ERBE SELVATICHE COMMESTIBILI

March 19, 2017 | Author: Pellegrino De Rosa | Category: N/A
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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Pellegrino De Rosa

Benedetta Napolitano

don Giovanni Picariello

Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO, DIFFUSIONE ED UTILIZZAZIONE GASTRONOMICA DELLE ERBE SELVATICHE COMMESTIBILI DEL BAIANESE E DEL LAURETANO.

Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

Pellegrino De Rosa - Benedetta Napolitano - don Giovanni Picariello

Avvertenza Tutte le specie indicate in questo volume come commestibili possono essere consumate, normalmente, senza alcun problema e con buona soddisfazione del palato. Il loro uso gastronomico è, infatti, attestato da una vasta letteratura e fa parte di consolidate tradizioni e di antiche consuetudini popolari. Purtuttavia, è possibile che in alcune persone ed in alcune condizioni (ipersensibilità, debilitazione, gravidanza, ecc..) si possano verificare episodi di intolleranza individuale o effetti collaterali indesiderati, al pari di quanto avviene a taluni anche con il consumo degli alimenti comuni e delle piante normalmente coltivate. Pertanto l’editore e gli autori della presente pubblicazione non si assumono alcuna responsabilità connessa: ad eventuali reazioni allergiche; ad episodi di intolleranza alimentare; a reazioni individuali, episodiche, collaterali e simili; a regimi alimentari sbilanciati e/o all’eccessivo consumo delle erbe indicate; all’eventuale raccolta, erronea o volontaria, ed uso di piante diverse da quelle citate come commestibili; all’eventuale raccolta, volontaria od involontaria, ed uso di erbe tossiche o letali; all’eventuale raccolta ed uso di piante in zone inquinate o trattate con fitofarmaci; al loro erroneo riconoscimento o ad altre cause imputabili ad imperizia, presenza di agenti inquinanti o patogeni, a negligenza o a volontà dolosa del raccoglitore. Le rare informazioni di natura erboristica e/o farmaceutica sono riportate a semplice titolo informativo ed etnoantropologico: per eventuali usi terapeutici occorrerà seguire le prescrizioni di un medico. Per una più puntuale individuazione delle specie descritte si raccomanda vivamente la consultazione di atlanti botanici dettagliati. Pellegrino De Rosa Benedetta Napolitano don Giovanni Picariello

Tutti i diritti riservati agli autori.

©

2008 - Progettazioni Agroambientali dott. Pellegrino De Rosa - Sirignano (Av) http://www.derosa-web.eu Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

S

ommario

Prefazioni

Pag.

V

Introduzione

Pag.

1

Schede botaniche

Pag.

13

Pag.

211

Pag.

259

Pag. Pag. Pag. Pag. Pag.

260 261 262 263 267

Glossario

Pag.

268

Bibliografia

Pag.

272

Per la consultazione delle 70 schede botaniche fare riferimento al prospetto analitico a pag. 267

Ricettario Per la consultazione delle 157 ricette fare riferimento al prospetto analitico a pag. 267

Appendice Conium maculatum Lactuca virosa Senecio vulgaris Lista piante non ammesse negli integraztori alimentari Prospetto analitico delle specie botaniche e delle ricette

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Pellegrino De Rosa - Benedetta Napolitano - don Giovanni Picariello

I nvece di lamentarti del buio accendi una candela.

(Anonimo)

C’è una cosa che i buoni libri non possono tollerare; di essere dati in prestito. Quando, infatti, il loro proprietario cade in questa grave imprudenza, essi si offendono e non tornano mai più. Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

= I

alle esperienze più recenti emerge, con sempre maggiore chiarezza, quanto sia indispensabile ed urgente, per il benessere socio-economico dei cittadini, profondere il massimo delle energie possibili nella concreta realizzazione di efficaci politiche di gestione ambientale che si pongano come obiettivo prioritario la tutela dei territori e quindi il contrasto deciso di quella “strisciante” azione di degrado che minaccia la salubrità, la tipicità e l’amenità di molte aree del nostro Paese. Certamente, il conseguimento di un obiettivo di così vasta portata presuppone una stretta ed inevitabile integrazione tra le Istituzioni, ma non può però prescindere da un pieno e convinto coinvolgimento delle popolazioni locali. Per queste ultime, infatti, la fattiva partecipazione ad iniziative che si pongano come obiettivo la tutela delle qualità e tipicità dei propri territori non può scaturire da un “freddo” e passivo adempimento di norme o prescrizioni, bensì, deve derivare da una piena acquisizione di un vero e proprio modus vivendi, nel quale la sensibilità ambientale complessiva non può che essere la conseguenza della responsabilizzazione convinta di ciascuno. E’ questa la sola ed indispensabile garanzia per la riuscita di ogni programma di gestione ambientale ed anche il presupposto fondamentale perché si realizzi la necessaria ed inevitabile trasmissione di una reale sensibilità ambientale alle generazioni future. Vari sono gli approcci possibili per ottenere l’indispensabile coinvolgimento delle popolazioni locali e, tra tutti, risultano di particolare efficacia quelle iniziative che puntano alla crescita del senso di appartenenza di ogni comunità,attraverso la riscoperta della propria storia e delle peculiarità più tipiche dei singoli territori, insieme al recupero delle tradizioni locali più significative. In tal senso trova spazio e manifesta la propria utilità il presente libro. Esso, infatti, partendo da una descrizione botanica molto accurata di quella vegetazione spontanea tipica del Vallo di Lauro e del Baianese già ampiamente utilizzata con finalità alimentari nella tradizione popolare, fonde in un unicum speciale e particolarmente riuscito, notizie di carattere tecnico scientifico, riferimenti storici ed usi e costumi della importante e ricca tradizione locale, contribuendo non poco alla conoscenza di uno dei più significativi territori della nostra Campania. La riuscita di questo libro che si legge con interesse e curiosità stimolante anche grazie alle tante, accurate illustrazioni, è dovuto, oltre che all’attento ed approfondito lavoro di ricerca storica e bibliografica su cui poggia, anche all’apporto delle specificità culturali dei singoli autori quali: la profonda conoscenza della storia e delle tradizioni locali da parte di Don Giovanni Picariello, Rev. mo Parroco della Parrocchia dell’Ascensione in Mugnano del Cardinale (Av); l’accurato lavoro di indagine e verifica svolto con puntualità e spiccata professionalità dalla giornalista Benedetta Napolitano; la indiscussa competenza tecnico-scientifica e la nota capacità divulgativa del giornalista e collega Pellegrino De Rosa. Agli autori, quindi, va tutta la considerazione per l’ottimo lavoro compiuto ed il ringraziamento più sincero per quanto fanno, da anni, per far ”conoscere” ai più il Vallo di Lauro e Baianese, territorio ricco di risorse culturali, ambientali e produttive che devono solo essere adeguatamente “riscoperte”, tutelate e valorizzate per esprimere a pieno il loro grande potenziale socio-economico. Dott. Michele Bianco Ex Dirigente Regionale SeSIRCA

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= II

’uso alimentare di specie erbacee spontanee permane solo in contesti territoriali ove si conservano residui di cultura e tradizioni contadine. In molte aree urbanizzate, le conoscenze relative alle erbe alimentari sono andate perse fin dagli anni ’60 del secolo scorso, perché segno detrattore di arretratezza economica e culturale. In centri urbani evolutisi in modo più armonico, invece, con il progredire del benessere economico e sociale, le conoscenze sull’impiego alimentare delle erbe selvatiche sono state conservate, integrate e rielaborate. In alcuni casi ciò è avvenuto nella piena consapevolezza che la perdita di conoscenze e usi tradizionali avrebbe costituito una perdita di una parte della propria identità culturale. Ovviamente gli usi delle piante sono diversi alle diverse latitudini. Nel Salento, le rosette del papavero (Papaver rhoeas), cioè delle foglie basali prima che da queste si elevi lo scapo fiorifero, vengono cucinate saltate in padella con olio, aglio e olive di piccole dimensioni. Si tratta di una vera leccornìa dagli effetti moderatamente lassativi. Nei paesi centro ed est europei, i semi della specie affine Papaver somniferum, conosciuta per gli effetti stupefacenti dei diversi derivati del latice, sono comunemente impiegati nella panificazione e nella preparazione di dolci. L’aglio orsino (Allium ursinum) è un componente importante dello strato erbaceo delle faggete europee e anche di quelle meridionali, in particolare di quelle ubicate sui suoli più freschi e fertili. Nel centro Europa le prime foglie che spuntano in primavera vengono utilizzate nella preparazione di una salsa impiegata come surrogato del pesto. Gli Autori di questa utile e meticolosa pubblicazione recuperano molte conoscenze orali circa l’impiego alimentare di specie erbacee spontanee, avendo come territori di riferimento quelli del Baianese e del Vallo di Lauro. In un periodo in cui avanza in modo prepotente la “quarta gamma1 ”, brutto nome che sembra indicare una generazione di replicanti mutati a causa dei raggi gamma, imposta dalla grande distribuzione alimentare, la conoscenza e la raccolta diretta di piante alimentari non coltivate, per contro, contribuisce a conservare la biodiversità genetica. L’esempio più calzante è quello della rucola (Eruca sativa) che, per i suoi usi tradizionali in cucina, soprattutto nelle aree meridionali, è sempre stata raccolta nei terreni incolti, mentre ora viene prodotta in serra in coltivazioni forzate su terreni precedentemente sterilizzati con potenti prodotti chimici. Imparare a riconoscere, raccogliere e preparare le piante alimentari selvatiche è un piccolo gesto civile di protesta contro le nuove tendenze, di cui non si capisce se imposte dalla grande distribuzione o dalle preferenze dei consumatori, che portano alla destagionalizzazione dei prodotti della terra e alla loro conservazione in confezioni in plastica. Prof. Antonio Saracino Cattedra di Dendrometria e Assestamento forestale Dipartimento di Arboricoltura, Botanica e Patologia vegetale Università degli Studi di Napoli “Federico II” 1

Per la classificazione delle diverse “gamme” vedere il glossario in appendice.

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= III

uale Presidente dell’Ordine dei dottori Agronomi e dei dottori Forestali della Provincia di Avellino è per me un gradito onore presentare, non solo alla categoria professionale che rappresento ma anche a tutte le altre persone che amano la natura, questo interessante lavoro sulle erbe spontanee commestibili. La presente trattazione si distingue da altre aventi lo stesso argomento, per il rigore scientifico, la veste grafica accattivante, il legame col territorio e l’abbondanza e varietà di indicazioni gastronomiche. Essa coniuga gli aspetti scientifici ed etnobonatici con una gradevole ed ordinata forma espositiva. Ciò è dovuto anche alla varietà di competenze dei tre Autori, che si integrano e si amalgamano, come gli ingredienti delle interessanti ricette da essi proposte. Don Giovanni Picariello, noto storico locale, ha apportato il suo bagaglio di conoscenze storiche ed etnografiche. Benedetta Napolitano, giornalista e studiosa biologa, ha curato molti degli aspetti botanici, nutrizionali e gastronomici. Pellegrino De Rosa, poliedrico collega agronomo e giornalista-pubblicista, già noto per aver proposto una innovativa ed interessante tecnica di ingegneria naturalistica, ha sapientemente curato, con la consueta professionalità, sia la veste grafica che gli aspetti più squisitamente scientifici e botanici. Questa pubblicazione vuole pertanto rappresentare per gli appassionati della materia un’occasione di memoria sociale, di stimolo scientifico e di fulgido esempio di studiosi Irpini da imitare. Ringrazio, perciò gli Autori di questo bel libro, che hanno voluto che le loro conoscenze, le loro competenze, le loro ricerche storiche e gastronomiche non rimanessero appannaggio di pochi ma che, al contrario, fossero divulgate alle nuove generazioni e ai non addetti ai lavori, contribuendo così a far meglio conoscere la natura della nostra verde Irpinia e fornendo un utile spunto per una sua ulteriore valorizzazione agro e selvituristica. Prof. Antonio Stornaiuolo Presidente dell’Ordine Provinciale dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali della Provincia di Avellino.

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La presente cartina, raffigurante l’area oggetto del presente studio, è stata gentilmente fornita dalla Comunità Montana “Vallo di Lauro e Baianese” Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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I N T R O D U Z I O N E Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Le fasi del lavoro svolto dagli autori. 1 - Raccolta delle informazioni storiche, etnografiche, gastronomiche e botaniche.

2 - Raccolta dei campioni

4 - Preparazione gastronomica

3 - Classificazione ed editing

5 - Azione di divulgazione

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1. Oggetto della trattazione uesto libro descrive, dai punti di vista botanico ed alimentare, le erbe spontanee commestibili, definite “alimurgiche”, presenti nella flora delle aree basso-irpine del Baianese e del Lauretano o “Vallo di Lauro”, nonché la loro tradizionale utilizzazione nella gastronomia popolare e tipica, e la loro diffusione sul territorio. Le specie descritte, che corrispondono alla gran parte della flora alimurgica italiana1, sono comunque presenti, oltre che nell’areale oggetto di studio, anche in larga parte del territorio nazionale. Per tale motivo, la presente pubblicazione potrà essere utilmente consultata anche in aree geografiche diverse dalla ristretta zona di riferimento. Non sono state trattate le erbe officinali, utilizzate una volta nella medicina popolare e attualmente adoperate in erboristeria e cosmetica, né i frutti di bosco, già ampiamente noti e –in alcuni casi- addirittura coltivati. Sono state anche escluse tutte quelle specie vegetali che, seppur dichiarate da alcuni autori potenzialmente edibili2 (beninteso, solo dopo accurate cotture e/o speciali trattamenti), vengono considerate da altri come estremamente pericolose. Inoltre, per tranquillità del lettore e per sua maggiore informazione, è stato allegato in appendice un elenco, pubblicato dal Ministero della Sanità, riportante i nomi delle specie vegetali il cui consumo è da esso indicato come pericoloso per la salute3. Tale elenco, tra i vegetali descritti come commestibili nel presente libro, vieta l’utilizzazione, come integratori alimentari, dei derivati di tre sole specie: la Borago officinalis, la Clematis vitalba e la Lactuca scariola. La presente pubblicazione riporta ugualmente queste tre specie vegetali tra quelle ritenute “tradizionalmente commestibili” perché il loro utilizzo, effettuato con le dovute cautele4, è attestato da una lunga consuetudine popolare: il lettore, dopo aver consultato le rispettive schede e le avvertenze riportate, potrà scegliere, in maniera consapevole e autonoma, se utilizzarle o meno5. Tutte le altre erbe indicate come commestibili nel presente libro, non essendo riportate nel succitato elenco, sono da ritenersi totalmente sicure. Infine, al solo scopo di farle meglio conoscere al fine di evitarle, sono state indicate, in appendice, le specie mortali Conium maculatum (cicuta), Lactuca virosa e Senecio vulgaris6. 1

In questo libro non sono state trattate le specie, potenzialmente commestibili, tipiche degli habitat costieri (come l’Eryngium maritimum e l’Echinophora spinosa) o palustri (come la Tifa latifolia) e, in generale, tutte quelle specie o sottospecie non censite e non presenti nel territorio Baianese-Lauretano. 2 (Mattirolo – cfr. Bibliografia) – Polygonatum multiflorum o Sigillo di Salomone; Arum maculatum e Arum italicum o Pan di serpe; Colchicum autumnale o Falso zafferano; Arundo spp; varie felci, ecc.. 3 Lista piante non ammesse negli integratori alimentari (aggiornata a novembre 2006). Ministero della Sanità. 4 Anche alcune piante comunemente consumate hanno bisogno, per diventare commestibili, di subire particolari procedimenti. Ad esempio, si ricorda che i comunissimi lupini per effetto della lupanina in essi contenuta se, da un lato, paiono essere utili nel contrastare il diabete, dall’altro, possono risultare pericolosamente tossici se consumati in grande quantità o se la lupanina non viene in gran parte allontanata tramite immersione a bagnomaria per alcuni giorni. 5 I buongustai ritengono che, purché non si esageri con le quantità, queste erbe possano essere usate con una ragionevole tranquillità. Ciò vale anche per le numerose specie nitrofile, il cui consumo è da sconsigliare solo se effettuato in eccessive quantità o da soggetti presentanti particolare patologie o predisposizioni (es. insufficienza renale o epatica). Del resto, anche il consumo di grosse quantità delle comunissime mandorle amare può risultare pericoloso, per la presenza di amigdalina che si trasforma successivamente in acido cianidrico, che è un potente veleno. E lo stesso insospettabile prezzemolo, in grosse quantità, può essere ritenuto velenoso e può indurre l’aborto (le vecchie comari, un tempo, lo consigliavano alle giovinette più “vivaci” proprio per ottenere tale “effetto collaterale”). 6 Si chiarisce che, oltre a quelle qui indicate perché somiglianti ad alcune specie eduli, esistono nella flora locale altre piante velenose, tossiche e/o irritanti, che non sono state descritte poiché la loro trattazione esula dagli scopi del presente lavoro. (Es. Datura stramonium, Atropa belladonna, Sambucus ebulus, Ranunculus spp., e numerose altre). [n.b. anche le lumache che si siano impunemente cibate delle foglie di Belladonna risultano velenose per l’uomo!].

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2. Metodologia e ringraziamenti l presente lavoro è frutto di anni ed anni di appassionati studi e ricerche, svolti in parte in comune ed in parte separatamente dai suoi tre autori. Don Giovanni Picariello, studioso di tradizioni e storia locale, con all’attivo numerose pubblicazioni storiografiche, ha raccolto nel corso degli anni tutta una serie di preziose testimonianze orali sull’uso alimentare delle erbe selvatiche nell’area oggetto del presente studio. Benedetta Napolitano, giornalista e scrittrice, mettendo a frutto i suoi studi in Scienze Biologiche, si è occupata, oltre che dell’aspetto botanico, anche di quello nutrizionale. Inoltre, ha raccolto dai più anziani alcune ricette tipiche, da essi realizzate utilizzando le erbe alimurgiche descritte nel presente libro. Pellegrino De Rosa, giornalista e dottore agronomo-forestale, noto anche per aver proposto una innovativa tecnica di ingegneria naturalistica7, si è occupato di alcuni aspetti botanici e, grazie alle sue esperienze redazionali, ha curato personalmente l’editing del presente volume. Ma corre l’obbligo di precisare che la realizzazione di quest’opera, nella forma presente, è stata possibile solo grazie all’impegno ed alla benevola e preziosa collaborazione di numerosi amici8. Tra costoro, meritano una menzione particolare il giovane Antonio De Rosa9 (per il suo entusiasta ed importante contributo nella impostazione grafica e nella ricerca, identificazione e fotografia di molte delle specie qui trattate) e, dulcis in fundo, il dott. agronomo Michele Bianco10, sia per la sua fertile azione di coordinamento che per le preziose indicazioni tecniche e pratiche da lui fornite. La realizzazione dell’opera, nel formato attuale e con stampa a colori, è stata infine resa possibile grazie alla gentile disponibilità della dott.ssa Maria Passari (Dirigente Regionale del SeSIRCA) ed alla cortese sensibilità dell’assessore regionale per l’agricoltura e per le attività produttive, dott. Andrea Cozzolino, ai quali vanno i più cordiali ringraziamenti degli autori. 7

Tale tecnica, nota come “Metodica De Rosa”, è stata descritta brevemente nell’appendice del presente volume. Tra questi è d’obbligo citare, innanzitutto, il prof. Antonio Saracino, Docente presso l’Università Federico-II di Napoli ed il Presidente dell’Ordine degli Agronomi della Provincia di Avellino, prof. Antonio Stornaiuolo, appassionato botanico, per le loro gradite e prestigiose note introduttive. Si ringraziano, poi: i medici Raffaele Masucci e Carmine Ferrara; il prof. Francesco Colucci, biologo, docente del Liceo Classico “Carducci” di Nola (Na); il dott. agronomo Dante Casoria di Lauro (Av); il prof. Carmine Strocchia, di Saviano (Na); il dott. agr. Nicolangelo De Vita, il dott. agr. Gennaro Cennamo ed i periti agrari Francesco e Nicola Casciello, del Ce.Z.I.C.A. di Baiano (AV); il gruppo degli Scout di Avella (Av), nelle persone dell’arch. Pasquale Maiella e di Ferdinando Amato; l’arch. Sandro De Rosa della Soprintendenza di Avellino e Salerno; l’avv. Felice Siniscalchi, di Avella; i carabinieri Renato Mone e Giuseppe Vetrano; la giovanissima Maria Strocchia, di Saviano (Na), e la carissima Ivana Picariello, vicedirettore del Corriere dell’Irpinia, per il prezioso aiuto nella revisione delle bozze. Si ringraziano, poi, il geol. Stefano Lanziello, di Baiano (Av), e l’arch. Alfonso Napolitano, di Avella (Av), per alcune loro bellissime foto. Un ringraziamento particolare va, infine, al prof. Franco Domenico Vittoria (nella sua veste di Presidente della Comunità Montana “Vallo di Lauro e Baianese”, per la sensibilità e lo spirito collaborativo dimostrati, tradottisi, tra l’altro, nella collaborazione del dott. agr. Nicola Bianco e dei tecnici Carmine Pasquale Cirillo e Severo Ubaldo) e al dott. Alaia Vincenzo per il sostegno offerto nelle sue vesti di Presidente dell’ATC. 9 Il giovanissimo Antonio De Rosa (figlio di Pellegrino e di Benedetta nonché nipote di don Giovanni Picariello) per il rilevante contributo apportato può essere considerato, a tutti gli effetti, il quarto autore di questa pubblicazione. 10 Il dott. Michele Bianco, legato da profondi vincoli affettivi al territorio Baianese-Lauretano, ha favorito e coordinato (come dirigente del SeSIRCA, nel corso della passata programmazione POR Campania) numerose iniziative tese a valorizzare il territorio oggetto di studio (es.“Terre antiche del nocciolo”). Egli, condividendo con gli autori l’amore per questo territorio, è stato il vero ispiratore di questo libro e, nonostante i suoi numeri impegni, ha seguito, con efficacia e con benevolenza, tutte le fasi della realizzazione della presente pubblicazione, compresa la stampa. 8

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La realizzazione dell’opera ha richiesto un lungo ma piacevole lavoro di ricerca, classificazione, verifica ed editing. Molte delle erbe trattate hanno habitat antropico (prativo, coltivo e ruderale) ed è stato possibile rinvenirle, osservarle, raccoglierle e fotografarle anche nei prati cittadini11 e lungo i margini delle strade, ma, per individuare le altre, si sono resi necessari ripetuti sopralluoghi (nelle diverse stagioni) in collina, in campagna o in montagna. Alla fine sono state redatte 70 schede botaniche riguardanti le principali specie vegetali, selvatiche e commestibili, presenti nell’area Baianese-Lauretana, con l’indicazione delle località e degli ambienti in cui è possibile rinvenirle. Inoltre, sono state riportate oltre 150 ricette gastronomiche, molte delle quali tipiche12 del territorio oggetto di studio. Le schede descrittive sono state ordinate alfabeticamente per famiglia botanica. In tal modo si sono dapprima riassunti i caratteri comuni ad ogni raggruppamento di erbe e poi, nelle singole schede, sono stati approfonditi i caratteri distintivi delle singole specie.

3. Importanza alimentare delle erbe selvatiche ’utilizzazione delle piante e delle erbe selvatiche per l’alimentazione umana è antica quanto l’uomo stesso. Nell’intervallo di tempo compreso tra circa duecentomila anni fa (quando apparve in Africa l’Homo sapiens) ed 11.400 anni fa (data alla quale si fa risalire la nascita dell’agricoltura, nell’area della “mezzaluna fertile” tra Egitto e Mesopotamia) l’uomo si è sostentato, oltre che con la caccia, proprio con la raccolta di erbe, bacche, tuberi, bulbi, radici, rizomi, cortecce, foglie e frutti delle più svariate piante. L’utilizzazione alimentare di tali erbaggi13 è poi proseguita, nei Paesi occidentali, fino alla prima metà del secolo scorso. In special modo nei periodi di carestia. Già nel XIII secolo, l’agronomo arabo-andaluso Ibn al Awwam, forniva alcune indicazioni su come usare ai fini alimentari tutta una serie di prodotti vegetali, normalmente non utilizzati per tale scopo. Sull’impiego delle ghiande delle querce ai fini alimurgici, ad esempio, scriveva: «Quando si intenda fare il pane con le ghiande, occorre raccogliere i frutti sull’albero, a giusta maturazione, evitando di lasciarli seccare sull’albero stesso o di raccoglierli prima che siano maturi. Si procederà spogliando a mano, o con uno strumento adatto, ogni ghianda dal suo involucro. La ghianda è per sua natura astringente 11

Nei soli prati antistanti le abitazioni degli autori sono state individuate e fotografate oltre 30 specie alimurgiche. La documentazione fotografica è stata in larga parte realizzata personalmente dai tre autori e dal giovanissimo Antonio De Rosa. Altri contributi fotografici sono stati forniti da alcuni degli amici prima citati ed altri provengono dalla fototeca dei periodici locali “La nuova Gazzetta” e “Il Baianese”. Le antiche tavole botaniche utilizzate, a causa della loro vetustà, sono considerate patrimonio pubblico e non sono soggette a copyright. Parte del materiale didattico utilizzato deriva dalle lezioni e dalle presentazioni multimediali dei corsi di Laurea in Scienze Agrarie ed in Scienze Forestali dell’Università di Portici (Na). 12 Per l’uso, tra gli ingredienti, dei tipici prodotti locali, come i salumi di Mugnano del Cardinale, la “pettula” (tipico impasto di farina), la ricotta ed i formaggi di Avella, le nocciole della cv. “mortarella” o “baianese”, l’olio d’oliva ottenuto dalla spremitura della cv. “Nostrale di Lauro”, dal caratteristico ed apprezzato aroma di mele, nonché per l’antico uso di tali erbe descritto da vecchi contadini e boscaioli del luogo. 13 Si rammenta che tra gli “usi civici” di cui godevano le popolazioni rurali, accanto a quelli più noti (legnatico, castagnatico, fogliatico, niveatico) vi era anche quello dell’erbatico. Per cui esse, potevano raccogliere liberamente, su tutto il territorio, le erbe per sé stessi o per i loro animali.

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e, se la si dovesse mangiare così com’è, la sua astringenza risulterebbe estremamente nociva. Per renderla realmente commestibile e utilizzarla per fare il pane occorre farla cuocere in acqua dolce, dopo averla lasciata a bagnomaria, sempre in acqua dolce e senza sale, per almeno ventiquattro ore. Dopo aver cambiato l’acqua dell’ammollo si fanno cuocere le ghiande per sei ore, poi si cambia ancora una volta l’acqua e si riprende la cottura per altre sei ore circa. A questo punto si scolano i frutti e si assaggiano. Se l’astringenza è scomparsa le ghiande sono utilizzabili, altrimenti bisognerà farle ancora cuocere per altre quattro ore circa in una nuova acqua. Una volta scolati, i frutti vanno sparsi affinché prendano aria, e quando siano ben secchi si passano nella macina per ottenere una farina che si mescola con un uguale quantitativo, oppure anche con due terzi, di farina di castagne. Questo è il procedimento migliore per correggere l’astringenza delle ghiande ed il più efficace per la panificazione. Per far lievitare l’impasto si aggiunge poi della pasta acida di farina di frumento e il prodotto così preparato risulterà senz’altro di buona qualità». Nel suo “Livre de l’agriculture” Awwam indica come produrre il pane con ogni sorta di farina (persino con erbe macinate), tra l’altro, consiglia quanto segue: «Scegliete una certa quantità di baccelli di carruba freschi o secchi, spezzateli in frammenti piccoli, macinateli insieme ai loro semi e unite alla farina così ottenuta una parte di farina di orzo o di frumento; lavorate il composto con un po’ di lievito e quando la lievitazione sia giunta a un livello medio […] fate cuocere la pasta ottenuta in forma di galletta e mangiatela unta di grasso, olio o marmellata…». Lo stesso autore, poi, suggerisce: «Quando manchino cereali o frutti commestibili, prendete le foglie e i fiori degli alberi da frutto e tutto ciò che di tenero possono offrire, compreso il midollo dei rami14, aggiungetevi quindi verdure o piante commestibili, fate bollire il tutto a fuoco vivo aggiungendo un po’ di sale, scolate e mangiate condendo con sale soltanto, con sostanze dolci o anche con qualche olio. Non usate però dell’aceto, da impiegarsi esclusivamente per rendere più delicate le radici grosse, nelle quali domina in modo preponderante l’elemento terroso». Ed ancora, ci tramanda che: «Secondo l’agricoltura nabatea15, tra le sostanze con le quali si può ottenere il pane c’è l’uva secca insieme ai suoi semi, ma si possono utilizzare anche soltanto i semi. In effetti, l’uva secca, con i semi che racchiude, è per il corpo un cibo capace di sostentare. Inoltre, i semi di uva separati dalla polpa e trasformati in farina possono essere utilizzati per produrre un pane nutriente». L’utilizzazione dei semi d’uva è riportata, del resto, anche da altri autori, come JeanLéon l’Africain, il quale assicura che, all’inizio del secolo XVI, le affamate popolazioni mescolando alla farina di miglio i semi di uva macinati ottenevano: “un pane nero e acre davvero tremendo”, ma –evidentemente- ugualmente in grado di attenuare i crampi della fame. In linea di massima, quando era possibile, uno dei procedimenti più comuni consisteva nel mescolare, alla poca farina di cereali disponibile, altre farine ottenute con vari prodotti di ripiego, o nell’aggiungere sostanze grasse di varia natura. Ibn Awwam consiglia, ad esempio, di consumare i pani di papiro o cipero dolce (Cyperus esculentus), insieme a sostanze grasse animali (ad esempio immergendoli in brodi grassi) o ad olii di diverso genere. E’ noto, inoltre, che spesso le carestie hanno costretto le affamate popolazioni ad utilizzare ai fini alimentari anche piante di cui conoscevano la tossicità (come Arum spp.), dopo 14

Gli esperti di tecniche di sopravvivenza assicurano che, soprattutto delle conifere (pini, abeti ecc..) possa essere mangiata, oltre ai pinoli, la parte di legno più tenera (libro e cambio), posta appena sotto la corteccia. Anche le radici più tenere e sottili possono essere consumate, cotte o crude. Mentre le balsamiche foglie aghiformi, bollite, possono fornire delle corroboranti tisane ricche di vitamina C. 15 Il riferimento è ad una popolazione dell’antica Arabia.

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averle sottoposte a particolari trattamenti da esse ritenuti “detossificanti” (come, ad esempio, l’immersione prolungata in acqua, i frequenti lavaggi, la bollitura, la tostatura, ecc..). Sembra che le antiche popolazioni rurali fossero espertissime nel riconoscere tutte le specie commestibili e nell’applicare tutte le procedure per utilizzarle in sicurezza. Ma, con il trascorrere dei secoli, questa preziosa conoscenza è andata quasi del tutto perduta. A tale proposito il già citato Mattirolo riporta che il medico francese Villar16 già si lamentava che al suo tempo (ovvero nel XVIII secolo) su oltre 3.000 specie botaniche presenti nei dipartimenti dell’Isère, della Drôme e delle Hautes Alpes, se ne usassero “soltanto” un centinaio come piante alimentari, mentre nelle epoche precedenti era noto l’uso alimentare di oltre 500 specie vegetali. La prima pubblicazione che tratta l’argomento delle erbe selvatiche commestibili sotto il profilo scientifico è quella del medico fiorentino Giovanni Targioni-Tozzetti e risale al 1767. L’opera, dal titolo “De alimenta urgentia: Alimurgia, ossia modo per rendere meno gravi le carestie, proposto per il sollievo dei popoli” introduce, per la prima volta, il termine “alimurgia” dal quale deriva il termine “fitoalimurgia” che, ancora oggi, designa lo studio delle piante a scopo gastronomico e che deriva da tre vocaboli greci, phytón (pianta), alimos (che toglie la fame) ed ergon (lavoro, attività). Dopo Targioni-Tozzetti, numerosi altri ricercatori si sono occupati di fitoalimurgia, tra questi, oltre al Mattirolo (1918), si ricordano Riccardo (1921) e Arietti (1941), che pubblicarono interessanti studi nel periodo tra le due guerre mondiali. Da segnalare anche che, nel corso del secondo conflitto mondiale, le truppe statunitensi sbarcate in Italia disponevano di un manuale di fitoalimurgia, approntato da una commissione di botanici americani, da utilizzare come prontuario di sopravvivenza 17. Nello stesso periodo di stretta sussistenza, anche le popolazioni del Baianese e del Lauretano, unitamente agli sfollati provenienti dal capoluogo partenopeo, percorrevano campagne e monti per raccogliere le verdure più impensabili per rifornire il loro misero desco. In molte occasioni (eruzioni del Vesuvio-Monte Somma, epidemie, carestie, guerre) le popolazioni locali sono sopravvissute grazie ai frutti del sottobosco, alle castagne, ai carrubi, alle ghiande, alle fàggiole (frutti del faggio) e alle tante erbe spontanee presenti sul territorio. In linea generale18 si può affermare che, tra le piante spontanee, sono commestibili quasi tutte le graminacee e le leguminose. Sono poi potenzalmente commestibili numerose compositae (asteraceae e cichoriaceae) e gran parte delle brassicaceae (o cruciferae), ed i germogli più teneri e le giovani foglie di numerosissime piante (per esempio, della fava, del faggio, del nocciòlo e di numerose leguminose foraggere), quando eventuali sostanze irritanti non si siano ancora accumulate nei giovani tessuti, in rapido accrescimento. La sconcertante regola empirica, suggerita da alcuni anziani, chissà come sopravvissuti all’applicazione di una così superficiale e temeraria teoria, secondo 16 Catalogue des substances végétales qui peuvent servir à la nourriture de l’homme et qui se trouvent dans les Départements de l’Isère, de la Drôme et les Hautes Alpes, par la citoyen Villar Officier de Santé de l’Hôpital militaire de Grenoble, Professeur de Botanique (1794, Anno II repubblicano). 17 Anche oggi le forze armate di quasi tutti i Paesi dispongono di “manuali di sopravvivenza” comprendenti anche alcune (superficiali) indicazioni sulla flora spontanea commestibile. 18 Avvertenza importante: se non si è in grado di identificare correttamente alcune piante presentanti le infiorescenze “ad ombrella” è preferibile evitare di consumarle, poiché esse, oltre alle specie eduli, comprendono alcune specie letali (es. la cicuta) o molto tossiche (es. Sambucus ebulus, erbaceo e velenoso, molto simile a Sambucus nigra, arboreo e dalle infiorescenze commestibili).

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cui tutto ciò che viene mangiato dagli animali può essere sicuramente mangiato anche dall’uomo, non può essere presa in seria considerazione, poiché l’apparato digerente dell’uomo è sicuramente diverso da quello dei poligastrici (ruminanti), che demoliscono molte sostanze tossiche grazie all’azione dei batteri presenti nel rumine e che sono anche dotati di un diverso corredo enzimatico. Il modo più corretto di approcciare l’uso gastronomico delle piante selvatiche, così come avviene per i funghi, è quello di imparare ad identificare con sicurezza le singole specie commestibili: per facilitare questo compito le schede riportate in questo libro sono corredate da una vasta documentazione fotografica e da dettagliati disegni tecnici. I più meticolosi potranno anche utilizzare altre e più estese pubblicazioni botaniche.

4. L’uso tradizionale e tipico delle erbe alimurgiche nel Baianese e nel Lauretano ’utilizzazione delle erbe selvatiche ai fini alimentari ha una lunga tradizione nell’area oggetto di studio. A solo titolo di esempio si ricordano le prelibatissime salsicce “paesane”, di carne di maiale, arrostite con contorni di “cavuliciello” (Brassica fruticolosa), i vari “pascuotti” e “freselle” conditi con salsa di topinambour o con fiori di tarassaco, e la “ciambotta” (o minestrone) di vari erbaggi e fagioli. Tali antiche pietanze, comunemente indicate come “cucina povera”, il cui ricordo si affievolisce sempre più col passare degli anni, consentono di riscoprire19 antichi e naturali sapori perduti, “di bosco” o “di campagna”, e di sfuggire al generale appiattimento ed impoverimento dei gusti. Ma non si commetta l’errore di sottovalutare il loro valore nutrizionale: l’utilizzazione delle erbe spontanee eduli, generalmente ricche di fibre, sali minerali e vitamine, risponde –infatti- al più importante dettame della moderna nutriceutica20, ovvero al principio della “sinergia nutrizionale”21. Dal punto di vista culturale e turistico, poi, la loro ricerca, riscoperta ed utilizzazione culinaria, può comportare una serie di positive ricadute sul territorio (ecoturismo didattico, agri e selviturismo, riscoperta di ricette e prodotti tipici locali, itinerari e circuiti eco-turistici, realizzazione di “orti di erbe spontanee commestibili”, escursioni botaniche, ecc..) nonché un’accresciuta sensibilità nei confronti delle problematiche naturalistiche ed ambientali. Come riferito dai più anziani, e come risulterà evidente dalla consultazione del corposo capitolo sulle ricette, di molte erbe selvatiche vengono utilizzate, innanzitutto, le foglie delle giovani “rosette basali”, ovvero le corone di teneri foglie, generalmente appressate al suolo e disposte a raggiera. Esse si formano soprattutto in primavera (rosette primaverili) ma possono formarsi anche più tardi, dopo le prime piogge estive, dai semi caduti in primavera-estate o dagli organi perennanti (bulbi, stoloni, rizomi, ecc..). In tarda primavera-estate si raccolgono, poi, principalmente i ricacci vegetativi. Le rosette commestibili più utilizzate in passato dalle popolazioni locali, sono quelle del papavero comune o rosolaccio (Papaver rhoeas), della cicoria selvatica (Cichorium 19

Lo scopo principale di questa pubblicazione è proprio quello di diffondere i “memi” (cfr. Richard Dawkins - Il gene egoista. 1976), intesi (per analogia con i “geni”) come “unità di informazione culturali”, della tradizione contadina e delle conoscenze botaniche e naturalistiche fra le nuove generazioni. Neologismo che indica una nuova disciplina nata dal connubio tra farmaceutica e nutrizionistica. 21 «Più ampio è lo spettro dei nutrienti assunti, maggiore ne è l’assimilazione e l’efficacia, e allo stesso tempo, minori sono le quantità necessarie di ciascun specifico nutriente». 20

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intybus), della barba di caprone (Tragopogon porrifolius), della piantaggine (Plantago spp.), del caccialepre (Reichardia picroides), del tarassaco (Taraxacum officinale), del crespigno (Sonchus spp), della borsa del pastore (Capsella bursa-pastoris), del lattugaccio (Urospermum dalechampii), dell’erba delle mammelle (Lapsana communis), del dente di leone (Leontodon spp.), della margheritina o pratolina (Bellis perennis), dell’aspraggine (Picris spp.), del piattello (Hypochoeris radicata), ecc.. Le persone intervistate raccomandano di non raccogliere e cucinare le rosette quando la pianta abbia già emesso lo scapo (il lungo fusto centrale portante uno o più fiori o infiorescenze), poiché in tale stadio vegetativo esse si presentano coriacee, amarognole e –nel complesso- fibrose e poco appetibili. Di altre erbe è possibile raccogliere sia i germogli più teneri sia, nella stagione più avanzata, le giovani foglie poste lungo tutto il fusto. E’ questo il caso del farinello (Chenopodium album), dell’amaranto (Amaranthus retroflexus), dell’ortica (Urtica dioica), della parietaria (Parietaria officinalis), dello strigolo o schioppettino (Silene vulgaris) e della porcellana (Portulaca oleracea). Di altre specie, come l’alliaria (Alliaria petiolata) e la calendola (Calendula arvensis) si usano le sommità ed i fiori in boccio. Dell’acetosella (Oxalis acetosella) si utilizzano, invece, le foglie (simili a grossi trifogli) e i teneri fusticini. I petali del rosolaccio, della rosa canina e della rosa coltivata, ed i “fiori” di crespigno, tarassaco, calendola, aspraggine, borragine (Borrago officinalis), mammola (Viola odorata), primula (Primula acaulis), aglio selvatico (Allium spp) ed erba cipollina (Allium scoenoprasum), si usano nelle insalate miste (misticanze) primaverili, nelle frittate, nelle frittelle e nelle focacce. I delicati petali di rosa si passano ad uno ad uno nell’albume delle uova, sbattutto con un pizzico di sale, poi nella farina e poi nuovamente nell’albume, per essere poi fritti in olio extravergine d’oliva (possibilmente della valle dell’antico Clanis, caratterizzato dal tipico aroma di mele): si fanno scolare e si pongono ad asciugare su carta assorbente da cucina, per poi essere serviti insieme ad un buon vino (ottimo l’abbinamento col celeberrimo Greco di Tufo). Oltre ai notissimi germogli di asparago selvatico (Asparagus acutifolius), vengono anche raccolti i germogli di equiseto (Equisetum arvensis), di rovo (Rubus fruticosus), di liana (Clematis vitalba), di pungitopo (Ruscus aculeatus) e di vite (Vitis vinifera). Di quest’ultima si mangiano e si raccolgono pure i teneri viticci e le giovani foglie. I germogli di rovo e vitalba, quelli di quest’ultima con le avvertenze prima ricordate, e previa spellatura e bollitura, sono particolarmente graditi da chi preferisce i sapori aciduli. Gli scapi fiorali della “sulla” (Hedisarum coronarium) vengono spellati del rivestimento corticale per poi essere mangiati al naturale. Gli scapi delle senapi spontanee (Sinapis spp.) vengono cotti al vapore e poi conditi con olio extravergine d’oliva, sale e agro di mele. Le radici di tarassaco, barba di caprone, cicoria e pastinaca (Pastinaca sativa) possono essere usate come surrogato del caffè: si tagliano a fette o a strisce, si lasciano essiccare, poi si tostano e si tritano. Per lo stesso scopo possono essere usati, dopo bollitura, essiccamento e torrefazione, anche i rizomi di cannuccia (Arundo phragmites) e di gramigna (Cynodon dactylon e Agropyrum repens), nonché le ghiande (Quercus spp.). E’ noto, inoltre, che -in caso di necessità- danno farina anche i semi di ortica, di amaranto e di diverse graminacee spontanee. Delicate e pregiate sono poi alcune radici, come quelle del raperonzolo (Campanula

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rapunculus), che di solito vengono consumate insieme alle loro rosette fogliari. Di gradevole gusto sono anche i tuberi di lampascione (Muscari comosum) e di topinambour (Helianthus tuberosum). Anche il cardo mariano (Silybum o Carduus marianum) e il cardoncello (Scolymus hispanicus) possono essere utilizzati in cucina per la preparazione di saporite pietanze: vengono utilizzate, cotte a vapore, le foglie raccolte prima della fioritura e ripulite dai filamenti fibrosi e dalle spinescenze. I fiori di due alberi, il sambuco (Sambucus nigra) e l’acacia (Robinia pseudoacacia), vengono anch’essi utilizzati dagli estimatori, alla stregua di quelli di zucca, per la preparazione di saporite frittelle, dolci o salate. Anche le foglie più giovani e tenere di faggio (Fagus sylvatica) possono essere bollite e mangiate e stupiranno i buongustai con il loro sapore, molto simile a quello del cavolo.

5. Alcuni consigli pratici i consiglia di raccogliere le erbe nei luoghi il meno possibile inquinati, per cui si eviteranno accuratamente i bordi delle strade (che subiscono l’inquinamento dei gas di scarico dei veicoli e di tutto ciò che viene dilavato e trasportato con le piogge), i campi coltivati ed i frutteti (ove c’è il rischio che siano stati irrorati fitofarmaci), le zone prossime a scarichi industriali o fognari, i terreni posti in prossimità di acque stagnanti e quelli situati a ridosso delle discariche, ufficiali o abusive22 . In ogni caso è sempre consigliabile lavare abbondantemente la pianta prima di utilizzarla, magari aggiungendo all’acqua del bicarbonato da cucina, o sbollentarla. Se si desidera conservare le erbe selvatiche raccolte, il metodo migliore è rappresentato dal congelamento (naturalmente, dopo averle ben ripulite, lavate ed asciugate). La raccomandazione principale rimane, però, quella di non “fare di tutta l’erba un fascio”, ovvero, di raccogliere e consumare solo le erbe che si è certi di aver identificato con sicurezza e della cui commestibilità si è sicuri. Per facilitare il compito al lettore, ogni scheda è stata corredata di una dettagliata documentazione fotografica. I più coscienziosi, inoltre, potranno munirsi anche di qualche particolareggiato atlante botanico e di una buona lente di ingrandimento per osservare i particolari botanici più significativi. Molte specie alimurgiche, infatti, all’occhio del neofita, presentano una somiglianza talora sconfortante. È il caso delle “rosette primaverili” di molte delle specie illustrate. Queste, quasi sempre, rappresentano la fase vegetativa più gustosa ma, talora, proprio quella più difficile da riconoscere. Per imparare a riconoscerle bene non c’è che un modo: rintracciare alcune piante che oltre alla rosetta basale portino anche il fusto centrale (scapo) con i relativi fiori, per assicurarsi di aver identificato bene la specie, e poi confrontare le foglie basali con quelle delle rosette ancora prive di fiori. Per finire, alcune raccomandazioni “ecologiche”. Si eviti di strappare le piantine da raccogliere (a meno che la parte edule non sia costituita proprio dalla parte ipogea) e le si tagli con un coltello affilato: in tal modo esse potranno ricacciare altri germogli. 22

[Si veda il pregevole libro-inchiesta “Le vie infinite dei rifiuti. Il sistema campano” (Ed. Rinascita. 2007. ISBN 9788890325427), del giornalista Alessandro Iacuelli.]

E’ noto che tutte le piante, comprese quelle trattate in questo libro e quelle abitualmente acquistate dal fruttivendolo o al supermercato, possono accumulare le sostanze tossiche eventualmente presenti nel terreno, al punto che alcune specie vegetali sono state addirittura proposte per risanare i siti inquinati (M. Caiazzo e R. Viselli - Bioremediation - Liguori editore - Napoli - 2008). Tuttavia, è evidente che le erbe selvatiche raccolte in siti non contaminati sono sicuramente esenti da qualsiasi sostanza chimica, comprese quelle (come i fitofarmaci, i conservanti, ecc..) abitualmente impiegate nella moderna agricoltura. Esse, perciò, risultano sicuramente più sane, oltre che più saporite, dei loro corrispettivi coltivati. Per tali erbe genuine gli autori hanno proposto la definizione “zero gamma” (vedi glossario in appendice).

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Si eviti, infine, di danneggiare le specie protette (come il Ruscus aculeatus23 ) o di raccogliere quelle specie considerate localmente rare o rinvenute solo in pochi esemplari.

6. Consultazione delle ricette utte le erbe commestibili qui descritte possono avere utilizzazione “da padella” o “da ripieno”: esse, infatti, vengono normalmente preparate o lessate o saltate in padella. Alcune di esse (es. i capolini delle “cicorie selvatiche” ancora in boccio) possono essere utilizzate anche come sottolio e sottaceti. Con altre si preparano deliziose frittate e pizzette. Molte di essere possono essere consumate anche crude e talune (es. la “portulaca”) possono essere conservate, oltre che congelate, anche essicate. In ciascuna delle 70 schede botaniche redatte sono indicate le parti commestibili di ogni erba selvatica e le sue principali modalità di utilizzazione gastronomica. Inoltre, in ognuna di esse si rimanda, tramite apposita numerazione, alle ricette raccolte nel capitolo dedicato. Le ricette riportate sono state ordinate per categorie di piatti (antipasti, primi piatti, secondi piatti, ecc..) e distinte in: “nazionali” (N), quelle diffuse in tutto il territorio italiano; “tradizionali” (T), quelle tipiche del territorio oggetto di studio e “proposte” (P) quelle suggerite o dagli autori o dai cuochi e dai pizzaioli di alcuni locali tipici del Lauretano e del Baianese.

Un prato di bellissimi e squisiti papaveri, in un uliveto nel territorio di Avella (Av)

23 Tale specie protetta è elencata nel “Repertorio della Flora Italiana protetta”, edito nel 2001 dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio.

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Erbario Pseudo-Apuleio (XV sec.)

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S C H E D E B O T A N I C H E

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Una fase di coordinamento della pubblicazione. Sotto, da sinistra: Benedetta Napolitano, don Giovanni Picariello e il dott. Michele Bianco. Sopra, a sinistra, Pellegrino De Rosa.

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Amaranthaceae Sono piante affini alle pistillo (a) e seme (b) Chenopodiaceae, tant’è vero Amaranthus che, secondo la classificazione Angiosperm Phylogeny Group (2003), queste ultime sono state fatte confluire proprio nella b a famiglia delle Amaranthaceae. Prima di incorporare le specie delle Chenopodiaceae, le Amaranthaceae contavano 75 generi e 900 specie. La principale differenza tra le Amaranthaceae e le Chenopodiaceae è che le seconde possiedono petali membranosi e stami spesso uniti tra loro a formare una struttura ad anello. Nella maggior parte delle specie, le foglie sono semplici, opposte o alternate, ed in alcuni casi succulente. I fiori possono essere sia c d singoli che raggruppati in infiorescenze di vario tipo, e fiori maschile (c) e femminile (d) possono essere sia unisessuali che ermafroditi. Alcune specie sono coltivate e come piante ornamentali ma f altre sono infestanti e possono crescere rapidamente, producendo molti semi che possono rimanere dormienti nel terreno diagrammi fiorali maschile (e) e femminile (f) per decenni. I semi di alcune specie (ad. es. A. caudatus L. e A. hybridus), nel periodo precolombiano, in America centrale, venivano utilizzati dalle popolazioni locali come cereali. A testimonianza di ciò, si riporta che alcuni semi di Amaranthaceae, risalenti ad oltre 5.500 anni fa, sono stati ritrovati nelle grotte di Tehuacan Puebla, in Messico. Le foglie di queste piante, ricche di proteine, sono state utilizzate per millenni come verdura nelle aree tropicali. Alcune specie, però, possono accumulare livelli tossici di nitrati: per tale motivo è preferibile, in caso di assunzioni prolungate, usare le foglie più giovani, nelle quali l’accumulo di nitrati è minore. Nell’area del Baianese e del Lauretano sono presenti Amaranthus chlorostachys ed Amaranthus retroflexus. Di seguito verrà descritta la specie Amaranthus retroflexus.

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Amaranto Amaranthus retroflexus (L.) Scheda n. 01

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RICONOSCIMENTO Amaranthus retroflexus è originario Ciclo delle piante C4 dell’America centro-settentrionale, ma da secoli è naturalizzato in tutta Italia, dove cresce comunemente nei campi coltivati, nei giardini, nei terreni incolti ed ai margini delle strade. Sempre, comunque, in ambienti molto soleggiati. La pianta è diffusa in terreni aventi valori di pH anche molto diversi (da 5,2 fino a 9,1) ed è molto sensibile alla presenza di potassio e fosforo. Amaranthus retroflexus è una pianta ad alta efficienza fotosintetica (pianta C4). E’ una terofita scaposa, erbacea, annua. La pianta adulta, eretta e ramificata sin dalla base, assume forma di cespuglio raggiungendo un’altezza media di 80-100 cm; tuttavia, le dimensioni sono assai variabili in relazione alla fertilità del terreno ed al clima. Le foglie sono intere, alterne, ovato-romboidali, picciolate, con nervature molto evidenti alla pagina inferiore. I piccioli e le nervature sono pubescenti. Il fusto, anch’esso pubescente, è angoloso, eretto, tenacissimo e fibroso. L’apparato radicale è fittonante e si sviluppa a profondità notevoli. I fiori, piccolissimi, sono attinomorfi, dialipetali, con perianzio ridotto, con segmenti lunghi 13 millimetri, formati da 5 tepali spatolati con apice troncato o smarginato. L’androceo è formato da 5 stami. L’ovario è supero, con 3 stili. I fiori sono riuniti in dense infiorescenze a pannocchia, con la spiga terminale poco più lunga delle laterali. I frutti sono costituiti da piccolissime capsule indeiscenti, ellittiche e a superficie rugosa. L’Amaranthus retroflexus è ospite del virus dell’avvizzimento maculato del pomodoro (TSWV). È difficile da confondere con altre specie, ma secondo i meno esperti, nella sua fase giovanile presenterebbe una certa somiglianza con il Chenopodium album maturo. Le differenze sono, in realtà, facilmente visibili: - le foglie sono ovate in Amaranthus e “a piede di papera”, da cui il nome, in Chenopodium; - le infiorescenze sono molto più grosse e compatte in Amaranthus; - il fusto di Amaranthus è tenacissimo e quasi impossibile da spezzare con le sole mani.

DIFFUSIONE È diffuso in tutto il comprensorio considerato, negli ambienti ruderali e sui suoli aridi, tra i 100 ed i 500 metri di altitudine. Infestante delle colture sarchiate, si trova frequentemente ai bordi delle vie e negli incolti erbosi.

USO GASTRONOMICO Se ne usano le foglie, le infiorescenze ed i giovani getti, previa bollitura (le foglie crude sono immangiabili), per essere consumati all’agro (con olio e limone) oppure variamente saltati in padella. Hanno sapore simile a quello degli spinaci, secondo alcuni addirittura superiore. Foglie e giovani getti possono essere usati anche per preparare minestre primaverili. Se si ha sufficiente pazienza, i giovani fusti, tagliati a pezzi, spellati e lessati, possono essere usati alla stregua degli asparagi. Questa pianta generalmente ritenuta solo una fastidiosa infestante è, invece, appositamente coltivata presso taluni popoli africani ed i suoi semi, assai ricchi di proteine e di sali minerali, possono aprire orizzonti nuovi nella povera agricoltura di sussistenza di quelle plaghe.

RICETTE

004 - 063 - 064

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Apiaceae o Umbelliferae

La famiglia delle Apiaceae o Umbelliferae comprende circa 3.000 specie, suddivise in 420 generi, ad habitus prevalentemente erbaceo (raramente arbustivo), distribuite prevalentemente nelle regioni temperate e subtropicali dell’emisfero boreale. Il fusto è spesso cavo e porta all’esterno alcuni solchi longitudinali. Le foglie, con disposizione alterna, non presentano stipole e spesso sono composte (come nel prezzemolo), ma alcune specie presentano lamina intera. Spesso i piccioli si presentano con base slargata e guainante il gambo. Una delle caratteristiche più salienti della famiglia è rappresentata dalle infiorescenze ad ombrella, semplice o composta; in quest’ultimo caso i raggi dell’ombrella non portano un singolo fiore ma ombrelle di secondo ordine dette ombrellette o umbellule. Le brattee poste alla base dell’ombrella formano l’involucro, mentre quelle alla base delle ombrellette costituiscono l’involucretto. L’infiorescenza può anche assumere l’aspetto di un capolino, per accorciamento dei raggi dell’ombrella (es. gen. Eryngium). I fiori, proterandrici, sono impollinati generalmente da insetti con proboscide corta come i ditteri, o da coleotteri, attratti dalla vistosità delle ombrelle e dal nettare prodotto dallo stilopodio. Sono quasi sempre piccolissimi, spesso bianchi o giallastri, talvolta rossastri (come il fiore centrale dell’ombrella della carota) e presentano simmetria pentamerica. La funzione vessillare (attrazione dei pronubi o impollinatori) è svolta dall’ombrella nel suo complesso e per questo motivo i fiori periferici possono presentarsi zigomorfi (e unisessuali o sterili) sviluppando notevolmente 1-2 petali (Tordylium apulum). Il verticillo calicino è ridotto a 5 dentelli e a volte può essere del tutto incospicuo. La corolla, dialipetala, è formata da 5 petali talvolta bilobi. L’androceo è costituito da un verticillo di 5 stami; l’ovario, infero, biloculare, comprende 2 carpelli, ciascuno con 2 ovuli di cui uno atrofizzato, ed è sormontato da 2 stili liberi, divergenti, che si dipartono da una struttura a cuscinetto (stilopodio) che persiste nel frutto.

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La formula tipica fiorale è: K 5, C 5, A 5 G (2) (ovario infero). Il frutto, secco, è uno schizocarpo denominato diachenio, con una morfologia caratteristica per ogni specie, spesso utilizzata come carattere diagnostico (presenza di vallecole, protuberanze, spine ed uncini sulla superficie). I semi possiedono un piccolo embrione immerso in abbondante endosperma, ricco di grassi e proteine. Alcune umbellifere vengono coltivate per scopi alimentari, come la carota (Daucus carota) ed il finocchio (Foeniculum vulgare). Altre, grazie alla presenza di oli eterei nei loro semi o in altre parti della pianta, vengono utilizzate come spezie, piante aromatiche o piante officinali. Tra queste si annoverano l’anice (Pimpinella anisum), l’aneto (Anethum graveolens), il coriandolo (Coriandrum sativum), il cumino (Carum carvi), il finocchio selvatico (Foeniculum piperitum), il prezzemolo (Petroselinum crispum) ed il sedano (Apium graveolens). Altre ancora sono conosciute, invece, come potenti veleni. Tra queste, la belladonna (Atropa belladonna) e la cicuta di Socrate (Conium maculatum) sono presenti anche nel territorio BaianeseLauretano1. Altre, come il cerfoglio (Anthriscus cerfolium) vengono utilizzate localmente come piante alimurgiche per la preparazione di tipiche “pizze piene” e di squisite frittelle. Le apiacee o umbellifere sono abbastanza diffuse nell’area mediterranea. Alcune di esse sono legate all’ambiente fresco del sottobosco (Anthriscus nemorosa), altre sono diffuse nelle aree steppiche (Ferula communis) e nei campi coltivati (Ridolfia segetum). Altre, ancora, sono tipiche casmofite (piante di ridotte dimensioni ma con esteso apparato radicale) ed entrano nella costituzione di cenosi rupicole (Athamanta sicula), o alofite (piante che sopportano suoli salsi), che vegetano sulle scogliere prossime al mare (Crithmum maritimum, Eryngium maritimum, ecc..). Nell’areale oggetto di studio sono state censite 49 specie vegetali appartenenti alla presente famiglia. 1

Per il Conium maculatum si rimanda alla scheda descrittiva riportata in appendice.

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Erba angelica o Angelica dei boschi Angelica sylvestris (L.) Scheda n. 02

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RICONOSCIMENTO Sinonimo: Angelica montana. Nomi comuni: erba angelica, angelica dei boschi o angelica selvatica. Il nome del genere deriva dal latino “herba angelica”, poiché anticamente si credeva che la pianta, oltre a curare tutte le malattie, proteggesse dagli spiriti malvagi e dagli incantesimi. Molto simile all’Angelica sylvestris è Angelica archangelica (utilizzata nella fabbricazione di liquori) dalla quale si distingue per i fusti verdi, per i piccioli fogliari cilindrici e per i petali biancogiallastri-verdastri. Tutte le specie del genere Angelica contengono furocumarine, che aumentano la fotosensibilità della pelle e possono causare dermatiti. Angelica polymorpha var. sinesis è forse il più importante tonico cinese dopo il ginseng. Come forma biologica è considerata una “emicriptofita scaposa”. Pianta perenne, talvolta bienne, di aspetto erbaceo eretto, con fusti striati, ramificati nella parte superiore, cilindrici, coperti di pruina bianca o di colore violaceo. Può raggiungere i 2 metri di altezza. E’ provvista di un grosso rizoma, dall’odore di carota ma dal sapore acre ed amaro. Le foglie hanno piccioli a sezione semilunare e cavi internamente. Sono composte tripennatosette (divise in tre “fronde” ognuna delle quali portante 5-9 foglioline ovato-lanceolate a margine dentato). Presentano delle guaine rigonfie che avviluppano e proteggono i giovani rami ascellari e le infiorescenze ancora in boccio. Quelle superiori sono meno suddivise di quelle inferiori e quasi sessili. I fiori, attinomorfi, dialipetali e di piccolissime dimensioni, sono pentameri, bianchi o rosati. Spesso sono riuniti in grandi infiorescenze ad ombrella che, in taluni casi, possono giungere anche a 50 centimetri di diametro. I frutti sono diacheni, piatti, ellittici, con 3 coste dorsali e due laterali.

DIFFUSIONE Presente nei luoghi ombrosi e umidi, boschi, siepi, in fondo alle forre e alle sponde degli impluvi, fra i 300 ed i 1.000 metri di altitudine (es. Vallone di Quindici, Vallone Acquaserta a Quadrelle, Vallone Sorroncello ad Avella).

