Enrico Castelnuovo - Vetrate Medievali (Storia Dell'Arte Einaudi)
April 3, 2017 | Author: Lupus Lupus | Category: N/A
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Vetrate medievali di Enrico Castelnuovo
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento: Enrico Castelnuovo, Vetrate medievali. Officine tecniche maestri, Einaudi, Torino 1994
Storia dell’arte Einaudi
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Indice
Premessa
8
I.
Vetrate e arte medievale La luce, il colore, la trasparenza Una «tecnica-pilota» Vetrate e tecniche suntuarie In età gotica, le vetrate nell’architettura... ... e nella decorazione parietale Saint-Denis, trionfo della vetrata
13 18 20 24 26 30 32
II.
Le tecniche Il trattato di Theophilus La fabbricazione del vetro Il mercato Le vetrerie I colori Vetri placcati Progettazione e fabbricazione La pittura del vetro I tre toni della grisaille Pittura per via di levare Vetrate monocrome Cottura della grisaille Il giallo d’argento «Come apporre gemme sul vetro dipinto» La messa in piombo L’armatura Deterioramento e restauro
41 42 44 46 47 49 51 53 54 56 58 60 61 62 63 64 65 66
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Indice
III.
Atelier e committenti Officine monastiche e urbane Il caso di Saint-Denis Maestri itineranti: Pierre d’Arras alla cattedrale di Losanna Botteghe e maestri La cappella di Santo Stefano a Westminster Progetto ed esecuzione Il caso italiano Maestri vetrari e pittori Costi e manutenzione I committenti Religiosi, guerrieri e artigiani a Chartres
74 75 77 78 79 81 82 83 86 90 91 95
IV.
Problemi iconografici Saint-Denis I soggetti Immagini politiche Vetrate tipologiche L’albero di Jesse e il trono di Salomone Figurazioni leggendarie Programmi e programmatori La rosa
109 109 114 117 119 121 124 126 128
V.
Problemi formali I colori I precetti di Antonio da Pisa Vetrate leggendarie e modi della narrazione Gli sfondi e le scene Mutamenti di impaginazione
134 135 137 138 141 142
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Indice
VI.
VII.
Fortuna delle vetrate Immagini Il cinquecento Iconoclastia Ricerca della luce e distruzione della vetrata Pierre Le Vieil e il suo trattato Riscoperte e reimpieghi Commercio e collezionismo L’ottocento Indagini storiche, restauri, vetrate archeologiche Fin de siècle
148 156 159 161 162 164 166 167 170
Itinerario
191
Le origini Le fonti letterarie Le fonti monumentali Evoluzione e mutazioni La vetrata orientale
193 194 198 202 202
VIII.Le
vetrate del XII secolo Saint-Denis Chartres La Francia occidentale Il centro e il sud della Francia L’est della Francia L’Inghilterra Vetrate romaniche in Germania I profeti di Augusta
173 179
209 211 216 216 221 222 225 227 227
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Indice
IX.
L’opera di Gherlacus La cattedrale di Strasburgo L’Alsazia e la Germania meridionale Esempi romanici in Germania Weitensfeld e Flums
228 230 232 234 235
Il tempo delle cattedrali Dall’unico alla serie Disegno e impaginazione Forme della rappresentazione Lo stile 12oo La Francia La Piccardia e il nord Chartres Centri francesi nel duecento: Bourges L’ovest, la Normandia e il centro Borgogna e Champagne Parigi La Sainte-Chapelle Dopo la metà del secolo L’Inghilterra La Germania Strasburgo Friburgo Germania centrale e orientale Marburg Naumburg e lo Zackenstil L’Austria Vetrate ad Assisi La Scandinavia Tra occidente e oriente
241 241 243 245 246 248 248 251 254 255 257 260 261 264 265 268 271 273 274 275 276 279 280 281 282
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Indice
X.
Espressionismo gotico La Francia Vetrate inglesi Il mondo tedesco Strasburgo La Crocifissione di Mutzig Wimpfen Costanza La cattedrale di Friburgo Esslingen Colonia L’Austria Esperienze italiane
293 295 301 302 303 307 307 308 310 312 315 316 317
XI.
La grande svolta L’Italia La Francia Strasburgo e la Germania Da Königsfelden a Strassengel L’Inghilterra
328 332 335 338 342 343
Nota bibliografica
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Premessa
Le ultime pagine di questo libro venivano scritte nei giorni in cui era viva la discussione sulle vetrate che Pierre Soulages aveva creato per la veneranda chiesa di Sainte-Foy di Conques, uno dei grandi monumenti del romanico. Si trattava di opere di grande sottigliezza, ma che tanto accattivavano e dirigevano lo sguardo nel loro inseguirsi di linee e di tracciati da risultare addirittura un poco svianti sul piano della percezione, in quanto il modo di leggere l’architettura, lo spazio, l’involucro dell’edificio poteva venirne modificato. Minori problemi avevano sollevato le vetrate della nuova stazione di Disneyland che «Le Monde» riproduceva a colori. Queste non avevano pretese formali, ma piuttosto illustrative. Si limitavano a evocare castelli fatati, erano là come testimonianze luminose di una tecnica desueta e carica di implicazioni, dovevano precipitare i visitatori in un passato fiabesco, un po’ come le innumeri vetrate di cui è disseminata la cattedrale di Washington e che riconducono tutte a un glorioso passato. L’ottocento ha prodotto vetrate in numero tale da gareggiare, quantitativamente, con il xiii secolo, ha ripopolato le nostre chiese di vetrate, strumento principe di religiosità, di spiritualità, utilizzabili per tutti gli usi, tranne forse che per la cronaca: «la monarchia in redingote non si addice alle vetrate», irrideva un contempo-
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raneo scorgendo l’enbonpoint e gli abiti borghesi di Luigi Filippo farsi largo dall’alto di una vetrata di Saint-Denis. E il nostro secolo ha continuato con la «Renaissance de l’art sacré» e con la scoperta delle potenzialità astraenti delle vetrate, luogo di colori puri, smaterializzati. È di questi giorni una mostra dedicata alle vetrate di Joseph Albers a riprova di una fortuna non banale anche nelle piú sofisticate officine di arte contemporanea. Una tecnica che due secoli fa sembrava smarrita («e se qualcuno la ritrovasse cosa ce ne faremmo?» veniva risposto dall’Académie des Beaux-Arts a un appassionato zelatore che voleva resuscitarla) è dunque in pieno rigoglio, magari con qualche malinteso e qualche equivoco. Le vetrate sono ancora tra noi. Questo libro, tuttavia, si occupa del passato, di un passato in cui le vetrate furono una realtà estremamente viva e necessaria alla vita religiosa, una delle massime tecniche artistiche, e quella piú capace di comunicare. Ogni libro è in qualche modo un’autobiografia. Per quel che mi riguarda dirò solo che, come qualche volta succede, tutto è cominciato in anni molto lontani, con una rivelazione. A me è venuta da una bellissima mostra che nel 1953 si tenne a Parigi al Musée des Arts Décoratifs, con il titolo Les Vitraux de France du XIe au XVIe siècle. Vi erano esposte vetrate intere, grandi personaggi, scene singole che erano state per la massima parte smontate all’inizio della guerra e che si apprestavano a ritornare nella loro collocazione d’origine. La scelta era stata molto rigorosa. Le opere esposte erano in buone condizioni di conservazione, esenti da quelle pesanti integrazioni che finiscono per stingere sulle parti originali, talora con i piombi di origine. Soprattutto si potevano vedere da vicino, si poteva seguire il modo di stendere la pittura a grisaille, il modo di toglierla via per far
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riemergere il colore del vetro, il modo di accostare superfici cromatiche di diverso colore. Si potevano distinguere mani diverse, si poteva seguire la storia della pittura su vetro dalle origini fino al cinquecento, si rivelava insomma un aspetto in fondo non ben conosciuto, anche se tanto esaltato, dell’arte francese. Chi avrebbe per esempio sospettato che le vetrate del cinquecento fossero tanto più belle delle tele della scuola di Fontainebleau? Da allora l’interesse, ma anche l’ammirazione per le vetrate, non mi ha mai lasciato. In questo tempo non breve ho avuto modo di scambiare qualche idea su quello che volevo fare o che stavo facendo con alcuni di coloro che hanno rinnovato gli studi sulle vetrate e che avevano reso possibile l’esposizione parigina, in particolare con Jean Lafond e con Louis Grodecki. Averli conosciuti e frequentati è stato un privilegio, un arricchimento e una gioia. Jean Lafond era un personaggio delizioso, un agiato e tranquillo signore normanno di una certa età animato da un entusiasmo e un ardore incontenibili per le vetrate. Mi ricordo il suo appartamento borghese nei beaux quartiers, mi pare nel xvi arrondissement, e lui che si affannava a cercare schede, estratti, foto e materiali in quelle che mi sembravano essere vecchie scatole da scarpe e che contenevano i suoi preziosi schedari. Sapeva tutto delle vetrate, aveva visto tutte le vetrate possibili, e per me che cercavo tracce della penetrazione dei modi della pittura italiana del trecento in Francia (stavo lavorando a quella che sarebbe stata la mia tesi di perfezionamento su Matteo Giovannetti e i pittori italiani in Avignone) tirava fuori vecchie e nuove fotografie di vetrate di Auxerre, di Rouen e di Evreux che mostravano mensole ed elementi architettonici tridimensionali che risentivano chiaramente della lezione giottesca. Seppi poi che per molti anni aveva diretto un giornale di Rouen succe-
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dendo a suo padre, ma penso che l’unica cosa che gli stesse veramente a cuore fossero le vetrate. Se Jean Lafond era una sorta di figura paterna per chi, apprendista inesperto, si avvicinava alle vetrate, Louis Grodecki, straordinariamente brillante, spiritoso, intelligentissimo, di una ventina d’anni più giovane, era tutto un altro tipo. Era stato allievo di Focillon e fu proprio attraverso il ricordo di Focillon tenuto vivo dai suoi antichi allievi, in un tempo in cui le sorti della storia dell’arte in Sorbona non sembravano né magnifiche né progressive, che lo incontrai per la prima volta nel salotto di Jurgis Baltrusaitis dalle parti della Porte d’Orleans, dove un gruppo di anciens élèves si ritrovava regolarmente e dove ero stato ammesso grazie ad André Chastel. Durante la guerra era stato negli Stati Uniti con Focillon; in Francia in quel momento aveva, mi sembra di ricordare, qualche difficoltà di inserimento nella trafila accademica, pur essendo uno dei piú brillanti medievisti del suo tempo, forse a causa di un temperamento che di accademico non aveva nulla e che lo tenne lontano dal prodursi in una di quelle thèses monumentali che aprono la via alla carriera universitaria. A quell’epoca aveva già scritto una bella sintesi sugli avori medievali e alcuni saggi fondamentali sulla storia delle vetrate. Stranamente il primo posto ufficiale che ebbe fu quello di conservatore del Musée des Plans en Relief, una splendida collezione di maquettes e di modelli di fortezze, città di frontiera e porti della Francia, che ai tempi di Luigi XIV era disposta nella Grande Galerie del Louvre e che allora come oggi occupava un piano poco frequentato del Musée de l’Armée agli Invalides. Mi ricordo di esser stato accompagnato da lui per quelle sale deserte piene di meraviglie. Piú tardi sarebbe divenuto professore a Strasburgo e infine alla Sorbona e avrebbe stimolato generazioni di medievisti e di studiosi di vetrate sulle due rive dell’Oceano.
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Vorrei ricordare anche Catherine Brisac che ci ha lasciato troppo presto, e, naturalmente, André Chastel, che mi ha spinto a scrivere di questo, e Roberto Longhi, che in anni lontani ha pubblicato su «Paragone» qualche mio saggio e intervento su questi temi, a cominciare dalla recensione di quella mostra fatale. Per quale ragione poi questo libro, o meglio l’idea di questo libro e singole parti e capitoli di esso, mi abbiano accompagnato per tanto tempo senza prendere mai una forma definitiva non saprei dire. Mia moglie e mio figlio hanno sopportato con pazienza e spirito solidale la tessitura sempre interrotta, disfatta e ripresa di questa tela di Penelope; per ciò sono loro molto grato. Ringrazio Paolo Fossati per avermi dato una mano a uscire dalle more, e Valentina Castellani, Patrizia Guerra e Maria Perosino per avermi incalzato e aiutato in ogni modo. Per stimoli, segnalazioni, suggerimenti, aiuti bibliografici e fotografici ringrazio Jérôme Baschet, Mariolina Bertini, Rüdiger Becksmann, Olivier Bonfait, Marco Collareta, Claudine Lautier, Costanza Segre Montel, Jacques Thuillier. Per finire vorrei dire la mia riconoscenza agli studenti di Losanna, di Torino e di Pisa cui in piú di un’occasione ho parlato di questi temi: le loro domande e le loro obbiezioni mi sono state molto utili.
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Capitolo primo Vetrate e arte medievale
Testimonianze radiose, fatte di luce e di colori smaterializzati, le vetrate, per secoli le manifestazioni più ricche di fascino, più visibili, piú ammirate della pittura, strumenti tra i piú efficaci della comunicazione per immagini, hanno conservato un prestigio altissimo, indiscusso, vagamente misterioso. Un loro privilegio peculiare è quello di essere pittura luminosa, di valersi delle innumerevoli possibilità di un elemento continuamente variabile per poter assumere aspetti diversissimi a seconda delle ore, dei giorni, delle stagioni. L’impressione profonda che suscitano è dovuta al richiamo che la luce continua a esercitare su di noi, al fatto che la materia di cui sono fatte ne è traversata ma, a sua volta, la modifica e, a seconda di quanta ne riceve, cambia d’aspetto e di intensità. Grazie alla luce il mosaico inerte fatto di vetri e di piombi diventa splendente, simile alle gemme, e muta di colorazione nel volgere di brevissimo tempo. Lo avvertirà chi entri verso il tramonto in una grande chiesa gotica del nord. In alto, contro le pareti scure di cui non si distinguono piú le pietre, contro le finestre, i cui limiti sono ormai invisibili, una teoria scandita e ritmata di profeti, di re, di apostoli rutilanti e translucidi sembra sospesa nel cielo, illuminata e splendente per l’ultima luce, mentre l’ombra scende e si infittisce sulla navata e i colori si spengono nelle navi minori e nelle cap-
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pelle. Cosí quando un grigiore opprimente grava sulla città, le nuvole si accavallano nel cielo e le strade sono nere e lucide di pioggia, all’interno della chiesa una luce lattiginosa, ma sicura, convogliata ed esaltata dal filtro trasparente e colorato dei vetri, spiove dalle finestre alte, come nella mitica chiesa di Combray le cui vetrate non eran mai cosí cangianti come nei giorni che il sole si mostrava appena, di modo che, se fuori c’era un tempo grigio si poteva star certi che sarebbe stato bello in chiesa1.
Marcel Proust evoca questo richiamo e questo fascino quando ricorda come nella sua mente di bambino la chiesa del villaggio dove passava parte delle sue vacanze si estendesse in quattro dimensioni, come di campata in campata, di cappella in cappella, la navata dalle pareti umide, dalla volta scura e rocciosa dove ci si inoltrava come in una valle visitata dalle fate, sembrasse traversare e vincere non solo le distanze di qualche metro, ma intere epoche storiche. Tra gli strumenti che facevano della chiesa di Combray una sorta di macchina del tempo erano appunto le vetrate, tapis eblouissant et doré de myosotis en verre2, che il raggio del sole faceva fiorire in una primavera storica che trasportava chi le guardasse fino ai tempi di san Luigi e dei suoi successori. Una vetrata della chiesa in cui dominava l’azzurro, divisa in un centinaio di compartimenti come un gran mazzo di carte, cambiava aspetto tutto il tempo, volta a volta spenta e riaccesa. Ora aveva il brillare della coda di un pavone, ora tremava e ondulava in una pioggia fantastica e fiammeggiante che gocciolava dall’alto delle volte, ora le sue piccole losanghe di vetro prendevano le trasparenze profonde, l’infrangibile durezza degli zaffiri montati su qualche immenso pettorale dietro il quale si avvertiva, piú ancora che tutte queste ricchezze, il sorriso momentaneo del sole.
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Colori e luce, trasparenze e riflessi, barbagli e scintillii; il fascino delle vetrate ha dietro di sé una lunga storia. Ma fino a che punto le vetrate medievali esistono ancora? Possiamo cioè considerarle degli originali, pur tenendo conto del loro stato di conservazione piú o meno buono, del loro maggiore o minore deterioramento, o dobbiamo rassegnarci al fatto che la sostituzione dei vetri e dei piombi, che gli spostamenti da una finestra all’altra, i cambiamenti di collocazione, ci hanno tramandato soltanto delle vaghe ombre, delle repliche, delle ricostruzioni? Non sono domande da poco: diversamente da quanto avviene in un dipinto su tavola, su tela, su muro, su pergamena, l’intervento sulle vetrate comporta non una sovrapposizione, sotto la quale sarà spesso possibile recuperare una parte almeno dell’originale, ma una radicale sostituzione. È stato in fondo questo dubbio piú o meno inespresso, sono state le grandi difficoltà che si opponevano all’esame e al confronto diretto delle opere oltre alle consuete abitudini, ai pregiudizi non mai morti sulla gerarchia delle tecniche artistiche, agli interrogativi sull’autografia minacciata dalle trasposizioni subite nel processo che dal progetto portava alla realizzazione, che hanno fatto delle vetrate un soggetto un po’ particolare. Per molto tempo le studiarono e ne fecero la storia coloro che ne avevano in qualche modo pratica diretta, come Pierre Le Vieil, testimone, sul finire del settecento, della piú profonda crisi traversata da questa tecnica, e come coloro che furono coinvolti di persona nelle battaglie ottocentesche per il rinnovamento delle vetrate3 e dell’arte cristiana: da Eustache Hyacinthe Langlois, che per primo indagò le vetrate di Rouen, a Ferdinand de Lasteyrie, da Charles Winston a Nathaniel Westlake, da Adolphe-Napoléon Didron4 a Louis Ottin5, a Olivier Merson6, da Lewis Day a Lucien Bégule che studiò le vetrate di Lione7, da Fritz Geiges (1853-1935), autore
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di radicali restauri nonché di importanti studi sulle vetrate di Friburgo8, a Heinrich Oidtmann9 (18611912), figlio del fondatore di una celebre impresa di vetrate, le Linnicher Werkstätten, a Joseph Ludwig Fischer10 e a tanti e tanti altri i cui nomi troveremo qua e là in questo libro11. Si indagarono particolarmente i problemi tecnici, si impostarono le prime grandi indagini iconografiche, si riunirono i frammenti documentari sparsi nelle antiche cronache, si tentò in tutta Europa, e in condizioni fortunose, di individuare le opere piú importanti, di stabilire i primi inventari del patrimonio vitreo, di confrontare opere e maestri, di ricalcare, copiare, disegnare, incidere i monumenti. Che ciò venisse fatto per preparare le colossali campagne di restauro, per proporre temi e soluzioni alle grandi imprese legate alla costruzione di nuove chiese e all’arricchimento delle antiche12, non fece che aumentare l’impegno e la partecipazione degli autori, anche se poté dare una particolare angolazione alle ricerche e ai risultati. Uno studio storicamente attento e filologicamente agguerrito delle vetrate condotto con i metodi rigorosi che venivano utilizzati nella storia della pittura tardò ad affermarsi, ed Emile Mâle nel 19o6 denunciava le terribili difficoltà sul piano della documentazione, che lo rendevano pressoché impraticabile, auspicando la creazione di un corpus, un’idea che trovò realizzazione circa mezzo secolo dopo: Occorrerebbe avere continuamente sotto gli occhi, in un corpus ben fatto, tutte le vetrate di Francia, ma questo corpus non esiste. Speriamo che un giorno o l’altro la fotografia a colori renda piú facile l’opera dello storico13.
In Germania, tuttavia, si cominciarono a studiare le vetrate con i metodi e i criteri con cui veniva affrontata la storia della pittura14, e alcune grandi personalità di
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storici dell’arte, come Paul Frankl (1878-1962), intervennero in questo campo con buoni studi. Dalla fine dell’ultima guerra mondiale, in seguito allo smontaggio e alla ricollocazione di gran parte del vastissimo patrimonio vetrario europeo che consentirono ricognizioni ravvicinate, alla nascita, nel 1952, del Corpus Vitrearum Medii Aevi15 che di questo patrimonio si è proposto la pubblicazione integrale con una precisa documentazione sullo stato delle opere, grazie all’attività di alcuni studiosi, autentici padri-fondatori dello studio moderno delle vetrate quali Jean Lafond (1888-1975)16, Hans Wentzel (1913-75)17, Louis Grodecki (1910-82)18, Eva Frodl-Kraft, questi studi conobbero una grande ripresa. Alcuni avvenimenti furono di fondamentale importanza per questa vicenda negli anni cinquanta, in particolare una mostra e due pubblicazioni. La mostra fu quella, memorabile, tenutasi al Musée des arts décoratifs di Parigi nel 195319; i libri furono i Meisterwerke der Glasmalerei di Hans Wenuel20 e il volume collettivo Le Vitrail Français che molto dovette all’impulso di André Chastel21. Grazie soprattutto all’opera e alla ricerca di Lafond, Wentzel e Grodecki e agli studi da loro suscitati, da quelli di Rüdiger Becksmann a quelli di Catherine Brisac (1935-91)22, di Françoise Perrot, della attivissima cellule vitrail dell’Inventaire général du Patrimoine francese23 e di studiosi americani come Margaret Harrison Caviness, Meredith Parsons Lillich, Virginia Chieffo Raguin, la situazione è radicalmente mutata. Lo studio e la conoscenza delle vetrate ha enormemente progredito, e oggi siamo in grado di conoscere e valutare meglio l’estensione di questo grande patrimonio dell’arte europea, il suo stato di conservazione, la sua autenticità, i suoi caratteri, la sua storia, la sua importanza, la sua singolarità.
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La luce, il colore, la trasparenza. La sua singolarità, appunto. Facciamo un passo indietro di qualche secolo e troveremo chi sulla vetrata riflette con queste parole: Ma poiché questo tipo di pittura non può essere translucido, mi sono da buon ricercatore affannato a scoprire quelle tecniche ingegnose grazie alle quali l’interno di un edificio possa essere abbellito con gran varietà di colori senza perciò impedire ai raggi e alla luce del sole di penetrarvi. E dato che io stesso mi sono applicato a questo compito sono arrivato a comprendere la natura del vetro e ho capito come sia possibile realizzare l’oggetto della mia ricerca solo attraverso un corretto uso del vetro e delle sue varietà24.
Si apre con questa frase il piú antico testo dedicato alle vetrate, parte di un trattato sulle tecniche artistiche, scritto probabilmente agli inizi del xiii secolo in un monastero tedesco da un sacerdote che si presenta al lettore sotto lo pseudonimo di Theophilus25. Con quale meraviglia e ammirazione si dovevano guardare le vetrate nel medioevo, quanto alto e irraggiungibile doveva apparire il prestigio di questa tecnica a un chierico cui grandi maestri, da Ugo di San Vittore a Tommaso d’Aquino, erano andati ripetendo che la luce è uno dei principali attributi del bello e che aveva potuto leggere sui testi dei massimi rappresentanti della scolastica, da san Bonaventura ad Alberto Magno, che essa era l’attributo stesso di Dio. L’amore della luce si accompagna al timore delle tenebre, contro cui si hanno nel medioevo poche difese; frequentemente nei testi letterari le nozioni di bello, di chiaro e di nobile26 sono strettamente legate, se non addirittura sinonime. Le vetrate significano al tempo stesso luce e colore; costrui-
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scono un’architettura colorata e luminosa, hanno dimensione monumentale e conservano nel tempo stesso il carattere prezioso delle gemme. I Lapidaria medievali attribuivano alle gemme qualità insigni e straordinarie, e quell’arte maggiore e veramente pilota che fu nel medioevo l’oreficeria impiegò profusamente pietre dai colori scintillanti, vibranti, incastonate nei metalli piú preziosi. A ogni pietra erano attribuite qualità peculiari, particolari significati; nel De lapidibus di Marbodo di Rennes, per esempio, ogni pietra è impregnata di virtù trasmesse dal potere divino. Nel xii secolo Suger, abate di Saint-Denis – la grande abbazia prossima a Parigi intimamente legata alla storia delle dinastie regnanti sulla Francia – e committente di opere d’arte tra i piú attivi, creativi e impegnati che il medioevo abbia conosciuto, racconta come una volta che contemplava estaticamente la preziosissima suppellettile del tesoro dell’abbazia, che in gran parte aveva riunito o commissionato egli stesso, gli salissero alle labbra le parole di Ezechiele: la tua copertura era fatta da tutte le pietre preziose: il sardio, il topazio, il diaspro, la crisolite, l’onice, il berillo, il rubino, lo smeraldo27.
Nella Bibbia queste parole erano riferite al pettorale di Aronne, ognuna delle cui pietre simboleggiava una tribú di Israele. Anche per Suger ogni pietra degli oggetti del suo tesoro aveva, «per chi ne intendesse le proprietà», un significato, ed egli sottolinea come nessuna delle pietre citate dal testo biblico – tranne il rubino – mancasse, e che tutte anzi fossero in gran copia. L’effetto di questa contemplazione era duplice, si manifestava a due livelli: poiché ogni pietra era portatrice di un significato, la loro varietà e profusione costituiva un messaggio per coloro che sapevano decifrarlo;
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d’altra parte la semplice contemplazione dei colori splendenti aveva per effetto di innalzare lo spirito dalle cose materiali alle immateriali e di trasportare la mente da un mondo inferiore a uno superiore, in una regione dell’universo che non apparteneva interamente né alla bassa terra né al puro cielo28. Questo celebre passo fa comprendere la fascinazione e il potere pressoché ipnotico esercitati dalle gemme su un uomo del medioevo. Ora, tra lo scintillio cromatico delle gemme e il fulgore colorato delle vetrate c’era un rapporto diretto che non poteva sfuggire allo spettatore, e uno stretto nesso correva tra i procedimenti applicati per ottenere vetri colorati e quelli messi in opera per la fabbricazione delle gemme artificiali. La particolare lavorazione del vetro rosso doublé a microstrati alternati chiari e scuri produce effetti analoghi a quelli di certe gemme lavorate a cabochon con il loro brillare variabile e imprevedibile, e spesso nei trattati tecnici medievali la fabbricazione del vetro per le vetrate e quella delle gemme artificiali vengono trattate in parallelo29. In secoli in cui i richiami delle dottrine estetiche e metafisiche nelle quali la luce ha tanta importanza si esercitarono in modo cosí generale e pressante, lo sviluppo delle vetrate e quello delle arti suntuarie sono fenomeni convergenti che derivano da motivazioni analoghe.
Una «tecnica-pilota». L’interesse che Theophilus manifesta per la vetrata, la sua tecnica, le sue funzioni e i suoi risultati fanno intravedere il ruolo primario che le verrà attribuito nella decorazione degli edifici religiosi gotici, vale a dire il ruolo di vera e propria tecnica-pilota della pittura monumentale. Secondo i tempi, secondo le attese dei pubblici, dei
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committenti, degli artisti, tecniche artistiche diverse hanno potuto svolgere volta per volta un ruolo privilegiato: sono quelle che potremmo chiamare le tecniche-guida, quelle i cui prodotti furono particolarmente apprezzati e ricercati, quelle in cui si manifestano in un certo momento le innovazioni piú importanti che maggiormente rispondono alle attese del pubblico, quelle che piú compiutamente di altre sembrano esprimere le grandi tendenze, le scelte, gli interessi di un momento. Cosí ne scrive Henri Focillon nella Vita delle forme: ogni stile nella storia è sotto l’impero di una tecnica che prende il sopravvento sulle altre e dà a codesto stile la sua tonalità30.
Le preferenze che, secondo i luoghi e i tempi, si sono manifestate nel campo della pittura per il mosaico, l’affresco, la vetrata o l’arazzo possono essere considerate volta per volta quali spie significative di certe situazioni. Un’interpretazione veramente esauriente del significato intrinseco o contenuto potrebbe addirittura scoprire che i procedimenti tecnici caratteristici di un certo paese, periodo o artista [...] sono sintomi rivelatori dello stesso atteggiamento di fondo che si riscontra in tutte le altre qualità specifiche del suo stile,
avvertiva Erwin Panofsky31. Certe scelte, certe propensioni, sembrano rivelare i caratteri fondamentali di un’epoca, di una cultura. In questo senso il fulmineo trionfo della vetrata appare come uno di quegli eventi per eccellenza illuminanti. Differenti epoche e culture hanno avuto infatti concezioni diverse e molto contrastanti della decorazione da quando nelle prime basiliche cristiane si venne attraverso di essa a privilegiare l’interno piú che l’esterno
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degli edifici di culto. La soluzione che volta per volta venne adottata fu scelta in funzione di diversi fattori, dai modi di percepire lo spazio prevalenti a una certa epoca alle preferenze cromatiche, dalle particolarità delle diverse tradizioni alle esigenze climatiche, alla volontà di distinzione. Analogamente a quanto era avvenuto per il mosaico, per la pittura parietale, per le vetrate, l’arte degli anni attorno al 1400, quella che viene chiamata «del gotico internazionale», ha, per esempio, privilegiato particolarmente l’arazzo. Questo equivalente mobile dell’affresco si prestava a decorare rapidamente ambienti diversi, dalla sala di un castello all’interno di una chiesa al padiglione di un accampamento, rispondendo quindi compiutamente alle esigenze di mobilità della classe egemone dell’epoca e, nello stesso tempo, a quelle di lusso e di distinzione. D’altra parte, è proprio il suo carattere «esteticamente ibrido [...] che partecipa al tempo stesso alla decorazione di superficie e all’illusione di paesaggio»32 e che interpreta l’ambiguo modo di rappresentare lo spazio proprio al gotico internazionale a conferirgli il particolare valore che esso prese a quel momento. Ogni scelta investí direttamente la forma della costruzione e reciprocamente, in quanto la soluzione architettonica condizionò il tipo di decorazione venendone a sua volta influenzata. La decorazione infatti non è qualcosa di aggiunto alle strutture che serve ad abbellirle, è parte integrante delle stesse strutture e può intervenire a modificarle. La scelta di una decorazione parietale concentra l’attenzione sulla superficie delle mura, mentre quella di una decorazione vitrea conferisce particolare importanza alle finestre. Parete e finestra sono elementi architettonici coesistenti ma di segno opposto: la parete tende a imporre l’opacità e la materialità delle sue superfici su cui si sviluppa la decorazione pittorica e a limitare lo sviluppo delle finestre, le finestre tendono a
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vanificare l’opacità della parete per sostituire a essa uno schermo di vetri colorati variegato e luminoso su cui si stende una pittura monocroma. Da semplice apertura, rettangolare, cuspidata o circolare, nel tessuto continuo della parete, la finestra giunge ad acquisire una importanza crescente e diviene una sorta di elemento autosufficiente e autonomo rispetto alla parete. Per restituire i modi con cui vennero guardati i prodotti di questa tecnica ai tempi dei suoi massimi trionfi, le immagini che se ne fecero i contemporanei, occorrerà prendere in esame, accanto alle testimonianze prime offerte dalle vetrate superstiti, anche altri documenti: trattati tecnici, scritti liturgici, cronache conventuali, tutto quanto possa aiutare a conoscere dove, come e perché si sviluppò la vetrata medievale, in qual modo venne vista e apprezzata dai contemporanei. La storia del pensiero religioso e liturgico come quelle delle mentalità, degli atteggiamenti collettivi, del gusto, della sensibilità, delle idee estetiche possono essere di aiuto in tale ricerca. Accanto a queste, la storia dell’architettura e del costruire potrà fornire informazioni sulle possibilità di sviluppo delle vetrate negli edifici, come farà la storia della tecnologia per quanto riguarda la produzione e la lavorazione dei materiali di cui esse erano fatte; la storia economica potrà indicare quali siano stati il peso, la portata e le incidenze di un’attività che, per volume di produzione, ebbe aspetti quasi protoindustriali; la storia dell’arte potrà dire fino a che punto i problemi formali, compositivi, iconografici affrontati dai creatori di vetrate si siano situati in rapporto a quelli abbordati dagli artisti a loro contemporanei operosi in altre tecniche. Di fatto, se la storia delle vetrate medievali presenta tutta una serie di interferenze con le storie delle idee, della teologia, delle mentalità, con quelle della tecnologia o dell’economia, essa deve essere integrata, come già
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ha osservato Paul Frankl33, nella piú vasta storia della pittura medievale. Per certi paesi e per certe epoche ne rappresenta anzi il campo piú ricco e importante. Nel xii secolo il Maestro dell’Ascensione di Le Mans o Gherlacus, all’inizio del xiii il Maestro delle Reliquie di Santo Stefano di Bourges o il Maestro di Saint-Eustache di Chartres, più tardi il Maestro del Martirio di san Protasio a Le Mans (1255 circa) o Lampertus a Esslingen (128o circa), sono tra i grandi pittori del medioevo, e tuttavia il fior fiore delle vetrate medievali venne per lo piú esposto nei musei di arte applicata, nelle raccolte d’arte decorativa e industriale piuttosto che nelle grandi gallerie nazionali, perché la loro produzione implica collaborazioni, passaggi, traduzioni da una tecnica all’altra, dal disegno del progetto alla realizzazione su vetro, operazioni che complicano le cose per chi, come spesso gli storici dell’arte, sia tradizionalmente portato a esaltare l’autografia. In qualche modo, questa tecnica in cui agli inizi del xii secolo il presbyter Theophilus vedeva una delle piú alte espressioni dell’arte a lui contemporanea, è restata a lungo isolata, confinata, reclusa nella sua specificità.
Vetrate e tecniche suntuarie. Una tecnica che si apparenta strettamente a quella delle vetrate, e che ebbe con questa un fecondo e frequente interscambio, è quella dello smalto. Già materialmente vi sono molti punti in comune. Nello smalto champlevé una pasta vitrea è versata entro gli incavi scavati in una lastra di metallo. Attorno a questa depressione la linea sottile di metallo che la delimita appare in superficie svolgendo un ruolo analogo a quello del piombo in una vetrata, venendo cosí a racchiudere e incorniciare un’area cromatica. Lo smalto in generale non è
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translucido, ma i suoi toni puri e profondi ricordano quelli di certi vetri. Anche nel successo di questa tecnica avvertiamo una preferenza per la pittura dalla materia dura e preziosa, la stessa preferenza che spingerà Suger, contro ogni tradizione locale, a voler ornato con un mosaico il timpano di una delle porte di Saint-Denis. Alla fine del xii secolo è in smalto che viene creato il massimo capolavoro pittorico del tempo, l’Ambone di Klosterneuburg di Nicolas de Verdun. Per la sua stessa natura lo smalto ha proporzioni ridotte, è una microtecnica piuttosto che una tecnica monumentale. Da esso la vetrata si distingue per la scala oltre che per il carattere; non si tratta di un oggetto che debba essere visto da vicino come lo smalto, ma da lontano. Eppure questo aspetto di microtecnica preziosa è ripreso e imitato in certe vetrate tedesche del xii secolo caratterizzate dalle piccole dimensioni e dalla esuberanza decorativa: rosette, perle, meandri, trifogli, palmette, motivi geometrici e floreali di vari tipi ornavano per esempio le scene – già a Berlino e distrutte durante l’ultima guerra – o i frammenti da Alpirsbach con Sansone e le porte di Gaza, oggi a Stoccarda, o le vetrate di Gherlacus create per l’abbazia premostratense di Arnstein sulla Lahn, oggi a Münster in Westfalia. In Francia, la frammentaria vetrata della Crocifissione della cattedrale di Châlons-sur-Marne mostra precisi rapporti – che sono stati messi in luce – con l’Altare di Stavelot di Godefroy de Huy. Una cinquantina di anni dopo, e siamo già verso il 1200-10, una piccola stupenda vetrata tipologica a Orbais, che reca la Crocifissione ed episodi dell’Antico Testamento che a essa venivano associati, sembra addirittura la trasposizione in vetro di una croce di smalto. Durante l’intero xii secolo la vetrata ha conservato rapporti molto stretti con le tecniche suntuarie, con queste ha partecipato a quell’arte dei tesori ecclesiasti-
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ci34 che conobbe il suo grande splendore tra l’xi e il xii secolo. Ai suoi inizi essa aveva profittato, al pari di altre tecniche, di quella particolare sensibilità che si era andata sviluppando nei confronti delle materie preziose e luminose; la sua situazione non ne venne, tuttavia, privilegiata: per certi aspetti, anzi, fu tributaria di soluzioni elaborate in altri campi, in quello dello smalto per esempio.
In età gotica, le vetrate nell’architettura... Molto presto, a partire dal grande ciclo del deambulatorio di Saint-Denis, dalle vetrate della facciata occidentale della cattedrale di Chartres, da quelle dell’abside della cattedrale di Poitiers, la situazione tende a mutare. Tuttavia il cambiamento non è generale e contemporaneo. In certe aree – Mosa, Renania, Alsazia – i rapporti con le microtecniche suntuarie saranno privilegiati, in altre la vetrata assumerà sempre più caratteri monumentali. Nel corso del xii secolo, il mutarsi del sistema architettonico e la nascita di quella che oggi chiamiamo architettura gotica, con il variare degli elementi portanti, dalle pareti ai pilastri, con il modificarsi delle spinte esercitate dalle volte, non più distribuite in modo uniforme ma concentrate su punti focali, ha avuto conseguenze determinanti sullo sviluppo delle finestre e delle vetrate e sulla luminosità degli interni. L’architettura gotica è basata infatti su una struttura a scheletro portante e tende a concentrare le spinte su elementi determinati in modo che la parete venga gradatamente a perdere alcune delle sue funzioni, abbandonando il carattere di struttura d’appoggio per mantenere solo quello di schermo, di delimitazione. In una struttura di questo tipo la funzione di separazione tra interno ed esterno potrà essere assunta dalla vetrata:
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Attraverso la finestra della cattedrale non si vede né il sole né quanto si trova al di fuori. La finestra non costituisce un legame con il mondo esterno ma, piuttosto, una separazione35.
La funzione della finestra muta in conseguenza della trasformazione della struttura architettonica e del ruolo sempre maggiore svolto dalla vetrata. Alla base del nuovo sistema sembra stare proprio la volontà di sfruttare al massimo il principio della parete translucida ottenendo vetrate di superficie sempre maggiore. Georges Duby, nella sua prolusione al Collège de France, ha messo in rilievo le implicazioni profonde della illuminazione della chiesa: Anche il santuario gotico, liberandosi dalla penombra dove a lungo aveva giaciuto prona una religione di prosternazione, aprendosi alla luce del mondo, offrendo agli sguardi l’immagine di un Dio incarnato, presente nel cuore stesso della vita, viene a significare in modo di piú in piú cosciente e attraverso ogni suo simbolo che l’uomo è chiamato a cooperare in modo decisivo con la sua azione personale a questo progresso ininterrotto in cui ormai si risolve il mito della creazione.
Già nel xii secolo nell’area di Reims e di Soissons erano state sperimentate nuove soluzioni per il piano delle finestre, introducendovi bifore e trifore occasionalmente sormontate da un oculo36. L’anonimo architetto che ricostruí la cattedrale di Chartres dopo l’incendio del 1196 aveva concepito le ampie superfici vitree non tanto come elemento subordinato, quanto come reali e determinanti elementi architettonici. La riduzione da quattro a tre piani dell’elevazione interna della navata, ottenuta con l’eliminazione della zona profonda e ombrosa delle tribune, sottolineò l’unità
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della parete e la sua bidimensionalità. A sua volta questa parete, grazie al sistema di appoggi esterni stabiliti dagli archi rampanti, poté essere largamente intaccata dalle finestre. Cosí venne organizzato in modo nuovo e rivoluzionario il clair-étage, il piano delle finestre, facendo sormontare da un grande rosone (oltre sei metri di diametro) due ampie luci cuspidate e creando in tal modo una nuova finestra a tre elementi. E tuttavia le vetrate di Chartres restano solo un’apertura entro un muro massiccio. Questa soluzione verrà ripresa e portata radicalmente avanti una quindicina d’anni dopo da Jean d’Orbais, l’architetto della cattedrale di Reims, che elimina risolutamente i resti della parete occupando l’intero spazio della campata con una «finestra a traforo», dove solo un piccolo ruolo è lasciato alla muratura e si dissolve la solidità della parete. Hans Jantzen ha definito cosí questo passaggio: Il maestro di Chartres aveva creato le sue finestre come un susseguirsi di aperture quasi tagliate nel muro: nonostante le estesissime aperture in lui esiste sempre il rapporto con la parete. Anche nella cattedrale di Reims la finestra della navata mediana occupa tutto lo spazio tra le colonnette che sorreggono la volta, ma la finestra è incastonata come «traforo» nell’apertura della parete per mezzo di stipiti e listelli in muratura indipendenti, rendendo cosí possibile la completa eliminazione della superficie muraria entro i sostegni della volta. I singoli elementi della finestra della navata mediana di Chartres (due luci e un rosone) si fondono ora nella forma a traforo in una sorta di grata fatta di due archi a sesto acuto e di un rosone a sei lobi che, come a Chartres, viene interamente riempita dalla vetrata colorata37.
Un passo successivo è compiuto da Robert de Luzarches ad Amiens, dove le finestre vengono raddoppiate e portate a quattro luci. Nella navata di Saint-Denis un
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grande architetto arriva a soluzioni ancora più avanzate unendo, come ad Amiens, due finestre a due luci, ma facendo altresí sormontare ciascun elemento a due luci da un oculo a sei lobi, e i due oculi a loro volta da un terzo che conclude lo sviluppo ascensionale della finestra. Inoltre, fatto di importanza fondamentale, le aperture del triforio, la galleria che corre sotto la claire-voie erano state a loro volta invetriate, e una chiara articolazione formale aveva stabilito una continuità tra il triforio e il piano superiore delle finestre38. Nel passaggio tra due sistemi architettonici la funzione della finestra cambia radicalmente: Tra la finestra romanica e quella gotica la differenza non è solo nelle dimensioni o nella forma, è soprattutto nelle funzioni. Come lo Hypaetron antico, apertura zenitale a cielo aperto, la finestra romanica è una sorgente di luce e una bocca d’aria e niente altro: se il clima lo permette può restare sguarnita, senza un elemento fisso di chiusura (tale era il caso anche a Vézelay). La finestra gotica arrivata al termine della sua evoluzione, cioè all’incirca verso il 1235, nel coro di Saint-Denis, nel coro della cattedrale di Troyes, non è l’apertura del muro, ma il muro stesso, o per meglio dire l’elemento di separazione. Il suo ruolo essenziale è di limitare lo spazio interno, di separare la chiesa dall’esterno, di arrestare il vento e la pioggia; è una parete translucida scandita e consolidata dagli umili elementi verticali che sopportano la volta [...] La funzione di rischiarare diventa secondaria nel senso che è inadatta a giustificare la prodigiosa amplificazione della superficie vitrea39.
Il costante ampliarsi delle superfici invetriate andò infatti di pari passo, come ha notato Louis Grodecki, con l’incupirsi della gamma cromatica dei vetri, di modo che la quantità di luce degli interni rimase pressoché costante.
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Nel corso dei primi decenni del xiii secolo il graduale processo di ampliamento e la nuova strutturazione della finestra nei confronti della parete avrà conseguenze importanti nell’organizzarsi della superficie vitrea. Il passaggio da una finestra a due luci a una a quattro che incorpora altresí dei rosoni porrà problemi nuovi ai maestri vetrari. Una analoga evoluzione verso una articolazione sempre piú ricca e complessa delle superfici si ritrova nelle spartizioni interne degli oculi e delle grandi rose delle facciate, come si vede passando dalla rosa della facciata occidentale di Chartres, alla rosa meridionale di Notre-Dame di Parigi, a quella occidentale della cattedrale di Reims.
... e nella decorazione parietale. Questa evoluzione non fu tuttavia globale e generalizzata. In Italia per esempio, dove per secoli la pittura murale aveva conosciuto una invariata importanza, la vischiosità, ma anche la forza, della tradizione fecero sí che le due culture, quella della solida parete dipinta e quella della vetrata, convivessero ponendo problemi significativi. Qui spesso la vetrata è accompagnata, sulle mura che la attorniano e su cui essa si apre, da una decorazione a fresco: gli esempi non mancano, dalla chiesa superiore di San Francesco ad Assisi a Santa Croce a Firenze, al duomo di Orvieto. Si manifesta qui una resistenza alle soluzioni più radicali che porterebbero allo svuotamento integrale della superficie esistente tra due supporti: l’architetto della chiesa superiore di San Francesco ad Assisi riserverà alle finestre invetriate aperture limitate lasciando spazio ai grandi cicli di affreschi che si distendono sulle pareti e nei sottarchi, e questa opzione è dettata probabilmente altrettanto da abitudini percettive che da ragioni statiche.
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L’accordo delle vetrate con le pitture murali pone piú di un problema nelle chiese gotiche dell’Italia centrale. A causa della profondità della finestra, i vetri sono situati in una posizione arretrata rispetto alla superficie dell’affresco, tuttavia la ricerca di profondità condotta nella pittura trecentesca italiana può cambiare le condizioni della percezione suggerendo l’illusione che gli affreschi sprofondino letteralmente entro le pareti, di modo che il loro piano di fondo sembra porsi allo stesso livello delle vetrate. L’illusione tuttavia non è completa, la luminosità del vetro esercita un richiamo talmente forte che l’attenzione si fissa prima di tutto sulle finestre e lo spettatore avverte che le scene si svolgono su piani diversi in un modo che rende impossibile la percezione contemporanea dell’affresco e della vetrata. Anche in Francia la decorazione murale accompagnava spesso le vetrate, come ad esempio nella Sainte-Chapelle di Parigi (dove il restauro ottocentesco ha però radicalmente alterato la decorazione dipinta), ma qui il problema dell’accordo tra le due tecniche si basa soprattutto su problemi di intensità cromatica. Come ha osservato Viollet-le-Duc, le tonalità opache e trattenute della pittura murale non possono accordarsi con il dispiegarsi luminoso dei colori di una vetrata, e nasce di qui la necessità di alzare risolutamente i toni della decorazione pittorica per poter reggere al confronto40. L’aspetto di una vetrata dipende da una quantità di fattori, in primo luogo dalla funzione della finestra entro la struttura architettonica e di conseguenza dal ruolo che viene conferito alla luce, che può essere uniforme o contrastata, bianca o colorata, scarsa o abbondante, utilizzata per privilegiare una certa organizzazione e determinati elementi all’interno dello spazio di un edificio o per unificare questo spazio in modo uniforme senza variazioni. La luce che illumina un ambiente passando attraverso una vetrata proviene dall’esterno ed è modi-
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ficata dallo schermo translucido41; un uso diverso della luce è quello del mosaico, che riceve la luce dall’esterno e la rifrange dando cosí una nuova animazione alla parete. Nel primo caso, la finestra è il punto focale privilegiato che si oppone alla superficie piú o meno uniforme della parete; nel secondo, è la parete luminescente che diviene determinante mentre la finestra ha un’importanza molto minore. Nella celebre descrizione di Santa Sofia di Costantinopoli scritta sotto Giustiniano da Paolo Silenziario è ben sottolineato il valore vibrante e luminoso delle superfici decorate a mosaico: La conca dell’abside è come un pavone con penne di cento pupille. Dall’oro immenso della volta si diffonde una tale luce che abbaglia la vista. E un fasto barbaro e latino insieme [...] Di sera una tale luce si diffonde dal tempio su ciò che lo attornia che lo si potrebbe chiamare un sole notturno [...] Il navigatore non ha bisogno d’altro faro, gli basta guardare la luce del tempio42.
Saint-Denis, trionfo della vetrata. Tra vetrate e architettura si stabilì una dialettica serrata, e un momento importante, determinante addirittura, di questa vicenda si svolse negli anni 1140-5o attorno al cantiere di Saint-Denis, la grande chiesa abbaziale che fu luogo di sepoltura dei re di Francia e che fu intrinsecamente legata alla storia della dinastia. Era qui abate attorno al 1140 Suger, uno dei grandi personaggi della storia medievale, uno di quei monaci costruttori che fu uomo di chiesa e uomo di stato, amico, confidente e strettissimo collaboratore di re, scrittore, committente, animatore e organizzatore di uno straordinario cantiere dove confluirono orafi, maestri vetrari, tagliapietre, scultori e muratori da ogni
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parte d’Europa43. Il progetto di Suger fu quello di ricostruire l’antica abbazia carolingia, ed egli riuscí a portare a termine la ricostruzione della parte anteriore della chiesa, il nartece, e di quella terminale, il coro con la soggiacente cripta. Il deambulatorio della basilica, con la sua corona di cappelle largamente invetriate, è generalmente considerato uno dei primi esempi completi e organici della nuova architettura gotica e di un generoso e nuovo uso delle vetrate, ma dobbiamo pensare che la massima parte delle vetrate fatte eseguire da Suger sia andata distrutta e che quanto rimane in loco, tremendamente interpolato da onnipresenti restauri, non sia che una piccolissima parte di ciò che esisteva. Del coro di Suger infatti non è conservato oggi che il piano terreno, quello del deambulatorio; la cripta e i due livelli superiori non sono stati conservati. Ora, secondo le ricostruzioni che ne hanno dato Crosby e Conant44, il coro, nei suoi quattro registri sovrapposti (comprendendovi anche la cripta le cui finestre erano invetriate), dovette avere rispettivamente cinquantotto o sessantotto finestre, cui si debbono aggiungere quelle del nartece ed eventualmente anche quelle poste nelle finestre dell’antica navata carolingia, fino a un totale di circa novanta vetrate45. Per la consacrazione dell’edificio il committente, l’abate Suger, dettò questi versi: Era l’anno 1144 del Verbo quando fu consacrato. La nuova parte absidale si congiunge ora con quella della fronte e la chiesa rifulge perché la parte centrale è resa luminosa. Risplende infatti ciò che alla luce è armoniosamente unito e risplende l’edificio pervaso di nuova luce46.
Fonte del chiaro lume che illumina la chiesa sono le finestre del nuovo deambulatorio grazie al quale
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l’intera chiesa risplende per la luce mirabile e continua delle chiarissime vetrate che pervade l’interna bellezza47.
Questi passi mostrano come nell’opera di Suger la luce avesse una particolarissima importanza, e ciò è stato sottolineato con particolare enfasi da Erwin Panofsky, che ha posto in evidenza come uno stimolo in questo senso potesse essergli venuto proprio da alcuni testi teologici conservati nella biblioteca dell’abbazia. Essi erano stati inviati nell’827 a Carlo il Calvo dall’imperatore di Bisanzio, Michele il Balbo, ed erano stati affidati a Hilduinus, arcicancelliere di Carlo il Calvo, abate di Saint-Denis e buon conoscitore del greco. Si trattava di un gruppo di testi scritti in greco – Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica, Nomi divini, Teologia mistica e Lettere – da un anonimo pensatore neoplatonico vissuto in Siria tra la fine del v e gli inizi del vi secolo, che si presentava al lettore come Dionigi l’Areopagita, l’ateniese che, convertito da san Paolo, era stato vescovo della sua città nel i secolo. Hilduinus, nella sua Vita sancti Dyonisii scritta nell’835, unificò le persone di Dionigi l’Areopagita, di un altro Dionigi vescovo di Corinto nel iii secolo e autore di epistole, e del san Dionigi vescovo di Parigi, martirizzato intorno al 27o e patrono dell’abbazia, attribuendo al personaggio fittizio sorto da questa operazione gli scritti dell’ermetico teologo che verrà ai nostri giorni chiamato lo Pseudo-Dionigi. Al tempo di Suger i testi dello Pseudo-Dionigi nella versione latina che nel ix secolo ne aveva dato Giovanni Scoto Eriugena erano conservati nell’abbazia di Saint-Denis ed erano oggetto di grande venerazione48. Erwin Panofsky ha argomentato in modo estremamente suggestivo come l’appassionato interesse per la luce che scorgeva negli scritti di Suger, e che si manifestava nelle vetrate da lui commissionate, fosse una con-
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seguenza del rispetto per le tradizioni dell’abbazia, del rispetto cioè per quei testi che l’abate riteneva esser stati scritti dal venerato martire cui il monastero era dedicato. Questa ipotesi ha raccolto molti consensi, ma oggi le tesi di Panofsky sono state messe in dubbio da piú parti, e si discute se gli scritti dello Pseudo-Dionigi siano realmente stati determinanti per la nascita del grande programma vitreo; se, infine, e in quale misura, l’abate sia stato responsabile – come Panofsky suggeriva – delle nuove soluzioni architettoniche e decorative tentate a Saint-Denis. Alla prima domanda la risposta non potrà essere totalmente affermativa. È chiaro che Suger trovò, nelle opere dello Pseudo-Dionigi, piú delle conferme a certe preoccupazioni che si poneva che delle rivelazioni inaspettate. L’abate non fu certo il primo nella storia del pensiero medievale ad attribuire alla luce un ruolo tanto importante, e si colloca in una certa tradizione piú di quanto non la crei. Spinto da una sorta di pietas archeologica, egli è in fondo partecipe degli atteggiamenti mentali, delle attese e della sensibilità di tanti pensatori del suo tempo. D’altra parte, se il ruolo privilegiato della luce nel pensiero e nel sistema di valori di Suger ha avuto peso determinante nell’impulso a far erigere a Saint-Denis una tale serie di vetrate, esso non costituisce l’unica spinta in questa direzione. La luce non è l’unico elemento di una vetrata, il colore svolge anch’esso un ruolo molto importante. La predilezione per le vetrate policrome è una delle tante manifestazioni dell’interesse che suscitavano gli oggetti vivamente colorati, smalti, pietre preziose, vetri: agli occhi di un autore medievale bellezza significava splendore in quanto varietà di colori, significava lo scintillio dell’oro e dei gioielli49.
L’amore per una decorazione vivacemente cromatica
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caratterizzò l’arte romanica come quella carolingia, la sobria monocromia dell’arte romanica è un’invenzione recente che corrisponde a una sensibilità estetica prossima a noi, ma anacronistica se rapportata ai tempi. Gli scritti dello Pseudo-Dionigi devono essere letti come un dichiarato inno alla luce, proprio come aveva sostenuto Panofsky? Anche su questo punto si sono oggi alzate voci divergenti, che hanno sottolineato un altro aspetto del pensiero dello Pseudo-Dionigi che Panofsky aveva tralasciato50: la sua «teologia negativa», la sua «metafisica dell’oscurità», la sua definizione di Dio come luce inaccessibile, divina oscurità. Non è tanto la luminosità delle vetrate di Saint-Denis a venire sottolineata a questo punto, quanto la loro gamma profonda, la cupezza dei loro azzurri, la nobile saphirorum materia effettivamente celebrata da Suger51. In breve, l’influenza degli scritti dell’antico teologo si sarebbe manifestata piuttosto nella predilezione, evidentissima a Saint-Denis come a Chartres, per il cupo splendore dei blu e dei rossi che nella chiarezza delle vetrate. Si era poi realmente esercitata una tale influenza? Anche questo è stato messo in dubbio52. Molto è stato dunque rimesso in causa della geniale ipotesi di Panofsky, ma anche se l’ipotesi del primato del committente sull’architetto e della cultura teologico-filosofica su quella tecnica, portata alle estreme conseguenze nel libro sulla cattedrale gotica di Otto von Simson53, è aspramente discussa, anche se la sapienza tecnica e geometrica dell’ignoto progettista del coro, vero responsabile delle nuove soluzioni architettoniche54, appare particolarmente innovatrice e personale, anche se la genesi neoplatonica dell’architettura gotica si avvia al tramonto sotto l’incalzare di una ondata di desimbolizzazione55, anche se i legami particolari della cultura e della visione del mondo di Suger con gli scritti dello Pseudo-Dionigi sono rimessi in causa56 e gli stessi carat-
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teri del messaggio estetico dionisiano possono venire diversamente letti57, pure il ruolo dell’abate e delle sue scelte non sembra diminuire. Dai suoi scritti – l’Ordinatio, redatta nel 1140-41, il De Consecratione e il De Administratione posteriori al 1144, data della consacrazione del nuovo coro della chiesa – si trae l’impressione che egli abbia avuto una determinante responsabilità nella creazione di quell’originale crogiuolo di culture artistiche che fu il cantiere di Saint-Denis. In piú luoghi e a piú riprese si sottolinea infatti il carattere cosmopolita del centro, si parla di molti maestri di diverse nazioni attivi alle vetrate, di pittori de diversis partibus e ancora di mercanti di gemme de diversis regnis et nationibus. Il suscitare l’incontro e la collaborazione di artefici provenienti da (e portatori di) tradizioni diverse ebbe effetti molto importanti; senza voler adottare la soluzione estrema e romantica di leggere il gotico dionigiano come una creazione collettiva, è chiaro che questa collaborazione di artisti provenienti da culture differenti deve essere stata particolarmente efficace nella elaborazione di nuove soluzioni. Se la struttura aerea dell’edificio era opera dell’architetto restato anonimo, l’«ammirevole illuminazione ininterrotta delle vetrate risplendenti» nel deambulatorio del coro, e anche la «divina oscurità» diffusa dalle finestre del nartece e della cripta, costituiscono l’apporto personale e veramente originale di Suger all’abbellimento della sua chiesa. Nella ricostruzione dell’abbazia voluta e diretta da Suger è inscritto il trionfale destino della vetrata medievale e della sua grandiosa espansione.
m. proust, A la recherche du temps perdu, edizione Pléiade a cura di J.-Y. Tadie, Paris 1987, vol. I, pp. 58-59: «ne chatoyaient jamais tant que le jours où le soleil se montrait peu, de sorte que, fît-il gris dehors, on était sûr qu’il ferait beau dans l’église» [trad. it. Torino 1
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali 19636, vol. I, p. 651. Sulle vetrate nell’opera di Proust cfr. r. bales, Proust and the Middle Ages, Genève 1975, pp. 34-52 e gli articoli Verrière e Vitrail in l. fraisse, L’Œuvre Cathédrale, Proust et l’architecture médiévale, Paris 1990, pp. 492-528. 2 proust, A la recherche cit., p. 6o. 3 Cfr. m. harrison caviness, Stained Glass before 154o. An annotated bibliography, Boston 1983, p. xiv; r. becksmann, Deutsche Glasmalerei des Mittelalters. Eine exemplarische Auswahl, Stuttgart 1988, pp. 18-2o. 4 c. brisac e j.-m. leniaud, Adolphe-Napoléon Didron ou les médias au service de l’art chrétien, in «Revue de l’Art», 77, 1987, pp. 33-42. 5 Le vitrail: son histoire, ses manifestations à travers les âges et les peuples, Paris 1896. 6 Les Vitraux, Paris 1895. 7 l. bégule, Les vitraux du Moyen Age et de la Renaissance dans la région lyonnaise et spécialement dans l’ancienne diocèse de Lyon, Lyon 1911. 8 f. geiges, Der alte Fensterschmuck des Freiburger Münsters, Freiburg 1910. 9 h. oidtmann, Die Glasmalerei, Köln 1892-98; id., Die rheinischen Glasmalereien vom 12 bis zum 16 Jahrhundert, Düsseldorf 1912-29. 10 Autore di un fortunato Handbuch der Glasmalerei pubblicato a Lipsia nel 1914 e in seconda edizione nel 1937. 11 Particolarmente nel sesto capitolo dedicato alla fortuna delle vetrate. 12 j.-m. leniaud, Les Cathédrales au XIXe siècle, Paris 1993; c. bouchon, c. brisac, n.-j. chaline e j.-m. lemaud, Ces églises du XIXe siècle, Amiens 1993. 13 e. mâle, La peinture sur verre en France, in Histoire de l’art publiée sous la direction d’André Michel, I (2), Paris 1905, pp. 782-95; II (1), Paris 1906, pp. 372-96. 14 w. waetzoldt, Glasmalerei des Mittelalters. Ein Kapitel deutscher Wissenschaftsgeschichte, in Vitrea dedicata, Berlin 1975, pp. 11-19. 15 r. becksmann, Zur Situation des deutschen Corpus Vitrearum Medii Aevi, in «Kunstchronik» xxiv (1971), pp. 233-38; l. grodecki, Dix ans d’activité du Corpus Vitrearum, in «Revue de l’Art», 51, 1981, pp. 23-30; id., Corpus Vitrearum. Histoire et état actuel de l’entreprise internationale, Wien 1982. 16 Se ne veda la bibliografia nella terza edizione, a cura di F. Perrot, di Le Vitrail, Lyon 1988, pp. 209-14. 17 Bibliografia in Beiträge zur Kunst des Mittelalters: Festschrift für Hans Wentzel zum 6o. Geburtstag, a cura di R. Becksmann, U.-D. Korn e J. Zahlten, Berlin 1975, pp. 255-67. 18 La bibliografia, a cura di C. Lautier, è apparsa nel primo volu-
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali me della raccolta dei suoi scritti, Le Moyen-Age retrouvé, Paris 1986, pp. 15-29. 19 Vitraux de France du XIe au XVIe siècle, Paris 1953. 20 h. wentzel, Meisterwerke der Glasmalerei, Berlin 1951. 21 m. aubert, a. chastel, l. grodecki, j.-j. gruber, j. lafond, f. mathey, j. taralon e j. verrier, Le Vitrail Français. Sous la haute direction du Musée des Arts Décoratifs, Paris 1958. 22 Se ne veda la bibliografia in aa.vv., Les Vitraux de Narbonne, Narbonne 1992, pp. 15-18. 23 Si vedano tra l’altro i contributi di Colette Manhes-Deremble, Jean-Paul Deremble, Michel Herold, Guy Leproux, Claudine Lautier, Françoise Gatouillat, Nicole Blondel, Anne Granboulan. 24 theophilus, The Various Arts - De Diversis Artibus, edizione a cura di c. r. dodwell, London 1961. I passi citati sono presi dalla seconda edizione dell’opera, Oxford 1986, p. 37. 25 Su Theophilus si veda il capitolo seguente. 26 m. pastoureau, Les couleurs médiévales: systèmes de valeurs et modes de sensibilité, in Figures et Couleurs, Paris 1986, pp. 35-49. 27 sugerii, De Administratione, in e. panofsky, Abbot Suger on the Abbey Church of St-Denis and Its Art Treasures, Princeton 1946 (2a ed. 1979), p. 62. 28 sugerii, De Administratione cit., pp. 62-64. Cfr. l. marin, Dans la lumière du vitrail, in Des pouvoir de l’image, Paris 1993, pp. 211-32. 29 j. r. johnson, Stained Glass and Imitations Gems, in «Art Bulletin», xxxix (195 7), pp. 221-24. 30 h. focillon, Vita delle forme, Torino 1987, p. 17 (ed. orig. Paris 1934). 31 e. panofsky, Il significato nelle arti visive, Torino 1962, p. 35 (ed. orig. New York 1955). 32 o. pächt nel catalogo dell’esposizione Europäische Kunst um 1400, Wien 1962, p. 62. 33 p. frankl, Die Glasmalerei des 15 Jahrhunderts in Bayern und Schwaben, Strassburg 1912; h. wentzel, Glasmaler und Maler im Mittelalter, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», iii (1949), p. 53. 34 h. swarzensky, Monuments of Romanesque Art. The Art of Church-Treasures in NorthWestern Europe, London 19672, p. 5. 35 e. frodl-kraft, Le Vitrail Médiéval. Technique et esthétique, in «Cahiers de Civilisation médiévale», x (1967), p. 1. 36 r. branner, Saint-Louis and the Court Style in Gothic Architecture, London 1965, p. 15. 37 h. jantzen, Kunst der Gotik, Hamburg 1957 [trad. it. Firenze 1961, pp. 63-65]. 38 c. a. bruzelius, The 13th Century Church at Saint-Denis, New Haven 1985.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali l. grodecki, Le vitrail et l’architecture au XIIe et au XIIIe siècle, in «Gazette des Beaux-Arts», VI serie, xxxvi/ii (1949), pp. 5-24. 40 e.-e. viollet-le-duc, Fresque, in Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XI au XVI siècles, Paris 1861, vol. V, p. 93. 41 j. michler, Über die Farbfassung hochgotischer Sakralraume, in «Wallraf-Richartz Jahrbuch», xxxix (1977), pp. 29-64; e. frodl-kraft, Die Farbsprache der gotischen Malerei. Ein Entwurf, in «Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte», xxx-xxxi (1977-78), pp. 89-178. 42 a. veniero, Paolo Silenziario. Studio sulla letteratura bizantina del VI secolo, Catania 1916. 43 Su Suger, oltre allo splendido testo di Panofsky che si è spesso citato, si veda m. bur, Suger, Abbé de Saint-Denis, Régent de France, Paris 1991. 44 s. mc knight crosby, The Royal Abbey of Saint-Denis from Its Beginnings to the Death of Suger 475-1151, New Haven 1987. 45 j. gage, Gothic Glass. Two Aspects of a Dionysian Aesthetic, in «Art History», v (1982), p. 39. 46 sugerii, De Administratione cit., p. 5o. 47 sugerii, Libellus alter de consecratione ecclesiae Sancti Dionysii, in panofsky, Abbot Suger cit., p. 100. 48 a. m. romero, Saint-Denis. La montée des pouvoirs, Paris 1992; h. f. dondaine o. p., Le corpus dyonisien de l’Université de Paris au XIIe siècle, Roma 1953. 49 f. p. chambers, The History of Taste, New York 1932, p. 8. 50 panofsky, Abbot Suger cit., p. 19. 51 gage, Gothic Glass cit., particolarmente pp. 39-46; m. parsons lillich, Monastic Stained Glass: Patronage and Style, in T. Verdon (a cura di), Monasticism and the Arts, Syracuse 1984, pp. 207-54. 52 p. kidson, Panofsky, Suger and Saint-Denis, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», l (1987), pp. 1-17. 53 o. von simson, The Gothic Cathedral, Princeton 1962 [trad. it. Bologna 1988]. 54 r. suckale, Neue Literatur über die Abteikirche von Saint-Denis, in «Kunstchronik», xliii (1990), pp. 62 sgg. 55 w. sauerländer, Gothic Art Reconsidered: New Aspects and Open Questions, in The Cloisters, Studies in Honor of the Fiftieth Anniversary, a cura di E. C. Parker, New York 1992. 56 kidson, Panofsky, Suger and Saint-Denis cit. 57 gage, Gothic Glass cit. 39
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Capitolo secondo Le tecniche
La vetrata è una composizione di frammenti di vetro, per lo piú diversamente colorati, posta a chiudere una finestra. Sui vetri, riuniti secondo un disegno, è distesa una pittura monocroma che viene fissata stabilmente al supporto da una cottura in forno. Essi sono tenuti insieme da listelli di piombo e da un’armatura di ferro grazie alla quale la vetrata viene assicurata stabilmente alla struttura muraria1. Composta da diversi frammenti di vetro colorato (o, talora, incolore), la vetrata è dunque una pittura fatta con il vetro, in quanto composta essenzialmente da tale materia (e pertanto simile per certi aspetti al mosaico o allo smalto), e, nello stesso tempo, una pittura stesa sopra il vetro. Ha una funzione decorativa e architettonica, svolgendo contemporaneamente il ruolo di pittura luminosa e di schermo translucido che separa l’esterno dall’interno di un edificio. Poiché la luce che passa attraverso il vetro ha un ruolo capitale (i maestri di vetrate dipingevano «con la luce stessa» scrive il pittore Eustache Hyacinthe Langlois, che fu un pioniere dello studio e del rinnovamento ottocentesco delle vetrate)2, ne consegue che gli elementi di cui questa tecnica si avvale sono essenzialmente i vetri, la luce che li attraversa e che viene diffusa e modificata in diverso modo a seconda del loro colore e della loro struttura, la pittura monocroma stesa
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sopra di essi, i piombi che li tengono insieme e ne sottolineano i contorni, l’armatura infine che raggruppa e ripartisce in compartimenti le singole scene e contribuisce all’impaginazione della vetrata secondo disegni piú o meno complessi.
Il trattato di Theophilus. Grazie ai numerosi scritti a essa dedicati conosciamo discretamente la tecnica delle vetrate che, d’altra parte, non ha conosciuto, nel corso del tempo, che scarsi mutamenti3. Si è già accennato al primo e piú esteso di questi trattati, il cui autore si è firmato con il nome di Theophilus – chiaramente uno pseudonimo – ma fa intendere di essersi chiamato Rugerus; infatti all’inizio di quello che è forse il piú antico manoscritto conservato del suo testo, oggi nella biblioteca di Vienna, troviamo scritto: «Comincia il prologo del primo libro di Theophilus chiamato anche Rugerus». La discussione sulla datazione e la localizzazione di questo testo, edito per la prima volta da Lessing, che ne rinvenne un manoscritto nella biblioteca di Wolfenbüttel nella seconda metà del settecento, e noto come Schedula diversarum artium, o come De diversis artibus, è annosa e ha conosciuto pareri assai divergenti, con oscillazioni notevoli sul piano spaziale come su quello temporale. Lessing, che riteneva il testo del ix secolo e credeva che il suo autore fosse il mitico Tuotilo, un monaco eccezionalmente capace in ogni tecnica artistica di cui parlano le cronache del monastero di San Gallo, si era particolarmente entusiasmato per il manoscritto grazie agli accenni all’uso dell’olio in pittura che vi aveva trovato, e scrisse nel 1774 una sorta di violento pamphlet antivasariano sulla precocità di questa tecnica (Vom
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Alter der Ölmalerey aus dem Theophilus Presbyter), mentre la trascrizione del testo da lui scoperto uscí solo dopo la sua morte4. Oggi generalmente si ritiene che il testo sia stato scritto all’inizio del xii secolo in un monastero della Germania settentrionale, forse in Renania o in Westfalia5. Il suo autore dovette essere un monaco appartenente a uno di quei grandi stabilimenti benedettini in cui venivano praticate varie attività artistiche, nelle quali egli fu direttamente implicato. Si mostra infatti tanto bene al corrente dei diversi procedimenti impiegati che c’è chi ha tentato di identificarlo con un grande personaggio della storia dell’arte medievale, l’orafo Rogkerus, attivo nel monastero di Helmarshausen, autore nel 1100, per il vescovo di Paderborn Heinrich von Werl, di un ammirevole altare portatile la cui esecuzione è ben documentata e che oggi è conservato nel tesoro della cattedrale6. Lo scritto di Theophilus si divide in tre libri, il primo dedicato alla pittura e alla miniatura, il secondo alla fabbricazione del vetro e delle vetrate, il terzo alle tecniche della lavorazione dei metalli e all’oreficeria. Attraverso la descrizione dei procedimenti e dei materiali usati, Theophilus volle caratterizzare le maggiori tecniche artistiche in auge al suo tempo, giustificandone l’esercizio da parte di un monaco come un dovere e un esercizio religioso7. La ripartizione stessa dei soggetti indica l’importanza che le arti del vetro ebbero nell’attività di un atelier monastico del xii secolo nell’Europa del nord. Theophilus dedica infatti molti capitoli a descrivere come venisse prodotto il vetro e come si progettasse e realizzasse una vetrata, scendendo nei particolari di tutto il processo di produzione, dalla costruzione dei forni alla soffiatura dei vetri, alla formulazione di un modello, al taglio dei vetri di diverso colore, al loro assemblaggio, alla preparazione e all’impiego della pittura monocroma,
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alla ricottura, alla messa in piombo, fino alle ultime fasi della lavorazione. Egli definisce la vetrata come una pittura translucida grazie alla quale l’interno di un edificio poteva essere abbellito da una quantità di colori senza con questo impedire ai raggi del sole di penetrarvi: ... quo artis ingenio et colorum varietas opus decoraret, et lucem diei solisque radios non repelleret, e ne sottolinea in questi termini i singolari caratteri: «Se l’occhio umano contempla l’abbondanza della luce che penetra dalle finestre, ammira allora la bellezza inestimabile del vetro e la varietà dell’opera preziosissima»8.
La fabbricazione del vetro. Per fabbricare una vetrata occorreva anzitutto la materia prima, il vetro, la cui apparizione ha inizio all’età del bronzo, tra il v e il iv millennio prima di Cristo, non esclusivamente in oriente come si è a lungo creduto, ma un po’ dovunque si praticasse la lavorazione del rame, come risulta da gioielli trovati in tombe dell’età del bronzo e addirittura della fine dell’età neolitica9. Ora, se i popoli dell’oriente mediterraneo e specialmente i romani lo avevano usato largamente, almeno a partire dalla fine del i secolo a. C., quando l’introduzione della tecnica della soffiatura aveva comportato un’autentica rivoluzione trasformando in produzione di massa per coppe, anfore, vasi, bicchieri e varie suppellettili ciò che, anteriormente, era una manifattura di lusso10, l’uso di questa materia si era andato molto riducendo nell’Europa occidentale nei primi secoli del medioevo, mentre aveva al contrario attinto eccezionali risultati a Costantinopoli e nell’area islamica. È probabile che la produzione di lastre di vetro11 per vetrate abbia costituito a un certo momento un importante stimolo all’incremento della fabbricazione del
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vetro almeno in certe zone dell’Europa medievale12. Nei primi tre decenni del duecento la richiesta di vetri piani per la sola cattedrale di Chartres dovette essere dell’ordine di circa duemila metri quadri, pari a otto metri cubi e a circa venti tonnellate13. Generalmente il vetro non era prodotto dai medesimi atelier che confezionavano le vetrate. Ciò poteva avvenire nel caso dei laboratori sorti all’interno di un’abbazia14, fissi e non itineranti, situati fuori di una città, in prossimità di una foresta che forniva i materiali per la fabbricazione. Questo fu il caso per esempio dell’abbazia di Tegernsee in Baviera, nel medioevo uno dei grandi centri culturali europei, dove nel primo decennio dell’xi secolo lavoravano maestri vetrari. Ciò appare dalla richiesta di vetri che il vescovo della città di Freising, Godescalcus, tra il 1003 e il 1013, fa a Peringerus, abate di Tegernsee, il quale si affretta a far lavorare per lui «i nostri vetrai» e gli spedisce duecento lastre di vetro15. Questo dovette essere anche il caso del monastero dove Theophilus scrisse il suo trattato, nel quale descrive attentamente sia la produzione del vetro e la strumentazione a essa necessaria, sia la fattura delle vetrate, mostrando una conoscenza dell’intero processo produttivo che doveva venirgli da una esperienza diretta. Ma nella maggior parte dei casi, e particolarmente in quello degli atelier attivi alla invetriatura delle finestre delle grandi cattedrali, il vetro in lastre proveniva da vetrerie situate spesso a non grande distanza dalla città, o talvolta poteva essere acquistato in pani, prodotti in precedenza in officine vetrarie specializzate, che venivano quindi rifusi e rilavorati sul posto. Il ritrovamento, nel corso degli scavi della torre civica di Pavia, di pani di vetro accanto a frammenti di vetrate riferibili agli inizi del xiii secolo testimonia di questa pratica16, sulla quale, tuttavia, non possediamo una documentazione sufficientemente vasta.
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Il mercato Nel caso della cattedrale di Chartres, per esempio, le notizie che abbiamo sulla provenienza dei vetri sono piuttosto tardive. Ci è rimasto un contratto stipulato il 30 settembre 1375 per l’acquisto di vetri azzurri, verdi e porpora dal vetraio Jean Hennequin, che aveva la sua officina presso Senonches, da parte di un Guillemin, maestro vetrario dell’opera della cattedrale. Un altro documento, del 24 novembre 1415, riguarda acquisti da parte del maestro vetrario dell’opera della cattedrale a Jehan de Voirre, mercante di vetro abitante presso Longny17. Queste scarse notizie fanno intravedere l’esistenza di un grosso mercato del vetro con produttori, mercanti e consumatori18. Per quanto riguarda i produttori, era opportuno che la vetreria sorgesse in luoghi dove fosse facile approvvigionarsi di legno per i forni e di foglie di felci, le cui ceneri utilizzare nella produzione del vetro. Nei conti del 1302 della vetreria normanna di Fontaine-du-Houx, per esempio, si registrano minutamente i costi degli operai impiegati a raccogliere felci per fare i vetri, e quelli relativi al trasporto delle foglie fino alla fornace (pro dietis minutorum operanorum qui collegerunt gencheriam ad faciendum vitra)19. In certi casi poteva anche avvenire che la massima parte dei vetri fosse importata da lontano. Nel contratto per la cappella funeraria di Richard Beauchamp nella collegiata di St Mary’s a Warwick (1447) si specifica che il vetro doveva venire d’oltremare e che non doveva essere impiegato alcun vetro inglese. In questo caso si tratta però di un esempio eccezionale, della vetrata più preziosa e costosa che un maestro vetrario inglese potesse produrre20. È possibile d’altra parte che il vetro prodotto in Inghilterra non sia stato per molto tempo che un vetro d’uso corrente, come il vetro verde prodotto a
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Chiddington nel Surrey21, e che la massima parte dei vetri per le grandi vetrate del duecento sia stata importata dalla Francia o dalla Germania. La notizia che provenissero dall’Inghilterra certe splendide vetrate donate all’abbazia di Braine alla fine del xii secolo smentirebbe questa ipotesi, ma si tratta di una informazione tardiva ed estremamente dubbia, come altrettanto dubbia, ma meno inverosimile data la superiorità francese in questo campo, è quella che una delle clausole dei trattati tra Luigi VII di Francia ed Enrico II d’Inghilterra avrebbe richiesto che uno dei migliori maestri vetrari francesi del tempo fosse libero di recarsi in Inghilterra22. Vetri di particolare pregio e con caratteristiche peculiari potevano, in certi casi, essere chiesti molto lontano, alle vetrerie veneziane per esempio.
Le vetrerie. L’antica tradizione della lavorazione del vetro si era mantenuta in Italia anche nell’alto medioevo (ne è un esempio la vetreria di Torcello); molto attive furono poi le vetrerie di Altare in Liguria, e numerose le fornaci nell’Italia settentrionale, in quella centrale23 e in Sicilia, mentre fu probabilmente a Roma che venne compilato, a una data che è ancora molto discussa24, il trattato De Coloribus et Artibus Romanorum che porta il nome di Eraclio, una cui parte, piú tarda del resto del testo, si occupa del vetro. Tuttavia le vetrerie veneziane, dal 1297 a Murano25, pur producendo i vetri più ricercati d’Europa e gli oggetti piú prestigiosi, non vennero particolarmente sollecitate dai maestri di vetrate. Del resto Giorgio Vasari sconsiglia l’uso dei vetri di Murano per questa tecnica, e ciò a causa della loro scarsa translucidità. Le fornaci che produssero la massima parte dei vetri per le vetrate si trovavano in Germania e in Francia,
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spesso in aree già celebri al tempo del tardo impero per la loro produzione vetraria, come il basso Reno o la valle della Senna. Per secoli la produzione del vetro per finestre fu considerata una specialità francese, e questa immagine troviamo ribadita nella prima pagina del trattato di Theophilus, laddove parla della preziosa varietà delle finestre francesi come di una delle peculiarità artistiche di questo paese. Ma assai prima questa situazione è illuminata dalla Historia Abbatum di Beda il Venerabile, che narra come l’abate Benedict Biscop, fondatore dei piú celebri monasteri del Northumberland, avesse inviato nel 675 emissari in Francia per cercarvi maestri vetrari che introducessero in Inghilterra questa tecnica sconosciuta, operazione poi ripetuta dall’abate Cuthbert nel 758. L’attendibilità di queste notizie è confermata dal ritrovamento di frammenti di vetrate del vii e del ix secolo negli scavi di Monkwearmouth e di Jarrow. Nel medioevo il vetro veniva fabbricato a partire da una mistura fatta di due terzi di ceneri vegetali, che contenevano potassa e servivano come fondenti abbassando la temperatura di fusione della sabbia, e di un terzo di sabbia di fiume ricca di silicio, a cui venivano aggiunti frammenti di vetro e di tessere di mosaico accuratamente ridotte in polvere. Raccolta in un recipiente, essa veniva sottoposta a una cottura in forno a una temperatura elevata di circa 1500 gradi, ma che poteva essere diminuita anche al di sotto di 1000 gradi se il tenore della soda era molto alto. In Francia si preferivano le ceneri di felce, che davano il cosiddetto «verre de fougère», in Germania quelle delle foglie del faggio, che entrano nella composizione del vetro chiamato «Waldglas». A parte le impurità e altri elementi variabili, la formula differiva da quella del vetro antico, ove invece di potassa (vale a dire carbonato di potassio) veniva piú
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generalmente impiegata soda, cioè carbonato di sodio, il che dava luogo a un prodotto piú soddisfacente, piú fine, malleabile e facile da lavorare e meno esposto a deterioramenti. Il ricorso alla soda, ottenuta dalle ceneri di certe alghe, piante marine o dei deserti, o dal sale dei laghi salati, che permetteva di ottenere un vetro di migliore qualità, sarà di nuovo più generalmente praticato, dopo un lungo periodo di parziale abbandono (nelle vetrerie situate nelle aree costiere mediterranee la soda però continuò a essere utilizzata)26, solo a partire dal xvi secolo, grazie all’intensificarsi delle comunicazioni e degli scambi. Già nel xii secolo però certi vetri azzurri particolarmente apprezzati, utilizzati nelle vetrate della facciata occidentale della cattedrale di Chartres, in certe vetrate di Saint-Denis o della cattedrale di York, contenevano alte percentuali di sali di sodio, e questo fenomeno si estende nel xiii secolo27. Altro elemento importante era la percentuale di silicio contenuta nella sabbia che si trovava nel vetro. Piú essa era alta, piú resistente e durevole era il prodotto; per contro una forte presenza di sali di potassio poteva rivelarsi alla lunga estremamente nociva: vetri che contengono meno del 14 per cento di sali di potassio si sono rivelati inattaccabili dalla corrosione, mentre aumentando la percentuale aumentano considerevolmente i rischi – si hanno crateri causati dalla corrosione confinati a certe zone quando la percentuale dei sali di potassio oscilla tra il 15 e il 18 per cento, crateri generalizzati quando la percentuale di questi sali va dal 18 al 27 per cento.
I colori. La colorazione dei vetri28 era dovuta all’impiego di ossidi metallici che venivano aggiunti agli altri compo-
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nenti del vetro e, in certa misura, anche ai tempi di cottura che potevano influenzare il grado di ossidazione. Si usavano il protossido di rame per ottenere il rosso, ossidi di rame o di ferro per il verde, di cobalto o di rame per l’azzurro (in particolare il prezioso ossido di cobalto proveniente dalla Boemia permetteva di ottenere azzurri profondi e luminosi)29, di ferro per il giallo, di manganese per il color porpora. Solo moderne analisi microscopiche, chimiche e spettroscopiche30 hanno fornito informazioni precise sugli ossidi utilizzati, come, del resto, sui componenti del vetro, punti sui quali gli antichi trattati rimanevano abbastanza vaghi. Alla colorazione dei vetri erano dedicati alcuni capitoli andati perduti del testo di Theophilus31. La pasta vitrea ottenuta grazie alla fusione della mistura di ceneri vegetali, sabbia, polvere di vetro e ossidi metallici era soffiata in cilindri, che venivano quindi tagliati all’estremità e nel senso della lunghezza onde permettere di distenderne la superficie, oppure in dischi piatti ottenuti per forza centrifuga dalla lavorazione di una bolla di vetro soffiato, raccolta su una punta di ferro e fatta girare rapidamente di fronte a un fuoco. In Germania si preferiva il metodo di lavorazione in cilindri, in Francia quello in dischi. Secondo che venisse impiegata l’una o l’altra lavorazione, potevano notevolmente variare la struttura del vetro, la disposizione delle bolle d’aria all’interno della massa, l’uniformità dello spessore, elementi tutti che producevano differenze di intensità nei colori, variazioni nella rifrazione della luce e influivano, quindi, sulle qualità del vetro prodotto. Theophilus dà un’efficace descrizione della fabbricazione di un cilindro di vetro soffiato: Se vuoi fare tavole di vetro, allora, alle prime ore del mattino, prendi una canna di ferro e ficca la sua estremità in un vaso pieno di vetro fuso. Quando il vetro aderisce alla canna
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comincia a girarla con la mano fino a quando non avrai raccolto attorno a essa quanto vetro avrai voluto. A questo punto tirala fuori, mettila in bocca e soffia leggermente. Leva immediatamente la canna dalla bocca e tienla vicina alla mascella per non rischiare di bruciarti con la fiamma quando aspiri. Abbi una pietra levigata e batti leggermente su questa con il vetro incandescente per eguagliarlo in ogni sua parte e torna a soffiare immediatamente e ripetutamente, sempre ricordandoti di togliere la canna dalla bocca. Quando vedi che il vetro pende dalla canna come una lunga vescica, esponi la sua estremità alla fiamma e subito questa si liquefarà e apparirà un buco. A questo punto prendi un legno adatto e allarga il buco fino a ottenere un diametro analogo a quello che è al centro della vescica […]32.
Vetri placcati. Il testo di Theophilus non accenna al fatto che molto frequentemente i vetri erano placcati, formati cioè da due o piú strati di diverso colore; ciò si otteneva immergendo successivamente la canna in vasi contenenti differenti paste vitree. Questo avveniva regolarmente nel caso dei vetri rossi, perché i sali di rame danno ai vetri una colorazione talmente forte e una tonalità cosí cupa da renderlo, quando abbia un certo spessore, completamente opaco. Se il vetro era soffiato in cilindri si veniva cosí a ottenere un foglio rosso da una parte e bianco dall’altra (in realtà generalmente vi erano numerosi strati), se invece era lavorato in dischi si aveva un vetro marezzato, in quanto la spinta centrifuga cui era sottoposto faceva sí che gli strati rossi e bianchi si disponessero irregolarmente. Nacquero cosí i bei vetri rossi marmorizzati del xii e del xiii secolo33. Analisi microfotografiche hanno permesso di accertare che, molto sovente, la struttura dei vetri rossi del
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xii secolo era estremamente complessa. Non soltanto lo strato piú spesso del vetro era incolore e il piú esiguo era rosso, ma quest’ultimo, lungi dall’essere omogeneo, era formato da sottilissime lamine di vetro rosso alternate ad altre di vetro incolore, una struttura che non mancava di avere conseguenze sui modi della penetrazione della luce, che traversava il vetro in modo non omogeneo e irregolare, dando origine a vibrazioni cromatiche e a una sorta di scintillio tale da produrre effetti simili a quelli delle gemme.34 Non solo il vetro rosso, ma anche altri vetri del xii secolo, come hanno mostrato gli esami cui sono stati sottoposti frammenti di vetrate trovati negli scavi della cattedrale di Spira, rivelano, all’esame microscopico, di essere stati trattati in maniera analoga; in certi casi si sono trovati vetri composti di finissime pellicole sovrapposte. Si tratta di vetri placcati due o tre volte con strati di colore (verde-giallo, verde-rosso, violaceo) alternati a strati incolori, vagamente verdastri. Ove si tratti di un vetro a piú strati, quello di colore piú forte si trova, generalmente, al centro. Nel caso di questi vetri stratificati il cilindro di vetro è immerso piú volte (non una sola come nel vetro placcato) in una fusione colorata o bianca35. Giorgio Vasari, che era stato allievo in giovinezza di un grande maestro vetrario, il francese Guillaume de Marcillat, nella Introduzione alle tre arti del disegno che precede le Vite, discute con grande competenza anche di pittura su vetro, indicando bene gli svantaggi di un vetro troppo scuro: la trasparenza consiste nel saper fare elezione di vetri, che siano lucidi per se stessi. Et in ciò meglio sono i franzesi, fiaminghi et inghilesi che i veniziani: perché i fiaminghi sono molto chiari, et i veniziani molto carichi di colore, e quegli che son chiari, adombrandoli di scuro, non perdono
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il lume del tutto tale che e’ non traspaino nell’ombre loro; ma i veniziani, essendo di loro natura scuri et oscurandoli di piú con l’ombre, perdono in tutto la trasparenza. Et ancora che molti si dilettino d’avergli carichi di colori, artifiziatamente soprapostivi, che sbattuti dall’aria e dal sole mostrano non so che di bello piú che non fanno i colori naturali, meglio è nondimeno aver i vetri di loro natura chiari che scuri, a ciò che da la grossezza del colore non rimanghino offuscati36.
