Esistenza di Dio

February 16, 2017 | Author: luxfides | Category: N/A
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INTRODUZIONE

L'arco di tempo più significativo per la vicenda della prova a priori dell'esistenza di Dio che costituisce il tema di questo saggio si dispiega tra Descartes e Kant. Le svolte che hanno modificato, trasformato e rilanciato -o minato alla radice, come molti preferiscono pensare- l'antico argomento di Anselmo sono tutte operate all'interno della metafisica di Descartes, e la critica che Kant rivolge all'argomento ontologico è modellata sulla particolare forma che la prova a priori ha assunto nelle pagine cartesiane. L'argomento che Kant chiama ontologico è la dimostrazione che Descartes avrebbe chiamato a priori. Tommaso, per parte sua, non avrebbe definito l'argomento di Anselmo cui si richiama quello cartesiano né una dimostrazione né a priori. La cesura radicale passa tra il modo in cui Tommaso pensava l'argomento anselmiano e il modo in cui lo ripensa e lo riformula Descartes. Lascio a quel che segue la cura di illustrare e giustificare queste affermazioni, anche se la convinzione che vi sia una coerenza e una specificità nella storia della metafisica tra Descartes e Kant è, per certi aspetti, quasi una banalità. C'è però un aspetto paradossale di questo studio, che salta agli occhi solo che si scorra l'indice del volume, e che merita qualche considerazione preliminare. Ho inteso fare una storia dell'argomento a priori in epoca moderna. Eppure, il capitolo centrale del saggio, centrale nel senso che tutta la trama di questa storia si decide in quel luogo, è dedicato alla prova che Descartes rielabora sul modello della prova causale tomista, di una prova a posteriori, dunque. In effetti, la vicenda subita dalla prova cosmologica ha una parte rilevante in questo studio. Ho cercato di mostrare come la struttura dell'argomento a priori moderno, pienamente dispiegata nelle Meditazioni cartesiane, si impossessi, in quelle stesse pagine, anche dell'argomento cosmologico di origine tomista. L'argomento che Kant chiamerà ontologico nasce, nelle pagine delle Meditazioni cartesiane, vitale e aggressivo. Non si limita ad affiancare l'argomento cosmologico, ma lo trascina nella sua logica e si avvale delle sue debolezze per dar corpo alla pretesa di essere l'unico argomento con cui sia possibile dimostrare l'esistenza di Dio. Così, se l'argomento cosmologico vorrà sopravvivere, dovrà allearsi con l'erede moderno dell'argomento anselmiano, suo antico nemico di un tempo, e accettare le modifiche che il nuovo dominatore gli imporrà. L'alleanza risulterà vantaggiosa per l'argomento ontologico, che, nella prova a posteriori, troverà un rafforzamento delle proprie ragioni, ma svantaggiosissima per l'argomento cosmologico che vedrà le sue sorti affidate alle fragili spalle della prova a priori. Il lettore avrà certo riconosciuto qualcosa di familiare nelle tesi che ho appena esposto. Si tratta, nella sostanza, di quanto sosteneva Kant, a proposito del ruolo 1

privilegiato dell'argomento ontologico nella metafisica moderna. Questo saggio, per molti versi, offre elementi che giustificano l'analisi kantiana. Kant si aggiudica il merito di aver ricostruito la logica dell'innesto dell'argomento ontologico nel corpo dell'argomento cosmologico, e di averla per primo raccontata, inscenando un romanzo filosofico, protagonista la ragione e le sue aspirazioni impossibili, un romanzo che si svolge tra la quarta antinomia e la critica della prova cosmologica. Le ragioni della erosione del 'vecchio' argomento cosmologico tomista che si consuma tra Suarez e Descartes sono ragioni che, nel contempo, spiegano anche le modifiche, o le scelte, che l'argomento ontologico cartesiano assume nei confronti dell'unum argumentum di Anselmo: la scelta di presentarsi come una vera e propria dimostrazione, sul modello delle dimostrazioni della matematica, e quella di rivendicare una piena intelligibilità dell'idea di Dio. Descartes è convinto che la teologia di ispirazione aristotelica abbia fallito nel tentativo di dimostrare l'esistenza di Dio. La prova cosmologica tomista, in quanto è una prova empirica, in quanto deve desumere la conoscenza di Dio dal finito, è incapace di raggiungere l'infinito. La causa prima, il primo motore, l'ente necessario di cui parla Tommaso devono ancora dimostrare di essere il Dio infinito della teologia giudaico-cristiana. Se aspira a dimostrare che esiste Dio e non il primo principio della filosofia naturale, la prova cosmologica deve sottomettersi alla logica della nuova prova a priori cartesiana, di una prova nella quale la conoscenza di Dio non deve più nulla all'esperienza. In questo modo, nel tentativo di rendere pienamente adeguata la ragione filosofica all'immagine giudaico-cristiana di Dio, la teologia moderna si trova ad affidare il suo destino al più arduo argomento che la ragione abbia escogitato per dimostrare l'esistenza di Dio, quell'argomento che pretende che l'ateismo violi le leggi della logica, che la negazione dell'esistenza di Dio sia contraddittoria e impensabile. E' vero però che le argomentazioni 'antiche' non muoiono solo perché ne sono nate altre 'moderne', e la loro permanenza costituisce una reale ricchezza del pensiero filosofico. Quel che appare come una loro confutazione è spesso un mutamento complessivo di atteggiamento e di presupposti, che non toglie alle teorie precedenti una capacità di sopravvivenza e di vitalità. E' il caso della prova a posteriori tomista, che non solo sopravvive accanto al dilagare delle innovazioni che Descartes ha imposto a quella prova, ma che, anzi, si oppone vigorosamente alla nuova prova cosmologica, in piena consapevolezza delle scelte teologiche che sono in gioco. Di questa sopravvivenza e di questa opposizione -assai autorevole, in terra inglese- ho cercato di dare conto. Ma ho voluto anche segnalare l'insicurezza di coloro che rifiutano la rivoluzione teologica cartesiana: Locke è un bell'esempio della ripresa della prova cosmologica tomista, e, insieme, della consapevolezza di quanto sia difficile il ritorno a Tommaso, dopo Descartes. Altro discorso andrebbe invece fatto per il 2

dominio inglese della teologia newtoniana, e del finalismo, che qui è rimasto in secondo piano. Hume, peraltro, non mancherà di rivolgere contro la teologia newtoniana quell'accusa di incapacità di raggiungere l'infinito, in nome della quale Descartes aveva respinto la teologia tomista. Non ho poi voluto seguire, se non incidentalmente, gli esiti del rifiuto della teologia tomista nella cultura cartesiana. Il maggior rimpianto, naturalmente, è per Malebranche, che, assieme ai molti eredi della rivoluzione teologica cartesiana, è stato qui sacrificato ad una ideale linea di sviluppo che passa da Descartes a Leibniz. Molti fattori hanno influito sulla moderna fortuna dell'argomento ontologico. In primo luogo, il razionalismo quale si afferma e domina il pensiero del Seicento, di quell'epoca, per dirla con Engels, nella quale "tutto dovette giustificare la propria esistenza davanti al tribunale della ragione o rinunciare all'esistenza."1 In effetti, Descartes pone un'alternativa drammatica: o si può giustificare l'esistenza di Dio davanti al tribunale della ragione, o si deve rinunciare all'esistenza di Dio, e la prova a priori cartesiana pretende giustappunto di dar conto del perché Dio esiste: la natura di Dio è la ragione della sua esistenza. In secondo luogo, la rinascita del platonismo. La prova a priori dell'esistenza di Dio, come tutti i grandi argomenti filosofici, è una pianta che si sviluppa solo in particolari condizioni; ogni autore che la accetta si impegna ad una qualche forma di platonismo delle essenze, e questo è certamente il caso di Descartes, di Spinoza e di Leibniz. La rinascita del platonismo in epoca moderna, pur nota, meriterebbe di essere ripensata alla luce dell'impressionante successo di un argomento che è sostenibile solo all'interno di categorie platoniche. Ma, al di là di questi punti di riferimento, non va sottovalutato l'effetto della critica cartesiana alla teologia tomista, in quanto pretende di essere una indagine su Dio guidata dalla ragione, una critica così difficile da respingere che molti teologi esitanti o addirittura contrari all'argomento ontologico hanno poi ritenuto indispensabile abbandonare la vecchia prova cosmologica di Tommaso e abbracciare il nuovo argomento a posteriori cartesiano, senza accorgersi che, così facendo, erano poi obbligati ad ammettere la legittimità dell'argomento ontologico, come farà loro notare Kant. Cosicché se l'analisi e la critica kantiane sono valide solo per il razionalismo moderno, la teologia precartesiana ha l'onere di cimentarsi con la critica cartesiana alla teologia tomista. Per parte sua, Kant l'ha ritenuta così fondata da convincersi che il passaggio dall'impianto teologico tomista a quello cartesiano sia stata una mossa inevitabile nella ricerca puramente razionale di Dio. Per questo la storia dell'ascesa dell'argomento ontologico in epoca moderna coincide in larga parte con la storia della ricerca razionale di Dio, e, se si accetta la confutazione kantiana di quell'argomento, anche con la storia del suo naufragio. 1 F. ENGELS, Anti-Dühring, in K. MARX e F. ENGELS, Werke, Berlin 1962, t. XX, p. 16. 3

L'argomento cosmologico non accetterà il dominio della prova a priori cartesiana senza subire profonde modifiche. La trasformazione più appariscente, ma anche la più radicale, subita dalla prova cosmologica, è il passaggio dalle modalità temporali o causali che regolano la prova a posteriori di matrice aristotelica alle modalità logiche della metafisica moderna. L'ente necessario della prova aristotelico-tomista era un ente eterno, un ente che esiste in tutti i tempi; l'ente necessario della prova cosmologica inaugurata da Descartes è un ente la cui esistenza non può essere negata senza contraddizione, lo stesso ente di cui parla la prova ontologica. Una trasformazione, questa, che interessa non solo l'ambito teologico ma anche il pensiero ateo e materialista. La metafisica, dopo Descartes, ruota attorno alla ricerca di un ente la cui esistenza non possa essere negata senza contraddizione, di una esistenza necessaria, sia essa incarnata nello spazio, nella materia, in principi primi ignoti. Nell'imporre alla prova cosmologica di abbandonare le modalità temporali, anche la prova a priori dovrà però rivedere i compromessi con quel sistema modale, compromessi che pure avevano caratterizzato la sua storia prima di Descartes. L'egemonia dell'argomento a priori cartesiano si rivela così nella sua portata di radicale rivoluzione teologica. La presenza delle modalità temporali anche nell'argomento a priori precartesiano era infatti indicativa dell'egemonia della teologia a posteriori di origine aristotelica, tanto quanto la loro emarginazione o la loro rielaborazione sia nella prova a priori sia nella prova a posteriori è il segno del passaggio alla guida della teologia moderna delle categorie di ascendenza platonica. Leibniz, nell'assumere per intero i risultati della meditazione teologica cartesiana, ripensa l'intero arco delle prove dell'esistenza di Dio all'insegna dell'uso esclusivo delle modalità logiche. Del tutto peculiare, per questa problematica, è il caso di Spinoza. Ma anch'esso è comprensibile solo all'altezza della nuova era cartesiana. La storia dell'abbandono delle modalità temporali da parte dell'argomento a priori merita di essere raccontata. Attraverso di essa si entra nella questione, aperta da un classico studio di Dieter Henrich sulla prova ontologica,2 dell'esistenza di un 'secondo' argomento ontologico. Descartes, che pure avrebbe usato l'argomento anselmiano nella quinta Meditazione, avrebbe poi, nella risposta alle prime obiezioni, dato vita ad un secondo argomento, con una proposta teoricamente così forte, da imporre un rilancio della prova ontologica per tutto il XVIII secolo. Tutti i grandi metafisici, da Leibniz a Wolff, l'avrebbero accettata e avrebbero utilizzato, di preferenza, il secondo argomento inaugurato da Descartes. Seguendo la traccia della struttura modale dell'argomento a priori, ho invece cercato di mostrare, nei primi due capitoli di questo studio, l'inconsistenza del cosiddetto 'secondo argomento ontologico', e, assieme, ho 2 D. HENRICH, Der ontologische Gottesbeweis, Tübingen 1967, trad. it. La prova ontologica dell'esistenza di Dio, Napoli 1983. 4

cercato di comprenderne la genesi e le ragioni di successo. La storia moderna dell'argomento a priori è caratterizzata dalla progressiva eliminazione, come di un corpo estraneo, di quello che Henrich considerava un argomento più forte rispetto alla prova utilizzata da Descartes nella quinta Meditazione. Se esiste un 'secondo argomento ontologico' in epoca moderna, questo non è l'argomento che Henrich aveva individuato nelle risposte di Descartes alle obiezioni rivolte alle sue Meditazioni, ma piuttosto quello che nasce dalle trasformazioni subite dalla prova a posteriori, e che, lungi dall'essere alternativo all'argomento a priori della quinta Meditazione, è piuttosto di questo solidale alleato e sostegno. Di questa alleanza, Leibniz è il testimone consapevole e privilegiato. Di nuovo, Kant si aggiudica il merito di aver confutato l'unico argomento ontologico formalmente valido ed effettivamente dominante a partire da Descartes. Di questa confutazione non mi occupo se non indirettamente, in questo saggio. Il che può forse apparire paradossale, in uno studio che si conclude con Kant. Ma la storia che qui racconto è in primo luogo quella dell'ascesa e dell'egemonia dell'argomento ontologico. Ad altri, narrare la storia della sua sconfitta. Desidero esprimere tutta la mia gratitudine agli amici che mi sono stati generosi del loro tempo e della loro competenza, aiutandomi nella stesura e nella revisione di questo lavoro con suggerimenti e critiche. Franco Chiereghin, Massimo Mugnai e Marzio Vacatello hanno letto una prima versione di questo lavoro. Come immaginavo, le loro numerose osservazioni mi sono state di grandissimo aiuto per migliorare e correggere il testo, e la loro affettuosa disponibilità mi ha rinnovato il piacere di parlare di filosofia con studiosi che mi sono affini per interessi e per atteggiamento. Con Alberto Gajano ho avuto modo di discutere sovente dei temi di questo saggio, e ne ho ricavato indicazioni preziose. Ho poi cercato di far tesoro delle obiezioni e delle indicazioni di Gino Roncaglia. Confido ora nella loro indulgenza per il cattivo uso che dovessi aver fatto dei suggerimenti che ho accolto numerosi nella versione finale. Paolo Leonardi non ha solo contribuito con la sua attenta lettura e le sue osservazioni alla stesura di questo lavoro, ma mi ha anche costantemente incoraggiato a trasformare alcune idee e intuizioni sparse in un progetto organico. Spero di non aver deluso le sue aspettative. Pietro Rossi mi ha simpaticamente aiutato e incoraggiato a pubblicare questo studio. La fresca attenzione e le osservazioni degli studenti del corso di Filosofia delle religioni che ho tenuto a Venezia nell'anno 1991-92 mi hanno molto aiutato a mettere a fuoco le idee di questo lavoro. Nel quinto capitolo di questo studio ho rifuso il saggio La prova a priori dell'esistenza di Dio nel Settecento inglese. Da Cudworth a Hume, comparso nel

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"Giornale critico della filosofia italiana" nel 1989. Ringrazio la direzione della Rivista per avermi consentito di utilizzarlo.

Capitolo I Un argomento 'ontologico' aristotelico

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I.1 In aeternis idem esse et posse. L'argomento ontologico è, in primo luogo, un esercizio sul potere delle modalità e delle definizioni. La sua pretesa è di ridurre a contraddizione chi, accettando una definizione adeguata di Dio -ente perfettissimo, o ente di cui non si può pensare il maggiore-, ne neghi poi l'esistenza. La sola analisi del concetto di Dio dovrebbe dimostrare che l'esistenza di Dio è necessaria o impossibile, escludendo il caso che vale invece per tutte le altre cose, ovvero che siano possibili, ma non esistano. Possibile, necessario e impossibile sono i concetti chiave con cui questa dimostrazione viene condotta. Così è da aspettarsi che significative variazioni nel modo di intendere le modalità abbiano inciso sia sulla struttura della prova sia sulla sua credibilità. Quello che passa solitamente per l'argomento anselmiano pretende appunto di ridurre a contraddizione colui che, pur comprendendo il significato dell'espressione 'ente di cui non si può pensare il maggiore', neghi l'esistenza di un tale ente. Infatti, se l'ente di cui non si può pensare il maggiore non esistesse, esso sarebbe un ente di cui si può pensare il maggiore, poiché si potrebbe pensare ad un ente che, oltre che esistere nel pensiero, esistesse anche nella realtà, e quest'ultimo sarebbe maggiore del primo. Le modalità utilizzate in questo argomento sono modalità logiche. E' impossibile, ossia è contraddittorio che un ente di cui non si può pensare il maggiore non esista nella realtà. L'ipotesi iniziale, poi, che si comprenda il significato del nome 'Dio', sembra presupporre la possibilità logica della definizione di Dio: il concetto di un ente di cui non si può pensare il maggiore è almeno pensabile, ossia possibile, ossia non contraddittorio.3 Le modalità logiche, del resto, costituiscono la struttura portante della ripresa moderna dell'argomento anselmiano, in Descartes e in Leibniz. Ci domanderemo ora se sia possibile costruire -e se di fatto si sia costruito- un argomento a priori per dimostrare l'esistenza di Dio, a partire da un'altra concezione delle modalità, e segnatamente dalla concezione temporale delle modalità, ovvero da 3 ANSELMO di CANTERBURY, Proslogion II :" ..certe ipse idem insipiens, cum audit hoc ipsum quod dico: 'aliquid quo maius nihil cogitari potest', intelligit illud esse. ... Et certe id quo maius cogitari nequit, non potest esse in solo intellectu. Si enim vel in solo intellectu est, potest cogitari esse et in re, quo maius est. Si ergo id quo maius cogitari non potest, est in solo intellectu: id ipsum quo maius cogitari non potest, est quo maius cogitari potest. Sed certe hoc esse non potest. Existit ergo procul dubio aliquid quo maius cogitari non valet, et in intellectu et in re." Non entro qui nella delicata questione di come debba interpretarsi la presenza del nome 'Dio' nell'intelletto dell'insipiente, ossia di come sia possibile pensare la proposizione 'l'ente di cui non si può pensare il maggiore non esiste'; su cui sono da vedere le pagine di M. Dal Pra, Discorso, concetto e realtà nel pensiero di Anselmo, in Logica e realtà. Momenti del pensierio medievale, Milano 1974. 7

quelle nozioni di possibilità, impossibilità e necessità presenti in alcuni luoghi di Aristotele, e che Aristotele elabora analizzando la coppia potenza-atto. In base a questa concezione delle modalità, è possibile quel che si realizza almeno una volta (la cui esistenza è vera in qualche tempo), impossibile quel che non si verifica mai (la cui esistenza è falsa in ogni tempo), e necessario quel che si verifica sempre (la cui esistenza è vera in ogni tempo).4 Il possibile si deve realizzare almeno una volta per essere tale, in virtù della tesi secondo la quale è l'atto che rivela la potenza, e niente può quindi dirsi possibile (in potenza) se non si attualizza mai: l'esistente è la misura del possibile. Questa concezione delle modalità è retta dal principio che Lovejoy ha reso familiare col nome di 'principio di pienezza'. 5 In base a questa accezione della possibilità, Aristotele, nel terzo libro della Fisica, elabora per gli enti eterni la formula che, come vedremo, costituirà il nucleo portante di una prova 'ontologica' dell'esistenza di Dio alternativa alla prova 'standard' 4 ARISTOTELE, Metafisica, IX, 1047b: "Se è vero che il possibile ... ha una sua esistenza nella misura in cui può essere realizzato, allora è senz'altro falso che una determinata cosa è possibile ma non si realizzerà mai; in tal caso noi, di conseguenza, perderemmo di vista le cose che sono impossibili." Maimonide restringe questa accezione del possibile (ciò che è vero in qualche tempo) alle specie. Cfr. MOSES MAIMONIDES, lettera a R. Samuel Ibn-Tibbon, cit. in S. MUNK, Commento a Le Guide des Egarés, Paris 1859 ss., II, p. 39: "Quand le possible se dit d'une espèce, il faut qu'il existe réellement dans certains individus de cette espèce: car, s'il n'existait jamais dans aucun individu, il serait impossible pour l'espèce, et de quel droit dirait-on alors qu'il est possible?... Il n'en est pas de même du possible qui se dit d'un individu: car, si nous disons qu'il se peut que cet enfant écrive ou n'écrive pas, il ne s'ensuit pas de cette possibilité que l'enfant doive nécessairement écrire à un moment quelconque. Ainsi donc, le possible dit d'une espèce n'est pas, à proprement dire, dans la catégorie du possible, mais est en quelque sorte nécessaire." Questa sembra essere stata anche l'opinione di Boezio. Cfr. In Periherm. I, 120.25-121.16. Sulla questione cfr. il bel saggio di L. ALANEN e S. KNUUTTILA, The Foundations of Modality and Conceivability in Descartes and his Predecessors (con ampia bibliografia), in S. KNUUTTILA, Modern Modalities, Dordrecht/Boston/London 1988, pp. 1-69, e anche S. KNUUTTIlA, Time and Modality in Scholasticism, in S. KNUUTTILA ed., Reforging the Great Chain of Being, Dordrech/Boston/London 1981, pp. 163-257. Sulle modalità in Aristotele si veda J. HINTIKKA, Time and Necessity: Studies in Aristotle's Theory of Modality, Oxford 1973, J. HINTIKKA, Aristotle on the Realization of Possibilities in Time e R.M. DANCY, Aristotle and the Priority of Actuality, in S. KNUUTTILA ed., Reforging the Great Chain of Being cit. , pp. 57-72 e 73-115. Le tesi di Hintikka e di Knuuttila sono state discusse da molti studiosi. J. Van RIJEN, Aspects of Aristotle's Logic of Modalities, Dordrecht 1989, contesta radicalmente il modello di Knuuttilla. Van Rijen ha sicuramente ragione nell'opporsi alla pretesa che le modalità temporali siano le uniche operanti in Aristotele, ma non convince quando tenta di espungerle da ogni luogo aristotelico in cui compaia in modo significativo la nozione di possibile e di necessario. S. Knuuttila riprende ora le sue tesi, con significative sfumature e arricchimenti in Modalities in Medieval Philosophy, London 1993. 5 A.O. LOVEJOY, The Great Chain of Being. A Study of the History of an Idea Harvard 1936. 8

attribuita ad Anselmo e a Descartes. Essa così recita: "....nelle cose eterne non vi è alcuna differenza tra il poter essere e l'essere".6 E' bene chiarire subito che, se è vero che in questo luogo è operante il principio di pienezza, Aristotele non pensa qui di dimostrare l'esistenza degli enti eterni a partire dalla loro definizione; in altre parole, Aristotele non ritiene di aver prodotto, con questa formula, un argomento a priori, come risulta chiaro non appena si precisa il senso di 'poter essere' o di 'essere possibile'. Se in qualche tempo è vero che un ente eterno esiste (se l'ente eterno è possibile), allora la sua esistenza è vera in ogni tempo (quell'ente è necessario), il che non può dirsi, ovviamente, per gli enti non eterni: questi ultimi sono possibili (la loro esistenza è vera in qualche tempo) anche se in un qualche altro tempo non esistono. L'argomento aristotelico assume l'esistenza in qualche tempo dell'ente eterno e, sulla base di questa assunzione, ne deduce l'esistenza attuale e in ogni tempo.7 Dal momento che l'esistente è il metro del possibile, sarà necessario dimostrare preliminarmente che gli enti eterni esistono, per poterli dire possibili, e a questo scopo si possono utilizzare le prove che Aristotele, nella Fisica e nella Metafisica, costruisce a partire dall' osservazione del cambiamento, ossia a partire dall'esistenza di enti contingenti.8 L'esistenza, e quindi la possibilità, dell'ente eterno è il risultato dell'indagine cosmologica. Le modalità aristoteliche che ci interessano, si diceva, sono modalità temporali: gli enti contingenti sono gli enti che nascono e periscono, enti che esistono in un tempo e non esistono in un altro, mentre l'ente necessario, l'ente sempre in atto che consente il passaggio dal non essere all'essere degli enti finiti, è l'ente eterno, l'ente che esiste in ogni tempo.9 Ora, purché si escluda che un ente possa venire all' esistenza senza essere causato, ipotesi la cui implicita esclusione rafforza il sapore 6 ARISTOTELE, Fisica, III, 203b, 30. Cfr. anche Metafisica, IX, 1050b: "...nessuna cosa che sia eterna ha un'esistenza potenziale." 7 Il luogo aristotelico più significativo, a questo proposito, è De Caelo, I, 12. Si veda 281b: "tutto ciò che è sempre, senz'altra determinazione, è incorruttibile." Anche su questo luogo aristotelico, e sull'operare in esso del principio di pienezza è in atto un acceso dibattito. Ne dà conto J. Van RIJEN, op. cit., p. 73 ss. 8 Se ne veda una buona esposizione in J. VUILLEMIN, De la logique à la théologie. Cinq études sur Aristote, Paris 1967, p. 164 ss. e W.L. CRAIG, The cosmological argument from Plato to Leibniz, London and Baingstoke 1980, p. 20 ss. 9 Si veda soprattutto de Generatione et Corruptione, II.9, 335a-b: "...alcune cose esistono di necessità, ad esempio quelle eterne; altre, invece, di necessità non esistono ... alcune, infine, possono tanto esistere quanto non esistere, ed è questo, appunto, il caso del gererabile e del corruttibile, giacché questo talora è e talora non è." 9

deterministico dell'interpretazione aristotelica delle modalità,10 questa nozione di possibilità può essere tradotta legittimamente in una accezione causale della possibilità: per ogni possibile esiste, in un qualche tempo, una causa che lo porta all'esistenza. Una premessa si deve però aggiungere per comprendere il passaggio da ciò che è temporalmente necessario a ciò che è causalmente necessario. L'ente causalmente necessario, al contrario dell'ente causalmente contingente, dovrebbe avere in se stesso la causa della propria esistenza: infatti, se la causa di esistenza è interna ad un ente (se questo ente può esistere per forza propria), esso esisterà sempre, ovvero sarà sempre in atto, ovvero sarà eterno e necessario: nel suo caso infatti la possibilità (il darsi di una causa che lo porti ad esistere) non è distinguibile dall'esistenza attuale. L'ente che ha in sé la causa di esistenza è perciò eterno e sempre in atto. Con questa aggiunta la formula In aeternis idem esse et posse può essere traslitterata nel linguaggio delle modalità causali: ciò che esiste per forza propria, se esiste una volta (ossia se è possibile) esiste sempre, al contrario di ciò che esiste per causa altrui. Ora Aristotele, nella prova dell'esistenza di un primo motore eterno del VII della Fisica esclude che un ente possa muovere se stesso. Ma nell'VIII libro discute, come anello di passaggio tra gli enti mossi da altro e l'ente non mosso da altro, dell'esistenza di enti mossi da se stessi. A proposito di tali enti, nella Metafisica, Aristotele affermerà esplicitamente che essi sono sempre in atto, in quanto hanno in sé il principio del movimento: "Gli esseri incorruttibili sono imitati anche da quelli che sono continuamente soggetti al cangiamento, come la terra e il fuoco. Anche questi, infatti, sono sempre in atto, perché posseggono il movimento in virtù di se stessi e in se stessi." 11 Sia nel caso dell'ente eterno sia nel caso dell'ente che ha in sé il principio del movimento, quel che si intende dimostrare non è che esistono enti eterni o enti che hanno in sé la causa del proprio mutamento, ma che se esistono enti di tal fatta, la loro esistenza è eterna, ossia vera in ogni tempo.