USO GASTRONOMICO L’Angelica viene utilizzata nella preparazione dei dolci e soprattutto dei liquori (amari a base di erbe) per le sue proprietà digestive. Dopo le bacche di ginepro, la radice di angelica (soprattutto dell’ A. Archangelica) è l’ingrediente principale del gin. Viene inoltre utilizzata per aromatizzare Cointreau e Vermouth. Famoso è il liquore benedettino Chartreuse (verde o giallo a seconda che si desideri più o meno forte). Nei paesi nordici, nei periodi di carestia, le radici di angelica si macinavano e venivano aggiunte alla farina per fare il pane. Il fusto, ripulito dalla parte esterna, scura e amara, e finemente tritato, viene aggiunto in piccole quantità a marmellate e confetture. I giovani rametti delle piante, raccolti all’inizio dell’estate e privati della parte esterna, possono essere canditi e usati come decorazione dei dolci. Le foglie fresche possono essere usate per aromatizzare frutta cotta, pesce o formaggi molli. Le foglie di angelica, in piccole quantità, sono utilizzate anche per aromatizzare il tabacco da pipa.

RICETTE

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Cerfoglio Anthriscus cerefolium (L.) Scheda n. 03

Sezione del fusto

diachenio Cerfoglio coltivato

Carota Cerfoglio

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Questa pianta è stata importata in Europa dai Romani ed è probabilmente originaria della Russia Meridionale, del Caucaso e del Medio Oriente. E’ una specie sinantropa e nitrofila, comune nei prati fertili antropizzati, nelle zone ruderali, margini dei boschi, incolti, boscaglie e siepi. Emicriptofita scaposa. Erbacea perenne o biennale, dall’aspetto vagamente simile a quello del Anthriscus prezzemolo (ma le foglie sono più (o Chaerophyllum) finemente settate). Attenzione a non caucalis confonderla con la pericolosissima e maleodorante cicuta (Conium maculatum). Per essere sicuri di non sbagliare strofinate le foglie tra le mani: emetteranno un delicato aroma, per taluni simile alla carota o al finocchietto, secondo altri simile al profumo del prato appena tagliato. I fusti, cavi e spigolosi, sono ramificati in alto e coperti di peli reflessi in basso. Una loro caratteristica distintiva è rappresentata da una incavatura longitudinale “a grondaia” presente ad un lato del fusto, il quale si presenta a sezione grossolanamente quadrangolare, che diventa poi triangolare nel peduncolo fogliare. Anthriscus sylvestris Le foglie picciolate a contorno triangolare, sono tripennatosette, con segmenti profondamente incisi e dentati. Il cespo (rosetta) di foglie basali è presente già a fine inverno mentre l’antesi o fioritura avviene nei mesi di maggio – luglio. I fiori, attinomorfi, dialipetali, di piccole dimensioni (3-4 mm), a cinque elementi, petali bianchi, ovario infero bicarpellare, sono raccolti in infiorescenze ad ombrella costituite da 7-10 raggi e munite di brattee involucrali. I frutti sono diacheni verdi-brunastri. La radice è sottile, fittonante, con anelli trasversali ben apprezzabili. Il cerfoglio coltivato presenta un’apparente somiglianza con la parte aerea della carota, la quale però possiede foglie di maggiori dimensioni e di diversa conformazione. Anche il fusto è diverso, risultando essere più arrotondato in Daucus carota.

DIFFUSIONE Oltre all’Antriscus cerefolium, specie coltivata e rinvenibile anche allo stato selvatico, poiché sfuggita alla coltivazione per disseminazione accidentale, sono diffuse le specie: A. caucalis (negli ambienti erbosi tra i 300 ed i 1.200 m slm. Vedi prima e ultima foto sopra), anch’esso commestibile (per esperienza diretta degli autori) ma dal gusto più selvatico; l’A. sylvestris (presente nei faggeti del massiccio fino ai 1.200 metri); l’A. nemorosa (nelle boscaglie e nei fruticeti umidi, tra i 400 ed i 1.400 m slm, ad esempio a Sirignano, in località Bocca dell’Acqua e nel Vallone di Quindici).

USO GASTRONOMICO Se ne usano sia le foglie che i germogli. Ottima è la “Pizza d’erbe”, preparata tipicamente nel periodo pasquale in Avellino città e nei paesi limitrofi. Il cerfoglio si può consumare anche unito alla ricotta, ai formaggi freschi o allo yogurt.

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Finocchio selvatico Foeniculum vulgare (Mill.) Scheda n. 04

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Sinonimo: Foeniculum officinale. Nome comune: finocchietto selvatico. Foeniculum, corrisponde al nome latino con cui si indicava il finocchio; esso deriva da foenum (fieno) con il significato di “piccolo fieno”, forse perché un tempo questa pianta veniva impiegata come foraggio. Come habitus vegetativo è una pianta erbacea perenne. Come forma biologica è una emicriptofita scaposa. Presenta un fusto ipogeo (sotterraneo) costituito da un rizoma orizzontale nodoso da cui si dipartono le radici secondarie. Il fusto epigeo (parte aerea) si presenta eretto, cilindrico e ramoso, ingrossato nella sua parte basale e dall’altezza variabile tra i 40 ed i 150 centimetri. Le foglie, 3-4 pennatosette, con lamina interamente divisa in numerose lacinie capillari di colore verde-giallastro, abbracciano inferiormente il fusto. I fiori, attinomorfi dialipetali di piccole dimensioni, a cinque elementi, presentano petali gialli ed ovario infero bicarpellare. Essi sono portati in infiorescenze composte (ombrelle di ombrelle) a 12-30 raggi. L’involucro è assente. I frutti sono schizocarpi che si dividono in due acheni costoluti. Tutte le parti della pianta emanano un intenso odore, prodotto da alcuni olii essenziali, quali l’acido anisico, l’anetolo, il canfene, il carvolo, l’estragolo, il fenene, il limonene e il pinene.

DIFFUSIONE Il finocchietto selvatico è una tipica pianta mediterranea (geoelemento stenomediterraneo), comune nelle aree ruderali ed antropizzate di tutto il territorio, tra i 100 ed i 500 metri di altitudine. Predilige i luoghi soleggiati, incolti, secchi e ciottolosi. Si trova però anche nelle zone erbose, ai piedi dei muretti a secco ed ai margini dei sentieri di campagna e di collina. Nei territori oggetto del presente studio sono presenti sia la sottospecie vulgare che la sottospecie piperitum, dall’odore più accentuato.

USO GASTRONOMICO Di questa pianta si utilizzano, raccogliendoli dall‘autunno alla primavera, i novelli getti fogliari e, dall’estate all’autunno, gli scapi fiorali con le ombrelle nonché i frutti (erroneamente noti come “semi”). La parte basale del fusto, dal sapore di finocchio molto accentuato, può essere gustata e masticata durante le passeggiate in campagna, magari in sostituzione del meno bucolico chewing gum. Comunque questa pianta, più che come verdura, viene utilizzata in cucina come aromatizzante, a causa degli olii essenziali che conferiscono odori e sapori forti alle pietanze. In particolare, le fronde di finocchio selvatico, opportunamente mondate dalle foglie più vecchie, si usano per dare “tono” alle misticanze. I fusti con le ombrelle vengono talora aggiunti alla salamoia in cui si conservano le olive, per aromatizzarle. I frutti del finocchietto selvatico si aggiungono alle salsicce nostrane oppure ai taralli tradizionali. L’intera parte aerea del finocchietto, inoltre, viene lasciata in infusione nell’olio d’oliva per produrre il cosiddetto “olio di finocchietto selvatico”, usato per condire pesce, carne o salsicce arrostiti alla griglia. Vi è anche l’usanza di aggiungere i frutti di finocchietto all’acqua di cottura delle castagne bollotte (quelle bollite con la buccia).

RICETTE

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Pettine

di

Venere

Scandix pecten-veneris (L.) Scheda n. 05

Sezione del fusto

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Nomi comuni: acicula, pettine di venere comune, spilla di pastore, spillettone. Il nome del genere, Scandix, deriva dal greco e significa “pungere”. Tale termine fà riferimento ai suoi caratteristici frutti, dal becco allungato, che assumono l’aspetto di spillone o pettine, e dalla cui forma gli sono derivati pure i suoi nomi popolari. Questa pianta erbacea è una terofita scaposa (ovvero, una pianta annuale con asse fiorale allungato, spesso privo di foglie). Il fusto, lungo dai 15 a 45 centimetri, si presenta a portamento eretto, molto ramificato, con scanalature verticali, e diventa corimboso nella parte superiore. Presenta sezione grossolanamente rettangolare-arrotondata. Le foglie, composte, 2-3 volte pennatosette, a lamina fogliare divisa in lacinie lineari, sono munite di un picciolo allungato alla base da una guaina, leggermente barbata, avvolgente il fusto. I fiori, ermafroditi, hanno bianche corolle asimmetriche composte da cinque petali. L’infiorescenza è ad ombrella composta, formata generalmente da due rami privi di involucro portanti le ombrellette. Queste, munite di 5 bratteole bifide e ciliate, sono formate da 5 – 6 fiori, di cui solo quelli più interni sono fertili mentre quelli esterni, più grandi, sono sterili ed hanno funzione vessillifera (attrazione degli insetti impollinatori). L’antesi avviene nel periodo compreso tra aprile e giugno. I caratteristici frutti sono costituiti da acheni lunghi circa un centimetro, prolungati da un rostro di circa 4 - 5 centimetri, terminante con 2 stili all’apice.

DIFFUSIONE L’areale di diffusione di questa specie è centrato sulle coste mediterranee, ma con prolungamenti verso nord e verso est (area della vite). A livello locale, essa si rinviene nei terreni argillosi e tra le siepi di tutto il territorio, con maggiore frequenza tra i 200 ed i 1.000 metri di altitudine. Nel territorio oggetto di studio questa specie è sempre più difficile da rinvenire.

USO GASTRONOMICO Le foglie ed i teneri gambi delle piante più giovani vengono usati nelle insalate miste oppure bollite insieme ad altre erbe.

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Sopra. Il prof. Antonio Saracino, docente del corso di Laurea in Scienze Forestali ed Ambientali, presso la Facoltà di Agraria di Portici (Università degli Studi di Napoli - Federico II), durante un sopralluogo in una “tagliata” di un castagneto ceduo, a Moschiano (Av). Sotto. Il Presidente dell’Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali della Provincia di Avellino, prof. Antonio Stornaiuolo, appassionato botanico, nel corso di un sopralluogo in un’azienda agricola di Avellino.

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Boraginaceae

La famiglia delle Boraginaceae comprende 95 generi con circa 2.000 specie diffuse principalmente nelle regioni temperate e calde. Si tratta prevalentemente di piante erbacee, ma sono presenti anche specie arbustive, lianose, rari alberi (gen. Cordia). I fusti sono generalmente coperti da peli ruvidi, presenti spesso anche sulle foglie e sulle infiorescenze. Le foglie sono generalmente alterne, semplici, di solito intere, senza stipole, anch’esse frequentemente ispide per la presenza di peli formati da cellule calcarizzate, o di setole (con o senza tubercoli basali) per cui si presentano molto ruvide e aspre al tatto, con qualche eccezione (es. gen. Cerinthe), che presenta foglie glabre. I fiori, ermafroditi e attinomorfi, con tendenza in alcuni generi a divenire zigomorfi (Echium), sono riuniti in infiorescenze a cima scorpioide, semplice o doppia. Il calice è composto da 5 sepali riuniti solo alla base e diviene accrescente dopo l’antesi. La corolla, gamopetala, composta da 5 petali, si presenta di forma varia (a tubo in Anchusa, a campana in Lithospermum, rosata in Myosotis), talora con squame che restringono l’ingresso della corolla tubare (Borago, Symphytum). L’androceo è isostemone ed è costituito da 5 stami direttamente inseriti sul tubo della corolla. Il gineceo, supero, è bicarpellare; ciascun carpello contiene 2 ovuli, tra i quali si forma un falso setto e, pertanto, l’ovario diviene ben presto quadriloculare. Esso poggia su di un disco nettarifero a forma di anello. La tipica formula fiorale è: K (5), [C (5), A 5], G (2). Il frutto è costituito da quattro, di rado due, nucule (eccezionalmente da 1 o 3, per aborto) o può essere una drupa (Cordia). I semi possono essere con o senza endosperma e con l’embrione curvo o diritto. La disseminazione è spesso favorita dalla presenza di aculei sulla superficie delle nucule (Cynoglossum, Lappula) o per effetto dei calici ispidi e accrescenti (Asperugo) che si attaccano al vello degli animali (zoocoria); altre volte (Anchusa, Borago, Symhytum) è affidata alle formiche (mirmecoria) attratte dalla presenza di elaiosomi (appendici situate sui semi e contenenti sostanze oleose appetite dalle formiche). Nel territorio Baianese-Lauretano sono state censite 19 entità vegetali appartenenti a questa famiglia. E’ considerata alimurgica, oltre che officinale, la sola Borago officinalis, il cui uso come integratore alimentare è stato recentemente vietato1 . Essa, tuttavia, continua ad essere normalmente consumata, senza eccedere nelle quantità, dalla sua folta schiera di estimatori. 1

Cfr. in appendice: Lista piante non ammesse negli integratori alimentari (aggiornata a novembre 2006). Ministero della Sanità.

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Borragine Borago officinalis (L.) Scheda n. 06

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uso sconsigliato

Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Sinonimi: Borago hortensis. Nomi comuni: borragine, buglossa vera. Secondo l’ipotesi più accreditata, Borago deriverebbe dall’arabo “abou rach”, cioè “padre del sudore”, con riferimento alle proprietà sudorifere della pianta. Secondo altri, invece, deriverebbe da “barrach”, termine celtico che significa “uomo coraggioso”, con riferimento ai suoi effetti stimolanti. Altri, ancora, ritengono che proverrebbe dal latino “burra”, cioè “stoffa grossolana e pelosa”, con riferimento ai peli del fusto e delle foglie, che rendono la pianta ispida. Terofita scaposa. Pianta annuale, di aspetto erbaceo ed alta fino a circa un metro. Tutta la pianta è ricoperta da lunghe setole bianche che la rendono ruvida al tatto. Il fusto, eretto, ascendente, poco ramificato, è spesso venato di rosso. Le foglie basali presentano lamina ovato-lanceolata, con nervatura rilevata. Il margine fogliare è dentato ed ondulato. Le foglie caulinari sono lanceolate, brevemente picciolate ed amplessicauli. I fiori, peduncolati e pentameri, sono riuniti in infiorescenze terminali e muniti di evidenti brattee. Hanno calice composto da 5 sepali stretti e lanceolati. La corolla, pentalobata, è generalmente azzurrognola, talora bianca. I 5 stami presentano antere di colore violetto. La pianta fiorisce da aprile a novembre. L’infiorescenza è una cima scorpioide. I frutti sono tetracheni oblunghi, molto duri, di colore marrone chiaro.

DIFFUSIONE Questa pianta si può trovare ovunque, nel piano basale, tra i 100 e gli 800 metri.

USO GASTRONOMICO Le giovani foglie e i fiori sono ottimi in insalata, in frittate e in minestre. Come verdura cotta non ha nulla da invidiare agli spinaci, buona anche come farcitura per i ravioli. In Campania, viene cotta con i fagioli o con le lenticchie. Può essere aggiunta alle “salse verdi”. Inoltre, il gusto dal lieve sapore di cetriolo, la rende gradevole per insaporire il the freddo e le bevande alla frutta. I bellissimi fiori sono usati in pasticceria come coloranti naturali o per la produzione di canditi, possono anche essere congelati in cubetti di ghiaccio, per aggiungere un tocco di originalità alle bibite. Viene impiegata anche aggiunta in alcuni aceti balsamici. Nella medicina popolare vengono utilizzate, oltre alle foglie, anche le sommità fiorite. E’ ricca di minerali essenziali quali calcio e potassio, acido palmitico, tannini, e –soprattutto- di acidi grassi essenziali Omega-6. La borragine, aggiunta al vino, veniva usata dagli antichi romani per curare la malinconia e la tristezza e dai Celti per dare coraggio ai guerrieri per affrontare i nemici in battaglia. Gli antichi Greci invece la usavano per curare il mal di testa da sbronza. La borragine, come altri vegetali (soprattutto la soia) contiene fitoestrogeni, ritenuti in grado, se assunti in considerevoli quantità, di regolare la funzione galattopietica nelle puerpere, di ridurre i fastidiosi effetti della menopausa e di stimolare l’accrescimento del seno. Attenzione: La Borragine, da sempre usata sia in erboristeria (come diuretico e per contrastare l’invecchiamento e le infiammazioni cutanee) che in cucina, è stata recentemente proibita negli integratori alimentari per suoi possibili effetti tossici, dovuti alla presenza di alcaloidi pirrolizidinici, con attività epatotossica e genotossica, nelle sue parti aeree. Tali alcaloidi non sono però presenti nei semi e nell’olio da essi prodotto, per cui il loro uso è tuttora consentito.

RICETTE

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Sopra. In prima fila e da sinistra. Il prof. De Rosa insieme ai proff. Giambattista Chirico ed Antonio Saracino, docenti della Facoltà di Agraria di Portici (Università degli Studi di Napoli - Federico II). In seconda fila, da destra. Il prof. Nunzio Romano, direttore del Dipartimento di Ingegneria Agraria ed Agronomia del Territorio, presso la medesima facoltà. Dietro. L’ing. Luca Teodoro Pesapane, di Lauro (Av). Durante un sopralluogo in località Salmola, nel territorio di Avella (Av).

Sotto. A destra, il dott. Vincenzo Alaia, che nelle sue funzioni di Assessore Provinciale per l’Agricoltura e per le Attività produttive, nonché di Presidente dell’Associazione Territoriale Caccia della provincia di Avellino, ha reso possibile uno studio sulla fauna (e, conseguentemente, sulla flora da pabulazione e sugli habitat) nell’ambito del Piano Programmatico Poliennale dell’ATC di Avellino. Alla sua destra, il prof. Pellegrino De Rosa (che ha collaborato a tale studio grazie ad una convenzione con l’Università di Napoli) ed il prof. Luigi Esposto, dell’Università di Veterinaria di Napoli. In piedi, il prof. Antonio Zullo, del Dipartimento di Scienze Zootecniche ed Ispezione degli Alimenti, presso la Facoltà di Agraria di Portici, Università degli Studi di Napoli “Federico-II”. Nella sala: alcuni rappresentanti dei sindacati, dell’ATC e degli ambientalisti.

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Brassicaceae o Crucifereae Questa famiglia comprende circa 200 generi e 2.000 specie. Per lo più piante erbacee, perenni o annuali, con foglie sparse, senza stipole, la cui distribuzione riguarda soprattutto le regioni extratropicali dell’emisfero boreale. I fiori sono facilmente riconoscibili per la classica disposizione “a croce” dei quattro petali, da cui è derivato il termine di crucifereae. Essi sono costituiti da un calice formato da 4 sepali, una corolla di 4 petali alternati ai sepali, un androceo tetradinamo, costituito cioè da 4 stami lunghi e 2 corti, con presenza di nettàrii intrastaminali, e un ovario supero con 2 carpelli sincarpici (e probabilmente altri 2 sterili) dai cui margini, per proliferazione delle placente, si sviluppa una parete divisoria detta replum. I fiori sono prevalentemente attinomorfi, raramente zigomorfi. La tipica formula fiorale è: K 2+2, C 4, A 2+4, G 2. Il frutto può essere una siliqua (con lunghezza maggiore della larghezza: Brassica, Sinapis, ecc.) o una siliquetta (isodiametrica: Lobularia, Lunaria, ecc.). In entrambi i casi, si tratta di una capsula bicarpellare che si apre in due valve che lasciano scoperto il replum (di natura membranacea) ed i semi (in numero variabile). In alcuni casi, come nel gen. Raphanus, il frutto è costituito dalla siliqua lomentacea: sono presenti delle strozzature che a maturità determinano la frammentazione della capsula in articoli contenenti i semi. Questi, sprovvisti di endosperma, sono rivestiti da due tegumenti e contengono un embrione oleaginoso. L’impollinazione è prevalentemente entomogama, sebbene in alcuni casi possa essere sostituita da autogamia, operata dagli stami più corti. Le infiorescenze sono di tipo racemoso. Le foglie di alcune brassicacee sono caratterizzate dalla presenza di una caratteristica pruina cerosa, grigio azzurrognola. Molte brassicaceae sono coltivate per scopi alimentari, e se ne utilizzano a seconda dei casi, o le foglie oppure i rizomi o fittoni. Le principali specie coltivate sono: Brassica oleracea, che costituisce un gruppo da cui derivano molte cultivar (var. capitata, cavolfiore; var. sabauda, verza; var. italica, broccolo; var. gemmifera, cavoletto di Bruxelles, ecc..); Brassica rapa, rapa; Sinapis alba, senape bianca; Raphanus sativus, ravanello ed Eruca sativa, rucola. Altre vengono coltivate come piante ornamentali, come ad esempio Matthiola incana, con varietà dai fiori rossi, bianchi o violetti. Molte specie sono comuni infestanti dei campi coltivati (Capsella bursa-pastoris, Diplotaxis erucoides, Raphanus raphanistrum); altre sono ruderali, prediligendo macerie, bordi di strada, vecchi edifici; altre ancora vivono nell’ambiente rupicolo o sui vecchi muri, nei boschi mesofili (Alliaria petiolata, Arabis turrita) o negli ambienti umidi montani (Cardamine spp.). Nel territorio oggetto di studio sono presenti 55 specie appartenenti a questa famiglia.

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Una brassicacea degna di menzione è, l’Arabidopsis thaliana, “pianta modello” nel settore delle biotecnologie. Utilizzata da quasi un secolo nell’ingegneria genetica è così importante da essere stata la prima pianta ad avere avuto il genoma sequenziato. La dimensione ridotta, il tempo di crescita veloce e la piccola quantità di DNA, rendono questa pianta facilmente gestibile nell’analisi genetica. Ogni pianta impiega solo 6 settimane per crescere e produrre oltre Arabidopsis thaliana 5.000 semi. Di essa, agronomi e biologi possono manipolare i vari geni ed osservare le espressioni fenotipiche di tali manipolazioni dopo appena poche settimane. Inoltre, il genoma di questa pianta è insolitamente compatto. I suoi 115 milioni di coppie dei blocchi base di nucleotidi compongono 5 cromosomi e includono circa 26.000 geni. Ciò lo rende 30 volte più piccolo del genoma umano, e molte volte più piccolo dei genomi della maggior parte delle piante, incluse quelle comunemente coltivate. Una società danese di bio-tech ha modificato geneticamente la Arabidopsis thaliana, ottenendo una cultivar capace di rivelare la presenza di mine inesplose: i petali di questa pianta, infatti, diventano rossi quando la pianta entra in contatto con il biossido d’azoto, sostanza che evapora dalle mine sepolte nel sottosuolo. E pensare che, nel 1777, il botanico e farmacista britannico William Curtis aveva descritto l’Arabidopsis come una pianta «di nessuna particolare utilità né virtù». Ai fini gastronomici, infine, anche questa “pianta da laboratorio” può essere utilizzata sia bollita che saltata in padella.

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Alliaria Alliaria petiolata (Bieb.) o A. officinalis (Andrz.) Scheda n. 07

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RICONOSCIMENTO E’ una emicriptofita bienne, ovvero una specie a ciclo biennale con gemme poste a livello del terreno. Presenta un odore di aglio molto persistente (a tal punto che esso permane anche nel latte dei ruminanti che se ne cibino). Il nome del genere trae origine dall’odore e dal sapore di aglio della pianta e quello della specie dai lunghi piccioli delle sue foglie. Il fusto, di consistenza erbacea, può giungere fino ad 80 centimetri di altezza. Eretto, semplice o ramificato solo in alto, rigido, cilindrico, liscio e leggermente pubescente solo alla parte basale. Le foglie sono poste in posizione alterna e si presentano rugose e a lamina intera. Sono glabre (prive di peli) nella pagina superiore e con solo pochi peli in quella inferiore. Se stropicciate emanano un forte odore di aglio. Quelle inferiori, delle dimensioni fino ad 8 centimetri, sono munite di un lungo picciolo con lamina cuoriforme-reniforme oppure ovata-triangolare e bordo crenato. Seccano dopo la fioritura. Le foglie superiori, con picciolo più breve, hanno forma romboidale-appuntita e con crenatura più accentuata. Sono, inoltre, molto più grandi, potendo giungere fino a 15 centimetri. I fiori sono portati in racemi terminali. Presentano la tipica struttura delle crucifere (4 sepali verdastri, 4 petali bianchi, 6 stami e stilo molto corto). Sono portati in un’infiorescenza racemosa-corimbosa. Il frutto è una siliqua tetragonale deiscente. Fiorisce in Aprile, Maggio. L’impollinazione è entomofila.

DIFFUSIONE Presente in tutto l’areale nei boschi di faggio e nelle boscaglie mesofile, tra i 700 ed i 1.500 metri di altitudine (es. Piana di Spina, Vallone Sorroncello, Monti di Avella, ecc..).

USO GASTRONOMICO Se ne utilizzano soprattutto le foglie, in sostituzione dell’aglio, rispetto al quale esse sono più delicate e digeribili. Vengono adoperate soprattutto nelle insalate, nelle minestre e nella preparazione di saporiti ripieni. In Gran Bretagna le foglie vengono usate per insaporire i sandwich. Anche i fiori possono essere utilizzati in frittate, focacce e pizzette “agliate”. I semi, che contengono un olio essenziale simile a quello della senape, vengono utilizzati per insaporire varie vivande e gli antipasti.

RICETTE

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Brassiche spontanee e foraggere Brassica spp. Scheda n. 08

Ravizzone

Brassica fruticolosa

(Brassica rapa o campestris)

“Broccoli di rapa”

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO La Brassica fruticolosa è una brassicacea selvatica un tempo molto apprezzata dalle popolazioni locali, dalle quali è conosciuta con il nome di “cavuliciello”. “Brassica” è il nome con cui i Latini indicavano il Cavolo (Brassica oleracea L.), derivante dal celtico bresic (o brassic) che ha lo stesso significato. Il termine “fruticolosa” deriva da frutex, -icis, con riferimento allo aspetto arbustivo della pianta. Specie annuale, raramente bienne, suffruticosa (erbacea ma con fusto leggermente sclerificato alla base ed aspetto vagamente “Broccoli di rapa” arbustivo), alta fino a circa 70 centimetri. Come forma biologica corrisponde quindi ad una terofita scaposa. Le foglie basali sono disposte in una fitta rosetta e sono ricoperte da una tenue pruina cerosa di colore verde-glauco. Sono lunghe 5-12 cm, lirate, con lobo apicale intero o profondamente inciso e 24 coppie di segmenti laterali più piccoli. Le foglie caulinari sono, invece, ridotte o quasi assenti. I fiori, tetrameri, dialipetali, presentano 4 sepali violacei, 4 petali giallo-limone e 6 stami, e sono riuniti in infiorescenze a racemo. Il frutto è una siliqua, cioè una capsula stretta e allungata, che ricorda vagamente i baccelli delle Leguminose. I semi sono attaccati a una membrana interna. Questa pianta è molto somigliante al Raphanus raphanistrum, che però presenta le foglie più ruvide. Altre brassicacee selvatiche sono presenti nella flora locale, tra queste va menzionata la Brassica rapa o Brassica campestris (vedi figura sopra), facilmente riconoscibili e tranquillamente commestibili.

DIFFUSIONE E’ presente nei terreni coltivi ed incolti della fascia basale, tra i 100 e i 600 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO Si utilizzano i giovani getti e le tenere foglie delle piante adulte, oppure l’intera piantina da poco germinata. Le parti commestibili devono essere cotte in abbondante acqua, quindi strizzate per eliminare l’acqua di cottura e poi condite con l’olio di oliva locale. L’uso più tipico è, tuttavia, o come contorno alla salsiccia paesana cotta alla brace o fritti in padella (friarielli). Questa verdura, contenente un eteroside sulfonato, ha un gusto inconfondibile, leggermente amarognolo ma molto apprezzato dai buongustai.

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Cascellore comune o Falsa rucola Bunias erucago (L.) o Erucago campestris (Desv.) Scheda n. 09

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: falsa rucola, cascellore. Il nome del genere deriva dal greco bounias, con il quale si indicava una sorta di rapa provvista di lunghi peli, oppure da buonòs = collina, per indicare l’habitat tipico di questa pianta. Il secondo termine sta ad indicare una certa somiglianza morfologica con la Rucola (Eruca sativa). E’ una pianta erbacea annuale, leggermente pubescente, che può raggiungere anche un’altezza di 80 centimetri. Presenta una rosetta di foglie basali, pennatosette, con lembo profondamente inciso in lobi triangolari e a margine irregolarmente dentato. All’inizio della primavera, dal centro della rosetta si sviluppa un fusto eretto che si ramifica nella parte più alta, presentante foglie con lamina oblungo-spatolata e margine disordinatamente dentato. I fiori sono piccoli, tetrameri e con petali di colore giallo. I frutti sono piccole siliquette, lunghe all’incirca un centimetro, provviste di un becco centrale e quattro ali laterali irregolarmente dentate. Durante la maturazione dei frutti le foglie basali iniziano a disseccarsi e successivamente scompaiono.

DIFFUSIONE Rinvenibile nei luoghi erbosi e nei coltivi di tutto il Partenio.

USO GASTRONOMICO Le parti commestibili della pianta sono le foglie basali che si raccolgono durante l’inverno appena compaiono, poiché successivamente, quando si forma lo scapo fiorale, non sono più appetibili. Le foglie si utilizzano lessate e condite con l’olio dell’antico Clanis, dal tipico aroma fruttato, che si sposa bene con il loro sapore, simile a quello del “cavolicello” (Brassica fruticolosa) ma privo del suo retrogusto amarognolo.

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Campo Maggiore o Campo di Montevergine antico sito di localizzazione “neviere” (cfr. Benedetta Napolitano - La via dei mestieri).

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Borsa del pastore Capsella bursa-pastoris (L.) Scheda n. 10

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RICONOSCIMENTO Sinonimo: Thlaspi bursapastoris (L.) Nomi comuni: borsa del pastore, erba di Giuda. Il termine capsella deriva dal latino e significa cofanetto, piccola borsa, con riferimento alla forma dei frutti, simili alle vecchie bisacce dei pastori. La Capsella bursa-pastoris è una pianta erbacea, emicriptofita scaposa, annuale o biennale, con fusto eretto, esile, ramificato e coperto di corti peli, alta sino a 60 centimetri, con radice legnosa, a fittone e poco ramificata. Se viene stropicciata emana un forte odore di solforato. E’ una pianta a più cicli: i semi cadono appena nascono, per cui la si può trovare fiorita tutto l’anno. Le foglie hanno forma estremamente variabile: le basali sono lanceolate-lobate, dentate o intere e formano una rosetta; le cauline sono sessili, amplessicaulli, glabre. I fiori sono ermafroditi, riuniti in piccoli racemi terminali, di colore bianco, hanno calice composto da 4 sepali verdi, ovali, aperti. La corolla comprende 4 petali bianchi, opposti, più lunghi dei sepali del calice. I frutti sono siliquette appiattite, cuoriformi, contenenti semi oblunghi di colore marrone. I semi, quando si inumidiscono, si ricoprono di una sostanza vischiosa in grado di catturare ed uccidere piccoli insetti. Per questo motivo si pensa che questa pianta sia una specie protocarnivora. Non è considerata una vera pianta carnivora perché, sebbene sia stata dimostrata la produzione di enzimi digestivi e la capacità di assorbimento dei nutrienti derivati dalla dissoluzione delle prede, non si sa ancora se e quanto la pianta se ne avvantaggi dal punto di vista nutritivo.

DIFFUSIONE E’ una specie sinantropa e, come testimoniato dalla foto precedente, si trova facilmente ovunque. Originaria probabilmente, delle regioni mediterranee, si è diffusa con le coltivazioni del frumento, divenendo una delle infestanti più cosmopolite. Nell’areale oggetto di studio è presente negli ambienti ruderali, nitrifoili, coltivi, incolti e nelle radure dei boschi.

USO GASTRONOMICO Dai suoi semi, in tempo di carestia, si estraeva olio. Ad uso alimurgico viene utilizzata la rosetta basale di foglie, bollita e mangiata insieme ad altri erbaggi. Poiché il gusto della capsella non è tra i più eccelsi, viene usata, preferibilmente, insieme ad altre erbe rustiche che conferiscano maggiore gusto alla misticanza. Accompagna bene il radicchio selvatico e può servire da base vegetale per frittate estemporanee.

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Dentaria Cardamine bulbifera (L.) (Crantz.) Scheda n. 11 bulbillo

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Sinonimi: Dentaria bulbifera, Dentaria minore. Il nome del genere deriva dal termine greco cardamon, col quale veniva chiamato uno dei crescioni. Il nome della specie, “bulbifera”, deriva dal latino, col significato di generatrice di bulbi, per i suoi caratteristici bulbilli. E’ una pianta erbacea perenne, geofita rizomatosa, con radici secondarie che si diramano dal rizoma. La parte epigea è più o meno glabra, con fusto semplice ed eretto, arrossato e peloso alla base, alto fino a 50 centimetri. Le foglie cauline inferiori sono 5-pennatosette, poi ridotte verso l’alto fino a foglie semplici, lanceolate e denticolate. Presentano alle ascelle un bulbillo bruno o viola-nerastro. I fiori, posti alla sommità del fusto in infiorescenze a racemo, hanno corolla rosa-violacea con 4 petali lunghi 12-16 millimetri. Il frutto, che matura raramente, è una siliqua lunga 2-3,5 centimetri e larga 2,5 millimetri. Nonostante la difficoltà di maturazione del frutto, la pianta si riproduce agevolmente per via vegetativa, grazie ai bulbilli presenti alle ascelle delle foglie cauline superiori che, cadendo a terra a maturità, fanno nascere le nuove piante.

DIFFUSIONE Si rinviene soprattutto nei boschi di faggio, posti a quota più alta (1.000 - 1.598 metri) di tutto il Partenio.

USO GASTRONOMICO Di questa pianta vengono utilizzate sia le foglie che le radici, sia cotte che crude, apprezzatissime per il loro sapore di crescione. Il rizoma può sostituire la senape nella preparazione di gustose salse leggermente piccanti, impiegabili nella preparazione di tartine o come accompagnamento delle carni lessate. Le foglie vengono anche consumate con altre erbe crude in insalate primaverili oppure cotte per ripieni, torte o contorni.

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Faggeta

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Ruchette Diplotaxis tenuifolia (L.) e D. erucoides (L.) (DC) Scheda n. 12 Diplotaxis erucoides

Diplotaxis erucoides

Diplotaxis tenuifolia semina casalinga in vaso

Diplotaxis tenuifolia 46 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Il nome del genere trae origine dal greco diplos (duplice) e taxis (fila), per la disposizione dei semi in due file nella siliqua.

Diplotaxis tenuifolia RICONOSCIMENTO Sinonimi: Sisymbrium tenuifolium, Crucifera tenuifolia. Nome comune: ruchetta selvatica. E’ una pianta erbacea biennale, emicriptofita scaposa, alta 20-50 centimetri, con radice biancastra. Il fusto si presenta eretto, cilindrico, foglioso fino alla metà inferiore, glabro superiormente e leggermente pubescente alla base, ove diviene anche piuttosto sclerificato. Le foglie sono glabre, a contorno spatolato-pennato-partite, con 4 segmenti laterali e segmento apicale trilobo. Se strofinate emettono un odore fetido. L’ infiorescenza è a racemo, con peduncoli di 8-20 millimetri; i sepali sono giallo-verdastri, carenati ed i petali gialli spatolati delle dimensioni di 6x14 mm. Il frutto è una siliqua di 2x50 mm, con ginoforo e piccioletto. I semi sono disposti su due file in ciascuna delle due valve in cui il setto divide la siliqua.

DIFFUSIONE Presente nelle radure erbose e nei terreni incolti del piano basale di tutto l’areale oggetto di indagine. Tra i 100 ed i 600 metri di altitudine.

Diplotaxis erucoides Sinonimo: Brassica erucoides. Nomi volgari: ruchetta violacea, rucola selvatica. Pianta erbacea biennale, emicriptofita scaposa, alta 20-60 centimetri. E’ questa una specie assai variabile (polimorfa), sia nella forma delle foglie sia in altri caratteri botanici (pubescenza o glabrosità, colore dei petali, ecc.), al punto che alcuni autori l’hanno suddivisa in varietà o addirittura in più specie a sé stanti. Il fusto è verde, striato, eretto, foglioso, ramificato, con piccolissimi peli sparsi. La radice è fittonante. Le foglie sono generalmente ovali-allungate, con rara peluria. Quelle basali possono arrivare a misurare anche 15 centimetri di lunghezza. Sono pennatosette, pennatopartite o lirate, strette, con 3-5 segmenti per lato, ovato-triangolari o oblunghi, generalmente col segmento apicale più sviluppato. Quelle superiori sono prive di peduncolo (sessili), semplicemente crenate o leggermente dentate. I fiori, ermafroditi, attinomorfi, in numero di 4 o 5, sono raccolti in infiorescenze a racemo, all’apice dello scapo fiorale. Il calice è composto da 4 sepali eretto-patenti, più corti del peduncolo (3-4 mm), gli esterni cuculiformi e gli interni sacciformi, corolla con 4 petali bianchi con venature violacee. Tutto il fiore diventa violetto alla fine dell’antesi. Gli stami sono in numero di 6, di cui i 4 centrali più lunghi e i 2 laterali più corti. Il pistillo è centrale, con ovario supero e stimma verde. Il frutto, portato da un pedicello 2-3 volte più corto, è una siliqua lineare, ascendente, compressa, glabra o pubescente con corto rostro, contenente 40-80 semi delle dimensioni di circa 1 millimetro, disposti su due file.

DIFFUSIONE E’ presente nelle radure erbose e nei terreni incolti del piano basale di tutto l’areale oggetto di indagine. Tra i 100 ed i 400 metri slm. Si trova spesso frammista alla Diplotaxis viminea.

USO GASTRONOMICO Le tre specie sopra indicate sono considerate di buona qualità gastronomica. Vengono generalmente consumate lessate in abbondante acqua salata e “ripassate” in padella con olio, aglio e pomodoro.

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025 - 028 - 133

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Rucola Eruca sativa (Mill.) Scheda n. 13

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: rucola, ruchetta. Questa specie è normalmente coltivata, ma è rinvenibile anche nei terreni incolti, poiché sfugge facilmente alle coltivazioni, per disseminazione accidentale. Ha l’habitus vegetativo di pianta erbacea annua e la forma biologica di terofita scaposa. Cresce ovunque, ma di preferenza in terreni sciolti e sabbiosi e in esposizioni soleggiate. Ha altezza variabile tra i 20 e gli 80 centimetri. Il ciclo vegetativo di questa erba è molto breve: dal momento della semina, che si effettua a primavera direttamente in piena terra, al completamento del ciclo vitale, trascorrono spesso solo poche settimane. Il fusto è eretto, cilindrico e glabro. Le foglie, disposte con fillotassi alterna, sono a forma di lancia e profondamente pennatolobate. Le superiori sono più strette di quelle inferiori. Hanno un odore caratteristico e amarognolo ed un sapore decisamente acidulo, a causa dell’acido erucico in esse contenuto. I piccoli fiori (tetrametri, dialipetali, attinomorfi) sono formati da quattro petali solitamente bianchi o di colore paglierino e si innalzano su steli sottili. L’infiorescenza è un racemo allungato. Il frutto è costituito da una piccola siliqua sessile conica con corto becco.

DIFFUSIONE E’ presente nelle aree ruderali e nei pascoli aridi degradati, con maggiore frequenza tra i 100 ed i 300 metri di altitudine. Rinvenibile in tutto il comprensorio, indicativamente a Tuoro di Sasso, Monte Fellino, Vallone Sorroncello, ecc..

USO GASTRONOMICO Apprezzata fin dai tempi degli antichi Romani per il suo aroma speziato e piccante, la rucola è molto utilizzata nelle salse e nelle insalate. Con il suo caratteristico sapore arricchisce pizze e tramezzini. Viene anche consumata insieme ai formaggi molli. Oltre che cruda può essere consumata anche cotta a vapore. Ha proprietà vitaminizzanti, antiscorbutiche, aperitive e digestive. Gli antichi Romani, che ne consumavano anche i semi, le attribuivano qualità magiche e la utilizzavano nei filtri amorosi, ritenendola il più potente tra gli afrodisiaci. La sua coltivazione era spesso effettuata nei terreni che ospitavano le statue falliche, erette in onore di Priapo, dio della virilità. Discoride, celeberrimo medico greco, assicurava che mangiata cruda e in abbondanza “destava Venere”. Ovidio nella Ars Amatoria la chiamava “eruca salax” o “herba salax” cioè erba lussuriosa. E Columella riteneva che: “l’eruca eccita a Venere i mariti pigri”. Anche durante il Rinascimento erano noti gli effetti afrodisiaci della rucola e l’erborista Matthias de Lobel (XVI sec.) ci tramanda di certi monaci che, eccitati da un cordiale a base di rucola da essi prodotto, abbandonarono il voto di castità.

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Monti del Baianese

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Ramolaccio Raphanus raphanistrum (L.) Scheda n. 14

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: ravastrello, ravanello selvatico, ramolaccio selvatico. E’ una terofita scaposa ad habitus erbaceo annuo. Il primo termine del binomio è il nome con cui i Greci e i Latini chiamavano il ravanello coltivato (R. sativus L. var. sativus); esso si può considerare derivato dal greco raphys (rapa) oppure da raphis (rafide, ago), con riferimento alla forma allungata e sottile della radice. Il secondo ha uguale origine con l’aggiunta del suffisso “astrum” usato in latino con valore riduttivo, per indicare in questo caso la pianta selvatica. Il fusto si presenta ginocchiato, eretto, ascendente e molto ramoso. A sezione circolare e tormentoso, alto fino a 80 centimetri. Le foglie basali sono lirate, mentre le cauline sono intere e sub-picciolate. I fiori sono tetrametri, dialipetali, attinomorfi. Con sepali violacei o lilla chiari, petali gialli spatolati (14-16 mm); 6 stami, ovario supero bicarpellare. Il frutto è costituito da una siliqua lomentacea, con 1-11 ingrossamenti sovrapposti contenente i semi e lungo becco. Si può confondere con la Sinapis arvensis che presenta tuttavia una siliqua normale. In regione è presente anche la sottospecie R. raphanistrum L. subsp. raphanistrum, con petali bianchi venati di violetto e diametro della siliqua minore.

DIFFUSIONE Nel territorio oggetto di studio è presente la sottospecie landra, rinvenibile nelle aree semiruderali e sui suoli compatti, tra i 200 ed i 600 metri slm. Indicativamente: Monte Campimma, Vallone Sorroncello, Vallone di Quindici.

USO GASTRONOMICO Si raccolgono le cime, le foglie ed il colletto. Tutte le parti del ravanello selvatico hanno il tipico sapore piccante, molto apprezzato dagli estimatori della gastronomia rurale. Le cime e le foglie più tenere si preparano saltate in padella e costituiscono un classico contorno per le squisite salsicce locali. In alternativa, possono essere consumate lessate e condite con olio dell’antico Clanis. Il tozzo colletto si prepara tranciando la pianta alla radice e troncando le foglie verso la base; si ottiene così un “torsolo” che si consuma crudo insieme alle salsicce, come si usa fare con i ravanelli.

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Escursione didattica con gli Scouts di Avella, in un uliveto sito in località “Gesù e Maria” di Baiano (Av). A sinistra sotto: al centro, l’arch. Pasquale Maiella, di Avella (Av).

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Campanulaceae

Questa famiglia comprende piante ad habitus erbaceo, raramente arbustivo, presentanti canali laticiferi. Le specie erbacee sono solitamente perenni e spesso presentano ciuffi di foglie basali. La famiglia comprende anche specie xerofitiche e idrofite. Le foglie, provviste di idatodi, sono generalmente alternate, talora opposte oppure disposte a spirale. Picciolate o subsessili. Generalmente semplici, talora composte (in tal caso pennate). Stipolate. Il margine fogliare può essere crenato, seghettato o dentato. I fiori, pentamerici, sono portati o solitari o riuniti in infiorescenze a cime, racemi od ombrelle. Il perianzio è distinto in calice e corolla e generalmente è gamopetalo, talora dialipetalo (es. genere Jasione). La corolla è valvata, spesso campanulata, bilobata o regolare. Principalmente di colore blu o bianco o virante verso il giallo e il rosso. L’androceo è composto da 5 stami, saldati tra di loro o solo in un primo tempo od anche a maturità. L’ovario è per lo più trimero. Il frutto è una capsula. La formula fiorale tipica è: K(5), C(5), A(5), G (2-5) infero. Il genere più rappresentativo della famiglia è il gen. Campanula, comprendente circa 250 specie. Quelle coltivate come piante ornamentali si prestano per formare aiuole e bordure nei giardini, per la coltura in vaso sui terrazzi e, industrialmente, per la produzione di fiori recisi. Tra le specie annuali e biennali più utilizzate, vanno ricordate: la C. longystila a fiore blu-lilla cupo di origine caucasica; la C. ramosissima con grandi fiori colorati di violetto, celeste-lilla e bianco di origine europea e la C. medium con fiori variamente colorati. Le specie perenni, coltivate come annuali (non considerando, quindi, le piantine sfiorite) sono: la C. barbata spontanea, con fiori azzurro pallido; la C. thyrsoides dai fiori gialli e la C. isophylla nota volgarmente come “Stella d’Italia” (con grandi fiori bianchi o azzurri numerosissimi, che ricoprono il fogliame verde chiaro, e che raggiunge i 30 cm e può essere coltivata in vasi pensili per appartamenti o terrazze). La più diffusa specie perenne coltivata come biennale è la C. medium, molto decorativa con grandi fiori vistosi, e con varietà come la calycanthea dai colori rosa, viola, etc. Altre specie perenni sono la C. fragilis dai fiori bianchi e celesti; la C. persicaefolia, ; la C. portenschlagiana (sinonimo di C. muralis) con fiori colorati di azzurro brillante; la C. pyramidalis coltivabile in vaso, la C. carpatica, la C. fragilis e la C. alliariifolia per decorare giardini rocciosi. Nel territorio BaianeseLauretano sono state censite 15 entità botaniche appartenenti a questa famiglia.

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Raponzolo o Raperonzolo Campanula rapunculus (L.) Scheda n. 15

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RICONOSCIMENTO Sinonimi: Campanula elatior, Campanula esculenta, Campanula verruculosa. Nomi comuni: raperonzolo, raponzolo, campanula commestibile. Il nome del genere descrive la forma del fiore, mentre quello specifico la forma della radice fittonante, simile a una rapa (dal latino rapunculus, piccola rapa). E’ una pianta erbacea, bienne o perennante (terofita scaposa), con fittone ingrossato, lungo fino a 10 centimetri, bianco, carnoso e fusiforme. Il fusto è glabro o leggermente peloso, sottile, angoloso, eretto, semplice o ramificato in alto, scarsamente fogliato, alto fino ad un metro. La radice è ingrossata, carnosa, bianca e fusiforme. Le foglie basali sono disposte in rosette e presentano forma oblunga-obovata con lembo verde chiaro, ondulato e a margine denticolato. Quelle poste lungo il fusto sono rade, più sottili e sessili, cioè senza picciolo, e disposte con fillotassi alterna. I fiori, di colore variabile dal bianco al blu-lillà, sono riuniti in infiorescenze a grappolo o a pannocchia rada. Sono picciolati e con calice glabro, a 5 denti, lungo circa quanto la metà della corolla. Questa, gamopetala, è larga circa un terzo della lunghezza e presenta cinque lobi a lesina, poco allargati e lungamente lanceolati. Il gineceo è costituito da uno stilo semplice, peloso, con 3 stimmi. L’androceo è formato da 5 stami liberi, con filamento rigonfio alla base. Il frutto è una capsula deiscente contenente molti semi.

DIFFUSIONE Vegeta in ogni luogo, ma preferisce terreni calcarei e si sviluppa su terreni incolti, ai bordi di strade, nei campi, prati aridi e boschi radi, dai 200 ai 1.400 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO In cucina si usano sia le radici, dolciastre per il loro contenuto in inulina, sia le foglie basali, che arricchiscono col loro sapore amarognolo ma gradevole, misticanze, zuppe, minestre e torte. Poiché le radici non contengono amido ma inulina (la quale scindendosi produce levulosio anziché glucosio) possono essere consumate tranquillamente anche dai diabetici. La pianta si utilizza anche intera, dopo accurato lavaggio per eliminare la terra dalla radice.

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077 - 078 - 143

Area a verde attrezzato. Pineta del Fusaro. Avella. 55 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Sopra: il Vallone di Quindici (Av). Sotto: “Ciesco della rosa”, Monti di Avella (Av).

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Cannabaceae La famiglia delle Cannabaceae è affine a quella delle Moraceae, da cui si distingue soprattutto per il tipo di frutto. Comprende specie erbacee non laticifere, caratterizzate da foglie alterne o spiralate, con stipole libere. I fiori sono unisessuali, monoici o dioici, i maschili con perigonio e androceo pentameri, i femminili formati da 2 carpelli saldati in un ovario supero sormontato da 2 stili e 2 stimmi. La formula fiorale più ricorrente è: P 5, A 5, G (2). Il frutto è un achenio. L’impollinazione è anemogama. A questa famiglia appartengono 2 importanti specie coltivate, il luppolo, Humulus lupulus e la canapa (Cannabis sativa, nell’illustrazione a lato), oltre alla canapa indiana (Cannabis indica). Dalla prima si ricava il luppolino, usato nella fabbricazione della birra e come sostanza farmaceutica, che viene estratto dalle ghiandole delle brattee e del perigonio. La canapa, originaria dell’Asia meridionale, veniva coltivata per vari scopi. Il fusto fornisce una fibra tessile, mentre dai semi oleaginosi si estrae un olio e, infine, le resine. Recentemente in questa famiglia è stato incluso anche il genere Celtis, (Celtis australis occidentalis o spaccasassi), considerato da Cronquist appartenente alla famiglia delle Ulmaceae. Nella flora spontanea del Lauretano e del Baianese è presente il solo Humulus lupulus. In qualche rimboschimento è stato utilizzato il bagolaro o “spaccasassi” (Celtis australis occidentalis), per la sua caratteristica di ancorarsi tenacemente al substrato calcareo. La Cannabis sativa, un tempo diffusissima, non è più coltivata.

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L’antica coltivazione della canapa da fibra(*) La coltivazione della canapa da fibra1 era molto diffusa, sia nel Baianese che nel Vallo di Lauro, fino ai primi anni ’40 del secolo scorso2 . Questa coltura veniva seminata a spaglio, a febbraio, su un terreno ben lavorato e concimato con letame. A fine marzo, quando le plantule erano facilmente individuabili e già alte circa dieci centimetri, i contadini provvedevano ad eliminare le erbe infestanti, con la scerbatura a mano e con la sarchiatura, e a concimarle. Nella prima decade di luglio le piante di canapa da fibra raggiungevano un’altezza di 190-225 centimetri ed erano pronte per essere estirpate. Dopo essere state lasciate ad essiccare sul terreno per circa 5 o 6 giorni, venivano battute, al fine di spogliare il fusto dalle foglie ormai secche, e poi riunite in fasci o mannelle di 25-30 centimetri di diametro. Successivamente venivano asportate, con un’apposita ascia a lama larga, sia le radici che le cime dei fusti. I fasci venivano prima riuniti in covoni e poi caricati sui carri per essere trasportati alle “fusarelle” o ai “fusari”3, ove subivano una prima lavorazione: il processo di macerazione. I fusari erano specchi d’acqua o fosse (in tal caso chiamate, al femminile, fusare), posti generalmente lungo un corso d’acqua (Clanis, Regi Lagni, Lagno di Quindici) o in corrispondenza di sorgenti. Le dimensioni tipiche di una fusara potevano essere, ad esempio, di circa: 70 metri di lunghezza, 30 metri di larghezza, e 8 metri di profondtà. In essa venivano disposti i fasci di canapa formando delle pile o zattere di circa 6 per 7 per 4 metri: in tal modo potevano essere contenute due strati sovrapposti di zattere (ognuno alto quattro metri) disposti in cinque file (ognuna larga sei metri) e composta da 10 zattere (lunga ognuna 7 metri). Per tenere la canapa, che tendeva a galleggiare sotto il pelo dell’acqua, occorreva, poi, appesantirla e “affondarla” ponendovi sopra dei pesanti blocchi di pietra. La canapa veniva lasciata macerare per quindici giorni. Successivamente i fasci 1

La canapa da fibra (Cannabis sativa) era coltivata essenzialmente per la produzione di fibra tessile, inoltre dai suoi semi si poteva estrarre un olio usato nella fabbricazione di saponi e vernici che, se depurato, è adatto anche all’alimentazione umana. Non è infrequente riscontrare semi di cannabis nei miscugli venduti come mangime per uccelli. La canapa da fibra si distingue dalla canapa indiana (Cannabis indica) per una serie di particolari botanici tra i quali il più evidente è costituito dalla conformazione del fusto (cilindrico in indica ed angoloso in sativa). Dalle infiorescenze e dalle foglie dell’indica si ottiene la marijuana e dalla resina l’hascisc. Le sostanze stupefacenti (cannabinolo) sono comunque presenti in quantità minime, ma molto variabili, anche in sativa.

N.B. La coltivazione “tecnico-agraria” della canapa non è consentita. 2

Sicuramente la coltivazione della canapa era diffusa, nel territorio oggetto di studio, già dal XVIII secolo al punto che alcuni riferimenti, per così dire “tecnologici” erano entrati a far parte del linguaggio comune. Si riporta, a titolo di esempio, l’amichevole sfottò rivolto dal dott. Vincenzo Canonico a Padre Michele Trabucco, fondatore del Cenobio di San Pietro a Cesarano, quando per sottolineare la difficoltà dell’impresa di ampliamento del Cenobio, lo apostrofò dicendogli metaforicamente: “Padre mio … volete in luogo sì solitario far le fusare senz’acqua”. (Benedetta Napolitano e don Giovanni Picariello. San Pietro a Cesarano in Mugnano del Cardinale. Pag. 38/444). 3

Le località denominate “fusaro”, presenti nella toponomastica di molti paesi, stanno ad indicare gli antichi siti di macerazione della canapa.

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venivano portati in superficie, liberati dai legacci e messi ad asciugare appoggiati l’un l’altro “a capanna” (vedi foto a destra) per circa una settimana. Poi venivano nuovamente legati e trasportati in luogo asciutto. Qui i fasci o mannelle venivano lavorati dal “maciullatore”: questi con una mano teneva fermo sotto l’ascella un fascio di fusti di canapa e con l’altra sollevava una grossa trave sotto la quale infilava il fascio, maciullando con possenti colpi la parte legnosa dei fusti e liberando le fibre della canapa. Il groviglio quasi inestricabile della filaccia così ottenuta veniva quindi prima “cardato” (ovvero, battuto e sfilacciato su un attrezzo presentante varie file di chiodi a guisa di un erpice rovesciato), poi ripulito dai residui legnosi (stecche o “cannavucci”) e poi “pettinato” con un apposito attrezzo per eliminare la stoppa e liberare la fibra tessile. La canapa è stata una delle prime fibre ad essere utilizzata dall’uomo, già ottomila anni fa. Molte persone pensano, erroneamente, che la canapa sia un materiale ruvido e grezzo, in realtà ruvidezza e morbidezza dei tessuti da essa ottenuti dipendono dai procedimenti di tessitura e filatura. La canapa, come il lino e le altre fibre, può vantare diversi gradi di filatura, dalla corda grezza fino al tessuto più fine. Per questo, dopo una particolare lavorazione, la canapa può risultare più soffice del cotone. La fibra organica e naturale di canapa è leggera, super-resistente ed interamente biodegradabile. Grazie ad una accurata lavorazione artigianale (realizzata con macchine e su telaio a mano), il filo di canapa conserva intatte le sue caratteristiche naturali: infatti, grazie alla sua particolare struttura molecolare la canapa mantiene la temperatura ideale per chi la indossa: è quindi calda d’inverno e fresca d’estate. Inoltre, protegge dall’inquinamento elettromagnetico, dai raggi infrarossi e UVA, creando una barriera che assorbe fino al 95% delle irradiazioni nocive alla pelle, senza farle filtrare. Il tessuto di canapa, inoltre, assorbe l’umidità senza farla passare sulla pelle, resiste agli strappi ed effettua un micromassaggio sulla pelle, contribuendo alla regolare circolazione sanguigna. (*)

Estratto da “La via dei mestieri” di Benedetta Napolitano, don Giovanni Picariello e Pellegrino De Rosa, pubblicato in edizione ridotta ed economica (in b/n) dalla Comunità Montana “Vallo di Lauro e Baianese” (2007).

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Luppolo Humulus lupulus (L.) Scheda n. 16

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RICONOSCIMENTO Sinonimo: Cannabis lupulus. Il nome del genere deriva dal latino humus (terreno) con riferimento al portamento prostrato dei suoi fusti, mentre il nome specifico, lupulus, deriva presumibilmente da lupo, forse per l’habitat selvaggio e rupestre ove esso era maggiormente diffuso e che si riteneva abitato dai lupi. E’ una pianta erbacea perenne, dioica, ascrivibile come forma biologica alle fanerofite lianose (piante incapaci di reggersi da sole). E’ provvista di un grosso rizoma carnoso dal quale, in primavera, si sviluppano le nuove piantine. Si comporta, pertanto, come una “emicriptofita perenne”. I fusti erbacei, pubescenti, angolosi con sei strie, lunghi alcuni metri e incapaci di mantenersi eretti, si aggrappano con le piccole spine uncinate di cui sono rivestiti a qualsiasi sostegno loro vicino. Le foglie sono generalmente disposte in maniera opposta lungo il fusto e in maniera alterna sulle infiorescenze femminili. Hanno un lungo picciolo ricoperto di numerosi peli. Sono palmatolobate, con 3-5 lobi ovali, con apice acuto ed abbondantemente dentato. Le foglie terminali sono più semplici, cuoriformi, e non divise in lobi. I fiori delle piante maschili, portati in infiorescenze a pannocchia situate all’apice dei rami, sono formati da 5 petali e 5 stami. Quelli delle piante femminili sono posti, a coppie, all’ascella di brattee simili a piccole foglie, riunite in infiorescenze ad amento a forma di coni ovoidali (costituiti dal perigonio urciuolato e dall’ovario sormontato da due stimmi, pelosi ed allungati). I frutti sono acheni subrotondi, dal colore cinerino, avvolti da brattee con superficie tappezzata da numerose ghiandole secernenti una sostanza resinosa gialla.

DIFFUSIONE Pianta nitrofila, ecologicamente adattabile, molto comune lungo le siepi ed i boschi ripariali (Vallone Acquaserta, Vallone Sorroncello, Vallone di Quindici, ecc..). Nel territorio oggetto di indagine è rinvenibile con maggiore frequenza nei fruticeti e nelle siepi del piano basale, tra i 100 ed i 400 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO I giovani germogli primaverili sono commestibili e si possono utilizzare in risotti, frittate, minestre ecc., similmente agli asparagi. Tuttavia il luppolo è noto soprattutto per l’impiego delle sue infiorescenze femminili nella produzione della birra, alla quale conferisce l’inconfondibile aroma amaro, favorendone anche la conservazione. Per le stesse caratteristiche è usato talvolta in liquori amari e digestivi. Il luppolo, appartenente alla stessa famiglia della Cannabis è conosciuto sin dai tempi più remoti anche per i suoi effetti soporiferi e calmanti. E’ noto infatti che i lavoratori delle vecchie fabbriche di birra, trattando il luppolo, dopo lungo tempo accusavano sonnolenza e dovevano interrompere il lavoro periodicamente per evitare di cadere addormentati. Anche il luppolo, come altre erbe citate in questa pubblicazione (e, soprattutto, come la soia), contiene fitoestrogeni, per cui favorisce la galattopoiesi.

