Empirismo Eretico - Pier Paolo Pasolini
December 14, 2016 | Author: danm76 | Category: N/A
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Pier Paolo Pasolini
Empirismo eretico
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Presentazione In Empirismo eretico Pier Paolo Pasolini raccoglie nel 1972 i suoi interventi critici e polemici intorno a tre nuclei tematici fondamentali: la lingua, la letteratura e il cinema. Si tratta dunque dell’officina in cui Pasolini riflette sulla propria attività artistica e nel contempo affina i propri strumenti espressivi di poeta, di romanziere e di regista cinematografico. Scritti tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, questi articoli e saggi sono il frutto dell’impegno estetico, sociale e politico – nel senso più alto e ampio del termine – di Pasolini, e mettono in luce il suo ruolo in un periodo ricco di novità, fermenti e contrasti. E, con le sue prese di posizione spesso provocatorie, Empirismo eretico (qui accompagnato da una prefazione di Guido Fink) diventa la testimonianza di una appassionata, generosa e impervia ricerca della verità. Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza segue il padre, ufficiale di fanteria, nei suoi spostamenti, trasferendosi continuamente da una città all’altra del Nord Italia. Nel 1942 a causa della guerra si rifugia nel paese materno, Casarsa in Friuli. Sin da giovane, inizia a scrivere poesie, alternando testi in italiano e in friulano. Nel 1942 esce il suo primo libro Poesie a Casarsa. Nel corso della sua vita l’attività poetica costituirà una costante e porterà alla pubblicazione di alcuni dei più importanti testi della letteratura italiana del Novecento. Citiamo, a titolo di esempio, La meglio gioventù (1954), Le ceneri di Gramsci (1957), La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964), Trasumanar e organizzar (1971). Nel 1950 Pasolini è costretto a lasciare il Friuli e si trasferisce a Roma. La vita nella capitale è inizialmente difficile, ma Pasolini si inserisce pienamente nel gruppo di intellettuali che animano la capitale. Nel 1955 esordisce nella narrativa con Ragazzi di vita, in seguito scriverà altri romanzi, come Una 3
vita violenta (1959) e Petrolio (postumo, 1992). Parallelamente, entra nel mondo cinematografico come collaboratore di Fellini e di Bolognini. Nel 1960-61 avviene il passaggio alla regia con il lungometraggio Accattone. La sua produzione cinematografica è notevole: quasi un film all’anno. Ricordiamo Mamma Roma (1962), La ricotta (1963), Il Vangelo secondo Matteo (1964), Uccellacci e uccellini (1966), Teorema (1968), Medea (1969), Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una notte (1974) e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Nel 1973 inizia la collaborazione al «Corriere della Sera». In una serie di articoli – pubblicati successivamente nei volumi Scritti corsari (1975) e Lettere luterane (postumo, 1976) – lo scrittore affronta le scottanti questioni dell’Italia contemporanea. La notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, Pier Paolo Pasolini muore assassinato all’Idroscalo di Ostia, vicino a Roma.
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gli elefanti saggi
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@garzantilibri ISBN 978-88-11-14030-6 © Garzanti Editore s.p.a., 1972, 1991, 1995 © 2000, Garzanti Libri s.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale: 2014
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Le parole contro la parola di Guido Fink Sarebbe difficile dire, a distanza di quasi vent’anni dalla pubblicazione di questo libro – che fra l’altro è un compendio appassionato e appassionante di tutte le tensioni e di tutte le battaglie degli anni Sessanta – se e quanto Pasolini si sia reso conto di avere affrontato in queste pagine un compito impossibile. Eroico a suo modo e suicida, il piano del lavoro denuncia la genesi non casuale o isolata dei singoli saggi, li suddivide in tre blocchi distinti, lingua letteratura cinema, consente intrecci equivalenze e rimandi, lascia intravedere una sorta di disegno provvidenziale o di happy end per cui i tanti orrori del nostro parlare e scrivere quotidiano o curiale potranno e dovranno riscattarsi scivolando in una visività silenziosa, un cinema che – come ha scritto Siciliano – varrà da «fleboclisi» e da «rinnovamento del circolo del sangue». Ma quante parole erano necessarie per teorizzare questo silenzio, per tacitarne gli avversari, per prepararne l’avvento? Rifacendosi in parte al bilancio provvisorio di Passione e ideologia, Pasolini parte dalla constatazione della non esistenza di una lingua nazionale. Anche quando sappiamo di avere qualcosa di importante e di vitale da esprimere, non esistono grammatiche o prontuari in grado di fornircene gli strumenti: ecco a esempio Gramsci, con il suo cattivo commovente italiano imparato dai professori del liceo privato di Santu Lussurgiu, poi nobilitato e reso in realtà ancora più goffo dall’emigrazione piemontese e dagli influssi di certo socialismo enfatico e umanitario. Gli scrittori contemporanei, quelli che vivono e scrivono nella Roma degli anni Cinquanta e Sessanta e alcuni dei quali hanno accolto Pasolini come uno di loro, se la cavano come meglio possono: con la nostalgia delle ormai tramontate e dolci parole oneste dei padri borghesi (Bassani, Bertolucci), o fingendo che l’italiano ci sia e accettandolo come corpo mistico (Morante), o assumendo una sorta di distacco ironico (Calvino), o ancora trasformando il gergo usurato e inutilizzabile della tribù in una sorta di lingua europea neutrale (Moravia): c’è poi Gadda che tiene un occhio aperto e sornione sul registro alto delle feluche e dei manieristi raffinati, e al tempo stesso compie divertite incursioni nel magma dei dialetti e della subcultura, tracciando una irrequieta linea a serpentina tra le ascisse e le ordinate di questo schema minuzioso. 7
All’orizzonte, intanto, si profila la lingua di un futuro già cominciato: è quella voluta dai tecnocrati, dai neocapitalisti, dal minaccioso «triangolo industriale» (già, erano anche gli anni del cosiddetto boom): le forze nefaste che sarebbero riuscite all’unificazione culturale del paese, là dove erano fallite l’EIAR e le scuole del Regno. Prevedibile l’esito conclusivo: la lingua orrenda del «paese dove l’esatto suona» vedrà la sostituzione vittoriosa della scienza al defunto latino degli umanisti, la definitiva eliminazione dello scrittore borghese e delle anime belle: e su tutto questo Pasolini, nel suo duplice rifiuto, non è certo disposto a commuoversi. È pronto, invece, a entrare in territorio nemico: a misurarsi con quelle nuove tecniche d’analisi e nuove discipline fino ad allora virtualmente ignorate dalla cultura idealista e da quella sinistra ufficiale che a ben vedere ne era soltanto un derivato falsamente alternativo: lo strutturalismo, la semiotica, l’antropologia. Senza abbracciarle acriticamente, ma anche senza esorcizzarle: si respirano anzi in queste pagine l’umiltà di chi si avventura in paesaggi sconosciuti e l’orgoglio di chi vi pianta le proprie bandiere. E non esiterà allora, il nemico del linguaggio troppo aridamente tecnico, a coniare mostruose parole portmanteau: i remi, i cinèmi, i ritmèmi… Per fortuna ci sono anche le altre parole, quelle aurorali e non contaminate, che Pasolini ripesca dai ricordi vicini o lontani. La parola rosada, a esempio, colta per caso sulle labbra del «ragazzo dei vicini oltre la strada», una parola «mai scritta prima», che il Pasolini diciannovenne e «beatnik degli anni Quaranta» traduce in segno grafico e poi cancella, e a distanza di tempo ricorderà. Quell’altra parola addirittura inesistente, Teta Veleta, inventata da Pasolini bambino per indicare tutto quel che di seducente e di proibito si identifica con la Madre e con il sesso. O il grido inarticolato e la sorta di danza tribale di Ninetto che scopre la neve a Pescasseroli. O il «corpo parlante», gli occhi, i gesti di Joaquim, il ragazzo delle favelas visto sulla spiaggia di Barra sotto il Corcovado, e promosso a emblema vivente di una sorta di lingua dell’azione. Queste sono le parole che non disturbano, che sfuggono alle ascisse e alle ordinate, che nella loro assoluta oralità – qui violentata, d’accordo, ma per esigenze dimostrative e didattiche – rimandano da un lato ai linguaggi dei popoli primitivi dall’altro al cinema: un cinema che Pasolini sottrae senza esitazioni alla sua genesi laboriosamente positivista e artigianale, legata a un’epoca di invenzioni e brevetti e magnifiche sorti, e riconsegna a una sorta 8
di miracolosa immediatezza. Né il cinema né le lingue primitive ci diranno mai aridamente e genericamente «albero»: ci diranno pero, melo, sambuco… E tra le ipotesi apocalittiche di un libro che a suo tempo un critico doveva definire improntato a un «sentimento dolcemente catastrofico», le meno inquietanti sono quelle di un’«atomica che ci renda tutti muti e incapaci a scrivere, e ci costringa quindi a esprimerci, mettiamo, attraverso il cinema per stendere un atto notarile e chiedere al barista un tè»; oppure ci obblighi a limitarci al gesto mimico, e ci renda «tutti napoletani sordomuti». Anche Roland Barthes – che in quegli anni Pasolini doveva incrociare a Pesaro e più volte ricordare in queste pagine – immaginava un mondo senza linguaggio; dove il coito a tergo fra un uomo e una donna, o un impasto di acqua e pasta di frumento, non possono venire stigmatizzati come sodomia, adulterio, incesto, uso sacrilego dell’ostia consacrata; e sfuggono a queste accuse perché queste parole non esistono. Ma l’utopia non verbale di Barthes – ispirata ovviamente a quel Sade cui più tardi renderà omaggio anche Pasolini – è veramente un tableau neoclassico che non ci comunica nulla, che davvero riesce a non tradursi in nessun’altra lingua che non sia la materia di cui è eventualmente composto: mentre i napoletani sordomuti di Pasolini – e Joaquim, o il ragazzo che dice rosada o Ninetto sulla neve – sono tutti personaggi o comprimari di una sorta di romanzo il cui tema ossessivo è appunto quello dell’esprimere e dell’esprimersi, con qualunque mezzo escluso quello condannato della Parola. Essi fanno parte di quel vasto repertorio o reservoir che è il mondo e che Pasolini, con un altro dei suoi neologismi non belli, chiama il Significando: appunto perché deve essere in qualche modo percepito e diffuso. Di queste e altre voci o presenze Pasolini parla infatti con gli altri, gli esperti, i colleghi, gli specialisti che ammira ma da cui talvolta dissente come Eco o Christian Metz. Ci sono poi gli autori che discute e prende in esame come Goldmann, Levi-Strauss, lo Herczeg di quel testo che per lui sarà fondamentale sul libero indiretto; quelli con cui polemizza (Segre, Calvino, Arbasino), quelli con cui si arrabbia (Emanuelli, Barbato): non mancano, al di là di questa serie di dialoghi con «allegati assenti», dove ci è chiesto di indovinare le repliche come quando si assiste a una conversazione telefonica, interlocutori meno fisicamente identificabili ma pur sempre avvertibili come ben definite entità collettive: la neoavanguardia, il P.C.I., il Movimento Studentesco, a un certo punto, eh sì, persino la Pro Civitate Christiana. 9
(Anche per la presenza-assenza di queste voci e di queste istanze Empirismo eretico ci consente, e non è che la più ovvia delle sue utilizzazioni, una sorta di total immersion negli anni Sessanta, al di fuori di tardive demonizzazioni o di facili nostalgie.) In una piccola appendice in corsivo al saggio iniziale, si intravede, a malapena, una figura sgradevole e ostile, ben diversa dalle altre: in certo senso, la sola traccia visibile delle incredibili persecuzioni, anche giudiziarie, che Pasolini subiva in quegli anni, e su cui il libro glissa con una sorta di rassegnato stoicismo. Si tratta di poche righe che possono facilmente sfuggire, e che vale la pena di riportare per intero: Alla prima di un mio film un fascista, un giovanotto piuttosto emaciato per la verità, mi ha gridato pubblicamente un insulto in nome di tutta la sua bella gioventù: io ho perso la pazienza (me ne pento), l’ho schiaffeggiato e sbattuto per terra. La mia amica Laura Betti era presente, e ha visto quindi «coi suoi occhi» tutta la scena. Non so per quali calcoli, i giornali che hanno riportato l’episodio l’hanno rovesciato (corredandolo di fotografie false) in modo che il picchiato risultassi io. La cosa è stata ripetuta, ed è diventata di dominio pubblico: talmente di dominio pubblico che la Betti, nella sua aggressiva ingenuità, parlandone a me, benché avesse visto «coi suoi occhi» la scena, diceva: «Il fascista che ti ha picchiato»…
Quel che c’è di curioso, e che vale la pena di sottolineare, a rischio di cogliere l’autore in una delle sue tante e pure feconde contraddizioni, è che l’errore non è soltanto imputabile ai media – i giornali con il loro italiano burocratico e approssimativo e le «fotografie false» – ma alla testimonianza non sospettabile di una Betti che ha visto «con i suoi occhi», di una Betti che «ricorda»: dunque non solo la parola può ingannare, anche lo sguardo, anche la memoria, i soli strumenti privilegiati e innocenti nel nuovo vangelo pasoliniano di decifrazione della realtà. È vero che in sostanza Laura Betti ha ragione: il fascista è sempre quello che usa la violenza, anche se in apparenza la sta subendo; e l’episodio in sé, la «scena» avulsa dal contesto, può impedirci di capire, di decodificare in modo corretto. (Pasolini, del resto, dichiarerà non senza ulteriore scandalo negli Scritti corsari che è ormai impossibile distinguere somaticamente o culturalmente il fascista che sequestra le persone o mette le bombe sui treni dalla maggioranza dei suoi coetanei.) E allora vorrà dire che la contraddizione non esiste: la Realtà non può mentire, lo Sguardo non si inganna: l’errore può nascere solo grazie all’arbitraria parcellizzazione del reale, all’influenza deleteria che sguardo e memoria individuali possono subire da parte delle parole mercificate. Proprio 10
come avviene nel Cinema, che della realtà è la trascrizione scritta, e che in questo senso è pienamente affidabile: se mai, a sbagliare o a scadere saranno i singoli film, che di quella langue costituiscono gli atti di parola. Con un gruppetto di studenti americani di cinema ricordo di avere tentato un piccolo esperimento: la proiezione della prima sequenza del Vangelo secondo Matteo – Maria incinta, la fuga e poi il sonno di Giuseppe, l’apparizione dell’Angelo – seguita da una loro trascrizione verbale, una specie di sceneggiatura desunta dallo schermo, e dal confronto con le prime due pagine della sceneggiatura originale di Pasolini. Ne risultavano prevedibili differenze: gli studenti avevano tutti colto, più o meno, la dignità e il chiuso dolore dei due sposi, qualcuno era arrivato a individuare termini pittorici di raffronto anche se non proprio quelli indicati da Pasolini (la Madonna incinta di Piero a Sansepolcro), altri avevano percepito qualcosa di simile alla «funebre pace meridiana» descritta nella sceneggiatura e questo benché il film realizzato aggiungesse sullo sfondo figure non previste (bambini intenti al gioco, per esempio, non lontani dal luogo in cui Giuseppe si getta a terra). Quel che si perdeva completamente, nell’unicità e nel rilievo dei primi piani degli interpreti, era l’esplicito desiderio pasoliniano che Maria risultasse una «ragazza del popolo, come se ne vedono a migliaia», e Giuseppe un «qualsiasi figlio maggiore di una famiglia campagnola»: da un lato le immagini rendevano quei volti assoluti, non assimilabili ad altri; al tempo stesso provvedevano a inserirli in contesti anche figurativamente precisi (in quel continuum spaziotemporale che è il cinema secondo Pasolini, non si parla mai o quasi mai dei confini esterni dell’inquadratura; e invece Maria, oltre che dal rettangolo dello schermo, appariva costantemente inquadrata nel vano di una porta, suggerendo inedite implicazioni simboliche ai primi della classe). È evidente, del resto, anche se può sembrare paradossale, che il cinema di Pasolini, e proprio perché teoricamente superiore a qualunque parola scritta, debba risultare sempre diverso, se non addirittura meno appagante, rispetto alle descrizioni verbali che lo preparano e lo suggeriscono. Ogni sua sceneggiatura, «struttura che vuol essere altra struttura», risulta animata da una tensione destinata a risultare fatalmente in eccesso rispetto alle immagini, per quanto belle – e spesso figurativamente bellissime – che ne derivano. Questo vale per gli attori: i gesti furibondi scritti per la Magnani di Mamma Roma, la mimica amorosamente predisposta di Totò e di Ninetto. Ma vale anche per certe didascalie, così felici e suggestive nella loro stesura ancora ipotetica, come queste relative alla prima 11
scena di Edipo re: La campagna è appena al di là delle case. Son, del resto, case umili; di piccola borghesia. Hanno i loro pergoli, le loro grondaie, le loro piccole architravi… Sì, non ci sarà che il sole; e forse due bambini delle elementari, e un soldato, che passano.
Proprio nell’introduzione alla sceneggiatura di Edipo, in effetti, Pasolini scrive una delle sue più esplicite dichiarazioni d’amore al cinema, che non ritroviamo raccolta in Empirismo. Vi si parla dell’attrice Silvana Mangano, della Mangano «riprodotta audiovisivamente» e della non traducibilità in termini verbali di questo «simbolo di natura figurale», anche se affidato alla scrittura di un Moravia: (Moravia) non potrebbe fare che quello che fanno tutti gli scrittori: adotterebbe cioè un sistema di simboli scritto-parlati – il nostro bell’italianuccio – adattandolo alla propria personale ideologia, cioè facendone un sistema di stile… Ma tutta la fatica di Moravia a descrivere gli occhi, le bianche guancie, le sopracciglia depilate, la commovente gola, il profumo di primule della Mangano (e lo farebbe magnificamente) non sarebbe altro che un atto demiurgico…
Che dire allora di queste parole, che non vogliono essere demiurgiche, che descrivono senza descrivere, in una ostinata e programmata preterizione? Ricordiamo tutti la Mangano di Pasolini (e di Visconti, e magari anche di De Santis): ma raramente ci è apparsa così suggestiva, così «definitiva». Grazie non tanto al suo «simbolo figurale» quanto alle parole (di Pasolini) tese a negare le eventuali parole di Moravia, e, in apparenza, tutte le altre parole possibili. Non accetta mai, Pasolini, che le sue costruzioni teoriche vengano scambiate per dichiarazioni personali di poetica, un modo comodo e garbato di liberarsene. Non lo accetta da Moravia, che già avanza questa ipotesi durante le polemiche seguite alla pubblicazione delle «Nuove questioni linguistiche»; e ai giovani della rivista «Cinema e Film» dichiara di sentirsi «offeso» quando tutto quello che fa e che afferma viene ricondotto a spiegare il suo stile. Dello stile, in questi saggi scritti spesso in fretta, appunti buttati giù «in due ore per un giornale» e magari «brancolando» in nuove e impervie aree di ricerca, Pasolini avverte onestamente il lettore che potrà trovare, al massimo, la «voglia» non soddisfatta: insieme alla «timidezza» del «facitore di pagine letterarie» che sente di venir meno ai propri standard e alla propria «morale specifica». Fin dalle prime pagine, il nemico del linguaggio tecnico12
scientifico adotta una struttura rigorosamente binaria di opposizioni e di doppi complementari, ritenuta evidentemente necessaria per la speranza di «sistemare» un materiale così ricco e così fluido: si potrebbe pensare a un’eredità del procedimento dialettico, se non fosse chiaro che Pasolini non ha mai avuto una precisa impostazione marxiana; o a una sorta di tomistico sic et non, se non si sapesse che questo cultore del sacro si è sempre tenuto lontano da ogni educazione religiosa. Queste coppie alternative ricorrono comunque in modo quasi ossessivo: l’italiano strumentale e l’italiano letterario, il latino e la scienza, teorie manzoniane versus Graziadio Isaia Ascoli, la rivoluzione interna del neocapitalismo e quella esterna del marxismo, funzione epica e funzione incoativa degli infiniti nel brano iniziale di Leporello, Dante narratore e Dante personaggio, lingua della prosa e lingua della poesia, Olmi come esempio di montaggio denotativo e Bertolucci come esempio di montaggio connotativo, il neorealismo dove «ciò che è insignificante, è» contrapposto a certo New American Cinema (Warhol?) dove «ciò che è, è insignificante»: e via fra questi (a) e questi (b), fra opposizioni e «biunità», fino ad arrivare alla grande e angosciosa scoperta (quasi) finale – «o essere immortali e inespressi o esprimersi e morire» – che rimanda al cinema (e alla vita, suo doppio e matrice omologa) come pianosequenza potenzialmente infinito, insidiato dal «senso», dalla durata e dalla morte solo al momento in cui si assoggetta alle scansioni del montaggio. In realtà, proprio mentre dissemina le sue pagine di queste griglie, Pasolini è ansioso di uscirne, di fornirci la chiave per vanificare ogni doppia inautenticità: quel tertium che qualche volta può venire dato, a costo di ricorrere a un piccolo trucco o di estrarre un asso dalla manica. Questo accade quando «il momento puramente orale della lingua» si pone come terzo termine nella dicotomia altrimenti «insostenibile» di langue e parole; oppure quando alla decadenza ormai irrevocabile della «lingua A», quella della tradizione, non si oppone tanto la fittizia lingua Β postulata dalle avanguardie, ma la «lingua X, che non è altro che la lingua A nell’atto di diventare realmente una lingua B». Proprio come la sceneggiatura, che sempre anela a essere altra struttura e non lo diventa mai, neanche quando il film verrà realizzato: una sorta di spinta dinamica alla trasformazione perenne, una via d’uscita dalla gabbia dei sic et non, che qualcuno ha troppo semplicisticamente identificato con una sorta di «ermafroditismo linguistico» o ovvia metafora di scelte e traumi personali. (Varrebbe la pena, invece, di indagare più a fondo quale sia il peso nel libro di quell’empirismo che gli dà 13
il titolo ma che vi figura solo qua e là, quasi di soppiatto: mi riferisco a quel Gurvitch, rappresentante francese di un movimento di marca anglosassone, a cui di tanto in tanto Pasolini assegna senza parere il compito di rendere il discorso più flessibile e forse più permeabile alle seduzioni di certo irrazionalismo di origine bergsoniana: lo dice chiaro al termine del saggio «Dal laboratorio», dove si ipotizza appunto, col suo aiuto, un «qualcos’altro» che sta sotto i vestiti troppo stretti delle strutture sociali, e minaccia di farle scoppiare.) «Un giovane biondo, caro Eco, avanza verso di te…» Anche qui, nel piccolo scherzo parasemiotico del 1967, un asso nella manica: nel poscritto 1971 Pasolini spiegherà che questo giovane biondo, l’attore Jerry Malanga, è davanti a Eco e al tempo stesso non c’è (tanto che Eco non ne sente l’odore) perché non è un Malanga vero, e non è nemmeno, come si poteva pensare, un Malanga sullo schermo e dunque un suo «simbolo figurale», come nel caso della Mangano: è un Jerry Malanga sul palcoscenico (il teatro, lo sappiamo, è un altro dei tanti linguaggi in quegli anni violentati e re-inventati, meno bene di altri, da Pasolini: che peraltro saprà stupendamente utilizzarlo in quel lancinante apologo tutto librato in un terrain vague fra teatro e cinema che è Che cosa sono le nuvole). Ma al di là del teatro, al di là della ennesima e polemica dimostrazione che Codice del Cinema e Codice della Realtà sono la stessa cosa, colpisce in questo dialogo fra laici il bisogno di oltrepassare le categorie della linguistica e della scienza, di arrivare a una sorta di Ur-codice che Eco si accontenta di indicare a mo’ di ipotesi irrealizzabile, e Pasolini identifica con un Codice dei Codici cui si può anche dare, in sostituzione di nomi più sospetti, il nome di Β (per Brama). «Perché ti sei lasciato riscuotere da questo sogno?» chiede Pasolini a Eco. «Hai paura dei sogni?» L’accusa a Eco è quella di essersi fermato, «sull’orlo»; e in realtà è Pasolini che, pur compiendo un balzo in avanti, perviene a una sorta di mistica contemplazione che spesso si traduce, nella sua opera, in quella immobilità o in quell’ossimorica «vitalità mortuaria» diagnosticata dalla critica più sensibile. (Allo stesso modo, sarebbe interessante paragonare l’exemplum fictum del barbaro che uccide la belva, del barbaro che vede un altro barbaro che uccide la belva, del barbaro che scoperto il linguaggio racconta ecc. ecc., a certi giochetti logici e narratologici che piacevano a Calvino, a esempio quella folle serie di cornici che appare in Una pietra sopra e in cui un «io» afferma di scrivere che Omero racconta che Ulisse dice «ho ascoltato il canto delle Sirene»: quel che in Calvino è borgesiana vertigine dell’opera che si rispecchia in se stessa, in Pasolini diventa una 14
sorta di rimpianto dell’innocenza perduta del mito, con tanto di non lieto fine in cui il barbaro s’imborghesisce.) Per Pasolini, comunque, il problema delle origini è anche un problema di prospettive, di «finali». Solo la morte, osserva davanti al piccolo film amatoriale che documenta l’uccisione di Kennedy, fornisce al film della nostra vita il final cut, il senso conclusivo. Anche per questo non ha nessuna esitazione a evocare nelle sue pagine un diffuso e reciproco guardarsi, dove anche il dialogo su questioni teoriche può scivolare in un film ideale, a esempio quando uno dei redattori di «Cinema e film» si trasforma da intervistatore a personaggio, e un’invisibile macchina da presa lo tallona in panoramica mentre esce, riprende la macchina, si inserisce nel traffico ecc.: poco profetico o poco orwelliano, Pasolini non sembra avere paura della televisione, che viene accusata di immoralità non perché onnipresente ma perché soggetta a «tagli» e interventi censori. Né si sottopone a una vera analisi la natura (neutra? amorosa? sadomasochista?) di questo sguardo, che è sì universale e potenzialmente reversibile, ma che spesso va in una direzione precisa: da maestro ad allievo, da Dante a Vanni Fucci, dal Pasolini forzatamente teorico alle figure che popolano queste pagine, tutte ansiose di essere viste e sentite ed espresse. Certo, proprio questo libro dimostra quanto il maestro in fondo desiderasse, in tutta umiltà, di rimettersi sui banchi a imparare; quanto rimpiangesse di non trovarsi, per così dire, dall’altra parte della macchina da presa, in quel vasto e indistinto brusio del profilmico. Ma intanto c’erano tante cose da dire, da dimostrare, da verificare; e per questo, provvisoriamente, non c’erano che le parole. Di cinema come «fleboclisi» parla Enzo Siciliano in Vita di Pasolini, nuova ed., Milano, Rizzoli, 1981, p. 298: a Siciliano rimando anche per le qui solo accennate persecuzioni subite da Pasolini negli anni in cui lavorava a questi saggi. Il critico che parla di «sentimento dolcemente catastrofico» è Geno Pampaloni, Vince la pietà, in «Corriere della Sera», 27 agosto 1972; quello che parla di «ermafroditismo linguistico» a proposito della sceneggiatura, è Antonio Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Roma, Bulzoni, 1979, p. 83; ma più utilmente, sulla teoria e la pratica del cinema in P., ho consultato Antonio Costa, Pasolini’s Semiological Heresy, in P.Willemen (a cura di), Pier Paolo Pasolini, London, BFI, 1977; Michel Estève (a cura di), Pasolini, le mythe et le sacré, in «Etudes cinématographiques», nn. 109-11, Paris 1976, e Adelio Ferrero, Il cinema di 15
Pier Paolo Pasolini, Venezia, Marsilio, 1977. Per l’identità del fascista con i suoi coetanei, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1990 (1975), p. 43. Le citazioni da Il Vangelo secondo Matteo e da Edipo re vengono dalle sceneggiature (e dalle relative introduzioni) stampate negli omonimi volumi Garzanti a cura di Giacomo Gambetti, 1964 e 1967, rispettivamente alle pp. 42-43 e 15).* Di «vitalità mortuaria» (e di «solare solitudine»), fin dai tempi delle Ceneri di Gramsci, parla Cesare Garboli, in La stanza separata, Milano, Mondadori, 1969, p. 15. La «scena muta» di Roland Barthes è in Sade Fourier Loyola, trad. L. Lonzi, Torino, Einaudi, 1977, p. 144; l’io che dichiara che Omero dice ecc. fa parte di un intervento di Italo Calvino a un convegno fiorentino del 1978, ora in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, pp. 310 e segg. (1991)
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Empirismo eretico a Graziella
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Lingua
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NUOVE QUESTIONI LINGUISTICHE Per arrivare in concreto ad alcune conclusioni linguistiche che ho in mente, sceglierò un punto di vista particolaristico: il rapporto tra gli scrittori e la koinè italiana. Che cos’è, prima di tutto, questa koinè? Non mancano le descrizioni puramente linguistiche: l’ultima, «alla Bally», è dovuta a Cesare Segre, e a essa rinvio (e mi riferisco). Si potrebbe comunque dire, intanto, che, all’occhio dello scrittore, l’italiano medio si presenta come un’entità dualistica, una «santissima dualità»: l’italiano strumentale e l’italiano letterario. Questo implica un fatto che del resto è ben noto: in Italia non esiste una vera e propria lingua italiana nazionale. Cosicché, se vogliamo ricercare una qualche unità tra le due figure della dualità (lingua parlata, lingua letteraria), dobbiamo cercarla al di fuori della lingua, nell’interno di quell’individuo storico che è contemporaneamente utente di queste due lingue: che è uno, e storicamente descrivibile in una unitaria totalità di esperienze. Tale individuo quale sede spirituale o coabitazione della dualità, è il borghese o piccolo-borghese italiano, con la sua esperienza storica e culturale, che è inutile qui definire: credo basti semplicemente alludervi come a una comune conoscenza. È lo stesso borghese che usa, quando parla, la koinè, e, quando scrive, la lingua letteraria. Egli porta dunque in tutte due queste lingue lo stesso spirito. L’osmosi col latino, le varie stratificazioni dovute alle diacronie storiche, la tendenza sintetica, la prevalenza dell’espressività sulla comunicazione, la coesistenza di molte forme concorrenti ecc. ecc. definiscono insieme l’italiano parlato e l’italiano letterario medi: che sono dunque caratterizzati da uno scambio di abitudini: la loro dualità non è fondamentalmente antitetica. Sono due possibili scelte dove esprimere fondamentalmente la stessa esperienza esistenziale e storica. Così che se io dovessi descrivere in modo sintetico e vivace l’italiano, direi che si tratta di una lingua non, o imperfettamente, nazionale, che copre un corpo storico-sociale frammentario, sia in senso verticale (le diacronie storiche, la sua formazione a strati), sia in senso estensivo (le diverse vicende storiche regionali, che hanno prodotto varie piccole lingue virtuali 19
concorrenti, i dialetti, e le successive differenti dialettizzazioni della koinè): su tale copertura linguistica di una realtà frammentaria e quindi non nazionale, si proietta la normatività della lingua scritta – usata a scuola e nei rapporti culturali – nata come lingua letteraria, e dunque artificiale, e dunque pseudonazionale. La lingua parlata è dominata dalla pratica, la lingua letteraria dalla tradizione: sia la pratica che la tradizione sono due elementi inautentici, applicati alla realtà, non espressi dalla realtà. O, meglio, essi esprimono una realtà che non è una realtà nazionale: esprimono la realtà storica della borghesia italiana che nei primi decenni dell’unità, fino a ieri, non ha saputo identificarsi con l’intiera società italiana. La lingua italiana è dunque la lingua della borghesia italiana che per ragioni storiche determinate non ha saputo identificarsi con la nazione, ma è rimasta classe sociale: e la sua lingua è la lingua delle sue abitudini, dei suoi privilegi, delle sue mistificazioni, insomma della sua lotta di classe. Dovendo poi delineare una storia della letteratura italiana del Novecento come una storia dei rapporti degli scrittori con tale lingua, dovrei prima di tutto distinguere: se questa storia letteraria è una storia media, tipica, allora i rapporti degli scrittori con l’italiano come lingua della borghesia è il rapporto tranquillo di chi rimane nel proprio ambito linguistico e adopera insomma uno strumento che gli è congeniale (la vocazione letteraria media non si presenta mai come palingenetica nei riguardi della lingua). Se invece tale storia letteraria è una storia dei valori, allora devo dire che l’italiano come lingua della borghesia si presenta come lingua impossibile, infrequentabile: esso è caratterizzato da una violenta forza centrifuga. Se per semplificare immaginiamo l’italiano medio come una linea, vedremo collocarvisi una serie di opere assolutamente trascurabili in quanto valori: mentre le opere che contano come valori letterari, respinte da quella forza centrifuga, si collocano tutte o sopra o sotto quella linea media. Intesa dunque come storia dei rapporti degli scrittori con la koinè, la letteratura del Novecento è geometricamente composta da tre linee: quella media su cui non ha corso che la letteratura puramente scolastico-accademica ecc. (quella cioè che conserva la fondamentale irrealtà dell’italiano come lingua media borghese); quella alta, che dà una letteratura, secondo ulteriori graduazioni, di tipo variamente sublime, o iperlinguistica; quella bassa che dà le letterature naturalistico-veristico-dialettali. Ma osserviamo un po’ meglio questa rassicurante figura geometrica. Sulla linea media vedremo collocarsi: a) le opere di compilazione 20
anonima, pseudo-letteraria, tradizionalistica, sul versante letterario (per esempio tutta la retorica fascista e clericale); b) le opere di intrattenimento e di evasione, oppure timidamente letterarie (qualcosa di un po’ più su del giornalismo), sul versante parlato (la prosa del romanzo coevo alla prosa d’arte, da Panzini, in parte incluso, in poi, cito a caso, Cuccoli, Cicognani ecc. ecc.). Sulla linea bassa: a) i dialettali (da quelli di prim’ordine, Di Giacomo, Giotti, Tessa, Noventa ecc., agli infimi); b) i naturalisti o veristi di origine verghiana (tutti di secondo o terz’ordine, e quindi irrilevanti se non come fenomeno). Sulla linea alta, respinti per ragioni ideologiche disuguali e spesso antitetiche, dalla forza centrifuga dell’italiano medio, si collocano quasi tutti gli scrittori del Novecento italiano, ma a livelli molto diversi. Al livello più alto, addirittura sublime, troviamo il settore degli ermetici: quassù l’italiano medio li ha centrifugati per ragioni endogene alla lingua, non critiche rispetto alla società. È la zona delle torri d’avorio – se vogliamo ancora divertirci a disegnare una geografia di simboli sulla lavagna. L’italiano usato dentro queste torri è una lingua per poesia: il rifiuto o il non collaborazionismo col fascismo, mettiamo, cela una vocazione reazionaria di diversa specie: l’introversione borghese che identifica il mondo con l’interiorità, e l’interiorità come sede di un tipico misticismo estetico elaborato dal decadentismo soprattutto francese e tedesco ecc. ecc. Tutto ciò implica la figura di un barocco classicistico, di un espressionismo classicistico, di un anticlassicismo classicistico: tali accostamenti derivano dal fatto che in questi poeti dello stile sublime c’è una intima contraddizione ideologica: essi non si rendono conto cioè che il loro rifiuto alla realtà apparentemente rivoluzionario è in sostanza reazionario, e quindi riadotta tutti gli schemi linguistici restauratori: compie un’operazione classicistica, in una parola. Nel caso che alcuni di questi scrittori si accorgano dell’errore, e tentino una modifica della loro posizione ideologica nel senso di un maggior interesse o amore per il mondo (nella fattispecie, i parlanti) essi contaminano il loro classicismo con elementi crepuscolari di lingua parlata (ed ecco definito linguisticamente l’ermetismo di Luzi, per esempio). A un livello più basso coabitano una serie di opere «iperscritte», la cui ideologia non è il mito della poesia, ma quello dello stile, e quindi il loro contenuto non è la letteratura stessa, ma la vita storica con i suoi problemi, portata a un clima di tensione letteraria così violenta da presentarsi come una sorta di manierismo nell’accezione longhiana della parola: vi si possono fare i 21
nomi più diversi, da quello di Vittorini a quello della Banti, oppure quello di Roversi della completa poetizzazione della realtà operata nel suo ultimo romanzo, o ancora quello del Leonetti dei libri di versi. A un livello ancora più avvicinato alla linea media, troviamo la zona delle feluche: ossia l’ermetismo del piede di casa, il dannunzianesimo ironizzato: l’accettazione del parlato come preziosità letteraria (il parlato reidentificato col toscano): e si possono nominare alla rinfusa Cardarelli, Cecchi, Baldini ecc. ecc. A un livello più prossimo ancora alla linea media troviamo gli scrittori che potremmo chiamare della nostalgia (nostalgia linguistica, s’intende): Cassola, Bassani ne sono i più tipici. Essi mescolano allo stile sublimis, fondamentale alla loro ispirazione elegiaca e civile, una lingua parlata come lingua dei padri (naturalmente borghesi) che, visti nella luce della memoria si nobilitano, diventano oggetto di récherche: e con essi si nobilita la loro lingua parlata, quell’italiano medio, che dopo averli respinti da sé – per una violenta protesta storica e ideologica, mettiamo l’antifascismo – li richiama col fascino di un luogo promesso e perduto, una normalità poetica in quanto struggentemente ontologica. Più vicini ancora a questo italiano inteso come normale, non criticato nel profondo, sono gli scrittori meno sperimentali e meno stilisticamente sublimi. Il rapporto di Soldati con quell’italiano medio, per esempio, è di accettazione fondamentale di esso in quanto lingua dell’Ottocento (una posizione simile a quella di Cassola e di Bassani, ma meno elegiaca, meno poetica, e più ideologicamente accanita a credere nell’illusione dell’esistenza di una buona borghesia che non c’è mai stata). Anche il rapporto di Delfini con quell’italiano medio è simile a quello di Soldati, Bassani e Cassola: c’è un fondo di nostalgia per quello che la borghesia poteva essere e non è stata, lo spostamento del punto focale sul lato buono, poetico della vita borghese del Nord, su una certa epicità, che, nel seno di certe famiglie e certi ambienti ha pure potuto essere poetica. In Delfini c’è anche la delusione: e quindi l’instabilità dell’ironia. Invece tutta perduta in quel senso inenarrabile che può dare un’esistenza familiare borghese quando questa si identifichi con tutta l’esistenza, è la lingua di Bertolucci. Moravia ha, con l’italiano medio, in fondo, il rapporto più curioso: esso si basa su un equivoco che Moravia spavaldamente accetta: il disprezzo per la condizione borghese – e la conseguente, spietata, critica che è la tesi di ogni sua opera – insieme con l’accettazione della lingua della borghesia come una lingua normale, come uno strumento neutro, quasi non venisse prodotto ed elaborato storicamente 22
proprio da quella borghesia, ma venisse «trovato» paradigmaticamente nella storia. Moravia dunque disprezza la lingua borghese, da una parte (individuandone espressivamente solo alcuni dati, come staccati dal sistema linguistico, e accontentandosi di mettere in ridicolo quelli soltanto), mentre dall’altro ha una specie di rispetto infantile e scolastico per la lingua come per un meccanismo normalmente funzionante. Inconsciamente egli ha fatto dell’italiano una specie di lingua europea neutrale, e inconsciamente egli vi apporta caratteristiche non italiane: la sua grammatica è semplificata, le forme concorrenti sono rare, le sequenze tendono a essere progressive, lo spirito analitico, l’eccessiva disponibilità dei sintagmi limitata ecc. ecc. L’italiano di Moravia è una «finzione» di italiano medio. Il rapporto di Calvino con l’italiano medio sta tra quello di Soldati, di Delfini e di Moravia: non è polemico. C’è un’accettazione della normatività, e un’assunzione di essa su un reticolato di tipo europeo, specialmente francese: e tutto ciò è reso possibile dal distacco ironico. Molto particolare è il rapporto con l’italiano medio di Elsa Morante: per così dire essa occupa tutti i livelli al di sopra della linea media: dal livello che sfiora la lingua media, a quello eccelso occupato dagli scrittori in stile sublimis. Infatti la Morante accetta l’italiano in quanto corpo grammaticale e sintattico mistico, prescindendo dalla letteratura. Essa pone in contatto diretto la grammatica con lo spirito. Non ha interessi stilistici. Finge che l’italiano ci sia, e sia la lingua che lo spirito le ha proposto in questo mondo per esprimersi. Ne ignora tutti gli elementi storici, sia in quanto lingua parlata che in quanto lingua letteraria, e ne coglie solo l’assolutezza. Anche il suo italiano è dunque una pura finzione. Quasi tutti gli autori che ho nominato – e anche quelli che non ho nominato, ma che si collocano sopra la linea dell’italiano medio – hanno coi loro eroi e col loro ambiente, un rapporto naturale di parità: culturale, sentimentale e linguistica. Insomma, i loro eroi sono borghesi, come loro, e i loro ambienti sono borghesi, come i loro. Sicché essi possono entrare, quasi insensibilmente, nell’animo dei loro personaggi, e «vivono» i loro pensieri: creano cioè la condizione stilistica di un discorso libero indiretto. Usano quindi la loro lingua: ed è uno scambio di lingue che avviene a un livello di parità, come dicevo. In modo che la lingua del loro personaggio diventa una lingua scritta e tutto sommato letteraria, mentre la lingua dello scrittore – che si immedesima nel suo personaggio – si fa non più che vivace o espressiva. Nel caso poi che l’eroe sia un eroe popolare, la sua lingua, vissuta dallo scrittore, non è che la lingua dello scrittore abbassata di un solo grado, non 23
una mimesis vera e propria, ma una specie di lunga «citazione» attenuata. È il caso, per esempio, della Ciociara di Moravia, dei leggeri piemontesismi dei personaggi di Soldati, delle accentuazioni emiliane del parlato borghese di Bassani ecc. ecc. Esiste tuttavia un rilevante fenomeno che cambia radicalmente i termini di questa prospettiva. Si dà il caso cioè che qualche volta l’autore borghese «riviva» completamente il discorso parlato del suo personaggio, e questo personaggio appartenga alla classe operaia o contadina: comunque sublinguistica e dialettale. Qual è il rapporto di Gadda con l’italiano medio? Egli, naturalmente, come ogni scrittore di valore, lo trova assolutamente infrequentabile, e ne è quindi centrifugato. Ma allora, nel caso di Gadda, dovremo aggiungere sulla lavagna del nostro schizzo geometrico, una nuova linea: una linea a serpentina che, partendo dall’alto, scenda, intersecando la linea media, verso il basso, e poi torni di nuovo, sempre intersecando la linea media, verso l’alto, e poi di nuovo verso il basso ecc. Insomma il discorso libero indiretto in una pagina scritta implica un’incursione verso le lingue basse, la koinè fortemente dialettizzata e i dialetti: a fare carico di materiali sublinguistici. Ma tali materiali – e questo è il punto – non vengono portati al livello della lingua media, per essere quivi elaborati e oggettivizzati quali contributo all’italiano medio: no, essi, attraverso la linea a serpentina, vengono portati nella zona alta, o altissima, ed elaborati in funzione espressiva o espressionistica. Ma esiste anche un altro tipo di linea a serpentina, non in sola funzione espressionistica, ma oggettiva o realistica. Prima però di descrivere lo schema di questa operazione linguistica, occorre fare un preambolo. Il lettore ha già capito bene che tutto questo mio schizzo di storia letteraria come storia dei rapporti dello scrittore con la lingua media, si accampa per intiero entro i limiti degli anni cinquanta. Per completare tale schizzo occorrerà che io aggiunga un altro elemento tipico della letteratura di quegli anni. Essi sono stati caratterizzati da una ricerca ideologica con ambizioni fortemente razionalistiche (si è ambito insomma fare una revisione di tutta la letteratura antecedente, dall’ermetismo dell’anteguerra al neorealismo del dopoguerra). Contemporaneamente e in parte contraddittoriamente a tale revisione razionalistica, ha avuto luogo una sorta di sperimentalismo che conteneva in sé quegli elementi espressionistici del decadentismo e quegli elementi sentimentali del neorealismo che si volevano ideologicamente superare. Lo sperimentalismo letterario aveva come base l’esperienza del discorso libero indiretto gaddiano, la «linea a serpentina» intersecante dall’alto al 24
basso l’italiano medio (sempre più traumatico come espressione del mondo borghese). Tuttavia in tale operazione c’era un’infinitamente maggiore ambizione di oggettività che in Gadda: rimaneva, nel fondo, espressionistica, perché il materiale recuperato rivivendo il monologo interiore di un eroe dialettale, veniva elaborato per contaminazione nelle alte sfere della lingua letteraria raffinata, un po’ come in Gadda, appunto. Ma, rispetto a Gadda, l’operazione era fortemente semplificata: intanto, nella zona alta, mancavano i plurilinguismi tecnologici: e l’altezza letteraria si configurava come una lingua unica. Inoltre, nella zona bassa, i parlanti venivano scelti con una funzione specifica di ricerca sociologica e di denuncia sociale: anche qui, niente pluridialettismi, ma un dialetto unico in una situazione circostanziata. Il discorso libero indiretto era solo un mezzo, prima, di conoscere e poi di far conoscere, un mondo psicologico e sociale sconosciuto alla nazione. L’allargamento contenutistico era un effetto della poetica del realismo, e quindi dell’impegno sociale, l’allargamento linguistico era un contributo a una possibile lingua nazionale attraverso l’operazione letteraria. Oggi, quel tipo di impegno appare retorico e inadeguato, e insieme appare illusoria l’ambizione di creare attraverso la letteratura (come del resto si è per tanti secoli creduto) i presupposti di una lingua nazionale. Si tratta insomma del riconoscimento di una crisi – e di una crisi molto grave – nel senso che: a) il mondo letterario oggetto della revisione polemica degli anni cinquanta, non esiste più, oppure si ripresenta sotto un aspetto – l’avanguardia – che sembra riprodurre vecchie istanze letterarie novecentesche, mentre in realtà si tratta di un fenomeno del tutto nuovo e diverso; b) l’operazione linguistica che ha come base il discorso libero indiretto e la contaminazione, si rivela improvvisamente come superata, per un imprevisto stingimento dei dialetti come problema linguistico e quindi come problema sociale. Questa crisi linguistica – e non soltanto stilistica – è la spia che sta accadendo nella nostra società qualcosa di profondamente nuovo. Anticipando tutte le altre osservazioni che si potrebbero fare – per esempio, le indicazioni date in questo senso dalle avanguardie – non esiterei a radicalizzare questa crisi attraverso quella che Fortini, citando Majakovskij, chiama la «fine del mandato» dello scrittore, ossia la fine non solo dell’impegno, ma di tutti quei concetti, del resto assolutamente impopolari, che si sono presentati come surrogati o aspetti evoluti dell’impegno. Nella 25
sede socio-moralistica in cui Fortini compie le sue indagini non sono abbastanza chiare le ragioni storiche di tale «fine del mandato»: forse in una sede neutrale e in qualche modo più scientifica qual è la ricerca linguistica, si può osservare meglio, a maggiore distanza, la serie delle causali. Già alla fine degli anni cinquanta si avevano i primi sintomi di una crisi che allora pareva di restaurazione. Quale informazione rara, poco nota ai non addetti ai lavori, collocherei l’inizio di tale crisi nella «reazione puristica» (reazione a quelle ricerche plurilinguistiche, dialettali, sperimentali, che erano state la forma letteraria concreta dell’impegno) dovuta all’iniziativa di un gruppetto di scrittori napoletani riuniti intorno a una loro rivista.1 Tuttavia protagonisti, in parte involontari, di simile reazione, consideriamo pure Cassola e Bassani, attraverso la loro disperata e poetica nostalgia borghese. Il loro stile (l’ho accennato) non è che una serie continua e sia pur coperta di «citazioni» del linguaggio borghese e piccolo-borghese usato dai padri e dai nonni professionisti e dalle loro cerchie provinciali. In questi due scrittori la ricerca era autentica, e, specialmente Bassani ha dato, attraverso questa mimesis dello stylus médius (invento una categoria sconosciuta sia allo storico che alla stylcritik) delle opere di poesia. Ma la ripercussione nella società letteraria di una simile operazione – spogliata di necessità e divenuta paradigma – si identificava col neopurismo piccolo-borghese elaborato dai suddetti scrittori napoletani e s’inseriva nell’insieme di quell’operazione reazionaria (revival classicistico e neodecadentistico, riscoperta da parte della critica giornalistica e di qualche parte del pubblico di valori che parevano superati per sempre) che ha preparato la presente situazione di disgregazione e di confusione. È vero: oggi, a una lettura neutrale, succede, per esempio, che nel contesto gaddiano assuma una forte significanza tutto il quantitativo colto e tecnologico, mentre tende a risuonare fioco il quantitativo allocutorio popolare-dialettale; è vero anche che il discorso rivissuto in funzione di denuncia di un mondo miserabile, ladro, affamato, disponibile perché preistorico, sembra d’improvviso un fenomeno stilistico superato – e i Riccetti e i Tommasi si muovono remoti come in un’urna greca; è vero anche che un’operazione simile, portata, più attualisticamente nel cuore di una fabbrica come l’Olivetti, a rivivere i farneticanti discorsi interiori degli Albini Saluggia, sembra altrettanto ingenua e appartenente a un mondo di bontà e di solidarietà superate dalla vertiginosa evoluzione della fabbrica stessa. Tuttavia anche la reazione a tutto questo – la borghesia nobilitata e «ritrovata» come un tempo 26
perduto, di Bassani, Cassola, Soldati o Prisco, e insomma di ogni purista rifacitore eletto di lingua borghese – sembra situarsi al di là di un limite storico, e di non trovare più al di qua di tale limite nessun destinatario in quanto complice di una simile nostalgia. Insieme a tale devitalizzazione delle più recenti esperienze letterarie, va collocata la vitalità almeno apparente delle avanguardie, che sono poi per un linguista il sintomo più clamoroso della crisi culturale, priva fino a questo momento di spiegazioni non generiche. Le linee sopra e sotto l’italiano medio su cui si è svolta la storia letteraria recente come storia dei rapporti degli scrittori con la loro lingua di classe – sono comunque linee di lingua letteraria, di letteratura. In questi primi anni del sessanta si è visto invece un tipo di rapporto nuovo, almeno teoricamente: un rapporto che non si colloca nell’àmbito della letteratura, ma anzi parte da una base d’operazione dichiaratamente non letteraria. Io credo che le avanguardie non siano quello che si è sempre detto, con banalità inaccettabile, ossia delle ripetizioni delle avanguardie novecentesche. Per le due seguenti ragioni: 1) Le avanguardie classiche ponevano le loro istanze anarchiche e sovvertitrici in rapporto con la situazione a loro presente; avevano della società un’idea stabile e statica, e vi si ponevano come alternativa altrettanto stabile e statica. Le avanguardie del sessanta pongono invece le loro istanze dissacratorie contro una situazione, per così dire, prefutura: sono messianici, demandano al futuro – scimmiottandolo – la situazione dissacrata e rovesciata per definizione (ecco perché si possono anche «integrare» nel presente, e non presentare come dinamitardi). 2) Le avanguardie classiche continuavano a fare la letteratura, e conducevano la loro azione antilinguistica con strumenti letterari: il loro non era che un innovazionismo fine a se stesso e portato alle estreme, e perciò scandalose, conseguenze. Invece le avanguardie di oggi conducono la loro azione antilinguistica da una base non più letteraria, ma linguistica: non usano gli strumenti sovvertitori della letteratura per sconvolgere e demistificare la lingua: ma si pongono in un punto linguistico zero per ridurre a zero la lingua, e quindi i valori. La loro non è una protesta contro la tradizione ma contro il Significato: i luoghi da distruggere non sono gli stilemi, ma i semantemi. Tale posizione delle avanguardie si è mostrata finora inattaccabile, e coloro che hanno tentato di attaccarla sono caduti nella banalità, sono sempre risultati misteriosamente sconfitti. Probabilmente perché mentre il luogo zero delle avanguardie corrisponde a un reale momento zero della cultura e della storia, i luoghi da dove la letteratura si difende non hanno più nessuna 27
corrispondenza con una realtà che si sta modificando. Dico subito, tuttavia, che il momento zero scelto dalle avanguardie è solo apparentemente una scelta spavaldamente libera: esso è in effetti una accettazione passiva. Essi suppongono di trovarsi per libera scelta in un luogo dove si trovano invece per coazione. E dico anche subito che il punto di vista più giusto per osservare e comprendere questa modifica del paesaggio storico reale, è quello che si trova sulla sommità delle proprie esperienze storiche, anche se ormai superate, o rivissute a rovescia come delusione. Ci troviamo dunque in un momento della cultura imponderabile, in un vuoto culturale, popolato da scrittori ognuno dei quali non fa che seguire una propria storia particolare, come un’isola linguistica o un’area conservatrice. Non si tratta della solita crisi, ma di un fatto del tutto nuovo, che evidentemente si ripercuote dalle strutture della società. Bisognerà dunque uscire per un momento dalla letteratura, e mettere in stretto contatto fra loro due scienze che con la letteratura confinano: la sociologia e la linguistica. Diamo dunque uno sguardo sociolinguistico al panorama italiano di questi anni. Possiamo cominciare, credo nel modo più lecito, dal luogo più vicino: questo, questo che ho sotto il naso, la mia prosa enunciativa. Che, non essendo prodotto di uno specialista, non può non colpire subito per la sua alta percentuale di tecnicismi. Se poi si risale alle origini di tali tecnicismi, la cosa si fa ancora più significativa: essi infatti provengono qui non tanto dalla scienza linguistica, quanto dalla sociologia, per la maggior parte: il resto da altri linguaggi tecnicistici, i più disparati. Sono insomma soccorso, nello spiegare una situazione letteraria, dall’oggetto stesso della mia ricerca extraletteraria. L’osmosi del linguaggio critico, da qualche anno in Italia, non è più col latino, secondo la tradizione anche filologica, ma col linguaggio della scienza. Del resto tutta la terminologia descrittiva della situazione di caos in cui si trova la letteratura – terminologia usata sia dalle avanguardie che dalla sopravvivente diaspora letteraria – è quella dell’industria culturale e della sociologia (oltre quella ormai classica della medicina, della psicanalisi, delle scienze economiche e soprattutto del marxismo). Si potrebbe notare inoltre come i contributi tecnici dovuti alla stessa linguistica siano di uno speciale carattere: essi tendono a strumentalizzare esplicitamente il linguaggio, attraverso l’idea acuita e dominante della sua strumentalità. 28
Questa idea della lingua come strumento – proprio nel senso positivo indicato dalla semiotica – è il segno dominante di tutto il panorama linguistico che ci circonda. Osserviamo subito al di là di questo primo fenomeno che abbiamo sotto il naso, a un settore finitimo. Per esempio il linguaggio del giornalismo. In questi ultimi tempi attraverso una iniziale e quantitativamente irrilevante regolamentazione snobistica di calco sul francese o l’inglese (dovuta alla stampa borghese radicale-illuministica), non c’è dubbio che il linguaggio giornalistico italiano ha assunto dei veri e propri caratteri specialistici. Lo regola e lo fissa un tipo speciale di comunicatività, presupponente una società completamente rappresentata dalla sua opinione pubblica, a un certo livello pseudo-razionalistico. Così che un giornalista può inventare solo dentro un sistema ristrettissimo, e ogni sua invenzione non deve essere però scandalizzante: deve essere collaudata e comunque prefigurata secondo una statistica – ancora dilettantesca e pseudo-scientifica – della richiesta della massa. Ma comunque da questa determinata. Un articolo giornalistico caratterizzato da espressività viene cestinato perché il lettore medio provvederebbe da sé a ignorarlo. Il linguaggio giornalistico è dunque estremamente strumentalizzato, secondo una ipotesi nuova della società come società di un certo elevato tenore razionalistico e quindi antiespressiva. Esso inoltre ritaglia dalla grammatica italiana solo quegli elementi che servono alla comunicazione, e ricava così per eliminazione una grammatica in certo modo rivoluzionaria rispetto i caratteri espressivi della grammatica tradizionale. Molte volte, appunto, una lingua specialistica può essere caratterizzata dalla pura e semplice selettività: come per esempio la lingua della televisione. Se la televisione occupandosi nelle sue trasmissioni di tutto lo scibile – non avendo dunque competenze particolari – deve poter parlare di tutto: facendo coesistere nei suoi comparti stagni, sotto diversi cartelli segnaletici, varie lingue speciali, tutte però caratterizzate da alcuni fenomeni simili: selezionatori, appunto: l’eufemismo, la reticenza, il cursus pseudo-parlato, la sdrammatizzazione ironica ecc. ecc. Se nella lingua della televisione, in pratica è possibile adoperare tutte le parole, in realtà un’alta percentuale delle parole di una lingua è esclusa: così che il particolarismo della sottolingua televisiva consiste nella sua settaria selettività. Per quel che ci riguarda, inoltre, il linguaggio televisivo pare aver accantonato la sua funzione didascalica in direzione di un bell’italiano, grammaticalmente puro fino a un fondamentale purismo: ora la funzione didascalica della televisione pare orientarsi verso una normatività di 29
grammatica e di lessico non più purista ma strumentale: la comunicazione prevale su ogni possibile espressività, e quel po’ di sciocca e piccoloborghese espressività che rimane è in funzione di una strumentalità brutale. Un’altra osservazione che serve fare, sul linguaggio televisivo, è più marginale ma non meno interessante: la monotonia dei diagrammi delle proposizioni di quel tipico campione televisivo che è il dettato del telegiornale. Esso non parrebbe neanche italiano. Il reticolato della frase ripete moduli il più possibile uguali, evitando ogni espressività diagrammatica, addirittura anche col tono della voce. Pare di sentire un annunciatore francese o cecoslovacco. Tale monotonia comincia già a essere presa come modulo di discorso parlato serio. Le persone di infima cultura credono che l’italiano vada parlato così, attraverso una serie di proposizioni dal diagramma possibilmente unificato anche nella pronuncia. Del resto tale tipo di discorso è ormai quello che ufficialmente sostituisce il vecchio tipo di discorso enfatico. Osserviamo il linguaggio dei politici: e prendiamo come campione il brano di un recente messaggio inaugurale, a caso: «La produttività degli investimenti del piano autostradale dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle infrastrutture di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre gli sperperi della concorrenza tra i diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma ad un sistema integrato su scala nazionale». È una frase tratta da un discorso di Moro. Nel significativo momento dell’inaugurazione dell’autostrada del Sole (significativo in quanto tale «infrastruttura» è certo un momento tipico e nuovo dell’unificazione linguistica): ma non si tratta di un discorso a tecnici come il quantitativo di terminologia tecnica, enorme, potrebbe far credere; si tratta di un discorso a un pubblico normale, trasmesso per televisione a un numero di italiani di tutte le condizioni, le culture, i livelli, le regioni. Inoltre, non si tratta di un discorso di circostanza (una vecchia inaugurazione), ma di un discorso che Moro ha investito di un’alta funzionalità sociale e politica: le sue frasi così crudamente tecniche hanno addirittura una funzione di captatio benevolentiae: sostituiscono quei passi che un tempo sarebbero stati di perorazione e enfasi. Infatti Moro strumentalizza l’inaugurazione dell’autostrada per fare un appello politico agli italiani, raccomandando loro un fatto politicamente assai delicato: quello di cooperare al superamento della congiuntura: cooperare idealmente e praticamente, essere, cioè, disposti ad affrontare dei sacrifici personali. Una tale raccomandazione nell’italiano che 30
noi siamo abituati a considerare nazionale, avrebbe richiesto un tour de force dell’ars dictandi: colon simmetrici, cursus latineggianti, lessico umanistico e clausole enfatiche. Qualcosa di fondamentale è dunque successo alle radici del linguaggio politico ufficiale. Esso, insieme al linguaggio letterario, è sempre stato caratterizzato da quel fenomeno anacronistico in quanto tipicamente rinascimentale che è l’osmosi col latino. Ora tale fenomeno è stato sostituito alla base da un altro fenomeno, è osmosi col linguaggio tecnologico della civiltà altamente industrializzata. La caratteristica fondamentale di tale sostituzione è che mentre l’osmosi col latino, di tipo eletto, tendeva a differenziare il linguaggio politico dagli altri linguaggi, la tecnologia tende al fenomeno contrario: a omologare, cioè, il linguaggio politico agli altri linguaggi. Si potrebbe dire, insomma, che centri creatori, elaboratori e unificatori di linguaggio, non sono più le università, ma le aziende. Si osservi per esempio il potere di suggestione linguistica enorme che hanno gli slogans nel «linguaggio della pubblicità»: linguaggio vero e proprio, in quanto sistema con le sue norme interne e i suoi princìpi regolatori tendenti alla fissazione. Parte di queste sue norme e di questi suoi princìpi linguistici cominciano già a passare alla lingua parlata: ma ciò che è maggiormente rilevante è l’archetipo linguistico offerto dallo slogan: un massimo addirittura metafisico di fissazione diagrammatica. Anche nel linguaggio della pubblicità, naturalmente, il principio omologatore e direi creatore è la tecnologia e quindi la prevalenza assoluta della comunicazione: sicché lo slogan è l’esempio di un tipo finora sconosciuto di «espressività». Il suo fondo, infatti, è espressivo: ma attraverso la ripetizione la sua espressività perde ogni carattere proprio, si fossilizza, e diventa totalmente comunicativa, comunicativa fino al più brutale finalismo. Tanto che anche il modo di pronunciarla possiede una allusività di tipo nuovo: che si potrebbe definire, con una definizione monstrum: espressività di massa. Infine: il linguaggio comune, o franco – quella koinè dialettizzata, in basso, latinizzata in alto – ch’è stata finora la santissima dualità italiana, e, in quanto tale, lingua non nazionale. Ora, questa koinè presenta dei segni di profonda modificazione nel senso della tendenza all’unità. Dovrei portare come esempi di questa koinè modificata delle conversazioni registrate. Non sono uno specialista, non ne ho. Mi affido all’esperienza del lettore. Esso converrà con me che gran parte del parlato nel Nord si è fortemente tecnicizzato. Capita 31
ogni momento di sentire tali tecnicizzazioni, tenui al livello delle necessità elementari e quotidiane, forti fino a costituire un vero e proprio linguaggio specialistico-gergale, al livello del mestiere, della professione, dello scambio commerciale, della vita d’azienda. In una pagina fortemente caricaturale ma sostanzialmente registrata di Ottiero Ottieri, leggiamo: «Ma non l’avevamo mandato su Pavia?». Farina: «Dottore, c’è rimasto due mesi! Abbiamo provato su Monza». Carlo sbircia il telefono, fulmineo: «Beh, che ha fatto su Monza?». Cavalli: «Calava. L’ho spostato io su Codogno». Carlo: «Mi dovete ricalcolare l’incidenza dei trasferimenti sul costo di distribuzione. Noi dobbiamo tener ferma una politica aziendale di spinta, ma non possiamo nemmeno superare il 32%!». «Certo, certo dottore.» «Al di là del 32% occorre un ridimensionamento.» Scambi linguistici di questo genere sono ormai la regola dell’Italia industriale ed europeizzata. Essi portano dei caratteri nuovi a quella pseudounificazione che avevano dato all’italiano i linguaggi burocratici e commerciali: caratteri nuovi dovuti alla novità spirituale del fenomeno. Né burocrazia né commercio erano fatti spiritualmente nuovi nell’uomo e nell’italiano: la tecnica sì. Inoltre: caratteri nuovi si sono presentati varie volte nella lunga storia della nostra nazione, ma la lingua vi ha sempre reagito adottando tali novità come nuove stratificazioni linguistiche da aggiungere alle altre: si trattava di una lingua soltanto letteraria e non nazionale, quindi non poteva né fagocitare né superare le vecchie stratificazioni con le nuove, e si limitava ad ammassarle, aumentando continuamente e assurdamente il proprio patrimonio grammaticale e lessicale. Oggi, è dunque per un fatto storico d’una importanza in qualche modo superiore a quella dell’unità italiana del 1870 e della susseguente unificazione statale-burocratica, che ci troviamo in una diacronia linguistica in atto, assolutamente senza precedenti: la nuova stratificazione linguistica, la lingua tecnico-scientifica, non si allinea secondo la tradizione con tutte le stratificazioni precedenti, ma si presenta come omologatrice delle altre stratificazioni linguistiche e addirittura come modificatrice all’interno dei linguaggi. Ora, «il principio dell’omologazione» sta evidentemente in una nuova forma sociale della lingua – in una cultura tecnica anziché umanistica – e il 32
«principio della modifica» sta nell’escatologia linguistica, ossia nella tendenza alla strumentalizzazione e alla comunicazione. E questo per esigenze sempre più profonde di quelle linguistiche, ossia politico-economiche. Si può dire insomma che mai nulla nel passato, dei fatti linguistici fondamentali ebbe un tale potere di omologazione e di modifica su piano nazionale e con tanta contemporaneità; né l’archetipo latino del rinascimento, né la lingua burocratica dell’Ottocento, né la lingua del nazionalismo. Il fenomeno tecnologico investe come una nuova spiritualità, dalle radici, la lingua in tutte le sue estensioni, in tutti i suoi momenti e in tutti i suoi particolarismi. Qual è dunque la base strutturale, economico-politica, da cui emana questo principio unico, regolamentatore e omologante di tutti i linguaggi nazionali, sotto il segno del tecnicismo e della comunicazione? Non è difficile a questo punto avanzare l’ipotesi che si tratti del momento ideale in cui la borghesia paleoindustriale si fa neocapitalistica almeno in nuce, e il linguaggio padronale è sostituito dal linguaggio tecnocratico. La completa industrializzazione dell’Italia del Nord, a livello ormai chiaramente europeo, e il tipo di rapporti di tale industrializzazione col Mezzogiorno, ha creato una classe sociale realmente egemonica, e come tale realmente unificatrice della nostra società. Voglio dire che mentre la grande e piccola borghesia di tipo paleoindustriale e commerciale non è mai riuscita a identificare se stessa con l’intera società italiana, e ha fatto semplicemente dell’italiano letterario la propria lingua di classe imponendolo dall’alto, la nascente tecnocrazia del Nord si identifica egemonicamente con l’intera nazione, ed elabora quindi un nuovo tipo di cultura e di lingua effettivamente nazionali. Non essendo io un politico o un sociologo, non oserei circostanziare queste affermazioni, se non per apportarvi qualche litote: per assicurare, insomma, come non siamo che al primo momento di questo fenomeno, e che involuzioni, regressi, resistenze, sopravvivenze dell’antico mondo italiano saranno realtà ritardate ma sempre rilevanti della nostra storia ecc., che la ferita fascista continuerà a sanguinare ecc.: ma che tuttavia la realtà, ormai fatta coscienza e quindi irreversibile, è l’instaurazione di un potere in quanto evoluzione della classe capitalistica (non c’è stata nessuna calata di barbari!) verso una posizione realmente egemonica e quindi unitaria. Perciò, in qualche modo, con qualche titubanza, e non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunciare, che è nato l’italiano come lingua nazionale. 33
Che cosa sia o meglio cosa sarà questo italiano, non è facile definire: non si stenterà a crederlo. A questo punto, a questa definizione, dovrebbe cessare il mio contributo di facitore di libri e non di linguista. Ma non vorrei cedere il campo senza aver prima fornito qualche dato circostanziale e aver anticipato alcuni motivi di previsione. In campo linguistico-letterario si aveva avuto in questi due ultimi decenni un apparente prevalere dell’asse Roma-Firenze (con qualche accentuazione su Roma, o magari su Napoli): tanto che si era parlato in sede glottologica di Roma come centro finalmente irradiatore di lingua, capitale di uno Stato finalmente unitario, sede della burocrazia ecc. ecc. Insomma la circolazione profondamente verticale e ampiamente orizzontale della lingua, pareva aver trovato in Roma il suo centro. La civiltà neorealistica aveva avuto come lingua l’italo-romanesco, e su tale base, assolutamente prevedibile e rassicurante, vorrei dire tradizionale, si pensava che si sarebbe avviata la nazionalizzazione dell’italiano. Le cose sono invece, come s’è visto, di colpo cambiate: la cultura romanesco-napoletana si è rivelata improvvisamente e definitivamente diacronica – e, dopo la mora di purismo cui ho accennato – avanzano ora prepotentemente la loro candidatura a centri irradiatori di cultura e di lingua nazionale le città del Nord, l’asse Torino-Milano. Ora, il Nord non può certamente proporre come alternativa i propri dialetti – che esso stesso ha contribuito a rendere arcaici né più né meno che quelli del Sud – né la sua pronuncia, né i suoi particolarismi linguistici: insomma la sua dialettizzazione della koinè. Ma è il Nord industriale che possiede quel patrimonio linguistico che tende a sostituire i dialetti, ossia quei linguaggi tecnici che abbiamo visto omologare e strumentalizzare l’italiano come nuovo spirito unitario e nazionale. Il Nord possiede tale linguaggio tecnologico in quanto mezzo linguistico principe del suo nuovo tipico modo di vita: è questo sottolinguaggio tecnico che il Nord industriale propone, come concorrente al predominio nazionale, contro la koinè dialettale romanesconapoletana: e che, in effetti, è già vittoriosa, attraverso quella stessa influenza egemonica unificatrice che hanno avuto per esempio le monarchie aristocratiche nella formazione delle grandi lingue europee. È la rivincita dei periferici, insomma: è la vittoria dell’Italia reale su quella retorica: una prima ondata periferica romanesco-napoletana corrispondente al primo momento reale dell’Italia antifascista ma ancora semisviluppata e paleoborghese, e ora una seconda definitiva ondata settentrionale, corrispondente alla definitiva realtà italiana, quella che si può predicare 34
all’Italia dell’imminente futuro. Quali saranno le caratteristiche più importanti di tale italiano nazionale? Essendo i linguaggi tecnologici per formazione internazionali e per tendenza strettamente funzionali, essi apporteranno presumibilmente all’italiano alcune abitudini tipiche delle lingue romanze più progredite, con una forte accentuazione dello spirito comunicativo, pressappoco secondo queste tre tendenze: 1) Una certa propensione alla sequenza progressiva, il che comporterà una maggiore fissità nei diagrammi delle frasi italiane, la caduta di molte allocuzioni concorrenti, col prevalere di una allocuzione che per caso o per ragioni di uso sia più cara ai più autorizzati utenti di linguaggi tecnici, ossia in prevalenza ai torinesi e ai milanesi. (È noto per esempio che i torinesi hanno sempre appreso l’italiano come una lingua straniera, ed hanno già un’abitudine all’apprendimento normativo, che si accentuerà nello spirito funzionale della tecnica, fino al livellamento di tutto l’italiano alla precisione inespressiva della comunicazione tecnica.) Tutto sommato si tratterà di un impoverimento di quell’italiano che era finora così prodigo della propria ricchezza in quanto disponibilità di forme, tanto da rendere la testa di ognuno di noi un mercato di forme linguistiche concorrenti. 2) La cessazione dell’osmosi col latino, che in tutti i salti diacronici nell’evoluzione così particolare dell’italiano, si è sempre conservata – quale caratteristica di lingua letteraria di élite – diventando più fitta e fertile proprio nei momenti maggiormente rivoluzionari (per esempio l’umanesimo, o il neo-classicismo ecc.). 3) Il prevalere del fine comunicativo sul fine espressivo, come in ogni lingua di alta civilizzazione e di pochi livelli culturali, insomma omogeneizzata intorno a un centro culturale irradiatore insieme di potere e di lingua. La conservazione dei vari strati diacronici lungo la storia, ripeto, ossia la ricchezza di forme dell’italiano, era dovuta semplicemente al fatto che l’italiano era una lingua letteraria, e quindi, da una parte conservatrice, dall’altra espressiva. Ora alla guida della lingua non sarà più la letteratura, ma la tecnica. E quindi il fine della lingua rientrerà nel ciclo produzioneconsumo, imprimendo all’italiano quella spinta rivoluzionaria che sarà appunto il prevalere del fine comunicativo su quello espressivo. Prima di congedarmi, un ultimo sguardo a quel quadro letterario la cui condizione di disgregazione e di caos è stata il pretesto di queste osservazioni. Ora è chiaro che tale caos corrisponde a un momento ideale di vuoto della 35
storia: è finito un tipo di società italiana e ne è cominciato un altro. In questa mora, la confusione della letteratura, privata di riferimenti e di prospettive: e, in questa mora, la sostanziale liceità delle avanguardie, la cui azione sovvertitrice di lingua è tuttavia condotta contro una lingua che non esiste più, e la cui idea di una lingua futura consiste in una mitizzazione tecnologica che non ha nulla a che fare col reale apporto della tecnologia alla lingua. È chiaro che dopo la presa di coscienza della reale rivoluzione linguistica dell’italiano, la funzione delle avanguardie è terminata. E solo attraverso un approfondimento di tale coscienza, uno scrittore potrà trovare la sua funzione, postulare un «rinnovamento del mandato». Anzitutto egli potrà impostare nei giusti termini la predizione, apocalittica, che nel futuro non ci sarà più richiesta di poesia, se, presumibilmente, nel futuro, ci sarà soltanto una radicalizzazione della lotta, tipica del resto di ogni lingua, tra comunicatività ed espressività. In tal senso lo scrittore italiano è favorito dall’urgere dei problemi linguistici che per lui sono una rivoluzione – mentre in Francia, in Inghilterra ecc. non sono che un’evoluzione, essendo il francese e l’inglese ormai da secoli lingue nazionali nel senso integrale del termine. E una evoluzione linguistica, per quel che riguarda la reazione dei letterati, è molto più insidiosa di una rivoluzione. Per un letterato francese o inglese o tedesco o russo la questione si pone in una concorrenza della tecnologia e della scienza (e dell’industria culturale), in una meccanizzazione fatale delle reazioni dei destinatari dei suoi prodotti ecc. ecc. Per un letterato italiano invece la questione si pone in modo più radicale: l’imparare l’abc di una lingua, con tutto ciò che questo implica: prima di tutto il non temere la concorrenza del linguaggio tecnologico, ma l’impararlo, l’appropriarsene, il diventare «scienziato» (per es.: non lavorare più, secondo i termini del vecchio mandato, su «prospettive» – ossia sul passato collocato nel futuro – ma su «ipotesi», che non presuppongono che altre ipotesi, senza illusori fini palingenetici dell’uomo ecc. ecc.). In seno a questa nuova realtà linguistica, il fine della lotta del letterato sarà l’espressività linguistica, che viene radicalmente a coincidere con la libertà dell’uomo rispetto alla sua meccanizzazione. E non sarà la sua una lotta arida e velleitaria, se egli possiederà come proprio problema la lingua del nuovo tipo di civiltà. Come appropriarsi di questa lingua? Per un letterato borghese, d’ideologia borghese, la prospettiva è quella di essere prima o poi soppresso dalla lingua partorita da quello stesso potere a cui egli non si oppone e contro cui non combatte: quindi ha ben ragione di levare la sua querelle sulla propria condanna all’incomprensione, cioè alla sua morte preceduta da una 36
lunga agonia formalistica. Per un letterato non ideologicamente borghese si tratta di ricordare ancora una volta, con Gramsci, che se la nuova realtà italiana produce una nuova lingua, l’italiano nazionale, l’unico modo per impossessarsene e farlo proprio, è conoscere con assoluta chiarezza e coraggio qual è e cos’è quella realtà nazionale che lo produce. Mai come oggi il problema della poesia è un problema culturale, e mai come oggi la letteratura ha richiesto un modo di conoscenza scientifico e razionale, cioè politico. (1964)
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Appendice
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UN ARTICOLO SU «L’ESPRESSO»1
Si era fatto nel n. 3 di quest’anno dell’«Espresso» un buon riassunto della mia conferenza sulle «Nuove questioni linguistiche» (pubblicata in «Rinascita» del 26 dicembre 1964): ora, nel n. 4 introducendo i due interventi di Moravia e di Eco, l’articolista pare avere dimenticato tutto quello che aveva diligentemente riassunto. Mi basta citare la terza riga in cui egli mettendo tra virgolette una frase sua, e facendola così passare per mia, mi fa annunciare con solennità che «è nata la nuova lingua italiana, quella della borghesia tecnologica». Io avevo detto invece: «Nel corso dell’italianizzazione dell’Italia, che si stava delineando come “livellamento” linguistico dovuto a grossi fenomeni sociologici (urbanesimo, emigrazioni interne, imborghesimento della classe operaia, potenziamento delle “infrastrutture di base”, strumenti linguistici di diffusione eccezionali, radio, cinema, televisione, rotocalchi), è accaduto qualcosa di ben più profondo e violento che un normale assestamento della società: è accaduto cioè che nella vecchia borghesia umanistica dominante (ma non egemonica), si è andata sostituendo una nuova borghesia tecnocratica (con tendenza fortemente egemonica): tale borghesia è insieme irradiatrice di potere economico, di cultura e quindi di lingua. E poiché essa, dato il suo reale potere (la sua tendenza egemonica) s’identifica potenzialmente con tutta la nazione (com’era accaduto in Francia prima con la monarchia, poi con la borghesia rivoluzionaria e liberale), rende potenzialmente per la prima volta l’italiano una lingua nazionale». La nuova lingua tecnologica della borghesia, di per sé, non m’interessa, personalmente la detesto, e il mio assunto di scrittore è quello di oppormi ad essa: ma non ignorandola. Essa è un fenomeno reale: ma non si pone come nuova «stratificazione» dell’italiano (una delle tante «stratificazioni» che giustapponendosi e non superandosi, hanno formato la ricchezza espressiva dell’italiano, con tutto quanto di aleatorio ciò comporta), ma una stratificazione che: a) è dovuta a uno «spirito nuovo» (che non ha equivalenti nel passato), lo spirito tecnico; b) coincide con la nascita in Italia della prima borghesia realmente egemonica (in potenza, ancora). 39
Perciò tale stratificazione non si giustappone alle altre, ma si presenta come principio omologatore e unificatore sia delle stratificazioni precedenti, sia dei vari linguaggi che compongono l’italiano attuale. Ora io non sono aideologico, né liberale (cioè affezionato alle antiche forme della borghesia, tanto da voler ignorare le nuove, proprio mentre Malagodi sta preparando il nuovo partito conservatore ai servizi dell’egemonia industriale del Nord)2: il mio discorso quindi non è linguistico, è politico. È chiaro che il mio scritto a una persona intelligente (e che conosca l’italiano, quello letterario e grammaticale!) si presenta come una diagnosi: ha quindi i caratteri dell’oggettività e dell’analiticità. Le ultime due pagine, però, benché affrettate per ragioni di economia testuale, sono testimonianza di una forte volontà interpretativa, sia pure ancora incerta. E si inquadrano comunque in quella fase di «rinnovamento del marxismo» che è probabilmente il fatto culturale, esso sì, più rilevante e determinante degli anni sessanta. Qui vorrei fare alcune annotazioni che servono realmente a liberare il dibattito dalla fase regressiva cui si sta come sempre riducendo. ………………………. A proposito del nuovo referto di Barbato, mi viene in mente un episodietto significativo. Alla prima di un mio film, un fascista, un giovanotto piuttosto emaciato, per la verità, mi ha gridato pubblicamente un insulto in nome di tutta la sua bella gioventù: io ho perso la pazienza (me ne pento), l’ho schiaffeggiato e sbattuto per terra. La mia amica Laura Betti era presente, e ha visto quindi «coi suoi occhi» tutta la scena. Non so per quali calcoli, i giornali che hanno riportato l’episodio, l’hanno rovesciato (corredandolo di fotografie false), in modo che il picchiato risultassi io. La cosa è stata ripetuta, ed è diventata di dominio pubblico: talmente di dominio pubblico che la Betti, nella sua aggressiva ingenuità, parlandone a me, benché avesse visto «coi suoi occhi» la scena, diceva: «Il fascista che ti ha picchiato». Non so se per Barbato posso parlare, come per la Betti, di ingenuità: fatto sta che il suo comportamento è identico. Egli ha letto «coi suoi occhi e capito col suo cervello» la mia conferenza: nel frattempo però nel dominio pubblico è accaduto che io dicessi «è nata la nuova lingua italiana, quella della borghesia tecnologica», anziché, com’è in realtà «è nato l’italiano come lingua nazionale» ed egli ha fatto sua l’interpretazione del dominio pubblico. Non capisco cosa abbia giocato 40
in lui: se buona fede o cattiva volontà; oppure la «ragione superiore» del mestiere. La cosa non importa: è più importante vedere come mai nel contesto in cui opera un giornalista come Barbato si sia formata quella interpretazione tendenziosa. Io credo che la vera, profonda ragione, per cui il «milieu» nel quale Barbato opera si mostra diffidente davanti al mio saggio, è l’avversione ad accettare un mutamento di prospettiva, un adattamento a nuovi problemi che si presentano come profondamente modificatori di ogni stato stabilito: sia nella società che nelle coscienze. Il marxismo si pone, attraverso un profondo travaglio, che accomuna i partiti comunisti dell’Europa orientale, la Francia, l’Italia, davanti al problema di un rinnovamento profondo e difficile: la stessa Chiesa cattolica si muove. Non mi consta che ci sia invece movimento nei partiti borghesi: se si eccettua un certo movimento di adattamento alle nuove esigenze dei padroni del Nord. È la prima vera e grande sconfitta dei laici italiani: la loro pigrizia umanistica, la loro sostanziale (e irrazionale!) fiducia nella borghesia, li ha traditi. Si rifiutano di spingersi in zone nuove e pericolose, di accettare nuovi strati di realtà. ………………………. Quanto a Moravia, devo dire che egli, intervenendo in questa occasione, non ha avuto orecchie per ascoltare la vera realtà del mio discorso: l’ha anch’egli strumentalizzato alla mia personale ricerca tecnica di autore, mentre esso non era che un passaggio per una comprensione più vasta della realtà italiana, in cui poi operare «anche» linguisticamente; e si è affannato a dimostrare una cosa assolutamente ovvia, cioè che l’italiano è sempre stata una lingua media. Mi dimostri che l’italiano è sempre stata una lingua nazionale: e non una «lingua» media di élite o di classe. Inoltre, per via della sua solita impazienza, egli mi attribuisce la «nozione» di un nuovo italiano già adulto, mentre io mi ero limitato a battesimare un infante. Lo credo bene, per esempio, che gli ingegneri e i tecnici parlino con le loro «signore» l’italiano aulico (per quanto la parola non sia esatta), ed è vero che l’italiano di Moro ha un fondo ancora avvocatesco e umanistico. Le cose stanno cominciando ad avvenire, non sono avvenute! Dunque per un utile proseguimento del dibattito, sull’«Espresso» o altrove, direi che andrebbero tenuti presenti i seguenti punti: 1) Io non ho parlato, ripeto, di un italiano nuovo, ma della nascita di un possibile italiano nuovo (nazionale). Supporne sbrigativamente una figura adulta, significa: a) non riconoscerlo; b) riconoscerlo attraverso esperienze 41
ritardate, già fatte, e quindi accantonarlo in quanto effettiva nuova realtà politica e sociale. 2) Io non ho impostato il problema come un problema di ricerche personali. (Non so ancora cosa scriverò, ed è futile venirmi ad attribuire un rinnovamento che in realtà non esiste, nei termini con cui me lo si attribuisce: ossia l’abbandono del dialetto per una lingua più complessa e ad alto livello: in che lingua ho scritto i miei saggi e le mie poesie? Non è detto poi, che io abbandoni le ricerche dialettali. Niente affatto. Il dialetto resta una realtà: sia pure ritardata.) Comunque anche il ridurre questa mia ricerca a un fatto personale, significa rimuoverne e tacitarne i caratteri pubblici. 3) Io non ho voluto risuscitare la querelle dialetto-lingua: e leggere in tal senso il mio saggio significa retrodatarlo, con l’inconscio odio razzista che ha sempre il borghese per la lingua del popolo e con il corredo di banalità razionalistiche che ogni odio irrazionale di tale genere comporta.3
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UN ARTICOLO SU «IL GIORNO»1
Meravigliandosi che «nemmeno Malagodi o Colombo dicano queste cose», Enrico Emanuela (tornando alla discussione sulla lingua, nel «Corriere della Sera» del 21 febbraio), cita un mio brano sulle questioni linguistiche, con l’aggiunta di alcuni punti interrogativi a indicare i luoghi del dubbio. Ecco il brano coi cartelli segnaletici del dubbio sparsi dall’Emanuelli: «La nuova borghesia delle città del Nord non è più la vecchia classe dominante che ha imposto stupidamente (?) dall’alto l’unificazione politica, culturale (?) e linguistica dell’Italia, ma è una nuova classe dominante (?) il cui reale potere economico le consente realmente (?), per la prima volta nella storia italiana (?) di porsi come egemonica. E quindi irradiatrice simultaneamente di potere (?), di cultura (?) e di lingua». Primo punto interrogativo: sì, «stupidamente», e non soltanto per quel che si riferisce al periodo fascista, che è stato il momento più clamoroso di tale stupidità (e l’Emanuelli è certo d’accordo con me), ma per tutto ciò che di fascista c’era stato prima e per tutto ciò che di fascista c’è rimasto: intendo dire lo spirito piccolo-borghese, cui è in genere affidato il ruolo di campo delle norme culturali. All’unificazione dell’Italia attraverso la piccola borghesia piemontese o piemontesizzante (il Sud era una terra di banditi, o «Lazaronitum» come lo chiama Marx; il novanta per cento circa degli italiani era analfabeta, cioè non solo non sapeva scrivere l’italiano, ma non era nemmeno italofona) si è creduto che l’unificazione linguistica potesse essere risolta attraverso lo pseudo-umanesimo piccolo-borghese, che possedeva una lingua solo letteraria, l’italiano, divenuta improvvisamente lingua nazionale (benché sconosciuta a circa i nove decimi degli italiani). E si è creduto di imporla con gli stessi metodi con cui si imponevano le tasse, cioè attraverso la burocrazia e la polizia. Passando dall’autoritarismo paternalistico a quello fascista. Ecco perché «stupidamente». Certo! Non tutta la borghesia era stupida! Nello stesso Manzoni, per esempio, coesisteva insieme al grande poeta (che ha rischiato di rovinare il suo romanzo) un linguista normativo inattendibile. Ma grazie a Dio, Graziadio Isaia Ascoli (borghese anche lui), come scrive Gramsci, 43
«alle centinaia di pagine del Manzoni aveva contrapposto una trentina di pagine per dimostrare: che neppure una lingua nazionale può essere suscitata artificialmente, per imposizione di Stato; che la lingua italiana si sta formando da sé, e si formerà solo in quanto la convivenza nazionale abbia suscitato contatti numerosi e stabili tra le varie parti della nazione; che il diffondersi di una particolare lingua è dovuto all’attività produttrice di scritti, di traffici, di commercio degli uomini che quella particolare lingua parlano…». Noi, piccolo-borghesi, abbiamo sempre accettato non criticamente l’idea di questa lingua letterario-umanistica. E abbiamo sempre pensato che centro di diffusione sarebbe stata Roma, cioè il centro statale dello Stato: magari, naturalmente, una Roma riscoperta dal neorealismo. Mentre era chiaro che il reale centro diffusore era destinato a essere il Nord: perché la lingua della borghesia moderna è la lingua dell’industria, non quella della burocrazia. È sempre Gramsci che ricorda nel 1918 come «il prof. Alfredo Pancini abbia pubblicato pochi anni fa un dizionario della lingua parlata moderna, e da esso appare quanti “milanesismi” siano arrivati persino in Sicilia e in Puglia. Milano manda giornali, riviste, libri, merce, commessi viaggiatori in tutta Italia, e manda quindi anche alcune peculiari espressioni della lingua italiana che i suoi abitanti parlano». Questo fatto di lingua come «segno orale» (e non quello «letterario» del Cattaneo o del Dossi), è un vero e proprio antefatto della nuova evoluzione linguistica. Ma solo oggi per la prima volta nella storia d’Italia si ha un intero linguaggio, il linguaggio della meccanica o della scienza applicata, che si usa in tutta Italia ugualmente (sia pure con pronunce differenti). E quello che più conta, è che non si tratta più di un linguaggio «solo» particolaristico: ma si pone come linguaggio-guida, ha in sé uno spirito unificatore, in quanto linguaggio di un tipo nuovo di cultura. Secondo punto interrogativo: perché Emanuelli ha messo questo segno di dubbio sulla parola «culturale»? Forse perché non crede nella «cultura» della borghesia italiana? Ma io uso la parola «cultura» nel senso con cui la usa un marxista, e com’è usata correntemente dall’etnologia o dall’antropologia. Non è un giudizio di valore, ma un dato di fatto. Sono andato l’altro ieri, domenica, a «visitare» un campo-profughi, ex campo di concentramento, vicino ad Alatri: un luogo tremendo, dove, nelle tragiche baracche oblunghe, dai tetti a volta, dominate dalle torrette rotonde, sotto montagnole grigie e senza nome, vive un gruppo di espatriati tunisini. Ebbene, ho avuto modo di accorgermi come la loro 44
«francesizzazione» non consistesse solo in una francofonia abbastanza ortodossa (mille volte più ortodossa – se si pensa che è avvenuta in emigrati in ambiente arabo – di qualsiasi italofonia di italiano periferico), ma in una commovente francesizzazione culturale: il modo con cui quegli italiani francesizzati di Tunisia si salutavano, si davano la mano, pregavano di salutare i genitori o gli amici residenti a Roma, eccetera, era assolutamente più vicino alla tipicità del borghese medio francese, che qualsiasi modo usato da un meridionale, finora, per realizzare un modello italiano (le pagliacciate poliziesco-avvocatesche ecc. ecc.): insomma la borghesia francese francesizza gli allogeni e gli alloglotti con un reale prestigio culturale, così da prestare una reale e non solo mimetica umanità di modi e di espressioni. Terzo punto interrogativo: ebbene, su questa espressione «classe dominante» io non ho dubbi, anche se si tratta di una terminologia un po’ lisa, e un po’ superata dai modi del dominio. Lascio dunque la perplessità a Emanuelli e ai collaboratori della terza pagina del «Corriere». Quarto punto interrogativo: questo «realmente» sta al posto di quella che Gramsci avrebbe chiamato condizione di «necessità» dell’egemonia. A tale condizione di necessità la borghesia italiana del Nord si è trovata per inerzia, fuori, quasi, dalla sua coscienza e dalla sua volontà. Per una accelerazione dello sviluppo produttivo, e quindi della potenza economica, che ha qualcosa di brutalmente pragmatico. Quinto punto interrogativo: sì, per la prima volta nella storia italiana. Per quanto mi sforzi, non trovo un precedente. Soltanto la conquista romana presenta dei caratteri simili, e infatti… L’universalismo della Chiesa è stato sempre contraddetto dai particolarismi locali, che elaboravano proprie lingue in quanto ponevano le basi di un proprio potere (la borghesia comunale ecc. ecc.). Sesto punto interrogativo: intendo «potere» sostanzialmente economico, non codificato. Esso probabilmente non vuole essere codificato: il suo pragmatismo e il suo tecnicismo escludono la metafisicità dei codici. Esso tende a deferire a qualcos’altro una codificazione che lo lasci libero: questo qualcos’altro è lo Stato italiano. La lotta per il possesso esclusivo di questo pretesto che è sempre lo Stato per il Capitale, è tra forze laburiste (il centrosinistra) e forze conservatrici (il liberalismo, milanese, anziché napoletano). Ma questo non ha niente a che vedere con le questioni linguistiche (?). Settimo punto interrogativo: ancora sulla parola «cultura»… Ebbene, 45
facciamo qualche ulteriore chiarificazione: la «cultura piccolo-borghese» (attraverso una spinta dal basso, cioè dal livello dei ceti medi – il diritto di voto ecc.) aveva contestato e messo fuori gioco il «classicismo agrario», in un’accettazione, sempre tuttavia sostanzialmente classicistica, del romanticismo e del decadentismo. Una nuova spinta dal basso, dovuta alla Resistenza, alla realizzazione almeno formale della democrazia – la Repubblica, il voto alle donne ecc. ecc. – ha a sua volta contestato e messo fuori gioco il «classicismo piccolo–borghese» fascista (in tale contestazione ha avuto un forte peso l’opposizione marxista: stava cioè prendendo forma una sorta di «classicismo popolare», attraverso l’impegno e l’ideologia letteraria gramsciana). Ora, la cultura tecnocratica-tecnologica, non contesta nessun particolare classicismo: ma contesta e si accinge a mettere fuori gioco, tutto il passato classico e classicistico dell’uomo: ossia l’umanesimo. La sua novità è quella di coincidere potenzialmente non con una nuova epoca della storia, ma con una nuova era dell’umanità: l’Era della Scienza Applicata. Strumenti di tale cultura sono i grandi mezzi di diffusione di notizie: i giornali, la radio, la televisione. Strumenti, niente altro. Non entità autonome (cui deferire ogni responsabilità, come fanno insieme, un giornalista dell’«Espresso», un linguista marxista, e lo stesso Moravia). Non sono caduti dal cielo. Riferirsi ad essi non come a semplici strumenti di una cultura significa voler evitare, magari per ragioni diverse, la discussione. Una volta inventati dei mezzi di diffusione culturale nuovi, non si possono, è vero, ignorare più. Ma l’applicazione della scienza nel produrre questi nuovi mezzi diffusori di cultura è il principio stesso del loro ulteriore apporto culturale specifico. La meta immediata del nuovo principio strutturale della lingua (l’iperlingua tecnologica) e dei suoi mezzi di diffusione pare essere la comunicatività. E infatti è assurdo un «messaggio» radiofonico o televisivo che non sia capito nell’attimo stesso in cui è percepito. Come non è concepibile un linguaggio meccanico particolare solo di Milano o di Torino. Ma non è detto che ciò che è chiaro e universalmente comprensibile sia sempre razionale. Molte volte, il buon senso, che è il contrario della ragione, fa passare per chiare delle cose profondamente oscure e irrazionali. Così e molto probabile che il nuovo tipo di linguaggio-guida sia comunicativo ma non razionale: e l’irrazionalità sia mascherata da una sorta di qualunquismo tecnico, come prima era mascherata da un 46
qualunquismo umanistico. Comunque mentre il secondo è un caso particolaristico, di portata specialmente italiana, il primo è un caso generale, che riguarda tutto l’immediato futuro degli uomini. Sotto questo profilo millenaristico – e date le tendenze metastoriche di ogni cultura depressa – spero che Emanuelli e la sua cerchia mi seguano meglio: e sentano come siano anguste le illazioni su miei eventuali passi avanti o indietro.
