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April 24, 2017 | Author: AngelaPappalardo | Category: N/A
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Elif Shafak La Bastarda Di Istanbul
A Eyup e Iehrazat Zelda
C'era una volta, o forse non c'era, quando le creature di Dio erano numerose come chicchi di grano e parlare troppo era peccato... Inizio di una fiaba turca ...e anche di una fiaba armena
Capitolo uno
Cannella
Non maledire ciò che viene dal cielo. Inclusa la pioggia. Non importa cosa ti precipiti addosso, non importa quanto violento il nubifragio o gelida la grandine: non rifiutare quello che il cielo ti manda. Lo sanno tutti. Inclusa Zeliha. Eppure, quel primo venerdì di luglio, eccola affrettarsi sul marciapiede soffocato dal traffico, verso un appuntamento per il quale è già in ritardo, imprecando come uno scaricatore e sibilando una bestemmia dietro l'altra contro le pietre rotte del selciato, contro i tacchi alti, contro l'uomo che la segue, contro ogni singolo autista che pesta frenetico sul clacson quando è assodato che non serve a niente, contro l'intera dinastia ottomana che nella notte dei tempi ha conquistato Costantinopoli, e sì, contro la pioggia... quella stramaledetta pioggia estiva. Qui da noi la pioggia è un tormento. È probabile che in altre parti del mondo venga accolta da uomini e cose come un dono: fa bene ai raccolti, fa bene agli animali e alle piante e, per aggiungere un tocco di romanticismo, fa bene agli innamorati. La pioggia, qui, non significa soltanto bagnarsi e sporcarsi. Vuol dire rabbia. Fango, caos e rabbia, come se non ne avessimo in abbondanza di tutti e tre. E lotta. È sempre una lotta. Simili a dieci milioni di gattini scaraventati in un secchio d'acqua, ingaggiamo un'inutile guerra contro le gocce. Non si può dire che affrontiamo la battaglia da soli, perché al nostro fianco ci sono le strade, con quei loro nomi antidiluviani stampigliati sulle targhe di latta, le tombe dei santi sparpagliate ovunque, i mucchi di spazzatura in attesa le mostruose voragini dei cantieri in procinto di trasformarsi in palazzi moderni, e i gabbiani... Quando il cielo si spalanca e ci sputa in testa, tutti quanti perdiamo il controllo. Eppure, mentre le ultime gocce si posano sul terreno e molte altre restano appollaiate sulle foglie ripulite dalla polvere, in quel momento indifeso in cui ancora non siamo sicuri che la pioggia sia finita davvero (e forse non lo sa neppure lei), tutto si rasserena. Per un lungo istante il cielo sembra scusarsi per il disastro in cui ci ha sprofondati. E allora noi, con le goccioline ancora fra i capelli, il fango sui vestiti e il malumore negli occhi, restituiamo lo sguardo a quel cielo, che ha assunto una sfumatura cerulea più chiara e trasparente che mai. Guardiamo in alto e non possiamo fare a meno di sorridergli in risposta. Lo perdoniamo, come sempre.
Ma in quel momento la pioggia stava ancora scrosciando, e nel cuore di Zeliha non c'era spazio per il perdono. Era senza ombrello: aveva giurato a se stessa che non sarebbe mai più stata così imbecille da regalare dei soldi a un ambulante per un ombrello che avrebbe perso non appena fosse tornato il sole. Meglio inzupparsi fino al midollo. E poi era tardi, era già inzuppata fino al midollo. In un certo senso la pioggia assomigliava al dolore: facevi del tuo meglio per restare incolume, sicura e asciutta, ma se e quando abbassavi la guardia, il problema non si poneva più in termini di singole gocce, quanto piuttosto di una cascata incessante, e a quel punto decidevi che tanto valeva arrendersi. La pioggia le colava dai riccioli scuri sulle ampie spalle. Come tutte le donne della famiglia Kazanci, Zeliha era nata con i capelli crespi e corvini, ma al contrario delle altre aveva scelto di tenerli così. Di tanto in tanto gli occhi ver de giada, di solito enormi e pieni di fiera intelligenza, si riducevano a due fessure da cui trapelava il genere di indifferenza tipico di tre categorie di persone: gli ingenui senza speranza, gli introversi senza speranza, e gli speranzosi senza speranza. Visto che lei non rientrava in nessuna delle tre, risultava difficile comprendere il motivo del suo distacco, che pure era intermittente. Un momento era lì, a stordirle l'anima fino all'insensibilità, l'attimo dopo era svanito, lasciandola di nuovo sola e padrona del proprio corpo. Si sentiva così quel primo venerdì di luglio, insensibile e come anestetizzata, uno stato d'animo corrosivo per una persona piena di vita come lei. Era forse per quello che non aveva il minimo desiderio di lottare contro la città, e tantomeno contro la pioggia? Mentre quell'indifferenza a yo-yo montava e svaniva secondo un ritmo tutto suo, il pendolo del suo umore oscillava di conseguenza dal gelido al furibondo. Intanto che Zeliha si affrettava, i venditori di ombrelli, impermeabili e mantelline di plastica fluorescenti la osservavano divertiti. Lei li ignorava, proprio come era abituata a ignorare le occhiate fameliche degli uomini sul suo corpo. Gli ambulanti notarono con disapprovazione l'anellino luccicante che portava alla narice, chiaro indizio di mancanza di modestia, e perciò di lussuria. Lei invece andava orgogliosa del suo piercing, perché se lo era fatto da sola. Era stato doloroso, ma c'era, ed era lì per restare, come pure il suo stile. Le molestie degli uomini, le espressioni di rimprovero delle altre donne, la difficoltà di camminare sul selciato pieno di buche o di saltare sui traghetti, il biasimo costante della madre: non c'era forza terrena che potesse impedire a Zeliha, più alta della maggior parte delle donne di Istanbul, di sfoggiare minigonne di colori sgargianti, camicette attillate che sottolineavano il seno abbondante, lucide calze di nylon, e sì, quei vertiginosi tacchi a spillo. Ecco perché, quando appoggiò il piede sull'ennesima pietra smossa e vide la melma che c'era sotto schizzarle sulla gonna color lavanda, Zeliha snocciolò una nuova sfilza di imprecazioni. Era l'unica donna della famiglia, e fra le poche in tutta la Turchia, a utilizzare quel linguaggio triviale in modo così convinto, chiassoso e sapiente; e quando attaccava non la smetteva più, quasi a compensare la riservatezza delle altre. Continuando a correre, Zeliha se la prese con l'amministrazione comunale passata e presente: fin da quando era ragazzina, non c'era stato un solo giorno di pioggia in cui quelle pietre non si fossero rivelate malferme e sconnesse. Prima di
concludere la sua litania, si interruppe di colpo e alzò la testa come se avesse sentito qualcuno che la chiamava per nome; scrutò imbronciata il cielo grigio, emise un sospiro tormentato e lanciò un'altra maledizione alla pioggia. Ora, secondo le inviolabili regole non scritte di sua nonna Petite-Ma, quello era una vera e propria bestemmia. La pioggia può anche non piacerti, non è certo obbligatorio che ti piaccia, però mai, per nessuna ragione, puoi maledire qualcosa che cade dal cielo, perché niente cade dal cielo di propria volontà: dietro c'è sempre Allah l'Onnipotente. Zeliha conosceva bene le inviolabili regole non scritte di Petite-Ma, ma quel primo venerdì di luglio si sentiva abbastanza compromessa da non badarci. E comunque, nella vita, quel che è detto è detto, proprio come quel che è fatto è fatto, e non si può cancellare. Zeliha non aveva tempo per i rimpianti. Era in ritardo per l'appuntamento con il ginecologo. Rischio non da poco, in effetti, perché quando ti accorgi di essere in ritardo per un appuntamento con il ginecologo, potresti anche decidere di non andarci affatto. A un tratto le si accostò un taxi giallo, con il paraurti posteriore coperto di adesivi. L'autista, un tizio dall'aria volgare, la carnagione scura, i baffi alla Zapata e un incisivo d'oro, uno che fuori servizio avrebbe potuto anche essere un molestatore professionista, teneva i finestrini ab bassati e la radio sintonizzata su una stazione locale che sparava Like a Virgin di Madonna al massimo del volume. C'era uno stridente contrasto fra l'aspetto dell'uomo e i suoi gusti musicali decisamente anticonvenzionali. Frenò di colpo, cacciò la testa fuori dal finestrino e, dopo aver lanciato un fischio, sbraitò: «Ehi bellezza, ti fai un giro con me?». Le sue parole successive furono coperte da quelle di Zeliha. «Cosa vuoi? Possibile che una donna non possa andarsene in giro tranquilla, in questa città?» «Ma perché camminare, invece di farti dare un passaggio da me?» chiese il tassista. «Non vorrai mica bagnarti quel bel corpicino, vero?» Mentre sullo sfondo Madonna blaterava «My fear is fading fast, been saving it all for you», Zeliha cominciò a insultare il tassista, infrangendo così un'altra inviolabile regola non scritta, questa volta non di Petite-Ma ma di Semplice Prudenza Femminile: Mai insultare chi ti molesta. Regola d'Oro della Donna di Istanbul: Se infastidita per strada, non rispondere mai, perché la donna che risponde, o addirittura reagisce insultando il suo molestatore, non farà altro che infiammare l'entusiasmo del suddetto! Zeliha conosceva benissimo la regola e in genere si guardava bene dal violarla, ma quel primo venerdì di luglio era diverso: dentro di lei si era scatenata una nuova personalità più sfrontata e insolente del solito, e pericolosamente rabbiosa. Fu quella seconda Zeliha ad avere il sopravvento, prendendo le decisioni a nome di entrambe, e continuando a urlare a squarciagola. Mentre Zeliha superava in volume gli strilli di Madonna, pedoni e venditori di ombrelli si avvicinarono incuriositi. L'uomo che la stava seguendo approfittò della confusione per ritirarsi in buon ordine, abbastanza
sveglio da capire che era meglio stare alla larga da una pazza del genere. Il tassista non fu altrettanto prudente, e accolse la sfuriata con un largo sorriso. Zeliha notò che i suoi denti erano sorprendentemente bianchi e regolari, e non potè fare a meno di chiedersi se fossero incapsulati. A poco a poco sentì montare un'ondata di adrenalina che le invase le viscere, le torse lo stomaco, le accelerò le pulsazioni e le fece comprendere che lei, più di ogni altra donna della famiglia, un giorno o l'altro avrebbe potuto ammazzare qualcuno. Per sua fortuna l'autista della Toyota in attesa dietro il taxi perse la pazienza e si mise a strombazzare. Come risvegliata da un brutto sogno, Zeliha tornò in sé e rabbrividì per la sgradevole situazione in cui si era cacciata. La propria inclinazione alla violenza la spaventò, come sempre accadeva. In un attimo recuperò la calma e sgattaiolò via, aprendosi un varco nella folla. Nella fretta il tacco destro le rimase incastrato tra le pietre sconnesse. Cercò di liberarlo muovendo il piede con furia ma, mentre la scarpa venne via facilmente, il tacco si spezzò, ricordandole così la regola che prima di ogni altra avrebbe dovuto tenere a mente. Regola d'Argento della Donna di Istanbul: Se infastidita per strada, non perdere mai la pazienza, perché la donna che perde la pazienza davanti a un molestatore e reagisce in maniera eccessiva, non farà altro che peggiorare la situazione! Il tassista sghignazzò, il clacson della Toyota suonò di nuovo, la pioggia aumentò e diversi pedoni protestarono in coro, anche se non era ben chiaro con chi ce l'avessero. In mezzo a quella confusione, lo sguardo di Zeliha si posò su un adesivo iridescente sul retro del taxi: non chiamarmi miserabile! proclamava, anche i miserabili hanno un cuore. Fissando distratta quelle parole si sentì all'improvviso esausta, così stanca e depressa che l'accaduto le sembrò d'un tratto contenere un oscuro messaggio, un codice indecifrabile che qualche intelligenza superiore aveva pensato apposta per lei. Il taxi, la Toyota e i pedoni si erano intanto allontanati, mentre Zeliha continuava a tenere in mano il tacco rotto con la tenerezza e la desolazione con cui avrebbe cullato un uccellino morto. Ora, fra tutti gli elementi che componevano il caotico universo di Zeliha poteva ben esserci un uccellino morto, ma di sicuro non c'erano tenerezza e desolazione. Niente del genere. Raddrizzò la schiena e fece del proprio meglio per arrancare su un tacco solo. Di lì a poco procedeva spedita in una calca di ombrelli, con le magnifiche gambe in mostra, zoppicando come una nota fuori dal coro. Era un filo color lavanda che risaltava in un arazzo di marroni e grigi, e poi ancora grigi e marroni. Ma la folla era abbastanza magmatica da inghiottire quel colore discordante, perché non era la somma di centinaia di corpi che respiravano, sudavano e dolevano, ma un unico organismo che respirava, sudava e doleva. Pioggia o sole faceva poca differenza. Camminare a Istanbul significa camminare in simbiosi con la folla. Passando davanti alle dozzine di pescatori rugosi allineati in silenzio lungo l'antico ponte Galata, ognuno con l'ombrello in una mano e la canna nell'altra, Zeliha invidiò la loro capacità di rimanere immobili per ore ad aspettare un pesce che non
abboccava mai, e se anche abboccava, si rivelava talmente piccolo da servire al massimo come esca per un pesce più grosso che mai avrebbe abboccato. Era stupefacente la loro abilità di ottenere tanto da così poco, di rincasare a fine giornata con le mani vuote eppure soddisfatti. A questo mondo, la serenità genera fortuna e la fortuna genera felicità, o così sospettava Zeliha, che quel tipo di serenità non lo aveva mai sperimentato, né credeva di poterlo sperimentare in futuro. Perlomeno non quel giorno. Quel giorno proprio no. Nonostante la fretta, Zeliha rallentò il passo mentre at traversava il Gran Bazar. Non c'era tempo per fermarsi a fare spese, ma solo per un'occhiata veloce. Accese una sigaretta, e quando le intricate volute di fumo cominciarono a uscirle di bocca si sentì meglio, quasi rilassata. Una donna che fumava per strada non era certo ben vista, a Istanbul, ma che importava? Ormai aveva dichiarato guerra all'intera società... Alzò le spalle e si avviò verso la parte vecchia del bazar. Alcuni dei venditori la conoscevano per nome, soprattutto i gioiellieri. Zeliha aveva un debole per gli accessori appariscenti: fermacapelli decorati da cristalli, spille di strass, orecchini luccicanti, boutonniere di perle, sciarpe zebrate, borsette di seta, foulard di chiffon, fiocchi di satin e scarpe, sempre a tacco alto. Non c'era volta che attraversando il bazar non si fermasse a curiosare almeno in sette negozi e a contrattare con i venditori, spuntando prezzi molto più bassi di quelli di partenza (per oggetti che all'inizio non aveva alcuna intenzione di comprare...). Ma quel giorno si limitò ad affacciarsi in un paio di negozietti e sbirciare qualche vetrina, nient'altro. Sostò davanti a un banco di giare e vasi e flaconi pieni di erbe e spezie di ogni forma e colore. Le tornò in mente che quella mattina una delle sue sorelle, anche se non ricordava quale delle tre, le aveva chiesto di comprare un po' di cannella. Zeliha era la più giovane di quattro donne che non erano mai d'accordo su niente, accomunate dalla convinzione di essere sempre nel giusto, ognuna sicura di avere tutto da insegnare e niente da imparare. Peggio che perdere la lotteria per un solo numero: comunque considerassi la cosa, non potevi liberarti dalla sensazione di essere vittima di un'enorme ingiustizia. Zeliha comprò comunque la cannella, quella in stecche, non in polvere. Il venditore le offrì il té, una sigaretta e due chiacchiere, e lei non rifiutò nulla. Mentre se ne stava seduta a parlare, i suoi occhi percorsero indifferenti gli scaffali, fino a posarsi su un servizio da té. Ecco una cosa che non riusciva a fare a meno di comprare: bicchieri da té con stelline d'oro, cucchiaini delicati e sottili, e fragili piattini dal bordo dorato. A casa avevano almeno una trentina di servizi da té di vetro, ma non c'era niente di male a prenderne un altro, tanto si rompevano in continuazione. «Così fragili...» mormorò Zeliha sottovoce. Era l'unica femmina della famiglia Kazanci capace di infuriarsi con i bicchieri da té quando si rompevano. Da parte sua, la settantasettenne Petite-Ma aveva sviluppato un approccio completamente diverso. «Ecco un altro malocchio che se ne va!» esclamava ogni volta che un bicchiere andava in pezzi. «Hai sentito quel rumore orrendo? Crac! Mi è risuonato fin nel profondo del cuore! Era il malocchio di qualcuno malevolo e geloso. Che Allah ci protegga!»
A ogni vetro o specchio che andava in frantumi, Petite-Ma tirava un sospiro di sollievo. Dopotutto, visto che era impossibile eliminare i malvagi dalla superficie di questo mondo, era meglio che la loro perfidia si sfogasse sugli oggetti anziché penetrare nelle anime innocenti e rovinare loro l'esistenza. Quando venti minuti più tardi Zeliha entrò di corsa nell'elegante studio medico in uno dei quartieri più signorili della città, aveva un tacco rotto in una mano e un nuovo servizio da té nell'altra. In quel momento si ricordò costernata che il pacchetto con le stecche di cannella era rimasto al Gran Bazar.
Nella sala d'attesa c'erano un uomo quasi calvo e tre donne mal pettinate. La più giovane sembrava la meno preoccupata, intenta com'era a sfogliare languidamente le pagine di una rivista. Doveva essere venuta per farsi rinnovare la ricetta della pillola. La bionda paffuta vicino alla finestra era sulla trentina, con la ricrescita scura che implorava una tinta. Si agitava vagamente nervosa, con la mente altrove, e forse era lì per un controllo di routine o per il Pap test annuale. La terza, che aveva il capo coperto ed era accompagnata dal marito, sembrava molto turbata, con gli angoli della bocca piegati all'ingiù e le sopracciglia aggrottate. Zeliha decise che aveva difficoltà a rimanere incinta. E quello poteva ben diventare un problema, si disse, a seconda del punto di vista. Per quanto la riguardava, non considerava certo l'infertilità tra i guai peggiori che potessero toccare a una donna. «Buongiooorno signorina!» cinguettò l'infermiera alla reception, esibendosi in un sorriso stupido e falso talmente rodato da non sembrare più né stupido né falso. «È l'appuntamento delle tre?» Sembrava che avesse qualche difficoltà a pronunciare la lettera R, e per compensare allungava le vocali, alzava la voce e aggiungeva un sorriso extra ogni volta che la sua lingua inciampava in quella malaugurata consonante. Per risparmiarle lo sforzo, Zeliha annuì in fretta e forse con troppo entusiasmo. «Motivo della visita, signorina Appuntamento delle tre?» Zeliha cercò di ignorare l'assurdità di quella conversazione. Per parte sua, era completamente incapace di manifestare quel genere di cordialità incondizionata e onnicomprensiva. Certe donne non facevano che sorridere; sorridevano sempre e comunque, con spartano senso del dovere. Zeliha continuava a chiedersi come si potesse arrivare a compiere con tanta naturalezza un atto così innaturale. Ma confinò la questione in un angolo della mente e rispose: «Per un aborto». La parola rimase sospesa nell'aria, e tutti aspettarono che si posasse. Gli occhi dell'infermiera si strinsero, poi si spalancarono, e il sorriso le sparì dalla faccia. Zeliha non potè fare a meno di esserne sollevata. L'incondizionata e onnicomprensiva cordialità femminile scatenava in lei istinti violenti. «Ho un appuntamento...» disse Zeliha sistemandosi una ciocca dietro l'orecchio mentre il resto della capiglia tura le ricadeva sul viso e sulle spalle come un burka. Sollevò il mento, mettendo in risalto il naso aquilino, e sentì il bisogno di ripeterlo, a voce un po' più alta di quanto avrebbe voluto, o forse no. «Perché devo abortire.»
Combattuta tra il dovere di registrare la nuova paziente e l'occhiata di rimprovero con cui avrebbe voluto punire tanta impudenza, l'infermiera rimase immobile davanti al grande quaderno dalla copertina di pelle. Trascorse qualche secondo prima che si decidesse a scribacchiare qualcosa. Nel frattempo Zeliha borbottò: «Mi dispiace di aver fatto tardi». L'orologio sulla parete indicava che era in ritardo di quarantasei minuti. «È stato per via della pioggia...» Era poco leale nei confronti della pioggia, perché anche il traffico, il selciato sconnesso, l'amministrazione comunale, l'uomo che la seguiva e il tassista, per non parlare della sosta al bazar, avevano la loro parte di colpa, ma Zeliha decise di non menzionarli. Aveva ignorato la Regola d'Oro della Donna di Istanbul, probabilmente aveva violato anche la Regola d'Argento, ma di certo intendeva rispettare la Regola di Bronzo: Regola di Bronzo della Donna di Istanbul: Se molestata per strada, meglio scordarsi dell'incidente non appena ripreso il cammino, poiché rimuginare tutto il giorno sull'accaduto non porterà nulla di buono! Zeliha aveva abbastanza buon senso da capire che se avesse parlato delle molestie adesso, le altre donne, lungi dal mostrarsi solidali, l'avrebbero sicuramente giudicata con severità. Preferì quindi tagliar corto e lasciare che il biasimo ricadesse solo sulla pioggia. «Quanti anni ha, signorina?» volle sapere l'infermiera. Ecco una domanda sgradita, oltre che del tutto irrilevante. Zeliha socchiuse gli occhi, fissando la donna come se fosse una specie di semioscurità alla quale bisognava adattare lo sguardo. Di colpo si trovò a fronteggiare una triste realtà: la sua età. Come tutte le donne abituate a vivere al di sopra e al di là della propria età anagrafica, Zeliha si rifiutava di ammettere che dopotutto era molto più giovane di quanto appariva. «Ho diciannove anni» confessò. Appena le parole le furono uscite di bocca arrossì, come se si fosse ritrovata nuda davanti a quegli estranei. «Naturalmente avremo bisogno del consenso di suo marito» continuò l'infermiera ormai non più garrula, ma impaziente di passare alla domanda successiva, di cui già sospettava la risposta. «Posso chiederle se è sposata, signorina?» La bionda paffuta a destra e la donna con il capo coperto a sinistra si agitarono imbarazzate. Con gli sguardi indagatori di tutti i presenti che le pesavano addosso, la smorfia di Zeliha si trasformò in un sorriso beato. Non che la difficoltà del momento la divertisse, ma l'indifferenza che le covava dentro l'aveva abituata a non badare alle opinioni altrui, perché in fondo non le avrebbero cambiato la vita. Negli ultimi tempi aveva deciso di bandire alcuni termini dal proprio vocabolario, e ripensandoci ora si disse che era il caso di cominciare con la parola vergogna. Eppure le mancava il coraggio di dire ad alta voce quello che ormai tutti nella stanza avevano capito. Non c'era nessun marito che potesse dare il consenso per l'aborto. Non c'era nessun padre. Invece che un BA-BA c'era il VUO-TO.
Per fortuna questo si rivelò una semplificazione dal punto di vista burocratico. A quanto pareva non c'era bisogno del consenso scritto di chicchessia. I regolamenti erano più approssimativi quando si trattava di salvaguardare i bambini concepiti fuori dal vincolo matrimoniale. A Istanbul un bambino senza padre è solo un altro bastardo, e un bastardo non è che un dente che dondola nelle gengive della città, pronto a cadere da un momento all'altro. «Luogo di nascita?» continuò monotona l'infermiera. «Istanbul!» «Istanbul?» Zeliha alzò le spalle, come a dire, e dove altro? In quale altro posto della terra se non qui? Lei apparteneva a quella città! Non glielo si leggeva forse in faccia? Zeliha si considerava una vera figlia di Istanbul, e come a rimproverare l'infermiera che non si era accorta di un fatto così evidente, le voltò le spalle facendo perno sulla scarpa ormai priva di tacco, e andò a sedersi accanto alla donna col capo coperto. Fu solo allora che ne osservò meglio il marito, seduto immobile e quasi paralizzato dall'imbarazzo. Più che giudicare Zeliha, l'uomo sembrava sprofondato nel disagio di essere l'unico maschio in un luogo così sfacciatamente femminile. Per un secondo Zeliha fu quasi dispiaciuta per lui. Le passò per la testa di invitarlo sul balcone a fumarsi una sigaretta, perché era sicura che fumasse. Ma avrebbe potuto essere male interpretata. Una donna non sposata non può fare proposte del genere a un uomo sposato, e di fronte alla moglie ogni uomo sposato è tenuto a dimostrarsi ostile verso qualsiasi altra donna. Ma perché era tanto difficile fare amicizia con gli uomini? Perché doveva essere così? Perché non potevano semplicemente fumarsi una sigaretta sul balcone, fare due chiacchiere e poi andarsene ognuno per la propria strada? Zeliha rimase seduta in silenzio per un lungo istante. Era stanca morta, era stufa di essere al centro dell'attenzione, ma soprattutto desiderava stare vicino alla finestra aperta: era affamata dei rumori della strada. La voce rauca di un venditore ambulante penetrò nella stanza. «Mandarini... Mandarini freschi, profumati...» «Bravo, continua a urlare» mormorò Zeliha fra sé. Non amava il silenzio. Anzi, lo detestava. Non le importava che la gente la fissasse per strada, al bazar, nella sala d'attesa del medico, sempre e ovunque; non le importava che la guardassero a bocca aperta, e poi la squadrassero di nuovo dalla testa ai piedi come se non avessero mai visto una donna. In un modo o nell'altro poteva sempre difendersi da quegli sguardi. Ciò che la faceva sentire davvero impotente era il loro silenzio. «Mandarinista... ehi, mandarinista... quanto li fai al chilo?» urlò una donna da una finestra spalancata all'ultimo piano del palazzo di fronte. La nonchalance con cui gli abitanti della città inventavano nomi improbabili per i lavori più comuni non mancava mai di divertirla. Bastava aggiungere un -ista o un -aio, ed ecco che il dinamico elenco delle professioni cittadine si allungava. Così, a seconda di quello che vendevi, in un attimo diventavi «mandarinista», «ciambellaio», o... «abortista». Ormai Zeliha non aveva più dubbi circa la sua condizione. Pur essendo già quasi certa del risultato, aveva fatto un test di gravidanza nella nuova clinica del suo quartiere. Il giorno dell'inaugurazione il personale aveva organizzato un ricevimento sfarzoso per un gruppo di ospiti selezionati, e aveva allineato mazzi di fiori e
ghirlande davanti all'ingresso perché anche i passanti sapessero dell'avvenimento. Quando Zeliha si era presentata lì il giorno seguente, la maggior parte dei fiori era appassita, ma i volantini erano ancora sgargianti. TEST DI GRAVIDANZA GRATUITO CON OGNI ESAME DEGLI ZUCCHERI NEL SANGUE! promettevano in stampatello fluorescente. La relazione fra i due esami restava misteriosa per Zeliha, ma aveva comunque fatto il test. Quando arrivarono i risultati, il livello degli zuccheri nel sangue risultò regolare, ma emerse che era incinta. «Signorina, si accomodi!» la chiamò l'infermiera dalla soglia, preparandosi ad affrontare una R, che nella sua professione non poteva proprio sperare di evitare: «Il dottore la sta aspettando» Zeliha saltò in piedi, agguantando il tacco rotto e la scatola di bicchieri da té. Tutti si voltarono verso di lei, registrando ogni suo gesto. Normalmente si sarebbe incamminata il più velocemente possibile, ma in quel momento i suoi movimenti erano rallentati, quasi languidi. Un atti mo prima di lasciare la stanza si fermò e si voltò, sapendo esattamente su chi puntare lo sguardo. Là, al centro della sua visuale, trovò un'espressione che più acida non si poteva: la donna col capo coperto aveva il viso contratto, gli occhi scuri pieni di risentimento. Le labbra si muovevano appena in una silenziosa maledizione rivolta al dottore e alla diciannovenne sul punto di rinunciare a un figlio che Allah avrebbe dovuto concedere a lei, non già a quella ragazzina sventata.
Il medico era un tipo robusto, il cui portamento eretto trasmetteva una sensazione di forza. Al contrario dell'infermiera, non ti giudicava con lo sguardo e non faceva domande stupide. Accolse Zeliha nel migliore dei modi. Le fece firmare alcuni fogli, e poi altri moduli nel caso qualcosa fosse andato storto durante o dopo l'operazione. Accanto a lui, Zeliha sentì che i nervi si rilassavano e la scorza si faceva meno dura, il che era un problema, perché quando si rilassavano i nervi e si assottigliava la scorza, lei diventava fragile come un bicchiere da té, e quando diventava fragile come un bicchiere da té, rischiava di scoppiare in lacrime. E quella era una cosa che proprio detestava. Fin dalla più tenera età Zeliha aveva disprezzato profondamente i piagnistei, e aveva giurato a se stessa che non si sarebbe mai trasformata in una di quelle tragedie ambulanti che spargono lacrime e singhiozzi ovunque vadano: ce n'erano anche troppe in circolazione. Si era imposta di non piangere mai, e fino a quel giorno se l'era cavata abbastanza bene. Se e quando le lacrime le riempivano gli occhi, non faceva altro che trattenere il fiato e richiamare alla mente la promessa fatta a se stessa. Anche quel venerdì di luglio mise in atto la consueta strategia: gonfiò il petto e alzò il mento in segno di sfida. Ma qualcosa andò storto, e il respiro le uscì con un singhiozzo. Il dottore non sembrò sorpreso. C'era abituato, le donne piangevano sempre. «Su, su» disse cercando di consolarla mentre si infilava un paio di guanti chirurgici. «Andrà tutto bene, non si preoccupi. E solo un sonnellino. Dormirà, sognerà, e prima che il sogno finisca io la sveglierò e lei se ne tornerà a casa. E dopo non si ricorderà niente.»
Quando Zeliha piangeva in quel modo, i suoi lineamenti si facevano più netti e le guance rientravano, mettendo in risalto la più evidente delle sue qualità: il naso. Quel naso aquilino che lei e le sorelle avevano ereditato dal padre. Ancor più di quello delle sorelle, il suo era lungo e affilato sulla punta. Il dottore le diede una pacca gentile sulla spalla e le porse un fazzolettino di carta, poi le passò tutta la scatola. Ne teneva sempre una sulla scrivania. Le davano in omaggio le aziende di medicinali. Insieme alle penne, ai blocchi e agli altri oggetti con il logo dell'azienda, fornivano anche i fazzoletti per le pazienti che non riuscivano a smettere di piangere. «Fichi... Fichi deliziosi... Buoni fichi maturi!» Era lo stesso venditore di prima o uno nuovo? E chissà come lo chiamavano i suoi clienti... Fichista?! pensò Zeliha mentre se ne stava distesa immobile e solitaria su un lettino chirurgico, nella stanza bianca e immacolata. Le attrezzature, i ferri non la spaventavano quanto quell'assoluto candore. C'era qualcosa nel bianco che somigliava al silenzio. Entrambi erano privi di vita. Nello sforzo di non pensare al colore del silenzio, Zeliha si lasciò distrarre da un punto nero sul soffitto. Più lo fissava, più quel punto somigliava a un ragno. Dapprima immobile, la macchia cominciò a muoversi. Mentre l'iniezione le dilagava nelle vene, il ragno diventava sempre più grosso. In pochi secondi le sembrò di essere così pesante da non riuscire più a muovere un dito. Mentre cercava di non farsi trascinare via da quel sonno anestetizzato, il pianto prese di nuovo il sopravvento. «È proprio sicura di volerlo? Non vuole rifletterci anco era un po'?» le chiese il dottore con voce vellutata, come se Zeliha fosse un mucchietto di polvere che poteva disperdersi con il soffio di parole pronunciate a voce più alta. «Se vuole ripensarci, non è troppo tardi.» Ma lo era, Zeliha sapeva di doverlo fare quel giorno, quel primo venerdì di luglio, allora o mai più. «Non c'è niente su cui riflettere. Non posso averla» udì se stessa mormorare. Il dottore annuì. Come in attesa di quel segnale, la preghiera del venerdì dalla vicina moschea si riversò di colpo nella stanza. Pochi secondi dopo un'altra moschea si aggiunse alla prima, e poi un'altra e un'altra ancora. La faccia di Zeliha si contorse per la disperazione. Detestava che la preghiera, nata per essere cantata da una pura voce umana, si trasformasse in un gracchiare elettronico che bombardava la città dagli altoparlanti. Ben presto il clamore divenne così assordante da farle sospettare che ci fosse qualcosa che non andava negli impianti acustici di tutte le moschee dei dintorni. Oppure erano le sue orecchie a essere diventate particolarmente sensibili. «Ci vorrà solo un momento... non si preoccupi.» Era il dottore che parlava. Zeliha lo guardò perplessa. Era così evidente il fastidio che le dava quel canto? Non che le importasse molto. Di tutte le donne Kazanci lei era l'unica apertamente atea. Da bambina si divertiva a immaginare che Allah fosse il suo migliore amico. Ovviamente non c'era niente di male in questo, se non forse il fatto che l'altra sua migliore amica era una ragazzina loquace e lentigginosa, che aveva cominciato a fumare a otto anni. Era la figlia della loro domestica: una donna curda, paffuta e dotata di baffi che non sempre si curava di radere. Veniva da loro due
volte alla settimana, e portava sempre la bambina con sé. Dopo qualche tempo lei e Zeliha erano diventate amiche del cuore, si erano praticate addirittura un taglio sull'indice per mescolare il sangue e diventare così sorelle a vita. Per una settimana avevano portato una ben da insanguinata attorno al taglio, come prova della loro sorellanza. Ogni volta che pregava, Zeliha pensava a quella benda. Se anche Allah avesse potuto diventare una sorella di sangue... la sua sorella di sangue... Perdonami, si scusava subito, e poi lo ripeteva ancora e ancora, perché quando ci si scusa con Allah lo si deve sempre fare per tre volte: Perdonami, perdonami, perdonami. Era sbagliato, lo sapeva. Allah non poteva e non doveva essere personificato. Oltretutto non aveva né dita né sangue. Bisognava astenersi dall'attribuirgli caratteristiche umane (cosa non facile, considerato che tutti i suoi novantanove nomi definiscono per l'appunto caratteristiche umane). Egli poteva vedere ovunque ma non aveva occhi; poteva udire tutto ma non aveva orecchie; poteva arrivare in ogni luogo con il suo tocco ma non aveva mani... A otto anni, con le informazioni di cui disponeva, Zeliha aveva concluso che Allah poteva anche somigliare agli uomini, ma gli uomini non potevano somigliare ad Allah. O forse era il contrario? A ogni modo, bisognava imparare a pensare a lui - anzi, a Lui - nel modo giusto, come l'unico e inimitabile. Probabilmente non avrebbe più pensato alla faccenda, se un pomeriggio non le fosse capitato di vedere una benda attorno all'indice di sua sorella Feride. A quanto pareva la ragazza curda aveva stretto una sorellanza di sangue anche con lei. Zeliha si era sentita tradita. In quel momento aveva capito che l'aspetto di Allah che meno la convinceva non era tanto che fosse privo di sangue, quanto che avesse così tante sorelle di sangue, decisamente troppe per prendersi cura di tutte, e così finiva per non prendersi cura di nessuna. Dopo quell'episodio, l'amicizia con la bambina curda si avviò alla fine. Casa loro era un enorme konak in rovina, la mamma era scostante e testarda, e così la donna delle pulizie aveva finito per andare via, portandosi appresso la figlia. Rimasta senza la sua migliore amica (per quanto si fosse trattato di un'amicizia alquanto ambigua), Zeliha comin ciò ad avvertire un vago risentimento, anche se non sapeva bene verso chi: la donna delle pulizie che se n'era andata, sua madre che l'aveva spinta ad andarsene, l'amica che aveva fatto il doppio gioco, Feride che le aveva soffiato una sorella di sangue, o forse Allah. Visto che gli altri erano tutti fuori dalla sua portata, decise di concentrare la propria rabbia su Allah. Poiché si era sentita infedele già a quella tenera età, non vedeva ragione per smettere da adulta. Un altro richiamo alla preghiera si unì al primo. Le voci si moltiplicarono echeggiandosi a vicenda, come cerchi concentrici. Per qualche strano motivo la sua preoccupazione di quel momento, nello studio del medico, era di far tardi per cena. Si chiese cosa ci sarebbe stato in tavola quella sera, e quale delle tre sorelle avrebbe cucinato. Ognuna aveva la propria specialità. Le sarebbe piaciuto trovare i dolma, i peperoni verdi ripieni, un piatto particolarmente a rischio perché ogni sorella lo preparava in una maniera completamente diversa. Peperoni... verdi... ripieni... Il suo respiro si fece più lento, mentre il ragno cominciava a scendere. Continuando a
fissare il soffitto, Zeliha ebbe l'impressione che lei e le altre persone nella stanza non occupassero più lo stesso spazio. Superò la soglia del regno di Morfeo. Era troppo luminoso, lì, quasi lucido. Lentamente, con cautela, avanzò lungo un ponte che brulicava di auto, di pedoni e di pescatori immobili con i vermi che si agitavano in fondo alla lenza. Mentre si faceva largo fra loro, ogni pietra del selciato su cui poggiava il piede si rivelava malferma e, con suo grande sgomento, sotto c'era soltanto il vuoto. Si rese conto con orrore che ciò che stava sotto era anche sopra, e dal cielo piovevano pietre come da un selciato sconnesso. Sopra il cielo e sotto la terra c'era la stessa cosa: il VUO-TO. Continuavano a piovere pietre, allargando sempre più la voragine sotto di lei, e lei si fece prendere dal panico, terrorizzata all'idea di venire inghiottita da quell'abisso famelico. «Fermi!» gridò, mentre le pietre continuavano a schizzarle via da sotto i piedi. «Fermi!» ordinò ai veicoli che le arrivavano addosso a tutta velocità. «Fermi!» implorò i pedoni che la prendevano a spallate. «Fermi, vi prego!»
Quando si risvegliò, Zeliha era sola, aveva la nausea e si trovava in una stanza sconosciuta. Come diavolo fosse riuscita ad arrivare lì era un mistero che non aveva nessuna voglia di risolvere. Non provava niente, né dolore né tristezza. Alla fine l'indifferenza doveva aver vinto la partita. Sul tavolo bianco immacolato non aveva lasciato soltanto la sua bambina, ma anche i sentimenti. Forse non tutto il male veniva per nuocere. Forse adesso avrebbe potuto andare a pescare, restando immobile per ore senza sentirsi frustrata o dimenticata da questa vita veloce come una lepre che riuscivi solo a osservare da lontano. «Bentornata! Finalmente!» Sulla porta c'era l'infermiera con le mani sui fianchi. «Santo cielo! Che paura! Non sa che spavento ci ha fatto prendere! Non immagina quanto ha gridato. È stato terribile!» Zeliha restò distesa immobile, senza muovere neppure i muscoli delle palpebre. «La gente per strada deve aver pensato che la stessimo scannando o qualcosa del genere... Mi domando com'è che non s'è fatta vedere la polizia!» Perché è della polizia di Istanbul che stai parlando, non di quei poliziotti muscolosi dei film americani, pensò Zeliha mentre si concedeva finalmente di battere una palpebra. Non aveva ben capito perché l'infermiera fosse così infervorata, e cercò di minimizzare: «Forse gridavo perché mi faceva male...». Ma quella motivazione, per quanto valida, venne subito liquidata: «Direi proprio di no, signorina, perché il dottore... non ha compiuto l'intervento. Non l'abbiamo neppure sfiorata con un dito!». «Vuol forse dire...?» balbettò Zeliha più per valutare il peso della propria domanda che per ottenere una risposta. «Vuol dire che... non avete...» «No, non abbiamo.» L'infermiera sospirò, toccandosi il capo come a scongiurare una incipiente emicrania. «Non c'era verso che il dottore riuscisse a combinare qualcosa, con lei che urlava con tutto il fiato che aveva in gola. Non si è neppure addormentata, macché; prima si è messa a straparlare, e poi ha cominciato a urlare e
bestemmiare. Mai sentito niente del genere in quindici anni di professione. La morfina ci ha messo il doppio del tempo a farle effetto.» Zeliha sospettò una buona dose di esagerazione, ma non aveva voglia di mettersi a discutere. Nelle ultime due ore aveva imparato che là dentro una paziente doveva parlare solo se interrogata. «E quando finalmente si è addormentata, era difficile credere che non avrebbe ricominciato subito a urlare, così il dottore ha deciso di aspettare finché non si fosse chiarita le idee. Se è proprio sicura di voler abortire, possiamo sempre fissare un altro appuntamento. L'abbiamo portata qui e l'abbiamo lasciata dormire. E accidenti se ha dormito!» «Vuol dire che non c'è stato nessun...» La parola che aveva pronunciato con tanta spavalderia solo poche ore prima, davanti a dei perfetti estranei, adesso le sembrava impossibile da articolare. Zeliha si toccò il ventre, implorando con lo sguardo un conforto che l'infermiera era la persona meno adatta del mondo a fornire. «Così lei è ancora qui...» «Be', non si può ancora sapere se è una lei!» la corresse l'infermiera. Ma Zeliha lo sapeva. Lo sapeva e basta. Quando rimise piede in strada, nonostante il crepuscolo imminente, le sembrò mattina presto. La pioggia era cessata e la vita era meravigliosa, quasi accettabile. Il traffico era ancora un macello e le strade erano piene di fan go, ma il profumo frizzante lasciato dalla pioggia sembrava aver consacrato l'aria dell'intera città. Qua e là i ragazzini saltavano nelle pozzanghere, godendosi quei fangosi peccati veniali. Se esisteva un momento giusto per peccare, doveva di certo essere quello: uno di quei momenti in cui sembrava che Allah non solo ti osservasse, ma si prendesse perfino cura di te; uno di quei momenti in cui ti sembrava di averLo vicino. D'un tratto Istanbul pareva diventata una metropoli felice, romantica e pittoresca, proprio come Parigi, pensò Zeliha; anche se non era mai stata a Parigi. Un gabbiano le sfrecciò accanto, recando nelle sue strida un messaggio che lei fu quasi sul punto di decifrare. Per mezzo minuto credette di essere sull'orlo di un nuovo inizio. «Allah, perché non mi hai permesso di farlo?» si sorprese a mormorare, ma appena quelle parole le furono sfuggite di bocca, si scusò spaventata con l'atea che era in lei. Perdonami, perdonami, perdonami. Sotto l'arcobaleno, Zeliha zoppicò per tutta la strada fino a casa, tenendo stretta la scatola dei bicchieri da té e il tacco spezzato, e sentendosi in qualche modo meno abbattuta di quanto si sentisse da settimane.
Così, quel primo venerdì di luglio, verso le otto di sera, Zeliha tornò a casa, nel konak ottomano piuttosto malandato, quasi fuori posto fra i palazzi cinque volte più alti che lo fiancheggiavano. Salì a fatica la scalinata curva e trovò le donne Kazanci che cenavano, radunate al gran completo attorno al tavolo da pranzo. Evidentemente non si erano poste il problema di aspettarla.
«Salve, straniera! Entra e unisciti a noi» esclamò Banu, chinandosi su un'ala di pollo ben cotta e croccante. «Il profeta Maometto ci esorta a condividere il cibo con gli estranei.» Aveva le labbra unte, come pure le guance, quasi si fos se spalmata del grasso su tutta la faccia, compresi i lucidi occhi nocciola. Dodici anni più vecchia e quindici chili più grassa di Zeliha, sembrava più sua madre che sua sorella. Tutta colpa, a sentir lei, di un bizzarro sistema digestivo, che immagazzinava qualsiasi cosa lei ingerisse: pretesa che sarebbe forse risultata più credibile se Banu non avesse sostenuto che il suo corpo trasformava in grasso persino l'acqua pura, ragion per cui non aveva senso nemmeno che si mettesse a dieta. «Indovina cosa c'è sul menu del giorno?» continuò Banu tutta contenta, agitando un dito in direzione di Zeliha prima di agguantare un'altra ala di pollo. «Peperoni verdi ripieni!» «Dev'essere il mio giorno fortunato! » disse Zeliha. Il menu del giorno aveva un aspetto grandiosamente familiare. Oltre a un enorme pollo, c'erano minestra allo yogurt, karniyank di carne macinata e verdure, pilaki di fagioli bianchi, kadin budu köfte, avanzato dal giorno prima, tur u di verdure sottaceto, pane çörek appena sfornato, una brocca di ayran a base di yogurt allungato con acqua, e sì, i peperoni verdi ripieni. Subito Zeliha avvicinò una sedia, mentre la fame prevaleva sulla mancanza di entusiasmo all'idea di una cena di famiglia dopo la faticosa giornata appena conclusa. «Dove sei stata, signorina?» borbottò sua madre, Gülsüm, che avrebbe potuto benissimo essere la reincarnazione di Ivan il Terribile: raddrizzò le spalle, sollevò il mento, aggrottò le sopracciglia, e si mise a scrutare Zeliha, come per leggerle nella mente. Si fissarono di traverso, Gülsüm e Zeliha, madre e figlia, entrambe pronte alla lite, ma nessuna disposta ad attaccare per prima. Fu Zeliha a distogliere lo sguardo. Ben sapendo che mostrare alla madre il proprio stato d'animo era un terribile errore, si sforzò di sorridere e di mettere insieme una risposta, per quanto indiretta. «Oggi al bazar c'erano delle offerte interessanti. Ho comprato un servizio di bicchieri da té assolutamente fan tastico! Con le stelline dorate, e minuscoli cucchiaini coordinati.» «Peccato che si rompano così facilmente» mormorò Cevriye, la secondogenita delle sorelle Kazanci, insegnante di storia nazionale in un liceo privato. Consumava sempre cibi sani e pasti equilibrati, e teneva i capelli raccolti in un ordinalissimo chignon che non ne lasciava sfuggire neppure una ciocca. «Sei stata al bazar? Perché non mi hai preso le stecche di cannella? Te l'avevo detto che stasera c'era il budino di riso e non abbiamo nemmeno un po' di cannella da spolverarci sopra.» Banu si accigliò fra un boccone di pane e l'altro, ma il problema non la tenne occupata per più di un secondo. Aveva una sua personale teoria sul pane, che ripeteva spesso e metteva in pratica abitualmente, secondo la quale lo stomaco non «sapeva» di essere pieno se non gli si forniva la necessaria quantità di pane a ogni pasto. Dunque ogni alimento doveva essere accompagnato da dosi adeguate di pane. Succedeva perciò che Banu mangiasse pane con le patate, pane con il riso, pane
con la pasta, pane con il börek, e in casi particolari, quando voleva trasmettere un messaggio ancora più chiaro al proprio stomaco, pane con il pane. Una cena senza pane era un peccato mortale che Allah avrebbe forse potuto perdonare, ma non Banu. Zeliha strinse le labbra e rimase in silenzio, pensando al destino delle stecche di cannella. Evitò di rispondere, e si mise nel piatto un peperone ripieno. Era sempre in grado di riconoscere se fossero di Banu, di Cevriye o di Feride. Quando li preparava Banu, erano zeppi di tutti gli ingredienti possibili, inclusi anacardi, noccioline e mandorle. Se li faceva Feride, erano pieni di riso, così gonfi che non potevi mangiarli senza che si rompessero. Poiché la sua tendenza a riempire eccessivamente i peperoni si sposava con una smodata passione per i condimenti di ogni tipo, i dolma di Feride scoppiavano di erbe e spezie, il che, a se conda delle combinazioni, poteva significare uno straordinario successo o un disastro completo. Se era invece Cevriye a cucinarli, i peperoni erano dolci, perché aggiungeva zucchero in polvere a ogni alimento, qualunque fosse, probabilmente per compensare l'amarezza del proprio mondo. E quel giorno era stata proprio Cevriye a preparare i dolma. «Sono stata dal medico...» cominciò Zeliha a voce bassa, mentre liberava il suo dolma dall'involucro verde chiaro. «Dottori!» sogghignò Feride, sollevando la forchetta come per indicare qualche lontana catena di montagne su una carta geografica agli studenti di una lezione di geografia. Feride aveva qualche difficoltà a guardare le persone negli occhi, e si sentiva più a proprio agio parlando agli oggetti. Si rivolse perciò al piatto di Zeliha: «Li hai visti i giornali? Hanno operato di appendicite un bambino di nove anni e si sono scordati dentro un paio di forbici. Hai idea di quanti medici dovrebbero finire in galera per negligenza, in questo Paese?». Tra le donne Kazanci, Feride era la più esperta di pratiche mediche. Negli ultimi sei anni le erano state diagnosticate otto diverse malattie, ognuna delle quali più strana della precedente. Impossibile capire se la responsabilità fosse dei medici indecisi e incompetenti o della stessa Feride, impegnata a escogitare sintomi sempre nuovi. In fondo, non faceva alcuna differenza. La buona salute era diventata una terra promessa, una specie di Shangrila da cui Feride era stata deportata e alla quale aspirava un giorno a tornare. Lungo il percorso si era rassegnata a far tappa in varie fermate intermedie, contraddistinte da nomi stravaganti e spiacevoli terapie. Fin da quando era ragazza, c'era sempre stato qualcosa di bizzarro in Feride. Studentessa molto problematica, aveva mostrato un certo interesse solo per la geografia fisica, ma anche in quelle lezioni erano pochi gli argomenti che la appassionavano, e tra essi avevano un posto specia le gli strati atmosferici. I suoi temi preferiti erano cose come la dissoluzione dell'ozono stratosferico e i rapporti tra correnti oceaniche di superficie e modelli atmosferici. Aveva imparato tutto il possibile sulla circolazione stratosferica a latitudini elevate, sulle caratteristiche della mesosfera, sui venti di valle e le brezze di mare, sui cicli solari e le latitudini tropicali, nonché sulla forma e le dimensioni del globo terrestre. Tutto ciò che aveva memorizzato a scuola lo rimetteva in gioco a casa, infarcendo ogni discorso di informazioni sull'atmosfera. Ogni volta che sciorinava le sue conoscenze di fisica geografica si eccitava oltremisura, come se stesse librandosi sopra le nuvole. Poi, un
anno dopo il diploma, aveva cominciato a mostrare segni di eccentricità e dissociazione. Pur senza estinguersi con il passare del tempo, la passione di Feride per la geografia fisica aveva ceduto spazio a un nuovo campo d'interesse: le catastrofi. Tutti i giorni leggeva la cronaca di terza pagina dei tabloid: incidenti stradali, omicidi seriali, uragani, terremoti, incendi e inondazioni, malattie terminali, virus misteriosi... Feride studiava tutto con compunzione; la sua memoria selettiva assorbiva calamità locali, nazionali e internazionali al solo scopo di comunicarle agli altri nei momenti più imprevisti. Non le occorreva molto per incupire il tono di una conversazione, perché fin dalla nascita aveva la capacità di estrarre il peggio da ogni storia, anche a costo di inventarselo di sana pianta. Ma le sue notizie non sconvolgevano più di tanto le altre donne di casa, che da tempo avevano rinunciato a crederle. A Feride era stata dapprima riscontrata una ulcera «da stress», diagnosi che nessuno aveva preso sul serio, dato che il termine «stress» era diventato ormai una specie di luogo comune. Gli istanbuliti, infatti, avevano accolto quel concetto con tale entusiasmo che in breve tempo si era creata in città una folla di pazienti affetti da disturbi di quella natura. Per parte sua, Feride era passata da un problema di «stress» all'altro, sorpresa dall'ampiezza del territorio in cui tutto poteva essere virtualmente ricondotto a quella causa. In seguito aveva girovagato nell'area dei disordini ossessivo-compulsivi, dell'amnesia dissociativa e della depressione psicotica. Quando aveva cercato di suicidarsi, le era stato diagnosticato un «avvelenamento da dulcamara», tra le sue disavventure quella dal nome più poetico. A ogni stadio del suo viaggio clinico, Feride cambiava pettinatura, tanto che a un certo punto i medici, cercando di seguire le mutazioni del suo stato psicologico, cominciarono a tenere un elenco dei suoi tagli di capelli. Corti, media lunghezza, molto lunghi, e in un'occasione rasati a zero; dritti, lisci, con le punte girate in su, intrecciati; sommersi da tonnellate di lacca, gel o schiuma fissante; decorati con mollette, fermagli o nastri; con la cresta alla punk o raccolti in crocchie da ballerina; schiariti dai colpi di sole o tinti di colori improbabili. Ogni cambiamento stilistico non era che una fase passeggera; solo la sua follia rimaneva fissa e immutabile. Dopo un soggiorno prolungato in un «grave disordine depressivo», Feride era passata a una condizione "borderline", termine che i vari membri della famiglia Kazanci interpretavano ognuno a modo suo e comunque in maniera alquanto arbitraria. Sua madre riteneva che il termine «border» avesse qualcosa a che fare con la polizia, le dogane e l'illegalità, il che faceva di Feride una criminale. Per questo Gülsüm era diventata ancora più sospettosa nei confronti di quella pazza di sua figlia, della quale in ogni caso non si era mai fidata granché. Invece alle sorelle il termine «border» ricordava un bordo, un ciglio, e l'idea di ciglio richiamava quella di una pericolosa scogliera. Per un certo periodo le avevano dedicato grandi cure, come se fosse una sonnambula che camminava sulla cima di un muro dal quale rischiava di precipitare da un momento all'altro. Per Petite-Ma la parola «border» evocava piuttosto un orlo ricamato, e perciò la vecchia osservava la nipote con profondo interesse e simpatia.
Di recente Feride era migrata verso una nuova diagnosi, che nessuno riusciva a pronunciare, figuriamoci comprenderla: «schizofrenia ebefrenica» Da qualche tempo era fedele a questa definizione, come se avesse finalmente raggiunto il chiarimento terminologico cui tanto agognava. Indipendentemente dalla diagnosi in cui si riconosceva, Feride viveva in base alle regole della sua personale fantasilandia, fuori dalla quale non aveva mai messo piede. Ma quel primo venerdì di luglio Zeliha non prestò la minima attenzione al ben noto disprezzo che sua sorella nutriva per i medici. Non appena cominciò a mangiare si rese conto di quanto fosse affamata. In pochi istanti divorò un pezzo di çörek, si scolò un bicchiere di ayran, infilzò un altro dolma, e rivelò la notizia di ciò che stava crescendo dentro di lei: «Oggi sono stata dal ginecologo...». «Dal ginecologo!» le fece subito eco Feride, senza aggiungere ulteriori commenti. Tra tutte le categorie di medici, i ginecologi erano quelli con cui aveva avuto meno contatti. «Sono andata dal ginecologo per abortire.» Zeliha completò la frase senza guardare nessuno in particolare. Banu mollò l'ala di pollo e si guardò i piedi come se avessero qualcosa a che fare con la faccenda; Cevriye serrò forte le labbra; Feride strillò e poi scoppiò in una risata stridula e inconsulta; la madre si strofinò nervosamente la fronte, con la sensazione di un tremendo mal di testa in arrivo; e Petite-Ma... be, Petite-Ma continuò a sorbire la sua minestra allo yogurt. Forse perché negli ultimi mesi era diventata piuttosto sorda, o magari perché cominciava a mostrare i primi sintomi di demenza senile. Oppure riteneva che la novità non fosse motivo di particolare preoccupazione. Con Petite-Ma non si poteva mai sapere. «Vuoi dire che sei rimasta incinta? E come se non ba stasse hai ucciso il tuo bambino?» esplose sgomenta Cevriye. «Come hai potuto?» «Non è un bambino!» alzò le spalle Zeliha. «A questo stadio lo chiamerei piuttosto una gocciolina. Sarebbe già più scientifico!» «Scientifico! Tu non sei scientifica, sei solo spietata!» Cevriye scoppiò in lacrime. «Spietata! Ecco cosa sei!» «Be', allora ho buone notizie per te. Non l'ho ucciso...» Zeliha si rivolse con calma alla sorella. «Non nego di averne avuto l'intenzione, anzi. Ci ho provato, ad abortire quella gocciolina, ma per qualche ragione non ha funzionato.» «Cosa vuoi dire?» chiese Banu. Zeliha ostentò un'espressione spavalda. «Allah mi ha mandato un messaggio» annunciò con voce piatta, pur sapendo che era la cosa più sbagliata che potesse dire a una famiglia come la sua. «Me ne sto lì distesa e anestetizzata, con un dottore da una parte e un'infermiera dall'altra. Ancora pochi minuti e il bambino sparirà per sempre! Ma proprio mentre sto per addormentarmi su quel tavolo operatorio, sento il richiamo alla preghiera pomeridiana dalla moschea vicina... Il richiamo è dolce, morbido come velluto, mi avvolge tutta. E poi, prima ancora che la preghiera finisca, qualcuno mi sussurra all'orecchio: "Tu non ucciderai questo bambino!".»
Cevriye sussultò, Feride tossicchiò nervosamente nel tovagliolo, Banu deglutì rumorosamente, e Gulsùm aggrottò la fronte. Soltanto Petite-Ma rimase persa in un mondo migliore, in docile attesa della prossima portata. «E allora...» Zeliha proseguì nel suo racconto, «quella voce misteriosa mi ordina: "Oooh Zeliha! Oooh, sciagurata peccatrice della virtuosa famiglia Kazanci! Che questo bambino viva! Tu ancora non lo sai, ma questo bambino è destinato a essere un capo! Questo bambino sarà un monarca!".» «Non è possibile!» intervenne la professoressa Cevriye, senza lasciarsi sfuggire l'occasione di sfoggiare le proprie conoscenze. «Non ci sono più monarchi, siamo una nazione moderna!» «"Oooh, bada a te, peccatrice, questo bambino regnerà sui propri simili!"» continuò Zeliha fingendo di non aver sentito la lezione. «"Non solo questo Paese, non solo il Medio Oriente e i Balcani: il mondo intero conoscerà il suo nome. Questo tuo figlio sarà guida per le masse, e porterà pace e giustizia all'intero genere umano!"» Zeliha fece una pausa, prese fiato. «Perciò, buone notizie per tutti! Il bambino è ancora con me! Tra non molto dovremo aggiungere un posto a tavola.» «Un bastardo!» esclamò Gülsüm. «Tu vuoi portare in questa famiglia un bambino nato fuori dal vincolo matrimoniale! Un bastardo!» L'effetto di quella parola si allargò, come i cerchi concentrici generati da un sasso gettato nello stagno. «Vergogna! Sei sempre stata una disgrazia per la nostra famiglia.» Il viso di Gülsüm si contorse per la rabbia. «Guarda quell'anello al naso... e tutto quel trucco, e quelle minigonne disgustose e, oh, quei tacchi alti! Ecco cosa succede quando ci si veste come... come una puttana! Dovresti rendere grazie ad Allah giorno e notte; dovresti essergli grata che in questa famiglia non ci siano uomini, o ti avrebbero uccisa.» Non era del tutto vero. Non tanto la parte che riguardava l'ucciderla, su quello c'era ben poco da scherzare, quanto piuttosto l'affermazione che non c'erano uomini in famiglia. C'erano. Da qualche parte. Di sicuro però c'erano meno uomini che donne. Come se un incantesimo maligno fosse stato gettato sull'intera discendenza, i maschi Kazanci erano sempre morti giovani e in maniera improvvisa, generazione dopo generazione. Per esempio, il marito di Petite-Ma, Riza Selim Kazanci, era crollato all'età di sessant'anni, improvvisamente incapace di respira re. Nella generazione successiva, Levent Kazanci era morto per un attacco di cuore prima di aver compiuto cinquantun anni, seguendo l'esempio di suo padre e del padre di suo padre. C'era stato un prozio che era fuggito con una prostituta russa, solo per finire derubato di tutti i suoi soldi e morire congelato a San Pietroburgo. Un lontano parente era stato investito da un'auto mentre attraversava una strada particolarmente trafficata; diversi nipoti erano morti attorno ai vent'anni, uno affogato mentre nuotava ubriaco al chiaro di luna, un altro colpito al petto dal proiettile di un hooligan che festeggiava la vittoria della propria squadra, un altro ancora precipitato in una buca profonda due metri scavata dal comune per sistemare gli scarichi stradali. Un cugino di secondo grado, Ziya, si era sparato senza apparente ragione.
Sembrava che la morte dei maschi Kazanci fosse regolata da una legge non scritta. L'età più avanzata raggiunta dall'attuale generazione era quarantun anni. Ben deciso a non seguire lo schema, un altro prozio si era premurato di condurre una vita sana, evitando i peccati di gola, il sesso con le prostitute, i contatti con gli hooligan, l'alcol e ogni altra forma di intossicazione, ed era morto schiacciato da un blocco di cemento precipitato da un edificio in costruzione accanto al quale stava passando per caso. Poi c'era Celai, un lontano cugino, grande amore e marito di Cevriye. Per ragioni ancora da chiarire, era stato condannato a due anni di prigione in seguito all'accusa di corruzione. Da allora la sua presenza, testimoniata dalle rare lettere che inviava dal carcere, si era fatta così vaga e sbiadita che quando era giunta notizia del suo decesso, per l'intera famiglia (tranne che per sua moglie) era stato come perdere il terzo braccio, quello mai avuto. Era morto nel corso di una rissa, ma non per un pugno o una coltellata, bensì per aver messo il piede su un cavo elettrico scoperto ad alto voltaggio, mentre cercava un posto migliore dal quale osservare i detenuti che si picchiavano. Dopo aver perso l'amore della sua vita, Cevriye, professoressa di storia priva di umorismo e con uno spartano senso della disciplina e dell'autocontrollo, aveva venduto il suo appartamento e si era trasferita in casa Kazanci. Insieme alla campagna contro il plagio intrapresa a scuola, si era fatta carico di promuovere una crociata casalinga contro l'impulsività, la disgregazione morale e la spontaneità in tutte le sue forme. C'era poi Sabahattin, il bonario, sensibile e schivo marito di Banu, che apparentemente godeva di ottima salute. Ma dopo un breve periodo seguito alla luna di miele, zia Banu aveva cominciato a trascorrere più tempo nel konak di famiglia che a casa dello sposo. Quando aveva annunciato di essere in attesa di due gemelli, tutti avevano ironizzato sull'impossibilità tecnica di quella gravidanza. Eppure il terribile fato che attendeva i maschi Kazanci aveva stroncato i due bambini con una malattia infantile, dopodiché Banu era tornata definitivamente nella casa natale, limitando i rapporti con Sabahattin a qualche sporadica visita, più da conoscente premurosa che da moglie amorevole. E, naturalmente, c'era Mustafa, unico figlio maschio di Gülsüm, la gemma preziosa donata da Allah in mezzo a quattro femmine. La fissazione di Levent Kazanci di avere un figlio che tramandasse il cognome aveva fatto sì che le figlie si fossero sempre sentite ospiti poco gradite. Prima erano nate Banu, Cevriye e Feride: le prove generali prima dell'evento principe, poco più che accidentale preludio alla nascita del maschio. Quanto all'ultima figlia, Zeliha sapeva di essere stata concepita nella speranza che la sorte potesse essere generosa due volte di fila. Mustafa era prezioso e fin dalla nascita era stato trattato come tale. Una serie di misure preventive avrebbe dovuto proteggerlo dal triste fato dei maschi di famiglia. Da neonato era sempre ricoperto di amuleti antimalocchio; all'epoca dei primi passi era sottoposto a costante sorveglianza, e fino all'età di otto anni i suoi capelli erano rima sti lunghi come quelli di una ragazza, per ingannare Azrail, l'Angelo della morte. Per chiamarlo gli si rivolgevano dicendo: «Ragazzina, ehi, ragazzina, vieni qui!». Alle superiori il successo di Mustafa, che pure era uno studente brillante, fu compromesso dalla sua incapacità di socializzare. Sovrano indiscusso in casa propria,
fuori il ragazzo non riusciva ad accettare di essere considerato uguale agli altri. Con il passare del tempo era diventato così impopolare che quando Gülsüm cercò di organizzargli una festa per il diploma, non c'era nessuno da invitare. Arrogante e asociale, con ogni compleanno muoveva un altro passo verso il tragico destino dei maschi Kazanci, finché alla madre non venne l'idea di spedirlo all'estero. Nel giro di un mese i gioielli di Petite-Ma furono venduti per raccogliere il denaro necessario e il diciottenne rampollo lasciò Istanbul alla volta dell'Arizona, per diventare uno studente universitario di ingegneria agricola e biosistemi e, così si sperava, invecchiare indisturbato. Perciò, quel primo venerdì di luglio, quando Gülsüm disse a Zeliha che doveva esser grata del fatto che non c'erano uomini in famiglia, quell'affermazione conteneva una parte di verità. Zeliha preferì non rispondere, andò invece in cucina a dar da mangiare all'unico maschio di casa: un soriano grigio dalla fame insaziabile, con un'insolita passione per l'acqua e serie difficoltà di socializzazione che lo facevano apparire molto indipendente nella migliore delle ipotesi e decisamente nevrotico nella peggiore. Si chiamava Pascià Terzo. Nel konak dei Kazanci si erano succedute generazioni di gatti; tutti amati senza eccezione e, al contrario dei maschi di famiglia, tutti morti di vecchiaia. Per quanto ognuno avesse mostrato un proprio spiccato carattere, due geni si erano alternati nella discendenza felina della casa. Da una parte c'era il gene «nobile» di una gatta persiana bianco polvere dal pelo lungo e il naso rincagnato che nel lontano 1920 Petite-Ma, allora giovane sposa, aveva portato con sé nella casa del marito («quel gatto dev'essere l'unica dote che possiede» l'avevano schernita le donne del vicinato) Dall'altra c'era il gene «di strada», eredità di un non meglio identificato gatto randagio, evidentemente dal pelo grigio, con cui la persiana doveva aver copulato durante una delle sue scorribande. A generazioni alterne, come in base a turni prestabiliti, uno di quei due tratti genetici aveva prevalso nei felini di casa Kazanci. A un certo punto, stanca di escogitare nuovi nomi, la famiglia aveva adottato un criterio fisso: se il gattino discendeva dalla linea aristocratica - bianco, pelo lungo, naso schiacciato - veniva battezzato Pascià (Primo, Secondo, Terzo...); se invece risultava appartenere al ramo randagio lo chiamavano Sultan, a sottolineare la superiorità dei gatti di strada, spiriti liberi e indipendenti che non avevano bisogno di adulare nessuno. Fino a quel momento la differenza di nome aveva puntualmente rispecchiato le personalità dei vari animali succedutisi in casa. I nobili si erano sempre dimostrati distaccati, esigenti e tranquilli, costantemente impegnati a leccarsi e ansiosi di far sparire ogni traccia di contatto umano ogni volta che qualcuno li accarezzava. I randagi erano più curiosi, vigorosi e inclini a coltivare vizi bizzarri, come la passione per i cioccolatini. Pascià Terzo era un perfetto esemplare del proprio ramo di discendenza, come testimoniava il suo incedere pomposo. Aveva due passatempi preferiti: rosicchiare i fili elettrici e osservare uccelli e farfalle, troppo pigro per dar loro la caccia. Della seconda attività si stancava presto, della prima mai. A tutti i fili elettrici di casa era toccato di esser mangiati, graffiati, intaccati o comunque danneggiati da lui. Era
sorprendente che Pascià Terzo fosse riuscito a sopravvivere fino a tarda età, visto il numero di scosse elettriche subite nel corso degli anni. «Ecco, Pascià, bel gattino.» Zeliha gli offrì pezzetti di feta, il suo formaggio preferito. Poi si infilò il grembiule e affrontò una montagna di pentole, padelle e piatti. Dopo aver finito la corvée, tornò strascicando i piedi al tavolo da pranzo, dove la parola «bastardo» aleggiava ancora nell'aria e sua madre aveva ancora la fronte aggrottata. Rimasero tutte sedute immobili finché a qualcuno non venne in mente il dessert. Un profumo dolce e rassicurante riempì la stanza quando Cevriye servì le coppette di budino di riso. Mentre lei distribuiva con consumata perizia, Feride, venendole dietro, sparpagliava cocco grattugiato sulla superficie di ogni porzione. «Con la cannella sarebbe stato più buono» si lagnò Banu. «Non avresti dovuto scordarti di comprarla...» Abbandonandosi contro lo schienale della sedia, Zeliha sollevò il capo e aspirò a fondo, come se fumasse una sigaretta invisibile. Espirando lentamente aria e stanchezza, sentì che la sua indifferenza a yo-yo stava svanendo di nuovo. Il suo umore sprofondò sotto il peso di ciò che non era avvenuto in quella lunga e infernale giornata. Osservò con attenzione la tavola apparecchiata, sentendosi sempre più in colpa alla vista di ogni coppetta di budino di riso ricoperta di fiocchi di cocco. Poi, senza alzare lo sguardo, mormorò con una voce così dolce da non sembrare neppure la sua: «Mi dispiace... Mi dispiace molto».
Capitolo due Ceci
Per i depressi e i confusi, i supermercati sono luoghi pericolosi e pieni di trappole, almeno così pensava Rose mentre si dirigeva verso il reparto pannolini, questa volta ben decisa a comprare solo ed esclusivamente ciò che le serviva davvero. Oltretutto, non aveva certo il tempo di gingillarsi: aveva lasciato una bambina piccola nell'auto parcheggiata e si sentiva piuttosto a disagio. A volte le capitava di fare cose di cui si pentiva subito dopo, quando ormai non era più possibile tornare indietro. A dire il vero, incidenti di quel tipo si erano moltiplicati in modo allarmante negli ultimi mesi, per la precisione negli ultimi ire mesi e mezzo. Tre mesi e mezzo d'inferno, durante i quali aveva resistito, combattuto, pianto, supplicato, e alla fine si era arresa. Era possibile che il matrimonio, con la sua folle pretesa di durare in eterno, fosse nient'altro che una presa in giro, ma risultava difficile apprezzare l'ironia di quello scherzo quando non eri tu ad averne voluto la fine. Il fatto che ogni matrimonio, prima di crollare, vacillasse per un certo periodo, rafforzava l'illusione che ci fosse ancora speranza, finché ti rendevi conto di non sperare tanto in una soluzione positiva, quanto nella fine di quell' agonia, di modo che ognuno potesse andarsene per la propria strada. E andarsene per la sua strada era quello che Rose aveva deciso di fare. Se Dio voleva costringerla a strisciare in un tunnel d'angoscia, allora ne sarebbe riemersa completamente cambiata rispetto alla debole donna che era un tempo. A riprova della sua risolutezza, Rose cercò di farsi una risata, che però le morì in gola. Allora sospirò, un sospiro più preoccupato del previsto, perché era finita in un reparto che avrebbe preferito evitare: dolci e cioccolato. Mentre cercava di sfuggire alle tavolette di Fondente all'Aroma di Vaniglia Senza Zucchero a Basso Contenuto di Carboidrati, si fermò di colpo e ne agguantò una, due... cinque. Non che tenesse sotto controllo il consumo di carboidrati, ma le piaceva l'idea che fosse possibile tenere sotto controllo qualcosa, qualunque cosa. Da quando era stata accusata di essere una pessima casalinga e una madre distratta, Rose sentiva il bisogno di dimostrare il contrario, in un modo o nell'altro. In un lampo svoltò l'angolo, ma si ritrovò in un altro corridoio pieno di porcherie. Dove diavolo si erano cacciati i pannolini? Le cadde lo sguardo su una pila di marshmallow al cocco tostato e un attimo dopo si rese conto di averne uno, due... sei pacchi nel carrello. Non farlo, Rose, non farlo... questo pomeriggio hai divorato mezzo chilo di gelato Cherry Garcia... sei già ingrassata anche troppo... Se quella era la voce della coscienza, avrebbe dovuto urlare più forte. Ma il pulsante del senso
di colpa era stato comunque attivato in qualche luogo remoto del suo inconscio, perché di colpo Rose si ritrovò di fronte la propria immagine. Per un fugace momento si vide riflessa in uno specchio inesistente, pur avendo abilmente scansato quello vero dietro al frigo della lattuga biologica. Osservò con una stretta al cuore i fianchi e il sedere sformati, ma riuscì a sorridere agli zigomi alti, ai capelli biondo dorato, agli occhi azzurri, e a quelle perfettissime orecchie! Non importava quanto peso prendessi: le tue orecchie rimanevano sempre uguali, leali in eterno. Sfortunatamente non era lo stesso per il resto del corpo. La struttura fisica di Rose era tutto fuorché leale. Anzi, era così inafferrabile da non corrispondere a nessuna delle tipologie estetiche secondo cui la rivista «Healthy Living» classificava le proprie lettrici. Se fosse appartenuta al tipo «a pera», per esempio, avrebbe dovuto avere i fianchi più larghi delle spalle. Il tipo «a mela», invece, accumulava il grasso soprattutto sullo stomaco e attorno al torace. Assommando in sé le caratteristiche della pera e della mela, Rose non sapeva bene in quale categoria collocarsi, a meno che non esistesse un terzo gruppo, quello «a mango», tondeggiante ovunque, ma sopratutto nella parte inferiore. Al diavolo, pensò, si sarebbe sbarazzata di quei chili di troppo. Adesso che l'incubo del divorzio si era concluso, sarebbe diventata un'altra donna. Assolutamente, pensò. «Assolutamente» era la parola che Rose utilizzava al posto di «sì». E invece di «no» diceva «assolutamente no». Rinfrancata al pensiero di come l'ex marito e la sua famiglia allargata avrebbero reagito alla vista della nuova Rose, perlustrò il corridoio con lo sguardo. Afferrò convinta caramelle e toffee - Butter Toffee a basso contenuto calorico, gelatine di frutta Starburst, stringhe di liquirizia, - le gettò nel carrello e scappò via. Ma il senso di colpa per la sua debolezza tornò ad assalirla, scatenando un altro rimorso, ancora più acuto. Come aveva potuto lasciare la sua bambina tutta sola in auto? Alla televisione era un continuo parlare di bambini rapiti davanti alla porta di casa e di madri irresponsabili... Solo la settimana precedente una donna di Tucson aveva incendiato il proprio appartamento e quasi ucciso i due figli nel sonno. Se mai fosse capitata a lei una cosa del genere, pensò Rose, sua suocera ne sarebbe stata entusiasta. Shushan l'Onnipotente Matriarca le avrebbe fatto immediatamente causa per ottenere la custodia della nipote. Immersa in quel cupo scenario, Rose non potè fare a meno di rabbrividire. D'accordo, negli ultimi mesi era stata un po' distratta, si era scordata delle cose più banali, ma nessuno, nessuno sano di mente avrebbe mai potuto accusarla di essere una cattiva madre! Assolutamente no! E l'avrebbe dimostrato all'ex marito e alla sua spaventosa famiglia armena. Una famiglia che veniva da un Paese in cui la gente aveva cognomi impronunciabili e segreti indecifrabili. Rose si era sempre sentita un'intrusa, perennemente cosciente di essere una odar, parola appiccicosa che le si era incollata addosso fin dal primo giorno. Quando tutto era crollato, dopo un anno e otto mesi di matrimonio, non le era rimasto altro che puro risentimento, e una bambina. «È tutto ciò che mi resta...» borbottò. Era quello, per l'appunto, il primo effetto collaterale del rancore cronico post-matrimoniale: ritrovarsi a parlare da soli. E non importava quanti dialoghi immaginari intrattenessi, non rimanevi mai senza parole.
Durante le settimane precedenti Rose aveva più volte litigato nella propria mente con ogni singolo membro della famiglia Tchakhmakhchian, si era difesa con decisione, e aveva esposto con disinvoltura tutti gli argomenti che non era riuscita a far valere durante il divorzio. Ma eccoli finalmente! Pannolini superassorbenti senza lattice. Mentre li metteva nel carrello, si accorse che un uomo di mezza età dai capelli grigi e la barbetta caprina la osservava sorridendo. In effetti a Rose faceva piacere che la sua condizione di madre venisse notata, e con un pubblico a sua disposizione non potè fare a meno di sorridere a sua volta. Tutta contenta, si allungò a prendere una grossa confezione di salviettine profumate con aloe vera e vitamina E. Grazie a Dio qualcuno la apprezzava in quanto madre. Spinta dal quel bisogno di riconoscimento, percorse avanti e indietro il reparto prodotti per l'infanzia, trovando a ogni passo qualcosa che non le serviva, ma che poteva senz'altro rientrare nella categoria perché no?: tre bottiglie di lozione antibatterica per gli arrossamenti da pannolino, una paperella per il bagnetto che avvisava se l'acqua era troppo calda, un set di sei salvadita per porte, un portarifiuti da auto di Max the Monkey, e una farfalla refrigerabile da mordicchiare per alleviare i fastidi della dentizione. Gettò tutto nel carrello. Chi avrebbe mai potuto ritenerla una madre irresponsabile? Come avevano potuto accusarla di non prestare attenzione alle necessità della sua bambina? Non aveva forse rinunciato all'università quando era nata la piccola? Non aveva forse lavorato sodo per rafforzare il matrimonio? Di tanto in tanto a Rose piaceva immaginarsi nella sua versione migliore, ancora studentessa universitaria, ancora vergine e sì, ancora magra. Di recente aveva trovato lavoro alla caffetteria dell'università, il che poteva forse contribuire alla realizzazione del primo sogno, mentre per gli altri due non c'era più niente da fare. Il viso di Rose si contorse in una smorfia al suo ingresso nel reparto successivo: cucina internazionale. Gettò un'occhiata nervosa ai barattoli di salsa di melanzane e alle scatole di foglie di vite in salamoia. Basta patlijan! Basta sarma! Basta con tutto quello strano cibo etnico! Alla sola vista del khavourma, l'agnello brasato, le si annodò lo stomaco. D'ora in poi avrebbe cucinato quello che piaceva a lei. Avrebbe preparato per sua figlia solo autentici piatti del Kentucky! Per un lungo istante Rose si lambiccò il cervello per trovare un esempio del pasto perfetto. La sua espressione si illuminò al pensiero degli hamburger. Assolutamente! E poi uova fritte, e pancake inondati di sciroppo d'acero e hot dog con le cipolle, e montone alla griglia, sì, soprattutto montone alla griglia... e, da bere, sidro di mele invece di quella roba fangosa a base di yogurt! D'ora in poi avrebbe deciso il menu quotidiano basandosi sulla cucina del Sud, chili piccante e speziato, pancetta affumicata... oppure... ceci. Avrebbe cucinato tutta quella roba senza mai lamentarsi. Non le serviva altro che un uomo seduto a tavola di fronte a lei tutte le sere, un uomo che amasse davvero lei e la sua cucina. Ecco di cosa aveva bisogno Rose: un amante libero da fardelli etnici, con un nome facile da pronunciare e una famiglia normale... Un compagno nuovo di zecca che sapesse apprezzare un piatto di ceci. C'era stato un periodo in cui lei e Barsam si erano amati. Un periodo in cui lui non si accorgeva neppure di cosa c'era in tavola, perché il suo sguardo era altrove, perso
in quello di Rose, immerso nell'amore. Rose avvampò al ricordo di quei momenti di passione, ma, ahimè, di lì a poco era entrata in scena l'orrenda famiglia, e da quel momento il rapporto di coppia aveva cominciato a logorarsi. Rose era convinta che se la banda Tchakhmakhchian non avesse ficcato il naso adunco nel loro matrimonio, suo marito sarebbe rimasto con lei. Perché ti impicciavi sempre delle nostre questioni?, chiese mentalmente a Shushan, immaginandola seduta sulla solita poltrona a contare i punti del lavoro a maglia, l'ennesima copertina per sua nipote. Ma la suocera non rispose. Frustrata, Rose ripetè la domanda. Quello era il secondo effetto collaterale del rancore cronico post-matriminiale: la cieca ostinazione nei rapporti col prossimo. Non importava quanto ti avvicinassi al punto di rottura, non ti arrendevi mai. Perché non ci lasciavate mai in pace? Rose rivolse la medesima domanda, a turno, alle tre sorelle del marito - zia Surpun, zia Zarouhi, zia Varsenig continuando a guardar male i barattoli di baba-ghanoush sullo scaffale. Abbandonò il settore cibi etnici con una brusca svolta nel corridoio successivo. Sull'onda della rabbia e della malinconia percorse da un capo all'altro il reparto cibi in scatola e fagioli secchi, andando quasi a sbattere contro un giovanotto che si trovava lì in mezzo, a studiare lo scaffale su cui erano allineate diverse marche di ceci in scatola. Sono sicura che un secondo fa questo tizio non c'era!, pensò Rose. Sembrava si fosse semplicemente materializzato dal nulla, catapultato dal cielo. Aveva la pelle chiara, la corporatura snella ma ben proporzionata, occhi verdi e un naso a punta che gli conferiva un'aria da studioso. I ca pelli neri erano tagliati corti. A Rose sembrava di averlo già visto, ma non riusciva a ricordare dove e quando. «Sono buoni, vero?» tentò. «Non tutti sanno apprezzarli...» Strappato alla sua meditazione il giovanotto sussultò, si voltò verso la donna pingue e rosea che era spuntata come un fungo al suo fianco e, continuando a stringere una scatoletta di ceci in ciascuna mano, arrossì. Colto di sorpresa, non aveva fatto in tempo a innalzare le proprie difese virili. «Mi scusi...» disse piegando appena la testa a destra, un tic nervoso che Rose scambiò per timidezza. Gli sorrise per mostrargli che sì, lo perdonava, e poi lo fissò dritto in faccia senza batter ciglio, rendendolo ancora più nervoso. Oltre a quella da coniglietta benevola che sfoggiava adesso, Rose disponeva di altre tre espressioni facciali ispirate al regno animale, che utilizzava a seconda dei casi nei rapporti con l'altro sesso: l'espressione da cane fedele, per mostrare totale devozione; quella da gatta sbarazzina, per sedurre; e quella da coyote combattivo, se si sentiva criticata. «Ehi, ma io ti conosco!» eslamò all'improvviso Rose con un sorriso da un orecchio all'altro. «Mi stavo arrovellando per ricordarmi dove potevo averti visto, e adesso lo so! Sei dell'Università dell'Arizona, vero? E scommetto che ti piace la quesadilla di pollo!» Il giovanotto gettò un'occhiata al corridoio, come se meditasse di fuggire ma fosse ancora indeciso sulla direzione. «Lavoro part-time al Cactus Grill.» Rose fece del proprio meglio per chiarirgli le idee. «Il grosso ristorante al secondo piano del Circolo studentesco, ricordi? Di solito sono al banco dei cibi caldi, sai, omelette e quesadilla. Naturalmente è un lavoretto
part-time; non si guadagna granché, ma che vuoi farci? È solo una cosa temporanea. Il mio vero scopo è diventare un'insegnante delle elementari.» Il giovane stava studiando il viso di Rose come se volesse memorizzarlo per eventuali future necessità. «Comunque è lì che devo averti visto» concluse lei. Socchiuse gli occhi e si inumidì il labbro inferiore, passando all'espressione da gattina. «Ho mollato gli studi l'anno scorso perché ho avuto una bambina, ma adesso sto cercando di tornare al college...» «Ah, davvero?» disse lui, ma richiuse subito la bocca. Se Rose avesse avuto qualche esperienza con gli stranieri, avrebbe riconosciuto al volo il riflesso condizionato dello straniero al primo contatto, vale a dire il terrore di impelagarsi in una conversazione con il rischio di non saper usare le parole giuste al momento giusto o con la corretta pronuncia. Comunque, ancora ragazzina, Rose aveva maturato la convinzione che tutto ciò che la circondava doveva essere creato per lei, o causato da lei. Di conseguenza interpretò la diffidenza del ragazzo come prova della propria incapacità a presentarsi nel modo giusto. Per rimediare all'errore gli tese la mano. «Oh, scusa, non mi sono presentata. Mi chiamo Rose.» «Mustafa...» Il giovanotto deglutì a fatica, il pomo d'Adamo che andava su e giù. «Di dove sei?» chiese Rose. «Istanbul» rispose lui seccamente. Rose inarcò le sopracciglia e un lampo di panico le balenò sul viso. Se Mustafa avesse avuto qualche esperienza con i provinciali, avrebbe subito riconosciuto il riflesso condizionato del provinciale insicuro della propria cultura, vale a dire il terrore di non saperne abbastanza di geografia e di storia mondiale. Rose stava cercando disperatamente di ricordarsi dove diavolo fosse Istanbul. Era la capitale dell'Egitto, o forse stava da qualche parte in India...? Aggrottò la fronte, perplessa. Comunque, fin da ragazzino, Mustafa, aveva il terrore che il tempo potesse sfuggirgli di mano trascinando con sé la sua discreta capacità di attrarre le donne. Interpretò quindi l'espressione di Rose come un segno di irritazione per la sua risposta poco interessante. Per rimediare all'errore si affrettò a chiudere la conversazione. «E stato un piacere conoscerti, Rose» disse strascicando le vocali in un melodioso ma non per questo meno evidente accento straniero. «Adesso devo proprio andare...» Rimise velocemente a posto le due scatole di ceci, diede un'occhiata all'orologio, agguantò il suo cestino e se ne andò. Prima che scomparisse, Rose lo sentì borbottare «Ciao» e poi ancora, come se si facesse eco da solo, un altro «Ciao». Perso così il suo misterioso compagno, Rose si rese conto all'improvviso di quanto tempo avesse sprecato nel supermercato. Prese qualche scatoletta di ceci, incluse quelle che Mustafa aveva rimesso a posto, e si affrettò alla cassa. Attraversò il reparto giornali e riviste e fu allora che lo sguardo le cadde su qualcosa che le serviva: Il Grande Atlante Mondiale. Il sottotitolo diceva: ATLANTE MONDIALE, STORICO, GEOGRAFICO E POLITICO. UN AIUTO PER GENITORI, STUDENTI, INSEGNANTI E GIRAMONDO. Afferrò il libro, cercò «Istanbul» nell'indice e, individuata la pagina, guardò la mappa per vedere dov'era.
Poco dopo uscì nel parcheggio e trovò la Cherokee azzurro oltremare del 1984 rovente sotto il sole dell'Arizona, con la sua piccolina addormentata dentro. «Armanoush, svegliati tesoro, la mamma è tornata!» La piccola si mosse ma non aprì gli occhi, neppure quando Rose le riempì il viso di baci. I soffici capelli castani erano legati da un nastro dorato grande quasi come tutta la testolina, e la bambina indossava un vaporoso completino verde a strisce color salmone con bottoni viola. Sembrava un albero di Natale in miniatura decorato da uno schizofrenico. «Hai fame? Questa sera la mamma ti prepara del buon cibo americano!» esclamò Rose mentre sistemava il sacchetto del supermercato sul sedile posteriore, tenendo i marshmallow a portata di mano per il viaggio. Si controllò l'acconciatura nello specchietto retrovisore, mise una cassetta con la sua musica preferita e agguantò una manciata di caramelle gommose prima di mettere in moto. «Ma lo sai che il tizio che ho appena incontrato al supermercato viene dalla Turchia?» disse Rose strizzando l'occhio alla figlioletta nello specchietto retrovisore. Tutto era perfetto nella sua bambina: il nasino a patata, le manine grassocce, i piedini... tutto tranne il nome. La famiglia del marito aveva preteso di darle il nome della bisnonna. Rose rimpiangeva amaramente di non aver potuto scegliere un nome normale, come Annie, o Katie, o Cyndie, anziché accettare quello proposto dalla suocera. Una bambina doveva avere un nome da bambina, e Armanoush proprio non lo era. Suonava così... maturo e freddo, adatto tutt'al più a un'adulta. Avrebbe dovuto aspettare che la sua bambina arrivasse a quarant'anni per riuscire a chiamarla per nome senza mordersi la lingua? Rose levò gli occhi al cielo e ingoiò un marshmallow. Proprio allora ebbe un'idea folgorante: da quel momento avrebbe chiamato sua figlia «Amy», e mandò un bacio alla bambina come per celebrare quel nuovo battesimo. All'incrocio successivo aspettarono che il semaforo diventasse verde. Rose tamburellava sul volante, accompagnando Gloria Estefan: No modern love for me, it's all a hustle What's done is done, now it's my turn to have fun...
