Elettrotecnica
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Prefazione
Università degli Studi di Bergamo Facoltà di Ingegneria
CORSI DI LAUREA IN INGEGNERIA GESTIONALE E MECCANICA
Dispense del corso di Elettrotecnica Angelo Baggini
1
Prefazione
Prefazione Le presenti dispense non hanno la pretesa di essere un testo completo, ma nascono dal bisogno di fornire un supporto ad uso esclusivo degli studenti che seguono le lezioni del corso di Elettrotecnica del corso di laurea in Ingegneria Gestionale presso la Facoltà di Ingegneria dell'Università degli Studi di Bergamo; viceversa esse infatti apparirebbero, in diverse occasioni, troppo concise e mal si presterebbero ad un semplice studio senza un momento di spiegazione in aula. Anche queste dispense, con ogni probabilità, conterranno errori ed imprecisioni, l’autore se ne scusa fino d'ora e ringrazia quanti contribuiranno al miglioramento delle stesse segnalando sviste e fornendo suggerimenti. Programma Parte I - Elettrotecnica generale Dall'elettromagnetismo all'elettrotecnica: richiami di elettromagnetismo, classificazione dei fenomeni elettrici in statici, stazionari, quasi stazionari e non stazionari - fenomeni elettrostatici: effetto dei campi elettrici sui conduttori, equazioni di Laplace e Poisson, concetto di capacità, schermi elettrostatici, gabbia di Faraday - elettrodinamica stazionaria: concetto di circuito elettrico, bipoli resistività e resistenza, leggi di Kirchhoff Rappresentazione e analisi delle reti in regime stazionario: bipoli ideali: resistore, generatori ideali - caratteristica dei bipoli - convenzione dei generatori e degli utilizzatori - serie e parallelo - metodi per la soluzione di reti elettriche lineari: correnti di lato, correnti di maglia, potenziali di nodo, casi particolari - principio di sovrapposizione degli effetti - teoremi di Thevenin, Norton e Millman - partitori di corrente e di tensione - trasformazioni triangolo/stella stella/triangolo - reti non lineari potenza elettrica - effetto joule - teorema di Tellegen - misure di corrente di tensione e di potenza. Rappresentazione e analisi dei circuiti magnetici: il campo e l'induzione magnetica in materiali con diverse caratteristiche magnetiche - analogia tra flusso magnetico e corrente elettrica - tra forza magnetomotrice e forza elettromotrice, tra riluttanza e resistenza - estensione ai circuiti magnetici dei principi e dei metodi risolutivi propri dei circuiti elettrici, nell'ambito dell'analogia - induzione elettromagnetica - auto e mutua induttanza - energia magnetica - materiali ferromagnetici: saturazione, isteresi, correnti parassite - azioni elettrodinamiche. Rappresentazione e analisi delle reti elettriche in regime variabile: limiti di validità dei principi di Kirchhoff - il condensatore e l'induttore, loro caratteristica, energia immagazzinata - regime periodico alternato sinusoidale - metodo simbolico, fasori, valore efficace - reattanza impedenza, suscettanza, ammettenza - potenza istantanea, attiva reattiva, apparente - estensione dei metodi per le reti in regime stazionario alle reti in regime periodico alternato sinusoidale - risonanza - transitori: forzanti, componenti transitorie e di regime per tensione e corrente, determinante di rete, condizioni iniziali - rifasamento - misure di corrente, tensione e potenza in regime periodico alternato sinusoidale. Sistemi elettrici trifasi: sistemi trifasi simmetrici ed equilibrati - grandezze di linea e di fase - tensioni stellate e concatenate - potenza attiva, reattiva, apparente - confronto 2
Prefazione
tra la trasmissione monofase e la trasmissione trifase - rappresentazione monofase dei circuiti trifase, simmetrici ed equilibrati - sistemi trifase dissimmetrici e squilibrati misure di corrente, tensione e potenza attiva - inserzione Aron. Parte II - Macchine ed impianti elettrici Il trasformatore: principio di funzionamento del trasformatore monofase - corrente a vuoto e tensione di cortocircuito - circuito equivalente - aspetti costruttivi autotrasformatore - il trasformatore trifase - dati nominali - rendimento. La macchina asincrona: campo magnetico rotante - statore e rotore - principio di funzionamento come motore - scorrimento - circuito equivalente monofase - coppia e potenza meccanica - caratteristica statica coppia/scorrimento - rendimento assorbimento di potenza reattiva - coppia e corrente di spunto - cenni al funzionamento come generatore - cenni alla macchina asincrona monofase. Macchina sincrona: generalità e disposizioni costruttive - principio di funzionamento: generazione della fem - funzionamento a vuoto - funzionamento a carico: reazione d'indotto - teoria lineare della macchina sincrona isotropa - teoria non lineare della macchina sincrona isotropa - funzionamento dell'alternatore in corto circuito funzionamento degli alternatori in parallelo. Macchina in corrente continua: generalità e disposizioni costruttive - principio di funzionamento come generatore e come motore - il problema della commutazione caratteristica elettromeccanica - caratteristica meccanica - metodi di eccitazione. Convertitori statici: generalità: interruttori statici - convertitori cc/cc - convertitori cc/ca convertitori ca/cc - convertitori ca/ca Produzione, trasmissione, distribuzione e utilizzo dell'energia elettrica: centrali elettriche (idrauliche e termiche) - stazioni e cabine di trasformazione - linee di trasporto e di distribuzione - dimensionamento delle condutture: cadute di tensione, perdite - apparecchi di manovra e protezione - rifasamento dei carichi. Elementi di sicurezza elettrica: pericolosità della corrente elettrica - guasti e contatto elettrico, casi tipici - protezioni: messa a terra, interruttore automatico, interruttore differenziale sistemi TT, TN IT. Testi consigliati Per approfondimenti e consultazione si cconsigliano i seguenti testi: Pier Paolo Civalleri, Elettrotecnica, Editrice Levrotto e Bella - Torino Filippo Ciampoli, Elettrotecnica generale, Pitagora Editrice - Bologna
File: baggio2 - c:\proj\unibg\elett\dispense\PREFAZ02.DOC Stampato: 07/03/01 23.35 Ver/Rev: fin/0.4
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Angelo Baggini - Franco Bua Università degli Studi di Bergamo - Facoltà di ingegneria - Corso di Elettrotecnica Introduzione all'elettrotecnica
rev. 1.0
1 Introduzione all'elettrotecnica 1.1 - Carica elettrica e campo elettrico È ben noto che la carica elettrica è una delle proprietà della materia, come la massa; differentemente da questa, che è di un unico tipo e che è sempre associata alla materia, la carica elettrica può avere un segno e può anche essere assente. Possiamo così distinguere corpi con carica positiva, corpi con carica negativa, e corpi neutri. Dal punto di vista atomico, anzi nucleare, esistono particelle positive (protoni), negative (elettroni) r neutre (neutroni); gli elettroni e i protoni presentano carica uguale e contraria. Esistono anche altre particelle cariche, ma non sono comunemente presenti in natura (almeno, non in quella con cui abbiamo a che fare) e quindi in questa sede non ce ne occupiamo. Dal punto di vista macroscopico un corpo è sempre composto da una combinazione di queste particelle elementari, in numero tale che solitamente le cariche positive e quelle negative sono in numero uguale di modo che complessivamente il corpo è elettricamente neutro; se per qualche motivo questo equilibrio viene alterato si dice che il corpo è elettricamente carico. Non bisogna quindi credere né che un corpo neutro non ci siano cariche elettriche, né che in un corpo carico le uniche cariche elettriche presenti siano solo quelle in eccesso. Ci sono (e sono la grande maggioranza) le cariche uguali e contrarie, che in condizioni particolari potrebbero spostarsi dando luogo a squilibri elettrici. Senza entrare in altri dettagli né dimostrazioni si rammenta che la carica elettrica si misura in coulomb, simbolo C, e che se nello spazio circostante ad una carica elettrica ne esiste un'altra, tra le due si presenteranno forze attrattive o repulsive. In particolare se le cariche sono (o possono essere considerate) puntiformi, indicando con i e j le due cariche e definendo: qi = valore della carica i
rj = (xi, yi, zi) = posizione della carica
qj = valore della carica j
rj = (xj, yj, zj) = posizione della carica
allora la forza che sulla carica i agisce per effetto della carica j vale: _ qiq j _ F ij = k 2 u ji d ij dove: Cap. 1 - pag. 1
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dij = distanza tra i e j = ( xi − x j ) 2 + ( y i − y j ) 2 + (z i − z j ) 2 _
uij = versore da j a i =
ux ( xi − x j ) + uy ( y i − y j ) + uz (z i − z j ) dij
per versore si intende un vettore unitario, che serve solo ad indicare una direzione e un verso. In particolare i tre versori: ux , uy , uz indicano la direzione dei tre assi di riferimento (x, y, z). Analizzando la formula si nota che: − la forza agisce nella direzione della congiungente le due cariche − se le due cariche sono concordi, la forza è repulsiva − se le due cariche sono discordi, la forza è attrattiva − la forza decresce con legge quadratica all'aumentare della distanza. Si è inoltre definita la costante k: k =
1 4πε
dove: ε è la permettività elettrica della materia dove avviene il fenomeno. In particolare si trovato sperimentalmente (proprio a parte da misure di forza elettrica): εο= 8,854x10-12 C2/Nm2 che è la permettività elettrica del vuoto; per gli altri minerali: ε = εo εr dove: εr è la permettività elettrica relativa. La permettività elettrica relativa dell'aria è con ottima approssimazione unitaria: cioè la permettività assoluta dell'aria è praticamente uguale a quella del vuoto. Allora, più in generale, una carica q, che indicheremo come carica secondaria, posta nelle vicinanze di una carica Q, che considereremo carica principale, è soggetta, nell'aria o nel vuoto, ad una forza: F=
1 qQ u 4πε o d 2
dove il versore indica la direzione della congiungente le due cariche e il verso che dalla carica principale va alla secondaria. Per eliminare la dipendenza della carica esploratrice si introduce il concetto di campo elettrico: E=
F 1 Q = u q 4πε o d 2
Cap. 1 - pag. 2
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come si nota questa grandezza è indipendente dall'entità della carica secondaria: questa può anche non esserci, e il campo elettrico rimane comunque definito. Una carica elettrica puntiforme di entità Q genera allora nello spazio circostante, un campo elettrico avente direzione radiale, verso uscente dalla carica se questa è positiva o entrante se questa è negativa, modulo variabile con legge inversalmente quadratica con la distanza. Il campo elettrico si misura in newton su coulomb. In seguito si fornirà un'altra definizione dimensionale. La presenza di più cariche genera in ogni punto dello spazio un campo elettrico che può essere facilmente calcolato, punto per punto, come somma vettoriale dei campi elettrici prodotti da ciascuna carica. Il campo così ottenuto dipenderà dalla posizione r = (x, y, z) del punto che si considera e dalla posizione ed entità delle cariche che lo generano. E = E(r ) =
Qi
1
∑ Ei (r ) = ∑ 4πε i
i
o
d i2 (r )
ui (r )
dove: di (r ) = [( x − xi ) 2 + ( y − y i ) 2 (z − z i ) 2 ] ui (r ) =
ux ( x − xi ) + uy ( y − y i ) + uz (z − z i ) di ( r )
In questo modo, una volta calcolato il campo elettrico in una regione dello spazio, ci si può anche dimenticare delle cariche che lo hanno generato e affermare che una carica secondaria sarà soggetta ad una forza: F = qE Non soltanto cariche concentrate, ma anche cariche distribuite danno origine a campi elettrici. Il valore del campo in ogni punto dello spazio può essere calcolato considerando il contributo di campo, secondo la legge radiale, di ogni porzione di spazio e di superficie dove siano presente cariche distribuite. Per esempio nel caso di cariche distribuite su una superficie: 1 σ idS i E( r ) = ∫∫s ui (r ) 4πε o d 2 ( r ) i 1.2 - Potenziale elettrico Una carica che si trovi in un campo elettrico è sottoposta ad una forza, attrattiva o repulsiva. Se questa forza fosse libera di agire (la particella libera di muoversi), compirebbe un lavoro che darebbe alla particella velocità e quindi energia cinetica. Si deve quindi concludere che la carica possiede una certa energia iniziale, che potrà essere tramutata tutta o in parte in energia cinetica o in altra forma di lavoro. O mostrando, abbastanza semplicemente, che il campo elettrico è conservativo (il lavoro che il campo elettrico compie non dipende dal percorso scelto, ma solo dal punto di partenza e di arrivo); tale energia risulta essere potenziale. In particolare si potrebbe considerare nulla l'energia potenziale elettrica di una particella posta a distanza infinita dalla carica principale Q (che genera il campo e la forza). Volendo calcolare l'energia potenziale elettrica ad una distanza d finita dalla carica Q, occorre Cap. 1 - pag. 3
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calcolare (mediante un integrale) il lavoro necessario per portare la particella dall'infinito alla distanza d richiesta: il lavoro fornito sarà quindi pari all'energia potenziale accumulata. Nel caso di campo elettrico radiale, e seguendo un percorso rettilineo e anch'esso radiale, si avrà: Up =
d ∫∞
qQ d 1 qQ 1 qQ d 1 qQ u ⋅ dr = ∫ dr = dr = ∫ ∞ ∞ 2 2 2 4 πε o r 4πε o r 4πε o 4πε o r
d
1 qQ 1 − r = − 4πε d ∞ o
Si può introdurre anche un'altra grandezza, che è il potenziale elettrico V, pari al rapporto tra l'energia potenziale elettrica e la carica secondaria a cui questa energia è associata: V=
Up q
=−
1 Q 4πε o d
Per come è definito, il potenziale elettrico è una grandezza scalare, e non dipende dalla carica secondaria a cui può essere applicato. Il potenziale elettrico dipende pertanto solo dalla posizione del punto dello spazio in cui lo si considera, e non dal percorso scelto per arrivarvi. In particolare vale che: E = − ux
∂V ∂V ∂V − uy − uz = −∇V ∂x ∂y ∂z
Il potenziale elettrico si misura in volt, simbolo V: 1V =
1J 1C
Le dimensioni del campo elettrico, precedentemente definite in newton su coulomb, possono allora essere definite anche in volt su metro. Il potenziale di un punto dello spazio in cui agiscono più campi elettrici è dato dalla somma dei singoli potenziali. Va notato che tale somma è composta di addendi scalari, quindi risulta decisamente più agevole della somma dei campi elettrici (grandezze vettoriali).
1.3 - Il flusso del campo elettrico Si definisce flusso di un vettore (E) attraverso una superficie S la grandezza: Φ=
∫ ∫S E ⋅undS
dove il versore indica la direzione normale alla superficie, punto per punto (occorrerà scegliere anche un verso, cioè stabilire quale faccia della superficie sia da considerarsi "di ingresso" e quale "di uscita"). Il flusso è una grandezza scalare. Se si considera una carica puntiforme q e una sfera di raggio R con il centro coincidente con il punto in cui si trova la carica, il campo elettrico generato dalla carica sarà radiale e in ogni punto della sfera perpendicolare alla sua superficie; avrà inoltre lo stesso valore in ogni punto della superficie. Pertanto il flusso è il prodotto del campo per la superficie della sfera:
Cap. 1 - pag. 4
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Φ=
1
∫∫S 4πε
q o
R
2
dS =
1 q q 4πR 2 = 4πε o R 2 εo
Si noti che il flusso non dipende dal raggio della sfera. Si può dimostrare che: − se la carica viene spostata dal centro della sfera, il valore del flusso continua ad avere lo stesso valore; − se la superficie anziché essere sferica fosse di forma qualunque, l'espressione del flusso non cambia. Per dimostrare questi due punti occorre ragionare a parità di angolo solido: se si considera un cono infinitesimale di spazio a partire dalla carica (corrispondente ad un valore infinitesimo di anglo solido), questo intersecherà una porzione infinitesima della superficie. Se questa è lontana, il campo sarà minore con legge quadratica, ma la superficie sarà maggiore con legge quadratica; viceversa, se la superficie sarà vicina il campo sarà maggiore ma la superficie minore; per cui il prodotto campo per superficie rimane costante. Il fatto che la superficie possa non essere perpendicolare all'asse del cono non cambia niente, perché va sempre considerato il prodotto del campo per il versore normale. Se all'interno della superficie sono presenti più cariche, poiché il campo è una funzione lineare della carica, così sarà anche il flusso; pertanto il flusso totale è dato dalla somma dei flussi delle singole cariche. Pertanto: il flusso del campo elettrico uscente da una superficie chiusa vale: Φ=
q εo
dove q indica la carica totale (somma delle cariche). Questa relazione è nota come legge di Gauss, qui espressa in forma integrale. Le implicazioni e le applicazioni della legge di Gauss sono molteplici. Una conseguenza immediata è la considerazione che se in una superficie chiusa non sono presenti cariche elettriche, il flusso è nullo. Questo non significa che su singole porzioni della superficie non ci sia flusso e quindi non ci sia campo: questo può esserci per effetto di cariche esterne; ma la somma di tutti questi flussi locali (o meglio, l'integrale del campo elettrico normale su tutta la superficie) dà valore nullo. Il teorema della divergenza, detto anche teorema di Gauss, recita che l'integrale di superficie del prodotto scalare di un campo vettoriale per il versore normale esterno esteso a tutta una superficie chiusa è pari all'integrale di volume della divergenza del campo stesso esteso a tutto il volume racchiuso dalla stessa superficie chiusa (se il campo scalare è differenziabile con continuità su tutto il volume). Vale quindi:
∫∫S E ⋅ undS = ∫∫∫V (S) ∇ ⋅ EdV Inoltre si può anche scrivere che la carica totale contenuta in un volume è pari all'integrale, esteso a tutto il volume, della densità di carica per unità di volume che verrà indicata con ρ; vale quindi che:
∫∫∫V ( A )
∇ ⋅ EdV =
q 1 = εo εo
∫∫∫V (A )
ρdV
La relazione non vale solo in forma integrale, ma anche in forma differenziale, cioè locale:
Cap. 1 - pag. 5
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∇⋅E =
ρ εo
Questa relazione è detta anche legge di Gauss in forma differenziale. Un'applicazione della legge di Gauss (in forma integrale) è lo studio del campo elettrico di una lastra piana infinita uniformemente carica. Si possono subito fare delle considerazioni di simmetria: il campo elettrico sarà normale alla superficie, ed uscirà da (o entrerà in) entrambe le facce della lastra con uguale modulo ma verso opposto. Se si considera un cilindro avente la superficie laterale normale alla lastra, e sezionato dalla lastra stessa, in modo che le due basi siano una al di sopra e una al di sotto della lastra e paralleli ad essa, ed essendo A l'area di tali basi, si ha che il flusso totale uscente dal cilindro è dato solo dall'effetto del campo attraverso le due basi. La superficie laterale infatti è parallela al campo e quindi non ne è attraversata. Quindi: Φ = 2AE Ma per la legge di Gauss: Φ=
q σA = εo εo
Quindi si ritrova l'espressione: σA σ = 2 AE ⇒ E = 2ε o εo
1.4 - Corrente elettrica Gli elettroni (che hanno un elevato rapporto carica/massa) in alcune sostanze come i metalli o gli ioni, presenti nei fluidi, hanno una mobilità elevata. Altre particelle, come i protoni sono più vincolate o più lente. Se si considera una superficie finita S (delimitata da una linea chiusa), si può misurare il passaggio di cariche elettriche attraverso di esse. Si deve scegliere un verso convenzionale di attraversamento e, in presenza di moto di cariche elettriche, si misura il passaggio di una certa carica Q in un tempo T. In particolare occorre porre attenzione al segno delle cariche che passano, ed effettuare la misura in senso algebrico: il passaggio di un certo numero di cariche negative nel senso convenzionalmente preso come positivo va considerato come un passaggio dello stesso numero di cariche positive nel senso opposto. Si può allora definire il concetto di corrente media: I=
Q T
i=
dq dt
il concetto di corrente istantanea:
La corrente, o meglio la sua intensità, si misura in ampere, simbolo A. Cap. 1 - pag. 6
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1A =
1C 1s
Contrariamente a quello che forse si crede, gli ampere non sono grandezze derivate dai coulomb, ma viceversa: il sistema internazionale si chiama appunto mksA proprio perché ha definito, oltre al campione unitario per metro, kilogrammo e secondo, anche il campione unitario dell'ampere. Si consideri ora il seguente esempio: si supponga che lo scorrere delle cariche elettriche avvenga in una porzione di spazio definita, per esempio in un corpo cilindrico, con la direzione del moto parallela alle pareti laterali (o all'asse) del cilindro stesso. Questo è il caso tipico di corrente elettrica in un conduttore di sezione uniforme. La superficie in cui si misura la corrente può essere qualunque sezione normale del corpo cilindrico. Per questo caso è possibile scrivere una relazione che lega il valore della corrente alla velocità e alla carica delle singole particelle e alla loro densità nel corpo stesso. Si supponga che la corrente sia data tutta da particelle dello stesso segno, tutte con carica q, e distribuite uniformemente nella sezione del conduttore. Se si ha una corrente i, allora questo significa che in un tempo unitario la sezione normale è attraversata da un numero di cariche elettriche m pari a: m=
i q
m indicherà quindi un numero di particelle al secondo. Si supponga che immediatamente dopo la sezione ci sia una porzione di cilindro (un segmento del conduttore) che, fin quando la corrente non inizia a fluire non presenta cariche in moto. Allora dopo un tempo T (per esempio, 1 s) le particelle che hanno iniziato a fluire avranno raggiunto una distanza L: L = υT essendo υ la velocità di spostamento. Se si considera allora il segmento di cilindro di lunghezza L, si nota che all'istante T esso sarà stato riempito di cariche in moto e da quell'istante in poi, se il flusso sarà regolare e non presenterà accumulo di cariche, il numero delle particelle entranti sarà pari a quelle uscenti. Inoltre tale numero, che verrà indicato con N, sarà pari al numero delle particelle che hanno potuto entrare nel tempo T: N=mT Questa situazione è valida per ogni sezione del cilindro. Allora se nel tratto L ci sono N cariche in moto, la densità lineare di cariche in moto (numero di cariche in moto per metro di lunghezza) n vale: n=
N mT m i = = = L υT υ qυ
da cui(*) :
(*) Come è intuitivo, la corrente è tanto maggiore quanto più: - è grande il numero di cariche mobili presenti per unità di lunghezza del conduttore - è grande la carica di ciascuna particella - è grande la loro velocità
Cap. 1 - pag. 7
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nqυ = i Il fatto che si parli di cariche libere di muoversi, nel numero di n per unità di lunghezza, non significa affatto che il corpo non sia più elettricamente neutro. Possono esistere (ed è quanto normalmente succede) altrettante cariche di segno opposto, ma non libere di muoversi. Per esempio, nel caso dei metalli ci sono elettroni liberi che apparentemente costituiscono cariche negative in eccesso; ma questi hanno abbandonato i loro atomi, che sono rimasti così in eccesso di cariche positive. I due fenomeni si annullano a vicenda. Se in ogni segmento di conduttore il numero di elettroni entrante è pari a quello uscente, non si creano squilibri di carica. Per come è stata definita, la corrente è una grandezza scalare, il moto delle particelle cariche, caratterizzato da una velocità delle particelle stesse, è invece un fenomeno tipicamente vettoriale. Inoltre la corrente elettrica è una grandezza che richiede, per essere misurata, l'analisi del suo passaggio in una sezione: cioè non un fenomeno che non viene visto in modo strettamente locale, ma nei suoi effetti su una intera area. Anche per questo non può assumere un valore vettoriale: la superficie può essere attraversata da cariche con velocità diverse per modulo, direzione e verso. Esiste allora un'altra grandezza, che presenta invece le caratteristiche di località e di vettorialità: è la densità di corrente. Essa è pari al rapporto tra la corrente che attraversa una superficie infinitesima e la superficie infinitesima stessa; e poiché localmente, su un area infinitesima, la direzione e il verso sono univocamente determinate, la densità di corrente è una grandezza vettoriale. Nel seguito la densità di corrente verrà indicata con il simbolo J: dl u dA
J=
J si misura in ampere su metro quadrato o più comunemente in ampere su millimetro quadrato. Vale pertanto: I=
∫∫A
J ⋅ undA
Nella formula il versore indica la direzione normale alla superficie, punto per punto; si noti inoltre che appare il doppio segno di integrale, perché è un integrale superficiale (in realtà il differenziale di superficie è un differenziale del 2° ordine), ed appare il prodotto scalare tra il vettore densità di corrente e il versore normale. In regime stazionario, cioè quando tutte le grandezze mantengono lo stesso valore nel tempo, vale il principio di solenoidalità della corrente. Se si considera una superficie chiusa A, il valore totale della corrente entrante in (o uscente da) essa è pari a zero: I=
∫∫A
J ⋅ undA = 0
In caso invece di regime qualunque, si può presentare nel volume interno alla superficie chiusa una variazione della carica elettrica presente; indicando i versori normali per esempio come versori uscenti dalla superficie, con Q la carica totale presente nel volume interno, e con ρ la densità di carica per unità di volume: I=
∫∫ A
J ⋅ undA = −
dQ d =− dt dt
Cap. 1 - pag. 8
∫∫∫V
ρdV
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Se dalla superficie globalmente esce corrente, la carica interna diminuirà tanto più in fretta quanto è maggiore l'intensità di tale corrente. Applicando anche il teorema della divergenza, noto anche come teorema di Gauss, si ha quindi: −
d dt
∫∫∫V( A )
ρdV = I =
∫∫A
J ⋅ undA =
∫∫∫V( A )
∇ ⋅ JdV
Si dimostra che la relazione vale non solo in termini integrali, sull'intero volume, ma anche localmente, punto per punto: ∇⋅J = −
dρ dt
1.5 - Campo magnetico Il movimento di cariche elettriche produce nello spazio circostante un fenomeno detto campo magnetico. Una singola carica produce nello spazio circostante una forza magnetica data dal seguente prodotto vettoriale: B=
µ o υxr µ o υxur q = q 4π r 3 4π r2
dove: q è il valore della carica υ è la velocità della carica r è il vettore che congiunge la carica con il punto in cui si valuta il campo Quest'ultimo vettore va considerato orientato dal punto in cui si trova la carica al punto in cui si vuole considerare il campo. Il campo magnetico si indica con il simbolo H e si misura in ampere su metro. Ma di uso più comune è il campo B che si misura in tesla, simbolo T, detto induzione magnetica e che è legato al precedente da(*): B = µH = µoµr H dove: µ = permeabilità magnetica della materia in cui avviene il fenomeno µo = 4π10-7 =1,2566 10-6 mkg/C2 è la permeabilità magnetica del vuoto; per gli altri materiali si esprime sia una permeabilità assoluta, sia una relativa a quella del vuoto:
(*) La definizione di una terminologia unificata per i fenomeni magnetici non è univoca, in modo particolare per le grandezze B ed H. Il problema è molto complesso e si compone di due grosse parti: una più generale ed astratta che riguarda la scelta dei termini dell'etimologia più adatta e l'altra pragmatica, più pressante, che riguarda la necessità di un'unificazione finalizzata alla compressione recirproca. La convenzione terminologica adottata in questo documento è quella indicata nelle Norme CEI 24-1 (Unità di misura e simboli letterali da usare in elettrotecnica - Ed. 1982) riportata nella tabella seguente. Grandezza Simbolo H B
Nome campo magnetico (forza magnetica) induzione magnetica
Cap. 1 - pag. 9
Unità di misura SI A/m T
Note IEC e ISO non menzionano il termine forza magnetica --
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µr =
µ µo
Per l'aria e quasi tutti i materiali il valore delle permeabilità relativa è pressoché unitario; solo per il ferro essa assume valori elevati, dell'ordine delle centinaia o delle migliaia. Con questa formula si può studiare il campo prodotto dalla corrente che fluisce in un conduttore cilindrico di lunghezza infinita, e il cui raggio sia trascurabile rispetto alle distanze dall'asse del conduttore in cui si vuole calcolare il campo. Si consideri il conduttore coincidente con l'asse Z di un sistema di assi cartesiani. Il punto P in cui si vuole calcolare il campo si trovi nel piano XY ad una distanza ρ dall'asse del conduttore, quindi: P = ux x + uy y = uxρ cos θ + uy ρ sen θ = uρ ρ Un segmento infinitesimo dz di conduttore, posto sull'asse Z ad una distanza z dall'origine, fornisce un contributo infinitesimo dB al campo magnetico in P: dB =
µo u xr µ u xr υxr µ o υxr µ o = = dq nqdz nqυdz i = o idz i 4π 4π 4π 4π r3 r3 r3 r3
Infatti la carica infinitesima dq è pari al prodotto del numero di cariche per metro (n) per la lunghezza infinitesima (dz) e per il valore di ogni carica (q). Il versore con pedice i indica direzione e verso della corrente e coincide quindi con il versore dell'asse Z. Esplicitando anche il versore distanza: dB =
uθρ µ o uz ( ux x + uy y − uz z ) µ u ( − y ) + ur ( + x) µ idz = o x idz = o idz 4π ( x 2 + y 2 + z 2 ) 3 / 2 4π ( x 2 + y 2 + z 2)3/ 2 4π (ρ 2 + z 2)3/ 2
Indipendentemente dalla posizione del segmento considerato sul conduttore, il contributo infinitesimo risulta tangente alla circonferenza di raggio ρ nel punto P. La forza totale del campo magnetico si otterrà integrando il contributo del segmento infinitesimo per tutta la lunghezza del conduttore, che si suppone infinita: uθρ µ µ ρ ρ +∞ µ o +∞ +∞ B = ∫−∞ idz = uθ o i∫−∞ dz = uθ o i2∫−∞ dz 3/ 2 3/ 2 2 2) 2 2) 3 / 2 4π (ρ 2 + z 2) 4π 4 π (ρ + z (ρ + z si consideri α, l'angolo da cui il tratto di conduttore di lunghezza z è visto dal punto P. Allora: ρ2 z = r sen α ρ 2 + z 2 = ρ 2 (1 + tan2 α ) = cos 2 α z = ρ tan α
dz = ρ (1 + tan2 α )dα =
quindi:
Cap. 1 - pag. 10
ρ2 cos 2 α
dα
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µ µ ρ ρ ⋅ ρ / cos 2 α +∞ π/2 B = uθ o i2 ∫0 dz = uθ o i2 ∫0 dα = 4π 4π (ρ2 + z 2 )3 / 2 (ρ2 / cos 2 α )3 / 2
= uθ
µo µ i π/2 µ i ρ 2 ⋅ ρ / cos 2 α π/2 i2∫0 dα = uθ o ∫0 cos αdα = uθ o 3 3 3 / 2 4π 2π ρ 2π R (ρ / cos α)
dove µ θ è il versore tangente alla circonferenza con centro sul conduttore ed R la distanza dal punto considerato.