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ALTRO ARTICOLO1
L’intervento di Citati sulla «nuova questione» della lingua, mi sembra utile per due ragioni: a) riporta il discorso alla realtà dell’osservazione, al di là di tutte le esperienze «ritardate» che ognuno che interviene nel dibattito dimostra di possedere; b) impone una delucidazione sulla parola «comunicatività». Cominciamo dal punto a. In Italia non esistono osservatori linguistici, neanche credo nelle riviste specializzate, che regolarmente, sistematicamente, intensamente, si pongano come rilievi socio-linguistici, e, con la puntualità dei bollettini meteorologici che dicono «Che tempo fa», ci dicano «Che lingua fa». Citati nel suo articolo – pessimista com’è sulle generalizzazioni e ideologizzazioni dei temi – ci dà un ottimo referto «linguologico» (inventiamo un altro orrendo termine!): «che lingua fa» in un treno delle linee Roma-Milano, o Napoli-Torino? Con orecchi di linguista amaro e sconfortato, Citati ha raccolto del materiale molto significativo: il discorso folle di un compagno di viaggio (dalla sintassi smoccolata, dai nessi smangiati, dai cursus incastrati e inestricabili senza soluzione di continuità, dai «sì» sostituiti da un atroce «esatto» con tutti i denti fuori): e lo propone come esempio ideale del reale italiano che si parla oggi. È vero, Citati ha ragione. Mentre il «nuovo italiano nazionale» vagisce nelle aziende del Nord, l’italiano medio, la koinè dialettizzata, e la valanga dei gerghi, da quello letterario a quello della malavita, continuano, per inerzia il loro sviluppo. E la storia della crescita dell’italiano nazionale che io ho indicato, è la storia del rapporto tra la nuova stratificazione tecnologica – quale principio unificante e modificante dell’italiano – con tutte queste stratificazioni precedenti e tutti questi tipi di linguaggi ancora viventi. Il monstrum linguistico che le orecchie di Citati hanno captato con la precisione di un apparato scientifico, è un momento di questa fase evolutiva, e l’italiano che si parla realmente oggi in Italia, è un «vagito»: il fondo è quello medio dell’italiano letterario adottato dalla borghesia come una specie di lingua franca, l’archetipo soprattutto sintattico e il latino, il centro sociopolitico diffusore «primario» è la burocrazia, il centro 48
irradiatore effettivo le «infrastrutture di base» (e, più recente il nuovo tipo di urbanesimo delle migrazioni interne), il fondo antropologico è quello umanistico ecc. ecc.: però c’è qualcosa di nuovo, rispetto a un discorso analogo udito nelle III classi dei diretti degli anni quaranta, e anche cinquanta: un nuovo modello sociale per l’umile parlante del Sud, o comunque per l’appartenente alle stratificazioni ritardatarie dell’umile Italia: il proletario del Nord borghesizzato attraverso il possesso di nuovi tipi di beni di consumo e di un nuovo livello linguistico che esprime tale possesso. Nell’archetipo latino si è insinuato lo spirito dell’«esattezza», della «comunicazione funzionale», che, essendo esattamente il contrario del latino – possedendo cioè una sintassi di sequenze progressive, profondamente nominale – rende pazzesca la sintassi latina, carica di forme concorrenti, di possibilità allocutorie e di subordinazioni. Così anche per l’italiano di Moro, che io ho scelto come esempio dell’azione omologante e unificante esercitata dalla tecnologia sul linguaggio politico: e che Moravia, sull’«Espresso» ha criticato. A livello infinitamente più alto, anche il «linguaggio politico» di Moro si presenta come uno dei primi «vagiti» dell’italiano nascente: certo, nell’italiano di Moro permane la sua formazione umanistica, l’ideale latino ecc. ecc., ma, con maggiore evidenza e maggiore coscienza, anche qui, anche in questa formazione e in questo ideale, si insinua il nuovo tipo di lingua, che essendo la lingua della produzione e del consumo – e non la lingua dell’uomo – si presenta come implacabilmente deterministica: essa vuole soltanto comunicare funzionalmente, non vuole né perorare, né esaltare, né convincere: a tutto questo ripensano gli slogans della pubblicità. Ecco insomma che dobbiamo passare al punto b: alla delucidazione della parola «comunicatività». Io dicevo nel saggio che ha provocato questo dibattito che la nuova stratificazione tecnica – dovuta a uno spirito nuovo, quello tecnologico – che non ha equivalenti nel passato – e che si appresta a formare il nuovo tipo di uomo – modifica e omologa tutti i tipi di linguaggi della koinè italiana, nel senso della comunicazione, a discapito dell’espressività. Tale espressività derivava dal fatto che l’italiano era fondamentalmente letterario, cioè fuori dalla storia, e quindi tendeva a conservare in una specie di empireo espressivo tutte le sue stratificazioni storiche, che non avevano il potere socio-politico di superarsi e annullarsi. Ora per la prima volta, almeno virtualmente e ipoteticamente (c’è da fare i conti con il marxismo e la classe operaia) tale potere socio-politico esiste, 49
e per la prima volta, dunque, almeno teoricamente, la nuova stratificazione linguistica è in grado di superare le altre, e di livellare l’italiano. Dicevo ancora nella replica citata sul «Giorno» che mentre nelle altre nazioni linguisticamente unite, lo spirito tecnologico si presenta come evolutivo (almeno apparentemente: in realtà lo stesso Citati testimonia di violente scosse linguistiche anche in Francia e negli Stati Uniti), in Italia si presenta rivoluzionario, in quanto coincide con la formazione di una classe egemonica (almeno in potenza). Il primo atto che io potevo supporre era dunque una forte tendenza dell’italiano alla comunicazione, per analogia con le lingue che prima dell’italiano avevano avuto una esperienza unitaria, nazionale, dovuta alla presenza di una classe egemonica identificante si con l’intera nazione (le monarchie, le grandi borghesie). Tuttavia quella che per altre nazioni è stata un’esperienza di secoli – e che ora è stravolta anch’essa dalla «mutazione» della società sulla via del neocapitalismo tecnocratico – per l’Italia sarà probabilmente un’esperienza da bruciarsi in pochi anni o decenni: nell’atto stesso in cui l’italiano comincia a diventare «comunicativo» nel senso delle descrizioni linguistiche classiche (Francia, Inghilterra ecc.), esso quasi subito, seguendo il destino di tutto il mondo capitalistico, passa al nuovo tipo di «comunicatività», quella appunto delle tecnocrazie tecnologiche (a quella «eternità industriale», follemente deterministica, che col ciclo produzioneconsumo, come dice Moravia, tende a sostituire «l’eternità naturale»). Ora, la comunicatività linguistica dell’industrializzazione ancora umanistica era comunicazione in senso, diciamo, filosofico, e la stessa espressività non era che una «comunicazione» espressiva, una mozione di sentimenti, dopotutto. La «comunicatività» del mondo della scienza applicata, dell’eternità industriale, si presenta invece come strettamente pratica. E quindi mostruosa. Nessuna parola avrà senso che non sia funzionale entro l’ambito della necessità: sarà inconcepibile l’espressione autonoma di un sentimento «gratuito» (già tutta la borghesia, anche la «grande borghesia» è sempre stata maldisposta verso la confessione, la sincerità, la mancanza di pretestualità, la violenza e l’inopportunità verbali: e il suo ideale di comportamento e quindi di linguaggio è sempre stato strettamente conformistico). Il determinismo linguistico sarà dunque la caratteristica della comunicatività tecnologica. Una comunicatività simile, a noi, sembra mostruosa, e, a suo modo – ha ragione Citati – espressiva! Ma il nostro punto di vista, dietro gli ultimi baluardi del mondo 50
classico, è comodo: e l’orrore della comunicatività tecnologica si presenta come espressivo solo se messo in contatto con la nostra vecchia idea della comunicazione e dell’espressività. ………………………………………..
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DIARIO LINGUISTICO1
Nelle mie pagine sulle «Nuove questioni linguistiche», l’indagine linguistica assicurava una certa oggettività di diagnosi, che a molti è parsa imparzialità priva di prospettive: mentre era chiaro, mi sembra – soprattutto dalle conclusioni addirittura un po’ enfatiche – che non era che una prefazione a delle possibili ipotesi sul lavoro di domani (dalla «sommità delle nostre esperienze storico-culturali – dicevo – anche se magari rivissute come delusione», o comunque, aggiungo, rielaborate nella nuova impresa o impegno di «rinnovamento del marxismo»). Reso esplicito o tenuto implicito, accettato o rimosso, il fondo politico di quelle mie pagine ha agito profondamente sugli interventi, rendendoli, magari involontariamente, pretestuali. Ognuno difendeva le sue posizioni nella presunzione che fossero attaccate. I borghesi non volevano accettare il fatto che l’evoluzione del mondo capitalistico portasse alle mostruosità di una «comunicazione» di alienati sul piano linguistico; inoltre, appartenendo a delle élites variamente utenti di linguaggi tradizionali, si sentivano offesi dalla «bruttezza» impoetica della stratificazione tecnologica. Perciò essi non si sono nemmeno chiesti se le mie tesi fossero o non fossero attendibili. Ma anche i comunisti hanno sentito minacciata la loro posizione di «forza tendenzialmente egemonica» (egemonica quindi anche culturalmente e linguisticamente): senza tener conto che è proprio in nome delle possibilità future reali di tale forza egemonica che io parlavo. Ma naturalmente al di fuori di ogni interesse diretto, di ogni dirigismo possibile, di ogni tattica, di ogni onore di partito. La questione linguistica pone il PCI di fronte alla necessità di verificare la reale potenzialità e i reali obiettivi della sua lotta per l’egemonia. Questo è il discorso vero che il PCI deve affrontare: e per affrontarlo realmente, deve concedere – senza timore di offendere il proprio onore o di ammettere insieme qualche propria insufficienza nel passato o nel presente – che c’è la possibilità, o il pericolo, che «la nuova stratificazione tecnologica» appartenga in effetti alla classe egemonica (in potenza) della nuova borghesia. Il fatto che ognuno di noi, ossia l’intera nazione, possa 52
essere «utente» di quel linguaggio tecnologico – inteso, insisto, come nuova spiritualità o cultura – non esclude che il reale possesso di quel linguaggio sia di coloro che attraverso esso esprimono la loro reale esistenza. Per noi – e genericamente inteso, quasi in modo antropomorfico, per il PCI – il linguaggio tecnologico è uno dei tanti elementi espressivi, qualsiasi sia la sua tendenza, mentre per la borghesia tecnocratica-neocapitalistica è un tutto. In senso quasi metafisico o universalistico, il linguaggio tecnologico può essere inteso come il linguaggio dell’eternità industriale (secondo una definizione di Moravia). Infatti, ipoteticamente, sarebbe del tutto concepibile un mondo, interamente occupato al centro dal ciclo produzione-consumo, che avesse come lingua la sola lingua tecnologica: tutte le altre lingue potrebbero essere tranquillamente concepite come «superflue» (o come sopravvivenze folcloristiche in lenta estinzione). Perché, in un mondo come schematicamente possiamo immaginarlo, al limite dello sviluppo tecnocratico, ci dovrebbero essere delle altre lingue, o dei momenti linguistici diversi, oltre a quella della produzione e del consumo? Sì, ripeto, sono concepibili: ma come «lingue del tempo libero», come «hobbies familiari». Già, ma sempre al limite, noi concepiamo quel tempo libero come occupato dall’uomo che noi conosciamo; e presupponiamo la presenza di una famiglia che noi abbiamo sperimentato. Mentre, nella visione ultima e apocalittica dell’eternità industriale come riproduzione del determinismo della natura, l’uomo sarà un’altra cosa: e la sua «comunicazione» linguistica sarà in funzione non più tradizionalmente umana… Scherzo, naturalmente. Ma ammettendo che ci sia una parte di verità in questa semplificazione, ne deriva che: il linguaggio tecnologico come linguaggio tipico e necessario del capitalismo tecnocratico contiene in sé un futuro non umanistico, inespressivo. Invece il linguaggio tecnologico come «parte» specializzata e ellittica del marxismo contiene in sé evidentemente, un futuro umanistico e espressivo. Capire e distinguere perché tale fenomeno avvenga, in che termini avvenga ecc. ecc. è uno degli atti fondamentali del «rinnovamento del marxismo». Se tale rinnovamento, soprattutto per il PCI – che è considerato ed è all’avanguardia in tale operazione – è dovuto all’apparizione di nuovi strati di realtà, allo sviluppo imprevisto di certe situazioni sociali, al di là del limite delle previsioni di Marx e di Lenin. Questo ormai lo sanno tutti. E il rinnovamento, però, non deve avvenire attraverso una riscoperta di Marx, un ritorno alle fonti (come tendono a 53
fare i «puri» del PSIUP o di certi movimenti disinteressati, per esempio il gruppo di «Quaderni Piacentini»): in tal caso un rinnovamento del marxismo si presenterebbe come uno dei tanti ritorni al Vangelo nella storia della Chiesa: e si sa che tutti tali ritorni sono «rientrati», a gloria della Chiesa. Bisogna certo rileggere Marx e Lenin, ma non come si rilegge il Vangelo. Il «nuovo spirito tecnologico» è un fatto senza precedenti e senza equivalenti nel passato: e non era prevedibile, perché non erano prevedibili le concrete realizzazioni scientifiche, e quindi la qualità della loro quantità sempre più immensa. Certo – come hanno rilevato molti intervenuti nel dibattito – lo «spirito scientifico» è già una tradizione nell’uomo e nella sua lingua (cfr. le sempre splendide citazioni di Gadda profuse nel primo fascicolo dedicato da Rinascita-Contemporaneo alla questione): ma ciò che è nuovo è lo «spirito tecnologico», ossia lo spirito della scienza applicata, che tende a sostituire i propri dati a quelli della natura, e quindi a una trasformazione radicale delle abitudini umane. Insomma, sul piano linguistico, si riproduce, in modo meno drammatico, e più facilmente osservabile, ciò che avviene sul piano socio-politico: come la totale industrializzazione è tipica sia del neocapitalismo che del marxismo, così anche la «lingua della totale industrializzazione» è tipica di ambedue queste forme organizzative e ideologiche dell’uomo. In che cosa consiste la distinzione? Ancora una cosa, prima di passare agli esami particolari dei vari interventi: Citati sul «Giorno» osservava che, con tutti i denti fuori, un «compagno di viaggio» (dai lunghi periodi latineggianti-burocratici sconvolti da un nuovo spirito contraddittorio: la ricerca della rapidità e della precisione comunicativa) tendeva a sostituire il vecchio, caro, insostituibile «sì» («il Bel Paese dove il sì suona»), con un orrendo «esatto». Questo «esatto» non è direttamente tecnologico: ma è prodotto del «principio» tecnologico della chiarezza, dell’esattezza comunicativa, della scientificità meccanica, dell’efficienza, che diventa mostruoso nella sua iniziale fase di contatto con il substrato tradizionale umanistico e espressivo. L’influenza tecnologica è indiretta: è il suo principio in qualche modo trascendente quello che conta. La televisione è uno dei modi di concrezione e di irradiazione di tale principio. La parola «esatto» era l’urlo di trionfo ufficiale con cui Mike Bongiorno accoglieva la soluzione buona del quiz. È evidentemente questa la strada del prestigio della parola «esatto»; il modello linguistico profondo è nel nuovo spirito tecnologico 54
dell’Italia del Nord industrializzata fino al possibile inizio dell’era tecnocratica, ma il modello immediato passa attraverso una mediazione infrastrutturale che lo deforma e lo deformerà, lungo una infinità di fasi linguistiche. È concepibile paradossalmente l’ipotesi che piano piano «esatto» sostituisca «sì». E che quindi l’Italia diventi piano piano il «Bel Paese dove l’esatto suona». Che cosa avrebbe a che fare il PCI con tale frutto tecnologico? e che provvedimenti intende prendere perché il suo uso della terminologia tecnologica non implichi la responsabilità di simili risultati? Difendersi dalle novità scomode, facendole passare per vecchie, difendersi dai problemi considerandoli già risolti in natura, è operazione tipica del buon senso. Non c’è bisogno che mi riferisca a Kant, a proposito del buon senso, come a tutto ciò che è contrario alla ragione, cioè alla copertura delle asserzioni dogmatiche. Il buon senso («ma in fondo la lingua italiana c’è, è lì, un napoletano s’intende con un milanese ecc. ecc.») maschera dunque i dogmi scaduti alla normale consumazione, divenuti ontologie sociali. Non per niente Dallamano si richiama a Stalin, per dare due manate sulle spalle del lettore, strizzargli l’occhio, e dirgli: «Io e te, da vecchi utenti della koinè, c’intendiamo: andiamo a farci un bicchiere di vino («ombra» in veneto, «fojetta» in romanesco ecc. ecc.) e non pensiamoci più!». Così l’italiano è ridotto in osteria al livello storico-culturale dello swaili (una lingua franca manipolata e diffusa dai missionari in Africa Orientale, partendo da uno dei dialetti, e ora compresa nel Kenia, nel Tanganika, in Somalia, da Kikuyu, Ghiriama, Masai ecc. ecc.); o peggio: ecco l’italiano ridotto a una lingua mimetica, per cui un napoletano, stringendo i polpastrelli delle dita nel suo gesto tipico, ma dirigendoli a più riprese verso la bocca semiaperta, con aria afflitta e interrogativa, fa comprendere a un tartaro che ha fame. Non parlo di Arbasino, che è il «“Corriere della Sera” del buon senso», ma, per colpa del suo carattere, e del vasto alone ideologico che questo implica, anche Calvino, nella seconda parte del suo intervento (ché la prima è buonissima: dove dice che l’italiano va osservato e diagnosticato con spirito internazionalistico e comparativo: e del resto io stesso sono partito dal Bally, cioè da un esame comparativo franco-tedesco, e non ho mai cessato di confrontare, fin dove è stato possibile alle mie conoscenze e alla sede del mio discorso, le situazioni italiane con quelle delle altre lingue), nella seconda parte del suo intervento, egli alza le spalle e assume l’aria chiotta di chi non ne vuol sapere: ché le cose son vecchie. Ma intanto 55
anche là dove parla dei codici (in Italia usiamo dei codici o gerghi critici che all’estero non son capiti ecc., e viceversa; in Italia c’è la confusione dei codici ecc. ecc.), non tien conto di un fatto estremamente tipico e nuovo del mondo alle cui soglie ci troviamo insieme: ossia la rapidità dei consumi. Nei tempi «classici» (ormai possiamo chiamarli globalmente così!) un «codice» poteva bastare per tutta una vita, perché la consumazione delle idee era lenta (come i vestiti che usavano allora, spesso lasciati in eredità dal padre al figlio): ora la produzione immensamente aumentata di idee (la quantità di persone che producono idee è cresciuta di milioni di volte) e la rapidità della circolazione le bruciano rapidamente: e con esse bruciano i loro codici. Vent’anni fa bastava al critico italiano un codice crociano o un codice positivistico, due anni fa bastava un codice stilcritico, ora occorre almeno un codice strutturalistico. Ma non sono certo le normatività moralistiche che possono provvedere alle eliminazioni tempiste e sistematiche dei codici sopravviventi: un momento di contemporaneità dei codici non potrà mai essere eliminato. Non vedo perché si dovrebbe dimenticare Spitzer su due piedi per Barthes; e perché non si dovrebbe tentare invece di usarli contemporaneamente, almeno fino alla naturale estinzione della pregnanza del vecchio. Insomma la nostra testa, deve adattarsi ad essere un mercato, oltre che di forme grammaticali, anche di codici concorrenti. Ora, l’espressività di Calvino è nella sua folle ricerca di comunicazione, nella invenzione di un italiano finalmente chiaro, limpido, ironico, scattante, piano: ma non presenti questa come una regola letteraria! La lotta, ora, è per l’espressività, costi quello che costi. E non creda, Calvino, e con lui tutta l’ala francesizzante-razionalistica, largamente superata dalla mostruosa presenza internazionale, appunto, del «franglais», ossia del francese e dell’inglese tecnologici, ormai parzialmente al di là della ragione dell’uomo, di poter accantonare, per esempio, i dialetti. I dialetti sono scaduti come problema di rapporto dialetto-lingua, perché è scaduto – superato dalla realtà – il periodo culturale in cui si credeva che l’italianizzazione dell’Italia avvenisse sotto il segno dell’equilibrio e degli apporti paritetici dei vari sublinguaggi popolari (impegno e neorealismo): non sono scaduti però in un altro senso: ossia come «substrato» della lingua unificata dal principio tecnologico della comunicazione. Essi saranno realmente presenti nei vari momenti, o fasi, o situazioni linguistiche attraverso cui l’italiano si accinge a passare, dal momento in cui si pone come lingua nazionale. La salute che Calvino ironicamente dice presupposta nei dialetti è comunque una moneta che non 56
ha mai avuto corso se non nelle accademie vernacole legate alle varie autonomie regionali (né nell’espressionismo di Gadda, né nel mio naturalismo espressionistico, i dialetti son mai stati concepiti con una siffatta e ridicola aureola igienica). Il disaccordo che Calvino dichiara col mio giudizio sul linguaggio giornalistico, mi offre il pretesto per un chiarimento di carattere generale. Io parlavo di uno pseudo razionalismo del linguaggio giornalistico, di una sua normatività gergale basata sull’illazione pseudo-statistica della richiesta del pubblico. Giudizio, mi pare, assolutamente negativo. Calvino, non so per quale ragione, lo trova positivo: di qui il suo disaccordo con me. Sono stato scuro? Forse. Calvino ha letto distrattamente? Forse. Comunque questo è un fatto. Io sono giunto all’affermazione apodittica e imparziale che «è nato l’italiano come lingua nazionale», così come un diagnostico e imparziale nell’annunciare la presenza di un male. E questo mi par chiaro proprio dal fatto che io sono giunto a tale affermazione, dopo una serie di analisi tutte negative, e anche spietatamente negative (così come un diagnostico si accorge del male da una serie di aberrazioni o di disfunzioni). La presenza del «principio tecnologico», come principio omologatore e modificatore, e quindi nazionalizzatore dell’italiano, mi si è rivelata attraverso la sua azione – iniziale, ma già aberrante e patologica – sui vari tipi di linguaggio: che, appunto, mi sono apparsi tutti «negativi»: il linguaggio del giornalismo, della televisione, della pubblicità, della politica, del parlar comune del Nord ecc. L’enunciazione finale è dunque solo apparentemente imparziale e oggettiva: il cammino che ho fatto per giungervi, dimostra chiaramente, a chi non legga con distrazione o «accademico risentimento», che la mia opzione e il mio gusto, sono quelli di un medico che ama la salute, e che considera salute quella goduta dal paziente nella sua vita normale, precedente al male, o ai sintomi del male. Sul «Giorno» del 3-1-65, Calvino torna sul problema: e pur di non darmi ragione (testone come un tenentino azzurro che occupa una posizione e non vuol mollarla al nemico), prima dice che non è vero che l’italiano nazionale stia nascendo, ma che se mai sta morendo; che quella di oggi è un’«antilingua» (così chiamata da lui perché, ai suoi orecchi di tenentino azzurro, esteticamente brutta) (voleva dire, insomma, che è brutta la lingua reale di oggi, quella che i bollettini linguologici non segnalano – ma che ha segnalato Citati, per es., aguzzando le orecchie in treno; e che ha avvertito benissimo lo stesso Calvino, entrando in un commissariato durante la stesura di un verbale) ma poi giunge anch’egli alla conclusione, 57
suggeritagli dall’interregionalità effettiva del lessico automobilistico (i pezzi di ricambio), che «sarà sempre più questa lingua operativa (ossia, com’egli dice, inter-lingua scientifico-tecnico-industriale) a decidere le sorti generali della lingua». È esattamente quello che dicevo io! Ma per ammetterlo, Calvino ha voluto formulare la questione a modo suo. Ora non gli resta che fare uno sforzo di linguista, o socio-linguista, anziché di letterato ombroso come un cavallo di razza: e chiedersi da dove mai piova quella «iper-lingua» tecnicocomunicativa (l’aggettivo esatto sarebbe «segnaletica»), e con quali mezzi e con quale forza possa diventare la lingua pilota dell’italiano. Anche Calvino, insomma non accetta la sostanziale politicità del discorso. Anche Calvino! Il fatto è che ognuno di noi letterati si crede, se non un padre, almeno uno zio, un cognato, un fratello maggiore, un cugino prete, una mamma, una nurse, un compare, una comare dell’italiano: sull’esempio di Dante, archetipo, che è il «padre». Ma sia ben chiaro che Dante, se proprio vogliamo continuare a offenderlo, è stato «il padre della lingua letteraria», non della «lingua»: e che tra gli utenti di segni vocali e gli utenti di segni grafici c’è un abisso. Così ognuno di noi tende a tornare accanitamente alla letteratura: come se la letteratura fosse il principio e il fine di ogni lingua. E come se le divisioni che la letteratura fa tra parole belle e brutte, fossero in qualche modo normative! Ingenuo Calvino! Mai nessuno di noi letterati avrà il potere diretto di togliere dalla testa di un brigadiere dei carabinieri la sua particolare selettività linguistica, né l’ingenua idea di «elezione» che vi presiede! Egli non sceglie, no, la morte al posto della vita quando dice «ho effettuato» anziché dire «ho fatto», come mamma gli ha insegnato: egli compie un atto di elezione linguistica: lo stesso che compie Bassani quando dice «mi recai» anziché «andai», o «attesi» anziché «aspettai» (o meglio «sono andato» o «ho aspettato»): solo che il modello che ha in testa il signor brigadiere e uno e bino: il primo, archetipo, è quello del latinorum, il secondo, più vicino, incombente (dalla parete del suo nudo ufficio), è lo Stato, nella sua specie specificamente statale: la burocrazia. A questi due modelli, se ne sta aggiungendo un terzo, che li mette per ora a soqquadro, ma che ha la possibilità di modificarli profondamente: è il modello dell’iper-lingua della meccanica: quella che ha le sue sedi nelle aziende del Nord, a Milano, a Torino. Ed è sempre la sua idillica e scontrosa idea preminente di sé come letterato che fa cadere Calvino nel più inaspettato errore (nel momento in cui, scherzosamente ci 58
«prova» a fare il profeta): l’errore di vedere l’italiano futuro polarizzato in due lingue, una lingua squisitamente tecnica, e una lingua squisitamente espressiva. Questo elegante manicheismo, è, come prospettiva, una pura follia: è una divisione razzistica delle funzioni dell’uomo! Invece, la lingua interregionale e internazionale «segnaletica» del futuro sarà la lingua di un mondo unificato dall’industria e dalla tecnocrazia (se il marxismo, s’intende, avrà perduto le vie della rivoluzione…) e i letterati, essendo uomini come gli altri, subiranno la mutazione di tutti: se tuttavia, in qualche area marginale (Don Milani ha scritto una splendida lettera ai missionari che sopravvivranno in Cina dopo la fine della Chiesa in Occidente), dei letterati così come li concepiamo oggi, nel nostro idillio umanistico, continueranno a esserci, il loro «italiano espressivo» sarà totalmente privo di destinatari (pressappoco come oggi il latino cacciato dalle chiese). Del resto, è irrefrenabile l’abitudine del letterato italiano a identificare il segno vocale col segno grafico: di non concepire lingua altrove che nella letteratura. Caso clinico di attaccamento al proprio ruolo – e, in qualche modo, commovente sintomo di timidezza professionale. Anche Sereni non sa concepire possibilità di discorso linguistico al di fuori dalla propria esperienza letteraria: quasicché – implicitamente – la letteratura fosse realmente la lingua-guida di una nazione. Questo equivoco è strettamente connesso ad un altro: il disinteresse per il problema linguistico anche sotto la specie letteraria. Disinteresse sottilmente millantatorio. Implicante cioè – come ogni provocazione – un’ideologia ontologica, basata sulla sostanziale presunzione d’inanità di quel problema. Agnosticismo religioso, e, ancora sottilmente, ricattatorio (cfr. anche Bassani e la Morante): per cui viene considerato colpevole o impuro considerare la lingua per quello che è, cioè uno «strumento»: e se nel suo aspetto di langue viene così accettata come un «dono» mitico o mistico, nel suo aspetto di parole essa viene interamente identificata con l’io inventante – a un livello spiritualistico che ha, mi si permetta di dirlo, qualcosa di troppo innocente. Non capisco come mai Sereni non trovi dei nessi tra il fatto che egli non sa porsi oggettivamente il «problema della lingua» e il fatto che gli riesca difficile se non impossibile, scrivere in prosa: non sono che due aspetti di una ideologia non realistica e non critica, ossia un prodotto sopravvivente dell’inibizione ermetica. Nel momento in cui egli valicherà il limite che da tanti anni è sul punto di valicare, con fortuna-sfortuna della sua poesia, e si libererà, fin dove è possibile liberarsi – cioè nella coscienza – della sua 59
giovinezza follemente elegiaca (ed egli lo sa), si libereranno dentro di lui le possibilità concomitanti di oggettivare il problema linguistico e di scrivere in prosa. Tuttavia non lo esorto a questo. Non son mica un moralista. Tanto più che la «lingua della poesia» ha un suo corso per definizione diacronico. (Ed è solo in questa diacronia che si può parlare della sua, apparente, metastoricità.) Anche Vittorini, nel suo intervento (come vedremo più avanti), mi porrà di fronte alla presenza di una lingua italiana come lingua della protesta operaia, nella sua specie letteraria. Egli, cioè, non riesce a vedere che la metaforizzazione letteraria di tale lingua della lotta (che di per sé, si presenterebbe come un moncone, pateticamente oratorio, della tipica oratoria italiana «espressiva»). In tale «mimesis metaforica» del discorso dell’operaio in quanto giudice – nel momento idealmente vittorioso della sua lotta – l’italiano, secondo Vittorini, prenderebbe il posto del dialetto (che ragionevolmente dovrebbe continuare a presentarsi come l’unico strumento linguistico dell’operaio). E sarebbe un italiano appunto, in qualche modo, metaforicamente, nazionale, o almeno nazional-popolare. Io nego che tale operazione sia: a) l’unica possibile, b) nazionale. Non è l’unica possibile perché lo stesso discorso di «condanna» o di «vittoria», del lavoratore-giudice, potrebbe essere redatto attraverso una operazione antitetica, cioè attraverso una mimesis dialettale: in tal caso la struttura interna del suo discorso – non humilis, non quotidiano, non naturalistico – darebbe al dialetto la dignità di lingua. Non è nazionale perché nego che un’opera letteraria abbia la possibilità di contenere una lingua che oggettivamente non c’è: tutt’al più, ripeto, si può trovare in essa una tendenza «nazional-popolare»: è cioè nazionale sul piano estetico, non su quello linguistico. E ancora, spostando l’obiezione di Vittorini dalla sede specificamente letteraria a quella più vasta della lotta politica, sì, certo, si può parlare di un forte contributo che la lingua – nata dall’interpretazione politica dell’esigenza operaia e del suo intervento dal basso nella vita nazionale – ha dato all’italianizzazione dell’Italia. Ma è un contributo alla costruzione di una base unitaria possibile, ai fondamenti dell’unità: non all’unità. Ecco cosa voglio dire: dopo il ’70 la borghesia italiana venuta al potere (al rimorchio, come osserva Gramsci, delle grandi borghesie europee), assumendo a propria lingua l’italiano letterario, ossia l’italiano delle corti, ne contesta alcuni elementi tipici, e li mette fuori gioco. Fa scadere di prestigio, e espunge dall’uso (come notava il prof. Ignazio Baldelli, in un 60
suo intervento orale al dibattito) parole come «speme» o «vorria». Contesta e mette fuori gioco il «classicismo agrario». Ma per sostituirlo tuttavia con un «classicismo piccolo-borghese» (D’Annunzio e tutta l’elezione linguistica fascista). Si tratta effettivamente di una spinta dal basso, corrispondente all’allargamento democratico, al diritto di voto per tutti ecc.: subito receduta. L’imborghesimento del modello latino attraverso la spiritualità burocratica, e il culto dello Stato borghese si sono mantenuti paternalistici finché la borghesia non ha avuto solidamente in mano la nazione: alla prima ondata dell’industrializzazione, si sono fatti autoritari, e i Travet hanno scoperto il mondo classico. Ora, con la Resistenza, si è avuta una nuova «spinta dal basso», realmente democratica, e popolare, questa volta. E, dal punto di vista linguistico, qual è stata la sua prima operazione? Quella di contestare e mettere fuori gioco il «classicismo piccolo-borghese» del fascismo. Dopo «speme» e «vorria», sono crollate parole come «auspicare» o «radioso». Questa spinta dal basso, fatta di puro contenuto, ha avuto due tipi di interpretazione linguistica: una letteraria e una politica. L’interpretazione letteraria è consistita in una scoperta dell’Italia reale e periferica, popolare e dialettale. Su questo si è realizzato concretamente l’impegno del dopoguerra – come ho più volte ripetuto: esso, dal punto di vista linguistico, è praticamente consistito in una serie di inserti nelle opere letterarie di «discorsi diretti» (tutto il neo-realismo, con le sue «registrazioni»), e in una serie di «discorsi liberi indiretti» (tutto il naturalismo espressionistico): per cui l’autore finiva sempre per parlare, completamente o in parte, attraverso la lingua del suo protagonista popolare e dialettale. Era l’unica strada concreta e possibile – sotto la specie dell’epicità, che l’oggettività implicita nella ideologia marxista, garantiva – di applicare alla letteratura la nozione gramsciana di nazional-popolare: la concomitanza di due punti di vista nel guardare il mondo, quello dell’intellettuale marxista e quello dell’uomo semplice, uniti in una «contaminatio» di «stile sublime» e di «stile umile». Anche il politico, nei suoi discorsi, nei suoi comizi, nei suoi articoli, compiva la stessa operazione: egli entrava nell’animo dell’operaio o del contadino, ne coglieva i contenuti di contestazione, di protesta, e di rivoluzione, e li esprimeva traducendoli in una lingua che se non era fisicamente popolare non era nemmeno classicistica. Era scientifica. Perché l’ideologia marxista garantisce un fondamentale spirito scientifico nella lingua. (In tal senso non ha ragione di essere in Italia, dove la cultura che 61
conta è fondamentalmente marxista, la «divisione» delle culture tipica dei paesi occidentali, individuata e volgarizzata dallo Snow.) Ecco perché, parlando della lingua dei politici – che il nuovo spirito tecnologico sospinge verso la comunicazione, strappandola alla fasulla espressività dell’italiano latineggiante – ho citato Moro, e non Togliatti o Pajetta. Questi ultimi due avevano già compiuto il salto di qualità che stanno compiendo oggi i democristiani avanzati. È vero che la tradizione socialista è borghese, e che molti strati del linguaggio burocratico ovattano la prosa degli oratori e degli articolisti comunisti, è vero anche che molte reviviscenze scolastico-latineggianti esplodono nei momenti di commozione e di perorazione: tuttavia l’insieme del discorso di un comunista, in quanto espressione di una profonda e vasta spinta dal basso, e in quanto improntato da uno spirito fondamentalmente scientifico, tende a una sintesi dell’italiano, e si pone come fondamentalmente comunicativo. L’insieme dei fenomeni linguistici, o socio-linguistici, che ha caratterizzato l’Italia del Dopoguerra (la spinta dei contenuti dal basso, e la loro interpretazione nazional-popolare o impegnata, in letteratura, scientifica, in politica), ha contribuito a creare una vasta base unitaria, pronta ad accogliere l’italianizzazione completa dall’Italia attraverso l’allargamento democratico garantito dalla presenza dei grandi partiti operai. Era questa la strada che a tutti noi pareva la buona e l’unica: e su essa splendeva la stella del sogno egemonico comunista. I fatti ci hanno condotto brutalmente alla realtà. Quella strada democratica e popolare dell’italianizzazione ha subito una violenta deviazione: un fenomeno nuovo, la nascente tecnocrazia, ancora senza la coscienza e forse senza la volontà dell’egemonia, sta prendendola di fatto. Essa non contesta più i vari possibili classicismi: li fa brutalmente cadere senza ideologizzarne la caduta. Vi sostituisce la sua efficienza comunicativa e basta. In realtà quello che essa tende a contestare e a mettere fuori gioco, è tutto il passato classico e classicistico dell’uomo: ossia l’umanesimo. C’è qualcosa di fondamentale, nella sua presenza: quindi praticamente, se noi marxisti rivendichiamo il nostro contributo all’unificazione di base dell’Italia, attraverso la liberazione espressiva e politica delle classi popolari, dobbiamo ammettere anche di avere lavorato per il nemico. La nascente egemonia, ciecamente pragmatica, priva di volontà e di coscienza, come una forza della natura, trova il terreno già livellato (in parte: che i dislivelli sono ancora molti, l’Italia è ancora piena di Dei), per diffondere il suo spirito antiumanistico nella sua lingua «segnaletica». 62
Il fiero ottimismo di Vittorini è una tentazione. E così le sue cautele ironiche. Egli parla di improbabilità di quell’italiano unitario (nazionale) da me tenuto a battesimo, in quanto i «rapporti di lavoro» non ne garantirebbero ancora l’unità. Ma intanto va tenuto presente un errore in cui molti miei amici sono caduti intervenendo in questo dibattito: il dare cioè per presente e adulto un italiano che invece io do neonato e potenziale. È perciò che essi, poi, non lo riconoscono. Certo, i «rapporti di lavoro» nel Sud, non garantiscono l’unitarietà dell’italiano, in quanto, nel Sud, i dialetti restano nell’ambito di una «lingua contadina»: appartengono cioè al mondo classico (agricolo, artigianale, prima feudale poi borghese) cui appartengono anche le capitali di quel mondo contadino, Palermo, Napoli, Roma. Ma come si pone questo mondo «contadino» (o meglio come comincia a porsi, o come si pone potenzialmente) nel mondo unitario italiano? Come una «cultura sopravvivente». Esattamente così come si pone ogni mondo contadino classico in un’epoca in cui l’agricoltura sta per essere industrializzata. Se io vedevo vent’anni fa un contadino del Sud – nella mia ignoranza di italiano classicheggiante e privo dell’esperienza critica del mondo capitalistico – potevo pensare la sua condizione come «eterna». Se lo vedo oggi, capisco che sta per scomparire. A Ragusa (ENI), a Taranto (acciaieria) è proprio sul punto di scomparire, dopo una violentissima crisi dovuta allo scontro, in una stessa anima, tra analfabetismo e specializzazione, tra anarchia borbonica e iscrizione alla CGIL. Oggi tuttavia siamo in una fase di passaggio: il rapporto tra Nord e Sud, non è più colonialistico, ma neocolonialistico. Nel «rapporto di lavoro» tra un contadino meridionale e la terra (gli alberi, l’aratro) c’è un diaframma, la coscienza di un altro tipo di rapporto, che suo figlio emigrato a Milano o a Τorino, già realizza e vive. In questo diaframma, in questa leggera, messianica alterazione del rapporto di lavoro con la terra, è l’inizio dell’unità nazionale reale. Del resto tutto il «Terzo Mondo», che è un mondo contadino classico e piccolo-borghese, quindi, oggi (come dicevano sia Marx che Lenin) si presenta come un mondo del futuro, non del passato. Quel diaframma, quella alterazione sono aspetti della dinamica che spinge popolazioni ex schiave, sottoproletariati agricoli, tribù, verso una sorta di sintesi, in un rapporto scandalosamente dialettico con la razionalità dei paesi industrializzati e col marxismo. Ora, per un intervento realmente «razionale» sulla lingua, secondo il 63
pensiero di Gramsci, bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Il marxismo non sa, o sa male, come inserirsi in questo rapporto «scandalosamente dialettico», tra irrazionalismo contadino piccoloborghese del Terzo Mondo (ivi compreso il Sud italiano) e razionalismo capitalistico liberale. Tale inserimento, è chiaro, implica anzitutto un recupero dell’internazionalismo e un superamento di certa tradizione recente delle «vie nazionali al socialismo». Ma tutto questo, tuttavia, non significa prescindere comodamente dai particolarismi concreti: per esempio, i dialetti e le piccole lingue nazionali (politicamente: il rapporto della Sicilia con l’asse Milano-Torino, in un contesto neocapitalistico con opposizione marxista; o il rapporto degli Slovacchi con i Cekiceki o dei Transilvani con i Rumeni, in un contesto socialista) devono porsi come problemi nuovi, non come problemi vecchi. Saremmo dei noiosi post-stalinisti, d’altra parte, se non ci confessassimo che, se non interviene un violento rovesciamento della situazione, sia a livello ideologico e filosofico, che al livello della prassi politica, l’avvenire prossimo dell’Italia sarà caratterizzato dall’industrializzazione tecnocratica, e in tale ambito la lotta si delinea, seppure ancora caoticamente, tra forze conservatrici (il liberalismo milanese, non più napoletano) e forze laburiste (il centro-sinistra). Il PCI e il PSI hanno potuto adottare la lingua media della borghesia (sul côté dantesco…) finché questa borghesia era una classe dominante e arcaica, cioè utente di una lingua italiana franco-letteraria, profondamente irrazionale, come «res communis omnium»: ma nel momento in cui tale classe «tende» a diventare egemonica (ancora fuori dalla sua coscienza e dalla sua volontà) il rapporto linguistico deve cambiare; e ognuno deve prendersi le sue responsabilità. La lingua «internazionale» di cui parla Vittorini (con un certo ottimismo) è invece essa stessa la lingua delle nuove forme del capitalismo, ed è attraverso le nuove forme del capitalismo italiano che noi la percepiamo e cominciamo a adottarla. Tale lingua internazionale non ha nulla a che fare con l’inglese così come siamo abituati a sentirlo, ma è quella che produce gli orrori (ai nostri orecchi umanistici) di una nuova lingua in cui la comunicatività civile e filosofica e l’espressività umana e poetica sono trascese dalla «comunicazione segnaletica»: cioè da una comunicazione di uomini non più uomini. Mostruosamente espressiva, a suo modo! E allora: l’immensità delle implicazioni del problema socio-politico fanno forse sì che diventi astratto impostarlo sotto la specie di un intervento 64
esplicitamente socio-politico. Ma sul problema specifico della lingua (non è la frase «il Bel Paese dove l’esatto suona» che ci sembra mostruosa e irriconoscibile, ma l’implicazione socio-politica, lo «spirito» che la detta), il PCI potrebbe tentare una critica di se stesso e una verifica dei propri rapporti rivoluzionari con la realtà in evoluzione. È un problema, quello linguistico, che non si trova nella zona «decisoria» (come direbbe Moro), almeno apparentemente: e tuttavia è lì che si possono delineare i principi del «rinserimento» del marxismo nella realtà italiana di oggi, che tende – in una brutale concezione del mondo che «si fa» pragmaticamente, quasi senza riflessione teorica se non pretestuale o mitologica – a sospingerlo ai margini, o a lasciarlo indietro. Questo è il problema reale. Nessuno sente il bisogno di una nuova querelle linguistica.
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AL LETTORE
Siccome questo è, meglio che una raccolta di saggi, un «libro bianco» sulla questione linguistica, non vi ho operato l’autoselezione e la revisione che si fa nei casi in cui un autore si sente impegnato nel proprio prestigio. Ho dato questi testi come «documenti» e i riferimenti agli interventi altrui come «allegati». La ricerca è in corso, il libro è aperto. Si tratta in definitiva di capire se una deduzione come la mia («è nato l’italiano come lingua nazionale») e la annessa profezia (si tratterà di un italiano segnaletico, di una lingua succursale della grande evoluzione antropologica che riguarda lo sviluppo del neocapitalismo nell’intero mondo industrializzato), serva a qualcosa o no; come bisogna reagirvi; se uno scrittore venga posto in una specie di angoscioso fatalismo di fronte a cui non c’è nulla da fare, o se venga sollecitato a continuare con più accanimento la sua ricerca linguistica. Certo, la cosa riguarda meno l’utente della «langue» grafica come potenziale «parole», che l’utente della «langue» grafica della pura e semplice comunicazione, addirittura con prevalenza statistica della sua accezione orale. Non si tratta, insomma, voglio ripeterlo in limine, della vecchia «querelle» linguistica sull’italiano. Se non altro perché, per esempio, i dialetti italiani non fanno più parte di un mondo particolaristico nazionale, ma fanno parte di un mondo per definizione dialettale, che comprende circa la metà dei viventi, e che si pone in scandaloso rapporto dialettico con l’intero mondo industrializzato, neocapitalista o socialista. Insomma la questione linguistica italiana ha senso solo se analizzata comparativamente: con le analoghe evoluzioni tecnologiche del mondo capitalista, e con i vari rapporti tra i linguaggi concreti ma particolaristici e i linguaggi astratti ma di vasta comunicazione, che si pongono come problemi urgenti nei paesi arabi, nelle nuove nazioni africane, in India ecc. Quanto a queste pagine, esse sono scritte – e le ragioni sono le ragioni stesse del libro – al di qua dello stile: in una funzionalità che stento a riconoscere adottata da uno come me che, anche in quanto facitore di note critiche, non aveva mai potuto dimenticare di essere un facitore di pagine letterarie. Alcuni sono articoli scritti in due ore per un giornale, con la timidezza di chi viene meno alla propria morale specifica. 66
Quando le pagine non sono buttate giù ipocritamente secondo i canoni del consumo immediato, allora sono appunti o frammenti di diario: e sono certo tra i meno allegri che io abbia mai scritto – e certamente io non ho mai scritto cose allegre, specialmente sul versante della vita privata, o nel punto dove vita privata e vita pubblica si incontrano: ma questi sono particolarmente angosciosi se non altro perché mi è venuta meno, nel corso delle confuse indagini, la «voglia dello stile», con l’infinita vitale pazienza che essa contiene.
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DAL LABORATORIO (Appunti en poète per una linguistica marxista)
1) Tutte le pagine giovanili di Gramsci sono scritte in un brutto italiano. Gramsci non è stato precoce; egli è passato attraverso tutte le fasi tipiche di un giovane meridionale che si italianizzi a Torino. Gli apporti materni erano quelli strettamente particolaristici della Sardegna, quelli paterni erano una italianizzazione dal ciociaro, di un padre impiegato dello Stato; l’infanzia e la prima adolescenza sono di ambiente contadino, e l’italiano doveva suonare come una lingua estranea ai sardi di Ghilarza non italofoni (e probabilmente in rapporto più con l’America che con l’Italia); il primo italiano, Gramsci, l’avrà sentito risuonare nelle bocche di quei «sedicenti» professori di lettere che insegnavano al ginnasio privato di Santo Lussurgiu. (E, dato che dovevano dimostrare la loro patente anche se irrichiesti, il loro doveva naturalmente essere un continuo e caricaturale tentativo di approssimazione al purismo e all’umanesimo enfatico.) Gramsci, povero ragazzino segnato, ha vissuto e interiorizzato profondamente ogni evento della sua infanzia; tanto che per tutta la vita ha dovuto subire come un’onta e un impedimento la sua dedizione; avrà assorbito perciò profondamente anche quel primo italiano ufficiale, che rappresentava la cultura, la liberazione. Infatti tutti i suoi scritti, fino a «Ordine Nuovo» in parte compreso, portano come un marchio quella acquisizione assurda, quella falsa liberazione. Sembra impossibile che un uomo come Gramsci non sia stato in grado di scuotersi subito di dosso quella lingua incapace di esprimere altro che dei sentimenti. Ci sembra insomma, che un uomo votato alla razionalità com’era Gramsci, avrebbe dovuto far cadere di colpo l’espressività enfatica dell’italiano letterario, per la presenza stessa della sua vocazione. Ma dal ’14 al ’19 in parte compreso, la sua lingua non è capace di cogliere, nelle idee, che il momento sentimentale o appassionato: con qualche intensità del tipico irrazionalismo vociano, nei casi migliori che son molto rari; per il resto, quella lingua è tutta umanistica sul «versante» romantico, probabilmente perché l’umanesimo veniva 68
direttamente e tumultuosamente tradotto dall’umanitarismo proto-socialista, che era la più immediata ascendenza linguistica cui Gramsci poteva ragionevolmente guardare (e che non avrebbe mai più dimenticato: perché è probabilmente ad essa, mitizzata ed epurata, che Gramsci forse inconsciamente si riferiva quando pensava a una possibile lingua dell’egemonia comunista; e comunque è a tale lingua dell’umanesimo marxista, rinforzata dallo spirito della Resistenza, che si riferiscono ancora, come a una possibile lingua egemonica del comunismo, molti politici di oggi). Bisogna munirsi della pazienza dei filologi, e ricorrere a tutto l’amore che una figura come quella di Gramsci ispira, per poter leggere le sue pagine di quei cinque anni. Il primo tipo di linguaggio che fa decadere l’enfasi espressivo-umanitaria del Gramsci giovane, è il linguaggio della scienza: cioè un linguaggio (soprattutto in quegli anni) non italiano. Perciò a una prima fase enfatica umanistica (quella di ogni bravo giovanotto meridionale che risalga l’Italia) succede una fase francesizzante. Non per nulla, del resto, la città della sua italianizzazione è Torino. E, nella fase francesizzante, importa la tradizione della cultura torinese, certamente: benché il fatto principale sia la lettura diretta dei «testi» originali della nuova fase culturale. L’influenza francese, agendo in un corpo linguistico così fragile, inconsistente, vuoto, com’era l’italiano di Gramsci, ha avuto degli effetti ancora una volta estremi e drammatici. Non tanto per la presenza di francesismi diretti, quanto per l’insicurezza che il francese comunicativo e scientifico dà all’italiano espressivo e irrazionalistico. In due pagine di Gramsci del ’19 posso sottolineare le parole e le espressioni: «interroriti», «mobilizzati», «devastazioni irrevocabili», «non si è generata per la nostra azione politica» (dove «per» sta per «a causa della»), «sterminate comunità di dolore e di aspettazione», «servigi». Per non parlare di una parola che ritorna eternamente: cioè «officina» invece di «fabbrica» (che comincia a prevalere dal ’19 in poi). È soltanto con «Ordine Nuovo», cioè col primo maturare di un pensiero gramsciano originale attraverso esperienze vissute come proprie (e la timidità spingeva sempre Gramsci a vivere come impersonalmente) che la sua lingua comincia a divenire prima possibile, poi in qualche modo assoluta. Tuttavia la primitiva goffaggine di scolaro timido, che fa scherzi e giochi di parole di professore colto, con citazioni latine ecc., riapparirà, sempre meno frequentemente, ogni volta che Gramsci darà «forma scritta» a un sentimento anziché a un’idea, oppure all’alone e allo strascico sentimentale dell’idea 69
(quindi, molto spesso, nelle polemiche o nelle invettive). Gramsci aveva vinto l’irrazionalità della lingua letteraria adottata dalla borghesia italiana con l’unità, attraverso un lungo e quasi religioso tirocinio di razionalità: sicché, ogni volta che egli doveva esprimere un pensiero, la lingua spariva e traspariva sul pensiero. Forse, analizzata freddamente, e prescindendo da quello che dice, tale lingua può apparire ancora, a un purista, a un linguista sensibile, «brutta»; cioè umiliata dal grigiore manualistico, dal gergo politico, dalla lingua delle traduzioni, da un incancellabile fondo professionale e francesizzante. Ma tutto ciò è reso irrilevante dalla sua funzionalità che la rende, in qualche modo, assoluta. Quando invece si scopre un lacerto dell’antica irrazionalità compressa e debellata, Gramsci – che non si era allenato a dominarla linguisticamente – ne diviene preda, e la sua lingua ricade nella casualità e nell’enfasi delle prime pagine di ragazzo. Solo nelle lettere dal carcere, verso la fine della vita, egli riesce a far coincidere irrazionalismo e esercizio della ragione: ma non si tratta però dell’irrazionalismo che alona o segue, come per impeto sentimentale o rabbia polemica, la ragione del pensiero politico. Perché in tal caso, l’irrazionalismo nasconde sempre un’insufficienza ideologica, la mancanza di un nesso nel ragionamento. E infatti, da giovane, Gramsci nascondeva nella casualità espressiva del suo italiano i vuoti dell’inesperienza politica, o, per meglio dire, i vuoti del socialismo cui egli aderiva. Si tratta, piuttosto, verso la fine della sua vita, di dar voce di racconto o evocazione anche a fatti più umili e casuali della vita, a quel tanto di misterioso e di irrazionale che ogni vita ha in abbondanza, e che è la «poeticità naturale» della vita. Allora l’abitudine razionalistica che ha dominato la lingua senza tenerne conto, a contatto con quell’elemento irrazionale dominato (non più una mancanza di nessi o un vuoto della ragione, ma un mistero che la ragione riconosce) si colora di una pateticità, che chissà per quale miracolosa osmosi o ricambio inconscio che avviene nelle profondità di una lingua, fa pensare a certi passi patetici ma lucidi, e sempre tenuti bassi, di Umberto Saba: No, il comunismo non oscurerà la bellezza e la grazia! 2) Mi sono chiesto a questo punto quale fosse la lingua orale di Gramsci. Mi sono informato presso Terracini (di cui avevo appena sentito una 70
commemorazione dell’amico, fatta in uno stile che, appunto, il Saba delle Scorciatoie e Raccontini, o dell’Autobiografia gli avrebbe invidiato; e in un italiano orale dalla struttura profondamente dialettizzata, è vero, con diagrammi di misteriosa provenienza, e tuttavia efficace e intenso), che mi ha risposto, quello che mi aspettavo, né più né meno. Scrivendo, Gramsci usava certamente un italiano molto «parlato»: i tecnicismi erano ancora di provenienza politica, in quanto termini della scienza marxista. Ma tali tecnicismi, si sa, sono interprofessionali (per così dire), eccettuate certe punte sindacalistiche, che richiedono una specializzazione. Ci sono anche in Gramsci, come abbiamo visto, dei passi enfatici: di una tradizione enfatica, però, non italiana – la tradizione italiana produceva in quei tempi D’Annunzio. E il corrispettivo orale di tale tradizione centralistica (dannunziana) lo conosciamo: lo usano ancora (almeno lo usavano fino a due o tre anni fa), i superstiti del nazionalismo: facendo sopravvivere fino negli anni sessanta, insieme, mettiamo, agli alti graduati dell’esercito, la «dizione» dell’autoritarismo estetizzante. Si tratta di un particolare «birignao», probabilmente nato contemporaneamente a quello teatrale. (Naturalmente sto brancolando quasi nel vuoto: non esiste una serie di documenti [di registrazioni], da consultare o da allegare a queste mie pagine. Gli italiani non sono mai stati fonologi! Se qualche registrazione per caso c’è, essa non risale oltre l’anno dell’invenzione dei registratori. Poco, rispetto al «continuo» della tradizione orale italiana, anche a voler interessarci di tale tradizione dagli anni intorno all’unità d’Italia in poi.) Gramsci parlando, usava dunque contemporaneamente due lingue orali o due tradizioni linguistiche orali in diacronia. Nel caso che egli leggesse a voce alta un suo scritto, da una parte pronunciava oralmente delle parole scritte, che si presentavano come tali all’ascoltatore (le cui orecchie, in tal caso, erano una mediazione per presentare all’immaginazione visiva le parole in quanto parole scritte); dall’altra parte allineava dei fonemi secondo dei diagrammi, delle accentuazioni, degli appoggi di voce ecc. ecc. che con quella lingua scritta stavano in un rapporto di coesistenza puramente formale: come dei parenti poveri vestiti con gli abiti dei parenti ricchi. I tre elementi fondamentali della pronuncia italiana di Gramsci, cioè la pronuncia dialettale sarda, la pronuncia dialettale piemontese, la pronuncia della piccola borghesia burocratico-professionale italiana che cominciava a crearsi una koinè anche orale intorno al canone orale fiorentino – sono tutti 71
elementi immensamente inferiori di livello alla «lingua scritta» di Gramsci (Hegel e Marx, la più avanzata cultura francese, una profonda e a suo modo perfetta lettura dei classici italiani ecc. ecc.). L’incertezza, la povertà, la miseria, la genericità della lingua orale di Gramsci (come quella di ogni uomo di cultura italiano da allora ad oggi) non è proporzionata alla sicurezza, alla ricchezza, all’assolutezza di molte sue pagine scritte. 3) Succede anche il contrario: io non ho mai sentito registrazioni della Duse o di Petrolini: non so se mi piacerebbero o no: ma sono disposto ad ammettere il principio che le loro dizioni fossero affascinanti, anche nel caso che il testo scritto fosse di second’ordine. In questo caso la diacronia tra lingua scritta e lingua parlata serve a mascherare la lingua scritta, a mistificarla, a presentarla per quello che non è ecc. ecc. (Anche Mussolini si era inventata una notevole lingua orale: anzi il sistema di significati cui egli si riferiva è mal ricostruibile attraverso la lettura visiva dei suoi discorsi: lo è molto meglio attraverso la lettura ascoltata delle registrazioni. Comunque anche lì c’è la presenza di due lingue in diacronia.) Saba leggeva stupendamente le sue poesie (qui abbiamo i documenti, cioè le registrazioni): la pateticità nel tempo stesso pudibonda e sfacciata con cui diceva le proprie parole affidate al misterioso mezzo di locomozione metrico dei suoi endecasillabi «raso terra», è uno straordinario fenomeno di «teatro». Gli elementi strutturali di tale dizione sono due: la pronuncia triestina, locale fino quasi al ridicolo (il «fasista abièto»), e una particolare «allure» del suo registro melodico, una particolare idea dei diagrammi della frase pronunciata. (Tale particolare idea è probabilmente di origine slava. Ci sono dei pezzi che, con tutt’altro carattere, pathos ecc. ecc. ecc. Evtushenko legge allo stesso modo. Credo che Saba abbia influenzato Noventa e Levi, e, attraverso loro, Bassani e Garboli da una parte, Vigorelli dall’altra ecc. ecc. Insomma c’è tutta una particolaristica tradizione di «gente del mestiere» che ha impresso nella sua dizione un vago e remoto stampo slavo: sembrerebbe trattarsi di una tradizione recente ma abbastanza diffusa e radicata ormai negli ambienti letterari italiani [che si contrappone alle dizioni degli attori della RAI o della TV].) Una serie di cadenze slave è anche rintracciabile nei discorsi politici comunisti. Soprattutto negli elenchi (di cose, di dati di fatto o di elementi comprovanti) e nelle clausole. L’elemento psicologico che gioca in questa mimesis orale del discorso russo nello stabilire delle situazioni, nelle 72
accentuazioni della frase, nel ritmo trocaico delle battute finali ecc. è, prima di tutto, un tipo di enfasi che non si trova nella tradizione italiana: è un’enfasi di tipo umanitario, messianico, profetico e profondamente moralistico (come sono moralisti i popoli contadini puritani). Un’enfasi che però non viene del tutto accettata dall’oratore, per timore, quasi, che possa esser presa per un’altra enfasi, o per enfasi tout-court (che è tipica, in Italia, della borghesia retorica, sensuale, avvocatesca ecc. ecc.) e quindi si ingrigisce e si reprime il più possibile. Dall’umile comiziante di provincia (di qualsiasi provincia, ma specialmente del Nord: anzi, si può dire che fondamentalmente il diagramma slavo passa per Torino), a un intellettuale quando parla in pubblico, a Ingrao, a Alicata, allo stesso Togliatti, tutti usano all’interno del loro fraseggio orale – soprattutto se improvvisato – una serie di appoggi e di difese analoghi: e, specie, ripeto, negli elenchi e nelle clausole dei periodi, viene fuori abbastanza riconoscibile l’allure slava. State ad ascoltare quanto spesso le frasi improvvisate finiscano con le parole «del nostro paese» (che sarebbe l’Italia: ma questo nome viene taciuto per pudore, in quanto di per sé retorico, o per ritegno, in quanto implicante un tipo di nazionalismo non nazional-popolare). Ora questo «nostro paese» viene pronunciato così, con forte appoggio della voce sugli accenti: «delnò stropaé se». 4) Bene, e dunque? Queste non sono che osservazioni di costume, o poco più o poco meglio. Ma la mia ambizione qui non è grande, tanto è vero che il programma di queste mie pagine era inizialmente quello di contestare lo scritto sulla lingua di Stalin: e mi trovo dunque nel trivio, a un livello di corrente dibattito culturale-politico. Tra fonazione e audizione, ho posto dei problemi che per una fonetica non esistono: mettiamo la necessità tutta teorica di un «Atlante linguistico» delle dialettizzazioni della koinè orale. Ma gli italiani non hanno mai avuto presente alla coscienza nessun Atlante linguistico che li riguardi: la piccola borghesia si pone anche di fronte al problema della sua lingua sempre sub specie aeternitatis. Se lo «studio dei suoni della parola» è nella nostra patria trascurato, lo è ancora più «lo studio dei suoni della lingua». Occorrerebbe insomma che scendessero dalla vecchia Praga, nel nostro ambito asaussuriano, le ombre di quei fonologi: a vedere e a dire qual è l’istituzione fonica italiana, se c’è: se quella scelta con atto notarile – la fonazione fiorentina – funziona, o in che modo viene a formare una «reale struttura» fonica, intersecandosi e impastandosi con le disparate fonazioni particolaristiche ecc. ecc. (Quali sono le particolarità di un’immagine fonica che partecipano alle opposizioni distintive – e formano 73
quel «tutto solidale per opposizioni funzionali» che sarebbe la lingua – con cui coincidono i fonemi italiani, se da una parte – e non usando il dialetto, ma l’istituzione linguistica nazionale – si dice «roza», «tempo», «tè», dall’altra si dice «rosa», «dembo», «té»?). Se poi a «un fonema non si richiede d’essere strettamente conforme al fonema più comunemente usato dalla collettività linguistica, bensì di essere sufficientemente differenziato dagli altri fonemi usati da colui che parla» – libertà linguistica che gli italiani godono per mancanza d’alternativa, ossia come schiavitù –, fino a che punto questi segni sono socialmente demarcativi, fino a che punto la parola fonetica coincide con la parola grammaticale (la leggenda è la coincidenza assoluta – sì, ma per i soli fiorentini, forse, e nemmeno, date, mettiamo, le aspirazioni: per metà Italia si scrive «tempo» e si dice, all’ingrosso, «dembo» ecc. ecc.)? Questi non sono i problemi dei miei appunti. Tuttavia da quanto malamente ho detto, senza prove se non la possibile verificabilità delle mie osservazioni (io non sono fonetista, né fonologo), può risultare che: a) Noi italiani viviamo concretamente la tendenza di una struttura a essere un’altra struttura: viviamo il suo movimento di modifica, per una sua interna volontà a modificarsi. Ossia: l’istituzione fonica, la «struttura reale» della nostra fonazione è sempre quella di una koinè dialettizzata: il mio «tutto solidale fonetico» prevede «roza» «tempo» «tè», tra le mie «opposizioni funzionali» non c’è «s» sonora tra due vocali ecc.: tuttavia io vivo la tendenza di questa mia «struttura reale» a conformarsi ad altre «strutture reali» (per esempio, dato che sono residente a Roma, a certe abitudini della fonazione romana), oppure e soprattutto a uniformarsi a una possibile istituzione linguistica nazionale – il famigerato fiorentino colto. La mia lingua non consiste dunque in una struttura stabile, ma vive la inquietudine motoria, il bisogno di metamorfosi di una struttura che vuol essere altra struttura. Ma su questo, tornerò meglio in un successivo paragrafo, non più partendo da osservazioni generali da non addetto ai lavori, ma da una esperienza concreta vissuta in quanto autore: e quindi con qualche maggiore attendibilità. b) La contraddizione in atto, violenta, sostanziale, filosofica, tra lingua orale e lingua grafica – che a quanto io so, e forse so male, i linguisti hanno preso in considerazione solo per operazioni di laboratorio, quasi fatto episodico, per comodità di studio. Se un fonologo si occupa della fonazione (attraverso registrazioni, cioè studiando la lingua come qualcosa che si 74
distende e succede nel tempo), tiene presente nella coscienza una radicale e profonda unità di questa con la lingua scritta (che si distende e succede nello spazio). A me sembra – e in Italia viviamo radicalmente questo dramma – che tra lingua orale e lingua grafica ci sia l’urto che c’è tra due strutture diverse e in opposizione. Certi fenomeni non solo linguistici si attuano e si comprendono solo considerando la lingua orale come una lingua a sé, che solo casualmente e episodicamente diviene anche scritta. 5) In una mattinata dell’estate del 1941 io stavo sul poggiolo esterno di legno della casa di mia madre. Il sole dolce e forte del Friuli batteva su tutto quel caro materiale rustico. Sulla mia testa di beatnik degli Anni Quaranta, diciottenne; sul legno tarlato della scala e del poggiolo appoggiati al muro granuloso che portava dal cortile al granaio: al camerone. Il cortile, pur nella profonda intimità del suo sole, era una specie di strada privata, perché vi aveva diritto di passaggio, fin dagli anni precedenti la mia nascita, la famiglia dei Petron: il cui casolare era là, illuminato dal suo sole, un poco più misterioso, dietro un cancello dal legno più tarlato e venerando ancora di quello del poggiolo: e si intravedevano, sempre in cuore a quel sole altrui, i mucchi di letame, la vasca, la bella erbaccia che circonda gli orti: e lontano, in fondo, se si tirava il collo, come in un quadro del Bellini, ancora intatte e azzurre le prealpi. Di che cosa si parlava, prima della guerra, prima cioè che succedesse tutto, e la vita si presentasse per quello che è? Non lo so. Erano discorsi sul più e sul meno, certo, di pura e innocente affabulazione. La gente, prima di essere quello che realmente è, era ugualmente, a dispetto di tutto, come nei sogni. Comunque è certo che io, su quel poggiolo, o stavo disegnando (con dell’inchiostro verde, o col tubetto dell’ocra dei colori a olio su del cellophane), oppure scrivendo dei versi. Quando risuonò la parola ROSADA. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada, i Socolari, a parlare. Un ragazzo alto e d’ossa grosse… Proprio un contadino di quelle parti… Ma gentile e timido come lo sono certi figli di famiglie ricche, pieno di delicatezza. Poiché i contadini, si sa, lo dice Lenin, sono dei piccoloborghesi. Tuttavia Livio parlava certo di cose semplici e innocenti. La parola «rosada» pronunciata in quella mattinata di sole, non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. 75
Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo mi interruppi subito: questo fa parte del ricordo allucinatorio. E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola ROSADA. Quella prima poesia sperimentale è scomparsa: è rimasta la seconda, che ho scritto il giorno dopo: Sera imbarlumida, tal fossàl a cres l’aga… ……………… Da cosa deriva questo mio amore per la lingua orale? Tanto da essere giunto adesso, venticinque anni dopo la prima adozione scritta di un suono – di un puro suono, emesso da bocche di puri parlanti – a pensare la lingua orale, come una categoria distinta da ogni «langue» e da ogni «parole», una specie di ipo, o meta struttura di ogni struttura linguistica (non c’è segno, per quanto arbitrario, che, senza soluzione di continuità, attraverso decine di millenni, non sia riconducibile al grido, cioè all’espressione linguistica orale biologicamente necessaria)?1 Ad ogni modo pregherei i linguisti di non leggere queste due paginette che seguono come scritte da uno dei loro: ma da uno scrittore che, forte del suo mondo, generalizza qualche sua osservazione sul margine di libri avidamente e recentemente incamerati. 6) Ogni lingua è un insieme di tante lingue, che hanno in comune delle astrazioni, come il lessico e la grammatica. Le distinzioni più comuni sono: lingua della struttura e lingua della sovrastruttura (che è la distinzione principe del marxismo) e «langue» e «parole» (che è la distinzione principe dello strutturalismo, della linguistica sociologica). La distinzione principe che io vorrei proporre è: lingua orale e lingua orale-grafica. Questo metterebbe in rapporto, scindendone gli elementi, le altre due distinzioni tradizionali, dalla cui fusione risulterebbe che la reale distinzione entro una lingua potrebbe essere la seguente: langue orale-grafica strutturale, e parole orale-grafica sovrastrutturale. La parola «orale» sta lì, nei due corni della distinzione, come un fantasma. E infatti un fantasma è, trattandosi di una categoria linguistica, che solo al limite (le popolazioni selvagge) è reale. 76
Praticamente una lingua d’uso si distingue così: dalla langue orale-grafica in giù, e dalla langue orale-grafica in su. In giù si trova la lingua puramente orale e nient’altro che orale. In su si trovano le lingue della cultura, le infinite «paroles» (che tuttavia non sono mai, come la lingua orale, solo scritte e nient’altro che scritte, continuano sempre a essere anche orali). Questo fantasma della vocalità – che appartiene, al limite, a un diverso momento umano della civiltà, a un’altra cultura – persistendo accanto alla oralità-graficità, ne sdoppia continuamente la natura: rappresenta continuamente un suo momento storico arcaico, e insieme la sua necessità vitale e il suo tipo. Al limite (i selvaggi: che qui tratto senza tanti complimenti) la lingua orale e nient’altro che orale è comunicativa (addirittura al livello della necessità biologica): all’altro limite (l’élite intellettuale di una società industrializzata) è insieme comunicativa e espressiva (intendiamoci: può essere anche, per una percentuale schiacciante, comunicativa, come nei rogiti o negli atti notarili, o per una percentuale altrettanto schiacciante, espressiva, come in certi versi di Rimbaud). C’è dunque un momento mediatore tra queste due lingue, quella biologicamente comunicativa, e quella comunicativo-espressiva: tale momento mediatore che assicura l’unicità della lingua, è la saussuriana «langue», nella sua accezione di langue orale-grafica. La lingua vocale, soltanto strumentale, è un «contenente»: si pone come acritica di fronte alla realtà, di cui denota i contenuti a livello puramente deterministico. È insomma la lingua del principio della necessità. La lingua della sovrastruttura, orale-grafica, strumentale-espressiva, non è un contenente puro e semplice dei contenuti della coscienza della realtà, ossia della cultura: ma è coscienza e cultura essa stessa: essa è prodotto diretto e immediato della sovrastruttura come momento di liberazione dalla necessità, e l’invenzione di altre necessità, determinate magari economicamente ma non naturalmente: necessità morali, religiose, spirituali, letterarie ecc. Questo salto di qualità tra le due lingue è il momento ideale del passaggio dell’uomo dalla fase preistorica alla fase storica (ognuno nella sua: tengo presente Lévi-Strauss). Il passaggio dal puro e semplice rapporto orale con la natura, al rapporto orale-scritto col lavoro e con la società. La caratteristica forse più importante della lingua orale è quella della conservazione di una certa unità, metastorica, attraverso le continue stratificazioni e sopravvivenze di ogni lingua. 77
Nessun «substrato orale» va perduto: esso si dissolve nella nuova lingua orale, amalgamandosi con essa, e rappresentando quindi in concreto la continuità. Se si potesse fare una storia della sola «lingua orale», non ci sarebbe mai soluzione di continuità. Al contrario, facendo una storia della «lingua orale-grafica», come del resto si usa, si devono rilevare continuamente degli accidenti storici, o, comunque, se ne possono analizzare le stratificazioni. Mentre la stratificazione dei substrati orali, nell’evoluzione delle società, è un continuo, la stratificazione dei substrati orali-grafici lascia delle traccie: rivoluzioni e restaurazioni, progressi e regressi ecc. Naturalmente, attraverso la lingua istituzionale o langue le due lingue sono in rapporto così incessante, da essere praticamente, nei vari momenti storici, una lingua sola. La «langue» pone in rapporto la lingua idealmente solo orale e la lingua idealmente solo grafica, in modo doppio: ossia la lingua vocale può far parte della lingua della sovrastruttura attraverso i parlanti colti o attraverso i passi, in qualunque modo culturali, dei parlanti semplici; e viceversa la lingua grafica può essere una lingua orale (preistorica) attraverso l’adozione nuovamente parlata dei suoi termini discesi e volgarizzati. I due livelli linguistici sono messi in contatto tra loro attraverso una circolazione che graficamente si può esprimere con il segno X: dove le due stanghette alte rappresentano la langue idealmente solo grafica, le due stanghette basse la langue idealmente solo orale, e il punto d’incrocio la langue orale-grafica. Una storia della lingua orale non è dunque possibile: a) perché, come ho già notato, le strutture precedenti si fondono con le strutture presenti in un continuo storico non più scomponibile; b) perché la lingua orale-grafica nel momento in cui essa si deposita nella struttura orale, attraverso le vie di circolazione stabilite dalla «langue», vi si fonde in una continuità non più passibile di analisi. D’altra parte anche le lingue sovrastrutturali, nei momenti rivoluzionari, non possono subire mutamenti violenti e radicali: perché la rivoluzione (siamo in uno schema, in laboratorio, su una lavagna) trasforma la struttura, ma la lingua vocale o «contenente le necessità della struttura precedente» si mantiene, e cambia i contenuti senza cambiare essa stessa: così come un bicchiere può essere riempito di acqua o di vino restando sempre lo stesso bicchiere. La sovrastruttura, è vero, ossia, com’è nel nostro schema, la cultura vera e propria, tende a cambiare se non immediatamente, con una 78
certa rapidità talvolta drammatica: ed essendo la lingua orale- grafica, o soltanto grafica, niente altro che cultura, emanazione diretta della cultura, tende anch’essa a cambiare. Ma è ancora la langue, con il rapporto di circolazione con la lingua vocale – la quale, attraverso le rivoluzioni violente, resta immutata – che rallenta il processo di trasformazione delle lingue sovrastrutturali e lo sdrammatizza. Vorrei spiegarmi, in modo assolutamente schematico, prendendo come esempio il francese. Non mi interessano tutti i lunghi precedenti. Vorrei prenderlo nel momento in cui la «langue» è istituita. In questo punto topico, didattico e del tutto irreale, che quadro ci si presenta? a) Una lingua orale, che è UNA, parlata dai francesi viventi, e che è un «continuo» storico formato dal «continuare» in essa, senza soluzione di continuità, 1) di strutture precedenti (il protofrancese, il latino, il franco appena romanizzato, il franco preromano ecc. ecc. in giù verso la preistoria dei Franchi), 2) di sovrastrutture orali-grafiche depositate e discese di livello (la civiltà della borghesia comunale, la civiltà carolingia, la civiltà medioevale, la civiltà romana, la civiltà franca preromana ecc., c.s.). Questo «continuo» di lingua vocale o «contenente le necessità», puramente strumentale, è inanalizzabile come tutto ciò di cui non si può stabilire un principio, una fine o un momento di immobilità. b) Una «langue» costituita dalla stabilizzazione del centralismo monarchico che si identifica con l’intera nazione, e in cui l’intera nazione sostanzialmente si identifica (con contestazioni di pura protesta). Tale «langue» mette in contatto la «lingua vocale» pura, esistente nel modo sopradescritto, con la «lingua orale-grafica» che è la lingua della sua sovrastruttura (della sua cultura, militare, agricola, artigianale, commerciale, scientifica, religiosa, letteraria): pur senza farne una sintesi, perché le due lingue non sono in rapporto dialettico, essendo la prima un dato di fatto che si pone e si muove come una realtà naturale (essa è, per principio, il rapporto dell’uomo con la natura, preistorico e incosciente: puramente deterministico): e non si pone quindi come «tesi», ma come piattaforma, o, appunto, dato di fatto. c) Una lingua della sovrastruttura, grafica, culturale, nei suoi due momenti comunicativo e espressivo. Il momento comunicativo è tutto contenuto nella «langue» che lo mette in rapporto in giù con la lingua vocale: sicché le due necessità, quella deterministicamente naturale e quella deterministicamente sociale sono in simbiosi. Il momento espressivo è contenuto in parte nella «langue» sia orale che scritta: in parte – ponendosi come tipico – nelle opere letterarie o di poesia: nella «parole». 79
Cosa succede, alla Rivoluzione francese, nella nostra lavagna? a) la lingua vocale resta identica (sono soltanto discese in essa delle parti sovrastrutturali delle strutture monarchico-aristocratiche superate e vanificate): ma il «continuo» storico ne assicura la perfetta impartecipazione. Essa continua a essere quel contenente ch’è sempre stata. E non è modificata dai nuovi apporti «discesi», che sono una pura questione di quantità. L’innocente funzionalità diacronica dei semplici parlanti, non ha soluzione di continuità, è un continuo, che occupa l’intero tempo umano, ed è quindi un’entità statica (in altre parole, esso non si succede nel tempo, ma è tutt’intero in tutto il tempo). In questo continuo-statico della lingua puramente fonetica, i parlanti, dicevano «rwa» e «batayon», prima della Rivoluzione e continuano a dire «rwa» e «batayon» dopo la Rivoluzione. Non sono le lotte di classe e le rivoluzioni che incidono sul continuare della lingua puramente orale: essa ha altri orari, altri ritmi e altri tempi, su cui quelli delle lotte sociali e dei cambiamenti bruschi di struttura si incidono insignificantemente. b) La «langue», invece, appare mutata: infatti la «lingua sociale», dominata prima dal modello monarchico-feudale, riacquista la propria realtà, si aggiorna. Si diceva artificialmente, per una determinazione storica ormai irreale (se da secoli la borghesia andava minando la monarchia aristocratica) «rwe» e «battaillon»? Ebbene, ora si dice «rwa» e «batayon». c) Quelle concrezioni della «langue» che sono le «paroles» individuali, di conseguenza, mutano anch’esse: le nuove lingue delle élites culturali sono caratterizzate anch’esse dal violento recupero della realtà della lingua orale: ed entrano abbastanza bruscamente (abbastanza e non del tutto, perché la lingua borghese dell’illuminismo le aveva prefigurate, creando una loro tradizione prerivoluzionaria) in una nuova fase della civiltà, per cui il modello linguistico, terminologico e stilistico della corte, viene sostituito dapprima dal modello delle élites intellettuali borghesi, e poi dal modello delle prime lingue tecniche dell’organizzazione industriale, o lingue delle infrastrutture. (Facendo questa stessa analisi sulla Russia di prima e dopo la Rivoluzione, che risultati avremmo? L’unica cosa che sento di poter affermare è che le lingue in quanto lingue puramente fonetiche hanno continuato imperturbabili la loro evoluzione statica, quella che «sta tutta in tutto il tempo». Non conosco il russo, nemmeno un poco, così da poter fare qualche osservazione sul secondo e terzo punto, la «langue orale-grafica» e le «lingue speciali» degli alti livelli. C’è soltanto, a nostra conoscenza, il libello della cattiva 80
coscienza di Stalin: che appare dunque come un’ingenua giustificazione del mancato prestigio di una élite rivoluzionaria che sostituisse, come modello delle lingue alte – specie della lingua letteraria – il modello costituito fino allora dalla cultura occidentale – il futurismo, il formalismo russo ecc. ecc. –, ossia il fallimento della «continuazione della rivoluzione».) Tornando alla Francia e alle altre nazioni capitalistiche interessate dalla «rivoluzione interna», dovuta all’applicazione della scienza – che viene così a porsi come il momento più importante dell’umanità dopo quello della prima seminagione lungo il Nilo dodicimila anni or sono – che, ponendo le basi della civiltà agricola e artigiana, resta il segno dominante di tutta la storia e l’arte umana fino a pochi anni fa – qual è, linguisticamente, il dato più clamoroso? Direi che è la sostituzione, come modello linguistico, delle lingue delle infrastrutture alle lingue delle sovrastrutture. Infatti da quella prima seminagione fino al momento capitalistico della «libera concorrenza», i modelli linguistici che dominano una società e la rendono linguisticamente unitaria, sono i modelli delle sovrastrutture culturali (con preminente importanza della lingua letteraria): tanto che si può dire che, in questo senso, non c’è sostanziale differenza tra la funzione irradiatrice e omologatrice di lingua del modello della Corte francese coi suoi letterati, e il modello, sempre coi suoi letterati, del potere capitalistico. Ma tale continuità è illusoria, lo vediamo oggi. Bruscamente, infatti, nel passaggio dal capitalismo al neocapitalismo, attraverso la sua «rivoluzione interna», che coincide con la rivoluzione tecnologica – sta cessando la funzione irradiatrice e omologatrice di lingua delle élites intellettuali (legge, religione, scuola, letteratura): che viene sostituita dalla funzione analoga delle lingue dei tecnici. Alla guida linguistica della società sono dunque le lingue delle infrastrutture – diciamo pure le lingue della produzione.2 Non era mai successo. 7) Un’altra piccola e dilettantistica novità di questo scritto rispetto alla linguistica strutturalistica corrente, è la diacronia (che si presenta, nel «quadrato semantico» degli strutturalisti come dovuta a casuali e imperscrutabili mutazioni fonetiche) intesa come prodotto non di una evoluzione del sistema, né come prodotto di una rivoluzione contro il sistema (politica e quindi, schematicamente, linguistica): ma come prodotto di una «rivoluzione interna del sistema». Voglio dire che la «langue» – in una società stabilizzata e avanzata, come, 81
mettiamo, le nazioni delle grandi borghesie europee – non si evolve solo regolarmente (come l’establishment politico-sociale comporta) ma può modificarsi anche rivoluzionariamente. Ciò avviene quando l’establishment entra in crisi di sviluppo per una «rivoluzione creata da esso stesso». Mettiamo appunto la trasformazione di una società capitalistica in neocapitalistica: che sarebbe una semplice evoluzione se si trattasse di un fatto puramente estensivo, di un miglioramento di tipo riformistico ecc. ecc.: e invece è rivoluzione, perché la trasformazione di una società da capitalistica a neocapitalistica coincide con la trasformazione dello «spirito scientifico» in «applicazione della scienza»: e con le mutazioni antropologiche che questo implica. «Rivoluzioni interne» di questo tipo se ne sono avute, nella storia. E spesso, sia pure in modo irregolare, hanno coinciso con rivoluzioni esterne, cioè nate da lotte sociali o comunque da un’opposizione radicale al sistema. Per esempio la «rivoluzione scientifica» è stata accompagnata o preceduta da rivoluzioni esterne (mettiamo la rivoluzione religiosa del protestantesimo ecc.). Ma si può dire che finora le lingue si sono evolute seguendo l’evoluzione del sistema sociale entro il cui ambito esse vivevano, e che rappresentavano. «Rivoluzioni interne» del tipo di quella presente – dovuta alla applicazione integrale della scienza – da alcuni millenni, non ce n’erano. Bisogna vedere (e non so bene chi possa vederlo) quali effetti linguistici abbia avuto quella «prima seminagione» nelle popolazioni che vivevano sulle sponde del Nilo dodicimila anni fa: e che è stata la prima «rivoluzione interna» dell’umanità (con immediata conseguenza l’aumento immenso della popolazione, e, mille anni dopo, il primo Faraone). Nella fattispecie, oggi, non ci troviamo di fronte alla possibilità di una evoluzione socio-linguistica, nel mondo neocapitalistico, come alternativa a una rivoluzione socio-linguistica (attuata, in via di attuazione, o non ancora attuata) nel mondo marxista. Ma, detto grossolanamente, ci troviamo di fronte a due rivoluzioni concorrenti: quella interna del neocapitalismo, e quella, esterna al sistema, del marxismo. La realizzazione di queste due rivoluzioni – soprattutto se vista in un quadro di ipotesi parallele – è di una complicazione irrisolvibile: se la rivoluzione interna deve tener conto di esigenze predicate da quella esterna ecc., e l’eventuale rivoluzione esterna verrebbe a operare in un campo già lavorato dall’attività compresente di infiniti «establishments» precedenti la rivoluzione interna. La complicazione poi dei rapporti linguistici tra la rivoluzione politica e la 82
trasformazione linguistica di una società, è inesorabilmente assicurata da quel tipo particolare di scambi a X tra le lingue che stanno dal limite orale-grafico in su e le lingue che stanno dal limite orale-grafico in giù. Tuttavia credo che si potrebbe dire schematicamente che la rivoluzione esterna (nella fattispecie marxista, nei suoi vari momenti, dall’inizio di una vasta e profonda coscienza di classe alla eventuale conquista del potere) tende ad agire e ad apportare modifiche sulle lingue che stanno dal limite orale-grafico in su (e tra queste soprattutto sulla lingua letteraria); mentre la rivoluzione interna (nella fattispecie la nuova società tecnologica e tecnocratica nella sua evoluzione rivoluzionaria) tende ad agire e ad apportare modifiche anche e soprattutto dalle lingue orali-grafiche in giù, fino al limite della vocalità (l’accento italiano del calabrese che emigra a Torino, e vi si insedia linguisticamente, spinto da una delle linee-forza della «rivoluzione interna del neocapitalismo»: ossia la conservazione cinicamente programmata di aree sottosviluppate come riserve di mano d’opera a basso salario). 8) Cambiando registro, un’altra piccola novità di queste pagine nell’ambito della linguistica strutturalista, consiste nel ricondurre alla sua funzione, che non può che essere compresente e attuale, della «lingua vocale», sia come realtà storica che come momento linguistico specifico. È su questa strada che bisognerebbe (con altri mezzi che i miei) ricondurre il memoriel al di là delle langues, sempre istintivamente intese come lingue istituzionali vocali-grafiche: al di là delle langues, fino al «momento» in cui le langues erano e sono puramente vocali. Operare una congiunzione, in ambito antropologico, tra il «memoriel» strutturalistico e la «memoria collettiva» junghiana… Ho un ricordo personale in proposito, da mettere sul tavolo di laboratori più attrezzati del mio. Avevo tre anni, tre anni e mezzo (lo so perché abitavo a Belluno: e a Belluno non potevo che avere quell’età): proprio in quei mesi – ma non so se prima o dopo – è nato mio fratello (questo ha implicato delle mie congetture sulla sua nascita): ho davanti agli occhi il mio lettino ai piedi del lettone di mia madre e di mio padre; ho davanti agli occhi la cucina (sul cui tavolo mi sedevo a un non dimenticato martirio, ricevere del collirio negli occhi: versatovi da mio padre). La cucina di un capitano di fanteria nel 1925, povera e pulita, piccolo-borghese e contadina ecc. ecc. Ho davanti agli occhi me stesso che chiede ai genitori come nascono i bambini, e mia madre, nella sua fresca innocenza, nella sua mite naturalezza che vuol dirmi, e mi dice: «Nascono dalla pancia della mamma!»: e io che naturalmente non credevo. 83
Non sapevo ancora scrivere (ma mancava solo un mese o due, credo, data la precocità: del resto, disegnavo): quindi la mia lingua era allora solo vocale. Attraverso tale lingua, mi stavo adattando a Belluno (era il quarto trasferimento: Bologna, Parma, Conegliano, Belluno): c’erano vicini di casa, un asilo, dei ragazzi che giocavano a pallone nei giardinetti davanti alla stazione (ché davanti alla stazione si trovava la casa del mio quarto trasferimento, la mia casa non avita). In quel periodo andavo ancora abbastanza d’accordo con mio padre, credo. Ero eccezionalmente capriccioso, cioè nevrotico, presumibilmente, ma buono. Verso mia madre (incinta, ma non lo ricordo) ero nello stato d’animo di tutta la vita, un disperato amore. Da notare che circa un anno, un anno e mezzo prima (a Conegliano: vedo, ancora, il lettone dei genitori sulle cui immense distese bianche tutto questo accade), avevo avuto un ciclo di sogni, «a puntate», in cui perdevo mia madre, e la cercavo per le strade rossiccie e piene di portici del fantasma di Bologna (stupendo nella sua sconfinata tristezza), fino a salire su per certe tetre scale interne, verso appartamenti di famiglie amiche, a chiedere di lei ecc. ecc. In quel periodo di Belluno, appunto dai tre anni ai tre anni e mezzo, ho provato le prime morse dell’amore sessuale: identiche a quelle che avrei poi provato finora (atrocemente acute dai sedici ai trent’anni): quella dolcezza terribile e ansiosa che prende alle viscere e le consuma, le brucia, le contorce, come una ventata calda, struggente, davanti all’oggetto dell’amore. Di tale oggetto d’amore ricordo, credo, solo le gambe – e precisamente l’incavo dietro il ginocchio coi tendini tesi – e la sintesi delle sue fattezze di creatura sbadata, forte, felice e protettrice (ma traditrice, sempre chiamata altrove): tanto che un giorno sono andato a cercare tale oggetto del mio struggimento, tenero-terribile, a casa sua, su per certe scalette di villino bellunese – che ho davanti agli occhi – e bussare alla porta, e chiedere: sento ancora le parole negative, che mi dicevano che non era in casa. Io non sapevo naturalmente di che si trattasse: sentivo solo la fisicità della presenza di quel sentimento, così densa e cocente da torcermi le viscere. Mi sono dunque trovato nella necessità fisica di «nominare» quel sentimento, e, nel mio stato di parlante solamente vocale, non di scrivente, ho inventato un termine. Tale termine era, lo ricordo perfettamente, «TETA VELETA». Ho raccontato un giorno questo aneddoto a Gianfranco Contini, che ha scoperto trattarsi prima di tutto di un «reminder», di un fenomeno linguistico tipico della preistoria: e poi che si trattava del «reminder» di una parola dell’antico greco «Tetis» (sesso, sia maschile che femminile, come tutti sanno). «Τeta veleta» faceva parte perfettamente della mia «langue», 84
dell’istituzione linguistica orale di cui usufruivo. Mi pare di non aver mai allora confessato tale termine a nessuno (perché sentivo che il sentimento che esso definiva era meraviglioso ma vergognoso): forse ho solo tentato di chiederlo a mia mamma, durante qualche passeggiata lungo il Piave, su questo non sono certo… Sempre sulla linea della liberazione in laboratorio dell’elemento puramente vocale in quanto passata ma compresente realtà storica della lingua. Ninetto che per la prima volta in vita sua vede la neve (è di origine calabrese: era troppo piccolo per la nevicata di Roma del ’57, o forse non era ancora venuto dalla Calabria). Siamo appena arrivati a Pescasseroli, le distese di neve l’hanno già fatto gioire di pura sorpresa un po’ troppo infantile per la sua età (ha sedici anni). Ma con lo scendere della notte, il cielo si fa d’improvviso bianco, e, come usciamo dall’albergo per fare due passi nel paesello deserto, ecco che l’aria si anima; per uno strano effetto ottico, dato che i fiocchi piccolissimi vanno verso terra, pare di innalzarsi verso il cielo, ma irregolarmente, perché la loro caduta non è continua, un bizzoso vento montano li fa vorticare. Guardando in alto gira la testa. Pare che tutto il cielo ci stia cadendo addosso sciogliendosi in quella sagra felice e cattiva di neve appenninica. Figurarsi Ninetto. Non appena percepisce l’avvenimento mai visto, quello sciogliersi del cielo sulla sua testa, non conoscendo ostacoli di buona educazione alla manifestazione dei propri sentimenti, si abbandona a una gioia priva di ogni pudore. Che ha due fasi, rapidissime: prima è una specie di danza, con delle cesure ritmiche ben precise (mi vengono in mente i Denka, che battono il terreno col tallone, e che, a loro volta mi avevano fatto venire in mente le danze greche come si immaginano leggendo i versi dei poeti). Lo fa appena appena, l’accenna, quel ritmo che percuote la terra coi talloni, muovendosi su e giù sulle ginocchia. La seconda fase è orale: consiste in un grido di gioia orgiastico-infantile che accompagna le acmi e le cesure di quel ritmo: «Hè-eh, hè-eh, heeeeeeeh». Insomma un grido che non ha un corrispettivo grafico. Una vocalità dovuta a un memoriel, che congiunge in un continuo senza interruzione, il Ninetto di adesso a Pescasseroli, al Ninetto della Calabria area-marginale e conservatrice della civiltà greca, al Ninetto pregreco, puramente barbarico, che batte il tallone a terra come adesso i preistorici, nudi Denka nel basso Sudan. 9) La necessità del segno parrebbe poter essere predicata dunque solo ai segni orali, e in particolar modo alle interiezioni, ai quantitativi pregrammaticali del nostro linguaggio. Quando si dice «langue» si intende 85
(almeno tra i non-specialisti, come me) una astrazione linguistica, dedotta dalle infinite «paroles», che è un insieme solidale ecc. ecc. di segni orali che possono essere anche grafici. In altri termini, la «langue» si presenta sempre come la lingua di una civiltà, di una cultura, sia pure anche estremamente primitiva. De Saussure, opponendo «langue» a «parole» pareva dunque avere in mente le istituzioni o sistemi linguistici dei gruppi umani civili, o comunque già umani: al di qua dello stadio della pura fonazione animale – che sopravvive poi nella storia come interiezione o invenzione stranamente analogica con certi sentimenti inconsci o animali, «la lingua dei riflessi condizionati». Il momento puramente orale della lingua corrisponde a un momento filosofico dell’uomo: è insieme storico (le comunità umane preistoriche) e assoluto (la categoria della preistoria che permane nel nostro inconscio) (donde la necessità della congiunzione, a questo punto, della linguistica con la psicanalisi, con l’etnologia e l’antropologia, e buono lavoro a «L’Homme»!). Comunque mi piacerebbe offrire qui timidamente ai linguisti che si sono interessati a questo problema una suggestione, un’ipotesi… poetica: il terzo termine tra «langue» e «parole» (la cui radicale dicotomia sembra insostenibile), potrebbe essere il «momento puramente orale della lingua». Ossia: la lingua nel momento in cui essendo formata da segni individuali di tipo interiettivo e misteriosamente analogico con sentimenti reali suscitati da cose e fatti reali – riflessi condizionati – non era e non è un’astrazione arbitraria, ma un insieme solidale fisico di segni necessari. Ogni segno avrebbe dunque questa origine necessaria, divenuta arbitraria in seguito, nel momento in cui la lingua puramente fonica (il grido della bestia e delle necessità fisiche, degli istinti) comincia a diventare potenzialmente una lingua anche grafica, cioè la lingua di una cultura (sia pure primitiva, nell’ambito del «pensiero selvaggio»). Tale momento puramente orale della lingua continua a definire come necessari i nostri fonemi, e mutua quindi la concretezza del fonema della «parole» con l’astrazione fonica della «langue». Qualcuno a questo punto dirà: questo manipolatore di faccende linguistiche dichiara l’escatologia del suo scritto come «appunto per una linguistica marxista» – in funzione antistaliniana – e qui ci porge alternative che respingono verso situazioni culturali così profondamente, così provincialmente italiane? Non solo c’è aroma di Vico, ma odore di Croce, e addirittura puzza di Bertoni… L’homo sapientissimus della stilistica come linguistica generale e l’homo alalus si confondono nelle interiezioni sentite 86
come avrebbe potuto sentirle un allievo di Vossler… o Wagner… Si agitano intorno ombre di neolinguisti… Spitzer sorride dans le tombeau… I devoti di una nazione unita prima letterariamente che socialmente vogliono a tutti i costi vedere in ogni contadino sottosviluppato un poeta, e nel poeta scrivente un diffusore di invenzioni linguistiche in un paese dove, all’unità, il novanta per cento delle anime non sapeva leggere… Ebbene, sì, dovendo accettare il fatto che io sono nato in una città italiana negli anni venti, non posso poi non accettare di avere delle cattive abitudini italiane [piccolo-borghesi]: e non mi dispiace, perciò, per un intimo fascino vichiano e poetico della cosa, di offrire come «tertium» nell’opposizione saussuriana di «langue» e «parole», «la lingua nel suo momento puramente orale, la lingua dai riflessi condizionati», questo dato necessario, e individualistico – precedente idealmente la società, ossia la cultura (l’escatologia della lingua orale, verso usi convenzionali, e quindi arbitrari, verso la sua forma ambigua di lingua orale e lingua scritta che è ogni «langue»). D’altra parte: il «segno» del linguaggio del cinema è arbitrario? Vorrei precisare subito che non intendo istituire un’equivalenza fra «segno» cinematografico in quanto lingua estetica, gergale, e «segno» letterario: ma intendo stabilire una equivalenza tra «segno» cinematografico, in quanto il cinema sia una possibile lingua di comunicazione umana in potenza, un possibile sistema o struttura linguistica, di rapporto sociale. Una volta venuta in mente, non si può più scartare l’ipotesi che lo scoppio di una atomica ci renda tutti muti e incapaci a scrivere e ci costringa quindi a esprimerci, mettiamo, attraverso il cinema anche per stendere un atto notarile o chiedere al barista un the… In tal caso l’attuale operazione stilistica cinematografica, si fonderebbe (come «parole») su una lingua sociale – cinematografica – che è solo ipotesi («langue» in potenza). Per la semiotica ciò è indifferente. Tutti i segni sono uguali: mimici, scritti, orali, dipinti o fotografati. Ebbene, tutto si può dire di un «segno» del cinema, fuori che sia «arbitrario». Questo lo affermo intuitivamente, è vero (sempre per via dei miei natali italiani): poiché nessuno ha ancora scritto una «grammatica» del cinema, e quindi nessuno sa quale sarebbe il «segno» ipotetico, mettiamo, della potenziale «langue» cinematografica. Non abbiamo qui tradizione neogrammatica, ma solo neolinguistica! Comunque sia, data la maggiore verginità del segno cinematografico, è forse possibile studiarlo meglio che l’antico segno linguistico, carico di una tale complessità storica che forse solo 87
futuri robot giunti alla suprema perfezione potranno analizzarlo. Il «segno» cinematografico, così come si presenta alla nostra esperienza, cioè come «segno» stilistico, di una «parole» fondata su una ipotetica langue potenziale, non offre aspetti di arbitrarietà: esso è in funzione diretta del «significato», e le «macchine» o le operazioni di «comunicazione in quanto rappresentazione», vengono usate in funzione diretta di quel significato: se io voglio denotare un cavallo che corre, dò l’immagine fotografica di un cavallo che corre: se voglio rappresentare un cavallo che correndo va verso una forca, io dò le immagini fotografiche alternate del cavallo che corre e della forca, fino ad unirle. Tra im-segno, o immagine cinematografica significante, e significato, c’è uno stretto legame di necessità. Anzi, il significato («cavallo», «forca») è il segno di se stesso. 10) Siamo dunque partiti da alcune osservazioni sull’Italia scriventeparlante: osservazioni che hanno rilevato e drammatizzato (almeno attraverso l’esperienza concreta e privata dell’autore) la «lingua orale» come un continuo-statico, implicante origini isogenetiche, e contenuto come un tutto nel tempo, non nella storia. Queste osservazioni di costume hanno preso due direzioni: A) mi hanno portato – a un modesto livello di discorsi inter pocula – a cercare di definire quali sono gli effetti delle lotte di classe nel momento diacronico delle langues e delle lingue speciali (le rivoluzioni interne opererebbero fisicamente nelle masse – in una specie di trasformazione antropologica – dalle lingue orali-grafiche in giù: le rivoluzioni esterne opererebbero invece soprattutto o prima di tutto nelle lingue speciali delle élites. Nella modifica linguistica in atto negli ambiti capitalistici europei, dovuta alla rivoluzione interna del capitalismo, il fenomeno più nuovo e scandaloso sarebbe il sostituirsi, alla guida di tale modifica, delle lingue delle infrastrutture – tecniche – alle lingue delle sovrastrutture – umanistiche). B) Tali osservazioni mi hanno portato poi anche a sentire nei segni «idealmente e puramente orali» una necessità che potremmo dire biologica, permanente, su cui poi si fonderebbe in ultima analisi la cosiddetta arbitrarietà dei segni orali-grafici delle langues civili: pertanto l’oralità della lingua si verrebbe a presentare come meta-cronica, e in essa si risolverebbe il dilemma sincronia-diacronia delle «tavole semantiche» strutturaliste. Mi rendo conto benissimo che tutto ciò andrebbe elaborato in tutt’altro laboratorio che nel mio di scrittore insoddisfatto della sua specifica funzione: comunque, se tutto ciò è privo di attendibilità e di validità, lo si prenda come 88
un «test» della contaminazione di una cultura italiana (l’estetica come linguistica generale, il neolinguismo, il marxismo sentimentale degli Anni Cinquanta) con la cultura europea (nella fattispecie la linguistica saussuriana). E a questo proposito, a proposito cioè di questa situazione concreta (e quasi romanzesca) vorrei fare altre osservazioni, come di chi «scrive sul proprio scritto». Il fatto di essere italiano mi «costringe» a non essere strutturalista, a non avere la «testa» dello strutturalismo. Io vivo in un establishment idiota quanto precario. Non ho intorno alcuna certezza sociale. Per esempio le strutture foniche e grammaticali della mia lingua sono instabili, arbitrarie, infinitamente cangianti, infinitamente turbate da forme concorrenti, e tenute insieme da una volontà ordinatrice o fittizia o autoritaria ecc. ecc. Io, parlando – nell’atto puro e semplice del parlare – vivo una struttura che si sta strutturando: contribuisco io stesso, e lo so, a tale strutturazione, che non so tuttavia su cosa si fonda e cosa sarà ecc. ecc. Inoltre, se la classe sociale in cui vivo (e che comunque detesto) ha delle strutture abbastanza precise – assomiglia cioè, a parte ogni giudizio di valore, a tutte le altre piccole borghesie europee – tuttavia la mia società nel suo insieme vive a due livelli storici diversi, è una coesistenza di due strutture sociali diverse (il Nord industriale e il Sud pre-industriale: ed è per questo, ad esempio, che mi riesce così dura, non da concepire, ma da sperimentare nel concreto della cultura italiana, l’eufemizzazione del determinismo dovuta al Goldmann). Per tutte queste ragioni non posso e non potrò mai rinunciare a una tensione dovuta al desiderio di portare ordine nel magma delle cose, e non di accontentarmi di saperne la geometria (ossia non ho e non avrò mai altra alternativa che il marxismo). So bene (e questo è il problema degli Anni Sessanta) che, per esempio, lo strutturalismo antropologico (affascinante nello studio del pensiero selvaggio e nella sua interpretazione del totemismo) rappresenta alla perfezione il momento del pensiero occidentale nei paesi di capitalismo avanzato che sembra superare il marxismo per qualcosa di nuovo, ed estremamente teso, nel suo vecchio «intellettualismo, idealismo e nominalismo» di cui LéviStrauss è accusato da Gurvitch. L’altro qualcosa che sembra invecchiare il marxismo in Europa – per l’impulso vitale che riceve dalla rivoluzione interna del capitalismo proiettata verso l’avvenire – è l’empirismo – specie nei paesi anglosassoni naturalmente. Gurvitch lo rappresenta in Francia. La sua accusa a Lévi-Strauss è giusta: ma egli oppone a Lévi-Strauss una 89
nozione ontologica e quindi irrazionalistico-empirica della società. Il fenomeno sociale totale, o il tutto sociale di cui egli parla è definito da lui stesso ontologicamente «Questo tutto primeggia ontologicamente», egli dice. E questo suo mistero ontologico non potrà mai tradursi integralmente nella realtà e nella storia, rendersi cioè conoscibile: «Nessuno dei macrocosmi sociali», dice il Gurvitch, «anche quando è nettamente strutturato, si riduce mai alla sua struttura». Tutto ciò che è ontologico è irriducibile, naturalmente. Se a Lévi-Strauss corrisponde l’école du regard, a Gurvitch corrisponde il «talqualismo». E ha ancora ragione (sembra, a un italiano come me) Gurvitch quando parla della «pericolosa tentazione» in Lévi-Strauss «consistente nel sostituire alla struttura, che è reale, il suo tipo». Ma non è una pericolosa tentazione, è proprio la filosofia di Lévi-Strauss! Anche se si voglia definire tale filosofia «infatuazione formalistica ed assiomatica». Quella di Gurvitch tuttavia si presenta come irrazionalistica e qualunquistica, quando «prima di tutto», vuole sbarazzarsi dalle «sociologie dell’ordine» e dalle «sociologie di progresso». È lo stesso tecnicismo che formalizza la struttura nel suo tipo, a formalizzare la struttura in una nozione della struttura che si spiega attraverso la struttura (secondo una vecchia indicazione del Saussure). Ecco perché io tenderei piuttosto ad accettare le critiche mosse a Lévi-Strauss dai sociologi americani, e la loro esigenza a eliminare il pericolo del «formalismo strutturale», la sua metastoricità, studiata nel «tipo» di struttura, anziché nel fenomeno sociale reale – non attraverso il brutale ricorso all’ontologia della realtà, ma puntando tutto sul moto della realtà: ossia della definizione implacabile e accanita della struttura come «strutturazione, destrutturazione e ristrutturazione» (di cui benissimo parla il Gurvitch) – ossia della definizione della struttura come processo.3 È a questo punto, che nell’ossessivo bisogno di tornare al marxismo – ossia all’unica ideologia che mi protegga dalla perdita della realtà – che intervengono a spiegare la «struttura come processo» (evitandone la fatalità ontologica dei suoi assertori del Medio e del Lontano Occidente), le vecchie nozioni di valore e di dialettica. Cercando di evitare le operazioni di conciliazione tutto sommato un po’ ingenue (come quella tentata del resto ragionevolmente dal Lefebvre e da altri) tenderei a cercare dei punti di appoggio all’interno stesso dello strutturalismo: nel «campo semantico», o addirittura «nozionale»: e citando magari Louis Hjelmslev, che, senza alcun sospetto, parlava al Congresso di Oslo, nel 1957: «Introdurre la nozione di struttura nello studio dei fatti semantici significa introdurvi la nozione di 90
valore accanto a quella di significato». Che mi sembra proprio l’epigrafe per ogni possibile futura meditazione su queste cose. E citerei ancora, per intero, il breve e bruciante riassunto dell’intervento di Roumeguére alla dieta terminologica, nel quadro del Dizionario etimologico delle scienze sociali patrocinato dall’Unesco, Parigi, 10-12 gennaio 1959: «Bisogna reinserire la nozione di struttura in una prospettiva di epistemologia genetica e storica. La nozione di “struttura” è infatti una nozione impegnata; essa è epistemologica al massimo grado. Ogni ricercatore impegna una forma, una struttura di pensiero; inserisce il suo pensiero al livello della realtà. «Alcune riflessioni sulla comparsa del concetto potranno dimostrarlo. Appare verso il 1847; la sua emergenza nel pensiero rappresenta una presa di coscienza epistemologica di certi pensatori (in seguito ci sarebbe stata contaminazione, vale a dire la parola è stata ripresa da altri pensatori). Ma presa di coscienza di che cosa? Non della parola che esiste già, ma della situazione del pensiero scientifico. Un nuovo bisogno ha oltrepassato la soglia della coscienza collettiva. Dapprima si è parlato di forma, di sistema. Come si è arrivati qui alla nozione di struttura? «Prima del Settecento il pensiero si può qualificare come “pensiero razionalistico statico”. A partire dal romanticismo, nozioni quali: divenire, evoluzione, dialettizzazione dei concetti… Il reale comincia a muoversi, a sfaldarsi; appaiono nozioni di: negazione, complementarità, implicazioni reciproche. «Parallelamente a questi nuovi processi di forma di pensiero si modifica la nozione di oggetto. Il “razionalismo statico” rappresenta una monovalenza della realtà; il “razionalismo dinamico” introdurrà una polivalenza; infine un “razionalismo dialettico”: una struttura sfogliata della realtà. «Da allora si ha la comparsa di tutte le nuove logiche. Per finire, in fisica, psicologia, etnografia, l’intervento dell’osservatore nell’osservato, e questa interazione fra osservatore e osservato porta con sé l’implicazione reciproca. Implicazione e relazione tra nominante e nominato inerenti alla materia stessa di questo nuovo aspetto della realtà. Il concetto di “struttura” riveste un triplice alone d’incertezza: «I) perché nozione in divenire, in sviluppo; «II) perché nozione pericolosa; polimorfismo delle strutture; «III) l’interazione fra il nominante e il nominato induce a un esame dialettico della formulazione del termine».