Progettazione e fabbricazione. I vetri cosí preparati venivano quindi trasportati all’atelier. Qui il capomaestro preparava il modello della vetrata. Secondo un passo del testo di Theophilus dedicato alla composizione delle finestre vitree, egli si serviva di una tavola di legno liscia, spalmata da un fine impasto di gesso. Nel museo di Gerona in Catalogna sono conservati due frammenti di una tavola usata da un maestro vetrario del trecento per progettare il coronamento pseudo-architettonico di una delle vetrate della cattedrale; il fatto poi che la vetrata sia stata conservata rende possibile in questo caso un preciso confronto tra progetto ed esecuzione37. Sulla parte posteriore di un altare dipinto della fine del trecento nel duomo di Brandenburg sono d’altronde visibili resti di disegni per una vetrata, e questo mostra tra l’altro come nello stesso atelier si lavorasse sia alla preparazione di vetrate sia alla confezione di un polittico dipinto38. Vennero anche impiegati materiali piú maneggevoli del legno, come stoffa, pergamena, carta e, a partire dalla fine del trecento, si diffuse l’uso del cartone di origine italiana. Sopra la tavola coperta di gesso, con una punta di metallo, e con l’aiuto della riga e del compasso, venivano disegnate le dimensioni e la forma della finestra, il
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bordo e cosí via. Quindi, prima con la punta di stagno o di piombo, poi con il colore rosso o nero, venivano tracciate le linee, le ombre, le luci e i tratti delle immagini, in modo sufficientemente accurato da poterli trasporre sul vetro. I vari colori da utilizzare per le vesti venivano indicati sulla tavola con lettere differenti. I singoli pezzi di vetro venivano poi posti nei luoghi loro destinati sulla tavola e su di essi venivano riportati con il gesso i tratti e le linee quali si vedevano per trasparenza sulla tavola sottostante. Seguiva il taglio del vetro secondo le forme stabilite nel progetto. Esso veniva eseguito con un ferro rovente, i bordi venivano poi livellati con uno strumento chiamato, secondo il Vasari, «grisatoio» ovvero «topo».
La pittura del vetro A questo punto i vetri venivano dipinti con una tinta monocroma. Secondo Theophilus, nel capitolo che dedica al colore con cui si dipinge il vetro39, essa era composta in parti eguali da rame bruciato e ridotto in polvere, da frammenti di vetro verde e di «zaffiro greco» (verisimilmente un vetro azzurro di fabbricazione bizantina o veneziana o un carbonato di rame come l’azzurrite) che servivano da fondenti, schiacciati tra lastre di porfido e stemperati con estrema cura in vino o in urina. Due testi trecenteschi ci forniscono qualche informazione: uno è il celebre trattato di Cennino Cennini, pittore fiorentino direttamente legato alla tradizione giottesca in quanto allievo, come egli stesso precisa, di Agnolo Gaddi, e poi operoso a Verona. Questi, nel capitolo che nel suo testo dedica alla pittura del vetro, è abbastanza vago e accenna solo alla polvere di rame che entra nella preparazione: «un colore el quale si fa di limatura di rame ben macinato»40. Assai piú preciso l’al-
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tro testo, la Memmoria del magisterio de fare fenestre de vetro, opera questa volta di un uomo strettamente del mestiere, di un maestro vetrario, Antonio da Pisa41. Su questo punto la ricetta di Antonio da Pisa differisce da quella di Theophilus soprattutto nelle proporzioni che sono qui di due parti di vetro e una di rame: pilglia de quellj paternostrj piccolini de vetro giallo, cioè de quelli venentianj finj che sono a modo de ambre çalle, e pistalj bene: in polvere reducti e sutilmente macinatj, pilglia uno scudellino de scalcaglia de ramo che sia necta e pura, e duoj scudellini de questa polvere decta di sopra, e mescola insieme e macina insieme sotilmente sopre de um porfido: e questo è el colore negro.
Di «zaffiro greco» non si parla. Subito dopo però Antonio da Pisa aggiunge: Et quando non podessi avere dellj decti paternostri pilglia de lo smalto giallo, e fa’ come tu saj e metegli un pocho de (rosso?)42.
Con questa mistura i vetri venivano accuratamente dipinti secondo il progetto. Dopo quello della progettazione, il momento della pittura è la fase piú importante nella creazione di una vetrata. La tinta monocroma43 poteva essere di vari colori, nera se nel composto entravano sali di ferro, bruna ove ci fosse dell’ossido di rame, rossastra o verdastra. Essa poteva essere usata per modificare, almeno parzialmente, la tonalità di alcuni vetri. I vetri colorati infatti assorbono la luce in diversa misura e spetta al pittore di armonizzarli se vuole ottenere un risultato omogeneo. Cosí i vetri azzurri potevano, in certi casi, ricevere una velatura dipinta per diminuirne l’intensità (assai piú forte di quella dei vetri rossi) in favore del-
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l’effetto di insieme. D’altra parte la pittura veniva anche impiegata attorno al piombo che divide due vetri di colore differente per attenuare il contrasto dovuto all’accostamento di due superfici cromatiche diverse.
I tre toni della grisaille. Infine la pittura monocroma, ed era questo il suo precipuo e piú importante impiego, veniva utilizzata per delineare i contorni, i lineamenti di un volto, le pieghe di un panneggio e per creare effetti di modellato. Servendosi di essa il maestro dipingeva il vetro stendendovi successivamente strati di grisaille piú o meno leggeri, tracciava pieghe e lineamenti, accentuava le ombre, faceva trasparire le luci. L’operazione è cosí descritta da Theophilus in un capitolo dedicato ai tre modi da usare per fare le luci sul vetro: Se sarai applicato in questo lavoro potrai fare le ombre e le luci delle vesti allo stesso modo nel quale vengono fatte nella pittura che usa i colori. Quando, con la tinta che si è detto, avrai dato dei tocchi sulle vesti, distribuisci il colore con il pennello in modo che il vetro resti trasparente nelle parti in cui in pittura faresti le luci; e questo tocco in una parte sia denso, in altra leggero, in altra ancora leggerissimo, e distinto con tanta cura che paia quasi che tu abbia usato tre colori. E questo modo lo devi osservare anche sotto le sopracciglia, e intorno agli occhi, alle narici, al mento, e intorno al volto dei giovani, intorno ai piedi nudi e alle mani e attorno alle altre membra del corpo nudo. E la tua pittura sembrerà fatta con una varietà di colori44.
In uno splendido frammento di vetrata della metà del xii secolo che forse proviene da Lione o Saint-Denis, la cosiddetta Tête Gérente (dal nome del maestro vetrario
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ottocentesco che l’ebbe nella sua collezione) o nella piú tarda testa di san Paolo proveniente dal castello di Rouen, il procedimento illustrato da Theophilus è perfettamente visibile. Se egli mostra come simulare, con una sola tinta, l’impiego di colori diversi, possiamo constatare come, a partire da un certo momento almeno, la pittura monocroma non fosse piú di un solo tipo. In molte vetrate infatti si osserva l’uso di due tinte differenti, l’una nera, l’altra bruna, di composizione chimica diversa. In certe vetrate austriache del trecento si è altresí rilevato l’uso di una pittura verde45. Giorgio Vasari, nella Vita di Guglielmo da Marcilla nota: Adoprava Guglielmo solamente di due sorti colori per ombrare que’ vetri che voleva reggessino al fuoco: l’uno fu scaglia di ferro, e l’altro scaglia di rame: quella di ferro nera gl’ombrava i panni, i capelli et i casamenti, e l’altra, cioè quella di rame, che fa tané le carnagioni46.
Per molti aspetti la pratica della tinta monocroma è estremamente simile a quella di altri tipi di pittura ed è stato ben mostrato47 come i procedimenti della pittura su vetro fossero vicini a quelli della pittura murale, nel definire le forme, nel degradare le ombre, nel caratterizzare, con tratti piú spessi e sottolineati, i contorni e i lineamenti. Occorrerà considerare ancora un punto, il fatto cioè che questa pittura non era distesa sulla sola faccia interna del vetro, ma spesso anche sulla faccia esterna. Era il lato interno del vetro che la riceveva prevalentemente, ma per accentuare gli effetti delle ombre sui panneggi, per ottenere certi aspetti di sfumato nei volti e nei corpi si dipingeva la parte esterna dei vetri; così pure per ottenere certi aspetti di stoffe damascate il disegno del damasco veniva dipinto sull’esterno.
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Su tale lato, tuttavia, maggiormente esposto agli agenti atmosferici, questi ultimi, nonché le abrasioni prodotte da puliture troppo energiche, hanno spesso asportato la pittura. A Chartres, per esempio, essa è visibile sulle vetrate delle finestre esposte a sud, mentre è quasi scomparsa da quelle poste a settentrione48.
Pittura per via di levare. Nel caso del vetro, diversamente da quanto avviene per la pittura murale, il momento della asportazione della tinta era altrettanto importante di quello della stesura della medesima, perché il pittore su vetro non dipingeva solo con la grisaille e con l’accostamento dei vetri colorati, ma anche con la luce che traversa il vetro. Cosí il bordo di una vetrata, e talora il fondo, poteva essere ricoperto da uno spesso strato di pittura monocroma, da cui, per abrasione, venivano ricavate lettere, perle, greche, virgulti, foglie, rametti e altri elementi decorativi che si stagliavano chiari sul fondo scuro. Anche su questo punto il testo di Theophilus è eloquente: Si faccia anche qualche ornato nel vetro, e in particolare nelle vesti, nei troni e nei fondi, nel vetro azzurro, in quello verde e in quello chiaro di colore bianco e purpureo. Quando avrai fatto le prime ombre nei panneggi di questo tipo, ed esse saranno secche, ricopri ciò che resta del vetro con un colore lieve, che non sia tanto denso come la seconda ombra né tanto chiaro come la terza, ma medio tra queste due. Quando questo colore sia secco traccia con il manico del pennello intorno alle prime ombre che hai fatto dei tratti sottili da tutte e due le parti in modo che tocchi sottili di questo colore leggero rimangano tra queste linee e le ombre precedenti. Nel fondo poi fa’ circoli e rametti con
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fiori e foglie, allo stesso modo che si usa nelle lettere miniate, ma i fondi che nelle lettere miniate si riempiono con il colore, nel vetro devi dipingerli con sottilissimi ramoscelli. Puoi anche inserire qua e là in questi circoli bestiole, uccellini, insetti e figure nude49.
E altrove: Se vuoi tracciare delle lettere sul vetro, copri completamente con la grisaglia le parti sulle quali vuoi farle, e scrivile con il manico del pennello50.
Piú tardi Giorgio Vasari: volendoli dare lumi fieri, si ha un pennello di setole corto e sottile e con quello si graffiano i vetri in su il lume, e levasi di quel panno che aveva dato per tutto il primo colore, e con l’asticciuola del pennello si va lumeggiando i capegli, le barbe, i panni, i casamenti e’ paesi come tu vuoi51.
La pittura su vetro appare cosí caratterizzata come una tecnica ove l’operazione di «levare» ha un’importanza pari a quella di «porre». E se si potevano ottenere effetti straordinari grattando via con il manico del pennello la pittura distesa sul vetro, altri effetti ancor piú spettacolari si potevano ottenere scalfendo lo strato superficiale di un vetro doublé in modo da far apparire il secondo, di diverso colore. Di tale operazione parlano Antonio da Pisa e il Vasari: in un caso si procede con un acido, una sorta di acqua regia, nell’altro con uno strumento che scalfisce il vetro. Scrive, infatti, Antonio da Pisa: Se tu volissi fare uno leone o altro animale o altra cosa sopra um vetro rosso, talglia el vetro alla forma del leone o de quella cosa che tu vuoi fare e abbi della cera disfacta,
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come quando se fanno le candele, e mectegli dentro questo pecìo di vetro e tiralo fore e quando quello à refreddata questa cera che è apiccata ad questo vetro, valgli desengnando suso in questa cera, quelle parte del leone o d’altri animale che tu volissi fare, che tu vuoi che remangna biancha e cava via quella cera che tu ài desegnata; e quando l’arai cavata fa’ d’avere l’acqua da partire l’oro da l’argento, la quale acqua vendono li auriffici e da questa acqua mectine dentro alla cavatura che ài fatta nella cera cavata via, e lassavila stare questa acqua doi ore o tre e deventarà bianco; e poi, levata via quella cera con un coltello, fa’ d’avere dello smirilglio pesto con l’ piombo, un pocho de... e sfregalo suso, e verrà lustro e chiaro e bello. Ma nota che quando tu farai questo, guarda di farlo dal lato del colore cioè dove el vetro à el colore rosso, perché si tu l’acqua el metissi da lato dove non è el colore, non faristi niente52.
Quanto a Vasari avverte: segnando su un colore rosso un fogliame o cosa minuta, volendo che a fuoco venga colorito di altro colore, si può squamare quel vetro quanto tiene il fogliame con la punta di ferro che levi la prima scaglia del vetro, cioè il primo suolo e non la passi52.
Vetrate monocrome. In certi casi la pittura venne applicata non su vetri colorati nella massa, ma su vetri incolori. È questo il caso, per esempio, delle vetrate che si trovano in molte chiese cistercensi, in cui la decorazione è basata su elementi geometrici e vegetali, escludendo scene e personaggi. I motivi geometrici o vegetali della decorazione delle vetrate cistercensi talora derivano dal disegno delle transenne di marmo, dai claustra tardoromani o dagli ele-
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menti in stucco che costituivano l’ossatura della vetrata islamica54. Questo tipo di vetrata è da mettere in rapporto con le idee di san Bernardo sulla decorazione dell’edificio religioso. Desiderando che dall’interno della chiesa venisse bandito ogni elemento che potesse distogliere il monaco dalla preghiera, san Bernardo fu portato a prediligere un’arte povera, esclusivamente ornamentale, priva di suggestioni figurative, che si ponesse chiaramente in contrapposizione allo sfarzo sontuoso, carico di colore, dell’arte contemporanea, quale era ad esempio praticata nelle abbazie benedettine. L’uso del vetro monocromo dipinto a grisaille, o addirittura non dipinto, ma animato solo dal disegno dei piombi, come per esempio avviene nelle vetrate monocrome della chiesa di Orbais, fu praticato per lo piú, ma non certo esclusivamente, nelle chiese cistercensi; è frequente fin dal xiii secolo accanto a vetrate intensamente colorate per permettere una maggiore luminosità. Sarà poi dalla metà del duecento che assumerà una nuova importanza. Larghi fondi incolori dipinti a pittura monocroma incorniceranno allora scene e personaggi trattati cromaticamente. Si fa strada un gusto del camaieu, degli effetti sottili che contrasta con i violenti cromatismi del momento precedente55.
Cottura della grisaille. Una volta dipinti, i vetri erano cotti in forno per stabilizzarne la pittura, operazione che è descritta da Theophilus, da Antonio da Pisa e da Vasari56. La grisaille, il cui punto di fusione (circa 6oo gradi) era inferiore a quello del vetro su cui era posta, si fondeva aderendo perfettamente alla superficie vitrea e penetrando
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nei suoi pori. È questo un elemento fondamentale per la durata e la conservazione delle vetrate. Quando la pittura di una vetrata o di una sua parte mostra di non avere ben resistito agli agenti atmosferici, la ragione ne è per lo piú una cottura non regolare, o una inadeguata composizione della tinta, o, in certi casi, la composizione del vetro di supporto. Quando la cottura riusciva, il vetro dipinto poteva affrontare i rischi dell’esposizione agli agenti atmosferici piú sfavorevoli e alle ingiurie del tempo. La pittura monocroma non poteva tuttavia giungere a modificare il colore, per cui, quando nella vetrata era necessario un mutamento cromatico, era giocoforza inserire un nuovo pezzo di vetro e un listello di piombo che lo reggesse. Gli stacchi cromatici sono di conseguenza bruschi, le uniche modulazioni di tono sono quelle consentite dalla pittura monocroma, altrimenti si passa bruscamente da un colore a un altro.
Il giallo d’argento. La possibilità di avere su un unico pezzo due distinti colori si ha solo con l’introduzione del cosiddetto «giallo d’argento», un composto di sali metallici (nitrati, solfuri o cloruri d’argento) o, piú semplicemente, una limatura d’argento che, steso sul vetro, generalmente sulla sua parte esterna, ed esposto alla cottura, assume un colore dorato. Questa tecnica, che era conosciuta in oriente già nell’alto medioevo (in Egitto era utilizzata fin dal vi secolo per decorare i vasi), arrivò in occidente forse tramite il Lapidario di Alfonso il Savio, re di Castiglia, redatto tra il 1276 e il 1279, e venne adottata e diffusa in Francia fin dagli inizi del trecento (se ne conserva un esempio datato 1312)57. Essa permette di modificare il colore su una singola parte della superficie
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di un vetro. Per fare un esempio, su uno stesso frammento di vetro possono coesistere una parte bianca e una dorata. Mentre prima dell’introduzione del giallo d’argento, per rappresentare il volto chiaro e i capelli biondi di un personaggio occorreva cambiare vetro e inserire tra i due frammenti un listello di piombo, con il ricorso al nuovo ritrovato l’operazione poteva essere eseguita sullo stesso frammento di vetro senza introdurre un piombo supplementare. Oltre che sul vetro incolore, il giallo d’argento è stato utilizzato sul vetro colorato, dando luogo a differenti effetti cromatici: si ottiene per esempio il verde ponendolo su un vetro azzurro, o l’arancio ponendolo su un vetro rosso.
«Come apporre gemme sul vetro dipinto». Anche prima dell’introduzione del giallo d’argento fu possibile, in qualche caso molto particolare e circoscritto, nell’ornamento di un bordo, di una corona, di una croce, di una veste, inserire un frammento di vetro entro un vetro di colore diverso senza l’uso del piombo: è quanto illustra Theophilus nel ventottesimo capitolo del suo secondo libro, intitolato Come apporre gemme sul vetro dipinto. Si indica qui come si potessero disporre su un vetro dipinto, non ancora passato alla ricottura necessaria per rendere solida e aderente la tinta monocroma, frammenti di vetro colorato, azzurro o verde, in modo da simulare delle gemme, come si dovessero circondare con il pennello questi frammenti con un denso strato di pittura monocroma, e come tutto dovesse essere quindi disposto nel forno per la ricottura del vetro. In questo modo le false gemme venivano ad aderire al vetro come la tinta monocroma. Su una vetrata del xii secolo a Chemillé-sur-Indrois in Turenna è stato identificato questo procedimento58, che appare praticato anche sui bordi
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della vetrata dell’albero di Jesse della cattedrale di Ratisbona (circa 1225-30). Questo tipo di lavorazione non ha tuttavia trovato applicazione che in casi molto particolari, o, piú verisimilmente, data la fragilità del prodotto, non ne sono stati conservati che pochissimi esempi, alcuni dei quali si trovano anche in vetrate più tarde a Klosterneuburg e a York, databili tra il 1375 e il 143059.
La messa in piombo. All’operazione della ricottura del vetro segue quella, delicatissima, della messa in piombo. I doppi righelli di piombo a profonde gole che, visti in sezione, formano una H maiuscola, servivano a tenere insieme i diversi pezzi di vetro e nel tempo stesso a sottolineare il disegno delle immagini. Venivano in questo modo a svolgere il ruolo fondamentale di scheletro portante e di schema lineare, unendo una funzione statica a una compositiva. Questi piombi erano fusi in forme di ferro, di legno e di altro materiale60 e rifiniti in un secondo tempo a mano. I vetri erano poi introdotti entro le gole del righello di piombo tra le due ali che venivano ribattute per assicurare una buona tenuta. Nei differenti punti di giunzione si procedeva alla saldatura dei piombi. Assai poche sono le vetrate del xiii o del xiv secolo giunte fino a oggi conservando i loro piombi originali; nella massima parte dei casi i piombi antichi sono stati sostituiti durante i restauri causando danni spesso assai gravi. La raffinata sottigliezza delle antiche montature non è per la maggior parte dei casi piú recuperabile, e la sostituzione dei piombi sovente ha potuto alterare profondamente il disegno di una vetrata rendendone piatte e inerti le linee di contorno61. Un passo della Vita di Guglielmo da Marcilla del Vasari62 illumina l’importanza del trattamento dei piombi; vi leggiamo infatti:
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Disegnò costui le sue pitture per le finestre con tanto buon modo et ordine, che le commettiture de’ piombi e de’ ferri che attraversano in certi luoghi, l’accomodò di maniera nelle congiunture delle figure e nelle pieghe de’ panni che non si conoscano, anzi davano tanta grazia che piú non arebbe fatto il pennello: e cosí seppe fare della necessità virtú.
L’armatura. Il peso dei vetri e dei piombi era molto grande, e una vetrata avrebbe rischiato di deformarsi completamente se non fosse stata inquadrata e contenuta da un’armatura. I montanti di questa erano, in origine, fissati a un telaio di legno che incorniciava la vetrata (ne abbiamo qualche residuo frammento del xiii secolo a Noyon, Reims, Canterbury, York), il quale era, a sua volta, assicurato alla finestra. L’uso del telaio di legno venne tuttavia abbandonato, perché troppo poco resistente, nel corso del xiii secolo e le sbarre dell’armatura in ferro vennero direttamente fissate ai bordi e ai montanti della finestra63. In origine il disegno dell’armatura era assai semplice. Le sbarre di ferro erano sistemate sia verticalmente sia orizzontalmente formando dei quadrati di 6o-8o centimetri di lato, tendenzialmente simili. Il disegno dell’armatura non influiva in questi casi nella soluzione compositiva della vetrata. Quando si trattava di finestre a più episodi il maestro vetrario adottava una soluzione a medaglioni sovrapposti e contigui. Un mutamento importantissimo si verificò nella impaginazione delle vetrate: da un tipo di vetrata a medaglioni rigidamente sovrastanti si passò a combinare piú medaglioni insieme in forme svariate. I primi esempi si trovano in vetrate dell’abbazia di Saint-Denis,
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delle cattedrali di Châlons-sur-Marne64 e di Angers, poi il medaglione composito conobbe a Chartres come a Bourges un rapido sviluppo. Migliorie tecnologiche consentirono quindi di sostituire alle intelaiature tradizionali a barre perpendicolari una intelaiatura più flessibile, con elementi curvilinei in ferro battuto che seguivano la forma dei medaglioni. In questo modo l’armatura, da elemento puramente funzionale, assunse un ruolo importante nella composizione della finestra. Tuttavia il ruolo compositivo dell’armatura in ferro non fu che un breve intermezzo: verso la metà del xiii secolo si rinunciò definitivamente alle forme complicate dell’armatura per ritornare alle tradizionali barre diritte65.
Deterioramento e restauro. Restauri sono stati largamente praticati sulle vetrate nei secoli passati. Talora si trattò di sostituzioni pressoché complete di volti, personaggi, animali, architetture con nuovi vetri dipinti, talaltra si improvvisò una sorta di patchwork utilizzando come tappabuchi frammenti di altre vetrate. La fragilità dei materiali, la loro esposizione prolungata per secoli alle intemperie, e particolarmente al crescente inquinamento atmosferico, ha fatto sí che interventi d’urgenza di restauro, consolidamento, pulitura si siano moltiplicati negli ultimi trent’anni sulle vetrate medievali. Gli elementi piú esposti alle minacce della polluzione sono il vetro stesso e la pittura monocroma che lo copre. Lungi dall’essere messi in pericolo soltanto dalla loro intrinseca fragilità, e quindi minacciati nel tempo da grandinate, sassi, esplosioni, uccelli, i vetri sono infatti, piú o meno, a seconda della loro composizione chimica (piú vulnerabili, come si è detto, quelli ricchi in sali di potassio), minacciati di degradazioni, ero-
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sioni, sfaldamenti, incrostazioni che ne modificano le tonalità ne riducono o addirittura ne annullano la trasparenza attraverso processi di devitrificazione. Cadendo su vetri potassici, l’acqua contribuisce a scioglierne i costituenti alcalini, e disgrega di conseguenza il tessuto siliceo che costituisce il vetro. D’altra parte l’azione dell’anidride carbonica è causa della formazione di carbonati, specie sulle facce esterne dei vetri, e quella dell’anidride solforosa contribuisce al depositarsi sulle facce esterne di gesso (solfato di calcio) o di solfati di calcio e potassio che erodono il vetro in profondità, ne modificano i colori, lo rendono opaco e danneggiano anche la pittura monocroma che vi è sovrapposta. A sua volta questa pittura, la cui aderenza è stata ottenuta con una successiva cottura che l’ha vetrificata, può, a causa del differente coefficiente di dilatazione che ha rispetto al vetro, sfaldarsi e cadere. La incomparabile differenza di conservazione che può essere verificata nelle residue vetrate di Saint-Denis, di cui alcuni frammenti, entrati in collezioni e musei già sul finire del settecento, sono stati ospitati da allora in ambienti protetti, mentre altri sono stati rimontati in loco ed esposti alla polluzione degli ultimi due secoli, mostra ad abundantiam gli effetti tragici dell’inquinamento atmosferico sulle vetrate. Si è trattato dunque di correre ai ripari fermando i processi di degradazione, restituendo la trasparenza, consolidando la pittura, cambiando i piombi ed eventualmente le armature. Interventi particolarmente importanti hanno avuto luogo a Friburgo, Norimberga, Augusta, Canterbury sulle vetrate occidentali del xiii secolo, alla cattedrale di Chartres nel 197766, e successivamente su una serie di vetrate duecentesche delle cattedrali di Chartres, di Bourges, di Troyes, di Le Mans, su quelle trecentesche di Saint-Père di Chartres, di Evreux o di Saint-Ouen a Rouen, e hanno dato luogo a numerosi scritti e dibattiti67.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali Si veda la definizione di Vitrail in n. blondel, Le Vitrail, Vocabulaire typologique et technique, Paris 1993, pp. 6o sgg., e si noti che l’italiano non ha la distinzione esistente in francese tra verrière e vitrail, dove il primo termine è piú generale e il secondo ne rappresenta una forma e una tipologia particolari. 2 e. h. langlois, Essai Historique et Descriptif sur la Peinture sur Verre ancienne et moderne, Rouen 1832, p. 64. 3 Sulla tecnica delle vetrate si vedano particolarmente j. j. gruber, Technique, in aa.vv., Le Vitrail Français, Paris 1958, pp. 55-70; e. frodl-kraft, Die Glasmalerei, Wien 1970, pp. 29-64; j. lafond, Le Vitrail, 3a ed. a cura di F. Perrot, Lyon 1988, pp. 37-70; c. lautier, La technique du vitrail à la Renaissance, in aa.vv., Vitraux parisiens de la Renaissance, Paris 1993, pp. 163-70. Sulla letteratura tecnica medievale cfr. b. bischoff, Die Überlieferung der technischen Literatur, in Arte e tecnica nella società dell’alto medioevo, Settimane del Centro di Studi sull’Alto Medioevo, 18, 1971, pp. 267-96. 4 g. e. lessing (a cura di), Theophili Presbyteri Diversarum Artium Schedula, edito postumo da c. leiste in Zur Geschichte und Literatur aus den Schätzen der herzoglichen Bibliothek zu Wolfenbüttel, Braunschweig 1781. Sui manoscritti e le edizioni del testo di Theophilus cfr. d. v. thompson jr, The Schedula of Theophilus Presbyter, in «Speculum», vii (1932), pp. 199-220; r. parker johnson, The Manuscripts of the Schedula of Theophilus Presbyter, in «Speculum», xiii (1938), pp. 86-103; b. bischoff, Die Überlieferung des Theophilus = Rugerus nach der ältesten Handschriften, in «Münchner Jahrbuch d. bildende Kunst», iii-iv (1952-53), pp. 145-49. Sul vocabolario di Theophilus, l. thorndyke, Words in Theophilus, in «Technology and Culture», vi (1965), pp. 442-43; d. v. thompson jr, Theophilus Presbyter Words and Meaning in Technical Translations, in «Speculum», lxii (1967), pp. 313-39. Tra le edizioni del testo varrà la pena di ricordare almeno la fondamentale edizione che ne diede a. ilg (Wien 1874); quella riccamente annotata, specie dal punto di vista della tecnologia, dell’ingegner w. theobald (Technik des Kunsthandwerks im Zehnten Jahrhundert. Das Theophilus Presbyter Diversarum Artium Schedula, Berlin 1933); quella già citata del Dodwell e la traduzione inglese, particolarmente attenta agli aspetti tecnici, del filologo j. g. hawthorne e dello storico delle tecniche c. s. smith, On Divers Arts. The Treatise of Theophilus translated from the medieval latin with introduction and notes, Chicago 1963. 5 l. white jr, Theophilus Redivivus, in «Technology and Culture», v (1964), pp. 224-33, ripubblicato nella raccolta di saggi dello stesso autore con il titolo Medieval Religion and Technology. Collected Essays, Berkeley 1978, pp. 93-103; j. van engen, Theophilus Presbyter and Rupert of Deutz: The Manual Arts and Benedictine Theology in the Early Twelfth Century, in «Viator», xi (198o), pp. 147-63. 1
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali e. freise, Roger von Helmarshausen, ein maasländischer Künstler und Mönch in Westfalen, in G. Jaszai (a cura di), Monastisches Westfalen, Klöster und Stifte 800-1000, Münster 1982, pp. 287 sgg.; K. Weidemann (a cura di), Das Reich der Salier, Sigmaringen 1992, pp. 388 sgg. 7 j. van engen, Theophilus Presbyter and Rupert of Deutz cit. 8 theophilus, The Various Arts - De Diversis Artibus, edizione a cura di c. r. dodwell, London 1961, cap. i, p. 63. 9 Cfr. il capitolo Historical development of glass in r. newton e S. davison, Conservation of Glass, London 1989, e si veda la voce Verre in blondel, Le Vitrail cit., pp. 152 sgg. 10 d. b. harden, nel catalogo della mostra Vetri dei Cesari, Milano 1988. 11 Cfr. Le verre plat et ses mises en œuvre, in blondel, Le Vitrail cit., pp. 177 sgg. 12 f. rademacher, Die deutsche Gläser des Mittelalters, Berlin 1933; j. barrelet, La verrerie en France de l’époque gallo-romaine à nos jours, Paris 1953; p. piganiol, Le Verre, son histoire et sa technique, Paris 1965; d. foy, Le verre médiéval et son artisanat en France méditerranéenne, Paris 1988. 13 barrelet, La verrerie en France cit. 14 d. b. harden, Medieval Glass in the West, in Proceedings of the 8th International Congress on Glass, Sheffield 1969, pp. 91-99, afferma che la presenza di fornaci per il vetro era corrente nelle abbazie benedettine. 15 o. lehmann-brockhaus, Schriftquellen zur Kunstgeschichte des 11 und 12 Jahrhunderts für Deutschland, Lothringen und Italien, Berlin 1938, p. 722, nn. 3042-43. 16 r. j. charleston, Glass «cakes» as raw material and articles of commerce, in «Journal of Glass Studies», v (1963), pp. 54-68. Per i ritrovamenti pavesi cfr. b. ward perkins, I frammenti di vetrate, in aa.vv., Scavi nella torre civica di Pavia, in «Archeologia Medievale», v (1978), pp. 101-7. 17 Cfr. y. delaporte, Les Vitraux de la Cathédrale de Chartres, Chartres 1926, vol. I, pp. 22 e 25. 18 Per una esemplare analisi del mercato del vetro nella Francia meridionale cfr. foy, Le verre médiéval cit. 19 a. millet, Histoire d’un four à verre de l’ancienne Normandie, Paris-Rouen 1871, p. 10-12; j. lafond, La prétendue invention du «plat de verre» au XIVe siècle et les familles de «grosse verrerie» en Normandie, in «Revue des Sociétés Savantes de Haute Normandie», l (1968). 20 j. d. le couteur, Ancient Glass in Winchester, Winchester 1920, p. 104; c. woodforde, English Stained and Painted Glass, Oxford 1954, p. 22. 6
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali h. arnold, intervento sulla relazione di c. heaton, The foundation of stained glass work, in «Journal of the Royal Society of the Arts», 18 marzo 1910, p. 467. e. s. godfrey, The Development of English Glass Making 1560-1640, Oxford 1975, nota che prima del 1567 la produzione vetraria inglese è insignificante. 22 n. h. j. westlake, A History of Design in Painted Glass, London 1881, vol. I, p. 38; m. harrison caviness, Sumptuous Arts at the Royal Abbeys in Reims and Braine, Princeton 1990, p. 123, nota 109. 23 m. mendera, La produzione di vetro nella Toscana bassomedievale, Firenze 1989, con buona bibliografia. 24 m. merrifield, Original Treatises dating from the Twelfth Century to the Eighteenth Century on the Arts of Painting, London 1849, vol. I, pp. 166-257. Su Heraclius cfr. a. giry, Mélanges publiés par l’Ecole des Hautes Etudes, Paris 1878, pp. 109-227. 25 Sulle vetrerie veneziane e più in generale sui problemi della storia e della tecnica del vetro si vedano i fondamentali saggi di l. zecchin, Vetro e vetrai di Murano. Studi sulla storia del vetro, Venezia 1987-90. 26 foy, Le verre médiéval cit., pp. 31 sgg. 27 j.-m. bettembourg, La dégradation des vitraux, in «Revue du Palais de la Découverte», vi (1977), p. 43. 28 Cfr. blondel, Le Vitrail cit., pp. 159 sgg. 29 Sulla difficile commercializzazione di questi sali minerali cfr. m.-m. gauthier, Emaux du Moyen-Age Occidental, Fribourg 19722, pp. 22 sgg. 30 c. d. vassas, Etude colorimétrique de verre de vitraux au Moyen Age, in IX Congrès International du Verre, Communications artistiques et historiques (Versailles 1971), Paris 1972, pp. 267-93. 31 Cfr. On Divers Arts. The Treatise of Theophilus cit., p. 58, nota 1; j. lafond, Le Vitrail, Lyon 1988, p. 43. 32 theophilus, De Diversis Artibus cit., pp. 40-41. 33 j. r. johnson, Modern and Mediaeval Stained Glass, in «Art Bulletin», xxxviii (1956), pp. 185 sgg.; lafond, Le Vitrail, cit. p. 43. 34 j. r. johnson, Stained Glass and Imitation Gems, in «Art Bulletin», xxxix (1957), p. 221 sgg. 35 e. frodl-kraft, Le Vitrail Médiéval. Technique et esthétique, in «Cahiers de Civilisation Médiévale», x (1967), p. 3. 36 g. vasari, Le Vite..., edizione a cura di r. bettarini e p. barocchi, Firenze 1966, vol. I, p. 16o. 37 j. vila-grau, La table du peintre-verrier de Gérone, in «La Revue de l’Art», 72, 1986, pp. 32-34; id. in j. ainaud de lasarte, Els vitralls de la catedral de Girona, Barcelona 1987, pp. 49-52. 38 Cfr. k. joachim maercker, Überlegungen zu drei Scheibenrissen auf den «bömischen Altar» in Dom zu Brandenburg, in «Österreichische Zeitschrift für Kunst und Denkmalpflege», xl (1986), pp. 183 sgg. 21
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali theophilus, De Diversis Artibus cit., cap. xviii, De colore cum quo vitrum pingitur, p. 49. 40 c. cennini, Il Libro dell’Arte o Trattato della Pittura, a cura di F. Tempesti, Milano 1975, p. 135. 41 Il testo di Antonio da Pisa, conservato nel manoscritto 692 della Biblioteca del Sacro Convento di Assisi, è stato ripetutamente pubblicato tra la fine dell’ottocento e il primo novecento. Si veda la storia della sua vicenda critica nell’edizione curata da s. pezzella, Il trattato di Antonio da Pisa sulla fabbricazione delle vetrate artistiche, Perugia 1976, con una prefazione di G. Marchini, e in quella di p. monacchia in Vetrate. Arte e Restauro, Milano 1992, pp. 51-69. 42 antonio da pisa, Memmoria del magisterio de fare fenestre de vetro, trascrizione di p. monacchia, in Vetrate cit., pp. 56-57. 43 Cfr. voce Grisaille sur verre in blondel, Le Vitrail cit., pp. 258 sgg. 44 theophilus, De Diversis Artibus cit., p. 50. Sulla Tête Gérente cfr. c. brisac in «Revue de l’Art», 47, 1980, pp. 72-75. 45 e. frodl-kraft, Beobachtungen zur Technik und Conservierung mittelalterlichen Glasmalereien, in «Österreichische Zeitschrift für Kunst und Denkmalpflege», xiv (196o), pp. 69 sgg. 46 vasari, Le Vite cit., vol. IV, p. 221. 47 frodl-kraft, Le Vitrail cit. 48 g. frenzel, Schwarzloterhaitung und Schwarzlotrestaurierung beim mittelalterlichen Glasmalereien, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», xxiii (1960), pp. 1 sgg.; l. grodecki, La quatrième réunion internationale du Corpus Vîtrearum Medii Aevi et ses enseignements, in «Bulletin Monumental», cxxi (1963), pp. 73-82, particolarmente pp. 77-8o; c. lautier, Les peintres-verriers des bas-côtés de la nef de Chartres au début du XIIIe siècle, in «Bulletin Monumental», cxlviii (1990), p. 43, nota 43. 49 theophilus, De Diversis Artibus cit., cap. xxi, De ornatu picturae in vitro, pp. 5o-51. 50 Ibid., p. 49. 51 vasari, Le Vite cit., vol. I, p. 162. 52 antonio da pisa, Memmoria cit., pp. 62-64. 53 vasari, Le Vite cit., vol. I, p. 162. 54 e. frodl-kraft, Die Glasmalerei: Entwicklung, Technik, Eigenart, Wien 1970, p. 16 sgg. 55 m. parsons lillich, The Band Window: A Theory of Origin and Development, in «Gesta», ix (1970), pp. 26 sgg.; id., A Redating of the Thirteenth Century Grisaille Windows of Chartres Cathedral, in «Gesta», xi (1972), pp. 11 sgg.; id., Three Essays on French Thirteenth Century Grisaille Glass, in «Journal of Glass Studies», xv (1973), pp. 69 sgg.: id., The Stained Glass of St. Père de Chartres, Middletown 1978 (cfr. v. chieffo raguin in «Speculum», 1980, n. 1). 39
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali theophilus, De Diversis Artibus cit., libro II, cap. xxiii, Quomodo coquatur vitrum, p. 52; antonio da pisa, Memmoria cit., p. 57; vasari, Le Vite cit., vol. I, p. 163. 57 j. lafond, Pratique de la peinture sur verre à l’usage des curieux suivi d’un essai historique sur le jaune d’argent et d’une note sur les plus anciens verres gravées, Rouen 1943; id., Un vitrail de Mesnil Villemain et les origines du jaune d’argent, in «Bulletin de la Société Nationale des Antiquaires de France», 1954, pp. 93 sgg.; id., Le Vitrail cit., pp. 55 sgg.; m. parsons lillich, European stained glass around thirteenth hundred: the introduction of silver stain, in Europäische Kunst um 1300, Atti del XXV Congrès International d’Histoire de l’Art (VI sezione), Wien 1986, pp. 45-6o; blondel, Le Vitrail cit., pp. 278 sgg. 58 a. granboulan, Chemillé-sur-Indrois, un exemple méconnu d’un procédé de fabrication du vitrail, in «Bulletin Monumental», cxlviii (1990), pp. 90-91. 59 l. grodecki, Le chapitre XXVIII de la Schedula du Moine Théophile: technique et esthétique du vitrail roman, in «Comptes rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles Lettres», 1976, pp. 345-57; s. brown e d. o’connor, Glass Painters, London 1991, pp. 62-63; blondel, Le Vitrail cit., pp. 316 sgg. 60 Sulla fusione e la preparazione dei piombi cfr. theophilus, De Diversis Artibus cit., pp. 53 sgg.; vasari, Le Vite cit., vol. I, p. 163. Sulla tipologia e la terminologia cfr. blondel, Le Vitrail cit., pp. 134 sgg. 61 Sul ruolo dei piombi nel disegno della vetrata e sui problemi della loro sostituzione ha richiamato l’attenzione l. grodecki nel catalogo dell’esposizione Vitraux de France, Paris 1953, pp. 26 sgg., 53. Cfr. anche il suo intervento La quatriéme réunion internationale cit. particolarmente pp. 80-81; gruber, Technique cit., pp. 6o sgg.; e. frodl-kraft in «Österreichische Zeitung für Kunst und Denkmalpflege», xviii (1963), pp. 38 sgg.; d. rentsch, Wohin mit den mittelalterlichen Bleifeldern der Kölner Hochverglasung?, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», lvi (1992), pp. 227-85. 62 vasari, Le Vite cit., vol. IV p. 221. 63 lafond, Le Vitrail, cit., pp. 69-70; blondel, Le Vitrail cit. pp. 32 sgg. 64 j. hayward, Stained Glass Window, in The Year 1200. A Background Survey, New York 1970, p. 69. 65 frodl-kraft, Le Vitrail, cit., p. 7. 66 Cfr. il numero i del 1977 della rivista «Les Monuments Historiques de la France». 67 Una bibliografia critica sui problemi della conservazione è stata raccolta da r. newton, The Deterioration and Conservation of Painted Glass. A Critical Bibliography, London 1974. Una seconda edizione, piú 56
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali estesa e completamente rimaneggiata, di quest’opera è stata pubblicata nel 1982. Successivamente si veda la bibliografia raccolta nella seconda sezione di m. harrison caviness, Stained Glass before 154o. A Critical Bibliography, Boston 1983; g. frenzel, Il restauro delle vetrate medioevali, in «Le Scienze-Scientific American», luglio 1985, pp. 98-105; gli articoli di c. di matteo, Les verrières de Chartres, e di g. nicod, La sauvegarde des vitraux de Chartres, nel n. 153 (Les Cathédrales) di «Monuments Historiques», 1987, pp. 75-84; il volume 7, 1991, della rivista «Vitrea»; Vetrate. Arte e Restauro cit.; e m. harrison caviness, The Politics of Conservation and the Role of the Corpus Vitrearum in the Preservation of Stained Glass Windows, in Künstlerische Austausch, Atti del XXVIII Congrès International d’Histoire de l’Art, vol. III, Berlin 1993, pp. 381-86. Si veda anche il manuale di r. newton e s. davison, Conservation of Glass, London 1989, e la parte IV, Les altérations, remaniements, et restaurations, pp. 350-401, del volume di blondel, Le Vitrail, già piú volte citato.
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Capitolo terzo Atelier e committenti
Se conosciamo discretamente la tecnica con cui vennero eseguite le vetrate medievali, meno sappiamo di coloro che vi lavorarono; se siamo in grado di intendere i modi e i tempi della loro esecuzione, non molto sappiamo dell’organizzazione su cui si basava l’attività della bottega di un maestro vetrario. In molti casi i documenti ci mostrano che una bottega di maestro vetrario nel trecento consisteva di non piú di due o tre persone, il maestro stesso e uno o due apprendisti o aiuti1; tuttavia diversi maestri potevano essere chiamati temporaneamente a collaborare alla medesima impresa, tanto che non sarebbe corretto parlare di una bottega o di un atelier come di qualcosa che rimane immobile nel variare delle età e delle situazioni. Dovremmo sempre distinguere tra le singole botteghe gestite e portate avanti da un maestro e quelle aggregazioni temporanee, ma talora di lunga vita, che risultano dal convergere in un’impresa o in una serie di imprese di maestri vetrari di differente origine. Possiamo esser certi, e i documenti ce lo confermano, che, almeno a partire da quando le imprese di invetriatura cominciarono a crescere di numero e di dimensioni, l’artista che ideava, progettava ed eventualmente dipingeva le vetrate non lavorava solo, ma faceva parte di una vera e propria squadra, di un gruppo, magari assai ristretto, che conosceva però al suo interno, specie quando
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si trattava di iniziative su larga scala, una divisione dei ruoli e del lavoro.
Officine monastiche e urbane. Questi gruppi potevano essere formati da religiosi o da laici, legati a uno stabilimento abbaziale, a una corte oppure a un cantiere urbano. In base ai documenti che ci sono rimasti si direbbe che per secoli la produzione delle vetrate sia stata prevalentemente, ma non esclusivamente, legata ad abbazie e a monasteri, in modo del resto analogo a quanto avveniva per la maggior parte della contemporanea produzione artistica. Esistevano anche maestri vetrari che lavoravano per le corti, come quel Baldricus o quel Ragerulfus che nell’anno 862 erano presenti alla corte di Carlo il Calvo con mogli e figli. Per un certo tempo, tuttavia, i nomi di maestri vetrari che conosciamo sono in prevalenza legati a quelli di una chiesa o di un monastero, il che non significa che coloro che lavoravano attorno a un edificio religioso fossero monaci o membri del clero secolare: in molti casi si trattava di conversi. Dalle cronache e dai documenti emergono non pochi nomi che, anche se non trovano riferimento in alcuna opera conservata, testimoniano di come ben prima del xii secolo fosse diffusa la pratica di questa tecnica (se ne parlerà piú specificatamente in un prossimo capitolo), e di come essa si diffondesse e si allargasse particolarmente a partire da questo momento. Uno Stracholfus lavorava vetrate a San Gallo ai tempi di Ludovico il Pio2; successivamente, nell’xi secolo, un Fulco «pittore versato nell’arte», legato al monastero di Saint-Aubin ad Angers, aveva avuto il compito di occuparsi della decorazione pittorica del monastero e delle sue vetrate, secondo i temi che gli sarebbero stati indicati. A queste
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condizioni sarebbe diventato converso e uomo libero dell’abate, e avrebbe ricevuto in feudo una vigna e una casa. Un vetrario Wernherus famiglio del monastero è menzionato a proposito del monastero di Petershausen presso Costanza3. Ma un pittore di vetrate poteva anche diventare canonico: fu questo per esempio il caso, nell’xi secolo, di un maestro vetrario nominato canonico onorario dal vescovo di Auxerre, Geoffroy de Champallement (1051-76), condividendo questa promozione con un orafo e con un pittore (aurifabrum mirabilem, pictorem doctum, vitrearium sagacem)4 o di Guillelmus vitrearius canonico a Le Mans all’inizio del xii secolo. Piú tardi, intorno alla metà del xii secolo, conosciamo il nome di un Daniel, «povero lavorante del vetro e quasi laico» che, con l’aiuto del re d’Inghilterra Stefano, sostituí l’abate in carica di Saint-Benet-at-Holme e a cui mancò poco per divenire, sempre con l’appoggio del sovrano, arcivescovo di Canterbury5. Con la crescita e il ruolo sempre maggiore delle città nel xii e nel xiii secolo si assiste a una progressiva urbanizzazione degli atelier. Mentre la vetrata uscita da un’officina abbaziale mostrava stretti rapporti con la miniatura e lo smalto, la vetrata della cattedrale mostrerà sovente maggiori rapporti con la grande scultura praticata nei cantieri delle cattedrali cittadine. Diverse microtecniche venivano infatti praticate nei laboratori e negli scyiptoria dei conventi, e le consuetudini cluniacensi dette di Farfa (prima del 1049) indicano come a Cluny nella prima metà dell’xi secolo, per il lavoro di orafi, smaltisti e maestri di vetrate fosse esplicitamente prevista una cella comune nel complesso abbaziale: vicino a questa cella ne sia predisposta un’altra in cui si incontrino orafi, maestri vetrari e smaltisti per praticare la loro arte6.
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Se le officine abbaziali furono numerose nel xii secolo, il loro numero dovette in seguito essere di gran lunga superato da quello degli atelier laici; sarà bene tuttavia non immaginare divisioni troppo marcate tra le due categorie, che conobbero, con il passare del tempo, sensibili modificazioni e interscambi. Occorrerà anche evitare di farsi un’idea troppo rigida di ciò che chiamiamo atelier, un termine che qualche volta viene usato per indicare la bottega, numericamente assai ridotta, di un maestro, talaltra per indicare un gruppo di maestri operosi a un’impresa comune. Esso infatti appare sempre piú spesso non tanto come un’istituzione stabile, ma, piuttosto, come un’aggregazione temporanea di artefici che poteva conoscere un frequente e vasto avvicendamento. Il fatto è che, in assenza di documenti contemporanei sul loro funzionamento nel xii o nel xiii secolo, dobbiamo costruire le nostre ipotesi sulla base di probabili analogie con situazioni descritte da testi o documenti piú tardivi e su quanto si può evincere dalle vetrate medesime.
Il caso di Saint-Denis. Poco prima della metà del xii secolo, l’abate Suger di Saint-Denis parla dei maestri «provenienti da differenti nazioni»7 che aveva chiamato a lavorare alle vetrate della sua chiesa. La sua testimonianza riveste un grande interesse per il problema dei maestri itineranti e per quanto riguarda la molteplicità e la diversità degli artefici che poterono trovarsi nel medesimo tempo a lavorare in uno stesso cantiere, anche perché apparirà chiaro come piú tardi, in grandi cattedrali quali quelle di Chartres o di Bourges, si siano trovati contemporaneamente all’opera artisti di diversa provenienza, formazione e inclinazioni. Il
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testo di Suger attesta infatti che i maestri operosi a Saint-Denis vi erano stati chiamati da diversi luoghi, e ciò induce a pensare che avessero portato con sé tradizioni e abitudini diverse. Nelle vetrate di Saint-Denis, che sono state conservate frammentariamente, la traccia di modi stilistici diversi è evidentissima8. La pratica di chiamare da lontano maestri particolarmente celebri per fare eseguire vetrate non era del resto certo nata a Saint-Denis. Nella seconda metà del’xi secolo un Rogerus, pittore di Reims, fu chiamato proprio con questo compito a lavorare nell’abbazia di Saint-Hubert d’Ardenne nel Lussemburgo, sotto l’abate Theodericus (1065-74), ricordato tra l’altro proprio perché illuminò anche gli oratori che aveva costruito con splendide finestre eseguite da un certo Rogerus, fatto venire da Reims, uomo assai valente, capacissimo in quest’arte e peritissimo9.
Maestri itineranti: Pierre d’Arras alla cattedrale di Losanna. Possiamo immaginare che attorno al cantiere di una cattedrale siano state operose botteghe stabili, o almeno stabili per lungo tempo, e maestri itineranti: di qui la presenza di vetrate stilisticamente e tecnicamente assai simili in località diverse. Una notizia del 1235, riportata nel Cartolario della cattedrale di Losanna di Conon d’Estavayer10, concede licenza allo scrivano Petrus Eliot di impiantare provvisoriamente il proprio banco «ante monasterium, in loco ubi Petrus de Arraz habuerat fabricam ad faciendas ad opus monasterii vitreas fenestras», dinnanzi alla chiesa, nel luogo dove Pierre d’Arras aveva la sua officina per fare le finestre vitree della cat-
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tedrale. Apprendiamo cosí che un maestro vetrario piccardo, Pierre d’Arras, era attivo sui primi del duecento a Losanna, assai lontano dalla sua patria. Un altro documento ce lo mostrava qui già nel 121711; possiamo dunque pensare che vi abbia diretto per anni un’atelier di pittura su vetro, che spetti a lui la grande rosa del transetto sud della chiesa, realizzata mentre un suo conterraneo, anch’egli piccardo, Jean Cotereel, sopraintendeva ai lavori della cattedrale, e che una volta terminati i compiti che gli erano stati affidati, si sia spostato in qualche altro cantiere.
Botteghe e maestri. Un esame delle vetrate delle cattedrali di Chartres o di Bourges permette di identificare senza esitazioni la presenza di maestri di tradizioni e abitudini tecniche e stilistiche differenti, anche all’interno di una medesima finestra. Recenti esami ravvicinati delle vetrate delle navate laterali della cattedrale di Chartres, resi possibili dal loro smontaggio e trasporto in laboratorio per pulitura e restauro, hanno permesso di accertare che maestri assai diversi nel segno pittorico e addirittura nella scelta dei vetri poterono talvolta lavorare contemporaneamente alla stessa opera12. Ciò suggerisce che anche se botteghe diverse cui erano state affidate singole vetrate furono attive nel medesimo tempo, le divisioni non dovettero essere tanto rigide da impedire che il maestro responsabile di una vetrata potesse intervenire in un’altra in cui pure era preminente la presenza di una diversa personalità. Spesso questi atelier, che sono stati definiti come «gruppi di artigiani che utilizzano gli stessi modelli»13, non ebbero vita lunga, ma si costituirono e si dispersero a seconda delle circostanze, rimanendo attivi e uniti
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fino a che l’opera fosse compiuta, il che faceva sí che attorno a un grande edificio potessero lavorare nello stesso tempo più maestri di diversa origine e differentemente caratterizzati. Questa presenza nello stesso tempo di maestri di diversa formazione e cultura ma di analoghe capacità e di pari posizione gerarchica sarà piú tardi ben illustrata per la cappella di Santo Stefano a Westminster. Talora, invece, nel caso di imprese di ampia portata e di vasta durata, proprio l’utilizzazione continuata degli stessi modelli prolunga di fatto per decenni la vita di un atelier, come accade per il cosiddetto atelier rémois, la cui attività è stata seguita per circa mezzo secolo (1160-1210) da Madeline Caviness, a Saint-Remi a Reims e alla cattedrale di Canterbury. Si trattò di un gruppo che, secondo la Caviness, si sarebbe formato a Reims e che ebbe modo di conservare al suo interno schemi e modelli per un periodo abbastanza lungo. Evidentemente, dato il lasso di tempo trascorso, l’atelier ebbe modo di rinnovarsi completamente, sí che coloro che avevano partecipato alle sue prime imprese non furono certo presenti nelle ultime, ma ci dovette essere una trasmissione di saperi, di abitudini, la costituzione di un patrimonio comune costituito da disegni, modelli e progetti cui si poté continuare ad attingere. A partire dall’inizio del xiii secolo l’uso di uno stesso modello per differenti figure è evidente nelle finestre alte della cattedrale di Chartres; nel trecento questo modo di operare si diffonde largamente. Due vetrate con Madonna e Bambino vivacemente espressive esistenti in due diverse località del Worchestershire lo mostrano chiaramente, mentre l’uso di un medesimo modello per rappresentare due diversi donatori è riconoscibile in alcune vetrate austriache14.
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La cappella di Santo Stefano a Westminster. Il costituirsi e il dissolversi di un atelier di maestri vetrari può essere bene esemplificato dalla vicenda della invetriatura della cappella di Santo Stefano dell’abbazia di Westminster intorno al 135015. In un primo tempo un maestro, John di Lincoln, fu incaricato di reclutare la mano d’opera, compito che lo porterà a viaggiare per ventisette contee. Successivamente venne costituito un gruppo in cui, sotto la direzione di un altro maestro, John di Chester, lavorarono, per la paga di uno scellino al giorno, sei o sette maestri – ivi compreso lo stesso John di Lincoln – incaricati di preparare i disegni per le finestre e di dipingere i modelli sulle tavole di legno. Per un salario giornaliero di sette pence, una decina di altri artefici (non menzionati nei documenti come magistri) lavorò a dipingere le finestre e quindi collaborò con il primo gruppo, mentre una quindicina circa di persone, pagate sei pence al giorno, vale a dire la metà di uno scellino, erano attive nel tagliare e assemblare i vetri sulle tavole di legno dove era disegnato e dipinto il progetto. Due o tre altre infine, probabilmente apprendisti, pagate quattro pence e mezzo al giorno, aiutavano a preparare i pigmenti per la pittura. I lavori continuarono dal giugno al novembre del 1351, ma in quest’ultimo mese John di Chester aveva con sé solo tre maestri: a questo punto gran parte delle vetrate doveva essere già stata terminata. Una volta esauriti i rispettivi compiti, vari membri del gruppo vennero via via licenziati, e le finestre furono compiute entro il febbraio del 1352. Nel loro costo di 240 sterline i singoli fattori avevano avuto questa incidenza: 195 sterline di salari, 34 di vetro, 1 sterlina e 10 scellini di pittura e utensili, 9 sterline e 10 scellini di ferro per le armature e varie. Non si può generalizzare una situazione di questo
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genere, che ha, a monte, una committenza ricca e determinata a portare avanti l’impresa in un tempo assai breve; tuttavia si tratta di un caso esemplare per illustrare il costituirsi e lo sciogliersi di un atelier e il confluire in esso di diversi maestri.
Progetto ed esecuzione. Può essere avvenuto, e anzi in certi momenti ciò deve essere stato estremamente frequente, che progetti per vetrate fossero opera di personaggi esterni all’atelier, in certi casi dei committenti, in altri del capocantiere. L’esistenza di somiglianze formali tra alcune sculture e certe vetrate della cattedrale di Chartres ha per esempio sollevato il problema dei rapporti tra il capo del cantiere e i differenti atelier di maestri vetrari16. È possibile che la stessa persona abbia fornito schemi e disegni per vetrate e sculture, e che questa persona sia stata il capomaestro che sovrintendeva al cantiere della cattedrale. Una lastra tombale trecentesca nella chiesa di Saint-Ouen a Rouen mostra un architetto con in mano un compasso e lo schizzo di una finestra, ed è da pensare che la progettazione di una finestra non si limitasse solo alla parte di disegno architettonico17. Due documenti, uno del 1303 che riguarda la cattedrale di Valencia, un altro del 1316 che concerne la chiesa agostiniana di Tolosa, indicano con chiarezza come il capomaestro dovesse sopraintendere a ogni impresa che riguardasse la decorazione della chiesa e specificamente dovesse occuparsi anche delle vetrate18. Purtroppo, mentre conosciamo un buon numero di disegni per vetrate del xv e del xvi secolo19, che in alcuni casi ci permettono di seguire le modificazioni intervenute dal progetto all’esecuzione, ben poco ci è noto per il periodo precedente20. Un disegno che risale agli inizi
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del xiv secolo, ora negli archivi di Dresda, mostra l’intervento di più mani, una delle quali doveva essere quella del committente, o dell’impresario responsabile dei lavori, non di qualcuno del mestiere21. È un esempio che non aiuta a risolvere il problema di Chartres, proprio perché certi elementi comuni che a Chartres si ritrovano in sculture e vetrate testimoniano della presenza di una fortissima personalità d’artista capace di influenzare stilisticamente opere eseguite in tecniche differenti, caso che certo non si presenta nel disegno in questione. Tuttavia anche questo esiguo spiraglio permette di scorgere la complessa interazione che sta dietro la nascita di una vetrata.
Il caso italiano. Ora, mentre in Francia e in Germania sembra piuttosto eccezionale il fatto che l’atelier abbia lavorato sulla base di un progetto formulato da un pittore solo occasionalmente coinvolto in tale genere di operazioni, in pratica da qualcuno dell’esterno, in Toscana questa è la regola. Duccio, Giotto, Simone Martini, Taddeo Gaddi diedero disegni per vetrate. Piú tardi, alla cattedrale di Firenze per esempio, chi dà il disegno di una vetrata non è, quasi mai, un maestro vetrario. Sono pittori, orafi, scultori come Agnolo Gaddi, Lorenzo Ghiberti, Paolo Uccello, Andrea del Castagno e Donatello che creano i primi progetti. Poi il compito passa alla bottega del maestro vetrario, dove il disegno primitivo è ripreso e trasportato in grandezza d’esecuzione. Un capitolo del Libro dell’Arte di Cennino Cennini intitolato Come si lavorano in vetro finestre testimonia appunto di come il maestro vetrario usasse rivolgersi al pittore per il disegno della vetrata, e quale fosse la collaborazione che si instaurava tra i due:
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Mo diremo prima del modo delle finestre: vero è che questa tale arte poco si pratica per l’arte nostra, e praticasi piú per quelli che lavorano di ciò; e comunemente quelli maestri che lavorano, hanno piú pratica che disegno, e per mezza forza e per la guida del disegno pervengono a chi ha l’arte compiuta, cioè che sia, universale e buona pratica. E per tanto quando i detti verranno a te tu piglierai questo modo. È ti verrà con la misura della sua finestra, larghezza e lunghezza; tu torrai tanti fogli di carta incollati insieme quanto ti farà per bisogno alla tua finestra; e disegnerai la tua figura prima con carbone, poi fermerai con inchiostro, aombrata la tua figura compiutamente si come disegni in tavola. Poi il tuo maestro de’ vetri toglie questo disegno e spianalo in sul desco o tavola, grande e piano; e secondo che colorire vuole i vestimenti della figura, cosí di parte in parte va tagliando i vetri, e datti un colore il quale si fa di limatura di rame ben macinato; e con questo colore tu con pennelletto di vaio, di punta vai ritrovando pezzo a pezzo le tue ombre, concordando l’andare delle pieghe e dell’altre cose della figura, di pezzo in pezzo di vetro, si come el maestro ha tagliato e commesso; e di questo cotal colore tu puoi universalmente aombrare ogni vetro. Poi il maestro innanzi che leghi insieme l’un pezzo coll’altro secondo loro usanza, il cuoce temperatamente in casse di ferro con suo cendere, e poi li lega insieme22.
In questo caso il pittore interviene sia nel disegno sia nella stesura della grisaille, ma sovente questo non succede e l’intervento del pittore si limita al primo disegno. Cosí avviene, per esempio, nel tondo con l’Assunzione della Vergine in Santa Maria del Fiore a Firenze, il cui progetto, affidato a Lorenzo Ghiberti, sarà ripreso a scala maggiore e pagato al maestro vetrario Niccolò di Pietro tedesco «per il disegno che eseguì per l’oculo anteriore della chiesa di Santa Reparata». Questa marcata divisione del lavoro deve essere intervenuta parti-
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colarmente a Firenze nel corso del xiv secolo. Nella prima metà di questo secolo ci sono maestri vetrari che sono anche grandi pittori, e ce lo mostra il caso di Giovanni di Bonino, cui si devono alcune delle piú splendide vetrate del secolo e in cui si è pensato di riconoscere il drammatico e misterioso Maestro di Figline23, ma la situazione cambia in seguito e varrà qui la pena di leggere quanto ne ha detto molto lucidamente Pietro Toesca: Quando nella prima metà del Quattrocento i maestri di vetri ebbero a decorare in Santa Maria del Fiore le finestre della tribuna o gli otto «occhi» della cupola dovettero riprodurre cartoni disegnati e colorati da artisti grandissimi inconsapevoli di quelle vecchie tradizioni, o piuttosto intenti soltanto a novità, nel preparare modelli simili alle proprie pitture, senza punto riguardare alla loro tradizione vetraria: e non abili abbastanza per adattare subito la loro tecnica ai nuovi propositi o per mettere questi in schietta evidenza, composero vetrate assai inferiori per bellezza decorativa a quelle del Trecento, e incertissime nell’effetto pittorico, perché la forma vi è cosí sfigurata dal reticolato dei piombi che lo sguardo difficilmente l’afferra24.
In linea generale a Firenze un artista estraneo alla bottega dei maestri vetrari dà i disegni delle vetrate che verranno poi tradotti in questa tecnica dagli specialisti25. Tuttavia l’immagine che si ha di tale stato di cose varia se si passa dal testo di Cennino che abbiamo citato a quello di Antonio da Pisa, vale a dire a quello di un vero e proprio maestro vetrario, che presenta la situazione in un’altra luce e non parla di interventi di pittori estranei; evidentemente volta a volta la situazione poteva presentarsi diversamente26. In Francia, in Germania e in generale nel nord sarà per lo piú lo stesso maestro a capo dell’atelier dei pittori vetrari che dà il disegno e segue
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attentamente fino alla fine, talora intervenendo anche nell’operazione di pittura, la lavorazione della vetrata. Del resto in Francia e in Germania, come anche nell’Italia del nord, esistettero pittori che padroneggiavano perfettamente i problemi tecnici delle vetrate. In casi di questo genere il risultato è ovviamente piú unitario. Da quanto si è detto emerge un problema chiave: quello delle conseguenze della divisione del lavoro e del rapporto tra progetto e realizzazione.
Maestri vetrari e pittori. La collaborazione di molte mani a un’opera e, d’altra parte, il rapporto intercorso tra l’autore del modello e il maestro che lo traduce in vetro, personaggi che non sempre coincidono, possono essere prese a pretesto, e in realtà lo sono state, per respingere la vetrata nella categoria delle tecniche subalterne e di traduzione invece che in quella delle arti maggiori e libere; si metterà in dubbio, in altre parole, che in una vetrata si possa chiaramente discernere il segno e l’autografia dell’artista che l’ha progettata. In realtà, formulazioni di questo tipo applicano al medioevo criteri di giudizio di epoche posteriori, mentre una diversità di ruoli, che si traduce in una diversità di trattamento economico, emerge chiaramente da documenti come quelli che riguardano le vetrate della cappella di Santo Stefano a Westminster. La lettura che facciamo di certi testi può essere fonte di equivoci; spesso occorre fare una distinzione tra il pittore su vetro e il maestro vetrario. Chi produce i vetri, chi li taglia e chi monta le finestre può non essere identificabile, e in generale non lo è, con chi le dipinge e chi le progetta. Ma molto spesso, quando in testi medievali si parla di vitrearii, può trattarsi volta a volta di per-
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sone che avevano la pratica di fare il vetro, di tagliarlo, di dipingerlo, di fare finestre27. Con la crescente diffusione della vetrata figurata nel xii secolo si preciserà una distinzione piú netta tra le attività. A questo punto troviamo il maestro, che si considera e si rappresenta come un autentico pittore, e il vetraio, addetto a un’attività di carattere piú tecnico e subordinato. Suger chiama magistri gli artisti di diverse nazioni da lui chiamati a lavorare alle vetrate di Saint-Denis e, nota Hans Wentzel, il titolo di magister è attribuito nel medioevo all’artista, o in ogni modo a chi dirige l’esecuzione di un’opera, più che al semplice artigiano28. Una vetrata tedesca della metà del secolo, di poco posteriore quindi alle imprese di Suger a Saint-Denis, ci mostra l’immagine di uno di questi pittori su vetro: è l’autoritratto di un Gherlacus che si rappresenta nella parte inferiore della vetrata da lui eseguita (quella dove in genere si trovavano le rappresentazioni dei committenti), in uno dei piú straordinari autoritratti del medioevo, con in mano il pennello e il vasetto contenente il colore, mentre intorno corre un’iscrizione (Rex regum clare Gherlaco propiciare) che prega il Signore di essere propizio al pittore. Il fatto di rappresentarsi nell’atto di esercitare la propria attività e di porre il proprio nome nell’iscrizione dedicatoria implorando la protezione celeste è segno di un’alta coscienza di sé e del proprio lavoro, e si è anche pensato che Gherlacus abbia donato egli stesso la vetrata all’abbazia premostratense di Arnstein sulla Lahn29, un fatto che tra l’altro starebbe a indicare l’elevata situazione economica a cui un pittore di vetrate poteva arrivare nel xii secolo, lo stesso tempo in cui l’orafo Godefroy de Huy dona all’abbazia di Neufmoustier un prezioso reliquiario del Battista. È possibile che sia un ritratto anche quello di un Lampertus rappresentato inginocchiato ai piedi di san Dionigi in una vetrata fatta intorno al 128o per la chiesa di Sankt
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Dionys a Esslingen. Questa volontà di autorappresentarsi fa intendere che la posizione sociale del pittore su vetro non è piú quella del vitrearius Stracholfus, servo del monastero di San Gallo, cui Ludovico il Pio aveva fatto dono dei propri abiti e che una cronaca diceva appartenente a un infimo grado sociale30. In un periodo successivo e in una tecnica come quella dell’arazzo la situazione è relativamente chiara; il progetto dell’opera spetta al pittore, il tapissier si limiterà a tradurre questo progetto in tessuto; al massimo se la sbrigherà da solo quando si tratti di eseguire arazzi à verdures, a motivi vegetali, ma ogni volta che ci siano figure e scene il compito di progettarle è del pittore, che in questo caso è anche protetto dalla propria corporazione. Diverso il caso delle vetrate: a Parigi nel cinquecento il maître verrier, la cui corporazione aveva ricevuto gli statuti nel 1467, si occupava di ogni situazione che le riguardasse, dal taglio dei vetri alla loro pittura e generalmente anche alla loro progettazione. Di converso non si occupava della produzione del vetro né della commercializzazione di altri articoli in vetro e poteva esercitare la pittura in altri campi e in altre tecniche solo se avesse praticato un secondo apprendistato31. Possiamo congetturare che mentre in Toscana alla fine del trecento (è questa la situazione descritta da Cennino, ma si veda in contrario quanto afferma Antonio da Pisa) i maestri vetrari si rivolgevano a pittori che generalmente lavoravano in altri campi e che solo occasionalmente si occupavano di vetrate, nel settentrione, dove la produzione di vetrate dipinte era assai piú estesa, siano esistiti pittori che lavoravano prevalentemente nel campo della vetrata. Prevalentemente, ma, almeno fino al momento della codificazione corporativa che interviene abbastanza tardi, non esclusivamente. Spesso è stato avvertito che i rapporti tra pittori di vetrate e miniatori sono cosí stretti da credere che si tratti delle medesi-
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me persone, e Louis Grodecki ha ritenuto del medesimo maestro un gruppo di vetrate proveniente da Troyes del xii secolo e un certo numero di illustrazioni di manoscritti, mentre Christopher Woodforde32 presume uno stretto rapporto tra maestri vetrari e miniatori attivi a Oxford nella seconda metà del duecento. La sola firma (qualche nome come quello del già citato Pierre di Arras e di un maestro vetrario attivo a Bourges li conosciamo da documenti, ma non da firme) che sia sopravvissuta su una vetrata del duecento (quella di Lupuldus frater in una grisaille della chiesa cistercense di Haina33 è forse già degli inizi del secolo successivo) la troviamo su una vetrata del deambulatorio della cattedrale di Rouen, a sinistra della cappella assiale con le storie di Giuseppe, ed è quella di Clemens vitrearius carnotensis, cioè di Clemente vetrario di Chartres34. È significativo che il pittore della vetrata, ché tale deve essere stato chi ha apposto una firma come questa, sapientemente disposta su un cartiglio in lettere elaborate, parli di sé come di vitrearius, cosí come è interessante constatare che Clemens vitrearius venga da Chartres, la città che, grazie al numero dei maestri e degli atelier che avevano lavorato all’immenso compito della invetriatura della cattedrale, portata avanti in un lasso di tempo di una trentina d’anni, deve essere stata nei primi decenni del duecento il centro dove giungevano, operavano e da cui partivano maestri vetrari di tutta la Francia settentrionale. Mentre nell’xi secolo l’abate di Saint-Aubin di Angers chiedeva al pittore Fulco di occuparsi di affreschi e di vetrate per il suo monastero35, e mentre nel secolo successivo un Bertoldus magister pictor decorava con vetrate e pitture, nel 1109, il monastero di Zwiefalten36, e, sempre nello stesso secolo, si poteva ritrovare la stessa mano in vetrate e miniature fatte a Troyes, lo sviluppo della vetrata ha portato in seguito a una specializzazione dei suoi artefici.
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Costi e manutenzione. Poco sappiamo sui costi delle vetrate medievali e sulle remunerazioni degli esecutori. Suger di Saint-Denis accenna che l’invetriatura del coro della sua abbazia era costata circa 700 lire37, una cifra assai considerevole poiché in genere il costo di una vetrata sembra oscillare tra le 2o e le 40 lire. Una nota in un manoscritto liturgico proveniente da Saint-Martial di Limoges (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms lat. 1139, fol. 1), riportata dal canonico Delaporte38, dà notizia di una somma di 23 lire pagata (e il prezzo comprendeva l’armatura) nel xiii secolo per una vetrata consacrata allo Spirito Santo; per una vetrata della cattedrale di Soissons Filippo Augusto donò «30 lire parigine per eseguire la grande vetrata posta nell’abside della nostra chiesa», ricorda l’obituario della cattedrale per la data dell’11 luglio del 122339 –; altri dati, riguardanti questa volta vetrate trecentesche, sono quelli relativi alla cappella di Santo Stefano a Westminster di cui si è discusso40. Accanto al compito di progettare e confezionare una vetrata, un’altra funzione che svolgeva il maestro vetrario riguardava la manutenzione e il restauro delle vetrate esistenti. Nell’abbazia di Saint-Trond, sotto l’abate Rudolph (1108-38), un tale Arnoult è incaricato del restauro delle vetrate e vi provvede con nuovi vetri, piombi e cera: «ripara le finestre vitree del monastero, del chiostro, della cella dell’abate, avendo ricevuto dal padre guardiano vetro, piombo, cera e denaro». Suger dichiara a proposito delle vetrate di Saint-Denis che, considerato il grande valore dovuto alla loro pittura e al prezioso vetro azzurro (saphirorum materia), nominò un maestro con l’incarico ufficiale della conservazione e del restauro tuitioni et refectioni41 delle vetrate. Con la messa in opera dei colossali cicli duecenteschi questo ruolo si amplia e si moltiplica. Circa un secolo dopo un
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altro grande committente, san Luigi, prende un’analoga decisione per le vetrate della Sainte-Chapelle, e nel 1240 John the Glazier (Giovanni il Vetraio) e i suoi eredi ricevettero l’incarico di vegliare sulle vetrate della cattedrale di Chichester e di «conservare le antiche finestre invetriate e lavare e pulire ciò che doveva essere lavato e pulito, e riparato ciò che doveva essere riparato, e aggiunto ciò che doveva essere aggiunto, il tutto a spese della chiesa»42. Questo è altresí il compito di Nicholas Fayerchild a Norfolk43, mentre a Chartres tale incombenza è affidata a uno Geoffroy, ricordato in un documento del 1317, in cui egli si impegna a riparare e a rimettere in buono stato, nello spazio di un anno e a sue spese, tutte le vetrate della cattedrale, essendo pagato a forfait con 30 lire di Chartres, e continuando a esercitare questa funzione, dopo questo primo restauro generale, per la somma di 6 lire di Chartres all’anno44 (a Chichester il compenso era fissato a un rifornimento quotidiano di pane e un marco – cioè 13 scelllini e 4 pence – all’anno); ad Angers nel 1364 20 franchi d’oro vengono pagati a un Petrus vetrario de reparando vitras ecclesiae45.
I committenti. Sin qui si è cercato di vedere quale era lo stato, la condizione del maestro vetrario, quale l’immagine che se ne facevano i contemporanei; ma qual era la controparte dell’artista, chi erano e come apparivano i clienti, i committenti dei maestri vetrari? Qualche risposta ci verrà dalle vetrate medesime. Nella mitica chiesa di Combray una delle vetrate «era occupata in tutta la sua grandezza da una sola figura, simile al re d’una carta da gioco, che viveva là in alto, sotto un baldacchino architettonico, fra cielo e terra»46.
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Un gran numero di uomini e di donne, di re e di abati, di nobildonne e di canonici, di vescovi, di principi e di baroni guarda i fedeli dall’alto delle finestre di cattedrali, di chiese abbaziali o di cappelle. Sul finire del seicento, un grande e infaticabile genealogista come Roger de Gaignières, avendo riconosciuto nelle immagini delle vetrate un terreno di indagine molto promettente per i propri studi, mandò disegnatori a riprodurre le fattezze, i blasoni, i costumi di tanti di questi personaggi47. Il fatto è che, almeno nei paesi a nord delle Alpi, le vetrate furono per molti secoli, come si è detto, la piú prestigiosa tra le tecniche pittoriche, il piú efficace tra i mezzi di comunicazione visiva. I nomi che conosciamo sono prevalentemente, in un primo tempo, quelli di grandi personaggi del mondo ecclesiastico: vescovi – gli obituari delle cattedrali o le gesta dei vescovi delle piú insigni sedi sono piene di menzioni in questo senso, dai vescovi di Auxerre come Geoffroy de Champallement (1051-76), Humbaudus (1087-1114), Hugues de Noyers (1183-1206), a quelli di Le Mans, quali Hoel (1085-96) o Hildebert de Lavardin (1096-1125), a quelli di Angers come Raoul (1178-98) o Guillaume de Beaumont. Al posto d’onore, nelle posizioni piú visibili e prestigiose delle cattedrali di Reims e di Le Mans, troneggiano, in modo che la loro vista si imponga a tutti, le figure dei prelati costruttori: a Reims Henri de Braines è accompagnato dai vescovi delle diocesi suffraganee e dalle immagini delle loro chiese, a Le Mans la presenza di Geoffroy de Loudun è sottolineata da quella, ripetuta otto volte, del suo blasone. Nelle vetrate di Le Mans tuttavia compaiono nelle finestre molte altre immagini di donatori, mentre tale non è il caso a Reims, dove le figure dell’arcivescovo e dei suoi suffraganei sono le uniche presenze contemporanee. Vi sono poi canonici, come Hugues de Chamblancé, morto intorno al 1177, ricordato nell’obituario della
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cattedrale di Angers per aver fatto fare in vetro tutte le finestre, tranne tre, della navata della cattedrale, precedentemente chiuse da sporti lignei48, o come i vari canonici rappresentati a Chartres (tra cui Henri Noblet si fa addirittura rappresentare due volte ai piedi di Cristo benedicente e della Vergine con il Bambino), o come i presbiteri Lochenses, i canonici di Loches che riempiono con le loro alte figure una vetrata della cattedrale di Tours; abati come Suger di Saint-Denis, la cui celeberrima immagine in proskynesis ai piedi dell’Annunciazione, in una delle vetrate della sua chiesa, contrasta per la sua umiltà con la deliberata, ripetuta onnipresenza sottolineata dalla profusione dei versiculi apposti per ogni dove e che spesso ripetono il suo nome. Tutti costoro furono attivi talora di persona e con propri fondi, talaltra curando che le imprese venissero finanziate da loro clienti o da persone che orbitavano attorno a loro. In questo senso è illuminante un testo che ricorda come Geoffroy de Champallement, figlio di Ugo visconte di Nevers, vescovo di Auxerre, quello stesso che, come si è visto, aveva nominato canonico onorario un pittore di vetrate, abbia fatto invetriare cinque finestre dell’abside della sua chiesa, affidandone la realizzazione «a cinque clienti della sua famiglia affinché ciascuno ne realizzasse una» e facendo fare la sesta, maggiore, che illuminava l’altare di Sant’Alessandro, dal suo cappellano. Accanto agli ecclesiastici sono i grandi signori laici: imperatori come Federico Barbarossa che volle ricordato il suo nome e la fausta circostanza – la sconfitta che aveva inflitto ai milanesi – nelle vetrate – oggi scomparse – di cui aveva fatto dono alla chiesa di Sélestat in Alsazia. Esse portavano l’iscrizione, che conosciamo grazie alla trascrizione che ne ha fatto l’umanista di Strasburgo Beatus Rhenanus, e che venne pubblicata nel 1531 nel terzo volume delle sue Rerum Germanicarum:
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«Tempore quo rediit superatis Mediolanis | Nos rex romanus fieri iussit Fridericus»; re come Enrico II Plantageneto che, unitamente alla regina Aliénor di Aquitaine e ai figli, si fece rappresentare in atto di offerente sotto il medaglione con la crocifissione di san Pietro situato nella parte inferiore della colossale vetrata con la Crocifissione che aveva donato alla cattedrale di Poitiers49, o come Filippo Augusto di Francia, ricordato nell’obituario della cattedrale di Soissons per aver donato una vetrata alla cattedrale; nobili come il conte cui è indirizzato alla fine del x secolo il ringraziamento dell’abate di Tegernsee per aver donato alla chiesa quelle che venivano considerate delle straordinarie novità, delle vetrate appunto. Il numero dei personaggi contemporanei che si fece rappresentare in una vetrata nel corso del xii secolo è assai limitato – e probabilmente ciò è dovuto al numero ristretto di vetrate conservate appartenenti a questo periodo e alla loro frammentarietà –; la situazione si modifica radicalmente nel secolo successivo, durante il quale non solo aumentano le rappresentazioni di aristocratici e di ecclesiastici, ma si diffonde un nuovo genere di rappresentazione, una nuova iconografia: quella di gruppi di artigiani o commercianti rappresentati al lavoro, mentre gli ecclesiastici erano per lo piú effigiati in preghiera e i nobili spesso in assetto guerriero, come nelle finestre alte del coro di Chartres. Relativamente rara in un primo tempo è l’immagine dell’offerta vera e propria della vetrata (tra le tante vetrate «artigiane» di Chartres solo due, ambedue donate dai calzolai, la mostrano), che diventerà, poco piú tardi, estremamente diffusa. La crescente rappresentazione dei laboratores rende palese l’aumentare dell’importanza di questi gruppi sociali, e in qualche modo di una certa qual loro agiatezza, ma certo anche la volontà di rappresentare all’interno della chiesa, immagine della Gerusalemme cele-
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ste, un messaggio di concordia sociale proprio nel momento in cui piú acuti erano gli scontri tra i differenti gruppi e i diversi e talora opposti interessi.
Religiosi, guerrieri e artigiani a Chartres. Se entriamo nella cattedrale di Chartres, che ha conservato quasi per intero la sua decorazione vitrea duecentesca, questa varietà di personaggi e di ruoli ci verrà testimoniata dalle vetrate. Nelle finestre basse, dove le vite dei santi e le pie leggende si svolgono lungo tutto l’involucro dell’edificio, troviamo le rappresentazioni di lavoratori, artigiani e commercianti intenti alle loro attività. Le immagini dei panettieri e dei mercanti di stoffe ritornano in ben cinque vetrate, quelle dei cambiavalute in quattro; sono poi rappresentati conciatori, muratori, acquaioli, mercanti di generi alimentari, calzolai, armaioli, macellai, pescivendoli, pellicciai, tessitori, tagliapietre e scultori, carpentieri, falegnami, bottai, vignaioli, mercanti di vino, speziali, carradori, maniscalchi, merciai, farmacisti, pellai. Anche un singolo commerciante, un tale Gaufridus, appare con i membri della sua famiglia come donatore di due finestre alte, e inalbera le insegne dei mercanti di calze come gli aristocratici fanno con i blasoni50. I componenti dei vari mestieri e delle varie professioni, organizzati in corporazioni51 e confraternite, avrebbero commissionato molte delle splendide finestre della cattedrale, il grandioso edificio al centro della città. La ripartizione numerica delle quarantaquattro vetrate che furono offerte a Notre-Dame con le immagini di artigiani e commercianti al lavoro indica d’altra parte il carattere poco evoluto dell’economia della città52: si tratta prevalentemente di rappresentazioni di piccoli mestieri, di attività artigianali o commerciali di ambito ristretto.
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Undici vetrate portano immagini relative a mestieri dell’alimentazione: panettieri (cinque casi), macellai (tre casi), tavernieri (due casi), portatori d’acqua (un caso); otto rappresentano gli addetti ai lavori del cuoio, sei quelli del legno e, via via, tre gli artigiani dell’abbigliamento, due gli addetti alla costruzione e altre due i lavoratori del ferro, mentre nelle altre sono riprodotte le effigi di commercianti (in cinque casi venditori di stoffe e di pelli, in altri cinque orafi e cambiatori di moneta, in una merciai). Se non proprio tutti gli abitanti, come vorrebbero le leggende romantiche, si è a lungo ritenuto che almeno tutti i gruppi di un qualche peso sociale, tutte le organizzazioni in cui erano riunite le forze attive della città abbiano contribuito a loro spese a decorare il tempio, che non apparteneva solo al vescovo e al capitolo dei canonici, ma che, dopo la ricostruzione seguita all’incendio del 1194, e grazie all’impegno economico richiesto ai cittadini, doveva essere percepito come un autentico monumento municipale53, dove si pregava, ci si incontrava, si commerciava, si stendevano atti di compravendita, si visitavano le sacre reliquie. Custodite nel gigantesco scrigno della cattedrale, queste erano l’oggetto dei frequenti pellegrinaggi che rendevano noto, anche molto lontano, il nome della città, e aiutavano sostanzialmente lo sviluppo delle fiere che si tenevano quattro volte l’anno nei giorni delle feste della Vergine54. I corpi di mestiere avrebbero ornato la cattedrale non solo perché spinti da pietà religiosa, non solo per mettere le loro attività sotto la diretta protezione di un santo patrono di cui la vetrata raccontava le gesta, ma perché la cattedrale era per eccellenza, e non solo simbolicamente, l’edificio pubblico della città. Ci sarebbe stato in tutto questo un desiderio di autoaffermazione e di visibilità, lo stesso desiderio che faceva partecipare allo sforzo il clero, la nobiltà, la corte.
