche all'ambito della popolazione nel suo complesso. E tuttavia questa ricostruzione, per quanto plausibile sul piano storico, non esaurisce del tutto la questione su quello propriamente teoretico. Come se tra i due modelli - sovrano e biopolitico - passasse una relazione a un tempo più segreta ed intrinseca, irriducibile sia alla categoria di analogia sia a quella di contiguità. Ciò a cui Foucault sembra rimandare è, piuttosto, una compresenza di vettori contrari e sovrapposti in una soglia di indistinzione originaria che fa dell'uno insieme il fondo e la sporgenza, la verità e l'eccesso, dell'altro. E questo incrocio antinomico, questo nodo aporetico, che impedisce di interpretare l'implicazione tra sovranità e biopolitica in una forma monolineare - o nel senso della contemporaneità o in quello della successione. Né l'una né l'altra restituiscono la complessità di un'implicazione assai più contraddittoria in cui tempi diversi si comprimono all'interno di un unico segmento epocale costituito e contemporaneamente alterato dalla loro tensione reciproca. Come il modello sovrano incorpora in sé l'antico potere pastorale - il primo incunabolo genealogico del biopotere - , cosi quello biopolitico porta dentro la lama tagliente di un potere sovrano che al contempo lo attraversa e sopravanza. Se si considera lo Stato nazista, si può dire indifferentemente, come appunto fa Foucault, che sia stato il vecchio potere sovrano ad adoperare a proprio favore il razzismo biologico inizialmente nato contro di esso; oppure, al contrario, che è il nuovo potere biopolitico ad aver fatto uso del diritto sovrano di morte per dar vita al razzismo di Stato. Ora, se si ricorre al primo modello interpretativo, la biopolitica diventa un'articolazione interna della sovranità; se si privilegia il secondo, la sovranità si riduce a maschera formale della biopolitica. L'antinomia emerge ancora più forte in ordine all'equilibrio atomico. Bi-

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sogna guardarlo dal lato della vita che, nonostante tutto, esso è riuscito ad assicurare o della morte totale che non ha smesso di minacciare ? Il potere esercitato all'interno del potere atomico risulta capace di sopprimere la vita. Di conseguenza: di sopprimere se stesso come potere d'assicurare la vita. Di modo che, o tale potere è un potere sovrano che utilizza la bomba atomica, e allora non può più essere bio-potere, cioè potere d'assicurare la vita come esso è diventato a partire dal x i x secolo; o, al contrario, all'altro limite, non avremo più l'eccesso del diritto sovrano sul bio-potere, ma piuttosto l'eccesso del bio-potere sul diritto sovrano'".

Ancora una volta, dopo aver definito i termini di una alternativa ermeneutica tra due tesi contrapposte, Foucault non compie una scelta definitiva tra di esse. Da un lato egli ipotizza qualcosa come un ritorno del paradigma sovrano all'interno dell'orizzonte biopolitico. Si tratterebbe, in questo caso, di un evento letteralmente fantasmatico, nel senso tecnico di una riapparizione del morto - del sovrano destituito e decapitato dalla grande rivoluzione sulla scena della vita. Come se da uno squarcio improvvisamente aperto nel regno dell'immanenza - quello appunto della biopolitica - tornasse a vibrare la spada della trascendenza, l'antico potere sovrano di dare la morte. Dall'altro lato Foucault introduce l'ipotesi contraria: e cioè che sia stata proprio la definitiva scomparsa del paradigma sovrano a liberare una forza vitale talmente densa da traboccare e rovesciarsi contro se stessa. Venuto meno il bilanciamento costituito dall'ordine sovrano, nel suo doppio versante di potere assoluto e di diritti individuali, la vita sarebbe diventata l'unico campo di esercizio di un potere altrettanto sconfinato: L'eccesso del bio-potere sul diritto sovrano appare allorché è tecnicamente e politicamente fornita all'uomo la possibilità non solo di organizzare la vita, ma soprattutto di far proliferare la vita, di fabbricare del vivente, materia vivente ed esseri mostruosi, di produrre - al limite - virus incontrollabili e universalmente distruttori. Ci troviamo allora di fronte ad una formidabile estensione del bio-potere che, a differenza di quanto vi dicevo poco fa a proposito del potere atomico, ha cosi la possibilità di oltrepassare ogni sovranità umana".

3. Siamo forse al punto di massima tensione - ma anche di potenziale frattura interna - del discorso foucaultiano. Al centro re'» ibid., p. 219. " Ibid.

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Sta il rapporto, non soltanto storico, ma concettuale, teoretico, tra sovranità e biopolitica. O, in senso più generale, tra la modernità e ciò che la precede, tra presente e passato. Quel passato è davvero passato o si allunga come un'ombra a lambire il presente fino ad inghiottirlo ? In questa irresoluzione c'è qualcosa di più che un semplice scambio tra un approccio topologico di tipo orizzontale e un altro, epocale, di carattere verticale". O di un alternarsi tra uno sguardo retrospettivo e uno prospettico. C'è una indecisione sul significato di fondo della secolarizzazione. Essa non è stata altro che il canale, il passaggio segreto, attraverso il quale il 'morto' è tornato a riafferrare il 'vivo' ? O, al contrario, è stata proprio l'assoluta scomparsa del morto, la sua morte definitiva e senza resto, a scatenare nel vivo una battaglia letale contro se stesso ? Insomma, e ancora una volta, cos'è, cosa rappresenta, il paradigma sovrano all'interno dell'ordine biopolitico? Un residuo che tarda a consumarsi, una scintilla ancora non del tutto spenta, un'ideologia compensativa o la verità ultima, perché prima e originaria, del suo insediamento, il suo sottosuolo profondo, la sua struttura sottostante ? E quando esso preme con maggiore forza per risalire in superficie o, al contrario, quando sprofonda definitivamente, che la morte risorge nel cuore della vita fino a farlo scoppiare ? A restare sospesa non è qui solo la questione del rapporto della modernità con il suo 'prima', ma anche quella del rapporto con il suo 'dopo'. Cosa è stato il totalitarismo novecentesco rispetto alla società che lo precede ? Un punto limite, uno strappo, un'eccedenza in cui il meccanismo del biopotere si è rotto, è sfuggito di mano, o, al contrario, la sua animale il suo esito naturale? La sua interruzione o il suo compimento ? E, ancora una volta, il problema della relazione con il paradigma sovrano: il nazismo, ma anche il comunismo reale, stanno fuori o dentro di esso ? Ne segnano la fine o il ritorno ? Rivelano la congiunzione più intima, o la disgiunzione definitiva, tra sovranità e biopolitica ? Non sorprenda che la risposta di Foucault si sdoppi in due argomentazioni sostanzialmente confliggenti. Totalitarismo e modernità sono allo stesso tempo continui e discontinui, inassimilabili e indisgiungibili: U n a della numerose ragioni che fanno si che essi [fascismo e stalinismo] siano per noi cosi sconcertanti sta nel f a t t o che, nonostante la loro singola-

" Cfr. M. DONNELLY, Des diven usuges de k notioti de hiopouvoir, in Kk.vvMichelFoucaultphilosophe, Paris 1989, pp. 230-45; ma anche, diversamente, j. RANCIÈRE, Biopolitique ou polìtique?^ in «Multitudes», i, 2000, pp. 88-93.

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rità storica, non sono tuttavia assolutamente originali. Il fascismo e lo stalinismo hanno utilizzato ed esteso dei meccanismi già presenti nella maggior parte delle altre società. Anzi, malgrado la loro follia interna, utilizzano, in larga misura, le idee e le procedure della nostra razionalità politica".

Il motivo per il quale Foucault si vieta una risposta meno antinomica è evidente: se prevalesse la tesi della indistinzione tra sovranità, biopolitica e totalitarismo - l'ipotesi continuista - egli sarebbe costretto ad assumere il genocidio come il paradigma costitutivo, o quantomeno l'esito inevitabile, dell'intera parabola della modernità" - cosa che contrasterebbe con il suo senso, sempre assai teso, delle distinzioni storiche. Se prevalesse, invece, quella della differenza - l'ipotesi discontinuista - la sua concezione del biopotere si troverebbe invalidata ogni volta che il raggio della morte si proietta dentro il cerchio della vita non solo nella prima metà del Novecento, ma anche successivamente. Se il totalitarismo fosse il risultato di ciò che lo precede, il potere avrebbe da sempre chiuso la vita dentro una stretta inesorabile. Se ne fosse la deformazione temporanea e contingente, significherebbe che la vita è alla lunga capace di vincere ogni potere che volesse violentarla. Nel primo caso la biopolitica si risolverebbe in un potere assoluto sulla vita, nel secondo in un potere assoluto della vita. Stretto tra queste due possibilità contrapposte, bloccato nell'aporia che si determina al loro incrocio, l'autore continua a percorrere contemporaneamente entrambe le direzioni. Non taglia il nodo, col risultato di trattenere nell'incompiutezza le sue geniali intuizioni sul nesso tra politica e vita. Evidentemente la difficoltà, l'indecisione, di Foucault va bene al di là di una semplice questione di periodizzazione storica o di articolazione genealogica tra i due paradigmi di sovranità e di biopolitica, per investire la stessa configurazione, logica e semantica, di quest'ultimo concetto. La mia impressione è che tale blocco ermeneutico sia legato alla circostanza che, nonostante la teorizzazione della implicazione reciproca, o proprio per questo, i due termini di vita e politica siano pensati come originariamente distinti e solo successivamente collegati in maniera ancora estrinseca. E che proprio perciò rimangano essi stessi indefiniti nel loro profilo e nella loro qualificazione. Cosa sono, precisamente, per " M. FOUCAULT, Le sujet et te pouvoir cit., p. 224. E l'esito cui coerentemente perviene G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 1995.

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Foucault, 'politica' e 'vita' ? Come vanno intesi e in che modo la loro definizione si riflette sul loro rapporto ? O, al contrario, come il loro rapporto incide sulla loro definizione ? Se si inizia a pensarli separatamente - nella loro assolutezza - diventa poi difficile, e anche contraddittorio, condensarli in un unico concetto. Non solo: ma si rischia di precludersene una comprensione più profonda, relativa appunto al carattere originario ed intrinseco di quella implicazione. Si è talvolta osservato che, prevalentemente assorbito dalla questione del potere, l'autore non ha mai articolato a sufficienza il concetto di politica - al punto di sovrapporre sostanzialmente le espressioni di 'biopotere' e di 'biopolitica'. Ma un'osservazione analoga - di mancata, o insufficiente, elaborazione concettuale - gli si potrebbe muovere anche a proposito dell'altro termine del rapporto, vale a dire quello di vita; che, per quanto descritto analiticamente nelle sue nervature storico-istituzionali, economiche, sociali, produttive, resta, tuttavia, poco problematizzato in ordine al suo statuto epistemologico. Cos'è, nella sua essenza, la vita ? E, prima ancora, la vita ha un'essenza - uno statuto riconoscibile e descrivibile fuori dalla relazione con le altre vite e con ciò che non è vita? Esiste una semplice vita - una vita nuda - o essa risulta fin dall'inizio formata, messa in forma, da qualcosa che la spinge oltre se stessa? Anche da questo lato la categoria di biopolitica sembra richiedere un nuovo orizzonte di senso, una diversa chiave interpretativa capace di collegare le sue due polarità in un nesso al contempo più stretto e più complesso.

Capitolo secondo Il paradigma di immunizzazione

I. Immunità. I. Personalmente ho creduto di rintracciare la chiave interpretativa che sembra sfuggire a Foucault nel paradigma di 'immunizzazione'. Perché? In che senso esso può riempire il vuoto semantico, lo scarto di significato, che ancora nel testo foucaultiano resta aperto tra i due poli costitutivi del concetto di biopolitica ? Intanto cominciamo con l'osservare che la categoria di 'immunità', anche nel suo significato corrente, si inscrive precisamente al loro incrocio - sulla linea di tangenza che collega la sfera della vita a quella del diritto. Se, infatti, in ambito bio-medico essa si riferisce a una condizione di refrattarietà, naturale o indotta, nei confronti di una data malattia da parte di un organismo vivente, in linguaggio giuridico-politico allude a un'esenzione, temporanea o definitiva, di un soggetto rispetto a determinati obblighi, o responsabilità, cui gli altri sono normalmente tenuti. Fin qui, tuttavia, non siamo che al lato più esterno della questione: non sono pochi i termini politici di derivazione, o almeno di assonanza, biologica, come quelli di 'corpo', 'nazione', 'costituzione'. Ma nella nozione di immunizzazione c'è qualcosa di più, e di altro, che ne determina la tipicità anche nei confronti di quella, foucaultiana, di biopolitica. Si tratta del carattere intrinseco che stringe i due elementi da cui quest'ultima è composta. Anziché sovrapposti - o giustapposti - in una forma esterna che sottomette l'uno al dominio dell'altro, nel paradigma immunitario, bios e nómoì, vita e politica risultano i due costituenti di un unico, inscindibile, insieme che assume senso soltanto a partire dal loro rapporto. L'immunità non è solo la relazione che connette la vita al potere, ma il potere di conservazione della vita. Al contrario di quanto presupposto nel concetto di biopolitica - inteso come il risultato dell'incontro che ad un certo momento si determina tra le due componenti - da questo punto di vista non esiste un potere esterno alla vita, così come la vita non si dà mai fuori dei rapporti di potere. Guardata da ta-

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le prospettiva, la politica non è altro che la possibilità, o lo strumento, per trattenere in vita la vita. Ma la categoria di immunizzazione ci consente di fare un ulteriore passo avanti o, forse meglio, laterale, anche in ordine alla divaricazione tra le due declinazioni prevalenti del paradigma di biopolitica - quella affermativa e produttiva e quella negativa e mortifera. Si è visto come esse tendano a costituirsi in una forma reciprocamente alternativa che non prevede punti di contatto: o il potere nega la vita o ne incrementa lo sviluppo; o la violenta e la esclude o la protegge e la riproduce; o l'oggettivizza o la soggettivizza - senza mezzi termini o ponti di passaggio. Ora il vantaggio ermeneutico del modello immunitario sta precisamente nella circostanza che queste due modalità, questi due effetti di senso - positivo e negativo, conservativo e distruttivo - trovano finalmente un'articolazione interna, una giuntura semantica, che le dispone in una relazione causale, sia pure di tipo negativo. Ciò significa che la negazione non è la forma dell'assoggettamento violento che dall'esterno il potere impone alla vita, ma il modo intrinsecamente antinomico in cui la vita si conserva attraverso il potere. Da questo punto di vista può ben dirsi che l'immunizzazione sia una protezione negativa della vita. Essa salva, assicura, conserva l'organismo, individuale o collettivo, cui inerisce - ma non in maniera diretta, immediata, frontale; sottoponendolo, al contrario, ad una condizione che contemporaneamente ne nega, o riduce, la potenza espansiva. Come la pratica medica della vaccinazione nei confronti del corpo individuale, anche l'immunizzazione del corpo politico funziona immettendo al suo interno un frammento della stessa sostanza patogena dalla quale vuole proteggerlo e che, dunque, ne blocca e contraddice lo sviluppo naturale. In questo senso un suo prototipo va sicuramente rintracciato nella filosofia politica di Hobbes: allorché egli non soltanto pone al centro della propria prospettiva il problema della comervatio vitae, ma la condiziona alla subordinazione ad un potere costrittivo ad essa esterno, quale è quello sovrano, il principio immunitario è già virtualmente fondato. Naturalmente non bisogna confondere la genesi oggettiva di una teoria con quella della sua autointerpretazione, che ovviamente è più tarda. Hobbes, e con lui larga parte della filosofia politica moderna, non è pienamente consapevole della specificità - e dunque neanche delle conseguenze controfattuali - del paradigma concettuale che pure di fatto inaugura. Perché la potenza della contrad-

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dizione, implicita nella logica immunitaria, passi dal piano della elaborazione irriflessa a quello della riflessione cosciente, bisogna quantomeno arrivare a Hegel. E noto che egli è il primo ad assumere il negativo non come semplice prezzo - il residuo non voluto, lo scotto necessario - da pagare all'effettuazione del positivo, ma piuttosto come il suo stesso motore, il carburante che ne consente il funzionamento. Naturalmente neanche Hegel adopera il termine, o il concetto, di immunizzazione in senso proprio. La vita cui la dialettica hegeliana si riferisce è quella della realtà e del pensiero nella loro indistinzione costitutiva, più che quella dell'animale-uomo assunto come individuo e come specie - anche se in alcuni dei suoi testi fondamentali la costituzione della soggettività passa per la sfida con una morte anche biologica'. Il primo ad operare con piena consapevolezza tale transito di significato è Nietzsche. Quando egli trasferisce il fuoco dell'analisi dall'anima al corpo o meglio assume l'anima come la forma immunitaria che al contempo protegge e imprigiona il corpo, il paradigma in questione acquisisce la sua specifica pregnanza. Non si tratta solo della metafora della vaccinazione virulenta - che il filosofo impartisce all'uomo comune contaminandolo con la propria follia - ma dell'interpretazione dell'intera civilizzazione in termini di autoconservazione immunitaria. Tutti i dispositivi del sapere e del potere svolgono un ruolo di contenimento protettivo nei confronti di una potenza vitale portata ad espandersi illimitatamente. Quale sia il giudizio doppio, ambivalente - che Nietzsche esprime su tale vicenda epocale, lo vedremo più avanti. Resta il fatto che con la sua opera la categoria di immunizzazione è ormai pienamente elaborata. 2. A partire da quel momento la parte più innovativa della cultura novecentesca comincia a farne implicito uso. Il negativo - ciò che contraddice l'ordine, la norma, il valore - viene assunto non soltanto come un elemento indisponibile della storia umana in tutte le configurazioni singolari o sociali che di volta in volta essa assume, ma come il suo medesimo impulso produttivo. Senza quell'ostacolo - o quella mancanza - la vita dell'individuo e della specie non troverebbe l'energia necessaria al proprio sviluppo, rimarrebbe sopraffatta dalla congerie di impulsi naturali da cui deve invece esonerarsi per potersi aprire alla sfera delle prestazioni ' Sul motivo comunitario in Hegel, cfr. in particolare R. BONITO-OLIVA, moderno e la nuova comunità, Napoli 1999, soprattutto pp. 63 sgg.