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So benissimo che nessuno degli strutturalisti negherebbe questa violenza epistemologica della nozione di struttura: e infatti tutti, quando possono, ne sottolineano l’esigenza, sia per correggere il loro eccesso di filosofia (cioè il loro sforzo conscio o inconscio a «tirare troppo su», come dice MerleauPonty, la struttura), sia il loro eccesso di empirismo (e quindi la loro tendenza a «tirarla troppo giù»). In realtà quello che noi viviamo soprattutto è la tensione epistemologica della nozione di strutturalismo. I filosofi (come, per la sua cultura e la sua forma mentis Lévi-Strauss) ne vivono la tensione epistemologica nella monovalenza postulata da un razionalismo di tipo statico: ossia nella verticalità della struttura, nel suo coincidere potenziale con l’essenza. Gli empirici, nella polivalenza implicata dal razionalismo dinamico, ossia nel suo coincidere con un irrazionalismo di lontana, probabile origine bergsoniana: l’ontologia del movimento («Le strutture sociali sono come degli abiti: sotto c’è qualcos’altro [il corsivo è mio] che li fa muovere e perfino scoppiare», Gurvitch). E infine i marxisti la vivono nel loro razionalismo dialettico. Tuttavia, nei suoi momenti divenuti magari ingiustamente i più tipici, lo strutturalismo si presenta come una specie di «geometria del magma», per cui il magma non può essere conosciuto che nella sua proiezione geometrica. Ma, sia il poeta, che non si accontenta di un atto conoscitivo, ma vuol fare esperienza diretta del magma, standoci dentro, vivendo all’interno, – sia il marxista che non si accontenta di conoscere e descrivere una geometria della «realtà che è», ma vuole apportarvi l’ordine, sia nella conoscenza che nell’azione – si ribellano all’ondata di formalismo e di empirismo della grande rinascita europea neocapitalistica. E il loro problema è riempire di valori gli schemi della «struttura come processo»; non certo dei valori della «filosofia ingenua» di cui parlava Lévi-Strauss, ma naturalmente dei valori dell’ideologia marxista, in quanto colui che vive in «modo peculiare la temporalità» ossia il processo, è la stessa identica persona che esercita dall’esterno la sua osservazione: è cioè il protagonista della lotta di classe – se si tratta di strutture politiche – il cui sguardo rivoluzionario è critico anche nel vivere un’esperienza irriducibile: è lo sguardo cioè della coscienza di classe. Processo e meta-processo in questa coscienza rivoluzionaria avvengono contemporaneamente. (1965)
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Letteratura
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INTERVENTO SUL DISCORSO LIBERO INDIRETTO Sono un po’ in ritardo per recensire un libro uscito da Sansoni l’anno scorso (Giulio Herczeg: Lo stile indiretto libero in italiano): perciò non si tratta di una recensione, ma di un agglomerato di appunti e excursus – quelli che si fanno sui margini di un libro (donde qualche contraddizione). La prima nota è – non senza qualche implicazione di motivi che avranno insistente sviluppo – in margine ai paragrafi sull’uso, nell’Indiretto Libero, di quella «categoria infinitivale» che Alf Lombard chiama «infiniti di narrazione» o «infiniti storici»: l’esempio, nel caso, è preso da L. Da Ponte: Notte e giorno faticar per chi nulla sa gradir; piova o vento sopportar, mangiar mal e mal dormir. Voglio fare il gentiluomo e non voglio più servir. Questa forma grammaticale che serve a parlare attraverso il parlante – e subirne o accettarne quindi la modifica psicologica e sociologica – è stata quella che mi ha dato un primo timore che nel libro di uno specialista universitario, male avrei trovato le ragioni reali di un uso grammaticale e di un procedimento stilistico che implicano tanta mole di intenzioni, conscie e inconscie. Oltre che a «descrittività» o a «storicità narrativa», si potevano intravedere, infatti, in un siffatto infinito, almeno altre due funzioni. Chiamiamone «epica» una, «incoativa» l’altra. Ad ascoltarlo bene, c’è nel suono di tale categoria infinitivale un senso tutto speciale di normatività: speciale in quanto presuppone non un destinatario, ma un coro di destinatari: una coralità, insomma, d’ascolto e di riconoscimento delle esperienze da cui è nata la deduzione della norma. Anzi, la coralità è tale da assumere la massima rilevanza, a scapito dell’esperienza 94
testimoniata. Cioè: l’esperienza che detta le norme è significativa solo in quanto è corale, condivisa da un’intera categoria di persone (stava già per sfuggirmi l’espressione «da una classe sociale»). Se io a scopo normativo agglomero degli infiniti non mi comporto in modo stilisticamente diverso dagli autori di testi di arte culinaria («Prendere due uova…»): le regole che io elenco hanno i caratteri di un’assolutezza tradizionale e in qualche modo istituzionalizzata di fatto. Implico cioè un’esperienza popolare, che è tipica di tutte le normatività dei proverbi o dei canti di mestiere – e che può giungere a una qualche forma di epicità. E così anche l’infinito come «incoativo», come descrizione cioè di azioni ripetute – sempre per una normatività allusa con l’assoluta certezza di essere compresi, di suscitare sentimenti simpatetici in altre persone che non solo hanno fatto esperienze simili, ma che non hanno nemmeno la possibilità di pensare, per sé, esperienze diverse. Questi versetti citati dal Da Ponte, si rivolgono, ottenendo comprensione assoluta, quasi come per un dato irremovibile, preminente e fatale della vita, a una categoria di persone, che fanno, della propria esperienza di umili, di servi (faticare, sopportare, mangiar male e dormir male) una specie di sentimento filosofico della realtà. Anche in questa sua funzione incoativa – che esprime azioni fatte, da farsi, fatte da tutti, fatte nei secoli, passati e futuri, da facitori che sono sempre gli stessi, e che si identificano quasi con gli «uomini» – c’è un profondo senso di coralità e di epicità. La categoria infinitivale nell’Indiretto Libero, implica comunque epicità, umile e, direi, sindacale: non implica dunque solo un semplice «rivivere» il discorso di un parlante come personaggio particolare, anagraficamente e soprattutto socialmente individuato, ma di un parlante tipico, rappresentante di tutta una categoria di parlanti: quindi di un ambiente, addirittura di un popolo… La simpatia dell’autore nel «rivivere» grammaticalmente il suo discorso non va dunque a lui: ma a tutti quelli come lui, al suo mondo. Anche sull’uso del passato remoto, l’Herczeg mi pare un po’ spento. È vero, forse, che tale uso è scarso, rispetto agli altri tempi (per esempio rispetto all’imperfetto, che è il tempo principe del discorso rivissuto). Tuttavia bisogna tener presente questo: che ci sono dei libri che sono per intero dei discorsi liberi indiretti. Ossia: il frequentissimo uso dell’imperfetto implica uno scrittore-narrante che a un certo momento, per un misterioso bisogno di intercomunicabilità col suo personaggio e un non meno misterioso bisogno di espressività, crea la condizione stilistica necessaria per 95
rendersi narrante attraverso il suo personaggio: soprattutto nelle vivificazioni del passato, e nelle considerazioni amare o gioiose su condizioni presenti: il ron ron del pensare meditativo, del brontolare, del rimpiangere, del recriminare ecc. ecc. Ma ci sono dei casi, ripeto, in cui lo scrittore rinuncia fin da principio a essere scrittore-narrante, e s’immerge subito nel suo personaggio narrando tutto attraverso lui. Tale abdicazione è una tecnica: perciò, in sé, insignificante. Infatti tale operazione uno scrittore può usarla per due ragioni completamente opposte: a) per rendere fittiziamente oggettivo – assumendo a narrante un personaggio che non è l’autore stesso – ciò che egli vuol dire: per esempio una sua visione particolare del mondo (Grass nel nano, Volponi in Anteo Crocioni), b) per cercare di rendere realmente oggettiva la narrazione di un mondo oggettivamente (leggi: classisticamente) diverso da quello dell’autore (lo scrivente in Tommaso Puzzilli: e Verga nei Malavoglia!). Nei casi in cui dei libri interi siano dei discorsi liberi indiretti, il passato remoto rientra inevitabilmente nel sistema linguistico del personaggio adottato come narrante indiretto. Naturalmente l’Herczeg ha raccolto i suoi esempi da una letteratura naturalistico–romantica (e poteva far poco altro in Italia). Ma mi sembra chiara la funzione teoricamente fondamentale del passato remoto, quando esso implica un intero libro inteso tutto come rivissuto. E quindi la definitiva ideologizzazione che ne deriva – quando si tratti di un romanzo a tesi, filosofico, allegorico; e la definitiva epicizzazione quando si tratti di un romanzo mediatore di un’altra esperienza vitale (classista). Tutti i passati remoti del Verga sono «epici»: sono tempi di un discorso rivissuto collettivamente in tutti i suoi personaggi: e la «condizione stilistica» per tale discorso è dilatata a comprendere l’intero libro. Tale operazione arrivava a Verga come un’illusione naturalistica non ancora scissa dalle regressioni romantiche nei parlanti, dal mito romantico del popolo: ma era chiaro che c’era qualcosa che presiedeva a tali due operazioni appartenenti all’ideologia letteraria, alle correnti del pensiero estetico. Io direi, poco originalmente, che si trattava (inconsapevolmente per il Verga) della presenza della visione classista della storia di Marx. «Una trovata preziosa del Günther è il riferimento all’Ariosto, come fonte di ricchezza notevole dell’indiretto libero: il Günther afferma di aver trovato circa 60 esempi nell’Orlando furioso. Anzi, è di regola che l’Ariosto renda pensieri e manifestazioni orali delle sue creature con lo stile indiretto libero, 96
essendo così il primo rappresentante moderno del nostro costrutto; e precedendo di un secolo e mezzo La Fontaine, ritenuto fino allora, anche dal Lerch, dal Bally, dallo Spitzer ed altri, il moderno precursore dell’indiretto libero.» (Tale indiretto libero poi scomparirà per alcuni secoli, e riaffiorerà solo col Manzoni «più a rendere i pensieri che le parole altrui»: a creare cioè la tradizione italiana del Libero Indiretto naturalistico-romantico, fortemente nominale e fondato sull’imperfetto e sul presente: in altre parole l’imitazione vissuta del discorso di un personaggio altro psicologicamente, non socialmente – dato che in Italia la diversità sociale implica fatalmente una diversità di parole.) Come mai nell’Ariosto questa curiosa presenza del Libero Indiretto? Curiosa anche perché limitata. Ora, il Libero Indiretto è uno di quei fenomeni la cui presenza è per un diagnostico la spia di una ideologia che non può presentarsi solo in pochi casi limite: ma che investe dal profondo tutta l’opera. O c’è o non c’è. Che nell’Ariosto ci sia, è un fatto così storicamente significativo e imponente, che non ci si può limitare a constatarlo come una curiosità o un titolo di merito rispetto a La Fontaine. Si vede che c’è stato un momento nella società italiana con delle caratteristiche che poi si sono ripetute in modo più vasto e stabile un secolo e mezzo dopo in Francia ecc. ecc. Certo è che ogni volta che si ha il Libero Indiretto, questo implica una coscienza sociologica, chiara o no, nell’autore. Che mi sembra, del Libero Indiretto, la caratteristica fondamentale e costante. Nell’Ariosto la cosa si cela dentro i meccanismi interni del suo stesso linguaggio. Il cui ritmo narrativo dai «cursus» disimpegnati e il cui lessico prosastico, ironizzanti il mito medioevale, vengono a costituire, col linguaggio sublime dell’epica, un’alternativa di lingua media (più che umile): la coesistenza non è di toni: non c’è il tono tragico accanto al tono comico. Ma la tragicità e la comicità si sono mescolati: la sintesi o l’antitesi giocano nella profondità del linguaggio. Soltanto una rabbiosa analisi può stabilirne la presenza, per deduzioni extralinguistiche ecc. In realtà la lingua dell’Ariosto è inscindibile: le sfumature non hanno soluzione di continuità, e formano una continuità misteriosa tra la lingua feudale e la lingua borghese, tra la lingua delle armi e la lingua del commercio e delle banche. In questa «emanazione» che è la lingua dell’Ariosto, ogni coscienza è immanente: non c’è ombra di trascendenza, non c’è possibilità di riflessione. Ma è chiaro che nella testa dell’Ariosto era presente l’idea di un tipo umano socialmente definito; che era poi lui stesso, impiegato, 97
amministratore, possidente di una piccola casa ecc. ecc. Nell’atto stesso in cui l’Ariosto dunque, compie il suo abbassamento linguistico, e avvicina, abbassandola, la lingua della poesia alla lingua della prosa, compie un primo generico atto di quell’operazione che è la mimesis linguistica vissuta. Egli riconduce al proprio livello di borghese ironico e scettico, con un orizzonte economico e vitale piuttosto breve (mascherato dai soliti pretesti già classicistici), la lingua della cavalleria idealizzata nella lingua della poesia: dissacra attraverso la cavalleria la poesia stessa; comincia quella lunga opera di erosione dell’umanesimo che finirà, ai giorni nostri, col degenerare nel pragmatismo, nel qualunquismo ecc. ecc. Il discorso che l’Ariosto rivive è quello di se stesso borghese. I 60 esempi raccolti dal Günther sono 60 casi riconoscibili: ma in realtà non c’è soluzione di continuità linguistica tra essi e il resto del poema: sono aridamente grammaticali, per se stessi: non c’è sommovimento espressivo particolare. Sono insomma dei test quasi bruti che spiano una presenza: quella della possibilità del Libero Indiretto e dell’ideologia consapevole o no che esso implica. L’Ariosto non ha distinto i personaggi borghesi uno dall’altro, con caratteristiche psicologiche e sociali particolari. Il «borghese» nel suo poema era uno e simbolico: in sostanza, ripeto, lui stesso in quanto borghese; e il momento della borghesia nei vari personaggi era ideale. Il gioco è tra linguaggio alto e linguaggio medio: una sfumatura infinita, dove la coscienza sociologica non è che un’ombra, potente, che ombreggia del resto e dà rilievo a tutto il meraviglioso gioco dell’ironia ariostesca. Io però, toglierei all’Ariosto il primato che il Günther, seguito dal nostro studioso, gli attribuisce. In Dante c’è già. E mi limito all’esempio di Dante per seguire onestamente delle abitudini scolastiche. Prendiamo due casi, proprio i primi che vengono in mente: uno a livello psicologico e sociale eletto, l’altro a livello psicologico e sociale sordido. Uno dei bellissimi saggi del Contini, quello sul Canto di Francesca, è illuminante, per quel che riguarda il livello eletto: tutto il linguaggio usato da Dante nel narrare i fatti di Paolo e Francesca, anche fuori dal discorso diretto tra virgolette, è preso dai fumetti dell’epoca (spero che Contini non si offenda per la disinvoltura dell’analogia): è chiaro che ai nostri orecchi esso suona livellato, semanticamente, ma la ricostruzione continiana non lascia dubbi: Dante si è valso di materiali linguistici propri di una società, di una élite: gergali. Che certamente egli stesso non usava, né nella sua cerchia sociale, né in quanto poeta. L’uso è dunque mimetico, e se non si tratta di una vera e propria mimesis vissuta grammaticalmente, è certamente una sorta di emblematico 98
Libero Indiretto, di cui c’è la condizione stilistica, non quella grammaticale poi divenuta comune: esso è piuttosto lessicale, e sacrifica l’espressività tipica del Libero Indiretto all’espressività derivante dall’omologazione nel tessuto linguistico di chi narra col tessuto linguistico dei personaggi: non come un mezzo tecnico abnorme, ma come uno dei tanti naturali mezzi espressivi; così da non turbare lo stato d’animo linguistico dominante, altissimo e privo d’ironia e di sentimentalismo. Sull’altro livello, troviamo un gergo di malavita, o comunque di periferia o quartiere malfamato. Non è certo Dante, nel suo contesto sia sociale che poetico, a usare delle parolacce o comunque delle allocuzioni vivaci («squadrare le fiche», «fare del cul trombetta» ecc. ecc.): ma nell’atto in cui Dante rappresenta figure del mondo equivoco, ecco che senza «viverlo» egli costruisce una specie di Libero Indiretto, lessicale più che grammaticale, e quindi più allusivo che presente e vociante: incastonandolo sempre nel tessuto linguistico dominante, che non ammetterebbe intromissioni altrui. Se mai ci fu libro scritto in prima persona, questo è il libro di Dante: essendo un libro esplicitamente saggistico: implicante una visione del mondo istituzionale, l’adesione ad essa dell’autore, e il suo parteciparvi sotto la specie, diremmo noi, extraletteraria, dell’impegno più sincero e totale. La «coscienza sociologica» interviene anche qui come nell’Ariosto: cioè prima di tutto nel rapporto rivoluzionario tra lingua alta e lingua parlata, cioè tra il latino della cultura teologica e il fiorentino della borghesia comunale. La scelta linguistica è il primo sintomo di una coscienza sociale: essa è infatti la scelta del mondo moderno (la borghesia comunale) contro il mondo vecchio (clericale-universalistico). La mimesis dei vari possibili linguaggi della lingua borghese è prefigurata tutta in questa prima scelta: ma, a differenza dell’Ariosto, Dante ha una chiara coscienza delle categorie sociali (la lingua di Francesca, la lingua dei barattieri): che è profondamente democratica, data la sua ascendenza probabile alle esperienze corporativistiche, e alle annesse lotte sociali. È impossibile capire certe forme di discorso libero indiretto negli ultimi decenni, se non si tien conto che la lingua media (parlata due o tre generazioni fa dal solo 5% degli italiani, e adattatasi da una funzione letteraria a una burocratico-statale, attraverso l’uso di una borghesia non rivoluzionaria e meschinamente padronale) non ha saputo mantenere la sua «medietà» e si è scissa in due direzioni, una verso l’alto, una verso il basso. Praticamente, per una specie di richiamo regressivo verso la sua particolare natura di lingua 99
letteraria, e quindi fondamentalmente espressiva. Non c’è stata una reale cultura nazionale: e quindi una lingua media che l’esprimesse – fuori dalla letteratura – come res communis omnium, democratica, non aveva ragione di sussistere, se non a scopi meramente pragmatici o pretestuali e quindi retorici. La letteratura insomma – dall’unità nazionale in poi, è sempre stata elusiva, ricercando le proprie ragioni in se stessa ecc. ecc. quasi ignorando che nel frattempo la lingua che per secoli era stata solo d’uso letterario, si stava strumentalizzando e diveniva la lingua parlata di una nazione. Sicché non c’è sincronia tra la «lingua italiana» e la «lingua letteraria italiana» dopo l’unità; solo dopo la Resistenza si assiste a un tentativo imponente di riunificazione delle due lingue. Nel frattempo, la costituzionale, inevitabile frattura della medietà linguistica, aveva prodotto quello schema che dicevo: o era esplosa verso l’alto, o era esplosa verso il basso, lasciando il centro, ossia le posizioni culturali, quasi del tutto vuoto, in un grafico fatto di punte, in su o in giù, di stalattiti espressive. In alto i sistemi simbolistici, ermetici, espressionistici; la dilatazione semantica, lo sviluppo (di funzione verbale barocca) della strutturazione subordinante dell’italiano letterario, attraverso «imitazioni» o «ironie» (penso come archetipo a Gadda). In basso i sistemi naturalistici, le imitazioni del parlato sublinguistico o dialettale; la poesia vernacola ecc. ecc. Tutte le analisi condotte finora sul discorso libero indiretto in italiano, rimangono insoddisfacenti, perché davano per assiomatico un livello medio e normale dell’italiano (parlato e letterario), per cui, per esempio, l’autore di scelta mimetica dialettale, sarebbe partito da tale livello medio, e quivi avrebbe portato i suoi materiali dialettali, sublinguistici, profondi, arcaici. Non è vero. Quasi sempre invece è successo che l’autore, che compiva questa operazione della «pesca nel profondo e nel basso» della lingua, fosse lo stesso che compiva contemporaneamente l’operazione esattamente antitetica: ossia il lavoro di esagerazione espressiva superlinguistica. Sicché – per le sue incursioni, le sue mimesis, negli strati bassi della lingua, nelle sottolingue dialettali o dialettizzate, o parlate da categorie speciali minute della nazione – egli non partiva mai dalla linea media, ma dalla linea alta: ed era alla linea alta che ritornava, col suo bottino. La contaminazione non avveniva tra la lingua bassa e la lingua media, ma tra la lingua bassa e la lingua alta. 100
Nessuno di coloro che si sono occupati del discorso libero indiretto in italiano, ha tenuto conto di tale forma preziosa di contaminazione, della sua funzione non semplicemente vivificatrice, ma espressiva ad alto livello stilistico. C’è insomma un tipo di discorso libero indiretto particolare degli ultimi decenni della letteratura italiana: in cui la condizione stilistica non è creata attraverso pretesti funzionali (partecipazione psicologica o sociologica al mondo interiore del personaggio), ma dal gusto dello stile. È tale primato dello stile, che, rivivendo il parlato altrui, fa sì che il materiale in tal modo recuperato, assuma una funzione espressiva. E serva a far esplodere con maggior violenza la lingua media verso l’alto: l’incursione verso il basso restando così un episodio, sia pur drammatico e irreversibile, di una più complessa fenomenologia operativa. Non è detto che la «coscienza sociologica» di cui ho cominciato a parlare a proposito dei 60 Liberi Indiretti dell’Ariosto, implichi simpatia: o, nei tempi più prossimi, un’ideologia marxista, o socialista, o magari cristiano-sociale. A contraddire l’idea della «simpatia», c’è anche un’altra delle «condizioni stilistiche» necessarie a far scattare l’apparato grammaticale del discorso libero indiretto: ossia l’ironia. Ma una speciale ironia – non certo quella di cui parla lo Spitzer come segno principe e dominante del discorso libero indiretto (che si dovrebbe definire piuttosto humour, filosofia bonaria e leggera per pienezza di umanità: che si manifesta appunto nell’assumere letterariamente il punto di partenza orale, il «tono» della voce del parlante, come filo conduttore dell’oratio obliqua). Ma ironia in senso specifico, corrente: ossia la «mimesis caricaturale» che consiste nel «rifare il verso» al parlante. Che è dunque una posizione molto originale, rispetto a tutte le altre posizioni tradizionali in cui usa porsi l’autore rispetto al suo personaggio: una corrispondenza d’amorosi sensi che si concreta in uno scambio di fervori linguistici (da notarsi bene, come dirò in qualche nota più avanti, che non è sempre il personaggio a prestare la sua lingua all’autore: ma spesso è il contrario!). Bisogna insomma includere nei sentimenti che creano le condizioni stilistiche dell’oratio obliqua, anche un sentimento di antipatia. Gadda è anche in tal caso un archetipo. Spesso egli fa il verso ai suoi personaggi, per esprimere la sua antipatia verso di loro. Se una vicina di casa gli dà fastidio con rumori o voci, egli ne fa una furibonda mimesis, dominata non da spirito comprensivo e simpatetico (che è tuttavia lo spirito dominante di tali operazioni), ma per metterne in luce dal di dentro, gli elementi odiosi e 101
asociali. Spesso tale discorso libero indiretto scandaloso, dovuto a una «simpatia» linguistica che è «antipatia» umana o sociale, si manifesta nella polemica esplicitamente politica: i ricchi di ascendenza brechtiana o grosziana, mettiamo (in testi che non mi pare tuttavia siano ascesi agli onori letterari, almeno in Italia). A questo punto della lettura del libro dello Herczeg, cioè alla definizione, a proposito del Manzoni, che il Libero Indiretto può semplicemente riprodurre i pensieri del personaggio, e non le sue parole, ossia le parole con cui esprime i suoi pensieri – devo polemicamente osservare che lo Herczeg e gli studiosi di stilistica che egli cita, fatta in parte eccezione per lo Spitzer, accettano implicitamente per il Libero Indiretto una fenomenologia ontologica, cioè l’immedesimazione o osmosi o comunque rapporto di simpatia tra l’autore e il personaggio, come se le loro esperienze vitali fossero le stesse. Ma a me sembra impossibile affermare che «rivivere» i pensieri o «rivivere il particolare discorso che esprime quei pensieri» sia lo stesso fenomeno. Un autore può rivivere i pensieri e non le parole che li esprimono, solo in un personaggio che abbia almeno la sua educazione, la sua età, la sua esperienza storica e culturale: in altre parole, che appartenga al suo mondo. Allora accade un fatto terribile: che quel personaggio è unito all’autore dal fatto sostanziale di appartenere alla sua ideologia. La cosa più odiosa e intollerabile, anche nel più innocente dei borghesi, è quella di non saper riconoscere altre esperienze vitali che la propria: e di ricondurre tutte le altre esperienze vitali a una sostanziale analogia con la propria. È una vera offesa che egli compie verso gli altri uomini in condizioni sociali e storiche diverse. Uno scrittore borghese, anche nobile, anche alto, che non sappia riconoscere i caratteri estremi della diversità psicologica di un uomo dalle esperienze vitali diverse dalle sue – e che anzi, creda di impadronirsene cercando delle sostanziali analogie, quasicché altre esperienze che la sua non fossero concepibili – compie un atto che è il primo passo verso forme di difesa dei privilegi e addirittura di razzismo: in tal senso egli non è più libero, ma appartiene deterministicamente alla sua classe: non c’è soluzione di continuità tra lui e un commissario di polizia o un boia dei lager. Nel caso che un autore sia costretto, per rivivere i pensieri del suo personaggio, a rivivere le sue parole, vuol dire che le parole dell’autore e 102
quelle del personaggio non sono le stesse: il personaggio vive dunque in un altro mondo linguistico, ossia psicologico, ossia culturale, ossia storico. Egli appartiene a un’altra classe sociale. E l’autore dunque conosce il mondo di quella classe sociale solo attraverso il personaggio e la sua lingua. Un approccio di altro genere sarebbe solo sociologico o scientifico: un autore, conoscerebbe dunque del suo personaggio, gli aspetti della realtà, la sua realtà effettuale, pratica, relativa al resto del mondo: ma non conoscerebbe la sua realtà reale, inalienabile e irripetibile in altre situazioni, neanche analoghe. Insomma la sua esperienza vitale, il suo sentimento delle cose. Nel caso che l’autore, dunque, riviva nella pagina i pensieri puri e semplici del suo protagonista, in qualche modo vivificandoli, egli fa, grammaticalmente e stilisticamente un «monologo interiore». Ma, se insieme ai pensieri non ci sono le parole del personaggio, i casi sono due: o l’autore adopera il personaggio come un pretesto meccanico, facendone un se stesso oggettivo, e quindi il monologo interiore così organizzato è una dichiarata e sincera «soggettiva»; o l’autore compie un’orrenda mistificazione, attribuendo a personaggi diversi da lui, sul suo stesso livello sociale, oppure addirittura a personaggi appartenenti a un’altra classe sociale, la sua stessa lingua e la sua stessa morale. E poiché tale autore è naturalmente borghese, egli, così, compie un’incosciente e faziosa identificazione di tutto il mondo con il mondo borghese; e il suo personaggio non è che la concrezione del proprio stato ideologico che ne rende impensabile ogni altro (nella naturale presunzione della propria superiorità). D’Annunzio non concepisce monologhi interiori che in personaggi superiori; e in questo è onesto. Gli scrittori borghesi post-dannunziani trovano vie d’oggettivazione – nel rivivere i pensieri ma non le parole – attraverso il sentimentalismo o il moralismo (cioè attraverso una più o meno inconscia ipocrisia). Sono quasi esclusivamente Pirandello e Cicognani che l’Herczeg cita nel suo studio, come esempi tipici del Novecento italiano (benché in realtà siano eccentrici: c’era del resto ben poco altro da scegliere data la prevalenza in questo periodo storico della prima persona, che attraverso le massime elezioni linguistiche, si poneva al centro dell’universo borghese, come sede dell’interiorità; e il prevalere, insomma, della «lingua della poesia» anche nei testi in prosa). Ma, negli scrittori del Novecento più avanzato, in Italia (in ritardo, se si esclude il caso mitico di Verga), alla 103
omologazione di tutto il mondo al mondo borghese operata dallo scrittore (da interpretarsi come l’altra faccia dell’omologia imposta ai prodotti letterari dalla società borghese), si aggiungeva bene o male la coscienza di classe. Ormai Pirandello o Cicognani non possono più ignorare, letteralmente, che i personaggi che sono i loro portavoce – o l’oggetto della loro nostalgia – appartengono alla piccola borghesia: quindi nel «rivivere» i loro pensieri, attraverso la forma grammaticale del Libero Indiretto, devono, stilisticamente, adottare un certo quantitativo di vivacità espressiva, di citazioni di linguaggio parlato medio ecc. ecc. Ma tutto ciò non è che un alibi, per mascherare la terribile funzionalità soggettiva del personaggio: malamente ideologica o pseudo-problematica in Pirandello, nostalgica in Cicognani. C’è dunque una soluzione di continuità tra «monologo interiore» e «discorso libero indiretto», benché, in gran parte – specie dopo che la vaga coscienza sociologica diviene nella seconda metà dell’Ottocento, coscienza delle classi sociali – coincidano. Il «monologo interiore» al limite, può essere scritto con la lingua stessa dello scrittore attribuita a un personaggio (e l’operazione è onesta e non mistificatrice quando il personaggio sia esplicitamente dichiarato appartenente all’epoca, alla cultura, alla classe sociale dell’autore): e può prescindere da ogni naturalismo, accostandosi spesso alla «lingua della poesia», quasi fosse una poesia intrecciata, come un tappeto persiano, in una zona dove l’anima dell’autore e l’anima del personaggio si fondono. Invece, sempre al limite, il «discorso libero indiretto» non può che essere scritto in una lingua sostanzialmente diversa da quella dello scrittore; non prescindendo da un certo naturalismo, o almeno da una certa conoscenza scientifica dell’altra lingua; e la poesia, in quanto lirismo o espressività, nasce dalla contaminazione, nell’urto tra due anime, talvolta profondamente diverse. Ben poco della letteratura contemporanea italiana e europea, resta così escluso dall’area del Discorso libero indiretto. Se certe sue forme grammaticali sono in crisi (specie quelle di tipo sentimentale-naturalistico, fortemente vivaci e quasi teatrali) è la sua interna struttura che esso presta pressoché a ogni forma narrativa: naturalmente le varie dissoluzioni tecniche operate dall’eccesso di ricerca tecnica – dallo sperimentalismo di ogni specie – hanno ridotto le tecniche particolari del Libero Indiretto a dei monconi, a dei frammenti, a delle allusioni spesso irriconoscibili: mescolandole insieme ad altri procedimenti espressivi più appariscenti, secondo tutti i canoni di 104
quel tipo di comunicazione letteraria che si definisce attraverso un cartello segnaletico recente, ma ormai indispensabile: la «scrittura». La «scrittura», al di là dello stile e delle varie tecniche o generi, anche i più liberi, nega i vari procedimenti frantumandoli in una continua e contemporanea coscienza, che diviene compresenza. È, tutto sommato, una proiezione della confusione della vita in un suo momento mostruosamente sintetico che non ha però la forza delle sintesi: è sintesi come pura pluralità e contemporaneità di tecniche possibili. Non è sempre facile riconoscere la presenza del Libero Indiretto, in tale esplosione di vitalità letteraria. Né è facile, per esempio, riconoscere il personaggio attraverso cui l’autore parla nei casi di tecniche avanguardistiche, che vanno ancora più oltre la supertecnica della «scrittura». Ma di ciò in un prossimo paragrafo. Osserviamo qui qualche caso più limpido. Forse per quel tanto di clownesco e maleducato che comporta sempre il Libero Indiretto in chi lo usa (esso è in fondo l’azione di un mimo, di uno che ha le qualità istrioniche di fare il verso agli altri, riproducendone la lingua sia per simpatia che per ironia) Moravia ha un’istintiva ostilità verso il nostro procedimento. Anche perché esso è estremamente «letterario»: sicché il clown si presenta in doppiopetto (e qui la metafora Moravia si oppone alla metafora Gadda). E ancora, Moravia, anche lui, tende a omologare ogni psicologia alla psicologia borghese: rischiando quell’orrendo attentato contro la dignità umana di cui parlo uno o due paragrafi sopra. Fortunatamente l’intelligenza dello scrittore lo salva: ed è una forma di mito o nostalgia, no, non verso la salute, ma verso una certa inattingibile grazia o allegria dei personaggi appartenenti al popolo, che dà a tali personaggi una prospettiva implicante un’altra esperienza vitale. Così la «Ciociara» e quasi tutti i circa 150 racconti romani, sono esempi classici di Liberi Indiretti. È vero che il personaggio dice io. È vero che è la Ciociara stessa che racconta: e fa quindi un discorso diretto. Ma ciò è solo formale. In realtà quell’io è un più comodo egli del Libero Indiretto, una grazia o leggerezza ariostesca (la funzione Ariosto marcia molto meglio in Moravia che la funzione Machiavelli). Il risultato è la contaminazione, tra la lingua letteraria quasi media (altrove l’ho chiamata «finzione di lingua media») di Moravia e il dialetto o l’italiano fortemente dialettizzato della «Ciociara». Anche la «Noia» è un solo discorso libero indiretto, dal principio alla fine: e l’io anche qui non è che un egli che, per far rivivere meglio i suoi pensieri all’autore, diventa io. E infatti c’è una leggera degradazione linguistica, dal livello di lui, Moravia, al livello di Guido, leggermente inferiore all’autore per cultura e talento. 105
Con Moravia, si può individuare, peraltro, un nuovo tipo di «condizione stilistica» creata dall’autore per poter procedere al Libero Indiretto: cioè la pretestualità a esprimere attraverso il personaggio il problema di un saggio (nel caso di Guido la impossibilità ideologica a esprimersi e quindi a vivere). E oratio obliqua è allora anche «L’isola di Arturo» della Morante, dove l’egli non è che un io, che diventa egli per rivivere più oggettivamente i suoi pensieri, perché meglio, nell’aspirazione oggettivamente realizzata a essere ragazzo, la Morante si esprime chiamando egli se stessa. E così via: interi romanzi non sono che interi Liberi Indiretti, in quanto o ci sia una totale identificazione dell’autore con un personaggio, o i personaggi siano una pseudo-oggettivazione dell’autore, o i personaggi siano dei meccanismi per esprimere, in linguaggio sostanzialmente paritetico, le tesi dell’autore, o infine, inconsciamente, i personaggi vivano perfettamente allo stesso modo il mondo sociale e ideologico dell’autore (che con ciò commette spesso un’arbitrarietà consentitagli dalla sua «superiorità» sociale). Sul versante del «gusto dello stile» e della «mimesis ironica» come condizioni stilistiche del Libero Indiretto vorrei notare un nuovo tipo di condizione, che implica nell’aristocratico, qualunquismo del processo (che tuttavia, mettiamo in Gadda, ritrova la sua funzione morale nella sua stessa violenza traumatica), un atteggiamento critico, sia pure abnorme. Intendo riferirmi ma non per stravaganza, anzi a fine strettamente funzionale, all’elemento «pop» nella pittura: se anche la pittura dovrà pur rientrare, ormai, in qualche modo, nella breve bibliografia critica sull’argomento. Nella pittura è infatti da qualche decennio ormai tradizionale la presenza di un Libero Indiretto sia pure fortemente contaminatorio: la tradizione si è formata con le avanguardie pittoriche del primo Novecento (collages di giornali e altri oggetti mescolati con la tecnica tradizionalmente pittorica del disegno e del colore), ed ora esplode specialmente con la pop-art: l’oggetto, cui ricorre il pittore per arricchire in funzione espressionistico-ironica il suo testo, è simile al lacerto parlato, che un autore riferisca, registrato, in un contesto altamente espressivo di scrittura letteraria. Un esempio in letteratura (prima di certa letteratura avanguardistica, su cui cfr. avanti) che corrisponda perfettamente all’elemento pop in pittura, non credo esista. Ma se esistesse, cosa vorrebbe dire? Evidentemente avrebbe un valore violentemente ironico: nel centro di un discorso complesso e squisito vedremmo «schiaffato» un pezzo di brutale realtà parlata, sia piccoloborghese che popolare. Sarebbe insomma la consueta forma di rivolta anti106
borghese nell’ambito borghese: la stessa che nel primo Novecento, ma tuttavia con caratteristiche sociologiche diverse. E soprattutto con una diversa violenza prospettica verso il futuro. In altre parole, la rivolta antiborghese borghese del primo Novecento aveva come oggetto la società presente, nella sua immediatezza esistenziale, per quello che era lì e in quel momento (e ciò consentiva un’ironia di fondo più placata, e un certo senso di ottimismo e di sicurezza, non solo verso la propria operazione critica, ma anche verso un’intrinseca forza autopalingenetica del mondo sociale criticato: e infatti si trattava ancora sempre di buona pittura). Oggi invece tale critica non si rivolge solo al presente: ma è apocalittica, prevede il futuro: il sistema di allusività comprende anche le prospettive delle future statistiche. È infinitamente più espressiva e ironica (e meno pittorica): ma la sua violenza è più agghiacciante, perché essa nega anche se stessa (come un condannato a morte che si tolga la vita prima di essere giustiziato). Come elemento grammaticale da Libero Indiretto l’elemento pop, fulmineo, inarticolato, unico e univoco, monolitico, è una presenza dissacrante. Non è preso dal «parlante», o, per dire meglio, nel caso della pittura, dall’«utente», per simpatia: no. Esso è usato con la stessa oggettiva indifferenza apocalittica con cui viene usata la materia colta. Su tale materia colta, si opera violentemente e brutalmente, una dilacerazione, una falla, da cui irrompe l’altra materia, quella che compone l’oggettività, il tessuto reale delle cose, sfuggita all’intellettuale poeta, e sfuggita anche in gran parte all’uomo: fattasi meccanica nell’uso di masse parlanti e utenti, non più come autrici di storia, ma come prodotti di storia. Insomma, la lingua non è più quella del personaggio, ma quella del destinatario! La citazione di un lacerto indifferente di tale lingua – che è mostruosa rispetto all’opera – che per tradizione era destinata a un pubblico tutto sommato di personaggi – degli stessi personaggi del libro o del quadro, finché il mondo era unico, cioè dominato da un’idea umanistica della realtà – suona dunque come una contraddizione dissacratoria per la sua stessa presenza, che riesce scandalosa al destinatario perché egli si sente messo di fronte alla sua vera realtà! Tale realtà è poi assurda perché appartiene più al futuro che al presente. Le masse «innocenti», in quanto prive di legami critici col passato, accettano tale futuro senza difese, e già lo prefigurano nel loro modo di vita. Ma l’intellettuale mimetico, che rivive nell’opera tale nuovo modo di vita, non ne sa cogliere che l’angoscioso e il ridicolo (rispetto al passato cui egli è legato ancora criticamente). Non sa cogliere le sfumature e 107
le complicazioni (in cui la vita realmente si rifà), ma un nudo sintagma, l’oggetto pop, inequivocabile e terribile. L’intellettuale mimetico in genere, dunque, poteva un tempo rinunciare alla propria lingua e rivivere il discorso di un altro a patto che quest’altro fosse contemporaneo o meglio, molto meglio, preistorico rispetto a lui (le più belle mimesis del Libero Indiretto sono quelle dei propri padri borghesi o piccolo-borghesi, di una mitica generazione precedente: o quelle dialettali): ma ora non può, per un’angoscia che si fa sopportabile solo se apocalitticamente ironica come nella pop art, adottare i modi linguistici di chi è più avanti di lui nella storia: ossia, per esempio, le masse innocenti e standardizzate della società in avanzata fase neocapitalistica. Sicché si può ben dire che l’intellettuale ormai si configura indiscriminatamente e necessariamente come tradizionalista: anche le avanguardie sono tradizionalistiche, rispetto alla vera realtà, che è già al di là delle soglie del futuro, almeno potenzialmente. Anche nelle avanguardie italiane c’è qualche elemento del discorso vissuto pop. Una volta abolita dagli ideologi aideologi più estremisti ogni tradizione letteraria possibile, anche la più recente (in quanto sempre in qualche modo crepuscolare, sentimentale – leggi populistica –, estetizzante ecc. ecc.), fino alla negazione della letteratura tout-court – la possibilità di comunicare attraverso qualche oggetto scritto, si è da una parte estremamente ristretta – limitata da un’infinità di negazioni normative non prive di moralismo – dall’altra si è fatta estremamente nuova. La pagina si è intensamente e follemente sostantivata, con la prevalenza delle combinazioni del lessico allo stato più puramente e scandalosamente monosemico possibile: se ogni movimento sintattico rischia sempre di presentarsi come un movimento letterario, prefigurato della tradizione. Per abolire la letteratura e la tradizione come forme di un establishment inautentico, è chiaro che va abolito ogni decoro stilistico prima, e poi, addirittura la sintassi: che non viene, dunque, disintegrata, o resa abnorme da usi eslegi, o insomma in qualche modo dissacrata: ma, appunto, del tutto abolita. Il testo si presenta così come una «cosa scritta» fuori da ogni involucro sintattico: tale testo è quindi tutto disposto su uno stesso piano, come le aste dei bambini o la scrittura dei primitivi. La diversità dei piani viene creata artificialmente con il soccorso dei mezzi tipografici e con le varie combinazioni di quella serie infinita di sostantivi che 108
sono le parole al di fuori dalla sintassi. Tale scrittura si presenta così come liberata dalla serie di forze, praticamente fuori da ogni possibile computo, il cui equilibrio tiene in piedi un sistema linguistico classico (sintattico-stilistico), come l’equilibrio tra le forze fisiche tiene in piedi un universo. Quelle forze innumerevoli che attirano o respingono in tutte le direzioni, sono per così dire dei «poli» sopravviventi, appunto, sì, attraverso la tradizione, che è una serie di superamenti, oltre che di negazioni: e come tale, oltre che ordine, è anche caos. La sintassi è la riproduzione dell’ordine e del caos della storia linguistica (la scoperta di tutti i poli, la cui forza di attrazione e di repulsione tiene in piedi un periodo sintattico, sarebbe la ricostruzione di tutta la storia ecc. ecc.). Nel momento in cui uno scrittore rinuncia alle concrezioni presenti e compresenti della tradizione storica, deve operare anzitutto una semplificazione: ossia una riduzione dei poli che tengano in piedi la sua «cosa», che se non è sintattica è però scritta, e quindi possiede comunque dei nessi se non altro meccanici che fanno delle singole monosemie un insieme. Senza tali forze in equilibrio la cosa scritta si dissolverebbe centrifugata dalla sola forza della negazione. A sostituire il numero incalcolabile di poli che la tradizione offre a un sistema linguistico attraverso la sintassi come istituzione storica – insieme evoluta e ferma a tutte le sue precedenti fissazioni – gli scrittori dei nuovi sistemi linguistici non hanno che due «poli» (a parte quelli sopravviventi loro malgrado, in modo elementare nel lessico, nei semantemi sia pure dissociati, nella frantumazione dei rapporti nome-aggettivo, sostantivo-verbo ecc. ecc.): un polo è, appunto, la negazione, e l’altro è il mito del futuro: le loro cose scritte si presentano come non-storiche, e, insieme, come prefiguratrici di una immediata storia futura. Nella fattispecie linguistica, se non ci inganniamo, la negazione è negazione dell’osmosi col latino, e il mito è il mito dell’osmosi tecnologica. L’uomo insomma viene inteso nella sua prefigurazione di «homo technologicus» (il classicismo dei titoli latini è un prodotto fatale, e sia pure secondario, del mito: ogni mitizzazione non può presentarsi che come sostanzialmente classicistica). Sulla base della negazione dei valori sociali e linguistici del passato e del presente, si impianta una sorta di «mimesis» dei valori del futuro: ma, naturalmente, molto semplicisticamente – dato che ogni complicazione e profondità è assicurata a una ideologia nuova dal suo contatto con quelle 109
infinite del passato – mentre, nel caso di queste «cose» scritte, l’ambizione della totale novità e il rifiuto del passato rendono di una rozzezza quasi infantile i «poli» ideologici che le tengono in piedi. Comunque, quei valori del futuro sono visti attraverso la loro mitizzazione: non sono certo previsti attraverso la metodologia sempre demitizzante della scienza, o per lo meno del reale desiderio di conoscenza. Si può dire perciò, che forse in parte al di fuori delle loro intenzioni – ma certo in seguito alla violenza moralisticonegativa della loro normatività – almeno tre quarti del quantitativo dei loro testi privi di superfici interne (lo stesso Sanguineti è tutto frontale e piatto, come un neoclassico) è una forma abnorme di discorso libero indiretto. Essi cioè scrivono «parlando attraverso la voce di…»: e la voce è quella di un mitico «homo technologicus» che si fonda come eroe a rovescia, sulla negazione di tutto ciò che è passato e presente, e insieme offre la possibilità di nuove folli polisemie, sostituendosi alla storia in una previsione surrettizia e sacrale della storia. Una nuova possibile «condizione stilistica» per il Libero Indiretto, è dunque l’ipotesi di un mondo e di una lingua futuri – la cui descrizione scientifica e logica non sarà mai attendibile: mentre un certo grado di attendibilità può essere raggiunto attraverso una qualche forma di scrittura: nel nostro caso, una sorta di «discorso previssuto». La lingua parlata dall’ipotetico «homo technologicus», e previssuta dalle avanguardie, si fonda prima di tutto sulla negazione della lingua presente: il che si esprime attraverso una sua distruzione arbitraria e approssimativa – a fortiori, essendo imprevedibile il reale decadere di una lingua: si ha dunque una specie di distruzione simbolica della lingua attraverso una trasformazione della lingua in ecolalia. Ma come? Sostituendo «figure letterarie» che mantengono vagamente la loro fisionomia più recente ermeticoespressionistica, con figure analoghe (metri, aspetti tipografici ecc.) fabbricate con materiale casuale, dissacratorio. Ma, e qui è il punto, tale materiale viene preso talvolta di peso – come nella pop art – da sistemi tecnici di un mondo così contemporaneo da sconfinare nel futuro: mettiamo pure dai sistemi giornalistici di diffusione di massa – esattamente antitetici alla classica comunicazione culturale di élite ecc.; e mettiamo attraverso la manipolazione di macchine elettroniche (come in modo significativo ha fatto Balestrini). Il risultato è la compresenza nel «discorso previssuto» di una lingua fittiziamente distrutta e di una lingua fittiziamente ricostruita: si tratta insomma di un’ipotesi, cioè di un procedimento del tutto inverso rispetto a quelli scientifici. 110
C’è insomma anche nelle avanguardie degli anni sessanta quella sorta di ingenuità scientifica che caratterizzava certe avanguardie del principio del secolo: ma mentre, mettiamo, i futuristi esaltavano la scienza come prodotto della società borghese – di cui condannavano la parte meschina e conservatrice, ma nella cui parte aristocratica e dinamica si identificavano – gli avanguardisti di oggi, direi, mitizzano la scienza in quanto scienza applicata, e come tale modificatrice della società proprio in un senso palingenetico. Nei collages e nelle combinazioni lessicali e tipografiche senza ombre e profondità delle avanguardie, scorre come elemento unitario la mimesis del parlato di un prossimo uomo «redento» dalla scienza applicata. Insomma: la lingua della tradizione, che possiamo fare arrivare fino a un punto quasi contemporaneo a noi (scrittori), è una lingua A, che io voglio, per assurdo, considerare con le avanguardie come decaduta. Questo quasi corrisponde ai primi anni sessanta circa: momento in cui si è manifestata clamorosamente la presenza dell’Italia a un livello mondiale di evoluzione neocapitalistica (il Nord, dell’Italia: il Sud restando a tutto ciò implicato, da nuovi tipi di infrastrutture di base e da un nuovo tipo di urbanesimo – per esempio a Torino gli immigrati non imparano più il dialetto torinese degli operai della FIAT, ma il loro italiano dialettizzato e tecnicizzato). Tale fenomeno ha implicato una diacronia tra scrittori e realtà. L’obiettivo si è messo in movimento sotto i mirini linguistici, ed è loro sfuggito. Potrei dare infiniti esempi concreti di tale «decadenza» della lingua A: ne dò tre. Bassani aveva sotto il suo mirino d’oro e precisissimo, come quello di un fiabesco orologiaio, il mondo della piccola borghesia professionistica ferrarese ebrea: questo mondo egli l’ha inventato partendo da un’effettiva realtà sociale, usando degli Indiretti Liberi classici, con la stessa patetica cura con cui citava classiche allocuzioni, classici modi lessicali, classici giri sintattici molto parentetici, attribuiti dalla sua nostalgia a una ideale società colta, e, benché ristretta, infinitamente degna di rispetto e di fervore mitico (il rosso delle mura, le prospettive delle strade sassose ecc. ecc. sono elementi figurativi che hanno l’assolutezza di molta grande pittura di piccoli maestri ecc. ecc.). Le frequenti citazioni di «parlato», attribuito, del resto oggettivamente, ai nonni professionisti, ai padri dilacerati, fanno del libro ferrarese di Bassani un continuo reticolato di lampeggianti indiretti, contenuti nel breve giro di una citazione di parlato, che interseca ossessivamente il tessuto del libro (coi suoi momenti normali di discorso rivissuto tradizionalmente ecc. ecc.). Bene. Il mondo cui Bassani si riferiva, e che forniva la realtà al suo mito, è decaduto. 111
Un nuovo tipo di borghesia, nella stessa Ferrara, probabilmente, ha respinto indietro e ai margini la borghesia bassaniana: l’ha fatta decadere inattualizzandola, e in qualche modo, al limite, ridicolizzandola, come tutte le cose che incominciano a ingiallire. Certo, la borghesia descritta da Bassani, continua a esistere: non si è estinta. Ma essa si trova nelle zone ritardate della società: e poiché nella nostra epoca la «circolazione e la consumazione delle idee» è rapidissima, i ritardi divengono subito irreparabili. Anche il «generone» romano, equivalente della borghesia commerciale e professionistica ferrarese emanante dal cuore di un idealizzato Ottocento, in realtà feroce, avrà presumibilmente una agonia lentissima. Tuttavia, per chi guardi le cose impietosamente, giudice di ciò che è e di ciò che non è attuale, il «generone» è fuori gioco. Come gli integerrimi e amletici professionisti ferraresi, i grassi e cinici commercianti romani, sono diventati, nel giro di pochi anni dei personaggi in costume. L’attualità dei riferimenti a questo mondo, come problema comunque vivo nel mosaico italiano, come oggetto d’accusa ecc. ecc. operati da Moravia in certa sua narrativa, non è più. L’interesse si è totalmente spostato in un altro tipo di borghesia, i cui connotati si leggono molto meglio nei libri di sociologia americana che nella fantasia «ritardata» degli scrittori italiani. Il terzo esempio è personale. Quella sezione molto vasta della società italiana che è il sottoproletariato (nella fattispecie romano, ma idealmente comprendente, sia quello delle capitali del Sud, sia quello del Sud contadino), che era investita di un così cocente interesse negli anni cinquanta, ora, benché nessuno dei suoi problemi sia risolto, e le sue condizioni di vita siano praticamente le stesse, è fuori dal fuoco dell’interesse. E non per ragioni meschine, per una frenesia di attualità. Ma perché l’interesse si è spostato, per una tale oggettiva e imponente mole di ragioni storiche e sociali, verso altri problemi (quelli della completa industrializzazione dell’Italia, in evoluzione verso gli alti livelli neocapitalistici, e verso il sogno in via di realizzazione della tecnocrazia), che è naturale che tutti gli altri problemi scadano e si presentino come arcaici. Nei modi più diversi, tutti questi aspetti della realtà, sono stati espressi attraverso la lingua A. Lo stingimento di quegli aspetti, è lo stingimento di un’epoca, e quindi lo stingimento di quella lingua – poiché ogni lingua è sempre una metafora di un’epoca della storia e della società ecc. ecc. Le ragioni del loro «momento zero», hanno, negli avanguardisti italiani, un’aria anch’essa un po’ arcaica, e mettono un po’ in imbarazzo chi, come 112
me, sia convinto che le nuove avanguardie siano una cosa molto diversa dalle avanguardie del principio del secolo. Il «momento zero» inteso come crisi metafisica, come «débâcle» personale-collettiva ecc. ecc., da esplorarsi e risolversi nel buio della coscienza, ricorrendo ad apparati psicologici e sociopsicologici anarchici e irrazionalistici, e implicando un «ricominciare daccapo» di vaga ascendenza rimbaudiana, le cui formule sono lì già bell’e preparate, estremamente e baldanzosamente vitali – fanno sì che la definizione di quel «momento zero» risulti profondamente insincera. Tuttavia si può accettare l’ipotesi della morte della lingua A. Le avanguardie, attraverso le operazioni che ho descritto nel paragrafo precedente, postulano quindi la realtà di una lingua B. La postulano, non l’assicurano. Essi lavorano, non scientificamente, su un’ipotesi: e tale ipotesi linguistica è fondata su un mito: una società futura altrimenti funzionante per un antropologo, e i cui aspetti in qualche modo prevedibili, è preciso dovere di uno scrittore prefigurare. Questa idea del «dovere di prefigurare» è la normatività giansenistica di quei gruppi d’avanguardia, il loro ricatto morale. E non è, tale mostruosa forma di eticità, di «impegno», priva di qualche ragione. È chiaro che se la lingua A è decaduta, esaurendo la sua funzione di metafora, dovrà esistere una lingua B: e a uno scrittore non resta altro da fare che cercare di apprenderla, sia pure se apprenderla significa in qualche modo divinarla attraverso l’implicazione di un’idea mitica del futuro (cfr. ancora il paragrafo precedente). La realtà però è un’altra. Il vero problema non è più una lingua A (che, al limite, è decaduta) e non è neanche una lingua B (prospettata insinceramente a risolvere un «momento zero» convenzionale e fittizio). Il vero problema è una lingua X, che non è altro che la lingua A nell’atto di diventare realmente una lingua B. È cioè la nostra stessa lingua in evoluzione, attraverso fasi drammatiche e difficilmente analizzabili; e che, essendo in un momento acuto di tale sua evoluzione, è in caotico movimento, e sfugge quindi a ogni possibile osservazione. Con ciò restando la perfetta metafora di una società che si evolve, a una velocità mai finora conosciuta, neanche nei momenti delle più difficili transizioni o crisi. Il «momento zero» è costituito oggettivamente da questa «rapidità e irriconoscibilità del movimento della società in evoluzione»: che riescono forse a cogliere solo i sociologi attraverso delle statistiche ma senza tuttavia darne la concretezza che è complicazione (e l’unico momento in qualche modo scientifico delle avanguardie è la conoscenza di tali rilievi sociologici). L’aver ricondotto il problema, così, ai suoi termini scientifici del resto più 113
elementari, si presenta comunque, da parte mia, come un’operazione astratta. È vero che davanti a un osservatore linguistico altro non ci può essere che una «lingua in evoluzione» (e non due lingue, una morta e una futura), a cui i mezzi di diffusione linguistica – i giornali, la radio, la televisione ecc. – imprimono una velocità cui i linguisti, nel loro autobus, non possono tener dietro e che del resto non hanno mai sperimentato; ed è vero che il «momento zero» non è altro che la proiezione ansiosa dentro la nostra coscienza di un momento (numericamente altissimo) di una realtà che, nell’evolversi, ci sfugge. Ma tutte queste sono constatazioni: che implicano un solo fatto del resto ovvio: l’unica posizione possibile di fronte all’evoluzione di una società e della sua lingua è quella scientifica. Ora, benché si possa mettere in dubbio che lo scrittore sia uno scienziato, e si possa, al contrario, sostenere che, tutto sommato, prevalgono in lui le forze dell’angoscia su quelle della ragione – non si può negare che l’unità ideologica di uno scrittore italiano agli albori degli anni sessanta sia assicurata dalla fondamentale scientificità consistente nella sua analisi marxista della realtà. Così è proprio entro l’ambito di tale analisi marxista – in evoluzione rispetto a quelle ovvie ma così poetiche degli anni cinquanta – che si profila la presenza di un altro tipo di Libero Indiretto: il tentativo di far rientrare nella lingua dello scrittore, il linguaggio tecnologico del nuovo tipo di operai e di padroni. Una demitizzazione-modello dell’«homo technologicus», l’ha fatta Charlot, in «Tempi moderni», contrapponendosi ad esso nell’unico modo che pare possibile: ossia in qualità di superstite di un’umanità preindustriale. Entrato in fabbrica, Charlot contraddiceva la tecnica (e quindi la faceva rientrare nel suo mondo linguistico-espressivo) in quanto egli, sopravvivendo da un’altra civiltà, e conservandone le abitudini, metteva follemente e comicamente in risalto l’inespressività del mondo della tecnica. Il procedimento stilistico di «Tempi moderni», a quanto mi risulta, non è stato ancora superato. Teoricamente, si potrebbe dire che tale contraddizione (l’espressività di Charlot contro l’inespressività delle macchine) andrebbe oggi ideologizzata, presentando l’uomo espressivo non più come sopravvivenza, ma come evoluzione: è stato (direbbe un manuale) il punto di vista dell’operaio – elaborato e complicato, per quel che ci riguarda, dallo scrittore – che ha proiettato nella realtà, demistificandola, l’industrializzazione capitalistica del mondo: dovrebbe dunque essere ancora il punto di vista dell’operaio a demistificare la tecnicizzazione. 114
Ma intanto urge notare che, se la libertà si manifesta, nel mondo capitalistico, solo parzialmente, grazie alla diversità dei suoi livelli (coesistenza di forme arcaiche di vita, di regioni o nazioni sottosviluppate ecc.), la tecnicizzazione sarà definitivamente livellatrice: anzi, si presenta già sostanzialmente come livellamento potenziale. Sicché la lingua e la cultura del tecnocrate tendono già a essere la lingua e la cultura dell’operaio. In altre parole: fin che il linguaggio tecnologico non è che uno dei tanti gerghi di una lingua, le altre parti della lingua godono tranquillamente della loro parziale libertà (per esempio nell’«Impagliatore di sedie» di Ottieri, il gergo tecnologico padronale è trattato appunto come un gergo particolaristicocaricaturale secondo il procedimento stilistico di Charlot). Ma nel caso che tutta una lingua sia «omologata e modificata» dal linguaggio della tecnica, si ricreerà presumibilmente in tutta la vita sociale il fenomeno che oggi si verifica solo dentro la fabbrica: l’identificazione della lingua del tecnocrate con la lingua dell’operaio, e la susseguente soppressione del margine di libertà assicurato dai vari livelli linguistici. Non mi consta, infatti, che sia stato ancora «rivissuto» il discorso interiore di un operato col suo linguaggio in quanto linguaggio specifico dell’operaio. Nelle opere letterarie dedicate alla ricerca della condizione operaia agli inizi dell’era tecnologica, il protagonista, l’operaio, finiva sempre col venir tirato fuori dalla fabbrica e col venir sostanzialmente «rivissuto» in qualche altro momento della sua giornata: per esempio: I) nella sua vita privata, familiare, quotidiana (la più renitente, è da presumere, alle possibili osmosi col linguaggio tecnologico); II) in uno stato di simpateticità con la vita dell’autore, attraverso varie forme di nevrosi – sia pure allegorica (l’Albino Saluggia del «Memoriale» di Volponi); III) in una situazione tipicamente operaistica, con quanto d’enfasi operaia, apocalittica e redentrice questo comporta; ossia in altri momenti linguistici sia pur strettamente tipici dell’operaio (la koinè nazionale dei discorsi politici; la lingua letteraria dell’impegno; o la lingua di una situazione operaistico-sindacale: ed è questo il caso maggiormente significativo nel tentativo di far parlare l’operaio nel suo linguaggio). Ora, direi che la ragione profonda di tale «impossibilità di mimesis» è appunto l’identificazione potenziale del linguaggio dell’operaio col linguaggio della fabbrica. Impossibilità che si presenta come prefiguratrice di situazioni linguistiche future, ben più gravi di quelle pertinenti il mondo delle lingue letterarie. Pare non si possa «far parlare» la fabbrica, usufruire della sua lingua, reperirvi un margine di libertà, riviverla. Ecco il problema. 115
LA VOLONTÀ DI DANTE A ESSERE POETA L’interesse di queste mie note è solo contemporaneistico e italianistico: esse non sono che un contributo molto particolare alla «fortuna» di Dante in Italia in questi dieci, quindici anni (nella letteratura non accademica né specializzata). 1) Bisognerà tener presente che, con Dante, siamo non solo davanti alla scoperta della lingua, ma davanti alla scoperta delle lingue. Nell’atto stesso in cui è nata in Dante la volontà a usare per la Commedia la lingua della borghesia comunale fiorentina, è nata anche la volontà di capire i vari sublinguaggi da cui essa è formata: gerghi, linguaggi specialistici, particolarismi di élite, apporti e citazioni di lingue estere ecc. ecc. L’allargamento linguistico di Dante, dovuto allo spostamento del suo punto di vista in alto – l’universalismo teologico medioevale – non è solo un allargamento dell’orizzonte lessicale e espressivo: ma, insieme, anche sociale. Ogni volta che c’è la presenza o la possibilità, in un’opera, del Discorso Libero Indiretto, ciò significa che, ivi, si ha almeno una vaga, possibile «coscienza sociologica», se è inconcepibile rivivere un discorso altrui, linguisticamente, senza averne oggettivato, oltre che la psicologia, anche la particolare condizione sociale: quella che produce le diversità linguistiche. Ora in Dante c’è la presenza, potenziale, del Discorso Libero Indiretto: e non solo potenziale, se si accepisce l’uso del Libero Indiretto, in modo non strettamente grammaticale. Prima di tutto, i discorsi diretti di Dante, quelli chiusi tra virgolette, implicano una soluzione lessicale d’indiretto rivissuto. Infatti i personaggi non parlano mai come Dante. Non in senso strettamente naturalistico, certo: la mimesis naturalistica è sempre metaforizzata, in un poema in cui il tema centrale è il rapporto di una «prima persona» col mondo trascendente. Tuttavia: se i personaggi appartengono alla stessa classe sociale, alla stessa élite intellettuale o cultura specializzata, alla stessa epoca o generazione di Dante, il loro linguaggio non si differenzia da quello dell’autore, come istituzione linguistica. La differenziazione è solo psicologica: e riguarda quindi più lo stile che la lingua. È un fatto espressivo. 116
Se invece i personaggi appartengono ad altra classe sociale, ad altro mondo culturale, ad altra epoca che quelli di Dante, allora il loro «parlato» è caratterizzato anche linguisticamente; dal caso estremo in cui un poeta provenzale parla per un intero endecasillabo nella sua lingua, ai mille casi in cui si colgono, tra le virgolette del diretto, dei segni specifici di lingue speciali. Basta sciogliere questi diretti in proposizioni relative, con un che, e poi togliere il che, ed ecco che si hanno dei «discorsi rivissuti»: al fondo delle cui «condizioni stilistiche» c’è sempre una sostanziale coscienza sociologica. Ma c’è di più. Per esempio nell’episodio di Paolo e Francesca, secondo la strabiliante ricostruzione filologica dovuta a Gianfranco Contini, è chiaro che Dante usa, nel racconto, termini e espressioni «di moda» in testi che corrispondono più o meno alla nostra produzione d’evasione: erano le letture del mondo elegante e aristocratico. È chiaro che Dante, lui, non era utente di simili espressioni: il suo uso è quindi una citazione da un altro mondo linguistico: quello dei suoi personaggi. Il che significa, da parte di Dante, una immersione e una «mimesis» totale nella psicologia e nelle abitudini sociali dei suoi personaggi. E quindi una contaminazione tra la sua lingua e la loro. Non si tratta, si capisce, di un vero e proprio Libero Indiretto, in senso grammaticale. Si può parlare di un Libero Indiretto simbolico o metaforico: tale da essere assunto a un livello linguistico che naturalmente rifiutava, pur nella sua enorme disponibilità – sempre però strettamente economica – gli esperimenti di eccessiva vivacità (com’è appunto il rivivere mimeticamente il discorso altrui). Anche espressioni come «squadrare le fiche» o «fare del cul trombetta», o parole come «dindi», non sono dell’uso personale di Dante: appartengono a una cerchia linguistica di periferia o di quartiere malfamato; comunque di gente semplice e plebea, dedita magari alla malavita (insomma quello che, in Italia, Engels chiamava «Lazaronitum»). Anche tali espressioni sono dunque mimetiche, usate da Dante per abbozzare con due segni tutto un intero possibile Libero Indiretto in cui rivivere psicologicamente e socialmente la realtà dei suoi personaggi di bassa estrazione e senza cultura. La scelta del «volgare» fiorentino, dunque, come entità storico-linguistica da contrapporre in blocco al latino, in quanto lingua scritta e della cultura, è in fondo meno importante, o comunque meno interessante, delle varie scelte che Dante ha operato in seno al volgare stesso. Egli combatteva su due fronti: quello teorico e ideologico universale dell’opposizione al latino, e quello teorico e ideologico particolare dell’opposizione a una eventuale istituzionalità conformista del volgare stesso. 117
Probabilmente la volontà a usare il volgare gli è nata dalla sua coscienza corporativistica nell’ambito del comune fiorentino; e la volontà a usare le varie sottolingue del volgare, gli è nata dagli archetipi della sua partecipazione diretta e attiva alle complicate lotte politico-sociali della sua città. Egli cioè non era immerso in un mondo monolitico com’era stato per tutto il medioevo l’universalismo teologico-clericale (leggi il latino) che livellava tutto ecc. ecc. Ma, quella che si può chiamare la legge dell’omologia del Goldmann, faceva sì che il mondo proiettato in Dante dal suo particolare mondo sociale fosse un mondo analitico, diviso da varie caratteristiche sociopolitiche, e quindi linguistiche, contraddittorie (situazione che si ripete anche oggi nella società italiana). Il plurilinguismo dantesco, che, in seguito allo splendido saggio del Contini che l’ha descritto, è diventato nell’interpretazione forse rigida di alcuni scrittori «impegnati» italiani degli anni cinquanta, una «funzione», prefiguratrice e retroattiva, della letteratura italiana – si spiega, certo è vero, con l’interpretazione continiana dello spostamento tomistico e trascendente del «punto di vista» in alto, così da allargare l’orizzonte lessicale, in una compresenza panoramica dei suoi casi limite (mettiamo, sul versante colto, per una specie di ri-romanizzazione stilistica, «pulcro»; tutte le «parolacce» sul versante plebeo). Ma la spiegazione continiana – che in qualche modo pone l’accento sulla posizione teologico-universalistica di Dante – va puntigliosamente integrata col tener sempre presente il concreto oggetto di quel punto di vista: ossia una società che ormai richiedeva impetuosamente, a chi la vivesse, una «coscienza sociale», senza la quale l’allargamento plurilinguistico non sarebbe stato che meramente numerico, oppure meramente espressivo: una meravigliosa estasi linguistica, che, contemplando tutte le parole nella loro funzionalità e nella loro bellezza, facesse la metafora di una contemplazione di Dio ecc. ecc. Invece no: il punto di vista era doppio – e contraddittorio: al punto di vista dall’alto, corrispondeva un punto di osservazione dal basso, a livello della più contingente e meno trascendente qualità terrena delle cose. Ed è strano come, nell’idea estetica che abbiamo di Dante (come la si ha, mettiamo, di una città, o un paesaggio, nel ricordo) un punto di vista non esclude l’altro: io non so dire se il mio Dante è quello che dall’alto di un cielo tomistico mutua ai suoi lettori uno sguardo immenso e comprensivo al mondo, o è quello che, per i vicoli dei comuni e per i calanchi dell’Appennino, osserva analiticamente il mondo caso per caso. Se è l’inventore di un «Volgare Universale», o l’inauguratore di un «Volgare come 118
langue fiorentina, con tutti i suoi sottolinguaggi storici». 2) L’altra cosa che bisogna tener presente è una successiva interpretazione continiana. Quella dei «due registri». In Dante, per spiegarmi nel modo più semplice, il racconto è svolto secondo due «registri»: uno veloce, quasi inespressivamente sbrigativo, quasi brutalmente fattuale. Leggete, per esempio, con il ritmo di lettura con cui leggete normalmente un libro narrativo, l’episodio di Pia dei Tolomei: non l’avete cominciato che è già finito, forse non vi siete nemmeno accorti di averlo letto ecc. ecc. Quasi si trattasse di un brandello di «libretto d’opera», che suggerisce i sentimenti e i fatti più che dirli, con approssimazione esaltata. E poi rileggete lo stesso pezzo di Pia: nella rilettura (o nella recitazione a memoria), il ritmo è quello dell’altro registro: il ritmo lentissimo, atemporale, che si iscrive in un tempo che non è né quello della lettura né quello dei fatti, ma quello metastorico della poesia: il suo «ralenti» da epigrafe sublime, il suo casto e quasi mormorato do di petto senza fine. La «doppia natura» del poema di Dante si dichiara anche in altri termini, oltre a quello dei due punti di vista (quello teologico e quello sociologico), e a quelli del registro rapido, o «nel tempo delle cose», e del registro lento, o «fuori dal tempo delle cose». Si tratta stavolta di termini più semplicemente tecnici. I) Il poema di Dante è un’allegoria, e perciò, proprio in quanto tale, è una coesistenza delle due nature della narrazione figurativa e della narrazione simbolica. II) Del proprio poema, Dante è scrittore, ma anche protagonista: Dante in quanto scrittore rappresenta un mondo metafisico con tutte le sue implicazioni teologiche e culturali, ma Dante in quanto protagonista visita e ricorda semplicemente un mondo di morti. III) La Commedia è un poema, e come tale, almeno ai nostri occhi di contemporanei, si presenta come una mescolanza di romanzo e di poesia: la natura del romanzo può essere fisicamente rappresentata dalla «lingua della prosa», mentre la natura della poesia, lo è, ovviamente, dalla lingua della poesia. Ora queste due lingue, compresenti in ogni situazione linguistica civile, non sono per natura sincroniche. Si direbbero anzi, al limite, inconciliabili. Le «forme interne» che sono le psicologie dei personaggi, così come ci si presentano a lettura finita, sono, in Dante, di tipo formalmente romanzesco, cioè razionale, e non formalmente poetico, cioè intuitivo. I grandi personaggi di Dante hanno la «durata» dei grandi personaggi concepiti in prosa: sono presi in una loro, sia pur sintetica, e stupendamente sintetica, evoluzione logica, seguita in movimento, dalla 119
penetrazione psicologica, dalla pietà creaturale, e dal giudizio morale: ossia, nell’insieme, da uno sguardo sociale, profondamente oggettivante. Non sono mai proiettati con l’immediatezza allucinatoria della poesia: che fissa le figure in un loro momento assoluto, inalienabile ma anche inanalizzabile, stupendamente arbitrario e impressionistico. Anche le figurette minime – rese sempre con suprema precisione poetica – non sfuggono al razionalismo prosastico di Dante. Anch’esse sono calcolate, come la topografia metafisica, la regolarità delle cantiche e dei versi ecc. Rientrano cioè nella programmazione escatologica interna al poema. Ma anche qui abbiamo un caso simile a quello dei «punti di vista» e dei «registri»: non esiste una norma, nel rebus dantesco, che stabilisca un qualsiasi ordine nell’uso della lingua della prosa e della lingua della poesia nei casi particolari. Rileggete ancora una volta l’episodio di Pia sotto questo aspetto. La «forma interna» (sintetica fino al limite) della psicologia di Pia è perfettamente razionale, benché si tratti di una biografia scritta sulla lapide: ma la lingua della poesia che «a fortiori» esprime in concreto tutto questo, attraverso una serie di allitterazioni anomale, di antitesi malamente catalogabili (dis-fecemi, inanellata, di-sposando), di accenti ritmici stranamente cantati e popolari, quasi da melodramma («Ricordati di me che son la Pia», che è l’endecasillabo di un canto monodico e monostrofico dell’area centro-italiana), se non contraddice a quella razionalità, la apre però verso indefinibili ambiguità irrazionalistiche. La «doppia natura» del poema di Dante si presenta dunque – ma potremmo probabilmente continuare – sotto la specie di questa serie di dicotomie: «punto di vista teologico» e «punto di osservazione sociologico»; «registro rapido» e «registro lento»; «realtà figurativa» e «realtà allegorica»; «Dante narratore» e «Dante personaggio»; «lingua della prosa» e «lingua della poesia». Allineando tutte queste tesi da una parte, e tutte queste antitesi dall’altra, veniamo a stabilire due serie, entro le quali si svolge l’operazione poetica dantesca. La prima serie, come si vede, è abbastanza coerente: il punto di vista della sintesi teologale e trascendente, implica una stretta funzionalità antiestetica, o a-estetica: quindi da una parte il registro rapido, che vada dritto allo scopo prefisso, che sia esaustivo di zone riservate con regolarità non trasgredibile a un dato argomento ecc. ecc., e, dall’altra, la progettazione razionalistica delle psicologie e delle figure del poema, mai abbandonate all’estro, all’ispirazione immediata. Il tutto dominato dal segno magico-universalistico dell’allegoria, 120
e riferito con una certa «ufficialità» e una gravità talvolta un po’ troppo solenne dal Dante narratore. Anche la seconda serie, tutto sommato, è sostenibile. È il punto di osservazione dentro il mondo pubblico di Firenze, coi suoi grandi avvenimenti politici, le sue violente situazioni umane, i suoi inenarrabili dettagli di vita, che può produrre quella congestione irrazionalistica che è il materiale delle altissime e misteriose «fissazioni poetiche»: e quindi il «registro lento», che coincide in Dante (come nel Petrarca) coi più tipici momenti della «lingua della poesia». Ed è quella stessa esperienza immediata e umana, che fornisce all’allegoria la natura della realtà figurativa: vissuta esistenzialmente dal Dante personaggio. Ora, c’era in Dante la volontà a essere poeta? Poeta dico, in quanto poeta? E qual era, e dov’era, questa volontà? Cercar di rispondere a questa domanda significa prendere la rilettura di Dante come una specie di esame di coscienza. Poiché, durante il breve periodo di un lungo dopoguerra, la «fortuna» di Dante in Italia – presso una «compagnia picciola», ancora cocente di interessi non maturati nei manuali – è consistita in una «funzione plurilinguistica» come garanzia di realismo, da una parte, e, dall’altra, come garanzia di ispirazione ideologica, di scrittura concepita al di fuori di ogni diretta volontà poetica (che aveva caratterizzato l’area marginale italiana della letteratura europea del Novecento). Ma intanto, va subito anticipata un’osservazione non critica: un’inconscia volontà poetica è in tutto il poema di Dante, intesa come inconscia volontà proprio di dare poesia in quanto poesia (è Auerbach che in un suo aureo manualetto di sinossi di storie letterarie romanze comparate, elegge Villon a «primo poeta in quanto tale»): e siffatta volontà, va aggiunto, è per natura una volontà anomala e misteriosa, alquanto vicina – diciamo noi utenti di Freud, e molto meno liberi degli avi – a forme di paranoia o di schizofrenia. La spaventosa unità del linguaggio di Dante credo sia un caso unico in tutte le storie letterarie conosciute. Ed è un’unità inesplicabile, se si pensa alla doppia natura del suo poema, che io ho cercato di individuare in alcuni termini antitetici, ma che in realtà è stato il problema principe di tutta la storia della critica dantesca. Un po’ come la coesistenza della natura umana e della natura divina in Cristo è il problema principe dell’esegesi evangelica (e non trovo per la Commedia archetipo più adatto, e sia pure così poco connaturale). Il contrasto delle due serie di principii che presiedono l’operazione linguistica dantesca, non consentirebbe nessuna unità linguistica possibile: a meno che 121
una delle due serie non si rivelasse surrettizia e pretestuale, per lasciare all’altra tutta la sincerità e l’autenticità. Ma ciò non è dimostrato, né in via di dimostrazione. L’unità poetica della Commedia, che, ripeto, ha qualcosa di terribile e forse, nel suo fascino sublime, di inconsumabile e di nemico, si presenta come un tutto irrelato: è – ripeto – presumo – una volontà inconscia, un sistema bio-linguistico naturale. Su questa strada siamo nel buio e nello «stridor di denti», conviene abbandonarla. Piuttosto che se c’è, meglio sarà allora chiederci dove è la volontà di Dante a fare poesia: in quali punti ideali. Se il principio a cui si deve la sintesi – l’unità del linguaggio – tra due serie antitetiche così straordinarie, resta totalmente inattingibile a una ricerca extratestuale. I «punti» del testo dove si riveli la «volontà diretta di poesia» non sono comunque verificabili né tutti da una parte né tutti dall’altra delle due serie antitetiche, né, tantomeno, lungo la linea di un qualche principio unificatore (che non sia ontologico); si presenta allora abbastanza valida, suppongo, un’ipotesi di lavoro: quella che preveda una ricerca di quei «punti» lungo la sutura dove le due serie opposte si congiungono o si urtano: e dove dunque l’espressività trovi i sui momenti più acuti o più instabili. Ipotesi magica! La sua applicazione, sia pur schematica e impaziente, nella parte del laboratorio dedicata alle osservazioni più specificamente linguistiche, mi sembra aver rovesciato tutta una parte dell’interpretazione dantesca della cultura militante italiana di questi ultimi anni. Infatti: il rapporto socio-linguistico tra le varie lingue che compongono il volgare fiorentino come lingua reale di una società articolata, dovrebbe essere, lungo la sutura che accosta due lingue molto diverse socialmente tra loro, altamente drammatico – dico drammatico espressivamente. Supponiamo dunque, per assurdo, che in un passo del poema si trovino accostate la (solita) parola colta, anzi addirittura obsoleta per eccesso di cultura, «pulcro» e la (solita) parola affettivo-familiare-plebea «dindi»: l’accostamento morfologico sarebbe un’esplosione di espressività («il pulcro dindi»!). Ma un accostamento di questo tipo nella Commedia non si trova mai. Non è che una mera possibilità. È vero dunque che c’è in Dante la coesistenza delle due differenti e opposte serie socio-lessicali: ma ognuna delle due sta sempre al suo posto, ognuna rientra dentro i limiti di un determinato caso, ossia dentro i limiti di una ideale «condizione stilistica» per rivivere emblematicamente il particolare linguaggio di un particolare personaggio (o ambiente). Solo «ripensando» alla Commedia vien fatto di tener conto della compresenza di due serie 122
lessicali così diverse. E l’accostamento è dunque solo nella nostra testa. Tale accostamento sarebbe accertabile anche nel testo, se Dante sciogliesse due termini lessicali dalla loro funzione socialmente evocativa (il potenziale Libero Indiretto) e li usasse arbitrariamente, facendoli suoi. Allora avverrebbe una frizione espressiva al di fuori di ogni funzionalità, gratuita: ed esploderebbe quindi nuda e cruda la «volontà di creare espressività» (come in tanta parte della letteratura contemporanea europea). Ma accostamenti di questo tipo, ripeto, non ci sono: il plurilinguismo dantesco è ben ordinato, ogni lingua, attinta funzionalmente, sta al suo posto. Se poi vogliamo non rinunciare del tutto all’idea della espressività plurilinguistica dantesca, così cara alle nostre abitudini di questi anni, possiamo riferirla alla pura e semplice presenza di parole fortemente differenziate, scandalose rispetto al volgare illustre: niente di più. Cioè niente urto espressionistico tra loro. Forse ancor più fruttuosa si rivela la nostra ipotesi di lavoro, se ricerchiamo i punti di frizione, di scandalo, di instabilità espressiva (dove si scopra la volontà diretta di poesia), lungo la linea dove avviene il salto di qualità dei due «registri». Bisognerà ricordare ancora una volta che è il punto di vista teologico, in quanto funzionale, che dà al poema i ritmi veloci, l’escatologia impietosa e contenutistica; mentre è il punto di vista terreno, coi suoi interessi umani immediati, la lotta politica, letteraria, linguistica, religiosa, anche, quello che fa soffermare lo sguardo pieno d’un’infinita possibilità conoscitiva, sopra le cose del mondo: fissandole in quel modo irrazionale e inanalizzabile razionalmente, che incide gli endecasillabi del «registro lento» (che sono poi quasi tutti gli endecasillabi del poema, ma isolati) come fuori dal poema, nella fisica fissità dell’eternità poetica. La volontà di Dante a essere poeta potrebbe dunque scoprirsi nell’accento sempre uguale di tutte queste «iscrizioni per lapidi» in cui consiste una vera lettura della Commedia (che è poi quella tradizionale dei mille luoghi mandati a memoria). In tal caso però, bisogna ammettere che, sia per la sua volontà che per la comprensione che noi ne abbiamo, si collocano a un livello di pura irrazionalità: perché quelle «eternità poetiche» (attraverso cui la Commedia «si rifà» fuori da se stessa), sono le medesime che sfuggono all’analisi nei sonetti più «eletti e selettivi» del Petrarca: quando si accentui, nel senso dell’altezza morale e conoscitiva, quell’elezione che nel Petrarca è essenzialmente sensuale e letteraria. 123
Insomma, siamo di fronte a una doppia serie di contraddizioni. A) In senso linguistico: la volontà a essere poeta si avrebbe in Dante nel momento espressivo, ossia negli acmi di una espressività dovuta alla presenza, eteronoma rispetto alla poesia, della teologia: ma a tutto ciò contraddice il fatto che la «volontà a essere poeta» si può ancor meglio rintracciare nei momenti supremi del «ralenti» metastorico (ossia nel momento più contraddittorio possibile rispetto all’ispirazione teologica – che è quella che dà il momento veloce, contenutistico). B) In senso politico-teologale, la contraddizione (analoga) è questa: lo spostamento in alto del punto di vista, allarga l’orizzonte linguistico, e assicura espressività e realismo alla lingua (momento quindi laico e antiteologale): ma, insieme, la fissità assoluta dei versi «lenti», sfugge, come abbiamo visto, al principio del razionalismo universalistico-teologico: appunto perché prodotto ultimo di un punto di vista umano che, in sé, non era che esperienza diretta, pragma: non razionalizzabile. E per questo, come dicevo, quei versi rientrano nella zona ontologica dell’ineffabilità e dell’irrazionalismo. Il reale momento sacro di Dante non consisterebbe dunque nella sua coscienza razionale teologica: ma si manifesterebbe in termini poetici, facendosi così laico, e, in qualche modo, letterario: «riesprimendo» autenticamente la metastoricità religiosa attraverso la storicizzazione di una «irrazionalità poetica». Ora, di tale «irrazionalità poetica» (di cui non conosciamo il principio reale) la caratteristica più sicura che possiamo predicare è l’unitarietà ossessiva di tono del poema: che non è mai dato dunque dall’uso di parole più o meno centrifughe rispetto al centro ispiratore: ma è dato dalla posizione regolare e in qualche modo precostituita che esse prendono nel discorso. Praticamente dalla discriminazione del loro uso. E, praticamente, ogni possibilità di contaminazione linguistica si vanifica nel testo dantesco, in quanto l’ossessione discriminatoria nell’uso delle parole potenzialmente «contaminanti» è tale da ridurle pressoché a fossili: e come tali assimilate nel tono cui Dante non trasgredisce mai, per nessuna tonalità più vivace o più sublime, più vicina alle chiacchiere della terra o ai silenzi del cielo. In fondo, ciò che ha reso Dante «macro», per tanti anni, è stata una terribile operazione di selettività: operata su un numero di parole e modi linguistici che egli stesso aveva reso praticamente innumerevoli. A proposito di altre operazioni analoghe (quella dell’Ariosto, quella del Cervantes) conosciamo, per nostra schematica soddisfazione, il principio di 124
tale «selettività su un vocabolario immensamente allargato»: è la nascita della borghesia, e quindi dell’humor come corrosione degli istituti feudali prima, e poi come schermo tra il soggetto e l’oggetto. Il distacco era così assicurato, e quindi l’eterna cadenza di uno stesso tono su una materia eternamente varia. Per Dante, se non conosciamo il principio del suo distacco selettivo, possiamo tuttavia dedurre, al di là delle sue varie tecniche, la misura, o la norma interna che lo regola: si tratta di una equidistanza rigorosamente mantenuta tra l’autore e gli infiniti aspetti particolari del suo mondo. Macro fino alla disumanità per questa scommessa vinta, Dante può ben dire alla fine del suo poema di non avere trasgredito mai di un millimetro questa sua equidistanza dalla materia: unica legge ferrea, spietata, dominante su tutte le leggi particolari che regolano il suo plurilinguismo. Ma tale ferrea legge dell’equidistanza non soltanto fa sì che – nell’interno di una progettazione generale che non ammette improvvisazioni parziali dovute a qualche libertà del sentimento – l’atteggiamento morale e sentimentale di Dante sia sempre lo stesso verso i suoi personaggi e i suoi fatti: ma fa sì anche che Dante sia sempre equidistante da se medesimo, ossia dai propri sentimenti: rabbiose contestazioni, contenute pietà, partecipazioni ingenue, severe e perdutamente dolci evocazioni di dettagli dell’esistenza, che siano. Dante ha potuto ottenere questo incorporando se stesso nella sua materia, cioè rendendosi protagonista del poema. I sentimenti perciò non sono mai suoi, ma sono del Dante personaggio: l’invettiva «Ahi Pisa…», per esempio, non è detta in prima persona, dal Dante autore, come sembra: ma è un «discorso libero indiretto» del Dante personaggio. Di qui il suo assoluto rigore stilistico: il suo mantenersi assolutamente equidistante, con tutto il resto del poema, dal momento creativo e linguistico dell’autore. La recente fortuna di Dante, fondata sulla ispirazione eteronoma e razionalistica, e sulla sua visione realistica della società – che produce il plurilinguismo – si rivela dovuta a un esame alquanto parziale. In realtà tutti i versi di Dante (eccettuati, probabilmente, i rari e inamalgamabili versi mitologici, e i versi scritti secondo certe regole bizzarre dell’ars dictandi), sono, nel profondo, fatti di un materiale infinitamente puro: molto più «eletti» di quelli del Petrarca (la cui «elezione» era, ripetiamo, letteraria: dovuta cioè a un regresso al volgare letterario del Dolce Stil Novo, linguisticamente omologo a una società feudale pre-comunale, o a una 125