1.6 - Flusso magnetico Come per il campo elettrico e per la densità di corrente, anche per il campo magnetico è utile definire il flusso attraverso una superficie S: Φ B = ∫∫S B ⋅ undS Le linee di forza del campo magnetico sono sempre chiuse. Per questa ragione il flusso entrante in (o uscente da) una superficie chiusa è sempre nullo: ΦB =
∫∫ S
B ⋅ undS = 0
Questa è la legge di Gauss per il campo magnetico di forma integrale. Applicando ancora una volta il teorema della divergenza, o teorema di Gauss, si ritrova che l'integrale di superficie del flusso normale è pari all'integrale di volume della divergenza del flusso:
∫∫ S
B ⋅ undS =
∫∫∫V (S )
∇ ⋅ BdV
e si dimostra che le eguaglianze sono vere anche localmente, cioè in forma differenziale: ∇⋅B = 0 Questa è la legge di Gauss per il campo magnetico in forma differenziale.
1.7 - Moto di una carica in un campo elettromagnetico Una particella carica posta in un campo elettromagnetico si trova sottoposta ad una forza: F = q(E + υxB ) Questa espressione presenta due termini. Il primo, che esprime l'effetto del campo elettrico, indica la forza di origine elettrostatica. Il secondo, che esprime l'effetto del campo magnetico, è noto come forza di Lorentz; si presenta soltanto quando esiste una componente di velocità della particella in una direzione che non sia parallela a quella del campo magnetico. Un'applicazione pratica è quella del calcolo della forza agente su un conduttore percorso da corrente e immerso in un campo magnetico. Si supponga per esempio che il conduttore sia Cap. 1 - pag. 11
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rettilineo e posto sull'asse X, mentre il campo magnetico sia uniforme e nella direzione dell'asse Y. Per ogni tratto di conduttore di lunghezza L si ha: F = qυxB = nqLυBux xuy = uz nqυLB = uz iLB quindi indicando la forza per unità di lunghezza si ha (f): f=
F = uz iB L
1.8 - La circuitazione dei campi elettrico e magnetico Dall'espressione del campo induzione magnetica prodotto da un conduttore rettilineo infinito: i B = µo µ 2πR a θ si può subito notare che integrando il prodotto scalare del campo B per il versore tangente alla circonferenza lungo tutta la circonferenza stessa, si ha.
∫L
B ⋅ uθ dl =
µo i 2πρ = µ o i 2π ρ
Questa formula ha validità generale per una qualunque circuitazione, cioè anche se il percorso non è una circonferenza, purché sia una linea chiusa; il termine al secondo membro deve contenere la somma di tutte le correnti che attraversano la superficie delimitata dalla linea chiusa; quindi tale termine può essere sostituito con l'integrale delle densità di corrente normale su tutta la superficie:
∫L
B ⋅ dl = µ o i = µ o ∫∫S(L ) J ⋅ undS
Questa formula è nota come legge di Ampère-Maxwell in forma integrale. Per quanto riguarda i versi della circuitazione e della corrente, si può ricordare questa regola: la corrente deve fluire nel verso di una vite destrorsa che ruoti nello stesso verso in cui si sta effettuando la circuitazione. Il teorema di Stokes recita che l'integrale di circuitazione di un campo su una linea chiusa è pari all'integrale, esteso a ogni superficie limitata dalla linea chiusa, del prodotto scalare tra il rotore del campo stesso e il versore punto per punto normale alla superficie. Quindi:
∫L
B ⋅ dl = ∫∫s(L ) ( ∇xB ) ⋅ undS = µ o i = µ o ∫∫S(L ) J ⋅ undS
Si dimostra che l'espressione non vale solo in termini integrali, ma anche differenziali, cioè localmente: ∇xB = µ o J Questa è la legge Ampère-Maxwell espressa in forma differenziale. Cap. 1 - pag. 12
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Entrambe queste espressioni della legge Ampère-Maxwell sono però valide in regime stazionario: in regime variabile nel tempo le espressioni sono più complesse. Per calcolare tali espressioni, si riprendono le equazioni: ∇⋅E =
ρ εo
∇⋅J = −
e
dρ dt
Combinandole si nota che: ∇⋅J= −
d (ε o ∇ ⋅ E ) dt
e quindi: J = −εo
dE dt
vale a dire
J + εo
dE =0 dt
Tornando ad integrare il flusso di queste grandezze su una superficie chiusa, si ritrova: dE dE ) ⋅ undS = ∫∫S J ⋅ undS + ∫∫S ε o ⋅ undS = dt dt
∫∫S
( J + εo
=−
dQ dQ ρ dQ dQ + ε o ∫∫∫V S ∇ ⋅ EdV = − + ε o ∫∫∫V S dV = − + =0 ( ) ( ) ε dt dt dt dt o
Come deve essere, visto che la funzione integranda è nulla. Si consideri ora la circuitazione del campo magnetico e l'equazione di Ampère-Maxwell in forma integrale. Poiché la superficie su cui si calcola il flusso della densità di corrente può essere scelta liberamente, si consideri una superficie molto grande ( come un palloncino di cui la linea chiusa sia l'imboccatura per gonfiarlo). Restringendo sempre di più il percorso della circuitazione, anzi facendolo tendere a zero, è ovvio che il valore dell'integrale deve anch'esso tendere a zero; al secondo membro si tende invece all'integrale di flusso della densità di corrente su di una superficie chiusa. Tale integrale non è nullo, come visto con l'equazione: I=
∫∫ A
J ⋅ udA = −
dQ d =− dt dt
∫∫∫V
ρdV
se non in condizioni stazionarie; risulterebbe nullo se anziché utilizzare la sola densità di corrente si utilizzasse l'espressione dE J = −ε o dt valida per l'appunto in regime variabile. In tale regime le equazioni di Ampère-Maxwell diventano quindi:
∫L
dE d B ⋅ dl = µ o ∫∫S(L ) ( J + ε o ) ⋅ undS = µ oI + µ o ε o E ⋅ undS ∫∫ dt dt S(L )
Cap. 1 - pag. 13
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∇xB = µ o J + µ o ε o
dE dt
Anche per il campo elettrico è nota la legge che esprime il valore dell'integrale di circuitazione. Qualunque integrale di percorso del campo elettrostatico è pari alla differenza di potenziale tra il punto di arrivo e quello di partenza, ed essendo il campo conservativo tale integrale non dipende dal cammino scelto, ma solo dagli estremi. Si consideri ora questo esempio: vi sia un circuito composto dalla successione di quattro segmenti dl, disposti come a formare un rettangolo nel piano XY. Si supponga che nello spazio sia presente un campo magnetico uniforme e costante, di modulo B e disposto con direzione e verso come l'asse Z. Si supponga anche che un lato del circuito, per esempio quello parallelo all'asse X, possa spostarsi nel senso dell'asse Y, cioè senza ruotare. Se esso è dotato di una velocità nella direzione e nel verso dell'asse Y, ogni particella carica q si troverà sottoposta alla forza di Lorentz: F = υxB = qυB uy xuz = qυBux Tale effetto avrebbe potuto essere ottenuto anche con un campo elettrico equivalente di entità: Eeq = υBux In assenza di altri campi elettrici la circuitazione di questo campo equivalente lungo tutto il rettangolo, effettuata in senso antiorario (la vite destrorsa avanza lungo l'asse Z, nel verso positivo di tale asse), fornisce:
∫L
Eeq = 0 l x + 0 l y + Eeq ( −l x ) + 0 (l y ) = −Eeq lx = − υB l x
Se si considera il flusso del campo magnetico nella superficie chiusa, esso vale: ΦB = B l x ly = B l x (l yo + υt ) e quindi la sua derivata: dΦ B = B lx υ dt Si nota che tale derivata vale sempre, non solo per questa geometria particolare e non solo nel caso che il flusso sia cambiato per variazione dell'area interessata, ma anche per variazione dell'intensità del campo magnetico nel tempo. Quindi si può esprimere questo con un'equazione in forma integrale, e applicando il teorema di Stokes o del rotore, anche in forma differenziale:
∫L
E ⋅ dl = −
d B ⋅ undS dt ∫∫S(L )
∇xE = −
dB dt
Cap. 1 - pag. 14
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Queste equazioni sono l'espressione della legge di Faraday-Henry in forma integrale e differenziale rispettivamente. Le implicazioni di questa legge sono notevoli. Se si considera una spira di conduttore, e tale spira è attraversata da un campo magnetico variabile, su questa spira si manifesta una tensione. Se per esempio si considera una spira circolare con un diametro di 0,40 m e attraversata da un campo magnetico variabile nel tempo con legge sinusoidale, con una frequenza di 50 Hz e un valore massimo di 1 T: A=
πD 2 ≈ 0,50 m 2 ; 4
Φ B ( t ) = A ⋅ B( t ) = 0,50 1 cos(2π 50t )
quindi la tensione che si misura tra gli estremi della spira vale: dΦ B V = − ∫L E ⋅ dl = = −2π ⋅ 50 ⋅ sen(2π ⋅ 50t) ≈ -314 ⋅ sen(2π ⋅ 50t) dt si presenta quindi una tensione, sfasata nel tempo di 1/4 di periodo rispetto al campo magnetico, con un valore massimo di 314 V.
1.9 - Fenomeni statici, stazionari, quasi-stazionari, non stazionari Nei precedenti paragrafi sono state ricordate le equazioni di Maxwell: − legge di Gauss per il campo elettrico:
∫∫S
E ⋅ undS =
Q ; εo
∇ ⋅E =
ρ εo
− legge di Gauss per il campo magnetico:
∫∫S
B ⋅ undS = 0;
∇⋅B =0
− legge di Faraday-Henry:
∫L
E ⋅ dl = −
d B ⋅ undS ; dt ∫∫S(L )
∇x E =
∂B ∂t
− legge di Ampère-Maxwell:
∫L
d B ⋅ dl = µ oI + µ o ε o ∫∫S(L ) E ⋅ undS ; dt
∇xB = µ o J + µ o ε o
∂E ∂t
e l'equazione di continuità: ∇⋅J = −
∂ρ ∂t
Si nota che nelle espressioni appaiono delle derivate (parziali se in forma differenziale o totali se in forma integrale) rispetto al tempo . Cap. 1 - pag. 15
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I fenomeni elettrici possono essere suddivisi in due grandi categorie: fenomeni elettrostatici e fenomeni elettrodinamici. Nella prima categoria si ha che: la densità volumetrica di carica, punto per punto, non cambia nel tempo; il campo elettrico è costante; la densità di corrente è nulla in ogni punto (e di conseguenza è nulla la corrente in ogni sezione); l'integrale di circuitazione del campo elettrico è nullo (campo conservativo); non esiste campo magnetico. In questa situazione ci possono essere solo cariche puntiformi e corpi elettricamente carichi, con distribuzione di carica superficiale o volumetrica. Perché un fenomeno rientri nella seconda categoria, invece, occorre almeno il presupposto che il vettore densità di corrente sia, in generale, non nullo. I fenomeni che rientrano in questa seconda categoria vengono a loro volta suddivisi: − fenomeni stazionari: tutte le derivate rispetto al tempo sono nulle; − fenomeni non-stazionari: in generale tutte le derivate rispetto al tempo sono diverse da zero. Da un punto di vista ingegneristico, tuttavia, si considera anche una terza situazione, intermedia tra le due, che viene definita regime quasi-stazionario. In tale situazione molte delle derivate rispetto al tempo sono nulle, o di valore trascurabile ai fini pratici, mentre altre possono essere sensibilmente diverse da zero. Le discriminazioni su quali grandezze possano e quali non possano essere accettate come variabili nel tempo, per considerare il regime come quasi-stazionario, è una discriminazione molto delicata sulla quale si entrerà nel merito in seguito.
1.10 - Cenni di elettrostatica Le principali leggi dell'elettrostatica sono: la legge di Coulomb, che descrive il campo elettrico prodotto da una carica puntiforme, e la legge di Gauss per il campo elettrico, che lega flusso e carica (forma integrale) o divergenza del flusso e densità di carica (forma differenziale). L'utilizzo della legge di Coulomb o della legge di Gauss per il campo elettrico permettono di descrivere il campo elettrico generato da distribuzioni di carica superficiale e volumetrica, come è per esempio il caso della lastra piana. Poiché in elettrostatica non si ha densità di corrente, la densità di carica è costante nel tempo. Se il suo valore è noto per ogni punto del corpo in cui la densità carica si manifesta, è possibile integrare tale valore sul corpo stesso ed ottenere così campo e potenziale elettrici, note ovviamente le condizioni al contorno. Già in condizioni elettrostatiche è inoltre possibile effettuare un'importante classificazione dei corpi, in base alla sostanza di cui sono composti. Per quanto riguarda il moto delle cariche elettriche, esistono materiali conduttori e materiali non conduttori, detti anche isolanti. Nei primi le cariche, se sollecitate da un campo elettrico, sono libere di spostarsi, anche se il campo elettrico è molto debole. Nei secondi la libertà di movimento delle cariche è fortemente limitata, di modo che una distribuzione volumetrica di carica non subisce variazioni apprezzabili (se non in tempi molto lunghi). Se un corpo conduttore viene posto in un campo elettrico, subito le cariche tenderanno a spostarsi muovendosi nella direzione del campo: le cariche positive in verso concorde, le negative in verso discorde. Si realizza così una separazione di cariche (le positive da una parte e le negative dall'altra), che genera a sua volta un campo elettrico. Tale campo all'interno del corpo conduttore sarà uguale e contrario a quello imposto dall'esterno: infatti, solo quando i due campi si annulleranno a vicenda il moto delle cariche potrà cessare perché si è raggiunta una nuova condizione di equilibrio. Lo studio della fase transitoria in cui si ha movimento di cariche non compete all'elettrostatica, mentre ad essa compete la determinazione del nuovo stato di equilibrio, cioè della situazione "a regime". Cap. 1 - pag. 16
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A tale proposito occorre notare che: − internamente ad un corpo conduttore non può mai presentarsi, a regime in condizioni elettrostatiche campo elettrico, perché se ci fosse si presenterebbe ancora moto di cariche, fino al suo annullamento; − come conseguenza il potenziale è uniforme in tutto il conduttore (equipotenzialità); − le cariche che si sono spostate e separate si posizionano sulla superficie del conduttore, perché se esistesse una densità volumetrica di carica non si avrebbe equipotenzialità, vedi l'eq. di Poisson: ∇2 V = −
ρ εo
cioè non si avrebbe equilibrio elettrostatico. Ovviamente, se il corpo è invece costituito da materiale isolante, il campo elettrico non può essere annullato dallo spostamento di cariche, e pertanto è possibile la presenza di campo elettrico all'interno di tali materiali. Se questi corpi presentano una costante dielettrica relativa diversa da quella del vuoto, il valore del campo elettrico verrà modificato di conseguenza. Un caso interessante si presenta quando il corpo conduttore presenta una cavità al suo interno. Per il principio di equipotenzialità, la superficie interna del conduttore si presenta tutta allo stesso potenziale V. Poiché nella cavità non esistono cariche, l'equazione di Laplace ammette come soluzione il valore V, uniforme in tutta la cavità; di conseguenza non esiste campo elettrico. Si è così realizzato uno schermo elettrostatico. Perché lo schermo sia efficace spesso non è necessario avere un intero corpo chiuso intorno al volume che si vuole schermare, ma basta un conduttore che circondi tale volume anche con delle finestre, come una rete, purché abbastanza fissa. L'esempio tipico è la gabbia di Faraday: una qualunque gabbia di materiale conduttore, purché circondi per intero il volume e sia abbastanza fitta, si comporta come uno schermo elettrostatico. 1.10.1 - L'effetto capacitivo Ogni volta che si presentano due conduttori, separati da un isolante (anche l'aria), che possono reciprocamente interagire per quanto riguarda i fenomeni elettrici, si manifesta un effetto che è detto capacitivo. L'effetto capacitivo, è legato al deposito, in presenza di sollecitazioni esterne, su un conduttore di cariche elettriche di un segno e sull'altro di cariche di segno opposto. Tra i due conduttori insorge quindi un campo elettrico e quindi una differenza di potenziale. Si definisce allora la capacità come il rapporto tra la carica presente su ogni conduttore e la differenza di potenziale. C=
Q V
1F =
1C 1V
La capacità si misura in farad, simbolo F. Il componente sistemistico (modello) che si introduce per rappresentare l'effetto capacitivo è il condensatore Il caso più semplice per affrontare l'effetto in esame è costituito da due lastre piane reciprocamente affacciate (condensatore piano). Se le lastre sono abbastanza grandi rispetto alla distanza che le separa, in tutti i punti del condensatore, esclusi al più i bordi delle lastre stesse, si può considerare il campo elettrico come se le lastre piane fossero di dimensioni infinite. Vale allora: Cap. 1 - pag. 17
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E=
σ 2ε o ε r
in direzione perpendicolare alle lastre. Questo è il campo generato da una sola lastra; l'altra genera un campo uguale in modulo e direzione, e che all'esterno delle lastre annulla il campo della prima, mentre all'interno si somma, raddoppiandolo. Definendo: −
d
−
A area di ogni lastra
distanza tra le lastre
σ =Q/A allora vale: V = E⋅d =
C=
Q d σ d= εoεr εo εr A Q A = ε oε r V d
Un altro caso tipico geometricamente semplice è rappresentato dal condensatore cilindrico, costituito da due conduttori cilindrici coassiali, di raggio R1 e R2, posti uno dentro l'altro. In questo caso le cariche presenti sul cilindro esterno non danno alcun contributo al campo interno; applicando il teorema di Gauss al cilindro interno, e supponendo la distanza tra i due cilindri molto più piccola della lunghezza assiale I del condensatore, si ha che ad ogni distanza R dall'asse il campo elettrico, radiale, è pari al flusso diviso per l'area. E=
1 Q ε o ε r 2πRl
Quindi: V=
R2
∫R 1
R Q 1 Q 1 dR = In 2 ε o ε r 2 πRl ε o ε r 2πl R1
da cui la capacità: C=
Q 2πl εoεr V In(R 2 / R1)
La presenza della costante dielettrica del vuoto rende sempre molto piccoli i valori di capacità: tale costante presenta infatti un ordine di grandezza di 10-12. In realtà quindi non si usa mai il farad ma i suoi sottomultipli pico, nano, micro farad. Un esempio potrebbe essere la capacità del pianeta Terra, considerando il secondo conduttore come posto a distanza infinita. 1 Q 1 Q ∞ V = ∫R dr = 4πε o r 2 4πε o R Cap. 1 - pag. 18
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C=
Q 40 10 6 = 4πε oR = 4 π8,854 10-12 ⋅ = 708 µF V 2π
Come si vede persino un corpo così grande come la Terra ha una capacità di meno di un millesimo di farad; questo vuol dire che per depositare sulla Terra una carica (complessiva!) di 1 C occorre una differenza di potenziale, rispetto al resto dell'Universo, di più di 1000 V (1412 V).
1.11 - Elettrodinamica stazionaria L'elettrodinamica stazionaria è per definizione caratterizzata dall'avere presenza di densità di corrente diverse da 0 e derivate rispetto al tempo nulle per i campi elettrico e magnetico e per la densità volumetrica di carica. E' già stato messo in evidenza che il vettore densità di corrente presenta la caratteristica di essere solenoidale, fatto salvo l'eventuale accumulo di carica (variazione nel tempo della densità volumetrica di carica). Nelle condizioni di stazionarietà la solenoidalità è comunque perfetta, pertanto ogni filetto di corrente deve richiudersi descrivendo un percorso chiuso. Questo filetto o tubo di flusso può, durante tale percorso, allargarsi o restringersi (e quindi il modulo della densità di corrente diminuisce o aumenta, rispettivamente), ma la quantità totale del flusso di J rimane costante. Per circuito elettrico si intende allora, nella sua definizione più essenziale, un tubo di flusso del vettore densità di corrente. Ed essendo tale flusso una corrente elettrica, si parla di corrente di un circuito elettrico, a partire dal presupposto che tale grandezza mantiene lo stesso valore per ogni sezione del circuito stesso. Quasi sempre i circuiti elettrici sono costituiti da un supporto materiale, cioè un materiale conduttore, spesso di sezione filiforme, entro il quale avviene il passaggio della corrente; tale conduttore è rivestito di materiale isolante per evitare la dispersione della corrente in percorsi che, anche se chiusi, non permetterebbero più di individuare delle sezioni definite dove la corrente sia sempre la stessa; oppure tali conduttori sono fili tesi tra supporti isolanti, di modo che per gran parte della sua lunghezza il conduttore è circondato dall'aria, che è pure un materiale isolante. Possono esistere però flussi di corrente anche "liberi", privi di supporto definito, come le corrente di dispersione nel terreno oppure come le migrazioni ioniche nei fluidi o nel vuoto. Nel linguaggio comune si indica spesso con la stessa parola "circuito" qualcosa di più complesso, che potrebbe essere definito come l'unione di più rami di circuiti diversi, formando un insieme di maglie più o meno articolata ma tale che da ogni suo punto se ne può raggiungere qualunque altro. In essa quindi ciascun circuito può condividere con altri parti del suo percorso. Il termine corretto per indicare questa struttura è però quello di rete elettrica, anche se nel seguito verranno usati indifferentemente entrambi i termini. 1.11.1 - Effetto resistivo Il moto delle cariche elettriche, anche nei migliori materiali conduttori, non può però avvenire senza un'opportuna forzante. Una carica elettrica incontrerà comunque una opposizione al suo movimento (così come in meccanica non esiste un moto privo di attriti, se non nel vuoto), di modo che dovrà cedere parte della sua energia per ogni tratto che percorre. Vedendo le cose da un punto di vista energetico, o integrale, ogni carica perderà energia potenziale elettrica per muoversi, e quindi il suo potenziale elettrico nel punto di partenza dovrà essere maggiore del potenziale elettrico nel punto di arrivo (se la carica è positiva, viceversa se negativa). Vedendo le cose da un punto di vista dinamico, o locale, dovrà esistere un campo elettrico (forzante) che applicato alla particella carica produrrà una forza che vincerà l'opposizione al moto offerta dal materiale. Cap. 1 - pag. 19
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Sperimentalmente si trova che, la densità di corrente (J) , conseguente all'applicazione di un campo elettrico (E) , è legata a questo da una costante di proporzionalità funzione del mezzo materiale nel quale il fenomeno avviene. Si può pertanto scrivere la seguente legge: E = ρJ dove la costante che appare prende il nome di resistività del materiale; tale effetto è detto resistivo. Per i materiali conduttori vale che la resistività non dipende dal valore del campo elettrico o della densità di corrente, entro ampi limiti di tali grandezze; varia invece con la temperatura. Su questo si tornerà in seguito; intanto possiamo affermare che, per questa proprietà, il fenomeno descritto dall'equazione di cui sopra è lineare. Vedendo le cose dall'esterno, occorre comunque che il potenziale elettrico nel punto di partenza della corrente sia maggiore di quello del punto di arrivo. Se si considerano due punti A e B, corrispondenti a due distinte sezioni di un circuito tra le quali fluisce una corrente I (da A a B), la differenza di potenziale tra i due punti vale: I A A A A ρ VAB = VA − VB = ∫B E ⋅ dl = ∫B ρ J ⋅ dl = ∫B ρ dl = R AB ⋅ I . dl = I∫B A(I) A(l) dove si è definita la nuova grandezza: ρ A R AB = ∫B dl A(I) che prende il nome di resistenza tra il punto A e il punto B (o tra B e A: la resistenza va considerata in valore assoluto, e cambiando l'ordine degli estremi tale valore non cambia). In particolare per una sezione uniforme lungo tutta la lunghezza del tratto di circuito: R=ρ
l A
Questa formula particolare, come pure quella più generale, esprimono in maniera rigorosa un principio intuitivo: la resistenza che una corrente incontra è: − tanto maggiore quanto maggiore è la resistività del materiale; − tanto maggiore quanto lo è la lunghezza del percorso; − tanto minore quanto più è grande la sezione (perché in tal modo la corrente può meglio distribuirsi, quindi avere una densità minore). Il componente sistemistico (modello) che si introduce per rappresentare l'effetto resistivo è il resistore (resistenza è il valore del parametro). La resistenza si misura in ohm, simbolo Ω; vale: 1Ω =
1V 1A
Si può quindi enunciare la legge di Ohm, per esempio in questa forma: dato un segmento di circuito di resistenza R e di estremi A e B, la corrente I che fluisce da A a B è pari alla differenza di potenziale tra A e B diviso per la resistenza del segmento: IA → B =
VA − VB R AB
Cap. 1 - pag. 20
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Si noti che quando si parla di corrente si intende sempre la corrente convenzionalmente positiva: cioè se il potenziale d A è maggiore del potenziale di B, fluiscono cariche positive da A verso B, oppure cariche negative da B verso A, oppure entrambi i casi; nella realtà, nei metalli e nei conduttori in generale si muovono gli elettroni. Occorre però intendersi bene sulle convenzioni: il campo elettrico è il campo elettrico forzante, cioè quello che causa il flusso di corrente; da un altro punto di vista si potrebbero vedere le cose con il segno opposto, indicando però quello che equivale ad un campo elettrico opponentesi al moto. E' però ora importante considerare cosa succede nell'intero circuito, e non solo su un singolo segmento di esso. In regime stazionario non ci sono variazioni di flusso magnetico. Per la legge di FaradayHenry non esistono allora nemmeno tensioni indotte, cioè l'integrale di circuitazione del campo elettrico è nullo, il campo elettrico è conservativo. Affinché possa circolare corrente nel circuito, il ragionamento appena fatto per un singolo segmento va esteso a tutto il circuito, e quindi il punto di partenza e quello di arrivo coincidono; perché scorra corrente occorrerebbe una differenza di potenziale tra due punti coincidenti, e questo sarebbe in contraddizione con il fatto che il campo elettrico è conservativo. Per poter far scorrere corrente devono quindi esistere delle sorgenti di d.d.p. (differenza di potenziale), cioè punti del circuito, oppure segmenti di esso (o l'intero circuito) dove esistono sorgenti di una grandezza equivalente al campo elettrico e quindi di d.d.p. Tali sorgenti sono indicate come generatori di tensione o di forza elettromotrice (fem). Il termine forza è improprio, visto che si parla di differenza di potenziale, ma viene usato per motivi storici. I generatori possono essere di varia natura, ma come esempio più significativo citiamo l'origine elettrochimica (pile ed accumulatori). Indicando con: E il campo elettrico di origine elettrostatica, conservativo EG il fenomeno equivalente ad un campo elettrico, dovuto ai generatori ER il fenomeno equivalente ad un campo elettrico, dovuto alla resistività allora si può scrivere che:
∫L
( E + EG + ER ) ⋅ dl = 0
e poiché:
∫L
E ⋅ dl = 0 (essendo il campo elettrostatico conservativo)
indicando: e = ∫L EG ⋅ dl
(f. e.m. )
vale: e + ∫L ES ⋅ dl = 0 I e = − ∫L ER ⋅ dl = - ∫L ρ J ⋅ dl = - ∫L ρ dl = RI A(l)
Cap. 1 - pag. 21
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dove R è la resistenza dell'intero circuito e il verso di percorrenza della corrente è lo stesso che si è usato per l'integrale di circuitazione. La corrente che circola in un circuito è pari alla fem totale generata nel circuito stesso diviso per la resistenza totale del circuito. Tornando a vedere le cose su un singolo tratto, l'integrale tra due punti del campo elettrostatico può essere anche diverso da 0; quindi indicando: A
e AB = ∫B EG ⋅ dl (fem generata su quel tratto di circuito) vale quindi in generale: VA − VB + e AB = R AB ⋅ IAB (la corrente è convenzionalmente positiva se fluisce da A verso B). 1.11.2 - I principi di Kirchhoff Se si considera una rete elettrica, di essa si possono individuare: i nodi, i rami, le maglie. Per primi si definiscono i rami: un ramo o lato è un tubo del flusso della densità di corrente, nel quale si possa ritenere che la corrente sia uguale in ogni sezione. In particolare un singolo circuito può essere considerato come composto da un solo ramo. Di conseguenza si definiscono i nodi: un nodo è un punto in cui convergono tre o più rami. Come sopra, il singolo circuito a rigore non possiede nodi. Infine si definiscono le maglie: per maglia si intende qualunque percorso chiuso che, partendo da un nodo, ritorni al nodo stesso percorrendo diversi rami della rete, senza però mai percorrere un ramo più di una sola volta. In regime stazionario, si consideri una superficie chiusa che contenga uno e un solo nodo. Vale:
∫∫S
J ⋅ ndS = 0
ma il flusso totale della densità di corrente altro non è che la somma delle correnti che dal nodo escono attraverso i vari rami che al nodo afferiscono. In dicando con K il nodo in questione, vale quindi:
∑
j ∈k
ikj = 0
dove con il simbolo di appartenenza a K dell'indice di sommatoria si indicano i nodi collegati al nodo K. Questa relazione è enunciata dalla legge (o principio) di Kirchhoff ai nodi: in regime stazionario, la somma algebrica delle correnti entranti (o uscenti) da un nodo (da una superficie chiusa) è nulla. Se si considera invece una maglia, composta da N rami tra i nodi 1, 2, ....., N, per ogni ramo i tra il nodo I e il nodo I+1 può essere scritta la relazione: VI − VI +1 + e = R i ⋅ Ii Scrivendo questa relazione per tutti i rami, e tornando al punto di partenza:
Cap. 1 - pag. 22
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V1 − V2 + e1 = R1 ⋅ I1 V2 − V3 + e 2 = R 2 ⋅ I2 ....... VN − 1 − VN + eN − 1 = R N − 1 ⋅ IN −1 VN − V1 + eN = RN ⋅ IN si nota che sommando membro a membro le varie equazioni le varie Vi si cancellano a vicenda: si ritrova cioè il principio di conservazione del potenziale: vale allora che:
∑
ei =
i∈maglia
∑
R i ⋅ Ii
i∈maglia
Questa relazione è enunciata dalla legge (o principio) di Kirchhoff alle maglie. In regime stazionario, la somma delle fem generate in una maglia è pari alla somma delle cadute di tensione ohmiche sui rami della maglia stessa. Per quanto riguarda le convenzioni occorre fissare un verso di percorrenza della maglia; ciò fatto: nel primo membro dell'equazione precedente considerare positive le fem concordi e negative quelle discordi a tale verso, nel secondo membro considerare positive le correnti concordi e negative quelle discordi a tale verso. I principi di Kirchhoff permettono, data una rete elettrica, di calcolare le correnti in ogni ramo e le tensioni in ogni lato (d.d.p. tra ogni coppia di nodi) una volta note le fem generate e i valori delle resistenze di ogni lato, cioè di risolvere o trovare lo stato della rete. Questo sarà l'argomento del capitolo 2 di queste dispense.