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superiori. Già Emile Durkheim, considerando ciò che appare patologico in ambito sociale una polarità non solo ineliminabile, ma anche funzionale, del comportamento normale, si richiama proprio all'immunologia: «Il vaiolo, che inoculiamo col vaccino, è una vera malattia che ci diamo volontariamente e, tuttavia, esso accresce le nostre probabilità di sopravvivere. Ci sono, forse, molti altri casi in cui il turbamento causato dalla malattia è insignificante a confronto delle immunità che conferisce»^. Ma è forse l'antropologia filosofica sviluppata in Germania nella parte centrale del secolo scorso l'orizzonte lessicale in cui la nozione dialettica di compensatio acquista la più esplicita valenza immunitaria. Da Max Scheler a Helmuth Plessner, fino ad Arnold Gehlen, la conditio humana si presenta letteralmente costituita dalla negatività che la separa da se stessa e proprio per questo la pone al di sopra delle altre specie che pure la sopravanzano sul piano dei requisiti naturali. A differenza che in Marx, non soltanto l'estraneazione dell'uomo non può essere reintegrata, ma rappresenta la condizione indispensabile della nostra identità. Cosi colui che già Herder aveva definito un «invalido delle sue forze superiori» può trasformarsi in un «combattente armato delle sue forze inferiori», in un «proteo di surrogati»' in grado di rovesciare in positivo la propria carenza iniziale. Tali sono appunto quelle «trascendenze nell'aldiqua»"* - come Gehlen definisce le istituzioni - destinate a immunizzarci dall'eccesso di soggettività attraverso un meccanismo oggettivo che contemporaneamente ci libera e ci destituisce. Ma per riconoscere la semantica immunitaria nel centro stesso dell'autorappresentazione moderna bisogna arrivare al punto di incrocio tra due linee ermeneutiche assai diverse, eppure convergenti nella medesima direzione. La prima è quella che va da Freud a Norbert Elias lungo un percorso teorico segnato dalla consapevolezza del carattere necessariamente inibitorio della civilizzazione. Quando Elias parla della trasformazione delle eterocostrizioni in autocostrizioni che caratterizza il transito dalla società tardo-antica a quella moderna, non allude semplicemente ad una emargina^ E. DURKHEIM, L(?j règles de la méthode sociologique, Paris 1895 [trad. it. Le regole del metodo sociologico, Firenze 1962, p. 93]. ' H. PLESSNER, Conditìo humana, in Gesammelte Schriften, Frankfurt am Main 19801985 [trad. it. Conditio humana, in I Propilei. Grande storia universale del mondo, Milano 1967, I, p. 72]. A. GEHLEN, Vrmensch und Spatkultur, Wiesbaden 1977 [trad. it. L'uomo delle origini e la tarda cultura, a cura di R. Madera, Milano 1984, pp. 24-25J.

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zione progressiva della violenza, ma piuttosto al suo spostamento nei confini della psiche individuale: cosi, mentre lo scontro fisico è sottoposto ad una regolazione sociale sempre più rigorosa, «nello stesso tempo il campo di battaglia viene in un certo senso introiettato. Una parte delle tensioni e passioni che un tempo venivano risolte nello scontro diretto tra uomo e uomo deve essere ora risolta da ciascuno entro di sé»'. Ciò significa da un lato che il negativo - in questo caso il conflitto - va neutralizzato rispetto ai suoi effetti più dirompenti; dall'altro che l'equilibrio cosi raggiunto è a sua volta segnato da una negazione che lo mina dall'interno. La vita dell'io - divisa tra la potenza pulsionale dell'inconscio e quella inibitrice del Super-io - è il luogo in cui tale dialettica immunitaria si esprime nella sua forma più concentrata. Ma se si sposta lo sguardo al suo esterno, la scena non cambia. E quanto risulta dall'altra linea che, come già si diceva, s'interseca alla prima sia pure con un tasso di criticità assai minore: mi riferisco al tragitto che porta dal funzionalismo di Parsons alla teoria dei sistemi di Luhmann. Che Parsons stesso abbia connesso la propria ricerca al «problema hobbesiano dell'ordine» è, in questo senso, doppiamente indicativo della sua declinazione immunitaria: intanto perché si collega direttamente a colui dal quale la nostra genealogia è partita; e poi per lo slittamento, concettuale e semantico, che mette in atto nei suoi confronti - relativo al superamento dell'alternativa secca tra ordine e conflitto e all'assunzione regolata del conflitto all'interno dell'ordine. Come la società deve integrare dentro di sé quell'individuo che nella sua essenza la nega, cosi l'ordine è il risultato di un conflitto insieme conservato e dominato'. E Niklas Luhmann ad averne tratto le conseguenze più radicali anche sul piano terminologico. Affermare, come appunto egli fa, che «il sistema non si immunizza contro il 'no', bensì con l'aiuto del no-» o che «esso, per ricorrere ad un'antica distinzione, protegge dall'annientamento mediante negazione»', vuol dire andare al cuore della questione - anche a prescindere dalla connotazione apologetica, o quantomeno neutra, in cui l'autore la inquadra. La ' N. ELIAS, Ùber den Prozess der Zivilisation. II. Wandlungen der Gesellschaft. Entwurf zu einer Theorie der Zivilisation, Frankfurt am Main 1969 [trad. it. Potere e civiltà. Per uno studio della genesi sociale della civiltà occidentale, Bologna 1983, p. 315]. ' Per questa lettura di Parson cfr. anche M. BARTOLINI, I limiti della pluralità. Categorie della politica in Talcott Parson, in «Quaderni di teoria sociale», n. 2, 2002, pp. 33-60. ' N. LUHMANN, Soziak SyStente. Grundri/i einer allgetneinen Theorie, Frankfurt am Main 1984 [trad. it. Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Bologna 1990, p, 576].

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tesi che i sistemi funzionino non scartando conflitti e contraddizioni, ma producendoli come antigeni necessari a riattivare i propri anticorpi, colloca l'intero discorso luhmanniano nell'orbita semantica della immunità. Non soltanto Luhmann afferma che «una serie di tendenze storiche indicano un impegno crescente a realizzare, sin dagli esordi dell'epoca moderna e particolarmente dal xvm secolo, un'immunologia sociale», ma individua nel diritto lo specifico «sistema immunitario della società»®. Allorché lo sviluppo interno della scienza immunologica vera e propria - almeno a partire dai lavori di Burnet - offrirà una sponda non soltanto analogica a questo complesso di argomentazioni, il paradigma immunitario verrà a costituire l'epicentro nevralgico tra esperienze intellettuali e tradizioni di pensiero anche assai diverse'. Se scienziati cognitivi come Dan Sperber teorizzano che le dinamiche culturali vanno trattate come fenomeni biologici e dunque risultano assoggettate alle stesse leggi epidemiologiche che regolano gli organismi viventi". Donna Haraway, in dialogo critico con Foucault, arriva a sostenere che oggi «il sistema immunitario è una mappa disegnata per guidare il riconoscimento e il disconoscimento del sé e dell'altro nella dialettica della biopolitica occidentale»". Mentre, a sua volta, Odo Marquard interpreta l'estetizzazione della realtà postmoderna come una forma di anestetizzazione preventiva'^ l'incipiente globalizzazione fornisce un ulteriore campo d'indagine, e anzi lo sfondo conclusivo, al nostro paradigma: come l'ipertrofia comunicativa per via telematica è il segno rovesciato di un'immunizzazione generalizzata, cosi la richiesta di immunizzazione identitaria delle piccole patrie non è che il controeffetto, o la crisi di rigetto allergico, della contaminazione globale".

• Ibid., pp. 578 e 588. ' Si veda in proposito il recentissimo The Age oflmmunology di A, D. Napier, ChicagoLondon 2003. Cfr. soprattutto D. SPERBER, Explaining Culture. A Natumlistic Approach, 1996 [trad. it. Il contagio delle idee. Teorìa naturalistica della cultura, Milano 1999]. " Cfr. D. HARAWAY, The BiopoUtics of Postmodem Bodies : Determinations of Self in Immune System Discourse, in «Differences», I, i , 1989 [trad. it. Biopolitica di corpi postmoderni : la costituzione del sé nel discorso sul sistema immunitario, in Manifesto Cyborg, a cura di R. Braidotti, Milano 1995, p. 137]" Cfr. o. MARQUARD, Aesthetica und Anaesthetica, Paderborn 1989 [trad. it. Estetica e anestetica, a cura di G . Carchia, Bologna 1994]. " Cfr., da ultimo, A. BROSSAT, La démocratie immunitaire, Paris 2003 e R. GASPAROTTI, J miti della globalizzazione. «Guerra preventiva» e logica delle immunità, Bari 2003. Più in generale sulla globalizzazione si vedano i lavori di G . Marramao raccolti adesso in Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino 2003.

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3. L'elemento di novità che io stesso ho proposto al dibattito in quella che mi pare la prima elaborazione sistematica del paradigma immunitario" attiene da un lato alla simmetria contrastiva con il concetto di comunità", esso stesso riletto alla luce del suo significato originario, e dall'altro alla sua specifica caratterizzazione moderna. Le due questioni si mostrano subito strettamente intrecciate. Ricondotta alla propria radice etimologica, Vimmunitas si rivela la forma negativa, o privativa, della communitar. se la communitas è quella relazione che, vincolando i suoi membri ad un impegno di donazione reciproca, ne mette a repentaglio l'identità individuale, Vimmunitas è la condizione di dispensa da tale obbligo e dunque di difesa nei confronti dei suoi effetti espropriativi. Dìspensatio è precisamente ciò che sgrava dal pensum di un obbligo gravoso, cosi come l'esonero libera da qw^lVonus^^ cui è fin dall'origine riconducibile la semantica del munus reciproco. Ora è evidente il punto di incidenza tra questo vettore, etimologico e teoretico, e quello storico o più propriamente genealogico. Si è detto, sul piano generale, che Vimmunitas, proteggendo colui che ne è portatore dal contatto rischioso con coloro che ne sono privi, ripristina i confini del 'proprio' messi a repentaglio dal 'comune'. Ma se l'immunizzazione implica una sostituzione, o contrapposizione, di modelli privatistici o individualistici a una forma di organizzazione di tipo comunitario - qualunque significato si voglia adesso attribuire a tale espressione - è evidente la sua connessione strutturale con i processi di modernizzazione. Naturalmente, istituendo una connessione strutturale tra modernità ed immunizzazione, non intendo sostenere né che quella sia interpretabile unicamente attraverso il paradigma immunitario né che questo sia riducibile soltanto alla stagione moderna. Voglio dire che non nego affatto la produttività euristica di modelli esegetici di uso più consolidato come quelli di 'razionalizzazione' (Weber), di 'secolarizzazione' (Lowith) o di 'legittimazione' (Blumenberg). Ma mi pare che tutti e tre possano trarre vantaggio dalla contaminazione con una categoria esplicativa al contempo più com-

" R. ESPOSITO, ìmmunitas. Protezione e negazione della vita, Torino 2002. " ID., Communitas. Orìgine e destino della comunità, Torino 1998. Si veda adesso anche G. CANTARANO, La comunità impolitica, Troina 2003, " La bipolarità contrastiva BelastungjEntlastung è stata ricliiamata da B. ACCARINO. La ragione insufficiente, Roma 1995, pp. 17-48.

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plessa e più profonda che ne costituisce il presupposto retrostante. Tale eccedenza di senso rispetto ai suddetti modelli è riconducibile a due elementi distinti e collegati. Il primo riguarda la circostanza che mentre quei costrutti di autointerpretazione dell'epoca moderna traggono origine da un nucleo tematico circoscritto - la questione della tecnica nel primo caso, quella del sacro nel secondo e quella del mito nel terzo - o comunque situato su un unico asse di scorrimento, il paradigma di immunizzazione rimanda ad un orizzonte semantico di per sé plurivoco, come è appunto quello del munm. Investendo, questo, una serie di ambiti lessicali di diversa provenienza e destinazione, anche il dispositivo della sua neutralizzazione risulterà fornito di pari articolazione interna, come è del resto attestato dalla plurivalenza che ancora oggi ha conservato il termine di immunità. Ma tale ricchezza orizzontale non esaurisce il potenziale ermeneutico della categoria. Che - ed è il secondo elemento di cui si diceva - va indagato anche dal lato del particolare rapporto che essa intrattiene con il suo antonimo. Si è già visto come il significato più incisivo deW!immunitas si inscriva nel rovescio logico della communitas - immune è il 'non essere' o il 'non avere' nulla in comune. Ma appunto tale implicazione negativa col suo contrario indica che il concetto di immunizzazione presuppone ciò che pure nega. Non soltanto esso appare logicamente derivato, ma anche internamente abitato, dal proprio opposto. Certo, si può sempre osservare che anche i paradigmi di disincanto, secolarizzazione e legittimazione - per restare a quelli prima richiamati - presuppongono in qualche modo la propria alterità: l'incanto, il divino, la trascendenza. Ma la presuppongono appunto come ciò che di volta in volta si consuma, viene meno o quantomeno si tramuta in qualcosa di diverso. Il negativo deWimmunitas, invece, - vale a dire la communitas - non soltanto non scompare dal suo ambito di pertinenza, ma ne costituisce contemporaneamente l'oggetto e il motore. Ciò che va immunizzata, insomma, è la comunità stessa in una forma che insieme la conserva e la nega - o meglio la conserva attraverso la negazione del suo originario orizzonte di senso. Da questo punto di vista si potrebbe arrivare a dire che l'immunizzazione, più che un apparato difensivo sovrapposto alla comunità, sia un suo ingranaggio interno. La piega che in qualche modo la separa da se stessa, mettendola a riparo da un eccesso non sostenibile. Il margine differenziale che vieta alla comunità di coincidere con se medesima assumendo fino in fondo l'intensità se-

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mantica del proprio concetto. Per sopravvivere, la comunità, ogni comunità, è costretta a introiettare la modalità negativa del proprio opposto; anche se tale opposto resta un modo di essere, appunto deprivativo e contrastivo, della comunità stessa". 4. Ma la connessione strutturale tra modernità e immunizzazione ci consente di fare un altro passo avanti anche in merito al 'tempo' della biopolitica. Si è detto che lo stesso Foucault oscilla tra due possibili periodizzazioni - e perciò interpretazioni - del paradigma da lui stesso attivato. Se la biopolitica nasce dalla fine della sovranità - ammesso che questa sia mai davvero finita - vuol dire che la sua storia è prevalentemente moderna e anzi, in un certo senso, addirittura postmoderna. Se invece, come in altri passi Foucault lascia intendere, essa si accompagna al regime sovrano, costituendone una particolare articolazione, o una specifica tonalità, allora essa ha una genesi ben più antica che in ultima analisi coincide con quella della stessa politica, da sempre, in un modo o in un altro, rivolta alla vita. In questo secondo caso perché aprire un nuovo cantiere di riflessione, come pure, opportunamente, Foucault ha fatto ? La semantica dell'immunità può fornire una risposta a questo interrogativo, nella misura in cui inserisce la biopolitica in una griglia storicamente determinata. Fuori dalla quale, di biopolitica si dovrebbe parlare fin dal mondo antico. Quando, infatti, il potere è penetrato più a fondo nella vita biologica se non nella lunga fase in cui il corpo degli schiavi era pienamente disponibile al dominio incontrollato dei loro padroni ed i prigionieri di guerra potevano essere legittimamente passati a fil di spada dal vincitore ? E come non connotare in termini biopolitici il potere di vita e di morte esercitato dal paterfamilias romano nei confronti dei propri figli? Che cosa distingue la politica agraria egiziana, o quella igienico-sanitaria di Roma, dalle procedure di protezione e sviluppo della vita messe in atto dal biopotere moderno ? L'unica risposta che mi pare plausibile fa appunto capo all'intrinseca connotazione immunitaria di queste ultime, assente invece nel mondo antico. Se si passa dal piano storico a quello concettuale, la differenza " Sulle aporie e le potenzialità di questa dialettica (non dialettica) tra immunità e comunità, cfr. l'intelligente saggio che M. Donà ha dedicato alla categoria di immunizzazione in una chiave che la spinge produttivamente verso una diversa logica della negazione, in Sulla Negazione, Milano 2004,

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appare anche più evidente. Si prenda il massimo filosofo dell'antichità, vale a dire Platone. Ebbene, forse in nessun altro, come in lui, è riconoscibile un movimento di pensiero che parrebbe orientato in senso biopolitico. Non soltanto egli assume come normali, e anzi consigliabili, le pratiche eugenetiche adottate a Sparta nei confronti dei bambini fragili, e, più in generale, dei 'non adatti' alla vita pubblica. Ma - quel che ancora più conta - egli sposta l'intervento dell'autorità politica anche a monte del processo riproduttivo, arrivando a raccomandare l'applicazione dei metodi di allevamento per cani ed altri animali domestici anche alla generazione della prole [paidopoita o teknopona) dei cittadini o quantomeno dei guardiani: Occorre, cioè - io dissi - , tenendo fermi i principi convenuti, che si uniscano in nozze i migliori dell'uno e dell'altro sesso quanto più spesso è possibile: raramente, invece, i più scadenti. N o n solo, ma se vogliamo d a v v e r o perfetto il gregge, occorre allevare i figliuoli dei primi, non quelli dei secondi. A d ogni modo, tranne i governanti, nessuno deve accorgersi di queste misure, perché si evitino, quanto più è possibile, discordie intestine nel gregge dei difensori [Rep., 459d-e).

E noto che passi del genere - tutt'altro che rari, sebbene non sempre cosi espliciti - abbiano alimentato una lettura biopolitica di Platone portata alle sue estreme conseguenze dalla propaganda ideologica nazista'®. Senza voler arrivare alle farneticazioni di Bannes" e di Gabler^" sull'accostamento tra Platone e Hitler, basti riferirsi al fortunatissimo Platon ah Huter des Lebens di Hans F. K. Gùnther^' per riconoscere l'esito interessato di una linea ermeneutica che annovera nelle sue fila anche autori del livello di Windelband". Quando Gùnther interpreta Vekloghé platonica in termini di Auslese o di Zucht (da zuchten), cioè di «selezione», in

" Si veda in merito il prezioso saggio s. FORTI. Biopolitica delle anime, in «Filosofia politica», n, 3, 2003, pp. 397-417. " J. BANNES, Hitler und Platon, Berlin-Leipzig 1933; ID., HitlersKampf und Platon Staat, Berlin-Leipzig 1933. A. GABLEK, Platon und Der Fiihrer, Berlin-Leipzig 1934. H. F. K. GUNTHER, Platon als Hiiter des Lebens, Miinchen 1928. Ma di Gùnther si veda, nella stessa direzione, anche Humanitas, Miinchen 1937. Oltre al Platon (1928) di W. Windelhand, i testi citati da Gùnther nella terza edizione (del 1966, pp. g-io) del suo libro su Platone sono i seguenti: A. E. TAYLOR, Plato.the Man and bis work (1927), j. STENZEL, Platon der Erzieher (1928), p. FRIEDLANDER, Platon (1926-30), c. BITTER, Die Kemgedanken derplatoniicben Philosophie (1931), w. JAEGER, Paideia (1934-37), L. ROBIN, Platon (1935), G. KRUGER, Einsiebt und Leidenscbaft:das Wesen des platonischen Denkens (1948), E. HOFFMANN, Platon (1950).

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realtà non si può parlare di un vero e proprio tradimento del testo, ma piuttosto di una sua forzatura in senso biologistico in qualche modo autorizzata, o almeno consentita, dallo stesso Platone (quantomeno nella Repubblica, nel Politico e nelle Leggi, a differenza che nei dialoghi più dichiaratamente dualisti). Non c'è dubbio che se anche il filosofo non specifica in maniera diretta il destino dei bambini 'difettivi' con un espresso riferimento all'infanticidio o all'abbandono, tuttavia dal contesto del suo discorso si evince chiaramente il suo disinteresse nei loro confronti; così come in quelli dei malati incurabili, ai quali non conviene dedicare attenzioni inutili e dispendiose {Rep., 4ioa). Anche se Aristotele tende a sfumare il senso pesantemente eugenetico, e anche tanatopolitico, di questi testi {Poi., II, 4 iiGihz^ sgg.), sta di fatto che Platone si dimostra sensibile all'esigenza di conservare puro il ghénos dei guardiani e in genere dei governanti della pòlis secondo i rigidi costumi spartiati tramandatici da Crizia e Senofonte. Bisogna concludere da ciò l'inerenza di Platone alla semantica biopolitica - e dunque la genesi greca di quest'ultima? Starei attento a rispondere affermativamente a questa domanda. E ciò non soltanto perché la 'selezione' platonica non ha una specifica inflessione etnico-razziale, e neanche, precisamente, sociale, bensì aristocratica ed attitudinale. Ma anche, e soprattutto, perché, anziché andare in direzione immunitaria - rivolta, cioè, alla conservazione dell'individuo - essa è chiaramente^indirizzata in senso comunitario, e cioè tesa al bene del koinón. E quest'esigenza collettiva, pubblica, 'comune' - anziché 'immune' - a trattenere Platone, e in genere l'intera cultura premoderna, al di qua di una prospettiva compiutamente biopolitica. Mario Vegetti ha dimostrato nei suoi importanti studi sulla medicina antica che Platone critica aspramente la dietetica di Erodico di Salimbria e di Dione di Caristo appunto per la sua tendenza privatistica, individualistica, e dunque necessariamente impolitica". Contrariamente al sogno delle biocrazie moderne di medicalizzare la politica, Platone si ferma al progetto di politicizzare la medicina.