nascente società signorile); anzi, così eletti, da non consentire comprensione se non, in fondo, infinitamente squisita, implicante la somma dei più alti sentimenti di ciascuno di noi. La contrapposizione di plurilinguismo dantesco a monolinguismo petrarchesco era, almeno nella «compagnia picciola», errata, o parzialmente errata. Se mai c’è da contrapporre monolinguismo a monolinguismo: un monolinguismo eletto e selettivo (Petrarca) e un monolinguismo tonale (Dante); un monolinguismo dovuto all’iterazione infinita del proprio atteggiamento interiore e del proprio rapporto con una realtà cristallizzata (Petrarca) e un monolinguismo dovuto a un’equidistanza perfettamente invariabile dal proprio atteggiamento interiore e dal proprio rapporto con la realtà, per quanto varia questa sia (Dante); un monolinguismo come soliloquio eternamente omogeneo (Petrarca), a un monolinguismo che omologa incessantemente le più diverse finzioni di dialogo (Dante). Ossia per certa critica marxista italiana, che voleva distinguere poesia da poesia, tutto sarebbe da ricominciare da capo. (1965)
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Appendice LA MALA MIMESI1
«La volontà di Dante a essere poeta» non nasce sotto il segno «dell’abusata contrapposizione di critica militante e critica accademica»: alcuni dei critici che stimo di più – anzi, per la verità – i critici che stimo di più, hanno insegnato o insegnano all’università. Il mio articolo nasce semmai sotto il segno della distinzione fra un piccolo gruppo critico, una «compagnia picciola», e tutta l’altra critica: e tale distinzione poi non è basata affatto su ragioni di valore o di validità, ma semplicemente sulla ragione che io ho fatto per Dante un discorso molto «privato», molto interno agli interessi di quel gruppo. Ho dichiarato questo esplicitamente più volte nella mia nota. Seguo ora i quattro punti della critica del Segre: 1) In un mio saggio su «Paragone», 184, pagg. 121-144, ho appunto cercato di allargare la nozione strettamente grammaticale del «discorso libero indiretto»:2 mi dispiace di aver turbato con questo i sonni terminologici della critica universitaria che si dichiara tale. Insisto a dire che il discorso libero indiretto è molto più complesso e complicato di quanto appare nell’uso corretto: insisto a dire che il libero indiretto non può che avere un fondo sociologico, perché è impossibile «rivivere» il discorso particolare di un parlante se non se ne sia individuata l’estrazione sociale con le sue caratteristiche linguistiche (dice benissimo Barthes: «… ogni individuo è prigioniero del proprio linguaggio: fuori della sua classe, la prima parola lo segnala, lo situa interamente e lo mette in mostra in tutta la sua verità». È ovvio che uno scrittore, se vuol rivivere le parole di quell’individuo, deve saperle cogliere in tutta la loro esattezza sociologica). Insisto infine a dire che ci sono dei discorsi diretti la cui precisione sociologica e linguistica implica un potenziale discorso libero indiretto. Per esempio i discorsi diretti di D’Annunzio non implicano nessun discorso libero indiretto potenziale: anche se resi prima indiretti, e poi liberati dal «che», è sempre D’Annunzio che parla. Invece i discorsi diretti di Dante implicano quasi sempre dei potenziali liberi indiretti, perché le loro parole sono le parole tipiche dei personaggi evocati. 127
(L’espressione «forma interna» nelle mie pagine era chiaramente usata nel suo significato comune e letterale: non in quello «elaborato dai filosofi del linguaggio». Non ci sono equivoci su questo, a meno di non crearseli apposta. Non potevo poi dare che come ovvio e scontato – e quindi un po’ approssimativo – il fatto che la lingua della poesia e la lingua della prosa non sono sincroniche, in un dato contesto. Infine il mio uso dei termini monolinguismo e plurilinguismo non è certo da assistente universitario: essi implicano tutta la mia ideologia di scrittore. L’operazione di un mio lettore, specie se mi legga con «animus filologico», dovrebbe essere quella di liberarsi dalle abitudini professionali, e cercar di capire ciò che io cerco di fargli capire.) 2) I primi capoversi delle osservazioni n. 2 del prof. Segre non sono da prendere in considerazione: si tratta di illazioni che i buoni borghesi da tempo usano fare sul mio conto, e a cui non ho mai risposto. Quanto agli altri capoversi… A Dante non importa niente del ceto di Vanni Fucci? E questo detto col tono di chi afferma che a Dante non importa niente del ceto di nessuno? Allora è veramente inutile discutere col prof. Segre: abbiamo delle idee diametralmente opposte. Approfitto ad ogni modo della questione qui sollevata (e su cui è inutile dirci perché tieni e perché burli) per tornare sul libero indiretto: ecco, quello di Vanni Fucci, un bel caso, su cui il prof. Segre potrà, se vuole, meditare, e verificare certe idee un poco scomode sulla «oratio obliqua»: prima di tutto non è vero, come dice il prof. Segre, che il «discorso diretto» di Vanni Fucci sia soltanto un «linguaggio forte ma stilisticamente perfetto e persino sostenuto». Dante, come sempre, mettendo tra virgolette il discorso del suo personaggio, non gliene fa un’attribuzione meramente grammaticale: esso è sempre una mimesi, sia pure sublime. Ed è questa mimesi che è poi il reale giudizio di Dante. Infatti il discorso diretto di Vanni Fucci lo rappresenta linguisticamente per quello che egli è umanamente e socialmente: qualcosa di diverso da un violento o da un ladro. E infatti Dante avrebbe potuto sistemarlo – e ci ha certo pensato – tra i violenti: ma la sua giustizia sarebbe stata solo parzialmente reale. Lo sistema, invece, per partito preso, per rabbia, per dispetto, per scandalo, per vendetta, tra i ladri: anche tale sistemazione non è dovuta che a un discutibile atto di giustizia. La figura di Vanni Fucci non è esaurita né dalla colpa di un violento né da quella di un ladro. La sua non è la lingua di un signore violento, né la lingua di un ladro plebeo: è la lingua di 128
un signore che per violenza è divenuto ladro. Egli si è declassato. Ha abbandonato le sue abitudini che potevano essere quelle di un nobiluomo, sia linguisticamente che socialmente (se questa non fosse un’endiadi), per assumere artificialmente le abitudini socio-linguistiche di un malfattore. Ciò sarà dovuto certo a un trauma a noi ignoto di quella turbata e irriducibile anima pistoiese. Un trauma che però noi potremmo anche riconoscere attraverso i nostri strumenti contemporanei di diagnosi (il marxismo e la psicanalisi), ma che Dante non riconosceva tuttavia meno o peggio di noi: e che quindi descriveva per quello che era. Vanni Fucci si presenta, attraverso le sue proprie parole – quelle che Dante con stupendo e assoluto mimetismo gli attribuisce – come un uomo che protesta contro il mondo e le sue istituzioni, un piccolo Capaneo di provincia, un vecchio teddy boy inferocito dalla contaminazione col mondo fuori legge (linguisticamente gergale) ch’egli ha scelto. Comincia subito col dire amaramente «piovvi»: fa dell’ironia su se stesso: un’ironia di signore, con vivacità popolare: «io piovvi in Toscana». Sa della propria condizione di abietto, di declassato, di «tipo che piove all’inferno»: e per la stessa ragione si definisce «mulo», ch’è un’altra vivacità da linguaggio parlato; quando poi si chiama da solo col suo soprannome posposto – altra abitudine gergale di servi – Vanni Fucci Bestia (che sia un soprannome lo attesta l’Anonimo Fiorentino; ma è una testimonianza di cui non c’era bisogno), dà l’ultimo tocco, perfetto, all’autodefinizione fatta con un gergo di malavita adottato per spregio alla vita bene. La lingua di Vanni Fucci ricorda insomma, come annota il Sapegno, la lingua dell’Angiolieri: un uomo colto che rifà lo stile comico degli ignoranti, per raffinatezza e rabbia. Solo che Vanni Fucci ha vissuto realmente la degenerazione: maledetto lo è stato veramente. Ed è questo che in realtà Dante condanna. Il discorso libero indiretto potenziale, che spia il reale giudizio di Dante su Vanni Fucci, ossia la sua reale conoscenza di quell’anima, oltre che affiorare nel diretto, affiora, ancora più violento e esplicito, nella didascalia narrativa. Dante cioè, parlando a lui e di lui («le mani alzò con amendue le fiche», «Dilli che non mucci») si pone sul suo stesso livello linguistico: rivive il suo discorso. Adotta cioè, per conoscenza della sua furia maledetta, e forse anche per difesa, quel linguaggio di ladri che Vanni Fucci aveva adottato per descriversi (e che era appunto il linguaggio ch’egli usava in vita – probabilmente nel 1292 Dante lo aveva conosciuto di persona e sentito parlare): contaminazione voluta tra lingua colta e gergo di malavita. È vero, infatti, che è Dante che, rivivendo il 129
discorso di Vanni Fucci, dice nel suo referto: «le mani alzò con amendue le fiche», ma è lo stesso Vanni Fucci che completa poi l’espressione. «Togli, Dio, ch’a te le squadro!». E questo taglia la testa al toro: infatti l’espressione intera, adottata da Vanni Fucci dal gergo plebeo, era «squadrare le fiche»: e di tale espressione metà (le fiche) ne usa Dante rivivendo il discorso di Vanni, in una fulminante mimesi, l’altra metà (squadrare) è nel discorso diretto di Vanni; che risulta progettato dunque da Dante dentro lo stesso ambito mimetico, da oratio obliqua, in cui è progettato il suo referto. L’espressione «squadrare le fiche», adoperata com’è, per il primo membro, fuori dalle virgolette, per il secondo membro dentro le virgolette, diventa simbolica e sintomatica: essa dimostra in concreto che l’operazione linguistica di Dante era la stessa fuori e dentro le virgolette: che la stessa quantità mimetica (parsimoniosa e sublime malgrado il comico) che si trova nel testo narrativo si trova dentro i discorsi diretti. Il discorso libero indiretto non si ha esplicitamente nella Commedia per la semplice ragione che Dante narratore è anche Dante personaggio: ed è lui, sia in quanto narratore che in quanto personaggio, che racconta. L’unica possibilità di discorso libero indiretto nella Commedia era così quello del Dante personaggio: e questo infatti accade, per quanto ciò sembri ostico al prof. Segre. «Ahi Pistoia», «Ahi Pisa», sono tecnicamente dei discorsi liberi indiretti del Dante personaggio (anche se, nel contenuto, possano coincidere con possibili discorsi altrettanto interiettivi del Dante poeta). Il giudizio che Dante dà su Vanni Fucci, non è nella pena infernale che egli gli assegna, e neanche nei fatti delittuosi che sono la ragione di quella pena: ciò che Dante condanna prima di tutto in Vanni Fucci è il processo degenerativo che l’ha portato a diventare da uomo nobile a vile rapinatore e ladro, e la bestiale furia sacrilega che, presentandosi come un alibi dell’orgoglio, ha nascosto la debolezza reale con cui egli ha ceduto alla degradazione. La lingua con cui Vanni pronuncia la sua sanguinaria profezia è la lingua forte e stilisticamente sostenuta della cultura: che viene però subito elusa, stravolta e quasi ridicolizzata sacrilegamente, come in una specie di atroce freddura, dalla conclusione: «E detto l’ho perché doler ti debbia!» Insomma Vanni Fucci è perfettamente al corrente della sua abiezione: sa come la malvagità viene in qualche modo giustificata dal suo eccesso: non solo, ma sa anche che tale eccesso di malvagità può in qualche modo giustificarlo davanti alla dignità di Dante e addirittura umiliare o rendere 130
un po’ meschina tale dignità. Ed è questo che esaspera Dante: che non sa perciò condannarlo oggettivamente (non esistendo la definizione neanche nominale del «reale» peccato di Vanni Fucci). Dante può dunque condannarlo solo a patto di conoscerlo e di descriverlo fino in fondo: cioè di smascherarlo. Il giudizio morale è un atto non istituzionale, ma originalmente conoscitivo. E il suo aspetto concreto, nella fattispecie, è mimetico. Altro che tradizione comica medioevale! Altro che scelta stilistica, autorizzata da una «preistoria (distinzione, gerarchizzazione e funzionalizzazione degli stili) lunga e ben nota»! Se Dante è l’autore del «Fiore» (devo ancora leggere il saggio attributivo di Contini: e son certo che mi convincerà), si dovrà dire che il volgare della Commedia è lontano da quello del Fiore almeno quanto è lontano da quello del Dolce Stil Novo. Potremmo dunque usare per Vanni Fucci, le accese parole di Mauriac, che interviene a proposito di un certo Figon3 sul «Figaro Littéraire»: Voi non siete un teppista, recitate soltanto la parte del teppista. Se lo foste, non avreste tanto la coscienza di esserlo. Questo Figon è uno degli «eroi» rapitori e assassini di Ben Barka: come dicono i giornali: «Ha trentanove anni, è figlio di un alto funzionario commendatore della Legion d’Onore. Ragazzo irrequieto e ribelle ha avuto la prima volta a che fare con la giustizia nel ’45, appena diciannovenne. Arrestato, si è fatto passare per pazzo ed è rimasto in un nosocomio di Villejuif per tre anni… Dopo aver vissuto di espedienti fino al 1950, per sottrarsi all’arresto apre il fuoco sugli inseguitori… Scarcerato nel ’61, si mette a bazzicare i caffè e gli scantinati di Saint Germain Des Prés. Collabora a diversi giornali… pubblica persino un saggio sulla rivista di Sartre… Nel giugno ’62 fa una sensazionale apparizione alla televisione. Viene intervistato, con il volto tenuto in ombra, nella sua qualità di teppista autentico. La sua confessione cinica, amara, fatta col linguaggio dei detenuti, suscita scandalo…». Dante è dunque scandalizzato. E, per un istante, la sua altezza morale par vacillare: si riprende subito, però, perché, come Mauriac, sa che Vanni Fucci, recita una parte. Rifà un linguaggio. (Che non è certo quello della malavita cittadina di Figon: bisogna tener presente che siamo nei dintorni di Pistoia: ed ogni bandito doveva pur avere avuto una mamma contadina toscana, con la sua bella lingua savia: e il giudizio eufemistico-umoristico, contadino, sui «cattivi» sarà pure in qualche modo rimasto nel giudizio ch’egli ha di se stesso: «vivace» dunque, piuttosto che strettamente «gergale» («Piovvi in Toscana», «Vanni Fucci Bestia», «mulo», «tana»: e 131
solo infine, a épater les burgeois, la sensazionale battuta: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!»). Dante dunque s’impadronisce della mala mimesi di Vanni Fucci: con questo s’impadronisce di lui: e formula, come ho detto, attraverso ad essa il suo giudizio reale sul peccatore. Ma la sua operazione non è tutta qui. Infatti, dev’essere subito ristabilito un equilibrio: il discorso non può pendere tutto dalla parte di quella mala mimesi. Bisogna ridare a Vanni Fucci quei diritti linguistici ch’egli rifiuta: appartiene egli sì o no alla classe colta e dirigente? È qui, nella sua appartenenza, per nascita, a un ceto, che si apre la falla di Vanni Fucci: smascherato, egli si rivela come appartenente allo stesso livello linguistico di Dante. Allora Dante gli ridà quello che gli ha preso. Entra in lui attraverso questa falla, portando con sé una invettiva ad altissimo livello, e lo adopera per renderla pubblica… Dopo insomma che Dante ha parlato, nel discorso diretto del suo poema, con le parole «vere» di Vanni Fucci, ecco che in un successivo discorso diretto dello stesso personaggio, costui parla con le parole «vere» di Dante. Dapprima si tratta di un canone dantesco medio: «Io non posso negar quel che tu chiedi…» per poi arrivare alle altezze di «ch’è di torbidi nuvoli involuto», che, appunto, è un po’ difficile attribuire contemporaneamente a Vanni Fucci e a Dante: si tratta decisamente di «stile dantesco», sono «vere» parole di Dante. La simbiosi linguistica tra Dante e il suo personaggio ha dunque tre fasi, ognuna delle quali sussiste liberamente dentro e fuori le virgolette, senza tenerne conto: la prima fase è un’adozione mimetica integrale, se pur sinteticamente sublime, della lingua comica, ossia naturalistica, del suo personaggio; la seconda è l’uso di una lingua media comune a Dante e al personaggio (se questo, com’è il caso di Vanni Fucci, appartiene alla stessa cerchia sociale e culturale di Dante); la terza è l’attribuzione al personaggio di modi tipicamente danteschi, di alto e altissimo tono, e, in quanto tali, inconcepibili in bocche di parlanti non poeti, sia pure eccezionali come uomini. Questi sono tutti elementi dell’oratio obliqua (quando non sia meramente naturalistica): è esattamente lo scambio che avviene tra autore e personaggio in un «libero indiretto», per cui il limite mimetico basso non impedisce all’autore di risalire quando e come vuole alle sue punte espressive più alte: quando l’ispirazione o la programmazione escatologica lo comportino. Rendendo Vanni Fucci «pretesto», per pronunciare, attraverso la sua bocca bestemmiatrice, una profezia, Dante ha insomma contaminato due lingue: quella gergale di Vanni, e quella poetica sua. La gergalità di Vanni, 132
in tale prospettiva, si presenta come un piedestallo esistenziale a un piccolo monumento di stile (la profezia) non privo di una certa rigidezza escatologica. Ma come Dante è libero rispetto alla mimesi del sensazionale parlare vero di Vanni Fucci, così è libero rispetto la propria escatologia. Le punte poetiche, alte, anche se non altissime – alte almeno come canone linguistico – «ch’è di torbidi nuvoli involuto» «e con tempesta impetuosa e agra», fuor escono dal testo profetico, sono momenti sovrascritti del «Dante ricordato a memoria» – sono, precisamente, dettati nel registro lento. E con essi Dante sembra prendersi la sua rivincita, una volta entrato, attraverso la falla che ho detto, dentro l’anima di Vanni Fucci: «Ah, tu conti di scandalizzarmi, di farmi fare la figura del borghese serio e moralista, di colui che è dalla parte delle istituzioni, del cittadino perbene che si adonta, alla televisione, davanti alle parolaccie di Figon? Ebbene, prima di tutto sia ben chiaro che io conosco il tuo gioco: Tu reciti una parte – e poi ascolta queste mie parole, intonate sul registro letterario più alto, con accostamenti dattilici di sdruccioli e allitterazioni: se tu sei pazzo in basso, io sono pazzo in alto. Se ho avuto la meschinità di vendicarmi di te catalogandoti tra i violatori del patrimonio anziché tra i violenti contro Dio (ma bestemmiando Dio tu vuoi offendere non Dio, ma coloro che, bene o male ci credono: fai di Dio un’istituzione sociale, un piccolo tabù pistoiese, il pretesto di un gruppo di privilegiati rissosi), devi ammettere, che, insieme, ti ho ingrandito: ti ho tirato fuori dalle tue tane campestri, ti ho rifatto in romanico puro, ti ho immesso nel mito dell’Antichità, ho dato alle tue piccole dimensioni la vastità reale delle piccole dimensioni dei classici appenninici o greci».
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LA FINE DELL’AVANGUARDIA (Appunti per una frase di Goldmann, per due versi di un testo d’avanguardia, e per un’intervista di Barthes)
I «Sarebbe interessante seguire i meandri di queste forme romanzesche secondarie che si potrebbero fondare naturalmente sulla coscienza collettiva. Si scoprirebbe forse – non ne abbiamo ancora fatto lo studio – una gamma molto varia, che va dalle forme più basse del tipo Delly, a quelle più elevate che possiamo trovare presso scrittori come Alexandre Dumas o Eugéne Sue. È forse su questo piano che bisogna situare parallelamente al Nouveau Roman, certe opere di grande successo legate alle nuove forme della coscienza collettiva.» Questa frase – che è un po’ un piano di lavoro futuro – con cui Goldmann conclude il suo saggio sulla «Sociologia del romanzo» – si presta a molte considerazioni. Prima di tutto a una considerazione critica sullo stesso Goldmann: Goldmann, infatti, sembra non sapere o non voler sapere che ciò che distingue i romanzi di second’ordine, qui indicati, dai romanzi di prim’ordine, analizzati nelle pagine precedenti, è il valore letterario, ossia una diversa qualità linguistica.1 Nel contenuto, nella vicenda – nella struttura pratica – essi sono identici, Dumas e Stendhal sono la stessa cosa: nulla distingue l’eroe dei due romanzi, nella sua corrispondenza «omologica» con l’eroe economico del capitalismo della libera concorrenza (secondo appunto le definizioni di Goldmann). C’è dunque un momento più sottile e complesso (quello della scrittura, o dello stile) da isolare nel fenomeno dell’omologia? Essa è abbastanza 134
semplice, così come Goldmann sembra concepirla: l’arrivismo dell’eroe dell’industrializzazione rassomiglia certamente all’impeto di affermazione del personaggio coesivo del romanzo ottocentesco ecc. ecc. Ma in tal caso non si viene a identificare un po’ ingenuamente la struttura del romanzo col suo contenuto socio-psicologico di vicende, col suo svolgimento ecc. ecc.? Prescindendo del tutto dalla lingua, ossia dal momento stilistico, su cui si fondano poi, invece, le gerarchie di valore del romanzo? Insomma: mi pare che un discorso sull’omologia, come quello di Goldmann, si potrebbe fare anche su dei romanzi tradotti. E infatti io capisco ciò che dice Goldmann, anche a proposito di testi russi o tedeschi (scritti cioè in lingue che non conosco): ossia a proposito, mettiamo, delle vicende dei personaggi di Dostoiewsky e di Kafka. Non nego che sia abbastanza lecito, tutto questo: il romanzo, infatti, possiede delle «forme interne», non linguistiche – per esempio la psicologia dei personaggi, le loro «figure» quali risultano a libro chiuso – che si possono benissimo mantenere intatte anche attraverso una qualsiasi traduzione. Ma la qualità della pagina, quella che determina appunto la gerarchia dei valori, e colloca i romanzi della Delly o di Sue in un ordine inferiore rispetto a quello di Dostoiewsky o Kafka? Interviene a questo punto, nella mia possibile critica a Goldmann, una diversa formazione culturale, un diverso modo di concepire la lettura di un testo (che io del resto metto qui in discussione). Ciò che io sono abituato a sentire subito in un testo non è, insomma, la vicenda romanzesca di un eroe, ma la qualità della pagina che la narra: la reale struttura di un romanzo non mi pare collocarsi nel suo campo semantico (adotto questa espressione per vaga analogia), ma nel suo campo linguistico. Per me, se c’è omologia tra struttura sociale e struttura romanzesca, tale omologia va ricercata confrontando la struttura sociale con la struttura linguistica del romanzo, o, nella fattispecie, con la sua struttura (finora ho sempre usato la parola sistema) stilistica. Almeno così mi pare. Ma, appunto, non ne sono più del tutto sicuro. Una seconda osservazione che si può fare su questa frase del Goldmann è certo un po’ extravagante rispetto al testo. Le «opere di grande successo» di cui parla Goldmann, potrebbero essere alcuni degli ultimi grossi films di spionaggio o western? Ossia: il discorso di Goldmann vale anche per il cinema? E quello che io ho definito «lingua del 135
cinema di poesia» non potrebbe essere che un capitolo parallelo del «romanzo senza romanzo» di cui parla Goldmann, come «struttura romanzesca omologa al capitalismo dei monopoli»? (È molto probabile: e io stesso, in termini più generici, concludendo quel mio saggio sul «Cinema di poesia»2 allargavo in questo senso l’esame strettamente tecnico). Nel cinema, la gerarchia di valori tra prodotto narrativo di prim’ordine e quello di second’ordine, è ancora più netta e clamorosa: le piccole borghesie dei paesi industrializzati – e ormai sulla via della civiltà tecnologica – hanno lasciato o stanno lasciando cadere l’interesse per le «qualità espressive» degli «individui problematici»: pare non abbiano più bisogno di un simile alibi davanti alla loro «coscienza collettiva». E la loro scelta è dunque quella naturale: esse scelgono cioè il film di second’ordine, senza espressività e senza problematicità. Ma come mai il cinema arriva a questo fenomeno con tanto ritardo? Le masse piccolo-borghesi del mondo industriale scelgono adesso il film di second’ordine analogo al romanzo di second’ordine di trenta o quarant’anni o cent’anni fa? Questo ritardo potrebbe forse essere una sincronia assolutamente normale con la narrativa dei poket-books? Ma i poket-books, come i succitati films di successo, non sono forse strutture narrative omologhe al capitalismo di trenta, quaranta o cent’anni fa? Come mai tanti consumatori, e così solerti e generosi, adesso? Tali consumatori – rappresentanti tipici del neocapitalismo – rimpiangono forse il capitalismo del padrone delle ferriere? E si tratta quindi del solito ritardo culturale delle grandi masse, che aspettano la «discesa» – come dicono gli studiosi di folklore – di prodotti elaborati e logorati dalle élites cronologicamente più avanzate? So male rispondere a tutte queste domande. Ma non è per rispondere direttamente ad esse, che ho cominciato questa seconda osservazione sulla frase di Goldmann: bensì per sottolineare un fatto: che mentre le strutture narrative dei poket-books si presentano esplicitamente come un revival editoriale, o fenomeno ritardatario di consumo di massa di prodotti culturali – la stessa impressione non si ha per i films analoghi a quei romanzi. Voglio dire che, la ipotetica e potenziale, lingua del cinema – se c’è – e se non c’è, se non è definibile – l’insieme dei «linguaggi d’arte» dei vari films – è una lingua internazionale e interclassista, per la sua stessa natura (anche se non ancora morfologicamente definita).3 Ora è vero che in ogni film c’è la lingua parlata dei personaggi, che ne 136
costituisce un momento particolaristico e nazionale: tuttavia tale lingua è in qualche modo diacronica col linguaggio tipico del cinema: per cui un imsegno è formato dalla presenza fisica audiovisiva del personaggio – dalla sua azione, da lui stesso – con l’integrazione della sua lingua (che diventa così soltanto, appunto, un elemento particolare). Bene: una lingua fondata sulla riproduzione audiovisiva della realtà, ossia della realtà tout court, non può possedere delle strutture strettamente omologhe a quelle della società storica riconosciuta, dove il film è prodotto. La riproduzione audiovisiva della realtà è una lingua o un linguaggio identico in Italia o in Francia, nel Ghana o negli Stati Uniti. Le possibili e non ancora definite strutture narrative di questa lingua del cinema, che «esprime la realtà con la realtà», non sembrerebbero dunque rispondere alle leggi dell’omologia – essenzialmente nazionali in quanto tipiche di nazioni dominate da borghesie capitalistiche – così acutamente descritte dal Goldmann: se un carattere omologico c’è nelle strutture del cinema in rapporto a quelle della società, tale società si configura, allora, in modo amorfo e generale, come l’intera umanità civile – comprendendovi i paesi in «via di sviluppo». Le strutture della lingua del cinema si presentano dunque più che come internazionali e interclassiste, come transnazionali e transclassiste: prefigurano una possibile situazione socio-linguistica di un mondo reso tendenzialmente unitario dalla completa industrializzazione e dal conseguente livellamento implicante la scomparsa delle tradizioni particolaristiche e nazionali. (Le proliferazioni di spie e di cow-boys, fortemente tecnicizzati, si presenterebbero così, soltanto in superficie, come riedizioni filmiche degli eroi della letteratura borghese di second’ordine – l’eroe romanzesco omologo all’eroe economico del capitalismo della libera concorrenza e del paleoimperialismo –: essi rappresenterebbero invece un sottile caso di interclassismo – tecnologico –, in quanto, forse, sarebbero gli eroi del «tempo libero» di società composte, al livello più basso, di operai specializzati: sogno comune, comunque, del dirigente e dell’operaio, del tecnocrate e del tecnico.) La terza osservazione sulla frase di Goldmann – ed è l’osservazione che qui importa di più – si presenta come strettamente italianistica, rientra nel nostro incubo di ogni giorno. Che cos’è, che, in Italia, ha sbloccato le masse di consumatori di films, riportandoli nelle sale cinematografiche? E che cosa ha fatto decadere certi interessi che parevano essersi svegliati negli anni scorsi, per i films dotati di 137
qualità espressive e di problematicità? E che cos’è, insieme, che fa sentire il sig. Valeri Manera nel giusto quando parla di un «ritorno all’ordine» della narrativa italiana? Credo di poter rispondere a queste domande con scandaloso semplicismo: in Italia la causa di tutto questo è il fatto che, per esprimermi con eufemismo mondano, il marxismo è passato di moda; e con ciò voglio dire che la cultura marxista, nel suo momento reale, è rivolta a se stessa, a criticarsi, a riflettersi, a ripensarsi, mentre, nel suo momento ufficiale, finge che nulla sia successo, si stringe intorno alla bandiera del suo vecchio operaismo, adopera parole e forme di un’ars dictandi quatriduana: e quindi interviene a vuoto – con qualche piccolo insuccesso elettorale. Nell’Italia della Resistenza e dell’impegno, ossia del momento vitale del marxismo, sia pure attraverso le vie del tatticismo e dell’ufficialità comunista, si era attuata una vasta operazione di diffusione culturale: era diventata «di moda» la cultura. E perfino le borghesie più conservatrici e ignoranti, per una specie di snobismo, erano attratte nel gioco: erano cioè consumatrici di films e di libri, che il PCI e la cultura di sinistra consideravano impegnati, perché l’impegno era al centro della discussione culturale e quindi mondana. Ora, dunque, i partiti e le organizzazioni marxiste non avrebbero più la forza di imporre la moda di certi prodotti culturali: sarebbero esautorati e flebile suonerebbe la loro parenesi. Con una brutale voltata di spalle la grossa borghesia e le masse piccoloborghesi, in una «nuova coscienza collettiva», fanno comunque scelte che s’impongono come sintomi di un mutamento pragmatico e irrefutabile. L’individuo problematico, che è stato l’alibi, dietro la cui accettazione la borghesia aveva potuto nascondere la propria cattiva coscienza, aveva avuto diritto di cittadinanza, in Italia, per un certo periodo, presentandosi come «impegnato»: ed era proprio la borghesia che lo voleva e l’accettava così: alibi sopra alibi; alibi dell’impegno sopra l’alibi della problematicità. L’impegno, dunque, nel periodo della ricostruzione borghese, non era che la veste della problematicità: e come tale era già prefigurato davanti alla coscienza borghese. Occorreva del resto un certo vitalismo, una certa speranzosa faziosità (analoghi a quelli delle Sinistre) anche al mondo degasperiano in faticoso movimento in avanti. Oggi, l’impegno è un alibi ormai inutile per la coscienza della borghesia italiana, che ha superato la miseria e ha valicato il primo traguardo dell’industrializzazione: e la caduta dell’impegno, come nozione-civetta, ha trascinato con sé, nella caduta, la problematicità tout court: la contestazione, l’individuo che protesta, 138
l’anormale, il Diverso ecc. (con qualche sia pur leggero caso di razzismo). La nuova «coscienza collettiva», in Italia, esclude i problemi. La sua ideologia, è ben noto, è il «declino dell’ideologia». Il marxismo, in crisi, non ha l’autorità per rendere validi gli argomenti che, giustamente, contestano tale declino, la sua vecchia pretestualità, il qualunquismo teppistico dei suoi appelli alla tecnica ecc. ecc. E in tale contestazione non hanno reale peso neanche i gruppi di marxisti rigidi, «piacentini» – radi gruppi operanti in provincia, in un’Alta Italia che pensa ad altro e altrove. Ripeto: la caduta della nozione di impegno, come nozione-civetta, ha trascinato con sé, nella caduta, la problematicità tout court, la contestazione, l’individuo, che protesta, l’anormale, il Diverso ecc. Ma qual è stato l’effetto di questo odioso bisogno di stabilità e livellamento delle borghesie, di questa oscena salute del neocapitalismo? Il più incredibile e il più naturale. Una reviviscenza, diffusa, violenta, scandalosa e popolare, fino ad arrivare ad essere di moda, della problematicità pura e semplice, della contestazione, dell’individuo che protesta, dell’anormale, del Diverso ecc.! Che sono giunti – nell’accanimento del difendersi e del disperarsi – a una sorta di aggressivo esibizionismo; disancorandosi e distinguendosi dalla protesta razionale del marxismo; o addirittura ignorandolo, come avviene soprattutto in America. Di fronte a questo revival anarchico non violento, ogni altra forma di contestazione alla società – e nella fattispecie alle sue élites letterarie – sembra soltanto letteraria. In confronto mettiamo a Ginsberg, tutti i contestatari linguistici appaiono degli abatini – come un giornalista imitatore di Contini, chiama i giocatori di calcio graziosi e accademici. Tutta l’avanguardia italiana, per esempio (a parte certi arrivisti, volgari e quasi fisicamente ripugnanti) è composta di tali abatini. Se dovessi definirli, direi che sono uomini che ripetono, e vogliono ripetere, con puntiglio quasi femmineo e provocatorio, le caratteristiche paterne… Ma ciò è da loro pacificamente ammesso (con altre parole, s’intende!). Poiché tutto è cominciato da parte loro, con un colpo di scena: cioè con la dichiarazione della propria dissociazione tra il fare linguistico e l’essere nella vita. Il fare linguistico consisteva in una pura e semplice battaglia linguistica contro la borghesia, l’essere nella vita consisteva in un comportamento naturalmente e tipicamente borghese. Gli scrittori d’avanguardia insomma accettavano la borghesia così com’è, allo stesso modo, per esempio, che un missino – per un esibizionismo che consiste nella scandalosa scelta del conformismo – accetta l’Autorità. Tale dissociazione, dichiarata con 139
sfacciataggine e con aggressiva coscienza, si è presentata, sulle prime, come facente parte di un insieme di nozioni strettamente unitarie, quali sono le nozioni di una poetica: e ha lasciato tutti interdetti. Ma sono passati due o tre anni e si sono ammassati sul tavolo un po’ di testi. Che cosa testimoniano tali testi? Che ciò che gli scrittori d’avanguardia avevano bandito e demandato ai rapporti cogli editori e in genere alla vita pubblica, si presenta non solo come parte o elemento di quei testi, ma anzi come loro unico reale contenuto. Prendiamo, da una delle tante rivistine terroristiche, il brano di un testo. Ecco: Non che un mucchio di luoghi echappés bescheissen contra diabulum auf dem Schlafhause bescheissen con lui nel dormitorio d’inchiostro semper diabuli duo… L’origine di questi versi lunghi è probabilmente nei versetti di Rimbaud, ripresi poi più volte nel corso dei revivals avanguardistici (ricorderei se non altro Ardengo Soffici, e in genere il futurismo). S’intende che ciò non m’importa come precedente (atto a svalutare comodamente l’avanguardia come ripetizione ecc.: perché ciò non è vero): m’importa piuttosto per individuare una categoria prosodica. Fin dalle origini questi versi lunghi o righe di versetti, erano in funzione antiletteraria – quando per letteratura si intenda un prodotto sintattico e lessicale – una tecnica semplicemente, come dice Barthes – che tutto sommato punti sul valore delle parole come centro dell’universo (quindi più sul loro «senso» che sul loro «significato»): nominale o verbale che sia, nella lingua della letteratura intesa classicamente – da Omero a Rimbaud non più del tutto compreso – i sintagmi tendevano a valorizzare delle singole parole. Ed era un insieme di parole pregnanti e concrete, sensuali e ideologiche, che fondavano le varie tecniche o «scritture». Questi versi lunghi (chiamiamoli così, non hanno altra definizione) anziché puntare le acmi del discorso su una o due parole singole chiave – facendo in pratica del periodo o del verso un piccolo ambiente illuminato in modo da mettere in risalto due o tre termini privilegiati – tendono a poetare le acmi fuori dalle parole, studiando bene il «cursus», in modo che nessuna acme cada su nessuna parola. La protesta antisociale si fa protesta antiletteraria, e questa si fa, così, protesta antiverbale. Il «cursus» del verso lungo, è dunque un «cursus» tangenziale, fondamentalmente dattilico (perché non c’è dubbio che è 140
un’idea d’impianto dattilico, forse non del tutto casualmente, a dominare le sue origini). Onde ogni parola singola è posta come su una curva inclinata, e la sua carica, in tal posizione, tende a rovesciarsi e a sfuggire tangenzialmente. L’insieme del «cursus» che, di tangente in tangente (il suo ritmo dattilico e senza sottolineature) centrifuga i significati metaforici della parola, alleggerendola fino quasi a svuotarla, vengono dunque a formare una curva convessa, una specie di chiusura dal di fuori del periodo o della lassa magmatica (di tipo un po’ biblico), alleggerita di tutti i suoi sensi e significati, di tutta la sua concretezza, di tutta la sua letterarietà e di tutta la sua vita. Ora, ogni distruzione è sostanzialmente un’autodistruzione: e nel «cursus» dattilico o tangenziale del verso lungo o dei versetti, tale ovvia verità si manifesta con chiarezza da laboratorio: distruggendo i valori sociali (letterari) della lingua, distruggendo la forza significativa e metaforica della parola, distruggendo infine la propria scrittura o la propria tentazione di scrittura – il poeta distrugge se stesso (ma non sarà una litote?), e diventa insignificante anche come attore di una semplice e assoluta protesta (se, di una protesta, ciò che interessano sono le ragioni, e quindi anche la psicologia). Lo so, su questo si potrebbe anche discutere (vedremo più avanti), ma ciò che mi interessa dedurre da queste osservazioni, è un’altra cosa. Cioè. In questi versi lunghi, l’uguaglianza di valore che viene instaurata per tutti i tipi di parole – la «democraticità verbale», per dir così, che toglie le punte espressive e livella il grafico delle oscillazioni linguistiche fino a una forma piatta e regolare; l’ingrigimento che ne consegue; e quindi il predominio della litote – come preservazione di ogni parola dalla sua carica espressiva singola, come continuo rifiuto ad esserci, e a volatilizzarsi, piuttosto, per la tangente; il livellamento operato dalle elissi e dalla specializzazione ermeneutica dei termini (non c’è espressività nel tedesco per chi non conosce il tedesco; e, per chi lo conosca, le parolacce scritte in tedesco perdono ogni violenza scatologica – come dire pianta anziché piede): tutto questo fa sì, in conclusione, che ci troviamo di fronte a dei «sèguiti» ritmici di parole livellate, allineate tutte su uno stesso piano, isocefale, isofone, frontali. C’è una tendenza, insomma, a escludere la metaforicità della lingua in favore della sua metonimicità: ma le figure metonimiche che ne nascono, di tipo sintagmatico, abbracciano brani di «senso», o di realtà, allo stesso modo con cui li abbracciano delle volute insignificanti di gesso. Sono infatti figure metonimiche nate semplicemente dalla perdita, voluta, della metaforicità: sicché si presentano in conclusione senza ombre, senza ambiguità e senza 141
dramma, come dei formulari impersonali o dei testi accademici. Si leggano tutte le poesie di Sanguineti – e si vedrà come questa descrizione sia esatta; e così le «azioni» di Balestrini, e insomma i testi dei meno abietti neoavanguardisti. Per quanto le pagine di Sanguineti, Balestrini e gli altri siano tormentate da parentesi, da tagli grammaticali, da voragini tipografiche, da interruzioni, inversioni e iterazioni di ogni genere, da citazioni di altri testi, i più antiletterari possibile (ma per lo più giornalistici – slogans, banalità della cronaca ecc. ecc.), per quanto vi si impieghi ogni sforzo per far dimenticare la letteratura intesa come parola, la pagina non si sprofonda mai, non si corruga mai, non si apre mai in superfici interne, non si rialza mai in rilievi, non presenta mai non dico un’ombra, ma neanche una penombra, neanche un chiaroscuro, e quindi non ha mai un’ambiguità (se non enunciata), un’incertezza, una zeppa, una pausa, un errore. Tutto quello che c’è, c’è: su un solo piano, privo di luminismo e investito da una bianca e asettica luce di universalità tipografica. Questa descrizione che ho fatto di un testo avanguardistico, come si vede, corrisponde perfettamente a ogni possibile descrizione di testo classicistico.4 Infatti, finito di leggere un testo d’avanguardia, che cosa sono venuto a sapere? Che informazioni ho avuto da quei modi di scrittura? Prima di tutto sono venuto a sapere – abbastanza chiaramente, e magari anche con piacere e con un senso di fraternità – che, in quel testo, e attraverso esso, si sta attuando una lotta linguistica: e naturalmente, in ciò, non c’è nulla di attinente col classicismo (ma nel caso, certo, che la volontà di tale lotta sia sincera). Comunque, vengo a sapere ancora, abbastanza chiaramente e con simpatia, che tale lotta linguistica si svolge: a) contro i modi quotidiani della lingua piccolo-borghese, stupidamente abitudinaria e impoetica, b) contro i modi di una letteratura tradizionale, che sarebbe il corrispettivo di tale lingua a livello gergale alto. Tutto, però, subito, sembra ridursi a queste due nude e schematiche informazioni. Quasi che l’idea di tale lotta fosse ossessiva, e quindi non potesse che ripetere all’infinito se stessa, pronunciando varianti meccaniche di formule sempre uguali. Questo vengo a sapere sulle finalità di quel testo. Ma che cosa vengo a sapere dell’autore di quel testo? Ah, qui, assolutamente nulla. O meglio, vengo a sapere una sola, un’unica cosa: vengo a sapere, cioè, che si tratta di un letterato. Un letterato, in quanto non è un mago che pronuncia degli esorcismi, né un prete che dice messa, né un 142
dicitore che propone degli slogans, né un notaio che legge dei verbali. Ma, come dagli esorcismi, dalla messa, dagli slogans e dai verbali, non vengo a sapere nulla del mago, del prete, del dicitore o del notaio – se non che è un mago, un prete, un dicitore, un notaio – così da un testo avanguardistico non vengo a sapere nulla del letterato che l’ha composto, se non appunto soltanto che è un letterato. Ed è così che si perpetua l’antico, immedicabile classicismo della letteratura italiana. Quando la letteratura è letteratura e basta, essa diviene un fatto sociale. Io posso così lecitamente identificare i letterati che si presentano come letterati e basta, con quello che essi sono socialmente. Una volta, dunque, che io abbia individuato i letterati d’avanguardia come letterati e basta – cioè che li abbia classificati socialmente, per quello che essi sono nella vita (e vogliono esserlo) – allora posso giudicare e criticare in essi ciò che ho sempre avuto ripugnanza a fare, per rispetto della grazia che deve pur avere la vita. Non tirare in ballo l’esistenza privata in faccende ideologiche, non mescolare il carattere a dispute letterarie ecc. Non fare, insomma, del moralismo. Invece ora so che se volessi farlo, potrei farlo: perché smascherato il trucco della dissociazione – proprio e solo attraverso la lettura ormai completa dei testi – sbollito cioè l’effetto dell’iniziale colpo di scena – i letterati d’avanguardia, riassociati, si presentano per l’unica cosa che essi sono e che vogliono essere: ossia dei vecchi piccoli borghesi, riuniti secondo l’orrenda tradizione in gruppo (massoneria, mafia, accademia, chiasso al caffè, tornate congressuali, spirito di corpo). Sempre per rispetto della grazia che deve pur avere la vita, limiterò però le mie critiche di carattere pratico e quasi esistenziale – di diatriba letteraria – a due punti. 1) Il terrore, il tabù, l’ossessione dell’avanguardia per il naturalismo come falso bersaglio, rivela, ingenuamente, il terrore, il tabù, l’ossessione per la realtà. La tecnica letteraria che, in una rozza interpretazione, sembra meglio riprodurre per evocazione la realtà – il naturalismo – è quella che più spaventa gli scrittori d’avanguardia, e suscita il loro meccanismo di difesa, fatto di disprezzo e di sia pur fatuo terrorismo. 2) L’azione – in certo modo necessaria – compiuta dall’avanguardia per il ripensamento e il sovvertimento dei valori letterari che si andavano codificando – ha finito, naturalmente, col dare dei risultati controproducenti (di cui del resto a me non importa proprio nulla: è una constatazione che 143
faccio): ossia la bomba di carta fatta esplodere dagli avanguardisti sotto il fortino codificato dei valori letterari, vi ha fatto sciamare dentro attraverso la breccia un bel gruppetto di letterati di second’ordine (Berto, Bevilacqua, il buon Prisco ecc.): sicché la letteratura italiana è retrocessa in serie B. Ma va benissimo, perché questa è la verità, e dunque bisognerà esser grati all’avanguardia per averla a suo modo ristabilita.
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II C’è un nesso tra le mie tre osservazioni, molto asimmetriche, sul passo di Goldmann? Sì che c’è. I) L’omologia, ho detto, non è per me concepibile come strettamente contenutistica: occorre, ho detto, analizzare la struttura linguistica di un’opera, con cui integrare l’analisi della struttura della vicenda, operata da Goldmann. Qui credo che ci possa essere un punto franco di accordo e comprensione tra me e le avanguardie. Ed è su questo punto franco che c’è stato, ripeto, un momento di necessità delle avanguardie (all’inizio dell’ancora non riflessa e non accettata crisi marxista, e della nuova «coscienza collettiva» delle borghesie neocapitalistiche). II) Ho detto che il caso del cinema costituisce una eccezione alle leggi dell’omologia così come le prospetta Goldmann, poiché la specificità transnazionale e transclassista del linguaggio del cinema non consente una diretta omologia linguistica tra il cinema e le società nazionali. Non è affatto il caso, dunque, di prendere le parole di Goldmann come Vangelo: rassegnarsi cioè a essere fatalmente «omologhi nella propria opera alla società piccoloborghese», e fare di questo un alibi per essere lecitamente ciò che si è con colpa, ossia, effettivamente, appunto, dei piccolo-borghesi. Volgari, poi, com’è volgare tutto ciò che è piccolo-borghese. C’è un solo modo per riscattarsi da questa condizione: odiarla. Su questo le avanguardie fanno orecchio di mercante: ed è per questo che la loro effimera funzione si sta esaurendo, e la loro fine effettiva si può nominare e quindi è. Sul secondo di questi due punti, credo di essermi espresso abbastanza chiaramente nelle pagine di queste note. Sul primo punto, invece, mi vorrei soffermare. È poi proprio veramente vero, che la reale struttura di un’opera è la sua struttura linguistica (nel senso di stilistica)? È, questo, uno dei fondamenti del mio modo di vedere la realtà e di leggere i libri, che io non ho mai messo in discussione (di qui, appunto, qualche affinità elettiva con l’avanguardia, cui accennavo). Ora è invece proprio questo che sto mettendo in discussione, ma naturalmente con la massima incertezza (per cui ne scrivo difendendomi, con una sorta di serpeggiante e sotterranea vena umoristica – segno di prudenza – che non mi è certo abituale…). Ciò che mi intriga – e mi intriga perché ne sono maturo – è il fatto che i due più avanzati e straordinari rappresentanti del saggismo europeo, che io 145
conosca, ossia Goldmann e Barthes, sono ambedue ciò che noi in Italia chiameremmo dei «contenutisti»: sono completamente sordi – se non quando se ne occupano specificamente – alle preziosità fonetiche e alle dilatazioni semantiche di una lingua: alla lingua a sé stante – quasi non fossero mai esistiti idealismo e stilcritica. Ma io ero arrivato, comunque, a questo… «contenutismo»… come il solito… per vie tortuose, mal definibili e includenti vicissitudini biografiche e passioni, incontinenti, per un fare fatto sempre prima di essere capito. In breve: il sentire di non poter più scrivere usando la tecnica del romanzo si è trasformato subito in me, per una specie di autoterapia inconscia, nella voglia di usare un’altra tecnica, ossia quella del cinema. L’importante era non stare senza far niente o fare negativamente. Tra la mia rinuncia a fare il romanzo e la mia decisione di fare il cinema, non c’è stata soluzione di continuità. L’ho presa come un cambiamento di tecnica. Ma era vero? Non si trattava piuttosto dell’abbandono di una lingua per un’altra lingua? Dell’abbandono della maledetta Italia per un’Italia almeno… transnazionale? Della vecchia rabbiosa voglia di rinunciare alla cittadinanza italiana? (Per assumerne quale altra, poi?) Ma in fondo non si trattava neanche di questo; no, non si trattava neanche dell’adozione di un’altra lingua… Facendo il cinema io vivevo finalmente secondo la mia filosofia. Ecco tutto. Mi si voglia scusare se per spiegarmi, racconterò, qui, la trama del primo episodietto, introduttivo, di un film misto, a episodi, che ho tra i progetti. C’è Totò, coi capelli fatti di tante matite colorate, come il personaggio della Lampostyl, dietro a una cattedra, che spiega. E Ninetto, col fiocco rosso dello scolaro diligente e menefreghista, che l’ascolta, imparando come una scimmietta la lezione. Ma perché Totò sta così leziosamente abbandonato sulla cattedra? Perché se la fuma, parlando, così beatamente, e quasi sbadigliando per la sazietà dell’intima soddisfazione? Bene, egli sta spiegando che cosa è il cinema: ed è appunto quello che è il cinema, che lo rende così in armonia con la vita, e così felice di farne partecipi gli altri. Tanto è vero che finisce le sue spiegazioni cantando delle strofette, e Ninetto gli tiene dietro cantandone il ritornello. Il cinema è una lingua – canta Totò – una lingua che costringe ad allargare la nozione di lingua. Non è un sistema simbolico, arbitrario e convenzionale. Non possiede una tastiera artificiale su cui suonare i segni come campanelli 146
di Pavlov: segni che evocano la realtà, come appunto un campanello evoca al topolino il formaggio e gli fa venire l’acquolina in bocca. Il cinema non evoca la realtà, come la lingua letteraria; non copia la realtà, come la pittura; non mima la realtà, come il teatro. Il cinema riproduce la realtà: immagine e suono! Riproducendo la realtà, che cosa fa il cinema? Il cinema esprime la realtà con la realtà. Se io voglio rappresentare Sanguineti, non ricorro a evocazioni da stregone (la poesia) ma uso lo stesso Sanguineti. O, se Sanguineti non vuole, prendo un seminarista col naso lungo, o un ombrellaio coi panni della domenica: prendo, cioè, un altro Sanguineti. Non esco comunque dal cerchio della realtà. Esprimo la realtà – e cioè mi distacco da lei – ma la esprimo con la realtà stessa. Così, tutti felici, Totò e Ninetto, escono dalla scuola, e vanno a realizzare la teoria per le strade, per le piazze, tra la gente. E il cinema è questo! Non è altro che stare lì, nella realtà! Tu ti rappresenti a me e io mi rappresento a te! In qualsiasi momento, la realtà è «cinema in natura»: manca soltanto una macchina da presa per riprodurla, cioè scriverla attraverso la riproduzione di ciò che essa è. Il cinema è dunque virtualmente un infinito «piano sequenza»: infinito come la realtà che può essere riprodotta da una invisibile macchina da presa. Non c’è un solo momento in cui Sanguineti non sia cinema: egli c’è sempre (fin che vive) e ci può essere sempre, quindi, virtualmente, una macchina da presa che lo riproduca, in un «piano sequenza» infinito e ininterrotto come la sua presenza… Ora, che cos’è la presenza? È… è qualcosa che parla da se stessa… È un linguaggio. La realtà è un linguaggio. Altro che fare la «semiologia del cinema»: è la semiologia della realtà che bisogna fare! Il cinema è la lingua scritta di tale realtà come linguaggio. La presenza di Sanguineti5 è una realtà che mi parla: mi dà informazioni su se stessa. La fisionomia, prima di tutto, mi dice che si tratta di un uomo di mezza età, dall’aspetto ancora abbastanza adolescente, che proprio bello non si può dire, che ha insomma dei determinati connotati. Accanto al linguaggio della fisionomia c’è poi il linguaggio del comportamento: e il comportamento col suo linguaggio mi informa che l’individuo che così si comporta appartiene a una determinata classe sociale che fa parte di una determinata cultura ecc. ecc. Insieme al linguaggio della fisionomia e del comportamento c’è infine il linguaggio del linguaggio, ossia dell’italiano scritto-parlato di Sanguineti, che mi dà ulteriori informazioni sul suo determinato modo di 147
essere ecc. ecc. Se una macchina da ripresa lo riproduce, essa riproduce (o scrive) tutti i momenti della realtà parlante di Sanguineti. Ora, tutti questi linguaggi (quello della presenza fisica, quello del comportamento, e quello della lingua scritto-parlata che sarebbero i tre capitoli fondamentali di un volume sulla «SEMIOLOGIA DELLA REALTÀ»), si riassumono poi in un linguaggio ultimo e principe, che è il linguaggio dell’azione. È l’azione – grida preso da furore pragmatico Totò – che trasforma la realtà in storia! Se Sanguineti fosse vissuto nell’età neolitica, e una macchina da presa l’avesse audiovisivamente riprodotto – le sue mandibole prognate, il suo comportamento abominevole, e le sue urla ferine (ma molto comunicative), ci avrebbero dato comunque delle informazioni su di lui, egli cioè si sarebbe espresso: ma la sua massima espressione sarebbe stata quella dovuta alla sua azione di fabbricante d’armi levigate, con cui avrebbe contribuito a modificare la realtà e a farne storia. Se invece egli fosse stato il capo della rivoluzione russa del ’17 si sarebbe espresso attraverso il grande poema d’azione della trasformazione delle strutture di una società feudale ecc. ecc. La serie di informazioni che un uomo dà in sé in quanto realtà che si rappresenta e che agisce, si chiamano, in fondo, esempio: ed è questa la differenza tra il linguaggio della realtà naturale e il linguaggio della realtà umana. Il primo dà solo informazioni, il secondo, con le informazioni, dà l’esempio. Le tecniche audiovisive colgono l’uomo nell’atto in cui egli dà l’esempio (volendo o non volendo). Per questo la televisione è così immorale. Perché, non fondandosi soprattutto sul montaggio, essa si limita a essere una tecnica audiovisiva allo stato puro: è molto vicina, dunque, a quell’ininterrotto «piano sequenza» che è virtualmente il cinema. I «piani sequenza» della televisione mostrano gli uomini naturalisticamente: cioè fanno parlare la loro realtà per quello che essa è. Ma poiché l’unico intervento non naturalistico della televisione è il taglio della censura, fatta in nome della piccola borghesia, ecco che il video è una fonte perpetua di rappresentazione di esempi di vita e ideologia piccolo-borghese. Cioè di «buoni esempi». Ecco perché la televisione è ripugnante almeno quanto i lager. 148
Ma torniamo all’allegro discorso di Totò, che sta per concludersi. Se si può dire che la realtà – come rappresentazione di se stessa, ossia, come linguaggio – è un «cinema in natura», si può dire anche che il cinema, riproducendola, cioè divenendone il linguaggio «scritto», evidenzia quello che essa è, ne sottolinea la fenomenologia.6 Il cinema ci fornisce dunque «una semiologia in natura della realtà». Perché ho fatto tutto questo stravagante discorso? Perché mi ci è voluto il cinema per capire una cosa enormemente semplice, ma che nessun letterato sa. Che la realtà si esprime da sola; e che la letteratura non è altro che un mezzo per mettere in condizione la realtà di esprimersi da sola quando non è fisicamente presente. Cioè la poesia non è che una evocazione, e ciò che conta è la realtà evocata che parla da sola al lettore, come ha parlato da sola all’autore.7 Ecco gli strani caratteri del mio contenutismo… Leggo così con enorme piacere una intervista che Barthes ha dato a dei giovani8 e che ho qui dattiloscritta e inedita davanti agli occhi. Scrive, Barthes, partendo da alcune domande «linguistiche» sul cinema, che probabilmente, anche l’espressione cinematografica appartiene all’ordine delle grandi unità significanti, che corrispondono a significati globali, diffusi, latenti, non appartenenti alla stessa categoria dei significati isolati e discontinui del linguaggio articolato. Ma questa opposizione fra una microsemantica e una macro-semantica potrebbe costituire forse un altro modo di considerare il cinema come linguaggio, abbandonando il piano della denotazione… per passare al piano della connotazione, cioè a quello dei significati globali, diffusi, in qualche modo secondi. Ma sarebbe opportuno, a questo punto, ispirarsi ai modelli retorici (e non più letteralmente linguistici) isolati da Jakobson, da lui estesi in maniera generale al linguaggio articolato e che lui stesso ha applicato, di sfuggita, al cinema: ossia la metafora e la metonimia. La metafora – spiega Barthes – è il prototipo di tutti i segni che possono essere sostituiti gli uni agli altri per similitudine; la metonimia è il prototipo di tutti i segni il cui senso si sovrappone perché entrano in contiguità, si potrebbe dire in contagio. Per esempio, un calendario di cui vengano staccati i fogli è una metafora; si è tentati di dire che al cinema ogni montaggio, cioè ogni contiguità significante, è una metonimia, e dato che il cinema, è montaggio, che il cinema è un’arte metonimica… 149
Il segno dominante di ogni arte metonimica – e quindi sintagmatica – è la volontà dell’autore a esprimere un «senso», piuttosto che dei significati. Quindi a far succedere sempre qualcosa nella sua opera. Quindi a evocare sempre direttamente la realtà, che è la sede del senso trascendente i significati. «…Certo, l’opera ha sempre un senso: ma è proprio la scienza del senso, che gode attualmente di una espansione straordinaria (per una sorta di snobismo fecondo), a insegnarci paradossalmente che il senso, per così dire, non è racchiuso nel significato. Il rapporto tra significante e significato (cioè il segno) sembra da principio il fondamento stesso di ogni riflessione «semiologica»: ma in seguito si è portati ad avere del «senso» una visione molto più ampia…» E ancora: «…Il “senso” è una tale fatalità per l’uomo, che l’arte, in quanto libertà, sembra adoperarsi, soprattutto oggi, non a fare del senso ma, al contrario, a sospenderlo; non a costruire dei sensi ma a non riempirli esattamente». «Sospendere il senso»: ecco una stupenda epigrafe per quella che potrebbe essere una nuova descrizione dell’impegno, del mandato dello scrittore. E infatti a questo punto Barthes, pensa subito a Brecht. «In rapporto a questo problema del senso, il caso di Brecht è molto complicato. Da un lato, ha avuto, come ho detto, una coscienza acuta delle tecniche del senso (posizione, la sua, originalissima in rapporto al marxismo, poco sensibile alla responsabilità della forma); conosceva la responsabilità totale dei più umili significanti, come il colore di un costume o la collocazione di un proiettore… Infine, abbiamo visto con quale minuzia lavorava, e voleva che si lavorasse, alla responsabilità semantica dei «sintagmi» (l’arte epica, da lui predicata, è del resto un’arte fortemente sintagmatica); naturalmente tutta questa tecnica era pensata in funzione di un senso politico. In funzione di, ma forse non in vista di; ed è qui che tocchiamo il secondo aspetto dell’ambiguità brechtiana. Io mi domando se questo senso impegnato dell’opera di Brecht non è in fin dei conti, a modo suo, un senso sospeso… C’è senz’altro nel teatro di Brecht un senso, un senso fortissimo, ma questo senso è sempre una domanda.» Vorrei, infine, che il lettore non sorvolasse, ma leggesse anzi con molta attenzione, le due citazioni conclusive: «Qui ritorniamo a quello che dicevo all’inizio: il film è bello perché c’è una storia; una storia con un inizio, una fine, una suspense. Attualmente la modernità appare troppo sovente come un modo di barare con la storia e 150
con la psicologia. Il criterio più immediato della modernità, per un’opera, è di non essere “psicologica”, nel senso tradizionale del termine. Ma, nello stesso tempo, non si sa bene come espellere questa psicologia, questa famosa oggettività tra gli esseri, questa vertigine relazionale di cui (è questo il paradosso) non sono più ora le opere d’arte a occuparsi, ma soltanto le scienze sociali e la medicina: la psicologia, oggi, sta soltanto nella psicanalisi che, per quanta intelligenza, per quanta apertura ci mettano, è praticata dai medici: l’“anima” è diventata in sé un fatto patologico. C’è una sorta di rinuncia delle opere moderne di fronte al rapporto interumano, interindividuale. I grandi movimenti di emancipazione ideologica – diciamo, per parlare chiaramente, il marxismo – hanno lasciato da parte l’uomo privato, e senza dubbio non potevano fare diversamente. Ora, si sa benissimo che in questo c’è ancora della frode, c’è ancora qualcosa che non va; fino a quando ci saranno scene coniugali, ci saranno domande da porre». E più avanti: «Ma se agisce… la legge strutturalistica di rotazione dei bisogni e delle forme, noi dovremmo arrivare presto a un’arte più esistenziale. Vale a dire che le grandi dichiarazioni antipsicologiche di questi ultimi dieci anni (dichiarazioni alle quali ho partecipato io stesso, come si deve) dovrebbero ribaltarsi e passare di moda». Ora, che cos’è, in concreto, questo «senso» delle cose al di là del loro significato, se confrontato col concreto momento della vita e della storia che stiamo vivendo? Che cos’è questa psicologia nuovamente attuale? A che punto cogliere la rotazione dei bisogni e delle forme? Quali sono le reali domande da porre, onde sospendere il senso di un’opera? Barthes imposta i problemi, analizzandoli sul piano della pura osservazione: quale scienziato non è tenuto a cedere ai sentimenti che esalano dal magma, a perdersi nel fare. Ma mi sembra che se noi osserviamo quel «qualcosa» che sta accadendo nel mondo borghese, questo rovesciarsi nella quotidianità di valori negativi e ideali, violenti e non violenti: questo ripresentarsi della «povera e nuda» problematicità, forse cominceremo ad avere qualche confusa risposta… Mi sembra, insomma, che non manchi una «realtà» da evocare – in qualsiasi modo. E anzi che è colpevole il non farlo. E poiché quella realtà ci parla col suo linguaggio ogni giorno, trascendendo – in un «senso» ancora indefinito 151
(è certo solo che è disperazione e contestazione furente) – i nostri significati – è bene, mi pare, piegare a questo i significati! Se non altro per porre, appunto, delle domande in opere anfibologiche, ambigue, a canone «sospeso» (come il Brecht giustamente inteso da Barthes): ma niente affatto, in questo, disimpegnate, anzi! Questo «qualcosa», dunque, che implica un canone sospeso e una tensione senza meta, che si presenta come una novità nel mondo, se da una parte impegna a un allargamento e forse a una modifica metodologica dell’analisi marxista, si presenta tuttavia, almeno in parte e originariamente, come indipendente dal marxismo e quindi dal mondo operaio: è una forza violenta, prefigurata solo parzialmente e nominalmente da precedenti consimili, che scaturisce dall’interno della piccola borghesia, appunto, e dal mondo contadino arcaico e preindustriale (ora in via di sviluppo). È dunque una forza oscura e in rapporto scandaloso col neocapitalismo, che vuole integrarsi con la forza operaia (razionale e organizzata) momentaneamente ferma? E a questa forza negativa-positiva (nella sua violenza anarchica, nella sua rabbia pacifista, nella sua religione del misticismo democratico ecc.) si aggiunge la forza puramente negativa della rinascita nazista? Ma si può parlare di rinascita nazista? È mai morto il nazismo? Non siamo stati dei pazzi a crederlo un episodio? Non è esso che ha definito la piccola borghesia «normale» e che continua a definirla? C’è qualche ragione per cui i massacri in massa razzistici debbano essere finiti, coi loro lager, le loro camere a gas ecc.? Le forze nuove, che si scatenano come negative rispetto al razionalismo di questa borghesia «normale» che massacra gli ebrei a milioni ecc., sono forse una specie di anticorpi di salvezza? Il loro desiderio di morte è salutare? È moderna la mentalità di un figlio di contadini siciliani, algerini o venezuelani, che anziché la via cinese prende la via del neocapitalismo, ma con dentro una carica intatta di idealismo democratico? Ed è moderna la mentalità di un figlio di contadini rumeni, che partecipa, da protagonista, alla rivoluzione industriale delle campagne lungo il Danubio, vedendo il mondo trasformarsi letteralmente sotto i suoi occhi? (per non parlare di quello che succede nel mondo contadino della profonda Cina?) ecc. ecc. Per finire, quindi, ingenuamente, grossolanamente, ma a scanso di equivoci: ci sono alcune forme di coscienza già prese, che contraddicono, e scandalosamente, insieme il razionalismo marxista e il razionalismo 152
borghese: esse si esercitano – ma in una stretta connessione che è forse il «senso» non ancora, appunto, razionalizzato – sui seguenti punti: a) Una rivolta crescente, in forme e quantità finora mai verificate, contro la borghesia in seno alla borghesia: che scandalizzano l’ideologia della nonideologia borghese, ma, insieme, l’ideologia marxista, che è ancora bloccata, su questo fenomeno, alle vecchie, noiose condanne di ogni anarchia,9 ed è incapace del resto di assumere in un pensiero sintetico la volontà sinceramente rivoluzionaria che, nascendo dall’interno in una democrazia concepita quasi misticamente, pone, almeno in America, le basi per una guerra civile (che i più emotivi, i minutemen nazisti e i negri estremisti stanno già combattendo come lotta armata). b) La presenza del Terzo Mondo (né è compresa parte dell’Italia), oggetto di odio razziale da parte della borghesia, e di incomprensione sostanziale da parte del marxismo (che cerca di porsene paternalisticamente alla guida). Il centro di questa presenza come scandalo, lotta, bisogno esasperato dei più elementari diritti umani, è ancora il mondo negro americano. c) L’arresto dell’impeto rivoluzionario nelle nazioni dove si è avuta la rivoluzione comunista (stalinismo, burocrazia ecc.): impeto che continua solo là dove sia in atto la rivoluzione industriale delle campagne (per es. Rumenia e Cina). Ma è fatale: non appena compiuta la rivoluzione industriale delle campagne, con la presenza massiccia del mondo contadino (arcaico e bisognoso di miti; moralistico; cavilloso; ingenuo; previdente, benpensante; insomma, piccolo-borghese, come diceva Lenin), si forma come una specie di enorme palude in cui l’impeto rivoluzionario degli operai e degli intellettuali affonda lentamente: dopo ogni rivoluzione industriale contadina ci sarà uno stalinismo (vedi ora, forse, Cuba). d) La presenza ininterrotta del nazismo come unica vera ideologia borghese (vedi l’America provinciale, Dallas ecc. ecc.). Non c’è nessuno che non senta come queste grandi elencazioni siano sproporzionate a proposito dell’avanguardia. Appunto. Ma io non voglio prevaricare; il lettore prenda queste elencazioni di fatti internazionali semplicemente come principi di situazioni reali che vogliono essere evocate o testimoniate: così forti (fuori da ogni codificazione razionalistica, ancora) da sostituire i vecchi fatti (ben individuati e codificati razionalmente) da cui scaturivano quelle correnti di realtà che avevano nutrito il vecchio impegno. E si impongono come necessità espressive, rendendo inattuale, con la loro attualità bruciante, la risposta capziosa, 153
elusiva, volgare, e nel migliore dei casi, futile, dell’avanguardia italiana (che poteva aver senso fin che il mondo pareva composto di vecchi borghesi della Confindustria o di funzionari comunisti). Insomma, lo stesso «senso nuovo» delle cose del mondo che segna la fine del vecchio impegno, segna anche la fine dell’avanguardia. (1966)
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Appendice
GUERRA CIVILE1
A proposito della vita e della lotta politica negli Stati Uniti, le osservazioni, che io citavo a memoria e riassumendole, sono dovute ad autori americani della Nuova Sinistra, e precisamente a due ideologi dello SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee), Tom Hayden e Jimmy Garrett. Del primo sono le osservazioni sul fatto che la collettivizzazione comunista non porta necessariamente (storicamente) l’operaio alla completa partecipazione al potere, ossia alla decisione sul proprio destino, e che, se mai, è vero il contrario, cioè che la creazione di un’«anticomunità» in cui il lavoratore giunga all’esasperata coscienza democratica del dovere e del diritto della completa partecipazione al potere, può condurre, come conseguenza, alla collettivizzazione dei beni. L’osservazione sul comunista come «uomo vuoto», è dovuta a Jimmy Garrett. La cito: «Amico, i comunisti sono vuoti, sono uomini vuoti. Hanno le stesse idee stantie, la stessa burocrazia… Quando si mescola fra noi, un “Commy” muore, e una persona si sviluppa». Queste osservazioni non sono mie, ma io le ho, in qualche modo, adottate. In Cecoslovacchia, in Ungheria e in Romania, ho vissuto il mio soggiorno in mezzo agli intellettuali, ed è quindi attraverso loro, attraverso la loro inquietudine, il loro malessere, che ho sentito l’inquietudine e il malessere di quei paesi: di cui credo si possa schematicamente e sommariamente indicare la causa nel fatto che «la rivoluzione non è continuata», ossia che lo Stato non si è decentrato, non è scomparso, e gli operai nelle fabbriche non sono veramente partecipi e responsabili del potere politico, e sono invece dominati – chi non lo sa, ormai, e non lo ammette? – da una burocrazia che di rivoluzionario ha solo il nome. E che naturalmente, dà dei «rivoluzionaristi piccolo-borghesi» a coloro che 155
invece credono ancora che la «rivoluzione debba continuare». Che in America ci siano degli ideologi non marxisti che hanno capito questo, in termini democratici – ma di una democrazia estremista, esasperata e quasi mistica, e che come tale, nel suo ambito, è rivoluzionaria (la creazione nel seno della comunità americana di un’«anticomunità») – non può non riempire di interesse e di entusiasmo. Lo SNCC, l’SDS, e un’infinità di altri movimenti che, nel loro caotico insieme, formano la Nuova Sinistra americana, sono qualcosa, ecco, che mi ricorda i tempi della Resistenza. In America, sia pure nel mio brevissimo soggiorno, ho vissuto molte ore nel clima clandestino, di lotta, di urgenza rivoluzionaria, di speranza, che appartengono all’Europa del ’44, del ’45. In Europa tutto è finito: in America si ha l’impressione che tutto stia per cominciare. Non voglio dire che ci sia, in America, la guerra civile, e forse neanche niente di simile, né voglio profetarla: tuttavia si vive, là, come in una vigilia di grandi cose. Coloro che appartengono alla Nuova Sinistra (che non esiste, è solo un’idea, un ideale) si riconoscono a prima vista, e nasce subito tra loro quella specie di amore che legava i partigiani. Ci sono gli eroi, i caduti, Andrew, James e Mickey – e infiniti altri – e i grandi movimenti, le grandi tappe di un immenso movimento popolare, accentrato sul problema dell’emancipazione dei negri, e ora sulla guerra del Viet Nam. Chi non ha visto una manifestazione pacifista e non-violenta a New York, manca di una grande esperienza umana, paragonabile solo, ripeto, ai grandi giorni della Speranza degli Anni Quaranta. Una notte, ad Harlem, ho stretto la mano (ma loro me la stringevano con sospetto, perché ero bianco) a un gruppo di giovani negri che avevano sul maglione l’insegna del leopardo: un movimento estremista che si prepara a una vera e propria lotta armata. Un pomeriggio, al Village, ho visto un gruppetto di neonazisti che manifestavano in favore della guerra del Viet Nam: vicino a loro, presi come da una specie di strano e tranquillo rapimento, due uomini anziani, e una ragazza che suonava la ghitarra, cantavano le canzoni pacifiste della Nuova Sinistra – quelle del Village, che comprende anche la Sinistra dei beatniks, dei drogati. Ho seguito un giovane sindacalista negro, che mi ha portato alla sezione del suo movimento, un piccolo movimento, che conta ad Harlem solo qualche centinaio di iscritti – che lotta contro la disoccupazione dei negri; l’ho seguito a casa di un suo compagno, un muratore che si era ferito al 156
lavoro e che ci ha accolto steso nel suo povero letto, col sorriso amico, complice e invaso da questo nostro dimenticato amore partigiano. Sono salito nell’appartamento «borghese» nella parte più sordida del Village, a sentire le risate isteriche e l’acrimonia aberrante di una intellettuale, sposata a un negro, che farneticava rancori contro il vecchio comunismo americano e contro la Sinistra della Droga, ma come se la sua rabbia e la sua delusione cocenti dovessero avere immediate risposte nel suo mondo, divenire subito «azione». Ho vissuto, insomma, nel vivo una situazione di scontento e di esaltazione, di disperazione e di speranza: di contestazione integrale dell’establishment. Non so come andrà a finire tutto questo, o se andrà a finire in qualche modo. Resta il fatto che migliaia di studenti (circa la percentuale dei partigiani rispetto alla popolazione, nell’Europa degli Anni Quaranta), scendono dal Nord, e vanno nella Cintura Nera, a lottare al fianco dei negri con la violenta e quasi mistica coscienza democratica di «non manipolarli», di non intervenire in loro per coazione anche dolce, di non pretendere per sé – quasi nevroticamente – neanche l’ombra di una qualsiasi forma di «leadership»: e, quel che è più importante, con la coscienza che il problema dei negri, risolto formalmente col riconoscimento dei loro diritti civili, comincia adesso: è cioè un problema sociale, e non ideale. Ci sono da aggiungere ancora molte cose. La protesta, la contestazione pura e semplice, la rivolta contro il consumo: intendo dire il fenomeno dei beatniks che qui da noi è stato impostato in termini di pura curiosità, e, c’è bisogno di sottolinearlo? con ironia. I comunisti stessi, almeno, ch’io sappia, anche in Italia, preferiscono tacere su questo punto, o addirittura pronunciare parole di condanna: in cui il vecchio moralismo stalinistico e il provincialismo italiano trovano un’oscura identificazione. In realtà, nelle grandi città americane, chi si ubriaca, chi si droga, chi rifiuta di integrarsi nel sicuro mondo del lavoro, compie qualcosa di più di una serie di vecchi e codificati atti anarchici: vive una tragedia. E, poiché non sa che viverla, e non giudicarla, ne muore. Le migliaia di suicidi per droga sono in realtà dei martiri né più né meno che coloro che vengono uccisi dai razzisti bianchi del Sud. Ne hanno la stessa purezza, sono ugualmente al di là dei miseri calcoli umani di chi accetta la «qualità di vita» offerta dalle società stabilite. È vero. Tutto quello che io ho visto, oppure ho creduto di vedere a New 157
York, si staglia contro un fondo cupo – e per noi inconcepibile almeno in quanto inammissibile – ossia contro la vita americana di ogni giorno, la vita della conservazione, che si svolge in un silenzio ben più intenso degli «urli» che ci giungono dalla Sinistra. In questo silenzio dello sfondo, neutro e spaventoso, accadono fenomeni di una vera e propria follia collettiva, ossia di un odio in qualche modo codificato che è ben difficile descrivere. È l’odio razzista – che non è poi che l’aspetto esterno della profonda aberrazione di ogni conservazione e di ogni fascismo. È un odio che non ha nessuna ragione di esistere. Anzi, non esiste. Chi ne è affetto crede di provarlo, in realtà «non può» provarlo. Come e perché potrebbe, infatti, un bianco povero odiare un negro? Eppure sono proprio i bianchi poveri di tutto il Sud che, in pratica, vivono di questo odio. Esso nasce da una falsa idea di sé e quindi della realtà: è quindi falso esso stesso, è un sentimento completamente alienato e irriconoscibile. Di questa forma della vita, il risultato ultimo e più tragico è l’invendicato assassinio di Kennedy, caso di quella guerra civile che non scoppia, ma che tuttavia si combatte dentro le anime degli americani. Il parlare sempre e soltanto, a proposito dell’America, di neocapitalismo e di rivoluzione tecnologica, mi appare quindi parziale e fazioso. Sembra assurdo, ma è proprio a proposito dell’America che acquista strano e violento significato il problema del sottosviluppo e della miseria. È ben presente a tutti, infatti, che questi sono gli anni in cui il mondo contadino di tutta la terra – il Terzo Mondo – si sta affacciando alla storia (con un piede nella preistoria): e lo scandalo è che dopo i sia pur grandiosi episodi della rivolta algerina e della rivolta cubana, il centro della lotta per la rivoluzione del Terzo Mondo è proprio l’America. Il problema negro, unito in modo così contorto e inestricabile a quello dei «bianchi poveri» (in numero enorme, superiore a quello che noi crediamo), è un problema del Terzo Mondo. E se ciò è scandaloso per la coscienza operaistica dei partiti comunisti europei lo è ancora di più per la coscienza capitalistica americana, che si crede oggettivamente sulla strada sgombra del progresso tecnico e dell’opulenza economica. Non si cesserà mai dunque di misurare abbastanza, in tutti i sensi, la portata del problema negro. Perché, ripeto, ad esso si connette, in modo follemente contraddittorio, quello dei bianchi poveri, o ex poveri. Non sono infatti bastate due o tre generazioni per trasformare fino in fondo la psicologia delle enormi masse di immigrati. Questi (l’ho visto bene nel quartiere italiano) mantengono prima di tutto un atteggiamento di venerazione per il paese che li ha ospitati, e, ora che ne 158
sono cittadini, per le sue istituzioni. Sono ancora dei figli, dei figli o troppo obbedienti o disperati. In secondo luogo hanno portato con sé, e hanno conservato dentro, quella che è la caratteristica principale dei contadini delle aree sottosviluppate – in qualche modo preistoriche – che il De Martino definisce «paura di perdere la presenza». Sono questi i fondamenti del razzismo fascista popolare. Non si sarà mai detto abbastanza quanto gli americani siano diversi uno dall’altro, per le loro diverse origini povere. È forse per questo che essi desiderano così disperatamente essere uguali uno all’altro: e se essi fondano il loro anticomunismo sul fatto che il comunismo opererebbe un livellamento degli individui, è perché essi desiderano anzitutto e disperatamente di essere livellati. Per dimenticare, appunto, le proprie origini diverse e inferiori, che li differenziano come dei marchi. Ogni americano ha impresso nel viso un marchio indelebile. L’immagine di un italiano, o di un francese, o di un inglese, o di un tedesco medio, è concepibile, e addirittura rappresentabile. L’immagine di un americano medio è assolutamente inconcepibile e irrappresentabile. È questa la cosa che forse mi ha più riempito di stupore in America. Non si fa altro che parlare di «americano medio», e poi questo «americano medio», fisicamente, materialmente, visivamente non esiste! Come riassumere in un «tipo» unico tutti i tipi – straordinari – che girano per Manhattan? Come sintetizzare in una faccia sola, la faccia tesa, dell’anglosassone, quella matta dell’irlandese, quella triste dell’italiano, quella pallida del greco, quella selvaggia del portoricano, quella nevrotica del tedesco, quella buffa del cinese, quella adorabile del negro… È dunque la «paura di perdere la presenza» e lo snobismo della neocittadinanza che impediscono all’americano – questa strana mescolanza, in concreto, di sottoproletario e di borghese profondamente e onestamente chiuso nel proprio lealismo borghese – di riflettere sull’idea che egli ha di sé. Che resta dunque «falsa», come in ogni ambiente alienante di industrializzazione totale. Ho provato infatti a chiedere a degli americani, tutti quelli a cui ho potuto, se sapessero che cosa è il razzismo (domanda che implica appunto e particolarmente, una riflessione sull’idea di sé). Nessuno ha saputo rispondere. Eccettuati alcuni giovani registi indipendenti, che, conoscendo con più amore l’Europa, avevano qualche idea del marxismo, tutti gli altri ricorrevano a ontologie incredibilmente ingenue. (C’era solo qualche esatta 159
spiegazione di tipo psicanalitico, che però toccava solo un lato del problema, o, meglio, le condizioni umane per cui il problema può porsi.) Insomma la nota per me più violenta, drammatica e definitoria della «qualità di vita americana» è una caratteristica negativa: la mancanza della coscienza di classe, immediato effetto, appunto, dell’idea falsa di sé di ogni individuo immesso, quasi per concessione o per grazia, nell’ambito dei privilegi piccolo-borghesi del benessere industriale e della potenza statale. Ma ci sono, in questo, delle forti contraddizioni (che non sono certamente il primo a rilevare!): per esempio, la forza straripante del sindacalismo: che si manifesta in scioperi incredibilmente efficienti e grandiosi: dove non si capisce come non prenda forma stabile una coscienza di classe, mentre è ben chiaro, per noi, che quegli scioperi così ben organizzati, così ferreamente compatti, non significano altro che la rivendicazione degli sfruttati contro gli sfruttatori. La straordinaria novità (per un europeo come me) è che la coscienza di classe, invece, albeggia negli americani in situazioni del tutto nuove e quasi scandalose per il marxismo. La coscienza di classe, per farsi strada nella testa di un americano, ha bisogno di un lungo cammino contorto, di un’operazione immensamente complessa: ha bisogno cioè della mediazione dell’idealismo, diciamo pure borghese o piccolo-borghese, che in ogni americano dà il senso alla intera vita, e da cui egli non può assolutamente prescindere. Là lo chiamano spiritualismo. Ma sia idealismo nella nostra accezione, che spiritualismo nella loro, sono due parole ambigue e inesatte. Si tratta forse, meglio, di moralismo (di origine anglosassone e adottato ingenuamente dagli altri americani) che domina e modella tutti i fatti della vita: e che, in letteratura, per esempio, anche quella media e corrente, è esattamente il contrario del realismo: gli americani hanno sempre bisogno, in arte, di idealizzare (anche e soprattutto al livello del gusto medio: per esempio le rappresentazioni «illustrative» della loro vita e delle loro città, mettiamo nei films medi o brutti, sono forme di un immedicabile bisogno di idealizzazione). Dunque, anziché negli scioperi o nelle altre forme di lotta di classe, la coscienza della propria realtà sociale albeggia nelle manifestazioni pacifiste e non violente, dominate, appunto, da un intelligente spiritualismo. Che è del resto, oggettivamente, almeno per me, un fatto stupendo, che mi ha fatto innamorare dell’America. È la visione del mondo di persone giunte, attraverso strade che noi consideriamo sbagliate – ma che invece sono storicamente quello che sono, cioè giuste – alla 160
maturazione di una idea di sé come semplice cittadino (forse come gli ateniesi o i romani?), possessore di una nozione onesta e profonda della democrazia (spinta a forme quasi mistiche, rivoluzionarie, abbiamo detto, in certi esponenti dello SNCC o dell’SDS). Insomma, per giungere a una coscienza non solo formalmente democratica di sé e della società, l’americano veramente libero ha avuto bisogno di passare attraverso il calvario dei Negri e di condividerlo (e ora attraverso il calvario del Viet Nam). Solo oggi, da pochi anni, direi da pochi mesi, cioè dopo il riconoscimento almeno formale dei Diritti Civili dei Negri, si è cominciato a capire che la questione dei Negri è al suo inizio, e che è una questione sociale, e non di mero spiritualismo democratico e di codice di civiltà. Il vuoto, immenso, che si apre come una voragine nei singoli americani e nell’insieme della società americana – ossia la mancanza di una cultura marxista – come ogni vuoto, pretende violentemente di essere riempito. È riempito, così, da questo spiritualismo che dicevo, che fattosi prima radicalismo democratico rivoluzionario è percorso ora da una nuova coscienza sociale, che non accettando il marxismo ancora esplicitamente, si presenta come totale contestazione e disperazione anarchica. È da ciò, non da altro, che nasce l’Altra America. È da ciò, non da altro, che si formano le premesse di un possibile Terzo Partito Americano (di cui si parla con grande e ingenua circospezione, come di qualcosa di scandalosamente dissacratorio o con speranza o con ostilità: è accaduto, per esempio, che nelle due o tre città dove – sempre per opera dei movimenti studenteschi di cui dicevo – una forma embrionale di questo partito si è presentato alle elezioni, non solo è stato sconfitto, ma ha causato anche la sconfitta dei moderati in favore dei razzisti). Ora, io vivo in una società appena uscita dalla miseria, e aggrappata superstiziosamente a quel po’ di benessere che ha raggiunto, come a uno stato stabile: portando in questo nuovo corso della sua storia un buon senso, che poteva andar bene in mezzo ai campi, alle greggi o nei negozietti artigiani: ma che si rivela, invece stupido, vile e meschino oggi, nel nostro mondo. Una società irredimibile, irrimediabilmente borghese senza tradizioni rivoluzionarie neanche liberali. Il mondo della cultura – in cui io vivo per una vocazione letteraria, che si rivela ogni giorno più estranea a tale società e a tale mondo – è il luogo deputato della stupidità, della viltà e della meschinità. Non posso accettare nulla del mondo dove vivo: non solo gli apparati del centralismo statale – burocrazia, magistratura, esercito, scuola, e il resto – ma nemmeno le sue minoranze colte. Nella 161
fattispecie, sono assolutamente estraneo al momento della cultura attuale. Sono sordo all’eversione puramente verbale delle istituzioni dello establishment, che non dicono nulla su chi le opera, e sono sordo al revanscismo puristico e neo-letterario. Diciamolo pure, sono rimasto isolato, a ingiallire con me stesso e la mia ripugnanza a parlare sia di impegno che di disimpegno. Non posso così non essermi innamorato della cultura americana, e non aver intravisto, in seno ad essa, una ragione letteraria piena di novità: un nuovo tempo della Resistenza, insisto a dire, che però è privo del tutto di quel certo spirito risorgimentale e come dire, classicheggiante, che – visto da oggi – immiserisce un poco la Resistenza europea (le cui speranze erano del resto contenute nell’ambito delle prospettive marxiste di quegli anni, che poi si sono rivelate anguste e convenzionali). Ciò che si richiede a un letterato americano «non integrato», è tutto se stesso, una sincerità totale. Era dai vecchi tempi di Machado, che non facevo una lettura fraterna come quella di Ginsberg. E non è stato meraviglioso il passaggio di Kerouac ubriaco per l’Italia, a suscitare l’ironia, la noia, la disapprovazione degli stupidi letterati e dei meschini giornalisti italiani? Gli intellettuali americani della Nuova Sinistra (poiché dove si lotta c’è sempre una ghitarra e un uomo che canta) sembrano fare proprio ciò che dice il verso di un innocente canto della Resistenza negra: «Bisogna gettare il proprio corpo nella lotta». Ecco il nuovo motto di un impegno, reale, e non noiosamente moralistico: gettare il proprio corpo nella lotta… Chi c’è, in Italia, in Europa, che scrive spinto da tanta e così disperata forza di contestazione? Che sente questa necessità di opporsi, come una necessità originaria, credendola nuova nella storia, assolutamente significativa, e piena insieme di morte e di futuro?