1.12 - Elettrodinamica quasi stazionaria Anche questo argomento sarà trattato diffusamente in una successiva parte delle dispense; si forniscono qui solo i principi fondamentali. 1.12.1 - Effetto induttivo Per prima cosa occorre descrivere le conseguenze della legge di Faraday-Henry. Per esempio, sia dato un circuito composto da una sola spira. Se l'area sottesa da questa spira è attraversata da un campo magnetico variabile nel tempo, vale che:
∫L
E ⋅ dl = −
d B ⋅ undS dt ∫∫S(L )
si presenta cioè un campo elettrico non conservativo lungo la spira stessa, o meglio, si misura una differenza di potenziale tra il punto di partenza e il punto di arrivo della spira, anche se questi coincidono. Si dice che esiste una tensione indotta; questo effetto prende anche il nome di induzione elettromagnetica. Tale differenza di potenziale può sussistere se la spira è composta di materiale isolante; se invece il materiale è conduttore e la spira è chiusa su se stessa subito si verificherebbe l'insorgere di una corrente elettrica. Tale corrente in parte farebbe uso del campo elettrico forzante (con la corrente insorgerebbe qualcosa di equivalente ad un campo elettrico di origine ohmica che si oppone al primo), in parte generebbe nella spira un flusso che varia nel tempo in maniera opposta al primo, causando così una riduzione dell'induzione elettromagnetica.
Cap. 1 - pag. 23
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Si consideri (altro esempio) un ramo di una rete elettrica. Se questo ramo ad un certo punto descrive una spira, la corrente che fluisce sul ramo stesso genera un campo e quindi un flusso magnetico. Il flusso è proporzionale alla corrente. Se la corrente è costante, il flusso non varia nel tempo, e quindi non esiste tensione indotta. Se invece la corrente per esempio tende ad aumentare, la variazione di flusso produrrà una tensione indotta che si oppone al verso della corrente; se la corrente tende a diminuire, la tensione si presenterà concorde alla corrente, tendente quindi a sostenerla. Esiste cioè una costante L, detta induttanza, per cui: υ( t ) = L
di( t ) dt
Questo effetto è detto effetto induttivo. 1.12.2 - Effetto capacitivo Si tratta del fenomeno di accumulo di cariche in certe parti del circuito, già visto nel paragrafo dedicato all'elettrostatica. Va però rilevato che se, facendo riferimento ad un condensatore, sulle lastre si presenta accumulo di carica, il sistema nel suo insieme rimane neutro; se visto come elemento circuitale, vale sempre che la corrente entrante (verso una lastra) è pari a quella uscente (dall'altra lastra). Per qualunque condensatore va notato che , essendo: i=
dq dt
i=C
dυ dt
dove q è la carica depositata
dove υ è la differenza di potenziale tra la lastra positiva e quella negativa; oppure: υ = υ C0 +
1 t ∫ i ⋅ dt C 0
Un paragone molto efficace per il condensatore è quello con la vasca o il lago: un flusso d'acqua entrante nella vasca rappresenta la corrente elettrica entrante, il livello dell'acqua indica la tensione elettrica, la quantità totale di acqua presente corrisponde alla carica elettrica. Più entra acqua e più il livello cresce; e se il livello varia vuol dire che dell'acqua è entrata o uscita. La capacità è legata alla superficie del bacino: se questa è grande, occorre molta acqua per variare il livello, oppure si può dire che il bacino può accumulare molta acqua senza alzarsi troppo di livello. Se questi fenomeni (l'effetto induttivo e l'effetto capacitivo) sono localizzati in parti definite e limitate del circuito, le leggi di Kirchhoff potranno essere riscritte quasi allo stesso modo, alle condizioni che: − nei nodi non si presentano effetti capacitivi − le tensioni generate nei lati tengono conto dell'induzione di campi magnetici esterni − al secondo membro le c.d.t. ohmiche vengono completate con le c.d.t. su altri componenti, schematizzabili come induttori e condensatori, per i quali la tensione va calcolata non solo come funzione lineare della corrente, ma anche della sua derivata o del suo integrale nel tempo. Cap. 1 - pag. 24
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In queste condizioni si può parlare di regime quasi stazionario, ed applicare ancora, con queste modifiche, le equazioni di Kirchhoff. Se invece per esempio si considera anche il flusso che attraversa l'intera maglia, oppure il fatto che ci possono essere dispersioni di corrente per effetto capacitivo attraverso l'isolamento dei conduttori, il regime non può essere considerato quasi-stazionario, a meno che non si riesca a modellare tali fenomeni concatenando i loro effetti in singole parti della rete elettrica.
File: franchino - d:\proj\unibg\elett\dispense\CAP01.DOC Stampato: gg/03/aa 21.50 Ver/Rev: drf,fin,tmp,old/0.2
Cap. 1 - pag. 25
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2 Rappresentazione analisi delle reti in regime stazionario Nel precedente capitolo è stato esaminato il fenomeno della conduzione elettrica, definendo la resistenza e le leggi che legano il valore della corrente alle tensioni generate in un circuito. In quanto segue viene descritto un processo ingegneristicamente molto importante attraverso il quale dal fenomeno fisico viene estrapolato il componente circuitale nel caso particolare della resistenza, ma secondo uno schema di validità più generale. La differenza tra fenomeno fisico, componente circuitale e dispositivo deve essere ben chiara. Anche se la resistenza è di per sé una grandezza distribuita lungo tutto il tratto di circuito considerato può risultare molto comodo da un punto di vista modellistico concentrarla in un unico componente, che prende il nome di resistore. Così per rappresentare un tratto di circuito basterà porre in serie, cioè uno dopo l'altro (vd. più oltre), ciascun elementino con il secondo estremo elettricamente collegato con il primo estremo del successivo. Una volta che sono state utilizzate le dimensioni del tratto di circuito (area della sezione, lunghezza) per calcolare il valore della resistenza, ci si può dimenticare di queste caratteristiche geometriche e ragionare unicamente sul componente. Casi più complessi possono essere modellati con due componenti circuitali: uno che rappresenta il fenomeno della generazione della f.e.m., e si chiama appunto generatore di tensione; uno che rappresenta la c.d.t. resistiva, e si chiama appunto resistore. L'ordine con cui vengono posti in serie non ha importanza. I componenti descritti in quanto segue (resistore, generatore), prendono il nome di bipoli, perché presentano due estremi, detti morsetti o poli. Il nome non è superfluo, perché esistono anche componenti con più morsetti, come i quadrupoli. I bipoli si dicono attivi quando in essi è presente una sorgente di f.e.m., passivi in tutti gli altri casi. Si parla anche, rispettivamente, di generatori e utilizzatori. Nei bipoli esiste la possibilità di passaggio di corrente da un estremo all'altro, e si può presentare una d.d.p. tra i due estremi. E' possibile mettere in grafico le due grandezze, Cap. 2 - pag. 1
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tensione e corrente, e tale grafico (o comunque la funzione che esprime l'una grandezza al variare dell'altra) prende il nome di caratteristica V-I del bipolo; se tale caratteristica è una linea retta, si parla di bipolo lineare.
Cap. 2 - pag. 2
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2.1 - I bipoli ideali - Il resistore Per un singolo tratto di circuito si è visto che la corrente che in esso fluisce è pari a: I1 → 2 =
V1 − V 2 + e12 R12
che esprime in maniera rigorosa il concetto per cui la corrente fluisce in presenza di differenza di potenziale (di origine elettrostatica) e/o di una sorgente di f.e.m., ed è limitata da una resistenza, la cui formula è data da: 2
∫
R12 = ρ 1
dl A(l)
Naturalmente perché la corrente fluisca occorre che il circuito sia chiuso; se anche solo uno dei due estremi del segmento è isolato, non può esserci corrente; quindi si manifesterà semplicemente un fenomeno elettrostatico di separazione interna di cariche fino al raggiungimento della condizione di equilibrio con i campi forzanti (creando una d.d.p. uguale ed opposta). In particolare: se per un resistore la corrente entrante è pari a quella uscente e segue la legge: I1 → 2 =
V1 − V 2 R12
con resistenza costante, il bipolo è lineare; in questo caso si usa anche il termine di bipolo ideale. Si noti che nella formula non appare più la forzante di f.e.m., perché il fenomeno è stato separato da questo, ed è descritto da un componente a sé. Si può anche scrivere più in sintesi: V = RI
(2.1)
dove con V si intende la d.d.p. tra il morsetto in cui la I è entrante e quello da cui la I è uscente. Questa convenzione per tensione e corrente prende il nome di convenzione degli utilizzatori. In gran parte dei materiali conduttori si ha che: - la corrente può fluire indifferentemente dal morsetto A a B o da B ad A (se cambia il verso della corrente, dovrà cambiare anche il segno della tensione): si dice allora che il componente è bidirezionale ed in particolare che è simmetrico se la resistenza è la stessa in entrambi i casi; - la resistenza non dipende dalla tensione o dalla corrente: componente lineare. La resistenza dipende invece dalla temperatura θ, secondo la legge: ρ = ρo[1 + α(θ − θo)] da cui: R = R0[1 + α(θ − θ0)] valida per un ampio range di temperature; ove i simboli con pedice o rappresentano le stesse grandezze alla temperatura di riferimento θo ed a il coefficiente di temperaura (diverso da materiale a materiale). Cap. 2 - pag. 3
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A temperatura costante, la caratteristica di un resistore ideale è quindi una retta passante per l'origine; al variare della temperatura cambia il coefficiente angolare (si ha così un fascio di rette avente il centro del fascio nell'origine). A conclusione del discorso sulla resistività, si noti che le dimensioni di tale grandezza sono tali che: [ρ]
[l] m2 = [R] ⇒ [ρ] = Ω = Ωm [A ] m
ma più frequentemente ai fini pratici si usa: [ρ] = Ω
mm 2 m
2.2 - I bipoli ideali - Il generatore Per quanto riguarda il generatore di tensione, si dice che questo è un generatore ideale se la f.e.m. da esso creata non dipende dalla corrente che in esso circola. La sua caratteristica è pertanto una retta parallela all'asse della corrente. Oltre al generatore ideale di tensione si utilizza un altro componente attivo, il generatore ideale di corrente. Questo dispositivo eroga corrente costante, indipendentemente da quale sia il valore di tensione applicato. La sua caratteristica è quindi una retta parallela all'asse delle tensioni. Questo dispositivo non esiste nella realtà, o meglio è possibile realizzarlo, ma come generatore di tensione con un meccanismo di controllo che, sensibile alla corrente, genera la tensione necessaria per avere il valore di corrente stabilito. Tuttavia dal punto di vista modellistico il componente ideale risulta molto utile nell'analisi delle reti elettriche, come si vedrà in seguito. Si usa dire che il generatore di tensione e quello di corrente sono dispositivi duali. per i generatori si usa solitamente la seguente convenzione: la tensione viene misurata come d.d.p. tra il morsetto da cui la corrente esce e quello in cui la corrente entra: convenzione dei generatori. Una modellizzazione più realistica dei generatori è quella di associare sempre ad un generatore ideale di tensione una resistenza serie e a quello di corrente una resistenza parallelo. Queste resistenze rendono conto: per il generatore di tensione, della c.d.t. dovuta al fatto che, se nel generatore passa corrente, anche questa incontrerà una resistenza, per cui la tensione ai morsetti risulterà inferiore a quella ideale, in misura proporzionale alla corrente stessa; dualmente, per il generatore di corrente, del fatto che se il generatore eroga internamente la corrente prevista e si presenta una certa d.d.p. ai morsetti, comunque una parte di questa corrente verrà drenata internamente, in misura proporzionale alla tensione stessa. Questa modellizzazione è molto vicina alla realtà. 2.3 - Serie e parallelo I bipoli possono essere posti in serie o in parallelo. In serie significa che ciascun bipolo è posto in successione al precedente, quindi con il primo morsetto collegato all'ultimo del precedente e l'ultimo al primo del successivo. Se sono posti tra due nodi A e B, solo il primo morsetto del primo bipolo sarà collegato ad A solo l'ultimo del dell'ultimo bipolo sarà collegato a B. Cap. 2 - pag. 4
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Ne risulta che i bipoli in serie sono attraversati dalla stessa corrente, la tensione risultante è la somma algebrica delle tensioni di tutti i bipoli posti in quella serie. In parallelo significa che tutti i bipoli sono collegati alla stessa coppia di morsetti A e B: ogni bipolo ha un morsetto collegato ad A e l'altro collegato a B. Ne risulta che i bipoli in parallelo sono soggetti alla medesima tensione, mentre la corrente totale (entrante da A e uscente da B, o viceversa) è la somma algebrica delle correnti di tutti i bipoli posti in quel parallelo. Se si pongono in serie dei generatori di tensione, la tensione totale è la somma algebrica delle tensioni di ciascuno. Se si pongono in parallelo dei generatori di corrente, la corrente totale è la somma algebrica delle correnti di ciascuno. Non si devono invece mai porre in parallelo dei generatori di tensione o in serie dei generatori di corrente: nel primo caso si avrebbero delle maglie (ogni maglia con due generatori) con una f.e.m. totale diversa da 0, e nessuna resistenza, col risultato di far passare una corrente di valore infinito; nel secondo caso si avrebbero dei nodi con somma di correnti diversa da 0, col risultato (duale al precedente) di creare dei valori infiniti di tensione. Se si pongono in serie delle resistenze:
∑RI
VAB = R1I + R 2I+.......+RNI =
j
j
da cui:
∑R
Rs =
j
La resistenza equivalente ad una serie di resistenze è la somma delle resistenze stesse. Se invece sono in parallelo: I=
V V V + +....+ =V R1 R2 RN
∑R
1
j
j
da cui: Rp =
(∑ R ) j
−1
−1
La resistenza equivalente ad un parallelo di resistenza è il reciproco della somma dei reciproci delle resistenze stesse. A tal proposito si introduce un'altra grandezza, la conduttanza pari al reciproco della resistenza: G=
1 R
La conduttanza si misura in Siemens, simbolo S, che è pari esattamente al reciproco di u ohm. Vale quindi: GS =
(∑ G ) j
−1
−1
Cap. 2 - pag. 5
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Gp =
∑G
j
Queste formule sono duali a quelle con le resistenze. 2.4 - Metodi per la soluzione di reti elettriche lineari Il problema di risoluzione di una rete elettrica consiste, in termini generali, note le forzanti dei generatori e le reistenze di tutti i lati, nella determinazione di tutte le correnti che percorrono i singoli lati della rete e di tutte le tensioni agli estrmi degli stessi. Gli strumenti che che si rendono disponibili per questo scopo sono le leggi delle correnti, delle tensioni e di Ohm che devono essere combinate per formare un sistema di equazioni avente come incognite le incognite della rete. Dopo aver determinato se il problema è risolubile un primo problema che si pone è quello di combinare le equazioni di cui sopra in modo da pervenire ad sistema algebrico in tante equazioni indipendenti quante incognite. La legge delle correnti e la legge delle tensioni fanno riferimento soltanto alla topologia della rete senza alcun riferimento alla natura dei suoi lati. In luogo della rete si può perciò considerare il suo grafo, ottenuto sostituendo i bipoli con un segmento di linea che congiunge i nodi estremi. Un grafo si dice connesso se esiste sempre un percorso che congiunga due nodi qualsiasi del grafo, tutto costituito di lati del grafo. Per albero di un grafo si intende un percorso costituito da lati del grafo che congiunge tutti i nodi senza formare maglie. I lati dell'albero sono n-1, se n è il numero di nodi. Si chiama coalbero l'insieme dei lati del grafo che non appartengono ad un albero; i lati di un coalbero sono l-n+1 se l è il numero dei lati. Si chiama insieme di taglio l'insieme dei lati che attraversano una superficie chiusa tracciata entro la rete. Si possono scrivere: - n-1 equazioni linearmente indipendenti nelle correnti dei lati applicando la legge delle correnti a tutti i nodi della rete meno 1. - m=l-n+1 equazioni linearmente indipendenti nelle tensioni dei lati applicando la legge delle tensioni ed altrettante maglie scelte opportunamente. - l equazioni di Ohm per gli l lati (certamente indipendenti). Il numero delle equazioni pareggia perciò quello delle incognite ed il problema è determinato. La scelta delle maglie indipendenti può essere fatta con molta libertà ma non arbitrariamente. Scelto un albero della rete la legge delle tensioni applicata alle maglie contenenti un solo lato del coalbero (maglie fondamentali) fornisce l-n+1 equazioni linearmente indipendenti nelle tensioni dei lati. Dualmente la legge delle correnti può essere scritta per gli insiemi di taglio, perché ciò equivale a scriverla per una superficie chiusa. Costruisci un insieme di taglio per ciascun lato dell'albero, insieme con alcuni altri lati del coalbero, in modo che la superficie tagli un solo lato dell'albero alla volta (insieme di taglio fondamentale). La legge delle correnti applicata agli n-1 insiemi di taglio fondamentali fornisce altrettante equazioni nelle correnti linearmente indipendenti. I sensi di riferimento della corrente e della tensione per i lati possono scegliersi arbitrariamente, anche se in una trattazione sistematica è conveniente assumere tali sensi di riferimento associati in un'unica convenzione di segno per tutti i lati.