Mustafa appoggiò sulla cassa le poche cose che aveva scelto: olive Kalamata, pizza surgelata con feta e spinaci, una scatoletta di zuppa di pollo con tagliolini. Prima del suo arrivo negli Stati Uniti, non aveva mai cucinato in vita sua. Ogni volta che si affannava nella minuscola cucina del suo bilocale da studente, gli sembrava di essere un re spodestato e costretto all'esilio. Erano ormai lontani i giorni felici in cui era servito e riverito da nonna, madre e quattro sorelle devote. Ormai lavare i piatti, pulire, stirare e soprattutto fare la spesa erano diventati il suo fardello. Sarebbe stato forse più facile se fosse riuscito a liberarsi dell'idea che non era un suo compito naturale. Mustafa aveva un coinquilino, uno studente indonesiano che parlava poco, lavorava molto e tutte le sere per addormentarsi ascoltava strane audiocassette come
Suoni di ruscelli di montagna e Canti delle balene. Mustafa aveva sperato che dividere la casa con qualcuno lo avrebbe fatto sentire meno solo in Arizona, invece era successo l'opposto. Di notte, a migliaia di chilometri di distanza dalla sua famiglia, non riusciva a scacciare le voci che gli risuonavano in testa. Voci che lo interrogavano e biasimavano. Dormiva male. Passava le notti a guardare vecchie commedie. Lo faceva sentire meglio. In quei momenti i pensieri gli davano tregua, per ripresentarsi invariabilmente con la luce del giorno. Mentre tornava a piedi dal campus, tra una lezione e l'altra o durante la pausa pranzo, Mustafa si sorprendeva a pensare a Istanbul. Avrebbe tanto voluto cancellare la memoria e riavviare il programma, in modo da eliminare definitivamente tutti i file. L'Arizona avrebbe dovuto risparmiargli il tragico destino che colpiva tutti i maschi della famiglia Kazanci. Ma lui non credeva a certe cose. Allontanarsi da tutte quelle superstizioni, dai ciondoli antimalocchio, dalla lettura dei fondi di caffè e dalle cerimonie divinatorie di cui si dilettava la sua famiglia era stato naturale per lui. Sentiva che tutte quelle cose facevano parte di un mondo oscuro e complicato, riservato alle donne. E le donne erano un mistero. Pur essendo cresciuto attorniato da femmine, Mustafa si era sempre sentito un estraneo fra loro. Aveva attraversato la pubertà in mezzo a quattro sorelle che rappresentavano un tabù per le sue fantasie. Ciononostante in lui erano nati desideri irripetibili nei confronti delle donne. All'inizio si innamorava di ragazze che lo respingevano. Così, terrorizzato dalla possibilità di essere rifiutato e messo in ridicolo, si era ridotto a guardare i corpi femminili da lontano. A osservare con rabbia le foto delle modelle sulle riviste patinate, convinto che nessuna donna tanto perfetta lo avrebbe mai voluto. Mustafa non aveva mai dimenticato l'espressione feroce sulla faccia di Zeliha quando l'aveva chiamato «pisello d'oro» L'imbarazzo di quel momento gli bruciava ancora. Sapeva che Zeliha era in grado di vedere, dietro la sua mascolinità di facciata, la terribile debolezza di un ragazzo viziato e coccolato da una madre oppressa, intimidito e picchiato da un padre oppressivo. Gli aveva detto: «Alla fine sei diventato narcisista e insicuro allo stesso tempo» Le cose fra lui e Zeliha sarebbero potute andare diversamente? Come mai si sentiva così derelitto e poco amato, con tutte quelle sorelle attorno e una madre che stravedeva per lui? Zeliha lo aveva sempre schernito e sua madre lo aveva sempre ammirato. Lui avrebbe voluto essere semplicemente un uomo normale. Buono, anche se non infallibile. Non desiderava altro che un po' di compassione e la possibilità di diventare una persona migliore. Se solo avesse trovato una donna capace di amarlo, tutto sarebbe stato diverso. Mustafa sapeva di dovercela fare, in America, non tanto per garantirsi un futuro migliore, quanto per liberarsi del passato. «Come va?» gli chiese la cassiera con un sorriso. Ecco una cosa alla quale Mustafa non era ancora riuscito ad abituarsi. In America tutti chiedevano a tutti come andava, persino a perfetti estranei. Si rendeva conto che
era una forma di saluto più che una vera domanda, ma comunque non riusciva a rispondere con disinvoltura. «Tutto bene, grazie» disse. «E lei?» La ragazza sorrise e gli chiese: «Da dove viene?» Un giorno, pensò Mustafa, il mio inglese sarà così perfetto che nessuno si permetterà di farmi questa domanda. Prese il suo sacchetto di plastica e uscì dal supermercato.
Una coppia latino-americana stava passando sul marciapiede, lei spingeva una carrozzina, lui teneva un bimbo per mano. Camminavano senza fretta, mentre Rose li osservava invidiosa. Adesso che il suo matrimonio era finito, tutte le coppie le sembravano beatamente felici. «Sai una cosa? Vorrei che quella strega di tua nonna mi avesse visto flirtare con quel turco. Te la immagini la sua reazione? Quale incubo peggiore per l'orgogliosa famiglia Tchakhmakhchian? Orgogliosi e tronfi... orgogliosi e...» Non concluse la frase, perché fu distratta da un altro pensiero maligno. Il semaforo diventò verde, le auto incolonnate davanti a lei si misero in moto e il furgone che aveva dietro cominciò a strombazzare, ma Rose rimase immobile. La deliziosa fantasia in cui era immersa la assorbiva completamente. La sua mente si era perduta in una miriade di immagini, mentre negli occhi le balenava un obliquo lampo di rabbia allo stato puro. Era questo il terzo effetto collaterale del rancore cronico postmatrimoniale: non solo ti ritrovavi a parlare da sola e a essere ostinata con il prossimo, ma diventavi anche piuttosto irrazionale. Perché quando una donna provava un risentimento giustificato, il mondo si capovolgeva, e l'assurdo si confondeva con il ragionevole. Oh, dolce vendetta. La guarigione era un progetto a lungo termine, un investimento che dava i suoi frutti nel corso del tempo. Ma la rappresaglia era veloce da mettere in atto. Rose era pronta a fare qualunque cosa potesse irritare la sua ex suocera. E sulla faccia della terra c'era una sola cosa che avrebbe infastidito le donne della famiglia Tchakhmakhchian più ancora di un odar: un turco! Sarebbe stato decisamente interessante flirtare con l'arci-nemico del suo ex marito. Ma dove trovare un turco in mezzo al deserto dell'Arizona? Non crescevano mica sui cactus! pensò Rose ridacchiando, mentre la sua espressione passava dalla consapevolezza all'intensa gratitudine. Che meravigliosa coincidenza: la sua buona stella le aveva appena servito un turco su un piatto d'argento. Ma forse non si era trattato di semplice coincidenza... Cantando insieme alla cassetta, Rose ripartì. Ma invece di continuare dritta per la sua strada virò a sinistra, fece un'inversione a U e schizzò via nella direzione opposta. Primitive love, I want what it used to be. In un batter d'occhio la Cherokee 1984 azzurro oltremare era tornata al parcheggio del Fry's Supermarket.
I don't bave to think, righ now youve got me at the brink This is good-bye for all the times I cried... L'auto tracciò un semicerchio e raggiunse l'uscita principale. Proprio quando stava perdendo la speranza di rintracciare quel giovanotto, Rose lo vide che aspettava l'autobus, con accanto una minuscola borsa della spesa. «Ehi, Mostafa!» gli urlò Rose sporgendo la testa dal finestrino semiaperto. «Vuoi un passaggio?» «Be', sì, grazie», accettò Mustafa, e avanzò un debole tentativo di correggere la sua pronuncia: «Comunque il mio nome è Mustafa...». Rose gli sorrise dalla macchina. «Mustafa, ti presento mia figlia, Armanoush... ma io la chiamo Amy! Amy, questo è Mustafa, Mustafa, questa è Amy...» Mentre lui sorrideva alla piccola addormentata, Rose studiò il suo viso in cerca di reazioni, ma non ne trovò. Decise allora di dargli un altro indizio, questa volta più esplicito: «Il nome completo di mia figlia è Armanoush Tchakhmakhchian» Se quelle parole avevano provocato qualche effetto negativo, l'espressione di Mustafa non lo diede a vedere. Così Rose pensò di ripeterlo, nel caso non avesse sentito bene alla prima: «Armanoush Tchakhmakhchian!». Fu solo allora che negli occhi verdi del giovanotto ci fu un lampo, anche se non esattamente per la ragione che Rose si aspettava. «Tchakhmakhchian... Ehi, suona quasi turco!» esclamò divertito. «Be', per la precisione sarebbe armeno» disse Rose. Si sentì improvvisamente incerta. «Suo padre... voglio dire, il mio ex marito...» Deglutì a fatica, come se cercasse di liberarsi di un saporaccio rimastole in bocca. «Lui era... voglio dire, è armeno.» «Ah sì?» fece Mustafa indifferente. Mi sa che non ha mica capito..., ragionò fra sé Rose, mordicchiandosi l'interno della guancia. Poi, simile a un singhiozzo a lungo trattenuto, risuonò la sua stridula risata. Però è carino... proprio carino... sarà lui la mia dolce vendetta!, pensò. «Ascolta» gli disse. «Non so se ti piace l'arte messicana, ma domani sera inaugurano una mostra collettiva. Se non hai altri programmi potremmo andarci, e magari poi ci fermiamo a mangiare un boccone da qualche parte, che ne dici?» «Arte messicana?» Mustafa esitò. «Quelli che hanno visto la mostra dicono che è davvero notevole» insistette Rose. «Allora, che ne dici... Ti piacerebbe venirci con me?» «Arte messicana!» ripetè Mustafa con maggiore sicurezza. «Certo, perché no?» «Fantastico» si rallegrò Rose. «Sono contenta di averti conosciuto, Mostafa.» Questa volta Mustafa non sentì il bisogno di correggerla.
Capitolo tre Zucchero
«Ma davvero? Vi prego, qualcuno mi dica che non è vero!» esclamò zio Dikran Stamboulian spalancando la porta con uno schianto e irrompendo in soggiorno alla ricerca del nipote, o delle nipoti, o di chiunque fosse in grado di consolarlo. In preda all'eccitazione, strabuzzava gli occhi scuri. Aveva folti baffi cascanti che si attorcigliavano sulle punte, conferendogli un'espressione sorridente anche quando era seriamente arrabbiato. «Ti prego, zio, calmati e mettiti a sedere» mormorò zia Surpun, la più giovane delle sorelle Tchakhmakhchian, senza guardarlo direttamente in faccia. Unica della famiglia ad aver appoggiato senza riserve il matrimonio di Barsam e Rose, adesso si sentiva in colpa, una sensazione alla quale non era abituata. Docente di letteratura a Berkeley, Surpun era una studiosa femminista sicura di sé, convinta che ogni problema si potesse risolvere con il ragionamento e una pacata discussione. Anche se, in certi momenti, quella sua convinzione la faceva sentire molto sola in una famiglia sanguigna come la sua. Dikran Stamboulian fece come gli era stato detto e si trascinò verso una poltrona, masticandosi la punta di un baffo. L'intera famiglia era raccolta attorno all'antico tavolo di mogano carico di cibarie, anche se nessuno stava mangiando. Le gemelline di zia Varsenig dormivano paci fiche sul divano. C'era anche il lontano cugino Kevork Karaoglanian, arrivato da Minneapolis per uno degli eventi sociali organizzati dalla Comunità dei Giovani Armeni della Bay Area. Negli ultimi tre mesi, Kevork aveva coscienziosamente partecipato a tutte le riunioni del gruppo: un concerto di beneficenza, il picnic annuale, la festa di Natale, la Festa della Luce, l'annuale Gala d'inverno, il brunch domenicale, e una gara di rafting per promuovere l'ecoturismo a Yerevan. Zio Dikran sospettava che il suo bel nipote non venisse tanto spesso a San Francisco solo per gli avvenimenti dell'organizzazione, ma anche perché nutriva una passioncella non ancora ufficializzata per una ragazza del gruppo. Dikran Stamboulian lanciò un'occhiata di rimpianto al cibo pronto in tavola, e allungò la mano verso una caraffa di bevanda allo yogurt, americanizzata dalla quantità esagerata di cubetti di ghiaccio. Nelle ciotole di terracotta multicolore c'erano molti dei piatti che più amava: fassoulye pilaki, kadin budu köfte, karniyank, churek appena preparato e, per sua massima delizia, bastirma. Per quanto fosse ancora furibondo, alla vista di quest'ultimo si rincuorò, e si sciolse del tutto quando accanto a esso notò i suoi dolci preferiti, i burma.
Malgrado la continua sorveglianza alimentare di sua moglie, zio Dikran ogni anno aggiungeva un nuovo strato di ciccia alla sua famigerata pancia, un po' come un tronco di un albero che ogni anno aggiunge un nuovo anello. Era un omone tarchiato e corpulento, al quale non importava di attirare l'attenzione sull'una o l'altra di quelle caratteristiche. Due anni prima gli avevano offerto una parte nella pubblicità di una marca di pasta. Impersonava un cuoco dall'inguaribile buonumore, che non si abbatteva neanche dopo essere stato piantato dalla ragazza, purché gli restasse una cucina dove prepararsi un bel piatto di spaghetti. In effetti, proprio come nella pubblicità, zio Dikran era sempre così gioviale da essere considerato la dimostra zione vivente del luogo comune secondo cui i ciccioni sono le persone più allegre del mondo. Ma quel giorno zio Dikran non sembrava lui. «Dov'è Barsam?» chiese mentre agguantava un köfte. «Lo sa cosa sta macchinando sua moglie?» «Ex moglie!» lo corresse zia Zarouhi. Come insegnante elementare avventizia, alle prese per tutto il giorno con branchi di ragazzini incontrollabili, non poteva fare a meno di correggere ogni errore che le capitava di sentire. «Certo, ex! Peccato che lei non se ne voglia rendere conto! Quella donna è pazza, te lo dico io. Lo fa apposta. Se non lo fa solo per spregio nei nostri confronti, non mi chiamo più Dikran. Trovatemi un altro nome!» «Non ti serve un altro nome» lo consolò zia Varsenig. «Non c'è dubbio che lo stia facendo deliberatamente...» «Dobbiamo salvare Armanoush» intervenne nonna Shushan, la matriarca della famiglia. Si alzò da tavola e raggiunse la sua poltrona strisciando i piedi. Pur essendo una cuoca provetta non aveva mai mangiato molto e negli ultimi tempi, almeno così temevano le figlie, doveva aver trovato il modo di sopravvivere consumando meno di una tazza di riso al giorno. Era una donna piccola e ossuta, con la straordinaria capacità di tenere sotto controllo situazioni ben più terrificanti di quella; i suoi lineamenti delicati irradiavano un'aura di tranquilla ma autorevole competenza. Il suo disconoscimento a priori della sconfitta, qualunque essa fosse, l'inflessibile convinzione che la vita per un armeno era sempre e comunque una lotta, e la capacità di avere la meglio su chiunque le capitasse a tiro nel corso degli anni avevano lasciato di stucco più di una volta i membri della famiglia. «Niente è più importante del benessere della piccola» borbottò nonna Shushan accarezzando la medaglia d'argento di Sant'Antonio che portava sempre. Il santo patrono degli oggetti perduti l'aveva spesso aiutata a superare il dolore per le perdite subite nella vita. Raccolse il suo lavoro a maglia e si mise a sedere. Le prime righe di una copertina celeste da bambino pendevano dai ferri, con le iniziali A. K. lavorate lungo il bordo. Ci fu un momento di silenzio, mentre tutti osservavano le sue mani che si muovevano aggraziate sui ferri. Lo sferruzzare di nonna Shushan aveva sulla famiglia l'effetto di una terapia di gruppo. La cadenza costante e regolare di ogni punto tranquillizzava quelli che vi assistevano, dando la sensazione che non ci fosse nulla da temere, che alla fine tutto si sarebbe sistemato.
«Hai ragione. Povera piccola Armanoush» convenne zio Dikran, che di regola prendeva le parti di Shushan in ogni discussione di famiglia, ben sapendo che non era il caso di mostrarsi in disaccordo con l'onnipotente mater familias. Abbassò la voce e chiese: «Che ne sarà di quel povero agnellino?». Prima che qualcuno potesse rispondere si sentì un tintinnio all'ingresso, e una chiave girò nella toppa. Entrò Barsam, pallido in viso e con uno sguardo preoccupato dietro gli occhiali cerchiati di metallo. «To! Guarda chi c'è!» disse zio Dikran. «Mio caro signor Barsam, tua figlia sarà cresciuta da un turco e tu non fai nulla per impedirlo... Amot!» «Che ci posso fare?» si lamentò Barsam Tchakhmakhchian, studiando l'enorme riproduzione della Natura morta con maschere di Martiros Saryan come se la risposta fosse nascosta da qualche parte nel quadro. Ma non dovette trovare sollievo, perché quando riprese a parlare il suo tono era inconsolabile: «Non ho il diritto di interferire. Rose è sua madre». «Aman! Che razza di madre!» rise Dikran Stamboulian. Per un uomo della sua corporatura, aveva una risata buffamente stridula, difetto di cui era cosciente e che di solito provava a controllare, tranne quando era particolarmente agitato. «Cosa racconterà quell'agnellino ai suoi amici quando sarà grande? Mio padre è Barsam Tchakhmakhchian, il mio prozio è Dikram Stamboulian, suo padre è Varvant Instanboulian, il mio nome è Armanoush Tchakhmakhchian, il mio intero albero genealogico è fatto di Qualchecosa Qualchecosian, discendo dai sopravvissuti al genocidio perpetrato dai macellai turchi nel 1915... ma ho subito il lavaggio del cervello perché mi ha allevata un turco di nome Mustafa! Che scherzo è questo?... Ah, marnim khalasim!» Dikran Stamboulian fece una pausa e osservò con attenzione il nipote, per valutare l'effetto delle sue parole. Barsam era immobile come una roccia. «Muoviti, Barsam!» esclamò zio Dikran, questa volta più forte. «Vola subito a Tucson e metti fine a questa commedia prima che sia troppo tardi. Va a parlare con tua moglie. Haydeh!» «Ex moglie!» lo corresse zia Zarouhi, servendosi un burma. «Ah, questo non lo dovrei mangiare, con tutto lo zucchero che c'è dentro. Troppe calorie. Mamma, perché non provi a usare i dolcificanti artificiali?» «Perché niente che sia artificiale entrerà mai nella mia cucina» rispose Shushan Tchakhmakhchian. «Mangia liberamente, prima che da vecchia ti venga il diabete. C'è una stagione per ogni cosa.» «Bene, allora suppongo di essere ancora in piena stagione degli zuccheri.» Zia Zarouhi strizzò l'occhio, ma osò mangiare soltanto mezzo burma. Continuando a masticare si rivolse al fratello: «E poi cosa ci fa Rose in Arizona?». «Ha trovato lavoro laggiù» spiegò Barsam inespressivo. «Capirai che lavoro!» commentò zia Varsenig dandosi un colpetto sul naso. «Cosa vuole dimostrare riempiendo enchiladas come se non avesse un soldo? Lo fa apposta, ve lo dico io. Vuole che il mondo intero se la prenda con noi, vuole che tutti pensino che non le diamo di che mantenere la bambina. La coraggiosa madre single che lotta contro tutte le avversità! Ecco la parte che sta recitando!»
«Armanoush starà benissimo» borbottò Barsam cer cando di non suonare disperato. «Rose è rimasta in Arizona perché vuole tornare al college, e il lavoro al Circolo studentesco è solo temporaneo. Quel che vuole davvero è diventare insegnante elementare, passare il tempo con i bambini, e non c'è niente di male in questo. Finché lei sta bene e si prende cura di Armanoush, che differenza fa con chi si vede?» «Hai ragione, però hai anche torto» sentenziò zia Surpun raccogliendo le gambe sotto di sé sulla sedia, con un lampo di cinismo nello sguardo improvvisamente duro. «In un mondo ideale potresti benissimo dire: be, la vita è sua e la cosa non ci riguarda. Se non te ne importasse niente della nostra storia, se non avessi ricordi né responsabilità e vivessi solo nel presente, allora potresti cavartela così. Ma il passato sopravvive nel presente, i nostri antenati respirano attraverso i nostri figli, e tu lo sai... Finché Rose ha tua figlia, tu hai tutti i diritti di intervenire nella sua vita. Soprattutto se quella esce con un turco!» Intervenne zia Varsenig, mai a proprio agio con i discorsi filosofici e amante del parlar chiaro: «Mio caro Barsam, hai mai visto un turco che sappia parlare armeno?» Invece di rispondere, Barsam lanciò alla sorella maggiore una lunga occhiata di traverso. Lei proseguì: «Dimmi quanti turchi si sono preoccupati di imparare l'armeno. Nessuno! Perché le nostre madri hanno imparato la loro lingua, e invece loro non si sono mai presi la briga di imparare la nostra? Non è evidente chi ha dominato chi? Sbaglio o furono solo una manciata i turchi che arrivarono dall'Asia centrale? E in men che non si dica, eccoli dappertutto! Che fine hanno fatto i milioni di armeni che c'erano prima di loro? Assimilati! Massacrati! Resi orfani! Deportati! E poi dimenticati! Come puoi permettere che tua figlia, carne della tua carne, finisca nelle mani dei responsabili del nostro dolore e della nostra tentata estinzione? Mesrop Mashtots si rivolterebbe nella tomba!». Scuotendo il capo, Barsam restò in silenzio. Per alleviare il disagio del nipote, zio Dikran si mise a raccontare una storia. «Un arabo va dal barbiere per farsi tagliare i capelli. Dopo il taglio fa per pagare, ma il barbiere gli dice: "No, non posso accettare i tuoi soldi. Sono al servizio della comunità". L'arabo è piacevolmente sorpreso e se ne va. La mattina dopo, aprendo il negozio, il barbiere trova davanti alla porta un cesto di datteri e un biglietto di ringraziamento.» Una delle gemelle sul divano cominciò a lamentarsi nel sonno, ma smise quasi subito. «Il giorno dopo un turco si presenta dallo stesso barbiere per farsi tagliare i capelli. Dopo il taglio fa per pagare, ma il barbiere dice di nuovo: "No, non posso accettare i tuoi soldi. Sono al servizio della comunità". Il turco è piacevolmente sorpreso e se ne va. La mattina dopo, aprendo il negozio, il barbiere trova davanti alla porta una scatola di lokum e un biglietto di ringraziamento.» Svegliata dai movimenti della sorella, l'altra gemella si mise a piangere. Zia Varsenig corse da lei e riuscì a tranquillizzarla con il semplice tocco delle dita.
«Il giorno successivo, entra un armeno per farsi tagliare i capelli. Dopo il taglio fa per pagare il barbiere, che rifiuta il denaro: "No, non posso accettare i tuoi soldi. Sono al servizio della comunità". L'armeno è piacevolmente sorpreso e se ne va. Quando la mattina dopo il barbiere apre il negozio... indovinate cosa trova?» «Un pacchetto di burma!» suggerì Kevork. «No! Una dozzina di armeni in attesa di un taglio gratuito!» «Stai cercando di dirci che siamo gente tirchia?» chiese Kevork. «No, mio giovane ignorante» ribattè zio Dikran. «Quello che sto cercando di dire è che ci prendiamo cura gli uni degli altri. Se troviamo qualcosa di buono, lo condividiamo subito con i nostri parenti e amici. È grazie a questo senso della comunità che gli armeni sono riusciti a sopravvivere.» «Però si dice anche che quando due armeni si incontrano, nascono tre chiese diverse» obiettò il cugino Kevork. «Das' mader's mom'ri, noren koh chi m'nats» grugnì Dikran Stamboulian passando all'armeno, come faceva tutte le volte che provava a impartire una lezione a una persona più giovane e falliva. In grado di comprendere l'armeno di casa ma non quello dei giornali, Kevork ridacchiò, forse un po' troppo nervosamente, cercando di nascondere il fatto che aveva capito solo la prima parte della frase. « lani kizdirmayasin.» Nonna Shushan inarcò un sopracciglio e parlò in turco, come faceva ogni volta che voleva comunicare con qualcuno dei più anziani senza che i giovani capissero. Ricevuto il messaggio, zio Dikran emise un sospiro e, come un ragazzino rimproverato dalla madre, si consolò con il suo burma. Cadde il silenzio, su tutti e tutto: i tre uomini, le tre generazioni di donne, la miriade di tappeti che decoravano il pavimento, l'argenteria antica sulla credenza, il samovar sullo chiffonnier, la cassetta nel videoregistratore (Il colore del melograno), l'icona della Preghiera di Sant'Anna e il poster del monte Ararat coperto di candida neve. Quella calma si protrasse per un lungo istante, mentre la stanza si riempiva della luce irreale di un lampione appena acceso fuori dalla finestra. I fantasmi del passato erano con loro. Un'auto si fermò davanti alla casa, i fari spazzarono l'interno della sala e illuminarono le parole appese alla parete dentro una cornice d'oro: AMEN, IN VERITÀ VI DICO CHE TUTTE LE COSE CHE VOI AVRETE UNITO SULLA TERRA SARANNO UNITE NEL CIELO; E TUTTE LE COSE CHE AVRETE SEPARATO SULLA TERRA SARANNO SEPARATE NEL CIELO. MATTEO 18, 18. Passò un tram, scampanellante e carico di turisti diretti verso l'Aquatic Park, il Maritime Museum e il Fisherman's Wharf. I rumori dell'ora di punta a San Francisco si riversarono nella stanza, riscuotendo tutti dalle loro fantasticherie. «In fondo Rose non è cattiva» azzardò Barsam. «Per lei non è stato facile adattarsi alle nostre abitudini. Quando ci siamo conosciuti era solo una timida ragazza del Kentucky.» «Dicono che la strada per l'inferno sia lastricata di buone intenzioni» lo rimbeccò zio Dikran.
Barsam proseguì. «Ma ve lo immaginate? Un posto dove non vendono neppure gli alcolici: sono vietati! Lo sapevate che l'evento più eccitante di Elizabethtown, Kentucky, è il festival annuale durante il quale tutti si travestono da Padri fondatori?» Barsam alzò le mani, i palmi al cielo, non si capiva bene se per sottolineare quanto appena detto o per richiamare l'attenzione di Dio. «E poi se ne vanno in centro per incontrare il generale George Armstrong Custer!» «Ecco perché non avresti dovuto sposarla» ridacchiò sommessamente zio Dikran. Ormai tutta la furia l'aveva abbandonato, sostituita dalla consapevolezza che non poteva continuare a fare il duro con il suo nipote preferito. «Quello che sto cercando di dire è che Rose non ha un background multiculturale» insistette Barsam. «È figlia unica di una gentile coppia del Sud che lavora da sempre nello stesso negozio di ferramenta, ha vissuto tutta la giovinezza in una cittadina di provincia, e prima di potersene anche solo rendere conto si è ritrovata nel bel mezzo di questa famiglia allargata di armeni cattolici della diaspora. Una grande famiglia dal passato traumatico! Come avrebbe potuto far fronte a una situazione del genere?» «Be', non è stato facile neppure per noi» obiettò zia Varsenig puntando i rebbi della forchetta verso il fratello prima di infilzare un altro köfte. Al contrario di sua madre, godeva di ottimo appetito, e tenendo conto della quantità di cibo che ingurgitava ogni giorno e del fatto che aveva di recente dato alla luce una coppia di gemelle, era poco meno di un miracolo che riuscisse a mantenersi così snella. «Se penso che tutto quello che sapeva cucinare era quell'orrendo montone alla griglia! Tutte le volte che venivamo a trovarti, si infilava quel grembiule sudicio e attaccava ad arrostire il montone sulla griglia.» Risero tutti tranne Barsam. «Oh, ma dovrei essere obiettiva» continuò zia Varsenig, compiaciuta per la reazione del suo pubblico. «Di tanto in tanto cambiava il condimento. A volte ci toccava montone alla griglia con salsa piccante Tex-Mex, altre montone alla griglia con salsa Creamy Ranch... La cucina di tua moglie offriva un'infinita distesa di possibilità!» «Ex moglie!» corresse ancora zia Zarouhi. «Ma voi non le avete certo facilitato le cose» ribattè Barsam rivolto a nessuno in particolare. «Se ben ricordate, la prima parola armena che ha imparato è stata odar.» «Ma lei è una odar.» Zio Dikran si sporse in avanti e assestò una pacca sulla schiena del nipote. «E visto che è una odar, perché non chiamarla col suo nome?» Più scosso dalla botta che dalla domanda, Barsam si sforzò di aggiungere: «In questa famiglia c'è stato persino chi l'ha chiamata Spina» «Cosa c'è di male?» Nella pausa tra gli ultimi due bocconi di churek, zia Varsenig la prese sul personale. «Quella donna dovrebbe cambiar nome, da Rose in Spina, Rose non è adatto a lei: un nome così dolce per una persona tanto sgradevole. Se i suoi poveri genitori avessero saputo che razza di donna sarebbe diventata, credimi, caro fratello, sarebbero stati i primi a chiamarla Spina!» «Adesso basta scherzare!» L'esclamazione di Shushan Tchakhmakhchian non aveva avuto il tono di un rimprovero né di un avvertimento, ma ebbe lo stesso effetto su tutti quanti. Il
crepuscolo era diventato notte e nella stanza la luce scarseggiava. Nonna Shushan si alzò e andò ad accendere il lampadario di cristallo. «Dobbiamo pensare a proteggere Armanoush, questa è l'unica cosa che conta» disse a voce bassa, le innumerevoli rughe del viso e le sottili venuzze viola delle mani rese ancora più evidenti dall'impietosa luce bianca. «Quell'agnellino ha bisogno di noi, proprio come noi abbiamo bisogno di lei.» L'espressione determinata sul suo viso si mutò in rassegnazione, mentre aggiungeva: «Solo un armeno è in grado di capire cosa significa veder ridursi la propria famiglia. Siamo come un albero appena potato... Rose può frequentare e persino sposare chi le pare, ma sua figlia è armena, e da armena dev'essere allevata». Con ciò si chinò in avanti e rivolse un sorriso alla figlia maggiore: «Mi dai quel boccone che hai ancora nel piatto, ti dispiace? Diabete o no, come si fa a resistere a un burma?»
Capitolo quattro Nocciole tostate
Asya Kazanci non capiva perché certe persone andavano pazze per i compleanni. Lei li aveva sempre detestati. Forse quella sua avversione derivava dal fatto che, fin da piccola, per il suo compleanno le era toccato mangiare sempre la stessa torta: una torta di mele caramellata a tre strati (troppo dolce) con una copertura di crema al limone (troppo aspra) Non riusciva proprio a capacitarsi che le sue zie potessero illudersi di farla contenta con quella torta, visto che la sua unica reazione era invariabilmente una litania di proteste. Forse se ne dimenticavano. A ogni ricorrenza cancellavano la memoria dei compleanni precedenti. Possibilissimo. L'intera famiglia Kazanci aveva la tendenza a non dimenticare mai le storie degli altri, mentre non era capace di ricordare le proprie. Perciò, a ogni compleanno, Asya Kazanci aveva mangiato la stessa torta, e ogni volta aveva fatto una nuova scoperta su se stessa. A tre anni, per esempio, aveva scoperto di poter ottenere quasi tutto ciò che voleva facendo i capricci. Tre anni dopo, nel giorno del suo sesto compleanno, aveva capito che doveva piantarla con quelle bizze, se non voleva venire perennemente considerata una bambina piccola. Arrivata a otto anni, imparò una cosa di cui fino ad allora aveva avuto un vago sentore, senza però arrivare a conclusioni definitive: era una bastarda. Riflettendoci a posteriori, concluse che non poteva assumersi il merito di quella scoperta, perché se non fosse stato per nonna Gülsüm le ci sarebbe voluto molto più tempo per capirlo. Quel giorno erano rimaste sole in salotto. Nonna Gülsüm annaffiava le piante e Asya la osservava, colorando distrattamente il disegno di un clown su un album per bambini. «Perché parli con le piante?» aveva chiesto Asya. «Le piante crescono meglio se ci parli.» «Davvero?» aveva sorriso Asya raggiante. «Davvero. Se gli racconti che la terra è la loro madre e che l'acqua è il loro padre, sono tutte contente, e fioriscono.» Asya riprese a colorare senza fare altre domande. Fece il vestito del clown arancione, i denti verdi. Proprio mentre stava per cominciare a colorare le scarpe di rosso brillante si fermò, e cominciò a fare l'imitazione della nonna: «Tesoro, tesoruccio! La terra è la tua mamma, l'acqua è il tuo papà».
Nonna Gülsüm fece finta di non averla sentita. Imbaldanzita dalla sua indifferenza, Asya aumentò il volume della cantilena. Era il turno della violetta africana, la preferita di nonna Gülsüm, che cominciò a chiocciare rivolta al fiore: «Come stai, tesoro?» E Asya, prendendola in giro: «Come stai, tesoro?» Nonna Gülsüm si accigliò e serrò le labbra. «Ma che bel colorito viola!» disse. «Ma che bel colorito viola!» Fu allora che le labbra di nonna Gülsüm fremettero: «Bastarda» La nonna pronunciò quella parola con tale tranquillità che Asya non si rese subito conto che era con lei che ce l'aveva, e non con la violetta. Asya scoprì il significato di quella parola soltanto un anno dopo, poco prima del suo nono compleanno, quan do a scuola un bambino la chiamò bastarda. A dieci anni, invece, scoprì che al contrario delle sue compagne di scuola, lei non aveva in casa alcun modello di riferimento maschile. Le sarebbero occorsi altri tre anni per comprenderne i possibili effetti a lungo termine sulla sua personalità. In occasione del quattordicesimo, quindicesimo e sedicesimo compleanno, scoprì tre nuove verità sulla vita: le altre famiglie non erano come la sua e certe riuscivano a essere persino normali; nella sua ascendenza c'erano troppe donne e troppi segreti che circondavano l'assenza di uomini; Asya poteva sforzarsi quanto voleva, ma non sarebbe mai diventata una bella donna. Arrivata ai diciassette anni, Asya Kazanci aveva capito anche di non appartenere a Istanbul più di quanto le appartenessero i cartelli STRADA IN COSTRUZIONE e PALAZZO IN CORSO DI RESTAURO piazzati temporaneamente dall'amministrazione comunale, o la nebbia che ricopriva la città nelle serate umide per svanire allo spuntare dell'alba. L'anno successivo, appena prima del diciottesimo compleanno, Asya si impadronì della scatola dei medicinali e ingoiò tutte le pillole che c'erano dentro. Riaprì gli occhi in un letto, circondata da tutte le zie, da Petite-Ma e da nonna Gülsüm, decise a farle bere infusi d'erbe densi e puzzolenti, come se non l'avessero già torturata abbastanza costringendola a vomitare tutto quanto aveva in pancia. Asya aveva celebrato la fine del suo diciottesimo anno di vita con un'altra scoperta: in questo strano mondo, il suicidio era un privilegio raro quanto i rubini, e con una famiglia come la sua non c'era modo di rientrare nel novero dei privilegiati. Difficile dire se esistesse qualche collegamento tra quella deduzione e ciò che venne dopo, ma è certo che la sua ossessione per la musica cominciò più o meno nello stesso periodo. Non si trattava di un amore astratto, totale e generalizzato, e neppure di una passione per determinati generi musicali, ma di una fissazione per un cantante in particolare: Johnny Cash. Asya sapeva tutto di lui: la miriade di dettagli sulla parabola che l'aveva condotto dall'Arkansas a Memphis, con chi aveva bevuto un bicchiere, con chi si era sposato, i suoi alti e bassi, quali sue foto fossero in circolazione e, ovviamente, tutti i suoi testi. A diciott'anni aveva adottato le parole di Thirteen come legge di vita, e aveva deciso di essere nata anche lei «nell'anima della miseria», destinata «a portare guai ovunque».
Oggi, diciannovenne, Asya si sentiva più matura, avendo preso nota di un'altra verità sulla propria esistenza: aveva raggiunto la stessa età in cui sua madre aveva avuto lei. Pur sentendo che si trattava di un fatto importante, non sapeva bene che uso farne. A parte pretendere che la smettessero di trattarla come una bambina. Così protestò: «Vi avverto! Quest'anno non voglio nessuna torta di compleanno!» Spalle dritte, mani sui fianchi, si scordò per un istante che in quella posizione il suo grosso seno risaltava ancora di più. Se ci avesse pensato avrebbe subito ripreso la solita postura ingobbita, dato che quel seno prorompente, marchio genetico di sua madre, proprio non lo sopportava. In certi momenti si sentiva come quell'enigmatica creatura del Corano, Dabbetul Arz, l'orco che comparirà il giorno del Giudizio, fatto di organi presi ognuno da un animale diverso tra quelli esistenti in natura. Le sembrava che anche il suo corpo fosse composto di parti sconnesse, ereditate dalle donne della famiglia. Era alta, molto più alta delle altre ragazze di Istanbul, proprio come la madre Zeliha, che lei chiamava «zia»; aveva le mani sottili e ossute con le vene in evidenza di zia Cevriye, lo sgradevole mento a punta di zia Feride, e le orecchie da elefante di zia Banu. Aveva inoltre il più sfacciato dei nasi aquilini, di cui esistevano soltanto due esempi peggiori nella storia mondiale: quello del sultano Mehmet il Conquistatore, e quello di zia Zeliha. Che le piacesse o no, il sultano Mehmet aveva conquistato Costantinopoli, impresa sufficiente a far passare in secondo piano un dettaglio come la forma del suo naso. Quanto a zia Zeliha, aveva una personalità così travolgente e un corpo così seducente che nessuno avrebbe mai considerato il suo naso - o nessun'altra parte del corpo - una fonte di imperfezione. Non avendo nel proprio curriculum l'abilità di affascinare le persone, né tantomeno una conquista imperiale, Asya si domandava cosa diavolo potesse fare per quel suo terribile naso. Tra i tratti ereditari, bisognava ammetterlo, ce n'erano di piacevoli. Primo fra tutti, i capelli. I suoi erano selvaggi, neri e ricciuti, in teoria come quelli di tutte le donne di famiglia, in pratica come quelli della sola zia Zeliha. Da disciplinata insegnante di scuola superiore, zia Cevriye li portava raccolti in uno stretto chignon. Zia Feride cambiava colore dei capelli e acconciatura a seconda dell'umore. Zia Banu, che aveva quasi sempre il capo coperto, era fuori classifica. Nonna Gülsüm era una testa di cotone, perché rifiutava di tingersi i capelli bianchi, sostenendo che non si addiceva a una vecchia signora. Invece Petite-Ma restava devota al suo rosso. L'Alzheimer in continuo peggioramento poteva farle scordare tutto, anche il nome dei suoi figli, ma fino a quel momento non si era mai dimenticata di tingersi i capelli con l'henne. A seguire, nella lista di eredità genetiche positive, Asya Kazanci poneva gli occhi a mandorla color miele (zia Banu), la fronte alta (zia Cevriye) e un temperamento focoso che la rendeva soggetta a improvvise esplosioni d'ira ma che, allo stesso tempo, la manteneva viva (come zia Feride) Eppure Asya detestava il fatto che con il passare degli anni finiva per somigliare sempre più a loro. Tranne che per una cosa: le donne Kazanci erano inguaribilmente irrazionali. Per reazione Asya si era ripromessa di non deviare mai dal sentiero tracciato dalla propria mente razionale e analitica.
Arrivata al diciannovesimo compleanno, era una giovane donna così desiderosa di affermare la propria indivi dualità da essere capace delle più strane forme di ribellione. Perciò, questa volta, c'era una ragione più profonda nella furia con cui ribadì la propria avversione per la torta: «Non voglio più la vostra stupida torta!». «Troppo tardi, signorina. È già pronta» annunciò zia Banu, scoccandole un'occhiata sopra l'otto di coppe appena pescato. A meno che le tre carte successive non ribaltassero la situazione, lo schema dei tarocchi che aveva composto non lasciava presagire nulla di buono. «Ma vedi di far finta di non saperne niente, altrimenti la tua povera mamma ci resterà male: dovrebbe essere una sorpresa!» «Come fa una cosa tanto prevedibile a essere una sorpresa?» borbottò Asya. Ma ormai sapeva fin troppo bene che far parte della famiglia Kazanci significava, fra l'altro, professare l'alchimia del controsenso, imparando a trasformare le assurdità in una forma di logica con cui riuscivi a convincere gli altri e, con un po' di buona volontà, persino te stessa. «In questa casa sono io quella che dovrebbe predire e presagire, non tu!» scherzò zia Banu con una strizzata d'occhio. Era vero, almeno fino a un certo punto. Dopo aver affinato negli anni il proprio talento per la divinazione, zia Banu aveva cominciato a ricevere clienti in casa, guadagnandoci dei bei soldi. A Istanbul una chiaroveggente poteva diventare leggenda in un batter d'occhio. Se la fortuna era dalla tua parte, bastava un po' di successo nel leggere il futuro di una persona che quella diventava il tuo cliente più affezionato. Con l'aiuto del vento e dei gabbiani la voce si spargeva in tutta la città, e nel giro di una settimana ti ritrovavi con la fila davnti alla porta. Era in quel modo che zia Banu era arrivata ai vertici della popolarità, diventando più famosa a ogni squillo di campanello. Le clienti arrivavano da tutta la città, vergini e vedove, giovani e vecchie sdentate, povere e ricche, ognuna immersa nei propri crucci e ognuna che moriva dalla voglia di sapere che cosa la fortuna, quella volubile entità femminile, aveva in serbo per lei. Arrivavano con groppi di domande in gola, e se ne andavano con altre domande. Qualcuna pagava ingenti somme per esprimere la propria gratitudine o per ingraziarsi la sorte, ma ce n'erano altre che non sganciavano un centesimo. Per quanto diverse fra loro, le clienti di Banu avevano un elemento in comune: erano tutte donne. Il giorno in cui si era autoproclamata indovina, Banu aveva fatto voto di non ricevere mai clienti maschi. Nel frattempo la zia aveva subito diversi cambiamenti radicali, a cominciare dall'abbigliamento. Agli esordi della carriera di chiromante prediligeva gli scialli scarlatti e fittamente ricamati, che si arrangiava sulle spalle con studiata disinvoltura. Ben presto, però, gli scialli furono rimpiazzati da sciarpe di cashmere, poi le sciarpe da stole di pashmina, quindi le stole da turbanti di seta mollemente annodati, sempre sui toni del rosso. Dopodiché zia Banu aveva annunciato una decisione che stava segretamente macchinando da chissà quanto tempo: si sarebbe staccata da tutto ciò che era materiale e terreno per mettersi totalmente al servizio di Allah. Per raggiungere il suo scopo aveva solennemente dichiarato di essere pronta a sottoporsi a una serie di penitenze, in un percorso di progressivo abbandono delle vanità del mondo, proprio come facevano un tempo i dervisci.
«Tu non sei un derviscio» le avevano risposto in coro le sorelle, cinicamente decise a dissuaderla da un simile sacrilegio, inaudito negli annali della famiglia Kazanci. A turno, ciascuna delle tre aveva sollevato la sua obiezione. «Bada che i dervisci si vestivano solo di ruvida tela di sacco o lana grezza, non certo con sciarpe di cashmere» aveva detto zia Cevriye, la più romantica. Zia Banu aveva deglutito a fatica, a disagio nei propri abiti e nel proprio corpo. «I dervisci dormivano sulla paglia, non su materassi matrimoniali di piuma» aveva aggiunto zia Feride, la più suonata. Zia Banu non aveva risposto, lasciando vagare gli occhi nella stanza per evitare gli sguardi delle sue aguzzine. Cosa poteva farci, se il mal di schiena diventava insopportabile a meno che non dormisse su un letto speciale? «Oltretutto, i dervisci non avevano nefs. E tu invece guardati!» Così zia Zeliha, la più anticonformista. Impaziente di difendersi, zia Banu si era lanciata in una controffensiva. «Nemmeno io ce l'ho. Non più. Quei giorni sono finiti.» Poi aveva aggiunto, nel suo nuovo tono di voce mistico: «Combatterò contro il mio nefs e ne uscirò vincitrice!». Nella famiglia Kazanci, ogni volta che qualcuno aveva il coraggio di fare qualcosa di insolito, gli altri reagivano sempre allo stesso modo, seguendo la vecchia linea di condotta che si poteva riassumere in: «Fa come ti pare, cosa vuoi che ce ne importi?» Di conseguenza, nessuno l'aveva presa sul serio. Accortasi dello scetticismo generale, zia Banu era sparita in camera sua e non ne era più uscita per quaranta giorni, fatto salvo che per brevissime visite in cucina e in bagno. La sola altra occasione in cui aveva aperto la porta della sua stanza era stata per appenderci un cartello che diceva: LASCIATE OGNI EGO, VOI CH'ENTRATE! Dapprima Banu aveva cercato di tenere con sé Pascià Terzo, che in quel periodo era alla fine della sua esistenza terrena. Doveva aver pensato che potesse rendere meno solitaria la sua penitenza, anche se i dervisci non tenevano certo animali da compagnia. Ma per quanto Pascià Terzo potesse apparire scontroso e asociale, l'esistenza da eremita non faceva per lui: era troppo interessato a valori terreni come feta e fili elettrici. Dopo un'ora nella cella di zia Banu, Pascià Terzo si era esibito in una serie di acutissimi miagolii e aveva grattato la porta con tanta energia da essere subito cacciato. Perduta così la sua unica compagnia, zia Banu era sprofondata nella solitudine, muta e sorda per tutti. Aveva smesso anche di farsi la doccia, di pettinarsi e persino di guardare la sua telenovela brasiliana preferita, Groviglio di passioni, in cui una top model dal cuore d'oro subiva tutti i tradimenti possibili da parte di coloro che più amava. Ma il vero shock venne quando zia Banu, il cui appetito era proverbiale, decise di alimentarsi a pane e acqua. Era sempre stata particolarmente ghiotta di carboidrati, ma nessuno aveva mai pensato che potesse vivere solo di quello. Le tre sorelle fecero del loro meglio per indurla a qualche debolezza: cucinarono a più non posso, riempirono la casa del profumo dei dolci più deliziosi, del pesce fritto e della carne arrosto ben imburrata.
Zia Banu non vacillò; anzi, si aggrappò ancor più strettamente alla propria devozione, e al proprio pane secco. Per quaranta giorni e quaranta notti fu irraggiungibile, pur restando a una porta di distanza. Lavare i piatti, fare il bucato, guardare la televisione, spettegolare con i vicini: tutte le normali attività della vita quotidiana erano diventate nefandezze con le quali non voleva avere nulla a che fare. Nei giorni che seguirono, ogni volta che le sorelle andavano a controllare come stava, la trovavano immersa nella lettura del Sacro Corano. Quel suo abisso benedetto si rivelò così profondo da renderla completamente estranea a chi la conosceva da una vita. Poi, la mattina del quarantunesimo giorno, mentre tutti stavano mangiando salsiccia sucuk alla griglia e uova fritte al tavolo della colazione, Banu ciabattò fuori dalla sua stanza con un sorriso radioso sul viso, uno splendore soprannaturale negli occhi, e un velo rosso ciliegia sul capo. «Cos'è quella schifezza che hai in testa?» fu la prima reazione di nonna Gülsüm, che con l'età non si era ammorbidita neanche un po', e conservava intatta la propria somiglianza con Ivan il Terribile. «Da questo momento in poi mi coprirò sempre il capo, come richiede la mia fede.» «Che storia è questa?» si accigliò Gülsüm. «In Turchia le donne si sono tolte il velo novant'anni fa, e non ammetterò che una delle mie figlie rinunci ai diritti che il grande comandante Atatùrk ha concesso alle donne di questo Paese.» «Già, e le donne hanno anche ottenuto il diritto di voto nel 1934» le fece eco zia Cevriye. «Nel caso tu non te ne fossi accorta, la storia va avanti, e non indietro. Levati subito quel coso!» Ma zia Banu non se lo levò. Rimase velata, e avendo ormai superato la prova delle tre P - penitenza, prostrazione e pietà - si autoproclamò chiaroveggente. Proprio come l'abbigliamento, anche le sue tecniche di divinazione subirono una profonda trasformazione, al passo con la sua evoluzione spirituale. In un primo tempo si era limitata alla lettura dei fondi di caffè, ma con il passare del tempo adottò metodi nuovi e anticonvenzionali, che comprendevano tarocchi, fagioli secchi, monete d'argento, grani del rosario, campanelli, perle finte, perle vere, ciottoli marini; insomma, qualunque oggetto potesse fare da tramite con il mondo soprannaturale. A volte discuteva animatamente con due invisibili jinn che, sosteneva, sedevano sulle sue spalle con i piedi ciondoloni, quello buono sulla destra, e quello cattivo sulla sinistra. Sebbene conoscesse i loro nomi, evitava accuratamente di pronunciarli ad alta voce, e li chiamava signora Dolce e signor Amaro. «Se c'è un jinn maligno sulla tua spalla sinistra, perché non lo fai cadere e te ne liberi?» le chiese una volta Asya. «Perché a volte ognuno di noi ha bisogno della compagnia del male» fu la risposta. Asya provò ad aggrottare la fronte e levare gli occhi al cielo, ma riuscì solamente ad assumere un'aria ancor più infantile. Fischiettò il motivo di una canzone di Johnny Cash che le tornava in mente ogni volta che vedeva sua zia: Why me Lord, what have I ever done...
«Cosa stai fischiando?» chiese zia Banu sospettosa. Non conosceva una parola di inglese, e diffidava profondamente di ogni lingua che provasse a tenerle nascosto qualcosa. «È una canzone... dice che come zia più anziana dovresti essere un modello per me, e insegnarmi a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. E invece eccoti qui a darmi lezioni sulla necessità del male.» «Be' allora lascia che ti dica una cosa» rispose zia Banu fissando intensamente la nipote. «Ci sono cose a questo mondo di cui la gente di buon cuore, Allah li benedica tutti, non ha la minima idea. E questo è giusto, bada bene; è giusto che non sappiano niente, perché dimostra quanto siano di buon cuore. Altrimenti non sarebbero buoni, o no?» Asya non potè far altro che annuire. In fondo aveva la sensazione che anche Johnny Cash l'avrebbe pensata allo stesso modo. «Ma se ti dovesse mai capitare di precipitare in un abisso di cattiveria, non è certo a quella gente che chiederesti aiuto.» «Dovrei forse chiederlo a un jinn maligno?!» esclamò Asya. «Può darsi.» Zia Banu scrollò il capo. «Auguriamoci soltanto che non ti capiti mai.» E quello fu tutto. Non parlarono mai più dei limiti del bene e della necessità di liberarsi degli scrupoli. Fu più o meno in quel periodo che zia Banu aggiunse al suo bagaglio tecnico la lettura delle nocciole (meglio se tostate) Molti sospettarono che quella novità, come del resto la maggior parte delle novità, fosse frutto di una semplice coincidenza. Era probabile che qualche cliente l'avesse sorpresa a ingozzarsi di nocciole, e lei si fosse inventata la prima scusa che le era venuta in mente, vale a dire che le servivano per leggere il futuro. Era una convinzione condivisa dall'intera famiglia. Tutti gli altri ne davano un'interpretazione diversa. A Istanbul girava voce che, da santa donna quale era, Banu non chiedesse denaro alle sue clienti più povere e si accontentasse di un pugno di nocciole, cosicché le nocciole divennero il simbolo della sua generosità. E la stranezza di quella tecnica non fece che aumentare la sua fama già smisurata. Cominciarono a chiamarla «Madre Nocciola», o addirittura «Sceicca Nocciola», dimenticando che le donne non potevano aspirare a quell'onorevole titolo. Jinn maligni, nocciole tostate... Con il passare del tempo Asya Kazanci si era abituata a queste e altre eccentricità, ma una cosa non riusciva proprio a digerire: quei nomi d'arte che davano a sua zia, grazie ai quali «zia Banu» si trasformava in «Sceicca Nocciola» e simili. Ecco perché ogni volta che c'era qualche cliente in giro per casa o i tarocchi disposti sul tavolo, Asya girava alla larga. Così, quella volta, pur avendo compreso alla perfezione le ultime parole della zia, fece finta di niente. E avrebbe potuto continuare a ignorare la questione se in quel momento non fosse entrata zia Feride, reggendo un grande vassoio sul quale splendeva la torta di compleanno. «Cosa ci fai qui?» si accigliò nel vederla. «Non hai la lezione di danza, a quest'ora?»
Quella era un'altra palla al piede per Asya. Come molte famiglie turche della classe media che volevano vedere le figliolette eccellere nelle occupazioni tipiche delle classi più elevate, così la sua famiglia alto-borghese la costringeva ad attività per le quali non nutriva il minimo interesse. «Questa è una gabbia di matti» borbottò Asya fra sé. Negli ultimi giorni quelle sei parole erano diventate un mantra che ripeteva di continuo. Poi alzò leggermente la voce: «Non preoccuparti, stavo giusto per uscire». «Cosa importa, ormai?» la rimbeccò zia Feride indicando il piatto. «Questa avrebbe dovuto essere una sorpresa!» «Ha detto che quest'anno non vuole la torta» si intromise zia Banu dal suo angolo, scoprendo uno dei tre tarocchi ancora in attesa. La Papessa. Il simbolo della sapienza occulta, dell'apertura all'immaginazione e ai talenti nascosti, ma anche al mistero. Serrò le labbra e girò la carta successiva: la Torre. Un simbolo di cambiamenti tumultuosi, esplosioni emotive e improvvise cadute. Zia Banu rimase pensierosa per un minuto, poi girò la terza carta. A quanto pareva, avrebbero presto ricevuto una visita, un ospite inatteso da oltreoceano. «Come sarebbe a dire che non vuole la torta? E il suo compleanno, per l'amor del cielo!» esclamò zia Feride con un lampo di rabbia negli occhi. Ma nel frattempo un altro pensiero doveva esserle passato per la mente, perché si voltò verso Asya e la guardò di traverso. «Hai forse paura che qualcuno l'abbia avvelenata?» Asya restò senza parole. Dopo tutto quel tempo non era ancora riuscita a sviluppare la strategia adeguata per conservare calma e impassibilità di fronte alle sparate di zia Feride. Dopo il lungo soggiorno nella «schizofrenia ebefrenica», zia Feride si era recentemente spostata nella terra della paranoia. Più cercavano di riportarla alla realtà, più lei diventava sospettosa nei confronti di tutte loro. «Paura che le abbiano avvelenato la torta? Che razza di idee!» Tutte le teste si voltarono verso la porta dove aveva fatto la sua comparsa zia Zeliha, con una giacca di velluto sulle spalle, i tacchi alti e un'espressione perplessa che la rendeva incredibilmente affascinante. Doveva essere scivolata nella stanza in silenzio, restando sulla soglia ad ascoltare la conversazione, a meno che non avesse sviluppato l'abilità di materializzarsi a suo piacimento. Al contrario di tante donne che in gioventù avevano amato gonne corte e tacchi alti, Zeliha invecchiando non aveva allungato le prime né abbassato i secondi. Il suo modo di vestire era rimasto vistoso come sempre, e gli anni, che avevano riscosso un pesante pedaggio dalle altre sorelle, a lei non avevano fatto che regalare nuova bellezza. Quasi si fosse resa conto dell'effetto della sua apparizione, Zeliha rimase sulla porta a osservarsi le unghie ben curate. Teneva molto alle proprie mani, perché le servivano per lavorare. Priva di qualsiasi interesse per le istituzioni e la burocrazia, allergica alle catene di comando, naturalmente piena di rabbia ed esasperazione, si era accorta fin da giovane che avrebbe dovuto trovarsi un'occupazione autonoma e innovativa, che le desse, se possibile, modo di infliggere un po' di dolore agli altri. Dieci anni prima aveva aperto un laboratorio di tatuaggi. Oltre ai grandi classici rose scarlatte, farfalle iridescenti, cuori gonfi d'amore - e al solito assortimento di insetti pelosi, lupi feroci e ragni giganti, proponeva i suoi disegni originali ispirati al
principio della contraddizione. C'erano volti androgini, corpi in parte umani e in parte animali, alberi metà secchi e metà in fiore... In ogni caso, non avevano avuto molto successo: normalmente i clienti, attraverso i tatuaggi, volevano affermare qualcosa di forte, e non aggiungere ulteriore ambiguità alle loro già incerte esistenze. Inoltre i tatuaggi dovevano esprimere emozioni semplici, non pensieri astratti. Imparata la lezione, Zeliha aveva lanciato una nuova collezione che aveva chiamato «gestione delle pene d'amore durevoli». In questo caso il tatuaggio era dedicato a una persona: l'ex amato. Gli abbandonati e gli sconfortati, i feriti e i furibondi arrivavano con una foto dell'ex che avrebbero voluto bandire per sempre dalla propria esistenza, ma che non riuscivano a smettere di amare. Zeliha studiava la foto e si lambiccava il cervello per scoprire a quale animale somigliava la persona in questione. Il resto era relativamente semplice. Disegnava l'animale e poi lo tatuava sul corpo del cliente disperato. L'intera procedura si ispirava all'antica pratica sciamanica di interiorizzare e contemporaneamente esteriorizzare i propri totem. Per recuperare forza rispetto all'antagonista devi accettarlo, accoglierlo, e poi trasformarlo. L'ex amante veniva interiorizzato (attraverso gli aghi che lo iniettavano nel corpo), ma allo stesso tempo esteriorizzato, lasciato sulla superficie esterna della pelle. Una volta che il nemico era stato collocato in quella regione a metà tra interno ed esterno, e abilmente mutato in animale, il rapporto di forza fra vittima e carnefice cambiava. Adesso chi portava il tatuaggio si sentiva superiore, come se tenesse in mano la chiave dell'anima dell'ex amato. Raggiunta questa fase, con il relativo crollo del fascino dell'ex, i malati di pene d'amore durevoli potevano finalmente liberarsi della propria ossessione, perché l'amore ama la forza. Ecco perché possiamo innamorarci di qualcuno fino a morirne, ma raramente amiamo fino a morirne chi si innamora di noi. Istanbul era una città zeppa di cuori infranti, e a Zeliha non occorse molto per allargare il giro d'affari e diventare anche lei una figura quasi leggendaria, soprattutto nei circoli artistici. Asya distolse lo sguardo dalla madre, quella madre che non aveva mai chiamato «mamma» e che aveva cercato di tenere a distanza trasformandola in zia. Si sentì travolgere da un'ondata di autocommiserazione. Che imperdonabile ingiustizia, da parte di Allah, creare una figlia tanto più brutta di sua madre. «Ma non lo capite perché quest'anno Asya non vuole la torta?» disse zia Zeliha quando ebbe finalmente terminato di esaminarsi le unghie. «Ha paura di ingrassare!» Pur sapendo che manifestare il proprio stato d'animo di fronte alla madre era un terribile errore, Asya strillò furibonda: «Non è vero!» Zeliha si arrese con un lampo di malizia negli occhi: «Come vuoi, tesoro, se lo dici tu» Solo allora Asya notò l'altro vassoio. Sopra c'era una grossa palla di carne macinata e una palla di pasta ancora più grossa: quella sera ci sarebbe stato manti per cena. «Quante volte ve lo devo dire che non mi piace il manti?» urlò Asya con una voce rauca ed estranea che stupì lei per prima. «Lo sapete che non mangio più carne.»
«Ve l'avevo detto che ha paura di ingrassare.» Zia Zeliha scosse il capo e si aggiustò una ciocca di capelli che le era scesa in mezzo al viso. «Non avete mai sentito la parola vegetariana?» Anche Asya scosse il capo, ma si trattenne dallo scostare il ciuffo che le era caduto sugli occhi per non imitare i gesti della madre. «Certo che l'ho sentita» ribattè zia Zeliha raddrizzando le spalle. «Ma non scordarti, mia cara» continuò con voce persuasiva, «che tu sei una Kazanci, non una vegetariana!» Asya deglutì a fatica, la bocca improvvisamente secca. «E a noi Kazanci piace la carne rossa! Più è rossa, più è grassa, meglio è! E se non credi a me, chiedilo a Sultan Quinto: non è così, Sultan?» Zeliha chinò il capo verso il gatto sovrappeso acciambellato sul cuscino vicino alla porta-finestra. Lui si voltò a squadrarla con gli occhi socchiusi e annebbiati, come se avesse perfettamente compreso e sottoscritto l'affermazione. Rimescolando il mazzo di tarocchi, zia Banu rimproverò la festeggiata: «In questo Paese c'è gente così povera che non saprebbe neppure che sapore ha la carne rossa, se non fosse per l'elemosina dei musulmani generosi alla Festa del Sacrificio. È l'unica occasione in cui i derelitti possono fare un pasto decente. Vai a chiedere a quelle povere anime cosa vuol dire essere vegetariani. Dovresti essere grata per ogni boccone di carne che hai nel piatto, Asya, perché la carne è simbolo di ricchezza». «Questa è una gabbia di matti! Tutte matte, una per una.» Asya ripetè il suo mantra, solo che questa volta la sua voce aveva il timbro della sconfitta. «Io esco, signore, voi mangiate pure quel che volete. Sono già in ritardo per la mia lezione di ballo!» Nessuno notò che la parola ballo le era uscita di bocca come uno sputo che non poteva trattenere, pur con tutto il disgusto che le procurava la propria mancanza di autocontrollo.
Capitolo cinque Vaniglia
Il Café Kundera era un piccolo locale in una stradina stretta e tortuosa della parte europea di Istanbul. Era l'unico bistrot della città in cui non era necessario sprecare energie nella conversazione, e si davano le mance ai camerieri per farsi trattare male. Come e perché avesse preso il nome del famoso scrittore, nessuno lo sapeva con precisione, dal momento che nel locale non c'era niente, assolutamente niente, che facesse pensare a Milan Kundera o a qualcuno dei suoi romanzi. Le quattro pareti erano coperte da centinaia di cornici di ogni forma e misura possibile, una miriade di fotografie, dipinti e schizzi, così fitti da far dubitare che dietro ci fossero davvero dei muri. Tutte le immagini, senza eccezioni, avevano per soggetto una strada. Desolate statali americane, infinite autostrade australiane, trafficate autobahn tedesche, eleganti boulevard parigini, affollate stradine romane, sentieri angusti del Machu Picchu, carovaniere dimenticate del Nordafrica, mappe delle antiche rotte della Via della Seta: tutte le strade del mondo. I clienti apprezzavano quell'insolita collezione, una perfetta alternativa alle solite chiacchiere che non portavano da nessuna parte. Ogni volta che non avevi voglia di contatti umani, bastava scegliere una strada di tuo gradimento, in base al tavolo dov'eri seduto e al luogo dove avresti voluto trovarti. Fissavi uno sguardo annebbiato sul soggetto prescelto, e lentamente trasmigravi verso quella terra lontana. Il giorno dopo potevi volare da un'altra parte. Ovun-que portassero quelle strade, una cosa era certa: nessuna di esse aveva qualcosa a che fare con Milan Kundera. Tuttavia, circolava la leggenda che Kundera, di passaggio a Istanbul e diretto chissà dove, si fosse fermato per caso a prendere un cappuccino. I biscotti alla vaniglia non gli erano piaciuti, e neppure il cappuccino, ma aveva finito per ordinarne un altro, e si era fermato a scrivere qualcosa, visto che lì non correva il rischio di essere riconosciuto né disturbato. Da quel giorno, il caffè aveva preso il suo nome. Secondo altre fonti, il proprietario, dopo aver divorato tutti i libri di Kundera ed esserseli fatti autografare dal primo all'ultimo, aveva deciso di dedicare il locale al suo scrittore preferito. La storia sarebbe anche potuta risultare plausibile se il proprietario in questione non fosse stato un musicista di mezza età dall'aspetto atletico e abbronzato, il cui disprezzo per la parola scritta non risparmiava neppure i testi delle canzoni che il suo gruppo suonava dal vivo ogni venerdì sera. Ma la teoria più ardita circa l'origine del nome voleva che quel locale non fosse altro che il parto della fantasia dell'autore. Il caffè, dunque, era un luogo fittizio,
regolarmente frequentato da personaggi fittizi. Kundera aveva cominciato a descrivere il bar in un nuovo abbozzo di romanzo, infondendogli così lo spirito della vita e del caos, ma di lì a poco si era distratto a causa di altri impegni più importanti inviti, giurie, premi letterari - e nella confusione si era scordato di quel buco della cui esistenza era il solo responsabile. Da allora clienti e camerieri del Café Kundera lottavano contro una sensazione di vuoto, tentavano con fatica di smantellare la scenografia surreale di cui facevano parte e storcevano la bocca di fronte al caffè turco servito nelle tazzine da espresso, in attesa di trovare una ragione di vita in qualche dramma intellettualoide nel quale avrebbero finalmente interpretato il ruolo principale. Di tutte le teorie sulla genesi del nome del locale, quest'ultima era quella con più sostenitori. Ma quando un nuovo cliente, o qualcuno desideroso di attirare l'attenzione, se ne usciva con un'ipotesi diversa, per un istante tutti fingevano di dargli credito, si baloccavano con l'idea finché anche quella non gli veniva a noia, e la scartavano risprofondando nella consueta apatia. Quel giorno il Fumettaro Dipsomane stava tentando una nuova spiegazione. I suoi amici, compresa la moglie, si sentivano in dovere di prestargli la massima attenzione, più che altro in segno di supporto, perché finalmente aveva trovato il coraggio di fare quello che tutti gli consigliavano da tempo: rivolgersi agli Alcolisti Anonimi. C'era anche un'altra ragione per cui tutti erano particolarmente bendisposti nei suoi confronti. Quel giorno, per la seconda volta, era stato incriminato per aver insultato il Primo ministro con le sue vignette e, se alla prossima udienza il giudice avesse confermato il capo d'accusa, rischiava tre anni di prigione. Il Fumettaro Dipsomane era famoso per una serie di tavole in cui ritraeva l'intero gabinetto come un gregge e il Primo ministro come un lupo travestito da pecora. Dopo che gli era stato proibito di persistere in quelle ingiuriose trovate, aveva deciso di disegnare il gabinetto come un branco di lupi, e il Primo ministro come uno sciacallo travestito da lupo. Se anche quella caricatura fosse stata censurata, aveva già in mente un piano d'emergenza: pinguini! Avrebbe raffigurato tutti i membri del Parlamento come pinguini in smoking. «Ecco la mia nuova teoria» disse il Fumettaro Dipsomane, ignaro della compassione che suscitava, e un po' sorpreso dall'improvviso interesse del suo pubblico, e addirittura di sua moglie. Era un omone dal naso patrizio, zigomi alti, intensi occhi azzurri e un perenne sorriso sulle labbra. Aveva una lunga familiarità con la miseria e la malinconia e una naturale propensione alla tristezza che un amore segreto per una donna sommamente irraggiungibile aveva ulteriormente rafforzato. A guardarlo sembrava impossibile che si guadagnasse da vivere attraverso l'ironia e che da quella sua disposizione tetra nascessero le battute più divertenti. Era sempre stato un gran bevitore, ma negli ultimi tempi i suoi problemi con l'alcol erano diventati ingestibili. Aveva cominciato a svegliarsi in luoghi equivoci dove non ricordava di essere mai entrato. Una mattina aveva aperto gli occhi nel cortile di una moschea, sdraiato sulla lastra di pietra che veniva usata per lavare i defunti, dove evidentemente era svenuto mentre cercava di organizzare il proprio funerale. Accanto a lui c'era un giovane imam, diretto alla preghiera del mattino, piuttosto scosso per aver trovato un estraneo che russava sulla pietra dei morti. L'episodio era stato la
goccia che aveva fatto traboccare il vaso ecco perché, quel giorno il Fumettaro aveva partecipato al primo incontro degli Alcolisti Anonimi, dove aveva fatto voto di smettere di bere. Per questo tutti gli occupanti del tavolo pendevano dalle sue labbra. «Questo locale si chiama come si chiama perché la parola "Kundera" è un codice. Il nocciolo della questione non è cosa vuol dire il nome, ma cosa simboleggia quel nome!» «Cioè?» chiese lo Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti, un uomo basso e scarno che aveva cominciato a tingersi la barba di grigio da quando aveva deciso che le donne giovani preferivano gli uomini maturi. Era creatore e autore della popolare serie televisiva Timur Cuordileone, basata su un gagliardo eroe nazionale capace di ridurre interi eserciti nemici in una poltiglia sanguinolenta. Quando gli chiedevano la ragione di quell'orrido sceneggiato e dei suoi film, si difendeva sostenendo che per lavoro poteva anche essere nazionalista, ma nella vita era un autentico nichilista. Quel giorno si era presentato con una nuova fidanzata, una ragazza appariscente, graziosa quanto insipida. Non glielo avrebbe confessato nemmeno sotto tortura, ma lui e i suoi amici maschi avevano coniato un nomignolo per le ragazze come lei: «stuzzichini» Non il piatto principale, giusto qualcosa di gradevole da spilluzzicare nell'attesa. Continuando a trangugiare anacardi dalla ciotola in mezzo al tavolo, lo Sceneggiatore mise un braccio attorno alle spalle della sua nuova ragazza e sghignazzò, rivolto al Fumettaro: «Forza, allora: raccontaci di che codice si tratta!». «Noia» dichiarò il Fumettaro Dipsomane con uno sbuffo di fumo che si unì pigramente alla spessa nuvola grigiastra che aleggiava sopra le loro teste. L'unico del tavolo a non fumare era il Cronista Mondano Criptogay. Detestava il puzzo di fumo e ogni giorno, appena rientrava in casa, si cambiava d'abito per togliersi di dosso i cattivi odori del Café Kundera. Però non si opponeva quando erano gli altri a fumare, e neppure smetteva di frequentare il locale. Ci andava regolarmente, sia perché gli piaceva far parte di quel gruppo eterogeneo, sia perché nutriva una segreta attrazione per il Fumettaro Dipsomane. Non che mirasse a un coinvolgimento fisico con lui: il solo pensiero di vederlo nudo gli faceva scorrere i brividi lungo la schiena. Non era una questione di sesso, si rassicurava, ma solo di affinità spirituale. Oltretutto, due grossi ostacoli gli sbarravano la strada. Prima di tutto, il Fumettaro Dipsomane era rigorosamente eterosessuale e i margini di manovra in questo senso sembravano assai limitati. Secondo, era innamorato di quella ragazza perennemente imbronciata, Asya, cosa di cui tutti (tranne lei) si erano accorti da tempo. Perciò il Cronista Mondano Criptogay non aveva la minima speranza di una relazione con il Fumettaro Dipsomane, voleva solo stargli accanto. Di tanto in tanto provava un'emozione improvvisa quando lui, allungandosi per prendere un bicchiere o un portacenere, gli sfiorava la mano o una spalla. E comunque, pur di convincere gli altri che non aveva il minimo interesse per il Fumettaro, né per nessun altro uomo, il Cronista lo trattava con sufficienza, denigrando senza ragione le sue opinioni. Era una storia complicata.
«Noia» ribadì il Fumettaro Dipsomane dopo aver tracannato il suo caffellatte. «La noia è il riassunto della nostra esistenza. Giorno dopo giorno sguazziamo nell'ennui. Perché? Perché non possiamo abbandonare questa tana di coniglio per paura di un incontro traumatico con la nostra stessa cultura. I politici occidentali ritengono che esista un gap culturale tra la loro civiltà e quella orientale. Se solo fosse così semplice! Il vero gap è quello tra i turchi e i turchi. Non siamo che un gruppetto di cittadini istruiti, circondati da bifolchi e montanari che hanno ormai conquistato l'intera città.» Si girò verso le finestre, come temendo che un'orda di campagnoli le buttasse giù a colpi di mazza. «Le strade appartengono a loro, le piazze appartengono a loro, i traghetti appartengono a loro. Ogni luogo aperto appartiene a loro. E probabile che nel giro di pochi anni non ci resti altro che questo caffè, la nostra ultima zona franca. Ogni giorno ci rifugiamo qui in cerca di riparo. Dio ci salvi dalla nostra stessa gente!» «Tu stai facendo della poesia» disse il Poeta Eccezionalmente Privo di Talento. Proprio in quanto eccezionalmente privo di talento, aveva il vezzo di associare qualsiasi cosa alla poesia. «Siamo bloccati» riprese il Fumettaro. «Bloccati tra l'Oriente e l'Occidente, tra il passato e il futuro. Da una parte ci sono i modernisti laici, così orgogliosi del regime che hanno costruito da non ammettere la minima critica. Dalla loro hanno l'esercito, e metà dello Stato. Sul fronte opposto ci sono i tradizionalisti formali, così innamorati del passato ottomano da non ammettere la minima critica. Dalla loro hanno la gente comune e l'altra metà dello Stato. E a noi cosa resta?» Il Fumettaro si infilò la sigaretta fra le labbra esangui e screpolate, dove la lasciò per tutto il resto della sua tirata: «I modernisti ci esortano ad andare avanti, ma noi non abbiamo fiducia nella loro idea di progresso. I tradizionalisti ci invitano a tornare indietro, ma neppure il loro ordine nostalgico ci convince. Schiacciati tra le due fazioni, facciamo due passi avanti e uno indietro, proprio come la banda dell'esercito ottomano! Solo che noi non suoniamo neanche! Quale via di fuga ci rimane? Se fossimo almeno una minoranza etnica o una popolazione indigena, potremmo metterci sotto la protezione delle Nazioni Unite, e avere garantiti se non altro i diritti fondamentali. Invece nichilisti, pessimisti e anarchici non sono considerati minoranze, per quanto siano specie in estinzione. Il nostro numero si assottiglia di giorno in giorno: fino a quando riusciremo a sopravvivere?». La domanda aleggiò pesantemente sopra le loro teste, appena sotto la nuvola di fumo. La moglie del Fumettaro, una donna perennemente nervosa con lo sguardo triste e troppo rancore nell'anima (e disegnatrice anche lei, per giunta più brava del marito, per quanto meno apprezzata), digrignò i denti, combattuta fra la tentazione di dare addosso al compagno degli ultimi dodici anni, come avrebbe preferito, e quella di sostenere la sua follia a prescindere da tutto, da buona moglie. I due si detestavano di tutto cuore, eppure erano rimasti aggrappati al matrimonio per tutto quel tempo, lei perché sperava nella vendetta, lui perché tanto non si poteva avere di meglio. Ormai si esprimevano con parole e gesti rubati all'altro, e persino le loro caricature
cominciavano a somigliarsi. Disegnavano corpi deformi e inventavano dialoghi contorti fra personaggi cinici e depressi colti in situazioni tristi e paradossali. «Lo sapete cosa siamo? La feccia di questo Paese, una squallida poltiglia marcia, nient'altro! Tutti tranne noi sono ossessionati dall'ingresso nell'Unione Europea, muoiono dalla voglia di guadagnarci sopra, comprare azioni, cambiare macchina, cambiare ragazza...» A quest'ultime parole lo Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti ebbe un fremito. «Ed è qui che Kundera entra in scena» continuò il Fumettaro Dipsomane senza accorgersi della propria gaffe. «L'idea di leggerezza riveste le nostre vite di un vuoto senza senso. La nostra esistenza è così kitsch, una meravigliosa menzogna che ci permette di sconfiggere la realtà della morte e della mortalità. E proprio questo...» Ma le sue parole furono interrotte dal tintinnio della porta d'ingresso, che si spalancò di colpo lasciando entrare una ragazza dall'aria stanca e incazzata ben oltre quello che la sua età poteva far presagire. «Ehi, Asya!» urlò lo Sceneggiatore, come se gli fosse apparsa l'agognata salvatrice, giunta a porre fine a quella conversazione idiota. «Qui, siamo qui!» Asya Kazanci accennò un mezzo sorriso e aggrottò la fronte in un'espressione che sembrava dire: Vabbe', gente, posso anche unirmi a voi per un po', che differenza vuoi che faccia, tanto la vita è comunque una merda. Si avvicinò lentamente al tavolo, come gravata da invisibili sacche di inerzia, salutò tutti con voce piatta, si mise a sedere e cominciò a rollarsi una sigaretta. «Cosa ci fai qui a quest'ora? Non dovresti essere a danza?» le chiese il Fumettaro Dipsomane dimenticando il proprio monologo. Lo sguardo gli brillò di sollecitudine, dettaglio che tutti notarono tranne la moglie. «Ma è esattamente dove sono, a lezione di danza. In questo preciso momento,» Asya riempì di tabacco la cartina «sto eseguendo una delle figure più impegnative, polpacci riuniti a mezz'aria a un'angolazione compresa fra quarantacinque e novanta gradi: cabriole!» «Wow!» sorrise il Fumettaro. «E ora un tour en l'air» continuò Asya. «Piede avanti, demi plié, salto!» Afferrò la bustina del tabacco e la sollevò in aria. «Rotazione di centottanta gradi» ordinò piroettando con la mano, con qualche spargimento di tabac co «e atterraggio sul piede sinistro!» La bustina rimase in bilico accanto alla ciotola di anacardi. «Poi ripetere daccapo per tornare alla posizione di partenza. Emboîté!» «Il balletto è come comporre poesia con il proprio corpo» borbottò il Poeta Eccezionalmente Privo di Talento. Sul gruppo calò un cupo torpore. Da qualche parte, in lontananza, ribollivano i rumori della città, una sinfonia di sirene, clacson, urla e risate accompagnata dallo stridio dei gabbiani. Entrò qualche avventore, altri se ne andarono. Uno dei camerieri cadde con un vassoio carico di bicchieri, poi prese una scopa e spazzò via i vetri dal pavimento, mentre i clienti osservavano indifferenti. I camerieri al Café Kundera cambiavano spesso. L'orario era lungo e la paga bassa. Però fino a quel giorno nessuno si era mai licenziato di propria volontà: preferivano farsi cacciare. Era così
che funzionava al Café Kundera: una volta dentro ci rimanevi invischiato, finché non era lui stesso a butarti fuori. Nella mezz'ora successiva, al tavolo di Asya Kazanci qualcuno ordinò un caffè, qualcuno una birra. Al secondo giro, i primi bevvero birra e gli altri caffè. E così via. Solo il fumettaro rimase fedele al caffellatte e sgranocchiò i biscotti alla vaniglia che lo accompagnavano, anche se a quel punto la sua frustrazione era evidente. Nulla veniva detto in armonia, in quel luogo, eppure quell'abituale dis sonanza aveva una sua singolare cadenza. Era questo che Asya amava di più del Café Kundera: l'indolenza sonnac chiosa e la farsesca disarmonia. Era un posto fuori dal tempo e dallo spazio. Istanbul era perennemente di corsa, invece lì ogni cosa sembrava in letargo. Fuori dal locale le persone restavano vicine per nascondere la solitudine, definendosi più intime di quanto non erano, mentre lì dentro era l'opposto: tutti ostentavano un distacco che non sentivano davvero. Quel posto era la negazione dell'intera città. Asya si stava godendo a pieni polmoni una boccata della sigaretta, quando il Fumettaro diede un'occhiata al l'orologio e si voltò verso di lei: «Sono le sette e quaranta, tesoro. La lezione è finita». «Oh, devi tornare a casa? Hai una famiglia così antiquata?» intervenne a sproposito la ragazza dello Sceneggiatore. «Perché ti fanno prendere lezioni di danza classica, visto che a quanto pare non ti interessa?» Ecco qual era il problema con le ragazze dello Sceneggiatore (dalla vita breve come quella delle farfalle): nello sforzo di fare amicizia, facevano domande e commenti troppo personali, senza capire che, all'opposto, era proprio la mancanza di ogni interesse per la vita persoanle degli altri membri a tenere insieme il gruppo. «Come fai a sopportare tutte quelle zie?» insistette la ragazza senza notare l'espressione di Asya. «Dio, tutte quelle donne che giocano a fare le madri, e sotto lo stesso tetto... Non potrei sopportarlo nemmeno per un minuto.» Questo era davvero troppo. In un gruppo eclettico come il loro esistevano regole non scritte. Asya sbuffò. Le donne non le piacevano, il che sarebbe stato più facile se non fosse stata lei stessa una donna. Ogni volta che le capitava di conoscerne una nuova, si presentavano due alternative: aspettare il momento in cui avrebbe cominciato a odiarla, oppure cominciare a odiarla da subito. «La mia non è una famiglia in senso stretto» chiarì Asya con uno sguardo condiscendente, augurandosi che questo servisse a bloccare qualunque cosa la ragazza avesse intenzione di aggiungere. Ma lo sguardo le cadde sulla strada che portava alla Laguna Colorada, in Bolivia. Che bello sarebbe stato trovarsi lì in quel momento! Asya finì il caffè, spense il mozzicone e cominciò a rollare un'altra sigaretta, borbottando: «Siamo un branco di animali femmine costretti a vivere insieme. Non la chiamerei una famiglia». «Ma è proprio questo che si intende per "famiglia", mia cara» obiettò il Poeta Eccezionalmente Privo di Talento. In quei momenti si ricordava di essere il più anzia no del gruppo, non solo per l'età, ma anche per gli errori commessi. Sposato e divorziato tre volte, era rimasto a guardare mentre le sue mogli, una dopo l'altra, abbandonavano Istanbul per allontanarsi il più possibile da lui. Da ogni matrimonio erano nati dei figli che vedeva assai di rado, ma sui quali reclamava orgogliosamente
la potestà. «Ricordati,» disse ad Asya agitandole un dito davanti al viso «tutte le famiglie felici si assomigliano, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.» «Certo era facile per Tolstoj sparare sciocchezze del genere» commentò la moglie del Fumettaro Dipsomane alzando le spalle. «Aveva accanto una moglie disposta a lavorare come una bestia pur di lasciare al grande scrittore l'agio di concentrarsi sui suoi romanzi!» «Dov'è che vuoi arrivare?» le chiese il Fumettaro Dipsomane. «Riconoscimento! Ecco dove voglio arrivare. Voglio che il mondo intero ammetta che, avendone l'opportunità, la moglie di Tolstoj avrebbe potuto essere una scrittrice migliore di lui.» «E perché? Solo perché era una donna?» «Perché era una donna di grande talento oppressa da un uomo di grande talento» lo rimbeccò la moglie. «Ah» fece il Fumettaro Dipsomane. A disagio, chiamò il cameriere e ordinò una birra, ma subito fu colto dal senso di colpa, e si vide costretto a tenere un discorso in difesa dell'alcool: «Il nostro Paese deve la propria libertà a questa bottiglia». Alzò la voce per superare la sirena di un'ambulanza: «Non alle riforme sociali né agli ordinamenti politici. E nemmeno alla guerra di indipendenza. È questa bottiglia a fare la differenza fra la Turchia e gli altri Paesi musulmani. Questa birra» e sollevò la bottiglia come in un brindisi «è il simbolo della libertà e della società civile». «Ma piantala! Da quando in qua un alcolizzato è simbolo di libertà?» lo rampognò aspramente lo Sceneggiato re. Gli altri restarono in silenzio: discutere era uno spreco d'energia. Preferirono scegliersi ciascuno un quadro e concentrarsi sul proprio viaggio mentale. «Invece è così» grugnì il Fumettaro. «Pensa alla storia ottomana. Tutte quelle taverne, tutti quei mezes da sgranocchiare per accompagnare il bicchiere... L'alcol ci piace, perché negarlo? Beviamo come spugne undici mesi all'anno, per poi farci prendere dal panico, pentirci e digiunare durante il Ramadan. Se in questo Paese non si è mai affermata la sharia, se il fondamentalismo non ha preso piede come in altri posti, lo dobbiamo a questa nostra tradizione, te lo dico io. È grazie all'alcol che in Turchia esiste qualcosa che somiglia alla democrazia.» «Bene, e allora perché non beviamo?» disse la moglie del Fumettaro Dipsomane con un sorriso stanco. «E quale motivo migliore per brindare della brillante intuizione del signor Sulle Punte? Com'è che si chiamava? Cecchelli?» «Cecchetti» la corresse Asya rimpiangendo ancora il giorno in cui era stata così ubriaca da tenere al gruppo un discorso sulla storia del balletto, menzionando il nome di Cecchetti. Lo avevano subito adorato e da allora, di tanto in tanto, qualcuno dedicava un brindisi al ballerino che aveva perfezionato la tecnica en pointe. Si trovavano al Café Kundera ogni giorno. Il Poeta Eccezionalmente Privo di Talento, lo Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti e la sua ragazza del momento, il Fumettaro Dipsomane e la moglie del Fumettaro Dipsomane, il Cronista Mondano Criptogay e Asya Kazanci. Sotto la superficie delle loro conversazioni ribolliva una strana tensione, in attesa che le chiacchiere del giorno la
facessero venire a galla. A volte si portavano appresso altre persone, amici, colleghi o perfetti sconosciuti; altre volte venivano soli. Il gruppo era un organismo capace di autoregolarsi e viveva di vita propria al di fuori e al di sopra delle singole personalità che lo componevano. Con loro Asya Kazanci trovava la pace interiore. Il Café Kundera era il suo santuario. In casa Kazanci doveva sempre controllare le proprie maniere, lottare per una perfezione che andava oltre la sua comprensione, mentre lì nessuno ti obbligava a cambiare, perché tutti erano convinti che l'essere umano fosse per definizione imperfetto e incorreggibile. Di certo non erano gli amici che le zie avrebbero scelto per lei. Alcuni erano abbastanza vecchi da poterle fare da padre o da madre, ma essendo lei la più giovane, godeva nell'osservare quanto fossero infantili. Era confortante rendersi conto che non si migliorava con gli anni: se eri un adolescente scontroso, diventavi un adulto scontroso. Lo schema di base restava invariato. Per qualcuno poteva anche sembrare deprimente, ma per Asya era una consolazione: voleva dire che non era obbligata a diventare un'altra, a migliorare, come le zie la spronavano a fare giorno e notte. Se con il passare del tempo niente fosse cambiato e fosse rimasta in lei la tetraggine che conosceva così bene, allora avrebbe potuto continuare a essere la ragazza problematica di sempre. «Oggi è il mio compleanno» annunciò Asya sorprendendosi da sola, visto che non aveva alcuna intenzione di divulgare la notizia. «Ah sì?» chiese qualcuno. «Che coincidenza! Oggi è anche il compleanno della mia figlia minore» esclamò il Poeta Eccezionalmente Privo di Talento. «Ah sì?» questa volta fu il turno di Asya. «Così sei nata lo stesso giorno di mia figlia! Gemelli.» Il Poeta agitò la capigliatura vaporosa con un movimento teatrale. «Pesci» lo corresse Asya. E fu tutto. Nessuno cercò di abbracciarla o di soffocarla di baci, proprio come a nessuno venne in mente di ordinare una torta. Il Poeta recitò per lei dei versi orrendi, il Fumettaro bevve tre bottiglie di birra alla sua salute, e la moglie del Fumettaro disegnò una sua caricatura su un tovagliolino di carta: una ragazza arcigna con capelli crespi, tette grosse e naso aguzzo sotto due occhi astuti e penetranti. Le offrirono un altro caffè e alla fine le impedirono di pagare la sua parte del conto totale. Niente di più facile. Non che non avessero preso sul serio il compleanno di Asya. Al contrario, l'avevano preso così sul serio che si erano subito messi a ragionare sui concetti di tempo e di mortalità, per poi passare a interrogarsi su quando sarebbero morti e se esisteva davvero una vita ultraterrena. «C'è di sicuro una vita oltre la morte, e sarà anche peggio di questa,» era l'opinione generale «perciò meglio godersi il tempo che rimane.» Qualcuno ci rimuginò sopra, altri si fermarono a metà discorso per concentrarsi su una delle immagini alla parete. Se la presero comoda, come se fuori di lì non ci fosse niente e nessuno li aspettasse. Le smorfie si mutarono lentamente in sorrisi di beata indifferenza. Privi com'erano di energia, di passione, del bisogno di continuare la
discussione, sprofondarono nelle acque stagnanti dell'apatia, tornando a domandarsi perché mai quel posto si chiamasse Café Kundera.