" Oltre al recente Quindici lezioni su Platone, di M . Vegetti si veda in particolare Medicina e potere nel mondo antico, in AA.vv., Biopolitiche, in corso di pubblicazione. In ordine a questi problemi, e con un'attenzione implicita al paradigma immunitario, è di recente pubblicazione l'importante saggio G. CARiixo, Katechein. Uno studio sulla democrazia antica, Napoli 2003.

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5. Naturalmente con ciò non intendo dire che prima della modernità non si sia mai posta una questione immunitaria. Sul piano tipologico l'esigenza autoconservativa è ben più antica, e anche più durevole, dell'epoca moderna propriamente detta. Si può anzi plausibilmente sostenere che essa sia coestensiva alla storia intera della civiltà, dal momento che ne costituisce la precondizione ultima, ovvero prima, nel senso che non potrebbe esistere alcuna società senza un apparato difensivo, per quanto primitivo, capace di proteggerla. Quello che, però, cambia è la consapevolezza della domanda e, dunque, l'entità della risposta che da essa si genera. Il fatto che la politica si sia sempre, in qualche modo, preoccupata di difendere la vita non toglie che solo a partire da un certo momento, coincidente appunto con l'origine della modernità, tale necessità autoassicurativa sia stata riconosciuta non più semplicemente come un dato, ma da un lato come un problema e dall'altro come un'opzione strategica. Ciò significa che tutte le civiltà, passate e presenti, hanno posto, e in qualche modo risolto, l'esigenza della propria immunizzazione, ma che solo quella moderna ne è stata costituita nella sua più intima essenza. Si potrebbe arrivare ad affermare che non è stata la modernità a porre la questione dell'autoconservazione della vita, ma questa a porre in essere, e cioè a 'inventare', la modernità come apparato storicocategoriale in grado di risolverla. Quello che intendiamo per modernità, insomma, nel suo complesso e nel suo fondo, potrebbe essere intesa come quel metalinguaggio che per alcuni secoli ha dato espressione a una richiesta che proveniva dai recessi della vita attraverso l'elaborazione di una serie di racconti capaci di risponderle secondo modi di volta in volta più efficaci e sofisticati. Ciò è accaduto allorché sono venute meno le difese naturali che fino ad un certo punto avevano costituito il guscio di protezione simbolica dell'esperienza umana - in primo luogo l'ordine trascendente di matrice teologica. E lo squarcio che ad un tratto, alla fine dei secoli di mezzo, si è aperto in quel primitivo involucro immunitario a determinare l'esigenza di un diverso apparato difensivo di tipo artificiale volto ad assicurare un mondo ormai costitutivamente esposto al rischio. Da qui anche Peter Sloterdijk vede scaturire la doppia e contraddittoria propensione dell'uomo moderno: da un lato proiettato verso un'esteriorità senza ripari preconfezionati; dall'altro, proprio per questo, costretto a compensare tale mancanza con l'elaborazione di nuovi e più potenti

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«baldacchini immunitari» nei confronti di una vita non già denudata, ma consegnata interamente a se stessa^". Se ciò è vero, vuol dire che tutte le grandi categorie politiche della modernità vanno interpretate non nella loro assolutezza, cioè per quello che dichiarano di essere, e neanche, esclusivamente, in base alla loro configurazione storica, ma piuttosto come le forme linguistiche ed istituzionali assunte dalla logica immunitaria per garantire la vita dai rischi derivanti dalla sua configurazione, e conflagrazione, collettiva. Che tale logica si esprima attraverso figure storico-concettuali vuol dire che l'implicazione moderna tra politica e vita è diretta, ma non immediata: per realizzarsi in maniera efficace, essa ha bisogno di una serie di mediazioni costituite appunto da quelle categorie. Perché la vita possa conservarsi, e anche svilupparsi, insomma, essa deve venire ordinata da procedure artificiali in grado di sottrarla ai suoi rischi naturali. Qui passa la doppia linea che distingue la politica moderna, da un lato, da ciò che la precede e, dall'altro, dalla condizione che la segue. Nei confronti della prima, essa ha già una netta attitudine biopolitica, nel senso preciso che assume rilievo esattamente a partire dal problema della conservatio vìtae. Ma a differenza di quanto accadrà in una fase che possiamo per ora chiamare seconda modernità, il rapporto tra politica e vita passa per il problema dell'ordine e delle categorie storico-concettuali - sovranità, proprietà, libertà, potere - in esso innervate. Ciò - questa presupposizione dell'ordine rispetto alla soggettività vivente da cui pure fattualmente scaturisce - determina la conformazione strutturalmente aporetica della filosofia politica moderna. Del resto la circostanza che la sua risposta alla domanda autoconservativa da cui nasce risulti non soltanto deviata, ma, come adesso vedremo, anche autocontraddittoria, è la conseguenza, o l'espressione, di una dialettica già di per sé antinomica come quella immunitaria. Se la protezione della vita cui essa è deputata si determina sempre in maniera negativa, le categorie politiche ordinate ad esprimerla finiranno per rimbalzare sul proprio significato e ritorcersi contro se stesse. E ciò anche a prescindere dai loro specifici contenuti: contraddittoria è ancora prima la pretesa di rispondere ad una immediatezza - la que-

Di P. Sloterdijk vanno tenuti presenti i tre importanti volumi comparsi col titolo Sphàren, Frankfurt am Main 1998-2002, dove l'autore traccia i lineamenti di una vera e propria 'immunologia sociale'. In italiano è stata tradotta parte del secondo volume (G/ohen), con il titolo L'ultima sfera.Breve storia filosofica della globalizzazione, Roma 2002.

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stione della conservatio vitae - con delle mediazioni, quali sono appunto i concetti di sovranità, di proprietà, di libertà. Che tutti, a un certo punto della loro parabola storico-semantica, tendano a ridursi alla sicurezza del soggetto che ne risulta titolare, o beneficiario, non va inteso né come una deriva contingente né come un destino prefissato - ma come la conseguenza della modalità di per sé immunitaria con cui il Moderno pensa la figura del soggetto^'. Colui che più di altri coglie l'essenza del problema è Heidegger. Affermare che la modernità è l'epoca della rappresentazione - del subjectum che si autopone come ens in se substantialiter completum di fronte al proprio oggetto - significa ricondurla filosoficamente ali ' or izzonte dell 'immunizzazione : Per e f f e t t o della nuova concezione della libertà, il rappresentare è un procedimento che, muovendo da sé, procede verso la regione di ciò che deve essere reso sicuro, onde assicurarsene [...] Il subjectum, la certezza fondamentale, è il sempre sicuro esser-rappresentato-assieme dell'uomo rappresentante e dell'ente (umano o non umano) rappresentato, cioè oggettivo^'.

Ma legare il soggetto moderno all'orizzonte dell'assicurazione immunitaria vuol dire riconoscere l'aporia in cui la sua esperienza resta presa: quella di cercare il riparo della vita nelle stesse potenze che ne interdicono lo sviluppo. 2. Sovranità. I. La concezione della sovranità ne costituisce l'espressione più acuta. In rapporto all'analisi aperta da Foucault, essa non va intesa né come una necessaria ideologia compensativa rispetto all'invadenza dei dispositivi di controllo né come una replica fantasmatica dell'antico potere di morte al nuovo regime biopolitico, ma come la prima, e più influente, figura immunitaria che questo assume. Ciò spiega la sua lunghissima durata nel lessico giuridicopolitico europeo: la sovranità non sta né prima né dopo la biopolitica, ma ne taglia l'intero orizzonte fornendo la più potente ri" Questa lettura della modernità è da tempo oggetto di discussione con P. Flores d'Arcais. Si veda almeno il suo rilevante saggio II sovrano e il dissidente. La democrazia presa sul serio, Milano 2004 e il dibattito che ne è scaturito nei nn. 2 e 3 di «MicroMega», 2004. M. HEIDEGGER, Die Zeit des Weltbildes, in Hokwege, in Gesamtausgabe, Frankfurt am Main 1978, voi, V [trad. it. L'epoca dell'immagine del mondo, in Sentieri interrotti, Firenze 1968, p. 95].

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sposta ordinativa al problema moderno dell'autoconservazione della vita. La rilevanza della filosofia di Hobbes, prima ancora che nelle sue dirompenti innovazioni categoriali, sta nella assoluta nettezza con cui è colto questo passaggio. A differenza dalla concezione greca - che nel suo complesso pensa la politica nella distinzione paradigmatica con la dimensione biologica - in Hobbes non soltanto la questione della conservatio vitae rientra a pieno titolo nella sfera della politica, ma ne viene a costituire l'oggetto di gran lunga prevalente. Per potersi qualificare, dispiegare nelle sue forme, la vita deve innanzitutto mantenersi tale, proteggersi dalla dissipazione che la minaccia. Sia la definizione del diritto naturale, di ciò che l'uomo può fare, sia quella della legge naturale, di ciò che l'uomo deve fare, rende conto di questa necessità originaria: «Il diritto di natura [...] è la libertà che ogni uomo ha di usare il suo potere, come egli vuole, per la preservazione della propria natura, vale a dire della propria vita, e per conseguenza, di fare qualunque cosa che, nel suo giudizio e nella sua ragione, egli concepirà essere il mezzo più atto a ciò»^'. Quanto alla legge di natura, essa «è un precetto o regola generale scoperta dalla ragione, che vieta ad un uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita o che gli toglie i mezzi per preservarla, e di omettere ciò con cui egli pensa possa essere meglio preservata»^®. Già questa impostazione del ragionamento lo situa in un'evidente cornice biopolitica. Non a caso l'uomo cui Hobbes rivolge il proprio interesse è caratterizzato essenzialmente dal corpo, dai suoi bisogni, dai suoi impulsi, dalle sue pulsioni. Anche quando ad esso si aggiunge l'aggettivo 'politico', ciò non modifica in senso qualificativo il soggetto cui si riferisce. Rispetto alla classica partizione aristotelica, il corpo considerato sotto il profilo politico resta più vicino all'ambito della zoé che a quello del btos - o, forse meglio, si situa precisamente nel punto in cui tale distinzione sfuma e perde significato. Ad essere in gioco, o più esattamente in costante pericolo di estinzione, è la vita intesa nella sua grana materiale, nella sua immediata intensità fisica. E perciò che ragione e diritto convergono in uno stesso punto definito dall'esigenza pressante della sua conservazione. Ma ciò che mette in moto la macchina argomentativa hobbesiana è la circostanza che né l'una " TU. HOBBES, Leviathan, in The English Works, London 1829-45, voi. I l i [trad. it. Leviatano, Firenze 1976, p. 124]. ìhid.

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né l'altro riescono di per sé a raggiungere tale obiettivo senza un apparato più complesso in condizione di garantirlo. L'iniziale conato autoconservativo {conatus sesepraeservandi) è, infatti, destinato al fallimento dall'effetto combinato con l'altro impulso naturale che accompagna, e appunto contraddice, il primo - vale a dire quello dell'inesauribile desiderio acquisitivo su tutto che condanna gli uomini al conflitto generalizzato. Benché tesa ad autoperpetuarsi, insomma, la vita non è in grado di farlo autonomamente. E anzi sottoposta ad un potente movimento controfattuale che, quanto più spinge in direzione autoconservativa, quanto maggiori mezzi difensivi ed offensivi mobilita a questo fine, tanto più rischia di ottenere l'effetto contrario, vista la sostanziale eguaglianza degli uomini, tutti in grado di uccidere ogni altro e dunque, per lo stesso motivo, tutti soggetti ad essere uccisi: «Perciò, finché dura questo diritto naturale di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere sicurezza per alcuno (per quanto forte o saggio egli sia) di vivere per tutto il tempo che la natura ordinariamente concede agli uoniini di vivere»^'. E qui che scatta il meccanismo immunitario. Se abbandonata alle sue potenze interne, alle sue dinamiche naturali, la vita umana è destinata ad autodistruggersi perché porta dentro di sé qualcosa che la mette ineluttabilmente in contraddizione con se stessa. Perciò, per potersi salvare, ha bisogno di uscire da sé e costituire un punto di trascendenza da cui ricevere ordine e riparo. E in tale scarto, o raddoppiamento, della vita rispetto a se stessa che va collocato il passaggio dalla natura all'artificio. Questo ha il medesimo fine autoconservativo della natura. Ma, per poterlo realizzare, deve strapparsi da questa e perseguirlo attraverso una strategia ad essa contraria. Solamente negandosi, la natura può affermare la propria volontà di vita. La conservazione passa per la sospensione, o l'estraneazione, di ciò che deve conservare. Perciò lo stato politico non può essere visto come la prosecuzione, o il rafforzamento, di quello naturale, ma come il suo rovescio negativo. Il che non vuol dire che la politica riduca la vita alla sua semplice falda biologica - che la spogli di ogni forma qualitativa, come si potrebbe sostenere solo spostando Hobbes in un lessico che non gli appartiene. Non a caso egli non parla mai di «nuda vita». Al contrario, in tutti i suoi testi, la connota in termini che vanno al di là del suo semplice mantenimento. Se nel De cìve argomenta " ibid., p. 1 2 5 .

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che «per salute non si deve intendere soltanto la conservazione della vita a qualsiasi condizione; ma una vita per quanto possibile felice»'", negli Elementi ribadisce che con la sentenza Saluspopuli suprema lex esto «si deve intendere, non la mera conservazione della vita dei cittadini, ma in generale il loro beneficio e bene»'', per poi concludere nel Leviatano che «con sicurezza non si vuol dire qui una nuda preservazione ma anche tutte le altre soddisfazioni della vita {contentments of life, commoda vitae) che ogni uomo acquisirà a se stesso con una industria legittima, senza pericolo o nocumento per lo stato»". Ciò non significa neanche che nella stagione moderna la categoria di vita subentri a quella di politica, con un esito di progressiva spoliticizzazione. Al contrario, una volta stabilita la nuova centralità della vita, proprio alla politica è affidato il compito di salvarla. Ma - ecco il punto decisivo in ordine al paradigma immunitario - attraverso un dispositivo antinomico che passa per l'attivazione del suo contrario. Per essere conservata, la vita deve rinunciare a qualcosa che fa parte integrante, e anzi costituisce il vettore prevalente, della propria potenza espansiva - vale a dire a quella volontà acquisitiva su ogni cosa che la mette a rischio di una ritorsione mortale. E vero, infatti, che ogni organismo vitale ha al proprio interno una sorta di sistema immunitario naturale - la ragione - che lo difende dall'attacco di agenti esterni. Ma, una volta accertata la sua insufficienza, e anzi il suo effetto controproducente, esso va sostituito da un'immunità indotta, vale a dire artificiale, che insieme compie e nega la prima: non solo perché situata fuori dal corpo individuale, ma anche perché deputata al contenimento forzato della sua intensità primigenia. 2. Questo secondo dispositivo immunitario - anzi metaimmunitario, destinato a proteggere da una protezione inefficace e addirittura rischiosa - è appunto la sovranità. Sulla sua istituzione pattizia e sulle sue prerogative si è tanto detto che non è il caso di ritornarvi in maniera analitica. Quello che, dal nostro angolo di visuale, risulta più rilevante è la relazione costitutivamente

TU. HOBBES, De Cive, in Opera Philosophica, London 1839-45, voi. II [trad. it. De Cive, Roma 1979, p. 194]" ID., Elementi ofLaw Naturai and Politics, in The EngUsh Works cit., voi. IV [trad. it. Elementi di legge naturale e politica, Firenze 1968, p. 250]. " ID., Leviatano cit., p. 329.

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aporetica che la lega ai soggetti cui si rivolge. Mai come in questo caso il termine va preso nel suo duplice significato: essi ne sono soggetti nella misura in cui l'hanno volontariamente istituita attraverso un libero contratto. Ma le sono soggetti perché, una volta istituita, non possono resisterle esattamente per lo stesso motivo - perché altrimenti resisterebbero a se stessi. Proprio perché ne sono soggetti, le sono anche assoggettati. Il loro consenso è richiesto una sola volta, dopo la quale non può più essere ritirato. Già qui comincia a profilarsi il carattere costitutivamente negativo dell'immunizzazione sovrana. Essa può essere definita una trascendenza immanente - situata fuori dal controllo di coloro che pure l'hanno prodotta come espressione della propria volontà. Questa è precisamente la struttura contraddittoria che Hobbes assegna al concetto di rappresentazione: il rappresentante - cioè il sovrano - è contemporaneamente identico e diverso rispetto a coloro che rappresenta. Identico perché sta al loro posto, diverso perché quel 'posto' sta fuori dalla loro portata. La stessa antinomia spaziale è riconoscibile sul piano temporale: ciò che i soggetti istituenti dichiarano di aver posto è da loro inafferrabile perché logicamente li precede come il loro medesimo presupposto". Da questo punto di vista, si potrebbe dire che l'immunizzazione del soggetto moderno stia precisamente in questo scambio tra causa ed effetto: egli può presupporsi - autoassicurarsi, nei termini di Heidegger - perché già preso in una presupposizione che lo precede e determina. E la stessa relazione che passa tra potere sovrano e diritti individuali. Come proprio Foucault ha spiegato, i due elementi non vanno visti in un rapporto inversamente proporzionale che condizioni l'allargamento del primo al restringimento del secondo e viceversa. Al contrario essi si implicano a vicenda in una forma che fa dell'uno il rovescio complementare dell'altro: solo individui uguali tra loro possono istituire un sovrano capace di rappresentarli legittimamente. Contemporaneamente, solo un sovrano assoluto può liberare gli individui dalla soggezione ad altri poteri dispotici. Come è stato chiarito dalla storiografia più avveduta'"*, tutt'altro che escludersi o contrapporsi, assolutismo e individua' ' C f r . in merito c. GALLI, Ordine e contingenza. Linee di lettura del 'Leviatano', in AA.vv., Percorsi delia libertà, Bologna 1996, pp. 8 i - i o 6 ; A. BIRAL, Hobbes: la società senza governo, in 11 contratto sociale nella filosofia politica moderna, a cura di G . Duso, Milano 1 9 8 7 , pp. 5 1 - 1 0 8 ; G. DUSO, La logica del potere, Roma-Bari 1999, pp. 55-85. M i riferisco in particolare a R. SCHNUR, Individualismus und Ahsolutismus, Berlin 1963 [trad. it. Individualismo e assolutismo, a cura di E. Castrucci, Milano 1979].