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Faggeta del Litto (Mugnano). In primo piano, il dott. Bianco Nicola della Comunità Montana “Vallo di Lauro e Baianese”

Castagneto ceduo (Taurano - AV). Il dott. Pellegrino De Rosa mentre esegue un rilievo geopedologico e botanico (sopra) e durante un rilievo dendro-auxometrico e fitosanitario (sotto). A sinistra: Napolitano Gerardo mentre mostra una pianta di fragola.

Sotto: uno scorcio di sottobosco di castagneto ceduo. In primo piano il “sigillo di Salomone” (Polygonatum multiflorum).

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Capparidaceae La famiglia delle Capparaceae o Capparidaceae comprende una trentina di generi di piante, sia erbacee che legnose, distribuite soprattutto nelle regioni subtropicali. Queste possiedono per lo più foglie semplici, alterne e spesso stipolate. I fiori, portati isolati o in racemi terminali, attinomorfi o zigomorfi, presentano perianzio costituito da 4 sepali e 4 petali, androceo con un numero di stami variabile da 6 a molti, gineceo con ovario supero formato da 2 o più carpelli e supportato da un ginoforo che determina l’allungamento all’infuori del fiore dopo la fecondazione e che, talvolta, può essere sostituito da un androginoforo che sposta anche gli stami. La formula fiorale è: K 4, C 4, A 6- 8, G 2. Il frutto è una capsula o una bacca contenente più semi. L’impollinazione è entomogama. Nell’ambito della famiglia sono comprese anche specie d’interesse ornamentale, medicinale e alimentare. L’unica specie presente nel territorio oggetto di studio è il cappero (Capparis spinosa).

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Cappero Capparis spinosa (L.) Scheda n. 17 Capperoni

Capperi

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RICONOSCIMENTO Il nome spinosa dato alla specie è dovuto alla presenza, alla base del picciolo fogliare, di due stipole trasformate in spine. Il cappero è una pianta erbacea dal portamento cespitoso, con fusto subito ramificato e rami lignificati solo nella parte basale, spesso molto lunghi, dapprima eretti, poi striscianti o ricadenti. Viene perciò considerata una camefita reptante. Questa pianta presenta un apparato radicale tenacissimo che si insinua facilmente nelle rocce, anche verticali, oppure tra le crepe dei vecchi muri di ville, castelli e monumenti antichi. Questa sua caratteristica la rende invisa alle soprintendenze archeologiche, poiché può risultare dannosa alle strutture murarie emerse dagli scavi archeologici. La tenacità del suo apparato radicale, unitamente alla sua resistenza ai climi siccitosi ed alla capacità di ancorarsi a substrati rocciosi, la rendono però meritevole (a parere degli autori) di più approfonditi studi per eventuali sue utilizzazioni nel settore dell’ingegneria naturalistica. Le foglie, glabre o finemente pelose, di consistenza carnosa, sono disposte con fillotassi alterna. Come già riferito, il picciolo è munito alla base di due spine che, nella varietà inermis, la più comune, sono di consistenza erbacea e cadono precocemente. La lamina è subrotonda e a margine intero. I fiori sono solitari, ascellari, lungamente peduncolati e molto vistosi. Calice e corolla sono tetrameri, composti rispettivamente da 4 sepali verdi e 4 petali bianchi. L’androceo è composto da numerosi stami rosso-violacei, provvisti di filamenti molto lunghi ed appariscenti. Il gineceo presenta ovario supero e stimma sessile. Il frutto è una capsula oblunga e verde, portata da un peduncolo di 2-3 centimetri, fusiforme e carnosa, con polpa di colore rosaceo, che a maturità si apre tramite una fessura longitudinale, liberando i numerosi semi reniformi, neri o giallastri, grandi 1-2 millimetri.

DIFFUSIONE E’ una pianta ruderale, rinvenibile sulle rupi e sulle pareti delle forre assolate o sulle mura di vecchi edifici, con maggiore frequenza tra i 100 ed i 300 metri di altitudine e sui siti con esposizione a Sud.

USO GASTRONOMICO ll cappero è una pianta dalle proprietà aromatiche e medicinali. Ai fini alimentari, si utilizzano sia i boccioli fiorali immaturi che i frutti. I boccioli fiorali, comunemente noti col nome di capperi, sono raccolti ancora chiusi e poi conservati sotto sale e sotto aceto per essere poi usati per aromatizzare salse, pasta, carne e pesce. I frutti, simili a piccoli cetrioli, chiamati capperoni o cucunci, si trovano in commercio conservati sott’olio, sotto sale o sotto aceto. Vengono utilizzate, in vario modo, al pari di qualsiasi altra verdura, anche le cime più tenere dei fusti. In erboristeria è utilizzata la corteccia della radice.

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Interni dello Studio di Progettazioni Agroambientali del prof. Pellegrino De Rosa. Alcune delle fasi di riconoscimento e classificazione delle specie alimurgiche rinvenute nel territorio oggetto di studio. Sotto, a sinistra, il dott. agronomo Dante Casoria e, a destra, il prof. biologo Francesco Colucci. Al centro e sopra, la giornalista Benedetta Napolitano (autrice).

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Caryophyllaceae Le famiglia delle Caryophyllaceae comprende entità vegetali diffuse soprattutto nelle zone temperate e fredde. Generalmente sono piante annue o perenni, soltanto di rado legnose alla base, con foglie opposte e con lembo intero, inserite ai nodi ingrossati del fusto e generalmente prive di stipole (che, però, sono presenti in alcuni generi). I fiori sono dialipetali, quasi sempre ermafroditi, raramente unisessuali (diclini), con calice gamosepalo (in tal caso percorso da nervature longitudinali) o dialisepalo, formato da 5 elementi, da una corolla di 5 petali sempre liberi. L’ androceo è formato da 2 verticilli, ciascuno di 5 stami, con posizione invertita: l’esterno epipetalo e l’interno episepalo. Il gineceo ha ovario supero, con un numero di carpelli variabile da 2 a 5, uniloculare o settato solo inferiormente, contenente da 1 a molti ovuli. In alcuni casi la struttura fiorale può discostarsi sensibilmente dallo schema ora descritto: ad esempio, il fiore può presentare soltanto 1 verticillo di stami e questi possono essere soltanto in numero di 3; in altri casi può mancare del tutto la corolla. Sono comunque sempre attinomorfi e spesso riuniti in cime bipare. La tipica formula fiorale è: * K (5), C 5, A 5+5, G 2-5 (infero). L’impollinazione è entomogama e avviene mediante ditteri nelle due sottofamiglie meno evolute e mediante lepidotteri in quella più evoluta e specializzata, che comprende specie provviste di corolle allungate e di coronule per limitare l’accesso ai nettàrii. Il frutto è costituito generalmente da una capsula polisperma sormontata da denti, in numero uguale o doppio al numero dei carpelli. In qualche caso (Herniaria, Scleranthus) il frutto è una noce monosperma. I semi, reniformi, contengono un embrione curvo a forma di ferro di cavallo. Si distinguono 3 sottofamiglie: le Alsinoideae, dal calice dialisepalo (Arenaria, Cerastium, Scleranthus); le Paronychioideae, primitive con fiori poco evidenti e foglie provviste di stipole (Herniaria, Paronychia, Spergula) e le Silenoideae, dal calice gamosepalo (Dianthus, Saponaria, Silene). Alcune Caryophillaceae, come il garofano (Dianthus caryophyllus) vengono coltivate a scopo ornamentale. Altre, come la saponaria (Saponaria officinalis) sono considerate piante officinali. Altre, ancora, possono avere utilizzazione alimurgica (Stellaria media, Silene vulgaris). Nel territorio Lauretano-Baianese sono state censite 46 specie appartenenti alla presente famiglia.

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Strigolo o Schioppettino Silene vulgaris (Moench) Scheda n. 18

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RICONOSCIMENTO Sinonimi: Silene infilata; Silene venosa; Silene cucubalus. Nomi comuni: strigoli, schioppetti, sonaglini. Il nome del genere deriva da Sileno, accompagnatore di Bacco, dal ventre rigonfio come il calice fiorale della pianta. Questa specie presenta una grande variabilità di caratteri: esistono numerose sottospecie, molto simili fra loro che si differenziano per il portamento e per le caratteristiche delle foglie, che possono essere glabre o pubescenti, dentellate o ciliate. La Silene vulgaris è una pianta erbacea perenne, emicriptofita scaposa. Generalmente glabra, di colore glauco, raggiunge i 70 centimetri di altezza ed è provvista di un robusto apparato radicale rizomatoso e base lignificata. Il fusto si presenta eretto, ramificato e dai nodi ingrossati “a ginocchio”. Le foglie sono lineari-lanceolate, le inferiori quasi sessili, le superiori prive di picciolo, opposte ai nodi, verde-glauco, di consistenza carnosa. I bianchi fiori sono ermafroditi, pentameri, con 5 petali liberi fortemente incisi, 10 stami, gineceo supero tricarpellare sincarpico. Il calice, giallastro, ha evidenti nervature violacee longitudinali e si presenta rigonfio come un palloncino. Esso persiste anche dopo l’appassimento dei petali formando un involucro parziale o completo attorno al frutto. I fiori sono riuniti in infiorescenze peduncolate e pendule, a cima bipara, composta da 3-9 fiori. Alla base del calice a palloncino spesso si osserva un foro; esso è praticato dai calabroni che non riuscendo a penetrare nel fiore dall’alto, praticano il buco per accedere più facilmente al nettare. I frutti sono capsule sferiche od ovoidali, deiscenti in alto, e contengono molti semi.

DIFFUSIONE Pianta sinantropa e nitrofila, è molto comune nelle zone ruderali ricche in azoto e tendenzialmente ghiaiose. E’ abbondante nei prati fertili concimati antropizzati ed è presente comunemente lungo le strade ed i sentieri. L’areale molto vasto fa ritenere ad alcuni autori che il geoelemento paleotemperato sia divenuto subcosmopolita. La Silene vulgaris è presente, nel territorio esaminato, con la subspecie vulgaris (sinonimo di Silene latifolia), rinvenibile ad altitudini comprese tra i 300 ed i 1.000 metri slm, e con la subspecie commutata, presente nelle radure e nei faggeti aperti, tra i 600 ed i 1.496 metri slm (Pietra Maula, Monti di Avella). Nell’areale esaminato sono presenti, poi, numerose altre specie appartenenti al gen. Silene (S. italica, S. parnassica, S. multicaulis, S. armeria, S. alba, S. pratensis, S. dioica, S. pendula, S. gallica).

USO GASTRONOMICO I germogli, raccolti prima della fioritura, rappresentano una tenera verdura, dal sapore dolce e delicato, che viene comunemente utilizzata nelle insalate. La Silene vulgaris viene, inoltre, impiegata per farcire saporite torte salate, nelle frittate, come condimento per pasta e nei risotti o come ripieno di gustosi ravioli.

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Centocchio Stellaria media (L.) (Vill.) Scheda n. 19 Stellaria neglecta

Stellaria media Stellaria media

Stellaria media

Stellaria media 70 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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RICONOSCIMENTO Sinonimo: Alsine media. Nomi comuni: centocchio comune, paperina, erba canina. Il nome del genere, Stellaria, è di origine latina e si riferisce all’aspetto stellato dei fiori. La Stellaria media è una tipica terofita (pianta annuale che si riproduce per seme) reptante (a portamento strisciante). Di aspetto erbaceo, presenta fusti fragili, talora di colore rossastro, abbondantemente ramificati e spesso radicanti ai nodi. Le radici sono molto sottili. Le foglie sono sessili, a lamina ovale, disposte con fillotassi opposta. I fiori, piccoli e bianchi, si chiudono durante la notte o quando sta per piovere. Hanno calice di 5 sepali liberi, corolla di 5 petali liberi e bilobi che, ad una osservazione superficiale, paiono essere dieci petali separati. I verdi sepali sono più sviluppati dei bianchi petali. I frutti sono capsule globose con numerosi semi. Ogni piantina arriva a produrre mediamente circa 10.000 semi, che rimangono vitali nel terreno fino ad 80 anni. La Stellaria media si riproduce quasi esclusivamente per seme ma, in terreni sufficientemente umidi, i suoi fusti emettono facilmente radici avventizie. La Stellaria neglecta, è caratterizzata dall’avere i petali di dimensioni maggiori o uguali dei sepali e divisi quasi fino alla base. I piccoli e candidi fiori presentano, inoltre, tre stili e dieci stami. Il fusto è cilindrico e glabro. Le foglie, ovali, presentano la lamina non eccessivamente stretta. Alle nostre latitudini fiorisce all’inizio della primavera, ed è comunissima nei prati. E’ nota, localmente, con il nome di «’mbruvuglina». La Stellaria memorum è pianta perenne (emicriptofita scaposa), alta 30 – 60 centimetri, con fusti cilindrici, prostrato-ascendenti. Le foglie basali sono picciolate, a lamina ovale (cuoriforme alla base) e lunghe circa un centimetro. Le foglie superiori sono a lamina triangolare-ovale e di maggiori dimensioni (fino a tre centimetri). I sepali sono grandi circa la metà dei petali ed i petali, di colore bianco, sono quasi completamente divisi in due. La Stellaria holostea è così chiamata per avere un fusto, tetragono e ruvido, caratterizzato da nodi radi ma molto accentuati (in greco: holos, intero, e osteon, osso; ovvero “dalle ossa intere”). Le foglie sono sottili e ruvide, a lamina lanceolata o lineare. Fiori grandi con lunghi peduncoli. I petali sono bilobi e separati solo nella loro metà distale.

DIFFUSIONE La Stellaria media, è una specie comunissima sia nelle boscaglie che negli ambienti antropizzati e nei prati di tutto il territorio. Con maggiore frequenza tra i 100 ed i 600 metri di altitudine. Oltre alla S. media sono presenti, nel territorio oggetto di studio, anche la S. memorum (nei faggeti di tutto il Partenio, tra i 900 ed i 1.400 m.), la S. neglecta (nelle boscaglie termofile rade e tra gli incolti aridi, tra i 100 ed i 600 metri di altitudine; es. Monte Fellino, Tuoro di Sasso, Campo San Giovanni, ecc..) e la S. holostea (nei boschi radi e nelle siepi, tra i 1.200 ed i 1.500 metri di altitudine; es. Ciesco Alto, Porca delle Pere, Monti di Avella, ecc..).

USO GASTRONOMICO Da secoli il “centocchio” è impiegato a scopo sia alimentare che curativo. E’ un’erba lenitiva, rinfrescante, espettorante, astringente, diuretica, lassativa, un po’ salata. E’ suggerita per attenuare asma e bronchiti, in quanto riduce la densità del muco nei polmoni, oppure come coadiuvante nella lotta all’obesità. Favorisce la diuresi ed è un buon integratore di vitamina C. Sia le giovani piantine che i suoi semi costituiscono un ottimo becchime per i vari pennuti da cortile. Anche i conigli la apprezzano in maniera particolare. In cucina il “centocchio” insaporisce le insalate e le misticanze, oppure si cuoce come verdura.

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Pellegrino De Rosa - Benedetta Napolitano - don Giovanni Picariello

La signora Sgambati Giovanna, madre del prof. Francesco Colucci (con lei nelle foto sopra), durante la raccolta e l’ identificazione di alcune erbe alimurgiche. La signora Giovanna ha rappresentato, per questa pubblicazione, una preziosissima fonte di informazioni etnobotaniche e gastronomiche. Sotto, a destra: la fase di classificazione eseguita presso lo Studio di Progettazioni Agroambientali del dott. De Rosa.

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Chenopodiaceae La famiglia delle Chenopodiaceae comprende numerose specie erbacee, annue o perenni, talvolta arbustive, alcune delle quali capaci di vivere anche su suoli con elevate concentrazioni saline (specie alofite) o di nitrati (specie nitrofile). L’apparato vegetativo è spesso succulento. Le foglie sono, generalmente, opposte o alterne. I fiori, unisessuali o ermafroditi, hanno una struttura molto semplice: il perigonio è costituito per lo più da 5 tepali sepaloidi; gli stami sono in numero di 1-5; il gineceo è formato da 2 (3-5) carpelli, saldati in un ovario supero uniloculare provvisto di un unico ovulo e sormontato da uno stimma bifido. La formula fiorale più ricorrente è: P 5, A 5, G (2). I fiori, piccoli e verdastri, sono solitamente raccolti in glomeruli portati in infiorescenze cimose. Il frutto è un achenio. Le Chenopodiaceae sono piante originarie di ambienti steppici, come i deserti salati dell’Asia centrale. In Campania sono molto diffuse, oltre che nell’entroterra, anche lungo la costa, dove sono presenti anche varie specie dei generi Salsola e Salicornia. A questa famiglia appartengono importanti piante alimentari. Tra esse ricordiamo: 1. Il Chenopodium quinoa, che viene coltivato da oltre 5.000 anni sugli altipiani pietrosi delle Ande, ad altitudini comprese tra 3.800 e 4.200 metri; 2. Lo spinacio (Spinacia oleracea), tra le colture orticole più diffuse; 3. La bietola comune (Beta vulgaris), coltivata in numerose cultivar, tra cui la cv. altissima (barbabietola da zucchero), dalla cui grossa radice fittonante si estrae lo zucchero; la cv. cicla (bietola da coste), diagramma fiorale Chenopodium con le foglie provviste di una grossa nervatura mediana bianca, utilizzata come verdura; la cv. rapa (rapa rossa), di cui si consuma, cotta, la grossa radice dal colore rosso vinaccia. Nella flora spontanea frutto presente nel territorio Baianese e Lauretano le Chenopodiaceae sono rappresentate dai soli generi Atriplex, Beta e Chenopodium. Molte di queste sono fiore specie sinantropiche, cioè diffuse nelle campagne ed in prossimità degli insediamenti umani, dove hanno saputo sfruttare le elevate concentrazioni di sostanze azotate presenti nel terreno.

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Erba corregiola Atriplex patula (L.) Scheda n. 20

femminili

maschili

denti

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RICONOSCIMENTO Il nome atriplex dei romani deriva dal greco atraphaxis, non nutriente (da trefo, nutrire), per indicare lo scarso valore nutritivo di questa pianta, se rapportato a quello delle specie più succulente appartenenti alla stessa famiglia botanica (spinacio e bieta). Il termine patula, derivante dal latino patulus, largo, si riferisce forse al caratteristico slargamento (denti) alla base delle foglie inferiori. Questa specie, insieme alla più nota Atriplex hortensis, è stata utilizzata a scopo alimentare fin dalla preistoria e conobbe una grande diffusione anche nel medioevo e nell’epoca rinascimentale. E’ una terofita scaposa, cioè una pianta annua con asse fiorale allungato e, nel caso specifico, ramificato e foglioso. Di consistenza erbacea, può raggiungere l’altezza di 120 centimetri. Il portamento è piramidale ed il fusto è striato e molto ramificato sin dalla base. Le foglie superiori sono intere e lanceolate, mentre quelle inferiori presentano due slargature laterali a losanga (denti). In estate gli steli si allungano ramificandosi e producono, nei mesi di luglio-settembre, infiorescenze a spiga ramificata e fogliosa alla sommità del fusto e dei rami. Talora viene confusa con il Chenopodium Album, ma senza alcun incoveniente, poiché entrambe le specie sono commestibili e di gradevole gusto. Si distingue però facilmente poiché, a differenza del Chenopodium, che presenta fiori ermafroditi, essa porta sia fiori maschili che femminili. Quelli maschili sono racchiusi dalle brattee (lunghe circa 1,3 centimetri) mentre quelli femminili sono privi di sepali e petali e sono racchiusi in due bratteole verdi simili a foglie. Pertanto il frutto (achenio), a maturazione, risulta racchiuso proprio da queste due bratteole. Gli individui osservati nel territorio oggetto di studio portano brattee molto più lunghe dell’achenio e fornite di grosse verruche sul dorso, per cui appartengono, probabilmente, alla sottospecie macrodira.

DIFFUSIONE L’ Atriplex patula è presente in tutto il territorio dai 300 ai 1.300 metri di altitudine, con maggiore frequenza nei luoghi umidi (Vallone Sorroncello, Monti di Avella, Monti di Quindici). E’ una comune infestante dei campi coltivati, purché umidi e ricchi di nitrati.

USO GASTRONOMICO Di questa pianta si usano, allo stesso modo della più famosa Atriplex hortensis e del Chenopodium album, le foglie ed i germogli più teneri, come succedanei degli spinaci, ai quali molti la preferiscono. Si consiglia di avere l’accortezza di utilizzare esclusivamente le foglie più tenere, scartando il fusto, di consistenza fibrosa e dal sapore più amarognolo.

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Bieta Beta vulgaris (L.) Scheda n. 21

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO La bieta (Beta vulgaris) fà la sua comparsa già in alcuni scritti greci risalenti al 420 a.C., col nome di beta. Anche gli antichi romani la utilizzavano abitualmente: è noto, ad esempio, che Marziale e Apicio discutevano sui diversi modi di cucinarla. Antichi manoscritti confermano la sua coltivazione in Italia già dal XV secolo, soprattutto nei monasteri e nelle grance. La specie Beta vulgaris è la capostipite di un gran numero di sottospecie e cultivar. La bieta “da foglia” più diffusa è la sottospecie maritima, presente prevalentemente lungo le coste ma rinvenibile anche nell’entroterra (soprattutto su suoli sciolti, sedimentari e non vulcanici). Le rare biete rinvenibili tutt’ora nel territorio oggetto di studio derivano, presumibilmente, tutte da cultivar sfuggite alla coltivazione, per disseminazione involontaria. Tra le varietà coltivate vanno ricordate la c.v. rubra (barbabietola rossa, coltivata per la radice ingrossata), la c.v. cycla (bietola da costa, di cui si utilizzano la venatura centrale ed il picciolo) e la varietà macrorhiza, caratterizzata da grandi radici (tonde, allungate o a fiasco), coltivata come foraggio per il bestiame, e commestibile, se bollita, anche dagli esseri umani. Ma la più importante di tutte è, sicuramente, la Beta vulgaris ssp. altissima, comunemente nota come “barbabietola da zucchero”: bollendone le radici, nel XVII secolo, l’agronomo francese Olivier de Serres ne estrasse un “succo simile allo sciroppo di zucchero”. Successivamente, nel 1.811, se ne estrassero i primi cristalli di “zucchero bianco” (saccarosio) e si diede finalmente il via all’industria saccarifera. La bieta è una pianta erbacea perenne, alta alcune decine di centimetri, con radice non ingrossata, provvista di un cespo fogliare quasi appressato al suolo, costituito da foglie con lamina spatolata e mediamente carnosa, lungamente picciolate e di colore verde intenso (lucido nella ssp. maritima). I piccioli si presentano sovente colorati in rosso alla base per la presenza di betacianina. Il cespo basale, a fine primavera, emette un fusto eretto e ramoso, talora di colorazione rossastra, che porta un’infiorescenza con glomeruli di 1-3(5) fiori piccoli e verdastri. Il frutto è costituito da piccole e dure noci. (La barbabietola da zucchero è una pianta alta oltre 1,5 metri, a ciclo biennale: nel primo anno nella radice si accumulano riserve sotto forma di zucchero, nel secondo si sviluppa lo scapo fiorale. In coltura, per poter estrarre lo zucchero, la pianta viene estirpata al completamento dello sviluppo del primo anno).

DIFFUSIONE Le diverse varietà della specie Beta vulgaris possono rinvenirsi nelle zone più antropizzate di tutto il territorio oggetto di studio. Prevalentemente sulle colline del Baianese (Campimma, Litto, Tora, ecc..) e del Lauretano, in passato intensivamente coltivate.

USO GASTRONOMICO Della bieta si utilizzano le cime dei nuovi getti e le foglie tenere. Il prelievo di queste parti va fatto in primavera, periodo in cui la pianta non viene danneggiata perché è pronta a rimettere i germogli. Se invece è fiorito, l‘erbaggio non è più buono da mangiare. Delle altre varietà menzionate è possibile mangiare anche le radici.

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Farinaccio Chenopodium album (L.) Scheda n. 22

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Nomi comuni: farinaccio, spinacio selvatico. ll nome del genere (Chenopodium), proviene dal greco e significa, letteralmente “piede di papera”, per la forma delle lamine fogliari. E’ una pianta erbacea annuale (terofita scaposa) che può superare il metro di altezza. Ha la radice fittonante e fusto eretto, angoloso, fibroso, ramificato, con portamento di piramide conica. Le foglie sono alterne, romboidali, leggermente dentate, lunghe 3 - 6 centimetri, di color verde pallido tendente al biancastro. Quelle degli apici delle piante più giovani sembrano spruzzate di una polvere farinosa. I fiori, bianco verdastri, sono molto piccoli e insignificanti, radunati in infiorescenze globose (a glomerulo) a loro volta raccolte in cime afille. Questa pianta ha una certa somiglianza, nella sua fase giovanile, con il velenoso Solanum nigra (ma quest’ultimo presenta il fusto a sezione circolare e non angoloso, e fiori bianchi con stami gialli).

DIFFUSIONE Il Chenopodium album si rinviene comunemente negli ambienti ruderali e negli incolti della fascia basale di tutto il territorio oggetto di indagine, con maggiore frequenza tra i 100 ed i 600 metri di altitudine. Sono presenti anche le specie: - Chenopodium ambrosioides o “farinello aromatico”, dalle foglie più appuntite e dentate, (presente nelle aree ruderali del piano basale, tra i 100 ed i 300 metri di altitudine); - Chenopodium polyspermum, dal portamento più lasso e proiettato verso l’alto (presente sia tra i coltivi che tra gli incolti, tra i 600 ed i 1.000 metri di altitudine. Ad es. a Costa di Prata, Madonna della neve, ecc..); - Chenopodium hybridum (negli ambienti ruderali e coltivi del piano basale, tra i 100 ed i 400 metri); - Chenopodium murale (nelle aree antropizzate di tutto il territorio, tra i 100 ed i 600 metri di altitudine).

USO GASTRONOMICO Il chenopodio, come la gran parte delle specie trattate in questa pubblicazione, è una tipica specie sinantropa, diffusissima intorno agli insediamenti umani, ed archeofita (pianta spontanea diffusa con le colture in Europa fin dall’antichità). Infatti, i resti di questa pianta sono stati trovati nei villaggi neolitici di tutta Europa. Inoltre, è stato accertato che i suoi semi facevano parte dell’ultimo pasto rituale che venne consumato dall’uomo di Tollund (cioè l’uomo preistorico il cui cadavere, perfettamente conservato è stato ritrovato, incluso il contenuto dello stomaco, in una torbiera danese nel 1950). Gli Indiani nordamericani ne mangiavano i semi maturi, che venivano usati anche per fare il pane. Il chenopodio è un’erba alimurgica di notevole interesse, poiché è molto diffusa, è presente per gran parte dei mesi dell’anno ed ha un ottimo gusto. In molte parti d’Italia il chenopodio è conosciuto, oltre che con il nome di farinaccio, anche con quello di “spinacio selvatico”. Non è un mistero che alcuni buongustai lo preferiscano al vero spinacio, il cui sapore “mucillaginoso” non è a tutti gradito. Dal punto di vista pratico, però, il chenopodio presenta l’inconveniente di essere un pò più fastidioso da preparare poiché, soprattutto se si ha a che fare con piante adulte, conviene adoperare solo la parte apicale e le foglie più giovani: occorre perciò avere la pazienza di selezionare solo le parti più tenere. Le foglie sono molto buone anche crude, in insalata, e possono essere mangiate anche insieme alle infiorescenze o ai semi. Come già detto, i nuovi germogli si possono sempre raccogliere, anche dalla cima di una pianta matura, e con essi anche le foglie più tenere poste lungo il fusto. L’unica parte che può risultare un po’ indigesta, poiché fibrosa, è il gambo. Generalmente la pianta viene utilizzata cotta (bollita o fritta) e come ripieno per pizze salate.

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Buon Enrico Chenopodium bonus-Henricus (L.) Scheda n. 23

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Sinonimi: Chenopodium esculentum, Chenopodium spinaciifolium. Nomi comuni: buon Enrico, spinacio selvatico. E’ il parente nobile del Chenopodium album. Come già accennato, il nome Chenopodium deriva dal greco chen (oca) e podion (piede) col significato di “piede d’oca”, con allusione alla forma delle foglie, mentre Enrico è il dio della casa, in riferimento alla crescita della pianta nei pressi delle abitazioni. Si potrebbe riferire anche alla leggenda, diffusa soprattutto nel nord Italia, secondo la quale un certo Enrico, affetto da lebbra, sarebbe stato guarito da questa pianta, ricca di vitamine e sali minerali. Ma potrebbe essere anche dedicato in onore di Enrico IV, protettore dei botanici, per il successo che questa pianta ebbe durante il suo regno. E’ una pianta erbacea annuale che si riproduce per seme (terofita), ma che può ricacciare anche dallo spesso rizoma (emicriptofita). Il fusto è cavo, angoloso e ramificato, di colore verde, rossiccio o biondo. Tutta la pianta ha un aspetto farinoso e colloso dovuto alla presenza di numerosi peli vescicolosi. Le foglie basali sono provviste di un lungo picciolo, con lamina cuneiforme e margine intero ma leggermente ondulato. Lunghe da 1 a 12 centimetri, larghe 0,5-8 centimetri. Da 1 a 5 volte più lunghe che larghe. Di colore verde scuro nella pagina superiore e chiare e farinose in quella inferiore. I piccoli fiori, pentameri, bruno verdastri, sono raggruppati in glomeruli contigui raccolti in una infiorescenza a spiga, posta all’apice del fusto e a volte reflessa.

DIFFUSIONE Questa pianta è diffusa nei pascoli alti della catena del Partenio. E’ possibile rinvenirla, sporadicamente, anche nelle località Campo San Giovanni e Campo Maggiore, soprattutto in zone frequentate da ruminanti, poiché essa è una pianta nitrofila che si avvantaggia dell’azione fertilizzante del letame e, presumibilmente, perché i suoi semi germinano più facilmente dopo aver attraversato il tubo digerente degli animali. Secondo alcune segnalazioni, non confermate, sarebbe presente anche nella Piana di Prata, nel Lauretano.

USO GASTRONOMICO Il “buon Enrico” è tra le più ricercate piante selvatiche commestibili per il gusto simile a quello degli spinaci, ma più intenso. E’ una pianta rimineralizzante e vitaminizzante: contiene buoni livelli di ferro, calcio e vitamine (A e C). Inoltre ha azione vermifuga, per la presenza di ascaridolo. Per il suo contenuto in acido ossalico e nitrati va consumata in porzioni moderate dai sofferenti di artite, di reumatismi o di patologie renali. Le foglie giovani possono essere consumate anche crude, condite con olio, pepe, succo di limone e con aggiunta di gherigli di noci. In alternativa possono essere lessate brevemente in acqua salata, ed usate per minestre e ripieni. Sono ottime anche nelle frittate. Infine, i getti fiorali possono essere consumati come gli asparagi.

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Compositae (Asteraceae e Cichoriaceae) Le Compositae sono comprese nell’ordine delle Asterales (con circa 1.000 generi e 19.000 specie, diffuse in tutte le latitudini). Esse sono caratterizzate dalla tipica infiorescenza a capolino [1] (struttura altamente differenziata con funzione vessillare, formata da un ricettacolo basale [2] sul quale si inseriscono i minuscoli fiori, detti “flosculi” [3], circondato da foglie involucrali sterili dette squame). Tale infiorescenza viene generalmente considerata, dai non botanici, come un vero e proprio fiore. Il ricettacolo può essere nudo o provvisto di pagliette, che rappresentano i resti di brattee poste alla base dei fiori. Questi ultimi, ermafroditi o raramente unisessuali, presentano un calice ridottissimo che costituisce un collaretto continuo o lobato o, talvolta, del tutto mancante. Dopo la fecondazione, da questo verticillo fiorale si origina spesso una struttura denominata pappo [4], la cui funzione è quella di assicurare la disseminazione anemocora (operata dal vento). Grazie al pappo i semi possono essere trasportati dal vento e percorrere distanze anche di alcuni chilometri dalla pianta madre. La corolla, gamopetala, può essere di 3 tipi fondamentali: a) ligulata, zigomorfa, con una porzione inferiore tubulosa ed una superiore assimilabile nella forma ad un prolungamento nastriforme detto ligula, spesso sovrastato da 5 o più dentelli, raramente 3; b) tubulosa, attinomorfa, originata dalla fusione di 5 petali e costituita da un lungo tubo sovrastato da 5 piccoli dentelli; c) bilabiata, zigomorfa, con tubo corollino terminato da 2 distinte labbra, l’inferiore originatasi dalla fusione di 2 petali e la superiore di 3. L’androceo è costituito da 5 stami alternipetali con filamenti per lo più liberi e antere saldate in un manicotto che circonda lo stilo. Il gineceo è formato da 2 carpelli concrescenti, che formano un ovario infero uniloculare, provvisto di un solo ovulo, e di uno stilo fornito di peli collettori che termina in uno stimma profondamente bifido. La formula fiorale dell’ordine è: K 0, C (5), A (5), G 2 infero. Il frutto è una cipsela (achenio delle asteracee derivante da un ovario infero), spesso sormontata da un pappo sericeo. Le Asterales si suddividono in 2 famiglie, da alcuni considerate invece due sottofamiglie dell’unica famiglia delle Compositae: Asteraceae (o Compositae Tubuliflorae; es. Carduus, Centaurea e Chrysanthemum) e Cichoriaceae (o Compositae Liguliflorae; es. Hieracium, Hypochoeris e Sonchus). La principale differenza tra Asteraceae e Cichoraceae è rappresentata dalla diversa struttura dei capolini, in particolare dai tipi di fiori che li compongono. Nelle Asteraceae, i capolini sono costituiti o da soli fiori tubulosi o da fiori tubulosi al centro (disco) e ligulati alla periferia (raggi); inoltre, questi ultimi sono generalmente unisessuali o sterili. Nelle Cichoraceae, invece, sono presenti i soli fiori ligulati. L’impollinazione è di norma entomogama e ciò spiega la presenza del capolino. Infatti, anche la visita di un solo pronubo garantisce alla pianta la fecondazione di tutti i fiori che compongono l’infiorescenza. Le Asteraceae hanno grande importanza dal punto di vista economico. Alcune sono coltivate a scopo alimentare, come il carciofo (Cynara scolymus), di cui si utilizzano soprattutto le brattee involucrali e il ricettacolo, e il girasole (Heliantus annuus), coltivato per i semi oleaginosi. Altre

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per scopi ornamentali (Ageratum, Argyranthemum, Aster, Calendula, Chrysanthemum, Dahlia, Gerbera, Senecio, Zinnia ecc.) con numerose cultivar ottenute tramite la selezione artificiale. Altre, ancora, utilizzate come piante officinali (Achillea millefolium, Artemisia vulgaris, Centaurea cyanus, Matricaria Chamomilla ecc..). Altre, infine, utilizzabili ai fini alimurgici, ovvero come piante selvatiche commestibili. Le Cichoriaceae, presentanti quasi sempre dei canali laticiferi nel loro apparato vegetativo, comprendono numerose specie coltivate a scopo alimentare. Tra queste si ricordano alcune specie orticole quali la cicoria (Cichorium endivia), il radicchio (cultivar antocianiche di Cichorium intybus), la lattuga (Lactuca sativa), la scorzonera (Scorzonera hispanica), la scorzobianca (Tragopogon porrifolius) e numerose specie alimurgiche. Nel territorio del Baianese e del Vallo di Lauro sono state identificate 147 specie vegetali appartenenti alle Compositae, molte delle quali commestibili, due velenose (Lactuca virosa e Senecio vulgaris) ed una tossica (Lactuca scariola o L. serriola). Di seguito verranno trattate le specie selvatiche commestibili, presenti nel territorio oggetto di studio, ordinate alfabeticamente per genere.

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Erba di Montevergine Anthemis partenio (L.) Scheda n. 24

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Sinonimi: Chrisanthemum partenium, Pyrethrum partenium, Tanacetum parthenium. Nome comune: fiore di Montevergine. E’ una pianta erbacea (terofita scaposa), dai “fiori” (che, come si è detto, nelle asteracee sono in realtà infiorescenze a capolino) simili a quelli della camomilla romana (Anthemis nobilis), con cuore giallo e ligule dei capolini bianche. In Inghilterra, viene chiamata “feverfew”, per le proprietà febbrifughe ad essa attribuite. Secondo una leggenda e secondo l’etimologia del termine Tanacetum, questa pianta avrebbe addirittura il potere di conferire il dono dell’immortalità. Essa invece, per scongiurare l’effetto contrario, va consumata con cautela e moderazione: è, infatti, congenere con altri Chrysanthemum piuttosto tossici, come il Tanaceto (Crhysanthemum vulgare, pianta tossica, usata contro gli ossiuri), l’erba di S. Pietro (Chrysanthemum balsamita, usata per problemi epatici) ed il Piretro (Chrysanthemum cinerariaefolium, usato come insetticida). Non è un’erba alimurgica e la sua presenza in questa pubblicazione è un “atto dovuto”, poiché in un libro, come quello presente, che ha tra i suoi scopi quello di valorizzare il territorio oggetto di studio, non poteva mancare proprio la più caratteristica delle erbe dei Monti del Partenio, dai quali forse deriva il suo nome ed usata da secoli dai monaci del Santuario di Montevergine (sito nel Comune di Mercogliano, in provincia di Avellino), quale principale ingrediente di un prelibatissimo liquore, la cui ricetta ed il cui metodo di estrazione sono tutt’ora coperti da un impenetrabile segreto. Le origini di questo liquore, chiamato Anthemis, sono avvolte nelle nebbie dei secoli e, secondo una leggenda, sembrano risalire, addirittura, ai tempi dell’antico tempio pagano dedicato a Cibele: «Sorgeva nell’antichità sul fianco orientale del monte Partenio il tempio di Cibele. Racconta una leggenda che, nelle notti di plenilunio, una goccia di smeraldo sgorgasse da una delle colonne del tempio e che un giovane pastore dell’Irpinia raccogliesse queste gocce per portarle a coloro che erano tristi. Quando sulle rovine del vecchio tempio sorse intorno al 1.100 l’Abbazia di Montevergine, accadde ad un frate Virginiano di ritrovare l’antica colonna del tempio di Cibele e di notare come non un miracolo ma lo stillare del succo di varie erbe cresciute al sommo della colonna producesse quella goccia di smeraldo che ridava la gioia della vita agli sfiduciati ed ai tristi. Studiata la composizione di tali erbe i Padri Benedettini di Montevergine riuscirono a riprodurre la famosa goccia di smeraldo: la chiamarono Anthemis e la mandarono per il mondo, dispensatrice di gioia e benessere».

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Bardana Arctium lappa (L.) Scheda n. 25

A. memorosum

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: bardana, erba porcina. È una emicriptofita scaposa biennale. Nel primo anno emette le sole foglie basali e nel secondo anno lo scapo fiorale. Le foglie, con disposizione alterna, hanno lunghi piccioli e lamine o ovali allargate o a base cordata e sono spesso di grosse dimensioni. Inoltre sono molli e ricche di peli nella pagina inferiore. II fusto è robusto, eretto, pubescente, spesso arrossato, solcato e ramificato nella sua parte superiore, con diametro di 1-2 centimetri. La pianta può raggiungere l’altezza di 50 -150 cm. I capolini sono globosi e squamati (agevolmente riconoscibili poiché si attaccano facilmente ai vestiti), con le squame disposte in numerose serie, formanti a loro volta corimbi apicali. I fiori sono tubulosi ed ermafroditi, di colore roseo, purpureo o biancastro, raccolti -come si è già detto- in infiorescenze a capolino di forma sferica, di 3-4 centimetri, con l’involucro che forma un riccio di aculei uncinati con squame verdi. II frutto è un achenio bruno-grigio, con chiazze scure ondulate. Il pappo, utile per la disseminazione anemocora, è costituito da brevi setole semplici. A maturazione le squame uncinate del frutto diventano dure. La radice della pianta ha uno sviluppo fittonante, con qualche rara ramificazione, e raggiunge la profondità di 45-50 cm, con un diametro di 3-6 cm nelle piante coltivate. Ha forma cilindrica, consistenza più o meno carnosa ed è dura e fragile. Al centro della radice si può formare una piccola cavità, prodottasi per il riassorbimento dei tessuti, specialmente nelle piante aventi più di un anno. (Attenzione a non confondere le bardane con alcune specie appartenenti ai generi Petasites e Adenostyles).

DIFFUSIONE E’ comunissima negli ambienti antropizzati e nei terreni nitrofili di tutto il massiccio; più frequentemente tra i 100 ed i 1.300 metri. Oltre all’Arctium lappa è presente anche l’Arctium nemorosum (che si distingue per le infiorescenze ed il ricettacolo pubescenti) rinvenibile, tra l’altro, nelle radure erbose ed ai lati dei sentieri tra i 300 e i 700 metri di altitudine e nel Vallone Sorroncello, all’Acqua del Litto, Casone Arciano e, in generale, nei boschi cedui.

USO GASTRONOMICO La bardana è una pianta che viene utilizzata sia per scopi fitoterapici che alimentari. Limitandoci all’utilizzazione alimentare, raccomandiamo di non consumarne quantità eccessive e di non farne uso durante la gravidanza. Le radici vanno raccolte solo da piante che hanno un anno di età, prevalentemente in autunno. Le foglie si raccolgono nel periodo estivo, mentre i semi si raccolgono in autunno. Una volta estirpata la pianta, per evitare la sua rarefazione, è buona norma avere l’accortezza di staccarne i semi per spargerli tutt’intorno. A scopo alimentare possono essere utilizzate sia le radici (in Giappone ed in altri Paesi orientali la barbana viene coltivata proprio per questo scopo), che le giovani foglie, raccolte prima della fioritura. Sono però i gambi fiorali quelli che forniscono le parti più gustose della bardana: essi vanno tagliati, al secondo anno vegetativo, appena le infiorescenze fanno la loro comparsa, alla fine della primavera o all’inizio dell’estate. Si mangiano lessati e conditi a piacere (conditi con un olio leggermente aromatico, sale e pepe), oppure fritti in pastella. I piccioli fogliari, una volta spellati, vengono preparati allo stesso modo degli asparagi.

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Pratolina, Monachella o Margheritina Bellis perennis (L.) Scheda n. 26

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: pratolina, margheritina, monachella. Il primo termine del binomio è il nome latino con cui, in generale, venivano indicate le margherite; esso deriva da bella (graziosa, leggiadra), in riferimento al delicato aspetto dei capolini. Il secondo termine allude alla pluriannualità della pianta. Nel linguaggio dei fiori evoca innocenza, grazia, bontà, ma significa anche “ci penserò”, insomma, è il fiore di chi ama temporeggiare. Nel medioevo gli si attribuivano facoltà profetiche in amore, probabilmente da qui il famoso “m’ama non m’ama”. Come forma biologica è compresa tra le emicriptofite rosulate (piante che hanno le foglie disposte a formare una “rosetta” basale). E’ una specie sempreverde, erbacea, perenne, alta sino a 15 centimetri, con robusta radice fittonante ed una rosetta o cespo di foglie basali (obovate o spatolate e variamente dentellate) addensate al suolo. Dal centro della rosetta basale emergono, quasi tutto l’anno, scapi semplici, afilli, pubescenti, alla cui sommità si sviluppa un’infiorescenza a capolino (la margherita) costituita da fiori (flosculi) ermafroditi. Quelli esterni, ligulati, sono di colore bianco e arrossati inferiormente durante l’inverno. Quelli interni, tubulosi e piccolissimi, sono di colore giallo. I frutti sono piccoli acheni, ovali e pelosi. Questa specie raggiunge la massima fioritura in primavera, ma fiorisce tutto l’anno da gennaio a dicembre, con una breve pausa estiva.

DIFFUSIONE La Bellis perennis si rinviene frequentemente nei noccioleti non trattati con diserbanti, nei prati aridi e nei pascoli di tutto il territorio, con maggiore diffusione tra gli 800 ed i 1.400 metri. Nel territorio considerato sono presenti anche le specie: Bellis sylvestris (luoghi erbosi e boscaglie, tra i 1.000 ed i 1.598 metri di altitudine), anch’essa “emicriptofita rosulata”, e la Bellis annua (boschi, fruticeti e siepi di tutto il territorio, tra i 100 e gli 800 metri di altitudine) che ha la forma biologica di una “terofita erbacea”, annua, che si riproduce solo per seme.

USO GASTRONOMICO In cucina possono essere utilizzate le foglie raccolte prima della fioritura, in insalata o per le zuppe, i capolini possono essere preparati sott’aceto. La pianta è ricca di principi attivi quali resine, tannino, cera ed olii essenziali.

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Fiorrancio Calendula officinalis (L.) Scheda n. 27

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: calendola, fiorrancio. Il primo termine deriva dal latino calendae (primo giorno del mese), perché i fiori di questa pianta si aprono con cadenza mensile nella stagione favorevole, mentre il secondo sta ad indicare che questa pianta ha anche proprietà medicinali. La Calendula officinalis è una pianta erbacea biennale (emicriptofita), polimorfa, spesso molto ramificata. Con fusti striati, robusti ed angolosi, in genere caratterizzati da una folta peluria, alti fino ad 80 centimetri. La radice è di tipo fittonante, profonda circa 20 centimetri. Le foglie sono oblunghe, tenere, spesso denticolate, di colore verde chiaro, sessili e disposte con fillotassi alterna. Quelle inferiori sono disposte a rosetta e presentano la lamina più grande di quelle caulinari. I piccoli fiori sono riuniti in infiorescenze terminali a capolino, simili a grandi margherite (talora anche 7 od 8 centimetri di diametro), di colore giallo-arancio brillante, a centro purpureo, con fioritura dall’estate fino ai primi geli, con numerosi ibridi e varietà nane dai fiori molto grandi e vivacemente colorati. I frutti sono degli acheni curvi, tozzi e spinosi, alati, a falce e ad anello.

DIFFUSIONE La Calendula officinalis è una pianta comunemente coltivata, poiché viene usata in erboristeria, ma si trova facilmente allo stato rinselvatichito. E’ molto rustica e di facile coltivazione. Si trova in tutto il territorio esaminato, con maggiore frequenza attorno ai 600 metri di altitudine e nelle radure aride (es. Pietra Maula). Nel territorio oggetto di studio è presente anche la Calendula arvensis subsp. arvensis, che è una terofita e, perciò, specie annuale che si propaga per seme. C. officinalis si distingue da C. arvensis per i capolini più grossi, con ligule in 2-3 serie.

USO GASTRONOMICO Si utilizzano soprattutto i fiori, che vanno raccolti quando non siano bagnati da pioggia o brina e poi essiccati al sole e conservati in un luogo asciutto. Le foglie possono essere usate crude nelle misticanze primaverili cui conferiscono un gusto particolare. I fiori, aggiunti ai brodi e ai risotti, tingono di giallo al pari dello zafferano. I boccioli dei fiori di calendula possono essere utilizzati come quelli dei capperi, macerati in aceto, oppure freschi o essiccati per aromatizzare salse e condimenti dato il loro sapore amarognolo. Avvertenza importante: essendo questa una pianta officinale e contenendo sostanze farmacoattive, vale la regola generale di non consumarla durante la gravidanza.

RICETTE

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Carlina Carlina spp. Scheda n. 28

Carlina acaulis

Carlina acanthifolia

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Carlina acanthifolia Nome comune: cardo di S. Pellegrino. Il nome del genere proviene, secondo una leggenda, da Carlo Magno, che attribuì a questa pianta il potere di curare le pestilenze. Pianta erbacea, perenne o bienne (emicriptofita rosata), a crescita lenta, con fusto di colore brunastro, che può essere ora breve o assente, ora alto fino ad oltre 30 centimetri, a volte ramificato. Il rizoma è moto robusto e di sapore amaro. Le foglie, quasi tutte basali, sono disposte in rosetta e sono lunghe fino a 20 centimetri. Sono picciolate, con lamina oblungo-spatolata, pennatosetta. Profondamente divise, glabre, coriacee e spinose. Al centro della rosetta si forma un solo grande capolino, che può raggiungere anche i 15 centimetri di diametro ed è completamente avvolto da brattee: le esterne sono fogliacee; le mediane sono brune, dentato-spinose; le interne sono lineari, bianche e brillanti, somiglianti a fiori ligulati. Le brattee esterne, funzionano da igrometro naturale, chiudendosi quando il tempo muta al peggio o nelle ore notturne per poi riaprirsi al mattino successivo. I fiori, tubulosi, sono di colore bianco o rosa. I frutti sono acheni pennuti. Alle nostre latitudini fiorisce da maggio a settembre. Nel passato la carlina era un’erba molto importante nella medicina popolare ed era classificata come allessifarmaco (antidoto ai veleni), proprio per questo era coltivata nei giardini dei monasteri. Gli antichi Sassoni, per il suo aspetto pungente, la consideravano un amuleto contro il malocchio e le malattie. E’ diffusa nei pascoli aridi e nelle radure elevate, con maggiore frequenza tra i 1.200 ed i 1.350 metri di altitudine (da Ciesco Alto a Croce Puntone). La carlina fotografata a pagina precedente è stata fotografata a Mugnano del Cardinale (Av), in località Morricone. I ricettacoli dei capolini, noti come “pane del cacciatore”, sono eduli, utilizzabili come i cuori dei carciofi oppure tagliati a piccoli pezzi, messi a cuocere con lo zucchero in poca acqua, fino ad ottenere una purea dolce-piccante, ottima, da utilizzare come la mostarda. Le radici invece, tagliate a rondelle e private della parte interna legnosa, possono essere utilizzate per preparare ottimi canditi: una vera prelibatezza se coperti di cioccolato. La carlina è ricca di inulina, uno zucchero digeribile anche dai diabetici. Le foglie secche riescono a cagliare il latte.

Carlina vulgaris E’ una emicriptofita scaposa. Pianta erbacea, biennale o perenne, provvista di scapo. Le sue foglie sono molto simili a quelle della specie precedente, ma il portamento dell’intera pianta è verticale e non schiacciato. E’ diffusa negli xerogramineti e pascoli sassosi di tutto il massiccio, tra i 300 ed i 1.000 metri di altitudine.

Carlina vulgaris

Di questa pianta si consumano i fusti che vanno raccolti in primavera, quando sono ancora teneri. Questi vengono recisi alla base e all’apice mediante un attrezzo tagliente (roncola, falce, forbice), escludendo i rami laterali e i giovani capolini. Poi si tolgono le foglie e si spellano, con l’aiuto di un coltello. Si tagliano in pezzetti di 6-7 centimetri. I pezzetti così ottenuti si sbollentano e si condiscono con olio ed aceto. Il loro sapore è particolare, ricorda, infatti, quello dei peduncoli dei carciofi e delle nocciole.

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Cicoria selvatica o Radicchio Cichorium intybus (L.) Scheda n. 29

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RICONOSCIMENTO La cicoria selvatica, o radicchio selvatico, è la progenitrice di molte varietà coltivate, come il radicchio e la catalogna. E’ una pianta erbacea perenne, con foglie raccolte in una rosetta basale (emicriptofita rosata). Il fusto, che compare nel secondo anno di vita della pianta, può essere prostrato o, più frequentemente, eretto. Si presenta ispido poiché ricoperto di peli rivolti verso il basso. La radice, a fittone fusiforme, lunga e ramificata, se recisa spande un latice bianco dal sapore amaro. Le foglie presentano aspetto alquanto variabile da individuo ad individuo, al punto che, in assenza di fiori, i meno esperti tendono a confondere le rosette basali di alcune cicorie con quelle del tarassaco e di altre cichoraceae. Le foglie basali, raggruppate in rosetta, spuntano nell’autunno, durano tutto l’inverno e si seccano durante la fioritura; il contorno ha forma allungata-lanceolata con il margine variamente inciso. La lamina può essere anche irregolarmente pennato-partita o pennatosetta, con segmenti triangolari acuti. Le foglie del fusto sono gradatamente più piccole, sessili e amplessicauli. L’aspetto della superficie delle foglie varia da quello glabro di molte forme coltivate a quello pelosissimo di alcune delle varietà spontanee. I fiori (tutti ligulati, come in tutte le cichoraceae) sono riuniti in capolini, sessili o peduncolati, dalla corolla azzurro intenso, raramente bianca o rosata, disposti a loro volta in gruppi. I capolini presentano il ricettacolo di colore variabile dal verde scuro al violaceo-rossastro, avvolto da brattee cigliate: quelle esterne corte ed ovali; quelle interne oblunghe, lanceolate e dritte. Come avviene in molte altre asterales, le infiorescenze si chiudono nel pomeriggio e con il brutto tempo. Il frutto è un achenio sormontato da una bassa coroncina apicale.

DIFFUSIONE La specie Cichorium intybus è diffusissima in tutta la fascia basale del territorio, tra i 100 ed i 600 metri di altitudine. E’ presente anche la specie Cichorium endivia (specie normalmente coltivata, dalle foglie meno profondamente lobate) con la sottospecie divaricatum, negli incolti aridi, tra i 300 ed i 400 metri di altitudine (es. Pietra Maula, ecc..).

USO GASTRONOMICO La cicoria ha contribuito al sostentamento delle popolazioni rurali in ogni epoca: pane e cicoria saltata in padella costituiva uno dei pasti più diffusi e tipici. In passato, inoltre, le radici della cicoria venivano tostate ed utilizzate per ottenere un surrogato del caffè. Le foglie, dal sapore tipicamente amarognolo, vengono utilizzate tutto l’anno lessate e poi condite in vario modo, all’agro o saltate in padella, mentre le giovani e succose foglie primaverili si consumano in insalata, da sole o in misticanza. Molto apprezzati nel nostro territorio sono i fagioli con le cicorie. Usata sin dall’antichità nelle pratiche magiche si riteneva, erroneamente, che la sua radice fosse in grado di rendere invisibili.

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Cardo campestre Cirsium arvense (L.) (Scop.) Scheda n. 30

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: cardo campestre, stoppione, scardaccione. Il nome del genere deriva dal greco Kirsos (varice), secondo alcuni perché con essa anticamente veniva curato questo genere di affezioni, secondo altri a causa delle galle ovali che si formano al suo apice quando la pianta venga attaccata da alcuni ditteri che vi depositano le proprie uova. Questo cardo è una “geofita radicegemmata”, pianta erbacea perenne con organi sotterranei portanti le gemme, dalle quali annualmente si sviluppano le parti aeree. E’ una specie dioica, con individui di sesso maschile ed individui di sesso femminile. Il fusto è eretto, solcato longitudinalmente e pubescente. Spesso rossastro e ramoso nella parte superiore. Alto circa 70-150 centimetri. Con robusta radice biancastra. Le foglie sono indivise, generalmente non decorrenti sul fusto, più o meno glabre alla pagina superiore, tomentose o glabre alla pagina inferiore. La lamina si presenta con forma sinuato-dentata oppure pennatifida, con divisione da triangolare a ovale e bordi cigliato-spinosi. Le basi delle foglie superiori abbracciano il fusto. I fiori (flosculi) sono riuniti in piccoli capolini di circa 10 – 20 millimetri di diametro. Le corolle hanno colore variabile dal porporino a lilla cupo. I capolini, che emanano un delicato profumo di muschio, possono essere solitari o portati in una pannocchia corimbosa, con involucri piriformi, spesso rossastri, circondati da brattee spinose ed appressate rivolte all’esterno. I frutti sono acheni lisci, delle dimensioni di pochi millimetri, muniti di un pappo biancastro provvisto di setole.

DIFFUSIONE Il Cirsium arvense si trova negli incolti sterili di tutto il territorio oggetto di indagine, con maggiore frequenza tra i 200 ed i 1.000 metri di altitudine. Sono presenti anche le seguenti specie: - Cirsium italicum, presente nei boschi e nei fruticeti, tra i 300 ed i 400 metri; - Cirsium vulgare, presente tra le siepi e nei luoghi erbosi di tutto il Partenio, tra i 400 ed i 1.000 metri; - Cirsium tenoreanum, rinvenibile nei pascoli umidi dei Monti di Avella, tra i 1.000 ed i 1.200 metri; - Cirsium morisianum, negli ambienti erbosi elevati dei Monti di Avella, tra i 1.000 ed i 1.300 metri.

USO GASTRONOMICO Le sue giovani foglie vengono usate in cucina, quando non hanno ancora prodotto le loro caratteristiche spinescenze, miscelate ad altre erbe, lessate e saltate in padella con aglio ed olio. Sia le foglie più tenere che i ricettacoli fiorali sono ottimi anche crudi, perché hanno gusto equilibrato tra il dolce ed il salato.

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Radicchielle Crepis spp. Scheda n. 31 Fioritura di Crepis spp. in un noccioleto di pianura

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RICONOSCIMENTO Il nome del genere Crepis deriva dal greco, col significato di scarpa o sandalo, forse per la forma delle foglie della rosetta basale, generalmente appressate al suolo, come schiacciate. Questo genere, comprende numerose specie di “cicorie a fiori gialli”, estremamente polimorfe, aventi talune comportamento da terofite erbacee ed altre da emicriptofite scapose. Rispettivamente, quindi, a ciclo annuale e biennale. Tutte le specie presenti sul territorio sono commestibili. E’ comunque sempre consigliabile usare le foglie più tenere della rosetta basale ed escludere quelle più vecchie e fibrose, potenzialmente indigeste. Le specie del genere Crepis presenti nel territorio oggetto di indagine sono le seguenti: Crepis vesicaria Pianta erbacea annuale o biennale alta fino ad 80 centimetri, con fusto più o meno lignificato e spesso rossastro-purpureo alla base, irto di peli ispidi, raramente glabro, eretto e ramoso. Foglie basali a rosetta più o meno schiacciata sul terreno, a volte intere o lobate, ma più frequentemente pennatosette, quelle del caule sempre più ridotte, sessili, auricolate-amplessicauli, talora si presentano bratteiformi, ovali-carenate alle basi dei rami fiorenti, soprattutto nella subsp. vesicaria. I fiori sono riuniti in numerosi e piccoli capolini (di circa 2 centimetri di diametro), formati da flosculi ligulati di colore giallo e talora venate di sfumature rossastre, molto numerosi, quasi formanti un’ombrella terminale. Prima dell’antesi, la pianta presenta un caratteristico ingrossamento come un grosso bocciolo, formato dalle ramificazioni ancora racchiuse dello stelo. Caratteristica questa che permette di riconoscere con facilità questa pianta e che gli ha conferito il nome “vesicaria”. E’ diffusa nei coltivi, nei terreni incolti e ai margini dei sentieri di tutto il territorio, tra i 200 ed i 600 metri di altitudine. Crepis leontodontoides Emicriptofita rosata, questa specie presenta una forte somiglianza con il genere Leontodon, da cui gli è derivato il nome specifico. Presenta una fitta rosetta basale di foglie variamente lobate. E’ presente nelle siepi, nei fruticeti, noccioleti e boscaglie del piano basale, tra i 100 ed i 500 metri di altitudine. Crepis lacera Emicriptofita scaposa. Biennale. Caratterizzata dalle foglie laciniate, da cui gli è derivato il nome specifico. Presente nei pascoli sassosi e nei pressi delle rupi del piano montano, tra i 900 ed i 1.300 metri di altitudine. Crepis pulchra Terofita erbacea, annuale. Caratterizzata da un fusto molto ramificato, con i capolini dai flosculi piuttosto radi e raccolti in un corimbo apicale. Diffusa nei prati aridi e nei sentieri ad altitudini comprese tra i 200 ed i 300 metri. Crepis neglecta Terofita erbacea, annuale. Alta dai 25 ai 50 centimetri. Fusti ramificati dalla base, ispidi in basso. Foglie basali intere, spatolate, dentate. Foglie superiori con denti triangolari molto lunghi. Capolini molto numerosi, portati su ramificazioni dello scapo. Fiori gialli con stili verdi. Crepis setosa. Terofita erbacea. Annuale. La sua caratteristica più appariscente è costituita dai lunghi filamenti, quasi setosi, che ricoprono tutta la pianta e, in particolare, il ricettacolo del capolino. Diffusa nei suoli incolti ed aridi di tutto il massiccio. Tra i 300 ed i 500 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO Le radicchielle hanno gusto ed uso gastronomico simili a quelle delle altre “cicorie” e del tarassaco. Si raccoglie la rosetta ancora allo stadio giovanile e la si può consumare cruda in insalata, sola o nelle misticanze, oppure lessa o saltata in padella, con olio, aglio o cipolla a piacere. Si può anche utilizzare mista ad altre verdure per fare ripieni di minestre, frittate o tortini di verdure, ricotta e formaggi. Anche i germogli fioriferi, se teneri e non legnosi, si possono cucinare come sopra, pur se di sapore più amarognolo.