10 L'esclusione di un cambiamento incausato è implicata nel principio secondo il quale 'tutto ciò che è mosso è mosso da altro' (Fisica, VII, 241b), ossia nel principio secondo il quale il cambiamento, ovvero il passaggio dalla potenza all'atto, che è poi il modello sul quale si costruisce questa nozione di possibilità, sia sempre causato da altro, assunzione esplicita in Aristotele e costante dall'aristotelismo. 11 ARISTOTELE, Metafisica, IX, 1O50b. Corsivo mio. Cfr. anche MAIMONIDES, Le Guide des égarés cit., introd. alla seconda parte, prop. XVIII: "Toutes les fois que quelque chose passe de la puissance à l'acte, ce qui l'y fait passer est autre chose que lui, et nécessairement est en dehors de lui: car, si ce qui fait passer (à l'acte) était en lui, et qu'il n'y eût là aucun empêchement, il ne resterait pas un instant en puissance, mais serait toujours en acte." Corsivo mio. 10

Le modalità temporali e le modalità causali sono state denominate modalità 'statistiche', proprio perché, al loro interno, è considerato possibile solo ciò che si realizza.12 Questa interpretazione delle modalità è largamente presente in tutta la scolastica; ad essa vengono affidate argomentazioni rilevanti per la teologia e la metafisica13 ed essa affianca apparentemente indisturbata la spinta verso una interpretazione logica delle modalità, e verso il riconoscimento di enti possibili che non esisteranno mai, una spinta che proviene soprattutto dalla riflessione sull' onnipotenza divina e sul libero arbitrio.14 Se il ragionamento aristotelico parte dall'esistenza per stabilire la possibilità, la sua formula relativa agli enti eterni -In aeternis idem esse et posse- non può essere scambiata per una prova a priori dell' esistenza di enti eterni. Ma proviamo a vedere cosa accadrebbe se, invece di partire dall' esistenza in qualche tempo di un ente per dichiararlo possibile, si volesse stabilire la possibilità di quell'ente attraverso la non contraddittorietà della sua definizione, e si applicasse a questo livello il principio in base al quale ciò che è possibile esiste in qualche tempo. Ovvero, proviamo a vedere cosa accadrebbe se la definizione privilegiata del possibile divenisse quella logica, ma della struttura modale temporale rimanesse la convinzione che il possibile, se è veramente tale, deve esemplificarsi in un momento del tempo. In questo caso, il principio di pienezza prenderebbe la forma di un appiattimento delle modalità logiche sulle modalità temporali e causali, alle quali tutte verrebbe attribuita la stessa estensione, e il motto aristotelico In aeternis idem esse et posse non dimostrerebbe più l'esistenza in ogni tempo di un ente eterno a partire dalla sua esistenza in qualche tempo, ma dimostrerebbe l'esistenza di un ente eterno a partire dalla non 12 Cfr. J. HINTIKKA, Time and Necessity cit. e S. KNUUTTILA ed., Reforging the great Chain of Being cit., passim. 13 Per fare solo un esempio, a questa concezione delle modalità si affida Tommaso, all'interno della dimostrazione dell'esistenza di un ente necessario. Cfr. Summa Theologiae, I, qu. 2, a.3, in corp. Se tutte le cose fossero "possibilia non esse" argomenta Tommaso, allora "aliquando nihil fuit in rebus" Questo passaggio si regge solo assumendo che ciò che può non essere, in un qualche tempo non sia, ovvero interpretando la possibilità come potenzialità che si attualizza necessariamente in un qualche tempo. S. KNUUTTILA, (Time and modality cit, p. 214) ricorda giustamente questo luogo di Tommaso come "the best known mediaeval example of the statistical interpretation of modality". Per un altro esempio, si veda oltre, nota 18. 14 Questa spinta è decisamente predominante in Scoto. Cfr. S. KNUUTTILA, Time and modality cit. p. 217 ss. Ma non mancano esempi significativi anche prima di Scoto, come riconosce ora anche S. KNUUTTILA, Modalities in Medieval Philosophy cit. Per l'onnipotenza divina, si vedano i contributi di F. Oakley, Omnipotence, Covenant, and Order, Ithaca and London, 1984 W. J. Courtenay, The Dialectic of Divine Omnipotence, in Covenant and Causality in Medieval Thought, London 1984, E. Randi, Il sovrano e l'orologiaio, Firenze 1986. 11

contraddittorietà del suo concetto, ovvero il motto aristotelico offrirebbe il destro per una prova dell'esistenza dell'ente eterno a partire dalla non contraddittorietà della sua definizione. Infatti, in base a tale assunto, se la definizione di un ente non è contraddittoria, quell'ente esiste in qualche tempo (per l'operare del principio di pienezza ), ma se ad essere non contraddittoria è la definizione di ente eterno, allora la sua possibilità implica l'esistenza necessaria, ovvero l'esistenza in ogni tempo. Inversamente, se l'ente eterno non esiste in qualche tempo, la sua esistenza è impossibile, e quindi la sua definizione deve implicare contraddizione. Il principio di pienezza costituirebbe così una formidabile controspinta, interna all'aristotelismo, rispetto all'impianto a posteriori della teologia di ispirazione aristotelica. Tanto questa nega che sia possibile ricavare un' esistenza da una definizione, tanto il principio di pienezza spinge proprio su quella strada. Si tratta ora di verificare se questa utilizzazione del principio di pienezza sia solo un' ipotesi costruita a tavolino o se abbia invece un qualche riscontro effettivo. Una illustre ripresa dell'argomento aristotelico, deformato nel senso cui si è accennato, è dato trovare nelle versioni della dimostrazione dell'esistenza di Dio proposte da Duns Scoto. Prenderemo qui in esame il commento al primo Libro delle Sentenze. In quel luogo, Scoto elabora un complesso argomento cosmologico, ma la struttura a posteriori dell'argomentazione si apre più volte su un impianto a priori.15 La prova, ridotta all'essenziale, è una prova causale, che parte dall'esistenza di enti causati (o meglio causabili) da altro, per giungere, attraverso la negazione del regresso all'infinito, ad una causa prima incausabile. Per dimostrare che il regresso all'infinito è impossibile, Scoto elabora cinque argomentazioni. L'ultima è quella che ci interessa: il regresso all'infinito è impossibile perché una causa prima incausata è possibile; ma se una causa prima è possibile, essa esiste, e se esiste una causa prima, il regresso all'infinito è impossibile. Tra le cinque argomentazioni, questa è quella preferita da Scoto. Infatti le altre quattro sono costruite sull'esperienza, e fanno quindi parte delle prove "ex contingentibus"; quest'ultima, invece, è costruita a partire dal concetto di possibile, e, come tutte le prove che assumono una premessa "de natura quiditate, et possibilitate", essa fa parte delle prove "ex necessariis". Il ragionamento di Scoto si compone di due parti: nella prima si dimostra che la causa prima incausata è possibile; nella seconda che, se la causa prima è possibile, allora esiste. L'efficacia causale -argomenta Scoto- è una perfezione; dunque può trovarsi in un ente senza imperfezioni. Ma essere causato da altro è una imperfezione, dunque è possibile una causalità efficiente in un ente non causato da altro, ovvero è

15 Cfr. W.L. CRAIG, The cosmological argument cit., p. 205 ss., p. 221 ss. 12

possibile una causa prima.16 In che senso è possibile? Nel senso che non contraddice né il concetto di causalità efficiente né quello di somma perfezione: non è contraddittorio che una causa efficiente sia incausata, ovvero non è contraddittorio che la perfezione di essere causa appartenga ad un ente, senza l'imperfezione di essere effetto. Si tratta di una possibilità puramente logica, che considera solo la compatibilità di due nozioni: quella di causa e quella di perfezione. Ed ecco, subito dopo, l'annuncio della seconda parte della prova, ossia del passaggio dalla possibilità alla esistenza della causa prima: "e tanto basta, perché più oltre concluderemo da questo che una tale causa efficiente prima, se è possibile, esiste di fatto..." Più oltre, Scoto prova che la causa prima esiste, se è possibile, esiste, appoggiandosi esclusivamente sul suo carattere incausato. Ciò che non è a se non può mai divenire a se, altrimenti il non essere produrrebbe l'essere, e un ente produrrebbe se stesso, cosicché la sua esistenza sarebbe causata, contro la definizione che lo pone, appunto, come a se, ossia come incausabile. Quindi, se l'ente a se non esistesse la sua esistenza sarebbe impossibile. Ma l'esistenza dell'ente a se è possibile, dunque l'ente a se esiste. Ancora: l'ente primo è incausabile, dunque se può esistere perché non contraddice al concetto di ente (non contradicit entitati), ne segue che può esistere per sé, e così esiste per sé.17

16 J. DUNS SCOTI Ordinatio I, Dist. 2, pars 1, q.1-2, 53, in JOANNIS DUNS SCOTI, Opera Omnia, studio et cura commissionis scotisticae praes.P.C. Balic, Civitas vaticana 1950, II, pp. 1589: "... effectivum nullam imperfectionem ponit necessario; ergo potest esse in aliquo sine imperfectione. Sed si in nulla causa est sine dependentia ad aliquid prius, in nullo est sine imperfectione. Ergo effectivitas independens potest inesse alicui naturae, et illa est simpliciter prima: ergo effectibilitas simpliciter prima est possibilis". Sottolineatura mia. 17 Ivi, Dist. 2, pars 1, q.1-2, 58-59, pp. 164-65: "Primum effectivum est in actu exsistens et aliqua natura exsistens actualiter sicut est effectiva. Probatio istius: cuius rationi repugnat esse ab alio, illud si potest esse, potest esse a se; sed rationi primi effectivi repugnat esse ab alio... et ipsum potest esse, sicut patet ex prima ubi posita est quinta probatio ad a, ... Ergo effectivum simpliciter primum potest esse ex se. Quod non est a se, non potest esse a se, quia tunc non-ens produceret aliquid ad esse, quod est impossibile, et adhuc, tunc illud causaret se et ita non erit incausabile omnino. ... in ratione talis primi maxime includitur incausabile ...; ergo si potest esse (quia non contradicit entitati...), sequitur quod potest esse a se, et ita est a se." Cfr. anche De primo principio, III, 4, revised text and translation by E. Roche, Louvain 1949, pp. 48-5O: "Cui repugnat esse ab alio, si est possibile, est ... Probatur: cuius rationi repugnat posse esse ab alio, illud si potest esse, potest esse a se ... et ita est a se." E' evidente che Scoto parte dall'assunto che non si possa pervenire all'esistenza senza una causa. Su questo punto insiste molto R. WOOD, Scotus's argument for the existence of God, "Franciscan Studies", 47 (1987), pp. 257-277. L'assunto di Scoto, peraltro, deriva da quello aristotelico, secondo il quale 'ciò che si muove è mosso da altro'. Vedi sopra nota 6. 13

Qui è palese sia l'assunzione di partenza del possibile come non contraddittorio sia lo slittamento da una nozione logica ad una causale di possibilità: se l'ente a se non esistesse, niente potrebbe produrlo, ossia l'ente a se non sarebbe possibile (causalmente); ma l'ente a se è possibile (logicamente), come è stato provato quando si è dimostrato che la sua nozione non è contraddittoria, dunque l'ens a se esiste. E, in margine, l'editore seicentesco rimanda al luogo aristotelico che, del tutto pertinentemente, gli pare all'origine di questa argomentazione: "In aeternis idem esse et posse. 3. Physic. t. 32."18 La formula aristotelica, grazie all'assunzione delle modalità logiche per determinare la possibilità, è divenuta una prova dell'esistenza dell'ente incausato a partire dalla non contraddittorietà della sua definizione.19 A ragion veduta ho parlato qui di 'slittamento' da una nozione logica ad una causale di possibilità e non di una sovrapposizione o di una indistinzione, come era nella teoria aristotelica delle modalità. Duns Scoto, infatti, offre la prima formulazione ineccepibile della distinzione tra modalità logiche e modalità causali-temporali, e contesta consapevolmente ed esplicitamente la loro sovrapposizione -e 18 Cfr. I. DUNS SCOTI Quaestiones in Lib. I Sentent.,in Opera omnia, ed. L. Wadding, Lugduni 1639, anastatica Olms, Hildesheim 1968, vol. V,I, p. 249. La stessa interpretazione dell'aristotelico in aeternis idem esse et posse la troviamo in Suarez, in un argomento teso a dimostrare, per assurdo, l'unicità dell'ente a se. Cfr. Disputationes metaphysicae, Disp. XXIX, sect. III, XV. Se fossero logicamente possibili più enti a se, ne esisterebbero di fatto tanti quanti fossero possibili, ovvero un numero infinito, poiché in aeternis idem esse et posse; ma ciò è assurdo, quindi uno solo deve essere possibile. "Quot autem essent possibilia, tot necessario essent; nam in his maxime verum habet illud axioma; In aeternis idem esse et posse..." 19 Lo slittamento modale è stato notato da J.D. ROSS, Philosophical Theology, Indianapolis 1969. Ross difende comunque l'argomento di Scoto cercando di dimostrare l'equivalenza tra modalità logiche e modalità reali. A questo tentativo si è opposto, del tutto legittimamente, G.R. MAYES, Ross and Scotus on the existence of God: two proofs from possibility, "The Thomist" 54 (1990), pp. 97-114. Mayes pretende però che l'argomento di Scoto sia comunque valido, perché esso si svolgerebbe sempre e solo sul piano delle modalità reali. Ed è quanto appare inaccettabile. Che Scoto si muova sempre su quello che chiamava il piano 'metafisico' e non sul piano logico era già tesi di E. GILSON, Jean Duns Scot. Introduction a ses positions fondamentales, Paris 1952, p. 128 ss. Ma, nel caso in questione, anche Gilson riconosceva che la premessa di partenza -una prima causa incausata è possibile- intendeva riferirsi alla non contraddittorietà della causa prima, ivi, p. 142. Mayes sostiene invece che la possibilità dell'ente incausato è anch'essa una possibilità reale, in quanto ricavata dall'esistente. Per dimostrarlo, è obbligato a far dipendere la possibilità della causa prima dalla dimostrazione della sua esistenza, inferita a posteriori attraverso l'impossibilità del regresso all'infinito. Ma in questo luogo di Scoto le cose si svolgono esattamente all'opposto dello schema proposto da Mayes: non è l'impossibilità del regresso all'infinito che prova che c'è una causa prima, e quindi che essa è possibile, ma è l'esistenza della causa prima (dimostrata attraverso la sua possibilità) che prova l'impossibilità del regresso all'infinito. La dimostrazione dell'esistenza di una causa prima occupa infatti il quinto posto di una serie di argomentazioni volte a dimostrare "quod infinitas essentialiter ordinatorum est impossibilis." 14

conseguentemente il principio di pienezza- con la limpida elaborazione di una metafisica dei mondi possibili20. E' quindi legittimo parlare di un vero e proprio slittamento dall'una all'altra modalità; nello stesso tempo è il caso di osservare come una buona teorizzazione della distinzione tra modalità logiche e modalità causali, e un rifiuto del loro appiattimento in ottemperanza al principio di pienezza non mette al riparo sempre e comunque da errori modali, soprattutto là dove la tradizione può aver creato una forte inerzia concettuale. La distinzione modale, in questo caso, serve a Scoto solo per partire dalla definizione logica del possibile, per poi, però, cadere nella antica richiesta che il possibile, per essere tale, esista in qualche tempo. E' l'accoppiata di una novità (la chiarezza sulla definizione logica del possibile e il privilegiamento di questa definizione del possibile) e di una inerzia concettuale (tutto il possibile si realizza in qualche tempo) a trasformare il motto aristotelico 'in aeternis idem esse et posse' in una vera e propria prova dell'esistenza di un ente incausato a partire dalla sua definizione. Il ragionamento di Scoto si costruisce abbinando l'assunto dell' universalità del nesso causale (tutto ciò che incomincia ad essere è causato) all' esplicita esclusione della possibilità di una autocausalità. 21 Scoto infatti non inferisce dalla possibilità della causa prima il darsi di una causa interna della sua esistenza, per poi inferire da questa l'esistenza eterna della causa prima, ma inferisce dalla possibilità della causa prima la sua esistenza in forza del suo essere incausata e incausabile. E questo perché Scoto respinge rigorosamente, con Aristotele, e, soprattutto, con Tommaso, l'idea di una autocausalità o di una causa sui.22 La causa prima non è causa di se stessa, ma è incausata e incausabile, e quindi, se è possibile, deve esistere, perché, se non esistesse, non potrebbe mai darsi una causa che la porti all'esistenza. L'universalità del legame cambiamento-causa è mantenuta, ma il rifiuto dell' idea di una autocausalità fa sì che, 20 Cfr. I. DUNS SCOTO, De primo principio IV, 4, p. 84: "Non dico hic contingens quodcumque non est necessarium nec sempiternum, sed cuius oppositum posset fieri quando istud fit." Analogamente Ordinatio I, d. 2, p.1, q.1-2, n. 86. Si veda L. ALANEN and S. KNUUTTILA, The Foundations of Modality cit., p. 35 e S. KNUUTTILA, Being qua Being in Thomas Aquinas and John Duns Scotus, in S. KNUUTTILA and J. HINTIKKA eds., The Logic of Being: Historical Studies, Dordrecht 1986, pp. 201-222. 21 I. DUNS SCOTI Ordinatio I, Dist. 2, pars 1, q.1-2, 43, cit. p. 151: "...nulla res est, quae se ipsam faciat vel gignat." 22 Cfr. TOMMASO, Summa theologiae, I, q. 2, a. 3, in corp. :"...nec est possibile, quod aliquid sit causa efficiens sui ipsius; quia sic esset prius seipso, quod est impossibile." E SCOTO, Quaestiones in Lib. I Sent., Dist. II, q. II, 16, p. 249. La posizione di Scoto e di Tommaso deriva dalla esclusione aristotelica dell'autocinesi del primo motore, netta soprattutto nella prova dell'VII della Fisica. 15

laddove non possa darsi una causa esterna di esistenza -e nel caso della causa prima questa eventualità è esclusa per definizione-, o siamo di fronte ad una esistenza necessaria o ad una esistenza impossibile. Che non sia quest'ultimo il caso, lo si dimostra attraverso la non contraddittorietà dell'ente incausato. Per comprendere la prova di Scoto sono dunque necessari tre presupposti: lo slittamento dalle modalità logiche alle modalità causali, l'universalità del nesso causale (tutto quel che viene ad esistere è determinato da altro all'esistenza), e il rifiuto della autocausalità. Se si ricostruisce correttamente l'argomento di Scoto, si risolve anche un dilemma che ha diviso la letteratura sul Dottor sottile. Scoto rifiuta esplicitamente la possibilità di accedere ad una conoscenza dell'esistenza di Dio a partire dalla sua definizione, perché in via l'intelletto finito non può conoscere Dio per essentiam.23 D'altro canto, la prova sopra riportata è indubbiamente una prova dell'esistenza dell'ente incausato a partire dalla sua definizione.24 Orbene, questi due aspetti del pensiero teologico scotista non si contraddicono perché la prova di Scoto non prevede in alcun modo l'opzione per una teologia positiva e per il possesso di una definizione reale dell'essenza divina. La definizione su cui si innesta la dimostrazione è infatti quella di 'ente incausato e incausabile'; si tratta di un concetto per eccellenza negativo e compatibile con l'impossibilità per l'intelletto umano di guadagnare una definizione reale di Dio. La prova scotista si rivela in grado di resistere anche agli attacchi che Tommaso aveva rivolto ad Anselmo. E' impossibile dimostrare che Dio esiste partendo da una sua definizione -aveva sostenuto Tommaso- perché non possediamo una conoscenza 23 Cfr. Ordinatio, I, Dist. 2, pars 1, q.1-2, 26, cit., pp. 138-39: "Sed si quaeratur an esse insit alicui conceptui quem nos concipimus de Deo, ita quod talis propositio sit per se nota in qua enuntiatur esse de tali conceptu, puta ut de propositione cuius extrema possunt a nobis concipi ... dico quod nulla talis est per se nota..." e 39, p. 148 :"...de ente infinito sic non potest demostrari esse propter quid quantum ad nos, licet ex natura terminorum propositio est demonstrabilis propter quid. Sed quantum ad nos bene propositio est demonstrabilis demonstratione quia, ex creaturis." Per la compatibilità della tesi scotista secondo la quale la proposizione 'Deus est' non è per sé nota quoad nos con la riproduzione di un argomento assai vicino a quello anselmiano nel De primo principio si veda E. GILSON, Jean Duns Scot cit., p. 165 ss. 24 Cfr. A. KOYRE', Essai sur l'idée de Dieu et les preuves de son existence chez Descartes, Paris 1922, p. 195. W.L.Craig cerca invece di dimostrare che l'argomento sembra a noi a priori ma a Scoto doveva sembrare a posteriori. Cfr. The cosmological argument cit., p.222-23. La critica di incoerenza a Scoto su questo punto è di antica data. Cfr. E. PLUZANSKI, Essai sur la philosophie de Duns Scot, Paris 1888, p. 139: "La démonstration prétendue a posteriori se transforme, sans qu'il le dise, en démonstration a priori", cosicché Scoto "est exposé aux critiques qu'il a faites luimeme de saint Anselme". Gilson nega risolutamente che vi sia mai una prova a priori in Scoto. Cfr. Jean Duns Scot, cit. p.140: "On ne peut soutenir que Duns Scot procède a priori en aucun moment de la preuve." Il possibile da cui si ricava l'esistente, presupporrebbe, infatti, l'"etre réel donné dans l'experience". 16

adeguata dell'essenza di Dio, ma ci serviamo, per definirla, solo di un nomen, di una definizione convenzionale ricavata per negazione delle caratteristiche creaturali. E' ben vero che, come voleva Anselmo, l'esistenza è compresa nella definizione nominale di Dio, ma da una tale esistenza, solo pensata, non è lecito inferire una esistenza fuori del pensiero.25 Ora, la prova di Scoto non solo fa ricorso ad una definizione negativa di Dio, ma non prevede l'attribuzione del predicato-perfezione 'esistenza' alla causa prima. Nessun appiglio, dunque, per il divieto di passare da un' esistenza solo pensata ad un' esistenza fuori del pensiero, divieto che può quindi essere pienamente condiviso, ferma restando la bontà della prova. Scoto sostiene effettivamente un argomento che dimostra l'esistenza di una causa prima a partire dalla sua definizione, ma questo argomento non ha niente in comune con l'argomento anselmiano criticato da Tommaso, e passa indenne attraverso le critiche che Tommaso e lo stesso Scoto avevano rivolto ad Anselmo. Con una fuga in avanti, possiamo anticipare che l'argomento scotista supererebbe anche la critica kantiana, ossia la critica che attacca l'argomento ontologico in base alla tesi secondo la quale l'esistenza non è un predicato, dal momento che la prova scotista non include il predicato 'esistenza' nella definizione della causa prima. Proprio questo aspetto peculiare della prova proposta da Scoto (di essere cioè una prova a priori che, al limite, può condividere alcune critiche tomiste contro la prova anselmiana) spiega il suo successo anche in ambiente alieno da simpatie anselmiane e simpatizzante per l'aristotelismo: questo argomento ha tutte le caratteristiche per divenire la prova 'ontologica' degli aristotelici, sia per quel che afferma in positivo (il possibile prima o poi si realizza) sia per quel che omette (la conoscenza dell'essenza di Dio e la deduzione dell'esistenza di Dio dall'esistenza contenuta nella sua definizione). In epoca moderna, è dato trovarlo in una fortunatissima operetta di Lessius, il De providentia numinis et animi immortalitate, nel luogo in cui il teologo si propone di rafforzare il tradizionale argomento per dimostrare l'esistenza di Dio, tratto dal consensus gentium. L'argomento, secondo Lessius, è già probante se si limita ad asserire l'inverosimiglianza che tutti i popoli in tutti tempi abbiano creduto il falso. Ma si può dire di più. Per confutare l'argomento del consensus si dovrebbe sostenere che tutti i popoli in tutti i tempi avrebbero creduto alla verità di una proposizione non solo falsa, ma addirittura contraddittoria, il che è assurdo. Si tratta dunque di provare che, se Dio non esiste, la proposizione Dio esiste, che tutti i popoli hanno asserito e asseriscono, implica contraddizione:

25 Cfr. Summa Theologia I, q. II, a. I. Infra, pp. OOO. 17

Se non fosse vero che Dio esiste, non solo ciò sarebbe falso, ma ...implicherebbe anche contraddizione. Se infatti Dio non esiste adesso , o non esercita la sua provvidenza, è del tutto impossibile, e implica contraddizione, che egli esista in un qualche tempo e che eserciti la sua provvidenza. Nelle cose divine infatti è una stessa cosa esistere in atto e poter esistere, non esistere in atto ed essere impossibile, come insegnano Aristotele e tutti i filosofi. Ma come può accadere che ciò che non solo è falso, ma addirittura impossibile sia stato creduto da tutti i popoli, che sia stato iscritto in tutte le menti e che in esso abbiano consentito sempre tutti gli uomini, in ogni luogo, indipendentemente da un qualche insegnamento esterno?26 Anche Lessius rimanda ad Aristotele e, del resto, l'origine dell'argomento è confermata dai riferimenti temporali in esso presenti: "Si...Deus iam non est... prorsus impossibile est, et contradictionem involvit, ipsum aliquando existere". L'argomento che Scoto presentava operando sulla nozione di causa e sulle modalità causali, è qui presentato nella versione qualificata temporalmente. Il riferimento temporale è essenziale all'argomento di Lessius, come, in origine, all'argomento aristotelico: se la proposizione 'Dio esiste' è falsa in un tempo, essa è falsa in ogni tempo (ossia è impossibile che divenga mai vera), e se la proposizione 'Dio esiste' è vera in qualche tempo, essa è vera in ogni tempo: nel primo caso l'esistenza di Dio è (temporalmente) impossibile, nel secondo è (temporalmente) necessaria, ossia eterna. L'analisi di Lessius è rigorosamente omologa all'argomento di Scoto. Se l'ente a se non esiste, è impossibile che esista, affermava il dottor sottile; se infatti potesse esistere, pur non esistendo, ne deriverebbe che un ente, per definizione, incausabile, potrebbe essere causato, il che implica contraddizione. E ora Lessius: un ente eterno, se non esiste, non può esistere, altrimenti, si sottintende, non sarebbe più un ente eterno. Se si pone attenzione a queste ultime formulazioni dell'argomento 'ontologico' aristotelico, ci si rende conto di quel che probabilmente ha facilitato il ragionamento fallace e che continua, nel tempo, a generare l'illusione di un ragionamento modalmente corretto. Sia l'argomento di Scoto sia quello di Lessius possono infatti essere formulati in modo da concludere con una nozione logica di impossibilità, ossia con una contraddizione, dando così l'illusione che l'intero argomento utilizzi esclusivamente modalità logiche: è infatti contraddittorio, come sostiene Scoto, che un ente incausato venga causato, ossia è logicamente impossibile che si dia una causa di esistenza di un ente incausato, ed è quindi impossibile che un ente incausato cominci ad esistere. Ma non per questo l'argomento prova che se un ente incausato 26 LESSIUS, De providentia numinis et animi immortatitate libri duo, Antverpiae 1613, pp. 11-12. Inevitabile il riferimento all'argomento ontologico; cfr. M. J. BUCKLEY, At the Origins of Modern Atheism, New Haven and London 1987, p. 51. 18

non esiste l'asserto 'può esistere un ente incausato' implica contraddizione. Anche se un ente incausato non esiste, infatti, la sua definizione rimane scevra di contraddizione e la sua esistenza, quindi, resta logicamente possibile. Analoghe considerazioni valgono nel caso di Lessius: la contraddizione evocata da Lessius, nel caso in cui si affermasse che Dio è possibile pur non esistendo, è effettivamente ricavabile, introducendo nell'argomento alcuni riferimenti temporali: è infatti contraddittorio che un ente eterno esista solo in un qualche tempo, e, quindi, implica contraddizione che Dio non esista in un tempo e possa esistere in un altro tempo. Ma nessuna contraddizione è possibile ottenere, una volta che si sia privato l'argomento dei suoi riferimenti temporali. Se un ente eterno non esiste, la proposizione 'esiste un ente eterno' non diviene contraddittoria, come invece pretende Lessius: "Se non fosse vero che Dio esiste, non solo ciò sarebbe falso, ma ...implicherebbe anche contraddizione." Si può obiettare che quella che appare una fallacia, là dove si distinguano le modalità logiche da quelle statistiche, non è più tale nel caso in cui si ritenga che le nozioni di possibile e di impossibile siano univoche. All'interno del principio di pienezza non si distingue tra l'enunciato 'Se Dio non esiste la sua esistenza è temporalmente impossibile' e l'enunciato 'se Dio non esiste la sua esistenza implica contraddizione'. Ma vale qui quel che si diceva a proposito di Duns Scoto. Il motto aristotelico In aeternis idem esse et posse è potuto divenire una prova di esistenza perché si è cominciato a pensare al possibile logico come indipendente dall'esistente, ossia perché dell'originario principio di pienezza all'interno del quale si sono formate le modalità temporali si è obliterata la precedenza dell'esistente sul possibile. A riprova si può citare la reazione di un tardo aristotelico, il gesuita Roderigo de Arriaga. Arriaga discute l'argomento cosiddetto a priori che così suona: "Un ente infinitamente perfetto e che tende necessariamente all'esistenza non implica contraddizione ... Quindi esiste in atto". Arriaga ritiene l'argomento corretto, ma non in quanto prova a priori dell'esistenza: "Se l'esistenza è provata dalla possibilità non è provata a priori", infatti, "il possibile dalla parte dell'oggetto ... è la stessa cosa dell'esistente".27 Arriaga sa bene che colui che usa questo argomento fa riferimento alla nozione temporale di possibilità: è possibile ciò che in qualche tempo esiste; ma allora la dimostrazione non prova in alcun modo l'esistenza a partire dalla possibilità.

27 R.P. RODERICI de ARRIAGA, Disputationum theologicarum in primam partem Divi Thomae, Lugduni 1669, I, Disp. II, sect. II, p. 30a. Le Disputationes sono del 1643. La prima edizione compare ad Anversa. 19

Se l'ente perfettissimo è possibile, allora esiste, dimostra solo che se l'ente perfettissimo esiste, allora l'ente perfettissimo esiste in ogni tempo.28 L'argomento 'ontologico' aristotelico appartiene ad una fase di passaggio, nella quale l'uso esclusivo delle modalità statistiche è affiancato dall'affermazione e dalla progressiva autonomia delle modalità logiche, ne siano o meno consapevoli i loro teorici. Provvisoriamente si può concludere che chi costruisca un ragionamento esistenziale modalmente corretto, ossia chi distingua le modalità logiche dalle modalità causali-temporali, potrà bensì provare l'esistenza in ogni tempo di un ente eterno o incausato a partire dalla sua esistenza in un tempo, ma non potrà mai provare l'esistenza di quell'ente a partire dall'eternità o dalla incausabilità contenuta nella sua definizione. Chi invece ritenga di aver provato l'esistenza di un ente a partire dalla eternità o dalla incausabilità contenuta nella sua definizione avrà sicuramente operato ad un qualche livello della dimostrazione uno slittamento da modalità logiche a modalità temporali o causali.29 Si noti che, in forza dello slittamento modale, l'esistenza di Dio risulta o necessaria o impossibile, mentre si esclude il caso che l'esistenza di Dio sia possibile e Dio non esista. Ora, la riduzione delle modalità alla impossibilità e alla necessità nel caso di Dio è quanto l'argomento ontologico 'classico' attribuito ad Anselmo e poi riproposto da Descartes ha sempre preteso. Leibniz codificherà questa pretesa con una formula che suona identica a quella degli 'aristotelici': Se Dio è possibile, Dio esiste.30 Ma che la formulazione di Scoto non abbia alcuna comunanza concettuale con quella che sarà la formulazione di Leibniz lo si vede bene se si pone attenzione alle motivazioni dell'enunciato 'se Dio è possibile, Dio esiste'. Secondo Leibniz Dio, se è possibile, esiste, perché la sua definizione implica l'esistenza; basta dunque che quella definizione non sia contraddittoria, perché Dio esista. Per Scoto, invece, Dio, ovvero l'ente incausato, se è possibile, esiste, perché, se non esistesse, non potrebbe mai cominciare ad esistere, e la sua esistenza sarebbe quindi impossibile. E' perciò errato 28 Così, secondo Arriaga, avrebbe pensato anche Anselmo. Ibid. :"..ex conditionali affirmatione, si existat, infertur absolute, Ergo existit, quod non facit ullo modo demonstrationem à priori, neque D. Anselmus plus quam hoc voluit supra docere." 29 Sulle insidie modali dell'argomento ontologico è da vedere il saggio di J.I. FRIEDMAN, Necessity and the ontological Argument, "Erkenntnis" XV (1980), pp. 301-331, anche per una discussione del saggio di Ch. HARTSHORNE, The Logic of Perfection, La Salle 1962, tutto giocato sugli 'argomenti ontologici' che è possibile costruire con la nozione di necessità. 30 G.W. LEIBNIZ, Die Philosophischen Schriften, Hildesheim-New York, 1978, ed.C.I. Gerhardt (d'ora in poi G) IV, pp. 405-6. 20

rintracciare in questi luoghi di Scoto, come pure è stato autorevolmente fatto da Koyré, un antecedente della formulazione leibniziana.31 Un brillante 'piccolo' filosofo inglese, Samuel Colliber, si servirà di un bel paragone per illustrare la fallacia dell'argomento 'ontologico' costruito in base al principio di pienezza. Ho l'idea di un 'primo uomo con le ali', e non vedo niente di contraddittorio in questa idea. Ma se questa idea è possibile, allora il primo uomo con le ali esiste. Infatti, se non esistesse, allora, dal momento che un primo uomo non può essere prodotto da un altro uomo, non potrebbe mai esistere, e così un ente possibile sarebbe impossibile. Se questo, conclude Colliber, vi pare un argomento fallace, allora lo è anche quello che deduce l'esistenza di Dio dalla sua possibilità "perché essi sono esattamente paralleli".32 I.2 Da Anselmo a Malcolm L'argomento 'ontologico' aristotelico risorge in epoca contemporanea, attribuito da Normam Malcolm al fondatore dell'argomento ontologico, Anselmo, e giudicato dallo stesso Malcolm cogente. In un celeberrimo articolo del 1960, Normam Malcolm poneva il problema dell'esistenza di un duplice argomento ontologico in Anselmo.33 Un primo argomento, quello classico, a partire dalla definizione di Dio come ente perfettissimo, e un secondo, a partire dalla esistenza logicamente necessaria di Dio. Questo il primo argomento anselmiano: Certamente ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell'intelletto. Infatti, se esistesse solo nell'intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell'intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Ma certamente questo non è possibile. Esiste 31 A. KOYRE', Essai sur l'idée de Dieu cit., p. 185. Un accostamento con Leibniz è invece legittimo nel caso della ripresa dell'argomento anselmiano da parte di Scoto. Scoto, riformulando 'colorando'- nel De primo principio l'argomento del Proslogion, pone come condizione della sua validità che il primo principio sia pensabile, ovvero non contraddittorio. Se il massimo ente è pensabile allora esiste, perché altrimenti non sarebbe l'ente maggiore concepibile. Cfr. De primo principio cit., IV, 9, pp. 122-24. 32 S. COLLIBER, An Impartial Enquiry into the Existence and Nature of God, London 1735, p. 161. 33 N. MALCOLM, Anselm's Ontological argument, "Philosophical Review", LXIX (1960), pp. 41-62. 21

dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore, e nell'intelletto e nella realtà. Questo argomento sostiene: (1) Dio è l'ente di cui non si può pensare il maggiore. (2) Un ente che è nella realtà e nell'intelletto è maggiore dello stesso ente che è nel solo intelletto. (3) Se Dio è nell'intelletto, Dio è anche nella realtà. (4) Dio è nell'intelletto. (5) Dio è anche nella realtà. Se, come pretende lo stolto, Dio fosse solo nel pensiero e non nella realtà, ciò contraddirebbe la stessa definizione di Dio quale è nell'intelletto. Questo argomento, formulato da Anselmo in Proslogion II, richiede, per essere valido, di considerare l'esistenza una perfezione. Solo così, se si nega l'esistenza dell'ente di cui non si può pensare il maggiore, si ottiene una contraddizione, ovvero si afferma che "ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore". Ma che l'esistenza sia una perfezione è quanto Malcolm, con Kant, ritiene impossibile concedere, e per questo Malcolm giudica l'argomento anselmiano invalido. Ma, sostiene Malcolm, Anselmo riformula, poco dopo, in Proslogion III, in altro modo, e irriducibile al primo, la sua prova. In questo caso, l'argomento è il seguente: si può pensare che esista qualche cosa che non può essere pensato non esistente; e questo è maggiore di ciò che può essere pensato non esistente. Perciò se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente, lo stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di cui non si può pensare il maggiore; il che non è possibile. Dunque qualcosa di cui non si può pensare il maggiore esiste in modo così vero che non si può pensare che non esista. Sarebbe questo il secondo argomento anselmiano. Stavolta la perfezione che non può essere negata a Dio è l'impossibilità logica della non esistenza, ovvero, l'esistenza necessaria. Quello che Anselmo sembra dar per scontato in questo luogo, è che si possa pensare un ente tale che la sua non esistenza sia logicamente impossibile (quod non possit cogitari non esse), ovvero che sia (logicamente) possibile un ente la cui non esistenza sia (logicamente) impossibile, e che l'impossibilità della non esistenza sia una perfezione. Se si concede questo ad Anselmo, l'ente di cui non si può pensare il maggiore è l'ente la cui non esistenza è impossibile, e dunque l'ente di cui non si può