Alle nove di sera, dopo un pasto abbondante, fra canti e applausi, Asya Kazanci spense le candeline sulla torta di mele caramellate a tre strati (troppo dolce) con una copertura di crema di limone (troppo aspra) Riuscì a spegnerne un terzo. Alle altre ci pensarono le zie, la nonna e Petite-Ma. «Com'è andata la lezione di danza, oggi?» chiese zia Feride mentre riaccendeva la luce. «Bene» sorrise Asya. «Mi fa un po' male la schiena per tutto lo stretching che fanno fare, però non mi posso lamentare. Ho imparato dei passi nuovi...» «Ah sì?» arrivò una voce sospettosa. Era zia Zeliha. «Per esempio?» «Be'...» rispose Asya assaggiando il primo boccone di torta. «Vediamo. Ho imparato la petite jetée, che sarebbe un saltello, e la pirouette e la glissade.» «Sai, questo si chiama prendere due piccioni con una fava» commentò zia Feride. «Noi paghiamo per le lezioni di balletto, ma di fatto lei si ritrova a imparare sia il balletto sia il francese. Alla fine risparmiamo un bel po' di soldi!» Annuirono tutte tranne Zeliha. Con un lampo di scetticismo che balenava dall'abisso dei suoi occhi verde giada, avvicinò il viso a quello della figlia e le disse, in tono quasi impercettibile: «Facci vedere!». «Sei impazzita?» sussultò Asya. «Non posso mica mettermi a fare cose del genere in mezzo al salotto di casa! Ho bisogno del parquet, di lavorare con un'insegnante. Prima facciamo riscaldamento, stretching e ci concentriamo. E poi ci vuole la musica... Glissade significa scivolata, come vuoi che faccia a fare una scivolata qui sul tappeto? Non ci si può mica mettere a danzare di punto in bianco!» Un sorriso saturnino aleggiò sulle labbra di Zeliha, che si passò le dita fra i capelli scuri. Non disse altro, apparentemente più interessata a mangiare la torta che a litigare con la figlia. Ma quel sorriso era bastato a far infuriare Asya, che allontanò il piatto, scostò la sedia dal tavolo e si alzò. Alle nove e quindici di quella sera, nel salotto di un konak di Istanbul, una volta opulento e alla moda ma ormai antiquato e decaduto, Asya Kazanci si esibì in un balletto sul tappeto turco, il viso atteggiato a un'espressione romantica, le braccia tese e le mani mollemente piegate in modo che il dito medio sfiorasse il pollice, e la mente che turbinava di rabbia e risentimento.
Capitolo sei Pistacchi
In attesa dell'autorizzazione per la carta di credito, Armanoush Tchakhmakhchian osservava il cassiere del Luminoso Angolo dei Libri che infilava uno per uno i dodici romanzi in un sacchetto di tela. Quando la ricevuta fu pronta, Armanoush la firmò cercando di non guardare il totale. Ancora una volta aveva speso i risparmi dell'intero mese in libri! Era una vera divoratrice di romanzi, cosa che aveva l'effetto di scoraggiare i maschi e quindi di mettere in crisi sua madre, che voleva a tutti costi un marito ricco per lei. Proprio quella mattina, al telefono, le aveva fatto promettere di non azzardarsi a sfiorare l'argomento libri durante l'appuntamento che l'aspettava la sera. Ripensandoci adesso, Armanoush provò un'improvvisa fitta di angoscia. Dopo dodici mesi che non usciva con nessuno - a coronamento di ventun'anni da single incallita occasionalmente punteggiati da disastrosi incontri pseudogalanti - quella sera Armanoush aveva deciso di offrire all'amore un'altra possibilità. Se la passione per i libri era stata una delle ragioni principali della sua cronica incapacità di intrattenere relazioni normali con il sesso opposto, c'erano due fattori aggiuntivi ad alimentare questo eterno fallimento. Prima cosa, e più importante, Armanoush era bella, troppo bella. Aveva un corpo perfettamente proporzionato, un viso fine, ca pelli ondulati biondo scuro, grandi occhi grigio-azzurri e un naso affilato con una lieve gobba, che in chiunque altro sarebbe apparso un difetto ma a lei conferiva un'aria sicura. Una bellezza del genere, combinata con un cervello di prim'ordine, intimidiva i ragazzi. Non che preferissero donne brutte o non apprezzassero l'intelligenza, ma non sapevano dove incasellarla: nel gruppo delle ragazze da portarsi a letto (le bellone), in quello delle amiche a cui chiedere consiglio (le confidenti) o tra le possibili candidate al matrimonio (le affidabili). Perfetta al punto da poter essere tutte e tre, Armanoush finiva per non esserne nessuna. Il secondo fattore era assai più complicato, nonché al di là del suo controllo: i parenti. La famiglia Tchakhmakhchian a San Francisco e sua madre in Arizona la pensavano in due modi completamente diversi riguardo all'uomo ideale per lei. Trascorrendo ogni anno quasi cinque mesi qui (vacanze estive, intervallo di primavera, frequenti visite nei fine settimana) e i restanti sette in Arizona, Armanoush aveva capito che cosa si aspettasse da lei ognuna delle parti e quanto quelle aspettative fossero inconciliabili. Quello che poteva rendere felice l'una gettava nello sconforto l'altra. Per accontentare tutti, Armanoush era uscita con ragazzi armeni a San Francisco, e con chiunque fuorché questi ultimi in Arizona. Ma il fato
sembrava prendersi gioco di lei, perché nessuno di quelli che le erano piaciuti a San Francisco era armeno, mentre i tre ragazzi per i quali si era presa una cotta in Arizona si erano rivelati di origine armena, per la disperazione di sua madre. Sorreggendo le proprie ansie insieme al pesante zaino, attraversò Opera Plaza, mentre il vento le fischiava lamentosamente nelle orecchie. A un tavolino del Max's Opera Café, vide una giovane coppia che doveva essere terribilmente delusa dai sandwich di carne, o reduce da un furioso litigio. Meno male che sono single, pensò Armanoush, scherzando ma non troppo, prima di svoltare in Turk Street. Anni prima, quand'era ragazzina, aveva fatto da guida a una giovane conoscente di origine armena che veniva da New York. Arrivata in quella strada, la ragazza aveva fatto una smorfia. «Turk Street! Ma questi qui sono proprio dappertutto!» Armanoush ricordava ancora la propria sorpresa di fronte a quella reazione. Aveva cercato di spiegarle che la strada doveva il nome a Frank Turk, un avvocato che aveva ricoperto la carica di secondo alcalde ed era stato una figura di primo piano nella storia cittadina. «Comunque sia, resta il fatto che sono dappertutto!» l'aveva interrotta l'amica nel bel mezzo della sua lezione, mostrando ben poco interesse per il passato di San Francisco. Sì, certo, erano dappertutto, al punto che uno di loro aveva sposato sua madre. Ma quest'informazione Armanoush preferì tenerla per sé. Con i suoi amici armeni evitava di parlare del patrigno. In effetti non ne parlava neppure con i non-armeni, e neanche con quelli che nella vita pensavano solo a se stessi e non nutrivano il benché minimo interesse per il conflitto turco-armeno. Armanoush preferiva mantenere il silenzio, sapendo che i segreti si diffondono nell'aria più velocemente della polvere sollevata dal vento. Se non raccontavi a nessuno che c'era qualcosa di straordinario, tutti davano per scontata la normalità, lei lo aveva capito ben presto. Dato che sua madre era una odar, cosa ci sarebbe stato di più normale per lei che sposarsi con un altro odar? Questo era l'assunto di base, e perciò i suoi amici credevano che il patrigno fosse americano, presumibilmente del Midwest. In Turk Street, mescolandosi a passanti di ogni tipo, Armanoush superò un bed & breakfast che accoglieva clientela gay, un negozio di alimenti mediorientali e un piccolo supermercato thailandese, e poi salì sul tram per Russian Hill. Con la testa appoggiata contro il finestrino polveroso, riflettè sull'«altro io» del Labirinto di Borges, mentre osservava le volute di nebbia che si innalzavano piano all'orizzonte. Anche Armanoush aveva un altro io, che teneva a bada ovunque andasse. Amava questa città, ne sentiva pulsare l'energia e il vigore dentro di sé. Fin da quando era bambina le era sempre piaciuto venire a San Francisco e stare con il papà e la nonna Shushan. Al contrario della madre, il papà non si era mai risposato. Armanoush sapeva che lui aveva avuto altre donne, in passato, ma non gliene aveva mai presentata nessuna, forse perché non erano storie serie, oppure perché temeva di sconvolgerla. Probabilmente era quest'ultima la supposizione più azzeccata, per un uomo come Barsam Tchakhmakhchian. Suo padre era l'anima meno egoista e maschilista che esistesse sulla faccia della terra, ne era convinta, e Armanoush non
smetteva di meravigliarsi che fosse finito con una donna così presa da se stessa come Rose. Non che lei avesse qualcosa contro sua madre. Le voleva bene, ma c'erano momenti in cui si sentiva soffocata da quel suo amore incontentabile. Allora scappava a San Francisco, fra le braccia della famiglia Tchakhmakhchian, dove l'attendeva un amore meno famelico, ma ugualmente esigente. Appena scesa dal tram si mise a correre. Matt Hassinger sarebbe passato a prenderla alle sette e trenta. Aveva meno di un'ora e mezza per prepararsi, cioè farsi una doccia e infilarsi un vestito, magari quello turchese che a detta di tutti le stava così bene. Nient'altro. Niente trucco, né gioielli. Non aveva intenzione di agghindarsi tutta per quell'appuntamento, e cercava di non riporvi troppe aspettative. Se fosse andato bene, tanto meglio, ma era saggio non perderci troppo tempo in caso di insuccesso. Facendosi strada attraverso la coltre di nebbia che copriva la città, alle sei e dieci Armanoush raggiunse l'appartamento con doppi servizi di sua nonna, a Russian Hill, una vivace zona residenziale costruita su una delle colline più ripide di San Francisco. «Ciao tesoro, bentornata a casa!» Con sua sorpresa, ad aprirle la porta non era stata la nonna, ma la zia Surpun. «Mi sei mancata. Cos'hai fatto tutto il giorno? Com'è andata la giornata?» «Tutto bene», rispose placida Armanoush, chiedendosi che ci facesse lì la più giovane delle sue zie di martedì sera. Zia Surpun viveva a Berkeley dove insegnava da sempre, o almeno da quando Armanoush era piccola. Raggiungeva San Francisco in auto tutti i weekend, ma era insolito che si facesse vedere durante la settimana. La cosa smise di preoccupare Armanoush non appena cominciò a fare il resoconto della propria giornata. Raccontò con entusiasmo, un sorriso raggiante sul viso: «Mi sono comprata dei libri nuovi». «Libri? Ha parlato ancora di libri?» urlò una voce familiare, dall'interno della casa. Quella sembrava zia Varsenig ! Armanoush appese l'impermeabile, si sistemò i capelli arruffati dal vento domandandosi cosa ci facesse lì anche zia Varsenig. Le sue figlie, le gemelle, sarebbero tornate quella sera da Los Angeles, dove avevano partecipato a un torneo di pallacanestro. Zia Varsenig era così agitata per la gara che non dormiva decentemente da tre giorni, e aveva passato tutto il tempo al telefono con le figlie o con l'allenatore. Ed ecco che il giorno del rientro, invece di andare all'aeroporto ore prima dell'arrivo come d'abitudine, era a casa della madre ad apparecchiare la tavola. «Sì, zia ho proprio detto "libri"» confermò Armanoush rimettendosi lo zaino per entrare nel salone. «Non starla a sentire, sta solo diventando vecchia e brontolona» aggiunse zia Surpun seguendola in soggiorno. «Siamo così orgogliose di te, tesoro.» «Certo che siamo orgogliose di lei, ma potrebbe anche comportarsi come le ragazze della sua età.» Zia Varsenig scrollò le spalle, sistemando in tavola l'ultimo piatto di porcellana, dopodiché avvicinò a sé la nipote e la abbrac ciò. «Le ragazze come te di solito pensano a farsi belle. Non che tu ne abbia bisogno, naturalmente, ma se non fai altro che leggere, leggere e leggere, che fine farai?»
«Sai, zia, non è come nei film, che quando finiscono compare la scritta FINE. Con i libri non hai mai la sensazione di averli conclusi davvero, e senti il bisogno di cominciarne subito un altro.» Armanoush le strizzò l'occhio, senza rendersi conto di quanto era carina, illuminata dalla luce del sole che svaniva lentamente dalla stanza. Appoggiò lo zaino sulla poltrona della nonna e lo svuotò all'istante, come un bambino ansioso di esaminare un mucchio di giocattoli nuovi. I libri si riversarono uno sopra l'altro: L'Aleph di Borges, Una banda di idioti di John Kennedy Toole, Divertimento solitario di William Gaddis, La gestione del dolore di Bharati Mukherjee, Tutte le opere di Borges, Narciso e Boccadoro di Hesse, I Mambo Kings suonano canzoni d'amore di Oscar Hijuelos, Paesaggio dipinto con il té di Milorad Pavic, La donna gialla e la bellezza dello spirito di Leslie Marmon Silko, e due libri di Milan Kundera, il suo autore preferito: Il libro del riso e dell'oblio e La vita è altrove. Alcuni le erano nuovi; altri li aveva già letti anni prima ma voleva rileggerli. In fondo Armanoush sapeva, forse più per istinto che razionalmente, che quest'avversione ai libri aveva radici ben più oscure e segrete della semplice speranza di vederla comportarsi come qualunque ragazza della sua età. La verità era che avrebbe dovuto lasciar perdere la lettura, non solo in quanto donna, ma soprattutto in quanto armena. Armanoush aveva la sensazione che dietro le costanti obiezioni di zia Varsenig ci fosse una paura più profonda, quasi primordiale: una questione di pura sopravvivenza. Semplicemente, la sua famiglia non voleva che Armanoush brillasse troppo, distinguendosi dal gregge. Scrittori, poeti, artisti, intellettuali erano stati i primi ad essere eliminati dal governo ottomano. I turchi si erano prima sbarazzati dei «cervelli», e solo in seguito erano passati al resto della popolazione. Come altre famiglie della diaspora, sane e salve eppure mai davvero inserite, i Tchakhmakhchian erano allo stesso tempo orgogliosi e contrariati quando uno dei loro rampolli leggeva troppo, pensava troppo, e volava troppo alto. I libri erano pericolosi in generale, ma i romanzi lo erano ancora di più. Il sentiero della narrazione ti poteva facilmente condurre a un universo in cui tutto era fluido, imprevedibile e ignoto come una notte senza luna nel deserto. Prima ancora di rendertene conto, rischiavi di lasciarti trasportare fino a perdere ogni contatto con la realtà, con quella solida e stringente verità dalla quale nessuna minoranza dovrebbe mai staccarsi, per non trovarsi indifesa quando cambia il vento e arrivano i tempi duri. Perché era da ingenui credere che i tempi duri non sarebbero tornati: prima o poi tornavano sempre. L'immaginazione era un incantesimo affascinante ma rischioso per chi nella vita era obbligato a essere realista, e le parole potevano diventare un veleno, quando si era destinati a essere ridotti al silenzio. Se volevano leggere e studiare, i figli dei sopravvissuti, dovevano farlo con discrezione, tenendo per sé quello che imparavano, e dovevano essere sempre pronti al peggio. Se proprio non potevano fare a meno di aspirare a una vita migliore, allora che si accontentassero di desideri semplici, di passioni e ambizioni limitate, riducendo la propria energia alla potenza necessaria per restare nella media. Con il destino e la famiglia che le erano toccati, Armanoush doveva fare del suo meglio per tenere a bada il talento.
Un profumo intenso e speziato cominciò a diffondersi dalla cucina e le solleticò le narici, strappandola alle sue meditazioni. «Allora» disse Armanoush alla più loquace delle tre zie. «Ti fermi per cena?» «Scappo quasi subito, cara» mormorò zia Varsenig. «Devo andare all'aeroporto: le gemelle tornano oggi. Mi sono fermata solo per lasciarvi un po' di manti fatto in ca sa e poi...» zia Varsenig si gonfiò d'orgoglio. «Indovina un po': bastirma direttamente da Yerevan!» «Ci manca solo questo! Il manti non lo mangio, e ad assaggiare il bastirma non ci penso nemmeno: stasera non posso certo avere l'alito che puzza d'aglio!» si accigliò Armanoush. «Non c'è problema. Basta che ti lavi bene i denti e mastichi una gomma alla menta, e non si sentirà niente.» Quella era zia Zarouhi, appena entrata con un piatto di musaqqa decorato con foglie di prezzemolo e fettine di limone. Lo appoggiò sul tavolo e spalancò le braccia in direzione della nipote. Armanoush ricambiò l'abbraccio, chiedendosi cosa ci facesse anche lei lì... Ma cominciava a capire. Era una strana coincidenza che l'intera famiglia Tchakhmakhchian si fosse materializzata a casa di nonna Shushan proprio la sera che Armanoush aveva un appuntamento. Si erano presentate con pretesti diversi, ma avevano tutte un identico proposito: volevano vedere, mettere alla prova e giudicare quel Matt Hassinger, il fortunato giovane che sarebbe uscito con la loro adorata bambina. Armanoush guardò le zie con un'espressione che tendeva al disperato. Che fare? Come poteva rendersi indipendente se le stavano così addosso? Come faceva a convincerle a non preoccuparsi per lei, visto che nella vita avevano già avuto tanti problemi? Come faceva a liberarsi dal suo retaggio genetico, soprattutto quando una parte di lei ne era così fiera? Sarebbe mai riuscita a sottrarsi alla gentilezza di coloro che amava? Era possibile lottare contro la bontà? «Non servirebbe a niente!» ribattè Armanoush quasi senza fiato. «Non c'è dentifricio che tenga, e neppure gomme da masticare o quell'orrendo collutorio alla menta: non c'è niente al mondo di così potente da coprire l'odore di bastirma. Ci mette almeno una settimana a sparire. Dopo che l'hai mangiato, puzzi, sudi e hai il fiato che sa di bastirma per giorni e giorni. Persino la pipì puzza di bastirma.» «Che c'entra la pipì con gli appuntamenti galanti?» sussurrò zia Varsenig, sconcertata, all'orecchio di zia Surpun. Continuando a protestare ma senza nessuna voglia di litigare, Armanoush si diresse verso il bagno, solo per trovarci la mole ingombrante di zio Dikran a quattro zampe, con la testa infilata nel mobiletto sotto il lavabo. «Zio?» Armanoush quasi si mise a strillare. «Ciaaao!» ululò zio Dikran dall'interno del mobiletto. «Questa casa è piena di personaggi cechoviani» borbottò fra sé Armanoush. «Se lo dici tu» rispose la voce da sotto il lavandino. «Zio, che stai facendo?»
«Be', visto che tua nonna si lamenta sempre dei rubinetti vecchi di questa casa, stasera mi sono detto, chiudo il negozio prima del solito, mi fermo da Shushan, e le riparo quegli stupidi tubi.» «Capisco» rispose Armanoush trattenendo un sorriso. «E lei dov'è, a proposito?» «Sta facendo un sonnellino» rispose Dikran strisciando fuori dal mobile per prendere un piegatubi. «Che vuoi farci, è la vecchiaia... Il corpo ha bisogno di riposo. Comunque si sveglierà prima delle sette e mezza, non preoccuparti.» Sette e mezza! Sembrava che tutti i membri della famiglia avessero regolato una sveglia biologica sul momento in cui Matt Hassinger avrebbe suonato il campanello. «Mi passi quel pappagallo liscio, per favore?» le arrivò una voce frustrata. «Questo qui non sembra che funzioni.»
Armanoush fissò con crescente sconforto la cassetta degli attrezzi, dove risplendevano un centinaio di arnesi di ogni forma e dimensione: gli porse una chiave a catena, un mandrino conico e una pompa di prova da 20 atmosfere, prima di capitare per caso sul pappagallo liscio. Malauguratamente, neppure quello sembrò «funzionare». Vista l'impossibilità di farsi una doccia con l'Idraulico Negato al lavoro, Armanoush si diresse verso la came era della nonna, socchiuse la porta e sbirciò dentro. La nonna dormiva il sonno leggero ma placido delle persone anziane circondate dall'affetto dei figli e dei nipoti. Una donnina che aveva sempre avuto un corpo fragile e troppi pesi da portare, e che l'età aveva finito per assottigliare e rimpicciolire ancora di più. Con il passare degli anni era aumentato il bisogno di sonno durante la giornata, mentre la notte continuava a restare sveglia come un grillo. La vecchiaia infatti non aveva scalfito la sua cronica insonnia. In famiglia erano convinti che fosse il suo passato a non lasciarla riposare mai troppo a lungo. Armanoush richiuse la porta e la lasciò dormire. Quando tornò in soggiorno, la tavola era apparecchiata, e avevano aggiunto un posto anche per lei. Si chiese come potevano pretendere che si sedesse a mangiare quando aveva un appuntamento fra meno di un'ora, ma preferì non domandarlo. Era sempre un grosso sbaglio tentare di essere ragionevoli in quella famiglia. Meglio mangiucchiare qualcosa, così sarebbero stati tutti contenti. Oltretutto, quel cibo le piaceva. In Arizona, sua madre aveva messo al bando la cucina armena in ogni sua forma, e godeva nello svilirla agli occhi di amici e vicini. Si divertiva soprattutto ad attirare l'attenzione su due piatti, che disprezzava pubblicamente non appena si presentava l'occasione: stinco arrosto e budelli ripieni. Armanoush si ricordava di quando Rose se ne era lamentata con la signora Grinnell, la vicina di casa. «Che schifo!» aveva esclamato la signora Grinnell con voce venata di disgusto. «Mangiano veramente gli intestini?» «Oh sì» aveva confermato con entusiasmo Rose. «Mi creda, lo fanno davvero. Li insaporiscono con aglio ed erbe aromatiche, li riempiono di riso, e se li mangiano a quattro palmenti.» Le due donne avevano ridacchiato, complici, e avrebbero continuato se in quel momento non fosse intervenuto il patrigno di Armanoush, che si era voltato verso di lo ro e con un'espressione stremata aveva detto: «Cosa c'è di strano? È la stessa cosa del mumbar. Dovreste assaggiarlo qualche volta, è buonissimo!». «È armeno anche lui?» aveva sussurrato la signora Grinnell quando Mustafa era uscito dalla stanza. «Certo che no» aveva ribattuto Rose in un soffio. «È solo che hanno alcune cose in comune.»
Il campanello emise un trillo acuto, interrompendo brutalmente i pensieri di Armanoush e facendo sussultare anche tutti gli altri. Non erano nemmeno le sette. A quanto pareva, la puntualità non rientrava fra le doti di Matt Hassinger. Come se
qualcuno avesse pigiato un bottone, le tre zie scattarono verso la porta, inchiodandosi subito prima di aprirla. Zio Dikran battè una testata sotto il lavandino, e nonna Shushan si svegliò di soprassalto. Solo Armanoush rimase calma e composta. A passi volutamente misurati si avviò verso la porta, sotto lo sguardo fisso delle zie, e la aprì. «Papà!» esclamò tutta contenta. «Credevo che avessi una riunione, stasera. Com'è che sei rientrato così presto?» Ma prima ancora di aver finito la domanda, Armanoush aveva già immaginato la risposta. Barsam Tchakhmakhchian le rivolse il suo dolce sorriso a fossette e l'abbracciò, con gli occhi che brillavano d'orgoglio e di una vaga inquietudine. «Sì, ma non è andata in porto, e così abbiamo dovuto rimandare». Appena fu sicuro che lei non lo sentisse, sussurrò alle sorelle: «Non è ancora arrivato?». Gli ultimi trenta minuti prima dell'arrivo di Matt Hassinger furono segnati da una crescente tensione da parte di tutti, fuorché dell'interessata. Le fecero provare diversi abiti e la fecero sfilare, fino a raggiungere un verdetto unilaterale: il vestito turchese. A completare l'insieme, orecchini coordinati, una borsetta viola di perline, che secondo zia Varsenig avrebbe aggiunto un tocco di femminilità, e un soffice golfino blu scuro, casomai avesse fatto freddo. Era un'altra delle cose che Armanoush sapeva di non dover mettere in discussione. Per qualche ragione agli occhi dei Tchakhmakhchian il mondo esterno aveva le caratteristiche di un paesaggio artico. «Fuori» equivaleva a «posto freddo», e per potervi accedere ci voleva un golfino, possibilmente fatto a mano. Lo sapeva fin dall'infanzia, dai primi anni di vita trascorsi sotto le copertine morbide che la nonna aveva sferruzzato per lei, con le iniziali ricamate sul bordo. Andare a dormire senza qualcosa per coprirsi era inconcepibile, e uscire per strada senza golfino significava commettere un errore irreparabile. Proprio come una casa deve avere un tetto, anche gli esseri umani hanno bisogno di uno strato protettivo per sentirsi al caldo e al sicuro. Quando Armanoush ebbe accettato di infilarsi il golfino e la vestizione fu terminata, se ne uscirono con un'altra pretesa, paradossale per chiunque, ma non per i Tchakhmakhchian: doveva sedersi a tavola e mangiare con loro, in modo da essere pronta e in forze per la cena successiva. «Ma tesoro, stai spilluzzicando come un uccellino. Non vorrai dirmi che non assaggi neppure il mio manti.» si lagnò zia Varsenig con un cucchiaio in mano e la delusione negli occhi scuri, tanto che Armanoush si chiese se invece che un semplice manti fosse in ballo la vita di qualcuno. «Zia, davvero non posso» sospirò Armanoush. «Mi hai già riempito il piatto di khadayif. È più che sufficiente.» «Be', visto che non volevi puzzare di carne e aglio» trillò zia Surpun con un tocco di malizia nella voce «ti abbiamo dato l'ekmek khadayif, così il tuo alito profumerà di pistacchi.» «Perché mai qualcuno vorrebbe profumare di pistacchi?» chiese stupita nonna Shushan, che si era persa il primo scambio di battute - non che sentirlo le avrebbe reso più chiara la conversazione.
«Non voglio che il mio alito sappia di pistacchi.» Arma noush spalancò gli occhi, disperata, e con lo sguardo rivolse al padre una muta richiesta di soccorso. Ma prima che Barsam Tchakhmakhchian potesse aprire bocca, il cellulare di Armanoush attaccò con la sua suoneria, un classico di ajkovskij, la Danza della Fata Confetto. Armanoush lo prese e fissò lo schermo con aria imbronciata. Numero privato: poteva essere chiunque. Poteva essere persino Matt Hassinger che la chiamava per annullare la cena con qualche scusa assurda. Armanoush rimase immobile, a disagio, con il telefono in mano. Al quarto squillo rispose, sperando che non fosse sua madre. Era lei. «Tesoro, ti stanno trattando bene?» fu la prima cosa che le chiese. «Sì, mamma» borbottò Armanoush con voce piatta. Ormai ci era abituata. Ogni volta che stava dai Tchakhmakhchian sua madre si comportava come se lei fosse in pericolo di vita. «Amy, non mi dirai che sei ancora a casa?» Armanoush era abituata anche a quello, per quanto possibile. Fin dal giorno in cui i suoi genitori si erano separati, una separazione di altro tipo era avvenuta anche fra la madre e il suo nome. Aveva smesso di chiamarla Armanoush, come se sentisse il bisogno di ribattezzare la figlia per continuare ad amarla. Fino a quel momento non l'aveva raccontato a nessuno della famiglia Tchakhmakhchian. Certe cose era meglio tenerle segrete, anche se di segreti di quel genere ne aveva anche troppi. «Perché non rispondi?» insistette sua madre. «Non dovevi uscire?» Armanoush fece una pausa, cosciente che l'intera tavolata la stava ascoltando. «Sì, mamma» fu quello che riuscì ad articolare dopo un silenzio imbarazzato. «Non avrai mica cambiato idea?» «No, mamma. Ma com'è che chiami da un numero privato?» «Be', ho le mie buone ragioni, come qualsiasi altra madre. Quando sai che sono io, a volte non rispondi...» La voce di Rose si affievolì desolata, per poi riprendere con rinnovato vigore: «Matt verrà a conoscere la famiglia?». «Sì, mamma.» «No! È l'errore peggiore che potresti fare. Lo spaventeranno a morte. Oh, le tue zie, tu non le conosci, sei così buona che il male non lo vedi neppure. Lo terrorizzeranno con i loro soliti interrogatori.» Armanoush non disse nulla. Si sentivano dei bizzarri fruscii sulla linea, e lei aveva il sospetto che sua madre si stesse spazzolando i capelli mentre trinciava giudizi. «Tesoro, perché non dici niente? Sono tutte lì intorno?» chiese Rose. Un altro fruscio soffocato, ma questa volta non le sembrò più il rumore di una spazzola. Somigliava piuttosto a quello di un oggetto morbido immerso piano piano in un liquido, o forse, ancora meglio, a quello di una cucchiaiata di impasto per frittelle adagiato su una padella rovente. «Oh, ma perché faccio queste domande inutili? Certo che sono lì, ci scommetto. Mi odiano ancora, vero?» Armanoush non aveva risposte. Le sembrava di vederla, Rose, nella cucina in penombra, circondata dai pensili color salmone chiaro che non aveva mai tempo o
soldi per cambiare, i capelli raccolti in un morbido nodo, il cordless appiccicato all'orecchio e una spatola in mano, a preparare una pila di frittelle come se avesse in casa un esercito di ragazzini, finendo per mangiarsele solo lei. Le pareva di vedere anche il patrigno, Mustafa Kazanci, seduto a girare pigramente il caffellatte, mentre scorreva l'«Arizona Daily Star». Dopo la laurea all'Università dell'Arizona e il matrimonio con Rose, Mustafa aveva cominciato a lavorare per una società mineraria della zona, e per quanto ne sapeva Armanoush, adorava le rocce e i minerali più di ogni altra cosa al mondo. Non era una cattiva persona, era solo un po' apatico. Sembrava non nutrire alcuna passione nella vita. Non tornava a Istanbul Dio solo sa da quanto tempo, nonostante la sua famiglia fosse ancora laggiù. Certe volte Armanoush aveva l'impressione che volesse sfuggire al proprio passato, anche se non sapeva perché. Qualche volta aveva cercato di parlare con lui del 1915 e di quello che i turchi avevano fatto agli armeni. «Non so molto di queste cose» aveva risposto Mustafa chiudendo il discorso in maniera cortese ma perentoria. «È storia vecchia. Dovresti parlarne con uno storico.» «Amy, hai intenzione di parlare con me o no?» Adesso la voce di Rose sembrava irritata. «Mamma, devo riattaccare. Ti chiamo io più tardi» disse Armanoush. Ci fu uno scatto improvviso, accompagnato da un fruscio nel telefono, come se sua madre avesse versato un'altra cucchiaiata di impasto nella padella, o si fosse lasciata sfuggire un singhiozzo. Armanoush preferì propendere per la prima possibilità. Tornò a tavola decisamente scocciata, agguantò il cucchiaio e senza guardare nessuno cominciò a divorare ciò che aveva nel piatto, solo che non si trattava di quello che lei pensava. Ci vollero diverse cucchiaiate perché si rendesse conto dell'errore. «Perché sto mangiando il manti?» esclamò Armanoush. «Non lo so, tesoro» ribattè zia Varsenig guardandola intimorita, come se fosse una strana creatura a lei sconosciuta. «L'avevo messo lì nel caso ti andasse di assaggiarlo. E a quanto pare ti andava.» Armanoush avrebbe voluto mettersi a piangere. Chiese il permesso di alzarsi da tavola e schizzò in bagno a lavarsi i denti, rimpiangendo profondamente di aver accettato quello stupido appuntamento. Fissò la sua immagine allo specchio, un tubetto di dentifricio mezzo strizzato in mano e l'espressione di chi è sul punto di rinunciare per sempre alla società umana per farsi eremita e ritirarsi su una montagna dimenticata da Dio. Che possibilità di vittoria poteva mai avere un povero Colgate sbiancante contro il terribile manti? E se avesse telefonato a Matt per annullare tutto? Adesso avrebbe voluto soltanto gettarsi sul letto, arrendersi allo sconforto e sprofondare nella lettura dei romanzi che si era comprata. Leggere e leggere fino allo sfinimento, finché non le si fossero chiusi gli occhi. Ecco cosa avrebbe voluto. «Dovevi startene a letto a leggere i tuoi romanzi» rimproverò la faccia che la guardava dallo specchio. «Stupidaggini!» Era zia Zarouhi, il cui riflesso si era appena materializzato accanto al suo. «Sei una bellissima ragazza che merita l'uomo migliore del mondo. E
adesso aggiungiamo un po' di fascino femminile. Mettiamo un po' di rossetto, signorina!» Ubbidì. La scritta sul rossetto non diceva proprio fascino femminile, ma ci andava abbastanza vicino: FASCINO DI CILIEGIA. Armanoush ne applicò un generoso strato, per poi tamponarsi le labbra con un fazzoletto e toglierne la maggior parte. Proprio in quell'istante suonò il campanello. Sette e trentadue! Dopotutto, la puntualità sembrava rientrare fra le doti di Matt Hassinger. Un minuto dopo, Armanoush stava sorridendo a un elegante, agitato e un po' smarrito Matt Hassinger, in piedi sulla soglia. Aveva tre anni meno di lei, un dettaglio che Armanoush non aveva sentito il bisogno di rivelare a nessuno ma che in quel momento era più che palese. Forse perché aveva combinato qualcosa con i capelli o si era infilato abiti che non era abituato a portare - una giacca di pelle marrone scuro e un paio di pantaloni Ralph Lauren color miele -, fatto sta che Matt Hassinger sembrava proprio un ragazzino nei panni di un uomo. Entrò reggendo nella mano sinistra un grosso mazzo di tulipani scarlatti e sorrise ad Armanoush. Poi notò il pubblico sullo sfondo e si bloccò di colpo. L'intera famiglia Tchakhmakhchian era allineata alle spalle di Armanoush. «Avanti, giovanotto» disse zia Varsenig con il suo tono più incoraggiante, che guarda caso coincideva con quello più intimidatorio. Matt Hassinger strinse la mano ai membri della famiglia, sentendosi addosso i loro sguardi inquisitori. Perse ogni sicurezza e cominciò a sudare. Qualcuno gli prese i fiori e qualcun altro la giacca. Con l'aria di un pavone spennato, adesso che era privo della sua giacca di pelle, si trascinò in soggiorno e si lasciò cadere sulla prima sedia che gli capitò a tiro. Si sedettero anche gli altri, formando una mezzaluna attorno a lui. Scambiarono qualche parola sul tempo, poi il discorso cadde fatalmente su Matt: sull'istruzione di Matt (studiava legge, il che poteva essere bene o male), sulla famiglia di Matt (era figlio unico, il che poteva essere bene o male), sui genitori di Matt (entrambi avvocati, il che poteva essere bene o male), sulle conoscenze di Matt riguardo il popolo armeno (non molte, il che era male, ma il ragazzo era ansioso di saperne di più, il che era bene). Dopodiché, tornarono brevemente sull'argomento tempo, prima di piombare in uno sgradevole silenzio. Per cinque minuti nessuno trovò nulla da dire, ma tutti sorridevano radiosi come se avessero qualcosa sulla punta della lingua e lo trovassero estremamente divertente. Quella situazione imbarazzante cominciava a sembrare senza via d'uscita quando la Danza della Fata Confetto risuonò di nuovo. Armanoush controllò lo schermo: di nuovo un numero privato. Eliminò la suoneria, lasciando solo la vibrazione. Inarcò le sopracciglia e indirizzò a Matt una smorfia che voleva significare «non importa», cosa che né lui né nessun altro comprese. Alle sette e quarantacinque erano finalmente fuori e percorrevano a discreta velocità Hyde Street su una Suzuki Verona rosso veneziano, diretti a un ristorante di cui Matt aveva sentito parlare molto bene e che si augurava fosse carino e romantico: lo Skewed Window. «Spero che ti piaccia la cucina fusion asiatica con un tocco caraibico» ridacchiò Matt, divertito dalle sue stesse parole. «Se ne parla molto.»
Ora, «se ne parla molto» non era un criterio di cui Armanoush si fidasse più di tanto, soprattutto perché era stufa di bestseller di cui «si parlava molto» Comunque non ebbe niente da obiettare, augurandosi che il suo cinismo venisse contraddetto nel corso della serata. Ma non fu così. Lo Skewed Window era un ritrovo popolare tra intellettuali e artisti della città, ma era tutto tranne che un posticino carino e romantico. Aveva l'aspetto di un magazzino dai soffitti alti, e sfoggiava lampadari art deco ed esemplari di arte astratta alle pareti. Camerieri vestiti di nero da capo a piedi correvano su e giù come una colonia di formiche che avesse appena scoperto un mucchietto di zucchero. Servivano piatti artistici, e intanto speravano che al tuo posto arrivasse presto un cliente più generoso con le mance. Quanto al menu, era semplicemente incomprensibile. Come se il contenuto non lasciasse già abbastanza perplessi, ogni preparazione era fatta in modo da ricordare, con le guarnizioni, i colori e la forma, un dipinto di qualche pittore contemporaneo. A quanto pareva, il cuoco olandese aveva tre aspirazioni nella vita: diventare filosofo, diventare pittore e diventare chef. Miseramente fallito in gioventù sia come filosofo sia come pittore, aveva trovato il modo di utilizzare in cucina quei suoi poco apprezzati talenti. Si compiaceva di ricreare con il cibo le opere d'arte astratte per farle diventare tutt'uno con il corpo umano tramite l'atto del mangiare, in modo che i quadri scaturiti dall'emotività dell'artista venissero interiorizzati da altri, ovvero i clienti del suo ristorante. Insomma, cenare allo Skewed Window era un'esperienza estetica più che culinaria, e l'atto del mangiare non era considerato solo espressione della primordiale necessità di riempirsi lo stomaco, ma diventava una sorta di sublime danza catartica. Dopo numerosi e inutili tentativi di capire che cosa avrebbero mangiato, Armanoush optò per una tartare di tonno ahi in crosta di sesamo con yakiniku di foie gras, mentre Matt decise di provare un filetto con mostarda cremosa tiepida su un letto di vinaigrette di maracuja e jicama. Senza avere la minima idea di quale vino potesse adattarsi a quei piatti, ma animato dal desiderio di fare bella figura, Matt studiò la carta dei vini per cinque minuti di totale perplessità, e poi ricorse alla soluzione tipica di questi casi: scelse il vino in base a quanto costava. Un Cabernet Sauvignon del '97 gli sembrò perfetto, costoso al punto giusto ma nei limiti delle sue possibilità. Dopo aver ordinato, i due cercarono di indovinare la bontà delle loro scelte dall'espressione del cameriere, ma non lesserò altro che una pagina bianca di cortese e professionale impassibilità. Chiacchierarono un po', lui della carriera che intendeva costruirsi, lei dell'infanzia che avrebbe voluto distruggere; lui dei progetti futuri, lei delle tracce del passato; lui delle sue aspettative nella vita, lei delle memorie di famiglia. La Fata Confetto riprese a danzare proprio mentre stavano per imbarcarsi in un nuovo argomento di conversazione. Armanoush controllò il telefono stizzita. Non era un numero che conosceva, ma neppure il solito numero privato. Rispose. «Amy, dove sei?» Stupefatta, Armanoush balbettò: «M-mamma! Ma come... perché adesso chiami da un altro numero?».
«Oh, perché sto chiamando con il telefono della signora Grinnell» ammise Rose. «Certo non dovrei ricorrere a questo se tu ti degnassi di rispondere alle mie telefonate.» Armanoush strabuzzò gli occhi quando il cameriere le posò davanti un piatto con dentro una strana composizione in varie sfumature di rosso, beige e bianco. In mezzo a una salsa che sembrava essere stata schiaffata nel piatto a colpi di pennello, riposavano tre pezzi tondeggianti di tonno crudo e rosso, e un tuorlo d'uovo giallo brillante, che messi insieme formavano una faccia triste dagli occhi infossati. Continuando a tenere il cellulare all'orecchio, ma senza più ascoltare, Armanoush arricciò le labbra, cercando di immaginare come avrebbe potuto mangiare una faccia. «Amy, perché non rispondi? Sono o non sono tua madre? Non vuoi concedermi almeno la metà dei diritti che concedi ai Tchakhmakhchian?» «Mamma, ti prego» disse Armanoush, perché quella sembrava una domanda alla quale si poteva rispondere solo supplicando di non farla. Incurvò le spalle, come se il peso del suo corpo fosse raddoppiato. Perché doveva essere sempre così difficile comunicare con sua madre? Inventandosi una scusa e promettendo di richiamarla appena tornata a casa, Armanoush pose fine alla conversazione e spense il cellulare. Sbirciò di sottecchi Matt per vedere se la telefonata l'aveva innervosito, ma lui era ancora intento a ispezionare il proprio piatto, e lei decise di non preoccuparsi. Il piatto di Matt era rettangolare, anziché rotondo, e il cibo che c'era sopra era diviso in due parti separate da una linea di crema di senape. Più ancora che il disegno e i colori, era la perfezione dell'allestimento ad averlo colpito. Deglutì a fatica, intimorito all'idea di rovinare quella geometria senza pecche. I loro piatti erano riproduzioni di opere dell'impressionismo astratto. Quello di Armanoush era basato su un quadro di Francesco Boretti, La battona cieca. Il piatto di Matt, invece, era ispirato a un dipinto di Mark Rothko, opportunamente intitolato Untitled. Erano così assorti nella contemplazione delle pietanze che neppure si accorsero del cameriere che stava chiedendo se andava tutto bene. Il resto della serata fu relativamente piacevole. Il cibo si rivelò delizioso, e ben presto i due si adattarono alla stravaganza, tanto che all'arrivo dei dessert Matt non si fece il minimo scrupolo a rovinare l'impeccabile allineamento di mirtilli in April Blues Bring May Yellows di Peter Kitchell, e Armanoush non esitò un attimo ad affondare il cuc chiaio nella tremolante crema vellutata di Shimmering Substance di Jackson Pollock. Con la conversazione, invece, non riuscirono a raggiungere neppure la metà dei progressi fatti con il cibo. Ad Armanoush piaceva stare con Matt, e lo trovava anche attraente. Ma c'era qualcosa che mancava: non si trattava di un dettaglio che mancasse all'insieme, piuttosto era l'insieme che si dissolveva in frammenti perché quel dettaglio mancava. Forse era per via del cibo troppo filosofico. Comunque Armanoush aveva già compreso il punto della questione: non c'era verso che potesse innamorarsi di Matt Hassinger. Dopo aver fatto quella scoperta smise di porsi domande, e l'interesse per lui venne rimpiazzato da una pura e semplice simpatia.
Sulla via del ritorno parcheggiarono e fecero due passi lungo Columbus Avenue, entrambi silenziosi e immersi nei propri pensieri. Proprio allora si levò la brezza, e Armanoush percepì per un istante l'odore aspro e salso del mare, ed ebbe il desiderio di sfuggire. Ma quando passarono davanti alla libreria City Lights, non potè fare a meno di sporgersi verso la vetrina dov'era esposto uno dei suoi libri preferiti: Una tomba per Boris Davidovi di Danilo Kis. «Oh, hai letto quel libro? È fantastico!» si lasciò sfuggire, e appena le giunse in risposta un «no» deciso, attaccò a parlare del primo racconto, e poi anche degli altri sei. Sinceramente convinta che non si potesse spiegarlo a fondo senza prima tracciare la mappa dell'accidentato territorio della letteratura dell'Europa dell'Est, nei successivi dieci minuti Armanoush si dedicò a questo compito, venendo meno così alla promessa fatta alla madre. Tornati a Russian Hill, rimasero uno di fronte all'altra davanti alla casa di nonna Shushan, consapevoli che la serata era giunta alla fine e desiderosi di concluderla meglio di come fosse andata fino a quel momento, nell'unico modo cui riuscivano a pensare. Avrebbe dovuto essere un bacio vero, di quelli a lungo fantasticati e attesi. Ne uscì invece un bacetto gentile, segnato dalla compassione da par te di Armanoush e dall'ammirazione di Matt, dal momento che entrambi erano ben lontani dal provare la minima passione. «Sai, era tutta la sera che volevo dirtelo» balbettò Matt come gravato dal peso della scomoda verità che stava per confessare. «Hai quest'incredibile odore... È strano ed esotico... somiglia un po' a...» «A cosa?» Armanoush impallidì, mentre le si affacciava alla mente l'immagine di un piatto di manti. Matt Hassinger la cinse con un braccio e sussurrò: «Pistacchi... sì, profumi proprio di pistacchi». Alle undici e un quarto Armanoush ripescò dalla borsetta il mazzo di chiavi per aprire le numerose serrature della porta di nonna Shushan, con il timore di trovare l'intera famiglia schierata in soggiorno a discutere di politica, bere té e mangiare frutta, in attesa del suo rientro. Invece era tutto deserto e buio. Suo padre e la nonna dormivano, e gli altri se n'erano andati. Sul tavolo c'era un piatto con due mele e due arance sbucciate con cura e a quanto sembrava lasciate lì per lei. Armanoush agguantò una delle mele, ormai un po' scurita in superficie. Le si strinse il cuore. Era triste e stanca, nella soprannaturale tranquillità della notte. Presto sarebbe dovuta tornare in Arizona, ma non era sicura di riuscire ancora a sopportare l'opprimente universo materno. Per quanto le piacesse San Francisco e potesse probabilmente prendersi un semestre sabbatico da trascorrere lì con suo padre e nonna Shushan, sentiva che anche lì c'era un vuoto, che le mancava una parte della sua identità, senza la quale non avrebbe vissuto davvero. Il deludente appuntamento con Matt Hassinger era servito solo a rafforzare quella sensazione. Si sentiva più saggia di lui, più consapevole, ma la tristezza era il prezzo da pagare per raggiungere quella consapevolezza. Scalciò via le scarpe e si rifugiò in camera sua, portandosi dietro la frutta. Legò i capelli in una coda di cavallo, si tolse il vestito turchese e si infilò il pigiama di seta
comprato a Chinatown. Quando fu pronta, chiuse la porta della camera e accese il computer. Ci vollero solo pochi minuti per raggiungere l'unico porto sicuro in tempi difficili come quelli: il Café Constantinopolis. Il Café Constantinopolis era una chat room o, come lo definivano i frequentatori abituali, un cybercafé, fondato da un gruppo di americani di origine greca, sefardita e armena che, oltre a essere newyorchesi, avevano in comune un elemento fondamentale: discendevano tutti da famiglie provenienti da Istanbul. Il website si apriva con il familiare motivetto di Istanbul was Constantinople / Now it's Istanbul, not Constantinople... Sulle note di quella melodia, compariva il profilo della città, sotto la cupola di un cielo al tramonto dalle sfumature cangianti, veli sovrapposti di ametista, nero e giallo. Al centro dello schermo lampeggiava una freccia, che indicava dove cliccare per accedere alla chat. Proprio come la maggior parte dei caffè sparsi in giro per il mondo, anche questo era aperto in teoria a chiunque, ma in pratica era riservato ai clienti abituali. Di conseguenza, per quanto i visitatori occasionali capitassero di continuo, il gruppo principale restava sempre il solito. Appena completata la registrazione, il profilo della città si dissolveva, aprendosi come il sipario di velluto di un teatro. Ogni volta che un nuovo avventore entrava nel cybercafé, tintinnava una campanella e ripartiva la melodia di prima. Armanoush trascurò i vari Singlearmeni, Singlegreci, Tuttisingle e cliccò decisa su L'Albero di Anoush, un forum in cui si incontravano soltanto frequentatori assidui, e con interessi intellettuali. Armanoush aveva scoperto quel gruppo dieci mesi prima, e da allora ne era diventata membro regolare, partecipando quasi ogni giorno alle discussioni. Qualcuno lasciava messaggi anche durante la giornata, ma le conversazioni più interessanti avvenivano la sera tardi, quando ormai gli affanni quotidiani erano superati. Armanoush si divertiva a immaginare quel forum come un bar fumoso e semibuio in cui fermarsi abitualmente prima di tornare a casa. Ma il Café Constantinopolis era anche una specie di santuario in cui potersi spogliare della monotonia della propria personalità come di un impermeabile fradicio da lasciar asciugare all'ingresso. La sezione L'Albero di Anoush era composta da sette membri permanenti, di cui cinque armeni e due greci. Non si erano mai conosciuti di persona, e neppure ne sentivano la necessità. Vivevano tutti in città diverse, con esistenze e professioni diverse. Utilizzavano nickname; quello di Armanoush era Madame Anima Esiliata. Aveva scelto quel nome in omaggio a Zabel Yessaian, l'unica scrittrice donna che i Giovani Turchi avessero inserito nella lista nera nel 1915. Quella di Zabel era una storia affascinante. Era nata a Istanbul, ma aveva trascorso in esilio la maggior parte della sua vita, conducendo un'esistenza tumultuosa di cronista e romanziera. Armanoush aveva una sua foto sulla scrivania, in cui Zabel, da sotto la tesa del cappello, guardava pensierosa un punto imprecisato davanti a sé. Ogni settimana i membri del gruppo selezionavano un nuovo argomento di conversazione. Per quanto ci fosse una notevole varietà di temi, tendevano a girare attorno alla loro storia e cultura comune, dove «comune» spesso voleva dire «nemico comune», cioè i turchi. Niente avvicinava le persone più velocemente e intimamente -
per quanto in maniera precaria e limitata nel tempo - della consapevolezza di condividere un nemico. L'argomento di quella settimana era «I Giannizzeri» Controllando tra i messaggi più recenti Armanoush vide con soddisfazione che il Barone Baghdassarian era in linea. Non sapeva molto di lui, tranne che come lei era nipote di sopravvissuti e che, al contrario di lei, bruciava ancora di rabbia. A volte riusciva a essere estremamente duro e cinico. Nel corso degli ultimi mesi, nonostante l'elusività del cyberspazio, o forse proprio grazie a quella, Armanoush aveva sviluppato un'irrazionale attrazione per lui. La giornata non le sembrava completa senza aver letto i suoi messaggi. Di qualunque tipo di sentimento si trattasse - amicizia, attaccamento, o anche semplice curiosità - Armanoush sapeva che era reciproco. Chi continua a credere che il governo ottomano fosse giusto e ragionevole, evidentemente non conosce il Paradosso dei Giannizzeri. I Giannizzeri erano i bambini cristiani catturati e convertiti dagli ottomani, che concedevano loro la possibilità di salire nella scala sociale a patto che rinnegassero la loro stessa gente e dimenticassero il loro passato. Per tutte le minoranze, il Paradosso dei Giannizzeri riveste oggi la medesima importanza che aveva in passato. Voi, figli di espatriati! Dovreste porvi di continuo la seguente domanda, vecchia quanto il mondo: che posizione assumereste se il Paradosso si riproponesse? Accettereste il ruolo del Giannizzero? Ovvero, rinneghereste la comunità alla quale appartenete per far pace con i turchi, permettendo loro di stendere un velo sul passato e, come amano ripetere, andare avanti tutti insieme? Incollata allo schermo, Armanoush diede un morso alla mela e masticò nervosamente. Non aveva mai provato una simile ammirazione per un uomo, a parte suo padre, ovviamente, ma quello era diverso. Nel Barone Baghdassarian c'era qualcosa che l'attirava e insieme la spaventava; in realtà non aveva paura di lui né delle cose che proclamava con tanto ardore, semmai aveva paura di se stessa. Quelle parole colpivano lontano, strappavano alla profondità del suo animo l'altra Armanoush, quella che viveva dentro di lei ma non era mai affiorata in superficie, un essere misterioso ancora immerso in un sonno di piombo. Con le sue parole infuocate, il Barone Baghdassarian sembrava in grado di scuotere quella creatura, finché non si fosse svegliata con un ruggito, per venire infine alla luce. Armanoush stava ancora fantasticando su questa spaventosa possibilità, quando vide un lungo messaggio lasciato da Lady Peacock/Siramark, un'armena americana esperta di vini che lavorava per un'azienda vinicola californiana, si recava spesso a Yerevan, ed era ben nota per i divertenti confronti fra Stati Uniti e Armenia. Quel giorno aveva inviato un test a punteggio che misurava il grado di «armenità». Sei cresciuto dormendo sotto coperte di lana fatte a mano o indossando maglioni fatti a mano per andare a scuola? Ti hanno regalato un abbecedario armeno a ogni compleanno fino all'età di sei o sette anni? In casa tua, nel garage o in ufficio, è appesa una foto del monte Ararat? Sei abituato a essere coccolato in armeno, sgridato in inglese e insultato in turco?
Servi ai tuoi ospiti hummus con nacho chips e salsa di melanzane con cracher di riso? Sei abituato al sapore del manti, all'odore di sudžuk e alla maledizione del bastirma? Ti tormenti e ti arrabbi per questioni di scarsa importanza ma riesci a restare calmo quando c'è qualcosa di cui preoccuparsi o spaventarsi sul serio? Hai fatto (o pensi di fare) un intervento di plastica al naso? Hai un barattolo di Nutella nel frigo e una scacchiera per giocare a tavlq da qualche parte nello sgabuzzino? Sul pavimento del tuo soggiorno c'è un tappeto al quale tieni molto? Non puoi fare a meno di intristirti quando balli Lorke Lorke, anche se la musica è allegra e non capisci le parole? In casa tua riunirsi a mangiare frutta dopo cena è un'abitudine profondamente radicata, e tuo padre ti sbuccia ancora le arance, indipendentemente da quanti anni hai? I tuoi genitori continuano a riempirti la bocca di cibo e non accettano «sono sazio» come risposta? Il suono del duduk ti fa venire i brividi lungo la schiena e continui a chiederti come può un flauto ricavato dal legno di albicocco emettere suoni così tristi? Senti che nel tuo passato c'è più di quanto ti è dato di sapere? Dopo aver risposto di sì a tutte le domande, Armanoush fece scorrere il testo per scoprire il punteggio. 0-3 punti: spiacente, ragazzo, devi essere un infiltrato. 4-8 punti: sembri un mezzo infiltrato. Forse hai sposato un armeno. 9-12 punti: sei quasi sicuramente armeno. 13-15 punti: non c'è dubbio, sei un armeno orgoglioso di esserlo.
Armanoush sorrise allo schermo. E in quel preciso momento comprese appieno qualcosa che aveva sempre saputo. Era come se nel suo cervello si fosse aperta una porta segreta, e prima che la sua mente riuscisse a organizzare i pensieri che ne sgorgavano, ne era già stata travolta. Doveva andarci. Ecco di che cosa aveva veramente bisogno: di un viaggio. La sua infanzia frammentaria le aveva finora impedito di trovare un senso di identità e continuità. Per essere in grado di vivere la propria vita, Armanoush non aveva altra scelta che compiere un viaggio nel passato. Mentre il peso di quella improvvisa rivelazione calava su di lei, provò l'impulso di digitare un messaggio, apparentemente diretto a tutti, ma rivolto in particolare al Barone Baghdassarian: Il Paradosso dei Giannizzeri sta nell'essere combattuti fra due opposte condizioni esistenziali. Da una parte il passato: un grembo materno di tenerezza e tristezza mescolate a una perenne sensazione di ingiustizia e discriminazione; dall'altra, il futuro: un rifugio pieno di promesse decorato con le scintillanti lusinghe del successo,
dove regnano un senso di sicurezza mai sperimentato prima e il conforto di far parte della maggioranza ed essere considerato finalmente normale. Salve, Madame Anima Esiliata! Lieto del tuo ritorno. È bello ritrovare la poetessa che è in te. Quello era il Barone Baghdassarian. Armanoush non riuscì a resistere all'impulso di leggere ad alta voce l'ultima parte: È bello ritrovare la poetessa che è in te. Perse il filo dei pensieri, ma solo per un attimo. Come figlia unica di genitori divorziati e rancorosi provenienti da due mondi diversi, credo di potermi ritrovare nel Paradosso dei Giannizzeri. Si fermò, a disagio all'idea di rivelare la sua storia personale, ma l'impulso a continuare era troppo forte. Sono figlia unica di padre armeno, figlio di sopravvissuti, e di una madre di Elizabethtown, Kentucky, quindi so bene che effetto fa sentirsi combattuti tra due opposti, incapaci di appartenere del tutto a uno di essi, in costante fluttuazione fra due stati di esistenza. Fino a quel momento non aveva mai scritto nulla di così personale e diretto, a nessuno del gruppo. Con il cuore che batteva forte, prese fiato un momento. Cos'avrebbe pensato di lei il Barone Baghdassarian, adesso, e avrebbe avuto il coraggio di scrivere quel che pensava davvero? Non dev'essere facile. Per molti armeni della diaspora, la questione armena, o Hai Dat, è l'unica ancora psicologica a sostegno della propria identità. La tua situazione è diversa, ma in fondo siamo tutti americani e armeni, e questo pluralismo è positivo, a patto che non perdiamo la nostra ancora. Il messaggio era di Convivenza Miserevole, una casalinga infelicemente sposata al caporedattore di un'importante rivista letteraria della Bay Area. Se pluralismo significa avere più di una identità, allora non è il mio caso, io non sono mai riuscita a essere davvero un'armena, tanto per cominciare, scrisse Armanoush, rendendosi conto che era sul punto di fare una confessione. Ho bisogno di ritrovare questa identità. Sapete cosa stavo rimuginando in segreto? Di andare a visitare la casa della mia famiglia in Turchia. La nonna parla sempre della splendida casa che aveva a Istanbulà Andrò a vederla con i miei occhi. È un viaggio nel passato della mia famiglia, ma anche nel mio futuro. Se non faccio qualcosa per scoprire da dove vengo, il Paradosso del Giannizzero continuerà a perseguitarmi. Aspetta, aspetta, intervenne Lady Peacock/Siramark, digitando in fretta e furia. Che diavolo credi di fare? Stai davvero pensando di andare in Turchia da sola? Hai perso la testa? Posso procurarmi dei contatti, non è poi così difficile. Ma che dici, Madame Anima Esiliata? insistette Lady Peacock/Siramark. Dove credi di andare, con un cognome armeno sul passaporto? Tanto vale presentarsi direttamente alla centrale di polizia e farsi arrestare! intervenne Anti-Khavurma, un universitario che si stava specializzando in Studi del Vicino Oriente alla Columbia University.
Armanoush ritenne che fosse arrivato il momento di confessare un'altra verità fondamentale della sua vita. Procurarmi i contatti giusti non sarebbe un gran problema, visto che mia madre adesso è sposata con un turco. Cadde un'inquieta bonaccia. Per un minuto nessuno rispose, perciò Armanoush continuò. Si chiama Mustafa, è un geologo. È una brava persona ma non ha il minimo interesse per la storia, e da quando è arrivato negli Stati Uniti, vale a dire vent'anni fa, non è più tornato a casa. Non ha neppure invitato la sua famiglia al matrimonio. Secondo me c'è qualcosa sotto, ma non so cosa. Non ne parla e basta. Però so che a Istanbul ha ancora molti parenti. Una volta gli ho chiesto che tipo di persone sono e lui mi ha detto: «Oh, sono gente normale, come te e me». Non sembra l'uomo più sensibile del mondo, sempre ammesso che gli uomini possano avere dei sentimenti, si intromise bruscamente Figlia di Saffo, una barista lesbica che aveva da poco trovato lavoro in uno scalcagnato bar reggae di Brooklyn. Direi proprio di no. Ma ce l'ha un cuore?, aggiunse Convivenza Miserevole. Certo che ce l'ha: ama mia madre, e lei ama lui, rispose Armanoush. Si rese conto di aver ammesso per la prima volta in vita sua che sua madre e il patrigno si amavano, come se li vedesse attraverso gli occhi di un estraneo. Comunque, posso stare con la sua famiglia, dopotutto sono la sua figliastra, e immagino che dovranno accettarmi come ospite. Non ho idea di come potrei essere accolta da turchi normali. Voglio dire, da una vera famiglia turca, non il solito accademico americanizzato. Ma di cosa parlerai con dei normali turchi?, chiese lady Peacock/Siramark. Senti, persino i turchi con una certa istruzione sono nazionalisti, oppure sono ignoranti. Credi davvero che la gente comune abbia il minimo interesse per la verità storica? Credi davvero che diranno: ah sì, ci dispiace di avervi massacrati e deportati, e di aver continuato allegramente a negare tutto. Perché vuoi cacciarti nei guai? Ti capisco, ma anche tu dovresti cercare di capire me. Armanoush si sentì travolgere da un improvviso scoramento. Rivelare un segreto dietro l'altro aveva scatenato in lei la sensazione di essere sola nel grande mondo, una cosa che aveva sempre saputo, ma che fino a quel momento non aveva mai voluto affrontare. Voi siete nati all'interno di una comunità armena, e non avete avuto bisogno di dimostrare la vostra appartenenza a questo popolo, io invece sono rimasta bloccata sulla porta, in bilico fin dalla nascita fra la mia orgogliosa e traumatizzata famiglia armena, e una madre divenuta istericamente anti-armena. Per poter essere come voi, un'armena americana, prima ho bisogno di legittimare la mia armenità. E se questo richiede un viaggio nel passato, va bene, lo farò, non mi importa cosa penseranno o diranno i turchi. Ma come pretendi che tuo padre e la sua famiglia ti lascino andare in Turchia? Quello era Alex lo Stoico, un greco-americano di Boston assolutamente soddisfatto della vita, fintantoché poteva contare su un buon clima, cibo saporito e ragazze carine. Da buon seguace di Zenone, era convinto che la gente non dovesse mai
spingersi troppo oltre i propri limiti. Non credi che la tua famiglia di San Francisco starebbe in pensiero? In pensiero? Armanoush fece una smorfia, mentre si vedeva davanti le facce della nonna e delle zie. Sarebbero state semplicemente terrorizzate. Non dovranno saperne nulla, per il loro bene. Siamo vicini alle vacanze di primavera, posso trascorrere a Istanbul almeno dieci giorni. Papà penserà che sono in Arizona con la mamma, e la mamma sarà convinta che sono ancora qui a San Francisco. Tanto non si parlano mai. E il mio patrigno non ha contatti con la sua famiglia a Istanbul. Non c'è modo che lo scoprano. Sarà il mio segreto. Armanoush fissò lo schermo a occhi socchiusi, come se fosse perplessa lei per prima per ciò che aveva scritto. Se telefono alla mamma tutti i giorni, e ogni tanto a papà, potrò tenere la situazione sotto controllo. Ottimo piano! Quando sarai a Istanbul potrai postare i tuoi commenti ogni giorno suggerì Lady Peacock/Siramark. Ehi, saresti il nostro corrispondente di guerra! si entusiasmò Anti-Khavurma, ma a quelle parole seguì un lungo silenzio, perché nessuno si unì allo scherzo. Armanoush si appoggiò allo schienale. Nella profonda quiete notturna ascoltò il respiro indisturbato di suo padre, e la nonna che si agitava nel letto. Sentì il proprio corpo scivolare di lato, come indeciso se restare tutta la notte su quella sedia per vedere che sapore avesse l'insonnia, o stendersi e piombare in un sonno profondo. Ruminò l'ultimo pezzo di mela, godendosi il flusso di adrenalina scatenato dalla sua pericolosa decisione. Spense la lampada da tavolo, lasciando solo la luce granulosa del computer a illuminare la stanza. Proprio men tre stava per uscire dal Café Constantinopolis, comparve un rigo sullo schermo. Ovunque ti porti il tuo viaggio interiore, ti prego. Madame Anima Esiliata, prenditi cura di te, e non permettere ai turchi di trattarti male. Era il Barone Baghdassarian.
Capitolo sette Grano
Asya Kazanci era già sveglia da due ore, ma se ne stava distesa sotto il piumino ad ascoltare la miriade di suoni che solo Istanbul è capace di produrre, e nel frattempo componeva a mente il suo personale Manifesto del Nichilismo. Articolo uno. Se non riesci a trovare una ragione per amare la vita che fai, non fingere di amarla. Riflettè su questa dichiarazione e decise che le piaceva abbastanza per diventare l'apertura del suo manifesto. Mentre procedeva con il secondo articolo, per strada qualcuno frenò di schianto, e un attimo dopo si sentì l'autista che imprecava a pieni polmoni contro un pedone che probabilmente era apparso all'improvviso in mezzo alla strada, attraversando l'incrocio in diagonale, e magari con il semaforo rosso. L'autista continuò a strillare finché la sua voce si dissolse nel brusio della città. Articolo due. La stragrande maggioranza delle persone non pensa, e quelli che pensano non diventeranno mai una stragrande maggioranza. Decidi da che parte stare. Articolo tre. Se non sai decidere, allora esisti e basta. Sii come un fungo, o una pianta. «Non posso credere che tu sia ancora nella stessa posizione in cui ti ho trovata mezz'ora fa! Che diavolo ci fai ancora a letto, pigrona?» Era zia Banu, che aveva infilato la testa nella stanza senza bussare. Quella mattina aveva il capo coperto da un foulard abbagliante, di un rosso così acceso che da lontano la sua testa sembrava un pomodoro maturo. «Abbiamo finito un intero samovar di té mentre aspettavamo Vostra Maestà. Forza, alzati e sorridi alla vita! Non senti il profumo di sucuk alla griglia? Non hai fame?» Sbattè la porta prima di darle il tempo di rispondere. Asya borbottò qualcosa sottovoce, si tirò la trapunta sulla testa e si voltò dall'altra parte. Articolo quattro. Se non ti interessano le risposte, allora non fare domande.
In mezzo all'ordinario trambusto di una colazione domenicale, Asya riuscì a distinguere lo sgocciolio del minuscolo rubinetto del samovar, le sette uova che bollivano nella pentola e lo sfrigolio delle fette di sucuk sulla griglia. C'era anche la televisione accesa, di là, e qualcuno continuava a cambiare canale, passando senza sosta dai cartoni animati ai video di musica pop ai notiziari locali e internazionali. Senza bisogno di andare a vedere, Asya sapeva che a controllare il samovar c'era nonna Gülsüm, mentre a friggere il sucuk era di sicuro la zia Banu, il cui impareggiabile appetito era tornato dopo i quaranta giorni di penitenza sufi che le erano valsi il titolo di chiromante. Ed era senz'altro la zia Feride che saltava da un canale all'altro, incapace di fermarsi su uno solo, dato che nel vasto territorio della sua paranoia schizofrenica c'era spazio per tutto, cartoni animati, musica pop e notiziari, proprio come nella sua vita c'era stato spazio per innumerevoli progetti, nessuno dei quali portato a termine. Articolo cinque. Se non hai motivazioni o capacità per realizzare qualcosa, allora pratica l'arte del divenire. Articolo sei. Se non hai motivazioni o capacità per praticare l'arte del divenire, allora limitati a essere. «Asya!» La porta si spalancò di colpo e zia Zeliha si precipitò dentro, con gli occhi verdi che splendevano come due gocce di giada. «Dobbiamo forse mandarti dei messi ufficiali per invitarti a raggiungerci per la colazione?» Articolo sette. Se non hai motivazioni o capacità per essere, allora sopporta e basta. «Asya!!!» «Che c'è?!» Asya tirò fuori dalle coperte la testa arruffata di riccioli neri. Era furiosa. Saltando giù dal letto, fece per tirare un calcio alle pantofole color lavanda, ne mancò una ma riuscì a catapultare l'altra sul piano del cassettone, colpendo lo specchio. Poi cercò goffamente di tirarsi su i pantaloni del pigiama, ormai allentati in vita, ma non si può dire che il gesto contribuisse a conferire alla scena il pathos che lei avrebbe voluto. «Ma è possibile che non si possa avere un momento di pace nemmeno la domenica mattina?» «Purtroppo per te non mi risulta ci sia un momento che dura due ore» sottolineò zia Zeliha dopo aver osservato la penosa traiettoria della pantofola. «Perché cerchi sempre di darmi sui nervi? Se quella che stai attraversando è una fase di ribellione adolescenziale, sei in ritardo, signorina, avresti dovuto pensarci cinque anni fa. Ricordati che hai diciannove anni, ormai.» «Già, la stessa età di quando tu mi hai partorita fuori dal vincolo matrimoniale» gracchiò Asya, sapendo che non avrebbe dovuto essere tanto brutale, ma non resistendo alla tentazione.
In piedi sulla soglia, zia Zeliha fissò Asya con la delusione di un artista che dopo aver concepito un'opera in una notte di sbronza, la mattina si rende conto che la sua idea era tutt'altro che geniale. Malgrado il turbamento della scoperta, per un minuto Zeliha non disse nulla. Poi le sue labbra si incurvarono in un cupo sorriso, come se si fosse appena resa conto che il volto che stava fissando non era altro che la sua stessa immagine riflessa, così uguale e allo stesso tempo così lontana. Sua figlia, diversa da lei nell'aspetto, stava dimostrando di avere il suo stesso carattere. Lo scetticismo, la ribellione, l'amarezza di Asya erano identici a quelli che aveva manifestato lei alla sua età. E senza rendersene conto, le aveva trasmesso il ruolo della ribelle di famiglia. Per fortuna Asya non sembrava ancora stanca del mondo e vinta dall'angoscia, era troppo giovane questo. Ma la tentazione di radere al suolo l'edificio della propria esistenza c'era già, il dolce richiamo dell'autodistruzione che solo i raffinati e i malinconici sanno avvertire risplendeva come una luce fioca nei suoi occhi. Zeliha si rendeva conto anche di quanto poco Asya le somigliasse fisicamente. Non era e probabilmente non sarebbe mai diventata bella come lei. Non che ci fosse qualcosa di brutto nel suo viso o nel suo corpo, anzi, i singoli dettagli del suo aspetto, il peso, la statura, i capelli neri e ricciuti, il mento, non avevano niente che non andasse. Era l'insieme di questi elementi che appariva poco riuscito. Ma Asya non era neppure brutta, per niente; il suo problema era semmai che, pur avendo un aspetto piacevole, non rimaneva impressa in chi la guardava. Il suo viso era talmente ordinario che spesso chi la incontrava per la prima volta aveva l'impressione di averla già conosciuta. Il miglior complimento a cui potesse aspirare era «carina», aggettivo che non poteva certo soddisfare le sue ambizio ni. Fra vent'anni avrebbe avuto una visione diversa del proprio corpo. Asya era una di quelle donne che, pur non essendo splendide in gioventù, possono diventare affascinanti con la maturità, sempre che reggano fino ad allora. Malauguratamente, Asya non godeva neppure della benedizione di un minimo di fede nel futuro, troppo caustica per fare affidamento sul trascorrere del tempo. Racchiudeva in sé una fiamma ardente, ma nessuna fiducia nella giustizia del disegno divino. Anche da quel punto di vista, era tutta sua madre. Con la tempra che si ritrovava, non c'era verso che potesse restarsene in paziente attesa del momento in cui quel corpo traditore fosse divenuto suo alleato. Zia Zeliha vedeva chiaramente che la coscienza della propria mediocrità estetica tormentava non poco il cuore di sua figlia. Se solo avesse potuto dirle che la bellezza sfacciata attirava solo i tipi peggiori, mentre uomini e donne erano più benevoli verso chi ne era privo! Assorta in queste considerazioni, Zeliha non aveva più aperto bocca. Si avvicinò al cassettone, raccolse la pantofola e piazzò il paio felicemente ricongiunto davanti ai piedi nudi di Asya, che sollevò il mento e raddrizzò la schiena con l'atteggiamento di un prigioniero che ha reso le armi ma non certo la dignità. «Muoviti!» ordinò zia Zeliha. Senza aggiungere altro, madre e figlia si diressero verso il soggiorno. Il tavolo allungabile era apparecchiato da un pezzo per la colazione. Nonostante il malumore, Asya non potè fare a meno di notare che addobbato in quel modo si adattava perfettamente, in maniera quasi pittoresca, al grande tappeto da caminetto
che c'era sotto, sovraccarico di disegni floreali. C'erano olive nere, olive verdi ripiene di peperoncini rossi, trecce di formaggio bianco e di capra, uova sode, miele, panna di bufala, marmellata casalinga di albicocche e di fragole, ciotole di pomodori alla menta che navigavano nell'olio d'oliva. Dalla cucina veniva il profumo delizioso dei börek appena cotti: formaggio fresco, spinaci, burro e prezzemolo amalgamati tra gli strati di fillopasta. Ormai novantaseienne, Petite-Ma sedeva a capotavola, reggendo una tazza ancor più fragile di lei. Con un'espressione stupefatta e assorta, osservava il canarino che cantava nella sua gabbia, come se l'avesse notato solo allora. E forse era così. Ormai all'ultimo stadio dell'Alzheimer, Petite-Ma non riusciva più a riconoscere nemmeno le facce familiari o a ricordare i fatti salienti della sua esistenza. La settimana precedente, per esempio, verso la fine delle preghiere del pomeriggio, al momento della sajda si era chinata per appoggiare la fronte sul piccolo tappeto, ma improvvisamente aveva dimenticato cosa doveva fare dopo. Le parole della preghiera si erano di colpo fuse l'una con l'altra in una lunga catena di lettere, e si erano allontanate a braccetto, non troppo distanti eppure irraggiungibili. Persa e confusa, Petite-Ma era rimasta incollata al tappeto, immobile, silenziosa e con lo sguardo fisso verso la qibla, la direzione della Mecca, il velo da preghiera in testa e il rosario dai grani d'ambra in mano, finché qualcuno non si era accorto della situazione e l'aveva sollevata da terra. «Com'è che continuava?» aveva chiesto Petite-Ma in preda al panico quando l'avevano adagiata sul divano. «Nella sajda si deve dire Subhana rabbiyal-ala. Bisogna ripeterlo almeno tre volte, e io l'ho fatto. L'ho detto tre volte. Subhana rabbiyal-ala, Subhana rabbiyal-ala, Subhana rabbiyal-ala.» Balbettò quelle parole con frenesia. «E poi cosa viene? Cosa c'è dopo?» Volle il caso che in quel momento ci fosse accanto a lei solo Zeliha, che non aveva nessuna esperienza di namaz, come del resto di qualunque altra pratica religiosa. Ma cercò comunque di aiutarla a placare la sua angoscia. Andò a prendere il Sacro Corano e sfogliò le pagine, finché non capitò su un brano che sembrava offrire qualche consolazione: «Ascolta cosa dice. "Quando viene annunciata la preghiera del Venerdì, accorrete alla celebrazione di Allah... Ma quando la preghiera è conclusa, disperdetevi sulla terra in cerca della grazia di Allah, e molto ricordate Allah, affinchè possiate avere fortuna." (62:9-10)». «Cosa intendi dire?» chiese Petite-Ma sbattendo le palpebre, più confusa che mai. «Voglio dire che adesso che la preghiera è finita, in un modo o nell'altro, puoi smettere di pensarci. È quello che c'è scritto qui, giusto? Coraggio, Petite-Ma, "disperdetevi sulla terra..." e vieni a cena.» Aveva funzionato. Petite-Ma aveva smesso di preoccuparsi della preghiera e aveva cenato tranquilla con gli altri. Incidenti di quel genere avevano però cominciato a ripetersi con frequenza allarmante. Docile e remissiva come sempre, in certi giorni Petite-Ma si scordava le cose più semplici, per esempio il luogo in cui si trovava, il giorno della settimana, l'identità degli estranei a tavola con lei. Ma in altri momenti la sua mente pareva limpida come il cristallo, e sembrava impossibile credere che fosse malata. Quella mattina era ancora troppo presto per capirlo.
«Buongiorno, Petite-Ma!» esclamò Asya, dirigendosi verso il tavolo strascicando i piedi, dopo essersi lavata la faccia e i denti. Si chinò sulla bisnonna e le schioccò un bacio umido su entrambe le gote. Petite-Ma occupava un posto speciale nel cuore di Asya. Al contrario delle altre donne della famiglia, era sempre stata capace di volerle bene senza essere soffocante. Non la sgridava, non la seccava, non la punzecchiava. Era protettiva ma non opprimente. Di tanto in tanto le infilava nelle tasche chicchi di grano benedetti per tenere lontano il malocchio. Ma a parte il malocchio, Petite-Ma aveva il meraviglioso dono della risata: ridere era la cosa che aveva amato di più al mondo, almeno finché la malattia non aveva preso il sopravvento. In passato, lei e Asya avevano riso tante volte insieme, come matte: Petite-Ma in un ruscello infinito di risatine chiocce, Asya in uno zampillo di note ricche e sonore. Oggi, per quanto seriamente preoccupata per la salute della bisnonna, Asya rispettava a fondo l'indipendenza del regno di oblio in cui si era inoltrata, indipendenza che a lei era negata. E più l'anziana donna si allontanava dal mondo, più Asya la sentiva vicina. «Buongiorno, mia bella pronipote» rispose Petite-Ma lasciando tutti stupefatti per la sua lucidità. Seduta in fondo alla stanza, con il telecomando in mano, zia Feride gorgheggiò senza neppure guardarla: «Alla fine la principessa sul pisello si è svegliata» Sembrava di buon umore, nonostante la sfumatura di critica nella voce. Proprio quella mattina si era tinta i capelli di un biondo chiaro, quasi cenere. Asya aveva imparato fin troppo bene che un cambio radicale del colore dei capelli corrispondeva a un mutamento altrettanto radicale del suo stato mentale. La studiò con attenzione: a parte il fatto che era assorta in una trasmissione televisiva e guardava affascinata un'incapace cantante pop che roteava in una danza troppo ridicola per essere vera, Asya non scorse nessun segno preoccupante. «Devi prepararti, lo sai che oggi arriva la nostra ospite» disse zia Banu entrando nella stanza con il vassoio di börek appena sfornati, soddisfatta di poter contare sulla sua dose quotidiana di carboidrati. «Dobbiamo sistemare la casa prima che arrivi.» Cercando di allontanare Sultan Quinto dal beccuccio del samovar, Asya si versò un bicchiere di té e chiese con voce inespressiva: «Si può sapere perché vi agitate tanto per quella ragazza americana?» Bevve un sorso, fece una smorfia e cercò lo zucchero. Riempì il minuscolo bicchiere con quattro zollette. «Come "ci agitiamo"? Ma è un'ospite! E ha fatto tutta quella strada per venire fin qui dall'altro capo del mondo!» Zia Feride allungò il braccio in una specie di saluto nazista per indicare dove si trovasse l'altro capo del mondo. Il pensiero del globo terrestre diede un timbro nervoso alla sua voce, mentre le balenava in testa l'intera mappa della circolazione atmosferica e oceanica. L'ultima volta che aveva visto quella rappresentazione su carta, zia Feride era alle superiori. Nessuno era disposto a crederci, ma lei l'aveva imparata a memoria fino all'ultimo dettaglio, e ancora oggi ce l'aveva impressa nella mente. «E soprattutto, la manda tuo zio» si intromise nonna Gülsüm, che conservava tenacemente la reputazione di essere stata Ivan il Terribile in una vita precedente.
«Mio zio? Quale zio? Quello che ancora non ho avuto il piacere di conoscere?» Asya assaggiò il té. Era ancora amaro, e ci mise dentro un'altra zolletta. «Ehi, svegliatevi! L'uomo di cui state parlando non è venuto a trovarci nemmeno una volta da quando ha messo piede sul suolo americano. L'unica cosa che abbiamo ricevuto da lui a dimostrazione che è ancora vivo è stata qualche cartolina macchiata con paesaggi dell'Arizona» disse Asya, con un'espressione velenosa. «Cactus al sole, cactus al crepuscolo, cactus con fiori viola, cactus con uccelli rossi... Quel tipo non si preoccupa nemmeno di cambiare il soggetto delle cartoline.» «Ha mandato anche un mucchio di foto di sua moglie» aggiunse per completezza zia Feride. «Sai che ti dico? Di quelle foto non me ne può fregare di meno! La moglie bionda e paffuta che sorride davanti a una casetta che sembra disegnata al computer, dove fra l'altro non siamo mai state invitate; la moglie paffuta che sorride nel Grand Canyon, la moglie paffuta che sorride sotto un sombrero; la moglie paffuta che sorride vicino a un coyote morto sotto il portico; la moglie paffuta che sorride mentre prepara le frittelle in cucina... Non vi siete stufate di ricevere le foto di una perfetta estranea? E cos'avrà mai da sorriderci? Non la conosciamo nemmeno, per la miseria!» Asya ingoiò un lungo sorso di té, dimenticando che era ancora bollente da levare la pelle. «Viaggiare non è sicuro. Le strade sono piene di pericoli. Gli aerei vengono dirottati, le auto si schiantano negli incidenti... persino i treni deragliano. Proprio ieri ci sono stati otto morti in un incidente stradale sulla costa dell'Egeo» fece notare zia Feride. Incapace di fermarsi su qualcuno in particolare, il suo sguardo vagò in cerchi nervosi attorno al tavolo, fino ad atterrare su una solitaria oliva nera che le era rimasta nel piatto. Ogni volta che, come adesso, zia Feride comunicava i suoi tragici aggiornamenti dalla pagina di cronaca dei tabloid turchi calava un irritato silenzio. Nella calma piatta nonna Gülsüm fece una smorfia, seccata che disprezzassero in quel modo il suo unico figlio maschio; zia Banu si tirò i lembi del velo; zia Cevriye cercò di ricordarsi che animale fosse il coyote, ma poiché ventiquattro anni di insegnamento l'avevano resa allergica sia alle domande che alle risposte, preferì non chiedere a nessuno; Petite-Ma smise di spilluzzicare la fetta di sucuk che aveva nel piatto; e zia Feride cercò di pensare a qualche altro incidente di cui le fosse capitato di leggere, ma invece delle notizie cruente, le venne in mente il sombrero azzurro brillante della moglie americana di Mustafa: se solo fosse riuscita a trovare qualcosa di simile a Istanbul, le sarebbe piaciuto tenerlo in testa giorno e notte. Nessuno si accorse che l'espressione di zia Zeliha si era fatta improvvisamente addolorata. «Dobbiamo affrontare la realtà!» annunciò Asya con sicurezza. «In tutti questi anni voi avete contato su Mustafa come unico e solo erede di famiglia, e invece lui si è scordato di voi fin dall'istante in cui è volato via dal nido. Non è evidente che non gliene importa un accidente della sua famiglia? Allora perché a noi dovrebbe importare di lui?» «Il ragazzo è molto impegnato» intervenne nonna Gülsüm. In effetti aveva sempre prediletto il figlio maschio, avendone avuto uno solo, rispetto alle femmine, avute invece in abbondanza. «Non è facile vivere all'estero. L'America è molto lontana.»