Cap. 2 - pag. 6
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Per la soluzione si può procedere secondo tre diversi metodi basati sulle equazioni di Kirchhoff: Metodo delle correnti di lato Si scelgono come incognite le correnti nei lati, assegnando liberamente ad ogni lato un verso convenzionalmente positivo. Si possono quindi scrivere subito le N-1 eq. di K ai nodi. Si scrivono quindi, in funzione delle incognite, la L-N+1 eq. di K. alle maglie, effettuando i prodotti delle resistenze per le correnti e sommando le fem dei generatori. Si hanno così (N-1)+(L-N+1) = L equazioni, con L incognite. Risolto il sistema, si possono trovare le tensioni in ogni nodo, partendo dal nodo di riferimento e via agli altri, sommando le cdt resistive e le fem dei lati che congiungono i nodi. Il metodo spesso è pesante perché le equazioni sono spesso in numero elevato. Metodo delle tensioni di nodo Si scelgono come incognite le tensioni di N-1 nodi (tutti, escluso il nodo di riferimento). In funzione di tali incognite si hanno subito le ddp sui vari lati, e quindi le correnti negli stessi. Si possono così scrivere le N-1 eq. di K. ai nodi. Si hanno così (N-1) equazioni con (N-1) incognite. Risolto il sistema, dalle ddp si ottengono le correnti nei lati. Metodo delle correnti di maglia Si assegna ad ognuna delle L-N+1 maglie una corrente, per ora incognita, detta corrente di maglia, per la quale si fissa anche il verso convenzionalmente positivo. Questa corrente sarà tale che: se un lato appartiene ad una sola maglia, la corrente in quel lato coincide con la corrente di maglia; se un lato è condiviso da più maglie, la corrente in quel lato è la somma algebrica delle correnti di tutte le maglie a cui il nodo appartiene (tenere conto del verso convenzionale). Si possono così esprimere le correnti di lato in funzione di quelle di maglia, e di conseguenza le tensioni nei lati e quindi le L-N+1 eq. di K. alle maglie. Si hanno così (l-N+1) equazioni con (L-N+1) incognite. Risolto il sistema, si ricostruiscono le correnti di lato e quindi, come sopra, le tensioni nodali. Un primo criterio di scelta tra i metodi considerati può essere individuato nel numero delle equazioni del sistema risolutivo: n-1 >=< l-n+1 Si possono presentare poi dei casi particolari: 1- Un ramo presenta solo un generatore di tensione, senza alcuna resistenza: - se si risolve la rete con il metodo delle correnti di lato, non ci sono problemi perché esiste direttamente l'espressione di una delle ddp da inserire nelle eq. di K alle maglie - se si risolve la rete con il metodo delle tensioni di nodo, manca l'espressione della corrente di quel lato; in compenso però una ddp tra due nodi è già definita; si pone come ulteriore incognita la corrente nel generatore, ottenendo una incognita in più, ma anche un'equazione in più, perché la ddp tra i due nodi fornisce una semplice equazione contenente due tensioni nodali incognite - se si risolve utilizzando il metodo delle correnti di maglia, non ci sono problemi perché esiste direttamente l'espressione di una delle ddp da inserire nelle eq. di K. alle maglie. 2 - Un ramo presenta solo un generatore di corrente, senza alcuna resistenza
Cap. 2 - pag. 7
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- se si risolve con il metodo delle correnti di lato, manca l'espressione della tensione in quel lato; in compenso è già nota una delle correnti; si pone come ulteriore incognita la tensione sul generatore, quindi si ha questa un'incognita in più, ma anche una corrente incognita in meno - se si risolve con il metodo dei potenziali di nodo, non ci sono problemi perché esiste direttamente l'espressione della corrente in quel lato - se si risolve col metodo delle correnti di maglia, manca l'espressione della tensione in quel lato; in compenso è già nota una delle correnti di lato; si pone come ulteriore incognita la tensione sul generatore, quindi si ha questa un'incognita in più, ma anche un'equazione in più essendo tale corrente la somma algebrica delle correnti di maglia a cui quel lato appartiene. Ciascun ramo potrà presentare la serie di più resistenze, più generatori di tensione, e al più di un solo generatore di corrente. E' allora opportuno, come primo passo, porre in serie tutte le resistenze, ottenendo una equivalente, per ciascun ramo; e così pure per i generatori di fem. In seguito le tensioni sui singoli bipoli passivi potranno essere facilmente ricostruite, una volta nota la corrente che scorre nel ramo. Così pure può succedere che ad una coppia di nodi afferiscano più rami in parallelo composti da sole resistenze. E' allora conveniente ridurre tali rami ad uno solo, con la resistenza equivalente al parallelo delle resistenze originali. In seguito le correnti sui singoli bipoli passivi potranno essere facilmente ricostruite, una volta nota la ddp tra i due nodi. 2.5 - Equivalenti e sovrapposizione degli effetti. Eq. generatore di corrente e di tensione Si consideri un ramo costituito da un generatore ideale di tensione in serie con una resistenza. Vedendo il ramo come un unico bipolo, si può esprimere la sua caratteristica: V = E - RI dove si utilizza la convenzione dei generatori, e la tensione V è stata con lo stesso verso utilizzato per la tensione generata E. Si consideri invece ora il parallelo di un generatore di corrente e di una resistenza. Vedendo anche questo come un unico bipolo, si può esprimere la sua caratteristica: V = R (A - I) = RA - RI dove si è utilizzata la stessa convenzione e dove A è la corrente generata. In entrambi i casi la caratteristica prevede un termine costante (E, RA) e un decremento lineare all'aumentare della corrente, con pendenza pari al valore della resistenza. dal punto di vista esterno i due casi sono quindi equivalenti (l'affermazione è giustificabile dal fatto che i bipoli sono lineari e che due rette sono coincidenti quando hanno la stessa penedenza e lo stesso termine noto). Questo vuol dire che in una rete elettrica un generatore di tensione E con in serie una resistenza R può essere sostituito, ai fini della risoluzione del problema, con un generatore di corrente di valore A = E/R in parallelo alla stessa resistenza, e viceversa. Questo a volte semplifica le cose, o rende più visibile e immediata alla persona che affronta il problema, la soluzione della rete. Il tipo di equvalenza descritto viene indicato come equivalenza agli effetti esterni dal momento che esternamente i due bipoli si comportanto allo stesso modo pur essendo internamente differenti. Cap. 2 - pag. 8
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Sovrapposizione degli effetti Si consideri ora un semplice circuito (una sola maglia) costituito dalla serie di due generatori di tensione e una resistenza. La corrente che circola vale quindi: I=
E1 + E2 R
Si è già notato come la tensione di un generatore ideale di fem non dipenda dalla corrente, e come questo possa permettere il passaggio, in generale, di qualunque corrente. Si supponga allora di disattivare il generatore 2, continuando però a permettere il passaggio di qualunque corrente. Si avrà allora solo l'effetto del generatore 1: I(1) =
E1 R
Riattivando il generatore 2 e ripetendo l'operazione per il generatore 1, si avrà: I(2) =
E2 R
Si nota che la corrente ottenuta con entrambi i generatori accesi e la somma di queste due correnti danno lo stesso valore. Cioè è possibile considerare la situazione effettiva come la somma, o meglio la sovrapposizione dei due effetti, a condizione che in ciascun singolo effetto ogni generatore spento venisse considerato come passaggio libero di corrente, cioè un collegamento privo di resistenza, o, come si dice in elettrotecnica, un cortocircuito (abbreviato in cto cto). Esempio duale: due generatori di corrente in parallelo tra loro e in parallelo con una resistenza. Vale: V = R( A1 + A 2) Il generatore di corrente può ammette agli estermi qualunque tensione, ma impone la corrente. Disattivarne uno vorrebbe dire permettere qualunque tensione, ma nessuna corrente: quindi un circuito aperto. Disattivando prima l'uno e poi l'altro si avranno: V (1) = RA 1 V (2) = RA 2 e la somma di queste due tensioni coincide con la tensione presente quando sono entrambi attivati. Anche qui si può considerare la situazione effettiva come somma, o meglio sovrapposizione degli effetti, a condizione che in ciascun singolo effetto il generatore spento sia sostituito con un circuito aperto. Si noti che in entrambi i casi la sovrapposizione è possibile se la rete è lineare e i generatori ideali, cioè se il valore della resistenza non dipende dalla corrente in transito o dalla tensione applicata, e così pure le tensioni generate non risentano delle correnti in transito e le correnti generate non risentano delle tensioni applicate. Se la rete elettrica fosse anche più complessa, le cose non cambierebbero. Risolvendo la rete in forma simbolica, si noterebbe che in ogni tensione nodale e in ogni corrente di lato è una funzione lineare delle tensioni e delle correnti dei generatori. Quindi si enuncia il principio di sovrapposizione degli effetti nel caso delle reti elettriche: Cap. 2 - pag. 9
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In una rete lineare è possibile applicare la sovrapposizione degli effetti, vale a dire: la tensione in ogni nodo è la somma delle tensioni e la corrente in ogni lato è la somma delle correnti che si ottengono attivando volta per volta solo uno o una parte dei generatori, fino a considerarli tutti una e una sola volta, e lasciando spenti tutti gli altri, lasciandoli cioè in cortocircuito se generatori di tensione e in circuito aperto se generatori di corrente. La rete con tutti i generatori posti in queste condizioni può essere definita rete passiva. Dal principio di sovrapposizione degli effetti discende che: se in una rete lineare viene acceso un nuovo generatore o ne viene spento uno esistente, non occorre risolvere ex novo la rete ma basta aggiungere o togliere alla soluzione preesistente il nuovo effetto, calcolato sulla rete passiva. 2.6 - I teoremi di Thevenin e di Norton Si considerino ancora gli esempi iniziali del par 2.5. Si nota che la caratteristica è data dalla somma di due termini: uno costante, e uno lineare. Se si considera il generatore di tensione in serie alla resistenza, si nota anche che il termine costante corrisponde alla tensione a vuoto, cioè a quella tensione che si presenta ai capi dei morsetti quando questi non sono richiusi su nessun altro circuito e quindi non scorre corrente. Il termine lineare invece è pari alla caratteristica che si presenta disattivando il generatore, ponendolo cioè in cto cto: è la caratteristica della rete passiva, in questo caso molto semplice. Se si considera l'altro esempio, riscrivibile in questa forma: I= A +
V = A + GV R
si nota che il termine costante è pari alla corrente che si avrebbe quando i due morsetti sono posti in cto cto, cioè quando questi sono richiusi con un collegamento privo di resistenza: in queste condizioni non c'è tensione sui morsetti e quindi neppure corrente nella resistenza. Il termine lineare invece è pari alla caratteristica che si presenta disattivando il generatore, cioè trasformandolo in un circuito aperto: è la caratteristica della rete passiva, in questo caso molto semplice. Si può dimostrare, utilizzando la linearità della rete, il principio di sovrapposizione degli effetti, che le stesse regole valgono anche quando la rete sia più complessa, presenti anche più generatori e una magliatura articolata di resistenze: e cioè che, vedendo le cose da due morsetti della rete e considerandola da lì come unico bipolo, la caratteristica di una rete lineare qualunque è sempre data dalla somma di un termine costante, pari alla tensione a vuoto che si ottiene lasciando i due morsetti a vuoto, oppure pari alla corrente che si ottiene ponendo i due morsetti in cto cto, e un termine lineare, con la stessa caratteristica della rete passiva vista dai due morsetti. Si enunciano allora: Teorema di Thevenin Una qualunque rete lineare vista da due suoi nodi può essere sostituita con una rete equivalente costituita da: un generatore ideale di tensione che eroga la tensione a vuoto tra due nodi, in serie con una resistenza di valore pari alla resistenza di tutta la rete in questione, passiva, vista degli stessi due nodi. Teorema di Norton
Cap. 2 - pag. 10
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Una qualunque rete lineare vista da due suoi nodi può essere sostituita con una rete equivalente costituita da: un generatore di corrente che eroga la corrente di cto cto tra due nodi, in parallelo con una conduttanza di valore pari alla conduttanza di tutta la rete in questione, passiva, vista degli stessi due nodi. Per "resistenza (conduttanza) di valore pari alla resistenza (conduttanza) di tutta la rete passiva vista dai due nodi" si intende questo: per la rete passiva si può scrivere un'equazione corrispondente alla caratteristica vista dai due nodi, cioè alla relazione che lega V ed I nei due nodi. Questa caratteristica passa per l'origine, essendo la rete passiva, ed è una retta, essendo la rete lineare. Quindi il coefficiente angolare della relazione V-I è pari alla resistenza da porre nell'equivalente di Thevenin e il duo reciproco alla conduttanza da porre nell'equivalente di Norton. In generale tale equazione caratteristica potrebbe essere trovata in questo modo: si pone una prima tensione di tentativo tra due nodi e si misura la corrente (o si risolve la rete con questa forzante); si pone una seconda tensione di tentativo e si ricava ancora la corrente. Si sono così ottenuti due punti della caratteristica. Ma essendo questa una retta, ecco che con due punti tale retta è definita. meglio ancora poiché è noto a priori che la retta passa per l'origine, basta misurare e risolvere una sola volta, perché un punto è sufficiente a determinare la retta. Solitamente però il problema può essere risolto in maniera più diretta: spesso le reti passive sono riducibili gradualmente, attraverso riduzioni successive tipo serie o parallelo: dapprima tutti i gruppi di resistenze in serie vengono sostituiti con le rispettive resistenze equivalente serie e tutti i gruppi di resistenze in parallelo vengono sostituiti con le rispettive resistenze equivalente parallelo; la nuova rete così ridotta può ancora presentare altre serie o altri paralleli, che vengono ancora ridotti, e così via. 2.7 - Le conversioni stella-triangolo e triangolo-stella Nella riduzione di una rete si possono incontrare delle configurazioni di questo tipo:
che non sono riducibili mediante normali riduzioni tipo serie o tipo parallelo. Esistono cioè due configurazioni particolari, che si presentano fra tre nodi, con un eventuale quarto nodo in posizione centrale. Queste configurazioni sono: la configurazione a stella e quella a triangolo. Indicando con A, B, C i tre nodi e con H il quarto: la configurazione a stella si ha quando ciascun nodo A, B, C è collegato al nodo H, detto centro stella; la configurazione a triangolo si ha quando (non esiste H) si hanno collegamenti A-B, B-C, C-A, come i lati di un triangolo. Una configurazione a stella può essere trasformata in una equivalente a triangolo, e viceversa. Si indichino: Rx
la resistenza a stella tra X, con X= (A, B, C), ed H
Rx
la resistenza a triangolo tra y e z, (x, y, z) = UI(A, B, C) a rotazione
Valgono allora le seguenti relazioni:
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RA =
RbRc Ra + Rb + Rc
Ra =
RARB + RARC + RBRC RA
per le altre resistenze (indici B, C, b, c) basta ruotare di conseguenza gli indici al secondo membro In particolare, se le tre resistenze a stella sono uguali, lo sono anche quelle a triangolo, e viceversa; in tal caso le resistenze a triangolo sono 3 volte maggiori di quelle a stella. 2.8 - Reti elettriche non lineari Una rete elettrica viene considerata non lineare quando non è più lineare almeno uno dei suoi componenti, sia esso attivo oppure passivo. Per esempio certe resistenze presentano una caratteristica del tipo: V = K exp(I / Io) o altre funzioni più o meno complesse. Per queste reti, ovviamente, si applicano comunque i principi di Kirchhoff, con la differenza che si otterrà un sistema di equazioni non lineari, che dovrà essere risolto con metodi numerici. Nel caso la rete presenti un solo componente non lineare, o pochissimi componenti localizzati in lati tra loro vicini, mentre il resto della rete è lineare, la soluzione può essere ottenuta più agevolmente ricorrendo ai teoremi di Thevenin e/o di Norton. Un esempio chiarirà come procedere. Si supponga di avere una rete tutta lineare, fatta eccezione per un bipolo, per il quale vale: V = f (I)
con f non lineare
Siano A e B i due nodi ai quali il bipolo è collegato. Si immagini allora di togliere temporaneamente il bipolo non lineare della rete., e di effettuare l'equivalente della rete dai due nodi A e b, per esempio con il teorema di Thevenin. Si otterrà così solo un generatore equivalente in serie con una resistenza equivalente. A questo punto si reinserisca il bipolo tra i due nodi. Il circuito risultante è semplicissimo: una sola maglia, con il generatore in serie alla resistenza e al componente. l'equazione di funzionamento: ETh = RTh . I + f (I) Anziché un intero sistema non lineare si è trovata una sola equazione non lineare, che può essere risolta graficamente oppure numericamente per tentativi, per esempio con metodi tipo Newton o con il metodo delle secanti. Anche scrivendo il sistema (per esempio con il metodo dei potenziali di nodo) si sarebbe ottenuta una sola equazione non lineare, ma inserita in un sistema di molte altre lineari; l'applicazione dell'equivalente di Thevenin (o di Norton) equivale al procedimento matematico che avrebbe permesso di isolare l'equazione lineare dall'intero sistema. 2.9 - Potenza elettrica - Effetto Joule
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In tutti i discorsi fatti fino ad ora non si è ancora affrontato il problema della potenza. Ogni applicazione elettrica di fatto scambia o trasmette energia, e quindi ad essa è associata una potenza. Si consideri una carica elettrica Q che venga portata dal potenziale V1 al potenziale V2. Ad essa è quindi stata fornita energia, per la definizione stessa di potenziale, nella misura di: Eel = Q (V2 - V1) = Q . ∆V Si ricorda che il potenziale, e quindi la ddp, oppure la tensione, si misurano in Volt e che 1V = 1J / 1C. La grandezza così ottenuta ha quindi proprio la dimensione dei Joule. Nel caso una corrente elettrica fluisca in un generatore, questa formula vale per ogni carica. E poiché in caso di corrente si ha il passaggio di un certo numero di cariche per ogni unità di tempo, si ha la fornitura di una certa quantità di energia per ogni unità di tempo: si ha cioè una potenza fornita dal generatore alle cariche: P=
dEel dQ = ∆ V=I. ∆ V dt dt
o, più semplicemente: P = V.I dove con V si intende una ddp o una fem. La potenza elettrica si manifesta quindi quando esiste passaggio di corrente in presenza di differenza di potenziale, ed è pari al prodotto della tensione per la corrente. Quando in un generatore si ha corrente uscente dal morsetto a potenziale maggiore, si ha quindi potenza elettrica erogata dal generatore verso il resto del circuito. con la convenzione dei generatori, allora, la potenza è erogata dal bipolo se tensione e corrente sono entrambi positivi o entrambi negativi. L La potenza (in generale qualunque potenza, ed in particolare quella elettrica) si misura in watt, simbolo W: 1W = 1V . 1A = 1J / 1s Le cariche, muovendosi nel circuito, trasportano l'energia potenziale elettrica che ciascuna ha con sé. Incontrando una resistenza elettrica, esse devono però cedere almeno parte di questa energia, e si ha quindi una potenza elettrica assorbita dal resistore. La potenza assorbita sarà ancora pari al prodotto di tensione per corrente; la convenzione degli utilizzatori prevede per la corrente (o per la tensione) un verso positivo opposto a quello della convenzione dei generatori; quindi con la convenzione degli utilizzatori, allora, la potenza è assorbita dal bipolo se tensione e corrente sono entrambi positivi o entrambi negativi. Poiché per il resistore vale: V=R.I allora la potenza assorbita vale: P = I. V = I. RI = R. I2 =
V2 R Cap. 2 - pag. 13
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La potenza assorbita è proporzionale alla resistenza e al quadrato della corrente. Tale potenza, nel resistore, viene completamente trasformata in calore, di modo che un resistore percorso da corrente dissipa verso l'esterno un certo numero di calorie per ogni secondo. Questo fenomeno prende il nome di effetto Joule. L'effetto Joule è molto importante. Poiché le resistenze si scaldano, con correnti troppo elevate si possono danneggiare o, più facilmente. danneggiare gli isolanti di cui sono rivestite. per questo le correnti troppo elevate sono pericolose. Inoltre, il riscaldamento conseguente al passaggio di corrente comporta un aumento della resistività (che cresce linearmente con la temperatura), e quindi della resistenza; pertanto i parametri circuitali vengono modificati dal passaggio di corrente. In questo senso si potrebbe dire che i resistori non sono in realtà bipoli lineari, perché la R cresce proporzionalmente al quadrato della corrente. Va però notato che nelle applicazioni normali, con conduttori dimensionati correttamente e correnti contenute entro i limiti indicati dal progettista, la variazione è abbastanza piccola, e comunque perché la temperatura aumenti occorre che il calore si accumuli, e questo richiede un certo periodo di tempo (transitorio termico). In una rete elettrica la somma delle potenze generate è pari alla somma delle potenze dissipate nelle resistenze per effetto Joule. Questa affermazione è comprensibile intuitivamente, se si ricorda che l'energia non si può distruggere, ma solo trasformare: quindi la potenza introdotta nella rete dai generatori non potrà che prendere la forma di calore, disperso verso l'esterno o accumulato nei materiali durante la fase di riscaldamento, ma comunque tutto prodotto per effetto Joule. In maniera più rigorosa, però, l'affermazione è anche dimostrabile. Non va però pensato che tutta la potenza dei generatori sia potenza positiva erogata: ci sono generatori che possono funzionare anche con erogazione negativa, cioè con assorbimento di potenza da parte del generatore. Questo si verifica quando in un generatore di tensione la corrente, anziché essere entrante nel morsetto a potenziale maggiore, è uscente da questo morsetto, oppure quando la ddp applicata ad un generatore di corrente è negativa. Quando questo si verifica, la trasformazione di energia che avviene all'interno del generatore avviene in senso inverso: se per esempio si tratta di un generatore di tipo elettrochimico, anziché avere energia chimica trasformata in energia elettrica per ogni unità di tempo, si avrà energia elettrica trasformata in energia chimica (accumulatore); se si tratta di un generatore di tipo elettromeccanico, anziché avere potenza meccanica trasformata in elettrica, si avrà potenza elettrica trasformata in meccanica( motore elettrico). In realtà non tutti i generatori sono reversibili; se non lo sono, quando la grandezza (corrente o tensione) viene invertita reagiscono bloccando il passaggio della corrente e comportandosi come circuiti aperti. Quando invece sono reversibili, di fatto si è attuato il trasporto dell'energia elettrica dal generatore erogante al bipolo (motore, accumulatore, ecc.) che lo utilizza e la accumula. Le relazione viste finora mostrano come non sia possibile trasportare potenza elettrica da un punto all'altro senza dissiparne almeno una frazione per effetto Joule. Infatti, si nota che il termine dissipativo, essendo una funzione quadratica della corrente, è sempre positivo (al più nullo, se non passa corrente). Nelle moderne reti elettriche la potenza dissipata è tuttavia molto piccola, al più dell'ordine di qualche percento del totale per circuiti molto lunghi. Esistono materiali detti superconduttori, per i quali la resistività è nulla; tuttavia tale caratteristica si presenta solo a temperature eccezionalmente basse e quindi non vengono utilizzati se non per applicazioni molto particolari. Cap. 2 - pag. 14
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File: baggio 2 - d:\proj\unibg\elett\CAP2.DOC Stampato: gg/03/aa 21.52 Ver/Rev: drf,fin,tmp,old/0.50
Cap. 2 - pag. 15
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ver. 1.0
3 Rappresentazione e analisi dei circuiti magnetici 3.1 - Il circuito magnetico Si consideri una superficie S, di forma qualunque, e su di essa un'area A attraversata da campo magnetico; si consideri quindi in particolare il tubo di flusso del vettore induzione magnetica che interessa questa area. Per la solenoidalità del vettore induzione, tale tubo di flusso descriverà nello spazio un tragitto più o meno lungo, ma prima o poi dovrà richiudersi su se stesso, tornando alla superficie di partenza, filetto per filetto negli stessi punti di incidenza. Questo tubo di flusso chiuso prende il nome di circuito magnetico. Perché un circuito magnetico esista (con valori di campo e induzione diversi da zero), occorre che la superficie delimitata dalla linea chiusa che esso percorre sia attraversata da corrente elettrica. In ogni punto del circuito, i vettori campo e induzione saranno sempre coincidenti per quanto riguarda direzione e verso, ma differenti per quanto riguarda il modulo. E’ importante capire cosa succede ad una linea di forza del campo magnetico se questa attraversa la superficie di separazione tra due materiali aventi permeabilità magnetica relativa differente (µr2 e µr1 rispettivamente). In questo caso, dei due vettori campo e induzione, quello che conserva lo stesso valore nel passaggio è il vettore induzione. Se per esempio il passaggio avviene nel punto lo di una linea di forza, vale: +
−
B(l 0 ) = B(l 0 ) +
−
µ 0 µ r 2 H(l 0 ) = µ 0 µ r1H(l 0 ) + H(l 0 ) =
− µ r1 H(l 0 ) µr2
La legge di Gauss, che esprime la solenoidalità dell'induzione magnetica, va quindi presentata nella sua forma con il vettore induzione. Il modulo del vettore campo presenta quindi una discontinuità nel passaggio (a meno che non si abbiano uguali permeabilità). In particolare, va notato che se la permeabilità magnetica aumenta, il campo diminuisce. Cap. 3 - pag. 1
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In tutto il percorso il valore del flusso del vettore induzione sarà costante. Lungo il circuito la sezione potrà restringersi e allargarsi, e di conseguenza l'induzione sarà rispettivamente più grande o più piccola. Si consideri, per ogni posizione λ del circuito, l'area della superficie normale, punto per punto, al campo magnetico, e la permeabilità magnetica relativa del materiale attraversato: B(l) =
ΦB A ( l)
e quindi: H(l) =
ΦB B(l) = µ 0 µ r ( l ) µ 0 µ r ( l) A ( l )
L'integrale di circuitazione (campo e induzione sono espressi in modulo perché già considerati paralleli alla linea di circuitazione) è pari alla corrente che attraversa il circuito: ΦB dl I = ∫L H(l) ⋅ dl = ∫L dl = ΦB ∫L µ 0 µ r (l )A (l ) µ 0 µ r (l )A (l ) L'integrale al secondo membro è alquanto simile all'integrale che esprime la resistenza di un circuito elettrico con la differenza che al posto della resistività appare il reciproco della permeabilità. Il valore di tale integrale esprime l'opposizione che il circuito magnetico oppone al passaggio del flusso; il suo valore è quindi pari al rapporto tra corrente e flusso stesso. Allora per analogia con quanto si fa per i circuiti elettrici, tale integrale prende il nome di riluttanza, e può essere calcolato anche per un solo tratto del circuito magnetico: B
ℜ ab = ∫A
dl µ 0 µ r ( l ) A ( l)
Vale quindi: I = ℜΦB indicando la riluttanza dell'intero circuito: queste ultime due relazioni possono essere sintetizzate nella legge di Hopkinson, che prevede chi "in un mezzo lineare il flusso dell'induzione magnetica è proporzionale alla corrente concatenata dal circuito stesso, secondo una costante di proporzionalità che dipende dalla permeabilità magnetica del mezzo e dalla sua geometria". Il reciproco della riluttanza prende il nome di permeanza: Λ=
1 ℜ
3.2 - Analogia tra circuito elettrico e magnetico Come fatto per i circuiti elettrici, si possono definire allo stesso modo i concetti di rete, ramo (porzione di circuito percorsa dallo stesso flusso), nodo (punto di convergenza tra più rami), maglia (successione di rami a formare un percorso chiuso). Si possono quindi stabilire queste corrispondenze: Cap. 3 - pag. 2
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Circuito elettrico
Circuito magnetico
corrente
flusso magnetico
densità di corrente
vettore induzione magnetica
resistenza
riluttanza
fem, E
fmm, M
dove si è introdotto, per analogia, il concetto di forza magnetomotrice, fmm, indicata con M. Essa è pari alla corrente totale I che attraversa la superficie delimitata dalla linea di circuitazione. Spesso lo stesso conduttore attraversa più di una volta la superficie, percorrendo delle spire; quindi la forza magnetomotrice è pari alla corrente per il numero di attraversamenti, cioè per il numero di spire N: M = N⋅I Essendo il vettore induzione solenoidale come la densità di corrente, vale anche per i circuiti magnetici il principio di Kirchhoff ai nodi; a partire dalla legge di Ampère-Maxwell, anziché da quella di Faraday-Henry, si dimostra anche la validità del principio di Kirchhoff alle maglie. Vale quindi:
∑ Φ Bji j ∈i
∑ R k Φ Bk
=0
= M = N⋅I
R
Si possono allora utilizzare anche i circuiti (reti) magnetici i metodi di soluzione visti per i circuiti elettrici. Esiste però una differenza, non irrilevante in termini pratici. Nei circuiti elettrici, di fatto, i singoli rami sono generalmente ben definiti, perché sono appositamente costruiti con materiale conduttore, generalmente di sezione regolare; esternamente ai conduttori in pratica non esiste corrente, perché i rivestimenti e l'aria sono isolanti. Non esistono invece materiali conduttori magnetici, cioè fortemente permeabili, e materiali isolanti magnetici, cioè pochissimo permeabili: per quasi tutti i materiali la permeabilità relativa è pressoché unitaria. Quindi il flusso magnetico non ha percorsi obbligati, ma solitamente si diffonde in un'ampia regione di spazio circostante la sua sorgente rendendo molto più difficile la modellazione circuitale. L'unica eccezione a questo comportamento si presenta in presenza di corpi materiali composti di ferro. Il ferro è l'unico materiale ad elevata permeabilità magnetica, con un valore relativo pari ad alcune centinaia o anche migliaia. In presenza di un percorso in ferro, il flusso magnetico sceglie preferibilmente questa strada, che può quindi essere considerata un circuito magnetico vero e proprio. Se si considera lo stesso percorso appena fuori dal ferro, il valore dell'induzione si presenterà centinaia o migliaia di volte inferiore; tuttavia le linee di forza esterne al ferro possono allargarsi su sezioni molto ampie, avendo tutto lo spazio circostante a disposizione, così accade che il flusso esterno non è del tutto trascurabile rispetto a quello nel ferro. In pratica i due percorsi corrispondono (analogia con i circuiti elettrici) a due riluttanze (resistenze) poste in parallelo, sotto la stessa fmm (fem): la prima sezione limitata ma con elevata permeabilità (bassa resistività), la seconda con scarsa Cap. 3 - pag. 3
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permeabilità (grande resistività) ma sezione molto grande. Insomma, un circuito magnetico presenta sempre dei flussi parassiti, detti flussi dispersi, che rendono meno agevole un calcolo corretto. Nei circuiti in ferro possono presentarsi dei brevi tratti in aria (o altro materiale con permeabilità relativa unitaria). Per esempio, il circuito può non essere tutto in un unico blocco, esistere, quindi, nelle giunzioni, brevi interstizi; oppure volutamente è stato costruito con delle con delle distanze in aria: ciascuno di questi tratti in aria si chiama traferro, e può presentare una riluttanza non indifferente, paragonabile a quella del tratto in ferro. Se per esempio la permeabilità relativa del ferro è pari a 1000, un tratto in aria di un millimetro ha la stessa riluttanza di un tratto in ferro lungo un metro: infatti, per rami di forma regolare, vale: ℜ=
1 l µ 0µ r A
quindi la lunghezza mille volte maggiore del tratto in ferro è compensata dal valore mille volte maggiore della permeabilità relativa. Un circuito magnetico ben definibile anche senza parti in ferro è quello generato da un solenoide percorso da corrente: un solenoide è una sequenza di spire di conduttore, disposto quindi in forma di elica che si avvolge lungo un asse. Se la lunghezza del solenoide è sufficientemente più grande del suo diametro, il campo magnetico può essere considerato uniforme all'interno del solenoide, con le linee di forza parallele all'asse dell'elica; ad una estremità le linee di forza usciranno, allargandosi a loro piacimento, per poi tornare e restringersi per rientrare dall'altra estremità. si può allora considerare il circuito magnetico come composto da due riluttanze in serie: la prima corrisponde al tratto interno, di forma regolare; la seconda per il tratto esterno. Quest'ultima viene considerata trascurabile perché la sua sezione, benché non uniforme, sarà molto grande. Allora: ΦB =
NI NIA = µ 0µ r = µ 0 µ r AnI l ℜ
dove: n=
N l
Quindi: B=
ΦB µ 0µ r nI A
H=
B = nI µ0µr
Il valore del campo e dell'induzione sono proporzionali solo alla corrente e al numero di spire per unità di lunghezza.