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pensare il maggiore esiste necessariamente.34 Resta però da affrontare il problema se la impossibilità di non esistere sia qualcosa di pensabile indipendentemente da una ragione che fondi questa impossibilità, e fermo restando che la ragione non può essere individuata nella circostanza che quell'ente include l'esistenza nella sua definizione, pena il ricadere nel primo argomento. Ora, secondo Malcolm, non mancherebbero in Anselmo ragioni per dimostrare che cosa determini l'impossibilità (logica) della non esistenza in un ente di cui non si può pensare il maggiore. Questa impossibilità, infatti, sarebbe dedotta da Anselmo a partire dalla esistenza eterna e indipendente; se questa deduzione fosse valida, anche l'argomento lo sarebbe. Infatti, è intuitivamente evidente che un ente di cui non si può pensare il maggiore debba essere eterno e indipendente, ossia che l'eternità e l'indipendenza siano perfezioni; il che non poteva dirsi, invece, per l'esistenza. Ma se l'esistenza necessaria di cui si parla deriva dalla eternità e dalla indipendenza dell'ente di cui non si può pensare il maggiore, il secondo argomento che Malcolm attribuisce ad Anselmo risulta identico a quello di Scoto e di Lessius. Se Dio non esiste, argomenta Malcolm, Dio non può cominciare ad esistere. Se infatti cominciasse ad esistere, la sua esistenza sarebbe causata da altro, ed egli non sarebbe più l'ente di cui non si può pensare il maggiore, ma un ente limitato. Dunque, se Dio non esiste, la sua esistenza è impossibile. Se invece Dio esiste, la sua esistenza non può aver avuto inizio, per le stesse ragioni. Per cui l'esistenza di Dio è o impossibile o necessaria. Può essere impossibile solo se il concetto di un tale ente è contraddittorio. Se non lo è, ne segue che Dio esiste necessariamente.35 Come Scoto e come Lessius, Malcolm pretende di inferire l'impossibilità logica dell'esistenza di Dio dall'impossibilità che un ente incausato o eterno cominci ad esistere in un tempo se non esiste in un altro tempo, ed equipara l'impossibilità che un ente infinito e incausato venga portato ad esistere se già non esiste alla contraddittorietà dell'enunciato 'esiste un ente incausato ed eterno'. L'esistenza di Dio, quindi, o è impossibile (contraddittoria), o è necessaria (logicamente necessaria), mentre è escluso che l'esistenza di Dio sia possibile (che la definizione di Dio non sia contraddittoria) e Dio non esista.36 All'argomento di Malcolm ha replicato Plantinga 34 Su questo punto, cfr. anche R. M. ADAMS, The Logical Structure of Anselm's Arguments, "The Philosophical Review", LXXX (1971), pp.28-54, ora in R.M. ADAMS, The virtue of Faith, Oxford 1987, pp. 221-42. 35 N. MALCOLM, Anselm's Ontological argumen, cit., pp. 49-50. 36 Dell'analogia tra l'argomento di Malcolm e quello di Scoto si è accorto R. WOOD, Scotus and Anselm cit., p. 272. Il saggio di Malcolm è stato difeso da Ch. HARTSHORNE, Anselm's Discovery, La Salle 1965. 23

in modo impeccabile. Dall'eternità di Dio si ricava solo che se Dio esiste, Dio esisterà sempre, e che se Dio non esiste, Dio non esisterà mai, ma non che l'esistenza di Dio è logicamente necessaria o logicamente impossibile, come Malcolm pretendeva.37 Ma come stavano le cose in Anselmo? Esiste o meno un 'secondo argomento' anselmiano, ovvero, cade già Anselmo nella fallacia che Malcolm gli attribuisce quando lo suppone autore di un argomento più forte di quello tradizionalmente attribuitogli? Per rispondere esaurientemente a questa domanda sarebbe necessario riaprire l'ormai intricatissima questione dell' esistenza di uno o più argomenti ontologici in Anselmo, questione inaugurata dal saggio di Malcolm e ormai densa di interventi.38 In queste pagine mi porrò il problema solo nei limiti in cui è necessario farlo per rispondere alla questione che qui ci interessa, ossia se Anselmo provi l'esistenza di Dio anche a partire dalla sua eternità o dal suo essere incausato, tanto da far pensare ad un uso delle modalità aristoteliche e ad una eco del motto 'In aeternis idem esse et posse'. In questa direzione si può citare almeno un luogo inequivoco, contenuto nella risposta di Anselmo a Gaunilone: Io dico con certezza: se può essere pensato esistente, è necessario che esista. Infatti, ciò di cui non si può pensare il maggiore non può essere pensato esistente se non senza un inizio. Di ciò che invece può essere pensato esistente e non esiste, si può pensare che l'esistenza abbia un inizio. Quindi ciò di cui non si può pensare il maggiore non può essere pensato esistente e non esistere. Se dunque si può pensare che esista, esiste necessariamente.39 In questo argomento, Anselmo prova l'esistenza dell'ente di cui non si può pensare il maggiore attraverso l'eternità. Solo negli enti che nascono e periscono il possibile è separabile dall'attuale. Essi, infatti, possono esistere (in futuro) anche se nel presente non esistono. In aeternis, invece, avrebbe detto Aristotele, idem esse et posse. E' intuitivo che ad un ente di cui non si può pensare il maggiore debba essere 37 A. PLANTINGA, A Valid Ontological Argument? "The Philosophical Review", LXX (1961), pp. 160-171, p. 165. La presenza di una fallacia modale nell'intervento di Malcolm è ben vista anche da A. KENNY, Descartes: A Study of His Philosophy, New-York 1968, p.63. 38 Se ne veda una prima bibliografia in R. LA CROIX, Proslogion II and III, Leiden 1972, pp. 135-36. 39 Quod ad haec respondeat editor ipsius libelli, in SANCTI ANSELMI CANTUARIENSIS ARCHIEPISCOPI Opera omnia ed. F.S. Schmitt, I, Edinburgi 1946, p. 131. 24

attribuita l'eternità. Ma se l'esistenza di un ente eterno è pensabile, quell'ente esiste. Se un ente che non ha inizio né fine non esistesse -si evince- non potrebbe esistere mai, ovvero non potrebbe essere pensato esistente. Esattamente il giro argomentativo basato sulla equiestensione delle modalità reali e delle modalità logiche che convincerà Scoto, Lessius e Malcolm. 40 Il ragionamento che Anselmo sviluppa in questo luogo e quello del 'secondo argomento' di Malcolm si articolano secondo una struttura parallela: o Dio esiste necessariamente, oppure la sua esistenza è impossibile, perché, se Dio esiste, non può cessare di esistere, e se Dio non esiste, non può cominciare ad esistere. Anselmo, come Malcolm, pretende qui di dedurre l'esistenza dall'eternità di Dio, e tanto basta per applicare ad Anselmo, con piena pertinenza, la critica ineccepibile che Plantinga rivolge a Malcolm. Infatti Anselmo, come Malcolm, scambia la proposizione 'Implica contraddizione che un ente eterno cominci ad esistere', con la proposizione 'Implica contraddizione che un ente eterno esista'. E' invece assai dubbio che nel luogo citato da Malcolm Anselmo intendesse ricondurre la necessità logica di esistenza -l'impossibilità di essere pensato inesistenteall'eternità. In ogni caso, è significativo che gli aristotelici che ragionavano attenendosi rigorosamente al principio di pienezza, e quindi assumendo la precedenza dell'esistente sul possibile, fossero convinti che quel luogo anselmiano potesse dimostrare solo che se l'ente di cui non si può pensare il maggiore esiste, allora non si può pensare che possa non esistere, ovvero che cessi di esistere. Così, infatti, 40 Anche nel caso di questo luogo di Anselmo è stata proposta l'analogia con la formula leibniziana: 'Se Dio è possibile Dio esiste', analogia, come nel caso di Scoto, puramente verbale, per i motivi sopra detti. Cfr.ANSELMO D'AOSTA, Opere filosofiche, a cura di S. VANNI ROVIGHI, Bari 1965, p. 115, nota. Per un confronto tra gli argomenti di Anselmo e Scoto e quello di Leibniz cfr. E.F. SERENE, Anselm's modal conception in S. KNUUTTILA ed. Reforging the great Chain of Being, cit., pp. 117-162, pp. 144-45. Subito dopo, Anselmo elabora invece un argomento che assume l'esistenza dell'ente di cui non si può pensare il maggiore per inferirne la caratteristica di esistere tutto sempre e ovunque: se l'ente di cui non si può pensare il maggiore esiste, non si può pensare che cessi di essere, e per questo l'ente di cui non si può pensare il maggiore deve essere tutto sempre e ovunque: "Procul dubio quidquid alicubi aut aliquando non est, etiam si est alicubi aut aliquando, potest tamen cogitari numquam et nusquam esse, sicut non est alicubi aut aliquando...Quidquid alicubi aut aliquando totum non est: etiam si est, potest cogitari non esse. At 'quo maius nequit cogitari': si est, non potest cogitari non esse. Alioquin si est, non est quo maius cogitari non possit; quod non convenit. Nullatenus ergo alicubi aut aliquando totum non est, sed semper et ubique totum est." Da luoghi come questo prende spunto la tesi, tanto paradossale quanto infondata, secondo la quale Anselmo non avrebbe mai pensato di dedurre l'esistenza di Dio dalla sua definizione. L'argomento 'ontologico', nascerebbe grazie ad una interpretazione fuorviante della posizione di Anselmo elaborata da Gaunilone. Cfr. Th. A. LOSONCY, Saint Anselm's Rejection of the 'Ontological Argument'. A Review of the Occasion and Circumstaces, in "The American Catholic Philosophical Quarterly" LXIV (1990), pp. 373-385. 25

interpretano Anselmo sia Gaunilone sia Tommaso.41 Anch'essi tentavano di piegare Anselmo alle modalità temporali, ma, al contrario di Malcolm, erano consapevoli che in questo modo diveniva impossibile dimostrare l'esistenza di Dio. L'argomento, una volta tradotto nelle modalità temporali, può solo assumere l'esistenza di Dio per inferirne l'eternità. Il saggio di Malcolm fa risorgere nella contemporaneità un argomento costruito all'interno di una concezione modale 'arcaica', sicuramente presente, ma del tutto incidentalmente, in Anselmo. Malcolm è lucidamente consapevole dei vantaggi che si dovrebbero riconoscere a questo argomento 'ontologico', se esso fosse valido. Non solo, all'interno di questo argomento, non si opererebbe alcun passaggio all'esistenza fuori dal pensiero dall'esistenza pensata, passando così indenni attraverso i divieti di Tommaso, ma, ancor più radicalmente, non si includerebbe, sotto forma di perfezione, l'esistenza nel concetto di Dio. Si potrebbe perciò condividere anche la critica kantiana all'argomento ontologico, rifiutare all'esistenza lo statuto di predicato, e continuare a proporre il passaggio dalla definizione di Dio all'esistenza. Soffermiamoci ancora sull'analisi del 'secondo' argomento anselmiano condotta da Malcolm: 1. L'argomento che attribuisce a Dio l'esistenza necessaria a partire dalla sua eternità e indipendenza costituisce un secondo argomento a priori, irriducibile a quello che attribuisce a Dio la perfezione dell'esistenza. 2. Questo secondo argomento supera la critica kantiana. Orbene, queste stesse caratteristiche furono attribuite da un classico studio di Dieter Henrich42 ad una presunta riformulazione cartesiana dell'argomento a priori. Henrich riteneva che Descartes avesse elaborato, nelle risposte a Caterus, un secondo argomento a priori, diverso da quello anselmiano che lo stesso Descartes aveva ripreso nella quinta Meditazione. Questo nuovo argomento, fondato sulla definizione di Dio come ente necessario, avrebbe retto per oltre un secolo, grazie alla sua 41 Cfr. GAUNILONE, Quid ad haec respondeat quidam pro insipiente, §7, In SABCTI ANSELMI Opera omnia cit. I, p. 129: "Haec interim ad obiecta insipiens ille responderit. Cui cum deinceps asseritur tale esse maius illud, ut nec sola cogitatione valeat non esse, et hoc rursus non aliunde probatur, quam eo ipso quod aliter non erit omnibus maius: idem ipsum possit referre responsum et dicere: Quando enim ego rei veritate esse tale aliquid, hoc est 'maius omnibus', dixi, ut ex hoc mihi debeat probari in tantum etiam re ipsa id esse, ut nec possit cogitari non esse?" E TOMMASO, I Sent. d.3, q.1, a 2, ob 4: "Ratio Anselmi ita intelligenda est. Postquam intelligimus Deum, non potest intelligi quod sit Deus et possit cogitari non esse; sed tamen ex hoc non sequitur quod aliquis non possit negare vel cogitare Deum non esse; potest enim cogitare nihil huiusmodi esse quo maius cogitari non possit; et ideo ratio sua procedit ex hac suppositione, quod supponatur aliquid esse quo maius cogitari non potest." Nella stessa direzione, il luogo di Arriaga, citato sopra, alla nota 24. 42 D. HENRICH, La prova ontologica cit. 26

maggiore forza teorica rispetto al classico argomento costruito a partire dalla definizione di Dio come ente perfettissimo. Esso, infatti, resisterebbe sia alla critica tomista sia alla critica kantiana. L'analogia nell'analisi della struttura (Dio è definito ente necessario e non ente perfettissimo) nonché dei vantaggi che Henrich riscontrava nel cosiddetto 'secondo' argomento cartesiano (esso supererebbe la critica kantiana), con l'analisi della struttura e dei vantaggi che Malcolm individuava nel cosiddetto 'secondo' argomento anselmiano, legittimano un riesame dell'argomento cartesiano, per verificare, se, eventualmente, non si tratti dello stesso 'secondo' argomento.

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Capitolo II

Descartes e l'ente necessario

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La prova dell'esistenza di Dio a partire dalla sua idea, nella formulazione cartesiana della quinta Meditazione, appare quanto mai semplice: Dio è l'ente perfettissimo; l'esistenza è una perfezione; Dio esiste: "non vi è minor repugnanza a concepire un Dio (cioè un essere sovranamente perfetto), al quale manchi l'esistenza (cioè al quale manchi qualche perfezione), che a concepire una montagna che non abbia vallata."43 Eppure Descartes, rispondendo all'autore delle prime obiezioni, il teologo olandese Caterus, difende quella prova elaborando una nuova dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio44 e poi, rispondendo agli autori delle seconde obiezioni, rifiuta una formulazione della prova a priori che sembrerebbe invece pienamente compatibile col testo della quinta Meditazione: Dio deve esistere se la sua natura è possibile.45 Per dipanare questo nodo problematico, cercherò in primo luogo di ricostruire la struttura della prova nella versione che Descartes elabora nelle risposte a Caterus. Questa strada ha il vantaggio di far comprendere anche il rifiuto della formulazione della prova a priori proposto dai secondi obiettori. Nell'intreccio delle risposte a Caterus e ai secondi obiettori, infatti, si svolge un episodio di grande rilievo per il destino dell'argomento 'ontologico' aristotelico. Descartes, come Lessius e Scoto, cade nelle insidie di quella prova, ma, a differenza di Scoto e di Lessius, si accorgerà della fallacia commessa, e procederà alla prima confutazione della prova a priori costruita sul principio di pienezza, compiuta in nome della irriducibilità delle modalità logiche a quelle causali. II.1 L'ente potentissimo Nelle prime obiezioni, Caterus affronta la prova dell'esistenza di Dio della quinta Meditazione in nome dell'ortodossia tomista. Come Tommaso osservava contro Anselmo, "anche se si conceda che l'essere sovranamente perfetto, in forza del suo proprio nome, importi l'esistenza, tuttavia non segue che questa stessa esistenza sia 43 Meditationes de prima philosophia in R. DESCARTES, Oeuvres, ed. Ch. Adam et P. Tannery, Paris, 1974 ss. (d'ora in poi A.T.), A.T. VII, p. 66, trad. it.in CARTESIO, Opere, Bari 1967 I, pp. 243-44. Introdurrò qualche variante in questa traduzione, condotta sul testo francese, soprattutto là dove vi siano significative varianti rispetto all'originale latino. 44Cfr. AT VII, pp. 115-20. 45 I secondi obiettori propongono di riformulare così la prova cartesiana: "si non implicet Deum esse, certum est illum existere; at non implicat illum existere", ovvero Dio "existere debere, si illius natura sit possibilis, seu non repugnet." AT VII, p. 127. Descartes respinge come un sofisma questa formulazione. Cfr. AT VII, pp. 151-2. 29

nella natura qualcosa in atto, ma solo che il concetto dell'esistenza è inseparabilmente congiunto con il concetto, o con la nozione, dell'essere sovranamente perfetto".46 Nella risposta, Descartes respinge l'obiezione tomista, rivendicando l'irriducibilità del proprio argomento a quello contro il quale Tommaso aveva rivolto la propria obiezione. Infatti, nella prova della quinta Meditazione, l'esistenza non è inferita da un nome ma da una vera essenza: Ma il mio argomento è stato un altro: ciò che noi concepiamo chiaramente e distintamente appartenere alla natura, o all'essenza, o alla forma immutabile e vera di qualche cosa, può esser detto o affermato con verità di questa cosa; ma dopo che noi abbiamo con sufficiente accuratezza ricercato ciò che è Dio, concepiamo chiaramente e distintamente che alla sua vera ed immutabile natura appartiene di esistere; dunque, allora, noi possiamo affermare con verità che egli esiste.47 La vera difficoltà, ammette poi Descartes, sta nel dimostrare che alla vera e immutabile natura di Dio appartiene necessariamente di esistere, ovvero che l'idea di un ente perfettissimo cui compete l'esistenza non è una idea arbitraria. Nel tentativo di dimostrare che l'esistenza appartiene alla vera natura di Dio, Descartes elabora una vera e propria seconda prova a priori dell'esistenza di Dio, costruita a partire dall'onnipotenza invece che dalla somma perfezione. Affronteremo più avanti il legame tra la struttura di questa prova e le esigenze dell'innatismo cartesiano. Per ora consideriamola solo in quanto essa dimostra che l'ente onnipotente esiste necessariamente. Così suona la nuova prova: Ma se esamineremo accuratamente se l'esistenza convenga all'ente sovranamente potente, e qual sorta di esistenza, potremo chiaramente e distintamente conoscere in primo luogo che almeno l'esistenza possibile gli conviene, come avviene a tutte le altre cose di cui abbiamo in noi qualche idea distinta: anche a quelle che sono composte dalle finzioni dell'intelletto. In seguito, poiché non possiamo pensare che la sua esistenza è possibile senza che, in pari tempo, facendo attenzione alla sua potenza infinita, non conosciamo poter egli esistere per la sua propria forza, concluderemo di là che egli realmente esiste, e che è esistito da tutta l'eternità. Poiché è manifestissimo, per la luce naturale, che ciò che può esistere per la sua propria forza esiste sempre.48 46 AT VII, p. 99, trad. it. p. 277. Caterus riportava e parafrasava la critica di Tommaso alla prova anselmiana, nella versione della Summa Theologiae, I, q. 2, a.1, ad secundum. 47 A.T. VII, pp. 115-16, trad. it., p. 292. 48 R. DESCARTES, Meditationes de prima philosophia, Primae responsiones AT VII, p. 119, trad. it. pp. 294-5. 30

Come è strutturata questa prova e quale valore dobbiamo attribuirle? La domanda ha tanto più senso quanto diverso nella storiografia cartesiana è il peso che a questa prova è stato attribuito, sia all'interno delle prove cartesiane dell'esistenza di Dio, sia in relazione alla storia dell'argomento ontologico. Si va dalla assoluta sottovalutazione di Lachièze-Rey alla alta considerazione che ne hanno avuto Gilson e Gouhier, fino alla tesi di Henrich che, come ricordavamo, ne fa addirittura il perno di un rilancio più che secolare dell'argomento ontologico.49 Non è però solo sul valore di questa prova che si sono registrate prese di posizione divergenti. Anche la struttura argomentativa della prova è stata infatti oggetto di diverse interpretazioni.50 Sarà quindi opportuno, preliminarmente, cercare di ricostruire la logica di questa dimostrazione dell'esistenza di Dio, e porsi solo in seguito il problema del suo valore. La prova dell'esistenza dell'ente infinitamente potente, quale compare nella versione finale delle risposte a Caterus, si presenta articolata nei seguenti passaggi: (1) All'ente potentissimo compete l'esistenza possibile. (2) L'ente potentissimo può esistere per forza propria. (3) Ciò che può esistere per forza propria esiste sempre. (4) L'ente potentissimo esiste. Descartes aveva però formulato diversamente la prova, nella prima versione delle risposte alle prime obiezioni fatta pervenire a Mersenne. In quella stesura, l'argomento così suonava: In seguito, poiché non possiamo pensare che la sua esistenza è possibile, senza, in pari tempo, pensare che possa darsi una potenza in forza della quale egli esista, e quella potenza non è intellegibile in nessun altro se non nello stesso ente sommamente potente, concluderemo senz'altro che egli può esistere per la sua propria forza, ecc. In questa prima versione, la prova era così articolata: (1) All'ente potentissimo compete l'esistenza possibile. 49 P. LACHIEZE-REY, Les origines cartésiennes du Dieu de Spinoza, Paris 1950, p. 211; E. GILSON, Etudes sur le rôle de la pensée médiévale dans la formation du système cartésien, Paris 1967(3), p. 224 ss., H. GOUHIER, La pensée métaphysique de Descartes, Paris 1969, p. 166 ss.; D. HENRICH, La prova ontologica, cit., p. 29 ss. 50 Si veda l'intervento di W. DONEY, L'argument de Descartes à partir de la toute-puissance, "Recherches sur le XVII siècle", VII (1984), pp. 59-68, in cui l'autore ha respinto l'interpretazione di A. KOYRE', Essai sur l'idée de Dieu cit., pp. 183-84, interpretazione poi ripresa e rielaborata da A. KENNY, Descartes cit., p. 151 ss. 31

(2) Può darsi una potenza in forza della quale l'ente potentissimo esiste. (3) Quella potenza può trovarsi solo nell'ente potentissimo. (4) L'ente potentissimo può esistere per forza propria. (5) Ciò che può esistere per forza propria esiste sempre. (6) L'ente potentissimo esiste. La (2) è inferita dalla (1) e la (4) dalla (3). Descartes aveva chiesto a Mersenne di sostituire questa prima formulazione con la seguente: In seguito, poiché non possiamo pensare che la sua esistenza è possibile, senza che, in pari tempo, facendo attenzione alla sua immensa potenza, non conosciamo poter egli esistere per la sua propria forza ecc. Alla richiesta di sostituzione, Descartes aggiungeva la raccomandazione di porre molta attenzione a che nessuno potesse decifrare le righe soppresse, per evitare che qualche critico si sentisse autorizzato a respingere l'intero argomento prendendo a pretesto quel che l'autore stesso aveva giudicato debole, anche se irrilevante per la cogenza della prova, invece di cimentarsi con i veri pilastri dell'argomentazione.51 Perché Descartes ha voluto modificare la prima versione della prova, e cosa, nella parte soppressa, avrebbe potuto fornire agli avversari un pretesto per rifiutare l'intero argomento? Gli interpreti sono stavolta unanimi: la modifica sarebbe da attribuirsi alla volontà di nascondere il più possibile il richiamo alla causalità positiva che la potenza divina eserciterebbe rispetto all' esistenza di Dio, ossia a quella interpretazione positiva della aseitas, che, come è noto, e come torneremo a vedere meglio in seguito, aveva procurato molti guai a Descartes nelle obiezioni di Arnauld. L'argomento, all'origine, non avrebbe contenuto una parte teoricamente debole, come Descartes sembrava sostenere motivando a Mersenne la richiesta di modifica, ma si sarebbe 51 Descartes a Mersenne, 4 marzo 1641, AT III, pp. 329-300: "Je vous prie aussy de corriger ces mots, qui sont en ma response a la penultiesme des obiections du theologien. Deinde quia cogitare non possumus eius existentiam esse possibilem, quin simul cogitemus aliquam dari posse potentiam cuius ope existat, illaque potentia in nullo alio est intelligibilis quam in eodem ipso ente summe potenti, omnino concludemus illud propria sua vi posse existere etc.; et de mettre seulement ceux cy en leur place: Deinde quia cogitare non possumus eius existentiam esse possibilem, quin simul etiam, ad immensam eius potentiam attendentes, agnoscamus illud propria sua vi posse existere etc.. Mais je vous prie de les corriger tellement, en toutes les copies, qu'on n'y puisse aucunement lire ny dechiffrer les mots cogitemus aliquam dari posse potentiam cuius ope existat, illaque potentia in nullo alio est intellegibilis quam in eodem ipso ente summe potenti, omnino concludemus. Car plusieurs sont plus curieux de lire e d'examiner les mots qui sont effacez que les autres, affin de voir en quoy l'autheur a creu s'estre mespris, et d'en tirer quelque sujet d'obiections, en l'attaquant ainsy par l'endroit qu'il a jugé luy mesme estre le plus foible." 32

piuttosto servito di una tesi suscettibile di attacchi da parte dei professionisti della teologia.52 Questa spiegazione appare prima facie plausibile, anche tenendo conto del fatto che la richiesta di modifica ha luogo nel corso di uno scambio epistolare con Mersenne segnato da richieste di intervento su altri luoghi in cui compariva la famigerata interpretazione della causa sui.53 Tuttavia, io credo che sia possibile avanzare una spiegazione alternativa, che ha il vantaggio di attagliarsi alla lettera di quel che Descartes dichiara a Mersenne nella richiesta di modifica, ossia che il passo da modificare è stato giudicato "debole" dall'autore stesso, e che, soprattutto, rende coerente l'intervento di Descartes con le critiche rivolte agli autori delle seconde obiezioni. Nel passo che Descartes chiede a Mersenne di sopprimere, la premessa 'Dio ha in sé la causa della propria esistenza' è dimostrata inferendo dalla possibilità dell'ente perfettissimo la possibile esistenza di una causa ("cogitare non possumus eius existentiam esse possibilem, quin simul cogitemus dari posse potentiam"). Ora, la possibilità dell'ente perfettissimo, che serve da premessa, è la non contraddittorietà della sua definizione, comune alle vere essenze e agli enti fittizi: Ma se esamineremo accuratamente se l'esistenza convenga all'ente sovranamente potente, e qual sorta di esistenza, potremo chiaramente e distintamente conoscere in primo luogo che almeno l'esistenza possibile gli conviene, come avviene a tutte le altre cose di cui abbiamo in noi qualche idea distinta: anche a quelle che sono composte dalle finzioni dell'intelletto. In seguito, poiché non possiamo pensare che la sua esistenza è possibile...54 Descartes deduce dunque la possibilità di una causa che porti all'esistenza un ente dalla non contraddittorietà della definizione di quell'ente. Ma proprio questa 52 W. DONEY, La preuve cit., p. 61. Cfr. H. GOUHIER, la pensée metaphysique cit., p. 176; E. GILSON, Etudes sur le rôle cit., pp. 227-28; D. HENRICH, La prova ontologica cit., p. 37. 53 Peraltro, le modifiche a proposito della causa sui, imposte dalla lettura delle obiezioni di Arnauld, si trovano nella lettera a Mersenne del 18 marzo 1641, mentre la richiesta di modifica che qui ci interessa è contenuta nella lettera a Mersenne del 4 marzo 1641. La modifica nell'argomento per provare l'esistenza di Dio, è dunque precedente alla serie di correzioni riguardante la causa sui, anche se è ricordata a Mersenne, al termine della lettera del 18 marzo. Cfr. AT III, p.336: "Je vous prie aussy de n'oublier pas la correction dont je vous ay escrit en mes precedentes, pour la fin des mesmes responses..." 54 AT VII, p. 119, trad. it. p. 294. Sottolineatura mia. 33

deduzione lo stesso Descartes riconoscerà fallace quando se la vedrà proporre, o crederà di vedersela proporre, dai secondi obiettori. Costoro prendono atto della nuova formulazione con la quale Descartes ripropone la prova della quinta Meditazione contro l'obiezione tomista ripresa dal "teologo": ciò che intendiamo chiaramente e distintamente appartenere alla natura di una cosa può essere affermato con verità di quella cosa, e poiché intendiamo chiaramente che alla vera e immutabile natura di Dio appartiene l' esistenza, possiamo affermare con verità che alla sua vera e immutabile natura appartiene di esistere. Ma, secondo gli obiettori, non ne segue che Dio esista realmente. Con una osservazione che, all'apparenza almeno, sembra anticipare la proposta leibniziana di integrazione dell'argomento cartesiano, gli obiettori propongono di emendare nel modo seguente la conclusione cartesiana: Donde non segue che Dio esista di fatto, ma solo che dev'esistere, se la sua natura è possibile o non ripugna; cioè che la natura o l'essenza di Dio non può essere concepita senza esistenza, di guisa che, se questa essenza è, egli esiste realmente. Gli obiettori propongono quindi di tradurre in una formula già nota e utilizzata da 'altri' l'argomento cartesiano così emendato: Il che si richiama a quell'argomento che altri propongono con queste parole: se non è impossibile che Dio esista, è certo che egli esiste; ma non è impossibile che esista. Ma si disputa della premessa minore, e cioè "ma non è impossibile che esista", la verità della quale i nostri avversari o dicono di porre in dubbio o negano.55 E in che modo gli avversari mettessero in dubbio o negassero la premessa minore gli obiettori avevano chiarito poco sopra.56 Descartes respinge la formulazione dei secondi obiettori come fallace, sostenendo che in essa compaiono due accezioni diverse del possibile: nella premessa maggiore si intende il possibile come ciò che ha una causa che lo porta ad esistere, e nella minore si intende possibile come ciò che non implica contraddizione:

55 AT VII, p. 127, trad. it. pp. 303-4. 56 Gli atei negano che Dio possa esistere perché un ente infinitamente perfetto è incompatibile con l'esistenza di qualunque altro ente. Cfr. Secundae objectiones, AT VII, p.125. L'obiezione degli atei deriva da Tommaso, Summa theologiae, I, qu.2, a. 3, primum. 34

Per ciò che riguarda l'argomento che voi paragonate col mio, e cioè "Se non è impossibile che Dio esista, è certo che esiste; ma non è impossibile; dunque, ecc.": materialmente parlando è vero, ma formalmente è un sofisma. Poiché, nella premessa maggiore, la frase è impossibile si riferisce al concetto della causa per mezzo della quale Dio può esistere; mentre nella minore si riferisce al solo concetto dell'esistenza e della natura di Dio. Come appare dal fatto che, se si nega la maggiore, bisognerà provarla così: "se Dio non esiste ancora, è impossibile che esista, perché non può darsi una causa sufficiente per produrlo ; ma non è impossibile che egli esista, come è stato assunto; dunque, ecc." Se invece si nega la premessa minore, bisognerà provarla così: "Quella cosa non è impossibile, nel concetto formale della quale non v'è nulla che implichi contraddizione; ma nel concetto formale dell'esistenza o della natura divina non v'è nulla che implichi contraddizione; dunque, ecc." Le due accezioni sono molto diverse. Infatti può essere che non si concepisca nulla in qualche cosa, che le impedisca di esistere, e che, tuttavia, si concepisca qualcosa da parte della causa che impedisce che essa sia prodotta.57 Di fronte a questa presa di posizione di Descartes sorgono spontanee alcune domande. Innanzitutto, perché Descartes è così sicuro che nella ricostruzione della prova proposta dai secondi obiettori sia presente questa fallacia? La domanda è legittima, dal momento che la stessa ricostruzione avrebbe potuto essere formulata da un sostenitore della prova nella formulazione della quinta Meditazione, e Leibniz così la formulerà, in effetti, senza commettere la fallacia sospettata da Descartes, ossia adoperando unicamente una accezione logica della possibilità, e ritenendo valida la prova della quinta Meditazione, previo il solo accertamento della non contraddittorietà dell'insieme delle perfezioni. Nella prova cartesiana, osserverà Leibniz, "si presuppone ...tacitamente che Dio, o l'Essere perfetto, sia possibile. Se si riesce a dimostrare questo punto in modo soddisfacente, allora si può concludere che l'esistenza di Dio è dimostrata geometricamente a priori".58 Ossia, se l'esistenza di Dio è (logicamente) possibile, Dio esiste necessariamente. Nell'argomento di Leibniz non v'è alcun passaggio dalla non contraddittorità di un ente al darsi di una causa che porti quell'ente ad esistere, eppure Leibniz potrebbe sottoscrivere la formulazione dei secondi obiettori: "se non è impossibile che Dio esista, è certo che egli esiste". Perché Descartes non prende in seria considerazione l'ipotesi che i secondi obiettori propongano qui quello che sarà poi l'argomento leibniziano? 57 AT VII, pp. 151-52, trad. it., p. 323. 58 G. W. LEIBNIZ, Sur la Demonstration Cartésienne de l'existence de Dieu, par le R.P. Lamy, Bendectin, in G.W. LEIBNIZ, G IV, p. 405, trad. it., G.W. LEIBNIZ, Saggi filosofici, a cura di V. Mathieu, Bari 1963, p. 88. 35