«Sì, certo che è lontana, soprattutto se pensi che bisogna attraversare tutto l'Oceano Atlantico a nuoto e poi l'intera Europa a piedi» ribattè Asya dando un morso a una fetta di formaggio per rinfrescare la lingua ustionata. Con sua sorpresa era buono davvero, morbido e saporito, proprio come piaceva a lei. Trovando un po' difficile lagnarsi e godersi quella bontà allo stesso tempo, chiuse il becco per un momento, masticando vigorosamente. Approfittando del miracoloso silenzio, zia Banu si lanciò in un apologo, come faceva sempre nei momenti difficili. Raccontò la storia di un uomo che per sfuggire alla propria mortalità aveva deciso di viaggiare in lungo e in largo attorno al mondo. Nord, sud, est e ovest: era andato in tutte le direzioni possibili. A un certo punto, al Cairo, si era inaspettatamente imbattuto in Azrail, l'Angelo della morte. L'aveva squadrato con un'espressione penetrante e indecifrabile, ma non aveva detto nulla né l'aveva seguito. L'uomo abbandonò subito Il Cairo, e si fermò solo quando ebbe raggiunto una cittadina sperduta e sonnolenta in Cina. Stanco e assetato, entrò nella prima taverna che trovò sulla sua strada e lì, al tavolo accanto al suo, sedeva Azrail, in paziente attesa, questa volta con un'espressione di sollievo sul viso. «Ero rimasto sorpreso di incontrarti al Cairo» gracchiò. «Mi risultava che, secondo il tuo destino, era qui in Cina che ci saremmo dovuti incontrare.» Asya conosceva a memoria quel racconto, così come le innumerevoli storie che venivano narrate in continuazione sotto quel tetto. Quel che non capiva, e che non avrebbe mai capito, era il brivido che provavano le zie nel raccontare una leggenda di cui conoscevano già ogni dettaglio. L'atmosfera del soggiorno si fece raccolta, quasi intima, racchiusa com'era nell'involucro della routine, dando l'impressione che la vita fosse una lunga, ininterrotta prova teatrale in cui ognuno aveva imparato la parte a memoria. Nei minuti successivi, mentre le donne attorno a lei saltavano di chiacchiera in chiacchiera, e da un racconto ne sca turiva un altro, Asya si rasserenò. Adesso sembrava completamente diversa dalla ragazza che era stata poco prima. A volte si stupiva lei stessa della propria incoerenza: Come poteva disprezzare in quel modo coloro che amava di più? Era come se il suo umore fosse uno yo-yo in costante movimento, ora furibondo, ora sereno. Tutta sua madre. Dalla finestra aperta giunse il richiamo di un venditore di simit, le ciambelle, che si intrufolò nelle conversazioni in corso. Zia Banu si precipitò al davanzale e sporse la testa rossa: «Simitista! Simitista! Da questa parte!» strillò. «Quanto costano?» Naturalmente sapeva benissimo quanto costava un simit. Più che una domanda, il suo era un rito da rispettare religiosamente. Ecco perché, senza neppure aspettare che l'uomo rispondesse, partì con l'ordine: «D'accordo, dammene otto». Ogni domenica, per colazione, compravano otto simit, uno per ogni membro della famiglia più uno per il fratello lontano. «Oh, hanno un profumo fantastico» sorrise raggiante zia Banu tornando a tavola con i simit infilati ai polsi, come un giocoliere pronto a cominciare il numero con gli anelli. Ne posò uno di fronte a ciascun commensale, spargendo semi di sesamo ovunque. Visibilmente rilassata per essersi aggiudicata un'altra dose di carboidrati, zia Banu cominciò a rimpinzarsi, accompagnando i börek ora con il pane, ora con il simit. Ma subito dopo, come colta da un improvviso bruciore di stomaco o da un
pensiero inopportuno, assunse un'espressione cupa, come quando doveva riferire a un cliente un cattivo presagio. «Dipende tutto da come si considerano le cose.» Zia Banu inarcò le sopracciglia, tradendo così la gravità dell'affermazione che si preparava a fare. «C'erano una volta, ai tempi dell'impero ottomano, due cestai. Erano entrambi grandi lavoratori, ma uno era ottimista, l'altro era sempre di malumore. Un giorno il sultano arrivò al villaggio e disse loro: "Riempirò i vostri ce sti di grano, e se vi prenderete cura di quel grano, esso si trasformerà in monete d'oro" Il primo cestaio accettò con gioia quell'offerta, e riempì i suoi cesti. Il secondo, che era bisbetico almeno quanto te, mia cara, rifiutò il gran dono del sultano. Sai come andò a finire?» «Certo che lo so» disse Asya. «Come faccio a non sapere come va a finire una storia che avrò sentito almeno cento volte? Ma quello che non sai tu è il danno che provocano queste storie alla creatività di una bambina. È per via di questa baggianata che ho passato l'infanzia a dormire con una pagliuzza di grano sotto il cuscino, nella speranza che il mattino dopo si trasformasse in una moneta d'oro. E poi? Comincio ad andare a scuola, e un giorno racconto agli altri bambini che presto diventerò ricca perché il mio grano diventerà oro, e da quel momento in poi divento il bersaglio delle battute cretine di tutta la classe. Mi hai fatto passare per un'idiota.» Di tutti i traumi che Asya aveva patito nella sua infanzia, nessuno le era sembrato più amaro della storia del grano. In quell'occasione aveva sentito per la seconda volta in vita la parola che le avrebbe tenuto compagnia negli anni a venire: «Bastarda!». Fino all'incidente del grano in prima elementare, Asya aveva sentito quel termine soltanto una volta, ma non ci aveva badato, soprattutto perché non ne conosceva bene il significato. I suoi compagni erano stati rapidissimi nel colmare quella lacuna. Ma Asya preferì tenere per sé questa parte della storia, e si versò invece dell'altro té, anche questo bollente. «Ascolta Asya, con noi puoi mugugnare quanto ti pare e piace, ma quando arriverà la nostra ospite vedi di darti una calmata e cerca di essere carina con lei. Il tuo inglese è migliore del mio, e di chiunque altro della famiglia.» Quest'ammissione di ignoranza non era certo un segno di modestia da parte di zia Banu, perché dava a intendere che almeno un po' di inglese lo parlasse, e invece non capiva una parola. Certo, lo aveva studiato ai tempi delle superiori, ma qualunque cosa avesse imparato allora, ne aveva dimenticato due volte tanto, anche perché l'arte della divinazione non richiedeva competenze linguistiche. Quanto a zia Feride, in primo luogo non aveva mai avuto il minimo interesse per l'inglese, e infatti a scuola aveva studiato tedesco; inoltre, aveva perso ben presto interesse per qualunque materia che non fosse la geografia fisica, e quindi neppure con il tedesco aveva fatto grossi progressi. Petite-Ma e nonna Gulsùm erano fuori gioco; restavano perciò solo zia Zeliha e zia Cevriye, che conoscevano l'inglese abbastanza per alzare la media del gruppo dal livello principianti a quello intermedio. Ma c'era una profonda differenza nella loro padronanza della lingua: zia Zeliha parlava un inglese colloquiale, venato di slang e pieno di termini idiomatici e popolari, che usava tutti i giorni con i frequentatori stranieri del suo laboratorio di tatuaggi; mentre quello di zia Cevriye era un inglese grammaticalmente corretto, congelato nel tempo, l'inglese libresco
insegnato a scuola e solo a scuola. Zia Cevriye sapeva distinguere frasi semplici, complesse e composte; identificava locuzioni avverbiali, aggettivali e nominali; riusciva perfino a localizzare congiunzioni inserite nella posizione sbagliata all'interno della struttura sintattica della frase; però non era in grado di parlare. «Perciò, mia cara, dovrai pensarci tu a farle da interprete. Traghetterai a lei le nostre parole e a noi le sue.» Zia Banu socchiuse gli occhi e aggrottò la fronte, per anticipare l'importanza di quello che stava per annunciare. «Come un ponte che si estende fra due culture, dovrai collegare Oriente e Occidente.» Asya arricciò il naso, come se avesse appena sentito un puzzo tremendo che solo lei percepiva, e increspò le labbra, come per dire: «Ti piacerebbe!» Intanto nessuno si era accorto che Petite-Ma si era alzata dalla sedia e si era avvicinata al pianoforte, che nessuno suonava da anni. Di tanto in tanto le zie lo utilizzavano per appoggiarvi piatti e vassoi che non trovavano spazio sul tavolo da pranzo. «È fantastico che voi due abbiate la stessa età» disse zia Banu a conclusione del suo soliloquio. «Così diventerete amiche.» Asya la osservò con rinnovato interesse, chiedendosi se avrebbe mai smesso di considerarla una poppante. Quando era piccola, ogni volta che un altro bambino metteva piede in casa, le zie li piazzavano vicini e ordinavano: «E adesso giocate! Fate amicizia!». Avere la stessa età implicava automaticamente che si dovesse andare d'accordo, come due frammenti di un puzzle che basta avvicinare perché si compongano in un disegno completo. «Sarà così eccitante. E quando tornerà al suo Paese, potrete diventare amiche di penna» aggiunse zia Cevriye con voce squillante. Credeva profondamente nell'amicizia per corrispondenza. Come compagna insegnante del regime repubblicano turco, era convinta che ogni cittadino della Turchia, indipendentemente dalla sua posizione sociale, avesse il dovere di rappresentare con orgoglio la madrepatria di fronte al mondo intero. E quale migliore opportunità di un rapporto internazionale per corrispondenza? «Vi scambierete lettere fra San Francisco e Istanbul» mormorò zia Cevriye quasi tra sé. E poiché corrispondere con uno straniero senza un fine educativo sarebbe stato per lei del tutto impensabile, attaccò subito a concionare sulle implicite ragioni pedagogiche. «Il problema di noi turchi è che veniamo fraintesi e male interpretati. Gli occidentali devono rendersi conto che non abbiamo niente in comune con gli arabi. Il nostro è uno Stato laico, moderno.» In quel momento zia Feride alzò di colpo il volume del televisore, e tutti furono distratti da un nuovo video pop turco. Mentre il suo sguardo scivolava su quella ridicola cantante, Asya notò che la sua pettinatura aveva qualcosa di molto familiare. In un attimo comprese da dove la zia avesse tratto ispirazione per la sua nuova acconciatura. «Per la maggior parte, gli americani hanno subito un lavaggio del cervello da parte di greci e armeni, che purtroppo sono arrivati negli Stati Uniti prima dei turchi» continuò zia Cevriye. «Per questo sono erroneamente portati a credere che la Turchia sia il Paese di Fuga di mezzanotte. Tu mostrerai a quella ragazza americana che
meravigliosa nazione è questa, e promuoverai l'amicizia internazionale e la comprensione interculturale.» Asya annaspò in cerca d'aria, con l'espressione frustrata, mentre la zia più anziana continuava instancabile il suo sermone. «E in più migliorerai il tuo inglese e magari insegnerai a lei il turco. Non sarebbe una meravigliosa amicizia?» Amicizia... a questo punto, Asya si alzò afferrando il suo simit mangiato a metà e si preparò a uscire per andare a trovare i suoi veri amici. «Dove stai andando, signorina? La colazione non è ancora finita» disse zia Zeliha, aprendo bocca per la prima volta da quando si erano sedute a tavola. Dopo aver lavorato per sei giorni da mezzogiorno alle nove nel trambusto del laboratorio di tatuaggi, zia Zeliha era quella che si godeva più di chiunque altro in famiglia il pigro relax delle colazioni domenicali. «C'è quella rassegna di cinema cinese», rispose Asya con tono leggermente forzato, facendo del suo meglio per sembrare seria e sincera. «Il professore di uno dei miei corsi ci ha chiesto di vedere un film in programma questo fine settimana, e poi scrivere una recensione critica.» «Che razza di compito è mai questo?» inarcò un sopracciglio zia Cevriye, sempre sospettosa nei confronti dei nuovi metodi di insegnamento. Zia Zeliha non insistette. «D'accordo, allora vai a vederti il tuo film cinese» acconsentì. «Ma non fare tardi. Ti voglio a casa per le cinque: stasera andiamo all'aeroporto a prendere la nostra ospite.» Asya afferrò la sua borsa fricchettona e filò verso la por ta. Ma mentre stava per uscire sentì il più inaspettato dei rumori. Qualcuno stava suonando il pianoforte. Note timide, esitanti, alla ricerca di una melodia da lungo tempo perduta. Un lampo apparve sul viso di Asya, che sussurrò fra sé: «Petite-Ma!»
Petite-Ma, nata a Tessalonica, era approdata a Istanbul da bambina con la madre vedova. Era il 1923, una data impossibile da dimenticare, perché coincide con la proclamazione della Repubblica Turca moderna. «Tu e la Repubblica siete arrivate in questa città insieme. Stavo aspettando disperatamente tutte e due» le aveva detto con amore suo marito Riza Selim, anni dopo. «Avete messo per sempre fine ai vecchi regimi, lei nel Paese e tu in casa mia. Quando sei venuta da me, la mia vita si è illuminata.» «Quando sono venuta da te, eri triste ma forte. Io ti ho recato gioia, e tu mi hai dato la forza» gli aveva risposto Petite-Ma. In verità, Petite-Ma era così carina e allegra che prima ancora di compiere sedici anni era stata chiesta in moglie da un numero spaventoso di uomini, così tanti che sarebbero bastati a formare una fila da un'estremità all'altra del vecchio ponte Galata. Fra i candidati ce n'era soltanto uno per il quale aveva provato simpatia fin da quando gli aveva messo gli occhi addosso: un uomo alto e imponente, Riza. Aveva la barba folta e i baffi sottili, occhi scuri e seri, e ben trentatré anni più di lei. Era già stato sposato e girava voce che la moglie, una donna senza cuore, avesse
abbandonato lui e il figlioletto. E così lui era rimasto con un bambino che appena camminava, ma aveva rifiutato a lungo di risposarsi, preferendo rimanere solo nella casa di famiglia. Nel frattempo aveva accresciuto la propria ricchezza, che condivideva con gli amici, e la propria rabbia, che riservava ai nemici. Come uomo d'affari si era fatto da sé, dapprima era stato calderaio, poi capomastro, e infine un imprenditore accorto al momento giusto. Nel corso degli anni Venti la nuova Repubblica della Turchia era ancora piena di fervore e il lavoro manuale, per quanto esaltato dalla propaganda governativa, rendeva ben poco. Al nuovo regime servivano insegnanti per trasformare gli studenti in turchi patriottici, investitori per dare forma a una borghesia nazionale, e fabbricanti di bandiere turche per adornare tutto il Paese. Ecco perché Riza Selim si era messo a produrre bandiere. Anche se la nuova attività gli aveva fatto guadagnare soldi a palate e un esercito di amici influenti, quando nel 1925 la Legge sui Cognomi obbligò ogni cittadino turco a scegliersi un proprio cognome, Riza Selim volle ispirarsi al suo primo mestiere e ne trasse il nome Kazanci. Riza Selim Kazanci era un bell'uomo e in ottime condizioni finanziarie, ma la sua età e la faccenda del primo matrimonio (nessuno sapeva perché la prima moglie l'avesse abbandonato, poteva essere un pervertito) facevano di lui uno degli ultimi uomini sulla faccia della terra che la madre di Petite-Ma avrebbe voluto per la sua preziosissima bambina. Di candidati migliori ce n'erano a bizzeffe. Ma nonostante le obiezioni della madre, Petite-Ma si ostinò a prendere in considerazione soltanto ciò che le dettava il cuore. Forse perché aveva intuito quale benedizione fosse avere accanto un uomo capace di amare, e gli occhi di Riza Selim Kazanci erano teneri, la sua voce affettuosa; c'era qualcosa in lui che faceva sentire al sicuro, adorati e protetti perfino in mezzo alla peggiore turbolenza. Uno come lui non ti avrebbe mai abbandonato. Ma non fu quella l'unica ragione per cui Petite-Ma si sentì attratta da Riza Selim Kazanci. In realtà fu affascinata dalla sua storia prima ancora che dalla sua persona. Percepì fino a che punto la sua anima fosse rimasta ferita dall'abbandono della prima moglie, ed era sicura di poter guarire quella ferita. Dopotutto le donne adorano pren dersi cura dei dolori altrui. Petite-Ma non ci mise molto a scegliere. Avrebbe sposato quell'uomo: niente, neppure il destino, avrebbe potuto cambiare la sua decisione. Se Petite-Ma aveva riposto in lui una fiducia così istintiva, Riza, dal canto suo, se la sarebbe guadagnata fino all'ultima goccia. Quella moglie bionda dagli occhi azzurri, giunta a lui con un gatto bianco e peloso come unica dote, fu la delizia della sua vita. Mai, neppure per un giorno, mancò di soddisfare i suoi desideri, per stravaganti che fossero. Ma le cose non andarono altrettanto lisce con il suo bambino di sei anni: Levent Kazanci non accettò mai Petite-Ma come madre. Nel corso degli anni, le oppose resistenza e la mise in ridicolo ogni volta che potè, uscendo dall'età infantile in preda a un'amarezza nascosta, sempre che sia possibile lasciarsi davvero alle spalle l'infanzia quando si cova tanto rancore. In un'epoca in cui un matrimonio senza figli poteva essere solo un segno di grave malattia o un terribile sacrilegio, Petite-Ma e Riza Selim Kazanci non ebbero bambini. Non perché lui fosse troppo vecchio, ma perché all'inizio era lei a essere
troppo giovane e senza grande desiderio di maternità; e quando cambiò finalmente idea, lui era davvero troppo vecchio. Levent Kazanci rimase l'unico erede, destinato a perpetuare la famiglia, cosa di cui non si può dire che fosse contento. Per quanto rattristata e offesa dal comportamento del figliastro, Petite-Ma restava una ragazza estroversa ed esuberante, con una grande immaginazione e un'ancora più lunga lista di esigenze. C'erano tante cose al mondo più interessanti che allevare bambini, come imparare a suonare il piano. Infatti, subito dopo le nozze, uno splendente pianoforte Bentley fabbricato in Inghilterra dalla Stroud Piano & Co. comparve nell'angolo migliore del soggiorno. Fu su quel pianoforte che Petite-Ma iniziò a prendere lezioni dal suo primo insegnante, un musicista russo sfuggito alla Rivoluzione bolscevica e stabilitosi a Istanbul. Petite-Ma era la sua allieva migliore. Non solo aveva talento, ma anche la perseveranza necessaria per fare del pianoforte il compagno di una vita anziché un fuggevole passatempo. Rachmaninoff, Borodin e Cajkovskij erano i suoi preferiti. Quando si trovava sola in casa, suonava sempre i loro brani con Pascià Primo in grembo. Se invece c'erano ospiti, il suo repertorio era diverso, decisamente occidentale: nelle occasioni speciali in cui venivano invitati funzionari di governo con le raffinate consorti, Petite-Ma sceglieva Bach, Beethoven, Mozart, Schumann e soprattutto Wagner. Dopo cena gli uomini si riunivano attorno al camino con i liquori a discutere di politica internazionale, perché quella nazionale, alla fine degli anni Venti, poteva essere soltanto accettata acriticamente se non venerata, meglio a voce alta, perché anche i muri avevano orecchi. Le signore, invece, si raccoglievano dalla parte opposta della casa, con i bicchierini di cristallo colmi di liquore alla menta, a sbirciare i vestiti delle altre. A questo genere di serate partecipavano due tipi di donne, assolutamente diversi fra loro: le professioniste e le mogli. Le professioniste erano l'epitome della nuova donna turca idealizzata, glorificata e portata a esempio dall'elite riformista; erano giuriste, insegnanti, giudici, dirigenti d'azienda, studiose, accademiche... Contrariamente alle loro madri, non dovevano più trascorrere l'esistenza confinate in casa ma avevano la possibilità di farsi strada nella vita sociale, economica e culturale del Paese, a patto che lungo il percorso si liberassero completamente della loro femminilità. Di solito indossavano tailleur due pezzi marroni, grigi o neri, i colori della castità, della modestia e del rigore. Portavano i capelli corti, niente trucco, niente accessori: sembravano asessuate. Ogni volta che le mogli ridacchiavano in quell'odiosa maniera femminile, le professioniste stringevano più forte le borsette di pelle, come se contenessero segreti di Stato da proteggere a ogni costo. Le mogli, al contrario, si presentavano in abiti di seta bianchi, rosa confetto e celeste pastello, le sfumature della femminilità, dell'innocenza e della vulnerabilità. Non amavano le professioniste, considerate più «camerate» che donne; a loro volta, le professioniste non avevano simpatia per le mogli, considerate più «concubine» che donne. Alla fine, sembrava che le une e le altre si giudicassero reciprocamente non abbastanza «donne». Ogni volta che la tensione fra camerate e concubine si intensificava, Petite-Ma, che non si identificava con nessuno dei due gruppi, segnalava discretamente alla
domestica di servire il liquore alla menta nei bicchierini di cristallo e i dolcetti di mandorla sui vassoi d'argento. Quell'abbinamento, aveva scoperto, era l'unica cosa capace di placare i nervi di ogni invitata, indipendentemente dalla fazione nella quale militava. Più tardi, nel corso della serata, Riza Selim Kazanci mandava a chiamare la moglie chiedendole di suonare il pianoforte per gli onorati ospiti. Petite-Ma non rifiutava mai. Oltre ai compositori occidentali, suonava inni nazionali che trasudavano fervore patriottico. Gli ospiti approvavano e applaudivano. Nel corso del 1933, quando fu composta la Marcia della Repubblica, inno del decimo anniversario del nuovo regime, le toccò suonarla cento volte. Si sentiva ovunque, echeggiava nelle teste della gente anche quando dormiva. Fu un periodo in cui si cullavano persino i neonati al ritmo di quella musica esuberante. Così, in una fase di grandi cambiamenti nella sfera pubblica per le donne turche, Petite-Ma si godeva la propria indipendenza nella sfera privata di casa. Il suo interesse per il pianoforte non diminuì mai, ma non fu l'unica occupazione. Negli anni che seguirono imparò il francese, scrisse racconti che non sarebbero mai stati pubblicati, si specializzò in varie tecniche di pittura a olio, si comprò abiti da ballo e scarpette di seta trascinando il marito a serate danzanti, organizzò feste folli, e non mise mano mai, neppure una volta, ai lavori di casa. Tutto ciò che la sua disinvolta mogliettina gli chiedeva, Riza Selim Kazanci era pronto a concedere. Di solito era un uomo composto, che nutriva grande stima per gli altri ed era animato da un profondo senso di giustizia. Ma come per molti individui della stessa pasta, una volta che il suo cuore era stato spezzato, non c'era modo di ripararlo. C'era un solo argomento capace di scatenare la parte peggiore di lui: la prima moglie. Persino molti anni dopo, quando a Petite-Ma capitò di chiedergli di lei, Riza Selim Kazanci sprofondò nel silenzio, lo sguardo annebbiato da un'insolita tristezza. «Che razza di donna è quella che può abbandonare suo figlio?» chiese con il viso deformato dall'odio. «Ma non vuoi sapere che fine ha fatto?» si avvicinò Petite-Ma, mettendosi a sedere in grembo al marito e carezzandogli il mento, come per blandirlo e convincerlo ad affrontare la questione. «Non mi interessa sapere che ne è stato di quella puttana» gridò, senza curarsi che Levent potesse sentirlo mentre insultava sua madre. «È fuggita con un altro?» insistette Petite-Ma, sapendo che stava superando i limiti ma convinta che non avrebbe mai saputo fin dove arrivavano quei limiti se non li avesse scavalcati. «Perché vuoi mettere il naso in questioni che non ti riguardano?» ribattè stizzito Riza Selim Kazanci. «Stai forse pensando di fare come lei?» E così Petite-Ma capì quali erano i confini da rispettare. Tranne che nei rari casi in cui veniva fuori quella questione, negli anni che seguirono la loro vita trascorse serena e appagante. Tanta felicità costituiva fonte d'invidia per parenti, vicini e amici, impazienti di spettegolare ogni volta che capitasse l'occasione. L'argomento più adatto su cui far leva era la mancanza di figli della coppia. In molti cercarono di convincere Riza Selim Kazanci a sposare un'altra
donna prima che fosse troppo tardi. Poiché sotto il nuovo governo non era più possibile avere diverse mogli, avrebbe dovuto divorziare da quella attuale che, ormai tutti lo sospettavano, doveva essere sterile o egoista. Ma Riza Selim Kazanci sembrava sordo a quel tipo di consigli. Il giorno in cui il marito morì - una morte del tutto inaspettata, com'era costume per i maschi Kazanci - per la prima volta in vita Petite-Ma cominciò a credere nel malocchio. Era convinta che fosse stato lo sguardo maligno della gente gelosa che li circondava a penetrare le mura dell'altrimenti felice konak e uccidere suo marito. Ma ormai stentava a ricordare quelle cose. Mentre le dita contorte e raggrinzite accarezzavano il vecchio pianoforte, i suoi giorni con Riza Selim Kazanci si illuminavano debolmente in lontananza come un antico faro che indicava la rotta sbagliata fra le acque tempestose dell'Alzheimer.
Sul divano di un appartamento rimesso a nuovo con vista sul ponte Galata, in una zona della città in cui le strade non dormivano mai e ogni pietra del selciato era piena di segreti, Asya Kazanci sedeva nuda e immobile come una statua. «A cosa stai pensando, tesoro?» «Sto lavorando all'articolo otto del mio personale Manifesto del Nichilismo» rispose Asya riaprendo gli occhi annebbiati. Articolo otto. Se tra la società e l'io si apre una spaventosa voragine attraversata solo da un ponte traballante, niente vieta di bruciare quel ponte e rimanere sul versante dell'io, in salvo e al sicuro, a meno che non sia proprio la voragine quello che si va cercando. Asya aspirò un'altra boccata di fumo, e la trattenne. «Vieni qui, fatti imboccare» disse il Fumettaro Dipsomane prendendole lo spinello di mano. Si chinò, appog giando contro di lei il petto villoso. Asya aprì le labbra, come un uccellino appena nato in attesa del cibo, e lui le soffiò il fumo direttamente nella bocca. Lei lo inalò di gusto, come un assetato con l'acqua. Articolo nove. Se la voragine interna ti attira più del mondo esterno, niente vieta di lasciarti sprofondare in essa, ovvero nell'io. Vollero riprodurre quel piacevole istante, lui le soffiava in bocca il fumo, lei lo accoglieva, ancora e ancora, fino a quando l'ultimo sbuffo scomparso nella sua gola venne rilasciato nell'aria. «Scommetto che adesso ti senti meglio» sospirò il Fumettaro Dipsomane con un'espressione in cui si leggeva la voglia di fare di nuovo sesso. «Non c'è cura migliore di una bella scopata e una bella canna.» Asya si morse l'interno del labbro per frenare l'impulso di ribattere. Piegò la testa verso la finestra aperta e allargò le braccia come se volesse avvolgere l'intera città, con tutto il suo caos e il suo splendore.
Nel frattempo lui stava perfezionando un concetto a cui teneva molto: «Vediamo. Non c'è niente di così sopravvalutato come una pessima scopata e di così sottovalutato come una buona...». «Tutte stronzate.» Asya indicò qualcosa con la mano. Annuendo volenteroso, il Fumettaro Dipsomane si alzò, con addosso soltanto i boxer di seta che evidenziavano senza pietà la pancetta da bevitore. Trotterellò fino al lettore cd e lo accese, capitando su uno dei pezzi di Johnny Cash preferiti da Asya: la cover di Hurt. Ondeggiando al ritmo delle note iniziali della canzone tornò sui suoi passi, con gli occhi che brillavano: I hurt myself today / To see if still feel,... Il viso di Asya si contorse, come fosse stata punta improvvisamente da un ago invisibile. «Che peccato...» «Che cosa è un peccato, tesoro?» Lei lo guardò con gli occhi spalancati, uno sguardo tormentato che sembrava appartenere a qualcuno tre volte più vecchio di lei. «Che stronzata» si lamentò. «Quegli organizzatori, o manager o come diavolo si chiamano, s'inventano tour in Europa, in Asia, perfino - evviva la perestrojka - nell'ex Unione Sovietica... ma se sei un appassionato di musica a Istanbul sei fregato, non siamo una calamità geografica. Scompariamo nelle pieghe dello spazio. Praticamente l'unico motivo per cui a Istanbul non fanno concerti è la nostra posizione geostrategica.» «Già, dovremmo metterci tutti in fila sul ponte del Bosforo e soffiare a pieni polmoni, in modo da spingere la città verso Occidente. E se non funziona, possiamo provare nella direzione opposta, per vedere se riusciamo a spostarla a Oriente.» Il Fumettaro Dipsomane ridacchiò. «Non è bene restare nel mezzo: la politica internazionale non apprezza l'ambiguità.» Ma da lassù, sopra le nuvole, Asya non lo sentiva. Si accese un'altra canna e se la infilò tra le labbra screpolate. Aspirò una profonda boccata di indifferenza, ignorando la sensazione delle dita di lui sulla propria pelle, e poi della sua lingua sulla propria. «Ci doveva essere un modo per arrivare a Johnny Cash prima che morisse. Voglio dire, doveva venire a Istanbul: è morto senza sapere che qui aveva dei fan sfegatati...» Il Fumettaro Dipsomane accennò un tenero sorriso. Le baciò il minuscolo neo sulla guancia sinistra, le accarezzò il collo, poi le mani si spostarono verso i seni floridi, raccogliendoli a coppa. Fu un bacio impetuoso, lento, con una sfumatura di violenza, quasi di crudeltà. Con gli occhi che brillavano, lui le chiese: «Quando ci rivedremo?». «Tutte le volte che ci troveremo al Café Kundera, suppongo.» Asya scrollò le spalle, allontanandosi da lui. Ma più lei si ritraeva, più lui si avvicinava. «Ma quando ci rivedremo qui, a casa mia?» «Vuoi dire quando ci rivedremo qui nel mio bordello?» sputò Asya, dando finalmente sfogo alla voglia di restituire i colpi. «Lo sappiamo fin troppo bene tutti e due che questa non è casa tua! Casa tua è quella dove vive tua moglie; e questo è il tuo bordello personale, dove vieni a ubriacarti e a scopare di nascosto da lei. Dove scopi le tue pollastre. E più sono giovani, più sono ubriache e più sono stupide, e meglio è!»
Il Fumettaro Dipsomane sospirò, afferrò il suo bicchiere di raki e lo vuotò in un sorso. Il suo viso sembrava devastato da una desolazione così profonda che per un attimo Asya temette che le avrebbe urlato contro o sarebbe scoppiato a piangere: non poteva credere che un simile dolore potesse restare muto. Invece lui si limitò a commentare con una voce da vecchio: «A volte sai essere così crudele». Nella stanza scese un silenzio lunare, reso meno insostenibile dalle urla dei ragazzini che giocavano a pallone per strada. Uno di loro doveva essere stato espulso, e i suoi compagni protestavano contro l'arbitro. «Tu hai un lato oscuro, Asya.» Le parole del Fumettaro Dipsomane sembravano venire da molto lontano. «Non ti si legge subito su quel dolce visino, e perciò è difficile rendersene conto al primo sguardo, però c'è. Hai un infinito potenziale distruttivo.» «Be', comunque non distruggo veramente nessuno, no?» Asya sentì il bisogno di difendersi. «Non chiedo altro che di essere libera, e poter essere me stessa e tutte quelle stronzate... se solo mi lasciassero in pace...» «Se ti lasciassero in pace... ti servirebbe a bruciare più in fretta. È questo che vuoi? Sei attratta dall'autodistruzione come una falena è attratta dalla luce.» Asya sbuffò con una risatina imbarazzante. «Quando bevi, ti sbronzi oltre ogni limite, quando critichi sei caustica, quando sei giù, arrivi a toccare il fondo. Sinceramente non so come prenderti. Sei così piena di rabbia, bambina...» «Sarà perché sono nata bastarda» ribattè Asya aspirando un'altra boccata. «Non so neppure chi è mio padre. Io non lo chiedo, loro non ne parlano mai. A volte quando mia madre mi guarda ho la sensazione che nel mio viso veda lui, ma non dice una parola. Facciamo finta che non esista niente di simile a un padre. C'è solo il Padre con la P maiuscola. Quando puoi contare su Allah che ti protegge dal cielo, che bisogno hai di un padre vero? Non siamo tutti figli Suoi? Però mia madre non crede a quella roba. Posso assicurarti che è la donna più cinica che abbia mai conosciuto. Ed è proprio questo il problema: io e mia madre siamo così simili, eppure così distanti.» Sbuffò una voluta di fumo verso la scrivania di mogano dove il Fumettaro Dipsomane custodiva alcuni dei suoi lavori migliori per paura che la moglie glieli distruggesse durante un litigio. Conservava lì anche gli schizzi preparatori del Politico Anfibio e del Rhinoceros Politicus, due nuove serie in cui raffigurava i membri del Parlamento turco sotto forma di varie specie animali. Aveva in programma di metterle in circolazione appena le acque si fossero calmate, e aveva ragione di sperare bene, soprattutto adesso che il tribunale aveva rinviato a data da destinarsi la sua condanna a tre anni di detenzione. Requisito essenziale per la sospensione della pena era però che non perseverasse nel reato, cosa che invece era ben deciso a fare. Che senso aveva battersi per la libertà, pensava, se nessuno si batteva in primo luogo per la libertà di satira? In un angolo della scrivania, sotto la luce giallo scuro di una lampada art deco a collo d'oca, c'era una scultura in legno intagliata a mano: un Don Chisciotte chino su un libro e perso nelle sue meditazioni. Asya amava molto quella scultura.
«La mia famiglia è un branco di pazzi. Sì, spazzate via la polvere e le incrostazioni della memoria! Non fanno altro che parlare del passato, ma la loro è solo una versione purgata. È la tecnica Kazanci per affrontare i problemi: se qualcosa ti turba, chiudi gli occhi, conta fino a dieci, desidera che non sia accaduto, e subito dopo ecco che per miracolo non è mai successo. Evviva ! Ogni giorno ingoiamo un'altra capsula di falsità...» Chissà cosa stava leggendo Don Chisciotte, si chiese Asya, con i pensieri ancora annebbiati dall'alcol. Cosa c'era scritto su quella pagina aperta? Lo scultore si era preoccupato di incidere qualche parola? Incuriosita, lasciò il divano e si avvicinò alla statuetta. Ma sul foglio di legno non era tracciato alcun segno. Prima di tornare a sedersi aspirò un'altra lunga boccata, poi ricominciò a lagnarsi. «Mi irrita tutto quel "casa dolce casa", un triste facsimile di famiglia felice. Sai, a volte mi capita di invidiare Petite-Ma, che ha quasi cent'anni... vorrei avere anch'io la sua dolce malattia. Pensa, la memoria che pian piano svanisce.» «Non è bello, dolcezza.» «Forse non sarà bello per chi ti sta intorno, ma per chi ce l'ha va benissimo» insistette Asya. «Be', di solito le due cose sono collegate.» Asya lo ignorò. «Oggi, dopo tanti anni, Petite-Ma ha riaperto il pianoforte; l'ho sentita suonare certe note sconnesse e stonate. È deprimente. Quella donna un tempo suonava Rachmaninoff, e adesso non riesce nemmeno a strimpellare una stupida canzoncina per bambini.» Si interruppe per un momento, riflettendo su quel che aveva appena detto. A volte prima parlava e poi pensava. «Ma il punto è che lei non se ne rende conto, ce ne accorgiamo solo noi!» esclamò con entusiasmo forzato. «L'Alzheimer non è poi così terribile come sembra. Il pas sato non è altro che una catena dalla quale dobbiamo liberarci. Un fardello che ci tortura. Se solo potessi non avere un passato, essere nessuno, una che comincia da zero e resta per sempre al punto di partenza. Leggera come una piuma. Niente famiglia, niente ricordi, nessuna di tutte quelle stronzate...» «Tutti hanno bisogno di un passato» obiettò il Fumet taro Dipsomane bevendo un sorso dal suo bicchiere, l'espressione indecisa fra la compassione e l'ira. «Non includere me, perché a me di certo non serve!» Asya afferrò lo zippo sul tavolino e lo accese con il pollice, per richiuderlo di colpo con uno scatto secco. Il suono le piacque, e ripetè il movimento diverse volte, senza rendersi conto di esasperare il Fumettaro Dipsomane. Clic! Clic! Clic! «Meglio che vada.» Gli porse lo zippo e si guardò attorno in cerca dei vestiti. «La mia cara famiglia mi ha assegnato un compito importante. Devo andare all'aeroporto con la mamma, a dare il benvenuto alla mia amica di penna americana.» «Hai un'amica di penna americana?» «Più o meno. E comparsa dal nulla. Un giorno mi sono svegliata e ho trovato una lettera nella cassetta della posta, indovina da dove? Da San Francisco. Una ragazza che si chiama Amy e dice di essere la figliastra di mio zio Mustafa. Figurati, noi non sapevamo nemmeno che ce l'avesse una figliastra! Anzi, così abbiamo pure scoperto che sua moglie è al secondo matrimonio, ti rendi conto? Lui non ce l'aveva mai detto!
C'è mancato poco che a mia nonna prendesse un colpo quando, dopo vent'anni, è venuta a sapere che la moglie del suo prezioso figlio non era vergine quando si sono sposati, nossignore, non solo non era vergine, ma è addirittura una divorcée.» Asya si interruppe per porgere i suoi rispetti alla canzone che era appena iniziata, It Ain't Me, Babe. Fischiettò la melodia e mimò le parole, prima di riprendere il discorso. «Comunque, di punto in bianco questa Amy scrive una lettera dicendo che studia all'Università dell'Arizona e che è interessata a conoscere altre culture e quindi le farebbe piacere se un giorno ci conoscessimo, bla bla bla. E poi tira fuori il coniglio dal cilindro: "A proposito, fra una settimana arriverò a Istanbul, posso venire a stare a casa vostra?".» «Questa è bella!» esclamò il Fumettaro Dipsomane mentre metteva tre cubetti di ghiaccio nel bicchiere di raki appena riempito. «Ma vi ha detto come mai fra tutti i posti possibili viene proprio qui? Per turismo?» «Non lo so» borbottò Asya in ginocchio sul pavimento, cercando un calzino sotto il divano. «Ma visto che è una studentessa universitaria, scommetto che sta facendo una di quelle ricerche tipo "L'Islam e l'oppressione della donna" o "Tradizioni patriarcali in Medio Oriente". Altrimenti perché mai vorrebbe venire a stare in un manicomio pieno di donne strambe, quando la città è piena di alberghi carini che costano poco? Sono sicura che vorrà intervistarci sulla situazione femminile nei Paesi musulmani e tutte quelle...» «Stronzate!» completò la frase per lei il Fumettaro Dipsomane. «Appunto!» esclamò trionfante Asya, che aveva appena recuperato il calzino perduto. In un lampo, si infilò la gonna e la maglietta e si passò una spazzola fra i capelli. «Be', allora potresti portarla al Café Kundera, una volta o l'altra.» «Glielo chiederò, ma sono sicura che preferirà andare in qualche museo» grugnì mentre si infilava gli stivali di pelle. Si guardò attorno per controllare di non aver dimenticato nulla. «Be', mi toccherà di sicuro passare un po' di tempo con lei, visto che la mia famiglia vuole che la porti in giro per farle vedere com'è bella Istanbul. Così, secondo loro, quando torna in America si mette a tessere le lodi della città.» Nonostante la finestra aperta, nella stanza aleggiava ancora l'odore acre di marijuana, di raki e di sesso, mentre Johnny Cash cantilenava in sottofondo. Asya prese la borsa e si avviò verso la porta. Ma proprio mentre stava per uscire, il Fumettaro Dipsomane le sbarrò la strada. Guardandola dritto negli occhi, l'afferrò per le spalle e l'attirò dolcemente a sé. I suoi occhi scuri erano cerchiati di viola e gonfi come lo sono di solito quelli degli alcolisti, o di chi è stato colpito da un grande dolore, o tutte e due le cose insieme. «Mia cara Asya» le sussurrò con il viso atteggiato a una compassione che non le aveva mai mostrato prima. «Nonostante il veleno che hai dentro, e forse proprio per quello, io so che sei una persona speciale, e che hai un'anima affine alla mia. E ti amo. Mi sono innamorato di te la prima volta che sei entrata al Café Kundera, con quell'espressione tormentata sul viso. Non so se questo significa qualcosa per te, ma devo confessartelo comunque. Prima che lasci quest'appartamento voglio che tu
sappia che questo non è il mio bordello, e qui non ci porto le pollastre. Ci vengo per bere e disegnare e deprimermi, e per deprimermi, disegnare e bere, e a volte per disegnare e deprimermi e bere... ecco tutto...» Completamente sbalordita, Asya afferrò la maniglia della porta, ma restò per un attimo immobile sulla soglia. Senza sapere bene dove mettere le mani, se le cacciò nelle tasche della gonna e sentì qualcosa che somigliava a delle briciole. Le tirò fuori, e si accorse che sulla punta delle dita c'erano i chicchi marroncini consacrati da Petite-Ma per proteggerla dal malocchio. «Guarda qui! Grano... grano...» Asya articolò la parola in tutti i modi possibili. «Petite-Ma cerca di proteggermi dal male.» Aprì la mano e gli consegnò un chicco di grano. Appena lo ebbe fatto arrossì, come se avesse rivelato un segreto amoroso. Con le guance ancora in fiamme e l'amarezza interiore non più compensata dall'impudenza, Asya aprì la porta. Sgusciò fuori il più velocemente possibile, poi esitò per un secondo e si voltò indietro. Sembrava che volesse dire qualcosa, invece lo abbracciò forte. Poi corse giù per le cinque rampe di scale e si allontanò in fretta da tutte le sofferenze che le assalivano l'anima.
Capitolo otto Pinoli
«Com'è che dorme ancora?» chiese Asya indicando con il mento la porta della camera. Al ritorno dall'aeroporto, con sua grande costernazione aveva scoperto che le zie avevano piazzato un secondo letto, trasformando il suo unico spazio privato nella «camera delle ragazze». Se non lo avevano fatto per la deliberata intenzione di tormentarla, doveva essere perché quella camera aveva una vista migliore e volevano fare buona impressione sull'ospite, oppure avevano considerato quella sistemazione come un'ulteriore opportunità di avvicinare le due coetanee nell'ambito del loro PAIPAC, Progetto di Amicizia Internazionale e Promozione dell'Apertura Culturale. Asya non aveva il minimo desiderio di condividere i propri spazi con una perfetta estranea, ma non poteva certo mettersi a protestare davanti all'ospite, e perciò aveva dovuto acconsentire. La sua tolleranza però si stava pericolosamente assottigliando. Come se non bastasse averle messo l'americana in camera, le donne Kazanci sembravano decise a non mettersi a mangiare finché l'ospite d'onore non le avesse raggiunte. Così, con tutto pronto in tavola, compreso Sultan Quinto, nessuno aveva ancora cenato davvero, persino Sultan Quinto era a digiuno. Ogni venti minuti circa, una di loro andava a riscaldare la zuppa di lenticchie e i piatti di carne, facendo spola con le pentole fra il soggior no e la cucina, mentre Sultan Quinto seguiva ogni volta la scia del profumo con miagolii di supplica. Sembravano incollate alle sedie, guardavano la televisione a volume bassissimo e si parlavano a sussurri. In realtà, poiché continuavano a spilluzzicare da un piatto o dall'altro, avevano tutte finito per mangiare più di quanto facessero di solito nel corso di un pasto normale, fatta eccezione per Sultan Quinto. «Magari si è già svegliata e se ne sta a letto perché è timida o qualcosa del genere. E se andassi a dare un'occhiata?» chiese Asya. «Sta buona, signorina, lasciala dormire» la liquidò zia Zeliha aggrottando le sopracciglia. Con un occhio fisso sullo schermo e uno sul telecomando, anche zia Feride concordò: «Ha bisogno di dormire. È per via del jet lag. La ragazza ha attraversato non solo le correnti oceaniche, ma anche diversi fusi orari». «Be', a quanto pare adesso in questa casa c'è una persona che può starsene a letto finché vuole» borbottò Asya. In quel momento una vivace colonna sonora risuonò in sottofondo, e cominciò il programma che stavano aspettando: la versione turca di The Apprentice. In un
silenzio rapito, guardarono il Donald Trump turco che spuntava da dietro le tende di seta di un enorme ufficio con una vista stupenda del ponte sul Bosforo. Dopo un'occhiata condiscendente alle due squadre in attesa dei suoi ordini, il magnate le aggiornò sui loro incarichi. Ogni squadra avrebbe dovuto progettare una bottiglia di acqua minerale frizzante, trovare il modo di fabbricarne novantanove esemplari e poi venderli il più in fretta e al prezzo più alto possibile in uno dei quartieri più eleganti della città. «Ma che razza di sfida è?» sbraitò Asya. «Se è una sfida quella che vogliono, allora dovrebbero mandare i concorrenti nella zona più tradizionalista e religiosa di Istanbul e fargli vendere bottiglie di vino rosso!» «Oh, sta buona» la rimbeccò zia Banu con un sospiro. Le dava fastidio il modo in cui la nipote si prendeva gioco della religione. E su quel versante era chiaro da chi avesse preso: tutta sua madre. Se la blasfemia veniva geneticamente trasmessa da madre a figlia, come il diabete, allora a che pro cercare di correggerla? Sospirò di nuovo. Ignorando il disturbo arrecato alla zia, Asya si strinse nelle spalle. «Perché no? Sarebbe più creativo di queste scimmiottature degli americani senza un minimo di logica. Quando si prendono in prestito idee dall'Occidente, bisognerebbe sempre tener presenti le caratteristiche specifiche della propria cultura. Così verrebbe fuori un Donald Trump veramente alla turca, uno che, per esempio, chiede ai suoi concorrenti di vendere maiale in scatola in un quartiere musulmano. Ecco, quella sì che sarebbe una sfida! Lì si vedrebbero fiorire le vere strategie di marketing.» Prima che qualcuno potesse commentare, la porta si aprì con uno scricchiolio e ne uscì Armanoush Tchakhmakhchian, con un'aria a metà tra il diffidente e l'assonnato. Indossava dei jeans sbiaditi e una felpa blu abbastanza lunga e larga da nasconderle le forme. Quando aveva preparato i bagagli per la Turchia aveva riflettuto a lungo sul tipo di abiti da portarsi dietro, e alla fine aveva scelto quelli più modesti, per non sembrare eccentrica in un posto tradizionalista. Perciò, era stato uno shock trovarsi davanti in aeroporto Zeliha con una minigonna oltraggiosamente corta e tacchi alti ancor più oltraggiosi. Ma il colpo di grazia era stato incontrare poco dopo zia Banu, con il capo velato e l'abito lungo fino ai piedi, e venire a sapere che era molto pia e pregava cinque volte al giorno. Come quelle due donne, malgrado lo stridente contrasto nel loro aspetto e ovviamente nelle rispettive personalità, potessero essere sorelle e vivere sotto lo stesso tetto, era un mistero sul quale Armanoush si ripropose di concentrarsi con calma. «Welcome, welcome!» la salutò allegramente zia Banu, esaurendo così tutto il suo inglese. Mentre la guardavano avvicinarsi, le quattro zie sedute a tavola lottavano contro il disagio dell'estraneità, ma continuavano a sfoggiare larghi sorrisi. Curioso di sentire che odore avesse la straniera, Sultan Quinto si rizzò sulle zampe appena la vide e descrisse una spirale sempre più stretta attorno a lei, annusandole le pantofole, fino a decidere che non c'era niente di interessante. «Mi dispiace, non so come ho fatto a dormire per tutto questo tempo» balbettò Armanoush in un inglese al rallentatore.
«Ma certo, il tuo corpo aveva bisogno di riposo: è stato un lungo volo» disse zia Zeliha. Nonostante l'accento strascicato e piuttosto marcato, e la tendenza a mettere l'enfasi sulle sillabe sbagliate, sembrava abbastanza a suo agio con l'inglese. «Non hai fame? Spero che ti piaccia il cibo turco.» Capace di riconoscere la parola cibo in ogni lingua possibile, zia Banu schizzò in cucina a prendere la zuppa di lenticchie. Quasi automaticamente Sultan Quinto saltò su dal suo cuscino per seguirla, miagolando implorante dietro di lei. Sedendosi al posto che le era stato assegnato, Armanoush osservò per la prima volta il soggiorno. Si guardò attorno con occhiate rapide e discrete, soffermandosi appena in certi punti: la credenza di palissandro intagliato con le ante a vetri, che conteneva tazze da caffè dorate, servizi da té e diversi pezzi antichi; il vecchio pianoforte addossato alla parete; lo splendido tappeto sul pavimento; i bellissimi disegni che ornavano il piano dei tavolini, le poltrone di velluto e persino il televisore; il canarino in una gabbia lavorata, appesa vicino alla porta della terrazza; i quadri alle pareti, tra cui il dipinto a olio di un paesaggio troppo pittoresco per essere vero; un calendario con le foto degli angoli più belli della Turchia; un amuleto contro il malocchio; un ritratto di Atatùrk in smoking che agitava il suo cappello di feltro verso una folla invisibile. L'intera stanza era traboccante di oggetti e ricordi, e risplendeva di colori vivaci, azzurro, porpora, turchese. Poi Armanoush passò a ispezionare, con interesse crescente, i piatti che c'erano in tavola. «Che cena meravigliosa.» Sorrise raggiante. «Ci sono tutti i miei piatti preferiti. Vedo che avete preparato hummus, baba-ghanoush, yalanci sarma... e guarda qui, avete persino fatto i churek!» «Aaah, parli turco?» esclamò sbigottita zia Banu, mentre rientrava in soggiorno con una pentola fumante in mano e Sultan Quinto alle calcagna. Armanoush scosse il capo, tra il divertito e il solenne, come se le dispiacesse deludere tanta speranza. «No, no. Purtroppo non parlo la lingua turca, al massimo parlo un po' di cucina turca.» Incapace di afferrare l'ultima frase, zia Banu si voltò disperata verso Asya, ma lei non mostrò la minima intenzione di svolgere il ruolo di interprete, concentrata com'era a seguire la nuova impresa assegnata alle truppe dalla versione turca di Donald Trump. Adesso i concorrenti erano alle prese con il settore tessile, e dovevano ridisegnare la divisa giallo-azzurra di una delle più importanti squadre di calcio turche. A vincere sarebbe stato il modello selezionato dai calciatori stessi. Asya aveva studiato anche qui una prova alternativa, ma questa volta la tenne per sé. Non aveva più voglia di parlare. A dire la verità, quella ragazza americana si era rivelata molto più bella di quanto si fosse aspettata: non che si aspettasse niente in particolare, ma nel suo intimo Asya aveva immaginato, e forse sperato, che all'aeroporto avrebbero accolto una stupida bionda qualsiasi. Per qualche ragione a lei sconosciuta, Asya avrebbe voluto mettersi in competizione con la nuova arrivata, ma non ne aveva l'energia, e neppure un motivo. Stando così le cose, preferiva rimanere silenziosa e in disparte, come a sottolineare che si dissociava da quell'ostentazione di ospitalità in salsa turca.
«Allora, raccontaci un po'» chiese zia Feride dopo aver studiato accuratamente la pettinatura della giovane americana e averla trovata troppo ordinaria. «Com'è l'America?» L'assurdità di quella domanda bastò a far perdere ad Asya tutta la sua compostezza, nonostante la decisione di mantenersi distaccata. Lanciò alla zia uno sguardo sofferente. Ma se anche ad Armanoush la domanda era sembrata ridicola, non lo diede a vedere. Di solito era ben disposta verso le zie. Le zie erano la sua specialità. Con la guancia destra leggermente rigonfia per una boccone di hummus, rispose: «Bella, molto bella. E un grande paese. A seconda del posto in cui vivi, ci sono molte Americhe diverse». «Chiedile come sta Mustafa» disse nonna Gülsüm senza badare alle informazioni precedenti, che tanto non aveva capito. «Sta bene. Lavora molto» rispose Armanoush alla voce melodiosa di zia Zeliha che traduceva le sue parole. «Hanno una bella casa e due cani. Laggiù nel deserto è bellissimo, e in Arizona il tempo è sempre splendido, c'è tanto sole...» Quando ebbero consumato la zuppa e finito di mangiucchiare gli antipasti, nonna Gùlsiim e zia Feride fecero una puntata in cucina, e tornarono recando ognuna un grosso vassoio, perfettamente sincronizzate nella loro camminata solenne. Li appoggiarono sul tavolo. «Avete fatto il pilaf!» Armanoush si chinò in avanti per analizzare i piatti «E c'è anche il tur u, e...» «Accipicchia!» Esclamarono le zie all'unisono, impressionate dalla conoscenza della cucina turca che la loro ospite sfoggiava. A quel punto Armanoush scorse l'ultima delle pentole messe in tavola. «Oh, come vorrei che mia nonna potesse vederle questo, il kaburga di costolette d'agnello, che prelibatezza...» «Niente male!» riecheggiò il coro. Persino Asya sollevò il capo con un barlume di interesse. «Ristoranti turchi molti in America, sì?» tentò maldestramente zia Cevriye. «In realtà conosco questi piatti perché fanno parte anche della cucina armena» rispose Armanoush lentamente. Si era presentata alla famiglia Kazanci come figliastra di Mustafa e americana di San Francisco, pensando di rivelare il resto della sua identità per gradi, e solo dopo aver costruito un minimo di confidenza e fiducia reciproca. E invece eccola lanciata a tutta velocità verso il nocciolo della questione. Scivolando in un silenzio teso, ma allo stesso tempo sicura di sé, Armanoush si raddrizzò sulla sedia e fece scorrere lo sguardo da un estremo all'altro del tavolo, per vedere la reazione di ciascuna delle presenti. Le espressioni vuote sulle loro facce la spinsero a spiegarsi meglio. «Io sono armena, cioè, armeno-americana.» Questa volta non ci fu bisogno di tradurre le sue parole. Le quattro zie sorrisero simultaneamente, ognuna a modo suo: una con gentilezza, la seconda tradendo una certa preoccupazione, la terza con evidente curiosità e l'ultima in modo amichevole. Ma la reazione più calorosa venne proprio da Asya, che aveva finalmente distolto l'attenzione da The Apprentice e, per la prima volta, si era messa a osservare con
genuino interesse la loro ospite, rendendosi conto che forse, dopotutto, non era venuta per una di quelle ricerche su «L'Islam e le donne». «Davvero?» Asya finalmente aprì bocca, chinandosi in avanti con i gomiti appoggiati sul tavolo. «Dimmi, ma è vero che i System of a Down ci odiano?» Armanoush rimase a bocca aperta, chiaramente non aveva la minima idea di quello che l'altra volesse dire. Un'occhiata in giro le fece capire che non era l'unica a essere rimasta senza parole: anche le zie avevano l'aria decisamente perplessa. «E una rock band che mi piace moltissimo. Sono tutti armeni, e ci sono un sacco di leggende metropolitane sul fatto che odiano i turchi e non vorrebbero che nessun tur co ascoltasse la loro musica, per questo ero curiosa.» Asya alzò le spalle, visibilmente innervosita per aver dovuto fornire queste spiegazioni a gente tanto ignorante. «Non so niente di loro» rispose Armanoush increspando le labbra. Di colpo si sentì piccola e indifesa, sperimentando la tipica sensazione di solitudine della straniera in terra straniera. Cercò di cavarsi d'impaccio: «La mia famiglia, voglio dire, mia nonna è di Istanbul». Indicò con il dito Petite-Ma, come se dovesse servirsi di una persona anziana per illustrare meglio le sue parole. «Chiedile come fanno di cognome» disse nonna Gulsùm ad Asya con una gomitata, neanche tenesse in cantina un archivio segreto con i dati di tutte le famiglie di Istanbul. «Tchakhmakhchian» rispose Armanoush quando la domanda le venne tradotta. Insistette: «Potete chiamarmi Amy, se credete, ma il mio nome completo è Armanoush Tchakhmakhchian». Il viso di zia Zeliha s'illuminò: «L'ho sempre trovato interessante. I turchi aggiungono il suffisso -ci a ogni parola per trasformarla nella relativa professione. Prendete per esempio il nostro cognome. È Kazanci, siamo calderai, fabbricanti di pentole. Vedo che anche gli armeni fanno lo stesso. Çakmak,Çakmakçi,Çakmakçiyan». «Allora abbiamo diverse cose in comune.» Armanoush sorrise. C'era qualcosa in zia Zeliha che le era piaciuto fin dal primo momento. Forse il modo in cui andava in giro, con quell'appariscente orecchino al naso, le minigonne esagerate e quintali di trucco. Oppure era il suo sguardo, che spingeva a fidarsi e dava l'impressione di non giudicare mai. «Ecco, ho qui l'indirizzo della vecchia casa.» Armanoush ripescò un foglietto di carta dalla tasca. «La casa dove è nata mia nonna Shushan. Mi piacerebbe andare a cercarla.» Mentre zia Zeliha leggeva l'indirizzo scritto sul foglio, Asya si accorse che qualcosa turbava zia Feride. Lanciava occhiate spaventate in direzione della porta semiaperta della terrazza, agitata come se si trovasse di fronte a un pericolo e non sapesse da che parte fuggire. Asya si sporse di fianco e chinandosi al di sopra del pilaf fumante, sussurrò a quella pazza di sua zia: «Ehi, che ti prende?» Anche zia Feride si sporse di lato, si chinò sopra il pilaf e con strani bagliori che le danzavano negli occhi grigioverdi sussurrò in risposta: «Ho sentito raccontare di
armeni che tornano a cercare le loro vecchie case per riportare alla luce i forzieri nascosti dai loro antenati prima di fuggire» Socchiuse gli occhi e alzò appena la voce. «Oro e gioielli» bisbigliò. Poi si interruppe, come per rifletterci sopra, fino a che non arrivò a un accordo amichevole con se stessa e confermò: «Oro e gioielli!». Asya ci mise un po' a capire di che diavolo stesse parlando sua zia. «Capisci cosa intendo? Questa ragazza è venuta qui per ritrovare un forziere di gioielli» concluse zia Feride eccitata, come se si stesse chinando su un forziere immaginario, il volto illuminato dal gusto dell'avventura e dallo splendore dei rubini. «Hai ragione!» esclamò Asya. «Non te l'avevo detto? Quando è scesa dall'aereo aveva una pala in mano, e invece della valigia spingeva una carriola...» «Oh, piantala!» ribattè zia Feride, offesa. Incrociò le braccia e si appoggiò allo schienale. Nel frattempo, avendo scoperto una ragione più profonda per la visita di Armanoush, zia Zeliha le chiese: «Allora sei venuta per vedere la casa di tua nonna? Ma perché se n'era andata?» Da una parte Armanoush non vedeva l'ora che le facessero quella domanda, dall'altra aveva paura di rispondere. Quanta parte della storia avrebbe dovuto raccontare? Era troppo presto per rivelarla? Se non ora, quando? E comunque, perché aspettare? Buttò giù un sorso di té e poi disse con voce fioca, quasi atona: «Furono costretti a partire» Ma appena lo ebbe detto, ogni esitazione sparì. Sollevò il mento e aggiunse: «Il padre di mia nonna, Hovhannes Samboulian, era un poeta e uno scrittore. Era un uomo famoso, molto rispettato nella comunità». «Che sta dicendo?» Zia Feride diede un colpetto con il gomito ad Asya, perché era riuscita a capire vagamente solo la prima metà della frase, ma non il resto. «Ha detto che la sua era una famiglia importante, a Istanbul» le sussurrò Asya. «Dedim sana altin liralar icin gelmi olmali... te l'ho detto che è venuta per le monete d'oro!» Asya alzò gli occhi al cielo, con meno sarcasmo di quanto avrebbe voluto, prima di tornare a concentrarsi sulla storia di Armanoush. «Mi hanno detto che era un umanista, e più di ogni cosa al mondo amava la lettura e lo studio. Mia nonna dice che io glielo ricordo un po', perché anche a me piacciono molto i libri» aggiunse Armanoush con un sorriso modesto. Qualcuna delle ascoltatrici ricambiò il sorriso e, appena la traduzione venne completata, sorrisero tutte. «Purtroppo il suo nome era nella lista» azzardò Armanoush con cautela. «Quale lista?» volle sapere zia Cevriye. «La lista degli intellettuali armeni che dovevano essere eliminati. Politici, poeti, scrittori, religiosi... Duecentotrentaquattro persone in totale.» «Ma perché?» chiese zia Banu, una domanda che Armanoush preferì ignorare. «Alla mezzanotte del 24 aprile, una domenica, decine di notabili armeni che vivevano a Istanbul furono arrestati e condotti con la forza alla centrale di polizia. Si erano vestiti di tutto punto, indossavano colletti immacolati e gli abiti migliori, come se dovessero partecipare a una cerimonia. Erano tutti uomini di lettere. Li misero in cella senza dare alcuna spiegazione, e alla fine li deportaro no ad Ayash oppure a
Chankiri. Il primo gruppo andò incontro alla sorte peggiore: nessuno sopravvisse ad Ayash. Quelli deportati a Chankiri, invece, furono uccisi un po' alla volta. Il mio bisnonno faceva parte di questo secondo gruppo. Furono caricati sul treno da Istanbul a Chankiri, sotto la supervisione dei soldati turchi. Poi dovettero fare cinque chilometri a piedi dalla stazione alla città. Fino ad allora li avevano trattati in maniera abbastanza decente, ma durante il tragitto dalla stazione cominciarono a picchiarli con i bastoni e con i manici dei picconi. Il leggendario musicista Komitas impazzì a causa di ciò che fu costretto a vedere. Una volta a Chankiri, i prigionieri furono rilasciati a una condizione: non avrebbero dovuto allontanarsi dalla città. Così affittarono delle stanze e andarono a vivere con la gente del posto. Ma tutti i giorni i soldati venivano a prenderne due o tre e li portavano in campagna a fare una passeggiata. Non tornavano mai indietro. Un giorno vennero a prendere il mio bisnonno e anche lui dovette andare a fare una passeggiata.» Ancora sorridente, zia Banu guardò a destra e a sinistra, prima verso la sorella e poi verso la nipote, per vedere chi le avrebbe tradotto quel discorso, ma con sua grande sorpresa notò che sul volto delle due interpreti c'era solo perplessità. «Comunque è una lunga storia, e non voglio rubarvi troppo tempo con i dettagli. Alla morte di suo padre mia nonna Shushan aveva tre anni. Erano quattro fratelli, di cui lei era la più giovane oltre che l'unica femmina. La famiglia era rimasta senza il suo patriarca, e la madre di mia nonna, trovando difficile rimanere a Istanbul sola con i bambini, cercò rifugio a casa di suo padre, a Sivas. Ma appena arrivarono, anche lì cominciarono le deportazioni. All'intera famiglia fu ordinato di abbandonare la casa e i loro averi, per mettersi in marcia verso una destinazione ignota, insieme ad altre migliaia di persone.» Armanoush studiò il proprio pubblico con attenzione, e decise di portare a termine la storia. «Marciarono, e marciarono ancora. La madre di mia nonna morì lungo la strada, e ben presto morirono tutti i più anziani. Senza nessuno che badasse a loro, i bambini più piccoli si persero nella confusione e nel caos. Dopo mesi di separazione, i fratelli di mia nonna si trovarono miracolosamente riuniti in Libano, grazie all'aiuto di un missionario cattolico. Mancava all'appello solo lei. Nessuno aveva più avuto sue notizie, nessuno sapeva che era stata riportata a Istanbul e messa in un orfanotrofio.» Con la coda dell'occhio Asya si accorse che sua madre la stava fissando intensamente. All'inizio pensò che stesse cercando di farle capire a forza di sguardi che era il caso di censurare quella storia nel corso della traduzione. Poi però si rese conto che il bagliore nello sguardo di zia Zeliha altro non era che interesse per la storia di Armanoush. Forse si stava anche chiedendo fino a che punto la sua incorreggibile figlia avrebbe avuto il coraggio di tradurla alle donne Kazanci. «Al fratello maggiore di nonna Shushan, il mio prozio Vervant, occorsero dieci anni per rintracciarla. Alla fine, la trovò e la portò in America, perché si riunisse alla sua famiglia» concluse Armanoush, a voce sempre più bassa. Zia Banu piegò la testa di lato e fece ruotare i grani del suo rosario d'ambra fra le dita ossute che mai avevano conosciuto manicure, continuando a mormorare: «Tutto
quel che è sulla terra è destinato a perire (per sempre) rimarrà solo il Volto del tuo Signore, pieno di Maestà e di Magnificenza» «Però non capisco.» Zia Feride fu la prima a chiedere spiegazioni. «Che ne è stato di loro? Sono morti solo perché erano andati a fare una passeggiata?» Prima di tradurre, Asya lanciò un'occhiata alla madre, per capire se era il caso di procedere. Sua madre inarcò le sopracciglia e fece cenno di sì. Quando le fu posta la domanda, Armanoush fece una breve pausa e accarezzò la medaglietta di San Francesco d'Assisi di sua nonna. Guardò Perite Ma seduta all'estremo opposto del tavolo, il colorito giallastro inciso dalle rughe di tanti anni, intenta a fissarla con un'espressione così compassionevole che Armanoush poteva immaginare solo due cose: o non aveva per niente seguito la storia, e in realtà non era neppure lì con loro; oppure l'aveva ascoltata con tanta attenzione da averla rivissuta, e di conseguenza non era più lì con loro. «Gli negarono acqua, cibo e riposo. Li fecero marciare a piedi per lunghi tratti. Donne, alcune delle quali incinte, bambini, anziani, malati...» La voce di Armanoush sembrò spegnersi. «Molti morirono di fame. Altri vennero giustiziati.» Questa volta Asya tradusse tutto, parola per parola. «Chi ha potuto commettere una simile atrocità?» esclamò zia Cevriye come se si rivolgesse a una classe di studenti indisciplinati. Anche zia Banu non potè restare indifferente, ma la sua reazione fu di incredulità più che di rabbia. Gli occhi sbarrati, tirò le cocche del velo che portava in testa, come faceva sempre nei momenti di agitazione, e poi si mise a pregare, come faceva sempre dato che tirare le cocche del velo non serviva a nulla. «Mia zia chiede chi ha fatto una cosa del genere» riferì Asya. «I turchi» rispose Armanoush, senza pensare alle conseguenze. «Che vergogna, che peccato orrendo. Ma non sono esseri umani?» esplose zia Feride. «Evidentemente no: certe persone sono dei veri mostri!» dichiarò zia Cevriye, ignara della complessità della sua affermazione. Dopo vent'anni di carriera come insegnante di storia nazionale turca, era così abituata a tracciare un'invalicabile linea di confine tra il passato e il pre sente, cioè tra l'Impero ottomano e la Repubblica Turca, che aveva davvero considerato la storia raccontata da Armanoush alla stregua di un tragico evento accaduto in un Paese lontano. La fondazione del nuovo Stato turco risaliva al 1923, e qualunque cosa si fosse o non si fosse verificata prima di quella data riguardava un'altra era... e un altro popolo. Armanoush le guardò una per una, confusa. Era sollevata nel vedere che non avevano preso male la storia, ma a quel punto cominciava a dubitare che l'avessero davvero compresa. Certo, non si erano rifiutate di crederle e neppure l'avevano attaccata con argomentazioni contrarie: anzi, l'avevano ascoltata con grande attenzione e sembravano colpite. Ma era tutta lì la loro commiserazione? E, di preciso, lei cosa si era aspettata da loro? Armanoush non sapeva cosa pensare, e si chiedeva se parlandone con un gruppo di intellettuali avrebbe ottenuto una reazione diversa.
Lentamente si rese conto che forse si era aspettata un'ammissione di colpa, se non addirittura delle scuse. Però quelle scuse non erano venute, e non perché le sue ospiti non fossero partecipi, ma perché non vedevano nessun collegamento fra loro e il crimine che era stato perpetrato. Come armena, Armanoush incarnava lo spirito della propria gente da generazioni e generazioni, mentre a quanto pareva il popolo turco non possedeva la stessa nozione di continuità con la propria ascendenza. Armeni e turchi vivevano in ordinamenti temporali diversi. Per i primi, il tempo era un continuum in cui il passato viveva nel presente e il presente generava il futuro. Per i secondi, invece, il tempo sembrava essere una linea spezzata: a un certo punto il passato finiva, e da quel punto cominciava il presente, e in mezzo non c'era altro che uno strappo. «Ma tu non hai mangiato niente. Coraggio, bambina, hai fatto un lungo viaggio. Ora mangia» disse zia Banu passando all'argomento cibo, una delle due cure che conosceva per la tristezza. «È tutto buonissimo, grazie.» Armanoush prese la forchetta. E constatò che il riso era cucinato nello stesso identico modo in cui lo preparava sua nonna, con il burro e i pinoli saltati. «Bene, bene! Mangia, mangia!» Zia Banu annuì con quanto vigore poteva. Con il cuore stretto, Asya guardò Armanoush che accettava cortesemente l'offerta e tornava al suo kaburga. Lei invece chinò il capo, senza più appetito. Non era la prima volta che le raccontavano la storia della deportazione degli armeni. Le era già capitato di sentirne parlare, da punti di vista diversi. Ma l'esperienza di una persona in carne e ossa era tutta un'altra cosa. Mai prima d'allora Asya aveva conosciuto una persona così giovane dalla memoria così lunga. Tuttavia, alla nichilista che era in lei non occorse molto tempo per liberarsi dell'angoscia. Alzò le spalle. Insomma: da qualsiasi angolazione lo si guardasse, il mondo faceva schifo. Passato e presente, qui o là... era tutto lo stesso. Ovunque la stessa miseria. Dio non esisteva, oppure era semplicemente troppo egoista per vedere la disperazione in cui aveva gettato l'uomo. La vita era meschina e crudele, e c'erano troppe cose che Asya non voleva più sapere. Il suo sguardo scivolò apatico sullo schermo, dove il Donald Trump turco stava facendo una strigliata ai tre membri più imbranati della squadra che aveva perso. Le divise che avevano disegnato si erano rivelate così orrende che persino i calciatori più accomodanti si erano rifiutati di indossarle. Adesso uno di loro doveva essere eliminato. Ciascuno dei tre cominciò di punto in bianco a vomitare accuse sugli altri due, cercando di discolpare se stesso e di scampare alla condanna. Divenuta pensierosa, Asya si abbandonò a un sorrisetto sdegnoso. Ecco in che mondo viviamo. Storia, politica, religione, società, concorrenza, marketing, libero mercato, lotta per il potere, ognuno che salta alla gola dell'altro per ottenere una piccola porzione di trionfo... di certo lei non aveva bisogno di niente di tutto questo e di nessuna di quelle... stronzate. Rasserenata da quella drastica soluzione, decise che aveva di nuovo fame, accostò la sedia al tavolo e si riempì il piatto. Prese un grosso pezzo di kaburga e cominciò a
mangiarlo. Quando sollevò la testa incrociò lo sguardo penetrante di sua madre, e guardò in fretta altrove.
Dopo cena Armanoush si ritirò in camera e fece due telefonate. Prima chiamò San Francisco, mentre Johnny Cash la guardava da un poster appeso sulla scrivania. «Nonna, sono io!» esclamò eccitata, ma si interruppe subito. «Cos'è tutto quel rumore?» «Oh niente, tesoro» fu la risposta. «Stanno riparando le tubature del bagno. Sembra che zio Dikran abbia fatto un po' di confusione l'altro giorno, e abbiamo dovuto chiamare l'idraulico. Ma dimmi, tu come stai?» Avendo previsto la domanda, Armanoush chiacchierò delle solite cose che faceva in Arizona. Si sentiva in colpa per l'inganno, ma cercava di tranquillizzarsi pensando che lo faceva per il bene della nonna. Come avrebbe potuto dirle: «Non sono in Arizona. Sono nella città in cui sei nata!»? Dopo aver riattaccato aspettò qualche minuto. Meditabonda, trasse un profondo respiro, raccolse tutto il suo coraggio, e fece la seconda telefonata. Decise di restare calma e di sforzarsi di non sembrare nervosa, proposito che le risultò difficile mantenere dal primo istante in cui sentì la voce stridula di sua madre. «Amy, tesoro, perché non mi hai chiamata prima? Come stai? Che tempo fa a San Francisco? Ti trattano bene?» «Sì, mamma. Sto bene, il tempo è...» Armanoush si pentì di non aver controllato le condizioni meteorologiche di San Francisco su Internet «... ottimo, c'è solo un po' di vento, come sempre...» «Sì» la interruppe Rose. «Ho continuato a chiamarti e richiamarti ma il tuo telefono era sempre spento. Oh, ero così preoccupata!» «Mamma, ti prego, stammi a sentire» disse Armanoush, lei stessa sorpresa per la decisione che risuonò nella sua voce. «Mi metti a disagio se mi chiami di continuo quando sono a casa della nonna. Facciamo un patto, vuoi? Aspetta che ti chiami io, non chiamarmi tu. Ti prego.» «Sono loro che ti hanno detto di dirmelo?» chiese Rose sospettosa. «Ma no, mamma, certo che no. Per amor di Dio, sono io che te lo sto chiedendo.» Per quanto riluttante, Rose accettò i termini dell'accordo. Si lamentò di non avere mai tempo per sé, divisa com'era fra casa e lavoro. Ma poi si ringalluzzì raccontandole che c'erano i saldi all'Home Depot, e Mustafa aveva accettato di comprare i pensili nuovi per la cucina. «Dammi il tuo parere» si entusiasmò Rose. «Che ne pensi del legno di ciliegio? Credi che ci starebbe bene nella nostra cucina?» «Sì, immagino di sì...» «Lo credo anch'io. Ma che ne pensi di un legno scuro di quercia? Costa un po' di più ma è come se ci fosse scritto sopra "ehi, questa è roba di gran classe". Secondo te qual è meglio?» «Non lo so, mamma, non sarebbe male neppure la quercia.» «Sì, d'accordo, ma non è che mi stai aiutando molto» sospirò Rose.
Dopo aver riattaccato, Armanoush si guardò attorno sentendosi profondamente estranea. I tappeti turchi, gli abat-jour vecchio stile, quei mobili poco familiari, libri e giornali scritti in un'altra lingua... di colpo fu travolta da un'ondata di panico, come non le capitava da tempo. Quando Armanoush aveva sei anni, lei e sua madre una volta erano rimaste senza benzina in Arizona, in un posto in mezzo al nulla. Avevano dovuto aspettare quasi un'ora prima che passasse un altro veicolo. Rose aveva fatto cenno all'autista e il camion si era fermato. A bordo c'erano due omoni muscolosi, dall'aspetto rozzo e inquietante, decisamente poco cordiali. Non dissero una parola e le portarono alla più vicina stazione di servizio. Quando le fecero scendere e si allontanarono, Rose, con le labbra tremanti, strinse forte Armanoush e si mise a piangere per la paura. «Oh Dio, e se fossero stati dei delinquenti? Avrebbero potuto rapirci, violentarci e ucciderci, e nessuno avrebbe mai trovato i nostri corpi. Come ho potuto correre un rischio del genere?» Per quanto non altrettanto drammatico, il sentimento che Armanoush provava in quel momento era simile. Eccola a Istanbul, in casa di estranei, senza che nessuno della sua famiglia sapesse dov'era. Come aveva potuto comportarsi in maniera così impulsiva? E se fossero stati dei delinquenti?
Capitolo nove Scorze d'arancia
Il giorno dopo Asya Kazanci e Armanoush Tchakhmakhchian uscirono di buon'ora per andare alla ricerca della casa natale di nonna Shushan. Individuarono abbastanza facilmente la zona, un bel quartiere elegante nella parte europea della città. Ma la casa non c'era più. Al suo posto sorgeva un moderno condominio di cinque piani, il primo dei quali interamente occupato da un raffinato ristorante di pesce. Prima di entrare, Asya controllò il proprio riflesso nella vetrina e si sistemò i capelli, guardandosi il seno con aria insoddisfatta. Era ancora troppo presto per il pranzo, perciò nel ristorante c'era solo un pugno di camerieri che ripulivano i pavimenti dalle tracce della sera prima, mentre nelle cucine, in una nuvola di profumi da acquolina in bocca, un cuoco robusto e rosso in viso era intento a preparare mezes e intingoli per la cena. Asya chiese loro del passato dell'edificio. Ma i camerieri erano arrivati in città di recente da un villaggio curdo del Sud-ovest, e nemmeno il cuoco, che viveva a Istanbul da molto più tempo, sapeva qualcosa della storia di quel quartiere. «Tra le antiche famiglie istanbulite, pochissime sono rimaste nel luogo di origine» spiegò con aria autorevole, mentre cominciava a svuotare e pulire un enorme sgombro. «Un tempo questa città era così cosmopolita» continuò tagliando la lisca del pesce, prima all'altezza della coda e poi sotto la testa. «Vivevamo fianco a fianco con ebrei, greci, armeni... Da ragazzo andavo a comprare il pesce da pescatori greci. Il sarto di mia madre era armeno, e mio fratello lavorava per un ebreo. Eravamo tutti mescolati.» «Chiedigli perché le cose sono cambiate» suggerì Armanoush ad Asya. «Perché Istanbul non è una città» disse il cuoco, illuminandosi in viso per l'importanza dell'affermazione che stava per fare. «È una città-nave. Viviamo tutti su un vascello!» Intanto teneva il pesce fermo per la testa, muovendo la lisca a destra e a sinistra. Per un attimo Armanoush immaginò che lo sgombro fosse di porcellana, ed ebbe il timore che finisse in pezzi fra le mani del cuoco. Ma in pochi secondi lui riuscì a estrarre la lisca tutta intera. Compiaciuto di sé, continuò: «Siamo tutti passeggeri, andiamo e veniamo a gruppi. Gli ebrei se ne vanno, arrivano i russi, i moldavi invadono un quartiere, poi se ne vanno anche loro e arriva qualcun altro. È così che funziona...».
Le due ragazze ringraziarono il cuoco e diedero un'ultima occhiata allo sgombro in attesa di essere riempito, la bocca ancora aperta. Uscirono dal ristorante, Asya delusa, Armanoush afflitta, per ritrovarsi immerse nel meraviglioso panorama del Bosforo che splendeva sotto il sole di fine inverno. Si ripararono gli occhi con la mano per difendersi dal riverbero. Entrambe respirarono a fondo, e sentirono subito che la primavera era nell'aria. Non avendo di meglio da fare, passeggiarono per il quartiere comprando qualcosa praticamente da ogni ambulante che incrociavano: mais dolce bollito, cozze ripiene, halvah di semolino e anche un grosso sacchetto di semi di girasole. A ogni assaggio si lanciavano in un nuovo argomento di conversazione, chiacchierando un po' di tutto, tranne che dei tre argomenti tabù fra ragazze che non si conoscono bene: sesso, uomini e padri. «Mi piace la tua famiglia» disse Armanoush. «Le tue zie sono così piene di vita.» «Dillo a me!» ribattè Asya facendo tintinnare i numerosi bracciali. Portava una lunga gonna zingaresca verde salvia con una stampa a fiori bordò, una borsa fatta di pezze colorate e moltissima bigiotteria: collane di vetro, bracciali e anelli d'argento praticamente a ogni dito. Vicino a lei Armanoush si sentiva inadeguata, con i suoi semplici jeans e la giacca di tweed. «C'è anche il rovescio della medaglia» disse Asya. «Nascere in una casa piena di donne è molto impegnativo, ti amano in maniera così totale che finiscono per soffocarti, specialmente se sei figlia unica. E a volte finisce che sei tu la più matura di tutte. Per carità, gli sono grata per avermi fatto frequentare ottime scuole, mi hanno praticamente assicurato la migliore istruzione possibile in questo Paese. Il problema è che vorrebbero farmi diventare tutto quello che loro non sono riuscite a essere nella vita. Capisci cosa intendo?» Armanoush temeva di sì. «Di conseguenza mi sono dovuta fare un gran culo per realizzare i loro desideri. Ho cominciato a studiare inglese a sei anni, il che va benissimo, peccato che non era abbastanza. L'anno dopo ho avuto un insegnante privato di francese. A nove anni mi hanno fatto studiare violino, per quanto fosse palese che non mi piaceva e non avevo il minimo talento. Quando poi si è aperta una pista di pattinaggio vicino a casa nostra, le zie hanno deciso che dovevo diventare una pattinatrice. Mi vedevano già con il costumino luccicante che piroettavo aggraziata al ritmo dell'inno nazionale. Sarei diventata la Katarina Witt turca! E così mi sono ritrovata a disegnare spirali sul ghiaccio e a battere una culata in terra dietro l'altra nel tentativo di imparare a fare le piroette! Il rumore delle lame dei pattini sul ghiaccio mi fa ancora venire i brividi.» Per pura cortesia, Armanoush riuscì a non mettersi a ri dere, anche se non era facile resistere all'immagine di Asya che volteggiava sul ghiaccio in una gara internazionale. «Poi c'è stato il periodo in cui si aspettavano che diventassi una maratoneta. Con un allenamento rigoroso avrei potuto diventare una fantastica atleta, e rappresentare la Turchia ai Giochi Olimpici! Mi ci vedi a gareggiare nella maratona femminile con queste tettone?» Questa volta Armanoush non trattenne le risate.
«Quelle atlete, io non so come facciano, ma hanno tutte seni piatti come tavole, le hai viste? Forse prendono ormoni maschili per sgonfiarseli. Le donne come me non sono nate per l'atletica: va contro le basi della fisica. Il corpo si muove in avanti acquistando velocità secondo la legge dell'accelerazione, e l'aumento della velocità è proporzionale alla forza esercitata sul corpo. Insomma, qualcosa del genere. Il guaio è che anche le tette sono soggette a questa forza, però si muovono per conto loro, su e giù, a un ritmo completamente diverso, e finiscono per rallentare lo slancio. La forza d'inerzia più la legge di gravità: impossibile farcela. Oh, era così imbarazzante!» esclamò Asya ancora agitata al ricordo. «Grazie a Dio quella fase si è conclusa alla svelta. Dopo c'è stato il corso di pittura e, ahimè, mi hanno anche fatto studiare danza classica, almeno fino a poco tempo fa, quando la mamma ha scoperto che saltavo le lezioni e ci ha rinunciato.» Armanoush sorrise con la familiarità di chi riconosce frammenti della propria storia personale in quella altrui. Avrebbe potuto raccontare anche lei dello stesso amore soffocante da parte delle sue zie, ma non aveva voglia di parlarne. Preferì chiedere: «C'è una cosa che non riesco a capire. La donna che è venuta con te all'aeroporto, quella con l'orecchino al naso». Armanoush ridacchiò, ma si ricompose subito. «Zeliha... è tua madre, vero? Però tu non la chiami mamma, o sbaglio?» «No, non sbagli. E un po' complicato, a volte anch'io faccio fatica a raccapezzarmi» disse Asya, accendendosi la prima sigaretta della giornata. Aveva già capito che ad Armanoush le sigarette davano fastidio. Per quanto non avesse ancora inquadrato del tutto la sua nuova amica, Asya l'aveva classificata come «una ragazza perbene». Se perfino le sigarette sembravano una bestemmia nell'asettico e regolare stile di vita di Armanoush, figurarsi cosa avrebbe pensato di altre sue brutte abitudini. Asya soffiò il fumo più lontano che poteva da lei, ma il vento lo riportò direttamente sulle loro facce. «Non ricordo più nemmeno quando ho cominciato a chiamarla "zia" Forse da subito, cioè, fin da quando ho cominciato a chiamarla in qualche modo» rispose Asya. La voce di Asya era poco più che un sussurro, ma i suoi occhi ardevano. «Sono cresciuta in mezzo a tutte quelle zie che si comportavano da madri. La mia tragedia è che in un certo senso ero figlia unica di quattro donne. Zia Feride, come avrai notato, è un po' fuori di testa, e non si è mai sposata. Nel corso degli anni ha preso e mollato diversi lavori. Però ha attraversato una fase maniacale in cui è stata una venditrice bravissima. Zia Cevriye, invece, un tempo era felicemente sposata, poi purtroppo ha perso il marito e con lui la gioia di vivere, e a quel punto si è dedicata all'insegnamento della storia nazionale. Detto fra noi, secondo me detesta il sesso e le fanno schifo tutte le necessità del corpo umano! Poi c'è la maggiore, zia Banu. È la più religiosa della famiglia. Ufficialmente è ancora sposata, ma lei e suo marito non si vedono quasi mai. La sua storia è davvero tragica: ha avuto due bellissimi figli, due maschi, ma sono morti. Sembra che gli uomini di questa famiglia abbiano una maledizione addosso. Nessuno di loro è vissuto a lungo.»
Armanoush sospirò debolmente, senza sapere bene come interpretare quell'informazione. «Vedi, capisco che zia Banu senta il bisogno di cercare rifugio in Allah» disse Asya accarezzandosi una delle col lane. «Comunque, quando sono nata mi sono ritrovata in mezzo a quattro zie-mamme, o mamme-zie. O le chiamavo tutte "mamma", oppure chiamavo mia madre "zia Zeliha". Mi è sembrato più facile così.» «Ma lei non si è offesa?» Asya sollevò il viso per guardare una nave da carico color ruggine che si inoltrava in mare aperto. Le piaceva osservare le navi che scivolavano sul Bosforo, fantasticando sull'equipaggio, cercando di raffigurarsi la città come doveva vederla un marinaio perennemente in viaggio, senza un porto in cui sbarcare e senza neppure la voglia di farlo. «Offesa? No! Aveva solo diciannove anni quando è rimasta incinta. Anche se sembra strano, secondo me il fatto che non la chiamavo mamma per lei era più un sollievo che altro. Erano tutte zie, e quel titolo rendeva meno visibile il suo peccato agli occhi del mondo. Non c'era nessuna madre colpevole su cui puntare il dito. In realtà, ho il sospetto che sia stata proprio lei a incoraggiarmi a chiamarla "zia", almeno all'inizio, e una volta che avevo preso l'abitudine era difficile smettere.» «Tua madre mi piace molto» disse Armanoush, ma subito si interruppe, confusa. «Ma di che peccato stai parlando?» «Oh, del fatto che ha avuto una figlia illegittima. Mia madre è...» Asya arricciò il naso, come alla ricerca della parola giusta «... la pecora nera della famiglia, ecco. La ribelle che ha avuto una bambina fuori dal vincolo matrimoniale.» Passò una gigantesca petroliera russa, generando piccole onde che correvano verso la spiaggia. «Avevo notato che non c'era un padre, ma pensavo che fosse morto, o altro» balbettò Armanoush. «Mi dispiace.» «Ti dispiace che mio padre non sia morto» ridacchiò Asya, e lanciò un'occhiata ammiccante ad Armanoush, che era diventata rossa come un pomodoro. «Però sai che ti dico? Hai proprio ragione» continuò Asya, con un lampo di rabbia negli occhi. «Voglio dire, se mio padre fosse morto, non dovrei vivere nell'incertezza. È questo che mi manda in bestia più di tutto. Quando non hai la più pallida idea di chi sia tuo padre, è la fantasia a riempire il vuoto. Magari lo vedo alla televisione, o sento la sua voce per radio, senza sapere che è lui. Oppure mi è capitato di incontrarlo faccia a faccia da qualche parte. Magari sono salita in autobus con lui, forse è il professore con cui parlo dopo la lezione, il fotografo di cui vado a vedere una mostra, o addirittura quel venditore ambulante per strada... non si sa mai.» L'ambulante in questione era un tizio nerboruto, dai baffetti sottili, tra i quaranta e i cinquanta. Nella vetrinetta davanti a lui c'erano decine di grossi vasi pieni di sottaceti di ogni tipo, che lui trasformava in succo con l'aiuto di una spremitrice meccanica. Accorgendosi che le due ragazze lo stavano osservando, l'uomo sorrise: Armanoush distolse immediatamente lo sguardo, mentre Asya lo guardò male. «Vuoi dire che tua madre non ti ha mai rivelato chi è tuo padre?» chiese Armanoush con dolcezza.
«Mia madre è più unica che rara! Non mi dirà mai nulla a meno che non sia lei a deciderlo. E la donna più testarda che si possa immaginare. Non credo che le altre conoscano l'identità di mio padre. Secondo me mia madre non l'ha mai rivelata a nessuno. Comunque, se anche le zie ne sapessero qualcosa, non verrebbero certo a dirlo a me. Io sono la reietta di casa, eternamente esclusa dai loro spaventosi segreti di famiglia. Con la scusa di proteggermi, mi lasciano fuori da tutte le cose importanti.» Asya mordicchiò un seme di girasole e sputò via la buccia. «Dopo un po' il gioco è diventato reciproco: loro escludono me, e io escludo loro.» Rallentarono tutt'e due. A circa ottocento metri da loro, in mare aperto, videro un uomo in piedi su una piccola barca a motore, insieme ad altri passeggeri. Teneva in una mano una sigaretta accesa, e nell'altra un meraviglio so bouquet di palloncini colorati, giallo brillante, arancio, viola. Forse di mestiere vendeva palloncini, e adesso, stanco per la giornata di lavoro, prendeva la scorciatoia del mare per tornare a casa dai suoi bambini. Ma non sapeva di rappresentare una visione fantastica, con il sottile pennacchio di fumo che si lasciava dietro e l'esplosione di colori sulle onde azzurre. Incantate dalla bellezza della scena, Armanoush e Asya rimasero in silenzio a guardare la barca, finché tutti i palloni scomparvero oltre l'orizzonte. «Sediamoci da qualche parte, ti va?» chiese Asya come presa da un'improvvisa stanchezza dopo l'intensità di quello spettacolo. Lì vicino c'era un caffè dall'aspetto piuttosto squallido. «Allora, raccontami, che musica ti piace?» chiese Asya non appena si furono messe a sedere ed ebbero ordinato da bere, lei un té al limone, Armanoush una Diet Coke con ghiaccio. La domanda non era altro che un tentativo di conoscersi meglio, dato che la musica era il principale collegamento di Asya con il mondo esterno. «Musica classica, etnica, armena e jazz» rispose Armanoush. «E a te?» «Cose un po' diverse.» Asya arrossì, senza sapere bene perché. «Per un po' sono andata avanti ad ascoltare roba tosta, sai, musica alternativa, punk, postpunk, industrial metal, death metal, darkwave, psichedelica, e anche un po' di ska e di gothic.» Abituata a considerare quella «roba» un genere confuso condiviso da adolescenti bohémien e adulti disorientati con più rabbia che carattere, Armanoush disse: «Davvero?» «Sì, però un po' di tempo fa sono rimasta conquistata da Johnny Cash. È stata una rivelazione. Da allora ho smesso di ascoltare tutto il resto. Cash mi piace sul serio. Mi deprime in modo così totale che alla fine non mi sento più depressa.» «Ma non ascolti musica turca? Che so, pop turco...» «Pop turco!!! Per carità!» Asya agitò le mani come per scacciare un venditore ambulante particolarmente importuno. Non volendo superare certi limiti, Armanoush non approfondì la questione. L'autodenigrazione, dedusse, doveva essere una specialità dei turchi. Asya bevve un sorso di té e aggiunse: «Quella roba lì piace a mia zia Feride. A essere sincera, però, non riesco a capire se l'attira più la musica o le pettinature delle cantanti».