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Ma esistevano a Chartres corpi di mestiere organizzati all’inizio del duecento? Ed è verisimile che essi abbiano avuto la forza economica e l’autorità sociale per intervenire in una misura tanto grande alla decorazione della cattedrale? E che volontariamente abbiano partecipato accanto ai nobili e agli ecclesiastici a questa impresa? Sono queste le domande poste da una recente ricerca55 che ha messo in rilievo i forti contrasti sociali esistenti a Chartres nel primo duecento. Erano avvenuti scontri anche cruenti, e l’assenza di precise notizie sull’esistenza in quel tempo nella città di corporazioni artigiane e di confraternite a esse legate ha spinto a concludere che la rappresentazione dei gruppi artigiani al lavoro poteva eventualmente riguardare solo coloro che svolgevano un’attività all’interno del recinto del cloître Notre-Dame ed erano sotto la diretta dipendenza dei canonici. Gli ispiratori e anche i finanziatori di queste vetrate dovettero quindi essere con molta probabilità gli stessi canonici interessati a diffondere un’immagine di concordia sociale. Il problema non è risolvibile con certezza in un senso o in un altro, anche se la soluzione proposta nella ricerca di Jane W. Williams sembra molto sofisticata e poco documentabile, tanto piú che a Chartres le vetrate con rappresentazioni di artigiani al lavoro sono situate in diverse zone della cattedrale e a diverse altezze (finestre basse delle vetrate laterali, finestre alte della navata e dell’abside), sono state eseguite in tempi diversi e possono dunque avere avuto origini e committenze diverse. D’altra parte gli urti tra gruppi popolari e gerarchie ecclesiastiche erano all’ordine del giorno nelle città tra xii e xiii secolo, e questo non ha certo impedito la partecipazione dei cittadini alle grandi imprese costruttive. Il fatto invece che in precedenza rappresentazioni di artigiani al lavoro fossero state utilizzate nella cattedrale di Piacenza per marcare le colonne e i pilastri
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offerti dalle corporazioni di mestiere, e che nel corso del xiii secolo analoghe rappresentazioni si presentino in altre cattedrali francesi, da Bourges a Le Mans, ad Amiens, a Tours, a Rouen, e che infine questi esempi siano stati seguiti nel primo trecento fuori di Francia, nella nuova e grande collegiata di una città dalle molte attività manifatturiere e commerciali come Friburgo, o in Inghilterra a York, fa pensare che queste rappresentazioni attestino veramente l’entrata di nuovi gruppi sociali nell’orizzonte della committenza. Nelle vetrate offerte dai grandi del regno mancano quelle scene di vita quotidiana che fanno delle vetrate «borghesi» delle navate laterali e del coro una vera summa delle attività artigiane e mercantili del duecento e un repertorio unico di notazioni e di rappresentazioni concrete56; troviamo per contro rappresentati, ma anche in questo caso in modo del tutto innovatore, i grandi protagonisti di un periodo assai movimentato della storia di Francia, quello che vide gli ultimi anni di Filippo Augusto, il breve regno di Luigi VIII (1223-28), la reggenza di Bianca di Castiglia, la giovinezza di san Luigi. Come nel caso delle figurazioni delle attività artigianali nelle finestre delle navate laterali, le rappresentazioni dei donatori danno luogo a straordinarie novità iconografiche. Per la prima volta in una cattedrale i blasoni dei donatori sono presenti con tanta frequenza, combinati con episodi e personaggi della storia sacra; per la prima volta un gruppo di donatori si fa rappresentare dentro una chiesa a cavallo e in armi57. Le rose che sovrastano le finestre a doppie luci del coro ospitano una parata di sette cavalieri attorno all’immagine del futuro Luigi VIII, rappresentato sopra una finestra della parete nord ancora senza corona, quindi prima della sua accessione al trono (1223). Si tratta di un membro della famiglia di Montfort (Simon o il figlio Amauri), di un
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conte di Beaumont, di Robert de Courtenay, di re Ferdinando III di Castiglia, di Philippe de Boulogne detto Hurepel, figlio naturale di Filippo Augusto e quindi fratellastro del principe Luigi, e di Pierre de Dreux detto Mauclerc, ed è possibile che questa parata di guerrieri voglia commemorare la crociata del 1217 contro gli albigesi alla quale il principe e i suoi compagni d’arme avevano partecipato. Nelle parti circolari in forma di rosa che sormontano le vetrate della parte superiore della chiesa sono rappresentati re, duchi, conti, baroni, armati dalla testa ai piedi, e montati su cavalli riccamente agghindati,
ne scrive stupito Eustache Langlois58. Un’altra aristocratica schiera di donatori si incontra nelle vetrate alte del transetto, e anche qui i motivi dell’autoesaltazione e della legittimazione attraverso le immagini sono presenti. Ancora una volta appaiono i grandi ufficiali del regno come Jean Clément maresciallo di Francia, i massimi feudatari come Thibault VI di Champagne, Philippe de Boulogne, Pierre Mauclerc. La loro storia si interseca, si sovrappone, si unisce e si differenzia con quella del re Luigi VIII e della regina Bianca di Castiglia, mentre le loro scelte, le loro posizioni mutano e si trasformano59. Prendiamo il caso di Pierre de Dreux, che, discendente da Luigi VI e quindi legato da vincoli di stretta parentela con la famiglia reale, era diventato duca di Bretagna nel 1212, grazie al matrimonio con Alix de Thouars. I due sposi avevano dato prova di una straordinaria munificenza verso la cattedrale, e forse erano stati committenti della decorazione plastica del grande portale del transetto sud, ove se ne erano volute riconoscere le immagini sotto la statua di Cristo del trumeau (ma piú probabilmente si tratta del conte Luigi di
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Blois-Chartres); di certo avevano donato la grande rosa meridionale – la rosa dell’Apocalisse – e le cinque grandi finestre della claire-voie sottostante, ove troneggia la Vergine col Bambino tra i quattro profeti maggiori che reggono sulle spalle gli evangelisti, e appaiono, con i loro stemmi, quattro membri della famiglia di Dreux-Bretagna. La datazione di questo insieme può essere fissata tra il 1219 e il 1220 all’incirca – Alix de Thouars che appare come donatrice della vetrata muore nel 1221, i suoi figli Jean e Jolande nascono rispettivamente nel 1217 e nel 1218 e sono rappresentati come bambini piccoli, mentre non vi appare l’ultimogenito Artus nato nel 122060. Di fronte a questa, a chiudere l’alta parete del transetto nord sta la rosa nord, dedicata alla Vergine, che, con le relative finestre della claire-voie, è una donazione reale segnata dai gigli di Francia e dai castelli di Castiglia, la patria della regina Bianca. Le vicende di tutti i donatori sono strettamente intrecciate dalle comuni imprese militari, specie contro gli albigesi, fino a che, dopo la prematura morte di Luigi VIII (1226), giungono a una svolta conflittuale. Durante la reggenza di Bianca di Castiglia, Mauclerc sarà infatti uno dei capi della coalizione di feudatari che cerca di opporsi al potere della reggente. Accanto a lui stavano Thibault de Champagne e Philippe de Boulogne, altri munifici mecenati della cattedrale. La coalizione fu spezzata proprio da Jean Clément, maresciallo di Francia, che in un’altra vetrata è rappresentato mentre riceve da san Dionigi l’orifiamma. Non abbiamo elementi certi per datare ad annum queste vetrate, e tutto porta a credere che esse siano state eseguite prima della morte del re e della rivolta dei baroni, quando la loro lealtà alla dinastia era ancora indiscussa. Certo la rosa nord, con l’esaltazione dell’istituto monarchico attraverso la presenza dei dodici re di Giuda antenati della Vergine, e delle alte figure dei re
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e dei sacerdoti di Israele (Melchisedec, Davide, Salomone, Aronne) che accompagnano la figura di sant’Anna nella claire-voie e incombono sulle immagini dei re sconfitti e idolatri rappresentati sotto di loro, ha avuto un significato politico preciso. Sia che, eseguita quando era vivo Luigi VIII, volesse costituire il primo manifesto dell’ideologia regia dei capetingi61 e ricordare ancora una volta le vittorie sugli eretici, sia che – realizzata al tempo della reggenza di Bianca di Castiglia – abbia voluto suggellare la sconfitta dei baroni e contrapporsi alla rosa Dreux di fronte. Osservando come la vetrata del vittorioso Jean Clément sia stata posta deliberatamente nel transetto sud, non lontana da quella dello sconfitto Mauclerc, Paul Frankl ha rilevato: «dietro le pacifiche mura la cattedrale celava le ostilità troppo umane tra alcuni di coloro che avevano contribuito alla sua perfezione»62. Ancora una volta essa si presenta come un autentico punto di incontro delle varie attività, ambizioni, imprese umane. Non mancano le donazioni dei canonici membri del capitolo, rappresentati in ginocchio davanti alla Vergine patrona di Chartres, come il canonico Henri Noblet, e di vescovi come Regnault de Mouçon, ma sono assai meno numerose di quelle della borghesia e della nobiltà: un calcolo condotto sulle vetrate che portano chiaramente traccia dell’identità dei donatori fa ammontare a sedici le donazioni ecclesiastiche, a quarantaquattro quelle dei re e dei signori (accanto ai grandi del regno molti altri aristocratici sono presenti come donatori delle finestre alte: Bouchard de Marly, Robert de Berou, i Montfort, i Courtenay, i Beaumont), a quarantadue quelle degli artigiani e mercanti. Quanto alla disposizione e alla ripartizione delle vetrate, essa ubbidisce alle gerarchie sociali: generalmente in basso, nelle finestre delle navate laterali e del
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deambulatorio, le vetrate degli artigiani, in alto quelle degli ecclesiastici e dei nobili, in posizioni privilegiate, come le facciate del transetto o le campate del coro che sovrastavano gli stalli dei canonici, queste ultime. Il tutto con parecchie eccezioni. Nelle finestre alte si trovano in gran numero anche vetrate donate dalle corporazioni piú ricche, come quelle dei panettieri o dei cambiavalute, mentre vetrate di donatori ecclesiastici possono situarsi in basso, a un posto d’onore però, al centro della cappella absidale. Una partecipazione sociale tanto diffusa e intensa alla decorazione della cattedrale poté essere facilitata a Chartres dalle solidarietà di interessi tra il vescovo, i canonici e le forze borghesi che si appoggiavano al capitolo per sottrarsi alla tutela del conte, e si trova anche a Bourges, a Le Mans o a Rouen, ma manca in altre occasioni, a Lione o a Reims, dove forti erano i contrasti o totale era la supremazia del vescovo63. Abbiamo altri casi dove l’iniziativa è piú particolare e privata. La volontà di un potente, religioso o laico, può essere all’origine della decorazione di un intero edificio, di una chiesa abbaziale come di una cappella palatina. È il caso celebre delle vetrate di Suger a Saint-Denis. Anche qui, come e prima che a Chartres, la volontà di autorappresentazione e di autoperpetuazione costituisce una motivazione potente. L’abate si fa ritrarre nelle vetrate della chiesa cosí come iscrive il suo nome sugli altari, sui portali, nelle formule di consacrazione. Abbiamo cercato di comprendere quali ragioni profonde abbiano spinto Suger a dare una spiccata preferenza alla vetrata. Una volta che il prestigio dei prodotti di questa tecnica si fu affermato nelle coscienze e nell’immaginario degli uomini del xii e del xiiii secolo, la vetrata divenne una forma artistica particolarmente ricercata e i vari detentori del potere e della ricchezza gareggiarono nel commetterne. Il prestigio dell’opera si riflette sui
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committenti, le loro rappresentazioni aumentano in modo impressionante nel corso del tempo per giungere, nel trecento, a forme palesi di esibizione della propria figura, delle proprie armi, del proprio ruolo, del proprio nome. Nelle Visions of Piers the Ploughman, scritte in tre diverse versioni tra il 136o e il 139o dal misterioso William Langland, un frate invita Lady Mede, la dama che ha usurpato il posto della Chiesa e che rappresenta il potere mondano del denaro, a pagare una vetrata a Westminster dove si potrà leggere il suo nome, assicurandola che questo atto garantirà l’accesso al cielo della sua anima: Abbiamo in fattura una finestra che ci costerà molto cara. Vorresti invetriarla tu questa finestra e incidervi il tuo nome? Nelle messe e nei mattutini per Mede canteremo solennemente e dolcemente come fosse una sorella del nostro ordine. Ma Dio alle buone genti proibisce tali incisioni e di scrivere sulle finestre delle proprie buone azioni. Atto di avventuroso orgoglio è l’esservi dipinto e pompa mondana...64.
Così, al tramontare del medioevo, le immagini dei donatori, dei loro blasoni, dei loro nomi che incombevano dalle alte vetrate delle chiese erano avvertite da alcuni fedeli come preoccupanti presenze della pompa mondana.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali r. marks, Stained Glass in England during the Middle Ages, London 1993, p. 44, in generale si veda c. brisac e j.-j. gruber, Le métier du maître verrier, in «Métiers d’Art», 2, 1977, pp. 25-37. 2 «Stracholfo vitreario, servi Sancti Galli», in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores II, Scriptores Rerum Sangallensium, a cura di G. H. Pertz, Hannover 1829: Monachi Sangallensis de gestis Karoli Imperatoris Libri II, p. 763. 3 Monumenta Germaniae Historica, Necr. I, p. 674. 4 Historia Episcopum Autissiodorensium in ph. labbe, Novae Bibliothecae Manoscriptorum librorum tomus primus, Paris 1657, p. 453. 5 Per le notizie su nomi di maestri vetrari cfr. h. oidtmann, Die Rheinischen Glasmalereien vom 12 bis zum 16 Jahrhunderts, Düsseldorf 1912, vol. I, pp. 51 sgg.: Älteste Berichte über das Vorkommen von Glasmalereien; j. l. fischer, Handbuch der Glasmalerei, Leipzig 1914, cap. vi: Die gesellschaftliche und materielle Lage des Glasmalers, pp. 63 sgg; c. woodforde, English Stained and Painted Glass, Oxford 1954, p. 7. 6 v. mortet, Recueil de textes relatifs à l’histoire de l’architecture et à la condition des architectes en France au Moyen Age, XI-XII siècles, Paris 1911, p. 139; e. sackur, Die Cluniazenser... bis zur Mitte des II Jahrhunderts, Halle 1892-94, vol. II, p. 410. 7 sugerii, De Administratione, in e. panofsky Abbot Suger on the Abbey Church of St-Denis and Its Art Treasures, Princeton 1979, pp. 72 sgg. 8 m. w. cothren, Suger’s Stained Glass Masters and their Workshop at Saint-Denis, in Paris, Center of Artistic Enlightment, «Papers in Art History from Pennsylvania State University», 4, 1988, pp. 44-75. 9 de reiffenberg, Monuments pour servir à l’histoire de Namur, de Hainaut, et de Luxembourg, Bruxelles 1847, vol. VII, p. 26o. 10 ch. roth, Le cartulaire du chapitre de Notre-Dame de Lausanne, in «Mémoires et documents publiés par la Société d’histoire de la Suisse romande», III serie, iii (1948); e. j. beer, Les vitraux du Moyen Age de la Cathédrale, in aa.vv., La Cathédrale de Lausanne, Bern 1975, pp. 245-46. 11 m. grandjean, A propos de la construction de la cathédrale de Lausanne, in «Genava», xi (1963), p. 274, nota 57. 12 c. lautier, Les peintres-vertiers des bas-côtés de la nef de Chartres au début du XIIIe siècle, in «Bulletin Monumental», cxlviii (1990), pp. 7 sgg. 13 m. harrison caviness, Sumptous Arts at the Royal Abbeys in Reims and Braine. «Ornatus elegantiae, varietate stupendes», Princeton 1990, p. 10. 14 e. frodl-kraft in Studies in Medieval Stained Glass, CVMA, United States, Occasional Papers, I, New York 1985. 15 l. f. salzman, The Glazing of St Stephen’s Chapel Westminster 1351-52, in «Journal of the British Society of Master Glass-Painters», 1
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali i (1926-27), pp. 14-16, 31-35, 38-41; id., Building in England to 154o. A Documentary History, Oxford 1952, pp. 182 sgg. 16 l. grodecki, Les problèmes de l’origine de la peinture gothique et le «Maître de Saint-Chéron» de la cathédrale de Chartres, in «Revue de l’Art», 40-41, 1978, pp. 43-64, in particolare 57 sgg. 17 Se ne veda la riproduzione in j. lafond, Le Vitrail, Lyon 1988, p. 178. 18 m. durliat, Les attributions de l’architecte à Toulouse au début du e XIV siècle, in «Pallas», xi (1962), pp. 205-12; marks, Stained Glass in England cit., pp. 53-54. 19 h. wentzel, recensione a p. frankl, Peter Hemmel Glasmaler von Andlau, in «Kunstchronik», xi (1958), p. 106. 20 h. wentzel, Eine deutsche Glasmalerei-Zeichnung des 14 Jahrhunderts, in «Zeitschrift für Kunstwissenschaft», xii (1958), pp. 131 sgg.; e. frodl-kraft, Ein Scheibenriss aus der Mitte des 14 Jahrhunderts, in Festschrift Hans R. Hahnloser, Basel 1961, pp. 307 sgg. 21 h. wentzel, Un projet de vitrail au XIVe siècle, in «Revue de l’Art», 10, 1970, pp. 7-14. 22 c. cennini, Il Libro dell’Arte, a cura di F. Tempesti, Milano 1975, pp. 134-35. 23 g. marchini, Il giottesco Giovanni di Bonino, in Giotto e il suo tempo, Atti del Congresso Internazionale per la celebrazione del VII Centenario della nascita di Giotto, Roma 1971, pp. 67-77. 24 p. toesca, Vetrate dipinte fiorentine, in «Bollettino d’Arte», xiv (1920), pp. 3-6. 25 e. castelnuovo, Vetrate Italiane, in «Paragone», 103, 1958, p. 17. 26 r. g. burnam, Medieval Stained Glass Practice in Florence, Italy: the Case of Orsanmickele, in «Journal of Glass Studies», xxx (1988), pp. 77 sgg. 27 w. theobald, Technik des Kunsthandwerks im zehnten Jahrhunderts, Des Theophilus Presbyter Diversarium Artium Schedula, Berlin 1933, p. 241, nota 1, ricorda come documenti di Colonia (citati da j. j. merlo in Die Meister der altkölner Malerschule, Köln 1852, p. 190) definiscano volta a volta coloro che lavoravano alle vetrate come fenestrator (1056), glaseator (1314), vitriator (1327), factor vitrorum (1341); g. m. leproux, Recherches sur les peintres verriers parisiens de la Renaissance (154o-162o), Genève 1988, pp. 1-10. 28 h. wentzel, Glasmaler und Maler im Mittelalter, in «Zeitschrift für Kunstwissenschaft», iii (1949), pp. 53 sgg. 29 r. becksmann, in aa.vv., Vitrea Dedicata, Berlin 1975, p. 66. Successivamente lo stesso becksmann (in Deutsche Glasmalerei des Mittelalters, Stuttgart 1988, p. 95) ha ritenuto che Gherlacus non dovesse essere il donatore, ma solo il creatore della vetrata.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali «Quae eius liberalitas usque ad infimos etiam pervenit, adeo ut Stracholfo vitreario, servo Sancti Galli, totam vestituram suam tunc sibi servienti praeciperet dari», in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores II cit. (cfr. nota 3). 31 leproux, Recherches cit., p. 8. 32 l. grodecki, Problèmes de la peinture en Champagne pendant la seconde moitié du XIIe siècle, in Studies in Western Art, Atti del XX Congrès International d’Histoire de l’Art, Princeton 1963, vol. I, pp. 129 sgg; woodforde, English Stained cit., p. 7. Sui rapporti tra maestri vetrari e miniatori in Inghilterra cfr. marks, Stained Glass in England cit., pp. 56-58. 33 h. wentzel, Die Glasmalerei der Zisterzienzer in Deutschland, in Die Klosterbaukunst, «Arbeitsbericht der Deutsch-Französischen Kunsthistoriker Tagung», Mainz 1951. 34 La firma di Clemente di Chartres è stata scoperta da e. h. langlois che così ne scrive in Mémoire sur la peinture sur verre et sur quelques vitraux remarquables des églises de Rouen, Rouen 1823, p. 9: «Le nom du vieux peintre-verrier auquel on doit attribuer celles dont nous occupons en cet instant est, par un heureux hazard, échappé à la proscription, mais mutilé et recouvert en partie par les plombs d’une restauration; ce n’est pas sans peine qu’on peut le déchiffrer sur un philactère où il se trouve inscrit». Sulle firme dei maestri vetrari cfr. f. perrot, La signature des peintres verriers, in «Revue de l’Art», 26, 1974, pp. 40-45; m. parsons lillich, Gothic Glaziers: monks, Jews, taxpayers, Bretons, women, in «Journal of Glass Studies», xxvii (1985), pp. 72-92. 35 mortet, Recueil cit., pp. 264-65. 36 o. lehmann-brockhaus, Schriftquellen zur Kunstgeschichte des 11 und 12 Jahrhunderts für Deutschland Lothringen und Italien, Berlin 1938, n. 1602, p. 316. 37 sugerii, De Administratione cit., pp. 52-53. 38 e. delaporte, Les vitraux de la cathédrale de Chartres, Chartres 1926, p. 6, nota 1. 39 l. grodecki, Un vitrail démembré de la Cathédrale de Soissons, in «Gazette des Beaux Arts», 42, 1953, p. 175. La notizia è riportata nel 1660 da e. baluze, Ex martyrologis Ecclesiae Sancti Gervasii Suessionensis, Parigi, B. N., coll. Baluze 46, f0l. 463 r, traendola dal necrologio, ora scomparso, del capitolo della cattedrale. 40 salzman, The Glazing cit., passim. 41 sugerii, De Administratione cit., cap. 34, p. 76; brisac e gruber, Le métier cit., p. 29. 42 salzman, Building in England cit., p. 175. 43 woodforde, English Stained cit., p. 8. 44 delaporte, Les Vitraux de la Cathédrale de Chartres cit., pp. 19 sgg.; c. lautier, Les vitraux de la cathédrale de Chartres à la lumière des 30
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali restaurations anciennes, in Künstlerische Austausch, Atti del XXVIII Congrès International d’Histoire de l’Art, Berlin 1993, pp. 413-24. 45 Sulle spese sostenute ad Angers per la riparazione e la manutenzione delle vetrate della cattedrale cfr. l. de farcy, Monographie de la Cathédrale d’Angers, I. Les Immeubles, Angers 1910, pp. 172-81. 46 m. proust, A la recherche du temps perdu, edizione Pléiade a cura di J.-Y. Tadie, Paris 1987, vol. I, p. 59 [trad. it. Torino 19636, vol. I, p. 65]. 47 j. guibert, Les dessins d’archéologie de Roger de Gaignières, série II: Vitraux, Paris s. d. Sono i personaggi e i blasoni delle vetrate di Chartres a essere particolarmente indagati dal Gaignières e tra i molti disegni che fece eseguire si trovano anche piante e schemi del 1699 per la localizzazione delle vetrate con la specifica indicazione: Disposition des vitres de l’église Notre-Dame de Chartres selon l’ordre quelle sont placés. 48 ... universas fenestras navis ecclesie cum lignae essent fecit vitras, tribus exceptis. 49 La rappresentazione schematica della vetrata offerta dai due donatori è frutto del restauro dello Steinheil (1882). È possibile che originariamente la coppia coronata fosse rappresentata nell’atto di offrire una tiara a san Pietro, di cui nello scomparto superiore era rappresentato il martirio; questo è almeno ciò che appare dalla litografia, tratta da un disegno di un artista locale, H. Hivonnait, pubblicata nella Histoire de la Cathédrale de Poitiers di ch. a. auber, Poitiers 1848, ma niente permette di affermare che, a sua volta, la tiara fosse originale, cosa che anzi viene messa in dubbio dall’Auber. 50 h. kraus, The Living Theatre of Medieval Art, Bloomington-London 1967, p. 82; w. kemp, Sermo Corporeus, München 1987. 51 g. aclocque, Les Corporations, l’industrie et le commerce à Chartres du XIe siècle à la Révolution, Paris 1917. 52 a. chedeville, Chartres et ses campagnes (XI-XIIIe siècles), Paris 1973. 53 delaporte, Les Vitraux cit., p. 2, nota come sulle diciotto vetrate citate nei necrologi di Chartres come esistenti nella cattedrale prima del grande incendio del 1194, diciassette risultassero donate da ecclesiastici. Nel xiii secolo questa proporzione si altera radicalmente. 54 a. lecocq, Histoire du Cloître Notre-Dame, in «Mémoires de la Société Archéologique d’Eure et Loir», i (1858). 55 j. welch williams, The Windows of the Trades at Chartres Cathedral, tesi della University of California, Los Angeles 1987, sostiene che le corporazioni artigiane non offrirono né diressero le vetrate nelle quali vennero rappresentate, ipotesi contro la quale reagisce w. kemp, Les cris de Chartres. Rezeptionästhetische und andere Überlegungen zu zwei Fenstern der Kathedrale von Chartres, in Kunstgeschichte – aber wie?, a cura di C. Fruh, R. Rosenberg e H. P. Rosinski, Berlin 1989, pp.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali 190-220. La tesi della Williams è stata pubblicata in volume sotto il titolo Bread, Wine and Money. The Windows of the Trades at Chartres Cathedral, Chicago 1993. 56 j. welch williams, nel suo libro sulle vetrate di Chartres, mette in discussione anche il rapporto con la realtà di queste scene, identificando un certo numero di schemi rappresentativi ripetutamente usati, stabilendo un repertorio delle differenti posture e mettendole in rapporto con rappresentazioni di attività artigianali in monumenti tardo antichi provinciali. L’indiscutibile utilizzazione di topoi non toglie niente tuttavia all’importanza e al significato di questa improvvisa esplosione di raffigurazioni di attività quotidiane. 57 b. brenk, Bildprogrammatik und Geschichtsvertändnis der Kapetinger im Querhaus der Kathedrale von Chartres, in «Arte Medievale», II serie, v (1991), pp. 71-95. 58 e. h. langlois, Essai Historique et Descriptif sur la Peinture sur Verre ancienne et moderne, Rouen 1832, p. 121. 59 f. perrot, Le Vitrail, la Croisade et la Champagne: réflexions sur les fenêtres hautes du chœur de la cathédrale de Chartres, in y. bellenger e d. quéruel, Les Champenois et la Croisade, Paris 1989; harrison caviness, Sumptous Arts cit. 60 perrot, Le Vitrail, La Croisade cit., pp. 118-119. brenk, Bildprogrammatik cit., p. 87, ritiene che l’invetriatura del transetto sud concepita ai tempi di Filippo Augusto, il quale aveva progettato l’invetriatura del transetto della cattedrale d’accordo con Pierre Mauclerc e gli altri aristocratici donatori, possa essere datata qualche anno piú tardi, al tempo del regno di Luigi VIII, e che quindi l’immagine di Alix de Thouars, realizzata dopo la sua morte, possa essere letta nella prospettiva di una sorta di Memorienstiftung. 61 Cfr. brenk, Bildprogrammatik cit., pp. 83 sgg. 62 p. frankl, The Chronology of Chartres Cathedral, in «The Art Bulletin», xliii (1961), pp. 51 sgg. 63 kraus, The Living cit., pp. 71 sg. Come si è detto, la tesi della Williams è invece che a Chartres i contrasti tra canonici e gruppi della nascente borghesia fossero molto forti, come rivela tra l’altro la sommossa del 1210, e che di conseguenza le immagini degli artigiani rivelino un wishful thinking dei canonici piuttosto che una realtà. 64 Piers Plowman by William Langland. An edition of the C Text by d. pearsall, Berkeley 1979, pp. 67-68: «We han a wyndowe a worchinge | Wolde ze stande vs ful heye | Woldestow glaze that gable | and grave ther zour name? | In messe and in matynes | for Mede we shal synge | Solempneliche and softlyche | as for a suster of cure ordre | Ac God to afle god folk | Suche grauynge defendeth | to writen on wyndowes | of eny wel dedes | An auntur pruyde be paynted there and | pomp of the world...».
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Capitolo quarto Problemi iconografici
Saint-Denis. Nel trentaquattresimo capitolo della relazione di quanto era stato fatto a Saint-Denis sotto la sua amministrazione, Suger prende cosí a illustrare il programma che aveva elaborato per le vetrate della sua chiesa: Abbiamo altresí fatte dipingere dalle mani eccelse di molti maestri di diverse nazioni la splendida varietà delle nuove vetrate, sia in basso che in alto, dalla prima all’estremità del coro che ne inizia la sequenza dove è rappresentata la stirpe di Jesse fino a quella che sovrasta la principale porta d’entrata alla chiesa. Una di queste, stimolando il passaggio dalle cose materiali a quelle immateriali, rappresenta l’apostolo Paolo che fa girare un mulino e i profeti che vi portano sacchi. Ed ecco i versi che riguardano questo soggetto: Scevera con il mulino, o Paolo, la farina dalla crusca E rendi noto l’intimo senso della legge di Mosè. Il vero pane sia fatto di tutti i grani senza crusca, E sia per sempre cibo nostro e degli angeli. E nella stessa vetrata, là dove viene tolto il velo dal volto di Mosè:
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Ciò che Mosè vela, la dottrina di Cristo rivela. Coloro che spogliano Mosè mettono a nudo la Legge. Nella medesima vetrata sopra l’Arca dell’Alleanza: Sull’arca dell’Alleanza sta l’altare con la croce di Cristo; A causa di un patto piú alto qui vuol morire la vita. Sempre nella stessa vetrata, dove il leone e l’agnello dissuggellano il libro: Egli è il grande Iddio, e il leone e l’agnello ne aprono il libro. E l’agnello – o il leone – divengono carne congiunta a Dio. In un’altra vetrata, dove la figlia del Faraone trova Mosè nella cesta: Mosè nella cesta è il Bambino, e la Fanciulla Regale, la Chiesa, si prende cura di lui con mente pia. Nella stessa vetrata, dove il Signore appare a Mosè in mezzo a un roveto ardente: Come si vede il roveto che arde, ma non si consuma, Cosí chi è pieno del Signore arde di questo fuoco, ma non brucia. Sempre nella medesima vetrata, dove si vede il Faraone sommerso dal mare con la sua cavalleria: Ciò che il Battesimo è per i buoni, è l’acqua per l’esercito del Faraone La forma ne è simile, ma dissimile la causa.
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E nella stessa, dove Mosè innalza il serpente di bronzo: Come il serpente di bronzo uccide tutti i serpenti, Cosí Cristo innalzato sulla croce uccide i nemici. Nella medesima vetrata, dove Mosè riceve la legge sulla montagna: Data la legge a Mosè, a essa giova la grazia del Cristo. La Grazia vivifica, la lettera mortifica1.
I tituli approntati per le scene, quelle brevi didascalie di cui Suger era autore fertilissimo giungendo a disseminarne ogni opera da lui commissionata, ne chiariscono l’interpretazione mettendo in rapporto gli episodi dell’Antico con quelli del Nuovo Testamento e illuminando senso e intenzione delle scelte2. Le vetrate donate da Suger sono state conservate solo assai parzialmente e hanno subito radicali restauri3, ma il testo redatto dal loro committente, che fu anche colui che ne stabilí il programma, ci parla dei soggetti di alcune di esse e del loro significato. In queste pagine Suger chiarisce la funzione e il senso che attribuiva alle vetrate della sua chiesa e, in particolare, a quelle la cui lettura poteva essere piú difficile. Per usare le sue parole, la loro funzione doveva essere quella di spingere «dalle cose materiali alle immateriali» secondo il processo «anagogico» precisato proprio in quegli anni a Parigi da Ugo di San Vittore4. Per «cose materiali» non si deve intendere solo la materia della vetrata, ma anche il soggetto (Ugo di San Vittore avrebbe detto la historia), tal quale si rivela da una lettura di primo grado. Prendiamo per esempio la vetrata di Mosè. In essa troviamo come primo episodio il ritrovamento di Mosè; la scena, in questo caso appunto la historia, illustra un celebre episodio biblico, ma il suo significato va oltre.
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Mosè bambino nella sua cesta è il Cristo, l’uomo-Dio, la principessa che si prende cura di lui è la Chiesa. È questo il senso fondamentale dell’episodio (l’allegoria avrebbe detto Ugo di San Vittore). Un fatto narrato dall’Antico Testamento accenna cosí e si invera in una allusione al Nuovo. Particolarmente significativo per il soggetto e per la illustrazione che ne viene data, dove si specifica l’intento, il modus operandi di questo programma, che consiste nello spingere dalle cose materiali alle immateriali, è il primo episodio con i profeti che portano il grano macinato, separato dalla crusca e trasformato in farina, grazie al mulino mosso da san Paolo. Attraverso il filtro e l’azione del Nuovo Testamento, la materia dell’Antico, separata dalle scorie, può diventare pane, ostia eucaristica. Dal significato materiale, la scena che si svolge intorno al mulino con i profeti e san Paolo, si passa a quello immateriale, la continuità dei due Testamenti, l’inverarsi dell’Antico nel Nuovo. Il passaggio dal materiale all’immateriale, che in questa prima vetrata è messo in evidenza anche dai soggetti insoliti, complessi e allusivi, continua nella vetrata dedicata alle storie di Mosè, dove, come si è visto, un episodio storico rappresentato nel suo aspetto narrativo è illustrato dal titulus nel suo significato ultimo e trascendente. Come Mosè infante è prefigurazione di Cristo e la principessa della Chiesa, le acque del battesimo sono messe in rapporto con quelle che sommergono l’armata del faraone, il serpente di bronzo che, innalzato su una colonna, uccide ogni serpente è come il Cristo che dalla croce vince i suoi nemici. Per finire con Mosè, che sul monte riceve le tavole della legge, dove il commento spiega che la grazia di Cristo rinvigorisce la legge mosaica e conclude con l’affermazione che la lettera uccide e lo spirito vivifica, parafrasando un concetto di san Paolo nell’Epistola ai Corinzi: Nam littera occidit et spititus vivifi-
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cat. Questo problema della lettura parallela, del passaggio da un significato palese a uno riposto e piú profondo, è tipico di Suger, ma anche del modo di operare di un intellettuale del suo tempo. Si tratta di spingere la lettura a diversi livelli. Dietro ogni avvenimento, episodio, personaggio vi è un significato fondamentale e nascosto che occorre mettere in luce. Suger insiste su questo fatto e fa largo uso di espressioni come «far noto il significato intimo», «rivelare», per concludere la descrizione delle sue vetrate con quell’allusione al passaggio di san Paolo nell’Epistola ai Corinzi che è un chiaro accenno ai pericoli di una lettura che si arresti al primo livello. Le pagine di Suger offrono una chiave preziosa per comprendere che cosa potesse essere il programma iconografico di un ciclo di vetrate, ma non si deve pensare che propongano un modello che potesse essere generalizzato, né che dietro ogni vetrata medievale si sia celato un gioco di rinvii tanto complesso e raffinato. È sempre necessario identificare e distinguere il pubblico cui un’opera si indirizza, e ciò tanto piú in una società dove la differenza tra coloro che sapevano leggere e detenevano la cultura e la stragrande maggioranza, che era analfabeta, era molto profonda. A seconda del pubblico cui si rivolgevano, le immagini potevano avere funzioni diverse5. Il messaggio dell’abate di Saint-Denis si rivolgeva ai chierici litterati, a monaci colti, capaci di leggere, il cui bagaglio culturale poteva fornire, con l’ausilio dei tituli, gli strumenti di una decifrazione. Le sue vetrate «anagogiche» dovettero tuttavia apparire enigmatiche e di difficile comprensione anche ai contemporanei colti, come si può dedurre dal fatto che il loro programma estremamente sofisticato non abbia funzionato come un modello e non sia stato imitato, mentre altre vetrate di Saint-Denis, come quella del-
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l’albero di Jesse, o quella dell’infanzia di Cristo6, esercitarono una precisa influenza a Chartres e altrove. Ciò permette di rivedere almeno parzialmente la tesi di Emile Mâle7, che in tutte le vetrate del xii secolo vedeva al lavoro pittori provenienti da Saint-Denis e attribuiva alle vetrate di Suger un’influenza piú vasta e onnipresente di quanto in realtà esse non abbiano avuto.
I soggetti. Le vetrate dovevano infatti essere comprese non solo dal loro programmatore, ma anche dal pubblico che entrava nella chiesa. Questo era assai differenziato, composto com’era di religiosi e di laici, di diversa cultura e di differenti esperienze, attese e abitudini, e abbiamo piú di una testimonianza di come una tale differenziazione fosse percepita. Nella Apologia ad Guillelmum indirizzata intorno al 1124 all’abate Guillaume de Saint-Thierry, san Bernardo, che di Suger era contemporaneo e per certi aspetti avversario, attacca violentemente l’uso delle immagini negli stabilimenti monastici, perché esse, sostiene, potevano distrarre i monaci dalla meditazione religiosa, ma le ammette nelle chiese dove aveva accesso un pubblico piú vasto, composto anche di laici, cui, ai suoi occhi, le immagini erano destinate. Piú tardi, ma questa volta per chiari motivi apologetici, sarà il cardinale Eudes de Chateauroux a ricordare come, nella sua giovinezza, la vetrata del Buon Samaritano nella cattedrale di Bourges gli fosse difficilmente comprensibile8. Il fatto che anche gli strati piú colti del pubblico del xii secolo difficilmente fossero in grado di identificare e comprendere allusioni cosí complicate come quelle contenute in alcune delle vetrate di Suger fu tanto piú rilevante in quanto ci si attendeva che le vetrate aves-
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sero un valore didattico immediato e piú generalmente comprensibile. Quando Honorius Augustodunensis, un ecclesiastico vissuto in Germania tra xi e xii secolo, paragona la società a una chiesa, i vescovi ne sono le colonne, i principi le volte, il popolo il pavimento, e le vetrate, proprio in quanto portatrici di un insegnamento, i maestri9. Quali temi erano trattati nelle vetrate delle chiese medievali? Molti e diversi, legati alla liturgia, al pensiero teologico, all’idea della salvezza, ma anche all’immagine del mondo, ai poteri che lo reggevano, alla crociata. Una prima distinzione dipendeva dalla collocazione delle finestre, a seconda che si trattasse delle finestre alte della claire-voie, per solito dedicate a personaggi isolati, santi, apostoli, profeti, patriarchi10, re, o delle finestre basse, dove di preferenza prendevano posto vetrate leggendarie dedicate alla vita di un santo, a episodi cristologici o altotestamentari, all’illustrazione di parabole, oppure invece si trattasse di rose o rosoni con spartizioni e programmi complessi. Potevano essere affrontati i momenti e gli episodi piú importanti della storia di Cristo: della giovinezza, o della vita pubblica, spesso attraverso episodi tratti dai vangeli apocrifi, l’insegnamento delle parabole (il Buon Samaritano, il Figliuol prodigo eccetera), la Passione, l’Ascensione, le apparizioni dopo la morte. Un tema onnipresente è quello della Vergine: la sua immagine, le storie della sua vita, della morte e dell’incoronazione, dei miracoli da lei compiuti – come quello celebre della leggenda del sacerdote Theophilus che, avendo venduto l’anima al diavolo, si pente e viene riscattato dalla condanna grazie alle preghiere fatte davanti alla sua statua – sono frequentissime11. Emile Mâle ha indicato come questa leggenda sia stata a piú riprese trattata in vetrate del xiii secolo (a Chartres, a Gercy, a Beauvais, a Troyes, a Laon, a Le Mans), men-
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tre altre leggende della Vergine non hanno fornito soggetto a vetrate. Solo la cattedrale di Le Mans possiede un gruppo particolarmente nutrito di vetrate duecentesche dedicate ai miracoli della Vergine quali li aveva narrati Gregorio di Tours nel De Gloria Martyrum, e quali vennero ripresi nei lezionari in relazione alla festa dell’Assunzione12. Altri soggetti potevano riguardare personaggi, episodi e immagini dell’Antico Testamento visti in diretto rapporto con il Nuovo. In piú di un caso (a Châlons-sur-Marne, a Bourges, a Chartres ad esempio) la rappresentazione della Passione è al centro di elaborati programmi tipologici in cui la Crocifissione è attorniata da episodi e personaggi biblici. Di questi programmi Charles Cahier e Arthur Martin diedero nella monumentale monografia sulle vetrate della cattedrale di Bourges una prima estesa lettura. Il discorso tipologico si può svolgere attraverso immagini di profeti, di storie bibliche tratte dalla Genesi, in particolare la Creazione e le storie di Noè e di Giuseppe, dall’Esodo, e anche, ma piú raramente, dagli altri libri (il ciclo biblico piú ricco è quello della Sainte-Chapelle di Parigi); o ancora dell’albero di Jesse, inteso come l’albero dell’ascendenza terrena di Cristo o del trono di Salomone, interpretato come figura della Vergine. Frequenti i temi escatologici come il Giudizio finale, i ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse, e frequentissime le rappresentazioni e le leggende dei santi e degli apostoli. Potevano comparire, in specie nelle rose, che nella loro elaborata struttura circolare erano particolarmente adatte a ospitare soggetti enciclopedici, anche temi apparentemente profani come i segni dello zodiaco, i mesi, le arti liberali, le diverse razze, i venti. Questi ultimi soggetti non possono essere considerati come qualcosa di diverso da quelli specificamente religiosi: il tempo, il
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cosmo e i loro simboli, come d’altronde tutte le attività umane, rientrano in un discorso generale sul mondo, l’uomo e il suo destino.
Immagini politiche. Il presente, la storia piú recente, ma anche soggetti di origine classica divenuti leggendari, attinti per esempio dal Romanzo di Alessandro, potevano fornire temi, spunti, immagini, ed essere alla base dell’organizzazione di complessi cicli. La crociata, le lotte contro gli eretici, l’appropriazione di venerate reliquie, la polemica antisemita, il primato di una sede arcivescovile, l’autorità dell’imperatore, l’esaltazione dell’istituto monarchico, il primato della Chiesa forniscono volta a volta soggetti per singole vetrate o interi cicli. Situazioni particolari, legate alla funzione e alla storia di un edificio o della città dove sorge, ebbero un peso sulla genesi e sulla formulazione di determinate soluzioni iconografiche. Ciò è evidente per i culti locali, ma esempi di tal tipo, assai comuni, non sono i piú rappresentativi, poiché in questi casi possono variare i singoli elementi del racconto – i personaggi, le vicende – pur rimanendo invariata la sua struttura; la cosa cambia quando la mutazione non porta su singoli episodi e personaggi ma, per cosí dire, sull’accento stesso del racconto tematico. Quando per esempio, nota Hans Reinhardt13, le finestre alte della cattedrale di Reims, la chiesa dove il re di Francia veniva tradizionalmente consacrato, non sono dedicate, come nelle altre cattedrali, a santi raffigurati in posizione eretta, bensí, con qualche eccezione, «unicamente a personaggi seduti: la Madonna con il Bambino, gli apostoli, l’arcivescovo di Reims e i suoi suffraganei nel coro, gli arcivescovi di Reims e i re di Francia nella navata», allora si pone veramente un problema.
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La sostituzione di personaggi eretti con personaggi seduti (la posa della maestà), l’insistenza sul clero locale e sull’alternanza tra arcivescovi di Reims e re di Francia hanno un notevole valore sintomatico: «affermano [...] la superiorità della sede metropolitana di Reims su tutta la Seconda Gallia Belgica e il diritto dei suoi arcivescovi a consacrare i re di Francia»14. Un discorso analogo si può fare per la serie dei vescovi di Reims sovrastati da profeti e apostoli a Saint-Remi. Nella cattedrale di Strasburgo, dove l’esaltazione dell’istituto monarchico già traspare nelle vetrate dedicate a re Salomone, la straordinaria serie di imperatori che ornava un tempo la cattedrale romanica e che oggi, dopo molti rifacimenti subiti nel periodo gotico e nell’ottocento, si snoda nelle finestre della navata, ha le proprie origini nelle relazioni privilegiate tra la città alsaziana e l’impero, e una conferma di questi legami privilegiati viene dall’iscrizione che si trovava su una delle vetrate, oggi perdute, della chiesa alsaziana di Sélestat, forse rappresentante l’albero di Jesse, che ricordava come esse fossero state ordinate da Federico imperatore di ritorno dopo aver vinto i milanesi. Particolarmente significativi per questo rapporto con il presente i temi relativi al conflitto tra regnum e sacerdotium, quali il martirio di san Thomas Becket15, che illumina l’opposizione della Chiesa al cattivo monarca, al tiranno, la storia di Costantino, primo imperatore cristiano, e quella di san Remigio, che aveva battezzato Clodoveo facendo della nazione franca il baluardo della Chiesa e del suo sovrano il buon re per eccellenza16. D’altro canto i temi relativi alla lotta contro gli infedeli17 – alla prima crociata, e proprio alla vigilia della seconda, l’abate Suger aveva consacrato una finestra, oggi distrutta ma conosciuta attraverso l’incisione che ne dà il Montfaucon18 – illuminano la temperie del momento e le funzioni di propaganda che venivano attribuite alla
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vetrata. Un valore di attualità hanno inoltre le storie di Carlo Magno19, anch’esse intese come incitamento alla crociata; o ancora le rappresentazioni dell’acquisizione di reliquie particolarmente venerate, come è il caso per la cattedrale di Troyes, il cui vescovo, Garnier de Trainel, ne aveva riportate alcune importantissime dall’oriente, dove era andato crociato; o ancora della Sainte-Chapelle, costruita da san Luigi per ospitare appunto le piú preziose reliquie della Passione di Cristo. Frequentemente presenti, e con preciso carattere di attualità, sono d’altronde, accanto ai motivi antiereticali, quelli antisemiti, quali la leggenda del fanciullo gettato nella fornace, tratta anch’essa dai miracoli della Vergine20. I temi sono dunque molto numerosi, benché non si diversifichino particolarmente da quelli affrontati in altre tecniche come la scultura, la pittura, la miniatura e anzi attingano largamente da queste; tuttavia, data la posizione privilegiata di cui per secoli godettero i prodotti di questa tecnica, la loro disposizione nell’edificio, la loro ripartizione, la loro sequenza, la loro impaginazione ebbero un’importanza del tutto particolare21. Ma sono esistiti dei soggetti trattati esclusivamente, o almeno prevalentemente, in questa tecnica? E le vetrate di un edificio sono state, come le pitture e le sculture, coordinate secondo un programma prestabilito e generalizzabile? E infine come è mutata nel tempo la loro iconografia?
Vetrate tipologiche. In un modo o in un altro, e sia pure in forme assai meno elaborate di quelle delle vetrate dionisiane, il fenomeno dei richiami e dei rimandi, per cui un episodio o un personaggio rappresentato rinvia a un altro, perma-
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ne, perché risponde a un’essenziale struttura dell’organizzazione del pensiero nel medioevo che si spinge anche a livello popolare, come nei cicli del xiv secolo ispirati allo Speculum Humanae Salvationis. Questo sistema prende una forma chiara nelle vetrate tipologiche, dove gli episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento sono direttamente messi in rapporto gli uni con gli altri. La cultura teologica del xii secolo aveva sistemato le concordanze non solo tra Antico e Nuovo Testamento, e in Francia ciò è enfatizzato dalla reazione all’eresia catara che rigettava in blocco l’Antico Testamento, ma anche con i fenomeni del mondo fisico attinti ai bestiari ispirati dall’antica tradizione del Physiologus, un testo molto diffuso e assai conosciuto sulle virtù e i comportamenti degli animali. A ogni animale venivano attribuite caratteristiche particolari legate a significati simbolici: in questo modo era possibile mettere in rapporto leggendarie costumanze di animali con episodi della storia sacra. Un pannello di vetrata nel museo di Darmstadt proveniente dalla Ritterstiftskirche di Wimpfen im Tal, con un leone che soffia su due piccoli, ce ne offre un esempio. Il suo pendant è perduto, ma doveva rappresentare la resurrezione di Cristo. Secondo il Physiologus, infatti, i piccoli del leone muoiono subito dopo la nascita e vengono poi rianimati dal padre. Questa leggenda del mondo animale diviene cosí un corrispettivo tipologico della Resurrezione, largamente utilizzato e presente anche nella volta della cappella degli Scrovegni. D’altra parte la Resurrezione poteva essere anche evocata da un episodio dell’Antico Testamento come il miracoloso salvataggio di Giona dalla balena; cosí in una finestra della cattedrale di Lione degli inizi del duecento la Resurrezione si trova accompagnata da due scene egualmente allusive: Giona e la balena e il leone con i suoi piccoli22. La vetrata della Redenzione situata nella finestra assiale del coro della cattedrale di Lione presenta,
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appunto, un programma molto significativo, in cui gli episodi del Nuovo Testamento (dall’Annunciazione all’Ascensione) sono accompagnati nei bordi da episodi dell’Antico Testamento e da temi del Physiologus. Emile Mâle ne ha trattato in un passaggio tra i piú affascinanti del suo classico testo sull’arte religiosa del xiii secolo in Francia23, ravvisandone la fonte nello Speculum Ecclesiae di Honorius Augustodunensis, una raccolta di sermoni per le principali feste dell’anno in cui i grandi avvenimenti della vita del Signore sono accompagnati e commentati da episodi dell’Antico Testamento che li prefigurano e dalle descrizioni di comportamenti e abitudini attribuite a certi animali, attinte dal Physiologus, cui si riconosce un valore simbolico. Cosí l’unicorno che si lascia catturare solo da una fanciulla è scelto ad accompagnare un episodio della vita della Vergine, mentre il leone che resuscita con l’alito i suoi figli è accostato alla Resurrezione. Quanto all’Ascensione, essa è accompagnata da una parte dall’immagine dell’aquila e dei suoi piccoli, e dall’altra da quella di un uccello indicato con il nome di Kladrius, due figure che sono entrambe evocate nel sermone sull’Ascensione di Honorius. L’aquila infatti prende i suoi piccoli sulle proprie ali stese e li trasporta in cielo, mentre l’uccello Charadrius (corrotto in Kladrius nella scritta della vetrata), posto presso un malato, permette di sapere se questi morirà o si salverà. Nel caso che l’esito sia funesto, l’uccello distoglierà la testa dal malato; in caso contrario la volgerà verso di lui, ne assorbirà con il becco la malattia e si allontanerà nel cielo liberandolo dal pericolo della morte.
L’albero di Jesse e il trono di Salomone. Una rappresentazione particolarmente cara all’iconografia medievale e che fornisce un’esemplificazione
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visiva della continuità tra Antico e Nuovo Testamento è l’albero di Jesse24. All’origine sta il testo di Isaia (xi. 1-3): «E un ramo uscirà dal tronco di Jesse e dalla sua radice monterà un fiore e lo spirito del Signore poserà su di lui»25. Su questo testo si fonda l’immagine del patriarca addormentato dal cui fianco sorge un albero sui cui rami sono rappresentati i diversi re di Giuda antenati di Cristo, Maria e il Cristo. Il tema, che associa strettamente il concetto di monarchia terrena con quello di monarchia celeste sottolineando l’ascendenza aristocratica di Cristo, conosce nel xii e nel xiii secolo una rapidissima e straordinaria diffusione; non a caso è questo il soggetto di una vetrata donata dal re di Francia Filippo Augusto per una finestra del coro della cattedrale di Soissons26. Verso il 1145 Suger, strettamente legato alla dinastia regnante, vi dedica nell’abbazia reale di Saint-Denis la vetrata assiale del coro; questo tema sarà immediatamente ripreso in una finestra della facciata occidentale della cattedrale di Chartres e poi, con impaginazioni talora molto differenti, in numerose altre vetrate in Francia, Germania e Inghilterra27. La sua eccezionale fortuna nel campo della vetrata deve essere vista anche in rapporto con il suo perfetto adattarsi alla forma e alle proporzioni della finestra, che, con il suo accento verticale, offre una superficie e una inquadratura particolarmente adeguate. Un caso analogo, ma che si presenta in un momento successivo, è quello del trono di Salomone. Questo è cosí descritto nella Bibbia: Il re fece pure un gran trono d’avorio che rivestí d’oro puro. Questo trono aveva sei gradini e una predella d’oro connessa col trono; vi erano dei bracci da un lato e dall’altro del seggio, due leoni stavano presso i bracci e dodici leoni stavano sui sei gradini da una parte e dall’altra28.
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Nel suo commento alla Bibbia, Rabano Mauro dà una spiegazione simbolica del passo: il trono non è altri che la Chiesa, e piú tardi Nicholas de Clairvaux identifica il trono con la Vergine medesima29. L’identità cosí proposta è alla base di un tipo iconografico che combina e unisce i temi dell’Antico Testamento (Salomone) a quelli del Nuovo (la Vergine). Nella rappresentazione di questo tema, che si svilupperà particolarmente nel xiii e nel xiv secolo, si trova generalmente Maria seduta su un trono a baldacchino dall’architettura assai complessa, che comprende, entro nicchie laterali, tutta una serie di virtú e profeti, oltre, naturalmente, ai celebri leoni del testo biblico. Con particolare frequenza troviamo illustrato questo tema, elaborato originariamente in ambiente parigino30, in vetrate trecentesche, specialmente in Alsazia, dove esso troneggia in scultura sulla facciata della cattedrale di Strasburgo, nella regione del lago di Costanza e nel Baden, vale a dire in un’area dove la ricezione dei modelli francesi è particolarmente forte e originale31. Esso conosce particolare favore proprio nel momento i cui si sviluppa con forza nella vetrata il gusto per la decorazione architettonica. Si tratta di un fortunato incontro tra un’iconografia che esige un certo tipo di trattamento formale e una tendenza stilistica che favorisce e sviluppa proprio questo tipo di problematica. È da credere che senza questo incontro tra la tendenza alla rappresentazione pseudoarchitettonica nella vetrata, propria del momento 1250-1350, e l’interesse per il tema, squisitamente architettonico, del trono di Salomone non si sarebbe arrivati a una rappresentazione cosí frequente di questo motivo.
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Figurazioni leggendarie. Per molti aspetti la vetrata a motivi architettonici, di cui il trono di Salomone è un caso particolare, è una raffigurazione tipica e rappresentativa di un certo momento del gotico, come lo era stata in precedenza la vetrata «a tappeto», i cui medaglioni variamente combinati, entro i quali si trattano episodi leggendari, si dispongono su un fondo decorato. Vetrate di questo tipo si trovano sovente, già a partire dalla metà del xii secolo, nelle finestre basse delle navate minori e delle cappelle. La loro posizione è facilmente spiegabile, dato che le dimensioni minori delle scene richiedono, per poter essere viste e comprese, una distanza ravvicinata da parte dello spettatore. La vetrata leggendaria32 è in genere consacrata alla storia di uno o piú santi, a episodi altotestamentari o evangelici, in particolare all’illustrazione delle parabole, o in certi casi a un tema tipologico33, in cui le concordanze tra Vecchio e Nuovo Testamento vengano messe in luce. Una vetrata illustra numerosi episodi, talora anche piú di una trentina, e questi prendono posto in medaglioni di diversa forma organizzati in varie maniere. Il problema del rapporto dei medaglioni tra loro e con il fondo ha aspetti piú specificamente formali. Qui interessa seguire i dati piú propriamente iconografici, ma è chiaro che il legame tra i due aspetti è molto forte. Talvolta la disposizione delle scene non pone problemi particolari, poiché esse sono ordinate per semplice allineamento e sovrapposizione. In questo caso la lettura si fa generalmente dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra (nelle estremità inferiori trovano posto le immagini dei o del donatore, e qui, nelle vetrate donate da gruppi di artigiani, si trovano le straordinarie illustrazioni delle loro attività), ma in alcuni casi possono essere adottate soluzioni che richiedono una lettura bustro-
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fedica, in cui la direzione del racconto cambia e si inverte di registro in registro (Chartres, vetrata di Giuseppe ebreo e vetrata di Santa Margherita), oppure una lettura che si svolge dall’alto verso il basso (Chartres, vetrata della Redenzione)34. Il problema tuttavia si complica, in quanto, come si è visto, nella maggioranza delle vetrate della prima metà del duecento i medaglioni non sono semplicemente posti gli uni accanto agli altri, ma combinati in strutture o schemi complessi che riuniscono più elementi, il che permette di privilegiare la scena posta al centro della composizione quadriloba attribuendole una maggiore importanza. Le finestre basse delle cattedrali di Chartres e di Bourges offrono esempi celeberrimi di questo tipo. I temi sono le parabole evangeliche, le leggende degli apostoli, di santi universalmente venerati e celebri, o anche di santi locali legati alla storia della diocesi. Il legame tra le leggende rappresentate e i committenti è in certi casi evidente, perché vengono prescelti i patroni dei donatori e dei singoli mestieri; talora è piú incerto, e si deve supporre che vi sia stato un suggerimento di intellettuali direttamente legati alla vita della chiesa: dal vescovo ai membri del capitolo, ai cancellieri della scuola della cattedrale. Le fonti non sono le classiche raccolte di vite di santi come la Leggenda Aurea, perché queste sono in genere posteriori, ma testi liturgici, talora locali, o anche enciclopedie. Difficile è determinare se nella disposizione dei soggetti si segua un programma unitario precisamente strutturato, oppure se le vetrate siano state disposte una dopo l’altra senza tener conto di un programma d’insieme; questo dipende dalle circostanze in cui l’invetriatura della chiesa ha avuto luogo e dalla presenza di un eventuale committente - organizzatore-programmatore. In certi casi, come accade per gli affreschi, si deve credere che una vetrata sia stata donata come ex voto e
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non abbia quindi niente a che fare con un eventuale programma generale. Sembrerebbe questo il caso di una vetrata della chiesa di Saint-Gengoult a Toul, dove sono illustrate tre leggende dei santi Nicola, Agata e Agapito che non hanno tra loro alcun rapporto. Esse potrebbero qui essere state accostate in relazione a tradizioni che collegano in un modo o nell’altro i tre santi alla protezione contro gli incendi, cosa che sembrerebbe ulteriormente provata dalla presenza di due figurette di donatori raffigurati entro un edificio in fiamme35.
Programmi e programmatori. Nei casi in cui un intero edificio sia dovuto all’intervento di un singolo donatore o organizzatore, come nel xii secolo Saint-Denis, nel xiii la Sainte-Chapelle di Parigi, nel xiv Königsfelden36, un programma unitario viene generalmente elaborato in accordo con le intenzioni del committente (il caso di Saint-Denis è un caso limite, l’abate Suger essendo nello stesso tempo committente, organizzatore dei lavori e ideologo-programmatore); piú complesso, pieno di apparenti contraddizioni e di ripetizioni invece il caso delle grandi cattedrali dove religiosi, nobili, borghesi hanno moltiplicato le donazioni. Anche qui, peraltro, possono essere avvertite le influenze di teologi e intellettuali, se per il complesso messaggio teologico della vetrata della Crocifissione della cattedrale di Poitiers si è parlato di un’influenza degli scritti di Gilbert de la Porrée, che era stato vescovo della città37; se per le vetrate di Sankt Patroklus a Soest si sono sottolineati i rapporti con il pensiero teologico di Ruprecht di Deutz38; e se per la cattedrale di Bourges si sono volute ritrovare le tracce di un programma organico, forse dovuto a san Guglielmo di Corbeil, arcivescovo della città dal 1199 al 1209.
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Qui, nelle finestre alte, profeti e apostoli, situati gli uni sul lato settentrionale, dalla parte della notte, gli altri su quello meridionale, dalla parte del giorno, si corrispondono strettamente in una serie di sapienti corrispondenze tematiche, che ritroviamo nelle complesse vetrate teologiche del coro39; ma altrove non è cosí, e gli accostamenti non sembrano seguire una logica precisa. In generale, del resto, è piú facile avvertire una unità e una continuità di disegno nella sistemazione delle parti alte dei grandi edifici religiosi che in quella delle parti basse, dove la sequenza delle vetrate leggendarie pone regolarmente piú di un interrogativo sul loro significato e sulla loro coerenza, come nel caso della cattedrale di Chartres. Tuttavia anche qui, contro l’opinione, generalmente accettata, dell’assenza di un preciso disegno, vi è stato chi ha voluto riconoscere l’esistenza di un programma molto preciso, che lega, nell’idea e nella prospettiva della Salute, temi e personaggi del Nuovo e dell’Antico Testamento, nonché leggende di santi40. Anche se non è certo che a Chartres sia esistito un progetto organico, ed è anzi possibile che temi e soggetti siano stati, in piú di un’occasione, casualmente avvicinati, gli accenti, le opzioni e le soluzioni adottate hanno sicuramente risentito della situazione e del patrimonio culturale della città, e questo non solo nella scelta di santi locali, quali Lubin e Chéron, le cui vicende (particolarmente arricchite di significati eucaristici nel caso di san Leobinus, che era stato cellerarius, addetto alle cantine) sono illustrate in due delle finestre basse, ma anche nella scelta di particolari modi di rappresentazione. È questo per esempio, a Chartres, il caso delle vetrate della claire-voie che corre sotto la grande rosa di Dreux, sulla facciata meridionale del transetto. Troviamo qui le figure degli apostoli arrampicate sulle spalle gigantesche dei profeti: è un modo per legare intimamente, nel piú autentico spirito tipologico, personaggi
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dell’Antico e del Nuovo Testamento; ma difficilmente possiamo pensare che nella scelta di questa soluzione cosí suggestiva non abbia pesato la tradizione di una celebre frase di Bernardo, il gran cancelliere della scuola della cattedrale agli inizi del xii secolo, dove si parla dei moderni come di «nani assisi sulle spalle dei giganti», che proprio per questa loro posizione possono vedere piú cose e piú lontano.
La rosa. Particolarmente interessante è l’iconografia della rosa, la finestra circolare che costituisce l’autentico punto focale estetico delle facciate delle cattedrali gotiche. Tali aperture, la cui forma privilegiata evoca la ruota e il sole, ebbero origini e significati simbolici assai complessi41, e ricevettero nell’architettura gotica una stupenda valorizzazione. Il loro interno è organizzato in forma articolata: per lo piú da un circolo centrale si dipartono raggi in pietra uniti gli uni agli altri da archi a sesto acuto, in modo tale che due raggi vengano a incorniciare e a delimitare una superficie conclusa. Altri elementi tipici del disegno gotico42, trilobi, quadrilobi eccetera, intervengono ad arricchire le spartizioni interne di ciascuna luce. Lo spazio circolare viene cosí diviso in un certo numero di lancette, dodici e piú, a disposizione stellare. Questa non è però che una delle soluzioni adottate dagli architetti gotici; altre ne sono state tentate, come nella rosa sud della cattedrale di Losanna dove il disegno è basato su una contrapposizione e compenetrazione di forme quadrate e circolari43. La superficie circolare, comunque organizzata e divisa, rimane profondamente unitaria e deve essere letta come tale. Un programma coerente è dunque alla base del programma delle rose delle grandi cattedrali. In linea di
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massima la ripartizione dei temi secondo i punti cardinali è analoga a quella che si ha per la scultura monumentale: Il nord che è la regione del freddo e della notte è consacrato di preferenza all’Antico Testamento, il mezzogiorno riscaldato dal sole e bagnato dalla piena luce è consacrato al Nuovo. D’altra parte la facciata occidentale è quasi sempre riservata alle rappresentazioni del Giudizio finale. Il sole al tramonto rischiara questa grande scena dell’ultima sera del mondo.
In questo modo Emile Mâle44 ha mostrato il significato dei punti cardinali nell’organizzazione dei programmi delle cattedrali e questa regola, seppur con molte eccezioni, è seguita anche per le rose. Al nord è frequentemente rappresentata la Vergine, tramite tra l’Antico e il Nuovo Testamento, accompagnata da re e patriarchi dell’antica legge (Chartres, Notre-Dame di Parigi, Reims); a sud il Cristo accompagnato da santi e martiri. Quanto alla rosa occidentale essa è frequentemente dedicata al Giudizio finale (Chartres, Mantes, Sainte-Chapelle di Parigi). Tuttavia spesso una rosa (la rosa meridionale a Losanna, quella settentrionale a Laon, quella occidentale a Notre-Dame di Parigi, quella orientale a Brie-Comte-Robert) è dedicata a un soggetto enciclopedico-cosmologico, all’anno, alle stagioni, ai lavori dei mesi, ai segni dello zodiaco, alle arti liberali, agli elementi, ai fiumi del paradiso. Soggetti già trattati nei mosaici pavimentali dell’Italia settentrionale (ad Aosta per esempio), e che ritrovano un nuovo significato nel fatto di decorare un’apertura circolare, la rosa, che con la sua forma simbolizza appunto il cosmos. È probabile, come ha proposto Ellen Beer, che la crescente importanza che la rosa assume nell’architettura gotica, e che apparentemente contrasta con la sua forma
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eminentemente non gotica, sia dovuta proprio al fatto che essa proponeva una cornice ideale per l’organizzazione di complessi programmi iconografici a carattere enciclopedico.
Vitrearum etiam novarum praeclaram varietatem, ab ea prima quae incipita Stirps Jesse in capitu ecclesiae usque ad eam quae superest principali portae in introitu ecclesiae, tam superius quam inferius magîstrorurn multorum de diversis nationibus manu exquisita depingi fecimus. Una quarum de materialibus ad immaterialia excitans, Paulum apostolum molam vertere, prophetas saccos ad molam apportare repraesentat. Sunt itaque eius materiae versus isti: «Tollis agendo molam de furfure, Paule, farinam. | Mosaicae legis intima nota facis. | Fit de tot granis verus sine furfure panis, | Perpetuusque cibus noster et angelicus.» Item in eadem, vitrea, ubi aufertur velamen de facie Moysi: «Quod Moyses velat, Christi doctrina revelat. | Denudant legem qui spoliant Moysen.» In eadem vitrea, super arcam foederis: «Foederis ex arca Christi cruce sistitur ara; Foedere majori vult ibi vita mori.» Item in eadem, ubi solvunt librum leo et agnus: «Qui Deus est magnus, librum Leo solvit et Agnus. | Agnus sive Leo fit caro juncta Deo.» In alia vitrea, ubi filia Pharaonis invenit Moysen in fiscella: «Est in fiscella Moyses Puer ille, puella | Regia mente pia quem. fovet Ecclesia.» In eadem vitrea, ubi Moysi Dominus apparuit in igne rubi: «Sicut conspicitur rubus hic ardere, nec ardet, | Sic divo plenus hoc ardet ab igne, nec ardet.» Item in eadem vitrea, ubi Pharao cum equitatu suo in mare demergitur: «Quod baptisma bonis, hoc militiae Pharaonis | Forma facit similis, causaque dissimilis.» Item in eadem, ubi Moyses exaltat serpentem aeneum: «Sicut serpentes serpens necat aeneus omnes, | Sic exaltatus hostes necat in cruce Christus.» In eadem vitrea, ubi Moyses accipit legem in monte: «Lege data Moysi, juvat illam gratia Christi. | Gratia vivificat, littera mortificat.». 2 sugerii, De administratione, in e. panofsky, Abbot Suger on the Abbey Church of St-Denis and Its Art Treasures, Princeton 19792, cap. xxxiv, pp. 72 sgg. 3 l. grodecki, Les vitraux de Saint-Denis, vol. I, Paris 1976; j. hayward, Stained Glass at Saint-Denis, in Abbot Suger and Saint-Denis. A Symposium, a cura di P. L. Gerson, New York 1986, pp. 84-98; m. harrison caviness, Suger’s Stained Glass at Saint-Denis: The State of Research, in Abbot Suger and Saint-Denis cit., pp. 257-72. 4 g. a. zinn jr, Suger, Theology and the Pseudo-Dionysian Tradition, 1
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali in Abbot Suger and Saint-Denis cit., pp. 33-40; c. rudolph, Artistic Change at St-Denis. Abbot Sugers Program and the Early Twelfth-Century Controversy on Art, Princeton 1990. 5 m. camille, Seeing and Reading. Some Visual Implications of Medieval Literacy and Illiteracy, in «Art History», viii (1985), pp. 26-49; l. c. duggan, Was Art Really the «Book of the Illiterate»?, in «Word and Image», v (1989), pp. 227-51; c. m. chazelle, Pictures, Books and the Illiterate. Pope Gregory I’s letters to Serenus of Marseille, in «Word and Image», vi (1990), pp. 138-53. 6 m. w. cothren, The Infancy of Christ Window from the Abbey of St-Denis: A Reconsideration of Its Design and Iconography, in «Art Bulletin», lxviii (1986), pp. 398-419. 7 e. mâle, La peinture sur verre en France, in a. michel, Histoire de l’Art, Paris 1905, vol. I, parte ii, pp. 786-92; id., Lepart de Suger dans la création de l’iconographie du Moyen-Age, in «Revue de l’Art Ancien et Moderne», 35, 1914, poi in L’art religieux du XIIe siècle en France. Etudes sur les origines de l’iconographie du Moyen-Age. Diverse da quelle di Mâle le opinioni di w. r. lethaby, The Part of Suger in the Creation of Medieval Iconography, in «Burlington Magazine», xxv (1914-15), pp. 2o6-7; harrison caviness, Suger’s Stained Glass cit., p. 267 e nota 75. 8 eudes de chateauroux, Sermo 4, in j. b. pitra, Analecta novissima spicilegii Solesmensis altera continuatio, Paris 1888, vol. II, pp. 273 sgg. Citato in w. kemp, Sermo Corporeus, München 1987, p. 96. Sullo scritto di san Bernardo cfr. c. rudolph, The Things of Greater Importance, Philadelphia 1990. 9 j.-p. migne, Patrologia Latina, vol. 172, col. 586; b. j. sauer, Symbolik des Kirchengebäudes und seiner Ausstattung in der Auffassung des Mittelalters, Freiburg 1902, pp. 12 sgg. 10 Sul significato delle figure dei patriarchi, per esempio della ricca serie di Canterbury legata all’esaltazione dei primi tempi biblici, anteriori all’instaurazione del potere monarchico, cfr. m. harrison caviness, The Early Stained Glass of Canterbury Cathedral, London 1977, p. 108; c. manhes-deremble, Les vitraux narratifs de la cathédrale de Chartres, Paris 1993, p. 240. 11 m. cothren, The Iconography of Theophilus Windows in First Half of the Thirteenth Century, in «Speculum», lix (1984), pp. 308-41. 12 e. mâle, L’art religieux du XIIIe siècle en France, Paris 1958, p. 263. 13 h. reinhardt, La cathédrale de Reims, Paris 1963, pp. 181-94. 14 Ibid. 15 c. brisac, Thomas Becket dans le vitrail français au début du XIIIe siècle, in Atti del Colloquio Thomas Becket, Paris 1975, pp. 221-30. 16 manhes-deremble, Les vitraux narratifs cit. 17 f. perrot, Le Vitrail, la Croisade et la Champagne: réflexions sur
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali les fenêtres hautes du chœur de la cathédrale de Chartres, in y. bellenger e d. quéruel, Les Champenois et la Croisade, Paris 1989, pp. 109-28. 18 bernard de montfaucon, Les Monumens de la Monarchie françoise, Paris 1730, vol. II. 19 c. robertson haines, The Charle Magne Window at Chartres Cathedral: New Considerations on Text and Image, in «Speculum», lii (1977), pp. 810-22; i. rolland, Le mythe carolingien et l’art du vitrail: sur le choix et l’ordre des épisodes dans le vitrail de Charlemagne à la cathédrale de Chartres, in Mélanges René Louis, Paris 1982, pp. 255-78. 20 m. parsons lillich, Gothic Glaziers: monks, Jews, taxpayers, Bretons, women, in «Journal of Glass Studies», xxviii (1985), pp. 72-92; e. i. carson pastan, Tam hereticos quam Judeos. Shifting Symbols in the Glazing of Troyes Cathedral, in «Word and Image», x (1994), pp. 66-83. 21 v. raguin, The Visual Designer in the Middle Ages: The Case for Stained Glass, in «Journal of Glass Studies», xxviii (1986), pp. 31-32. 22 j. l. fischer, Handbuch der Glasmalerei, Leipzig 1914, pp. 232 sgg. 23 mâle, L’art religieux du XIIIe siècle cit. Una prima analisi di questa vetrata è in c. cahier e a. martin, Monographie de la Cathédrale de Bourges, Paris 1841-44. 24 a. watson, The Early Iconography of the Tree of Jesse, London 1934; j. r. johnson, The Tree of Jesse Window of Chartres. Laudes Regiae, in «Speculum», xxxvi (1961), pp. 1-22; manhes-deremble, Les vitraux narratifs cit., pp. 239-48. 25 Et egredietur virga de radice Iesse, et flos de radice eius ascendet, et requiescet super eum spiritus Domini. 26 l. grodecki, Un vitrail démembré de la cathédrale de Soissons, in «Gazette des Beaux-Arts», VI serie, xlii (1953), pp. 169-76; j. ancien, Vitraux de la cathédrale de Soissons, Reims 1980. 27 m. harrison caviness e v. chieffo raguin, Another Dispersed Window from Soissons. A Tree of Jesse in the Sainte-Chapelle Style, in «Gesta», xx (1981), pp. 191-98; m. harrison caviness, The Canterbury Jesse Window, in J. Hoffeld (a cura di), The Year 1200. A Symposium, New York 1975, pp. 374-76. 28 i. Re, x. 18-20. 29 f. wormald, The Throne of Solomon and St Edwards Chair, in De Artibus Opuscula XL. Essays in Honor of Envin Panofsky, New York 1961, pp. 532 sgg. Sulla letteratura sul trono di Salomone cfr. il commento di e. j. beer alla edizione in facsimile del Graduale di St. Katharinenthal, Luzern 1983, pp. 163-66. Si veda anche v. beyer, Sedes Sapientiae et vierge au trone de Salomon en Alsace, in«Pays d’Alsace», 147-148, 1989, pp.15-20; r. becksmann, in Deutsche Glasmalerei des Mittelalters. Bildprogramme, Auftraggeber, Werkstätten, Berlin 1992, pp. 62-65.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali r. becksmann, Le Vitrail et l’Architecture, in R. Recht (a cura di), Les Bâtisseurs de Cathédrales Gothiques, Strasbourg 1989, pp. 463-64, mette in luce l’esecuzione a Parigi di modelli destinati a conventi della Germania meridionale. 31 r. becksmann, Die architektonische Rahmung des hochgotischen Bildfenster, Berlin 1967; h. wentzel, Un projet de vitrail au XIVe siècle, in «Revue de l’Art», 10, 1970, pp. 10-14. 32 w. kemp, Sermo Corporeus. Die Erzählung der mittelalterlichen Glasfenster, München 1987; j.-p. deremble e c. manhes, Les vitraux légendaires de Chartres, Paris 1988; manhes-deremble, Les Vitraux narratifs cit. 33 kemp, Sermo Corporeus cit., pp. 56-116. 34 deremble e manhes, Les vitraux légendaires cit., pp. 62-64. 35 m. parsons lillich, The Ex-Voto Window at Saint-Gengoult, Toul, in «Art Bulletin», lxx (1988), pp. 123-33. 36 e. frodl-kraft, Die Glasmalerei, Wien 1970, p. 114. 37 r. grinnell, Iconography and Philosophy in the Crucifixion Window at Poitiers, in «Art Bulletin», xxviii (1946), pp. 171-96. 38 u. d. korn, Die romanische Farbverglasung von Sankt Patrokli in Soest, Münster 1967. 39 l. grodecki, A Stained-Glass Atelier of the Thirteenth Century, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», xi (1948), pp. 87-111. 40 p. popesco, La Cathédrale de Chartres, Paris 1970, ma particolarmente manhes-deremble, Les vitraux narratifs cit. 41 h. j. dow, The Rose-Window, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», xxi (1958), pp. 248 sgg.; p. cowen, Rose Windows, London 1979; f. kobler, Fensterrose in Reallexikon zur deutschen Kunstgeschichte, München 1982, vol. VIII, pp. 65-203. 42 g. binding, Masswerk, Darmstadt 1989. 43 e. j. beer, Nouvelles réflexions sur l’image du monde dans la cathédrale de Lausanne, in «La Revue de l’Art», x (1970), pp. 57 sgg. 44 mâle, L’art religieux du XIIIe siècle cit., pp. 5 sgg. 30
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Capitolo quinto Problemi formali
Una vetrata non è solo una pittura su vetro, è anche una pittura fatta con il vetro, destinata a essere montata in un luogo determinato, entro una finestra. Il suo aspetto è la risposta a molti obblighi, a molti condizionamenti ed è il risultato di molte scelte. Sarà bene evitare di considerarla alla stregua di una pittura come le altre, realizzata in una tecnica un po’ particolare; ha infatti regole, obblighi e potenzialità molto specifiche. La sua forma, le sue dimensioni saranno dettate da quelle della finestra, che a sua volta essa potrà influenzare. La sua composizione, come la sua impaginazione, l’articolazione della sua superficie, il ruolo e l’economia delle sue varie componenti pongono questioni diverse da quelle che possono riguardare una pittura murale, una tavola, il foglio illustrato di un manoscritto. Quali siano stati i problemi che si è posto il maestro vetrario, e con lui, quando non si sia trattato della medesima persona, il pittore nell’impaginare la vetrata, come abbia definito il bordo che la incornicia e che svolge un ruolo importante, gli sfondi contro cui si stagliano le figure o le singole scene, come abbia strutturato la narrazione disponendo i medaglioni, come abbia scelto i colori, privilegiandone alcuni, avvicinandoli e dosandoli secondo certi criteri, come abbia operato per dare maggiore evidenza alle figure e alle scene che intendeva rappresentare, sono per noi altrettante domande. A
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giudicare da quanto conosciamo, si direbbe che fin dall’inizio della storia delle vetrate sia esistita una doppia tipologia che rispecchiava la disposizione delle finestre: vetrate a piú scene, incorniciate da medaglioni, per le finestre basse; vetrate con singole grandi figure, inquadrate, a partire da un certo momento, da una sorta di sommario e simbolico baldacchino con schematici timpani e torricelle per le finestre della zona alta delle pareti, il cosiddetto clerestory o claire-voie1. Quali saranno state le scelte cromatiche e compositive del maestro vetrario di fronte alle vetrate situate nella parte bassa delle pareti che dovevano esser viste da vicino, rispetto a quelle delle finestre alte che, per contro, dovevano essere viste da lontano?2
I colori. Il colore è uno degli elementi fondamentali di una vetrata: aereo, smaterializzato, accende lo spazio della chiesa3. I colori hanno una storia e in qualche modo una geografia4. Determinate predilezioni si manifestano a partire da un certo tempo e in certi luoghi. La gamma di una vetrata romanica tedesca con i suoi gialli e i suoi verdi squillanti è molto diversa da quella di una contemporanea vetrata francese. A parte certe scelte di fondo, alla base della selezione di un colore stanno essenzialmente due motivazioni: da una parte il suo comportamento rispetto alla luce incidente nonché agli altri colori che dovevano essergli posti accanto, dall’altra i suoi possibili significati simbolici5, o quanto meno le regole, le convenzioni, le abitudini che una lunga tradizione aveva consacrato. Vi sono colori che lasciano filtrare la luce o che la assorbono in quantità maggiore o minore, ve ne sono che hanno maggiore o minore capacità di irradiazione nelle
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zone contigue6. La variabilità della intensità luminosa può d’altra parte produrre effetti diversi di profondità. All’origine di certi accostamenti e di certe scelte sta dunque la conoscenza del comportamento dei diversi vetri rispetto alla luce. D’altra parte il fatto che a un colore venisse attribuito un significato particolare e fisso può aver avuto la sua importanza nella scelta. Si aggiunga che questi due elementi non sono determinati una volta per tutte, fuori dal tempo, ma che conoscono evoluzioni e modificazioni profonde. Da un lato il valore simbolico del colore potrà avere maggiore o minore importanza, comportare obblighi maggiori o minori, dall’altro i maestri vetrari sapranno avvalersi delle caratteristiche dei diversi vetri per ottenere risultati di volta in volta diversi. La gamma cromatica conoscerà cosí modificazioni profonde, a seconda degli effetti ricercati7: si incupirà parallelamente al progressivo ampliarsi delle finestre, tornerà verso valori fondamentalmente piú chiari in seguito e, con l’introduzione del vetro incolore contro cui si stagliano le figure vivacemente colorate, mostrerà l’affermarsi di una nuova concezione della parete vitrea. Louis Grodecki in un celebre saggio8 indicò le ragioni del mutamento avvenuto dopo il 125o negli effetti ricercati e sottili dell’architettura rayonnante, che potevano essere percepiti e apprezzati solo in buone condizioni di illuminazione. Su questo punto la tesi di Grodecki venne contraddetta dalle osservazioni di John Gage9, che vide nello schiarirsi della gamma cromatica non tanto un’intenzione estetica, quanto il riflesso di una nuova concezione della luce e della luminosità che si era manifestata nella filosofia del xiii secolo, come appare dal Liber de Mineralibus di Alberto Magno o nel Liber de natura rerum, trattazione enciclopedica di Thomas de Cantimpré. La preminenza data nei loro scritti al rubino, pietra solare e splendente, rispetto allo zaffiro, caro
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a Suger di Saint-Denis che aveva esaltato la saphirorum materia evocata dagli azzurri intensi delle vetrate del xiii e dell’inizio del xiii secolo, andrebbe appunto in questa direzione.
I precetti di Antonio da Pisa. Precise istruzioni sull’uso dei vetri colorati potevano essere amministrate da trattati didattici. La Memmoria del magisterio de fare fenestre de vetro, un libretto di Antonio da Pisa scritto sul finire del trecento, si sofferma in piú di un punto sui problemi cromatici, sia che si tratti di fissare regole per l’inquadramento architettonico di un personaggio, sia per suggerire come meglio mettere in evidenza le vesti, o ancora per precisare i modi del contrasto cromatico tra fondo e figura10: In prima si voi fare uno tabernaculo: Fa’ sempre la base e capitelli de vetro çallo e le colonnelle de vetro bianco o de vetro incarnato e i casamenti de vetro biancho in similetudine de marmo et in similitudene de lengname, mictili sempre vetro çallo del piú chiaro che puoi avere et in scanbio de pietra cotta, micti sempre vetro rosso, cioè uno coloraccio chiaro. Et si figura grande volessi fare: Nota che si tu fai la veste de la figura verde, fa’ lo suo mantello de vetro rosso o de colore de laccha e lo riverso del mantello, de vetro biancho o de çallo. Se tu volessi fare istorie: Et tu le vestissi, una de biffo et una de rosso o de laccha fa’ sempre nel meço de questi colori una vestita de biancho o de çallo perchè si mecterai infra rosso o verde o laccha o bifo, sempre nel meço una figura çalla o biancha, ti farà relevare l’altre figure per ragione naturale. Li campi:
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Nota che li campi de le figure volgliono essere sempre de açurro e quando el mantello o la vestimenta fosse d’açurro, el campo fa’rosso. Figura de çallo o bianco: Si tu vestissi una figura de çallo o biancho, fa li riversi della veste, di rosso o de bifo o de verde o d’açurro, salvo non vi serà da lato del campo.
D’altra parte Antonio da Pisa affronta anche il problema delle tradizioni seguite nell’attribuire un colore alle vesti dei santi e cosí ne scrive: Figure d’apostoli o altri sancti: Si figure d’apostoli o d’altri sancti volissi fare e non avessi bene in memmoria de che deverli vestire, vattene a le chiese e guarda a quelle che sono dipente per li dipenturi e de che colori l’anno vestiti le sue figure e cosí tu fa’ similemente. Nota che sempre sancto Pietro veste di mantello çallo e la gonella vuole essere de açurro e li reversi de rosso e verde o bifo11.
Vetrate leggendarie e modi della narrazione. Al di fuori delle scelte cromatiche la composizione di una vetrata pone altri problemi: se dei rapporti tra vetrate e architetture, e in particolare tra finestre e pareti e tra vetrate e finestre nel sistema costruttivo gotico si è già parlato nel primo capitolo, rimangono quelli di tipo compositivo, che riguardano l’organizzazione e la disposizione delle scene figurate, la spartizione della superficie vitrea e i rapporti tra scene e fondo, il ruolo dei vari elementi che compongono la vetrata – dalle scene alle inquadrature e ai tipi di compassi che le contengono: circolari, mistilinei, quadrati –, il tipo e l’importanza del disegno del bordo esterno.
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La tipologia della vetrata leggendaria con diverse scene offre una ricca serie di problemi che vanno dalla forma dei medaglioni alla loro disposizione all’interno della finestra, alle dimensioni e alla funzione del bordo. La vetrata leggendaria francese del xii secolo presenta per lo piú una sovrapposizione di scene contenute entro medaglioni generalmente tondi, talora, come nella vetrata dell’infanzia di Cristo di Chartres, alternativamente quadrati e tondi, oppure ottagonali o ellittici (Le Mans, Apparizione di san Paolo a sant’Ambrogio). I medaglioni sono incorniciati da un bordo decorato a perle, a palmette, a fogliami stilizzati, comprendente, in certi casi, anche delle iscrizioni. Un’ampia fascia con motivi analoghi, che include talora grifoni o altri animali favolosi attinti al repertorio delle stoffe orientali, incornicia l’intera finestra. Lo spazio tra i medaglioni è spesso ornato con motivi geometrici, fogliami o palmette analoghi a quelli dei bordi. In certi casi il fondo stesso del medaglione su cui si stagliano le figure è ornato preziosamente con racemi o altri elementi decorativi. È il caso per esempio della splendida vetrata dell’Ascensione di Champs-près-Froges (Isère) o delle vetrate di Gherlacus, oggi a Münster, in Westfalia. Nel corso del xii secolo il semplice alternarsi dei medaglioni venne modificato dall’intervento di schemi piú complessi, già presenti, del resto, in pieno xii secolo nella Crocifissione di Châlons-sur-Marne o nella parte inferiore della grande vetrata della Crocifissione nella cattedrale di Poitiers. Questi schemi sono determinati e sottolineati dalle armature in ferro, il cui ruolo nel disegno complessivo della vetrata e le cui forme si modificano sensibilmente in questo periodo, portando al raggruppamento di vari medaglioni o di parti di essi in una composizione accentrata, sovente a quattro lobi. Invece di comprendere una sola scena, il nuovo medaglione, che risulta dalla fusione e dalla intersecazione di
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diversi elementi, giunge a inquadrarne quattro o cinque, e ciò conduce a una spartizione assai diversa della superficie della vetrata. Piuttosto che in una scansione in numerosi registri, la composizione, e quindi la narrazione, si organizzano in Francia attorno a tre o quattro grandi elementi sovrapposti, secondo un modello che non sarà seguito in Germania. Contemporaneamente a questa tendenza, che tende a raggruppare le scene in grandi elementi unitari il cui nucleo si situa al centro della vetrata e lontano dai bordi, ne esiste un’altra, a essa non avversa ma piuttosto complementare, non concentrica ma centrifuga, che comporta una sorta di proiezione dei medaglioni verso i bordi. A Chartres si trovano numerosi esempi delle due tendenze, sia dei medaglioni raggruppati attorno a un nucleo centrale (vetrata del Buon Samaritano, vetrata delle storie della Vergine, vetrata delle storie degli Apostoli, vetrata dei santi Antonio e Paolo, di san Giacomo Maggiore eccetera), sia dei medaglioni organizzati in modo centrifugo con una importante proiezione verso l’esterno (vetrata di Carlo Magno, vetrata di santo Stefano). Piú che di tendenze diverse si dovrebbe parlare di soluzioni diverse ottenute nello stesso modo, con l’intersecazione e la rotazione, la dimidiazione e la moltiplicazione di circoli e di quadrati. Da questa evoluzione nella spartizione della superficie derivano importanti conseguenze per l’aspetto complessivo della vetrata, che prende ad assomigliare a una sorta di tessuto marcato e scandito da medaglioni variamente disposti (per questo è stata chiamata vetrata-tappeto) e che mostra d’altra parte una complessa struttura narrativa che ha permesso di paragonarla ai jeux e ai fabliaux12. Lo svolgersi degli avvenimenti nelle vetrate leggendarie segue vie complesse e diversificate: a ordinate successioni dal basso verso l’alto, da sinistra verso destra, si alternano improvvise inversioni che cambiano il per-
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corso della lettura, mentre la gerarchizzazione delle scene, ottenuta attraverso la centralità e quindi l’evidenza che assumono alcune di esse, attorno a cui o in rapporto a cui si dispongono le altre, impone un ordine al racconto. I modi e i ritmi della narrazione sono stati in tempi recenti oggetto di una particolare attenzione13 suscitata dal crescente interesse per la narratologia, per l’intertestualità, per il linguaggio delle immagini, per le forme e i modi della lettura, per i rapporti tra testi e lettori, ma anche in passato avevano dato lo spunto a indagini approfondite da parte di August Schmarsow e della sua scuola14.
Gli sfondi e le scene. Contemporaneamente al raggruppamento delle scene e al conseguente nuovo rapporto tra fondo e medaglioni, il fondo stesso cambia aspetto secondo schemi e modelli diversi. Talora una fitta quadrettatura lo fa somigliare a una grata o a un mosaico, talaltra l’impiego di minuti elementi curvilinei produce l’impressione di una sovrapposizione di scaglie o tegole multicolori, come negli smalti. Gli elementi-base impiegati nei fondi possono essere anche circoli, rombi, quadrilobi e molte altre forme elementari che spartiscono la superficie in singole e minute unità ripetute e sovrapposte, talvolta alternate. Siano essi circoli, quadrati, semicerchi, rombi o altro ancora, essi sono generalmente di colore rosso o blu delimitati da una incorniciatura, rossa quando il fondo è blu e viceversa, e dipinti al loro interno con motivi di fiori o di fogliami. Le intersezioni di due cornici sono spesso sottolineate da un punto, da una perlina o da un minuscolo quadrilobo giallo o bianco. In certi casi, come nella vetrata delle storie di santo Stefano a Chartres, a questo fondo quadrettato si sovrappongono,
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in luoghi determinati, dei circoli piú grandi, inquadrati da un sottile listello bianco e decorati all’interno da uno straordinario motivo a girandola a spicchi alternati rossi e blu. L’alternanza del rosso e del blu, stabilita già dal contrasto tra il listello di contorno e l’area interna, può ripetersi all’interno dei singoli elementi; in molti casi i singoli elementi del mosaico saranno alternativamente rossi e blu. Sono questi i due colori fondamentali della vetrata francese della prima metà del duecento. Il dispiegarsi e l’alternarsi di questi due colori sul fondo spartito geometricamente della vetrata provoca nello spettatore singolari effetti percettivi di retrocessione o di avanzamento, resi piú complessi dall’uso della grisaille che, incupendo o rischiarando le superfici, svolge un ruolo non indifferente nel suscitare un’illusione spaziale. Non sempre il fondo della vetrata è quadrettato o comunque diviso in singoli elementi geometrici. Talora motivi vegetali, rami stilizzati con foglie o fiori si stagliano sulla superficie unita del fondo (Chartres, vetrata della morte di Maria, vetrata di san Martino), tuttavia la spartizione geometrica rimane per molto tempo la piú usata.