Per rispondere a questa domanda, basta ricordare che i secondi obiettori facevano riferimento ad un argomento proposto da 'altri', e, come sappiamo, prima di Descartes, erano gli 'aristotelici' coloro che utilizzavano il passaggio dalla possibilità all'esistenza , in forza dello slittamento modale precedentemente illustrato. La ricostruzione che Descartes fa della prova nella formulazione dei secondi obiettori è perciò legittima. 'Altri' e autorevoli autori sostenevano il passaggio dalla possibilità all'attualità di Dio, utilizzando due accezioni irriducibili di possibilità. Ma se la ricostruzione di Descartes è legittima, la proposta dei secondi obiettori di portare la prova dell'esistenza di Dio sul terreno degli 'aristotelici' non è priva di ragioni, dal momento che lo stesso Descartes aveva usato l'argomento fallace 'alla Scoto' nella prima versione delle risposte alle prime obiezioni; i secondi obiettori erano quindi indotti a ritenere che anche Descartes si muovesse sul terreno concettuale a loro familiare. La prima versione delle risposte a Caterus esibisce per l'appunto quel passaggio dalla non contraddittorietà al darsi di una causa di esistenza che ora Descartes denuncia come fallace: siccome l'essenza di Dio non è contraddittoria, allora può darsi una causa della sua esistenza: "In seguito, poiché non possiamo pensare che la sua esistenza è possibile, senza, in pari tempo, pensare che possa darsi una potenza in forza della quale egli esista, e quella potenza non è intellegibile in nessun altro se non nello stesso ente sommamente potente, concluderemo senz'altro che egli può esistere per la sua propria forza". La differenza tra la prima versione dell'argomento di Descartes e quello di Scoto è solo nella circostanza, rilevantissima per la storia della teologia razionale, ma di scarso peso per la struttura dell'argomento, che Descartes ammette, mentre Scoto rifiuta, la nozione di autocausalità, o di causa sui. Entrambi accettano che si possa passare dalla possibilità (logica) alla esistenza in qualche tempo, ma per Descartes l'esistenza possibile implica in ogni caso il darsi di una causa: per ogni possibile si dà una causa di esistenza e, laddove la causa è interna all'ente possibile, questo ente esiste sempre; Scoto, invece, rifiuta il concetto di causa sui, e quindi limita il passaggio dalla possibilità ad una causa solo agli enti subordinati. Il passaggio dalla possibilità alla esistenza, nel caso della causa prima, è ottenuto senza ricorrere ad una causa, ma, al contrario, sostenendo che, proprio perché la causa prima è incausabile, e quindi nessuna causa può portarla all'esistenza, allora essa deve esistere sempre, se è possibile. Si può obiettare che Descartes non conclude dalla non contraddittorietà dell'ente potentissimo al darsi di una causa, ma, più modestamente, alla possibilità di una causa ("dari posse potentiam"). Se la possibilità della causa di cui parla Descartes fosse una possibilità logica il ragionamento non presenterebbe lo slittamento fallace dalle modalità logiche alle modalità causali, perché si limiterebbe a inferire dalla non 36

contraddittorietà di un ente la non contraddittorietà dell'esistenza di una causa, e così quell'ente potrebbe essere possibile e tuttavia non esistere mai.59 Ma, se così fosse, Descartes non avrebbe mai potuto sperare di provare che l'ente potentissimo "revera existere" a partire dalla non contraddittorietà della sua definizione. Solo se si interpreta il "dari posse potentiam" nel senso si debba dare in qualche tempo una causa di esistenza, ossia nel senso del possibile temporale, il passaggio dalla non contraddittorietà dell'ente potentissimo alla sua esistenza appare plausibilmente argomentato. Una volta stabilito che si dà di fatto, in qualche tempo, una causa di esistenza dell'ente infinitamente potente, si può procedere poi a darle un volto con l'idea dell'unica causa possibile di esistenza di quell'ente. L'idea dell'infinita potenza determina una causa già dimostrata esistente. Ma allora, deve essere stata la esplicita e legittima evocazione da parte dei secondi obiettori dell'argomento già utilizzato da Scoto e da Lessius a mettere in allarme Descartes, reso solo ora sensibile all'errore da lui stesso commesso; da qui la richiesta a Mersenne di cancellare parte della propria risposta in modo che essa così suoni: "In seguito, poiché non possiamo pensare che la sua esistenza è possibile, senza che, in pari tempo, facendo attenzione alla sua potenza infinita, non conosciamo poter egli esistere per la sua propria forza..." In questa formulazione, l'errore attribuito ai secondi obiettori non compare. Qui infatti Dio può esistere per forza propria non perché la sua essenza non implica contraddizione e quindi deve darsi in qualche tempo una causa della sua esistenza, ma perché, tra gli attributi compresi in questa essenza non contraddittoria, vi è anche una potenza infinita. E' perché nell'essenza di Dio è contenuta la potenza infinita che si dà una causa in forza della quale Dio può esistere, e non perché la sua essenza non è contraddittoria, come appariva nella prima formulazione. La prima premessa, ossia la non contraddittorietà dell'idea di Dio, non gioca più alcuna funzione nella versione finale della prova. L'insieme degli interventi di Descartes che si sono visti assume coerenza solo ipotizzando che, dopo aver visto e riconosciuto la fallacia modale scaturire dalla penna dei secondi obiettori, Descartes si sia deciso ad un intervento che eliminasse, per quanto possibile, quella stessa fallacia dal testo delle prime risposte. In questo modo, il vero motivo che avrebbe indotto Descartes a modificare il testo delle prime risposte sarebbe quello effettivamente dichiarato a Mersenne: quel passo indebolisce la prova con una fallacia. Quello che scompare nella seconda formulazione è, per l'appunto, il passaggio fallace dalla possibilità logica alla possibilità causale. Se il motivo della correzione chiesta a Mersenne fosse stato solo la volontà di cancellare, o 59 Questo è l'unico tipo di passagio dalla possibilità logica alla causa che Leibniz giudicherà legittimo. Vedi oltre p. 000. 37

almeno di attenuare, il riferimento alla causa sui, si dovrebbe ammettere che Descartes, anche dopo aver ben visto, e acutamente analizzato, la fallacia dei secondi obiettori, continuasse a non riconoscere l'identica fallacia nella quale egli stesso era incorso. Descartes pretende ora che, una volta cancellato il luogo fallace della prima prova, questa stia in piedi ugualmente, ossia che la premessa di cui chiede a Mersenne la soppressione sia pleonastica. La prova, nelle intenzioni di Descartes, può essere riproposta prescindendo dalla dimostrazione che deve darsi una causa per cui Dio esiste. La causa dell'esistenza di Dio non è più dedotta dalla non contraddittorità della sua essenza, ma 'vista' nella sua essenza, dal momento che nessuno potrà negare che nel concetto di Dio sia compresa l'onnipotenza. Nella versione finale, la prova si regge perciò esclusivamente sulla evidenza del principio che ciò che può esistere per forza propria esiste sempre, mentre il darsi di una causa dell'esistenza di Dio non è dedotto da altro. E non è difficile ricostruire la logica di quel principio, una volta chiarito che ci si muove in una problematica di origine e sapore aristotelici. Del resto, la presentazione del principio come lumine naturali notissimum rimanda quantomeno ad un uso tradizionale e diffuso. In effetti, quel principio non è altro che la coincidenza di potenza e atto di cui parlavano Aristotele, Maimonide, Scoto e Lessius negli enti eterni, o incausati, o, cartesianamente, causa sui.60 Nella sua versione definitiva, liberato dalla premessa ormai superflua della non contraddittorietà dell'idea di Dio, il 'secondo' argomento a priori può essere così riformulato: (1) Se Dio non esistesse, la sua esistenza sarebbe (causalmente) impossibile perché nessuna causa sarebbe sufficiente a produrlo (2) Nel concetto di Dio v'è una causa sufficiente per produrlo, e dunque è possibile (causalmente) che Dio esista. (3) Dunque Dio esiste. E poiché la causa dell'esistenza di Dio è interna a Dio stesso (può esistere per forza propria), Dio esiste sempre: in aeternis idem esse et posse. Si capisce così anche perché Descartes ritenga che la riformulazione della prova a priori compiuta dai secondi obiettori sia formalmente falsa, ma materialmente vera;61 essa può essere rielaborata in modo da evitare la fallacia modale: se l'esistenza di Dio 60 Non è quindi necessario invocare, per spiegare questo principio un qualche "desiderio" di esistenza che spingerebbe le essenze ad attualizzarsi, desiderio cui fanno ricorso sia Koyré (Essai cit., p. 184) sia Kenny (Descartes cit., p. 161) e ora anche W. RÖD, Der Gott der reinen Vernunft, Munchen 1992, p.69. 61 Secundae Responsiones, AT VII, p.151: "Quantum ad argumentum quod cum meo confertis, hic scilicet: si non implicet Deum existere, certum est ilum existere; sed non implicat; ergo etc. materialiter quidem est verum, sed formaliter est sophisma." 38

è (causalmente) possibile, Dio esiste, ma che l'esistenza di Dio sia (causalmente) possibile va provato con la seconda premessa (nel concetto di Dio v'è una causa sufficiente per produrlo), l'unica in cui compaia la nozione di causa, e non con la non contraddittorietà del concetto di Dio, come presumibilmente i secondi obiettori, sulla scia della prima formulazione cartesiana, intendevano.62 II.2 Dal pensiero all'essere. Ora che la prova è stata ricostruita possiamo chiederci quale valore attribuirle. Henrich e Doney ritengono che in questa prova il passaggio dal pensiero all'essere sia giustificato o, addirittura, evitato. Una convinzione che avrebbe qualche fondamento solo dando per buona la fallacia commessa da Descartes in un primo momento.63 Ma ora che Descartes ha riparato all'errore, è semmai vero il contrario. Infatti l'argomento, nella sua prima versione, aveva il vantaggio di assumere come premessa la possibilità logica dell'ente potentissimo, immettendo così il concetto cosmologico di ente causa sui nel quadro teorico delle prove a priori: se Dio è logicamente possibile (è pensabile), si può dare (fuori del pensiero) una causa della sua esistenza. Se si concede il passaggio dalla non contradittorietà al darsi di una causa di esistenza, ci si è assicurati il passaggio dal pensiero all'essere, rimanendo l'argomento rigorosamente a priori. Il passaggio avverrebbe in base al consueto motivo avanzato da ogni prova a priori: altrimenti si violerebbero le leggi del pensiero, ossia si 62 Kenny ha ben visto che la proposizione 'l'ente infinitamente potente può esistere per forza proria' deriva dalla proposizione 'nell'idea di Dio è contenuta la potenza infinita', e non dalla non contraddittorietà della nozione di Dio, Descartes cit., pp. 163-64, ma ritiene che questa derivazione sia operante anche nella prima versione dell'argomento. Anche grazie a questa convinzione Kenny ritiene poi, con Doney, che la prima formulazione sia migliore e più chiara della seconda. Evidentemente a Kenny sarà sembrato impossibile che Descartes, che vede così bene la fallacia dei secondi obiettori, sia lui stesso caduto in quella fallacia. Ma il ragionamento deve essere ribaltato: proprio perché Descartes aveva commesso quella fallacia, ai secondi obiettori viene in mente l'argomento di Lessius, e Descartes, vedendoselo ora riproposto, ne riconosce la fallacia, e procede quindi a criticarlo e ad espungerlo dal proprio testo. 63 Cfr. D. HENRICH, La prova ontologica cit., p. 40 e W. DONEY, L'argument cit. p. 66. In effetti, Doney propone di utilizzare la prima formulazione della prova per rendere convincente l'argomentazione di quella definitiva; ma, in questo modo, Doney rimette nelle mani di Descartes il corpo del reato che egli aveva cercato di occultare, reintroducendo proprio il passo che Descartes aveva voluto sopprimere perché conteneva un errore. In effetti, la ricostruzione di Doney dell'argomento cartesiano riproduce alla lettera la fallacia che Descartes aveva rimproverato ai secondi obiettori (ibid.): "Si l'existence d'un être souverainement puissant est possible, une cause de l'existence d'un tel être doit être possible, mais la seule cause possible de l'existence d'un être souverainement puissant est cette chose même, un être souverainement puissant; de là, il doit avoir un être souverainement puissant." 39

incorrerebbe in una contraddizione, poiché si negherebbe che sia possibile quello che, nella premessa, si è ammesso essere possibile, ovvero l'esistenza di Dio. Ma dopo che Descartes ha chiarito l'equivoco modale, a chi neghi che sia legittimo il passaggio dall'idea dell'ente potentissimo alla sua esistenza non si potrà più replicare che, se così fosse, sarebbe necessario rinunciare alle leggi della logica, dal momento che l'avversario, più semplicemente, rifiuterà di accettare che una causa pensata (l'infinita potenza di Dio) produca un effetto fuori del pensiero (l'esistenza di Dio). Come dirà con grande efficacia Samuel Werenfels, commentando questa prova: "Forse che la rappresentazione nella mente di una immensa potenza porrà e farà esistere Dio realmente e formalmente al di fuori della mente?"64Insomma, nella sua prima versione la prova era costruita su un ragionamento fallace, ma, grazie a quella fallacia il passaggio dal pensiero all'essere appariva plausibilmente argomentato, mentre nella versione definitiva il passaggio dal pensiero all'essere appare privo di qualunque giustificazione.65 La rinuncia allo slittamento modale rende ancor più evidente l'origine aristotelica e a posteriori del secondo argomento cartesiano. Esso infatti potrebbe dimostrare qualcosa solo se assumesse l'esistenza di un ente causa sui: se esiste un ente che ha in sé la causa della propria esistenza, questo ente esisterà sempre. Ciò che si prova, allora, non è l'esistenza, ma l'eternità dell'ente in questione.66 Descartes si è illuso di poter respingere la fallacia modale e il principio di pienezza, e, nonostante ciò, di poter mantenere in piedi un argomento a priori tutto costruito nella logica di quel principio.

64 S. WERENFELS, Judicium de Argumento Cartessi pro existentia Dei petito ab ejus idea, Basileae 1699, poi in S. WERENFELS, Opuscula theologica, Philosophica et Philologica, Amstelaedami 1718, p. 657. 65 Si può qui solo lamentare che il disprezzo di cui Lachiéze-Rey aveva fatto segno questa prova non sia stato nemmeno discusso dai suoi apologeti. Cfr. P. LACHIEZE-REY, Les origines cartésiennes cit., p.211 :"(nella critica all'argomento proposto dai secondi obiettori) Descartes ne semble-t-il pas ... critiquer le texte même que nous venons de voir et qu'il avait d'abord présenté dans sa réponse aux premières objections?" Con quel che segue. 66 Della distinzione tra un argomento che prova l'esistenza di Dio e uno che, assunta l'esistenza, ne prova l'eternità, Descartes sembrava peraltro aver avuto consapevolezza, nel testo della quinta Meditazione, ove la prova dell'esistenza di Dio appariva distinta dalla prova dell'eternità di Dio, una volta dimostrato che Dio esiste. Cfr. AT VII, p. 68:"...nulla alia res potest a me excogitari, ad cujus essentiam existentia pertineat, praeter solum Deum ... et ... posito quod jam unus existat, plane videam esse necessarium ut et ante ab aeterno extiterit, et in aeternum sit mansurus..." Sottolineatura mia. 40

Il cosiddetto secondo argomento ontologico si rivela, infine, una via senza sbocco. Questo risultato deludente spiega forse il tono minore con cui Descartes conclude l'esposizione a Caterus, scusandosi quasi di essersi infilato in un simile ginepraio: Ed io confesserò qui liberamente che questo argomento è tale, che quelli i quali non si ricorderannno di tutte le cose che servono alla sua dimostrazione, lo scambieranno facilmente con un sofisma; e che ciò m'ha fatto dubitare da principio se dovessi servirmene, per paura di dare occasione a quelli che non lo comprenderanno di diffidare egualmente degli altri. Ma poiché non vi sono che due vie, per mezzo delle quali si possa provare che v'è un Dio, e cioè per mezzo dei suoi effetti, e per mezzo della sua essenza, o della sua natura stessa; ed io ho spiegato, per quanto mi è stato possibile, la prima nella terza meditazione, ho creduto, dopo di ciò, di non dovere omettere l'altra. 67 II.3 L'esistenza di Dio e l'innatismo Come ricordavamo, la cosiddetta prova a partire dal concetto di onnipotenza si propone in primo luogo di dimostrare che l'idea di Dio è innata. Resta ora da vedere come mai le esigenze dell'innatismo abbiano imposto a Descartes di produrre un nuovo argomento per provare l'esistenza di Dio. La nuova formulazione della prova a priori nasce dall'esigenza di rispondere ad una critica rivolta da Tommaso contro la prova anselmiana. Tommaso non nega che il significato della parola 'Dio' implichi l'esistenza, ma nega che sia legittimo passare dal significato della parola all' esistenza dell'ente 'Dio': "Posto che ognuno intenda che con questo nome 'Dio' è significato ciò che è tale che nulla di più grande può essere concepito, non ne segue per ciò che s'intenda che la cosa significata da questo nome sia nella natura, ma soltanto che è nell'apprensione dell'intelletto".68 Questa critica è ormai generalmente nota col nome di critica 'logica', e viene tradotta con un generico e universale divieto di passare dall'esistenza pensata all'esistenza fuori del pensiero.69 Descartes, invece, interpreta questa critica attribuendo a Tommaso una distinzione tra una definizione nominale di Dio e una definizione reale. Il passaggio dal pensiero all'essere è impossibile nel caso in cui la definizione di Dio a partire dalla quale si intende dimostrarne l'esistenza sia un mero nomen, una definizione convenzionale, 67 Ivi, p. 120, trad. it. p. 295. 68 TOMMASO, Summa Theologiae, I, q. 2, a. 1., trad. it. a cura dei domenicani italiani, Salani 1949. 69 Cfr. D. HENRICH, La prova ontologica cit., pp. 24-26, e passim. 41

ma non quando la definizione di Dio ne descriva correttamente l'essenza, ossia quando siamo di fronte ad una definizione reale. Secondo il Tommaso letto da Descartes, Anselmo si sarebbe servito di una definizione nominale di Dio, e per questo il suo argomento sarebbe fallace. In sintonia con questa lettura, Descartes difende la propria prova a priori sostenendo che questa, nella formulazione della quinta Meditazione, concerne non un mero nome, bensì una vera essenza. Traducendo in linguaggio cartesiano questa opposizione, l'idea di Dio che funge da premessa nella sua prova non è una idea fattizia, bensì innata. Di fronte alla critica tomista, il problema di Descartes è quello di delimitare le condizioni nelle quali il passaggio dal concetto all'esistenza è ammissibile. Resta da vedere se Descartes sia un buon interprete di Tommaso, e comunque un interprete migliore di coloro che attribuiscono a Tommaso la tesi, assai più radicale, secondo la quale, qualunque sia la definizione di partenza, da essa non può essere mai tratta una conclusione valida per l'esistenza reale. Per decidere la questione, è necessario riprendere in mano il testo di Tommaso. Descartes sembra aver ragione se si tiene conto della prima motivazione che Tommaso avanza per spiegare l'impossibilità di accedere ad una evidenza immediata dell'esistenza divina. L'esistenza di Dio, afferma Tommaso, è una verità in se per sé nota, ma non per sé nota quoad nos, ossia, è ben vero che l'esistenza appartiene all'essenza di Dio, anzi che l'esistenza è l'essenza di Dio, ma 'in via', nella condizione di uomo finito e decaduto, l'uomo non può conoscere l'essenza di Dio, ed è per questo che l'esistenza di Dio è intuitivamente evidente: questa proposizione Dio esiste in se stessa è di per sé evidente, perché il predicato s'identifica col soggetto; Dio infatti ... è il suo stesso essere: ma siccome noi ignoriamo l'essenza di Dio, per noi non è evidente, ma necessita di essere dimostrata per mezzo di quelle cose che sono a noi più note, ancorché di per sé siano meno evidenti, cioè mediante gli effetti.70 Sembra che, in questo luogo, Tommaso, contrapponga una conoscenza inadeguata di Dio, ricavata dagli effetti, cui l'intelletto finito è costretto a limitarsi, alla conoscenza adeguata, inaccessibile all'intelletto umano. A questa alternativa Descartes riconduce il luogo citato da Caterus, nel quale Tommaso si riferisce alla definizione anselmiana di Dio - l'ente di cui non si può pensare il maggiore-, come ad un 'nomen'. Descartes si sente autorizzato ad utilizzare la distinzione tomista contro altri luoghi che sembrano invece inibire in ogni caso il passaggio da una definizione nella quale sia compresa l'esistenza all'esistenza fuori del pensiero: 70 Summa theologiae, I, q. 2, a.1. 42

Dato, inoltre, che tutti col termine Dio intendessero la cosa di cui non è possibile pensarne una più grande, non segue necessariamente che una tal cosa esista nella realtà. La realtà infatti che deriva come logica conseguenza non può essere superiore al valore del termine. Ora, per il fatto che una cosa del genere si concepisce mentalmente nel proferire il termine Dio, non segue che Dio esista, se non come dato intellettivo. Perciò l'essere di cui non se ne può pensare uno maggiore non può non avere l'esistenza: però nell'intelletto. Ma da ciò non segue che codesto essere esista nella realtà. E quindi non sono per questo in contraddizione quelli che negano l'esistenza di Dio: poiché la contraddizione è solo in chi, dopo aver concesso l'esistenza reale di una cosa di cui non se ne può pensare una maggiore, intendesse poi di negarla.71 La motivazione avanzata stavolta da Tommaso per negare la dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio appare valida per ogni definizione: che la definizione sia reale o nominale, dall' esistenza contenuta in una definizione non si può mai inferire un' esistenza fuori del pensiero, dal momento che "la realtà che deriva come logica conseguenza non può essere superiore al valore del termine", e una definizione reale ha pur sempre una realtà mentale. Le due motivazioni con cui Tommaso respinge la prova anselmiana non sono inconciliabili purché si rifletta sulla distinzione tomista tra due accezioni dell''essere' che si usano quando si fa riferimento a Dio. E' ben vero che la verità della proposizione 'Dio esiste' dipende solo dalla comprensione dei termini che la compongono. Ma, aggiunge Tommaso, l'esistenza che è indistinta dall'essenza di Dio non è la copula del giudizio con cui attribuiamo a Dio l'esistenza quando dimostriamo che 'Dio è', ma l'atto stesso con il quale Dio esiste: "Del verbo essere si fa un doppio uso: qualche volta significa l'atto dell'esistere, altre volte indica la copula della proposizione formata dalla mente che congiunge il predicato col soggetto." Ora l'essere indistinto dall'essenza divina, proprio perché è indistinto dall'essenza divina, non è mai conoscibile: "Se essere si prende nel primo senso noi non possiamo dire di conoscere l'essere di Dio come non conosciamo la sua essenza; ma lo conosciamo soltanto nel secondo significato."72 La conseguenza di questa distinzione è che ogni giudizio di esistenza, in quanto è un giudizio, ossia in quanto attribuisce a Dio quell'essere che "indica la copula della proposizione" si serve come soggetto non dell'essenza di Dio ma di un nomen. Ci si può, infatti, legittimamente chiedere come mai, una volta dimostrato a posteriori che l'essenza divina è l'esistenza, la 71 Summa contra Gentes, I, XI, ad primum, trad. it. a cura di T.S. CENTI, Torino 1975. 72 Summa Theologiae, I, qu. 3, a. 4, ad secundum. 43

proposizione 'Dio esiste' non divenga nota anche quoad nos, e non si possa così accettare come valida la deduzione anselmiana dell'esistenza dall'essenza divina. Orbene, questa inferenza resta inibita dal fatto che l'indistinzione di essenza ed esistenza di cui parliamo a proposito di Dio è anch'essa un nomen di Dio, ricavato per negazione dalla conoscenza degli effetti nei quali l'essenza è sempre distinta dall'esistenza. La conoscenza, ottenuta a posteriori, secondo la quale l'essenza di Dio è l'esistenza, non può mai trasformarsi o legittimare una conoscenza intuitiva della proposizione 'Dio esiste'. In tanto in quanto questa conoscenza si esprime in una proposizione, essa è solo un nomen, e non esprime la conoscenza adeguata dell'essenza di Dio. 73 L'impedimento più profondo alla prova anselmiana sta nella teoria dei nomi divini del Damasceno che Tommaso accetta pienamente: di Dio non possiamo mai sapere cosa sia ma solo cosa non sia, desumendone le caratteristiche per negazione delle proprietà degli enti finiti. Solo chi avesse accesso alla 'visione' dell'essenza di Dio potrebbe conoscerne l'esistenza contemplandone l'essenza, ma questa luciferina pretesa, pensa Tommaso, non può essere stata rivendicata dal pio Anselmo.74 In questo modo è possibile conciliare le due motivazioni che Tommaso adduce contro la prova di Anselmo: l'universalità del divieto di passare dall'esistenza contenuta in una definizione all'esistenza fuori del pensiero non contraddice la tesi secondo la quale la proposizione 'Dio esiste' è in sé per sé nota, poiché ogni definizione di Dio cui sia attribuito il predicato di esistenza è una definizione nominale, e segnala quindi una conoscenza inadeguata dell'essenza e dell'esistenza divine. La risposta di Descartes a Caterus, apparentemente tesa a sottolineare un accordo o un 'non disaccordo' con Tommaso sulle condizioni nelle quali il passaggio da una definizione di Dio alla sua esistenza sono lecite, mira in realtà al punto veramente originario e radicale del dissenso teologico: l'Aquinate ritiene che l'intelletto umano non possa servirsi che di nomina parlando di Dio; Descartes, invece, ritiene di poter porre la vera essenza di Dio come soggetto di una proposizione che ne dimostri l'esistenza. Il dissenso di Descartes da Tommaso è 73 Questo aspetto è stato magistralmente colto da E. GILSON, History of Christian Philosophy in the Middle Ages, London 1954, p.369. 74 Non si tratta di una petizione di principio da parte di Tommaso. Anselmo, in effetti, assumeva di Dio una definizione negativa. Su questo aspetto del Proslogion hanno opportunamente insistito J. VUILLEMIN, Le Dieu d'Anselme et les apparences de la raison, Paris 1971, p. 20 ss e J.L. MARION, L'argument relève-t-il de l'ontologie?, in L'argomento ontologico, a cura di M.M. OLIVETTI, numero unico dell'"Archivio di filosofia", LVIII (1990), pp. 43-69, poi, in una versione rivista, in Questions cartésiennes, Paris 1992. 44

duplice o, meglio, articolato su due piani: il primo verte sulla conoscibilità dell'essenza divina per l'intelletto umano, che Descartes rivendica addirittura come condizione necessaria per ogni dimostrazione dell'esistenza di Dio,75 il secondo verte sul fatto che questa conoscenza sia esprimibile in una definizione e in una proposizione. Naturalmente, il secondo luogo di dissenso discende dal primo. Dal momento che l'intelletto umano conosce attraverso definizioni e proposizioni, se esso coglie la verità in sé dell'esistenza di Dio, questa verità deve poter essere adeguatamente espressa in una proposizione. Su questo duplice dissenso, e sulle sue implicazioni, torneremo più ampiamente in seguito. Vi sono poi ragioni squisitamente cartesiane che motivano la legittimità del passaggio dalla definizione reale, ovvero dall'idea innata di Dio, all'esistenza fuori del pensiero. Solo nel caso in cui il contenuto obiettivo del pensiero sia una vera natura, e non un nomen, sostiene Descartes, quel che il pensiero le attribuisce è predicato con verità della cosa: "Ciò che noi concepiamo chiaramente e distintamente appartenere alla natura, o all'essenza, o alla forma immutabile e vera di qualche cosa, può esser detto o affermato con verità di questa cosa"76 L'affermazione di Descartes poggia sulla convinzione che una vera natura sia, in quanto vera, qualcosa,77 ossia che la sua realtà sia indipendente dal pensiero, ed appartenga già, a pieno titolo, all'ambito dell'essere reale, anche se non esiste alcun ente, in natura, che esemplifichi quell'essenza.78 Descartes utilizza in questo contesto la teoria della 'realtà' delle 75 Cfr. Primae responsiones, AT VII, pp. 107-8.:"iuxta leges verae Logicae, de nulla unquam re quaeri debet an sit, nisi prius quid sit intelligatur." 76 AT VII, p. 115, trad. it. p. 292. 77 Cfr. Descartes à Mersenne, 27 Mai (ou 3 Juin) 1630, AT I, p. 151 :"...Il est certain qu est aussi bien auteur de l'essence comme de l'existence des créatures: or cette essence n'est autre chose que ces vérités éternelles... mais je sais que Dieu est auteur de toutes choses, et que ces vérités sont quelque chose..." e Quinta Meditatio, in AT VII, p. 65: "Quae sane omnes sunt verae, quandoquidem a me clare cognoscuntur, ideoque aliquid sunt, non merum nihil: patet enim, illud omne quod verum est esse aliquid..." 78 Da qui l'opportuno accento posto da Henry Gouhier sul platonismo di queste pagine, op. cit., p. 167. Nella stessa direzione, il paragone tra le essenze platoniche e gli oggetti di Meinong proposto da A. KENNY, Descartes cit., p. e E. CURLEY, Descartes against the Skeptiks, Oxford 1978, p. 149 ss. Importante, per questa problematica, lo studio di T.J. CRONIN, Objective being in Descartes and in Suarez, Rome 1966 e la documentata messa a punto di N.J. WELLS, Objective Reality of Ideas in Descartes, Caterus, and Suarez, "Journal of the History of Philosophy" XXVIII (1990), pp. 33-61. Sulla rilevanza della prospettiva platonica per l'argomento anselmiano, e quindi sulla differenza tra l'argomento anselmiano e le sue riprese o confutazioni di ispirazione aristotelica si veda B.M. BONANSEA, Duns Scotus and St. Anselm's Ontological Argument in Studies in Philosophy and the History of Philosophy 4, ed. J.K. RYAN, Wasshington, D.C., 1969, pp. 130-34 e le osservazioni di D.A. CRESS, Duns Scotus, Spinoza and the Ontological Argument, in 45