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IL PCI AI GIOVANI!!1
(Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una «Apologia»)
È triste. La polemica contro il PCI andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati… Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo. Io no, amici. Avete faccie di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccolo-borghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui a causa della miseria, che non dà autorità. La madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino; 163
i tanti fratelli; la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati); i bassi sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari, ecc. ecc. E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese); senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha uguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare). Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia. Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici. «Popolo» e «Corriere della Sera», «Newsweek» e «Monde» vi leccano il culo. Siete i loro figli, la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano non si preparano certo a una lotta di classe contro di voi! Se mai, alla vecchia lotta intestina. Per chi, intellettuale o operaio, è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente l’idea 164
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera un giovane borghese. Blandamente i tempi di Hitler ritornano: la borghesia ama punirsi con le sue proprie mani. Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa, a Firenze e un po’ anche a Roma, ma devo dire: il Movimento Studentesco non frequenta i vangeli la cui lettura i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono, per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici: una sola cosa gli studenti realmente conoscono: il moralismo del padre magistrato o professionista, la violenza conformista del fratello maggiore (naturalmente avviato per la strada del padre), l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini contadine, anche se già lontane. Questo, cari figli, sapete. E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti: la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione al potere. Sì, i vostri slogans vertono sempre la presa di potere. Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti nei vostri pallori snobismi disperati, nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali, nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo (solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia infima, o da qualche famiglia operaia, questi difetti hanno qualche nobiltà: conosci te stesso e la scuola di Barbiana!) Occupate le università ma dite che la stessa idea venga a dei giovani operai. E allora: 165
«Corriere della Sera» e «Popolo», «Newsweek» e «Monde» avranno tanta sollecitudine nel cercar di comprendere i loro problemi? La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata? È un’osservazione banale; e ricattatoria. Ma soprattutto vana: perché voi siete borghesi e quindi anticomunisti. Gli operai, loro, sono rimasti al 1950 e più indietro. Un’idea antica come quella della Resistenza (che andava contestata venti anni fa, e peggio per voi se non eravate ancora nati) alligna ancora nei petti popolari, in periferia. Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese, e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula, si è dato da fare per imparare un po’ di russo. Smettetela di pensare ai vostri diritti, smettetela di chiedere il potere. Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, e bandire dalla sua anima, una volta per sempre, l’idea del potere. Tutto ciò è liberalismo: lasciatelo a Bob Kennedy. I Maestri si fanno occupando le fabbriche non le università: i vostri adulatori (anche comunisti) non vi dicono la banale verità: che siete una nuova specie idealista di qualunquisti come i vostri padri, come i vostri padri, ancora, figli. Ecco, gli Americani, vostri adorabili coetanei, coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando, loro, un linguaggio rivoluzionario «nuovo»! Se lo inventano giorno per giorno! Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’e già uno: potreste ignorarlo? Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione del «Times» e del «Tempo»). Lo ignorate andando, col moralismo delle profonde provincie, 166
«più a sinistra». Strano, abbandonando il linguaggio rivoluzionario del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale Partito Comunista, ne avete adottato una variante eretica ma sulla base del più basso gergo dei sociologi senza ideologia (o dei babbi burocrati). Così parlando, chiedete tutto a parole, mentre, coi fatti, chiedete solo ciò a cui avete diritto (da bravi figli borghesi): una serie di improrogabili riforme, l’applicazione di nuovi metodi pedagogici, e il rinnovamento di un organismo statale. Bravi! Santi sentimenti! Che la buona stella della borghesia vi assista! Inebbriati dalla vittoria contro i giovanotti della polizia costretti dalla povertà a essere servi, (e ubriacati dall’interesse dell’opinione pubblica borghese con cui voi vi comportate come donne non innamorate, che ignorano e maltrattano lo spasimante ricco) mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso per combattere contro i vostri padri: ossia il comunismo. Spero che l’abbiate capito che fare del puritanesimo è un modo per impedirsi un’azione rivoluzionaria vera. Ma andate, piuttosto, figli, ad assalire Federazioni! Andate a invadere Cellule! Andate ad occupare gli uffici del Comitato Centrale! Andate, andate ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure! Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere di un Partito che è tuttavia all’opposizione (anche se malconcio, per l’autorità di signori in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote, 167
borghesi coetanei dei vostri stupidi padri) ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere. Che esso si decida a distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé, dubito molto, anche col vostro apporto, se, come dicevo, buona razza non mente… Ad ogni modo: il PCI ai giovani!! …………………………………… Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto consigliando? A cosa vi sto sospingendo? Mi pento, mi pento! Ho preso la strada che porta al minor male, che Dio mi maledica. Non ascoltatemi. Ahi, ahi, ahi, ricattato ricattatore, davo fiato alle trombe del buon senso! Mi son fermato appena in tempo, salvando insieme, il dualismo fanatico e l’ambiguità… Ma son giunto sull’orlo della vergogna… (Oh Dio! che debba prendere in considerazione l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?)
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APOLOGIA Che cosa sono i «brutti versi» (come presumibilmente questi, de «Il PCI ai giovani!!»)? È fin troppo semplice: i brutti versi sono quelli che non bastano da soli a esprimere ciò che l’autore vuole esprimere: cioè in essi le significazioni sono alterate dalle consignificazioni, e insieme le consignificazioni ottenebrano le significazioni. Si sa poi che la poesia attinge i segni da campi semantici diversi, facendoli combaciare, spesso arbitrariamente; fa quindi di ogni segno una specie di stratificazione di cui ogni strato corrisponde a un’accezione del segno tratta da un campo semantico diverso, ma provvisoriamente combaciante (per via di un démone) con gli altri. Allora: i brutti versi sono sì, comprensibili: ma per comprenderli occorre della buona volontà. Dubito della buona volontà di molti dei lettori di questi brutti versi: anche perché, in molti casi, dovrò prevedere per essi, per così dire, «una cattiva volontà in buona fede». Cioè una passione politica altrettanto valida della mia, che ha speranze e amarezze, idoli e odii come la mia. Sia dunque chiaro che questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti «sdoppiati» cioè ironici e autoironici. Tutto è detto tra virgolette. Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ars retorica, che un notaio bolognese impazzito potrebbe definire, nella fattispecie, una «captatio malevolentiae»: le virgolette sono perciò quelle della provocazione. Spero che la cattiva volontà del mio buon lettore «accetti» la provocazione, dato che si tratta di una provocazione a livello simpatetico. (Quelle che non si accettano sono le provocazioni dei fascisti e della polizia.) Tra virgolette sono anche per esempio i due passi riguardanti i vecchi operai che vanno la sera in cellula a imparare il russo, e l’evoluzione del vecchio, buon acciaccato PCI: a parte il fatto che oggettivamente tale figura di operaio e di PCI corrisponde anche alla «realtà», qui, in questa mia poesia sono figure retoriche e paradossali: ancora provocatorie. L’unico brano non provocatorio, anche se detto in tono fatuo, è quello parentetico finale. Qui sì pongo, sia pure attraverso lo schermo ironico e amaro (non potevo convertire di colpo il démone che mi ha frequentato, subito dopo la battaglia di Valle Giulia – e insisto sulla cronologia anche per i non filologi), un problema «vero»: nel futuro si colloca un dilemma: 169
guerra civile o rivoluzione? Non posso fare come tanti miei colleghi, che fingono di confondere le due cose (o le confondono veramente!), e presi dalla «psicosi studentesca» si son buttati a corpo morto dalla parte degli studenti (adulandoli, e ricavandone disprezzo); non posso nemmeno affermare che ogni possibilità rivoluzionaria sia esausta, e che quindi bisogna optare (come in un diverso destino storico accade in America o nella Germania di Bonn) per la «guerra civile»: infatti la guerra civile la borghesia la combatte contro se stessa, come ho più volte ripetuto. Né, infine, sono così cinico (come i francesi) da pensare che si potrebbe fare la rivoluzione «approfittando» della guerra civile scatenata dagli studenti – per poi metterli da parte, o magari farli fuori. È da questo stato d’animo che sono nati questi brutti versi, la cui dominante è comunque la provocazione (che essi esprimono indiscriminatamente, a causa della loro bruttezza). Ma, e questo è il punto, perché sono stato così provocatorio con gli studenti (tanto che qualche untuoso giornale padronale vi potrebbe speculare)? La ragione è questa: fino alla mia generazione compresa, i giovani avevano davanti a sé la borghesia come un «oggetto», un mondo «separato» (separato da loro, perché, naturalmente, parlo dei giovani esclusi: esclusi per un trauma: e prendiamo come trauma tipico quello di Lenin diciannovenne che ha visto il fratello impiccato dalle forze dell’ordine). Potevamo guardare la borghesia, così, oggettivamente, dal di fuori (anche se eravamo orribilmente implicati con essa, storia, scuola, chiesa, angoscia): il modo per guardare oggettivamente la borghesia ci era offerto, secondo uno schema tipico, dallo «sguardo» posato su di essa da ciò che non era borghese: operai o contadini (di quello che si sarebbe poi chiamato Terzo Mondo). Perciò noi, giovani intellettuali di venti o trenta anni fa (e, per previlegio di classe, studenti) potevamo essere antiborghesi anche al di fuori della borghesia: attraverso l’ottica offertaci dalle altre classi sociali (rivoluzionarie, o rivoltose che fossero). Siamo cresciuti, dunque, con l’idea della rivoluzione in testa: della rivoluzione operaia-contadina (Russia ’17, Cina, Cuba, Algeria, Vietnam). Di conseguenza abbiamo fatto, dell’odio traumatico per la borghesia, anche una giusta prospettiva in cui integrare la nostra azione: in un futuro non evasivo (almeno parzialmente, perché tutti siamo un po’ sentimentali). Per un giovane di oggi la cosa si pone diversamente: per lui è molto più difficile guardare la borghesia oggettivamente attraverso lo sguardo di 170
un’altra classe sociale. Perché la borghesia sta trionfando, sta rendendo borghesi gli operai, da una parte, e i contadini ex coloniali, dall’altra. Insomma, attraverso il neocapitalismo, la borghesia sta diventando la condizione umana. Chi è nato in questa entropia, non può in nessun modo, metafisicamente, esserne fuori. È finita. Per questo provoco i giovani: essi sono presumibilmente l’ultima generazione che vede degli operai e dei contadini: la prossima generazione non vedrà intorno a sé che l’entropia borghese. Ora, io, personalmente (la mia privata esclusione, ben più atroce di quella che tocca mettiamo a un negro o a un ebreo, da ragazzo) e pubblicamente (il fascismo e la guerra, con cui ho aperto gli occhi alla vita: quante impiccagioni, quante uncinazioni!) sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico. Non posso sperare nulla né da essa, in quanto totalità, né da essa in quanto creatrice di anticorpi contro se stessa (come succede nelle entropie. Gli anticorpi che nascono nell’entropia americana hanno vita e ragione di essere solo perché in America ci sono i negri: che hanno per un giovane americano la funzione che hanno avuto per noi ragazzi gli operai e i contadini poveri). Data questa mia sfiducia «totale» nella borghesia, io resisto, dunque, all’idea della guerra civile, che, magari attraverso l’esplosione studentesca, la borghesia combatterebbe contro se stessa. Già i giovani di questa generazione, sono, direi fisicamente, molto più borghesi di noi. Dunque? Non ho diritto di provocarli? In che altro modo mettermi altrimenti in rapporto con loro, se non così? Il démone che mi ha tentato è un démone, si sa, pieno di vizi: stavolta ha avuto anche il vizio dell’impazienza e del disamore per quella vecchia opera artigiana che è l’arte; ha fatto un solo rozzo fascio di tutti i campi semantici, rimpiangendo addirittura di non essere anche pragmatico, cioè di abbracciare anche i campi semantici che sono sede delle comunicazioni non linguistiche: presenza fisica e azione… Per concludere, dunque, i giovani studenti di oggi, appartengono a una «totalità» (i «campi semantici» su cui essi, sia attraverso la comunicazione linguistica che non-linguistica, si esprimono), sono strettamente unificati e recintati: essi non sono dunque in grado, credo, di capire da soli che, quando si definiscono «piccolo-borghesi» nelle loro autocritiche, commettono un errore elementare quanto inconsapevole: infatti il piccolo-borghese di oggi non ha più nonni contadini: ma bisnonni e forse trisavoli; non ha vissuto un’esperienza antiborghese rivoluzionaria (operaia) pragmaticamente (e da ciò gli inani brancolamenti alla ricerca 171
dei compagni operai); ha esperimentato, invece, il primo tipo di qualità di vita neocapitalistica, coi problemi dell’industrializzazione totale. Il piccoloborghese di oggi, dunque, non è più quello che viene definito nei classici del marxismo, mettiamo in Lenin. (Come, per esempio, la Cina attuale non è più la Cina di Lenin: e dunque citare l’esempio della «Cina» dal libretto sull’imperialismo di Lenin, sarebbe una follia.) Inoltre i giovani di oggi (che si sbrighino poi ad abbandonare l’orrenda denominazione classista di studenti, e a diventare dei giovani intellettuali) non si rendono conto di quanto sia repellente un piccolo-borghese di oggi: e che a un tale modello si stanno conformando sia gli operai (malgrado il persistente ottimismo del canone comunista) sia i contadini poveri (malgrado la loro mitizzazione operata dagli intellettuali marcusiani e fanoniani, me compreso, ma ante litteram). A tale coscienza manichea del male borghese gli studenti possono giungere dunque (per ricapitolare): a) rianalizzando – al di fuori così della sociologia come dei classici del marxismo – i piccoli borghesi che essi sono (che noi siamo) oggi. b) abbandonando la propria autodefinizione ontologica e tautologica di «studenti» e accettando di essere semplicemente degli «intellettuali». c) operando l’ultima scelta ancora possibile – alla vigilia della identificazione della storia borghese con la storia umana – in favore di ciò che non è borghese (cosa che essi possono fare ormai solo sostituendo la forza della ragione alle ragioni traumatiche personali e pubbliche cui accennavo: operazione, questa, estremamente difficile, che implica un’autoanalisi «geniale» di se stessi, al di fuori di ogni convenzione).
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CIÒ CHE È NEO-ZDANOVISMO E CIÒ CHE NON LO È
Quando il «messaggio» va al di là di un certo limite di trasgressione del «codice», fa nascere, automaticamente il RIMPIANTO DEL CODICE. Si potrebbe dire che lo scandalo linguistico ha la stessa funzione dello scandalo morale o di comportamento: ambedue, se portati a forme estreme, creando, appunto, tale rimpianto, anziché distrarre il destinatario dal codice e renderlo critico nei suoi confronti lo riconfermano sulla sua bontà. Il borghese che si scandalizza si sente autorizzato a compiere di nuovo, allo stato vergine, una scelta conformistica già compiuta. Ma mentre sul piano morale o di comportamento, uno scandalo estremo (il suicidio, la santità, o, come oggi, la rabbia) è giustificato dal fatto di associarsi, assimilandosene, a ciò che è di per sé – e non per decisione, volontà o coscienza politica – «scandalo estremo» (essere negro, essere povero, essere ebreo, essere omosessuale ecc.), e quindi è giusto che la reazione criminale del borghese sia il rimpianto della norma e la riconferma della sua bontà – ciò non vale per un altrettanto estremo scandalo linguistico. Esso non può avere l’innocenza della FACCIA di un negro, del PUZZO di un povero, dello SMARRIMENTO di un ebreo, della PROVOCAZIONE di un omosessuale: tutto ciò, ripeto, può avere senso se vissuto esistenzialmente (nel proprio corpo); e può implicare o no, coscienza politica (e diventare indi rivoluzionario non solamente in natura). Le ricerche linguistiche (i messaggi poetici) avvengono a livello culturale, non esistenziale. Sono vissuti nella COSCIENZA, non NEL CORPO. Lo scandalo che essi provocano trova degli scandalizzati privilegiati: tale scandalo viene quindi rifiutato senza terrore esistenziale e il conseguente RIMPIANTO DEL CODICE (E LA SUA RICONFERMA): è freddo, parziale, inefficace. Applicare sulla carta (è il caso di dirlo), quelle che sono le infrazioni al codice come si presentano teoricamente a uno studioso della «teoria della comunicazione», è ingenuo, come per un pittore rappresentare l’energia atomica riempiendo una tela di puntolini. Tale meccanica delle infrazioni al codice, secondo la descrizione che ne fa in teoria il linguista moderno, è stato 173
il ridicolo e presuntuoso errore dell’ormai lontana avanguardia dei primi anni sessanta. Ora la poesia è veramente tornata all’anno zero. Da una parte tutte le serie delle possibili «infrazioni» meccaniche e programmate si sono esaurite (anche se esse sono, praticamente, illimitate come le combinazioni dei numeri), dall’altra il RIMPIANTO DEL CODICE come conseguenza di quelle infrazioni stupidamente estreme, regna sovrano. La poesia non può ripresentarsi – in questo anno zero – se non collocandosi in una sorta di quadro pansemiologico, la cui integrazione figurale vivente (corporale, esistenziale) sia in atto. Così almeno credo. O deduco dai testi che ricompaiono, dopo il «terrore» instaurato dai falsi nemici del codice. Mi pare di vedere in questi testi una assai ridotta aggressività infrazionistica: le infrazioni al codice sono infatti quelle della tradizione recente (includenti, perché no?, qualche stilema, qualche clausola d’avanguardia), mentre riprende forza e vita una certa aggressività esistenziale (corporale) contro il codice morale o di comportamento della società. Insomma, la rabbia contro il codice linguistico cede di fronte alla rabbia contro il codice sociale. Ma questa seconda rabbia ha i caratteri personali (corporali) che dicevo sopra: l’innocenza della negritudine in sé, della povertà in sé ecc. Se poi c’è coscienza politica (implicita) tanto meglio: anzi benissimo. Ma intanto ciò che conta è l’esempio trascritto della propria vita. Una vita come protesta vissuta, come lento suicidio, come sciopero o martirio (piccolo-borghese). In Italia tali caratteri non possono sfuggire a un certo provincialismo, a un certo narcisismo stento, a un certo lezzo di cucina di famiglia povera. Crepuscolarismo, letteratura come piccola salvezza nel mondo dell’orribile grigiore, umanesimo. È inevitabile. Non è vero che i miti internazionalistici possano riscattare dal fetore di stantio provinciale, d’area marginale «conservatrice» per definizione, rispetto al grande corso della storia. Dario Bellezza è un nome su cui puntare. Un corpo-sentina di ogni degradato dolore, una testa carica d’ogni esperienza letteraria. Mantovani e Facoetti, due smarriti figli di infima borghesia, dai rozzi-finissimi vagiti. Garriba, che fa del suo meglio per essere un disperato all’italiana, con quei suoi maledetti itinerari fatti di panni sporchi. Il quadro pansemiologico, in cui è medium di comunicazione – linguaggio brado – la stessa azione quotidiana, il miserando «dasein», è riferimento continuo di queste poesie piccoloborghesi, neo-umanistiche, neo-semantiche, neo-intimiste, neo-esistenziali: ben localizzate entro i limiti del sotto-codice o gergo letterario; e che operano le loro trasgressioni al codice nell’impalpabile o quasi; nel voler presentarsi 174
come poesia e quindi a fortiori vergini. No, non vi vengono nominati né i negri d’America né quelli dell’Africa; né gli studenti di San Francisco né quelli di Berlino; né i cecoslovacchi né i vietnamiti: non vi vengono nominati, ma vi vengono rivissuti in casi particolaristicamente, storicamente italiani. Ora si dà il caso che nominare, nel nostro piccolo paese, direttamente, quei nomi, resti un fatto provinciale e solo apparentemente vivo; mentre il riviverne, per analogia storica, la vita come esempio, faccia del nuovo capitolo della poesia italiana, che forse incomincia, un capitolo di realtà sgradevole, ma di realtà. Insomma, come in tutti questi anni di reazione agli Anni Cinquanta, fatta secondo i canoni di un trionfalismo insolente, io sono restato rigido e imperterrito a parlare di impegno, così sono restato altrettanto rigido a ripetere che l’impegno non è quello ricattatorio voluto da certi intellettuali ufficiali o certa truppa fanatica del PCI. Mi dispiace, devo produrre autoattestati, vista la viltà e l’ignoranza della nuova cultura (altro bel lascito degli anni avanguardistici): già nel cuore degli Anni Cinquanta, io muovevo al PCI critiche analoghe (seppur infinitamente più ingenue) di quelle mosse oggi dai giovani (cioè da sinistra): «impegno» ricattatorio, ufficialità, conformismo di sinistra ecc. Insomma: nel quadro di una pansemiologia parossisticamente invocata, può contare il linguaggio della propria azione o semplicemente della propria presenza scandalosa (la FACCIA del negro), come momento di contestazione pre-rivoluzionaria: e meglio ancora se tutto ciò è registrato direttamente e coscientemente, è «documentato», nella letteratura: che è sempre (quando è buona) contestatrice di per sé. Passare dalla pre-rivoluzionarietà naturale di chi dà scandalo (con la sua vita o con la sua opera: e meglio se con la sua vita attraverso la sua opera) alla rivoluzionarietà vera e propria, il passo è breve, e dipende solo dalle circostanze reali dell’esterno. L’«impegno», ossia la coscienza di tutto ciò, è la mediazione tra contestazione (naturale) e rivoluzionarietà (cosciente), tra ambiguità assoluta e ambiguità relativa; tra enigma e profezia. La rivoluzione, poi, si fa con l’azione: e allora andranno semmai allargate le possibilità del quadro semiologico delle comunicazioni umane, per comprendervi, santamente, anche l’esempio della vita (l’opera ideologica non scritta di Camillo Torres, tanto per dirne una). Ma perché tanta coscienza di un fenomeno così semplice com’è il riflesso della propria vita nella propria opera? Si tratta della coscienza che nasce dopo una momentanea obnubilazione: la riscoperta di qualcosa colpevolmente dimenticato. Ma se queste note, rispetto all’avanguardia e al vuoto venuto dopo di essa (non si potrà mai lamentare il danno causato dai quattro 175
sciocchi, trionfanti nell’ovvio di un magro benessere, di un disimpegno cinico, pieno di finti alibi, progressisti di uno spirito auto-celebrativo) (e del resto vuol dire che la letteratura italiana, coi suoi servi soprattutto della Sinistra, era pronta per subire tali danni, anzi, si può dire che non aspettasse altro), se queste note, dico, si presentano, apparentemente, come «restauratrici dello spirito rivoluzionario» (che non era stato in alcun modo esaurito) sia chiaro che nella testa dell’estensore delle stesse, è ben lucida la coscienza che sta nascendo contemporaneamente un nuovo ZDANOVISMO. Non dico TUTTI i redattori di «Quaderni Piacentini» o delle altre riviste sulla stessa linea, ispiratrici in genere dei leaders del Movimento Studentesco – e anche di riviste specializzate, mettiamo, come «Ombre Rosse» – non dico TUTTI, ma alcuni di loro, e soprattutto i gruppi che ruotano intorno a loro, sono NEO-ZDANOVISTI. Non si sono evidentemente accorti del riprodursi del cancro. Oggettivamente è successo che la critica allo stalinismo, non portata fino in fondo dal PCI, si sia irrigidita attraverso la serie degli scavalcamenti a sinistra creando per assurdo una specie, appunto, di neostalinismo: moralizzatore per reazione al «revisionismo», fanatico per reazione al «tatticismo», teologico per reazione al «qualunquismo», ricattatorio per reazione all’«opportunismo» ecc. ecc. È il fascismo di sinistra, come fenomeno nuovo, tipico degli anni ’67, ’68 e probabilmente ’69 e segg. In un pamphlet si direbbe: un gran numero di giovani male informati, insieme a un folto gruppo di anziani dalla vergognosa canizie, dopo il giro di valzer con l’avanguardia, si appresta, ora, al nuovo giro di valzer coi neozdanovisti dell’impegno che non è né letteratura (contestatrice, prerivoluzionaria) né azione (rivoluzionaria). Ma è gesto oratorio, conformismo presentato come indignazione, collezione di luoghi comuni, virilismo, cameratismo, coro, gazzarra, ricatto morale, creazione di false tensioni e attese precostituite, demagogia, linciaggio, razzismo, moralismo, disumanità. L’estremismo moralistico dei giovani – certamente nobile se esercitato «globalmente» contro il «sistema» – par dunque inevitabilmente diventare neo-stalinismo se riassorbito dalla vecchia cultura comunista, sia in un ritorno a essa, sia su un piano di competizione con essa: tutto poi rientra nel gran quadro del puritanesimo industriale, di cui parlava, inascoltato, un giovane al convegno sulla psichiatria, indetto dagli studenti di architettura e medicina di Torino. Ci sono certi canoni che valgono universalmente, e sono seguiti (inconsciamente, e perciò irrimediabilmente) da tutti: il puritanesimo industriale non è appunto un canone solo per gli integrati dei sistemi 176
capitalistici, ma anche per i dissenzienti da questi sistemi, che pur vi vivono la loro vita e vi consumano il loro corpo. Quindi lo stalinismo di cui parlo – e, in campo letterario, lo zdanovismo – trovano la loro ragione profonda nel moralismo industriale: in una concezione della vita in cui ognuno deve avere il proprio posto, svolgere la propria funzione, identificarsi col proprio dovere. Donde il manicheismo: la distinzione tra chi fa ciò e chi non fa ciò. E la conseguente condanna di tipo razzistico (l’esclusione del diverso): condanna che accomuna integrati e dissenzienti, dentro lo stesso mondo, non dico capitalistico, ma industriale. Non per niente integrati e dissenzienti hanno lo stesso tipo di sordità di fronte al fenomeno della poesia (e non gli è parso vero di vederla tecnicizzata, nei prodotti avanguardistici, che non dicono nulla dell’esistenza del loro produttore). Se dunque, io per me, spero nella «restaurazione» dello spirito rivoluzionario vero, estremistico e non fanatico, rigoroso ma non moralista, accolgo come un sintomo positivo il ripresentarsi di una poesia neo-esistenziale, che dica invece molto dell’esistenza dei suoi autori: necessariamente diversi, e quindi «scandalo per gli integrati, stoltezza per i dissenzienti»: incrinatura, comunque nel «puritanesimo industriale» che accomuna, mettiamo, i dirigenti della Fiat e i giovani comunisti extraparlamentari. (1968)
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Cinema
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IL «CINEMA DI POESIA» Credo che un discorso sul cinema come lingua espressiva non possa ormai cominciare senza tener presente almeno la terminologia della semiotica. Perché il problema, in parole molto semplici, è questo: mentre i linguaggi letterari fondano le loro invenzioni poetiche su una base istituzionale di lingua strumentale, possesso comune di tutti i parlanti, i linguaggi cinematografici sembrano non fondarsi su nulla: non hanno, come base reale, nessuna lingua comunicativa. Quindi, i linguaggi letterati si presentano subito come leciti in quanto attuazione al sommo livello civile di uno strumento (un puro e semplice strumento) che serve effettivamente per comunicare. Invece la comunicazione cinematografica sarebbe arbitraria e aberrante, senza precedenti strumentali effettivi, di cui tutti siano normalmente utenti. Insomma, gli uomini comunicano con le parole, non con le immagini: quindi un linguaggio specifico di immagini si presenterebbe come una pura e artificiale astrazione. Se questo ragionamento fosse giusto, come pare, il cinema non potrebbe fisicamente esserci: o, se ci fosse, sarebbe una mostruosità, una serie di segni insignificanti. Invece, il cinema comunica. Vuol dire che anch’esso si fonda su un patrimonio di segni comune. La semiotica si pone indifferentemente davanti ai sistemi di segni: essa parla di «sistemi di segni linguistici», per esempio, perché ci sono, ma questo non esclude affatto che si possano teoricamente dare altri sistemi di segni. Mettiamo: sistemi di segni mimici. Anzi, nella realtà, a integrare la lingua parlata, un sistema di segni mimici deve effettivamente essere invocato. Infatti, una parola (linsegno) pronunciata con una data faccia ha un significato, pronunciata con un’altra faccia ha un altro significato, magari addirittura opposto (mettiamo che a parlare sia un napoletano): una parola seguita da un gesto ha un significato, seguita da un altro gesto, ha un altro significato ecc. Questo «sistema di segni mimici» che nella realtà della comunicazione orale si intreccia col sistema di segni linguistici e lo integra, può essere isolato in laboratorio; e studiato come autonomo. Si può addirittura presupporre, per ipotesi astratta, l’esistenza di un unico 179
sistema di segni mimici come unico strumento umano di comunicazione (tutti napoletani sordomuti, insomma): è su un tale ipotetico sistema di segni visivi che il linguaggio cinematografico fonda la propria possibilità pratica di esistere, di essere presupponibile per una serie di archetipi comunicativi naturali. Ciò sarebbe molto poco, certo. Ma allora bisogna subito aggiungere che il destinatario del prodotto cinematografico è anche abituato a «leggere» visivamente la realtà, ad avere cioè un colloquio strumentale con la realtà che lo circonda in quanto ambiente di una collettività: che si esprime appunto anche con la pura e semplice presenza ottica dei suoi atti e delle sue abitudini. Il camminare soli per la strada, anche con le orecchie otturate, è un continuo colloquio fra noi e l’ambiente che si esprime attraverso le immagini che lo compongono: fisionomie di gente che passa, loro gesti, loro cenni, loro atti, loro silenzi, loro espressioni, loro scene, loro reazioni collettive (mucchi di gente ferma ai semafori, affollamenti intorno a un incidente stradale o intorno alla donna-pesce a Porta Capuana); inoltre: cartelli segnaletici, indicazioni, direzioni rotazionali in senso antiorario, e insomma oggetti e cose che si presentano cariche di significati e quindi «parlano» brutalmente con la loro stessa presenza. Ma c’è di più – direbbe un teorico: ossia c’è tutto un mondo, nell’uomo, che si esprime con prevalenza attraverso immagini significanti (vogliamo inventare, per analogia, il termine im-segni?): si tratta del mondo della memoria e dei sogni. Ogni sforzo ricostruttore della memoria è un «seguito di im-segni», ossia, in modo primordiale, una sequenza cinematografica. (Dove ho visto quella persona? Aspetta… mi pare a Zagorà – immagine di Zagorà coi suoi palmizi verdini contro la terra rosa – … in compagnia di Abd el-Kader… – immagine di Abd el-Kader e della «persona» che camminano contro le casermette degli ex avamposti francesi – ecc.) E così ogni sogno è un seguito di im-segni, che hanno tutte le caratteristiche delle sequenze cinematografiche: inquadrature di primi piani, di campi lunghi, di dettagli ecc. ecc. Insomma c’è un complesso mondo di immagini significative – sia quelle mimiche o ambientali che corredano i linsegni, sia quelle dei ricordi e dei sogni – che prefigura e si propone come fondamento «strumentale» della comunicazione cinematografica. E allora bisognerà subito fare, ai margini, un’osservazione: mentre la comunicazione strumentale che è alle basi della comunicazione poetica o filosofica è già estremamente elaborata, è insomma un sistema reale e 180
storicamente complesso e maturo – la comunicazione visiva che è alla base del linguaggio cinematografico è, al contrario, estremamente rozza, quasi animale. Tanto la mimica e la realtà bruta quanto i sogni e i meccanismi della memoria, sono fatti quasi pre-umani, o ai limiti dell’umano: comunque pregrammaticali e addirittura pre-morfologici (i sogni avvengono al livello dell’inconscio, e così i meccanismi mnemonici; la mimica è segno di estrema elementarità civile ecc.). Lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è dunque di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema, e anche la sua assoluta e imprescindibile concretezza, diciamo, oggettuale. Per esprimermi diligentemente: ogni sistema di linsegni è raccolto e racchiuso in un dizionario. Al di fuori di quel dizionario non c’è nulla, se non forse la mimica che accompagna i segni nell’uso parlato. Ognuno di noi ha dunque in testa un dizionario, incompleto lessicalmente, ma praticamente perfetto, del sistema di segni linguistici della sua cerchia e della sua nazione. L’operazione dello scrittore consiste nel prendere da quel dizionario, come oggetti custoditi in una teca, le parole, e farne un uso particolare: particolare rispetto al momento storico della parola e al proprio. Ne consegue un aumento di storicità della parola: cioè un aumento di significato. Se quello scrittore conterà, nei dizionari futuri il suo «uso particolare della parola» verrà riportato come aggiuntivo all’istituzione. L’operazione espressiva, o invenzione dello scrittore, è dunque un’aggiunta di storicità, ossia di realtà, alla lingua: egli dunque lavora sulla lingua sia come sistema linguistico strumentale sia come tradizione culturale. Il suo atto, descritto toponomasticamente, è uno: rielaborazione del significato del segno. Il segno era lì, nel dizionario, incasellato, pronto per l’uso. Per l’autore cinematografico, invece, l’atto che è fondamentalmente simile, è molto più complicato. Non esiste un dizionario delle immagini. Non c’è nessuna immagine incasellata e pronta per l’uso. Se per caso volessimo immaginare un dizionario delle immagini dovremmo immaginare un dizionario infinito, come infinito continua a restare il dizionario delle parole possibili. L’autore cinematografico non possiede un dizionario ma una possibilità infinita: non prende i suoi segni (im-segni) dalla teca, dalla custodia, dal bagaglio: ma dal caos, dove non sono che mere possibilità o ombre di comunicazione meccanica e onirica. Descritta dunque toponomasticamente, l’operazione dell’autore 181
cinematografico non è una, ma doppia. Infatti: I) egli deve prendere dal caos l’im-segno, renderlo possibile, e presupporlo come sistemato in un dizionario degli im-segni significativi (mimica, ambiente, sogno, memoria); II) compiere poi l’operazione dello scrittore: ossia aggiungere a tale im-segno puramente morfologico la qualità espressiva individuale. Insomma, mentre l’operazione dello scrittore è un’invenzione estetica, quella dell’autore cinematografico è prima linguistica poi estetica. In circa cinquant’anni di cinema si è venuto stabilendo, è vero, una specie di dizionario cinematografico, ossia una convenzione: che ha questo di curioso: è stilistica prima di essere grammaticale. Prendiamo l’immagine delle ruote del treno che corrono tra sbuffi di vapore: non è un sintagma, è uno stilema. Questo fa supporre che, poiché evidentemente il cinema a una vera e propria normatività grammaticale non potrà mai pervenire, se non, per così dire, a una grammatica stilistica – ogni volta che un autore cinematografico deve fare un film è costretto a ripetere quella doppia operazione che dicevo. E accontentarsi, quanto a norma, di un certo quantitativo inarticolato di modi espressivi che, nati come stilemi, son divenuti sintagmi. In compenso l’autore cinematografico non deve elaborare una tradizione stilistica secolare, ma semplicemente decennale: praticamente non ha una convenzione da contraddire con eccessivo scandalo. La sua «aggiunta storica» all’im-segno si applica a un im-segno di vita cortissima. Da ciò forse deriva un certo sentimento della labilità del cinema: i suoi segni grammaticali sono gli oggetti di un mondo cronologicamente ogni volta esaurito: i vestiti degli anni trenta, le motovetture degli anni cinquanta…: sono tutte «cose» senza etimologia, oppure con un’etimologia che si esprime nel corrispondente sistema di parole. L’evoluzione che presiede alla moda creatrice di vestiti o al gusto che inventa le sagome delle autovetture, è seguita dal significato delle parole, che vi si adattano: gli oggetti invece sono impenetrabili: non si muovono, e non dicono di sé che quello che sono in quel momento. Il dizionario in cui l’autore cinematografico li sistema nella sua operazione, non è sufficiente a dar loro un background storico significante per tutti, subito e in seguito. Va constatata dunque una certa univocità e un certo determinismo nell’oggetto che diviene immagine cinematografica: ed è naturale che sia così. Perché il linsegno adoperato dallo scrittore è già stato elaborato da tutta una storia grammaticale, popolare e colta: mentre l’im-segno adoperato 182
dall’autore cinematografico è stato estratto idealmente un attimo prima da nessun altro che da lui – per analogia a un possibile dizionario per comunità comunicanti attraverso immagini – dal sordo caos delle cose. Ma devo insistere: se le immagini o im-segni non sono organizzate in un dizionario e non possiedono una grammatica, sono però patrimonio comune. Tutti noi, con i nostri occhi, abbiamo visto la famosa vaporiera con le sue ruote e i suoi stantuffi. Essa appartiene alla nostra memoria visiva e ai nostri sogni: se la vediamo nella realtà «ci dice qualcosa»: la sua apparizione in una landa desertica, ci dice, per es., quanto sia commovente l’operosità dell’uomo e quanto sia enorme la capacità della società industriale, e quindi del capitalista, ad annettersi nuovi territori di utenti; e, insieme, ad alcuni di noi, dice che il macchinista è un uomo sfruttato che, ciononostante, compie dignitosamente il suo lavoro, per una società che è quella che è, anche se sono i suoi sfruttatori a identificarsi con essa ecc. ecc. Tutto questo può dire l’oggetto vaporiera come possibile simbolo cinematografico, in una comunicazione diretta con noi stessi: e indirettamente, in quanto patrimonio visivo comune, con gli altri. Non esistono dunque, in realtà, degli «oggetti bruti»: tutti sono abbastanza significanti in natura per diventare segni simbolici. Ecco perché è lecita l’operazione dell’autore cinematografico: egli sceglie una serie di oggetti o cose o paesaggi o persone come sintagmi (segni di un linguaggio simbolico) che, se hanno una storia grammaticale storica inventata in quel momento – come in una specie di happening dominato dall’idea della scelta e del montaggio – hanno però una storia pre-grammaticale già lunga e intensa. Insomma, come ha diritto di cittadinanza nello stile di un poeta la pregrammaticalità dei segni parlati, avrà diritto di cittadinanza nello stile di un autore cinematografico la pre-grammaticalità degli oggetti. E questo è un altro modo di dire quello che avevo già detto avanti: il cinema è fondamentalmente onirico per la elementarità dei suoi archetipi (che rielenchiamo: osservazione abituale e quindi inconscia dell’ambiente, mimica, memoria, sogni) e per la fondamentale prevalenza della pregrammaticalità degli oggetti in quanto simboli del linguaggio visivo. Ancora una cosa: nella sua ricerca di un dizionario come operazione fondamentale e preliminare, l’autore cinematografico non potrà mai raccogliere termini astratti. Questa è probabilmente la differenza principe tra l’opera letteraria e l’opera cinematografica (se importa fare tale confronto). L’istituzione linguistica, o 183
grammaticale, dell’autore cinematografico è costituita da immagini: e le immagini sono sempre concrete, mai astratte (è possibile solo in una previsione millenaristica concepire immagini-simboli che subiscano un processo simile a quello delle parole, o almeno delle radicali, in origine concrete, che nelle fissazioni dell’uso, sono diventate astratte). Perciò per ora il cinema è un linguaggio artistico non filosofico. Può essere parabola, mai espressione concettuale diretta. Ecco dunque un terzo modo di affermare la prevalente artisticità del cinema, la sua violenza espressiva, la sua fisicità onirica. Tutto questo dovrebbe, in conclusione, far pensare che la lingua del cinema sia fondamentalmente una «lingua di poesia». Invece, storicamente, in concreto, dopo alcuni tentativi, subito troncati, all’epoca delle origini, la tradizione cinematografica che si è formata sembra essere quella di una «lingua della prosa», o almeno di una «lingua della prosa narrativa». Questo è vero, ma, come vedremo, si tratta di una prosa particolare e surrettizia: perché l’elemento fondamentalmente irrazionalistico del cinema è ineliminabile. La realtà è che il cinema nel momento stesso in cui si è posto come «tecnica» o «genere» nuovo d’espressione, si è posto anche come nuova tecnica o genere di spettacolo d’evasione: con una quantità di consumatori inimmaginabile per tutte le altre forme espressive. Questo ha voluto dire che esso ha subito una violentazione del resto abbastanza prevedibile e inevitabile. Ossia: tutti i suoi elementi irrazionalistici, onirici, elementari e barbarici, sono stati tenuti sotto il livello della coscienza: sono stati cioè sfruttati come elemento inconscio di urto e di persuasione: e sopra questo «monstrum» ipnotico che è sempre un film, è stata costruita rapidamente quella convenzione narrativa che ha fornito materia di inutili e pseudo-critici paragoni col teatro e il romanzo. Tale convenzione narrativa appartiene indubbiamente, per analogia, alla lingua della comunicazione prosastica: ma con tale lingua essa ha in comune solo l’aspetto esteriore – i procedimenti logici e illustrativi – mentre manca di un elemento sostanziale della «lingua della prosa»: la razionalità. Il suo fondamento è quel sotto-film mitico e infantile, che, per la natura stessa del cinema, scorre sotto ogni film commerciale anche non indegno, cioè abbastanza adulto civicamente e esteticamente. (Tuttavia – come vedremo più avanti – anche i film d’arte hanno adottato come loro lingua specifica questa «lingua della prosa»: questa convenzione narrativa priva di punte espressive, impressionistiche, espressionistiche ecc.) 184
Si può tuttavia affermare che la tradizione della lingua cinematografica, quale si è storicamente formata in questi primi decenni, è tendenzialmente naturalistica e oggettiva. È questa una contraddizione così intrigante, che va osservata bene, nelle sue ragioni e nelle sue connotazioni tecniche più profonde. Infatti, per riassumere sinotticamente quanto ho detto finora, risulta: gli archetipi linguistici degli im-segni sono le immagini della memoria e del sogno, ossia immagini di «comunicazione con se stessi» (e di comunicazione solo indiretta con gli altri, in quanto l’immagine che l’altro ha di una cosa di cui io gli parlo, è un riferimento comune): quegli archetipi pongono dunque una base diretta di «soggettività» agli im-segni, e quindi un’appartenenza di massima al mondo della poeticità: sì che la tendenza del linguaggio cinematografico dovrebbe essere una tendenza espressivamente soggettivolirica. Ma gli im-segni – come abbiamo visto – hanno anche altri archetipi: l’integrazione mimica del parlato e la realtà vista dagli occhi, coi suoi mille segni strettamente segnaletici. Tali archetipi sono profondamente diversi da quelli della memoria e dei sogni: sono cioè brutalmente oggettivi, appartengono a un tipo di «comunicazione con gli altri» quanto mai comune a tutti e strettamente funzionale. Così che la tendenza che essi imprimono al linguaggio degli im-segni, è una tendenza piuttosto piattamente oggettiva e informativa. Terzo fatto: l’operazione prima che deve compiere il regista – ossia la scelta del suo vocabolario di im-segni, come possibile istituzione linguistica strumentale – non ha certo l’oggettività che ha un vero e proprio vocabolario comune e istituito come quello delle parole. C’è dunque già un primo momento soggettivo anche in tale operazione, in quanto la prima scelta di immagini possibili non può non essere determinata dalla visione ideologica e poetica della realtà che ha il regista in quel momento. Nuova coazione, dunque, di tendenziale soggettività del linguaggio degli im-segni. Ma anche questo fatto è contraddetto: la breve storia stilistica del cinema, infatti, a causa della limitazione espressiva imposta dall’enormità numerica dei destinatari del film, ha fatto sì che gli stilemi fattisi subito sintagmi nel cinema, e rientrati dunque nell’istituzionalità linguistica, siano molto pochi, e in fondo rozzi (si ricordi l’eterno esempio delle ruote della locomotiva; l’infinita serie di P.P. tutti uguali ecc. ecc.). Tutto ciò si pone come momento convenzionale del linguaggio degli im-segni, e assicura ad esso ancora una volta una elementare convenzionalità oggettiva. 185
Insomma il cinema, o il linguaggio degli im-segni, ha una doppia natura: è insieme estremamente soggettivo e estremamente oggettivo (fino al limite di una insuperabile e goffa fatalità naturalistica). I due momenti di tale natura coesistono strettamente, non sono separabili neanche in laboratorio. Anche la lingua letteraria è naturalmente fondata su una doppia natura: ma in essa le due nature sono separabili: c’è un «linguaggio della poesia», e un «linguaggio della prosa», talmente differenziati fra loro da essere in realtà diacronici, da seguire due diverse storie. Attraverso le parole io posso fare, compiendo due operazioni diverse, una «poesia» o un «racconto». Attraverso le immagini, almeno finora, io posso fare soltanto del cinema (che soltanto per sfumature può tendere a una maggiore o minore poeticità o a una maggiore o minore prosaicità: questo in teoria. In pratica, come abbiamo visto, si è rapidamente costituita una tradizione di «lingua della prosa cinematografica narrativa»). Ci sono dei casi-limite, certo. Dove la poeticità del linguaggio è follemente evidenziata. Per es., Le chien andalou di Buñuel, è dichiaratamente eseguito secondo un registro di pura espressività: ma, per questo, ha bisogno del cartello segnaletico del surrealismo. E va detto che, in quanto prodotto surrealistico, è supremo. Ben pochi altri prodotti sia letterari che pittorici possono competere con lui, perché la loro qualità poetica è corrotta e resa irreale dal loro contenuto, ossia dalla poetica del surrealismo, che è una specie di contenutismo abbastanza brutale (per cui le parole o i colori perdono la loro purezza espressiva, per asservirsi a una impurità contenutistica mostruosa). Al contrario, la purezza delle immagini cinematografiche, da un contenuto surrealistico, viene esaltata anziché offuscata. Perché è la natura onirica reale del sogno e della memoria inconscia che il surrealismo rimette in funzione nel cinema ecc. ecc. Il cinema, ho detto, prima, mancando di lessico concettuale e astratto, è potentemente metaforico, anzi, parte subito, a fortiori, al livello della metafora. Tuttavia le metafore particolari, volute specificamente, hanno sempre in sé qualcosa di inevitabilmente rozzo e convenzionale. Si pensi ai voli, affannati o gioiosi, di colombe, per metaforizzare stati d’animo di affanno o di gioia nell’animo del personaggio ecc. ecc. Insomma, la metafora sfumata, appena percettibile, l’alone poetico di un millimetro di spessore – quello che distacca di un soffio e di un abisso il linguaggio di «A Silvia» dal linguaggio petrarchesco-arcadico istituzionale – nel cinema non parrebbe possibile. Quel tanto di poeticamente metaforico che è clamorosamente possibile nel cinema, è sempre in stretta osmosi con l’altra natura, quella 186
strettamente comunicativa della prosa. Che è poi quella che è prevalsa nella breve tradizione della storia del cinema, abbracciando in una sola convenzione linguistica i film d’arte e i film d’evasione, i capolavori e i feuilletons. E tuttavia tutta la tendenza dell’ultimo cinema, da Rossellini eletto a Socrate, alla «nouvelle vague», alla produzione di questi anni, di questi mesi (comprendente, suppongo, la gran parte dei film del primo festival di Pesaro), è verso un «cinema di poesia». La domanda che si pone è questa, come è teoricamente spiegabile e praticamente possibile, nel cinema, la «lingua della poesia»? Vorrei rispondere a questa domanda fuori dell’ambito strettamente cinematografico, ossia sbloccando la situazione e agendo con la libertà assicurata da un rapporto particolare e concreto tra cinema e letteratura. Trasformerò dunque momentaneamente la domanda: «È possibile nel cinema una “lingua della poesia”?», nella domanda: «È possibile nel cinema la tecnica del discorso libero indiretto?». Vedremo più avanti le ragioni di questa sterzata: vedremo cioè come la nascita di una tradizione tecnica della «lingua della poesia» nel cinema, sia legata a una forma particolare di discorso libero indiretto cinematografico. Ma occorrono due parole, prima, per stabilire cosa intendo per «discorso libero indiretto». Esso è semplicemente l’immersione dell’autore nell’animo del suo personaggio, e quindi l’adozione, da parte dell’autore, non solo della psicologia del suo personaggio, ma anche della sua lingua. Casi di discorso libero indiretto si son sempre avuti, in letteratura. Un discorso libero indiretto potenziale e emblematico c’è anche in Dante, quando usa, per ragioni mimetiche, delle parole di cui è inimmaginabile ch’egli fosse utente, e che appartengono alla cerchia sociale dei suoi personaggi: espressioni di linguaggio cortese, da romanzo a fumetti dell’epoca, per Paolo e Francesca, le «parolacce» per il Lazaronitum comunale ecc. Naturalmente l’uso del «libero indiretto» è esploso prima col naturalismo (si veda quello poetico e arcaicizzante del Verga), e poi con la letteratura crepuscolare-intimistica: ossia è l’Ottocento che si esprime molto abbondantemente attraverso i discorsi rivissuti. Caratteristica costante di tutti i discorsi rivissuti è quella di non poter prescindere da una certa coscienza sociologica, da parte dell’autore, dell’ambiente ch’egli evoca: è infatti la condizione sociale di un personaggio 187
che determina la sua lingua (linguaggio specialistico, gergo, dialetto, lingua dialettizzata che sia). Bisognerà poi fare una distinzione tra monologo interiore e discorso libero indiretto: il monologo interiore è un discorso rivissuto dall’autore in un personaggio che sia almeno idealmente del suo censo, della sua generazione, della sua situazione sociale: la lingua può essere dunque la stessa: l’individuazione psicologica e oggettiva del personaggio non è un fatto di lingua, ma di stile. Il «libero indiretto» è più naturalistico, in quanto è un vero e proprio discorso diretto senza le virgolette, e quindi implica l’uso della lingua del personaggio. Nella letteratura borghese, priva di coscienza di classe (cioè identificante se stessa con l’intera umanità), spesse volte il «libero indiretto» è un pretesto: l’autore si costruisce un personaggio, magari parlante una lingua inventata, per esprimere una propria particolare interpretazione del mondo. È in questo «indiretto» pretestuale – ora per ragioni buone ora per ragioni cattive – che si può avere una narrativa scritta con forti quantitativi presi dalla «lingua della poesia». Il discorso diretto corrisponde, nel cinema, alla «soggettiva». Nel discorso diretto l’autore si fa da parte e cede la parola al suo personaggio, mettendola tra virgolette: E già il poeta innanzi mi saliva, e dicea: «Vienne omai: vedi ch’è tocco meridian dal sole ed alla riva cuopre la notte già col piè Morrocco». Attraverso il discorso diretto Dante riporta tali e quali le parole del dolce pedagogo. Quando uno sceneggiatore usa le espressioni: «Come vista da Accattone, Stella cammina per il praticello zozzo», oppure «Primo piano di Cabiria che osserva e vede… Laggiù, tra le acacie, dei ragazzi che avanzano suonando degli strumenti e ballando» – abbozza lo schema di quelle che nel momento di girare e più di montare il film, diverranno delle soggettive. Soggettive famose, magari per extravaganza, non difettano: riandate con la memoria alla soggettiva del cadavere che vede tutto il mondo come può vederlo chi è disteso dentro una bara, cioè dal basso all’alto e in movimento. Come non sempre gli scrittori hanno una coscienza tecnica precisa di un’operazione come quella del discorso libero indiretto, così anche i registi 188
hanno finora creato delle condizioni stilistiche a tale operazione, nella più assoluta inconsapevolezza, o con una consapevolezza molto approssimativa. Che tuttavia anche al cinema sia possibile un discorso libero indiretto è certo: chiamiamola «soggettiva libera indiretta» questa operazione (che, rispetto all’analoga letteraria, può essere infinitamente meno articolata e complessa). E, visto che abbiamo stabilito una differenza tra «libero indiretto» e «monologo interiore», occorrerà vedere a quale delle due operazioni la «soggettiva libera indiretta» è più prossima. Intanto, essa non può essere un vero e proprio «monologo interiore», in quanto il cinema non ha le possibilità d’interiorizzazione e d’astrazione che ha la parola: è un «monologo interiore» per immagini, ecco tutto. Manca cioè dell’intera dimensione astratta e teorica, esplicitamente impegnata nell’atto evocativo-conoscitivo del personaggio monologante. La mancanza così di un elemento – quello che in letteratura è costituito da pensieri espressi da parole concettuali o astratte – fa sì che mai una «soggettiva libera indiretta» corrisponda perfettamente a quello che è il monologo interiore in letteratura. Casi di sparizioni totali dell’autore in un personaggio, del resto, nella storia del cinema, io non sarei in grado – fino ai primi anni sessanta – di citarne: un film cioè che sia una intera «soggettiva libera indiretta» in quanto tutta la vicenda venga narrata attraverso il personaggio, in una assoluta interiorizzazione del suo sistema interno di allusioni, non mi pare esista. Se però la «soggettiva libera indiretta» non corrisponde del tutto al «monologo interiore» essa corrisponde ancor meno al vero e proprio «libero indiretto». Quando uno scrittore «rivive il discorso» di un suo personaggio, si immerge nella sua psicologia, ma anche nella sua lingua: il discorso libero indiretto è dunque sempre linguisticamente differenziato, rispetto alla lingua dello scrittore. Riprodurre, rivivendole, le lingue diverse dei diversi tipi di condizione sociale, è reso possibile allo scrittore dal fatto che esse ci sono. Ogni realtà linguistica è un insieme di lingue differenziate e differenzianti socialmente: e lo scrittore che usi il «libero indiretto» deve avere soprattutto coscienza di questo: che è poi una forma di coscienza di classe. Ma la realtà della possibile «lingua istituzionale cinematografica», come abbiamo visto, non c’è; o è infinita; e l’autore deve ogni volta ritagliarsene un vocabolario. Ma, anche in tale vocabolario, la lingua è per forza interdialettale e internazionale: perché gli occhi sono uguali in tutto il mondo. Non vi si possono prendere in considerazione, perché non ci sono, delle 189
lingue speciali, dei sublinguaggi, dei gerghi: delle differenziazioni sociali, insomma. O se ci sono, come poi in realtà ci sono, sono totalmente al di fuori di ogni possibilità di catalogazione e d’uso. Ché, effettivamente, lo «sguardo» di un contadino – magari addirittura di un paese o di una regione in condizioni preistoriche di sottosviluppo – abbraccia un altro tipo di realtà, che lo sguardo, dato a quella stessa realtà, di un borghese colto: i due vedono in concreto «serie diverse» di cose, non solo, ma anche una cosa in se stessa risulta diversa nei due «sguardi». Tuttavia, tutto ciò non è istituzionalizzabile, è puramente induttivo. Praticamente dunque, a un possibile livello linguistico comune fondato sugli «sguardi» alle cose, la differenza che un regista può cogliere tra sé e un personaggio, è psicologica e sociale. Ma non linguistica. Egli è perciò completamente impossibilitato a ogni mimesis naturalistica di un linguaggio, di un ipotetico «sguardo» altrui alla realtà. Quindi, se egli si immerge in un suo personaggio, e attraverso lui racconta la vicenda o rappresenta il mondo, non può valersi di quel formidabile strumento differenziante in natura che è la lingua. La sua operazione non può essere linguistica ma stilistica. Del resto, anche uno scrittore se per ipotesi rivive il discorso di un personaggio socialmente identico a lui, non può differenziarne la psicologia attraverso la lingua – che è la sua stessa – ma attraverso lo stile. Praticamente, attraverso certi modi tipici del «linguaggio della poesia». La caratteristica fondamentale, dunque, della «soggettiva libera indiretta» è di non essere linguistica, ma stilistica. E può essere dunque definita un monologo interiore privo dell’elemento concettuale e filosofico astratto esplicito. Questo, almeno teoricamente, fa sì che la «soggettiva libera indiretta» nel cinema implichi una possibilità stilistica molto articolata; liberi, anzi, le possibilità espressive compresse dalla tradizionale convenzione narrativa, in una specie di ritorno alle origini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria. Insomma è la «soggettiva libera indiretta» a instaurare una possibile tradizione di «lingua tecnica della poesia» nel cinema. Quali esempi concreti di tutto questo, trascinerò nel laboratorio Antonioni, Bertolucci e Godard – ma potrei aggiungere anche, dal Brasile, Rocha, o, dalla Cecoslovacchia, Forman, e naturalmente moltissimi altri (quasi tutti gli autori del Festival di Pesaro, presumibilmente). 190
Quanto a Antonioni (Il deserto rosso), non vorrei soffermarmi sui punti universalmente riconoscibili come «poetici», e che pure son molti, nel film. Per esempio, quei due o tre fiori violetti sfuocati in primo piano, nell’inquadratura in cui i due protagonisti entrano nella casa dell’operaio nevrotico: e quegli stessi due o tre fiori violetti, che ricompaiono nello sfondo – non più sfuocati, ma ferocemente nitidi – nell’inquadratura dell’uscita. Oppure la sequenza del sogno: che, dopo tanta squisitezza coloristica, è improvvisamente concepita quasi in un ovvio technicolor (a imitare, o meglio, a rivivere, attraverso una «soggettiva libera indiretta» l’idea fumettistica che ha un bambino delle spiagge dei tropici). Oppure ancora la sequenza della preparazione del viaggio in Patagonia: gli operai che ascoltano ecc. ecc.; quello stupendo primo piano di un operaio emiliano struggentemente «vero», seguito da una folle panoramica dal basso all’alto lungo una striscia blu elettrico sulla parete di calce bianca del magazzino. Tutto questo testimonia una profonda, misteriosa e a tratti altissima intensità, nell’idea formale che accende la fantasia di Antonioni. Ma, a dimostrazione che il fondo del film sia sostanzialmente questo formalismo, vorrei esaminare due aspetti di una particolare operazione stilistica (la stessa che esaminerò anche in Bertolucci e Godard) estremamente significativa. I due momenti di tale operazione sono: I) L’accostamento successivo di due punti di vista, dalla diversità insignificante, su una stessa immagine: cioè il succedersi di due inquadrature che inquadrano lo stesso pezzo di realtà, prima da vicino, poi un po’ più da lontano; oppure, prima frontalmente e poi un po’ più obliquamente; oppure infine addirittura sullo stesso asse ma con due obiettivi diversi. Ne nasce l’insistenza che si fa ossessiva: in quanto mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose. II) La tecnica del fare entrare e uscire i personaggi nell’inquadratura, per cui, in modo talvolta ossessivo, il montaggio consiste in una serie di «quadri» – che possiamo dire informali – dove i personaggi entrano, dicono o fanno qualcosa, e poi escono, lasciando di nuovo il quadro alla sua pura, assoluta significazione di quadro: cui succede un altro quadro analogo, dove poi i personaggi entrano ecc. ecc. Sicché il mondo si presenta come regolato da un mito di pura bellezza pittorica, che i personaggi invadono, è vero, ma adattando se stessi alle regole di quella bellezza, anziché sconsacrarle con la loro presenza. La legge interna al film delle «inquadrature ossessive» dimostra dunque chiaramente la prevalenza di un formalismo come mito finalmente liberato, e quindi poetico (il mio uso della parola formalismo non implica giudizio di 191
valore: so benissimo che c’è un’autentica e sincera ispirazione formalistica: la poesia della lingua). Ma come è stata possibile a Antonioni questa «liberazione»? Molto semplicemente, è stata possibile creando la «condizione stilistica» per una «soggettiva libera indiretta» che coincide con l’intero film. Nel Deserto rosso, Antonioni non applica più, in una contaminazione un po’ goffa, come nei film precedenti, la sua propria visione formalistica del mondo a un contenuto genericamente impegnato (il problema della nevrosi da alienazione): ma guarda il mondo immergendosi nella sua protagonista nevrotica, rivivendo i fatti attraverso lo «sguardo» di lei (che non per nulla stavolta è decisamente oltre il limite clinico: il suicidio essendo stato già tentato). Per mezzo di questo meccanismo stilistico, Antonioni ha liberato il proprio momento più reale: ha potuto finalmente rappresentare il mondo visto dai suoi occhi, perché ha sostituito, in blocco, la visione del mondo di una nevrotica, con la sua propria visione delirante di estetismo: sostituzione in blocco giustificata dalla possibile analogia delle due visioni. Se poi in tale sostituzione ci fosse qualcosa di arbitrario, non ci sarebbe nulla da ridire. È chiaro che la «soggettiva libera indiretta» è pretestuale: e Antonioni se ne è magari arbitrariamente giovato per consentirsi la massima libertà poetica, una libertà che rasenta – e per questo è inebriante – l’arbitrio. Le immobilità ossessive dell’inquadratura sono tipiche anche del film di Bertolucci Prima della rivoluzione. Esse però hanno un significato diverso che per Antonioni. Non è il frammento di mondo racchiuso nell’inquadratura e trasformato dall’inquadratura in un pezzo di bellezza figurativa a sé stante, che interessa Bertolucci, come invece interessa Antonioni. Il formalismo di Bertolucci è infinitamente meno pittorico: e la sua inquadratura non opera metaforicamente sulla realtà, sezionandola in tanti luoghi misteriosamente autonomi come quadri. L’inquadratura di Bertolucci aderisce alla realtà, secondo un canone in certo modo realistico (secondo una tecnica di lingua poetica, come vedremo, seguita dai classici, da Charlot a Bergman): l’immobilità dell’inquadratura su un pezzo di realtà (il fiume Parma, le strade di Parma ecc.) sta a testimoniare l’eleganza di un amore indeciso e fondo, proprio per quel pezzo di realtà. Praticamente, tutto il sistema stilistico di Prima della rivoluzione è una lunga soggettiva libera indiretta, fondata sullo stato d’animo dominante della protagonista del film, la giovane zia nevrotica. Ma mentre in Antonioni si è avuta in blocco la sostituzione della visione della malata, con la visione di 192
febbrile formalismo dell’autore, in Bertolucci tale sostituzione in blocco non si è avuta: si è avuta piuttosto una contaminazione tra la visione del mondo della nevrotica e quella dell’autore: che, essendo inevitabilmente analoghe, non sono facilmente distinguibili, sfumano l’una nell’altra: richiedono lo stesso stile. Gli unici momenti espressivamente acuti del film, sono, appunto, le «insistenze» delle inquadrature e dei ritmi di montaggio, il cui realismo d’impianto (l’ascendenza neorealistica rosselliniana, e il realismo mitico di qualche maestro più giovane) si carica attraverso la durata abnorme di un’inquadratura o di un ritmo di montaggio, fino a esplodere in una sorta di scandalo tecnico. Tale insistenza sui particolari, specie su certi particolari degli excursus, è una deviazione rispetto al sistema del film: è la tentazione a fare un altro film. È insomma la presenza dell’autore, che trascende il suo film, in una libertà abnorme, e minaccia continuamente di piantarlo, per la tangente di un’ispirazione improvvisa, che è poi l’ispirazione latente dell’amore per il mondo poetico delle proprie esperienze vitali. Un momento di soggettività nuda e cruda, in natura, in un film dove (come in quello di Antonioni) la soggettività è tutta mistificata attraverso quel processo di falso oggettivismo che è dovuto a una «soggettiva libera indiretta» pretestuale. Insomma, sotto la tecnica prodotta dallo stato d’animo disorientato, incoordinante, assillato dai particolari, attratto da attenzioni coatte ecc. ecc. della protagonista, affiora continuamente il mondo com’è visto dall’autore non meno nevrotico: dominato da uno spirito elegiaco elegante e non mai classicistico. Qualcosa di brutale c’è invece nella cultura di Godard, e anche forse, di leggermente volgare: l’elegia gli è inconcepibile, perché egli essendo parigino non può essere affetto da un sentimento così provinciale e campagnolo; gli è inconcepibile anche il formalismo classicistico di Antonioni, per la stessa ragione: egli è del tutto post-impressionistico, non detiene nulla della vecchia sensualità ristagnante nell’area conservatrice, e marginale, padano-romana, sia pure, com’è in Antonioni, molto europeizzata. Godard non si è posto di fronte a nessun imperativo morale: non sente né la normatività dell’impegno marxista (roba vecchia), né la cattiva coscienza accademica (roba da provincia). La sua vitalità non ha ritegni, pudori, o scrupoli. Essa ricostituisce, in se stessa, il mondo: è anche cinica verso se stessa. La poetica di Godard è ontologica, si chiama cinema. Il suo formalismo è dunque un tecnicismo per sua stessa natura poetico: tutto ciò che è fissato in movimento da una macchina da presa è bello: è la restituzione tecnica, e perciò poetica, 193
della realtà. Anche Godard, naturalmente, fa il solito gioco: anch’egli ha bisogno di uno «stato dominante» del protagonista, per avallare la sua libertà tecnica: uno stato dominante nevrotico e scandaloso nel rapporto con la realtà. I protagonisti di Godard sono anch’essi dunque dei malati, degli squisiti fiori di borghesia: ma non sono in cura. Sono gravissimi, ma vitali, al di qua del limite della patologia: rappresentano semplicemente la media di un nuovo tipo antropologico. Anche del loro rapporto col mondo è caratteristica l’ossessione: l’attaccamento ossessivo a un particolare o a un gesto (e qui interviene la tecnica cinematografica, che può, ancor meglio che la tecnica letteraria, esasperare le situazioni). Ma non si tratta in Godard di insistenze eccedenti ogni tempo sopportabile su uno stesso oggetto: in lui non c’è né il culto dell’oggetto in quanto forma (come in Antonioni), né il culto dell’oggetto in quanto simbolo di un mondo perduto (come in Bertolucci): Godard non ha nessun culto, e mette tutto alla pari, frontalmente: il suo pretestuale «libero indiretto» è una sistemazione frontale e indifferenziante di mille particolari del mondo, senza soluzione di continuità, montati con l’ossessione fredda e quasi compiaciuta (tipica del suo protagonista amorale) di una disintegrazione ricostruita in unità attraverso quel linguaggio inarticolato. Godard manca completamente di classicismo, altrimenti si potrebbe parlare, per lui, di neo-cubismo. Ma potremmo parlare di un neocubismo non tonale. Sotto le vicende dei suoi film, sotto le lunghe «soggettive libere indirette» che mimano lo stato d’animo dei protagonisti, scorre sempre un film fatto per il puro piacere della restituzione di una realtà frantumata dalla tecnica e ricostruita da un Braque brutale, meccanico e disarmonico. Il «cinema di poesia» – come si presenta a qualche anno dalla sua nascita – ha dunque in comune la caratteristica di produrre film dalla doppia natura. Il film che si vede e si accepisce normalmente è una «soggettiva libera indiretta», magari irregolare e approssimativa – molto libera, insomma: dovuta al fatto che l’autore si vale dello «stato d’animo psicologico dominante nel film» – che è quello di un protagonista malato, non normale – per farne una continua mimesis – che gli consente molta libertà stilistica anomala e provocatoria. Sotto tale film, scorre l’altro film – quello che l’autore avrebbe fatto anche senza il pretesto della mimesis visiva del suo protagonista: un film totalmente e liberamente di carattere espressivo-espressionistico. Spia della presenza di tale film sotterraneo non fatto, sono, appunto, come 194
abbiamo visto nelle analisi particolari, le inquadrature e i ritmi di montaggio ossessivi. Tale ossessività contraddice non solo la norma del linguaggio cinematografico comune, ma la stessa regolamentazione interna del film in quanto «soggettiva libera indiretta». È il momento, cioè, in cui il linguaggio, seguendo un’ispirazione diversa e magari più autentica, si libera dalla funzione, e si presenta come «linguaggio in se stesso», stile. Il «cinema di poesia» è in realtà, dunque, profondamente fondato sull’esercizio di stile come ispirazione, nella maggior parte dei casi, sinceramente poetica: tale da togliere ogni sospetto di mistificazione alla pretestualità dell’uso della «soggettiva libera indiretta». Tutto questo, cosa significa? Significa che si sta formando una tradizione tecnico-stilistica comune: una lingua, cioè, del cinema di poesia. Tale lingua tende a porsi ormai come diacronica rispetto alla lingua della narrativa cinematografica: diacronia che sembrerebbe destinata ad accentuarsi sempre più, come accade nei sistemi letterari. Tale tradizione tecnico-stilistica nascente si fonda sull’insieme di quegli stilemi cinematografici, che si sono formati quasi naturalmente in funzione degli eccessi psicologici anomali dei protagonisti scelti pretestualmente: o meglio in funzione di una visione sostanzialmente formalistica del mondo (informale in Antonioni, elegiaca in Bertolucci, tecnicistica in Godard ecc. ecc.). Esprimere tale visione interiore richiede necessariamente una lingua speciale, coi suoi stilismi e i suoi tecnicismi compresenti all’ispirazione, che, essendo appunto formalistica, ha in essi insieme il suo strumento e il suo oggetto. La serie degli «stilemi cinematografici», così nati e catalogati in una tradizione appena fondata e ancora senza norme se non intuitive e direi pragmatiche – coincidono tutti con dei processi tipici dell’espressione specificamente cinematografica. Son fatti linguistici puri, e quindi richiedono espressioni linguistiche specifiche. Elencarli significa tracciare una possibile «prosodia» non ancora codificata e funzionante, ma la cui normatività è già potenziale (da Parigi a Roma, da Praga a Brasilia). La prima caratteristica di questi segni costituenti una tradizione del cinema di poesia, consiste in quel fenomeno che normalmente e banalmente vien definito dagli addetti ai lavori con la frase: «Far sentire la macchina». Insomma, alla grande massima dei cineasti saggi, in vigore fino ai primi anni sessanta: «Non far sentire la macchina!», è successa la massima contraria. Tali due commi, gnoseologici e gnomici, contrari, stanno lì a definire 195
inequivocabilmente, la presenza di due modi diversi di fare il cinema: di due diverse lingue cinematografiche. Ma allora bisogna pur dirlo: nei grandi poemi cinematografici, da Charlot, a Mizoguchi, a Bergman, la caratteristica generale e comune era che «non si sentiva la macchina»: non erano girati, cioè, secondo un canone di «lingua del cinema di poesia». La loro poesia era altrove che nel linguaggio in quanto tecnica del linguaggio. Il fatto che non vi si sentisse la macchina da presa, significava che la lingua aderiva ai significati, mettendosi al loro servizio: era trasparente fino alla perfezione; non si sovrapponeva ai fatti, violentandoli attraverso le folli deformazioni semantiche che si devono alla sua presenza come continua coscienza tecnico-stilistica. Ricordiamo la sequenza del pugilato, in Luci della città, tra Charlot e un campione come sempre molto più forte di lui: la stupenda comicità del balletto di Charlot, quei suoi passettini fatti un po’ di qua e un po’ di là, simmetrici, inutili, strazianti e di un ridicolo irresistibile: ebbene, lì la macchina da presa stava ferma e riprendeva un qualsiasi «totale». Non la si sentiva. Oppure ricordiamo uno degli ultimi prodotti del «cinema di poesia» classico: nell’Occhio del diavolo di Bergman, quando Don Giovanni e Pablo escono dall’Inferno dopo trecento anni, e rivedono il mondo, l’apparizione del mondo – cosa così straordinaria – è data da Bergman con un «campo lungo» dei due protagonisti in un pezzo di campagna un po’ selvatica e primaverile, uno o due comunissimi «primi piani», e un grande «totale» su un panorama svedese, dalla bellezza sconvolgente nella sua cristallina e umile insignificanza. La macchina da presa era ferma, inquadrava quelle immagini in modo assolutamente normale. Non la si sentiva. La poeticità dei film classici non era dunque ottenuta usando un linguaggio specifico di poesia. Questo significa che non erano poesie, ma racconti: il cinema classico è stato ed è narrativo: la sua lingua è quella della prosa. La poesia vi è interna: come mettiamo nei racconti di Cechov o di Melville. La formazione di una «lingua della poesia cinematografica» implica dunque la possibilità di fare, al contrario, degli pseudoracconti, scritti con la lingua della poesia: la possibilità insomma, di una prosa d’arte, di una serie di pagine liriche, la cui soggettività è assicurata dall’uso pretestuale della «soggettiva libera indiretta»: e il cui vero protagonista è lo stile. La macchina, dunque, si sente, per delle buone ragioni: l’alternarsi di 196
obbiettivi diversi, un 25 o un 300 sulla stessa faccia, lo sperpero dello zum, coi suoi obbiettivi altissimi, che stanno addosso alle cose dilatandole come pani troppo lievitati, i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di macchina a mano, le carrellate esasperate, i montaggi sbagliati per ragioni espressive, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine ecc. ecc., tutto questo codice tecnico è nato quasi per insofferenza alle regole, per un bisogno di libertà irregolare e provocatoria, per un diversamente autentico o delizioso gusto dell’anarchia: ma è divenuto subito canone, patrimonio linguistico e prosodico, che interessa contemporaneamente tutte le cinematografie mondiali. Che utilità ha l’avere individuato, e in qualche modo battezzato, questa recente tradizione tecnico-stilistica di un «cinema di poesia»? Una semplice utilità terminologica, evidentemente: che non ha significato se non si proceda poi a un esame comparativo di questo fenomeno, in una situazione culturale, sociale e politica più vasta. Ora, il cinema, probabilmente dal 1936, anno dell’uscita di Tempi moderni, è sempre stato in anticipo sulla letteratura: o almeno ha catalizzato con una tempestività che lo rendeva cronologicamente anteriore, i motivi sociopolitici profondi che avrebbero caratterizzato di lì a poco la letteratura. Perciò il neorealismo cinematografico (Roma città aperta) ha prefigurato tutto il neorealismo italiano letterario del dopoguerra e di parte degli anni cinquanta; i film neo-decadenti e neo-formalistici di Fellini o Antonioni hanno prefigurato il revival neo-avanguardistico italiano o lo stingimento del neo-realismo; la «nouvelle vague» ha anticipato 1’«école du regard», rendendone clamorosamente pubblici i primi sintomi; il nuovo cinema di alcune repubbliche socialiste è il dato primo e più clamoroso di un generale risveglio in quei paesi dell’interesse per il formalismo di origine occidentale, come ripresa di un motivo novecentesco interrotto ecc. ecc. Insomma, in un quadro generale, la formazione di una tradizione di «lingua della poesia del cinema», si pone come spia di una forte e generale ripresa del formalismo, quale produzione media e tipica dello sviluppo culturale del neocapitalismo. (Naturalmente c’è la riserva, dovuta al mio moralismo di marxista, di una possibile alternativa: ossia di un rinnovamento di quel mandato dello scrittore che in questo momento si presenta come scaduto.) Effettivamente, per concludere: 197