A metà della seconda Diet Coke, Armanoush chiese ad Asya che genere di libri leggeva, visto che il suo collegamento con il mondo esterno era la letteratura. «Libri. Oh, sì, mi hanno salvato la vita, sai. Adoro leggere, ma non romanzi...» In quel momento il locale fu invaso da un gruppo chiassoso di adolescenti, che andarono a sedersi al tavolo di fronte a quello di Asya e Armanoush, senza smettere un attimo di scherzare e farsi beffe di tutto e tutti. Risero delle sedie di plastica bordò, delle vetrine in cui era esposto un modesto assortimento di bevande, degli errori nella traduzione in inglese del menu e delle magliette I love Istanbul indossate dai camerieri. Asya e Armanoush avvicinarono di più le loro sedie. «Leggo testi di filosofia, soprattutto filosofia politica, tipo Benjamin, Adorno, Gramsci, un po' di Zizek... molto Deleuze. Roba così. Mi piacciono le astrazioni, forse per questo vado pazza per la filosofia. I miei preferiti sono gli esistenzialisti.» Asya si accese un'altra sigaretta e chiese attraverso il fumo: «E a te?». Armanoush elencò una lunga lista di romanzieri, soprattutto russi e dell'Europa dell'Est. «Visto?» disse Asya, avvicinando le mani come a paragonare le loro diverse situazioni. «Quando si parla di preferenze, anche tu non sei affatto nazionalista... La lista delle tue letture non mi sembra molto armena.» Armanoush inarcò appena le sopracciglia. «La lettera tura ha bisogno della libertà per fiorire» disse tentennando il capo. «A noi non ne è toccata molta, non ti pare?» Non volendo superare certi limiti, Asya non approfondì la questione. L'autocommiserazione, dedusse, doveva essere una specialità degli armeni. I ragazzini all'altro tavolo cominciarono a giocare alle sciarade. Ogni giocatore doveva far indovinare ai suoi compagni il titolo del film scelto dalla squadra avversaria. Una ragazzina lentigginosa dai capelli rossi cominciò a mimare il titolo che le era stato assegnato e, ogni volta che faceva un gesto, gli altri sghignazzavano a più non posso. Era strano come un gioco basato sul principio del silenzio potesse provocare tanto chiasso. Forse per via del rumore di fondo, la prudenza che finora aveva trattenuto Armanoush dal superare i limiti era sparita. «La musica che ascolti tu è occidentale: perché non ascolti qualcosa di più vicino alle tue radici mediorientali?» «Che intendi dire?» Asya sembrava perplessa. «Noi siamo occidentali.» «No che non siete occidentali. I turchi sono mediorientali, ma chissà perché continuano a negarlo. E se ci aveste permesso di restare a casa nostra saremmo rimasti mediorientali anche noi, anziché diventare un popolo della diaspora» ribattè Armanoush, e se ne pentì subito dopo, perché non aveva inteso essere così brusca. Asya si mordicchiò per un po' l'interno del labbro, ma quando si decise a parlare disse solo: «A cosa ti riferisci?» «A cosa mi riferisco? Ti dice niente il giogo pan-turco e pan-islamico del sultano Hamid? E il massacro di Adana del 1909, o le deportazioni del 1915? Tu hai mai sentito parlare del genocidio degli armeni?» «Ho solo diciannove anni» scrollò le spalle Asya. Intanto dal tavolo di fronte arrivavano urla infervorate: la ragazzina lentigginosa non era riuscita a portare a termine il suo compito nel tempo previsto. La rimpiazzò
un nuovo giocatore, un bel ragazzo allampanato con il pomo d'Adamo che sussultava mentre lui cercava di mimare il titolo del film. Alzò due dita, indicando che era composto da due parole. Partì con la prima: sollevò le mani come se racchiudessero una sfera, e fece il gesto di annusarla e di strizzarla. Mentre i suoi compagni non riuscivano a capire, l'altra squadra rideva. «E questa secondo te è una giustificazione? Come puoi essere così apatica?» Non conoscendo il significato della parola «apatica», Asya non ebbe difficoltà ad accettare la definizione, almeno finché non avesse potuto mettere le mani su un dizionario inglese-turco. Assaporando la breve ricomparsa del sole da dietro la coltre di nuvole, rimase tranquilla per quello che sembrò a entrambe un lungo intervallo. Poi mormorò: «Tu sei affascinata dalla storia». «Tu no?» chiese Armanoush strascicando le parole, con un tono che conteneva incredulità e disprezzo insieme. «Che senso ha?» fu la brusca replica di Asya. «Perché dovrei preoccuparmi del passato? I ricordi pesano troppo.» Armanoush voltò la testa, e senza volerlo il suo sguardo si posò sulla banda di ragazzini. Socchiuse gli occhi e si concentrò sui gesti del ragazzo. Anche Asya si voltò a osservare il gioco, e quasi senza accorgersene, tirò fuori la risposta: «Arancia!» I ragazzi scoppiarono a ridere, e si voltarono tutti a guardare la giovane donna al tavolo vicino. Asya diventò paonazza e Armanoush sorrise. Pagarono il conto in fretta e si rimisero per strada. «Qual è il film che contiene la parola "arancia" nel titolo?» chiese Armanoush quando erano già sul sentiero che costeggiava il mare. «Arancia meccanica... suppongo.» «Ah, sì» si ricordò Armanoush con un cenno del capo. «Senti, a proposito del fascino della storia...» disse riordinando i pensieri «volevo dirti che nonostante tutto il do lore che può portare con sé, è la storia che ci mantiene vivi e uniti.» «Be', direi che questo è un privilegio.» «Cosa intendi?» «Questo senso di continuità, secondo me è un privilegio. Vi rende parte di un gruppo in cui regna una grande solidarietà» rispose Asya. «Non fraintendermi: capisco che il passato sia stato tragico per la tua famiglia, e rispetto il vostro desiderio di mantenerlo vivo a ogni costo, in modo che il dolore dei vostri antenati non sia dimenticato. Ma è proprio qui che le nostre strade divergono. La tua è una crociata per la memoria, mentre io preferirei essere come Petite-Ma, incapace di ricordare.» «Perché il passato ti spaventa tanto?» Asya si oppose: «Non mi spaventa mica!» Si interruppe per un momento, mentre il capriccioso vento di Istanbul le scompigliava la gonna e soffiava lontano il fumo della sua sigaretta. «E solo che non voglio averci a che fare, ecco tutto.» «Non ha senso» insistette Armanoush. «Forse no. Ma in tutta sincerità, una come me non può rivolgersi al passato... sai perché?» chiese Asya dopo una lunga pausa. «Non perché è troppo doloroso, o
perché non me ne frega niente. È che io il mio passato non lo conosco. Anche se credo sia meglio conservarne la memoria, piuttosto che non saperne nulla.» Sul volto di Armanoush comparve un'espressione perplessa. «Ma scusa, non hai appena detto che non vuoi conoscere il tuo passato? Adesso stai dicendo un'altra cosa.» «Ah sì?» chiese Asya. «Be', mettiamola così, dentro di me ci sono due voci contrastanti.» Scoccò all'amica un'occhiata piena di malizia, ma subito dopo riprese con voce seria: «Tutto quello che so del mio passato è che c'è qualcosa che non va, ma non ho accesso ad altre informazioni. Per quanto mi riguarda, la storia comincia oggi, hai capito? Per me non c'è continuità nel tempo. Non puoi pro vare attaccamento per i tuoi antenati, se non sai chi è tuo padre. Forse non riuscirò mai a scoprire neppure come si chiama. Se continuo a pensarci, impazzisco. E allora dico a me stessa: a che pro portare alla luce i segreti? Non vedi che il passato è un circolo vizioso, che ci risucchia e ci fa correre come criceti dentro la ruota? E noi corriamo, ancora e ancora, all'infinito». Mentre camminavano su e giù per le stradine tortuose, ogni quartiere sembrava ad Armanoush così diverso dal precedente da farle pensare che Istanbul fosse un labirinto urbano, una serie di città dentro la città. Si chiese se anche James Baldwin avesse provato la stessa sensazione quando c'era stato. Alle tre del pomeriggio, stanche e affamate, entrarono in un ristorante che secondo Asya era assolutamente da non perdere, perché faceva il miglior döner di pollo della città. Ne presero una porzione ciascuna, insieme a un grosso bicchiere di una bibita spumosa allo yogurt. «Devo confessare» borbottò Armanoush dopo una pausa «che Istanbul è un po' diversa da come me l'aspettavo. È più moderna, e meno tradizionalista.» «Be', dovresti dirlo a mia zia Cevriye. Ne sarà entusiasta, e mi darà una medaglia per aver rappresentato al meglio il mio Paese!» Risero insieme, per la prima volta da quando si erano conosciute. «C'è un posto dove voglio portarti, uno di questi giorni» disse Asya. «E un piccolo locale dove io e i miei amici ci incontriamo regolarmente, il Café Kundera.» «Davvero? Kundera è uno dei miei scrittori preferiti!» esclamò Armanoush deliziata. «Perché si chiama così?» «Ah, quello è un dibattito infinito. Tutti i giorni viene fuori una teoria nuova.» Sulla via del ritorno, Armanoush prese la mano di Asya e gliela strinse, dicendole: «Tu mi ricordi un mio amico» Per qualche secondo la fissò, come se sapesse qualcosa che non poteva dire. Poi continuò: «Non ho mai incontrato nessuno che fosse così percettivo e così... empatico, e allo stesso tempo così rigoroso e... incline allo scontro. Tranne una persona! Mi ricordi il più singolare dei miei amici: il Barone Baghdassarian. Per molti versi siete decisamente simili, forse siete due anime gemelle». «Ah sì?» chiese Asya, incuriosita da quello strano nome. «Ma cosa c'è? Dimmi perché ridi.»
«Scusa, non posso fare a meno di ridere degli scherzi del destino» disse Armanoush. «È solo che di tutte le persone che conosco il Barone Baghdassarian è decisamente il più anti-turco!»
Quella notte, quando tutte le donne Kazanci erano andate a dormire, Armanoush scivolò fuori dal letto in pigiama, accese la fragile lampada da tavolo e, cercando di non fare rumore, avviò il computer portatile. Si rese conto per la prima volta in vita sua di quanto fosse rumoroso collegarsi in rete. Compose il numero, trovò la connessione e digitò la password per accedere al Café Constantinopolis. Dove sei stata? Eravamo preoccupati a morte! Come stai? Cominciarono a piovere domande da tutte le parti. Sto bene, scrisse Madame Anima Esiliata. Ma non sono riuscita a trovare la casa della nonna. Al suo posto adesso c'è un orribile palazzo moderno. È sparita... Nessuna traccia, nessun ricordo, nessuna memoria della famiglia armena che viveva in quella casa all'inizio del secolo. Mi dispiace tanto, cara, scrisse Lady Peacock/Siramark. Quando torni? Resterò fino alla fine della settimana, rispose Madame Anima Esiliata, È una specie di avventura. La città è bellissima. Per certi versi somiglia a San Francisco, le stradine in salita, la nebbia costante e il vento di mare, e facce da artisti dove meno te l'aspetti. Istanbul è un labirinto, sembra fatta di tante città dentro una sola. E poi il cibo è fantastico. Ogni armeno si sentirebbe in paradiso, qui. Armanoush si fermò inorridita, rendendosi conto di quello che aveva appena scritto. Voglio dire, per quanto riguarda il cibo, si affrettò ad aggiungere. Ehi, Madame Anima Esiliata, dovevi essere la nostra corrispondente di guerra e adesso parli come una turca! Non ti avranno mica turchificato, vero?, Era AntiKhavurma. Armanoush respirò a fondo. Al contrario: non mi sono mai sentita così armena in vita mia. Per comprendere appieno la mia armenità, dovevo venire in Turchia e conoscere i turchi. La famiglia con cui vivo è piuttosto interessante, forse un po' folle, ma in fondo tutte le famiglie lo sono. Però in questa c'è qualcosa di surreale. L'irrazionalità fa parte della razionalità quotidiana. Mi sembra di essere dentro a un romanzo di Gabriel Garcia Marquez. Una delle sorelle fa i tatuaggi, un'altra fa l'indovina, la terza insegna storia nazionale, e la quarta è una specie di timida eccentrica, o forse è un po' fuori di testa, come direbbe Asya. Chi è Asya?, scrisse subito Lady Peacock/Siramark. È la più giovane di casa, la figlia. Una ragazza con quattro madri e nessun padre. Un bel tipo, piena di rabbia, sarcasmo e intelligenza. Sarebbe uno splendido personaggio dostoevskijano. Armanoush si chiese dove diavolo fosse il Barone Baghdassarian. Madame Anima Esiliata, hai parlato con qualcuno del genocidio armeno?, volle sapere Convivenza Miserevole.
Sì, diverse volte, ma è difficile. Le donne di casa hanno ascoltato la storia della mia famiglia con sincero interesse e ne sono rimaste colpite, ma è il massimo che riescono a fare. Per i turchi il passato è un altro pianeta. Se persino le donne si limitano a questo, allora con gli uomini è inutile tentare... si intromise la Figlia di Saffo. In realtà non mi si è ancora presentata l'occasione di parlare con degli uomini, qui, rispose Madame Anima Esiliata, rendendosene conto anche lei solo in quel momento. Ma uno di questi giorni Asya mi porterà in un caffè dove lei va spesso. E lì dovrei conoscere qualche uomo, suppongo. Sta attenta se bevi con loro. L'alcol tira fuori il peggio delle persone, lo sai. Era Alex lo Stoico. Non credo che Asya beva. Sono musulmani! Ma di sicuro fuma come una ciminiera. Lady Peacock/Siramark scrisse: Anche in Armenia la gente fuma un sacco. Sono stata di recente a Yerevan. Le sigarette finiranno per ammazzarli tutti. Armanoush si agitò sulla sedia. Ma lui dov'era? Perché non scriveva? Era arrabbiato con lei? Aveva pensato a lei almeno un po' in quei giorni?... Avrebbe continuato a torturarsi con quelle domande, non fosse stato per le due righe che a un tratto ammiccarono sullo schermo. Raccontaci un po', Madame Anima Esiliata: visto che sei stata in Turchia, hai meditato sul Paradosso del Giannizzero? Era lui! Lui! Lui! Armanoush lesse quelle due righe, e subito dopo rispose: Sì, ci ho pensato. Ma poi non seppe che altro aggiungere. Come se avesse intuito la sua esitazione, il Barone Baghdassarian continuò: È bello che tu vada così d'accordo con quella famiglia. E ti credo quando dici che sono gente di buon cuore, e a loro modo interessanti. Però, non capisci? Tu puoi essere loro amica solo finché continui a negare la tua identità. Con i turchi è sempre stato così. Armanoush strinse le labbra, rattristata. Dall'altra parte della stanza, Asya si agitò e si rigirò nel letto, in preda a quello che sembrava un incubo, e mormorò qualcosa di incomprensibile. Qualunque cosa stesse dicendo, lo ripetè più volte. Noi armeni non chiediamo altro che il riconoscimento del nostro dolore e della nostra perdita. È il requisito fondamentale perché possiamo stabilire relazioni autentiche con gli altri. Ecco cosa diciamo ai turchi: vedete, noi siamo in lutto, ormai da quasi cent'anni, perché abbiamo perduto i nostri cari, siamo stati cacciati dalle nostre case e banditi dalla nostra terra. Ci hanno trattato come animali e scannato come bestie. Ci hanno negato persino una morte dignitosa. Ma oggi, per noi, nemmeno il male inflitto ai nostri antenati è doloroso quanto la negazione sistematica che è seguita. Se dici una cosa del genere, quale sarà la risposta dei turchi? Nessuna! C'è un solo e unico modo per essere loro amici: essere altrettanto disinformati e immemori. Non riconoscono il passato, e si aspettano che noi facciamo lo stesso. Di colpo ci fu un leggero colpetto alla porta. Armanoush scivolò sulla sedia, il cuore in gola. D'impulso spense lo schermo del computer. «Sì» sussurrò.
La porta si aprì dolcemente e comparve la testa di zia Banu, coperta da un fazzoletto rosa annodato mollemente; aveva indosso una lunga vestaglia. Si era svegliata per la preghiera, e aveva notato la luce che filtrava sotto la porta delle ragazze. Con lo sconforto dipinto sul viso per tutte le parole che le mancavano in inglese, zia Banu fece una serie di gesti, come se giocasse anche lei alle sciarade. Scosse il capo, aggrottò la fronte e poi, sorridendo, agitò un dito. Armanoush credette di capire qualcosa come: «Sempre a studiare! Cerca di non stancarti troppo». Dopodiché zia Banu le porse il piatto che teneva in mano, mimando il gesto di mangiare, talmente ovvio da non aver bisogno di essere interpretato. Sorrise, diede una pacca sulla spalla di Armanoush, appoggiò il piatto accanto al computer e se ne andò, chiudendosi piano la porta alle spalle. Sul piatto c'erano due arance, sbucciate e affettate. Tornando allo schermo, Armanoush addentò una fetta d'arancia, mentre pensava alla risposta per il Barone Baghdassarian.
Capitolo dieci Mandorle
Giunta al quinto giorno della sua permanenza, Armanoush era venuta a capo della routine mattutina del konak Kazanci. Durante la settimana la colazione era servita in tavola a partire dalle sei, e ci rimaneva fino alle nove e mezza. In quel lasso di tempo, l'acqua nel samovar continuava a bollire e ogni ora veniva preparata una nuova teiera. Anziché sedersi a tavola tutti insieme, i membri della famiglia arrivavano in momenti diversi, a seconda del loro lavoro, dei loro orari o del loro umore. Così, al contrario del pranzo che era sempre un evento perfettamente sincronizzato, la colazione dei giorni feriali sembrava uno di quei treni del mattino con i passeggeri che salivano e scendevano a ogni stazione. Quasi sempre era zia Banu che apparecchiava: era la prima ad alzarsi, all'ora della preghiera dell'alba. Mentre il muezzin della moschea più vicina intonava per la seconda volta: «La preghiera è meglio del sonno», lei scivolava fuori dal letto mormorando: «Invero lo è». Poi andava in bagno a purificarsi per la preghiera, si lavava il viso, le braccia fino al gomito e i piedi fino alle caviglie. A volte l'acqua era gelida, ma lei non ci badava. L'anima deve rabbrividire per svegliarsi, si diceva. L'anima deve rabbrividire. E non badava neppure al fatto che il resto della famiglia dormisse ancora della grossa. Raddoppiava l'inten sità delle preghiere, in modo che anche loro fossero perdonati. Così, quella mattina, quando il muezzin intonò «Allah è il più grande, Allah è il più grande», zia Banu aveva già aperto gli occhi e stava allungando la mano verso il velo e la vestaglia. Ma, al contrario degli altri giorni, si sentiva le membra pesantissime. Il muezzin proclamò: «Testimonio che non vi è altro Dio all'infuori di Allah». Ma zia Banu continuava a non avere la forza di alzarsi. Restò inchiodata al letto persino quando sentì «Venite alla preghiera» e poi «Venite al bene». Era come se una parte del suo corpo fosse stata svuotata di tutto il sangue, riducendosi a un sacco floscio e pesante. La preghiera è meglio del sonno, la preghiera è meglio del sonno. «Cosa c'è che non va, ragazzi, perché non mi lasciate muovere?» chiese zia Banu con la frustrazione nella voce. I due jinn seduti sulle sue spalle si scambiarono un'occhiata. «Non chiederlo a me, chiedilo a lui. È lui che crea problemi» disse la signora Dolce dalla spalla destra. Come lasciava intendere il nome, la signora Dolce era una jinn buona, una dei giusti. Aveva un viso gentile e luminoso, un'aura color prugna, rosa e viola intorno
alla testa, un collo sottile ed elegante, e, al di sotto del collo, un semplice sbuffo di fumo. Priva di corpo com'era, sembrava una testa poggiata su un piedistallo, ma la cosa non era un problema per lei. Al contrario di quanto accadeva con le donne, non ci si aspettava che le jinn femmina avessero un bel corpo. Zia Banu si fidava enormemente della signora Dolce, perché non era una rinnegata, ma una jinn devota e di buon cuore che si era convertita all'Islam dopo un passato di ateismo, malattia diffusissima fra i jinn. La signora Dolce visitava di frequente templi e moschee, e conosceva bene il Sacro Corano. Nel corso degli anni, lei e zia Banu erano diventate amiche. Non era andata così con il signor Amaro, jinn di stampo completamente diverso, proveniente da luoghi dove il vento non cessava mai di ululare. Il signor Amaro era vecchio persino per la media dei jinn. Di conseguenza, era anche più potente di quanto lasciasse intendere, perché come tutti sanno i jinn accrescono il loro potere con l'età. L'unica ragione per cui il signor Amaro rimaneva in casa Kazanci era che, anni prima, zia Banu l'aveva imprigionato. Era accaduto l'ultima mattina dei quaranta giorni di penitenza. Da allora lo teneva alle sue dipendenze attraverso un talismano che non si toglieva mai. Catturare un jinn non era facile. Prima di tutto bisognava indovinarne il nome al primo tentativo, un gioco davvero pericoloso perché se fosse stato il jinn a indovinare il tuo per primo, lui sarebbe diventato il padrone e tu lo schiavo. E anche quando riuscivi a indovinarlo e avevi il jinn sotto controllo, non potevi mai dare per scontata la tua autorità, a rischio di cocenti delusioni. Nel corso dell'intera storia dell'umanità, soltanto re Salomone era stato in grado di sconfiggere definitivamente i jinn, anzi, interi eserciti di questi esseri, ma anche lui aveva dovuto ricorrere all'aiuto di un anello magico. Poiché nessuno poteva pensare di eguagliare il grande Salomone, solo un pazzo narcisista si sarebbe vantato della cattura di un jinn, e zia Banu non era certo quel tipo di persona. Sebbene il signor Amaro fosse al suo servizio da ormai più di sei anni, lei considerava il loro rapporto alla stregua di un contratto temporaneo da rinnovare con una certa frequenza. Non lo aveva mai trattato con insensibilità e neppure in maniera condiscendente, perché sapeva bene che i jinn, al contrario degli esseri umani, serbavano perenne memoria dei torti subiti. Come un contabile pignolo che annota ogni singolo avvenimento, fino al dettaglio più infinitesimale, la memoria dei jinn registrava tutto, per tirarlo fuori al momento opportuno. Di conseguenza, zia Banu aveva sempre rispettato i diritti del suo prigioniero, e non aveva mai abusato del proprio potere. Se avesse voluto, avrebbe potuto chiedere ai jinn ricchezze materiali come denaro e gioielli, oppure la fama. Ma non lo aveva fatto. Sapeva bene che quelle erano solo illusioni, e i jinn sono particolarmente abili a crearne. Oltretutto, quando si acquisisce una ricchezza improvvisa, si tratta per forza di un bene sottratto ad altri, perché la natura non tollera vuoti e i destini degli uomini sono intrecciati come le stecche di un graticcio. Perciò zia Banu, in tutti quegli anni, si era prudentemente astenuta dal chiedergli beni di quel genere. C'era una sola cosa che voleva dal signor Amaro: la conoscenza. Eventi dimenticati, individui sconosciuti, la verità nelle dispute familiari, segreti sepolti, misteri irrisolti: informazioni di cui aveva bisogno per aiutare le sue clienti.
Se qualcuno cercava documenti preziosi da tempo perduti, zia Banu sapeva dirgli dov'erano. Se una donna sospettava di essere vittima di un malocchio, zia Banu scopriva chi gliel'aveva fatto. Una volta le avevano portato una ragazza incinta che si era ammalata all'improvviso e peggiorava di giorno in giorno. Dopo essersi consultata con i jinn, zia Banu le aveva detto di recarsi presso l'albero di limone senza frutti del suo giardino: lì avrebbe trovato, in un sacchetto di velluto nero, un pezzo di sapone di Aleppo con sopra le sue stesse impronte digitali, prova di un incantesimo lanciato da una vicina invidiosa. Zia Banu non aveva però rivelato il nome della vicina, per evitare che si accumulassero altri rancori. Dopo qualche giorno era giunta notizia che la ragazza era felicemente guarita. Da allora quello era stato l'unico modo in cui zia Banu aveva utilizzato i servigi del signor Amaro, tranne che in un'occasione. Una sola volta gli aveva chiesto un favore personale, facendogli una domanda estremamente confidenziale: chi era il padre di Asya? Il signor Amaro le aveva dato una risposta, la risposta, ma lei, indignata, si era rifiutata di credergli, pur sapendo che un jinn in schiavitù non può mentire al suo padrone. Ma un giorno il suo cuore smise di opporsi a ciò che la mente sapeva da tempo. Da allora zia Banu non era stata più la stessa. Continuava a chiedersi se non sarebbe stato meglio per lei non sapere, perché in quel caso la conoscenza le aveva portato solo dolore e tristezza, le maledizioni di chi sa troppo. E ora, anni dopo quell'episodio, zia Banu stava meditando di fare un'altra domanda importante al signor Amaro. Ecco perché quel giorno era così stanca: i pensieri contraddittori che si agitavano nella sua mente l'avevano indebolita rispetto al suo schiavo, che a ogni cruccio della padrona gravava di un peso più grande la sua spalla sinistra. Era il caso di chiedere un altro favore personale al signor Amaro, dopo che tanto si era pentita di averlo fatto la prima volta? O forse era il momento di porre fine al gioco e togliersi il talismano, liberando così il jinn una volta per tutte? In fondo poteva continuare a compiere i propri doveri di veggente con l'aiuto della signora Dolce. I suoi poteri ne sarebbero usciti ridimensionati, ma pazienza. Sarebbero comunque bastati. Una parte di lei la metteva in guardia contro il dolore straziante che viene dalla troppa conoscenza. L'altra parte, invece, curiosa, indagatrice, moriva dalla voglia di saperne di più. Il signor Amaro era cosciente del suo dilemma e sembrava divertirsi, premendo un po' di più sulla spalla sinistra a ogni suo dubbio, raddoppiando di peso a ogni sua riflessione. «Scendi dalla mia spalla» ordinò zia Banu, recitando una preghiera che il Corano consigliava a chi doveva fronteggiare un subdolo jinn. Improvvisamente ubbidiente, il signor Amaro si scansò e le permise di alzarsi. «Hai intenzione di liberarmi?» le chiese, poiché poteva leggerle la mente. «O vuoi usare i miei poteri per ottenere qualche informazione?» Dalle labbra socchiuse di zia Banu sfuggì un mormorio che non era un «sì» e neppure un «no», ma un verso indistinto. Si sentì improvvisamente minuscola nella cavernosa vastità di cielo, terra e stelle, immersa nel dilemma che le polverizzava l'anima.
«Fammi pure la domanda che muori dalla voglia di fare da quando la ragazza americana ha raccontato le tristi storie della sua famiglia. Non vuoi sapere se sono vere? Non vuoi aiutarla a scoprire la verità? O riservi i tuoi poteri soltanto per le clienti?» la sfidò il signor Amaro, gli occhi sporgenti, neri come il carbone, che brillavano di trionfo. Poi, improvvisamente placato, aggiunse: «Io te lo posso dire, sono abbastanza vecchio per saperlo. Io c'ero». «Smettila!» esclamò zia Banu, quasi urlando. Le si contorse lo stomaco, e avvertì in gola l'acido della bile. «Non voglio saperlo. Rimpiango ancora il giorno in cui ti ho chiesto del padre di Asya. Dio, come vorrei non averlo fatto. A che serve conoscere le cose, se non puoi cambiarle? E solo un veleno che ti rovina per sempre. Non puoi vomitarlo e non puoi morire. Non voglio che succeda ancora... E comunque, tu cosa ne sai?» Domanda inutile: zia Banu sapeva fin troppo bene che il signor Amaro avrebbe potuto raccontarle senza difficoltà l'intera storia della famiglia di Armanoush, poiché era un gulyabani, la più perfida fra tutte le razze di jinn ma anche la più esperta di vicende tragiche. Soldati dal destino crudele, ingannati e massacrati a migliaia di chilometri da casa, viaggiatori morti per congelamento sulle montagne, malati esiliati in pieno deserto, mercanti derubati e uccisi dai banditi, esploratori svaniti nel nulla, criminali condannati e spediti verso la morte su qualche isola remota... i gulyabani li avevano visti tutti. Erano là quando interi battaglioni venivano sterminati in sanguinosi scontri, la gente dei villaggi moriva di fame e le carovane di fuggitivi venivano ridotte in cenere dal fuoco nemico. E c'erano anche quando l'enorme esercito dell'imperatore bizantino Eraclio fu travolto dai musulmani nella battaglia di Yarmuk, o quando Tariq ibn Ziyad tuonò ai suoi soldati: «Dietro a voi il mare, davanti a voi il nemico! Guerrieri, dov'è la fuga?», prima che invadessero la Spagna visigota, uccidendo chiunque si parasse loro davanti; o ancora quando Carlo, da allora soprannominato Martello, sconfisse trecentomila arabi nella battaglia di Tours; o quando gli Assassini, intossicati dall'hashish, ammazzarono l'illustre visir Nizam al-Mulk, seminando il terrore finché il mongolo Hulagu Khan distrusse la loro fortezza e tutto quello che c'era attorno. I gulyabani avevano assistito direttamente a ognuno di quei terribili avvenimenti. In particolare, erano noti per seguire chi si perdeva nel deserto senza cibo né acqua. E quando e dove qualcuno moriva senza lasciare una tomba dietro di sé, ecco che loro comparivano accanto al cadavere. Se necessario, potevano assumere l'aspetto di piante, rocce o animali, soprattutto avvoltoi. Spiavano le calamità, osservando la scena in disparte o dall'alto, ma in certe occasioni avevano anche tallonato le carovane, rubando il poco cibo rimasto, avevano spaventato i pellegrini durante il Sacro Viaggio, assaltato le processioni, e sussurrato terrificanti note di morte nelle orecchie dei condannati. Erano gli spettatori di quei momenti dei quali gli esseri umani non hanno prove, e che nessuno ha mai messo per iscritto. I gulyabani erano i testimoni dell'orrore che gli uomini sono capaci di infliggersi a vicenda. Di conseguenza, riflettè zia Banu, se nel 1915 la famiglia di Armanoush
era stata davvero costretta a marciare fino a morirne, come la ragazza sosteneva, il signor Amaro lo avrebbe di sicuro saputo. «Non hai niente da chiedermi?» chiese il jinn seduto sul bordo del letto, da dove si godeva il dilemma di zia Banu. «Ero un avvoltoio» continuò con un tono pieno di amarezza, l'unico che conosceva. «Ho visto tutto. Li ho visti che camminavano, camminavano e camminavano, donne e bambini. Volavo sopra di loro, tracciando cerchi nel cielo azzurro, aspettando che cadessero in ginocchio.» «Smettila!» ringhiò zia Banu. «Smettila! Non voglio saperlo. Non dimenticarti chi è il padrone.» «Sissignora» si ritrasse il signor Amaro. «Ogni tuo desiderio è un ordine, e così sarà fino a quando avrai quel talismano. Se mai volessi sapere cosa ne è stato della famiglia di quella ragazza non hai che da chiederlo. La mia memoria è tua, padrona.» Zia Banu si rizzò a sedere nel letto, si morse le labbra cercando di non mostrare la minima debolezza al signor Amaro. Mentre tentava di recuperare le forze, l'aria cominciò a puzzare di polvere e muffa, come se la stanza fosse in decomposizione. O il presente si stava vertiginosamente corrompendo in un residuo del passato, o la putrefazione del passato stava filtrando nel presente. Le porte interne del tempo erano pronte ad aprirsi. Per mantenerle chiuse e lasciare tutto al suo posto, zia Banu prese il Sacro Corano, conservato sotto una copertina di madreperla nel cassetto del comodino. Aprì una pagina a caso e lesse: «E io sono più vicino all'uomo della sua vena giugulare» (50:16). «Allah» sospirò. «Tu mi sei più vicino della mia giugulare. Aiutami in questo dilemma. Donami l'oblio dell'ignoranza oppure dammi la forza per sopportare la conoscenza. Per la tua scelta ti sarò grata, ma ti prego di non lasciarmi impotente e insieme consapevole.» Con quella preghiera zia Banu scivolò fuori dal letto, si infilò la vestaglia e a passo leggero e veloce andò in bagno a purificarsi per la preghiera del mattino. Controllò l'orologio sul mobiletto: le sette e quarantacinque. Possibile che fosse rimasta a letto così a lungo a litigare con il signor Amaro, a litigare con la propria coscienza? Si lavò in fretta la faccia, le mani e i piedi, tornò in camera a indossare il velo, srotolò il tappeto e si prostrò. Anche se zia Banu quella mattina apparecchiò in ritardo la tavola per la colazione, Armanoush non ebbe modo di accorgersene. La sera prima era rimasta al computer fino a tardi, poi aveva dormito più del solito, e adesso avrebbe voluto continuare. Si agitò, si rigirò nel letto, tirò su e giù la coperta, facendo del suo meglio per sprofonda re di nuovo nel sonno. Aprì a fatica un occhio e vide Asya seduta alla scrivania, che leggeva un libro e ascoltava la musica dalle cuffie. «Cosa stai ascoltando?» chiese Armanoush a voce alta. «Cosa?» strillò Asya. «Johnny Cash!» «Ah, certo. E cosa leggi?» «L'uomo irrazionale: uno studio di filosofia esistenziale» rispose Asya, alzando anche lei la voce. «Come fai ad ascoltare la musica e concentrarti sull'esistenzialismo allo stesso tempo? Non è un po' irrazionale anche questo?»
«Vanno perfettamente d'accordo» ribattè Asya. «Johnny Cash e l'esistenzialismo scrutano entrambi l'animo umano e, insoddisfatti di ciò che trovano, lo lasciano spalancato!» Prima che Armanoush potesse rifletterci, qualcuno bussò alla porta e annunciò alle ragazze che l'ultimo treno della colazione era in partenza.
C'erano solo due posti apparecchiati. La nonna e Petite-Ma erano andate a far visita a una parente, zia Cevriye era a scuola, zia Zeliha al laboratorio di tatuaggi e zia Feride in bagno a tingersi i capelli di rosso. L'unica zia ancora in soggiorno sembrava di cattivo umore. «Cos'è successo? I tuoi jinn ti hanno mollata?» chiese Asya. Invece di rispondere, zia Banu andò in cucina, e nelle successive due ore risistemò i barattoli di cereali sullo scaffale, lavò il pavimento, preparò i biscotti con le noci e l'uvetta, lavò la frutta di plastica che stava sopra la credenza ed eliminò a colpi di spugna un'ostinata macchia di senape dal fornello. Quando tornò in soggiorno trovò le due ragazze ancora a tavola, che se la ridevano di ogni singola scena di Groviglio di passioni, la più lunga telenovela nella storia della televisione turca. Invece di risentirsi nel vederle prendere in giro qualcosa a cui teneva, zia Banu fu semplicemente sorpresa di essersi dimenticata del suo programma preferito per la prima volta da tempo immemorabile. Era successo solo un'altra volta, anni prima, durante la penitenza. E perfino allora, che Allah la perdonasse, aveva pensato a Groviglio di passioni, chiedendosi, pur nella mortificazione, cosa stesse succedendo nelle puntate di quei giorni. Ma questa volta come aveva potuto perderlo? Possibile che la sua mente fosse preoccupata a tal punto? E come mai non si era resa conto di essere così confusa? Di colpo zia Banu si accorse che le due ragazze la stavano osservando e si sentì a disagio, forse perché pensò che, finita la telenovela, avrebbero potuto cercare un nuovo bersaglio da mettere in ridicolo. Ma Asya sembrava avere altro in mente. «Armanoush si chiedeva se puoi farle i tarocchi.» «E perché mai?» disse zia Banu con calma. «Dille che è una ragazza bellissima e intelligente, con un brillante futuro. Solo quelli privi di futuro hanno bisogno di conoscerlo.» «Allora leggi le nocciole tostate per lei» insistette Asya, evitando di tradurre. «Quello non lo faccio più» disse zia Banu contrita. «Dopotutto non si è rivelato un granché, come metodo.» «Vedi, mia zia è una veggente positivista. Misura scientificamente il margine di errore in ogni metodo divinatorio» spiegò Asya in inglese ad Armanoush, ma tornò subito a un tono più serio, in turco. «Be', allora leggici i fondi di caffè.» «Ecco, questa è tutta un'altra cosa» disse zia Banu, incapace di dire di no ai fondi di caffè. «Quelli li posso leggere in qualunque momento.» Venne preparato il caffè, amaro per Armanoush e con un sacco di zucchero per Asya, anche se quest'ultima non aveva nessuna intenzione di farsi leggere i fondi. Era
di caffeina che aveva bisogno, non di conoscere il proprio destino. Quando Armanoush finì il caffè, il piattino venne appoggiato sopra la tazza e tenuto fermo; dopo tre giri completi, la tazza venne rovesciata sopra il piattino, in modo che i fondi scendessero lentamente. Appena furono completamente colati, la tazza fu rigirata e zia Banu cominciò a leggere in senso orario i segni lasciati dal caffè. «Qui vedo una donna molto preoccupata.» «Sarà mia madre» sospirò Armanoush. «Pensa a te continuamente, ti ama molto, ma il suo animo è turbato. Poi vedo una città dai ponti rossi. C'è acqua, mare, vento e... nebbia. Vedo una famiglia, molte teste... tanto amore e tanto affetto, e anche tanto cibo...» Armanoush annuì, vagamente imbarazzata. «E poi...» cominciò zia Banu, ma evitò di riferire le brutte notizie sedimentate in fondo alla tazza (fiori sparsi su una tomba, molto presto e molto lontano). Fece ruotare la tazza fra le dita paffute. Le parole successive le uscirono più forti di quanto intendesse, facendo sussultare tutte e tre. «Oh, c'è un giovanotto che ha un profondo interesse per te. Ma perché si nasconde dietro un velo?... O qualcosa che assomiglia a un velo.» Il cuore di Armanoush battè più forte. «Potrebbe essere lo schermo di un computer?» chiese Asya maliziosamente, mentre Sultan Quinto le saltava in grembo. «Nei fondi di caffè non si vedono i computer» obiettò zia Banu. Non le piaceva far entrare la tecnologia nel suo universo magico. Fece una pausa solenne, ruotò la tazza di un paio di centimetri, e poi si fermò di nuovo. La sua espressione adesso sembrava preoccupata. «Vedo una ragazza della tua età. Ha i capelli ricci, neri, nerissimi... il seno abbondante...» «Grazie zia, ho afferrato il concetto.» Asya ridacchiò. «Non devi infilare i parenti in ogni tazza che leggi, si chiama nepotismo.» Zia Banu battè le palpebre, impassibile. «Vedo una grossa corda, qui. Una corda spessa, con un cappio da una parte, come un lazo. Voi due, ragazze, state per essere legate l'una all'altra da un legame molto stretto... Un legame spirituale...» Con loro grande delusione, zia Banu non disse altro. Smise di leggere, appoggiò la tazza sul piattino e la riempì d'acqua, in modo che lo schema svanisse prima che chiunque altro, buono o cattivo, potesse guardarci dentro. Era il bello della lettura dei fondi di caffè: contrariamente al destino scritto da Allah, quello scritto dal caffè lo si poteva sempre lavare via.
Per andare al Café Kundera presero il traghetto, in modo che Armanoush vedesse la città in tutta la sua grandezza e il suo splendore. L'aria prostrata dei passeggeri fu ben presto spazzata via dal vento che cominciò a soffiare appena l'imbarcazione si trovò in mare aperto. Il ronzio della folla continuò a crescere d'intensità per un minuto, e poi si assestò su un costante mormorio, che accompagnava altri suoni: le pulsazioni del motore fuoribordo, lo sciacquio delle onde, le strida dei gabbiani.
Armanoush fu deliziata dal fatto che i pigri gabbiani della spiaggia li stessero seguendo. Quasi tutti i passeggeri li nutrivano con bocconi di simit, le ciambelle di pane coperte di sesamo che quegli uccelli carnivori trovavano irresistibili. Una donna robusta in abito tradizionale sedeva sulla panca di fronte a loro con il figlio adolescente: vicini l'uno all'altra, i due erano lontani mille miglia. Dall'espressione della donna Armanoush comprese che non andava pazza per i trasporti pubblici, disprezzava la massa e avrebbe gettato volentieri in mare i passeggeri più poveri. Nascosto dietro gli occhiali dalla montatura spessa, il ragazzo, dal canto suo, sembrava imbarazzato dall'arrogante atteggiamento materno. Sembrano due personaggi di Flannery O'Connor, pensò Armanoush. «Raccontami di più di questo Barone» se ne uscì improvvisamente Asya. «Com'è? Quanti anni ha?» Armanoush arrossì. Alla luce vivida del sole invernale, che risplendeva attraverso le nuvole fitte, il suo viso era più che mai quello di una ragazza innamorata. «Non lo so. Non l'ho mai incontrato di persona. Siamo amici virtuali, capisci. Quello che ammiro in lui sono l'intelligenza e la passione, suppongo.» «Ma non vorresti incontrarlo, prima o poi?» «Sì e no» confessò Armanoush, dopo aver comprato un simit al piccolo e affollato bar del traghetto. Ne staccò un pezzo e tenendolo in mano si affacciò al parapetto del ponte, in attesa che si avvicinasse un gabbiano. «Non devi aspettarli» sorrise Asya. «Basta che lanci il pane in aria, e un gabbiano lo prenderà al volo.» Armanoush fece come le era stato detto. Un gabbiano si materializzò nel cielo deserto e si tuffò sul boccone. «Muoio dalla voglia di saperne di più su di lui eppure, dentro di me, non vorrei incontrarlo. Quando esci con qualcuno, sparisce tutta la magia. Non sopporterei che succedesse lo stesso con lui. E troppo importante per me. Uscire insieme, fare sesso, quella è un'altra storia... È troppo complicato...» Stavano ormai entrando nella zona dei tre argomenti intoccabili. Buon segno: si stavano avvicinando di più l'una all'altra. «Magia!» disse Asya. «Chi ha bisogno di magia? Le fiabe di Layla e Majnun, Yusuf e Zulaykha, la Falena e la Candela, o l'Usignolo e la Rosa... Tutti modi di amarsi a distanza, di stare insieme senza neppure toccarsi... Amor platonicus: la scala dell'amore che si dovrebbe salire un gradino alla volta, elevando il Sé e l'Altro. Ovvio che Platone consideri corrotto e ignobile ogni contatto fisico, lui è convinto che il vero fine di Eros sia la bellezza. E nel sesso c'è la bellezza? Non per Platone. Lui segue "più sublimi ideali". Ma se vuoi sapere come la penso io, il problema di Platone, come di molti altri, è che non si è mai fatto una scopata come si deve.» Armanoush guardò l'amica, stupefatta. «Credevo che tu amassi la filosofia...» balbettò senza capire perché avesse detto una cosa del genere. «Infatti la amo» concesse Asya. «Ma questo non significa che sia per forza d'accordo con tutti i filosofi.» «Dovrei quindi dedurre che non sei una fanatica dell'Amor platonicus?»
Quella sì che era un'informazione che Asya avrebbe preferito tenere per sé, non perché non potesse rispondere, ma per le implicazioni di quello che avrebbe potuto dire. Armanoush era così educata e perbene che Asya non se la sentiva di sconvolgerla. Come faceva a dire che, a soli diciannove anni, aveva già conosciuto molte mani maschili e non si sentiva minimamente in colpa per questo? E come poteva rivelare queste cose a una straniera senza dare un'impressione sbagliata sulla «castità» delle ragazze turche?
Il concetto di «responsabilità nazionale» era assolutamente estraneo ad Asya Kazanci. Mai prima d'allora si era sentita parte di una collettività, e non aveva nessuna intenzione di cominciare adesso. Però stava riuscendo abbastanza bene a interpretare la parte di una che era diventata patriottica da un giorno all'altro. Come faceva adesso a uscire da quel personaggio «nazionale» per tornare a essere la se stessa peccatrice? Come faceva a dire ad Armanoush che nel profondo del cuore era convinta che solo facendo l'amore con un uomo potevi davvero essere sicura che fosse quello giusto per te; che solo a letto veniva fuori la vera essenza di una persona; e che indipendentemente da quel che la gente pensasse, per lei il sesso aveva a che fare più con la sensualità che con la fisicità? Non poteva certo rivelarle di aver avuto in passato molte relazioni, fin troppe, come se volesse vendicarsi degli uomini, anche se non sapeva per quale motivo. Storie diverse, a volte in contemporanea, a volte poligame, che si erano sempre concluse con un cuore spezzato e con cataste di segreti che Asya faceva molta attenzione a tener lontani da casa Kazanci. Poteva forse rivelare all'amica tutto questo? Armanoush avrebbe mai potuto capire senza giudicarla? Sarebbe stata in grado di scorgere la vera anima di Asya dalla cima della sua torre d'avorio? Ma c'era un altro dubbio che tormentava Asya: poteva confessare ad Armanoush di aver tentato due volte il suicidio? Era stata un'esperienza orrenda, da cui aveva tratto due lezioni fondamentali: la prima, che ingoiare le pillole di quella pazza di tua zia non era il sistema migliore di suicidarsi; la seconda, che era meglio avere pronta una spiegazione, visto che se per caso sopravvivevi, l'unica domanda che ti arrivava addosso da tutte le parti era «PERCHÉ?» E fino a oggi Asya non aveva ancora trovato risposta a quella domanda, se non che era troppo giovane e troppo folle e troppo rabbiosa per l'universo nel quale viveva. Tutto questo avrebbe avuto il minimo senso per Armanoush? E ancora, avrebbe potuto raccontarle che negli ultimi tempi aveva fatto qualche passo in direzione della stabilità, e adesso aveva una relazione monogama, anche se con un uomo sposato, con il doppio della sua età, che incontrava di tanto in tanto per condividere il sesso e uno spinello e per spezzare la solitudine? Ma soprattutto, come poteva svelare ad Armanoush che, in realtà, si sentiva un vero disastro? Così, invece di rispondere, Asya tirò fuori un walkman dallo zaino e chiese il permesso di ascoltare una canzone, solo una. Una dose di Cash era quello di cui aveva bisogno in quel momento. Porse ad Armanoush uno degli auricolari. Lei accettò con cautela e chiese: «Come si intitola la canzone?». «Dirty Old Egg-Suchin' Dog.» «Non la conosco.» «Già» disse gravemente Asya. «Eccola che comincia. Ascolta...» La canzone cominciò, prima un preludio fiacco, poi melodie country che si fondevano con le strida dei gabbiani e parole turche in sottofondo. Armanoush era troppo colpita dalla dissonanza fra il testo e il paesaggio circostante per godersi davvero il brano. Le venne in mente che quella canzone era
proprio come Asya, piena di carattere e di contraddizioni, arrabbiata con tutto ciò che la circondava, sensibile, reattiva, e pronta a esplodere da un momento all'altro. Poi si lasciò andare, mentre il mormorio in sottofondo si affievoliva, pezzi di simit sparivano nell'aria, la brezza si faceva sempre più fatata, il traghetto navigava dolcemente, e i fantasmi dei pesci vissuti in quelle acque nuotavano nel mare di un azzurro denso e viscoso. Quando la canzone finì avevano già raggiunto la riva. Qualche passeggero saltò giù prima ancora che il traghetto si fosse ormeggiato. Armanoush osservò stupita quelle esibizioni acrobatiche, ammirando i talenti che gli istanbuliti avevano sviluppato per stare al passo con la loro città. Quindici minuti dopo, la malconcia porta di legno del Café Kundera si aprì cigolando, ed entrarono Asya Kazanci, con indosso un abito hippy color malva, e la sua ospite, in felpa e jeans. Asya ritrovò il solito gruppo con il solito atteggiamento, seduto al solito angolo. «Salve a tutti! Questa è Amy, una mia amica americana.» «Ciao Amy!» la salutarono gli altri in coro. «Benvenuta a Istanbul!» «E la prima volta che ci vieni?» chiese qualcuno. E poi cominciarono tutti a interrogarla: «Ti piace la città? Ti piace il cibo? Quanto ti fermi? Pensi di tornare? ...». Dopo quell'accoglienza calorosa ripiombarono nell'usuale languore, perché niente poteva sconvolgere il ritmo lento del Café Kundera. Chi sentiva il bisogno di velocità e cambiamento poteva tranquillamente andarsene: per le strade ce n'erano a volontà. Qui erano di rigore indolenza e ripetitività. Il Café Kundera si basava sulle fissazioni e sulle ossessioni; era l'ideale per chi non voleva avere a che fare con il quadro generale, sempre ammesso che esistesse un quadro generale. Nelle brevi pause fra una domanda e l'altra, Armanoush cercava di osservare il posto e le persone, cominciando a intuire da dove venisse il nome del locale. La tensione costante fra la cruda realtà e la fantasia ingannatrice, il concetto di quelli fuori in contrapposizione a noi qui dentro, l'atmosfera sognante e le espressioni vuote sui volti degli uomini, che sembravano perennemente indecisi se continuare a sostenere il peso di scomposte storie d'amore o dimezzarne l'essenza con la leggerezza: tutto sembrava evocare un romanzo di Kundera. Ma loro non lo sapevano, e non potevano saperlo perché troppo coinvolti, troppo immersi nella scena, come i pesci che non sono in grado di percepire l'immensità dell'oceano attraverso la lente sfocata dell'acqua che li circonda. Assimilare il locale alla scena di un romanzo di Kundera non fece che raddoppiare l'interesse di Armanoush. Notò che a tavola tutti parlavano inglese, seppure con un forte accento e qualche incertezza grammaticale. Ma soprattutto, sembrava non avessero difficoltà a passare da una lingua all'altra. Dapprima Armanoush attribuì quella disinvoltura a un eccesso di autostima, ma poi cominciò a sospettare che non si trattasse tanto di fiducia nel loro inglese, quanto di totale sfiducia in qualunque linguaggio. Quelle persone si comportavano e parlavano come se ciò che dicevano, o il modo in cui lo dicevano, non avesse alcuna importanza, tanto non era possibile
esprimere fino in fondo ciò che provavano, e il linguaggio altro non era che la carcassa puzzolente di parole vuote, da tempo marcite all'interno. Armanoush vide anche che la stragrande maggioranza delle immagini di strade alle pareti appartenevano a Paesi occidentali oppure a luoghi esotici. Ma dopo aver notato quel dettaglio, non seppe come interpretarlo. Forse i voli della fantasia dei frequentatori del Café Kundera si appuntavano in particolare sulla fuga verso l'Occidente o in esotici Paesi lontani. In quel momento un venditore ambulante bruno e scarno si intrufolò nel caffè, quasi nascondendosi dai camerieri per paura di essere cacciato via. Portava un grosso vassoio di mandorle gialle non sbucciate, sparse su un letto di cubetti di ghiaccio. «Mandorle!» annunciò, come se fosse il nome di qualcuno che stava cercando disperatamente. «Da questa parte!» esclamò il Fumettaro Dipsomane, come se rispondesse alla chiamata. Le mandorle erano adattissime a quello che stava bevendo in quel momento: birra. Aveva appena mollato gli Alcolisti Anonimi, per una questione più di onestà che di dipendenza. Non vedeva infatti motivo di continuare a definirsi alcolista quando non lo era affatto. Non gli sembrava sincero. Così aveva deciso di farsi da supervisore da solo. Quel giorno, per esempio, avrebbe bevuto soltanto tre birre. Ne aveva già ingurgitata una, quindi gliene restavano altre due. Dopodiché si sarebbe fermato. Proprio così, aveva rassicurato gli altri, era perfettamente in grado di seguire una disciplina senza la compassionevole guida di estranei. Con la stessa determinazione, comprò quattro mestoli di mandorle e le ammucchiò in mezzo al tavolo, alla portata di tutti. Nel frattempo Armanoush seguiva i suoi pensieri. Osservava il cameriere allampanato che, con aria sperduta, raccoglieva le ordinazioni, ed era piuttosto stupita nel vedere quanti degli amici di Asya bevessero alcolici. Si ricordò dei propri ingenui commenti sul rapporto tra i musulmani e l'alcol. Era il caso di menzionare l'amore dei turchi per le bevande alcoliche ai suoi compagni del Café Constantinopolis? Quanto di quello che stava vedendo qui sarebbe stato il caso di raccontare? Qualche minuto più tardi il cameriere tornò, con un grosso boccale di birra spumosa per il Fumettaro Dipso mane e una caraffa di vino rosso secco per gli altri. Mentre lui riempiva gli eleganti calici, Armanoush ne approfittò per osservare meglio la gente attorno al tavolo. Immaginò che la donna seduta accanto all'uomo robusto dal naso a patata - ma a mille miglia di distanza da lui - fosse sua moglie. Uno alla volta, esaminò la moglie del Fumettaro Dipsomane e il Fumettaro Dipsomane, il Cronista Mondano Criptogay, il Poeta Eccezionalmente Privo di Talento, lo Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti... Non potè evitare di fissare a lungo la brunetta giovane e attraente seduta di fronte a lei, che non sembrava far parte del gruppo ma aveva l'aria di esserne un'imbarazzante appendice. Decisamente un tipo da telefonino, la brunetta continuava a giocherellare con il suo cellulare, rosa e luccicante, aprendolo senza ragione apparente, pigiando qualche tasto, mandando o ricevendo un sms, totalmente assorbita da quel piccolo aggeggio. Di tanto in tanto si faceva più vicina all'uomo barbuto accanto a lei e gli si strofinava contro l'orecchio.
Evidentemente era la nuova ragazza dello Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti. «Ieri mi sono fatta un tatuaggio.» Le parole erano così fuori contesto che Armanoush non capì subito se erano rivolte a qualcuno in particolare, figuriamoci se s'immaginava che invece, forse per noia o per accattivarsi l'altra outsider del gruppo, la ragazza dello Sceneggiatore Nonnazionalista di Film Ultranazionalisti stava parlando proprio con lei. «Ti andrebbe di vederlo?» Era un'orchidea selvaggia, rossa come l'inferno, che si avvolgeva attorno al suo ombelico. «Forte» disse Armanoush. Lei sorrise compiaciuta. «Grazie» rispose tamponandosi le labbra con un tovagliolo anche se non aveva mangiato nulla. Intanto anche Asya si era messa a osservarla, ma con uno sguardo di disapprovazione. Come sempre, di fronte a una nuova ragazza, Asya aveva due alternative: aspettare di vedere quando avrebbe cominciato a odiarla, o prendere la scorciatoia e odiarla fin da subito. Questa volta scelse la seconda. Asya si appoggiò allo schienale e sollevò il bicchiere tra pollice e indice, osservando il liquido rosso. Anche quando cominciò a parlare non smise di fissarlo. «In effetti, se pensiamo a quanto sia antica la pratica del tatuaggio...» disse, ma non finì la frase. Ne cominciò invece una nuova. «All'inizio degli anni Novanta sulle Alpi italiane fu rinvenuto un corpo perfettamente conservato che risaliva a più di cinquemila anni fa. Aveva addosso cinquantasette tatuaggi: i tatuaggi più vecchi del mondo!» «Davvero?» chiese Armanoush. «Mi chiedo che genere di tatuaggi facessero all'epoca.» «Spesso si trattava di animali, i loro totem: asini, cervi, gufi, arieti... e serpenti, ovviamente. Sono sicura che i serpenti andavano di moda già allora.» «Caspita, vecchi di cinquemila anni» si entusiasmò la ragazza dello Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti. «Ma immagino che quel corpo non avesse un tatuaggio attorno all'ombelico!» tubò lui di rimando. E risero insieme, per poi baciarsi e abbracciarsi. Sul marciapiede fuori dal caffè c'erano dei tavoli sparpagliati. Venne a sedersi una coppia dall'aria torva, a cui ne seguì un'altra: volti seri e stressati da cittadini. Armanoush, attraverso il vetro, osservò i loro gesti con curiosità, paragonandoli a personaggi di un romanzo di Fitzgerald. «In qualche modo abbiamo la tendenza ad associare i tatuaggi all'originalità, all'inventiva e persino alla modernità. In realtà un tatuaggio attorno all'ombelico è una delle usanze più antiche della storia. Ti ricordo che alla fine del XIX secolo un gruppo di archeologi occidentali scoprì il corpo mummificato di una principessa egiziana, Amunet. E indovina? Aveva un tatuaggio. E lo sai dove?» ades so Asya si voltò a guardare lo Sceneggiatore dritto negli occhi. «Attorno all'ombelico!»
Lo Sceneggiatore sbattè le palpebre, stupito da tutte quelle informazioni. La sua nuova ragazza sembrava altrettanto impressionata quando chiese: «Come fai a sapere tutte queste cose?». «Sua madre gestisce un laboratorio di tatuaggi» intervenne il Fumettaro Dipsomane senza distogliere lo sguardo da Asya. Sprofondò nella sedia, resistendo all'impulso di baciare quelle labbra rabbiose, di ordinare senza indugio un'altra birra, di smettere di impersonare l'uomo che non era. Questa tensione passò inosservata a tutti tranne che a una persona. Armanoush notò il calore degli occhi del Fumettaro quando guardava Asya, e capì che era innamorato di lei. Intanto Asya sembrava pensare ad altro, pronta a sferrare un ulteriore attacco alla nuova ragazza dello Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti. Sporgendosi in avanti con espressione dura disse: «I tatuaggi possono anche essere pericolosi». Attese qualche secondo, per lasciare che la parola «pericolosi» avesse il suo effetto. «Gli strumenti che vengono usati per praticarli dovrebbero essere sterilizzati, ma non si può mai essere al sicuro dai rischi di contagio. Un bel guaio, visto che la tecnica più comune è inserire l'inchiostro sottopelle con gli aghi...» Pronunciò la parola «aghi» in maniera così minacciosa che tutti rabbrividirono. Solo il Fumettaro Dipsomane continuava a osservare Asya con sguardo divertito, godendosi fino in fondo lo spettacolo. «L'ago viene infilato ripetutamente nella pelle a un ritmo di circa tremila punture al minuto» continuò Asya. Prese una sigaretta dal pacchetto, spingendola ripetutamente dentro e fuori come a illustrare il movimento dell'ago, prima di decidersi ad accenderla. La nuova ragazza dello Sce neggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti fece per sorridere di quell'immagine così apertamente sessuale, ma qualcosa nello sguardo di Asya la bloccò a metà strada. «Avvelenamento del sangue ed epatite sono solo due delle malattie letali che si possono contrarre in seguito a un tatuaggio. L'artista dovrebbe aprire una nuova confezione di aghi sterilizzati a ogni lavoro, lavarsi le mani con acqua calda e sapone, e usare liquidi antibatterici e guanti di lattice... In teoria, ovviamente. Voglio dire, dai, chi è che sta dietro a tutte queste cose?» «Lui l'ha fatto! Gli aghi erano nuovi e aveva le mani pulite» disse la ragazza in turco, con una venatura di panico nella voce. Ma Asya non si arrendeva, e proseguì in inglese. «Già, benissimo. Peccato che non sia sufficiente. E l'inchiostro? Sai che anche l'inchiostro dev'essere cambiato ogni volta? Bisogna usare inchiostro nuovo per ogni cliente e per ogni seduta.» «L'inchiostro...» Ora la ragazza sembrava davvero preoccupata. «Già, l'inchiostro!» decretò Asya con sicurezza. «Ci sono un sacco di infezioni causate dall'inchiostro dei tatuaggi. Una delle più comuni è provocata dallo Staphylococcus Aureus, che purtroppo,» e qui Asya aggrottò la fronte «può provocare gravi danni cardiaci.» Per quanto cercasse di non perdere il sangue freddo, dopo quell'informazione la nuova ragazza dello Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti era
impallidita. Proprio in quel momento il suo cellulare squillò, ma lei non lo guardò neppure. «Hai consultato un medico prima di farlo?» chiese Asya con un'espressione preoccupata che si augurava sembrasse convincente. «No, non l'ho fatto» rispose la ragazza. La sua espressione adesso era seria, con nuove rughe attorno alla bocca e agli occhi. «Davvero? Be', non importa, non preoccuparti.» Asya alzò le mani. «Vedrai che non ti succederà niente.» E con quello si abbandonò contro lo schienale. Il Fumettaro Dipsomane e Armanoush sorrisero, ma nessuno degli altri ebbe la minima reazione. Decidendo di continuare il gioco, il Fumettaro si rivolse ad Asya con un sorriso d'intesa e le chiese: «Ma potrebbe farselo togliere, se volesse? È possibile, vero?» «Sì, è possibile» rispose subito Asya. «Anche se si tratta di un procedimento doloroso, e terrificante, direi. Si può scegliere fra tre possibili metodi: chirurgia, trattamento laser o dermoabrasione.» A quel punto Asya prese una mandorla dal mucchietto e la sbucciò. Tutti gli astanti, Armanoush compresa, non poterono fare a meno di fissare la mandorla con affascinato orrore. Compiaciuta per la reazione del pubblico, Asya si lanciò in bocca la mandorla e la masticò vigorosamente. Le pupille della nuova ragazza dello Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti si dilatarono. «Personalmente, non raccomanderei mai il terzo sistema. Non che gli altri siano migliori. Dovresti trovare un bravo dermatologo - ma bravo davvero - o un chirurgo plastico. Costa un bel po', ma che ci vuoi fare? Per ogni seduta ci vuole una barca di soldi, e occorrono diverse sedute. Anche dopo che il tatuaggio è stato rimosso resta una cicatrice ben visibile, per non parlare dello scolorimento epidermico. Se vuoi liberarti anche di quello, occorre un altro intervento plastico, e comunque non c'è garanzia di riuscita.» Armanoush si diede un pizzicotto per non mettersi a sghignazzare. «Be', perché non beviamo?» si intromise la moglie del Fumettaro Dipsomane con un sorrisetto tirato. «Perché non facciamo un bel brindisi al signor Sulle Punte? Com'è che si chiamava? Cecchelli?» «Cecchetti» la corresse Asya, rimpiangendo ancora il giorno che era stata così ubriaca da tenere al gruppo una lezione sulla storia del balletto. «Sì, sì, Cecchetti.» Il Poeta Eccezionalmente Privo di Talento ridacchiò e spiegò ad Armanoush: «Se non fosse stato per lui, le ballerine di danza classica non dovrebbero stancarsi a camminare sulle punte, lo sapevi?». «Ma cosa gli è passato per la testa?» aggiunse qualcun altro, e scoppiarono tutti a ridere. «Allora raccontaci, Amy, da dove vieni esattamente?» chiese il Poeta Eccezionalmente Privo di Talento, facendosi sentire al di sopra del brusio di fondo del caffè. «In realtà Amy sta per Armanoush» intervenne Asya, ancora provocatoria. «È armeno-americana.»
Ora, la parola armeno non avrebbe sorpreso nessuno, al Café Kundera, ma armeno-americana era tutta un'altra cosa. Armeno-armeno non era un problema, stessa cultura, stesse difficoltà, ma armeno-americano era qualcuno che disprezzava i turchi. Tutte le teste si voltarono verso Armanoush. I loro sguardi rivelavano un interesse venato di allarme, come di fronte a uno sgargiante pacco regalo dal contenuto ignoto. Armanoush raddrizzò le spalle, dando l'impressione di prepararsi a un assalto, ma, da buoni habitué del Café Kundera, i componenti del gruppo avevano assorbito troppo in profondità il languore di quel posto per rimanere eccitati più di qualche istante. Asya comunque non permise che la tensione svanisse. «Sapete che la famiglia di Armanoush era di Istanbul?» disse tra una mandorla e l'altra. «Nel 1915 hanno dovuto sopportare ogni sorta di sofferenze. Molti di loro sono morti durante le deportazioni, di fame, di fatica, per le violenze...» Silenzio di tomba, nessun commento. Asya rincarò la dose, sotto lo sguardo preoccupato del Fumettaro Dipsomane. «Il suo bisnonno, però, era stato ucciso ancora prima di tutto questo, soprattutto perché...» Asya si voltò a guardare Armanoush dritta negli occhi, anche se le sue parole erano rivolte più al resto del gruppo che a lei «era un intellettuale.» Sorseggiò lentamente il suo vino. «Gli esponenti dell'intellighenzia armena furono i primi a essere giustiziati, in modo che la comunità perdesse le sue teste pensanti.» Non ci volle molto prima che il silenzio venisse rotto. «Non è andata così.» Lo Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti scuoteva vigorosamente la testa. «Non si è mai sentito niente del genere.» Aspirò una boccata dalla pipa e tra le volute di fumo guardò Armanoush negli occhi, la voce ridotta a un sussurro compassionevole. «Senti, mi dispiace per la tua famiglia e ti porgo le mie condoglianze. Ma devi capire che c'era la guerra. La gente moriva su entrambi i fronti. Hai idea di quanti turchi siano morti per mano dei ribelli armeni? Hai mai pensato all'altra versione della storia? Scommetto di no! E le sofferenze delle famiglie turche? È tutto molto tragico, ma dobbiamo capire che il 1915 non è il 2005. I tempi erano diversi, allora. Non esisteva neppure lo Stato turco, c'era l'Impero ottomano, per l'amor del cielo. L'era premoderna con tutte le sue tragedie premoderne.» Armanoush strinse le labbra al punto da farle sbiancare. Aveva così tante obiezioni che non sapeva da che parte cominciare. Come avrebbe voluto che ci fosse il Barone Baghdassarian a sentire tutto ciò. La pausa venne ben presto interrotta da Asya: «Ma come? Credevo che tu non fossi nazionalista!» «Non lo sono!» esclamò lo Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti alzando la voce di un paio di ottave. Per mantenere il controllo cominciò ad accarezzarsi la barba. «Però rispetto la verità storica.» «La gente ha subito un lavaggio del cervello» azzardò la sua nuova ragazza, sia per tentare di sostenere il suo amante sia per vendicarsi della discussione sui tatuaggi. Asya e Armanoush si scambiarono un'occhiata. In quel momento comparve il cameriere, venuto a ritirare la caraffa vuota.
«Be', e tu come fai a saperlo? Forse hanno fatto il lavaggio del cervello anche a te» disse lentamente Armanoush. «Già, cosa ne sai tu?» le fece eco Asya. «Cosa ne sappiamo del 1915? Quanti libri avete letto sull'argomento? Quanti punti di vista contrastanti avete esaminato e discusso? Quali ricerche avete fatto, da quale letteratura vi siete fatti illuminare? Scommetto che non avete letto un bel niente! Però ne siete così convinti. Non stiamo semplicemente accettando quello che ci hanno fatto ingoiare? Pillole di informazione... pillole di disinformazione. Ogni giorno ne ingoiamo a palate.» «Sono d'accordo, il sistema capitalista annulla i sentimenti e tarpa la fantasia» si intromise il Poeta Eccezionalmente Privo di Talento. «Questo sistema è responsabile della disillusione del mondo. Solo la poesia può salvarci.» «Senti,» rispose lo Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti «contrariamente alla maggior parte dei turchi ho fatto parecchie ricerche sull'argomento, per via del mio lavoro. Scrivo sceneggiature per film storici, e leggo continuamente libri di storia. Per cui non ne parlo per sentito dire. Anzi! Parlo come chi ha condotto ricerche meticolose sulla questione.» Si interruppe per bere un sorso di vino. «Le recriminazioni degli armeni si basano su esagerazioni e distorsioni. Andiamo, alcuni arrivano a sostenere che ne avremmo sterminati due milioni. Nessuno storico sano di mente prenderebbe sul serio un'affermazione del genere.» «Anche un milione solo sarebbe già troppo» ribattè Asya. Ricomparve il cameriere, con una nuova caraffa di vino in mano e un'espressione preoccupata sul viso. Fece un gesto al Fumettaro Dipsomane: «Ne vuole ancora?» e ricevette in cambio un pollice alzato. Superata da un pezzo la quota di tre birre, fedele alla propria decisione, il Fumettaro Dipsomane era passato al vino. «Lascia che ti dica una cosa, Asya» disse lo Sceneggiato re Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti riempiendosi di nuovo il bicchiere. «Tu sai degli infami processi alle streghe di Salem, vero? La cosa interessante è che quasi tutte le donne accusate di stregoneria fecero confessioni simili, mostrarono sintomi comuni, svenivano addirittura contemporaneamente... Stavano forse mentendo? No! Fingevano? No! Semplicemente, soffrivano di isteria collettiva.» «E questo cosa vorrebbe dire?» chiese Armanoush, riuscendo a stento a controllare la propria rabbia. «Già, che diavolo vorrebbe dire?» ripetè Asya, senza nemmeno provare a controllare la propria rabbia. Lo Sceneggiatore lasciò che uno stanco sorriso gli attraversasse il volto. «Esiste una cosa che si chiama isteria collettiva. Non sto dicendo che gli armeni siano isterici né niente del genere, non fraintendetemi. È un fatto scientificamente riconosciuto che le collettività siano in grado di manipolare le convinzioni dei singoli, i loro pensieri, persino le reazioni fisiche. Continui a sentire e risentire la stessa storia e alla fine l'hai interiorizzata. Da quel momento cessa di essere la storia di qualcun altro. Non è più neppure una storia, ma la realtà, la tua realtà!» «È come essere vittima di un incantesimo» commentò il Poeta Eccezionalmente Privo di Talento.
Passandosi una mano fra i capelli, Asya si abbandonò sulla sedia, sbuffò un po' di fumo e disse: «Lascia che ti spieghi cos'è l'isteria collettiva. Tutte quelle cose che hai scritto finora, l'intera serie di Timur Cuordileone, quel turco muscoloso ed erculeo che salta da un'avventura all'altra contro i Bizantini idioti: è questo che io chiamo isteria. E una volta che lo trasformi in uno spettacolo televisivo e fai in modo che milioni di persone interiorizzino quell'orrendo messaggio, ecco che diventa isteria collettiva». Questa volta fu il Cronista Mondano Criptogay a intervenire. «Già, tutti quegli eroi turchi machisti che hai creato per mettere in ridicolo l'effeminatezza del nemico sono simboli di autoritarismo». «Ma cos'avete tutti?» chiese lo Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti con il labbro inferiore che tremava per la rabbia. «Lo sapete benissimo che non ci credo, a quelle stronzate. Lo sapete che servono solo per fare spettacolo.» Armanoush decise di provare ad allentare la tensione. Pur sapendo che il Barone Baghdassarian non era d'accordo, lei era convinta che non fosse con lo scontro che si potevano fare passi avanti nel riconoscimento del genocidio. «Quella foto laggiù» disse indicando la parete. «Quella con la cornice arancione, ecco, quella è la foto di una strada dell'Arizona, io e mia madre ci passavamo spesso quand'ero bambina.» «Arizona» mormorò il Poeta Eccezionalmente Privo di Talento, e sospirò come se per lui quel nome rimandasse a una specie di Utopia, una sorta di Shangrila. Ma Asya non aveva intenzione di lasciar perdere. «È questo il punto» disse. «Quello che fai tu è anche peggio. Se tu credessi in quello che fai, se prestassi anche solo vagamente fede alle idee che ci sono dentro quei film, metterei comunque in discussione le tue convinzioni, ma non la tua sincerità. Tu invece scrivi quelle sceneggiature per le masse, senza crederci per niente. Le scrivi e le vendi e ci guadagni sopra un sacco di soldi. E poi eccoti qui, mimetizzato in questo caffè di intellettuali a beffarti insieme a noi di quegli stessi film. Pura ipocrisia!» Il colore scomparve dal viso dello Sceneggiatore, lasciando il posto a un'espressione sconvolta e a uno sguardo glaciale. «Chi ti credi di essere per parlare a me di ipocrisia, Signorina Bastarda? Perché non vai a razzolare in giro alla ricerca di tuo padre, invece di star qui a rompere le scatole a me?» Si sporse per afferrare il bicchiere di vino, ma fu il bicchiere ad andare verso di lui: il Fumettaro Dipsomane era schizzato in piedi, ne aveva afferrato uno e gliePaveva scagliato contro, mancandolo per un pelo. Il bicchiere andò a finire su un quadro, spruzzando vino ovunque, ma sorprendentemente non si ruppe. Avendo mancato il bersaglio, il Fumettaro cominciò a tirarsi su le maniche. Sebbene grosso la metà, e altrettanto ubriaco, lo Sceneggiatore Non-nazionalista di Film Ultranazionalisti riuscì a scansare il primo colpo del Fumettaro Dipsomane. Si rifugiò in un angolo, continuando a tener d'occhio l'uscita. A quel punto, il Cronista Mondano Criptogay saltò su dalla sedia e si avventò verso l'angolo con la caraffa in mano. Un secondo più tardi lo Sceneggiatore era steso in terra, con il sangue che gli scorreva dalla fronte. Premendosi un tovagliolo
insanguinato sul taglio, come un ferito di guerra, guardò prima il Cronista, poi il Fumettaro e poi nessuno in particolare. Ma dopotutto il Café Kundera era un confortevole e noioso ritrovo di intellettuali, dove il ritmo dell'esistenza, nel bene o nel male, non veniva mai turbato. Non era posto per risse da ubriachi. Prima ancora che la fronte dello Sceneggiatore smettesse di sanguinare, ognuno era tornato a fare quello che stava facendo prima dell'interruzione, qualcuno sorrideva, altri chiacchieravano, altri ancora facevano vagare lo sguardo tra le foto appese alle pareti.
Capitolo undici Albicocche secche
È quasi l'alba, a Istanbul. La città è appena a un passo da quella soglia misteriosa che separa la notte dal giorno. È l'unico momento in cui è ancora possibile trovare conforto nei sogni ma troppo tardi per costruirne di nuovi. Se ci fosse un occhio nel settimo cielo, uno Sguardo Celeste che dall'alto osserva ognuno di noi, allora dovrebbe sorvegliare Istanbul a lungo, prima di riuscire a comprendere chi fa cosa dietro le porte chiuse, e chi, se c'è, ha detto cose profane. A Colui che sta nel cielo la città deve apparire come uno schema sfavillante, cosparso di bagliori che luccicano come fuochi d'artificio nel buio fitto. In questo istante lo scheletro urbano risplende nei toni dell'arancio, del rossiccio e dell'ocra. È una costellazione di scintille, e ogni punto luminoso è la luce di qualcuno che ha già lasciato il reame del sonno. Dall'alto dei cieli, allo Sguardo Celeste, tutte quelle minuscole luci devono sembrare in perfetta armonia, costantemente ammiccanti come se inviassero messaggi in codice a Dio. Ma a parte quelle scintille sparpagliate, a Istanbul è ancora buio pesto. Nelle sudice stradine della città vecchia, nei moderni condomini che affollano i quartieri più recenti, o nei sobborghi eleganti, le persone dormono ancora profondamente. Quasi tutte. Alcuni istanbuliti, come sempre, si sono svegliati prima degli altri. Tutti gli imam della città, per esempio. Giovani e vecchi, con voci più o meno melodiose, gli imam delle moschee sono i primi a svegliarsi, pronti a chiamare i fedeli alla preghiera dell'alba. Poi ci sono i venditori di simit, svegli anche loro per andare al forno a ritirare le croccanti ciambelle di sesamo che venderanno nel corso della giornata. E di conseguenza sono svegli anche i fornai. Molti di loro hanno dormito soltanto poche ore prima di riprendere il lavoro, mentre altri non hanno dormito per niente. Nel cuore della notte, tutte le notti, hanno acceso i loro forni, in modo che all'alba le panetterie siano sature del profumo delizioso del pane fresco. Sono sveglie anche le donne delle pulizie. Donne di tutte le età che si alzano presto per prendere due o tre autobus e raggiungere le case dei ricchi dove passeranno la giornata a strofinare, pulire e lucidare. È un mondo diverso, quello. Le donne ricche sono sempre truccate e nascondono l'età. I loro mariti sono indaffarati, gentili e un po' effeminati. Il tempo non scarseggia, nei sobborghi ricchi, e le persone lo usano con la stessa prodigalità con cui usano l'acqua calda.
Ormai l'alba è arrivata. In questo momento la città è un'entità informe, quasi gelatinosa, come in bilico tra il liquido e il solido. Allo Sguardo Celeste nell'alto dei cieli, casa Kazanci deve apparire come un altro fuoco d'artificio, una scintillante girandola che s'illumina nel buio. In questo momento le stanze sono quasi tutte buie e tranquille, ma qualche luce è già accesa. Una delle occupanti di casa Kazanci in piedi a quest'ora è Armanoush. Svegliatasi presto, si è subito collegata a internet, impaziente di raccontare ai membri del Café Constantinopolis l'incredibile incidente del giorno prima. Gli racconta dei circoli artistici di Istanbul e quindi della lite, descrivendo a grandi linee ogni personaggio e ogni dettaglio del Café Kundera. Adesso, sta parlando del Fu mettaro Dipsomane, e del nuovo uso da lui escogitato per il vino che c'era in tavola. Quel fumettaro sembra divertente, scrive Anti-Khavurma. E così potrebbe finire in prigione per aver raffigurato il Primo ministro in sembianze di lupo? L'umorismo è un affare serio, in Turchia! Già, sembra un tipo in gamba, concorda Lady Peacock/Siramark. Raccontaci ancora di lui. Ma pare che qualcun altro abbia un'interpretazione completamente diversa dell'incidente. Andiamo, gente. Non c'è niente di notevole e neppure di interessante in quel tipo né in nessun altro personaggio di quello squallido caffè. Ma non vi accorgete che sono tutti tipici esponenti della Istanbul bohémien, fatta di finta avanguardia e artistoidi da quattro soldi? La classica élite intellettuale da terzo mondo che odia se stessa più di ogni altra cosa sulla faccia della terra. Armanoush sussulta all'asprezza del commento del Barone Baghdassarian, e si guarda attorno. Asya dorme all'estremo opposto della camera, con Sultan Quinto accoccolato sul petto, un paio di cuffie in testa e un libro ancora aperto in mano: Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità di Emmanuel Levinas. Vicino al suo letto c'è la custodia di un cd, Johnny Cash che fissa accigliato qualcosa fuori dall'inquadratura, vestito di nero da capo a piedi, eretto sullo sfondo di un cielo cupo e grigio, con un cane da una parte e un gatto dall'altra. Asya ha dormito con il lettore impostato sulla ripetizione continua. Anche in quello è figlia di sua madre, in grado di battagliare con tutte le voci possibili, ma incapace di sopportare il silenzio. Armanoush non distingue le canzoni, ma riesce a coglierne il ritmo. Le piace sentire la voce baritonale di Johnny Cash che dalle cuffie si diffonde per la stanza, proprio come le piace ascoltare i vari rumori interni ed esterni: le preghiere del mattino che arrivano dalle moschee lontane, il lattaio che scarica le bottiglie davanti al negozio di fronte, il respiro cadenzato di Sultan Quinto e di Asya, una sibilante fusione di grugniti e fusa, in cui non è semplice distinguere chi produce cosa, e il rumore delle sue stesse dita che si muovono sui tasti, alla ricerca della risposta migliore da inviare al Barone Baghdassarian. È quasi mattino, e pur avendo dormito poco, Armanoush è in preda all'esaltazione, quel senso di trionfo che viene dall'aver sconfitto il sonno.
Al piano di sotto c'è la camera di nonna Gülsüm. Sarà anche stata Ivan il Terribile in una vita precedente, ma la sua durezza in questa vita è sicuramente giustificata. Come tante altre persone che si incattiviscono nella vecchiaia, anche la nonna ha una sua storia. Cresciuta in una cittadina sull'Egeo in cui la vita era idilliaca ma poverissima, si è sposata con un Kazanci, membro di una famiglia più ricca e raffinata della sua, ma anche più sfortunata. Ha dovuto affrontare la difficoltà di essere la sposa di campagna dell'unico erede di una dinastia luminosa e tragica. Le è toccato partorire una femmina dopo l'altra, quando il suo dovere era dare alla luce figli maschi - più sono meglio è, perché non si può mai sapere quanti sopravvivranno - e ha dovuto vedere suo marito che si allontanava da lei dopo ogni nascita. Levent Kazanci era un uomo tormentato che non esitava a usare la cinghia per castigare moglie e figli: un maschio, se solo Dio avesse concesso un maschio, allora tutto sarebbe andato bene. Tre femmine di fila e poi il sogno si realizza, il quarto figlio è finalmente un maschio. Sperando che il fato avesse mutato direzione, ci avevano riprovato con il quinto, ma era nata un'altra femmina. A ogni modo, Mustafa era sufficiente, era quello che occorreva per perpetuare la stirpe. Coccolato, viziato, il bambino d'oro vedeva esaudito ogni capriccio... Poi l'incanto si era spezzato. Disperazione e oscurità si erano insinuate nel sogno: Mustafa era partito per gli Stati Uniti, per non tornare mai più. Nonna Gülsüm è una donna che non ha mai ricevuto amore; una di quelle che non invecchiano gradualmente ma di colpo, saltando dalla verginità alle rughe, senza potersi trattenere lungo la strada. Si era dedicata anima e corpo al suo unico maschio, spesso preferendolo alle figlie, cercando in lui la ricompensa per tutto ciò che la vita le aveva sottratto. Invece, dopo il trasferimento in Arizona, l'esistenza del figlio si era ridotta a una manciata di lettere e cartoline. Mustafa non era più tornato a Istanbul a far visita alla famiglia. Nonna Gülsüm aveva seppellito in profondità il dolore di quel ripudio. Con l'andare del tempo il suo cuore si è sempre più indurito, e oggi il suo aspetto è quello di una donna che ha volontariamente raggiunto il distacco e desidera mantenerlo. Al primo piano, nella stanza in fondo a destra, dorme Petite-Ma, con le gote arrossate e la bocca spalancata, e russa pacificamente. Vicino al letto c'è un mobile di ciliegio, sul quale sono posati il Sacro Corano, un libro sui santi musulmani e una sontuosa lampada che manda una morbida luce color salvia. Accanto al libro, un rosario color ocra e un bicchiere mezzo pieno con dentro la dentiera. Per lei il tempo ha ormai perduto il suo andamento lineare; non c'è più segnaletica, niente luci d'avvertimento, niente più cartelli lungo le strade della storia. È libera di muoversi in ogni direzione, e di cambiare corsia. O anche di puntare i piedi e di fermarsi lì in mezzo, perché nella sua vita non c'è più nulla che somigli all'idea di «progresso», ma solo un ricorrere perpetuo di momenti isolati. In questi giorni le tornano in mente i ricordi d'infanzia, nitidi come se li stesse vivendo adesso. Eccola, ragazzina di otto anni, dai capelli biondi e gli occhi azzurri, a Tessalonica, con la mamma che piange in silenzio la morte del padre nelle guerre balcaniche; e poi eccola a Istanbul, in un tardo ottobre, mentre sta nascendo la
moderna Repubblica di Turchia. Bandiere. Vede moltissime bandiere, rosse e bianche, con la mezzaluna e la stella, che garriscono nel vento come bucato steso. Dietro le bandiere compare il volto di Riza Selim, la barba folta e gli occhi tristi. Poi vede se stessa, una giovane donna seduta a un pianoforte Bentley che suona per ospiti eleganti. Nella piccola camera sopra a quella di Petite-Ma dorme zia Cevriye, in preda all'incubo ricorrente che l'ha perseguitata negli ultimi anni. È di nuovo a scuola, studentessa in divisa grigio cenere. Il direttore la chiama per un'interrogazione. Lei comincia a sudare mentre avanza barcollando, a passo pesante. Nessuna delle domande che le vengono rivolte sembra avere senso. A questo punto si rende conto che non ha mai superato l'esame di maturità. Da qualche parte è stato commesso un errore di registrazione, e adesso deve superarlo di nuovo per potersi diplomare e diventare insegnante. Ogni volta si sveglia allo stesso punto: il direttore tira fuori il registro e una penna stilografica con l'inchiostro rosso, poi scrive un grosso zero scarlatto accanto al suo nome. Quest'incubo la perseguita da dieci anni, da quando ha perduto suo marito. Era finito in carcere per corruzione, un'accusa alla quale la zia si era sempre rifiutata di credere. E appena un mese prima di essere rilasciato, era morto mentre assisteva a una rissa, per colpa di uno stupido filo elettrico scoperto. Nei suoi sogni zia Cevriye vedeva e rivedeva all'infinito quella scena, e vedeva anche il colpevole (ci doveva essere un colpevole) che aveva messo il filo in quel punto e aveva ucciso suo marito. Sognava di aspettarlo ai cancelli della prigione. Il resto del sogno era variabile. A volte stava per sputare in faccia al colpevole, a volte lo osservava da lontano, e altre volte ancora gli sparava non appena metteva piede fuori dal carcere. Dopo aver perduto il marito, zia Cevriye aveva venduto la casa ed era andata a vivere con le sorelle, che l'avevano accettata tra loro. Per i primi mesi, non aveva fatto altro che versare lacrime. Cominciava al mattino guardando le foto del defunto, ci parlava, piangeva su ognuna di esse, per poi concludere la giornata stremata dalla tristezza. Aveva gli occhi gonfi come due borse colme di dolore, e il naso spellato a furia di soffiarlo. Era rimasta in quello stato finché una mattina, di ritorno dal cimitero, aveva scoperto che le foto erano sparite. «Che cosa ne hai fatto delle fotografie?» aveva domandato zia Cevriye, sapendo benissimo con chi prendersela. «Ridammele!» «No» aveva risposto nonna Gülsüm, inflessibile. «Le foto ci sono ancora, ma tu non passerai le tue giornate a piangerci sopra. Perché il tuo cuore guarisca, per un po' non dovrai vederle.» Ma la zia non guarì proprio per niente. Semmai, imparò a visualizzare il marito senza bisogno di guardare le foto. Di tanto in tanto si sorprendeva a ridisegnargli il viso, aggiungendogli baffi brizzolati, o qualche ciuffo in più di capelli. La sparizione delle foto coincise con la trasformazione di zia Cevriye in un'onesta insegnante di storia nazionale turca. Nella camera di fronte dorme zia Feride. E una donna intelligente e creativa, una specie di collage umano. Bisognerebbe solo che riuscisse a tenere insieme i pezzi. È raro e meraviglioso, ma anche terribile, essere così sensibili. Dato che le può
accadere qualsiasi cosa, in ogni momento, la zia non è mai sicura del terreno che ha sotto i piedi. Non c'è sicurezza né continuità nella sua vita. Tutto è diviso in frammenti che supplicano di essere messi insieme ma sfidano allo stesso tempo ogni nozione di completezza. Di tanto in tanto zia Feride sogna di avere un amante. Vorrebbe un amore capace di assorbirla, fino ad abbracciare le sue molteplici ansie, eccentricità e anomalie. Un amante che la adori per come è, in grado di apprezzare non solo la sua parte migliore, ma anche il suo lato oscuro. Vuole qualcuno capace di starle accanto nel bene e nel male, nella salute e nella follia. Dev'essere per questo che i pazzi hanno difficoltà a stare con qualcuno, pensa, non perché sono fuori di testa, ma perché è difficile trovare chi sia disposto a stare con tante persone dentro unasola. Ma sono sogni a occhi aperti. Nei sogni veri, zia Feride non vede amanti ma collage astratti. Di notte crea patchwork dai colori stridenti e moltiplica forme geometriche. Il vento soffia forte, le correnti oceaniche scorrono veloci e il mondo diventa un globo dalle infinite possibilità. Tutto ciò che è costruito può essere nello stesso istante decostruito. I medici hanno detto a zia Feride di stare tranquilla, di prendere regolarmente le sue medicine. Ma sanno ben poco di quella dialettica. Fare e disfare, fare e disfare, fare e disfare. La mente di zia Feride è una splendida creatrice di collage. Vicino alla camera di zia Feride c'è il bagno, e dall'altra parte del bagno c'è la camera di zia Zeliha. È sveglia, seduta sul letto a osservare la stanza come fosse quella di un altro, come se ne memorizzasse i dettagli per sentirsi più vicina all'estranea che ci vive. Osserva i suoi vestiti: dozzine di gonne, tutte corte, tutte appariscenti, il suo modo di protestare contro il codice morale che hanno tentato di imporle. Alle pareti ci sono foto e poster di tatuaggi. Zia Zeliha è una donna di quasi quarant'anni, ma per certi versi la sua stanza sembra quella di un'adolescente. Forse non crescerà mai, non perderà mai la rabbia che ha dentro, che senza volerlo ha trasmesso alla figlia. A suo modo di vedere chiunque non sia in grado di alzarsi e ribellarsi, chiunque sia privo della capacità di dissentire, non può ritenersi vivo. La chiave della vita per lei sta nella resistenza. E le persone si suddividono in due gruppi: i vegetali, che si adattano a tutto, e i bicchieri da té, che pur non accettando certe cose, non hanno la forza di affrontarle. E sono loro ad avere la peggio. Quando ancora aveva l'abitudine di inventare delle regole, zia Zeliha ne aveva formulata una proprio per loro: Regola di ferro della donna di Istanbul: Se sei fragile come un bicchiere da té, sforzati di non entrare mai in contatto con l'acqua bollente e spera di trovare il marito ideale, oppure fatti scopare e rompiti prima che puoi. Sennò, smetti di essere una donna-bicchiere da té! Lei ha optato per quest'alternativa. Zia Zeliha detesta la fragilità. Ancora adesso è l'unica della famiglia Kazanci capace di infuriarsi contro un bicchiere da té che si rompe.