essenze ereditata dalla scolastica. Per restare agli antecedenti prossimi della posizione cartesiana, Suarez si era impegnato nel tentativo di distinguere le essenze non ancora create dagli enti fittizi e dagli enti di ragione, un tentativo necessario, dal momento che tutti questi enti sembrano esistere solo in quanto sono oggetto di un intelletto.79 Le essenze, al contrario degli enti di ragione e degli enti fittizi sono "capaci di esistere", per questo fanno parte dell'essere reale tanto quanto gli enti esistenti, non sono un puro nulla, e sono quindi a pieno titolo oggetto della metafisica.80 La 'realtà' delle essenze è indipendente sia dalla esistenza attuale sia dal pensiero. Secondo Suarez, ciò che rende le essenze capaci di essere portate all'esistenza dalla potenza divina è la non contraddittorietà della loro definizione.81 Come è noto, Suarez si spinge tanto oltre nella direzione di concedere una realtà alle essenze da attribuire alla caratteristica che le rende passibili di esistenza, ossia la non contraddittorietà della loro definizione, l'indipendenza persino da Dio.82 Nella radicale opposizione alla tesi della indipendenza da Dio del possibile, Descartes è però d'accordo su di un punto con Suarez: le essenze fanno parte dell'essere reale tanto quanto gli enti esistenti, esse sono qualcosa in sé. Anzi, è proprio il riconoscimento di questa 'realtà' che impone, secondo Descartes, di rovesciare la tesi suareziana della indipendenza del vero da Dio: proprio perché le essenze sono "qualcosa", esse, come gli enti esistenti, dipendono dall'azione creatrice divina: " io Regnum Hominis et Regnum Dei, Acta Quarti Congressus Scotistici Internationalis ed. C. BERUBE', I, Romae 1978, pp. 389-399. Per un antecedente platonico dell'argomento di Anselmo si veda P. FAGGIOTTO, La fonte platonica dell'argomento ontologico di Anselmo d'Aosta, "Rivista di filosofia neo-scolatica" V (1954), pp. 493-95. 79 F. SUAREZ, Disputationes Metaphysicae, Disp. XXXI, II, X: "essentiam possibilem creaturae obiectivam divinae scientiae, non esse ens confinctum ab intellectu, sed esse ens re vera possibile, et capax realis existentiae, ideoque non esse ens rationis, sed sub ente reali aliquo modo comprehendi... Scientiae, quae considerant res abstrahendo ab existentia, non sunt de entibus rationis, sed de realibus, qui considerant essentias reales non secundum statum quem habent obiective in intellectu, sed secundum se, vel quatenus aptae sunt ad existendum cum talibus naturis, vel proprietatibus." 80 Sulla metafisica di Suarez si veda J.-F. COURTINE, Suarez et le système de la métaphysique, Paris 1990. 81 Ivi, XXX, 17, 10: "Possibile dupliciter dici potest: primo positive, et sic denominatur a potentia; secundo per non repugnantiam... omne illud quo repugnatiam non involvit, est possibile respectu omnipotentiae." 82 Cfr. J.-L. MARION, Sur la théologie blanche de Descartes, Paris 1981, p. 110 ss. 46

so che Dio è autore di ogni cosa, e che quelle verità sono qualche cosa".83 Su questo punto la cultura cartesiana sarà unanime, primo fra tutti il 'cartesiano' Spinoza. A proposito della questione "se (l'essenza) abbia qualche esistenza al di fuori dell'intelletto" la risposta di Spinoza è decisa: "quest'ultimo punto deve essere necessariamente ammesso".84 Per quanto riguarda la difesa cartesiana della prova dell'esistenza di Dio a partire dalla sua definizione reale, la teoria della 'realtà' delle essenze è di capitale importanza. Infatti, la distinzione tomista tra ciò che è nel pensiero e ciò che è fuori del pensiero, e il conseguente divieto di passare da un piano all'altro, appare insufficiente a dar conto dello statuto delle essenze, e delle verità che le riguardano. Le essenze sono bensì nel pensiero ma, al contrario degli enti fittizi, non ricevono dal pensiero la loro realtà e in questo senso non ne dipendono. Se le essenze fanno parte dell'essere reale, la deduzione dell'esistenza dall'essenza di Dio cesserà di apparire come un passaggio dal pensiero all'essere; quella deduzione, infatti, si svolge interamente all'interno dell'ambito dell' essere reale. Perciò, se si può dimostrare che la definizione di Dio come ente perfettissimo denota una vera essenza, la critica tomista apparirà inadeguata alla teoria cartesiana e potrà essere tenuta in non cale.85 La validità della critica tomista dipende dunque dalla teoria delle essenze che si adotta. Se si è aristotelici o nominalisti, Tommaso ha sempre ragione; ma se si è platonici, la critica tomista può colpire l'argomento a priori solo se l'idea di Dio è un ente di ragione o una idea fittizia. Il problema che Descartes deve affrontare, per neutralizzare la critica tomista, è quindi solo quello di dimostrare che l'idea di un ente perfettissimo, che include l'esistenza nella propria essenza, non è fittizia, ed è in nome di questa esigenza che Descartes formula il cosiddetto 'secondo' argomento a priori a partire dalla onnipotenza. Come mai l' esigenza di dimostrare che l'idea di Dio non è una idea fittizia porta Descartes a questa riformulazione, pur avendo egli già fornito, nella quinta Meditazione, più di un argomento in favore dell'innatezza dell'idea di Dio? A questa domanda cercheremo ora di dare una risposta. 83 Vedi sopra, nota 000 84 B. SPINOZA, Cogitata metaphysica, I, II, trad. it. Bari-Roma 1992, p. 119. Sulla permanenza e sulle modifiche subite da questa tesi nella cultura cartesiana, in collegamento con la problematica dell'argomento 'ontologico', si veda oltre p. 000. 85 Sulla concezione platonica delle essenze come condizione di validità dell'argomento ontologico torna ora opportunamente W. RÖD, Der Gott der reinen Vernunft cit., p. 52 ss. e 67 ss. 47

La prova dell'esistenza di Dio elaborata nella quinta Meditazione si fonda sull'assimilazione dell'essenza di Dio alle essenze matematiche: "E' certo che io trovo in me ... l'idea di un essere sovranamente perfetto, non meno di quella di qualsiasi figura o di qualsiasi numero. E non conosco meno chiaramente e distintamente che un'atuale ed eterna esistenza appartiene alla sua natura, di quel che conosca che tutto ciò che io posso dimostrare di qualche figura e di qualche numero appartiene veramente alla natura di questo numero."86 La risposta di Descartes alla critica tomista riportata da Caterus, in questo senso, è tutt'altro che improvvisata: Descartes ha costruito l'argomento ontologico assumendosi l'onere di dimostrare che l'idea di Dio, come quella degli enti della matematica, è innata. Ma proprio in forza dell'assimilazione dell'idea di Dio a quella degli enti geometrici e matematici, la prova che l'essenza di Dio è una essenza vera e non una idea fittizia dovrebbe svolgersi in analogia alla dimostrazione di innatezza delle essenze della matematica. Ora Descartes deve essersi convinto e, come vedremo, del tutto a ragione, che gli argomenti con cui nella quinta Meditazione si provava l'innatezza dell'idea di Dio non fossero all'altezza della richiesta analogia con le prove dell'innatezza delle idee della matematica. In effetti, per dimostrare che l'idea di Dio è innata, Descartes, nella quinta Meditazione, ricorreva al criterio generalissimo dell'innatismo: la passività del soggetto conoscente nei confronti del contenuto di una idea. Per attestare questa passività, peraltro, Descartes, nel caso dell'idea di Dio, si affidava, in prima istanza, all'intuizione: Poiché, in effetti, io riconosco in parecchi modi che questa idea non è qualcosa di finto, dipendente solo dal mio pensiero, ma è immagine di una vera e immutabile natura. E, innanzitutto, non saprei concepire altra cosa se non Dio solo, alla cui essenza appartenga l'esistenza... E... conosco un'infinità d'altre cose in Dio, delle quali non posso nulla diminuire, né cambiare87 Che a Dio e a Dio solo l'esistenza appartenga necessariamente e che il contenuto della sua idea si imponga indipendentemente dalla volontà, è qui 'visto' e non dimostrato. Pur essendo la via della intuizione una via assai cartesiana, essa renderebbe però la prova dell'innatezza dell'idea di Dio un unicum all'interno delle prove elaborate nella quinta Meditazione per dimostrare l'innatezza delle idee. Infatti, sempre nella quinta Meditazione, Descartes, riferendosi in prima istanza alla matematica e alla geometria, individuava due caratteristiche necessarie per poter dire 86 AT VII, p. 65, trad. it., p. 243. 87 AT VII, p. 68, trad. it. p. 245. 48

innata un'idea: 1. Gli elementi che compongono una idea innata non devono essere separabili; 2. Le conclusioni che si traggono dall'idea di un ente non devono far parte esplicitamente della definizione di quell'ente. L'idea di Dio, per essere dichiarata innata, dovrebbe superare entrambi questi criteri, o, almeno, comportarsi nei loro confronti in analogia stretta col comportamento delle essenze della geometria.88 In effetti, il tentativo di dimostrare che l'idea di Dio sopporta anche i criteri di innatezza cui vengono sottoposte le idee della matematica è pure presente nel testo delle Meditazioni. Per quanto riguarda la prima caratteristica di una idea innata, ossia il legame analitico tra gli elementi che la compongono, l'esistenza fa effettivamente parte dell' essenza di Dio, e quindi l'idea di Dio è innata, perché non mi è possibile separarla dall'essenza di Dio, proprio come dall'idea di montagna non posso separare quella di vallata; il cavallo alato, invece, è una idea fittizia, dal momento che le ali sono separabili dal cavallo: ...non vi è minor repugnanza a concepire un Dio (cioè un essere sovranamente perfetto), al quale manchi l'esistenza (cioè qualche perfezione), che a concepire una montagna che non abbia vallata... non è in mio arbitrio concepire un Dio senza esistenza (cioè un essere sovranamente perfetto senza una sovrana perfezione), come è in mio arbitrio immaginare un cavallo senza ali o con le ali89 Spostiamoci ora sul secondo criterio. Descartes intende sostenere che una idea è innata quando a partire da quell'idea costruisco una dimostrazione, ossia ottengo un risultato che non era presente nella idea di partenza; al contrario, con le idee fittizie non vado mai al di là di una tautologia, ossia ritrovo nella conclusione solo quello che era già esplicitamente posto nella premessa: le idee fittizie, al contrario delle idee innate, sono sistemi chiusi. Per dichiarare innata l'idea del triangolo, è necessario che la deduzione dell'equivalenza degli angoli interni a 180° differisca dalla deduzione del possesso delle ali dall'idea del cavallo alato: ...quando io immagino un triangolo, sebbene non ci sia, forse, in alcun luogo del mondo una tale figura fuori del mio pensiero, e non ci sia mai stata, non per ciò, tuttavia, cessa di esservi una certa natura, o forma, o essenza determinata di questa 88 Sulle difficoltà della teoria innatista e, in particolare, sulla capacità dei criteri elaborati da Descartes di discriminare una idea innata dalle idee fattizie si veda M.D. WILSON, Descartes, London, Boston, Melbourne and Henley 1978, p. 172 ss. e E. CURLEY, Descartes against the Skeptics cit., pp. 150-51. 89 AT VII, pp. 66-67, trad.it. p. 244. 49

figura, la quale è immutabile ed eterna, né io l'ho inventata, né dipende dal mio spirito in alcun modo; come appare chiaro dal fatto che si possono dimostrare diverse proprietà di questo triangolo, e cioè che i suoi tre angoli sono uguali a due retti... e altre simili, le quali ora, sia che lo voglia o no, riconosco con tutta chiarezza ed evidenza essere in esso, sebbene non vi avessi pensato per lo innanzi in alcun modo, quando per la prima volta mi sono immaginato un triangolo; e pertanto non si può dire che le abbia composte ed inventate io. 90 Per quanto riguarda l'idea di Dio, questo criterio è evocato quando Descartes respinge il sospetto che la prova dell'esistenza di Dio possa essere una tautologia o una petizione di principio: E non si deve dire, qui, che è necessario che io riconosca che Dio esiste, sol perché avevo supposto in precedenza che egli possedesse ogni perfezione, e tale è l'esistenza ... perché, sebbene non sia necessario che io mi imbatta mai in alcun pensiero di Dio, nondimeno, tutte le volte che m'accade di pensare a un essere primo e sovrano, ...è necessario che gli attribuisca ogni sorta di perfezioni, anche se non venga ad enumerarle tutte e ad applicare la mia attenzione ad ognuna di esse in particolare. E questa necessità è sufficiente a farmi concludere (dopo che ho riconosciuto che l'esistenza è una perfezione) che questo essere primo e sovrano esiste veramente: come non è necessario che io immagini mai un triangolo; ma tutte le volte che voglio considerare una figura rettilinea composta solamente di tre lati, è assolutamente necessario che le attribuisca tutte le proprietà che servono a concludere che i suoi tre angoli non sono maggiori di due retti, sebbene, forse, non considerassi allora ciò in particolare.91 Tra le critiche che Kant rivolgerà alla prova ontologica, una sola è seriamente avvertita da Descartes: ammesso e non concesso che l'esistenza sia una perfezione, l'argomento è una prova apparente; in realtà si tratta di una esplicita tautologia.92 La necessità delle definizioni di Dio e del triangolo -e quindi l'innatezza di quelle idee- è rivelata dalla circostanza che, in entrambi i casi, se ne traggono conclusioni che non erano esplicite nella definizione stessa. Nel caso di Dio, l'inconsapevolezza che l'esistenza è una perfezione e quindi la mancanza di una lista analitica delle perfezioni

90 AT VII, p. 64, trad. it. p. 242. Sottolineatura mia. 91 AT VII, p. 67, trad. it. p. 245. Il corsivo è mio. 92 Cfr. I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, B 625/A 597 (d'ora in poi KrV). Trad. it. a cura di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Bari 1966, p. 471. 50

in cui compaia l'esistenza, assicura che l'esistenza di Dio è ottenuta in forza di una dimostrazione, e quindi che all'idea di Dio corrisponde una vera natura. Come si vede, applicando all'idea di Dio sia il primo sia il secondo criterio, Descartes identifica la prova dell'esistenza di Dio con la prova dell'innatezza dell'idea; ma questa prova (Dio è l'ente perfettissimo; l'esistenza è una perfezione; Dio esiste) soddisfa i due criteri dell'innatismo al modo in cui li soddisfano le dimostrazioni della matematica? Per rispondere a queste domande, ritorniamo sugli esami di innatismo cui Descartes sottopone l'idea di Dio. Non è possibile separare l'esistenza dall'essenza di Dio perché implica contraddizione pensare un "essere sovranamente perfetto senza una sovrana perfezione"; in questo modo, secondo Descartes, l'idea di Dio supera il primo esame di innatismo. Ma se la contraddizione che si ottiene quando si nega una proprietà del soggetto fosse sufficiente per dimostrare che gli elementi che compongono un'idea sono inseparabili, e che, di conseguenza, si è in presenza di una idea innata, l'idea del cavallo alato diverrebbe anch'essa un' idea innata, dal momento che non è possibile negare che le ali appartengano ad un cavallo alato.93 In effetti, il paragone istituito da Descartes tra il cavallo alato e l'idea di Dio è male impostato. Il paragone corretto avrebbe dovuto concernere la relazione tra l'esistenza e l'insieme delle perfezioni da un lato e la relazione tra le ali e il cavallo alato dall'altro, mentre Descartes pretende di paragonare la relazione che intercorre tra l'esistenza e tutte le perfezioni a quella che esiste tra le ali e il cavallo (senza le ali). E' dunque grazie a un paragone mal costruito che l'idea di Dio sembra superare l'esame di innatismo. Le difficoltà di distinguere in questo modo l'idea di Dio da una idea fattizia si fanno evidenti quando Descartes cerca di difendere la prova a priori dall'accusa di petizione di principio, accusa che lo stesso Descartes solleva: 93 Coglie molto bene questo punto S. WERENFELS, Judicium De Argumento Cartesii pro existentia Dei petito ab ejus idea, in Opuscula theologica... cit., p. 655: "Sed ita equus quoque alatus, et corpus perfectissimum habent naturas immutabiles: si enim equo alato abscindis alas, aeque destruis naturam equi alati, ac destruis naturam chiliogoni, si quem angulum illi adimis: si tollis à corpore perfectissimo, vel unam perfectionem, quae in ullum corpus cadere potest, non minus evertis naturam corporis perfectissimi, quam tollendo perfectionem, quae in ens cadit, evertis naturam Entis perfectissimi. Omnium rerum de quibuscunque cogitare possumus, naturae hoc sensu sunt immutabiles." Alle pp. 660-682 degli Opuscula compaiono le Vindiciae Judicii de Argumento Cartesii, contra Epistolam apologeticam pro hoc argumento ove (pp. 675-676) è ripreso brevemente l'argomento sopra esposto. Le Vindiciae sono dirette contro l'Epistola apologetica del cartesiano H. S. Schweitzer. Cfr. di I.L. MOSHEIM la nota a p. 206 in R. CUDWORTHI Systema intellectuale huius universi, trad. dall'inglese di Joannes Laurentius Moshemius, Lugduni Batavorum 1773,2, II. Della polemica tra Werenfels e Schweitzer si trova traccia nell'epistolario di Werenfels conservato presso la Biblioteca universitaria di Basilea. Ringrazio Antonio Rontondo' che ha messo a mia disposizione una copia dell'epistolario. 51

E non si deve dire, qui, che è necessario che io riconosca che Dio esiste, sol perché avevo supposto in precedenza che egli possedesse ogni perfezione, e tale è l'esistenza. Sì che, in effetti, la mia prima supposizione non sarebbe stata necessaria, come non è necessario pensare che tutte le figure di quattro lati si possano iscrivere nel circolo; ma ammesso che io pensi così, sono poi costretto a riconoscere che il rombo si può iscrivere nel circolo... e sono costretto a riconoscere una cosa falsa. ...Tutte le volte che m'accade di pensare a un essere primo e sovrano, è necessario che gli attribuisca ogni sorta di perfezioni ... Ma quando esamino quali figure sono suscettibili di essere iscritte nel circolo, non è in alcun modo necessario che io pensi che tutte le figure di quattro lati siano tra quelle; al contrario, non posso neppur fingere che questo sia, fino a che vorrò accogliere nel mio pensiero solo ciò che potrò concepire chiaramente e distintamente. E per conseguenza vi è una grande differenza tra le false supposizioni, come questa, e le idee vere, che sono nate com me, e di cui la prima e principale è quella di Dio.94 Per difendere la dimostrazione dell'esistenza di Dio dall'accusa di petizione di principio, Descartes avrebbe dovuto mostrare la differenza tra l'idea di Dio e una idea fattizia, mentre Descartes paragona qui la definizione di Dio ad una ipotesi falsa (che tutte le figure di quattro lati possano essere iscritte nel cerchio) -una implicita ammissione, questa, della difficoltà di distinguere efficacemente l'idea di Dio dalle idee fattizie. Per quanto riguarda le esigenze del secondo criterio, poi, la prova dell'esistenza di Dio dovrebbe poter garantire di essere una vera dimostrazione e non una tautologia. 'Il leone esistente esiste' appare una tautologia esplicita, e per questo 'il leone esistente' è una idea fattizia; mentre 'l'essere perfettissimo esiste' non è una tautologia e quindi l'idea di Dio è innata. Ma, se si concede che l'inferenza dell'esistenza dall'essere perfettissimo costituisca un buon esempio di dimostrazione, altre idee palesemente fattizie come 'il corpo perfettissimo' daranno luogo ad analoghe dimostrazioni, e quindi dovranno essere immesse nel novero delle idee innate. Infatti, nel caso del corpo perfettissimo, come nel caso dell'ente perfettissimo, le singole perfezioni non sono esplicitamente nominate nel soggetto. Poiché questo è il problema che si agita dietro il tentativo di dimostrare che l'idea di Dio è innata: Descartes, al contrario di Anselmo e di Bonaventura, riconosce, assieme ai critici dell'argomento 'ontologico', che, se si parte dal presupposto che l'inferenza di esistenza sia valida solo perché la negazione di esistenza implica contraddizione, allora si possono costruire infiniti argomenti ontologici: isole 94 AT VII, 67-68, trad. it., p. 245. Sottolineatura mia. 52

perfettissime, corpi perfettissimi, leoni esistenti...95 Descartes è in cerca di un criterio restrittivo che limiti al solo caso di Dio la prova di esistenza a partire da una definizione, e questo criterio è individuato giustappunto nelle prove di innatezza della idea. Ma i due criteri di innatismo, applicati alla dimostrazione dell'esistenza di Dio, mancano proprio questo obiettivo. Nelle sue obiezioni, Gassendi non mancherà di sottolineare lo scacco dell'idea di Dio di fronte ad entrambi i criteri di innatismo.96 Ma c'è di più: la dimostrazione dell'esistenza di Dio non mantiene quell'analogia con le dimostrazioni della geometria che Descartes aveva preannunciato in apertura della quinta Meditazione, come è evidente nel caso dei teoremi del triangolo evocati da Descartes in quel luogo.97 Infatti, se Descartes, come accade nel testo della quinta Meditazione, definisce il triangolo a partire da una delle sue proprietà (una figura piana di tre angoli),98 il legame necessario richiesto dal primo criterio di innatismo non è più tra una proprietà e l'insieme delle proprietà del definito (tra una perfezione e tutte le perfezioni), ma tra una proprietà e tutte le altre, che sono dedotte dalla prima col sussidio di uno o più assiomi. Per quanto riguarda il secondo criterio, poi, la dimostrazione di un teorema del triangolo consiste nel collegamento tra due concetti -ad esempio tra la figura di tre lati e l'equivalenza dei suoi angoli a due angoli retti-, collegamento ottenuto unendo alla definizione uno o più assiomi; mentre la dimostrazione dell'esistenza dell'ente perfettissimo consiste nella esemplificazione di una delle perfezioni infinite nominate nel soggetto. Quest'ultimo legame necessario e quest'ultimo modello di dimostrazione, e non i primi, sono ripetibili per ogni ente che sia definito come 'perfettissimo'. Le dimostrazioni dei teoremi del triangolo e la dimostrazione dell'esistenza di Dio non sono dunque strutturate in modo analogo e le prime hanno maggiori opportunità di riuscire a differenziare le vere essenze dai cavalli alati di quanto ne abbia la seconda. Costretto da Caterus a difendere la propria prova dell'esistenza di Dio dalla critica tomista, e ritenendo di poterla difendere solo a partire dalla innatezza della idea di Dio, Descartes prende atto coraggiosamente della elusività del testo della quinta 95 L'accusa della moltiplicabilità degli argomenti ontologici, se se ne ammette la validità nel caso di Dio, arriva fino a Russell. Cfr. B. RUSSELL, On denoting, "Mind" XIV (1905), pp. 479-93. 96 Objectiones quintae, AT VII, p. 325, trad. it. pp. 494-95. 97 AT VII, pp. 64-65, trad. it. pp. 242-43. 98 AT VII, p. 67-68: "...quoties volo figuram rectilineam tres angulos habentem considerare, necesse est ut illi ea tribuam, ex quibus recte infertur ejus tres angulos non majores esse duobus rectis..." 53

Meditazione. La risposta a Caterus contiene l'esplicita ammissione della difficoltà di dimostrare, giustappunto, che l'idea di Dio corrisponde ad una vera natura o essenza, ossia che è un'idea innata.99 Descartes riconosce così che la prova dell'esistenza di Dio della quinta Meditazione non è una buona prova dell'innatezza dell'idea di Dio e che non basta limitarsi a rinviare a quel luogo per sconfiggere l'obiezione di Tommaso. Descartes accetta quindi di lavorare seriamente sull'analogia tra la dimostrazione dell'equivalenza della somma tre angoli di un triangolo a due angoli retti e l'esistenza in Dio. Perché l'analogia sia ben costruita si richiede: 1. che la definizione di Dio, come quella del triangolo, consista in una caratteristica dalla quale siano ricavabili tutte le proprietà del definito e 2. che le proprietà siano deducibili dalla definizione affiancandole uno o più assiomi, o altre dimostrazioni. Se questi requisiti fossero soddisfatti, otterremmo un legame necessario tra i singoli attributi di Dio e non tra un singolo attributo e l'insieme degli attributi, e potremmo così sostenere con pieno diritto che l'esistenza di Dio discende necessariamente dalla sua definizione al contrario di quel che accade per le ali del cavallo. L'innatezza dell'idea di Dio sarebbe così provata, e la prova a priori della sua esistenza difesa nella sua unicità. Per soddisfare queste condizioni Descartes accetta di sostituire la definizione di Dio come ente perfettissimo con la definizione di Dio come ente potentissimo, ossia di sostituire l'insieme delle proprietà con una proprietà privilegiata, e di costruire a partire da essa la prova dell'esistenza di quell'ente. In effetti, la nuova dimostrazione si rivela all'altezza della richiesta analogia con la dimostrazione della equivalenza degli angoli interni di un triangolo a due retti, poiché nella definizione di ente infinitamente potente non è inclusa l'esistenza né esplicitamente né sotto altro nome, e l'esistenza segue dalla potenza infinita in base all'assioma, o comunque al principio lumine naturali notissimum secondo cui "ciò che può esistere per forza propria esiste sempre." Anche in questo caso la prova che l'idea è innata coincide con la prova dell'esistenza del suo ideato, ma l'ideato non è più l'ente perfettissimo, bensì l'ente infinitamente potente, la cui definizione non include né esplicitamente né sotto altro

99 AT VII, p. 116. Vi è una "non parva difficultas" nel dimostrare che "ad (Dei) veram et immutabilem naturam pertinere ut existat", in primo luogo, per l'abitudine a distinguere in ogni cosa l'essenza dall'esistenza e, in secondo luogo, "quia non distinguentes ea quae ad veram et immutabilem alicujus rei essentiam pertinent, ab iis quae non nisi per figmentum intellectus illi tribuuntur, etiamsi satis advertamus existentiam ad Dei naturam pertinere, non tamen inde concludimus Deum existere, quia nescimus an ejus essentia sit immutabilis et vera, an tantum a nobis efficta." 54

nome l'esistenza che ne viene dedotta, cosicché Gassendi non potrebbe, in questo caso, ripetere l'accusa di petizione di principio.100 Malauguratamente, come sappiamo, la prova di innatezza dell'idea di Dio, in quanto assume la forma di prova a priori dell'esistenza di un ente infinitamente potente, è una prova fallace (nella prima versione) o del tutto implausibile (nella versione definitiva).

100 Objectiones quintae, AT VII, p. 323. La petizione di principio è avvertita come un rischio reale nella prova a priori. Si veda H. More che, per difendere la prova cartesiana della quinta Meditazione dall'accusa di petizione di principio sosterrà che l'esistenza contenuta nell'idea di Dio non è la stessa esistenza che compare nella conclusione della dimostrazione. Si può dire che le due esistenze sono irriducibili perché la prima serve solo a dimostrare che l'idea di Dio è innata, ed è quindi l'esistenza-predicato, mentre la seconda asserisce che Dio esiste di fatto, ed è quindi l'esistenza attuale. Cfr. Antidotus adversus Atheismum, in H. MORE, Opera omnia, Londini 1679, anastatica G. Olms, Hildesheim 1966, II 2, p. 40: "quando contendimus veram Dei ideam eum reprasentare tanquam Ens necessario existens, eumque propterea existere, etc. ... in istis verbis (tanquam Ens necessario existens) vocem Existens aliter significare atque ubi subjungimus (Eumque propterea existere) alioquin idem per idem merito videri possim probare. Sed per Ens necessario existens intelligendum est tale Ens ad cujus naturam sive essentiam pertineat necessaria Existentia, vel cujus skesis ad Existentiam sit skesis Necessitatis, ut in aliis rebus ipsarum Essentia vel Natura innuit skesin aut Contingentiae aut Impossibilitatis." 55

II. 4 Dall'innatismo all'idea adeguata. Quel che la prova mette bene in luce sono le difficoltà della teoria innatista cartesiana. Infatti, o la definizione di un ente consiste nell'insieme delle proprietà di quell'ente, ma, allora, le dimostrazioni costruite a partire da una idea innata non si distingueranno dalle pseudodimostrazioni costruite a partire dalle idee fattizie; oppure per la definizione si utilizza una proprietà dalla quale tutte le altre sono deducibili, e, allora, ad essere innata sarà l'idea di quella proprietà, nel caso l'idea dell'ente potentissimo e non del perfettissimo. 101 Questa oscillazione è messa in evidenza in modo drammatico nel faticoso itinerario cartesiano per dimostrare l'innatezza dell'idea di Dio. La difficoltà di assimilare correttamente l'idea di Dio a quella del triangolo di fronte ai tests di innatismo deve essere apparsa così insormontabile a Descartes, dopo il fallimentare tentativo delle prime risposte, da convincerlo a retrocedere alle posizioni della quinta Meditazione. Quando un anonimo obiettore gli rivolgerà ancora una volta la critica di incorrere in una petizione di principio nella dimostrazione dell'esistenza di Dio attraverso la sua idea, Descartes si guarderà bene dal rimandare al testo della prima risposta a Caterus per attestare che, invece, di vera dimostrazione si tratta, e preferirà ripetere l'insoddisfacente soluzione del problema quale appariva nel testo della quinta Meditazione. Di nuovo, la dimostrazione dell'esistenza di Dio attraverso la sua idea è una vera dimostrazione, come lo sono le dimostrazioni dei teoremi del triangolo, perché nella definizione di Dio l'esistenza non è nominata esplicitamente: Invero, se a partire da una idea fattizia concludessi quel che vi posi esplicitamente nel momento in cui l'ho costruita, ci sarebbe una palese petizione di principio; ma il trarre da una idea innata qualcosa che pure vi era contenuto implicitamente, e che tuttavia inizialmente non avevo percepito in essa, come dall'idea del triangolo, il fatto che i suoi tre angoli sono uguali a due retti, o dall'idea di Dio, che egli esiste, ecc., è tanto lontano dall'essere una petizione di principio che, anche secondo Aristotele, è piuttosto il modo più perfetto di dimostrazione, ossia quello in cui come medio utilizziamo la vera definizione della cosa.102 101 Vede bene questo punto E. SOSA, in Cfr. in J. MARGOLIS (ed.) Fact and existence, Oxford 1969, p. 58. La migliore tra le esposizioni classiche dell'innatismo cartesiano è quella di J. LAPORTE, Le rationalisme de Descartes, Paris 1945, pp. 82-137. Tra gli studi recenti si segnala VAN De PITTE, Descartes' Innate Ideas in "Kant-Studien" 76 (1985), pp. 363-84. 102 Descartes a Mersenne, 23 giugno 1641, AT III, p. 383. Cfr. anche Descartes a Mersenne, luglio 1641, AT III, pp. 395-6. 56

A Gassendi, del resto, anch'egli convinto che la prova della quinta Meditazione incorra in una petizione di principio -"enumerando le perfezioni di Dio, non dovevi porre tra quelle l'esistenza, per concluderne che Dio esiste, se non volevi cadere in una petizione di principio"- Descartes risponderà riproponendo l'analogia tra l'idea del triangolo e quella di Dio, e, perché l'analogia sia più convincente, sceglierà di definire l'essenza del triangolo con l'insieme delle sue proprietà (e non solo con quelle proprietà da cui tutti i teoremi possono essere dedotti): "Ed io non commetto...l'errore che i logici chiamano petizione di principio, quando pongo l'esistenza tra le cose che appartengono all'essenza di Dio, più di quando, tra le proprietà del triangolo, pongo l'uguaglianza della grandezza dei suoi angoli a due retti".103 Se l'essenza del triangolo si definisce con l'insieme delle sue proprietà, l'analogia con l'idea di Dio è perfetta, ma a costo, stavolta, di ridurre anche le dimostrazioni dei teoremi del triangolo a petizioni di principio. La questione irrisolta che si agita nel faticoso tentativo di dimostrare l'innatezza dell'idea di Dio, è dunque quella del criterio per la definizione di una vera essenza. Le conseguenze non sono meno importanti per la teologia che per la gnoseologia: questo episodio segna infatti un momento di seria crisi della teoria cartesiana dell'innatismo, nata con la proposta di elevare a criterio di innatezza di un'idea la sua semplicità, e finita con l'includere tra le idee innate anche il triangolo iscritto nel quadrato. Si è notato più volte come, nella stessa pagina, Descartes sostenga che il triangolo iscritto in un quadrato è e non è una idea innata.104 Questo luogo è assai indicativo di un conflitto che Descartes non riesce a risolvere: vengono qui in collisione due criteri per giudicare della innatezza di una idea. Il primo, quello più antico, della semplicità. Il secondo, che si forgia proprio nel crogiolo della dimostrazione che l'idea di Dio è innata, della fecondità di una idea. E' innata quella idea a partire dalla quale possono essere dimostrate tutte le proprietà dell'ideato. In base alla prima il triangolo iscritto 103 Quintae responsiones, AT VII, p. 383, tra. it. cit., p. 545. 104 Cfr.,ad esempio, E.M. CURLEY, Descartes against the skeptics cit., pp. 151-152. Ci si riferisce alle Primae responsiones, AT VII, pp. 117-18: "... advertendum est illas ideas, quae non continent veras et immutabiles naturas, sed tantum fictitias et ab intellectu compositas, ab eodem intellectu non per abstractionem tantum, sed per claram et distinctam operationem dividi posse... Ut, exempli gratia, cum cogito equum alatum, vel leonem actu existentem, vel triangulum quadrato inscriptum, facile intelligo me etiam ex adverso posse cogitare equum non alatum, leonem non existentem, triangulum sine quadrato, et talia;, nec proinde illa veras et immutabiles naturas habere. ... Praeterea, si considerem triangulum quadrato inscriptum ... ut ea tantum examinem quae ex utiusque conjunctione exurgunt, non minus vera et immutabilis erit ejus natura, quam solius quadrati vel trianguli; atque ideo affirmare licebit quadratum non esse minus duplo trianguli illi inscripti, et similia, quae ad compositae hujus figurae naturam pertinent." 57

non è una idea innata, in base alla seconda sì.105 Descartes non risolverà questo conflitto, ma lo risolverà Spinoza. Nasce infatti dalle pagine della risposta a Caterus la teoria spinoziana della definizione: è un buona definizione, ossia è una idea adeguata, quella da cui possono essere dedotte tutte le proprietà del definito. In base a questa teoria, Spinoza giudicherà inadeguata la definizione di Dio come ente perfettissimo, poiché le perfezioni, come era accaduto nella risposta di Descartes a Caterus, sono proprietà derivate, effetti, per dirla con la terminologia spinoziana, e non cause delle proprietà della natura divina, come deve invece avvenire nell'idea adeguata: "..quando definisco Dio come l'Ente sommamente perfetto, poiché questa definizione non esprime la causa efficiente (giacché intendo causa efficiente sia interna sia esterna), non ne potrò ricavare tutte le proprietà di Dio..."106 In questo modo, Spinoza sceglie anche tra i due criteri della definizione che si accavallavano in Descartes: quello secondo il quale l'essenza di un ente è traducibile nell'insieme delle sue proprietà, e quello secondo il quale l'essenza di un ente è definita dalla proprietà da cui tutte le altre sono deducibili.