Mutamenti di impaginazione. Accanto a questa spartizione del fondo e al complesso mutarsi della forma dei compassi entro cui prendono posto le scene, altri importanti cambiamenti hanno luogo nei margini. Innanzi tutto i bordi dei medaglioni non vengono piú ornati tanto riccamente come avveniva nelle vetrate del xii secolo; la zona dell’incorniciatura si semplifica e si riduce. Mutamenti di rilievo hanno luogo anche nelle dimensioni e nel disegno del bordo esterno: anch’esso si riduce e riceve in certi casi un ornamento naturalistico, un virgulto d’albero che si
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arrampica attorcendosi a un listello lungo il bordo per tutta la sua altezza (Chartres, vetrata di san Giovanni Evangelista; Orbais, vetrata della Passione)15, mentre in Germania sopravvivono per lungo tempo gli ampi bordi romanici a foglie di acanto. Questo doppio processo di organizzazione delle scene entro schemi geometrici complessi da un lato, e di mutamento nell’aspetto e nella funzione del bordo dall’altro, differenzia profondamente il carattere della vetrata del xiii secolo rispetto a quelle del periodo precedente. Il mutamento stilistico non è solo avvertibile nella rappresentazione dei singoli personaggi o nella composizione delle scene, esso investe l’intero organismo della vetrata e del suo disegno. Altri mutamenti si produrranno in seguito, sia al livello della composizione, sia a quello della gamma cromatica. Il disegno ricco e complesso del medaglione composito comprendente piú scene sarà abbandonato a profitto di schemi più semplici, adottati perché meglio rispondenti allo sviluppo verticale delle finestre. Rispetto alla estrema varietà di soluzioni offerte dalle vetrate di Chartres e di Bourges, gli schemi compositivi adottati alla Sainte-Chapelle di Parigi possono sembrare monotoni, ma rispondono pienamente alle superfici strette e allungate delle luci. A partire dalla seconda metà del secolo si impone una nuova soluzione che avrà una immediata ricezione internazionale: la vetrata a inquadramento architettonico16. Frattanto la gamma cromatica aveva subito anch’essa numerose modificazioni. Se per un certo tempo il costante ampliarsi della superficie invetriata andò di pari passo con l’incupirsi della gamma cromatica dei vetri, di modo che la quantità di luce degli interni rimase pressoché costante17, a partire da un certo momento essa ridiventa chiara grazie a un impiego sempre crescente di vetri bianchi, appena ravvivati da sottili listel-
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li colorati che compongono motivi geometrici e da rami e foglie tenuemente dipinti a grisaille. La vetrata chiara, fatta di vetro incolore dipinto a grisaille, che avrà un ruolo importante nel trecento, ha dietro di sé una lunga storia. Una delle sue radici è stata certamente, già nel xii secolo, la vetrata cistercense, per la quale norme precise dettate da una ricercata austerità, in cui l’atteggiamento ascetico di san Bernardo aveva avuto una gran parte, proibivano l’uso di vivaci colori e la rappresentazione di scene o personaggi, ma il suo uso fu diffuso più generalmente per permettere attraverso delle localizzazioni studiate una maggiore luminosità del coro o delle singole cappelle. Cosí Suger di Saint-Denis aveva sperimentato nella sua chiesa abbaziale una serie di vetrate a grisaille ornate di grifoni, e successivamente l’uso di vetrate dove il vetro chiaro aveva una parte importante si trova in molte chiese, da Angers a Lione, a Poitiers, a Reims, a Auxerre, a Chartres, a Bourges18. Alla finestra-tappeto, dove i medaglioni con le scene si dispongono su un fondo intensamente e variamente colorato, si sostituisce una combinazione di vetri colorati e vetri incolori. Analogamente alle tendenze che prevalgono nella plastica e nella miniatura, conosce una grande fortuna la finestra-baldacchino, dove singole figure o scene incorniciate da elaborate architetture si stagliano contro un fondo bianco. Se questo schema di sviluppo può funzionare, con qualche eccezione, per la Francia, esso non può venire applicato senza modificazioni al mondo germanico, dove la vetrata-tappeto, tipica del duecento francese, non conosce una analoga fortuna. Piú di quelli francesi gli atelier tedeschi restano fedeli ad alcune formule elaborate nel corso del xii secolo – grandi bordi riccamente lavorati, fondo delle scene ornato – e manifesta chiaramente la sua ritrosia ad accettare il disegno complesso del medaglione a piú scene. Nel grande ciclo di Sankt Kunibert a Colonia (1215-30
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circa) la vetrata leggendaria francese conosce una traduzione semplificata. Le scene prendono posto entro compassi mistilinei semplicemente sovrapposti che occupano l’intera larghezza della superficie compresa entro i due larghi bordi; i maestri vetrari tedeschi danno la preferenza a una incorniciatura mistilinea infinitamente meno complessa di quelle prevalenti in Francia e consistente essenzialmente in una alternanza di angoli ottusi o retti, di semicerchi e di frammenti di circoli. Il fondo della vetrata, pur accettando largamente elementi di origine francese, concede ancora largo spazio a fogliami e fiori di discendenza romanica, anche se talora trattati in modo nuovo e naturalistico. La particolare tendenza conservatrice della vetrata tedesca non si manifesta solo nei panneggi a pieghe dure e angolose profondamente cariche d’ombra, o nella espressione drammatica e patetica dei volti, ma anche nella fedeltà a elementi di un repertorio antico: la perla, la palmetta, la foglia d’acanto, il fondo a racemi bianchi tracciati con il manico del pennello secondo la lezione di Theophilus. Verso la fine del xiii secolo tuttavia la distanza tra le due aree artistiche andrà attenuandosi. Frattanto, alla fine del duecento e agli inizi del trecento, la nascente vetrata italiana sarà molto piú sensibile agli schemi e alle soluzioni formali della vetrata tedesca che a quelli della vetrata francese, dimostrando cosí una riserva all’accettazione totale del disegno gotico e una netta propensione verso forme piú moderate e meno innovatrici. Ne è tra l’altro testimonianza la generale adozione dei compassi mistilinei ispirati a modelli tedeschi che si ritrovano nella vetrata di Duccio alla cattedrale di Siena, in molte vetrate di San Francesco di Assisi e in altre in Santa Croce a Firenze19. Anche nelle soluzioni date ai problemi apparentemente semplici della impaginazione si possono seguire cosí in modo esemplare le tendenze profonde e le opzioni di una cultura formale.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali m. parsons lillich, The Band Window. A Theory of Origin and Development, in «Gesta», ix (1970). 2 v. raguin, The Visual Designer in the Middle Ages: The Casefor Stained Glass, in «Journal of Glass Studies», xxviii (1986), pp. 30-39. 3 h. phleps, Die farbige Arkitektur bei den Römern und im Mittelalter, Berlin, s. d. ma 1950; j. michler, Über die Farbfassung hochgotischer Sakralräume, in «Wallraf-Richartz Jahrbuch», xxxix (1977), pp. 29-68; e. frodl-kraft, Die Farbsprache der gotischen Malerei Ein Entwurf, in «Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte», xxx-xxxi (1977-78), pp. 89-178. 4 m. pastoureau, Figures et couleurs, Paris 1986. 5 g. haupt, Die Farbensymbolik in der sakralen Kunst des abendländischen Mittelalters, Dresden 1941. 6 e.-e. viollet-le-duc, Vitrail in Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècle, vol. IX, Paris 1868, pp. 373-482. 7 l. grodecki, La couleur dans le vitrail du XIIe au XVIe siècles, in Entretiens sur la couleur, Atti del Colloque du Centre de Recherche de Psycologie comparative, Paris 1958, pp. 186-2o6. 8 l. grodecki, Le Vitrail et l’Architecture au XIIe et au XIIIe siècle, in «Gazette des Beaux Arts», serie VI, xxxvi (1949), p. 524, pp. 121-38. 9 j. gage, Gothic Glass: Two Aspects of a Dionysian Aesthetic, in «Art History», v (1982), pp. 36-58. 10 antonio da pisa, Memmoria del magisterio de fare fenestre de vetro in aa.vv., Vetrate. Arte e Restauro, Milano 1991, p. 55. 11 Ibid., p. 56. 12 w. kemp, Sermo Corporeus. Die Erzählung der mittelalterlichen Glasfenster, München 1987. 13 Oltre a kemp, Sermo Corporeus cit., si veda j.-p. deremble e c. manhes, Les vitraux légendaires de Chartres. Des récits en images, Paris 1988, e la recensione che ai due libri ha dedicato m. harrison caviness in «Speculum», lxv (1990), pp. 972-75. 14 a. schmarsow, Kompositionsgesetze in der Kunst des Mittelalten, Leipzig 1915; id., Kompositionsgesetze romanischer Glasgemälde in frühgotische Kirchenfenstern, in «Abhandlungen der philologisch-historischen Klasse der Königlich Sachsischen Gesellschaft der Wissenschaften», 33/2, 1916, pp. 1-55; id., Kompositionsgesetze frühgotischer Glasgemälde, ivi, 36/3, 1919, pp. 1-122; w. dahmen, Gotische Glasfenster. Rhythmus und Strophenbau, Bonn-Leipzig 1922; m. t. engels, Zur Problematik der mittelalterlichen Glasmalerei, Berlin 1937. 15 Un’analisi e un raggruppamento dei differenti bordi delle vetrate di Chartres, nonché una attenta lettura dei differenti elementi di una vetrata duecentesca, e in particolare dello sfondo «a mosaico», in p. popesco, Verrière du Bon Samaritain de la Cathédrale de Chartres, in 1
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali «Cahiers de la Céramique, du Verre et des Arts du Feu», 38, 1966, pp. 119 sgg. 16 r. becksmann, Die architektonische Rahmung des hochgotischen Bildfensters, Berlin 1967, recensito in «Speculum», 1973, pp. 110 sgg. 17 grodecki, Le Vitrail et l’Architecture cit. 18 e. frodl-kraft, Das «Flechtwerk» der frühen Zisterzienserfenster. Versuch einer Ableitung, in «Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte», xx (1965), pp. 7-20; parsons lillich, The Band Window cit.; id., A Redating of the Thirteenth Century Grisaille-Windows of Chartres Cathedral, in «Gesta», xi (1973), pp. 11-18; id., Three Essays on French Thirteenth Century Grisaille Glass, in «Journal of Glass Studies», xv (1973), pp. 69-78; h. zakin, French Cistercian Grisaille Glass, New York-London 1979. 19 e. castelnuovo, Vetrate Italiane, in «Paragone», 103, 1958, pp. 3-24, e in particolare pp. 12 e 14.
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Capitolo sesto Fortuna delle vetrate
Finora le finestre delle nostre chiese non erano chiuse che da vecchie tele, grazie a voi per la prima volta il sole dalla chioma dorata splende sul pavimento della nostra basilica traversando i vetri dipinti con diversi colori. Una gioia inesauribile riempie il cuore di coloro che possono ammirare la straordinaria novità di quest’opera eccezionale1.
Una storia della fortuna delle vetrate può cominciare da questa lettera, scritta sul finire del x secolo da Gozbertus, abate del monastero di Tegernsee in Baviera, a un aristocratico donatore, anche se precedentemente non mancano reazioni ammirative nei confronti delle finestre translucide delle basiliche paleocristiane, «smaglianti come i fiori di primavera» aveva scritto Prudenzio. Ma l’entusiasmo per quella che sembra essere un’assoluta novità traspare tanto fortemente in questo passo che la vicenda che vogliamo seguire potrà prendere le mosse proprio di qui. In seguito le testimonianze si accumulano: nell’xi secolo l’edificio della rotonda di San Benigno a Digione, da poco costruita sotto la direzione di Guglielmo da Volpiano è «illuminato dallo splendore delle finestre», mentre la basilica «irradiata in ogni sua parte dai vetri» e le cappelle fatte costruire dall’abate Thierry a Saint-Hubert d’Ardenne sono illuminate da pulcherrimis
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fenestris dipinte da un Rogerus che per questo compito era stato chiamato da Reims. Agli inizi del xii secolo il monaco Theophilus dedicava il secondo libro del suo trattato a una apologia del vetro, mentre, piú o meno negli stessi anni, William di Malmesbury sottolineava in De gestibus pontificum anglorum come non si potesse vedere in Inghilterra niente di comparabile alla luce delle vetrate della cattedrale di Canterbury 2 . Pochi anni dopo l’abate Suger di Saint-Denis eleverà un autentico inno alle vetrate che aveva fatto eseguire e dipingere «dalla mano squisita di molti maestri di diverse nazioni». Delle «ammirevoli vetrate», della «preclara varietà delle nuove vetrate», dell’«opera mirifica riccamente profusa di vetri dipinti [vitrei vestiti] e di materia di zaffiro»3 parla sovente e diffusamente per sottolinearne la luminosità, il pregio e la rarità dei materiali, la eccezionale qualità della pittura. Nella prosa dell’abate Suger, il cui nome è connesso con una storica svolta nella storia dell’architettura, la nascita del gotico, termini come micat, claret, clarificet, lumen, lux abbondano, come del resto avviene anche nelle pagine degli enigmatici Libri Heracli de coloribus et artibus romanorum dove frequente è l’uso di nitens, renitere, splendens e cosí via4. Una metafisica e quindi un’estetica della luce si sviluppano su basi neoplatoniche, ma non solo su quelle. Nuove riflessioni e nuove definizioni della luce e della chiarezza si fanno strada nella filosofia del xiii secolo, da Thomas de Cantimpré ad Alberto Magno5, mentre con Witelo, Grossatesta, Pecham l’ottica diviene un argomento centrale di studio e di discussione6. In un tale clima mentale e culturale dovettero farsi strada e diventare sempre piú urgenti e generali le attese di una decorazione luminosa. Ma il fasto delle vetrate cariche di colori aveva già suscitato il sospetto e la ripulsa dell’ordine cistercense che, nelle raccomandazioni emesse dai capitoli generali
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dell’ordine intorno agli anni 1136 e 1145-115o, e rinnovate nel 1182, nel 124o e nel 1256, prescrivevano che «le vetrate devono essere bianche senza croci e senza immagini»7, stabilendo cosí di mettere al bando le vetrate colorate e figurate e accogliendo nelle proprie chiese solo quelle di vetro incolore decorate dalle forme geometriche del reticolo di piombo che regge i vetri. Nelle abbazie benedettine e nelle grandi chiese urbane tuttavia lo sfarzo colorato delle vetrate trovava ampio campo. A perpetuo ricordo e lode di Agnes de Braine (morta nel 1204) vengono citate le vetrate che – ma la cosa è quanto meno dubbia – sarebbero venute d’Inghilterra in dono da parte di una regina, splendide e variate di colori, dipinte da pennelli mirabili (Agnes […] vitris ex Anglia adductis, mirabili penicillo colorumque inassequibili temperamento, et varietate stupendis, fenestras clausit) con cui aveva ornato l’abbazia di Braine, la «vastissima chiesa ornata con tale eleganza da non essere seconda a nessuna» che aveva fatto costruire8. Elogi straordinari sono profusi negli Atti dei vescovi di Le Mans per un artista che nel xii secolo aveva dipinto splendide finestre nel palazzo del vescovo Guillaume de Passavant. Il suo capolavoro furono le pitture della cappella palatina (non è chiaro in verità se si trattasse di vetrate dipinte o di pitture murali, ma, data l’insistenza con cui in altri due punti il testo ritorna su vetrate confezionate da questo artefice, la prima ipotesi è forse la piú probabile) su cui gli Atti si esprimono cosí: Precedentemente accanto a questa camera il prelato aveva costruito una cappella e, benché non si trattasse che della prima fatica dell’artista, essa non risplendeva meno di bellezza. Le figure dipinte con un talento ammirevole, rappresentazioni vere di personaggi viventi, non solo attiravano gli occhi ma ancora catturavano e assorbivano tal-
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mente le facoltà dell’intelletto che nel vederle tutti dimenticando le loro occupazioni rimanevano in preda a una deliziosa ammirazione e anche quelli che avrebbero avuto da fare altrove sostavano per la meraviglia affascinati da queste immagini9.
Quanto alla sala attigua alla cappella, essa risplendeva soprattutto per un fenestrarum opus di tale bellezza che chi vi entrasse era sorpreso dallo splendido aspetto delle finestre. Nei trattati liturgici degli stessi anni ritornano di frequente passi sulle vetrate, considerate un elemento capitale nella decorazione e nella struttura stessa della chiesa. Nella simbologia dell’architettura religiosa, quale era presentata in questi manuali, ogni parte dell’edificio aveva un suo preciso significato. Ora le finestre invetriate da cui scendeva la luce che rischiarava i fedeli avevano un posto di elezione: esse erano i dottori, i profeti la cui dottrina illuminava il cristiano e lo difendeva dalle tenebre del male10. Pierre de Roissy, cancelliere della scuola della cattedrale di Chartres tra il 12o8 e il 1213 all’incirca, negli anni cioè in cui la chiesa ricostruita dopo l’incendio del 1196 cresceva e si ergeva sempre piú imponente in mezzo al suo grande cantiere, e già nelle finestre basse delle navate si stavano montando gli splendenti tappeti vitrei, scrive: le finestre invetriate che sono nella chiesa, attraverso le quali si trasmette la chiara luce del sole e sono tenuti lontano i venti e le pioggie, stanno a significare le sacre scritture che illuminandoci allontanano da noi il male11.
Sono le espressioni consuete tante volte ripetute nei libri di esegesi biblica o nei trattati di liturgia, ma in questo caso prendono un sapore particolare dato lo
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stretto legame che il loro autore ebbe con la cattedrale di Chartres, un rapporto che si avverte anche dalle notazioni precise sulla forma e la varietà delle finestre, quadrate nella parte inferiore e rotonde in quella superiore, grandi e piccole, non ognuna della stessa dimensione12. Parole analoghe – «le finestre translucide che ci separano dalla tempesta e ci versano la luce sono i dottori» – si trovano nel xii secolo nella Gemma Animae di Honorius Augustodunensis13, nel Mitrale di Sicardo: Il vetro delle finestre attraverso il quale il raggio del sole ci colpisce è la mente dei dottori che attraverso lo specchio contempla l’arcano delle cose celesti. [...] Le finestre che tengono lontano la tempesta e trasmettono la luce sono i dottori che resistono al turbine dell’eresia e infondono ai fedeli la luce della chiesa per cui è stato detto: Ecco egli sta dietro la parete guardando attraverso le finestre14.
Immagini simili ricorrono nei sermoni di Ugo di San Vittore sulla consacrazione delle chiese: Le finestre vitree sono quegli uomini spirituali grazie a cui siamo illuminati dalla cognizione divina [...]. Le finestre vitree hanno un senso spirituale attraverso il quale siamo illuminati dal vero sole e liberati dalla cecità dell’ignoranza15,
o nel Commento al Cantico dei Cantici di Robert de Tuy: le finestre sono Mosè e i Profeti16.
Concetti molto simili appaiono cent’anni dopo nel Rationale di Guglielmo Durandus vescovo di Mende:
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Le pitture sono per i laici [per gli illetterati cioè] lezioni e scritture. Le vetrate sono scritture divine che versano la chiarezza del vero sole [cioè di Dio] nell’interno della chiesa, vale a dire, illuminandoli nel cuore dei fedeli17.
Se una pittura è intesa genericamente come una lezione per gli illetterati, la pittura luminosa delle vetrate è qualcosa di piú, un’autentica lezione divina. Accanto alle evocazioni di vetrate presenti nei trattati liturgici, precisi accenni a esse si trovano nelle prediche. Il cardinale Eudes de Chateauroux (morto nel 1273), che in giovinezza era stato canonico e cancelliere della chiesa di Bourges, ricorda, predicando alla Porziuncola, come da giovane, per quanto la avesse osservata, non era riuscito a comprendere il senso di una vetrata con la storia del Buon Samaritano, fino a che un suo coetaneo laico non gliela aveva illustrata spiegandogli che i religiosi erano molto piú ignari e lontani dalle miserie e dalle tragedie della vita di quanto non avvenisse ai laici, che di necessità la conoscevano in tutti i suoi aspetti. Un passo come questo è chiaramente dettato dalla volontà di spingere coloro che lo ascoltavano a vivere nel mondo e a essere vicini ai poveri e agli infelici, ma offre nello stesso tempo una testimonianza di come una vetrata – verisimilmente quella del Buon Samaritano della cattedrale di Bourges – venisse guardata, scrutata, intesa18. La beata Angela da Foligno ricorda come una rivelazione una vetrata con san Francesco tenuto dal Cristo tra le braccia, che aveva visto nella chiesa superiore di Assisi al tempo del suo pellegrinaggio nel 129119. Sui colori che si compongono in una vetrata, una splendente riflessione appare in una predica (8 giugno 1305) di fra Giordano da Pisa: Tutte le gemme sono belle per sé; ma tutte insieme ordinate sono piú belle, l’una per l’altra, siccome di colori ché
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l’uno dà bellezza all’altro; e il colore nero che pare rustico per sé essendo co gli altri se compagnato pare bello, ed ancora dà agli altri bellezza. Questa natura pare di colori che tutti paiono legati ed attrecciati insieme e chi volessi fare una bella finestra di vetro, conviene che ci metta di tutti i colori, e quelle sono le belle20.
Le vetrate avevano trasformato la chiesa in qualcosa di molto simile alla «Gerusalemme Celeste» di cui si narra nell’Apocalisse di Giovanni e in cui fin dai piú antichi tempi le chiese cristiane avevano cercato un modello21, evocavano il giardino di Dio in Eden di cui parla il profeta Ezechiele, o ancora il pettorale di Aronne decorato di dodici diverse pietre corrispondenti alle dodici tribù di Israele che è descritto nell’Esodo. Nella chiesa illuminata dalle vetrate si poteva riconoscere la città splendente che «scendeva dal cielo appresso Dio avendo la gloria di Dio» e la cui luce era «simile a pietra preziosissima, a guisa di una pietra di diaspro cristallino». Le sue pareti diafane e brillanti richiamavano alla mente «il muro costituito di diaspro» e la «città d’oro puro simile a vetro puro». Nelle vetrate scintillanti inserite nelle mura non si ritrovavano forse tutte le pietre preziose evocate da Ezechiele nell’Eden e da Giovanni nominate partitamente? Nelle vetrate, insomma, si doveva vedere qualcosa di sacro e insieme di favoloso, una pittura che univa il potere delle gemme decantate nei Lapidaria – trattati sulle virtú soprannaturali delle pietre – con la proprietà meravigliosa di poter essere traversata e quasi compenetrata da una sostanza estranea, la luce, senza esserne modificata. A partire dalla fine del xii secolo le descrizioni di vetrate rutilanti di colori abbondano nella letteratura profana: nell’edificio di cristallo evocato nel xii secolo dal prete Lamprecht nell’Alexanderlied, dove berilli e cristalli erano misti ai vetri sí che le finestre colpite dal sole
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all’inizio del giorno continuavano a lungo a risplendere22; nell’Eneit di Heinrich von Veldecke (1175-84) in cui Frau Kamille raccoglie pietre preziose di ogni colore per confezionare quattro finestre: e aveva nelle quattro direzioni quattro splendide finestre di granati e di zaffiri, di smeraldi e di rubini, di crisoliti e di sardonie topazi e berilli che Dama Camilla aveva raccolto in abbondanza prima che l’opera cominciasse
o nella descrizione di una magica sala nel Parzival di Wolfram von Eschenbach, dove le vetrate che chiudevano le finestre erano fatte di pietre preziose: ampie e tutte incastonate – di diamanti e ametiste, di topazi e di granati – crisoliti e di rubini, di smeraldi e di sardonie;
o ancora in quella del tempio del Graal nello Jünger Titurel di Albrecht von Scharfenberg, scritto intorno al 1270, in cui le vetrate, ancora una volta composte di pietre preziose, erano dipinte proprio per attenuare lo splendore troppo abbagliante della luce24. Nel 1323 Jean de Jandun elogia le rose di Notre-Dame e le vetrate rutilanti di preziosi colori e sottilmente dipinte con eleganti figure domandandosi dove altro nel mondo se ne potessero trovare di simili25. A Venezia, piú o meno negli stessi anni, le vetrate sono oggetto di ammirazione e di apprezzamento. Lo rivela un passaggio del celebre quaderno in cui l’amatore d’arte e collezionista trevisano Oliviero Forzetta annota
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codici, anticaglie e opere d’arte da acquistare a Venezia. Vi si parla tra l’altro di finestre vitree fatte per mano di maestro Marco veneziano et bene facte, e di come queste fossero esemplate su quelle fatte precedentemente da un quidam frater Theotonicus26. Sulla fine del trecento, il Credo di Piers the Plowman (circa 1394) evoca «le ampie vetrate con allegri vetri scintillanti splendenti come il sole»27 dove erano rappresentati Cristo e i santi.
Immagini. Un omaggio del tutto particolare è quello che alle vetrate viene reso da artisti operanti in altre tecniche e che in esse le rappresentano. Il reliquiario del capo di san Galgano a Siena (Museo dell’Opera) della fine del xiii secolo è a forma di tempietto ottagono e presenta nel suo registro mediano coppie di apostoli, di profeti, di santi, inquadrati entro bifore archiacute sormontate da un rosone a tre lobi. Esili colonnine che sorreggono un timpano sporgente in cui si iscrive una modanatura trilobata vengono a coronare il tutto. Tra una coppia e l’altra di personaggi si alzano svelti contrafforti aggettanti decorati da logge, timpani, pinnacoli. L’orafo senese, scegliendo per la forma del suo reliquiario un modello architettonico, volle fingere delle vetrate nella sezione mediana e l’impostazione di queste potrebbe essere paragonata a quella delle vetrate con coppie di santi della chiesa superiore di San Francesco ad Assisi. Poco piú tardi nell’affresco giottesco con l’Allegoria dell’Ubbidienza, dipinto su una delle vele sovrastanti la tomba del santo nella chiesa inferiore di San Francesco in Assisi, appaiono finestre chiuse da vetrate decorate. È questo, attorno al 1320, in anni non lontani da quelli in cui Jean de Jandun celebrava le vetrate di Notre-Dame, il primo esempio di rappresentazione di
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vetrate in un dipinto. In seguito il tema conosce un grande successo: vetrate sono rappresentate, nelle navatelle minori dell’edificio, nella Presentazione al Tempio di Ambrogio Lorenzetti agli Uffizi, o nella tavola trecentesca boema con la Morte della Vergine del Museum of Fine Arts di Boston, dove tre grandi bifore invetriate chiudono le absidi della chiesa all’interno della quale si svolge l’episodio, mentre in una stupenda tavola del gotico internazionale, l’Annunciazione Sachs, ora al museo di Cleveland, il baldacchino che sovrasta il trono della Vergine ha bifore gotiche sormontate da rosoni e chiuse da vetrate con grandi personaggi, ispirate alle finestre alte di una chiesa. Nella pittura fiamminga del quattrocento immagini di vetrate abbondano ogni volta che gli episodi rappresentati, svolgendosi in un tempio, una cappella, una chiesa, ne offrano l’opportunità28: vetrate a medaglioni nella Presentazione al Tempio del Maestro di Flémalle al Prado o nella Messa di san Gregorio, di cui si conoscono soltanto copie, del medesimo artista; nella Presentazione al Tempio di Jacques Daret al Petit Palais o in quella attribuita a Jean de Maisoncelles al museo di Digione; vetrate a motivi decorativi nella Madonna di Dresda o nella Vergine del Cancelliere Rolin di Jan Van Eyck. Una grande vetrata domina dall’alto l’Annunciazione di Jan Van Eyck a Washington, e una scena dell’arazzo con esempi di giustizia, già nella cattedrale di Losanna e oggi all’Historisches Museum di Berna, che replica un famoso ciclo murale perduto di Roger van der Weyden, un tempo nell’Hôtel de Ville di Bruxelles, si svolge in una cappella adorna di splendide vetrate. Il cosiddetto Maestro dell’Altare di Alberto, un pittore austriaco operoso nel 1438, situa la Cacciata di Gioacchino dal Tempio in una cappella illuminata da grandi vetrate; vetrate sono rappresentate nell’Altare della Passione di Hans Bornemann (1444-47)
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creato per l’abbazia di Heiligental e oggi nella chiesa di Sankt Nikolai a Lüneburg29, mentre in un dipinto di Dirc Bouts a Londra la figura di san Pietro si staglia contro uno sfondo di vetrate. Numerosi poi gli esempi di vetrate profane: dall’interno borghese dell’Annunciazione de Mérode del Maestro di Flémalle (New York, Cloisters) al polittico Villa di Roger van der Weyden (Riggisberg, Fondazione Abegg), al dittico di Martin van Nieuwenhove di Memling a Bruges. Non si tratta che di pochi casi scelti per il loro valore esemplare, ché se si dovessero elencare tutte le rappresentazioni di vetrate in dipinti del quattrocento la lista sarebbe ben piú lunga. Inutile insistere sulle motivazioni che sono dietro a queste preferenze, o sul significato simbolico o realistico di queste rappresentazioni. Il valore simbolico della vetrata con la rappresentazione del Dio-Sabaoth dell’Antico Testamento nella Annunciazione di Van Eyck è indiscutibile, ma ciò nulla toglie all’importanza di questo documento anche su un altro piano, su quello cioè della fortuna delle vetrate. Che è anche la storia dell’immagine che generazioni di uomini si sono fatti di questa tecnica e dei suoi prodotti. A voler restituire questa storia dovremmo pazientemente mettere a confronto dati di diverso tipo, testi letterari, documenti di commissioni, testimonianze di distruzioni, cataloghi di collezioni e via dicendo. In questo senso, il fatto che in un dipinto di una certa epoca e di una certa scuola sia rappresentata una vetrata è un fatto importante, come è importante sapere che a una certa data si prendano provvedimenti per assicurare la conservazione di un ciclo di finestre dipinte, che si stanzino somme per la loro manutenzione e il loro restauro o che se ne decida la distruzione. Estremamente significative da questo punto di vista le grandi campagne di restauro che nel xv secolo ebbero luogo sulle vetrate romaniche della catte-
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drale di Chartres30 o l’attentissima e filologicamente sorprendente ricostruzione, all’inizio del xvi secolo, dell’antica vetrata di Mosè nella cattedrale di Augusta31.
Il cinquecento. Esemplare è da questo punto di vista un secolo come il cinquecento, un tempo in cui il prestigio delle vetrate rimane altissimo, ma in cui la Riforma e le guerre di religione sono occasione della distruzione di numerosissime finestre vitree dalla Germania ai Paesi Bassi, all’Inghilterra, alla Francia32. Scriveva nel 155o Giorgio Vasari, nel capitolo intitolato Del dipignere le finestre di vetro e come elle si conduchino co’ piombi e co’ ferri da sostenerle senza impedimento delle figure che è compreso nella parte introduttiva delle Vite e che con minimi cambiamenti riappare nell’edizione Giuntina del 1568: Ma i moderni, che in molto maggior copia hanno avuto le fornaci de’ vetri, hanno fatto le finestre di vetro – di occhi e di piastre –, a similitudine od imitazione di quelle che gli antichi fecero di pietra, e con i piombi accanalati da ogni banda le hanno insieme serrate e ferme [...] E dove elle si facevano nel principio semplicemente di occhi bianchi e con angoli bianchi o pur colorati, hanno poi imaginato gli artefici fare un musaico de le figure di questi vetri, diversamente colorati e commessi ad uso di pittura. E talmente si è assotigliato lo ingegno in ciò, che e’ si vede oggi condotta questa arte delle finestre di vetro a quella perfezzione che nelle tavole si conducono le belle pitture, unite di colori e pulitamente dipinte [...] Di questa arte hanno lavorato meglio i Fiaminghi e i Franzesi che l’altre nazioni [...] Le quali opre, se non fossero in materia troppo frangibile, durerebbono al mondo infinito tempo. Ma
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per questo non resta che l’arte non sia difficile, artificiosa e bellissima33.
Pochi anni dopo, nel 1572, il Tasso, di ritorno dalla Francia, scrive al duca di Ferrara sugli usi e costumi del paese ed esalta le finestre di vetro colorite ed effigiate, le quali in moltitudine grandissima sono degne di ammirazione non che di lode, cosí per la vivezza e la vivacità de’ colori, como anco per lo disegno e artificio de le figure. Ed in questa parte hanno i francesi che rimproverare gli italiani; perché l’uso de l’arte de’ vetri, che presso di noi è particolarmente in pregio per pompa e per delicia de’ bevitori, è da loro impiegata ne l’ornamento de le chiese di Dio, e nel culto de la religione34.
Allo stesso tempo appartiene la lettera di Lambert Lombard a Giorgio Vasari (27 aprile 1565), dove il pittore fiammingo esprime il desiderio di confrontare i modi degli antichi pittori toscani con quelli che si vedono nelle antiche vetrate del suo paese: «mi bastaria una istoria di Margaritone, et del Gaddi, et di Giotto una parimente, per conferir le con certi vetri che sono qui in antiqui monasterii»35, mostrando di considerare le vetrate i grandi monumenti della pittura medievale nel settentrione. Un secolo dopo verrà pubblicata in Francia un’opera che per le vetrate fu significativa: i Principes de l’architecture... et des... arts qui en dépendent di André Félibien des Avaux, che in rapporto appunto con l’architettura dedicava, sotto il titolo De la vitrerie, qualche pagina e molte incisioni con ampio commento, nonché un certo numero di voci del glossario che le accompagna, alle vetrate e agli strumenti necessari per farle36. Per la verità Félibien non mostra di apprezzare molto le vetra-
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te medievali anteriori al momento in cui si cominciarono a porre sui vetri i colori a smalto quando scrive: ma per fare gli incarnati e le vesti sul vetro bianco stendevano colori chiari o bruni senza mezze tinte né forti né deboli come la pittura richiederebbe. Così questa prima specie di opere, quali vediamo nelle più antiche vetrate delle nostre chiese eseguite prima del secolo scorso, sono di maniera gotica e quanto al disegno, e a ciò che i lavoranti chiamano la preparazione dei colori, non hanno che del barbaro37.
Diverso e molto positivo l’apprezzamento sulle vetrate cinquecentesche, ma quando il testo di Félibien vede la luce le vetrate stanno attraversando un momento drammatico: la loro stella è in ribasso e le distruzioni si aggiungono alle distruzioni.
Iconoclastia. I gravissimi episodi di iconoclastia che colpirono le vetrate nel cinquecento (nel 1525 tutte le vetrate figurate delle chiese di Stralsund furono rimosse e seppellite nel cimitero del convento di Santa Caterina)38 non furono dovuti a una particolare ostilità verso la vetrata come tecnica o verso i suoi prodotti, quanto al generale atteggiamento di diffidenza e ostilità nei confronti delle immagini viste come pericolose occasioni di idolatria, un’accusa da cui anzi le vetrate potevano sottrarsi meglio di altre opere d’arte in quanto, come scriveva Zwingli, «non si era mai visto qualcuno inginocchiarsi davanti a una vetrata». In seguito alla dissoluzione dei monasteri, portata avanti negli anni 1536-39, i danni alle vetrate in Inghilterra furono estremamente gravi. Molte le distruzioni, contro alcuni salvataggi come quello di una serie di vetrate oggi a Morley (Derbyshire) che
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erano state acquistate e trasferite da Dale Abbey. Gli editti emessi sotto Edoardo VI proibirono queste devastazioni, ma proprio nello stesso momento (1547-53) quasi tutte le vetrate della cattedrale di Durham vennero distrutte dal vescovo Hone di Winchester. In questo periodo la funzione piú direttamente pratica delle vetrate, quella di chiudere le finestre della chiesa e di costituire perciò una protezione, contribuí a salvarle. Scrive nel 1577 William Harrison nella sua Description of England: I monumenti dell’idolatria sono rimossi, gettati a terra, distrutti. Solo le storie delle vetrate sono eccettuate in tutto il regno, sia per mancanza di materiale per sostituirle, sia per il radicale cambiamento che provocherebbe la loro sostituzione con vetri bianchi40.
Successivamente al tempo dei puritani e della crociata contro le immagini religiose, intorno al 1643, anno in cui furono distrutte le vetrate della cattedrale di Norwich, un emissario del Parlamento, William Dowsing, tiene un diario in cui, giorno per giorno, registra le distruzioni con annotazioni di questo tipo: Sudbury. Gregory Parish, 9 gennaio. Abbiamo distrutto 10 enormi angeli di vetro. In tutto fanno ottanta. Eye, 30 agosto; sette dipinti superstiziosi nel coro e nel transetto, uno rappresentava Maria Maddalena, tutti in vetro, e sei nelle finestre della chiesa. Molte altre vetrate erano state distrutte in precedenza41.
Ricerca della luce e distruzione della vetrata. Intanto, proprio nell’avanzato seicento, quando Félibien illustrava la produzione delle vetrate nei suoi Prin-
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cipes de l’architecture, si manifesta nei loro confronti una disaffezione marcata. Il problema, questa volta, è quello della luce, quello della illuminazione degli interni delle chiese. Già nel corso del trecento la tonalità delle vetrate aveva subito grandi mutamenti con la forte schiarita della gamma cromatica, ottenuta grazie a un uso sempre più vasto di vetri bianchi, appena ravvivati dalla grisaglia. Questo mutamento della sensibilità, le cui manifestazioni sono state rievocate in modo particolarmente suggestivo da Jean Lafond, portò gradualmente a gravissime conseguenze. Come indica la risposta data nel 1764 da Nicolas Cochin, segretario perpetuo dell’Académie de Peinture et Sculpture, al conte di Marigny, che gli aveva richiesto un parere su una supplica per riabilitare l’arte delle vetrate rivoltagli da un appassionato apologeta di questa tecnica, lo strasburghese Jean-Adolphe Danekker: In verità le vetrate non usano piú, perché né negli appartamenti, né nelle chiese, non si vuol niente che possa diminuire la luce. Così, anche se fosse stato provato che quest’arte è perduta e che la si è ritrovata, non si saprebbe cosa farne42.
Nel 1429 il capitolo della cattedrale di Rouen decide di trasformare le finestre alte della chiesa, sacrificando le vetrate del xiii secolo «per rendere più ricco, nobile e luminoso il coro della chiesa di Rouen»43. Nel 1575 le vetrate della chiesa di San Michele di Jena in Sassonia furono distrutte e sostituite da vetri chiari44, e nel corso del seicento il fenomeno si generalizza. Lo storico Henri Sauval, morto nel 1670, cita le tante chiese di Parigi: Saint Denys de la Chartre, Saint Germain des Prés [...] Sainte Geneviève, Saint Merry, Saint Germain l’Auxerrois
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e via dicendo dove sono state tolte molte vetrate antiche per mettervi dei vetri bianchi45.
Per le stesse ragioni nel xviii secolo il capitolo della cattedrale di Reims decreta la sostituzione con vetri bianchi di tutte le vetrate delle navate laterali della cattedrale. Questa tendenza suscita in certi casi delle opposizioni: cosí il capitolo della cattedrale di Tours crea nel 1771 una commissione di sorveglianza sulle vetrate e respinge poco dopo le richieste dell’architetto che voleva sostituire nel coro le vetrate duecentesche con vetri incolori46. Del resto importanti interventi di restauro e di salvaguardia sulle vetrate ebbero luogo nel corso del settecento, come ad esempio quelli del pittore su vetro Jakob Kalkar di Linz, che nel dicembre del 1723 fu incaricato di restaurare due finestre duecentesche e di eseguirne ex novo altre tre per la chiesa di Sankt Laurentius ad Ahrweiler presso Bonn o come quelli effettuati a Notre-Dame (1737) e alla Sainte-Chapelle (1765) di Parigi dal maître-vitrier Guillaume Brice, appassionato collezionista di vetrate, di cui Pierre Le Vieil, nel suo trattato, tesserà l’elogio47. Intanto storici e antiquari come Roger de Gaignières o Bernard de Montfaucon osservavano attentamente le vetrate per leggervi e riconoscervi figure e avvenimenti del passato.
Pierre Le Vieil e il suo trattato. Uno straordinario documento di questa situazione è l’art de la peinture sur verre et de la vitrerie di Pierre Le Vieil, autentica apologia di una tecnica morente scritta sul declinare del settecento, che segna il punto limite di una situazione. Il suo autore è un maître-verrier che sopravvive al suo mestiere come una creatura prestorica, poiché quest’ar-
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te è ormai caduta «in un oblio, in un annichilimento tali da far dubitare che sia giammai esistita»48. Discendendo egli stesso da generazioni di peintres-verriers, non era stato dal padre istruito a sufficienza nel disegno per poter dipingere su vetro, poiché la sua professione non aveva piú l’antico splendore, e le imprese dei vetrai erano piú prospere di quelle dei pittori su vetro. Le frustrazioni dell’ultimo rappresentante di una tecnica che aveva dietro di sé in Francia un passato tanto glorioso indicano chiaramente quanto precaria fosse al suo tempo la situazione delle vetrate. Non si producono quasi piú vetri colorati, rossi in particolare (anche i tedeschi, impareggiabili fabbricanti di ogni tipo di vetro, non si avventurano in quel segreto perduto che è il verre rouge), non si disegnano piú, o quasi piú, scene figurate; la pittura su vetro è ridotta all’esecuzione di fregi, armi, blasoni e le antiche vetrate vanno sempre piú deteriorandosi per distruzioni volontarie e per la mancanza di un’elementare vigilanza. Questo il quadro poco ameno in cui opera a Parigi la famiglia Le Vieil. Il fratello minore, Jean, diviene peintre sur verre du roi, carica che era già stata del padre, Guillaume Le Vieil, ma che era ormai ridotta a una semplice sinecura. Pierre, l’autore del trattato, dirige l’atelier, impegnandosi soprattutto in opere di vetreria e nel campo specifico delle vetrate in operazioni di restauro, se non di radicale sostituzione di antiche vetrate con vetri bianchi ornati di semplici bordi decorativi. In questa attività riesce talvolta a salvare importanti testimonianze del passato, come a SaintEtienne-du-Mont, dove distruggendo i montanti centrali delle finestre, sostituendoli con sbarre di ferro di minor ingombro e riempiendo di vetri bianchi lo spazio cosí acquistato, riesce a far entrare piú luce (il problema del secolo!) all’interno della chiesa, senza per questo distruggere le antiche vetrate. Altrove, come nelle finestre alte del coro di Notre-Dame, tocca proprio a lui l’in-
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grato compito della distruzione degli antichi vetri e della loro sostituzione. Ma le sue attitudini e la sua formazione, compiuta in ambiente benedettino, l’orientano verso l’indagine erudita. Incaricato, come lo era stato suo padre, di vegliare alla conservazione delle antiche vetrate (un insieme che andava dal xiii al xvii secolo) dell’abbazia di Saint-Victor a Parigi, scende spesso dalle impalcature per chiudersi in biblioteca e scrivere quella che può considerarsi la prima organica storia della pittura su vetro49. Contemporanee all’accorata apologia di Le Vieil sono le prime avvisaglie del gothic revival e prende cosí inizio la vicenda del commercio e del trasporto delle vetrate lontano dai loro luoghi di origine.
Riscoperte e reimpieghi. Il reimpiego delle antiche vetrate è stato praticato per secoli e per motivi diversi50. In certi casi esso fu dettato dalla volontà di conservare una immagine particolarmente venerata, come nel caso della cosiddetta Notre Dame de la Belle Verrière di Chartres, dove un frammento di vetrata del xii secolo con le figure della Vergine e del Bambino, scampata all’incendio del 1196, fu messa nel duecento al centro di una nuova composizione in cui figure di angeli inginocchiati fanno corona e cornice alla venerata immagine51. Analogamente, la Vergine col Bambino della chiesa abbaziale di Vendôme, un capolavoro della pittura romanica in Francia, venne reimpiegata nel nuovo edificio e i medaglioni della splendida vetrata della Redenzione di Chálons-sur-Marne (circa 1147) vennero riutilizzati dopo l’incendio della cattedrale nel 1230. In Germania i medaglioni della vetrata dell’albero di Jesse, posta nella finestra assiale del coro romanico della cattedrale di Friburgo, vennero
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reimpiegati nel nuovo coro gotico della chiesa52, come avvenne nella Marktskirche di Goslar o nella Barfüsserkirche di Erfurt, dove le vetrate duecentesche con l’albero di Jesse e storie di san Francesco vennero riutilizzate nel trecento nel nuovo edificio gotico. In altri casi si trattò invece di riparare qualche lacuna di una vetrata utilizzando come materiale di riempimento, come tappabuchi53, frammenti o addirittura medaglioni di opere piú antiche, o ancora di trasportare integralmente vetrate in altri luoghi del medesimo edificio (si vedano le riutilizzazioni subite da antiche vetrate della cattedrale di Lincoln54 o di quella di Canterbury) o in altri contesti. Tra l’altro è in questo modo che sono giunti sino a noi esempi di vetrate civili del tre e del quattrocento55 altrimenti destinate a sicura distruzione.
Commercio e collezionismo. Il problema del commercio delle vetrate si ricollega alla loro, sia pur difficile e travagliata, mobilità, ma svela nuove motivazioni, in particolare il gusto di raccogliere e di esibire le antiche vetrate come oggetti di collezione, come elementi di arredamento destinati a conferire un tono e una distinzione particolare a un ambiente. Ricchi mercanti e aristocratici inglesi le acquistano sul continente profittando della secolarizzazione dei beni ecclesiastici e di un certo décalage nel gusto, che faceva sí che opere considerate come desuete sul continente venissero invece particolarmente ricercate in Inghilterra. Gli Anedoctes of Painting in England di Walpole forniscono in questo senso un’ampia casistica rivelando un fitto commercio di vetrate fiamminghe in Inghilterra: lord Cobham, per un «tempio gotico» che aveva fatto costruire da James Gibbs a Stowe nel Buckinghamshi-
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re, si procura vetrate araldiche. Il right honorable Mr Bateman acquista nel 1753 da un tale Asciotti – un italiano sposato a una fiamminga, attivissimo mercante e procacciatore di vetrate – una cassa di vetri importati dai Paesi Bassi; lo stesso Asciotti è inviato nelle Fiandre da Horace Walpole che gli acquista per 36 ghinee 450 frammenti di vetrate per la sua dimora neogotica di Strawberry Hill; un vetraio londinese di nome Palmer compra antiche vetrate fiamminghe dalla moglie di Asciotti e le rimonta inquadrandole con mosaici di vetri di tinta unita. In occasione delle aste tenute alla Essex House di Londra un tal Peterson organizza le prime esposizioni di vetrate importate dalle Fiandre (il 26 marzo 1773 apre all’Essex House un’esposizione di vetrate, ben 285 pezzi distribuiti in nove finestre gotiche) e si occupa in prima persona di produzione di vetrate pubblicando nel 1758 The Handmaid to Art, mentre sua figlia sposa James Pearson, pittore di vetrate56. Le stesse riutilizzazioni di vetrate duecentesche che ebbero luogo sul finire del settecento in Inghilterra nelle cattedrali di Lincoln e di Canterbury (si attribuisce al decano Percy la decisione di far trasportare nel coro quanto restava delle antiche vetrate della cappella di St Thomas Becket di modo che nessuna vetrata visibile dagli stalli dei canonici fosse composta di semplice vetro bianco), mostrano, come ha rilevato Jean Lafond, il crescente gusto per le vetrate che si manifestava in Inghilterra nel xviii secolo, anticipando quanto avverrà poi nel resto dell’Europa. La rivoluzione francese, con la secolarizzazione, la vendita e la manomissione dei beni ecclesiastici, minacciati tra l’altro anche dalle operazioni di recupero dei metalli per servire all’armamento (e questo riguardava anche i piombi delle vetrate), fu occasione di molte distruzioni e anche di significative disseminazioni. Esemplare a questo proposito la vicenda delle vetrate di
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Saint-Denis. Quando, nel 1794, si discusse sulla sorte della chiesa, venne proposto di salvare dalla progettata distruzione le vetrate, curieux pour l’art, l’histoire et les costumes57. Dopo molte peripezie e dopo che fu consumata probabilmente la distruzione di molte delle vetrate, il principio della loro salvaguardia fu finalmente adottato. I disegni di Charles Percier, conservati in un taccuino oggi alla biblioteca di Compiègne, mostrano alcune vetrate ancora in loco agli inizi del 179558. Esse vennero rimosse nel 1799 per essere trasportate al Musée des Monuments Français di Alexandre Lenoir. Pierre Gauthier, che era stato organista della chiesa e tornava spesso sul luogo, annota che nel corso del settembre 1799 si prese a trasportare le vetrate della chiesa di Saint-Denis, «magnifiche per la varietà e la finezza dei colori e che facevano un superbo effetto [...] Malgrado fossero passati piú di seicento anni dalla loro creazione erano sempre belle». Lo smontaggio delle vetrate di Saint-Denis quando ormai esse non erano minacciate da alcun pericolo fu dovuto alla volontà di Lenoir di esporle nelle sale del suo museo59, di utilizzarle per creare ambienti evocativi o addirittura per suscitare un air de mysticité attorno a monumenti inventati di sana pianta come la tomba di Abelardo ed Eloisa. Durante lo smontaggio e il trasporto, avvenuto in condizioni catastrofiche, molti elementi furono distrutti o deteriorati, altri vennero venduti nel 1802 a un mercante di nascita tedesca ma stabilito a Norwich, John Christopher Hampp, che importò in Inghilterra molte vetrate dalla Normandia e dalla Germania, disperdendole in vendite pubbliche a Norwich e a Londra da Christie nel 180460. Alcune importanti vetrate medievali francesi finirono cosí in Inghilterra, e molte altre le seguirono durante i grandi lavori di restauro delle chiese medievali portati avanti in Francia nel corso del xix secolo.
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L’ottocento. Questo secolo vide in tutta Europa un imponente risveglio della vetrata61. Oggetto di collezionismo aristocratico e raffinato e di appassionata curiosità archeologica in Inghilterra, le vetrate in Germania divengono occasione di slanci patriottici. Tra i primi collezionisti è il barone von Stein, uomo politico, fondatore e animatore dei Monumenta Germaniae Historica, che si assicura nel 1815 le vetrate di Gherlacus della chiesa premostratense di Arnstein sulla Lahn62 per ornare, insieme con altri pezzi provenienti da Colonia come le due vetrate della chiesa di Santa Gertrude, la torre gotica del suo castello di Nassau. Goethe non solo lo accompagna nei suoi viaggi e di questi parla nel suo scritto del 1816, Kunst und Altertum in den Rhein und Maingegend, ma raccoglie egli stesso frammenti di vetrate medievali nella casa di Weimar, e paragona in un suo scritto le vetrate alla poesia: opache e oscure se riguardate dall’esterno, dalla piazza del mercato, scintillanti, colorate, solari se viste dall’interno della chiesa63. La nascita di uno spirito nazionale tedesco si manifesta sia nella raccolta di monumenti artistici del passato (Boisserée, Wallraf, Stein), sia nella grande campagna per la ripresa dei lavori alla cattedrale di Colonia, sia nel restauro, o piuttosto nel radicale rifacimento, di miriadi di castelli feudali, in particolare sulle rive del Reno. Per mille tramiti questa Stimmung influisce sulla nascita di un culto delle vetrate che del resto in Germania poteva contare due autorevolissimi patroni: Lessing, che aveva pubblicato il trattato di Theophilus, e, come si è visto, lo stesso Goethe64. Un grande numero di vetrate tedesche fu raccolto a Colonia da un mercante di vino, Christian Geerling, che, analogamente a quanto fatto dallo Hampp in Inghilterra, le espose e le disperse in una vendita nel 1827. Nella sua monografia sulla cattedrale di Colonia, Sulpiz
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Boisserée addita nelle vetrate gli strumenti che hanno fatto dell’interno delle chiese gotiche un’immagine della Gerusalemme celeste: Se consideriamo la grande estensione delle vetrate dipinte che prendono il posto delle mura e se riflettiamo sul loro effetto magico, vi troviamo realizzata nel modo piú sorprendente l’idea di questa Gerusalemme celeste costruita con pietre preziose di cui si parla nella dedica della cattedrale. È stato probabilmente all’uso molto esteso della pittura a mosaico che utilizzava quasi esclusivamente il vetro colorato che si deve l’invenzione delle vetrate dipinte, e questa scoperta, che forniva i mezzi per costruire pareti trasparenti, ha portato a dare una meravigliosa soluzione a un problema che fino ad allora si era considerato irresolubile65.
Il clima della restaurazione rilancia la vetrata, che, legittimata dalla connotazione medievale, diviene strumento di propaganda dinastica dalla Francia all’Austria, alla Baviera, dalla Savoia all’Inghilterra, da Saint-Denis al castello di Brandhof in Stiria, il cui programma iconografico fu fissato dall’arciduca Giovanni d’Austria e per le cui vetrate, eseguite nel 1825 dal viennese Anton Kothgasser, diede i cartoni Schnorr von Carolsfeld66, al castello di Laxenburg67, alla St George’s Chapel di Windsor, alla Great Hall di Hampton Court, all’abbazia di Hautecombe in Savoia, pantheon della dinastia sabauda68, alla cappella reale di Dreux69. Si moltiplicano gli studi sulla loro storia, si polemizza sui segreti degli antichi maestri, non piú conosciuti né, forse, conoscibili70, si tentano esperimenti per ritrovare i segreti perduti della coloritura dei vetri e della pittura a fuoco, ci si getta con foga in colossali, e talora catastrofiche, imprese di restauro, procedendo alla pulitura, alla rimessa in piombo, all’integrazione e al completamento dei grandi cicli medievali.
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Due testi apparsi in Francia a distanza di pochi anni daranno un’idea del ritmo incalzante dei tempi. Il primo, del 1831, scritto dal padre di Prosper Mérimée è un articolo di enciclopedia sulla peinture sur verre71, in cui, dando un giudizio molto positivo su quanto si era fatto in quegli anni in questo campo – si trattava per lo piú di vetrate che riproducevano quadri celebri – scriveva: oggi che il gran favore del pubblico si indirizza di nuovo alle vetrate dipinte si può presumere che si ritornerà all’uso antico di decorarne le nostre chiese? Non è probabile. Non siamo piú al tempo in cui la maggior parte dei fedeli non sapeva leggere. Allora le vetrate colorate che non trasmettevano che una debole luce invitavano al raccoglimento e in questo senso erano molto indicate, ma ora che le nostre abitudini sono molto differenti da quelle di una volta e le pareti delle nostre chiese sono coperte di quadri che richiedono una luce pura non si potranno sistemare vetrate dipinte che in qualche cappella.
Questo testo è del 1831; pochi anni dopo, nel 1837, una serie di articoli sulla pittura su vetro pubblicata da «L’Artiste» si concludeva in questo modo: Ora che ho fatto la storia della pittura su vetro non mi resta che domandare che essa sia introdotta nelle finestre degli antichi templi cristiani e protestare altamente contro i vetri bianchi di Notre-Dame, di Saint-Germain-des-Prés, di Saint-Séverin, di Saint-Merri e delle altre chiese francesi, che l’incapacità di architetti e di vescovi ha messo al posto delle ricche vetrate del xiv e del xv secolo. Che vengano rese a noi, artisti, queste antiche cattedrali cristiane che i nostri padri avevano decorato con tanto lusso e tanta magnificenza! Che ci siano rese e noi sapremo dare agli interni delle chiese quel lume misterioso e triste che con-
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viene alla celebrazione dei misteri della fede! Ripariamole e rendiamo a queste venerabili chiese la loro atmosfera simbolica e il loro antico splendore!72.
Indagini storiche, restauri, vetrate archeologiche. Tra il 184o e il 186o hanno luogo in Francia colossali imprese di restauro e un imponente fiorire delle costruzioni neogotiche 73. Contro il medievalismo romanzesco e troubadour degli anni venti-trenta, contro la pretesa di trasferire direttamente su vetro, con colori vetrificabili, composizioni pittoriche come era stato praticato dalla manifattura di Sèvres nei primi decenni dell’ottocento74, si leva la polemica di un gruppo di architetti e di medievalisti – Lassus 75 , Viollet-le-Duc76, Didron77 – alfieri di quello che si potrebbe definire un «romanticismo scientifico», che dirigono restauri, progettano e disegnano pezzi di oreficeria, ornamenti vari e, soprattutto, vetrate78. La rivista «Annales Archéologiques», fondata nel 1844 e diretta da Alphonse-Napoléon Didron (18o6-67), che aprirà un atelier di pittura su vetro, è il manifesto dei romantici-scientifici, la chiesa parigina di Saint-Germain-l’Auxerrois ne è la scuola. La vetrata della Passione del 1839, realizzata da Louis Steinheil su progetti di Lassus e Didron, è la prima vetrata leggendaria – che si ispira cioè al tipo delle vetrate duecentesche con storie di santi – dell’ottocento e avrà larghissimo seguito. Sarà questo il tipo di vetrata che si imporrà alle finestre delle chiese di mezza Francia. Scriverà piú tardi Viollet-le-Duc: Nessuno ignora i tentativi fatti da una trentina d’anni per dare nuovo fulgore alla pittura su vetro. I nostri maestri piú abili hanno fatto degli eccellenti pastiches;
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hanno completato vetrate antiche con tale perfezione nell’imitazione che non si saprebbero distinguere le parti di restauro dalle parti antiche, si sono tanto bene impadroniti dei procedimenti non solo della fabbricazione materiale, ma di quelli piú propriamente artistici applicabili a questo genere di pitture (tra questi facsimili si possono citare come particolarmente notevoli quelli messi in opera nel restauro della Sainte Chapelle dovuti a Lusson e Steinheil, quelli delle finestre del xii secolo a Saint-Denis di Alfred Gérente, e certi restauri delle vetrate di Bourges e di Le Mans fatti da Coffetier). In tal modo hanno potuto riconoscere le grandi qualità delle vetrate antiche dal punto di visto dell’effetto decorativo e dell’armonia, la perfezione, difficile da raggiungere, di certi procedimenti di esecuzione, l’abilità materiale degli esecutori e apprezzare lo stile dei maestri, cosí ben appropriato all’oggetto. L’arte del maestro vetrario non è piú dunque un mistero, un segreto perduto.
Lo sviluppo degli atelier produttori di vetrate è in Francia velocissimo: nel 1835 ne esistevano tre, nel 1849 quasi una cinquantina. Si affermano maestri vetrari come Antoine Lusson, che lavora a Le Mans79 su progetti di Viollet-le-Duc e Lassus, Henri Gérente, vincitore nel 1847 del concorso per il restauro delle vetrate della Sainte-Chapelle e suo fratello Alfred, Charles-Laurent Maréchal di Metz, che dà vetrate per molte chiese parigine, il Lafage e lo Steinheil, sempre consigliati dal gruppo delle «Annales». Di questi anni è il fiorire degli studi sulle vetrate medievali condotti dagli studiosi e dagli artisti piú direttamente implicati nel movimento: Viollet-le-Duc scrive la voce Vitrail per il Dictionnaire raisonné de l’Architecture80, Ferdinand de Lasteyrie, che a partire dal 1835 esplora la Francia «per scoprire con un fiuto infallibile le vetrate piú significative, per disegnarle e riprodurle in
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cromolitografia e datarle in modo verisimile»81, pubblica un volume di testo e uno di riproduzioni a colori basate su disegni fatti da lui di una Histoire de la Peinture sur Verre82, che propone per la prima volta un’ampia, ragionata e ben costruita selezione delle vetrate medievali francesi. In Inghilterra Charles Winston (1814-64)83, un uomo di legge studioso di vetrate medievali e appassionato e riuscito sperimentatore dei modi di colorare i vetri, pubblica nel 1847 un’indagine abbondantemente illustrata sulle vetrate inglesi84, dove viene portato avanti con rigore il tentativo di schizzare una cronologia su basi stilistiche applicando alle vetrate le distinzioni (Early English, Decorated eccetera) fatte da Thomas Rikman per l’architettura gotica in un libro che aveva conosciuto un’enorme fortuna85. L’anno dopo esce una storia delle vetrate di William Warrington, un maestro vetrario che aveva lavorato per Pugin86.In Germania, dove il Gessert aveva precocemente pubblicata una storia delle vetrate europee87, Wilhelm Wackernagel scrive (1855) una storia delle vetrate tedesche88; in Belgio, Edmond Lévy pubblica nel 186o una storia delle vetrate in Europa illustrata dal pittore su vetro Jean Baptiste Capronnier89; piú tardi apparirà in Inghilterra la monumentale storia di Nathaniel Westlake (1833-1921) – studioso di storia della miniatura e della pittura medievale e anche pittore su vetro – in quattro volumi90. La prima monumentale monografia su un ciclo di vetrate è quella che due gesuiti, Charles Cahier e Arthur Martin91, pubblicano tra il 1841 e il 1844 sulle vetrate della cattedrale di Bourges92. Erano passati pochi anni da quando il canonico Romelot in una descrizione della cattedrale di Bourges93 vi aveva visto solo un filtro che procurava alla chiesa e alle cappelle «un colore oscuro e misterioso assai propizio a ispirare raccoglimento e a invitare alla preghiera», aggiungendo subito dopo che le vetrate
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non danno una grande idea della pittura su vetro di quest’epoca, si direbbe che l’artista insensibile alle bellezze dell’arte non abbia attribuito valore che al brillare della pittura e alla singolarità delle forme irregolari e bizzarre,
esclamando per finire: Lasciamo queste vecchie anticaglie gotiche (ces vieilles friperies gothiques) dormire nella polvere che le copre e trascorriamo rapidamente su questi oggetti che respingono l’occhio per le loro figure massicce e grossolane e per la quantità di personaggi ridicoli di cui sono cariche.
Ora i due religiosi provvedono con gran foga e vasta dottrina a risvegliare le vieilles friperies gothiques dalla polvere di secoli che le ricopriva affrontando attraverso confronti diramati e precisi con vetrate di Saint-Denis, di Lione, Tours, Le Mans, Auxerre, Friburgo, Sankt Kunibert a Colonia il programma iconografico delle vetrate della cattedrale. Seguono a questa colossale impresa l’Histoìre de la peinture sur verre dans le Limousin dell’abbé Texier (1847), la monografia sulle vetrate di Tournai (Descamps, Lemaistre d’Anstaing e Capronnier, 1848), i volumi sulle vetrate della cattedrale di Tours, scritta da due canonici della chiesa e bene illustrata da un Marchand, che era stato direttore della manifattura di vetrate di Tours94, di Chartres (Lassus e Amaury-Duval, 1855), di Auch (François Caneto, 1857), di Le Mans (Eugène Hucher, 1855-64). Quest’ultima impresa è importante e molto significativa in quanto nelle sue cento tavole di formato atlantico riunisce le riproduzioni di un certo numero di calchi condotti sugli originali95, con particolari di scene, personaggi, panneggi, bordi riprodotti in scala uno a uno, giustificando questa scelta sia con la necessità di avvicinare gli originali, unico modo per poterli real-
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mente conoscere e studiare, sia con l’intento di offrire modelli ai moderni pittori di vetrate. Le osservazioni di Hucher sono sufficientemente rivelatrici e intelligenti perché valga la pena di riportarne qualcuna: La pittura di vetrate in Francia non è ai suoi inizi e tuttavia non esiste ancora una scuola propriamente detta. Ognuno si affretta a produrre prendendo qua e là i suoi tipi e i suoi modelli di esecuzione senza pensare che la strada piú diretta per arrivare a imprimere all’arte un passo sicuro e saggiamente progressivo è di studiare con cura le belle vetrate del xii e del xiii secolo. I calchi che noi oggi pubblichiamo offriranno per la prima volta dei campioni esatti delle nostre vetrate [...] per giunta le nostre riproduzioni costituiranno degli autentici cartoni pronti per servire ai pittori su vetro che non si fideranno delle composizioni moderne [...]. Si deve d’altronde notare riguardo a ogni opera d’arte, e particolarmente quando si tratta di pitture appartenenti a epoche e a generazioni da noi molto lontane, che tra l’originale e la copia, come la si è generalmente intesa sinora, esiste quasi sempre una distanza immensa, in quanto involontariamente il copista mette nel proprio lavoro qualcosa del gusto del suo tempo, quel non so che che fa lo stile nell’arte e caratterizza le opere di un’epoca [...] Se si vuole avere un’idea molto precisa di queste scuole scomparse per sempre è necessario studiare la pittura su vetro non piú con un canocchiale ma proprio con la mano sull’oggetto. Infatti queste antiche vetrate sono state talmente maltrattate dagli agenti atmosferici che anche il tatto può spesso essere un indispensabile aiuto per la loro completa interpretazione.
La «vetrata archeologica», nata come reazione al gusto romanzesco e troubadour, portò certamente a una migliore e piú scientifica conoscenza del medioevo goti-
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co e in molti casi al salvataggio di opere condannate, ma al prezzo – è stato spesso ripetuto – di un fallimento sul piano della creazione artistica. Il fenomeno non ebbe certo coloritura reazionaria, lo spirito in cui si svolse non fu quello della Restaurazione, e la concezione dell’età gotica di un Viollet-le-Duc è chiaramente democratica, specie se confrontata con quella che prevarrà alla fine del secolo. Certo il senso dei grandi cantieri di restauro grazie ai quali poté crescere e svilupparsi un’ultima fiammata dell’artigianato tradizionale fu connessa in qualche modo, e sia pure antagonisticamente, con il problema della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze sul piano della produzione artistica. Il problema ha volti diversi: da una parte c’è in nuce quell’atteggiamento polemico verso la standardizzazione e la meccanizzazione dell’attività artistica che sarà proprio a molti movimenti revivalisti e a molte «rinascite dell’artigianato»; dall’altra, attraverso la produzione di una vetrata, esso fa appello a un tipico lavoro collettivo, che richiede non solo il progetto dell’artista ma una collaborazione assai vasta e l’intervento di artefici diversi con tecniche e saperi distinti. Un rapporto molto stretto si instaura nel corso dell’ottocento tra gli studiosi delle antiche testimonianze vitree nelle abbazie e nelle cattedrali e i pittori delle nuove vetrate che cercano nei monumenti antichi testimonianze di tecnica, di storia e di stile. In Inghilterra l’interesse e lo studio delle vetrate medievali e l’impetuoso aumento nella produzione di vetrate per le chiese anglicane e cattoliche suscitato dal gothic revival vanno di pari passo. Come in Francia, si fa sempre piú frequente la costruzione di nuove chiese in seguito al rapidissimo estendersi dei centri urbani, ai movimenti per il rinnovamento della chiesa anglicana, all’emancipazione della chiesa cattolica (1829) e al ristabilirsi di una struttura ecclesiastica cattolica (1852). Nel
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1851 sono ventiquattro gli atelier inglesi produttori di vetrate che espongono al Crystal Palace durante la Great Exhibition; nel 1862, alla esposizione internazionale che si terrà di nuovo a Londra, saranno ventotto. Si tratta di imprese importanti e assai attive, che da Londra, Birmingham e Newcastle inondano l’Inghilterra con i loro prodotti. Come era stato il caso per il gruppo delle «Annales Archéologiques», tutto un gruppo di studiosi appassionati, di medievisti fanatici, di entusiasti maestri vetrari si raccoglie in Inghilterra intorno ad Augustus Pugin, fervente cattolico e appassionatisssimo apologeta dell’architettura gotica, a «The Ecclesiologist», organo della Cambridge Camden Society pubblicato tra il 1841 e il 1868 e impegnato in un rinnovamento della chiesa anglicana, quindi al circolo preraffaellita e alle imprese di William Morris. John Ruskin evoca lapidariamente le possibilità delle vetrate quando scrive: «se volete costruire un palazzo di pietre preziose, le vetrate sono piú ricche di tutti i tesori della lampada di Aladino»96.
Fin de siècle. L’integrazione di tecniche, arte e storia nella nascita di una vetrata è rivendicata con calore particolare da un intelligente seguace di Morris, Lewis Foreman Day, che cosí ne scrive: Chi intende fare un buon lavoro in questo campo dovrà dedicare uno studio altrettanto serio alle antiche vetrate di quello che i pittori consacrano agli old masters. Non sarà soddisfatto se non riuscirà a conoscere ciò che è stato fatto e come e perché, ma non vorrà restar cieco davanti alle nuove possibilità per il solo fatto che nessuno le ha mai provate. Il guaio è che spesso l’erudito è terribilmente limita-
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to, il maestro vetrario troppo meccanico e il pittore completamente ignorante dei problemi del vetro. Questi tre uomini devono fondersi in uno solo. L’artigiano ideale è uno che ha familiarità con le grandi opere del passato e del presente, che è un maestro nella propria tecnica e, allo stesso tempo, un artista, un uomo che apprezza talmente il meglio da non essere soddisfatto dal proprio lavoro, che ha una tale fiducia in sé da non accettare, come risultato finale, quello che fa97.
Vennero poi le evocazioni ricche di oscurità e di luci baluginanti di quell’inno a Chartres che è La Cathédrale di Joris-Karl Huysmans98, apparso nel 1898, nello stesso anno in cui venne pubblicato il capolavoro di Emile Mâle, L’art religieux du XIIIe siècle en France, in cui Chartres ha tanta parte e che una cosí grande importanza ebbe per Proust99; e vennero le tante evocazioni dei decadenti fin de siècle che trovarono un’eco fino a Paul Claudel100. Sfiducia nelle possibilità di una conoscenza razionale, entusiasmi mistici, accettazione, o meglio elogio, della perpetua illusorietà delle cose abbondano. Basta percorrere quei testi e si troveranno ripetute evocazioni di minerali preziosi da cui emana una certa cupa luminosità, simboli di un altro universo e di questo universo, finestre che si spalancano sull’orizzonte quotidiano; gli equivalenti figurativi non mancano, da Gustave Moreau a Odilon Redon. Negli anni a cavallo tra otto e novecento, quando nabis e simbolisti sperimentavano il colore puro e le superfici bidimensionali, quando la rappresentazione e la stessa concezione dello spazio in pittura subirono un mutamento radicale, il fascino delle vetrate conobbe il suo apice. Intanto, nel 1895, Siegfried Bing espone a Parigi, alla prima esposizione dell’Art Nouveau, vetrate eseguite dall’americano Louis Comfort Tiffany (1848-1933), geniale creatore di vetri nuovi e mai visti su cartoni di Toulouse-Lautrec,
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Bonnard, Vuillard, Vallotton, Sérusier e Xavier Roussel. Nello stesso tempo (1898) in cui i testi di Mâle e di Huysmans conoscono un grande successo, l’editore Batsford pubblica a Londra Windows di Lewis Day, quel libro delizioso e intelligente, prodotto tra i piú notevoli del movimento Arts and Crafts101, che si è appena avuto modo di citare. La terza edizione di quest’opera è del 1909, e in questo decennio, tra queste due date, si collocano alcuni dei migliori esempi di vetrate Art Nouveau, Jugendstil o edoardiane. Nel 1905 Henry Adams – che tra l’altro acquista per Isabella Stewart Gardner frammenti di vetrate provenienti da Soissons102 – pubblica Mont-Saint-Michel and Chartres: cattolici e protestanti rispondono in modo analogo agli stessi richiami profondi di cui Charles Péguy sarà appassionato e tormentato interprete. In Germania due maestri vetrari quali Heinrich Oidtmann (1861-1912), figlio di un fabbricante di vetri, e Fritz Geiges (1853-1935) sono nello stesso tempo impegnati in colossali imprese di restauro (il primo particolarmente in Renania, il secondo alla cattedrale di Friburgo) e in seri lavori storiografici103. Al tempo stesso la vetrata diventa un autentico cavallo di battaglia dei sostenitori del risveglio dell’arte sacra104. Convinzioni diverse, estetiche, religiose, ideologiche, si sono servite di questi schermi diafani, coloratissimi e fragili. Se da una parte, nel revival della vetrata, hanno avuto grande importanza la nuova riflessione sul rapporto arte-società e la contestazione della tradizionale gerarchia delle arti che caratterizzano gli ultimi decenni dell’ottocento, un’altra spinta decisiva viene, come si è visto, dalla profonda crisi nella rappresentazione dello spazio che si manifesta nella pittura appunto negli stessi anni, come anche dalle nuove concezioni sull’uso e il ruolo del colore. Queste radici diverse non si sono mai interamente fuse e ne discende piú di un’ambiguità.
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Negli anni all’inizio del secolo la vetrata, come d’altra parte il mosaico, esercitano un forte richiamo sulla fantasia degli artisti. Se Klimt nei suoi dipinti evoca lo scintillio bidimensionale delle tessere del mosaico, Kandinsky intorno al 19o6-907, come Augusto Giacometti poco piú tardi, e ancora Léon Bakst o Henri Filiger, mostrano di essere sensibili alle suggestioni della vetrata, della sua tecnica, delle sue possibilità espressive, delle sue soluzioni formali. Proprio in coloro che andavano ricercando un’autonomia del segno che presto sarebbe sfociata nell’astrazione, la vetrata, con le sue possibilità di sistema scomponibile dal comportamento mutevole, ora inerte, ora animato e vivissimo, esercita un’influenza da non sottovalutare. Non direttamente, ma tramite esperienze mediate, essa esercita un ruolo nel momento cruciale che vede alcuni artisti passare dall’Art Nouveau o dallo Jugendstil all’astrazione.
«Ecclesiae nostrae fenestre veteribus pannis usque nunc fuerunt clausae. Vestris felicibus temporibus auricomus sol primum infulsit basilicae nostrae pavimenta per discoloria picturarum vitra cunctorumque inspicientium corda pertemptant multiplicia gaudia, qui inter se mirantur insofiti operis varietates. Quocirca quousque locus iste cernitur tali decoratus ornatu, vestrum nomen die noctuque celebrationibus orationum asscribitur»: Monumenta Germaniae Historica, Epistolae Selectae III, Die Tegernseer Briefsammlung, a cura di K. Strecker, Berlin 1925, p. 25, nota 24. 2 william of malmesbury, De Gestis pontificum anglorum, a cura di A. Hamilton, London 1870, p. 138. 3 sugerii, De Administratione in e. panofski, Abbot Suger on the Abbey Church of St Denis and Its Art Treasures, Princeton 19792, p. 52, linea 12, p. 76, linea 8. 4 Il testo di heraclius è pubblicato in m. merrifield, Original Treatises ... on the Arts of Painting, London 1849, vol. I, pp. 185 sgg. 5 j. gage, Gothic Glass. Two Aspects of a Dyonysian Aesthetic, in «Art History», v (1982), pp. 36-58. 6 d. c. lindberg, John Pecham and the Science of Optics, Madi1
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali son-Milwaukee-London 1970 (recensito in «Speculum», xlvi (1972), pp. 322 sgg.); id., Lines of Influence in Thirteenth Century Optics. Bacon, Witelo and Pecham, in «Speculum», xlvi (1971), pp. 66 sgg. 7 Vitree albe fiant et sine crucibus et picturis in v. mortet e p. deschamps, Recueuil de textes relatifs à l’histoire de l’architecture en France au Moyen Age, XIIe-XIIIe siècles, Paris 1929, p. 32. Sulle vetrate cistercensi, cfr. principalmente: e. frodl-kraft, Das Flechtwerk der frühen Zisterzienserfenster. Versuch einer Ableitung, in «Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte», xx (1965), pp. 7-20; h. zakin, French Cistercian Grisaille Glass, New York - London 1979; c. norton, Varietates Pavimentorum. Contribution à l’étude de l’art cistercien en France, in «Cahiers Archéologiques», xxxi (1983), pp. 69-113; f. perrot, in Saint-Bernard et le monde cistercien, a cura di L. Pressouyre e T. N. Kinder, Paris 1990, pp. 250-53. 8 m. harrison caviness, Sumptuous Arts at the Royal Abbeys in Reims and Braine. «Ornatus elegantiae, varietate stupendes», Princeton 1990, pp. 65 e 123, cita, a proposito della provenienza inglese delle vetrate, i brani di antiche cronache riportate nell’Ordinis Praemonstratensis Chronichon di aubinus miraeus, Köln 1613 e nei Sacri et canonici ordinis Praemostratensis Annales di ch.-l. hugo, (vol. I, Nancy 1734) mettendone però in luce la dubbia attendibilità. 9 Camerae illi capellam continuam posuerat, quae, etsi prima manu artificio, nichilorminus pulchrius resplenderet. Imagines tamen ibi pictae, ingenio admirabili viventium speciebus expressis conformatae, intentium non solum oculos sed etiam intellectum depredaentes, intuitus eorum in se adeo convertebant ut ipsi, suarum occupationum obliti, in eis delectarentur, et quos sua occupatio expectabat, per imagines delusi otiosi viderentur. 10 Sui trattati liturgici medievali: r. e. kaske, Medieval Christian Literary Imagery. A Guide to Interpretation, Medieval Bibliographies XI, Toronto 1988; c. vogel, Medieval Liturgy. An Introduction to the Sources, Washington 1986. Sul rapporto tra le vetrate e la teologia medievale cfr. b. j. sauer, Symbolik des Kirchengebaudes und seiner Austattung in der Auffassung der Mittelalter, Freiburg 19242, pp. 118-29; m. t. engels, Zur Problematik der mittelalterlichen Glasmalerei, Berlin 1937, e in particolare il cap. ii, Die geistigen Voraussetzungen der Glasmalerei, pp. 26 sgg.; l. grodecki, Fonctions spirituelles in Le Vitrail Français, Paris 1958, pp. 39 sgg. 11 Fenestrae vitrae quae sunt in ecclesia per quas ventum et pluvias arcentur et claritas solis transmittitur significant sacram scripturam quae a nobis nociva repellit et nos illuminat. Cfr. m.-th. d’alverny, Les mystères de l’Eglise d’après Pierre de Roissy, in Mélanges Réné Crozet, Poitiers 1966, vol. II, p. 1095. Su Pierre de Roissy, a. katzenellenbogen, The Sculptural Programs of Chartres Cathedral, Bal-
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali timore 1959, pp. 78 sgg.; w. kemp, Sermo Corporeus, München 1987, pp. 125 sgg.; e particolarmente c. manhes-deremble, Les vitraux narratifs de la cathédrale de Chartres, Paris 1993, pp. 22-26. 12 Sunt autem quadrati in inferiori quia praelati debent quadrari in virtutibus. Sunt et rotundi in superiori qui debent perfecti esse et pro eternis Deo servire qui est Alpha et Omega [...] Sunt magnae et sunt parvae, qui non omnes sunt eiusdem capacitatis. d’alverny, Les mystères de l’Eglise cit., pp. 1095-96; manhes-deremble, Les vitraux narratifs cit., p. 2 4. 13 Su Honorius: j. flint, Heinricus of Augsburg and Honorius Augustodunensis: are they the same person?, in «Revue Bénédectine», xcii (1982), pp. 148-58. 14 sicardus, Mitrale: «Vitrum fenestrarum per quod nobis radius solis iaculatur, mens doctorum est quae coelestia per speculum in aenigmate contemplantur [...] Fenestrae quae tempestatem excludunt et lumen inducunt sunt doctores qui haeresum turbini resistunt et fidelibus ecclesiae lucem infundunt unde: En ipse stat post parietem nostrum, respiciens per fenestras», (Cont. 2) Lib. I, in j.-p. migne, Patrologia Latina, vol. CCXIII, c0ll. 20-21. Cfr. p. g. ficker, Der Mitralis, Leipzig 1889. 15 «Fenestrae vitrae sunt viri spirituales per quos nobis divina cognitio illuscet [...] Habent vitreas fenestras sensus spirituales per quos radio vero soli illustratur et cecitate ignorantiae suae liberatur», in migne, Patrologia Latina, vol. CLXXVII, coll. 902-4. 16 radpertus tuitensis, Commentarius in Cantica Canticorum, lib. II, in migne, Patrologia Latina, CLXVIII, col. 8661. 17 g. durandus, Rationale, divinorum officiorum, Lyon 1672, lib. I, cap. 3. 18 eudes de chateauroux, Sermo 4, in j. b. pitra, Analecta novissima spicilegii Solesmensis altera continuatio, Paris 1888, vol. II, pp. 273 sgg. Citato in kemp, Sermo Corporeus cit., p. 96. 19 j. poulenc, in «Archivum Franciscanum Historicum», lxxvi (1983), pp. 712-13. 20 c. del corno, Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare, Firenze 1975, pp. 214-15, rimanda all’edizione delle Prediche ... recitate in Firenze dal MCCCIII al MCCCVI, a cura di J. Moreni, Firenze 1831, vol. I, p. 74. 21 l. kitschelt, Die Frühchristliche Basilika als Darstellung des himmliches Jerusalem, München 1938; h. sedlmayr, Die Entstehung der Kathedrale, Zürich 1950, cap. 29, pp. 111 sgg. 22 l. grodecki, Introduzione al catalogo Vitraux de France du XIe au e XVI siècle, Paris 1953, p. 15. 23 h. von veldecke, Eneit, ed. Behagel, Heidelberg 1882, vv. 9468 sgg.: «et hadde in vier sinnen | goeder venstern viere | van granâte en
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali van saphîre, | van smaragde ende van rubînen, | van crisolîten end van sardînen, topazien end berillen | der hadde frou Kamille | selve genoech gewonnen ê des werkes worde begonnen»; w. von eschenbach, Parzival, ed. a cura di L. Mancinelli, Torino 1993, libro xii, 589.20-25, il cui testo originale è: «adamâs und amatiste | (diu aventiure uns wizzen lât) | thopaze und grânat | crisolte und rubbîne, | smarâde und sardîne, | sus wârn diu venster rîche». 24 Cfr. b. roethlisberger, Die Architektur des Graaltempels im Jüngern Titurel, Bern 1917; h. lichtenberg, Die Architekturdarstellungen in der Mittelhochdeutschen Dichtung, Münster 1931; p. frankl, The Gothic, Princeton 196o, passim; u. engelen, Die Edelsteine in der deutschen Dichtung des 12 und 13 Jahrhundert, München 1978. 25 jean de jandun, Tractatus de Laudibus Parisii, in le roux de lincy e tisserand, Paris et ses historiens au XIVe et au XVe siècle, Paris 1867, p. 44; j. lafond e l. grodecki, Les Vitraux de Notre-Dame et de la Sainte-Chapelle, Paris 1959, p. 18. 26 Cfr. per Forzetta: l. gargan, Cultura e arte nel Veneto al tempo del Petrarca, Padova 1978, pp. 66 sgg.; id., Oliviero Forzetta e la nascita del collezionismo nel Veneto, in La pittura nel Veneto. Il Trecento, a cura di M. Lucco, Milano 1992, pp. 503-16. 27 [...] wide windows [...] with gaye glittering glas glowing as ye sonne. 28 Sulla storicità delle rappresentazioni architettoniche nella pittura fiamminga del quattrocento cfr. e. frodl-kraft, Der Tempel von Jerusalem in der «Vermählung Mariae» des Meisters von Flémalle. Archaeologische Realien und Ideale Bildwirklichkeit, in Etudes d’Art Médiéval offertes à Louis Grodecki, Paris 1981, pp. 293-316. In particolare sulla rappresentazione di vetrate nella pittura fiamminga: id., Das Bildfenster im Bild. Glasmalereien in den Interieurs der früeheren Niederländer, in Bau und Bildkunst im Spiegel internationaler Forschung, Berlin 1989, pp. 166-81. 29 r. becksmann e u. d. korn, Die mittelalterlichen Glasmalereien in Lüneburg und den Heideklöstern, Berlin 1992, pp. xlvi sgg. 30 f. perrot, Les verrières du XIIe siècle de la façade occidentale de la cathédrale de Chartres, in «Monuments Historiques de la France», xxiii (1977), pp. 37-51. 31 r. becksmann, Deutsche Glasmalerei des Mittelalters, Stuttgart 1988, pp. 16-17. 32 j. lafond, Le Vitrail, Lyon 1988, pp. 89 sgg. 33 g. vasari, Le Vite, edizione a cura di r. bettarini e p. barocchi, Firenze 1966, vol. I, pp. 158 sgg. 34 t. tasso, Prose, a cura di F. Flora, Milano 1935, p. 569. 35 Lambert Lombard a Giorgio Vasari, da Liegi, 27 Aprile 1565, in G. Gaye (a cura di), Carteggio inedito d’artisti..., Firenze 1840, vol. III, pp. 173 sgg.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali a. felibien des avaux, Principes de l’architecture, de la sculpture, de la peinture et des autres arts qui en dépendent, avec un dictionnaire des termes propres à chacun de ces arts, Paris 1675 (altre edizioni sono state pubblicate nel 1690 e nel 1699); j. lafond, Félibien est-il notre premier historien du vitrail? Les principes de l’architecture et l’origine de l’art de la peinture sur verre, in «Bulletin de la société de l’histoire de l’art français», 1954, pp. 45-6o. 37 félibien des avaux, Principes de l’architecture cit., 16993, p. 181. 38 m. a. gessert, Geschichte der Glasmalerei in Deutschland und den Niederlanden, Frankreich, England, der Schweiz, Italien und Spanien, von ihrem Ursprung bis auf die neueste Zeit, Stuttgart-Tübingen 1839, reprint Osnabrück 1983. 39 a. michel, Histoire de l’Art, vol. V, parte I, p. 491, citato da lafond, Le Vitrail cit., p. 92. 40 «Monuments of idolatrie are remooved, taken downe and defaced; onlie the stories in glasse windowes excepted, which for want of sufficient store of newe stuffe, and by reason of extreame charge that should grow by the alteration of the same into white panes throughout the realme, are not altogither abolished in most places at once», in s. brown e d. o’connor, Glass Painters, London 1991, p. 69. 41 Citato in p. cowen, A Guide to Stained Glass in Britain, London 1985, p. 185. 42 lafond, Le Vitrail cit. Si veda particolarmente il cap. iii, Destinées, pp. 71-157. Sulla battuta di Cochin, cfr. ibid., p. 120; id., De 1560 à 1789, in Le Vitrail Français, Paris 1958, p. 325, nota 48. 43 g. ritter, Les Vitraux de la Cathédrale de Rouen, Cognac 1925, pp. 12, 27, 59; j. lafond, De 138o à 15oo, in Le Vitrail Français cit., p. 198. 44 h. oidtmann, Rheinische Glasmalereien, Düsseldorf 1929, vol. II, p. 467; lafond, Le Vitrail cit., p. 76. 45 h. sauval, Histoire et recherche des antiquités de la ville de Paris, Paris 1724, vol. II, p. 291; lafond, Le Vitrail cit., p. 76. 46 j.-j. bourrassé e e. manceau, Verrières du chœur de l’église métropolitaine de Tours, Paris 1849, p. 18; lafond, Le Vitrail cit., p. 79. 47 u. d. korn, Bucken, Legden, Lohne, in Deutsche Glasmalerei des Mittelaiters, a cura di R. Becksmann, Berlin 1992, p. 32. Su Guillaume Brice, cfr. j. lafond, Notre-Dame de Paris, in Les Vitraux de Notre-Dame et de la Sainte-Chapelle de Paris, CVMA, France, I, Paris 1959, p. 53 e c. brisac e j.-j. gruber, Le métier des peintres-verriers, in «Métiers d’Art», 2, 1972, p. 31. 48 p. le vieil, L’Art de la peinture sur verre et de la vitrerie, Paris 1774. 49 Ibid. 50 m. harrison caviness, De convenentia et coerentia antiqui et novi operis. Medieval conservation, restauration, pastiche and forgery in Intui36
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali tion und Kunstwissenshaft, Festschrift für Hanns Swarzenski, a cura di P. Bloch, T. Buddensieg, A. Hentzen e T. Müller, Berlin 1973, pp. 205-21; c. lautier, Les vitraux de la cathédrale de Chartres à la lumière des restaurations anciennes, in Künstlerischer Austausch, Atti del XXVIII Congrès International d’Histoire de l’Art, Berlin 1992, pp. 413-24. 51 c. brisac e altri, La «Belle-Verrière» de Chartres, in «Revue de l’Art», 46, 1979, pp. 16-24. 52 r. becksmann, Deutsche Glasmalerei des Mittelalters, Stuttgart 1988, p. 100. 53 Medaglioni del xii secolo sono stati reimpiegati nella rosa sud di Notre-Dame di Parigi (lafond, Notre Dame de Paris cit.) e numerosi acquisti di vetrate antiche da utilizzare nei restauri sono testimoniati (lafond, Le Vitrail cit., pp. 112-13) per la chiesa di Saint-Ouen di Rouen come per la cattedrale di Chartres. 54 j. lafond, The Stained Glass Decoration of Lincoln Cathedral, in «The Archaeological Journal», ciii (1946), pp. 119-56. 55 j. lafond, Le Vitrail civil à l’église et au musée, in «Medecine de France», 77, 1956, pp. 16-32. 56 j. lafond, Le commerce des vitraux étrangers anciens en Angleterre au XVIIIe et au XIXe Siècles, in «Revue des sociétés savantes de Haute Normandie – Histoire de l’Art», xx (1960), pp. 6-15. 57 l. grodecki, Les vitraux de Saint-Denis, Paris 1976, vol. I, p. 40. 58 g. huard, Percier et l’abbaye de Saint-Denis, in «Les Monuments Historiques de la France», 1936, pp. 140 sgg. 59 Si veda la descrizione delle vetrate trasportate al museo in a. lenoir, Histoire de la peinture sur verre et description des vitraux anciens et modernes, pour servir à l’histoire de l’art, relativement à la France, Paris 1803. 60 b. rackham, English Importations of Foreign Stained Glass in the Early Nineteenth Century, in «Journal of the British Society of Master Glass Painters», ii (1927), pp. 86-94. 61 j. taralon, De la Révolution à 1920, in Le Vitrail Français, Paris 1958, pp. 273-91; e. castelnuovo, Vetrate francesi, in «Paragone», 113, 1959, pp. 6o-61; c. brisac, La moda delle vetrate nei secoli XIX e XX, in Le Vetrate, Milano 1985, pp. 145-63; c. bouchon e c. brisac, Le vitrail au XIXe siècle. Etat des travaux et bibliographie, in «Revue de l’Art», 72, 1986, pp. 35-38; Le vitrail au XIXe siècle, numero speciale delle «Annales de Bretagne et des Pays de l’Ouest», xciii (1986), n. 4; aa.vv., Ces églises du XIXe siècle, Amiens 1993, pp. 215-46. 62 p. bloch, r. becksmann e altri, Meisterwerke mittelalterlicher Glasmalerei aus der Sammlung des Reichsfreiherrn vom Stein, catalogo dell’esposizione al Museum für Kunst und Gewerbe, Hamburg 1966. 63 Gedichte sind gemalte Fensterscheiben! | Sieht man vom Markt in die Kirche hinein | da ist alles dunkel und düster; | und so sieht’s;
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali auch der Herr Philister: | der mag denn wohl verdriesslich sein | und lebenslang verdriesslich bleiben. | Kommt aber nur einmal herein! | Begrüsst die heilige Kapelle, | da ist’s auf einmal farbig helle, | Geschicht’ und Zierat glänzt in Schnelle, | bedeutend wirkt ein edler Schein; | dies wird äuch Kindern Gottes taugen, | erbaut euch und ergetzt die Augen!: j. w. goethe, Werke, Hamburger Ausgabe, München 1981, vol. I, p. 326. 64 g. e. lessing è stato il primo editore del trattato di Theophilus (Theophili Presbyteri Diversarum Artium Schedula) pubblicato da C. Leiste dopo la morte di Lessing in Zur Geschichte und Literatur aus den Schätzen der Herzoglichen Bibliothek zu Wölfenbüttel, Braunschweig 1781, vol. VI). Sugli interventi di Goethe sulle vetrate cfr. h. schmitz, Die Glasgemälde des Königlichen Kunstgewerbemuseum, Berlin 1913, p. 228. 65 s. boisserée, Monographie de la Cathédrale de Cologne, Stuttgart 1823, vol. I, pp. 22 sgg. Cfr p. frankl, The Gothic. Literary Sources and Interpretations Through Eight Centuries, Princeton 196o, pp. 514 sgg. 66 w. koschatsky, Neue Forschungen zu den Glasfenstern des Brandhofes, in «Alte und Moderne Kunst», xii (1967), pp. 28-33. 67 Cfr. il catalogo dell’esposizione Romantische Glasmalerei in Laxenburg, Wien 1862; j. zykan, Laxenburg, Wien 1969. 68 e. castelnuovo, Hautecombe: un paradigma del «Gothique Troubadour», in Giuseppe Jappelli e il suo tempo, Padova 1982, pp. 121-36. 69 j. leliévre, La Chapelle Royale, Colmar 1986; p. ennes, nel catalogo dell’esposizione Un âge d’or des arts décoratifs 1814-48, Paris 1991, pp. 416-21. 70 e. h. thévenot, Essai historique sur le vitrail ou observations historiques et critiques sur l’art de la peinture sur verre, Clermont 1837; g. bontemps, Peinture sur verre au XIXe siècle. Les secrets de cet art sont-ils retrouvés?, Paris 1845. Bontemps, che lavorava alla cristalleria di Choisy-le-Roy, attiva tra il 1821 e il 1851, aveva riscoperto il modo di produrre il vetro rosso colorato nella massa, e questo gli valse una medaglia all’esposizione dei Produits de l’Industrie tenutasi a Parigi nel 1827. Piú tardi, in Inghilterra, l’avvocato Charles Winston, fanatico di vetrate, mette a punto, lavorando con maestri vetrari della Powell di Blackfriars, dei modi di coloritura dei vetri che sembrarono resuscitare le antiche tonalità. 71 Encyclopedie Moderne, Paris 1831, vol. XXIII, p. 504. 72 e. bareste, in «L’Artiste», 1837. 73 j.-m. leniaud, Les Cathédrales du XIXe siècle, Paris 1993; aa.vv., Ces églises cit. 74 Un atelier di pittura su vetro fu creato a Sèvres nel 1824; particolarmente favorito dalla committenza di Luigi Filippo, non sopravvisse molto alla sua caduta e fu chiuso nel 1851: Un âge d’or des arts décora-
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali tifs cit., pp. 416-26. 75 j.-m. leniaud, Jean-Baptiste Lassus (18o7-1857) ou le temps retrouvé des Cathédrales, Genève 1980. 76 Cfr. la bibliografia fino al 198o raccolta nel catalogo dell’esposizione Viollet-le-Duc a cura di B. Foucart, Paris 198o. 77 e. castelnuovo, La «cathédrale de poche». Enluminure et vitrail à la lumière de l’historiographie du XIXe siècle, in «Zeitschrift für Schweizerische Archaeologie und Kunstgeschichte», xl (1983), pp. 91-93; c. brisac e j. m. leniaud, Adolphe-Napoléon Didron ou les médias au service de l’art chrétien, in «Revue de l’Art», 77, 1987, pp. 33-42. 78 Si veda Le Vitrail au XIXe siècle, numero speciale delle «Annales de Bretagne et des Pays de l’Ouest», xcii (1986), n. 4 e il capitolo Le Vitrail, in Ces églises cit., pp. 215-46. 79 c. brisac e d. alliou, La peinture sur verre au XIXe siècle dans la Sarthe in Le Vitrail au XIXe siècle cit., pp. 389-93. 80 Pubblicata nel IX volume del Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au xvie siècle, Paris 1868. 81 lafond, Le Vitrail cit., p. 40. 82 f. de lasteyrie du saillant, Histoire de la peinture sur verre d’après ses monuments en France, Paris 1853-57. 83 ch. winston, An Inquiry into the Differences of Style Observable in Ancient Glass Paintings, especially in England with Hints on Glass Painting, by an amateur, Oxford 1847, 2 voll. Una seconda edizione, con qualche modifica nel testo e nelle illustrazioni, è uscita postuma nel 1867. Su Charles Winston cfr. Dictionary of National Biography, London 1900, vol. 62, pp. 21 sgg. 84 Il libro è diviso in due parti, una storico-antiquaria condotta in ordine cronologico, l’altra, gli Hints appunto, di tono impegnato nel presente e propositivo, dove si fa un elogio delle manifatture tedesche, si propone una serie di principî per la pittura su vetro del presente, si discutono le questioni tecniche della produzione di vetri all’antica, spesso in accordo con le idee di Bontemps. 85 th. rikman, An Attempt to Discriminate the Styles of Architecture in England from the Conquest to the Reformation, London 1817. 86 w. warrington, History of Stained Glass from the Earliest Period of the Art to the Present Time. Illustrated by Coloured Examples of Entire Windows in the Various Styles, London 1848. 87 gessert, Geschichte der Glasmalerei in Deutschland cit. 88 w. wackernagel, Die Deutsche Glasmalerei: Geschichtlicher Entwurf mit Belegen, Leipzig 1855. 89 e. lévy e j. b. capronnier, Histoire de la peinture sur verre en Europe et particulierement en Belgique, Bruxelles 186o. 90 n. h. j. westlake, A History of Design in Painted Glass, London 1881-94.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali Su Arthur Martin, animatore dell’impresa si veda f. de lasteyrie, Notice sur la vie et les travaux du père Arthur Martin, in «Bulletin de la Société Impériale des Antiquaires», 1857. 92 Monographie de la Cathédrale de Bourges par les Pères A. Martin et C. Cahier de la Compagnie de Jésus, Première partie. Vitraux du XIIIe siècle, Paris 1841-44. 93 j. l. romelot, Description Historique et Monumentale de l’église patriarchale, primatiale et métropolitaine de Bourges, Bourges 1824, pp. 192-93. 94 bourrassé e manceau, Verrières du chœur cit. 95 e. hucher, Calques des vitraux peints de la cathédrale du Mans. Ouvrage renfermant les calques ou la reduction d’après les calques de verrières de cette cathédrale les plus intéressants pour les rapports de l’art et de l’histoire, Le Mans 1864. L’autore (1814-89) dirigeva a Le Mans un’importante manifattura di vetrate. Precedentemente erano stati pubblicati alcuni calchi di vetrate della cattedrale di Bourges (cahier e martin, Monographie de la Cathédrale de Bourges cit.). Cfr. anche n. blondel, Le Vitrail, Paris 1993, pp. 386 sgg. 96 j. ruskin, The Stones of Venice, London 1893, vol. II, App. 12, pp. 393-94; id., Lectures on Art, London 1870, par. 186. 97 l. f. day, Windows. A Book about painted and stained glass, London 19093, p. 2. 98 Cfr. frankl, The Gothic cit., pp. 66o sgg.; r. griffith, The Reactionary Revolution, London 1966. 99 r. bales, Proust and the Middle Ages, Genève 1975; id., Proust et Emile Mâle, in «Bulletin de la Société des amis de Marcel Proust et des amis de Combray», 24, 1974, pp. 1925-36. 100 p. claudel, Prefazione a m. aubert, Vitraux des Cathédrales de France, XIIe et XIIIe siècles, Paris 1937. 101 Cfr. d. m. ross, Lewis Foreman Day Designer and Writer on Stained Glass, Cambridge 1929; e. rycroft, Lewis Foreman Day, 18491910, in «The Journal of the Decorative Art Society», xiii (1989), pp. 19-26; p. floud, Victorian and Edwardian Decorative Arts, catalogo dell’esposizione al Victoria and Albert Museum, London 1952, p. 63; c. sewter, The Stained Glass of William Moryis and His Circle, New Haven - London 1974; m. harrison, Victorian Stained Glass, London 198o; catalogo della mostra Cento acquerelli preraffaelliti e neogotici inglesi per vetrate, Milano 1984. 102 e. scheyer, Henry Adams as a Collector of Art, in «Art Quarterly», xv (1952), pp. 221-33. 103 becksmann, Deutsche Glasmalerei des Mittelalters cit., pp. 19-20. 104 a. cingria, La décadence de l’art sacré, Paris 1919. 91
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Itinerario
Augusta Arnstein an der Lahn Saint-Denis Canterbury Le Mans Chartres Bourges Parigi Colonia Marburg Rouen Assisi Wimpfen im Tal Esslingen Siena Strasburgo Königsfelden York
Questo itinerario integra e in qualche modo invera e rende tangibile il percorso seguito sino qui. Percorso che si snoda dalla Francia alla Germania, all’Inghilterra, all’Italia per due secoli e mezzo, dagli inizi del xii alla metà del xiv: un periodo in cui le vetrate hanno raggiunto vertici tra i piú alti della pittura medievale. Si è voluto illustrare questa situazione attraverso esempi che presentassero casi e centri tra i piú significativi. La scelta si è fermata su un numero limitato di luoghi, una ventina circa, di cui si è data una documentazione piú articolata, scegliendo all’interno di un ciclo gli esempi piú importanti e talvolta proponendo piú di un particolare. Dalla solenne e arcaica fissità dei profeti di Augusta con cui ha inizio la storia delle vetrate europee alle estreme raffinatezze fabbrili di Gherlacus ad Arnstein, dalla violenza espressiva della Ascensione di Le Mans alla varietà dei maestri di diverse nazioni operosi a Saint-Denis, e poi via via attraverso i cantieri di Canterbury e di Chartres, di Bourges o della Sainte-Cha-
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pelle di Parigi dove nasce e si sviluppa la pittura gotica europea. In Germania, da Colonia a Marburg a Wimpfen, nascono e si sviluppano nel duecento proposte alternative a quelle del gotico francese. Questo tuttavia finirà per imporre all’Europa intera – da Rouen a Esslingen ad Assisi – un medesimo stile nella varietà delle sue declinazioni. A questo punto, passando da Siena a Strasburgo, da Königsfelden a York, il percorso si conclude con la rivoluzione apportata dall’uso del giallo d’argento e dall’ingresso della tridimensionalità nella pittura su vetro. Con esse un’epoca si chiude, un’altra comincia.