I) La tradizione tecnico-stilistica di un cinema di poesia nasce in un ambito di ricerche neoformalistiche, corrispondenti all’ispirazione materica e prevalentemente linguistico-stilistica tornata d’attualità nella produzione letteraria. II) L’uso della «soggettiva libera indiretta» nel cinema di poesia, come abbiamo più volte ripetuto, è pretestuale: serve a parlare indirettamente – attraverso un qualsiasi alibi narrativo – in prima persona: e quindi il linguaggio adoperato per i monologhi interiori dei personaggi pretestuali è il linguaggio di una «prima persona» che vede il mondo secondo un’ispirazione sostanzialmente irrazionalistica: e che per esprimersi deve dunque ricorrere ai più clamorosi mezzi espressivi della «lingua della poesia». III) I personaggi pretestuali non possono che essere scelti nell’ambito culturale stesso dell’autore: analoghi, cioè, a lui, per cultura, lingua e psicologia: degli «squisiti fiori di borghesia». Se poi appartengono ad altro mondo sociale, vengono mitizzati e assimilati attraverso la tipizzazione dell’anomalia, della nevrosi o dell’ipersensibilità ecc. La borghesia, insomma, anche nel cinema, ridentifica se stessa con l’intera umanità, in un interclassismo irrazionalistico. Tutto ciò fa parte di quel movimento generale del recupero, da parte della cultura borghese, del terreno perduto nella battaglia col marxismo e con la sua possibile rivoluzione. E si inserisce in quel movimento, in qualche modo grandioso, dell’evoluzione, possiamo dire antropologica, della borghesia, secondo le linee di una «rivoluzione interna» del capitalismo: cioè il neocapitalismo che mette in discussione e modifica le proprie strutture, e che, nella fattispecie, riattribuisce ai poeti una funzione tardo-umanistica: il mito e la coscienza tecnica della forma. (1965)
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LA SCENEGGIATURA COME «STRUTTURA CHE VUOL ESSERE ALTRA STRUTTURA» Il dato concreto del rapporto tra cinema e letteratura è la sceneggiatura. Non mi interessa però tanto osservare la funzione mediatrice della sceneggiatura, e l’elaborazione critica dell’opera letteraria che essa conduce, «integrandola figuralmente» con la prospettiva altrettanto critica dell’opera cinematografica che essa presuppone. In questa nota quello che mi interessa della sceneggiatura è il momento in cui la sceneggiatura può essere considerata una «tecnica» autonoma, un’opera integra e compiuta in se stessa. Prendiamo il caso di una sceneggiatura di uno scrittore, non tratta da un romanzo e – per una ragione o l’altra – non tradotta in film. Questo caso ci presenta una sceneggiatura autonoma: che può rappresentare benissimo una vera e propria scelta dell’autore: la scelta di una tecnica narrativa. Qual è il canone di giudizio per una simile opera? Se la si considera completamente appartenente alle «scritture» – cioè nient’altro che il prodotto di un «tipo di scrittura» il cui elemento fondamentale sia quello di scrivere attraverso la tecnica della sceneggiatura – allora essa va giudicata nel solito modo con cui si giudicano i prodotti letterari, e precisamente come un nuovo «genere» letterario, con la sua prosodia e la sua metrica particolari ecc. ecc. Ma facendo questo, si compirebbe una operazione critica errata e arbitraria. Se nella sceneggiatura non c’è l’allusione continua a un’opera cinematografica da farsi, essa non è più una tecnica, e il suo aspetto di sceneggiatura è puramente pretestuale (caso che non si è ancora dato). Se dunque un autore decide di adottare la «tecnica» della sceneggiatura come opera autonoma, deve accettare insieme l’allusione a un’opera cinematografica «da farsi», senza la quale la tecnica da lui adottata è fittizia – e quindi rientra direttamente nelle forme tradizionali delle scritture letterarie. Se invece accetta, come elemento sostanziale, struttura, della sua «opera in forma di sceneggiatura», l’allusione a un’opera cinematografica199
visualizzatrice «da farsi», allora si può dire che la sua opera è insieme tipica (ha caratteri veramente simili a tutte le sceneggiature vere e proprie e funzionali) e autonoma nel tempo stesso. Un momento simile c’è in tutte le sceneggiature (dei film ad alto livello): ossia tutte le sceneggiature hanno un momento in cui sono delle «tecniche» autonome, il cui elemento strutturale primo è il riferimento integrativo a un’opera cinematografica da farsi. In tale senso una critica a una sceneggiatura come tecnica autonoma, richiederà ovviamente delle condizioni particolari, così complesse, così determinate da un viluppo ideologico che non ha riferimenti né con la critica letteraria tradizionale, né con la recente tradizione critica cinematografica – da richiedere addirittura l’ausilio di possibili codici nuovi. Per es., è possibile servirsi del codice stilcritico nell’analisi di una «sceneggiatura»? Può darsi che sia possibile, ma adattandolo a una serie di necessità che quel codice non aveva decisamente previsto tanto da non riuscire che fittiziamente a coprirle. Infatti, se l’esame istologico condotto su un campione prelevato dal corpo di una sceneggiatura è analogo a quello che si conduce su un’opera letteraria, esso destituisce la sceneggiatura del suo carattere che, come abbiamo visto, è sostanziale: l’allusione a un’opera cinematografica da farsi. L’esame stilcritico ha sotto gli occhi la forma che ha: esso stende un velo diagnostico anche su ciò che potrebbe preventivamente sapere, figurarsi su ciò che non sa realmente, non solo come cognizione, ma come ipotesi di lavoro! L’osservazione sull’infinitesimo riproducente il tutto – che conduce a una ridefinizione storico-culturale dell’opera – nel caso della sceneggiatura mancherà sempre di qualcosa: ossia di un elemento interno della forma: un elemento che lì non c’è, che è una «volontà della forma». (Una volta presa coscienza del problema, probabilmente uno stilcritico può adattarvi la sua indagine: tuttavia il dato essenziale della stilcritica, quello di agire sul concreto, viene eluso: praticamente non si può «avvertire» questa «volontà della forma» da un particolare della forma. Tale volontà va presupposta ideologicamente, deve far parte del codice critico. Nel dettaglio essa non è che un vuoto, una dinamica che non si concreta, è come un frammento di forza senza destinazione, che si traduce in una rozzezza e incompletezza della forma, da cui lo stilcritico non può dedurre che una rozzezza e incompletezza di tutta l’opera: e magari dedurne una sua qualità di appunto, di opera da farsi ecc. ecc. E con ciò non si è tenuto al punto critico giusto, che deve piuttosto preventivare e supporre tale conclusione come 200
parte integrante dell’opera, come sua caratteristica strutturale ecc. ecc.) La caratteristica principale del «segno» della tecnica della sceneggiatura, è quella di alludere al significato attraverso due strade diverse, concomitanti e riconfluenti. Ossia: il segno della sceneggiatura allude al significato secondo la strada normale di tutte le lingue scritte e specificamente dei gerghi letterari, ma, nel tempo stesso, esso allude a quel medesimo significato, rimandando il destinatario a un altro segno, quello del film da farsi. Ogni volta il nostro cervello, di fronte a un segno della sceneggiatura, percorre contemporaneamente queste due strade – una rapida e normale, e una seconda lunga e speciale – per coglierne il significato. In altre parole: l’autore di una sceneggiatura fa al suo destinatario la richiesta di una collaborazione particolare, quella cioè di prestare al testo una compiutezza «visiva» che esso non ha, ma a cui allude. Il lettore è complice, subito – di fronte alle caratteristiche tecniche subito intuite della sceneggiatura – nell’operazione che gli è richiesta: e la sua immaginazione rappresentatrice entra in una fase creativa molto più alta e intensa, meccanicamente, di quando legge un romanzo. La tecnica della sceneggiatura è fondata soprattutto su questa collaborazione del lettore: e si capisce che la sua perfezione consiste nell’adempiere perfettamente questa funzione. La sua forma, il suo stile sono perfetti e completi quando hanno compreso e integrato in se stessi queste necessità. L’impressione di rozzezza e di incompletezza è dunque apparente. Tale rozzezza e tale incompletezza sono elementi stilistici. A questo punto succede un dramma tra i vari aspetti sotto cui si presenta un «segno». Esso è insieme orale (fonema), scritto (grafema) e visivo (cinèma). Per una serie incalcolabile di riflessi condizionati della nostra misteriosa cibernetica, noi abbiamo sempre compresenti questi aspetti diversi del «segno» linguistico, che è dunque uno e trino. Se apparteniamo alla classe che detiene la cultura, e sappiamo dunque almeno leggere, i «grafemi» ci si presentano subito come «segni» tout court, arricchiti infinitamente dalla compresenza del loro «fonema» e del loro «cinèma». Ci sono già, nella tradizione, certe «scritture» che rimandano il lettore a un’operazione analoga a quella che abbiamo qui sopra descritta: per es., le scritture della poesia simbolista. Quando leggiamo una poesia di Mallarmé o di Ungaretti, davanti alla serie dei «grafemi» che sono in quel momento davanti ai nostri occhi – i linsegni – noi non ci limitiamo a una pura e semplice lettura: il testo ci richiede di collaborare «fingendo» di sentire acusticamente quei grafemi. Esso cioè ci rimanda ai fonemi. Che sono 201
compresenti nel nostro giudizio anche se noi non leggiamo a voce alta. Un verso di Mallarmé o di Ungaretti raggiunge il suo significato solo attraverso una dilatazione semantica, o una coazione squisito-barbarica dei significati particolari: il che si ottiene attraverso la supposta musicalità della parola o dei nessi delle parole. Ossia dando delle denotazioni non attraverso una particolare espressività del segno, ma attraverso la prevaricazione del suo fonema. Mentre leggiamo, dunque, integriamo in tal modo il significato aberrante dello speciale vocabolario del poeta, seguendo due strade, quella normale, segno-significato, e quella anormale, segno-segno in quanto fonema-significato. La stessa cosa avviene negli sceno-testi (inventiamo pure questo nuovo termine!). Anche qui il lettore integra il significato incompleto della scrittura della sceneggiatura, seguendo due strade, quella normale, segno-significato, e quella anormale, segno-segno in quanto cinèma-significato. La parola dello sceno-testo è dunque caratterizzata dall’accentuazione espressiva di uno dei tre momenti da cui è costituita, il cinèma. Naturalmente i «cinèmi» sono delle immagini primordiali, delle monadi visive inesistenti, o quasi, in realtà. L’immagine nasce dalle coordinazioni dei cinèmi. È questo il punto: queste coordinazioni di «cinèmi» non sono una tecnica letteraria. Sono un’altra langue, fondata su un sistema di «cinèmi» o «imsegni», su cui si impianta analogamente ai metalinguaggi scritti o parlati, il metalinguaggio cinematografico. Di esso si è sempre parlato (almeno in Italia), come di un «linguaggio» analogo a quello scritto-parlato (letteratura, teatro ecc.), e anche quanto di visivo c’è in esso, è visto per analogia alle arti figurative. Ogni esame cinematografico è dunque viziato da questa origine di calco linguistico che il cinema ha nella testa di chi lo analizza o lo studia. Lo «specifico filmico» – definizione che ha avuto qualche fortuna solo esteriore in Italia – non arriva a prospettare la possibilità del cinema come un’altra lingua, con le sue strutture autonome e particolari: lo «specifico filmico» tende a porre il cinema come un’altra tecnica, specifica, fondata per analogia sulla lingua scritta-parlata, cioè su quella che è per noi la lingua tout-court (ma non per la semiotica, che è indifferente di fronte ai più svariati, scandalosi e ipotetici sistemi di segni). Mentre dunque il «cinèma» nelle lingue scritto-parlate è uno degli elementi del segno – e, oltre tutto, quello preso meno in considerazione, presentandosi alla nostra abitudine, la parola, come scritta-parlata, ossia soprattutto come fonema e come grafema – nelle lingue cinematografiche il cinèma è il segno 202
per eccellenza: si deve parlare piuttosto di im-segno (che è dunque il «cinèma» staccato dagli altri due momenti della parola, e diventato autonomo, segno autosufficiente). Che cos’è questa monade visiva fondamentale che è l’im-segno, e cosa sono le «coordinazioni di im-segni», da cui nasce l’immagine? Anche qui, istintivamente, abbiamo sempre ragionato tenendo nella testa una specie di calco letterario, ossia facendo una continua e inconscia analogia tra cinema e linguaggi espressivi scritti. Abbiamo cioè identificato per analogia l’im-segno alla parola, e vi abbiamo costruito sopra una specie di surrettizia grammatica, vagamente, fortunosamente e, in qualche modo sensualmente, analoga a quella delle lingue scritto-parlate. Ossia, abbiamo nella testa un’idea dell’imsegno molto vaga, che genericamente identifichiamo con la parola. Ma la parola è sostantivo, verbo, interiezione o particella interiettiva. Ci sono delle lingue fondamentalmente nominali, altre fondamentalmente verbali. Nelle nostre lingue comuni in occidente, la lingua consiste in un equilibrio di definizione (sostantivale) e di azione (verbale) ecc. ecc. Quali sono i sostantivi, i verbi, le congiunzioni, le interiezioni nella lingua cinematografica? E, soprattutto, è necessario, che obbedendo alla nostra legge dell’analogia e dell’abitudine, vi siano? Se il cinema è un’altra lingua, tale lingua sconosciuta non può essere fondata su leggi che non hanno niente a che fare con le leggi linguistiche cui siamo abituati? Cos’è, fisicamente, l’im-segno? Un fotogramma? Una durata particolare di fotogrammi? Un insieme pluricellulare di fotogrammi? Una sequenza significativa di fotogrammi dotati di durata? Questo deve essere ancora deciso. E non lo sarà finché non si avranno i dati per scrivere una grammatica del cinema. Dire, per es., che l’im-segno o monade del linguaggio cinematografico è un «sintassema» cioè un insieme coordinato di fotogrammi (o di inquadrature?) è ancora arbitrario. Com’è ancora arbitrario dire, per es., che il cinema è una lingua totalmente «verbale»: ossia che nel cinema non esistono sostantivi, congiunzioni, interiezioni, se non fusi coi verbi. E che quindi il nucleo della lingua cinematografica, l’im-segno, è un taglio in movimento di immagini, dalla durata indeterminabile e informe, magmatica. Onde una grammatica «magmatica» per definizione, descrivibile attraverso paragrafi e capitoli inusitati nelle grammatiche scritto-parlate. Ciò che non è arbitrario è invece dire che il cinema è fondato su un «sistema di segni» diverso da quello scritto-parlato, ossia che il cinema è un’altra lingua. Ma non un’altra lingua come il bantu è diverso dall’italiano, per es., tanto 203
per accostare due lingue difficilmente accostabili: e a ragion veduta, se anche la traduzione implica un’operazione analoga a quella che abbiamo visto per lo sceno-testo (e per certe scritture come la poesia simbolista): richiede cioè una collaborazione speciale del lettore e i suoi segni hanno due canali di riferimento al significato. Si tratta del momento della traduzione letterale con testo a fronte. Se su una pagina vediamo il testo bantu, e sull’altra il testo italiano, i segni da noi percepiti (letti) del testo italiano eseguono quella doppia carambola che solo delle raffinatissime macchine per pensare, come sono i nostri cervelli, possono seguire. Essi cioè rendono il significato direttamente (il segno «palma» che mi indica la palma) e indirettamente, rimandando al segno bantu che indica la stessa palma in un mondo psicofisico o culturale diverso. Il lettore, naturalmente, non comprende il segno bantu, che è per lui lettera morta: tuttavia si rende conto almeno che il significato teso dal segno «palma» va integrato, modificato… come? magari senza sapere come, da quel misterioso segno bantu: comunque il sentimento che esso va modificato in qualche modo lo modifica. L’operazione di collaborazione tra traduttore e lettore è quindi doppia: segno-significato, e segno-segno di un’altra lingua (primitiva)-significato. L’esempio di una lingua primitiva si avvicina a quello che vogliamo dire del cinema: tale lingua primitiva ha infatti strutture anche immensamente diverse dalle nostre, appartenenti, mettiamo, al mondo del «pensiero selvaggio». Tuttavia il «pensiero selvaggio» è in noi: e c’è una struttura fondamentalmente identica fra le nostre lingue e quelle primitive: ambedue sono costituite da linsegni, e sono quindi a vicenda compatibili. Le due rispettive grammatiche hanno degli schemi analoghi. (Se siamo dunque abituati a interrompere le nostre abitudini grammaticali per rispetto alle strutture di un’altra lingua, anche la più compromettente e diversa, non siamo, invece, capaci di interrompere le nostre abitudini cinematografiche. E questo fin che non si sarà scritta una grammatica scientifica del cinema, come potenziale grammatica di un «sistema di im-segni» su cui il cinema si fonda.) Ora, dicevamo che il «segno» della sceneggiatura segue una doppia strada (segno-significato; segno-segno cinematografico-significato). Bisogna ripetere che: anche il segno dei metalinguaggi letterari segue la stessa strada, suscitando immagini nella mente collaboratrice del lettore: il grafema accentua ora il proprio essere fonema ora il proprio essere cinèma, a seconda della qualità musicale o pittorica della scrittura. Ma abbiamo detto che nel caso dello sceno-testo la caratteristica tecnica è una speciale e canonica richiesta di collaborazione del lettore a vedere nel grafema soprattutto il 204
cinèma, e quindi a pensare per immagini, ricostruendo nella propria testa il film alluso nella sceneggiatura come opera da farsi. Dobbiamo ora completare questa osservazione iniziale, precisando che il cinèma così accentuato e funzionalizzato, come dicevamo, non è un mero elemento, sia pur dilatato, del segno, ma è il segno di un altro sistema linguistico. Non solo dunque il segno della sceneggiatura esprime oltre che la forma «una volontà della forma a essere un’altra», cioè coglie «la forma in movimento»: un movimento che si conclude liberamente e variamente nella fantasia dello scrittore e nella fantasia collaboratrice e simpatetica del lettore, liberamente e variamente coincidenti: tutto questo avviene normalmente nell’ambito della scrittura, e presuppone solo nominalmente un’altra lingua (in cui la forma si compia). È insomma una questione che mette in rapporto metalinguaggio con metalinguaggio, e le forme reciproche. Ciò che è più importante notare è che la parola della sceneggiatura è, così, contemporaneamente, il segno di due strutture diverse, in quanto il significato che esso denota è doppio: e appartiene a due lingue dotate di strutture diverse. Se, formulando una definizione nel campo artatamente limitato della scrittura, il segno dello sceno-testo si presenta come il segno che denota una «forma in movimento», una «forma dotata della volontà di diventare un’altra forma», formulando la definizione nel campo più completo e più oggettivo della lingua, il segno dello sceno-testo si presenta come il segno che esprime significati di una «struttura in movimento», ossia di «una struttura dotata della volontà di divenire un’altra struttura». Stando così le cose, qual è la struttura tipica del metalinguaggio della sceneggiatura? Essa è una «struttura diacronica» per definizione, o meglio ancora, per usare quel termine che pone in crisi lo strutturalismo (soprattutto se inteso convenzionalmente, come da certi gruppi italiani), un termine del Murdock, un vero e proprio «processo». Ma un processo particolare, non trattandosi di un’evoluzione, di un passaggio da uno stadio A a uno stadio B: ma di un puro e semplice «dinamismo», di una «tensione», che si muove, senza partire e senza arrivare, da una struttura stilistica, quella della narrativa, a un’altra struttura stilistica, quella del cinema, e, più profondamente, da un sistema linguistico a un altro. La «struttura» dinamica ma senza funzionalità, e fuori dalle leggi dell’evoluzione, dello sceno-testo, si presta perfettamente come oggetto per uno scontro tra il concetto ormai tradizionale di «struttura» e quello critico di «processo». Murdock e Vogt si troverebbero davanti a un «processo che non 205
procede», a una struttura che fa del processo la propria caratteristica strutturale; Lévi-Strauss si troverebbe davanti non ai valori di una «filosofia ingenua», che determinano i processi «direzionali», ma davanti a una vera e propria volontà di movimento, la volontà dell’autore che designando i significati di una struttura linguistica come i segni tipici di quella struttura, nel tempo stesso designa i significati di un’altra struttura. Tale volontà è precisa: è un dato di fatto, che l’osservatore può osservare dall’esterno, di cui è egli stesso testimone. Non è una volontà ipotizzata e ingenuamente provata. La sincronia del sistema degli sceno-testi pone come elemento fondamentale la diacronia. Ossia, ripeto, il processo. Abbiamo così nel laboratorio una struttura morfologicamente in movimento. Che un individuo, in quanto autore, reagisca al sistema costruendone un altro, mi sembra semplice e naturale; così come gli uomini, in quanto autori di storia, reagiscono alla struttura sociale costruendone un’altra, attraverso la rivoluzione, ossia alla volontà di trasformare la struttura. Non intendo quindi parlare, secondo la critica sociologica americana, di valori e volizioni «naturali» e ontologici: ma parlo di «volontà rivoluzionaria» sia nell’autore in quanto creatore di un sistema stilistico individuale che contraddice il sistema grammaticale e letterario-gergale vigente, sia negli uomini in quanto sovvertitori di sistemi politici. Nel caso di un autore di sceno-testi, e, più ancora, di film, siamo davanti a un fatto curioso: la presenza di un sistema stilistico là dove non è ancora definito un sistema linguistico, e dove la struttura non è cosciente e descritta scientificamente. Un regista, mettiamo, come Godard, distrugge la «grammatica» cinematografica, prima che si sappia qual è. Ed è naturale, perché ogni sistema stilistico personale urta più o meno violentemente contro i sistemi istituzionali. Nel caso del cinema, ciò avviene per analogia con la letteratura. L’autore cioè è cosciente che il suo sistema stilistico (o forse meglio «scrittura» come suggerisce Barthes) contraddice alla norma e la sovverte, ma non sa di che norma si tratti. C’è per esempio ormai una vera e propria scuola internazionale, una «internazionale stilistica» che adotta per il cinema i canoni della «lingua della poesia», e quindi non può non deludere, sfidare, frantumare, giocare la grammatica (che non conosce, perché è la grammatica di un’altra lingua, di un «sistema di segni visivi» non ancora ben chiaro nella coscienza critica). Tale lingua della poesia, nel cinema, è già una vera e propria istituzione stilistica recente, con le sue leggi proprie e qualità, come si dice, solidali: riconoscibili in un film parigino o in un film praghese, 206
in un film italiano o in un film brasiliano. Essi già, come genere cinematografico, tendono ad avere i loro circuiti, e i loro canali specifici di distribuzione (è recente un convegno dei Cinéma d’essai in Italia, dove tale esigenza sta diventando cosciente: così, insomma, come un editore ha il suo modo e la sua strada per smerciare libri preventivamente considerati di piccola tiratura, per destinatari eletti: che però non è detto siano un cattivo affare commerciale, se la distribuzione avviene entro i limiti ragionevolmente preventivati). La distinzione tra «lingua della prosa» e «lingua della poesia» è un vecchio concetto tra i linguisti. Ma se dovessi indicare un capitolo recente di tale distinzione, indicherei alcune pagine a questo dedicate del Grado zero di Barthes, dove la distinzione è radicale e elettrizzante. (Dovrei solo aggiungere che Barthes ha come background il classicismo francese, che è molto diverso da quello italiano, e soprattutto ha alle sue spalle la serie di sequenze progressive della lingua francese, mentre gli italiani hanno alle loro spalle un caos, che rende sempre indefinito e sensuale il loro classicismo. Inoltre osserverei ancora che l’«isolamento delle parole», tipico della lingua della poesia «decadente», ha risultati solo apparentemente anti-classicistici, ossia di prevalenza della parola isolata – come mostruosità e mistero – sul tutto solidale del periodo. Infatti, se un analista paziente fosse in grado di ricostruire i «nessi» tra le parole «isolate» della lingua della poesia del Novecento, ricostruirebbe sempre dei nessi classicistici – come ogni operazione estetica in quanto tale presuppone.) In conclusione, nel cinema si hanno indubbiamente dei sistemi o strutture, con tutte le caratteristiche tipiche di ogni sistema e di ogni struttura: un esame stilistico paziente, come quello di un etnologo tra le tribù australiane, ricostruirebbe i dati permanenti e solidali di quei sistemi, sia in quanto «scuole» (il «cinema di poesia» internazionale, come una specie di gotico squisito) sia in quanto veri e propri sistemi individuali. La stessa cosa è possibile fare attraverso una lunga e attenta analisi degli «usi e costumi» delle sceneggiature: anche qui, come intuitivamente o per esperienza non trasformata in ricerca scientifica ognuno di noi sa, una serie di caratteristiche in stretto rapporto fra di loro, e dotate di una continuità costante, costituirebbe una «struttura» tipica delle sceneggiature. Ne abbiamo visto, sopra, la caratteristica «dinamica», che, mi sembra, è un caso clamoroso di «struttura diacronica» ecc. ecc. (con elemento interno sostanziale il «cronotopo» di cui parla Segre). L’interesse che offre questo caso è la concreta e documentabile «volontà» 207
dell’autore: il che mi sembra contraddire all’affermazione di Lévi-Strauss: «Non si può insieme e contemporaneamente definire con rigore uno stadio A e uno stadio B (cosa possibile solo dall’esterno e in termini strutturali) e rivivere empiricamente il passaggio dall’uno all’altro (che sarebbe il solo modo intelligibile per capirlo).» Infatti, davanti alla «struttura dinamica» di una sceneggiatura, alla sua volontà di essere una forma che si muove verso un’altra forma, noi possiamo benissimo, dall’esterno e in termini strutturali definire con rigore lo stadio A (mettiamo la struttura letteraria della sceneggiatura) e lo stadio B (la struttura cinematografica). Ma nel tempo stesso possiamo rivivere empiricamente il passaggio dall’uno all’altro, perché la «struttura della sceneggiatura» consiste proprio in questo: «passaggio dallo stadio letterario allo stadio cinematografico». Se Lévi-Strauss in questo caso avesse torto, e avessero ragione Gurvitch e la sociologia americana, Murdock, Vogt, allora dovremmo accettare la polemica di questi ultimi, e fare nostra la loro esigenza di puntare più che sulla «struttura» sul «processo». Leggere, infatti, né più né meno che leggere, una sceneggiatura significa rivivere empiricamente il passaggio da una struttura A a una struttura B. (1965)
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LA LINGUA SCRITTA DELLA REALTÀ «Non fa differenza», diceva Socrate, «bensì dobbiamo prima di tutto star attenti che non ci capiti un certo caso poco piacevole.» «Quale?» dico io. E lui rispondeva: «Diventar misologi, cioè che sorga in noi avversione e antipatia per ogni discussione. Allo stesso modo altri diviene misantropo e ha avversione e antipatia per i propri simili. Oh! davvero non c’è sventura più grande di questa antipatia per ogni discussione.» PLATONE, Fedone
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I Elenco alcuni punti, non in correlazione strettamente logica fra loro, che bisognerà tener presenti leggendo queste pagine (al solito così stravagantemente interdisciplinari): a) I discorsi teorici sul cinema, fino a oggi, sono stati quasi sempre o di tipo stilistico-parenetico, o saggistico-mitico, o tecnico. Tutti avevano comunque la caratteristica di spiegare il cinema col cinema, creando un’oscura ontologia di fondo. Solo l’intervento della linguistica e della semiologia – che è molto recente – può garantire la caduta di tale ontologia e una ricerca di carattere scientifico sul cinema. b) Ogni discorso sul cinema è, prima di tutto, reso ambiguo dalla terminologia tecnica che finora – rispettosa dei principi ontologici come lo è ogni fatto tecnico – è stata la sola possibile descrizione del fenomeno cinematografico. Non ne può ora nascere che un doppione terminologico (dato che la «tecnica» del cinema pare avere un senso molto più preciso e fattuale di quella che, forse per semplice analogia, si chiama «tecnica letteraria»). Per es. la parola «inquadratura» è una parola della terminologia tecnica del cinema. Un discorso linguistico sul cinema non può farne uso che non sia approssimativo o secondario: ne nasce quindi una lotta per la supremazia tra il termine «inquadratura» e il termine, mettiamo, «monema» (il termine «immagine», appartenente alle indagini pseudo filosofiche del vecchio cinema, sembra ormai essere un vero e proprio arcaismo). c) È, probabilmente, errato parlare di cinema: più esatto sarebbe parlare di «tecnica audiovisiva», comprendente quindi anche la televisione. Inoltre la parola «cinema» tende a confondersi con l’opera cinematografica (e finora le opere cinematografiche hanno fatto «cinema», indistintamente unite da un carattere prevalentemente «narrativo», di «prosa»: questo da ora in avanti non sarà più il caso. Il cinema comincia ad articolarsi, a separarsi in diversi gerghi speciali). d) L’ambizione di individuare i caratteri di una lingua cinematografica, intesa proprio come lingua, nasce da una matrice e in un ambito saussuriano, ma, nel tempo stesso è scandalosa rispetto alla linguistica saussuriana. Si richiede evidentemente di ampliare e modificare la nozione di lingua (così come la presenza delle macchine costringe in cibernetica ad ampliare e modificare la nozione di vita). e) L’avvento delle tecniche audiovisive, come lingue, o quanto meno, 210
come linguaggi espressivi, o d’arte, mette in crisi l’idea che probabilmente ognuno di noi, per abitudine, aveva di una identificazione tra poesia – o messaggio – e lingua. Probabilmente, invece – come le tecniche audiovisive inducono brutalmente a pensare – ogni poesia è translinguistica. È un’azione «deposta» in un sistema di simboli, come in un veicolo, che ridiviene azione nel destinatario, non essendo quei simboli che dei campanelli di Pavlov. Da ciò deriva inevitabilmente l’idea – nata per l’appunto dal cinema, ossia dallo studio dei modi che il cinema ha di riprodurre la realtà – che la realtà non sia, infine, che del cinema in natura. Il cinema, intendo, non come convenzione stilistica, ossia, tendenzialmente come cinema muto, ma il cinema in quanto tecnica audiovisiva. Se dunque la realtà non è che cinema in natura, ne deriva che il primo e principale dei linguaggi umani, può essere considerata l’azione stessa: in quanto rapporto di reciproca rappresentazione con gli altri e con la realtà fisica. Mi rendo ben conto dello speciale tipo di irrazionalismo che porta sempre con sé, inevitabilmente, in filosofia, la parola «agire»: tuttavia è un dato di fatto che questo si impone nel mondo moderno, e noi non possiamo ignorarlo. Non possiamo sfuggire alla violenza esercitata su di noi da una società che, assumendo la tecnica a sua filosofia, tende a divenire sempre più rigidamente pragmatica, a identificare le parole con le cose e le azioni, a riconoscere come «lingue per eccellenza» le «lingue delle infrastrutture» ecc. Non si può insomma ignorare il fenomeno di una specie di esautoramento della parola, legato al deperimento delle lingue umanistiche delle élites, che sono state, finora, le lingue-guida. L’azione umana nella realtà, in quanto primo e principe linguaggio degli uomini, dunque. Per es., i resti linguistici dell’uomo preistorico sono modifiche della realtà, dovute alle azioni della necessità: è in tali azioni che quell’uomo si è espresso. Le modifiche delle strutture sociali, con le loro conseguenze culturali ecc., sono il linguaggio con cui si esprimono i rivoluzionari. Lenin, in un certo modo, ha lasciato scritto un grande poema d’azione. Le lingue scritto-parlate non sono che un’integrazione di questo linguaggio primo: le prime informazioni di un uomo io le ho dal linguaggio della sua fisionomia, del suo comportamento, del suo costume, della sua ritualità, della sua tecnica corporale, della sua azione, e anche, infine, dalla sua lingua scritto-parlata. È così che del resto la realtà è riprodotta dal cinema. f) Non è chi non veda, a questo punto, come la semiologia del linguaggio 211
dell’azione umana – qui proditoriamente descritto – verrebbe poi a essere la più concreta delle filosofie possibili. E non è chi non veda, in conseguenza, quanto di comune avrebbe una simile filosofia, dovuta a una descrizione semiologica, con la fenomenologia: con il metodo di Husserl, magari lungo la linea esistenzialistica sartriana. Se non è una storia che il soggetto della filosofia fenomenologica sono «io in carne e ossa», cioè sono io che decifro il linguaggio dell’azione umana o della realtà come rappresentazione. g) La tesi esposta in queste pagine è che esista una vera e propria «langue» audiovisiva del cinema, e che si può, di conseguenza descriverne o abbozzarne una grammatica (non certo – da parte mia – normativa!). Ma è stato un saggio di Christian Metz: «Le cinéma: langue ou langage?» («Communications», n. 4), che mi costringe a rivedere, a ripensare e a rifiutare molti punti di tale mia tesi. Il disaccordo fra Metz e me si presenta come profondo, ma forse non insanabile: forse la conciliazione è possibile nel terreno franco offerto dalla nozione di «discours» fornita dal Buyssens, «Les langages e le discours», che io trovo citato da Metz ma che non ho avuto modo di leggere ancora direttamente: forse la «substance» di cui egli parla ha qualcosa di comune con il «linguaggio dell’azione, o della realtà stessa» cui accennavo qui sopra: e che si pone quindi come «qualcosa di linguistico» che non è però né «langue» né «parole». E Metz stesso, in nota a questa ipotesi del Buyssens, esclama: «Langue, discours, parole: tutto un programma!». Inoltre Metz, per abbandonare la sua rigida definizione del cinema come semplice «langage d’art», potrebbe fare lo sforzo di considerare il cinema come un enorme deposito di «lingua scritta» di cui si sia dissolto il corrispondente orale: «lingua scritta» composta soprattutto da testi di narrativa, di poesia e di saggistica documentaria. Su tale materiale archeologico, solo perché composto di semplici testi di «langages d’art» ci si dovrebbe forse subito rassegnare a non ipotizzarvi una possibile «langue»?
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II Dunque il mio rozzo schema grammaticale nasce, per crisi e negativamente, dalla lettura dello splendido saggio di Christian Metz che, definendo il cinema linguaggio, e non lingua, crede possibile farne una descrizione semiologica, e non una grammatica. I punti che vorrei discutere della teoria di Metz, mi sembrano i seguenti: I) Metz smonta le precedenti teorie linguistiche del cinema, non bene individuando il fatto che esse erano soprattutto e in parte inconsapevolmente teorie stilistiche: che il loro codice non era linguistico ma prosodico. E che comunque molti aspetti della comunicazione cinematografica, date le particolari circostanze in cui è nato il cinema, (ripetiamo infatti che il cinema è solo una lingua «scritta») sono di derivazione prosodico-stilistica. (Cosa che del resto succede spesso anche per la convenzione linguistica: molti modi espressivi entrano nel codice, perdendo la loro iniziale espressività ecc. ecc. e divenendo quindi processi convenzionali.) II) Metz parla di una «impressione di realtà» come caratteristica della comunicazione cinematografica. Io non direi che si tratta di una «impressione di realtà», ma di «realtà» tout court – come vedremo meglio in seguito. III) Metz ricorre a Martinet, ben a ragione, per dimostrare che il cinema non può essere una lingua. Infatti Martinet dice che non può esserci lingua là dove non si presenti il fenomeno della «doppia articolazione». Ma io ho da fare a questo due obbiezioni: prima, e principale, che (come ho detto nel preambolo) è necessario allargare e magari rivoluzionare la nostra nozione di lingua, e essere pronti ad accettare magari anche l’esistenza scandalosa di una lingua senza doppia articolazione; seconda, che non è vero, poi, che questa seconda articolazione nel cinema non ci sia. Una forma di seconda articolazione si ha anche nel cinema: e questo è il punto, credo più rilevante, della mia relazione. Ma ecco cosa voglio dire, affermando che anche il cinema possiede una «seconda articolazione». Non è vero che l’unità minima del cinema sia l’immagine, quando per immagine si intenda quel «colpo d’occhio» che è l’inquadratura: o insomma ciò che si vede con gli occhi attraverso l’obiettivo. Tutti – Metz e io compresi, abbiamo sempre creduto questo. Invece: l’unità minima della lingua cinematografica sono i vari oggetti reali che compongono una inquadratura. 213
Credo che non possa esistere una inquadratura composta da un solo oggetto: perché non c’è un oggetto, in natura, composto solo di se stesso, e che non sia ulteriormente divisibile o scomponibile, o che almeno non presenti di sé diverse «forme». Per quanto l’inquadratura sia dunque in dettaglio, essa è sempre composta di vari oggetti o forme o atti reali. Se io inquadro il primo piano di un uomo che parla, e dietro intravedo dei libri, una lavagna, un pezzo di carta geografica ecc., non posso dire che tale inquadratura sia l’unità minima del mio discorso cinematografico: perché se io escludo o l’uno o l’altro degli oggetti reali dell’inquadratura, cambio l’inquadratura in quanto significante. Ora, posso certo, se voglio, cambiare l’inquadratura. Non posso però cambiare gli oggetti che la compongono, perché essi sono oggetti della realtà. Posso escluderli o includerli, ecco tutto. Ma sia che io li includa o che li escluda, ho con essi un rapporto assolutamente particolare e condizionante. Scandaloso dal punto di vista linguistico. Perché nella lingua che sto usando con l’inquadrare quest’«uomo che parla» – la lingua del cinema – la realtà, nei suoi oggetti e forme reali particolari, permane, è un momento stesso di quella lingua. Pretendere di esprimerci cinematograficamente senza usare gli oggetti, le forme, gli atti della realtà, includendoli e incorporandoli nella nostra lingua, sarebbe altrettanto assurdo e inconcepibile, che pretendere di esprimerci linguisticamente senza usare le consonanti e le vocali, cioè i fonemi (i materiali della seconda articolazione). Il monema «maestro» non può prescindere dall’m, dall’a, dall’e, dall’s, e insomma da tutti i fonemi che lo compongono: così come la mia inquadratura del maestro, non può prescindere dalla faccia del maestro, dalla lavagna, dai libri, dal lembo di carta geografica ecc., che la compongono. Possiamo chiamare tutti gli oggetti, forme o atti della realtà permanenti dentro l’immagine cinematografica, col nome di «cinèmi», per analogia appunto a «fonemi». I fonemi di una lingua sono pochi, una ventina, circa, nelle principali lingue europee. Essi sono obbligatori, noi non abbiamo altre scelte: possiamo tutt’al più cercare di imparare dei fonemi che ci sono estranei e ci suonano barbarici – le fricative faringali, le glottidali, i clics ecc. ecc. – ma non faremmo che allargare di poco le nostre possibilità di scelta. I cinèmi hanno questa stessa caratteristica di obbligatorietà: non possiamo che scegliere che i cinèmi che ci sono, ossia gli oggetti, le forme e gli atti 214
della realtà che noi cogliamo coi sensi. A differenza dei fonemi, però, che sono pochi, i cinèmi sono infiniti, o almeno innumerevoli. Ma questa non è una differenza qualitativamente rilevante. Infatti come le parole o monemi sono composte da fonemi, e tale composizione costituisce la doppia articolazione della lingua, così i monemi del cinema – le inquadrature – sono composte da cinèmi. La possibilità di composizione è ugualmente varia per i fonemi e per i cinèmi (faccio notare che le possibilità di composizione dei monemi linguistici potrebbero essere in un numero infinitamente maggiore di quanti in realtà sono). La caratteristica principe dei fonemi è l’intraducibilità: ossia la loro brutalità e indifferenza naturale. Anche un oggetto della realtà, in quanto cinèma, di per se stesso, è intraducibile, cioè un pezzo bruto di realtà. Si tratta di un tipo di intraducibilità diverso, certo meno categorico. Ed è questo, forse, il punto debole o discutibile della mia teoria. Ma tutto sommato, comunque, mi pare che anche se i cinèmi – i dati ultimi del linguaggio cinematografico, quelli corrispondenti ai fonemi della lingua – hanno caratteristiche, in sé diverse, da quelle appunto dei fonemi, tuttavia mi pare che la doppia articolazione sia così assicurata alla lingua del cinema. (Se pure di questo c’è bisogno.) Devo aggiungere ancora, tuttavia: La lingua del cinema forma un «continuo visivo» o «catena d’immagini»: è, cioè, lineare, come ogni lingua, il che implica una successività – che si svolge necessariamente nel tempo – dei monemi e dei cinèmi. Per i monemi – o inquadrature – la dimostrazione è ovvia. Per i cinèmi, o oggetti e forme del reale – di cui i monemi, o inquadrature, sono composti – occorre notare: è vero che essi apparentemente compaiono tutti insieme, e non in successione allo sguardo, e insomma ai sensi: ma c’è tuttavia una successione di percezione: li avvertiamo fisicamente insieme, ma non c’è dubbio che un grafico cibernetico della nostra percezione indicherebbe una curva di successività. Nel monema che ho preso come esempio, l’inquadratura del P.P. del maestro, noi in realtà cogliamo successivamente i cinèmi della faccia, poi quello della lavagna, poi quello dei libri, poi quello della carta geografica (oppure in diverso ordine): è insomma una addizione di particolari reali che ci indicano che si tratta di un maestro. Sappiamo poi che la «doppia articolazione» oltre che garantire economicità alla lingua, ne garantisce insieme la stabilità. Ma il cinema non ha bisogno di un simile processo di stabilizzazione collettiva nell’indicare un oggetto, perché egli adopera l’oggetto stesso come parte del significante: con ciò 215
dunque il «valore del significato» è definitivamente garantito! Sappiamo ancora – sempre sulle orme del Martinet – che ogni lingua ha una sua articolazione particolare, e che di conseguenza «le parole di una lingua non hanno equivalenti esatti in un’altra». Ma ciò contraddice forse alla nozione di lingua cinematografica? No, niente affatto: perché il cinema è una lingua internazionale o universale, unica per chiunque l’adoperi. Non si dà quindi fisicamente la possibilità di confrontare la lingua del cinema con un’altra lingua del cinema. Sempre parafrasando il Martinet, che rappresenta il momento finale e definitorio della linguistica saussurriana, potremmo dunque concludere queste prime note, con la seguente definizione della lingua del cinema: «La lingua del cinema è uno strumento di comunicazione secondo il quale si analizza – in maniera identica nelle diverse comunità – l’esperienza umana, in unità riproduttrici il contenuto semantico e dotate di una espressione audiovisiva, i monemi (o inquadrature); l’espressione audiovisiva si articola a sua volta in unità distintive e successive, i cinèmi, o oggetti, forme e atti della realtà, che permangono, riprodotti nel sistema linguistico – i quali sono discreti, illimitati, e unici per tutti gli uomini a qualsiasi nazionalità questi appartengano». Da ciò deriva (sempre parafrasando il Martinet) che: 1) La lingua del cinema è uno strumento di comunicazione doppiamente articolato e dotato di una manifestazione consistente nella riproduzione audiovisiva della realtà; 2) La lingua del cinema è unica e universale, e non hanno quindi ragione di esistere confronti con altre lingue: la sua arbitrarietà e convenzionalità riguarda solo essa stessa.
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III Prima di buttar giù la paginetta del mio schema grammaticale della lingua del cinema, devo dunque ribadire quanto ho a tratti o implicitamente detto qui sopra, enunciandolo in termini più definitivi e violenti. È ben noto che quella che noi chiamiamo lingua, in genere, è composta da una lingua orale e da una lingua scritta. Sono due fatti ben diversi: la prima è naturale, e, vorrei dire, esistenziale. Essa ha per mezzo di comunicazione la bocca e per mezzo di percezione l’orecchio: il canale è dunque boccaorecchio. Al contrario della lingua scritta, la lingua orale ci riconduce senza soluzione di continuità storica alle origini, al momento in cui tale lingua orale non era che «grido», o lingua delle necessità biologiche, o meglio ancora, dei riflessi condizionati. C’è un momento, permanente, della lingua orale che resta tale. La lingua orale è così un «continuo statico», come la natura – al di fuori cioè della evoluzione storica. C’è un momento della nostra comunicazione orale che è dunque puramente naturale. La lingua scritta è una convenzione che fissa tale lingua orale, e sostituisce il canale bocca-orecchio, col canale riproduzione grafica-occhio. Ebbene, anche il «cinèma» può pretendere a una simile dicotomia, stranamente – e forse qualcuno penserà follemente – analoga a questa. Per farmi comprendere devo riferirmi all’enunciazione (cfr. sopra) che esiste prima di tutto un linguaggio dell’azione (che diciamo così per analogia, semiologica, con le espressioni «linguaggio della moda», «linguaggio dei fiori» ecc. ecc.): ho parlato di un poema d’azione a proposito di Lenin… Ebbene, forse spinto dalla ondata di empirismo da una parte, e di moralismo, dall’altra, che investono il mondo di questi anni, voglio insistere su questo punto. Il primo linguaggio degli uomini mi sembra dunque il loro agire. La lingua scritto-parlata non è che un’integrazione e un mezzo di tale agire. Anche il massimo di distacco della lingua da tale agire umano – ossia il momento puramente espressivo della lingua – la poesia – non è a sua volta che una nuova forma di azione: se, nel momento in cui il lettore l’ascolta o la legge, insomma la percepisce, la libera di nuovo dalla convenzione linguistica e la ricrea come dinamica di sentimenti, di affetti, di passioni, di idee: la riduce a entità audiovisiva» cioè riproduzione della realtà» azione – e così il cerchio si chiude. Quello che occorre fare dunque, è la semiologia del linguaggio dell’azione 217
o tout court della realtà. Ossia allargare talmente l’orizzonte della semiologia e della linguistica da perdere la testa al solo pensiero o da sorridere con ironia, com’è giusto che gli addetti ai lavori facciano. Ma ho detto fin da principio che questa ricerca linguistica del cinema, mi importa, più che in se stessa, per le implicazioni filosofiche che richiede (magari anche se io le vedo non in quanto filosofo, ma in quanto poeta impaziente del suo specifico lavoro…). In realtà noi il cinema lo facciamo vivendo, cioè esistendo praticamente, cioè agendo. L’intera vita, nel complesso delle sue azioni, è un cinema naturale e vivente: in ciò, è linguisticamente l’equivalente della lingua orale nel suo momento naturale o biologico. Vivendo, dunque, noi ci rappresentiamo, e assistiamo alla rappresentazione altrui. La realtà del mondo umano non è che questa rappresentazione doppia, in cui siamo attori e insieme spettatori: un gigantesco happening, se vogliamo. E come noi, linguisticamente, pensiamo – fra noi, in silenzio, con parole per così dire stenografiche, rozze e estremamente veloci, e anche estremamente espressive seppure inarticolate – così abbiamo anche la possibilità, interna a noi, di abbozzare un monologo cinematografico: i processi dei sogni e della memoria, sia involontaria che, soprattutto, volontaria, sono degli schemi primordiali di una lingua, cinematografica, intesa come riproduzione convenzionale della realtà. Quando noi ricordiamo, proiettiamo dentro la nostra testa, delle piccole, interrotte, contorte o lucide sequenze di un film. Ora tali archetipi di riproduzione del linguaggio dell’azione, o tout court della realtà (che è sempre azione), si sono concretati in un mezzo meccanico e comune, il cinematografo. Esso non è dunque che il momento «scritto» di una lingua naturale e totale, che è l’agire nella realtà. Insomma il possibile e non meglio definito «linguaggio dell’azione» ha trovato un mezzo di riproduzione meccanica, simile alla convenzione della lingua scritta rispetto alla lingua orale. Non so se ci sia qualcosa di mostruoso, di irrazionalistico e di pragmatico, in questo mio riferirmi a una «lingua totale dell’azione», di cui le lingue scritto-parlate non siano che una integrazione, in quanto simbolo strumentale di essa: e di cui invece la lingua cinematografica sarebbe l’equivalente scritto o riprodotto, che ne rispetterebbe la totalità, è vero, ma anche il mistero ontologico, l’indifferenziazione naturale ecc.: una specie di memoria riproduttiva senza interpretazione. Certo, può darsi che io obbedisca a una 218
necessità delirante del mondo contemporaneo, che tende appunto a togliere espressività e filosoficità alla stessa lingua, e a detronizzare dalla guida linguistica le lingue delle sovrastrutture per collocarvi al loro posto quelle delle infrastrutture, povere, convenzionali e pratiche: esse sì, pura e semplice integrazione dell’azione vivente! Ma tant’è, queste cose mi sono venute in mente, e bisogna che le dica. Dal grande poema d’azione di Lenin, alla piccola pagina di prosa d’azione di un impiegato della Fiat o di un ministero, la vita si sta indubbiamente allontanando dai classici ideali umanistici e si sta perdendo nel pragma. Il cinematografo (con le altre tecniche audiovisive) pare essere la lingua scritta di questo pragma. Ma è forse anche la sua salvezza, appunto perché lo esprime – e lo esprime dal suo stesso interno: producendosi da esso e riproducendolo. Ma basta, e veniamo all’abbozzo del mio schema grammaticale. (Si badi bene che tale schema grammaticale sta a una grammatica come stanno ad essa le due paginette dell’indice, coi titoli dei capitoli.)
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IV Fondamento e determinazione della grammatica cinematografica è il fatto che le unità minime della cinelingua sono gli oggetti, le forme e gli atti della realtà, riprodotte e divenute elemento stabile e fondamentale del significante. Questo permanere, attraverso la riproduzione meccanica, della realtà nella lingua del cinema – anziché divenire, come nella lingua scritto-parlata, meramente simbolica – dà a tale lingua una costituzione del tutto particolare. La lingua scritto-parlata non è un calco e non è una nomenclatura: tuttavia credo si possa dire, senza orrore dei linguisti, che essa, nei suoi modi morfologici, grammaticali e sintattici, è per così dire parallela alla realtà che esprime. Ossia, la catena grammaticale dei significanti è parallela alla serie di significati. La sua linearità è la linearità attraverso cui percepiamo la realtà stessa. Un grafico dei modi grammaticali della lingua scritto-parlata potrebbe essere dunque una linea orizzontale, parallela alla linea della realtà – o mondo da significarsi, o tout court, con audace neologismo, Significando (parola con cui sarebbe così giusto indicare sempre, umilmente, la Realtà). Invece: il grafico dei modi grammaticali della lingua del cinema potrebbe essere una linea verticale: una linea, cioè, che pesca nel Significando, lo assume continuamente, incorporandolo in sé attraverso la sua immanenza nella riproduzione meccanica audiovisiva. Che cosa pesca, nella realtà, la grammatica della cinelingua? Pesca le sue unità minime, le unità della seconda articolazione: gli oggetti, le forme, gli atti della realtà, che abbiamo chiamato «cinèmi». Dopo averli pescati, li trattiene in sé, incapsulandoli nelle sue unità di prima articolazione, i monemi, ossia le inquadrature. In quest’asse verticale pescante nella realtà, che è la grammatica della cinelingua, distingueremo i quattro seguenti modi: I) Modi dell’ortografia o della riproduzione; II) Modi della sostantivazione; III) Modi della qualificazione; IV) Modi della verbalizzazione o sintattici. Questi quattro momenti della grammatica sono, s’intende, solo idealmente successivi.
I. Modi della riproduzione (o ortografici). Consistono in quella serie di tecniche – che si acquisiscono 220
nell’apprendistato – atte a riprodurre la realtà: conoscenza della macchina da presa, degli effetti della ripresa, problemi di luce ecc.; pratica, inoltre, nella composizione del materiale profilmico. (A questo proposito vorrei ricordare che l’analogia del cinema con le arti figurative, è sempre stata una nozione equivoca. La composizione del mondo, in pieni e vuoti ecc. davanti alla macchina da presa, ha qualche analogia con la pittura solo nel senso che sia il cinema che la pittura «riproducono» la realtà, con mezzi a loro propri. E questa riproduzione della realtà dà al cinema – e forse anche alla pittura – la caratteristica di quella lingua abnorme e particolare che è una lingua solo scritta «la lingua scritta dell’azione». Ci sono dunque alcuni elementi – chiamiamoli compositivi – che sono nella matrice sia del cinema che della pittura: è a quelli che il cinema si riferisce – solo indirettamente, quindi, e per decisione stilistica dell’autore, attraverso le esperienze già fatte della pittura.) Oltre alle norme della ripresa cinematografica, fanno parte dei modi ortografici, le norme della ripresa sonora. Poiché la riproduzione della realtà, indispensabile per ottenere le unità di seconda articolazione, è una riproduzione audiovisiva. (Non mi sembra perciò affatto giusto, in nessun modo, che il vero cinema sia il cinema muto. Esso è semmai la forma vera del film d’arte, appartiene comunque alla storia della stilistica del cinema; e non stupisce che l’abbandono del muto abbia dato tanto dolore agli autori. Esso infatti era una sorta di metro, di prosodia fortemente limitativa, e, proprio in quanto tale, fortemente fantastica. Il film muto può dunque restare tuttora una «scelta» stilistica dell’autore che ami una forte e ossessiva selettività del campo prosodico.)
II. Modi della sostantivazione. Chiamo sostantivazione questo momento della grammatica, per analogia coi «sostantivi» della lingua. In realtà il nome non è esatto, e bisognerebbe inventarne un altro. Le inquadrature, o monemi, possono rappresentare oggetti, forme o atti della realtà, ossia la realtà immobile o in movimento, la realtà particolareggiata o indistinta ecc. ecc.: tuttavia in quanto inquadratura, essa ha la caratteristica sempre uguale di creare, con le unità di seconda articolazione, un monema. Questo monema è in sé sostantivo, aggettivo o verbo – secondo le nostre abitudini – insieme. Tuttavia, come vedremo, l’aggettivazione e la verbalizzazione intervengono sul monema in un secondo momento: il suo primo momento è quello di essere semplicemente monema, ossia parola, tout court, che, per la sua particolare natura, dovuta all’essere 221
composta da oggetti, è prevalentemente sostantivale. Credo che nei «modi della sostantivazione» si debbano distinguere due fasi: 1) Limitazione delle unità di seconda articolazione, ossia dei cinèmi. Ciò significa che chi parla cinematograficamente deve fare sempre una scelta degli illimitati oggetti, forme e atti della realtà, in funzione di quello che vuole dire. Insomma deve anzitutto cercare di fare, della lista dei cinèmi una lista chiusa. Ciò non sarà mai possibile, e si raggiungerà dunque solo una chiusura relativa, o una tendenza alla chiusura. Da ciò, regolarmente, deriva una «lista aperta» delle unità di prima articolazione, o monemi cinematografici (inquadrature): queste potranno essere dunque infinite. Ma la limitazione preventiva o potenziale, dei cinèmi, farà in modo che, diciamo così, la «infinitosemìa» delle parole cinematografiche, trovi un limite proprio nelle unità di seconda articolazione che le costituiscono: una limitazione delle quali, produce quindi, insieme, una «lista aperta» dei monemi, e la loro tendenza a una almeno particolare e transeunte forma di monosemia. Esempio: voglio descrivere una scuola. Ecco che subito opero una limitazione delle infinite cose della realtà: una scelta di tali cose nell’ambito dell’ambiente scolastico. L’inquadratura del maestro con dietro lavagna, carta ecc. è un monema, che si presenta come tendenzialmente monosemico: un insegnante. Mentre insomma la «natura» dei fonemi è in noi, fatto soggettivo di chi parla – ossia del suo corpo – la «natura» dei cinèmi è nella realtà fuori di noi, nel mondo sociale e fisico. Di tale realtà conserva i caratteri ineliminabili. Con ciò voglio dire che se il cinema, come lessico, ossia come serie di monemi (e semantemi e morfemi) è una lingua unica e universale, sempre come lessico, è differenziata etnicamente e storicamente. Non troverò tra gli oggetti-cinèmi del mondo occidentale un burnus. Lo troverò invece in oriente. Da ciò la sostituzione delle differenze di lingua nazionale, con delle varianti etnico-storiche. 2) La costituzione, dal carattere sempre transeunte, di una serie di sostantivi, isoipsi, nel loro momento di pura e semplice inquadratura, intesa come insieme di cinèmi, e non presa in considerazione nei suoi valori di qualità, di durata, di opposizione e di ritmo. L’inquadratura, come insieme di cinèmi puro e semplice, è dunque una parola di carattere sostantivale, non qualificata, né messa in relazione col resto del discorso attraverso i legami sintattici (o di montaggio). Così concepita l’inquadratura o monema sostantivale, corrisponde a quella che nelle lingue scritto-parlate si chiama proposizione relativa. Ogni 222
inquadratura insomma rappresenta «qualcosa che è»: un maestro che insegna, degli scolari che ascoltano, dei cavalli che corrono, un ragazzo che sorride, una donna che guarda ecc. ecc. o semplicemente: un oggetto che è lì. Questa serie di proposizioni relative formate da un unico monema è il cosiddetto «materiale» del film. Tali monemi-proposizioni relative, come raccolta lessicale, sono idealmente fissi: se la macchina li coglie in movimento devono essere considerati tanti quanti sono le ideali inquadrature da cui il movimento di macchina è formato. Sia ben chiaro infine che non c’è coincidenza tra «monema» e inquadratura: un’inquadratura è molto spesso un piano-sequenza, sia pur minimo, in cui si accumulano due o più monemi, o proposizioni relative. La prima forma di sintassi – ossia, tecnicamente, di montaggio – si ha dunque all’interno dell’inquadratura, per accumulazione di relative coordinate.
III. Modi della qualificazione. Anche nei modi della qualificazione si possono distinguere varie fasi (non cronologiche, naturalmente). I modi della qualificazione servono come dice la parola a qualificare i sostantivi raccolti nel modo sopra descritto, e sono appunto diversi. 1) Qualificazione profilmica. Questa si usa soprattutto nei film narrativi (ossia non documentari). Consiste nello sfruttamento puro e semplice, oppure nella trasformazione, della realtà da riprodurre. Ossia nel «trucco» degli oggetti e delle persone. Nell’esempio già usato, se il maestro è troppo giovane, mentre deve essere anziano, viene truccato con dei capelli bianchi ecc. Se l’inquadratura non pare abbastanza comunicativa al regista – per essere quel sostantivo-proposizione relativa ch’egli vuole raccogliere – vengono fatti spostare degli oggetti (per esempio, la lavagna, nella solita inquadratura presa ad esempio, non si vede abbastanza? Ebbene viene appesa più in basso ecc.). La qualificazione profilmica tende tuttavia ad appartenere più alla prosodia e alla stilistica del film che alla grammatica. 2) Qualificazione filmica. Questa qualificazione del sostantivoproposizione relativa in cui consiste il monema cinematografico, si ottiene attraverso l’uso della macchina da ripresa, ed ha caratteristiche ben note. Sono qualificazioni filmiche le scelte degli obiettivi con cui riprendere 223
quell’insieme di unità reali che è l’inquadratura. È qualificazione filmica la distanza dell’obiettivo dall’insieme delle unità reali che si devono inquadrare: ossia, le definizioni P.P.P., P.P., M.F., F.I., Totale ecc. sono definizioni tecniche della qualificazione. Continuiamo con l’esempio del maestro: con i modi della sostantivazione abbiamo fatto una scelta di oggetti, forme e atti della realtà, che, inquadrati insieme, cioè divenuti monema, formano il sostantivo-proposizione relativa: «un maestro che insegna». Con la qualificazione sopra descritta, possiamo dunque avere «un maestro che insegna ridendo» o «un maestro che insegna arrabbiato» (qualificazione profilmica), e «un maestro che insegna da vicino», «un maestro che insegna da lontano», «un maestro che insegna una cosa inaspettata» ecc. (qualificazione filmica). Resta da dire che la qualificazione filmica può essere attiva o passiva. È attiva quando è la macchina da presa che si muove o che comunque prevale (per esempio: uno zum «sul maestro che insegna», o una carrellata sul «maestro che insegna»). È passiva quando la macchina da presa è ferma e non si sente, mentre si muove l’oggetto della realtà (per esempio: la macchina da presa ferma sul maestro che si avvicina e si allontana insegnando). Si ha naturalmente anche una qualificazione «deponente» quando il movimento della macchina e il movimento dell’oggetto della realtà si elidono a vicenda o comunque hanno uguale valore. Vorrei a questo punto, che fosse ben chiaro un fatto. L’attività e la passività si riferiscono alla realtà riprodotta. Ossia, se sul P.P. del maestro che si muove, la macchina da presa è fissa, la qualificazione è attiva perché è il maestro che agisce: se invece sul P.P. del maestro si muove la macchina – avvicinandosi, allontanandosi, panoramicando ecc. – allora la qualificazione filmica è passiva, perché stavolta il maestro subisce la macchina da presa. Se predomina la qualificazione attiva, il film è di tendenza realistica, perché in esso è la realtà che agisce, il che implica una fiducia da parte dell’autore nell’oggettività del reale (cfr. John Ford). Se predomina invece la qualificazione passiva, il film è lirico-soggettivo, perché in esso è l’autore, con il suo stile, che agisce, il che implica da parte sua una visione soggettiva del reale (cfr. Godard).
IV. Modi della verbalizzazione (o sintattici). La definizione tecnica di questi modi è il «montaggio». Ma anche stavolta dobbiamo distinguere due tipi o due fasi di montaggio. 224
1) Montaggio denotativo. Esso consiste in una serie di attacchi, per natura ellittici, tra varie inquadrature o monemi, dando loro prima di tutto una «durata» e poi una concatenazione il cui scopo è la comunicazione di un discorso articolato. È insomma il momento sintattico: la coordinazione e subordinazione. Il primo effetto di questo «montaggio denotativo» o puramente sintattico è che i monemi perdono la loro caratteristica di prima fase, ossia quella di essere dei sostantivi-proposizioni relative, e divengono tout court i monemi tipici del film, con la relativa qualificazione. Poiché la caratteristica unica e fondamentale del montaggio è istituire un rapporto di opposizione, è appunto attraverso tale rapporto di opposizione che esso adempie alla sua funzione sintattica. Il montaggio denotativo infatti mette in rapporto di opposizione, accostandole per ellissi, le due inquadrature: «il maestro che insegna», gli «scolari che ascoltano» ecc. Ma proprio in questo rapporto di opposizione nasce la sintassi, ossia, finalmente, la frase «il maestro insegna agli scolari». Questa serie, del resto molto semplice di «opposizioni», richiede dunque un tipo di sintassi che possiamo chiamare aggiuntiva (in quanto si oppone a quella accumulativa, che abbiamo detto verificarsi quando le «relative» si accumulano dentro una stessa inquadratura, intesa come un pur minimo piano-sequenza). Tali aggiunzioni sono quelle che i tecnici del montaggio chiamano «attacchi»; attaccano cioè una inquadratura all’altra, stabilendone la durata. Ne risulta una serie di proposizioni o di «insieme di proposizioni» che si potrebbero meglio chiamare «complementi sintattici», in quanto stanno appunto tra la proposizione e il complemento. Do un esempio: ho due inquadrature o monemi: le proposizioni relative «il maestro che guarda» e «gli scolari che guardano». Se aggiungo la seconda alla prima, la proposizione «gli scolari che guardano» diventa il complemento oggetto e ho dunque il discorso «il maestro che guarda gli scolari». Da questo esempio risulta abbastanza chiaro che la sintassi del cinema è a fortiori progressiva. Essa forma delle «serie» di proposizioni, o meglio di complementi sintattici: questa serie, successiva per un seguito di aggiunzioni, è, appunto, progressiva, perché per es. se io metto prima la proposizionecomplemento oggetto, il senso nell’insieme cambia («gli scolari che guardano il maestro»). La speciale sintassi del cinema è dunque una rozza serie lineare e progressiva: tutto ciò che nella lingua è parentesi, cambiamento di tono, linea melodica, cursus ecc. è adempiuto, nel cinema come linguaggio 225
espressivo – come vedremo – dai ritmi, ossia dai rapporti reciproci delle durate delle proposizioni. 2) Il montaggio ritmico (o connotativo). È difficile stabilire il reale rapporto tra montaggio denotativo e montaggio ritmico o connotativo: fino a un certo limite essi coincidono. Da un certo limite in poi il montaggio ritmico parrebbe essere tipico di una espressività da contrapporsi alla pura e semplice denotazione.1 Il montaggio ritmico definisce le durate delle inquadrature, in se stesse e relativamente alle altre inquadrature del contesto. La «durata» stabilita dal montaggio ritmico è dunque innanzitutto una ulteriore qualificazione. Infatti se mi fermo sull’inquadratura del «maestro che insegna» per il solo tempo necessario a percepirla, la qualificazione è profilmica, se mi fermo più, o meno, del necessario, la qualificazione diventa, comunque, espressiva, se mi fermo molto più o molto meno del necessario la qualificazione diventa filmica attiva, cioè fa sentire la presenza di quella macchina da presa che pure, inquadrando, poteva anche essere ferma. La sua presenza si sente appunto nell’irregolarità della durata dell’inquadratura per se stessa. Quando invece la «durata» non è considerata in se stessa, ma relativamente alle altre inquadrature del film, allora entriamo nel vero e proprio campo del montaggio ritmico. Anche nel film più aridamente comunicativo e inespressivo – ossia nella cinelingua più potenzialmente strumentale – c’è la presenza di un ritmo, che nasce dai rapporti di durata delle varie inquadrature fra loro, e dalla durata dell’intero film. Il ritmo, in quanto puro e semplice rapporto di durata fra le varie inquadrature, è necessario alla stessa comunicazione più prosaica e pratica del film. Il «ritmema» assume dunque nella lingua del cinema un valore particolare, sia nel montaggio comunicativo, che nel montaggio ritmico portato al limite dell’espressione. In quest’ultimo caso esso diventa la figura retorica principe del cinema, laddove in letteratura esso appare secondario o almeno in second’ordine.
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V Certo, considerando il cinema come «parole» indifferenziata, senza quelle complessità che hanno le «paroles» reali, i gerghi specifici, i dialetti, le lingue tecniche, le lingue letterarie, con le loro sottospecie formate per es. dalle lingue della prosa e dalle lingue della poesia ecc. ecc., è difficile differenziare tale «parole» da una «langue» almeno potenziale. E mi sembra appunto che sia questo che spinge Metz a vedere nel film o una «parole» o un «linguaggio», ossia di credere possibile per il film o una stilistica o una semiologia: non una grammatica. L’indifferenziazione delle varie «paroles» cinematografiche è stato un fatto – ma non perentorio, a dire il vero, e non oggettivamente accertabile – fino a oggi. Ma da qualche anno tale differenziazione sta attuandosi. Si stanno delineando almeno una «lingua della prosa» (differenziata in lingua della prosa narrativa, e lingua della prosa saggistico-documentaria – il «cinèma vérité» ecc.), e una «lingua della poesia». È appunto la possibilità di parlare grammaticalmente con assoluta indifferenza, con gli stessi identici termini, di due prodotti su cui invece il discorso stilistico deve ricorrere a definizioni diverse – a proposito insomma di due fatti così differenziati come il cinema di prosa e il cinema di poesia, – che mi sembra confermata la validità della mia tesi di una «langue» cinematografica come codice codificabile al di là della concreta presenza dei diversi tipi di messaggi cinematografici. Voglio prendere due piccoli excepta da un film di prosa e da un film di poesia: e analizzarli. Vedremo che l’analisi stilistica può ricorrere a parole e termini diversi e opposti, mentre l’analisi grammaticale ricorre alla stessa identica terminologia. Così come l’esame stilistico di un pezzo di poesia, classica o moderna, e di un pezzo di saggistica o narrativa: per quanto diversi siano gli stilemi (e stravaganti fino all’impossibile certi stilemi della poesia contemporanea), i termini sostantivo, aggettivo, verbo, coordinazione, subordinazione ecc. suoneranno indifferentemente per l’analisi grammaticale della prosa e della poesia. Segno certo della presenza del codice linguistico sottostante i messaggi, e loro astrazione. Passiamo alla proiezione di due sequenzine, quella in prosa da «Il tempo si è fermato» di Ermanno Olmi, e quella in poesia da «Prima della rivoluzione» di Bernardo Bertolucci. Bene, il film di Olmi è un film «in prosa», il film di Bertolucci è un film 227
«in poesia». Del film di Olmi prendiamo l’inizio, un breve tratto. Non so ancora con quali abitudini si possa fare l’analisi grammaticale e sintattica di un film, ma, secondo quanto ho esposto, cercherò di fare un esperimento tanto forzatamente generico quanto tipico. Vediamo intanto insieme le prime 11 inquadrature del film. Come dicevo, la «grammatica» del cinema è una grammatica verticale: essa pesca idealmente sempre nella realtà. Seguiamo dunque tratto per tratto questa linea verticale, tenendo presente che la successione è solo ideale (così come quando uno scolaro fa di un periodo prima l’analisi grammaticale, poi l’analisi logica e poi l’analisi del periodo). I Inquadratura. (30”) Modi della sostantivazione. a) Prima fase (o limitazione delle unità di seconda articolazione). Di questa prima fase mi occuperò solo analizzando le prime due inquadrature, perché poi, evidentemente, l’operazione sarà la stessa in tutto il film. È del resto molto semplice: la «lista chiusa» dei cinèmi consiste nella riduzione del mondo da riprodurre al mondo di oggetti, forme e atti di una piccola diga delle Alpi. Tali oggetti, forme e atti della realtà sono dunque fortemente tecnicizzati e particolarizzati: appartengono a famiglie uniche, a serie. I monemi che si compongono di queste unità di seconda articolazione tendono perciò fortemente a una sorta di potenzialità monosemica. b) Qualificazione filmica. Breve piano-sequenza: i movimenti di macchina consistono in un carrello indietro «a scoprire» i due uomini che giocano, e in una panoramica a seguire il vincitore che va a prendere il libro. Si tratta dunque di una qualificazione attiva (quando la macchina è fissa) e deponente (quando il movimento della macchina coincide funzionalmente con un movimento del personaggio). C’è un unico momento passivo, ed è il carrello indietro a scoprire i due. (Vedremo che è l’unico atto di qualificazione passiva dell’intera sequenza e forse dell’intero film.) Modi della verbalizzazione (o sintattici). Si tratta, ripeto, di un piano-sequenza, ossia di un «periodo» formato dall’accumulazione di 4 relative. Finisce con un fondu, ossia con un tratto di 228
pausa che lo conclude. II Inquadratura. (Totale. 15”) Modi della sostantivazione. Tre monemi accumulati: «Un uomo che spegne le luci della stanza, che esce e che chiude la porta» (qui – lo notiamo, per la prima fase – abbiamo l’aggiunta di un nuovo cinèma, un mucchio di neve davanti alla finestra, atto a limitare, semicamente, ciò che abbiamo visto finora, a un ambiente di montagna ecc.). Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: zero, c.s. Qualificazione filmica: totale fisso, attivo. (Il fatto però che la macchina da ripresa sia collocata all’esterno, e inquadri attraverso la finestra, fa sì che la si senta. Non ho contemplato un caso simile nel mio abbozzo. Esso crea la possibilità di una serie di eccezioni, per cui non sempre una macchina da presa, fissa, è necessariamente un’operazione di qualificazione attiva.) Modi sintattici. Anche stavolta abbiamo un rapido piano-sequenza formato dall’accumulazione di tre proposizioni relative coordinate. Anche stavolta tale piano-sequenza è concluso dalla lunga pausa del fondu. III Inquadratura. (Pan. sul totale delle montagne. 21”) Modi della sostantivazione. «Montagne che si ergono contro il cielo.» Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica. Zero, c.s.: gli aggettivi sono quelli della realtà stessa. Qualificazione filmica. Pan. sulle montagne immobili: quindi qualificazione passiva.
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Modi sintattici. Aggiunzione regolare con il monema successivo, a creare un rapporto di unità sintattica (facendo del totale delle montagne qualcosa come un complemento di luogo o di tempo, oppure una proposizione temporale – tanto per intenderci). Comincia da qui un lungo periodo che unisce fra loro, sempre attraverso lo stesso tipo di aggiunzione le seguenti 6 inquadrature (dalla IV alla IX), che essendo identiche non analizzerò a una a una. Per tutte, infatti: la sostantivazione consiste nella relativa «il nostro uomo che passa», la qualificazione profilmica è zero, e quella filmica è tutta attiva (la macchina da presa è infatti sempre fissa e non si sente; si sentono solo le sue angolazioni – per la verità). Anche le aggiunzioni sintattiche sono tutte uguali e regolari (l’uomo esce di campo lasciando vuota l’inquadratura; a questa è aggiunta un’altra inquadratura vuota, dove l’uomo rientra in campo). X Inquadratura. (Totale fisso. 19”) Qui si conclude il periodo, facendo di questo totale una sorta di complemento sintattico di luogo: l’apparizione della baracca come meta dei sei precedenti «passaggi». Modi della sostantivazione. «Il nostro uomo che arriva alla baracca, che vi appoggia gli sci, che vi tocca un oggetto accanto alla porta.» Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica, al solito, zero. Qualificazione filmica attiva (una lunga inquadratura fissa, che costituisce un breve piano-sequenza in cui si accumulano le tre o quattro relative che abbiamo detto). Modi sintattici. Aggiunzione regolare con il monema precedente, e idem sul seguente, che è lo stesso nostro uomo in F.I.