Cap. 3 - pag. 4
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3.3 - Induzione elettromagnetica La variazione nel tempo dell'induzione magnetica e del suo flusso provoca l'insorgere di tensione elettrica. Infatti in presenza di tali variazioni il campo elettrico non è più rotazionale e quindi il suo integrale di circuitazione lungo la linea chiusa risulta diverso da zero. La legge di Faraday-Henry descrive in maniera rigorosa questo fenomeno:
∫L
E ⋅ dl = −
d dt ∫∫S(L)
B ⋅ µdS =
dΦ B dt
Si consideri allora una spira di conduttore, avvolta attorno ad un ramo di un circuito magnetico, dal suo estremo iniziale A al suo estremo finale B, in modo da descrivere un giro completo. Si supponga che l'avvolgimento vada da A a B nel verso di rotazione di una vite destrorsa che avanzi nello stesso verso in cui il flusso magnetico è considerato positivo in quel ramo: allora, in caso di variazione del flusso, la tensione che si crea ai capi A e B della spira vale: A
υBA = ∫B
E ⋅ dl =
∫
E ⋅ dl = −
L
dΦ B dt
Utilizzando per la spira la convenzione degli utilizzatori, interessa conoscere la tensione tra il morsetto in cui entra la corrente e quello da cui esce: υ AB = − υBA = +
dΦ B dt
In particolare, si consideri un circuito magnetico composto da una sola maglia magnetica, e dove l'unica fmm sia data dalla spira stessa. Per le convenzioni stabilite, una corrente positiva produce un flusso positivo: i Φ B = AB ℜ dove si utilizza la riluttanza dell'intero circuito magnetico. Quindi: υ AB =
1 di AB ℜ dt
Si noti che anche se la spira fosse avvolta nel verso opposto, e quindi la corrente da A a B circuitasse in senso antiorario, si sarebbe ottenuta la stessa equazione, perché tale situazione sarebbe perfettamente simmetrica: infatti una corrente positiva con tali convenzioni genera un flusso orientato nel verso opposto rispetto al caso precedente; basta quindi cambiare il verso convenzionale positivo per il flusso, e il verso di rotazione torna ad essere quello orario, quindi si può ripetere il ragionamento identicamente. Notiamo allora che il bipolo elettrico di estremi A e B, che interagisce con il circuito magnetico, presenta una caratteristica particolare: nel caso la corrente tenda ad aumentare, il bipolo "reagisce" opponendo tensione all'ingresso della corrente (tensione positiva utilizzando la convenzione degli utilizzatori); nel caso la corrente tenda a diminuire, il bipolo "reagisce" presentando la tensione concorde alla corrente (tensione negativa): Si può quindi dire che tale bipolo tende a conservare il valore di corrente sull'ultimo valore che gli è stato imposto. Cap. 3 - pag. 5
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Tale bipolo prende il nome di induttore, o auto induttore, dato che il circuito magnetico induce tensione sullo stesso circuito elettrico che ha generato la fmm. Quello visto in questo esempio è il caso più semplice di auto induzione. Una maggiore complessità può essere introdotta considerando il caso in cui vi siano più spire (in serie). Allora il flusso aumenta in proporzione al numero di spire: ΦB =
M Ni AB = ℜ ℜ
e indicando semplicemente con i la corrente da A a B e con e le tensione su una singola spira: e=
dΦ B N di AB = dt ℜ dt
ed infine la tensione totale υ tra A e B: υ = Ne =
N2 di ℜ dt
Come si può notare, la tensione è aumentata secondo il quadrato del numero di spire. Spesso, in presenza di spire, si parla anche di flusso concatenato, pari al flusso di ogni spira moltiplicato per il numero totale delle spire: ΨB = NΦB Il termine L tale che: υ=L
di dt
L=
Ψi ii
L=
N2 ℜ
e quindi:
quando i j = 0 per ogni j ≠ i e che in questo caso vale:
prende il nome di induttanza in generale, auto induttanza in particolare in questo caso, dove la tensione è indotta sullo stesso avvolgimento elettrico dove scorre la corrente che genera il flusso magnetico. L'unità di misura dell'espressione:
dell'induttanza
è
l'henry,
simbolo
[ V ] = [H] ⋅ [ A / s] ⇒ [H] = [Ω ⋅ s] Cap. 3 - pag. 6
H.
Dall'analisi
dimensionale
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Va notato che la ddp che si presenta ai capi di un induttore reale non dipenderà solo dall'induttanza, ma esisterà comunque un termine resistivo, di modo che: υ = Ri + L
di dt
tuttavia spesso si preferisce vedere separatamente i due effetti modellando l'induttore reale come la serie di due bipoli ideali, uno puramente resistivo (solo R) e uno puramente induttivo (solo L). Ovviamente il punto di separazione tra i due bipoli è un punto virtuale, nel senso che nel componente reale effetto resistivo ed effetto induttivo si presentano nella stessa proporzione in ciascun tratto infinitesimo del circuito. Frequentemente, comunque, il termine resistivo è trascurabile. Attraverso i circuiti magnetici è possibile indurre tensione anche su circuiti elettrici diversi da quelli che generano la fmm: basta che anche questi siano avvolti intorno a tronchi in cui scorre tutto o una parte del flusso magnetico generato: si parla in tal caso di mutuo induttore. Si consideri un circuito magnetico intorno al quale siano presenti due avvolgimenti, che verranno indicati come 1 e 2 rispettivamente. I due avvolgimenti possono essere posti sullo stesso ramo o su due rami distinti del circuito magnetico. Si avrà allora che il flusso che concatena l'avvolgimento 1 non sarà generato solo dalla corrente nell'avvolgimento stesso, ma in generale anche dalla corrente nell'avvolgimento 2, perché il flusso da questa prodotto circolerà almeno in parte in ogni ramo del circuito magnetico, quindi anche nel ramo intorno a cui è posto l'avvolgimento 1. Così pure il flusso nell'avvolgimento 2 dipenderà dalle correnti negli avvolgimenti 1 e 2: il discorso può essere generalizzato a un numero generico di avvolgimenti. Questo è l'effetto di mutua induzione; il parametro che lo descrive è la mutua induttanza: Mij =
Ψi quando ii = 0, ik = 0 per ogni k ≠ i, j ij
che si misura in henry, come le auto induttanze. Quindi in generale per un sistema con più avvolgimenti vale : di di di υ1 = R1i1 + L1 1 + M12 2 +...+M1N N dt dt dt di di di υ 2 = R 21i21 + M21 1 + L12 2 +...+M2N N dt dt dt .......... di di di υN = RNiN + MN1 1 + MN2 2 +...+LN N dt dt dt Per chiarire meglio la situazione si consideri il seguente esempio:
Cap. 3 - pag. 7
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di cui sono dati i parametri geometrici e magnetici e i numeri di spire: A 1 = A 3 = 0,20 m2 A 2 = 0,25 m 2 N1 = 50 N2 = 60 A 4 = A 5 = A 6 = A 7 = 0,25 m2
, m l1 = l 2 = l3 = 10
δ = 1 mm
l 4 = l 5 = l 6 = l7 = 0,5 m
µ r = 1000
Gli avvolgimenti elettrici sono posti sui rami 1 e 2, con versi di avvolgimento e di ingresso della corrente tali da produrre, con correnti positive, fmm orientate come da figura. Si possono calcolare le riluttanze dei singoli rami, e quindi modellare il circuito magnetico mediante un equivalente elettrico, secondo l'analogia già introdotta: ℜ1 = ℜ 3 = 4000 H-1 ℜ 2 = 3200 H-1 ℜ δ = 3200 H-1 ℜ 4 = ℜ 5 = ℜ 6 = ℜ 7 = 1600 H−1 si trascurano eventuali flussi di dispersione (in aria) e le relative riluttanze si suppongono quindi di valore ∞ . Come si può notare la rete presenta in realtà due soli nodi, indicati come B ed E, tra i quali vi sono tre rami in parallelo:
Cap. 3 - pag. 8
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ℜ a = ℜ 4 = ℜ1 = ℜ 57 = 7200 H-1 ℜ b = ℜ 2 = ℜ 3 = 6400 H−1 ℜ c = ℜ 6 = ℜ1 = ℜ 7 = 7200 H-1 Si supponga di poter procedere con la sovrapposizione degli effetti (in realtà i materiali magnetici presentano spesso un comportamento non lineare). Con tali valori il generatore di fmm 1, sul ramo a, vede tutta la rete come una riluttanza pari a: ℜ (a) = ℜ a + ℜ b c ℜ c = 7200 +
7200 ⋅ 6400 ≅ 10600 H-1 7200 + 6400
e così pure il generatore di fmm 2, sul ramo b, "vede" tutta la rete come: ℜ (b) = ℜ b + ℜ a c ℜ c = 6400 +
7200 ⋅ 7200 ≅ 10000 H-1 7200 + 7200
Si possono quindi indicare subito i valori delle auto induttanze per i due avvolgimenti, considerando per ciascuna che sia acceso il proprio generatore di fmm e spento (un cto cto) l'altro: L11 = N12
1 2500 = = 0,236 H ℜ (a) 10600
1 3600 L 22 = N22 = = 0,360 H ℜ (b) 10000 Oltre all'effetto auto induttivo, va considerato che il flusso generato da ogni avvolgimento concatena almeno in parte anche l'altro; quindi, se tale flusso è variabile nel tempo, genererà tensione nell'altro avvolgimento. In questo caso il flusso generato dal generatore di fmm 1 (con il generatore 2 spento) si ripartirà nei due rami b e c in proporzione al reciproco delle rispettive riluttanze, in maniera tale da presentare la stessa caduta di tensione (analogia elettrica per i circuiti magnetici) sui due rami. Si tratta quindi di un partitore di flusso, l'analogo magnetico di un partitore di corrente. Φ1 = − Φ b1 − Φ c1 Φ b1 ⋅ ℜ b = − Φ c1 ⋅ ℜ c dove si utilizza il segno negativo perché, se il flusso generato è positivo nel ramo a, sarà orientato negativamente nei rami b e c. Quindi vale: Φ b1 = −
ℜc Φ1 ℜb + ℜc
e poiché: Cap. 3 - pag. 9
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Φ1 =
N11 i ℜ (a)
si ha: M21 = −
ℜc 1 7200 1 N1N2 = ⋅ 50 ⋅ 60 = −0,15 H ℜb + ℜc ℜ (a) 13600 10600
Mentre le auto induttanze sono sempre positive, le mutue induttanze sono positive o negative a seconda dei reciproci orientamenti coinvolti. In questo caso, percorrendo una maglia che comprendesse entrambi i rami con avvolgimenti elettrici, i due avvolgimenti presentavano versi disaccordi, da cui il segno negativo. Il procedimento ora seguito va ripetuto per calcolare la mutua induttanza M12, che esprime il rapporto tra il valore del flusso concatenato dall'avvolgimento 1 e la corrente che lo genera, nell'avvolgimento 2. Si trova quindi: M12 = −
ℜc 1 7200 1 N1N2 = ⋅ 60 ⋅ 50 = −015 , H 10000 ℜa + ℜc ℜ (b) 14400
Si nota che: M12 = M21. Non si tratta di una coincidenza numerica. Esplicitando il valore delle riluttanze ℜ(a) e ℜ(b) si potrebbe notare che l'eguaglianza è anche in termini simbolici, quindi valida per qualunque valore dei parametri e per qualsiasi situazione.
3.4 - L'energia nel campo magnetico E' poi stato messo in evidenza che per mantenere la corrente in un circuito è necessario spendere energia. L'energia necessaria nell'unità di tempo (in altre parole, la potenza) è VI. Relativamente ad un qualsiasi tratto di circuito è possibile scrivere: V = RI + L
dI dt
Moltiplicando questa equazione per I, si ottiene: VI = RI2 + LI
dl dt
Il termine RI2 rappresenta potenza spesa per muovere gli elettroni attraverso il reticolo cristallino del conduttore e trasferirla agli ioni costituenti il reticolo. Interpretiamo quindi l'ultimo termine nell'equazione precedente come l'energia necessaria per unità di tempo (potenza) per istituire la corrente e creare il campo magnetico associato. Quindi la rapidità di aumento dell'energia magnetica è: dEm dI = LI dt dt L'energia magnetica necessaria per incrementare la corrente da zero al valore I è pertanto:
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E
I
E
I
0
0
0
0
Em = ∫ dEm = ∫ LIdI = Em = ∫ dEm = ∫ LIdI =
1 2 LI 2
L'energia magnetica Em può anche essere calcolata usando l'espressione: Em =
1 B 2 dn 2µ ∫
Em =
1 B 2 dυ 2µ ∫
dove l'integrale è esteso a tutto il volume nel quale il campo magnetico è diverso da zero e dυ è l'elemento di volume. Possiamo interpretare tale espressione dicendo che l'energia spesa per stabilire la corrente è stata immagazzinata nello spazio circostante, per effetto del campo magnetico. Un'analisi approfondita, che qui non sarà data, mostra però che i risultati sono del tutto generali.
3.5 - Azioni meccaniche E' già stato messo in evidenza che la forza di Lorentz comporta interazioni di tipo meccanico in presenza di campi magnetici e correnti. Un altro tipico effetto meccanico è la forza di attrazione e di repulsione tra le varie parti di un circuito magnetico, e in particolare in prossimità dei traferri. Se si ha un circuito magnetico con diverse parti in ferro, non unite saldamente le une alle altre o a un altro vincolo, le forze che si creano fra queste parti provocherà il loro spostamento. Un metodo rigoroso ma al tempo stesso semplice per calcolare queste forze si basa su un principio energetico. Se le distanze variano, anche di un termine infinitesimale (o, se si preferisce un approccio Lagrangiano, di uno spostamento virtuale), cambiano i valori delle riluttanze, e quindi delle induttanze, e di conseguenza l'energia accumulata dal campo magnetico. In assenza di altre sorgenti di potenza (si supponga per esempio che il flusso non cambi, e quindi non si manifesti tensione indotta, in modo che i circuiti elettrici non scambino energia con quelli magnetici), la variazione di energia accumulata sarà pari al lavoro infinitesimale, o virtuale, svolto dalla forza esterna per effettuare lo spostamento. La forza di origine magnetica tra le varie parti del circuito è quindi uguale e contraria a tale forza esterna. Un caso molto semplice è quello del circuito magnetico composto da una sola maglia, la quale però non è composta di un blocco unico in ferro, ma di due parti separate da due uguali traferri. I traferri sono di lunghezza variabile. E' proprio in corrispondenza di essi che si svilupperà una forza (che si vedrà essere attrattiva) tra le due parti in ferro. Si supponga di poter considerare uguali le aree nel ferro e in aria (nell'ipotesi che i traferri siano piccoli, il flusso nei passaggi in aria non si allarga in maniera significativa). L'energia magnetica può essere calcolata con l'integrale di volume: EB =
1 B2 1 B2 A ⋅ IFe + A ⋅ 2Iaria 2 µ oµ Fe 2 2µ o
Un aumento del traferro a parità di flusso e quindi di induzione, comporta una variazione di energia: δEB =
1 B2 A ⋅ 2δIaria 2 2µ o
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quindi la forza agente deve valere: Fa =
δB 2 1 B2 = A ⋅2 δIaria 2 µo
l'espressione è positiva, quindi questa forza, che è quella che dall'esterno compie il lavoro, è orientata come lo spostamento deve quindi essere diretta ad allontanare le due parti. Tale forza magnetica sarà ripartita in parti uguali sui traferri; quindi su ciascun traferro vale: F 1 B2 FB = a = A 2 2 µo il segno negativo indica che è attrattiva. Si noti che la forza è indipendente dal segno (cioè dall'orientamento) dell'induzione, dato che questa appare elevata al quadrato. Il principio così descritto è quello su cui si basano gli elettromagneti, diffusi in svariate applicazioni, con portate di ogni ordine di grandezza: per esempio potentissimi nelle industrie, dove sono usati sui carri-ponte per sollevare rottami ferrosi (anche parecchie tonnellate), oppure di medie potenze negli interruttori automatici (a seconda delle dimensioni di questi) e nei relè, oppure agenti con forze minime nelle piccole suonerie domestiche. Si noti che il termine di permettività del vuoto al denominatore rende notevole il valore della forza anche con induzioni e superfici abbastanza piccole.
3.6 - Materiali ferromagnetici Una prima rilevante particolarità è il problema della non linearità del comportamento magnetico: vale a dire, il valore di permeabilità relativa non è indipendente dal valore del campo, o dell'induzione. Si consideri il grafico che riporta il valore dell'induzione in funzione del valore del campo. La linea che si ottiene, o la funzione che essa rappresenta, prende il nome di caratteristica di magnetizzazione. Tale caratteristica presenta generalmente un andamento simmetrico rispetto all'origine, il che significa che non esiste un verso privilegiato per il flusso magnetico tranne che in alcuni casi particolari. La caratteristica presenta un andamento con buona approssimazione rettilineo solo nell'intorno dell'origine, fino ad un dato valore (positivo o negativo, la curva è simmetrica) di induzione. Oltre tale punto (spesso indicato come ginocchio della caratteristica), allontanandosi dall'origine, la caratteristica inizia a piegare, diminuendo la sua inclinazione. Il fenomeno evidenziato da tale andamento prende il nome di saturazione magnetica e il punto dove inizia (il ginocchio) prende il nome di punto di saturazione. In realtà il fenomeno non inizia bruscamente, ma con gradualità. Valori tipici di inizio della saturazione sono intorno a 0.8÷1.2 T a seconda del materiale. La caratteristica di magnetizzazione da lì in poi torna ad avere un andamento rettilineo, ma il coefficiente angolare è molto più piccolo di quello del tratto iniziale, non saturo (1000÷ 2000 volte inferiore). Ponendo il grafico invece il valore della permeabilità relativa, si ottiene fino al punto di saturazione un valore pressoché costante (segmento di retta parallela all'asse delle ascisse) e poi valori via via decrescenti, ma sempre con continuità. Per valori molto elevati di campo si arriva fino ad un valore limite di permeabilità relativa unitario: sono completamente scomparsi gli effetti ferromagnetici, e il materiale si comporta come l'aria o il vuoto. In realtà nemmeno il primo tratto della caratteristica è perfettamente lineare, ma solitamente presenta un andamento leggermente meno ripido all'inizio, per poi arrivare alla massima pendenza e quindi decadere nel tratto saturo. Il valore della permeabilità iniziale, che poi Cap. 3 - pag. 12
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cresce sensibilmente (anche raddoppiato) ma nell'arco di una variazione limitata di induzione (0.1÷0.3 T), rimane abbastanza costante fino a 0.8÷1.0 T e infine quindi scende oltre tali valori. La non-linearità del tratto iniziale è comunque, nella maggior parte della applicazioni pratiche, meno rilevante o trascurabile. Il fenomeno della saturazione ha invece conseguenze molto rilevanti. Non va infatti dimenticato che il valore del campo H, è rigorosamente proporzionale al valore della fmm, cioè della corrente che circola negli avvolgimenti; mentre il valore della tensione indotta è rigorosamente proporzionale alla derivata del flusso e quindi dell'induzione magnetica B. La saturazione pertanto produce, nell'andamento nel tempo della tensione o della corrente, delle distorsioni rispetto al comportamento lineare. Nella maggior parte delle applicazioni pratiche si utilizzano tensione e correnti con andamento nel tempo di tipo sinusoidale, perché occorrono funzioni variabili nel tempo per ottenere variazioni di flusso e quindi tensioni indotte, le funzioni seno e coseno sono: periodiche (si torna sempre al valore di partenza), molto regolari (sono continue e derivabili infinite volte) e la derivata di una funzione sinusoidale è ancora una funzione sinusoidale, sfasata di 90°. Si consideri per esempio un semplice circuito magnetico, composto di un solo percorso magnetico di lunghezza l e sezione costante A. Intorno ad esso si abbia un avvolgimento con N spire percorse da una corrente i, ai cui morsetti si misuri una tensione e. Essendo costante la sezione lungo tutto il percorso, a parità di corrente si presenterà lo stesso valore di campo in ogni punto del circuito magnetico: H=
Ni l
mentre la tensione ai morsetti vale:
ν = NA
dB di =L dt dt
Si supponga di alimentare il circuito elettrico con un generatore ideale di corrente, che imponga una corrente sinusoidale: i( t ) = IM ⋅ sen(ωt )
Si ha quindi: H( t ) =
N IM ⋅ sen(ωt ) = HM ⋅ sen(ωt ) l
B( t ) = µ 0 µ r ⋅ H( t ) = µ 0µ r ⋅ HM ⋅ sen(ωt )
In condizioni di linearità, anche l'induzione sarebbe perfettamente sinusoidale, ma per effetto della saturazione la permeabilità relativa non è costante, ma decresce al crescere di H e B, cosicché i valori più elevati (positivi o negativi) della sinusoide vengono ridotti, ottenendo una sinusoide appiattita nelle sommità. La derivazione di siffatta funzione, anziché portare a: ν( t ) = NA
dB = NABMω ⋅ cos(ωt ) = ωLIM ⋅ cos(ωt ) = VM ⋅ cos(ωt ) dt
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che sarebbe una funzione perfettamente sinusoidale, porta ad una funzione sicuramente deformata. In particolare: − i valori massimi di tensione corrispondono alle derivate del flusso in prossimità del passaggio per lo zero, dove quindi B è piccolo, quindi non si ha saturazione; i valori massimi di tensione non sono quindi influenzati dalla saturazione; − i valori di flusso in corrispondenza della zona deformata sono valori appiattiti, quindi con derivata ridotta rispetto alla condizione normale; pertanto, dopo i massimi e una prima discesa regolare, le tensioni si avvicinano allo zero più rapidamente e più lentamente riprendono a salire. Si supponga invece di alimentare il circuito elettrico con un generatore ideale di tensione, che eroghi una tensione con andamento sinusoidale del tipo: e( t ) = EM ⋅ cos(ωt ) Nel circuito dovrà allora passare una corrente tale da generare un flusso che per induzione produca una tensione ai morsetti pari alla fem applicata. Pertanto dovrà essere: V dΦ( t ) 1 = ν( t ) ⇒ Φ( t ) = ∫ ν( t )dt = M sen(ωt ) dt N ωN V B( t ) = M sen(ωt ) ωNA B( t ) 1 VM H( t ) = = sen(ωt ) µ 0 µ r µ 0 µ r ωNA
N
In condizioni di linearità anche il campo sarebbe una sinusoide perfetta. Ma il valore della permeabilità relativa non è costante, ma decresce al crescere di H e di B, cosicché in corrispondenza dei massimi della sinusoide di H i suoi valori vengono amplificati. La situazione è invece quella prevista nelle zone della sinusoide dove i valori di H sono piccoli. La corrente segue lo stesso andamento, in modo da presentare un massimo più grande (anche di molte volte se la saturazione è rilevante) di quello che si otterrebbe in condizioni lineari. Insomma, poiché la permeabilità è diminuita, occorre molta più corrente per ottenere lo stesso flusso di induzione. Si noti che la non linearità, cioè permeabilità relativa non costante, significa anche induttanze non costanti: L=
N2 dl = N2 / ∫ ℜ µ 0µ r A L
per esempio per un semplice oggetto cilindrico: L = µ0µr
A = N2 l
l'induttanza dipende dall'induzione e decresce al crescere di questa. Una seconda particolarità dei materiali ferromagnetici è il fenomeno dell'isteresi. Si supponga di aver portato il materiale ad un certo valore di induzione, per esempio positivo (ma se fosse negativo il fenomeno sarebbe lo stesso, solo con i segni opposti), percorrendo la curva di magnetizzazione. A questo punto diminuendo il valore del campo magnetico anche l'induzione diminuisce, ma seguendo una strada differente da quella della caratteristica di magnetizzazione. In particolare si nota che quando il campo è tornato al valore zero, l'induzione conserva ancora un valore che prende il nome di magnetizzazione Cap. 3 - pag. 14
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residua, dello stesso segno dell'induzione iniziale. Per far tornare a zero il valore dell'induzione, occorre quindi raggiungere valori negativi di campo. La strada percorsa può essere rappresentata come una curva molto simile alla caratteristica di magnetizzazione, ma che partendo dallo stesso punto torna indietro rimanendo un poco sopra (come valori di induzione) alla caratteristica originaria. Se si scende ad un valore negativo di induzione, pari in modulo a quello positivo di partenza e poi si vuole tornare indietro, stavolta il percorso sarà sotto alla caratteristica passante per l'origine, evidenziando quindi un valore residuo di magnetizzazione uguale e contrario a quello rimasto provenendo da un valore di induzione positiva. Tornando fino al punto positivo di partenza si è descritto allora un intero ciclo, detto appunto ciclo di isteresi, composto da due percorsi simmetrici rispetto all'origine. La figura così ottenuta delimita quindi un'area la cui superficie è con buona approssimazione proporzionale al quadrato dell'induzione massima. I due vertici della figura si trovano sulla caratteristica di magnetizzazione originaria, detta caratteristica di prima magnetizzazione, perché il materiale segue tale curva solo la prima volta che viene magnetizzato, o quando viene magnetizzato a partire da una condizione priva di magnetizzazioni residue. L'isteresi è un fenomeno dissipativo. Si ricorda che l'energia associata al campo magnetico per unità di volume vale: eB =
dEB 1 = HB dV 2
Una variazione del campo e dell'induzione produce una variazione dell'energia: deB =
1 (HdB + BdH) 2
ma: BdH = HdB e quindi: deB = HdB la potenza (per unità di volume) necessaria per variare il campo magnetico: pB =
deB dB =H dt dt
(1)
Questa formulazione è ben raccordabile con l'espressione della potenza elettrica: pE = iν il campo magnetico infatti è strettamente proporzionale alla corrente e la variazione dell'induzione è strettamente proporzionale alla tensione. Integrando la (1) su un intero volume infatti si introdurrà un'area (induzione per area=flusso) e una lunghezza (campo per lunghezza=fmm=corrente). Considerando allora la figura del ciclo di isteresi, la si può ridisegnare scambiando tra loro gli assi cartesiani. Allora si nota che l'area della figura è data proprio dall'integrale, non di volume ma lungo un intero ciclo della (1). Quindi l'area della figura (utilizzando come unità di misura i Tesla e le ampere spire su metro) è pari esattamente all'energia per unità di volume necessaria a compiere un intero ciclo di isteresi. Cap. 3 - pag. 15
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Se allora in un circuito ferromagnetico si creano campo e induzione alimentando degli avvolgimenti elettrici con correnti o tensioni alternate, si ha per ogni istante di tempo una energia fornita al materiale (e da questo dissipata in calore) proporzionale: − al numero di cicli in quell'unità di tempo − al quadrato dell'induzione massima − al volume del materiale. Generalmente si preferisce ragionare in base alla massa G e non al volume (le due grandezze sono proporzionali) per cui la potenza dissipata per isteresi vale: µ Pdi = k i ⋅ BM ⋅ f ⋅ G
dove f è la frequenza (in hertz) dei cicli e la costante, che è diversa per ogni materiale ferromagnetico, è detta cifra di perdita per isteresi e µ è il coefficiente di Steinmetz (1-2). La terza particolarità dei materiali ferromagnetici è il fenomeno delle correnti parassite. Tale fenomeno si presenta solo in presenza del flusso variabile nel tempo. Se si considera nel materiale una qualunque sezione (un piano perpendicolare all'induzione) e su di essa qualunque linea chiusa, si sa che l'integrale di circuitazione del campo elettrico è pari alla variazione del flusso nell'area racchiusa da quella linea. Si presentano cioè delle tensioni indotte non solo sugli avvolgimenti esterni, ma anche in ogni circuito virtuale che si consideri internamente. Il concetto può lasciare perplessi perché non esistono circuiti ben definiti. Qui la trattazione si farebbe complessa, per cui non entriamo in ulteriori dettagli. Di fatto il fenomeno si esplica mediante la circolazione di correnti parassite all'interno del ferro, diffuse in tutto il corpo metallico, secondo percorsi di tipo circolare. Il flusso generato da queste correnti è pure variabile e la sua variazione tende ad opporsi alla variazione del flusso principale, in modo che un avvolgimento esterno percepisce una variazione di flusso in qualche misura minore di quella teoricamente prevista. Generalmente tali correnti parassite sono limitate dalla resistività del materiale, quindi abbastanza piccole. Inoltre, con andamenti sinusoidali del flusso, essendo tali correnti limitate resistivamente ed essendo proporzionali, istante per istante, alla variazione del flusso, sono in fase con la variazione, quindi in quadratura (sfasate di 90°) con il flusso; il contro-flusso che esse generano è quindi piccolo e in quadratura rispetto al flusso principale, che quindi non subisce modificazione troppo sensibile. Rimane invece sensibile il problema della potenza dissipata per effetto Joule, fenomeno sempre presente quando circolano correnti. Queste correnti sono dovute alla tensione creata dalla variazione di flusso, quindi, ragionando in termini di proporzionalità: i i∝
υ r
υ∝ω⋅Φ ∝f ⋅B υ2 f2B2 p ∝ ri2 ∝ r 2 ∝ r r Cioè: la potenza dissipata per unità di volume, o di peso, è proporzionale al quadrato del valore efficace dell'induzione, al quadrato della frequenza, ed inversamente proporzionale alla resistenza-resistività del materiale, perché questa limita le correnti parassite. Per sfruttare questo fenomeno si introducono nelle leghe ferromagnetiche percentuali di materiali che siano cattivi conduttori elettrici. Inoltre si utilizzano i materiali non sotto forma di corpi massicci, ma di lamierini, con le superfici laterali parallele alla direzione del flusso. Tra un lamierino e l'altro (spessore 0.25÷ 1,0 mm) un sottile strato di vernice funge da isolante, tagliando i circuiti elettrici e Cap. 3 - pag. 16
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costringendo le correnti a tragitti molto brevi, su anelli molto piccoli. La vernice riduce un poco l'area utile del ferro, quindi occorrerà tenere presente questo fatto nel calcolo di riluttanze e induttanze mediante un coefficiente di riduzione dell'area della sezione. La potenza dissipata per correnti parassite vale allora: Pdcp = k cp ⋅ B 2 ⋅ f 2 ⋅ G dove la costante, detta cifra di perdita per correnti parassite, dipende dal materiale. In totale le perdite nei materiali ferromagnetici: µ 2 Pd = Pdi + Pdcp = k i ⋅ BM ⋅ f ⋅ G + k cp ⋅ B 2 ⋅ f 2 ⋅ G = BM ⋅ G ⋅ (k i ⋅ f + k cp ⋅ f 2 )
Spesso si usa una formulazione sintetica, approssimata ma valida nelle applicazioni pratiche per una gamma di frequenze: 2 Pd = k ⋅ G ⋅ BM
f ⋅ f0
α
1.2 < α < 1.8
dove la costante prende il nome generico di cifra di perdita e dipende, come l'esponente α dal materiale. La frequenza di riferimento è solitamente di 50 o di 60 Hz (frequenza nominale). In pratica la cifra di perdita esprime la potenza dissipata con una induzione di 1 T, alla frequenza nominale, per ogni kilogrammo di materiale.