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Capitolo settimo Le origini
Quando e dove ha inizio la storia delle vetrate? I primi cicli conservati vengono generalmente datati non prima del xii secolo, tuttavia, quando proprio agli albori del secolo Theophilus ne parla, lascia intendere che questa tecnica ha già alle spalle un grande passato. D’altra parte tutta una serie di testi che vanno dal iv all’xi secolo accennano a finestre vitree nelle chiese e anche nei palazzi e non mancano notizie in cronache e documenti relative all’attività di maestri vetrari: uno Stracholfus, per esempio, lavorava vetrate a San Gallo ai tempi di Ludovico il Pio, e queste menzioni si infittiscono nel corso dell’xi secolo. Esistono inoltre frammenti vitrei oggetto di molte discussioni che sono certamente anteriori al xii secolo, come quelli trovati a San Vitale di Ravenna o quelli, rinvenuti a Séry-lès-Mézières nel nord della Francia, che hanno permesso di ricostruire una piccola vetrata con croce, o ancora come le teste ritrovate a Lorsch, Magdeburgo, Wissembourg e Schwarzach. Negli ultimi decenni gli scavi archeologici hanno d’altra parte portato alla luce, in numero sempre maggiore, frammenti di vetri dipinti e di piombi, tanto da fornire innumeri testimonianze dell’esistenza di vetrate in edifici anteriori al xii secolo. Pesa infine sul problema un’ulteriore ipoteca: quella del ruolo dell’oriente nell’origine e nello sviluppo delle vetrate. La questione è stata riproposta dal ritrovamen-
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to, nella chiesa del Pantocrator a Costantinopoli, di frammenti di vetri dipinti e di piombi, databili agli inizi del xii secolo e quindi anteriori o contemporanei ai primi grandi esempi occidentali.
Le fonti letterarie. In molti testi letterari, anche assai remoti, si parla di vetrate. In termini diversi, tuttavia. Occorrerà infatti distinguere un gruppo di scritti che va dal iv al vi secolo all’incirca da un altro che va dal ix all’xi. Tra i primi scrittori a menzionare, paragonandole agli occhi, le finestre chiuse da vetri, attraverso cui si vede il mondo esterno, è Lattanzio, morto verso il 330, che nel settimo capitolo del De Opificio Dei scrive di finestre «chiuse da vetro lucente o da pietre traslucide»1. Passi analoghi si trovano in scritti di padri della chiesa come san Girolamo o san Giovanni Grisostomo, che evocano talvolta, come termini di confronto del loro argomentare, le chiusure traslucide delle finestre che lasciano penetrare la luce. Piú esplicitamente alcuni testi alludono a vetrate poste in edifici precisi, a Roma o a Costantinopoli: cosí Aurelio Prudenzio, morto nel 413, paragona le vetrate colorate della basilica di San Paolo fuori le Mura ai prati smaltati di fiori primaverili (Sic prata vernis floribus renident)2, mentre nel vi secolo Paolo Silenziario e Procopio di Cesarea parlano di quelle di Santa Sofia di Costantinopoli. In un periodo posteriore, il Liber Pontificalis menziona vetrate donate dai pontefici alle chiese romane, e ricorda per esempio che Sergio II (844-47) in San Martino ai Monti «fece nell’abside delle finestre un decoro con vetri di diversi colori»3. Vi è poi un’altra area nella quale, dalle menzioni fatte dai testi, appare che le vetrate abbiano abbondato: sono le Gallie. Qui, secondo le testimonianze, esistevano vetrate a
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Parigi, a Tours, a Nantes, a Lione, a Limoges, a Verdun. Sidonio Apollinare (43o-88) parla delle vetrate colorate della basilica dei Maccabei a Lione, mentre piú tardi Venanzio Fortunato, morto nel 6o9, evoca le finestre invetriate della basilica di San Vincenzo (poi Saint-Germain-des-Prés) a Parigi, costruita sotto il re merovingio Childeberto, e accenna in molti altri casi all’esistenza di finestre chiuse da vetri, e ancora la Vita di Sant’Eligio, del vi secolo, ricorda come, per trovare un rifugio ai prigionieri, venisse infranta a Limoges una grande vetrata della basilica di Saint-Sulpice, le cui porte erano sprangate. Particolarmente interessante è un passo di Gregorio di Tours (seconda metà del vi secolo) ove si racconta di un ladro che di notte scardinò le finestre di una chiesa per farne fondere il vetro ove pensava fossero stati disciolti preziosi metalli4. Il passo è rivelatore per piú di un aspetto: indica che le vetrate erano incorniciate da telai di legno e suggerisce come la vivace coloritura dei vetri avesse alimentato la fiducia del ladro di trovarvi materie pregiate. Dall’esame di questi testi possiamo concludere che già nelle prime basiliche cristiane erano stati usati vetri bianchi o colorati contenuti entro armature di legno o calati entro supporti di stucco o di pietra (claustra, transennae) che avevano la funzione di far passare la luce modificandola grazie ai loro colori, ma che spesso non erano dipinti, sí che le finestre invetriate non dovevano differenziarsi molto da quelle chiuse da lastre di selenite o di alabastro. Abbiamo tuttavia esempi assai antichi di vetri dipinti usati per chiudere finestre. Il caso piú noto è quello dei frammenti trovati a San Vitale di Ravenna5, una città in cui da tempo dovevano esistere finestre vitree, poiché una notizia dello Spicilegium Ravennatis Historiae6 ci informa che la finestra absidale della chiesa di San
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Giovanni Evangelista, un edificio fatto erigere da Galla Placidia come ringraziamento di uno scampato pericolo corso in mare nel 426, durante un viaggio di ritorno da Costantinopoli, era invetriata. Quanto ai resti ritrovati a San Vitale, dovevano far parte di una o piú finestre della chiesa, e alcuni di essi mostrano tracce di pittura. Dai frammenti superstiti è chiaramente riconoscibile una figura di Cristo Pantocrator di cui è ben visibile la testa con il nimbo crociato. Resta però non chiarita una questione, se cioè la pittura brunastra apposta sui vetri ravennati fosse stata o meno sottoposta a cottura a fuoco7. I vetri non erano comunque incorniciati da piombi, ma piuttosto, come si deduce dalla loro forma rotonda, situati in transenne con aperture circolari. Sono stati conservati del resto a Ravenna sia transenne bronzee, sia avanzi di telai in legno (Sant’Apollinare in Classe), mentre vari frammenti di transenne usate per chiudere finestre e realizzate in materiali diversi sono state ritrovate nella cattedrale di Grado, ad Aquileia, nel battistero di Albenga8. Resti di finestre vitree del periodo carolingio sono stati rinvenuti nel corso di campagne di scavo in molte regioni d’Europa, dal mezzogiorno al settentrione, dall’abbazia di Farfa a quella di Saint-Denis, mentre frammenti di vetrate assai piú antiche sono venuti alla luce nelle esplorazioni dei monasteri inglesi di Monkwearmouth e di Jarrow9. Questi ritrovamenti trovano spiegazione nella Historia Abbatum di Beda il Venerabile, che narra come l’abate Benedict Biscop, fondatore dei piú celebri monasteri del Northumberland, avesse inviato nel 675 emissari in Francia per cercarvi maestri vetrari che introducessero in Inghilterra questa tecnica sconosciuta, operazione poi ripetuta dall’abate Cuthbert nel 75810. Una radicale trasformazione si ebbe con la nascita della vetrata nel vero senso del termine, vale a dire con
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la creazione di un manufatto tutto particolare, composto di vetri variamente colorati o monocromi, dipinti a grisaille e tenuti insieme da un reticolo di righelli di piombo. Rispetto a una composizione di vetri inseriti in una transenna di pietra o in un telaio di legno si ha qui un autentico salto di qualità, che porta alla nascita di una nuova tecnica, una tecnica che si affermerà come una delle espressioni piú singolari e significative dell’intera arte medievale. Sarà possibile in questo modo che la vetrata si svincoli dal rapporto determinante con la finestra per essere qualcosa di piú di una semplice chiusura, per acquisire una funzione architettonica, per diventare essa stessa parete luminosa, colorata, dipinta. Di vere e proprie vetrate come oggi le intendiamo, di composizioni di vetri colorati, tagliati, dipinti e messi in piombo in modo da formare immagini o storie, troviamo testimonianze solo a partire dal ix secolo. Un testo sulla consacrazione del Frauenmünster di Zurigo, avvenuto nell’874, accenna a vetrate dipinte nel modo stesso in cui era dipinto il soffitto, ma la sua interpretazione lascia adito a qualche dubbio11. Un passo della Vita di San Liudgerius vescovo di Münster, scritta intorno alla metà del ix secolo è, per contro, assolutamente chiaro: vi si legge di una fanciulla cieca che, per intervento del santo, recupera la vista e si volge a indicare con il dito le immagini sulle finestre illuminate dall’aurora rosseggiante12. Da questo momento i riferimenti sono numerosi: in una cronaca scritta da Richerius, religioso dell’abbazia di Saint-Remi a Reims, si parla dei lavori fatti eseguire nel 969 dal vescovo Adalberto nella cattedrale, e si accenna a «finestre che contenevano varie storie» (fenestris diversas continentibus historias)13; un altro cronista scrive, nel 1052, di una vetrata con il martirio di santa Pascasia (santa cui nella chiesa era dedicato un altare),
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esistente nella chiesa di Saint-Benigne a Digione14, come di un’opera antica giunta sino al suo tempo (ut quadam vitrea antiquitus facta et usque ad nos perdurans tempora eleganti praemonstrabat pictura). Molto probabilmente la vetrata apparteneva all’abbazia fondata nell’871 da Hincmarus arcivescovo di Langres, restauratore dell’antica basilica che cadeva in rovina, anche se potrebbe darsi che risalisse piuttosto all’inizio dell’xi secolo, al tempo della ricostruzione dell’abbazia sotto Guglielmo da Volpiano. Se, come appare sicuro, la vetrata come noi la intendiamo esisteva già in epoca carolingia, la sua diffusione non fu molto estesa e dovette probabilmente trovare un limite nel periodo delle invasioni normanne. Alla fine del x secolo infatti, agli occhi di Gozbertus, abate dell’abbazia di Tegernsee in Baviera, le vetrate che un aristocratico committente, il conte Arnold, aveva fatto eseguire da maestri vetrari per la sua chiesa erano, come si è visto, delle straordinarie novità15. Il fatto che l’abate considerasse in questi termini i prodotti di una tecnica che era praticata almeno da circa due secoli ha fatto pensare che la diffusione ne fosse stata bloccata. Ma fino a che punto giocava qui il topos del ringraziamento?
Le fonti monumentali. Dopo i testi letterari, e ve ne sarebbero molti altri, prendiamo in esame le testimonianze materiali. Le due prime, che risalirebbero all’epoca carolingia, sono la vetrata di Séry-lès-Mézières e quella di Lorsch. La prima era una piccola vetrata (cm 52x46), già depositata al museo di Saint-Quentin e distrutta nel 1918. Era stata ricostruita dal maestro vetrario Edmond Socard con frammenti di vetro trovati dall’archeologo Jules
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Pilloy, in uno scavo nel 1872, in un cimitero abbandonato verso l’anno 1000, e rappresentava una croce dal cui braccio orizzontale pendevano un’alfa e un’omega. I frammenti di vetro colorati erano dipinti a grisaille e tenuti insieme da piombi, uno dei quali fu ritrovato. Si è pensato che questa composizione di vetri potesse aver costituito il lato superiore di una cassetta-reliquiario, ma è piú probabile che fosse stata impiegata per chiudere una piccola finestra. La sua datazione dovrebbe risalire al periodo carolingio, come risulterebbe dalla stratigrafia dello scavo e da altri elementi, ma non è escluso che sia lievemente anteriore. Comune è infatti nella miniatura dell’viii secolo il tema della croce con l’alfa e l’omega16. Quanto alla seconda vetrata, quella di Lorsch, essa è costituita dai minuti frammenti della testa di un santo, forse san Giovanni Battista, parte di una figura di scala monumentale, ritrovati nel 1933 negli scavi dell’abbazia consacrata nel 774 e oggi ricomposti allo Hessisches Landesmuseum di Darmstadt. La loro datazione è problematica; generalmente si ritiene che essi possano provenire dalla chiesa che venne ricostruita dopo l’87617 per raccogliere i resti di Ludovico il Germanico, ma Louis Grodecki non esclude una datazione piú tarda, già in età romanica. Altri ritrovamenti di vetri colorati provenienti da vetrate di alta epoca (rispettivamente merovingia e carolingia) hanno avuto luogo a Mondeville e a Beauvais in Normandia18, mentre frammenti di vetrate databili con certezza al ix secolo, decorati con motivi vegetali e con lettere, sono venuti alla luce nel corso degli scavi portati avanti tra il 1973 e il 1990 attorno alla chiesa abbaziale di Saint-Denis. Nei resti dell’atelier di vetraio scoperti in questa occasione sono state addirittura ritrovate le forme in pietra entro cui veniva colato il metallo bollente per fabbricare i righelli di piombo per le vetrate19. Se si aggiungono a questi i ritrovamenti di
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resti di finestre vitree dello stesso periodo a Farfa20 e le tante menzioni di vetrate nei testi contemporanei, si vedrà che l’esistenza di vetrate dipinte nell’età carolingia è indiscutibile. Un poco piú tardi si situa una piccola testa di giovane, che misura circa cm 7x5, trovata in uno scavo effettuato attorno all’abbazia ottoniana di Schwarzach nel Baden. Date le sue ridotte proporzioni (il personaggio di cui ha fatto parte doveva misurare all’incirca 40 centimetri) si può pensare che abbia fatto parte di una scena leggendaria; dati archeologici, nonché alcune somiglianze con la miniatura ottoniana, quali le illustrazioni dell’Evangelario di Ottone III, hanno indotto a datarla alla fine del x secolo21. Già all’xi secolo doveva risalire la testa di un martire, un frammento ritrovato nel 1926 negli scavi attorno al duomo di Magdeburgo e quindi distrutto nella seconda guerra mondiale. La finestra da cui proveniva era situata nella cripta orientale della chiesa, consacrata nel 104922. Recente è il ritrovamento di frammenti di vetrate dipinte dell’inizio dell’xi secolo a Volpiano, negli scavi dell’abbazia di Fruttuaria fondata da san Guglielmo, cui si deve anche il rinnovamento dell’abbazia di Saint-Benigne a Digione. A un tempo non lontano deve appartenere una piccola vetrata, oggi al Musée de l’Œuvre Notre-Dame di Strasburgo, che proviene, secondo la tradizione, dalla chiesa abbaziale dei Santi Pietro e Paolo di Wissembourg in Alsazia, una fondazione dell’viii secolo che venne ricostruita tra il 103o e il 1070. Ha un diametro di 25 centimetri e rappresenta una testa. I tre modi di stendere la grisaille sono gli stessi descritti da Theophilus nel suo trattato23. Sono questi i pochissimi resti di cui possiamo disporre (e due sono andati distrutti) per giudicare di ciò che furono le piú antiche vetrate occidentali. Tecnicamente essi non presentano sostanziali differenze rispetto
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alle vetrate romaniche; iconograficamente notiamo che si passa da un tipo di vetrata con motivi decorativi (Séry) a frammenti di vetrate monumentali, a grandi personaggi (Lorsch, Wissembourg), e a resti di rappresentazioni di storie o leggende (Schwarzach). La prevalenza dei ritrovamenti in aree germaniche (fattore che non ha importanza determinante data l’estrema scarsità del campione) può far dedurre che nel periodo carolingio e in quello successivo la Germania non abbia avuto in questa vicenda minore importanza della Francia. Precedentemente, come è logico data la differenza di livello economico e culturale, era la Francia che prevaleva. Lo avvertiamo dai testi di Gregorio di Tours, Venanzio Fortunato, Sidonio Apollinare, dal fatto che nel vii secolo dall’Inghilterra si facesse appello a maestri vetrari francesi, infine dalla ripetuta affermazione di Theophilus sull’eccellenza dei francesi in questa tecnica. D’altra parte, nell’xi secolo troviamo con una certa frequenza nomi di maestri vetrari e di pittori di vetrate in documenti che riguardano sia la Francia, sia l’area mosana, sia la Germania. È il caso di quel maestro vetrario che era stato nominato canonico onorario dal vescovo di Auxerre Godefroy; di Fulco, pittore di pareti e di vetrate, legato al monastero di Saint-Aubin di Angers24; del monaco Valerius, vir subtilis ingenii, che era uscito miracolosamente illeso da un grave incidente occorsogli nel sistemare una vetrata dell’abbazia di Sainte-Mélaine a Rennes (1055-56)25; di Rogerus di Reims a cui, «uomo di grandissimo valore, capacissimo e peritissimo in quest’arte»26, era stato fatto appello per eseguire le vetrate dell’abbazia di Saint-Hubert d’Ardenne nel Lussemburgo; di Werinherus, detto Weczil, orafo, scriba e miniatore, ma anche pittore di vetrate, che aveva lavorato nel monastero di Tegernsee ai tempi dell’abate Eberhardus, morto nel 109126; di Walterius, vitri artifex a Molême28.
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Evoluzione e mutazioni. Potremmo schematizzare cosí quanto è emerso finora: in un primo periodo (iv-viii secolo) le vetrate sono formate da lastre di vetro bianco o colorato, incorniciate da armature di legno o calate entro supporti di gesso, pietra o stucco. Potevano essere monocrome o policrome (come i prati che brillano di fiori primaverili, aveva detto Prudenzio parlando delle vetrate della basilica di San Paolo); talora dipinte, come rivelano i frammenti di Ravenna. Queste prime vetrate non erano sostenute da armature di ferro né composte da diversi frammenti di vetro di vari colori tagliati secondo certe forme, tenuti insieme da piombi, dipinti e riuniti a formare immagini. A partire dal ix secolo si impone un altro tipo di vetrata, assemblaggio di vetri colorati tenuti insieme da piombi e dipinti con grisaille vetrificata. Da figurazioni puramente simboliche (Séry) si passa a rappresentazioni di scene e personaggi. Cresce intanto il numero delle testimonianze che riguardano maestri vetrari o pittori che dipingono vetrate. I due tipi di vetrata, quello inquadrato da un’armatura e quello contenuto da claustra o transenne, potranno in un primo tempo convivere, come nel 1066 a Cassino secondo la testimonianza di Leone d’Ostia29. Piú o meno contemporaneamente, nella seconda metà dell’xi secolo, il carpentiere Vital d’Isigny lavora per due settimane alla cattedrale di Coutances a fare incorniciature in legno per le finestre: «che aveva lavorato con sapienza ed eleganza ai telai delle finestre chiamati capsilia»30.
La vetrata orientale. Si è accennato fin qui a esempi e a testimonianze occidentali, ma come si pone la questione per l’area
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orientale dove, già nel vi secolo, erano ricordate le finestre vitree di Santa Sofia di Costantinopoli? Sul ruolo svolto dalle regioni del vicino oriente nell’invenzione, nei perfezionamenti e nella produzione del vetro non esistono dubbi; esso è stato di primaria, fondamentale importanza. I piú antichi vetri dipinti usati per chiudere una finestra che siano giunti sino a noi, quelli di Ravenna, sono probabilmente di origine orientale, e la Siria resta per lungo tempo l’area di produzione dei vetri piú preziosi. L’uso di finestre di vetro, decorate di pittura nera non passata a fuoco, inserite in supporti di stucco, comincia nel vicino oriente nel iv secolo31. Nelle chiese altomedievali di questa regione erano esistite vetrate come ne esistevano nelle moschee e nei grandi palazzi dei dinasti islamici dell’viii-ix secolo. Frammenti di vetro entro supporti di stucco sono stati ritrovati negli scavi del castello del califfo Al Walid I (743-44) a Kirbet Al-Mafjar, nella valle del Giordano a nord di Gerico32. Ma la vetrata orientale, conosciuta nei suoi primi tempi attraverso frammenti e solo piú tardi attraverso numerosi esempi ancora esistenti in Egitto, Siria, Palestina, Turchia, è di un tipo particolare: non utilizza piombi, ma dispone frammenti di vetro colorato, eventualmente dipinto a grisaille, entro supporti di stucco e di gesso estremamente elaborati e tagliati con straordinaria finezza, arrivando cosí a composizioni decorative di grande bellezza, ma assai diverse da quelle occidentali33. Per contro, un importante gruppo di frammenti di vetri dipinti e di piombi è stato ritrovato negli scavi della antica chiesa del Pantocrator (Zeyrek Camii) e in quella della Kariye Camii a Costantinopoli34. In questo caso è chiaro che si tratta di resti di vetrate del tutto analoghe a quelle dell’occidente. La loro datazione è discussa, ma certamente esse risalgono a un momento anteriore alla quarta crociata e alla presenza di un
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imperatore latino sul trono di Costantinopoli. Se, come è stato proposto, appartenessero agli inizi del xii secolo, sarebbero anteriori ai grandi cicli francesi e contemporanee alle prime importanti testimonianze tedesche, le vetrate del duomo di Augusta, e potrebbero costituire una prova della priorità dell’oriente nella vicenda delle vetrate medievali, un argomento che un grande bizantinista quale Ernst Kitzinger dà quasi per scontato35. Considerando tuttavia che un certo numero di ritrovamenti occidentali sono anteriori alle vetrate del Pantocrator, che all’inizio del xii secolo Theophilus, sempre attento ai caratteri artistici peculiari di ogni paese e informato di quanto avveniva a Bisanzio, insiste sulla specializzazione dei francesi in questo campo, e che nel trecento le vetrate di Costantinopoli tornano a essere le tipiche vetrate orientali con supporti di stucco abbandonando la tradizione del Pantocrator, si è per lo piú ritenuto di poter scartare l’ipotesi di un’origine bizantina delle vetrate occidentali e di concludere che furono piuttosto le vetrate del Pantocrator a essere opera di maestri provenienti dall’occidente36. Questo problema non può tuttavia essere risolto per ora in un senso o nell’altro con argomenti decisivi. Resta il fatto che, qualunque ne sia stata l’origine, la vetrata ha conosciuto nell’occidente medievale una vicenda altrimenti ricca, piena e complessa; a un certo momento, anzi, essa ha rappresentato la tecnica-pilota di una grande civiltà artistica37.
lucius coelius firmianus lattantius, De Opificio Dei, cap. vii. Su questo e altri passaggi importanti per la storia delle antiche vetrate cfr. h. oidtmann, Die Glasmalerei, Köln 1898, vol. II, pp. 33 sgg.; id., Die Rheinischen Glasmalereien vom 12 bis zum 16 Jahrhundert, Düs1
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali seldorf 1912, v0l. I, pp. 40 sgg.; j. l. fischer, Handbuch der Glasmalerei, Leipzig 19372, pp. 1 sgg. 2 aurelii prudentii, Opera Liber Peristephaton, Inno XII, v. 53 sgg. Cfr. m. t. engels, Zur Problematik der mittelalterlichen Glasmalerei, Berlin 1937, p. 14. 3 Liber Pontificalis Ecclesiae Romanae, edizione a cura di l. duchesne, Paris 1892, p. 94. 4 gregorius turonensis, De Gloria Martyrum, libro I, cap. 59. Cfr. m. vieillard-troiekouroff, Les Monuments chrétiens de la Gaule d’après les œuvres de Grégoire de Tours, Paris 1976, p. 345; e oidtmann, Die Glasmalerei cit., p. 37. 5 c. cecchelli, Vetri da finestra del San Vitale di Ravenna, in «Felix Ravenna», 1930, fasc. xxxv, pp. 1-20; w. schöne, Über das Licht in der Malerei, Berlin 1954, p. 53; g. bovini, Gli antichi vetri da finestra della chiesa di San Vitale, in «Felix Ravenna», III serie, 1965, fasc. xl, pp. 98-108. 6 Pubblicato da l. a. muratori nei Rerum Italicarum Scriptores, vol. I, 2, Milano 1725. 7 e. frodl-kraft, Die Glasmalerei, Wien 1970, p. 27. 8 h. g. franz, Transennae als Fensterverschluss. Ihre Entwicklung von der frühchristlichen bis zur islamischen Zeit, in «Istanbuler Mitteilungen», viii (1958), pp. 65 sgg. 9 Cfr. r. cramp, Glass finds from the Anglo-Saxon Monastery of Monkwearmouth and Jarrow, in «Studies in Glass History and Design», 1968, pp. 16-19; id., Excavations at the Saxon monastic sites of Wearmouth and Jarrow, in «Medieval Archaeology», xiii (1969), pp. 21 sgg.; id., Decorated window-glass and Millefiori from Monkwearmouth, in «Antiquarian Journal», l (1970), pp. 327-35; id., Window glass from the monastic site of Jarrow. Problems of interpretation, in «Journal of Glass Studies», xvii (1975), pp. 88-95; k. s. pointer, Recent discoveries in Britain, in Atti del XI Congrès International d’Archéologie Chrétienne, Lyon 1989, pp. 2031-72. Si veda anche: d. b. harden, Domestic window-glass; Roman, Saxon and Medieval in. e. m. jope, Studies in building history: Essays in recognition of the work of B. H. St John O’Neil, London 1961, pp. 39 sgg. 10 I testi sono raccolti da m. l. towbridge in Philological Studies in Ancient Glass, University of Illinois, «Studies in Language and Literature», xiii, Urbana 1930, nn. 3-4. 11 Si tratta di una poesia sulla consacrazione del Frauenmünster, fondazione di Berta, figlia di Ludovico il Germanico, scritta dal monaco Ratpertus di San Gallo per il suo confratello Notkerus, pubblicata nelle «Mitteilungen der antiquarischen Gesellschaft in Zürich», viii, Beilage 9, p. 11. Cfr. oidtmann, Die Rheinischen Glasmalereien cit., p.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali 52. Sulle menzioni di vetrate in chiese dell’area germanica nei testi letterari si veda la inedita dissertazione di dottorato di h. m. von erffa, Die Verwendung des Glasfensters im frühen deutschen Kirchenbau, München 1951. 12 La Vita secunda sancti Liudgeri episcopi Monasteriensis è stata pubblicata da j. b. nordhoff (Die Ältere Glasmalerei, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», iii (1880), pp. 461 sgg.) dal manoscritto della fine dell’xi secolo esistente nella biblioteca di Berlino (ora a Tübingen). Cfr. il catalogo dell’esposizione Karl der Grosse, Aachen 1965, pp. 510 sgg. 13 richerii, Historiarum Libri, III, 23, in Monumenta Germaniae Historica, vol. III, 623, 23; cfr. oidtmann, Rheinischen Glasmalerei cit., p. 52. 14 La notizia si trova nella cronaca dell’abbazia di Saint-Benigne a Digione che arriva fino al 1052. Cfr. t. b. emeric-david, Histoire de la peinture au Moyen Age, Paris 1842, p. 79; oidtmann, Rheinischen Glasmalereien, cit. p. 54; j. lafond, Le Vitrail, Paris 19883, p. 23. 15 Cfr. Monumenta Germaniae Historica, Epistulae Selectae, tomo III, Berlin 1925, pp. 25 sgg. Questo testo, molto spesso citato, è stato pubblicato per la prima volta in b. petz e p. h. hüber, Thesaurus Anedoctorum, Wien 1729, vol. VI, parte I, p. 122, n. 3. Cfr. oidtmann, Rheinischen Glasmalereien cit., p. 53. lafond (Le Vitrail cit., p. 23) insiste sul significato di questa testimonianza, in cui vede una prova del «coup d’arrêt» subito dalla diffusione delle vetrate in seguito alle incursioni normanne. 16 j. pilloy, La châsse ou fierte de Séry-lès-Mézières, in Etudès sur d’anciens lieux de sepulture dans l’Aisne, Saint-Quentin 1886, vol. I, pp. 75-82; j. pilloy e e. socard, Le vitrail carolingien de la chásse de Sétylés-Mézières, in «Bulletin Monumental», 1910, pp. 5-25. Le vicende della vetrata di Séry-lès-Mézières e la bibliografia relativa sono analizzate da lafond in Le Vitrail cit., pp. 28 sgg. Cfr. anche l. grodecki, Le Vitrail Roman, Fribourg 1977, pp. 45 e 291. 17 Si veda f. gerke, Das Lorscher Glasfenster, in Beiträge zur Kunst des Mittelalters, Berlin 1950, pp. 186-92 e la scheda che ha dedicato a questa testa, di cui ha curato la ricostruzione, g. frenzel nel catalogo dell’esposizione Karl der Grosse Werck und Wirkung, Aachen 1965, n. 641, pp. 467 sgg. 18 grodecki, Le Vitrail Roman cit., p. 44. 19 y. rebeyrol, Saint-Denis à ciel ouvert, in «Le Monde», 14.6.1990, p. 26. 20 m. newby, Medieval Glass from Farfa, in «Annales du X Congrès de l’Association Internationale pour l’Histoire du Verre», Madrid-Segovia 1985, 1987, pp. 255-70. 21 r. becksmann, Das Schwarzacher Köpfchen. Ein ottonischer Glasmalereifund, in «Kunstchronik», xxiii (1970), pp. 3 sgg.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali Cfr. a. koch, Die Ausgrabungen am Dom zu Magdeburg, nel primo «Sondernummer des Montagsblatt der Magdeburger Zeitung» del 1926; h. wentzel, Meisterwerke der Glasmalerei, Berlin 19542, pp. 14 e 105; e. frodl-kraft, Die Glasmalerei, Wien 1970, p. 63. 23 Cfr. v. beyer, Les Vitraux des Musées de Strasbourg. Catalogue, Strasbourg 1965, pp. 11 sgg., frodl-kraft, Die Glasmalerei cit., p. 63; grodecki, Le Vitrail Roman cit., pp. 49-50. 24 v. mortet, Recueil de textes relatifs à l’histoire de l’architecture... en France..., Paris 1911, pp. 264-65. 25 Ibid., pp. 156-57. 26 «Valenti admodum viro et promptissimus huius artis et peritissimus»: ibid., p. 192. 27 o. lehmann-brockhaus, Schriftquellen zur Kunstgeschichte des 11 und 12 Jahrhunderts, Berlin 1938, n. 3104, pp. 715-16. 28 Cfr. Archives Historiques, Artistiques et Littéraires, t. I, 1889-90, p. 31. 29 Cfr. leo ostiensis, Chronicon Casinensis, libro III, capp. 27 e 34, in Patrologia Latina, t. 173, c0ll. 749, 765; oidtmann, Die Glasmalerei cit., p. 44 sgg.; lafond, Le Vitrail cit., pp. 26 sgg. e nota 26. 30 mortet, Recueil cit., p. 143. 31 d. b. harden, Roman window-panes from Jerash and later parallels, in «Iraq», vi (1939). 32 n. brosh, Glass Windows Fragments from Kirbet Al-Mafjar, in «Annales du IIe Congrès de l’Association Internationale pour l’Histoire du Verre», Basel 1988, Amsterdam 1990, pp. 247-50. 33 Sulla vetrata islamica cfr. h. g. franz, Neue Funde zur Geschichte des Glasfensters, in «Forschungen und Fortschritte», xxix (1955), pp. 3o6-12; id., Die Stuckfenster im Qasr al-Hairal-Gharbi, in «Wissenschaftliche Annalen», v (1956), pp. 465 sgg.; id., Die Fensterrose und ihre Vorgeschichte in der islamischen Baukunst, in «Zeitschrift für Kunstwissenschaft», x (1956), pp. 8 sgg.; id., Transennae als Fensterveschluss cit.; e. lambert, Vitraux de couleur dans l’art musulman du Moyen Age, in Mélanges d’histoire et d’archéologie de l’Occident Musulman, Alger 1958, vol. II, pp. 106 sgg.; lafond, Le Vitrail cit., pp. 13 sgg.; frodl-kraft, Die Glasmalerei cit., pp. 13 sgg.; grodecki, Le Vitrail Roman cit., pp. 38 sgg.; brosh, Glass Window Fragments, cit., pp. 247-56. 34 a. megaw, Notes on recent work of the Byzantine Institute in Istanbul, in «Dumbarton Oaks Papers», xvii (1963), pp. 333 sgg., particolarmente pp. 348 sgg. 35 e. kitzinger in «Dumbarton Oaks Papers», xx (1966), p. 33. 36 j. lafond, Découverte de vitraux historiés du Moyen Age à Constantinople, in «Cahiers Archéologiques», xviii (1968), pp. 231 sgg. Cfr. anche h. wentzel, in «Kunstchronik», xvii (1964), p. 326; l. gro22
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali decki, in «Bullettin Monumental», cxxiii (1965), pp. 82 sgg. e in Le Vitrail Roman cit. p. 39. 37 Anche e. kitzinger, in «Dumbarton Oaks Papers» cit., dopo aver sottolineato come i ritrovamenti di Costantinopoli possano suggerire un’origine bizantina per la tecnica della vetrata, riconosce che le grandi potenzialità della vetrata furono messe in valore solo in occidente.
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Capitolo ottavo Le vetrate del xii secolo
I piú antichi cicli di vetrate conservati, sia in Francia sia in Germania, appartengono al xii secolo. Il fatto che in due aree diverse le prime testimonianze monumentali superstiti siano pressoché contemporanee non è certo casuale, come non casuale è il fatto che allo stesso periodo, che fu quello di un generale e possente sviluppo di questa tecnica e dei suoi prodotti, appartenga il primo trattato tecnico sull’argomento, quello di Theophilus. Sembrerà strano che si conservino tante e tanto eccezionali testimonianze delle vetrate del xii secolo, mentre poco o niente sussiste del periodo precedente. Una ragione è che nel corso di quel secolo le volte in muratura sostituirono in modo crescente le precedenti coperture in legno, occasione di innumeri incendi con conseguenti rovinose perdite; ci si può chiedere tuttavia se, in qualche rara occasione, alcune delle vetrate che consideriamo del xii secolo non siano in realtà un po’ piú antiche. Molto vago infatti, tranne nei rari casi per cui esistono riferimenti storici precisi e controllabili, è il quadro cronologico che dovrebbe permettere di situare e strutturare nel tempo il panorama delle vetrate di quegli anni. Se da un lato le notizie che si trovano in cronache, in obituari o in altri testi non possono quasi mai essere riferite con sicurezza alle opere ancora esistenti in loco, non ci si può d’altra parte affidare con tran-
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quillità alle date di fondazione, di ricostruzione, di consacrazione dei singoli edifici per datare le vetrate che ancora vi si conservano. Ciò a causa degli incendi, delle distruzioni e di altri incidenti che sovente li devastarono e sulla cui portata non si hanno certezze, a causa altresí delle trasformazioni subite dalle chiese, dagli spostamenti e dalle sostituzioni che ebbero luogo in occasione della loro ricostruzione. È assai difficile stabilire se una vetrata ancora esistente in una chiesa debba o no essere vista in rapporto con questa o quella notizia tramandata dai testi, e i confronti stilistici con opere, magari in altre tecniche, sicuramente databili sono piú che mai necessari1. È evidente in ogni modo che nel xii secolo la produzione di vetrate abbia preso a svolgersi su scala molto piú vasta di quanto non fosse in precedenza, e che il sorgere e lo svilupparsi in questo tempo in Francia dell’architettura che chiamiamo gotica sia stato un elemento importante di questo sviluppo. La presenza di motivi iconografici e di soluzioni formali che sembrano derivare dalla Francia in vetrate tedesche pone poi il problema dei rapporti che dovettero intercorrere, nel corso della seconda metà del secolo, tra le aree culturali francesi e quelle germaniche. Si è affermato, e certo a ragione, che la differenza di destinazioni tra vetrate francesi e tedesche in questo periodo ha avuto conseguenze chiaramente avvertibili: mentre le prime erano create in funzione dei primi edifici gotici e concepite per le finestre piú ampie del nuovo stile, che ne imponevano dimensioni e forma conferendo loro qualità monumentali, le altre erano destinate alle limitate aperture di edifici romanici, la cui funzione e il cui rapporto con la superficie muraria, radicalmente diversi da quelli che nell’architettura gotica intercorrevano tra finestre e pareti, non solo ne limitavano le dimensioni, ma ne determinavano il carattere prezioso e ricercato. E tuttavia que-
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sto fatto è importante ma non determinante: la massima parte delle vetrate prodotte in questo secolo fu creata per edifici romanici; la differenza tra vetrate francesi e tedesche non va dunque cercata esclusivamente nel rapporto con l’architettura. Troviamo impiegate nel xii secolo formule che rimarranno valide per il futuro: vetrate a grandi personaggi per le finestre alte (cattedrali di Augusta e di Canterbury, abbaziale di Saint-Remi a Reims), grandi composizioni di impianto monumentale consacrate a episodi chiave del Nuovo Testamento (Crocifissione di Poitiers, Ascensione di Le Mans e cosí via), vetrate spartite in medaglioni dedicati a storie evangeliche, a scene della vita di un santo, o ancora a confronti tipologici tra episodi del Nuovo e dell’Antico Testamento.
Saint-Denis. Uno dei gruppi piú ricchi e rappresentativi, sia da un punto di vista iconografico sia da quello stilistico, sono le vetrate – conservate purtroppo solo molto parzialmente – della chiesa abbaziale di Saint-Denis, che permettono di iniziare il discorso sul xii secolo con un preciso punto di riferimento cronologico, anche se non sono certo queste le vetrate piú antiche appartenenti a tale periodo. Tra il 1140 e il 1144-47 ne venne eseguito, su commissione dell’abate Suger, un cospicuo gruppo per decorare le parti ricostruite della chiesa abbaziale, in particolare il deambulatorio del coro e le sue cappelle. Le gravi vicende che l’antica chiesa, tradizionalmente legata alle dinastie regnanti sulla Francia che ne avevano fatto il loro luogo di sepoltura, traversò nel periodo rivoluzionario fecero sí che non molto ci sia stato conservato della sua decorazione vitrea. Quanto di essa
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rimane venne in parte profondamente modificato dai restauri ottocenteschi, in parte allontanato e disperso in luoghi diversi. Smontate dalla loro collocazione originaria e trasportate al Musée des Monuments Français nel 1799, e qui distribuite e accostate2 secondo una regia che mirava a effetti pittoreschi (un quadro del 1817 di Charles Marie Bouton nel museo di Bourg-en-Bresse presenta la Follia di Carlo VI ambientata nella sala del xiv secolo del museo, dove due pannelli con i grifoni provenienti da una delle vetrate di Suger a Saint-Denis sono accostati a una vetrata del cinquecento con la Pietà)3, ritrasportate e rimontate nella chiesa nel 181718 dopo la chiusura, al tempo della Restaurazione, del museo, sottoposte quindi a radicali e pesanti restauri (prima del 1846 sotto la direzione dall’architetto Debret, quindi sotto l’egida di Viollet-le-Duc), molte parti ne andarono distrutte e perdute, molte vendute e oggi disperse in collezioni e musei francesi, inglesi e americani o in chiese e in cappelle dove gli acquirenti le vollero depositare4. Tuttavia quanto ancora rimane, o è documentato da disegni o altre testimonianze grafiche, è stato laboriosamente identificato e recensito, tanto da permettere di restituire almeno una parte della grande impresa di Suger e di riscontrare sui testi figurativi quanto egli evoca e descrive nei suoi scritti. Di quattro delle sette cappelle che si aprono sul deambulatorio, ognuna illuminata da due finestre, Louis Grodecki ha restituito il programma: al centro, nella cappella della Vergine, L’albero di Jesse e la vetrata con l’infanzia di Cristo (quest’ultima ben ricostruita da Michael W. Cothren)5, di cui in loco rimangono l’Annunciazione con l’immagine del donatore prosternato e la Natività, mentre altri frammenti si trovano in Inghilterra a Glasgow (Il profeta Geremia), nelle chiese di Twycross e Wilton, nella cappella di Raby Castle, al Victoria and Albert Museum, in Francia nel deposito dei Monuments Histo-
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riques di Champs e negli Stati Uniti nel Glencairn Museum a Bryn Athyn presso Filadelfia. In un’altra, prossima a questa, erano le due vetrate allegoriche diffusamente descritte da Suger, quella che si apre con la scena del mulino dove san Paolo riduce in farina, scartandone la crusca, il grano portatovi dai profeti, e quella con storie di Mosè, la meglio conservata; in una terza cappella due vetrate dedicate alla Passione con un commento tipologico, dove a ogni episodio evangelico venivano confrontate una o piú scene dell’Antico Testamento (di queste vetrate rimane in loco una splendida scena del Signum Tau secondo la visione di Ezechiele); in una quarta cappella, infine, due vetrate «storiche» ispirate a episodi della prima crociata e al viaggio di Carlo Magno in Terra Santa, che nel settecento furono disegnate da Montfaucon per i suoi Monumens de la Monarchie Françoise, e di cui due frammenti si trovano oggi nel Glencairn Museum di Bryn Athyn6. Altrove si trovavano finestre con la vita di san Benedetto (frammenti se ne conservano al Musée de Cluny a Parigi, nella chiesa di Saint-Léonard a Fougères, e, in Inghilterra, nella chiesa di Twycross e nel castello di Highcliffe) e con storie di san Vincenzo, e vetrate monocrome decorate con figure di grifoni (frammenti di queste restano nelle finestre della prima cappella nord del deambulatorio). L’abate Suger, pensatore e uomo d’azione, politico nato, grande costruttore e supposto padre spirituale del nuovo stile gotico7, ordinò le vetrate a maestri che aveva fatto convergere a Saint-Denis da diversi luoghi, ne dettò il programma e dovette sorvegliarne da vicino l’esecuzione. Su tre aspetti di esse si sofferma particolarmente nei suoi scritti: sull’originalità del messaggio iconografico, sulla splendida e costosa materia, sulla qualità dell’esecuzione, cui misero mano maestri «di differenti nazioni».
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Sul significato e le novità del loro programma iconografico si è discusso molto, da Emile Mâle a Erwin Panofsky, a Louis Grodecki, mettendo in evidenza l’importanza e la straordinaria ricezione europea della vetrata con l’albero di Jesse e la singolarità, ma nello stesso tempo la scarsa fortuna a causa della difficoltà delle soluzioni adottate, delle vetrate «anagogiche» e tipologiche8. Sulla loro materia, particolarmente esaltata dal committente nel caso di certi vetri azzurri «dalla materia di zaffiro», ritornò a riflettere Louis Grodecki, dopo che lo smontaggio, reso necessario dalle sue gravi condizioni, della vetrata della vita di Mosè nel 1976 gli aveva permesso un esame ravvicinato dei vetri, concludendo che la qualità del materiale era «molto bella, ma non eccezionale»9. Gli studi di Louis Grodecki e quelli successivi hanno distinto varie tendenze, atelier o gruppi di maestri che hanno lavorato al programma. Un primo atelier che ha eseguito la vetrata con l’Albero di Jesse proveniva forse dalla Borgogna, come starebbero a provare i rapporti che per quest’opera sono stati proposti con sculture e miniature borgognone10; un altro atelier, quello principale, doveva essere originario dell’Ile de France. Questo atelier ha dipinto la massima parte dei frammenti rimasti, le vetrate dell’infanzia di Cristo, di san Vincenzo, del pellegrinaggio di Carlo Magno e della prima crociata, nonché le due vetrate i cui resti mostrano maggiore raffinatezza, quella con il mulino di san Paolo e quella delle storie di Mosè, mentre un altro atelier, verisimilmente di provenienza mosana, si manifesta con tratti di eccezionale qualità nella scena del Signum Tau appartenente alla distrutta vetrata tipologica della Passione; un altro ancora, piú andante, corsivo e ripetitivo nei modi, con figure allungate che richiamano miniature provenienti da scriptoria normanni, è responsabile dei frammenti con la vita di san Benedetto11.
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In quello che è stato chiamato l’atelier principale, in cui hanno lavorato diversi maestri (il che spiega gli sbalzi di qualità), è chiara la tendenza verso un’esecuzione piú attenta ai valori decorativi che ai risultati monumentali. Certi frammenti evocano la propensione, frequentemente espressa da Suger, per la materia eletta e la raffinatissima esecuzione propria alle arti suntuarie. L’abate di Saint-Denis aveva fatto lavorare per sé i piú grandi orafi del suo tempo, commissionando loro oggetti di pregio singolarissimo12. Se mettiamo in rapporto l’apprezzamento che egli esprime per la qualità dell’esecuzione e la elezione della materia, e il culto della luce fondato su basi religioso-filosofiche ed estetiche tante volte professato, comprendiamo quale fosse il genere di vetrata che doveva piacergli. La sua incondizionata ammirazione per il carattere prezioso dell’oggetto, il suo entusiasmo per l’arte dei tesori ecclesiastici si vorrebbero dire fondamentalmente romanici, mentre il suo interesse per la luce ha invece conseguenze piú innovatrici per la luminosità dell’edificio e i mezzi impiegati per ottenerli. Egli intende bene gli aspetti fondamentali del nuovo stile architettonico messo in opera dal maestro cui aveva affidato il progetto del coro nuovo della chiesa abbaziale e non cessa di lodare la straordinaria luminosità che pervadeva la nuova costruzione nella cui aerea architettura, non prima sperimentata, le vetrate hanno una funzione ben precisa. D’altra parte esse non hanno niente della radicale stilizzazione romanica che troviamo nelle vetrate dell’occidente e del centro della Francia, e testimoniano invece di uno stile meno violentemente espressivo e trasfigurante, piú equilibrato, che fu proprio alla Francia settentrionale.
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Chartres. Le vetrate commissionate da Suger per Saint-Denis trovarono una eco immediata in quelle della cattedrale di Chartres. Non molto rimane della invetriatura dell’antica cattedrale del vescovo Fulberto, consacrata nel 1031 e distrutta da un incendio nel 1194, ma le tre finestre della facciata occidentale scampata alla catastrofe contengono quelle che probabilmente sono le piú celebri vetrate francesi del xii secolo. Malgrado gli estesi rifacimenti e restauri cui sono state sottoposte nel corso del tempo, particolarmente nel quattrocento e nel secolo scorso, esse hanno mantenuto il loro aspetto e la loro collocazione primitiva. Un recente intervento di pulitura e di consolidamento, portato avanti tra il 1973 e il 1976, ha permesso il recupero di quella gamma cromatica chiara e splendente che con l’opacizzarsi dei vetri era andata perduta13. Si tratta di tre finestre: la piú grande, posta centralmente, con storie dell’infanzia di Cristo, le due altre con l’albero di Jesse e con le storie della Passione lateralmente. Se l’albero di Jesse deriva direttamente, se pure con modificazioni, dal modello dionisiano, e se quella dell’infanzia di Cristo, impostata secondo una sequenza storica, presenta con la vetrata dello stesso soggetto a Saint-Denis notevoli rapporti, diverso è il caso della vetrata con storie della Passione, dove il programma tipologico di Suger è stato abbandonato in favore di una sequenza narrativa degli avvenimenti. La loro datazione deve porsi attorno al 1150-55, in un tempo immediatamente successivo a quello delle vetrate di Saint-Denis.
La Francia occidentale Le vetrate piú importanti e significative dell’ovest si trovano a Le Mans, Angers, Vendôme e Poitiers.
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Le Mans era nel xii secolo un centro di grande importanza, culla della dinastia plantageneta che regnerà sull’Inghilterra e, per un certo tempo, su gran parte della Francia. La cattedrale, dedicata a san Giuliano, venne costruita al posto di una chiesa carolingia che era stata eretta verso l’840. L’edificazione del nuovo edificio ebbe inizio negli anni intorno al 1060 sotto l’episcopato dei vescovi Vulgrin (1053-65), che era stato abate di Saint-Serge di Angers, Arnaud (1065-81), Hoel (108196) e Hildebert de Lavardin (1097-1125). Quest’ultimo, celebre intellettuale e scrittore, aveva fatto appello come direttore dei lavori al monaco Jean dell’abbazia della Trinité di Vendôme14. La consacrazione della cattedrale nel 1158 avvenne in presenza del conte del Maine Foulque V, padre di Goffredo Plantageneto. Coperta da un soffitto di legno, la chiesa venne per due volte, nel 1134 e intorno al 1136-37, devastata da incendi, di cui l’ultimo in particolare bruciò il tetto che era ancora quello di paglia postovi provvisoriamente dopo la prima catastrofe, distruggendo con esso alcune – o tutte – le vetrate (cum fenestris vitreis concremavit). Il vescovo Hugues de Saint-Calais decise allora di coprirla di una volta in pietra, e la cattedrale fu terminata sotto l’episcopato di Guillaume de Passavant (1144-86) e consacrata il 28 aprile 1158 (una data 1145 si legge sul pilastro sud-ovest del deambulatorio). Appartiene a questa fase il portale a statue-colonne del fianco meridionale. Le vetrate romaniche, oggi situate nelle navate laterali, risalgono, almeno per la massima parte, al tempo di questo prelato; tuttavia gli Atti che illustrano le imprese dei vescovi della diocesi parlano di vetrate più antiche in relazione alla committenza di vescovi precedenti. Sono questi, sullo scorcio dell’xi secolo, Hoel, di cui si ricorda la sontuosa varietà delle vetrate erette nel coro e nel transetto15, e, all’inizio del xii, Hildebert de Lavardin, di cui si menzionano le vetrate fatte per la sala
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capitolare16 e al cui tempo era membro del capitolo un maestro vetrario, tale Guillelmus, vitrearius, canonicus Beati Juliani, che lasciò ai poveri e alla cattedrale i proventi della vendita della casa «che aveva costruito con il frutto del lavoro delle sue mani». Ci si può domandare se tutte le vetrate commissionate per la cattedrale da Hoel (di cui abbiamo sicura testimonianza), e probabilmente da Hildebert de Lavardin, siano andate distrutte nei due incendi successivi avvenuti negli anni trenta del xii secolo, o se le piú antiche vetrate della cattedrale siano precedenti a Guillaume de Passavant, che, secondo gli Atti dei vescovi di Le Mans, ebbe al suo servizio un pittore dalle straordinarie capacità. Questi aveva ricevuto dal vescovo tre importanti commissioni per il palazzo episcopale: quella di una camera illuminata da vetrate in cui, secondo l’antico topos, materiam superabat opus, di una cappella splendidamente decorata di pitture (ma non è chiaro se su vetro o su muro), e di una sala prossima alla cappella dove le vetrate erano di tale qualità da superare quanto aveva già fatto in precedenza. Tra le vetrate romaniche oggi superstiti nella cattedrale la piú celebre è la mutila Ascensione, uno dei capolavori della pittura romanica in Francia, con le alte figure degli apostoli parossisticamente contorte in un apice di espressività, un’opera che dialoga con i prodotti dei grandi scultori visionari di Souillac o di Moissac. Fin da quando venne ritrovata da Henri Gérente, uno dei piú raffinati artefici del revival ottocentesco della vetrata, in mezzo ad altri frammenti piú recenti con cui era confusa, suscitò grande interesse e accese vivaci discussioni. Considerata dell’xi secolo da Gérente, venne studiata e riprodotta da Parker in un numero di «Archaeologia»17, discussa da Pallu nel «Bulletin Monumental» e dal Du Sommerard18, e fedelmente riprodotta da un calco in formato originale nell’opera di Eugène
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Hucher19. La datazione che spesso le si attribuisce si situa verso il 1145-50, ma, con ogni probabilità, potrebbe essere un poco anteriore. Essa è in stretto rapporto con la contemporanea miniatura dell’ovest, dal Sacramentario di Saint-Etienne di Limoges (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms Lat. 9438) alla Vita di Santa Radegonda, (Biblioteca di Poitiers, ms 250). A parte questo celebre esempio, la cattedrale conta molte altre vetrate che si scalano su tutta la seconda metà del xii secolo, e talune di esse sono di eccezionale qualità e importanza. Cinquantadue pannelli di vetro provenienti da quindici finestre diverse vennero infatti reimpiegati nel 1901-905 in nove finestre delle navate laterali e in tre della facciata occidentale. Nel corso del xii secolo vi lavorarono in tempi successivi diverse maestranze. Il primo atelier, più antico, fu forse guidato da quel Guillelmus vitrearius canonico della cattedrale, ed è autore dell’Ascensione, eseguita probabilmente prima del grave incendio del 1134, e del Sogno dei re Magi. Altri pannelli con San Pietro condotto fuori della prigione e Pilato che si lava le mani, generalmente attribuiti a questo atelier, sono forse un poco più tardi. Le Storie di santo Stefano, i cui modi sono assai diversi da quelli dell’Ascensione, sono opera di un altro atelier, composto da maestri che furono qui attivi probabilmente verso il 1155 e il 1165 dopo aver lavorato a Chartres, e che fu probabilmente diretto dal pittore del vescovo Passavant magnificato negli atti vescovili. L’attività di un ulteriore atelier ancora diverso dai precedenti è stata poi ipotizzata sulla base delle Storie di sant’Ambrogio, di san Vitale, di santa Valeria (circa 1175-90), che presentano rapporti con miniature provenienti dallo scriptorium di Mont-Saint-Michel20. Una delle piú celebri vetrate romaniche dell’ovest, di impostazione e di scala monumentale, è la Crocifissione della cattedrale di Poitiers. Il coro della chiesa è chiuso
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da una parete rettilinea animata da una finestra alta piú di otto metri contenente una vetrata donata probabilmente da Enrico II Plantageneto ed Eleonora d’Aquitania tra il 1162 e il 1175. Si tratta di una colossale costruzione fitta di personaggi, splendida nell’intensa gamma cromatica, nei potenti accordi di rossi, di azzurri, di verdi, di gialli, romanica negli schemi rappresentativi, nella violenta e deformante espressività, nell’horror vacui, nell’ampio bordo decorato21. Forti sono i rapporti con la piú antica Ascensione di Le Mans, ma i personaggi della Crocifissione sono più massicci, meno tormentati, assottigliati, agitati. Per rimanere ancora nella regione occidentale della Francia, altre opere importanti sono ad Angers, dove la cattedrale, che ha visto succedersi grandi personalità di vescovi quale Ulger (1125-48), singolare figura di intellettuale, conta alcune vetrate romaniche, oggi nelle finestre settentrionali della navata, di notevole interesse. Sono forse state donate dal canonico Hugues de Chamblancé (morto verso il 1170), che, come abbiamo visto nel terzo capitolo, aveva fatto sostituire con vetrate le antiche chiusure in legno delle finestre della cattedrale. Tra queste, la vetrata con storie dell’infanzia di Cristo con la bellissima scena dell’Annunciazione (verso 114555), ma la chiesa conserva anche cicli piú tardivi (verso il 1180-90) con storie di san Vincenzo, storie di santa Caterina eccetera, particolarmente innovatori nella organizzazione e nella impaginazione delle finestre e nella spartizione in medaglioni22. Una splendida ed elegantissima vetrata di questo periodo, la Vergine entro una mandorla portata da due angeli in basso e incensata da altri due alla sommità, è conservata nella chiesa abbaziale della Trinité di Vendôme23. Questa venne fondata nel 1032-35, consacrata nel 1040, e si ricorderà come ai tempi del vescovo Hildebert de Lavardin, attraverso l’attività di un monaco costrut-
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tore, il monastero abbia avuto stretti contatti con Le Mans. Ricostruito l’edificio, a partire dalla fine del xiii secolo, la vetrata romanica venne conservata e riadattata nelle nuove strutture, un caso di conservazione e reimpiego di una vetrata piú antica analogo a molti altri in cui vetrate romaniche vennero conservate, e di cui l’esempio piú celebre fu quello di Notre-Dame de la BelleVerrière nella cattedrale di Chartres. Dall’esame delle piú antiche vetrate di Le Mans, Poitiers, Angers e altre esistenti nella regione o di qui provenienti, come la Crocifissione di Chemillé-sur-Indrois molto vicina all’Ascensione di Le Mans, la Maestà di Vendôme, la Madonna di Ferrières (Loiret) oggi a Copenaghen, o le vetrate di Chenu oggi a Rivenhall in Inghilterra, si avverte bene come le vetrate dell’ovest, i cui centri ebbero tra loro in questo periodo rapporti assai stretti, appartengano alla corrente piú espressiva, agitata, deformata, strenuamente stilizzante dell’arte romanica, e con ciò testimonino di una tendenza profondamente diversa da quella piú aulica, controllata e serena avvertibile a Saint-Denis o a Chartres.
Il centro e il sud della Francia. Nella zona centrale e sud-orientale della Francia il prevalere di elementi stilistici bizantineggianti giunti in vario modo dall’Italia si manifesta nelle vetrate come nelle pitture murali o nelle miniature. L’opera meglio conservata e del tutto eccezionale si trova in Delfinato, non lontano da Grenoble, ed è la splendida vetrata dell’Ascensione, oggi nella chiesetta di Champ-près-Froges, verisimilmente proveniente dal vicino priorato benedettino di Domène24. In quest’opera il disegno del fondo dei medaglioni, impreziosito da una elaborata decorazione, rivela affinità davvero singolari con i resti di
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vetrate trovati a Costantinopoli e con certe opere tedesche. Forse da quest’area provengono alcuni medaglioni reimpiegati nel settecento da Guillaume Brice nella rosa sud di Notre-Dame di Parigi. Altri gruppi di vetrate del medesimo momento e della stessa tendenza si trovano nella cappella di Saint-Pierre della cattedrale di Lione25 e nella cattedrale di Clermont-Ferrand26, dove una ventina di pannelli romanici, eseguiti in tempi differenti e che mostrano rapporti con le miniature eseguite in scriptoria della regione nella seconda metà del xii secolo27, sono stati reimpiegati nelle finestre della cattedrale gotica e sono ora raggruppati nelle finestre della quarta cappella nord del deambulatorio.
L’est della Francia. Sensibili legami uniscono le vetrate dell’est, e in particolare alcune che erano state fatte per l’antica cattedrale di Chalôns-sur-Marne28, agli smalti mosani del xii secolo, e si manifestano sia a livello compositivo nell’impaginazione dei medaglioni, sia a livello stilistico nella rappresentazione dei personaggi e delle scene. Il programma iconografico dei frammenti superstiti delle vetrate della cattedrale romanica di Châlons-sur-Marne è molto complesso. Esse sono databili nel decennio intercorso tra l’incendio del coro della chiesa (1138) e la consacrazione del nuovo coro (bruciato a sua volta nel 1230), che ebbe luogo nel 1147, piú o meno contemporaneamente alla consacrazione di Saint-Denis di Suger, da parte di papa Eugenio III. I pannelli vennero reimpiegati con modificazioni nelle finestre della nuova cattedrale gotica, e la loro originale destinazione è stata ipoteticamente ricostruita in occasione degli ultimi restauri. In quella che dovette essere stata una vetrata tipologica della Redenzione, la composizione centrale pren-
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deva posto entro un quadrilobo al cui centro era la Crocifissione con intorno le parole: Quod vetus intulit alter Adam intulit in cruce fixus, che alludono al programma tipologico. Sopra la Crocifissione era l’immagine della Chiesa, in basso quella della Sinagoga, a sinistra il Sacrificio di Abramo, a destra l’Elevazione del serpente di bronzo. Dalla medesima vetrata dovevano provenire i pannelli con il Re David, il Profeta Osea, l’Uva di Canaan, la Visione di Ezechiele sul Signum Tau, Giobbe che pesca il Leviatano e la Vedova di Sarepta. Un programma di questo tipo è sovente presente nelle opere degli orafi mosani, ma quello della vetrata di Châlons-sur-Marne è particolarmente vasto, tanto che Louis Grodecki lo ha addirittura definito il piú ampio tra i cicli tipologici mosani prima di quello ricchissimo ed elaborato dell’Ambone di Klosterneuburg di Nicolas de Verdun29. Per molti aspetti, compositivi, iconografici e stilistici, questa vetrata, ricomposta, dovette esser prossima alla tavola, un poco posteriore, dell’Altare di Stavelot (1155-65, Bruxelles, Musées Royaux), che ha al suo centro un medaglione quadrilobo in cui, sopra la reliquia, è un pezzo di cristallo di rocca circondato da raffigurazioni dell’Ecclesia, della Sinagoga, di Giona e di Sansone e tutt’intorno quattro scene altotestamentarie tra cui l’Elevazione del serpente di bronzo, il Sacrificio di Isacco e sei scene della Passione. Sui lati dell’altare, sorretto dalle raffigurazioni dei quattro evangelisti, sono scene del martirio dei dodici apostoli. Un’altra opera mosana che può essere paragonata alle vetrate di Châlons-sur-Marne è il Piè di croce di Saint-Omer, proveniente dall’abbazia di Saint-Bertin, ed è possibile anche qualche confronto con il Reliquiario di Santa Gundulf (Bruxelles, Musées Royaux). Completamente estranee alle ricerche espressive e deformanti dell’ovest, le vetrate di Châlons-sur-Marne non sono neppure collocabili nell’ambito di quelle
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influenze bizantine che si avvertono nelle vetrate della regione lionese, ma testimoniano, piuttosto, di una sorta di classicismo, di una ricerca di equilibrio e di armonia tipiche della cultura mosana, che avrà un ruolo fondamentale nella nascita dell’arte gotica. A questa tendenza si rifanno anche una serie di frammenti di eccezionale qualità, attualmente sparsi tra vari musei (particolarmente il Musée de Cluny, il Victoria and Albert, il Metropolitan), che si pensava dovessero provenire dall’antica cattedrale di Troyes ma che forse vengono dalla chiesa attigua al palazzo dei conti di Champagne, e che furono reimpiegati nelle finestre della nuova cattedrale gotica e allontanate da queste in occasione di restauri30. La chiesa abbaziale di Saint-Remi a Reims è un monumento stupefacente, che unisce a una navata romanica un coro arioso e luminoso fatto costruire dall’abate Pierre de Celle (1162-81). Si tratta di un capolavoro della prima architettura gotica31, che con i suoi tre piani sovrapposti di finestre invetriate propone un’immagine impressionante della Gerusalemme Celeste. Le sue vetrate furono eseguite in tempi diversi, tra il 116o circa e il 12oo, e sono state molto danneggiate da alcuni antichi restauri, da spostamenti e dalle distruzioni particolarmente severe causate dalla prima guerra mondiale. Esse sviluppano un programma molto complesso in cui si intrecciano diversi temi; tra questi particolare importanza ha quello regale, legato al rapporto strettissimo che l’abbazia aveva avuto con la monarchia francese. Essa era sorta sulla tomba del vescovo di Reims che aveva battezzato il primo re francese e conservava la Sacra Ampolla per l’unzione dei monarchi. Proprio per sottolinearne il ruolo politico, l’abate Odo (1118-51) aveva fatto elevare nella sua chiesa monumenti funebri agli ultimi re carolingi32. Un altro programma che si svolge in una serie di immagini di vescovi e arcivescovi
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di Reims seduti, sormontati da profeti o apostoli, esalta l’istituto sacerdotale. Sviluppando in senso gotico e monumentale certi elementi delle vetrate di Châlons-sur-Marne, il ciclo di Saint-Remi arriva a occupare una posizione di punta al tramonto del xii secolo e pone le basi di un nuovo linguaggio, strettamente apparentato con quello della giovane scultura gotica33.
L’Inghilterra. Le vetrate inglesi di questo periodo ancora conservate appartengono agli ultimi decenni del secolo; precedentemente si hanno testimonianze scritte che provano l’esistenza di vetrate in alcune chiese34 e qualche opera, come il San Michele arcangelo della parrocchiale di Dalbury, la cui datazione è tuttavia soggetta a discussione35. Alla fine del xii secolo risalgono alcuni vetri della cattedrale di York eseguiti per lo piú al tempo di Roger di Pont-l’Evêque, che fu arcivescovo della città tra il 1154 e il 1181 e ricostruí il coro della chiesa36. Tra essi sono un frammento di un albero di Jesse prossimo come impaginazione alle vetrate di analogo soggetto di Saint-Denis e di Chartres, nonché alcune scene (episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, storie di san Nicola e di altri santi) e molte parti di bordi provenienti da diverse finestre. Quanto resta delle vetrate del xii secolo della cattedrale di York mostra elementi comuni con vetrate del nord della Francia (Saint-Denis, Chartres, Saint-Remi a Reims), ma anche stretti rapporti con oreficerie, miniature e sculture inglesi della fine del xii secolo, tanto da poter assegnare un’origine insulare ai loro autori. Uno splendido gruppo di vetrate di questo periodo, estremamente piú consistente e meglio conservato di quanto non fosse il caso a York, è nella cattedrale di
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Canterbury, ricostruita nel nuovo stile gotico dopo l’incendio del 1174 sotto la direzione prima di un capomaestro francese, Guillaume de Sens, quindi di un inglese, conosciuto come William the Englishman. Il nuovo coro era terminato nel 118o e poco dopo lo furono la cripta e altre parti orientali del complesso. L’ampio programma iconografico dell’edificio comprendeva nelle finestre alte della claire-voie una serie di grandi figure di antenati di Cristo (piú di ottanta, di cui ne restano trentacinque), che cominciava con Adamo e doveva terminare con la Vergine, e un imponente numero di finestre tipologiche e narrative, dedicate queste ultime alle leggende di alcuni santi. I lavori alle vetrate della chiesa si protrassero per quasi una cinquantina d’anni, dal 11758o al 122o, quando vi furono traslate le reliquie di san Thomas Becket. Vi si riconoscono fasi stilistiche diverse, dal linguaggio tardoromanico agitato e veemente all’equilibrio dello stile 12oo, alla pungente e nervosa eleganza del primo gotico. Margaret Harrison Caviness37 ha proposto di riconoscervi le mani di maestri diversi, operosi in tempi successivi ma sempre all’interno di un medesimo atelier in cui motivi, modelli, schemi, formule venivano trasmesse nel tempo. Il piú antico di questi maestri sarebbe stato il Maestro di Matusalemme (Methuselah Master), autore di alcune delle impressionanti immagini degli antenati di Cristo; quindi il Maestro della Parabola del Seminatore, il Maestro dell’Albero di Jesse, il Maestro di Petronella, cosí chiamato dal nome di un personaggio di una vetrata dedicata ai miracoli di san Thomas Becket nel deambulatorio della Trinity Chapel, probabilmente di origine francese, e altri ancora. Gli scambi con la Francia sarebbero stati frequenti e numerosi, e sempre la Caviness38 ha messo in luce gli stretti rapporti che uniscono alcune delle vetrate di Canterbury dovute al Petronella Master con quelle di Saint-Remi a Reims e con quelle, oggi disperse in vari
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luoghi, della chiesa abbaziale di Braine, mentre sugli inizi del duecento saranno chiari i rapporti tra certe vetrate di Canterbury e alcune vetrate della cattedrale di Sens39.
Vetrate romaniche in Germania. I tratti che in certe vetrate francesi dell’est annunciano già lo stile pittorico gotico non si manifestano in Germania e, poiché saranno questi tratti che anche qui finiranno gradualmente per prevalere, ciò comporta che, diversamente da quanto si dà in Francia, è difficile tracciare per la vetrata tedesca una linea di sviluppo continuo che permetta di collegare direttamente le esperienze della fine del xii e quelle del xiv secolo. Del resto, rispetto alla Francia le testimonianze conservate sono in numero minore e spesso in stato assai piú frammentario, tanto da non consentire di tracciare un quadro complessivo sufficientemente completo e organico. Un elemento del massimo interesse è la corrispondenza, chiaramente avvertibile, tra certi espedienti tecnici, certi modi di lavorazione e certe forme decorative descritti da Theophilus e alcune vetrate germaniche.
I profeti di Augusta. Il piú antico ciclo tedesco di vetrate, e di fatto il piú antico ciclo superstite di vetrate nell’Europa intera (attualmente viene generalmente accettata una datazione all’inizio del xii secolo o alla fine dell’xi, non molto posteriore alla consacrazione della cattedrale che ebbe luogo nel 1065), è quello della cattedrale di Augusta che conta cinque figure: Davide, Daniele, Giona, Osea e Mosè (ma quest’ultima è per la massima parte uno
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straordinario rifacimento del xvi secolo), di dimensioni monumentali e in ottimo stato di conservazione, resti di una serie di profeti che originariamente trovò posto nelle finestre alte della navata sul lato sud, fronteggiando altrettante immagini di apostoli (in tutto originariamente ventidue figure) in un programma che sottolineava la concordanza tra il Vecchio e il Nuovo Testamento. La presentazione frontale, la fissità dello sguardo e una certa sommarietà del segno permettono di scorgere qualche rapporto tra queste opere e la Testa di Wissembourg conservata a Strasburgo, verisimilmente piú antica ed estremamente piú sommaria. La gamma cromatica ricca in gialli, rossi, verdi e relativamente povera di blu è assai diversa da quelle delle piú antiche vetrate francesi di Le Mans o di Poitiers, e da queste molto differisce il sistema del panneggio, qui composto e solenne, là agitato ed espressivo. Prossimo a questo fu forse il ciclo di vetrate della cattedrale di Spira, oggi non piú conservato40.
L’opera di Gherlacus. Un altro consistente gruppo di vetrate del xii secolo in Germania, appartenente a un momento piú tardo, è quello che porta la firma e l’autoritratto di Gherlacus e deve essere stato eseguito verso a 115o-6o. Esso proviene dall’abbazia premostratense di Arnstein sulla Lahn fondata nel 1139 e consacrata nel 12o6, venne acquistato nel 1815 dal barone Heinrich Friedrich Karl von und zu Stein per il suo castello di Nassau ed è oggi in deposito al Westfalisches Landesmuseum di Münster. Secondo Rüdiger Becksmann le vetrate del coro di Arnstein erano in origine cinque, una centrale con l’albero di Jesse, due laterali con storie di Mosè e forse di Sansone, due, prossime alla centrale, con episodi della Pas-
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sione. In tutto quindici pannelli. Di questi ne rimangono oggi cinque: tre della vita di Mosè – Il roveto ardente, Mosè e Aronne con la verga fiorita, Mosè riceve le tavole della legge – e due provenienti dalla vetrata con un abbreviato albero di Jesse che doveva esser stata fatta per la finestra assiale del coro: Il patriarca Jesse addormentato con il re Davide tra i rami dell’albero e il Cristo tra i sette doni dello Spirito Santo; non è stato conservato il pannello centrale che doveva contenere la figura della Vergine. Rispetto alla iconografia dionigiana mancano i profeti; quanto ai re, antenati di Cristo, essi si riducono al solo David. L’autoritratto di Gherlacus con l’iscrizione che prega il Signore, non a caso invocato come rex regum, re dei re, di essergli propizio, si trovava probabilmente non al suo posto attuale, sotto la scena del roveto ardente, bensí in basso a una delle scene della Passione, oggi sparite ma la cui esistenza è stata ipotizzata, accompagnato forse, su un’altra finestra, dal ritratto del donatore, Ludovico III di Arnstein, che nel 1139 aveva fondato il monastero. A Gherlachus veniva attribuita anche una bellissima Crocifissione, già al Kunstgewerbemuseum di Berlino e distrutta nel 1945. Queste vetrate mostrano una singolare esuberanza decorativa che ne costituisce una autentica caratterizzazione: fondi riccamente ornati a racemi, interventi fittissimi effettuati per asportare la grisaille con una punta di ferro o con il manico del pennello per far bene risaltare le tonalità chiare del vetro sottostante, bordi larghi, multipli con fogliami, meandri, spirali, perline, iscrizioni. È possibile che l’origine della cultura figurativa di Gherlacus debba situarsi nella zona del Medio-Reno, intorno a Coblenza41, e non nell’area mosana come pure era stato proposto42. La sua influenza è stata avvertita in molte opere renane della seconda metà del xii secolo, a Metz (dove gli è stata avvicinata la piccola Crocifissione di Sainte-Ségolène, assai interessante
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seppure molto meno raffinata dei vetri di Arnstein) e a Strasburgo dove, secondo Paul Frankl, Gherlacus avrebbe diretto in età matura l’atelier dei maestri vetrari43.
La cattedrale di Strasburgo. Legate a un certo carattere aulico con forti accenti bizantineggianti – gli stessi che si ritrovavano nelle splendide illustrazioni del manoscritto, distrutto nel 1870, dell’Hortus Deliciarum, opera enciclopedica scritta tra il 1175 e il 1195 da Herrade de Landsberg, badessa del monastero femminile di Mont-Saint-Odile (Hohenburg) – sono alcune vetrate alsaziane, soprattutto quelle del xii e degli inizi del xiii secolo della cattedrale di Strasburgo44. Esse vennero confezionate per una chiesa ottoniana, trasformata quindi in edificio gotico e radicalmente risistemata nel xix secolo, periodo in cui subirono ulteriori danni per il bombardamento della città nel 1870. La cattedrale era stata costruita dal vescovo Wehrner agli inizi dell’xi secolo con l’appoggio dell’imperatore Enrico II e conclusa verso il 1015; dopo ripetuti incendi, in particolare uno catastrofico nel 1176, il coro venne ricostruito a partire dal 1176-80, il transetto fu terminato nel 1230-35, e successivamente ebbe luogo la demolizione dell’antica navata che venne sostituita da una costruzione gotica. Un tale succedersi di momenti costruttivi e di mutamenti ha avuto conseguenze sulla disseminazione in varie parti dell’edificio delle vetrate romaniche che ancora sopravvivono45 e che non sono anteriori all’epoca degli Staufen, periodo in cui la cattedrale fu spesso sede di cerimonie imperiali ai tempi di Enrico VI, di Federico I e di Federico II. A parte ciò che si trova oggi nel museo, sussistono ancora in loco tre serie di vetrate
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romaniche, databili alla seconda metà del xii secolo, situate nell’abside, nella cappella di San Giovanni e nella navata. Una grande vetrata con l’albero di Jesse, per eccellenza un tema regale, doveva trovarsi nell’abside, secondo la ricostruzione che ne è stata tentata da Fridtjof Zschokke46. Oggi ne sono conservati solo alcuni frammenti dispersi tra il transetto e la cripta. Il tema vi era stato trattato diversamente da come era stato formulato a Saint-Denis o negli alberi di Jesse tedeschi di Arnstein, Soest o, piú tardi, Friburgo, e metteva in risalto la glorificazione della Vergine patrona della cattedrale, rappresentata orante adorata da angeli e arcangeli. Due frammenti con la Vergine e un angelo sono oggi situati alla sommità delle vetrate della facciata settentrionale del transetto (la Vergine nella vetrata dei due san Giovanni, l’angelo alla sommità della vetrata con storie di re Salomone), mentre un arcangelo che tiene il globo e il labaro, abbigliato secondo il costume bizantino, è inserito in una vetrata della cripta. Altre testimonianze di questo periodo (circa 117o-8o), sempre ospitate oggi in una finestra del transetto nord, sono le scene del Giudizio di Salomone rappresentato in tre diversi episodi: Due madri di fronte a Salomone, Salomone ordina di dividere in due il bambino, Il piccolo restituito alla vera madre. Tra gli altri relitti della cattedrale romanica è un tondo con l’Incoronazione della Chiesa da parte di Cristo, oggi in una delle rose del transetto meridionale, le figure dei due San Giovanni (provenienti dalla cappella di San Giovanni nel braccio nord del transetto) oggi in due finestre di questa parte del transetto, una Visitazione (anch’essa originariamente nella cappella di San Giovanni, oggi al Musée de l’Œuvre Notre-Dame), e soprattutto le figure stanti o sedute provenienti dalle finestre della navata e delle navatelle laterali, oggi conservate parzialmente nelle
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finestre del transetto, in quelle della navata o nel museo. La navata ottoniana era di dodici campate, e se si calcolano le finestre delle navate laterali dovettero esistere in questa parte della chiesa quarantotto finestre invetriate. Rimangono frammenti, variamente completati e incorniciati nel periodo gotico e molto ampiamente nell’ottocento, di una serie di imperatori (Enrico l’Uccellatore, Federico Barbarossa, Enrico II, i tre Ottoni, Corrado II), di profeti, di apostoli e di santi martiri e confessori, e la celebre figura di imperatore (oggi nel museo) seduto, accompagnato da due accoliti, senza iscrizione, la cui identità (Carlo Magno? Enrico VI? Barbarossa?) resta incerta. Fu ritrovata nel 1933 nelle riserve del museo, dopo che era stata tolta durante un restauro da una finestra della parete est del transetto meridionale, ma ne rimane dubbia la collocazione originale, che è forse da situarsi nella tribuna eretta dal vescovo Wehrner contro la facciata occidentale.