Allunga la mano verso il pacchetto di Marlboro Light che ha sul comodino e si accende una sigaretta. L'età non ha cambiato le sue abitudini. Sa che anche sua figlia fuma. Sembra la conferma di quegli opuscoli da due soldi del ministero della Salute: I figli dei fumatori abituali hanno una probabilità tre volte più alta di diventare anch'essi fumatori abituali. Zia Zeliha si preoccupa per la salute di Asya, ma è abbastanza saggia da capire che se interviene troppo spesso e mostra di non fidarsi di lei, otterrà solo di metterla sulla difensiva. È difficile fingere di non preoccuparsi, proprio come è difficile accettare di farsi chiamare «zia» dalla figlia. Ti uccide. Eppure zia Zeliha è ancora convinta che sia meglio così, per entrambe. In qualche modo questo svincola la figlia dalla madre; è necessario che mantengano quel distacco formale per conservare l'attaccamento fisico e spirituale. Allah le è testimone: peccato che lei non creda nella Sua esistenza. Aspira pensierosa una boccata, la trattiene per un momento, poi sbuffa con rabbia. Ammesso che Allah esista e sia onnisciente, perché non utilizza meglio quella Sua onniscienza? Perché lascia che le cose vadano come vanno? No, zia Zeliha è convinta, non c'è verso che si arrenda alla religione. Ha sempre vissuto da agnostica, e morirà da agnostica. Pura e sincera nella bestemmia. Se davvero Allah esiste da qualche parte, apprezzerà la sincerità della sua posizione, affine a quella di pochi eletti, che non si lasciano convincere dalle masse di fanatici religiosi che pullulano ovunque. Nella stanza in fondo, al secondo piano, c'è zia Banu. Anche lei a quest'ora è sveglia. La terza persona sveglia in casa Kazanci. Ma stamani c'è qualcosa di strano in lei. È pallida, e i suoi grandi occhi nocciola tremano di preoccupazione. Ha davanti uno specchio. Si guarda e vede una donna invecchiata prima del tempo. Per la prima volta da anni le manca suo marito, il marito che ha lasciato ma non del tutto. È un brav'uomo, che avrebbe meritato una moglie migliore. Non l'ha mai trattata male né le ha detto una parola cattiva, ma dopo aver perduto i due figli zia Banu non sopportava più di vivere con lui. Di tanto in tanto torna alla loro vecchia casa, come un'estranea che riconosce un posto per un fenomeno di déjà vu. Per strada gli compra le albicocche secche, le sue preferite. Quando è da lui pulisce un po', gli cuce qualche bottone, gli cucina qualcosa di buono e riordina l'appartamento. Non che ci sia molto da fare: è un uomo che sa tenere bene la casa. Mentre zia Banu lavora, lui rimane a osservarla da vicino. Alla fine le chiede sempre: «Rimani?» La risposta di zia Banu non cambia mai: «Non oggi» Prima di andarsene aggiunge: «Ti ho lasciato del cibo nel frigo. Non dimenticarti di scaldare la zuppa, cerca di finire il pilaki nel giro di due giorni altrimenti va a male. Ricordati di bagnare le violette, le ho spostate vicino alla finestra». Lui annuisce e borbotta piano, come parlasse da solo: «Non preoccuparti, so prendermi cura di me. E grazie per le albicocche...». Dopodiché zia Banu torna a casa Kazanci. È sempre andata così, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Questa mattina la donna nello specchio sembra più vecchia. Zia Banu ha sempre pensato che invecchiare prima del tempo fosse un prezzo che doveva pagare alla sua
professione. La grande maggioranza degli esseri umani invecchia anno per anno, ma non le veggenti: loro invecchiano storia per storia. Se solo avesse voluto, zia Banu avrebbe potuto chiedere qualcosa in cambio. Ma come non aveva mai chiesto ai suoi jinn alcuna ricchezza materiale, così non aveva mai chiesto nemmeno la bellezza fisica. Forse lo farà, un giorno. Fino a questo momento Allah le ha dato la forza di continuare senza chiedere altro. Ma oggi sta per chiedere qualcosa di più. Allah, dammi la conoscenza, perché non posso resistere all'impulso di sapere, ma dammi anche la forza di sopportare quella conoscenza. Dal cassetto prende un rosario di giada e strofina i grani. «Allora, sono pronta: cominciamo. Che Allah mi aiuti ! » Appesa allo scaffale su cui si trova la lampada a gas, la signora Dolce sorride, scontenta però del ruolo di osservatrice, scontenta di quello a cui dovrà assistere. Intanto il signor Amaro sorride amaramente, l'unico modo in cui sa sorridere. È soddisfatto. Finalmente zia Banu si è decisa. Non è stato lui a convincerla, ma la sua mortale curiosità. Non ha resistito all'impulso di sapere. Quell'atavica tensione alla conoscenza... Chi potrebbe resistere, dopotutto? Ora zia Banu e il signor Amaro viaggeranno insieme indietro nel tempo. Dal 2005 al 1915. Sembra un viaggio lungo, ma si tratta solo di pochi passi, per un gulyabani. Davanti allo specchio, fra i jinn e la padrona, c'è una ciotola d'argento con acqua consacrata della Mecca. Dentro la ciotola d'argento c'è l'acqua d'argento, e dentro l'acqua c'è una storia, anch'essa d'argento.
Capitolo dodici Semi di melagrana
Hovhannes Stamboulian accarezzò la scrivania di noce intagliata a mano alla quale era rimasto seduto fin dal primo pomeriggio, sentendone sotto le dita la superficie liscia e regolare. L'antiquario ebreo che gliel'aveva venduta aveva detto che pezzi del genere sono piuttosto rari, perché molto difficili da lavorare. Costruita in legno di noce delle Isole Egee, era ornata di minuscoli cassetti e scomparti segreti, simili a un ricamo finissimo, ma era anche così robusta da durare per parecchie generazioni. «Questa scrivania sopravviverà a lei e anche ai suoi figli!» aveva sghignazzato il venditore, come se quella fosse una delle sue battute preferite con i clienti. «Non è sublime che un pezzo di legno viva più a lungo di noi?» Pur sapendo che il commento voleva solo sottolineare la qualità della merce, Hovhannes Stamboulian aveva avvertito una fitta di tristezza. Aveva comunque comprato la scrivania. E con essa, nello stesso negozio, aveva comprato anche una spilla, una graziosa spilla a forma di melagrana, delicatamente incorniciata di fili d'oro, con una spaccatura centrale che lasciava intravedere i semi di rubino rosso che risplendevano all'interno. Era l'opera di squisita lavorazione di un artigiano armeno di Sivas, gli era stato detto. Hovhannes Stamboulian la comprò per regalarla a sua moglie. Pensa va di dargliela quella sera dopo cena, o magari prima, non appena avesse concluso il capitolo. Di tutti quelli che aveva scritto, quel capitolo era stato il più impegnativo. Se avesse saputo che si sarebbe rivelato così faticoso, forse avrebbe abbandonato l'intero progetto. Ma ormai era immerso fino al collo nel libro, e non aveva altra scelta che portarlo avanti. Hovhannes Stamboulian, poeta e giornalista di fama, stava segretamente scrivendo un libro del tutto estraneo al suo campo d'interesse. Un libro per cui correva il rischio di essere respinto, o messo in ridicolo, o disprezzato. In un momento in cui l'Impero ottomano millantava imprese grandiose e ardeva di movimenti rivoluzionari e divisioni nazionalistiche, mentre la comunità armena era gravida di ideologie innovatrici e dibattiti infuocati, lui, nell'intimità di casa sua, scriveva un libro per bambini. Scrivere un libro per bambini in armeno era una cosa che nessuno aveva mai fatto prima d'allora. Com'era possibile che non ci fosse una sola opera armena di quel genere? Perché la comunità armena era diventata incapace di considerare bambini i propri bambini? L'infanzia era forse diventata una frivolezza, se non addirittura un
lusso, negata a una minoranza in nome della necessità di crescere il più in fretta possibile? O era piuttosto perché i letterati armeni di Istanbul erano rimasti tagliati fuori dalla tradizione orale tramandata dalle nonne armene ai loro nipoti? Il libro si intitolava Il piccioncino sperduto e il Paese felice. Raccontava di un piccolo piccione che si era perso nel cielo mentre volava verso un Paese felice insieme alla sua famiglia e ai suoi amici. Allora si era messo in cerca dei suoi cari, fermandosi in diversi villaggi, paesi e città, e a ogni tappa ascoltava una nuova storia. Con quel sistema Hovhannes Stamboulian aveva raccolto nel libro alcune vecchie fiabe armene, la maggior parte delle quali erano state trasmesse di generazione in generazione, mentre altre erano da tempo dimenticate. Era rimasto fedele all'autenticità di ogni storia, facendo il possibile per non cambiare neppure una parola. Ma aveva programmato di concludere il libro con una storia sua. Una volta finito, l'avrebbe pubblicato a Istanbul e quindi distribuito nelle maggiori città, come Adana, Harput, Van, Trabzon e Sivas, dove vivevano moltissimi armeni. I musulmani conoscevano la stampa da circa due secoli, ma la minoranza armena aveva una tradizione ben più antica. Hovhannes Stamboulian voleva che i genitori leggessero quelle fiabe ai loro figli ogni sera prima di metterli a letto. Gli sembrava paradossale, tuttavia, che quel libro, negli ultimi diciotto mesi, gli avesse sottratto così tanto tempo che lo scrittore aveva finito per trascurare proprio i suoi figli. Di pomeriggio si chiudeva in camera sua, si sedeva alla scrivania, e scriveva fino a tardi. La sera, quando emergeva dalla stanza, i suoi figli erano a letto, addormentati. L'impulso a scrivere aveva gettato un incantesimo su tutti gli aspetti della sua vita. Ma per fortuna era quasi arrivato in fondo. Quella sera stava scrivendo proprio l'ultimo capitolo. Appena finito sarebbe sceso al piano di sotto, avrebbe legato il manoscritto con un nastro, nascosto la spilla nel nodo, e consegnato il pacco a sua moglie. Il piccioncino sperduto e il Paese felice era dedicato a lei. «Leggilo, ti prego» aveva pensato di dirle. «Se non ti sembra abbastanza buono, voglio che tu lo bruci. Tutto. Prometto che non te ne chiederò neppure il motivo. Ma se ritieni che sia buono, voglio dire buono abbastanza da essere pubblicato e distribuito, allora ti prego di portarlo a Garabed Effendi alla Dawn Publishers.» Hovhannes Stamboulian stimava l'opinione di sua moglie sopra ogni altra. Lei aveva gusti sofisticati in fatto di letteratura e belle arti. Grazie alla sua ospitalità, il bianco konak sulla riva del Bosforo era diventato nel corso degli anni un ritrovo di intellettuali e artisti, frequentato da numerosi uomini di lettere, da scrittori famosi e da altri che aspiravano a diventarlo. Venivano per mangiare, bere, leg gere, contemplare, discutere con fervore delle opere altrui e, con ancora più fervore, delle proprie. Dopo aver volato a lungo, il piccioncino sperduto si sentì stanco e assetato e si posò sul ramo coperto di neve di un melograno sul punto di fiorire. Si riempì di neve il minuscolo becco e, avendo così placato la sete, cominciò a piangere per i propri genitori.
«Non piangere, piccioncino» gli disse l'albero. «Lascia che ti racconti una storia, La storia del piccioncino sperduto.» Hovhannes Stamboulian si interruppe, senza riuscire a capire cosa di preciso avesse disturbato la sua concentrazione. Si lasciò sfuggire un sospiro esasperato, sorpreso lui stesso da quella reazione. Nell'ultima mezz'ora la sua mente era stata un guazzabuglio di pensieri cupi. Non capiva perché si sentisse così preoccupato, come se il suo cervello lavorasse da solo, concentrato su pensieri a lui ignoti. Qualunque fosse il motivo del disagio, doveva liberarsene. Era l'ultimo capitolo, l'ultima fiaba. Doveva riuscirgli bene. Strinse le labbra e continuò a scrivere. «Ma è di me che stai parlando. Sono io il piccioncino sperduto!» cinguettò il piccolo piccione, stupito. «Ah, davvero?» chiese il melograno, che però non sembrava per niente sorpreso. «Allora ascolta la storia... Non vuoi conoscere il tuo futuro?» «Solo se è felice» disse il piccioncino sperduto. «Se è triste non voglio saperne nulla.» Di colpo l'immobilità dell'aria fu spezzata da un rumore di vetri infranti. Hovhannes Stamboulian sussultò sulla sedia, smise di scrivere e d'istinto si voltò verso la fine stra, ma restò immobile, con le orecchie tese. Per un lungo istante non sentì altro che l'ululato del vento. Stranamente, il silenzio gli sembrò più forte del rumore precedente. Quel silenzio spettrale gravava sulla sera, mentre fuori il vento ruggiva come se portasse la voce di un Dio furibondo per ragioni ignote ai mortali. Ma dentro la casa non volava una mosca. Hovhannes Stamboulian era così angosciato da quella strana atmosfera che provò quasi sollievo quando sentì dei rumori al piano inferiore. Qualcuno corse da un estremo all'altro della casa, e poi tornò indietro; passi spaventati, rapidi, che sembravano fuggire da qualcosa. Questo dev'essere Yervant, pensò, mentre un lampo di preoccupazione gli attraversava il volto. Il figlio maggiore, Yervant, era sempre stato indisciplinato e turbolento, ma negli ultimi tempi aveva superato ogni limite. Per la verità, Hovhannes Stamboulian si sentiva in colpa per non avergli dato le necessarie attenzioni. Era evidente che il ragazzo sentiva la mancanza del padre. Invece gli altri figli, due maschi e una femmina, erano particolarmente docili, come se la frenesia del fratello avesse su di loro un effetto soporifero. I due ragazzi più giovani avevano tre anni di differenza, ma erano ugualmente remissivi. E poi c'era la sorellina più piccola, l'unica femmina, la piccola Shushan. «Non preoccuparti, uccellino» sorrise il melograno scuotendo i rami. «Quella che sto per raccontarti è una storia a lieto fine.»
I passi nel corridoio si moltiplicarono in maniera allarmante. Adesso sembrava che ci fossero decine di Yervant che correvano da una parte all'altra della casa, pestando i piedi sul pavimento. Ma in mezzo allo scalpiccio, gli sembrò di distinguere una voce secca e aspra come il crepitio del fuoco, così brusca e inaspettata che dubitò di averla sentita davvero. E poi nulla. Subito dopo tornò il silenzio, come se tutto il resto non fosse stato altro che un parto della sua immaginazione. In condizioni normali sarebbe corso fuori dalla stanza per controllare che fosse tutto a posto. Ma quella non era una sera come le altre. Non voleva essere disturbato, non ora, non mentre stava per concludere il lavoro di diciotto mesi. Hovhannes si agitò in preda all'angoscia, come un tuffatore che si è immerso troppo a fondo e non riesce a riportare il corpo in superficie. Il mulinello della scrittura era turbinoso e costrittivo, ma anche stimolante. Le parole saltavano e rimbalzavano sul foglio di carta, supplicandolo di concludere quell'ultima storia e di condurle al destino da tempo atteso. «D'accordo, allora» tubò il piccioncino. «Raccontami la storia del piccioncino sperduto. Ma ti avverto: se sento qualcosa di triste, volerò subito via.» Hovhannes Stamboulian sapeva cosa avrebbe risposto il melograno, e come sarebbe cominciato quell'ultimo racconto, ma prima che potesse metterlo sul foglio, al piano di sotto qualcosa cadde a terra e si frantumò in mille pezzi. Nel frastuono colse un singhiozzo: per quanto breve e soffocato, riconobbe istantaneamente il pianto di sua moglie. Saltò in piedi, ormai sradicato dall'universo della scrittura, risalendo in superficie come un pesce morto.
Mentre si precipitava verso le scale, a Hovhannes Stamboulian venne in mente la conversazione avuta in mattinata con Kirkor Hagopian, eminente avvocato e membro del Parlamento ottomano. «Sono tempi duri, molto duri. Prepariamoci al peggio» era stata la prima cosa che Kirkor aveva borbottato quando si erano incontrati dal barbiere. «Hanno cominciato con la coscrizione degli armeni. "Non siamo tutti uguali, non siamo forse tutti ottomani?" hanno detto. "Musulmani e non musulmani, ci batteremo tutti insieme contro il nemico!" Però poi agli armeni hanno tolto le armi, come se fossero loro il nemico. E hanno raccolto tutti gli armeni in gruppi di lavoro. E ora, amico mio, circolano voci... Alcuni dicono che il peggio deve ancora venire.» Per quanto preoccupato, Hovhannes Stamboulian non si sentiva personalmente coinvolto. Lui era troppo vecchio per essere reclutato e i suoi figli erano troppo giovani. L'unico della famiglia in età di coscrizione era il fratello minore di sua moglie, Levon. Ma aveva già evitato il servizio militare durante le guerre balcaniche perché qualificato come «unico sostegno» della famiglia. Ma forse quella vecchia regola ottomana sarebbe cambiata. Al giorno d'oggi non si poteva essere sicuri di niente. All'inizio della Prima guerra mondiale avevano annunciato che avrebbero
reclutato soltanto i ventenni, ma quando il conflitto si era aggravato, erano stati reclutati anche i trentenni e persino quelli sopra i quaranta. La guerra non faceva per Hovhannes Stamboulian. E nemmeno il lavoro manuale. Lui amava la poesia. Amava le parole, assaporava sulla lingua e sulle labbra ogni singola lettera dell'alfabeto armeno. Secondo lui alla minoranza armena non servivano le armi, come certi rivoluzionari sostenevano, ma i libri, più libri. Sebbene nuove scuole fossero state fondate dopo le riforme, gli armeni avevano bisogno di insegnanti più aperti e meglio preparati, e di libri migliori. Qualche ulteriore passo avanti c'era stato dopo la rivoluzione del 1908. La popolazione armena aveva sostenuto i Giovani Turchi nella speranza che avrebbero trattato meglio i nonmusulmani. Nella loro dichiarazione i Giovani Turchi avevano annunciato: Ogni cittadino godrà di completa libertà e uguaglianza, indipendentemente dalla sua nazionalità o religione, e sarà soggetto alle medesime leggi. Tutti gli ottomani, essendo uguali di fronte alla legge quanto ai diritti e doveri nei confronti dello Stato, possono concorrere per le cariche governative, sulla base delle loro capacità individuali e della loro preparazione. Certo, non avevano mantenuto la promessa, abbandonando l'ottomanismo multinazionale in favore del nazionalismo turco, ma le potenze europee tenevano d'occhio l'impero; sarebbero sicuramente intervenute se fosse accaduto qualcosa di tragico. Hovhannes Stamboulian era convinto che allo stato attuale l'opzione migliore per gli armeni fosse l'ottomanismo, non le idee radicali. Turchi, greci, armeni ed ebrei avevano vissuto insieme per secoli, e potevano ancora trovare il modo di convivere sotto lo stesso cielo. «Tu non capisci proprio niente, vero?» aveva ribattuto furibondo Kirkor Hagopian. «Vivi davvero nel mondo delle favole!» Hovhannes Stamboulian non l'aveva mai visto così arrabbiato e scontroso. Ma continuava a non essere d'accordo con lui. «Non credo che il fanatismo ci possa aiutare» aveva risposto con un sussurro. Era profondamente convinto che il fanatismo nazionalista avrebbe finito per sostituire una sofferenza all'altra, a scapito dei poveri e dei diseredati. Le minoranze avrebbero finito per staccarsi dalla maggioranza, solo per creare nuovi oppressori al proprio interno. Invece di farsi opprimere da una diversa etnia, avrebbero finito per farsi opprimere dalla propria gente. «Fanatismo!» l'espressione di Kirkor Hagopian era diventata una maschera tragica. «Ci sono notizie in arrivo da molte città dell'Anatolia. Non hai sentito parlare dei disordini di Adana? Entrano nelle case degli armeni con il pretesto di cercare armi, e poi le saccheggiano. Non capisci? Gli armeni verranno esiliati. Dal primo all'ultimo! E tu sei qui a tradire il tuo popolo!» Hovhannes Stamboulian era rimasto in silenzio per un momento, masticandosi la punta di un baffo. Poi aveva mormorato lentamente ma con fermezza: «Possiamo lavorare tutti insieme, ebrei, cristiani e musulmani. Abbiamo vissuto secoli e secoli sotto il tetto dello stesso impero, anche se con qualche discriminazione. Dobbiamo collaborare per fare in modo che questo diventi un impero giusto».
Era stato allora che Kirkor Hagopian aveva pronunciato quelle tristi parole, il volto ormai impenetrabile: «Svegliati, amico mio, non esiste più nessun "insieme" Quando la melagrana si rompe e i semi si spargono in tutte le direzioni, non puoi più rimetterli insieme» In quel momento, in piedi in cima alle scale, intento ad ascoltare l'insolito silenzio che regnava nella sua casa, Hovhannes Stamboulian non potè fare a meno di rievocare quell'immagine: una melagrana spaccata, rossa e triste. In preda al panico chiamò la moglie: «Armanoush! Armanoush, dove sei?». Devono essere in cucina, pensò, e corse giù per le scale. In seguito allo scoppio della Prima guerra mondiale, era stata dichiarata la mobilitazione generale. Per quanto se ne parlasse in tutta Istanbul, era nelle campagne che se ne sentivano di più gli effetti. I tamburi avevano rullato per le strade, le grida avevano echeggiato nell'aria: Seferberliktir! Seferberliktir! Mobilitazione! Fu allora che molti giovani armeni vennero arruolati nell'esercito. Più di trecentomila. All'inizio vennero loro consegnate le armi come ai commilitoni musulmani. Ma di lì a poco dovettero restituirle. I soldati armeni furono radunati in uno speciale battaglione di lavoro. Girava voce che dietro quella decisione ci fosse Enver Pascià: «Abbiamo bisogno di braccia per costruire strade sulle quali i soldati possano passare» aveva annunciato. Ma poi erano cominciate ad arrivare notizie spiacevoli. Si diceva che gli armeni venissero sfruttati per questo lavoro massacrante, anche se alcuni di loro avevano pagato il bedel per esserne esentati. Si diceva che quello delle strade fosse solo un pretesto: in realtà scavavano buche, profonde e lunghe abbastanza da... Si diceva che gli armeni venissero sepolti nelle fosse che erano stati costretti a scavare. «Le autorità turche hanno annunciato che gli armeni tingeranno le uova di Pasqua con il loro stesso sangue!» fu l'affermazione finale di Kirkor Hagopian prima di lasciare il negozio del barbiere. Hovhannes Stamboulian non aveva dato troppo credito a quelle voci, pur concordando che erano tempi difficili. Sceso al piano di sotto, chiamò ancora una volta sua moglie, e sospirò non sentendo risposta. Quando uscì sotto il portico e superò il lungo tavolo di ciliegio dove facevano colazione nei giorni miti, gli venne in mente una nuova scena del Piccioncino sperduto. «Ascolta la tua storia, allora» disse il melograno, agitando qualche ramo per liberarsi della neve. «C'era una volta, o forse non c'era, quando le creature di Dio erano numerose come chicchi di grano e parlare troppo era peccato...» «Ma perché?» cinguettò il piccioncino sperduto. «Perché parlare troppo era peccato?» La porta della cucina era chiusa. Strano, a quell'ora del giorno. Di solito Armanoush era là dentro a lavorare con Marie, da cinque anni al loro servizio, e i bambini intorno. Non si chiudevano mai dentro.
Hovhannes Stamboulian allungò la mano verso la maniglia ma, prima che potesse afferrarla, la vecchia porta di legno venne aperta dall'interno e lui si ritrovò faccia a faccia con un soldato turco, un sergente. Per la sorpresa i due rimasero a fissarsi per qualche istante. Fu il sergente a riprendersi per primo. Fece un passo indietro e squadrò l'altro da capo a piedi. Era un uomo dalla carnagione scura e, a parte la durezza dello sguardo, aveva un bel viso giovane e liscio. «Cosa sta succedendo qui?» esclamò Hovhannes Stamboulian. Intravide sua moglie, i figli e Marie allineati lungo la parete in fondo alla cucina, uno di fianco all'altro come bambini in castigo. «Abbiamo l'ordine di perquisire la casa» disse il sergente. Non c'era ostilità nella sua voce, ma neppure simpatia. Aveva l'aria stanca, e qualunque fosse la ragione per cui si trovava lì, sembrava voler sbrigare la cosa il più in fretta possibile. «Potrebbe per favore indicarci il suo studio?» Passarono nella parte posteriore della casa e salirono la grande scalinata ricurva, Hovhannes Stamboulian davanti, il sergente e i suoi soldati dietro. Entrati nello studio, i soldati cominciarono ad aggirarsi per la stanza, ognuno dedicandosi a un mobile in particolare, come api in un prato fiorito. Frugarono negli armadi, nei cassetti, e in ogni ripiano della libreria che correva da una parete all'altra. Sfogliarono centinaia di volumi alla ricerca di documenti nascosti fra le pagine, frugarono fra i suoi libri preferiti, I fiori del male di Baudelaire, Le chimere di Nerval, Le notti di Musset, I miserabili e Il gobbo di Notre-Dame di Hugo. Mentre un soldato robusto passava al vaglio con sguardo attento il Contratto Sociale di Rousseau, Hovhannes Stamboulian non potè fare a meno di riflettere sulla pagina che l'uomo stava guardando senza davvero vederla: L'uomo è nato libero e tuttavia è ovunque in catene. In realtà, la differenza è che il selvaggio vive in se stesso, mentre l'uomo socievole vive sempre fuori da se stesso, non sa vivere che nell'opinione degli altri ed è unicamente dal loro giudizio che egli deriva il sentimento della propria esistenza. Quando ebbero finito con i libri, cominciarono a esaminare i cassetti della scrivania. Fu allora che uno dei soldati vide la spilla appoggiata sul piano. La porse al sergente, che prese la melagrana in miniatura, soppesandola sul palmo. La fece ruotare per vedere meglio i rubini che c'e rano all'interno, e poi la rese a Hovhannes Stamboulian con un sorriso. «Non dovrebbe lasciare un gioiello così prezioso in piena vista. Ecco, prenda» disse il sergente con placida cortesia. «Grazie. È un regalo per mia moglie» rispose con calma Hovhannes Stamboulian. Il sergente gli rivolse un sorriso d'intesa da uomo a uomo. Ma poco dopo la sua espressione mutò da cordiale ad accigliata, e quando parlò di nuovo non lo fece con la stessa amabilità. «Mi dica cosa c'è scritto lì» disse il sergente indicando un mazzo di fogli che aveva trovato in un cassetto, scritti in caratteri armeni. Hovhannes Stamboulian riconobbe immediatamente una poesia che aveva composto in un periodo di malattia, l'autunno precedente. Era rimasto a letto per tre
giorni di fila, in preda ai brividi, incapace di muoversi, sudando come se il suo corpo fosse una botte piena d'acqua che debordava di continuo. Per tutto quel tempo Armanoush era rimasta al suo capezzale, a rinfrescargli la fronte con pezzuole impregnate d'aceto e a strofinargli il petto con cubetti di ghiaccio. Poi, alla fine del terzo giorno, quando la febbre era finalmente calata, gli era venuta in mente una poesia, che aveva percepito come il compenso per le sofferenze attraversate. Per quanto non fosse religioso, credeva in una sorta di provvidenza, ed era convinto che non si manifestasse su larga scala, ma proprio con piccoli segni come quello. «Legga!» intimò il sergente spingendo i fogli verso di lui. Hovhannes Stamboulian inforcò gli occhiali e cominciò a leggere i primi versi, con voce tremula: L'infante piange nel sonno senza sapere perché, Un pianto soffocato ma continuo Il suo è un desiderio impossibile da placare. È così che io ti desidero... «Questa è poesia» latrò il sergente interrompendolo, e sottolineò l'ultima parola come se ne fosse deluso. «Sì.» Hovhannes Stamboulian annuì, anche se non era ben sicuro se fosse bene o male. Ma il lampo che scorse nello sguardo del sergente non gli sembrò poi così ostile. Forse gli era piaciuta. Forse se ne sarebbe andato, portandosi dietro i soldati. «Hovhannes Stamboulian» borbottò il sergente, trascinando le sillabe. «Lei è un erudito, un uomo di cultura. Lei è molto conosciuto e stimato. Perché mai un uomo come lei si mette a cospirare con un branco di ignobili ribelli?» Hovhannes Stamboulian alzò gli occhi scuri e battè le palpebre perplesso. Non sapeva cosa dire in propria difesa, perché non aveva la più pallida idea di quale fosse l'accusa. «I ribelli armeni... hanno letto le sue poesie e sono insorti contro il Sultanato Ottomano» disse il sergente aggrottando la fronte. «Lei li ha guidati alla ribellione.» Di colpo Hovhannes Stamboulian afferrò la natura e la gravità di quell'accusa. «Ufficiale,» disse fissando il sergente che lo fissava a sua volta, timoroso che se avesse interrotto il contatto visivo, quel fragile legame di comprensione che sembrava collegarli si sarebbe disintegrato per sempre «anche lei è una persona istruita e comprenderà la difficoltà della mia situazione. Le poesie sono l'eco della mia immaginazione. Io le scrivo e le pubblico, ma non posso esercitare alcun controllo su quelli che le leggono e sulle loro intenzioni.» Con l'aria pensierosa, il sergente fece scrocchiare le nocche, una per una. Poi si schiarì la gola come a sottolineare l'importanza di quello che stava per dire. «Comprendo perfettamente il suo dilemma. Tuttavia, lei è responsabile delle sue parole. È lei che le scrive. E lei il poeta...» In uno sforzo disperato di controllare quello che stava diventando un panico assoluto, Hovhannes Stamboulian fece scorrere lo sguardo per la stanza, fino a
incrociare quello del figlio maggiore, che osservava la scena sbirciando attraverso la porta socchiusa. Quand'è che era scivolato fuori dalla cucina? Da quanto tempo era lì? Il ragazzo aveva le guance arrossate per la rabbia. Ma nella sua espressione c'era anche qualcosa di più. Il giovane volto di Yervant sembrava in qualche modo imperturbabile e perfino saggio. Hovhannes gli sorrise, cercando di dargli a intendere che andava tutto bene, e gli fece cenno di tornare da sua madre. Ma Yervant non si mosse. «Temo che dovrà venire con noi» disse il sergente. «Non posso» rispose d'istinto Hovhannes Stamboulian, rendendosi conto di quanto fosse fuori luogo quello che avrebbe voluto dire: Questa sera devo finire il mio libro... È l'ultimo capitolo... Chiese invece il permesso di parlare con la moglie. Prima che lo portassero via, l'ultima cosa che gli rimase impressa nella memoria fu l'espressione di Armanoush, gli occhi sbarrati e le labbra terree. Ma non piangeva, e non sembrava neppure sconvolta: semmai terribilmente stanca, come prosciugata di tutte le forze. Come avrebbe voluto prenderle le mani, abbracciarla stretta e sussurrarle di essere forte, sempre forte, per amore dei loro figli e di quello in arrivo. Armanoush era incinta di quattro mesi. Solo quando lo spinsero fuori dalla porta, nella strada buia, con i soldati ai due lati, Hovhannes Stamboulian si rese conto di aver dimenticato di darle il regalo. Si frugò in tasca, sollevato di non sentire la melagrana d'oro sotto la punta delle dita. L'aveva lasciata in casa, in un cassetto. Sorrise appena, al pensiero di come sarebbe stata felice Armanoush quando l'avesse trovata là dentro.
Appena i soldati furono andati via, si sentirono altri passi che si avvicinavano veloci. Era la vicina turca. Una donna tonda e dolce, sempre allegra, anche se non certo in quel momento. Fu proprio l'espressione terrorizzata della vicina che aiutò Armanoush a riemergere da quella specie di trance, permettendole di avere paura. Attirò a sé Yervant e gli sussurrò con labbra tremanti: «Vai dallo zio Levon... digli di venire subito. Raccontagli cosa è successo». L'abitazione di zio Levon, una modesta casetta a due piani, con il laboratorio da basso, non era lontana, era appena dietro l'angolo della piazza del mercato. Dopo che la bellissima armena di cui si era innamorato da giovane, e che forse amava ancora, l'aveva respinto, non si era mai deciso a sposare un'altra, e da allora aveva trascorso la vita lavorando sodo nel suo laboratorio, famoso per la qualità dei suoi manufatti. Era un calderaio, e fabbricava i migliori calderoni e le migliori pignatte dell'impero. Appena uscito, Yervant mosse qualche passo in direzione della casa dello zio, poi si fermò di colpo, fece dietrofront, e si mise a correre nella direzione in cui era sparito il padre. Ma quando arrivò in fondo alla strada, non vide traccia di Hovhannes. Non c'era nessuno. Come se i soldati turchi e suo padre fossero spariti nel nulla. Subito dopo Yervant raggiunse la casa di Levon, ma lui non era di sopra. Bussò all'ingresso del laboratorio, sperando che fosse là dentro. Era normale che si trattenesse a lavorare fino a tardi. Ma la porta fu aperta dal suo apprendista, Riza
Selim, un ragazzo turco calmo e posato, con la pelle bianca come la porcellana e i capelli nerissimi che si arricciavano intorno alla testa. «Dov'è mio zio?» chiese Yervant. «Mastro Levon è andato via» disse Riza Selim con voce strozzata. «Questo pomeriggio sono venuti i soldati e lo hanno portato via.» Appena pronunciate quelle terribili parole, Riza Selim lasciò scorrere le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento. Era orfano, e negli ultimi sei anni zio Levon gli aveva fatto da padre. «Non so cosa fare» disse. «Aspetto...» Sulla via del ritorno Yervant attraversò di corsa le stradine a destra e a sinistra della via principale, nella speran za di trovare qualcosa, qualunque cosa che potesse sembrargli di buon auspicio. Passò davanti a caffè deserti, piazzette sudice, case sgangherate dalle quali venivano strilli di neonati e odore di türlü. L'unico segno di vita era un gattino rossiccio che miagolava disperato vicino a un canale di scolo, e si leccava il minuscolo ventre squarciato, con un cerchio di sangue coagulato attorno alla ferita gonfia e profonda. Anni dopo, quando ripensava a suo padre, Yervant rivedeva quel micio tutto solo nella strada buia e deserta. Persino a Sivas, nel piccolo villaggio di Pirkinik dove avevano cercato rifugio dai nonni, per poi essere scacciati nottetempo dai soldati; persino quando si era ritrovato in marcia insieme a migliaia di armeni sconfitti, affamati e assetati, sorvegliati dai soldati a cavallo; persino quando, con loro, si faceva strada a fatica su un tappeto di fango, vomito, sangue ed escrementi; persino quando non sapeva come placare gli strilli della sua sorellina Shushan, che un giorno, nella calca, gli sfuggì di mano perdendosi; persino quando i piedi di sua madre si erano trasformati in due sacche bluastre di dolore, coperte di vene violacee e di sangue; persino quando lei era morta, calma e leggera come una foglia secca di salice trascinata dal vento; persino quando aveva visto cadaveri gonfi e putrefatti che si allineavano ai bordi della strada, e stalle ribollenti di fuoco e di fumo; persino quando, non avendo nient'altro da mangiare, lui e i suoi fratelli si erano messi a brucare l'erba come pecore nel deserto siriano; persino quando furono salvati da un gruppo di missionari americani che portavano in salvo gli orfani armeni perduti lungo le strade dell'esilio; persino quando li avevano condotti fino all'American College di Sivas, trasformato in rifugio, per spedirli da lì in America; persino quando, anni dopo, riuscì finalmente a ritrovare la sua sorellina Shushan, a Istanbul, e portarla a San Francisco; e persino dopo innumerevoli cene felici, allietate da figli e nipoti, quel gattino rimase per sempre impresso nella sua memoria. «Ora basta!» esclamò con un sussulto zia Banu. Si sfilò il velo e lo usò per coprire la ciotola d'argento. «Non voglio vedere altro. Ho saputo ciò che volevo sapere...» «Ma non hai visto tutto» obiettò il signor Amaro con voce rauca. «Non ti ho ancora raccontato dei pidocchi.» «I pidocchi?» balbettò zia Banu. L'energia che l'aveva spinta a interrompere la seduta sembrava averla abbandonata. Si riprese il velo e sbirciò ancora nella ciotola. «Oh sì, mia signora, i pidocchi: sono un dettaglio importante» disse il signor Amaro. «Ti ricordi di quando la piccola Shushan sfuggì di mano a suo fratello e si perse di colpo fra la folla? Prese i pidocchi da una famiglia che aveva avvicinato nella
speranza di ottenere un po' di cibo. Ne avevano già ben poco, per cui la cacciarono. Pochi giorni più tardi la piccola Shushan bruciava di febbre tifoidea!» Zia Banu emise un lungo, sonoro sospiro. «Io c'ero. Ho visto tutto. Shushan crollò in ginocchio. Nessuno in quel convoglio era in condizioni di aiutarla. La lasciarono per terra, la fronte madida di sudore e i capelli pieni di pidocchi!» «Basta!» Zia Banu schizzò in piedi. «Ma non vuoi ascoltare la parte migliore? Non vuoi sapere cosa ne fu della piccola Shushan?» chiese il signor Amaro con l'aria offesa. «Volevi sapere della famiglia della tua ospite. Be', la piccola Shushan della mia storia è sua nonna.» «Sì» rispose zia Banu. «Me l'ero immaginato. Continua!» «D'accordo!» si entusiasmò il signor Amaro, assaporando il trionfo. «Dopo che l'avevano abbandonata mezza morta per strada e il convoglio era svanito all'orizzonte, la piccola Shushan fu raccolta da due donne di un vicino villaggio turco. Erano madre e figlia. Portarono la piccola ammalata a casa loro, le fecero un bagno con sapone di Aleppo e le ripulirono i capelli dai pidocchi con decotti d'erbe. La nutrirono e la curarono. Quando tre settimane più tardi un ufficiale si fermò al villaggio con i suoi uomi ni in cerca di orfani armeni, la madre turca nascose Shushan nel baule della dote di sua figlia. Un mese più tardi la piccola era guarita, solo che non parlava molto e di notte piangeva nel sonno.» «Non avevi detto che l'avevano portata a Istanbul?» «Alla fine sì. Nei successivi sei mesi furono madre e figlia a occuparsi di lei, come se facesse parte della loro famiglia, e probabilmente avrebbero continuato a farlo. Ma arrivò un'orda di briganti, che frugarono e saccheggiarono le case di ogni singolo villaggio turco e curdo della regione. Non ci misero molto a scoprire che c'era una ragazzina armena. Nonostante i pianti di madre e figlia, portarono via la piccola Shushan. Avevano sentito dell'ordine di consegnare gli orfani armeni sotto i dodici anni agli orfanotrofi. Shushan fu condotta in un orfanotrofio di Aleppo, ma poiché lì non c'era più posto, la portarono in una scuola di Istanbul, dove fu affidata alle cure di diverse hocahanim, le insegnanti, alcune benevole e premurose, altre fredde e severe. Come gli altri bambini, adesso anche Shushan portava una veste bianca e un cappotto nero senza bottoni. C'erano maschi e femmine. I maschietti venivano circoncisi, e a tutti i bambini veniva imposto un nuovo nome. Così fu anche per Shushan. Adesso si chiamava Shermin. E le diedero anche un cognome: 626.» «Quando è troppo è troppo!» Zia Banu rimise il velo sulla ciotola e indirizzò al suo jinn una lunga occhiata penetrante. «Sì padrona, come desideri» borbottò il signor Amaro. «Però così ti perdi la parte più importante della storia. Se per caso volessi ascoltare anche il resto, chiedi pure, perché noi gulyabani sappiamo tutto. Eravamo là. Ti ho raccontato il passato di Shushan, un tempo una bambina, ora la nonna di Armanoush. Ti ho raccontato cose che non sa neppure la tua ospite. Gliele dirai? Non credi che abbia il diritto di saperle?» Zia Banu restò in silenzio. Avrebbe mai riferito ad Armanoush quella storia? E se anche avesse voluto farlo, come poteva raccontarle che aveva visto il passato della
sua famiglia dentro l'acqua di una ciotola d'argento, grazie a un gulyabani, la peggior specie di jinn? Armanoush le avrebbe creduto? E comunque, non era meglio che la ragazza non venisse mai a sapere quei dolorosi dettagli? Zia Banu si rivolse alla signora Dolce in cerca di sollievo, ma da lei ottenne solo un sorriso benevolo, mentre la sua aura si ravvivava, fiammeggiando di sfumature color prugna, rosa e viola. E si ravvivò anche una domanda che ritornava spesso nella mente di Banu: era davvero un bene per l'uomo indagare nel proprio passato? Non era forse meglio dimenticare?
Ormai l'alba è arrivata. Appena un passo dopo quella soglia misteriosa che separa la notte dal giorno. È l'unico momento della giornata in cui è ancora abbastanza presto per sperare di realizzare i propri sogni, ma troppo tardi per sognarli, la terra di Morfeo è ormai lontana. L'occhio di Allah è onnipotente e onnisciente, un occhio che non si chiude mai, neppure per battere una palpebra. Eppure nessuno sa per certo se la Terra sia sempre tutta visibile. Se questo è un palcoscenico sul quale gli spettacoli vanno in scena uno dopo l'altro per lo Sguardo Celeste, ci devono pur essere momenti in cui cala il sipario e un velo dai colori vivaci copre la superficie della ciotola d'argento. Istanbul è un libro aperto con scarabocchiati dieci milioni di storie. Istanbul si sta risvegliando dal suo sonno agitato, pronta per il caos della giornata. Da questo momento in poi ci sono troppe preghiere da esaudire, troppe bestemmie di cui prendere nota, e troppi peccatori, per non parlare poi degli innocenti, da osservare. A Istanbul è ormai mattina.
Capitolo tredici Fichi secchi
Tutti i mesi dell'anno sanno bene a quale stagione appartengono e si comportano di conseguenza. Tranne uno: marzo. A Istanbul marzo è squilibrato. Può decidere di appartenere alla primavera, mite e fragrante, solo per cambiare idea in ventiquattr'ore e tornare all'inverno, scagliando venti gelidi e pioggia ghiacciata ovunque. Quel giorno, il diciannove marzo, era un sabato soleggiato, con una temperatura molto al di sopra delle medie stagionali. Asya e Armanoush si sfilarono i maglioni mentre percorrevano la larga e ventosa strada che da Ortakòy portava verso piazza Taksim. Asya indossava un lungo abito batik, dipinto a mano nei toni del beige e del caramello. A ogni passo si sentiva il tintinnio delle collane e dei bracciali. Armanoush era rimasta fedele al suo stile: un paio di jeans e una larga felpa dell'UNIVERSITÀ DELL'ARIZONA, rosa come una scarpetta da ballerina. Stavano andando al laboratorio di tatuaggi. «Sono proprio contenta di farti conoscere Aram.» Asya sorrise raggiante, spostando la borsa di tela da una spalla all'altra. «È davvero una brava persona.» «Ma chi è? Ti ho già sentita parlare di lui...» «Be', lui è...» Asya fece una pausa, alla ricerca della parola giusta. Fidanzato sembrava troppo frivolo, marito era tecnicamente sbagliato, futuro marito sembrava poco plau sibile, promesso sposo forse poteva andare, anche se di fatto non c'era mai stato un impegno ufficiale. «È il compagno di zia Zeliha.» Dall'altra parte della strada, sotto un elegante arco ottomano, le ragazze videro due zingari, uno dei quali raccoglieva lattine dai bidoni della spazzatura e le ammucchiava su un carretto malandato. L'altro era seduto sul carretto e selezionava le lattine, facendo del suo meglio per fingere di lavorare mentre di fatto si crogiolava al sole. Che vita idilliaca, pensò Asya. Avrebbe dato qualunque cosa per poter scambiare la propria vita con quella del ragazzo del carretto. Per cominciare, si sarebbe comprata il ronzino più pigro che avesse trovato. Poi avrebbe passato le giornate a percorrere avanti e indietro le stradine di Istanbul, a raccogliere quel che capitava. Avrebbe selezionato gli scarti meno attraenti dell'esistenza umana, dando il benvenuto alle immondizie in decomposizione sotto la superficie risplendente. Aveva la netta sensazione che i raccogli-immondizie di Istanbul conducessero una vita meno stressante della sua. Se si fosse dedicata anche lei a quell'attività, avrebbe girovagato per la città fischiettando le canzoni di Johnny Cash, con la brezza marina tra i capelli e il sole
nelle ossa. E se qualcuno si fosse permesso di disturbare quella beata armonia, l'avrebbe terrorizzato a morte minacciando di scatenargli contro il suo intero clan zingaro, in cui probabilmente ogni membro aveva qualche crimine alle spalle. Malgrado la povertà, concluse Asya, finché non arrivava l'inverno non doveva essere male raccogliere la spazzatura. Se lo annotò mentalmente, per ricordarsi di quella possibilità, nel caso non fosse riuscita a inventarsi qualcosa di meglio dopo il diploma. Dopodiché si mise a fischiettare. Solo dopo un paio di strofe, Asya si rese conto che Armanoush era ancora in attesa di una risposta più dettagliata alla domanda che le aveva fatto qualche minuto prima. «Oh be, zia Zeliha e Aram stanno insieme da Dio solo sa quanto. Per me è una specie di patrigno, suppongo, o forse per amore di coerenza dovrei chiamarlo ziastro... oh, insomma!» «Perché non si sposano?» «Sposarsi?» Asya sputò la parola come se fosse un pezzetto di cibo rimastole fra i denti. Stavano superando i raccoglitori di lattine, e dopo un esame più accurato, Asya si accorse che erano ragazze, non ragazzi. Questo le piacque ancora di più. La possibilità di superare i confini di genere era un'altra ragione che la attirava verso quel lavoro. Si infilò una sigaretta fra le labbra, ma invece di accenderla la succhiò per un momento, come se fosse uno di quei cioccolatini a forma di sigaretta avvolti in cartine commestibili. Poi svelò la sua personale opinione: «In effetti credo che ad Aram non dispiacerebbe sposarsi, ma zia Zeliha non ne vuole sapere». «Perché?» insistè Armanoush. Proprio in quell'istante la brezza cambiò direzione, e Armanoush colse un pungente odore di salsedine. Quella città era un miscuglio di odori, alcuni rancidi e acri, altri dolci e carezzevoli. Quasi tutti le ricordavano un cibo, al punto che aveva cominciato a percepire Istanbul come qualcosa di commestibile. Ormai era lì da otto giorni, e più ci restava più si rendeva conto di quanto fosse contorta e multiforme. Forse si stava abituando alla condizione di straniera in quella città, pur non essendosi ancora abituata alla città stessa. «Secondo me dipende dall'esperienza che zia Zeliha ha avuto con mio padre, chiunque fosse» continuò Asya. «Dev'essere per quello che è così contraria al matrimonio. Immagino che non si fidi degli uomini.» «Be', posso anche capirla» disse Armanoush. «Non ti pare che ci sia una notevole differenza fra i due sessi quando si tratta di riprendersi da una storia finita male? Voglio dire, le donne reduci da un matrimonio o da una storia fallita di solito evitano di imbarcarsi in un'altra relazione, almeno per un po'. Gli uomini invece fanno tutto il contrario: cominciano subito a guardarsi attorno alla ricerca di un'altra donna. Sono incapaci di stare soli.» Armanoush rispose con un cenno d'assenso, per quanto lo schema non si adattasse molto alla situazione dei suoi genitori. Era sua madre quella che si era risposata dopo il divorzio, mentre suo padre era rimasto single. «Questo Aram... da dove viene?» chiese poi Armanoush. «Da qui, proprio come noi.» Asya alzò le spalle, ma subito dopo comprese in un lampo qual era la vera domanda. Stupita per la propria sbadataggine, accese la
sigaretta che aveva succhiato fino a quel momento, e aspirò una boccata. Com'è che non le era mai venuto in mente? Aram discendeva da una famiglia armena di Istanbul. Teoricamente, era armeno. Eppure, da un certo punto di vista, Aram non poteva essere armeno, né turco, né di un'altra etnia o nazionalità. Aram era semplicemente Aram, esemplare unico di una specie unica. Affascinante, romantico, era un docente di scienze politiche che spesso ammetteva di essere più adatto a vivere da pescatore in qualche sperduto villaggio del Mediterraneo. Era un cuore tenero, un'anima ingenua, una particella di caos ambulante; autentico utopista, faceva promesse irresponsabili; era disordinato e brillante. E un uomo d'onore. Insomma, era una persona fuori dal comune: forse per questo Asya non lo aveva mai associato a nessuna identità collettiva. Per quanto tentata di esplicitare i suoi pensieri, si limitò a rispondere: «In effetti è armeno». «L'avevo immaginato» sorrise debolmente Armanoush. Cinque minuti dopo erano al laboratorio di tatuaggi. «Benvenute!» esclamò zia Zeliha con voce un po' roca, mentre le abbracciava affettuosamente. Qualunque profumo usasse, era forte: una miscela di spezie, legni e gelsomino. I capelli scuri le ricadevano sulle spalle formando delle onde lucide, che risplendevano ogni volta che lei si muoveva sotto le luci alogene. Armanoush la fissò a bocca aperta, immaginandosi il timore e l'ammirazione che Asya doveva provare per una madre come quella. Il laboratorio pareva una specie di museo. Di fronte all'ingresso era appesa l'enorme foto di una donna con la schiena rivolta all'osservatore per mostrare l'intricato disegno del suo tatuaggio: la riproduzione di una miniatura ottomana. Sembrava la scena di un banchetto, con un funambolo che camminava su una corda tesa sopra la testa dei commensali. Quella miniatura tradizionale sulla schiena di una donna moderna era stupefacente. Sotto c'era una frase in inglese: IL TATUAGGIO È UN MESSAGGIO INVIATO OLTRE IL TEMPO! Nelle vetrinette sparse per tutto il negozio erano esposti piercing e disegni per tatuaggi. I modelli erano classificati in diverse categorie: «Rose & Spine», «Cuori spezzati», «Cuori trafitti», «La via dello sciamano», «Orride creature pelose», «Draghi non pelosi ma ugualmente orridi», «Motivi patriottici», «Nomi e numeri», «Simurg e la famiglia degli uccelli» e infine «Simboli sufi». Armanoush non ricordava di essersi mai trovata in una stanza in cui così poca gente riuscisse a fare tanto rumore. Oltre a Zeliha c'erano un tizio strano dai capelli arancioni e con un ago in mano, un adolescente con la madre (che sembrava indecisa se andare o restare) e due capelloni che sembravano totalmente fuori dal tempo, come relitti di musicisti strafatti degli anni Settanta che cominciassero appena a riprendersi dopo un brutto trip. Uno dei due, seduto su una poltrona masticava rumorosamente una gomma chiacchierando con il suo amico, mentre si faceva tatuare una zanzara viola sulla caviglia. Venne fuori che l'uomo con l'ago era l'assistente di zia Zeliha, un valente artista. Armanoush rimase a fissarlo mentre lavorava, sorpresa di quanto fosse rumoroso l'ago da tatuaggi. «Non preoccuparti. Il rumore è di gran lunga più forte del dolore» le disse zia Zeliha come se le avesse letto nel pensiero. Quindi aggiunse strizzando un occhio: «E
poi questo cliente ci è abituato. Dev'essere il ventesimo che si fa. A volte i tatuaggi diventano una droga: non ti bastano mai. Dopo ogni tatuaggio, ti viene voglia di fartene un altro. Mi chiedo perché i centri di recupero dalle dipendenze non abbiano incluso un programma per i tatuaggio-dipendenti». Armanoush rimase in silenzio per un momento, studiando il rochettaro con la coda dell'occhio. Se l'uomo provava qualche dolore, certo non lo dava a vedere. «Ma perché mai uno dovrebbe farsi tatuare una zanzara viola sulla caviglia?» Zia Zeliha ridacchiò con aria comprensiva. «Perché? Ecco una domanda che qui non si fa mai. Sai, in questo negozio rifiutiamo la tirannia della normalità. Qualunque disegno voglia il cliente sono sicura che abbia le sue ragioni, che magari non conosce neppure lui. Non gli chiedo mai perché.» «E per i piercing?» «Lo stesso» disse zia Zeliha indicando con un sorriso l'anellino che aveva al naso. «Vedi, questo ha diciannove anni. Me lo sono fatto all'età di Asya.» «Davvero?» «Sì. Sono andata in bagno, ho usato una carota mignon, un ago sterile, cubetti di ghiaccio per anestetizzare, e soprattutto un bel po' di rabbia. Ero arrabbiata con il mondo, e soprattutto con la mia famiglia. Mi sono detta, adesso lo faccio, e mi sono bucata. La prima volta mi tremavano le mani, così ho sbagliato a bucare e sono finita sul setto nasale. Non la smetteva più di sanguinare. Ma poi ho capito come si faceva, e la seconda volta ho bucato il punto giusto.» «Davvero?» chiese di nuovo Armanoush, solo che questa volta sembrava perplessa per la piega che la conversazione aveva preso. «Già!» Zia Zeliha si diede un colpetto orgoglioso sul naso. «Ci ho infilato dentro un anello e sono uscita dal bagno. A quei tempi mi piaceva far impazzire mia madre.» Asya, che aveva captato quelle parole, le lanciò un'occhiata divertita. «Insomma, mi sono forata il naso perché era una cosa proibita. Capisci quello che intendo? Per una ragazza turca di famiglia tradizionalista allora era fuori questione farsi un piercing. Ma adesso i tempi sono cambiati. Ecco perché siamo qui. In questo posto consigliamo i clienti, e a qualcuno diciamo anche di no, ma non li giudichiamo. Non chiediamo mai perché. È una cosa che ho capito nella mia vita precedente. Se esprimi un giudizio sulle persone, loro tirano dritto e fanno lo stesso ciò che vogliono.» Proprio in quel momento il ragazzo alzò lo sguardo dalle vetrinette e le chiese: «Può farmi questo dragone, ma con la coda più lunga, in modo che mi copra tutto il braccio? Vorrei che arrivasse dal gomito fino al polso, come se mi stesse strisciando giù per il braccio» Prima che zia Zeliha potesse rispondere, intervenne la madre: «Ma sei impazzito? Neanche per sogno! Eravamo d'accordo per qualcosa di piccolo, come un uccellino o una coccinella. Non ti ho mai dato il permesso per code di draghi...». Per due ore Armanoush e Asya rimasero a osservare il lavoro nel laboratorio, mentre i clienti andavano e venivano. Cinque studenti delle superiori arrivarono annunciando che volevano tutti un piercing al sopracciglio, ma dopo che l'ago sterile trapassò il primo, gli altri cambiarono idea. Poi arrivò un tifoso che voleva il simbolo
della sua squadra sul petto. Subito dopo ci fu un nazionalista fanatico che volle la bandiera turca sulla punta del dito, così poteva sventolarla in faccia a tutti. E infine venne un travestito, una cantante bionda, che voleva il nome dell'amante sulle nocche. Infine, arrivò un uomo di mezz'età, dall'aria anche troppo normale rispetto alla solita clientela del laboratorio: Aram Martirossian. Aram era un uomo alto e bello, leggermente sovrappeso, dall'espressione stanca ma gentile, la barba scura, i capelli brizzolati e rughe profonde ogni volta che sorrideva. Lo sguardo brillava di intelligenza dietro gli occhiali dalla montatura spessa. Dal modo in cui guardava zia Zeliha, si vedeva subito l'amore. Amore e rispetto e sincronia. Quando lui parlava, lei completava con i gesti, quando lei gesticolava, lui completava con le parole. Erano due individui complicati che sembravano aver raggiunto insieme un'armonia miracolosa. Quando cominciò a chiacchierare con lui, Armanoush adottò automaticamente il suo inglese per stranieri, come faceva ogni volta che conosceva una persona nuova a Istanbul. Così si presentò parlando lentamente, in una lingua ritmica e semplice, quasi infantile. Fu sorpresa quando Aram le rispose in un inglese fluente, dal leggero accento britannico. «Parli benissimo!» non potè fare a meno di notare Armanoush. «Dove hai preso quell'accento, se non sono indiscreta?» «Ti ringrazio» rispose Aram. «Ho frequentato il college a Londra fino alla specializzazione. Ma se preferisci possiamo parlare armeno.» «Non ne sono capace.» Armanoush scosse la testa. «Da piccola l'ho imparato un po' da mia nonna, ma da quando i miei si sono separati, non sono mai rimasta abbastanza a lungo con la parte armena della mia famiglia. In verità tra i dieci e i tredici anni andavo ogni anno al campeggio estivo armeno, e lì il mio armeno era migliorato, ma poi l'ho perso di nuovo.» «Anch'io l'ho imparato da mia nonna» sorrise Aram. «A essere sincero, la mamma e la nonna pensavano che sarei dovuto crescere bilingue, solo che non erano d'ac cordo su quale avrebbe dovuto essere la seconda lingua. Secondo la mamma avrei dovuto parlare turco a scuola e inglese a casa, perché da grande avrei dovuto lasciare il Paese. Ma la nonna si dimostrò molto decisa: il turco a scuola, e l'armeno a casa.» Armanoush era affascinata da Aram, ma soprattutto era sutpita di quanto fosse alla mano. Continuarono a chiacchierare di nonne armene per un po', quelle della diaspora, quelle in Turchia e quelle in Armenia. Alle diciotto e trenta zia Zeliha affidò il negozio al suo assistente e loro quattro si avviarono verso una taverna lì vicino. «Prima che tu riparta, Aram e zia Zeliha vogliono portarci in una taverna, così puoi vedere com'è una tipica serata di bevute da queste parti» aveva spiegato Asya ad Armanoush. Per arrivarci percorsero una stradina buia e passarono davanti a un palazzo alle cui finestre erano affacciati travestiti che abbordavano i passanti. I due del pianterreno erano così vicini che Armanoush riuscì a scorgere ogni dettaglio dei loro visi
pesantemente truccati. Uno di loro, una tizia robusta dalle labbra spesse e i capelli rossi fiammeggianti, disse qualcosa in turco, ridendo. «Cos'ha detto?» chiese Armanoush ad Asya. «Ha detto che i miei braccialetti sono favolosi, e che ne ho anche troppi!» Con grande sorpresa di Armanoush, Asya se ne sfilò uno e lo diede al travestito. Lei accettò gioiosamente il dono, se lo infilò e sollevò la mano dalle unghie rosse perfettamente laccate che reggeva una lattina di Diet Coke, brindando alla salute di Asya. Armanoush osservò la scena meravigliata, chiedendosi quale uso ne avrebbe fatto Jean Genet. La Diet Coke, i braccialetti di perline, l'odore acre di sperma, e quella gioia infantile... poteva davvero coesistere tutto ciò in una squallida stradina di Istanbul? La taverna era un posto abbastanza ricercato ma conviviale, vicino al Çiçek Pasaji, la Galleria dei fiori. Appena si sedettero comparvero due camerieri con un carrello di mezes. «Armanoush, perché non ci stupisci di nuovo con il tuo vocabolario di cucina?» la incitò zia Zeliha. «Allora, vediamo cosa c'è: yalanci sarma, tourshi, patlijan, topik, enginar...» cominciò a elencare Armanoush, guardando i piatti che i camerieri poggiavano via via sul tavolo. I clienti arrivavano a coppie o in gruppi, e nel giro di venti minuti la taverna si riempì. In mezzo a tutte quelle facce, suoni e odori strani Armanoush perse il senso di dove si trovava. Avrebbe potuto essere in Europa o in Medio Oriente o in Russia. Zia Zeliha e Aram bevevano raki, Asya e Armanoush vino bianco. Zia Zeliha fumava sigarette, Aram sbuffava fumo di sigaro, mentre Asya a quanto pareva evitava di fumare davanti alla madre e si mordeva l'interno delle labbra. «Questa sera non fumi...» le disse Armanoush, seduta accanto a lei. «Non me ne parlare!» sospirò Asya. Poi ridusse la voce a un bisbiglio. «Ssst! Zia Zeliha non sa che fumo.» Armanoush fu sorpresa che Asya, la ribelle che si divertiva sadicamente a far infuriare la madre ogni volta che ne aveva l'occasione, quando si trattava di fumare davanti a lei diventava una figlia docile. Nell'ora successiva chiacchierarono del più e del meno, mentre i camerieri servivano un piatto dopo l'altro. Prima portarono i mezes, i piatti freddi, seguiti da quelli tiepidi e da quelli caldi, per finire con dolci e caffè. Dev'essere il sistema che si usa qui, immaginò Armanoush. Invece di farti scegliere dal menu, ti portano direttamente tutto il menu. Quando il fumo e il rumore si fecero più intensi, Armanoush si avvicinò ad Aram, dopo aver finalmente raccolto il coraggio per fargli la domanda che le girava in testa già da un po': «Aram, capisco che ti piaccia Istanbul, ma non hai mai pensato alla possibilità di venire in America? Vo glio dire, potresti trasferirti in California, per esempio, dove c'è una grossa comunità armena...». Aram la fissò per un intero minuto, come cercando di raccogliere ogni minimo dettaglio, poi si lasciò andare all'indietro sulla sedia ed esplose in una sonora risata.
Armanoush rimase piuttosto turbata da quella reazione, che sembrava un modo per darle di lungo. Temendo di essere stata fraintesa si chinò in avanti e cercò di spiegarsi meglio: «Se qui ti senti oppresso, puoi venire in America: ci sono molte comunità armene che sarebbero più che felici di aiutare te e la tua famiglia». Questa volta Aram non rise. Le rivolse invece un sorriso, caldo ma un po' estenuato. «Perché dovrei fare una cosa del genere, mia cara Armanoush? Questa è la mia città. Sono nato e cresciuto a Istanbul. La storia della mia famiglia in questa città risale ad almeno cinquecento anni fa. Gli armeni di Istanbul appartengono a Istanbul, proprio come i turchi, i curdi, i greci e gli ebrei di Istanbul. Prima siamo riusciti a vivere insieme, poi abbiamo fallito miseramente. Non possiamo fallire ancora.» Proprio in quell'istante ritornò il cameriere, che servì calamari fritti, cozze fritte e frittelle (fritte) «Conosco ogni strada di questa città» continuò Aram dopo aver bevuto un sorso di raki. «Mi piace passeggiare la mattina, la sera e anche di notte, quando sono felice e un po' brillo. Mi piace pranzare con gli amici sul Bosforo, la domenica, mi piace camminare da solo in mezzo alla folla. Adoro la bellezza caotica di questa città, i traghetti, la musica, le storie, la tristezza, i colori, l'umorismo amaro...» Cadde un silenzio imbarazzante. Si guardarono rendendosi conto di essere su due posizioni lontanissime, comprendendo che non era solo la distanza geografica a separarli: lui sospettava che lei fosse troppo americanizzata, lei credeva che lui fosse turchificato. Il corrosivo divario fra i figli di quelli che erano rimasti e i figli di quelli che se ne erano andati. «Vedi, gli armeni della diaspora non hanno amici fra i turchi. La sola conoscenza che hanno dei turchi è attraverso le storie che hanno sentito dai loro nonni, o da altri armeni. E sono storie terribili, da spezzare il cuore. Ma credimi, proprio come in ogni altra nazione, anche in Turchia ci sono persone di buon cuore e persone malvage. È semplice. Ho amici turchi che mi sono più vicini dei miei stessi fratelli di sangue. E naturalmente» e sollevò il bicchiere in direzione di Zeliha «c'è questa pazza che amo.» Zia Zeliha doveva aver percepito che si parlava di lei perché ammiccò nella loro direzione, sollevò il bicchiere di raki e brindò: « erefe!» Gli altri la imitarono, facendo tintinnare i calici: « erefe!» Quella parola, come si scoprì ben presto, era una specie di ritornello che veniva ripetuto ogni dieci o quindici minuti. Un'ora e diversi erefe più tardi gli occhi di Armanoush erano lucidi per l'alcol. Osservò divertita il cameriere albino che serviva i piatti caldi: filetti di spigola alla piastra su un letto di peperoni verdi, pesce gatto marinato al basilico in crema di spinaci, salmone grigliato con erbe selvatiche, e gamberetti fritti in salsa d'aglio piccante. Armanoush ridacchiò, un po' brilla, prima di rivolgersi ad Aram: «Avrai almeno un tatuaggio, vero? Di sicuro zia Zeliha deve avertene fatto qualcuno» «Macché» disse Aram dietro il velo di fumo del suo sigaro. «Non mi ha mai permesso di farne uno.» «Già» aggiunse Asya. «Non gli permette di farsi un tatuaggio.»
«Davvero?» Armanoush si voltò sorpresa verso zia Zeliha. «Credevo che avessi la passione dei tatuaggi.» «In effetti sì» rispose lei. «Non è al tatuaggio in sé che mi oppongo, ma al disegno che vorrebbe.» Aram sorrise. «Vorrei un albero di fico. Ma capovolto, con le radici in aria. E invece che nella terra, le radici dovrebbero penetrare nel cielo. Radici inconsuete, ma pur sempre radici.» Rimasero in silenzio per qualche secondo, a osservare la fiamma della candela che danzava sul tavolo. «È solo che quel fico...» zia Zeliha si accese l'ultima sigaretta del pacchetto e sbuffò il fumo verso Asya. «Il fico è un segno di malaugurio. Porta male. Niente in contrario alle radici sottosopra, è sul fico che non sono d'accordo. Se dovesse scegliere un ciliegio, per esempio, o una quercia, sempre con le radici sottosopra, glielo farei subito!» In quel momento entrarono nella taverna quattro musicisti zingari, in camicia di seta bianca e pantaloni neri, con i loro tipici strumenti: ud, clarinetto, kanun e darbuka. Ci fu una certa agitazione tra i clienti, che avendo ormai mangiato e bevuto in abbondanza, erano pronti a mettersi a cantare. Armanoush provò una fitta di timidezza. Ma con suo grande sollievo non la obbligarono a cantare. Venne fuori che neppure Asya era una gran cantante. Zeliha accompagnò invece i musicisti con una morbida voce da contralto, che non aveva niente in comune con il suo solito tono rauco da fumatrice. Armanoush si accorse che Asya fissava la madre con uno sguardo indagatore. Quando il capo del gruppo chiese se c'era qualche canzone in particolare che volevano ascoltare, zia Zeliha diede di gomito ad Aram con aria civettuola ed esclamò: «Coraggio, chiedi una canzone. Canta, mio usignolo!». Rosso in viso, Aram si chinò in avanti e sussurrò qualcosa all'orecchio dello zingaro. Appena il gruppo attaccò la musica, per la sorpresa di Armanoush, Aram si mise a cantare non in turco, non in inglese, ma in armeno. Ogni mattina all'alba Ah... dico al mio amore, dove stai andando? La canzone fluiva lenta, sconsolata, mentre il ritmo accelerava con il crescendo di clarinetto e l'incontenibile darbuka in sottofondo. La voce di Aram si librò per poi calare in morbide onde. Cauta all'inizio, diventò sempre più decisa. Lei è la catena d'oro Dei miei ricordi Lei è la via che porta Alla storia della mia vita.
Armanoush trattenne il fiato, incapace di cogliere tutte le parole ma avvertendo nel cuore la forza di quel lamento. Quando sollevò la testa fu incuriosita dall'espressione di zia Zeliha. Era quello sguardo pieno di paura della felicità che solo chi si è innamorato può avere. Quando la canzone finì e i musicisti si spostarono verso un altro tavolo, Armanoush pensò che zia Zeliha avrebbe baciato Aram. Invece strinse con tenerezza la mano di Asya, come riconoscendo che l'amore per il suo uomo le aveva fatto meglio comprendere l'amore per la figlia. «Tesoro» mormorò con una venatura di angoscia nella voce. Ma se zia Zeliha aveva avuto in programma di dire qualcosa a sua figlia, fu lesta a soffocare l'impulso. Tirò invece fuori un nuovo pacchetto di sigarette e gliene porse una. Scorgere da vicino i sentimenti della madre sorprese Asya quanto l'offerta della sigaretta. Se l'accese, e poi la accese a sua madre. Madre e figlia si sorrisero imbarazzate. Da quell'angolazione e con quella luce erano davvero simili, due volti modellati da un passato che una non conosceva e l'altra aveva deciso di scordare. Fu proprio in quell'istante che, per la prima volta da quando era arrivata, Armanoush percepì la pulsazione della città. Si era appena resa conto di come e perché la gente potesse innamorarsi di Istanbul. E che non era facile smettere di amare una città così incredibilmente meravigliosa. Con quella certezza, sollevò il bicchiere in un brindisi: « erefe!»
Capitolo quattordici Acqua
«Vuoi che entri a dirgli di darsi una calmata?» chiese zia Feride in piedi davanti alla porta delle ragazze, con lo sguardo fisso sulla maniglia. «Oh, lasciale in pace!» esclamò zia Zeliha dal divano dove si era afflosciata. «Sono un po' brille, e quando sei brilla ascolti la musica a tutto volume.» E per sottolineare l'affermazione ripetè: «A TUTTO VOLUME!». «Brille!» urlò nonna Gülsüm. «Bada a te! Perché sono brille? La disgrazia che attiri su questa famiglia non sarà mai abbastanza! Ma guarda la gonna che hai addosso! Gli strofinacci in cucina sono più lunghi della tua gonna! Sei una madre single, una divorcée. Ascoltami bene! Non ho mai visto una divorcée con l'anello al naso. Dovresti vergognarti, Zeliha!» Zia Zeliha sollevò la testa dal cuscino che aveva abbracciato. «Mamma, per essere una divorcée avrei dovuto prima sposarmi. Non distorcere i fatti. Non posso essere definita divorcée, o vedova bianca, o uno di quegli stupidi eufemismi che conservi nel tuo glossario per donne sfortunate. Questa tua figlia è una peccatrice che gira in minigonna e ama gli anelli al naso e ama la figlia che ha avuto fuori dal vincolo matrimoniale. Che ti piaccia o no!» «Non ti bastava aver rovinato tua figlia e averla obbligata a bere? Perché hai dovuto far ubriacare anche quella po' vera Armanoush? È sotto la responsabilità di Mustafa: è ospite di tuo fratello in questa casa. Come osi rovinarla?» «Responsabilità di mio fratello! Sì, come no!» sghignazzò zia Zeliha, e chiuse gli occhi. Intanto all'interno della camera Johnny Cash cantava a tutto volume. Le due ragazze erano sedute fianco a fianco alla scrivania, e fissavano lo schermo del computer, con Sultan Quinto accoccolato fra loro, gli occhi socchiusi. Le ragazze erano così assorte che non si erano neppure accorte del battibecco fuori dalla porta. Armanoush si era appena collegata al Café Constantinopolis, decisa questa volta a portarci anche Asya. Salve a tutti! Non avete sentito la mancanza di Madame Anima Esiliata?, scrisse. Il nostro corrispondente da Istanbul è tornato. Dov'eri finita? I turchi ti hanno fagocitata?, scrisse Anti-Khavurma. Be', uno dei fagocitaton è qui accanto a me proprio adesso. Vorrei presentare a tutti una mia amica turca. Seguì una pausa.
Ovviamente anche lei ha un nick: A Girl Named Turk. Cosa sarebbe?, non potè fare a meno di chiedere Alex lo Stoico. È la reinterpretazione di una canzone di Johnny Cash, A Boy Named Sue. Comunque potete chiederglielo voi stessi. Lei è qui. Caro Café Constantinopolis, ti presento A Girl Named Turk, cara A Girl Named Turk, ti presento il Café Constantinopolis. Salve! Saluti da Istanbul, scrisse Asya. Non ci fu nessuna risposta. Spero che la prossima volta verrete anche voi a Istanbul insieme ad Arman... Asya si rese conto dell'errore solo quando Armanoush le battè un colpo sulla mano. ...con Madame Anima Esiliata. Oh. Grazie. Ma onestamente non ho molta voglia di venire a fare il turista in un Paese che ha provocato tanta sofferenza alla mia famiglia. Era di nuovo AntiKhavurma. Questa volta fu Asya a fare una pausa. Senti, non fraintenderci. Non abbiamo niente contro di te in particolare, eh?, si unì Convivenza Miserevole. Sono sicura che la città sia bella e pittoresca, ma il fatto è che non ci fidiamo dei turchi. Mesrop si rivolterebbe nella tomba se, Aramazt ci scampi, mi dimenticassi così del mio passato. «Chi è Mesrop?» chiese Asya ad Armanoush in un sussurro, come se gli altri potessero sentirla. Va bene. Cominciamo dal principio. I fatti. Se ce la facciamo a superare i fatti, allora possiamo parlare di altre cose, decretò Lady Peacock/Siramark. Partiamo dal giro turistico di Istanbul. Quelle splendide moschee che oggi mostrate ai turisti, chi è l'architetto che le ha costruite? Sinan! Ha progettato palazzi, ospedali, alberghi, acquedotti... Voi avete sfruttato il talento di Sinan per poi negare che fosse armeno. Non sapevo che lo fosse, scrisse Asya perplessa. Sinan è un nome turco. Be', perché ve la cavate bene a turchificare i nomi delle minoranze, rispose AntiKhavurma. Okay, capisco cosa intendete. D'accordo, la storia nazionale della Turchia è basata sulla censura, ma è lo stesso per qualunque Paese. Le nazioni che si fanno Stato creano i propri miti, e poi ci credono. Asya sollevò la testa, raddrizzò le spalle e continuò a scrivere. In Turchia ci sono turchi, curdi, circassi, georgiani, greci del Ponto, ebrei, abazi, greci... Mi sembra semplicistico e pericoloso generalizzare in questo modo. Non siamo barbari. Oltretutto, gli studiosi che hanno approfondito la cultura ottomana potranno dirti che per molti versi la nostra è stata una grande civiltà. Gli anni Dieci sono stati un periodo particolarmente difficile. Ma ormai le cose non sono più come cent'anni fa. Lady Peacock/Siramark rispose istantaneamente. Credo che i turchi non siano cambiati affatto. Se l'avessero fatto, avrebbero riconosciuto il genocidio. Genocidio è un termine molto pesante, rispose A Girl Named Turk. Implica uno sterminio sistematico, organizzato e basato su giustificazioni filosofiche. Sinceramente non sono convinta che sia andata così. Riconosco però l'ingiustizia che
gli armeni hanno subito. Non sono uno storico, e le mie conoscenze sono limitate e inquinate, ma vale lo stesso anche per le vostre. Vedi, ecco dove sta la differenza. All'oppressore non serve il passato. L'oppresso, invece, non ha altro che il proprio passato, commentò la Figlia di Saffo. Se non conosci la storia di tuo padre, come puoi creartene una tua?, aggiunse Lady Peacock/Siramark. Armanoush sorrise fra sé. Fino a quel momento tutto procedeva come si era immaginata. Tranne il Barone Baghdassarian. Non era ancora intervenuto. Nel frattempo Asya, ancora concentrata sullo schermo, rispose: lo riconosco in pieno le vostre perdite e le vostre sofferenze. Non nego le atrocità che sono state commesse. È solo dal mio passato che mi ritraggo, io non so chi sia mio padre o quale sia la sua storia. Se avessi modo di conoscere il mio passato, di sicuro una storia triste, sceglierei di sapere o di non sapere? È il dilemma della mia esistenza. Sei piena di contraddizioni, rispose Anti-Khavurma. Johnny Cash non ci farebbe caso!, intervenne Madame Anima Esiliata. Dimmi, cosa posso fare io, una turca nata in questo momento storico, per dare sollievo al vostro dolore? Ecco, quella era una domanda che fino a quel momento nessun turco aveva mai posto agli armeni del Café Constantinopolis. In passato, avevano avuto un paio di volte dei visitatori turchi, giovanotti ultranazionalisti sbucati fuori dal nulla, apparentemente al solo scopo di dimostrare che i turchi non avevano fatto niente di male agli armeni e che, anzi, erano stati gli armeni a ribellarsi al regime ottomano e a uccidere i turchi. Uno di loro si era spinto fino al punto di dire che se davvero il regime ottomano avesse compiuto il genocidio di cui si diceva, non sarebbe rimasto più nessun armeno in giro con cui discutere della questione. Il fatto che ci fossero tanti armeni che se la prendevano con i turchi era la prova evidente che gli ottomani non li avevano perseguitati. Fino a quel momento l'incontro fra il Café Constantinopolis e i turchi si era basato essenzialmente su furibondi scambi di calunnie e soliloqui. Questa volta il tono era radicalmente diverso. Il tuo governo potrebbe scusarsi, rispose Convivenza Miserevole. Il mio governo? Io non ho niente a che fare con il governo, scrisse Asya, pensando al Fumettaro Dipsomane condannato per aver disegnato il Primo ministro in sembianze di lupo. Guarda che io sono nichilista! Ebbe la tentazione di mettersi a illustrare il suo Manifesto personale del Nichilismo. Allora potresti scusarti tu stessa, s'intromise Anti-Khavurma. Vuoi che mi scusi di qualcosa con cui personalmente non ho avuto niente a che fare? Lo dici tu, scrisse Lady Peacock/Siramark. Ognuno reca in sé la continuità del tempo, e il passato continua a vivere nel presente. Noi discendiamo da una famiglia, da una cultura, da una nazione. Vuoi dire che dovremmo metterci una pietra sopra? Mentre faceva scorrere lo sguardo sullo schermo, Asya sembrava sconcertata, come se nel mezzo di una conferenza si fosse scordata cosa doveva dire. Accarezzò con aria assente la testa di Sultan Quinto prima di tornare a scrivere.
Devo forse sentirmi responsabile per i delitti di mio padre?, chiese A Girl Named Turk. Devi riconoscere che tuo padre ha commesso un delitto, rispose Anti-Khavurma. Asya sembrò confusa per la franchezza di quella risposta, vagamente irritata ma anche incuriosita. Alla luce emanata dal computer il suo viso era pallido e immobile. Aveva sempre cercato di tenere il passato il più lontano possibile dal futuro che sperava di raggiungere. Credeva fermamente che, qualunque fosse la sua eredità, non importa quanto triste o deprimente, non l'avrebbe mai condizionata. Ma nonostante tutto, per quanto detestasse ammetterlo, sapeva benissimo che il passato continuava a vivere nel presente. Per tutta la vita ho voluto essere senza passato. Essere una bastarda, più che essere senza padre, significa essere senza passato... E adesso venite a chiedermi di riconoscere il passato e di scusarmi per un padre che non ho mai conosciuto! Non ci fu nessuna risposta, ma non sembrava che Asya se ne aspettasse una. Continuò a scrivere come se le sue dita agissero da sole, come se navigasse a occhi chiusi. Eppure, forse è proprio perché sono senza passato che potrei alla fine simpatizzare con il vostro attaccamento alla storia. Posso capire il significato della continuità della memoria. Posso farlo... e mi scuso per tutte le sofferenze che i miei antenati hanno inflitto ai vostri antenati. Anti-Khavurma non era ancora soddisfatto. Non serve a molto che ti scusi con noi, scrisse. Scusati ad alta voce davanti al governo turco. Oh, piantala! D'un tratto Armanoush si era impadronita della tastiera e si era messa a scrivere, incapace di resistere alla tentazione di intervenire. È Madame Anima Esiliata che parla. A che servirebbe, oltre che a metterla nei guai? Deve subire quei guai, se vuole dimostrare la sua sincerità!, si inalberò AntiKhavurma. Ma prima che chiunque altro potesse rispondere, arrivò il più inaspettato dei commenti. Be', mia cara Madame Anima Esiliata e mia cara A Girl Named Turk la verità è... che certi armeni della diaspora in realtà non vogliono che i turchi riconoscano il genocidio. Se mai lo facessero, ci sfilerebbero il tappeto di sotto i piedi e ci toglierebbero il legame più forte che ci tiene insieme. Proprio come i turchi si sono abituati a negare le loro malefatte, noi armeni ci siamo abituati a crogiolarci nel vittimismo. A quanto pare, certe vecchie abitudini andrebbero cambiate da entrambe le parti. Era il Barone Baghdassarian.
«Ancora non dormono.» Zia Feride camminava su e giù davanti alla camera delle ragazze. «Ci sarà qualcosa che non va?» Le donne più anziane erano andate a letto, come pure zia Cevriye, da buona insegnante disciplinata. Zia Zeliha si era addormentata sul divano.
«Perché non vai a dormire? Lascia che resti qui io a sorvegliare che sia tutto a posto.» Zia Banu posò la mano sulla spalla della sorella. Di tanto in tanto, quando la sua malattia peggiorava, zia Feride temeva che potesse accadere il peggio, che il male potesse arrivare da chiunque o da qualunque cosa al mondo. «Lascia che pensi io al turno di notte» sorrise zia Banu. «Tu va a letto e dormi. Non dimenticare che la tua mente diventa un'estranea, la notte, ed è meglio non parlare con gli estranei.» «Sì» annuì zia Feride, e per un attimo sembrò una bambina piccola eccitata da una fiaba che aveva appena ascoltato. Visibilmente rilassata, ciabattò verso la sua camera.
Appena si furono scollegate, Armanoush controllò l'orologio. Era ora di telefonare a sua madre. Quella settimana l'aveva chiamata tutti i giorni alla stessa ora, e tutte le volte Rose l'aveva sgridata perché non chiamava più spesso. Cercando di non innervosirsi per quell'immutabile cerimoniale, compose il numero e rimase in attesa che rispondesse. «Amy!» La voce di Rose era praticamente un urlo. «Tesoro, sei tu?» «Sì, mamma. Come stai?» «Come sto? Come sto?» ripetè Rose sembrando sbalordita e abbassando la voce. «Adesso devo riattaccare, ma promettimi, promettimi che mi richiami fra dieci... no, dieci non bastano, che mi richiami esattamente fra quindici minuti. Adesso devo riattaccare e raccogliere un momento i pensieri e poi aspetterò la tua telefonata. Promettilo, promettilo» ripetè Rose istericamente. «Sì, mamma, lo prometto» balbettò Armanoush. «Mam ma, stai bene? Cosa sta succedendo?» Ma Rose aveva già riattaccato. Sbigottita, pallida e con il telefono ancora in mano, Armanoush guardò Asya. «Mia madre che mi dice di richiamare invece di lamentarsi perché non ho chiamato prima. Non è da lei. Non è proprio da lei.» «Su, rilassati.» Asya si mosse nel letto, sollevando la testa da sotto le coperte. «Magari stava solo guidando o qualcosa del genere, e non poteva stare al telefono.» Ma Armanoush scosse la testa, un'ombra di preoccupazione sul viso. «Oh Dio, c'è qualcosa che non va, qualcosa di grave.»
Con gli occhi gonfi e il naso arrossato per il gran pianto, Rose strappò un fazzoletto di carta mentre scoppiava ancora in lacrime. Comprava sempre gli stessi rotoli di carta da cucina: «Sparkle», robusti e assorbenti. L'azienda ne produceva diversi tipi e il suo preferito si chiamava Destinazione. Sui rotoli erano stampate foto di conchiglie, pesci e barche, su sfondo azzurro, e in mezzo sembrava navigare la scritta: NON POSSO CAMBIARE LA DIREZIONE DEL VENTO, MA POSSO AGGIUSTARE LE VELE PER RAGGIUNGERE SEMPRE LA MIA DESTINAZIONE. A Rose piaceva quel motto. Oltretutto lo sfondo azzurro si adattava alle piastrelle della sua cucina, la stanza di cui andava più fiera. Anche se le era piaciuta fin
dall'inizio, l'aveva sistemata con cura, aggiungendo ripiani estraibili, un portabottiglie per il vino da trentasei posti con il piano laccato nell'angolo, anche se né lei né Mustafa erano bevitori, e diversi sgabelli girevoli di quercia. E ora, mentre si sentiva invadere dal panico, fu proprio su uno di quegli sgabelli che si lasciò cadere. «Oh mio Dio, abbiamo quindici minuti. Cosa le diciamo? Abbiamo solo quindici minuti per decidere!» strillò a Mustafa. «Rose, tesoro, calmati per favore» disse Mustafa alzandosi dalla sua sedia. A lui non piacevano gli sgabelli, e si era tenuto in cucina due sedie di pino massiccio color miele, una per lui e l'altra pure. Si avvicinò alla moglie e le tenne la mano, nella speranza di placare le sue preoccupazioni. «Devi restare calma, molto calma, mi senti? E con molta calma le chiederai dove si trova. Questa è la prima cosa che le devi chiedere, d'accordo?» «E se non me lo dice?» disse Rose. «Te lo dirà. Se glielo chiedi per bene, lei te lo dirà per bene.» Mustafa parlava lentamente. «Ma senza arrabbiarti, devi mantenere la calma. Ecco, bevi un po' d'acqua.» Rose prese il bicchiere con mani tremanti. «Ma com'è possibile? La mia bambina mi ha mentito! Che stupida sono stata a fidarmi di lei. Tutto questo tempo convinta che fosse a San Francisco con sua nonna e adesso viene fuori che ha mentito a tutti... e adesso sua nonna... oh Dio, come faccio a dirglielo?» Il giorno prima, mentre erano entrambi in cucina - lei a preparare le frittelle, lui a leggere l'«Arizona Daily Star» - era suonato il telefono. Rose aveva risposto ancora con la spatola in mano. La chiamata veniva da San Francisco, e in linea c'era Barsam Tchakhmakhchian, il suo ex marito. Quanti anni avevano trascorso senza rivolgersi la parola? Dopo il divorzio erano stati obbligati a comunicare spesso, per la bambina. Ma quando Armanoush era cresciuta le loro conversazioni si erano diradate, per poi cessare del tutto. Del loro breve matrimonio erano rimaste solo due cose: un mutuo risentimento e una figlia. «Mi dispiace disturbarti, Rose» aveva detto Barsam con una voce gentile ma estenuata. «Si tratta di un'emergenza. Avrei bisogno di parlare con mia figlia.» «Nostra figlia» l'aveva corretto brusca Rose, ma appena quelle parole le furono uscite di bocca ne rimpianse la durezza. «Rose, ti prego, devo dare una brutta notizia ad Armanoush. Me la passi, per favore? Al cellulare non risponde, quindi ho dovuto chiamarla a casa.» «Aspetta... aspetta un momento: non è lì?» «Che vuoi dire?» «Non è a San Francisco con te?» le labbra di Rose si misero a tremare per la paura. Barsam si chiese se sua moglie stesse scherzando. Cercò di non sembrare irritato. «No, Rose. Ha deciso di tornare in Arizona, e sta passando le vacanze primaverili lì.» «Oh mio Dio! Ma qui non c'è! Dov'è la mia bambina?! Dov'è?» Rose cominciò a singhiozzare in preda a uno di quegli attacchi di panico che credeva di aver ormai superato da tempo.
«Rose, vuoi calmarti per favore? Non so cosa sta succedendo, ma sono sicuro che c'è una spiegazione. Mi fido di Armanoush: non farebbe mai niente di male. Quand'è che hai parlato con lei l'ultima volta?» «Ieri. Mi chiama tutti i giorni... da San Francisco!» Barsam fece una pausa. Non le disse che Armanoush chiamava anche lui, anche se «dall'Arizona». «Ottimo. Vuol dire che sta bene. Dobbiamo fidarci di lei. È una ragazza intelligente e di buon senso, lo sai. La prossima volta che telefona dille di chiamarmi. Dille che è urgente. Hai capito, Rose? Lo farai?» «Oh mio Dio!» Rose si mise a piangere più forte. Ma solo allora le venne in mente di chiedere: «Barsam, avevi detto che ci sono brutte notizie. Cos'è successo?». «Oh...» un pesante silenzio. «Si tratta di mia mamma...» non riuscì a finire la frase. «Di solo ad Armanoush che la nonna Shushan è morta nel sonno. Questa mattina non si è più svegliata.»