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lismo si implicano in una relazione riconducibile allo stesso processo genetico. Attraverso l'assolutismo gli individui si affermano e si negano nel medesimo tempo: presupponendo la propria presupposizione, essi si destituiscono in quanto soggetti istituenti, dal momento che l'esito di tale istituzione non è altro che ciò che a sua volta li istituisce. Da questo lato, dietro il suo racconto autolegittimante, si rende evidente la reale funzione biopolitica svolta dall'individualismo moderno: esso, presentato come la scoperta e l'effettuazione dell'autonomia del soggetto, è stato in realtà l'ideologema immunitario attraverso il quale la sovranità moderna ha svolto il proprio compito di protezione della vita. Non bisogna perdere nessun passaggio intermedio di tale dialettica. Anche nello stato naturale gli uomini si rapportano tra loro secondo una modalità di tipo individuale - che, come si sa, conduce al conflitto generalizzato. Ma tale conflitto è pur sempre una relazione orizzontale che vincola gli uomini ad una dimensione comune. Ora è esattamente tale comunanza - il pericolo che ne deriva alla vita di tutti e di ciascuno - che va abolita mediante quell'individualizzazione artificiale costituita appunto dal dispositivo sovrano. Anche questa eco va colta nel termine 'assolutismo' - non soltanto l'indipendenza del potere da ogni limite esterno, ma soprattutto l'effetto di scioglimento che esso proietta sugli uomini: la loro trasformazione in individui altrettanto assoluti mediante la sottrazione al munus che li tiene legati in un vincolo comune. La sovranità è il non essere in comune degli individui. La forma politica della loro desocializzazione. 3. Il negativo àtVi'immunitas riempie ormai l'intero quadro: per salvarsi in modo durevole, la vita va resa 'privata' nel doppio senso dell'espressione - privatizzata e deprivata di quella relazione che la espone al suo tratto comune. Ogni rapporto esterno al filo verticale che vincola ciascuno al comando sovrano va tagliato in radice. Questo propriamente vuol dire 'individuo': essere reso indiviso - unito a se stesso - dalla medesima linea che divide da tutti gli altri. Più che dal potere positivo del sovrano, egli risulta protetto dal margine negativo che lo rende se stesso: non altro. Si potrebbe arrivare ad affermare che la sovranità, in ultima analisi, non sia altro che il vuoto artificiale creato intorno ad ogni individuo - il negativo della relazione o la relazione negativa che intercorre tra entità irrelate.

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Ma non soltanto questo. C'è qualcosa d'altro che Hobbes non dice apertamente - limitandosi a lasciarla emergere dalle increspature, o dalle faglie interne, del proprio discorso: si tratta di un resto di violenza non mediabile attraverso il dispositivo immunitario perché da esso stesso prodotto. Da questo punto di vista Foucault coglie un punto importante, non sempre sottolineato con il dovuto rilievo dalla letteratura hobbesiana: Hobbes non è il filosofo del conflitto - come spesso si ripete a proposito della «guerra di tutti contro tutti» - , bensì il filosofo della pace, o meglio della neutralizzazione, dal momento che lo stato politico serve appunto a garantire preventivamente dalla possibilità della lotta intestina". Ma la neutralizzazione del conflitto non comporta affatto la sua eliminazione - piuttosto il suo incorporamento nell'organismo immunizzato come un antigene necessario alla formazione continua di anticorpi. Neanche la protezione assicurata dal sovrano ai sudditi ne è esente. Anzi proprio essa lo manifesta nella forma più stridente. Intanto, in ordine allo strumento adoperato per lenire la paura di morte violenta provata da ciascuno nei confronti dell'altro - che è ancora una paura, più accettabile perché concentrata su un unico obiettivo, ma non per questo diversa in essenza da quella debellata. Anzi, in un certo senso, intensificata dalla condizione asimmetrica in cui viene a trovarsi il suddito nei confronti di un sovrano che conserva quel diritto naturale deposto da tutti gli altri al momento dell'ingresso nello stato civile. Ciò che ne risulta è il nesso necessario tra conservazione della vita e possibilità, sempre presente anche se raramente attivata, di toglierla da parte di colui che pure è tenuto ad assicurarla - il diritto, appunto, di vita e di morte, inteso come la prerogativa sovrana che non può essere contestata perché autorizzata dallo stesso soggetto che la subisce. Dove il paradosso che regge tutta questa logica sta nella circostanza che la dinamica sacrificale è scatenata non dalla distanza, ma, al contrario, dall'identificazione presupposta degli individui con il sovrano che li rappresenta per loro esplicita volontà, cosicché «ogni particolare è autore di tutto ciò che il sovrano fa, e per conseguenza chi si lamenta di un'ingiuria ricevuta dal suo sovrano, si lamenta di ciò di cui è egli stesso autore»"^. E esattamente questa sovrapposizione tra opposti a reimmettere la voce della morte nel discorso della vita: " M. FOUCAULT, 'Bisogna difendere la società' cit., pp. 80 ; " TU. HOBBES, Leviatano cit., p. 1 7 3 .

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Perciò può accadere, e spesso accade negli stati, che un suddito possa essere messo a morte per comando del potere sovrano e che tuttavia nessuno dei due faccia torto all'altro, come quando ]efte fece sacrificare la figlia; in questo e in simili casi, colui che muore cosi aveva la libertà di fare l'azione per la quale è non di meno messo a morte senza ingiuria. La stessa cosa è valida anche per un principe sovrano che mette a morte un suddito innocente".

Quella che qui emerge, con un'asprezza appena contenuta dal carattere di eccezionalità in cui l'evento appare circoscritto, è l'antinomia costitutiva dell'immunizzazione sovrana - fondata, appunto, non solo sul rapporto sempre teso tra eccezione e norma, ma sul carattere normale, perché previsto dallo stesso ordinamento che sembra escluderla, dell'eccezione. Tale eccezione - la coincidenza liminare di conservazione e sacrificabilità della vita - rappresenta il resto non mediabile, ma anche l'antinomia strutturale, su cui si regge la macchina della mediazione immunitaria. Essa è al contempo il residuo di trascendenza non riassorbibile dall'immanenza - la sporgenza del 'politico' rispetto al giuridico con cui pure è identificato - e il motore aporetico della loro dialettica: come se il negativo, trattenuto nella sua funzione immunitaria di protezione della vita, ad un tratto schizzasse fuori dal quadro e la colpisse di ritorno con una violenza incontenibile.

3. Proprietà. I. La stessa dialettica negativa che unisce - separandoli - gli individui alla sovranità investe tutte le categorie politico-giuridiche della modernità come l'esito inevitabile della loro declinazione immunitaria. Ciò vale in primo luogo per quella di 'proprietà'. Si può, anzi, dire che la sua inerenza costitutiva al processo di immunizzazione moderna risulti ancora più accentuata rispetto al concetto di sovranità. E ciò per un duplice motivo. Intanto per l'antitesi originaria che contrappone 'comune' a 'proprio': essendo per definizione 'non comune', il 'proprio' è, in quanto tale, sempre immune. Ma anche perché l'idea di proprietà segna un'intensificazione qualitativa dell'intera logica immunitaria. Mentre, infatti, come si è appena visto, l'immunizzazione sovrana risulta " Ibid.,pp. 208-9.

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trascendente rispetto a coloro da cui pure è posta in essere, quella proprietaria resta ad essi aderente. Di più: interna ai confini dei loro corpi. Si tratta di un processo congiunto di immanentizzazione e di specializzazione: è come se il dispositivo protettivo concentrato nella figura unitaria della sovranità si moltiplicasse per quanti sono i singoli individui installandosi nei loro organismi biologici. Al centro di questo passaggio concettuale c'è l'opera di John Locke. Anche in essa, come in quella hobbesiana, ciò che è in gioco è la conservazione della vita {preservation of himself, desire of selfpreservation), dichiarata fin dall'inizio «il primo e più forte istinto che Dio ha introdotto negli uomini»'®; ma in una forma che la condiziona alla presenza di qualcosa - appunto la res propria che contemporaneamente ne scaturisce e la rinforza: « avendo Dio stesso introdotto in lui, come principio di azione, l'istinto, il forte istinto di conservare la propria vita ed esistenza [...] la proprietà dell'uomo sulle creature era fondata sul diritto ch'egli aveva di servirsi di quelle cose ch'erano necessarie o utili alla sua esistenza»". Il diritto di proprietà è, dunque, la conseguenza, ma anche la precondizione fattuale, della permanenza in vita. I due termini si implicano in una connessione costitutiva che fa dell'uno il presupposto necessario dell'altro: senza una vita cui inerire, non si darebbe proprietà; ma senza qualcosa di proprio, anzi senza prolungarsi essa stessa in proprietà, la vita non sarebbe in grado di sopperire alle proprie esigenze primarie e si spegnerebbe. Non bisogna perdere i passaggi essenziali del ragionamento. Non setnpre la vita è annoverata da Locke tra le proprietà del soggetto. E vero che in generale egli unifica vita, libertà e beni {lives, liberties and estates) nella denominazione di proprietà''", cosicché potrà chiamare «beni civili la vita, la libertà, l'integrità fisica e l'assenza di dolore, e la proprietà di oggetti esterni, come terre, denaro, mobili, ecc. »"". Ma in altri passi la proprietà assume un'accezione più ristretta, cioè limitata ai beni materiali, di cui la vita non fa parte". Come si spiega tale incongruenza? Io credo che, per essere intese nel loro significato meno ovvio, queste due modalità enunciative non " J. LOCKE, Two Treatises of Government, Cambridge 1970 [trad. it. Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, Torino 1982, Vrimo trattato, p. 160]. " Ibid., pp. 158-59. J. LOCKE, Il secondo trattato sul governo, ihid., p. 229. ]. LOCKE, Epistola de Tolerantia, Oxford 1968 [trad. it. Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, Torino 1977, p. 135]" Per es. ]. LOCKE, Il secondo trattato cit., p. 253.

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vadano contrapposte, ma integrate e sovrapposte in un unico effetto di senso: la vita è contemporaneamente interna ed esterna alla proprietà. Le è interna dal punto di vista dell'avere - come parte dei beni che ciascuno ha in dotazione. Ma, oltre che parte, la vita è anche il tutto del soggetto, se la si guarda dal punto di vista dell'essere. In questo caso, anzi, è la proprietà - qualsiasi proprietà - a far parte della vita. Si può dire che l'intera prospettiva di Locke sia definita dal rapporto, e dallo scambio, che di volta in volta si instituisce tra questi due sguardi. Vita e proprietà, essere ed avere, persona e cosa si stringono in una mutua relazione che fa dell'una insieme il contenuto e il contenitore dell'altra. Quando egli dichiara che lo stato naturale è «uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri beni e persone come meglio credono, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di un altro»"", da un lato inscrive la proprietà in una forma di vita espressa nell'azione personale del soggetto agente; dall'altro include logicamente soggetto, azione e libertà nella figura del 'proprio' - che così risulta essere un 'dentro' inclusivo di un 'fuori' che a sua volta lo comprende al suo interno. L'antinomia che ne risulta è riconoscibile nella difficoltà logica di anteporre la proprietà al regime ordinativo che la istituisce. A differenza che in Hobbes (ma anche, diversamente, che in Grozio e Pufendorf)"", infatti, la proprietà lockiana precede la sovranità ordinata a difenderla - è il presupposto, non il risultato, dell'organizzazione sociale. Ma - ecco la domanda da cui l'autore stesso esplicitamente parte - se non è radicata in una forma di relazione interumana, dove la proprietà trova il proprio fondamento all'interno di un mondo che ci è dato in comune ? Come il comune può farsi proprio ed il proprio suddividere il comune ? Qual è l'origine del 'mio', del 'tuo' e del 'suo' in un universo di tutti? E qui che Locke imprime al proprio discorso quella declinazione biopolitica che lo piega in senso intensamente immunitario: Benché la terra e tutte le creature inferiori siano date in comune a tutti gli uomini, tuttavia ogni uomo ha la proprietà della sua propria persona: su

Ibtd., p. 65. Sulla dialettica della proprietà nella filosofia politica moderna ho tratto importanti spunti da v. COSTA, Il progetto giuridico, Milano 1974 e da F. DE SANCTIS, Problemi e figure della filosofia giuridica e politica, Roma 1996. Sul rapporto con la tradizione premoderna resta fondamentale p. GROSSI, Il dominio e le cose, IViilano 1992.

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Capitolo secondo questa nessuno ha diritto alcuno aU'infuori di lui. Il lavoro del suo corpo e l'opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi. Qualunque cosa, allora, egli rimuova dallo stato in cui la natura l'ha prodotta e lasciata, mescola ad essa il proprio lavoro e vi unisce qualcosa che gli è proprio, e con ciò la rende una sua proprietà'".

2. Il ragionamento di Locke si snoda per cerchi concentrici che hanno al centro non un principio giuridico-politico, bensì un riferimento immediatamente biologico. L'esclusione altrui non può essere fondata che sulla catena consequenziale originata dalla clausola metafisica dell'inclusione corporea: la proprietà è implicita nel lavoro che modifica il dato naturale quanto il lavoro è, a sua volta, compreso nel corpo di chi lo esegue. Come il lavoro è un'estensione del corpo, cosi la proprietà è un'estensione del lavoro - una sorta di protesi che, attraverso l'operazione del braccio, la connette al corpo in uno stesso segmento vitale: non solo perché necessaria al sostentamento materiale della vita, ma perché suo prolungamento diretto nella forma della costituzione corporea. Qui c'è un passaggio in più - e anzi uno spostamento di traiettoria rispetto all'autoassicurazione soggettiva individuata da Heidegger nella repraesentatio moderna: il dominio sull'oggetto non è fondato dalla distanza che lo separa dal soggetto, ma dal movimento della sua incorporazione. Il corpo è il luogo primo della proprietà perché è il luogo della proprietà prima, vale a dire di quella che ciascuno ha su se stesso. Se il mondo ci è dato da Dio in comune, il corpo appartiene solamente all'individuo che allo stesso tempo ne è costituito e lo possiede prima di ogni altra appropriazione, vale a dire in forma originaria. E in questo scambio - sdoppiamento e raddoppiamento insieme - tra essere ed avere il proprio corpo che l'individuo lockiano trova il fondamento ontologico e giuridico, onto-giuridico, di ogni successiva appropriazione: possedendo la propria persona corporale, egli è padrone di tutte le sue prestazioni, a partire da quella che, trasformando l'oggetto materiale, se ne appropria per proprietà transitiva. Da quel momento ogni altro individuo perde il diritto su di esso al punto di poter essere legittimamente ucciso in caso di furto: visto che la cosa appropriata tramite il lavoro viene incorporata nel corpo del proprietario, essa fa tutt'uno con la sua stessa vita biologica - che va difesa anche con la soppressione violenta di colui che la minaccia in quella che è diventata una sua parte integrante. j . LOCKE,

Il secondo trattato

cit., p.

97.

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Già qui la logica immunitaria ha afferrato e occupato tutto il quadro argomentativo lockiano: il rischio potenziale di un mondo dato in comune, e perciò esposto ad un'indistinzione illimitata, risulta neutralizzato da un elemento presupposto alla sua stessa manifestazione originaria perché espressivo del rapporto che precede e determina tutti gli altri: quello di ciascuno con se stesso nella forma dell'identità personale. Questa è insieme il nocciolo e il guscio, il contenuto e l'involucro, l'oggetto e il soggetto della protezione immunitaria. Così, come la proprietà risulta protetta dal soggetto che la detiene, questo viene esteso, potenziato e rafforzato da quella nella sua capacità autoconservativa: conservativa di se stesso attraverso il suo proprium e di quel proprium attraverso se stesso, attraverso la sua stessa sostanza soggettiva. Una volta saldata a un puntello solido come l'appartenenza del corpo proprio, la logica proprietaria può espandersi per onde sempre più larghe fino a coprire l'intera estensione dello spazio comune. Questo non è frontalmente negato, ma assunto e ritagliato in una spartizione che lo rovescia nel suo contrario, in una molteplicità di cose che di comune hanno solo il fatto di essere tutte proprie in quanto appropriate dai rispettivi proprietari: Da tutto ciò è evidente che, sebbene le cose della natura siano date in comune, l'uomo (essendo padrone di se stesso e proprietario della propria persona, delle sue azioni e del suo lavoro) aveva già in sé il grande fondamento della proprietà; e ciò che costituiva la maggior parte di quanto egli usò per la sua sussistenza e il suo benessere, una volta che l'invenzione e la tecnica ebbero migliorato i mezzi di sussistenza, era assolutamente suo e non apparteneva in comune ad altri"".

Come si è detto, si tratta di una procedura immunitaria assai più potente di quella hobbesiana perché inerente alla forma - ma si potrebbe dire, alla materia - stessa dell'individualità. L'incremento di funzionalità che ne deriva è, tuttavia, pagato con una corrispondente intensificazione della contraddizione su cui l'intero sistema poggia - non più situata nel punto di raccordo e di tensione tra individui e sovrano, come nel modello hobbesiano, ma nella complessa relazione che passa tra soggettività e proprietà. Quello che è in gioco non è solo una questione di identità o differenza - la divergenza che si apre nella convergenza presupposta tra i due poli - ma anche e soprattutto lo spostamento del loro rapporto di prevalenza. Nei suoi termini generali esso è definibile seIbid., p. 119.

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condo la seguente formulazione: se la cosa appropriata dipende dal soggetto che la possiede al punto di fare tutt'uno con il suo stesso corpo, a sua volta il proprietario è reso tale solo dalla cosa che gli appartiene - e dunque è egli stesso dipendente da essa. Da un lato il soggetto domina la cosa nel senso specifico che la pone in suo dominio. Ma dall'altro, a sua volta, la cosa domina il soggetto nella misura in cui costituisce l'obiettivo necessario della sua tensione acquisitiva. Senza soggetto appropriante, niente cosa appropriata. Ma, senza cosa appropriata, niente soggetto appropriante - dal momento che egli non sussiste all'infuori del rapporto costitutivo con quella. Così, se Locke può sostenere che la proprietà è la continuazione - o l'estensione fuori di sé - dell'identità soggettiva, si potrà prima o poi ribattere che « allorché la proprietà privata s'incorpora nell'uomo stesso e questi è riconosciuto come la sua essenza [... ciò] è, piuttosto, soltanto la conseguente effettuazione del rinnegamento dell'uomo, dacché l'uomo non sta più in una tensione esterna verso l'esistenza esteriore della proprietà privata, bensì è diventato esso stesso questo essere teso della proprietà privata»"": la sua semplice appendice. Ciò che conta è non perdere di vista il tratto di reversibilità che unisce in un unico movimento entrambe le condizioni. E proprio l'indistinzione fra i due termini - così come è fissata originariamente da Locke - a fare dell'uno il dominus dell'altro, e dunque a costituirli nella loro reciproca sudditanza. 3. Il punto di passaggio e di rovesciamento tra le due prospettive - dalla padronanza del soggetto a quella della cosa - è situato nel carattere privato dell'appropriazione'*®. E attraverso di esso che l'atto appropriante diventa nello stesso tempo esclusivo di ogni altro dal beneficio della cosa medesima: la privatezza del possesso fa tutt'uno con la privazione che essa determina in chi non lo condivide con il legittimo proprietario - vale a dire nell'intera comunità dei non-proprietari. Da questo punto di vista - non alternativo, ma speculare al primo - il negativo comincia a prevalere nettamente sul positivo; o meglio, a manifestarsi come la sua verità interna: è 'proprio' ciò che non è comune, che non è di alK. MARX, Oekonomiscb-philosophische Manuskripte ans dem jahre 1844, in K. MarxF. Engels hhtorisch-kritische Gemmtausgabe, Mosca 1 9 3 2 , voi. I, i , 3, [trad. it. Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di G . Della Volpe, Roma i 9 7 i , p p . 219-20], Cfr. in merito p. BARCELI.ONA, L'individualismo proprietario, Torino 1987.