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Topinambour o Carciofo di Gerusalemme Helianthus tuberosus (L.) Scheda n. 32

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: topinambour, girasole tuberoso, tartufo di canna, patata del Canada, pera di terra, carciofo del Canada, Carciofo di Gerusalemme. E’ una “geofita bulbosa”, ovvero una pianta erbacea perenne che porta le gemme sugli organi sotterranei, in questo caso sui suoi numerosi rizomi tuberosi. Durante la stagione avversa non presenta organi aerei. Ha comportamento infestante e fusti eretti e pubescenti, alti fino a circa tre metri. Le foglie, disposte con fillotassi alternata, sono picciolate e coperte di una bianca peluria. Di forma ovata o lanceolata, dentellate al margine (quelle inferiori hanno forma ovatocordata). La pagina superiore è di colore verde scuro, spruzzata di una bianca peluria; quella inferiore è più chiara. I capolini, di colore giallo intenso e larghi fino a 8 centimetri, sono portati da lunghi e sottili peduncoli e sono spesso riuniti in gruppi di 4-5 o più, presentano fiori (flosculi) periferici con lunghe ligule gialle e solcate. I frutti sono degli acheni.

DIFFUSIONE Frequente negli ambienti umidi e nitrofili di tutto il territorio Lauretano-Baianese, soprattutto tra i 100 ed i 200 metri di altitudine. E’ considerata una pianta ornamentale e, per tale motivo, si rinviene facilmente nei pressi delle tipiche abitazioni con giardino del baianese e nei villini di campagna di tutto l’areale oggetto di studio.

USO GASTRONOMICO I suoi tuberi hanno un ottimo sapore, che ricorda quello del carciofo con una vaga sfumatura di nocciola. Hanno la consistenza di una patata ma, contrariamente a questa, non contengono amido ma inulina (circa il 15%). Essi, sono perciò particolarmente indicati nelle diete ipocaloriche degli obesi e dei diabetici. Risultano essere ricchi di vitamine A e B e contengono il “macrobiotico” e benefico Lactobacillus. Sono ottimi da gustare conditi con aglio, olio e acciughe (bagnacauda). Le rondelle di tubero possono anche essere conservate sotto aceto da sole o per la preparazione di giardiniere di verdure. In generale i tuberi, come le patate, possono essere consumati bolliti o fritti, secondo varie ricette.

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Monti di Avella

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Sparviere Hieracium spp. Scheda n. 33

Hieracium pilosella

Hieracium pilosella

Hieracium pilosella

Hieracium pilosella

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Hieracium deriva dal greco “jerax” (sparviere) in quanto gli antichi greci credevano che questi uccelli si cibassero di queste piante per acuire la loro vista. Molte delle specie del genere Hieracium hanno un tipo insolito di riproduzione: la gran parte di esse produce, infatti, frutti e semi senza che abbia luogo la fecondazione, attraverso il meccanismo riproduttivo noto come “apomissia”. Ne consegue che ciascuna pianta può generare una discendenza genotipicamente identica all’individuo di partenza, quasi una sorta di “cloni”. Per tale motivo, le piante di una certa località tendono ad assomigliarsi tutte, presentandosi diverse però dalle piante presenti in altri luoghi. Taluni botanici tendono a considerare queste diverse popolazioni di piante, frutto della variabilità individuale, come specie o sottospecie a sé stanti, dando origine ad una sistematica del genere molto complicata anche per gli esperti del settore. Di seguito verrà riportata la descrizione della specie Hieracium pilosella, e verranno citate alcune delle altre specie presenti nel territorio oggetto di studio, con la descrizione degli ambienti dove sono più facilmente rinvenibili. Per una più puntuale distinzione tra le varie specie e varietà, che esula dagli scopi del presente lavoro ed insignificante dal punto di vista gastronomico, si rimanda a più specialistiche pubblicazioni botaniche. Hieracium pilosella

RICONOSCIMENTO Nomi comuni: pelosella, sparviere pelosetto, orecchio di topo, lingua di gatto. Questa specie è una emicriptofita rosata, alta circa 20 centimetri, erbacea perenne, con rizoma strisciante, da cui nascono una rosetta basale e diversi stoloni radicanti ai nodi. Questa pianta presenta due tipi di fusti. Alcuni striscianti, fogliosi e radicanti. Altri fioriferi e senza foglie. Le foglie della rosetta basale sono spatolate e lanceolate, a margine intero, completamente coperte di peli ispidi e quasi bianche nella pagina inferiore. Le foglie dei fusti striscianti sono più piccole, ovali-lanceolate e disposte con fillotassi alterna. I flosculi, di colore giallo chiaro con sfumature rossastre, sono riuniti in capolini solitari di circa 2 centimetri di diametro. I frutti sono acheni con pappo setoloso.

DIFFUSIONE La specie Hieracium pilosella è diffusa nelle radure erbose e nei pascoli elevati di tutto il Partenio, tra i 1.000 ed i 1.400 metri di altitudine. Ma, come si è detto, nel comprensorio sono presenti anche le seguenti entità vegetali: - Hieracium pseudopilosella, molto simile alla precedente, rinvenibile nei pascoli rupestri posti tra i 1.200 ed i 1.300 metri di altitudine (es. Ciesco Alto); - Hieracium florentinum (sin. Hieracium piloselloides subsp. piloselloides), frequente nei terreni sassosi ed incoerenti ed aridi, tra i 200 e gli 800 metri di altitudine (es. Pietra Maula, Monte Fellino, ecc..); - Hieracium virgaurea, emicriptofita scaposa, nelle rupi più fresche ed umide di tutto il Partenio, tra i 300 ed i 1.000 metri di altitudine; - Hieracium pallidum, emicriptofita rosata, sulle pendici sassose e tra le rupi fresche, tra gli 800 ed i 900 metri (es. Vallone Sorroncello); - Hieracium incisum, emicriptofita rosata, nelle faggete più rade, tra i 1.400 ed i 1.500 metri (es. Porca delle Pere); - Hieracium lachenalii, emicriptofita scaposa, negli ambienti erbosi e nelle radure dei boschi di tutto il territorio, tra gli 800 ed i 1.100 metri di altitudine; - Hieracium praealtum, emicriptofita scaposa, nelle pendici aride e negli ambienti erbosi tra i 400 e gli 800 metri (es. Monte Fellino); - Hieracium sylvaticum, emicriptofita scaposa, nei boschi di latifoglie elevati, oltre i 1.300 metri di altitudine (Monti di Avella).

USO GASTRONOMICO Le foglie, limitatamente a quelle più giovani, possono essere consumate lessate e condite.

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Orecchie di gatto o Piattello Hypochoeris radicata sub. neapolitana (L.) Scheda n. 34

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: piattello, lingua di bue, (in alcune zone, similmente a quasi tutte le cichoraceae a fiori gialli, viene indicata anche col nome di “cicoria selvatica”). Il nome del genere deriva dal greco Hypo (sotto) e choiros (maiale), poiché pare che i maiali al pascolo brado si cibassero abitualmente delle loro robuste radici fittonanti. E’ una pianta erbacea perenne (emicriptofita rosata), diffusamente pubescente, alta fino a 50 centimetri, con fusti leggermente ramificati e con rade e piccole brattee squamose sparse a spirale. Le foglie sono raccolte in una rosetta basale e presentano lamina ovato-spatolata con i margini grossolanamente ondulati e dentature triangolari poco profonde. Le infiorescenze, a capolino, con involucro emisferico e brattee lineari, raggiungono i 4-5 centimetri di diametro. Le brattee del capolino si sovrappongono e sono setolose lungo le nervature centrali; solo alcune di esse sono rivolte verso l’esterno. I fiori sono tutti ligulati ed hanno un colore giallo-limone scuro. La ligula dei flosculi periferici presenta l’estremità esterna con cinque dentellature. I frutti sono acheni con un pappo piumoso posto alla sommità di un lungo peduncolo. Le radici sono bianche, fittonanti e profonde e, se spezzate, emettono un succo lattiginoso.

DIFFUSIONE La Hypochoeris radicata subsp. neapolitana, si trova nei siti erbosi e ai margini dei sentieri di tutto il territorio considerato, tra i 100 e gli 800 metri di altitudine. Fiorisce a partire dal mese di aprile. Risultano presenti anche le specie: - Hypochoeris glabra (terofita erbacea) che condivide lo stesso habitat della specie precedente; - Hypochoeris achyrophorus (terofita erbacea) che preferisce i pascoli aridi e sassosi posti tra i 100 ed i 300 metri di altitudine (Monte Fellino, Tuoro di Sasso, Monte Pizzone, ecc..).

USO GASTRONOMICO Le giovani foglie sono commestibili e vengono consumate sia crude che cucinate.

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Lattuga spinosa o Pianta-bussola

uso sconsigliato

Lactuca serriola (L.) o Lactuca scariola (L.) Scheda n. 35

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RICONOSCIMENTO Sinonimi: Lactuca serriola, Lactuca scariola. Nomi comuni: lattuga serriola, lattuga selvatica, lattuga spinosa, scaròla, lattona, erba bussola. E’ una pianta erbacea annuale (terofita scaposa) o biennale (emicriptofita scaposa), in entrambi i casi emette l’asse fiorale allungato (scapo). Tutta la pianta si presenta ricoperta di setole appuntite e, in caso di frattura del fusto, emette un latice bianco, da cui il nome di lattuga. La principale caratteristica distintiva di Lactuca serriola risiede nella particolare disposizione della lamina fogliare, che si presenta ruotata di circa 90° nella zona dell’inserzione con il picciolo, per cui la superficie della lamina viene a trovarsi disposta verticalmente invece che orizzontalmente (foto a sinistra e a destra). Molte sue foglie sono, inoltre, disposte in direzione Nord-Sud, per tale motivo questa pianta viene anche chiamata “pianta bussola”. Le foglie, polimorfe, possono essere in alcuni esemplari lanceolate ed in altri pennate e sono spinulose sul bordo e sulla nervatura centrale della pagina inferiore. Quelle poste più in alto sono sessili, con due orecchiette alla base. Gli esemplari con foglie lanceolate possono essere confusi con altre specie. Il fusto di Lactuca serriola presenta la caratteristica di “ossificare”, diventando chiaro e legnoso al momento della fioritura. Generalmente è ramificato all’apice. I capolini fiorali sono molto piccoli, di un colore giallo molto pallido, disposti in una pannocchia assai estesa, con molte diramazioni laterali anche a partire dalla base del fusto. Le squame sono poste sui capolini in maniera spiralata e su più file. La fioritura avviene di solito in luglioagosto; i fiori si aprono all’alba e si richiudono verso le dieci-undici di mattina, probabilmente per ripararsi dalla eccessiva calura. Normalmente la pianta non supera gli 80 centimetri di altezza, ma si sono trovati esemplari alti anche più di due metri. Il frutto è un achenio compresso, brunastro, con un becco lungo e biancastro, sormontato da un pappo bianco.

DIFFUSIONE La Lactuca serriola è presente nei coltivi e negli incolti di tutto il territorio, tra i 100 ed i 500 metri di altitudine. Inoltre, si rinviene facilmente anche lungo le strade, alla base di vecchi muri.

USO GASTRONOMICO Questa pianta, leggermente tossica (anche se meno della Lactuca virosa), è stata spesso usata nella medicina popolare utilizzando fusto, foglie e latice in aggiunta alla cicoria per ottenere effetti narcotici. E’ compresa nella lista (Ministero della Sanità - 2006) delle piante il cui uso non è ammesso negli integratori alimentari. Ciononostante, essa viene usata nella gastronomia tradizionale, in piccole quantità, per il lieve sapore amarognolo. Gli autori della presente pubblicazione ne sconsigliano l’uso alimentare.

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Grespignolo o Erba delle mammelle Lapsana communis (L.) Scheda n. 36

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: lassana, erba delle mammelle. Il nome del genere deriva dal greco “lapazein” ed dal latino “lampsana” e significa lassativa, emolliente, per le sue proprietà erboristiche. E’ una terofita scaposa, ovvero una pianta erbacea annuale con asse fiorale allungato (scapo). Questo, esile e cavo, si presenta privo di foglie e ramificato-corimboso nella parte superiore e può giungere anche a 120 centimetri di altezza. Se spezzato non emette latice. Le foglie inferiori sono picciolate-lirate, sinuate-dentate, acuminate, con il lobo terminale più grande. Le foglie del caule sono invece sessili, ovate-lanceolate, intere e dentate. Talvolta può osservarsi uno scolorimento delle lamine fogliari dovuto all’attacco di un fungo, la “ruggine” il cui agente eziologico è un fungo microscopico (Puccinia lapsanae). I numerosi capolini sono riuniti in infiorescenze cimose molto ramificate e presentano involucro conico con due serie di squame: le interne lineari e le esterne più brevi ed ovali. I fiori sono di colore giallo paglierino e tutti ligulati. L’antesi si verifica tra aprile ed ottobre. Il frutto è un achenio ricurvo, privo di pappo, con circa 20 strie longitudinali.

DIFFUSIONE Nel territorio oggetto di studio è presente la Lapsana communis subsp. communis, tra i 200 ed i 1.200 metri di altitudine, prevalentemente nei boschi e nelle boscaglie di latifoglie di tutto il Partenio.

USO GASTRONOMICO Le foglie primaverili vengono utilizzate in gustose insalate oppure, dopo essere state lessate e condite, anche come ripieno di torte salate, spesso insieme ad altre verdure.

RICETTE

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Castagneto ceduo

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Dente di leone Leontodon hispidus (Vill.) Scheda n. 37

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RICONOSCIMENTO Sinonimo: Leontodon proteiformis. Nome comune: dente di leone comune. Il nome del genere (Leontodon) sta ad indicare il margine dentato delle foglie, quello della specie (hispidus) si riferisce alla peluria che copre tutta la pianta. E’ una emicriptofita rosulata, ovvero una pianta erbacea perenne, con rosetta di foglie basali e le gemme poste a livello del terreno. Si tratta di un’entità botanica molto polimorfa e variabile per dimensioni, forma delle foglie, tipo e disposizione dei peli (da cui il sinonimo di “proteiformis”). La sua tassonomia risulta molto complicata, perché la distribuzione dei caratteri sembra seguire le diverse condizioni ecologiche; ne consegue che molti autori operano suddivisioni in diverse sottospecie e varietà. E’ alta sino a 60 centimetri ed è dotata di un grosso rizoma obliquo dal quale si dipartono numerose radici. Le foglie sono lievemente dentate e più o meno pubescenti. Gli scapi fiorali portano un capolino solitario, pendulo prima della fioritura, composto da flosculi ligulati gialli, pentameri, a volte con striature rossastre. L’involucro è cilindrico, più corto delle ligule, e porta due serie di stipole, di cui quelle inferiori più corte. Esso è ricoperto, come pure il gambo, da una diffusa peluria. I frutti sono acheni, di colore bruno chiaro, con pappo di peli pennati disposti in due serie (quelli esterni più brevi). Hanno le seguenti dimensioni: lunghezza 6-7,5 millimetri; larghezza 0,7-0,9 millimetri; spessore 0,5-0,7 millimetri. Il peso di mille semi è di 1,3-1,5 grammi. Esiste uno studio della FAO che la suggerisce come pianta utile per il recupero delle aree montane degradate: in tale lavoro si propone la semina di questa specie (con 10-12 kg/ha di semi), in file distanziate di 15-25 centimetri, per ottenere, in tre raccolti l’anno, tra i 60 ed i 180 kg/ha di semi, oltre la parte erbacea, utilizzabile anche come foraggio. Una importante caratteristica di questa pianta sembra essere che essa, a causa del profondo apparato radicale, è molto resistente anche in ambienti aridi.

DIFFUSIONE Nell’areale oggetto di studio sono presenti, oltre al Leontodon hispidus subsp. hispidus (nei pascoli e nelle rupi elevate dei Monti di Avella, tra i 1.300 ed i 1.598 metri), anche le specie: - Leontodon hirtus, nei pascoli e rupi di vetta, tra i 1.200 ed i 1.598 metri (Ciesco Alto, Ciesco Bianco); - Leontodon crispus subsp. crispus, nelle radure dei boschi di faggio dei Monti di Avella; - Leontodon cichoraceus, nelle radure erbose e nei pascoli di tutto il Partenio, tra i 200 ed i 1.200 metri, e nei Monti di Quindici.

USO GASTRONOMICO Questa pianta rappresenta un ottimo foraggio per il bestiame ed è normalmente usata in erboristeria come diuretica. Per l’alimentazione umana si può adoperare tutta la pianta, compresa la radice (molto apprezzata soprattutto quella della specie Leontodon tuberosus, la quale sembra che da noi non sia presente). La parte aerea del Leontodon hispidus può essere usata sia fresca che bollita, oppure saltata in padella.

RICETTE

001 - 085 - 092 - 145

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Aspraggine pungente o Viperina Picris (o Helminthia) echioides (L.) Scheda n. 38

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Sinonimo: Helminthia echioides. Nomi comuni: aspraggine volgare, aspraggine pungente, viperina. Il nome del genere deriva dal greco, con il significato di amaro, per il sapore del latice bianco che fuoriesce quando si spezzi il fusto. Il nome della specie proviene dal latino e si riferisce al fatto che sia le foglie che il frutto sono ruvidi e muniti di aculei. La specie Picris echioides è una terofita erbacea, annuale, con fusti ramificati e striati, presentanti talora una sfumatura rossastra. La pianta può essere alta da 30 a 60 centimetri e si presenta ricoperta di peli rigidi e setolosi. Le lamine delle foglie basali hanno forma spatolata e sono portate da un piccolo picciolo finemente alato. Le foglie superiori sono invece lanceolate, con margini ondulati, sessili e parzialmente amplessicauli (con la base che abbraccia il fusto). Alcuni peli fogliari hanno basi bulbose bianche, simili a verruche, portanti tre uncini ricurvi all’apice. I capolini (diametro 2,5 cm) sono subsessili, portati da corti peduncoli, e riuniti in gruppi di 24 alla sommità di ognuna delle ramificazioni del fusto. Ciascun capolino è formato da flosculi ligulati gialli con quelli esterni presentanti una venatura ventrale violetta e portanti cinque piccoli denti all’estremità distale. Ogni capolino, pubescente come il resto della pianta, è circondato da un involucro di strette brattee lineari interne, attorniato da tre-cinque brattee triangolari esterne, leggermente divaricate verso l’esterno, ma non retroflesse. Il frutto è un achenio provvisto di un lungo rostro, senza costole longitudinali. Periodo di fioritura: giugno-settembre.

DIFFUSIONE Nel territorio considerato, questa specie è comunissima sia nei coltivi che negli incolti di tutta la fascia basale, con maggiore frequenza tra i 100 ed i 300 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO Nonostante l’aspetto poco rassicurante, in passato questa pianta veniva correntemente consumata, bollita o sott’aceto.

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085 - 097

Il geologo Stefano Lanziello accanto ad un faggio secolare 113 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Aspraggine comune Picris hieracioides (L.) Scheda n. 39

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: aspraggine comune, lattaiola. E’ una emicriptofita scaposa, pianta erbacea biennale, con fusto eretto e angoloso, ramosocorimboso in alto, privo di spine (carattere che lo distingue dalla specie precedente) ma talora ricoperto di peli ispidi. Se spezzata, lascia fuoriuscire un latice acre. Le foglie basali, raccolte in rosetta, presentano lamina spatolata (2-5 x 10-20 cm), con margine dentato o lobato. Le foglie cauline sono sessili ed amplessicauli, da ellittiche a lanceolate, con margini dentati. Le foglie superiori, di dimensioni minori, lineari-lanceolate, hanno margine intero e talora possono essere ricoperte di peli lungo il margine. I fiori (flosculi) sono tutti ligulati e di colore giallo e raccolte a formare la classica infiorescenza a capolino. I capolini, con involucro a bicchiere slargato verso l’alto, del diametro di due o tre centimetri, presentano sul ricettacolo alcune squame con punta rivolta verso l’esterno. Sono raccolti, raggruppati in numero di 3-7, in lassi racemi, posti alle estremità delle ramificazioni del fusto. Il frutto è un achenio fusiforme, con striature trasversali e pappo non persistente, almeno nei fiori centrali.

DIFFUSIONE Nel territorio oggetto del presente lavoro Picris hieracioides è presente con le due sottospecie: - subsp. hieracioides, diffusa tra gli incolti e le siepi di tutto il massiccio, tra i 100 ed i 1.100 metri di altitudine; - subsp. grandiflora, diffusa sulle pendici erbose di vetta e nei pascoli di alta quota, fra i 1.200 ed i 1.598 metri di altitudine (es. Ciesco Alto, Porca delle Pere, ecc..).

USO GASTRONOMICO Di questa pianta vengono usate, di preferenza, le foglie della rosetta basale o quelle più tenere sparse lungo il fusto, che possono essere bollite, saltate in padella oppure usate per ripieni.

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085 - 097

Bovini al Campo di Summonte

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Caccialepre Reichardia picroides (L.) o Picridium vulgare (Desf.) Scheda n. 40

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: caccialepre, insalata di montagna. Il nome del genere deriva da quello del botanico e medico tedesco J.J. Reichard, quello della specie dal suo gusto amarognolo e pungente. La specie Reichardia picroides è una emicriptofita scaposa. E’ una pianta erbacea perenne alta dai 20 ai 50 centimetri, piuttosto polimorfa, glauca o glabra. Possiede una radice legnosa, allungata e ingrossata, dalla quale fuoriesce un latice dolciastro. Alla base presenta una rosetta di foglie basali, allungate-obovate, dalla conformazione molto variabile (intere o pennatosette con lobi patenti) frastagliate ed increspate. In primavera inoltrata crescono i fusti eretti o prostrato-diffusi, cilindrici-angolosi, indivisi o ramificati in due o più biforcazioni, portanti foglie mediane simili alle basali, ma sessili e amplessicauli, e le superiori ridotte e più o meno intere. I fiori (flosculi) tutti ligulati, sono di colore giallo e, quelli esterni, con una striscia scura bruna o purpurea sul lato ventrale. Le infiorescenze, a capolino, possono essere in numero da 1 a 5 e sono portate da lunghi peduncoli che si dipartono dalla parte terminale delle ascelle delle foglie. Sono percorse da numerose piccole brattee ovate, acuminate, con il margine di consistenza cartacea. L’involucro è di forma globosa, più o meno strozzato in alto, con brattee esterne a forma di cuore rovesciato. I frutti sono acheni delle dimensioni di 2 o 3 millimetri. Quelli esterni sono scuri e rugosi, quelli interni lisci, di colore più chiaro e generalmente sterili.

DIFFUSIONE La specie Reichardia picroides è diffusissima nei pascoli più aridi e nelle garighe di tutto il massiccio (tra i 100 ed i 1.400 metri di altitudine). Un tempo era molto apprezzata dai pastori.

USO GASTRONOMICO Le foglie più tenere della rosetta basale possono essere consumate crude e costituiscono una gustosissima insalata. Vengono utilizzate anche bollite o saltate in padella.

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098 - 145

Bovini nei pascoli dei Monti di Avella

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Cardogna o Cardo giallo Scolymus hispanicus (L.) Scheda n. 41

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: cardogna, cardo giallo. Scolymus corrisponde al nome col quale gli antichi greci chiamavano un tipo di cardo con spine, la cui radice era commestibile. Mentre hispanicus si riferisce alla sua presunta origine spagnola. La specie Scolymus hispanicus è una emicriptofita biennale, ovvero una pianta erbacea con gemme poste al livello del suolo. E’ -come tutti i cardi- una pianta molto spinosa ed è dotata di una robusta radice a fittone. Presenta il fusto epigeo a portamento ramoso-corimboso, con ali brevi ed interrotte. Le foglie, pennatopartite o pennatosette, hanno dimensioni variabili tra i 5 ed i 15 centimetri, con denti profondi, spine robuste, lamina verde, non o scarsamente coriacea. Le foglie superiori sono largamente amplessicauli. I capolini, sia ascellari che terminali, sono generalmente avvolti da tre brattee provviste di spine larghe circa quanto l’area centrale indivisa. Sono presenti squame lesiniformi, che si assottigliano progressivamente in punta acutissima. I fiori sono tutti del tipo ligulato, con corolla ed antere gialle. Il frutto è achenio ovoide-compresso, con piccola coroncina e setole (da 2 a 4) caduche. Fioritura: da giugno a agosto.

DIFFUSIONE Questo cardo è diffuso nelle aree ruderali di tutto il piano basale, tra i100 ed i 400 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO Nonostante l’aspetto selvatico e spinoso non inviti a raccoglierlo, questo cardo può vantare ottime qualità gastronomiche. La radice carnosa, che in tempo di carestia veniva tostata ed utilizzata come succedanea del caffè, risulta ottima se bollita o stufata e condita con l’ottimo olio d’oliva locale. Le coste, mondate accuratamente delle spine e delle foglie, possono essere cucinate sia fritte, sia lesse, sia arrostite, ed hanno un sapore più intenso dei carciofi.

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100

Gregge di pecore nell’Alto Clanio (Avella).

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Cardo mariano Silybum marianum (L.) (Gaerin) Scheda n. 42

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RICONOSCIMENTO Sinonimi: Carduus marianus, Silybum mariae, Silybum maculatum. Nomi comuni: cardo mariano, cardo degli asinelli. Il nome del genere deriva dal greco silybon, termine col quale veniva indicato un cardo con le foglie screziate. Il nome della specie, marianum, è dovuto alla leggenda secondo la quale le macchie bianche sulle foglie vennero causate dalle gocce di latte cadute dal seno della Vergine Maria mentre nascondeva al petto il bambino Gesù, durante la fuga in Egitto. La specie Silybum marianum è, biologicamente, una emicriptofita biennale (pianta erbacea con gemme poste al livello del suolo). Molto spinosa. Nel primo anno produce una rosetta di foglie e nel secondo lo scapo fiorale, alto finanche un metro e mezzo. Le foglie, della lunghezza di 30-40 centimetri, sono di un bel colore verde lucente ed hanno la superficie macchiata di bianco. I margini sono spinosi ed ondulati, lobato-dentati, con lobi triangolari terminanti con una robusta spina. Le foglie inferiori sono picciolate mentre quelle del fusto sono sessili, amplessicauli e meno profondamente dentate. I fiori, tutti ligulati, e di colore violaceo o porpora, sono riuniti in capolini apicali muniti di brattee spinose. I frutti sono acheni ovali e oblunghi di colore scuro e sormontati da un breve pappo di setole biancastre. Gli acheni contengono silimarina, sostanza ad effetto epatoprotettivo e ad azione antagonista nei confronti di diverse sostanze epatotossiche (come ad esempio la falloidina e l’alfa-amanitina, tossine del fungo velenoso Amanita phalloides). Fiorisce da aprile a luglio.

DIFFUSIONE Questa specie vegeta nei campi incolti, nei pascoli, lungo i margini dei sentieri e tra le macerie, dalla pianura sino agli 800 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO I teneri germogli centrali, raccolti in primavera, vengono mangiati crudi in insalata ed hanno il classico sapore del cardo. Molto apprezzati dai buongustai sono anche i ricettacoli dei fiori (capolini) che vengono preparati alla stregua dei carciofi e possono essere conservati sotto olio o sotto aceto.

RICETTE

046 - 047 - 048

Monti di Avella: Piano di Lauro o Piano di Rapillo.

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Crespigno o Cardillo Sonchus spp. Scheda n. 43 Sonchus oleraceus Sonchus oleraceus

Sonchus oleraceus

Sonchus hispidus 122 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Il nome del genere Sonchus deriva dal greco e significa “cavo”, con riferimento al fusto.

Sonchus asper Nomi comuni: crespigno spinoso, cardillo. Questa specie assume le forme biologiche di terofita scaposa o di emicriptofita bienne. E’ una pianta erbacea, con radice a fittone, che può giungere fino ad un metro di altezza. Il fusto è robusto, cavo, fragile, poco ramificato e striato. Se viene spezzato produce un latice bianco. Le foglie, leggermente pungenti, si presentano lucide e spesse e ricordano vagamente quelle dei cardi (da cui il nome comune locale di “cardillo”). Hanno lamina da indivisa a sinuatodentata a pennatifida. Quelle basali sono numerose, quelle del caule rade ed amplessicauli, con orecchiette appressate ed arrotondate. La variabilità della forma delle foglie ha portato alla classificazione di parecchie sottospecie, ma si tratta di taxa poco consistenti e di scarso valore sistematico. Le infiorescenze, rappresentate dal classico capolino, sono raccolte in cime ombrellifere, con involucro glabro e bombato. Talora i capolini si presentano fioccosi alla base e con il peduncolo lungo 10-15 mm, coperto di brevi ciglia. I flosculi, tutti ligulati, sono di colore giallo e talvolta rossastri all’esterno. Sono ermafrotidi e vengono impollinati prevalentemente dalle api. I frutti sono acheni lisci, a coste longitudinali, sormontati da un pappo bianco. Questa specie è diffusa ovunque ma prevalentemente negli ambienti aridi e ruderali, tra i 100 ed i 300 metri di altitudine (es. Monte Fellino, Vallone Aquaserta).

Sonchus oleraceus Nomi comuni: crespigno comune, cicerbita. Si distingue dall’asper per le sue foglie molli, tenere, non spinose, opache e quelle cauline con orecchiette patenti e foglie generalmente con contorno più o meno spatolato, le inferiori lobate o incise, le superiori acute alla sommità. I frutti sono acheni spinulosi. Questo “crespigno” è comunissimo negli ambienti antropizzati aridi, tra i 100 ed i 400 metri di altitudine (es. Tuoro di Sasso, Monte Fellino, Tora, ecc..).

Sonchus arvensis Nome comune: crespigno dei campi. E’ una pianta molto ramosa nella parte superiore, con foglie glabre, glandolose, di un verde chiaro, sinuate-pennatofide, leggermente dentate-spinescenti. Presenta la caratteristica di avere i capolini fioccosi, con peduncolo ed involucro ricoperti di peli glandolosi. Gli acheni presentano superficie rugosa. Comune negli ambienti erbosi ed aridi di tutto il massiccio del Partenio, tra i 100 ed i 1.000 metri di altitudine.

Sonchus tenerrimus Nome comune: crespigno tenero. Si distingue per le squame del tubo della corolla, più lunghe che nelle altre specie. Inoltre, quelle esterne hanno una banda purpurea. La parte inferiore del capolino è bianca. Le foglie sono pennatopartite, con i lobi leggermente ricurvi. Gli acheni posseggono quattro costole longitudinali. Comunissimo nei luoghi sassosi ed aridi, tra i 100 ed i 300 metri di altitudine (es. Pietra Maula, Monte Fellino, Tuoro di Sasso, Campimma, ecc..). Queste piante erbacee si possono raccogliere quasi ovunque ed in ogni stagione dell’anno, ma il periodo migliore è fine inverno-inizio primavera, quando le rosette raggiungono il massimo della loro tenerezza e del loro sapore. Sono commestibili ed ottime sia crude che cotte, e sono ritenute più gustose degli spinaci. Si usano nelle zuppe di verdure, miste con altre erbe, oppure per preparare ripieni, gustosi tortini e saporite frittate. Nel territorio oggetto di studio è molto ricercato, come insalata fresca, soprattutto il “cardillo” (S. hispidus) per le sue foglie croccanti, anche se spinose (spinosità che si attenua aggiungendo un po’ di aceto ed aspettando alcuni minuti che le foglie si ammorbidiscano). Le altre specie vengono consumate prevalentemente bollite e per ripieni. Questi “crespigni”, come tutte le altre cicorie selvatiche, contengono un latice bianco, assolutamente innocuo. Nel passato le radici, al pari di altre cichoriaceae, venivano tostate, macinate ed usate come succedanee del caffè.

RICETTE

002 - 021 - 099 - 109 - 140 - 145

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Tarassaco Taraxacum officinale (Weber) Scheda n. 44

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: tarassaco, dente di leone, dente di cane, piscialetto, soffione, cicoria matta, cicoria selvatica, girasole selvatico, radicione. L’origine del nome del genere è incerta: forse deriva dal persiano “erba amara”, o dal greco “taraxis” (guarisco) con riferimento alle proprietà medicinali della pianta. E’ una emicriptofita rosata. E’ una pianta erbacea perenne, alta fino a 40 centimetri, di aspetto molto variabile, provvista di una rosetta basale di foglie e di una grossa radice a fittone, bianca all’esterno e scura all’interno. L’estrema variabilità della specie è dovuta al fatto che i semi possono prodursi anche per autofecondazione: in tal modo le differenze fra individui si conservano e così anche la diversità morfologica. Le foglie, raccolte in una fitta rosetta basale, sono lanceolate, lobate, a margine dentato, roncinate, con picciolo evidente, talora largamente alato. Lo scapo fiorale può essere glabro o tomentoso, cavo, e se spezzato emette un latice bianco. I fiori (flosculi), ligulati e di color giallo dorato, sono portati in un capolino solitario all’estremità di un lungo scapo afillo. I capolini, del diametro di 2 - 4 centimetri, presentano la caratteristica di avere l’involucro dotato di squame esterne lineari e fortemente ripiegate verso il basso. Fioritura: da febbraio a maggio. I frutti sono acheni grigiastri, con un sottile becco, sormontati da un pappo di setole bianche, peduncolato ed allargato ad ombrello (il caratteristico globo piumoso dal quale deriva uno dei nomi volgari della pianta: “soffione”).

DIFFUSIONE Come già accennato, questa specie presenta un accentuato polimorfismo, che talora induce ad attribuire ad alcuni individui un taxon diverso. D’altra parte, non tutte le specie del genere sono state censite. Tutte, comunque, sono commestibili allo stesso modo, per cui si possono raccogliere e consumare con la massima tranquillità. Nel territorio oggetto di indagine risultano presenti le seguenti specie del genere Taraxacum: - Taraxacum officinale, comune ovunque, alle quote meno elevate di tutto il territorio, tra i 200 e gli 800 metri di altitudine; - Taraxacum laevigatum, frequente nei pascoli aridi e sassosi di tutto il Partenio, tra i 1.200 ed i 1.400 metri di altitudine (Campo San Giovanni, Piano di Rapillo, ecc..); - Taraxacum appenninum, nei pascoli di tutto il Partenio, a quote leggermente più basse di quelle tipiche della specie precedente, tra i 900 ed i 1.300 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO Il tarassaco è una pianta molto ricercata dagli intenditori. Le sue foglie, bollite o saltate in padella, sono un contorno prelibato. I petali e le giovani foglie possono esser preparati in insalata. I boccioli dei fiori possono essere conservati sotto aceto oppure canditi. La radice, essiccata e tostata, è un succedaneo del caffè; cruda è invece ottima in pinzimonio. Tutta la pianta può essere usata per preparare vino, birra e amari.

RICETTE

054 - 055 - 056 - 057 - 066 - 137 - 145 - 150

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Barba di caprone Tragopogon pratensis (L.) Scheda n. 45

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RICONOSCIMENTO Nome comune: barba di caprone. Il nome del genere, attribuito a Dioscoride, medico ellenico vissuto nel I secolo d.C., deriva dal greco: trágos (caprone) e pogón (barba). Secondo alcuni per la caratteristica peluria che fuoriesce dal suo capolino chiuso e, secondo altri, per le numerose radichette che coprono la robusta radice a fittone. Tragopogon pratensis è una specie con il comportamento biologico di una emicriptofita scaposa. È una pianta erbacea, eretta, blu-verde, debolmente ramificata. Altezza 30 – 70 cm. I fiori, sempre gialli e ligulati, sono portati all’estremità dello scapo fiorale, riuniti in una infiorescenza solitaria a capolino (che si trasforma poi nei classici “soffioni”). I capolini di questa pianta, aventi diametro fino a circa 5 centimetri, si aprono presto al mattino e si chiudono verso mezzogiorno. I verdi ricettacoli sono tubuliformi e rigonfiati alla base e non presentano appendici. Le foglie, lanceolate e appuntite, solcate, guainanti il fusto tanto da renderlo quasi nodoso, sono simili a quelle delle graminacee e consentono la facile distinzione dalle altre asteracee a fiori gialli. Fiorisce da aprile a giugno. I frutti sono minuscoli acheni fusiformi che presentano un pappo con lungo peduncolo, alla cui sommità vi sono peli piumosi ma rigidi.

T. porrifolius

DIFFUSIONE Tragopogon pratensis è presente sui Monti di Avella con la subspecie “pratensis”, nelle praterie elevate, ad altitudini comprese tra i 1.200 ed i 1.500 metri. Sui Monti di Avella e sul Monte Vallatrone è stata rinvenuta anche la subspecie “orientalis” precedentemente nota solo per le Alpi e per gli Appennini centro-settentrionali (Pignatti, 1982). Diffusissima, su tutto il territorio oggetto di studio è la specie Tragopogon porrifolius, con la subspecie “porrifolius”, con squame più lunghe dei fiori, che è facile rinvenire tra gli incolti e negli ambienti ruderali in tutta la fascia basale, tra i 200 ed i 400 m slm, e con la subspecie “eriospermus”, con squame più corte dei fiori, presente negli incolti aridi elevati, tra i 1.000 ed i 1.300 m slm. Comune è, infine, il Tragopogon dubius, diffuso nei terreni aridi ed incoerenti del Vallone Sorroncello, Monti di Avella, Monti di Lauro e di Quindici.

T. dubius

USO GASTRONOMICO La pianta è interamente commestibile e viene usata per preparare minestre e saporite frittate. È consigliabile raccoglierla prima della fioritura, quando si presenta più tenera. I giovani germogli, lessati o fritti, competono in prelibatezza con i più conosciuti asparagi. Ma la parte più apprezzata è costituita dalle radici che, secondo alcuni estimatori, avrebbe addirittura il sapore delle ostriche. Esse possono essere bollite e condite con olio ed aceto. Oppure tagliate a fettine ed arrostite. Bollite nel latte, invece, erano considerate un tonico eccellente. Il T. porrifolius (noto come “scorzobianca”), dalle radici più robuste, è coltivabile anche negli orti. Da preferire la varietà “Mammouth”, che va seminata in marzo-aprile al Sud e nel mese di maggio al Nord.

RICETTE

T. pratensis

058 - 059 - 101

127 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Boccione Urospermum spp. Scheda n. 46 Urospermum picroides

Urospermum dalechampii

Urospermum dalechampii 128 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Il nome del genere proviene dal latino uro (brucio) e spermum (seme) per il colore nero degli acheni.

Urospermum dalechampii Sinonimo: Arnopogon dalechampii. Nomi comuni: boccione maggiore, cicoria amara, lattugaccio. Questa specie è una emicriptofita scaposa. E’ una pianta erbacea perenne con scapo eretto, alto da 25 a 40 centimetri, e ricoperto da fine peluria vellutata. Le foglie basali, raccolte in una rosetta più o meno compatta, presentano una certa variabilità nella forma e nelle dimensioni. La loro lamina, lanceolata e pennato-partita, può (eccezionalmente) giungere fino a circa 20 centimetri di lunghezza. Le foglie cauline, più piccole, sessili ed amplessicauli, sono spesso prive di dentellatura. Gli scapi fiorali sono cavi all’interno, cilindrici e slargati alla giunzione con l’involucro lanuginoso a coppa. I capolini fiorali, solitari sono facilmente riconoscibili per il loro diametro (che può raggiungere anche i 6 centimetri) e per la particolare disposizione frastagliata delle ligule dei flosculi posti più perifericamente. I flosculi, ermafroditi e di forma lanceolata, hanno 5 minuscoli denti all’apice. Sono di colore giallo limone o giallo zolfo e, quelli periferici, sono spesso striati di rosso nella parte inferiore. Il frutto è un achenio nero con un becco obliquo ed un ciuffo di peli scuri e piumosi. Fiorisce da marzo ad agosto. E’ frequente nei prati e nelle pendici aride, tra i 100 ed i 600 metri di altitudine (es. Monte Fellino, Pietra Maula, Campimma, ecc..).

Urospermum picroides Nome comune: boccione minore Emicriptofita scaposa. E’ una pianta erbacea annuale, più o meno ispida. Lo scapo è eretto, ramoso, ispido e può raggiungere un’altezza di oltre 60 centimetri. La radice è fittonante e relativamente profonda. Le foglie sono di forma variabile, da quasi intere fino ad irregolarmente divise, a margini dentati. I capolini sono generalmente più di 2 (fino a 6 o più), da 2 a 4 centimetri di diametro. I flosculi, tutti ligulati, sono di colore giallo chiaro. L’involucro è setoloso, con peli lunghi alcuni millimetri. Il frutto è un achenio striato, con becco rigonfio alla base. Questa specie si distingue dalla precedente, oltre che per essere ispida, per i capolini più piccoli e più numerosi. E’ una entità botanica comunissima in tutto il territorio, tra i 100 ed i 600 metri di altitudine. Peferisce terreni aridi ed incoerenti.

USO GASTRONOMICO Queste piante vengono utilizzate alla stregua delle altre “cicorie selvatiche” sin qui trattate, dalle quali si distinguono per una sottile sfumatura “selvatica”. Le foglie giovani sono utilizzate, previa cottura, assieme ad altre erbe passate in padella o per preparare il ripieno per pizze salate.

RICETTE

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Cavalli al pascolo brado nel Campo San Giovanni

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Nel corso delle ricerche effettuate, il giovanissimo Antonio De Rosa (nella foto sopra) ha rinvenuto, su un muretto, un Sonchus spp dall’anomala colorazione antocianica (rossastra). Nessun Sonchus spp di colore rossastro era mai stato segnalato in zona, per cui inizialmente egli ha ipotizzato di essersi imbattuto in una nuova entità botanica (della quale ha provveduto a conservare i semi in una piastra Petri) da lui denominata scherzosamente “Sonchus dubius”. Ma, ipotizzando che tale strana colorazione potesse anche derivare da una carenza nutrizionale (ad es. di magnesio) il giovane “botanico” ha deciso di trapiantare una delle piantine “anomale” in un normale terreno agrario ed osservarne il comportamento. Egli ha così potuto constatare il graduale “viraggio” del colore della piantina da rosso a verde (vedi foto in basso a destra) e confermare l’ipotesi che la sua colorazione anomala fosse stata indotta da un fattore nutrizionale.

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Equisetaceae A differenza di tutte le altre piante trattate in questo libro, che sono Angiosperme (piante con semi racchiusi in un frutto), dette anche Antofite (piante con fiori veri), la famiglia delle Equisetaceae appartiene, invece, alla divisione botanica delle Gimnospermae (piante con seme nudo), come ad esempio le conifere (abeti, pini, ecc..). Più precisamente, la famiglia delle Equisetaceae è inclusa nella classe delle Pteridophytae, che comprende le comuni felci. Tali piante si riproducono non per semi ma per spore. Queste si formano in sporangi situati al margine degli sporofilli, che sono fatti a “capocchia di chiodo” e disposti a verticilli nella parte terminale dei fusti aerei, costituendo quindi un abbozzo di fiore primitivo, cilindrico o ovoidale. L’apparato vegetativo consta di un rizoma che sviluppa fusti aerei articolati, con foglie pluriverticillate, squamiformi, connate in modo da formare una guaina. Le Equisetaceae contano 30 specie diffuse in gran parte del globo, appartenente alle sfenofite, piante di antichissima origine che costituivano enormi foreste paludose nel carbonifero. Nelle flora attuale questa famiglia è rappresentata dal solo genere Equisetum, costituito da piante erbacee conosciute col nome di equiseti o “code di cavallo”, a causa della caratteristica forma costituita da un asse ramificato con numerosi verticilli sovrapposti. Questo genere presenta rizoma lungo, orizzontale, articolato. Rami di primo ordine verticali, lunghi, articolati, omomorfi o dimorfi. Rami di secondo ordine verticillati, più o meno orizzontali, articolati. Fronde verticillate, piccole, fuse in una guaina dentata che circonda un nodo. Sporofilli trasformati in scudetti peduncolati, sporangiferi, raggruppati nei verticilli di uno strobilo terminale. Spore sferoidali, fornite di quattro amplessori (elateri). Piante eteroprototalle, vivono per lo più in ambienti umidi, (acquitrini e sponde di laghetti, fossi e corsi d’acqua) dove danno luogo sovente a colonie anche di ampie dimensioni. Accumulano oltre alla silice, che riveste le pareti esterne e che le rende pericolose per il bestiame, anche minerali insoliti tra i quali persino l’oro.

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Coda di cavallo Equisetum arvense (L.) Scheda n. 47

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uso sconsigliato

Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Nomi comuni: equiseto dei campi, coda di cavallo. Il nome deriva dal latino equus (cavallo) e saetula (setola), per la sua somiglianza con la coda del cavallo. Questa pianta è una pteridophita, ovvero una felce. Ha la forma biologica di una “geofita rizomatosa” erbacea. Pertanto è provvista di un organo sotterraneo, in questo caso un rizoma ingrossato, spesso munito di più tuberi sferoidali, dal quale ogni anno germoglia la parte epigea. L’equiseto presenta duplice forma vegetativa. Dapprima, da marzo a maggio, compare la forma fertile, di colore chiaro, alta sino a 20 centimetri, non ramificata (vagamente somigliante ad un grosso asparago) ad apice allargato ricoperto di sporangi ocracei e guaine di colore bruno ricoprenti i nodi. Successivamente, in primavera inoltrata, compare la forma sterile, verde, con 20-40 coste e cavità centrale pari a 1/3 del totale, rami verticillati densi, i superiori allungati e superanti l’apice vegetativo. Questa pianta, essendo una felce, non presenta fiori ma sporofilli riuniti in sporangi (spiga di sporangi, a forma di minareto, di colore ocraceo, lunga all’incirca 3 centimetri e posta in cima al pallido turione): non produce frutti e semi, ma minutissime spore.

DIFFUSIONE Nel territorio del Baianese e nel Lauretano la specie Equisetum arvense è diffusa in tutti i luoghi umidi e nel letto dei corsi d’acqua, seppure a regime torrentizio, di tutto l’areale (es. Vallone di Quindici, Vallone Sorroncello, Vallone Acquaserta, Vallone Mandrini, ecc.). Oltre questa specie, diffusa dal piano basale fino ad oltre 1.000 metri di altitudine, sono presenti, negli stessi ambienti, le specie: - Equisetum ramosissimum, a quote comprese tra i 100 ed i 500 metri di altitudine; - Equisetum telmateia, a quote superori ai 500 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO I fusti fertili, di precoce apparizione alla fine dell’inverno, vanno preparati avendo l’accortezza di togliere le guaine membranose, presenti ai nodi, ed i bruni sporangi dalla spiga superiore. Vanno, poi, accuratamente lavati e lasciati a bagnomaria in acqua e limone per qualche ora. Poi si possono cucinare e consumare allo stesso modo degli asparagi, pur possedendo un gusto decisamente particolare. Il medico senese P.A. Mattioli, così scriveva, nel XVI secolo, nel suo celeberrino “Erbario” a proposito di questa gustosa felce: «Produce questa, quasi nel nascimento suo, un certo germoglio grosso e tenero, simile a una ghianda, il quale chiamano i nostri maremmani Sanesi Paltrufali, usati da loro nei cibi la quaresima, prima cotti lessi nell’acqua, e poi infarinati e fritti nella padella in cambio di pesce». n.b. La specie affine Equisetum palustre (L.), equiseto delle paludi, è inclusa nella “Lista piante non ammesse negli integratori alimentari” (Ministero della salute - 2006), per cui se ne sconsiglia l’uso gastronomico.

RICETTE

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Graminaceae La famiglia delle Graminaceae o Poaceae, appartenente alla classe delle monocotiledoni, è suddivisa in circa 500 generi, comprendenti oltre 8.000 specie, di cui circa 350 presenti in Italia. Ai fini alimentari, hanno enorme importanza soprattutto le specie appartenenti al gruppo delle piante cereali1 e la canna da zucchero. Le Graminaceae sono piante erbacee, perenni o annuali, con il fusto (culmo) articolato in nodi (pieni) ed internodi (cavi), talora piuttosto lignificato (Bambuseae). Si spingono a tutte le latitudini, con notevole escursione altimetrica. In alcune aree arrivano a costituire fitte formazioni vegetali molto estese alle quali conferiscono una particolare fisionomia (praterie, steppe, savane). Le foglie, parallelinervie, sono costituite da una guaina, avvolgente il culmo, ed un lembo, allungato, che si stacca nettamente dalla guaina in corrispondenza di una piccola struttura membranosa detta ligula. Talora sono presenti anche le auricole, abbraccianti il culmo. I fiori sono sempre raccolti in particolari infiorescenze, denominate spighette, riunite a loro volta in spighe o pannocchie. La spighetta può essere uniflora o multiflora. Essa è provvista di un asse, denominato rachilla, portante alla base 2 brattee opposte (glume) al di sopra delle quali si trovano i fiori. Alla base di ciascun fiore si trovano altre due glumette, di cui l’inferiore prende il nome di lemma, e la superiore, molto piccola e generalmente racchiusa dalla precedente, è chiamata palea. Glume e lemma possono essere provviste di un’appendice allungata, denominata resta e, in tale caso, vengono dette “aristate”. Nel fiore si osservano le vestigia del perianzio, costituite da 2 o 3 lodicole, di consistenza membranosa, alle quali segue 1 Specie vegetali in grado di produrre “granella”, costituita da cariossidi se provenienti da graminacee, o da acheni se provenienti dal grano saraceno (Polygonaceae: Fagopyrum esculentum) o dalla quinoa (Chenopodiaceae: Chenopodium quinoa), utilizzata per produrre farina. Il termine “cereale” deriva da Cerere, Dea latina dell’agricoltura.

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

l’androceo (parte maschile) formato tipicamente da 3 stami. Il gineceo (parte femminile), costituito in origine da 2 o 3 carpelli, è uniloculare e contiene un solo ovulo. L’androceo è costituito da 2 o 3 stimmi piumosi. L’impollinazione è anemofila. La formula fiorale è: P 2-3, A 3, G (1). Il frutto, costituito da una cariosside, contiene un seme con endosperma ricco di amido. Le Graminaceae vengono distinte, in base alla struttura della spighetta, in varie tribù: Agrostideae, Andropogoneae, Aveneae, Bambuseae, Festuceae, Hordeae, Maydeae, Paniceae, Phalarideae e Oryzeae. La coltivazione dei cereali, grazie alla produzione di cariossidi di ottima qualità nutritiva e, soprattutto, facilmente conservabili per lunghi periodi in semplici depositi, è alla base dello sviluppo delle prime società civilizzate tanto nel Vecchio che nel Nuovo Mondo. Tra i cereali più importanti si ricordano il frumento, con le sue 2 specie principali: il grano duro (Triticum durum) ed il grano tenero (Triticum aestivum). E poi ancora il farro (Triticum turgidum), l’orzo (Hordeum vulgare), la segale (Secale cereale), l’avena (Avena sativa), il riso (Oryza sativa) ed il mais o granoturco (Zea mays), originario del centroamerica. Nelle regioni tropicali dell’Africa e dell’Asia orientale sono molto diffusi, oltre al riso, il miglio (Panicum miliaceum), il sorgo (Sorghum bicolor) ed il panìco (Setaria italica). Moltissime graminacee sono, inoltre, utilizzate anche come foraggere, per l’alimentazione del bestiame. Tra queste sono comprese alcune specie dei generi Avena, Festuca, Lolium, Poa e Setaria, nonché lo stesso granturco, seminato fitto e falciato in uno stadio precoce (granturchino e silomais). Infine, dal culmo della canna da zucchero (Saccharum officinarum) coltivata nelle regioni tropicali, si estrae lo “zucchero di canna” (saccarosio) di colore più scuro di quello proveniente dalla barbabietola da zucchero. Nell’area Baianese-Lauretana sono state censite 112 specie di Graminaceae. Le cariossidi di tali specie selvatiche, seppure spesso di ridottissime dimensioni, sono potenzialmente tutte utilizzabili per produrre farina. I rizomi delle gramigne (Agropyron repens o “grano dei campi” e Cynodon dactylon) possono essere essiccati, torrefatti ed utilizzati come surrogati del caffè. Anche le infiorescenze di Alopecurus pratensis (“coda di volpe” o “coda di topo”), in caso di necessità, possono essere usate a scopo alimentare.

Grano o Frumento

Orzo

Mais o Granturco

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Gramigne Cynodon dactylon (L.) e Agropyron repens (L.) Scheda n. 48

Cynodon dactylon

Agropyron (Elytrigia) repens

Cynodon dactylon

Cynodon dactylon

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Cynodon dactylon RICONOSCIMENTO Sinonimo: Panicum dactylon. Nomi comuni: vera gramigna, gramigna dente di cane. Ha come forma biologica quella di una emicriptofita reptante (pianta erbacea perenne, con un accrescimento aderente al suolo con carattere strisciante). Raggiunge mediamente le dimensioni di 30 – 40 centimetri. Dai rizomi sotterranei e dai nodi dei fusti appressati al suolo (stoloni) si producono ciuffi di radici avventizie. A maturazione produce un fusto (culmo) ascendente, avvolto dalle guaine fino alla infiorescenza. Le foglie sono lineari, larghe 3 millimetri, distiche, a lamina canalicolata, rigida e irsuta. E’ presente una ligula di peli, posta tra la guaina e la lamina di ogni foglia. L’infiorescenza ha la tipica forma digitata, a 3 – 5 spighe sottili e violette, portanti ognuna 3 – 7 spighette. Il frutto è costituito da una minuscola cariosside. Fioritura: da maggio a settembre. E’ una pianta infestante che si moltiplica anche per pezzi di stoloni. Molto gradita da suini e cavalli.

DIFFUSIONE Specie indifferente al substrato, diffusa negli incolti, siepi, luoghi di calpestio, tra le più comuni infestanti degli orti, giardini e coltivi. Spesso buca anche l’asfalto. Diffusa ovunque, compresi i luoghi ruderali ed antropizzati, tra i 100 ed i 900 metri di altitudine.

Agropyron repens RICONOSCIMENTO Nome comune: gramigna comune. Il nome del genere significa “frutto dei campi”, poiché le sue cariossidi possono essere usate per produrre farina. E’ una specie geofita rizomatosa. Pianta perenne con un rizoma sotterraneo ramificato e lungamente strisciante che raggiunge facilmente alcuni metri di lunghezza. Il fusto strisciante (stolone) è diviso in nodi e internodi: dai nodi si dipartono inferiormente le radici e superiormente i fusti epigei, che sono semplici, eretti e alti fino ad un metro circa. Le foglie sono divise in due parti: una guaina lunga circa un decimetro, che abbraccia il fusto (culmo) e la lamina, lanceolato-lineare, lunga 1-2 decimetri e gradatamente assottigliata fino all’apice acuminato. Il margine è intero ma scabro, come la superficie superiore, per la presenza di piccoli denti. L’infiorescenza è una spiga composta da una decina di spighette; ogni spighetta ha alla base due brattee dette glume che contengono quattro-otto fiori, ognuno dei quali racchiuso in altre due brattee dette glumette. Il frutto è una cariosside di forma ovoidale lunga circa 6-8 millimetri che resta racchiusa nelle glumette persistenti.

DIFFUSIONE E’ diffusa ovunque, con maggiore frequenza tra i 100 ed i 300 metri di altitudine.

RICETTE I rizomi più teneri e freschi sono commestibili. In periodi di carestia questa pianta è stata utilizzata, dopo essiccazione e macinatura e mescolata alla farina, per produrre pane. Con essa è stato prodotto anche un surrogato del caffè, dopo triturazione e tostatura. Gli zuccheri presenti nei rizomi sono stati utilizzati per produrre alcool e anche una birra che, a quanto pare, è di gusto gradevole.

RICETTE

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Sopra. A sinistra: il dott. agronomo Nicolangelo De Vita, di Montoro (Av). A destra: il prof. agronomo, Carmine Strocchia, di Saviano (Na). Sotto: l’autrice, la giornalista Benedetta Napolitano, durante alcune lezioni su tematiche ambientali tenute presso le Scuole Elementari di Baiano.

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Iridaceae La famiglia delle Iridaceae, appartenente alla classe delle monocotiledoni, è rappresentata da circa 1800 specie, distribuite in 92 generi. In Italia crescono spontaneamente una cinquantina di specie comprese in 5 generi. Sono piante erbacee perenni dotate di rizomi, bulbi o bulbo-tuberi, con fusti semplici o ramificati. Le foglie sono lineari o appuntite all’estremità, inguainanti, a margine intero e parallelinervie. I fiori sono attinomorfi o più raramente zigomorfi (gen. Gladiolus), tetraciclici e trimeri. A volte sono solitari (ad es. Crocus) o più frequentemente raccolti in infiorescenze terminali, a forma di spighe, racemi, o cime. Il perigonio è formato da 2 verticilli di 3 tepali, l’androceo da un solo verticillo di 3 stami e il gineceo da 3 carpelli concresciuti in un ovario infero triloculare o uniloculare per riduzione dei setti (Hermodactylus). La tipica formula fiorale è: P 3+3, A 3, G (3) (ovario infero). Il frutto è una capsula loculicida. L’impollinazione è entomofila od ornitofila. Tra le iridaceae di importanza economica citiamo Crocus sativus, attivamente coltivato per gli stimmi da cui si ricava lo zafferano. Altre specie vengono utilizzate per le proprietà medicinali (Aletris, Iris) o in profumeria (Iris), in cucina o in tintoria (Crocus, Gladiolus, Iris, Moraea, Tigridia), o come piante ornamentali (Crocosmia, Crocus, Freesia, Gladiolus, Iris, Ixia, Sparaxis, ecc.). Nel territorio oggetto di indagine sono presenti 9 specie vegetali appartenenti alla famiglia delle iridaceae, tra cui il Crocus napolitanus (Sinonimo: Crocus vernus subsp. vernus) o “zafferano maggiore”.

Crocus napolitanus

Baianese: i monti Campimma, Rocchetelle e Tavertone

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Zafferano maggiore Crocus napolitanus (Mor. & Lois.) Scheda n. 49

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RICONOSCIMENTO Sinonimi: Crocus vernus subsp. vernus. Nomi comuni: croco, zafferano maggiore. Il nome del genere, Crocus, è la trascrizione del greco kròkos (filamento), a causa dei suoi lunghi stami. Questa specie è una geofita bulbosa. Pianta erbacea, perenne, alta dai 10 ai 20 centimetri, che forma un piccolo bulbo-tubero sotterraneo, sferico, dal quale germogliano annualmente nuovi fusti, foglie e fiori. Il fusto, tubulare, porta inferiormente 2 o 3 foglie biancastre che lo avvolgono a guisa di guaine. Le foglie nate dopo la fioritura sono larghe circa mezzo centimetro e lunghe quanto i fiori e di forma lineare-lanceolata, con una caratteristica nervatura centrale bianca. I fiori, generalmente di colore azzurro o violetto, sono spesso più scuri all’apice e, talora, possono essere anche completamente bianchi. La corolla, larga 1 o 2 centimetri e lunga da 3 a 4,5 centimetri, presenta la base di forma tubulare e l’apertura superiore (fauce) che si divide in sei petali (lacinie) subspatolati. Le antere sono di colore giallo-zafferano e lunghe circa un centimetro e mezzo. Il pistillo, sovrastante le antere, porta tre stimmi di colore rosso-arancio disposti a ventaglio. L’ovario è infero. Il frutto è una capsula racchiudente numerosi semi. Tutte le specie del genere Crocus sono protette dalla legge, che ne vieta la raccolta.

DIFFUSIONE Nel territorio oggetto di studio è presente nei pascoli di quota e nei boschi di latifoglie di tutto il Partenio, tra i 700 ed i 1.598 di altitudine (es. Monti di Avella, località fontana di Pianura, ecc..).