File: EW/LN/CB - d:\proj\unibg\elett\\dispense\CAP03.DOC Stampato: gg/03/aa 22.19 Ver/Rev: drf,fin,tmp,old/0.8
Cap. 3 - pag. 17
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rev. 1.0
4 Rappresentazione e analisi delle reti elettriche in regime periodico alternato sinusoidale 4.1 - Limiti di validità dei principi di Kirchhoff Nel cap. 1 è stata presentata una classificazione dei fenomeni elettrici: si riepilogano ora le considerazioni già fatte al termine del cap. 1. I fenomeni elettrici sono classificati in elettrostatici ed elettrodinamici, suddividendo ulteriormente questi ultimi in stazionari, quasi stazionari, non stazionari. Sono quindi state introdotte, per il solo regime stazionario, le leggi di Kirchhoff ai nodi e alle maglie, dirette conseguenze rispettivamente del principio di conservazione della carica e della irrotazionalità del campo elettrico (legge di Faraday-Henry) in condizioni di stazionarietà, cioè in assenza di variazione nel tempo della densità volumetrica di carica e in assenza di variazione nel tempo del campo magnetico e quindi delle correnti che lo generano. In condizioni non stazionarie questi ultimi fenomeni non sono invece assenti, ma esistono con conseguenze rilevanti. Possono venire indicati in sintesi come: effetto capacitivo:
in alcune parti del circuito si ha accumulazione di carica, o meglio separazione di carica in modo che una parte presenti eccesso di carica positiva e l'altra eccesso di carica negativa, con l'insorgere di una ddp tra le due parti; il valore della carica accumulata e della tensione in generale possono variare, anche se restano sempre in diretta proporzionalità secondo un coefficiente detto appunto capacità; su ciascuna delle due parti interessate non può più allora applicarsi il principio di Kirchhoff ai nodi perché parte delle correnti entranti può andare ad accumularsi;
Cap. 4 - pag. 1
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effetto induttivo:
il flusso dell'induzione magnetica in una maglia, in una spira o in una serie di spire può essere in generale variabile, quindi si presenta una tensione indotta, per cui il campo elettrico non è più irrotazionale; su maglie con questi fenomeni non può allora applicarsi il principio di Kirchhoff alle maglie perché la circuitazione del campo elettrico non dà valore nullo.
Tuttavia, se questi fenomeni (l'effetto induttivo e l'effetto capacitivo) sono localizzati in parti definite e limitate del circuito, le leggi di Kirchhoff potranno essere riscritte quasi allo stesso modo, alle condizioni che: 123-
nei nodi non si presentino effetti capacitivi le tensioni generate nei lati tengano conto dell'induzione di campi magnetici esterni al secondo membro le cdt ohmiche vengano completate con le cdt su altri componenti non schematizzandoli come induttori e condensatori, per i quali la tensione va calcolata non solo come funzione lineare della corrente, ma anche della sua derivata o del suo integrale nel tempo.
Se invece, per esempio, si considera anche il flusso che attraversa l'intera maglia, oppure il fatto che ci possono essere dispersioni di corrente per effetto capacitivo attraverso l'isolamento dei conduttori, il regime non può essere considerato quasi-stazionario, a meno che non si riesca a modellare tali fenomeni concentrando i loro effetti in singole parti della rete elettrica. Una formulazione matematica di quanto detto richiede in sintesi che: ∂B ≠0 ∂t ∂B =0 ∂t ∂ρ ≠0 ∂t ∂ρ =0 ∂t
nei circuiti magnetici con effetti sui circuiti elettrici in ogni altra parte della rete elettrica
nelle armature dei condensatori in ogni altra parte della rete elettrica
In queste condizioni si può parlare di regime quasi-stazionario, ed applicare ancora, con le opportune modifiche, le equazioni di Kirchhoff. 4.2 - Bipoli ideali Occorre quindi completare l'elenco dei bipoli ideali, introducendo anche quelli che si presentano in regime variabile. Spesso nel seguito il regime stazionario, che verrà citato per confronto, verrà anche indicato con il termine di corrente continua (cc). In regime variabile si hanno quindi nuovi bipoli, oltre naturalmente al resistore, per il quale la legge di funzionamento può essere riscritta allo stesso modo, ma con tensione e corrente variabili: - resistore: valgono semplicemente: υ( t ) = Ri( t )
⇔
i( t ) =
1 υ( t ) = Gυ( t) R
Cap. 4 - pag. 2
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Il resistore è un bipolo passivo e le leggi suddette sono scritte utilizzando la convenzione degli utilizzatori; - generatore ideale di tensione: come il generatore ideale di tensione in cc eroga una fem indipendente dalla corrente; la tensione erogata presenta un determinato andamento nel tempo: e = e( t ) - generatore ideale di corrente: come il generatore ideale di cc eroga una corrente indipendente dalla tensione, la corrente erogata presenta un determinato andamento nel tempo: a = a( t ) per questo dispositivo valgono le stesse considerazioni fatte per l'analogo in cc (non esiste in realtà, ma solo come generatore di un fem retroazionato o come modello equivalente); nei modelli circuitali si usa raramente, quasi sempre come equivalente; - condensatore: per questo dispositivo valgono le leggi: i( t ) = C
dυ( t ) dt
⇔
υ( t ) =
1 t i( τ)dτ + VC0 C ∫0
dove la costante VC0 che appare nell'espressione con l'integrale è una costante che indica il valore di tensione del condensatore nell'istante 0 in cui inizia ad integrare. La legge espressa mette in evidenza che in un condensatore non è possibile variare istantaneamente il valore della tensione (continuità della tensione), perché questo richiederebbe l'applicazione di una corrente di valore infinito (funzione δ, Delta di Dirac). Il condensatore è un bipolo passivo e le leggi suddette sono scritte utilizzando la convenzione degli utilizzatori; - induttore: per questo dispositivo valgono le leggi: υ( t ) = L
di( t ) dt
⇔
i( t ) =
1 t υ( τ)dτ + IL 0 L ∫0
dove la corrente IL0 che appare nell'espressione con l'integrale è una costante che indica il valore di corrente nell'induttore nell'istante 0 in cui si inizia ad integrare. La legge espressa mette in evidenza che in un induttore non è possibile variare istantaneamente il valore della corrente (continuità della corrente), perché questo richiederebbe l'applicazione di una tensione di valore infinito (funzione δ, Delta di Dirac). L'induttore è un bipolo passivo e le leggi suddette sono scritte utilizzando la convenzione degli utilizzatori; - nel caso si presentino mutue induzioni: υi ( t ) = L i
dii ( t ) +∑ dt j
Mij
di j ( t ) dt
La formulazione integrale di questa equazione richiede un sistema di equazioni con tutte le auto e mutue induttanze e le tensioni dei vari componenti coinvolti. Cap. 4 - pag. 3
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Tutti i componenti attivi sono stati qui descritti come ideali. Una rappresentazione più realistica prevede che il generatore di tensione sia composto dalla serie di un generatore ideale, di una resistenza e di una induttanza: i due bipoli passivi rendono conto della cdt nel circuito interno del generatore a fronte di passaggio di corrente; per il generatore di corrente i rami passivi vanno posti in parallelo. Tutti i componenti passivi sono stati qui descritti come lineari. Questa è una approssimazione accettabile entro ampi limiti di validità, fatto salvo forse per il resistore che col passaggio della corrente si riscalda e quindi il valore di resistenza aumenta; a temperatura costante anche questo componente può essere considerato lineare, o per gli induttori corrispondenti a circuiti magnetici in ferro. Va sempre considerato che non esiste mai un induttore completamente privo di resistenza, per ogni induttore andrebbe sempre rappresentato come la serie di una induttanza e di una resistenza; così pure non esiste condensatore per il quale sia del tutto nullo il passaggio di corrente nel dielettrico, cioè nel materiale isolante tra le due lastre, per cui ogni condensatore andrebbe rappresentato come parallelo di una capacità e di una conduttanza; tuttavia questi fenomeni sono spesso trascurabili: se si volesse continuare su questa strada di dettaglio così fine occorrerebbe allora anche aggiungere che nessuna resistenza è del tutto priva di effetti induttivi (in serie) e capacitivi ( derivazione verso terra o gli altri lati). Tutti questi effetti secondari, spesso detti parassiti, varranno associati ai componenti quando i loro valori saranno rilevati ai fini pratici. Questi componenti impongono quindi la continuità di corrente e tensione rispettivamente. Queste proprietà si rivelano molto utili nel momento in cui, per trovare la soluzione della rete, che sarà descritta da equazioni algebrico-differenziali, occorre determinare le condizioni iniziali, cioè i valori di corrente e di tensione nei vari lato all'istante iniziale. 4.3 - Leggi di Kirchhoff in regime variabile Con questi componenti si potranno quindi scrivere le leggi di Kirchhoff:
∑
j ∈I
∑
l ∈M
el (t ) =
i ji ( t ) = 0
di ( t ) di ( t ) VC0l + 1 ∫ l i l ( τ )dτ + Ril ( t ) + L j + ∑ Mli j C 0 dt dt l ∈M j
∑
Va notato che le correnti nodali devono ovviamente considerare anche eventuali correnti capacitive verso terra e le iniezioni dei generatori di corrente afferenti nel nodo. Poiché valgono ancora le leggi di Kirchhoff, per la soluzione di una qualunque rete elettrica lineare si possono ancora applicare gli stessi metodi utilizzati per le reti in regime stazionario: metodo delle correnti di lato, dei potenziali di nodo, delle correnti di maglia, sovrapposizione degli effetti. L'unica differenza rispetto al regime stazionario sta quindi nel fatto che il sistema risolutore non sarà più un semplice sistema algebrico, ma in esso appariranno equazioni algebriche ed equazioni differenziali o integrali (queste ultime possono essere ridotte a equazioni differenziali per derivazione). Per questo motivo risulta più problematica l'applicazione dei metodi sistematici. Per la stessa ragione non potranno essere utilizzati gli equivalenti di Thevenin e Norton. Si possono usare strumenti matematici come la trasformata di Laplace, ma anche in questo modo il metodo non è di pratica applicazione. Si vedrà in seguito come invece può risultare molto ben praticabile in condizioni particolari.
Cap. 4 - pag. 4
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4.4 - Regime periodico alternato sinusoidale (PAS) Un caso particolare di regime permanente è quello in cui le forzanti sono di tipo periodico alternato sinusoidale (PAS). Una grandezza si definisce di tipo PAS se il suo andamento nel tempo è del tipo: f ( t ) = FM ⋅ cos(ωt + ϕ ) dove il valore massimo FM viene spesso anche indicato come modulo e l'angolo iniziale ϕ come fase iniziale o semplicemente fase. Una funzione PAS è univocamente definita quando di essa siano dati modulo e fase, oltre, naturalmente, alla frequenza. Si noti che una grandezza di questo tipo: 12-
è periodica, con periodo T=2π/ω presenta valor medio nullo se considerata su un periodo o su un intervallo di tempo multiplo di un periodo
Si noti anche che: f ' ( t ) = −FM ⋅ sen(ωt + ϕ) = FM ⋅ cos(ωt + ϕ + π / 2) f " ( t ) = −FM ⋅ cos(ωt + ϕ) = FM ⋅ cos(ωt + ϕ + π ) = − f ( t ) le derivate di una funzione PAS sono ancora funzioni PAS sfasate di 90°, 180°, ecc. in anticipo rispetto alla funzione di partenza. Pertanto anche le funzioni permanenti dei sistemi di equazioni algebrico-differenziali che descrivono le reti elettriche lineari dovranno essere funzioni PAS se sono PAS le forzanti. Il risultato può essere generalizzato: per reti elettriche di qualunque dimensione, con bipoli lineari e forzanti PAS: una volta a regime, cioè quando la rete si trova nelle stesse condizioni da un tempo infinito, le funzioni che costituiscono la soluzione - sia le tensioni nodali sia le correnti e le tensioni di lato - sono sempre funzioni di tipo PAS. Per ora si consideri il caso di sinusoidi tutte con la stessa ω. Potrebbe essere conveniente a questo punto utilizzare una notazione esponenziale. Ricordando la formula di Eulero: Ae j(ωt + ϕ ) = A cos(ωt + ϕ) + Aj sen(ωt + ϕ) per una grandezza PAS basta considerare la sola parte reale: f ( t ) = Re(FM ⋅ e j(ωt + ϕ) ) La notazione esponenziale rende più semplici le operazioni di derivazione rispetto al tempo: f ' ( t ) = Re( jωFM ⋅ e j(ωt + ϕ ) ) e anche di integrazione rispetto al tempo (si considera la primitiva senza alcun termine costante, perché si dimostrerà al capitolo 6 che questo scompare nelle condizioni di regime in esame):
∫
1 j(ωt + ϕ ) f (τ )dτ = Re FM e jω Cap. 4 - pag. 5
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Si possono quindi riscrivere le leggi per l'induttore e il condensatore rispettivamente: υ( t ) = L ⋅ Re( jω ⋅ IM ⋅ e j(ωt + ϕ) ) i( t ) = C ⋅ Re( jωVM ⋅ e j(ωt + ϕ ) ) A questo punto, solo come formalismo matematico, si potrebbero considerare le variabili tensione e corrente come composte non solo dalla parte reale, ma anche da quella immaginaria: considerarli cioè dei numeri complessi. Naturalmente la componente immaginaria non esiste e non ha nessun significato fisico, ma dal punto di vista matematico, essendo anch'essa sinusoidale presenta tutti i vantaggi detti per le PAS; viene introdotta solo per agevolare la scrittura delle variabili. Infatti: f ( t ) = FM ⋅ e j(ωt + ϕ) f ' ( t ) = jω ⋅ FM ⋅ e j(ωt + ϕ) = jω ⋅ f ( t ) associando ad ogni forzante anche la componente immaginaria, cioè: e( t ) = EM ⋅ (cos(ωt + ϕ ) + j sen(ωt + ϕ )) tutti i calcoli vengono svolti con funzioni tensione e corrente complesse; le equazioni di funzionamento dei bipoli induttivi e capacitivi diventano molto semplici: υ( t ) = jω ⋅ L ⋅ i( t ) i( t ) = jω ⋅ C ⋅ υ( t ) Possono cioè essere espresse entrambe in una forma algebrica formalmente simile alla legge di Ohm ma con una costante complessa (Z) : υ( t ) = Z i(t) Una volta trovata la soluzione, per avere i valori effettivi delle tensioni e delle correnti basta tornare a considerare la sola parte reale delle funzioni calcolate. In compenso si può dimostrare che assunto questo formalismo: - il modulo della corrente dipende dal modulo della forzante, ma non dalla sua fase - la fase della corrente dipende dalla fase della forzante, ma non dal suo modulo. La praticità di questa notazione è evidente: tutte le operazioni di derivazione o di integrazione sono state sostituite rispettivamente da moltiplicazioni o da divisioni per il fattore jω. Ma è possibile fare un ulteriore passo in avanti sulla strada della praticità. Si noti che, essendo in generale: i( t ) = IM ⋅ e j(ωt + ϕ ) e( t ) = EM ⋅ e j(ωt + δ ) Cap. 4 - pag. 6
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allora la legge di Ohm generalizzata: i( t ) =
e(t ) Z ⋅ e jθ
⇒ IM ⋅ e j(ωt + ϕ ) =
EM ⋅ e j(ωt + δ ) Z ⋅ e jθ
Appare in entrambi i membri l'esponenziale della frequenza angolare moltiplicata per il tempo: e jωt Questo termine serve a calcolare il valore delle varie grandezze istante per istante, ma di fatto non introduce alcuna informazione significativa: per una data frequenza, una grandezza PAS è univocamente definita quando di essa sono dati modulo e fase. Il termine potrebbe essere semplificato, dividendo per esso entrambi i membri della precedente equazione: i( t ) =
EM ⋅ e jδ jϕ ⇒ I ⋅ e = M Z ⋅ e jθ Z ⋅ e jθ e(t )
Questa espressione fornisce tutte le informazioni necessarie e sufficienti: noti i valori della tensione in modulo e fase, noto il valore dei termini al denominatore, si ottengono immediatamente modulo e fase della corrente. Per conoscere il valore istantaneo della corrente, basta utilizzare l'equazione con tali modulo e fase. Si potrebbe allora visualizzare ogni grandezza tipo tensione o corrente come vettore nel piano complesso, avente un estremo nell'origine, lunghezza pari al modulo, e ruotante nel piano complesso, intorno all'origine, con velocità angolare ω; all'istante 0 si trova inclinato, rispetto all'asse reale, di un angolo pari alla fase. Il valore istantaneo della grandezza è dato dalla proiezione del vettore sull'asse reale. La sua derivata è un vettore sfasato di 90° in anticipo, e amplificato di un valore pari alla frequenza angolare. Con una rete elettrica si avrebbe un intero sistema di vettori rotanti, tutti tra loro isofrequenziali. Si potrebbe allora "fotografare" il sistema dei vettori in un dato istante, per esempio l'istante 0: si evidenzierebbero le fasi di ogni vettore, e quindi le differenze di fase tra di essi. Essendo il sistema isofrequenziale, "fotografandolo" di nuovo in altro istante qualunque, esso apparirebbe solo come ruotato, ma gli angoli relativi tra i vari vettori sarebbero invariati. Allora la rappresentazione più sintetica di un sistema di grandezza PAS consiste proprio nella "fotografia" del sistema in un dato istante, per esempio l'istante 0. Ogni grandezza verrebbe rappresentata con un vettore fisso: il valore istantaneo viene ottenuto ruotando tale vettore del valore in radianti pari ad ω t, oppure calcolando il coseno di tale angolo più la fase iniziale. I vettori così "fissati" prendono il nome di fasori, proprio perché indicano la fase, oltre al modulo, della grandezza in questione; su molti testi vengono ancora chiamati genericamente vettori. Ogni grandezza PAS può essere quindi indicata con il numero complesso, in forma cartesiana o polare, corrispondente al suo fasore; si usano solitamente le lettere maiuscole: V = V ⋅ e jδ = VRe + jVIm I = I ⋅ e jϕ = IRe + jIIm Per quanto riguarda il modulo, generalmente, anziché il valore massimo, si usa un altro valore, detto valore efficace: Cap. 4 - pag. 7
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F F= M 2 il motivo di questa scelta sarà chiaro in seguito, quando si parlerà delle potenze. Il fasore della derivata o dell'integrale di una grandezza, per quanto detto sopra, è ancora un fasore, sfasato di 90° rispettivamente in anticipo o in ritardo rispetto alla grandezza originaria, e di modulo pari al modulo della grandezza originaria rispettivamente moltiplicato o diviso per la pulsazione ω. Si noti che sfasare di 90° un fasore significa semplicemente moltiplicarlo o dividerlo per l'unità immaginaria j. Riepilogando con quest'ultimo metodo: funzione di partenza:
F = F ⋅ e jϕ
derivata:
jωF
int egrale:
F F = −j jω ω
valore is tan tan eo:
f ( t ) = 2 ⋅ F ⋅ cos(ωt + ϕ )
4.5 - L'analisi delle reti elettriche con la notazione fasoriale Utilizzando la notazione fasoriale, si hanno quindi le equazioni di funzionamento dei bipoli passivi nella semplice forma: V = jωLI ⇔ I =
V = RI ⇔ I =
V=
1 V jωL 1 V R
1 I ⇔ I = jωCV jωC
E' scomparsa ogni traccia di operatori del tipo derivata o integrale. Ai vari bipoli si può quindi associare un semplice termine moltiplicativo, di significato e funzione analoghi alla resistenza o alla conduttanza nel regime stazionario, con la differenza che tali valori sono numeri complessi. Per un bipolo generico si può allora scrivere: V = Z I ⇔ I = YV con: Y=
1 Z
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le due grandezze si chiamano rispettivamente impedenza (corrispondente alla resistenza) e ammettenza (corrispondente alla conduttanza). Le unità di misura sono ancora l'ohm e il siemens. Per i vari bipoli: induttore:
Z = jωL;
resistore:
Z = R;
condensatore:
Z=
Y=
1 jωL
Y=
1 ; jωC
1 R
Y = jωC
Occorre tenere presente che, anche se questi valori sono numeri complessi, essi non vanno considerati come fasori, in quanto i fasori rappresentano solo grandezze PAS, variabili nel tempo. Con la notazione fasoridale per le grandezze PAS e complessa per i parametri circuitali, si può definire una completa analogia tra il regime stazionario e il regime PAS. In questa analogia: - alle tensioni e correnti in cc corrispondono i fasori delle tensioni e correnti PAS - alle resistenze e alle conduttanze corrispondono le impedenze e le ammettenze Occorre fare alcune osservazioni sulle impedenze e sulle ammettenze. Per i bipoli visti finora, si ha soltanto o la parte reale o la parte immaginaria. Ci possono essere però bipoli che contengono, in serie o in parallelo, più bipoli elementari, in modo che appaiono entrambi i termini. In generale: Z = R + jX Y = G + jB La parte reale dell'impedenza si chiama sempre resistenza, mentre la parte immaginaria prende il nome di reattanza. La parte reale dell'ammettenza ci chiama sempre conduttanza, mentre la parte immaginaria prende il nome di suscettanza. Si noti inoltre che: per un induttore:
X = ωL;
per un condensatore:
X=-
1 ωC
B=-
1 ωL
B = ωC;
Un induttore presenta quindi reattanza positiva; in generale, quando la reattanza di una impedenza è positiva, si dice che l'impedenza è induttiva; se la parte resistiva è presente, si dice che l'impedenza è ohmica-induttiva. Spesso l'induttore viene anche detto reattore.
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Un condensatore presenta invece reattanza negativa; in generale, quando la reattanza di una impedenza è negativa, si dice che l'impedenza è capacitiva; se la parte resistiva è presente, si dice che l'impedenza è ohmico-capacitiva. Si nota ancora che al crescere della frequenza, la reattanza aumenta e diminuisce la suscettanza; viceversa, al decrescere della frequenza. Questo significa che un induttore si presenta con impedenza elevata alle alte frequenze e con impedenza ridotta alla basse frequenze; al limite, a frequenza nulla, l'induttore non ha impedenza (cto cto). Dualmente, un condensatore si presenta con impedenza ridotta alle alte frequenze e con impedenza elevata alle basse frequenze; al limite, a frequenza nulla, il condensatore ha impedenza infinita (non passa corrente, cto aperto). Si noti che se: G + jB =
1 R + jX
allora in generale: G≠
1 ; R
B≠
-1 X
infatti: 1 R − jX +R G = Re = + = Re 2 R + jX R + X2 R2 + X 2 1 R − jX −X B = Im = Im 2 = 2 2 R + jX R + X R + X2 Valgono allora, in questo formalismo matematico, le stesse regole e le stesse proprietà viste per le reti in regime stazionario: -
le equazioni di Kirchhoff ai nodi e alle maglie le regole per la serie e il parallelo di bipoli i metodi delle correnti di lato, delle tensioni di nodo, delle correnti di maglia il principio di sovrapposizione degli effetti.