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tri. Intanto, nel senso passivo che ogni appropriazione sottrae a ciascun altro lo jm appropriativo nei confronti della cosa già appropriata in forma di proprietà privata. Ma poi anche in quello, attivo, che l'ampliamento progressivo della proprietà degli uni determina una decrescita progressiva dei beni a disposizione degli altri. Il conflitto interumano, esorcizzato all'interno dell'universo proprietario, è spostato cosi fuori dai suoi confini, nello spazio informe della non-proprietà. E vero che Locke istituisce in linea di principio un doppio limite all'accrescimento della proprietà neirobbligo di lasciare agli altri le cose necessarie alla loro conservazione e nel divieto di appropriarsi di ciò che non è possibile consumare. Ma per poi considerarlo inoperante nel momento in cui i beni diventano commutabili in denaro e dunque infinitamente accumulabili senza tema che vadano perduti"". Da allora la proprietà privata sfonda definitivamente la relazione di proporzionalità che regola il rapporto dell'uno con l'altro. Ma lacera anche quella che unisce il proprietario a se stesso. Ciò accade allorché la proprietà, insieme privata e privativa, comincia ad emanciparsi dal corpo da cui pare dipendere per acquisire la configurazione di puro titolo giuridico. Il medio di questo processo di lungo periodo è costituito dalla rottura del nesso, instaurato da Locke, tra proprietà e lavoro. Come si sa, era proprio esso ad incastrare il proprium nei confini del corpo. Quando tale connessione inizia ad essere considerata non più necessaria - secondo un ragionamento avviato da Hume e perfezionato dall'economia politica moderna - si assisterà a una vera e propria desostanzializzazione della proprietà, teorizzata nella sua forma più compiuta nella distinzione kantiana tra «possesso empirico» {possessio phaenomenon) e «possesso intelligibile» {possessio noumenon), o, come anche viene definito, «possesso senza possessione» (detentio). Allora sarà considerato veramente, cioè definitivamente, proprio soltanto ciò che può stare lontano dal corpo di chi giuridicamente lo possiede: è il non possesso fisico a testimoniare del pieno possesso giuridico. Inizialmente pensata dentro un vincolo indissolubile col corpo che la lavora, la proprietà è ormai definita dalla estraneità alla sua sfera: Io non posso chiamar mio un oggetto situato nello spazio (una cosa corporea), se non quando io possa sostenere che, pur non essendo io in possesso fisico di esso, ne ho un'altra specie di possesso reale (in conseguenza non fi-

"" Su questo passaggio si veda A. CAVARERO, La teoria contrattualistica nei 'Trattati sul governo' di Locke, in II contratto sociale nella filosofia politica moderna cit., pp. 149-90.

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Capitolo secondo sico). C o s ì io non potrò chiamar mia una mela per il f a t t o che io la tengo in mano (la posseggo fisicamente), ma soltanto quando io posso dire: io la posseggo, quantunque non l'abbia collocata a portata della mia mano, ma in un luogo qualsiasi™.

È la distanza la condizione - l'attestato - della durata del possesso per un tempo che va ben al di là della vita personale alla cui conservazione pure era ordinato. Ormai la contraddizione implicita nella logica proprietaria emerge in piena evidenza. Separato dalla cosa che pure possiede in modo inalienabile, l'individuo proprietario resta esposto ad una minaccia di svuotamento ancora pita grave di quella da cui aveva cercato di immunizzarsi attraverso l'acquisizione della proprietà, perché prodotto proprio da essa. Il procedimento appropriativo, rappresentato da Locke come una personificazione della cosa - il suo incorporamento nel corpo proprietario - , si presta ad essere interpretato come reificazione della persona, scorporamelo della sua sostanza soggettiva. È come se, attraverso la teorizzazione dell'incorporazione dell'oggetto, si restaurasse la distanza metafisica della rappresentazione moderna - ma questa volta a detrimento di un soggetto isolato e risucchiato dalla potenza autonoma della cosa. Ordinata a produrre un incremento del soggetto, la logica proprietaria inaugura un percorso di inevitabile desoggettivazione. E la deriva logica, il movimento di autoconfutazione, che afferra tutte le categorie biopolitiche della modernità. Anche in questo caso - in forma diversa, ma con un risultato convergente rispetto a quello dell'immunizzazione sovrana - la procedura immunitaria del paradigma proprietario riesce a conservare la vita solamente chiudendola in un'orbita destinata a prosciugarne il principio vitale. Come era destituito dal potere sovrano che egli stesso istituiva, così, adesso, l'individuo proprietario appare espropriato dalla sua medesima potenza appropriativa.

4. Libertà. I. Il terzo involucro immunitario della modernità è costituito dalla categoria di libertà. Come già per quelle di sovranità e di proI. KANT, Metaphysische Anfangsgriinde der Rechtslehre in Gesammelte Schriften, Berlin 1902-38, voi. VI [traci, it. Principi metafisici della dottrina del diritto, in Scrìtti politici, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Matliieu, Torino 1965, p. 427].

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prietà, e forse in maniera ancora più marcata, la sua vicenda storico-concettuale è espressiva del generale processo di immunizzazione moderna, nel doppio senso che ne riproduce le movenze e ne potenzia la logica interna. Ciò può suonare strano per un termine evidentemente carico di accenti costitutivamente refrattari ad ogni tonalità difensiva - e anzi orientati nel senso di un'apertura senza riserve alla mutevolezza degli eventi. Ma è proprio in rapporto a tale ampiezza di orizzonte - ancora custodita nel suo etimo" - che è possibile misurare il processo di restringimento, e anche di prosciugamento, semantico che ne segna la storia successiva. Sia la radice leuth o leudh - da cui provengono la eleutherìa greca e la libertas latina - sia il radicale sanscrito frya, cui fanno invece capo l'inglese freedom e il tedesco Freiheit, rimandano, infatti, a qualcosa che ha a che fare con una crescita, un dischiudimento, una fioritura, anche nel significato tipicamente vegetale dell'espressione. Se poi si considera la doppia catena semantica che ne discende - vale a dire quella dell'amore {Lieben, lief, love, nonché, diversamente, libet e libido) e quella dell'amicizia [friend, Freund) - si può desumere non solo una conferma di questa primigenia connotazione affermativa, ma anche una peculiare valenza comunitaria: il concetto di libertà, nel suo nucleo germinale, allude a una potenza connettiva che cresce e si sviluppa secondo la propria legge interna, a un'espansione, o a un dispiegamento, che accomuna i suoi membri in una dimensione condivisa. E rispetto a tale inflessione originaria che va interrogata la riconversione negativa che il concetto di libertà subisce nella sua formulazione moderna. E vero, infatti, che fin dall'inizio l'idea di 'libero' implicava logicamente il riferimento contrastivo ad una condizione opposta, quella di schiavo, inteso appunto come 'non libero'". Ma tale negazione costituiva, più che il presupposto, o addirittura il contenuto prevalente, della nozione di libertà, il suo confine esterno: benché ad esso legato da una inevitabile simmetria oppositiva, non era il concetto di schiavo a conferire signi-

" Cfr. D. NESTLE, Ekutheria. Studien zum Wesen der Freiheit bei den Griechen und im Neuen Testament, Tiibingen 1967; E. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris 1969 [trad. it. Ilvocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino 1976, voi. I, pp. 247-56]; R. B. ONIANS, The Origini ofEuropean Thought, Cambridge 1998 [trad. it. Le origini del pensiero europeo, Milano 1998, pp. 271-78]. " Si veda, in proposito, la densa postfazione di P. P. Portinaro alla traduzione del saggio di B. Constant su La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Torino

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ficato a quello di uomo libero, ma il contrario. Sia che si riferisse all'appartenenza ad un determinato popolo, sia che rimandasse all'umanità nel suo complesso, a prevalere, nella qualifica di eleùtheros, era sempre la connotazione positiva, rispetto alla quale il negativo costituiva una sorta di sfondo, o di contorno, privo di un'autonoma risonanza semantica. Come è stato a più riprese messo in luce, questa relazione si rovescia nella stagione moderna, allorché comincia ad assumere sempre più rilievo la libertà cosiddetta 'negativa', o 'libertà da', rispetto a quella definita invece 'positiva', vale a dire 'libertà di'. Ciò che nell'ampia letteratura in argomento è, tuttavia, rimasto in ombra è la circostanza che entrambe le accezioni cosi qualificate - raffrontate al significato iniziale - risultano di fatto interne all'orbita negativa. Se assumiamo la canonica distinzione elaborata da Berlin, infatti, non solo la prima libertà - intesa negativamente come assenza di interferenze - ma anche la seconda, che egli connota in chiave positiva, appare ben lontana dalla caratterizzazione, insieme affermativa e relazionale, fissata all'origine del concetto: «Il senso 'positivo' della parola 'libertà' deriva dal desiderio da parte dell'individuo di essere padrone di se stesso. Voglio che la mia vita e le mie decisioni dipendano da me stesso e non da forze esterne di qualsiasi tipo. Voglio essere strumento dei miei stessi atti di volontà e non di quelli di altri. Voglio essere un soggetto, non un oggetto [...] Voglio essere qualcuno, non nessuno»". Il meno che si possa dire, in ordine a tale definizione, è la manifesta incapacità di pensare affermativamente la libertà nel lessico concettuale moderno dell'individuo, della volontà e del soggetto. E come se ciascuno di questi termini - e ancora più il loro insieme - spingesse irresistibilmente la libertà a ridosso del suo 'non', fino a trascinarla dentro di esso. A qualificare la libertà intesa come padronanza del soggetto individuale su se stesso - è il suo non essere a disposizione, o il suo essere non a disposizione, di altri. Quest'oscillazione, o inclinazione, della libertà moderna verso il negativo rende ragione di un'osservazione di Heidegger, secondo la quale «non solamente le concezioni singolari della libertà positiva sono diverse e plurivoche, ma ancora il concetto della libertà positiva è in generale indeterminato, e ciò soprattutto se intendiamo adesso per libertà positiva la libertà non negativa {nicht " I. BERLIN, Two Concepii of Liberty, in Four Essays on Liberty, Oxford 1969 [trad. it. Due concetti di libertà, Milano 2000, p. 24, corsivo mio].

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negative)»^\ Il motivo di tale scambio lessicale - che fa del positivo, anziché un affermativo, semplicemente un non negativo - va cercato nella rottura, implicita nel paradigma individualistico, del nesso costitutivo tra libertà e alterità (o alterazione). E essa che chiude la libertà nella relazione del soggetto con se stesso: egli è libero quando nessun ostacolo si frappone tra sé e la propria volontà - o, anche, tra la volontà e la sua realizzazione. Allorché Tommaso traduce la proairesis aristotelica con electio (e la boùlesh con voluntas), il passaggio paradigmatico è in larga parte operato: la libertà diverrà rapidamente capacità di attuare ciò che è presupposto nella possibilità del soggetto di essere se stesso - di non essere altro che sé. Libero arbitrio come autoinstaurazione di una soggettività assolutamente padrona della propria volontà. Da questo angolo di visuale viene in piena luce il rapporto storico-concettuale che lega tale concezione della libertà alle altre categorie politiche della modernità - da quella di sovranità a quella di uguaglianza. Da un lato solo dei soggetti liberi possono essere eguagliati da un sovrano che legittimamente li rappresenti. Dall'altro tali soggetti sono essi stessi concepiti come ugualmente sovrani all'interno della propria individualità - tenuti ad obbedire al sovrano perché liberi di comandare a se stessi e viceversa. 2. Non può sfuggire l'esito - ma si potrebbe anche dire, il presupposto - immunitario di tale svolta. Nel momento in cui la libertà viene intesa non pili come un modo di essere, ma come un diritto ad avere qualcosa di proprio - appunto il pieno dominio su se stessi in rapporto agli altri - già si profila quell'accezione privativa, o appunto negativa, destinata a caratterizzarla in maniera sempre più esclusiva. Allorché questo processo entropico si coniuga con le strategie autoconservative della società moderna, il ribaltamento e lo svuotamento dell'antica libertà comune nel suo opposto immune saranno completi. Se il segmento mediano di questo passaggio è costituito dall'invenzione dell'individuo - e dunque dalla cornice sovrana in cui esso è inscritto - il suo linguaggio di gran lunga prevalente è quello della protezione. Da questo punto di vista bisogna stare attenti a non travisare il reale senso della battaglia contro le immunitates individuali o collettive condotta dalla modernità nel suo complesso: che non è quello della riduzione, ma M. HEIDEGGER, Vom Wesen der memchlìchen Vreiheit. Einleitung in die Philosophie, in Gesdmtausgahe cit., voi. X X X I , 1982, p. 20.

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della intensificazione e generalizzazione, del paradigma immunitario. Pur senza perdere la sua tipica plurivocità lessicale, esso trasferisce progressivamente il proprio baricentro semantico dal significato di 'privilegio' a quello di 'sicurezza'. A differenza delle antiche libertates, conferite discrezionalmente a una serie di entità particolari - ceti, città, corpi, conventi - la libertà moderna consiste essenzialmente nel diritto di ogni singolo suddito ad essere difeso dagli arbìtri che ne insidiano l'autonomia e, prima ancora, la stessa vita. Nei suoi termini più generali, essa è ciò che assicura l'individuo nei confronti delle ingerenze altrui attraverso la sua volontaria subordinazione a un ordine più potente che lo garantisce. E qui che si origina quel rapporto antinomico con la sfera della necessità che finisce per rovesciare l'idea di libertà nel suo contrario - di volta in volta, in legge, obbligo, causalità. In questo senso è sbagliato interpretare l'assunzione di elementi di costrizione come una contraddizione interna - o un errore concettuale - della teorizzazione moderna della libertà. Essa è una sua diretta conseguenza: la necessità è, cioè, nuli'altro dalla modalità che il soggetto moderno assume come contrappunto dialettico della propria libertà o, ancora meglio, della libertà come libera appropriazione del 'proprio'. Cosi va interpretata la celebre espressione secondo cui anche in catene il soggetto è libero - non nonostante, ma in ragione di esse: come l'effetto autodissolutivo di una libertà sempre più schiacciata sulla sua nuda funzione autoassicurativa. Se già per Machiavelli «una piccola parte di loro [degli uomini] desidera di essere libera per comandare, ma tutti gli altri, che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri»", è Hobbes, come sempre, il teorico più conseguente e radicale di questo passaggio: la libertà si conserva, o meglio conserva il soggetto che la detiene, perdendosi, e perdendolo conseguentemente, in quanto soggetto di libertà. Che in lui la libertà venga definita come «l'assenza di tutti gli impedimenti all'azione che non siano contenuti nella natura e nella qualità intrinseca dell'agente»^', vuol dire che essa è il risultato negativo del gioco meccanico delle forze all'interno delle quali il suo movimento si inscrive e che dunque in ul-

" N. MACHIAVFXLI, Discorsi, I, i 6 , in Tutte le Opere, Firenze 1 9 7 1 , p. 100. Cfr. in merito G. BARBUTO, Machiavelli e il bene comune, in «Filosofia politica», n. 2, 2003, pp. 223-44. " TH. HOBBES, Questions conceming Liberty, Necessity and Change, in English Works cit., voi. IV [trad. it. Libertà e necessità, Milano 2000, p. i n ] .

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tima analisi coincide con la propria necessità. In questo modo - se colui che sperimenta la libertà non poteva fare altro da ciò che ha fatto - la sua de-liberazione ha il senso letterale di rinuncia a una libertà indeterminata e di chiusura della libertà nei vincoli della propria predeterminazione: «Ed è chiamata deliberazione, perché è un porre fine alla libertà che avevamo di fare o di omettere di fare, secondo il nostro appetito o la nostra avversione»". Quanto a Locke, poi, il nodo immunitario si fa ancora più stretto ed intrinseco: come si è visto, esso non passa per la subordinazione diretta degli individui al sovrano - che anzi si allenta in forma inclusiva addirittura del diritto di resistenza - , bensì per la dialettica dell'autoappropriazione conservativa. E vero che, rispetto alla cessione hobbesiana, per Locke la libertà è inalienabile, ma esattamente per la stessa ragione che muoveva il ragionamento di Hobbes, vale a dire perché essa è indispensabile alla sussistenza fisica di chi la detiene. Perciò risulta congiunta in un trittico indissolubile a proprietà e vita. Già Hobbes in più di un passo mette in connessione libertà e vita {«vitam vel libertatem»Y^, in una forma che fa della prima una garanzia di permanenza per la seconda. Locke spinge ancora più risolutamente in questa direzione. La libertà è, anzi, «talmente congiunta alla conservazione di un uomo» che rinunciarvi compromette insieme «la sua conservazione e la sua vita»". Certo, la libertà non è solo difesa dalle ingerenze altrui; è anche atto soggettivamente determinato - ma appunto nel senso che consente a quel soggetto di restare tale, di non dissolversi: è il diritto soggettivo che corrisponde al dovere biologico-naturale di conservarsi in vita nelle migliori condizioni possibili. Che esso sia allargato anche a tutti gli altri individui, secondo il precetto che nessuno può «privare o ledere la vita di un altro o quanto contribuisce alla conservazione della vita come la libertà, la salute, le membra o i beni»'", non muta la logica strettamente immunitaria sottesa all'intera argomentazione - vale a dire la riduzione della libertà a strumento di conservazione della vita intesa come la proprietà inalienabile che ciascuno ha di se stesso. A partire da tale drastico ridimensionamento semantico - che ne fa il punto di coincidenza biopolitico tra proprietà e conserva" TU. HOBBES, Leviatano cit., p. 58. " I t ó . , p.

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" j. LOCKE, Primo trattato cit., p. 244. ID., Il secondo trattato cit., p. 69.

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zione - il significato della libertà tende a stabilizzarsi sempre più a ridosso dell'imperativo della sicurezza, fino a coincidere con esso. Se per Montesquieu la libertà politica «consiste nella sicurezza, o nell'opinione che si ha della propria sicurezza»", è Jeremy Bentham ad operare il passo definitivo: «Cosa significa libertà"^ [...] Sicurezza {security) è la benedizione politica che ho in mente: sicurezza dai malfattori da un lato, dagli strumenti del governo dall'altro»". Già qui l'immunizzazione della libertà appare definitivamente attuata secondo la duplice direzione della difesa attraverso lo Stato e nei suoi medesimi confronti. Ma quello che ancor meglio la qualifica nei suoi effetti antinomici è la relazione che COSI s'instaura con il suo opposto logico, vale a dire con la coercizione. Il punto di sutura tra espressione della libertà e ciò che dal suo interno la nega - si potrebbe dire, tra esposizione ed imposizione - è costituito proprio dall'esigenza assicurativa: è questa a richiedere quell'apparato di leggi che, pur non producendo direttamente libertà, ne costituisce, tuttavia, il rovescio necessario: «Dove non c'è coercizione, non c'è neanche sicurezza [...] Ciò che sotto il nome di Libertà è tanto magnificato, come opera inestimabile e inarrivabile della Legge, non è la Libertà, ma la sicurezza»^^. Da questo punto di vista l'opera di Bentham segna un momento cruciale nella riconversione immunitaria cui le categorie politiche moderne paiono affidare la propria stessa sopravvivenza. La condizione preliminare della libertà è individuata in un meccanismo di controllo che blocca ogni contingenza nel dispositivo della sua previsione anticipata. La progettazione del famoso Panopticon esprime nella forma più spettacolare questa deriva semantica scavata nel cuore stesso della cultura liberale. 3. Come si sa, lo stesso Foucault ha fornito un'interpretazione biopolitica del liberalismo tesa a mettere in luce l'antinomia fondamentale su cui poggia e che riproduce potenziata. Nella misura in cui non può limitarsi alla semplice enunciazione dell'imperativo della libertà, ma implica l'organizzazione delle condizioni alle qua" MONTESQUIEU, De l'Esprit de Lois, in CEuvres Complètes, Paris 1949-51 [trad. it. Lo spìrito delle leggi, Torino 1965, p. 320]. " j. BENTHAM, Ratìonak 0/ Judicial Evidence, in The Works of Jeremy Bentham, Edinburgh 1834-43, ™ 1 . VII, p. 522. " ID., Manuscripts (nella Biblioteca dell'University College a Londra), Ixix, p. 56. Si veda in merito la tesi di dottorato di M. Stangherlin, Jeremy Bentham e il governo degli interessi, Università di Pisa, 2001-2.