105 La migliore tra le esposizioni classiche dell'innatismo cartesiano è quella di J. LAPORTE, Le rationalisme de Descartes, Paris 1945, pp. 82-137. Tra gli studi recenti si segnala VAN De PITTE, Descartes' Innate Ideas in "Kant-Studien" 76 (1985), pp. 363-84. 106 B. SPINOZA, Lettera LX, trad. it. a cura di A. Droetto, Torino 1951, p. 254. 58

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Capitolo III Descartes e la prova a posteriori Ci si deve dunque rassegnare a concludere che Descartes non ha in nulla contribuito alla storia dell'argomento a priori, e che sia più opportuno porre in parentesi le infelici pagine delle risposte a Caterus, nelle quali Descartes aveva elaborato il cosiddetto 'secondo' argomento ontologico? Al contrario, il contributo di Descartes alla storia dell'argomento a priori è stato così rilevante da segnare un punto di non ritorno, ma il luogo nel quale questo contributo si forma e da cui si diparte una storia, questa sì, più che secolare, non va cercato nella riflessione cartesiana sulla prova della quinta Meditazione, ma altrove, e, per paradosso, nelle modifiche rilevantissime che Descartes andava imprimendo, sempre nelle pagine di risposta a Caterus, alla prova a posteriori della terza Meditazione. Mentre in Descartes la prova 'ontologica', nel tentativo di rispettare le esigenze dell'innatismo, trasformava il legame analitico tra l'essenza di Dio e l'esistenza in un legame causale tra la potenza e l'esistenza, e assumeva quindi al proprio interno quelle categorie causali che avrebbero dovuto avere nelle prove a posteriori il loro luogo di esercizio privilegiato, altre esigenze comandavano, nella prova a posteriori, il processo simmetrico e contrario. Questa prova, infatti, dimostrava di necessitare di una inedita accezione della nozione di ens a se con cui, nella tradizione aristotelico-tomista, si designava la causa prima. Descartes proponeva di intendere la causa prima come causa sui, ossia di attribuirle un rapporto di causalità efficiente rispetto a se stessa. Poi, nel corso dello scambio di obiezioni e risposte con Caterus e con Arnauld, Descartes trasformava quel rapporto di causaeffetto in una implicazione logica dell'esistenza nell'essenza divina, ritrovando così la logica della deduzione dell'esistenza di Dio dalla sua idea quale era stata formulata nella quinta Meditazione. Ma vediamo, nel dettaglio, lo svolgersi di questo cammino. III.1 Causa sui Nella terza Meditazione Descartes, dopo aver fornito una prima prova a posteriori dell'esistenza di Dio attraverso la ricerca della causa dell'idea di Dio, procedeva ad una seconda prova. Questa era introdotta come una prova più

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accessibile rispetto alla prima.107 In effetti, essa presentava il vantaggio di una maggiore familiarità, costruita come era in analogia con la seconda via tomista. Tommaso ricercava la causa degli enti finiti: "Troviamo nel mondo sensibile un ordine tra le cause efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se medesima; ché altrimenti essa precederebbe se stessa, il che è assurdo. Ma un processo all'infinito nelle cause efficienti è assurdo ... Dunque è necessario ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio."108 Descartes ricerca la causa dell'esistenza dell'io in possesso dell'idea di Dio. Una tale causa non può essere l'io stesso, in base al principio secondo il quale se "fossi io stesso l'autore del mio essere ... mi sarei dato io stesso tutte quelle perfezioni di cui ho in me qualche idea, e così sarei Dio." Si potrebbe ipotizzare che l'io sia eterno, ma anche in questo caso ci si dovrebbe occupare di ricercare una causa dell'esistenza dell'io, poiché "una sostanza, per essere conservata in tutti i momenti che essa dura, ha bisogno dello stesso potere e della stessa azione che sarebbe necessaria a produrla e crearla affatto di nuovo, se essa non fosse ancora". La conservazione è necessaria tanto quanto la creazione per spiegare l'esistenza attuale dell'io. Ma la causa che mi conserva attualmente non può essere l'io stesso, per la ragione precedentemente addotta, e nemmeno può essere un ente finito. Infatti, la causa dell'io in possesso dell'idea di Dio deve avere tanta realtà quanta è presente nell'effetto. Dovrà dunque essere una sostanza che pensa, e possedere anch'essa l'idea di Dio. Se questa sostanza deriva da se stessa il suo essere, essa si sarà data anche tutte le perfezioni di cui ha idea, e dunque sarà Dio; se invece dipende da altro, dipenderà da un'altra sostanza che pensa e che ha in sé l'idea di tutte le perfezioni, e così via, fino ad una causa prima che, derivando da se stessa il suo essere, si sarà data anche tutte le perfezioni di cui ha idea e sarà quindi Dio.109 Malgrado il calco operato sulla prova tomista, Descartes introduce nella sua prova delle varianti, alcune delle quali furono rilevate da Caterus, e che Descartes giustificò, in quell'occasione. In primo luogo, per qual motivo l'indagine si svolge sulla conservazione attuale dell'io e non sulla successione delle causa efficienti nel tempo passato? Perché il regresso all'infinito, benché incomprensibile dal nostro intelletto 107 AT VII, pp. 47-8: "...sed quia, cum minus attendo, et rerum sensibilium imagines mentis aciem excaecant, non ita facile recordor cur idea entis me perfectioris necessario ab ente aliquo procedat quod sit revera perfectius, ulterius quaerere libet an ego ipse habens illam ideam esse possem, si tale ens nullum existeret." 108 Summa theologiae, I, q. 2, a.3, in corp. 109 AT VII, pp. 47-51. 61

finito, è tuttavia in sé possibile, e dunque, se si seguisse la concatenazione delle cause efficienti nel passato, non si perverrebbe mai ad una causa prima. Nel presente, invece, 'non c'è tempo' per il regresso all'infinito. La ricerca della conservazione attuale dell'io, insomma, crea particolari condizioni che inibiscono il regresso all'infinito.110 Tommaso, si sottintende, affidandosi al regresso delle cause efficienti, non sarebbe mai pervenuto ad una causa prima. Ancora, perché ricercare la causa dell'io in possesso dell'idea di Dio, e non semplicemente dell'io? La presenza dell'idea di Dio, risponde Descartes, soddisfa tre esigenze. In primo luogo, "mi fa conoscere ciò che è Dio", e, "secondo le leggi della vera logica, non si deve mai domandare di nessuna cosa se essa è senza sapere innanzi tutto ciò che essa è." In secondo luogo, mi pone in grado di escludere che io stesso sia la causa del mio essere, dal momento che, se lo fossi, possedendo l'idea di Dio, mi sarei dato tutte le perfezioni contenute in quell'idea. Infine, "è essa che m'insegna che non solamente vi è una causa del mio essere, ma, di più, che questa causa contiene ogni sorta di perfezioni, e pertanto è Dio."111 La presenza dell'idea di Dio è dunque la condizione indispensabile per poter operare il passaggio dalla causa prima all'ente perfettissimo, ossia a Dio. Ammesso e non concesso che Tommaso fosse riuscito a trovare la causa prima al termine del regresso delle cause efficienti, non sarebbe poi riuscito a dimostrare che questa causa prima è Dio. Le novità, rispetto al canovaccio tomista di origine, non si fermano qui. Caterus, che non ha affatto capito la necessità di andare a ricercare la causa delle idee, ha però capito benissimo che il passaggio dalla causa prima all'ente perfettissimo, così come è costruito da Descartes, richiede un'altra condizione, ossia che la causa prima sia interpretata come causa della propria esistenza, come causa sui. Infatti, Descartes pretende che chi ha sufficiente forza per causare la propria esistenza ne abbia anche per darsi tutte le perfezioni di cui ha l'idea e per questo sia Dio: " la forza d'essere e d'esistere per sé , deve anche avere, senza dubbio, la forza di possedere attualmente tutte le perfezioni di cui concepisce le idee, cioè tutte quelle che io concepisco essere in Dio."112 Questo passaggio è cogente solo se si attribuisce alla causa prima un potere causale di darsi l'esistenza, quello stesso potere con cui la causa prima si darà poi tutte le perfezioni, ossia se si interpreta l'aseitas come una positiva autocausalità. 110 AT. VII, pp. 106-7. 111 Ivi, pp. 107-8. 112 AT VII, p. 50, tra. it., p. 229. 62

Ora, tutta la tradizione aristotelica ha sempre escluso che un ente possa essere causa di se medesimo, per la palese contraddittorietà che una tale causalità comporterebbe, ed ha quindi interpretato l'essere per sé, l'aseitas della causa prima, come semplice assenza di causa, ossia in senso negativo.113 Dunque la prova di Descartes, che invece ha bisogno di interpretare l'aseitas come autocausalità, è insostenibile. Caterus così riassume la prova a posteriori di Descartes: Ecco... la stessa via, che segue san Tommaso, che egli chiama la via della causalità della causa efficiente... Io penso, dunque sono...; ora questo pensiero...o è per se stesso, o per opera d'altri; se per altri, questi, finalmente, per opera di chi è? se per sé, esso, dunque, è Dio; poiché ciò che è per sé si sarà facilmente concesso tutte le cose. Caterus formula poi la propria obiezione: ...questa espressione per sé è intesa in due modi. Nel primo, positivamente, e cioè: per se stesso come per una causa; e così ciò che fosse per se stesso, e desse l'essere a se stesso, se per una scelta prevista e premeditata si desse ciò che volesse, senza dubbio si darebbe tutto, e pertanto sarebbe Dio. Nel secondo, l'espressione per sé è presa negativamente, ed ha lo stesso significato che da se stesso o non per opera d'altri; ed in tal guisa, se ben mi ricordo, è intesa da tutti. E adesso, se qualche cosa è per sé, cioè non per opera altrui, come proverete voi per questo ch'essa comprende tutto, e che è infinita?114 Come si vede, Caterus non si attarda a confutare direttamente la nozione di causa sui, ma si limita a rilevare come l'accezione positiva dell'aseitas sia strettamente indispensabile per la prova cartesiana, e, segnatamente, per dimostrare che la causa prima è Dio. Caterus sembra dar qui per scontato che Descartes non potrà mai far propria quell'interpretazione della aseitas, giudicata da tutti contraddittoria, cosicché, una volta dimostrato che solo con quella accezione la prova sta in piedi, Descartes dovrà ritenere confutata la prova stessa. Caterus sarà certo rimasto stupito di fronte alla reazione di Descartes. L'autore delle Meditazioni, infatti, riconosce implicitamente la lungimiranza di Caterus, e, invece di arretrare di fronte alla necessità 113 Cfr. Primae objectiones, AT VII, p. 95: "Accipitur... a se duplici modo. Primo, positive, nempe a seipso ut a causa... Secundo, accipitur a se negative, ut sit idem quod seipso, aut non ab alio; atque hoc modo, quantum memini, ab omnibus accipitur." Quartae objections, ivi, p. 208: "...arbitror manifestam esse contradictionem, quod aliquid sit a seipso positive et tanquam a causa." 114 Primae objectiones AT VII, p. 95, trad. it. p. 273. 63

di introdurre una accezione inedita della aseitas, si lancia in una difesa puntigliosa della legittimità di una tale nozione. L'atteggiamento di Caterus, d'altra parte, è comprensibile. In effetti, mentre nel testo della terza Meditazione l'idea di Dio, che, come Descartes spiega a Caterus, è condizione necessaria per passare dalla causa prima a Dio, era stata introdotta dandole grande risalto, l'altra condizione ora individuata da Caterus, ossia l'interpretazione positiva della aseitas, è appena segnalata e non è in alcun modo giustificata, inducendo così Caterus a sospettare che lo stesso Descartes non si sia accorto che proprio di quella nozione la sua prova abbisognava. Descartes, infatti, motiva la necessità di pervenire ad una causa prima con l'impossibilità, sia pure non in assoluto ma in alcune particolari condizioni, del regresso all'infinito.115 Si tratta della stessa motivazione con cui tutta la scolastica aristotelica, e Tommaso in primo luogo, aveva sostenuto la necessità di pervenire ad una causa prima. Ma Tommaso aveva anche esplicitamente escluso l'ipotesi -giudicata contraddittoriadell'autocausalità, e aveva insistito invece sul carattere incausato della causa prima: "... è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se medesima; ché altrimenti essa precederebbe se stessa, il che è assurdo." Se l'idea di Dio è una stranezza rispetto all'impianto tomista della prova, l'autocausalità che Caterus stima necessaria al ragionamento di Descartes è addirittura un corpo estraneo rispetto alle premesse tomiste su cui si innesta. In sintonia con l'obiezione di Caterus si può osservare che una prova a posteriori, che motivi solo con l' impossibilità del regresso all'infinito il darsi di una causa prima, non può dire di questa -almeno in prima istanza- se non che essa è una causa ultima, ovvero che non è a sua volta un effetto. Nel confronto con Caterus, Descartes è chiamato non solo a difendere la legittimità della nozione di causa sui, come accadrà poi anche con Arnauld, ma anche a mostrare che ad essa è indispensabile arrivare in un contesto a posteriori. Tant'è vero che niente, nel testo delle Meditazioni, imponeva il passaggio dalla causa prima alla autocausalità, che Descartes, rispondendo a Caterus, accetta di fornire alcune giustificazioni del tutto nuove per quel passaggio. Si considerino allora le motivazioni che Descartes elabora in questo senso: 115 Tertia Meditatio, AT VII, pp. 49-50: "...ex eo quod, paulo ante fuerim, non sequitur me nunc debere esse, nisi aliqua causa me quasi rursus creet ad hoc momentum, hoc est me conservet. ...Potestque de illa rursus quaeri, an sit a se, vel ab alia. ...Si autem sit ab alia, rursus eodem modo de hac altera quaeretur, an sit a se, vel ab alia, donec tandem ad causam ultimam deveniatur, quae erit Deus. Satis enim apertum est nullum hic dari posse progressum in infinitum, praesertim cum non tantum de causa, quae me olim produxit, hic agam, sed maxime etiam de illa quae me tempore praesenti conservat." 64

...la luce naturale ci dice che non vi è cosa alcuna della quale non sia lecito domandare perché esiste, o di cui non si possa ricercare la causa efficiente, oppure, se non ne ha, di domandare perché non ne ha bisogno; di guisa che, se io pensassi che niuna cosa può in qualche modo essere, riguardo a se stessa, ciò che la causa efficiente è riguardo all'effetto, ben lungi dal concludere da ciò che vi è una causa prima, al contrario, ricercherei di nuovo la causa di quella che fosse chiamata prima, e così non perverrei mai ad una causa che le precedesse tutte.116 La prima motivazione dell'uso positivo della aseitas consiste in quello che poi, nelle seconde risposte, diverrà un assioma, ossia che tutto ha una causa.117 Se una causa è prima, essa deve essere causa sui. Se così non fosse, sarebbe inevitabile incorrere nel regresso all'infinito e perdere così anche la causa prima o incausata. Questa motivazione ricalca lo schema con cui Tommaso deduceva l'indistinzione di essenza ed esistenza per analisi della nozione di causa prima. In tutti gli enti in cui l'essenza è distinta dalla esistenza, questa è causata da altro, ma poiché, oltre alla causa prima, non possono esservi altre cause, se un ente è causa prima, la sua essenza sarà indistinta dall'esistenza.118 Lo stesso Tommaso, poi, nel De ente et essentia, affermava, come ora Descartes, che se nella causa prima l'esistenza non fosse indistinta dall'essenza, quella causa non sarebbe più causa prima, e quindi non si sarebbe arrestato il regresso all'infinito.119 E' dunque sul modello di Tommaso che Descartes cerca ora, in prima istanza, di ricavare la nozione di causa sui per analisi della nozione di causa prima, agitando lo spettro della ripresa del regresso all'infinito. A prescindere dalla plausibilità del ragionamento di Descartes -se nel presente 'non c'è tempo' per il regresso all'infinito, come potrebbe questo innescarsi nel caso 116 Primae responsiones, AT VII, pp. 108-109, trad. it. p. 286. 117 AT VII, pp.164-5: "Nulla res existit de qua non possit quaeri quaenam sit causa cur existat. Hoc enim de ipso Deo quaeri potest, non quod indigeat ulla causa ut existat, sed qua ipsa ejus naturae immensitas est causa sive ratio, propter quam nulla causa indiget ad existendum." 118 Summa Theologiae, I, q.3, a.4, in corpore: "Oportet ... quod illud cuius esse est aliud ab essentia sua, habeat esse causatum ab alio. Hoc autem non potest dici de Deo: quia Deum dicimus esse primam causam efficientem. Impossibile est ergo quod in Deo sit aliud esse, et aliud eius essentia." 119 Cfr. Tommaso d'Aquino, De ente et essentia, V, ed. C. Capelle, Paris 1991, p. 59:"...oportet quod omnis talis res, cuius esse est aliud quam natura sua, habeat esse ab alio. Et quia omne quod est per aliud reducitur ad illud quod est per se, sicut ad causam primam, oportet quod sit aliqua res, quae sit causa essendi omnibus rebus ex eo quod ipsa est esse tantum; alias iretur in infinitum in causis, cum omnis res quae non est esse tantum, habeat causam sui esse, ut dictum est." 65

che l'ultima causa compatibile con la divisione del tempo presente non fosse causa sui?- proprio l'analogia con l'analisi tomista mostra la debolezza della giustificazione cartesiana della nozione di causa sui. L'indistinzione di essenza ed esistenza, ricavata per analisi della nozione di ente incausato, sembrava infatti rispondere a sufficienza alla domanda sul perché la causa prima non necessiti di ulteriori cause, e costituiva un argine sufficiente contro una ripresa del progresso all'infinito, come Arnauld ricorderà opportunamente.120 La risposta di Descartes non offre alcun reale vantaggio rispetto alla risposta di Tommaso, non ne colma alcuna lacuna argomentativa, e, nel contempo, incorre nelle difficoltà già segnalate da Tommaso a proposito della nozione di autocausalità. Descartes tenta anche altre strade. Si può motivare la nozione positiva della aseitas o attraverso la considerazione dell'infinita potenza contenuta nell'idea di Dio, oppure a posteriori, abbandonando però, stavolta, lo schema tomista. Nel primo caso, si rinvia direttamente all'indagine interna alla natura di Dio la scoperta della ragione per la quale egli è, appunto, causa prima: Quando noi diciamo che Dio è per sé, possiamo anche, a dire il vero, intendere ciò negativamente, e non avere altro pensiero, se non che non v'è causa alcuna della sua esistenza; ma se abbiamo prima ricercato la causa per cui esso è, o per la quale non cessa di essere, e, considerando l'immensa ed incomprensibile potenza che è contenuta nella sua idea, l'abbiamo riconosciuta sì piena e sì abbondante, che, in effetti, essa è la causa per cui egli non cessa di essere, e non può essercene altra che quella, noi diciamo che Dio è per sé, non più negativamente, ma, al contrario, nel modo più positivo.121 In questo modo, Descartes rimanda alla riformulazione della prova a priori contenuta nelle stesse risposte a Caterus. Per questa via, peraltro, si perderebbe ogni traccia del carattere a posteriori della prova di partenza, dal momento che si apprenderebbe direttamente dall'analisi dell'essenza divina che essa è causa sui. Ma Descartes ritiene che a quella stessa potenza infinita sia possibile pervenire anche a posteriori, come l'impianto della prova richiede. Per assicurare la deduzione di 120 Cfr. Obiectiones quartae, AT VII, p. 213: "...petenti cur Deus existat, non per causam efficientem respondendum es(t), sed nihil aliud quam quia Dus est, seu Ens infinitum. Et in ejus causam efficientem inquirenti, respondendum, causa efficienti non indigere. Et rursum percontanti cur illa non indigeat, respondendum, quia ens infinitum est, cujus existentia est sua essentia; ea enim solummodo causa efficienti indigere, in quibus existentiam actualem ab essentia distinguere licet." 121 Primae Responsiones, AT VII, p. 110, trad. it p.287. 66

una causa sui in un contesto a posteriori, Descartes è però costretto ad affiancare, con una fugace pennellata, una argomentazione del tutto nuova alla vecchia tesi secondo la quale solo la ricerca di una causa conservatrice nel tempo presente permette di rintracciare una causa prima: "...essendo, infatti, qui questione del tempo presente, e non già del passato o del futuro, il progresso non può essere continuato all'infinito . Anzi, aggiungerò di più, ciò che, tuttavia, non ho scritto prima, che non si può nemmeno andare soltanto fino ad una causa seconda, poiché quella che ha tanta potenza da conservare una cosa che è fuori di sé, conserva a più forte ragione se stessa con la propria potenza, e così è per sé."122 La nuova giustificazione data in questo luogo per motivare il passaggio da un ente causato ad un ente causa sui rovescia radicalmente l'impostazione del problema della terza Meditazione. Se l'esistenza di un ente causato da altro rimanda direttamente ad una causa sui ("...non si può nemmeno andare soltanto fino ad una causa seconda..."), si dovrà dire che, siccome deve esserci una causa sui, allora non ci può essere regresso all'infinito, e non, come si diceva nella terza Meditazione, siccome è impossibile il regresso all'infinito, allora deve darsi una causa sui. Il problema di inibire il regresso all'infinito non si pone neppure, in questo caso, come si vede solo che si rifletta alla circostanza che, nella terza Meditazione, la limitazione del fattore tempo, ottenuto grazie alla ricerca di una causa che conserva nel tempo presente, serviva a rendere finito il numero delle cause conservatrici, e quindi ad assicurare il compimento del regresso, mentre il nuovo argomento esclude che di cause ve ne possano essere più di una. Questa aggiunta, che pure parrà significativa a Spinoza, tanto da essere riprodotta al posto dell'artificio cui Descartes ricorreva nella terza Meditazione per inibire il regresso all'infinito, quando, nei Principi della filosofia di Cartesio, si impegnerà nel ricostruire questa prova dell'esistenza di Dio,123 è in genere poco notata. Eppure è di estremo interesse: è qui, tutta all'interno di Descartes, interamente perfezionata quella identificazione tra causare e creare, le cui premesse erano già state poste con la formulazione della teoria della creazione continua esposta nella terza Meditazione, identificazione che avrà un ruolo determinante nella problematica occasionalista. Solo questa giustificazione, peraltro, dà conto plausibilmente della legittimità di inferire a posteriori l'esistenza di una causa sui e non semplicemente di una causa incausata. Descartes non intende però ammettere il contrasto tra l'argomento elaborato nella terza Meditazione per giungere ad una causa ultima - l'impossibilità del regresso 122 Ivi, p. 111, trad. it. cit., p. 288. 123 SPINOZA, Renati Des Cartes Principia philosophiae, I, prop. VII, dim.,trad. it. cit., p.37. Vedi infra, p. 000. 67

all'infinito nel tempo presente -, e quello ora offerto a Caterus per sostenere che la causa prima è anche causa sui - l'esistenza di un ente causato da altro implica l'esistenza di una causa sui _, e lascia così convivere l'una accanto all'altra le due argomentazioni. Ma il conflitto tra le due prospettive è palese giustappunto sulla questione del regresso all'infinito. Se la nozione di causa sui è ricavabile direttamente e immediatamente dalla esistenza di un ente causato da altro, tutta la drammatizzazione sul creare particolari condizioni che quel regresso inibiscano, e che Descartes aveva opposto a Tommaso, non ha alcun senso. Come si vede, la difesa cartesiana della autocausalità divina non è lineare né esente da difficoltà. E' perciò legittimo chiedersi come mai Descartes insista con tanta tenacia nel difendere la nozione di causa sui e non si accontenti della semplice indistinzione tomista di essenza ed esistenza. Gilson rispondeva a questa domanda ponendo la nozione di causa sui al centro della metafisica cartesiana: tutto deve avere una causa, e così anche Dio, come dirà lo stesso Descartes difendendo la legittimità di questa nozione.124 Più recentemente, Marion ha ripreso la tesi della centralità della nozione di causa sui, inserendola in un progetto metafisico complessivo, e ha sottolineato come l'introduzione del concetto di autocausalità implichi una duplice scelta: da un lato, la sottomissione di Dio alle leggi dell'intelletto umano (Dio, come ogni cosa, dipende da una causa o da una ratio che ne spieghi l'esistenza) e, dall'altro, l'opzione per una dimostrazione a priori in senso proprio dell'esistenza di Dio.125 La motivazione scolastica per rifiutare una dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio, infatti, è che ogni dimostrazione a priori avviene assumendo come premessa la causa, ma Dio, causa prima, non può avere causa;126 né Dio può essere causa di se stesso, dal momento che, per essere causa di sé, un ente dovrebbe precedere se stesso.127 All'inverso, sostenere, come fa Descartes, che Dio è causa di se stesso implica che la dimostrazione a priori della sua esistenza è possibile. 124 E. GILSON, Etudes sur le rôle, cit., pp. 229-230. 125 J.-L. MARION, Sur le prisme métaphysique de Descartes, Paris 1986, p. 246 ss. e la comunicazione Entre analogie et principe de raison: la causa sui presentata al convegno Méditer et répondre, Paris Sorbonne 3-6 oct. 1992. 126 Cfr.G. ESTIUS, In Libr. Sentent., Parisis 1686, I, p. 4: "Cum duplex sit apud dialecticos demonstratio, alia quae ex causis effectum, alia quae contra ex effectis causam monstrat; manifestum est, priori demonstrationis modo non posse doceri deum esse, cum nec dei nec ejus existentiae possit in ullo genere causa proferri." 127 TOMMASO, Summa Theologiae, I, q.2, a.3. Vedi sopra, p. 000. 68

A me pare che le implicazioni della opzione per la causa sui individuate da Marion costituiscano le coordinate teoriche all'interno delle quali soltanto si può sperare di ottenere ancora qualche ulteriore indicazione sul significato della scelta teologica cartesiana. Assumiamo dunque come un dato acquisito che una prova dell'esistenza di Dio che faccia riferimento ad una causa dell'esistenza divina è una 60 prova a priori, e proviamo a leggere le pagine cartesiane attraverso la struttura e le implicazioni di una dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio. III.2 La prova a priori Per aver chiare le implicazioni di una dimostrazione a priori, è utile rivolgersi a coloro che la rifiutano e cercare di comprendere il motivo per cui, malgrado l'apparente insostenibilità di una causa di Dio che legittimi una prova a priori, tanta parte della scolastica torni con insistenza ad argomentare contro la possibilità di una tale prova. Le motivazioni in nome delle quali questa possibilità è respinta appaiono talmente ragionevoli, (Dio, che è causa ultima, non può avere una causa, né un ente può essere causa di se stesso), e talmente controintuitiva l'idea di una autocausalità, che non si spiega il costante e ossessivo ritorno da parte di innumerevoli autori sulla impossibilità di una tale prova, quasi una diga eretta contro una tentazione permanente e ricorrente.128 Un primo motivo per il reiterato rifiuto della prova a priori nella scolastica aristotelica potrebbe essere individuato nella presenza, nella tradizione platonica, proprio della nozione di autogenerazione divina.129 Ma questa spiegazione risulta estrinseca e di conseguenza insoddisfacente, se non si chiariscono le implicazioni teologiche della esclusione di una causa di Dio, e se non si dà una consistenza teorica all'antiplatonismo di tanti teologi. Dimostrare attraverso una causa vuol dire assumere una premessa da cui la verità della conclusione dipende. All'interno di una dimostrazione, causa equivale a principio, tant'è che sono suscettibili di una dimostrazione a priori non solo gli enti fisici, ma anche i teoremi della geometria.: "E' una dimostrazione a priori -così recita il

128 Se ve veda un elenco folto anche se, per ammissione dello stesso estensore, non completo in D. WATERLAND, A Dissertation upon the Argument a Priori, in appendice a E. LAW, An Enquiry into the Ideas of Space, Time, Immensity and Eternity, Cambridge 1724, anastatica Thommes 1993. 129 PLATONE, Fedro 245; PLOTINO, Enneadi VI, 8, 16; LATTANZIO, Epitome divinarum institutionum, 5, 3 e Institutiones divinae, I, VII, 1. 69