Mai quindici minuti erano trascorsi così lentamente. Armanoush camminava avanti e indietro sotto lo sguardo preoccupato di Asya. Finalmente venne l'ora di richiamare sua madre. Questa volta Rose rispose subito. «Amy, ora ti farò una domanda e tu dovrai dirmi la verità. Prometti che dirai la verità alla mamma.» Armanoush sentì un'ondata di panico che le risaliva dallo stomaco. «Dove sei?» chiese Rose con voce raschiante, spezzata. «Non sei a San Francisco e non sei in Arizona: dove sei?» Armanoush deglutì a fatica. «Mamma, sono a Istanbul.» «Cosa?» «Mamma, ora ti spiego tutto, però ti prego di restare calma.» Gli occhi di Rose brillarono di pura indignazione. Detestava sentirsi continuamente dire di stare calma. «Mamma, mi dispiace di averti fatto stare in pensiero. Non avrei mai dovuto farlo. Mi dispiace tanto, ma davvero, non c'è niente di cui preoccuparsi, credimi.» Rose appoggiò una mano sulla cornetta. «La mia bambina è a Istanbul!» disse al marito con tono di rimprovero, nemmeno fosse colpa sua. Poi urlò nel ricevitore: «Ma che diavolo ci fai laggiù?». «Be', in effetti sono a casa di tua suocera. È una splendida famiglia.» Stupefatta, Rose si voltò di nuovo verso Mustafa e questa volta lo rimproverò con più decisione. «E ospite della tua famiglia.» Prima ancora che lo sbalordito Mustafa potesse articolare una parola, disse: «Veniamo subito. Non sparire di nuovo. Stiamo arrivando. E non provare più a spegnere il telefono!». E con quello riappese. «Ma che diavolo stai dicendo?» Mustafa strizzò il braccio della moglie, più forte di quanto avesse voluto. «Io non vado da nessuna parte!» «Sì che ci vai» disse Rose. «Ci andiamo tutti e due. La mia unica figlia è a Istanbul!!!» strillò, come se Armanoush fosse tenuta in ostaggio.
«Non posso lasciare il lavoro in questo momento.» «Qualche giorno puoi prenderlo. E se non lo fai, ci vado da sola» ribattè Rose, o qualcuno che somigliava a Rose. «Andiamo laggiù e ce la riportiamo a casa.»
Quella sera, mentre stavano per andare a dormire, in casa Kazanci suonò il telefono. «Inshallah che non sia successo niente di male» borbottò Petite-Ma dal suo letto, il rosario in mano e la preoccupazione sul viso. Allungò la mano verso il bicchiere d'acqua con dentro la dentiera, e ne bevve un sorso continuando a pregare. Solo l'acqua poteva placare la paura. Fu zia Feride, ancora alzata, a rispondere. Era la più chiacchierona e comunicativa, al telefono. «Pronto?» «Ciao Feride, sei tu?» chiese una voce maschile. E senza neppure aspettare una risposta aggiunse: «Sono io... dall'America... Mustafa...». Elettrizzata nel sentire la voce del fratello, zia Feride sorrise. «Perché non ci chiami più spesso? Come stai? Quand'è che vieni a trovarci?» «Ascoltami, cara, ti prego. C'è Amy... Armanoush, lì da voi?» «Sì, certo, l'hai mandata tu a stare qui da noi. Le vogliamo molto bene.» Zia Feride sorrise raggiante. «Perché non sei venuto anche tu con lei, e tua moglie?» Mustafa rimase immobile, imbarazzato. Dalla finestra dietro le sue spalle si vedeva il paesaggio dell'Arizona, sempre affidabile, sempre discreto. Con il tempo aveva imparato ad apprezzare il deserto, la sua immensità placava il terrore di voltarsi indietro, la sua tranquillità allontanava la paura di morire. In momenti come quello ricordava invece, come se il corpo avesse una propria memoria, il destino che attendeva tutti gli uomini della sua famiglia. In momenti come quello si sentiva vicino al suicidio. Tro vare la morte prima che la morte trovasse lui. Aveva vissuto due vite completamente diverse. Mustafa e Mostafa. E a volte sembrava che l'unico modo di gettare un ponte fra quei due nomi fosse farli tacere entrambi simultaneamente... concludere bruscamente le due esistenze. Scacciò il pensiero. Ci fu un suono simile a un sospiro. Forse era stato lui. Forse era solo il deserto. «Credo che verremo. Veniamo per qualche giorno, per riportare a casa Amy e per vedervi... Arriviamo.» Quelle parole sembrarono uscirgli senza sforzo, come se il tempo non fosse una successione di linee spezzate ma una continuità ininterrotta, che si poteva persino riaggiustare quando si rompeva. Mustafa sarebbe andato a trovarli, come se non fossero passati quasi vent'anni dall'ultima volta che era stato a casa.
Capitolo quindici Uva passa
La miracolosa notizia che Mustafa stava per venirle a trovare insieme alla moglie americana scatenò una serie di reazioni nella famiglia Kazanci. La prima e più evidente riguardò detersivi, polvere abrasiva e sapone in fiocchi. In due giorni la casa fu rivoltata da cima a fondo, i vetri puliti e lucidati, i ripiani spolverati, le tende lavate e stirate, ogni mattonella scrostata e strofinata. Zia Cevriye pulì una per una le piante del soggiorno, il geranio e la campanula, il rosmarino e l'asperula, spolverò persino le foglioline dell'impatiens. Nel frattempo zia Feride sorprese tutti tirando fuori il traforo più prezioso della sua dote. Non c'era dubbio che la più eccitata per la notizia fosse nonna Gùlsum. Dapprima si era rifiutata di crederci e quando finalmente riuscì a convincersene, si rinchiuse a cucinare i cibi preferiti del suo figlio preferito. L'aria era satura di profumi. Aveva infornato due tipi diversi di börek, agli spinaci e alla feta, aveva fatto bollire la zuppa di lenticchie, lo stufato e l'agnello, e preparato la miscela per il köfte da friggere all'arrivo degli ospiti. Per quanto fosse determinata a cucinare un'altra mezza dozzina di piatti entro la fine della giornata, nonna Gùlsum puntava sopratutto sul dessert: l'ashure. Per tutta l'infanzia e l'adolescenza Mustafa Kazanci lo aveva adorato più di ogni altro dolce e, se quegli orrendi fast food americani non avevano rovinato i suoi gusti, co me si augurava nonna Gülsüm, sarebbe stato felicissimo di trovare le ciotole di ashure che lo aspettavano nel frigorifero, come se la vita fosse ancora la stessa e potesse riprenderla dal punto esatto in cui l'aveva lasciata. L'ashure era il simbolo della continuità e della stabilità, l'epitome dei tempi felici che seguono ogni bufera, non importa quanto terribile sia stata. La nonna aveva messo a mollo gli ingredienti il giorno prima, e adesso si apprestava a cucinarli. Aprì un armadietto e tirò fuori una grossa pentola. Bisognava sempre tenere in casa un pentolone adatto per l'ashure.
Ingredienti: 1/2 tazza di ceci 1 tazza di grano integro in chicchi 1 tazza di riso 1 tazza e 1/2 di zucchero 1/2 tazza di nocciole tostate
1/2 tazza di pistacchi 1/2 tazza di pinoli 1 cucchiaino di vaniglia 1/3 tazza di uvetta 1/3 tazza di fichi secchi 1/3 tazza di albicocche secche 1/2 tazza di scorze d'arancia 2 cucchiaini di acqua di rose
Decorazione: 2 cucchiaini di cannella 1/2 tazza di mandorle sbiancate e affettate 1/2 tazza di semi di melagrana
Preparazione: La maggior parte degli ingredienti va messa a bagno il giorno precedente, come segue: Lavare accuratamente ceci, grano e riso e poi lasciarli a mollo tutta la notte in ciotole separate. Immergere fichi, albicocche e scorze d'arancia in acqua calda per mezz'ora, poi scolare tenendo da parte l'acqua di ammollo; tagliare il tutto a pezzi, mescolare con l'uvetta e tenere da parte.
Cottura: Coprire i ceci con circa quattro litri d'acqua fredda. Portare a ebollizione e cuocere a fuoco medio per circa un'ora. Intanto portare a ebollizione 75 ci. d'acqua e cuocere riso e grano a fuoco basso per un'ora continuando a mescolare, fino a quando la miscela è morbida. Aggiungere l'acqua di ammollo della frutta secca, lo zucchero, le nocciole spezzate, i pistacchi e i pinoli nella pentola, e far bollire il tutto a fuoco medio mescolando di continuo, per 30 minuti o più. La miscela deve addensarsi leggermente fino alla consistenza di una zuppa spessa. Aggiungere la vaniglia, l'uvetta, i fichi, le albicocche e le scorze d'arancia, e cuocere per altri 20 minuti continuando a mescolare. Spegnere il fuoco e aggiungere l'acqua di rose. Lasciar raffreddare l'ashure a temperatura ambiente per un'ora o più. Spolverare con la cannella e guarnire con fettine di mandorla e semi di melagrana.
Nella camera delle ragazze Armanoush era rimasta tranquilla e meditabonda fin dalla mattina. Non aveva voglia di uscire, né di fare altro. Asya restò con lei a giocare a tavla e ascoltare Johnny Cash. «Doppio sei! Che fortuna!»
Ma Armanoush non mostrò il minimo piacere per il punto che i suoi dadi avevano segnato. Fissò invece con aria intenta la tavola da backgammon come se volesse muovere le pedine con la forza del pensiero. «Ho la sensazione che sia successo qualcosa di brutto e mia madre stia aspettando a dirmelo.» «Dai, non preoccuparti» disse Asya mordicchiando l'estremità della matita, con una voglia pazza di nicotina. «Hai parlato con tua madre e sembrava stesse bene. Grazie a te adesso verranno a Istanbul. Verranno qui e vi vedrete, e presto sarai di nuovo a casa tua...» Per quanto Asya avesse inteso tranquillizzarla, le sue parole avevano uno strano tono di rimprovero. Di fatto, la rattristava sapere che Armanoush sarebbe ripartita così presto. «Non so, è che non riesco a liberarmi da questa sensazione» sospirò Armanoush. «Mia madre non va mai da nessuna parte, non arriva neppure fino al Kentucky. L'idea che venga a Istanbul è semplicemente inconcepibile. Eppure è anche tipico da parte sua. Non sopporta di perdere il controllo della mia vita. Farebbe il giro del mondo pur di tenermi d'occhio.» Mentre aspettava che Armanoush decidesse che mossa fare sulla tavola, Asya raccolse le gambe sotto di sé, formulando un nuovo articolo da aggiungere al suo Manifesto del Nichilismo. Articolo dieci. Se mai ti capitasse di trovare una buona amica, non ti ci affezionare tanto da dimenticare che, alla fine, ognuno di noi è esistenzialmente solo e presto o tardi quell'eterna solitudine avrà la meglio su tutto il resto. Di sicuro le capacità di gioco di Armanoush non erano influenzate dall'angoscia che provava. Con il doppio sei penetrò nel campo di Asya e la stracciò mangiando tre pedine in un colpo solo. Vittoria! Asya morse più forte la matita. Articolo undici. Se anche hai trovato una cara amica e ti sei affezionata a lei fino a scordare l'articolo dieci, non trascurare la possibilità che possa fregarti in altre sfere dell'esistenza. Sulla scacchiera da tavla ognuno di noi è solo, proprio come quando nasce e quando muore. Con tre pedine in attesa sul bar, e solo due punte aperte nel campo avversario, Asya doveva per forza ottenere un «doppio cinque» oppure un «doppio tre» Nessun altro risultato avrebbe potuto salvarla dalla sconfitta. Si sputò sul palmo per scaramanzia e innalzò una preghiera ai jinn della tavla, che aveva sempre immaginato come un orco mezzo bianco e mezzo nero, con dadi che roteavano follemente al posto degli occhi. Lanciò: «tre e due». Accidenti. Impossibilitata a giocare, strinse i pugni e grugnì. «Poverina!» esclamò Armanoush.
Asya mise le pedine nere in attesa sul bar mentre ascoltava un venditore ambulante che dalla strada urlava con tutto il fiato che aveva in gola: «Uva passa! Ho l'uva passa! Per bambini piccoli e nonne sdentate, uva passa per tutti!» Quando parlò di nuovo, alzò la voce per superare quella del venditore. «Sono sicura che tua mamma sta bene. Pensaci un attimo, se avesse qualcosa che non va non affronterebbe certo un viaggio dall'Arizona fino a Istanbul, no?» «Suppongo che tu abbia ragione» annuì Armanoush e fece rotolare i dadi. Di nuovo «doppio sei»! «Ehi, hai intenzione continuare tutto il giorno con quel doppio sei? Cos'hai, i dadi truccati?» chiese Asya sospettosa. «Non starai mica barando, eh signorina?» «Come no! Basterebbe sapere come si fa!» Ma proprio mentre stava per muovere altre due pedine bianche sulle punte libere, Armanoush si fermò di colpo, il volto pallido e contratto. «Oh Dio, come ho fatto a non pensarci?» esclamò angosciata. «Non si tratta di mia madre, ma di mio padre. È esattamente il modo in cui reagirebbe la mamma se capitasse qualcosa di brutto a papà... o a qualcuno della sua famiglia... Oddio, è successo qualcosa a mio padre!» «Sono solo congetture» cercò di rassicurarla Asya senza troppo successo. «Quand'è l'ultima volta che hai parlato con lui?» «Due giorni fa» disse Armanoush. «Gli ho telefonato dall'Arizona e stava bene, sembrava tutto come al solito.» «Ehi, aspetta un attimo! Cosa vuoi dire che l'hai chiamato dall'Arizona?» Armanoush arrossì. «Ho mentito.» Poi alzò le spalle, quasi assaporando la soddisfazione di aver fatto qualcosa di scorretto, una volta tanto. «Per fare questo viaggio ho mentito a tutte le persone della famiglia. Se avessi rivelato che venivo a Istanbul per conto mio sarebbero stati così terrorizzati da non lasciarmi partire. Così ho deciso di venirci lo stesso, e al ritorno avrei raccontato la verità. Papà è convinto che io sia in Arizona con la mamma, e la mamma pensa che io sia a San Francisco con papà, o almeno fino a ieri.» Asya fissò Armanoush con un'incredulità destinata a svanire presto, rimpiazzata da una specie di timore reverenziale. Forse non era esattamente la ragazza candida e perbene che aveva immaginato. Forse in qualche angolo di quel suo luminoso universo c'era spazio per l'oscurità, l'inganno e la perversione. Quella confessione, lungi dallo sconvolgere Asya, aveva invece incrementato la sua ammirazione per Armanoush. Chiuse la tavla e se la cacciò sotto l'ascella, ammettendo così la sconfitta, anche se Armanoush non era in grado di apprezzare il valore culturale del gesto. «Non credo che sia successo niente di male... ma non fai prima a dare un colpo di telefono a tuo padre?» chiese Asya. Come se fosse in attesa di quelle parole per decidersi, Armanoush prese il telefono. Considerando la differenza di fuso orario, a San Francisco era mattina presto. Dopo un solo squillo rispose qualcuno, ma non era nonna Shushan come al solito, era suo padre.
«Tesoro.» Nel sentire la voce della figlia, Barsam Tchakhmakhchian emise un sospiro di profondo affetto. Ci fu una strana scarica sulla linea telefonica, che li rese consapevoli dell'enorme distanza che li separava. «Ti avrei chiamata domattina, sapevo che sei a Istanbul: mi ha avvertito tua madre.» Calò un breve silenzio imbarazzante, però Barsam Tchakhmakhchian non fece alcun commento, e neppure la sgridò. «Tua madre e io eravamo così in pensiero per te. Rose sta per venire a Istanbul con il tuo patrigno... Vengono a prenderti. Dovrebbero arrivare domani verso mezzogiorno.» Armanoush era impietrita. C'era qualcosa che non andava. Qualcosa di terribile. Che suo padre e sua madre si rivolgessero la parola, e che si tenessero addirittura aggiornati a vicenda, era un sicuro segno di catastrofe. «Papà, è successo qualcosa?» Barsam Tchakhmakhchian fece una pausa, sotto il peso del dolore di un ricordo d'infanzia che gli era apparso dal nulla. Quand'era bambino, tutti gli anni un uomo con il cappuccio scuro a punta e il mantello nero faceva il giro delle case del quartiere, bussando di porta in porta insieme al diacono della chiesa locale. Era un prete della madrepatria, alla ricerca di ragazzi brillanti da riportare in Armenia per istruirli come futuri preti. «Papà, stai bene? Cosa sta succedendo?» «Sto bene, tesoro, mi sei mancata» fu tutto quello che riuscì a dire. Da giovane Barsam era affascinato dalla religione, lo studente migliore della scuola domenicale. Di conseguenza l'uomo con il cappuccio passava spesso da loro, e parlava con Shushan del futuro del ragazzo. Un giorno, mentre Barsam, sua madre, e il prete erano seduti in cucina a bere té bollente, il prete aveva detto che se una decisione andava presa, quello era il momento di prenderla. Barsam Tchakhmakhchian non avrebbe mai dimenticato il lampo di paura negli occhi della madre. Per quanto rispettasse il santo prete, per quanto vedere il suo unico figlio, ormai adulto, in abito pastorale l'avrebbe resa felicissima, per quanto desiderasse di vederlo consacrato al servizio di Dio, Shushan non potè evitare di ritrarsi terrorizzata, come di fronte a un rapitore sul punto di portar glielo via. Trasalì con tanta forza da rovesciarsi sul vestito qualche goccia di té dalla tazza che teneva in mano. Il prete annuì amabilmente, con dolcezza, riconoscendo l'ombra di una storia oscura celata nel passato. Le accarezzò il capo e le impartì la benedizione. Poi lasciò la casa e non tornò mai più con quella richiesta. Quel giorno Barsam Tchakhmakhchian sentì qualcosa che non aveva mai provato prima e che non avrebbe più provato in seguito. Un'acuta percezione, che lo fece rabbrividire. Solo una madre che aveva già perso un figlio avrebbe reagito così alla prospettiva di un allontanamento. In qualche momento della sua vita, Shushan doveva aver avuto un altro figlio, che era stato separato da lei. Adesso, mentre piangeva la morte della madre, non aveva il coraggio di rivelarlo ad Armanoush. «Papà, dimmi qualcosa» lo implorò. Proprio come la madre, anche il padre di Barsam veniva da una famiglia deportata dalla Turchia nel 1915. Sarkis Tchakhmakhchian e Shushan Stamboulian avevano
qualcosa in comune, qualcosa che i loro figli potevano intuire, ma non afferrare completamente. Troppi silenzi circondavano le loro parole. Arrivando in America avevano lasciato un'altra vita in un altro Paese, e, per quanto evocassero spesso e con sincerità il passato, si rendevano conto che certe cose non si potevano raccontare. Barsam ricordava suo padre che danzava attorno alla mamma nella halay, tracciando un cerchio dietro l'altro con le braccia alzate come un uccello che si leva in volo; la musica che cominciava lenta e poi cresceva a un ritmo vertiginoso, quel turbinio mediorientale che i bambini potevano solo osservare ammirati stando in disparte. La musica era la traccia più vivida che gli era rimasta della sua infanzia. Per anni Barsam aveva suonato il clarinetto nella banda armena e aveva danzato in costume tradizionale, pantaloni neri a sbuffo e camicia gialla. Si ricordava di quando usciva di casa vestito in quel modo mentre i ra gazzi non-armeni del vicinato lo osservavano ridendo. Ogni volta sperava che si scordassero di quello che avevano visto, o che semplicemente non lo prendessero in giro. E invece lo facevano sempre. Mentre si ritrovava coinvolto nelle varie attività armene, desiderava soltanto di essere come loro: un americano, niente di più, niente di meno. Persino a distanza di anni Shushan continuava a rinfacciargli quella volta che da piccolo aveva chiesto agli inquilini del piano di sopra, americani di origine olandese, quale sapone usassero per lavarsi, perché anche lui voleva diventare bianco come loro. E adesso, con le memorie d'infanzia che si risvegliavano dopo la morte di sua madre, Barsam si sentiva in colpa per la rapidità con cui aveva disimparato quel po' di armeno che parlava da bambino. Si sentiva in colpa, adesso, per non aver imparato di più da sua madre, e per non aver insegnato di più a sua figlia. «Papà, perché sei così silenzioso?» chiese Armanoush spaventata. «Ti ricordi del campeggio estivo dove andavi da ragazzina?» «Certo che me lo ricordo» rispose Armanoush. «Ce l'avevi con me perché non ti ci ho più mandata?» «Papà, sono io che non ci sono più voluta andare, non ti ricordi? All'inizio era stato divertente, ma ormai mi sentivo troppo grande per quelle cose. Sono io che ti ho chiesto di non andarci più...» «Giusto» soggiunse Barsam poco convinto. «Però avrei anche potuto cercarne un altro per ragazzi armeni della tua età.» «Papà, perché tiri fuori questa storia proprio adesso?» Armanoush era sul punto di piangere. Non aveva il coraggio di dirglielo. Non così, non per telefono. Non voleva che sapesse della morte della nonna mentre era sola a migliaia di chilometri di distanza. Intanto che cercava di improvvisare qualche frase per distrarla, lei sentì il mormorio di fondo che c'era in casa. Il classico ronzio di una riunione di famiglia: sembrava ci fossero tutti, parenti, amici e vicini di casa raccolti sotto lo stesso tetto, e questo poteva significare solo due cose: o qualcuno si era sposato, oppure qualcuno era morto. «Cos'è successo? Dov'è nonna Shushan?» chiese piano Armanoush. «Voglio parlare con la nonna.» Fu allora che Barsam Tchakhmakhchian si decise a dirglielo.
Fin dalla sera tardi zia Zeliha aveva cominciato a camminare avanti e indietro per la sua stanza in preda a un nervosismo che non riusciva a contenere. Non poteva confidare a nessuno quanto stesse male, e più cercava di nascondere i propri sentimenti, peggio si sentiva. Prima aveva pensato di andare in cucina a prepararsi una tisana rilassante, ma l'odore del cibo in preparazione l'aveva quasi fatta vomitare. Allora era andata in salotto a guardare la televisione, ma dopo averci trovato due delle sorelle che pulivano freneticamente e chiacchieravano eccitate, aveva cambiato idea. Di nuovo nella stanza, Zeliha chiuse la porta, si accese una sigaretta e tirò fuori l'amica che teneva sotto il materasso per le giornate difficili: la bottiglia di vodka. Dapprima con ingordigia, poi più lentamente, se ne scolò un buon terzo. Dopo quattro sigarette e sei dosi di vodka non si sentiva più in ansia, anzi, non sentiva proprio niente, era solo affamata. L'unico genere commestibile che aveva in camera era un pacchetto di uva passa comprato nel pomeriggio dallo scheletrico ambulante che stazionava davanti a casa. Quando era arrivata a metà bottiglia e le era rimasta solo una manciata di uvetta, squillò il cellulare. Aram. «Non voglio che stasera resti in quella casa» fu la prima cosa che le disse. «E nemmeno domani, o il giorno dopo. Per essere sincero, non voglio che tu stia lontana da me neanche un giorno di più.» Per tutta risposta Zeliha ridacchiò. «Ti prego, amore, vieni a stare da me. Lascia quella casa. Ho uno spazzolino nuovo per te, e anche un asciugamano pulito!» Aram cercò di buttarla sul ridere, ma si interruppe a metà. «Resta da me finché non se n'è andato.» «E come potrei spiegare alla famiglia la mia improvvisa sparizione?» borbottò zia Zeliha. «Non devi spiegare proprio niente» la implorò Aram. «Senti, è l'unico vantaggio di essere la pecora nera di una famiglia tradizionalista. Qualunque cosa tu faccia, sono sicuro che nessuno ne rimarrà sconvolto. Vieni. Ti prego, vieni da me.» «E Asya? Che cosa le racconto?» «Niente, non devi dirle niente... lo sai bene.» Stringendo forte il telefono, Zeliha si rannicchiò in posizione fetale. Chiuse gli occhi, come sul punto di addormentarsi, ma riuscì a mettere insieme la forza per chiedere: «Aram, quando finirà? Questa amnesia perpetua. Questa rimozione forzata. Non dire niente, non ricordare niente, non rivelare niente, né a loro né a me stessa... finirà mai?». «Adesso non pensarci» cercò di confortarla Aram. «Datti pace. Sei troppo dura con te stessa. Domani mattina vieni qui, la prima cosa che fai.» «Oh, amore mio... come vorrei poterlo fare...» Zia Zeliha distolse il viso angosciato, come se lui potesse vederla attraverso il telefono. «Si aspettano che vada a prenderli all'aeroporto. Sono l'unica che sa guidare, non ricordi?»
Aram rimase in silenzio, concedendole il punto. «Non preoccuparti» gli sussurrò Zeliha. «Ti amo... ti amo tanto... ora cerchiamo di dormire.» Appena riattaccato, Zeliha scivolò nel sonno. Di come avesse fatto a spegnere il cellulare, rimettere a posto la bottiglia di vodka, schiacciare la sigaretta nel posacenere, spegnere la luce e scivolare sotto le coperte, non le rimase nessun ricordo la mattina dopo, quando si svegliò con un terribile mal di testa.
«Farà freddo a Istanbul? Avrei dovuto portare abiti più pesanti?» chiese Rose nonostante ci fossero ben tre ragioni per evitare di farlo: perché aveva già fatto la stessa domanda, perché aveva già chiuso le valigie, perché erano già sulla strada per l'aeroporto di Tucson ed era impossibile tornare indietro. Per quanto fosse tentato di ricordare alla moglie quelle tre ragioni, Mustafa Kazanci tenne gli occhi fissi sulla strada e scosse il capo. Il giorno della partenza Rose e Mustafa uscirono di casa alle quattro del pomeriggio. Li attendevano due voli, uno breve e l'altro lungo. Prima da Tucson a San Francisco, poi da San Francisco a Istanbul. Per lei era il primo viaggio in un Paese dove l'inglese non era la lingua ufficiale e dove la gente non faceva colazione la mattina con le frittelle inzuppate nello sciroppo d'acero, perciò si sentiva eccitata e angosciata allo stesso tempo. Il fatto è che Rose non era il tipo dell'esploratrice, e se non fosse stato per il viaggio a Bangkok da lungo tempo progettato e mai messo in pratica, lei e Mustafa non avrebbero neppure avuto il passaporto. Il momento in cui erano andati più vicini a un viaggio intercontinentale era stato guardando la serie di sei dvd Alla scoperta dell'Europa. Da lì si era fatta un'idea di come doveva essere la Turchia, perlomeno un'idea più precisa di quella che avrebbe potuto mettere insieme con gli scarsi brandelli di informazioni che Mustafa si era lasciato sfuggire in diciannove anni di matrimonio. Peccato che Rose avesse guardato i sei dvd tutti di fila, e dato che Viaggio in Turchia era l'ultimo episodio dopo quelli su Gran Bretagna, Francia, Spagna, Portogallo, Germania, Austria, Svizzera, Italia, Grecia e Israele, le era rimasta in testa un po' di confusione. I dvd Alla scoperta dell'Europa erano utili a scopo divulgativo, soprattutto per le famiglie americane che non avevano il tempo, i mezzi, o il desiderio di viaggiare, ma chi li aveva prodotti avrebbe dovuto aggiungere un'avvertenza sul cofanetto, invitando il pubblico a non guardarli uno di seguito all'altro e a limitarsi a «viaggiare» in un solo Paese per volta. All'Aeroporto Internazionale di Tucson visitarono ogni negozio, vale a dire un chiosco e una rivendita di souvenir. Nonostante la pretenziosa insegna International airport (denominazione giustificata dai voli in arrivo e in partenza per il Messico, a un'ora d'auto di distanza), l'aeroporto era così modesto da far pensare più che altro a una stazione di autobus, tanto che neppure la catena Starbucks si era presa la briga di aprirci una filiale. Ma Rose riuscì lo stesso a racimolare una serie di regali per la famiglia di Mustafa. Malgrado l'emergenza e la costante preoccupazione per la figlia, per non parlare del pensiero di doverle annunciare la morte di sua nonna, Rose era piombata in una specie di stordimento da turista. Studiò con attenzione la merce sugli
scaffali alla ricerca del regalo giusto per ogni membro della famiglia tutta al femminile di Mustafa, anche se l'assortimento era piuttosto limitato. Taccuini a forma di cactus, portachiavi a forma di cactus, magneti da frigo a forma di cactus, bicchieri da tequila con una decorazione a forma di cactus, un ammasso di gingilli e cianfrusaglie con immagini, se non di cactus, di lucertole e coyote. Alla fine Rose riuscì a mettere insieme un regalo per ognuna delle donne Kazanci: una matita a forma di cactus con la scritta I LOVE ARIZONA, una T-shirt con la mappa dell'Arizona stampata davanti, un calendario con le foto del Grand Canyon, una grossa tazza con la scritta SÌ MA È UN CALDO SECCO, e un magnete da frigorifero con dentro un vero cactus in miniatura. Comprò anche due paia di calzoncini corti a fiori, proprio come quelli che lei indossava in quel momento, casomai qualcuna di loro avesse voluto provarli. Dopo aver vissuto a Tucson più di vent'anni, Rose, ex ragazza del Kentucky, portava ormai Arizona scritto in faccia. Non era solo l'abbigliamento a tradirla - Tshirt, jeans corti e cappello di paglia - e neppure gli occhiali da sole incollati alla faccia, ma anche il modo di fare, che irradiava un evidente «stile Arizona». Aveva quarantasei anni, ma si comportava come una di quelle impiegate di tribunale che, avendo avuto rare occasioni di mettersi un vestito a fiori nel corso della vita lavorativa, ne approfittavano a tutto spiano appena andavano in pensione. In effetti erano parecchie le cose che non aveva fatto all'età giusta, tra cui avere altri figli. Quanto le dispiaceva non aver avuto un altro bambino! Mustafa non si era mostrato particolarmente interessato, e per molto tempo anche Rose era stata d'accordo, senza immaginare che avrebbe rimpianto quella decisione. Forse era una specie di malattia professionale: passando le giornate in mezzo ai ragazzini delle elementari, non aveva mai sentito la mancanza di altri figli suoi. Detto questo, il matrimonio con Mustafa era stato soddisfacente, certo, caratterizzato più dal conforto delle abitudini comuni che da un sentimento appassionato, ma un matrimonio più felice di altri che aspiravano a essere matrimoni d'amore. Era stato un gioco del destino: ripensandoci, Rose aveva cominciato a uscire con Mustafa per ripicca verso i Tchakhmakhchian. Ma conoscendolo meglio aveva cominciato a piacerle, e si era innamorata di lui. E se anche il fascino dell'amore romantico l'aveva portata qualche volta a fantasticare su un'altra vita con un altro uomo, tutto sommato si considerava soddisfatta di quello che le era toccato. «Non comprare la salsa» le disse Mustafa quando vide che stava prendendo in considerazione una salsa messicana piccante in una bottiglia a forma di cactus. «Credimi, Rose, a Istanbul non ti servirà.» «Davvero? La cucina turca è piccante?» A quella, come ad altre domande dolorosamente ovvie, Mustafa aveva sempre dato risposte evasive. Dopo tutti quegli anni di distacco, la sua familiarità con la cultura turca si era un po' sbiadita, come una pergamena battuta dal vento e dal sole. Per lui Istanbul era diventato un luogo fantasma, privo di consistenza, se non per la sporadica comparsa nei sogni. Pur avendo pensato spesso, in passato, ai vari quartieri della città, ai suoi diversi aspetti e culture, da quando si era sistemato definitivamente
negli Stati Uniti era diventato insensibile verso tutto ciò che poteva essere associato al suo paese. Eppure, un conto era staccarsi dalla città in cui era nato, un altro fare lo stesso con la sua carne e le sue radici. A Mustafa Kazanci non dispiaceva di aver trovato rifugio in America come se non avesse una patria alla quale tornare, e neppure vivere proiettato verso il futuro, senza memorie da ripercorrere, ma non sopportava di essersi trasformato in uno straniero privo di antenati, in un uomo senza infanzia. Nel corso degli anni c'erano stati momenti in cui aveva avuto la tentazione di tornare a trovare la sua famiglia, ad affrontare la persona che era stato un tempo, ma non era facile, e con il trascorrere degli anni lo divenne sempre meno. Si sentiva ogni giorno più lontano dal passato, alla fine aveva tagliato ogni legame con esso. Meglio così. Sia per lui sia per quelli che allora aveva ferito così profondamente. Ormai la sua casa era l'America. Anche se, a essere sincero, più che l'Arizona o qualunque altro posto, era il futuro che aveva scelto come casa, una casa con la porta posteriore sbarrata sul passato. Sull'aereo Mustafa era chiuso e assorto. Durante il decollo rimase immobile, e cambiò a malapena la postura quando raggiunsero la posizione di crociera. Si sentiva stanco, esausto per quel viaggio obbligato che aveva appena cominciato. Rose, al contrario, sprizzava eccitazione nervosa. Bevve una tazza dietro l'altra del pessimo caffè da aereo, sgranocchiò i miseri pretzel che vennero serviti, sfogliò le riviste di bordo, guardò Che pasticcio, Bridget Jones anche se lo aveva già visto, si immerse in una lunga chiacchierata con la signora accanto (stava andando a San Francisco a trovare la figlia maggiore e a conoscere il nipotino appena nato), e quando questa si assopì, lei si dedicò ai quiz di storia sullo schermo televisivo che aveva davanti.
Quale nazione subì maggiori perdite durante la Seconda guerra mondiale? a) Giappone b) Gran Bretagna c) Francia d) Unione Sovietica Qual era il nome del personaggio principale in 1984 di George Orwell? a) Winston Smith b) Akaky Akakievich c) Sir Francis Drake d) Gregor Samsa
Alla prima domanda Rose rispose B senza esitazione, ma non avendo la minima idea della seconda, tirò a caso: A. Poco dopo avrebbe scoperto, sorprendentemente, di aver indovinato la seconda ma sbagliato la prima. Amy di sicuro avrebbe risposto esattamente a entrambe. Al pensiero della figlia le si strinse il cuore. A dispetto di
liti e discussioni, e delle sue carenze come madre, Rose era certa di avere un buon rapporto con Amy. Proprio come era certa che fosse stata la Gran Bretagna a subire maggiori perdite durante la Seconda guerra mondiale. Poi atterrarono a San Francisco. Appena dentro l'aeroporto, Rose si lasciò trascinare da un'altra ondata di acquisti compulsivi: questa volta provviste per il viaggio. Le briciole servite sul primo volo le erano sembrate così tristi che decise di prendere in mano la situazione. Anche se Mustafa aveva cercato di spiegarle che la Turkish Airlines le avrebbe servito un assortimento di prelibatezze, Rose preferì mettersi al sicuro prima di imbarcarsi su un volo di dodici ore. Comprò un pacchetto di noccioline Planters, crachers al formaggio, biscotti con pezzetti di cioccolato, due pacchetti di patatine BBQ, una manciata di barrette alla graniglia di mandorla e miele, e pacchetti di gomma da masticare. Aveva abbandonato da tempo l'idea di tenere sotto controllo i carboidrati nell'illusione di tenere sotto controllo qualcosa, qualunque cosa. Quelli erano i giorni in cui era abbastanza giovane e determinata da voler dimostrare alla famiglia Tchakhmakhchian che quell'inutile odar era in realtà una persona in gamba, quasi da invidiare. Adesso, vent'anni più tardi, non poteva far altro che sorridere alla giovane donna risentita che era stata allora. Anche se il risentimento nei confronti del suo primo marito e della sua famiglia non si era sopito, con il tempo Rose aveva imparato a venire a patti con i propri difetti e le proprie carenze, inclusi pancia e fianchi abbondanti. Si era messa a dieta così tante volte, smesso e ricominciato, da non ricordarsi più neppure di preciso quand'era che aveva deciso di abbandonare le diete una volta per tutte. Era riuscita a liberarsi, se non dei chili, almeno del bisogno di perderli. L'impulso si era semplicemente spento. Mustafa l'amava così com'era, e non aveva mai criticato il suo aspetto. La chiamata per l'imbarco arrivò mentre erano in coda al Wendy's, in attesa di due Big Bacon Classic con patatine e Coca e due patate al forno con panna acida ed erba cipollina, tanto per premunirsi nel caso i pasti serviti dalla Turkish Airlines si fossero rivelati immangiabili. Agguantarono il cibo giusto in tempo e si avviarono al gate, dove era necessario superare anche l'ulteriore controllo di sicurezza riservato ai voli intercontinentali (soprattutto se verso Paesi del Medio Oriente) Rose osservò preoccupata un cortese ma lento funzionario che frugava tra i regali comprati a Tucson. Pescò la matita a forma di cactus e la scrollò per aria, come se volesse ammonirla per qualche malefatta che stava per commettere. Appena a bordo, comunque, Rose si rilassò, godendosi ogni dettaglio dell'esperienza: i minuscoli ma eleganti set da viaggio che vennero distribuiti; i cuscini, le coperte e le mascherine coordinate; il continuo rifornimento di bevande, interrotto soltanto dai sandwich al tacchino. Poco più tardi cominciarono a servire la cena: riso, pollo cotto al forno con contorno di insalata e verdure fritte. I NOSTRI PIATTI NON CONTENGONO CARNE DI MAIALE, annunciava un foglietto appoggiato sul vassoio. Rose non potè fare a meno di sentirsi in colpa per i suoi hamburger al bacon.
«Avevi ragione a proposito del cibo, è proprio buono» disse al marito con un sorriso timido mentre esaminava una ciotolina di dessert. «E questo cos'è?» «Ashure» disse Mustafa con voce strozzata, guardando l'uvetta che decorava il dolce. «A casa era il mio dolce preferito. Sono sicuro che mia madre ne ha preparato un pentolone appena ha sentito che stavo arrivando.» Più Mustafa si sforzava di evitare il ricordo di dettagli come quello, più gli si affacciavano alla mente le dozzine di ciotole di ashure allineate sui ripiani del frigorifero, pronte per essere distribuite ai vicini. Si usava cuocere l'ashure per vicini e conoscenti almeno quanto per la propria famiglia. Andava perciò preparato in grandi quantità, ogni coppetta un'epitome di sopravvivenza, solidarietà e abbondanza. L'attrazione fatale che Mustafa provava per quel dolce si era manifestata (agli altri) a diciassette anni, quando lo avevano beccato a ingurgitare una dietro l'altra le ciotole che avrebbe dovuto distribuire porta a porta. Si ricordava ancora dell'attesa nel palazzo accanto al loro konak, con in mano il vassoio dell'ashure per i vicini. Aveva cominciato a spilluzzicare le uvette decorative contando sul fatto che se ne mangiava solo qualcuna nessuno se ne sarebbe accorto. Poi aveva proseguito con i semi di melagrana e le mandorle affettate, e prima di rendersene conto aveva divorato tutto. Aveva nascosto le ciotole vuote in giardino. Spesso i vicini le tenevano fino al momento in cui le avrebbero restituite con qualche altro cibo cucinato da loro per ricambiare, il più delle volte altro ashure. Sarebbe perciò trascorso del tempo prima che la famiglia Kazanci scoprisse l'impresa di Mustafa. E quando poi era successo, la madre, per quanto imbarazzata dalla sua compulsività, non l'aveva rimproverato: da quel momento aveva fatto in modo che in frigo ci fossero sempre delle ciotole di scorta di ashure, riservate a lui e solo a lui. «Desidera qualcosa da bere, signore?» gli chiese la hostess in turco, chinandosi verso di lui. Aveva gli occhi azzurro zaffiro e un gilet dello stesso colore, con nuvole soffici e tondeggianti stampate sulla schiena. Per una frazione di secondo Mustafa esitò, non per la scelta della bevanda, ma perché non sapeva in che lingua risponderle. Dopo tutti quegli anni si sentiva più a suo agio con l'inglese che con il turco. Eppure gli sembrava altrettanto innaturale, se non addirittura arrogante, rispondere a un turco in inglese. Fino ad allora aveva risolto questo dilemma evitando di comunicare con altri turchi. Ma la sua freddezza nei confronti dei propri compatrioti diventava dolorosamente evidente in situazioni come quella. Si guardò attorno alla ricerca di una via di scampo e, non avendola individuata, dovette alla fine rispondere in turco: «Succo di pomodoro, per favore». «Mi spiace, ma non abbiamo succo di pomodoro» disse la hostess con un sorriso allegro, come se lo trovasse divertente. Era una di quelle dipendenti devote che non perdevano mai la fiducia nei confronti dell'istituzione per la quale lavoravano, capaci di risponderti no a ripetizione, ma sempre con un sorriso brioso. «Non le andrebbe invece un Bloody Mary?» Accettò la densa mistura scarlatta e si appoggiò allo schienale, con la fronte aggrottata e gli occhi verdi offuscati. Solo in quel momento si rese conto che Rose lo stava osservando, studiava i suoi movimenti con attenzione. La sua espressione si
rabbuiò ulteriormente quando gli chiese: «Cosa c'è, tesoro? sembri nervoso. È perché stiamo per incontrare la tua famiglia?». Avevano già discusso a lungo per quel viaggio, e non era rimasto molto da dire. Rose sapeva che Mustafa non aveva il minimo desiderio di tornare a Istanbul, e che si era semplicemente arreso alla sua incrollabile richiesta di andarci insieme. Per quanto lei l'avesse apprezzato, non arrivava al punto di essergliene grata. Dopo diciannove anni di matrimonio una moglie avrà pure il diritto di chiedere a suo marito un atto di cortesia, per una volta, pensò mentre prendeva la mano di Mustafa e la stringeva teneramente. Quel gesto lo colse alla sprovvista. Sentì crescere in sé un'enorme malinconia e si avvicinò alla moglie. Da lei aveva imparato due cose fondamentali sull'amore: primo, che al contrario di quello che sostenevano i romantici, l'amore era più un percorso graduale che un'improvvisa esplosione; secondo, che anche lui era capace d'amare. Nel corso degli anni si era abituato ad amarla e aveva trovato in lei la misura della serenità. Per quanto difficile e spesso esigente, Rose era sempre sincera e decifrabile; era un carro armato di energia, ma lui sapeva prevedere ogni sua reazione. Non lo sfidava mai, proprio come non affrontava mai di petto la vita, e possedeva inoltre un talento naturale per adattarsi all'ambiente circostante. Era un amalgama di forze contrastanti che operavano incessantemente per proprio conto, fuori dal tempo e di conseguenza fuori da ogni genealogia famigliare. Dopo che l'aveva incontrata, i tormenti che ribollivano in lui si erano trasformati in un amore lento ma tranquillo, probabil mente la massima forma di amore di cui era capace. Forse Rose non era stata una moglie perfetta durante il suo primo matrimonio, incapace di adattarsi a una famiglia armena allargata, ma per quella stessa ragione aveva rappresentato l'approdo ideale per lui, che cercava di sfuggire a un'altrettanto allargata famiglia turca. «Ti senti bene?» ripetè Rose, con voce appena più tagliente. E in quel momento Mustafa Kazanci fu travolto dall'ansia. Impallidì come se gli mancasse l'aria. Non avrebbe dovuto trovarsi sull'aereo. Non avrebbe dovuto andare a Istanbul. Rose avrebbe dovuto andarci da sola, prendere sua figlia e tornare a casa... a casa. Quanto desiderava essere di nuovo in Arizona, dove tutto scorreva sotto il rassicurante riparo dell'abitudine... «Credo che sia meglio che mi sgranchisca le gambe» disse porgendo a Rose il suo bicchiere e alzandosi per cercare di tenere sotto controllo quello che sembrava un imminente attacco di panico. «Non fa bene restare seduti per ore e ore di fila.» Mentre camminava verso la coda dell'aereo osservò i passeggeri seduti in ogni fila, alcuni turchi, alcuni americani, gli altri di nazionalità diverse. Uomini d'affari, giornalisti, fotografi, diplomatici, scrittori di viaggio, studenti, madri con neonati: estranei con cui si condivideva lo spazio e, nel caso, il destino. Alcuni erano immersi nella lettura di libri o giornali, altri osservavano re Artù che faceva strage di nemici nel videogame di bordo, altri ancora si dedicavano alle parole crociate. Una donna seduta dieci file più indietro, una brunetta abbronzata sui trentacinque anni, lo guardò intensamente. Mustafa distolse lo sguardo. Era ancora un bell'uomo, non tanto per l'alta statura e la corporatura robusta, i lineamenti netti e i capelli nerissimi, quanto piuttosto per le maniere gentili e l'eleganza naturale con cui si vestiva. Nel corso della
vita aveva attirato l'attenzione di diverse donne, ma non aveva mai tradito sua moglie. L'ironia era che più se ne teneva alla larga, più loro erano attratte da lui. Superando la fila della brunetta, Mustafa notò con un certo disagio che portava una gonna cortissima, e teneva le gambe accavallate, facendoti pensare alla sua biancheria intima. Non gli piacque l'imbarazzo che quella minigonna gli aveva provocato; ricordi pesanti e spiacevoli di cui avrebbe voluto liberarsi una volta per tutte; l'immagine di sua sorella minore, Zeliha, che aveva sempre amato le minigonne e scorrazzava per le strade sconnesse di Istanbul, come se fuggisse dalla sua stessa ombra. Mustafa fissò gli occhi dalla parte opposta, per evitare di guardare dove non avrebbe dovuto. A volte si chiedeva se in fondo le donne gli fossero mai davvero piaciute. A parte Rose, ovviamente. Ma Rose non era una donna: Rose era Rose. Tutto sommato era stato un buon patrigno per la figlia di Rose, ma pur amando sinceramente Armanoush, non aveva mai provato il desiderio di avere figli suoi. Niente bambini per lui. Nessuno avrebbe immaginato che, dentro di sé, era convinto di non meritarli. Non era sicuro di poter essere un buon padre. Ma chi voleva prendere in giro? Sarebbe stato un pessimo padre. Anche peggio del suo. Gli tornò in mente il giorno che lui e Rose si erano conosciuti. Non molto romantico: nel corridoio di un super-mercato, con due scatole di ceci in mano. Nel corso degli anni avevano parlato tante volte di quel giorno, ridendo di ogni dettaglio che riuscivano a evocare. Eppure ne conservavano ricordi piuttosto diversi: Rose sottolineava quanto lui le fosse sembrato timido e nervoso, mentre lui di Rose ricordava i capelli biondi e l'audacia che in un primo tempo gli aveva messo paura. Da allora Rose non l'aveva più intimidito. Anzi, stare con lei era come abbandonarsi a una corrente di serenità, con la sicurezza che non l'avrebbe mai trascinato verso il fondo, un flusso imperturbabile e privo di sorprese. Non ci aveva messo molto per cominciare ad amarla. La mattina la guardava affaccendarsi in cucina. Entrambi amavano la cucina, anche se per ragioni diverse. Rose perché adorava preparare da mangiare e là dentro si sentiva a casa. Quanto a Mustafa, semplicemente gli piaceva osservarla in mezzo a tutti quei dettagli ordinari, le salviette di carta coordinate alle piastrelle delle pareti, la distesa di tazze che sarebbe bastata per un esercito, la macchia di crema di cioccolato che si induriva sul banco da lavoro. Amava particolarmente guardarle le mani mentre affettava, mescolava, amalgamava e tagliuzzava. Vederla preparare le frittelle era uno degli spettacoli più rilassanti che la vita gli avesse concesso. All'inizio sua madre e le sorelle più grandi continuavano a scrivergli chiedendogli come stava e quando sarebbe venuto a trovarle. Gli facevano domande alle quali si affannava a sfuggire, gli spedivano lettere e piccoli doni, sua madre più delle altre. Nel corso di quei vent'anni l'aveva rivista soltanto una volta, non a Istanbul, ma in Germania. Si trovava a Francoforte per un congresso di geologi e gemmologi, e le aveva chiesto di raggiungerlo là. Così si erano incontrati. Proprio come avevano fatto per anni i rifugiati politici che non potevano rientrare in Turchia. A quel punto lei aveva un tale desiderio di rivederlo, che non gli aveva neppure chiesto perché non fosse andato lui a Istanbul. È stupefacente come la gente si adatti velocemente alle circostanze eccezionali.
Raggiunta la coda dell'aereo, Mustafa Kazanci si fermò davanti alle toilette, dietro due uomini in attesa. Sospirò ripensando alla sera precedente. Rose non lo sapeva, ma sulla via del ritorno dal lavoro si era fermato in un angolo di Tucson che negli ultimi dieci anni aveva frequentato spesso. Il tempio di El Tiradito. Era un posto modesto e fuori mano nel centro di Tucson, l'unico tempio in America dedicato all'anima di un peccatore, così recitava la targa storica. L'anima di uno scomunicato, un tiradito, un bandito. Ormai non c'era più nessuno che conoscesse bene la sua storia, che risaliva alla metà del XIX secolo: chi era il peccatore, quale peccato avesse commesso, e soprattutto, perché al suo nome immorale fosse stato dedicato un tempio. A saperne qualcosa di più c'erano solo gli immigrati messicani, che però erano poco propensi a parlarne con gli estranei. A Mustafa Kazanci non interessavano i dettagli storici. Gli bastava sapere che El Tiradito doveva essere stato un brav'uomo, o almeno non peggiore della maggior parte di noi, che in passato aveva commesso azioni così tremende e meschine da farlo diventare un peccatore. Eppure era stato risparmiato, e aveva ottenuto quello che non toccava alla maggior parte dei mortali: un tempio. Quindi la sera prima Mustafa era stato lì, tormentato dai pensieri. Per quanto piccola, Tucson era piena di luoghi di culto e, volendo, avrebbe facilmente trovato una moschea. Lui non era religioso, di fatto non lo era mai stato. Non sentiva il bisogno di chiese o libri sacri. Non andava a El Tiradito per pregare. Ci andava perché era l'unico luogo di culto che non lo costringeva a diventare un altro per accoglierlo. Ci andava perché gli piaceva l'atmosfera senza pretese eppure solenne e gotica insieme, un miscuglio di spirito messicano e costumi americani, gli piacevano le decine di candele e milagros portate da altrettante persone, forse peccatori anche loro, e gli piacevano i foglietti ripiegati e infilati nei muri su cui i visitatori confessavano e nascondevano i loro peccati: tutto sembrava adeguarsi alla sua condizione. «Va tutto bene, signore?» Era la hostess dagli occhi co lor zaffiro. Con un brusco cenno del capo le rispose, questa volta in inglese: «Sì, grazie. Solo un po' di mal d'aria...».
Illuminata dalla luce di un lampione che filtrava attraverso le tende, Zeliha giaceva distesa con il cellulare anco era stretto in mano, la bottiglia di vodka appoggiata contro il mento e la sigaretta ancora accesa nell'altra mano. Zia Banu entrò in camera in punta di piedi. Spense in fretta la coperta che cominciava a fumare e schiacciò il mozzicone nel posacenere. Prese il cellulare e lo ripose nel comodino. Raccolse la bottiglia di vodka e la infilò sotto il letto, poi rimboccò le coperte attorno alla sorella e spense la lampada. Aprì le finestre. L'aria era frizzante, con un tocco salmastro di brezza marina. Mentre il fumo e l'odore della stanza si dileguavano, zia Banu osservò il volto pallido della sorella minore, troppo stanco per la sua età. Nella luce giallastra che veniva dalla strada, il viso di Zeliha sembrava incandescente, come se l'alcol e la tristezza le avessero conferito uno splendore irreperibile in natura. Banu la baciò dolcemente
sulla fronte, con gli occhi lucidi per la compassione. Poi diede un'occhiata a destra e a sinistra ai due jinn sulle sue spalle. «Cos'hai intenzione di fare, padrona?» chiese il signor Amaro gongolante. Non si curava di nascondere la propria gioia nel vederla così angosciata e inerme. Per lui era un divertimento assistere all'annientamento dei potenti. Zia Banu aggrottò la fronte, ma non rispose. Allora il signor Amaro saltò di lato e andò a sedersi sul bordo del letto, pericolosamente vicino a zia Zeliha. Gli brillarono gli occhi per l'idea che gli era appena balenata in mente. Afferrò rudemente il lembo del lenzuolo e se lo appoggiò sulla testa come fosse un velo. «Lascia che ti dica una cosa» dichiarò il signor Amaro con le mani sui fianchi, la voce in falsetto a imitare un timbro femminile. «Ci sono cose a questo mondo...» Zia Banu riconobbe subito chi stava imitando e un brivido le corse lungo la schiena. «Ci sono cose a questo mondo di cui la gente di buon cuore, Allah li benedica tutti, non ha la minima idea. E questo è giusto, bada bene; è giusto che non sappiano niente, perché dimostra quanto siano di buon cuore. Altrimenti non sarebbero buoni, o no? Ma se ti dovesse mai capitare di precipitare in un abisso di cattiveria, non è certo a quella gente che chiederesti aiuto.» Zia Banu fissò con stupore il signor Amaro, ma lui lasciò cadere il lenzuolo e recuperò con un salto la solita posizione, fronteggiando il posto da cui aveva parlato prima, pronto a impersonare il secondo personaggio di quel dialogo immaginario. Per imitare il secondo interlocutore, afferrò le poche uvette che zia Zeliha aveva avanzato, e per magia le sollevò in aria trasformandole in una lunga collana e diversi bracciali. Si infilò i gioielli e sorrise. Non era difficile capire chi stava imitando adesso, non era difficile riconoscere lo stile di Asya. Pervaso dal fascino del suo narcisismo creativo, il signor Amaro continuò nella rappresentazione. «E dovrei chiederlo forse a un jinn maligno?» Poi si sfilò collana e bracciali, saltò di nuovo sul letto, riprese il lenzuolo che copriva zia Zeliha e rispose in tono più basso: «Può darsi. Auguriamoci soltanto che non ti capiti mai». «Basta! Cos'è questa storia?» lo interruppe zia Banu furiosa, pur conoscendo già la risposta. «Questo...» il signor Amaro si piegò in un inchino, come un umile attore che riceve un applauso scrosciante alla fine della recita «era un momento cristallizzato nel tempo. Una fettina di memoria.» Con gli occhi pieni di veleno, raddrizzò la schiena e alzò la voce. «Serviva a ricordarti le tue parole, padrona!» Zia Banu provò un terrore così totale che rabbrividì da capo a piedi. In quella creatura c'era tanta cattiveria che si domandò cosa le impedisse di scacciarlo una volta per tutte dalla sua vita. Come poteva lasciarsi attrarre da lui in quel modo, quasi fossero legati da un segreto indicibile? Zia Banu non aveva mai avuto tanta paura del suo jinn. E nemmeno di se stessa, di quello che avrebbe potuto fare.
Capitolo sedici Acqua di rose
«Ecco che se ne va un altro malocchio! Hai sentito che rumore orrendo? Crac! Mi è risuonato fin nel profondo del cuore! Era il malocchio di qualcuno, malevolo e geloso. Che Allah ci protegga!» Così disse Petite-Ma quella domenica mattina a tavola, mentre il samovar ribolliva nell'angolo della stanza. Sultan Quinto faceva le fusa sotto il tavolo in attesa di ricevere un altro pezzetto di feta, i concorrenti eliminati nel corso della settimana dalla versione turca di The Apprentice comparivano in televisione per un'intervista esclusiva in cui spiegavano cosa non aveva funzionato e perché non avrebbero dovuto essere eliminati, e un bicchiere da té andò in frantumi fra le mani di Asya. Accadde così inaspettatamente da farla sussultare. Sapeva solo di averlo riempito a metà con il té nero filtrato, di aver aggiunto l'acqua bollente e poi, proprio mentre stava per portarselo alle labbra, c'era stato lo schianto. Il bicchiere si era incrinato a zig-zag dal bordo fino in fondo, come una di quelle terribili crepe che solcano la superficie terrestre durante i terremoti. In un lampo il té che c'era dentro era schizzato fuori, e una pozza scura aveva macchiato il pizzo della tovaglia. «Hai qualche malocchio addosso?» chiese zia Feride osservando Asya con sospetto. «Un malocchio su di me?» Asya rise amaramente. «Ci puoi scommettere! In città non sono forse tutti terribilmente gelosi della mia bellezza?» «Sul giornale di oggi c'era un articolo su un ragazzo di diciottenni che mentre attraversava la strada è crollato in ginocchio ed è morto. Dev'essere stato il malocchio» disse zia Feride con un'espressione di paura genuina. «Grazie per il sostegno» rispose Asya. Ma il suo sorriso si trasformò in cipiglio quando vide gli oggetti che quella pazza di sua zia stava osservando a bocca aperta: lo spargisale e lo spargipepe a forma di pupazzi di neve maschio e femmina. Il giorno prima Asya li aveva nascosti dentro una credenza nella speranza che nessuno li avrebbe trovati per almeno un mese. La coppia di ceramica non solo era scadente e di pessimo gusto - oltre che praticamente infrangibile - ma i due pezzi erano così simili fra loro che era quasi impossibile distinguere il sale dal pepe. «Se solo Petite-Ma si sentisse meglio, potrebbe versare un po' di piombo per te» commentò zia Banu con uno sguardo tormentato che Asya non le aveva mai visto prima. Sebbene fosse la più esperta di questioni crepuscolari e paranormali, zia Banu
non era autorizzata a versare il piombo, diritto che richiedeva l'iniziazione da parte di un praticante e che a lei era stato negato in passato. Una decina di anni prima, quando Petite-Ma si trovava ancora allo stadio iniziale dell'Alzheimer e aveva deciso che era giunto il momento di tramandare il segreto del piombo, non aveva fatto cadere la sua scelta su zia Banu, ma sulla campionessa di agnosticismo di tutti i tempi, Zeliha, decisione che aveva provocato notevoli sconvolgimenti in famiglia. «Stai scherzando?» aveva risposto zia Zeliha apprendendo della decisione dell'anziana donna. «Non posso versare il piombo. Non ci credo neppure. Sono agnostica!» «Non so cosa voglia dire quella parola, di sicuro non è niente di buono» aveva sbuffato Petite-Ma. «Tu hai il talento necessario. Adesso impara il segreto.» «Perché io?» aveva chiesto zia Zeliha costringendosi a prendere in considerazione la possibilità. «Perché non scegli mia sorella maggiore? Banu sarebbe più che felice di apprendere il segreto. Io sono l'ultima persona a cui insegnare la magia.» «Questo non ha niente a che fare con la magia. Il Qur'an proibisce di praticare la magia!» ribattè Petite-Ma con un'espressione offesa. «Tu sei la persona adatta. Hai la necessaria determinazione, e spirito e furia.» «Furia? A cosa ti serve la furia? Potrei essere la candidata adatta per scagliare oscenità addosso a chi se lo merita, ma dubito di poter essere di qualche utilità quando si tratta di aiutare gli altri» sorrise zia Zeliha. «Non sottovalutare il buono che c'è in te» rispose Petite-Ma. Fu allora che zia Zeliha diede sfogo al commento che avrebbe messo la parola fine alla questione una volta per tutte. «Non sono la persona adatta per questo incarico. Potrò anche essere un po' confusa come agnostica, ma di sicuro ho le palle per restare tale!» «Lavati la bocca col sapone!» la rimproverò nonna Gülsüm. Ma da quel momento zia Zeliha aveva accuratamente evitato l'argomento. Metà della famiglia era composta da leali kemaliste laiche, l'altra metà da musulmane praticanti. Mentre le due fazioni erano in costante conflitto (ma avevano trovato modo di coesistere sotto lo stesso tetto), il paranormale, trasversale alle contrapposizioni ideologiche, era considerato normale quanto il consumo quotidiano di pane e acqua. All'interno di quel quadro, zia Zeliha aveva deciso di respingere entrambe le posizioni, nonché il paranormale. Di conseguenza, dopo tutti quegli anni, Petite-Ma era rimasta la sola e unica in grado di versare il piombo in casa Kazanci. Ma era stata costretta a sospendere la pratica quando un giorno si era ritrovata con una pentola rovente di piombo fuso in mano e nessuna idea di cosa doveva farci. «Perché mi avete dato una pentola rovente?» aveva chiesto in preda al panico. Gliel'avevano dolcemente tolta di mano e da allora non si erano più fidate a farglielo fare. Adesso che l'argomento era riaffiorato, si voltarono tutte verso l'anziana donna, per vedere se era in grado di seguire la conversazione. Sentendosi al centro dell'attenzione, Petite-Ma sollevò la testa e osservò incuriosita la famiglia, continuando a masticare rumorosamente un pezzo di sucuk.
Ingoiò il boccone, ruttò, e proprio mentre sembrava che stesse di nuovo scivolando nel suo mondo, le sconvolse con la limpidezza della sua memoria. «Asya, tesoro, io verserò il piombo per te, e spezzerò qualsiasi malocchio possano averti gettato addosso.» «Grazie, Petite-Ma» le sorrise. Quando Asya era piccola, Petite-Ma aveva versato il piombo per lei a intervalli regolari. Di fatto, ripensando alla sparuta bambina che era stata, sembrava proprio che Asya avesse bisogno di un piccolo sostegno per affrontare l'inizio della vita mortale. Per qualche strana ragione le accadeva spesso di inciampare e cadere a faccia in avanti, spaccandosi ogni volta il labbro inferiore. Sospettando un malocchio, piuttosto che il passo ancora malfermo di una bambina che cominciava a camminare, l'avevano affidata a Petite-Ma. All'inizio la cerimonia era stata per Asya un gioco divertente ed eccitante, persino gratificante, visto che le piaceva trovarsi al centro dell'attenzione. Ricordava che da bambina si divertiva per gli atti paranormali, quando era ancora abbastanza piccola da avere fiducia non tanto nella magia, quanto nella capacità della sua famiglia di controllare il destino. Si godeva ogni dettaglio del rituale: le piaceva da morire stare seduta a gambe incrociate sul più bel tappeto di casa con una coperta tesa sopra la testa - e si sentiva protetta e ben nascosta sotto quella strana tenda - ad ascoltare le preghiere che venivano recitate attorno a lei. E alla fine, quel suono sfrigolante come un urlo, il rumore prodotto da Petite-Ma che versava piombo fuso in una ciotola piena d'acqua ripetendo: «Elemterefi kem gözlere Göz edenin gözüne kizgin » Il piombo si solidificava in forme mutevoli. Nel caso un malocchio aleggiasse nei dintorni, si sarebbe materializzato come un foro a forma di occhio. Asya ricordava di non averne mai visto uno. Detto questo, pur essendo cresciuta guardando zia Banu che leggeva i fondi di caffè e Petite-Ma che teneva lontano il malocchio, Asya aveva ereditato lo scetticismo agnostico di sua madre. Era arrivata alla conclusione che tutto si riduceva a un problema di interpretazione. Se eri alla ricerca di unicorni rossi, prima o poi avresti cominciato a vederne ovunque. Allo stesso modo, se anche esisteva un rapporto tra il materiale divinatorio e il processo di interpretazione, non arrivava più in profondità di quello che intercorreva fra il deserto e la luna che ci splendeva sopra. Per quanto la seconda avesse bisogno del primo come scenario di fondo, aveva senza dubbio una propria esistenza autonoma. Una luna sul deserto esisteva cioè anche senza il deserto. Ciò che l'occhio umano vedeva in un pezzo di piombo grigio non poteva essere ricondotto alla forma che aveva assunto. A osservarlo con la necessaria pazienza e devozione, ci si sarebbe potuti imbattere persino in un unicorno rosso. Pur continuando a non crederci, Asya non aveva intenzione di opporsi, adesso che Petite-Ma si era ricordata il procedimento. Il suo affetto era troppo profondo per rifiutare l'offerta. «Va bene.» Alzò le spalle. Contava anche sul fatto che probabilmente l'anziana donna se ne sarebbe scordata nel giro di pochi minuti. «Dopo colazione verserai il piombo per me, come ai vecchi tempi.» Proprio allora si aprì la porta del bagno e ne uscì Armanoush, che si unì a loro con l'aria stanca di chi aveva dormito poco o niente e i begli occhi colmi di tristezza. Era
una Armanoush diversa, appena cosciente del mondo che la circondava, e in qualche modo più vecchia. Entrò lentamente, quasi con cautela. «Ci dispiace molto per la scomparsa di tua nonna» disse zia Zeliha dopo un breve silenzio. «Accetta le nostre condoglianze più sincere.» «Grazie» rispose Armanoush evitando ogni sguardo. Si sedette fra Asya e zia Banu. Asya le versò il té, mentre zia Banu le serviva uova, formaggio e marmellata di albicocche fatta in casa. Le diedero anche l'ottavo simit, perché non avevano mai smesso di comprare otto simit ogni domenica mattina. Armanoush guardò il cibo con scarso interesse. Rimescolò il té per qualche secondo con aria assente, poi si voltò verso Zeliha e le chiese: «Posso venire con te all'aeroporto a prendere mia madre?». «Certo, ci andremo insieme» rispose zia Zeliha, per poi tradurre il dialogo alle altre. «Vengo anch'io» intervenne nonna Gùlsum. «D'accordo, mamma, ci andremo insieme» rispose zia Zeliha. S'intromise anche Asya: «Vengo anch'io» «No, signorina, tu resti qui» rispose zia Zeliha con un tono che non ammetteva discussioni. «Tu resti e ti fai versare il piombo.»
Asya la guardò come per dire: Cos'è questa storia? Perché voleva lasciarla fuori? Se mai in quella casa c'era stata una traccia di democrazia o di libertà di parola, valeva per tutti tranne che per lei. Quando si trattava di cose che la riguardavano, il regime domestico si trasformava in un totalitarismo allo stato puro. Sospirò, con uno sguardo che rasentava la disperazione. Poi, senza sapere bene perché, ma spinta dall'impulso irrefrenabile di aggiungere del pepe al proprio cibo, agguantò i pupazzi di ceramica. Un moto di incertezza le attraversò il viso, poi scartò il brutto pupazzo maschio e scelse l'altrettanto brutto pupazzo femmina, con il quale sparse troppo sale sugli ultimi resti delle uova strapazzate. Per tutto il resto della colazione Asya si mantenne distante e riservata. Zia Banu la osservò di sottecchi e dopo un po' si alzò e chiese, con voce venata di compassione: «Perché non ce ne andiamo a fare un po' di spese, tesoro? Possiamo uscire subito dopo colazione e saremo di nuovo a casa fra due ore. Ci divertiremo, vedrai!». «Ma prima...» zia Banu sollevò la testa a metà frase «vieni con me in cucina e aiutami a versare l'ashure nelle ciotole.» Asya si arrese con un cenno d'assenso. Che diavolo? Pensò. Ma che diavolo...?
In cucina c'era lo stesso odore di una tavola calda affollata a metà di un pomeriggio domenicale. L'aroma pungente della cannella sopraffaceva tutti gli altri. Asya prese un mestolo e cominciò a travasare l'ashure dal pentolone alle ciotole, un mestolo e mezzo in ognuna. Si chiese perché zia Zeliha non volesse portarla all'aeroporto. In macchina c'era posto per tutti. Le passò per la testa che volesse tenerla lontana dai visitatori. Asya si era accorta che sua madre non era sembrata troppo contenta del ritorno di Mustafa. «Posso aiutarti?» Si voltò e vide Armanoush in piedi alle sue spalle. «Certo, perché no? Grazie.» Asya le porse una ciotola di mandorle affettate. «Ti spiace spargerne un po' su ogni ciotola?» Per i dieci minuti che seguirono lavorarono fianco a fianco, scambiandosi qualche breve frase toccante su nonna Shushan. «Sono venuta a Istanbul perché credevo che se avessi compiuto un viaggio nella città della nonna, avrei potuto comprendere meglio il mio retaggio famigliare e il mio posto nel mondo. Immagino di aver voluto incontrare i turchi per capire meglio cosa vuol dire essere armena. Questo viaggio non era che un tentativo di ricollegarmi al passato di mia nonna. Volevo raccontarle che avevamo cercato casa sua... e adesso se n'è andata...» Armanoush si mise a piangere. «Non ho neppure potuto vederla un'ultima volta.» Asya abbracciò Armanoush, anche se con una certa goffaggine, poco avvezza com'era a mostrare affetto e compassione. «Mi dispiace tanto» le disse. «Prima che tu riparta da Istanbul, possiamo andare insieme a cercare qualche altro ricordo del
passato di tua nonna. Magari torniamo di nuovo in quel posto, parliamo con altre persone, vediamo se troviamo qualcosa.» Armanoush scosse il capo. «Lo apprezzo molto, ma vedrai che quando mia madre sarà qui diventerà difficile andare in giro da sola. È iperprotettiva.» Tacquero sentendo dei passi alle loro spalle. Era zia Banu, venuta a controllare come se la cavavano. Le osservò per un po' mentre decoravano il dessert. «Armanoush conosce la storia dell'ashure?» chiese con un sorriso. Più che una domanda, era il preludio a un racconto. Mentre le ragazze lavoravano insieme, spaccando melagrane e spargendo cannella in polvere e mandorle affettate su decine di ciotole allineate sul bancone, zia Banu cominciò. «C'era una volta, o forse non c'era, una terra non troppo lontana, dove gli uomini si comportavano male e i tempi erano duri. Dopo aver osservato a lungo quello scenario desolante, Allah decise di inviare un messaggero, Noè, affinchè gli uomini imparassero a comportarsi meglio e avessero modo di pentirsi. Ma quando Noè apriva bocca per predicare la verità, nessuno lo ascoltava, e le sue parole venivano interrotte dalle imprecazioni. Lo prendevano in giro chiamandolo pazzo, invasato, eccentrico...» Asya scoccò a zia Banu uno sguardo divertito, sapendo dove colpire: «Ma più di ogni altra cosa, a devastare Noè fu il tradimento di sua moglie, vero zia Banu? Non è forse vero che anche sua moglie si unì alle schiere dei pagani?» «In verità è proprio quello che fece, quella serpe in seno!» rispose zia Banu, combattuta tra il dovere di narrare un racconto religioso nel modo più acconcio, e il desiderio di aggiungere un po' di pepe per conto suo. «Noè cercò di convincere la moglie e la sua gente per ottocento anni... E non chiedetemi perché ci mise tutto quel tempo» raccomandò zia Banu «perché il tempo non è che una goccia nell'oceano, e non si può paragonare una goccia con l'altra e decidere qual è la più grossa o la più piccola. Così Noè trascorse ottocento anni a pregare per la sua gente, cercando di ricondurli sulla retta via. Un giorno Dio gli mandò l'angelo Gabriele. "Costruisci una nave" gli sussurrò l'angelo "e imbarca una coppia per ogni specie."» La voce di Banu si abbassò di un tono, perché quella era la parte che le piaceva meno. «Alla fine sull'arca di Noè c'era gente di tutte le fedi» continuò zia Banu. «C'erano Davide e Mosè, Salomone, Gesù e anche Maometto, la pace discenda su di lui. Così equipaggiati, si imbarcarono e cominciarono l'attesa.» «Ben presto arrivò l'inondazione. Allah ordinò: "Oh cieli! Il momento è venuto! Liberate le vostre acque. Non trattenetevi più, e liberate la vostra acqua e la vostra rabbia!". E poi ordinò alla terra: "Oh terra! Trattieni l'acqua, non assorbirla". L'acqua salì così velocemente che nessuno sopravvisse fuori dall'arca.» A quel punto la voce dell'interprete risalì di tono, perché era la sua parte preferita. Le piaceva immaginarsi l'acqua che saliva, travolgendo villaggi e civiltà.
«Per giorni e giorni continuarono a navigare, e c'era acqua ovunque. Presto il cibo cominciò a scarseggiare, e non ce n'era più a sufficienza per mettere insieme un pasto. Allora Noè ordinò: "Portate ogni cosa che avete!" E così fecero, animali e umani, insetti e uccelli, gente di fede diversa, portarono ciò che era rimasto loro. Cucinarono tutti gli ingredienti insieme, e così prepararono un gran calderone di ashure.» Zia Banu sorrise orgogliosa in direzione della pentola sul fornello, come se fosse proprio quello l'ashure della leggenda. «Ecco la storia di questo dessert.» Secondo zia Banu tutti gli eventi significativi nella storia del mondo erano accaduti il giorno dell'ashure. Era quello il giorno in cui Allah aveva accettato il pentimento di Adamo, Yunus era stato sputato dal delfino che lo aveva ingoiato, Rumi aveva incontrato Shams, Gesù era stato assunto in cielo, e Mosè aveva ricevuto i Dieci comandamenti. «Chiedi ad Armanoush di dirci qual è la data più importante per gli armeni» disse zia Banu, convinta che ci fossero buone probabilità che si trattasse dello stesso giorno. Non appena la domanda venne tradotta, Armanoush rispose: «Il genocidio» «Non credo che questo si adatti al tuo schema» sorrise Asya a sua zia, evitando di tradurre. Fu allora che Zeliha comparve in cucina armata della sua borsa. «Per i passeggeri diretti all'aeroporto, è ora di andare!» «Vengo anch'io» disse Asya lasciando cadere il mestolo sul bancone. «Ne abbiamo già parlato» rispose zia Zeliha con indifferenza. Non sembrava neppure lei. Nella sua voce c'era un tono brusco, inquietante, come se qualcun altro parlasse attraverso la sua bocca. «Tu resterai a casa, signorina.» Quello che più sconvolse Asya fu l'impossibilità di leggere l'espressione di zia Zeliha. «Cosa le avrò fatto questa volta?» Asya sollevò le braccia disperata appena zia Zeliha e Armanoush se ne furono andate. «Niente, mia cara, lei ti vuole bene» borbottò zia Banu. «Resta qui con me e con i jinn. Appena finito di decorare l'ashure andremo a fare spese.» Ma Asya non aveva voglia di andare in giro per negozi. Con un sospiro agguantò una manciata di semi di melagrana per spargerli sulle coppette ancora prive di decorazione. Sparpagliò i semi in maniera uniforme, come se dovessero guidare verso casa il fanciullo di qualche favola. Le venne in mente che in un'altra vita quei semi di melagrana avrebbero potuto essere minuscoli rubini preziosi. «Zia. Che fine ha fatto quella spilla d'oro che avevi? Quella con la melagrana, ti ricordi? Dov'è finita?» Zia Banu impallidì, mentre dalla sua spalla sinistra il signor Amaro le sussurrava all'orecchio: «Quando ricordiamo le cose che ricordiamo? Perché chiediamo le cose che chiediamo?»
Il diluvio universale di Noè, per quanto terrificante, era cominciato dolcemente, in maniera quasi inavvertibile, con qualche goccia di pioggia. Gocce rade, che annunciavano l'imminente catastrofe, un messaggio che nessuno aveva preso in considerazione. Il cielo era coperto da nuvoloni scuri, così grigi e pesanti da sembrare carichi di piombo fuso pieno di malocchio. Ogni foro in ogni nuvola era un occhio celestiale che non si chiudeva mai, e che versava una lacrima per ogni peccato commesso sulla terra. Ma il giorno che Zeliha fu violentata non era un giorno di pioggia. In effetti, non c'era neppure una nuvola. Lo ricordò per anni, non perché avesse levato gli occhi per pregare Allah o chiedergli aiuto, ma perché durante la lotta si era trovata a un certo punto immobilizzata sul letto, con la testa rovesciata all'indietro e lo sguardo involontariamente fisso in cielo, dove stava fluttuando una mongolfiera pubblicitaria. La mongolfiera era arancione e nera, e sopra c'era scritto a grosse lettere: KODAK. Zeliha rabbrividì al pensiero di una gigantesca macchi na che scattava la foto di ciò che stava accadendo laggiù sulla terra. Una Polaroid di una violenza carnale in un konak di Istanbul. Fin dalla tarda mattinata era rimasta in camera, a godersi quella solitudine che era merce così rara in casa loro. Finché era stato vivo il padre, nessuno poteva chiudersi in camera. Solitudine significava attività sospette; tutto doveva essere visibile. L'unica porta che si poteva chiudere era quella del bagno, e anche in quel caso qualcuno veniva a bussare se solo ci si tratteneva troppo a lungo. Dopo la morte del padre, Zeliha aveva potuto chiudersi in camera e restare sola con se stessa. Né le sorelle né la madre comprendevano questo bisogno di isolarsi. Di tanto in tanto Zeliha fantasticava su come sarebbe stato bello andarsene ad abitare per conto suo. Quella mattina presto le donne della famiglia erano uscite per andare a visitare la tomba di Levent Kazanci, ma Zeliha non si era unita a loro. Non voleva andare al cimitero con la famiglia. Ci sarebbe poi andata per conto suo, per sedersi sul terreno polveroso e fare a suo padre le domande che finché era vivo erano rimaste senza risposta. Perché doveva sempre essere così brusco e scostante con il sangue del suo sangue? Zeliha voleva saperlo. Voleva anche chiedergli se si rendeva conto di quanto il suo fantasma continuasse a perseguitarli: ancora adesso, nel corso della giornata, si ritrovavano a volte ad abbassare la voce, timorosi di disturbare papà. Levent Kazanci detestava il rumore, soprattutto le grida delle bambine. Fin da piccolissime dovevano esprimersi in bisbigli. Essere una bambina Kazanci significava prima di tutto dover imparare il significato di PAPA, non inteso come «papà» ma come PAPA, acronimo di «Prima Allontanarsi Poi Addolorarsi». Il principio del PAPA valeva in ogni momento dell'esistenza: se una delle bambine inciampava e si faceva male nella stanza accanto, tratteneva l'urlo, si premeva forte la mano sulla ferita, scendeva le scale in punta di piedi, fino alla cucina o al giardino, si assicurava di essere abbastanza lontana, e solo allora poteva lasciarsi andare e piangere forte per il dolore. Alla base di tutto questo stava un'aspettativa attraente e irrealizzabile: se ti comportavi bene, papà non si sarebbe arrabbiato. Ogni sera, quando lui tornava dal lavoro, i bambini si schieravano davanti al tavolo della cena, in attesa dell'ispezione. Non chiedeva mai direttamente se si
fossero comportati bene durante la giornata. Li allineava invece come un minuscolo reggimento, e li fissava dritti in faccia per un tempo variabile: Banu (più preoccupata per le sorelle che per se stessa, da sempre la sorella maggiore protettiva), Cevriye (che si mordeva il labbro per non piangere), Feride (che saettava nervosamente lo sguardo in ogni direzione), Mustafa, l'unico maschio (che sperava di cavarsela in quel miserabile gruppo, contando sul fatto di essere il preferito del padre) e la più piccola, Zeliha (con una vaga asprezza che già le saliva dentro). Aspettavano che papà finisse la minestra, e a quel punto era lui a invitare uno o due o tre di loro... oppure tutti, se erano fortunati, a raggiungerlo a tavola. A Zeliha non pesavano tanto i ripetuti rimproveri e le frequenti sculacciate, quanto piuttosto quelle ispezioni. Non sopportava di restarsene in piedi accanto al tavolo a farsi controllare, come se qualunque malefatta avesse compiuto durante la giornata ce l'avesse scritta in fronte con un inchiostro invisibile che solo papà era in grado di leggere. «Possibile che tu non riesca mai a fare niente di buono?» chiedeva Levent Kazanci ogni volta che vedeva un segno di colpevolezza e decideva di punirli tutti per quello. Era quasi impossibile collegare quel Levent Kazanci all'uomo in cui si trasformava appena varcata la soglia di casa. Coloro che lo conoscevano fuori dal konak lo consideravano un'icona di credibilità, rispetto, solidarietà e giustizia, il tipo di uomo che molte donne sognerebbero di sposare. Ma quella cortesia era riservata agli estranei. Con la stessa naturalezza con cui si toglieva le scarpe e si infilava le ciabatte, il burocrate gentile diventava un padre autoritario. Una volta Petite-Ma aveva detto che la ragione per cui era così severo con i propri figli era perché da bambino aveva sofferto tanto per essere stato abbandonato dalla madre. A volte Zeliha non poteva fare a meno di considerarsi fortunata che suo padre fosse morto così presto, come gli altri maschi di famiglia. Un uomo prepotente come Levent Kazanci probabilmente non avrebbe apprezzato la vecchiaia, con il suo bagaglio di malattia, debolezza, e la necessità di dipendere dalla pietà dei figli. Se fosse andata sulla tomba di suo padre, Zeliha sapeva che le sarebbe venuta voglia di parlare con lui, e se ci avesse parlato si sarebbe messa a piangere, frantumandosi come un bicchiere da té vittima del malocchio. Ma il solo pensiero di mettersi a piangere davanti agli altri era sufficiente a disgustarla. Di recente si era ripromessa di non diventare mai una di quelle donne piagnucolose, e che se mai avesse avvertito la necessità di piangere, lo avrebbe fatto da sola. Perciò quel giorno senza pioggia di vent'anni prima Zeliha aveva deciso di rimanere a casa. Aveva passato la maggior parte della giornata a letto, a sfogliare riviste e sognare a occhi aperti. Vicino al letto c'era il rasoio con cui si era depilata le gambe, e un flacone di lozione all'acqua di rose che aveva usato subito dopo per rinfrescare la pelle. Se sua madre l'avesse vista, ne sarebbe rimasta sconvolta. Era fermamente convinta che le donne dovessero eliminare con la cera ogni pelo del corpo, ma mai radersi. La rasatura era solo per gli uomini, mentre invece la depilazione con la cera era un rituale collettivo femminile. Due volte al mese le donne Kazanci si riunivano in soggiorno per depilarsi le gambe. Prima di tutto facevano sciogliere un blocco di cera sul fornello, che riempiva l'aria di un profumo dolce e caramelloso. Poi si
sedevano sul tappeto e applicavano la sostanza calda e appiccicosa, continuando a chiacchierare per tutto il tempo. Appena la cera cominciava a solidificarsi, la strappavano. A volte andavano insieme all'hamam, e si facevano la ceretta sulle grandi lastre di marmo del bagno a vapore. Zeliha odiava l'hamam, quello spazio esclusivamente femminile, proprio come detestava il rituale della cera. Preferiva radersi con un rasoio: era veloce, semplice, e privato. Fece ciondolare le gambe dal letto, e osservò il proprio riflesso nello specchio. Si versò un altro po' di lozione sulla mano, e se la spalmò lentamente sulla pelle; studiò il proprio corpo con attenzione e ammirazione. Era cosciente di essere bella e non faceva il minimo sforzo per nasconderlo. Sua madre sosteneva che le donne belle dovevano essere due volte più modeste e fare due volte più attenzione agli uomini. Secondo Zeliha era l'esagerazione di una donna che non era mai stata bella. Languidamente, Zeliha attraversò la stanza e andò a infilare un'audiocassetta nel registratore. Era un album di uno dei suoi cantanti preferiti, un transessuale dalla voce divina. Aveva cominciato la propria carriera come uomo, recitando la parte dell'eroe in film melodrammatici. Alla fine si era sottoposto a un intervento chirurgico ed era diventato donna. Indossava sempre costumi di scena sgargianti, completati da accessori luccicanti e gioielli, proprio come sarebbe piaciuto fare a Zeliha, se fosse stata altrettanto ricca. Zeliha aveva tutti i suoi dischi. Avrebbe dovuto uscirne presto uno nuovo, ma di recente lei era stata messa al bando dai militari che controllavano il Paese, pur essendo ormai trascorsi tre anni dal colpo di Stato. Sul perché ai generali non piacesse l'idea di un transessuale sul palco, Zeliha aveva una teoria. «È perché si sentono minacciati dalla sua presenza.» Strizzò l'occhio a Pascià Terzo, acciambellato sul letto come un grosso cuscino di pelo bianchissimo a osservarla con gli occhi ridotti a due sottili fessure verde brillante. «Ha una voce così celestiale e degli abiti così appariscenti, che i generali, con le voci rauche e le divise verde rospo, temono che possa rubare loro la scena. Ma te lo immagini? Cosa c'è di peggio di un colpo di Stato militare? Un colpo di Stato militare che passa inosservato!» Fu allora che si sentì un colpo alla porta. «Che fai, scema, parli da sola?» chiese Mustafa facendo capolino. «Spegni quella maledetta musica!» Con gli occhi verdi che splendevano di ardore giovanile, i capelli neri imbrillantinati e pettinati all'indietro, era un bel ragazzo, non fosse stato per quel tic che aveva sviluppato chissà quando. Aveva l'abitudine di spostare di scatto la testa a destra, quando parlava, un movimento brusco e meccanico che diventava più evidente se era nervoso o in presenza di estranei. A volte qualcuno scambiava quel tic per una forma di timidezza, ma Zeliha era convinta che si trattasse di pura e semplice instabilità. Sollevandosi su un gomito alzò le spalle: «Io ascolto quel che mi pare e come mi pare» Ma invece di mettersi a litigare con lei o sbattersi la porta alle spalle, come aveva fatto spesso in casi del genere, lui fece una pausa e poi le chiese, come distratto da un pensiero improvviso: «Perché ti metti sempre quelle gonne corte?»
La domanda era così inaspettata che Zeliha lo guardò sbalordita, scorgendo solo in quel momento il velo che gli offuscava lo sguardo. Quest'anno si comporta da deficiente ancor più del solito, pensò. E glielo disse a voce alta: «Deficiente!». Fingendo di non aver sentito, Mustafa esaminò la stanza. «È per caso il mio rasoio, quello?» «Sì» rispose Zeliha. «Stavo per rimetterlo a posto.» «Cos'hai fatto con il mio rasoio?» «Non sono affari tuoi» rispose lei dopo una lieve esita zione. «Non sono affari miei?» aggrottò ancora di più la fron te. «Ti infili in camera mia, mi rubi il rasoio, ti radi le gambe per poterle mostrare a tutti gli uomini del vicinato, e poi mi vieni a dire che non sono affari miei. Be', allora stammi bene a sentire: hai torto marcio, signorina! Sono proprio affari miei badare a come ti comporti.» Gli occhi di Zeliha brillarono per un attimo. «Non hai niente di meglio da fare? Ma fatti una sega, piuttosto!» lo rimbeccò. Mustafa arrossì, e guardò sua sorella invelenito. Negli ultimi tempi era diventato evidente che aveva dei problemi nei rapporti con le donne. Pur essendo cresciuto in mezzo a donne di tutte le età, godendo di tutte le loro attenzioni, aveva un'esperienza con il sesso opposto drammaticamente inferiore a quella dei suoi coetanei. Giunto ormai a vent'anni, Mustafa si sentiva ancora bloccato su quella pericolosa soglia che separa l'adolescenza dalla virilità. Non poteva tornare indietro verso la prima, e neppure riusciva a compiere il balzo verso la seconda. Aveva paura, e non gli piaceva avere paura. Detestava i desideri carnali del suo corpo, e allo stesso tempo ne era affascinato. In passato era sempre riuscito a trattenere i suoi impulsi, al contrario dei compagni di classe che non facevano altro che masturbarsi. Dai tredici ai diciannove anni era riuscito a sopprimere ciò che chiamava «quella cosa». Ma l'anno precedente, dopo aver fallito l'esame di ammissione all'università, «quella cosa» si era ripresentata più forte che mai: gli anni di autopunizione e di autofrustrazione avevano provocato l'effetto contrario. «Quella cosa» gli si riproponeva ovunque, a tutte le ore del giorno e della notte. In bagno, in cantina, al gabinetto, sotto le lenzuola, in soggiorno e qualche volta, quando scivolava di nascosto in camera di sua sorella minore nel suo letto, sulla sua sedia, alla sua scrivania... Come un patriarca capriccioso, «quella cosa» esigeva dedizione assoluta. Ma per quanto obbedisse all'impulso, Mustafa non avrebbe mai usato la mano destra. La mano destra era riservata a cose «pure», pulite e consacrate. Era con la mano destra che toccava il Qur'an, teneva il rosario e apriva le porte chiuse. Era con la mano destra che prendeva la mano degli anziani per baciarla. E tanto era benedetta la destra, quanto la sinistra era riservata a tutto ciò che era abominevole. Perciò poteva masturbarsi soltanto con la sinistra. Una volta aveva sognato di masturbarsi davanti a suo padre, che lo guardava senza la minima espressione dal suo solito posto a tavola. L'ultima volta che Mustafa aveva visto uno sguardo del genere sul volto del padre aveva otto anni, e stava per essere circonciso. Si ricordava di quel misero ragazzino, disteso su un enorme letto pretenzioso coperto di satin, in mezzo ai regali, in attesa che glielo tagliassero, circondato da parenti e vicini che chiacchieravano, qualcuno
mangiava, qualcuno ballava, altri lo prendevano in giro; settanta persone convenute per celebrare la sua iniziazione. Era stato quel giorno, subito dopo la circoncisione, quando era scoppiato in un pianto irrefrenabile, che papà gli si era avvicinato, l'aveva baciato su una guancia e gli aveva sussurrato all'orecchio: «Mi hai mai visto piangere, figlio mio?». Mustafa aveva scosso la testa. No, mai nessuno aveva visto suo padre piangere. «Hai mai visto piangere tua madre, figlio mio?» Mustafa annuì con decisione. La mamma piangeva sempre. «Bene.» Levent Kazanci aveva sorriso dolcemente a suo figlio. «Ora che sei un uomo, comportati da uomo.» Ogni volta che si masturbava non osava calarsi completamente i pantaloni, non solo per il timore di essere scoperto da qualcuno della famiglia, ma perché si sentiva perseguitato dal fantasma di suo padre che continuava a sussurrargli quella frase all'orecchio, incessantemente. Di colpo, l'anno precedente il suo corpo aveva avuto il sopravvento non solo sulla volontà, ma anche sullo sguardo inquisitore del padre. Come una malattia contagiosa -perché di certo doveva trattarsi di una qualche forma di malattia - aveva cominciato a masturbarsi a tutte le ore del giorno e della notte. Smettila. Non ci riesco. Smettila. Non ci riesco. Nei sogni si vedeva scoperto dai genitori mentre lo faceva. Si scagliavano contro la porta, la spalancavano e lo coglievano in flagrante. Tra pianti e urla sua madre lo baciava e gli dava colpetti sulla schiena, mentre suo padre gli sputava addosso e lo picchiava. Sui lividi lasciati dal padre, sua madre spalmava l'ashure, nemmeno fosse una specie di unguento. Si svegliava in preda ai brividi e al disgusto, la fronte imperlata di sudore, e per calmarsi si masturbava. Zeliha non sapeva niente di tutto questo quando lo prese in giro. «Sei una svergognata» le disse Mustafa. «Non sai come rivolgerti a chi è più anziano di te. Non ti curi degli uomini che ti fischiano per strada. Ti vesti come una puttana, e poi ti aspetti che abbiano rispetto per te?» Zeliha gli scoccò un sorriso sprezzante. «Cos'è, le puttane ti fanno paura?» Mustafa si limitò a guardarla. Un mese prima aveva scoperto la strada più infame di Istanbul. Avrebbe potuto andare in chissà quanti altri posti, dove si trovava un sesso meno squallido e meno volgare, ma ci era andato deliberatamente: più era sordido e sgradevole, e meglio era. Case fatiscenti si allineavano una accanto all'altra, odori, macchie e barzellette sconce che gli uomini si raccontavano non tanto perché fossero divertenti, ma perché avevano bisogno di farsi una risata; prostitute in ogni stanza, prostitute che non rifiutavano mai il tuo denaro ma in compenso disprezzavano le tue prestazioni. Era tornato da quel posto sentendosi debole e sporco. «Mi stai per caso spiando?» le chiese. «Cosa?» sghignazzò Zeliha, rendendosi conto di aver fatto una scoperta inaspettata. «Sei proprio un idiota: se vai a puttane sono cavoli tuoi. Non me ne potrebbe fregare di meno.» Offeso, Mustafa provò l'impulso di colpirla. Non poteva prendersi gioco di lui in quel modo.