USO GASTRONOMICO Principalmente vengono utilizzatti i pistilli con i tre stimmi. Come tutti gli zafferani oltre che in cucina il Crocus viene utilizzato per le sue proprietà medicinali, aromatiche e coloranti. Viene aggiunto anche ad alcuni formaggi, cagliati e non cagliati. Secondo il Mattirolo, dei Crocus si mangiano anche i teneri bulbo-tuberi: in Moldavia ed in Valacchia si mangiano o crudi o preparati come le patate (arrostiti, bolliti o fritti). La specie coltivata per la produzione industriale dello zafferano è il Crocus sativus, pianta triploide e sterile, risultato di una intensiva selezione artificiale di una specie originaria dell’isola di Creta, il Crocus cartwrightianus. E’ una specie ottenuta dalla selezione (miglioramento genetico) operata dai coltivatori mirante a migliorare la produzione degli stimmi. La sua struttura genetica lo rende incapace di generare semi fertili, per questo motivo la sua riproduzione è possibile solo per clonazione del bulbo madre. Gli stimmi dello zafferano vengono raccolti delicatamente a mano. Servono circa 120.000 150.000 fiori per ottenere un chilogrammo di prodotto.

RICETTE

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Fioritura di Crocus in località Pianura (Avella)

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Faggi monumentali nel Campo di Summonte, al limite dei territori montani di Sirignano e Sperone (Av).

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Labiatae Le Labiatae o Lamiaceae sono una famiglia di dicotiledoni, comprendente circa 3000 specie. Piante erbacee annuali o perenni, camefite, nanofanerofite, cespugliose, e a volte arboree, arbustive o lianose. L’apparato vegetativo è caratterizzato dal fusto di forma quadrangolare, per la presenza di fasci di collenchima posti agli angoli, dalle foglie opposte e prive di stipole, e dalla presenza di ghiandole contenenti olii eterei che emanano caratteristici aromi. I fiori, ascellari, solitari o riuniti in verticillastri o falsi verticilli, tipicamente a simmetria bilaterale (zigomorfi) o raramente a simmetria raggiata, provvisti di 2 foglie bratteali (raramente si notano delle bratteole basali). Il calice è costituito da 5 sepali saldati a formare un tubo actinomorfo o zigomorfo bilabiato, in quest’ultimo caso con sepali raggruppati secondo lo schema 3/2. La corolla, gamopetala, è formata da 5 petali ed è quasi sempre zigomorfa e bilabiata, con un labbro superiore che consta di 2 pezzi e un labbro inferiore di 3. Alcune specie si distaccano da questo schema e, pertanto, si distinguono anche generi con corolla attinomorfa formata da un tubo sormontato da 4 denti subeguali tra loro (Mentha), e generi con corolla unilabiata secondo il piano 0/3, con annullamento cioè del labbro superiore (Ajuga), oppure 0/5, con la fusione dei 5 pezzi corollini in un corpo unico, rappresentato dal labbro inferiore (Teucrium). L’androceo è formato da 4 stami (il quinto, posteriore, è quasi sempre abortito) di cui 2 appaiono più lunghi (didinami); talvolta possono essere presenti solo 2 stami (Salvia). Il gineceo, supero, è bicarpellare e contiene 4 ovuli. La formula fiorale è, generalmente: K (5), C (5), A 4, G (2). Il frutto è racchiuso dal calice persistente ed è un tetrachenio, composto da 4 nucule. I semi, salvo rare eccezioni, sono sprovvisti di endosperma. La fecondazione è entomofila ed è operata da ditteri e imenotteri. Tra le specie più utilizzate in cucina si ricordano: basilico (Ocimum basilicum), maggiorana (Origanum majorana), menta (Mentha piperita), melissa (Melissa officinalis), nepetella (Calamintha nepeta), origano (Origanum vulgare), rosmarino (Rosmarinus officinalis), salvia (Salvia officinalis) e timo (Thymus vulgaris). Altre specie, come l’issopo (Hyssopus officinalis) e la lavanda (Lavandula angustifolia), vengono utilizate come erbe officinali. Nei comprensori Baianese e Lauretano sono state censite 56 specie di Labiatae.

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False ortiche Lamium spp. Scheda n. 50 Lamium album

Lamium maculatum

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Il nome del genere deriva dal greco, con il significato di “a bocca aperta” per la caratteristica forma delle corolle.

Lamium album Nomi comuni: falsa ortica bianca, lamio, ortica morta. E’ una emicriptofita scaposa, perennante per mezzo di gemme poste a livello del suolo, sui robusti stoloni. E’ provvista di lunghissime radici. I fusti possono essere alti dai 30 ai 60 centimetri, a seconda delle condizioni pedologiche ed edafiche. A portamento eretto, a sezione quadrangolare, coperti di peli eretti ma non urticanti, spesso striati di porpora nella zona inferiore. Le foglie sono ovali acute e portate con fillotassi opposta. Le inferiori sono lungamente picciolate e irregolarmente dentate, le superiori hanno un picciolo più breve e talora sono quasi sessili. Sia la pagina superiore che quella inferiore sono ricoperte di peli glandulosi e non urticanti. I fiori, a corolla classicamente labiata, sono disposti in verticilli chiusi all’ascella delle foglie. Il calice è campanulato, semiaperto, munito di 5 denti lanceolati. La corolla simmetrica bianca o giallastra, è formata da un lungo tubo incurvato, con labbro superiore a cappuccio e pubescente e labbro inferiore bilobo, divergente a 90°. L’androceo è costituito da quattro stami (i 2 del labbro superiore sono più lunghi) con antere di colore bruno scuro. L’ovario contiene, in ognuno dei 2 alveoli, 2 semi che a maturazione si trasformano in 4 acheni duri. Antesi: da marzo ad ottobre. E’ rinvenibile nei fruticeti e nei boschi misti di tutto il territorio esaminato, tra i 100 ed i 900 metri di altitudine.

Lamium maculatum Nome comune: falsa ortica macchiata. E’ una pianta erbacea perenne (emicriptofita scaposa). Dall’altezza variabile dai 10 centimetri al metro. Con fusti eretti o prostrato–ascendenti, subglabri, tubulosi, a sezione quadrangolare, talvolta radicanti ai nodi. Le foglie sono opposte, localizzate prevalentemente nella parte inferiore del fusto, con picciolo di 2 – 4 centimetri, lamina ovato-cordata, dentata e macchiata di bianco, pubescente. Lunghe 3 – 4 centimetri, si riducono di dimensioni via via che si avvicinano all’infiorescenza. I fiori sono situati all’apice del fusto, hanno calice lungo 5-6 mm, peloso. La corolla è formata: da un tubo sottile, ricurvo “ad S”, più lungo del calice; da un labbro superiore convesso, bordato da corti peli, da roseo a purpureo e da un labbro inferiore bilobo, chiaro con macchie purpuree. I frutti sono piccoli acheni. Antesi: da marzo a novembre. E’ rinvenibile con maggiore frequenza nei boschi di faggio e boscaglie mesofile, tra i 1.400 ed i 1.598 metri (Porca delle Pere, Monti di Avella). Ma individui di taglia inferiore, i cui semi sono probabilmente portati a valle dai forti venti che spesso imperversano nella zona, sono presenti anche a quote sensibilmente inferiori (anche nei prati all’interno dei centri abitati, tra i 200 ed i 400 metri di altitudine).

altri Lamium spp. Altre specie diffuse sul territorio sono: - Lamium bifidum subsp. bifidum, terofita erbacea, comune negli ambienti ruderali e tra gli incolti della fascia basale (tra i 100 e gli 800 metri di altitudine); - Lamium amplexicaule, terofita erbacea, diffusa nello stesso areale della specie precedente; - Lamium purpureum, terofita erbacea, diffusa nella stessa fascia altimetrica della specie precedente; - Lamium garganicum subs. laevigatum, emicriptofita scaposa, diffusa nei pascoli e lungo le pendici erbose di vetta (Ciesco Alto, Porca delle Pere, ecc..); - Lamium flexuosum, emicriptofita scaposa, nei boschi e nelle boscaglie miste di tutto il territorio, nella fascia altitudinale, compresa tra i 500 ed i 1.100 metri.

USO GASTRONOMICO Le “false ortiche”, dopo cottura, possono essere utilizzate per saporiti ripieni, minestre ed insalate. Hanno un sapore simile a quello degli spinaci, molto apprezzato dai buongustai. Talora vengono cotte o servite insieme ad altre verdure.

RICETTE

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Melissa o Citronella Melissa officinalis (L.) Scheda n. 51

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Nomi comuni: melissa, citronella, erba limoncina. Pianta erbacea perenne. Emicriptofita scaposa. Può giungere fino ad un’altezza di 80 centimetri ed è provvista di un robusto rizoma orizzontale, alquanto lignificato, articolato e lungo 20-30 centimetri, provvisto di brattee biancastre ai nodi. Da questi si sviluppano i fusti epigei, a sezione quadrangolare, alti fino a un metro e con numerosi rami patenti. Le foglie sono disposte sul fusto con fillotassi opposta, a due a due (disposizione “a croce”). Hanno lamina ellittica, margine seghettato, e sono provviste di piccioli (più lunghi in quelle inferiori, più corti in quelle superiori). La superficie fogliare è reticolata, rugosa e leggermente pubescente. I fiori sono riuniti in spicastri (cime contratte, poste sui verticilli fogliari, all’ascella delle foglie). Hanno una brattea ellittica o lanceolata e un breve peduncolo. Il calice è campanulato e diviso alla fauce in due labbra: il superiore è intero con tre piccoli denti, l’inferiore è bilobato con due lobi triangolari acuti. La corolla tubulare ha il labbro superiore convesso e l’inferiore trilobato con il lobo mediano più grande degli altri due. I petali, di colore giallastro prima della fioritura, divengono poi rosati oppure bianchi. Il frutto è uno schizocarpo (tetrachenio) formato da quattro nucule. Antesi: da aprile ad agosto.

DIFFUSIONE Specie sinantropa e nitrofila, è abbastanza diffusa in tutto il territorio, tra i 100 ed i 500 metri di altitudine, negli ambienti ombrosi ed umidi. Spesso la si rinviene nei prati o negli appezzamenti di terreno prossimi alle abitazioni. Nel territorio oggetto di studio è presente anche la specie Melissa romana, dal profumo meno accentuato.

USO GASTRONOMICO La melissa, pianta dal gradevole odore di limone, è stata utilizzata fin dall’antichità in erboristeria, liquoreria e cosmesi. E’ un ingrediente fondamentale di molti liquori noti per le proprietà digestive, tra i quali il «Gran Chartreuse», o «Liquore di Francia», creato dai frati benedettini, e l’«Acqua di Melissa», inventata dalle suore carmelitane. Le foglie crude si utilizzano in insalata oppure nella preparazione di minestre e frittate. Vanno utilizzate solo le foglie giovani, prima della fioritura, poiché successivamente esse assumono uno sgradevole odore di “cimiciato”.

RICETTE

035 - 094

Monti del Baianese e di Lauro. Sullo sfondo il Vesuvio.

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Leguminosae o Fabaceae Le Leguminosae, Fabaceae o Papilionaceae, sono una famiglia di dicotiledoni, comprendente 630 generi con circa 18.000 specie. Anch’esse, come è stato già detto a proposito delle graminacee, sono Fiore di state importantissime per lo sviluppo leguminosa della civiltà umana, grazie al fatto che, all’interno dei loro frutti (legumi), producono semi facilmente essiccabili e conservabili (leguminose da granella), come è il caso dei fagioli, dei ceci, delle lenticchie ecc.. L’apparato vegetativo, quasi sempre di consistenza erbacea, è spesso volubile o strisciante e le foglie, per lo più composte e quasi sempre alterne, sono provviste in molti casi di viticci o cirri. Diverse specie hanno, poi, un habitus fanerofitico e in tal caso, talvolta, possono essere quasi prive di foglie, svolgendo i processi fotosintetici nel fusto e nei rami (Spartium junceum). I fiori sono spesso raccolti in infiorescenze a grappolo e sono caratterizzati da una particolare morfologia (corolla papilionacea). Il calice è gamosepalo e forma un tubo sormontato da 5 denti. La corolla, dialipetala, è la parte più caratteristica in quanto è costituita da un grande petalo detto vessillo, ai cui lati sono posti 2 petali, le ali, e inferiormente altri 2 parzialmente fusi che formano la carena racchiudente l’androceo e il gineceo. Il primo è costituito da 10 stami monadelfi, cioè tutti riuniti per i filamenti formando un unico tubo, o diadelfi, quando gli stami riuniti sono 9 ed il decimo è libero. Il gineceo consta di un solo carpello uniloculare che contiene un numero variabile di ovuli.

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

La formula fiorale è: K (5), C 5, A (5+5) oppure (9) + 1, G 1. Il frutto è un legume con peculiari modificazioni morfologiche da un genere all’altro che gli conferiscono notevole importanza diagnostica. Il legume, quando è secco ed “indeiscente” (che non si apre), come nel caso del carrubo (Ceratonia siliqua), prende il nome di siliqua. Negli altri casi è “deiscente” e si apre dall’alto in basso lungo 2 linee di sutura che corrispondono alle placente e alla nervatura dorsale del carpello. Esso, inoltre, può essere monospermo (Trifolium) oppure plurispermo (Lotus). I semi contengono notevoli quantità di riserve proteiche unite a sostanze amilacee nei cotiledoni, mentre manca l’albume. L’impollinazione è di regola entomofila. Numerose specie vengono utilizzate per l’alimentazione umana, tra esse le più importanti sono: il fagiolo (Phaseolus vulgaris), la soia (Glycine max), la fava (Vicia faba), il pisello (Pisum sativum), il cece (Cicer arietinum), la lenticchia (Lens esculenta), l’arachide (Arachis hypogea), il fagiolino (Vigna unguiculata) e la cicerchia (Lathyrus sativus), coltura quest’ultima oggigiorno in via di scomparsa. Tra le più importanti specie foraggere si ricordano quelle appartenenti ai generi Trifolium, Medicago, Lupinus, Vicia, Vigna, ecc... Quasi tutte utilizzabili, in caso di necessità, anche per fini alimurgici. In tal caso le parti utilizzabili sono: le foglie (limitandosi a quelle più tenere), i giovani e i teneri cirri, i semi e le infiorescenze. Preferibilmente dopo idonea sbollentatura. Si ricorda, infine, che grazie alla simbiosi radicale con batteri azoto-fissatori, alcune di queste specie vengono utilizzate nella pratica agronomica del “sovescio” (interramento dei prati di leguminose) per arricchire ecologicamente i terreni poveri di sostanze azotate e materiale organico. Nell’areale oggetto di studio sono state censite 112 entità vegetali appartenenti alla famiglia delle fabaceae o leguminosae. Tipiche del panorama di molte colline sono i gialli fiori delle verdi ginestre (gen. Genista, Spartium e Cytisus) e, alla base degli estesi boschi di castagno, i recenti popolamenti di Acacia (Robinia pseudoacacia), importante pianta mellifera, le cui infiorescenze possono essere utilizzate per preparare deliziose pizzette. Impiegata negli interventi di ingegneria naturalistica è la vesicaria (Colutea arborescens), particolarmente adatta alla stabilizzazione dei versanti più aridi esposti a mezzogiorno.

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Trifoglio Trifolium pratense (L.) Scheda n. 52

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Nomi comuni: trifoglio dei prati, trifoglio violetto, trifoglio rosso. E’ una emicriptofita scaposa, perennante per mezzo di gemme poste a livello del terreno, con scapo allungato, privo di foglie, portante all’estremità una infiorescenza. Questo trifoglio, pur essendo perenne, difficilmente supera i due anni di età. L’apparato radicale è fittonante, con la presenza (tipica di quasi tutte le leguminose) di numerosi tubercoli radicali che ospitano, in simbiosi, i batteri del gen. Rhizobium, organismi in grado di fissare l’azoto atmosferico che viene utilizzato dalla pianta come concime. I fusti, dell’altezza variabile tra i 10 ed i 60 centimetri, sono eretti e non ramificati. Le foglie sono tipicamente composte-trifogliate, picciolate, e munite di stipole lunghe con breve resta. I tre segmenti, di forma lanceolata-ellittica ed a margine dentellato, presentano una tipica macchia bianca a “V”, alla pagina superiore. Talora si possono rinvenire anche foglie quadrifogliate (i beneauguranti quadrifogli), pentafogliate, ecc.. I piccoli fiori, di colore rosso chiaro o carminio, dalla tipica corolla papilionacea, sono riuniti in una infiorescenza a capolino globoso, brevemente peduncolata, portata all’ascella delle foglie superiori. I frutti sono baccelli con seme unico. Secondo la “Flora d’Italia” di Sandro Pignatti, Trifolium pratense è un gruppo polimorfo, composto da tre sottospecie: - Trifolium pratense subsp. pratense, con corolla di colore roseo-violetto, pelosità ridotta o nulla, stipole lanceolate, con resta lunga 1/3 - 1/4 della parte espansa. Capolini generalmente solitari. - Trifolium pratense subsp. nivale, con corolla di colore lattiginoso, soffusa di roseo verso l’apice. Pianta robusta, densamente pelosa, stipole ovate con resta lunga 1/4 - 1/6 della parte espansa. Capolini apicali spesso appaiati. - Trifolium pratense subsp. semipurpureum, con piccoli capolini di colore roseo-violetto. Pianta di dimensioni modeste (5-10 cm) con densa pelosità appressata, stipole ovate con resta lunga 1/4 - 1/6 della parte espansa. Capolini sempre singoli. La sottospecie presente nel territorio oggetto di studio è la pratensis.

DIFFUSIONE Si trova facilmente nei prati e nei siti erbosi di tutto il territorio, tra i 200 ed i 1.200 metri di altitudine. Nel territorio oggetto di indagine sono presenti ben 22 specie di piante appartenenti al genere Trifolium, tutte commestibili (al pari della gran parte delle altre leguminose selvatiche presenti).

USO GASTRONOMICO L’intera piantina, di sapore dolciastro, può essere utilizzata nelle insalate o per preparare minestre. Le infiorescenze possono essere cucinate gratinate, brasate, o in frittate.

RICETTE

060 - 102 - 103

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Liliaceae

Le Liliaceae sono una famiglia di monocotiledoni, caratterizzata da una notevole eterogeneità di specie, spesso bulbose o rizomatose, ad habitus erbaceo, che oggi si tende a separare in numerose piccole famiglie. Essa comprende circa 4.000 specie, distribuite su tutta la terra, soprattutto nelle regioni temperate e tropicali. Le foglie sono alterne, semplici, lineari spesso parallelinervie con attacco guainante. Molte specie presentano solo foglie basali. Una particolarità di questa famiglia è che spesso sul fusto sono presenti i cladodi (gen. Ruscus), fusti modificati appiattiti con funzione clorofilliana, mentre le vere foglie sono ridotte a squame. I fiori, attinomorfi, isolati o riuniti in infiorescenze a grappolo, cima o falsa ombrella, presentano sepali e petali indistinguibili (di uguale grandezza, forma e colore) chiamati tepali. Il perigonio risulta costituito da 2 verticilli di 3 tepali, l’androceo di 6 stami e il gineceo formato da 3 carpelli saldati in un ovario supero triloculare contenente molti ovuli. Il diagramma fiorale perigonio può essere dialitepalo o, più di rado, gamotepalo. La formula fiorale è quindi: * P 3+3, A 3+3, G (3). L’impollinazione è entomogama ed è attuata da lepidotteri, imenotteri, ditteri; alcune specie tropicali sono impollinate dai colibrì. Il frutto può essere una bacca (Asparagus) oppure una capsula setticida (Colchicum) o loculicida (Lilium). La famiglia delle liliacee, mantenendo la suddivisione tradizionale, viene distinta in tribù. Le principali sono: 1) Asparagoideae, piante erbacee, arborescenti o volubili, con frutto a bacca, fiori dimeri, trimeri o esameri con stilo unico; 2) Colchicoideae, piante erbacee perenni con bulbi o bulbo-tuberi, caratterizzate da capsule setticide e stili liberi; 3) Dracaenoideae, ricca di specie arboree longeve e di grandi dimensioni con accrescimento secondario; 4) Lilioideae, erbacee o legnose (Aloë), con capsule loculicide e stilo unico.

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Alcune liliacee sono coltivate come piante commestibili, quali ad esempio l’aglio (Allium sativum), gli asparagi (Asparagus officinalis), la cipolla (Allium cepa) e il porro (Allium porrum). Altre non vengono coltivate ma sono tradizionalmente raccolte in natura per uso alimentare, tra queste si ricordano: Asphodeline lutea, Asparagus acutifolius, Leopoldia comosa e Smilax aspera. E’ d’obbligo, inoltre, ricordare il genere Aloe che, secondo l’antica classificazione botanica appartiene alle liliacee, mentre secondo alcuni botanici apparterrebbe alla famiglia delle Asphodelaceae o delle Aloeaeceae. A tale genere appartengono, tra le altre, due importanti piante succulente: l’Aloe vera e l’Aloe arborescens. Tali piante non sono autoctone ma di origine africana e sudamericana, dall’aspetto simile all’Agave, e vengono coltivate per le loro proprietà antinfiammatorie e come integratori alimentari. Esse, essendo molto richieste dal mercato degli integratori alimentari, della macrobiotica e della cosmetica, potrebbero essere utilmente coltivate nel territorio oggetto di studio, soprattutto nei siti esposti a mezzogiorno. Molte specie sono, poi, coltivate per la bellezza dei fiori o per il loro portamento. Tra queste si annoverano numerose cultivar dei generi Cordyline, Dracaena, Hyacinthus, Lilium, Sansevieria, Tulipa, ecc.. In natura le Liliaceae sono abbastanza diffuse nella regione mediterranea, dove si insediano in vari tipi di ambiente. Nei boschi termofili (ad es. leccete, sugherete e querceti caducifogli) è frequente il pungitopo, Ruscus aculeatus (talora accompagnato dal Ruscus hypoglossum). Nelle faggete è comune la specie Scilla bifolia. Nell’area Baianese-Lauretana sono state censite 37 specie vegetali appartenenti alla famiglia delle liliacee.

ASPARAGI

ALOE

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Aglio dei boschi Allium ursinum (L.) Scheda n. 53

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Nomi comuni: aglio orsino, aglio selvatico, aglio dei boschi. Questa liliacea è una geofita bulbosa, ovvero una pianta erbacea perenne che sverna sottoforma di bulbo, dal quale ogni anno nascono nuove foglie e fiori. Il bulbo è sottile, di forma oblunga, e presenta tuniche biancastre e membranose. Da esso si diparte, inferiormente, un fascio di 5-9 radici carnose. La pianta può essere alta fino a 40 centimetri, con foglie (generalmente 2) basali, ovalilanceolate, parallelinervie, lunghe circa 20 centimetri larghe da 3 a 6 centimetri, munite di un picciolo alato, dal colore verde brillante. Lo scapo fiorale è eretto, verde, di consistenza erbacea e a sezione semicircolare, portante alla sua sommità un’infiorescenza ad ombrella, composta da 6-20 fiori, di forma subsferica irregolare e del diametro di 3-6 centimetri. I fiori, di colore bianco e peduncolati, sono formati da 6 tepali lanceolati lunghi circa un centimetro più degli stami. Essi sono portati in una brattea, detta spata, che alla fioritura o resta intera oppure si divide in due o tre lobi. I frutti sono delle capsule, deiscenti tramite apertura longitudinale. La fioritura (antesi) avviene nei nostri climi da marzo a luglio. Avvertenza: Potrebbe capitare, quando le piante non sono ancora in fiore, di confondere l’Allium ursinum con il velenoso mughetto (Convallaria majalis). Ma esiste un metodo infallibile per evitare questo pericoloso errore: stropicciando fra le dita le foglie di aglio orsino queste emettono un forte ed inconfondibile odore d’aglio, non presente nel mughetto.

DIFFUSIONE Questa specie, presente da noi con le sottospecie ursinum e ucrainicum, è diffusissima in tutto l’areale, dagli 800 ai 1.598 metri di altitudine, in maniera particolare negli estesi faggetti della dorsale appenninica dei Monti di Avella.

USO GASTRONOMICO Dell’Allium ursinum si utilizzano sia le foglie che il bulbo. Nel periodo primaverile, sono raccomandate le foglie tenere, finemente tritate, per insaporire le insalate o aromatizzare il burro, conferendo alle carni un sapore delicato e gradevole e non così deciso come l’aglio comune. Sono inoltre utilizzate per insaporire patate, cicorie, frittate, uova sode, zuppe e brodi. Nei Paesi del vicino Est, a detta dei numerosi immigrati, con le foglie dell’Allium ursinum si produce un olio aromatizzato da usare come condimento per pane tostato, patate lesse, pasta al pomodoro e secondi piatti a base di pesce. L’olio aromatizzato è composto da circa il 40% di foglie di aglio orsino tagliate finemente, una manciata di mandorle tritate, sale e pepe quanto basta, il tutto completato e ben ricoperto da olio extra vergine di oliva.

RICETTE

003 - 108

Campo San Giovanni (sopra) e Campo di Summonte (sotto) visti da Ciesco bianco.

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Asparago selvatico Asparagus acutifolius (L.) Scheda n. 54

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: asparago selvatico, asparago pungente. Il nome del genere dal greco: a (negazione) e speìro (semino), in riferimento alla facilità con cui la pianta si moltiplica per via vegetativa. Il nome della specie deriva dal latino acuta (acuto) e folia (foglia), in relazione alla morfologia delle “foglie”. Ha la forma biologica di una geofita rizomatosa ed il portamento suffruticoso (pianta erbacea perenne o piccolo arbusto con fusto generalmente legnoso, strisciante o volubile) lungo fino ad uno o due metri. L’apparato radicale è rizomatoso. I giovani getti (presenti a partire dal mese di marzo) sono chiamati turioni, e costituiscono la parte edule della pianta. Le foglie vere sono ridotte a piccolissime squame, all’ascella delle quali si formano quelle che sembrano essere foglie, ma che botanicamente sono fusti tasformati chiamati cladodi (rigidi ed aghiformi, disposti in fascetti in numero da 7 a 12), provvisti di una spinula cornea apicale. I fusti e i cladodi persistono per più di un anno, formando intricati ed irti cespugli. L‘asparago pungente è una specie dioica, presenta cioè individui unisessuali, maschili e femminili. Entrambi in primavera, producono fiori piccoli, bianchicci-verdastri e poco appariscenti, con perianzio composto da 6 elementi, 6 stami liberi ed ovario tricarpellare triloculare. Da quelli femminili, si formano bacche sferiche verdi che diventano nerastre a maturità e dalle dimensioni di un grano di pepe. Periodo di fioritura: da maggio a settembre.

DIFFUSIONE E’ diffuso, in tutto il teritorio, tra i boschi di leccio (Quercus ilex), negli oliveti e tra i fruticeti della macchia mediterranea. Tra i 100 ed i 600 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO I giovani getti (turioni) vengono utilizzati allo stesso modo degli asparagi coltivati e gustati, prevalentemente, in frittata o lessati e conditi con olio ed aceto, risultando più apprezzati dei loro corrispettivi coltivati per il gusto più forte ed amaragnolo che li caratterizza. L’asparago è relativamente ricco di vitamine del gruppo B e C, concentrate soprattutto nei turioni verdi. Contiene anche asparagina, una sostanza ritenuta diuretica e afrodisiaca se ingerita in grandi quantità. Gli asparagi selvatici vengono pure utilizzati come ingredienti di pasta e risotti, preparati tradizionalmente durante le feste pasquali, che di norma cadono quando si ha la massima produzione dei turioni. La preparazione della pasta o del riso con gli asparagi richiede alcune accortezze: occorre, innanzitutto, separare i gambi dei turioni (più duri) dalle cime (più tenere) e sottoporle ad una bollitura differenziata: più lunga per i gambi e più breve per le cime. Indi si soffriggono e si fa cuocere la pasta nell’acqua di bollitura. Infine si fanno mantecare insieme pasta ed asparagi.

RICETTE

112 - 113

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Bacchetta del re Asphodeline lutea (Rchb.) Scheda n. 55

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RICONOSCIMENTO Sinonimo: Asphodelus luteus. Nomi comuni: bacchetta del re, asfodelo giallo. Dal greco a (negazione), spodos (cenere) e elos (valle), perchè risorge anche in presenza delle devastazioni portate dal fuoco, in quanto i suoi organi ipogei non vengono distrutti dalle fiamme. Luteus in latino indica il giallo oro, l’arancione, il rossastro. In questo caso il riferimento è al colore del fiore, che è di un giallo sgargiante. Nella mitologia greca l’asfodelo era considerato il fiore tipico del regno dei morti. Questa pianta è poco appetita dal bestiame, che non se ne nutre, perciò tende a diffondersi anche in presenza di pascolo intenso e, pertanto, può essere considerata una specie indicatrice del supersfruttamento da pascolo. E’ una pianta erbacea perenne, geofita rizomatosa (pianta dotata di un fusto sotterraneo denominato rizoma, dal quale, ogni anno, si dipartono radici e fusti aerei). Il fusto è eretto, cilindrico e liscio. Le foglie, anch’esse lisce, sono raccolte in un denso ciuffo basale. Presentano la parte basale allargata a formare una guaina avvolgente lo scapo. Sono spesse e larghe ma di lunghezza decrescente procedendo verso l’apice. I fiori sono portati in un racemo cilindrico. I singoli fiori sono stellati, con tepali gialli e nervatura centrale verdognola. Caratteristici sono gli stami, che presentano una curvatura rivolta verso l’alto, a forma di un uncino, e le antere scure. I frutti sono costituiti da capsule ovoidi deiscenti, lunghe circa un centimetro e mezzo, e formate da 3 valve che a maturità si aprono liberando numerosi piccoli semi triangolari, prima verdi e poi tendenti al bruno. Fioriscono da marzo a maggio.

DIFFUSIONE Questa specie è diffusa lungo le pendici assolate dei rilievi di tutto il territorio, tra i 200 ed i 400 metri (es. Monte Fellino e Falde dell’Incoronata).

USO GASTRONOMICO Si utilizza lo scapo fiorale immaturo, quando è ancora avvolto dalle guaine membranose delle foglie e con i boccioli appena spuntati, prima che si ricoprano di fiori (Marzo-Maggio). Occorre spaccare il fusto in due con un coltello e strappare, dall’alto verso il basso, le foglie avvolgenti il fusto, per scoprire la parte edule, rappresentata dalla parte interna dello scapo. E’ consigliabile limitare l’utilizzo agli scapi più teneri poiché quelli più fibrosi possono risultare indigesti. Caratteristico e delicatissimo è il miele di asfodelo: ha un colore giallo oro che ricorda a tratti il miele d’arancio, ma è assai meno dolce e aggressivo e ricorda il profumo dei fiori.

RICETTE

010 - 011 - 114 - 130

Monti di Avella

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Cipollaccio col fiocco o Lampascione Leopoldia comosa (L.) o Muscari comosum (Mill.) Scheda n. 56 var. pyramidalis

var. pyramidalis

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Sinonimi: Hyacinthus comosus, Muscari holzmannii. Nomi comuni: giacinto dal pennacchio, cipollaccio col fiocco, lampascione. Il nome del genere Muscari proviene dal greco moderno moschàri (giacinto a grappolo) o dal greco classico mòschos (muschio), mentre il nome della specie deriva dal latino comosum (chiomato), con riferimento al fiocco sterile posto alla sommità della sua infiorescenza. Il termine Leopoldia deriva dal fatto che tale genere è stato dedicato al Granduca di Toscana, Leopoldo II. Questa specie è una geofita bulbosa che possiede un bulbo globoso-piriforme, di 2-5 centimetri, con tuniche violacee. Il fusto (scapo) eretto, cilindrico, glabro è alto fino a 70 centimetri. Le foglie, carnose, nascono in numero di 2-5 dal bulbo sotterraneo. Solitamente sono più corte dello scapo (circa 40 centimetri), lineari, eretto-patenti, tendenti ad afflosciarsi, cilindriche scanalate nella parte inferiore, si restringono superiormente fino ad una punta acuta. I fiori sono raggruppati in un racemo piramidale, spesso più lungo di 20 centimetri, portante i fiori fertili inferiormente e quelli sterili all’apice (fiocco). I fiori fertili iniziano a metà altezza dello scapo e sono inseriti con lunghi peduncoli all’ascella di piccole brattee, hanno una corolla cilindrica che termina con sei piccoli denti triangolari, sono di colore marrone-violaceo-olivastro, quando maturano si ripiegano verso il basso, i fiori sterili, sono più piccoli e di un bel colore azzurro-violaceo, densamente riuniti con i peduncoli incurvati verso l’alto. I frutti (foto a destra) sono capsule ovoidi, trilobe, lunghe fino a 15 mm, che a maturità si aprono e lasciano cadere pochi semi.

DIFFUSIONE Nel comprensorio oggetto del presente studio il “cipollaccio” o “lampascione” è presente prevalentemente negli ambienti erbosi aridi e nei terreni compatti (conoidi fluviali, ecc..) del piano basale, tra i 100 ed i 400 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO In cucina il bulbo sotterraneo di questa pianta trova gli stessi impieghi delle cipolle: crudo nelle insalate o cotto come componente dei sughi o lessato o in agrodolce. Viene anche conservato sottaceto per antipasti o contorni. Sembra che il “cipollaccio” abbia effetti afrodisiaci.

RICETTE

083 - 093

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Pungitopo Ruscus aculeatus (L.) Scheda n. 57

Ruscus aculeatus

Ruscus aculeatus

Ruscus hypoglossum

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: pungitopo, asparago pazzo. Il nome del genere proviene dal latino e deriva a sua volta dal greco “rugchos” (becco o rostro), per i cladodi dalla punta aguzza proprio come un becco d’uccello. Il nome specifico deriva dal latino “aculeatus” (dotato di aculei) a indicare i mucroni pungenti di cui sono dotati i cladodi. Il nome volgare di “pungitopo” deriva dall’usanza contadina di proteggere dai topi salumi e formaggi (talora anche un antico tipo di culle sospese e relativo bambino), appesi ai travi, ponendo mazzetti di questa pianta pungente su entrambe le estremità di questi. Questa pianta assume le forme biologiche di geofita rizomatosa (pianta con rizoma sotterraneo che ogni anno emette radici e fusti avventizi) e di camefita fruticosa (pianta perenne con fusti legnosi, ma di modeste dimensioni). Ha il portamento di un arbusto suffruticoso, sempreverde, dai fusti eretti e rizoma strisciante. I rami sono inseriti Cespugli di Ruscus Aculeatus nel Parco Gussone (Università di Agraria di Portici - NA) sulla parte mediana e basale dei fusti aerei, con disposizione sparsa, più volte ramificati; i rametti dell’ultimo ordine sono distici e trasformati in “false foglie” (fillocladi o cladodi), rigide, di colore verde scuro, di forma da lanceolata ad ovato-acuminata con una spina apicale pungente. Le foglie vere sono grandi solo pochi millimetri e ridotte a squame biancastre, inserite sul fusto aereo. Alla loro ascella sono inseriti i rametti verdi. I fiori sono diclini (fiori maschio e fiori femmina) isolati, inseriti al centro dei cladodi, subsessili all’ascella di una bratteola; perigonio con tepali bruno verdastri. I giovani getti (turioni) compaiono da marzo ad aprile. I frutti sono bacche, globose,di colore rosso vivo. La loro maturazione avviene nell’inverno successivo alla fioritura. Antesi: da febbraio ad aprile.

DIFFUSIONE Il Ruscus aculeatus è presente nei boschi (soprattutto di Leccio) e nei fruticeti di tutto il Partenio, con maggiore frequenza tra i 100 ed i 1.200 metri di altitudine. Nell’areale oggetto del presente lavoro è presente anche il Ruscus hypoglossum, dai cladodi palmati,quale componente del sottobosco delle faggete umide e fresche, tra i 1.300 ed i 1.500 metri (es. Monti di Avella; Porca delle Pere, Faggeta del Litto, ecc..).

USO GASTRONOMICO I giovani getti sono commestibili, di gusto amaro, e si usano allo stesso modo degli asparagi. Il Ruscus aculeatus è compreso nel Repertorio della flora italiana protetta (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio - 2001) per cui, volendo utilizzare i giovani germogli, si deve usare l’accortezza di non asportarli tutti e di non danneggiare il resto della pianta.

RICETTE

042 - 099

163 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

Pellegrino De Rosa - Benedetta Napolitano - don Giovanni Picariello

Stracciabraghe Smilax aspera (L.) Scheda n. 58

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Nomi comuni: stracciabraghe, rovo cervone. Il nome del genere deriva dal greco smilé (raschietto), con riferimento alla morfologia e alla spinosità delle foglie, il nome specifico deriva dal latino asper (scabro, pungente), per la presenza di abbondanti spine. Questa entità botanica è considerata (assieme a Tamus communis, Clematis flammula, Rubia peregrina, ecc..) uno dei residui della antica foresta sempreverde subtropicale del bacino del Mediterraneo. Si comporta sia come nano-fanerofita (pianta legnosa con gemme svernanti poste tra i 30 centimetri ed i 2 metri dal suolo) che come geofita rizomatosa (pianta perenne dotata di rizoma, dal quale ogni anno si dipartono radici e fusti aerei). Cresce spontanea nei boschi e nelle macchie ed è legata essenzialmente all’ambiente delle sclerofille, dalla lecceta alle sue forme degradate fino alla gariga. La Smilax aspera può essere considerata una liana sempreverde, con fusti e foglie spinosissimi, con spine rivolte all’indietro e quindi particolarmente offensive. I fusti legnosi, elastici, glabri e molto tenaci, possono essere lunghi oltre 4 metri. Le foglie, coriacee e lucide, sono di forma cuoriforme-sagittata, ma con elevata variabilità in funzione della disponibilità di luce. Possono essere lunghe dai 4 a 15 centimetri e sono provviste di un breve picciolo (2-3 centimetri), con alla base due viticci stipolari. Presentano i margini dentati e spinosi. Spinosa è anche la loro pagina inferiore. I fiori sono molto piccoli e profumati, diclini, con tepali bianchi di 4-5 millimetri. Sono portati raccolti in numero di 5-25 in infiorescenze ad ombrella, provviste di un picciolo caratteristicamente ritorto, lungo 10-15 centimetri. I frutti sono bacche sferiche di circa 1 centimetro, di colore rosso scuro, raccolti in grappoli. Antesi: da settembre a novembre.

USO GASTRONOMICO Nel territorio oggetto di studio Smilax aspera è presente con la subsp. aspera, rinvenibile nelle siepi, nei boschi termofili e nei fruticeti, prevalentemente ad altitudini comprese tra i 100 ed i 300 metri.

USO GASTRONOMICO I germogli freschi vengono conservati sott’olio previa scottatura in aceto e le parti tenere della pianta si consumano in frittata come fossero asparagi.

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Mugnano. Litto. 165 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Vallo di Lauro. Foto sopra: Il Monte Pizzone - Loc. Carità - Moschiano - Quindici. Foto sotto: La vasca di contenimento, costruita a difesa dell’abitato di Quindici (Av).

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Malvaceae La famiglia delle Malvaceae comprende, a seconda del tipo di classificazione, circa 100 generi e oltre 1500 specie, distribuite Cotone nelle regioni temperate e calde di tutto il globo. L’apparato vegetativo è erbaceo o legnoso, con foglie spiralate provviste di stipole. I fiori, per lo più isolati, sono ermafroditi, attinomorfi con debole tendenza verso lo zigomorfismo, pentameri. Il calice, formato da 5 sepali saldati alla base, è spesso raddoppiato all’esterno da un calicetto; la corolla è costituita da 5 petali liberi o concresciuti alla base; l’androceo, con numerosi stami saldati per i filamenti, forma una struttura colonnare che avvolge lo stilo; il gineceo possiede un numero di carpelli generalmente elevato, da 5 a molti, più spesso 10-12, che formano un ovario supero; ciascun carpello contiene un solo ovulo. La formula fiorale è: K (5), C 5, A 5-molti, G 10-12. Il frutto è generalmente un poliachenio, costituito da tanti mericarpi quanti sono i carpelli che a maturità si separano per distruzione del ricettacolo. Il genere più importante della famiglia è rappresentato dal gen. Gossypium, che comprende i vari tipi di cotone, coltivati nei paesi tropicali e subtropicali sia per la fibra tessile che per i semi, contenenti un olio utilizzato per l’alimentazione umana. Altre specie, come quelle appartenenti al gen. Hibiscus, trovano impiego in parchi e giardini come piante ornamentali. Nel Vallo di Lauro e nel Baianese sono state censite 6 sole specie appartenenti a questa famiglia. Di queste la sola Malva sylvestris ha utilizzazione alimurgica.

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Malva Malva sylvestris (L.) Scheda n. 59 Diagramma fiorale

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Sinonimi: Malva erecta, Malva vulgaris, ecc.. Nome volgare: malva selvatica. Il nome del genere deriva dal greco malacós (molle) con riferimento alle proprietà emollienti di queste piante. E’ una emicriptofita scaposa. Pianta perenne o bienne, di aspetto erbaceo, pelosa, con fusti robusti, molto ramificati, legnosi alla base. Può essere strisciante oppure eretta. Raggiunge generalmente i 60 centimetri di altezza, ma talvolta è dotata di steli che possono raggiungere 1,5 metri di lunghezza. La spessa radice produce, nel primo anno, una densa rosetta di foglie basali a lamina palmato-lobata e dal lungo picciolo. Le foglie cauline sono stipolate, profondamente divise, alterne, laciniate, larghe 2-4 centimetri, pentalobate, palminervie e con margine dentellato. All’altezza delle foglie cauline crescono i fiori, solitari o in gruppi di 2-6. Sono ermafroditi, attinomorfi, pentameri, dialipetali. Il calice è formato da due verticilli; l’interno di 5 sepali triangolari, l’esterno (epicalice) di 2-3 segmenti liberi più larghi dei sepali. La corolla è composta di 5 petali rosei striati di viola, con una insenatura centrale al margine esterno. Gli stami si presentano concresciuti in un tubo. I frutti sono acheni appiattiti sul dorso, reticolati, che a maturazione liberano 15-20 semi.

DIFFUSIONE Nel territorio considerato la Malva sylvestris è presente praticamente ovunque: negli ambienti ruderali, antropizzati, incolti ed erbosi. Tra i 100 ed i 1.100 metri di altitudine. E’ presente anche la Malva nicaeensis (tra i 100 ed i 400 metri di altitudine), che si differenzia dalla prima per i fiori di dimensioni più piccole, privi di striature e di colore azzurro-biancastro (ma talora anche rosa).

USO GASTRONOMICO Nei secoli la malva ha avuto estimatori illustri: Cicerone e Catone la usavano a tavola in grande quantità ed Orazio si ritemprava con un piatto a base di malva, cicoria e olive. In Egitto la malva è ingrediente di un piatto nazionale tradizionale, la melokia. Le foglie ed i giovani getti possono essere consumati in insalata, preferibilmente mescolati con altre verdure, per bilanciare il loro gusto deciso. Anche le capsule acerbe possono essere aggiunte alle insalate. Le foglie ed i rami più giovani possono essere cotti e conditi con olio, sale e aceto o limone. Possono, inoltre, essere usati come contorno, per la farcitura dei ravioli, nelle polpette o nella preparazione di gustose frittate. Ottimi sono anche i risotti con la malva. Infine, i fiori possono essere fritti in pastella. La malva contiene i complessi vitaminici B1, B2 e C, carotene, potassio, tannini e flavonoidi. Curiosità: Fino a qualche anno addietro veniva impiegata per la preparazione casalinga di creme da notte emollienti e antirughe. In tempi remoti si usava per verificare la verginità delle fanciulle versando la loro urina sulle sue foglie che, per evitare problemi, non dovevano seccare. Le foglie sono spesso attaccate dalla “ruggine arancione della malva”, che si manifesta con masserelle polverulenti di color aranciato, causate da un fungo microscopico, la Puccinia malvaceorum. E’ consigliabile evitare di utilizzare le piante affette da tale fitopatologia.

RICETTE

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Sopra: Località Cerreta, in territorio di Mugnano del Cardinale (Av). Foto sotto: Vista del “Mandamento di Baiano” che si apre sulla piana della “Campania felix”, con il Vesuvio sullo sfondo.

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Papaveraceae La famiglia delle Papaveraceae comprende circa 700 specie localizzate, per lo più, nelle regioni temperate e fredde dell’emisfero boreale. Si tratta generalmente di piante erbacee, raramente arbustive (Bocconia) o lianose, perenni e annuali. Presentano quasi sempre canali laticiferi, con latice bianco (Papaver), aranciato (Chelidonium), o rosso (Sanguinaria). Le foglie possono essere intere o laciniate, con disposizione alterna, e sprovviste di stipole. I fiori, ermafroditi, attinomorfi (Papaver) o fortemente zigomorfi (Fumaria), sono portati isolati oppure riuniti in cime unipare o bipare. Il calice è formato da un verticillo dimero precocemente caduco. La corolla si compone di 2 verticilli dimeri o trimeri. L’androceo è formato da 2 a molti stami. Il gineceo, supero, bi o multicarpellare, costituisce un ovario uniloculare, anche se talvolta un falso setto di derivazione placentare lo divide in 2 logge (Glaucium). Nel genere Papaver gli stimmi saldati formano un disco appiattito sopra l’ovario. La tipica formula fiorale è: K 2, C 2+2 oppure 3+3, A 2-molti, G (2-15). Il frutto può essere un achenio (Bocconia), una siliqua (Chelidonium) o una capsula poricida (Papaver), ed i semi sono provvisti di abbondante endosperma carnoso, spesso oleaginoso. L’impollinazione è entomofila. La famiglia è suddivisa in 2 sottofamiglie: Papaveroideae e Fumarioideae. La prima presenta numerosi carpelli e frutto a capsula (Papaver), o con 2 carpelli (Chelidonium, Sanguinaria, Glaucium). La seconda è caratterizzata da fiori zigomorfi per la presenza di 1-2 petali speronati, nettàrii alla base degli stami, gineceo con 2 carpelli, frutto ad achenio (Corydalis, Fumaria, Hypecoum). La specie più importante è senz’altro il Papaver somniferum o papavero da oppio, il cui derivato più importante è certamente la morfina. Tra le specie selvatiche si ricorda il rosolaccio o papavero comune (Papaver rhoeas). Nei comprensori Baianese e Lauretano sono presenti solo 5 specie vegetali appartenenti alla famiglia delle papaveraceae.

Vasca del Campo di Summonte.

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Rosolaccio o Papavero comune Papaver rhoeas (L.) Scheda n. 60

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RICONOSCIMENTO Sinonimo: Papaver erraticum. Nomi volgari: papavero, rosolaccio. Pianta erbacea annuale (terofita scaposa) con densa rosetta basale di foglie da cui partono i fusti (scapi), eretti e glauchi, alti fino a 80 centimetri ricoperti di peli lunghi e patenti (ovvero, rivolti ad angolo retto rispetto al fusto). Se spezzato il fusto lascia fuoriuscire un latice bianco di odore sgradevole. La radice è a fittone. Le foglie della rosetta basale, ricoperte ovunque di morbidi peli, sono pennatopartite con i singoli segmenti lanceolati, a losanna o ellittici e margine dentato, con apice acuto e base lungamente picciolata. Le foglie cauline sono più semplici, grossolanamente triangolari, sessili e di dimensioni ridotte. I fiori, solitari, grandi 5-7 centimetri di diametro, sono portati all’estremità di lunghi peduncoli che originano alla sommità del fusto e all’ascella delle foglie. Il calice è composto da due sepali caduchi, la corolla ha 4 petali tondeggianti anch’essi molto effimeri (persistono pochissimi giorni) di colore rosso vivo, spesso macchiati di nero alla base. Gli stami sono numerosi e di colore nerastro. I boccioli hanno portamento pendulo prima della fioritura. Il frutto è una capsula poricida globosa dotata superiormente di un disco ondulato che si apre con numerosi fori alla maturità dei semi nerastri.

DIFFUSIONE Classica specie infestante, è tipicamente sinantropa e si ritrova in tutte gli incolti e zone ruderali.

USO GASTRONOMICO Le tenere foglie delle rosette primaverili vengono consumate crude in misticanze, oppure, lessate o saltate in padella o, ancora, adoperate per saporiti ripieni di pizze, torte o focacce salate. Limitandosi a consumare le sole foglie giovani non si riscontra alcun effetto negativo. Quando il papavero è fiorito le foglie diventano fibrose, per cui non conviene più utilizzarle. I fiori e le capsule di “rosolaccio”, pur non avendo nulla a che vedere con quelli del papavero da oppio (Papaver somniferum), sembrano avere leggere proprietà soporifere e, un tempo, uno sciroppo da essi ottenuto veniva somministrato ai bambini irrequieti per indurli al sonno. I semi di papavero vengono usati, attualmente, in pasticceria (ma pare che abbiano un seppur minimo contenuto in sostanze allucinogene, rilevabile dai kit diagnostici antidroga in dotazione alla Polizia stradale). Curiosità: Lo schiocco del suo petalo posto sul pugno della mano e colpito con il palmo dell’altra mano era, nella tradizione popolare, una prova della fedeltà e dell’amore ricambiato.

RICETTE

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Foto sopra: La Piana di Prata (tra Sarno e Quindici). Altipiano carsico tributario idrologicamente di Quindici, Sarno, Siano e Bracigliano. Secondo alcuni non estraneo ai noti eventi franosi che hanno coinvolto nel 1998 le località menzionate. Foto sotto: L’abitato di Quindici (Av) . A sinistra si intravedono le opere di protezione realizzate dal Commisario di Governo.

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Plantaginaceae La famiglia Plantaginaceae comprende specie vegetali ad habitus prevalentemente erbaceo, raramente arbustivo, talora succulento (Plantago maritima). Piante annuali o perenni, spesso presentano rosette basali di foglie. Quache volta pachicauli. Alcune specie sono eliofite e xerofite. Le foglie di consistenza erbacea, coriacea o carnosa sono portate sul fusto con fillotassi a spirale. Possono essere pedicellate oppure sessili, a volte stipolate. La lamina è generalmente intera, e dalla forma lineare, ovale o lanceolata. L’impollinazione è anemofila. I fiori sono spesso raggruppati in infiorescenze racemose portate alla sommità di uno scapo. Presentano perianzio distinto in calice e corolla, e sono parzialmente gamopetali. La tipica formula fiorale è: K3(4), C 3(4), A 1(4), G1(4). Il frutto è “non carnoso”, deiscente o indeiscente. Generalmente costituito da una capsula membranosa o da una noce. Il genere più rappresentativo è il gen. Plantago, comprendente circa 60 specie. Nel territorio Baianese-Lauretano sono state censite 8 specie appartenenti a tale genere.

Erbario di Leonardo Fucs (1545)

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Piantaggine Plantago spp. Scheda n. 61

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Plantago spp. RICONOSCIMENTO Il nome del genere Plantago, pare sia dato dalla caratteristica forma delle foglie di alcune specie, simili alla pianta di un piede; altri invece, pensano derivi dai termini latini planta e agere (pianta che agevola la crescita di altre erbe). Si tratta di piante perenni, erbacee, con breve e grosso rizoma, dal quale ogni anno si origina una rosetta di foglie basali aventi forma variabile a seconda della specie e provviste di 5-9 nervature ben evidenti. Successivamente, da tale rosetta basale, si forma uno scapo fiorale talora alto sino a 45 centimetri. Si tratta, pertanto, di emicriptofite scapose. Le specie di Plantago ritenute eduli sono le seguenti: - Plantago major (piantaggine maggiore o settenervi). Ha foglie grandi e glabrescenti, di colore verde pallido. La sua principale caratteristica distintiva è rappresentata dalla lunga infiorescenza. - Plantago lanceolata (piantaggine lanceolata o cinquenervi). Si distingue facilmente per le foglie lanceolate e dal portamento assurgente. - Plantago media (piantaggine pelosa). E’ la più bella tra le piantaggini, ed è anche odorosa. Ciò è spiegato dal fatto che, mentre le altre piantaggini sono ad impollinazione anemogama (operata dal vento) la P. media è ad impollinazione entonogama e deve, perciò, attrarre gli insetti. Le foglie sono dotate di un picciolo più breve della P. major, sono coperte da una leggera peluria e possono presentare da 5 a 9 nervature. I frutti sono capsule ovali che contengono più semi (molto appetiti dagli uccelli).

DIFFUSIONE Le Plantago sopra indicate sono rinvenibili in tutto il territorio, nei luoghi erbosi e negli ambienti antropizzati. Nel comprensorio oggetto di studio sono, inoltre, presenti le specie: Plantago afra, Plantago arenaria, Plantago argentea, Plantago bellardii e Plantago lagopus. La Plantago major è presente con la subsp. major e la Plantago lanceolata con la var. mediterranea.

USO GASTRONOMICO Le foglie giovani possono essere utilizzate (in minima quantità, a causa del loro effetto emostatico e coagulante) in insalata, nella preparazione di zuppe, oppure cotte come gli spinaci. Hanno un sapore amarognolo che ricorda quello dei carciofi e, se soffritte, secondo alcuni, addirittura dei funghi. Le rosette basali delle piantaggini sono sempre presenti e si possono raccogliere per circa 10 mesi all’anno.

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Foto sopra: Mugnano del Cardinale (Av) visto da Arciano (in territorio di Baiano -AV). Foto sotto: I monti di Sperone (al limite dei territori di Sirignano e di Summonte).

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Portulacaceae La famiglia delle Portulacaceae comprende circa 580 specie, raggruppate in 20 generi. Si tratta di piante ad habitus erbaceo od arbustivo, spesso succulente, eliofite e talora xerofite (adatte, quindi, a vivere in ambienti caldi ed aridi). Le foglie, disposte con fillotassi alternata, a spirale od opposta, possono essere pedicellate o sessili. Non guainanti e con lamina intera, di forma lineare, lanceolata od ovale. I fiori, vistosi, bianchi o gialli, tetraciclici ed ermafroditi, sono portati solitari oppure in infiorescenze cimose (dicasio). Il calice è costituito da 2-3 sepali. La corolla è formata da 4-6 petali. Gli stami sono in numero uguale o multiplo dei sepali e dei petali. L’ovario è supero, con 2-5 stimmi. Il frutto è una capsula. La tipica formula fiorale della famiglia è: K2, C5-molti, A5-molti, G(2-5). L’impollinazione è entomofila. Alcune specie sono coltivate come piante ornamentali (Portulaca grandiflora, Talinum, Lewisia e Calandrina spp.). Nell’area Baianese-Lauretana è presente la sola Portulaca oleracea, dagli interessanti usi alimentari e salutistici (elevato contenuto di omega-3).

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Erba prucchiacchella o Portulaca Portulaca oleracea (L.) Scheda n. 62

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RICONOSCIMENTO Nomi comuni: portulaca, porcellana, procaccia, erba prucchiacchella. Il nome del genere (e, probabilmente, anche quello dialettale) deriva dal latino portula (piccola porta), in riferimento al frutto a capsula che si apre per mezzo di un coperchietto come una piccola porta; il nome generico deriva dal latino oleraceus (pianta coltivata) che sta a confermare l’antico e consolidato impiego alimentare della pianta. Terofita reptante, di aspetto vagamente crassulaceo, alta fino a 30 centimetri, è una pianta erbacea annua dotata di fusti prostrato-diffusi (eretti in situazioni di scarsa illuminazione), molto ramificati, carnosi, lisci e cavi. Spesso di colore rossastro. Questa specie possiede la caratteristica di poter emettere agevolmente radici avventizie che la mettono in grado, anche se tagliata, di continuare a vegetare. I fusti, infatti, possono rimanere vitali per lungo tempo, soprattutto in condizioni di umidità ottimale. Le foglie, di colore verde chiaro, sono di consistenza carnosa. Intere, spatolate, glabre, lunghe fino a 3 centimetri, picciolate e con apice troncato o refuso, sono portate con disposizione alterna lungo il fusto e verticillata attorno ai fiori. I piccoli fiori, gialli e poco appariscenti, sono ermafroditi, dialipetali ed attinomorfi (sepali 2 carenati, petali 4-6 gialli di 7-8 mm, patenti, stami 8-12, ovario semi-infero sincarpico). Sono solitari o riuniti in numero di 25 in infiorescenze a cima ascellari. Si aprono per poche ore durante il mattino, solamente quando c’è il sole. I frutti sono capsule membranose, di forma compresso-fusiforme, contenenti molti semi. Fiorisce da maggio ad ottobre.

DIFFUSIONE E’ frequente nei terreni aridi, sia coltivi che incolti, tra i 100 ed i 300 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO Già nota agli antichi Egizi, questa pianta compare nella letteratura medica cinese attorno al 500 ed è oggi coltivata come verdura. Studi recenti hanno dimostrato, inoltre, come la Portulaca oleracea sia una ricca fonte di acidi grassi omega-3, dal benefico effetto sul sistema circolatorio e sul sistema immunitario. Le foglie, dal sapore acidulo, si consumano crude (da sole o insieme a pomodorini freschi e porri) oppure in prelibate frittate. I rametti più carnosi e teneri, tagliati a pezzetti, possono essere conservati sotto aceto ed usati come i capperi. Siccome cresce in estate non è compresa nelle “misticanze” di erbe primaverili. Localmente, alcuni contadini hanno l’abitudine di farla essiccare al sole (come usano fare con i funghi porcini, tagliati a fette) per poi utilizzarla, bollita, anche in autunno.

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Foto sopra: Avella. Località “Capo di Ciesco”, ingresso del Vallone Sorroncello. Foto sotto: Un tratto del torrente Clanius (padre dei Regi Lagni).

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Primulaceae La famiglia delle Primulaceae comprende circa 350 specie, raggruppate in 28 generi. Sono, per lo più, piante erbacee, raramente suffrutici, con foglie spiralate, talvolta disposte esclusivamente in rosetta basale, di rado opposte o verticillate, senza stipole. I fiori, ermafroditi e attinomorfi o debolmente zigomorfi (Coris), tetraciclici e pentameri, sono spesso riuniti in infiorescenze (ombrelle, racemi o pannocchie). Il perianzio è formato da un calice gamosepalo e da una corolla gamopetala (in alcuni casi quasi dialipetale, come nel gen. Anagallis, in altri casi quasi completamente simpetale, come nel gen. Primula). L’androceo è composto da 5 stami, spesso concresciuti con la corolla tubiforme. Il gineceo è costituito da altrettanti carpelli saldati. L’ovario è supero ed uniloculare. La tipica formula fiorale è: K (5), C (5), A 5, G (5). Il frutto è una capsula. L’impollinazione è entomofila. Alcune Primulaceae, come le numerose varietà di primula (Primula hortensis) e di ciclamino (Cyclamen persicum), sono notissime piante ornamentali. Nell’areale di riferimento sono state censite solo 6 specie vegetali appartenenti alla presente famiglia. Tra queste ricordiamo la Primula vulgaris (tipica delle faggete e di altri boschi mesofili) che ha una limitata utilizzazione alimurgica, il Cyclamen hederifolium, il Cyclamen repandum, l’Asterolinum linum-stellatum, piccola terofita tipicamente mediterranea e l’Anagallis arvensis, specie nitrofila, comune nei campi coltivati.

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Primula Primula officinalis (L.) (Hill) o P. vulgaris (Hud.) Scheda n. 63

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RICONOSCIMENTO Sinonimi: Primula acaulis, Primula grandiflora. Ha la forma biologica di emicriptofita rosulata (pianta erbacea perenne con gemme svernanti a livello del suolo e foglie dell’annata in rosetta basale), raramente assume il portamento di una camefita suffruticosa. Il robusto fusto, strisciante e sublegnoso, può essere lungo fino a 30 centimetri e spesso fino a 3 centimetri. E’ quasi sempre ramificato, soprattutto nel tratto terminale e porta più di una rosetta di foglie, ognuna delle quali sviluppa uno scapo fiorale. Il rizoma è obliquo e breve, e sviluppa grosse radici secondarie. Le foglie, tutte basali e in rosetta, emanano un odore non a tutti gradito. Possono giungere ad una lunghezza di circa 10 centimetri e ad una larghezza di circa 4 centimetri. Sono di consistenza coriacea, a lamina obovata-spatolata e margine grossamente dentato, crenulato dentato oppure subintero. Le foglie sono picciolate e presentano la pagina superiore glabra e quella inferiore ricoperta da corti peli ialini misti a peli ghiandolari. I fiori sono attinomorfi, ermafroditi, con antere e polline di colore giallo dorato. Sono portati da un picciolo di 4-7 centimetri e presentano un calice con tubo e denti lesiniformi, la corolla gialla con tubo e lobi cordati (con una macchia più scura alla base). Stami in numero di 5. Ovario supero. Il frutto è una capsula uniloculare, deiscente, lunga 3-4 mm e larga circa altrettanto. Fioritura da febbraio a marzo: questa pianta è, notoriamente, una delle prime a sbocciare.