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li questa risulta effettivamente possibile, esso finisce per entrare in contraddizione con le proprie premesse. Dovendo costruire l'alveo di scorrimento controllato per incanalare la libertà in una direzione non nociva per l'insieme della società, il liberalismo rischia continuamente di distruggere ciò che pure dice di volere creare: Il liberalismo come io lo intendo, questo liberalismo che può essere caratterizzato come la nuova arte del governo che si forma nel x v i n secolo, implica un intrinseco rapporto di produzione/distruzione nei confronti della libertà [...] C o n una mano bisogna produrre la libertà, ma questo medesimo gesto implica che, con l'altra, siano stabilite delle limitazioni, dei controlli, delle costrizioni, degli obblighi basati su delle minacce".

Ciò spiega, all'interno del quadro governativo liberale, una tendenza all'intervento legislativo di esito controfattuale rispetto alle intenzioni cui è ordinato: non è possibile determinare, definire, la libertà che contraddicendola. Il motivo di tale aporia è palese sotto il profilo logico. Ma esso si rivela ancora più rilevante se ricondotto alla cornice biopolitica in cui l'autore lo ha fin dall'inizio immesso. Hannah Arendt ne aveva già colto i termini fondamentali: «Secondo la filosofia liberale, la politica deve occuparsi quasi soltanto di conservare la vita e salvaguardarne gli interessi: ma se è in gioco la vita ogni azione viene intrapresa sotto la spinta della necessità»". Perché? Perché il riferimento privilegiato alla vita costringe la libertà nella morsa della necessità ? Perché la ribellione della libertà contro se stessa passa per l'emergenza della vita ? La risposta della Arendt, in questo singolarmente aderente al quadro interpretativo foucaultiano, attiene al transito, interno al paradigma biopolitico, dall'ambito conservativo individuale a quello della specie: M e n t r e all'inizio dell'età moderna il governo si identificava con tutto il complesso politico, adesso diventava il protettore designato non tanto della libertà quanto del processo vitale, degli interessi della società e dei membri di questa. L a sicurezza resta il criterio decisivo: ma non è più la sicurezza dell'individuo contro una 'morte violenta', come per H o b b e s , bensì una sicurezza che permetta al processo vitale della società nel suo insieme di svolgersi senza intoppi".

" M. FOUCAULT, La question du libéralisme, testo stabilito da M. Senellart, estratto dalla lezione del 24 gennaio 1979 del corso, ancora inedito, Naissance de la hiopolitique [trad. it. La questione del liberalismo, in Biopolitica e liberalismo cit., p. 160]. " H. ARENDT, Freedom and PoUtics: a Lecture, in Between Fast and Future. Six Exercises in Politicai Thought, New York 1961 [trad. it. Che cos'è k libertà, in Tra passato e futuro, a cura di A. Dal Lago, Milano 1991, p. 208]. " Ibid., p. 201.

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L'indicazione è di particolare interesse: è la stessa cultura dell'individuo - una volta immessa nel nuovo orizzonte autoconservativo - a produrre qualcosa che la oltrepassa in termini di processo vitale complessivo. Ma la Arendt non compie il passaggio decisivo, effettuato invece da Foucault, che consiste nell'intendere questa relazione tra individuo e totalità anche in termini di tragica antinomia. Quando egli annota che il fallimento delle teorie politiche moderne non si deve né alle teorie né alle politiche, ma ad una razionalità che si sforza di integrare gli individui nella totalità dello Stato", tocca il nucleo centrale della questione. Se sovrapponiamo il suo discorso a quello, elaborato negli stessi anni, dall'antropologo Luis Dumont sulla natura e il destino dell'individualismo moderno ne ricaviamo una conferma che va ancora più nettamente nella direzione qui intrapresa. Chiedendosi il motivo dello sbocco prima nazionalistico e poi, attraverso un ulteriore salto di qualità, totalitario dell'individualismo liberale, egli perviene alla conclusione che le categorie politiche della modernità 'funzionano' - vale a dire assolvono la funzione autoconservativa della vita cui sono ordinate - includendo il proprio contrario o, all'inverso, inglobandosi in esso. Cosicché, ad un certo punto, anche la cultura dell'individuo incorpora ciò cui in linea di principio si oppone, vale dire il primato del tutto sulle parti cui si dà il nome di 'olismo'. L'effetto patogeno che sempre più ne deriva è, secondo Dumont, dovuto alla circostanza che, a contatto del loro opposto, paradigmi estranei, come sono appunto quelli di individualismo e di olismo, intensificano a dismisura la forza ideologica delle proprie rappresentazioni dando luogo a una miscela esplosiva"^®. L'autore che sembra penetrare più a fondo in questo processo autodissolutivo è forse Tocqueville. Tutta la sua analisi della democrazia americana ne è attraversata in una modalità che ne riconosce insieme l'ineluttabilità e il rischio epocale. Quando egli delinea la figura àeWhomo democraticus''^ nel punto di intersezione e di frizione, tra atomismo e massificazione, solitudine e conformismo, autonomia ed eteronomia non fa che riconoscere il risul" M. FOUCAULT, Tecnologie dei sé cìt., p. 152. " L. DUMONT, Essaissurrindividualisme, Paris 1983 [trad. it. SaggisuWindividualismo, Milano 1993, p. 35]. " Sull'homo democraticus rimando alle importanti osservazioni di M. Cacciari in L'arcipelago^ Milano 1997, pp. 1 1 7 sgg. Si veda anche E, PULCINI, L'individuo senza passioni, Torino 2001, pp. 1 2 7 sgg. Più in generale, su Tocqueville, cfr. F. DE SANCTIS, Tempo di democrazia. Alexis de Tocqueville, Napoli 1986.

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tato entropico di una parabola che ha al proprio capo precisamente queir autoimmunizzazione della libertà in cui la nuova uguaglianza delle condizioni si riflette come in uno specchio capovolto. Sostenere - come egli fa con l'ineguagliabile intensità di un pathos trattenuto - che la democrazia separa l'uomo «dai suoi contemporanei e lo riconduce di continuo verso se stesso, minacciandolo infine di chiuderlo nella solitudine del suo stesso cuore»'", oppure che «l'uguaglianza pone gli uomini fianco a fianco, senza un legame comune che li unisca»", vuol dire cogliere fino in fondo, e cioè dall'origine, la deriva immunitaria della politica moderna. Nel momento in cui, timoroso di non saper difendere gli interessi particolari che soltanto lo muovono, l'individuo democratico finisce per mettersi «nelle mani del primo padrone che si presenta»", l'itinerario che, di li a non molto, spingerà la biopolitica a ridosso del proprio opposto tanatopolitico è già avviato: il gregge, opportunamente addomesticato, è ormai pronto a riconoscere il suo volenteroso pastore. Il testimone più sensibile, che all'altro capo del secolo, registra con assoluta aderenza l'esito di tale percorso è Nietzsche. Quanto alla libertà - il cui concetto gli pare «una prova di più della degenerazione dell'istinto»" - egli non ha più dubbi: «Non vi è nulla, in seguito, che in maniera più terribile delle istituzioni liberali danneggi la libertà»''*.

™ A. DE TOCQUEVILJ^E, De la Démocmtie en Amérìque, in CF.uvres Complètes, Paris 1 9 5 1 sgg., voi. I [trad. it. La democrazia in America, in Scritti politici, a cura di N. Matteucci, Torino 1968, voi. II, p. 590]. " Ibid., p. 593. " lhid.,p. 6 3 1 . " F. NIETZSCHE, lì crepuscolo degli idoli (Gòtzendammerung), in Opere, Milano 1964 sgg., voi. V I , 3, p. 142. " Ibid., p. 1 3 7 .

Capitolo terzo Biopotere e biopotenza

I. Grande politica. I. Che il capitolo precedente si chiuda nel nome di Nietzsche non è una semplice circostanza. Egli è l'autore che più di ogni altro registra l'esaurimento delle categorie politiche moderne e il conseguente dischiudersi di un nuovo orizzonte di senso. A lui si era già fatto cenno nella breve genealogia del paradigma immunitario prima tracciata. Ma tale riferimento non basta a restituire la rilevanza strategica che la sua prospettiva assume nel quadro generale di questo lavoro. Nietzsche non è soltanto colui che porta il lessico immunitario alla sua piena maturazione, ma anche il primo ad evidenziarne il potere negativo, la deriva nichilistica che lo spinge in direzione autodissolutiva. Questo non vuol dire che egli sia in grado di sfuggirle, di sottrarsi del tutto alla sua ombra crescente. Anzi, vedremo che, almeno per un vettore non secondario della sua prospettiva, finirà per riprodurla potenziata. Ma ciò non cancella la forza decostruttiva che in altri testi la sua opera esercita nei confronti dell'immunizzazione moderna fino a prefigurare i lineamenti di un diverso linguaggio concettuale. I motivi per i quali, a dispetto delle sue pretese filiazioni, esso non è mai stato non dico elaborato, ma neanche pienamente decifrato, sono molti - non ultimo il carattere enigmatico di cui è andata sempre più caricandosi la scrittura nietzscheana. La mia impressione, tuttavia, è che tali ragioni rimandino in complesso alla mancata, o errata, individuazione della sua logica interna o, forse meglio, della sua tonalità di fondo, che solo oggi, proprio a partire dallo scenario categoriale squadernato da Foucault, comincia ad essere avvertita nella sua effettiva portata. Non alludo tanto, o solamente, ai due interventi specifici dedicati da quest'ultimo a Nietzsche - anche se soprattutto il secondo di essi, incentrato sul metodo genealogico, ci porta a immediato ridosso della questione. Quanto, precisamente, all'orbita biopolitica all'interno della quale si è andata ad un certo punto collocando l'analisi foucaultiana.

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Capitolo terzo

Perché è proprio essa il punto di gravitazione, o l'asse paradigmatico, a partire da cui l'intera produzione di Nietzsche, con tutte le sue svolte e fratture interne, comincia a rivelare un nucleo semantico del tutto inafferrabile nelle griglie interpretative in cui è stato finora inquadrato. Come sarebbe altrimenti possibile, se qualcosa, una maglia decisiva del suo tessuto concettuale, non fosse sfuggita all'attenzione, che lo stesso autore sia stato letto in termini non solo eterogenei, ma reciprocamente contrastivi ? Prima ancora che 'da destra' e 'da sinistra', come totus politicus per gli uni e come radicalmente impolitico per gli altri? Senza arrivare agli interpreti più recenti, basti mettere a raffronto la tesi di Lowith, per il quale la «prospettiva politica non si colloca ai margini della filosofia di Nietzsche, ma al suo centro»', con quella di Bataille, secondo cui «il movimento stesso del pensiero di Nietzsche implica una disfatta dei diversi fondamenti possibili della politica attuale per cogliere Vimpasse da cui la letteratura nietzscheana sembra non sapersi ancora districare. Probabilmente perché sia la lettura 'iperpolitica' sia quella 'impolitica' si confrontano, e scontrano con esiti speculari, all'interno di una nozione di 'politica' alla quale il testo di Nietzsche è esplicitamente estraneo a favore di un altro, e diverso, lessico concettuale che oggi possiamo ben definire 'biopolitico'. Rispetto a tale conclusione il saggio di Foucault su Nietzsche, la généalogie, l'histoire^ apre uno squarcio prospettico di particolare rilievo. In esso è sostanzialmente tematizzata l'opacità dell'origine - vale a dire lo scarto che la separa da se stessa, o meglio da quello che in essa viene presupposto come perfettamente adeguato alla sua intima essenza. Ciò che in questo.modo è messo in discussione non è solo la linearità di una storia destinata a comprovare la conformità di origine e fine - la finalità dell'origine e l'originarietà del fine. Ma anche l'intero assetto categoriale cui tale concezione fa capo. Tutta la polemica nietzscheana nei confronti di una storia incapace di confrontarsi con la propria falda non storica - e cioè di estendere a se stessa la storicizzazione integrale che pretende applicare all'altro da sé - ha di mira la presunzione di ' K. i.òwiTH, Oer europdtsche 'Hihilismus (1939), Stuttgart 1983 [trad. ìt II nichilismo europeo, a cura di C. Galli, Roma-Bari 1999, p. 49]. ^ G. BATAILLE, Nietzsche et les Fascistes, in «Acéphale», n. 2, 1937 [trad. it. Nietzsche e i fascisti, in La congiura sacra, a cura di R. Esposito e M. Galletti, Torino 1997, p. 16]. ' M. FOUCAULT, Nietzsche, la généalogie, l'histoire, in Dits et Ecrits cit., voi. II [trad. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in 11 discorso, la storia, la verità cit., pp. 43-64].

Biopotere e biopotenza

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universalità da parte di figure concettuali nate in funzione di specifiche esigenze e ad esse legate nella loro logica e nel loro sviluppo. Quando Nietzsche riconosce nell'origine delle cose non l'identità, l'unità, la purezza di un'essenza incontaminata, bensì la lacerazione, la molteplicità, l'alterazione di qualcosa che non è mai corrispondente a ciò che dichiara di essere; quando intravede, dietro la successione ordinata degli eventi, e la rete di significati in cui essi sembrano comporsi, il tumulto dei corpi e il proliferare degli errori, le usurpazioni del senso e la vertigine della violenza; quando, insomma, ritrova la dissociazione e il contrasto nel cuore stesso della apparente conciliazione, egli pone un marcato punto interrogativo sull'intera forma ordinativa che per secoli si è data la società europea. E più precisamente sullo scambio, che in essa si è di volta in volta verificato, tra causa ed effetto, funzione e valore, realtà e apparenza. Ciò vale per le singole categorie giuridico-politiche moderne: a partire da quella di eguaglianza, alla cui contestazione è rivolto praticamente l'intero corpus nietzscheano, a quella di libertà, destituita della sua pretesa assolutezza e ricondotta all'aporia costitutiva che la rovescia nel proprio contrario, allo stesso diritto, riconosciuto nel suo volto originario di nuda imposizione. Ma vale anche, e soprattutto, per l'intero dispositivo che di tali categorie costituisce insieme lo sfondo analitico e il quadro normativo: e cioè per quel racconto autolegittimante secondo il quale le forme del potere politico appaiono il risultato intenzionale della volontà combinata di singoli soggetti uniti in un patto fondativo. Allorché Nietzsche identifica lo Stato - vale a dire il più elaborato costrutto giuridico e politico dell'epoca moderna con «un qualsiasi branco di animali da preda, una razza di conquistatori e di padroni che, guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora informe, ancora errabonda», può ben considerare «liquidata quella fantasticheria che lo faceva cominciare con un 'contratto'»•*. 2. Già da queste prime notazioni appare evidente il filo che le collega alla proposta ermeneutica attivata un secolo dopo da Foucault. Se non esiste un soggetto individuale di volontà e di conoF. NIETZSCHE, Genealogia della morale (Zur Genealogie der Maral), in Opere cit., voi. V I , 2, p. 286.

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C a p i t o l o terzo

scenza sottratto e antecedente alle forme di potere che lo strutturano; se quella che chiamiamo 'pace' non è che la rappresentazione retorica di rapporti di forza di volta in volta scaturiti da uno scontro continuato; se regole e leggi non sono altro che rituali destinati a sanzionare il dominio degli uni sugli altri - tutto l'armamentario allestito dalla filosofia politica moderna è destinato a rivelarsi contemporaneamente falso e inefficace. Falso, o puramente apologetico, perché incapace di restituire le dinamiche effettive che scorrono dietro le sue figure di superficie. E inefficace perché, come si è visto nel capitolo precedente, esso batte sempre più violentemente contro le proprie contraddizioni interne fino ad esplodere. Ciò che esplode, precisamente, più che le singole giunture categoriali, è la logica stessa della mediazione cui esse rimandano, non più in grado di trattenere, o addirittura di potenziare, un contenuto di per sé sfuggente a qualsiasi controllo formale. Quale sia, per Nietzsche, tale contenuto è ben noto - si tratta di quel btos che conferisce alla sua trattazione il connotato intensamente biopolitico cui si è già fatto riferimento. Tutta la letteratura nietzscheana ha sempre posto l'accento sull'elemento vitale - la vita come l'unica rappresentazione possibile dell'essere'. Tuttavia, ciò che ha un'evidente rilevanza ontologica va interpretato sempre anche in chiave politica. Non nel senso di una qualche forma che si sovrapponga dall'esterno alla materia della vita - è appunto questa pretesa, sperimentata in tutte le sue possibili combinazioni dalla filosofia politica moderna, ad essere definitivamente destituita di fondamento. Ma come il carattere costitutivo della vita stessa: la vita è già da sempre politica, se per 'politica' s'intenda non ciò che vuole la modernità - vale a dire una mediazione neutralizzante di carattere immunitario - bensì la modalità originaria in cui il vivente è o in cui l'essere vive. E questa la maniera - lontana da tutte le contemporanee filosofie della vita cui la sua posizione è stata di volta in volta accostata - in cui Nietzsche pensa la dimensione politica del bior. non in quanto carattere, legge, destinazione di qualcosa che precedentemente vive, ma come la potenza che fin dall'inizio informa la vita in tutta la sua estensione, costituzione, intensità. Che la vita - secondo l'arcinota formulazione nietzscheana - sia volontà di potenza non significa né che la vita vuole la potenza, né che la potenza cattura, intenziona, sviluppa

ID., Frammenti postumi, i88j-8y,

in Opere cit., voi. V i l i , i , p. 139.

Biopotere e biopotenza loi

una vita puramente biologica, bensì che la vita non conosce modi di essere diversi da quello di un continuo potenziamento. Per cogliere il tratto caratterizzante di ciò cui Nietzsche allude con l'espressione «grande politica», bisogna guardare appunto a tale intreccio indissolubile di vita e potenza: nel doppio senso che il vivente è tale solo se internamente potenziato e che la potenza non è immaginabile se non nei termini di un organismo vivente. Da qui anche il senso più intrinseco - meno legato a contingenze contestuali - del progetto nietzscheano di costituzione di un «nuovo partito della vita». A prescindere dai contenuti prescrittivi, anche molto inquietanti, di cui egli ha pensato di volta in volta di riempirlo, quello che adesso conta, in rapporto al nostro asse principale di ragionamento, è la presa di distanza che tale riferimento costituisce nei confronti di ogni modalità mediata, dialettica, esterna, di intendere il rapporto tra politica e vita. In questo senso ben si comprende quanto egli stesso dirà a proposito di Aldi là del bene e del male, ma che può ben estendersi alla sua intera opera: essa «è nel suo essenziale una critica della modernità, non escluse le scienze moderne, le arti moderne, e neppure la politica moderna, con accenni a un tipo opposto, che è il meno moderno possibile, un tipo nobile, che dice si>/. A prescindere dalla problematica identità del 'tipo' prefigurato da Nietzsche, quello che resta fuori di dubbio è il suo obiettivo polemico: la modernità come negazione formale, o forma negativa, del proprio contenuto vitale. Quello che per Nietzsche unifica le sue categorie logiche, estetiche, politiche è appunto l'antinomia costitutiva di voler assumere, conservare, sviluppare, un immediato - ciò che l'autore chiama 'vita' - attraverso una serie di mediazioni destinate oggettivamente a contraddirlo, perché appunto obbligate a negarne il carattere di immediatezza. Da qui il rigetto non di questa o di quella istituzione, ma della istituzione in quanto tale, e cioè in quanto separata da e dunque tendenzialmente distruttiva di quella potenza di vita che pure è ordinata a salvaguardare. In un paragrafo, appunto intitolato Critica della modernità, l'autore afferma che «le nostre istituzioni non servono più a nulla: su questo si è tutti d'accordo. Tuttavia ciò non dipende da esse, bensì da noi. Da quando abbiamo perduto tutti gli istinti, da cui si sviluppano le istituzioni, andiamo perdendo le istituzioni in generale, perché

ID., Ecce homo {Ecce homo), in Opere cit., voi. VI, 3, p. 360.