Lexicon dello Chauvin- quella nella quale si prova l'effetto attraverso la causa, prossima o remota, o si prova la conclusione attraverso qualcosa che la precede, che ciò sia una causa o semplicemente un antecendente (sive sit causa, sive antecedens tantum)."130 Per avere una dimostrazione a priori non è necessario possedere una causa in senso proprio: è sufficiente che vi sia una premessa da cui dipende la conclusione che si intende provare. La dimostrazione a priori, ovvero propter quid, è la dimostrazione che dà ragione del perché qualcosa è; mentre la dimostrazione a posteriori, ovvero quia, si accontenta di dimostrare che qualcosa esiste; quest'ultima è una scelta obbligata, là dove si ignori il fondamento di ciò di cui si vuol dimostrare l'esistenza o là dove non si dia fondamento alcuno. Ora, è ben vero che Dio non ha causa, ma ciò è sufficiente ad escludere che la sua esistenza possa essere dedotta da una qualche premessa, da un principio da cui dipende, ovvero che si possa dar ragione della sua esistenza? La posizione di Tommaso al riguardo segna un punto di riferimento per tutta la discussione successiva. In Tommaso, la dimostrabilità dell'esistenza di Dio è opposta alla evidenza dell'esistenza di Dio. "Una proposizione è di per sé nota dal fatto che il predicato è incluso nella nozione del soggetto ... Se dunque è a tutti nota la natura del predicato e del soggetto, la proposizione risultante sarà per tutti nota, come avviene nei primi principi di dimostrazione."131 I primi principi sono di per sé evidenti ma non dimostrabili, e l'esistenza di Dio è in sé evidente -per sé nota-, dal momento che è sufficiente conoscere il significato dei termini che compongono la proposizione 'Deus est' perché questa risulti evidente; in Dio, infatti, essenza ed esistenza coincidono. Tuttavia, Tommaso non condivide l'opinione di coloro che ritengono che l'esistenza di Dio non sia in alcun modo dimostrabile.132 E' ben vero che colui che conoscesse l'essenza di Dio quale è in sé non dimostrerebbe l'esistenza di Dio, ma la 'vedrebbe' intuitivamente, così come si colgono intuitivamente i primi principi delle dimostrazioni. Ma all'uomo non è dato conoscere l'essenza di Dio, quindi la proposizione 'Dio esiste', pur evidente in sé, non lo è per l'intelletto umano. Per questo la proposizione 'Dio esiste' è dimostrabile per l'intelletto umano, a partire da ciò che è noto all'uomo, ovvero dagli effetti. La tesi di Tommaso va letta come una ripresa della teoria di Avicenna secondo la quale, poiché Dio non ha causa, allora Dio non è passibile di dimostrazione: "Né si dà 130 S. CHAUVIN, Lexicon philosophicum, Leovardiae 1713, p. 170, s.v. Demonstratio a priori.Sottolineatura mia. 131 Summa Theologiae I, q.2, a.1. Sottolineatura mia. 132 Summa contra Gentes, I, X. 70

di lui dimostrazione perché non ha causa. Similmente non si chiede di lui il perché."133 D'accordo con Avicenna sul fatto che l'esistenza di Dio non è in sé dimostrabile perché Dio non ha causa, Tommaso intende sottolineare come da questo assunto segua solo che Dio non è passibile di una dimostrazione a priori, di una dimostrazione che intenda dar ragione di Dio e spiegare perché Dio esiste, ma che la dimostrazione a posteriori è tuttavia possibile, come, del resto, lo stesso Avicenna riconosceva, proprio perché questa non assume come premessa e come medio l'essenza divina quale è in sé, ovvero proprio perché l'essenza di Dio non è nota per l'intelletto umano: Vi è una duplice dimostrazione: L'una, procede dalla causa, ed è chiamata propter quid , e questa muove da ciò che precede in senso assoluto . L'altra, parte dagli effetti ed è chiamata dimostrazione quia, e muove da cose che precedono soltanto rispetto a noi: ogni volta che un effetto ci è più noto della sua causa, ci serviamo di esso per conoscere la causa... Dunque l'esistenza di Dio, non essendo nota rispetto a noi , si può dimostrare per mezzo degli effetti da noi conosciuti.134 Quando concede all'uomo la sola dimostrazione a posteriori, Tommaso non intende restringere le dimostrazioni di cui è passibile l'esistenza di Dio, ma, al contrario, intende tenere aperta una via alla dimostrabilità dell'esistenza di Dio. L'esistenza di Dio è dimostrabile, ma ad una condizione, ossia che la sua essenza non sia nota. La conoscenza di Dio ne esclude la dimostrabilità e la non conoscenza la rende possibile. La posizione di Tommaso e di Avicenna è molto bene illustrata da una tarda discussione tra Clarke e Waterland, all'interno della ripresa moderna della polemica sulla dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio, sulla quale avremo modo di soffermarci. Si tratta di un episodio innescato, per l'appunto, dal successo della cartesiana causa sui. Come vedremo meglio in seguito, contro l'idea di una dipendenza causale di Dio da se stesso si leva una intensa reazione polemica. Clarke, che sostiene la posizione cartesiana, pensa di attenuare lo scandalo eliminando la nozione di causalità efficiente e assimilando la dimostrazione dell'esistenza di Dio alle sole dimostrazioni della matematica, dimostrazioni che, per l'appunto, 'non dipendono da altro': "Le verità necessarie della matematica sono comunemente dimostrate a priori, 133 AVICENNA, Liber de philosophia prima sive scientia divina, tract. VIII, cap. 4, 46 rb, ed. S. Van Riet, Louvain-Leiden 1980, IV, p. 403: "Nec fit demonstratio de eo quia non habet causam. Similiter non quaeritur de eo quare." 134 Summa theologiae, I, q. 2, a. 2, sottolineatura mia. 71

eppure niente precede le verità eternamente necessarie. Perciò, voler restringere l'uso di questo termine alle sole argomentazioni che concernono le cose che sono precedute da altre cose, è un voler cavillare sul significato delle parole."135 Che il punto vero della questione sia però la dipendenza in un qualsiasi senso (ontologico o logico) dell'esistenza di Dio da qualcosa (una causa o un principio), e quindi la sua dimostrabilità, è chiarito con grande lucidità nella risposta di un critico di Clarke, Daniel Waterland, che replica alla scappatoia di Clarke, escludendo ogni priorità in ogni senso -"di ordine, natura o concetto"- di qualunque cosa rispetto all'esistenza di Dio, ossia escludendo che vi sia non solo una causa, ma anche un qualche principio da cui l'esistenza di Dio possa essere dedotta. Il paragone corretto dovrebbe essere non tra la dimostrazione dell'esistenza di Dio e i teoremi della matematica, ma tra l'esistenza di Dio e gli assiomi della matematica, indimostrabili perché non dipendono da altro, e dai quali tutte le dimostrazioni dipendono. La dimostrazione in quanto tale, insomma, implica una dipendenza di ciò che è dimostrato, e per questo l'esistenza di Dio non può essere dimostrabile.136 L' indimostrabilità in sé dell'esistenza divina è coerente con la tesi tomista della indistinzione in Dio di essenza ed esistenza. Inferire una conclusione dalla natura di un ente è possibile, in tanto in quanto abbiamo una buona definizione di quella natura, ovvero ne conosciamo l'essenza. Ma l'essenza divina, se fosse conosciuta, non potrebbe servire da premessa ad una inferenza esistenziale, proprio perché quell'essenza è l'atto stesso di esistere. L'indistinzione di essenza ed esistenza, se assunta rigorosamente, rende impossibile impostare una qualunque dimostrazione 135 S. CLARKE, Answer to the seventh Letter, in S. CLARKE, A Discourse concerning the being and attributes of God... London 1725,6, tre parti in un volume, parte terza (Several Letters to the reverend Dr. Clarke from a Gentlemen in Glocestershire ... with the Dr.'s answers thereunto) ..., p. 45. 136 D. WATERLAND, A Dissertation cit., pp. 81-2: "As to mathematical Necessary Truths,they may be demonstrated a priori, as long as there is any other Truth prior in Conception, or order of Nature, to Them: But when once we ascend up to first Principles or Axioms, which have no Truths prior in Conception, there is then no more arguing a priori, no ascending up higher in the Scale of Ideas, or in the Chain of Truths. In like manner, as to real Existences, there is a First, which is at the Top of that Scale; and we can go no higher than to the highest. There all Reasoning a priori ceases, or ought to do so; because there is no Existence prior, in order of Nature or of Conception, to argue from; no possible Causality, no imaginable Antecedency to build such Reasoning upon. There all our Searches must terminate; there our aspiring and wearied Thoughts take rest. And though an uncaused Being is an unfathomable Abyss, and we can scarce forbear asking childishly, how and why, or for what Reason it exists, and must exist? yet our recollected Thoughts must tell us, that such Questions are improper and impertinent, and resolve only into a fond Conception, or contradictory notion of something still higher than the highest, and prior to the first." 72

dell'esistenza di Dio, dal momento che il medium della dimostrazione -la definizione di Dio, la sua essenza- coincide con la conclusione, l'esistenza. Un gesuita di Coimbra, Christovao Gil, sulla cui chiara esposizione avremo occasione di tornare più volte, esprime con estrema lucidità questa conseguenza della indistinzione tra essenza ed esistenza in Dio: ...perché una proposizione sia materialmente dimostrabile a priori, è necessario che il predicato e il soggetto non si congiungano immediatamente, ma attraverso l'intervento di un altro termine medio: ma Dio, in quanto è un composto costituito formalmente dalla natura divina, si congiunge immediatamente con il proprio esistere senza l'intervento di un termine medio: quindi questa proposizione, 'Dio esiste', è materialmente indimostrabile.137 L'esistenza di Dio è in sé indimostrabile perché, come i primi principi, essa non dipende da un termine medio. In questo contesto va letta l'insistenza dei teologi di ispirazione tomista nel negare che Dio abbia una causa e che, quindi, la sua esistenza sia dimostrabile a priori. Si veda Richard of Middleton, che così parafrasa il passo di Tommaso sulla dimostrazione di cui è passibile l'esistenza di Dio: Una dimostrazione è propter quid quando si dimostra una affezione del soggetto attraverso la causa, e una dimostrazione è quia , quando si dimostra la causa attraverso l'effetto. Parlando della prima dimostrazione, dico che non è possibile dimostrare che Dio esiste, perché l'esistenza di Dio non ha una causa, attraverso la quale si possa dimostrare di Dio che esiste. Parlando della dimostrazione attraverso l'effetto, affermo che possiamo dimostrare che Dio esiste in molti modi.138 Non è un motivo epistemico quello che impedisce la dimostrazione a priori dell'esistenza divina, non è la nostra ignoranza dell'essenza divina, ma un motivo ontologico: l'esistenza di Dio non ha causa. La tesi della indimostrabilità di Dio era stata espressa con grande eleganza da Avicenna: "Colui che è primo ... ed altissimo, e 137 CRISTOFORUS GILLIUS, Absolutissimarum Commentationum Theologicarum Libri duo, Coloniae Agrippinae 1661, Lib. I, tract. VIII, cap. IV, VI, p. 394b. 138 RICARDUS de MEDIAVILLA, Super quatuor libros sententiarum Petri Lombardi Quaestiones Subtilissimae, I, Dist. III, q. 3. Si veda anche Cr. GILLIUS, cit., Lib. I, tract. VIII, cap. III, VII, p. 386: "Haec autem propositio, Deus est, non habet medium terminum, quo à priore demonstretur: ergo est per se nota. ... huius propositionis non potest dari medium desumptum a causa extrinseca ...Non potest etiam sumi medium a causa materiali intrinseca: nam hoc etiam non cadit in Deum, non a formali: nam ... in deitate non est ulla ratio formalis prior ipso esse divino, quae nostro modo intelligendi sit ratio, cur Deus sit." 73

glorioso ... non ha una definizione, e ... non è possibile avere di lui dimostrazione, ma egli stesso è la dimostrazione che tutto quel che è."139 Dio non appartiene allo stesso spazio logico del finito, Dio è il principio della conoscenza del finito, e non può essere sottoposto alle leggi della conoscenza del finito, ossia non può essere oggetto di definizioni e di dimostrazioni. La teologia di Tommaso è in profonda sintonia con la tesi di Avicenna. Basti pensare, per quanto ci riguarda, alla circostanza di cui parlavamo nel capitolo precedente, ossia al fatto che ogni definizione di Dio di cui ci si serve per formulare un giudizio che lo riguarda è necessariamente solo un nomen di Dio, l'essenza divina rimanendo sempre al di là della esprimibilità in una proposizione. Mi preme sottolineare che, nella logica di questa interpretazione, la prova anselmiana non è ritenuta una dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio, pur rimanendo una esemplificazione di proposizione per sé nota "ex terminis". Infatti Tommaso, e poi tutta la tradizione tomista, traduce la prova anselmiana nella tesi secondo la quale la proposizione 'Dio esiste' è tale "che subito s'intende, appena ne abbiamo percepito i termini."140 Anselmo attribuirebbe agli uomini quella conoscenza intuitiva dell'esistenza divina cui attingono coloro che possono conoscere l'essenza di Dio quale è in sé. Per confutare Anselmo, interpretato come teorico di una conoscenza immediata e non dimostrativa dell'esistenza di Dio, non c'è alcun bisogno di invocare l'assenza di causa, e quindi l'indimostrabilità dell'esistenza divina, ma è sufficiente insistere sulla impossibilità, per l'intelletto umano, di conoscere l'essenza di Dio. Di nuovo Gil chiarisce bene come la proposizione 'Dio esiste' possa essere un buon esempio di proposizione per sé nota ma non dimostrabile a priori: "...l'assenso a questa proposizione, Dio esiste, non deriva da un termine medio estrinseco, ma dalla stessa natura dei termini che compaiono in questa proposizione: di conseguenza l'assenso è evidente in forza dei termini, e non nasce da una dimostrazione: perciò, coloro che vedono Dio, hanno un giudizio evidente della sua esistenza..."141 139 AVICENNA, Liber de philosophia prima cit., tract. VIII, cap. 5, in fine, p. 411: "...manifestum est quod primus non habet genus nec quidditatem nec qualitatem nec quantitatem nec quando nec ubi nec simile sibi nec contrarium, qui est altissimus et gloriosus, et quod non habet definitionem, et quod non potest fieri demonstratio de eo, sed ipse est demonstratio de omni quod est, immo sunt de eo signa manifesta. Cum autem designatur eius certitudo, non designatur nisi post anitatem, per negationem consimilium ab ipso et per affirmatiuonem relationum ad ipsum, quoniam omne quod est ab ipso est, et non est communicans ei quod est ab ipso; ipse vero est omne quod est, et tamen non est aliquod ex his." 140 Summa theologiae, I, qu.2, a.1, secundum. Cfr. ANSELMO, Proslogion, IV: "Nullus... intelligens id quod deus est, potest cogitare quia deus non est". Coglie bene questo punto H. RIKHOF, Aquinas and the 'Ratio Anselmi'. A theo-logical Analysis of Aquinas' Criticism, in L'argomento ontologico, a cura di M.M. OLIVETTI cit., pp. 137-159. 141 CR. GILLIUS, Commentationes Theologicae cit., p. 394b. 74

Tra le discussioni della tesi tomista, quella di Duns Scoto si segnala per le novità che introduce nell'analisi dell'Aquinate. Scoto, con Tommaso, afferma che l'esistenza di Dio è in sé per sé nota: "è per sé nota quella proposizione che congiunge questi estremi, l'esistenza e l'essenza divina, oppure questi, Dio e l'essere che gli è proprio". Si tratta infatti di una proposizione "immediata", "ex terminis evidens", "immediatissima": "questa proposizione, Dio esiste, intesa dell'essere che è proprio di Dio, è per sé nota: perché è evidente in forza dei termini", e per questo è in sé indimostrabile, poiché non si dà una causa o ratio esterna al predicato e al soggetto che ne consenta la dimostrazione.142 Fin qui Scoto segue la sostanza dell'impostazione tomista. Il distacco da Tommaso, però, si fa evidente quando Scoto si impegna a dimostrare che l'intelletto umano non possiede un concetto di Dio tale che gli permetta di formulare una proposizione dalla quale l'esistenza di Dio risulti per sé nota. La prima motivazione addotta da Scoto per giustificare questa tesi afferma che una proposizione che assumesse come definizione di Dio un concetto quale è posseduto dall'intelletto umano, ad esempio, 'l'ente infinito è', sarebbe riducibile ad una dimostrazione a priori; ma una proposizione dimostrabile a priori non è per sé nota, dunque una proposizione che assumesse come definizione di Dio un concetto quale è posseduto dall'intelletto umano non sarebbe una proposizione per sé nota. Scoto, dunque, al contrario di Tommaso, ritiene che si possa costruire una dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio: Se si domanda se l'esistenza si trovi in qualche concetto, che noi concepiamo di Dio, cosicché ne derivi una proposizione per se nota nella quale si enuncia l'esistenza di un tale concetto ... dico che nessuna proposizione di tal genere è per se nota. ... La prima ragione, è che qualunque proposizione di tal genere è una conclusione dimostrabile anche propter quid. Dimostrazione. Qualunque cosa convenga per prima e immediatamente a qualcosa che è in un ente, si può dimostrare propter quid attraverso quell'ente, cui conviene per prima come attraverso un termine medio. Esempio. Se il triangolo ha come caratteristica prima che i suoi tre angoli sono uguali a due retti, di ogni contenuto del triangolo si può dimostrare che ha tre angoli, con una dimostrazione propter quid, utilizzando come medio il triangolo, ad esempio che qualche figura ha tre angoli, o anche di qualche specie di triangolo, che ha tre angoli ... Ma l'esistenza conviene per prima a questa essenza, tale quale è vista dai Beati: quindi di qualunque cosa, che è in questa essenza, e che può essere da noi concepita, o che gli sia come superiore, o che gli sia come inferiore, o che ne costituisca come una 142 J. DUNS SCOTO, Ordinatio, I, Dist. 2, pars 1, q. 1-2, 15, cit. p. 131: "Igitur propositio per se nota, non est exclusiva notitiae terminorum, quia prima principia cognoscimus in quantum terminos cognoscimus, sed excluditur quaecumque causa et ratio quae est extra per se conceptum terminorum propositionis per se notae." 75

affezione si può dimostrare l'esistenza attraverso questa essenza, come attraverso il medio di una dimostrazione propter quid, come attraverso questa, 'il triangolo ha tre angoli', si dimostra che qualche figura ha tre angoli; e di conseguenza non è nota per sé ex terminis , altrimenti non sarebbe dimostrabile propter quid.143 Utilizzando come definizione di Dio il concetto che ne ha l'uomo e come medio l'essenza di Dio "tale quale è vista dai Beati" si ottiene una dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio. Si tratta di una dimostrazione intermedia tra la conoscenza intuitiva dell'esistenza di Dio propria dei beati e la dimostrazione a posteriori cui ha accesso l'intelletto umano. E' la dimostrazione che può essere compiuta dai beati - e solo dai beati- che utilizzassero come definizione di Dio un concetto accessibile all'intelletto finito. Per costoro, la dimostrazione dell'esistenza divina sarebbe analoga alla dimostrazione che alcune figure hanno tre angoli, dimostrazione che si avvale, come medium, dell'essenza del triangolo. Insomma, i beati potrebbero mettere in parentesi la loro conoscenza intuitiva dell'esistenza di Dio e dimostrarne l'esistenza come il logico e il geometra dimostrano i loro sillogismi. Per l'intelletto umano, invece, in quanto privo dell'idea adeguata di Dio, e quindi del medio della dimostrazione a priori, la stessa proposizione è dimostrabile solo a posteriori. Ora, è pur vero che la posizione di Scoto non concede la dimostrabilità in sé dell'esistenza di Dio, che rimane per sé nota e quindi indimostrabile per i beati che rimanessero all'interno della sola conoscenza adeguata di Dio, ma la novità rispetto a Tommaso resta: è possibile una dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio utilizzando come medio la conoscenza adeguata dell'essenza divina. La posizione di Scoto è discussa e ripresa da Ockham.144 143 DUNS SCOTO, Ordinatio I, Dist. 2, pars 1, q. 1-2, 26-27, pp. 138-140. 144 Ockham accetta la tesi secondo la quale la proposizione 'Dio esiste' è in sé nota, e rifiuta quella secondo la quale la proposizione 'Dio esiste' è in sé dimostrabile per chi conosca l'essenza e l'esse di Dio quali sono in sé. C'è però un senso nel quale la proposizione 'Dio esiste' può dirsi dimostrabile a priori, ovvero nel caso in cui all'essenza divina quale è in sé venga predicato l'esse quale è conosciuto da noi. Cfr.In lib. primum Sentent. cit., pp. 440-41: "...illa propositio quam de facto habemus non est per se nota, sed propositio utraque quam format beatus, sive praedicando esse quod est Deus de divina essentia sive illud quod nos praedicamus est per se nota ... Per alteram istarum propositionum est illa propositio quam nos habemus de facto demonstrabilis, praedicando in prima propositione illud praedicatum quod nos habemus de ipsa essentia divina in se; secundo, praedicando de illo subiecto quod nos habemus ipsam divinam essentiam, et ex his propositionibus concludendo praedicatum quod nos habemus de subiecto quod nos habemus." Ne risulta una dimostrazione di questo tipo: 1) L'essenza divina ( quale è in sé) è l'esse (quale è per noi) 2) Dio (quale è per noi) è l'essenza divina (quale è in sé) 3) Dio è l'esse 76

Nella discussione successiva, è proprio la novità rispetto all'impianto tomista che viene sottolineata. La posizione di Scoto è presentata come esempio, inaccettabile, di una posizione radicalmente antitomista: Scoto sostiene che l'esistenza di Dio è dimostrabile a priori. Si veda, per tutti, il gesuita Gabriel Vasquez il quale, commentando le tesi di Scoto che abbiamo appena illustrato, in un luogo intitolato significativamente Se si possa provare con una vera dimostrazione che Dio esiste, così si esprime: ...Scoto si serve di questa distinzione: se si parla di questa proposizione in sé, essa può essere dimostrata, anche con una dimostrazione propter quid; tuttavia per coloro che sono ancora in cammino essa può essere dimostrata solo con una dimostrazione a posteriori. Ma quel che dice della dimostrazione propter quid non è vero in alcun modo. Infatti questa proposizione, in sé, ossia, astratta dall'intelletto di colui che è ancora in cammino, che la conosce attraverso concetti a lei estranei, e collocata nell'intelletto di colui che la vede in se stessa, senza dubbio, manca del medio: quindi non è una vera proposizione composta di soggetto e predicato, ma una conoscenza semplice: perciò non può darsi di essa né conoscenza discorsiva , e neppure dimostrazione ... E' dunque vera la seconda opinione, secondo il senso che gli attribuiscono normalmente gli altri autori, che parlano solo di una dimostrazione a posteriori, e dell'intelletto di coloro che sono ancora in cammino. E questa opinione i più recenti tomisti la ritengono talmente vera, che giudicano a buon diritto temeraria l'altra.145 Come si vede, Vasquez, colpito dalla novità della posizione di Scoto, non menziona nemmeno il fatto che solo utilizzando una definizione di Dio accessibile all'intelletto finito è possibile produrre una dimostrazione a priori, e attribuisce a Scoto la convinzione che l'esistenza di Dio sia in sé dimostrabile a priori all'interno della sola conoscenza adeguata di Dio e "astraendo dall'intelletto di colui che è ancora in cammino". Vasquez esprime poi in modo cristallino la ragione del dissenso di molti tomisti da questa ricostruzione delle tesi di Scoto. La proposizione 'Dio esiste' non è in sé dimostrabile: essa, infatti, manca del medio, e quindi "non è una vera proposizione composta di soggetto e predicato, ma una conoscenza semplice: perciò

Anche la proposizione nota per sé e dimostrabile è però accessibile solo ai beati, perché, per avere il medio della dimostrazione, è necessario l'accesso all'essenza divina quale è in sé: "Et si quaeratur, cui est ista propositio demonstrabilis, dico quod est demonstrabilis ipsi videnti divinam essentiam vel cognoscenti abstractive ipsam divinam essentiam in se." 145 GABRIEL VASQUEZ, Commentariorum ac disputationum in primam partem Sancti Thomae, Lugduni 1631, Disp. XX. 77

non può darsi su di lei né conoscenza discorsiva, e neppure dimostrazione." In nessun caso beati dimostrano l'esistenza di Dio, ma la 'vedono'. La tesi della dimostrabilità a priori della proposizione 'Deus est' è presentata come peculiare di Scoto e degli scotisti da Christovao Gil: Non mancano autori recenti , che affermano che è dimostrabile a priori anche per coloro che sono ancora in cammino , se non per sé, almeno posta la conoscenza di Dio acquisita discorsivamente. ... In modo diverso la stessa conclusione è sostenuta da Scoto ...con gli interpreti scotisti ... Ockham ... Gabriel ... Rubionis ... Essi infatti, pur ritenendo che nella condizione comune non si dia dimostrazione propter quid di questa proposizione 'Dio esiste', sono tuttavia del parere che essa potrebbe essere dimostrata da colui cui Dio infondesse una scienza evidente dei termini, o almeno del termine 'Dio'...146 Scoto è dunque il teologo che ha per primo affermato che una conoscenza adeguata dell'essenza divina consente una dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio. La conoscenza dell'essenza di Dio non si oppone più, come in Tommaso, alla dimostrabilità della sua esistenza. Lo stesso Scoto, peraltro, quando dimostra a posteriori l'esistenza di un primo principio, ne mantiene rigorosamente il carattere incausato, in piena sintonia con Tommaso: "La seconda conclusione a proposito della prima causa è questa, che la causa prima in senso assoluto è incausabile ... E, di più, si conclude che, se quell'ente primo non è producibile, è incausabile, perché non soggetto né al fine né alla materia né alla forma .... e si prova simultaneamente che se non è producibile per causa efficiente, allora non è soggetto alla causa materiale né alla causa finale, perché ciò di cui non v'è causa estrinseca non v'è neppure causa intrinseca."147 Combinando il netto rifiuto di una causa per il primo principio con la tesi della dimostrabilità a priori dell'esistenza di Dio per chi ne conoscesse adeguatamente l'essenza, può così accadere di vedere respinta la dimostrazione a priori per due opposti motivi: perché Dio non ha causa, e perché l'essenza di Dio non ci è sufficientemente nota. E' il caso di Gregorio di Valentia che esclude la dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio, in primo luogo perché Dio non ha causa e, in secondo luogo, perché la sua esistenza non può essere dedotta dalla essenza, in quanto l'essenza di Dio ci è ignota. Mentre la dimostrazione attraverso la 146 CR. Gillius, Commentationes Theologicae cit., L. I, Tract. 8, c.IV, p. 391. 147 DUNS SCOTO, In Lib. I Sententiarum, Dist. II, q. 2, 16, p. 249. 78

causa è in sé impossibile, perché Dio non ha causa, la dimostrazione attraverso l'essenza è impossibile quoad nos, perché l'essenza di Dio ci è ignota: "L'esistenza di Dio non può essere dimostrata a priori : di ciò tutti convengono. Infatti l'esistenza di Dio non ha alcuna causa attraverso la quale possa essere dimostrata a priori: e neppure può essere dimostrata attraverso l'essenza e la natura di Dio, come se fosse qualcosa che precede di ragione. I. Perché l'esistenza di una cosa non deve essere dimostrata attraverso la natura della cosa, dal momento che la domanda 'se una cosa sia' precede la domanda 'cosa sia'; come afferma giustamente S. Tommaso. 2. Perché la natura di Dio non ci è sufficientemente nota."148 Come dirà con la consueta chiarezza Christovao Gil, per avere una dimostrazione a priori occorrono due condizioni: colui che è ancora in cammino , elevandosi sopra la norma ordinaria , può avere una dimostrazione a priori di questa proposizione 'Dio esiste', solo se due condizioni sono soddisfatte: la prima, che si possa dare una conoscenza astrattiva di Dio chiara e distinta , l'altra che, se una tale conoscenza si dà, a partire da essa si possa costruire una vera e propria dimostrazione. A seconda delle combinazioni che si scelgono tra queste due condizioni si ottengono quattro posizioni possibili: 1. L'essenza di Dio ci è ignota e la sua esistenza è indimostrabile a priori (Tommaso, Riccardo di Mediavilla, Vasquez...) 2. L'essenza di Dio ci è ignota, ma la sua esistenza è dimostrabile a priori (Scoto) 3. L'essenza di Dio ci è nota e la sua esistenza è indimostrabile a priori (?) 4. L'essenza di Dio ci è nota e la sua esistenza è dimostrabile a priori (?) Solo all'interno della quarta posizione l'esistenza di Dio diviene dimostrabile a priori anche quoad nos Per quanto sappiamo finora di Descartes, una cosa è certa. Descartes, utilizzando per Dio la nozione di causa sui, si inserisce nella linea scotista, secondo la quale Dio è dimostrabile a priori. Rispetto a Scoto, però, ci sono tre novità di grande rilievo: 1) L'esistenza di Dio è in sé dimostrabile a priori. Non si deve far ricorso ad una definizione di Dio accessibile all'intelletto umano, ma l'essenza stessa di Dio, col suo essere causa di sé stessa, consente una dimostrazione a priori a chi ne ha conoscenza adeguata. Se non di una novità rispetto a Scoto, si deve almeno rilevare che qui Descartes aderisce all'interpretazione che di Scoto aveva dato Vasquez. 2) Descartes, 148 GREGORIUS DE VALENTIA, Commentationum theologicarum tomi quatuor, I, Disp. I, q. 2, Lugduni 1619, p. 59. Sottolineatura mia. 79

contro Scoto, ammette che la causa prima la cui esistenza è inferita dagli effetti sia causa sui , e, in tal modo, inserisce la nozione che rende possibile una prova a priori all'interno della sua prova a posteriori, costruita a calco della prova causale tomista. 3) Come noterà subito Caterus, nella prova cartesiana si ricerca non la causa di un ente ma la causa di un ente in possesso dell'idea di Dio. Con questo ulteriore intervento Descartes soddisfa anche la seconda condizione ricordata da Gil per avere una prova a priori quoad nos: non solo l'esistenza di Dio è in sé dimostrabile, ma abbiamo dell'essenza di Dio una idea chiara e distinta, anzi, l'idea di Dio è la più chiara e distinta di tutte: "è infatti sommamente chiara e distinta."149 La dimostrazione a priori, al contrario di quel che pensavano Scoto e Ockham, non è privilegio dei soli beati. Possiamo quindi fin da ora dare un nome, quello di Descartes, alla quarta posizione: l'esistenza di Dio è in sé e per noi dimostrabile a priori. III.3 Causa sive ratio Ma torniamo alla giustificazione cartesiana della nozione di causa sui. Come si è visto, Descartes è riuscito a motivare la necessità di pervenire a posteriori ad un ente che sia positivamente a se, anche se a costo di qualche intervento significativo rispetto alla linea argomentativa percorsa nella terza Meditazione, dove, torniamo a ripetere, l'uso di quell'accezione non era in alcun modo giustificato. Di questo lavoro di giustificazione post factum è senz'altro frutto anche il tentativo di riformulare la prova della quinta Meditazione in modo da motivare l'innatezza dell'idea di Dio attraverso la nozione di potenza infinita, come se, una volta costretto da Caterus ad uscire allo scoperto, Descartes avesse deciso di trarre il massimo profitto dalla nozione di causa sui, utilizzandola esplicitamente per puntellare altri luoghi della sua argomentazione. Sembrerebbe dunque che la nozione di causa sui, una volta utilizzata esplicitamente per costruire una vera prova a priori, dia luogo proprio all'argomento debolissimo per provare a priori l'esistenza di Dio attraverso la sua onnipotenza, che abbiamo sopra analizzato. Ci troveremmo così di fronte ad una situazione paradossale: la nozione che, per eccellenza, permette la costruzione di un argomento a priori, in opposizione consapevole a tutti i divieti tomisti, sarebbe incapace di essere

149 Tertia Meditatio, AT VII, p. 46: "Est, inquam, haec idea entis summe perfecti et infiniti maxime vera ... Est etiam maxime clara et distincta ... idea quam de illo habeo omnium quae in me sunt maxime vera, et maxime clara et distincta." Su questi luoghi è da vedere il saggio di J.M. BEYSSADE, The idea af God and the Proofs of his existence, in J. COTTINGHAM ed., Descartes, Cambridge 1992, pp. 174-199. 80

utilizzata per un argomento formalmente corretto che dimostri a priori l'esistenza di Dio. Ma non è così. Caterus e Arnauld, infatti, stringono d'assedio Descartes con una nutrita schiera di obiezioni sulla concepibilità di un ente che sia causa di se stesso. A quelle di Caterus Descartes risponde a testa alta, e difende con estrema fermezza la legittimità di utilizzare la nozione di autocausalità;150 meno bene, sia per il reverenziale timore verso il personaggio, sia per la qualità delle obiezioni, se la cava con Arnauld. Si ha l'impressione di una vera e propria marcia indietro. Al posto della causa sui, Descartes accetta di parlare di "una ragione per la mancanza di una causa",151 e, nel tentativo di rendere accettabile ad Arnauld la nozione di causa sui assimilandola a concetti più familiari della strumentazione teologica, compie il passo decisivo: Dio è causa sui nel senso che la sua essenza è causa formale della sua esistenza. Grazie alla trasformazione della causa efficiente in causa formale, della causa in ratio, la necessità causale con cui Dio produce la propria esistenza si trasforma in una implicazione logica della esistenza nella essenza, e l'essenza stessa diviene la