Zeliha lo guardò di sottecchi, come se cercasse di leggere i suoi pensieri. «Come mi vesto e quello che faccio non sono affari tuoi» gli disse. «Chi diavolo credi di essere? Papà è morto e non ho intenzione di lasciarti prendere il suo posto.» Stranamente, mentre pronunciava l'ultima frase, le venne in mente che quella mattina si era scordata di ritirare il vestito di pizzo in lavanderia. Devo ricordarmi di ritirarlo domani. «Se papà fosse vivo non ti permetteresti di parlare così» rispose Mustafa. Lo sguardo velato di un attimo prima era sparito, rimpiazzato da un ammiccare furibondo. «Ma che sia scomparso lui non significa che in questa casa siano scomparse le regole. Hai delle responsabilità, signorina. Non puoi portare il disonore sulla famiglia.» «Oh, piantala. Qualunque vergogna possa portare io, non sarà niente in confronto a quella che hai portato tu fino a ora.» Mustafa tacque, confuso. Aveva scoperto il suo vizio del gioco, o stava ancora bluffando? Aveva scommesso su varie competizioni sportive, peggiorando ogni volta la sua situazione. Se papà fosse stato ancora vivo, gliele avrebbe date di santa ragione. La cinghia di cuoio rossiccio con la fibbia d'ottone. Era vero che faceva più male delle altre, oppure era solo la sua immaginazione. Ma suo padre non c'era più, e qualcuno doveva capire chi comandava adesso. «Ora che papà è morto sono io il capofamiglia» dichiarò Mustafa. «Davvero?» rise Zeliha. «Sai qual è il tuo problema? Sei viziato, troppo viziato, pisello d'oro! Fuori dalla mia stanza!» Come in un sogno, con la coda dell'occhio Zeliha vide che la mano di suo fratello si sollevava per colpirla in pie no viso. Ancora incredula che potesse tentare di picchiarla lo guardò sbalordita, per poi scansarsi all'ultimo momento. Sfuggì al colpo, ma questo lo fece infuriare ancora di più. Il secondo schiaffo le bruciò la guancia. Così glielo restituì, con altrettanta forza. Un attimo dopo stavano lottando avvinghiati sul letto, come due ragazzini, solo che da ragazzini non avevano mai fatto la lotta. Papà non avrebbe approvato. Per qualche secondo Zeliha si sentì vittoriosa, lo aveva colpito davvero forte, o almeno così credeva. Era una donna alta e muscolosa e non certo abituata a sentirsi fragile. Come un campione sul ring, sollevò in aria le mani intrecciate e salutò un pubblico invisibile, godendosi il trionfo. «Colpito!» Fu allora che lui le torse un braccio dietro la schiena e le montò addosso. Questa volta era diverso. Lui era diverso. Le premette il petto con una mano e con l'altra le sollevò la gonna. La prima cosa che Zeliha provò fu mortificazione, e poi ancora più mortificazione. La vergogna era così forte dentro di lei da non lasciare spazio ad altri sentimenti. Si sentì priva di forze, quasi paralizzata dall'imbarazzo, una sensazione che rivelava il modo in cui era stata educata: l'umiliazione di ritrovarsi esposta seminuda agli sguardi altrui sopraffaceva tutto il resto. Poi il panico prese il sopravvento. Cercò di bloccarlo con una mano e di abbassarsi la gonna con l'altra, ma in un batter d'occhio lui gliel'aveva risollevata. Lei lottò, lui lottò, lei lo schiaffeggiò, lui la schiaffeggiò ancora più forte, lei lo morse, lui
le tirò un pugno in faccia, uno solo. Sentì qualcuno che strillava «Fermo!» a pieni polmoni, un urlo stridulo e disumano, come di bestia al macello. Non riconobbe la propria voce, né il proprio corpo, come se fosse terra straniera quando lui lo invase. Fu allora che Zeliha vide la mongolfiera kodak nel cielo sereno. Chiuse gli occhi come in un gioco da bambini, nella speranza che se lei non guardava non l'avrebbero vista. Adesso c'erano solo rumori, rumori e odori. Il respiro di lui diventò più pesante, le sue mani sul petto e attorno al collo di Zeliha strinsero più forte. Ebbe paura che volesse strozzarla, ma poco dopo le dita si allentarono e il movimento si interruppe. Emise un gemito e le si afflosciò sopra, il petto schiacciato contro il suo. Zeliha sentì che il cuore gli batteva forte. Quello che non riusciva a sentire era il proprio. Era come se la vita fosse scivolata via da lei. Non aprì gli occhi fino a quando non le scese di dosso, ormai molle dentro di lei. Quando si alzò, Mustafa riusciva a camminare a stento. Barcollò fino alla porta e si appoggiò allo stipite, cercando di riprendere fiato. Respirò a fondo e sentì odore di sudore e acqua di rose insieme. Rimase immobile per un attimo, volgendo le spalle alla sorella, prima di fuggire dalla stanza. Appena uscito in corridoio sentì aprirsi la porta principale, la famiglia che tornava a casa. Corse in bagno e si chiuse dentro, fece scorrere l'acqua della doccia ma invece di infilarsi sotto crollò in ginocchio e vomitò. «Ehiii! Dove siete tutti quanti?» fece Banu dal soggiorno. «Non c'è nessuno in casa?» Zeliha si alzò e cercò di sistemarsi i vestiti. Tutto era accaduto così in fretta, forse sarebbe riuscita a convincersi che non era successo niente. Ma la faccia che vide nello specchio raccontava un'altra storia. Nel riflesso incorniciato aveva l'occhio sinistro gonfio, con una mezzaluna violacea attorno. La prima sensazione di Zeliha fu un colpo inferto al suo abituale scetticismo. Per anni si era beffata dei film d'azione da quattro soldi in cui tutti avevano gli occhi neri, rifiutandosi di credere che un occhio umano potesse ridursi in quel modo per un semplice pugno. D'accordo per il viso, ma il suo corpo non aveva subito danni, concluse. Si toccò per sentire se aveva ancora sensibilità. Com'è che sentiva il tocco delle proprie dita ma niente altro? Se fosse stata ferita o indolenzita, il suo corpo avrebbe dovuto saperlo, no? E lei non lo avrebbe saputo? Bussarono alla porta, e senza aspettare risposta Banu infilò dentro la testa. Stava per dire qualcosa ma aprì e richiuse la bocca senza emettere suono, mentre rimaneva immobile a fissare la sorella minore. «Cosa ti è successo alla faccia?» chiese preoccupata. Zeliha sapeva che quello era il momento decisivo. Avrebbe potuto raccontare tutto, o tenerlo nascosto per sempre. «Non è così brutto come sembra» disse lentamente, il momento della scelta era già passato e la decisione presa. «Sono uscita a fare due passi e ho visto un tizio che picchiava la moglie in mezzo alla strada. Ho cercato di salvarla e alla fine le ho prese anch'io.» Le credettero. Era una cosa di cui sarebbe stata capace, una cosa che se proprio doveva capitare a qualcuno, sarebbe capitata a lei.
Il giorno che fu violentata, Zeliha aveva diciannove anni. Un'età in cui era adulta, secondo la legge turca. A quell'età poteva sposarsi o prendere la patente di guida o andare a votare, se solo i militari avessero ristabilito le libere elezioni. Allo stesso modo, se ce ne fosse stato bisogno, poteva abortire senza chiedere il permesso a nessuno. Fin troppe volte Zeliha aveva fatto quello stesso sogno. Camminava per strada sotto una pioggia di pietre, mentre i ciottoli precipitavano uno alla volta, aprendo nel selciato buchi sempre più profondi. Zeliha era sempre più terrorizzata all'idea di venire inghiottita da quell'abisso famelico e di sparire senza lasciare traccia. «Fermi!» gridò mentre le pietre continuavano a schizzarle via da sotto i piedi. «Fermi!» ordinò ai veicoli che le arrivavano addosso a tutta velocità. «Fermi!» implorò i pedoni che la prendevano a spallate. «Fermi, vi prego!» Il mese successivo saltò il ciclo. Dopo qualche settima na andò al laboratorio di analisi che avevano appena aperto vicino a casa, TEST DI GRAVIDANZA GRATUITO CON OGNI ESAME DEGLI ZUCCHERI NEL SANGUE!, diceva un cartello all'ingresso. Quando arrivarono i risultati, l'esame del sangue risultò regolare, ma risultò anche che lei era incinta. C'era una volta, o forse non c'era. In una terra lontana, molto lontana, viveva un'anziana coppia con quattro figli, due femmine e due maschi. Una figlia era brutta, e l'altra bellissima. Il fratello più giovane decise di sposare la più bella, ma lei non voleva. Lavò i suoi abiti di seta e andò al fiume a sciacquarli. Sciacquava e piangeva. Faceva freddo. Aveva mani e piedi gelati. Tornò a casa e bussò alla porta, ma la porta era chiusa a chiave. Bussò alla finestra di sua madre, e sua madre le rispose: «Ti lascerò entrare se mi chiamerai suocera». Bussò alla porta di suo padre e lui rispose: «Ti lascerò entrare se mi chiamerai suocero». Bussò alla porta del fratello maggiore e lui rispose: «Ti lascerò entrare se mi chiamerai cognato». Bussò alla porta della sorella e lei le rispose: «Ti lascerò entrare se mi chiamerai cognata». Bussò alla porta del fratello minore e lui la fece entrare. L'abbracciò e la baciò e lei disse: «Che la terra si apra e mi ingoii». La terra si aprì, e lei fuggì in un regno sotterraneo. Asya guardò fuori dalla finestra della cucina, e sospirò vedendo partire l'Alfa Romeo metallizzata. «Visto?» si rivolse a Sultan Quinto. «Zia Zeliha non ha voluto che andassi all'aeroporto con loro. Ha ricominciato a trattarmi male.» Che stupida era stata la sera prima, a mostrarsi vulnerabile quando erano state fuori a bere insieme! Che stupida a pensare di aver finalmente superato il baratro che le separava, e che non sarebbe mai scomparso. Quella madre che aveva ziificato sarebbe sempre rimasta a una distanza incolmabile. Compassione materna, amore filiale, camera tismo di famiglia, di certo lei non ne sente il bisogno... Asya fece una pausa e poi sibilò: «Merda!».
Articolo dodici: Non cercare di cambiare tua madre, o per essere più precisi, non cercare di cambiare i rapporti con tua madre, perché ne ricaverai solo frustrazione. Limitati ad accettare e ad acconsentire. Se non riesci ad accettare e acconsentire, torna all'articolo uno. «Non starai mica parlando da sola, vero?» chiese zia Feride entrando in cucina. «In effetti sì» rispose Asya uscendo da quella specie di trance. «Stavo giusto facendo notare al mio amico gatto che l'ultima volta che zio Mustafa è stato qui lui non era neppure nato, e Pascià Terzo regnava su questa casa. Vent'anni fa. Non è strano? Quell'uomo non è mai venuto a trovarci, e adesso eccomi qui a preparargli le ciotole di ashure perché dobbiamo dargli il benvenuto.» «Il gatto cosa dice?» chiese zia Feride. Asya sorrise sardonica. «Dice che ho ragione, questa è una casa di matti. Dovrei lasciare ogni speranza e mettermi invece al lavoro sul mio manifesto.» «Certo che daremo il benvenuto a tuo zio. La famiglia è sempre la famiglia, che ti piaccia o no. Non siamo mica come i tedeschi, che buttano fuori di casa i figli a quattordici anni. Noi abbiamo forti legami famigliari. Non ci incontriamo solo una volta all'anno per mangiare il tacchino...» «Di cosa stai parlando?» chiese Asya perplessa, ma indovinò la risposta prima ancora di aver finito la domanda. «Stai parlando del giorno del Ringraziamento degli americani?» «Quello che è» la liquidò zia Feride. «Il punto è che gli occidentali non sentono i legami di famiglia come noi. Noi siamo diversi. Tuo padre è tuo padre per sempre; tuo fratello è tuo fratello per sempre, fino alla fine. Oltretutto, ci sono già fin troppe cose strane, a questo mondo» continuò zia Feride. «Ecco perché leggo sempre la terza pagina dei tabloid. Li ritaglio e li tengo da parte, così non rischiamo di dimenticarci quanto il mondo possa essere strano e pericoloso.» Era la prima volta che Asya sentiva la zia razionalizzare il proprio comportamento, perciò la osservò con rinnovato interesse. Rimasero sedute in mezzo a quei profumi appetitosi, mentre il sole di marzo risplendeva attraverso la finestra. Restarono lì finché zia Feride sentì il suo vj preferito che annunciava il video di una nuova band e uscì dalla stanza, lasciando Asya con una voglia matta di fumare. Ma non era tanto il bisogno di una sigaretta, quanto di fumarla insieme al Fumettaro Dipsomane, anche se la sorprese sentire fino a quel punto la sua mancanza. Le restavano almeno due ore prima che gli ospiti tornassero dall'aeroporto. E se anche fosse arrivata in ritardo, a chi sarebbe importato?, pensò. Pochi minuti più tardi Asya si chiuse dolcemente la porta alle spalle. Zia Banu la sentì, ma prima che potesse chiamarla era già uscita. «Cosa pensi di fare, padrona?» gracchiò il signor Amaro. «Niente» sussurrò zia Banu mentre apriva un cassetto del comò e tirava fuori una scatola. Sotto una copertura di velluto c'era la spilla con la melagrana. L'aveva ricevuta in quanto maggiore tra le figlie Kazanci, un regalo del padre che l'aveva ereditata da sua madre: non dalla matrigna Petite-Ma, ma da quella madre di cui non parlava mai, quella che l'aveva abbandonato quando era bambino, la madre
che non aveva mai perdonato. La spilla era allo stesso tempo bellissima e commovente, per zia Banu. Questo non lo sapeva nessuno, ma l'aveva tenuta a lungo immersa in acqua salata, per lavare via la sua triste storia. Sotto lo sguardo attento del jinn, zia Banu l'accarezzò, avvertendo l'incantesimo dei rubini che risplendevano al suo interno. Finché non aveva conosciuto Armanoush non le era mai venuto in mente di indagare sulla storia della spilla, ma adesso non riusciva a decidere cosa fare. Era tentata di dare la spilla con la melagrana ad Armanoush, perché era convinta che appartenesse a lei più che a chiunque altro, ma ancora esitava perché non sapeva come spiegare la ragione di quel dono. Come poteva dire ad Armanoush Tchakhmakhchian che quella spilla apparteneva a sua nonna Shushan senza raccontarle anche il resto? Fino a che punto poteva condividere le storie apprese attraverso la magia con i protagonisti di quelle vicende?
Quaranta minuti più tardi, dalla parte opposta della città Asya superò la cigolante porta di legno che dava accesso al Café Kundera. «Ehi, Asya!» la chiamò gioviale il Fumettaro Dipsomane. «Da questa parte! Sono qui!» L'abbracciò e poi, mentre lei si ritraeva dall'abbraccio, esclamò: «Ho delle notizie per te, una buona, una cattiva, e una ancora da classificare. Quale vuoi sentire per prima?». «Dammi quella cattiva» disse Asya. «Andrò in prigione. Le mie vignette con il Primo ministro in forma di pinguino non sono state gradite, suppongo. Mi hanno condannato a otto mesi.» Asya lo fissò con uno stupore che presto si mutò in preoccupazione. «Ssst, mia cara» mormorò il Fumettaro Dipsomane posandole un dito sulle labbra. «Non vuoi sentire la buona notizia?» e poi aggiunse, raggiante d'orgoglio: «Ho deciso di essere sincero con me stesso e di divorziare». Mentre l'espressione stupefatta che le era calata sul viso si dissolveva lentamente, Asya si ricordò di chiedere: «E la notizia ancora da classificare?» «Oggi è il quarto giorno che non bevo. Neppure una goccia! E sai perché?» «Immagino che tu sia tornato dagli Alcolisti Anonimi» rispose Asya. «No!» rispose il Fumettaro Dipsomane con aria offesa. «Perché oggi è il quarto giorno da quando ti ho vista l'ultima volta, e volevo essere sobrio quando ci saremmo incontrati. Sei il solo e unico incentivo nella vita che mi spinga a diventare una persona migliore.» A quel punto arrossì. «Amore!» dichiarò. «Io ti amo, Asya.» Gli occhi verdi di Asya scivolarono verso la foto di una strada piena di solchi, scattata nel Camel Trophy 1997 in Mongolia. Sarebbe stato bello trovarsi dentro la foto in quel momento, pensò, attraversare il deserto del Gobi in una jeep 4x4, con pesanti scarponi infangati ai piedi, occhiali da sole inforcati, a sudare via tutti i crucci mentre andava avanti, fino a diventare leggera come una foglia portata dal vento, e dal vento farsi portare fino a un monastero buddista in Mongolia.
«Non preoccuparti, uccellino» sorrise l'albero di melograno scuotendo la neve dai rami. «Quella che sto per raccontarti è una storia a lieto fine.» Hovhannes Stamboulian si lasciò inghiottire dal vortice della scrittura. A ogni nuova riga che aggiungeva a quell'ultima storia del suo libro per bambini, generazioni di letture gli mulinavano incontro, alcune deprimenti, altre capaci di sollevargli lo spirito, ma tutte riecheggiavano allo stesso modo da un altro tempo, un tempo senza principio né fine. Le fiabe per bambini erano le storie più vecchie del mondo, in cui i fantasmi di epoche da tempo svanite si esprimevano attraverso le parole. L'impulso a concludere quel libro era così istintivo e avvincente da risultare irrefrenabile. Il mondo era sempre stato un luogo triste fin da quando si era messo a scriverlo, e adesso doveva finirlo al più presto, come se avesse il potere di renderlo meno deprimente. «D'accordo, allora» tubò il piccioncino. «Raccontami la storia del piccioncino sperduto. Ma ti avverto: se sento qualcosa di triste, volerò subito via.» Quando Hovhannes Stamboulian fu portato via dai soldati, la sua famiglia non ebbe il coraggio di entrare nello studio per giorni. Entravano e uscivano da ogni altra stanza tranne quella, e tenevano la porta chiusa come se lui fosse ancora là dentro a lavorare giorno e notte. Ma lo sconforto che regnava in casa era troppo intenso e palpabile per fingere che la vita potesse tornare alla normalità. Ben presto Armanoush decise che sarebbero stati meglio nella provincia di Sivas, dove avrebbero potuto farsi ospitare dai suoi genitori per un po' di tempo. Fu solo dopo quella decisione che entrarono nello studio di Hovhannes Stamboulian e videro il manoscritto del Piccioncino sperduto e il Paese felice in attesa di essere completato. E lì, in un cassetto, trovarono anche la spilla con la melagrana. Shushan Stamboulian la vide per la prima volta sulla scrivania di noce che apparteneva a suo padre. Tutti gli altri dettagli di quella terribile giornata svanirono dalla sua mente, ma non quella spilla. Forse era il bagliore emanato dai rubini ad averla affascinata, o forse aver visto crollare il mondo attorno a sé l'aveva portata a concentrarsi su quell'unico ricordo. Qualunque fosse la ragione, Shushan non scordò mai quella spilla. Neppure quando crollò mezza morta sulla strada per Aleppo e fu lasciata indietro; neppure quando madre e figlia turche la trovarono, la portarono a casa e la curarono; neppure quando i briganti la consegnarono all'orfanotrofio; neppure quando smise di essere Shushan Stamboulian e diventò Shermin 626; neppure quando Riza Selim Kazanci la trovò per caso nell'orfanotrofio e, dopo aver scoperto che era la nipote del suo defunto padrone Levon, decise di prenderla in moglie; neppure il giorno prima di diventare Shermin Kazanci; e neppure quando seppe di essere incinta e che sa rebbe presto diventata madre, pur essendo poco più che una bambina. La levatrice circassa le aveva rivelato il sesso del bambino mesi prima della sua nascita, osservando la forma del ventre e i tipi di cibo che prediligeva. Creme brùlée delle pasticcerie più di classe, apfelstrudel del forno aperto da rifugiati russi, baklava
fatta in casa, bonbon, e dolci di ogni tipo... Mai una volta, durante la gravidanza, Shermin Kazanci aveva avuto voglia di qualcosa di acido o di salato, come sarebbe accaduto se avesse aspettato una femmina. E in effetti fu un maschio, un maschio nato in tempi atroci. «Possa Allah concedere a mio figlio una vita più lunga di quanto abbiano avuto i membri di questa famiglia» disse Riza Selim Kazanci quando la levatrice gli mise in braccio il bambino. Poi accostò le labbra all'orecchio destro del neonato e gli annunciò il nome che avrebbe portato da quel momento in poi: «Prenderai il nome di Levon». Onorare il maestro da cui aveva imparato l'arte del calderaio non era l'unica ragione dietro la scelta. Si augurava che imporre quel nome a suo figlio sarebbe stato anche un omaggio a sua moglie per essersi convertita all'Islam. Perciò scelse il nome Levon, e da buon musulmano lo ripetè tre volte: «Levon! Levon! Levon!» Shermin Kazanci, nel frattempo, era rimasta silenziosa come una pietra. Non ci volle molto prima che la tripla eco rimbalzasse verso di loro sotto forma di un commento negativo: «Levon? Che razza di nome musulmano sarebbe? Nessun bambino musulmano può chiamarsi così!» si impuntò la levatrice a voce alta. «Lui si chiamerà così» rispose aspramente Riza Selim Kazanci, come avrebbe fatto ancora molte altre volte. «Ho preso la mia decisione, e Levon sarà!» Ma quando si trattò di portare il bambino all'anagrafe per la registrazione, la sua posizione si ammorbidì. «Qual è il nome del bambino?» chiese l'impiegato segaligno e irascibile senza neppure sollevare il capo dall'enorme registro. «Levon Kazanci.» Il funzionario si sistemò gli occhiali sul naso e per la prima volta diede una lunga occhiata a Riza Selim Kazanci: «Kazanci è in effetti un bellissimo cognome, ma che razza di nome musulmano sarebbe Levon?» «Non è un nome musulmano: ma era il nome di una brava persona» rispose Riza Selim Kazanci con una certa tensione. «Signore,» disse l'impiegato alzando la voce. «So bene quanto la famiglia Kazanci sia influente. Un nome come Levon non le farà un buon servizio. Se registriamo questo nome, suo figlio potrebbe avere problemi, in seguito. Penseranno tutti che sia cristiano, anche se è musulmano al cento per cento... o mi sbaglio? Non è musulmano?» «Certo che lo è» rispose Riza Selim. «Elhamdülillah.» Per un momento ebbe la tentazione di confidare all'impiegato che la madre era un'orfana armena convertita all'Islam e che quel nome era un omaggio a lei, ma qualcosa gli suggerì di tenerlo per sé. «Bene, allora, con tutto il dovuto rispetto per il brav'uomo che vuole onorare dandone il nome a suo figlio, perché non facciamo un piccolo cambiamento? Gli dia un nome che assomigli a Levon, se così desidera, però che sia un nome musulmano. Che ne dice di Levent?» suggerì l'impiegato cortesemente, troppo cortesemente per il brusco commento che aggiunse subito dopo: «In caso contrario temo che sarò costretto a rifiutare di registrarlo».
E così divenne Levent Kazanci: il ragazzo nato sulle ceneri di un passato che ancora fumava; il ragazzo che nessuno sapeva avrebbe dovuto chiamarsi Levon; il ragazzo che un giorno sarebbe stato abbandonato da sua madre e sarebbe cresciuto astioso e amareggiato; il ragazzo che sarebbe diventato un padre terribile per i propri figli... Non fosse stato per quella spilla con la melagrana, Shermin Kazanci avrebbe mai provato l'impulso di abbandonare figlio e marito? Difficile a dirsi. Con loro aveva iniziato una famiglia e una vita che potevano andare in una direzione soltanto. Per avere un futuro, aveva dovuto rassegnarsi a diventare una donna senza passato. Della sua identità di bambina non restavano che brandelli di ricordi, come briciole di pane lasciate cadere perché qualche uccello le becchettasse, visto che lei non avrebbe mai più potuto ripercorrere la strada verso casa. Ma nonostante il progressivo svanire dei ricordi più preziosi dell'infanzia, la spilla le rimase vividamente impressa nella memoria. E così anni dopo, quando un uomo giunse dall'America per cercarlo fu proprio la spilla che le fece capire che quell'estraneo era suo fratello. Yervant Stamboulian si presentò alla sua porta, con gli occhi neri che brillavano sotto le sopracciglia cespugliose, il naso affilato, e i folti baffi che gli arrivavano al mento facendo sembrare che sorridesse anche quando era triste. Con voce tremante, cercando le parole che gli mancavano, le annunciò chi era e le disse, metà in armeno e metà in turco, che era venuto dall'America apposta per lei. Per quanto morisse dalla voglia di abbracciarla, sapeva che ormai era una donna musulmana sposata, si trattenne. Attorno a loro turbinava la brezza di Istanbul, e per un attimo fu come se venissero trascinati fuori dal tempo. Alla fine di quella breve conversazione Yervant Stamboulian diede due cose a Shermin Kazanci: la spilla d'oro con la melagrana, e il tempo per pensarci. Perplessa e confusa, chiuse la porta e lasciò sedimentare la rivelazione appena ricevuta. Sul pavimento ai suoi piedi Levent gattonava e balbettava con sfrenato entusiasmo. Andò di corsa in camera e nascose la spilla in un cassetto del guardaroba. Quando tornò nell'ingresso vide il piccolo che rideva, dopo essere riuscito a tirarsi in piedi da solo. Rimase fermo per un secondo, fece un passo, ne fece un altro, e crollò di colpo sul sedere, con il brivido delizioso del primo passo che ancora gli brillava negli occhi. Le scoccò un sorriso sdentato ed esclamò: «Mama!». L'intera casa assunse una rara e spettrale luminosità mentre Shermin Kazanci riemergeva dalla nebbia e ripeteva fra sé: «Mama!» Era la seconda parola che usciva dalla bocca di Levent, che dopo aver fatto qualche esperimento con «dada», il giorno prima aveva finalmente detto «baba» Solo in quel momento si rese conto che suo figlio aveva detto la parola padre in turco e la parola madre in armeno. Non solo lei aveva dovuto dimenticare la lingua che un tempo le era stata così cara, ma adesso avrebbe dovuto insegnare lo stesso procedimento a suo figlio. Pensierosa fissò il bambino. Non voleva correggere quel «mama» con il suo equivalente in turco. Le sagome lontane ma sempre vivide dei suoi antenati si riaffacciarono in superficie. Il cambiamento di nome, religione, nazionalità, personalità non era riuscito ad annullare
la sua vera essenza. La spilla con la melagrana sussurrava il suo nome, e quel nome era armeno. Shermin Kazanci abbracciò il figlio e per tre giorni riuscì a non pensare alla spilla. Ma il terzo giorno, come se la mente avesse continuato a ragionare e il cuore a dolersi senza che lei se ne accorgesse, dovette correre al cassettone e stringerla fra le mani, avvertendone il calore. I rubini sono rinomati per il colore rosso vivo, eppure non è raro che quel colore si alteri, diventando più scuro all'interno, specie quando chi li porta è in pericolo. Esiste addirittura un tipo di rubino, che gli esperti chiamano «Sangue di piccione», rosso sangue con una leggera sfumatura bluastra che sembra propagarsi dall'interno. Il rubino era l'ultimo ricordo del Piccioncino sperduto e il Paese felice. Solo allora comprese quello che doveva fare. Una settimana più tardi, domenica mattina, andò al por to dove l'aspettava suo fratello, con il batticuore e due biglietti per l'America. Al posto della valigia Shermin portava con sé solo una piccola borsa: si era lasciata alle spalle ogni cosa. Quanto alla spilla con la melagrana, la infilò in una busta insieme alla lettera in cui spiegava tutto a suo marito e gli chiedeva due cose: di dare la spilla al figlio affinchè si ricordasse di lei, e che la perdonasse.
Quando l'aereo atterrò a Istanbul, Rose era esausta. Si mosse con precauzione sui piedi gonfi, temendo che non sarebbero mai più rientrati nelle scarpe, anche se per il viaggio si era messa delle comodissime dkny di pelle arancione. Si chiese come diavolo facessero le hostess a stare in piedi su quei tacchi alti per l'intero volo. A Rose e Mustafa occorse mezz'ora per superare il controllo passaporti, la dogana, il ritiro bagagli, il cambiavalute e trovare un autonoleggio. Mustafa aveva deciso che sarebbe stato meglio disporre di un'auto propria, anziché utilizzare quella di famiglia. Da una brochure Rose aveva scelto dapprima una Grand Cherokee Laredo 4x4, ma Mustafa le aveva fatto presente che per le strade strette e affollate di Istanbul era adatta un'auto più piccola, e si erano così accordati per una Toyota Corolla. Poco dopo uscirono dall'area «Arrivi» spingendo un carrello carico di valigie coordinate. Trovarono un semicerchio di estranei in attesa all'uscita. In mezzo al gruppo individuarono Armanoush, che sorrideva e salutava con la mano. Accanto a lei c'era nonna Gülsüm, con la destra premuta sul cuore, sul punto di svenire per l'agitazione. Un passo dietro c'era Zeliha, alta e distaccata, con un paio di occhiali da sole con le lenti viola.
Capitolo diciassette Riso
I primi due giorni a Istanbul Rose e Mustafa li trascorsero mangiando. A tavola risposero alla valanga di domande dei vari membri della famiglia Kazanci: com'era la vita in America? L'Arizona era proprio un deserto? Era vero che gli americani mangiavano porzioni gigantesche di cibo da fast food, mettendosi a dieta solo per partecipare a qualche reality televisivo? La versione americana di The Apprentice era meglio di quella turca? Poi ci fu una serie di domande più personali: perché non avevano avuto figli? Perché non erano venuti prima a Istanbul? Perché non si fermavano di più? PERCHÉ? Le domande avevano un effetto diverso su ciascuno dei due. A Rose l'interrogatorio non dava fastidio, anzi, le piaceva trovarsi al centro dell'attenzione. Mustafa, invece, sprofondava in un cupo silenzio, facendosi sempre più piccolo. Parlò poco e passò la maggior parte del tempo a leggere giornali turchi, sia progressisti sia conservatori, come per recuperare i contatti con il Paese che aveva lasciato. Di tanto in tanto faceva domande su questo o quel politico, alle quali rispondeva chiunque ne fosse in grado. Anche se era sempre stato un avido lettore di giornali, Mustafa non si era mai interessato molto di politica. «Allora, il partito conservatore al governo sembra in difficoltà. Che possibilità hanno di vincere le prossime elezioni?» «Farabutti! Sono solo un branco di bugiardi» grugnì nonna Gùlsiim. Teneva in grembo un vassoio pieno di chicchi di riso, che stava vagliando prima della cottura per scartare eventuali sassolini e rimasugli di pula. «Fanno promesse a vanvera alla gente, e poi appena eletti se le dimenticano.» Dalla sua poltrona accanto alla finestra, Mustafa sollevò lo sguardo oltre il giornale, in direzione di sua madre. «E che mi dici del partito all'opposizione, i socialdemocratici?» «La stessa cosa!» fu la risposta. «Anche loro un branco di bugiardi. Tutti i politici sono corrotti.» «Se ci fossero più donne in Parlamento sarebbe tutto diverso» intervenne zia Feride, che indossava la maglietta I LOVE ARIZONA, regalo di Rose. «La mamma ha ragione. Se vuoi che ti dica come la penso io, l'unica istituzione degna di fiducia in questo Paese continua a essere l'esercito» disse zia Cevriye. «Grazie a Dio esiste l'esercito turco. Se non fosse per loro...»
«Sì, ma dovrebbero ammettere anche le donne» la interruppe zia Feride. «Io mi arruolerei subito.» Asya smise di tradurre la conversazione per Rose e Armanoush, sedute accanto a lei, e ridacchiò dicendo in inglese: «Una delle mie zie è femminista, l'altra è una militarista sfegatata. E riescono pure ad andare d'accordo! Che gabbia di matti». Nonna Gülsüm si rivolse a suo figlio, improvvisamente preoccupata. «E tu, caro? Quand'è che farai il servizio militare?» Decisamente in difficoltà a seguire gli scambi di battute nonostante la traduzione, Rose guardò suo marito sbattendo le palpebre. «Non preoccuparti per me» disse Mustafa. «Se pago una certa somma e dimostro che lavoro in America, il ser vizio militare non devo farlo per intero. Me la caverò con l'addestramento di base, roba di un mese al massimo...» «Ma non c'è una scadenza?» chiese qualcuno. «Sì» rispose Mustafa. «Lo devi fare entro il quarantunesimo anno d'età.» «Be', allora quest'anno» disse nonna Gülsüm. «Ne hai quasi quarantuno...» Seduta in fondo al tavolo a laccarsi le unghie di rosso ciliegia, zia Zeliha sollevò la testa e lanciò un'occhiata a Mustafa. «Quarantun anni, l'età fatidica» sibilò all'improvviso. «La stessa età in cui è morto tuo padre, proprio come suo padre e suo nonno... Ti sentirai nervoso, fratello mio... Così vicino alla morte...» Cadde un silenzio mortale, tanto che Asya si ritrasse senza volerlo. «Come puoi dire a tuo fratello una cosa del genere?» Nonna Gülsüm si alzò in piedi, il vassoio di riso ancora in mano. «Dico quello che voglio a chi mi pare» disse zia Zeliha con una scrollata di spalle. «Non farmi vergognare! Fuori di qui, avanti!» le disse nonna Gülsüm con voce lenta e metallica. «Fuori da casa mia.» Con due unghie ancora da smaltare, zia Zeliha rimise il pennello nella boccetta, si allontanò con la sedia dal tavolo, e uscì dalla stanza.
Il terzo giorno della loro visita Mustafa rimase in camera sua, dicendo che non si sentiva bene. Aveva avuto un po' di febbre, che non solo lo aveva indebolito, ma sembrava anche avergli tolto la capacità di parlare. Aveva il viso tirato, la bocca secca e gli occhi iniettati di sangue, per quanto non avesse bevuto né pianto. Disteso a letto, era rimasto immobile per ore a studiare i disegni indistinti della polvere e della sporcizia sul soffitto. Nel frattempo Rose e Armanoush, insieme a tre delle zie, avevano percorso in lungo e in largo le strade di Istanbul, soffermandosi soprattutto nella zona dello shopping. Tornate a casa stanche morte, andarono a dormire prima del solito. «Rose, tesoro» sussurrò Mustafa alla moglie mentre le accarezzava i capelli. Quei capelli così biondi, lisci e morbidi lo avevano sempre rassicurato, come un tenero riparo dalla sua famiglia nera di capelli e da un altrettanto nero passato. Lei avvicinò il suo corpo morbido e caldo a quello di lui. «Rose, amore mio. Dobbiamo tornare a casa. Ripartiamo domani stesso.»
«Sei impazzito? Ancora non mi sono ripresa dal jet lag.» Rose sbadigliò, stiracchiando le membra indolenzite. Indossava una camicia da notte di seta ricamata che aveva comprato proprio quel giorno al Grand Bazaar, ed era in effetti pallida e stanca, anche se più per lo shopping frenetico che per il jet lag. «Perché sei così irrequieto? Non sopporti di passare nemmeno qualche giorno con la tua famiglia?» Si tirò le soffici coperte fin sotto il mento, e nel calore del letto premette il seno contro il corpo del marito. Poi gli accarezzò una mano, come se coccolasse un bambino, e gli baciò il collo dolcemente, quasi per rassicurarlo, ma quando cercò di staccarsi lui la trattenne, pieno di voglia. «Va tutto bene» disse Rose, mentre il suo corpo si irrigidiva e il respiro accelerava per rallentare subito dopo. «Sono così stanca, tesoro, scusami... Ancora cinque giorni e ce ne torniamo a casa.» Così dicendo spense la lampada dalla sua parte, e in pochi secondi si addormentò. Mustafa restò disteso nella penombra, cercando di non pensare alla sua erezione, imbarazzato e deluso. Si sentiva le palpebre pesanti, ma non riusciva a dormire. Rimase a lungo in quello stato, finché non sentì bussare. «Sì?» La porta si schiuse e fece capolino la testa di Banu. «Posso entrare?» chiese in un sussurro esitante. Dopo aver sentito un suono verosimilmente affermativo, attraversò cauta la stanza, avanzando a piedi nudi sul morbido tappeto. Il fazzoletto rosso che aveva in testa risplendeva come illuminato da una luce misteriosa, e le profonde occhiaie scure le davano un'aria spettrale. «Non ti sei fatto vedere tutto il giorno, volevo solo sapere come stai» sussurrò, tenendo d'occhio Rose che continuava a dormire nell'altra metà del letto con le braccia strette attorno al cuscino. «Non mi sentivo bene.» Mustafa la guardò, e subito distolse lo sguardo. «Tieni, fratello» disse Banu porgendogli una ciotola di ashure decorato con semi di melagrana. «La mamma ne ha preparato un pentolone solo per te.» Il suo viso serio si aprì in un sorriso. «Te lo devo dire, lei l'ha preparato, ma io ho guarnito le ciotole.» «Ti ringrazio, sei molto gentile» balbettò Mustafa mentre un brivido gli correva lungo la schiena. Aveva sempre avuto paura della sorella maggiore. In passato, ogni volta che si sentiva osservato da Banu, si sentiva mancare la voce. Forse perché, abituata a scrutare il suo prossimo, lei invece rimaneva eternamente imperscrutabile. Banu era l'esatto opposto di Rose: la chiarezza non faceva parte delle sue virtù. Somigliava piuttosto a un oscuro libro scritto in un alfabeto arcano, e per quanto Mustafa si sforzasse, non sarebbe mai riuscito a leggere davvero la mente della sorella. Cercò comunque di mostrarsi grato mentre accettava la ciotola di ashure. Il silenzio che seguì fu pesante e impenetrabile. Un silenzio che per Mustafa non poteva essere più crudele. Come disturbata anche lei da quella calma, Rose si mosse nel sonno, ma non si svegliò. Più volte Mustafa aveva avuto la tentazione di confessare a sua moglie che esisteva una parte di lui a lei ignota. Ma in altre occasioni gli piaceva impersonare l'uomo privo di passato, che aveva scelto di coltivare la propria rinuncia. Il suo oblio era voluto, per quanto non l'avesse programmato fin dal principio. Da una parte c'era, in un recesso della sua mente, un varco che lui cercava disperatamente di chiudere, anche se qualche ricordo sfuggiva sempre. Dall'altra l'impulso contrario: riportare alla
luce ciò che voleva cancellare. Quelle due forze opposte lo avevano accompagnato per tutta la vita. E ora che si trovava di nuovo nella casa della sua infanzia, sotto lo sguardo penetrante della sorella maggiore, sapeva che una delle due stava soccombendo. Se fosse rimasto lì, avrebbe cominciato a ricordare, e da un ricordo ne sarebbe scaturito un altro e poi un altro ancora. Anzi: era dal preciso istante in cui aveva rimesso piede lì che l'incantesimo che l'aveva protetto dai suoi stessi ricordi aveva iniziato a svanire. Come poteva, adesso, continuare a rifugiarsi in quell'amnesia artificiale? «Ho bisogno di chiederti una cosa» disse Mustafa con voce affannata, un affanno simile a quello di un ragazzino che chiama aiuto sotto una raffica di botte. Una cintura di cuoio con la fibbia d'ottone: da bambino Mustafa si vantava di non piangere mai, neppure una lacrima, quando suo padre la tirava fuori. Ma anche se riusciva a controllare le lacrime, non aveva mai potuto sopprimere quel respiro affannoso. Lo odiava. Odiava lottare per respirare. Lottare per farsi spazio. Lottare per l'affetto. Si era fermato, come per raccogliere i pensieri. Poi continuò: «C'è una cosa che mi tormenta da diverso tempo, ormai...». La sua voce era tranquilla, non fosse stato che per un'impercettibile sfumatura di timore. La luce della luna penetrava attraverso le tende disegnando un minuscolo cerchio sul tappeto. Mustafa si concentrò su quel cerchio mentre lasciò uscire la domanda: «Dov'è il padre di Asya?». Alzò gli occhi sulla sorella giusto in tempo per coglierne la smorfia, ma Banu recuperò subito il controllo. «Quando ci incontrammo in Germania.» Mustafa continuò «la mamma mi disse che Zeliha aveva avuto una fi glia da un uomo con cui era stata fidanzata per poco tempo e che poi l'aveva lasciata.» «La mamma ti ha mentito» lo interruppe Banu. «Ma che differenza fa, ormai? Asya è cresciuta senza aver mai visto suo padre. Non sa chi è. E non lo sappiamo neppure noi» aggiunse in fretta. «A parte Zeliha, ovviamente.» «Neanche tu?» chiese Mustafa incredulo. «Tu sei una veggente. Feride dice che hai reso schiavo un jinn malvagio per sapere tutto quello che vuoi. A quanto pare i tuoi clienti vengono anche da molto lontano. E vorresti darmi a intendere che non sai una cosa così importante? I tuoi jinn non ti hanno rivelato nulla?» «Sì, me l'hanno rivelato» confessò Banu. «Ma avrei preferito non sapere.» A quelle parole, il cuore di Mustafa cominciò a battere più forte. Chiuse gli occhi, ma anche così continuava a vedere lo sguardo penetrante di Banu. E vedeva anche un altro paio d'occhi che splendevano irreali nel buio, terribilmente vuoti, agghiaccianti. Che fosse il suo jinn malvagio? Ma doveva essere stato un sogno, perché quando Mustafa Kazanci riaprì gli occhi, nella stanza c'erano solo lui e sua moglie. Però sul comodino era poggiata una ciotola di ashure. La fissò, e di colpo comprese perché la ciotola era lì e a cosa doveva servire. La scelta dipendeva da lui... dalla sua mano sinistra. Osservò quella mano, appoggiata sul comodino, sorridendo al pensiero del potere che in quel momento le era concesso: poteva afferrare la ciotola oppure spingerla via. Se Mustafa avesse scelto la seconda possibilità, il giorno dopo si sarebbe svegliato
per una nuova giornata a Istanbul. Avrebbe incontrato Banu a colazione. Non avrebbero parlato della loro conversazione notturna, fingendo che l'ashure non fosse mai stato preparato né offerto. Ma se avesse scelto di afferrare la ciotola, quella notte un intero ciclo si sarebbe concluso. Raggiunta l'età limite per i maschi Kazanci, Mustafa sa peva di essere prossimo alla morte, e a quel punto un giorno in più o in meno faceva ben poca differenza. In fondo alla sua mente echeggiò una vecchia storia, la storia di un uomo che aveva viaggiato fino ai confini del mondo nella speranza di evitare l'Angelo della morte, solo per imbattersi in lui nel luogo dove il destino aveva già previsto che si sarebbero incontrati. La scelta, dunque, non era tanto fra la vita e la morte, quanto fra una morte improvvisa e una morte controllata: adesso la sua mano sinistra, la mano colpevole, poteva decidere quando e come sarebbe morto. Si ricordò del minuscolo pezzo di carta che aveva infilato nel muro del tempio di El Tradito. «Perdono» ci aveva scritto sopra. «Perché io potessi esistere, il passato andava cancellato.» Adesso il passato stava tornando, e perché potesse esistere, Mustafa doveva essere cancellato... Per tutti quegli anni uno straziante rimorso lo aveva corroso dall'interno, poco alla volta, senza intaccare la superficie esterna. Ma forse la lotta fra l'oblio e il ricordo era finalmente conclusa. Come il fondo del mare che affiorava a perdita d'occhio con la bassa marea, i ricordi di un passato tormentoso stavano adesso riemergendo, uno dopo l'altro. Mustafa allungò la mano verso l'ashure. Consapevolmente, con decisione, cominciò a mangiarlo, un cucchiaio alla volta, assaporando ogni singolo ingrediente. Provò sollievo a lasciarsi alle spalle il proprio passato e insieme il futuro. Era bello lasciarsi alle spalle la vita. Qualche secondo dopo, fu colto da un crampo addominale così forte da togliergli il respiro. Due minuti più tardi il suo respiro s'interruppe per sempre. Fu così che Mustafa Kazanci morì all'età di quarant'anni e tre quarti.
Capitolo diciotto Cianuro di potassio
Il corpo fu lavato con sapone di Aleppo puro, fragrante e verde come i pascoli del cielo. Fu strofinato, sciacquato e lasciato asciugare sulla lastra di pietra nel cortile della moschea. Poi lo avvolsero in un sudario composto da tre teli di cotone, lo deposero nella bara e, malgrado gli anziani insistessero che bisognava seppellirlo quel giorno stesso, lo caricarono su un carro funebre diretto a casa Kazanci. «Non potete portarvelo a casa!» esclamò lo scarno lavamorti, bloccando l'uscita del cortile e guardando corrucciato i presenti. «Quell'uomo comincerà a puzzare, per l'amor di Dio! Porterete la vergogna su di lui!» In un punto imprecisato fra «porterete» e «lui» aveva cominciato a piovigginare; goccioline sparse e riluttanti, come se anche la pioggia volesse partecipare alla discussione, ma non avesse ancora deciso da che parte stare. Quel martedì di marzo, il mese più squilibrato e spossante a Istanbul, il tempo sembrava aver cambiato di nuovo idea, decidendo di appartenere all'inverno. «Fratello lavamorti,» singhiozzò zia Feride, accogliendo quell'uomo nervoso nell'universo opprimente ed egalitario della sua schizofrenia ebefrenica «lo riporteremo a casa in modo che tutti possano vederlo un'ultima volta. Vedi, mio fratello è stato all'estero per tanti anni che quasi avevamo dimenticato la sua faccia. Dopo vent'anni torna finalmente a Istanbul e il terzo giorno se ne va per sempre. La sua morte è stata così inaspettata che vicini e parenti non ci crederanno se non lo vedranno.» «Donna, sei impazzita? Non c'è niente del genere nella nostra religione!» ribattè il lavamorti, sperando di bloccare così ogni obiezione possibile. «Noi musulmani non mettiamo in vetrina i morti.» La sua espressione si indurì visibilmente quando aggiunse: «Se i vicini vogliono vederlo, potranno visitare la sua tomba al cimitero». Mentre zia Feride meditava sul suggerimento, zia Cevriye, in piedi al suo fianco, fissava l'uomo con un sopracciglio sollevato, come faceva con i suoi studenti durante le interrogazioni, quando voleva che si rendessero conto da soli dell'illogicità della risposta che le avevano dato. «Ma fratello lavamorti,» riprese zia Feride «come potranno vederlo, quando sarà nella tomba sotto due metri di terra?» Le folte sopracciglia del lavamorti si inarcarono per la frustrazione, ma il poveretto preferì non rispondere, rendendosi conto che era inutile continuare a discutere con quelle donne.
Quella mattina zia Feride si era tinta i capelli di nero: era il suo modo di portare il lutto. Scrollò la testa con decisione e aggiunse: «Non preoccuparti. Puoi stare sicuro che non lo esporremo come fanno i cristiani nei film». Guardando imbronciato gli occhi in perpetuo movimento di zia Feride e le mani che gesticolavano senza posa, il lavamorti rimase immobile per un lungo, sgradevole minuto, con un'aria più disgustata che arrabbiata. Sembrava che di colpo si fosse reso conto di avere davanti la persona più folle che avesse mai incontrato. I suoi occhi da furetto mandavano imploranti richieste d'aiuto, ma non trovando risposta scivolarono verso il cadavere che giaceva in attesa di una decisione, e poi di nuovo verso le due zie. Se quegli sguardi gelidi celavano qualche messaggio nascosto, nessuno fu in grado di decifrarlo. Intervenne infine zia Ce vriye, dandogli una mancia generosa. Così il lavamorti intascò i soldi e i Kazanci ebbero il loro cadavere. In un lampo, si formò un convoglio di quattro veicoli. A guidare la processione c'era il carro funebre, verde salvia com'è giusto che sia un carro funebre musulmano, poiché il nero è riservato ai funerali di minoranze come gli armeni, i greci e gli ebrei. La bara era adagiata sul retro. Dato che per tradizione qualcuno deve accompagnare il morto durante il tragitto, Asya si offrì volontaria. Armanoush, con il volto esterrefatto e confuso, si teneva tenacemente aggrappata alla mano di Asya, così sembrò che si fosse offerta insieme a lei. «Non voglio nessuna donna nel mio carro» obiettò l'autista, che somigliava in maniera sorprendente al lavamorti. Forse erano fratelli: uno lavava i morti e l'altro li trasportava, e magari ce n'era anche un terzo che lavorava al cimitero, con l'incarico di seppellirli. «Be', non hai scelta, perché nella nostra famiglia non è rimasto nessun maschio» risuonò la voce di zia Zeliha da dietro, così gelida che l'uomo si chetò all'istante. Forse gli era venuto in mente che se davvero non c'erano uomini per scortare il defunto, allora era meglio farsi accompagnare dalle due ragazze piuttosto che da quella donna che gli incuteva timore, con la sua minigonna e l'orecchino al naso. Così, finalmente, il carro funebre cominciò la sua pesante marcia. Dietro il carro veniva la Toyota Corolla di Rose, la quale doveva essere in preda al panico, almeno a giudicare dal modo in cui guidava: l'auto procedeva a scossoni, come sballottata da singhiozzi o intimidita da un traffico selvaggio. Vedendola in quello stato, era difficile immaginarsela che scorrazzava per le ampie strade dell'Arizona con la sua Grand Cherokee Limited azzurro oltremare a cinque porte, trazione integrale e motore a otto cilindri. Adesso, nelle vie serpeggianti e affollate di Istanbul, Rose era una guidatrice completamente diversa. Era stordita, vittima di una confusione e un disorientamento che superavano persino il dolore. A meno di settantadue ore dal suo arrivo nel Paese, le sembrava di essere precipitata in un buco nero, catapultata in un'altra dimensione, dove niente sembrava normale e persino la morte diventava surreale. Accanto a lei sedeva nonna Gulsùm, incapace di comunicare con quella nuora americana che aveva conosciuto da così poco, impietosita e piena di comprensione per lei che aveva perduto il marito, ma ancor più per se stessa che aveva perduto il figlio.
Sul sedile posteriore c'era Petite-Ma, con in testa un fazzoletto color tortora dai ricami neri lungo il bordo. Appena arrivata in Turchia, Rose aveva cercato a lungo di scoprire il criterio secondo cui certe donne avevano il capo coperto e altre no. Ma si era arresa ben presto, incapace di risolvere il mistero persino a livello locale o, per così dire, domestico. Perché diavolo la vecchissima Petite-Ma si coprisse la testa, mentre sua nuora Gülsüm no, e perché una delle zie lo facesse e le sue tre sorelle no, andava oltre la capacità di comprensione di Rose. Dietro la Toyota c'era l'Alfa Romeo metallizzata di zia Zeliha con dentro le tre sorelle e Sultan Quinto in un cestino in grembo a zia Cevriye. Il gatto era tranquillo, come se la morte umana avesse un effetto calmante sulla sua ferocia felina. Accanto all'Alfa Romeo procedeva un maggiolino Volkswagen giallo, guidato da Aram. Incapace di comprendere perché le donne Kazanci volessero portare a casa il loro parente, ma sapendo che nulla poteva essere più estenuante che discutere una decisione delle zie, soprattutto quando erano tutte insieme, Aram aveva preferito non chiederlo neppure. Perciò si limitava a venir loro dietro, cercando solo di assicurarsi che la sua bella se la cavasse bene in mezzo a tutta quella confusione. Al trafficato semaforo di Shishli, a pochi isolati dal cimitero musulmano verso il quale il lavamorti aveva cercato di indirizzarli, si ritrovarono casualmente tutti allineati, come il reggimento di punta di un indomabile esercito, desideroso di combattere ma privo di una causa comune. Zia Feride sporse la testa dal finestrino e salutò con la mano a destra e sinistra, entusiasta del fatto che si fossero ritrovati tutti vicini, anche se solo a causa di una luce rossa. Rose ignorò il gesto, nonna Gülsüm ignorò chi l'aveva compiuto. Al successivo semaforo rosso Asya, seduta fra Armanoush e il conducente, si guardò in giro, ma per fortuna le altre macchine della famiglia non si vedevano. Fu sollevata di non avere davanti agli occhi nessun Kazanci, a parte quello che giaceva nella bara alle sue spalle, ovviamente. Ma anche lui poteva essere evitato, a meno che non si fosse voltata a guardarlo. Erano imbottigliati in un traffico gelatinoso come marmellata, fitto e compatto, in cui solo di rado si apriva un varco, quando all'improvviso si materializzò davanti a loro un furgone della Coca-Cola. Scattò il verde e ripresero a muoversi. Nella corsia accanto sciamò un corteo di auto di tifosi, bardati con cappellini, sciarpe e bandane. Alcuni si erano addirittura tinti i capelli con i colori della squadra: rosso e giallo. Frustrati dalla lentezza del traffico, molti dei tifosi erano caduti in uno stato letargico e chiacchieravano fra loro, ricordandosi solo di tanto in tanto di sventolare qualche bandana dal finestrino. Quando il traffico ricominciò ad avanzare, però, ripresero a cantare e urlare con rinnovato vigore. Di lì a poco un taxi giallo ricoperto da decine di adesivi si fece largo nel minuscolo spazio fra il carro funebre e il furgone della Coca-Cola. L'autista del carro bestemmiò furibondo e rallentò di colpo. Mentre lui continuava a borbottare e Armanoush fissava il taxi con crescente stupore, Asya cercò faticosamente di decifrare le scritte degli adesivi. Ce n'era uno iridescente che spiccava in mezzo agli altri: NON CHIAMARMI MISERABILE! ANCHE I MISERABILI HANNO UN CUORE.
L'autista del taxi era un tizio dall'aria volgare, la carnagione scura e i baffi grigi alla Zapata, e sembrava sulla sessantina, troppo vecchio per farsi coinvolgere nel baccano dei tifosi. C'era uno stridente contrasto tra l'aspetto del tassista e la frenesia con cui guidava. Ancora più singolari di lui erano le persone a bordo del taxi. Il tizio seduto accanto a lui aveva la faccia dipinta metà di rosso e metà di giallo. Asya poteva vederlo chiaramente, perché l'uomo si sporgeva dal finestrino, e con una mano sventolava una bandiera giallo-rossa, con l'altra cercava di reggersi al sedile. Il suo corpo, metà fuori dall'auto e metà all'interno, sembrava tagliato in due da un prestigiatore. Persino a quella distanza, Asya riusciva a vedere che il suo naso era talmente rosso per l'alcol da compromettere la simmetria bicolore della faccia, spostando decisamente l'equilibrio verso quel colore. Proprio mentre si chiedeva quale bevanda potesse far diventare un naso così rosso - birra o raki, o tutt'e due insieme - vide aprirsi anche il finestrino posteriore, da cui sbucò un altro tizio, con un tamburo in mano. Perfettamente sincronizzati, i due tifosi sembravano rami gemelli appena spuntati dal tronco giallo del taxi. Poi quello seduto davanti tirò fuori un bastone e cominciò a battere sul tamburo che l'altro teneva sollevato. L'estrema difficoltà dell'impresa doveva aver dato loro nuova carica, visto che ben presto cominciarono ad accompagnare i colpi e gli strepiti con le parole di un inno. Diversi pedoni si fermarono a guardare sbalorditi, ma molti altri si misero a battere le mani e si unirono al duo, cantando con fervore: Che la terra, il cielo e l'acqua ascoltino le nostre voci. Il mondo tremi sotto i nostri passi pesanti. «Cosa dicono?» Armanoush diede di gomito ad Asya, ma lei ci mise un po' a tradurre, anche perché la sua attenzione era stata catturata da un ragazzo allampanato sul marciapiede, vestito di stracci, che aspirava colla da un sacchetto di plastica e batteva i piedi nudi e sudici al ritmo della canzone. A intervalli di pochi secondi, il ragazzo smetteva di inalare e cantava qualche parola, in ritardo rispetto agli altri, come un'inquietante eco: «... nostri passi pesanti...». Intanto altri tifosi sventolavano bandiere e fazzoletti fuori dai finestrini, partecipando con allegria al canto. In certi momenti i percussionisti smettevano di suonare e con le bacchette tracciavano ghirigori nell'aria in direzione dei passanti e dei venditori ambulanti, come se stessero dirigendo l'orchestra del trambusto cittadino. Finita la prima parte dell'inno ci fu un momento di esitazione, perché sembrava che tra i membri di quel coro improvvisato ben pochi conoscessero le parole della seconda parte. Senza lasciare che quel dettaglio irrilevante minasse la loro complicità, i tifosi ricominciarono a cantare dal principio, ancora più rumorosamente di prima. Che la terra, il cielo e l'acqua ascoltino le nostre voci. Il mondo tremi sotto i nostri passi pesanti.
Così quel flusso giallo e rosso continuò a scorrere lungo la strada, in mezzo al caos e al fragore. Asya, Armanoush e l'autista osservavano in silenzio il taxi che li precedeva. Erano così pericolosamente vicini al veicolo che Asya riusciva persino a vedere le lattine vuote di birra che rotolavano dietro il lunotto. «Ma guardateli! Possibile che uomini adulti e vaccinati si comportino così?» esplose l'autista. «A volte uno di questi fanatici tira le cuoia, e i familiari, o qualcuno dei suoi amici scriteriati, pretendono di avvolgere la bara nella bandiera della squadra. E poi, senza un minimo di pudore, si aspettano che io trasporti quelle bare peccaminose fino al cimitero! Se volete sapere come la penso, questa è blasfemia pura e semplice! Ci vorrebbe una legge che proibisca queste cretinate. Al massimo si dovrebbe concedere il manto verde per la preghiera, dico io. Nient'altro. Ma cosa crede di fare questa gente? Sono o non sono musulmani? Siete morti, per l'amor di Dio, che ve ne fate della bandiera della squadra? Per caso Allah ha costruito uno stadio lassù in cielo?» Non sapendo come rispondere, Asya si agitò sul sedile, visibilmente a disagio, ma l'attenzione dell'autista era già tornata a concentrarsi sul taxi giallo. Dal cellulare del fanatico che si sporgeva dal finestrino era partita una musichetta metallica. Continuando a reggersi al sedile con una mano, e dirigendo la città con l'altra, il corpulento tifoso fece un tentativo di rispondere al telefono, dimenticando che non aveva più mani libere per farlo. Perse l'equilibrio e insieme a quello altre due cose: la bacchetta del tamburo prima, e il telefono cellulare subito dopo. Entrambi caddero sulla strada, proprio davanti al carro funebre. Il taxi frenò bruscamente, e il carro riuscì a fermarsi quando la distanza fra i due veicoli si era ormai ridotta a un capello. Asya e Armanoush furono spinte in avanti dall'improvvisa frenata, e subito dopo si voltarono entrambe a controllare la bara. Era intatta. In un lampo il proprietario dei due oggetti saltò giù, continuando a sorridere e a cantare, con la faccia che splendeva infervorata. Guardò il traffico dietro di lui, come scusandosi per averli fatti fermare, e solo allora si rese conto che dietro al taxi non c'era un normale veicolo, ma un carro funebre verde salvia, il simbolo della morte che li tallonava come un'ombra spaventosa. Per un minuto da brivido l'uomo rimase immobile in mezzo al traffico, smarrito. Solo quando un'altra macchina strapiena di tifosi gli sfrecciò accanto cantando l'inno della squadra, e dopo che il suo amico si era messo a battere impaziente la mano sul tamburo, si ricordò di raccogliere il cellulare e la bacchetta. Dopo un'ultima occhiata al carro e alla bara, si voltò e rientrò nel taxi. Ma questa volta rimase seduto, sconfortato. Armanoush e Asya non poterono fare a meno di sorridere. «La sua dev'essere la professione più rispettata della città» Asya si rivolse all'autista. «La sua sola ombra riesce a gettare nel terrore persino il tifoso più esagitato.» «Non direi» disse l'autista. «Si guadagna poco, non si può fare sciopero, niente assicurazione, niente mutua, niente di niente. Un tempo guidavo grossi camion, facevo le tratte più lunghe. Carbone, petrolio, butano, acque di scarico industriali... Ho trasportato di tutto.»
«Era un lavoro migliore di questo?» «Sta scherzando? Certo che era meglio! Prendi il carico a Istanbul e te ne vai in un'altra città. Non devi tenerti buono il capo o leccare i piedi al supervisore. Un lavoro pulito e dignitoso.» Il traffico ricominciò a scorrere e l'autista cambiò marcia. Di lì a poco il corteo, taxi compreso, svoltò in direzione dello stadio. «Allora perché l'ha lasciato?» volle sapere Asya. «Mi sono addormentato al volante. Un momento prima stavo correndo sulla strada, un momento dopo c'è stato uno schianto tremendo, sembrava il giorno del Giudizio, con Allah che ci convocava tutti. Quando ho riaperto gli occhi, mi sono ritrovato nella cucina di una casupola lungo la strada.» «Cosa sta dicendo?» sussurrò Armanoush. «Credimi, è meglio non saperlo» le rispose Asya in un altro sussurro. «Be', allora chiedigli quanti morti trasporta in una giornata.» Quando la domanda gli fu tradotta, l'autista scosse il capo: «Dipende dalla stagione. La primavera è la peggiore di tutte; in primavera non ne muoiono tanti. Poi però arriva l'estate, che è la stagione di punta. Quando ci sono più di ventisette gradi la cosa si fa impegnativa. Soprattutto i vecchi... Muoiono come le mosche. D'estate gli istanbuliti muoiono a greggi interi!». Fece una pausa, lasciando Asya alle prese con il carico semantico di quell'ultima frase. Poi gli cadde l'occhio su un pedone in smoking, che urlava ordini a qualcuno in un cellulare, ed esclamò: «Tutti questi ricconi! Bah! Passano la vita ad ammucchiare soldi, e per cosa? Pazzi! Il sudario non ha tasche, ed è in un sudario di cotone che andiamo a finire tutti quanti, prima o poi. Niente abiti eleganti, niente gioielli. Puoi forse metterti lo smoking nella tomba? Secondo questa gente, mi chiedo, chi è che sostiene il cielo?». Di nuovo Asya non sapeva cosa rispondere, quindi non ci provò neppure. «Se non c'è nessuno a reggerlo, com'è possibile che ci viviamo sotto? Io non vedo nessuna colonna celeste, e lei? Come si fa a giocare a pallone allo stadio se Allah un bel giorno dice: "D'ora in poi non reggerò più il cielo"?» Con quella domanda ancora sospesa nell'aria svoltarono l'angolo e raggiunsero finalmente casa Kazanci. Zia Zeliha li aspettava lì davanti. Scambiò qualche parola con l'autista e lo pagò. La Volkswagen, l'Alfa Romeo metallizzata e la Toyota Corolle erano allineate davanti all'edificio. La casa era gremita di ospiti in attesa del cadavere.
Nell'ingresso Asya e Armanoush trovarono una folla di donne. La maggior parte dei presenti era accalcata nel soggiorno al primo piano, ma alcuni di loro erano sparpagliati nelle varie stanze, chi per cambiare il pannolino al neonato, chi per spettegolare, chi per pregare, visto che nel frattempo si era fatta l'ora della preghiera del pomeriggio. Non avendo più una camera in cui potersi ritirare, le due ragazze si diressero in cucina, per trovarci riunite le zie che parlavano a sussurri della tragedia
che si era abbattuta su di loro, e intanto preparavano vassoi di ashure da servire agli ospiti. «La povera mamma è distrutta. Chi l'avrebbe mai detto che tutto l'ashure che aveva fatto per Mustafa sarebbe servito per la sua veglia funebre?» disse zia Cevriye, in piedi vicino al fornello. «Già, anche la moglie americana è distrutta» fece notare zia Feride, senza sollevare lo sguardo da una misteriosa macchia sul pavimento. «Poveretta: mette piede a Istanbul per la prima volta in vita sua, e subito perde il marito. Davvero spaventoso.» Seduta a tavola ad ascoltare le sorelle, la sigaretta tra le dita, zia Zeliha disse piano: «Be', immagino che se ne tornerà in America e si troverà un altro marito. In fondo non c'è due senza tre. Se si è sposata due volte, si sposerà la terza. Però mi chiedo, dopo un marito armeno e uno turco, chi sarà il prossimo?». «Quella donna è in lutto, come fai a dire certe cose?» chiese zia Cevriye. «Il lutto è come la verginità» sospirò zia Zeliha. «Bisogna concederlo solo a chi se lo merita.» Inorridite da queste parole, le due zie sussultarono per lo stupore. In quel momento entrarono Asya e Armanoush, seguite da Sultan Quinto che miagolava affamato. «Forza, sorelle, diamo qualcosa da mangiare a quel gatto prima che si faccia fuori tutto l'ashure» disse Zeliha. Zia Banu, che negli ultimi venti minuti aveva trafficato sul bancone della cucina, occupata a preparare il té, affettare i limoni e ascoltare in silenzio la discussione in corso, si voltò verso la minore delle sue sorelle e decretò: «Ci sono cose più urgenti» Poi aprì un cassetto, tirò fuori un lungo, splendente coltello, afferrò una cipolla e la tagliò in due. Ne prese metà e la mise sotto il naso di Zeliha. «Che stai facendo?» Zia Zeliha saltò sulla sedia. «Ti sto aiutando a piangere, mia cara» rispose zia Banu scuotendo il capo. «Non vorrai che gli ospiti là dentro ti vedano così? Spirito libero o no, persino tu dovresti versare qualche lacrima nella casa del defunto.» Con la cipolla sotto il naso zia Zeliha chiuse gli occhi. Sembrava una scultura di qualche bizzarra avanguardia artistica, che non sarebbe mai stata esposta in un museo importante: Donna incapace di piangere, con cipolla. Zia Zeliha aprì gli occhi verde giada e riuscì a spremere una lacrima. La cipolla funzionava. «Ottimo!» annuì zia Banu. «E adesso forza, dobbiamo andare tutte in soggiorno. Gli ospiti si staranno chiedendo dove sono finite le padrone di casa, che lasciano solo il loro morto!» Così disse la sorella maggiore che aveva fatto da mamma a zia Zeliha, che le aveva cantato ninnananne inventate, le aveva dato da mangiare biscotti su scatoloni rovesciati usati per gioco come tavolini, le aveva raccontato favole che finivano sempre con il matrimonio tra la bella fanciulla e il suo principe, l'aveva cullata e le aveva fatto il solletico, facendola ridere come nessun altro. «E va bene!» acconsentì Zeliha. «Andiamo, allora.»
Si spostarono in soggiorno, le quattro zie davanti, Armanoush e Asya dietro. Marciando all'unisono entrarono nella sala piena di ospiti, dove era stato sistemato anche il morto. Sul pavimento, seduta su un cuscino, pigiata tra la folla, c'era Rose, con i capelli biondi coperti da un foulard, e gli occhi gonfi per il troppo piangere. Appena vide Armanoush, la chiamò accanto a sé con un cenno. «Amy, dov'eri?» chiese Rose, ma senza aspettare la risposta, continuò: «Non ci capisco più nulla. Potresti cercare di scoprire che cosa ne faranno del suo corpo? Quando lo seppelliranno?». Non avendone la più pallida idea, Armanoush si chinò verso la madre: «Mamma, sono sicura che sanno quello che fanno» «Ma io sono sua moglie» balbettò Rose incespicando nell'ultima parola, come se cominciasse a dubitarne. Lo avevano adagiato sul divano. Le mani, legate insieme per i pollici, erano poggiate sul petto, dov'era sistemata una pesante lama d'acciaio che doveva impedire al cadavere di gonfiarsi. Due monete d'argento annerito erano state posate sulle palpebre perché non si aprissero. Sulla bocca avevano versato l'acqua della sacra Mecca. Accanto alla testa, in un piatto di rame, bruciavano pezzi di incenso al sandalo. Nessuna finestra era aperta, nemmeno per uno spiraglio, eppure, come se una brezza invisibile soffiasse fra le pareti della stanza, il fumo si ravvivava in continuazione. Serpeggiava attorno al divano, e poi si dissolveva in un ultimo sbuffo grigiastro; ma in certi momenti sembrava seguire una rotta precisa, avvicinandosi sempre di più, in cerchi concentrici, al corpo di Mustafa, come un uccello da preda che insegue la sua vittima fino a terra. L'odore dell'incenso, acre e penetrante, era così forte che a tutti cominciarono a lacrimare gli occhi. Ma molti non ci badarono più di tanto: stavano comunque piangendo. In un angolo della stanza, quasi schiacciato dalla calca, c'era un imam deforme. Completamente assorto, leggeva il Qur'an a voce alta, dondolando la parte superiore del corpo. La sua lettura seguiva un ritmo fatto di accelerazioni e pause improvvise. Armanoush cercò di non prestare attenzione al contrasto tra il corpo rattrappito dell'imam e quelli sani e robusti delle donne che lo circondavano. Allo stesso modo, si sforzò di non fissare le mani dell'uomo e il vuoto in cui avrebbero dovuto esserci le dita. Aveva soltanto un dito e mezzo per mano: impossibile non chiedersi cosa gli fosse successo. Era nato così, oppure le dita gli erano state amputate? Qualunque fosse il motivo, l'incompiutezza del suo corpo era una delle ragioni per cui quelle donne si sentivano a proprio agio accanto a lui. Nella sua imperfezione stava la chiave della sua perfezione, nell'incompiutezza il segreto della sua santità. Era un'anima ai confini fra due mondi e per questo c'era in lui qualcosa di sinistro. Era un uomo, ma così santo da non poter essere considerato meramente umano. Era un santo, ma così deforme che non si poteva fare a meno di pensarlo mortale. E comunque a lui non servivano le dita per voltare la pagine del Sacro Qur'an: era tutto immagazzinato nella memoria, verso per verso. Alla fine dei versi prescritti, l'imam si interruppe per uno o due secondi, ingoiando il sapore che quelle parole sacre gli avevano lasciato in bocca. Poi riprese a recitare.
Era quel ritmo ondeggiante che arrivava al cuore delle donne in lutto: nessuna di loro, infatti, capiva una parola di arabo. Anche quando scoppiavano a piangere, le donne stavano attente a non farlo troppo forte, per non coprire la voce dell'imam. Ma neppure troppo piano, perché non dimenticavano di trovarsi in una ölüevi, una casa dei morti. Vicino all'imam, al secondo posto più importante, sedeva Petite-Ma, il corpo fragile come una prugna lasciata al sole, rinsecchita e rugosa. Ogni nuovo arrivato andava a baciarle la mano e a porgerle le condoglianze, ma era difficile capire se lei se ne accorgesse. Di solito si limitava a guardare chi si avvicinava, ma a qualcuno degli ospiti rivolgeva anche qualche domanda. «Chi sei, caro?» chiedeva a un parente o a un amico di vecchia data. «Dove sei stata per tutto questo tempo?», «Non scappare di nuovo, ragazzaccia!» diceva a perfette estranee. Altre volte, tra un silenzio e un rimbrotto, la sua espressione diventava completamente assente, e lei strabuzzava gli occhi per un panico improvviso e segreto. In quei momenti le sfuggiva perché ci fosse tutta quella gente nel loro soggiorno, e perché piangesse tanto. Il divano era immobile, le donne in continuo movimento; il divano era bianco, le donne quasi tutte vestite di nero; il divano era immerso nel silenzio, le donne erano tutte un vocio: in quella casa sembrava che fare l'esatto op posto del morto fosse il requisito per essere vivi. A un certo punto le donne schizzarono in piedi e chinarono il capo. Con i volti pieni di dolore e rispetto, ma anche di curiosità pettegola, osservarono l'imam che lasciava la stanza. Accompagnandolo fuori, zia Banu gli baciò le mani e lo ringraziò ripetutamente, dandogli del denaro. Appena fu uscito, l'aria fu lacerata da un urlo straziante. Era una donna grassa che nessuno conosceva: il suo grido si levò in un acuto penetrante, e ben presto la sua faccia divenne paonazza, la voce rauca, e lei si mise a tremare. Il suo stato era così miserevole e il suo dolore così evidente che le altre la guardavano intimidite. La donna era una prefica, pagata apposta per andare a piangere a casa di morti che non aveva mai visto in vita. Il suo lamento era così toccante che le altre donne non poterono far altro che unirsi a lei. Circondata da perfette estranee che piangevano (a quel punto persino sua madre le sembrava un'estranea), Armanoush Tchakhmakhchian seguiva con gli occhi i movimenti di quello sciame di donne, che prima si avvicinavano le une alle altre e poi si separavano. Armoniose e decise nel loro ondeggiare, le ospiti si scambiavano i posti con le nuove arrivate. Come uccelli di uno stesso stormo, si appollaiavano sulle poltrone, sul divano e sui cuscini sparpagliati in giro, così vicine che le loro spalle si sfioravano. Si salutavano senza parole e piangevano con voce stridula. Tutte quelle donne che da sole sapevano essere così silenziose diventavano terribilmente rumorose quando si lamentavano in gruppo. A quel punto Armanoush cominciava a distinguere qualche regola di quel rituale: per esempio, in casa non si cucinava più. Ogni ospite si presentava con un vassoio di cibo; la cucina era zeppa di pentole e casseruole. Non c'erano in vista sale, carne o liquori, e non si sentiva nemmeno il profumo del pane appena sfornato. Come gli odori, anche i suoni erano
accuratamente selezionati. Non era permessa la musica, niente te levisione e niente radio. Pensando a Johnny Cash, Armanoush si guardò attorno alla ricerca di Asya. La vide seduta sul divano con un gruppo di vicine, la testa diritta, che giocherellava con uno dei suoi riccioli e fissava il cadavere. Proprio mentre stava per andare da lei, Armanoush vide zia Zeliha che si sedeva accanto alla figlia, e con un'espressione indecifrabile le sussurrava qualcosa all'orecchio.
C'era il cadavere, disteso sul divano. E in mezzo a un gruppo di donne che piangevano senza interruzione, c'era Asya seduta in silenzio, che impallidiva a vista d'occhio. «Non ti credo» disse, senza guardare direttamente la madre. «Non sei obbligata» mormorò zia Zeliha. «Ma alla fine mi sono resa conto di doverti una spiegazione. E se non l'avessi fatto adesso, non avrei più potuto. Lui è morto.» Asya si alzò in piedi lentamente e guardò il cadavere. Lo scrutò a lungo, con attenzione: voleva imprimersi nella mente che quel corpo lavato con sapone verde di Aleppo, avvolto in un sudario composto di tre teli di cotone, quel corpo che giaceva immobile sotto una lama d'acciaio e due monete d'argento annerito, che aveva ricevuto la sacra acqua della Mecca ed era stato profumato con l'incenso al legno di sandalo, quel corpo era suo padre. Suo zio... suo padre... suo zio... suo padre... Sollevò lo sguardo e attraversò con gli occhi la stanza fino a individuare zia Zeliha, adesso seduta in fondo, con un'aria indifferente che neppure la cipolla appena tagliata poteva intaccare. Fissandola, Asya comprese improvvisamente perché sua madre aveva lasciato che la chiamasse «zia». Sua zia... sua madre... sua zia... sua madre... Asya fece un passo verso il padre. Un passo e poi un altro, più vici no. In quel momento il fumo si addensò. Da qualche parte nella stanza Rose piangeva forte. E lo stesso facevano le altre donne, in una catena infinita: erano collegate dal ritmo di quei lamenti, e la storia di ognuna di esse finiva per fondersi con le storie delle altre, che le loro protagoniste se ne accorgessero o meno. Di tanto in tanto, nel lamento, c'era una stasi, o forse era solo che persino nel pianto collettivo c'è sempre qualcuno incapace di piangere con gli altri. «Baba...» mormorò Asya. In principio c'era il verbo, dice l'Islam, che precedeva ogni esistenza. Sia come sia, con suo padre era stato l'opposto. In principio c'era stata l'assenza di verbo, e quella aveva preceduto l'esistenza. C'era una volta, o forse non c'era. Molto, moltissimo tempo fa, in una terra non troppo lontana, quando la paglia veniva passata al setaccio, l'asino era il banditore della città e il cammello era il barbiere... quando io ero più vecchio di mio padre e lo dondolavo nella culla se lo sentivo piangere... quando il mondo era sottosopra e il tempo era un cerchio che
girava e girava, così che il futuro era più vecchio del passato e il passato era integro come un campo appena seminato... C'era una volta, o forse non c'era. Un tempo le creature di Dio erano numerose come chicchi di grano e parlare troppo era peccato, perché potevi dire ciò che non dovevi ricordare, e potevi ricordare ciò che non dovevi dire. Il cianuro di potassio, ovvero il sale di potassio dell'acido cianidrico, è una sostanza incolore. Somiglia allo zucchero ed è altamente solubile in acqua. Diversamente da altre sostanze tossiche emana un forte odore. Mandorle. Ha l'odore di mandorle amare. Se una ciotola di ashure decorata con semi di melagrana venisse condita di gocce di cianuro di potassio, sarebbe difficile coglierne la presenza, perché tra i molti ingre dienti che compongono questo piatto, ci sono mandorle in quantità. «Cos'hai fatto, padrona?» gracchiò il signor Amaro con una smorfia imbronciata, com'era nelle sue abitudini. «Sei intervenuta nelle cose del mondo!» Zia Banu strinse le labbra. «Sì» disse, lasciando che le lacrime le scorressero sul viso. «È vero, io gli ho dato l'ashure, ma è stato lui a scegliere di mangiarlo. Abbiamo deciso entrambi che sarebbe stato meglio così, più dignitoso che sopravvivere con il fardello del passato. Meglio che non fare nulla pur sapendo tutto. Allah non mi perdonerà mai. Sono per sempre bandita dal mondo dei virtuosi. Non andrò in paradiso. Verrò gettata nelle fiamme dell'inferno. Ma Allah sa che non c'è rimpianto nel mio cuore.» «Forse la tua dimora eterna sarà il purgatorio» cercò di confortarla la signora Dolce, che si sentiva impotente di fronte al pianto della sua padrona. «E la ragazza armena? Le racconterai il segreto di sua nonna?» «Non posso. Sarebbe troppo. E poi non mi crederebbe.» «La vita è fatta di coincidenze, padrona.» Era di nuovo il signor Amaro. «Non posso raccontarle la storia. Però le darò questa.» Zia Banu aprì un cassetto e ne trasse una spilla d'oro a forma di melagrana, con semi fatti di rubini. Nonna Shushan, un tempo proprietaria di quella spilla, era una di quelle anime espatriate destinate ad assumere un nome dietro l'altro, uno per ogni stadio della vita. Nata Shushan Stamboulian, era diventata Shermin 626. Poi fu Shermin Kazanci, e poi Shushan Tchakhmakhchian. A ogni nuovo nome, qualcosa di lei andava perduto per sempre. Riza Selim Kazanci era un uomo d'affari sagace, un cittadino devoto, e a suo modo anche un buon marito. Era stato abbastanza astuto da trasformarsi da calderaio in fabbricante di bandiere agli albori della Repubblica, quando le bandiere dovevano servire a ornare ogni angolo della Turchia. Così era diventato uno degli uomini più ricchi di Istanbul. La sua visita all'orfanotrofio era avvenuta più o meno in quel periodo, quando dovette incontrarsi con il direttore per questioni di affari. Là, nel corridoio poco illuminato, aveva visto una ragazza armena convertita, di appena quattordici anni. Non gli ci volle molto per scoprire che era la nipote dell'uomo che lui aveva più amato al mondo: mastro Levon, l'uomo che gli aveva insegnato l'arte del calderaio e si era preso cura di lui quando era un ragazzo bisognoso. Adesso era il
turno di Riza di aiutare la famiglia di mastro Levon. Tuttavia, quando dopo numerose visite chiese alla ragazza di sposarlo, non era più la gratitudine a spingerlo, ma l'amore. Era convinto che alla fine lei avrebbe potuto e voluto dimenticare. Era convinto che se l'avesse trattata bene e con generosità, e le avesse dato un figlio e una splendida casa, un po' alla volta lei si sarebbe lasciata alle spalle il passato, e la sua ferita si sarebbe rimarginata. Era solo questione di tempo. Le donne non possono continuare a portare il fardello della propria infanzia quando loro stesse hanno dato vita a un bambino, ne era sicuro. Perciò, quando venne a sapere che la moglie lo aveva lasciato per andare in America con il fratello, dapprima si era rifiutato di crederci e poi aveva cancellato quella donna dalla sua vita. Shushan era scomparsa dagli annali della famiglia Kazanci, e persino dalla memoria di suo figlio. Chiamarsi Levon o Levent fece ben poca differenza per il figlio di Shushan. Era comunque diventato un uomo severo. Gentile e cortese fuori casa, sapeva essere crudele con i propri figli, quattro femmine e un maschio. Le storie di famiglia possono intrecciarsi in modo tanto profondo che ciò che è accaduto generazioni prima può avere conseguenze su dettagli apparentemente irrilevanti nel presente. Il passato è tutto tranne che concluso. Se Levent Kazanci non fosse diventato un uomo così amaro e prepotente, suo figlio Mustafa sarebbe stato una persona diversa? E se generazioni prima, nel 1915, Shushan non fosse rimasta orfana, Asya, oggi, sarebbe lo stesso una bastarda? La vita è fatta di coincidenze, anche se a volte ci vuole un jinn per capirlo.
Nel tardo pomeriggio Zeliha uscì in giardino. Non volendo entrare in casa, Aram l'aveva aspettata fuori per ore, ormai aveva finito di fumare tutti i suoi sigari. «Ti ho portato del té» gli disse lei. La brezza primaverile accarezzò i loro volti, recando con sé da lontano i molteplici profumi del mare, dell'erba nuova e dei mandorli che stavano per fiorire a Istanbul. «Grazie, amore» rispose Aram. «Com'è bello questo bicchiere da té.» «Ti piace?» Zia Zeliha lo fece scivolare fra le dita, e il viso le si illuminò quando lo riconobbe. «Sai di cosa mi sono appena ricordata? Ho comprato questo servizio vent'anni fa, che strano!» «Cosa c'è di strano?» chiese Aram, e proprio in quell'istante sentì cadere le prime gocce di pioggia. «Niente» disse zia Zeliha, abbassando la voce. «È solo che non avrei mai creduto che sarebbero durati tanto. Temevo che si sarebbero rotti subito, ma immagino siano sopravvissuti per raccontare la loro storia. Dopotutto, ne hanno diritto!» Dopo pochi minuti Sultan Quinto uscì lentamente di casa, con la pancia piena e gli occhi socchiusi. Camminò in cerchio attorno a loro, prima di acciambellarsi vicino a zia Zeliha. Per un po' sembrò immerso nel lavaggio meticoloso di una zampa, ma poi si fermò, si guardò attorno allarmato per scoprire cosa disturbava la sua serenità. Invece di una risposta, gli arrivò una goccia tiepida sul naso, e poi un'altra, questa
volta sulla testa. Il gatto si alzò con lentezza, profondamente sdegnato, e si stiracchiò prima di tornare in casa. Un'altra goccia. Il gatto accelerò il passo. Forse lui non conosceva le regole. Non sapeva che non si deve mai maledire nulla che cada dal cielo. Inclusa la pioggia.
Ringraziamenti
Ho scritto questo romanzo mentre facevo la pendolare tra l'Arizona, New York e Istanbul. La mia gratitudine va alle numerose famiglie armene e turche che mi hanno accolta e ospitata in casa loro, che hanno cucinato per me e condiviso con me le loro storie, per quanto dolorose. Ho un debito particolare verso le nonne armene e turche, che hanno una capacità naturale di trascendere i confini tracciati dai nazionalisti di entrambe le fazioni. Sono enormemente grata a Marly Rusoff e Michael Ra-dulescu, miei agenti letterari nonché cari amici, per il loro impareggiabile sostegno, per il loro lavoro e per la loro amicizia. Grazie di cuore a Paul Slovak per la sua guida nell'editing, per la sua fiducia e per l'incoraggiamento. Grazie a Muge Gocek, Anne Betteridge, Andrew Wedel, e Diane Higgins per il loro generoso contributo. Tra l'edizione turca e quella inglese di questo romanzo, nel 2006, ho subito in Turchia un processo per aver «denigrato l'identità nazionale turca», in base all'articolo 301 del Codice penale. Le accuse mi sono state mosse a causa delle parole pronunciate da alcuni personaggi armeni del romanzo; avrebbero potuto condannarmi a tre anni di reclusione, ma il processo si è concluso con l'assoluzione. In quel periodo ho avuto la grande fortuna di ricevere un enorme appoggio da parte di moltissime persone, amici ma anche sconosciuti, di diverse nazionalità e religioni. A tutti loro devo molto di più di quanto possa esprimere. E infine, come sempre, ringrazio Eyup, per la sua pazienza e per il suo amore... e perché è lui.
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