L’Alsazia e la Germania meridionale. Assai prossimi a certe vetrate di Strasburgo, in particolare ai tondi con il Giudizio di Salomone con cui hanno in comune alcuni motivi decorativi, sono due episodi, certamente eseguiti a Strasburgo, della storia di Sansone (lo scardinamento e il trasporto delle porte di Gaza), provenienti da una vetrata tipologica dell’abbazia benedettina di Alpirsbach nella Foresta Nera, fondata tra 1095 e 1098 e costruita nel corso del xii secolo. Le storie dell’eroe biblico dovevano essere originariamente raffrontate con quelle della Passione di Cristo. Oggi, assieme ad altri due frammenti con animali evangelici e resti di bordure, i due episodi riassemblati in un medesimo tondo si trovano nel Württembergisches Landesmuseum di Stoccarda.
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A questo stesso momento dovette appartenere la decorazione vitrea (verisimilmente sempre eseguita a Strasburgo e oggi distrutta) della chiesa del priorato di Santa Fede a Sélestat (Schlettstadt) in Alsazia, donata da Federico Barbarossa e di cui si è parlato nel terzo capitolo. Essa comprendeva un albero di Jesse nella finestra assiale e, nelle due laterali, scene della fondazione e della costruzione della chiesa ed episodi del martirio di santa Fede, la santa titolare47. Testimonia di differenti tendenze nella situazione alsaziana di questo periodo la Madonna in maestà di Wissembourg (verso il 1190), reimpiegata nella seconda metà del duecento entro l’oculo centrale della rosa del transetto settentrionale della chiesa abbaziale di Saint-Pierre et Paul, che presenta nella posa frontale e ieratica tratti simili a quelli di certe vetrate di Strasburgo, ma ne differisce per particolari caratteri – teste piccole, proporzioni allungate, pieghe spezzate e movimentate – che hanno spinto Louis Grodecki a confrontarla con l’Evangelario della Cattedrale di Spira48 e con l’Evangelatio di San Pietro della Landesbibliothek (Cod. St. Peter perg. 7) di Karlsruhe49. Il carattere più romanico che bizantineggiante dell’immagine e un piú accentuato e libero linearismo permette di scorgerne i rapporti con le vetrate di Saint-Remi di Reims. Anche se per certi elementi le vetrate alsaziane hanno rapporti con quelle della regione della Marna e in generale dell’est della Francia, esse rientrano pienamente nell’ambito linguistico germanico. Per molti aspetti questo è piú conservatore di quello francese, di cui non presenta, del resto, l’estrema varietà. D’altronde, se ben si caratterizza da un lato per una particolare apertura verso le influenze bizantine che in certo modo lo ravvicina all’area culturale lionese (vetrate di Champ-prèsFroges, Lione, Clermont-Ferrand) nonché ai frammenti trovati a Costantinopoli, dall’altro, lato, nella conce-
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zione della vetrata come oggetto suntuario e prezioso, la sua esperienza resta, in fondo, senza seguito.
Esempi romanici in Germania. A parte le vetrate di Strasburgo e di Arnstein, qualche altra vetrata germanica può essere datata in questo torno di tempo, tra cui i medaglioni che, senza fondate ragioni, si voleva provenissero dal palazzo del Barbarossa a Ingelheim e che forse provengono invece dal coro orientale della chiesa abbaziale di Maria Laach. Si tratta di quattro scene della vita di Cristo provenienti da un medesimo ciclo. Due scene (la Cena in casa di Simone e Cristo caccia i mercanti dal Tempio) erano al Kunstgewerbemuseum di Berlino e furono distrutte nel 1945, altre due (Bacio di Giuda e Resurrezione di Lazzaro) sono al museo di Wiesbaden. Gli autori dei quattro pannelli sono diversi: piú moderno e avanzato quello della Cacciata e del Bacio di Giuda, piú tradizionale e frusto quello degli altri due pannelli50. Sussistono inoltre i resti di un insieme assai interessante di vetrate che ornava la chiesa di Sankt Patroklus a Soest (circa 1160-66)51, un San Bartolomeo e qualche altro frammento provenienti da Peterslahr e oggi al museo di Darmstadt52, dove si trova pure un San Vittore di Xanten i cui modi arcaici ricordano un poco il San Timoteo di Neuwiller. Di grande qualità una Madonna col Bambino, forse proveniente dalla Franconia, e i frammenti di una Natività e di una Crocifissione che erano appartenuti a Goethe (Weimar, Goethehaus), nonché i resti, assai rimaneggiati, di un Albero di Jesse nella chiesa di Veitsberg presso Weida, in Sassonia. Assai più tardo, già in pieno xiii secolo, ma estremamente arcaico nella postura frontale e nel fondo sottilmente decorato a racemi, il San Nicolò di
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Göfis nel Vorarlberg, oggi nel Landesmuseum di Bregenz.
Weitensfeld e Flums. All’ambito germanico vanno riportate altre due vetrate isolate, La prima è la piccola e splendente Maddalena (oggi nel Museo diocesano di Klagenfurt) dalla chiesa di Weitensfeld in Carinzia, presso Gurk. Forse l’opera venne eseguita per la cappella battesimale di Weitensfeld dedicata ai santi Giovanni e Maddalena o per la chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena a Gurk (ambedue distrutte). Si tratta probabilmente, secondo Franz Kieslinger e Walter Frodl, di una commissione del vescovo di Gurk Enrico I (1168-74), precedentemente abate di Sankt Peter a Salisburgo53. Il fondo bianco, le proporzioni allungate, la gamma cromatica ricca di bianchi, rossi, verdi, gialli, propongono appunto rapporti con la miniatura e pittura salisburghese di quel tempo (Antifonario di San Pietro di Salisburgo)54. La seconda vetrata, databile verso il 117o-8o, è una Madonna col Bambino proveniente dalla cappella di San Giacomo (un edificio di una certa importanza fin dall’epoca carolingia) di Flums, nel cantone di San Gallo, oggi nel Museo nazionale svizzero di Zurigo. La Vergine è del tipo della hodegetria e tiene in mano un disco rosso (una mela?). Come nei profeti di Augusta il fondo è bianco e la gamma cromatica ridotta: bianco, giallo, rosso e azzurro; la testa della Vergine è una integrazione recente. I confronti che sono stati proposti per questa Madonna portano su miniature dipinte in centri abbaziali svizzeri (Rheinau, Engelberg) influenzati dai modelli usciti dallo scriptorium cluniacense di Hirsau (Engelberg, Stiftsbibliothek, ms 3; Zurigo, Zentralbibliothek, ms Rh. 14)55.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali Il fondamentale testo di riferimento per le vetrate del xii secolo è quello di l. grodecki (con la collaborazione di c. brisac), Le Vitrail Roman, Fribourg 1977, che si cita qui una volte per tutte, ma che vale come continuo riferimento per queste pagine. 2 Cfr. a. lenoir, Musée des Monuments Français. Histoire de la peinture sur verre et description des vitraux anciens et modernes pour servir à l’Histoire de l’Art, relativement à la France, Paris 1802, pp. 61-66. 3 Cfr. il catalogo La Jeunesse des Musées, Paris 1994. 4 Per le vicende delle vetrate di Saint-Denis cfr. l. grodecki, Les Vitraux de Saint Denis, I. Histoire et Restitution, Paris 1976. 5 m. w. cothren, The Infancy of Christ Window from the Abbey of St-Denis: A Reconsideration of Its Design and Iconography, in «Art Bulletin», lxviii (1986), pp. 398-419. 6 e. a. r. brown e m. w. cothren, The Twelfth Century Crusading Window of the Abbey of Saint-Denis: Praeteritorum enim Recordatio Futurorum est Exhibitio, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», xlix (1986). 7 m. bur, Suger, Abbé de Saint-Denis, Paris 1991. Per una ridiscussione del ruolo di Suger nella nascita dell’architettura gotica cfr. p. kidson, Panofsky, Suger and Saint-Denis, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», l (1987), pp. 1 sgg. 8 Sulla iconografia proposta da Suger cfr. l. grodecki, Les Vitraux de Saint-Denis cit. (con discussione della bibliografia precedente), e gli atti del simposio Abbot Suger and Saint-Denis, a cura di P. L. Gerson, New York 1986. 9 grodecki, Le Vitrail Roman cit., p. 102. 10 a. prache, Les Vitraux du XIIe siècle, nel numero dedicato al Tesoro di Saint-Denis dei «Dossiers d’Archéologie», marzo 1991, pp. 64-75. 11 l. grodecki, The Style of the Stained-Glass Windows of SaintDenis, in Abbot Suger and Saint-Denis cit., pp. 273-81; m. harrison caviness, Sugers Glass at Saint-Denis: The State of Research, in ibid., pp. 257 sgg. 12 d. gaborit chopin, Le Trésor de Saint-Denis, Paris 1991. 13 Si veda il n. 1 del 1977 della rivista «Les Monuments Historiques de la France». 14 Si veda la lettera pubblicata da Mortet, assai interessante per i legami tra Le Mans e Vendôme, in cui l’abate Geoffroy de Vendôme scrive a Hildebert de Lavardin per richiedergli il ritorno del monaco. 15 «[...] vitreas quoque per ipsum cancellum per que cruces circumquaque laudabili sed sumptuosa nimium artis varietate disporiens», in Actus Pontificum Cenomannis in urbe degentium, pubblicati da g. busson e a. ledru in «Archives Historiques du Maine», II (1910). 16 «[...] domum capituli, que ibi ex multo tempore nulla penitus 1
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali habebatur, laudabili opere cepit a fundamentis construere, eamque decenter et undique vitreis illustravit», in Actus cit., p. 400. 17 j. h. parker, Letter from J. H. Parker to Sir Henry Ellis upon a remarkable specimen of early painted glass, in «Archaeologia», xxxiii, tav. xvi, p. 359. 18 h. pallu, Dissertation sur l’antiquité d’une verrière de la cathédrale du Mans, in «Bulletin Monumental», vii (1841), p. 369; a. du sommerard, Les Arts au Moyen Age, Paris 1844, vol. III, pp. 142. 19 e. hucher, Calques de vitraux peints de la cathédrale du Mans, Le Mans 1864. 20 Oltre a grodecki, Le Vitrail Roman cit., cfr. c. brisac, Les Vitraux du XIIe siècle, in aa.vv., La Cathédrale du Mans, Paris 1981, pp. 61-68; id., Les Vitraux, in A. Lévy (a cura di), Le Mans, métamorphose d’une ville, St-Jean d’Angely 1987, pp. 84-92; a. granboulan, De la parroisse à la cathédrale: une approche renouvelée du vitrail roman dans l’ouest, in «Revue de l’Art», 103, 1994, pp. 42-52. 21 ch.-a. auber, nella Histoire de la cathédrale de Poitiers, Poitiers 1849, le data al xii secolo, mentre x. barbier de montault (nel «Bulletin Monumental», liv (1885), pp. 1745 e 141-68), interpretando un’iscrizione non bene conservata («... dit hanc vitream... Reas Blas... et s filiis), la ritarda ai primi decenni del xiii secolo, ritenendo che il donatore ne fosse Thibault conte di Blason. Argomenti decisivi per una datazione più antica ha portato r. crozet, Le vitrail de la Crucifixion à la Cathédrale de Poitiers, in «Gazette des Beaux-Arts», vi serie, xi (1934), pp. 218-33, e r. grinnell, che accetta la datazione al xii secolo, vede nell’iconografia influenze di Gilbert de la Porrée, che di Poitiers era stato arcivescovo (Iconography and Philosophy in the Crucifixion Window at Poitiers, in «Art Bulletin», xxviii (1946), pp. 171-96). 22 l. de farcy, Monographie de la Cathédrale d’Angers, Angers 1910; j. hayward e l. grodecki, Les vitraux de la Cathédrale d’Angers, in «Bulletin Monumental», cxxiv (1966), pp. 7-67. 23 a. pascaud-granboulan, Le vitrail de la Vierge à la Trinité de Vendôme, in «L’Information de l’Histoire de l’Art», 1971, pp. 128-32. 24 c. brisac, La verrière de Champ-près-Froges, in «L’Information de l’Histoire de l’Art», xviii (197 2), pp. 158-62; id., The Romanesque Window at Le-Champ-près-Froges, in «Journal of Glass Studies», xxvi (1984), pp. 70-76. 25 c. brisac, La peinture sur verre à Lyon, in «Dossiers de l’Archéologie», 26, 1978, pp. 38-49. 26 h. du ranquet, Les vitraux de la Cathédrale de Clermont-Ferrand, Clermont 1932, pp. 193-96; c. brisac, The Romanesque Panels in the Cathedral of Clermont-Ferrand, in Studies in Medieval Stained Glass, CVMA, United States, Occasional Papers, I, New York 1985, pp. 15-24.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali c. brisac, Le Sacramentaire de la Bibliothèque Municipale de Clermont-Ferrand. Nouvelles données sur l’art figuré à Clermont-Ferrand autour de 1200, in «Bulletin Historique et Scientifique de l’Auvergne», lxxxvi (1974), pp. 303-15. 28 l. grodecki, La restauration des vitraux du XIIe siècle provenants de la cathédrale de Châlons-sur-Marne, in «Mémoires de la Société d’Agriculture, Commerce, Sciences, Arts de la Marne», xxviii (1954), pp. 323-52. 29 h. buschausen, The Klosterneuburg Altar of Nicholas of Verdun. Art, Theology and Politics, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», xxxvii (1974), pp. 1 sgg.; id., Der Verduner Altar, Das Emailwerk des Nikolaus von Verdun im Stift Klosterneuburg, Wien 1980. 30 l. grodecki, Problèmes de la peinture en Champagne pendant la seconde moitié du XIIe siècle, in Romanesque and Gothic Art. Studies in Western Art, Atti del XX Congrès International d’Histoire de l’Art, Princeton 1963, pp. 129-41; id., Nouvelles découvertes sur les vitraux de la cathédrale de Troyes, in Intuition und Kunstwissenschaft. Festschrift für Hanns Swarzenski, Berlin 1973, pp. 191-200; ch. t. little, Membra Disiecta. More Early Stained Glass from Troyes Cathedral, in «Gesta», xx (1981), pp. 119-27; e. carson pastan, Fit for a Count: The Twelfth Century Stained Glass Panels from Troyes, in «Speculum», lxiv (1989), pp. 338-72. 31 a. prache, Saint-Remi de Reims: L’œuvre de Pierre de Celle et sa place dans l’architecture gothique, Genève 1978. 32 a. prache, Les Monuments funéraires des Carolingiens élevés à Saint-Remi de Reims au XIIe siècle, in «La Revue de l’Art», 6, 1969, pp. 68-76. 33 j. simon, Restaurations des vitraux de Saint-Remi de Reims, in «Les Monuments Historiques de la France», n.s., 5, 1959, pp. 14-25; l. grodecki, Les plus anciens vitraux de Saint-Remi de Reims, in Beiträge zur Kunst des Mittelalters. Festschrift für Hans Wentzel zum 60 Geburtstag, a cura di R. Becksmann, U. D. Korn e J. Zahlten, Berlin 1975, pp. 65-77. Uno studio approfondito e estremamente diramato delle vetrate di Saint-Remi è stato fatto da m. harrison caviness in Sumptous Arts at the Royal Abbeys in Reims and Braine, Princeton 1990. 34 William of Malmesbury tesse l’elogio, come si è visto nel sesto capitolo, delle vetrate dell’antica cattedrale di Canterbury, consacrata nel 113o e devastata da un incendio nel 1174. m. harrison caviness, (Romanesque «belles verrières» in Canterbury?, in Romanesque and Gothic. Essays for George Zarnecki, Woodbridge 1987, pp. 35-38) ritiene che quattro figure di antenati di Cristo (David, Nathan, Abdia e Roboam) provengano dalla invetriatura dell’antica cattedrale. 35 r. marks, Stained Glass in England during the Middle Ages, London 1991, pp. 111-12. 27
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali w. r. lethaby, Archibishop Roger’s Cathedral at York and Its Stained Glass, in «Archaeological Journal», lxxii (1915); d. o’connor e j. haselock, The Stained and Painted Glass, in G. E. Aylmer e R. Cant (a cura di), A History of York Minster, Oxford 1977, pp. 313-93. 37 m. harrison caviness, The Early Stained Glass of Canterbury Cathedral, c. 1175-1220, Princeton 1977; id., The Windows of Christ Church Cathedral Canterbury, London 1981. 38 harrison caviness, Sumptuous Arts at the Royal Abbeys cit. 39 harrison caviness, The Early Stained Glass cit.; l. grodecki, A propos d’une étude sur les anciens vitraux de la cathédrale de Canterbury, in «Cahiers de Civilisation Médiévale», xxiv (1981), pp. 59-65. 40 a. boeckler, Die romanischen Fenster des Augsburger Domes und die Stilwende vom 11 zum 12 Jhr., in «Zeitschrift des deutschen Vereins für Kunstwissenschaft», x (1943), pp. 153-82; g. frenzel e g. hinkes, Die Prophetenfenster des Domes zu Augsburg, in «Jahrbuch der Bayerischen Denkmalpflege», xxviii (1970-71), pp. 83-100; r. becksmann, Deutsche Glasmalerei des Mittelalters, Stuttgart 1988, pp. 92 sgg. 41 Sono state viste in rapporto con lo stile di Gherlacus le miniature eseguite nello scriptorium dell’abbazia di Helmarshausen attorno al 1175, come suggerisce la presenza di un’immagine di Thomas Becket, canonizzato in questo anno, dell’Evangeliario di Enrico il Leone, un tempo a Gmünden e oggi in una collezione privata, quelle della Bibbia di Arnstein (circa 1172) di origine mosana (Londra, British Library, ms Harley 2798-99), quelle della Bibbia di Sankt Kastor di Coblenza oggi a Pommersfelden (Schlossbibliothek, Cod. 333-334) e quelle di un Evangeliario della Bibliothèque Nationale a Parigi, ms lat. 17325. 42 Questa ipotesi è sostenuta nel catalogo dell’esposizione Rhein und Maas. Kunst und Kultur 800-1400, Köln 1972, pp. 126-27. 43 grodecki, Le Vitrail Roman cit., p. 159. 44 v. beyer, Les vitraux de la cathédrale de Strasbourg, CVMA, France, IX, 1, Paris 1986. 45 Il riconoscimento dei frammenti romanici si deve a L. Schneegans, che nel 1843, insieme al pittore Klein, aveva redatto l’inventario delle vetrate della cattedrale e all’abate v. guerber, autore di un Essai sur les Vitraux de la Cathédrale de Strasbourg, Strasbourg 1848. 46 f. zschokke, Die Romanischen Glasgemälde der Strassburger Münsters, Basel 1942. 47 r. kautzsch, Die romanische Kirchenbaukunst im Elsass, Freiburg 1944, pp. 242-51; r. will, Note archéologique sur l’église de Sainte-Foy de Sélestat, in «Saison d’Alsace», lvii (1976), pp. 33-51. 48 k. Preisendanz e o. homburger, Das Evangelistar des Speyer Domes, Leipzig 1930. 49 e. j. beer, Das Evangelistar aus St. Peter, Basel 1961. 36
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali Vedi il catalogo dell’esposizione Die Zeit der Staufer, Stuttgart 1977, v0l. I, pp. 279-8o. 51 becksmann, Deutsche Glasmalerei cit., pp. 96-97. 52 s. beeh-lustenberger, Glasmalerei um 800-1900 im Hessischen Landesmuseum in Darmstadt. Abbildungsteil, Frankfurt 1967, fig. 3. 53 w. frodl, Glasmalerei in Kärnten 1150-1500, Wien 195o. 54 Die Zeit der Staufer cit., n. 420, pp. 295-96; grodecki, Le Vitrail Roman cit., pp. 184-85, 276. 55 e. j. beer, Die Glasmalereien der Schweiz, vom 12. bis zum beginn des 14. Jahrhunderts, CVMA, Schweiz, I, Basel 1956, pp. 21-22. Altri confronti vengono proposti con il Martyrologium di Zwiefalten (Stuttgart, Landesbibliothek, Cod. Hist., f0l. 415) e, per la decorazione dei bordi, con il soffitto dipinto della chiesa di Zillis nei Grigioni. 50
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Capitolo nono Il tempo delle cattedrali
Dall’unico alla serie. Nella prima metà del duecento la vetrata conosce un grandissimo sviluppo, particolarmente in Francia dove il patrimonio ancora esistente supera da solo tutto ciò che è conservato nel resto d’Europa1. È un momento che vede una straordinaria accelerazione nell’evolversi e trasformarsi delle forme architettoniche, e un potente sviluppo della vetrata leggendaria a medaglioni, che assume impaginazioni varie e diverse; un momento in cui l’invetriatura di immense superfici è conseguenza dell’inarrestabile progressione verso l’eliminazione della parete massiccia e opaca cui tendevano le più recenti evoluzioni dell’architettura. Un processo continuo porta a dimensioni sempre maggiori le finestre alte, all’apertura verso l’esterno e alla invetriatura del triforio con la conseguente eliminazione della zona opaca intermedia tra il piano delle finestre alte e le arcate della navata e del coro2. Ed è un momento che vede la vetrata imporsi come tecnica-pilota e influenzare con le sue tipiche forme la miniatura. Le Bibles moralisées di questo periodo hanno una illustrazione organizzata in medaglioni sovrapposti contro un fondo decorato a mosaico che richiama l’impaginazione di certe vetrate3. Un semplice raffronto di cifre è eloquente: contro la ventina di vetrate che la cattedrale di Chartres doveva
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contare prima dell’incendio del 1196, il nuovo edificio ne avrà oltre centosessanta e tre grandi rose4. Si comprenderà come la vetrata abbia perso rapidamente le sue caratteristiche di prodotto suntuario tipiche del xii secolo, che la accomunavano agli smalti piú preziosi, per divenire una tecnica monumentale e per accentuare in molti casi il proprio carattere di prodotto seriale. Una impresa come l’invetriatura delle finestre della cattedrale di Chartres, circa 26oo metri quadrati di vetri dipinti, attuata in un lasso di tempo di una trentina d’anni, comporta divisioni e forme di organizzazione del lavoro che possono portare a una certa ripetitività. Un caso tra tanti dell’aspetto seriale che può assumere la produzione è dato dall’uso dei medesimi modelli con variazioni minime nelle vetrate con gli apostoli del transetto settentrionale della cattedrale di Chartres5, una situazione che si ripresenta del resto in piú di un caso, e che anzi tende a diventare una regola. In questo periodo si moltiplicano i casi di utilizzazione degli stessi prototipi, probabilmente eseguiti su stoffe, per opere diverse e talora distanti nello spazio. I limiti di tempo imposti alla produzione possono facilitare la tendenza a una scrittura piú rapida, piú corsiva. La vetrata viene cosí ad abbandonare il suo carattere di unicum prezioso per assumerne uno diverso, legato alle esigenze di una produzione piú vasta. Non è stata esclusivamente la nuova situazione a imporre un cambiamento stilistico, ma c’è piú di una semplice coincidenza tra il moltiplicarsi delle vetrate e certe alterazioni nel loro aspetto. Ogni mutamento nelle tecniche di lavorazione delle materie – dai vetri ai piombi, ai ferri delle armature – come nella organizzazione e nella divisione del lavoro comporta conseguenze sul piano formale. Cosí i cambiamenti nei processi di colorazione della pasta vitrea7, il variare in percentuale di certi elementi – per esempio l’aumento del tenore in
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soda –, la diminuzione dello spessore, il diradarsi delle irregolarità e piú generalmente la relativa standardizzazione – un termine da usare con cautela per il xiii secolo! – dei vetri, il piegarsi in forme diverse delle armature di ferro, contribuiscono alla grande trasformazione che ha luogo nelle vetrate agli inizi del xiii secolo in Francia, e in particolare in certe regioni della Francia settentrionale. In effetti il mutamento stilistico non fu generale e contemporaneo, ma partí da un’area geograficamente determinata per estendersi in seguito al di là di ogni confine. Al principio del secolo, per esempio, le bellissime vetrate della cattedrale di Strasburgo non possono certamente essere comprese tra i testi della pittura gotica, appartenendo a tutt’altro sistema stilistico. Quali sono i nuovi caratteri delle vetrate duecentesche? In che modo possono essere definiti gotici? In che rapporto le tendenze che si manifestano nelle vetrate sono presenti in opere di altre tecniche? Quali furono, infine, i principali centri, le tendenze più importanti? Quali i cicli meglio conservati? Allo stato attuale delle conoscenze, con tante vetrate duecentesche ancora insufficientemente riprodotte o addirittura inedite e il Corpus Vitrearum Medii Aevi ben lungi dall’essere compiuto, non sarà possibile andare al di là di qualche ipotesi, e occorrerà limitarsi a registrare la situazione quale appare dagli studi piú recenti.
Disegno e impaginazione. Per definire i caratteri delle vetrate della prima metà del duecento sarà bene distinguere due livelli di lettura: il primo che considera la vetrata nel suo insieme, il secondo che analizza invece i modi di rappresentazione adottati nelle singole scene. Una lettura che si tenga al primo livello rivela con chiarezza la tendenza ad arric-
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chire e a complicare con ingegnose soluzioni geometriche la disposizione dei medaglioni che, nelle vetrate leggendarie, contengono le scene. Confrontando due vetrate, una del xii e una del xiii secolo, appare evidente la crescente importanza assunta dal moltiplicarsi e dal variare degli schemi geometrici che presiedono alla loro impaginazione. Se nell’età romanica questa era stata in generale piuttosto semplice (medaglioni tondi o quadrati sovrapposti, affiancati o eventualmente alternati come nella vetrata della giovinezza di Cristo a Chartres), benché a Châlons-sur-Marne, a Saint-Denis, a Poitiers e a Canterbury si abbiano esempi di impaginazione di una certa complessità, essa diviene assai più ricca e complicata. I medaglioni vengono ora organizzati in vari modi in combinazioni e moltiplicazioni sapienti, ottenute attraverso l’intersecazione, la ripetizione, la dimidiazione e la rotazione di elementi semplici come il circolo o il quadrato, e sono strutturati dalle forme delle armature. Questo modo di organizzazione non si limita alla sola tecnica della vetrata. Tessuti, pagine miniate, bassorilievi si sottomettono allo stesso principio, che regna sovrano dal timpano di un portale allo zoccolo di una facciata, alla parete di una cassa-reliquiario, alla superficie di un dossale d’altare, a un paramento liturgico. Si tratta di un fenomeno che nell’età precedente non era stato cosí manifesto, e che risponde a quel bisogno di raggruppare gli elementi con ordine e con chiarezza caratteristico dell’arte gotica rispetto a quella romanica, esigenza che, secondo Erwin Panofsky8, discende dalle forme di organizzazione del pensiero e la cui realizzazione grafica mostra come la geometria sia, per eccellenza, lo strumento di organizzazione delle superfici. Il maître d’œuvre gotico dispone di pochi strumenti, principalmente il compasso e la squadra, con questi crea delle meraviglie e ne è cosciente: in varie miniature del xiii secolo Dio padre è rappresenta-
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to nell’atto della creazione mentre maneggia abilmente squadra e compasso. Un tale modo di organizzare entro una superficie differenti rappresentazioni raggruppandole e distribuendole in medaglioni di varia forma ha origini complesse, che sono state ben illustrate da Jurgis Baltrusaitis9. Se fondamentalmente esso risale ai pavimenti a mosaico romani, un passo decisivo è rappresentato dalle ricerche dei miniatori carolingi e particolarmente ottoniani (Vangeli della Badessa Uta di Niedermünster, Monaco, Bayerische Staatsbibliothek; Evangeliario di Enrico II, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, ambedue illustrati all’inizio dell’xi secolo negli scriptoria di Ratisbona), che hanno speculato insistentemente sulle combinazioni di cerchi, semicerchi, rettangoli, rombi, esplorandone le possibilità. D’altra parte il medaglione polilobato risultante dalla combinazione di quattro circoli e un quadrato si trova in manoscritti bizantini della fine dell’xi secolo (Vangelo della Biblioteca Palatina di Parma). L’uso di questa formula da parte dei grandi smaltisti della Mosa e del Reno del xii secolo deriva sia dai modelli ottoniani sia da quelli bizantini e si trasmette alle vetrate (vetrate di Châlons-sur-Marne, parte inferiore della Crocifissione di Poitiers). Ora il medaglione polilobato nato dalla compenetrazione di circoli e quadrati, o quello a quadrifoglio nato dalla intersezione di diversi circoli, avranno un ruolo importante nel disegno e nella composizione gotici: l’impaginazione a vari elementi combinati si presterà a discorsi simbolici complessi.
Forme della rappresentazione. Venendo ora al secondo livello di lettura e analizzando i modi della rappresentazione nelle singole scene, si avvertirà come i personaggi abbiano generalmente
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una scala ridotta rispetto all’intera zona delimitata dal compasso, siano immersi in uno spazio piú ampio e circondati da una superficie piú vasta e meno ingombra, come le figure siano più allungate, piú esili di quanto non avvenisse nel secolo precedente. Lineamenti e corpi non sono stravolti e distorti da una tormentosa ed esasperata frenesia espressiva, prevalgono atteggiamenti piú calmi, mentre i movimenti dei personaggi sono piú sciolti e disinvolti e le pieghe cadono in modo piú armonico rivelando attraverso frequenti punti di contatto il corpo sottostante. C’è anche una chiara tendenza all’abbandono della presentazione frontale che viene adottata assai meno frequentemente di quanto non avvenisse in precedenza.
Lo stile 1200. La situazione nei primi decenni del duecento è lungi tuttavia dall’essere unitaria, come non lo era stata del resto nel secolo precedente, tanto che a ogni enunciazione con pretese generalizzanti si potrà sempre opporre una miriade di casi particolari che vi contrastano. Malgrado ciò è possibile isolare alcuni aspetti che si presentano con particolare frequenza ed evidenza. In primo luogo, una tendenza che, per i riferimenti piú o meno diretti a modelli antichi, potremmo chiamare classicheggiante. Essa si manifesta nel canone di proporzioni, nell’organizzazione del panneggio, nelle espressioni e nei movimenti. In secondo luogo è evidente l’abbandono di una stilizzazione estrema e deformante a favore di una resa piú vera, di un’attenzione rivolta ai dati naturali. Nell’ornamentazione dei bordi, alle palmette e agli acanti fiorenti e stilizzati tipici della tradizione romanica, si contrappongono il virgulto, il tralcio di vite, il
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ramo di quercia o altri motivi vegetali immediatamente riconoscibili attinti dall’osservazione diretta. Ma il passaggio non è generale e immediato. Se i primi esempi di bordi naturalistici nelle vetrate sono precoci e contemporanei alle ricerche condotte parallelamente nella scultura monumentale, gli ampi bordi romanici si manterranno per decenni. Le due movenze, classicheggiante e naturalistica, non vanno disgiunte. Il rivolgersi a modelli classici è anzi una conseguenza, un portato della volontà di trovare formule e schemi che permettano di raggiungere un certo grado di naturalezza, che piú di altri possano condurre a una rappresentazione meno stilizzata, piú varia e prossima a una resa immediata del dato osservato. Una nuova movenza stilistica caratterizzata da una vivissima attenzione per i modelli classici, favorita dalla circolazione accresciuta di opere bizantine, avori, libri di modelli, oreficerie, miniature che ha luogo in questo periodo, si afferma tra la fine del xii e gli inizi del xiii secolo tra valle della Mosa, Champagne e Piccardia raggiungendo l’Inghilterra la Renania, la Germania meridionale e l’Italia del nord. A essa è stato dato il nome di «stile 1200»10. Il grande orafo Nicolas de Verdun, la massima personalità artistica di questo tempo, i cui modi sono conosciuti e ripresi in tutta Europa, ne è il protagonista. Il nuovo stile, sereno, equilibrato, composto, si manifesta nelle arti suntuarie come nella scultura o nella miniatura (Salterio di Ingeburge a Chantilly)11 e ha profonde ripercussioni nel campo delle vetrate, dall’Inghilterra (Canterbury) alla Normandia (Rouen), alla Piccardia (Laon, Soissons), alla Champagne (Troyes, Reims, Braine, Orbais, Baye), alla Borgogna (Sens), all’area del lago Lemano (Losanna), alla Germania (Friburgo, Ratisbona). In questo campo del resto era stato attivo un omonimo del grande Nicolas, probabilmente un figlio, ricordato come pittore di vetrate a Tournai nel 121712.
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La Francia. La Francia retta dalla monarchia capetingia è un paese in piena espansione le cui città conoscono una irruente crescita economica. In occasione della ricostruzione delle grandi cattedrali viene qui prodotto il maggior numero di vetrate e si conoscono le esperienze e le innovazioni piú importanti. In un celebre articolo che ha suscitato molte discussioni, Roberto S. Lopez13 aveva messo in evidenza il grande immobilizzo di capitali che aveva comportato, per le ricche città francesi del duecento, l’erezione e la decorazione di grandiose cattedrali in una straordinaria forma di emulazione, ipotizzando che la stagnazione economica e il declino successivo di queste città fosse una conseguenza proprio delle eccessive spese in questo campo. Fu una tesi molto discussa e contrastata, ma che illustra con particolare efficacia l’esistenza di un problema.
La Piccardia e il nord. Un’area situata nel nord del paese, quella della Piccardia, dove nelle vetrate delle cattedrali di Laon e di Soissons si manifesta una precoce tendenza classicheggiante, ha svolto un ruolo assai importante nella storia della vetrata francese del duecento, facendo sentire la propria influenza anche in centri lontani grazie alla mobilità dei suoi maestri. Purtroppo questi cicli hanno conosciuto tremende traversie, hanno subito estese distruzioni, radicali restauri, spostamenti, dispersioni, sí che una grande quantità di frammenti, spesso di altissima qualità, provenienti da chiese di questa regione sono stati espulsi dal loro contesto in occasione di campagne di restauri, sottratti alla loro originaria collocazione e immessi sul mercato. Si veda il caso delle vetrate della
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cattedrale di Laon, dedicata alla Vergine, la cui costruzione promossa, come attesta un obituario della chiesa, dal vescovo Gautier de Mortagne (1155-74), che vi contribuí con propri denari, era iniziata verso il 1160. Dopo il 1205 aveva avuto luogo la ricostruzione del coro, come si evince da un testo del cartulario che afferma come in questa data la cava di pietra di Chermizy, che verrà utilizzata nella costruzione del coro, fosse stata presa in gestione dal capitolo della cattedrale, dopo essere stata abbandonata dal signore del luogo. Delle molte vetrate che decoravano le circa duecento finestre e le quattro rose della chiesa ben poche sussistono ancora in loco. Ancora piú radicale è il caso della cattedrale di Soissons consacrata ai santi Gervasio e Protasio costruita alla fine del xii secolo (braccio sud del transetto) e negli anni successivi (il coro è già esemplato sul modello di Chartres). Le sue vetrate, la cui realizzazione aveva comportato un impegno finanziario diretto del re Filippo Augusto, sono disperse in varie collezioni e musei, ed è un fatto significativo per la storia del commercio e del collezionismo delle vetrate che gran parte di esse si trovasse ancora al suo posto nella prima metà dell’ottocento14. Quanto è ancora conservato in loco nelle due cattedrali e quanto è stato identificato nei musei e nelle collezioni come di tale provenienza permette tuttavia qualche caratterizzazione. Le ricerche di Louis Grodecki15 hanno messo a fuoco come una medesima temperie culturale, fortemente marcata dal classicismo dello stile 1200, segnasse l’attività degli atelier all’opera a Laon nella vetrata della Passione nel coro, a Soissons nella vetrata con l’albero di Jesse donata da Filippo Augusto intorno al 1210 (di cui alcuni elementi sussistono ancora in loco, altri al Glencairn Museum a Bryn Athyn e altri ancora, i piú belli purtroppo, furono distrutti con le collezioni del Kunstgewerbemuseum a Berlino durante l’ultima guerra), nella vetrata con le
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storie di san Nicasio (oggi divisa tra il Louvre e l’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston), in quella di san Biagio, anch’essa dispersa tra Parigi e gli Stati Uniti, e in alcune vetrate dell’antica collegiata di Saint-Quentin. Tra le vetrate che manifestano in modo più significativo i caratteri classici e nello stesso tempo naturalistici dello stile 1200 è la splendida finestra assiale con un programma tipologico imperniato attorno alla Crocifissione della chiesa abbaziale di Orbais in Champagne, databile attorno al 12oo appunto, al momento della costruzione delle parti alte del coro. Qui uno straordinario virgulto naturalistico si arrampica lungo il bordo e il complesso programma iconografico, legato a quello delle antiche vetrate di Châlons-sur-Marne è composto e impaginato con grande attenzione agli effetti spaziali16. Nella stessa area e nello stesso clima culturale, forse dovute ai medesimi maestri che hanno lavorato a Orbais, sono le vetrate della cappella castrale di Baye (caso rarissimo di conservazione delle vetrate in un monumento di questo tipo) costruita tra il 1205 e il 122017. In stretto rapporto con questa cultura è la rosa della facciata meridionale del transetto della cattedrale di Losanna eseguita da un maestro piccardo18. Il grande ciclo cosmologico unitariamente organizzato entro la superficie della rosa (il cui diametro misura circa nove metri), spartita all’interno da una serie di quadrati in essa inscritti, è un autentico vertice della composizione enciclopedica figurata. La sua singolare forma ha attirato l’attenzione di Villard de Honnecourt che ne ha ricordato lo schema, pur apportandovi numerose varianti, in una delle pagine del suo taccuino, annoverandola cosí tra i casi esemplari di disegno architettonico19. Ne fu autore Pierre d’Arras, a Losanna tra il 1217 e il 1235, e i confronti che per quest’opera si possono istituire riman-
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dano tutti, sia sul piano iconografico sia su quello stilistico, verso la Francia del nord20. Diverso è il caso di quattro medaglioni con scene della vita del Battista anch’essi provenienti dalla cattedrale di Losanna. Stilisticamente assai lontani dalla rosa, meno gotici e per contro aperti a influenze bizantine, essi sono stati messi in rapporto con vetrate di Lione e di Clermont-Ferrand e con esempi renani. Tratti caratteristici ne sono una rilevante presenza di elementi architettonici, le figure mosse, un panneggio molto abbondante con un modo tipico di ritorcerlo e avvolgerlo intorno alla vita che ricorda certi personaggi dell’altare di Klosterneuburg di Nicolas de Verdun e che rimandano anche in questo caso, sia pure soltanto per certi particolari, alle piú antiche manifestazioni dello stile 1200. Molti elementi di questi medaglioni sembrano in effetti indicare una datazione abbastanza precoce21.
Chartres. Il piú esteso e celebre insieme di vetrate di quest’epoca è quello della cattedrale di Chartres22. In tempi non troppo lontani, anzi, l’intero duecento era letto nel segno di Chartres, considerato come centro propulsore ed egemone di un gran periodo della storia della vetrata. Oggi questo punto di vista non è piú condiviso, in primo luogo perché sono stati messi in luce altri centri con tendenze specifiche proprie (in particolare, come si è visto, il nord-est, fortemente classicheggiante), in secondo luogo perché Chartres, lungi dal presentare un aspetto unitario, fu piuttosto luogo di incontro e di scontro di tendenze molto distanti. Ci si trova qui di fronte a opere spesso di eccezionale livello, a personalità diverse, a una miriade di pro-
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blemi che vanno dalla seriazione cronologica dell’insieme alla caratterizzazione dei singoli maestri, alla organizzazione degli atelier, alle ipotesi sulla loro provenienza, al rapporto non sempre facile da impostare e da verificare tra pluralità di maestri e pluralità di atelier23. Controverso è stato il problema della collocazione cronologica delle varie vetrate. Se il punto di vista piú condiviso è quello che situa le vetrate delle navate laterali anteriormente a quelle del coro e in un periodo piú avanzato le rose delle facciate sud e nord del transetto e le finestre alte, non è mancato chi ha voluto invertire la precedenza tra coro e navate24. Il problema è complicato dal fatto che le opinioni sono state per lungo tempo discordi anche sulle tappe della ricostruzione della cattedrale, che alcuni vorrebbero far iniziare dal coro, altri dalla navata25. Intorno al 1217, in ogni modo, le strutture piú importanti della chiesa erano erette e su di esse posava la volta. Questa data ci viene da un passaggio della Philippide, opera di Guillaume le Breton, cappellano e storiografo di Filippo Augusto, che alla ricostruzione della cattedrale di Chartres dedica una trentina di versi – scritti probabilmente tra il 1214 e il 1217 – del quarto libro della sua opera, dove parla tra l’altro della nuova volta grazie alla quale la chiesa non temerà piú il fuoco fino al giorno del Giudizio26. Per certe finestre e per la rosa sud e nord esistono alcuni punti fermi grazie alla presenza di donatori storicamente situabili27. Quanto ai raggruppamenti stilistici e alla distinzione delle mani, iniziati con la monografia del canonico Delaporte e sviluppati in molti studi di Louis Grodecki28, sono state ormai ricostruite, attribuendo loro un nome convenzionale, un gran numero di personalità attive con diversi ruoli, talora di progettisti e di pittori di una vetrata, talora di collaboratori a una vetrata concepita da altri. Alcuni di questi maestri partecipano delle tendenze espressive tipiche dell’ovest –
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cosí il Maestro di Saint-Lubin, autore di alcune vetrate della navatella sinistra tra cui quella da cui prende il nome dedicata a Leubinus vescovo di Chartres29, o il Maestro del Buon Samaritano –, altri invece si mostrano all’unisono con le tendenze classiche di Soissons, Saint-Quentin e Laon, come il geniale Maestro di Saint-Eustache, uno dei massimi pittori del duecento30. Altri ancora rivelano contatti con l’ambiente parigino; lo provano i rapporti esistenti tra le vetrate della rosa occidentale della cattedrale di Chartres e quelle della rosa occidentale di Notre-Dame di Parigi. Alcuni di questi maestri sono piuttosto arcaizzanti, altri, la cui opera avrà vaste ripercussioni, risolutamente moderni e aperti verso l’avvenire. Le tendenze euritmiche, armoniche, lineari che si esprimono in alcune delle vetrate più famose, come quella della Morte della Vergine nella navata laterale sud o nelle vetrate di Carlo Magno, di San Giacomo e nelle molte a esse collegate nel deambulatorio, contrastano con ricerche espressive più accentuate, con soluzioni più plastiche, talora con uno stile più violento e brutale. Questo è ben rappresentato dal Maestro di Saint-Chéron31, che prende nome da una vetrata del deambulatorio offerta dai tagliapietra e dagli scultori, il cui linguaggio angoloso e severo è avvertibile sia nelle vetrate alte della navata, sia in certe finestre alte del coro e nella rosa sud. La maggior parte dei problemi resta dunque aperta: tra essi è quello dei rapporti che uniscono certe vetrate della cattedrale di Chartres a opere esistenti in altri centri, da Laon a Soissons, a Sens, a Parigi, a Le Mans, che si possono spiegare in certi casi con la provenienza da questi ambienti di maestri operosi a Chartres, e successivamente con una diaspora dei maestri di Chartres. Altro problema di grande importanza è quello dei rapporti che a Chartres sono intercorsi tra sculture e vetrate.
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Per molti aspetti nel campo della vetrata e in quello della scultura la situazione appare simile nella presenza contemporanea di maestri di differente provenienza e orientamento: anche tra coloro che operarono alle vetrate si trovano artisti veramente innovatori e di straordinaria qualità come era stato in scultura il grande Maestro delle Teste dei Re nel portale nord32. Un punto interessante da chiarire sarebbe quello dell’interscambio tra i due territori. Si è già accennato all’osservazione di Louis Grodecki che rilevava l’esistenza di caratteri comuni tra sculture e vetrate di Chartres. Ciò può essere spiegato sia con l’esistenza di disegni preparatori forniti da uno stesso artista a coloro che operavano nelle due tecniche, sia con l’influenza che le ricerche e le soluzioni trovate in un campo poterono esercitare sull’altro.
Centri francesi nel duecento. Bourges. Una situazione analoga a quella di Chartres si presenta a Bourges33, la cui cattedrale ospita un altro eccezionale complesso vitreo degli inizi del duecento. Qui sono stati distinti alcuni gruppi di opere raggruppandoli principalmente attorno alle personalità di tre anonimi maestri: il Maestro del Buon Samaritano, vicino allo stile appassionato e ancora carico di stilemi romanici delle vetrate di Poitiers, nonché parallelo, per certi aspetti, al Maestro di Saint-Lubin di Chartres, cui sono avvicinate otto delle ventidue vetrate superstiti; il Maestro della Nuova Alleanza, prossimo allo stile classico di Chartres; e un terzo maestro, il piú moderno e gotico dei tre, il Maestro delle Reliquie di santo Stefano. Questi, accanto ai Maestri di Saint-Eustache e di Saint-Chéron a Chartres, e a quello insolito e drammatico della finestra dei santi Gervasio e Protasio a Le Mans (circa 1255), è tra i massimi pittori del duecento.
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L’ovest, la Normandia e il centro. Se le cattedrali di Chartres e di Bourges raccolgono i cicli piú vasti, significativi e conosciuti del primo duecento, la storia delle vetrate francesi del momento non si esaurisce in questi due nomi. La ricostruzione o le profonde modificazioni apportate in questo periodo, che, come si è detto, ha visto una intensissima attività costruttiva attorno a un gran numero di cattedrali, fa sí che sia molto alta in questi decenni la produzione di vetrate nell’ovest. Sono assai interessanti le vetrate della cattedrale di Saint-Maurice ad Angers, dove alcune finestre dei primi decenni del duecento, eseguite sotto l’episcopato del vescovo Guillaume de Beaumont (12033o) e di altri prelati della medesima famiglia, mostrano, sia nella decorazione sia nell’impaginazione, la persistenza di stilemi tradizionali del secolo precedente34. Altro centro significativo dell’ovest, in contatto con Angers, è Poitiers, nella cui cattedrale vetrate di altissima qualità della fine del xii e degli inizi del xiii secolo mantengono una foga espressiva e una tendenza alla stilizzazione ancora romaniche. Sempre nella Francia dell’ovest si trova Le Mans, città che dal dominio dei Plantageneti era passata a quello dei re di Francia, la cui cattedrale venne ricostruita nella sua parte orientale, a partire dal 1217, dal vescovo Maurizio, che aveva ottenuto dal re Filippo Augusto il consenso a costruire un edificio piú spazioso che si estendesse oltre l’antica cinta muraria, secondo lo stile gotico dell’Ile de France. Il coro venne edificato seguendo un grandioso progetto che, per spaziosità e luminosità, è paragonabile a quello della cattedrale di Bourges. Tale progetto prevedeva un doppio deambulatorio con una serie di cappelle che da esso si irradiano, e conseguentemente tre livelli di finestre diversamente disposte nello spazio: quelle alte del coro, quelle
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del deambulatorio e quelle delle cappelle. La consacrazione avvenne nel 1254 sotto il vescovo Geoffroy de Loudun; quanto alle vetrate, una parte, quelle delle cappelle che si irraggiano dal deambulatorio, fu allestita intorno al 123535, mentre quelle delle finestre alte, dove si trovano alcuni capolavori di un maestro espressivo e violento, autore del martirio dei santi Gervasio e Protasio, si situano intorno al 1250-55. La cattedrale di Rouen, ricostruita a partire dalla fine del xii secolo, particolarmente dopo che nel 1200 un incendio aveva devastato il precedente edificio romanico, è contemporanea a quelle di Chartres e di Bourges, e ha ricevuto piú o meno nello stesso periodo una parte importante della sua decorazione vitrea37. I pannelli di alcune vetrate eseguite all’inizio del secolo per le finestre della navate laterali (tra queste una con storie del Battista) sono stati reimpiegati dopo il 127o nelle nuove cappelle che si aprono sulla navata sinistra per creare le belles verrières, cosí chiamate fin dal trecento, che raggruppano diversi medaglioni con storie di santi. Al medesimo maestro delle storie del Battista, che fu, all’inizio del duecento, una notevole personalità della prima pittura gotica, appartiene una vetrata con la leggenda dei Sette Dormienti di Efeso, ora divisa tra la cattedrale di Rouen e alcune collezioni americane38. Un importante gruppo di vetrate donate da gruppi di mercanti e artigiani (pescivendoli, tagliatori di stoffe, mercanti di stoffe e cosí via) è di poco piú tardo (1220-3o) e rimane nella collocazione di origine nel deambulatorio. Tra queste è la vetrata con storie di Giuseppe ebreo, che porta una firma (rarissima in questo periodo) di un maestro di Chartres di nome Clemente, cosa che prova – anche se stilisticamente non è possibile riconoscere la mano di Clemente in alcuna delle vetrate di Chartres – i contatti tra i cantieri delle due cattedrali. Altre vetrate, nella cappella del Sacramento, sono un poco piú
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tarde (1266) e concedono molto spazio al vetro incolore dipinto a grisaille. Esse sono state donate da Azon le Tort, borghese di Rouen, e lo rappresentano con due familiari nell’atto di offrire le vetrate alla Vergine. Nel centro della Francia, le vetrate dell’abside della cattedrale di Lione, eseguite tra il 1215 e il 1225, molto restaurate nell’ottocento, mostrano caratteri propri piuttosto diversi da quelli protogotici di tante vetrate di Chartres, Bourges e Rouen. Si tratta qui di una persistente apertura alle influenze bizantine che accompagna la posizione politica della città e del suo episcopato, legati all’impero piú che alla Francia capetingia, ma non priva di rapporti con quest’ultima e sensibile in certe vetrate a esempi nordici o borgognoni39.
Borgogna e Champagne. La cattedrale di Sens nel xii secolo fu uno dei primi monumenti della nuova architettura gotica e, agli inizi del xiii secolo, luogo di precoci sperimentazioni plastiche da parte di scultori interessati ai modelli classici. Sens fu il centro di una archidiocesi molto importante ed ebbe stretti rapporti con l’Inghilterra, in particolare con Canterbury, dove la nuova cattedrale era stata iniziata da Guillaume de Sens, un architetto proveniente dalla città borgognona. La cattedrale di Sens conserva nel deambulatorio settentrionale quattro vetrate di assai alta qualità, verisimilmente eseguite poco dopo il 1207, quando un incendio devastò la chiesa. Una di esse illustra, con un commento tipologico come a Chartres e a Bourges, la parabola del Buon Samaritano40, un’altra la vicenda del Figliuol prodigo, mentre altre due, di cui spesso sono stati messi in luce i rapporti con Canterbury e che sono di altra mano rispetto alle prime, sono dedicate a sant’Eustachio e a san Thomas Becket.
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La cattedrale Saint-Etienne di Auxerre entra precocemente nella storia delle vetrate e vi occupa un posto importante. Di vetrate infatti parlano ripetutamente le Gesta dei suoi vescovi a partire dall’epoca carolingia41, mentre, come si è visto, nell’xi secolo uno dei suoi prelati nominò canonico onorario della cattedrale un maestro vetrario. Intorno al 1215 il vescovo Guillaume de Seignelay intraprese con propri fondi la costruzione della nuova cattedrale gotica42, e il suo successore, Henri de Villeneuve (1220-34), provvide a farne largamente invetriare il deambulatorio, la cappella assiale e le finestre alte del coro. Malgrado le distruzioni causate nel 1567 dagli ugonotti e le successive risistemazioni che, aggregando pannelli provenienti da finestre diverse, completando e integrando le singole vetrate, hanno non poco confuso la situazione rendendo poco leggibile il programma iconografico e difficile la lettura stilistica, quanto ancora resta è imponente. Almeno tre diversi atelier, verisimilmente di origine locale o quanto meno borgognona, vi hanno lavorato tra il 123o e il 1250 circa, con modi talora violenti e abbreviati, spesso di qualità non molto alta ma di grande efficacia. Assai interessante è il largo e precoce uso di vetri incolori dipinti a grisaille che inquadrano personaggi e talora scene. A Reims la cattedrale venne ricostruita in una trentina d’anni tra il 1210 e il 1240. Poco è rimasto della sua invetriatura, anche perché molte finestre della navata furono fatte distruggere nel settecento dai canonici e sostituite da altre di vetro chiaro per ottenere una maggiore luminosità. Rimangono in parte le vetrate alte del coro e alcune delle finestre alte delle travate orientali della navata, dove si dispiega un significativo programma iconografico volto a esaltare l’importanza e il primato di questa sede metropolitana e il suo ruolo nell’unzione dei sovrani. Nelle vetrate alte del coro gli apo-
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stoli, e sotto di loro i vescovi delle sedi suffraganee di Reims, con rappresentazioni schematiche ma estremamente efficaci (tra le piú belle immagini di architetture del xiii secolo) delle loro cattedrali, sono riuniti attorno a Cristo e alla Vergine, all’arcivescovo Hugues de Brasne (1227-40) e alla sua chiesa43. A Troyes, capitale dei conti di Champagne, che furono tra i maggiori vassalli della corona, sotto il vescovo Garnier de Trainel iniziarono, intorno al 1200, i lavori per una nuova cattedrale44. La costruzione dell’edificio sarà assai lunga, circa tre secoli, per non parlare dei lavori alla facciata che si prolungheranno ulteriormente, ma il coro sarà compiuto nel corso della prima metà del duecento da tre distinti architetti, di origine locale il primo, provenienti dall’Ile de France il secondo e il terzo. Quest’ultimo, particolarmente aggiornato sugli ultimi sviluppi dell’architettura gotica, innalzò la parte superiore, crollata a causa di un uragano nel 1228, progettando un triforio aperto verso l’esterno analogo a quello recentissimo di Saint-Denis. Alle vetrate sarà cosí concesso uno spazio amplissimo, sia nelle finestre delle cappelle che si irradiano dal deambulatorio, sia nelle finestre alte, sia nelle finestre del triforio, in un susseguirsi ininterrotto di immagini luminose che fa della cattedrale di Troyes un edificio straordinariamente suggestivo dalle pareti diafane e scintillanti. Molto tormentate nel corso dell’ottocento da restauri, completamenti, ridipinture, sostituzioni, le vetrate delle cappelle del deambulatorio del coro mostrano la presenza di maestri diversi. Un primo atelier, attivo all’inizio del secolo, è fortemente marcato dalle tradizioni locali e ancora memore delle formule decorative mosane; un secondo, operoso verso il 122o, di grande altezza stilistica, non è lontano dallo stile 12oo quale si manifesta nell’area di Laon-Soissons, come appare evidente dalle pieghe profonde e movimentate dei suoi personaggi. Esso
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è autore di una vetrata con la vita della Vergine e di una con l’albero di Jesse da cui provengono probabilmente alcuni splendidi profeti oggi al Victoria and Albert Museum a Londra. Un terzo atelier, infine, è piú prossimo ai modi parigini. Piú tardi, verso il 1240-50, un maestro di origine locale diresse l’invetriatura delle finestre alte del coro, assai ben conservate, dai toni espressivi e dalla stesura rapida e abbreviata in cui si susseguono, con straordinari effetti cromatici, personaggi e scene sovrapposti su tre registri.
Parigi. Un problema chiave per seguire lo sviluppo della vetrata francese nel duecento è quello della fisionomia e dell’evoluzione del centro parigino. Opera fondamentale in questo contesto è la rosa occidentale della cattedrale di Notre-Dame (con i segni dello zodiaco, i lavori dei mesi, i vizi e le virtú, i profeti), di cui restano ancora in loco alcuni frammenti autentici e che va datata verso il 122045. Altre rose appartenenti agli stessi anni esistono ancora nell’Ile de France: quella occidentale della collegiata di Mantes con il Giudizio Universale46, quelle di Notre-Dame di Donnemarie-en-Montois47 presso Provins, quella orientale di Brie-Comte-Robert con il Cristo benedicente, gli apostoli e una bella serie dei lavori dei mesi; mentre vetrate di una certa importanza rimangono nell’abside di Saint-Germain-lès-Corbeil a sud-est di Parigi48, a Saint-Jean-aux-Bois, e il Musée de Cluny a Parigi conserva alcuni frammenti di vetrate provenienti dalla chiesa di Gercy tra cui quelli di un Albero di Jesse49. Per alcune di queste opere sono stretti i rapporti con la zona di Soissons-Laon nonché con la rosa occidentale di Chartres, probabilmente influenzata da quella di Notre-Dame; per esse si può parlare di
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uno sviluppo in senso gotico rispetto al classicismo del Salterio di Ingeburge e dello stile 1200. È probabile che molto presto, già agli inizi del duecento, Parigi abbia assunto quel ruolo capitale nell’elaborazione e nello sviluppo del linguaggio gotico che la caratterizzerà ai tempi di san Luigi. Particolarmente istruttivo in questo senso è il seguire lo sviluppo parallelo della vetrata e della miniatura nella regione parigina. Sarebbe pure essenziale valutare fino a che punto la presenza della corte, in una città che agli inizi del secolo, sotto Filippo Augusto, si ingrandisce e a tutti gli effetti diventa l’autentica capitale del regno, abbia potuto incoraggiare o determinare certi sviluppi stilistici, analogamente a quanto avviene per l’architettura50 e per la scultura, dove la tendenza cortese che si manifesta nel portale della Vergine di Notre-Dame, per svilupparsi in seguito a Reims e ad Amiens, diventa una delle principali caratteristiche del linguaggio plastico del gotico francese51.
La Sainte-Chapelle. Un rilevante mutamento stilistico ha luogo per l’appunto a Parigi attorno al quinto decennio del xiii secolo e si accompagna alle significative trasformazioni che in campo architettonico vengono accostate – ma l’ipotesi non è interamente pacifica ed è ancora discussa – al nome di Pierre de Montreuil52. Fino ad allora la formula corrente messa a punto nei grandi edifici a piú piani prevedeva che le vetrate delle finestre basse delle navate fossero dedicate a temi agiografici, leggendari e a episodi della storia sacra esposti in diverse scene, incorniciati da medaglioni (raggruppati a loro volta in diverse combinazioni), mentre le finestre alte erano dedicate a un solo personaggio (o eventualmente a due o a tre
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personaggi sovrapposti), spesso un apostolo o un profeta, talora incorniciato da una inquadratura architettonica (come è stato osservato53, la vetrata che rappresenta un personaggio in piedi sotto un’incorniciatura architettonica riprende un tema ellenistico abbondantemente sfruttato nella scultura romanica). Nelle finestre alte le scene (come l’Annunciazione e la Visitazione a Chartres) non erano, invece, molto frequenti. L’evoluzione dell’architettura gotica nel corso del duecento alterò il rapporto stabilito tra finestre alte, finestre del triforio e finestre basse risolvendolo, in certi casi limite come può essere quello appunto di una cappella di palazzo, in una sola grande finestra dall’accentuato sviluppo verticale. La forma della finestra mutò anche per l’introduzione di elementi verticali in muratura che la dividono in due o piú scompartimenti alti e stretti. Parallelamente mutarono le composizioni e prevalse una forma di pura sovrapposizione dei medaglioni, fossero essi ovali, tondi, polilobati. Fondamentale importanza ha il ciclo della Sainte-Chapelle di Parigi, eretta tra il 1241 o forse il 1244 e il 1248 per ospitare la Corona di spine e altre preziose reliquie acquistate da san Luigi all’imperatore d’oriente Baldovino. L’insieme è uno straordinario monumento alla monarchia a cui fanno continuo riferimento i gigli di Francia e i castelli di Castiglia di cui sono tempestati i bordi, l’albero di Jesse, le frequenti scene di incoronazioni e le continue allusioni ai re di Israele. San Luigi si propone con quest’opera come un nuovo Salomone costruttore di un tempio di pietre preziose per la corona di Cristo54. Le quindici grandi finestre – otto a quattro luci, sette a due luci – rappresentano scene che illustrano diversi libri della Bibbia, da quello della Genesi a quello dei Re a quello di Ester, sottolineando i momenti e le storie in cui si scorgeva una allusione alla venuta di Cristo, episodi delle vite di san Giovanni Bat-
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tista e di san Giovanni Evangelista, episodi della Passione e dell’infanzia di Cristo, l’albero di Jesse. Una finestra infine è consacrata alle storie delle reliquie della Croce, della loro traslazione e della costruzione della Sainte-Chapelle. La rosa occidentale, che ospita un ciclo della fine del xv secolo doveva essere già inizialmente, come lo è oggi, consacrata all’Apocalisse. Il senso del complesso programma iconografico è stato definito da Louis Grodecki come la storia della Redenzione che emerge dall’Antico Testamento e che a questo è legata dalle parole dei profeti, mentre all’incarnazione di Cristo rappresentata nell’abside con le storie dell’infanzia e della Passione corrisponde la sua seconda venuta nella rosa occidentale con l’Apocalisse. In rapporto ai programmi iconografici dei primi decenni o della metà del xiii secolo, quello della Sainte-Chapelle è di una potente originalità e di una grande sottigliezza. Esso, ispirato certamente da un grande teologo (Matteo di Vendôme, suggerisce interrogativamente il Grodecki), sembra rifarsi alle tendenze della Scolastica contemporanea, dalla esegesi preoccupata sia dal senso letterale» delle Scritture, sia dalla varietà delle interpretazioni simboliche che non si riducono al confronto di «tipi» e di «anti-tipi», luogo comune dell’iconografia tradizionale del xiii secolo55. L’insieme, danneggiato gravemente nel xviii e agli inizi del xix secolo, è stato oggetto di un attento restauro alla metà dell’ottocento. In questa grande impresa sono stati distinti particolarmente tre atelier: un primo a cui è dovuta la maggioranza delle scene, la vetrata centrale con la Passione, le finestre settentrionali e tutte quelle dell’abside a eccezione di quella di Ezechiele; un secondo che lavorò alle finestre di Ezechiele e del Libro dei Re; un terzo, infine, cui spettano sul lato sud le finestre con le storie di Giuditta e di Giobbe e quelle tolte dal Libro di Ester, animato da un maestro che probabilmente fu il più
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geniale tra quelli che lavorarono al ciclo e che fu forse anche miniatore, tanto la sua maniera trova paralleli in manoscritti parigini del tempo. Le alte vetrate a medaglioni sovrapposti rappresentano, con i cicli di Chartres e di Bourges, uno degli apici della vetrata duecentesca. Lo stile veloce e spezzato delle ben 1134 scene deriva da quello delle vetrate della cappella della Vergine di Saint-Germain-des-Prés, costruita da Pierre de Montreuil tra il 1232 e il 1245, ora disperse in varie chiese, collezioni e musei56, ed esercitò una grande influenza sulle vetrate francesi della seconda metà del duecento.
Dopo la metà del secolo. Influenze precise delle vetrate della Sainte-Chapelle si avvertono nelle vetrate del coro della cattedrale di Saint-Gatien a Tours57, nella cui costruzione Luigi IX e Bianca di Castiglia furono particolarmente impegnati58. Nel coro della chiesa, l’invetriatura del triforio e delle quindici finestre alte causa una luminosità straordinaria e propone esempi di grandissimo interesse, che per piú di un aspetto si pongono in una situazione di cerniera tra due modi di concepire e di intendere le vetrate. Le vetrate sono databili tra il 126o e il 1270 circa grazie alla presenza di un certo numero di donatori (tra cui Vincent de Pilmil, arcivescovo di Tours dal 1257 al 1270, Geoffroy Freslon, vescovo di Le Mans tra il 1258 e il 1269, Jacques de Guerande, decano del capitolo e quindi vescovo di Nantes dal 1264 al 1267), e se i punti di contatto con le vetrate della Sainte-Chapelle e con certi manoscritti luigiani dal punto di vista stilistico e compositivo sono evidenti59, le novità balzano anch’esse agli occhi, prima fra tutte l’uso degli ampi spazi chiari che incorniciano o si alternano alle zone intensamente colo-
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rate, come nella vetrata dei canonici di Loches (dopo il 1259)60. Non particolarmente dipendenti da quelle della Sainte-Chapelle, come è stato ripetutamente affermato, sono le vetrate della nuova cattedrale di Clermont-Ferrand, costruita dall’architetto Jean Deschamps nello stile dell’Ile de France61. Essa venne ampiamente invetriata tra il 1265 e il 127562 circa, mantenendo, contro la tendenza prevalente a quel tempo dello schiarimento della gamma cromatica attraverso l’inserimento nelle vetrate di larghi spazi di vetri bianchi dipinti a grisaille, la tradizione delle vetrate a pleine couleur63. Le vetrate della cattedrale di Amiens, ricostruita a partire dal 1220, hanno subito infinite traversie, dovute a distruzioni, a restauri, e a un incendio che, immediatamente dopo la prima guerra mondiale, ne danneggiò e distrusse un buon numero nell’atelier del restauratore, sí che l’analisi di quanto resta, sparpagliato per giunta da dispersioni, non è agevole. La vetrata piú significativa è quella di impianto monumentale donata nel 1269, anno in cui venne completata la parte orientale della chiesa, dal vescovo Bernard d’Abbeville (1259-81), che vi si è fatto rappresentare accompagnato da angeli nell’atto di offrire una vetrata alla Vergine.
L’Inghilterra. La situazione delle vetrate inglesi della prima metà del duecento è assai difficile da ricostruire a causa delle gravissime distruzioni subite nel corso del cinquecento e del seicento per l’abbandono di molti edifici monastici e per le ventate di iconoclastia ai tempi del Commonwealth. Ancora una volta il monumento di gran lunga piú importante e che ha conservato il maggior numero di opere è la cattedrale di Canterbury, dove l’at-
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tuazione del grande programma di invetriatura continuò nei primi decenni del secolo, almeno fino alla traslazione delle reliquie di san Thomas Becket avvenuta nel 122o, e vedrà succedere agli stilemi romanici spezzati e tormentati, l’equilibrio armonico dello stile 12oo e il pungente ed elegante linguaggio protogotico. I rapporti con la Francia, che sono stati già messi in evidenza per le vetrate del secolo precedente64, proseguono in questo periodo: i contatti appaiono assai stretti e danno addirittura l’idea di un frequente interscambio tra i due paesi. Lo provano non solo le somiglianze tante volte evocate tra certe vetrate di Canterbury e quelle duecentesche di Sens, ma anche quelle che si possono avvertire sul piano cromatico, stilistico, compositivo, tra le stesse vetrate di Canterbury e quelle di Chartres, Bourges o Rouen65. Gli stretti rapporti culturali e politici tra i due paesi non sono sufficienti a spiegare analogie cosí forti, tanto piú quando si constati che, portate a tal grado, esse hanno pochi paragoni in altre tecniche come l’architettura, la scultura, la miniatura; si deve allora concludere che certi maestri devono aver lavorato dalle due parti della Manica, siano essi stati francesi operosi in Inghilterra o inglesi operosi in Francia. Del resto, certi legami non possono che essere stati corroborati dal periodo di esilio che l’arcivescovo e i canonici di Canterbury trascorsero in Francia tra il 1207 e il 1213, ed è significativo che proprio le ultime vetrate di Canterbury, quelle approntate dopo il ritorno degli ecclesiastici dall’esilio, siano quelle che maggiori rapporti mostrano con esempi gotici francesi. Le piú significative vetrate protogotiche della cattedrale di Canterbury sono alcune di quelle dedicate agli antenati di Cristo che fanno parte del ciclo iniziato già da decenni delle finestre alte; ne è un esempio la straordinaria figura del profeta Ezechia, piena di movimento, di contrapposti e di sottili grafismi, elegante e armonica nel
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panneggio, che doveva trovarsi un tempo in una finestra alta della Trinity Chapel ed è oggi nel transetto sud. Nella Trinity Chapel si trova un ciclo composto originariamente di dodici vetrate, di cui sette sono conservate in loco, mentre altri frammenti sono dispersi in musei. Esso è dedicato alla vita e ai miracoli post-mortem di san Thomas Becket e segue un ricchissimo programma iconografico elaborato sulla base di due testi della fine del xii secolo. Vi sono stati identificati i modi di due maestri, che, dai nomi di due dei personaggi miracolati che vi sono rappresentati, sono stati chiamati Petronella Master e Fitz Eisulf Master. Il primo, di formazione francese secondo Madeline Harrison Caviness, avrebbe lavorato anche a Saint-Remi di Reims e a Braine66; il secondo, piú prepotentemente gotico, avrebbe seguito i religiosi in esilio, interrompendo la sua attività alle vetrate della Corona e della Trinity Chapel per progettare vetrate alla cattedrale di Sens e forse anche a Chartres (vetrata di Giuseppe ebreo)67 e, ritornato in Inghilterra, avrebbe compiuto il ciclo prima della traslazione delle reliquie. Contemporanee a quelle di Canterbury, e dunque eseguite all’incirca tra il 12oo e il 1220-25 per la cattedrale ricostruita dopo il terremoto del 1185 da Geoffroy de Noyers con soluzioni geniali e assolutamente inconsuete, sono le vetrate di Lincoln, la cattedrale che tra il 1235 e il 1253 sarà amministrata da Roberto Grossatesta, il celebre filosofo della scuola di Oxford autore di diversi trattati sull’ottica ed elaboratore di una complessa cosmologia della luce68. Ciò che resta di questa grande impresa attuata fra la fine del xii secolo e il 1235 circa, e di cui è un ricordo in un passo di una composizione metrica sulla vita di sant’Ugo di Lincoln, è di assai alta qualità ma disperatamente frammentario. Poco è rimasto nella collocazione originaria (un esempio ne è la rosa del transetto settentrionale), molto è andato
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distrutto, e molti pannelli sono stati riuniti qua e là in varie finestre alla fine del settecento. Vi sono alcune scene della vita di Mosè, forse frammenti di una vetrata a Mosè dedicata o forse provenienti da vetrate tipologiche, scene della vita e dei miracoli della Vergine e altre tratte dalle storie di diversi santi. Stilisticamente, come nel caso di Canterbury, i rapporti con opere francesi sono molto stretti, tanto che Nathaniel Westlake aveva, a torto, attribuito queste vetrate a un maestro attivo a Bourges, ma i loro autori sono probabilmente maestri locali per cui sono stati fatti dei confronti con i disegni del Guthlac Roll, un rotulo pergamenaceo del primo duecento, oggi al British Museum, che contiene entro medaglioni diciassette scene della vita di san Guthlac di Crowland, e che è stato anche suggerito potesse essere un repertorio di composizioni per vetrate69. Un ruolo importante nell’invetriatura della cattedrale di Lincoln, come del resto in quella di Salisbury (qui il ricco repertorio di grisaille è databile tra il 122o e il 1258) e in quella di York, dove la parete settentrionale del transetto nord è forata da cinque altissime luci (the five Sisters) coperte di vetri chiari, deve essere stato svolto dalle finestre a grisaille, il cui impiego in Inghilterra in questo periodo fu piú esteso di quanto non accadesse altrove in Europa70. Altre interessanti testimonianze vitree dello stesso periodo sono i pannelli oggi nella cosiddetta sala di Gerusalemme dell’abbazia di Westminster, forse provenienti dalla cappella della Vergine, iniziata nel 122o e terminata prima del 1246, della stessa chiesa abbaziale71.
La Germania. La situazione delle vetrate tedesche nella prima metà del duecento è ben diversa da quella esistente in Fran-
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cia, e ciò sia per il numero assai piú esiguo di testimonianze esistenti, sia per particolarità di caratteri stilistici. Diversamente da quanto avvenne in Francia, molte delle grandi cattedrali tedesche di questo periodo (Bamberga, Worms, Magonza, Hildesheim, Paderborn, Magdeburgo, Minden) e delle grandi chiese della Renania, della Westfalia, della Svevia o dell’Assia hanno, con qualche eccezione, perdute le loro antiche finestre vitree72. D’altra parte le vetrate tedesche della prima metà del duecento appaiono scarsamente influenzate dal nuovo stile gotico. Elementi romanici permangono molto piú a lungo, e certe aree in particolare sono profondamente sensibili a nuove ondate di cultura bizantina. Alcune caratteristiche delle vetrate tedesche del xii secolo evidenti in quelle dipinte da Gherlacus – fondi decorati a racemi, ampi bordi dalla lussureggiante decorazione romanica – sono utilizzati ancora per decenni. Tuttavia i maestri vetrari tedeschi non sono impermeabili ad alcune delle novità francesi, e in generale, piú che di un atteggiamento conservatore e statico, sarebbe piú corretto parlare di modelli di sviluppo diversi e alternativi a quelli francesi. Malgrado certe somiglianze, sarebbe erroneo considerare in modo unitario l’intera area artistica germanica in questo periodo. Si possono distinguere grosso modo due grandi zone: quella occidentale-renana, i cui centri sono Colonia, Strasburgo e Friburgo, piú aperta alle suggestioni della Francia, e quella centro-orientale, che più profondamente risente di una temperie romanico-bizantina. Non si tratta tuttavia di aree non comunicanti: a partire almeno dal 1240 circa i rapporti tra le due saranno intensi73. Il ciclo di vetrate piú occidentalizzante della prima metà del duecento in Germania è quello del coro (costruito tra il 1215 e il 1230 circa) della chiesa di Sankt Kunibert a Colonia74, uno dei pochi monumenti
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tedeschi ad aver conservato la sua decorazione vitrea originale, che conta sia finestre con grandi personaggi in piedi (santa Cordula, sant’Ursula, santa Cecilia, santa Caterina, san Giovanni Battista) con inginocchiati in basso donatori laici ed ecclesiastici, sia vetrate leggendarie a medaglioni sovrapposti (storie di san Clemente primo patrono della chiesa, di san Cuniberto), sia il diffuso tema dell’albero di Jesse. Questo è trattato secondo una formula iconografica diversa da quella prevalente in Francia, a Saint-Denis, Chartres e altrove: sui piani successivi dell’albero che sorge dal fianco del patriarca addormentato si trovano, al posto dei re, episodi della vita e della Passione di Cristo, mentre re e profeti sono disposti lateralmente secondo uno schema che troverà in Germania largo successo75. Nelle vetrate leggendarie l’organizzazione delle superfici è meno complessa di quanto non sia nelle contemporanee vetrate francesi. Non si trovano qui elaborate combinazioni di medaglioni, ma semplici sovrapposizioni di compassi mistilinei. La forma di questi, che comprendono angoli ed elementi curvilinei, deriva da modelli francesi, ma se ne distingue per soluzioni particolari che si ritroveranno nelle vetrate austriache e in quelle italiane della fine del due e dell’inizio del trecento. Residui romanici76 sono d’altra parte i larghi bordi, talora con colossali fusti di acanto (finestra di san Giovanni Battista). Un altro elemento caratterizzante rispetto alle vetrate francesi è la mancanza dei tipici fondi a mosaico. Lo spazio relativamente ristretto compreso tra gli ampi bordi è interamente occupato dai medaglioni e non vi e più posto per quel complicato gioco dalle significative implicazioni spaziali che in Francia opponeva il fondo variegato, quadrettato, strigilato e variamente operato alla superficie unita dei medaglioni. Prossime alle vetrate di Sankt Kunibert sono due pannelli, ora allo Schnütgen-Museum di Colonia con la
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Morte e Incoronazione della Vergine. Le figure dei donatori, Filippo e Agnese, Theoderus e Gertrude, possono essere paragonate a quelle che appaiono in basso nelle grandi finestre di Sankt Kunibert, per esempio in quella di sant’Ursula. L’organizzazione spaziale vede in primo piano due importanti elementi tridimensionali, il trono e il letto della Vergine, sviluppando proposte già presenti e ben visibili nelle vetrate con storie di san Cuniberto e di san Clemente (Addio di san Cuniberto al re, Insediamento di san Cuniberto vescovo di Colonia, Morte di san Clemente), come anche certi grafismi gotici avvertibili per esempio nella figura del donatore Theoderus. Un ciclo, meno rilevante quanto a dimensioni, legato a quello di Sankt Kunibert è quello di Heimersheim an der Ahr (non lontano da Colonia), che conta nel coro della piccola chiesa una finestra centrale a due luci con scene della giovinezza e della Passione di Cristo, una laterale con grandi figure di san Giorgio e san Maurizio e minori figure di altri santi. Esso contiene qualche elemento maggiormente sviluppato in senso gotico (nell’Annunciazione o nella Santa Caterina) rispetto al ciclo colonese che ne indica una datazione piú tardiva, verso il 1245-50. Purtroppo è stato sottoposto dall’Oidtmann nel 1902 a un pesante restauro77.
Strasburgo. Altro centro i cui contatti con l’occidente gotico furono fondamentali e da cui si irradiarono influenze che nel corso del xiii secolo toccarono la Germania centrale, l’Austria, la Svizzera e l’Italia fu Strasburgo, dove durante tutto il duecento, come nel secolo successivo, ebbe luogo una produzione di vetrate della massima importanza. Rimaneggiamenti ripetuti dovuti a varie
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campagne di costruzione o a incendi hanno sconvolto le disposizioni originali delle vetrate nel duomo78. Nella cattedrale romanica, come si è visto, due serie, una di imperatori, l’altra di profeti e di apostoli, si affrontavano rispettivamente sul lato settentrionale e su quello meridionale della navata. Una finestra con l’albero di Jesse dominava il coro nella finestra assiale, e forse a esso corrispondeva, nella finestra della facciata occidentale, la vetrata con l’imperatore in maestà, il cosiddetto Carlo Magno, oggi nel Musée de l’Œuvre Notre-Dame. Nel xiii secolo le finestre alte della nuova navata sono consacrate nel lato sud alla Vergine e a una teoria di santi martiri, mentre in quello nord si snoda una lunga fila di santi: papi, diaconi, padri della chiesa, guerrieri, vescovi di Strasburgo. Ogni finestra comprende quattro luci e vari personaggi sovrapposti. Grandi finestre a quattro luci vengono aperte anche nelle navate laterali. Attualmente nelle finestre a nord trova posto la serie, estremamente restaurata, degli imperatori, le cui figure sono spesso formate con vetri appartenenti a epoche diverse, mentre le finestre del lato meridionale accolgono vetrate trecentesche che illustrano una sorta di Biblia pauperum. Appartengono invece alla primitiva decorazione vitrea delle navate laterali, distrutta in gran parte in un incendio nel 1298, le rose al sommo delle finestre delle due pareti con scene, spesso assai ben conservate, della vita di Cristo e della Vergine79. Molte vetrate sono dunque andate totalmente o parzialmente perdute, molte hanno subito radicali restauri o, tolte dalla loro originaria collocazione, sono state rimontate assieme a frammenti di altre epoche e provenienze. Per giunta, la trasformazione o la distruzione di talune chiese cittadine ha fatto sí che vetrate di svariata origine siano state rimesse in opera in determinate finestre della cattedrale, talora assieme a resti della decorazione originaria. Per tutte queste ragioni è assai difficile farsi un’idea
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chiara dello svolgimento stilistico delle vetrate strasburghesi nel corso del duecento. Possiamo tuttavia ritenere che almeno quattro diversi atelier abbiano lavorato alla cattedrale durante questo periodo, autore il primo delle vetrate di forte impronta romanica databili ai primissimi anni del secolo, responsabile il secondo di quei vetri ove chiaramente si avvertono i primi elementi gotici, come i frammenti con Davide e Salomone e Salomone e la regina di Saba che attualmente si trovano, accanto ad altri piú antichi, tra cui la Vergine dell’albero di Jesse, in una finestra della parete nord del transetto. Per i suoi rapporti con le sculture del portale del transetto sud, in particolare con quelle del Maestro della Ecclesia e della Sinagoga che vengono generalmente datate verso il 123o, queste vetrate possono appartenere al quarto decennio del secolo. Un terzo atelier, operoso sia in altre chiese della città, sia, come ha proposto il Wentzel, in altri centri della Germania come Francoforte e Naumburg, ha lasciato alla cattedrale numerose vetrate. Ne sono esempi, spesso in perfette condizioni di conservazione, le rose delle finestre delle navate laterali che mostrano quanto questo atelier sia stato sensibile allo Zackenstil germanico, il caratteristico linguaggio agitato dalle tipiche pieghe spezzate a zig zag già a suo modo gotico, anzi prima manifestazione di un gotico tedesco80. Infine un altro atelier, piú goticheggiante in senso occidentale nel trattamento delle vesti e delle capigliature, in cui si sono volute scorgere influenze di Reims, ha terminato l’opera del terzo atelier nelle finestre alte della navata principale.
Friburgo. Il terzo centro della Renania è Friburgo. Qui restano nella antica collegiata (oggi cattedrale) un certo
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numero di medaglioni provenienti da una finestra con l’albero di Jesse, eseguiti prima del 1218 in uno stile classicheggiante non esente dal ricordo di opere di Nicolas de Verdun, oggi collocati nelle finestre romaniche del transetto sud81. Successivamente, come del resto a Strasburgo, le cui influenze sono vive e presenti, penetrano stilemi gotici corretti dalle brusche abbreviazioni dello Zackenstil (frammenti della rosa del transetto sud, oggi nell’Augustinermuseum, e i santi Josaphat, Afra, Maria Maddalena posti sotto elaborati tabernacoli, oggi nelle finestre romaniche del transetto nord). Di qualità eccezionale e in stretto contatto con le rose delle navate laterali di Strasburgo, le Opere di Misericordia, nella rosa del transetto nord82.
Germania centrale e orientale. Un linguaggio artistico che non mostra aperture verso elementi gotici francesi come quello renano, ma che è fortemente influenzato da formule stilistiche e iconografiche bizantine, di provenienza diretta o mediata tramite la Sicilia o Venezia, si incontra in un nutrito gruppo di vetrate della Germania centrale e orientale. Esempi bellissimi sono le cinque grandi figure dell’abbazia di Sonnenkamp a Neukloster (Meklemburg), le finestre del coro di Breitensfelde (Schleswig-Holstein), la finestra degli apostoli nel transetto dell’abbaziale di Marienberg a Helmstedt (tra Braunschweig e Halberstadt), i pannelli con profeti provenienti da un albero di Jesse già nella parrocchiale di Lohne presso Soest ora al Landesmuseum di Münster83, l’albero di Jesse della chiesa di Legden in Westfalia. Altrettanto importanti sono i nove pannelli delle finestre della Marktskirche di Goslar, con storie dei santi Cosma e Damiano, i frammenti provenienti dal duomo della stessa città, ora al locale museo,
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i medaglioni di altissima qualità del duomo di Merseburg, non lontano da Lipsia, la finestra biblica del duomo di Meissen, e infine le vetrate con storie di Cristo e san Francesco della chiesa francescana di Erfurt, significative per la precocissima (circa 1230) iconografia francescana e che numerosi legami hanno, come ha visto il Wentzel, con quelle dell’abside della basilica superiore di San Francesco ad Assisi84 . Il gruppo formato da queste vetrate è abbastanza omogeneo e manifesta caratteri formali comuni e coerenti che lo apparentano alla contemporanea produzione pittorica della Turingia e della Sassonia. Il linguaggio che lo contraddistingue conosce una grande espansione: lo ritroviamo nelle vetrate dell’isola di Gotland (Svezia) come in quelle del coro della chiesa superiore di San Francesco ad Assisi. Se gli elementi tardoromanici e bizantini prevalgono nelle proporzioni dei personaggi, nei panneggi, nelle fisionomie, nel costume, nel repertorio decorativo, non manca qua e là qualche accento gotico, come per esempio negli intensi ed espressivi pannelli di Merseburg, e qualche rapporto con la scultura contemporanea si può scorgere nelle monumentali figure di Neukloster.
Marburg. Contatti con formule e schemi gotici sono piú evidenti nelle vetrate della Elisabethkirche di Marburg, dove le grandi figure della Santa Elisabetta e della Sinagoga mostrano probabili rapporti con modelli francesi, e addirittura con sculture, avvertibili, particolarmente nella Sinagoga, nell’accentuato sbilanciarsi rispetto all’asse d’equilibrio – quel déhanchement tipico delle figure gotiche francesi – e nel contrapposto tra la testa di profilo volta in una direzione e il corpo di tre quarti teso
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nell’opposto verso. Arthur Haseloff, che per primo studiò questo ciclo85, si meravigliava che in una chiesa costruita secondo modelli francesi si trovassero vetrate cosí completamente «non-francesi»; tuttavia ammetteva che, anche se non si poteva parlare di rapporti diretti con le vetrate francesi, queste opere ponessero il problema della ricezione dei modi gotici nella pittura tedesca. Ciò è evidente anche negli esempi apparentemente piú romanici, come nella scena della creazione degli animali, ove l’antica tecnica del graffito ornamentale sul fondo si sviluppa in arabeschi vegetali involutissimi, ma dove il freddo intreccio dei rami è interrotto da morbide gemme coperte di peluria, ove tra gli animali i favolosi grifoni sono circondati da specie piú riconoscibili – gru, anatre, galli, galline, colombi (anche se qui è intervenuta in più di un luogo la mano del restauratore) – segnando nella stessa differenziazione e riconoscibilità delle specie un’evoluzione in senso naturalistico. D’altra parte gli elementi decorativi occidentali a strisce che sbarrano il fondo della grande vetrata di santa Elisabetta o i quadrilobi che compongono il fondo a mosaico della vetrata leggendaria con le opere di misericordia praticate da santa Elisabetta si ispirano alle vetrate gotiche francesi.
Naumburg e lo Zackenstil. Dopo la metà del secolo, anche nella Germania centrale prevale il linguaggio protogotico che abbiamo incontrato nel terzo atelier di Strasburgo. Esempi insigni di questa penetrazione sono le vetrate della cattedrale di Naumburg, successive alla metà del secolo come sembra provare la datazione del coro occidentale proposta da Ernst Schubert86. Qui, nella chiesa per cui l’anonimo artista chiamato il Maestro di Naumburg, uno
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degli scultori piú moderni del secolo, creò nella serie dei Fondatori immagini di un eccezionale vigore espressivo e di un nuovo prepotente realismo, si trova una serie di grandi vetrate con figure di santi, cavalieri, apostoli, vergini, vescovi, virtú e vizi. Le immagini, entro una lunga cornice mistilinea composta dalla sovrapposizione di due compassi quadrilobi, sono situate le une sopra le altre contro un fondo a mosaico. Per svariati aspetti – presentazione frontale, convenzioni fisionomiche, andamento spezzato delle pieghe secondo le formule dello Zackenstil – queste figure sembrano ancora tardoromaniche, ma la stessa impaginazione della vetrata, cosí come la ricerca di volume attraverso la stesura della grisaille, ne rivelano i caratteri gotici. Non siamo qui tuttavia in presenza del tipo di problemi che si erano posti a Chartres, dello stretto rapporto cioè intercorso tra scultori e maestri vetrari. A Naumburg, se questi problemi si sono posti, sono stati poco determinanti e impostati in modo particolare. I maestri che hanno progettato le vetrate di Naumburg possono aver guardato e aver tratto ispirazione dalle statue dei fondatori, ma per tradurne e trasferirne la novità in un sistema di forme piú arcaico, a loro abituale. In realtà questi problemi riguardano l’insieme delle vetrate tedesche fino a una data assai inoltrata del duecento. Quella ricezione di modelli gotici che si verificò nel campo dell’architettura (proprio a proposito di una chiesa tedesca si incontra in un documento il termine di opus francigenum), e che in scultura diede luogo a creazioni di una così profonda originalità come quelle di Naumburg, di Magdeburgo, di Bamberga, nel campo della pittura e della vetrata fu piú lenta e contrastata. Tuttavia, piuttosto che parlare di sopravvivenze tardoromaniche, sarebbe bene valutare in modo positivo lo Zackenstil che Haseloff aveva considerato come una delle manifestazioni piú
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creative dell’arte germanica, e scorgere in esso una soluzione alternativa al gotico francese, una ipotesi di sviluppo diversa. A questo proposito sono estremamente indicative le osservazioni di Hans Wentzel a proposito delle vetrate della chiesa di Bucken an der Weser. Dopo aver sottolineato il ruolo certamente attivo e non puramente passivo che dovettero avere i maestri vetrari creatori di queste opere estremamente singolari, Wentzel conclude con una dichiarazione che vale generalmente per definire lo stile prevalente dell’area qui esaminata: «con le loro vetrate essi crearono uno stile indipendente, una concezione particolare tra il gotico e il romanico. Non piú romanico e non ancora gotico»87. Le vetrate della chiesa di questo piccolo paese situato sulla Weser, a mezza strada all’incirca tra Brema e Hannover, sono tra le piú importanti testimonianze vitree della prima metà del xiii secolo nella Germania settentrionale, ancorché siano state fortemente integrate nel corso di un restauro ottocentesco. Si tratta di tre grandi vetrate, dedicate quella centrale alla vita e alla Passione di Cristo, quelle laterali alle storie dei santi Nicola e Materniano, patrono della chiesa. Singolari sotto l’aspetto iconografico (ogni vetrata comprende due cicli, uno trattato nell’area centrale, l’altro in quelle laterali o nei bordi; così la vita di Cristo è accompagnata da scene che alludono alla celebrazione della Messa, le storie di san Nicola dalle Vergini savie e dalle Vergini folli), queste vetrate non mancano di esserlo anche sotto l’aspetto stilistico, in quanto a evidenti tratti che le accomunano alla tradizione turingio-sassone, si accomunano, specie nelle storie di san Nicola, elementi (forma delle incorniciature dei medaglioni, rapporto delle figure con la superficie del compasso) che sembrano di origine renana. Non si esaurisce qui il repertorio delle vetrate ger-
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maniche nel duecento. Esempi importanti esistono a Ratisbona (frammenti di un albero di Jesse fortemente segnati dai modi dello stile 1200)88, a Francoforte (resti della decorazione vitrea del duomo di una eccezionale qualità, che sviluppano in senso gotico lo stile delle vetrate di Marburg), al museo di Darmstadt e altrove89.