DIFFUSIONE È presente nei boschi di latifoglie, soprattutto faggete, querceti e carpiteti di tutto il Partenio, tra i 200 ed i 1.500 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO Le foglie più tenere si usano crude, da sole o assieme ad altri tipi di insalata, tipicamente insieme alla lattuga. In cucina, le foglie più giovani possono essere consumate in insalata e risultano ottime anche lessate e nei minestroni. I fiori possono essere utilizzati per preparare un’ottima tisana, ad azione lievemente calmante, oppure per preparare variopinte insalate. Inoltre, possono essere canditi come dolci o utilizzati per farcire torte salate.

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Mugnano del Cardinale: Campo di Spina o Cerreta

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Sopra. Don Giovanni Picariello, col nipote Antonio De Rosa, nel giardino di San Pietro a Cesarano (in territorio di Mugnano del Cardinale - AV) mentre raccolgono alcune erbe selvatiche. Sotto, il prof. Pellegrino De Rosa con il collega giornalista e scrittore, Luigi Boccia (a sinistra).

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Ranunculaceae La famiglia delle Ranunculaceae comprende circa 1.200 specie, raggruppate in circa 50 generi. Sono, per lo più, piante erbacee, spesso perenni, con foglie alterne prive di stipole, frequentemente a lamina divisa. I caratteri distintivi della famiglia risiedono nella disposizione spiralata o ciclo-spiralata degli elementi fiorali, nella presenza di un gran numero di stami, dei quali i più esterni trasformati in nettari, e nei carpelli liberi tra loro (ovario apocarpico). La morfologia dei fiori è, però, molto varia. Vi sono generi con fiori aciclici, in cui solo il calice è verticillato (Helleborus). Altri generi presentano fiori emiciclici, con gli elementi perianziali verticillati ed elementi sessuali con disposizione spiralata (Ranunculus). Altri generi, ancora, hanno fiori euciclici, in cui tutti gli elementi sono verticillati (Aquilegia). Il perianzio, in alcuni casi (Caltha), è un semplice perigonio ma -più spesso- è doppio e suddiviso in calice e corolla (Ranunculus). Esso è inteso come una modificazione di foglie bratteali (Helleborus) o di derivazione staminale (Hepatica). La fecondazione è entomofila. La formula fiorale tipica è: K 5, C 5, A molti, G 1-molti. Il frutto può essere una bacca plurisperma, una capsula, un follicolo o un poliachenio. Alle Ranunculaceae appartengono diverse specie medicinali (talune velenose) impiegate in erboristeria, quali, ad esempio, l’adonide (Adonis vernalis) e l’aconito (Aconitum napellus). Alcune specie, per la bellezza dei loro fiori, sono utilizzate come piante ornamentali (Anemone, Aquilegia, Consolida, Ranunculus). Nell’areale oggetto di studio sono state censite 21 entità vegetali appartenenti a questa famiglia. Di esse viene riportata, quale possibile erba alimurgica, la sola Clematis vitalba, con l’avvertenza, però, che essa è stata recentemente vietata come integratore alimentare.

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Vitalba o Liana Clematis vitalba (L.) Scheda n. 64

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uso sconsigliato

Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Il termine Clematis deriva dal greco klema (pezzo di legno flessibile, pianta sarmentosa) che indica il portamento lianoso della pianta, mentre vitalba proviene dal latino vitis alba (vite bianca), con riferimento alle infiorescenze biancastre e all’infruttescenza piumosa argentea. La Clematis vitalba è una pianta perenne, fanerofita lianosa, con fusto legnoso volubile, rampicante e a sezione stellata, che può raggiungere anche i 15 metri di lunghezza, e provvista di rizoma grosso e nodoso. Le foglie, portate con fillotassi opposta, sono suddivise in 3 o 5 segmenti imparipennati, di forma lanceolata od ovata con margine intero o dentellato, portate su peduncoli patenti ed ingrossati alla base. I fiori eretti giallastri o bianco-verdastri con diametro di 2 - 3 centimetri emanano un intenso profumo. Hanno il calice corollino, attinomorfo e tetrametro, e sono riuniti in infiorescenza a pannocchia, situate all’ascella o all’estremità dei rami. I frutti sono piccoli acheni ovoidali, con resta piumosa argentea, lunga 3-4 centimetri, arricciata all’apice. Antesi: da maggio ad agosto, a seconda dell’altitudine e dell’esposizione. L’ impollinazione è anemofila.

DIFFUSIONE La Clematis vitalba è rinvenibile nei boschi e nelle siepi di tutto il massiccio, tra i 200 ed i 1.100 metri. Pur non essendo una pianta parassita ma epifita (che usa l’ospite, generalmente una latifoglia, solo come supporto per il sostegno), talora, per il suo comportamento invasivo, costituisce un problema dal punto di vista selvicolturale, poiché sottrae luce ed aria alle piante forestali (acero, castagno, ontano, ecc..). Nel territorio oggetto del presente lavoro è presente anche la specie Clematis flammula, diffusa nei boschi termofili (Quercus spp.), tra i 100 ed i 400 metri di altitudine (es. Tuoro di Sasso, Pietra Maula).

USO GASTRONOMICO Di questa pianta si consumano, tradizionalmente, i giovani getti, allo stesso modo degli asparagi. E’ una pianta velenosa ed è compresa nella “Lista piante non ammesse negli integratori alimentari” – Ministero della Sanità – 2006 (vedi appendice).

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Rosaceae La famiglia delle Rosaceae include un gran numero di specie (oltre 3.200 secondo alcune classificazioni), raggruppate in oltre 95 generi. Comprende piante, legnose ed erbacee, con apparato vegetativo provvisto di foglie sparse stipolate e fiori pentameri, ciclici o spirociclici, con 5(4) sepali, 5(4-7) petali, 5(n) stami, n carpelli formanti un ovario semi-infero, ma talvolta anche infero o supero. La formula fiorale, in generale, è: * K 5, C 5, A 5-molti, G 1-5-molti. La notevole diversità della morfologia fiorale ha portato ad una distinzione in sottofamiglie o sezioni. Le Spiraeoideae si distinguono per il ricettacolo quasi piano e per il gineceo i cui 5 carpelli, ciascuno con 2-molti ovuli, danno origine a maturità ognuno ad un diverso follicolo. Nelle Pomoideae (pomacee) i carpelli, in numero di 2-5 e contenenti da 1 a molti ovuli, sono contenuti in un talamo cavo e saldati ad esso. Il frutto è il pomo (che in realtà è un falso frutto, in cui la parte carnosa è formata dal ricettacolo avvolgente, ed in cui il vero frutto è costituito dal torsolo, come nel melo, nel pero). Nelle Prunoideae (drupacee) è presente generalmente un solo carpello ed il frutto è rappresentato dalla drupa, che può essere carnosa come nel pesco (Prunus persica) o membranacea come nel mandorlo (Prunus dulcis). Le Rosoideae presentano da 1 a molti carpelli, sostenuti da un talamo piano o concavo, ciascuno portante 1-2 ovuli. I frutti delle specie appartenenti a questa sottofamiglia sono di vario tipo e spesso raggruppati in infiorescenze: nel rovo (Rubus ulmifolius) e nel lampone (Rubus idaeus) i frutti, costituiti da piccole drupe, si riuniscono a formare un’infruttescenza chiamata mora; in altre specie, come quelle appartenenti al genere Rosa, i numerosi frutti, costituiti da piccole nucule, sono immersi nel ricettacolo a forma di coppa, andando a costituire un cinorrodio; nella fragola (Fragaria vesca) lo squisito “frutto” che siamo abituati a mangiare è un falso frutto (poiché alla sua formazione prende parte non solo l’ovario ma anche il ricettacolo), mentre i frutti veri (acheni) sono quelli che a noi appaiano come minuscoli “semi” sparsi sulla sua superficie. La fecondazione è entomofila. Le più note specie da frutta appartenenti alle rosacee sono: il melo (Malus domestica), il pero (Pyrus communis), il cotogno (Cydonia oblonga), il ciliegio (Prunus avium), il sorbo (Sorbus domestica), il nespolo del Giappone (Eryobotrya japonica), il nespolo comune (Mespilus germanica), l’azeruolo (Crataegus azarolus), il pesco (Prunus persica), il mandorlo (Prunus dulcis), l’albicocco (Prunus armeniaca), il susino (Prunus domestica), la fragola (Fragaria vesca), il lampone (Rubus idaeus) e il rovo (Rubus ulmifolius).

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Altre rosacee sono impiegate come piante ornamentali, come le numerosissime varietà del genere Rosa, il biancospino coltivato (Crataegus monogyna), con la bacca contenente un solo seme, ed il biancospino selvatico (Crataegus oxiacantha), con la bacca contenente due semi. Questi ultimi presentano bacche eduli e mostrano una singolare istocompatibilità con il pero, al punto che su di essi possono essere innestate le “marze” di pero, ottenendo una pianta in cui il “bionte” inferiore è costituito dal biancospino e quello superiore dal pero. Comunque, la differenza di turgore fra le due specie conferisce a questo tipo di innesto una durata piuttosto limitata. Nelle aree Baianese e Lauretana sono state censite 34 specie selvatiche appartenenti alla presente famiglia. Quasi tutte possono avere utilizzazione alimentare ed alimurgica (Prunus spp; Rubus spp; Rosa canina; Sanguisorba minor; Malus spp.). Da utilizzare con attenzione le bacche di alcuni Sorbus spp., ottime per marmellate ma, in alcuni casi, dai semi tossici per l’uomo. E’ accertato, ad esempio, che le bacche di Sorbus aucuparia o “sorbo degli uccellatori” (molto appetite dagli uccelli, ricche di vitamina C, usate per marmellate o, se fatte fermentare, per produrre liquori) contengono semi che, se accidentalmente frantumati od ingeriti, possono risultare estremamente tossici per il loro contenuto in acido cianidrico (cianuro).

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Rovo (more) e Lampone Rubus spp. Scheda n. 65

Rubus idaeus

Rubus ulmifolius 192 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Rubus ulmifolius RICONOSCIMENTO Sinonimo: Rubus rusticanus. Nomi comuni: rovo, more. Il Rubus ulmifolius è una fanerofita cespugliosa, che può giungere ad un’altezza di oltre un metro e mezzo. Presenta un fusto legnoso, glauco, scanalato e coste spinose e arrossate, con spine dritte. Le foglie sono composte, con 3-5 segmenti palmati ed acuminati, di 3-6 centimetri. La pagina superiore è di colore verde scuro, mentre quella inferiore è bianco-tomentosa. I fiori sono ermafroditi, dialipetali e attinomorfi. Il calice è semplice, con sepali biancotomentosi, ripiegati verso il basso. I petali, in numero di cinque, sono di colore bianco-roseo, a forma ovata, e lunghi circa un centimetro. Stami e stili bianco-rosei, ovario semi-infero, molti carpelli. Antesi: da maggio a luglio. L’infiorescenza è una pannocchia piramidale che, a maturazione, dà le gustosissime more, frutti aggregati (o infruttescenze) di colore prima rosa e poi nero, a maturità.

DIFFUSIONE Pianta nitrofila sinantropa che cresce in tutte le zone ruderali, naturalmente distribuita nei boschi ripariali ed aperti. Caratteristica specie che si insedia nei primi stadi di successione in seguito a disboscamento. R. ulmifolius è la specie più comune di un gruppo di agamospecie e ibridi con caratteri simili che comprende diverse entità botaniche. E’ presente in tutto il territorio, nei boschi e nei fruticeti tra i 900 ed i 1.500 metri di altitudine.

Rubus idaeus RICONOSCIMENTO Nome comune: lampone. Il Rubus ulmifolius è una nanofanerofita che può giungere ad un’altezza di circa due metri. Il fusto è legnoso ed eretto, ramoso e spesso spinoso. I getti dell’annata sono erbacei e glabri. Le foglie sono trifogliate o formate da 5 segmenti pennati. Presentano: stipole lineari; picciolo spinoso, di 2-4 centimetri; segmenti lanceolati ed acuminati, con margine seghettato; verdi alla pagina superiore e bianco-tomentosi a quella inferiore. I fiori sono ermafroditi, dialipetali e attinomorfi. Con sepali triangolari. Petali obovali e bianchi. Ovario semi-infero, apocarpico. Molti carpelli e stami. Antesi: da maggio a giugno. I fiori sono raccolti in infiorescenze cimose. I frutti, aggregati, sono di un colore rosso feltroso.

DIFFUSIONE Pianta caratteristica di radure e schiarite dei boschi, in particolare di faggio. Nel comprensorio oggetto di studio è presente con maggiore frequenza tra i 1.000 ed i 1.500 metri di altitudine. E’ specie coltivata.

USO GASTRONOMICO Le due specie di Rubus indicate sono notoriamente molto apprezzate per i loro frutti aggregati (more e lamponi), utilizzati per il consumo fresco o per la produzione di squisite marmellate e sciroppi. Queste due specie sono state qui menzionate poiché i loro getti primaverili possono essere utilizzati, alla stessa stregua degli asparagi, in gustose frittate: i getti più teneri, liberati dalla corteccia e dalle ancora tenere spine, si scottano velocemente in padella con poco olio e si ricoprono di un uovo sbattuto e salato e portati a completa frittura. Possono essere anche gustati all’agro ed hanno un sapore a metà fra il limone e la rosa. Altre specie del genere Rubus rinvenibili nel comprensorio sono: Rubus hirtus, Rubus caesius, Rubus canescens e Rubus candicans.

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Pimpinella o Sanguisorba Sanguisorba minor (Scop.) Scheda n. 66

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RICONOSCIMENTO Sinonimo: Poterium sanguisorba. Nome comune: pimpinella. ll nome Sanguisorba, con cui viene indicata questa pianta deriva, presumibilmente, dai vocaboli latini sanguis e sorbeo, con riferimento alle sue presunte proprietà emostatiche. E’ una specie erbacea perenne (emicriptofita scaposa), sempreverde, con rizoma lignificato e fusto eretto e striato, a volte peloso in basso, spesso di colore rossastro, alto fino a 60 centimetri. Le foglie, riunite in una rosetta basale, sono lunghe da 10 a 20 centimetri, composteimparipennate con 5 - 17 foglioline ellittiche, picciolate con margine dentato (4-6 denti acuti su ciascun lato), di colore verde alla pagina superiore e glauco alla pagina inferiore. La sanguisorba è pianta monoica portante, contemporaneamente i fiori diclini (maschili o femminili). Talora sono presenti anche fiori ermafroditi. I fiori sono piccoli, apetali, con 4 lacinie ovate sepaloidi, verdi al lato in ombra e rossastre dal lato maggiormente esposto al sole. Presentano molti stami (15-30) di colore giallo e stilo con stimma piumoso, di colore roseo. Sono riuniti in capolini sferico-ovali del diametro di 1 centimetro, all’apice dei rami. I fiori posti più in basso sono maschili, con numerosi stami lunghi e sporgenti; i fiori posti in alto sono femminili ed hanno lo stimma piumoso di un bel rosso vivace; in mezzo si trovano anche un certo numero di fiori ermafroditi, i cui stami non sporgono dal calice. Fiorisce da aprile ad agosto. Il frutto è un achenio.

DIFFUSIONE Rinvenibile nei gramineti e negli ambienti rupestri di tutto il territorio oggetto di indagine, con maggiore frequenza tra i 100 ed i 300 metri di altitudine.

USO GASTRONOMICO La pimpinella accompagna bene le insalate, soprattutto di lattuga, ma il suo sapore di cocomero un pò salato (o di cetriolo) gli concede raramente l’onore di essere gustata da sola. Viene impiegata, lessata, anche in gustose minestre e nei minestroni. E’ molto nutriente e, secondo Plinio, non dovrebbe mai mancare nella dieta dei diarroici, sia come alimento che come rimedio. Gli agronomi, già dal 1760, la considerano un ottimo foraggio, in grado di esaltare sia la produzione che la qualità del latte e dei suoi derivati.

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Sopra: vista del castello longobardo di Avella con, sullo sfondo, il complesso vulcanico Monte Somma - Vesuvio. Sotto: altra vista del castello di Avella (Av).

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Urticaceae La famiglia delle Urticaceae comprende circa 50 generi ed oltre 2.000 specie. Sono, per lo più, piante erbacee con foglie opposte o spiralate. I fiori sono portati in infiorescenze a capolini oppure a glomeruli. Sono unisessuali (diclini), e possono essere portati sulla stessa pianta (in specie monoiche) o su piante diverse (in specie dioiche). Il perigonio è apoclamidato, ovvero semplice e sepaloide, tetramero e di colore verdastro, con i tepali disposti su 2 verticilli. I fiori maschili hanno tanti stami quanti sono i tepali. Quelli femminili hanno un ovario supero, costituito da un solo carpello, e sormontato da uno stimma filamentoso o piumoso. La formula fiorale più ricorrente è: P 2+2, A 2+2, G 1. Il frutto è un nucula oppure una drupeola, spesso avvolto dai resti del perigonio. L’impollinazione è anemofila: i filamenti staminali, ripiegati nel bocciolo, si raddrizzano a scatto all’antesi proiettando lontano il polline. Nell’areale Baianese-Lauretano sono state censiste 7 specie vegetali appartenenti a questa famiglia. Tra queste ricordiamo il genere Parietaria ed il genere Urtica, entrambi noti per il loro polline allergenico e per essere utilizzati sia in erboristeria sia come piante alimurgiche.

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Erba vetriola o Erba muraiola Parietaria officinalis (L.) Scheda n. 67

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RICONOSCIMENTO Sinonimo: Parietaria erecta. E’ una notissima allergofita, a causa del suo polline, ma è un’ottima pianta alimurgica ed officinale. La parietaria assume la forma biologica di una emicriptofita scaposa. Pianta erbacea perenne, poco ramificata, con fusti eretti, striati e ricoperti di peli ricurvi, che, in condizioni edafiche ottimali, possono giungere anche ad un metro di altezza. E’ provvista di un rizoma stolonifero ipogeo dal quale originano nuovi getti erbacei. Le foglie sono alterne picciolate, lanceolate (2-4 x 5-10 cm), a margine liscio ed apice acuminato, con peli ricurvi nella pagina inferiore. I fiori, apetali, verdastri o rosati (3-6 mm), con quattro sepali, possono essere diclini unisessuali (fiori maschi e fiori femmina) o ermafroditi. Sono portati generalmente sulla stessa pianta (la Parietaria è specie monoica), e raccolti in infiorescenze a glomerulo, ascellari. L’impollinazione è anemofila ed il polline, che causa fenomeni allergici negli individui predisposti, è prodotto in grandi quantità. I frutti sono degli acheni neri e di forma ellittica.

DIFFUSIONE La Parietaria officinalis è una specie sinantropa, archeofita e nitrofila, molto comune in tutti i contesti antropizzati e sui suoli eutrofici, tra i 400 ed i 600 metri di altitudine (es. Vallone Acquaserta, Vallone S. Egidio, Monte Campimma). Nel comprensorio oggetto di studio sono, inoltre, presenti le specie: - Parietaria lusitanica, terofita reptante (pianta annua a portamento strisciante) nelle zone rupestri e sui muri umidi (es. Mugnano del Cardinale, Lauro, ecc..); - Parietaria diffusa, emicriptofita scaposa, diffusa ovunque, negli ambienti rupestri e sui vecchi muri o alla loro base, ad altitudini comprese tra i 100 ed i 1.000 metri.

USO GASTRONOMICO L’erba muraiola possiede un lieve e gradevole sapore amarognolo. Di essa viene utilizzata l’intera parte aerea (prima della fioritura) oppure i giovani apici e le foglioline più tenere (dopo la fioritura). La sua ruvidezza impedisce di consumarla cruda. Essa, pertanto, va cotta quindi come l’ortica e gli spinaci, ma ciò non ne diminuisce il sapore, né l’apporto di elementi nutritivi. Viene usata per preparare ottimi minestroni, che colora di un verde intenso.

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Ortica Urtica dioica (L.) Scheda n. 68

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RICONOSCIMENTO Il mome del genere deriva dal latino urere (bruciare) per l’irritazione prodotta quando i suoi peli urticanti iniettano, al minimo tocco, acetilcolina e istamina nella pelle. Il nome specifico, deriva dal fatto che trattasi di specie dioica (lett. “due case”: poiché vi sono individui portanti solo fiori maschi ed individui portanti solo fiori femmina). Viene chiamata, con discutibile umorismo, “erba dei ciechi”, poiché facilmente riconoscibile anche da chi non goda di una vista eccellente, per l’effetto urticante che dispensa a chiunque la tocchi, anche inavvertitamente. Pianta sinantropa nitrofila, comune nelle zone abbandonate, discariche, lungo le strade e schiarite dei boschi. Si ritiene originaria dell’Africa, divenuta sub-cosmopolita seguendo l’uomo fin dalle prime migrazioni (archeofita). Biologicamente è una emicriptofita scaposa (piante perennante per mezzo di gemme poste a livello del terreno). E’ una pianta erbacea vivace con un rizoma ampiamente ramificato e strisciante appena sotto il terreno. I fusti, che originano dal rizoma, sono eretti, alti fino a un metro e mezzo, hanno sezione quadrata e sono generalmente semplici. La loro superficie presenta alcuni peli corti, altri più lunghi e rigidi: questi ultimi sono i peli urticanti (pare che se si afferra la pianta dal basso verso l’alto i peli non si rompono e non “pungono”). Le foglie, con lungo picciolo, ovali-lanceolate, a margine dentato con peli urticanti, sono portate con fillotassi opposta. La lamina mostra, superiormente, dei caratteristici rigonfiamenti. I fiori sono riuniti in spighe, divise in maschili (erette) e in femminili (pendule), inserite all’ascella delle foglie superiori e sono sempre più lunghe del relativo picciolo. I fiori hanno quattro tepali che racchiudono i quattro stami, nei fiori maschili, e l’ovario, in quelli femminili. Il frutto, che si sviluppa dai fiori femminili, è una nucula ovale, con un ciuffo di peli all’apice, racchiuso nei quattro tepali persistenti.

DIFFUSIONE L’Urtica dioica è diffusa in tutto il comprensorio, nei siti antropizzati, ruderali e terreni nitrofili, tra i 100 ed i 1.300 metri di altitudine. Sono presenti anche le seguenti specie, tutte terofite (erbe annue): - Urtica urens, tra i 100 ed i 300 metri di altitudine, negli incolti e ai lati dei sentieri (es. Monte Fellino, Tuoro di Sasso, ecc..); - Urtica membranacea, tra i 100 ed i 600 metri di altitudine, tra i ruderi, terreni marginali ed ambienti nitrofili di tutta l’area; - Urtica pilulifera, tra i ruderi e negli ambienti nitrofili umidi, tra i 100 ed i 300 metri di altitudine (es. Monte Fellino, Vallone di Quindici, ecc..).

USO GASTRONOMICO Viene utilizzata tutta la parte epigea (foglie e fusti), finché è giovane e succosa. Tanto è pungente nella raccolta, tanto è buona quando viene cucinata. È sicuramente una delle erbe selvatiche più note e utilizzate. Per ovvii motivi, non è utilizzabile cruda. Ma cotta è una vera delizia, soprattutto cucinata insieme alla parietaria. Di sapore delicato, sovente superiore a quello di molte verdure commercializzate, con questo pungente vegetale si possono preparare passati rinfrescanti, minestre, ripieni e squisiti risotti e frittate.

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201 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Sopra: Il prof. Pellegrino De Rosa, insieme agli studenti del Liceo Scientifico “G. Carducci” di Nola (Na), durante alcune lezioni sulla manutenzione del verde e sull’ingegneria naturalistica. Sotto: Il prof. Antonio Saracino (a sinistra) e il prof. Pellegrino De Rosa, durante alcune esercitazioni di Selvicoltura.

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Valerianaceae La famiglia delle Valerianaceae comprende 350 specie vegetali, raggruppate in 7 generi. Si tratta di erbe, raramente arbusti, annuali o perenni, che spesso contengono olii essenziali nei rizomi e nelle radici. Le foglie sono opposte, piatte e picciolate, con lembo semplice o, se composto, pinnato. I fiori, generalmente riuniti in infiorescenze a cime, corimbi o pannocchie, presentano spesso un odore molto penetrante (da gradevole a sgradevole) e sono quasi sempre provvisti di brattee. Sono pentameri con conformazione tetraciclica e perianzio distinto in calice e corolla e con pistillo triloculare. L’impollinazione è entomofila. La formula fiorale più tipica è: K5, C5, A4-1, G(3). Il frutto è un achenio striato provvisto di setole piumose, utili nella disseminazione anemocora (operata dal vento), derivanti dalla modificazione che i piccoli denti del calice subiscono con la maturazione. Il genere più importante è il genere Valeriana, con circa 150 specie di erbe. Nell’area oggetto di indagine sono presenti 6 solo specie vegetali ascrivibili alla presente famiglia.

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Lattughino o Oallinella Valerianella locusta (L.) (Lat.) Scheda n. 69

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RICONOSCIMENTO Sinonimo: Valerianella olitoria. Nomi comuni: soncino, lattughino. Il nome del genere non deve trarre in inganno: questa pianta non ha niente a che vedere con la Valeriana officinalis (erba usata, con cautela, in erboristeria). E’ una terofita scaposa. Pianta erbacea annua che raggiunge al massimo i 30 centimetri di altezza. Localmente, i meno esperti tendono a confonderla con la Portulaca oleracea, con la quale ha una vaghissima e lontana somiglianza, non condivisa dagli autori: infatti la pianta è completamente diversa e le foglie, pur di una certa consistenza, non sono affatto carnose come quelle della portulaca. Il fusto è eretto, dicotomo, striato, strettamente alato e scabro con ciglia. Le foglie basali sono picciolate, uninervie, spatolate a margine intero (1-3 x 4-7 cm); le superiori ridotte, sessili, opposte a lamina ellitticaspatolata. I fiori sono ermafroditi, pentameri, attinomorfi, gamopetali di 1,5-2 mm; petali da bianchi ad azzurri; 3 stami, ovario sincarpico infero a tre carpelli (due sterili a grandi logge concresciute la sola fertile opposta alle precedenti con ingrossamento spugnoso dorsale). I fiori sono riuniti in infiorescenze (cima di cime contratte), portate su brattee ottuse-lineari, cigliate. Il frutto è una nucula ellissoide con pappo, appuntita, e con 3-4 coste trasversali. Fiorisce da aprile a maggio.

DIFFUSIONE La valerianella è ampiamente diffusa nel territorio oggetto di studio, con maggiore frequenza nella fascia basale, tra i 200 ed i 300 metri di altitudine, a ridosso delle zone antropizzate e coltivate (a ridosso dei noccioleti, oliveti e nelle zone limitrofe ai piccoli appezzamenti di terreni coltivati a colture ortive ad uso familiare: es. Vallone Aquaserta, ecc..).

USO GASTRONOMICO La valerianella è indubbiamente una delle verdure più pregiate. Esistono anche varietà coltivate e commercializzate in “quarta gamma” (ad. es. con il nome di “songino”), ma le varietà selvatiche hanno un gusto superiore. Viene impiegata esclusivamente come insalata, meglio da sola, condita al consumo con un filo d’olio, niente aceto, nè sale per non soffocarne la dolcezza. Si tenga presente che la pianta va consumata prima di sviluppare lo stelo, quando le foglioline disposte rase sul terreno sono ancora tenere.

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Da sinistra. Il dirigente scolastico del Circolo Didattico “Giovanni XXIII” di Baiano e Sperone (Av), prof. Felice Colucci, insieme alle docenti Maria Filomena Avitabile e Carmen D’Apolito, nel corso di una lezione sulle erbe alimurgiche (nel corso della quale è stato più volte ribadito l’importante concetto di raccogliere solo le erbe che si conoscono perfettamente come commestibili e, nel dubbio, di chiedere informazioni agli adulti esperti).

206 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Violaceae La famiglia delle Violaceae abbraccia circa 900 specie raggruppate in 21 generi. Di questi, il più rappresentativo è costituito dal gen. Viola, che comprende circa 400 specie. Si tratta di piante erbacee annuali o perenni e anche suffruticose, alte da 10 a 20 cm, con fioriture primaverili, in svariati colori e corolle dalla forma caratteristica. Generalmente con l’inizio della stagione calda, le piante interrompono la fioritura, stimolando la produzione dei semi e concludendo il ciclo vegetativo. Il frutto può essere deiscente od indeiscente, carnoso o non carnoso (capsula, bacca o, raramente, una noce), spesso con endosperma oleoso e con un meccanismo di disseminazione esplodente. In alcuni casi, i semi sono muniti di appendici alate per favorirne la disseminazione anemocora. Le foglie sono portate con fillotassi alterna od opposta e si presentano con margine intero e provviste di stipole fogliose. Il fiore è ermafrodita. Con calice formato da 5 sepali verdi, corolla composta da 5 petali colorati. L’androceo è costituito da 5 stami liberi posti su un solo verticillo ed il gineceo, tricarpellare, con ovario uniloculare. La tipica formula fiorale è K5, C5, A5, G3. Nei comprensori del Vallo di Lauro e del Baianese sono state censite 9 sole specie appartenenti alla presente famiglia, tutte comprese nel genere Viola.

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Viola o Mammola Viola odorata (L.) o Viola mammola Scheda n. 70

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

RICONOSCIMENTO Sinonimo: Viola mammola. La viola ha la forma biologica di una emicriptofita rosata. Può raggiungere le dimensioni di circa 15 centimetri. Possiede un rizoma sotterraneo obliquo dal quale si dipartono ciuffi di radici secondarie e, annualmente, si origina una rosetta basale di foglie. Il fusto epigeo è costituito da stoloni fogliosi, striscianti e radicanti. Le foglie della rosetta basale si presentano stipolate, con lamina rotonda, a base reniforme e margine crenulato. I fiori sono zigomorfi, dialipetali e pentameri. Dalle dimensioni di 1,5 centimetri, profumati; petali viola, raramente bianchi, con quello inferiore prolungato in sperone (nettario). Gli stami sono in numero di 5. L’ovario è sincarpico, supero, tricarpellare, uniloculare. I fiori, solitari e basali, sono portati su assi fiorali non fogliosi muniti di due brattee in posizione mediale. Fiorisce da febbraio ad aprile. Il frutto è una capsula loculicida coperta di cortissimi peli.

DIFFUSIONE La Viola odorata è presente nei boschi e nei fruticeti di tutto il Partenio, con maggiore frequenza tra i 400 e gli 800 metri di altitudine. Nel territorio oggetto di indagine sono presenti le seguenti altre specie appartenenti al genere Viola: - Viola arvensis, terofita erbacea, nei coltivi e luoghi erbosi (200 - 400 m slm); - Viola aethnensis subs. splendida, emicriptofita scaposa (800 - 1.500 m slm); - Viola suavis, emicriptofita rosata (400 - 800 m slm); - Viola alba subsp. denhardtii, emicriptofita reptante (200 - 800 m slm); - Viola reichenbachiana, emicriptofita scaposa (400 - 800 m slm); - Viola tricolor, terofita erbacea o emicriptofita scaposa (200 -1.100 m slm), con numerose sottospecie; - Viola pseudogracilis (endemica), emicriptofita scaposa (800 - 1.300 m slm); - Viola riviniana, emicriptofita scaposa (200 - 1.100 m slm).

USO GASTRONOMICO Le foglie più tenere possono essere mangiate in insalata, mai da sole, spesso unitamente ai fiori che conferiscono profumo e un bell’aspetto estetico. Con i fiori si possono produrre profumatissimi canditi.

RICETTE

061 - 062

209 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

Pellegrino De Rosa - Benedetta Napolitano - don Giovanni Picariello

210Antica etichetta del tipico olio di oliva di Mugnano del Cardinale Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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R I C E T T A R I O 211 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Borragine

Sotto. Degustazione di piatti tipici a base di erbe nel locale tradizionale “La Lanterna” di Marco Ferrara (il terzo da sinistra). Alla sua sinistra, nell’ordine, la Signora Luisa Evangelista, esperta di cucina con le erbe selvatiche, ed il Prof. Giovanni Colucci, ex Sindaco di Mugnano del Cardinale (Av) ed attuale Vice Presidente della Provincia di Avellino.

212 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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A 001

ANTIPASTI - CONTORNI - DESSERT

Insalata campagnola

N

Ingredienti: 100 g di radicchio selvatico (Cichorium intybus) – 100 g di Crepis spp. – 100 g di Leontodon hispidus – 100 g di Taraxacum officinale – 100 g di Alliaria petiolata – olio extavergine di oliva – sale. Preparazione: Pulite e lavate tutte le erbe. Ponetele in una scodella e condite con olio e sale.

002

Cimette di “cardilli” (Sonchus spp.) al pecorino

T

Ingredienti: 200 g di cimette di cardilli (Sonchus spp.) – 100 grammi di Alliaria petiolata - pecorino – olio – aceto e sale. Preparazione: Pulite le cimette di cardilli in acqua corrente. Asciugatele e tagliatele grossolanamente. Tritate l’alliaria. Ponete tutto in una pirofila. Condite con olio e aceto e una manciata di pecorino.

003

Salsa di Alliaria e Allium ursinum

N

Ingredienti: Una manciata di foglie di Alliaria petiolata o Allium ursinum – 2 uova sode - olio extravergine di oliva – aceto – acciughe salate – sale. Preparazione: Mondate e lavate l’alliaria. Frullatela insieme all’olio e alle uova. Amalgamate la pasta così ottenuta all’aceto e a qualche acciuga precedentemente lavata.

004

Salsa di Amaranthus retroflexus

N

Ingredienti: Due manciate di foglie tenere di amaranto – maionese – olio extravergine di oliva. Preparazione: Pulite, lavate e fate bollire per 5 minuti in poca acqua salata le foglie di amaranto. Colatelo, strizzatelo per bene e frullatelo con poco olio. Amalgamate il trito così ottenuto con una quantità a piacere di maionese. Utilizzate questa salsa come contorno per gli asparagi lessi, le uova soda o come “pesto” per la pasta.

005

Insalata di germogli di Angelica sylvestris

N

Ingredienti: Teneri fusticini di angelica – piccioli di angelica – limone e olio. Preparazione: Mondate e lessate l’angelica. Dopo condite con olio extravergine d’oliva e limone. Legenda: N = ricette nazionali; T = ricette della tradizione locale; P = ricette suggerite dagli autori

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006

Mascarpone e cerfoglio (Anthriscus cerefolium)

N

Il cerfoglio tritato aggiunto nella misura di un cucchiaio per etto di mascarpone (possibilmente con una cucchiaiata di erba cipollina tritata) è un delicato, ideale ingrediente per preparazione di piccoli toast, adatti ad accompagnare gli aperitivi.

007

Radici di bardana (Arctium lappa)

P

Ingredienti: Tenere radici di bardana – olio extravergine di oliva – 1 goccio di limoncello. Preparazione: Lavate e lessate le radici di bardana in acqua salata. Colatele, tagliatele alla julienne e conditele con l’olio aggiungendo qualche goccia di limoncello.

008

Piccioli di bardana (Arctium lappa) imburrati

N

Ingredienti: Piccioli di bardana – burro – ricotta salata (del Fusaro di Avella) – sale – pepe. Preparazione: Mondate, lavate e decorticate i piccioli di bardana. Sbollentateli in acqua salata. Fate fondere il burro. Ponete i piccioli di bardana sbollentati su un piatto e ricopriteli con il burro fuso, la ricotta salata grattugiata, pepe e sale. Servite caldi.

009

Piccioli di bardana (Arctium lappa) dorati e fritti

T

Ingredienti: Piccioli di bardana – uova – farina – pane grattugiato – olio extra vergine di oliva. Preparazione: Lavate accuratamente i piccioli di bardana e decorticateli. Sbattete le uova. Passate i piccioli di bardana prima nella farina, poi nell’uovo, poi nel pane grattugiato e friggeteli nell’olio extra vergine d’oliva. Appoggiateli sulla carta assorbente per qualche minuto e poi disponeteli in un piatto con un po’ di sale.

010

Bacchette del re (Asphodeline lutea) arrostite

N

Gli scapi fiorali immaturi e più teneri, liberi dalle foglie e dalla pellicola esterna, si sbollentano e poi si arrostiscono alla brace, conditi con olio, limone, sale, pepe e origano.

011

Bacchette del re (Aspodeline lutea) in agrodolce

N

Gli scapi fiorali immaturi e più teneri, liberati dalle foglie e dalla pellicola esterna si fanno rosolare in padella con uno spicchio d’aglio. Si salano e, quando sono dorati, si sfumano con l’aceto. Poiché hanno un sapore dolciastro, la pietanza assume un piacevole gusto agrodolce senza l’aggiunta di zucchero.

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012

Atriplex patula saltata in padella

T

Ingredienti: Foglie di Atriplex Patula – olio extra vergine di oliva – sale – aglio – peperoncino. Preparazione: Pulite accuratamente l’erba. Lavatela e lessatela. Sgocciolatela e fatela saltare in padella con l’olio extra vergine d’oliva, l’aglio, il sale e un pizzico di peperoncino.

013

Boccioli vari sotto aceto

N

Raccogliete i fiori, o capolini, di pratolina (Bellis perennis) o di calendula (Calendula officinalis) ancora in boccio e perfettamente chiusi. Eliminate completamente il gambo e lavateli accuratamente sotto l’acqua corrente, poi fateli sgocciolare e metteteli ad asciugare su un canovaccio pulito. Trasferiteli in una terrina, alternandoli a strati di sale grosso, e lasciateli disidratare per 24 ore. Poi sciacquate i boccioli in aceto e metteteli nei vasetti di vetro puliti ed asciutti, aggiungendo qualche grano di pepe. Coprite con l’aceto e schiacciate i boccioli con i rebbi di una forchetta per far fuoriuscire tutta l’aria. Se necessario, aggiungete altro aceto.

014

Foglie di borragine (Borago officinalis) fritte

N

Preparate una leggera pastella dove immergerete le foglie più grandi precedentemente lavate ed asciugate. Friggete velocemente le foglie ad una ad una, passatele su carta assorbente da cucina e servire ben calde.

015

Crema al formaggio alla borragine (Borago officinalis)

N

Ingredienti per 2 persone: 250 g di fiori di borragine - 80 g di ricotta - 40 g di burro - 30 g di formaggio grana grattugiato - 2 uova - 1/2 litro di brodo - crostini di pane fritti nel burro - sale e pepe. Preparazione: Pulite e lavate i fiori di borragine. Tagliateli grossolanamente e fateli rosolare insieme al burro. Aggiungete 1 mestolo di brodo, abbassate la fiamma e lasciate cuocere, a pentola coperta, per circa 10 minuti. Se necessario aggiungete altro brodo. Preparate a parte la ricotta, lavorandola con una forchetta fino a renderlo cremoso, poi aggiungetelo alla borragine in cottura. Mescolate e aggiungete altro brodo. Salate leggermente e lasciate cuocere per altri 10 minuti, continuando a mescolare. Versate i tuorli delle due uova in una terrina, sbatteteli ed aggiungete la crema di borragine prima preparata e un pizzico di pepe. Frullate con un frullatore a immersione. Aggiungete una spolverata di grana grattugiato e servite la crema insieme con crostini di pane fritti nel burro. Decorate con alcuni fiori di borragine.

016

Tortino di borragine (Borago officinalis) “La lanterna”

P

Ingredienti: Borragine – ricotta di Avella – tuorlo d’uovo – parmigiano - pane raffermo. Preparazione: Stufate foglie e fiori di borragine con l’aglio. Tritate con il mixer. Aggiungete la ricotta, sale, parmigiano grattugiato ed il tuorlo d’uovo. Ponete il composto in uno stampino. Servite con fette di pane raffermo.

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017

Crostini alla calendola (Calendula officinalis)

N

Ingredienti: Crostini di pane tostato - fiori di calendola sott’aceto - maionese. Preparazione: Miscelare i fiori di calendola alla maionese e quindi cospargere i crostini con la miscela ottenuta. Disporre sopra il piatto dei petali aranciati di fiori di calendola che esaltano visivamente la composizione. I fiori di calendula sotto aceto, vengono preparati, semplicemente, facendo sbollentare i capolini semiaperti di calendula in aceto e poco sale, e poi conservandoli in vasi di vetro ricolmi di aceto.

018

Rucola con i capperi

N

Ingredienti: 500 g di rucola (Eruca sativa) – 2 acciughe sotto sale – una manciata di capperi (Capparis spinosa)– olio extra vergine di oliva – sale. Preparazione: Pulite accuratamente la rucola. Lavatela e sbollentatela per 5 minuti in acqua bollente salata. Sgocciolatela e ponetela sul fondo di una pirofila. Lavate le acciughe, eliminate la lisca e tritatele insieme ai capperi. Fate scaldare il trito così ottenuto in un pentolino con l’olio extra vergine d’oliva. Condite la rucola e servite.

019

Pancarré alla dentaria (Cardamine bulbifera)

N

Ingredienti: Foglie di cardamine – pancarré – burro – aceto – olio extra vergine d’oliva – sale. Preparazione: Pulite, lavate e lessate le foglie di cardamine. Conditele con l’olio extra vergine d’oliva , qualche goccia di aceto e sale. Tostate le fette di pancarré e imburratele. Ricoprite le fette tostate con le foglie di cardamine condite. Disponetele in un piatto di portata e servite.

020

Dentaria (Cardamine bulbifera) con lo yogurt

N

Ingredienti: Foglie tenere di cardamine – yogurt. Preparazione: Mondate con cura le foglie di cardamine. Lavatele per bene e sminuzzatele. Aggiungete lo yogurt e amalgamate.

021

Insalata mista con la ‘mbruvuglina (Stellaria media)

N

Ingredienti: Piantine di centocchio o “mbruvuglina”- foglie di cardamine (Cardamine bulbifera) – foglie di songino (Valerianella olitoria) e di “cardillo” (Sonchus spp.) – cipolla – aceto – olio extravergine d’oliva e sale. Preparazione: Lavate bene le erbe selvatiche. Strappatele e sminuzzatele con le mani e mettetele in una insalatiera insieme alla cipolla tagliata ad anelli. Poi miscelate e condite con una emulsione di olio, sale ed aceto.

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022

Crema di carlina (Carlina spp.) e piselli

N

Ingredienti per 2 persone: 100 g di cuori di carlina - 1/2 barattolo di piselli - 1/2 litro di brodo vegetale - 1 cucchiaio di farina - pepe e sale. Preparazione: Mettete a cuocere i cuori di carlina in una teglia con un po’ di brodo e, appena cotti, scolateli e frullateli insieme ai piselli (sgocciolati). Aggiungete la farina al brodo vegetale rimanente, mescolate e unite il frullato di carlina e piselli, facendo poi cuocere per 10 minuti. Aggiustate di pepe e sale. Servite con crostini di pane abbrustoliti.

023

Crostini al farinaccio (Chenopodium album)

T

Ingredienti: Pan carré - latte - farinaccio – capocollo di Mugnano del Cardinale - fettine di formaggio – uova - olio extravergine d’oliva. Preparazione: Inumidire leggermente le fette di pan carré nel latte e porre su ciascuna del formaggio, del farinaccio lessato e qualche fettina di capocollo di Mugnano del Cardinale, tagliate sottili. Coprire con un’atra fetta di pane, passare il panino nelle uova sbattute e friggere.

024

Bruschette alla crema di farinaccio (Chenopodium album)

N

Ingredienti: 1 Kg di farinaccio - 100 g di burro - 1 litro di brodo - 50 g di ricotta secca grattugiata - 2 cucchiai di farina - sale a piacere - bruschette all’aglio. Preparazione: Far appassire il farinaccio senz’acqua, con un po’ di sale, poi scolare e strizzare. Sciogliere il burro in un pentolino aggiungendo la farina, curando di non produrre grumi. Unire poi il farinaccio, rimescolando. Aggiungere il brodo e la ricotta secca, sempre rimestando con un cucchiaio di legno. Cuocere per un quarto d’ora. Mettere in una terrina un tuorlo d’uovo e versarvi sopra la crema rimescolando. Servire la crema così ottenuta con crostini di pane agliato.

025

Salsa di ruchetta e buon Enrico

N

Ingredienti: 100 g di ruchetta (Diplotaxis tenuifolia) – 300 g di Chenopodium bonus-Henricus – 4 cetriolini sotto aceto – 2 uova sode – 2 acciughe sott’olio – olio extra vergine d’oliva – pepe – sale. Preparazione: Pulite e lavate per bene le erbe. Fate bollire il Chenopodium bonus-Henricus in acqua salata. Scolatelo e frullatelo insieme alla ruchetta, ai cetriolini, alle acciughe, alle uova sode e all’olio extra vergine d’oliva. Ponete la salsa in una scodella e amalgamate con sale e pepe. E’ ottima sugli arrosti.

026

Puntarelle di cicoria (Cichorium intybus)

N

Pulite bene gli scapi fiorali appena emessi e tagliateli in senso longitudinale, tuffandoli subito in acqua fredda per farli arricciare. Fateli sgocciolare e conditeli con un pesto fatto con aglio, olio extravergine d’oliva ed alici sotto sale, deliscate e dissalate.

217 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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027

Coste di scardaccione gratinate

T

Ingredienti: Coste di scardaccione (Cirsium arvense) – besciamella – pancetta di Mugnano del Cardinale – burro. Preparazione: Lavate e pulite le foglie di scardaccione. Tagliate con un coltello le sole nervature (coste) centrali delle foglie, eliminando la lamina spinosa. Lessate le coste in acqua salata. Scolatele e ponetele in una pirofila imburrata. Tagliate la pancetta a fettine sottili e aggiungetela alle coste insieme alla besciamella e al burro. Infornate e fate cuocere a 180 °C per circa 10 minuti.

028

Insalata di prato

N

Ingredienti: Foglie di valerianella (Valerianella olitoria) – foglie di tarassaco (Taraxacum officinale) – ruchetta (Diplotaxis spp) - olio extravergine d’oliva – cipolla – aceto - sale. Preparazione: Lavate bene le erbe selvatiche, aggiungete un po’ di cipolla e poi conditele per bene, con olio, aceto sale. E’ consigliabile usare poca ruchetta, per non mascherare troppo il sapore delle altre erbe.

029

Equiseto al burro

N

Ingredienti: Fusti fertili di equiseto (Equisetum Arvense) – burro – pepe – sale. Preparazione: Raccogliete i fusti fertili di equiseto, lavateli e privateli della guaina e degli sporangi apicali. Lessateli in acqua salata. Poneteli su di un piatto e versateci sopra il burro fuso con un po’ di pepe.

030

Salsa di topinambour

N

Si prendono 400 g di tuberi di topinambour (Helianthus tuberosus), si sbucciano, si tritano finemente e si versano in una casseruola con 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva, 1 bicchiere d’acqua e il sale. Appena cotti, si aggiunge un cucchiaino di prezzemolo e 1 spicchio tritato d’aglio, si mescola, si lasciano ad amalgamare i sapori per un paio di minuti e poi si stende il tutto su fette di pane tostato. Si passa la pirofila con i crostini, così preparati, per 2-3 minuti al forno già caldo sui 180 °C. Si servono caldi.

031

Antipasto con topinambour

N

Ingredienti per 2 persone: 2 rizomi tuberosi di topinanbour (Helianthus tuberosus)– 50 g di filetti di acciuga sott’olio - 15 ml di latte - 30 ml di olio extravergine di oliva - 1 spicchio d’aglio - sale e pepe. Preparazione: Lavate e spellate i “tuberi” di topinambour. Tagliateli a rondelle sottili o alla julienne. Sminuzzate i filetti di acciuga, tritate l’aglio e fateli rosolare nell’olio, aggiungendo anche il latte, per pochi minuti. Ora aggiungete al soffritto le rondelle o le listarelle di topinambour e soffriggetele per circa 20 minuti, a fiamma lenta. Aggiungete sale e pepe e servite subito.

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032

Frittelle ai germogli di luppolo

N

Ingredienti per 2 persone: 150 g di germogli di luppolo (Humulus lupulus) - 2 uova - ½ cipolla - 1 cucchiaio di formaggio pecorino - 2 cucchiai di farina - olio extravergine di oliva - pepe e sale. Preparazione: Fate sbollentare i germogli di luppolo per qualche minuto, poi scolateli e lasciateli raffreddare. Poi tritateli insieme alla cipolla. Preparate uno sbattuto di uova con pepe e sale, aggiungetevi il trito di luppolo e la farina, e continuate a mescolare per qualche minuto. Mettete a riscaldare l’olio extravergine d’oliva in una padella antiaderente e versatevi il composto, in misura di una cucchiaiata alla volta. Otterrete delle squisite frittelle che avrete cura di far dorare da ambo i lati. Appoggiatele per qualche minuto su carta assorbente da cucina per eliminare l’olio in eccesso e servitele subito.

033

Falsa ortica alla mozzarella di bufala campana

T

Ingredienti: 200 g di foglie di falsa ortica(Lamium spp) – 100 g di mozzarella di bufala – aglio – olio extra vergine d’oliva – sale. Preparazione: Raccogliete le foglie di falsa ortica e fatele bollire in acqua leggermente salata. Scolatele e tagliatele grossolanamente. Fate soffriggere l’aglio in un tegame e toglietelo appena sarà dorato. Aggiungetevi la falsa ortica con la mozzarella di bufala tagliata a dadini. Fate saltare per qualche minuto e servite caldo.

034

Frittelle con la malva

N

Ingredienti per 2 persone: 200 g di foglie di malva (Malva sylvestris)- 50 g di farina bianca - 1 tuorlo d’uovo - 1 bustina di lievito - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - sale. Preparazione: Preparate con acqua e farina una pastella mediamente fluida e lasciatela riposare per un paio di ore. Poi aggiungete alla pastella, mescolando bene, le foglie di malva (accuratamente lavate) tagliate a striscioline sottilissime, il tuorlo d’uovo sbattuto, la bustina di lievito e un pizzico di sale. Versate il composto, un cucchiaio alla volta, in una padella con olio molto caldo. Quando le frittelle saranno dorate da entrambe le parti, toglietele dalla padella e lasciate asciugare l’olio in eccesso su un foglio di carta assorbente da cucina. Servite le frittelle ben calde.

035

Pasticcini alla Melissa officinalis

N

Ingredienti: 100 g di melissa – 200 g di zucchero – 350 g di farina – 2 uova – 50 g di burro - 1 bustina di lievito - 1 bicchiere di latte – la buccia grattugiata di un limone – sale Preparazione: Mondate e lavate la melissa. Tritatela e mescolatela in una scodella insieme alla buccia grattugiata del limone e a due cucchiai di zucchero. Fatela riposare per 10 minuti. Sciogliete il burro a bagnomaria. Impastate la farina con il latte, lo zucchero rimasto, le uova, il burro sciolto, il trito di melissa e un pizzico di sale. Unite all’impasto il lievito sciolto in un poco di latte tiepido e amalgamate per bene. Mettete l’impasto negli appositi stampini e fate cuocere nel forno preriscaldato a 180°.

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036

Papavero alla boscaiola

T

Ingredienti per 2 presone: 250 g di rosette basali di foglie di papavero (Papaver rhoeas) raccolte prima della fioritura – 2 cucchiai di olio extravergine di oliva – 2 bicchierini di vino bianco (Greco di Tufo) – 1 foglia di alloro - 5 olive nere denocciolate - 1 aglio – pepe e sale. Preparazione: Lavate accuratamente le rosette di papavero, asciugatele e tagliatele a pezzettini. Fate soffriggere, in olio d’oliva, per cinque minuti, il papavero, le olive nere e l’alloro. Insaporite con pepe e sale. Bagnate con il vino bianco e coprite con un coperchio la pentola, facendo cuocere per circa 15 minuti.

037

Piantaggine “sfritta”

N

Ingredienti per 2 persone: 250 g di piantaggine (Plantago spp.) – 6 olive nere denocciolate - 1 peperoncino piccante – aglio – 2 cucchiai di olio extravergine di oliva. Preparazione: Sciacquate accuratamente le foglie di piantaggine e fatele bollire per 10 minuti, in poca acqua salata. Tritatele grossolanamente. Soffriggete, nell’olio d’oliva, l’aglio schiacciato, il peperoncino piccante tagliato a pezzetti e le olive. Aggiungete le foglie di piantaggine tritate ed insaporite con un pizzico di sale. Lasciate soffriggere per almeno cinque minuti.

038

Insalata di “porcellana”

T

Ingredienti per 2 persone: 400 g di foglie di porcellana (Portulaca oleracea)– 6 pomodorini “ciliegino del Vesuvio” – ½ cipolla - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva – 1 cucchiaio di aceto di vino – origano – pepe e sale. Preparazione: Sciacquate accuratamente la porcellana, asciugatela e, dopo averla spezzata con le mani, mettetela in una insalatiera, insieme ai pomodorini tagliati a metà ed alla cipolla tagliata a rondelle. Condite con olio, sale ed origano e mescolate accuratamente.

039

Dolce di primule

N

Ingredienti per 2 persone: 50 corolle di primula (Primula officinalis)– 10 biscotti secchi – 1 tuorlo d’uovo – 200 ml di panna fresca - 50 g di zucchero – mezzo bicchierino di olio di nocciola (di Lauro) - un bicchierino di limoncello. Preparazione: Pulite le corolle dal calice. Sbriciolate i biscotti e pestateli insieme alle corolle. Mescolate e portate ad ebollizione, in un pentolino, la panna montata ed il composto prima preparato. Lasciate raffreddare poi aggiungete, mescolandoli, il tuorlo d’uovo sbattuto, il limoncello, l’olio di nocciola e lo zucchero. Ponete l’impasto così ottenuto in una teglia da forno imburrata e fate cuocere per circa mezz’ora in forno preriscaldato a 150 °C.

220 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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040

Primula officinalis in pastella

N

Ingredienti per 2 persone: 250 di foglie e fiori di primula – 2 cucchiai di farina – olio extravergine di oliva – acqua - sale. Preparazione: Preparate la pastella con farina, acqua tiepida e sale. Quando l’impasto risulterà liscio, di consistenza adatta e senza grumi lasciatelo riposare per mezz’ora. Lavate bene le foglie ed i fiori di primula, passateli uno per volta nella pastella e metteteli a friggere nell’olio caldo. Quando le pizzette saranno ben cotte e dorate ponetele su un foglio di carta assorbente da cucina per eliminare l’olio eccedente. Salate e servitele calde.

041

Germogli di rovo (Rubus spp.) lessati

N

Ingredienti per 2 persone: 250 g di teneri germogli di rovo – 2 cucchiai di olio extravergine di oliva – mezzo limone – pepe e sale. Preparazione: Pulite e fate bollire i germogli di rovo in acqua salata per pochi minuti. Scolateli e conditeli con l’emulsione di olio extravergine di oliva, succo di limone, pepe e sale.

042

Cimette di pungitopo al pomodoro

T

Ingredienti: Cimette di pungitopo (Ruscus Aculeatus)– pomodorini “ciliegino del Vesuvio” – maionese. Preparazione: Pulite e lessate le cimette di pungitopo in acqua leggermente salata. Private i pomodori della parte superiore e svuotateli. Tagliate a dadini le cimette di pungitopo lessate, mescolatele con la maionese e riempite i pomodori.

043

Insalata di pimpinella, centocchio e songino

N

Ingredienti: Giovani foglie e teneri germogli di pimpinella (Sanguisorba minor), centocchio (Stellaria media) e songino (Valerianella olitoria) a piacere – olio extravergine di oliva –sale – aceto. Preparazione: Dopo averle lavate per bene ed aver eliminato, strappandoli con le mani, i fusticini più duri ponete semplicemente le giovani foglie in una capiente insalatiera e conditele con olio, sale ed aceto, secondo i vostri gusti.

044

Contorno di Venere (Scandix pecten-veneris)

N

Ingredienti: Foglie e germogli di spillettone (Scandix pecten-veneris) – olio – aglio – sale. Preparazione: Lavate per bene le foglie ed i germogli di spillettone o “pettine di Venere”. Scolatele e saltatele in padella con olio, aglio e sale.

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045

Schioppettino (Silene vulgaris) mantecato

N

Ingredienti per 2 persone: 600 g di giovani foglie di silene – 30 g di pane grattugiato – 30 g di buro – 30 g di formaggio pecorino grattugiato – aglio – sale e pepe. Preparazione: Sciacquate le foglioline di silene e fatele bollire per 10 minuti in poca acqua salata. Tritate finemente l’aglio e mettetelo a dorare in padella col burro. Aggiungete le foglioline lessate di silene e fatele soffriggere, poi aggiungete il formaggio pecorino grattugiato. Addensate con il pane grattugiato e mescolate. Aggiungete sale e pepe secondo i vostri gusti e servite caldo.

046

Cardo mariano (Silybum marianum) sott’olio

N

Ingredienti: Coste fogliari e fondi fiorali (base dei capolini) – aceto – olio extravergine di oliva – sale e pepe. Preparazione: Dopo aver lavato il cardo, ripulite le foglie (prendendo solo le coste centrali) ed i capolini (prendendo solo il ricettacolo). Tagliate tutto in piccoli pezzi che farete poi bollire per una decina di minuti fino a che non arrivi ad una consistenza tenera. Asciugate, poi, i pezzetti accuratamente e poneteli in vasi di vetro, coprendoli con l’olio ed aggiungendo sale e pepe (se lo desiderate, potete aggiungere anche chiodi di garofano o finocchietti).

047

Cardo mariano (Silybum marianum) sott’aceto

N

Ingredienti: Fondi fiorali (parte basale dei capolini) di cardo mariano – alloro – aceto di vino bianco – pepe. Preparazione: Dopo aver lavato e tagliato i fondi di cardo mariano, bagnateli con il succo di limone, metteteli in una casseruola con l’aceto e fateli bollire per una decina di minuti. Fateli raffreddare e sgocciolare per poi metterli in vasi di vetro, ricoperti d’aceto, aggiungendo alloro e pepe (se lo desiderate, potete aggiungere anche chiodi di garofano o finocchietti o peperoncino).

048

Cardo mariano (Silybum marianum) con le acciughe

N

Ingredienti: Boccioli fiorali e coste di cardo mariano – 1 acciuga sotto sale – farina – 1 limone – 1 spicchio d’aglio – prezzemolo – olio extravergine di oliva – sale e pepe. Preparazione: Mondate le foglie di cardo prendendo solo le coste centrali. Lavate le coste ed i capolini (bocci). Tagliuzzate il tutto a pezzetti e fate bollire, per circa 20 minuti, in una pentola d’acqua in cui avrete sciolto un cucchiaio di farina e versato il succo di limone. A parte fate rosolare l’acciuga, dissalata e tritata, in una pentola con olio d’oliva. Aggiungete un trito di aglio e prezzemolo e poi i pezzetti di cardo bolliti. Mescolate per qualche minuto ed aggiustate di sale e pepe secondo i vostri gusti.

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Sopra. Frittata di ortiche e salame di Mugnano del Cardinale.

A lato. Risotto con le ortiche.

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Pellegrino De Rosa - Benedetta Napolitano - don Giovanni Picariello

Sopra. Panini con farinaccio (Chenopodium album) e Frittelle al cerfoglio (Anthriscus cerfolium). Sotto. Petali di rosa, dorati e fritti.

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

049

Stracciabraghe (Smilax aspera) al formaggio

N

Ingredienti: 200 g di teneri germogli di stracciabraghe – una noce di burro – due cucchiai di formaggio pecorino grattugiato. Preparazione: Mondate e lessate i teneri germogli di stracciabraghe. Poi passateli in padella con burro e formaggio e saltateli per almeno 5 minuti.

050

Insalata di centocchio e cardillo

N

Ingredienti: Un paio di manciate di centocchio o “mbruvuglina” (Stellaria media) ed altrettante di cardamine (Cardamine bulbifera) – qualche foglia di songino (Valerianella olitoria) e di “cardillo” (Sonchus spp.) – cipolla – 2 uova sode - 6 olive snocciolate - aceto – olio extravergine d’oliva e sale. Preparazione: Lavate bene le erbe selvatiche. Sminuzzatele con le mani e mettetele in una insalatiera insieme alla cipolla tagliata ad anelli. Tagliate le uova sode a rondelle ed aggiungetele all’insalata, insieme alle olive. Poi condite con una emulsione di olio, sale ed aceto.