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noi non serviamo più ad esse»'. Ciò che produce tale effetto autodissolutivo è l'incapacità delle istituzioni moderne - dal partito, al parlamento, allo Stato - di rapportarsi direttamente alla vita e dunque la tendenza a scivolare nello stesso vuoto che tale scarto determina. E ciò a prescindere dalla posizione politica prescelta: ciò che conta, in negativo, è il suo non essere bio-politica - la scissione che si apre tra i due termini dell'espressione in una forma che strappa alla politica il suo bios e alla vita la sua politicità originaria, ovvero la sua potenza costitutiva. 3. Da qui - nel rovescio affermativo di tale negatività - il significato positivo della «grande politica»: «la grande politica afferma la fisiologia sopra tutti gli altri problemi - vuole allevare l'umanità come un tutto, essa misura il rango delle razze, dei popoli, degli individui secondo [...] la garanzia di vita che porta in sé. Essa mette fine inesorabilmente a tutto quanto è degenerato e parassitario»®. Prima di affrontare con la dovuta attenzione la parte più problematica della frase, relativa alla patologia parassitaria e degenerativa, fermiamoci sul suo significato complessivo. Si conosce il rilievo conferito da Nietzsche agli studi fisiologici contro ogni forma di pensiero idealistico. Da questo punto di vista è evidente la sua collocazione in una cultura, e più ancora in un linguaggio, fortemente segnato dalla presenza di Darwin - quali che siano le rilevanti distinzioni che separano i due autori in una forma che avremo modo di approfondire'. Ma non si tratta solo di questo: ciò che Nietzsche intende affermare è che, almeno a partire da un certo momento, coincidente con la crisi irreversibile del lessico politico moderno, l'unica politica non ridotta a mera conservazione delle istituzioni esistenti è quella che affronta il problema della vita dall'angolo di visuale della specie umana e delle soglie mobili che la definiscono, per contiguità o differenza, rispetto alle altre specie viventi. Contrariamente al presupposto dell'individualismo moderno, anche l'individuo, da Nietzsche rivendicato ed esaltato nel suo carattere di eccezionalità, non può ' ID., Crepuscolo degli idoli cit., p. 1 3 9 . ' ID., Vrammentipostumi, 1SSS-S9, in Opere cit., voi. V i l i , 3, p. 408. ' Sul complesso rapporto di Nietzsche col darwinismo, e più in generale con le scienze biologiche, cfr. soprattutto E. BLONDEL, Nietzsche, le corps et la culture, Paris 1986; TU. H. BROBJER, Danuinismus, in Nietzsche-Handbuch, Stuttgart-Weimar 2000; B. STIEGLER, Nietzsche et la biologie, Paris 2 0 0 1 ; G. MOORE, Nietzsche,Biology andMethaphor, Cambridge 2002; ma anche A. ORSucci, Dalla biologia cellulare alle scienze dello spirito, Bologna 1992.

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essere pensato che sullo sfondo dei grandi aggregati etnico-sociali da cui pur sempre emerge per contrasto. Questa prima considerazione di metodo, tuttavia, non esaurisce la questione posta da Nietzsche, che chiama in causa qualcosa di cui solo oggi siamo in grado di cogliere la straordinaria portata e gli effetti ambivalenti. Si tratta dell'idea che la specie umana non è data una volta per tutte, ma è suscettibile, nel bene e nel male, di essere plasmata in forme di cui non abbiamo ancora l'esatta nozione, ma che comunque costituiscono per noi insieme un rischio assoluto e una sfida irrinunciabile: «Perché - si chiede l'autore in un passo di assoluto rilievo - non dobbiamo realizzare nell'uomo ciò che i Cinesi riescono a fare con l'albero - sicché esso da una parte produce rose, dall'altra pere ? Questi processi naturali di selezione dell'uomo, per esempio, che finora sono stati esercitati in modo infinitamente lento e maldestro, potrebbero essere assunti dagli uomini»^". Anziché lasciarsi sconcertare dall'irrituale accostamento dell'uomo alla pianta - oltre che all'animale da allevamento - ciò che va posto in primo piano è la precoce consapevolezza nietzscheana che il terreno di confronto, e di scontro, politico dei secoli a venire sarà quello relativo alla ridefinizione della specie umana in un quadro di progressivo spostamento dei suoi confini rispetto a ciò che non è umano - e cioè da un lato all'animale, dall'altro al mondo inorganico. Anche il rilievo centrale attribuito al corpo, contro i suoi «dispregiatori», va ricondotto alla specificità - anche nel senso della specie - del lessico biopolitico. C'è, naturalmente, una polemica complessiva nei confronti di una tradizione filosofica spiritualistica o astrattamente razionalistica. Ricordare che la ragione - come l'anima - è parte integrante di un organismo che ha nel corpo la sua unica espressione ha un peso non indifferente nella decostruzione delle più influenti categorie metafisiche. Ma rileggere l'intera storia dell'Europa attraverso «il filo conduttore del corpo» è un'opzione che non può essere davvero compresa fuori da un determinato lessico biopolitico. Certo, l'uso di una terminologia fisiologica in ambito politico è tutt'altro che inedito. E tuttavia l'assoluta novità del testo nietzscheano sta nel trasferimento della relazione tra Stato e corpo dal piano classico dell'analogia, o della metafora, in cui lo collocava la tradizione antica e moderna, a quello della realtà effettuale: non c'è politica che dei corpi, F. NIETZSCHE, Vrammentipostumi, 1881-82,

in Opere cit., voi. V, 2, pp. 432-33.

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sui corpi, attraverso i corpi. In questo senso si può ben dire che la fisiologia - in Nietzsche mai disgiunta dalla psicologia - sia la materia medesima della politica. Il suo corpo pulsante. Ma - perché possa rivelare tutta la sua pregnanza - la cosa va guardata anche dall'altro lato. E cioè non soltanto quello della declinazione fisiologica della politica, ma anche quello della caratterizzazione politica della fisiologia: se il corpo è la materia della politica, la politica - naturalmente nel senso che Nietzsche conferisce all'espressione - è la forma del corpo. E questa 'forma' - non c'è vita che non sia in qualche modo formata, 'forma di vita' - a sottrarre Nietzsche da qualsiasi tipo di determinismo biologico, come ben comprese Heidegger". Non solo perché ogni concezione del corpo presuppone un retrostante orientamento filosofico, ma perché il corpo è in se stesso costituito secondo il principio del politico la lotta come dimensione ultima, e prima, dell'esistenza. Lotta all'esterno di sé, verso gli altri corpi. Ma anche al suo interno come conflitto inarrestabile tra le sue componenti organiche. Prima di essere in-sé, il corpo è sempre contro - anche rispetto a se stesso. In questo senso Nietzsche può dire che «ogni filosofia che ripone la pace più in alto della guerra» è «un fraintendimento del corpo»^^. Perché il corpo, nella sua continua instabilità, non è che il risultato, sempre provvisorio, del conflitto delle forze di cui è costituito. Si sa quanto abbiano pesato sulla concezione nietzscheana del corpo le contemporanee teorie biologiche e mediche di autori come Roux, Mayer, Poster, Ribot". Quello che dal nostro angolo di visuale va rilevato è che da tutti costoro Nietzsche derivò il doppio principio che il corpo è prodotto di determinate forze e che tali forze sono sempre in potenziale conflitto tra loro'^ Esso non è res extensa, sostanza, materia, ma il luogo materiale di tale conflitto e delle condizioni di prevalenza e di sudditanza, di gerarchia e di " Mi riferisco naturalmente a M. HEIDEGGER, Nietzsche, Pfullingen 1 9 6 1 [trad. it, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Milano 1994]. F. NIETZSCHE, ìji gaia scienza {Diefróhliche Wissenschafi), in Opere cit., voi. V, 2, p. 18. " Per questo rapporto si veda soprattutto il capitolo dedicato a Nietzsche (cap. iv) dell'importante libro R. BODEI, Destini personali. L'età della colonizzazione delle coscienze, Milano 2002, pp. 8 3 - 1 1 6 ; ma anche I. HAAZ, Les conceptions du corps chez Kihot et Nietzsche, Paris 2003. In questo senso il riferimento contemporaneo più significativo per Nietzsche è il librow. ROUX, Der Kampf der Theile im Organismus, Leipzig 1 8 8 1 , su cui si veda w. MÌiu.ERLAUTER, Der Organismus als innere Kampf. Der Einfluss von Wilhelm Roux auf Friedrich Nietzsche, in «Nietzsche Studien», VII, 1978, pp. 89-223.

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resistenza, che di volta in volta questo determina. Da qui la semantica intrinsecamente politica - e cioè ancora biopolitica - che assume la stessa definizione di vita: Si potrebbe definire la vita come una f o r m a durevole di processo delle determinazioni di forza, in cui le diverse forze in lotta crescono per parte loro in modo disuguale. In questo senso c ' è un'opposizione anche nell'obbedire; la forza propria non va a f f a t t o perduta. Allo stesso modo, nel comandare c'è un ammettere che la forza assoluta dell'avversario non è sconfitta, fagocitata, dissolta. ' C o m a n d a r e ' e ' o b b e d i r e ' sono f o r m e complementari della l o t t a " .

È proprio perché il potere dei singoli contendenti non è mai assoluto, perché anche colui che provvisoriamente perde ha sempre modo di far valere le proprie forze residue, che la battaglia non ha mai fine. Non si conclude mai con una vittoria definitiva o con una resa senza condizioni. Nel corpo non esiste né sovranità - dominio integrale dell'uno - né eguaglianza tra i molti, perennemente impegnati a superarsi a vicenda. L'ininterrotta polemica di Nietzsche nei confronti della filosofia politica moderna ha appunto a che fare con tale presupposto: se la battaglia all'interno del singolo corpo è di per sé infinita, se dunque i corpi non possono sottrarsi al principio della lotta perché la lotta è la forma medesima della vita, come potrà mai realizzarsi quell'ordine che condiziona la sopravvivenza dei sudditi alla neutralizzazione del conflitto ? Ciò che condanna la concezione politica moderna all'ineffettualità è proprio questa scissione tra vita e conflitto - l'idea di conservare la vita attraverso l'abolizione del conflitto. Si potrebbe dire che il cuore stesso della filosofia di Nietzsche stia nella contestazione di tale concezione - nell'estremo tentativo di riportare in superficie quel nesso aspro e profondo che stringe politica e vita nella forma inesausta della lotta.

2. Controforze. I. Già da queste prime considerazioni appare evidente che Nietzsche, pur senza formularne il termine, ha anticipato l'intero percorso biopolitico poi definito, e autonomamente sviluppato, da Foucault: dalla centralità del corpo come genesi e terminale delle dinamiche sociopolitiche, al ruolo fondativo della lotta, e anche " I-. NIETZSCHE, Vrammentipostumi,

1884-8;},

in Opere cit., voi. V I I , 3, p. 238.

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della guerra, nella configurazione degli assetti giuridico-istituzionali, fino alla funzione della resistenza come contrappunto necessario al dispiegamento del potere, si può dire che tutte le categorie foucaultiane siano presenti in nuce nel linguaggio concettuale di Nietzsche. «Poi c'è la guerra - questi annota nel testo che funge da bilancio conclusivo della sua intera opera - [ . . . ] Poter essere nemico, essere nemico: già questo, forse, presuppone una natura forte, e in ogni caso è proprio di ogni natura forte. Questa ha bisogno di resistenza, perciò cerca la resistenza: il pathos aggressivo fa parte necessariamente della forza, così come il sentimento di vendetta e rancore fa parte della debolezza»". Già questo passo, tuttavia, immette in un quadro argomentativo che non si limita a preludere alla teorizzazione foucaultiana della biopolitica, ma per certi versi va anche oltre di essa; o meglio la arricchisce di una giuntura concettuale che contribuisce a scioglierne l'antinomia di fondo cui si è fatto riferimento nel primo capitolo. Mi riferisco a quel paradigma immunitario che, come si è detto, rappresenta la cifra peculiare della biofilosofia nietzscheana. Secondo quest'ultima la realtà è costituita da un insieme di forze contrapposte in un conflitto che non perviene mai ad esito conclusivo perché quelle soccombenti conservano pur sempre un potenziale energetico in grado non solo di limitare la potenza di quelle dominanti, ma, a volte, di rovesciarne la prevalenza in proprio favore. Nel testo di Nietzsche, questa descrizione, per cosi dire sistemica, si presenta, però, caratterizzata da una tonalità tutt'altro che neutrale e anzi decisamente critica: nel senso che, una volta definito il gioco delle forze dal punto di vista oggettivo della quantità, resta aperta la valutazione della loro qualità. Tali forze, insomma, non sono affatto equivalenti, cosicché non è per nulla indifferente, in una data fase, quali di esse si espandano e quali, invece, si contraggano. Anzi proprio da ciò dipende l'andamento complessivo - la 'salute', per adottare il lessico dell'autore - dell'insieme costituito dal loro scontro. Ci sono forze che creano ed altre che distruggono; forze che accrescono ed altre che riducono; forze che stimolano ed altre che debilitano. Ma la caratteristica peculiare della logica nietzscheana è che la distinzione più significativa tra di esse non passa per il loro effetto - costruttivo o distruttivo - , bensì per un discrimine più profondo, relativo al carattere più o meno originario delle forze stesse. E a questo aspet" ID., Ecce homo cit., pp, 281-82,

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to che attiene la questione dell'immunizzazione - non soltanto il rilievo oggettivo che viene ad assumere, ma anche la connotazione esplicitamente negativa che Nietzsche le assegna in esplicita controtendenza rispetto a quella, invece positiva, conferitale dalla filosofia moderna di matrice hobbesiana. Tale differenza, o anche divaricazione, ermeneutica non riguarda il ruolo conservativo, salvifico, che essa esercita nei confronti della vita - riconosciuto da Nietzsche allo stesso modo che da Hobbes - , quanto la sua collocazione logico-temporale in rapporto all'origine: per dirla nel modo più conciso possibile, mentre in Hobbes l'esigenza immunitaria viene prima, è la passione iniziale che muove gli uomini dominati dalla paura, per Nietzsche è seconda rispetto ad un'altra spinta più originaria, costituita, come si sa, dalla volontà di potenza. Non che la vita non richieda la propria conservazione altrimenti svanirebbe anche il soggetto di ogni possibile espansione. Ma in una forma che, in contrasto con tutte le filosofie moderne della conservatio, la subordina all'imperativo primario dello sviluppo, rispetto al quale è ridotta al rango di semplice conseguenza: «I fisiologi dovrebbero pensarci due volte prima di porre l'istinto di 'conservazione' come l'istinto cardinale di un essere organico. Anzitutto, ciò che vive vuole sfogare la propria forza: la 'conservazione' è soltanto una delle conseguenze di ciò»". Si tratta di un argomento cui lo stesso Nietzsche assegna una tale rilevanza da situarlo esattamente nel punto di rottura con tutta la tradizione precedente; non solo, ma da adoperarlo addirittura contro l'autore che per altri versi (e persino da questo punto di vista) più gli si avvicina, vale a dire il «tisico Spinoza»: «Voler conservare se stessi è l'espressione di uno stato estremamente penoso, di una limitazione del vero e proprio istinto basilare della vita che tende a un'espansione di potenza, e abbastanza spesso pone in questione e sacrifica, in questo suo volere, l'autoconservazione»'®. Il testo citato appare ancora più netto del precedente: la conservazione non è considerata soltanto seconda e derivata rispetto alla volontà di potenza, ma in latente contraddizione con essa. E ciò perché il potenziamento dell'organismo vitale non sopporta limiti, confini, margini di contenimento - tende, al contrario, continuamente a sormontarli, oltrepassarli, trasgredirli. Esso passa come un vortice, o una fiamma, scardinando e bruciando ogni paratia " ID., Frammenti postumi, iSS^^-Sj ctì.., pp. 77-78. " ID., La gaia scienza cit., p. 252.

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difensiva, ogni diaframma liminare, ogni margine di definizione. Attraversa il diverso e congiunge il separato fino ad assorbire, incorporare, divorare tutto ciò che incontra. La vita non solo è portata a superare ogni ostacolo che le si frappone, ma è nella sua medesima essenza superamento - dell'altro, e, alla fine, anche di sé: «la vita stessa mi ha confidato questo segreto - dice Zarathustra - : "Vedi, disse, io sono il contìnuo, necessario superamento di me itosfl"»''. Ormai il discorso di Nietzsche si inarca in una direzione sempre più estrema che sembra arrivare ad includere il proprio contrario in un movimento potentemente autodecostruttivo. Identificarsi col proprio superamento, per la vita, significa non essere più 'in sé' - proiettarsi sempre oltre se stessa. Ma se la vita si spinge fuori di sé, o immette in sé il proprio fuori, vuol dire che, per affermarsi, deve continuamente alterarsi e dunque negarsi in quanto tale. La sua piena realizzazione coincide con un processo di estroversione, o di esteriorizzazione, destinato a trascinarla a contatto con il proprio 'non'. A farne qualcosa che non è semplicemente vita - né solo vita né vita sola. Ma che è insieme più della vita e altro dalla vita: non vita, appunto, se per 'vita' s'intenda qualcosa di stabile che resti essenzialmente uguale a se stessa. Nietzsche traduce questo passaggio consapevolmente antinomico nella tesi «che l'esistenza è solo un ininterrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa»^". È lo stesso motivo per cui in Aldi là del bene e del male egli può scrivere a distanza di sole due pagine che «la vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione, durezza, imposizione di forme proprie, un incorporare o per lo meno, nel più temperato dei casi, uno sfruttare»^'; e contemporaneamente che essa porta «in primo piano il senso della pienezza, della potenza che vuole straripare, la felicità della massima tensione, la coscienza di una ricchezza che vorrebbe donare e largire»". 2. Al fondo di tale tensione, e anzi bipolarità, concettuale che sembra spingere il discorso di Nietzsche in direzioni divergenti, sta un presupposto che va a questo punto reso esplicito. Ancora

p. p.

" ID., Cosi parlò Zarathustra (Ako sprach Zarathustra), in Opere cit., voi. VI, i , p. 1 3 9 . ID., Considerazioni inattuali (XJnzeitgemdjie Betrachtungen), in Opere àt., voi. III, i , 263. ID., Aldi là del bene e del male {Jenseits von GutundBósé), in Opere cit., voi. V I , 2, 177. " Ihid., p. 179.