L’Austria. In Austria le vetrate della prima metà del duecento sono scarse. Una tuttavia è di grande rilievo e significato: la grande vetrata della chiesa abbaziale di Ardagger (Niederösterreich), databile tra il 1226 e il 1241, che vede disposte in medaglioni quattordici scene della vita di santa Margherita e il donatore, il canonico Enrico di Passau. Si tratta di una vetrata leggendaria di tipo occidentale che, pur mostrando un repertorio decorativo arcaizzante (amplissimi bordi, raffinatissime imitazioni di pietre preziose, fondo tra i medaglioni decorato a racemi, tituli che si dispiegano lungo il bordo dei compassi per precisare il soggetto rappresentato), non manca di elementi gotici nella impaginazione e nel disegno dei personaggi90. Altre vetrate appartenenti al duecento avanzato si trovano in Carinzia91, nella cattedrale di Gurk e specialmente a Friesach, dove nella vetrata con le Vergini savie e le Vergini folli non sono indifferenti i rapporti con il terzo atelier di Strasburgo. Occorre d’altra parte sottolineare il rapporto che corre tra queste vetrate e gli affreschi della cattedrale di Gurk (databili probabilmente intorno al 126o), che sono uno dei testi fondamentali dello Zackenstil92.
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Vetrate ad Assisi. In Italia appartengono a questo periodo le tre vetrate dell’abside della basilica superiore di San Francesco in Assisi: si tratta di tre grandi bifore tipologiche dove, dal basso verso l’alto, si dispongono rispettivamente, nelle luci di destra, in nove medaglioni per finestra, le storie di Cristo (Infanzia, di cui è conservato solo un medaglione, Vita pubblica, Passione) e, nelle luci di sinistra, corrispondenti esempi dall’Antico Testamento. La data della loro esecuzione è discussa; secondo il Wentzel93 si collocherebbe anteriormente alla consacrazione della basilica superiore (1252), secondo altri in un momento immediatamente successivo. Sono stati messi in luce dal Wentzel i rapporti che uniscono queste vetrate a esempi della Germania centrale (Erfurt, Merseburg), e piú recentemente dal Martin i rapporti con vetrate e miniature della regione medio-renana (stretti in particolare quelli con una scena dalla vetrata della chiesa dei domenicani a Colonia, oggi nella cattedrale), tanto da far concludere senza alcun dubbio che la loro esecuzione spetti a maestri germanici. Resta da precisare la loro data di esecuzione, che non dovrebbe scostarsi di molto dalla metà del secolo, la provenienza dei maestri (il Martin ne distingue due), e infine da chiarire il fatto che ci si sia rivolti a maestri tedeschi piuttosto che a piú moderni maestri francesi, cosa che il soggiorno in Francia di Papa Innocenzo IV, cui si deve verisimilmente l’iniziativa della decorazione vitrea, avrebbe reso possibile. Se per quest’ultima questione un dato importante è l’esistenza nella chiesa dei Frati Minori di Erfurt di un precocissimo ciclo francescano – segno preciso di tangibili rapporti tra Assisi e il centro tedesco – non devono essere trascurati altri tipi di spiegazione, che non escludono il primo, ma lo accompagnano e lo rinforzano. Innanzi tutto, come sottolinea
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il Martin, le vetrate tipologiche con una stretta corrispondenza tra Antico e Nuovo Testamento, espressa nel confronto attraverso l’accostamento di due medaglioni, sono, in questo periodo, una specialità tedesca. D’altra parte sarà bene considerare la maggiore comprensione che il pubblico italiano doveva dimostrare, verso il 1250, nei confronti dello Zackenstil tedesco piuttosto che della piú avanzata situazione francese. Come in Germania, gli elementi gotici penetreranno in Italia prima nell’architettura e nella scultura e quindi nella pittura. Lo stesso divario che avvertiamo nella cattedrale di Naumburg tra le vetrate e le sculture del grande maestro che qui ha lavorato lo riscontriamo in Italia se paragoniamo la scultura di un Nicola Pisano verso il 125o-6o, sensibile del resto a esempi tedeschi oltre che francesi, alla pittura toscana contemporanea. Questo rapporto tra Italia e Germania nasce dunque da una somiglianza di situazioni che certo fu determinante nell’accoglienza di determinate proposte rispetto ad altre. Prende origine qui una consuetudine che avrà il suo peso anche nel corso del trecento, secolo in cui le vetrate italiane continueranno a mostrare rapporti evidenti con quelle germaniche.
La Scandinavia. In Scandinavia un cospicuo gruppo di vetrate di questo periodo è conservato nelle chiese dell’isola svedese di Gotland nel mar Baltico. Lo stile che qui si incontra è in strettissimo rapporto con quello di molte vetrate della Germania centro-orientale, e come questo accoglie numerosissimi elementi bizantini di provenienza probabilmente siciliana (mosaici della Cappella palatina di Palermo) o veneta94. I contatti economico-commerciali tra l’isola di Gotland e i centri della Westfalia e della
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Sassonia furono sufficientemente forti nel duecento per spiegare certi nessi formali, ed effettivamente le vetrate dell’isola di Gotland costituiscono un capitolo importante di quell’espansione europea dello stile turingio-sassone di cui, con maggiore originalità e varietà, testimoniano le vetrate di Assisi. Le piú antiche vetrate dell’isola di Gotland sono quelle di Dalhem (dove lavorarono due diversi maestri), di Barlingbo e di Endre, che si collocano verso il 1230-50. Numerosissimi sono gli elementi germanici: il fondo lavorato a racemi, tutto il repertorio ornamentale nei bordi, nelle aureole, le pieghe dei panneggi, i volti. La qualità è discreta, mentre piú bassa è quella delle vetrate del periodo immediatamente successivo che sono conservate in diverse chiese dell’isola: Mora, Ekste, Sjonhem, Lojsta, Rone e nei musei di Visby e di Stoccolma. Gli stessi maestri lavorarono in chiese diverse usando talora i medesimi modelli, e i risultati risentono di una certa grossolanità artigianale che qualche volta, con il suo fare corsivo, arriva a risultati piacevolmente icastici e già protogotici, come nel pannello con san Martino a Visby, proveniente dalla chiesa di Silte95.
Tra occidente e oriente. Nella prima metà del duecento i poli e i centri propulsori nella vicenda delle vetrate europee sono, schematizzando all’eccesso, principalmente due. Da una parte la Francia capetingia con le sue differenti tendenze: classicheggianti nel nord-est (Soissons, Laon eccetera), violentemente espressive nell’ovest, di una eleganza ricercata e cortese a Parigi. Parallelamente al consolidamento e all’espansione del ruolo politico della monarchia e all’importanza crescente della capitale, quest’ultimo indirizzo finirà, come avviene in scultura, per
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prevalere. Malgrado le diversità di accento, malgrado il carattere preferenziale accordato, nei singoli casi, a elementi differenti, queste tre tendenze, che nel grande cantiere di Chartres si incontrano, si fiancheggiano o anche si affrontano, si compongono in una linea di sviluppo articolata ma fondamentalmente unitaria, ciascuna apportando elementi singoli alla definizione dello stile gotico in pittura. Dall’altra è la Germania imperiale, che manifesta nel cuore stesso del paese, nelle città del centro e del settentrione, tra Reno e Weser, tra Weser ed Elba, la sua opposizione al nuovo linguaggio, la sua fedeltà al rapporto privilegiato con l’oriente imperiale bizantino. Questo rifiuto non deve essere identificato con una posizione puramente conservatrice. Piuttosto, resta da valutare nella sua complessità il problema posto dalla elaborazione e dalla rapidissima, sorprendente diffusione dello Zackenstil, il celebre stile seghettato tedesco. Ciò che sorprende e che pone un difficile quesito di storia del gusto è l’accettazione quasi unanime di questi modelli entro un’area assai vasta, fenomeno che invita a riflettere sulle motivazioni profonde di una accettazione o di un rifiuto. Questo stile non è un romanico tardivo, un manierismo o un barocco romanico, quanto piuttosto una proposta alternativa al gotico. È stato d’altra parte rilevato come sotto la superficie increspata e distorta dai panneggi angolosi e spezzati si manifesti e si prepari «una nuova organizzazione del corpo, una concezione nuova e monumentale dei personaggi e dell’immagine»96. In questo senso, il linguaggio spezzato e sincopato dello Zackenstil perseguirebbe ricerche non molto lontane da quelle dell’armonico, ondulato, sinuoso gotico francese. Sotto una differenza di vocabolario si celerebbe una struttura sintattica non opposta. I due linguaggi non conosceranno tuttavia un’evoluzione parallela e l’avvenire vedrà un rapido affermarsi del gotico francese, che
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nell’ultimo quarto del duecento si porrà, ormai vittorioso, come linguaggio artistico internazionale.
l. grodechi e c. brisac, Le vitrail gothique au XIIIe siècle, Fribourg 1984, resta il riferimento di base per questo periodo. 2 e. panofsky, Gothic Architecture and Scholasticism, Latrobe 1951 [trad. it. Napoli 1986]. Sull’apertura verso l’esterno e l’invetriatura del triforio: r. branner, St Louis and the Court Style, London 1965, pp. 22 sgg.; p. heliot, Les origines et les débuts de l’abside vitrée (XIe-XIIIe siècles), in «Wallraf-Richartz Jahrbuch», 1968, pp. 89 sgg. In generale sulla parete diafana nell’architettura gotica cfr. h. jantzen, Über den gotischen Kirchenraum, in «Mitteilungen der Freiburger wissenschaftliche Gesellschaft», 1927; h. sedlmayr, Die Entstehung der Kathedrale, Zürich 1950, pp. 50 sgg. 3 a. haseloff, in Histoire de l’Art depuis les premiers temps chrétiens jusqu’à nos jours publiée sous la direction d’André Michel, Paris 1905, vol. I, parte II; l. grodecki, Les problèmes de l’origine de la peinture gothique et le «Maître de Saint-Chéron» de la Cathédrale de Chartres, in «Revue de l’Art», 40-41, 1978, pp. 43-64. 4 y. delaporte e e. houvet, Les Vitraux de la Cathédrale de Chartres, Chartres 1926, pp. 2 e 5-6; p. popesco, La cathédrale de Chartres, Paris 1970, p. 25. 5 delaporte e houvet, Les Vitraux cit., pp. 491 sgg. Casi analoghi si presentano nelle vetrate dell’isola di Gotland (Svezia), particolarmente nelle serie di Sjonhem, Lojsta, Rone: cfr. a. andersson, s. christie e c. a. nordman, Die Glasmalereien des Mittelalten in Skandinavien, CVMA, Skandinavien, Stockholm 1964, pp. 61 sgg. Cfr. anche s. brown e d. o’connor, Glass-Painters, London 1991, pp. 32 sgg. 6 m. harrison caviness, Sumptous Arts at the Royal Abbeys in Reims and Braine, Princeton 1990. 7 e. frodl-kraft, Le Vitrail médiéval. Technique et esthétique, in «Cahiers de civilisation médiévale», x (1967), pp. 1-13. 8 e. panofsky, Gothic Architecture and Scholasticism cit. 9 j. baltrusaitis, Réveils et prodiges. Le Gothique fantastique, Paris 1960, pp. 38 sgg. 10 l. grodecki, Le «Style 1200», in Encyclopaedia Universalis, Supplement II, 1980, pp. 1337-40, con bibliografia. 11 f. deuchler, Der Ingeborgpsalter, Berlin 1967; l. grodecki, Le Psautier de la reine Ingeburge et ses problèmes, in «Revue de l’Art», 5, 1969, pp. 73-78. 12 a. weisberger, Studien zu Nikolaus von Verdun, Bonn 1940. A 1
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali Nicolas de Verdun e all’influenza esercitata in Europa dalle sue opere era essenzialmente dedicata la mostra The Year 12oo, New York 1970. 13 r. s. lopez, Economie et architectures médiévales. Cela aurait-il tué ceci?, in «Annales ESC», 1952, pp. 433 sgg. 14 l. grodecki, Les vitraux soissonais du Louvre, du Musée Marmottan et des collections américaines, in «La Revue des Arts», x (1960), pp. 163-78; m. harrison caviness, Modular Assemblages. Reconstructing the choir clerestory glazing of the Soissons Cathedral, in «Journal of the Walters Art Gallery», xlviii (1970), pp. 57-68. 15 Raccolte nella quarta sezione, dedicata appunto a Le Style 12oo, nel primo volume della raccolta di suoi scritti: Le Moyen Age retrouvé, Paris 1986, pp. 383-591. 16 Recensement des vitraux anciens de la France, IV. Les Vitraux de Champagne-Ardenne, Paris 1992, pp. 377-81. 17 Ibid., pp. 325-26. 18 Sulla rosa di Losanna, cfr. e. j. beer, Die Rose der Kathedrale von Lausanne und der kosmologische Bilderkreis des Mittelalters, Bern 1952; j. lafond, Les vitraux de la Cathédrale de Lausanne, in «Congrès Archéologique de France», 1952: Suisse Romande, pp. 116 sgg.; e. j. beer, Die Glasmalereien der Schweiz vom 12 bis zum beginn des 14 Jahrhunderts, CVMA, Schweiz, I, Basel 1956, pp. 25 sgg.; id., Nouvelles réflexions sur l’image du monde de la cathédrale de Lausanne, in «Revue de l’Art», 10, 1970, pp. 57 sgg.; id., Les vitraux du Moyen Age de la cathédrale, in aa.vv., La Cathédrale de Lausanne, Bern 1975, pp. 22156; a. m. hilton, La rose de la cathédrale de Lausanne, in «Zeitschrift für Schweizerische Archaeologie und Kunstgeschichte», xlvi (1989) pp. 251-69. 19 h. hahnloser, Villard de Honnecourt, Kritische Gesamtausgabe des Bauhüttenbuches ms. fr. 19o93 der pariser Nationalbibliothek, Wien 1935. 20 grodecki, Le vitrail gothique cit., p. 124. 21 Sulle scene della vita del Battista si veda il catalogo The Year 12oo, New York 1970, pp. 210-11, il catalogo dell’esposizione realizzata a Losanna per il 7oo° anno della consacrazione della cattedrale, Lausanne 1975, n. 70, p. 93 e il saggio Les vitraux du Moyen Age cit. 22 Recensement des vitraux anciens de la France, II. Les Vitraux du Centre et des Pays de la Loire, Paris 1981, pp. 25-45. 23 Esami recenti, resi possibili dallo smontaggio delle vetrate delle navate laterali e dal loro trasporto in laboratorio per le operazioni di restauro, hanno mostrato l’intervento di maestri apparentemente afferenti ad atelier diversi nella stessa vetrata. Cfr. l’importante articolo di c. lautier, Les peintres-verriers des bas-côtés de la nef de Chartres au début du XIIIe siècle, in «Bulletin Monumental», cxlviii (1990), pp. 7-45.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali p. frankl, The Chronology of the Stained Glass in Chartres Cathedral, in «Art Bulletin», xlv (1963), pp. 310 sgg. 25 j. van der meulen, Die Baugeschichte der Kathedrale Notre-Dame de Chartres, in «Société archéologique d’Eure et Loir. Mémoires», xxiii (1965), pp. 70-126; id., Recent Literature on the Chronology of Chartres Cathedral, in «Art Bulletin», xlix (1967), pp. 152-72; j. james, Chartres, Les Constructeurs, Chartres 1977-81; j. van der meulen, r. hoyer e d. cole, Chartres. Sources and Literary Interpretations. A Critical Bibliography, Boston 1989. 26 j.-p. deremble e c. manhes, Guillaume le Breton et la Chronologie de Notre-Dame de Chartres, in «Notre-Dame de Chartres», settembre 1988, pp. 11-16; f. perrot, Le Vitrail, la Croisade et la Champagne, in Les Champenois et la Croisade, a cura di Y. Bellenger e D. Quéruel, Paris 1989, pp. 100-30; j. welch williams, Bread, Wine and Money, Chicago 1993, p. 17. 27 b. brenk, Bildprogrammatik und Geschichtsverständnis der Kapetinger im Querhaus der Kathedrale von Chartres, in «Arte Medievale», serie II, v (1991), pp. 71-95. 28 delaporte e houvet, Les Vitraux de la Cathédrale de Chartres cit. 29 j. van der meulen, Lubinus von Chartres, in Lexikon der christlichen Ikonographie, Roma 1974, vol. VII. 30 l. grodecki, Le Maître de Saint-Eustache de la cathédrale de Chartres, in Gedenkschrift Ernst Gall, Berlin 1965, pp. 171-94. 31 grodecki, Les problèmes de l’origine de la peinture gothique cit. 32 w. voege, Die Bahnbrecher des Naturstudiums um 1200 (1914), in Bildhauer des Mittelalters, Gesammelte Studien, Berlin 1958, pp. 63-97. 33 l. grodecki, A Stained Glass «Atelier» of the Thirteenth Century, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», xi (1948), pp. 87-111; id., Le Maître du Bon Samaritain de la Cathédrale de Bourges, in The Year 1200 cit. 34 Sulle vetrate duecentesche di Saint-Serge ad Angers cfr. j. hayward e l. grodecki, Les vitraux de la cathédrale d’Angers, in «Bulletin Monumental», cxxiv (1966), pp. 7-67; Recensement des vitraux anciens de la France, II. Les vitraux du Centre et des Pays de la Loire, Paris 1981, pp. 287-94; grodecki e brisac, Le vitrail gothique cit., pp. 58-6o. 35 l. grodecki, Les Vitraux de la Cathédrale du Mans, in «Congrès Archéologique», 1961: Maine, pp. 55-99; Recensement des vitraux anciens de la France, II. Les Vitraux du Centre et des Pays de la Loire cit., pp. 241 sgg.; ch. schmuckle-mollard e altri, La cathédrale SaintJulien. La Verrière de la Passion, in «303. Arts, Recherches et Création», xxxvii (1993), pp. 14-21. 36 a. loisel, La Cathédrale de Rouen, Paris 1924; a. m. carment-lanfry, La Cathédrale Notre-Dame à Rouen, Rouen 1977. 37 g. ritter, Les vitraux de la cathédrale de Rouen, Cognac 1926; 24
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali f. perrot, Le vitrail à Rouen, Rouen 1972; m. callias-bey, Rouen. Cathédrale Notre-Dame. Les Verrières, Itinéraires du Patrimoine 25, Paris 1993. 38 grodecki e brisac, Le vitrail gothique cit., p. 48; j. lafond, La verrière des Sept Dormants d’Ephèse et l’ancienne vitrerie de la Cathédrale de Rouen, in The Year 12oo. A Symposium cit., pp. 399-411. 39 c. brisac, La peinture sur verre à Lyon au XIIe siècle et au début du XIIIe, in «Dossiers de l’Archéologie», 14, 1976, pp. 100-6; id., Byzantinismes dans la peinture sur verre à Lyon pendant le premier quart du XIII siècle, in Il medio oriente e l’occidente nell’arte del XIII secolo, Atti del xxiv Congrès International d’Histoire de l’Art, Bologna 1979, Bologna 1982, pp. 219-27. 40 j.-p. deremble e c. manhes, Le Vitrail du Bon Samaritain, Chartres, Sens, Bourges, Paris 1986. 41 j. vallery-radot, La Cathédrale Saint-Etienne. Les principaux textes de l’histoire de la construction, in «Congrès Archéologique de France», CXVI Session, Auxerre 1958, Paris 1959, pp. 40-50. 42 r. branner, Burgundian Gothic Architecture, London 1960, pp. 38 sgg. (paperback ed.: London 1985); v. chieffo raguin, The Genesis Workshop of the Cathedral of Auxerre and Its Parisian Inspiration, in «Gesta», xiii (1974), pp. 27-38; id., Stained Glass in Burgundy during the Thirteenth Century, Princeton 1982, recensita da S. Murray nell’«Art Bulletin» del 1986, pp. 332 sgg.; Recensement des vitraux anciens de la France, III. Les Vitraux de Bourgogne, Franche Comté et Rhône-Alpes, Paris 1986, pp. 111-23. 43 r. branner, Historical Aspects of the Reconstructions of Reims Cathedral, 1210-1241, in «Speculum», xxxvi (1961), pp. 23-37. 44 n. bongartz, Die frühen Bauteile der Kathedrale in Troyes. Architekturgeschichtliche Monographie, Stuttgart 1979; s. murray, Building Troyes Cathedral, Bloomington 1987, pp. 1-17. 45 j. lafond, Notre-Dame de Paris, in CVMA, France, I, Paris 1959; l. grodecki, f. perrot e j. taralon, Les Vitraux de Paris, de la région parisienne, de la Picardie et du Nord-Pas-de-Calais, CVMA, France, Recensement I, Paris 1978 (d’ora in poi citato come Recensement I), p. 31; p. cowen, Rose Windows, London 1979; grodecki e brisac, Le vitrail gothique cit., p. 50. 46 l. grodecki, De 12oo à 1260, in Le Vitrail Français, Paris 1958, pp. 115 sgg.; Recensement I, p. 131. 47 Recensement I, p. 97. 48 v. chieffo raguin, Windows at Saint-Germain-lès-Corbeil: A Travelling Glazing Atelier, in «Gesta», xv (1976), pp. 265-72. 49 Sulle vetrate della chiesa di Gercy, cfr. i cataloghi delle esposizioni Vitraux de France, Paris 1953, pp. 5o sgg.; Cathédrales, Paris 1962, pp. 151 sgg.; Mille ans d’art du vitrail, Strasbourg 1965, vol. II,
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali p. 18; The Year 12oo. A Catalogue cit., pp. 205 sgg.; f. perrot, Notes sur les arbres de Jessé de Gercy et de St-Germain-lès-Corbeil, in The Year 12oo. A Symposium cit., pp. 417-28. 50 branner, St Louis and the Court-Style cit. 51 w. sauerländer, La sculpture gothique en France 1140-1270, Paris 1972, pp. 55 sgg. 52 Su Pierre de Montreuil, cfr. m. aubert, Pierre de Montreuil, in Festschrift K. M. Swoboda, Wien 1959, pp. 19 sgg. La sua capitale importanza nell’architettura gotica intorno al 1240-5o era stata sottolineata da panofsky, in Gothic Architecture and Scholasticism cit. Tuttavia l’attribuzione che gli viene fatta della Sainte-Chapelle non risale al di là del xvi secolo ed è dunque assai insicura. r. branner, A Note on Pierre de Montreuil and Saint-Denis, in «The Art Bulletin», xlv (1963), pp. 355 sgg., ha messo in dubbio il ruolo importante che generalmente gli viene attribuito nella ricostruzione duecentesca di Saint-Denis, ma la sua ipotesi è stata discussa e criticata da l. grodecki, Pierre, Eudes et Raoul de Montreuil à l’abbatiale de Saint-Denis, in «Bulletin Monumental», cxxii (1964), pp. 269 sgg. La discussione sulle attribuzioni a Pierre de Montreuil sono riprese da branner, Saint Louis and the Court Style cit., pp. 61 sgg.; p. heliot, Les origines et les débuts de l’abside vitrée cit.; c. a. bruzelius, The Thirteenth-Century Church at Saint-Denis, New Haven 1985. 53 j. baltrusaitis, Réveils et prodiges cit., p. 32, si rifà alla celebre analisi del Focillon in L’Art des sculpteurs romans, Paris 1931 [trad. it. Torino 1972]. 54 w. sauerländer, Le cattedrali gotiche, Milano 1991, p. 256. 55 l. grodecki, Les vitraux de la Sainte-Chapelle, in CVMA, France, I, Paris 1959, p. 81. 56 l. grodecki, Stained Glass Windows of St Germain-des-Prés, in «Connoisseur», 140, 1957, pp. 33-37; ph. verdier, The Window of Saint-Vincent from the Refectory of the Abbey of Saint-Germain-des-Prés, 1239-1244, in «Journal of the Walters Art Gallery», xxv-xxvi (1962-62), pp. 38-99. 57 h. boissonot, Les verrières de la Cathédrale de Tours, Paris 1932. 58 f. salet, La Cathédrale de Tours, Paris 1949; branner, St Louis and the Court Style cit., pp. 37-41. 59 l. papanicolaou, The Iconography of the Genesis Window of the Cathedral of Tours, in «Gesta», xx (1981), n. 1, pp. 179-89. 60 m. parsons lillich, The Band-Window. A Theory of Origin and Development, in «Gesta», ix (1970), n. 1, pp. 26-33. 61 branner, St Louis and the Court Style cit., pp. 97-1oo e 141-142; m. davis, The Choir of the Cathedral of Clermont-Ferrand; the Beginning of the Construction and the Work of Jean Deschamps, in «Journal of the Society of Architectural Historians», xl (1981), pp. 181-202.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali h. du ranquet, Les Vitraux de la Cathédrale de Clermont-Ferrand, Clermont 1932. 63 l. grodecki, Le vitrail gothique au XIIIe siècle cit., pp. 138-40. 64 harrison caviness, Sumptous Arts cit. 65 m. harrison caviness, The Early Stained Glass of Canterbury Cathedral, Princeton 1977, pp. 84-96. 66 harrison caviness, Sumptous Arts cit., pp. 119-21. 67 harrison caviness, The Early Stained Glass cit., pp. 83-95. 68 j. lafond, The Stained Glass Decoration of Lincoln Cathedral in the Thirteenth Century, in «The Archaeological Journal», ciii (1947), pp. 119-56; n. morgan, The Medieval Painted Glass of Lincoln Cathedral, London 1983, recensito da m. harrison caviness in «Burlington Magazine», cxxvii (1985), pp. 95-96. 69 Si veda la scheda che lo riguarda sul catalogo dell’esposizione Age of Chivalry. Art in Plantagenet England, London 1987, pp. 215-16. 70 r. marks Stained Glass in England during the Middle Ages, London 1993, pp. 124-36. 71 Cfr. Royal Commission on Historical Monuments I, Westminster Abbey, London 1924, p. 87; p. brieger, English Art 1206-1307, Oxford 1957, p. 130; j. baker, English Stained Glass of the Medieval Period, London 196o, p. 44; Age of Chivalry cit., p. 530. 72 h. wentzel, Die ältesten Farbenfenster in der Oberkirche von San Francesco zu Assisi und die deutsche Glasmalerei des XIII Jahrhunderts, in «Wallraf Richartz Jahrbuch», xiv (1952), p. 67. 73 h. wentzel, Meistenwerke der Glasmalerei, Berlin 19542, p. 31, ritiene che un medesimo atelier abbia lavorato alle vetrate del duomo di Francoforte, i cui resti sono conservati allo Historisches Museum della città e nello Hessisches Landesmuseum a Darmstadt (cfr. e. von witzleben, Farbwunder deutscher Glasmalerei aus dem Mittelalter, Augsburg 1965, p. 32), a quelle di Gelnhausen nell’Assia, a quelle del coro della cattedrale di Naumburg (circa 1250), a quelle delle navate laterali della cattedrale di Strasburgo, considerando piú antiche quelle di Francoforte e di Gelnhausen (di qui l’ipotesi di un’origine medio-renana dell’atelier) e più recenti quelle di Naumburg e di Strasburgo. 74 Sulle vetrate di Sankt Kunibert a Colonia cfr. h. oidtmann, Die romanischen Glasmalereien in der Pfarrkirche St. Kunibert zu Köln, in «Zeitschrift für christliche Kunst», xxiii (1910), pp. 199-212; id., Die rheinischen Glasmalereien vom 12. bis zum 16. Jahrhundert, Düsseldorf 1912-29, vol. I, pp. 72 sgg; wentzel, Meisterwerke cit., pp. 22 sgg.; von witzleben, Farbwunder cit., pp. 25 sgg. 75 Sulla formula tedesca dell’albero di Jesse cfr. von witzleben, Farbwunder cit., pp. 25 sgg. 76 La caratteristica forma di certi compassi mistilinei tedeschi, introdotti dall’atelier medio-renano di cui parla il Wentzel e reperibili a 62
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali Francoforte, Naumburg e Strasburgo, trovano continuazione e sviluppo in Austria nelle vetrate di Pichl bei Tragöss, in quelle di Sankt Michael bei Leoben, e in quelle trecentesche di Lieding e di Sankt Leonhard im Lavanttal; in Italia in quelle di Assisi (e non solo in quelle duecentesche del coro della basilica superiore create da un atelier germanico, ma anche in quelle trecentesche della cappella della Maddalena e di San Martino nella basilica inferiore), di Siena (compassi con i quattro santi protettori della città nella vetrata duccesca in Duomo) e di Firenze (in Santa Croce le vetrate della cappella Bardi di Vernio e quelle del finestrone centrale dell’abside). Studiare queste filiazioni significherebbe far luce su una serie di rapporti artistici tra Alsazia, Germania, Austria e Italia nel xiii e nel xiv secolo. Cfr. e. frodl-kraft, Die «Figur im Langpass» in der österreichischen Glasmalerei und die Naumburger Westchor Verglasung, in Kunst des Mittelalten in Sachsen. Festschrift Wolf Schubert, Weimar 1967, pp. 309 sgg. 77 Cfr. von witzleben, Farbwunder cit., p. 30. 78 v. beyer, Les vitraux de la cathédrale de Strasbourg, CVMA, France, IX, 1, Paris 1986. 79 v. beyer, Les roses de réseau des bas-côtés de la cathédrale et l’œuvre d’un atelier strasburgeois du XIIIe siècle, in «Bulletin de la Société des Amis de la Cathédrale de Strasbourg», 7, 196o, pp. 63-96. 80 I caratteri dello Zackenstil furono descritti da a. haseloff, Eine thuringisch-sachsische Malerschule des XIII Jahrhunderts, Strassburg 1897. Sull’origine di questo stile e sull’accoglienza in esso di elementi bizantini cfr. g. swarzenski, Aus der Kunstkreis Heinrichs des Löwen, in «Städel-Jahrbuch», vii-viii (1932), pp. 241 sgg.; a. stange, Beiträge zur sachsischen Buchmalerei der 13 Jahrhunderts, in «Münchner Jahrbuch», 1929; o. demus, Der «sachsische» Zackenstil und Venedig, in Kunst des Mittelalters in Sachsen. Festschrift W. Schubert cit., p. 307; j. c. klamt, Deutsche Malerei in Propyläen Kunstgeschichte, vol. VI, Das Mittelalter II, a cura di O. von Simson, Berlin 1972, pp. 26o-64; h. belting, Zwischen Gotik und Byzanz, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», xli (1978) pp. 217-257; r. kroos, Sachsische Buchmalerei 12oo-125o, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», xli (1978), pp. 283-316. 81 r. becksmann, The stylistic problems of the Freiburg Jesse-Window, in The Year 1200. A symposium cit., pp. 361-72; catalogo della mostra Die Zeit der Staufer, Stuttgart 1977, vol. I, pp. 409 sgg. 82 r. becksmann, Deutsche Glasmalerei des Mittelalters, Stuttgart 1988, p. 116. 83 Catalogo della mostra Die Zeit der Staufer cit., vol. I, pp. 290 sgg. 84 wentzel, Die ältesten Farbenfenster cit. 85 Cfr. a. haseloff, Die Glasgemälde der Elisabethenkirche in Marburg, Berlin 19o6; e la recensione di p. clemen in «Repertorium für Kunstwissenschaft», xxxiv (1911); a. kippenberger, Grauteppichfen-
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali ster der Elisabethkirche zu Marburg und des Zisterzienserklosters Haina, in Festschrift R. Hamann, Burg 1939, pp. 40-45. 86 Sulla datazione delle vetrate di Naumburg si veda il saggio di e. schubert, Der Westchor des Naumburger Domes, in «Abhandlungen der deutschen Akademie d. Wissenschaften zu Berlin. Klasse für Sprache, Literatur und Kunst», 1964, 1, Berlin 1965, che tende a situare dopo il 1249 la costruzione del coro occidentale della chiesa. Di conseguenza le vetrate dovrebbero appartenere alla seconda metà del duecento e avere una datazione un poco piú tardiva di quella (circa 1250) proposta dal Wentzel. Cfr. e. drachenberg, k.-j. maercker e c. richter, Mittelalterliche Glasmalerei in der Deutschen Demokratiscken Republik, Berlin 1979. 87 h. wentzel, Die Farbfenster des 13 Jahrhunderts in der Stifiskirche zu Bucken an der Weser, in «Niederdeutsche Beiträge zur Kunstgeschichte», I, 1961, pp. 57-72: Erhaltungzustand; II, 1962, pp. 131-51: Ikonographie; III, 1963, pp. 195-214: Stil. 88 g. fritzsche, Die mittelalterliche Glasmalereien im Regensburg Dom, CVMA, Deutschland, XIII, 1, Berlin 1987. 89 Delle vetrate di Francoforte si è detto che il Wentzel le considera tra le prime opere di un atelier in seguito operante a Naumburg e a Strasburgo. Sempre proveniente da Francoforte è una vetrata in ottimo stato di conservazione, oggi nel museo di Darmstadt, con i santi Agostino e Niccolò e una coppia di donatori inginocchiati. Da citare anche in questo contesto le piú antiche finestre del duomo di Colonia (vetrata biblica della Marienkapelle, circa 1240, quasi interamente rifatta nell’ottocento; vetrata biblica della Stephanuskapelle, circa 1270, proveniente dalla chiesa dei domenicani della città). Cfr. e. von witzleben, Die Glasfenster des Kölner Domes, Aschaffenburg 1949; id., Farbwunder cit. pp. 32 sgg.; h. rode, Die mittelalterlichen Glasmalereien des Kölner Doms, CVMA, Deutschland, IV, 1, pp. 83-98; u. brinkmann, Das jungere Bibelfenster (Meisterwerke des Kölner Doms I), Köln s. d. 90 e. frodl-kraft, Das Margaretenfenster in Ardagger, in «Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte», xvi (1954), pp. 9-46; id., Die mittelalterlichen Glasgemälde in Niederösterreich, CVMA, Osterreich, II, Wien 197 2, pp. 10-21. 91 w. frodl, Glasmalerei in Kärnten 1150-1500, Klagenfurt-Wien 1950. 92 o. demus, La peinture murale romane, Paris 1970. 93 wentzel, Die ältesten Farbfenster cit.; r. haussherr, Der typologische Zyklus der Chorfenster der Oberkirche von S. Francesco zu Assisi, in Kunst als Bedeutungsträger, Gedenkschrift für Günther Bandmann, Berlin 1978, pp. 95-128; f. martin, Die Apsisverglasung der Oberkirche von S. Francesco in Assisi, Worms 1993.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali Sulle vetrate scandinave cfr. particolarmente j. roosval, Gotlandsk Vitrarius, Stockholm 1950; andersson, Die Glasmalereien des Mittelalters in Skandinavien cit. 95 andersson, Die Glasmalereien des Mittelalters in Skandinavien cit., p. 246, tavola 49. 96 demus, La peinture murale romane cit., p. 96. 94
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Capitolo decimo Espressionismo gotico
Nella seconda metà del duecento, e in modo piú accentuato a partire dagli anni settanta, si afferma in Francia un modo di rappresentare che acquista assai presto una diffusione internazionale e che è caratterizzato da una insistita ricerca di espressività nei volti dei personaggi, nei loro atteggiamenti, nelle movenze. Una sorta di espressionismo gotico succede al momento classico dei primi decenni del secolo e al fare rapido e corsivo delle vetrate della Sainte-Chapelle. Una accentuazione della ricerca espressiva non era un fenomeno nuovo. Si era manifestata nel xii secolo, e anzi a questa tendenza, particolarmente presente nell’ovest (Le Mans, Poitiers), aveva reagito il carattere sereno, armonico dello stile 1200 che, elaborato nell’area tra la Mosa e il nord della Francia, si era diffuso in molte parti d’Europa e aveva fatto la sua comparsa anche nel grande cantiere di Chartres. Malgrado questa apparente liquidazione delle tendenze espressive certe propensioni non erano mai interamente scomparse. Di fronte all’armonia e alla sempre piú accentuata eleganza cortese dell’ambiente parigino, un atteggiamento diverso si era mantenuto, manifestandosi con notevole seppure isolato vigore. Cosí un linguaggio vivacemente espressivo era prevalso nelle piú recenti vetrate di Chartres (rose e finestre alte del transetto, 1220-30 circa) nell’opera del Maestro di Saint-Chéron, e si era espresso poi
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(circa 1255) con forza eccezionale in certe finestre alte del coro della cattedrale di Le Mans. Nella seconda metà del secolo queste tendenze si accentuarono, si diffusero, si manifestarono in modi diversi e indipendenti in vari centri. Non si trattò tanto del ritorno a certe soluzioni formali quanto dell’esprimersi in forma nuova e diversa di una problematica antica. Nel corso di un secolo il linguaggio della pittura era profondamente cambiato, tanto da rendere impossibili quelle stilizzazioni estreme e sommarie e quelle deformazioni incontenibili che avevano caratterizzato l’arte tardoromanica. Mutati il canone delle proporzioni, il modo di rappresentare il volume, il rapporto delle figure con il fondo, il ritmo, la cadenza, e il tracciato delle pieghe, emergeva la volontà di conferire ai volti, agli atteggiamenti, al rapporto tra i personaggi una potente espressività. Questa tendenza si affermò quasi contemporaneamente in vari punti d’Europa, dalla Francia settentrionale al sud della Germania, dall’Alsazia all’Inghilterra. Nelle vetrate tipologiche della chiesa benedettina di San Vito a Mönchen-Gladbach1, non lontano da Düsseldorf, una violenta tensione espressiva si manifesta nei volti, nei lineamenti dei personaggi e piú ancora nei gesti, negli atteggiamenti. Patriarchi e profeti dalle barbe spioventi, dalle lunghe, agitate capigliature, dalle fronti aggrottate indicano con le dita e con gli occhi i cartigli e sottolineano mimicamente le concordanze tra le scene bibliche ed evangeliche2. E ciò in un linguaggio agitato, angoloso, abbreviato che deriva dallo Zackenstil e che è quindi molto diverso da quello che si può trovare adoperato in Francia alla stessa epoca per esprimere urgenze analoghe. Allo stesso modo, in Italia, una esigenza espressiva comune si manifesterà in forme stilistiche molto diverse, nei personaggi di Cimabue appassionati e patetici, in cui una potente carica sentimentale investe e utilizza schemi di derivazione bizantina, e nelle sculture di Gio-
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vanni Pisano, tanto moderne nella loro profonda adesione al linguaggio gotico da sembrare appartenere a un altro mondo, a un’altra cultura. Motivazioni simili vennero cosí a manifestarsi contemporaneamente attraverso linguaggi differenti. Presto però caratteri formali – e non solo motivazioni – comuni si ritroveranno in vetrate di Poitiers come di Strasburgo, di Assisi o di Esslingen e di tanti altri centri dall’Austria all’Inghilterra. Se fino a oltre la metà del secolo i nuovi modi della pittura gotica avevano ricevuto un’accoglienza ineguale, spesso un rifiuto, una resistenza, o avevano ispirato soluzioni formali diverse, ora una specie di koinè accomuna i vari centri europei. Prima del momento che per antonomasia fu chiamato del «gotico internazionale» si manifesta così, alla fine del duecento, sotto il segno dell’espressività, una «prima internazionale gotica». Questi caratteri comuni si spiegano con il definitivo trionfo, o meglio con la definitiva accettazione del linguaggio pittorico gotico di origine francese, nei piú svariati centri, dove esso venne a sostituirsi a tradizioni ben radicate con la stessa forza e la stessa capacità di penetrazione che molti secoli prima avevano caratterizzato nel bacino del Mediterraneo il linguaggio formale ellenistico e che piú tardi caratterizzerà in tutta Europa il linguaggio manierista italiano.
La Francia. Nel Musée de Cluny a Parigi si trovano quattro splendenti vetrate provenienti dalla cappella (costruita ai tempi di san Luigi) dell’antico castello reale che Filippo Augusto aveva fatto erigere a Rouen3. Le immagini di quattro santi (Pietro, Paolo, Giacomo, Giovanni Evangelista) sono rappresentate sedute su troni ed elaborati faldistori ornati all’estremità dei montanti da vivacissi-
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me protomi animali, leoni, cani. I volti dei personaggi sono fortemente caratterizzati, le pieghe dei drappeggi sono ombrate, agitate, impetuose, e le immagini, realizzate con vetri di colori squillanti e profondi, sono incorniciate da ampie zone di vetri chiari dipinti con fini grisaille a motivi vegetali che occupano interamente la parte inferiore e quella superiore delle finestre, secondo una formula che avrà un immenso successo e che, cambiando radicalmente l’aspetto delle vetrate, trasformerà la luminosità e la visibilità all’interno delle chiese4. Si è discusso (se ne è parlato nel quarto capitolo) sulle ragioni che hanno spinto a questo profondo mutamento nella gamma cromatica delle vetrate, e ne sono state addotte sia di ordine estetico-percettivo, sia di ordine piú propriamente culturale-filosofico. La tendenza vivacemente espressiva che si manifesta già negli ultimi anni del regno di san Luigi appare in Francia espressa in modi, forme e stilemi diversi in numerose vetrate, in quelle delle finestre alte del coro della cattedrale di Le Mans (attorno al 1255), in quelle del triforio della cattedrale di Tours (dopo il 126o), in quelle, disperse per mezzo mondo, della cattedrale di Sées (127o-8o circa), in quelle della Trinité di Vendôme (circa 128o)6, in quelle di Evron, ma anche in Piccardia ad Amiens nella grande vetrata donata (come si legge nella gigantesca iscrizione che si svolge in basso) nel 1269 dal vescovo Bernard d’Abbeville (1259-81) cui abbiamo già accennato e dove sono rappresentati, in figure smisuratamente allungate, il prelato che offre la vetrata alla Vergine e immagini di angeli. All’est, in una Lorena finora poco presente nel campo delle vetrate, dove qualche suggerimento germanico si insinua nel linguaggio gotico francese, le tendenze espressive si manifestarono, sia pure in tutt’altri modi, nelle vetrate estremamente interessanti della chiesa di Saint-Gengoult a Toul7.
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Particolarmente significativi sono tre cicli pur assai diversi tra loro, quelli di Saint-Urbain di Troyes, di Sainte-Radegonde di Poitiers e di Saint-Père a Chartres. Il piú antico dei tre è probabilmente quello di Troyes. La chiesa di Saint-Urbain era stata fondata nel 1262 da Urbano IV, il coro e il transetto erano già terminati nel 1266. Vari incidenti e un incendio che ne devastò il tetto ritardarono tuttavia il compimento della parte orientale dell’edificio (quella occidentale non venne terminata che nel xix secolo), sí che non è possibile arrivare a un’esatta datazione per le finestre, che devono situarsi all’incirca verso il 1270-75 dato che nel 1270 il conte Thibault V di Champagne donava un’importante somma alla chiesa e le vetrate portano un bordo alle armi di Champagne e di Navarra8. L’intero involucro dell’abside poligonale si articola in immense superfici vitree appena spartite da esili pilastrini e da robusti contrafforti. Le finestre, divise in due registri da una sottile modanatura architettonica orizzontale, salgono dallo zoccolo alle volte sottolineando cosí lo slancio ascensionale. Nel registro inferiore delle finestre sono storie della Passione isolate entro piccoli riquadri nel grande campo del fondo chiaro dipinto a grisaille con racemi, appena animato da segmenti e semicerchi in vetro colorato, che ricordano il disegno delle vetrate cistercensi. Nel registro superiore sono invece grandi personaggi, profeti, patriarchi, santi inquadrati da una incorniciatura architettonica: baldacchini con timpani e ghimberghe sormontati da torri e da guglie. Tre elementi caratteristici del nuovo stile compaiono qui contemporaneamente: la forte caratterizzazione espressiva, particolarmente nei grandi personaggi, l’uso di vasti fondi chiari contro cui si staglia e spicca la ristretta superficie colorata, e l’importanza data alla incorniciatura architettonica dei personaggi, un elemento già presente in certe vetrate di Chartres, ma che
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prende, nella seconda metà del xiii secolo, una nuova importanza9. La vetrata con la leggenda di santa Radegonda nella omonima chiesa di Poitiers, dove si trovano fortemente restaurate e variamente ricomposte altre vetrate del medesimo tempo ma di diversa tendenza stilistica10, è probabilmente contemporanea a quelle di Saint-Urbain. Le datazioni che per essa vengono proposte oscillano dal 1269 (è questa la data proposta da Jean Lafond)11 al 1290 circa. Un passo del testamento di Alphonse de Poitiers del 1271, che fa menzione di una somma di cento soldi poitevini lasciata «per terminare la vetrata», si riferisce verisimilmente a una grande finestra a otto luci sormontata da una rosa che mostra altri indirizzi stilistici, ma può tuttavia fornire un’indicazione cronologica plausibile. Il linguaggio che si trova impiegato nella vetrata di Santa Radegonda è tra i piú immediati e icastici che si possano immaginare: i personaggi sono caratterizzati da un’espressività che sfocia nell’umorismo, da un segno corsivo che traccia sicuro il profilo di un naso leggermente arricciato, che muove il volto in un sorriso ora beato, ora timido e intento, ora stolido. I miracoli della santa assumono cosí un aspetto quotidiano e la libertà dei gesti e degli atteggiamenti è sottolineata dal fatto che gli episodi non sono inquadrati da un’incorniciatura che li divide dal fondo, ma i personaggi si stagliano direttamente sul fondo in vetro chiaro trattato a grisaille con motivi geometrici e vegetali. Non vi sono quindi, come a Troyes, due zone, quella delle scene a colore pieno e quella del vetro chiaro, trattate in modo diverso; con una soluzione geniale tutto è messo sullo stesso piano, sì che l’abito della santa a grandi scacchi diventa quasi un motivo araldico del fondo. Un autentico apice espressivo è raggiunto nelle vetrate dell’antica chiesa abbaziale di Saint-Père (o Saint-Pierre) a Chartres. Le vetrate di questo edificio,
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che ha avuto una storia costruttiva lunga e complessa, vennero eseguite in tempi diversi12. Le piú antiche sono quelle del coro, databili probabilmente intorno al 127013; successivamente vengono quelle dell’abside (circa 13oo) e, per finire, quelle della navata, riconducibili, grazie alla presenza di vari donatori identificabili14, al decennio tra il 1305 e il 1315. I personaggi non hanno la finezza di quelli di Sainte-Radegonde e le loro sagome pesanti si stipano entro il breve spazio che li ospita. Si manifesta nello stesso tempo un dinamismo nervoso bene avvertibile nel disegno delle pieghe, negli atteggiamenti delle figure spesso costruite secondo lo schema dell’arabesco con torsioni e controtorsioni, e una tendenza semplificatoria evidente nei modi abbreviati dei volti, nelle mani enormi, piatte, allungate. Gli elementi scelti come portatori di precisi significati espressivi vengono sottolineati e messi in evidenza, privilegiati. Ne risultano figure agitate dalla mimica sommaria, accentuazioni caricaturali dei volti, e la scelta di un repertorio elementare di gesti espressivi fino a essere brutali. Diversi come sono tra loro, questi tre cicli mostrano tuttavia un elemento comune, che appartiene allo stile del tempo, consistente in quella ricerca espressiva che passa dall’appassionato al satirico, dall’affettuoso al parodistico, e si manifesta contemporaneamente anche nei rilievi di alcune grandi cattedrali (portali dei Librai e delle Calende a Rouen, facciata della cattedrale di Lione). Il passaggio dall’armonico classicismo gotico della prima metà del duecento al violento espressionismo della fine del secolo è del resto sintomo di una situazione generale che non si manifesta solo nel campo della figurazione. Lo stesso mutamento si rivela infatti quando si passi dalla prima parte del Roman de la Rose, scritta verso il 1235 da Guillaume de Lorris, alla seconda, redatta una quarantina d’anni dopo da Guillaume de Meung.
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Non sembra possibile per ora indicare da quali centri abbia preso a svilupparsi questa tendenza, pur constatando come l’ovest della Francia abbia conservato una sorta di continuità nella tradizione espressiva15: considerandone la vastissima diffusione europea, volta per volta con accentuazioni particolari, si potrebbe pensare a una pluralità di focolai, derivante dall’incalzare nelle diverse culture di una analoga urgenza espressiva; d’altro canto verrebbe fatto di considerare questo stile come una reazione al gotico cortese di origine parigina che si era affermato nel secondo quarto del duecento. Non si trattò tuttavia di un rifiuto o di una contestazione dell’estetica di corte e dei suoi canoni, di una rivolta verso l’imposizione di una certa etichetta aulica, di certi elementi a cui – variando tipo, genere e accento – si volevano sostituire altri, in quanto è proprio nell’ambiente artistico parigino che fanno la loro comparsa, nella seconda metà del secolo, accenti fortemente espressivi, sia nella miniatura16 sia nelle vetrate. In assenza di esempi conservati nella città ne testimoniano, non lontano, le vetrate con storie della Vergine della splendida chiesa di Saint-Sulpice de Favières17. Il linguaggio espressivo arriva del resto all’apogeo nella Parigi di Filippo il Bello con l’opera di Maître Honoré e con la tendenza che, a torto o a ragione, a questo nome si riconduce18. Emerge qui, come già in precedenza, il problema dei rapporti tra miniaturisti e maestri vetrari: è certo che illustratori di manoscritti abbiano anche dato disegni per vetrate; nel caso delle finestre di Sainte-Radegonde a Poitiers e di tante vetrate normanne del trecento la cosa sembra piú che plausibile, manca però per questo periodo una qualsiasi documentazione che non sia quella offerta dalle fortissime somiglianze formali tra i prodotti delle due tecniche19. La fase stilistica contraddistinta da una prevalente ricerca di espressività che aveva trasformato gli schemi
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armonici ed eleganti dei primi decenni del regno di san Luigi continua, pur modificata e attenuata, fino al nuovo mutamento che segue l’introduzione nelle vetrate della rappresentazione tridimensionale dello spazio, conseguenza dell’espansione per diverse vie dei modi giotteschi, del probabile viaggio in Italia di Jean Pucelle e della sua prolungata e prestigiosa attività nella capitale20; anche questo, come quello di Maître Honoré, un terreno esemplare per esplorare gli scambi tra miniatori e maestri vetrari21.
Vetrate inglesi. L’Inghilterra conosce una situazione non molto diversa da quella francese. Anche qui si manifesta con forza un trattamento espressivo dei personaggi accompagnato da un uso sempre maggiore del fondo chiaro dipinto a grisaille e da un ricorso crescente alle inquadrature architettoniche. C’è anche un largo incremento nel numero delle vetrate conservate. Mentre nella prima metà del duecento le vetrate inglesi, se paragonate a quelle ancora esistenti in Francia, erano in numero assai scarso, e se le poche superstiti mostravano di seguire strettamente i modelli francesi, la situazione ora cambia notevolmente e le vetrate inglesi mostrano con chiarezza caratteri propri e autonomi. Agli inizi del trecento, verso il 1303, lavorò nella cattedrale di Exeter il maestro vetrario Walter di Gloucester22. Allo stesso periodo, e di grande interesse per l’intensa caratterizzazione espressiva dei personaggi rappresentati, appartiene il ciclo della cappella del Merton College a Oxford, donato dal cancelliere dell’università, Henry di Mamesfeld (1298-1311) che vi si fece rappresentare inginocchiato per ben ventiquattro volte accompagnando i santi effigiati nelle luci centrali23.
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Le accentuazioni espressive trovano in Inghilterra un’accoglienza talmente favorevole e di cosí lunga durata da spingere a domandarsi se non sia stato proprio questo uno dei focolai delle nuove tendenze. Anche se la cronologia delle vetrate inglesi non permette di concludere per una priorità insulare, si potrà constatare che qui certe soluzioni – pur impostate su un terreno comune – vanno al di là, in fatto di espressività, di quanto era stato creato in Francia. Le abbreviazioni esasperate della Madonna col Bambino della chiesa di Fladbury (Hereford and Worcester) e di quella, del tutto analoga e che utilizza lo stesso modello, che si trova non lontano nella chiesa di Warndon propongono in questo senso una soluzione estrema24, mentre i personaggi delle vetrate di Eaton Bishop (nella medesima contea), donate nel 1328 dal canonico Adam de Muirimoth, hanno quell’andamento sinuoso e quella linea fluente e ondulata che permette una grande intensità di espressione e segna i salteri dell’East Anglia nel primo trecento. Poiché, tuttavia, gran parte delle vetrate inglesi caratterizzate da una forte presenza di elementi espressivi appartengono al xiv secolo, se ne parlerà piú estesamente nel prossimo capitolo.
Il mondo tedesco. I cicli piú significativi e importanti di questo periodo in Germania si trovano nelle regioni occidentali. Il centro-nord, che aveva avuto una parte cosí rilevante nella nascita e nella evoluzione dello Zackenstil, vede diminuire la propria capacità creativa. Non che a Brandenburg, a Erfurt, a Meissen o a Naumburg (vetrate del coro orientale) non si trovino opere significative25, ma lo stile che vi si trova impiegato proviene da altre aree linguistiche. Lo Zackenstil non trova uno sviluppo e
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una continuazione e viene sostituito da un altro e diverso linguaggio che penetra e si afferma a partire dall’occidente.
Strasburgo. Il centro propulsore del nuovo linguaggio, il focolaio delle ricerche gotiche, piú precoci in area germanica, sembra esser stato Strasburgo, dove diversi atelier dall’orientamento moderno e avanzato lavorarono successivamente alle vetrate della cattedrale26. Le ragioni del prestigio di cui godette e dell’influenza che esercitò la città renana sono molteplici. Per l’epoca era una città grande, ma non maggiore di altre come Norimberga e Ulma, e certo minore di Colonia. Era situata in un’area che si trovava alla frontiera tra due lingue e due culture, era stata prediletta dagli Hohenstaufen, antichi e privilegiati rapporti la legavano alla famiglia degli Asburgo il cui peso negli affari europei era crescente. Infine, ed è la cosa piú importante, intorno alla cattedrale ferveva un’attività artistica molteplice e intensissima. La grande navata era stata ricostruita nel corso di una trentina d’anni, tra il 124o e il 1275 all’incirca (e in questo periodo è compresa una lunga interruzione), un tempo record per una impresa medievale. Poi era stata la volta della facciata, e il violento incendio che nell’agosto del 1298 devastò la chiesa era giunto come una sfida a provocare e a suscitare la risposta dei cittadini. Dopo i vescovi, dopo il capitolo, questi erano divenuti ormai responsabili della gestione del cantiere. Per la facciata si cercavano i migliori architetti, i piú moderni. Alla fine del duecento e nei primi due decenni del nuovo secolo vi lavora il celebre maestro Erwin, che verrà celebrato da Goethe come un eroe dell’arte tedesca. Si devono a lui la stupenda rosa trafo-
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rata della fronte e le aeree edicole della tomba del vescovo Lichtenberg; le sue soluzioni grafiche nuove e geniali non mancarono di avere ripercussioni sui maestri di vetrate. A questa città, a questo cantiere, il piú importante dei paesi tedeschi alla fine del duecento e agli inizi del trecento, si rivolge l’attenzione dei committenti e degli artisti. Nelle sue finestre abbiamo il primo monumento fondamentale della pittura gotica in territorio germanico. Louis Grodecki ha fatto osservare che mentre l’architettura della navata27 riecheggia lo stile del nord della Francia – di Saint-Denis o, piuttosto, di certe chiese dello Champagne – e le sculture dello jubé quelle dello Champagne, le vetrate avrebbero scarsi rapporti con l’arte francese. Resta il fatto che molti elementi occidentali si trovano qui per la prima volta e che d’altra parte, proprio per il loro relativo arcaismo e per il loro rimanere su posizioni piú conservatrici rispetto alle punte avanzate della pittura francese, queste vetrate, come più in generale per l’avvenire quelle degli atelier di Strasburgo, conosceranno una vasta ricezione europea. Già nella invetriatura delle finestre alte della navata principale, condotta negli anni 1250-70 circa, con figure sovrapposte a nord di santi diaconi, vescovi e papi, e a sud di santi martiri, sono presenti elementi gotici nelle inquadrature architettoniche e nei fregi dei bordi, nei panneggi, nei volti e nella disposizione stessa dei personaggi. Un certo intervallo di tempo separa tra loro le vetrate della navata principale e il loro aspetto diverge fortemente. I baldacchini architettonici che nella prima finestra alta (partendo da est) della parete settentrionale della navata sovrastano papi e diaconi sono relativamente semplici: al di sopra di un arco acuto che inquadra i personaggi si alzano, sormontando un muro merlato, bifore gotiche con un coronamento trafo-
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rato e modeste ghimberghe. Nella finestra alta corrispondente sulla parete di fronte le sante prendono posto sotto baldacchini più elaborati, coronati da una slanciata guglia centrale affiancata da due alti pinnacoli che si collegano a essa mediante archi rampanti. I personaggi sono trattati in modo differente: nelle sante la rigida frontalità dei santi e dei diaconi si trasforma sottilmente in una varietà di atteggiamenti, lo hanchement, tipica formula gotica, è ben presente, e anche i bordi a virgulti naturalistici e le basi sono diversi. La distinzione fondamentale non si situa però tra le finestre di una parete e quelle dell’altra; mutamenti importanti sono avvertibili anche tra le finestre che si trovano sulla medesima parete. Ciò è dovuto sia a cambiamenti intervenuti nel corso della costruzione della navata, che hanno comportato interruzioni e ritardi, sia all’attività contemporanea di diversi atelier. Un grave incendio devastò la cattedrale nel 1298; successivamente a questa data il maggiore impegno fu consacrato alla invetriatura delle finestre della navata laterale sud. In cinque finestre si svolge qui una lunga narrazione delle storie di Cristo, che si inizia con la rappresentazione della vicenda di Anna e Gioacchino e termina con il Giudizio e con la Seconda Venuta. A questo ciclo si lavorò per quasi tutta la prima metà del secolo e di vetrata in vetrata, in conseguenza del succedersi degli atelier, mutarono diversi elementi, come si dirà nel prossimo capitolo. Attraverso la storia delle botteghe di Strasburgo, attraverso le loro ricerche e la loro caratterizzazione, è possibile scorgere a grandi linee le tendenze che domineranno in tutta la Germania meridionale fino alla Svizzera e all’Austria, ma anche più lontano, nel nord fino alla Prussia, nell’est fino alla Carinzia, nel mezzogiorno fino ad Assisi. Strasburgo è stato un focolaio da cui le influenze gotiche si sono disseminate nell’area tedesca,
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dalla Svevia (Esslingen) alla Baviera, alla Prussia. L’origine strasburghese di una Madonna della cattedrale di Brandenburg è dichiarata e impressionante28. Si tratta evidentemente di una migrazione di maestri vetrari originari del grande centro alsaziano o che di lí erano passati, alcuni dei quali si sono, come vedremo, spinti fino in Italia. Un altro elemento ha certo pesato sullo sviluppo e sulla tematica delle vetrate alsaziane: il fatto che i conventi domenicani di Strasburgo e di Colmar fossero centri importanti di speculazione religiosa. A Strasburgo aveva vissuto e insegnato Maestro Eckhart e qui, sempre all’interno del convento dei domenicani, deve essere stato elaborato un testo che conobbe tra tre e quattrocento un grande successo: lo Speculum Humanae Salvationis, un trattato in cui a ogni episodio della via alla salute (di qui il nome di Specchio dell’umana salvezza) tracciata dal Nuovo Testamento si accompagnano e fanno riscontro in modo tipologico altri tre episodi tratti dall’Antico Testamento, dalle leggende popolari, dalla storia profana. È chiara l’importanza fondamentale che ha, per un testo simile, il sistema delle illustrazioni. Proprio a questo testo, dovuto probabilmente a un domenicano di Strasburgo, Ludolf von Sachsen, e terminato nel 1324, si ispira il grande ciclo di vetrate della chiesa di Santo Stefano a Mulhouse, che illustra con accenti popolari e appassionati il cammino della salvezza attraverso concordanze testamentarie, episodi leggendari, allegorie morali29. Altri cicli permettono di farsi un’idea del clima culturale che fu proprio in quegli anni dell’Alsazia e della sua capitale: a Strasburgo stessa le vetrate della chiesa di San Tommaso30, di quella dei domenicani ora alla cattedrale31 e di quella di San Guglielmo32, a Colmar quelle delle chiese dei domenicani, dei francescani e di San Martino33, e ancora quelle delle chiese di Westho-
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fen34, Niederhaslach (queste ultime opera di un atelier che lavorò anche alla chiesa domenicana di Stetten), Mutzig.
La Crocifissione di Mutzig. Un documento importante anche per la sua precisa datazione (1310) è la vetrata della Crocifissione proveniente da Mutzig, oggi al Museo dell’Opera del Duomo di Strasburgo35. La composizione dell’insieme, con archi slanciati che inquadrano le figure, guglie e baldacchini altissimi, ricorda i disegni architettonici dell’epoca e in particolare lo slancio ascensionale dei progetti per la cattedrale di Strasburgo. I tre personaggi del registro inferiore prendono posto entro inquadrature che simulano portali ad arco acuto sormontati da alte ghimberghe coronate a fioroni; baldacchini slanciati leggermente piú stretti e di un verticalismo piú pronunciato si aprono nel registro superiore ad accogliere i tre personaggi della Crocifissione. Le figure esili ed eleganti che si stagliano su un fondo decorato a losanghe (come nelle vetrate di san Guglielmo a Strasburgo o in quella della chiesa francescana di Esslingen) hanno caratteri che d’altra parte li connettono strettamente a oreficerie e architetture della regione di Costanza.
Wimpfen. L’influenza di Strasburgo va ben al di là dei confini della regione e si esplica in particolare a Costanza, Friburgo, Esslingen, Wimpfen, luoghi che hanno una grande importanza per la storia delle vetrate di questo momento. Un centro di produzione di un certo rilievo fu probabilmente Wimpfen, nella bassa valle del
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Neckar. Vi si conservano in effetti i resti di importanti vetrate tipologiche prodotte a distanza di una trentina d’anni per due chiese del luogo, la Ritterstiftskirche (chiesa dei cavalieri dell’ordine teutonico) di Wimpfen im Tal, il cui coro fu eretto verso il 127o-8o, e la chiesa domenicana di Wimpfen am Berg. Un gruppo di medaglioni di qualità assai alta provenienti dalla finestra a due luci della Ritterstiftskirche è oggi conservato nello Hessisches Landesmuseum di Darmstadt. Si tratta di episodi ispirati all’Antico Testamento o anche ai Bestiari, messi a confronto con scene evangeliche di cui costituivano gli antetipi. Altri pannelli, provenienti dalla chiesa domenicana e databili, grazie alle armi del donatore Konrad von Weisberg, verso il 1300, si trovano nel Württembergisches Landesmuseum di Stoccarda. Nei due casi si tratta di opere dove, a distanza di tempo, si manifesta una non comune vena espressiva e in cui sono forti i contatti con l’ambiente di Strasburgo36.
Costanza. Le vetrate di Costanza, città importante della Germania meridionale e vivacissimo centro di produzione artistica, presentano più di un enigma. La loro produzione deve essere stata rilevante e per numero e per qualità, ma ne conosciamo solo pochi e sparsi esempi37. Possiamo tuttavia collegare lo stile delle vetrate a quello prevalente nelle splendide opere di oreficeria e nelle miniature prodotte nelle botteghe cittadine e negli atelier della Reichenau e di altri centri abbaziali prossimi38, opere che venivano ricercate ben al di là della regione e la cui appassionata drammaticità sembra tradurre visivamente le meditazioni mistiche dei conventi domenicani situati sulle rive del Reno o del lago di Costanza, il «mare svevo». Appassionata e drammatica l’arte di
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Costanza lo era frequentemente, e lo manifestava nelle fattezze dei volti, nelle posture dei personaggi, in certe rapide abbreviazioni che la rendevano partecipe delle tendenze generali dell’arte della fine del duecento nel nord, ma un’altra sua caratteristica era quella di una eleganza armonica e pura, quale per esempio quella che si esprime nei celebri Christus-Johannes-Gruppe, immagini devozionali che riuniscono il gruppo di Cristo e del giovane san Giovanni, isolandolo dall’Ultima Cena e dotandolo di vita autonoma, creazioni per eccellenza dell’arte di quest’area39. Questa oscillazione, o piuttosto questa consistenza di espressività e di serena armonia, si ritrova anche nelle vetrate di Costanza e in quelle eseguite da atelier provenienti da questa città e operosi soprattutto in Svizzera e nella Svevia. A Costanza vetrate importanti erano nella cattedrale, nell’attigua rotonda di San Maurizio e nella chiesa dei domenicani; in gran parte sono andate distrutte, ma alcune di esse si trovano nella cattedrale di Friburgo – come la cosiddetta (dal nome di Ulrich von Klingenberg, uno dei donatori che vi si trova rappresentato) vetrata Klingenberg (1318), o le scene della vita di Cristo (circa 132o) dalla chiesa dei domenicani – mentre altre sono nella cappella del castello di Heiligenberg40. In mancanza di precisi punti di riferimento in loco è difficile stabilire una cronologia e una linea di sviluppo stilistico e farsi un’idea della fisionomia delle vetrate a Costanza nei primi anni del trecento. Tuttavia è possibile appoggiarsi su alcuni punti fermi cronologici. Uno di questi è la bellissima finestra orientale della chiesa di Heiligkreuztal, in Svevia, nella regione dell’alto Danubio, la cui donatrice – che vi si fece rappresentare – era stata Elisabeth von Stoffeln, badessa del convento tra il 1305 e il 1312, il che permette di collocare l’opera verisimilmente prima di quest’ultima data. Le quattro grandi figure femminili della parte inferiore, la Vergine,
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santa Verena di Zursach, santa Caterina, sant’Agnese, sono di una bellezza limpida e distesa, senza nulla di ammanierato o di cortigiano, di violentemente espressivo o di aneddotico. L’autore di questa vetrata – uno dei punti più alti della vetrata gotica tedesca – viene probabilmente da Costanza, ma esiste un rapporto tra questa e la vetrata delle Virtú e dei Vizi che si trova, molto restaurata, nella cattedrale di Strasburgo, nella prima finestra alta della parete settentrionale della navata41. Un’altra data probabile – prima del 1309 – viene avanzata per un gruppo di vetrate nella chiesa dell’abbazia cistercense di Kappel am Albis nel cantone di Zurigo, il cui donatore fu Walter von Eschenbach che nel 13o8 aveva partecipato all’uccisione di Alberto di Asburgo e che dovette in seguito fuggire in esilio42. Quanto le vetrate di Heiligkreuztal sono serene e classiche, tanto quelle di Kappel sono veementemente espressive nel segno sottolineato dei personaggi, negli sguardi intensi, nei capelli che si torcono come serpentelli, nei gesti, nelle stesse proporzioni deformanti delle mani e dei piedi cui viene conferito un nuovo valore.
La cattedrale di Friburgo. A Costanza niente è stato conservato in loco delle vetrate che illuminavano la cattedrale e la chiesa dei domenicani; diverso è invece il caso per Friburgo43. Se anche qui la chiesa dei domenicani è stata distrutta, importanti resti della sua invetriatura sono conservati all’Augustinermuseum o sono stati reimpiegati nelle finestre della cattedrale. Quanto alla cattedrale, essa possiede uno dei più impressionanti insiemi di vetrate tra due e trecento che esista in Germania, che fu oggetto di un restauro ampiamente e pesantemente integrativo da parte di Fritz Geiges nel primo novecento44. Un
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gran numero di vetrate ancora conservate nelle finestre delle navate laterali appartiene ai primi decenni del trecento (della precedente invetriatura delle navate – circa 128o – che aveva aspetti molto simili a quelli della cattedrale di Strasburgo resta solo la finestra dei Martiri nella navatella meridionale) e sono state eseguite prevalentemente per incarico delle corporazioni di mestiere della città e di singoli donatori. Nell’insieme non è avvertibile un programma organico e ogni vetrata costituisce piuttosto un episodio a sé. Generalmente esse si collegano ai modi degli atelier di Strasburgo benché in certi casi siano evidenti contatti anche con Colonia, tanto più che tra i due cantieri i rapporti furono molto stretti e frequenti, specie nel momento dell’erezione del tiburio della cattedrale di Friburgo. Tra le meglio conservate sono, a nord, la vetrata dei panettieri e quella dei fabbri, dei maniscalchi e dei sarti, a sud quella dei calzolai, quella dei minatori e la vetrata donata dalla famiglia Tulenhaupt. Lo stile di queste vetrate è molto vicino a quello di certe vetrate di Strasburgo (confronti possono essere tentati per esempio con le finestre della navatella meridionale e con quelle provenienti dalla chiesa dei domenicani) nella disposizione dei medaglioni, nel disegno dei fondi e infine nell’ornato. A volte sono piccole scene poste entro medaglioni sovrapposti e organizzati in schemi di origine alsaziana (vetrata dei panettieri, storie di san Nicola nella vetrata Tulenhaupt, scene della Passione nella vetrata dei calzolai); in altri casi si tratta di grandi personaggi o di scene poste entro elaborati inquadramenti architettonici come nella vetrata dei fabbri ferrai, nella vetrata dei sarti, nella Madonna di Misericordia e nel San Nicola della vetrata Tulenhaupt, nella vetrata dei minatori delle miniere d’argento di Schauinsland in una finestra alta della navata meridionale. Nell’insieme le vetrate di Friburgo presentano un’impronta comune che in certi casi fa presumere l’at-
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tività di uno stesso atelier, in altri almeno un fitto interscambio. Si distacca dalle altre per certi aspetti la vetrata dei fabbri ferrai, caratterizzata, sia nei volti e nei moduli dei personaggi, sia negli inquadramenti architettonici, da elementi, schemi e formule che a Friburgo non trovano corrispondenza diretta. Questa stessa vetrata presenta elementi colonesi, o addirittura della Francia settentrionale, che non hanno riscontro in area alsaziana, per esempio gli angeli musicanti sovrapposti ai lati delle scene nella luce centrale. È possibile, è anzi certo, che uno o piú maestri operosi a Friburgo siano arrivati da Strasburgo, o direttamente o via Costanza. Esistono tuttavia caratteri che sono tipicamente friburghesi, sia nella tipologia dei personaggi, sia in una plasticità sottolineata dall’impiego della grisaille. Il San Cristoforo della vetrata dei calzolai è a questo proposito significativo, con le sue pieghe profonde e le ombre che sottolineano il volume del corpo e delle membra. Un problema che si pone a Friburgo come già in altri casi, e ne avevamo accennato a proposito di Chartres, è quello del rapporto che intercorre tra sculture e vetrate, rapporto che in piú di un caso si precisa con evidenza. Ancora una volta si presenta la questione se il maître d’œuvre abbia dato disegni utilizzati e tradotti nelle rispettive tecniche da scultori e maestri vetrari o se si tratti di influenze reciproche.
Esslingen. Alla fine del duecento, ai tradizionali centri artistici della Germania meridionale si aggiunge un nuovo nome, quello di una cittadina sveva non lontana da Stoccarda le cui chiese contano un numero eccezionale di vetrate di questo periodo: Esslingen54. Tre chiese qui, una dedicata a san Dionigi e dipendente dal capitolo del duomo
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di Spira, una retta dai francescani e una, la Frauenkirche, costruita per deliberazione del consiglio cittadino, accolsero, nello spazio di una cinquantina d’anni, dalla fine del duecento al 1330 circa, in una situazione che ben si prestò a fenomeni di emulazione e di rivalità, un nutrito gruppo di vetrate tra le piú belle che conti la pittura tedesca di questo tempo. I maestri che hanno lavorato a Esslingen appartenevano a diverse generazioni e avevano avuto formazioni diverse, ma le loro opere mostrano taluni elementi di continuità. Uno di essi si chiamava Lampertus, se la figuretta di religioso con un cartiglio inginocchiata accanto al santo titolare nella vetrata assiale della chiesa di Sankt Dionys, donata dalla famiglia Stainhövel, è quella dell’artista. Può darsi che l’atelier di Lampertus si fosse formato a Esslingen, ma è stato proposto46 che esso provenisse da un’area piú occidentale, precisamente da Spira (la chiesa dipendeva infatti dal capitolo di questa cattedrale), e che sia stato attivo a Esslingen già verso il 128o. Una cosa è certa, e cioè che in modo diretto o indiretto il momento espressivo del gotico francese fa sentire qui precocemente la propria influenza. La chiesa di Sankt Dionys ha nel coro cinque grandi finestre completamente invetriate, mentre una sesta vetrata contiene i resti di un altro ciclo. Le finestre, altissime, sono a quattro luci. Si tratta di un insieme eccezionale anche per la vastità della superficie e per il numero delle scene. La finestra assiale, firmata da Lampertus, è consacrata, nelle due luci centrali, a un confronto tipologico tra episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento che si svolge in quattordici scomparti sovrapposti che vanno rispettivamente da Adamo ed Eva a Sansone con le porte di Gaza e da Jesse addormentato alla Resurrezione, mentre nelle due luci laterali sono rappresentati profeti, re, eroine bibliche e cosí via. Una vegetazione naturalistica, lussureggiante, si arrampica su per
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i compartimenti lunghi e stretti e riempie di foglie, grappoli, fiori e frutti lo spazio non occupato dalle scene. Queste sono incorniciate da compassi a lobi acuti il cui bordo porta un’iscrizione riferita all’episodio che vi è contenuto. Il virgulto che si arrampica fino al sommo della finestra si intreccia con il bordo del compasso passandogli ora sopra ora sotto e creando una situazione ricca di suggerimenti spaziali. Lampertus mostra caratteri personali molto definiti e una viva attenzione naturalistica che si traduce nelle foglie e nei virgulti del fondo e dei bordi delle due luci centrali, che sono trattati in modo diverso: a rami di vite i fondi delle scene neotestamentarie, a foglie di melo quelli delle scene altotestamentarie. La ricerca espressiva è accentuata nei volti e negli atteggiamenti ma rifugge dai toni tragici: anche nella descrizione delle situazioni piú gravi e tremende i volti dei protagonisti sono animati da un leggero sorriso di matrice parigina. Torsioni violente nei corpi, capigliature e barbe ondulate, arricciate, schemi abbreviati di panneggio la cui origine gotica si rivela nel caratteristico ricadere delle pieghe nella parte inferiore dei personaggi e nelle anse ampie delle tuniche; tutto mostra come Lampertus sia stato un artista che aveva avuto modo di conoscere direttamente e bene il gotico francese della fine del duecento, e che era stato partecipe della stessa cultura, degli stessi problemi che avevano conosciuto gli artisti operosi a Troyes o a Poitiers. Allo stesso Lampertus, con la collaborazione di aiuti, si deve un’altra vetrata della medesima chiesa con scene di martirii di santi e, sotto altissimi baldacchini nelle luci laterali, Le Vergini savie e le Vergini folli, che originariamente non facevano parte di questa finestra, e due sante. Tra gli altri artisti che qui lavorarono, uno, piú corsivo, fragile e diminutivo di Lampertus, attivo nella vetrata con storie di Gesú, tende a semplificare al massimo sia il numero di personaggi nelle scene ridotte
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all’essenziale, sia le espressioni e i panneggi; un altro, presente nella vetrata con varie sante e l’Incoronazione della Vergine, si mostra di cultura diversa da quella di Lampertus e in piú stretto rapporto con Costanza.
Colonia. Un centro estremamente importante tra la fine del xiii e gli inizi del xiv secolo è Colonia, città precocemente aperta ai modelli del gotico francese, che contava in questo periodo molti pittori e dove era in piena attività il cantiere della cattedrale. Di grande qualità e importanza sono due finestre, ancora della fine del duecento, con le alte figure sotto alti baldacchini della Vergine e di una santa accompagnate da due donatori, un frate domenicano e un cavaliere dell’ordine teutonico, che, provenienti dalla chiesa di Santa Gertrude, furono acquistate nel 1815 dal barone von Stein e sono oggi in deposito nel museo di Münster. Per quanto riguarda il primo trecento, a parte qualche frammento conservato nello Schnütgen Museum e in altre collezioni47, gli esempi piú significativi si trovano in duomo e nell’antica basilica di Sankt Gereon. Nella cattedrale, il gruppo di vetrate piú antico è quello della sala capitolare databile attorno al 1290; vengono in seguito quelli delle cappelle radiali e del triforio del duomo, anteriori al 1322. Le vetrate delle cappelle radiali, in particolare quella della cappella assiale dedicata alla Vergine e quella a sinistra di questa, sono molto rifatte. Si tratta di vetrate tipologiche, di una Adorazione dei magi (il pezzo più interessante del complesso) rappresentata entro una elaboratissima incorniciatura architettonica e da un frammentario Trono di Salomone. Meglio conservate le vetrate delle finestre alte: una serie di re antenati di Cristo48.
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L’Austria. In Austria elementi gotici sono presenti, come si è detto, nelle vetrate delle Vergini sagge e delle Vergini folli nella chiesa parrocchiale di Friesach in Carinzia, probabilmente provenienti dalla chiesa domenicana della stessa città. Databili attorno al 127o-8o, conservano cadenze tipiche dello Zackenstil e ricordano in certi particolari le finestre alte della cattedrale di Strasburgo49. Vetrate della fine del duecento sono conservate nell’abbazia cistercense di Heiligenkreuz, non lontano da Vienna. Si tratta di finestre monocrome a decorazione astratta, di altre con figure di santi nel coro, e dell’albero genealogico della potente famiglia dei Babenberg con la presentazione di diversi personaggi appartenenti alla famiglia, conservato nella «cappella della fontana» che si apre sul chiostro50. Un gruppo di origine stiriana è quello costituito dalle vetrate della parrocchiale di Spital am Semmering, da quelle della chiesa francescana di Bruck e della Walpurgiskapelle di Sankt Michael presso Leoben. Queste ultime furono donate dall’abate di Admont Heinrich, che venne assassinato nel 1297, e sono pertanto anteriori a questa data51. Agli inizi del secolo si collocano anche le vetrate della Leechkirche di Graz52, di un gotico pieno ed espressivo senza più ricordi romanici. Una datazione verso il 1327 è stata avanzata per le vetrate della parrocchiale di Annaberg nell’Austria inferiore, ora nel chiostro dell’abbazia cistercense di Lilienfeld, mentre il ciclo piú importante di questo momento è quello del chiostro dell’abbazia di Klosterneuburg (circa 1330), eseguito, dopo il grande incendio che ebbe luogo nel 1322, sotto l’abate Stephen von Sierendorf53.
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Esperienze italiane. Anche l’Italia fu toccata dalla fase espressiva della pittura gotica, che lasciò anzi nella chiesa superiore di San Francesco ad Assisi alcuni esempi tra i più significativi dovuti a un atelier transalpino. Non era questa la prima volta in cui i frati minori si rivolgevano ad artisti nordici per decorare l’interno della basilica; già anni prima, per ornare di vetrate le finestre del coro, si erano indirizzati a un atelier germanico, e d’altronde una maestranza oltremontana lavorò ad Assisi alla decorazione pittorica del transetto settentrionale della chiesa superiore a una data non distante da quella in cui fu eseguita la grande vetrata del transetto sud54. Nell’insieme, considerando vetrate e affreschi, che pur spettano a maestranze diverse, si trattò di uno dei casi più macroscopici, per la qualità, la dimensione e la collocazione, di penetrazione gotica transalpina in Italia. Nella grande quadrifora meridionale della chiesa sono rappresentate in due luci storie della Genesi (da una parte le Sette giornate della Creazione, dall’altra sette episodi che vanno dal Peccato Originale al Rimorso di Caino), nelle altre due una serie di sante vergini. La scarsa coerenza iconografica di questo insieme denuncia un mutamento di intenzioni nel corso della confezione della vetrata o una manipolazione sopravvenuta in seguito, ma questo niente toglie alla sua splendente qualità55. Mentre il grande medaglione al sommo della quadrifora è perduto, gli altri due che concludono le coppie di luci sono conservati: sopra le scene della Genesi è Dio Padre tra i santi Francesco e Antonio, sopra le luci consacrate alle vergini è la Madonna con due profeti. Allo stesso atelier si devono, sulla parete prospiciente della navata, altre due vetrate dedicate agli apostoli: nell’una sono Giacomo e Andrea, nell’altra Giovanni Evangelista e Tommaso e storie della loro vita. Lo stile di questo
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gruppo è molto elevato, si tratta di vetrate tra le piú belle che l’Europa intera conti a una data che dovette situarsi entro l’ottavo decennio del secolo. Le tendenze espressive sono particolarmente avvertibili nelle storie dei progenitori e nel quadrilobo della Vergine con i profeti, ma i vivaci accenti gotici sono presenti ovunque: nell’ampio uso di fogliame naturalistico, nelle architetture, nelle forme dei compassi polilobi, nei fregi, nei personaggi esili, longilinei, nei volti dall’espressività accentuata dalla sottolineatura delle labbra e degli occhi, nel disegno delle membra e delle articolazioni, nei panneggi, nei costumi. Opere come queste ebbero un’importanza molto grande per la storia della pittura italiana: presentano infatti alcune tra le piú rilevanti novità dell’arte nordica e sono situate in uno dei monumenti piú celebri e frequentati d’Italia, nel cuore di uno dei cantieri artistici piú vivi e fecondi. Come l’architettura della chiesa superiore di San Francesco costituisce un esempio importante delle tendenze costruttive gotiche, degli schemi strutturali e decorativi impiegati al di là delle Alpi56, cosí la grande vetrata e le due minori della navata rendono palesi i piú recenti raggiungimenti della pittura gotica transalpina. Si può immaginare l’effetto che tale linguaggio poté avere su pittori abituati a utilizzare schemi di piú o meno remota derivazione bizantina e che si trovarono di fronte quei nudi esili, eleganti, quelle membra affusolate, quei movimenti leggeri, ondulanti, quei volti traboccanti di emozioni e di affetti, quei trionfi vegetali e insomma tutto quel tesoro di annotazioni naturalistiche e quelle formule e quegli schemi con cui il gotico del nord affermava elegantemente e senza sforzo apparente la propria superiorità. E ciò non in illustrazioni chiuse nelle pagine non a tutti accessibili di un messale o di un salterio, ma esposti pubblicamente a chiunque volesse intenderli.
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Non mancarono di accorgersene altri pittori di vetrate, italiani questa volta, o addirittura umbri, che lavorarono alla stessa chiesa e che sono prossimi all’anonimo pittore chiamato Maestro di San Francesco che aveva lasciato l’importante ciclo d’affreschi nella basilica inferiore57. Le vetrate da loro progettate sono la quadrifora del transetto settentrionale con apparizioni di Cristo e di angeli affrontate in due luci mentre nelle altre due è una decorazione vegetale, e sei finestre della navata. Di queste, tre mostrano coppie di apostoli (Simone e Giuda Taddeo, Filippo e Giacomo Minore, Bartolomeo e Taddeo, quest’ultima con storie della loro vita), una profeti e santi, le ultime due rispettivamente san Francesco e sant’Antonio da Padova con le loro storie e la glorificazione di san Francesco. Anche in questo caso il programma iconografico mostra curiose assenze e interruzioni che testimoniano di modificazioni e di rimaneggiamenti58. Molti anni fa, contro l’opinione allora generalmente accettata, chiarii la dipendenza di queste vetrate da quelle del transetto meridionale, e la presenza in esse di diverse citazioni dalle opere dei maestri transalpini59. Di fronte agli esempi della quadrifora meridionale i personaggi di queste vetrate sembrano tozzi e impacciati, e le scene nel loro insieme, come i singoli elementi, assumono un aspetto più greve, massiccio, petroso. L’attività del Maestro di San Francesco si situa nel terzo quarto del xiii secolo e le vetrate prossime ai suoi modi hanno conosciuto datazioni diverse, ma spesso troppo precoci. Luiz C. Marques, nel suo agile libro sulla pittura del duecento nell’Italia centrale, le data, in base alle osservazioni di Serena Romano, verso il 126o-65, e Chiara Frugoni rinforza questa datazione con un elemento iconografico: per spiegare la presenza di un episodio scarsamente rappresentato nelle storie di San Francesco – la predica di Francesco a Ezzelino da
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Romano (morto nel 1259) – converrebbe perfettamente una data agli inizi degli anni sessanta60. Ciò comporterebbe che la quadrifora del transetto meridionale dalla quale sono stati ripresi alcuni elementi dovrebbe essere anteriore a quella data. Altri elementi esterni non sono molto utilizzabili. Le costituzioni di Narbona del 126o stabiliscono limiti all’uso delle vetrate nelle chiese francescane: egualmente non siano ammesse le finestre vitree istoriate o dipinte tranne che nella vetrata principale dietro l’altar maggiore del coro, dove si possono avere l’immagine del Crocifisso, della beata Vergine, di san Giovanni, san Francesco e sant’Antonio solamente, e se portassero altri soggetti siano rimosse dai padri visitatori61,
ma sembrano piú che altro legittimare le vetrate dell’abside della chiesa superiore che a quel tempo erano già in loco. Quanto agli ammonimenti del Capitolo generale dell’Ordine emanati nel 1279 sulla stessa materia e che riprendevano le costituzioni di Narbona, possono avere avuto qualche conseguenza immediata: infatti non troveremo nuove vetrate ad Assisi per molti anni. Luiz Marques evoca in pagine assai suggestive il clima intellettuale della corte di Clemente IV (1265-68), il protettore di Ruggero Bacone, l’amico di san Bonaventura, corte in cui erano vivissimi gli interessi per l’ottica e per la metafisica della luce e i rapporti con la cultura parigina molto intensi. Sarebbe certo tentante ricondurre la presenza in Assisi dei maestri transalpini (e non solo dei pittori come pensa Marques, ma anche dei maestri vetrari) al suo pontificato. Tuttavia, se dobbiamo basarci esclusivamente su confronti stilistici, ci troviamo di fronte a una situazione che presenta dati contraddittori che si possono cosí riassumere:
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1. la quadrifora sud e le due vetrate che a essa si collegano sulla parete nord hanno costituito modelli per il gruppo di vetrate prossime ai modi del Maestro di San Francesco; 2. stando a ciò che conosciamo del Maestro di San Francesco queste ultime vetrate dovrebbero essere anteriori al 1272, data del Crocifisso di Perugia, considerato un’opera matura del maestro; 3. è per ora impossibile trovare confronti sicuri e convincenti a questa data per i prototipi transalpini.
Ergo, o le vetrate prossime al Maestro di San Francesco sono più tarde del 1272, o la maestranza transalpina era letteralmente alla punta dell’attualità, tanto da produrre ad Assisi ciò che in Francia o in Renania non si vedeva ancora. In altri tempi ho sostenuto l’ipotesi62 che il maestro della quadrifora meridionale provenisse da un’area di confine tra Francia e Germania, e lo vidi fortemente marcato dallo stile degli atelier di Strasburgo. Gli elementi che mi sembravano indicare con una certa probabilità la zona dell’alto Reno come quella di origine dell’atelier della quadrifora sud potevano avere un senso se le vetrate venivano datate sul finire del secolo come allora pensavo (i confronti possibili con le vetrate della chiesa domenicana di Wimpfen mi avevano molto colpito), ma sono messi in forse da una datazione negli anni settanta. Infatti trovare esempi a esas horas in quest’area di vetrate così fortemente marcate dai modi dell’espressionismo gotico non è facile né forse possibile, sí che si dovrà allargare l’arco dei confronti per comprendervi i primi grandi testi dell’espressionismo gotico in vetrata, da Saint-Urbain di Troyes a Saint-Père di Chartres a Saint-Gengoult di Toul. Non dimentichiamo però che Lampertus, prepotente e umoroso espressionista, dovette lavorare a Esslingen già nel 128o, e ciò offre
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nuove possibilità per immaginare una provenienza dell’atelier assisiate dall’area germanica. Mi pare impossibile tuttavia risalire, per questo gruppo, agli inizi degli anni sessanta come frequentemente viene fatto, e sono certo che la datazione debba essere piuttosto posta attorno al 1275. Si tratta di un grosso problema che coinvolge anche l’attività dei frescanti transalpini. La stupefacente decorazione della parete terminale del transetto nord, in cui le pitture ampliano, completano e integrano la finestra, mostrano infatti che maestri di vetrate e maestri di parete lavorarono fianco a fianco o quanto meno in strettissima successione. Anche le due grandi quadrifore saranno da porre allo stesso momento. I modelli vennero proposti dall’atelier transalpino, ma le due imprese dovettero svolgersi parallelamente, sí che è possibile rilevare, come ha indicato Frank Martin, qualche scambio di maestranze analogo a quelli avvenuti a Chartres63. A un certo momento, per cause che ignoriamo, la stagione nordica del San Francesco si interromperà. Le maestranze transalpine – maestri di vetrate e pittori – abbandoneranno Assisi, lasciando il posto alle squadre di Cimabue, dopo aver creato opere che saranno per il futuro di grande, eccezionale importanza.