Inoltre valgono: - i teoremi di Thevenin e di Norton - le trasformazioni stella-triangolo e triangolo-stella - i metodi matriciali per la soluzione delle reti per quest'ultimo punto si fa presente che la matrice da utilizzarsi è detta, coerentemente con l'analogia, matrice delle ammettenze, e si costruisce con le stesse regole. 4.6 - Potenza attiva, reattiva, apparente In cc la potenza è definita come: P = V ⋅I
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che è al tempo stesso una potenza media e una potenza istantanea, in quanto il regime è stazionario. In regime qualunque la potenza istantanea vale: p( t ) = υ( t ) ⋅ i( t ) In entrambi i casi, la corrente e la tensione indicate sono quelle che si misurano ai morsetti del bipolo. Se si utilizza la convenzione degli utilizzatori, la potenza così definita è potenza entrante, cioè assorbita dal bipolo; se si utilizza la convenzione dei generatori, e potenza uscente, cioè generata dal bipolo. Si consideri allora il regime PAS. In particolare si consideri un bipolo passivo puramente resistivo. In tale bipolo tensione e corrente sono perfettamente in fase tra loro. p( t ) = VM cos(ωt + δ) ⋅ IM cos(ωt + δ) = VM ⋅ IM ⋅ cos2 (ωt + δ) = = VM ⋅ IM
1 + cos ( 2(ωt + δ )) VM ⋅ IM VM ⋅ IM = + cos ( 2(ωt + δ )) 2 2 2
Quindi la potenza istantanea può essere vista come la somma di due componenti: una costante, e una PAS con frequenza doppia rispetto alla frequenza della tensione e della corrente. Tale termine ha valor medio nullo (anche solo su un semiperiodo), quindi si può definire una potenza media: P=
VM ⋅ IM 2
Per rendere questa formula congruente con la formula della potenza in cc, si è introdotto il concetto, già visto nei paragrafi precedenti, di valore efficace: V=
VM 2
;
I I= M 2
utilizzando il valore efficace: P = V ⋅I In generale il valore efficace di una grandezza f(t) periodica con periodi T, è definita come: F=
IT 2 f ( t )dt T 0∫
e come è facile dimostrare rappresenta sempre il valore continuo caratterizzato dagli stessi effetti termici. Essendo il bipolo resistivo: υ = R ⋅i ⇒ V = R ⋅I quindi: P = R ⋅ I2 =
V2 R
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Il termine medio: P = V ⋅I viene denominato in elettrotecnica con il nome di potenza attiva. Il valore è costante, in quanto indica un valor medio e non un valore istantaneo. Si consideri invece ora un bipolo puramente induttivo: I=
V V V jδ V j(δ − π / 2) ⇒ I = −j = −j e = e jωL ωL ωL ωL
vale a dire: υ( t ) = 2 V ⋅ cos(ωt + δ ) i( t ) = 2 I ⋅ cos(ωt + δ − π / 2) = 2I ⋅ sen(ωt + δ ) quindi: p( t ) = 2VI ⋅ cos(ωt + δ) ⋅ sen(ωt + δ ) = VI ⋅ sen(2(ωt + δ )) Analogamente per un bipolo puramente capacitivo: I = jωCV ⇒ I = + jωCV = + jωCVe jδ = CVe j(δ + π / 2) υ( t ) = 2 V ⋅ cos(ωt + δ ) i( t ) = 2 I ⋅ cos(ωt + δ + π / 2) = −
2I ⋅ sen(ωt + δ )
quindi: p( t ) = −2VI ⋅ cos(ωt + δ) ⋅ sen(ωt + δ ) = − VI ⋅ sen(2(ωt + δ)) Si presenta, in entrambi i casi, una potenza di tipo PAS e quindi di valor medio nullo, con frequenza doppia rispetto a quella della corrente e della tensione. Questa potenza istantanea "oscillante" ha però un significato fisico diverso rispetto alla componente "oscillante" della potenza assorbita dal bipolo resistivo. Infatti, per il resistore tale potenza viene assorbita ed effettivamente dissipata per effetto Joule; il termine oscillante, sommato a quello medio, fa sì che la potenza dissipata raggiunga un massimo quando la corrente raggiunge il massimo positivo o negativo, mentre assume il valore zero quando le correnti passano par lo zero. Nell'induttore o nel condensatore invece non esiste alcuna dissipazione di potenza: negli istanti in cui la potenza indicata dalle espressioni appena scritte è positiva, cioè assorbita, significa che il dispositivo sta accumulando energia sotto forma magnetica (induttore) o elettrostatica (condensatore); negli istanti in cui tale potenza è negativa, significa che il dispositivo la sta restituendo. Si tratta quindi solo di un continuo scambio di energia, bidirezionale. Il valor medio è nullo, perché dopo ogni semiperiodo l'energia accumulata nel bipolo è tornata al valore di partenza. Nondimeno, questa analisi del fenomeno mostra come debba esistere, da parte dei generatori o di altri componenti del circuito, la Cap. 4 - pag. 12
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disponibilità a questo scambio, con la possibilità di raggiungere valori di picco della potenza istantanea anche elevati. In elettrotecnica allora il termine: Q = ± VI pari al modulo delle espressioni di cui sopra, cioè relativo ai soli bipoli non dissipativi, con associato il segno, prende il nome di potenza reattiva. Non si tratta di potenza continuativa, come la potenza attiva: si tratta di un concetto ben diverso, proprio perché è solo un indice di un fenomeno di scambio di energia, con valor medio della potenza nullo; per fornire potenza reattiva ad un bipolo non occorre quindi avere una sorgente permanente di potenza, ma solo un bipolo in grado di scambiare con altri bipoli, in modo oscillatorio una certa quantità di energia. La potenza reattiva è definita solo per il regime PAS. La potenza reattiva viene definita (la definizione è puramente convenzionale) come positiva assorbita se il bipolo utilizzatore è di tipo induttivo e negativa assorbita se il bipolo utilizzatore è di tipo capacitivo; si dice quindi anche che l'induttore assorbe potenza reattiva (o semplicemente, assorbe reattivo) e il condensatore eroga potenza reattiva (eroga reattivo). Si consideri infine il caso in cui si presenti la serie o il parallelo di due o più bipoli passivi. Per esempio un resistore in serie con un induttore. Utilizzando la notazione fasoriale: Z = R + jωL = Z ⋅ e jϕ Si ricorda che: Z = R 2 + ω 2L2 e
ϕ = arctg(ωL / R)
Considerando che la corrente nella serie valga: I = I ⋅ e jα si ha: V = Z ⋅ I = ZI ⋅ e j(α + ϕ ) = V ⋅ e jδ in valori istantanei: υ( t ) = 2 V ⋅ cos(ωt + δ ) = 2 V ⋅ cos(ωt + α + ϕ ) = 2 V (cos ϕ cos(ωt + α ) − sen ϕ sen(ωt + α )
i( t ) = 2 Icos(ωt + α ) υ( t ) = 2 V ⋅ cos ϕ cos(ωt + δ ) − sen ϕ sen(ωt + α ) ⋅ 2 I ⋅ cos(ωt + α ) =
(
)
= 2VI cos ϕ cos 2 (ωt + α) sen ϕ cos(ωt + α ) sen(ωt + α) =
(
)
= VI cos ϕ(1 + cos( 2(ωt + α )) − sen ϕ sen(2(ωt + α ))) Si possono notare due termini: il primo, moltiplicato per il coseno dell'angolo dell'impedenza, contiene un valor medio non nullo e una componente oscillante con frequenza doppia; il secondo, moltiplicato per il seno dell'angolo dell'impedenza, contiene Cap. 4 - pag. 13
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solo una componente oscillante con frequenza doppia. Si è in questo modo evidenziata la presenza di potenza attiva e di potenza reattiva: P = VI cos ϕ Q = VI sen ϕ I due termini corrispondono rispettivamente alla potenza attiva assorbita dal resistore e alla potenza reattiva assorbita dall'induttore. Volendo si può esaminare cosa succede sui singoli bipoli. Per fare questo, occorre considerare la serie dei due elementi come un partitore di tensione. V = VR + VL questo va trattato come in cc, ma utilizzando le impedenze invece delle sole resistenze e, ovviamente, la notazione fasoriale (si ricorda che: Z = R + jX = Z cos θ + jZ sen θ): VR = VL =
R R Z cos ϕ j(δ − ϕ ) V = V ⋅ e j(δ − ϕ) = V ⋅e = V cos ϕ ⋅ e jα Z Z Z
jωL ωL Z sen ϕ j(δ + π / 2 − ϕ) V= V ⋅ e j (δ + π / 2 − ϕ ) = V ⋅e = V sen ϕ ⋅ e j(α + π / 2) Z Z Z
Quindi: pR ( t ) = 2 VR cos(ωt + α ) ⋅ 2 Icos(ωt + α ) = 2 V cos ϕ ⋅ I cos2 (ωt + α ) = = VIcosϕ(1+ cos(2(ωt + α )))
pI ( t ) = 2 VI cos(ωt + α + π / 2) ⋅ 2 Icos(ωt + α ) = −2 V sen ϕ sen(ωt + α) ⋅ I cos(ωt + α ) = = - VIsenϕ sen(2(ωt + α )) Il segno meno in quest'ultima espressione e in quella della potenza istantanea per il termine che attiene al reattivo non deve far pensare che tale potenza sia negativa. Essendo oscillante, il termine cambia di segno 2 volte per ogni periodo. Per valutare se tale potenza reattiva sia positiva o negativa si possono scegliere due strade. La prima, che è la più semplice, è quella di considerare che, se si tratta di un induttore, la potenza reattiva va considerata comunque positiva assorbita (negativa assorbita se si tratta di un condensatore). La seconda strada, più complessa, quando si ha un solo bipolo, nel caso più generale di più elementi in serie (si potrebbe fare analogamente anche con il parallelo): I=
V V j( δ − ϕ ) = e = I ⋅ e j( δ − ϕ ) Z Z
V ⋅ I * = VI ⋅ e j(δ − δ + ϕ ) = VI ⋅ e jϕ = VI ⋅ (cos ϕ + j sen ϕ ) = P + jQ Quanto visto in questi semplici esempi ha validità generale: il prodotto del fasore della tensione per il complesso coniugato del fasore della corrente fornisce un numero complesso in cui il coefficiente della parte reale è la potenza attiva e il coefficiente della parte immaginaria è la potenza reattiva. Cap. 4 - pag. 14
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Si definisce tale numero complesso: A = V ⋅ I * = P + jQ con il nome potenza apparente. Più comunemente con il termine di potenza apparente si intende semplicemente il modulo di tale valore, pari al prodotto dei valori efficaci: A = V ⋅I Si noti anche che: A = P + jQ = V ⋅ I * = Z ⋅ I ⋅ I * = Z ⋅ I2 = Z ⋅ I2⋅ (cos ϕ + j sen ϕ) A = P + jQ = V ⋅ I * = V ⋅
V* Z*
=
V2 (cos ϕ + j sen ϕ) Z
A = P + jQ = V ⋅ I * = V ⋅ Y * ⋅ V * = Y *⋅ V 2 = Y ⋅ V 2 ⋅ (cos β − j sen β) A = P + jQ = V ⋅ I * =
I * I2 I = ⋅ (cos β − j sen β) Y Y
e ricordando che: Y=
1 ⇒ β = −ϕ Z
si vede come le quattro espressioni siano equivalenti. Il valore cosϕ prende il nome di fattore di potenza. Per un bipolo puramente resistivo l'angolo dell'impedenza è zero, quindi il valore del fattore di potenza è unitario: questo significa che tutta la potenza apparente è potenza attiva. Per un bipolo puramente induttivo o capacitivo, il valore del fattore di potenza è zero: questo significa che non c'è potenza attiva, e tutta la potenza apparente è reattiva. Il valore del fattore di potenza non fornisce alcuna informazione sul segno della potenza reattiva. Per ricordare il significato fisico diverso dei termini A, P e Q sono state definite unità di misura diverse anche se dimensionalmente uguali. − P − Q − A
watt (simbolo W) voltampere reattivo (simbolo var) voltampere (simbolo VA)
4.7 - Conservazione della potenza Per il regime stazionario si è dimostrato che in una rete la somma delle potenze dissipate per effetto Joule è pari alla somma delle potenze erogate dai generatori di tensione e di corrente. Il risultato si può estendere al regime PAS: G G' V2 * R ⋅ I2 + jωL ⋅ I2 − j = ∑ Eg ⋅ Ig* + ∑ Vg' ⋅ A g' ωC g = 1 l= 1 g' =1 L
∑
Cap. 4 - pag. 15
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In una rete elettrica la somma delle potenze dissipate per effetto Joule è pari alla somma delle potenze attive erogate dai generatori e la somma delle potenze reattive assorbite dagli induttori meno le potenze reattiva erogate dai condensatori è pari alla somma delle potenze reattiva erogate dai generatori
4.8 - Risonanza Si consideri un bipolo composto da una capacità e una induttanza in serie. L'impedenza del bipolo vale: Z = jωL +
1 1 = j ωL − ωC jωC
L'impedenza è una funzione della frequenza. In particolare è data dalla somma di un termine positivo e uno negativo; pertanto, per opportuni valori della frequenza, i due termini possono essere uguali e contrari, di modo che l'impedenza assuma valore nullo. Per: ω=
1 LC
si trova che: 1 L LC L = j =0 Z = j L− − C C LC C Se non esistono nel bipolo effetti di tipo resistivo, il bipolo presenta impedenza nulla, ovvero ammettenza infinita. Questo significa che, in presenza di un valore anche minimo di tensione applicata ai morsetti, il bipolo è percorso da corrente infinita. In realtà un effetto resistivo esiste sempre, anche minimo, e questo limita la corrente, che assume valori finiti ma molto grandi. Se il valore della frequenza non è esattamente quello indicato dall'equazione di cui sopra, ma è molto vicino ad esso, il valore dell'impedenza (trascurando gli effetti resistivi) non è nullo, ma è comunque molto grande. In un diagramma ω-Z si presenta un asintoto in corrispondenza del valore di frequenza indicato dalla stessa equazione. In condizioni prossime alla risonanza la tensione sul bipolo L-C è molto piccola, ed è nulla in caso di perfetta risonanza senza resistenza. Tuttavia è molto importante notare che, sebbene la tensione complessiva sia molto piccola o nulla, la tensione sui singoli componenti è invece molto grande e, al limite infinita. Infatti: - le tensioni sui singoli componenti sono proporzionali alla corrente - le tensioni sui due componenti sono in opposizione: presentano cioè fase opposta, e valori in modulo molto vicini; in condizioni di risonanza sono perfettamente uguali e contrarie. Pertanto, poiché in risonanza la corrente diventa molto grande o infinita, le tensioni sui singoli componenti sono altrettanto grandi o infinite. Questo significa che la condizione di risonanza è estremamente pericolosa per i componenti circuitali: essa presenta sovracorrenti e sovratensioni interne, cioè valori di corrente e valori di tensione molto più grandi di quelli che i componenti possono tollerare. Anche in altre situazioni fisiche la risonanza può essere pericolosa: per esempio, i cristalli che vanno in frantumi di fronte alla voce dei cantanti lirici; per lo stesso motivo i reparti di Cap. 4 - pag. 16
Angelo Baggini - Franco Bua Università degli Studi di Bergamo - Facoltà di ingegneria - Corso di Elettrotecnica Rappresentazione delle reti elettriche in regime periodico alternato sinusoidale
soldati in marcia "rompono il passo", cioè non vanno più a passo di marcia, ma a passo libero, quando transitano sui ponti, per evitare che il ponte entri in risonanza e crolli. Una situazione duale si verifica quando invece i due componenti, L e C, sono in parallelo anziché in serie. In tal caso si sommano le loro ammettenza; alla frequenza di risonanza si ha così ammettenza totale nulla, impedenza infinita. Questo significa che, qualunque sia la tensione applicata, non si ha globalmente passaggio di corrente. Questo però non significa che sui singoli componenti non ci sia corrente; si presentano correnti uguali e contrarie. L = a condizione è anche detta condizione di antirisonanza. In sintesi: - a tensione imposta, il circuito serie in risonanza si trova in condizioni molto pericolose, perché permette il passaggio di una corrente molto grande o al limite infinita, con tensioni molto grandi o al limite infinite sui singoli componenti - a corrente imposta, il circuito parallelo in (anti)risonanza si trova in condizioni molto pericolose, perché permette l'insorgere di una tensione molto grande o al limite infinita, con correnti molto grandi o al limite infinite sui singoli componenti.
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Cap. 4 - pag. 17
Angelo Baggini - Franco Bua Università degli Studi di Bergamo - Facoltà di ingegneria - Corso di Elettrotecnica Analisi delle reti elettriche trifase
rev. 1.0
5 Analisi delle reti elettriche trifase 5.1 - Generalità In primo luogo si può definire sistema trifase un qualunque sistema elettrico che presenti trasmissione dell'energia per mezzo di linee elettriche a tre fili. Si vedrà in seguito che nei sistemi trifase è ammessa anche la presenza di un quarto filo, con una funzione particolare. I sistemi trifase non sono quindi che casi particolari delle normali reti elettriche, e si studieranno quindi con gli stessi metodi; si dedica però loro una trattazione particolare perché sono diffusissimi: in pratica tutta la produzione, il trasporto e la distribuzione dell'energia elettrica avvengono mediante sistemi trifase, o solo l'utilizzazione finale civile è monofase (quella industriale è trifase). Occorre in primo luogo fare una serie di osservazioni preliminari e fornire alcune definizioni. Carichi e generatori in un sistema come quello di interesse sono costituiti da terne di elementi collegati a stella o a triangolo. Si definiscono tensioni di fase le tensioni ( E1, E2 , E3) che si presentano tra ogni linea ed un unico punto preso come riferimento, ad esempio il centro stella. Se non si ha una stella, tali tensioni a rigore non possono essere definite, o meglio per definirle occorre effettuare un equivalente a stella della terna a triangolo, oppure considerare un punto esterno (per esempio la terra) come riferimento di tensione. Possono invece sempre essere definite le tensioni concatenate, pari alle tensioni tra linea e linea: V12 = E1 − E 2 V23 = E 2 − E3
(5.1)
V31 = E3 − E1 dove le tensioni EK sono le tensioni di fase, misurate tra ogni linea e un riferimento (che potrebbe essere appunto la terra o, se esiste, il centro stella). Si noti un'importante proprietà dei sistemi trifase: V12 + V23 + V31 = 0
Cap. 5 - pag. 1
(5.2)
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Si noti anche che quando le tensioni di fase sono tutte uguali in modulo e sfasate tra loro di 120° gradi elettrici, anche le tensioni concatenate sono uguali in modulo e sfasate tra loro di 120°, come si vede bene sia in forma analitica sia considerando graficamente le tensioni. Dal punto di vista grafico, qualunque sia il loro valore, le tensioni di fase formano comunque una stella e quelle concatenate un triangolo avente per vertici gli estremi della stella. Quando si realizza in generale che: V12 + V23 + V31 = V il fatto che i tre moduli siano uguali implica che il triangolo sia equilatero e quindi le fase di tali tensioni differiscano l'una dall'altra di 120°, di conseguenza anche le tensioni di fase, se sono definibili, saranno tra loro uguali il valore efficace e sfasate di 120° purché il centro stella si trovi nel baricentro del triangolo costituito dalle tensioni concatenate; si nota che vale: V = 3E
(5.1.1)
In questo caso si dice che il sistema delle tensioni è simmetrico. Generalmente, quando si indica la tensione nominale di un sistema trifase, si utilizza la tensione concatenata e non quella di fase. Per esempio la distribuzione a bassa tensione per uso civile o commerciale trifase è di 380 V, e tale valore indica la tensione concatenata, a cui corrisponde (5.1.1) una tensione di fase di 220 V. La tensione distribuita alle utenze domestiche è una tensione di fase. Si definiscono correnti di linea le correnti indicate nell'esempio come I1, I2 , I3 . Se il centro stella è isolato vale: I1, I2 , I3 = 0
(5.3)
questa proprietà è duale della (5.2). Se vale che: I1 = I2 = I3 = I allora combinando questa relazione con la (5.3) si nota che le tre correnti dovranno essere sfasate tra loro di 120° gradi elettrici; in questo caso si dice che il sistema delle correnti è equilibrato. Spesso viene usato il coefficiente: α = e j2 π / 3 = −
−2 1 3 1 3 +j da cui α = e j4 π / 3 = e − j2 π / 3 = − − j 2 2 2 2
(5.4)
che presenta modulo unitario. Moltiplicando per una grandezza fasoriale comporta solo lo sfasamento della stessa di 120°. Nei sistemi simmetrici può essere: E1 = E ⋅ e jδ E2 = α 2 ⋅ E1
(5.5.1)
E3 = α ⋅ E1
Cap. 5 - pag. 2
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In questo caso la tensione 2 è in ritardo di 120° rispetto alla tensione 1 e la tensione 3 è in ritardo di 120° rispetto alla tensione 2. Può invece essere che: E1 = E ⋅ e jδ E2 = α ⋅ E1
(5.5.2)
E3 = α 2 ⋅ E1 dove le stesse tensioni sono stavolta in anticipo. Nel primo caso si parla di terna o sequenza diretta, nel secondo di terna o sequenza inversa. Inoltre poiché: IK =
EK ZS
k = 1, 2, 3
allora anche: I1 = I ⋅ e j(δ − ϕ) I2 = α 2 ⋅ I1
I1 = I ⋅ e j(δ − ϕ) I2 = α ⋅ I1
oppure
(5.6.1/.2)
2
I3 = α ⋅ I1
I3 = α ⋅ I1
Se è la terna delle tensioni di fase è diretta, lo è anche quella delle tensioni concatenate, e viceversa, e lo è anche quella delle correnti di linea; lo stesso per le terne inverse. Con l'analisi di un esempio in quanto segue verrà messa in evidenza una importante proprietà dei sistemi trifase simmetrici ed equilibrati. Si consideri la seguente rete elettrica:
dove i tre generatori erogano le tensioni: E1 = E ⋅ e jδ E2 = E ⋅ e j(δ − 2π / 3)
(5.7)
E3 = E ⋅ e + j(δ + 2π / 3) Si vuole valutare la differenza di potenziale fra G o O (Vo). Se il carico indicato e la linea vengono modellati da una stella di rami passivi di uguale impedenza ZS , si avrà:
Cap. 5 - pag. 3
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E1 − Vo = ZS ⋅ I1 E2 − Vo = ZS ⋅ I2
(5.8)
E3 − Vo = ZS ⋅ I3 dove Vo è la differenza di tensione del centro stella del carico rispetto al centro stella dei generatori. Se tale centro stella è isolato, cioè non presenta altri collegamenti se non i tre rami della stella, la sua tensione è per ora indeterminata, ma si può scrivere l'equazione di Kirchhoff per tale nodo: I1 + I2 + I3 = 0
(5.8' )
che unita alla (5.8) forma un sistema di 4 equazioni in 4 incognite (le 3 correnti e la tensione del centro stella) Dalle (5.8): IK =
EK − Vo ZS
(5.9)
quindi dalla (5.8') utilizzando questa relazione: E1 − Vo E − Vo E − Vo + 2 + 31 =0 ZS ZS ZS da cui:
(
)
E + E2 + E3 E E 1 3 1 3 =0 V0 = 1 = ⋅ e j0 + e − j2 π / 3 + e + j2 π / 3 = ⋅ 1 + j0 − − j − +j 3 3 3 2 2 2 2 risultato peraltro prevedibile, vista la simmetria della situazione. Quindi: IK =
Ek ZS
k = 1, 2, 3
(5.9.1)
Dall'equazione di Kirchhoff per il nodo: I1 = − I2 − I3 Si nota allora che ciascuna linea può essere vista come la linea di andata di un sistema di alimentazione elettrica, avente come ritorno le altre due linee. Questo vale per ognuna delle tre linee: ciascuna assolve al tempo stesso alla funzione di andata per se stessa e di ritorno per le altre. Si noti che lo stesso si avrebbe anche se anziché una stella si fosse trovato un triangolo di impedenze, purché queste fossero state tutte uguali tra di loro; procedendo alla trasformazione triangolo stella dalle formule: ZS =
ZT ⋅ ZT Z = T 3 Z T + ZT ZT Cap. 5 - pag. 4
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Analogamente, anche il lato dei generatori potrebbe essere costituito da una terna di generatori disposta a stella anziché a triangolo. Tutto quanto appena visto è un caso particolare di sistema trifase. Si vedrà presto che i sistemi trifase possono essere definiti tali anche se non presentano le caratteristiche di simmetria e di equilibrio della situazione vista, ma in questi casi i metodi applicabili per la soluzione generalmente non sfruttano il fatto che il sistema è trifase (tranne che in alcuni casi, come, ad esempio, il metodo delle componenti di sequenza e il metodo della tensione di spostamento del centro stella). Può essere interessante notare come si comporta un sistema trifase in presenza di mutui accoppiamenti tra le 3 fasi. Per un sistema trifase generico può essere: E1 = R1 ⋅ I1 + jωL11 ⋅ I1 + jωM12 ⋅ I2 + jωM13 ⋅ I3 E2 = R 2 ⋅ I2 + jωM212 ⋅ I1 + jωL 22 ⋅ I2 + jωM23 ⋅ I3
(5.10)
E3 = R 3 ⋅ I3 + jωM31 ⋅ I1 + jωM32 ⋅ I2 + jωL 33 ⋅ I3 Le mutue induttanze, come è noto, sono simmetriche se poi si verifica che: M12 = M21 = M13 = M31 = M23 = M32 = MS e se il sistema delle correnti è equilibrato e supponendo la sequenza diretta, sostituendo tutte le correnti in funzione delle I allora vale:
(
)
E1 = R1 ⋅ I1 + jωL11 ⋅ I1 + jωMS ⋅ α 2 ⋅ I1 + jωMS ⋅ α ⋅ I1 = R1 + jω(L11 − MS ) ⋅ I1
( ) E3 = R 3 ⋅ I3 + jωMS ⋅ α 2 ⋅ I3 + jωMS ⋅ α ⋅ I3 + jωL 33 ⋅ I3 = (R 3 + jω (L 33 − MS )) ⋅ I3
E2 = R 2 ⋅ I2 + jωMS ⋅ α ⋅ I2 + jωL 22 ⋅ I2 + jωMS ⋅ α 2 ⋅ I2 = R 2 + jω(L 22 − MS ) ⋅ I2
(5.11)
infine, se: L11 = L 22 = L 33 = L S allora definendo: L = L S − MS
(5.12)
e se anche le resistenze sono tutte uguali, pari a R: EK = (R + jωL) ⋅ IK
k = 1, 2, 3
(5.13)
In questa formula non appare più alcun accoppiamento tra le varie fasi. Basta pertanto conoscere cosa succede su una fase sola mediante l'equazione (5.13), ed essendo il sistema simmetrico ed equilibrato i valori sulle altre fasi saranno solo sfasati di 120° in anticipo o in ritardo. Quindi i sistemi trifase simmetrici ed equilibrati, se presentano gli stessi parametri circuitali su ogni fase e tra ogni fase e le altre, possono essere rappresentati con un equivalente di una sola fase (disaccoppiato), dove il valore dell'induttanza equivalente è dato dalla (5.12).
Cap. 5 - pag. 5
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Si parla in questo caso di rappresentazione monofase o monofilare del sistema trifase. Essa è valida per le tensioni di fase e le correnti di fase, ma occorre ricordare che la potenza totale è pari a 3 volte la potenza di una singola fase, quindi di un singolo circuito. Per questi sistemi l'espressione della potenza può essere data da: A = E1 ⋅ I1* + E2 ⋅ I2* + E3 ⋅ I3* = 3E1 ⋅ I1 = 3E2 ⋅ I2 = 3E3 ⋅ I3 = 3EI ⋅ (cos ϕ + j sen ϕ) cioè la potenza totale sia 3 volte la potenza di ogni singola fase. Vale anche: A = 3 VI ⋅ (cos ϕ + j sen ϕ) dove V è il valore efficace della tensione concatenata, ma l'angolo ϕ è sempre lo sfasamento tra la corrente e la tensione di fase. 5.2 - Considerazioni sui sistemi trifase non simmetrici e non equilibrati Si supponga che un dato carico trifase stia assorbendo una terna di correnti: I1, I2 , I3 in generale anche non equilibrate, a fronte di una terna di tensioni concatenate: V12 , V23 , V31 in generale anche non simmetriche. Si nota che con tale formulazione non è possibile calcolare la potenza assorbita dal sistema, data dalla formula (5.14) che prevede l'utilizzo delle tensioni di fase. Se si volessero ottenere, dalle tensioni concatenate, le tensioni di fase (5.1): V12 = E1 − E2 V23 = E2 − E3 V31 = E3 − E1 si nota subito che il sistema (5.4) presenta 3 incognite ma solo 2 equazioni, perché le 3 equazioni non sono tra loro indipendenti, dato che vale (5.5): V12 , V23 , V31 = 0 e che la somma delle 3 equazioni porta ad avere anche il secondo membro nullo. Quindi questo sistema presenta 1 grado di libertà (in campo complesso, quindi 2 in campo reale), quindi ∞1 soluzioni in campo complesso, ∞ 2 soluzioni in campo reale: occorre scegliere un valore per una delle tre tensioni di fase, e solo così le altre saranno fissate. Questo corrisponde al fatto che, a priori, non è noto dove si trovi il centro stella nel piano fasoriale, a meno di non conoscere il valore della sua tensione per altra via. Si supponga allora di fissare arbitrariamente un centro stella G di tensione EG. La potenza assorbita vale allora, con questo riferimento:
Cap. 5 - pag. 6
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A = E1 ⋅ I1* + E2 ⋅ I2* + E3 ⋅ I3* Si consideri anche un altro centro stella G', di tensione EG' diversa dalla precedente. Rispetto a questo nuovo centro stella si ha una nuova terna di tensioni di fase, legate alle precedenti dalla relazione: '
EK = EK + EGG'
k = 1, 2, 3
e la potenza con queste nuove tensioni:
(
)
(
)
(
)
A ' = E1' ⋅ I1* + E2' ⋅ I2* + E3' ⋅ I3* = E1 + EGG' ⋅ I1* + E2 + EGG' ⋅ I2* + E3 + EGG' ⋅ I3* =
(
)
= E1 ⋅ I1* + E2 ⋅ I2* + E3 ⋅ I3* + EGG' ⋅ I1* + I2* + I3* = A + EGG' ⋅ 0 = A come si può notare, la potenza non dipende (come è giusto che sia) dalla posizione del centro stella nel piano fasoriale. Qualunque sia il centro stella scelto, si ottiene lo stesso valore di potenza, che è quello corretto.