051

Insalata verde e gialla di tarassaco (Taraxacum officinale)

N

Ingredienti: 150 g di foglie basali di tarassaco – una dozzina di fiori (capolini) di tarassaco – 2 uova – mais in scatola – maionese – erba cipollina – olio extravergine d’oliva – sale. Preparazione: Raccogliete dal prato una bella manciata di fiori gialli di tarassaco e circa 150 grammi di foglie. Lavatele con molta cura e tagliatele grossolanamente. Asciugate le foglie di tarassaco e mettetele in una ciotola per insalata. Fate rassodare 2 uova, poi sgusciatele e tagliatele a dischetti. Aggiungete all’insalata alcune cucchiaiate di mais in scatola, ben sgocciolato, i petali dei fiori ed i dischetti di uova soda. A parte preparate un condimento con olio extra vergine di oliva, alcuni capperi sott’aceto tritati finemente, 2 o 3 cetriolini conservati e qualche filo di erba cipollina (o aglio tritato). Unite a questo condimento una cucchiaiata di maionese, amalgamate il tutto e versatelo sull’insalata. Aggiungete sale e pepe secondo i gusti personali.

052

Tarassaco (Taraxacum officinale) sott’olio

N

Ingredienti: 500 g di boccioli di tarassaco – ½ litro di aceto – ¼ di Greco di Tufo - 50 g di sale grosso. Preparazione: Raccogliete 500 grammi di boccioli di tarassaco teneri e perfettamente sani. Eliminate da ognuno le lacinie del calice. Lavateli delicatamente ma con cura, ed asciugateli bene. Portate ad ebollizione l’aceto ed il vino bianco (Greco di Tufo), insieme a due cucchiai di sale grosso. Immergetevi i boccioli di tarassaco e lasciateli bollire per 5 minuti. Raccoglieteli col mestolo forato, sgocciolateli bene e allargateli su un piatto pulito per farli asciugare (circa 2 ore). Poneteli ora in piccoli vasetti e ricopriteli completamente con olio extravergine d’oliva. Premete delicatamente con la forchetta per far uscire tutta l’aria e, se necessario aggiungete altro olio, poi chiudete. Da usare come contorno o come antipasto.

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Pellegrino De Rosa - Benedetta Napolitano - don Giovanni Picariello

053

“Capperi” di tarassaco (Taraxacum officinale)

N

100 g di boccioli di tarassaco ben chiusi e duri, si lasciano al sole ad appassire per qualche ora. Si mettono a bollire 300 g. di aceto bianco di ottima qualità. Quando l’aceto bolle, si tuffano i boccioli di tarassaco ed un cucchiaino di sale grosso, per un paio di minuti, dopodichè si scolano con grande delicatezza, si stendono su di un canovaccio di cotone ad asciugare, il giorno dopo si potranno imbarattolare coprendoli con olio di oliva (gusto delicato) o aceto bianco (gusto forte). Si prestano per un’infinità di prelibatezze.

054

“Miele” di tarassaco (Taraxacum officinale)

N

Si prendono 350 g di fiori di tarassaco e 3 limoni a pezzi (se si vuole un miele dolcissimo, senza la buccia, se invece si preferisce un miele un pò più amarognolo si prenda anche la buccia). Fateli bollire in un litro e mezzo di acqua per un’ora a fuoco lento. Filtrate per bene. Poi aggiungete al filtrato un chilo e mezzo di zucchero e rimettete a bollire il tutto, mescolando ogni tanto per altre due ore, sempre a fuoco lento. Ed ecco preparato il “miele” senza bisogno delle api!

055

Crostini al tarassaco (Taraxacum officinale)

N

Ingredienti per 2 persone: 300 g di foglie di tarassaco – 4 fettine di pane – 30 ml di olio extravergine d’oliva - 20 g di burro - aglio - sale e pepe. Preparazione: Sciacquate le foglie di tarassaco e lessatele in poca acqua salata. Soffriggetele nell’olio, con l’aglio tritato, il pepe ed il sale. Tostate le fettine di pane e ponetele in una teglia unta col burro, versatevi sopra il soffritto e lasciate cuocere in forno a 180 °C per 10 minuti. Serviteli caldi.

056

Pizzette di fiori di tarassaco (Taraxacum officinale)

N

Ingredienti per 2 persone: 150 g di gialli capolini di tarassaco – 4 cucchiai di farina – olio extravergine d’oliva – acqua – sale. Preparazione: Preparate una pastella semiliquida mescolando farina, acqua tiepida e sale, e fatela riposare per una mezz’oretta. Lavate e scolate bene i fiori (capolini) di tarassaco e passateli, uno alla volta, nella pastella e fateli friggere nella padella con olio ben caldo. Quando le pizzette saranno ben fritte, ponetele su un foglio di carta assorbente da cucina per eliminare l’olio in eccesso.

057

Uova soda e tarassaco (Taraxacum officinale)

N

Ingredienti per 2 persone: 200 g di foglie tenere di tarassaco – 4 uova sode – 30 ml di olio extravergine d’oliva – 15 ml di aceto di vino bianco – ½ cipolla – sale e pepe. Preparazione: Lavate per bene le foglie di tarassaco e disponetele in una insalatiera. Tagliate le uova soda ed aggiungetele, insieme alla cipolla tagliata, al tarassaco. Condite con olio, aceto, sale e pepe.

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058

Barba di caprone (Tragopogon pratensis) gratinata

N

Ingredienti: Germogli di barba di caprone – capocollo di Mugnano del Cardinale – sottilette di formaggio – burro e sale. Preparazione: Lessate i germogli di tragopogon in acqua salata, scolateli e disponeteli sul fondo di una pirofila imburrata, quindi ricopriteli con uno strato di sottilette ed uno di capocollo di Mugnano del Cardinale tagliato a fettine sottilissime. Su tutto versate la besciamella e qualche fiocchetto di burro. Fate cuocere in forno preriscaldato a 180 °C, fino a doratura.

059 Frittelle di radici di barba di caprone (Tragopogon pratensis)

N

Ingredienti: Radici di Tragopogon pratensis – 1 cucchiaio di zucchero – 200 g di burro – farina – olio extravergine di oliva – noce moscata e macis - cannella - pepe e sale. Preparazione: Lavate e bollite le radici di barba di caprone, poi tagliatele nel senso della lunghezza (alla Julienne). A parte, mescolate lo zucchero con le spezie e sciogliete il burro. Ricoprite i pezzetti di radice con la mistura di zucchero aromatizzato, poi passateli nel burro e poi asciugateli in un pizzico di farina. Spolveratele, poi, con dello zucchero a velo e mettetele a friggere nell’olio extravergine d’oliva fino a completa doratura.

060

Capolini di trifoglio (Trifolium pratense) al forno

N

Ingredienti: 1 kg di fiori (capolini) di trifoglio – 100 gr di burro – 4 cucchiai di miele di Avella – 500 ml di brodo vegetale – sale. Preparazione: Lavate bene le infiorescenze di trifoglio, poi versateli in 2 litri di acqua salata e bollente e fateli scottare per 8 minuti. A parte sciogliete il burro in padella ed aggiungete il miele, mescolando bene. Dopo qualche minuto aggiungete mezzo bicchiere di brodo caldo e, continuando a mescolare, unite i fiori di trifoglio. Poi ungete una pirofila da forno, versateci i fiori ed aggiungete il resto del brodo. Fate bollire, sul fornello, per circa 20 minuti. Poi coprite la pirofila con carta metallizzata ed infornate in forno preriscaldato a 180 °C. Dopo circa 20 minuti il brodo sarà quasi del tutto ristretto ed i fiori saranno quasi dorati. Mescolate con delicatezza, portando sopra i fiori dello strato inferiore, e fate continuare la cottura per altri 5 minuti. Serviteli ben caldi.

061

Dolce di violette (Viola odorata) al latte

N

Ingredienti per 2 persone: 100 g di fiori di violetta – 50 g di farina - 50 g di miele di limone (di Avella) – burro – 1 lt di latte. Preparazione: Fate addensare il latte, aggiungendo la farina a velo, mescolando e facendolo bollire per circa 45 minuti. Lavate bene i fiori di violetta, mondandoli del calice verde, asciugateli, ed aggiungeteli al latte addensato, insieme al miele ed al burro. Imburrate uno stampino, versateci la crema e fatelo raffreddare in frigorifero per almeno 4 ore.

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062

Sorbetto alle violette (Viola odorata)

N

Ingredienti per 2 persone: 100 g di fiori di violette – 1 albume d’uovo – 25 g di zucchero – 150 ml d’acqua. Preparazione: Lavate per bene le violette e pestatele, insieme allo zucchero, in un mortaio e poi versateci sopra l’acqua bollente. Lasciate in infusione fino a completo raffreddamento. Filtrate, eliminando la parte solida, e aggiungete all’infuso l’albume montato a neve e mettete il sorbetto nel freezer, avendo cura di mescolarlo ogni 15 minuti, per evitare che si congeli completamente.

B

PRIMI PIATTI

063

Gnocchi agli spinaci selvatici e parietaria

N

Ingredienti: 400 g di buon Enrico (Chenopodium bonus-Henricus) - 300 g di amaranto (Amaranthus retroflexus) - 300 g di parietaria (Parietaria officinalis) - 400 g di ricotta – farina – burro – 1 uovo - formaggio pecorino - noce moscata - salvia selvatica 4 o 5 foglie - sale. Preparazione: Cuocere in acqua salata le erbe, colarle, strizzarle e sminuzzarle. Mischiare alla ricotta, a un uovo, alla noce moscata e al pecorino grattugiato. Preparare dei piccoli gnocchi e gettarli nell’acqua bollente togliendoli appena vengono a galla. Far sciogliere del burro rosolandovi qualche foglia di salvia selvatica e versarlo caldo sugli gnocchi.

064

Timballo di spinaci selvatici

T

Ingredienti: 500 g di foglie o di teneri apici di Amaranthus retroflexus – 500 g di foglie o di teneri apici di Chenopodium album - 200 g di ricotta (del Fusaro di Avella) – aglio – olio extravergine d’oliva e sale. Preparazione: Lavate e pulite le erbe accuratamente. Fatele cuocere in acqua salata, poi scolatele e tritatele. Fate un impasto con acqua, sale e farina, formando due sfoglie non molto spesse. Saltate le erbe in una padella con aglio ed olio. Dopo la cottura unite ad esse la ricotta. Mettete una sfoglia in un tegame, versateci sopra il composto di erba e ricotta, e coprite con la seconda sfoglia, riunendo i bordi. Ungete con un poco d’olio e fate cuocere in forno preriscaldato a 180 °C. Fino a completa cottura.

065

Riso e cerfoglio (Anthriscus cerefolium)

N

Ingredienti: Ciuffi di cerfoglio - riso - pecorino grattugiato - brodo vegetale. Preparazione: Cuocete il riso nel brodo vegetale. A metà cottura, aggiungete 2 cucchiai di cerfoglio tritato e continuate la cottura rimestando. A cottura ultimata aggiungete una spolverata di formaggio pecorino grattugiato.

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

066

Minestra cotta mista

T

Ingredienti per due persone: 100 g di foglie e fiori di borragine (Borago officinalis) – 100 g tra foglie e fiori di tarassaco (Taraxacum officinale) - 100 g di ortiche (Urtica dioica) – 100 g di foglie di papavero (Papaver rhoeas) – 100 g di cerfoglio selvatico (Anthriscus cerefolium) – 5 o 6 foglie di piantaggine (Plantago spp.) - olio extravergine d’oliva – olive nere – peperoncino – sale. Preparazione: Lavate con cura tutte le erbe selvatiche poi mettetele a cuocere in una pentola a pressione con mezzo bicchiere d’acqua, per 10 minuti. Col coltello o con la mezzaluna tagliuzzatele grossolanamente e mettetele in una larga ciotola. A parte mettete a rosolare nell’olio un trito finissimo di aglio, peperoncino ed una manciata di olive nere. Dopo qualche minuto aggiungete le erbe prima lessate. Mescolate bene ed aggiustate di sale. Infine decorate con fiorellini di borragine e petali di fiori di tarassaco.

067 Gnocchetti di erba cipollina e cerfoglio (Anthriscus cerefolium)

T

Ingredienti per 6 persone: 2 cucchiai di cerfoglio (tritati) - 1 bicchiere di latte - 2 cucchiai di erba cipollina - latte quanto basta per ottenere una poltiglia - g 250 di farina bianca setacciata - 3 cucchiai di lievito in polvere (per gnocchi) - un po’ di avanzi di pollo - manzo stufato - g 15 di burro o margarina - sale - pepe. Preparazione: Setacciate la farina con il lievito, il sale e il pepe. Unite il burro sciolto o la margarina e il latte. Amalgamate il tutto, senza mescolare troppo. Versate l’impasto a cucchiaiate nel brodo di carne o di verdura in ebollizione. Coprite e lasciate cuocere per 15 minuti.

068

Fusilli con cerfoglio (Anthriscus cerefolium) al cartoccio

T

Ingredienti per 2 persone: 100 g di cerfoglio - 200 g di fusilli - 1 bicchiere di salsa di pomodoro - 1 spicchio di aglio - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - 2 bicchierini di vino bianco (Greco di Tufo) - sale. Preparazione: Cuocete i fusilli in abbondante acqua salata. Preparate 2 cartocci con fogli d’alluminio per cucina unti con un po’ d’olio e fate rosolare un trito di cerfoglio in una padella con l’olio extravergine d’oliva ed un aglio. Dopo un paio di minuti aggiungete la salsa di pomodoro e lasciate cuocere per 10 minuti. Appena i fusilli sono giunti a metà cottura, scolateli e passateli nella padella con la salsa. Poi metteteli nei cartocci, aggiungendo in ognuno un bicchierino di vino ed un po’ di trito di cerfoglio. Chiudete i cartocci ed infornateli per circa 10 minuti. Servite nei cartocci.

069

Gnocchi al pesto di cerfoglio (Anthriscus cerefolium)

N

Ingredienti per 2 persone: 300 g di gnocchi di farina - 200 g di cerfoglio - 50 g di formaggio grana grattugiato - 40 g di burro - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - 1 spicchio d’aglio - pepe e sale. Preparazione: Fate cuocere gli gnocchi in abbondante acqua salata. Tritate finemente nel frullatore il cerfoglio crudo, l’aglio ed aggiungete il formaggio, il pepe, il sale ed un filo d’olio. Scolate gli gnocchi man mano che affiorano e metteteli in un piatto da portata preriscaldato. Conditeli con burro fuso e con il pesto di cerfoglio. Serviteli caldi, eventualmente con una spruzzata di grana grattugiato.

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070

Zuppa di biete e fagioli

N

Ingredienti: 400g di biete (Beta vulgaris) - 250g di fagioli borlotti secchi - 100g di cavolfiore - 200g di cavolo cappuccio - 200g di patate - olio extravergine d’oliva - un gambo di sedano - mezza cipolla - 4 cucchiai di salsa al pomodoro - 100g di piselli sgranati - sale - peperoncino rosso in polvere alcuni rametti di prezzemolo - 3 cucchiai di gomasio - alcune fette di pane integrale. Preparazione: Lasciate i fagioli in ammollo in acqua dopo averli lavati. Trascorse circa 12 ore, sciacquateli, sostituite l’acqua e metteteli a lessare in una pentola; portate a ebollizione e quindi abbassate la fiamma e coprite con un coperchio, proseguendo la cottura a fuoco moderato. Nel frattempo pulite le bietole, lavatele e spezzatele grossolanamente. Poi pulite il cavolo cappuccio e il cavolfiore, tagliate il cavolo a filetti e separate le cimette del cavolfiore. Sbucciate le patate, lavatele e tagliatele a dadini. In una casseruola, possibilmente di terracotta, versate alcuni cucchiai di olio, fatevi rosolare un trito di cipolla sbucciata e sedano, aggiungetevi la salsa con un po’ di acqua tiepida, mescolate, lasciate insaporire per alcuni minuti e quindi unitevi il cavolo, le bietole,il cavolfiore e le patate. Quando i fagioli sono cotti, scolateli e aggiungete alle verdure l’acqua di cottura, facendo cuocere a fuoco moderato per circa mezz’ora. A parte lessate i piselli e nel frattempo passate al setaccio metà dei fagioli aiutandovi con un po’ di acqua di cottura e infine uniteli alla zuppa assieme agli altri fagioli e piselli che nel frattempo dovrebbero essere cotti. Lasciate sul fuoco per altri 5 minuti aggiustando di sale e insaporendo con un pizzico di peperoncino rosso a piacere e infine aggiungete il prezzemolo tritato e una spolverata di gomasio (sale e sesamo). Disponete sul fondo di una grande zuppiera le fette di pane integrale tostate in forno, versatevi sopra la zuppa e lasciate riposare per qualche minuto prima di portare in tavola.

071

Orecchiette alla borragine (Borago officinalis)

T

Ingredienti: Foglie e fiori di borragine - orecchiette di Monteforte Irpino - pomodorini “ciliegine del Vesuvio” - olio extravergine d’oliva - sale - peperoncino. Preparazione: Si tritano 3 manciate di foglie tenere di borragine, si mettono in padella ad appassire con ½ bicchiere d’olio extravergine d’oliva. Quindi si aggiungono 300 g di pomodorini “ciliegine del Vesuvio”, tagliati in quarti, sale e, a piacere, il peperoncino. Si salta il tutto per 3 o 4 minuti, si uniscono a 500 g di orecchiette fatte a mano, cotte al dente in acqua salata, e si continua a saltare per un paio di minuti con il formaggio grattugiato.

072

Maccheroni con borragine (Borago officinalis)

N

Ingredienti per 2 persone: 200 g di maccheroni - 200 g di borragine - 50 g di formaggio grana - 20 g di burro - 2 scalogni - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - pepe e sale Preparazione: Lavate e tritate in grossi pezzi la borragine. Tritate molto finemente lo scalogno e fatelo soffriggere nell’olio a fuoco lento: quando sarà leggermente dorato, aggiungete la borragine e, dopo circa 5 minuti, il burro. Lasciate brasare a fuoco lentissimo sfumando, se necessario, con un goccio di acqua. A parte cuocete i maccheroni in abbondante acqua bollente salata, scolateli e poi conditeli con la borragine e lo scalogno. Insaporite con un pizzico di pepe e mantecate con il formaggio grana.

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“Pizza cicorino”, realizzata da Daniele Cesarino (nella foto sopra, insieme alla Sig.ra Maria Napolitano), virtuoso pizzaiolo del ristorante-pizzeria “Mister Tony” di Sirignano (Av), dove oltre alle pizze classiche si possono gustare numerose altre pizze e “calzoni” alle erbe alimurgiche.

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Sopra. “Pizza cicorino”. Sotto. Risotto con le ortiche.

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073

Ravioli di borragine (Borago officinalis)

N

Ingredienti per 2 persone: Per la sfoglia: 200 g di farina - 2 uova - sale Per il ripieno: 200 g di borragine - 100 g di ricotta nostrana - 50 g di formaggio pecorino grattugiato - 50 g di gherigli di noce - 1 limone. Per il condimento: 50 g di formaggio pecorino grattugiato - 30 g di burro - sale e pepe. Preparazione del ripieno: Mondate, lavate accuratamente la borragine e fatela sbollentare in poca acqua salata. Scolatela e fatela raffreddare, poi frullatela. In una terrina amalgamate il frullato di borragine con la ricotta, i gherigli di noce sbriciolati, il formaggio pecorino grattugiato, succo di limone, sale e pepe. Preparazione della sfoglia: Disponetela la farina a cerchio (a fontana) ed aggiungete, al centro, l’albume e i tuorli delle due uova insieme ad un pizzico di sale. Impastate gli ingredienti con le mani fino a ottenere una pasta omogenea ed elastica. Lasciatela riposare a temperatura ambiente, coperta da un panno, per circa un quarto d’ora. Indi, con un matterello o con l’apposita macchinetta stendete una sfoglia sottile. Poi tagliate la sfoglia in pezzetti quadrati con una rotella dentata. Mettete nel mezzo di ciascuno un cucchiaino di ripieno, quindi ripiegateli a metà formando un triangolino e saldate bene i bordi con le dita, poi, con la rotella dentellata ritagliate i ravioli a mezzaluna. Disponeteli su un ripiano e lasciateli asciugare. Preparazione del piatto e condimento: Portate in ebollizione, in una pentola, abbondante acqua salata e calatevi i ravioli di borragine. Scolateli, poneteli in una zuppiera e conditeli con il burro fuso e il formaggio pecorino grattugiato.

074

Spaghetti al pesto di borragine (Borago officinalis) e noci

N

Ingredienti per 2 persone: 200 g di spaghetti - 200 g di borragine - 50 g di gherigli di noci - 100 g di ricotta - 50 g di formaggio grana grattugiato - 1 spicchio d’aglio - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva prezzemolo - sale. Preparazione: Mondate e lavate per bene la borragine, poi frullatela insieme alla ricotta, alle noci, all’aglio e a un ciuffetto di prezzemolo. Ponete il pesto così ottenuto in una ciotola e conditelo con olio extravergine di oliva, aggiungendo sale e pepe. Nel frattempo cuocete a parte gli spaghetti e, dopo averli scolati, conditeli con il pesto di borragine prima preparato, aggiungendo qualche cucchiaio di acqua di cottura della pasta. Spolverate con il formaggio grana e servite subito.

075

“Cavuliciello” con i fagioli

N

Ingredienti: Foglie di cavolicello (Brassica spp) – fagioli lessi – olio extra vergine d’oliva – aglio – sale – pepe. Preparazione: Pulite, lavate e lessate le foglie di “cavuliciello”. In una pentola fate soffriggere l’olio extra vergine di oliva, i fagioli lessi, l’aglio e il sale. Aggiungete le foglie di “cavuliciello” lessate e fate insaporire per 10 minuti. Se necessario aggiungere un po’ d’acqua.

233 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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076

Spaghetti con cascellore (Bunias erucago)

N

Ingredienti: 100 g di foglie di Bunias erucago – 200 g di spaghetti – 30 ml di olio extra vergine di oliva – pecorino (del Fusaro di Avella) – sale – pepe. Preparazione: Pulite e lavate l’erba. Sbollentatela per 5 minuti. Lessate gli spaghetti in abbondante acqua salata. Fate saltare l’erba lessata in una padella con olio extra vergine d’oliva, sale e pepe. Aggiungete gli spaghetti lessi e mescolate per qualche minuto a fuoco lento. Servite con l’aggiunta di pecorino.

077

Minestra con raperonzolo ed erbe di campagna

N

Ingredienti: Campanula rapunculus (raperonzolo) – Silene vulgaris - Papaver rhoeas e Crepis spp. – carota – patate – fagioli – cavolo – cipolla – aglio – olio extravergine d’oliva – fette di pane abbrustolito. Preparazione: Pulire e scottare in acqua salata le foglie delle erbe indicate (del raperonzolo si potrà utilizzare anche la radice). Scolare, strizzare e tagliuzzare. In una pentola fare un soffritto di aglio, cipolla e carota. Aggiungere le erbe selvatiche, e poi patate, fagioli e cavolo precedentemente lessati. Allungare con brodo vegetale. Si serve su fette di pane abbrustolite e con un filo d’olio d’oliva.

078

Risotto con raperonzolo (Campanula rapunculus)

N

Con tre cucchiai d’olio d’oliva soffriggere 50 g di scalogno tritato. Appena imbiondito, aggiungere 50 g di pasta di salame di Mugnano del Cardinale e lasciarla soffriggere qualche minuto. Bagnare col vino bianco (Greco di Tufo), aggiungere 150 g di radici di raperonzolo a cubetti e lasciare qualche minuto in cottura. Poi aggiungere 300 g di riso e bagnare col brodo. A tre quarti di cottura aggiungere le foglie di raperonzolo. Mantecare il risotto con formaggio pecorino grattugiato e burro. Guarnire con qualche fogliolina fresca di raperonzolo.

079

“Pane cotto” con farinaccio

T

Ingredienti per 2 persone: 1/2 kg di foglie e germogli apicali di farinaccio (Chenopodium album) - 250 g di pomodori - 2 fette di pane casereccio - 1 cipolla - 1/2 costa di sedano - 1 carota - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - peperoncino e sale. Preparazione: Prendete le foglie più tenere e i germogli apicali del farinaccio e lavateli accuratamente. Pelate le cipolle, la carota ed il sedano, tagliateli sottilmente e fateli rosolare nell’olio insieme a un peperoncino tagliato a pezzetti. Aggiungete il farinaccio al soffritto e proseguite la cottura per 10 minuti. Poi aggiungete i pomodori tagliati a pezzetti e fate cuocere a fuoco medio per circa 20 minuti. Trascorso questo tempo, versate nel tegame un litro e mezzo di acqua calda, salate e lasciate bollire per altri 20 minuti. Preparate le scodelle mettendo in ciascuna una fetta di pane raffermo o di pane casereccio tostato e versateci sopra la minestra così preparata.

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

080

Bucatini al pomodoro crudo e al farinaccio

N

Ingredienti per 2 persone: 200 g di bucatini - 200 g di foglie di farinaccio (Chenopodium album)- 2 pomodori da insalata maturi - 1 spicchio di aglio - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - prezzemolo - pepe e sale. Preparazione: Sbollentate in acqua salata, dopo averle lavate accuratamente, le foglie più tenere del farinaccio. Scolatelo e tritatelo grossolanamente. Tagliate a dadini i pomodori e riponeteli in una scodella. Aggiungete il farinaccio ed un trito di aglio, prezzemolo, olio, pepe e sale. Portate a cottura i bucatini, scolateli al dente e conditeli con il pomodoro crudo e il farinaccio tritato. Mescolate e servite. n.b. al posto dei pomodori da insalata si possono usare i pomodorini (ciliegine del Vesuvio) freschi o “appesi”.

081

Timballo di maccheroni con farinaccio

N

Ingredienti per 2 persone: 200 g di foglie ed apici teneri di farinaccio (Chenopodium album)- 200 g di maccheroni - 150 g di pasta sfoglia - 100 g di passata di pomodoro - 1 porro - 25 g di burro - 100 ml di besciamella - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - pepe e sale. Preparazione: Fate appassire il porro tritato in una padella con 2 cucchiai di olio a fiamma lenta. Aggiungete il chenopodio e fatelo soffriggere per circa 10 minuti. Versate la passata di pomodoro e aggiungete un pizzico di sale. Alzate il fuoco e, mescolando, fate addensare il sugo. Fate cuocere i maccheroni e scolateli al dente. Conditeli con la salsa di pomodoro, il chenopodio e la besciamella. Imburrate una pirofila e foderatela con metà della pasta sfoglia, aggiungete la pasta condita e ricoprite il tutto con la sfoglia rimanente. Lasciate cuocere per circa mezz’ora in forno preriscaldato a 190 °C. Servite caldo.

082

Minestra di buon Enrico

T

Ingredienti: 800 g di buon Enrico - 50 g di pancetta nostrana (di Mugnano del Cardinale) – 50 g di pecorino - 1 cipolla - 2 uova - 1 litro di brodo - olio - sale. Preparazione: Bollire in acqua salata il buon Enrico, scolare e tagliare. Far soffriggere la pancetta in dadetti con cipolla e l’olio; aggiungere il buon Enrico, rimestando. Servire calda, con pecorino grattugiato.

083

Minestra di cicoria (Cichorium intybus) con cipollaccio

N

Ingredienti: 500 g di foglie di cicoria – 4 bulbi di cipollaccio (Leopoldia o Muscari Comosa) – 3 uova – ricotta salata grattugiata – lardo – brodo vegetale – olio extra vergine d’oliva – sale. Preparazione: Pulite e lavate la cicoria. Lessatela in acqua salata. Sgocciolatela e tagliatela grossolanamente. Lavate i bulbi di cipollaccio. Fate un soffritto con olio extra vergine d’oliva, lardo e bulbi di cipollaccio a pezzetti. Aggiungete la cicoria, salate quanto basta e fate stufare. Sbattete le uova e unite la ricotta con la cicoria stufata e mescolate tutto. Fate cuocere tutto il composto nel brodo vegetale e servite caldo.

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084

Tagliatelle alle liane di vitalba

N

Ingredienti: 30 g di germogli teneri di vitalba (Clematis vitalba) – 400 g di farina – formaggio pecorino – 3 uova. Preparazione: Lavate i germogli di vitalba e lessateli. Fateli sgocciolare per bene e poi tritateli. In una scodella impastate il trito di vitalba insieme alle uova, alla farina e all’acqua, fino ad ottenere un impasto omogeneo. Fate riposare per qualche ora, poi aggiungete anche il formaggio e continuate ad impastare. Con l’impasto ottenuto stendete una sfoglia sottile e tagliatela in striscie (tagliatelle). Cuocetele in abbondante acqua salata. Appena cotte, versatele nei piatti di portata e conditele o con salsa di pomodoro o con il burro fuso.

085

Minestra di Picris, Leontodon e Crepis

N

Ingredienti: Una manciata di foglie di aspraggine (Picris echioides e/o Picris hieracioides) – una di foglie di dente di leone (Leontodon hispidus) - una di radicchielle (Crepis spp.) – 50 g di pancetta -2 litri di brodo – formaggio pecorino –aglio. Preparazione: Lavate ed asciugate bene le erbe. Fate rosolare l’aglio e la pancetta nel burro. Appena l’aglio è dorato, eliminatelo ed aggiungete le tre erbe, tagliuzzate, facendole saltare per qualche minuto. Aggiungete il brodo e cuocete fino a morbidezza delle erbe. Aggiungete una spolverata di pecorino e servite.

086

Risotto ai fiori di zafferano (Crocus napolitanus)

N

Ingredienti: 200 g di riso – 50 g di fiori di Crocus Napolitanus – brodo vegetale 1litro – cipolla – olio extra vergine d’oliva – burro – vino bianco – sale. Preparazione: Fate soffriggere in una pentola dell’olio extra vergine d’oliva, cipolla e sale. Aggiungete il riso e mezzo bicchiere di vino bianco. Fate evaporare. Poco per volta aggiungete il brodo mescolando continuamente. A metà cottura unitevi i fiori di Crocus Napolitanus. A cottura ultimata aggiungete una noce di burro.

087

Finocchietto selvatico gratinato

N

Ingredienti: 30 finocchietti selvatici (Foeniculum vulgare) – pangrattato – aglio - olio - sale - prezzemolo. Preparazione: Raccogliete una trentina di finocchietti selvatici, lavateli accuratamente ed asciugateli. Asportate la parte aerea, conservando solo la parte inferiore ingrossata. Cuoceteli al dente in acqua bollente, scolateli e lasciateli raffreddare. Con un coltello tagliateli longitudinalmente in due parti e conditeli con un pò di sale, pangrattato ed un trito d’aglio. Poneteli in una pirofila e fateli gratinare in forno a 180°. Si servono aggiungendo del prezzemolo tritato.

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088

Topinambour in padella

N

Ingredienti per 2 persone: 200 g di tuberi di topinambour (Helianthus tuberosus)- cipolla 1 piccola - olio extravergine 1 cucchiaio - prezzemolo tritato – sale. Preparazione: Sbucciate i tuberi di topinambour, lavateli ed affettateli. Fate rosolare la cipolla nell’olio, poi aggiungete i tuberi, salate e cuocete a tegame coperto su fuoco moderato aggiungendo un goccio d’acqua. Quando i topinambour saranno cotti, aggiungete una spolverata di prezzemolo tritato.

089

Sformato o flan di topinambour

N

Ingredienti per 2 persone: 100 g di tuberi di topinanbour - 1 cucchiaio di pecorino grattugiato – 1 uovo – 20 g di panna da cucina – brodo di verdure – 15 ml di olio extravergine d’oliva – succo di limone – salsa di acciughe - sale – pepe. Preparazione: Lavate e raschiate accuratamente i topinambour, immergendoli man mano in acqua acidulata con succo di limone, per non farli annerire, quindi sgocciolateli e tagliateli a tocchetti. Trasferiteli in un tegame dove avete riscaldato l’olio. Unite alcuni cucchiai di brodo, un pizzico di sale e cuoceteli, coperti a fiamma dolce, per circa 20 minuti. Se occorre, aggiungete altro brodo caldo. Frullateli e lasciate intiepidire il puré. A parte, amalgamate l’uovo con la panna ed il pecorino, incorporatevi il puré, regolate di sale e pepe e mescolate. Distribuite il composto negli stampini e mettete a cuocere in forno preriscaldato a 180° in un bagnomaria per circa 30-35 minuti. Negli ultimi 5 minuti togliete gli stampini dal bagnomaria, adagiateli sul fondo del forno e ultimate la cottura. Lasciate riposare i flan per qualche minuto fuori dal forno, sformateli sul piano di portata e serviteli con la salsa d’acciughe calda.

090

“Orecchie di gatto” o “piattelli” con i fagioli

P

Ingredienti: Foglie di piattello (Hypochoeris radicata)– fagioli lessi – olio extravergine di oliva – aglio - sale e pepe. Preparazione: Lavate accuratamente le foglie della rosetta basale di piattello. Lessatele in acqua salata. Fate soffriggere in una pentola l’olio, l’aglio, i fagioli lessi ed aggiungete un pizzico di sale. Aggiungete le foglie di piattello lesse e fate cuocere per una decina di minuti, aggiungendo, se necessario, qualche goccio d’acqua.

091

Ravioli al grespignolo

N

Ingredienti: 500 g di foglie di grespignolo (Lapsana communis) - 400 g di farina – 300 g di ricotta – 5 uova – burro – sale. Preparazione: Lavate e lessate le foglie di lapsana in acqua leggermente salata. Scolatela e mescolatela con la ricotta ed un uovo ottenendo un impasto omogeneo. Preparate una sfoglia con le rimanenti uova e con la farina. Tagliate la sfoglia a quadrati ponendovi al centro piccole quantità dell’impasto e richiudeteli formando il raviolo. Fate cuocere i ravioli in acqua bollente salata e conditeli con salsa di pomodoro oppure con la panna.

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092

Riso ai “denti di leone”

T

Ingredienti: 200 g di foglie di “dente di leone” (Leontodon hispidus) – 400 g di riso – 1 litro di brodo vegetale - cipolla – aglio – burro – ricotta salata (del Fusaro di Avella) – olio extra vergine d’oliva - sale. Preparazione: Lavate le foglie di “dente di leone” (Leontodon hispidus) e lessatele in acqua salata. Sgocciolatele, tritatele e fatele saltare in padella con aglio e olio extra vergine d’oliva. Fate soffriggere la cipolla nel burro. Aggiungete il riso e mescolando continuamente unite un po’ alla volta il brodo vegetale. A metà cottura aggiungete il leontodon saltato in padella e una grattugiata di ricotta salata. A cottura ultimata fate mantecare il riso con una noce di burro e servite.

093

Riso al cipollaccio

N

Ingredienti: 300 g di bulbi di cipollaccio (Leopoldia comosa) - 150 g di riso - salvia - olio extravergine d’oliva - formaggio pecorino grattugiato - prezzemolo - peperoncino -sale. Preparazione: Lavate i cipollacci e liberateli dalle tuniche fogliari esterne. Portateli a metà cottura, poi scolateli e buttate via l’acqua di cottura. Prendete questi bulbi semicotti, tritateli e metteteli in una casseruola con 3 cucchiai d’olio e 2-3 foglie intere di salvia. Appena queste si appassiscono, toglietele e versate 2 litri di acqua calda. Quando bolle unite il riso, aggiustate di sale e, a piacere, di peperoncino. Lasciate cuocere per circa 15 minuti. A cottura ultimata aggiungete 2 cucchiai di formaggio pecorino grattugiato ed uno di prezzemolo tritato. Mescolate e servite.

094

Fettuccine alla melissa

N

Ingredienti: 50 g di melissa (Melissa officinalis) – 200 g di fettuccine –20g di burro – 75 ml di olio extra vergine d’oliva – sale. Preparazione: Pulite e lavate le foglie di melissa. Frullatele insieme al burro, all’olio extra vergine d’oliva e un po’ di sale. Fate cuocere in abbondante acqua salata le fettuccine. Scolatele e ponetele in un piatto di portata. Versatevi la salsa di melissa e servite.

095

Rigatoni all’erba muraiola

N

Ingredienti: 200 g di rigatoni – 100 grammi di erba muraiola (Parietaria officinalis)– 50 g di besciamella – sale – pepe – peperoncino. Preparazione: Lavate l’erba muraiola. Cuocetela a vapore e frullatela. Aggiungete la besciamella, il sale, il pepe, un pizzico di peperoncino e fate cuocere per 5 minuti. Cuocete i rigatoni in abbondante acqua salata. Scolateli e fateli mantecare nella salsa di besciamella e parietaria

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096

Minestra di parietaria (Parietaria officinalis)

N

Ingredienti: 200 g di foglie tenere e germogli di parietaria – 40 g di farina – 400 ml di latte – pane raffermo - olio extravergine di oliva – burro – sale – pepe. Preparazione: Dopo aver lavato e lessata la parietaria, frullatela fino ad ottenere una purea. Sciogliete una noce di burro in una pentola e amalgamatela con la farina. Togliete la pentola dal fuoco e versateci lentamente il latte, mescolando continuamente. Poi rimettete la pentola sulla fiamma per altri 5 minuti. Aggiungeteci il sale e il pepe e continuate a mescolare in modo da ottenere una salsa omogenea. A questo punto aggiungete anche la purea di parietaria e lasciate insaporire per qualche minuto, sempre continuando a mescolare. Versate il tutto in una scodella bassa di terracotta insieme al pane raffermo.

097

Minestra di radicchielle (Picris spp.)

N

Ingredienti: Alcune manciate di Picris (P. eichioides, P. hieracioides) – olio extravergine di oliva – peperoncino – sale. Preparazione: Dopo aver lavato per bene le foglie di radicchielle, lessatele per 5 minuti. Passatele poi in una padella con olio, aglio e peperoncino e saltatele per pochi minuti.

098

Pennette con salsa di caccialepre

N

Ingredienti: 50 g di caccialepre (Reichardia picroides) – 200 g di penne – 40 g di burro – sale. Preparazione: Cuocete le pennette in abbondate acqua salata. Mondate e lessate la reichardia, dopodichè frullatela insieme al burro e aggiungete un pizzico di sale. Scolate le pennette e conditele con la salsa prima preparata.

099

Omelette ai germogli di pungitopo e “cardillo”

N

Ingredienti: Una manciata di teneri apici di nuovi germogli di pungitopo (Ruscus aculeatus) - 3 uova – alcuni pomodorini “ciliegino del Vesuvio” – ½ cipolla – qualche foglia di “cardillo” (Sonchus asper) uno spicchio d’aglio – olio extravergine d’oliva – aceto - sale e pepe. Preparazione: Lavate ed asciugate i germogli di pungitopo, avendo cura di prendete solo quelli più teneri, e senza danneggiare il resto della pianta. Tritate finemente l’aglio e fatelo rosolare in un tegame con olio extravergine d’oliva, unite i germogli di pungitopo, condite con sale e pepe, e fate cuocere per 10 minuti a fuoco lento. In una pentola a parte preparate una frittata con le uova, sale e pepe. Quando essa è quasi cotta, abbassate la fiamma e staccatela dal fondo con una paletta. Metteteci sopra, nel mezzo, i germogli di pungitopo e ripiegate un lembo della frittata su quello opposto. Completate la cottura. Guarnite con i pomodorini tagiati a metà, con anelli di cipolla e foglie di “cardillo” stemperate con poche gocce di aceto.

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100

Cardoncello (Scolymus hispanicus) mari e monti

P

Ingredienti: Alcune radici di cardoncello – 300 g di stoccafisso – castagne – olive nere – olio extravergine d’oliva – aglio - sale e pepe. Preparazione: Pulite, lavate e sbollentate le radici di cardoncello. Mettete a rosolare l’aglio nell’olio, poi aggiungeteci le radici di cardoncello e fatele rosolare. A parte mettete a bollire le castagne e, a cottura, liberatele dalla buccia. Tritate il cardoncello insieme alle castagne. Stufate lo stoccafisso e conditelo con la salsa prima preparata, aggiungendo alcune olive nere.

101

Stufato di “barbe di caprone” (Tragopogon spp.) con patate

T

Ingredienti per 2 persone: 6 piantine di tragopogon (barba di caprone) intere – 30 ml di olio extravergine d’oliva – 3 patate di Cimitile – 250 ml d’acqua - 1 spicchio d’aglio – sale e peperoncino. Preparazione: Raccogliete 6-8 “barbe di caprone” complete di foglie e radici. Eliminate le foglie ingiallite e raschiate la radice. Indi, lavatele e tritatele con una mezzaluna. Mettetele poi a stufare in una casseruola con 2 cucchiai d’olio extravergine d’oliva e uno spicchio d’aglio tritato. Lasciatele appassire e poi unite mezzo litro d’acqua. Continuate la cottura per circa un’altra mezz’ora, poi aggiungete le patate tagliate a tocchetti. Mescolate bene e lasciate cuocere a fiamma bassa. Aggiustate di sale e peperoncino.

102

Sformato di trifoglio dei prati

N

Ingredienti: 1 kg di trifoglio (Trifolium pratense)– 3 uova – 3 fette di pancetta di Mugnano del Cardinale – 50 g di besciamella – ½ cipolla – formaggio pecorino – olio extravergine d’oliva – sale e pepe. Preparazione: Lavate bene il trifoglio, scottatelo in acqua salata bollente e tritatelo. Fate rosolare la cipolla tritata e la pancetta tagliata a dadini, poi aggiungete anche il trifoglio, poi aggiustate di sale e pepe e lasciate raffreddare. Frullate il tutto fino a formare una pasta omogenea che poi miscelerete, in una larga zuppiera, aggiungendo la besciamella, il formaggio e le uova sbattute. Versate in uno stampo imburrato e fate cuocere nel forno a bagnomaria. Servite caldo, eventualmente accompagnando con un’insalata mista fresca.

103

Riso al trifoglio dei prati

N

Ingredienti: Alcune manciate di foglie e capolini di trifoglio dei prati (Trifolium pratense) – 300 g di riso – ½ cipolla – 50 g di burro – 1 litro di brodo – salvia – formaggio pecorino. Preparazione: Dopo averlo lavato e strizzato, tritate il trifoglio e fatelo soffriggere con la cipolla ed il burro. Aggiungete il riso, il brodo (un mestolo alla volta) e portate a cottura mescolando. A cottura, versate il risotto in un piatto da portata e cospargetelo di burro fuso alla salvia e di formaggio pecorino grattugiato.

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104

Passato di lattugaccio con crostini

N

Ingredienti: 300 g di lattugaccio (Urospermum dalechampii) – ½ bicchiere di panna – 1 aglio – prezzemolo – 2 cucchiai di olio – sale – acqua – crostini di pane tostato. Preparazione: Mondate e lavate il lattugaccio. Poi fate un soffritto con aglio ed olio ed aggiungeteci il lattugaccio, il prezzemolo e un po’ d’acqua e sale. Fate cuocere per 20 – 30 minuti. Quindi frullate il tutto ed aggiungete la panna. Servite con i crostini di pane tostato.

105

N

Risotto alle ortiche (Urtica dioica)

Ingredienti per 2 persone: 80 g di foglie di ortica – 150 g di riso – 25 g di burro – 25 g di formaggio pecorino grattugiato – ½ litro di brodo di carne – ½ cipolla - 30 ml di vino bianco (Greco di Tufo) – 2 cucchiai di olio extravergine di oliva – sale. Preparazione: Lavate e tritate (evitando di pungervi) le foglie di ortica. Tritate la mezza cipolla, fatela indorare nell’olio, in un tegame da risotto, e poi aggiungete il trito di foglie di ortica. Nel frattempo mettete a bollire il brodo. Aggiungete ora il riso, mescolando con un cucchiaio di legno ed innaffiando con il vino. Quando questo sarà evaporato aggiungere un mestolo di brodo e continuate a mescolare, ripetendo l’operazione man mano che il riso si asciuga. Dopo 15 minuti togliete dal fuoco il risotto, ancora piuttosto brodoso, e fatelo mantecare con burro e formaggio pecorino grattugiato.

106

Zuppa di fagioli con ortica e finocchietto

P

Ingredienti: Fagioli cannellini lessi - foglie di ortica (Urtica spp.) - finocchietto selvatico (Foeniculum vulgare) - olio extravergine d’oliva - pancetta di Mugnano del Cardinale - aglio - nòcciole (“mortarella” o “baianese”) - tarallucci di Castellammare - sale e pepe. Preparazione: Fate rosolare l’aglio nell’olio. Aggiungete la pancetta tagliuzzata, le nocciole (tritate ma non tostate), le foglie di ortica, il finocchietto e fate soffriggere tutt’insieme. Aggiungete i fagioli lessi con l’acqua di cottura. Salate e pepate e lasciate cuocere per mezz’ora. Servite con una spolverata di granella di tarallucci di Castellammare.

107

Crêpes di violette (Viola odorata)

N

Ingredienti per 2 persone: 80 g di fiori di violetta – 25 g di farina – 50 g di burro – 1 uovo – 1 cucchiaio di zucchero – 30 ml di latte – 5 ml di rhum – sale. Preparazione: Eliminate i calici (di colore verde) dalle corolle delle violette ed impastate queste ultime con burro e zucchero. A parte, impastate l’uovo, la farina, il rhum, il latte, lo zucchero insieme ad un po’ di burro fuso e ad un pizzico di sale. Dopo aver unto col burro una padella per le crêpes, versatevi l’impasto una cucchiaiata alla volta e fate cuocere le crêpes per qualche minuto facendole indorare da entrambi i lati. Mettete le crêpes in una teglia imburrata. Su ognuna di esse stendete il composto di violette prima preparato, e fate cuocere in forno a 200 °C per 5 minuti.

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C

SECONDI PIATTI

108

Patate di Cimitile “agliate”

T

Ingredienti: Alliaria petiolata o Allium ursinum – patate lessate – sale – olio extravergine di oliva . Preparazione: Lavate e tritate l’alliaria o l’aglio orsino. Lessate le squisite patate di Cimitile e poi tagliate a fette ancora calde. Ponetele in un piatto. Condite con l’ olio extravergine di oliva, sale e il trito di alliaria.

109

Polpette di maiale con cerfoglio e “cardilli”

T

Ingredienti per 4 persone: 500 g di cerfoglio (Anthriscus cerefolium) - 400 g di carne di maiale tritata - 3 uova - 50 g di formaggio pecorino grattugiato - 1 cipolla - 1 patata - 4 cucchiai di pane grattugiato - olio extravergine di oliva - pepe e sale - foglie di Sonchus spp. Preparazione: Lessate il cerfoglio, scolatelo e tritatelo finemente. Lessate la patata, pelatela e schiacciatela con una forchetta. Tritate finemente la cipolla. Amalgamate la carne di maiale tritata con la patata schiacciata, la cipolla e il cerfoglio tritati. Aggiungete le uova, il formaggio pecorino grattugiato, il pepe e il sale. Con l’impasto così ottenuto fate delle polpette, passatele nel pane grattugiato e friggetele nell’olio extravergine di oliva ben caldo. Lasciate qualche minuto le polpette sulla carta assorbente da cucina per eliminare l’olio in eccesso e servitele su un letto di foglie di “cardilli” crude.

110

Calamari con ripeno di cerfoglio

N

Ingredienti per 2 persone: 4 calamari - 40 g di cerfoglio (Anthriscus cerefolium)- 20 g di mollica di pane - 8 pomodorini “ciliegino del Vesuvio” - 4 olive nere denocciolate - 1/2 cipolla - 2 cucchiai di capperi - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - origano - sale e pepe. Preparazione: Preparate i calamari e separate i tentacoli dal corpo (sacchetto). Tritate i tentacoli insieme ai capperi, alle olive e ad un ciuffo di cerfoglio. Aggiungete la mollica di pane ed impastate il tutto con un filo d’olio, un pizzico di origano, sale e pepe. Ora imbottite i sacchetti dei calamari con l’impasto così preparato e chiudeteli con degli stuzzicadenti. Ponete i calamari imbottiti in una casseruola, insieme alla cipolla tritata, i pomodorini tagliati a metà, la restante parte di cerfoglio, un filo d’olio, pepe, sale ed un mestolo d’acqua. Fateli stufare percirca 40 minuti, a fuoco medio. Serviteli caldi insieme al loro sughetto.

111

Crocchette di ricotta e cerfoglio (Anthriscus cerefolium)

T

Ingredienti per 2 persone: 80 g di cerfoglio - 250 g di ricotta di Avella - 25 g di formaggio grana grattugiato - 1 uovo intero - 1 tuorlo - 1 spicchio di aglio - 2 cucchiai di farina - olio extravergine di oliva - pepe e sale. Preparazione: Impastate la ricotta con 1 tuorlo d’uovo ed 1 cucchiaio di formaggio. Tritate il cerfoglio e l’aglio ed aggiungeteli al composto, con un pizzico di pepe e di sale. Rassodate l’impasto aggiungendo un pò di pane grattugiato. Con il composto così ottenuto formate delle crocchette. Passatele prima nella farina, poi nell’uovo sbattuto ed infine nel pane grattugiato e friggetele nell’olio.

242 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Sopra: tortino di borragine realizzato dalla Signora Luisa Evangelista. Sotto: zuppa di fagioli con ortica e finocchietto realizzata da Marco Ferrara, titolare dell’ osteria “La lanterna” di Mugnano del Cardinale (Av).

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Le suore del Cenobio di San Pietro a Cesarano (a Mugnano del Cardinale- AV), ora “Centro Pastorale Giovanni Paolo II”, insieme a don Giovanni Picariello ed al giovane Antonio De Rosa.

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112

Vellutata di asparagi di collina

N

Si cuociono separatamente in acqua 1 kg di patate e 750 g di asparagi selvatici (Asparagus acutifolius). Si scolano e si lasciano raffreddare. Quindi si riducono le patate in purea e si tagliano gli asparagi (la parte apicale più tenera) a pezzetti. Alla purea di patate si aggiungono 1 bicchiere di besciamella e 1 bicchiere di acqua di cottura degli asparagi, si amalgama, si mette sul fuoco con 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva, si mescola e si lascia addensare a fiamma bassa. Si uniscono gli asparagi, si aggiusta di sale e a piacere e di peperoncino. Si serve calda.

113

Asparagi selvatici al formaggio

N

Si lessano gli asparagi (Asparagus acutifolius) immergendoli per 10 o 15 minuti in acqua salata bollente, dopo aver tagliato via la parte dura ed averli legati a mazzetti. Si scolano, si passano per un attimo in acqua fresca e si depongono, in una teglia imburrata, a strati intramezzati con formaggio grattugiato e burro fuso. Si passano poi in forno ben caldo, finché lo strato superiore non appaia colorito. Si servono caldi.

114

Bacchette del re (Asphodeline lutea) in salsa di pomodoro

N

Gli scapi fiorali più teneri, mondati dalle foglie e puliti dalla pellicola, dopo essere stati sbollentati per alcuni minuti, si fanno cuocere insieme alla salsa di pomodoro fresco, alla quale conferiscono un gusto dolciastro e particolare.

115

Bocconcini di tacchino alla borragine

N

Ingredienti per 2 persone: 200 g di bocconcini di tacchino - 200 g di borragine (Borago officinalis)- 100 g di mela annurca - mezzo limone - 1 cucchiaio di rafano grattugiato - 1 cucchiaio di zucchero - 30 ml di vino bianco (Greco di Tufo) - 10 g di burro - sale e pepe. Preparazione: Sbucciate e tagliate a pezzetti le mele annurca, eliminando il torsolo. Mettete i pezzetti di mele in un pentolino con lo zucchero e il vino, fateli cuocere per 20 minuti, quindi frullateli. Pulite e lavate accuratamente la borragine, poi sbollentatela in poca acqua salata, scolatela e frullatela. Amalgamate il frullato di borragine con la crema di mele. Ponete il composto così ottenuto in una pirofila. Aggiungete il rafano, i bocconcini di petto di tacchino, una noce di burro, sale e pepe. Quindi fate cuocere per 15 minuti. Completate il piatto con il succo di mezzo limone e servite.

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Pane e “caulicielli” (Brassica fruticolosa)

T

Ingredienti: Foglie di cavolicello – pane raffermo – olio extra vergine d’oliva – aglio – sale. Preparazione: Lavate per bene le foglie di cavolicello e lessatele. Sgocciolatele e fatele saltare in una padella con l’olio extra vergine d’oliva, l’aglio e il sale. A fine cottura aggiungete le fette di pane raffermo, coprite con un coperchio e spegnete la fiamma. Servite dopo 5 minuti.

245 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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117

Crocchette “borse di pastore”

N

Ingredienti per 2 persone: 200 g di foglie basali di borsa del pastore (Capsella bursa-pastoris)- 1 uovo - 1 patata - 1 spicchio di aglio - 3 cucchiai di formaggio grattugiato - pane grattugiato - olio per friggere qualche fogliolina di menta selvatica - sale e pepe. Preparazione: Pulite e sciacquate accuratamente le foglie di capsella. Quindi lessatele, scolatele e sminuzzatele. Lessate anche la patata e riducetela in purea. Versate sia la capsella che la purea di patata in una ciotola, aggiungendovi l’uovo, il formaggio, sale, pepe e un trito di aglio e menta. Con il composto così ottenuto preparate delle crocchette, che passerete nel pane grattugiato per poi friggerle in una padella antiaderente con poco olio. Lasciate asciugare le crocchette su un foglio di carta assorbente da cucina per eliminare l’olio in eccesso e servitele calde.

118

Fagottini ripieni con carlina (Carlina spp.)

N

Ingredienti per 2 persone: per la pasta: 100 g di farina bianca - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - sale; per il ripieno: 1 patata - 150 g di cuori di carlina - 30 g di prosciutto cotto - 1 cipolla - 15g di burro - 1 limone - sale - olio extravergine d’oliva. Preparazione: Lessate la patata, sbucciatela e tagliatela in piccoli dadini. Disponete la farina a cerchio (a fontana) su un tagliere e aggiungete l’olio e il sale e cominciate ad impastare. Poi aggiungete un mezzo bicchiere d’acqua, continuando ad impastare, in modo da ottenere una pasta liscia e dalla giusta consistenza. Avvolgete l’impasto così ottenuto in una pellicola alimentare e fatelo riposare in frigorifero per circa un’ora. Tritate la cipolla e fatela rosolare nel burro fino a doratura, poi aggiungeteci i cuori di carlina ed il prosciutto cotto, entrambi tagliati in strisce sottili. Lasciate cuocere per 10 minuti, se è il caso versandovi un goccio d’acqua, poi aggiungete i dadini di patata ed un pò di succo di limone e proseguite la cottura per altri 10 minuti. Prendete la pasta dal frigorifero e, dopo averla lavorata per altri 5 minuti, stendetela con un matterello o con l’apposita macchina e tagliatene dei dischi che dovrete farcire con il ripieno prima ottenuto. Piegate il margine dei cerchi di pasta imbottita su quello opposto e formerete i fagottini a mezzaluna. Scaldate l’olio in una padella e friggete i fagottini. Prima di servirli lasciateli scolare un poco su un foglio di carta assorbente da cucina. Potete accompagnare il piatto con una misticanza di erbe selvatiche (crespino, valerianella, ruchetta, ecc…).

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Foglie di “buon Enrico” in padella

N

Ingredienti per 2 persone: 1/2 kg di foglie di buon Enrico (Chenopodium bonus-Henricus) - 2 cucchiai di passata di pomodoro - 1/2 cipolla - 1 spicchio di aglio - mezzo cucchiaino di bicarbonato - olio per friggere - sale. Preparazione: Lessate in una pentola con poca acqua le foglie di buon Enrico e, appena l’acqua inizia a bollire, aggiungete mezzo cucchiaino di bicarbonato. Fate cuocere fino a quando lo stelo delle foglie non si spezzi facilmente, quindi scolate le foglie, strizzatele e tritatele grossolanamente. Fate rosolare la mezza cipolla, tagliata a fette sottili, in una padella insieme all’aglio, l’olio extravergine d’oliva e il sale. Poi unite il buon Enrico e lasciatelo insaporire. Infine, aggiungete la passata di pomodoro e fate cuocere ancora per circa 5 minuti. Mescolate e servite.

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Sopra, a sinistra: il Prof. Franco Domenico Vittoria, Presidente della Comunità Montana “Vallo di Lauro e Baianese” (che ha fornito, in più di una occasione, i mezzi per alcune escursioni di studio) insieme al dott. Pellegrino De Rosa. Sopra, a destra: il Cav. Angelo Iervolino, provetto cuoco ed esperto preparatore di squisiti piatti a base di “erbe alimuriche” (e non solo). Sotto: tortino alla borragine.

247 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

Pellegrino De Rosa - Benedetta Napolitano - don Giovanni Picariello

120

Girello con il “buon Enrico”

N

Ingredienti per 4 persone: 1 kg di buon Enrico (Chenopodium bonus-Henricus)-1 girello di vitello (di circa 800 g) - 30 g di burro - 30 g di formaggio pecorino - 2 tuorli - 120 ml di latte - 80 ml di panna da cucina - 1 cucchiaio raso di farina - 4 cucchiai di olio extravergine di oliva - vino bianco - sale. Preparazione: Dopo aver accuratamente lavato il buon Enrico, tritatelo e fatelo soffriggere, per circa 20 minuti, in una padella con il burro, la panna, il latte, un cucchiaio di farina e sale, fino a formare una crema densa. Versate, poi, il composto in una terrina e mescolatelo con i 2 tuorli e il formaggio pecorino grattugiato. Nel frattempo, in una pirofila fate rosolare a fuoco lento e con un filo di olio il girello, bagnandolo di tanto in tanto con un goccio di vino e di acqua. Tagliate il girello a fette e disponetele in una pirofila precedentemente unta con il burro, coprendole con la crema di buon Enrico. Cuocere per circa 15 minuti in forno preriscaldato a 180 °C. Servite caldo.

121

Patate gratinate con finocchietto selvatico

T

Si lavano e si cuociono al dente 800 g di patate di Cimitile, separatamente si lavano e si cuoce al dente la parte basale (gambo) di 12 finocchietti (Foeniculum vulgare). Quindi si scolano e si pelano le patate. Si tagliano le patate e i finocchi a tocchetti e si mettono in una terrina, si condiscono con sale, pangrattato, (peperoncino a piacere), olio extravergine d’oliva e 1 spicchio d’aglio tritato, quindi si versano in una pirofila e si mettono a gratinare nel forno.

122

Foglie di “sparviere” (Hieracium spp.) al forno

P

Ingredienti: 200 g di foglie di hieracium – 4 sottilette – burro – sale. Preparazione: Mondate, lavate e lessate in acqua leggermente salata le foglie di hieracium. Disponetele in una pirofila il cui fondo è stato precedentemente imburrato. Ricopritele con le sottilette e infornate per 10 minuti a 180°.

123

Uova strapazzate al luppolo e pancetta

T

Ingredienti per 2 persone: 150 g di germoglio di luppolo (Humulus lupulus)- 30 grammi di pancetta di Mugnano del Cardinale – ½ bicchiere di vino bianco (Greco di Tufo) - 4 uova - 1 spicchio d’aglio – capperi - pepe e sale – olio extravergine d’oliva. Preparazione: Fate rosolare l’aglio, schiacciato, e la pancetta in sottilissimi dadini, in una padella con olio extravergine d’oliva. Unite i germogli di luppolo ed i capperi e fateli soffriggere per almeno 20 minuti, aggiungendo ogni tanto uno spruzzo di vino. Quando il luppolo appare quasi cotto versatevi le uova e mescolate il tutto, aggiungendo un pizzico di sale. Fate cuocere, strapazzando bene le uova e facendole amalgamare bene al luppolo. Servite caldo.

248 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

124

Uova strapazzate al rosolaccio (Papaver rhoeas)

N

Si prende una manciata di rosette giovani e tenere di rosolaccio, si lavano, si tritano grossolanamente, si mettono in padella con 1 cucchiaio d’olio extravergine d’oliva e l’odore dell’erba cipollina, si fanno appassire e poi si uniscono 3 uova sbattute con il sale q.b. Si mescola fino a cottura. Si serve su fette di pane tostato.