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XI Inquadratura. (F.I. 11”) Modi della sostantivazione. «Il nostro che prende un bidone, che apre la porta e che entra.» Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica zero. Qualificazione filmica: inquadratura fissa sulla F.I. (attiva) poi pan. sulla F.I. che va a prendere il bidone (deponente). Modi sintattici. Aggiunzione regolare, nell’ambito della continuità della azione, col monema precedente e col seguente. Facciamo ora qualche considerazione su questa analisi forzatamente approssimativa e rozza. La prima fase dei modi della sostantivazione dà alla lingua di Olmi una forte colorazione particolaristica e le assicura – data la profonda selettività – una sicura potenzialità monosemica. Sulla seconda fase della sostantivazione, ossia la raccolta dei monemi-proposizioni relative, non c’è nulla da osservare perché questa operazione è identica e indifferenziata per tutti i film. Sulla qualificazione, invece, il discorso è importante, e se ne traggono conclusioni stilistiche ben precise (e finalmente, credo, documentate anche terminologicamente). La qualificazione profilmica, infatti, non esiste: cosa significa questo? Che siamo davanti a un documentario, e che quindi l’autore non ha truccato in nessun modo la realtà, non l’ha qualificata, né negli oggetti inerti né negli oggetti viventi (come l’attore): l’ha lasciata intatta. La qualificazione filmica, poi, è tutta attiva o deponente (c’è un solo caso, ma leggerissimo, e forse discutibile, di passività). Il che significa che la macchina da presa non si sente, e che ciò che conta è l’azione reale. E questo a sua volta implica una forte fede di Olmi nella realtà, la sua convinzione di una esistenza oggettiva della realtà (di cui la macchina da presa è in funzione e a servizio): secondo Olmi si deve sentire dunque l’azione reale, non la macchina da presa che la riproduce. I modi sintattici sono tutti estremamente comunicativi o informativi: le durate che il montaggio assegna alle singole inquadrature sono esatte, il loro registro è giustamente lento; quanto poi alle 231
aggiunzioni sintattiche tra monema e monema sono tutte perfettamente regolari (entrate e uscite di campo, avvicinamenti sullo stesso asse e in movimento ecc. ecc.). Molta è del resto la sintassi per accumulazione di brevi piani sequenza. Mai dunque una espressività ritmica predomina sul ritmo che nasce necessariamente dal montaggio denotativo. Non ci sono né fughe né ristagni. Perfino i due curiosi fondu iniziali non si presentano come abnormi. Stanno a indicare soltanto una voluta lentezza di ritmo del tempo reale, non una violazione di quel ritmo. Vediamo ora le 13 inquadrature di una piccola sequenza del film di Bertolucci. I Inquadratura. (Totale, m 10,63) Modi della sostantivazione. a) Prima fase: anche in Bertolucci come in Olmi la circoscrizione delle unità di seconda articolazione è fortemente particolarizzante: la serie di oggetti, tendenti a formare la lista chiusa dei cinèmi appartiene all’ambiente cittadino di Parma e ai suoi interni borghesi. Ogni monema che ne è composto ha dunque una forte tendenza monosemica, anche qui. b) Specificamente a questa inquadratura i monemi-proposizioni relative raccolti e coordinati per accumulazione, sono: «l’eroina che entra in camera, che accende la luce, che mette la borsa sul letto, che si leva il soprabito». Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: l’intensità espressiva dell’attrice che mima un attacco nevrotico (come vedremo in seguito). Qualificazione filmica. Inquadratura fissa (attiva) con obiettivo piccolo, tendente ad essere piano-sequenza cioè ad accumulare monemi per coordinazione. Modi sintattici. L’attacco all’inquadratura seguente si ha per aggiunzione illogica, non regolarmente progressiva. II Inquadratura. (Letto, m 3,60) 232
Modi della sostantivazione. «Letto su cui cadono un pacchetto di sigarette e un accendino.» Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: zero. Qualificazione filmica: inquadratura fissa (attiva). Modi sintattici. Aggiunzione illogica o a salto con il monema precedente: idem con il monema seguente. Con conseguente passivizzazione della qualificazione (il montaggio cioè che fa sentire la presenza della macchina da presa – per dirla in parole tecniche e povere). III Inquadratura. (Dettaglio, m 1,51) Modi della sostantivazione. «Una mano che prende una fotografia.» Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: zero. Qualificazione filmica: dettaglio, con obiettivo grande, fisso (attivo, ma reso passivo dalla ulteriore qualificazione dovuta al montaggio, come abbiamo visto). Modi sintattici. Aggiunzione illogica o per salto con l’inquadratura precedente, e così con la seguente. IV Inquadratura. (Volto dell’attrice, m 1,51) Modi della sostantivazione. «L’eroina che osserva…»
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Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: gioco espressivo attrice che mima ecc. ecc. Qualificazione filmica: P.P. con obiettivo alto, fisso (attivo, ma reso passivo, come abbiamo già più volte visto, dalla fase di qualificazione del montaggio). Modi sintattici. Aggiunzione illogica o per salto con il monema precedente; aggiunzione logica ma irregolare con il seguente. V Inquadratura. (Attrice su letto, m 0,91) Modi della sostantivazione. «Fotografie che stanno in cerchio sul letto intorno alla eroina.» Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: zero. Qualificazione filmica: F.I., escludente la testa, fissa, e quindi attiva, ma resa passiva al solito dall’irregolarità del montaggio (l’esclusione della testa). Modi sintattici. Aggiunzione logica ma irregolare con il monema precedente; aggiunzione logica secondo il procedimento della soggettiva con il seguente. VI Inquadratura. (Fotografie, m 7,70) Modi della sostantivazione. «Fotografie che sono guardate dall’eroina.» Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: scelta di fotografie «vere» dell’attrice che interpreta l’eroina. Qualificazione filmica: Pan. circolare sulle fotografie, quindi passiva 234
(infatti esse sono viste dall’attrice). Modi sintattici. Aggiunzione regolare con il monema precedente (che, secondo il procedimento della soggettiva, rende soggetto l’eroina, e complemento oggetto le fotografie guardate); aggiunzione regolare con la seguente (per continuità dell’azione). VII Inquadratura. (Eroina, letto e fotografie, m 3,72) Modi della sostantivazione. «Eroina che guarda fotografie» (continuazione quindi dell’azione precedente). Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: espressività mimetica dell’attrice. Qualificazione filmica: F.I. dell’eroina, fissa, quindi attiva, resa forse passiva dalla fase qualificatrice del montaggio (sempre nel senso che ne risulta enfatica la durata dell’azione). Modi sintattici. Aggiunzione regolare con la precedente, per continuazione dell’azione; idem con la seguente. VIII Inquadratura. (Fotografie, m 1,59) Modi della sostantivazione. «Fotografie che sono guardate dall’eroina.» Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: scelta di fotografie «vere» dell’attrice stessa. Qualificazione filmica: Pan. sulle fotografie in dettaglio, passiva. Modi sintattici. 235
Aggiunzione logica regolare, con il monema precedente, secondo il procedimento della soggettiva; aggiunzione illogica e a salto (addirittura assurda e scandalosa) con la seguente. IX Inquadratura. (Totale stanza, m 4,67) Modi della sostantivazione. «Eroina che si muove nella stanza da letto.» Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: zero. Qualificazione filmica: totale fisso, e quindi attivo, ma reso passivo dalla qualificazione del montaggio, per l’assurdità dell’aggiunzione col monema precedente: indi movimento passivo di pancinor sul letto. Modi sintattici. Aggiunzione illogica o a salto col monema precedente o col seguente. X, XI, XII Inquadratura. (Fotografie, rispettivamente m 0,57, 0,53, 0,34) Modi della sostantivazione. Abbiamo tre monemi gemelli, ognuno dei quali consiste nella relativa: «Una fotografia che è lì». Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: fotografie «vere» ecc., c.s. Qualificazione filmica: dettagli fissi, e quindi attivi (ma al solito resi passivi dall’assurdità del montaggio, che fa sentire la presenza riproduttrice della macchina da presa). Modi sintattici. Aggiunzione illogica, per salto, con il monema precedente e col seguente. (Voglio notare qui subito, che, ritrovando le fotografie sul letto, dopo che esse erano sparite, la «progressività» che è tipica della successione sintattica 236
cinematografica, è scandalosamente violata. La ripetizione di un’azione precedente, già esaurita, sembra suggerire la possibilità di una sintassi successiva regressiva: si tratta in realtà soltanto di un ritorno indietro o di un ricominciare daccapo, e quindi di un’iterazione.) XIII Inquadratura. (Eroina sul letto ecc., m 3,70) Modi della sostantivazione. «Eroina che riguarda le fotografie sul letto.» Modi della qualificazione. Qualificazione profilmica: c.s. (recitazione mimetica attrice). Qualificazione filmica: F.I.; inquadrata più da vicino o con obiettivo più grande – fissa e quindi attiva, ma resa ancora una volta passiva dalla sintassi del montaggio. Modi sintattici. Aggiunzione per salto col monema precedente, idem col monema seguente. Essa è la continuazione di quell’azione iterata che dicevo qui sopra. Un fondu mette fine a questa sequenza progressiva iterata. Osservazioni: la prima osservazione da fare è che tutta la qualificazione appartiene alla prima fase del montaggio denotativo. Ossia nell’atto di qualificare filmicamente i suoi monemi parmensi, Bertolucci non fa sentire, in questo caso, la macchina da presa: così che la qualificazione ne risulterebbe una qualificazione attiva, tipica di una realtà appunto agente, implicante da parte dell’autore una fede nella sua oggettività ecc., se non intervenisse, appunto, il montaggio a renderla invece tutta passiva, cioè a far sentire l’attività della macchina da presa: così che la presenza del soggetto autore è assai prevalente sull’oggettività della realtà. Ad accentuare ancora di più la soggettività del racconto, si ha una prevaricazione del montaggio espressivo, coi suoi ritmi non funzionali, sul montaggio denotativo, i cui ritmi sono per definizione funzionali. Infatti se voi confrontate le durate dei monemi fra loro e le osservate in se stesse, vedrete che sono caratterizzate da una forte irregolarità e asimmetria, quasi arbitraria. 237
Infine, come ho già fatto notare, la tipica successività della sintassi del cinema, che non incastra i complementi sintattici, ma li allinea progressivamente, tende a essere contraddetta: non ne risulta un diverso tipo di sintassi, per la verità; ne risulta piuttosto un racconto per ricominciamento e iterazione che è assolutamente irregolare nel linguaggio del cinema. Insomma se dovessi riprodurre, per analogia, linguisticamente, il brano di Bertolucci dovrei ricorrere a delle figure che sono tipiche della poesia, mentre se dovessi fare la stessa cosa per il film di Olmi, metterei insieme una prosa, anche se una prosa dolcemente intrisa di «poesia delle cose». Mi sembra dunque, come mi ero proposto all’inizio di questo breve esame, di aver usato, nel descrivere due sequenze, così diverse, un linguaggio descrittivo identico: cioè il linguaggio neutro e indifferenziato, appartenente all’analisi grammaticale e applicabile a ogni codice. Dico analisi grammaticale e non semplicemente semiologica, perché mi sembra molto più complicata e complessa di una descrizione di linguaggio, e fornita di veri e propri processi regolari anche se riguardano una lingua del tutto anormale in quanto solo scritta. Se poi Metz dovesse dimostrarmi, e convincermi, che ho avuto torto (è un’ipotesi che ammetto senza prevenzione o falsi attaccamenti alla coerenza), allora tale mio abbozzo grammaticale si potrebbe presentare come una specie di codice tecnico-stilistico, molto singolare, tuttavia, da non esaurire i problemi linguistici della comunicazione cinematografica. Un fatto è certo, ad ogni modo, che su questi problemi bisogna lavorare, insieme o soli, con competenza o con rabbia, ma bisogna lavorare. Bisogna ideologizzare, bisogna deontologizzare. Le tecniche audiovisive sono gran parte ormai del nostro mondo, ossia del mondo del neocapitalismo tecnico che va avanti, e la cui tendenza è rendere le sue tecniche, appunto, aideologiche e ontologiche; renderle tacite e irrelate; renderle abitudini; renderle forme religiose. Noi siamo degli umanisti laici, o, almeno dei platonici non misologi, dobbiamo batterci, dunque, per demistificare l’«innocenza della tecnica», fino all’ultimo sangue. (1966)
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Appendice
BATTUTE SUL CINEMA1
Il titolo della vostra rivista mi piace e il piacere consiste nel sentirlo suonare ambiguo e significativo: cinema e films (o cinema e film?): una contraddizione? un dilemma? un’endiadi? L’«e» è congiuntivo o avversativo? C’è, in queste due parole congiunte, lo stesso valore che sentiamo in espressioni analoghe come «umanità e uomini» oppure «industria e prodotto» oppure ancora «poesia e poemi»? Non so se sia nelle vostre intenzioni, ma l’unico modo per sbrogliare questo gomitolo intricato di ambiguità o ambivalenze, sconcertanti ma soddisfacenti, credo sia quello di ricorrere subito al motto principe della linguistica contemporanea: «Langue e Parole»: dove l’«e» non e né congiuntivo né avversativo, ma, come dire, distintivo. Noi conosciamo solo le varie «paroles», non conosciamo la «langue»: o meglio, conosciamo la «langue» attraverso l’esperienza reale delle varie «paroles», ossia per deduzione. La «langue» perciò è un’astrazione: ma un’astrazione… concreta, dal momento che essa è divenuta la realtà di un codice e di una grammatica; ossia un oggetto di studio, costituito con lo studio. Ed è curioso, perché, se, per es., attraverso gli uomini sappiamo molto male costituire l’oggetto «umanità», oppure attraverso i poemi veniamo molto male a sapere cos’è la poesia – in linguistica succede il contrario; sappiamo assai meglio cos’è la «langue» che le «paroles» concrete! In queste ultime permane il mistero dell’atto della creazione, che è translinguistico, e non del tutto acarismatico: mentre nella «langue» tutto è definito freddamente – e sia pure con entusiasmo – dalla ragione ordinatrice, che, dove trova un codice da analizzare o da descrivere, si trova nel momento più tipico della sua funzione. Nel campo filmlinguistico, la ragione non ha ancora compiuto questo lavoro che le riesce di solito così sollecitante e piacevole: non ha «astratto» 239
ancora il «cinema» dai vari «films». Conosciamo i «films» (come conosciamo gli uomini o le poesie), ma non conosciamo il «cinema» (come non conosciamo l’umanità o la poesia). Oppure, se un po’ sappiamo cos’è il cinema, lo sappiamo in quanto cinema-industria, o in quanto cinemafenomeno sociale: come, cioè, se conoscessimo una «langue» in quanto fatto strumentale senza sapere che cosa essa è. Gli studi per sapere che cos’è il cinema cominciano in questi anni: ed è giusto che una rivista come la vostra ponga subito, nel titolo, la questione. DOMANDA: Allora, per quanto la riguarda… ci interessano i suoi sforzi per definire il cinema come «langue»… ma abbiamo il sospetto che la sua grammatica, che individua le unità di seconda articolazione negli oggetti reali di una inquadratura – e che lei chiama «cinèmi» – nasca da un’esigenza stilistica… RISPOSTA: Voi siete matti. È molto spiacevole, sapete, per un autore, sentirsi sempre considerare come una «bestia da stile». E che tutto, per quel che lo riguarda, venga ridotto a pedina per comprendere la sua carriera stilistica. Ciò è disumano. È vero che, studiando un autore, bisognerà cercarne pure un’unità! Tuttavia ciò non va fatto in modo elementare, e con l’aria compiaciuta e ammiccante con cui un impiegato di banca dice male o bene di un suo collega: con l’aria cioè di chi abbia competenza di una «cosa» e riconduca tutto – nelle chiacchiere della cerchia – a quella cosa la cui competenza gli dà autorità e dunque diritto di appartenere alla cerchia. Anzi, ve lo dico in faccia: mi offende molto che tutto quello che faccio e dico venga ricondotto a spiegare il mio stile. È un modo di esorcizzarmi, e forse di darmi dello stupido: uno stupido nella vita, che è magari bravo nel suo lavoro. È quindi anche un modo per escludermi e di mettermi a tacere. Inconsciamente, s’intende. Sia dunque ben chiaro che: i miei tentativi di trarre una nozione linguistica di cinema dai vari films – per analogia a quello che si è sempre fatto con la «langue» e le «paroles» – non è affatto una proliferazione del mio fare estetico, ossia della mia «poetica» cinematografica. Non lo è affatto. I caratteri della mia ricerca grammaticale sul cinema hanno semmai un rapporto profondo e complesso – ma reale e quindi semplificabile – col mio modo di vedere la realtà, col mio modo di interpretare la realtà, ossia col mio rapporto con la realtà. Non sono per nulla un filosofo, ma potrei dire, con la mia filosofia. Ho definito in un titolo il cinema come «lingua scritta della realtà». E 240
volevo dire che: la realtà è un cinema in natura (io mi rappresento a te, tu ti rappresenti a me: io sono un’inquadratura per Aprà e Aprà è una inquadratura per me: due inquadrature fisse, ora, che siamo seduti, ma che possono diventare un piano-sequenza o una panoramica quando ci alzeremo da qui e riprenderemo il giro delle nostre azioni). Questo cinema in natura che è la realtà, è in effetti un linguaggio («È la semiologia della realtà che bisogna fare!» – questo è lo slogan che vado gridando, tra me, da mesi): un linguaggio simile in qualche modo al linguaggio orale degli uomini: il cinema è così – attraverso la sua riproduzione della realtà – il momento scritto della realtà. Se il cinema altro non è dunque che la lingua scritta della realtà (che si manifesta sempre in azioni), significa che non è né arbitrario né simbolico: e rappresenta dunque la realtà attraverso la realtà. In concreto, attraverso gli oggetti della realtà che una macchina da presa, momento per momento, riproduce (onde la mia definizione linguistica dei «cinèmi»). Ecco, a questo punto si può individuare il rapporto della mia nozione grammaticale del cinema con quella che è, o almeno io credo essere, la mia filosofia, o il mio modo di vivere: che non mi sembra altro, poi, che un allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà. Religioso in quanto si fonda in qualche modo, per analogia, con una sorta di immenso feticismo sessuale. Il mondo non sembra essere, per me, che un insieme di padri e di madri, verso cui ho un trasporto totale, fatto di rispetto venerante, e di bisogno di violare tale rispetto venerante attraverso dissacrazioni anche violente e scandalose. (Beh, son cose che si dicono in quello straordinario genere letterario che è un’intervista.) Esprimendomi attraverso la lingua del cinema – che altro non è, ripeto, che il momento scritto della lingua della realtà – io resto sempre nell’ambito della realtà: non interrompo la sua continuità attraverso l’adozione di quel sistema simbolico e arbitrario che è il sistema di linsegni. Che per «riprodurre la realtà attraverso la sua evocazione», deve per forza interromperla. Ora Aprà si alzerà di qui, andrà alla porta, uscirà, si allontanerà per il corridoio, scenderà le scale, aprirà il cancello sulla strada, salirà in macchina, la metterà in moto, partirà, girerà intorno alla Chiesa di San Pietro e Paolo, imboccherà un viale che lo porta verso il Tevere… insomma, continuerà le azioni della sua vita, che dureranno quanto la sua vita. Ma ci sarà sempre – ora lo sappiamo – un occhio virtuale che lo seguirà: una invisibile macchina da presa, che non perderà una di quelle sue azioni, 241
anche minime, e idealmente le riprodurrà – ossia le scriverà cinematograficamente. Per quanto infinita e continua sia la realtà, una macchina da presa ideale potrà sempre riprodurla, nella sua infinità e continuità. Il cinema è dunque, come nozione primordiale e archetipa, un continuo e infinito piano-sequenza. DOMANDA: Ma allora, forse, avevamo ragione. Ciò che presiede alla sua poetica letterario-cinematografica, cioè il suo amore sentimentale, religioso e pragmatico per la realtà, presiede anche alla sua linguistica e alla sua grammatica del cinema. RISPOSTA: Sì, a questo punto accetto che si annodino i fili della mia unità. Ma solo, appunto, quaggiù, a questo livello. In realtà, la mia traduzione in termini grammaticali di questa mia idea del cinema – derivante da ciò che io sono – non si combina e non si confonde con la mia traduzione della stessa idea in termini espressivi e poetici (cioè, in concreto, nei miei films). L’analogia è su superfici profonde. Cerco di enunciarvela con parole semplici e un po’ ingenue. Al fondo sta dunque quel mio amore – già più volte impudicamente definito – per la realtà. Traducendo tale amore in termini linguistici, sono portato ad affermare che il cinema è una lingua che non si allontana mai dalla realtà (ne è la riproduzione!), e quindi è un infinito piano-sequenza (il rapporto è lo stesso che tra lingua orale e lingua scritta). Ma questo pianosequenza è un seguito ininterrotto di inquadrature (su Aprà seduto si ha una lunga inquadratura immobile, su Aprà che si alza e va alla porta, una panoramica, che è tuttavia un seguito accelerato di inquadrature fisse ecc.). Il monema di quella lingua scritta della realtà è dunque quella che in termini tecnici (che sono destinati a diventare un doppione dei termini filmlinguistici) si chiama inquadratura: il monema-inquadratura è dunque l’unità di prima articolazione. In effetti però un’inquadratura non è che una composizione di oggetti, che dunque, per analogia ai fonemi che compongono il monema linguistico, io chiamo «cinèmi». La mia visione del cinema come lingua è dunque una visione «diffusa» e «continua»: una riproduzione, ininterrotta e fluente come la realtà, della realtà. Qui dunque il mio amore per la realtà abbraccia in astratto tutta la realtà, da cima a fondo, da capo a piedi: è una dichiarazione d’amore come atto di fede, imperterrita e teorica. Passiamo ora alla poetica, allo stile, al fare concreto dei films. Nei miei films il piano-sequenza praticamente non c’è! È quasi del tutto ignorato: o esso è così breve da durare quanto una singola azione. Non abbraccia mai 242
una serie di azioni. C’è qui dunque una contraddizione con quella che è la mia nozione primordiale e archetipa del cinema, ossia quel piano-sequenza ininterrotto, che ho tanto sbandierato in quanto riproduzione della realtà nella sua entità e nella sua durata? Certo, che c’è una contraddizione. Ma le contraddizioni, voi lo sapete, sono tutte apparenti. In effetti, lo stesso inconsulto amore della realtà, tradotto in termini linguistici, mi fa vedere il cinema come una riproduzione fluente della realtà mentre, tradotto in termini espressivi, mi fissa davanti ai vari aspetti della realtà (un viso, un paesaggio, un gesto, un oggetto), quasi fossero fermi e isolati nel fluire del tempo. Insomma: concepire il cinema come un infinito e continuo pianosequenza non ha niente di naturalistico. Anzi! Invece il piano-sequenza in concreto, nei singoli films, è un procedimento naturalistico (di per sé: non certo se corretto dall’opposizione di altri procedimenti). Ecco perché io evito il piano-sequenza: perché esso è naturalistico, e quindi… naturale. Il mio amore feticistico per le «cose» del mondo, mi impedisce di considerarle naturali. O le consacra o le dissacra con violenza, una per una: non le lega in un giusto fluire, non accetta questo fluire. Ma le isola e le idolatra, più o meno intensamente, una per una. Nel mio cinema perciò il piano-sequenza è completamente sostituito dal montaggio. La continuità e l’infinità lineare di quel piano-sequenza ideale che è il cinema come lingua scritta dell’azione, si fa continuità e infinità lineare «sintetica», per l’intervento del montaggio. Ora, la differenza fra il cinema e il film, tutti i films, consiste proprio in questo; che il cinema ha la linearità di un piano-sequenza infinito e continuo – analitica – mentre i films hanno una linearità, potenzialmente infinita e continua, ma sintetica. Ci sono degli autori che cercano, per un loro amore bonario e naturalistico delle cose del mondo, di riprodurre nei loro films la linearità analitica, che abbia il più possibile la durata della realtà; altri registi sono invece per un montaggio che renda tale linearità il più possibile sintetica. (Io appartengo a quest’ultima categoria.) DOMANDA: Il cinema-verità…? RISPOSTA: Il cinema-verità solo illusoriamente si avvicina più degli altri alla nozione archetipa di cinema come riproduzione pura della realtà: il cinema-verità può dare dei films sintetici o di montaggio né più né meno che Ottobre (quello sgradevole film di Ejzenstejn). Marco Ferreri, che io 243
sappia – in un film che poi Ponti ha ridotto a episodio, manipolandolo abbiettamente – ha tentato dei piani-sequenza che avessero la durata delle analoghe azioni reali. Ma tutto ciò si è risolto in espressionismo! In esasperazione stilistica quasi ossessiva! Evidentemente il naturalismo è qualcosa che scorre nelle vene: e si mescola con un’ideologia di «accettazione» rassegnata, bonaria o crepuscolare. Tale siero non scorre per le vene di Ferreri, evidentemente. Allora egli riproduce la realtà nelle sue durate reali per sadismo: cioè, la durata reale di un’azione, nella sua riproduzione, mostra tutta la sua casualità, la casualità cioè del tempo che passa – il tempo irreale, in cui l’organico si consuma e deperisce – il tempo cui noi siamo assuefatti – ebbene, questo tempo, se riprodotto materialmente ma non naturalisticamente, si mostra in tutto il suo misero e spaventevole orrore. Anche il naturalismo è un trucco e una manipolazione. Ne è maestro De Sica, sia nei suoi films belli che in quelli mediocri… DOMANDA: Ci è rimasta a ronzare in testa la sua idea della «Semiologia della realtà»; può darci qualche precisazione? RISPOSTA: Ah, ah, ah (ride). Beh. Sì. Il titolo del libro in cui raccoglierò i miei saggi sul cinema (molto contraddittori perché ognuno rappresenta un momento del mio pensiero, superato dal successivo) si intitolerà forse «Il cinema come semiologia della realtà». Mi è successo, insomma, quello che succederebbe a un tale che facesse delle ricerche sul funzionamento dello specchio. Egli si mette davanti allo specchio, e lo osserva, lo esamina, prende appunti: e infine cosa vede? Se stesso. Di che cosa si accorge? Della sua presenza materiale e fisica. Lo studio dello specchio lo riporta fatalmente allo studio di se stesso. Così succede a chi studia il cinema: siccome il cinema riproduce la realtà, finisce col ricondurre allo studio della realtà. Ma in un modo nuovo e speciale, come se la realtà fosse stata scoperta attraverso la sua riproduzione, e certi suoi meccanismi espressivi fossero saltati fuori solo in questa nuova situazione «riflessa». Il cinema infatti, riproducendo la realtà, ne evidenzia la sua espressività, che ci poteva essere sfuggita. Ne fa, insomma, una semiologia naturale. Da qui sono partito. Prendiamo ancora Aprà. Aprà è una realtà. La realtà è un linguaggio. Aprà dunque parla, anche al di fuori del suo linguaggio scritto-parlato (il suo italiano di uomo di cinema). 244
Io ricevo da Aprà delle informazioni che mi vengono direttamente dalla realtà Aprà. C’è prima di tutto il linguaggio della sua presenza fisica, o fisionomia. Da esso ricevo delle informazioni di carattere psicologico, o psico-fisico. C’è poi il linguaggio del suo comportamento (come sta seduto, come veste ecc.). Da esso ricevo informazioni di tipo sociale. C’è, infine, il linguaggio del suo linguaggio. Da esso ricevo informazioni di tipo culturale. L’insieme è un linguaggio metonimico o sintagmatico? E le grandi lasse sintagmatiche del linguaggio della realtà, sarebbero i «fenomeni»? Ma a questo punto lasciamo perdere, e arrivederci a Pesaro nel ’67. DOMANDA: Bene. Ci dica, almeno, quali nuove suggestioni ha provato o a quali aggiornamenti si è sentito costretto, leggendo gli ultimi saggi di Metz (nel numero 185 dei «Cahiers du cinéma») e di Barthes (l’intervista pubblicata in questa stessa sede). RISPOSTA: Metz critica in parte, in quel suo saggio, la mia nozione di «cinema di poesia», dicendo che il «cinema di poesia» si era avuto già alle origini della storia del cinema. Ma io prima di tutto non avevo parlato del «cinema di poesia» come della forma principale del cinema moderno. La mia era una nozione astratta, e valevole per tutti i tempi (come la «lingua della poesia» è espressione che vale per la Grecia, per il Settecento e per noi). In secondo luogo, io stesso avevo detto che il cinema delle origini era stato un cinema di poesia. Per due ragioni: 1) perché non era sorta ancora se non embrionalmente un’organizzazione industriale cinematografica, che pretendesse una «narrativa» convenzionale; 2) per la restrizione tecnica del «muto». L’avvento dell’industrializzazione del cinema e del sonoro, hanno fatto del cinema, essenzialmente, una «lingua di prosa narrativa» (non faccio distinzioni di valore). Ora, il «cinema di poesia» risorge: segno che l’industria può trovare un «secondo canale» di distribuzione per élites; e segno che si è rotta una coatta unità linguistica, che la lingua cinematografica si sta articolando. Sorgono dunque delle nuove «restrizioni» prosodiche, e delle nuove licenze metriche, a differenziare i diversi tipi di cinema. DOMANDA: E quanto a Barthes? RISPOSTA: Oh, la sua intervista mi sembra straordinaria. Vorrei soffermarmi su essa più a lungo, e anche al di fuori dei problemi 245
strettamente cinematografici (del resto l’ho fatto per un articolo, «La fine dell’avanguardia», che sta per uscire sul numero 3-4 di «Nuovi Argomenti»).2 Qui mi limiterò a dire: sì, è giusto mutuare da Jakobson a scopi linguistici due nozioni prosodiche o retoriche: metafora e metonimia. (Del resto io stesso, benché Metz me lo rimproveri, avevo fatto la stessa operazione, parlando di stilemi che divengono sintagmi, dato che le varie «paroles» cinematografiche sono tutte nate sotto il segno appunto della prosodia e della retorica; e non esistono «paroles» cinematografiche al di fuori dei film narrativi, ad eccezione dei documentari, che però obbediscono sempre a regole prosodico-retoriche.) Il cinema è dunque senz’altro – ha ragione, e una ragione illuminante, Barthes – un’arte metonimica. E pour cause: la natura della sua lingua non è segnica, ma figurale: la stilizzazione che porta alla scrittura come alfabeto, non è una stilizzazione dei segni, ma dei sintagmi, cioè del montaggio. Ma, facendo questo, Barthes definisce il cinema in quanto «arte», «opera d’arte», e, nella fattispecie, «arte narrativa» (nel cinema «succede sempre qualcosa – egli dice – c’è sempre una storia»). Non so se si possa generalizzare questa definizione a tutto il cinema, in quanto lingua e non in quanto linguaggio d’arte. Se io volessi ricondurre questa geniale intuizione di Barthes alla mia teoria (così barbaramente abbozzata), direi che: «Non è il cinema un’arte metonimica, ma è la realtà che è metonimica.» Sono i «fenomeni» del mondo che sono i «sintagmi» naturali del linguaggio della realtà. Il cinema «riproducendo tali fenomeni», cioè presentandosi come lingua scritta del linguaggio vivente della realtà, è a sua volta metonimico. E la sua metonimicità non è infine che la «linearità» con cui la realtà ci parla. Insomma le inquadrature di un film non sono sostituibili, come i foglietti di un almanacco, perché non sono sostituibili gli oggetti della realtà che il seguito delle inquadrature rappresenta secondo il seguito con cui essi si rappresentano naturalmente a noi. Non posso sostituire o togliere delle singole inquadrature: posso però sostituire o togliere dei sintagmi (delle sequenze): perché la convenzionalità e quindi la libertà del cinema è nel montaggio, non nelle singole inquadrature. È nel montaggio che avviene la stilizzazione. 246
Mentre quindi – come ho detto – il piano-sequenza del cinema ideale che «scrive» virtualmente la realtà nella sua ininterrotta e infinita fisicità, è lineare, il montaggio mantiene tale linearità, ma la riduce a segmenti: cioè la sintetizza. In conclusione: oggi ci sono molti autori che fanno di tutto perché anche al cinema «non succeda niente», si allineano cioè con il «nouveau roman» e con certe avanguardie che parlano di «antiromanzo» ecc., o «romanzo senza romanzo» ecc. (Io non ci credo: perché ogni forma d’arte e di linguaggio d’arte non fa altro che evocare la realtà, e nella realtà succede sempre qualcosa, perché il tempo passa, o almeno sembra passare: e questa è l’illusione della nostra vita.) Bene: ammettiamo per ipotesi, che ci sia un film dove «non succede» niente, o sia, almeno, il meno narrativo possibile (ipotesi più accettabile). Diciamo – per dirla tutta – un film scritto nella «lingua della poesia», un film che sia al massimo grado «cinema di poesia». Varrebbe ancora, davanti a questo esemplare da laboratorio, la definizione di Barthes del cinema come un’arte metonimica? Un film di poesia potrebbe benissimo giocare sulla sostituibilità delle inquadrature (una serie di inquadrature giustapposte secondo un seguito lirico e non narrativo; oppure una serie di inquadrature simboliche, ognuna finita in se stessa ecc. ecc.). La definizione di Barthes è dunque splendida; ma serve a definire un «cinema di prosa narrativa», come se questo fosse tutto il cinema, e come se una «lingua cinematografica» non esistesse, ma esistesse quell’unico linguaggio d’arte che è un insieme di singoli films. DOMANDA: Ci può fornire qualche osservazione conclusiva a queste precisazioni sui suoi scritti «Il cinema di poesia» e «La lingua scritta dell’azione»? RISPOSTA: Una conclusione un po’ meccanica, un blasone. Il cinema, come lingua scritta della realtà, ha probabilmente (e ciò apparirà meglio negli anni futuri) la stessa importanza rivoluzionaria che ha avuto l’invenzione della «scrittura». Quest’ultima ha «rivelato» all’uomo cos’è la sua lingua orale, prima di tutto. Certamente è stato questo il primo scatto in avanti della nuova coscienza culturale umana nata dall’invenzione dell’alfabeto: la coscienza della lingua orale, o, tout court, la coscienza della lingua. Il secondo momento rivoluzionario è quello che – in polemica con De Saussure – descrive Benvenuto Terracini («Conflitti di lingua e di cultura»): ossia una maturazione del pensiero, che, se si rappresentava 247
«naturalmente» nella lingua orale, non si poteva che rappresentare «coscientemente» nella lingua scritta. Infine, la lingua scritta ha rivelato e accentuato la «linearità» della lingua (che, nell’essere solo parlata è corretta dalle intonazioni e dalla mimica). Gli stessi procedimenti rivoluzionari che la lingua scritta ha portato rispetto alla lingua parlata, il cinema porterà rispetto alla realtà. Il linguaggio della realtà, fin che era naturale, era fuori dalla nostra coscienza: ora che ci appare «scritto» attraverso il cinema, non può non richiedere una coscienza. Il linguaggio scritto della realtà, ci farà sapere prima di tutto che cos’è il linguaggio della realtà; e finirà infine col modificare il nostro pensiero su di essa, facendo dei nostri rapporti fisici, almeno, con la realtà, dei rapporti culturali. Barthes, che ha così allargato la nozione di «scrittura» dovrebbe essere profondamente ingolosito da questa mia idea del cinema come «scrittura». Non so – per es. Barthes contrappone la «linearità» della scrittura al «movimento divorante» della lingua orale: è una contrapposizione che si può fare anche tra scrittura della realtà e realtà? Il cinema ci parlerebbe secondo una concentrazione lineare, mentre la realtà ci parlerebbe secondo un «movimento divorante»? Ecc. ecc. E ancora: nella realtà non c’è l’albero: c’è il pero, il melo, il sambuco, il cactus, ma non c’è l’albero. Così il cinema non potrà «riprodurre» (scrivere) un albero: riprodurrà un pero, un melo, un sambuco, un cactus ma non un albero. Esattamente come nelle lingue primitive cuneiformi. Dunque, la lingua del cinema, che è il prodotto di una tecnica giunta a determinare un’epoca umana, appunto perché tecnica, ha forse qualche punto di contatto con l’empirismo dei primitivi? Ecc. ecc. La scrittura riperde dunque, col cinema, la sua «natura segnica» e riacquista l’arcaica «natura figurale»? Che relazione c’è tra l’empirismo, dovuto a necessità fisiche, dell’uomo delle caverne, e l’empirismo, dovuto a necessità tecnico-produttive, dell’uomo contemporaneo? Il segno, col cinema – l’im-segno –, riacquista la sua arcaica forza del suggerire eideticamente, attraverso la violenza fisica della sua riproduzione della realtà? ................................................................................. E, per tornare a me, il passare dalla scrittura letteraria al cinema, è un caso di modernità estrema o di regresso? Ho detto che faccio il cinema per vivere secondo la mia filosofia, cioè la voglia di vivere fisicamente sempre al livello della realtà, senza l’interruzione magico-simbolica del sistema di 248
segni linguistico. Ma quali orrendi peccati comporta tale filosofia? Ho fatto per essa i nomi di «azione», di «irrazionalismo», di «pragmatismo», di «religione»: tutti quelli che io so essere i dati più negativi e pericolosi della mia civiltà. I dati stessi, per es., di certo fascismo!! Dovrò rendere conto, nella valle di Giosafat, della debolezza della mia coscienza davanti alle attrazioni, che si identificano, della tecnica e del mito?
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OSSERVAZIONI SUL PIANO-SEQUENZA
Osserviamo il filmino in sedici millimetri che uno spettatore, tra la folla, ha girato sulla morte di Kennedy. Esso è un piano-sequenza; ed è il più tipico piano-sequenza possibile. Lo spettatore-operatore, infatti, non ha compiuto scelte di angoli visuali: egli ha semplicemente filmato da dove si trovava, inquadrando ciò che il suo occhio – meglio che l’obiettivo – vedeva. Il piano-sequenza tipico è dunque una «soggettiva». Nel film possibile sulla morte di Kennedy, mancano tutti gli altri angoli visuali: da quello di Kennedy stesso, a quello di Jacqueline, da quello dell’assassino che sparava, a quello dei complici, da quello degli altri presenti più fortunatamente collocati, a quello dei poliziotti di scorta ecc. ecc. Supposto che noi avessimo dei piccoli film girati da tutti quegli angoli visuali, di che cosa saremmo in possesso? Di una serie di piani-sequenza che riprodurrebbero le cose e le azioni reali di quell’ora, visti contemporaneamente da vari angoli visuali: visti cioè attraverso una serie di «soggettive». La soggettiva è dunque il massimo limite realistico di ogni tecnica audiovisiva. Non è concepibile «vedere e sentire» la realtà nel suo succedere se non da un solo angolo visuale: e questo angolo visuale è sempre quello di un soggetto che vede e che sente. Questo soggetto è un soggetto in carne ed ossa, perché anche se noi, in un film di finzione, scegliamo un punto di vista ideale, e quindi in qualche modo astratto e non naturalistico, ecco che esso diviene realistico, e, al limite, naturalistico, nel momento in cui piazziamo in quel punto di vista una macchina da presa e un magnetofono: esso risulterà come qualcosa di visto e udito da un soggetto in carne e ossa (cioè con occhi e orecchie). Ora, la realtà vista e udita nel suo accadere è sempre al tempo presente. Il tempo del piano-sequenza, inteso come elemento schematico e primordiale del cinema – cioè come una soggettiva infinita – è dunque il presente. Il cinema, di conseguenza, «riproduce il presente». La «presa diretta» della televisione, è una paradigmatica riproduzione del presente di qualcosa che accade. Supponiamo dunque di avere non solo un filmino sulla morte di Kennedy, ma una dozzina di analoghi filmini, in quanto piani-sequenza che 250
riproducono soggettivamente il presente della morte del Presidente. Nel momento stesso in cui noi, anche per ragioni puramente documentarie (mettiamo in una sala di proiezione della polizia che svolge delle indagini) vediamo di seguito tutti questi piani-sequenza soggettivi, cioè li aggiungiamo tra loro anche se non materialmente, che cosa facciamo? Facciamo una specie di montaggio, sia pure estremamente elementare. E che cosa otteniamo con questo montaggio? Otteniamo una moltiplicazione di «presenti», come se un’azione anziché svolgersi una volta sola davanti ai nostri occhi, si svolgesse più volte. Questa moltiplicazione di «presenti» abolisce in realtà il presente, lo vanifica, ognuno di quei presenti postulando la relatività dell’altro, la sua inattendibilità, la sua imprecisione, la sua ambiguità. Nell’osservare, per un’indagine della polizia – la meno interessata possibile a qualsiasi fatto estetico, e molto interessata invece al valore documentario dei filmini proiettati come testimonianze oculari di un fatto reale da ricostruire nella sua esattezza – la prima domanda che ci faremmo è la seguente: quale di questi filmini mi rappresenta con più approssimazione la reale realtà dei fatti? Ci sono tanti poveri occhi e orecchie (o macchine da presa e magnetofoni) davanti a cui è passato un capitolo irreversibile della realtà, presentandosi a ogni coppia di questi organi naturali o di questi strumenti tecnici, in modo diverso (campo, controcampo, totale, piano americano, primo piano, e tutte le angolazioni possibili): ora, ognuno di questi modi in cui la realtà si è presentata è estremamente povero, aleatorio, quasi compassionevole, se si pensa che è uno solo, e tanti, infinitamente tanti, sono gli altri. Ad ogni modo è chiaro che la realtà, con tutte le sue facce, si è espressa: ha detto qualcosa a chi era presente (era presente facendone parte: PERCHÉ LA REALTÀ NON PARLA CON ALTRI CHE CON SE STESSA): ha detto qualcosa col suo linguaggio, che è il linguaggio dell’azione (integrato dai linguaggi umani simbolici e convenzionali): un colpo di fucile, più colpi di fucile, un corpo che si abbatte, una macchina che si ferma, una donna che urla, molte persone che gridano… Tutti questi segni non simbolici dicono che è successo qualcosa: la morte di un presidente, ora e qui, nel presente. E tale presente è, ripeto, il tempo delle varie soggettive come piani-sequenza, girate dai vari angoli visuali in cui il destino ha posto i testimoni, coi loro incompleti organi naturali o strumenti tecnici. Il linguaggio dell’azione è dunque il linguaggio dei segni non simbolici del tempo presente, e, nel presente, tuttavia, non ha senso, o, se lo ha, lo ha soggettivamente, in modo cioè incompleto, incerto e misterioso. Kennedy, 251
morendo, si è espresso con l’estrema sua azione: quella di abbattersi e di morire, sul sedile di una nera macchina presidenziale, tra le deboli braccia di una piccola-borghese americana. Ma questo estremo linguaggio dell’azione con cui Kennedy si è espresso davanti ai vari spettatori, resta, nel presente – in cui viene percepito dai sensi e filmato, che è la stessa cosa –, sospeso e irrelato. Come ogni momento del linguaggio dell’azione esso è una ricerca. Ricerca di che cosa? Di una sistemazione in rapporto a se stesso e al mondo oggettivo; e quindi una ricerca di relazioni con tutti gli altri linguaggi dell’azione con cui gli altri, insieme ad esso, si esprimono. Nella fattispecie, gli ultimi sintagmi viventi di Kennedy ricercavano una relazione con i sintagmi viventi di coloro che in quel momento si esprimevano, vivendo, intorno a lui. Per esempio quelli del suo assassino, o dei suoi assassini, che sparava o che sparavano. Finché tali sintagmi viventi non saranno stati messi in relazione tra loro, sia il linguaggio dell’ultima azione di Kennedy, che il linguaggio dell’azione degli assassini, sono dei linguaggi monchi e incompleti, praticamente incomprensibili. Che cosa deve accadere perché essi divengano completi e comprensibili, dunque? Che le relazioni, che ognuno di essi, quasi brancolando e balbettando ricerca, siano stabilite. Ma non attraverso una semplice moltiplicazione di presenti – come avverrebbe se giustapponessimo le varie soggettive – ma attraverso la coordinazione di esse. La coordinazione di esse non si limita infatti, come la giustapposizione, a distruggere e a vanificare il concetto di presente (come nell’ipotetica proiezione dei vari filmini, passati uno dopo l’altro nella saletta dell’FBI), ma a rendere il presente passato. Soltanto i fatti accaduti e finiti sono coordinabili fra loro, e quindi acquistano un senso (come dirò forse meglio più oltre). Ora facciamo ancora una supposizione: cioè che tra gli investigatori che hanno visto i vari, e purtroppo ipotetici filmini, attaccati uno all’altro, ci sia una geniale mente analizzatrice. La sua genialità non potrebbe dunque consistere che nella coordinazione. Essa, intuendo la verità – da una attenta analisi dei vari pezzi… naturalistici, costituiti dai vari filmini –, sarebbe in grado di ricostruirla, e come? Scegliendo i momenti veramente significativi dei vari piani-sequenza soggettivi, e trovando, di conseguenza, la loro reale successività. Si tratterebbe, in parole povere, di un montaggio. In seguito a tal lavoro di scelta e di coordinazione, i vari angoli visuali si dissolverebbero, e la soggettività, esistenziale, cederebbe il posto all’oggettività; non ci sarebbero 252
più le coppie, commoventi di occhi-orecchie (o macchine da presamagnetofoni) a cogliere e riprodurre la fuggente e così poco affabile realtà, ma al loro posto ci sarebbe un narratore. Questo narratore trasforma il presente in passato. Da qui deriva che: il cinema (o meglio la tecnica audiovisiva) è sostanzialmente un infinito piano-sequenza, come è appunto la realtà ai nostri occhi e alle nostre orecchie, per tutto il tempo in cui siamo in grado di vedere e di sentire (un infinito piano-sequenza soggettivo che finisce con la fine della nostra vita): e questo piano- sequenza, poi, non è altro che la riproduzione (come ho più volte ripetuto) del linguaggio della realtà: in altre parole è la riproduzione del presente. Ma dal momento in cui interviene il montaggio, cioè quando si passa dal cinema al film (che sono dunque due cose molto diverse, come la «langue» è diversa dalla «parole»), succede che il presente diventa passato (si sono avute cioè le coordinazioni attraverso i vari linguaggi viventi): un passato che, per ragioni immanenti al mezzo cinematografico, e non per scelta estetica, ha sempre i modi del presente (è cioè un presente storico). Allora qui devo dire che cosa io penso della morte (e lascio liberi i lettori di chiedersi, scettici, che cosa c’entri questo col cinema). Ho detto varie volte, e sempre male, purtroppo, che la realtà ha un suo linguaggio – anzi, è un linguaggio – che, per essere descritto, necessita di una «Semiologia Generale», che per ora manca, anche come nozione (i semiologi osservano sempre oggetti ben distinti e definiti, cioè i vari linguaggi, segnici o no, esistenti; non hanno ancora scoperto che la semiologia è la scienza descrittiva della realtà). Tale linguaggio – ho detto, e sempre male – coincide, per quanto riguarda l’uomo – con l’azione umana. L’uomo cioè si esprime soprattutto con la sua azione – non intesa in una mera accezione pragmatica – perché è con essa che modifica la realtà e incide nello spirito. Ma questa sua azione manca di unità, ossia di senso, finché essa non è compiuta. Finché Lenin viveva, il linguaggio della sua azione era ancora in parte indecifrabile, perché restava ancora possibile, e quindi modificabile da eventuali azioni future. Insomma, finché ha futuro, cioè un’incognita, un uomo è inespresso. Ci può essere un uomo onesto, che, a sessant’anni, compie un reato: tale azione biasimevole modifica tutte quante le sue azioni passate, ed egli si presenta quindi come altro da ciò che è sempre stato. Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile. 253
È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile (nell’ambito appunto di una Semiologia Generale). Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci. Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita. (1967)
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ESSERE È NATURALE?
Il film si potrebbe definire «parola senza lingua»: infatti i vari film per essere compresi non rimandano al cinema, ma alla realtà stessa. S’intende che con questo postulo la solita mia identificazione del cinema con la realtà e che la Semiologia del cinema non dovrebbe essere che un capitolo della Semiologia Generale della realtà. Vediamo: in un film, appare l’inquadratura di un ragazzo coi capelli ricci e neri, gli occhi neri e ridenti, una faccia coperta dall’acne, la gola un po’ gonfia, come di ipertiroideo, e un’espressione giuliva e buffa che emana da tutto lui. Questa inquadratura di un film rimanda forse a un patto sociale fatto di simboli, come sarebbe il cinema se definito per analogia con la «langue»? Sì, esso rimanda a questo patto sociale, ma questo patto sociale, non essendo simbolico, non si distingue dalla realtà, ossia dal vero Ninetto Davoli in carne e ossa riprodotto in quella inquadratura. Noi ce l’abbiamo già dunque nella nostra testa una specie di «Codice della Realtà» (ossia quella Semiologia Generale in potenza di cui tanto vado parlando). È attraverso questo inespresso e inconscio codice che ci fa comprendere la realtà, che noi comprendiamo anche i vari film. Anzi, per dirla tutta, nel modo più semplice e elementare, noi nei film riconosciamo la realtà, che si esprime in essi a noi come fa quotidianamente nella vita. Un personaggio, al cinema, come in ogni momento della realtà, ci parla attraverso i segni, o sintagmi viventi, della sua azione, che suddivisi in capitoli, potrebbero essere: I) Il linguaggio della presenza fisica; II) il linguaggio del comportamento; III) il linguaggio della lingua scritto-parlata: tutti, appunto, sintetizzati dal linguaggio dell’azione, il quale stabilisce delle relazioni con noi e col mondo oggettivo. In una Semiologia Generale della realtà, ognuno di questi capitoli dovrebbe poi essere naturalmente suddiviso in un numero imprecisato di paragrafi. È un lavoro, che da tempo mi resta sulla penna; vorrei solo qui limitarmi a osservare come il secondo paragrafo, quello intitolato al «Linguaggio del comportamento» sarebbe certamente il più interessante e complesso. Intanto, e anzitutto, esso andrebbe diviso in due sottoparagrafi, e cioè «Il linguaggio del comportamento generale» (che sintetizzerebbe tutto il modo di essere appreso attraverso l’educazione in una società codificatrice), 255
e il «Linguaggio del comportamento specifico» (che servirebbe a esprimersi in situazioni sociali particolari e in dati momenti, direi gergali, di quelle situazioni). Prendiamo per esempio l’attore coi ricci e l’acne che dicevo prima: il linguaggio del suo comportamento generale mi indica subito – attraverso la serie dei suoi atti, delle sue espressioni, delle sue parole – la sua collocazione storica, etnica e sociale. Ma il linguaggio del suo comportamento specifico precisa fino alla più estrema concretezza tale sua collocazione (così come il dialetto e il gergo fanno rispetto alla lingua). Il linguaggio del comportamento specifico è costituito dunque in sostanza, da una serie di cerimoniali, il cui archetipo appartiene decisamente al mondo naturale o animale; il pavone che fa la ruota, il gallo che canta dopo il coito, i fiori che mostrano, in una data stagione, i loro colori. Il linguaggio del mondo è, insomma, sostanzialmente uno spettacolo. Nel caso di una rissa, il ragazzo coi ricci che abbiamo preso come esempio, non trasgredirebbe a uno solo degli atti richiesti dal codice popolare: dalle prime battute di dialogo, fatte con particolare espressione smarrita quasi di chi non sente bene, alle prime minacce quasi compassionevoli, ai primi urti contro il petto dell’avversario con tutte due le mani aperte con le palme in avanti, ecc. ecc. Dai vari cerimoniali viventi del linguaggio del comportamento specifico si giunge, insensibilmente, ai vari cerimoniali coscienti: da quelli magici arcaici a quelli stabilizzati dalle norme della buona educazione della civiltà borghese contemporanea. Fino a giungere, poi, sempre insensibilmente, ai vari linguaggi umani simbolici ma non segnici: i linguaggi in cui l’uomo, per esprimersi, usa il proprio corpo, la propria figura. Le rappresentazioni religiose, i mimi, le danze, gli spettacoli teatrali appartengono a QUESTI TIPI DI LINGUAGGI FIGURALI E VIVENTI. E così anche il cinema. In attesa di tracciare almeno degli appunti di questa mia «Semiologia Generale», vorrei qui limitarmi, ancora, a osservare come tale Semiologia Generale sarebbe, insieme, la Semiologia del Linguaggio della Realtà, e la Semiologia del Linguaggio del Cinema. Tenendo conto di un solo fatto in più: la riproduzione audiovisiva. Sui modi di tale riproduzione – che ricrea nel cinema le stesse caratteristiche linguistiche della vita intesa come linguaggio – si potrebbe piantare e elaborare una grammatica del cinema. E, in altre occasioni, mi sono appunto occupato di questo. Qui m’importa notare – ed è il punto centrale di queste mie pagine – come, semiologicamente, se non c’è alcuna differenza tra il tempo della vita e il tempo del cinema inteso come riproduzione della vita – in quanto esso ne è 256
un infinito piano-sequenza – è invece sostanziale la differenza tra il tempo della vita e il tempo dei vari film. Prendiamo un piano-sequenza allo stato puro: cioè la riproduzione audiovisiva, fatta da un angolo visuale soggettivo, di un frammento dell’infinita successività di cose e azioni che potrei potenzialmente riprodurre. Tale piano-sequenza allo stato puro sarebbe costituito da un seguito straordinariamente noioso di cose o azioni insignificanti. Ciò che in cinque minuti della mia vita mi accade e mi appare, diventerebbe, proiettato su uno schermo, qualcosa di assolutamente privo di interesse: di una irrilevanza assoluta. Ciò non mi si manifesta nella realtà perché il mio corpo è vivente, e quei cinque minuti sono i cinque minuti del soliloquio vitale della realtà con se stessa. L’ipotetico piano-sequenza puro mette in vista, dunque, rappresentandola, l’insignificanza della vita in quanto vita. Ma attraverso questo ipotetico piano-sequenza puro, vengo anche a sapere – con la stessa precisione delle prove del laboratorio – che la proposizione fondamentale che qualcosa di insignificante esprime è: «Io sono», oppure «C’è», oppure semplicemente «Essere». Ma essere è naturale? No, a me non sembra, anzi, a me sembra che sia portentoso, misterioso e, semmai assolutamente innaturale. Ora, il piano-sequenza, date le caratteristiche che ne ho descritto, diventa, nei film di finzione, il momento più «naturalistico» del racconto cinematografico. Un uomo dà uno schiaffo ad una donna poi monta in automobile e se ne va per l’autostrada del Mare? Ebbene, io piazzo una macchina da presa con magnetofono lì dove potrebbe essere un testimone in carne e ossa, miseramente naturalistico, e riprendo tutta la scena di seguito, come vista e sentita da lui, fino allo scomparire della macchina verso Ostia. È vero: come nel fattaccio che succede davanti ai miei sensi nella realtà, così nella sua riproduzione, la proposizione fondamentale e dominante è: «Tutto ciò è». (Tuttavia come io non sono indifferente nella realtà, così, potenzialmente, non sono indifferente davanti alla riproduzione della realtà. E poiché io nel film giudico attraverso il Codice della Realtà, riproduco in me pressappoco gli stessi sentimenti che se vivessi quel fatto materialmente.) Poiché il cinema non potrà mai prescindere da tali piani-sequenza sia pur minimi, trattandosi sempre di una riproduzione della realtà, esso è accusato di naturalismo. Ma la paura del naturalismo è (almeno a proposito del cinema) paura dell’essere. Ossia, in definitiva, paura della mancanza di naturalezza dell’essere: dell’ambiguità terribile della realtà dovuta al fatto che essa è 257
fondata su un equivoco: il passare del tempo. Altro che naturalismo! Fare del cinema è scrivere su della carta che brucia. Per capire che cos’è il naturalismo del cinema, prendiamone un caso estremo – che si presenta, o viene presentato, come un caso di cinema di avanguardia: nelle cantine della New York del New Cinema, si proiettano dei piani-sequenza lunghi ore intere (per esempio un uomo che dorme). Questo è dunque cinema allo stato puro (come ho più volte detto), e come tale, in quanto rappresentazione della realtà da un unico angolo visuale, esso è soggettivo nel senso di follemente naturalistico: soprattutto in quanto della realtà ha anche il tempo naturale. Come sempre, culturalmente, il nuovo cinema è una estrema conseguenza del neorealismo: col suo culto del documento e del vero. Ma mentre il neorealismo coltivava con ottimismo, buon senso e bonomia, il suo culto della realtà con gli annessi pianisequenza, il nuovo cinema rovescia le cose: nel suo culto esasperato della realtà e nei suoi interminabili piani-sequenza, anziché avere come proposizione fondamentale: «Ciò che è insignificante, è», ha come proposizione fondamentale: «Ciò che è, è insignificante». Ma tale insignificanza è sentita con tale rabbia e dolore da aggredire lo spettatore e con lui la sua idea dell’ordine e il suo umano amore esistenziale per ciò che è. Il breve, sensato, misurato, naturale, affabile piano-sequenza del neorealismo ci dà il piacere di riconoscere la realtà vissuta quotidianamente e goduta attraverso il confronto estetico con le convenzioni accademiche; il lungo, insensato, smisurato, innaturale, muto piano-sequenza del nuovo cinema, al contrario, ci mette in uno stato di orrore per la realtà, attraverso il confronto estetico col naturalismo neorealistico inteso come una accademia del vivere. Praticamente dunque, la questione della differenza tra vita reale e vita riprodotta, cioè tra realtà e cinema, è una questione, come dicevo, di ritmo temporale. Ma è una differenza di tempi che distingue anche cinema da cinema. La durata di una inquadratura, o il ritmo del succedersi delle inquadrature, muta il valore del film: lo fa appartenere a una scuola anziché a un’altra, a un’epoca anziché a un’altra, a una ideologia anziché a un’altra. Se poi si tiene presente che nei film di finzione si può dare l’illusione del piano-sequenza anche attraverso il montaggio, allora il valore del pianosequenza si fa ancora più ideale: diventa la vera e propria scelta di un mondo. Mentre infatti il piano-sequenza vero riproduce tale e quale un’azione reale, ed ha il suo stesso tempo, un piano-sequenza finto (che è poi il caso della maggior parte del cinema neorealistico, ma anche di quello naturalistico illustrativo della convenzione commerciale) imita la corrispettiva azione 258
reale, riproducendone vari tratti, e ricucendoli poi insieme attraverso un tempo che li falsifica fingendo la naturalezza. I montaggi del cinema nuovo invece hanno come prima caratteristica quella di mostrare, manifestamente, la falsificazione del tempo reale (oppure, nel caso degli eterni piani-sequenza che dicevo prima, la sua esasperazione attraverso il rovesciamento del valore dell’insignificante). Hanno ragione gli autori del nuovo cinema? Ossia, in un’opera il tempo reale va decisamente distrutto, e tale distruzione dev’essere l’elemento primo e più manifesto dello stile? Togliendo perciò completamente allo spettatore l’illusione dello svolgersi delle azioni nel tempo – come accadeva nelle antiche e recenti affabulazioni? Secondo me, gli autori del nuovo cinema non muoiono abbastanza dentro le loro opere: vi si agitano, vi si contorcono, o meglio vi agonizzano, ma non vi muoiono: perciò le loro opere restano testimonianze di una sofferenza del fenomeno assurdo del tempo, e, in tale senso, sono interpretabili solo come un atto di vita. La paura del naturalismo trattiene in definitiva dentro il limite del documento, e la soggettività portata fino al punto da dare o pianisequenza infiniti – a inorridire lo spettatore sull’irrilevanza della sua realtà – o un’opera di montaggio che sovverte l’illusione dello svolgersi nel tempo – sempre di quella sua realtà – finisce col diventare la mera soggettività dei documenti psicologici. Anche dalla pagina letteraria più avanguardistica e apparentemente indecifrabile, una qualche realtà o, tout court, la realtà viene evocata: non si sfugge alla realtà, perché essa parla con se stessa, e noi siamo nel suo cerchio. Da una pagina avanguardistica illeggibile – come da una sequenza cinematografica che esasperi i tempi fino a toglierci qualsiasi illusione di rivivere attraverso essa la realtà – c’è sempre una realtà che salta fuori: ed è quella dell’autore, che, attraverso il proprio testo, esprime la sua miseria psicologica, il suo calcolo letterario, la sua nobile o ignobile nevrosi piccolo-borghese ecc. Devo ripetere che una vita, con tutte le sue azioni, è decifrabile interamente e veramente solo dopo la morte: a quel punto, i suoi tempi si stringono e l’insignificante cade. La sua proposizione fondamentale non è più allora, semplicemente, «Essere», e la sua naturalezza diventa quindi così un falso bersaglio come un falso ideale. Chi fa un piano-sequenza per mostrare l’orrore dell’insignificanza della vita, commette un errore uguale e contrario a quello di chi fa un piano-sequenza per mostrare, dell’insignificanza, la poesia. Il continuo della vita, nel momento della morte – ossia dopo l’operazione di montaggio – perde tutta l’infinità di tempi in cui vivendo ci 259
crogiuoliamo, deliziandoci del perfetto corrispondere della nostra vita fisica – che ci porta alla consumazione – col passare del tempo: non c’è istante in cui tale corrispondenza non sia perfetta. Dopo la morte, tale continuità della vita non c’è più, ma c’è il suo senso. O essere immortali e inespressi o esprimersi e morire. La differenza tra il cinema e la vita è dunque trascurabile; e la stessa Semiologia Generale che descrive la vita può descrivere, ripeto ancora una volta, anche il cinema. Per cui, mentre un’azione che accade nella vita – per esempio io qui che parlo – ha come significato il suo senso – che si potrà veramente decifrare solo dopo la morte – un’azione che accade nel cinema ha come significato il significato della stessa azione che accade nella vita, e ha quindi solo indirettamente il suo senso (senso anche in tal caso decifrabile veramente solo dopo la morte). A differenza dunque che nella vita o nel cinema, in un film un’azione – o segno figurale, o mezzo espressivo, o sintagma vivente riprodotto – usate le definizioni che volete – ha come significato il significato dell’analoga azione reale – compiuta da quelle persone in carne e ossa, in quello stesso quadro naturale e sociale – ma il suo senso è già compiuto e decifrabile, come se la morte fosse già avvenuta. Ciò vuol dire che nel film il tempo è finito, sia pure per una finzione. Bisogna dunque accettare la favola per forza. Il tempo non è quello della vita quando vive, ma della vita dopo la morte: come tale è reale, non è un’illusione e può benissimo essere quello della storia di un film. (1967)
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Appendice
LA PAURA DEL NATURALISMO1
Tutti sostengono che il cinema è sostanzialmente naturalistico. Io oso infatti dire: «Se attraverso il linguaggio cinematografico io voglio esprimere un facchino, prendo un facchino vero e lo riproduco: corpo e voce». Allora Moravia ride: «Ecco, il cinema è naturalistico, come vedi. È naturalistico, è naturalistico! Ma il cinema è immagine. E solo rappresentando un facchino muto (bene) tu puoi fare del cinema in qualche modo non naturalistico». «Niente affatto», dico io, «il cinema è “semiologicamente” una tecnica audiovisiva. Quindi facchino in carne, ossa e voce.» «Ah, ah, il neorealismo!» fa Moravia. «Sì, io, facendo del cinema – non un mio film – facendo del cinema, se devo esprimere un facchino lo esprimo prendendo un facchino vero, con la sua faccia, la sua carne e la lingua con cui lui si esprime.» «Ah no, qui ti sbagli», è Bernardo Bertolucci che lo dice, «perché far dire a un facchino quello che dice lui? Bisogna prendere la sua bocca, ma dentro la sua bocca bisogna mettere delle parole filosofiche (come suol fare Godard, naturalmente).» Qui finisce la discussione: perché nessuno potrà mai togliere dalla testa di Moravia che «il cinema sia immagine» e che, nel contempo, sia, di per sé, naturalistico; e nessuno potrà mai togliere dalla testa di Bernardo Bertolucci che i facchini devono parlare come filosofi. Ma mettiamo che lo spettatore veda un facchino muto: il facchino di un film. Un facchino muto, meravigliosamente fotografato: immagine, dunque. Perché lo spettatore lo riconosce? Perché è un facchino della realtà. In quel film sarà quello che volete, ma nel cinema è lo stesso che nella realtà. Riprodotto. Per esprimerlo, sia pure come immagine, è lui stesso che io uso. 261
Ora, poi, mettiamo che quel facchino parli come Hegel. Ebbene è un facchino che parla come Hegel. Perché? Nella realtà – sia pure in un caso strano della realtà – non ci potrebbe essere un facchino che parla come Hegel? Dunque un facchino che dica «Li mortacci tua», o un facchino che dica «Tesi e antitesi», sono poi tutti e due personaggi della realtà, che il cinema riproduce così come sono. In tal senso il cinema è fatalmente naturalistico. Ma perché, perché tanta paura del naturalismo? Cosa nasconde questa paura? Non nasconderà, per caso, la paura della realtà? E non sono gli intellettuali borghesi che hanno paura della realtà? Per realtà intendo dire il mondo fisico e sociale in cui si vive, qualunque questo sia. Chi si esprime, attraverso qualsiasi sistema di segni, tuttavia non può interpretare tale realtà da evocarsi (o attraverso simboli di natura segnica o attraverso simboli di natura figurale), che storicamente, e quindi realisticamente. Il facchino muto, pura immagine, che cos’è? È l’idea estetica che di un facchino ha un borghese che con quel facchino non ha niente da spartire. Il facchino che invece parla di dialettica è apocrifo e pretestuale: anch’esso è al servigio di un borghese che con lui ha ben poco da spartire. Cioè tra un borghese e un facchino ci può essere solo un legame di simpatia umana, come a dire canina. Noi borghesi siamo tutti razzisti. Ora, io non voglio esserlo. E voglio che un facchino sia un facchino: cioè voglio che non sia né un’immagine che mi piace, né il portavoce della mia filosofia. Il facchino del cinema è lo stesso facchino della realtà, dunque: e poiché il cinema è una tecnica audiovisiva, il facchino del cinema si presenta e parla come nella realtà. Ma il facchino di un film? Il cinema è un piano-sequenza infinito – l’ho detto ormai dozzine di volte – è l’ideale e virtuale riproduzione infinita dovuta a una macchina invisibile che riproduce tali e quali tutti i gesti, gli atti, le parole di un uomo da quando nasce a quando muore. Il facchino di un film – a differenza del facchino del cinema che è un facchino vivo – è un facchino morto. Non appena uno è morto, infatti, si attua, della sua vita appena conclusa, una rapida sintesi. Cadono nel nulla miliardi di atti, espressioni, suoni, voci, parole, e ne sopravvivono alcune decine o centinaia. Un numero enorme di frasi che egli ha detto in tutte le mattine, i mezzodì, le sere e le notti della sua vita, cadono in un baratro infinito e silente. Ma alcune di queste frasi resistono, come miracolosamente, si iscrivono nella memoria come epigrafi, restano sospese 262
nella luce di un mattino, nella tenebra dolce di una sera: la moglie o gli amici, nel ricordarle, piangono. In un film sono queste frasi che restano. È naturalistico scegliere un facchino in carne e ossa, vero com’è vero uno qualsiasi di noi in questo momento che siamo vivi, con le sue parole, il suo linguaggio, la sua pronuncia, ma trascegliendo una di quelle frasi, che per caso, hanno avuto rilevanza, si sono in qualche modo preservate dal disastro, o gonfiano il cuore?
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I SEGNI VIVENTI E I POETI MORTI1
Il linguaggio più puro che esista al mondo, anzi l’unico che potrebbe essere chiamato LINGUAGGIO e basta, è il linguaggio della realtà naturale. Per esempio, quello delle file di pioppi, dei prati verdi e del Lambro, che mi ha «parlato» presso Milano nelle ultime scene dell’Edipo. Oppure la fila di alberelli della strada cittadina, piena di macchine come un garage, che ha davanti agli occhi il tipografo di Rinascita o del Contemporaneo. Naturalmente il LINGUAGGIO di questi luoghi, di questi «particolarismi» naturali, sono enormemente contaminati da una serie di linguaggi, chiamiamoli così, «integranti» (per es. il mio italiano attraverso cui traduco la mia percezione di essere naturale di questi aspetti della natura. L’ho già scritto e riscritto. La realtà non fa altro che parlare con se stessa usando come veicolo l’esperienza umana. Dio, come dicono tutte le religioni, ha creato l’uomo per parlare con Se stesso). I mille linguaggi integranti (e anzitutto i linguaggi scritto-parlati) sono stati lungamente analizzati e studiati, prima dai grammatici, e ora, con una vastità di orizzonti quasi sterminata, dai semiologi. Ma – come anche questo ho già avuto occasione di ripetere molte volte – i semiologi hanno preso finora come oggetto delle loro ricerche i vari linguaggi (segnici o figurali, simbolici o viventi) che compongono quell’insieme che è poi il «Linguaggio della Realtà». In una mia relazione tenuta a Pesaro facevo, titubante, questa osservazione, perché non mi sentivo di giurare sulla completezza e sull’aggiornamento della mia informazione: ma gli specialisti là presenti, mi hanno rassicurato. No, la Semiologia, è vero, ha preso in considerazione i più impensati aspetti del linguaggio della Realtà: ma mai la Realtà stessa come linguaggio. La Semiologia cioè (e forse fortunatamente) non ha ancora compiuto il passo che la porterebbe a essere Filosofia in quanto descrizione della Realtà come linguaggio. Questo, mi ha detto Christian Metz, è un mio sogno. Un linguista italiano direbbe che è una mia grulleria. In conclusione mi trovo isolato e un po’ farneticante. Dunque l’unico linguaggio che potrebbe essere definito LINGUAGGIO e 264
basta è quello della realtà naturale. E quello della realtà umana, nel momento in cui non è semplicemente naturale, ma storica? Cioè: mentre un pioppo parla un linguaggio puro, io, Pier Paolo Pasolini, parlo (stando zitto, con me, con la mia faccia, con la mia azione distribuita in tutti gli attimi, i giorni, gli anni e i decenni della mia vita) parlo un linguaggio puro? No, evidentemente. Questo linguaggio puro è contaminato anzitutto dal primo patto sociale, ossia dalla lingua, prima parlata poi scritta: e poi, da tutti gli infiniti linguaggi non segnici, di cui mi fornisce esperienza la mia anagrafe, il mio censo, la mia educazione – la società e il momento storico in cui vivo. Una sintesi di tutti questi linguaggi integranti uniti al PURO LINGUAGGIO della mia presenza naturale di vivente (come un pioppo), è il linguaggio della mia realtà umana, che è dunque, soprattutto, un ESEMPIO. Ognuno di noi (volendo o non volendo) fa vivendo un’azione morale il cui senso è sospeso. Da ciò la ragione della morte. Se noi fossimo immortali saremmo immorali, perché il nostro esempio non avrebbe mai fine, quindi sarebbe indecifrabile, eternamente sospeso e ambiguo. Ammettete che Stalin vivesse ancora: il marxismo, che aveva fatto della sua figura un esempio pubblico pressoché assoluto, non resterebbe ancora sospeso e ambiguo in una menzogna che solo con la fine di Stalin è stata smascherata? Nel caso di Stalin ci è voluto il XX Congresso (e non è affatto bastato). In un caso più umile, basta una «lacrimuccia» (in «co’ del ponte presso Benevento»). Osserviamo un momento questa lacrimuccia. Fino a quel punto l’uomo dal cui ciglio quella stenta e sublime lacrimuccia è gocciolata, era stato un peccatore: il suo era stato un esempio di (generico e cattolico) male. Quella lacrimuccia ha rovesciato la sua vita: ha gettato su essa, retrospettivamente, una luce completamente diversa: il male è divenuto un non male, un contrario del bene, una volontà di essere bene, un bene inespresso, ma rabbia di non essere bene, un’impotenza a non volere il bene, una forma aberrante eppure divina del bene. S’egli non fosse mai morto, mai ci sarebbe stata quella lacrimuccia e il linguaggio della sua azione umana, del suo essere uomo sulla terra, sarebbe stato un esempio inconcluso di male e basta. La mia idea della morte, dunque, malgrado quest’ultimo esempio dantesco, non è cattolica né idealistica: almeno in questa fase del mio 265
discorso (che è un discorso grammaticale e semiologico sul cinema). E lo dico qui, ora, perché questa è una nota d’appendice a quella relazione di Pesaro cui accennavo. E, appunto, in quella sede, mi era stato obiettato il pericolo spiritualistico di quella mia idea della morte ecc. ecc. O esprimersi e morire o essere inespressi e immortali, dicevo. Ma la mia idea della morte, dunque, era una idea comportamentistica e morale: non guardava al dopo della morte, ma al prima: non all’al di là, ma alla vita. Alla vita intesa dunque come adempimento, come tendenza disperata, incerta e continuamente in cerca di supporti, pretesti e relazioni, verso una sua perfezione espressiva. Credo che sia difficile essere più laici di così. E credo che fondare un’idea della vita su una morte così intesa, non abbia niente di contraddittorio al dichiararsi marxisti. O la filosofia «seconda» del marxismo deve continuare a essere il vecchio positivismo, tanto simpatico e tanto ingiallito? Pare che tutti siano d’accordo che no. E che anzi il problema principe di questi, del resto miseri e fuggevoli, anni sessanta, sia quello di trovare nuove integrazioni filosofiche al marxismo così come l’hanno lasciato, malconcio e quasi agonizzante, Stalin e il XX Congresso. Tra i vari errori compiuti da alcuni intellettuali ufficiali del marxismo, si deve ormai elencare quello del tentativo di un’apertura a destra, sulla linea di confine con le avanguardie. Ma è un errore già vecchio come le avanguardie stesse, e non conta più parlarne. Invece, a questo proposito, vorrei aggiungere qualcosa a quella mia relazione di Pesaro, così affrettatamente buttata giù e letta. Volevo ribadire prima di tutto questo fatto: il cinema è quanto di più sostanzialmente ambiguo si possa immaginare. Ecco perché: il cinema è un piano-sequenza infinito che esprime la realtà con la realtà. C’è sempre davanti a ognuno di noi una eventuale e virtuale macchina da presa, dallo châssis inesauribile, che «gira» la nostra vita da quando nasciamo a quando moriamo. Perché il nostro linguaggio PRIMO E PURO è la nostra presenza, realtà nella realtà. Quindi tutta la vita di Manfredi è stata girata fino al pianto in co’ del ponte presso Benevento, e così tutta la vita di Stalin, fino alla sua morte senza pianto, molto più simile a quella di Pio XII che a quella di Manfredi (magari con un’appendice documentaria sulle rivelazioni di Krusciov). In quanto tale, il linguaggio cinematografico è quanto di più naturalistico si possa immaginare: dato che esso, teoricamente, esprime la realtà con la realtà, in modo incessante, cioè seguendo il tempo stesso della realtà (piano-sequenza infinito: o almeno 266
lungo quanto l’intera esistenza di un uomo, di un pioppo, di un fatto della realtà). Tanto naturalistico che – come ancora già molte volte ho ripetuto – la Semiologia Generale della Realtà (che è il mio sogno) e la Semiologia del Cinema, sarebbero in conclusione quasi la stessa scienza. Lo stesso inespresso e inconscio Codice della Realtà che ognuno di noi ha dentro di sé, e che gli fa riconoscere la realtà (per es. ciò che dice una faccia vista per un attimo per strada), è lo stesso che gli fa riconoscere la realtà nel cinema (la stessa faccia «riprodotta» di uno che passa per strada). Ma cos’è che rende la realtà «naturalistica», cioè irreale? È il tempo. In tal senso il cinema non è più naturalistico, perché MAI, IN PRATICA, CIOÈ NEI VARI FILMS, il suo tempo è quello della realtà. Esso cioè non è irreale, come la realtà, che è fondata su un’illusione: ossia sul passare di qualcosa che non c’è, il tempo. Il cinema è fondato, al contrario, sull’abolizione del tempo come continuità, e quindi sulla sua trasformazione in realtà significativa e morale, sempre (anche nei films commerciali, in cui naturalmente significazione e moralità sono degenerate). Il cinema in pratica è come una vita dopo la morte. Mentre Stalin viveva egli si trovava in un continuum indecifrabile, approssimativo, mitico e violentemente fisico insieme, ambiguo e menzognero: dopo la morte tale continuum si è concentrato fuori dal tempo, in una serie fissa di atti morali: ossia quelli che i comunisti chiamano, eufemisticamente e classicisticamente, i «crimini» di Stalin. Il montaggio è dunque molto simile alla scelta che la morte fa degli atti della vita collocandoli fuori dal tempo. Ho detto – sì, ancora varie volte, ma sempre in modo affrettato – che il Cinema è simile alla «Langue» mentre i Films corrispondono alle «Paroles»: in un ambito di stretta osservanza saussurriana, questo significa che solo i Films (come solo le Paroles) esistono, in pratica e in concreto, mentre il Cinema (come la Langue) non esiste: è semplicemente una deduzione astratta e normalizzatrice che parte dall’esistenza concreta degli infiniti Films (come Paroles). Ora – e qui è l’idea nuova che è la ragione per cui ho scritto questa postilla – mentre la Langue dedotta per astrazione dalle Paroles è sempre un fatto linguistico, anche se esiste come pura ipotesi e successiva codificazione, il Cinema dedotto dai vari Films non è più un fatto cinematografico. LA LANGUE DEI FILMS (CIOÈ IL CINEMA) È LA 267
REALTÀ STESSA! Prendiamo da Rimbaud, aprendolo a caso, «Les Chercheuses de poux»: sono parole di un sistema stilistico (anche se si tratta semplicemente di un titolo), che noi riconosciamo attraverso il codice conoscitivo che noi possediamo di quella «Langue» scritto-parlata che è il francese: ma se vediamo nel sublime Uomo di Aran una donna e un ragazzo su degli scogli, noi li riconosciamo perché entra in funzione in noi il codice conoscitivo della realtà tout court. Dunque, aggiungiamo ma nuova precisazione ai nostri vaneggiamenti semiologici: il Cinema in quanto Langue è la realtà stessa che si rappresenta. Il New American Cinema – di cui avevo preventivamente tanta stima, dato il mio amore per la Nuova Sinistra – visto qui a Roma, mi ha molto deluso. Nel migliore dei casi – direi Burkage – esso vale se visto dentro un ambito parziale di realtà storica, quella tipicamente nuovayorkese – che, è vero, del resto, è al centro del mondo. Nel peggiore dei casi – non faccio nomi – è un cinema per educande. Ma a parte questo mio giudizio di valore, che può certamente essere sbagliato, vorrei osservare come sia tutto un equivoco l’idea attraverso cui gli autori del New Cinema si illudono di distruggere il tempo convenzionale. Anzitutto essi credono di poter far coincidere il nonnaturalismo sostanziale del cinema con la convenzionalità del montaggio del cinema commerciale hollywoodiano: con ciò rendono parziale e secondario il loro obiettivo polemico. Il non-naturalismo del tempo del cinema è invece sostanziale a tutti i possibili films. In secondo luogo essi fanno coincidere l’idea sbagliata del tempo di un piccolo borghese con l’idea sbagliata del tempo dell’umanità intera: ed anche qui sbagliano, perché anche il più cretino e nazista dei piccoli borghesi, fondando la sua vita sull’illusione del passare del tempo, compie qualcosa di commovente e sublime, come Einstein stesso. In terzo luogo, l’idea del tempo che essi contrappongono a quella che essi giudicano convenzionale, è un’idea tratta troppo genericamente dalle filosofie indiane che ha fatto venire di moda Ginsberg: e il risultato è che essi fanno un ribaltone arbitrario e dilettantesco del tempo, facendo dei films che sembrano dei calendari le cui pagine siano fatte scorrere rapidamente sotto il pollice – vi si intravvedono cieli azzurri con ramaglie nere, New York con la neve, un buon negro che scende nel metrò, delle ragazze che ballano balli passati di moda in un mese ecc. ecc. Essi cioè cercano arbitrariamente di violare quei «sintagmi 268
viventi» che sono il linguaggio figurale con cui la realtà si esprime rappresentandosi: ma li violano, come in tutte le avanguardie che si proclamano tali, da poeti che non vivono, resi morti dall’idea di essere poeti. Dicevo più sopra come la morte operi una rapida sintesi della vita passata, e la luce retroattiva che essa rimanda su tale vita ne trasceglie i punti essenziali, facendone degli atti mitici o morali fuori dal tempo. Ecco, questo è il modo con cui una vita diventa una storia. Quanto a me, io continuo a credere nel cinema che racconta, ossia nella convenzione per cui il montaggio trasceglie, dai piani-sequenza infiniti che si possono girare, i tratti significativi e valevoli. Ma sono anche stato il primo a parlare esplicitamente di «cinema di poesia». Parlando però di cinema di poesia, io intendevo sempre parlare di poesia narrativa. La differenza era di tecnica: anziché la tecnica narrativa del romanzo, di Flaubert o di Joyce, la tecnica narrativa della poesia. Osservate il montaggio dell’Uomo di Aran. Ecco, avrete un’idea del montaggio piegato a una tecnica narrativa di cinema di poesia: sia pure di una poesia esiodea, come dicono gli agiografi. Anche le storie parigine d’interni, camere da letto o bar, di Godard, sono montate con una tecnica narrativa tipica della poesia. Naturalmente sarebbe idiota cercare dei limiti precisi e codificabili, tra certo cinema di prosa e certo cinema di poesia… Ora, quello che mi chiedo, in seguito agli esperimenti sbagliati dell’avanguardia, è se non sia possibile un cinema di poesia non narrativa: di poesia-poesia, o, come si suol dire, poesia lirica. È possibile? Su questa domanda chiudo la mia nota, non senza però aver prima cercato di porre i termini reali del problema. Non è possibile fare del cinema di poesia (ahi, chiamiamola così), lirica, semplicemente esasperando la tecnica del cinema di poesia narrativa. Esasperando Cassavetes o Godard, si fa del cattivo Cassavetes, o del Godard quatriduano. La cosa che ci si può chiedere è questa. Alle volte la realtà stessa è poetica. L’altra sera stavamo parlando di queste cose in una trattoria all’aperto, con Moravia, e altri amici, quando è arrivato (non visto, alla chetichella) un suonatore, e ha cominciato a suonare il suo mandolino. Ecco, è stata una cosa così poetica, che ognuno, in cuor suo si è sentito perdere, ha dovuto ricacciare in sé la commozione, intellettualizzarla ed esprimerla. In quel momento la realtà come linguaggio non segnico – ossia un suonatore di mandolino come simbolo figurale di se stesso – ossia ancora una smandolinata come sintagma vivente – era poetica. Il cogliere simili 269
momenti, riproducendoli, sarebbe la poesia lirica del cinema? Ma in tal caso, ancora una volta, come la Semiologia della Realtà si identifica con quella del Cinema (anzi, come abbiamo visto, il Cinema in quanto Langue altro non è che la realtà stessa), così la poesia della realtà è una cosa sola con quella riprodotta dal cinema? Ma il suonatore di mandolino non era nel tempo – nel tempo di una cena all’aperto – e quindi in un tempo reale, nell’illusione del tempo reale, in una vita che aveva già i caratteri di una storia? A Montreal – leggo – si vedono esperimenti cinematografici tecnici nuovi. Forse la strada del cinema di poesia-poesia è quella? Ma che orrore! Nel futuro la poesia del cinema non potrà essere che espressionistica, macropop, deformante, gigantesca, angosciosa, allucinogena? E i suonatori di mandolino? E la faccia di cane buono di Moravia che li ascolta, contrito sopra un piatto di cicoria? Oh, io non ho rimpianti: chi ama troppo la realtà, come me, infine la odia, si ribella e la manda a farsi benedire. Ma non credo a un cinema di poesia lirica ottenuta attraverso il montaggio e l’esasperazione della tecnica.
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LA «GAG» IN CHAPLIN1
La «gag» è generalmente un processo stilistico che vuole rendere automatica l’azione: un po’ come la maschera del teatro dell’arte vuole rendere automatico il personaggio. La «gag» e la «maschera» si muovono tra due poli (tra due usi diametralmente opposti); da una parte possono raggiungere il massimo dell’automatismo trasformando l’azione e il personaggio in un’astrazione che conta come elemento di una rappresentazione non-naturale; dall’altra parte, attraverso la sintesi che esse operano, necessariamente, direi tecnicamente, esse rendono essenziale l’umanità di un’azione o di un personaggio, presentandoli in un loro momento fulmineo e ispirato, che ne dà la realtà al suo culmine (e il contesto è dunque, sia pure senza alcuna punta naturalistica, realistico). Generalmente le «gags» sono disseminate nei films, interrompendo un diverso tipo di tecnica narrativa. Solo i films comici muti sono costituiti soltanto di gags. Essi sono dunque un fenomeno tecnico e stilistico a sé. Il cinema di Chaplin non assomiglia ad alcun altro cinema: è un altro universo. Nel cinema di Chaplin non c’è tutto quello che negli altri films c’è. Rispetto al resto del cinema, i films di Chaplin si possono definire soltanto per sottrazione, in una specie di fenomenologia negativa. Parlo naturalmente dei films muti: nei films parlati di Chaplin questa originalità assoluta non c’è più: in comune con gli altri films ci sono i dialoghi: i quali sono la negazione delle «gags». Nei films parlati dunque le «gags» non possono più costituire la sola struttura stilistica, ma si alternano ad un’altra struttura, che è quella audiovisiva, in cui mimica o pura presenza fisica e parola orale si integrano, e non possono quindi evitare quelle «punte di naturalismo» di cui parlavo, e che sono incompatibili con le sintesi puramente realistiche delle «gags».
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RES SUNT NOMINA1 Ci fu, va bene, un essere che mai-sempre ieri-domani è. Esso non ha bisogno di nulla: non ama! L’amore non è che una piccola esigenza umana fuori di ogni realtà. Ordunque: l’essere è al di là di ogni essere. Ma veniamo al bivio dove la libertà è nata. C’è al mondo (!) una macchina che non per nulla si chiama da presa. Essa è il «Mangiarealtà», ò l’«Occhio-Bocca», come volete. Non si limita a guardare Joaquim con suo padre e sua madre nella Favela. Lo guarda e lo riproduce. Lo parla per mezzo di lui stesso e dei suoi genitori. Nella riproduzione – su schermetti o schermi – io lo decifro (meticcio? portoghese? indio? olandese? negro?) come nella realtà. Non altri sono gli occhi, la bocca, gli zigomi, il mento, la pelle; risalgo alla sua provenienza dal Nord del Brasile e ai suoi avi… Voi mi capite. Egli sullo schermo o schermetto da laboratorio è linguaggio. S’io lo decifro come linguaggio in tal schermo o schermetto e se non altrimenti lo decifrai in quella realtà, giorno reale della fine di Marzo 1970 nella Favela sulla strada di Barra – Dunque il linguaggio del «Mangiarealtà» è un linguaggio fratello a quello della Realtà. Illusione, sì, illusione, qui e là: ché chi parla attraverso quel linguaggio è un Essere che c’è e non ama. ……………………………………………………………
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NOTA Ho da tempo l’ambizione di scrivere una «Filosofia» del cinema, consistente nel rovesciamento del nominalismo: non «nomina sunt res» ma «res sunt nomina». Se c’è una decifrazione della realtà ci deve essere a fortiori una cifrazione; se c’è un decifratore, un cifratore. Prendiamo questo Joaquim: egli si presenta ai miei occhi, in un ambiente (la spiaggia di Barra, sotto il Corcovado), e si esprime, prima con la pura e semplice presenza fisica, il suo corpo; poi con la mimica (il modo di camminare non solo espressivo in sé, ma reso appositamente tale per comunicare certe cose e in un certo modo all’osservatore), infine con la lingua orale. Ma questi tre mezzi del suo esprimersi non sono che tre momenti di un solo linguaggio: il linguaggio di Joaquim vivente. Chi è stato il cifratore di Joaquim? Perché non c’è dubbio che la «res» Joaquim è una parola o un insieme di parole (nomen), di cui io sono decifratore. Ora trasportiamo il corpo di Joaquim, con la sua pelle bruno-giallastra, i suoi capelli tagliati corti da soldato, la sua carne plebea, pura per infantilismo e denutrimento, la sua manifesta violenza sessuale, la povertà dei suoi abiti ecc. ecc. – dalla realtà della spiaggia di Barra allo schermo. Ammettiamo che questo schermo sia quello del cinema e non quello di un film: e che quindi si tratti di un piano-sequenza infinito come soggettiva dell’osservatore. Ammesso questo, c’è forse qualche differenza nel mio modo di decifrare Joaquim nella realtà e nello schermo? Sia là che qua Joaquim è «res», ma la «res» è un «nomen» perché come tale va sentita o letta o decifrata. Resta, ripeto, il mistero del Cifratore. Un cattolico direbbe Dio, che attraverso la polisemia infinita di un’infinità di «cose come parole» (ivi compresa la lingua umana scritto-parlata) si esprime. (Il nominalismo riguarda soltanto la lingua scritto-parlata, come operazione arcaica e magica, fissata poi in una convenzione – che non ha perso i suoi caratteri evocativi.) Insomma la realtà (spiata dal cinema) è un «insieme» la cui struttura è la struttura di un linguaggio. La mia ambizione sarebbe quella di fare uno studio organico – raccogliendo tutte le sparse fila della semiologia – sulla realtà come linguaggio («insieme di res significanti»).2 Ho chiamato il cinema «lingua scritta dell’azione», dando così alla 273
realtà una fisionomia ontologicamente pragmatica; ora, in questo progetto, irrealizzabile, la mia intenzione sarebbe quella di depragmatizzare la realtà intesa come insieme di «res» che si dispongono e si evolvono, eternamente in moto, nel tempo, come «azioni» sia pur elementari (anche un sasso immobile sul greto di un fiume, in quanto «res significante», si muove nel tempo: la sua presenza materiale di fronte al decifratore è una «durata», il frammento infinitesimale di una sua lunghissima storia: anche la decifrazione è una successività che segue l’accadere delle cose, dalle più elementari, come il «tratto» dell’esistenza tellurica di un sasso, o un avvenimento politico inestricabilmente complesso come l’assassinio di Kennedy – il «corpo parlante» di Joaquim è il caso medio). La teorizzazione di questo rapporto pragmatico del decifratore col decifrabile, resta per ora un progetto, una frustrante lacuna nel mio operare. Ma vorrei porre un’altra questione. Ammesso che tutto quanto ho qui detto sia attendibile, sia una ipotesi da prendersi in qualche considerazione (la realtà come linguaggio le cui parole sono le cose), è chiaro che nella nostra vita di ogni giorno tutto ciò con cui abbiamo rapporto è «segno di se stesso». Joaquim sulla spiaggia di Barra era un «segno di se stesso», che io, bene o male, ho decifrato in un rapporto pragmatico.3 Joaquim vivente è segno di se stesso, in quanto ogni res è nomen, cioè segno. Un segno, quanto a espressività, vale un altro segno: ogni gerarchia tra i segni è ingiusta, ingiustificabile. Sul piano comunicativo ciò è così ovvio che è inutile parlarne. Facciamo dunque il gran salto (che ben pochi di quelli che discutono o polemizzano con queste mie ricerche riescono a fare, o ad averne coscienza): passiamo dal livello puramente linguistico (o meglio semiologico) a quello estetico. Trasportiamo il «segno Joaquim» da un contesto comunicativo a un contesto espressivo; dal piano del linguaggio a quello del metalinguaggio, dalla «langue» alla «parole». Sono stato chiaro? Ora dunque la «res significante Joaquim» non mi appare più sullo schermo del cinema (cfr. sopra) ma sullo schermo dove si proietta un film. Anche qui egli è segno di se stesso, ma la sua funzione non è puramente strumentale, bensì estetica. 274
Esattamente come prendere il nome (il nome proprio di persona maschile singolare) Joaquim e leggerlo anziché in una prosa puramente strumentale, in una poesia. Sia nel primo caso che nel secondo i «segni» subiscono una transustanziazione semantica. Anziché soddisfare un’attesa, la deludono (Jakobson). Se è assurdo stabilire gerarchie tra i «segni» in campo comunicativo, è altrettanto assurdo stabilire gerarchie tra i «segni» in campo espressivo. La «res Joaquim» come connotazione non ha concorrenti nel valore; e così la «res Joaquim» come denotazione. (Lo stesso che accade per la «parola Joaquim».) In cosa consiste la transustanziazione semantica di un segno quando questo passa dal campo comunicativo al campo espressivo? Consiste specialmente in una sua infinitamente maggiore disposizione alla polisemia. Molte persone intelligenti (ultimo in ordine di tempo Chiaromonte) affermano che una «res» al cinema (essi intendono in un film – empirici, in questo campo, come sono) è irrimediabilmente monosemica: essa è quella che è, senza lasciar spazio all’immaginazione dello spettatore. Chi dice questo non tiene conto: a) Che la realtà è un linguaggio, e anche nella vita reale, come dialogo pragmatico tra noi e le cose (comprendenti il nostro corpo), mai, nulla è rigidamente monosemico: al contrario quasi tutto è enigmatico perché potenzialmente polisemico. Inoltre anche la realtà ha i suoi contesti – i suoi rapporti di contiguità e di similarità – che producono trasformazione di senso negli oggetti, di cui sono composti. Joaquim nel contesto della spiaggia è un diverso sema e semantema che Joaquim nella baracca della Favela. Inoltre anche a parte subjecti (da parte del decifratore) si hanno stati d’animo diversi che modificano il senso degli oggetti da decifrare. Joaquim sulla spiaggia o nella Favela ha per me un senso diverso da quello che ha per Chiaromonte. Da ciò si deduce una polisemia e quindi una enigmaticità «naturale» (pragmatica) nelle Cose. Si può scrivere o leggere poesia anche semplicemente vivendo. b) Che in un film (linguaggio d’arte: metalinguaggio di una «langue» che come tutte le «langues» è puramente dedotta) si hanno contesti coscientemente voluti dalla funzione estetica. Tali contesti trasformano la natura di un segno; come nella realtà, anche in un film, Joaquim sulla spiaggia e Joaquim nella baracca della Favela sono due diversi semi e semantemi, e non solo come nel cinema, per ineluttabilità di «codice», ma 275
per libertà espressiva di «messaggio». Joaquim come «segno» in un contesto estetico ha le caratteristiche di tutti gli altri «segni» (intendendo soprattutto quelli verbali: ma anche quelli figurativi o musicali: a nessuno salta mai in mente di dire che la «Gioconda» o una frase del «Flauto magico» sono coazioni, segni monosemici, imposizioni materiali che menomano la libertà fantastica del destinatario). Potrei malignamente dedurre che chi si sente coatto da una «res» (specie se umana) in un film, intendendo tale «res» significante come una mutilazione della sua libertà di interpretare – soffre di tale mutilazione, in realtà, anche nei suoi rapporti con quella stessa «res» nella vita: le sue inibizioni sono più forti della sua capacità di giudizio estetico. A me per esempio la «Gioconda» come apparizione fisica non piace: se incontrassi una donna così nella realtà, mi sarebbe indifferente o antipatica: ma la mia idiosincrasia fisionomica – o che altro – non mi impedisce, in genere, di usare della mia libertà di giudizio estetico: anche se in pittura i segni (iconici, e quindi non simbolici né convenzionali) sono quantitativamente meno polivalenti che in letteratura. Nel cinema lo sono forse ancora meno che in pittura: ma ognuno deve fare con se stesso i conti a proposito delle proprie idiosincrasie e dei propri blocchi di fronte a tipi umani o a generi di cose. Il montaggio istituisce contesti in cui il rapporto di contiguità e di similarità è analogo a quello di ogni altro linguaggio d’arte: in tali contesti l’oggetto materiale segno di se stesso diventa polisenso: e se la sua decifrazione sul piano puramente linguistico è analoga a quella della sua decifrazione sul piano della realtà (il codice è lo stesso), la sua interpretabilità sul piano estetico, è invece un monstrum, e gode delle stesse garanzie di inattendibilità e di felice «suspence» che nei linguaggi simbolici (che, non si dimentichi, sono sempre evocativi, ed evocano per ciascuno la realtà che egli conosce). Piuttosto: non posso più sfuggire a questa obiezione: «Tu dici che la resnomen del cinema si decodifica attraverso lo stesso codice che la res-nomen della realtà; ciò è proprio vero? La res-nomen nella realtà è proprio lì, fisicamente, mentre la res-nomen nel cinema è riprodotta; inoltre tu nella realtà sei immerso nello stesso ambiente che la res-nomen che decifri, mentre nel cinema tu ti trovi in un ambiente diverso: la sala di proiezione, dove ti sono negati odore, clima e rapporto tattile». Ho sempre detto che il codice della realtà è analogo a quello del cinema: e il cinema è un’astrazione, che si concreta, praticamente, nei singoli films, di cui solo ho esperienza e di cui solo so che sono formati da res-nomina, riprodotte, senza odore, senza clima, senza possibilità di esser toccate. Ma 276
queste caratteristiche mi sembrano più tipiche del cinema come «linguaggio d’arte» che del cinema come linguaggio tout court (esattamente come la mancanza di parola nel cinema muto: che, in pratica, nei films si presenta né più né meno che come una semplice restrizione metrico-prosodica). Insomma la caratteristica del cinema come si concreta nei films è quella di avere un «tempo» e uno «spazio» diversi che nella realtà: questo è soprattutto garanzia di «artisticità» nel cinema come «metalinguaggio»: è l’autore che sceglie i passaggi di tempo (la durata reale di un’intera azione, o il salto sintetico: dall’immagine di una persona che nasce all’immagine della stessa persona che muore); è l’autore che sceglie gli spazi di un’inquadratura e i rapporti di spazio tra un’inquadratura e l’altra. È qui che i fanatici della letteratura (del sistema di segni convenzionali e simbolici) potrebbero trovare un equivalente di quella libertà che essi attribuiscono alla sola parola: nelle inclusioni e nelle esclusioni di tempi e di spazi (sempre evidentemente calcolabili e potenzialmente «tratti» di un sistema individuabile e analizzabile) viene risarcito quel tanto di ineluttabilità che «da codice» permane negli oggetti inquadrati; si tratta di una libertà «metonimica» che scatena il «messaggio» nelle intermittenze di tempo e spazio, dalla durata infinitesimale, tra inquadratura e inquadratura.
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IL NON VERBALE COME ALTRA VERBALITÀ1
Si dice sempre che non tutto il pensiero è verbale. Ma forse per colpa della scarsità delle mie informazioni, dell’incompletezza delle mie precipitose letture, non mi sono MAI imbattuto in una definizione del «non verbale». Posso arrangiarmi a cercare un qualcosa che assomigli a tale definizione mancante? Da tempo io parlo di un codice di decifrazione cinematografica analogo a quello di decifrazione della realtà. Ciò implica la definizione della realtà come Linguaggio. Il libro del mondo, il libro della natura; la prosa del pragma; la poesia della vita: sono luoghi comuni che precedono nella brada preistoria una «Semiologia generale della Realtà come Linguaggio». Ho davanti a me, nel mio giardino dell’Eur, una piccola quercia: essa fa parte della realtà che parla, è cifratrice. Il rapporto è diretto. Io posso parlare di questa quercia a un altro; e quindi servirmi del medium scrittoparlato. Tale medium scritto-parlato, fa parte della realtà; in una Semiologia generale, su quest’ultima, le lingue occuperebbero il posto di uno dei suoi tanti elementi ecc., né di più né di meno ecc. Ma strano: l’uomo ha sempre dissociato la lingua scritto-parlata dalla Realtà. Nella lunga storia dei culti, ogni oggetto della realtà è stato sacralizzato: ciò non è successo mai alla lingua. La lingua non è mai apparsa come ierofania. Solo nel cuore della civiltà borghese è nata una vera e propria coscienza metalinguistica costante e importante: e infatti la lingua si è sacralizzata, sia pur restando in ambito letterario, e non dilagando in quello religioso – a parte un generico apparentamento mistico. Parlo del simbolismo, dell’ermetismo e in genere di tutte le avanguardie della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento. La coscienza metalinguistica che ha in qualche modo, per la prima volta, sacralizzato la lingua è stato un fenomeno classista da entropia: è stato un fenomeno tutto vissuto all’interno della borghesia. 278
La classe operaia e il marxismo sono rimasti estranei a tale sacralizzazione; dalla borghesia hanno preso la razionalità, loro, non l’irrazionalità misticheggiante delle avanguardie «contestatrici». Quindi per la classe operaia e l’ideologia marxista la lingua è rimasta una semplice funzione: e se ne è avuta la coscienza che se ne è sempre avuta: l’idea di un mezzo di comunicazione (magari anche del sacro). Tuttavia durante tutti i lunghi secoli in cui non c’è stata «cosa» o «fenomeno» della realtà che non abbia conosciuto la gloria del tabernacolo, la lingua è sempre stata considerata il principale strumento di un tale rapporto con la realtà. Formula magica, preghiera e identificazione miracolosa con la cosa indicata. La lingua non ha mai perduto il suo carattere di «evocazione»: di cui si è avuta una coscienza puramente strumentale. Che io sappia, tutta la linguistica «scientifica», fino allo strutturalismo compreso, col grande De Saussure ecc., nel definire il rapporto tra segno e significato, ha sempre ignorato il momento magico originario; naturalmente, la linguistica è scienza, e scienza dell’Ottocento e del Primo Novecento – quando ancora vigeva il Razzismo allo stato puro e innocente ecc. – la grande Europa – la grande borghesia bianca ecc. – la magia era tutta di colore. Che cosa fa il «segno» del «significato»: lo «significa»? È una tautologia. Lo indica? non è scientifico. Vi si identifica? È vecchia bega tra «nomen» e «res» ecc. ecc. In realtà non c’è «significato»: perché anche il significato è un segno. Mi si consenta la libertà del poeta che dice liberamente cose libere! Sì, questa quercia che ho davanti a me, non è il «significato» del segno scritto-parlato «quercia»: no, questa quercia fisica qui davanti ai miei sensi, è essa stessa un segno: un segno non certo scritto-parlato, ma iconicovivente o come altro si voglia definirlo. Sicché, in sostanza, i «segni» delle lingue verbali non fanno altro che tradurre i «segni» delle lingue non verbali: o, nella fattispecie, i segni delle lingue scritto-parlate non fanno altro che tradurre i segni del Linguaggio della Realtà. La sede dove questa traduzione si svolge è l’interiorità. Attraverso la traduzione del segno scritto-parlato, il segno non verbale, ossia l’Oggetto della Realtà, si ripresenta, evocato nella sua fisicità, nell’immaginazione. Il non verbale dunque, altro non è che un’altra verbalità: quella del 279
Linguaggio della Realtà. Che io usi la scrittura o che io usi il cinema altro non faccio che evocare nella sua fisicità, traducendola, la Lingua della Realtà. A cui do sempre, comunque, il Primato. Questo è il Fas-Nefas di ogni autore. Leggendo i miei versi «monologanti», attraverso il verbale, un lettore si trova dunque di fronte al non verbale (comprendente il verbale che io adotto per comunicare ossia evocare). In ogni testo scritto e in ogni proposizione parlata (e non solo nella sceneggiatura), si ha dunque una struttura che vuol divenire un’altra struttura; si ha cioè il processo dalla struttura della lingua scritto-parlata in struttura della lingua della Realtà «rievocata», con tutto ciò di regressivo che ciò implica. Infatti quando io dico «quercia» regredisco a quella struttura prima del linguaggio che è il Linguaggio della Realtà, per poi avanzare nel campo dell’immaginazione altra-mia, là dove la quercia «segno del linguaggio della Realtà» si ricostituisce come fisicità evocata (o ricordata). Il processo è il seguente: quercia come segno del Linguaggio della Realtà – «quercia» come segno scritto-parlato che lo traduce – quercia come segno del Linguaggio della Realtà immaginata. Le lingue scritto-parlate sono traduzioni per evocazione; le lingue audiovisive (cinema) sono traduzioni per riproduzione. Il Linguaggio tradotto, dunque, è sempre il linguaggio non verbale della Realtà.