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una volta contro il paradigma largamente dominante dell'antropologia moderna - ma anche a differenza della concezione darwiniana della «lotta per l'esistenza» - Nietzsche, sulla scorta degli studi biologici di W. H. Rolph", ritiene che «nella natura non è l'estrema angustia a dominare, ma la sovrabbondanza, la prodigalità spinta fino all'assurdo La vita non si evolve a partire da un deficit iniziale, ma da un eccesso. Da qui la sua spinta ancipite. Da un lato rivolta alla sopraffazione e all'incorporamento di tutto ciò che incontra. Dall'altro, una volta colmata fino all'orlo la propria capacità acquisitiva, portata a rovesciarsi fuori di sé, a dilapidare i propri beni eccedenti ed anche se stessa - ciò che Nietzsche definirà la «virtù che dona». Già qui si comincia a intravedere il doppiofondo più inquietante del discorso nietzscheano: affidata a se stessa, liberata dei suoi freni inibitori, la vita tende a distruggere e a distruggersi. A scavare ai suoi lati, ma anche al suo interno, una voragine entro cui minaccia continuamente di scivolare. Tale deriva autodissolutiva non va intesa come un difetto di natura o una falla venuta ad incrinare una perfezione iniziale. Essa non è neanche un accidente o un'insorgenza che a un tratto si leva, o penetra, nel recinto della vita: ma il suo carattere costitutivo. La vita non cade in un abisso: è, piuttosto, l'abisso in cui rischia essa stessa di cadere. Non in un dato momento, ma fin dall'origine - dal momento che quell'abisso non è altro che lo scarto che sottrae l'origine a ogni consistenza identitaria: l'in/originarietà dell'origine che la genealogia nietzscheana ha rintracciato al fondo, e alla fonte, dell'essere-in-vita. Per reperire un'immagine, una figura concettuale, di tale mancanza per eccesso, basta tornare ad una delle prime, ma delle più ricorrenti, categorie di Nietzsche, vale a dire quella di 'dionisiaco': il dionisiaco è la vita nella sua forma assoluta, o dissoluta, sciolta da qualsiasi presupposto, abbandonata al suo flusso originario. Pura presenza - perciò irrappresentabile in quanto tale, anche perché senza forma, in perenne trasformazione, in continuo oltrepassamento. Intanto dei suoi limiti interni, di ogni principio di individuazione, e di separazione, tra enti, generi, specie. Ma poi, allo stesso tempo, anche dei suoi limiti esterni, cioè della sua medesima definizione categoriale. Come determinare ciò che non solo sfugge alla determinazione, ma è la massima potenza di

" Il riferimento è a W. H. ROLPH, Biologische Probleme zugleich ak Venuch zur Entwicklung einer mtionalen Ethik, Leipzig 1882. " F. NIETZSCHE, La gaia scienza cit., p. 253.

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indeterminazione ? E come differenziare ciò che travolge tutte le identità - e perciò stesso anche tutte le differenze - in una sorta di infinito contagio metonimico ? Che non trattiene nulla, in una continua espropriazione di ogni proprio ed esteriorizzazione di ogni interno ? Si potrebbe vedere nel dionisiaco - inteso come la dimensione in/originaria della intera vita - la traccia, o la prefigurazione, del munm comune in tutta la sua ambivalenza semantica: come elisione donativa dei limiti individuali, ma anche come potenza infettiva e dunque distruttiva di sé e dell'altro - 'delinquenza' sia nel significato letterale di mancanza sia in quello, figurato, di violenza. Puro rapporto - e perciò assenza, o implosione, dei soggetti in rapporto, rapporto senza soggetto. Contro questa possibile deriva semantica - contro il vuoto di senso che si apre nel cuore stesso di una vita estaticamente ripiena di se stessa - si innesca quel generale processo di immunizzazione coincidente in ultima analisi con l'intera civiltà occidentale, ma che trova nella modernità il suo più caratteristico luogo di elezione: «Sembra che la democratizzazione dell'Europa sia un anello nella catena di quegli enormi provvedimenti profilattici, che costituiscono il pensiero dell'epoca moderna»". Nietzsche è il primo ad averne non soltanto intuito l'assoluto rilievo, ma ricostruito, nella sua genesi e nelle sue articolazioni interne, l'intera storia. Certo, anche altri autori - da Hobbes a Tocqueville - ne hanno riconosciuto l'insorgenza prima nella paura della morte violenta e poi nell'esigenza di protezione rispetto alla prepotenza di passioni individuali altrimenti deflagranti. Ma l'assoluta specificità della prospettiva nietzscheana, rispetto a diagnosi antecedenti e successive, sta da un lato nella riconduzione del paradigma immunitario alla sua originaria matrice biologica e dall'altro nella capacità di ricostruirne criticamente la dialettica negativa. Quanto al primo punto, è noto come tutti gli apparati della conoscenza, apparentemente intenzionati alla ricerca della verità, siano riportati da Nietzsche alla loro reale funzione conservativa. La verità, d'altra parte, è da lui definita la menzogna - oggi diremmo l'ideologia più adeguata a porci a riparo da quella frattura originaria del senso coincidente con l'espansione potenzialmente illimitata della vita". La stessa cosa vale per le categorie logiche - da quella di idenID,, Umano, troppo umano, I (Menschlkhes, Allzumemchliches), in Opere cit., voi. IV, 2, p. 241. Cfr. in merito u. GALIMBERTI, Gli equivoci dell'anima, Milano 1987.

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tità, a quella di causa, a quella di non-contraddizione - intese, tutte, come strutture bio-logiche necessarie alla sopravvivenza agevolata. Esse servono a sottrarre la nostra esistenza al suo carattere più insostenibile - a creare condizioni minime di orientamento prospettico in un mondo senza origine né fine. A costruire barriere, limiti, argini rispetto a quel munus comune che insieme potenzia e devasta la vita spingendola continuamente al di là di se stessa. Contro quel vortice che essenzialmente siamo, contro l'esplosione transindividuale del dionisiaco, contro il contagio che ne Ascende, le procedure della ragione elevano un dispositivo immunitario volto a ristabilire significati dispersi, a ridisegnare confini smarriti, a riempire i vuoti scavati dalla potenza del 'fuori'. Quel fuori va ricondotto dentro - o quantomeno fronteggiato, neutralizzato. Così come l'aperto va contenuto, delimitato, nei suoi effetti più terrificanti di incalcolabilità, di incomprensibilità, di imprevedibilità. A ciò lavora inizialmente il principio apollineo di individuazione - e poi, a partire dalla grande terapia socratica, l'intera civiltà cristiano-borghese con un piglio restaurativo sempre più intenso ed esclusivo: a bloccare la furia del divenire, il flusso della trasformazione, il rischio della metamorfosi nella «roccaforte» della previsione e della prevenzione". 3. Se questo è il ruolo anestetico, o profilattico, delle forme del sapere, lo stesso vale per quelle del potere. Per le istituzioni giuridiche e politiche che si affiancano - rafforzandoli in una logica di mutua legittimazione - ai codici della morale e della religione. Anch'esse, esse soprattutto, nascono dalla paura ancestrale - ma pur sempre seconda rispetto all'originaria volontà di potenza - che afferra l'uomo in una morsa sconosciuta agli altri animali. «Quando si considera che per varie centinaia di migliaia di anni l'uomo fu un animale in sommo grado accessibile alla paura»^®, appare evidente che l'unico modo di padroneggiarla sia stato quello di costruire dei grandi involucri immunitari destinati a proteggere la specie umana dal potenziale esplosivo implicito nel suo istinto di affermazione incondizionata. Fin dalla civiltà greca le istituzioni costruite dagli uomini trovano «l'origine del loro sviluppo in misure protettive, allo scopo di cautelarsi reciproca" F. NIETZSCHE, Su verità e menzogna in senso extmmomle (tìber Wahrheit und Liige im dussermoralischen Sinne), in Opere cit., voi. I l i , 2, p. 369. ^^ ID., Umano, troppo umano, I cit., p. 134.

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mente dalla loro interiore materia esplosiva»^^. Al suo disinnesco è ordinato soprattutto lo Stato, come del resto aveva già sostenuto la filosofia politica moderna in una linea di ragionamento che vedeva in esso l'unico modo per domare un conflitto interindividuale altrimenti letale. E tuttavia è proprio in ordine a quest'ultimo passaggio che Nietzsche innesta il cambio di paradigma teorico che lo pone non solo fuori da quella linea interpretativa, ma in contrasto frontale con essa: «Lo Stato è una saggia istituzione per la protezione degli individui gli uni contro gli altri», egli ammette; ma per poi subito aggiungere che «se si esagera nel nobilitarlo, l'individuo finisce con l'esserne indebolito, anzi dissolto - l'originario fine dello Stato viene cioè vanificato nel modo più radicale»^". Quello che evidentemente è in gioco non è solamente l'efficacia salvifica dello Stato, quanto, più in generale, la valutazione complessiva della logica immunitaria, da Nietzsche diametralmente rovesciata rispetto a quella, sostanzialmente positiva, dell'antropologia moderna. La tesi da lui avanzata è che essa cura dal male in una forma autocontraddittoria perché produttiva di un male superiore a quello che vuole contrastare. Ciò avviene quando la compensazione che si determina, rispetto all'assetto vitale precedente, è talmente ingente da creare un nuovo, e più esiziale, squilibrio spostato dalla parte opposta a quello iniziale. Così, come lo Stato finisce per omologare nell'obbedienza forzata quegli stessi individui che intendeva liberare, anche tutti i sistemi di verità, pur necessari a correggere errori o superstizioni nocive, creano nuovi e più opprimenti blocchi semantici destinati ad ostruire il flusso energetico dell'esistenza. In ciascuno dei due casi, insomma, la stabilità e la durata, assicurate dai programmi immunitari, finiscono per inibire quello sviluppo innovativo che dovrebbero stimolare. Impedendo la possibile dissoluzione dell'organismo, arrestano anche la sua crescita, condannandolo alla stasi e all'isterilimento. E per questo che morale, religione e metafisica sono definite da Nietzsche contemporaneamente medicine e malattie. Non solo, ma malattie più potenti delle medicine che le fronteggiano perché prodotte dal loro stesso uso: «la più grande malattia degli uomini è nata dalla battaglia contro le loro malattie, e gli apparenti rimedi hanno generato a

ID., Il crepuscolo degli idoli cit., p. 1 5 7 . ID., Umano, troppo umano, I cit., p. 169.

Biopotere e biopotenza loi

lungo andare qualcosa di peggio di quello che con essi doveva essere eliminato»". Nietzsche è ormai in grado di ricostruire l'intero diagramma dell'immunizzazione. Essa, in quanto seconda e derivata rispetto alla forza che intende contrastare, le resta sempre subalterna. Ne nega il potere di negazione - almeno quello che considera tale. Ma proprio per questo continua a parlare il linguaggio del negativo che vorrebbe annullare. Per evitare un male potenziale, ne produce uno attuale. Sostituisce un eccesso con un difetto, un pieno con un vuoto, un più con un meno. Nega ciò che si afferma e così afferma null'altro che la sua negazione. È quello che Nietzsche intende con il concetto chiave di 'risentimento', da lui identificato con tutte le forme di resistenza, o di vendetta, contrapposte alle forze originariamente affermative della vita: «Questo istinto della vendetta ha dominato per millenni l'umanità a tal punto che tutta la metafisica, la psicologia e la rappresentazione della storia, ma soprattutto la morale ne sono contrassegnate. Fin dove l'uomo ha pensato, fin li ha inoculato anche nelle cose il bacillo della vendetta»". Forse mai come in questo testo Nietzsche penetra tanto a fondo nella logica controeffettuale del paradigma immunitario. Intanto esso è esplicitamente riconosciuto come la forza - anche la debolezza è una forza, sia pure declinante, degenerata, della volontà di potenza - caratterizzante dell'intero processo di civilizzazione. Se, come spesso accade, non ne abbiamo piena coscienza, è perché pure la coscienza, come tutti gli apparati cognitivi, è un suo prodotto. Ma quello che ancora di più conta è il modo in cui tale forza agisce - o, più precisamente, 'reagisce'. Come ogni procedura di immunizzazione medica, essa immette nel corpo sociale un nucleo antigenico destinato ad attivare gli anticorpi protettivi. Ma, cosi facendo, infetta preventivamente l'organismo indebolendo le sue forze primigenie. In questo modo mette a rischio di morte ciò che intende tenere in vita - usa la vita contro la vita e controlla la morte attraverso la morte. E quanto fa il prete asceta, o il pastore d'anime, nei confronti del gregge malato: «reca con sé unguenti e balsami, non v'è dubbio; ma ha prima bisogno di ferire per poter essere medico; quindi, mentre lenisce il dolore ca-

" \Y>., Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali (Morgenròthe. Gedanken iiherdie moralischen Vomrtheile), in Opere cit., voi. V, i , p. 42. ID., Frammenti postumi, 1888-89 cit., p. 214.

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gionato dalla ferita, avvelena attempo stesso la ferìta»^\ Più che una forza che si difende da una debolezza, è una debolezza che risucchia la forza prosciugandola dall'interno, separandola da se stessa. Come ha osservato Deleuze''', la forza reattiva agisce per scomposizione e deviazione: sottrae alla forza attiva il suo potere, per appropriarsene e deviarla dalla sua direzione originaria. Ma, in questo modo, incorpora una forza ormai esausta, vanificando la sua stessa capacità di reazione. Essa continua a reagire; ma in una forma debilitata che fa della reazione non un'azione di risposta, ma una risposta senza azione, un'azione puramente immaginaria. Insediatasi così all'interno dell'organismo - individuale o collettivo - che aspira a difendere, finisce per condurlo alla rovina. Avendo distrutto le forze attive, per assimilarne il potere, non le resta che rivolgere la punta avvelenata al proprio interno, fino a distruggere anche se stessa.

3. Doppia negazione. I. Ciò che in questo modo si delinea è un paradigma di grande complessità interna. Non soltanto forze e debolezze si affrontano ed avviluppano in un nodo che non consente una distinzione stabile - quella che era una forza può indebolirsi al punto di rovesciarsi nel suo opposto, così come una iniziale debolezza può, ad un certo momento, assumere l'aspetto di una forza impadronendosi del suo potere. Ma addirittura nello stesso tempo un medesimo elemento può costituire una forza per alcuni e una debolezza per altri. E quanto accade al cristianesimo, e in genere alla religione, usata strumentalmente dai pochi per imporre il proprio dominio sui molti, e dunque destinata a rafforzare i primi a detrimento dei secondi; ma anche a fornire ai secondi i mezzi per rivalersi, su un altro piano, dei primi e trascinarli nel loro stesso gorgo. Qualcosa di simile può dirsi per l'arte e per la musica in particolare, che può fungere da potente stimolo per i nostri sensi, secondo il significato originario del termine 'estetica'; ma può anche diventare - è quel che accade alla musica romantica fino a Wagner - una sorta di sottile 'anestetico' rispetto ai traumi dell'esi" ID., Genealogia della morale dt., p. 330. Mi riferisco a G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, Paris 1962 [trad. it. Nietzsche e la filosofia, Torino 2002].

B i o p o t e r e e biopotenza loi

stenza. Non diversa, infine, è la lettura, appunto doppia, o meglio sdoppiata, proposta da Nietzsche delle istituzioni giuridico-politiche, a partire dallo Stato: visto da una certa angolatura come un baluardo necessario nei confronti di un conflitto distruttivo e da un'altra, contemporaneamente, come un meccanismo inibitore di energie vitali pienamente dispiegate. Del resto l'intero processo di civilizzazione comporta conseguenze reciprocamente antinomiche, quali sono appunto quelle dell'agevolazione e dell'indebolimento della vita. E non è anche la storia definita dall'autore qualcosa di utile eppure di dannoso ? Per vivere, insomma, l'uomo ha bisogno, in situazioni diverse, ma a volte anche nelle stesse, di una cosa e del suo contrario: dello storico e del non storico, della verità e della menzogna, della memoria e dell'oblio, della salute e della malattia - per non parlare della dialettica tra apollineo e dionisiaco cui tutte le altre bipolarità in ultima analisi rimandano. Tale ambivalenza, o addirittura aporeticità, di giudizio deriva dalla mutevolezza del punto di vista da cui si può guardare un dato fenomeno, nonché dalle contingenze, sempre variabili, in cui è situato. Ma, a scavare più a fondo, essa è radicata in una contraddizione, per cosi dire strutturale, secondo la quale l'immunizzazione da un lato è necessaria alla sopravvivenza di qualsiasi organismo, ma dall'altro gli è nociva perché, bloccandone la trasformazione, ne impedisce l'espansione biologica. Ciò deriva, a sua volta, dalla circostanza, richiamata a più riprese dall'autore, che conservazione e sviluppo, per quanto implicati in un nesso irresolubile - se qualcosa non si conservasse in vita non potrebbe neanche svilupparsi - sono, su un altro terreno, quello decisivo della volontà di potenza, in latente contrasto. Non solo, infatti, - argomenta Nietzsche - ciò che è «utile in relazione all'accelerazione del ritmo dello sviluppo è un 'utile' diverso da quello riferito alla massima fissazione e durevolezza possibile di ciò che si è sviluppato»", ma «ciò che giova alla durata dell'individuo potrebbe tornare a svantaggio per la sua forza e per il suo splendore, ciò che conserva l'individuo potrebbe trattenerlo e arrestarne lo sviluppo»''. Lo sviluppo presuppone la durata, ma la durata può ritardare, o impedire, lo sviluppo. La conservazione è implicita nell'espansione, ma l'espansione compromette e mette a rischio la conservazione. Già si incomincia a profilare il carattere irresolu" F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, 1885-87 cit., p. 283. " Ibid., p, 289.

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bilmente tragico della prospettiva nietzscheana - non solo perché gli effetti non sono mai linearmente riconducibili alla loro apparente causa, ma perché tra l'una e gli altri si apre il solco di una vera e propria antinomia: la sopravvivenza di una forza contrasta con il progetto del suo potenziamento. Limitandosi a sopravvivere, essa si indebolisce, rifluisce e - per usare la parola-chiave della semantica nietzschena - degenera: va nella direzione contraria alla sua medesima generazione. Ma, d'altro canto, se è così, bisogna arrivare alla conclusione paradossale che, per espandersi vitalmente, un organismo debba cessare di sopravvivere? O, quantomeno, debba sfidare la morte ? 2. È il punto di interrogazione più estremo, il bivio concettuale, di fronte al quale si trova Nietzsche. Ad esso, nel corso della sua opera, e spesso negli stessi testi, egli fornisce due tipi di risposta diversi, che a volte sembrano sovrapporsi, mentre in altri momenti paiono divergere in maniera inconciliabile. Buona parte della questione si gioca nel difficile rapporto dell'autore con l'evoluzionismo darwiniano, o meglio con quello che egli, non sempre a ragione, considera tale. Già sappiamo che Nietzsche rifiuta l'idea di un deficit iniziale che spingerebbe gli uomini alla lotta per la sopravvivenza secondo una selezione destinata a favorire i più adatti. Egli rovescia questa lettura 'progressiva' in una diversa impostazione che, interpretando l'origine della vita in termini di esuberanza e di prodigalità, prevede viceversa una serie discontinua di incrementi e decrementi governati non dall'adattamento selettivo, bensì dalla lotta interna alla volontà di potenza. Non che non esista una qualche forma di selezione - di riduzione degli uni e di accrescimento degli altri. Ma ciò - anziché a vantaggio dei forti e dei migliori, come vorrebbe Darwin (almeno il Darwin riletto da Nietzsche attraverso Spencer) - ridonda a favore dei deboli e dei peggiori: «Ciò che più mi sorprende nel contemplare i grandi destini dell'uomo è di vedere davanti ai miei occhi sempre il contrario di ciò che oggi vede o i^wo/vedere Darwin con la sua scuola: la selezione a favore dei più forti, dei più dotati, il progresso della specie. Si può toccare con mano esattamente il contrario: la cancellazione dei casi felici, l'inutilità dei tipi più altamente riusciti, l'inevitabile vittoria dei tipi medi e perfino di quelli aldi sotto della media»". Il motivo di tale decremento qualitativo va rintrac" F. NIETZSCHE, Frammenti postumi, i888-8
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