150 Nell'obiezione di Caterus torna la tesi tomista (Summa Theologiae, I, q.2 a.3, in corp.) secondo la quale una autocausalità è impossibile perché la causa deve precedere l'effetto e nessun ente può precedere se stesso. Cfr. Primae Objectiones, AT VII, p. 95: "Nec enim a se est ut a causa, nec sibi praevium fuit...". Descartes replica rivendicando la contemporaneità dell'effetto alla causa, e quindi respingendo il motivo con il quale Tommaso aveva respinto la possibilità dell'autocausalità. Primae Responsiones, AT VII, p.108: "Denique non dixi impossibile esse ut aliquid sit causa efficiens sui ipsius ... quia lumen naturale non dictat ad rationem efficientis requiri ut tempore prior sit suo effectu; nam contra, non proprie habet rationem causae, nisi quandiu producit effectum, nec proinde est prior." L'autocausalità è dunque possibile. 151 AT VII, p. 236: "...verbum, sui causa, nullo modo de efficiente potest intelligi, sed tantum quod inexhausta Dei potentia sit causa sive ratio propter quam causa non indiget. Cumque illa inexhausta potentia, sive essentiae immensitas sit quammaxime positiva, idcirco dixi rationem sive causam ob quam Deus non indiget causa, esse positivam. 81

premessa -il medio- da cui l'esistenza è deducibile.152 Infine, Dio si dà tutte le perfezioni, nel senso che è impossibile che un ente necessario non sia anche un ente perfettissimo.153 Ne seguono le modifiche delle prime risposte nelle quali Descartes tiene conto degli aggiustamenti imposti dallo scambio con Arnauld.154 Parlando di una ragione della mancanza di causa e, soprattutto, trasformando la causa efficiente in causa formale, Descartes tradisce forse le proprie intenzioni più profonde nel tentativo di non spiacere troppo ad Arnauld? Non lo credo. Ci occuperemo più oltre della questione della trasformazione della causa sui nella ragione per l'assenza di causa;155 ora consideriamo il passaggio dalla causa efficiente alla causa formale. La causalità formale -non nominata da Tommaso-156 era pur stata 152 Secondo Arnauld perché si possa parlare di rapporto di causa e di effetto tra due enti è necessario che questi si distinguano tra di loro, e ciò basta ad escludere che possa esserci un rapporto di causalità di un ente nei confronti di se stesso. Le ragioni che valgono in genere per ogni rapporto di causa e di effetto divengono semmai più cogenti per un ente infinito che non dura nel tempo (e quindi non necessita di una causa che lo conservi), e la cui esistenza è indistinta dall'essenza (e quindi non ha bisogno di essere causata, dal momento che può essere causata solo l'esistenza e non l'essenza di un ente). Cfr. Quartae Obiectiones, AT VII, p. 208 ss. La risposta di Descartes è un imbarazzato tentativo di mantenere la sostanza della propria tesi formulandola in modo da renderla meno rude per la sensibilità di Arnauld. Così Descartes procede nella trasformazione del rapporto di causa efficiente ed effetto in un rapporto di dipendenza dell'esistenza dall'essenza, nel quale l'essenza è la causa formale dell'esistenza. Cfr. Quartae Responsiones, AT VII, p. 239: "Existimo necesse esse ostendere inter causam efficientem proprie dictam et nullam causam esse quid intermedium, nempe positivam rei essentiam, ad quam causae efficientis conceptus eodem modo potest extendi, quo solemus in Geometricis conceptum lineae circularis quammaximae ad conceptum lineae rectae, vel conceptum polygoni rectilinei, cujus indefinitus sit numerus laterum, ad conceptum circuli extendere."; p. 241: "...non puto me hoc in loco posse reprehendi, quod analogia causae efficientis usus sim ad ea quae ad causam formalem, hoc est ad ipsammet Dei essentiam pertinent, explicanda."; p. 243: "...quaerenti cur Deus existat, non quidem esse respondendum per causam efficientem proprie dictam, sed tantum per ipsam rei essentiam, sive causam formalem, quae propter hoc ipsum quod in Deo existentia non distinguatur ab essentia, magnam habet analogiam cum efficiente, ideoque quasi causa efficiens vocari potest." 153 Ivi, pp. 240-41. 154 Cfr. Descartes a Mersenne, 18 mars 1641, AT III, p. 334 ss. 155 Vedi infra, p. 000 156 Quando Tommaso aveva illustrato la tesi della indistinzione in Dio di essenza ed esistenza, aveva chiarito che non si poteva pensare che l'esistenza in Dio fosse causata dall'essenza, se si intende la causa come causa efficiente. Con ciò poteva sembrare che altri tipi di causalità fossero perlomeno degni di essere presi in esame. Cfr. Summa theologiae, I, q.3, a.4, in corp. Ma soprattutto De ente et essentia, IV, cit. p. 35 :"Omne autem quod convenit alicui vel est causatum ex principiis naturae suae, sicut risibile in homine, vel advenit ab aliquo principio extrinseco, sicut lumen in aere ex influentia solis. Non autem potest esse quod ipsum esse sit causatum ab ipsa 82

esplicitamente esclusa come medio per la dimostrazione dell'esistenza del primo principio da Scoto.157 Descartes sceglie invece di sostituire la causa efficiente evocata dalla nozione di causa sui con la causalità formale, memore forse dell'illustre precedente di Enrico di Gand che aveva escluso la causa materiale e la causa efficiente, ma aveva ammesso la legittimità di parlare di causa formale nel rapporto tra essenza ed esistenza in Dio.158 In questa scelta vi è certo una qualche furbizia; Descartes approfitta anche del modo con cui Arnauld ha formulato la propria obiezione. Riecheggiando Tommaso,159 Arnauld aveva osservato che la causa efficiente riguarda solo l'esistenza e non l'essenza di un ente, come ben sanno i matematici che, occupandosi solo delle essenze delle figure geometriche "non fanno nessuna dimostrazione per mezzo della causa efficiente e finale." Ora, l'esistenza appartiene all'essenza di Dio non meno di quanto appartenga alla natura del triangolo l'equivalenza degli angoli interni a due retti. Per cui, come non si risponde alla domanda sul perché i tre angoli del triangolo siano uguali a due retti con la causa efficiente, ma dicendo che tale è la natura del triangolo, così, a chi chiede perché Dio esiste "non bisogna cercare in Dio, né fuor di Dio, una causa efficiente ... ma bisogna dire, per tutta ragione, che tale è la natura dell'essere sovranamente perfetto. "160 forma vel quiditate rei, causatum dico sicut a causa efficiente, quia sic aliqua res esset causa sui ipsius et aliqua res seipsam in esse produceret, quod est impossibile." Sottolineatura mia. 157 Si vedano i testi di Scoto e Gil citati sopra, p. 000. 158 HENRICI A GANDAVO, Summa in tres partes praecipuas digestas, art. XXI, q. V, Utrum Deuas habeat esse à seipso. "...ly à se potest dicere circumstatiam causae agentis, sive efficientis, vel formalis. Si primo modo, sic dicendum quod Deus non habet esse à se, immo nec etiam ab alio ... Si vero secundo modo ly à se potest dicere circumstatiam causae formalis: sic dicendum, quod Deus habet esse à seipso, habet enim esse ex hoc, quod est forma, et actus purus, quae est ipsum esse omnino indifferens, nec aliquid praeter ipsum esse, ut probatum est supra." Lo stesso Gil, dopo aver escluso ogni causalità dell'esistenza di Dio, ammette la possibilità di parlare di una ragione formale, e quindi di una causa formale,sia pure in modo 'metaforico'. Commentationes theologicae cit., lib. II, tract. I, c. III, VI, p. 432: "Verum nostro intelligendi modo non repugnat, ut dicamus Deum esse à se, tamquam à ratione formali, quemadmodum ea, quae pertinent intrinsece ad essentiam, concipere ac nominare solemus per modum formae ... et quemadmodum Socrates ab humanitate tanquam à causa formali habet, ut sit homo, ita essentiam Dei concipimus ut causam formalem ipsius esse: quoniam, sicut se habet vita ad vivere et lux ad lucere, ita essentia ad esse. Verum enimvero est discrimen inter haec, cum modo creaturis, modo Deo ascribuntur: in creaturis enim ipsum vivere à vita, lucere à luce, et esse distinguitur ab essentia: in Deo autem nulla est inter ea distinctio: et ita non admittitur in divinis vera ratio causae formalis, sed solum metaphorica, et nostro intelligendi modo, quo res dicuntur esse à se, et per se, cum praedicatur de ipsis aliquid pertinens intrinsece ad essentiam: qua ratione homo dicitur rationalis à se, et per se, quia rationalitas est quasi forma intrinseca essentiae. 159 Summa theologiae, I, q. 3, a. 4. 83

Descartes si aggrappa subito all'analogia proposta da Arnauld tra i 'perché' della matematica e i 'perché' di Dio. Gli basta il tipo di causalità normalmente evocata dai matematici nelle loro risposte, ossia la causalità formale :"a chi domanda perché Dio esiste, non bisogna ... rispondere con la causa efficiente propriamente detta , ma solamente con l'essenza stessa della cosa, oppure con la causa formale". 161 Ma non è solo furbizia quella che spinge Descartes a trasformare la causa efficiente in causa formale. Se si accetta la traduzione della causa efficiente in causa formale, la dimostrazione dell'esistenza di una causa sui può essere tradotta nel linguaggio con il quale si dimostrava l'esistenza dell'ente perfettissimo nella quinta Meditazione. L'esistenza, in questo caso, non è più prodotta da una causa, ma dedotta da una premessa, come nella quinta Meditazione l'esistenza veniva dedotta dalla definizione di Dio, ente perfettissimo. Ora, la traduzione della prova attraverso la causa sui nella prova attraverso l'ente perfettissimo è legittima se entrambe, in linguaggi diversi, presentano la stessa struttura. Si è visto come la prova attraverso la causa sui si strutturi secondo la logica di una prova a priori. Per verificare se la traduzione nel linguaggio della prova della quinta Meditazione è legittima si dovrà perciò accertare se anche questa prova presenti le caratteristiche di una dimostrazione a priori, ovvero la dimostrabilità dell'esistenza e la conoscenza chiara e distinta dell'essenza di Dio. Ricordiamo l'analisi di Gil: colui che è ancora in cammino, elevandosi sopra la norma ordinaria, può avere una dimostrazione a priori di questa proposizione 'Dio esiste', solo se due condizioni sono soddisfatte: la prima, che si possa dare una conoscenza astrattiva di Dio chiara e

160 AT VII, pp.212-13, trad. it. pp. 385-6. Arnauld intende negare la possibilità di una dimostrazione a priori per tutto quel che appartiene all'essenza, perché gli attributi essenziali non sono distinti tra di loro. Si vedano, su questo punto, le considerazioni di Arriaga: "Deum esse, seu existere, non potest demonstrari a priori.... rationem essentialem in definitione positam." Ad Arriaga questa non sembra una buona ragione: data la definizione essenziale di un uomo si dimostrano altri attributi che appartengono alla sua essenza, come il suo essere risibile. "Imo hoc modo putant communiter theologi a priori probari Deum esse volitivum, quia est intellectivus; cum tamen volitivum sit essentiale Deo. Fateor hic posse fieri quaestionem de nomine, an scilicet talis demonstratio dicenda sit propter quid, an alio modo, eo quod res, quae probatur, non sit distincta realiter. Verum illud certum, eam non demonstrationem a posteriori, sed a priori communiter vocari, quia est per praedicamentum, quod saltem ratione nostra est quasi causa et radix aliorum: ergo ex eo quod Deo sit essentiale existere, non sequitur, non posse id à priori probari ex definitione, quae essentialiter peteret eam existentiam."Cfr.R. de ARRIAGA, Disputationes theologicae I, Disp. II, sect. II. 161 Quartae responsiones, AT VII, pp. 241-43, trad. it., p. 412.

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distinta, l'altra che, se una tale conoscenza si dà, a partire da essa si possa costruire una vera e propria dimostrazione. Non v'è dubbio che la prova della quinta Meditazione soddisfi entrambe queste condizioni. Dell'essenza di Dio abbiamo una idea chiara e distinta come della essenza degli enti geometrici e la dimostrazione dell'esistenza di Dio è costruita in esplicita analogia alla dimostrazione dei teoremi della geometria. Retrospettivamente, si comprende anche meglio il trattamento che Descartes ha riservato alla ripresa e trasfigurazione della prova anselmiana nella quinta Meditazione: essa è una dimostrazione in tutto e per tutto analoga alle dimostrazioni della matematica e clamoroso avanzamento rispetto a Scoto- è una dimostrazione cui anche l'intelletto umano ha accesso poiché l'intelletto finito può entrare in possesso del termine medio di questa dimostrazione, l'essenza di Dio. L'unum argumentum di Anselmo era dunque stato presentato, in quel luogo, sotto le vesti di una vera e propria prova a priori dell'esistenza di Dio.162 Descartes sottolineerà con vigore questa scelta nel difendere la prova della quinta Meditazione: " ...tanto poco , non si potrebbe avere alcun mezzo per dimostrare l'esistenza di Dio dagli effetti, come è stato benissimo provato dall'autore delle prime obiezioni, e per questo non deve in nessun modo essere accettata."177 Ma il riconoscimento che Descartes rivolge a Caterus è provocatorio. Caterus, infatti, riteneva che fosse l'argomento a posteriori cartesiano che non funzionava senza la nozione di causa sui e non certo l'argomento a posteriori in quanto tale, mentre Descartes utilizza l'osservazione di Caterus per sostenere che, se la nozione di causa sui non fosse ammessa, sarebbe impossibile, in assoluto, e non solo in quella sua versione della prova a posteriori, dimostrare l'esistenza di Dio: "Non si potrebbe avere alcun mezzo per dimostrare l'esistenza di Dio dagli effetti".178 177 Quartae responsiones, AT VII, p. 239, trad. it., p. 4O8. Non posso quindi consentire con J.-L. Marion, secondo il quale il concetto di Dio come causa sui sarebbe rintracciabile solo nelle risposte alle obiezioni. Lo stesso Descartes rivendica la causa sui come irrinuciabile per ogni prova a priori e, quindi, anche per la seconda prova a posteriori della terza Meditazione, ossia per l'argomentazione che, secondo Caterus, poteva risultare dimostrativa solo a costo di utilizzare quella nozione. Cfr. J.-L. MARION, The Essential Incoherence of Descartes' Definition of Divinity, in A.OKSENBERG RORTY ed., Essays on Descartes's Meditations, Berkeley/Los Angeles/London 1986, pp. 297-338 e Sur le prisme cit., p. 217 ss. 90

La nozione di causa sui viene giustificata con lo stesso motivo con cui Descartes giustifica l'introduzione dell'idea di Dio nella prova a posteriori. Senza di essa non si può dimostrare che la causa prima è Dio. Con tutti gli sforzi possibili per riprodurre la prova causale tomista, Descartes non ha potuto fare a meno di introdurvi la più antitomista delle varianti, la causa sui, altrimenti non avrebbe potuto operare quel passaggio dalla causa prima a Dio di cui la prova tomista è incapace. Il che spiega il carattere ibrido di questa prova, vicina alla struttura tomista per venire incontro al gusto del lettore, e modificata -e quanto radicalmente!- là dove era necessario intervenire per farne una prova dell'esistenza di Dio. In questo modo, entrambe le condizioni che Gil aveva giudicate necessarie per accedere ad una prova a priori dell'esistenza di Dio -la dimostrabilità a priori e l'idea chiara e distinta- sono evocate da Descartes come indispensabili per dimostrare che la causa prima è Dio. Che è come dire che è impossibile dimostrare l'esistenza di Dio servendosi di una prova che sia veramente ed esclusivamente a posteriori. In questo modo, Descartes ribadisce e amplifica la durissima critica a Tommaso implicita nella giustificazione fornita a Caterus per l'introduzione dell'idea di Dio nella prova a posteriori: la prova tomista, in quanto è una prova a posteriori, non può dimostrare l'esistenza di Dio. Con quale legittimità Descartes ritorce sui tomisti una difficoltà che, nell'intenzione di Caterus, era solo di Descartes? In prima approssimazione, si può osservare che Descartes non era stato il primo a rivolgere a Tommaso la critica, davvero distruttiva, di non essere riuscito a dimostrare l'esistenza di Dio. L'antecedente prossimo della posizione antitomista assunta qui da Descartes si trova nelle pagine di Suarez dedicate alla ripresa delle prove a posteriori di Tommaso. Per capire la rottura che Suarez compie in quelle pagine nei confronti di Tommaso, è indispensabile richiamare brevemente la procedura tomista delle prime tre "vie". La prima via si conclude avendo dimostrato che esiste un primo motore immobile, "e tutti riconoscono che esso è Dio". La seconda dimostra che esiste una causa prima incausata, "che tutti chiamano Dio", la terza dimostra che esiste un ente per sé necessario "che tutti dicono Dio". Tutte le caratteristiche di Dio: la sua semplicità, unicità ecc. sono dimostrate successivamente, per analisi della sua modalità di esistenza, in primo luogo del suo esistere senza una causa. 178 Di questa sortita si stupisce I. Revius. Cfr. Suarez repurgatus, sive syllabus Disputationum Metaphysicarum Francisci Suarez cum notis Iacobi Revii, Lugduni Batavorum 1643: "Ego hanc probationem in auctore primarum objectionum non invenio. et sane est prorsus inconsequens: Deus non est ab alio, ergo ex effectibus ejus existentia demonstrari non potest. quin contrarium inde concluditur: ergo ex causa efficiente ea non potest demonstrari. quod est verum." E' merito di J.-L. Marion aver richiamato l'attenzione su questo testo curioso, nel quale Suarez è riassunto e censurato in quelli che Revius considera i suoi errori capitali. Cfr. J.-L. MARION, Aporie e origini della teoria spinoziana dell'idea adeguata... 91

Ora, questa procedura tomista è una scelta obbligata, in generale, perché Tommaso si attiene alla regola aristotelica secondo la quale di una cosa si deve ricercare in primo luogo se esista (an sit) e solo in seconda istanza quale sia la sua natura (quid sit).179 Ma questa procedura è poi, nel caso di Dio, a maggior ragione comandata, perché di Dio, come sostiene il Damasceno, non possiamo mai sapere quid sit, ma solo quid non sit. L'opzione negativa della teologia tomista comanda dunque di rispondere alla domanda se Dio esista senza che si conosca la natura di Dio. Sembra però che, a prendere sul serio il Damasceno, si rischi di non poter dimostrare alcunché di Dio, nemmeno la sua esistenza. Ci manca, infatti, il medio per qualsiasi dimostrazione, ossia la definizione di Dio: Il termine medio di una dimostrazione si desume dalla natura del soggetto . Ma di Dio non possiamo sapere quello che è, ma solo quello che non è, come nota il Damasceno. Dunque non possiamo dimostrare che Dio esiste.180 Così Tommaso risponde a questa difficoltà: Quando si vuol dimostrare una causa mediante l'effetto, è necessario servirsi dell'effetto in luogo della definizione della causa, per dimostrare che questa esiste; e ciò vale specialmente nei riguardi di Dio. Per provare infatti che una cosa esiste, è necessario prendere per termine medio la sua definizione nominale , non già la definizione reale , poiché la questione riguardo all'essenza di una cosa viene dopo quella riguardante la sua esistenza. Ora, i nomi di Dio provengono dai suoi effetti...: perciò nel dimostrare l'esistenza di Dio mediante gli effetti possiamo prendere per termine medio quello che significa il nome 'Dio'.181 E' possibile dimostrare che Dio esiste, malgrado l'adesione alla teologia negativa del Damasceno, perché in una dimostrazione a posteriori dell'esistenza di qualcosa il medio non è l'essenza della cosa, ma la sua definizione nominale, che, nel caso di Dio, è ricavabile dagli effetti. Vi è una profonda coerenza tra la necessità di dimostrare che un ente esiste prima di indagare sulla sua natura, l'utilizzazione di un nomen di Dio invece che di una definizione reale, e la prova attraverso gli effetti: si tratta dell'insieme

179 In conformità con gli Analitici secondi, II, 8, 93 a, 20-21: "E' impossibile sapere che cos'è un oggetto, ignorando se esso sia." 180 Summa theologiae, I, q. 2, a.2, secundum. 181 Ivi, ad secundum. Cfr. anche Summa contra gentes, L.I, cap. XII, 2. 92

di condizioni cui si appella il teologo che intende dimostrare l'esistenza di Dio in assenza di una conoscenza adeguata dell'oggetto della sua dimostrazione. Subito alla spalle di Descartes, questa procedura di Tommaso è messa in discussione da Suarez, che contesta la sicurezza con cui Tommaso riteneva di aver dimostrato che esiste Dio, una volta dimostrato che esiste un primo motore, una causa incausata e un ente necessario per sé. La critica a Tommaso è, nella sostanza, durissima: ...si può attribuire a Dio la caratteristica di essere il primo motore del cielo, tuttavia non per questo si dirà con ragione che col nome di Dio si intende soltanto il primo motore del cielo: perché se non avesse altra proprietà se non di essere il primo motore del cielo, non per questo sarebbe Dio. Lo stesso dico dell'attributo di essere un ente necessario, o ente per sé, perché anche questo attributo preso in sé non è sufficiente a soddisfare il concetto che intendiamo significare col nome di Dio: infatti ... se si dessero più enti necessari per sé, nessuno di loro sarebbe un ente tale quale noi intendiamo significare col nome di Dio. Non è affatto vero, dunque, quello che dice Tommaso, ossia che tutti intendano col nome 'Dio' il primo motore, la causa incausata, o l'ens a se. Un ente che fosse solo il primo motore non sarebbe Dio. Il nomen di Dio significa ben altro: ...Questo nome significa dunque qualche ente nobilissimo, che supera tutte le altre cose, e dal quale tutte le altre cose dipendono come dal loro primo artefice, e che dunque deve essere adorato e venerato come nume supremo: questo è infatti il concetto comune, e quasi primitivo, che tutti formiamo di Dio, udito il nome di Dio. Dunque, non si può asserire che si è dimostrato che esiste Dio, quando si è dimostrato che esiste un primo motore o un ens necessarium: E quindi, per dimostrare che Dio esiste, non è sufficiente mostrare che in natura si dà un certo ente necessario, e per sé, se non si prova anche che esso è unico, e tale, da essere la fonte di tutto l'essere, dal quale dipendono e ricevono l'essere tutte le cose che in qualche modo partecipano dell'essere.182 Quando dunque si potrà dire di aver dimostrato che esiste Dio? Solo quando avremo dimostrato le caratteristiche dell'ente incausato, e avremo trovato che esse esauriscono tutte le caratteristiche contenute nel nome 'Dio'. Questo è possibile farlo in due modi: o a posteriori, attraverso l'osservazione dell'ordine e dell'armonia del 182 SUAREZ, Disp. Met., Disp. XXIX, sectio II, V. 93

mondo, ossia utilizzando la quinta via tomista, oppure a priori, ossia deducendo, anche qui sul modello tomista, gli attributi di Dio dall'attributo, dimostrato a posteriori, dell'esistenza incausata. Suarez difende anche la via a posteriori, cui peraltro rivolge l'obiezione fondamentale, che diverrà poi un topos contro la prova teleologica, ossia che essa dimostri al massimo l'esistenza dell'ordinatore di una materia preesistente e non del suo creatore.183 Poi Suarez si cimenta lungamente nella via a priori. Peraltro, questa non differisce, nella struttura, dalle argomentazioni tomiste per dedurre dalla aseitas gli altri attributi di Dio: l'immutabilità, la semplicità e così via, vengono tutte dedotte dalla proprietà fondamentale della esistenza incausata, che funge così da premessa. E' però il significato di questa deduzione che è irriducibile al significato dell'analoga deduzione tomista. In questo modo, infatti, non dimostriamo più a posteriori che Dio esiste; la dimostrazione che esiste un ente che non è semplicemente un primo motore, o una causa prima, ma che è Dio dipende ora dalla dimostrazione a priori delle caratteristiche di quell'ente. Se solo dopo aver dimostrato le caratteristiche dell'ente necessario posso dire di aver dimostrato che esiste Dio, allora la dimostrazione di queste caratteristiche diviene la condizione necessaria della dimostrazione dell'esistenza di Dio. Ma gli attributi di Dio sono dimostrati a priori, dunque, anche la dimostrazione dell'esistenza di Dio diviene, in un certo senso, una dimostrazione a priori.184 Tant'è vero che Suarez apre in questo

183 Disp. XXIX, sec. II, VIII :" Dicere ... posset aliquis ex hoc effectu ad summum haberi, unum esse omnium gubernatorem, non tamen conditorem. Deinde dicere posset, illum esse unum non natura, seu entitate, sed consensione, ut si plures artifices ad unum edificium construendum convenirent." 184 In un certo senso, si diceva, perché la dimostrazione dell'esistenza di un ente incausato è pur sempre compiuta a posteriori. Su questo insisterà molto Daniel Waterland, per difendere Suarez dall''accusa' di aver dimostrato a priori l'esistenza di Dio. Cfr. A Dissertation cit., pp. 24-25. Pure, Waterland è costretto a registrare - e a stigmatizare- la 'curiosa' procedura suareziana di voler provare gli attributi di Dio -in primo luogo l'unità- come condizione per provarne l'esistenza. Cfr. p. 26: "...it is not reasonable to suggest, that if a Man should fail in the Proof of the Unity, or of some other divine Attribute (for the Reason is the same in all) that he has therefore failed in his Proof of a Deity." Analogamente, ma con intento censorio, il conterraneo Gil rinfaccerà a Suarez di non aver prodotto un'argomentazione in senso stretto a priori. Cfr. Commentationes theologicae cit., p. 392: "...postquam à posteriore probatum est dari aliquod esn necessarium, ex hoc deinde colligi esse Deum: quaero ego, an post eam demonstrationem a posteriore cognoscitur ex terminis haec propositio datur ens necessarium, aut non? Si non, totus discursus resolvitur in principium non primum et immediatum simpliciter, sed solum primum à posteriore, et ita non est demonstratio formalis propter quid." Alla lettera, Gil ha ragione, ma così perde lo spirito dello stravolgimento della prova a posteriori tomista che qui Suarez sta operando e in nome della quale è obbligato a cimentarsi con la problematica della dimostrazione a priori. Ne difende invece il carattere a priori Arriaga. Vedi sopra nota 164. 94

luogo, ossia all'interno della dimostrazione a posteriori, la sorprendente questione Se si possa dimostrare in qualche modo che Dio esiste. Suarez è perfettamente consapevole dell'inversione che sta operando, tant'è che cerca di salvaguardare la propria dimostrazione e nei confronti dell'accusa di violare il principio in base al quale di Dio non si può dare dimostrazione a priori perché Dio non ha causa, e nei confronti dell' accusa di violare il precetto aristotelico-tomista in base al quale di un ente si deve prima dimostrare an sit e poi quid sit. Rispetto alla prima potenziale accusa, Suarez si difende sostenendo che la sua non è una dimostrazione a priori in senso proprio, dal momento che non deduce l'esistenza di Dio da una causa o dai suoi principi; questa dimostrazione, infatti, è impossibile, sia, oggettivamente, perché Dio non ha causa, sia, soggettivamente, perché, anche se l'avesse, l'uomo non potrebbe conoscerlo in questo modo: se lo potesse, infatti, l'intelletto umano si troverebbe ad avere di Dio una conoscenza perfetta, dal momento che conoscerebbe Dio "ex propriis principiis": ...parlando in senso assoluto non si può dimostrare a priori che Dio esiste, perché Dio non ha una causa della sua esistenza attraverso la quale esso sia dimostrabile a priori, e, se anche l'avesse, Dio non è conosciuto da noi così esattamente e perfettamente, da poterlo comprendere a partire, per così dire, dai suoi principi . Dopo una iniziale e doverosa esclusione della possibilità in sé di dimostrare a priori l'esistenza di Dio, perché Dio non ha causa -in sintonia con la tesi dominante nel tomismo-, Suarez inverte il cammino. Se Dio ha una causa, ovvero se si danno dei 'principi' da cui l'esistenza di Dio può essere dedotta, l'intelletto umano non può conoscerli. Nella seconda parte del brano, dunque, la dimostrazione a priori è divenuta, sia pure in via ipotetica, in se possibile, ma quoad nos impraticabile a causa della finitezza dell'intelletto umano, che non può raggiungere i principi da cui l'esistenza di Dio dipende. Agli uomini è però concessa una dimostrazione a priori adeguata ai limiti della conoscenza umana, ossia la deduzione di tutti gli attributi divini da un attributo, già dimostrato a posteriori. Il primo attributo la cui esistenza è dimostrata a posteriori diviene la premessa da cui sono dedotti tutti gli altri attributi, che così sono dimostrati in senso proprio a priori a partire da quello: dopo che si è dimostrato a posteriori qualcosa di Dio, possiamo da un attributo dimostrarne a priori un altro, come, per esempio, concludiamo dalla immensità l'immutabilità locale. Suppongo infatti che per costruire un ragionamento che sia a priori secondo quanto è possibile all'uomo sia sufficiente la distinzione di ragione tra gli attributi.185

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Anche il secondo inconveniente, quello di violare il precetto tomista in base al quale si deve dimostrare an sit Deus prima di dimostrare quid sit, è visto lucidamente da Suarez come una potenziale accusa alla sua procedura: Si dirà: dunque si dimostra che Dio esiste a partire dalla conoscenza della sua natura, perché la natura di Dio è l'essenza dell'ente necessario e per sé, ma questo è chiaramente impossibile, perché la domanda quid est presuppone la domanda an est, come giustamente a questo proposito nota S. Tommaso. Da questa seconda accusa Suarez si difende in due modi. In primo luogo, negando di aver violato, almeno direttamente, quel precetto, dal momento che l'esistenza di un ente incausato è dimostrata a posteriori e non dedotta dalla essenza di Dio: Rispondo: parlando rigorosamente e formalmente, non si può dimostrare l'esistenza di Dio attraverso la natura di Dio in quanto tale ... ma a partire da qualche attributo che in realtà è l'essenza di Dio, che però è concepito da noi astrattivamente come un modo dell'ente non causato, si ricava un altro attributo, e così si conclude che quell'ente è Dio. Per concludere in tal modo che esiste un Dio secondo il concetto di Dio , si suppone quindi che sia stato dimostrato che esiste un certo ente necessario, e che ciò sia stato dimostrato a partire dai suoi effetti e dalla negazione del regresso all'infinito. In tal modo, quel che in primo luogo si dimostra di questo ente è l'esistenza, poi il fatto che è necessario per sua natura , da qui che egli è unico sotto tale concetto o modo di essere, e quindi che è Dio. E così si definisce la questione an est in qualche modo prima della questione quid est. "In qualche modo", appunto, ché, se si fosse stabilita veramente la quaestio an sit prima della quaestio quid sit, tutto il dissenso con Tommaso non avrebbe alcun senso. Ma il fatto è che solo dopo aver risposto alla domanda quid sit si può rispondere alla domanda se ciò che esiste è Dio, contrariamente a quel che Tommaso aveva inteso. Già la caratteristica di essere necessario, caratteristica da cui gli altri attributi verrano dedotti non è più un nomen di Dio, ma re ipsa est essentia Dei. E Suarez deve aver ben saputo che quell'"in qualche modo" nascondeva una vera e propria violazione del precetto tomista, tantoché la sua seconda giustificazione è in realtà un aperto rifiuto di quel precetto: Benché, come dicevo sopra, in Dio non è possibile separare in alcun modo queste due questioni, dal momento che l'esistenza di Dio è la natura di Dio, e le

185 Disp. Met., disp. XXIX, sect. III, I. 96

caratteristiche della sua esistenza, dalle quali si dimostra che quell'esistenza è propria di Dio, costituiscono (per esprimerci così) la stessa natura ed essenza di Dio.186 Anche se si fosse risposto alla domanda sull'essenza prima di porsi la domanda sulla esistenza, dice ora Suarez, e si fosse così veramente violato l'ordine argomentativo imposto e seguito da Tommaso, non ci sarebbe niente di male in questo, dal momento che in Dio esistenza ed essenza coincidono. In sostanza, il precetto tomista è inadeguato alla natura peculiare di Dio. Questa seconda motivazione, come si vede, respinge addirittura il precetto tomista in nome di una tesi cara a Tommaso, ossia l'indistinzione in Dio di essenza ed esistenza. Ma Suarez può utilizzare questa motivazione per respingere il precetto tomista, solo perché dietro al richiamo alla semplicità divina si cela un dissenso ancor più radicale nei confronti della teologia tomista. Si consideri, infatti, come si era comportato Tommaso di fronte al problema di conciliare la tesi della indistinzione in Dio di essenza ed esistenza con l'altra tesi tomista, quella che ne comanda tutta l'impostazione teologica, ossia che di Dio conosciamo an sit ma non quid sit. Stante la conoscibilità dell'esistenza divina e l'inconoscibilità della sua essenza, si dovrebbe inferire che in Dio essenza ed esistenza non sono indistinte. Tommaso riteneva invece di poter sostenere sia la tesi della indistinzione di essenza ed esistenza sia quella della conoscibilità della sola esistenza di Dio, poiché l'esistenza che noi conosciamo non è quell'esistenza che è indistinta dall'essenza, quest'ultima rimanendo infatti, come l'essenza, e proprio a cagione della sua indistinzione da essa, assolutamente inconoscibile: "Né fa difficoltà per questo
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