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IL CINEMA E LA LINGUA ORALE1
L’immagine e la parola, nel cinema, sono una cosa sola: un topos. Dipende dall’ubicazione dello spettatore percepirla come una cosa sola o una cosa (poco o molto) divisa e dissociata. Delle volte sembra incredibile la distanza che divide lo scoppio di un tuono dalla luce del lampo: cioè sembra incredibile tanta diacronia tra immagine e suono. Ho visto doppiato lo stupendo Racconti della luna pallida d’agosto, e le parole doppiate dal giapponese non avevano nulla a che fare con le persone che parlavano: accadevano in due tempi assolutamente diversi. Ma non bisogna lasciarsi ingannare da questi casi limite, e neanche dai casi più normali, ossia dalla maggioranza dei casi (i film, specialmente in Italia, per via appunto del doppiaggio, sono sempre parlati male: e il tuono è una specie di rigurgito o di sbadiglio che zoppica dietro al lampo). In realtà il fenomeno del lampo e del tuono è un fenomeno atmosferico unico: il cinema è cioè audiovisivo. Capisco l’incanto dell’idea retorica del cinema come pura immagine. Anzi, addirittura io stesso faccio del cinema muto, con indescrivibile piacere. Ma fare del cinema muto non è che una restrizione metrica, come per esempio, in poesia, la terza rima, che riduce infinitamente la possibilità di parlare il parlabile, crescendo smisuratamente la possibilità di parlare l’imparlabile. I difensori (antiquati) del cinema muto come unico «optimum», anzi, in conclusione come «norma», appunto retorica – attribuiscono, nel cinema, alla parola, naturalmente ORALE, una funzione ancillare. Come per esempio nel melodramma. Le parole della Traviata, dicono, sono sciocche e ridicole, esteticamente non solo prive di valore, ma anzi quasi offensive al buon gusto: eppure ciò non conta niente. È la musica che conta, dicono. Questa affermazione sembra così piena di buon senso, e invece è completamente insensata. Chi dice questo ignora la «ambiguità» della parola poetica: l’ineliminabile contrasto in essa tra «senso» e «suono». La poesia è (Valery, citato da Jakobson) «une exitation prolongée entre le sens et le son». Onde ogni poesia è metalinguistica, perché ogni parola poetica è una scelta non compiuta tra il suo valore fonico e il suo valore semantico. Il rovesciamento dei rapporti tra contiguità e similarità (sempre Jakobson) moltiplica smisuratamente la polisemia della parola 281
poetica. In conclusione: in ogni poesia si ha inevitabilmente quella che si dice «dilatazione semantica». Ciò è spinto al parossismo nei poeti simbolisti, per esempio: ma è fenomeno rintracciabile in tutti i linguaggi poetici del mondo. È il suono (pronunciato a voce alta o sentito nella testa, così come un musicista sente la musica leggendo lo spartito) che deraglia, deforma, propaga per altre strade il senso. Ora la musica applicata alle parole non è che il caso limite di quanto ho detto. La musica distrugge il «suono» della parola e lo sostituisce con un altro: e questa distruzione è la prima operazione. Una volta sostituitasi al suono della parola, provvede poi essa a operarne la «dilatazione semantica»: e che po’ po’ di dilatazione semantica si ha nelle parole della Traviata! Se il suono della parola «nudo» può dilatare il senso della parola stessa verso le «nuvole», e creare qualcosa che sta tra il significato «corpo denudato» e il significato «cielo nuvoloso», figurarsi cosa può fare, della stessa parola, un do di petto! Le parole non sono dunque affatto ancillari, nel melodramma: sono importantissime e essenziali. Solo che l’esitazione tra il senso e il suono, in esse, ha l’apparenza di un’opzione per la scelta del suono: e tale suono, poi, è stato soppiantato da un suono che è altro rispetto a quello fonico, e che essendo infinitamente più suono, ha possibilità infinitamente maggiori di operare delle dilatazioni semantiche. Nel cinema la parola (a parte i casi meno rilevanti dei «cartelli» o dei «titoli di testa») va considerata nel suo aspetto ORALE. È questo che fa perdere la testa a coloro che non hanno avuto occasione di leggere almeno Morris. E che dunque sono convinti che la lingua sia un sistema privilegiato a sé, e non uno dei tanti possibili sistemi di segni. Ora, noi siamo abituati da secoli di storia a dare valutazioni estetiche esclusivamente sulla parola SCRITTA. Essa sola ci pare degna di essere non solo poetica, ma anche semplicemente letteraria. Poiché invece nel cinema la parola è ORALE, essa viene naturalmente vista come prodotto di poco pregio, o addirittura spregiato. Avrei voluto vedere questi abitudinari ascoltare la parola ORALE di Omero, quando diceva i suoi poemi, in tempi in cui né la scrittura né la stampa erano inventate. Eh, certo, era più difficile il giudizio: come ora è più difficile capire se un verso è bello o brutto se ascoltato dalla voce di un attore: perché c’è di mezzo appunto la voce dell’attore e la sua interpretazione. Sempre Jakobson, mi pare, ha fatto pronunciare a un attore una quarantina di volte la parola «Buonasera» con una quarantina di sensi diversi. Ciò non toglie che la poesia ORALE abbia diritto di essere, anzi, ci sia. 282
Gli esteti sono impazziti per anni a cercare la differenza tra parola scritta del testo teatrale (scritta e quindi letteraria) e la parola detta della recita; come ora impazziscono a cercare la differenza tra parola scritta della sceneggiatura e rappresentazione cinematografica. È solo la semiologia che può risolvere questi problemi, con le sue descrizioni dei diversi «sistemi di segni», che in molti casi si prestano l’un l’altro a essere il grado più elementare della «doppia articolazione» (cfr. Umberto Eco).2 Un oggettivo esame del sistema di segni del cinema ci rivela prima di tutto che esso è audiovisivo: immagine e suono sono, come direbbe uno storico delle religioni, una «biunità».Questa è una osservazione semiologica: che cosa se ne può fare un artista? Nulla. È una osservazione evidentemente del tutto descrittiva, esercitata su ciò che c’è. Un artista – che può benissimo non saper nulla di semiologia – può invece dirsi: «Che meravigliosa occasione! Facendo parlare i miei personaggi anziché una lingua naturalistica o puramente informativa, solo prudentemente dotata di punte di espressività e di vivacità – facendo parlare i miei personaggi, anziché questa lingua, il metalinguaggio della poesia, risusciterei la poesia orale (andata da secoli perduta anche nel teatro) come una tecnica nuova, che non può non costringere a una serie di riflessioni: a) sulla poesia stessa, b) sulla sua destinazione».
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IL CINEMA IMPOPOLARE1
Premessa. Mi trovo, come uno scolaro, a svolgere un tema: «Libertà dell’autore e liberazione degli spettatori»:2 tema dettato nello stile spiritualistico del cattolicesimo avanzato pre-giovanneo, e aggiornato poi, con autentica passione, in questi ultimi anni, caratterizzati dal pragmatismo. Tale stile è quindi «ambiguo»: si colloca appunto tra la genericità spiritualistica e la precisione pragmatica: e io, scolaro un po’ confuso, mi trovo costretto prima di tutto (anzi forse esclusivamente) a esercitare un esame metalinguistico sul tema che mi è dato da svolgere. Le parole del tema sono quattro: «libertà», «autore», «liberazione», «spettatore». Esaminiamole. 1) «Libertà». Dopo averci ben pensato ho capito che questa parola misteriosa non significa altro, infine, nel fondo di ogni fondo, che… «libertà di scegliere la morte». E ciò, non c’è dubbio, è scandaloso, perché vivere è un dovere: su questo i cattolici (la vita è sacra perché ce l’ha data Dio) e i comunisti (bisogna vivere per adempiere il nostro dovere verso la società) non sono d’accordo? Anche la natura è d’accordo: e, per aiutarci ad essere amorosamente attaccati alla vita, ci fornisce dell’«istinto di conservazione». Senonché, a differenza dei cattolici e dei comunisti, la natura è ambigua: e infatti eccola fornirci anche dell’istinto opposto, cioè quello del desiderio di morire. Questo conflitto, che non è contraddittorio – come vorrebbe la nostra mente razionale e dialettica – ma oppositorio e quindi non progressivo, non capace di sintesi ottimistiche, si svolge nel fondo della nostra anima: nel fondo inconoscibile, com’è ben noto. Ma gli «autori» sono gli incaricati a rendere come possono manifesto ed esplicito tale conflitto. Essi hanno infatti la mancanza di tatto e l’inopportunità necessarie a rivelare in qualche modo di «desiderare di morire» e di venir meno quindi alle norme dell’istinto di conservazione: o, più semplicemente, di venir meno alla CONSERVAZIONE. La libertà è dunque un attentato autolesionistico alla conservazione. La libertà non può essere manifestata altrimenti che attraverso un grande o un piccolo martirio. E ogni martire martirizza se stesso attraverso il carnefice conservatore. 284
Per restare al nostro campo – quello dello stile – poesia, cinema – si può allora dire che ogni infrazione del codice – operazione necessaria all’invenzione stilistica – è un’infrazione alla Conservazione: e quindi è l’esibizione di un atto autolesionistico: per cui qualcosa di tragico e di ignoto è scelto al posto di qualcosa di quotidiano e di noto (la vita). Vorrei accentuare la parola esibizione. La vocazione alle piaghe del martirio che l’autore fa a se stesso nel momento in cui trasgredisce l’istinto di conservarsi, sostituendolo con quello di perdersi – non ha senso se non è resa esplicita al massimo: se non è appunto esibita. In ogni autore, nell’atto di inventare, la libertà si presenta come esibizione della perdita masochistica di qualcosa di certo. Egli nell’atto inventivo, necessariamente scandaloso, si espone – e proprio alla lettera – agli altri: allo scandalo appunto, al ridicolo, alla riprovazione, al senso di diversità, e perché no?, all’ammirazione, sia pure un po’ sospetta. C’è insomma il «piacere» che si ha in ogni attuazione del desiderio di dolore e di morte. 2) «Autore». Se un facitore di versi, di romanzi, di films trova omertà, connivenza o comprensione nella società in cui opera, non è un autore. Un autore non può che essere un estraneo in una terra ostile: egli infatti abita la morte anziché abitare la vita, e il sentimento ch’egli suscita è un sentimento, più o meno forte, di odio razziale. Solo chi non crede in nulla (anche se si illude di credere in qualcosa) può avere amore per la vita (l’unico amore vero, dico, che non può che essere del tutto disinteressato): è quindi evidente che un autore ama la vita. Ma il suo amore non ha che qualche tratto comune e riconoscibile: tratto comune e riconoscibile spiegato dal fatto che egli è, oggi, piccolo-borghese tra piccoli-borghesi, e spesso anch’egli ha l’illusione piccolo-borghese della realtà del mondo e della storia, e quindi dei doveri a cui per lealtà obbedire. Ma, che egli lo sappia o non lo sappia, in realtà egli non crede in nulla, crede cioè nel contrario della vita: ed è questa sua fede che egli esprime lacerandosi con ferite di testimonianza. E l’amore disinteressato per la vita che gli deriva da questo suo totale pessimismo (pur mascherato talvolta da idealismi piccolo-borghesi) non può avere che dei tratti oscuri e irriconoscibili, che diffondono intorno a lui uno stato di disagio e di panico, superabile solo perché in fondo tutti gli uomini sono autori in potenza, dotati cioè di un ignoto e inconfessato istinto di morte, per definizione anticonservatore.
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3) «Spettatore». Lo spettatore, per l’autore, non è che un altro autore. E qui ha decisamente ragione lui, e non i sociologi, i politici, i pedagogisti ecc. Se infatti lo spettatore fosse in condizione subalterna rispetto all’autore – se egli fosse cioè l’unità di una massa (sociologi), o un cittadino da catechizzare (politici) o un bambino da educare (pedagogisti) – allora non si potrebbe parlare neanche di autore, il quale non è né un assistente sociale, né un propagandista, né un maestro di scuola. Se dunque parliamo di opere di autore, dobbiamo di conseguenza parlare del rapporto tra autore e destinatario come di un drammatico rapporto tra singolo e singolo democraticamente pari. Lo spettatore non è colui che non comprende, che si scandalizza, che odia, che ride; lo spettatore è colui che comprende, che simpatizza, che ama, che si appassiona. Tale spettatore è altrettanto scandaloso che l’autore: ambedue infrangono l’ordine della conservazione che chiede o il silenzio o il rapporto in un linguaggio comune e medio. 4) «Liberazione». Stando così le cose non si può parlare di «liberazione» dello spettatore né in senso sociologico (libertà dal consumo di massa), né in senso politico (libertà dalle idee sbagliate), né in senso pedagogico (libertà dall’ignoranza). Anzi, in realtà non si potrebbe neanche parlare di «liberazione», perché lo spettatore REALE è già LIBERO. Si dovrebbe piuttosto parlare anche di «libertà dello spettatore»; e, in tal caso bisognerebbe definire questa sua libertà. E infatti la «libertà» dello spettatore, pur essendo quest’ultimo, come ho detto, pari all’autore, e quindi usufruendo della sua stessa libertà di morire – ossia di immolarsi nel misto di piacere e dolore in cui consiste la trasgressione della normalità conservatrice – nel momento in cui egli è spettatore, dissociando pragmaticamente la propria figura da quella dell’autore, egli gode di un altro tipo di libertà, che non saprei dire se integri o rovesci la definizione di libertà che ho dato sopra. La libertà specifica dello spettatore consiste nel GODERE DELLA LIBERTÀ ALTRUI. In un certo senso quindi lo spettatore codifica l’atto incodificabile compiuto dall’autore che inventa, producendo su se stesso ferite più o meno gravi, e con questo asserendo la sua libertà di scegliere il contrario della vita regolamentatrice, e di perdere ciò che la vita ordina di risparmiare e conservare. Lo spettatore, in quanto tale, gode l’esempio di tale libertà, e come tale 286
lo oggettiva: lo reinserisce nel parlabile. Ma ciò avviene al di fuori di ogni «integrazione»: in un certo senso al di fuori della società (la quale infatti non integra solo lo scandalo dell’autore ma anche la comprensione scandalosa dello spettatore). È un rapporto tra singolo e singolo, che avviene sotto il segno ambiguo degli istinti e sotto il segno religioso (non confessionale) della carità. La libertà negativa e creatrice dell’autore è riportata al senso – che essa vorrebbe perdere – dalla libertà dello spettatore, in quanto, ripeto, essa consiste nel godere dell’altrui libertà: atto in realtà indefinibile, perché santo, ma che si potrebbe ridurre ai termini correnti, osservando che esso oggettiva e –riconosce per simpatia l’inoggettivabile e l’irriconoscibile. Esempi: Godard, Straub, Rocha, ecc. Ogni opera d’arte è metalinguistica (Jakobson). Varia solo il grado di coscienza metalinguistica tra autore e autore. Attraverso il sovvertimento del rapporto tra contiguità e similarità del discorso, l’autore ottiene l’infrazione al codice che fa del suo messaggio – agli occhi del destinatario – un’«attesa delusa». Più la coscienza metalinguistica dell’autore è forte (mi esprimo con semplicismo), più i rapporti di contiguità e similarità sono sconvolti, e più, quindi, l’attesa del destinatario è coscientemente e esplicitamente delusa. Un regista operante oggi – non solo sa, ma vuole a tutti i costi – deludere questa attesa. Il luogo in cui egli compie gli atti necessari a tale delusione (le infrazioni del codice, che, come abbiamo visto, coincidono con un sovvertimento dei rapporti tra contiguità e similarità della parola) è il montaggio. È dunque alla moviola che la «libertà» dell’autore, concepita come esibizionismo sadomasochistico, che si libera dal codice attraverso la vergogna e la sfida (che sarà punita attraverso lo scandalo), si manifesta, e va analizzata. Per aver chiara tale operazione bisogna raggruppare da una parte le nozioni di «repressione, pudore, convenzione linguistica», dall’altra le nozioni di «autopunizione, violazione del pudore, libertà linguistica». Fare il cinema del cinema o «porre dentro il film il problema del film stesso» ecc. non significa altro che optare per una coscienza metalinguistica esplicita: e cioè optare direttamente per la delusione del destinatario (lo spettatore la cui libertà consiste nel «godere della libertà altrui»). La conseguenza pratica di tale atteggiamento è stata una discriminazione tra i destinatari. Infatti questi ultimi sono divenuti di due 287
categorie: la categoria A godeva della libertà sadomasochistica dei registi, quasi con partecipazione all’orgia delle trasgressioni, mentre la categoria B (l’enorme maggioranza) si scandalizzava, si rifiutava, rideva, urlava, insomma copriva gli autori di quella vergogna che essi dichiaratamente cercavano (autopunizione per la trasgressione della fraternità linguistica). Godard davanti alla moviola (e naturalmente girando, anche: operazione la cui funzione era comunque il montaggio), è come un martire sconosciuto che rivela il proprio peccato di eresia o di tradimento della fraternità per poter essere martirizzato. Nel momento della provocazione, che in lui è stata ed è formale (anche, e appunto in quella negazione della forma che egli va realizzando nelle sue ultime opere), mettiamo di fronte a una inquadratura dalla durata abnorme, che valichi cioè il limite della sopportabilità oltre che dell’abitudine, si trova evidentemente ad operare su più piani: I) Vuole far pensare al cinema, impedendo al destinatario di illudersi di essere semplicemente di fronte a un film – o comunque a un’opera d’arte da accettare con naturalezza; II) Vuole ferire il destinatario in quanto imbecille – cioè in quanto nemico del cinema – che nella sua beata incoscienza, ha pagato il suo biglietto per vedere «un film», se si tratta di un destinatario di serie B (sadismo nei confronti dello spettatore, esercitato con una sorta di disprezzo; un sorriso di crudeltà pressoché ascetica); III) Vuole creare nello spettatore (stavolta di categoria A) il piacere di soffrire, «sopportando» il martirio di una inquadratura innaturale come un piacere (sim-patia con l’autore, in quanto co-optazione al martirio); IV) Vuole soffrire giustamente il suo proprio martirio, in quanto lo spettatore di categoria B, cioè l’umanità che va al cinema, non mancherà di decretarlo (cosa che naturalmente implica l’annesso piacere). L’infrazione del codice – la libertà dal cinema – attuata attraverso la coscienza metalinguistica del codice del cinema è dunque un fenomeno sado-masochistico fin troppo semplicemente analizzabile in laboratorio (né io, in quanto regista, me ne dichiaro esente: al contrario)! Che quanto dico sia vero, è dimostrato dalle ultime vicende di Godard come autore, in cui il suo caso personale si offre direttamente all’analisi: egli si è gettato a capofitto nel vuoto del martirio – un martirio senza piacere, perché vissuto ormai solo come colpa passiva. Le parole di Che Guevara, reclamizzate dalla «folla» studentesca, gli sono state fatali: che l’intellettuale debba suicidarsi è una sciocchezza, è una pura clausola da «ars retorica», anche un bambino lo capirebbe. Ma Godard più indifeso di un bambino, ci ha creduto: se ne è fatto un problema reale. E anziché 288
continuare a martirizzarsi davanti alla moviola, per esibire le sue ferite metalinguistiche, come infrazioni a ogni codice cinematografico, ha optato per il partito preso della negazione totale: che quanto a questo, è indubbiamente «pragma». Basta. Non voglio fare del moralismo. Straub non ha subito come Godard il ricatto del «gauchismo», ma ha subito il ricatto di Godard. Nel suo ultimo film egli ha preso alcuni attori non professionisti, li ha vestiti da antichi romani, li ha portati sull’Aventino, in mezzo al traffico assordante, li ha costretti a imparare perfettamente a memoria le battute, e quindi a recitarle velocissimi, in francese (un francese pronunciato assurdamente). Ne è venuta fuori una «pièce» data in una specie di «recita in famiglia all’aperto»: meticolosamente, senza buttar via una virgola del testo, da cima a fondo. Rigoroso e folle, l’intero «Othon» è stato pensato «metalinguisticamente»: il pensiero-guida era: fare un film recitato come una pièce teatrale, dalla prima parola all’ultima, proprio come non deve essere un film. Da ciò le scene interminabili (anche del tutto disadorne; qualsiasi ornamento infatti sarebbe stato inevitabilmente «cinematografico»; e, scolastiche; infatti solo una diligente recitazione scolastica – e non raffinatamente professionale – avrebbe potuto giustificare l’operazione ironica). Al montaggio Straub non ha lavorato: l’autopunizione sadomasochista (eccomi, spettatore a torturarti; eccomi, spettatore, a farmi torturare) Straub l’ha tutta delibata nel pensare e nel girare il film, fatto di una serie di elementari piani-sequenza, attaccati semplicemente in moviola uno all’altro. L’assenza di montaggio è un elemento appunto provocatorio: la libertà dal codice cinematografico ottenuta, col sacrificio di se stessi, col dare se stessi in pasto alle belve, col rendere se stessi dei «mostri», provocatori e martiri, civette e vittime – tende dunque violentemente verso la negazione del cinema, verso una delusione quasi totale, che se non è il suicidio è comunque una specie di clausura; un’ascesi, non priva di humour, che abbandona il mondo alla sua «imbecille» volontà di linciaggio e al suo ritorno alle abitudini. Anche Glauber Rocha ha subito il ricatto avanguardista-gauchista (quanto a me mi riservo il diritto di lanciare questa pietra), e «Antonio das Mortes» lo testimonia: i destinatari di categoria A se lo sono portati dietro le barricate, stavolta seguiti anche dai pavidi comunisti tradizionali, che hanno letto in questo film la schematica rivendicazione rivoluzionaria di cui si accontentano. Va subito detto che in Rocha, la cui fantasia figurativa non è demoniaca, la provocazione è prefilmica: la macchina da presa si 289
comporta regolarmente, direi classicamente; e così la pressa in moviola. Direi che si comporta regolarmente, in parte, anche la realtà manipolata di fronte alla macchina da presa (alcune danze carnevalesche di gente di colore, il paesaggio, un duello ecc.): ma ecco, improvvisa, la sete di libertà «come affermazione sadomasochistica della coscienza metalinguistica»: essa si manifesta, ripeto, prefilmicamente, in scene per l’appunto… sadomasochistiche (una specie di coito su un cadavere insanguinato) o in epifanie così volontaristiche (la donna liberty vestita di viola) da richiedere e ottenere detto fatto il martirio. Devo ripetere il ritornello: gli spettatori sono feriti dal regista «cosciente del suo linguaggio», e a loro volta feriscono il regista (salvo appunto gli spettatori privilegiati che condividono con lui l’idea che lo scandalo estremistico sia necessario): così che il regista può godere equamente del piacere e del dolore del martirio: testimoniando la propria «libertà dalla repressione» in quanto ebbrezza suicida, vitalità disfattista, auto-esclusione didascalica, esibizione di piaghe significative. Sono questi «exempla», quasi agiografici, luoghi di uno scritto reazionario? No: io stesso provo in moviola (o, prima, girando) l’effetto quasi sessuale dell’infrazione al codice, come esibizionismo di qualcosa di violato (sentimento che si prova anche scrivendo versi, ma che il cinema moltiplica all’infinito: una cosa è essere martirizzati in camera e una cosa e essere martirizzati in piazza, in una «morte spettacolare»): ma la cosa essenziale è restare in vita, e mantenere in vigore il codice: il suicidio crea un vuoto subito riempito dalla qualità peggiore di vita; mentre l’eccessiva trasgressione del codice finisce per crearne una specie di rimpianto: le restaurazioni si fondano sempre su un fatto reale, che è appunto il rimpianto generale di un codice troppo malamente e «estremisticamente» violato. La restaurazione del cinema in atto oggi in Italia (Fellini, Visconti, il «Metello», le «Indagini» ecc.) e in tutto il mondo, si deve a un rimpianto del codice; oppure a una codificazione degli «estremismi» infrazionistici (il grazioso «Midnight cowboy», l’insopportabile «Easy rider» e tutta la nuova produzione «povera» americana). Del resto non si può essere estremistici senza essere fanatici e terroristi? Un altro esempio: il cinema «underground». Ogni volontario che cerchi una morte significativa «come esibizione», deve recarsi sulla linea del fuoco, appositamente: non ci sono altri luoghi dove egli possa attuare rigorosamente il suo programma. Solo la morte dell’eroe è uno spettacolo; e solo essa è utile. 290
I registi-martiri dunque, per autodecisione, si trovano sempre, stilisticamente, sulla linea del fuoco: ossia sul fronte delle trasgressioni linguistiche. A furia di provocare il codice (ossia il mondo che ne è utente), a furia di esporsi, essi finiscono con l’ottenere ciò che aggressivamente vogliono: essere feriti e uccisi con le armi che essi stessi offrono al nemico. È su tale fronte che essi realizzano la loro «libertà» – quella di contraddire fino all’estrema conseguenza la norma della conservazione, e dove lo spettatore realizza la sua propria libertà: quella di godere della loro. Ma ci sono alcuni registi che, trascinati dall’impeto eroico, o dall’incitamento e dall’applauso dei «pochi» (che, per ma legge evidentemente e alla lettera, autolesionistica, sono i soli che contano) si spingono oltre il fronte delle trasgressioni. Superano la linea del fuoco, e si trovano dall’altra parte, in territorio nemico; quivi, automaticamente, vengono chiusi in una sacca, o per continuare più brillantemente la metafora, ammassati in un lager, che essi poi, come succede, trasformano altrettanto automaticamente in un ghetto. Là dove tutto è diventato trasgressione non c’è più pericolo: il momento della lotta, quello in cui si muore, è al fronte. La vittoria su una norma trasgredita rientra subito nell’infinita possibilità di modificarsi e di allargarsi che ha il codice. Ciò che è importante non è il momento della realizzazione dell’invenzione, ma il momento dell’invenzione. Invenzione permanente; lotta continua. Chi ha superato il limite in cui avviene la tenzone, non ha più nulla da rischiare. Uno degli ultimi films «underground», presentati ai «pochi», quello di Bussotti («Rara») è, per esempio, un film che non dà all’autore nessuna possibilità di martirio dimostrativo. Le trasgressioni del film non avvengono sulle barricate, ma nel retroterra opposto, dentro il lager dove tutto è trasgressione, e il nemico è sparito: sta combattendo altrove. Bisogna dunque (estremisticamente o no) obbligare se stessi a non andare troppo avanti, interrompere lo slancio vittorioso verso il martirio; e ritornare continuamente indietro, sulla linea del fuoco; solo nell’attimo in cui si combatte (cioè si inventa, applicando la propria libertà di morire in barba alla Conservazione), solo nell’attimo in cui si è a tu per tu con la regola da infrangere, e Marte è ancipite, sotto l’ombra di Tanatos, si può sfiorare la rivelazione della verità, o della totalità, o insomma di qualcosa di concreto: operata la trasgressione – che si realizza in una nuova 291
invenzione – cioè in una nuova realtà costituita – la verità, o la totalità, o quel Qualcosa di concreto, si vanifica perché non può essere vissuto né stabilizzato in nessun modo. È per questo infatti che il Potere, ogni Potere, è cattivo, sia che conservi le istituzioni sia che ne fondi di nuove. Se è pensabile un Potere «meno peggio» degli altri, questo potrebbe essere solo un Potere che, nel conservare o nel ricostituire la norma, tenesse conto delle apparizioni o delle possibili riapparizioni della Realtà.
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IL CODICE DEI CODICI Un giovane biondo, caro Eco, avanza verso di te. Non ne senti l’odore. Forse perché non ce n’ha; o perché è lontano, o perché altri odori formano un diaframma tra te e lui, o forse perché tu hai il raffreddore. Strano, perché un certo odore dovrebbe averlo, addosso. È biondo, ti dico: ma il suo biondo è leggermente fuligginoso, come striato di patine avite, neglette ed escluse dal biondo barbarico e borghese dei grandi paesi ricchi del Nord. Non lo si direbbe razzialmente biondo. Uno scherzo, forse, del destino. O forse qualche corno di qualche sua brava struggente madre dall’albero genealogico sconosciuto (Degli Esposti, Degli Innocenti, Degli Angeli, Dei Morti di Fame), perpetrato con qualche soldato di soldatesche straniere, prezzolate e fredde. Questi capelli biondi sono troppi, formano come un colbacco; ma il vento ha disfatto quel colbacco, e ne è rimasto un alto pennacchio che (adesso che il vento è caduto) forma un piccolo monumento sproporzionato al viso minuto. Il minuto viso ha occhi smarriti. Devono essere castani, ma lo struggimento li rende opachi, e sembra come riempirli del giallo dei vecchi mali proletari. Con quello sguardo giallo e screziato, egli si guarda intorno, con mobilità, come dire, immobile. È stravolto dal batticuore. La preoccupazione di essere lì lo tiene sospeso, appeso come un attaccapanni. Questa impressione è aumentata anche dalle vesti con cui si è acconciato. Si tratta di una giacca blu coi bottoni d’oro, da cui penzola, dopo essere stato attorcigliato intorno al collo, un lungo fazzoletto, o sfrontata sciarpa multicolore. Le gambe sotto la palandrana marinara sono piccolette. I calzoni poveri. Ai piedi ha degli stivaletti. Dalla tasca della giacca gli sporge un libro sgualcito. Il pallore del viso, i lineamenti popolari, il contrasto tra il biondo sporco e fuligginoso della chioma col pallore bruno della pelle, la povertà sgargiante del vestire, la piccolezza delle gambe: tutto fa pensare a un napoletano; forse a un giovane che viene dalla provincia di Napoli: mettiamo dalla terra dei Mazzoni. Sì, di razza contadina (in un retroterra non lontano dal mare) più che un marinaro. Ma quel libro che gli sporge dalla giacca (un’edizione economica di Dante)? E quello sguardo smarrito, la cui insicurezza non è mascherata da timidezza e odio, come nei poveri immigrati? Infatti egli ti si avvicina, e, come se tu fossi trasparente, mormora verso di te: 293
«I love Benedetta». Nel descrivere questo giovane in F.I. che viene verso di te e pronuncia una frase, io come vedi ho usato il sistema di segni della nostra lingua scritta. Ti avessi incontrato a qualche convegno di Frascati o di Palermo, avrei usato il sistema di segni della nostra lingua parlata. Ciò che tu non hai capito è se io ti ho così descritto con parole Jerry Malanga nella realtà, o Jerry Malanga in un film. Tu dirai che ho barato. No. Ho fatto una descrizione analitica ma non tecnica. Ho anzi usato – con ambiguità metaforica, per onestà – il termine da «script», F.I. Ormai ho ripetuto tante volte che il Codice della Realtà e il Codice del Cinema (della langue cinematografica, che non esiste, esistendo solo i filmsparoles) sono lo stesso Codice. È in nome di questo codice che io mi approssimo quasi sperimentalmente all’identificazione di Jerry Malanga, o, quanto meno di «un napoletano immigrato in America e ritornato in Italia con un atteggiamento in cui il folklore napoletano e il folklore beat hanno degli strani punti in comune». Tutta questa seconda definizione è – sotto un aspetto vivace ed artistico – prodotto di un codice conoscitivo, che mi serve sia a riconoscere il Malanga reale, che quello cinematografico. Ebbene no. È uno scherzo che ti ho fatto. Il Malanga in F.I. che ti ho descritto in stile «vivace» non è né il Malanga della realtà (strada o salotto) né il Malanga dello schermo. Che Malanga è, allora? Non te lo dico, perché voglio continuare lo scherzo. Te lo dirò più avanti, costringendoti, per ora, a seguire il filo del mio ragionamento. Nel tuo libro, splendido di chiarezza (e spero non utile soltanto ai fortunati studenti fiorentini suoi destinatari) «Appunti per una Semiologia delle comunicazioni visive»,1 ci sono alcune osservazioni preliminari da fare. A) Tu analizzi una serie potenzialmente infinita di codici conoscitivi: le cui unità prime e più semplici sono talvolta le ultime e più complesse di un codice, come dire, sottostante. Varie volte sembri pervenire all’analisi del più SOTTOSTANTE di tutti i codici. E lì ti fermi. Si ha dunque l’impressione che il tuo libro sia scritto sul ciglio di un burrone. Oltre quel ciglio tu non ti sporgi. Lo sfiori e torni indietro, dopo avervi lanciato una distratta occhiata. Questo codice, il più SOTTOSTANTE di tutti, è quello che riguarda la 294
percezione sensoriale, che tu demandi alla psicologia, credo, o non so a quale scienza specifica, presentandolo così nel tuo libro come un dato di fatto, da approfondirsi e mettere in discussione in altra sede. Sfoglio il libro e potrei elencarti tutti o quasi tutti i punti, in cui tu ti fermi, dando notizia dell’esistenza del rapporto di ricezione sensoriale della realtà fisica, su cui poi cade il profondo silenzio, appunto, di un abisso. B) A pag. 142, occupandoti con una pazienza di cui ti sono molto grato (cfr. la sgarberia di alcuni professori universitari) delle mie osservazioni di dilettante, scrivi: «Queste osservazioni liquiderebbero anche l’idea di Pasolini di un cinema come semiologia della realtà, e la sua persuasione che i segni elementari del linguaggio cinematografico siano gli oggetti reali riprodotti sullo schermo (persuasione, ora lo sappiamo, di singolare ingenuità semiologica [la sottolineatura è mia] e che contrasta con le più elementari finalità della semiologia, che è di ridurre eventualmente i fatti di natura a fenomeni di cultura, e non di ricondurre i fatti di cultura a fenomeni di natura)». Caro Eco, le cose stanno esattamente al contrario di come tu le interpreti. Che io sia ingenuo, non c’è dubbio: e anzi, poiché non sono – con tutta la violenza di un maniaco anche nel non voler esserlo – un piccolo-borghese – non ho paura dell’ingenuità: sono felice di essere ingenuo, e anche magari qualche volta ridicolo. Ma non era certamente questo che tu volevi dire: hai detto «ingenuità» come eufemismo per «sprovvedutezza». Sarei disposto ad accettate anche la sprovvedutezza (che c’è), ma non in questo caso. Perché tutte le mie caotiche pagine su questo argomento (codice del cinema uguale codice della realtà, nell’ambito di una Semiologia Generale) tendono a portare la Semiologia alla definitiva culturizzazione della natura (ho ripetuto sette otto volte che una Semiologia Generale della realtà sarebbe una filosofia che interpreta la realtà come linguaggio). Io vorrei cioè che si andasse fino in fondo. Non vorrei arrestarmi sul ciglio dell’abisso su cui tu ti fermi. Non vorrei cioè che avesse nessun valore nessun dogma: mentre in te restano, inconsapevolmente, consacrati almeno due dogmi: il dogma della semiologia così com’è, e il dogma del laicismo. Io sono assolutamente laico, da bambino sono fuggito alle lezioni di dottrina, non sono cresimato, mio padre non era credente, mia madre, credente in un mondo pieno di fossile dolcezza, non mi ha mai costretto neanche al dovere della messa. Nemmeno anticlericalismo, quindi in famiglia 295
(onde eventuali revivals mistici). Sono anche abbastanza razionale, così che se anche dovessi ribellarmi all’onnipotenza e all’onnipresenza della ragione come mito della borghesia (cfr. Goldmann) lo farei dolcemente ragionando. Supponiamo dunque, per absurdum – sottolineo «per absurdum» – che esista un Dio. Culturizziamo cioè la natura nell’unico modo che è preventivamente possibile. E dedichiamo a questa fatua questione non più di una mezza paginetta. Se il Dio delle Confessioni esistesse, che ne direbbero i semiologi dei «sema»? E Jakobson, potrebbe ancora dire che gli «oggetti» (quei famosi oggetti naturali, o cose, come sassi, alberi, nasi; bottiglie ecc. ecc.) sono «segni di se stessi» e, in tal modo «si autorivelano»? Ossia, per caso, la natura non cesserebbe di essere «natura» ossia tautologia autorivelantesi, in fondo a quell’abisso in cui tu lasci sprofondati i nostri rapporti sensoriali con essa? Rapporti sensoriali che costituiscono la nostra conoscenza psicofisica della realtà naturale, che si attua secondo il più SOTTOSTANTE (ma ciò nondimeno INTERAGENTE) dei codici? Ora, poiché è seccante parlare di Dio tra persone laiche, limitiamoci almeno a chiamare Dio, Brama, e abbreviamolo in B. L’esistenza di B. (di carattere vedico-spinoziano) fa dell’affermazione «la realtà è un linguaggio» un’affermazione non più apodittica e immotivata, ma, in qualche modo sensata e funzionale: «la realtà è il linguaggio di B.». Con chi parla B.? Mettiamo con Umberto Eco. (Che, essendo stato molto cattolico, mi dicono, ora, a proposito di B. è un po’ sulle difensive). Mettiamo che, in questo momento, B. parli con Eco, usando come segno, un segno ultimo, i capelli di Jerry Malanga. Ma che differenza c’è tra i capelli di Jerry Malanga e gli occhi di Umberto Eco? Essi non sono che due organismi della realtà, la quale è un continuum senza alcuna soluzione di continuità: un corpo unico, ch’io sappia. I capelli di Jerry Malanga e gli occhi di Umberto Eco appartengono dunque allo stesso Corpo, la fisicità del Reale, dell’Esistente, dell’Essere; e se i capelli di Jerry Malanga sono un oggetto che si «autorivela» come «segno di se stesso» agli occhi ricettori di Umberto Eco, non si può dire che si tratti di un dialogo, ma di un monologo che il Corpo infinito della Realtà fa con se stesso. A questo punto possiamo anche liberarci della imbarazzante nozione di B. (che io faccio senza traumi, come chi è laico senza la religione, ossia il dogma, del laicismo), e dire semplicemente che la «Realtà parla con se stessa»: che i «sema» parlano ad altri «sema» in un solo ambito dove rivelazione e comprensione, domanda e risposta sono la stessa cosa (fonte 296
trasmittente e ricettore si identificano). Tu mi obbietti che non è possibile che gli «oggetti della realtà» possano essere l’unità seconda di articolazione del cinematografo. Ma tu stesso mi insegni che i codici possono essere interagenti. Non vedo quindi perché l’unità minima di un Ur-codice, ossia il codice conoscitivo della realtà, ossia gli oggetti autorivelantisi, non possano divenire un’unità minima di un altro codice sovrastante maggiormente culturale nel senso tecnico. E poi non lo dici tu stesso (pag. 49)? «E, di semplificazione in semplificazione, il sogno dello strutturalista è, al limite, quello di individuare il Codice dei Codici, l’Ur-codice, che permetta di ritrovare ritmi e cadenze analoghe (le stesse operazioni e relazioni elementari) all’interno di ogni comportamento umano, di quelli culturali e di quelli biologici». Perché ti sei lasciato riscuotere da questo sogno? Hai paura dei sogni? E perché, se lo strutturalista può permettersi dei sogni, il semiologo non se li può permettere? E qual è, nel caso che anche il semiologo volesse sognare, il modo migliore di individuare l’Ur-codice, se non considerare la «realtà come linguaggio» (e non come una serie di linguaggi)? «Questo Ur-codice – aggiungi – consisterebbe nel meccanismo stesso della mente umana reso omologo al meccanismo che presiede ai processi organici.» Perché dunque ti fermi ogni volta (accennandone appena all’esistenza) di un codice della percezione che l’uomo-natura ha della natura? Più avanti (pagg. 99-100) dici ancora: «…Ma la prima avvertenza da tener presente, in una ricerca semiologica, è che non tutti i fenomeni significativi sono spiegabili con le categorie della linguistica». Quindi il tentativo di interpretare semiologicamente le comunicazioni visive presenta questo interesse: che permette alla semiologia di provare le sue possibilità di indipendenza dalla linguistica. Poiché infine esistono fenomeni segnici ben più imprecisi dei fenomeni di comunicazione visiva propriamente detti (pittura, scultura, disegno, segnaletica, cinema o fotografia), una semiologia delle comunicazioni visive potrà costituire un ponte verso la definizione semiologica di altri sistemi culturali (quelli ad esempio che pongono in gioco oggetti d’uso, come accade per l’architettura o il disegno industriale). Magnifico! Ma perché non fare ancora un passo avanti verso la totale culturalizzazione della realtà fisica e umana, e prendere in esame dei fenomeni segnici ben più imprecisi, come quelli appunto della realtà fisica e umana nella sua totalità, ossia i «sinsegni» (secondo la terminologia del 297
Peirce)? A ciascuna delle definizioni del segno può corrispondere – tu dici – un fenomeno di comunicazione visiva. Al «sinsegno», per esempio corrisponde il ritratto di Monna Lisa o la ripresa diretta di un avvenimento televisivo… Magnifico! Ma, sempre sul piano del rapporto conoscitivo diretto psicofisico, non corrisponde un fenomeno di comunicazione visiva anche al «sinsegno naturale» consistente nella Monna Lisa stessa in carne e ossa (sebbene ora defunta), o alla partita Inter-Bologna stessa, giocata nel pomeriggio di una delle Domeniche di questo novembre e disgraziatamente persa dal Bologna per un discusso calcio di rigore? O vuoi relegare questi «sinsegni reali» nel limbo della natura non culturalizzabile? Cos’erano gli occhi di Leonardo o le ottantamila paia di occhi dei tifosi di quella domenica se non i protagonisti di un rapporto conoscitivo con quei «sinsegni naturali»? E poi tu stesso lo dici – preso da un imprevedibile impulso elegiaco: «Mentre quando, dalla luce rosata che si diffonde in cielo, deduco l’imminente sorgere del sole, rispondo già alla presenza di un segno riconoscibile per apprendimento»? È B., è B., caro Eco, che dice a se stesso, attraverso il sinsegno rosa della luce e i tuoi occhi che guardano, che un nuovo giorno sta sorgendo. E a questo livello è da individuare da parte dei semiologici, l’Ur-codice. E eccoci così giunti – attraverso le parole stesse, che citano un’intuizione stupenda, ma non portata alle estreme conseguenze (una Semiologia Generale) del Morris – al centro della questione: «Il ritratto di una persona è iconico sino a un certo punto, ma non lo è completamente, perché la tela dipinta non ha la struttura della pelle, né la facoltà di parlare o di muoversi, che ha la persona ritratta. Una pellicola cinematografica è più iconica, ma non lo è ancora completamente». Così dice Morris, e tu annoti: «È naturale che, spinta all’estremo, una verifica del genere non può che portare Morris (e il buon senso) alla distruzione della nozione: “Un segno completamente iconico denota sempre, perché è esso stesso un denotatum”: il che equivale a dire che il vero e completo segno iconico della Regina Elisabetta non è il ritratto di Annigoni ma la Regina stessa (o un eventuale suo doppio fantascientifico)». La verità è subdola, maledetta e sfacciata, non conosce freni o sensi unici, lei! Tu l’hai detta scherzando. Infatti ognuno di noi e ognuno degli oggetti ed eventi della realtà «è segno iconico di se stesso». Non solo, ma tu stesso hai delineato una possibile catalogazione saussuriana della cosa, appellandoti 298
spiritosamente alla fantascienza: il «doppio» di cui parli altro non sarebbe che l’astrazione della «langue vivente» dedotta dalla presenza della «parole vivente» costituita dalla Regina Elisabetta in persona! Anche il linguaggio con cui B. parla spinozianamente con se stesso si divide dunque in «langue» e «parole»! E a questo punto butto giù in due righe una cosa, che richiederebbe, per essere convalidata minimamente, un saggio intero, va bene. Se la realtà è un linguaggio esso non può essere dunque che di impostazione saussuriana, perché, malgrado l’atto di indipendenza praticamente compiuto dalla semiologia nei riguardi della linguistica, non c’è «sistema di segni» possibile che non si articoli in un’astrazione – codice (langue) e in una concretezza – vivente (parole). Sicché: prendiamo la Regina d’Inghilterra. La Regina d’Inghilterra esiste solo come simbolo iconico di se stessa nell’ambito della «parole», cioè nella sua concretezza psicologica, fisica, morale, personale, sessuale, carnale: ma da ciò si «deduce» una Regina d’Inghilterra, astratta, sul piano codificato e codificante della langue: qui, la Regina d’Inghilterra, pur restando sempre un astratto «simbolo iconico di se stessa», perde ogni concretezza intima e irripetibile, e diviene un dato pubblico, sociale, anagrafico. La persona in concreto è dunque il simbolo iconico di se stessa in quanto «parole»; invece la persona in astratto – cioè nelle classificazioni sociali – è il simbolo iconico di se stessa in quanto «langue». Ciò che avviene per le persone viventi e coscienti come siamo noi due e la Regina d’Inghilterra, avviene anche per le bestie, le cose, gli eventi: i sinsegni viventi, i sema. Anch’essi sono simboli figurali di se stessi in concreto, nella loro presenza fisica non interscambiabile, ma violentemente singola; mentre sono simboli figurali di se stessi nella «langue» costituita dalle generalizzazioni, dalle classificazioni, dai generi, dalle speci, da tutto ciò insomma che è generale, pubblico ecc. (1967)
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NOTA Questa lettera è rimasta allo stato di frammento. Ma voglio concludere almeno lo scherzo fatto a Eco. Dunque quel «ragazzo biondo» presentato all’inizio attraverso i segni del sistema scritto-parlato italiano, e decodificato quindi secondo il codice di quest’ultimo, non è né un «ragazzo biondo» nella realtà, né un «ragazzo biondo» sullo schermo. Egli è un «ragazzo biondo» sul palcoscenico. Nella stratificazione dei sistemi il sistema sottostante presta se stesso come materiale alla «doppia articolazione» del sistema sovrastante. Il «ragazzo biondo» (o la Regina d’Inghilterra) potrebbe essere anche fotografato, o dipinto, o scolpito. Insomma potrebbe essere segno iconico di se stesso nell’ambito di molti sistemi di segni, ognuno col suo codice specifico. Ma egli non sarebbe mai codificabile in nessuno di questi sistemi di segni, se non fosse prima di tutto decodificabile nel sistema di segni della Realtà come Autorivelazione o Linguaggio Primo, attraverso il suo codice che è dunque il Codice dei Codici. Ciò non naturalizza i codici della cultura (letteratura, cinema, linguistica), ma, al contrario, culturalizza la natura: facendo dell’intero vivere un parlare. 15 gennaio 1971
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TEORIA DELLE GIUNTE
Mentre un poeta si riconosce da un «verso» non è possibile riconoscere un regista da un’inquadratura o da poche inquadrature: occorre almeno un’intera sequenza.1 Questa è la proposizione empirica con cui il regista riconosce nel proprio caso la teoria che definisce il cinema essenzialmente metonimico, in opposizione al carattere essenzialmente metaforico della poesia. Ciò viene a suggerire un’ipotesi: cioè che la doppia articolazione del cinema non consista – è un discorso che faccio discutendo con me stesso2 – nel rapporto creativo tra l’inquadratura e i suoi oggetti (come unità linguistiche minime, chiamate «cinemi» per analogia coi «fonemi»): ma se mai nel rapporto creativo tra l’intero ordine delle inquadrature e l’intero ordine degli oggetti di cui sono composte. In altre parole: sia nella doppia articolazione della lingua scritto-parlata (parola e fonema) sia nell’ipotizzata doppia articolazione della lingua cinematografica (inquadratura e oggetto), si prescinde dalla «successività sintattica», ossia dal fatto che le parole e le inquadrature si dispongono poi nel tempo, non solo ad una ad una, ma anche e specie nei contesti, ed è lì che hanno senso: e ciò vale soprattutto per il cinema. E dunque per quest’ultimo è illecito dimenticare anche per comodo e per un solo momento la sua successività sintattica, la «grande lassa temporale» in cui solo esso ritrova il suo senso: e bisognerà piuttosto fare di tale successività una «categoria» che permanga come elemento concreto e operante anche nel ragionare della doppia articolazione (ipotizzata, e osservata, in laboratorio, come astrazione concreta solo per la singola inquadratura concreta e i singoli oggetti concreti di cui è composta). Ecco perché, probabilmente, le ricerche sul «ritmema»3 sono per il cinema fondamentali, come già avevo sospettato senza mai approfondirlo. L’ipotesi è che il cinema, come linguaggio d’arte – o almeno verificato e sperimentato solo in quanto tale – sia una lingua spaziale-temporale, e non audio-visiva – se non a una prima e materiale analisi. Il materiale audio-visivo non sarebbe quindi altro che materiale fisico, sensoriale, che fa da corpo a una lingua spaziale-temporale altrimenti 301
puramente «spirituale» o astratta. Prendiamo l’inquadratura di una Donna che guarda in P.P.P. una Pianura, in campo, indi l’inquadratura-soggettiva del Totale della Pianura in controcampo. Una prima fase d’indagine linguistica (semiologica) ci darebbe, secondo le mie ipotesi già da tempo avanzate, un nesso sintattico (del tipo soggettopredicato verbale-complemento oggetto), che io ho chiamato «verticale» perché esso anziché porsi semplicemente come successività, «pesca» continuamente nel fondo, nella matrice di sema che è il mondo oggettuale: le parole che compongono questa frase elementare – ho sempre sostenuto – nascono dalla doppia articolazione (per analogia con la lingua scritto-parlata) di cui le unità minime sono i «cinemi» ossia gli oggetti (oggettivamente infiniti) che appartengono alla realtà e che sono compresi nell’inquadratura (nel P.P.P. della Donna che guarda, i suoi lineamenti, occhi, naso, bocca, capelli ecc., parte della sua veste intorno al collo, forse un lembo di cielo dietro, con qualche nuvola; nel Totale della Pianura, l’erba, i cespugli, il cielo, i cirri). Ho dunque la possibilità di individuare in queste due inquadrature che formano un contesto e quindi una successività narrativa: un lessico (infinito, perché infiniti sono gli oggetti, a differenza che nelle lingue scritto-parlate che possiedono un numero finito di termini), una grammatica, una sintassi – e anche una prosodia (se la macchina da presa sta ferma e non si sente, avrò una prosa narrativa; se è tenuta a mano, e compie movimenti eslegi nel descrivere Donna e Pianura avrò un sintagma di lingua poetica). Tutto ciò per riassumere quanto ho detto altrove, e meglio. Ma ora devo aggiungere la nuova ipotesi: tutto ciò che ho descritto e analizzato linguisticamente e grammaticalmente non è che «apparenza» in cui si «incarna» un’altra lingua e un’altra grammatica, che per essere, ha bisogno, come lo spirito, di discendere nella materia. Ciò che conta non è il rapporto tra l’inquadratura (monema) e gli oggetti (cinemi) di cui è composta: rapporto, diciamo, logico-semico; e ciò che conta non è neanche il rapporto dell’inquadratura con l’altra inquadratura: rapporto, diciamo, logico-sintattico. Ciò che conta è il rapporto dell’ordine delle inquadrature con l’ordine dei cinemi, e il rapporto dell’ordine delle inquadrature con l’ordine delle inquadrature. Vediamo: il P.P.P. della Donna è uno spazio che ha un rapporto con se stesso, di pieno e vuoto: il pieno è lo spazio del volto della donna; il vuoto – o altro spazio – è il fondo dell’orizzonte, pianura e cielo; il Totale della 302
Pianura è anch’esso uno spazio, ma infinitamente maggiore, benché l’inquadratura abbia la stessa superficie, sia contenuta nello stesso schermo; anche nello spazio di questo Totale si trovano tuttavia in rapporto interno diversi spazi; la terra, il cielo, le superfici delle cose – erbe o cespugli o rocce contenuti nella pianura. Si tratta di un rapporto «secondario» di spazi. Ma intanto abbiamo notato che – incarnati nel rapporto elementare tra due inquadrature-soggetto-predicato verbale-complemento oggetto – si attuano e hanno vita, misteriosi, come spiriti aleggianti, d’altra natura, in una fitta rete, dei rapporti di spazio: rapporti interni alla prima inquadratura, di carattere primario, rapporti tra lo spazio della prima inquadratura e lo spazio della seconda inquadratura, ancora di carattere primario, rapporti tra gli spazi interni della seconda inquadratura, di carattere secondario. I rapporti (linguistici? grammaticali? sintattici?) tra questi spazi che sono come una lingua che parli attraverso un’altra lingua – una lingua di pure astrazioni geometriche che per vivere, come Frankenstein, adottano un corpo che di per sé sarebbe senza vita, materiale bruto – tali rapporti, dico, non sono immaginabili se non sono sperimentati e pensati in un ordine temporale. Il P.P.P. della Donna dura venti secondi: il tempo perché il conflitto degli spazi interni all’inquadratura possa essere percepito e giungere all’oggettività del fenomeno capito e sistemato. Se il P.P.P. della Donna dura quattro secondi, il rapporto tra gli spazi interni all’inquadratura è del tutto diverso, esso resta incompleto, aperto, irrisolto, inquietante. La stessa cosa vale a proposito della seconda inquadratura. Ma a questo punto le possibilità di rapporti, cioè di ritmi, aumentano vertiginosamente: il P.P.P. della Donna può durare i venti secondi che abbiamo proposto come primo esempio, mentre il Totale della Pianura può durare i quattro secondi che abbiamo proposto come secondo esempio; oppure il contrario, il P.P.P. della Donna può durare quattro secondi e il Totale della Pianura può durare venti secondi. Oppure ancora: sia il P.P.P. della Donna che il Totale della Pianura durano un secondo l’uno; oppure: sia il P.P.P. della Donna che il Totale della Pianura durano mezzora l’uno. Praticamente i rapporti temporali sono infiniti, e quindi sono infiniti i significati dei rapporti spaziali. Se io fossi un computer potrei fare una tabella – in cui i rapporti spaziali fossero indicati da quadratini e i rapporti temporali fossero indicati da segmenti – in cui si potrebbe rappresentare graficamente l’intero quadro delle possibilità semantiche ed espressive del rapporto narrativo di quella 303
Donna con quella Pianura. Il «ritmema» sarebbe, in tale tabella, un «monstrum», cioè un’entità anfibia di spazio-tempo. Si potrebbe trascrivere un intero film graficamente, usando il segno geometrico scelto per indicare il suddetto monstrum, il ritmema. Tale grafico risulterebbe in definitiva un panorama delle durate delle singole inquadrature e dei rapporti di tali durate tra inquadratura e inquadratura. Il montatore attacca le inquadrature una all’altra con delle «giunte»: è in questa frazione incalcolabilmente minima di tempo che andrebbero calcolate le «durate negative» ossia quelle che non ci sono; né come rappresentazione materiale audio-visiva, né come astrazione matematico-ritmica. Nella convenzione della durata infinitesimale di una giunta può passare una durata reale ancora più infinitesimale; come invece può passare una durata immensa, una vita, un secolo, un millennio. Il grafico dei ritmemi comprende quindi inclusioni di entità spaziotemporali ed esclusioni di entità spazio-temporali. Le prime costituirebbero il grafico delle inquadrature audiovisive esistenti, mentre le seconde costituirebbero il grafico delle «giunte», ossia del «non esistente significativo». Non so se questa seconda lingua diciamo, riducibile a spirito geometrico, estremisticamente razionale da una parte, quasi spirituale dall’altra, potrebbe esaurire da sola la lingua del cinema, o se invece non si presenti come una specie di psiche, inscindibile dal soma, e parte integrante di esso, che non è ritmico ma materialmente audio-visivo. Se è vero tuttavia che il carattere del cinema è metonimico – fuori dalla prosodia che riguarda i films come metalinguaggio – non si potrà non ricorrere a un’analisi che ne tenga conto a livello non estetico ma linguistico: e non inserire il ritmèma nel cinèma come suo elemento integrante e imprescindibile. (1971)
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IL REMA Ci sono dunque almeno tre modi compresenti di decifrazione cinematografica, e probabilmente è nell’individuazione, nell’astrazione e nella susseguente sistemazione teorica di questo rapporto che va fondata l’ipotesi più probabile di una «lingua cinematografica». Osserviamo a uno a uno questi tre modi compresenti.
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I. Coscienza dell’analogia col codice fisiopsicologico della realtà Una donna guarda una pianura. Il soggetto, il verbo e l’oggetto di tale azione sono decifrabili allo stesso modo nella realtà e nel cinema. In quanto spettatori «semplici» non guardiamo tanto per il sottile: non ci interessa che ci sia «un punto di vista», nel film, che è quello dell’autore. Noi ci identifichiamo semplicemente con l’autore, viviamo la sua visione: e, esattamente lì dove si trova la macchina da presa, decifriamo ciò che ci succede davanti agli occhi. La macchina da presa in questo caso è molto vicina alla donna (si tratta di un P.P.P.): ebbene, noi siamo lì, sotto il naso di questo personaggio, a guardarla: e guardandola, la decifriamo, ponendoci delle domande: cosa fa qui questa donna? Perché è così infelice (o felice)? Cosa cerca guardando lontano (o vicino)? ecc. ecc. La donna ci risponde «come segno iconico di se stessa», allo stesso modo nella realtà e nel cinema. Lo stesso dicasi per la pianura. Si capisce: in pratica la fusione o confusione tra il codice della realtà e il codice del cinema, non è mai totale o totalmente realizzata. Perché? Perché il cinema in concreto non esiste: esiste in concreto il «film» che sto guardando: e quindi non dimentico mai completamente di essere di fronte a una finzione della realtà, in quanto «riproduzione». Tuttavia c’è un caso in cui tale «fusione totale» è quasi raggiunta; e c’è un secondo caso in cui essa è addirittura raggiunta. Il primo caso è quello della «trasmissione diretta» televisiva. Qui non siamo più di fronte a un «film»: non si tratta più di una finzione. I telespettatori giapponesi che hanno assistito al karakiri dello scrittore Mishima, hanno decifrato tale avvenimento valendosi del codice della realtà. In casi come questo, alla totale «fusione» tra codice della realtà e codice della lingua audio-visiva si oppone solo il fatto che il punto di vista è coatto: è quello della camera da presa, con cui lo spettatore deve per forza identificare il proprio. Tuttavia il giudizio sull’avvenimento e la precedente analisi sul vivo è identico a quello che uno spettatore avrebbe formulato se fosse stato un astante «puramente osservatore». Il secondo caso, quello in cui la fusione tra il codice della realtà e il codice della lingua audio-visiva è completamente raggiunta, si ha nell’immaginazione. Un’azione della realtà immaginata e un’azione della lingua audio-visiva 306
immaginata, sono esattamente le stesse. L’immaginare una donna che guarda una pianura nella realtà (nell’imprecisione di contorni che ha sempre la nostra immaginazione) corrisponde esattamente all’immaginare tale donna che guarda una «pianura» in una rappresentazione audio-visiva. Io stesso, come regista, nel momento in cui immagino una scena o la descrivo nella sceneggiatura, la immagino come se fosse reale, in un «continuo» spazio-temporale che so che il «film» (non il cinema!) non potrà mai raggiungere: immagino solo approssimativamente le «inquadrature» (come poi saranno nel «film», e come non sono mai nel cinema!) saltando le «giunte» ossia quella frazione di secondo corrispondente a un battito di palpebre, in seguito a cui l’occhio si apre su un’altra porzione di realtà spazio-temporale, come se il corpo avesse avuto il tempo di rigirarsi (o di spostarsi altrove, magari in un altro paese), o come se non vi fosse passata una frazione di secondo, ma addirittura un minuto, o un anno, o un decennio. Nell’immaginazione noi decifriamo la «realtà immaginata» o una «rappresentazione audiovisiva immaginata» usando lo stesso codice, perché solo nell’immaginazione noi, da una parte, possiamo scegliere la realtà secondo ciò che sarà il suo passato, cioè secondo quella rappresentazione che la realtà diviene quando è finita, e, d’altra parte, solo nell’immaginazione si realizza sensorialmente (e molto rozzamente) quell’astrazione che è il cinema. È seguendo questo PRIMO MODO di decifrazione del cinema, cioè usufruendo di un solo codice che vale per la realtà e il sistema di segni audiovisivo, che si ha la partecipazione dello spettatore all’azione, la sua identificazione coi personaggi ecc. ecc.: con tutte le annesse fenomenologie di carattere psicologico, sociologico, ideologico, attraverso cui si può analizzare separatamente il problema del cinema.
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II. Coscienza di un codice audio-visivo In questo grado di decifrazione (compresente al primo) smettiamo di essere degli spettatori semplici. Abbiamo la coscienza che, appunto, codice della realtà e codice del sistema di segni audiovisivi coincidono e che questa coincidenza è un elemento del codice specifico del cinema. Quanto alle caratteristiche di questo codice specifico, che può essere descritto e potenzialmente reso normativo, cfr. più sopra «La lingua scritta della realtà» col suo abbozzo di grammatica e sintassi cinematografica.
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III. Coscienza di un codice spazio-temporale Cfr. il paragrafo precedente, «Teoria delle giunte». Nessuno di questi tre modi tuttavia pare sufficiente a se stesso. Il primo modo, infatti – quello della coscienza dell’analogia col codice fisio-psicologico della realtà – riguarda il cinema come «langue», pura ipotesi concettuale. Il secondo modo – quello della coscienza di un codice audiovisivo – appunto perché è il più importante in quanto specifico, è anche parziale, e riguarda il cinema come «parole», ché altrimenti sarebbe inapplicabile. Il terzo modo – quello della coscienza di un codice spazio-temporale – riguarda il cinema come metalinguaggio, con la sua ineffabilità, ch’esso può semplicemente rendere statistica attraverso dei grafici di pura geometria. Perciò, ripeto che questi tre modi non possono che essere compresenti e la descrizione eventuale della struttura della lingua del cinema non può non tenerlo presente. Ecco, in seguito a queste osservazioni, quale potrebbe essere il grafico di una inquadratura:
L’inquadratura è dunque una inclusione: fisio-psicologica, audiovisiva, spazio-temporale. Le giunte che l’attaccano all’inquadratura precedente e alla seguente, pongono in rapporto tale «inclusione» con le altre «inclusioni», attraverso un’«esclusione» fisio-psicologica, audio-visiva, e spazio-temporale, implicata nella giunta stessa. Le giunte si danno solo nei films (paroles); nel cinema (langue) non esistono, come non esistono nella realtà, e come non esistono nell’immaginazione (sia che immagini realtà sia che immagini cinema, prevedendo o ricordando). 309
Il film è un seguito di «inclusioni» e di «esclusioni» fisio-psicologiche, audio-visive e spazio-temporali, che obbediscono a una necessità di sintesi. Il cinema e la realtà sono invece delle continuità senza né esclusioni né inclusioni (e così il cinema e la realtà «immaginati»). L’illusione di tale continuità in quanto successività (che è l’illusione principe dei nostri sensi) deve essere però mantenuta nel film, perché esso possa essere non dico compreso, ma concepito. Malgrado le giunte che la rendono «tratto incluso», l’inquadratura, sia all’interno di se stessa, sia in rapporto alle altre inquadrature, deve obbedire alle regole della successività; essa deve scorrere come la realtà e il cinema (anche immaginati). Essa è un «rema»: e in questa definizione si contempla la compresenza del tratto fisio-psicologico analogo a quello della realtà (sema), del tratto audiovisivo (cinèma) e del tratto spazio-temporale (ritmèma), secondo il seguente grafico:
(1971)
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TABELLA I linguaggi «sottostanti», come dicevo nel «Codice dei codici», offrono materiale o si offrono nella loro totalità, quali elementi per le unità di prima articolazione dei linguaggi «sovrastanti». È certo comunque che i linguaggi «sottostanti» offrono il loro codice come parte, o elemento o modello di decodificazione dei linguaggi «sovrastanti». Potremmo – senza le cautele degli specialisti – azzardare la seguente TABELLA: UR-CODICE, O CODICE DEI CODICI O CODICE DELLA REALTÀ VISSUTA L’uomo intento alla vita, preso nel giro del puro pragma, decifra continuamente il linguaggio della Realtà: il barbaro davanti a una bestia è davanti a un «segno» di tale linguaggio: se è una bestia commestibile la uccide, se è feroce fugge ecc.: il mangiare, il fuggire sono altri «segni» di quel Linguaggio. Il vivere è dunque un esprimersi attraverso il pragma: e tale espressione non è che un momento del monologo che la Realtà fa con se stessa a proposito dell’esistenza. Infatti sia la bestia mangiata che il barbaro che la mangia fanno parte dell’intero corpo dell’Esistente o del Reale, fisicamente senza soluzione di continuità. CODICE DELLA REALTÀ OSSERVATA (O CONTEMPLATA) Un uomo può essere presente a un’azione senza viverla in quanto azione: farsene puro osservatore, o per necessità o per scelta. In tal caso vive l’azione attraverso la sua contemplazione. Un uomo vede da lontano un uomo che uccide un altro uomo: è testimone dell’azione, se ne distingue. Magari non ha coscienza del distacco (che è quello della filosofia), tuttavia vive il momento della coscienza, per cui la Realtà si presenta come Oggettività – con la conseguente nascita dei valori ecc. ecc. Fenomeno importante nella decodificazione della Realtà vissuta attraverso l’osservazione, è l’illusione della linearità o successività degli avvenimenti, e, soprattutto, l’illusione che vi siano «tratti» o «segmenti» di Realtà. CODICE DELLA REALTÀ IMMAGINATA (O INTERIORIZZATA) 311
La realtà osservata può venire interiorizzata, e proiettata nello schermo della propria memoria come ricordo, oppure come previsione. Si accentua l’illusione della sua oggettività da possedere o da conquistare o da modificare o da capire; si accentua l’illusione della sua successività (il prima e il dopo: il passato da valutare, il futuro da programmare attraverso nostalgie e fantasticherie ecc. ecc.). Il codice della Realtà Immaginata, rispetto ai due codici precedenti, prevede la possibilità di «segni» volutamente deformati, artefatti o piegati secondo il proprio disegno o volontà. Mentre nel Codice della Realtà Osservata c’è il principio di quello che sarà il codice del gergo filosofico nella lingua scritto-parlata, nel Codice della Realtà Immaginata c’è il principio di quello che sarà il codice del gergo artistico nella lingua scritto-parlata. CODICE DELLA REALTÀ RAPPRESENTATA In certi casi la qualità dell’osservatore e la qualità dell’osservato vengono «normalizzate» o «convenzionalizzate»: sicché l’osservatore diventa spettatore e l’osservato diventa attore. Viene vissuto il momento della vita come spettacolo reciproco. Ciò dimostra che non c’è reale dissociazione tra Espressione e Rappresentazione. Anche il barbaro che vive la Realtà come puro pragma, nell’atto in cui decodifica la bestia, vive in parte la realtà come rappresentazione: la bestia tra i cespugli o sull’erba è uno spettacolo. Allo stadio più recente della Realtà come rappresentazione si trova il teatro o la finzione scenica: il cui codice non potrebbe esistere senza tutti i codici precedenti, in cui si trovano i suoi principi (nell’atto in cui lo spettatore si identifica con l’attore decifra l’antagonista attraverso L’Ur-codice, il codice della Realtà vissuta; nell’atto in cui è spettatore della finzione scenica, si vale del codice della Realtà Osservata, vivendola attraverso la contemplazione; nell’atto in cui segue il succedersi di tratti di avvenimenti, si vale del Codice della Realtà Immaginata: gli elementi di filosoficità e di artisticità, che sono pertinenti al momento civile della rappresentazione teatrale, sono, come abbiamo visto impliciti nei due ultimi codici). CODICE DELLA REALTÀ EVOCATA (O VERBALE) Il barbaro vede la bestia e l’uccide (Lingua dell’Azione): un barbaro vede un altro barbato che vede una bestia e l’uccide (Lingua dell’Osservazione); un barbaro immagina – o sogna – se stesso che vede una bestia e l’uccide (Lingua dell’Immaginazione). 312
Il barbaro scopre la lingua orale (e poi scritta – che sarà un momento fondamentale della coscienza di sé). Attraverso tale lingua verbale il barbaro racconta a un altro barbaro come egli abbia visto una bestia e l’abbia uccisa. La caratteristica di questo codice della Lingua verbale è di essere «simbolico e convenzionale», e quindi essere assolutamente speciale rispetto agli altri codici; ma anche quella di essere «evocatore». Solo perché esso è evocatore può essere «moneta di scambio»: ciò che è in comune tra cifratore e decifratore di linguaggi verbali non è tanto la lingua verbale, quanto il mondo vissuto. È in base all’Ur-codice e ai suoi primi derivati che io, ascoltando un sistema simbolico di segni, capisco ciò che mi si vuol dire: quei segni non sono infatti che traduzioni di altri segni, e io devo ritradurli. Non ci può essere un linguaggio comune (comunicazione) tra due esseri appartenenti a due Realtà diverse: esso resterebbe pura arbitrarietà e convenzione, che non evocherebbe niente, ossia tradurrebbe segni a loro volta incomprensibili. CODICE DELLA REALTÀ RAFFIGURATA Per decodificare una persona o un paesaggio dipinti o scolpiti dobbiamo ricorrere a un codice in cui sono presenti tutti i precedenti: anzi, pur tenendo presente il codice seriore e particolare della decodificazione estetica, di fronte a una pala d’altare con personaggi, oggetti, animali, alberi, noi ripercorriamo fulmineamente tutta la gradazione compresente dei codici qui sopra elencati. La perdita della mobilità non è che una restrizione metrica: in realtà noi sentiamo quei personaggi come fissati nel tempo e nello spazio, ma non privi del principio di muoversi naturalmente nel tempo e nello spazio: anche gli archetipi del godimento estetico più specialistico (il bruno dorato della pelle della Madonna, il pulviscolo vespertino diffuso su tutta la scena ecc.) si trovano nell’esperienza della Realtà Vissuta, nel momento pragmatico e esistenziale. Anzi, vorrei aggiungere: nella Realtà Raffigurata, cioè al livello estetico, noi tendiamo a riassumere o metaforizzare tutti i segni-significati decifrati attraverso i codici dei linguaggi precedenti. L’Ur-Codice per esempio serve a decodificare senza non solo la coscienza dell’operazione, ma nemmeno l’ombra della coscienza: è pragma che decodifica pragma, e cifratore e decifratore appartengono a uno stesso Corpo che si autorivela senza fine affermando e tornando ad affermare di essere. C’è una identificazione nella convenzione del Codice della Realtà Vissuta tra pragma ed enigma. Tanto è vero che sempre, poi a qualsiasi livello linguistico, pragma ed enigma sono inseparabili. Il momento estetico normalizza questa 313
identificazione. CODICE DELLA REALTÀ FOTOGRAFATA È un passo indietro nella graduazione di maturità che qui stiamo azzardando, in senso puramente ideale. Davanti a un «documento» fotografico si regredisce dal livello di coscienza linguistica che determina il Codice della Realtà Rappresentata e della Realtà Raffigurata; e vi prevale il contingente dei Codici precedenti, soprattutto forse quello della Realtà Immaginata che tende a fissare la successività della Realtà, sia Vissuta che Contemplata, in segmenti, in frammenti, in visioni (la fotografia ne è il caso limite). La fotografia è lo sforzo estremo del testimone che cerca di ricordare il particolare di un’azione a cui ha assistito senza parteciparvi. È poi attraverso l’immaginazione che integriamo la fotografia di ciò di cui manca, ossia il movimento. CODICE DELLA REALTÀ TRASMESSA (AUDIO-VISIVA) I telespettatori che hanno assistito alla morte casualmente «trasmessa» dello scrittore Mishima, hanno decifrato l’avvenimento attraverso l’Ur-codice e il codice della Realtà Osservata. La peculiarità del codice della Realtà Trasmessa consiste nella coscienza sempre potenzialmente presente del mezzo meccanico della trasmissione e quindi della lontananza irrimediabile dall’azione osservata. Ma siamo già a un livello di «Parole» e non di «Langue»: ci troviamo infatti davanti a una concreta «trasmissione televisiva», non all’astrazione della lingua televisiva. La quale ultima quindi è teoricamente ancora più prossima, fino in sostanza a identificarvisi, con la Lingua della Realtà Vissuta e con la Lingua della Realtà Osservata. Insomma il suo codice è sostanzialmente l’Urcodice (lo scrittore giapponese si è ucciso veramente). CODICE DELLA REALTÀ RIPRODOTTA (AUDIO-VISIVA) Le stesse osservazioni fatte per la Realtà Trasmessa si potrebbero fare per la Realtà Riprodotta: accentuando in quest’ultima i caratteri di «parole» o «linguaggio d’arte»: mentre la Langue da desumersi in astratto dalle sue realizzazioni concrete sfuma nella «Langue» della Realtà Trasmessa, e quindi nella «Langue» della Realtà Vissuta: sostanzialmente il suo codice è l’Urcodice, modificato attraverso il passaggio attraverso le varie fasi di coscienza qui schematicamente allineate. Da notarsi che mentre MAI le Lingue della Realtà non solamente Vissuta – 314
e mi riferisco in specie a quelle estetiche – hanno fatto pensare a un Codice dei Codici, e quindi alla Realtà come a una Lingua, ciò invece è accaduto attraverso la coscienza della Lingua della Realtà Trasmessa e della Realtà Riprodotta. Come chi si veda per la prima volta in uno specchio e si renda conto di essere un’immagine sempre e non solo nello specchio: non significato significante «uomo», ma significante esso stesso.
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NOTA Il Codice dei Codici ha una qualità che gli appartiene e che non è trasmissibile: ossia, per ogni altro codice derivato, la Realtà si presenta come successività e, per di più, come finitezza, mentre per il Codice dei Codici la Realtà è circolarità e illimitatezza. Il barbaro – sinsegno sostantivale – che attraverso l’azione – sinsegno verbale – uccide la bestia – sinsegno sostantivale – nell’identificazione assoluta di pragma e enigma, vive la Realtà come Verità: Verità non solo filosofico-religiosa (quella di tutte le grandi interpretazioni del Reale) ma anche scientifica (la circolarità dello spazio e relatività del tempo). Il barbaro non ha bisogno di illusioni per vivere, ossia per esprimersi. Ma dal momento in cui comincia a vivere la realtà come contemplazione (fin dal primo barlume di questa) e quindi ne inventa la successività e la spaziotemporalità, egli scopre la storia, cioè l’illusione. Di cui da quel momento in poi avrà sempre bisogno, e fonderà quindi su questo, e solo su questo l’inautenticità: l’alienazione prima contadina e poi piccolo-borghese. (1971)
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DALL’EDIZIONE DEL 1972* Circa a metà di questo libro c’è una profonda divisione, che sembra spaccarlo in due. Tra Guerra civile e Il PCI ai giovani!! è evidentemente accaduto qualcosa di così importante che i due testi sembrano scritti da due autori diversi. Le pagine in corsivo di Guerra civile sono certamente (con quelle su Vanni Fucci) tra le più felici del libro, i versi in corsivo de Il PCI ai giovani!! sono certamente tra le più infelici. Ma non è questo che conta; perché, quanto al reale valore dei due testi, si potrebbe anche sostenere il contrario. Guerra civile non dà scandalo: essa è il testo di una persona che scrive nel profondo di una minoranza, ma, proprio per questo, è come se si rivolgesse a una piccola maggioranza, a un mondo: da cui sa di ottenere l’approvazione, essendo comunque in regola con le sue aspettative. Al contrario Il PCI ai giovani!! è irrimediabilmente scandaloso: le verità «pragmatiche» – che pure vi sono prematuramente e abbastanza coraggiosamente contenute – riescono inutilizzabili e provocano alla fine una reazione contraria. Questa inconciliabilità – anche psicologica – che si manifesta con tanta violenza nella giustapposizione di Guerra civile e di Il PCI ai giovani!!, può essere in realtà analizzata in qualsiasi brano di Empirismo eretico. Le due persone che hanno scritto questo libro convivono in un solo autore, che piano piano tende a fare della sua ambiguità due vite. Rinunciando però alle conseguenze estreme di tutte due queste vite. In quanto critico, questo autore si divide nettamente in un uomo che fa esperienza, che lavora e che contempla, e in un uomo che è incapace di fare esperienza, che usa il lavoro come droga, e che non può trattenersi dall’intervenire. Oppure: in un uomo che accetta conformisticamente dei riferimenti e degli ipocriti topoi, presunti in comune con un lettore da tenersi buono, e in un uomo rabbiosamente slegato da tutto, senza alcuna politica di alleanze. Oppure ancora: in un uomo che accetta e vive il benpensare marxista e addirittura gauchista, come la contropartita attiva degli otia cui si concede con un certo spirito scientifico e professorale, e un uomo il cui idealismo deluso rende infastidito di tutto, fino quasi ad assumere 317
atteggiamenti reazionari… È questa doppia natura che fonda le strutture molto analoghe fra loro dei saggi di Empirismo eretico. L’ottimismo del «primo uomo», la sua buona volontà, la sua buona fede, la sua pionieristica fiducia negli altri ecc., gli consentono di porsi davanti ai problemi con lucidità e quasi con divertito e fervido distacco: tanto è vero che, per i primi trequarti, ognuno di questi saggi si presenta in genere abbastanza ineccepibile: è attraverso una serie di osservazioni, ricerche, scoperte ecc. sincere e collaudate, che l’autore giunge – proprio allo scadere dei trequarti del saggio – all’intuizione che gli dà senso: per esempio, la nascita dell’italiano nazionale la cui lingua-guida è quella delle infrastrutture anziché quella della sovrastruttura letteraria (nelle Nuove questioni linguistiche); oppure l’«equidistanza» – dalla materia e anche da se stesso in quanto personaggio rivissuto – (nella Volontà di Dante a essere poeta); oppure ancora l’idea del cinema «come lingua scritta della realtà», o meglio, «come metalinguaggio il cui codice linguistico è la realtà stessa intesa come linguaggio» (in tutta la sezione Cinema) ecc. ecc. Ma ecco a questo punto intervenire il «secondo uomo» a eludere la conclusione, o a chiudere su un altro problema (generalmente presentato come più vasto e implicitamente più importante): portando il disorientamento e lo scacco; impaludando lo scorrere, talvolta così limpido e pieno, del discorso. Come per Trasumanar e organizzar, anche qui c’è di mezzo il 1968, anno che i fascisti per un bel pezzo non smetteranno di benedire; e come per Trasumanar e organizzar la «divisione» che ne consegue, impedisce al libro di essere un «prodotto» (unico fenomeno che la critica è ormai capace di prendere in considerazione). Altro su questo libro – che, malgrado le lucide esplosioni isteriche, è dettato in genere con l’ingenuità del peripatetico alle cui spalle gli scolari si danno gomitate – non voglio dire se non che esso è sempre accanitamente sulle cose, le più attuali (ad esso, per es., si può rivendicare il merito di aver inaugurato in Italia, per quel che riguarda il cinema, l’uso della ricerca semiologica): e tuttavia esso si presenta come disperatamente inattuale. Di ciò però l’autore se ne fa un vanto, corrispondente al disprezzo che egli nutre per i suoi colleghi critici – quasi tutti –, la cui ingloriosa canizie e il cui disonorato sale e pepe son proni di fronte alla disumanità dei peggiori della nuova generazione.
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SOMMARIO
Prefazione di Guido Fink Le parole contro la parola Empirismo eretico Lingua NUOVE QUESTIONI LINGUISTICHE Appendice UN ARTICOLO SU «L’ESPRESSO» UN ARTICOLO SU «IL GIORNO» ALTRO ARTICOLO DIARIO LINGUISTICO AL LETTORE DAL LABORATORIO (APPUNTI EN POÈTE PER UNA LINGUISTICA MARXISTA) Letteratura INTERVENTO SUL DISCORSO LIBERO INDIRETTO LA VOLONTÀ DI DANTE A ESSERE POETA Appendice LA MALA MIMESI LA FINE DELL’AVANGUARDIA (APPUNTI PER UNA FRASE DI GOLDMANN, PER DUE VERSI DI UN TESTO D’AVANGUARDIA, E PER UN’INTERVISTA DI BARTHES) I II Appendice GUERRA CIVILE IL PCI AI GIOVANI!! (APPUNTI IN VERSI PER UNA POESIA IN PROSA SEGUITI DA UNA «APOLOGIA») APOLOGIA CIÒ CHE È NEO-ZDANOVISMO E CIÒ CHE NON LO È Cinema IL «CINEMA DI POESIA» LA SCENEGGIATURA COME «STRUTTURA CHE VUOL 319
ESSERE ALTRA STRUTTURA» LA LINGUA SCRITTA DELLA REALTÀ I II III IV I. Modi della riproduzione (o ortografici). II. Modi della sostantivazione. III. Modi della qualificazione. IV. Modi della verbalizzazione (o sintattici). V Appendice BATTUTE SUL CINEMA OSSERVAZIONI SUL PIANO-SEQUENZA ESSERE È NATURALE? Appendice LA PAURA DEL NATURALISMO I SEGNI VIVENTI E I POETI MORTI LA «GAG» IN CHAPLIN RES SUNT NOMINA NOTA IL NON VERBALE COME ALTRA VERBALITÀ IL CINEMA E LA LINGUA ORALE IL CINEMA IMPOPOLARE IL CODICE DEI CODICI NOTA TEORIA DELLE GIUNTE IL REMA I. Coscienza dell’analogia col codice fisio-psicologico della realtà II. Coscienza di un codice audio-visivo III. Coscienza di un codice spazio-temporale TABELLA NOTA DALL’EDIZIONE DEL 1972 Seguici su IlLibraio
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Pasolini Roma
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Tre capitali europee, Barcellona, Parigi, Berlino, si associano a Roma per celebrare con un progetto innovativo la figura di Pasolini, l’intellettuale del XX secolo che più di ogni altro è riuscito a reinterpretare l’immagine della città di Roma, incarnandola in chiave poetica.
Una mostra a cura di Gianni Borgna, Alain Bergala e Jordi Balló.
Scopri l’evento
http://www.palazzoesposizioni.it/categorie/mostra-pasolini-roma
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* Ora disponibili nel volume Il Vangelo secondo Matteo - Edipo re Medea, Garzanti, Milano 20064, rispettivamente alle pagine 351 e 321.
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1 «Le ragioni narrative».
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1 7 febbraio 1965. 2 La cosa è poi andata ancora peggio di così. 3 Gli unici che possano ormai originalmente intervenire su problemi
riguardanti il rapporto dialetto-lingua sono gli addetti ai lavori: si veda per esempio lo splendido saggetto dell’Avalle, su «Questo e altro» n. 8.
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1 Mercoledì 3 marzo 1965.
326
1 «Il Giorno», marzo 1965.
327
1 «Rinascita», 6 marzo 1965.
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1 Tutti i linguisti operanti nell’Europa industrializzata – anche gli stessi
fonetisti, infine! – non avevano esperienza sentimentale, ideologica e insomma politica, di un linguaggio orale facente parte integrante della loro civiltà, e che fosse puramente orale, cioè appartenesse a un mondo storico anteriore al loro. Coi «puri parlanti» essi si comportavano generalmente come dei raccoglitori di licheni: a non essere ancora una volta cattivi per esasperazione e dire che si comportavano come i colonialisti con i popoli di colore. È il fatale razzismo della borghesia, di ogni borghese. Del resto le grandi ricerche linguistiche dell’Ottocento sono coeve all’espansione imperialistica. Si sa che i linguisti sono sempre persone buonissime e dolci (al limite un po’ matti: come appare De Saussure in un saggio dato a Palatina, n. 30 da Starobinsky: un De Saussure che assomiglia un po’ ad Anteo Crocioni). Si leggano quindi queste mie note come quelle di un marxista fanatico. Ora le grandi borghesie europee, ossia le grandi industrie europee, hanno cambiato radicalmente il loro rapporto con questi «puri parlanti»: essi li adoperano come immigrati, per tenere bassi i salari, Lilla e Colonia, Parigi e Londra, sono piene di «parlanti» italiani, greci, spagnoli, algerini, marocchini, negri: che aumentano immensamente di numero ogni anno. Il loro basso salario è una delle ragioni della rinascita capitalistica. Quali saranno i risultati, in linguistica, di questo nuovo rapporto politico? Intanto, abbiamo tutta l’antropologia strutturalistica; in questo Lévi-Strauss è il poeta dei bassi salari, come Robbe-Grillet è il poeta dei monopoli… 2 Si può riassumere con queste parole il mio saggio «Nuove questioni
linguistiche» (pagg. 5-24). 3 In Italia, Cesare Segre propone il termine «cronotopo».
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1 «Paragone», n. 194, aprile 1966, in risposta a un intervento di Cesare
Segre. 2 Qui «Intervento sul discorso libero indiretto», pag. 81. 3 Quando ho scritto questa pagina il Figon non era ancora morto.
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1 Si sa che per capire il valore-tipo di un romanzo, non occorre leggerlo
tutto, può bastare la lettura di una sola pagina, e addirittura di poche righe. 2 Cfr. pag. 167. 3 Parlo s’intende del momento più squisitamente cinematografico del film
cioè della «riproduzione audiovisiva della realtà» (in termini grammaticali: l’unità di prima articolazione della lingua cinematografica è l’im-segno, l’unità di seconda articolazione è il cinèma: una inquadratura, cioè, con tutti gli oggetti che la compongono). 4 Da dove deriva e come si spiega questo «classicismo», che è certo la cosa
più assurda che si possa predicare di una scrittura avanguardistica? Ci sono probabilmente molte ragioni: mi interessano poco quelle di storia letteraria, che tendono a retrodatare l’avanguardia italiana ai primi del Novecento: e lì infatti il classicismo era spiegabile, in quanto la reazione avanguardistica era puramente verbale e non poteva nascondere, a uno sguardo critico, la reale sua struttura culturale e mentale. Essa si poneva come anticlassicistica a parole, assumendo a sua poetica la scienza contro l’umanesimo (accademico e tradizionalistico): ma la scienza al principio del secolo era ancora, nei letterati non marxisti, una scienza umanistica. Il vero spirito scientifico nuovo non si esprimeva attraverso le avanguardie, ma attraverso rivolte ben più profonde (le dissacrazioni del materialismo e della psicanalisi), e attraverso le rivoluzioni comuniste. Non per nulla già era la macchina, non la scienza, la vera protagonista delle paleoavanguardie. E attraverso l’esaltazione della macchina la scienza veniva mitizzata: e tornava quindi umanistica nel senso tradizionalista e classicistico della parola. La neoavanguardia ripete questo fenomeno. È la tecnica, non la scienza, la vera protagonista della poetica neoavanguardistica (magari con la sociologia): ed è attraverso l’esaltazione positivo-negativa della tecnica che la scienza viene mitizzata. Inoltre, la grande rinascita delle scienze umane, in Europa e in America, diviene negli scritti teorici dell’avanguardia una specie di trallallera trallallà puramente nominale: e parole come strutturalismo o Jakobson divengono allusioni estetizzanti.
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5 Insisto a fare il nome di Sanguineti perché è l’unico che sa in cuor suo (e
lo sa perché tanto, lui potrà continuare) che l’avventura sta per finire. Ci sarà ancora qualche convegno, in cui dei giovanotti cretini e petulanti parleranno di antiromanzo come se parlassero di prosciutto di Parma. Poi la fine: e chi avrà qualche qualità, sia pure da abatino, potrà continuare, mentre sugli altri cadrà il meritato silenzio, come sui gruppi ingialliti di fotografie dei poeti ermetici al caffè, o di squadristi: proprio in tal modo. 6 Chi può farlo mi dica se questo discorso può rientrare – magari
attraverso l’esistenzialismo sartriano – nell’ambito della ricerca fenomenologica. Se cioè la realtà si può considerare anch’essa in «carne e ossa» come l’io di tale ricerca. E se i «fenomeni» non possono per caso essere le grandi forme «sintagmatiche», con cui si esprime in concreto il linguaggio della realtà (o la «Prosa del mondo», come suona il titolo di un nuovo libro di Foucault che non ho letto ancora). 7 Da qui trae valore la banalità che «ogni vero scrittore è per definizione
realistico». Soltanto che ci sono scrittori (prendiamo Tolstoi) che hanno grandi e sintetiche forme di realtà da esprimere, e quindi i mezzi della loro evocazione sono grandi e sintetici (sintagmatici). Mentre ci sono altri scrittori (prendiamo Pound) che hanno da esprimere particolari e oscure forme della realtà (o del loro sentimento della realtà, che fa parte della realtà): e quindi devono ricorrere a evocazioni stilisticamente particolari e oscure (violentemente formali). 8 Redattori della rivista «Cinema e film», il cui primo numero sta per
uscire in questi giorni. 9 Si ripetono ancora, a proposito dell’anarchia, le vecchie e giuste
condanne di Marx. Ma cosa indicava Marx, come meta finale della rivoluzione? L’annullamento dello Stato, attraverso la distruzione degli istituti su cui si fondava (per es. la famiglia) e il completo decentramento. Ciò non è avvenuto. Quindi se Marx aveva ragione di arrabbiarsi contro delle persone, simpatiche ma effettivamente un po’ matte, che entravano in concorrenza con lui nella sua opera di distruzione del potere statale – non ha più assolutamente ragione di arrabbiarsi, ora, un funzionario comunista. Anzi, condannare l’anarchia oggi – quando nei paesi comunisti il centralismo del 332
potere e la burocrazia sono trionfanti – suona ridicolo e funesto.
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1 «Paese sera», venerdì 18 novembre 1966, in risposta alla lettera di un
lettore.
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1 «Nuovi Argomenti», n. 10, aprile-giugno 1968.
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1 Tale confusione dipende probabilmente dal fatto che mentre i monemi
consistono in una riproduzione della realtà, i loro ritmi, ossia i loro rapporti, non lo sono: tutto nel cinema è riprodotto dalla realtà, ma non i ritmi che coincidono solo per caso con quelli reali. È nei ritmi, dunque, ossia nel montaggio, che si può parlare soprattutto di arbitrarietà e convenzionalità della lingua del cinema.
336
1 «Cinema e Film», A. I, n. I, Inverno 1966-67. 2 Cfr. supra.
337
1 1967.
338
1 «Rinascita», n. 33, 25 agosto 1967.
339
1 «Bianco e Nero», fascicolo 3/4, marzo-aprile 1971.
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1 «Bianco e Nero», fascicolo 3/4, marzo-aprile 1971. 2 Come si inserisce il decifratore nel «mondo come linguaggio da
decifrare»? Quest’ultimo è esteriore per definizione; ma il decifratore possiede un corpo, ed è in esso che vive il mondo interiorizzandolo. Il mondo interiorizzato non è che l’equivalente del non verbale ossia dell’esperienza sintetizzata di una decifrazione continua e concreta. La «lingua pensata» (cioè né scritta né parlata) ha un equivalente negli oggetti immaginati o sognati. Ma de hoc satis. 3 Includente la contemplazione, il cui principale veicolo è la lingua: non
tanto la lingua strumentale, che è inerente a quel rapporto pragmatico, quanto la lingua filosofica per lo più scritta e «pensata» – che è tuttavia, in definitiva, pragma anch’essa (per uno storicista marxista che non crede all’altra «dimensione»).
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1 Da una intervista epistolare con S. Arecco (Filmcritica, marzo 1971).
342
1 «Cinema nuovo», n. 201, settembre-ottobre 1969. 2 «Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive» (Bompiani
1967), «La struttura assente» (Bompiani, 1968).
343
1 «Nuovi Argomenti», n. 20, ottobre-dicembre 1970. 2 Si tratta di un convegno di cineasti ad Assisi.
344
1 Bompiani, 1967.
345
1 È luogo comune. 2 Cfr. «La lingua scritta della realtà» e tutti gli altri miei scritti
sull’argomento. 3 C.s.
346
* L’edizione rilegata dell’aprile 1972 riportava sui risvolti della sopracopertina questo testo non firmato, ma scritto da Pier Paolo Pasolini.
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