125

Papaveretti (Papaver rhoeas) di primavera

N

Prendete le foglie delle rosette basali primaverili di papavero, lavatele bene, lessatele e scolatele. Fate imbiondire in padella due spicchi di aglio con olio d’oliva. Quando l’aglio è biondo, versate tre pomodori pelati con un poco della loro acqua, salare e fare insaporire per dieci minuti. Aggiungere le foglie di papaveri e fatele insaporire per trenta minuti girandole di tanto in tanto.

126

“Frivarielli” di ramolaccio con salsiccia locale

T

Ingredienti: Foglie di ramolaccio (Raphanus raphanistrum) – pasta di salsiccia di Mugnano del Cardinale – olio – sale e pepe. Preparazione: Eliminate dalle foglie di ramolaccio la nervatura centrale. Lessate le lamine in acqua salata. Fatele saltare in padella con olio, insieme alla pasta di salsiccia, sale e pepe.

127

“Schioppettini” con patate ed acciughe al forno

N

Ingredienti per 2 persone: 300 g di foglie di schioppettino (Silene vulgaris) – 200 g di patate – 4 acciughe sott’olio – 2 cucchiai (= 30 ml) di olio extravergine d’oliva – 1 spicchio d’aglio – pepe e sale. Preparazione: Lavate le foglie di silene e sminuzzatele finemente. Disponete il trito sopra un letto di patate tagliate a fette sottili in una pirofila bene unta di olio. Poi aggiungete un trito d’aglio ed i filetti di acciuga. Aggiungete un poco d’acqua e fate cuocere in forno preriscaldato a 180 °C.

D

128

FRITTATE

Frittata di alliaria

T

Ingredienti: 100 g di Alliaria petiolata – 4 uova - pecorino a piacere – pepe nero – sale. Preparazione: Pulite e lavate l’alliaria. Sbollentatela in acqua leggermente salata per 5 minuti. Sbattete le uova con il formaggio e con il pepe. Tritate l’alliaria e unitela alle uova sbattute. Friggete in olio bollente.

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129

Cerfoglio con le uova

T

Ingredienti: 2 cucchiai di cerfoglio(Anthriscus cerefolium) tritato, uova fritte (o anche sode), un cucchiaio di burro fuso. Preparazione: Fate fondere il burro fino a che non raggiunge un bel colore dorato. Aggiungete fuori dal fuoco il cerfoglio tritato. Cospargete con questo preparato le uova che avete fritto precedentemente (oppure le uova sode, tagliate a spicchi).

130

“Bacchette del re” (Asphodeline lutea) in frittata

N

Gli scapi fiorali più teneri, dopo essere stati liberati dalle foglie e dalla pellicola esterna, vengono prima rosolati con un pizzico di sale e, poi, si aggiunge l’uovo sbattuto e del formaggio grattugiato, mescolando il tutto in padella.

131

Frittata di borragine

T

Ingredienti per 6 persone: 1 mazzetto di tenere foglie di borragine (Borago officinalis)- 1 una tazza di fiori di borragine - 6 uova - 1 etto di cipolline novelle - 1 etto di fagioli lessati - olio dell’antico Clanis - pepe e sale. Preparazione: Dopo aver pulito per bene le piantine, separate i fiori e le foglie, scartando i fusticini. Fate appassire le cipolline affettate nell’olio ed unite le foglioline ed i fiori di borragine precedentemente tritati, insieme ai fagioli, anche essi tritati. Versate nel tegame le uova sbattute a parte con un pizzico di sale e pepe. Mescolate velocemente con un cucchiaio di legno; appena la frittata comincia a rapprendersi scuotete leggermente la padella per staccarla dal fondo e poi rigirarla aiutandosi, se non si possiedono particolari doti acrobatiche, con un coperchio o con un piatto per farla cuocere dall’altra lato. Decorate il piatto con alcuni fiori di borragine e servite.

132

Frittata di cicoria

T

Ingredienti: 500 g di foglie tenere di cicoria (Cichorium Intybus)– 3 uova – limone – olio extra vergine d’oliva. Preparazione: Pulite e lavate la cicoria. Lessatela in abbondante acqua salata. Scolatela e tagliatela grossolanamente. Sbattete le uova e aggiungete qualche goccia di limone con la cicoria. Friggete il tutto nell’olio extra vergine d’oliva.

133

Frittata di ruchetta

N

Ingredienti per 2 persone: 15-20 foglie di ruchetta (Diplotaxis tenuifolia)– 2 uova – formaggio pecorino – pancetta – olio extravergine d’oliva – 1 spicchio d’aglio- sale. Preparazione: Lavate le foglie di ruchetta e tritatele grossolanamente. Fate rosolare lo spicchio d’aglio schiacchiato nell’olio, appena rosolato, togliete l’aglio ed aggiungete la pancetta tagliata a dadini. Fate rosolare e poi aggiungete due uova sbattute ed insaporite con un pizzico di sale, le foglie tritate di ruchetta ed il formaggio pecorino. Fate cuocere da entrambi i lati.

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134

N

Frittata di false ortiche

Ingredienti: 100 g di false ortiche (Lamium spp) – 2 uova – pecorino – pepe – sale – olio extra vergine d’oliva. Preparazione: Lavate e lessate la falsa ortica in acqua salata. Sgocciolatela e tagliatela grossolanamente. Sbattete le uova e aggiungete la falsa ortica, sale e pepe. Friggete in caldo olio extra vergine d’oliva.

135

Frittata di rovo con prosciutto

N

Ingredienti per 2 persone: 100 g di germogli di rovo (Rubus spp.)- 50 g di prosciutto cotto - 2 uova - 50 g di formaggio grattugiato - 1 cipolla - 2 cucchiai di farina - 30 ml di latte - olio extravergine d’oliva - pepe e sale. Preparazione: Pulite i germogli di rovo, legateli a mazzetti e fateli bollire in acqua salata, poi scolateli per bene e tritateli. Tritate la cipolla e fatela rosolare in una padella con olio extravergine d’oliva e, quando sarà dorata, aggiungete i germogli di rovo. Dopo alcuni minuti aggiungete la farina, a neve, facendola cadere da un setaccio. Aggiungete, poi, il latte fino a ottenere una crema densa (se necessario aggiungete altra farina a velo). Aggiungete pepe e sale a piacere e lasciate raffreddare. In una terrina a parte, sbattete le uova, poi aggiungete il formaggio e, sempre mescolando, versateci la crema di germogli di rovo prima preparate ed il prosciutto cotto finemente tritato. Fate friggere il composto così ottenuto in una padella antiaderente con olio extravergine di oliva. Fate dorare, rivoltandola, la frittata da ambo i lati. Poi mettetela su un foglio di carta assorbente da cucina per eliminare l’olio in eccesso e servitela calda.

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Frittata di stracciabraghe

N

Ingredienti: 100 g di teneri getti di stracciabraghe (Smilax aspera)– 2 uova – sale – olio extravergine d’oliva. Preparazione: Lavate e lessate i teneri virgulti di stracciabraghe. Sbattete le uova, aggiungeteci i germogli lessi ed un pizzico di sale e friggete in una padella con olio extravergine d’oliva. Servite caldo.

137

Crêpes ai fiori di tarassaco

N

Ingredienti per 2 persone: 20 “fiori” (capolini) di tarassaco (Taraxacum officinale) – 50 g di farina – 50 g di burro – 1 uovo – 1 cucchiaio di zucchero – 60 ml di latte – 10 ml di rhum – sale. Preparazione: Lavate bene i “fiori” di tarassaco e liberateli dalle lacinie del calice per utilizzare soltanto i petali gialli. Tritate grossolanamente i petali con la mezzaluna, impastateli con un poco di burro ammorbidito e salateli leggermente. Mescolate in una ciotola l’uovo con la farina, il latte, il rhum, lo zucchero, il burro fuso ed un pizzico di sale. Fate riposare il composto per un’ora e poi preparate delle piccole crêpes sottili, versando l’impasto a cucchiaiate in un piccolo padellino antiaderente. Distribuite il composto dei fiori sulle crêpes, arrotolatele, disponetele su una teglia imburrata ed infornatele per 10 minuti. Servitele cosparse di zucchero.

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Frittata di ortiche

N

Lessate le ortiche (Urtica dioica), poi scolatele e strizzatele per bene. Appena raffreddate tritatele insieme ad un ciuffo di prezzemolo. Sbattete le uova, con formaggio a pasta dura, sale, pepe e unite al trito di ortiche. Scaldate l’olio d’oliva in una padella, versate il composto e sollevate i bordi appena si rapprendono facendo scivolare sotto, con l’aiuto di una spatola di legno, la parte centrale più liquida. Quando il lato inferiore si è rassodato, capovolgere la frittata per far cuocere l’altro lato.

139

Frittata di ortiche e salame di Mugnano del Cardinale

T

Ingredienti per 2 persone: 250 g di tenere foglie di ortiche (Urtica dioica)– 20 g di formaggio pecorino – 50 g di salame di Mugnano del Cardinale - 2 uova – 10 g di farina - olio extravergine di oliva – aglio - pepe e sale. Preparazione: Lavate con la normale cautela le foglie di ortica, sbollentatele e tritatele finemente. Sbattete le uova insieme al trito di ortiche, al formaggio, al pepe e ad un pizzico di sale. Se il composto si presentasse molto liquido aggiungete un pizzico di farina. Tagliate il salame (o la soppressata) di Mugnano del Cardinale a piccoli dadini. Fate rosolare in padella un aglio schiacciato, poi toglietelo ed aggiungete i dadini di salame e fateli rosolare. Aggiungete poi il composto di ortiche e formaggio e fate cuocere la frittata da entrambi i lati.

E

PIZZE E PANINI

140

Pizza ripiena “irpina” alle erbe

T

Ingredienti: 1 kg di farina - mezzo pezzetto di lievito di birra sciolto in acqua tiepida - sale quanto basta ad insaporire - 1 bicchierino d’olio extravergine d’oliva. Scarola coltivata o endivia (Cichorium indivia), carote, foglie di cerfogli (Anthriscus cerefolium) e di cardilli (Sonchus asper). Preparazione: Bollire le erbe fino alla cottura, poi soffriggerle con aglio, acciughe, capperi, pinoli, uvetta passa, olive verdi e nere tagliate e sale. Preparate una sfoglia con la farina ed il lievito. Stendere la sfoglia nella teglia e aggiungere le erbe. Sistemarle bene dopodichè stendere un’altra sfoglia di pasta per coprire il tutto. Una volta coperto bucherellare con la forchetta la sfoglia e infornare in forno preriscaldato a 180 gradi per circa mezz’ora.

141

Panini alle margheritine (Bellis perennis) e ricotta

T

Ingredienti per 2 persone: 150 g di foglie della rosetta basale di margheritine - 80 g di ricotta di Avella - 2 panini all’olio – ½ cipolla – 1 cucchiaio di olio extravergine di oliva – pepe e sale. Preparazione: Lavate le margheritine e fatele saltare in padella, con olio extravergine d’oliva ed un pizzico di sale per 5 minuti. Dopo averle fatte raffreddare, tritatele insieme alla mezza cipolla e mescolate con la ricotta, aggiungendo pepe e sale a piacere. Con questo impasto infarcite i panini all’olio.

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

Gli autori della presente pubblicazione, in collaborazione con il Dirigente Scolastico delle scuole elementari di Baiano e Sperone, dott. Felice Colucci, nonché con l’intero corpo docente, hanno coinvolto i ragazzi delle scuole elementari in un appassionante viaggio alla riscoperta degli antichi gusti e delle antiche tradizioni. Benedetta Napolitano ha insegnato loro (oltre alle cautele nella raccolta e nell’identificazione, più volte ricordate) a familiarizzare con le erbe commestibili, per giungere fino alla preparazione ed alla degustazione di deliziose frittelle alle erbe. Il lavoro, coordinato dal corpo docente delle scuole elementari, è stato poi pubblicato nell’annuario dell’Istituto scolastico, qui riportato.

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Borragine ripiena (Borago officinalis)

T

Unite a due e due le foglie più grandi, ed inserite al loro interno un dadino di mozzarella di bufala campana e, a scelta, uno di prosciutto, di acciuga o qualche pezzetto di salsiccia di Mugnano del Cardinale. Immergetele nella pastella e friggetele.

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Pizza di raperonzoli (Campanula rapunculus)

P

Si puliscono per bene e si lavano accuratamente una manciata di foglie e di radici di raperonzoli. Le radici si tagliano longitudinalmente alla Julienne. Foglie e fette di raperonzolo si mettono sulla pasta di una pizza e si infornano in un forno a legna.

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Panini paesani al farinaccio “’a Ré”

P

Ingredienti: Chenopodium album - pasta per panini - aglio - olio - sale. Preparazione: Lavate per bene e lessate le foglie ed i germogli più teneri di chenopodio. Fateli saltare in padella, con aglio, olio e sale. Impastate la pasta per panini con un po’ di olio e formate dei panini imbottiti con il chenopodio saltato. Fate cuocere in forno, fino a doratura.

145

Pagnottella alla cicoria ripassata

N

Ingredienti: Foglie di cicoria o radicchio (Cichorium intybus) o delle diverse “cicorie a fiori gialli” (Taraxacum, Sonchus, Crepis, Lentodon, Picris, Reichardia) - olio extravergine di oliva - aglio - sale - peperoncino. Preparazione: Prendete le foglie della rosetta basale della cicoria (o radicchio ) o delle varie “cicorie a fiori gialli”, lavatele accuratamente e lessatele in poca acqua salata. In alternativa potete cuocerle, in poca acqua, nella pentola a pressione. A parte, fate rosolare uno spicchio d’aglio ed un pezzetto di peperoncino, nell’olio extravergine d’oliva. Poi aggiungete le erbe lesse e fatele saltare in padella per almeno cinque minuti. Ora usate le erbe così soffritte, e senza scolarne l’olio, per imbottire una pagnottella di secale (o, in mancanza di questa, una pagnottella di frumento, o un panino). Se volete, potete lessare, soffriggere ed aggiungere anche i capolini (fiori) delle “cicorie a fiori gialli”.

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Pizza “cicorino” (Pizzeria Mister Tony di Sirignano)

P

Ingredienti: Cicoria selvatica (Cichorium intybus) – salsiccia di Mugnano del Cardinale – olive nere – aglio – olio extravergine di oliva – fagioli borlotti lessi – origano – sugo di pomodoro – sale - pasta per pizza. Preparazione: Lavate e lessate la cicoria . Stendete la pasta per la pizza e spalmatela con una cucchiaiata di sugo di pomodoro. Poi aggiungeteci la cicoria, i fagioli, la pasta di salsiccia, le olive nere e condite con olio, origano aglio e sale. Infornate in un forno a legna.

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147

Pizza alla gramigna

P

Ingredienti: Rizomi e giovani stoloni di gramigna (Cynodon dactilon o Agropyron repens)– funghi prataioli sott’olio (o, in mancanza, gli champignon) – olio extravergine d’oliva - mozzarella di bufala campana - pasta di salsiccia di Mugnano del Cardinale - sale - pasta per la pizza. Preparazione: Raccogliete i giovani germogli di gramigna prima che spuntino all’esterno, scavando appena sotto la superficie del terreno. Quando si presentano ancora bianchi, friabili, carnosi e turgidi. Lavateli e lessateli in aceto e limone. Poi sgocciolateli ed asciugateli. Soffriggeteli, ora, insieme alla pasta di salsiccia e ad uno spicchio d’aglio, aggiungendo un pizzico di sale. Stendete la pasta per la pizza ed aggiungeteci il soffritto di gramigna e salsiccia, la mozzarella di bufala (tagliata a dadini), i funghi ed un filo d’olio. Infornate in un forno a legna.

148

Focaccia alla malva

N

Ingredienti per 2 persone: 150 g di foglie di malva (Malva sylvestris) - 250 g di farina - 30 g di olive nere denocciolate 30 g di formaggio pecorino grattugiato - 2 uova - 1/2 cipolla - 1 bustina di lievito - 2 cucchiai di olio extravergine di oliva - sale e pepe. Preparazione: Lavate accuratamente le foglie di malva, poi tritatele e mettetele in una scodella. Aggiungete le uova sbattute, l’olio, la cipolla finemente tritata ed il formaggio e mescolate accuratamente. Impastate la farina con olio di oliva, sale e lievito di birra sciolto in un pò d’acqua (tiepida ma non bollente, per non distruggere il lievito). Lavorate bene l’impasto e stendetelo in una teglia col fondo unto di olio.Versateci sopra il composto di malva prima preparato e distribuitelo uniformemente con l’aiuto di un cucchiaio. Mettete a cuocere in forno per 20 minuti a 180 °C. A cottura ultimata, aggiungete le olive e servite.

F 149

BEVANDE

N

Birra di gramigna (Cynodon dactylon)

In un recipiente assai grande e aperto porre 5 chili di rizomi di Cynodon dactylon ben lavati e tritati ed annaffiateli con acqua tiepida per conservarli umidi, senza ricoprirli. Dopo qualche giorno, i frammenti sviluppano delle gemme bianche: quando hanno raggiunto un centimetro, versare la gramigna in un barile con un chilo di bacche di ginepro schiacciate (o in loro mancanza con una uguale quantità di infiorescenze di luppolo), 60 grammi di lievito di birra e 2 chili di zucchero. Aggiungete 8 litri di acqua molto calda (ma non bollente, per non uccidere il lievito) e mescolate con un bastone. L’indomani aggiungete altri 8 litri di acqua calda, sempre mescolando. Ripetete l’operazione aggiungendo 9 litri di acqua. Chiudete poi bene il barile, lasciando un piccolo foro per l’aerazione, e lasciate riposare per una settimana. Dopo ciò travasate il liquido, filtrato dalle impurità, in un barile pulito. Dopo due giorni la birra è pronta per essere gustata.

150

Caffé di tarassaco (Taraxacum vulgare)

N

Lavate le radici di tarassaco e liberatele dalle radichette. Asciugatele, tagliatele a rondelle di pochi millimetri di spessore e fatele essiccare al sole o all’aria. Tostatele e macinatele. Mettete un cucchiaio colmo di questa polvere in un pentolino con 250 ml (¼ di litro) di acqua e fate bollire per 5 minuti. Lasciate riposare per qualche istante. Filtrate e bevete.

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G

PARTI DI PIANTE ARBOREE

151

Frittelle di sambuco (Sambucus nigra)

N

Ingredienti per 2 persone: Infiorescenze (ombrelle) di sambuco non ancora dischiuse - 4 cucchiai di farina - 1 uovo - olio extravergine d’oliva - sale o zucchero a piacere. Preparazione: Preparate una pastella mediamente densa con la farina, l’uovo, 1/3 di litro di acqua e sale. Immergete ciascuna ombrella, tenendola per il gambo, nell’impasto ottenuto e lasciate scolare la pastella in eccesso. Immergete, quindi, l’ombrella nell’olio bollente, friggendola fino a doratura. Lasciate asciugare le frittelle così ottenute su carta assorbente da cucina ed asportate il gambo. Utilizzando lo zucchero al posto del sale potrete preparare dei profumatissimi dessert.

152

Germogli fritti di sambuco (Sambucus nigra)

T

Ingredienti: Rametti verdi apicali di sambuco - farina - uova - sugna (o olio extravergine d’oliva) - sale. Preparazione: Far bollire bene i rametti di sambuco fino a lessarli. Cambiare acqua e dare ancora un bollitura. Quando saranno ben teneri, asciugarli. Passarli nelle uova sbattute e poi nella farina con sale. Friggere in sugna bollente o olio.

153

Risotto alle foglie di faggio (Fagus sylvatica)

N

Ingredienti: Foglie primaverili e tenere di faggio - salsiccia - riso - olio extravergine di oliva - aglio - sale. Preparazione: Lessate le foglie apicali più tenere. Scolatele, asciugatele, tagliatele finemente e fatele saltare in padella insieme alla carne tritata dell’interno delle salsicce, all’aglio e all’olio. Preparare a parte il riso lessandolo in acqua salata. Scolarlo bene e mantecarlo insieme alle foglie di aglio e salsiccia. Le foglie di faggio hanno sapore di cavolo, ma non il suo caratteristico odore, non a tutti gradito. Volendo si può aggiungere a questo piatto una spruzzata di formaggio pecorino locale.

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Gemme di faggio (Fagus sylvatica) sott’olio

N

Ingredienti: Gemme di faggio - olive verdi - acciughe - aceto - olio. Preparazione: Fate bollire le gemme di faggio in aceto per qualche minuto. Poi scolate e lasciate asciugare all’aria. Mettete le gemme in un vaso di vetro, aggiungendo alcune olive verdi snocciolate e qualche acciuga a pezzetti. Aggiungete l’olio fino a completa copertura.

155

Pane di fàggiole

N

Prendere 500 g di farina di grano e mescolare a 500 g di frutti di faggio (fàggiole) tritati, impastare, far lievitare ed infornare.

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Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano

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N

Ravioli alle verdure selvatiche e fàggiole

Ingredienti per 4 persone: Pasta: 1 tazza di farina di fàggiole - 1 tazza di farina di grano - 2 uova - un cucchiaio da minestra di strutto - burro o olio - un po’ di sale. Ripieno: 1 piatto di foglie di ortica e di foglie giovani di chenopodio bianco - 2 cucchiai da minestra ben pieni di formaggio grattugiato di capra o pecora - 1 tazza di fàggiole (tostate e tritate) - 1 cucchiaino di strutto, burro o olio - 2 uova - 1 cipolla - 1 cucchiaino di farina - 1 tazza di latte - un po’ di sale - 2 cucchiai da minestra di semi di papavero (facoltativo) - 2 cucchiai da minestra di strutto, burro o olio. Preparazione: Mescolare farina, uova, strutto (o burro o olio), un po’ di sale e acqua. Lavorare per ottenere una pasta morbida. Scottare le foglie, scolarle e tagliarle finemente. Mescolare al formaggio e alle fàggiole. Aggiungere due tuorli e un bianco d’uovo. Salare. Tritare finemente la cipolla e farla rinvenire rapidamente nell’olio. Aggiungere la farina e inumidire col latte. Lasciar cuocere, poi aggiungere alle foglie. Stendere la pasta e tagliare dei cerchi grandi come il palmo di una mano. Deporre il ripieno su una metà, ripiegare e incollare i bordi con il bianco d’uovo rimanente. Lasciar bollire in acqua salata finché i ravioli non risalgono in superficie. Sgocciolare bene. Si possono cuocere i ravioli anche nell’olio, e li si può insaporire con semi di papavero.

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Ingredienti: 500 g di fàggiole tostate - 4 uova - 2 etti di burro - 600 g di zucchero – 200 ml di limoncello - scorza di un limone grattugiata - due bustine di lievito - farina sufficiente per ottenere un impasto morbido. Preparazione: Disponete la farina a fontana e sbattete al centro le uova con lo zucchero, quindi unite tutti gli altri ingredienti. Stendete l’impasto e tagliate a strisce di circa 4 centimetri di larghezza. Infornate. Una volta dorato, estraete dal forno, tagliate a losanga ed infornate di nuovo.

Plantula di nocciòlo Corylus avellana

N

Tozzetti di fàggiole (Fagus sylvatica) Fagus sylvatica

Il mandamento di Baiano è la patria del nocciòlo (a sinistra), il cui nome specifico deriva da Abella (l’antica Avella). Le nocciòle, inoltre, si trovano rappresentate nello stemma civico di Sirignano (Av). A destra. Tavola botanica del faggio.

Fàggiola

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I principali prodotti tipici dell’area baianese: i salumi di Mugnano del Cardinale (Av). Sotto: le “soppressatare” al lavoro in un salumificio artigianale.

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A P P E N D I C E 259 Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

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Cicuta di Socrate

PIANTA MORTALE

Conium maculatum (L.)

Usata, storicamente, per eliminare i filosofi ed i pensatori scomodi (è la famosa “Cicuta di Socrate”) è vanamente diffusa, nonostante la locale cronica carenza di intellettuali, anche nel territorio oggetto del presente studio, lungo le siepi e nei boschi umidi, nella fascia altimetrica compresa fra i 300 ed i 1.000 metri di altitudine. Questa pianta è mortale e può rivelarsi pericolosa soprattutto per i bambini che, adoperandone i fusti cavi come cerbottane o fischietti, possono rimanere vittime del suo potente veleno. E’ una emicriptofita bienne appartenente alla famiglia delle apiacee o ombrellifere: la stessa famiglia del prezzemolo, dei finocchietti, del cerfoglio, dell’angelica e delle carote. Si distingue dalle ombrellifere innocue per il cattivo odore emanato dalle sue foglie, se schiacciate, e dalle macchie marroni-violacee (vedi foto sopra) che, quasi sempre, si trovano lungo il suo fusto.

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Lattuga velenosa

PIANTA MORTALE

Lactuca virosa (L.)

E’ una terofita scaposa, erbacea, di altezza variabile tra i 60 centimetri ed 1,50 metri. In alcuni ambienti si comporta da emicriptofita bienne. La Lactuca virosa presenta il fusto bianco o rossastro, spesso munito di aculei. Le foglie hanno margini spinescenti e sono di un colore che varia dal verde lucido al verde-bluastro. Le foglie superiori sono sessili e spesso più o meno profondamente lobate. Tutte abbracciano il fusto alla base. I numerosi capolini sono disposti in pannocchie. La corolla dei flosculi giallo-verdastri si prolunga su un lato a formare una linguetta a cinque denti. L’achenio, nerastro, ha un pappo di fini sete argentee, portato alla sommità di un lungo peduncolo. Il latice ha sapore amaro e pungente che, secondo gli esperti è molto simile a quello dell’oppio. E’ una pianta estremamente velenosa al punto da risultare mortale. Precedentemente non segnalata nel territorio oggetto di studio, è tuttavia presente, talora ai margini delle strade. Gli esemplari nelle foto sono stati rinvenuti a Mugnano del Cardinale (Av), nei pressi di una strada che conduce all’abitazione paterna dell’autrice. Non va assolutamente ingerita (né fumata) perché, oltre ad avere effetti narcotici è pericolosamente tossica.

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Senecione

PIANTA MORTALE

Senecio vulgaris (L.) E’ una terofita erbacea, dai fusti gracili e dai rami irregolari. Può giungere all’altezza di circa 40 centimetri. Fiorisce tutto l’anno. I pappi di setole bianche sono così delicati che anche la brezza più lieve può portarli lontano. Per cui questa pianta viene disseminata facilmente ovunque e si rinviene comunemente sia nei prati sia ai bordi delle strade. Presenta foglie alterne. Quelle basali sono spatolate (2 x 7 cm), lobate o partite. Quelle cauline sono semi-amplessicauli, pennato-partite. I fiori sono tutti tubulosi e gialli. I numerosi capolini si presentano penduli prima della fioritura. Hanno involucro cilindrico-piriforme, formato da due serie di squame, una interna ed una esterna, quest’ultima con punta nera o interamente nera. L’achenio è sormontato da un pappo formato da un ciuffo di peli. Il Senecio vulgaris è usato in erboristeria da tempi immemorabili. E’, però, consigliabile non ingerirla perché è tossica per l’uomo. Se consumata in grandi quantità può risultare addirittura letale.

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Prospetto analitico delle specie botaniche e delle ricette

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Glossario acaule: pianta con fusto aereo brevissimo. Le foglie sono generalmente ravvicinate e addossate al suolo; solo i peduncoli fiorali sono eretti. achenio: frutto secco indeiscente, che non si apre spontaneamente. Es.: achenio di fragola. aculeo: escrescenza acutissima, pungente, dritta o ricurva, che si trova sui fusti di alcune piante. L’aculeo, diversamente dalla spina, si stacca facilmente, avendo origine dall’epidermide e da altri tessuti superficiali. Es.: aculeo della rosa. acuminato: si dice di organo che termina improvvisamente con una punta acuminata e flessibile. Es.: foglia di olmo. acuta: si dice di sommità che si restringe impercettibilmente a punta, al contrario di acuminato, ove il restringimento è improvviso. Es.: foglia di Plantago lanceolata L. ala: a) nome dato ai petali laterali dei fiori delle Papilionacee. Es.: ginestra; b) lembo verde a lato del picciolo o del fusto come proseguimento della lamina della foglia. Es.: Consolida maggiore. alterno: il disporsi delle foglie sul fusto inserite ciascuna a livelli differenti; se, come accade sovente, le foglie si trovano su due file longitudinali, sono alterne-distiche. amento: infiorescenza complessa; talvolta è semplificata sino a costituire una spiga semplice, generalmente pendula, spesso formata da fiori unisessuati. Es.: amenti maschili del nocciolo, amenti maschili e femminili del salice bianco. amplessicaule o avvolgente: lamina di foglia, o di stipola, o di petalo, che avvolge il fusto al punto di inserzione. androceo: il complesso degli organi maschili (stami, dal greco stémon: filo) di un fiore. annuale: si dice di pianta la cui vita dura un solo anno: nascita, sviluppo, fioritura, fruttificazione e morte. La riproduzione avviene soltanto attraverso i semi. antera: apice rigonfio dello stame. L’antera contiene le cellule generatrici dei granelli di polline, che formeranno i gameti maschili. E’ divisa internamente in 4 sacche polliniche che formano poi 2 logge, per confluenza. antesi: sinonimo di fioritura: il bocciolo fiorale si apre, i petali si spiegano, gli stami e il carpello crescono, si verifica la fecondazione. Quest’ultima fase può avvenire prima dell’antesi. apetalo: fiore sprovvisto di petali; è detto anche “monoclamide”. arbusto: termine convenzionale che definisce una pianta perenne, legnosa, ramificata per lo più fin dalla base. Negli arbusti la massa dei rami predomina sull’asse principale, il fusto primario può non superare in dimensioni i fusti secondari e la pianta assume aspetto cespuglioso. Es.: bosso, ligustro, mirtillo, ribes. ascella: angolo interno formato tra il picciolo e il fusto o tra un ramo e una branca. All’ascella delle foglie si forma sovente, una gemma, detta gemma ascellare. bacca: frutto carnoso indeiscente con semi sparsi entro la polpa. Es.: mirtillo, ribes. baccello: frutto secco deiscente che si apre mediante due fenditure. biennale: pianta che compie il suo sviluppo entro due anni. Nel primo anno nascita e sviluppo; nel secondo fruttificazione e morte. Es.: carota. bipennata: foglia formata di divisioni pennate, a loro volta costituite da foglioline pennate. bipennatosette: foglie a divisioni pennatosette a loro volta pennatosette; le frastagliature raggiungono la nervatura centrale di ciascun lobo. Questi lobi sono disposti come i denti di un pettine. brattea: foglia più o meno modificata alla cui ascella nasce il fiore. In alcuni casi, le brattee sono molto grandi, diventano coriacee e sono dette spate. Es.: mais. bratteole: foglioline portate dal peduncolo fiorale. bulbilli: bulbi molto piccoli che hanno origine non nel terreno, come i veri bulbi, ma che si formano all’ascella delle foglie di alcune specie di giglio, o al posto dei fiori, come avviene nell’aglio. bulbo: germoglio molto raccorciato, con l’aspetto di una grossa gemma, di forma spesso ovata, tipicamente sotterraneo. Le foglie modificate che lo fasciano contengono sostanze nutritive di riserva. L’esempio tipico è costituito dalla cipolla.

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calice: il più esterno degli involucri fiorali, composto dai sepali. calicetto: insieme di brattee molto ravvicinate, alla base di un capolino, con portamento di piccoli sepali, costituente una specie di calice supplementare. capolino: infiorescenza molto fitta costituita da fiori sessili, inseriti direttamente su un rigonfiamento del fusto detto ricettacolo. Tutte le piante della famiglia delle Composite hanno fiori a capolino, di forma e di dimensioni molto varie. capsula: frutto secco deiscente con un certo numero di logge interne, che si aprono per liberare i semi sia dai fori (es.: rosolaccio) sia dalle valve (es.: aquilegia). carena: a) petalo del fiore delle Papilionacee, a forma di chiglia di nave. Es.: ginestrino; b) protuberanza a forma di chiglia che compare su taluni organi. cariosside: frutto secco indeiscente, tipico delle graminacee, la cui parete è internamente saldata all’unico seme. carpello: organo femminile del fiore, che va a costituire l’ovario (che poi si trasforma in frutto). cima: infiorescenza in cui tutti i peduncoli sono ramificati e terminano con un solo fiore. corimbo: infiorescenza ombrelliforme, con peduncoli di diverse lunghezze. corolla: insieme dei petali di un fiore. cotiledoni: le prime foglie, già formate dentro il seme, che spunteranno alla germinazione; spesso sono colme di sostanze di riserva e perciò inadatte alle funzioni delle vere foglie. culmo: fusto aereo delle Graminacee, nodoso, scavato (vuoto) fuorché ai nodi. Es.: frumento. deiscente: frutto secco che si apre a maturazione. dentati: foglia, petalo, sepalo con margine segnato da frastagliature ad angolo acuto, poco profonde. L’angolo acuto, o la sua ristrettezza, distingue un organo dentato da uno crenato. diachenio: acheni abbinati sorretti da un peduncolo comune, biforcuto all’estremità, come nella maggior parte delle Ombrellifere. dialipetalo: fiore i cui petali sono indipendenti gli uni dagli altri. Analoga espressione (dialisepalo) è usata per i sepali del calice. dicotiledone: pianta la cui plantula possiede 2 cotiledoni. Tutte queste piante formano una classe in cui rientra la maggior parte delle piante a fiore. digitato: disposto allo stesso modo delle dita di una mano. diclino: fiore unisessuale, portante o solo stami (maschili) o solo il pistillo (femminile). E’ l’opposto di “ermafrodita” o monoclino (portante sia le strutture maschili, androceo, che quelle femminili, gineceo). dioica: specie che possiede i fiori maschili ed i fiori femminili, su individui separati. Avrà, quindi, piante maschio e piante femmina. ermafrodita: si dice di un fiore che porta sia gli organi maschili (stami) sia quelli femminili (pistilli). flosculo: (dal latino flosculus = fiorellino) il singolo fiore del capolino delle Composite; può avere corolla tubulosa oppure ridotta a una lamina appiattita (ligula). gamopetalo, gamosepalo: a petali saldati per formare una corolla intera; a sepali saldati per formare il calice. La saldatura può essere soltanto su una parte della lunghezza dei petali o dei sepali, dalla base verso l’alto. gineceo: sinonimo di pistillo. E’ l’insieme dei carpelli di un fiore. glabro: senza peli né ciglia. E’ l’opposto di vellutato, lanoso o lanuginoso e pubescente. Es.: foglia del mughetto e della pervinca. glauco: di colore verde-azzurrognolo, dovuto a pigmenti interni, ma anche alla polvere fine e cerosa,la pruina, sparsa sull’epidermide delle foglie o dei frutti. glomèrulo: infiorescenza composta da fiori subsessili che formano una sfera. Il glomerulo si distingue dal capolino; infatti, in quest’ultimo i fiori sessili sono inseriti su una superficie orizzontale e non compongono una sfera. Es.: barbabietola, cuscuta. grappolo: infiorescenza i cui fiori,con corti peduncoli, sono inseriti lungo l’asse principale. infero: ovario nascosto nel ricettacolo e perciò sovrastato da tutte le parti fiorali. infiorescenza: gruppo di fiori riuniti in un determinato modo su un asse variamente conformato. inguainante o guainante: il termine è riferito, in particolare, alle Graminacee: la lamina della foglia si prolunga come una guaina attorno al fusto coprendolo, così, fino al nodo ove si inserisce la foglia stessa, nella regione inferiore della guaina.

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involucro: corona di brattee poste alla base dell’ombrella. Possono avere un involucro anche un fiore unico o un capolino; in quest’ultimo caso le brattee possono essere disposte in più strati e sovrapporsi come le tegole di un tetto. labiato: a forma di labbra. Il fiore della salvia ha un petalo con la forma del labbro superiore e uno con la forma del labbro inferiore; pertanto si dice bilabiato. lamina: parte allargata della foglia o del petalo. Sinonimo di lembo. lanceolato: a forma di lancia, appuntito alle due estremità e più largo nella parte mediana. Es.: foglia di piantaggine femmina (Plantago lanceolata L.) o di oleandro. latice: sostanza organica secreta dai canali lattiferi, per esempio dell’hevea o del ficus, con cui si fabbrica il caucciù. In senso lato, è il prodotto della secrezione che taluni vegetali emettono da punti di lacerazione. Es.: celidonia. Non ha nulla a che vedere con la linfa. lesiniforme: a forma di lesina (strumento acuminato per forare il cuoio). Si dice di organi vegetali appuntiti. Es.: foglie del ginepro comune. ligula: piccola linguetta membranosa, il più delle volte incolore, situata nel punto di congiunzione della lamina e dell’apice della guaina nelle Graminacee. lirata: è detto di foglia con frastagliature profonde che determinano dei lobi sempre più grandi via via che si avvicinano all’estremità superiore della lamina fogliare. Es.: lassana. monoico: vegetale che porta sullo stesso fusto fiori maschili e fiori femminili; non è tuttavia detto che questi si feconderanno tra loro. nervatura: prolungamento attraverso la lamina fogliare dei vasi conduttori della linfa proveniente dal fusto. nettario: ghiandola secretrice di nettare, liquido zuccherino, posta spesso alla base dei petali o in fondo alla gola di un fiore. Es.: ciliegio. Alcune foglie possono avere uno o più nettarii alla base sulla lamina. oblungo: più lungo che largo, 2/3 per 1/3, e arrotondato alle estremità. obovale o ovale: si dice di una foglia la cui lamina ha la parte superiore nettamente più larga della base, al punto di inserzione. ombrella: infiorescenza semplice o doppia i cui peduncoli fiorali partono tutti dal medesimo punto e sono di eguale lunghezza. opposto: posizione di due organi situati l’uno di fronte all’altro sullo stesso nodo. ovario: organo formato da uno o più carpelli e che racchiude uno o più ovuli. L’ovario, avvenuta la fecondazione, si evolve in frutto, secco o carnoso; l’ovulo si evolve in seme. ovulo: struttura contenente il gamete femminile, racchiuso entro l’ovario; dopo la fecondazione, diventa un seme. palmata: si dice di nervatura divisa in più segmenti disposti come le dita divaricate di una mano. papilionacea: pianta con fiori costituiti da un petalo grande (vessillo) da due petali laterali (ali) e da due petali inferiori più o meno uniti (carena); tutte le specie aventi questa struttura sono riunite nella famiglia delle Papilionacee. pappo: insieme di peli o setole, più o meno ramificati, situato all’apice dei frutti di alcune specie, in particolare di quelli delle famiglie delle Composite e delle Valerianacee. Il vento trasporta facilmente il pappo, facilitando la dispersione dei semi. Es.: tarassaco,valeriana. pennato: per analogia con una penna di uccello, foglia costituita da lobi o foglioline disposte lungo l’asse centrale a guisa delle barbe di una penna. Es.: robinia. pennatosetta: si dice di foglia che presenta frastagliature che raggiungono la nervatura centrale e sono disposte da una parte e dall’altra sulla lunghezza di detta nervatura. perianzio: è l’insieme più esterno del fiore, formato da calice e corolla. petalo: elemento della corolla, secondo involucro fiorale. Oltre a svolgere funzione di protezione degli organi interni del fiore, i petali aiutano la fecondazione, attirando coni loro colori (funzione vessillifera) e il loro nettare gli insetti pronubi. L’impollinazione ottenuta tramite gli insetti si dice entomofila o zoofila. picciolo: parte della foglia, che unisce la lamina al fusto. pistillo: insieme degli organi femminili di un fiore. pronubi (insetti): effettuano l’impollinazione trasportando il polline da una pianta all’altra. prostrato: si dice dei fusti che non si elevano da terra. pruina: strato ceroso, glauco, che ricopre l’epidermide di certi organi e in particolare dei frutti.

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Molto delicata, la sua integrità dimostra che il frutto non è stato manipolato. La pruina contiene ottimi fermenti, sia per la digestione sia per la fermentazione. pubescente: ricoperto di peli corti e semplici. La pubescenza è spesso una difesa dalla siccità o dal freddo. resta: prolungamento filiforme di un organo. Es.: le glumette dell’orzo o i carpelli della vitalba e della pulsatilla. ricaccio o getto: giovane ramo che si diparte dal ceppo o dalla radice di una pianta vivace; esso radica e forma pianta perfetta e autonoma. Queste piante sono prolifere e invadenti. rizoma: organo di riserva e di moltiplicazione vegetativa sotterraneo. Costituito dalla radice ingrossata (es. carota). rosetta: disposizione in tondo delle foglie radicali, aderenti al suolo. Es.: borsa del pastore, tarassaco. sepalo: parte del calice, primo involucro fiorale. sessile: inserito direttamente sul ramo: senza peduncolo, fiore sessile; oppure senza picciolo, foglia sessile. Talvolta fiori e foglie sono soltanto subsessili, cioè sorretti da un peduncolo o da un picciolo impercettibile. stame: organo maschile del fiore. stilo: prolungamento verticale dell’ovario, a forma di colonna, sormontato da uno stimma. stimma: regione dell’ovario che raccoglie e trattiene i granuli pollinici. Lo stimma è spesso ricoperto di papille secernenti un liquido zuccherino, che facilita la cattura e la germinazione del granello di polline. stolone: fusto strisciante, aereo o sotterraneo, non provvisto di elementi di riserva, che emette radice dai nodi e riproduce così la pianta. Es.: fragola. stolonifera: pianta che produce stoloni. Le piante stolonifere sono generalmente piante tappezzanti; la loro moltiplicazione vegetativa è più rapida di quella per seme. Da una pianta di fragola si ottengono, durante una stagione, anche più di 100 piantine. supero: si dice di ovario libero, non contenuto nella profondità del ricettacolo, e contornato dalle altre parti fiorali, inserite al suo livello. E’ il contrario di ovario infero. tubero: organo sotterraneo di riserva, costituito dal fusto trasformato ed ingrossato e di forma globosa (Es. patata). Sulla sua superficie sono presenti delle gemme (detto, volgarmente, “occhi”). turione: giovane fusto cresciuto dal ceppo di piante vivaci le cui parti aeree muoiono ogni autunno. Es.: asparago. volubile: si dice di un fusto rampicante che si avvolge attorno al suo supporto.

Con l’espressione “quarta gamma” si indicano ortaggi e verdura già selezionati, lavati e pronti per la tavola, generalmente venduti in buste o blister. Per completezza, si rammenta brevemente che i prodotti di prima gamma sono quelli non trattati (tipo le verdure e gli ortaggi del fruttivendolo); quelli di seconda gamma sono i prodotti inscatolati, imbottigliati o in lattine; quelli di terza gamma sono i prodotti surgelati; quelli di quinta gamma sono i precotti. A tali categorie gli autori della presente pubblicazione aggiungono quella della “zero gamma”, comprendente i prodotti naturali, non coltivati e non trattati con fitofarmaci o conservanti, e le stesse erbe spontanee commestibili, oggetto della presente trattazione (Nota degli autori).

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Bibliografia Aliotta G., 1987 - Edible wild plants of Italy. Inform. Bot. Ital. 19: 17-30. Baldoni R., Giardini L., 1981 - Coltivazioni erbacee. Ed. Patron, Bologna. Baroni E., 1969 – Guida botanica d’Italia. Ed. Cappelli, Blogna. Belli G., 1993 - Erbe e piante. Mondadori, Milano. Bley F., 1897 - Botanisches Bilderbuch für Jung und Alt. Bosso B., 1992 - Piante amiche. Edagricole, Bologna Bremness L., 1988 - Il grande libro delle erbe. Görlich-De Agostini, Novara. Brickell C., 1990 - La grande enciclopedia delle piante e dei fiori. Mondadori, Milano. Caiazzo M., Viselli R., 2008 - Bioremediation (Il rimedio ambientale con metodi biologici). Ed. Liguori, Napoli. Chiej G. R., 2006 - Piante selvatiche (come riconoscerle, raccoglierle e usarle in cucina). Ed. Giunti Demetra, Prato. De Rosa P., 1999 - Caratteristiche reologiche del Salame “tipo Napoli”, ottenuto con l’impiego di tipi genetici suini autoctoni. (Tesi sperimentale sui salumi di Mugnano del Cardinale - AV) - Relatore: Prof. Donato Matassino. Dipartimento di Scienze Zootecniche e Ispezione degli Alimenti. Università di Napoli Federico-II. Facoltà di Agraria di Portici. De Rosa P., (inediti) - Appunti dai corsi di laurea in Scienze Agrarie e in Scienze Forestali ed Ambientali nonché del master in Gestione e Difesa del Territorio. De Rosa P., 2005 – L’assestamento forestale e l’ingegneria naturalistica nei suoli con coperture piroclastiche. Stampato a cura del Comune di Mugnano del Cardinale (Av). Eremita P., 1994 – Partenio natura (Flora e fauna appenninica). Comunità Montana Partenio -Poligrafica Ruggiero, Avellino. Fournier P., 1961 - Les quatre flores de la France. Ed. Lechevalier, Paris. Frauke W., 1985 - Vergleichende qualitätsbewertung von wild und kulturgemüse vortragreihe d. 38. Hochschultagung d. Londw. Fakultät Bonn, 5-6 March. Gulino F., 1984 - Verdure spontanee in primavera. Riv. di Frutticoltura, 2: 43-44. Häflinger E., Brun-Hool J., 1981 - Tavole delle malerbe. Ciba-Geigy, Basilea. Indrio F., 1981 - Piante selvatiche commestibili. Ed. Ottaviano, Milano. Lanzani Abbà A., 1960 - Il prato nel piatto. Mondadori, Verona. Mattirolo O., 1918 - Phytoalimurgia pedemontana. Vincenzo Bona, Torino. Mezzetti Bambacioni V., 1976. Botanica sistematica. Ed. Liguori. Napoli. Moraldo B., La Valva V., 1989 – La Flora dei Monti del Partenio (Comunità Montana Vallo di Lauro e Baianese). Ed. Istituto Anselmi, Marigliano (Na). Napolitano B., (inediti), Appunti dal corso di laurea in Scienze Biologiche. Napolitano B., De Rosa P., 2000 – La Città del Baianese. Artemis, Casalnuovo (Na). Negri G., 1960 - Nuovo Erbario figurato. Ed. Hoepli, Milano. Neri M., 1990 - Buone erbe dei campi. Ed. Mistral-Demetra, Sommacampagna (VR). Pignatti S., 1971 - Salviamo le conoscenze sulle piante utili della flora italiana. Inform. Bot. Ital., 3 (1): 40-41. Pignatti S., 1982 - Flora d’Italia. Edagricole, Bologna. Pilotto P., Franconeri P., 1993 - Buone erbe selvatiche. Demetra, Sommacampagna (VR). Press J., Sutton D., Tebbs B., 1983 - Guida pratica ai fiori spontanei in Italia. Selezione dal Rider’s Digest, Milano. Riccardo S., 1921 - Le piante spontanee eduli. Ed. Battiato, Catania. Ricciardi M., Giannattasio M., 1982 – Le principali famiglie delle tracheofite (guida alle esercitazioni di botanica) – Facoltà di Agraria di Portici (Na) – Università degli Studi di Napoli “Federico –II”. Sturm J., Sturm G.S., 1796 - Deutschlands Flora in Abbildungen (Tafeln). Targioni-Tozzetti G., 1767 - De alimenta urgentia: Alimurgia, ossia modo per rendere meno gravi le carestie, proposto per il sollievo dei popoli. Firenze. Tutin T.G., Heywood V.H., Burges N.A., Moore D.M., Valentine D.H., Walters S.M. and Webb D.A., 1964-1984 - Flora europea. University Press, Cambridge.

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“Il lavoro dello scrivano è il ristoro del lettore. Il primo toglie le forze del corpo, l’altro favorisce lo spirito. Pertanto, chiunque tu sia, non disprezzare ma stai attento al lavoro di colui che fatica per portarti profitto.” Colophon di Silos Beatus, XII secolo.

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Pellegrino De Rosa - Benedetta Napolitano - don Giovanni Picariello Altre pubblicazioni ed attività divulgative degli autori (1/2)

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2 0 0 5 La “metodica De Rosa”

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DVD multimediale per PC, con i files pdf delle varie pubblicazioni degli autori e, in aggiunta, la digitalizzazione della “Della nolana ecclesiastica storia” di p. Gianstefano Remondini (1747).

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Gli autori hanno svolto opera di divulgazione e formazione in diversi ambiti (il prof. De Rosa anche come relatore di Seminari e Master universitari), PON, POF, corsi ad alunni di liceo e di scuole tecniche, ad insegnanti e ad operatori del settore ambientale. Inoltre hanno realizzato studi (Benedetta Napolitano, anche per l’università) su vari argomenti ambientali ed etnografici. Da segnalare un lavoro sulle neviere (in cui, tra l’altro, si propone una inedita ipotesi sulla possibile funzione di alcuni nuraghi sardi), apparso anche sul “Corriere” dell’Irpinia, ed in vari articoli etnografici apparsi sullo stesso quotidiano e su vari periodici (tra cui “il Baianese”, diretto dal Prof. De Rosa). Per eventuali contatti: http://www.derosa-web.eu Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

Piante alimurgiche del Baianese e del Lauretano Altre pubblicazioni ed attività divulgative degli autori (2/2)

La “metodica De Rosa©” consiste in un nuovo modo di interpretare l’Ingegneria Naturalistica (I.N.) quando si debba intervenire con essa sui suoli di natura vulcanica (come quelli, piroclastici, dell’area circumvesuviana della Campania) o su tutti gli altri suoli che presentino, per varie cause, degli strati meccanicamente, chimicamente o biologicamente inerti1 . Il dott. agronomo Pellegrino De Rosa, avendo constatato che gli apparati radicali delle piante non attraversano gli strati di pomici 2 , ha fatto osservare come molte strutture realizzate secondo le tecniche di I.N. 1 = pomici; 2 = buca con terreno vegetale. sui suoli piroclastici, se non opportunamente adeguate alle specifiche caratteristiche agronomiche e geopedologiche di tali terreni, finiscano per rivelarsi completamente inefficaci e per costituire esse stesse la causa di futuri e più pericolosi ed estesi dissesti. Gli interventi di I.N. (detti anche interventi “in verde”) prevedono l’uso integrato di materiali naturali e di piante vive. Semplificando molto il discorso, avviene che, solitamente, vengono usati paletti di legno (in castagno, di conifere, ecc..) per realizzare varie strutture di contenimento (es. palificate Il contributo stabilizzante degli apparati radicali (*) semplici o doppie, graticciate, viminate, ecc..) unitamente a talee di salice e piantine di specie autoctone (alle quali, oltre la funzione meccanica è demandata anche quella di “rinaturalizzazione” del sito). La struttura in legno ha un effetto immediato di contenimento e di stabilizzazione ma, siccome con il tempo perderà le sue caratteristiche meccaniche (si seccherà oppure marcirà) è previsto che la sua funzione meccanica debba poi essere sostituita da quella delle piante, che nel frattempo saranno cresciute e che con il loro apparato radicale avranno raggiunto la profondità prevista dall’intervento (corrispondente, per lo meno, In bianco, gli strati di pomici. a quella alla quale sono stati infissi i paletti). Ebbene, ma cosa succede se i paletti sono stati ancorati a 1,2 metri di profondità su un terreno che presenta uno strato di pomici posto a 60 centimetri? Succede, semplicemente, che la struttura perde di efficacia, poiché le radici non potranno mai “approfondarsi” oltre lo strato pomiceo ed ancorarsi al suolo sottostante e, una volta che si sarà disfatta la struttura in legno, il sito diverrà pericolosamente instabile. Per questo motivo, in tali casi, il prof. De Rosa ha segnalato la necessità di effettuare in fase di piantumazione delle specie vegetali una trincea o una buca che oltrepassi lo strato inerte e che sia riempita di fertile terreno vegetale, costituendo in tal modo una via preferenziale per gli apparati radicali delle piante3, consentendo loro di ben ancorarsi al suolo più profondo e di svolgere in maniera ottimale la funzione biomeccanica loro richiesta4 . ©

Dalle osservazioni condotte è stata studiata una nuova struttura di I.N. denominata “agevolatore radicale”, per la quale è stata presentata domanda di brevetto industriale (AV2006A000003). «Ogni teoria dovrebbe essere la più semplice possibile, senza diventare semplicistica» (Albert Einstein). 1 La “metodica De Rosa” è stata presentata dall’autore alla fine dello stage da lui effettuato presso Scienze Forestali ed Ambientali (Direttore: Prof. Stefano Mazzoleni. Relatore: Prof. Antonio Saracino) e del Master in Gestione e Difesa del Territorio, da lui conseguito nel 2005 presso l’Università degli Studi di Napoli (Direttore: prof. Nunzio Romano) e al quale, negli anni successivi, ha tenuto delle lezioni sull’argomento, in forma di seminario, come “esperto esterno”. 2 Il fatto si osserva facilmente lungo i “tagli stradali” ed era già tradizionalmente noto ai corilicoltori di tutta l’area Baianese e del Vallo di Lauro. Siccome le pomici (presentanti elevata macroporosità ma ridottissima microporosità) non riescono a trattenere l’acqua, l’ambiente diventa inospitale per le radici (che all’aria si “autopotano” ), che preferiscono mantenersi nel suolo fertile ed umido più superficiale. 3 E’ noto che le piante vanno piantate a livello del colletto (zona del fusto appena sopra le radici) e che se piantate più in profondità muoiono. Secondo un detto popolare, infatti, “le radici devono poter sentire le campane”, ovvero devono trovarsi appena al di sotto del livello del terreno. 4 Il dott. De Rosa ha pertanto aggiunto ai 4 tipi di interazione suolo-pianta descritti da Tsukamoto e Kusakabe (1984) un quinto tipo, rappresentato dai suoli piroclastici (terza figura, sopra). 275 Italia. (*) Relazione tra stabilità dei versanti e gestione selvicolturale - L’ingegneria naturalistica in ambiente mediterraneo. Dream Tutti i diritti riservati - dott. Pellegrino DE ROSA

Cav. Prof. Pellegrino De Rosa

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Note sull’autore Pellegrino De Rosa è dottore agronomo, giornalista, saggista e scrittore. È laureato in Scienze e Tecnologie Agrarie, e ha un master in Gestione e difesa del territorio. Ha una formazione multidisciplinare: ha diretto alcune testate giornalistiche locali e si è interessato per anni dei settori di informatica, elettronica e di collaudo autoveicoli, introducendoli nella ditta di famiglia. È agronomo libero professionista e insegna materie scientifiche e tecniche presso le scuole medie superiori. Si interessa di progettazioni e di studi in ambito ambientale, botanico, faunistico, e di ingeneria naturalistica. Settore, quest’ultimo, nel quale ha presentato una particolare metodica adatta per i suoli piroclastici dell’area vesuviana. Ha pubblicato vari saggi etnografici e tecnici, tra cui un testo sulle erbe alimurgiche (erbe selvatiche commestibili) edito dalla Regione Campania. Si interessa di ipnologia di scuola ericksoniana, è istruttore elementare di scacchi, e si occupa di varie attività legate al mondo dei libri. È Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. Per contatti: Email: [email protected] Facebook: Pellegrino (Rino) De Rosa

Altre pubblicazioni dell’autore Piante alimurgiche (del Baianese e del Lauretano) Studio botanico ed etnografico su 74 specie di erbe selvatiche commestibili e sulla loro utilizzazione gastronomica. Stampato a cura della Regione Campania - Assessorato all’Agricoltura e alle Attività Produttive e con la prestigiosa prefazione del prof. Antonio Saracino di Scienze Forestali e Ambientali di Portici (Na).

La gestione dell’ambiente e del territorio e la “Metodica De Rosa” Studio ambientale sulle aree interne a rischio di dissesto idrogeologico. Presentazione di una innovativa metodica di Ingegneria Naturalistica da adottarsi nei suoli piroclastici e in quelli presentanti orizzonti pedologici inerti per cause di natura fisica, chimica o biologica.

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ROMANZO

Metamorfer. La gemma di Darwin. (romanzo) (Recensione di Emanuele Pettener, scrittore, saggista e docente di Lingua e Letteratura Italiana alla Florida Atlantic University di Boca Raton - Florida – U.S.A.) Golfo di Napoli. Aria fresca, mare un po’ mosso, atmosfera sensuale. Subito un personaggio fosco e affascinante, Raf, assetato di vendetta. Subito una splendida giornalista, dai capelli color del grano maturo, Eva Nabokova. E subito una serie di misteriosi interrogativi: chi o che cosa ha folgorato il cane terranova? chi ha sparato al delfino? chi ha fatto saltare in aria il campo nomadi di Ponticelli? e chi è la misteriosa creatura che Raf ha cercato di liberare portando con sé il chip della “gemma di Darwin”? Il romanzo di esordio di Pellegrino De Rosa non perde tempo: t’inchioda alla pagina fin dalle prime righe e ti tiene sulla corda fino all’ultimo e sorprendente capitolo, con il ritmo incalzante e avvincente dei migliori action-movie. E subito la storia principale si intreccia con tante altre storie: quella di un simpatico fotoreporter, donnaiolo incallito; quella di una sexy spia italo-americana; quella di una misteriosa e vecchia zingara napoletana; quella di un gruppo di “femminielli” e di un nostalgico boss della camorra, e di tanti e tanti altri personaggi, più o meno secondari, ma tutti descritti con cura e pathos.

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E, sullo sfondo, la magica Napoli, i suoi vicoli, i suoi odori, le sue leggende e i suoi coloratissimi personaggi. Soprattutto, viene presentata una inedita ipotesi evoluzionistica (il Plasticismo Evolutivo) che mette in relazione l’evoluzionismo con il mimetismo e con le scienze quantistiche. Ma la complessità dell’argomento non appesantisce affatto la narrazione che, anzi, scorre via fluida, leggera e allegra, come l’acqua trasparente di un ruscello di alta montagna. L’autore, infatti, è riuscito a combinare - con stile gradevole e con sovrana leggerezza - affreschi paesaggistici, battute napoletane, leggende popolari ed erotismo, con azione, mistero, scienza e filosofia. Finalmente un fanta-thriller italiano che, per contenuti, suspense e humor, è in grado di competere degnamente con i colossi stranieri dello stesso genere, e con una marcia in più: la scanzonata e fatalistica ironia napoletana.

(Recensione di Albino Albano, giornalista professionista, corrispondente del quotidiano “Corriere” dell’Irpinia). È un romanzo di ben 382 pagine ricche di azione, ironia, di colori e di paesaggi. Dalla lettura particolarmente agevole e invitante. Poi, attorno a pagina 150, la storia decolla definitivamente e il ritmo si fa incalzante, avvolgendo il lettore in un’atmosfera divertente e coinvolgente che richiama le atmosfere delle spy-story di Fleming. E allora si comprende che ci troviamo di fronte a un vero capolavoro. La descrizione di Napoli, viva e palpitante; la vicenda articolata ma fluida, come una sceneggiatura a montaggio alternato; i personaggi caratteristici e affascinanti, rendono questo romanzo già pronto per una trasposizione cinematografica. Mirabile è la descrizione del miglio d’oro, il tratto di costa vesuviana compreso tra Portici e Torre del Greco. Magica e sfavillante quella del Golfo di Napoli e dei suoi splendidi fondali. Evocativa e multisensoriale quella dei misteriosi sotterranei e dei brulicanti vicoli di Napoli, dei suoi suoni, dei suoi odori e della sua gente, così solare e positiva. Ma impressiona anche la descrizione, puntuale e dettagliata, dei luoghi archeologici, delle apparecchiature scientifiche e delle implicazioni naturalistiche. È un romanzo a più strati, piacevole e profondo allo stesso tempo. Lo consiglio a tutti. Il romanzo è disponibile in ebook e in cartaceo nei migliori bookstore on-line

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CONDIZIONI DI DISTRIBUZIONE E RECAPITI Il presente file può essere distribuito liberamente, purché a titolo gratuito, e le informazioni in esso riportate potranno essere liberamente utilizzate da chiunque, purché non a fini di lucro e usando la gentilezza di citare gli autori. Tutti i diritti di utilizzazione commerciale rimangono proprietà di: Cav. Prof. Pellegrino De Rosa - Viale Michelangelo, 5 - 83020 - Sirignano (Av) (Dottore agronomo - giornalista - scrittore) Chi avesse necessità di contattare gli autori può farlo anche tramite facebook (Rino De Rosa) o inviando una mail a [email protected] Future pubblicazioni o ristampe saranno disponibili su ibs.it

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