Cfr. il catalogo dell’esposizione Das Gladbacher Bibelfenster. Gefährdung, Restaurierung, a cura di J. Cladders, H. Rode e H. Bange, Mönchen-Gladbach 1976. 2 Cfr. h. wentzel, Meisterwerke der Glasmalerei, Berlin 19542, p. 91. 3 j. lafond, alle pagine 337-41 del suo importante saggio Le vitrail en Normandie de 1250 à 13oo, in «Bulletin Monumental», cxi (1953). Vetri chiari ornati a grisaille provenienti da questo insieme sono al Metropolitan Museum (cfr. «Bulletin of the Metropolitan Museum of Arts», dicembre 1971 - gennaio 1972, p. 118) e al Corning Museum of Glass (m. parsons lillich, Three Essays on French Thirteenth Cen1
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali tury Grisaille Glass, in «Journal of Glass Studies», xv (1973), pp. 73-75. 4 Sul crescente uso del vetro chiaro cfr. m. parsons lillich, The Band Window: A Theory of Origin and Development, in «Gesta», ix (1970), pp. 26-33. 5 j. lafond, Les vitraux de la cathédrale de Sées, in «Congrès Archéologique de France» (Orne 1953), cxi (1954), pp. 59-83; m. parsons lillich, Stained Glass from Western France (125o-1325) in American Collections, in «Journal of Glass Studies», xxv (1983), pp. 125-26. 6 m. parsons lillich, The Choir Clerestory Windows of La Trinité at Vendôme. Dating and Patronage, in «Journal of the Society of Architectural Historians» xxxiv (1975), pp. 238-50. 7 Sulle tendenze espressive nelle vetrate duecentesche dell’ovest della Francia cfr. m. parsons lillich, The Stained Glass of Saint-Père of Chartres, Middletown 1978, e in particolare il capitolo v, The Western School of Stained Glass, pp. 69-79; l. grodecki e c. brisac, Le vitrail gothique au XIII siècle, pp. 158-71. Sulle vetrate di Toul, m. parsons lillich, Rainbow like an Emerald. Stained Glass in Lorraine in the Thirteenth and Early Fourteenth Century, University Park 1991. 8 l. grodecki, Les vitraux de Saint-Urbain de Troyes, in «Congrès Archéologique de France», cxiii Session, Troyes 1955, Paris 1957, pp. 123 sgg; h. wentzel, Die Glasmalereien in Schwaben von 1250-1350, CVMA, Bundesrepublik Deutschland I, Berlin 1958, pp. 36 sgg.; r. becksmann, Die architektonische Rahmung der hochgotischen Bildfensters, Berlin 1963, p. 15; grodecki e brisac, Le vitrail gothique cit., pp. 168-71; CVMA, Recensement des vitraux anciens de la France, IV, Les vitraux de Champagne-Ardenne, Paris 1992, pp. 276-83. 9 Sullo sviluppo dell’incorniciatura architettonica cfr. becksmann, Die architektonische Rahmung cit.; id., Le vitrail et l’architecture nel catalogo dell’esposizione Les bâtisseurs des cathédrales gothiques, Strasbourg 1989, pp. 296-3o6. 10 j. bidaut, L’église Sainte-Radegonde de Poitiers, in «Congrès Archéologique», cix (1951), pp. 114; grodecki e brisac, Le vitrail gothique cit., p. 166. 11 lafond, Le vitrail en Normandie de 1250 à 1300 cit., p. 332. 12 m. parsons lillich, The Stained Glass of Saint-Père cit., ma se ne veda la recensione di c. lautier, nel «Bulletin Monumental», cxli (1983), pp. 223-25; j.-m. braguy, La restauration du vitrail de Saint-Pierre et Saint-Paul de l’église Saint-Pierre de Chartres, in «Vitrea», 7, 1991, pp. 11-26. 13 Meredith Lillich ritiene addirittura – tesi non condivisa da molti – che esse siano in gran parte precedenti, e che, eseguite per l’antica navata, intorno al 1240 siano poi state montate nelle finestre del coro, ricostruito tra 1250 e 1270.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali m. parsons lillich, Les donateurs de quelques vitraux de la nef de Saint-Père de Chartres, in «Bulletin des Sociétés Archéologiques d’Eure et Loir», cxvi (1972), pp. 287-302. 15 j. lafond, Le Vitrail du XIVe siècle en France, in l. lefrançois-pillion, L’Art du XIVe siècle en France, Paris 1954; parsons liillich, The Stained Glass of Saint-Père cit., passim. 16 g. vitzthum, Die Pariser Miniaturmalerei von der Zeit des hl. Ludwig bis zu Philipp von Valois und ihr Verhältnis zur Malerei in Nordwesteurope, Leipzig 1907; r. branner, Manuscript Painting in Paris during the Reign of Saint Louis. A Study of Styles, Berkeley 1977. 17 Oltre alla vetrata a tre luci con storie della Vergine (1260-70 circa) la chiesa conserva nella finestra assiale composta di pezzi disparati una bella Adorazione dei magi leggermente più tarda. f. gatouillat, A Saint-Sulpice de Favières des vitraux témoins de l’art parisien au temps de Saint-Louis, in «Dossiers de l’Archéologie», 26, 1978, pp. 5o-62; s. rivière, L’église de Saint-Sulpice de Favières, Paris 1991. 18 e. g. millar, The Parisian Miniaturist Honoré, London 1959; e. j. beer, Überlegungen zum «Honoré Stil», in Atti del xxv Congrès International d’Histoire de l’Art (Wien 1983), Wien 1986, pp. 81-87. Sulla diffusione dei modi di Honoré: g. schmidt, Die Malerschule von Sankt Florian, Graz-Köln 1962. Per un’ampia bibliografia sul problema Honoré e sullo stile di corte parigino, alla fine del duecento cfr. r. becksmann, Die Bettelorden an Rhein, Main und Neckar und der hofischer Stil der Pariser Kunst um 1300, in Deutsche Glasmalerei des Mittelalters, a cura di R. Becksmann, Berlin 1992, pp. 52-75. 19 Sui rapporti tra miniaturisti e pittori di vetrate cfr. h. wentzel, Glasmaler und Maler im Mittelalter, in «Zeitschrift für Kunstwissenschaft», iii (1949), pp. 53-62. 20 k. morand, Jean Pucelle, Oxford 1962; ch. sterling, La peinture médiévale à Paris, 1300-1500, Paris 1987, vol. I, pp. 67-110. 21 Sui rapporti tra i modelli di Pucelle e le vetrate cfr. j. lafond, Les Vitraux de l’Eglise Saint-Ouen à Rouen, Paris 1970, pp. 39 sgg.; l. freeman-sandler, A follower of Jean Pucelle in England, in «Art Bulletin», lii (1970), pp. 363 sgg.; h. reinhardt, La Cathédrale de Strasbourg, Grenoble 1972, p. 183. 22 Catalogo Age of Chivalry. Art in Plantagenet England, a cura di J. Alexander e P. Binski, London 1987, pp. 532-34. 23 p. a. newton in sherwood e n. pevsner, Oxfordshire, 1984, pp. 8 1-83; catalogo Age of Chivalry cit., p. 532. 21 Age of Chivalry cit., pp. 404-5. 25 wentzel, Meisterwerke cit., p. 42. 26 v. beyer, Les Vitraux de la Cathédrale de Strasbourg, CVMA, France, ix, 1, Paris 1986. 27 Sull’origine e i modelli della navata della cattedrale di Strasbur14
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali go cfr. h. reinhardt, La nef de la cathédrale de Strasbourg, in «Bulletin de la société des amis de la Cathédrale de Strasbourg», iv (1937), pp. 3-28; r. branner, Remarques sur la Cathédrale de Strasbourg, in «Bulletin Monumental», cxxii (1964), pp. 261 sgg.; r. branner, SaintLouis and the Court Style, London 1965; reinhardt, La Cathédrale de Strasbourg cit., pp. 57 sgg. 28 wentzel, Meisterwerke cit., p. 97. 29 j. lutz e p. perdrizet, Speculum Humanae Salvationis, Mulhouse 1907; e. breitenbach, Speculum Humanae Salvationis. Eine typengeschichtliche Untersuchung, Strasbourg 1936. Sulle vetrate di Mulhouse cfr. becksmann, Die architektonische Rahmung cit., pp. 99 sgg. 30 becksmann, Die architektonische Rahmung cit., pp.136-40. 31 Sulle vetrate della chiesa dei domenicani a Strasburgo, v. beyer, La dépose des vitraux de l’église des Dominicains et la verrière de la vie de Saint-Barthélemy, in «Cahiers alsaciens d’archéologie, d’art et d’histoire», i (1957), pp. 143-62; becksmann, Die architektonische Rahmung cit., pp. 126-36; v. beyer, La verrière du Jugement Dernier à l’ancienne église des Dominicains à Strasbourg, in «Cahiers alsaciens d’archéologie, d’art et d’histoire», xi (1967), pp. 33 sgg. 32 p. frankl, Die Glasmalerei der Wilhelmskirche in Strassburg, Baden-Baden 196o. 33 becksmann, Die architektonische Rahmung cit., pp. 46-58. 34 Sulle vetrate di Westhofen che, cosa rarissima, sono firmate da un Renboldus (cfr. wentzel, Die Glasmalereien in Schwaben cit., p. 43), becksmann, Die architektonische Rahmung cit., pp. 144-47; c. block, Les vitraux de Westhoffen, in «Bulletin trimestriel de la Société d’Histoire et d’Archéologie de Saverne et environs», iv (1967), Cahier 6o, p. 1 sgg. 35 h. wentzel, Das Mutziger Kreuzigungsfenster und verwandte Glasmalereien in der erste Hälfte des 14 Jahrhunderts aus dem Elsass, der Schweiz und Süddeutschland, in «Zeitschrift für Schweizerische Archaeologie und Kunstgeschichte», xiv (1953), pp. 159-79. 36 a. galliner, Glasgemälde des Mittelalters aus Wimpfen, Freiburg 1932; wentzel, Die Glasmalereien in Schwaben cit., pp. 234-43; r. becksmann, Deutsche Glasmalerei des Mittelalters, Stuttgart 1988, p. 127. 37 r. becksmann, Die ehemalige Farbverglasung der Mauritiusrotunde des Konstanzer Münsters, in «Jahrbuch der staatlichen Kunstsammlungen in Baden-Württemberg», v (1968), pp. 57-82. 38 h. i. heuser, Oberrbeinische Goldschmiedekunst im Hochmittelalter, Berlin 1974, e la recensione che ne fa i. krummer-schroth nella «Zeitschrift für Kunstgeschichte», xl (1977), pp. 75 sgg. 39 h. wentzel, Christus-Johannes-Gruppe, in Reallexikon zur deutschen Kunstgeschichte, III, colonne 658-69, Stuttgart 1958.
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali becksmann, Die architektonische Rahmung cit., pp. 82-84. wentzel, Die Glasmalerei in Schwaben cit., pp. 190-96; becksmann, Die architektonische Rahmung cit. pp. 82-84. 42 e. i. beer, Die Glasmalereien der Schweiz aus dem 14. und 15. Jahrhundert, CVMA, Schweiz, III, Basel 1965. 43 f. geiges, Der Mittelalterliche Fensterschmuck des Freiburger Münster, Freiburg 1931; l krummer-schroth, Glasmalereien aus dem Freiburger Münster, Freiburg 1967. 44 Cfr. becksmann, Deutsche Glasmalerei cit., p. 18. 45 wentzel, Meisterwerke cit., pp. 32-34; id., Die Glasmalereien in Schwaben cit. 46 becksmann, Deutsche Glasmalerei cit., pp. 120-21. 47 b. lymant, Die Glasmalerei des Schnütgen Museums, Bestandkatalog, Köln 1982. 48 h. rode, Die mittelalterlichen Glasmalereien des Kölner Domes, CVMA, Deutschland, IV, 1, Berlin 1974. 49 w . frodl, Gotische Glasmalerei in Österreich, Wien 195o. 50 p. niemetz, Die Babenberger-Scheiben im Heiligenkloster Brunnenhaus, Heiligenkreuz 1976. 51 e. bacher, Frühe Glasmalerei in der Steiermark, Graz 1975, p. 15; id., Die mittelalterlichen Glasgemälde in der Steiermark, CVMA, Österreich, III, 1, Wien 1979. 52 bacher, Die mittelalterlichen Glasgemälde cit., pp. 5-56. 53 e. frodl-kraft, Die mittelalterliche Glasgemälde in Niederösterreich, 1, CVMA, Österreich, II, 1, Wien 1972, pp. 165-98. 54 c. volpe, La formazione di Giotto nella cultura di Assisi, in Giotto e i Giotteschi in Assisi, Roma 1970, pp. 15 sgg.; h. belting, Die Oberkirche von San Francesco in Assisi, Berlin 1977, pp. 112 sgg.; l. bellosi, La pecora di Giotto, Torino 1985, pp. 179 sgg.; id. in Atti del Convegno Simone Martini (Siena 1985), Firenze 1988. 55 g. marchini, Le Vetrate dell’Umbria, CVMA, Italia I, Milano 1973, pp. 38 sgg. 56 r. wagner-rieger, Die Italienische Baukunst zu Beginn der Gotik, Graz-Köln 1957; e. hertlein, Die Basilika San Francesco in Assisi, Firenze 1964; p. heliot, La filiation de l’église haute à Saint-François d’Assise, in «Bulletin Monumental», cxxxvi (1968). 57 p. toesca, Storia dell’Arte Italiana, Il Medioevo, Torino 1927, p. 1074; g. marchini, Le Vetrate Italiane, Milano 1955, pp. 17- 18. 58 a. cadei, Assisi, San Francesco. L’architettura e la prima fase della decorazione, in Roma 13oo, Roma 1983, pp. 141-74. 59 e. castelnuovo, Vetrate Italiane, in «Paragone», ix (1958), n. 103, pp. 3-24. 60 Sulla datazione proposta per le vetrate prossime al Maestro di San Francesco cfr. s. romano, Le storie parallele di Assisi. Il Maestro di San 40 41
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali Francesco, in «Storia dell’Arte», 44, 1982, pp. 63-82; id., Pittura ad Assisi 126o-128o. Lo stato degli studi, in «Arte Medievale», ii (1984), pp. 109-41; l. c. marques, La peinture du Duecento en Italie Centrale, Paris 1987, p. 114; c. frugoni, Francesco e l’invenzione delle Stimmate, Torino 1993, pp. 293-96. 61 f. ehrle, Die ältesten redactionen der Generalconstitutionen des Franziskanerordens, in «Archiv für Literatur und Kirchengeschichte des Mittelalters», vi (1892), pp. 1-138, citato da marques, La peinture cit., p. 245. 62 castelnuovo, Vetrate Italiane cit.; id., Vetrata, in Enciclopedia Universale dell’Arte, Roma-Venezia 1966, vol. xiv, col. 755. 63 c. lautier, Les peintres verriers des bas-côtés de la nef de Chartres au début du XIIIe siècle, in «Bulletin Monumental», cxlviii (1990), pp. 7-45; f. martin, Die Apsisverglasung der Oberkirche von S. Francesco in Assisi, Worms 1993, p. 133.
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Capitolo undicesimo La grande svolta
Nella seconda metà del xiii secolo la crescente utilizzazione dei vetri bianchi nelle finestre, e la loro mutata ripartizione e impaginazione, aveva avviato, schiarendo la gamma cromatica delle pareti translucide e aumentando la luminosità negli interni delle chiese, una profonda trasformazione delle vetrate e del loro rapporto con l’architettura. Due eventi di diversa natura contribuirono fin dai primissimi anni del trecento a mutarne ulteriormente l’aspetto. Il primo fu di natura tecnica, il secondo appartenne invece a un ambito piú specificamente stilistico. Senza volere, sia pur sommariamente, seguire le vicende delle vetrate europee per tutto il trecento, secolo che ne è sommamente ricco, in quest’ultimo capitolo si accennerà ad alcuni casi particolarmente significativi e precoci di ricezione delle due grandi innovazioni che caratterizzarono la vetrata in questo periodo. Della prima si è già accennato: si trattò dell’introduzione del giallo d’argento, un sale minerale che, sottoposto a una cottura in forno, fa assumere alla superficie del vetro su cui è stato apposto un colore dorato. Un fatto di questo genere, offrendo la possibilità di avvicinare due colori diversi (bianco e giallo, azzurro e verde, rosso e arancio e via dicendo) sullo stesso vetro, permise di diminuire il numero di piombi di separazione e marcò il crescente abbandono della vetrata-mosaico e il costante avvicinarsi delle vetrate alle
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forme, all’aspetto e ai modi della pittura. Altre innovazioni tecniche ebbero luogo nel corso del secolo. Le lastre di vetro furono prodotte prevalentemente in formato piú grande e nello stesso tempo più sottile e con un numero assai minore di irregolarità e, come accenna Antonio da Pisa, si cominciò a fare uso, per tagliare il vetro, di pietre dure, che rispetto al ferro rovente permettevano una maggiore precisione. Anche il secondo evento, di ordine piú propriamente stilistico, andò nella medesima direzione, avvicinando cioè l’aspetto delle vetrate a quello della pittura. Si trattò dell’apparire di nuovi schemi figurativi atti a rappresentare la profondità. Dapprima questi vennero utilizzati per rappresentare elementi architettonici secondari, mensole, basi e simili; a poco a poco il nuovo modo di figurare si impose nel trattamento dell’intera incorniciatura architettonica, pur non estendendosi, almeno in un primo tempo fuori d’Italia, ai personaggi e alle scene. Accade cosí di vedere elementi trattati in modo bidimensionale incorniciati tridimensionalmente, quindi, specialmente in certe aree, intere costruzioni, baldacchini, logge, torri realizzate nella nuova maniera. Le origini del fenomeno sono chiare: si tratta della trasposizione nel campo della vetrata di quelle formule e di quei procedimenti di rappresentazione tridimensionale dello spazio che si erano affermati a Roma, in Toscana e quindi, in breve tempo, nell’Italia intera, grazie particolarmente alla pittura di Giotto. Questo nuovo paradigma influenzerà tutta la pittura europea del trecento nelle sue diverse tecniche, dall’affresco alle tavole, dalla miniatura ai ricami e, appunto, alle vetrate, trovando precocemente echi e riscontri a Parigi e a Strasburgo, nelle Baleari, in Catalogna, in Austria e nella Germania meridionale. Nel caso della vetrata, però, una tale innovazione proponeva problemi nuovi e di notevole gravità, e per
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certi aspetti sembrava contrariare alcuni caratteri propri a questa tecnica, bidimensionale per eccellenza. Su questo punto si può manifestare qualche dubbio: il carattere di tappeto decorato e scintillante in materia preziosa che fu proprio delle vetrate di Chartres e di Bourges come di quelle di Canterbury e di Sens è certo opposto alla rappresentazione della profondità, ma ci si può chiedere se questo non sia stato un fenomeno determinato storicamente piuttosto che una costante vocazione della tecnica. In realtà, con altri mezzi e per altre vie, la vetrata aveva cercato effetti di profondità spaziale anche nel corso del duecento, come nella vetrata della Passione di Orbais, dove le scene collocate all’interno si pongono su un piano diverso rispetto al bordo che ne viene interrotto e alle scene esterne, o come nella straordinaria vetrata di san Martino a Chartres. D’altra parte, approfondimenti spaziali, sia pure assai limitati e non coordinati in maniera coerente, si trovano nelle rappresentazioni degli artigiani intenti alle loro specifiche attività in alcune vetrate tra le piú tipiche del gotico francese, a Chartres come a Le Mans1, ma queste scene restano confinate in posizione periferica, secondaria, nelle parti basse, e non producono l’effetto sconvolgente di bucare la superficie vitrea con elementi salienti ed effetti di arretramento illusionisticamente efficaci come invece avverrà nel trecento. La nuova maniera di rappresentare lo spazio nelle vetrate si afferma dopo che oramai da una settantina d’anni il problema dell’inquadramento architettonico aveva preso un’importanza crescente2. A imitazione di quanto avveniva nel campo della statuaria, elementi architettonici sempre piú complessi erano stati utilizzati, dalla metà circa del xiii secolo, per inquadrare i personaggi delle vetrate e organizzare le scene. Di fatto la favorevole accoglienza al nuovo modo di figurare profondità e volumi venne facilitata proprio dal suo inserirsi
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in una tendenza già esistente e in piena evoluzione, e questo spiega anche come in un primo tempo la nuova rappresentazione tridimensionale abbia, nelle vetrate transalpine, influenzato il trattamento dello spazio esclusivamente negli elementi architettonici. Per certi aspetti il fenomeno potrebbe essere considerato analogo al contrasto tra ornamenti tridimensionali nei bordi e rappresentazione bidimensionale di scene e personaggi esistente in certi affreschi romanici. In questo caso gli elementi spaziosi vennero generalmente ripresi dalla pittura romana e furono utilizzati nei bordi senza influenzare il modo di rappresentare le scene; è quanto avviene, per esempio, nelle pitture murali di San Pietro a Ferentillo del xii secolo. Comunque, che il fatto si spieghi per difficoltà pratiche (era assai piú semplice riprendere singoli elementi tridimensionali da modelli romani o giotteschi che riuscire a impostare nello spazio un personaggio o una intera scena) o per deliberato rifiuto, rimane il fatto che nel nord dell’Europa la rottura con la precedente tradizione non fu, in un primo tempo, cosí totale. Del resto l’insistenza su singoli elementi, quali mensole, basi e cosí via, senza alterare profondamente la struttura della scena, è tipica anche di certi pittori influenzati da esempi giotteschi, ma restii ad abbandonare la tradizione precedente: ciò è evidente nel caso della decorazione pittorica, ricca di motivi illusionistici di grande effetto, della chiesa di San Pietro a Grado presso Pisa dovuta a Deodato Orlandi. Piú generalmente la mensola aggettante è stato un elemento che ha colpito le immaginazioni fin dagli inizi del nuovo modo di rappresentare. Basti pensare a come questo motivo sia stato largamente usato in pittura nella chiesa superiore di San Francesco ad Assisi per poi diminuire d’importanza, scomparire o svolgere un ruolo assai minore nei centri dell’innovazione, mentre conservò la propria importanza in aree piú periferiche, dal Ticino al Trentino, al Piemonte.
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L’Italia. Nelle vetrate italiane i modi della rappresentazione spaziale furono impostati precocemente nella loro complessità e non ridotti a una scelta di elementi isolati. L’innovazione era nata qui, non vi era giunta come portato di influenze esterne, e l’intervento nella progettazione delle vetrate di pittori che del nuovo stile avevano diretta esperienza, che anzi avevano partecipato alla sua elaborazione, fu assai vasto. Già nel 1288 si trovano nuove sperimentazioni di spazi nella bella vetrata del duomo di Siena attribuita a Duccio di Buoninsegna3. Esse sono presenti nella struttura complessa del trono dell’Incoronazione della Vergine, nell’avello della Sepoltura, negli scranni degli Evangelisti e nella splendida Assunzione, in cui la mandorla trasportata dagli angeli si staglia contro quella che sembra una grata campita contro l’azzurro. In questo caso, anzi, il fatto di trasformare in senso naturalistico e spaziale il fondo a mosaico di origine francese appare particolarmente significativo. Il proiettarsi del gradino del trono dell’Incoronazione al di là dei limiti della scena per discendere direttamente sul bordo, interrompendolo; i nimbi, le ali, o addirittura i piedi degli angeli che si sovrappongono all’incorniciatura per provocare un effetto spaziale, trasferiscono su vetro le ricerche della pittura di quegli anni. Nella vetrata senese non vi è ancora traccia delle soluzioni radicali che Giotto darà al problema della rappresentazione tridimensionale dello spazio e alla resa plastica dei volumi. Queste si avvertono invece piú tardi nei personaggi degli splendidi tondi del monastero Matris Dominis di Bergamo4 e pervadono letteralmente le vetrate della chiesa inferiore di San Francesco ad Assisi5. Il principale centro di elaborazione e di diffusione di questa tecnica in Italia fu Assisi. La culla della nuova
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pittura, il crogiuolo dove le suggestioni piú varie erano venute a incrociarsi, a fondersi, dando luogo a esperienze innovatrici eccezionali, fu anche il punto di partenza della vetrata italiana. Ancora una volta la città umbra rappresentò uno straordinario laboratorio, dove maestri vetrari di diversa origine e pittori si trovarono a collaborare, quando addirittura le due esperienze non si incontrarono e non si inverarono nella medesima persona. Fu questo forse il caso di Giovanni di Bonino, attivo ad Assisi, a Perugia e a Orvieto, la cui personalità e la cui attività pongono ancora molti problemi, che da alcuni si è voluto identificare con il Maestro di Figline6, appassionato e personalissimo pittore giottesco. A Giovanni di Bonino sono state ascritte, seppure con qualche riserva, le vetrate eccezionali e precoci (prima del 1317) della cappella di Sant’Antonio in San Francesco ad Assisi, che contano tra i capolavori del trecento europeo. È possibile che egli abbia trasferito su vetro i disegni di Simone Martini per le vetrate, anch’esse assai precoci (circa 1312-15), della cappella di San Martino, mentre forse su disegno del cosiddetto Maestro espressionista di Santa Chiara, identificato da Filippo Todini con Palmerino di Guido menzionato come compagno e socio di Giotto in un documento del 1309, è la vetrata della cappella di San Ludovico, sempre nella chiesa di San Francesco7. Al Maestro di Figline Ferdinando Bologna ha attribuito una vetrata, unica per le caratterizzazioni personali ed espressive dei volti, in Santa Croce a Firenze, che era stata avvicinata da Giuseppe Marchini a Giotto8. Un fulgente esempio di come le vetrate potessero integrare esperienze diverse è offerto dal grande finestrone absidale del duomo di Orvieto (1330-34), che dovette essere eseguito da Giovanni di Bonino in collaborazione con il maestro vetrario Andrea di Mino da Siena9. Lo stretto rapporto con alcuni dei rilievi della
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facciata della cattedrale fa pensare addirittura a un intervento diretto dello scultore nella progettazione dell’opera. Oltre ad Assisi, altro centro cruciale per la storia della vetrata in Italia fu Siena, dove tra l’altro verranno redatti trattati sull’arte di dipingere su vetro. Accanto a quella duccesca si contano qui altre importanti vetrate, come la duecentesca Madonna con il Bambino del santuario della Madonna della Grotta, o il San Michele Arcangelo di Ambrogio Lorenzetti in Palazzo Pubblico, mentre di un maestro senese è il grande occhio di facciata della cattedrale di Massa Marittima. A Firenze importanti vetrate del primo trecento cui diedero i disegni pittori giotteschi si trovano, non a caso, nella chiesa francescana di Santa Croce, mentre altri luoghi di sperimentazione e di acclimatazione delle vetrate in Italia dovettero essere Pisa (anche se pochissimo si è conservato del suo patrimonio vitreo) e soprattutto Orvieto, dove fornaci di vetro vennero approntate, dal 1325, per i bisogni dell’Opera del Duomo. Un ruolo importante ebbero anche i centri del settentrione: Milano (di cui portano testimonianza i tondi bergamaschi), Bologna, dove non rimangono che pochi frammenti ma di qualità assai alta (la Crocifissione del Museo Civico Medievale, forse proveniente da San Domenico) e Venezia, la città del vetro per eccellenza, della cui produzione testimonia una Annunciazione proveniente da Torcello e ora al Victoria and Albert Museum a Londra. L’incontro eccezionale tra culture figurative in rapidissima crescita e in pieno mutamento, come quelle toscana e umbra della fine del due e degli inizi del trecento, e i suggerimenti gotici10 introdotti dai maestri vetrari transalpini scesi dalla Germania e dall’Alsazia, pervenuti nelle pagine di un libro di schizzi o attraverso modelli che potevano essere anche di grande formato, ha contraddistinto le vetrate italiane del primo trecento. Fino agli anni 1340 la vicenda della vetrata
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italiana, da Assisi a Orvieto, a Firenze, da Venezia a Bergamo, a Bologna, è stata estremamente interessante; successivamente, e pur con risultati di notevolissimo rilievo, l’esperienza si richiuse entro un quadro piú ristretto.
La Francia. In Italia elementi del disegno gotico entrarono nella cultura figurativa anche attraverso il medium delle vetrate; nel nord furono gli elementi spaziosi e tridimensionali della pittura italiana che influenzarono il disegno delle grandi finestre. Sarebbe difficile stabilire un esatto registro dei tempi e una gerarchia di priorità. Mentre la diffusione del giallo d’argento aveva avuto inizio dal principio del secolo11, gli anni decisivi per la ricezione della tridimensionalità furono quelli tra 1320 e 133o all’incirca e i centri ne furono principalmente Parigi e Strasburgo (i cui modi si irradiarono nella Germania meridionale e in Svizzera), anche se l’Austria, da Vienna a Klosterneuburg, a Wiener Neustadt, a Graz, a Strassengel, svolse in questa situazione, seppur piú tardivamente, un ruolo importante. Non restano testimonianze, se non estremamente frammentarie, di come fossero le vetrate parigine del primo trecento, di cui pure abbiamo numerose notizie, dato che praticamente non ne è rimasta nessuna; pure, come ha notato Jean Lafond, «l’esistenza e l’azione del centro parigino può tuttavia essere dimostrata allo stesso modo che il calcolo ha permesso di dimostrare quella dei pianeti invisibili»12. Elementi di derivazione italiana sono stati da lui riconosciuti in alcune vetrate della Trinité di Fécamp e di Saint-Père di Chartres13 a una data estremamente precoce, verso il 1310; verranno in seguito le vetrate di Saint-Hymer en Auge (circa 1325),
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della cappella di Saint-Piat della cattedrale di Chartres, con gli straordinari coronamenti di architetture militari impostati tridimensionalmente14, e quelle della cattedrale di Auxerre. I cicli di vetrate piú importanti di tutto il trecento in Francia, e certo tra i piú significativi dell’Europa intera, sono quelli del coro di Saint-Ouen di Rouen e della cattedrale di Evreux, e fanno direttamente seguito alle vetrate con una teoria di santi vescovi veementi ed espressivi della cattedrale di Rouen. La prima pietra della chiesa di Saint-Ouen a Rouen fu posta nel 1318; il suo promotore, l’abate Jean Roussel detto Marc d’Argent dichiarò in modo esplicito che voleva farne l’immagine della Gerusalemme celeste15, un topos antico ma che in questo caso trova nel monumento stesso, sovranamente luminoso e splendente di colori, un’impressionante conferma. Alle trentaquattro vetrate del coro di Saint-Ouen di Rouen, create in una quindicina d’anni (1325-40 circa) da un ristretto gruppo di maestri coadiuvati da allievi e collaboratori, certo venuti da Parigi e tanto influenzati dai modi di Pucelle da riproporre ancora una volta il problema dei rapporti tra maestri vetrari e miniatori, ha dedicato un libro esemplare Jean Lafond16. Il giallo d’argento è usato con profusione e in modo magistrale, mentre abbondano gli elementi tridimensionali. La finestra alta assiale con la Crocifissione a pieno colore è accompagnata ai lati da vetrate incolori; seguono, nelle finestre alte, grandi figure isolate su fondo chiaro: a nord personaggi dell’Antico Testamento, Adamo ed Eva, patriarchi, profeti e anche le sibille; a sud i patroni dell’abbazia, gli apostoli, i vescovi di Rouen, mentre nelle finestre basse le storie dei santi titolari delle cappelle sono incorniciate da elementi pseudoarchitettonici. I maestri parigini di Saint-Ouen si ritroveranno all’opera nelle vetrate di Saint-Pierre di Jumièges17 e della cattedrale di Evreux18. Gli elementi di
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illusionismo tridimensionale non sono presenti qui nelle vetrate donate da Louis d’Evreux, fratello del re Filippo il Bello, databili verso il 1310, dal vescovo Geoffroy de Plessis, morto nel 1327, né in quella celebre e bellissima donata dal canonico Raoul de Ferrières (morto nel 1329), rappresentato in dimensioni pari a quelle della Vergine cui si rivolge, nell’atto di offrire il modello della finestra, mentre è fatto un largo uso del giallo d’argento con effetti estremamente sottili. Troni, inginocchiatoi e altre architetture tridimensionali che inquadrano e veramente includono i personaggi appaiono invece nella vetrata assiale donata dal domenicano Jean du Prat, vescovo della città tra il 1329 e il 1334, e in quelle che la circondano, donate dal suo successore Geoffroy de Faé (1335-40), cui lavorò un maestro che aveva già lasciato esempi importanti a Saint-Ouen di Rouen. È piú che probabile che gli elementi italianeggianti presenti nelle vetrate di molte regioni, dalla Normandia alla Beauce, alla Borgogna, provengano da un unico centro irradiante, da Parigi cioè, e siano da mettersi in rapporto con l’arrivo dei modi italiani in questa città grazie all’attività di pittori italiani, al commercio di prodotti artistici provenienti dalla penisola (codici miniati, ma anche tavole) e alle miniature di Jean Pucelle. Ed è da notare che la data di alcune vetrate segnate dall’influenza italiana è estremamente precoce, anteriore al probabile viaggio in Italia di Jean Pucelle che dovette avvenire poco prima del 1325. Sappiamo del resto come fossero intensi gli scambi artistici tra Francia e Italia in quel tempo, come il magister pictor Etienne d’Auxerre si fosse recato a Roma nel 1298 su incarico del re Filippo il Bello, come il clan familiare dei Rosuti si fosse trasferito da Roma in Francia al servizio del re già nel 130419. Non è però che l’introduzione della terza dimensione nelle vetrate segni la fine di quello che abbiamo defi-
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nito espressionismo gotico. A questa tendenza risalgono alcuni aspetti tipici della vetrata del trecento, la cui realizzazione dipende proprio dal nuovo approccio al reale e dalle nuove possibilità formali offerte dal linguaggio che con tanta forza si era espresso alla fine del duecento. Tra gli elementi che conoscono una fortuna particolare nel corso del trecento, ma la cui origine va ricercata in un periodo anteriore, è la drôlerie, prodotta da un realismo caricaturale e parodistico che dai margini dei manoscritti miniati20, suo terreno di elezione, passa ora, in parte certo per influenza, anche in questo caso, di Jean Pucelle, nei grandi campi di vetro chiaro dipinto a grisaille che occupano nelle finestre uno spazio sempre maggiore. Entro una cornice tonda o polilobata la drôlerie appare al centro dell’area chiara decorata a grisaille: ora testa umana o di animale, ora rappresentazione grottesca, mostro, combinazione di uomo e d’animale. Il vescovo-pesce o l’angelo-grifone di Saint-Ouen di Rouen21 discendono sia da un atteggiamento piú libero e indulgente verso il comico che si era fatto strada nel corso del duecento, sia dagli schemi formali creati dai maestri dell’espressionismo gotico.
Strasburgo e la Germania. Un’area dove molto presto si diffondono elementi italianizzanti nelle vetrate è l’Alsazia, e il centro di diffusione di tali elementi è il cantiere della cattedrale di Strasburgo. Qui essi fanno la loro comparsa assai precocemente, già verso il 1310, in alcune scene (Seppellimento di Cristo, Resurrezione) della vetrata della Passione un tempo nella chiesa domenicana e ora parzialmente conservata nella chiesa di San Guglielmo (finestra occidentale)22.
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Le finestre della navata laterale sud della cattedrale sono grandi, scompartite in quattro luci. La lettura delle scene si fa da sinistra a destra e dal basso verso l’alto, ma il fatto che queste si seguano orizzontalmente, e non verticalmente come di solito, permette l’unificazione dell’intera superficie e consente una sequenza continua non interrotta dai supporti architettonici che delimitano le luci. Altri elementi sottolineano l’enfasi portata sulla orizzontalità: da un lato la disposizione delle sbarre di ferro dell’armatura, che tagliano ogni scena in tre sezioni creando una sorta di piccoli trittici formati da una larga parte centrale e da due ali minori (la larghezza maggiore della parte centrale sottolinea appunto l’effetto di orizzontalità); in secondo luogo il trasformarsi del profilo delle incorniciature architettoniche che, culminanti in archi acuti nella terza finestra con scene della vita della Vergine, divengono archi ribassati en accolade nella quarta dedicata alla vita pubblica e ai miracoli di Cristo; infine la creazione, nella quinta finestra consacrata alla Passione, di una vera e propria galleria orizzontale che sovrasta le scene, dalla cui apertura si affacciano profeti a mezzo busto a sottolineare l’intima unione del Nuovo con il Vecchio Testamento. Malgrado le differenze esistenti tra finestra e finestra molti caratteri restano uniformi. Prima di tutto il tono narrativo delle scene, fortemente accentuato, mostra un’intenzione didascalica sottolineata dalle lunghe scritte in tedesco; poi molti elementi decorati, come i disegni degli sfondi, a losanghe ornate da foglie, a circoli, passano con poche variazioni da una finestra all’altra. Anche nelle fisionomie e posizioni dei personaggi e nella composizione dei gruppi la presenza di elementi costanti fa pensare a una evoluzione volta per volta portata avanti da diversi gruppi che partecipano alle medesime tendenze piuttosto che a brusche rotture. L’elemento nuovo è dato dall’introduzione di motivi tridimensionali
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di origine italiana che trovano qui un’accoglienza precoce. Altre vetrate, sempre provenienti dalla chiesa dei domenicani, ma più tardive, sono state sistemate nel 1856 nella cappella di San Lorenzo che si apre sulla navata laterale nord della cattedrale. Qui gli elementi di origine italiana sono evidenti: i personaggi della Cena, della Salita al Calvario, della Crocifissione, della Deposizione dalla Croce prendono posto su autentiche mensole tridimensionali il cui scopo è di mostrare e sondare la profondità della scena. Sempre nella cattedrale di Strasburgo, sia la vetrata della cappella di Santa Caterina (fondata nel 1332 e consacrata nel 1349), sia particolarmente le Opere di Misericordia della finestra meridionale del nartece, sono ricchissime in suggerimenti spaziali. Del resto l’abbondanza di spunti tridimensionali che contano le vetrate alsaziane ha conosciuto una grande eco anche al di fuori di Strasburgo e sta a mostrare che questa regione ha avuto un ruolo pari a quello di Parigi nella accettazione e nella diffusione dei nuovi modi. In contatto con Strasburgo, ma probabilmente anche con Parigi, si mostrano gli atelier di Esslingen. Qui maestri diversi aggiornati sulle ultime novità francesi, sia stilistiche sia tecniche, lavorarono nel secondo decennio del trecento alla grande vetrata tipologica a tre luci della chiesa dei francescani, piú tarda rispetto a quella di Sankt Dyonis di cui si è parlato nel capitolo precedente, e fanno uso, a questa data precoce, di quella rivoluzionaria novità di origine francese che fu il giallo d’argento. Assente nelle vetrate di Sankt Dionys, esso viene qui largamente usato per colorire le capigliature. Altri dati, fondi ornati a losanghe ed elementi tridimensionali, indicano ancora una volta la loro provenienza francese mentre sono evidenti i rapporti con le vetrate della chiesa di San Guglielmo a Strasburgo23. In seguito elementi tridimensionali si trovano nelle
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vetrate (circa 1330) della Frauenkirche, la cui costruzione fu decisa dal consiglio comunale della città attorno al 1321. Si trovano qui opere di eccezionale qualità dovute ad atelier piú recenti di quello di Lampertus e anche di quello cui si devono le vetrate della chiesa dei francescani. Nella finestra assiale, analogamente a quanto avviene nelle altre chiese, si trova una vetrata tipologica con episodi del Nuovo e dell’Antico Testamento, opera di una bottega estremamente francesizzante, mentre in un’altra delle finestre, quella della Vita di Maria, è attivo un altro atelier. In quest’ultima finestra i medaglioni sono semplici e allungati, diversi da quelli piú complessi e polilobati delle vetrate di Sankt Dionys; i fondi, sia all’interno sia all’esterno dei medaglioni, sono ornati con foglioline campite con colori diversi sapientemente alternati: gli stessi ornamenti che si trovano sulle placchette di vetro dipinto inserite sul coperchio e sui lati dei preziosi scrigni profani del tempo. Posteriori di una cinquantina d’anni rispetto a quelle di Sankt Dionys, le vetrate della Frauenkirche mostrano bene il passaggio da un linguaggio semplificato, diretto, caricaturalmente espressivo che fu quello del primo espressionismo gotico a quello elaborato, armonico, prezioso del momento successivo, caratterizzato dai moduli allungati dei panneggi fluenti, dai gesti controllati e cortesi. I volti, già delineati con rapidi tratti e in cui la grisaille segnava appena i volumi, diventano più complessi e torniti; a formule lineari bidimensionali si sostituiscono schemi tridimensionali piú ricchi di potenzialità espressive. Altrove, a Ratisbona come a Colonia, domina l’influenza francese – quella italiana arriverà piú tardi – e viene abbastanza precocemente usato il giallo d’argento. Nella sacrestia della chiesa intitolata a san Gereon è conservato frammentariamente un gruppo di vetrate databili attorno al 1315-20, una serie di figure di sante e santi sotto taber-
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nacoli che ricordano da vicino, sia nell’uso della grisaille e in quello precoce del giallo d’argento, sia nel disegno, esempi normanni24. In effetti i rapporti sono stretti tra le vetrate colonesi di questo momento e le vetrate della Francia settentrionale e dell’Inghilterra25.
Da Königsfelden a Strassengel. Di Strasburgo probabilmente furono originari i maestri che tra il 1325 e il 1330 eseguirono il ciclo del coro della chiesa del convento francescano di Königsfelden, nel cantone di Aargau in Svizzera, eretta e decorata dalla vedova dell’imperatore Alberto I d’Asburgo e dai suoi figli, tra i quali la regina Agnese di Ungheria che ebbe un ruolo molto importante nella costruzione e nella decorazione dell’edificio eretto nei pressi del luogo dove il sovrano era stato assassinato nel 1308. La chiesa, concepita come tempio familiare e monumento espiatorio, è illuminata nel coro da un superbo gruppo di finestre invetriate eseguite nello spazio di circa cinque anni e precisamente databili attraverso le figure dei singoli donatori. Esse rappresentano scene dell’infanzia, della Passione e delle apparizioni di Cristo nell’abside, storie della Vergine e di santi, figure di apostoli ed episodi della vita di san Francesco e di santa Chiara sulle due pareti26, e mostrano nel modo piú significativo, con maggiore o minore complessità e coerenza, l’ingresso della tridimensionalità nel campo della vetrata. Accanto a numerosi elementi italiani, o addirittura assisiati, accanto a mensole, baldacchini, troni, sarcofagi, zoccoli, interi edifici o persino a immagini urbane presentate in profondità, compaiono stilemi espressivi e lineari che evocano quelli, di origine in ultima analisi francese, che trovarono cosí favorevole accoglienza nella bassa Svevia, sulle rive del lago di Costan-
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za. Diversamente organizzate, senza tener conto delle separazioni tra le tre luci delle finestre, ora a medaglioni sovrapposti contenenti una storia, ora a personaggi singoli, gruppi, episodi incorniciati da alti baldacchini, le vetrate sono sorrette da armature ortogonali simili per ogni finestra che aumentano l’impressione di unità dell’insieme. Anche le vetrate dell’abbazia di Hauterive presso Friburgo in Svizzera, opera di un atelier svevo particolarmente operoso nella valle del Neckar, mostrano esempi di tridimensionalità nelle basi, che si richiamano a modelli alsaziani. In Austria un culmine di elaborata ricerca in questo campo è il ciclo di vetrate (ora in parte disperse in diversi musei, in parte conservate in loco con molte integrazioni e riprese), straripante di architetture dipinte a inquadrare o a contenere scene e personaggi, della chiesa di pellegrinaggio stiriana di Strassengel27, non lontana da Graz, consacrata nel 1355. Fu questo un cantiere segnato, nell’architettura come nella decorazione, da una indiscutibile impronta cortese di stampo viennese che si manifesta anche nei rapporti che le sue vetrate hanno con quelle di Santa Maria am Gestade e di Santo Stefano a Vienna.
L’Inghilterra. L’Inghilterra conosce, come si è accennato nel precedente capitolo, una situazione assai simile a quella francese28, ma se ne diversifica, tra l’altro, per una penetrazione di elementi italiani minore e meno precoce29, e giunta soprattutto attraverso le mediazioni delle vetrate normanne influenzate da Jean Pucelle. Le superstiti vetrate trecentesche inglesi testimoniano del crescente affermarsi nel corso del secolo di un linguaggio autonomo con caratteri fortemente diversifica-
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ti rispetto a quelli francesi, quasi in parallelo all’affermarsi dell’inglese come lingua letteraria. Tuttavia le influenze francesi si manifestano ancora in modo significativo, come si avverte nel delizioso Annuncio ai pastori del Victoria and Albert Museum, vicinissimo ad esempi normanni, o nelle vetrate della cattedrale di Gloucester. Qui appare chiaramente l’esempio di Jean Pucelle30: invertendo la pratica comune e facendo contrastare su fondi di colore le figure bianche, un geniale maestro arriva a trasportare sul vetro la tecnica del camaieu cara al grande francese. Si pone quindi anche qui il consueto problema: quali furono i rapporti tra gli atelier degli illustratori e quelli dei maestri vetrari? Le vetrate di Gloucester forniscono un’ulteriore testimonianza che questi rapporti esistevano, che erano stretti, e che in piú di un caso gli stessi maestri dovettero esprimersi nelle due tecniche. Un analogo problema si manifesta in alcuni frammenti di personaggi sotto arcature architettoniche provenienti dalla Lady Chapel della cattedrale di Ely (Ely, Stained Glass Museum)31. La produzione di vetrate cresce molto durante il trecento, e ciò va di pari passo con la maggiore importanza che il paese assume nel panorama europeo, testimoniata dalle sue vittorie nella secolare guerra contro la Francia. Si mettono in cantiere grandi imprese come quella dell’invetriatura della cappella di Santo Stefano a Westminster (di cui non restano che minuti frammenti), sulle cui significative vicende siamo, come si è visto, assai ben documentati, e si conoscono i nomi di un certo numero di maestri vetrari, da Master Walter a Exeter nel 1303 a Robert e a Thomas a York nel 1338-39, a John di Lincoln, a John di Chester e ai tanti altri attivi a Westminster attorno al 1350. Altro aspetto interessante della situazione inglese di questo periodo è la parte capitale avuta dai centri del nord: le vetrate di York costituiscono il ciclo piú rile-
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vante di tutto il secolo e qui operarono grandi personalità di maestri vetrari, quei Master Robert (forse Robert Ketelbarn) e Master Thomas, autori delle tre grandi vetrate della facciata occidentale della cattedrale (1339), il cui nome ci è trasmesso dai documenti. Nello stesso periodo l’attività letteraria è maggiore nel nord, piú lontano dalla Francia, che nel sud. Grande infine è l’importanza dei cicli e delle singole vetrate conservate nelle chiese parrocchiali: Deerhurst nel Gloucestershire, Fladbury, Warndon, Bredon nel Worcestershire, Grappenhall nel Cheshire (circa 1335), Eaton Bishop, Madley (splendidi frammenti di un Albero di Jesse), Credenhill nello Herefordshire, Marsh Baldon, Waterperry e Stanton St John nell’Oxfordshire contano esempi di rilievo32, un fatto significativo che, attraverso l’importanza degli investimenti artistici, mostra la relativa agiatezza di molti centri rurali. Tra i piú importanti cicli trecenteschi inglesi sono quelli delle cattedrali di York, di Wells, di Gloucester e dell’abbazia di Tewkesbury. L’insieme più ricco è quello della cattedrale di York, che già contava importanti esempi della metà del secolo precedente, come le altissime finestre a grisaille del transetto nord chiamate The Five Sisters (le cinque sorelle). La navata della cattedrale fu costruita tra il 1291 e il 1338 e le vetrate delle finestre alte vennero eseguite e poste in opera prima di quelle delle navate laterali. È in questa zona quindi che si trovano esempi del primo trecento come la Finestra del bottaio donata da un membro della famiglia Fitz Urse. Poco posteriori sono le finestre della navata laterale nord, come quella donata verso il 131o dal canonico Peter de Dene con storie di santa Caterina; quella detta «del fonditore di campane», tempestata di piccole immagini di campane, donata da Richard Tunnock, che vi è rappresentato nell’atto di
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offrire una vetrata a san Guglielmo di York (prima del 1330); la contemporanea Penancers Window (vetrata dei penitenzieri) con icastiche rappresentazioni di personaggi in atto di confessarsi, di fare la penitenza, di essere assolti; o ancora la grande finestra della facciata occidentale chiamata Cuore dello Yorkshire. Essa, donata nel 1338 dall’arcivescovo William de Melton, è opera di Master Robert e di Master Thomas, artisti che risentono fortemente delle influenze di Pucelle, e presenta tra l’altro l’Annunciazione, la Natività, la Resurrezione, l’Ascensione, l’Incoronazione della Vergine e una serie di santi sotto baldacchini. Celebrando il potere e la gloria della chiesa di York, il prelato vi fece rappresentare otto dei suoi predecessori insieme agli apostoli33. I vescovi di York furono in questo periodo committenti di importanti vetrate per la cattedrale; accanto al Cuore dello Yorkshire occorre ricordare almeno una vetrata della Lady Chapel ove sono rappresentati in preghiera il donatore, l’arcivescovo Sutton e i canonici sotto la grande immagine di Edoardo III accompagnato da san Pietro e da Samuele. Nelle vetrate di questo momento troviamo una straordinaria ricchezza di motivi araldici: a York le alte luci delle finestre sono occupate da singole scene leggendarie o da personaggi sotto baldacchini, interrotti nella loro successione verticale da fondi di vetro chiaro contro cui spiccano i blasoni. Le quattordici finestre alte della navata principale sono puramente araldiche contando ciascuna cinque pannelli con blasoni che probabilmente ricordano l’adunata delle forze del re a York prima di una campagna contro la Scozia. Come in Francia alla stessa epoca, gli elementi architettonici che inquadrano le scene e i personaggi assumono una grandissima importanza e sono resi sempre piú ricchi da una sovrapposizione di guglie, timpani, archi e nicchie. Aumenta d’altra parte la quantità di vetro bianco usato
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in ogni finestra, interrotto dalla forte policromia delle scene e dei blasoni e inquadrato da splendidi bordi vivacemente policromi ornati a personaggi, motivi araldici o animali fantastici. Di alta qualità sono le vetrate della cattedrale di Wells: qui importanti testimonianze del trecento restano nella Lady Chapel, le cui finestre vennero invetriate verso il 1300-305, nella sala capitolare, nelle navatelle laterali del coro e nella claire-voie del coro stesso. In questa zona sono alcuni degli esempi piú celebri: personaggi di vescovi, di re, di guerrieri incorniciati da alti baldacchini con volti plasticamente definiti, dalla singolare evidenza formale. La parete terminale del coro è occupata in tutta la sua parte superiore da un’enorme vetrata a sette luci con la rappresentazione dell’albero di Jesse (circa 1330), dalla singolare gamma cromatica ricca di ori ottenuti con il giallo d’argento (di qui l’epiteto popolare di vetrata dorata), verdi e rossi, e invece una relativa assenza di blu, una gamma che non è comune in Francia e si incontra invece in Italia34. Nel Gloucestershire si trovano alcuni tra i piú impressionanti esempi di vetrate inglesi degli anni quaranta-cinquanta del trecento. Stupefacente è l’insieme delle sette alte vetrate (eseguite verso il 1340) che chiudono il coro dell’abbazia di Tewkesbury. In esse sono rappresentati il Giudizio Universale, l’Incoronazione della Vergine, episodi dell’Antico Testamento e, nelle finestre piú occidentali, cavalieri eretti armati con lance e spade, membri potenti della aristocrazia locale, in particolare i de Clare e i Despensers, legati in molti modi alla probabile donatrice dell’insieme, Eleonore de Clare (morta nel 1337). Essi vengono messi alla pari, per le loro dimensioni e la loro collocazione, con i santi, i profeti e i patriarchi delle altre finestre facendo del coro della chiesa un autentico pantheon familiare. Nella cattedrale di Gloucester la colossale vetrata
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(circa 1350) che chiude il coro esibisce una sorta di armoriale figurato, con gli stemmi dei piú importanti nobili del tempo di Edoardo III che avevano partecipato alle battaglie contro i francesi e contro gli scozzesi, che è a sua volta sovrastato dalle figure sovrapposte, come in un colossale polittico, di vescovi e abati, di santi, di apostoli e culmina nella Incoronazione della Vergine35. La storia della vetrata conosce nel corso del xiv secolo un’autentica svolta, attraverso la rappresentazione sempre crescente della profondità e dei volumi e grazie all’adozione di tecniche che permisero di diminuire il numero dei piombi e di adoperare vetri piú grandi. Nuovi accostamenti cromatici resi possibili dal giallo d’argento e dalla grisaille oramai distesa con sempre maggiore libertà, allontanandosi dalla rigida applicazione del principio dei tre toni caro al monaco Theophilus, segnarono un passo decisivo in direzione di una pittura sempre piú «su vetro» piuttosto che «di vetri». I secoli che vanno dal tre al cinquecento saranno grandissimi per le vetrate, conservate in sempre maggiore quantità e sovente di qualità talmente alta da poter esser certi che la storia della pittura del cinquecento nell’Europa del nord, e in particolare in Francia, cambierebbe decisamente fisionomia se venisse pienamente integrata con la storia delle vetrate36. Si tratterà però di una nuova storia, che comincia là dove questa si chiude.
e. castelnuovo, Vetrate francesi, in «Paragone», x (1959), n. 113, pp. 44-66. 2 r. becksmann, Die architektonische Rahmung der hochgotischen Bildfensters, Berlin 1963. 3 e. carli, Vetrata duccesca, Firenze, 1946; b. tosatti soldano, Miniature e vetrate senesi del secolo XIII, Genova 1978; l. bellosi, La pecora di Giotto, Torino 1985, pp. 173-75. 1
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali aa.vv., Dal fulgore delle pagine miniate al colore-luce delle vetrate (catalogo della mostra tenutasi alla Biblioteca Trivulziana), Milano 1988; c. bertelli, Introduzione, in aa.vv., Il Millennio Ambrosiano, Milano 1989, p. 17; c. travi, in I Pittori Bergamaschi, Le Origini, a cura di M. Boskovits, Bergamo 1992, pp. 248-54. 5 p. toesca, Il Trecento, Torino 1951, pp. 869-71; g. marchini, Le vetrate italiane, Milano 1956; e. castelnuovo, Vetrate Italiane, in «Paragone», ix (1958), n. 103 p. 13; id., Vetrata, in Enciclopedia Universale dell’Arte, Roma-Venezia 1966, vol. xiv, col. 757; g. marchini, Le Vetrate dell’Umbria, CVMA, Italia, I, Milano 1973, pp. 106 sgg. 6 Su questo problema cfr. g. marchini, Il giottesco Giovanni di Bonino, in Giotto e il suo tempo, Roma 1971, pp. 67-77; a. conti, Le vetrate e il problema di Giovanni di Bonino, in aa.vv., Il Maestro di Figline, Firenze 198o, pp. 23-27. 7 Sulla vicenda critica delle vetrate della cappella di San Martino cfr. p. l. leone de castris, Simone Martini, Firenze 1989, pp. 136-37. Quanto alle vetrate della cappella di San Ludovico, p. toesca, Il Trecento cit., p. 870. 8 g. marchini, Le vetrate italiane cit., pp. 30 sgg.; f. bologna,Vetrate del Maestro di Figline, in «Bollettino d’Arte», xli (1956), p. 193. 9 marchini, Le Vetrate dell’Umbria cit., pp. 170 sgg. Sulla vetrata del duomo di Orvieto e il suo restauro cfr. il n. 2-3, i (1992) della rivista «De Fabrica». 10 A parte i modi e le forme dell’impaginazione e della decorazione, i profili dei compassi e dei medaglioni, di chiara derivazione transalpina, si vedano le grottesche rappresentate in una vetrata della cappella di San Giovanni ad Assisi. Cfr. castelnuovo, Vetrate Italiane cit., p. 12. 11 j. lafond, Un vitrail de Mesnil Villemain et les origines du Jaune d’argent, in «Bulletin de la Société Nationale des Antiquaires de France», 1954, pp. 93 sgg., ma si veda quanto se ne dice nel secondo capitolo. 12 j. lafond, Le Vitrail en Normandie de 1250 à 1300, in «Bulletin Monumental», cxi (1953), pp. 317-58. 13 Il saggio di j. lafond, Le vitrail du XIVe siècle, in l. lefrançois pillion, L’Art du XIVe siècle en France, Paris 1954, dà un profilo eccellente ed estremamente diramato della vetrata francese nel trecento, recensendo e mettendo particolarmente in evidenza gli elementi tridimensionali di origine italiana, come segnalavo nella recensione al volume che ne feci nel n. 53 (1954) di «Paragone», pp. 57-61. Per i motivi italiani nelle vetrate di Fécamp si veda quanto Lafond dice a p. 191 del suo testo, per Saint-Père di Chartres a p. 211, per Saint-Hymer en Auge a p. 200. 14 lafond, Le vitrail du XIVe siècle cit., pp. 211-12. 4
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali j. quicherat, Documents inédits sur la construction de Saint-Ouen de Rouen, in «Bibliothèque de l’Ecole des Chartes», 1852, pp. 466-69. 16 j. lafond, Les vitraux de l’église Saint-Ouen de Rouen, I, CVMA, France IV-2, I, Paris 1970. 17 j. lafond, Les vitraux de l’ancienne abbaye de Jumièges. Chapelle parroissiale de La Mailleraye sur Seine. Eglise parroissiale de Jumièges, in l. jouen, j. lafond e g. lanfry, Jumièges à travers l’histoire, à travers les ruines, Rouen 1954. 18 Ibid., p. 221; f. gatouillat, Evreux, Cathédrale Notre-Dame. Les Verrières, Paris 1993. 19 h. moranville, Les peintres pensionnaires de Philippe le Bel, in «Bibliothèque de l’Ecole des Chartes», xlvii (1887), pp. 630-34; g. troescher, Burgundische Malerei, Berlin 1966, pp. 27-28. 20 r. schilling, Drôlerie, in Reallexikon zur Deutschen Kunstgeschichte, vol. IV, colonne 567-88, Stuttgart; m. camille, Image on the Edge. The Margins of Medieval Art, London 1992. 21 lafond, Les vitraux de l’église Saint-Ouen cit. 22 p. frankl, Die Glasmalereien der Wilhelmerkirche in Strassburg, Baden-Baden - Strasbourg 196o. 23 r. becksmann, Die Bettelorden an Rhein und Neckar und der höfische Stil der Pariser Kunst um 13oo, in Deutsche Glasmalerei des Mittelalters. II. Bildprogramme, Auftraggeber, Werkstätten, Berlin 1992, pp. 53-75. 24 r. becksmann, Deutsche Glasmalerei des Mittelalters, Eine exemplarische Auswahl, Stuttgart 1988, pp. 128-29. 25 h. rode, Die mittelalterlichen Glasmalereien des Kölner Domes, CVMA, Deutschland, IV, 1, Berlin 1974. 26 e. maurer, Der Kloster Königsfelden, in Die Kunstdenkmäler Kantons Aargau, Basel 1954, vol. III, pp. 74-234; id., Habsbürgische und franziskanische Anteile am Königsfelder Bildprogramm, in «Zeitschrift für Schweizerische Archaeologie und Kunstgeschichte», xix (1959), pp. 220-25; id., Die Glasmalereien, in aa.vv., Königsfelden, Zürich 1970, pp. 53-165. 27 e. bacher, Die mittelalterlichen Glasgemälde in der Steiermark, CVMA, Österreich, I, Wien-Graz 1979, pp. 111-200. 28 In generale sulle vetrate inglesi di questo periodo cfr. j. baker, Le vetrate inglesi, Milano 1961 (ed. orig. London 196o); r. marks, Stained Glass in England during the Middle Ages, London 1993, pp. 141-65. 29 Per la penetrazione dei modi italiani in Inghilterra cfr. o. pächt, A giottesque episode in English medieval Art, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», VI (1943), pp. 51-70; marks, Stained Glass in England cit., pp. 158-59. 30 l. f. sandler, A Follower of Jean Pucelle in England, in «Art Bulletin», lii (1970), pp. 363-72. 15
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali Age of Chivalry. Art in Plantagenet England 1200-1400, a cura di J. Alexander e P. Binski, London 1987. 32 p. a. newton e j. kerry, The County of Oxford: A Catalogue of Medieval Stained Glass, CVMA, Great Britain, I, London 1979. 33 j. a. knowles, Essays in the History of the York School of GlassPainting, London 1936; d. o’connor e j. haselock, The Stained and Painted Glass, in A History of York Minster, a cura di G. E. Aylmer e R. Cant, Oxford 1977, pp. 313-93; th. french e d. o’connor, York Minster, A Catalogue of Medieval Stained Glass, CVMA, Great Britain, III, Oxford 1987, catalogo della mostra Age of Chivalry cit., pp. 534-36. 34 r. marks, The medieval stained glass of Wells Cathedral, in Wells Cathedral, A History, a cura di L. S. Colchester, Shepton Mallett 1982, pp. 132-47. 35 j. kerr, The East Window of Gloucester Cathedral, in Medieval Art and Architecture at Gloucester and Tewkesbury (British Archaeological Association ConferencesI VII, 1981), London 1985, pp. 116-29. 36 Sulla grande importanza e la straordinaria qualità delle vetrate francesi del cinquecento aveva insistito particolarmente Jean Lafond in numerosi interventi (si veda per questo la sua bibliografia curata da F. Perrot in calce alla terza edizione di Le Vitrail, Lyon 1988). Si vedano anche gli studi e le pubblicazioni recenti di M. Herold, G. M. Leproux, F. Perrot, e l’esposizione della Villette del 1991 su Vitraux français de la Renaissance. 31
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Nota bibliografica
Rimandi a numerosi studi, monografie, cataloghi, contributi sulle vetrate si troveranno nelle note dei rispettivi capitoli. Qui vorremmo dare delle indicazioni generali su un numero limitato di opere e testi scelti per il loro taglio, la quantità di riferimenti o per il fatto di abbordare problemi particolarmente significativi. Una bibliografia dettagliata e ragionata sulle vetrate medievali è quella di m. harrison caviness, Stained Glass before 1540. An annotated Bibliography, Boston 1983. L’insieme delle vetrate medievali conservate in chiese e collezioni dell’Europa e degli Stati Uniti è oggetto di una pubblicazione sistematica dal 1956, grazie all’azione di un organismo internazionale, nei volumi del Corpus Vitrearum Medii Aevi. Sono stati previsti circa centoventi volumi di cui un po’ meno di una quarantina sono stati sinora pubblicati. Accanto alle monografie del Corpus propriamente detto, dove le singole vetrate sono minutamente esaminate secondo criteri comuni fornendo esatte notizie sul loro stato di conservazione, sull’estensione dei rifacimenti e cosí via, sono stati pubblicati alcuni volumi di studi e di Occasional papers, dedicati a singoli problemi o a raccolte di contributi presentati a un colloquio, e censimenti e repertori regionali, piú rapidi in particolare per la Francia dove è in corso di pubblicazione il Recensement des vitraux anciens de la France (quattro volumi finora pubblicati) e per le collezioni e i musei degli Stati Uniti (quattro volumi nelle Checklist Series). Le principali fonti sulla tecnica delle vetrate medievali sono il secondo libro del trattato di theophilus, scritto agli inizi del xii secolo (ottima l’edizione che ne dà c. r. dodwell, Theophilus, The Various Arts - De Diversis artibus, London 1961, 2a edizione Oxford 1986; il trattatello scritto alla fine del trecento da Antonio da Pisa (se ne veda l’edizione a cura di s. pezzella, Il trattato di Antonio da Pisa sulla fabbricazione delle vetrate antiche, Perugia 1976, e quella a cura di p. monacchia, in Vetrate, Arte e Restauro, Milano 1992), il capitolo clxxi su Come si lavorano in vetro finestre nel Libro dell’Arte di cennino cen-
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali nini (edizione a cura di f. brunello, Padova 1971; altra edizione a cura di f. tempesti, Milano 1975) e qualche passaggio (il xviii capitolo dell’introduzione alla pittura intitolato Del dipignere le finestre di vetro… e la Vita di Guglielmo da Marcilla) ne Le Vite di g. vasari (se ne veda l’edizione a cura di p. barocchi e r. bettarini, Firenze 1966-88). Il punto di vista di un committente medievale si manifesta con straordinaria chiarezza nei testi che l’abate Suger di Saint-Denis ha dedicato alla costruzione, alla amministrazione e alla consacrazione della sua chiesa; le parti piú salienti di essi sono pubblicate da e. panofsky in Abbot Suger on the Abbey Church of Saint-Denis and Its Art Treasures, Princeton 1946 (2a edizione 1979). Una grande stagione per gli studi sulle vetrate medievali fu l’ottocento. Spinti dalla volontà di conoscere il patrimonio del passato e di proporre esempi e materie agli artisti del tempo, vennero tentate allora, tra grandi difficoltà di documentazione e di accesso alle opere, le prime storie nazionali e generali, vennero scritte le prime grandi monografie sui piú importanti cicli. Si ricorderanno l’esplorazione delle vetrate inglesi di c. winston (An Inquiry into the Differences of Style Observable in Ancient Glass Paintings by an amateur, Oxford 1847, 2 voll.); la grande e riccamente illustrata Histoire de la Peinture sur Verre d’après ses Monuments en France di f. de lasteyrie (Paris, 1853-57), ricca di osservazioni acute e rivelatrici, quindi quella condotta a scala europea di n. westlake (A History of Design in Painted Glass, London 1881-94). L’articolo Vitrail di e.-e. viollet-le-duc, nel suo Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècles (Paris 1868, vol. IX, pp. 373-482), analizza con grande intelligenza i diversi aspetti, le singolarità e i problemi di questa tecnica. Tra le monografie ottocentesche consacrate a cicli di vetrate si ricorderanno almeno la Monographie de la Cathédrale de Bourges dei gesuiti c. cahier e a. martin (Paris 1841-44) che contiene una approfondita e nuova analisi iconografica delle vetrate, e quella del maestro vetrario e. hucher sulle vetrate della cattedrale di Le Mans: Calques des vitraux peints de la Cathédrale du Mans, Le Mans 1864, preziosa per le riproduzioni a scala uno a uno. Verso la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento escono alcuni volumi dovuti per lo piú a maestri vetrari impegnati nella progettazione di nuove vetrate o in grandi campagne di restauro. In Francia saranno quelli di l. ottin (Le Vitrail, son histoire, ses manifestation à travers les âges et les peuples, Paris 1896) e di o. merson (Le Vitraux, Paris 1895); in Inghilterra il bellissimo Windows. A Book about stained and painted glass, London 1897, di l. f. day. In Germania h. oidtmann, che dirige numerosi restauri di vetrate nella regione renana, pubblica un importante manuale in due volumi,
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali Die Glasmalerei (Köln 1892-98) e uno studio dettagliato e approfondito sulle vetrate renane (Die rheinischen Glasmalereien vom 12 bis zum 16 Jahrhundert, Düsseldorf 1912-29). f. geiges, restauratore delle vetrate della cattedrale di Friburgo, ne dà una monografia (Freiburg 1901) che poi si allargherà in un suntuoso atlante: Die mittelalterliche Fensterschmuck des Freiburger Münsters, Freiburg 1931. j. l. fischer pubblica un compatto e fortunato manuale, lo Handbuch der Glasmalerei, Leipzig 1914. Un’opera fondamentale per ricchezza di illustrazioni e attenzione analitica che tende a precisare le differenze di mani e a identificare per la prima volta un certo numero di anonime personalità di maestri, è la grande monografia delle vetrate della cattedrale di Chartres che il canonico y. delaporte e e. houvet pubblicarono in quattro volumi (tre sono dedicati alle illustrazioni) dopo che lo smontaggio e il rimontaggio delle vetrate della cattedrale, effettuato durante la prima guerra mondiale, aveva reso possibili approfondite esplorazioni: Les Vitraux de la Cathédrale de Chartres, Chartres 1926. Dopo il secondo conflitto mondiale, che determinò nuove rimozioni, spostamenti e rimontaggi del grande patrimonio vitreo europeo, gli studi sulle vetrate presero un nuovo avvio, e questo particolarmente grazie a grandi figure di studiosi come j. lafond e l. grodecki in Francia, h. wentzel in Germania, e. frodl-kraft in Austria. Una eccellente introduzione ai problemi, alla fortuna e alla tecnica delle vetrate è quella contenuta in j. lafond, Le Vitrail, Paris 1966, di cui sono uscite tre edizioni, l’ultima aggiornata e annotata a cura di F. Perrot, pubblicata a Lione nel 1988. Utili anche come introduzione due studi di e. frodl-kraft: Le Vitrail Médieval. Technique et esthétique, pubblicato in «Cahiers de Civilisation médiévale», x (1967), pp. 1-13, e Die Glasmalerei. Entwicklung, Technik, Eigenart, Wien 1970; e la voce Vetrata di e. castelnuovo nel XIV volume dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, Venezia-Roma 1966, colonne 744-65. Eccellente per la tecnica e la terminologia riguardante le vetrate il volume adeguatamente illustrato di n. blondel, Le Vitrail. Vocabulaire Typologique et Technique, Paris 1993. Sui problemi della conservazione delle vetrate si veda la bibliografia raccolta da r. newton, The Deterioration and Conservation of Painted Glass. A Critical Bibliography, London 1974, e il manuale di r. newton e s. davison, Conservation of Glass, London 1989. Tra i pochi studi sui maestri vetrari sono il classico saggio di h. wentzel, Glasmaler und Maler im Mittelalter, in «Zeitschrift für Kunstwissenschaft», iii (1949), pp. 53-62; e gli articoli di c. brisac e j.-j. gruber, Le métier de Maître-verrier, in «Métiers d’Art», 2, 1972; di f. perrot, La signature des peintres verriers, in «Revue de l’Art», 26, 1974, pp. 40-45; di m. parsons lillich, Gothic Glaziers: monks, Jews, tax-
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali payers, Bretons, women, in «Journal of Glass Studies», xxvii (1985), pp. 72-92; e l’agile libretto di s. brown e d. o’connor Glass Painters, London 1991, pubblicato nell’ottima serie sugli artigiani medievali dal British Museum. Pure scarsi gli studi consacrati ai committenti delle vetrate, tra questi il volumetto di vari autori, Vitrea dedicata, Berlin 1975, che però si occupa esclusivamente di vetrate tedesche. Toccano il problema gli interventi di j. williams welch, w. kemp, f. perrot e b. brenk citati a proposito delle vetrate della cattedrale di Chartres. Sui problemi formali delle vetrate, su quelli del loro rapporto con la luce e con l’architettura si veda m. t. engels, Zur Problematik der mittelalterlichen Glasmalerei, Berlin 1937; l. grodecki, Le Vitrail et l’Architecture au XIIe et au XIIIe siècles (1949) in Le Moyen Age retrouvé, Paris 1986, vol. II, pp. 121-38; id., La couleur dans le vitrail du XIIe au XVIe siècles (1958) in Le Moyen Age retrouvé cit., pp. 139-148; e. frodl-kraft, Die Farbsprache der gotischen Malerei. Ein Entwurf, in «Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte», xxx-xxxi (1977-78); r. becksmann, Licht und Farbe, Überlegungen zur Glasmalerei in staufischer Zeit, nel catalogo dell’esposizione Der Zeit der Staufer, vol. V, Stuttgart 1979, pp. 107-33; id., Le vitrail et l’architecture, in Les Bâtisseurs des Cathédrales Gothiques, catalogo dell’esposizione a cura di R. Recht, Strasbourg 1989. Una buona trattazione d’insieme sulle vetrate medievali europee, necessariamente sommaria, ma intelligentemente selettiva e ottimamente illustrata è quella di c. brisac, Le vetrate. Pittura e luce. Una storia di mille anni, la cui edizione italiana è stata pubblicata a Milano nel 1984; un profilo piú rapido, ma informato e con qualche buona illustrazione, è quello di s. brown, Stained Glass, an illustrated History, London 1992. Uno studio complessivo e un’analisi storica e stilistica che rimangono fondamentali sulle vetrate del xii e del xiii secolo nell’insieme dell’Europa si trova nei due volumi di l. grodecki (con la collaborazione di c. brisac), Le Vitrail Roman, Fribourg 1977, 2a edizione 1984, e Le Vitrail Gothique, Fribourg 1984. In entrambe queste opere una presentazione articolata nello spazio e nel tempo delle vetrate in Europa, con una distinzione e una caratterizzazione delle diverse movenze stilistiche e dei singoli maestri e atelier, ampiamente illustrata, si accompagna a una serie di schede sui singoli cicli e monumenti.
Francia. Un concreto rilancio agli studi sulle vetrate medievali francesi è venuto dall’esposizione Les Vitraux de France du XIe au XVIe siècle, tenu-
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali tasi nel 1953 al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, il cui catalogo era stato curato da l. grodecki, e dall’eccellente volume di diversi autori Le Vitrail Français, uscito a Parigi nel 1958. Del Corpus Vitrearum francese sono stati pubblicati sinora quattro volumi: il primo di l. grodecki, j. lafond e altri dedicato alle vetrate di Notre-Dame e della Sainte-Chapelle di Parigi (Paris 1959); il secondo di j. lafond dedicato alle vetrate del coro di Saint-Ouen a Rouen; il terzo, a cura di v. beyer e altri, alle vetrate della cattedrale di Strasburgo (Paris 1986); e il quarto, di m. herold, alle vetrate tardogotiche di Saint-Nicolas-du-Port (Paris 1993). Accanto a questi sono usciti i quattro volumi di censimento delle vetrate in Francia che abbiamo ricordato, dedicati alle vetrate di Parigi, dell’Ile de France e del Nord (Paris 1978), del centro e della regione della Loira (Paris 1981), della Borgogna, Franca Contea e area alpina (Paris 1986), della Champagne e delle Ardenne (Paris 1992), nonché un volume di l. grodecki di studi sulle vetrate di Saint-Denis che avremo modo di citare in seguito. I fondamentali, originalissimi contributi di l. grodecki sulle vetrate medievali francesi (che spaziano dalla grande impresa di Saint-Denis agli aspetti dello stile 12oo nelle vetrate, dalle vetrate di Soissons a quelle di Troyes, da quelle di Chartres a quelle di Bourges, da Parigi alla Champagne e all’Alsazia e che hanno ricostruito insiemi dispersi e caratterizzato maestri e tendenze), pubblicati in diverse riviste e periodici, sono stati per la massima parte raccolti nei due volumi dei suoi scritti sotto il titolo Le Moyen Age retrouvé (Paris 1986-91) dove si trova anche una sua bibliografia. Accanto a quelli di Grodecki sono stati di importanza capitale per lo studio delle vetrate medievali francesi, in particolare di quelle normanne del due e del trecento, ma non solo di quelle, le ricerche di j. lafond, piú anziano di Grodecki, libero studioso la cui ampia bibliografia si trova riunita nella seconda e nella terza edizione del suo volume Le Vitrail. Accanto a questi sono da ricordare i nomi di f. perrot e di c. brisac, scomparsa innanzi tempo (la bibliografia dei suoi scritti si trova in aa.vv., Les Vitraux de Narbonne, Narbonne 1992), che affrontò i problemi estremamente interessanti delle vetrate romaniche nel centro della Francia (una cultura assai diversa da quelle prevalenti nell’ovest o nel nord) attraverso precisi contributi sulle vetrate di Lione e sulla splendida vetrata di Champ-presFroges nel Delfinato. Un gruppo di studiosi americani, spesso indirizzati all’inizio da L. Grodecki, ha affrontato alcuni grandi problemi delle vetrate medievali in Francia. Tra questi m. harrison caviness, cui si deve un’importante indagine sulle vetrate della fine del xii secolo a Reims e la ricostruzione dell’attività di atelier itineranti che si sarebbero spostati dalla Francia in Inghilterra e viceversa (Sumptuous Arts at the Royal Abbeys in Reims and Braine, Princeton 1990); m. parsons lillich, che
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali ha studiato particolarmente le tendenze espressive della seconda metà del xiii e dell’inizio del xiv secolo analizzando le vetrate di Saint-Père di Chartres (The Stained Glass of St-Père de Chartres, Middletown 1978), quelle dell’est e della Lorena, in particolare di Toul (Rainbow like an Emerald. Stained Glass in Lorraine in the Thirteenth and Early Fourteenth Century, University Park 1991) e quelle dell’occidente della Francia (The Armour of Light. Stained Glass in Western France 12501325, California 1994); e v. chieffo raguin, che ha studiato le vetrate di Auxerre (Stained Glass in Burgundy during the Thirteenth Century, Princeton 1982). Tra i problemi piú discussi riguardanti le vetrate francesi sono quelli delle vetrate di Saint-Denis, della loro ricostruzione, del loro significato, della loro importanza e del ruolo dell’abate Suger nella loro creazione. Oltre al celebre saggio di e. panofsky che accompagna i testi di Suger di Saint-Denis, citato a proposito delle fonti antiche sulle vetrate, e al volume di l. grodecki, Les Vitraux de Saint-Denis. Etude sur le vitrail au XIIe siècle, Histoire et restitution, Paris 1976, si vedano j. gage, Gothic Glass. Two Aspects of a Dionysian Aesthetic, in «Art History», v (1982), pp. 36-58; i contributi (tra cui quelli di l. grodem e m. harrison caviness) pubblicati in Abbot Suger and Saint-Denis. A Symposium, a cura di P. L. Gerson, New York 1986; lo studio di m. w. cothren, The Infancy of Christ Windows from the Abbey at SaintDenis. A Reconsideration of Its Design and Iconography, in «Art Bulletin», lxviii (1986), pp. 398-419. Un certo numero di studi importanti, dopo la fondamentale monografia di y. delaporte e e. houvet che abbiamo già citato, sono stati dedicati alle vetrate della cattedrale di Chartres, sia in relazione ai restauri che hanno subito nel passato e nel presente (c. launer, Les vitraux de la cathédrale de Chartres à la lumière des restaurations anciennes, in Künstlerische Austausch, Atti del xxviii Congrès International d’Histoire de l’Art, Berlin 1993, pp. 413-24), sia in rapporto alla loro iconografia (c. manhes-deremble, Les vitraux narratifs de la Cathédrale de Chartres, Paris 1993) e alla loro lettura, sia in rapporto alla loro committenza e in particolare ai problemi e al significato politico della committenza nobiliare e alle realtà della committenza delle corporazioni di mestiere (w. kemp, Les Cris de Chartres, in aa.vv., Kunstgeschichte aber wie?, Berlin 1989; f. perrot, Le Vitrail, la Croisade et la Champagne: réflections sur les fenêtres hautes du chœur de la cathédrale de Chartres, in y. bellenger e d. quéruel, Les Champenois et la Croisade, Paris 1989; b. brenk, Bildprogrammatik und Geschichtsverständnis der Kapetinger im Querhaus der Kathedrale von Chartres, in «Arte Medievale», IIa serie, v (1991), pp. 71-95; j. williams welch, Bread, Wine and Money. The Windows of the Trades at Chartres Cathedral, Chicago 1993), sia in relazione al modo di lavorare delle differenti maestranze presenti
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali nel medesimo momento nel cantiere della cattedrale. Particolarmente importante su quest’ultimo punto l’articolo di c. lautier, Les peintresverriers des bas-côtés de la nef de Chartres, au début du XIIIe siècle, in «Bulletin Monumental», cxlviii (1990), pp. 7-45, che chiarisce la collaborazione e l’interscambio tra i vari maestri attivi alla cattedrale.
Germania. Dei volumi fin qui usciti del Corpus Vitrearum riguardanti le vetrate medievali tedesche, due sono stati dedicati alle vetrate della Svevia: il primo, che riguarda il periodo 1200-135o, e a cura di h. wentzel (Berlin 1958); il secondo, a cura di r. becksmann, copre il periodo 1350-1530 senza le vetrate di Ulma (Berlin 1986). Un volume a cura di r. becksmann è stato consacrato alle vetrate del Baden senza Friburgo (Berlin 1979); uno a cura di h. rode alle vetrate del duomo di Colonia (Berlin 1974), uno a cura di g. fritzsche a quelle della cattedrale di Ratisbona (Berlin 1987), uno a quelle tardogotiche di Heidenklöster e di Lüneburg (u. d. korn e r. becksmann, Berlin 1992). Per la Germania orientale (ex DDR) sono usciti quelli sulle vetrate delle chiese di Erfurt, a cura di e. drachenberg, k. j. maercker e c. schmidt (Berlin 1976), su quelle della cattedrale di Erfurt (e. drachenberg, Berlin 198o) e su quelle della cattedrale di Stendal (k. j. maercker, Berlin 1989). Il primo moderno studio sulle vetrate tedesche, dopo quelli dell’Oidtmann e del Geiges citati a proposito della letteratura sulle vetrate tra otto e novecento, è il magistrale volume Meisterwerke der Glasmalerei di h. wentzel, Berlin 19542. Su h. wentzel, il maggiore studioso delle vetrate medievali tedesche, si veda la bibliografia nella Festschrift a lui dedicata (Beiträge zur Kunst des Mittelalters, Berlin 1975). Bene illustrato a colori è il volume di e. schürer von witzleben, Farbwunder deutscher Glasmalerei aus dem Mittelalter, Augsburg 1965, che offre un utile accompagnamento al Wentzel. Un aggiornato sguardo d’insieme è fornito da r. becksmann, Deutsche Glasmalerei des Mittelalters. Eine exemplarische Auswahl, Stuttgart 1988, e una serie di problemi riguardanti programmi iconografici, committenti e officine delle vetrate medievali tedesche sono affrontati in un volume curato dallo stesso becksmann, Deutsche Glasmalerei des Mittelalters. Bildprogramme, Auftraggeber, Werkstätten, Berlin 1992. Da segnalare ancora il volume di r. becksmann sul problema dell’inquadramento architettonico nelle vetrate tra due e trecento: Die architektonische Rahmung der hochgotischen Bildfenster, Berlin 1967. Due piccole e utili pubblicazioni riguardanti le vetrate medievali nella Germania orientale sono: Neue Forschungen zur mittelalterlichen Glasmalerei in der DDR, Berlin 1989; e Mit-
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali telalterliche Glasmalerei in DDR, catalogo di una esposizione al museo di Erfurt, Berlin 1989. Vetrate medievali tedesche sono state esposte con utili schede informative in alcune mostre (elencate nel citato volume di Becksmann del 1989) e in particolare in quella dedicata a Die Zeit der Staufer, Stuttgart 1977.
Austria. Importante l’attività di studiosi come f. kieslinger (Die Glasmalerei in Österreich, Wien 1921) e, dopo la guerra, di w. frodl (Glasmalerei in Kärnten 1150-15oo, Klagenfurt 1950), e. frodl-kraft e e. bacher. Sono stati pubblicati tre degli otto volumi previsti del Corpus Vitrearum: uno dedicato alle vetrate di Vienna (e. frodl-kraft, Wien 1962); uno alle vetrate della bassa Austria (Niederösterreich), sempre a cura di e. frodl-kraft (Wien 1972); uno alle vetrate della Stiria a cura di e. bacher (Wien 1979)
Inghilterra. Lo studio delle vetrate è stato particolarmente vivo in Inghilterra nell’ottocento, accompagnando la vasta produzione di vetrate che ha avuto luogo in questo secolo nell’atmosfera del Gothic Revival. Qui sono state scritte le due importanti opere di Winston e di Westlake che si sono citate. Tra le opere d’insieme sulle vetrate inglesi apparse negli ultimi decenni si vedano: c. woodforde, English Stained and Painted Glass, Oxford 1954; j. baker, English Stained Glass of the Medieval Period, London 196o [trad. it. Le vetrate inglesi, Milano 1961]; e l’ottimo volume di r. marks, Stained Glass in England during the Middle Ages, London 1993 (con ampia bibliografia). Molte vetrate assai significative sono state esposte nella mostra Age of Chivalry. Art in Plantagenet England 1200-1400, e commentate nel catalogo a cura di J. Alexander e P. Binski, London 1987. Uno studio approfondito sulle vetrate di Canterbury è quello di m. harrison caviness, The Early Stained Glass of Canterbury Cathedral, Princeton 1977, poi ripreso per certi aspetti nel già citato suo volume Sumptuous Arts. Della sezione inglese del Corpus Vitrearum sono stati per ora pubblicati tre volumi: sulle vetrate della contea di Oxford (p. newton, London 1979), della cattedrale di Canterbury (m. harrison caviness, London 1981) e sulla vetrata occidentale della cattedrale di York (t. french e d. o’connor, London 1988), nonché un volume supplemen-
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Enrico Castelnuovo - Vetrate medievali tare sulle vetrate del King’s College di Cambridge (h. wayment, London 1972) e un Occasional paper sulle vetrate della cattedrale di Lincoln (n. morgan, London 1983).
Italia. La prima trattazione d’insieme sulle vetrate italiane (con la bibliografia precedente) è quella di g. marchini, Le Vetrate Italiane, Milano 1955 (si veda a questo proposito e. castelnuovo, Vetrate Italiane in «Paragone», ix (1958), n. 103, pp. 3-24). Sempre a g. marchini si deve il volume del Corpus Vitrearum sulle vetrate dell’Umbria (Roma 1973). Sui piú antichi cicli di Assisi e la loro origine germanica, si vedano h. wentzel, Die ältesten Farbenfenster in der Oberkirche von San Francesco zu Assisi und die deutsche Glasmalerei des XIII Jahrhunderts, in «Wallraf-Richartz Jahrbuch», xiv (1952), pp. 45-72; r. haussherr, Der Typologische Zyklus der Chorfenster der Oberkirche von San Francesco zu Assisi, in Kunst als Bedeutungsträger. Gedenkschrift für Günther Bandmann, Berlin 1978, pp. 95-128; f. martin, Die Apsisverglasung der Oberkirche von S. Francesco in Assisi, Worms 1993. Un ulteriore volume dedicato alle vetrate del duomo di Milano a cura di c. pirina è uscito nel 1986.
Altri paesi. In Svizzera sono state particolarmente oggetto di studio le vetrate della cattedrale di Losanna studiate da E. J. Beer e quelle della chiesa di Königsfelden studiate da E. Maurer. I due volumi del Corpus Vitrearum pubblicati a cura di e. j. beer riguardano le vetrate in Svizzera sino all’inizio del xiv secolo (Basel 1956) e quelle del xiv e del xv secolo, tranne Königsfelden e la cattedrale di Berna (Basel 1965). Volumi del Corpus Vitrearum sono stati pubblicati per il Belgio (quattro volumi pubblicati tra il 1961 e il 1981, riguardanti soprattutto le vetrate tardogotiche e cinquecentesche), la Cecoslovacchia, il Portogallo, la Scandinavia (in particolare sulle vetrate duecentesche dell’isola di Gotland), la Spagna (quattro volumi, sulle vetrate di Siviglia e di Granada, di Santa Maria del Mar a Barcellona e della cattedrale di Gerona).
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