5.3 - Vantaggi del sistema trifase Il sistema trifase presenta parecchi vantaggi in confronto al sistema monofase. aCampo magnetico rotante Un primo vantaggio risulterà più chiaro nello studio delle macchine elettriche rotanti: il sistema trifase, grazie alle tre grandezze sfasate di 120° tra loro, permette agevolmente di produrre un campo magnetico rotante, fondamentale nelle macchine sincrone e asincrone. bOttimazione della trasmissione dell'energia Il secondo vantaggio consiste nel fatto che ciascuna delle tre linee fa al tempo stesso da andata per se stessa e da ritorno per le altre due. In un sistema trifase la potenza elettrica è pari alla somma delle potenze sulle singole linee; pertanto vale: A = E1 ⋅ I1* + E2 ⋅ I2* + E3 ⋅ I3*
(5.14)
se il sistema è simmetrico ed equilibrato, lo sfasamento tra tensione e corrente è lo stesso per ognuna delle 3 linee, quindi: A = 3E1 ⋅ I1* = 3EI ⋅ (cosϕ + jsenϕ)
(5.14.1)
se le tre linee di trasmissione presentano ciascuna una resistenza R, allora le perdite in linea valgono: Pd = 3RI2 e il rapporto tra la potenza dissipata e quella trasportata vale:
Cap. 5 - pag. 7
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P 3RI2 RI2 η= d = = P 3EI cos ϕ EI cos ϕ in un sistema monofase si avrebbe invece: A = E ⋅ I1* = EI ⋅ (cos ϕ + j sen ϕ ) per la trasmissione occorre una linea di andata e una di ritorno, e ciascuna presenta una resistenza R, allora le perdite in linea valgono: Pd = 2RI2 e il rapporto tra la potenza dissipata e quella trasportata vale: P 2RI2 2RI2 η= d = = P EI cos ϕ EI cos ϕ che è un valore doppio rispetto a quello del sistema trifase. Quindi il sistema trifase ha un miglior rendimento rispetto al monofase. Si possono considerare le cose a pari tensione nominale e a pari potenza trasportata. Nel sistema trifase: P = 3EI cos ϕ = 3 VI cos ϕ ⇒ I =
P 3 V cos ϕ
quindi: Pd = 3RI2 =
3RP 2
=
3 V 2 cos 2 ϕ
RP2 V 2 cos 2 ϕ
(5.15.1)
Nel sistema monofase: P = VI cos ϕ = VI cos ϕ ⇒ I =
P V cos ϕ
quindi: Pd = 2RI2 =
2RP 2 V 2 cos 2 ϕ
=
2RP 2 V 2 cos 2 ϕ
(5.15.2)
Se si vuole tenere conto del costo dei conduttori, questo è proporzionale al peso e quindi al volume dei conduttori. Nel sistema trifase: C = k ⋅ 3IS
(5.16)
volendo realizzare un sistema monofase con pari costo di materiale, e quindi con pari peso e volume: Cap. 5 - pag. 8
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C = k ⋅ 2IS ⇒ Sm =
3 St 2
la sezione sarà del 50 % maggiore perché il monofase ha solo due fili. Allora le resistenze: R1 = ρ
l ; St
Rm = ρ
l 2 = Rt Sm 3
e le perdite: Pdm =
2R mP 2 2
2
V cos ϕ
;
Pdt =
R tP 2 2
2
V cos ϕ
=
3 2
R mP2
3 Pdm V cos ϕ 4 2
2
(5.17)
anche a parità di peso dei conduttori e quindi di costo degli impianti le perdite sono minori nel sistema trifase rispetto al sistema monofase. Volendo invece realizzare un sistema trifase con le stesse perdite di un monofase, a parità di tensione nominale e di potenza trasmessa: Pdt =
R tP 2 V 2 cos 2 ϕ
;
Pdm =
2R mP 2 V 2 cos 2 ϕ
quindi per eguagliare le perdite: R t = 2R m ⇒ S t =
1 Sm ; 2
C t = k ⋅ 3 lS t = k ⋅
3 3 3 lSm = k ⋅ 2lSm = Cm 2 4 4
Il costo dell'impianto è quindi inferiore nel sistema trifase rispetto al sistema monofase. Con il trifase quindi si può: o spendere la stessa somma per l'impianto e risparmiare sull'esercizio oppure prevedere le stesse perdite in esercizio ma spendere meno per l'impianto iniziale, o infine scegliere una soluzione intermedia fra queste, secondo il calcolo di miglior convenienza economica. Per effettuare correttamente il calcolo dei costi occorre però tenere conto non solo del peso dei conduttori, ma anche del numero di supporti isolanti (se linea aerea) o dei rivestimenti isolanti (se linea in cavo) e della installazione dei conduttori stessi. Tutti questi costi sono maggiori nel caso trifase; ma nonostante questo esso risulta in generale più conveniente. cPotenza istantanea complessiva senza componenti oscillatorie Un terzo vantaggio del trifase (simmetrico ed equilibrato) è che la potenza elettrica istantanea complessiva è costante. In un sistema monofase: E = E ⋅ e jδ I = I ⋅ e j(δ − ϕ ) da cui: e( t ) = 2 ⋅ E ⋅ cos(ωt + δ) i( t ) = 2 ⋅ I ⋅ cos(ωt + δ − ϕ) = 2 ⋅ I ⋅ cos ϕ cos(ωt + δ) + sen ϕ sen(ωt + δ) Cap. 5 - pag. 9
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quindi:
(
p( t ) = 2EI ⋅ cos ϕ cos2 (ωt + δ) + sen ϕ sen(ωt + δ ) cos(ωt + δ )
)
Il termine
(
)
2EI ⋅ sen ϕ sen(ωt + δ ) cos(ωt + δ) = EI ⋅ sen ϕ sen(2ωt + 2δ) è il termine corrispondente alla potenza reattiva, che istante per istante indica quanta potenza viene accumulata o ceduta dai condensatori e dagli induttori: corrisponde al prodotto della tensione per la componente della corrente in quadratura con la tensione stessa. Il termine:
(
)
2EI ⋅ cos ϕ cos 2 (ωt + δ ) = EI ⋅ cos ϕ ⋅ 1 + cos(2ωt + 2δ)
è il termine che darà origine, integrato nel tempo, alla potenza attiva; corrisponde al prodotto della tensione per la componente della corrente in fase con la tensione stessa. Come si vede presenta una componente costante e una oscillatoria, con frequenza doppia di quella del sistema. Nel sistema trifase si avrà invece: e1( t ) = 2 ⋅ E ⋅ cos(ωt + δ)
e 2 ( t ) = 2 ⋅ E ⋅ cos(ωt + δ − 2 π / 3) e3 ( t ) = 2 ⋅ E ⋅ cos(ωt + δ + 2π / 3)
(
)
i1( t ) = 2 ⋅ I ⋅ cos(ωt + δ − ϕ ) = 2 ⋅ I ⋅ cos ϕ cos(ωt + δ ) + sen ϕ sen(ωt + δ )
( ) 2 ⋅ I ⋅ (cos ϕ cos(ωt + δ + 2π / 3) + sen ϕ sen(ωt + δ + 2π / 3))
i2 ( t ) = 2 ⋅ I ⋅ cos(ωt + δ − 2π / 3 − ϕ ) = 2 ⋅ I ⋅ cos ϕ cos(ωt + δ − 2π / 3) + sen ϕ sen(ωt + δ − 2π / 3) i3 ( t ) = 2 ⋅ I ⋅ cos(ωt + δ + 2π / 3 − ϕ ) =
quindi la potenza istantanea vale: p( t ) = 2EI ⋅ cos ϕ ⋅ cos2 (ωt + δ ) + cos 2 (ωt + δ − 2 π / 3) + cos2 (ωt + δ + 2π / 3) + 2EI ⋅ sen ϕ ⋅ ⋅[ + cos(ωt + δ) sen(ωt + δ) + cos(ωt + δ − 2π / 3) sen(ωt + δ − 2 π / 3) + + cos(ωt + δ + 2π / 3) sen(ωt + δ + 2π / 3)]
il termine moltiplicato da sen ϕ è il termine dovuto al prodotto delle tensioni per le componenti di corrente in quadratura, e corrisponde alla potenza reattiva. Il termine moltiplicato per cos ϕ, invece, darà origine, integrato nel tempo, alla potenza attiva. Esso vale:
[
]
EI ⋅ 1 + cos(2ωt + 2δ) + 1 + cos(2ωt + 2δ − 4π / 3) + cos(2ωt + 2δ + 4π / 3) = 3EI Cap. 5 - pag. 10
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e come si vede, istante per istante, le tre componenti oscillanti si annullano a vicenda. In ciascun singolo componente della stella o del triangolo che compone il carico l'assorbimento di attivo presenta il termine costante più il termine oscillatorio; globalmente per il sistema trifase i termini oscillatori si annullano. Questo può essere importante per esempio per le macchine elettriche rotanti, perché questo garantisce un valore di potenza e di coppia meccanica privo di oscillazioni.
5.4 - Sistemi trifase con neutro Nei sistemi trifase è frequente l'adozione di un quarto filo, generalmente privo di generatori e di carichi in serie, detto filo di neutro o, semplicemente, neutro, collegato dal centro stella del generatore al centro stella del carico. A volte si effettua semplicemente la messa a terra del centro stella del generatore e del centro stella del carico, di modo che tali centri stella sono collegati tra loro mediante il terreno, che svolge le funzioni del neutro. Il neutro viene introdotto per avere disponibili le tensioni di fase. Collegando un carico tra fase e neutro, questo viene alimentato con le tensioni di fase. Un sistema trifase con il neutro permette quindi di alimentare i carichi alla tensione di fase (tra fase e neutro) oppure concatenata (tra fase e fase). Il neutro viene anche introdotto per evitare che una stella di carico dissimmetrica, alimentata con un sistema di tensioni pressoché simmetrico, possa presentare uno spostamento eccessivo del centro stella rispetto al centro stella del generatore simmetrico. Questo si verifica quando le impedenze dei tre rami della stella di carico sono tra loro molto diverse; con la presenza del neutro la tensione viene vincolata a quella del centro stella del generatore, con la sola differenza delle cdt. Nel neutro può passare corrente, quindi la (5.3) diventa: I1 + I2 + I3 + In = 0
(5.18.1)
mentre la (5.5) rimane inalterata nella sua validità: V12 , V23 , V31 = 0 Per un sistema trifase con neutro, nell'ipotesi di trascurare le cdt sul neutro stesso, indicando con EK le tensioni di fase dei generatori, con ZK le tensioni delle singole fasi e con IK le correnti di fase, vale: IK =
EK ZK
(5.19)
e quindi: E E E In = −( I1 + I2 + I3 ) = − 1 + 2 + 3 Z1 Z2 Z3 La corrente di neutro risulta nulla quando le tre tensioni sono simmetriche e le tre impedenze sono tutte uguali tra loro. Cap. 5 - pag. 11
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Cap. 5 - pag. 12
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6 Analisi delle reti elettriche in regime transitorio 6.1 - Metodo classico Lo scopo di questo capitolo è quello di impostare l'analisi dei circuiti elettrici in regime transitorio. Il problema dei transitori elettrici non è altrettanto ben schematizzabile come il regime permanente, per il quale esistono metodi risolutivi standard. O meglio, sarebbe possibile anche per i transitori utilizzare metodi sistematici, ma questi sono molto complessi e, in generale, non vantaggiosi rispetto ad un approccio più semplice ma che richiede un po' più di intuizione. È invece possibile indicare alcune semplici regole e alcune tecniche che costituiscono una base necessaria per la soluzione del problema. Si consideri il seguente semplice esempio nel quale l'interruttore si chiude all'istante t = 0.
Il circuito può essere risolto, per esempio, con il metodo delle correnti di lato. Si consideri come nodo indipendente il nodo A e come maglie indipendenti la maglia C-R-e e la maglia e-R-L. Le equazioni sono:
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iC + iR + iL = 0 1 t − VC0 − ∫0 ic dπ + RiR − e = 0 C diL e − RiR + L dt = 0 per semplicità grafica si è omesso di indicare esplicitamente, dandola per sottintesa, la dipendenza dal tempo delle correnti e della fem. Non esistono effetti mutuo induttivi. Si osserva che la principale difficoltà nella soluzione del problema è rappresentato dal fatto che il sistema che rappresenta il circuito è differenziale. Ogni sistema di equazioni differenziali richiede, per poter essere risolto delle condizioni iniziali. Visto che qui si hanno due equazioni integrali o differenziali del primo ordine, globalmente il problema è del secondo ordine, quindi occorrono due condizioni iniziali: una è già implicita nel valore di tensione iniziale VC0 del condensatore; l'altra dovrebbe riguardare il valore iniziale della corrente nell'induttore. Il sistema potrebbe essere riscritto ponendo le forzanti al secondo membro: iC + iR + iL = 0 1 t − VC0 − ∫0 icdπ + RiR = e C diL RiR − L dt = e L'espressione integrale è di ostacolo per proseguire. Allora è opportuno derivare la seconda equazione, in modo che l'integrale scompaia. Si perde in questo una informazione importante, ossia la tensione iniziale del condensatore: tale valore dovrà essere ripreso in seguito, nel porre le condizioni iniziali: iC + iR + iL = 0 diR de 1 = − ic + R C dt dt diL RiR − L dt = e Ora si può procedere per sostituzione, a partire dalla terza equazione e risalendo alla seconda e infine alla prima:
L diL e + iR = + R dt R diR d2i d 2 iL de de de −C = +LC L + C −C = +LC ic = +CR dt dt dt dt dt 2 dt 2 d2i L diL e +LC L + + + iL = 0 2 R dt R dt ottenendo un'unica equazione differenziale lineare, a coefficienti costanti, del 2° ordine: Cap. 6 - pag. 2
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iL" +
1 ' 1 1 iL + iL = − e RC LC RLC
che dovrà essere accompagnata dalle due condizioni iniziali: iL (0) = IL0 ' LiL (0) = VC0 la prima condizione richiede, come spiegato in precedenza, la conoscenza della corrente iniziale nell'induttore; la seconda è stata posta considerando che, essendo induttore e condensatore posti tra la stessa coppia di nodi, le tensioni di tali bipoli devono essere uguali; sul condensatore all'istante iniziale esiste solo la tensione iniziale, perché la corrente non ha ancora fatto in tempo a portare alcuna variazione significativa; sull'induttore la tensione è sempre pari al prodotto dell'induttanza per la derivata della corrente. Questi procedimenti sono molto frequenti nella soluzione di questi problemi. Si consideri ora l'equazione omogenea associata: cioè la stessa ma priva delle forzanti; la soluzione di tale equazione verrà indicata come IT: i"T +
1 ' 1 iT + i =0 RC LC T
L'integrale generale è dato dalla somma di un numero in termini esponenziali pari all'ordine dell'equazione; in questo caso 2 termini: iT ( t ) = I1 ⋅ exp(α1t ) + I2 ⋅ exp(α 2 t ) tutti i coefficienti che appaiono sono in generale numeri complessi; i coefficienti degli esponenziali sono le soluzioni dell'equazione algebrica associata all'equazione differenziale omogenea, detta equazione caratteristica dell'equazione differenziale: 2
α +
1 1 α+ =0 RC LC
direttamente con l'equazione caratteristica, in questo caso si ha: α12 , =−
1 1 1 4 1 4R 2 C ± − = −1 m 1 − 2RC 2 R 2C 2 LC 2RC L
Come si può notare, il termine sotto radice è minore di 1 o anche minore di 0. I due coefficienti sono quindi o entrambi negativi oppure complessi coniugati con parte reale negativa. Se il determinante è positivo, la soluzione è semplicemente: iT ( t ) = I1 ⋅ exp(α1t ) + I2 ⋅ exp(α 2 t ) = I1 ⋅ exp( − t / T1) + I2 ⋅ exp( − t / T2 ) con tutti i coefficienti reali; i coefficienti degli esponenziali sono stati sostituiti con i loro reciproci cambiati di segno, che prendono il nome di costanti di tempo; la situazione si dice esponenziale smorzata.
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Se il determinante è nullo, si hanno due radici coincidenti. Questo è un caso particolare, per il quale la soluzione vale: iT ( t ) = I1 ⋅ exp(αt ) + I2 ⋅ t ⋅ exp(αt ) = (I1 + t ⋅ I2 ) ⋅ exp(− t / T) dove si presenta ovviamente un'unica costante di tempo. Infine il caso in cui il determinante è negativo, il che comporta coefficienti complessi coniugati: iT ( t ) = I1 ⋅ exp(α1t ) + I2 ⋅ exp(α 2 t ) =
= exp(αt) ⋅ [(IA + jIB ) ⋅ (cosβt - jsenβt) + (IA - jIB ) ⋅ (cosβt + jsenβt)] = = exp(-t / T) ⋅ [2IA cosβt + 2IA senβt ]
iT ( t ) = exp(-t / T) ⋅ [ICcosβt + IS senβt ]
appare un'unica costante di tempo, ma appare anche una frequenza o pulsazione angolare. In questa situazione si parla di oscillazioni smorzate. In tutti e tre i casi, appaiono comunque due costanti che vanno determinate mediante l'imposizione delle condizioni iniziali. Con le condizioni iniziali l'integrale generale dell'equazione omogenea associata è univocamente determinato. Si nota che in tutti i casi si presenta uno smorzamento esponenziale. Il fattore esponenziale non è smorzato solo in questo caso ma in qualunque rete elettrica lineare, le soluzioni dell'equazione caratteristica presentano sempre parti reali negative, qualunque sia l'ordine del sistema. Questo potrebbe essere dimostrato anche matematicamente, ma è più semplice una considerazione energetica: se il sistema è privo di forzanti, questo significa che i generatori sono spenti; le correnti possono circolare solo perché induttori e condensatori cedono o scambiano tutta o parte dell'energia in essi accumulata. Queste correnti tuttavia sono dissipative per effetto Joule. Quindi l'energia totale accumulata nei condensatori e negli induttori non può che diminuire, quindi le correnti sono destinate a smorzarsi. Per questo motivo la soluzione del sistema omogeneo associato viene chiamata componente transitoria della soluzione complessiva. La presenza delle forzanti determina la presenza di un'altra componente, che può essere chiamata componente permanente o di regime. Per una data forzante, la componente permanente è unica, cioè univocamente determinata. Infatti se ne esistessero due, per la linearità della rete la loro differenza sarebbe una soluzione dell'omogenea associata, cioè una componente transitoria, destinata a scomparire. Riepilogando: ogni corrente di lato (ma anche ogni tensione di nodo) di una rete elettrica lineare con forzanti è data dalla somma di una componente transitoria e una permanente: i( t ) = iT ( t ) + iP ( t ) La soluzione transitoria è una somma di termini esponenziali reali o complessi (esponenziali moltiplicati per sinusoidi); ha questo nome perché tutti i coefficienti degli esponenziali sono negativi, cioè gli esponenziali sono tutti smorzanti e tendono a zero. Per determinare i coefficienti moltiplicativi dei vari termini esponenziali o oscillatori smorzati e il numero delle condizioni iniziali sono pari all'ordine del sistema differenziale. La soluzione permanente è univocamente determinata in base alle forzanti. La soluzione permanente (integrale particolare) può essere determinata sulla base della soluzione a regime della rete oppure con i metodi dell'analisi matematica. Si nota inoltre che, poiché tutte le condizioni iniziali sono state utilizzate per determinare i coefficienti della componente transitoria, la componente permanente non dipende dalle condizioni iniziali. Questo significa che il transitorio permette al circuito di dimenticare la Cap. 6 - pag. 4
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condizione iniziale, arrivando a comportarsi solo come le forzanti impongono, indipendentemente dal punto di partenza. L'analisi del transitorio può dirsi composta delle seguenti fasi: 1. identificazione del modello e valutazione dei parametri 2. scrittura del sistema di equazioni algebrico-integro-differenziali 3. riduzione del sistema in modo da eliminare le variabili solo algebriche e gli integrali, con eventuale riduzione del sistema di equazioni differenziale ad un unica equazione differenziale avente per ordine l'ordine del sistema 4. individuazione delle condizioni iniziali 5. soluzione del sistema o dell'unica equazione differenziale con le condizioni iniziali 6. ricostruzione del valore delle variabili algebriche. La fase 1 è analoga al regime PAS o stazionario: occorre guardare il circuito e riportare i valori dei parametri L, R, C e delle tensioni o correnti dei generatori. La fase 2 utilizza i principi di Kirchhoff per scrivere le equazioni che conterranno, ovviamente, dei termini integrali o differenziali; può utilizzare, volendo, gli stessi metodi del regime permanente (tensioni di nodo, correnti di lato, correnti di maglia) anche se, come si vedrà in seguito, sarà spesso opportuno utilizzare metodi misti, cioè non avere come variabili di stato solo le tensioni o solo le correnti, ma un mix di queste: ciò richiederà di iniziare a procedere in modo intuitivo. La fase 3 serve ad ottenere un sistema che sia solo di tipo differenziale. Delle equazioni scritte nella fase precedente, alcune saranno solo algebriche, altre invece integrali e/o differenziali. Le equazioni integrali vanno derivate, in modo da non avere più termini integrali ma solo differenziali. Le equazioni algebriche vanno utilizzate in modo da far scomparire, nelle equazioni differenziali, alcune variabili (solitamente quelle di cui non si presenta alcuna derivata nelle equazioni differenziali originali), in modo che la parte differenziale del sistema consideri un numero di variabili pari al numero di equazioni disponibili. Il valore delle altre variabili, dette algebriche, potrà essere ricostruito dal valore trovato per le variabili differenziali, grazie alle stesse equazioni algebriche usate in questa fase. Questa fase richiede ancora una volta una certa dose di intuizione. Con ulteriori processi di riduzione è possibile trasformare un sistema di m equazioni differenziali in m funzioni incognite in un'unica equazione differenziale, in una sola incognita, di ordine m. La fase 4 è fondamentale per la soluzione vera e propria. Ogni sistema di equazioni differenziali richiede, per poter essere risolto completamente, delle condizioni al contorno; in questo caso, visto che il dominio è il tempo, si parla di condizioni iniziali. Queste sono date, solitamente, dallo stato della rete all'istante 0-, vale a dire all'istante immediatamente precedente l'inizio del transitorio. Nell'istante 0+, non appena si è instaurata la nuova condizione della rete, che evolve in maniera transitoria verso un nuovo regime, le correnti negli induttori e le tensioni sui condensatori dovranno conservare gli stessi valori all'istante 0-. Queste informazioni andranno però a volte rielaborate, utilizzando le equazioni algebriche, perché non sempre tali grandezze sono le variabili di stato scelte per il sistema differenziale o per l'unica equazione, oppure perché derivando le funzioni integrali queste informazioni non sono più immediatamente utilizzabili. Questa fase richiede parecchio intuito. La fase 5 può invece dirsi molto standard perché i metodi risolutivi, una volta che equazioni differenziali e condizioni iniziali sono state poste correttamente, non richiede difficoltà concettuali, ma solo, eventualmente, un po' di pazienza e di attenzione nei calcoli. La fase 6 ripercorre all'indietro le operazioni di riduzione della fase 3) e calcola, in funzione delle soluzioni trovate nella fase 5), i valori delle altre funzioni. Anche questa fase richiede solo attenzione nei calcoli.
Cap. 6 - pag. 5
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6.2 - Metodo delle trasformate di Laplace Fino a questo punto si sono studiati i transitori nei circuiti (contenenti elementi circuitali capaci di immagazzinare energia) ma, applicando le leggi di Kirchhoff a tali circuiti si sono ricavate una o più equazioni differenziali nel dominio tempo, legate alla configurazione del circuito. Queste equazioni sono state risolte poi con i procedimenti classici. Tuttavia, in molti casi questi procedimenti non sono i più convenienti: per cui verrà introdotto un nuovo metodo, basato sulle trasformate di Laplace, che consente di giungere più speditamente alla soluzione delle equazioni differenziali. Inoltre, molte funzioni irregolari non possono essere facilmente studiate con i procedimenti tradizionali, mentre si giunge senza difficoltà alla soluzione con il metodo di Laplace. 6.2.1 - Trasformata di Laplace Se f(t) è una funzione di t, definita per qualunque t > 0, la trasformata di Laplace di f(t), indicata con il simbolo L [f(t)], è definita come: L
[f(t)]
= F(s) =
∞
∫0
f(t)e− st dt
(1)
dove la variabile s può essere reale o complessa. Per l'applicazione ai circuiti, si supporrà s = σ + jω. L'operatore L [f(t)] trasforma una funzione f(t) definita nel dominio tempo in una funzione F(s) definita nel dominio complesso frequenza, o semplicemente nel dominio s. Le due funzioni f(t) e F(s) costituiscono pertanto una coppia di trasformazione. Queste coppie possono essere più o meno facilmente calcolate, ma quelle di uso più frequente per comodità sono elencate in apposite tabelle. Per gli scopi di questo capitolo sono sufficienti le funzioni considerate nella Tabella 1. Condizioni sufficienti affinché esista la trasformata di Laplace sono che la funzione f(t) sia tratto per tratto continua, di ordine esponenziale e nulla per t < 0*. Una funzione f(t) è di ordine esponenziale se è f ( t ) < Ae αt per qualunque t>t0, dove A e t0 sono costanti positive. Se queste condizioni sono soddisfatte, l'integrale della trasformazione diretta è convergente per tutte le σ > α ed esiste la F(s). Tutte le funzioni considerate per lo studio dei circuiti soddisfano le condizioni (a) e (b). Per apprezzare l'applicazione del metodo allo studio dei circuiti elettrici si considerino i seguenti esempi. Il condensatore incluso nel circuito serie RC della figura possiede una tensione iniziale V0. Chiudendo l'interruttore, al circuito viene applicata la tensione costante V; l'equazione differenziale per il circuito considerato risulta** : 1 i dt = V (2) C∫ Utilizzando I(s) per la corrente del dominio s, si consideri la trasformata di Laplace di ciascun termine della (2). Ri +
*
All'atto pratico tale proprietà può essere facilmente imposta alle funzioni attraverso la moltiplicazione per sca (t). ** Si indica per semplicità V + 1 t i dt = 1 i dt ∫ 0 C ∫0 C
Cap. 6 - pag. 6
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L
[Ri] + L C ∫
Ora f -1(0+) =
(3)
I(s) f −1(0 + ) V + = Cs s Cs
(4)
R I(s) +
i dt =
[V]
1
L
∫
i dt 0 + = q(0+ ) = CV0 . La tensione iniziale è positiva se di segno concorde, con la tensione imposta dalla sorgente V. Il segno risulta pertanto positivo. Sostituendo nell'equazione (4) si ha:
R I(s) +
I(s) V0 V + = S S Cs
(5)
Raccogliendo I(s) a fattor comune, 1 V I(s) R + = − V0 Cs s I(s) =
(6)
V − V0 1 1 1 ( V − V0 ) = (R + 1 / sC) R (s + 1 / RC) s
(7)
L'operazione per mezzo della quale F(s) si trasforma nella f(t) è detta trasformata inversa di Laplace, indicata con la scrittura L-1 [F(s)]= f(t). Dalla definizione di trasformata inversa di Laplace e dalla tabella segue: L
[I(s)] = i =
−1
V − V0 −1 1 V − V0 − t / RC L = R e R s + 1 / RC
(8)
Ora l'equazione (8) esprime il transitorio di corrente nel dominio tempo conseguente alla chiusura dell'interruttore nel circuito RC in cui il condensatore possiede una tensione iniziale V0. Le condizioni iniziali sono state introdotte nell'equazione (5) nel dominio s; di conseguenza effettuando la trasformazione inversa si ottiene un'equazione che comprende già le costanti. Si osservi che attraverso le elaborazioni algebriche nella (6) e nella (7), la funzione I(s) è stata ricondotta ad una funzione compresa nella tabella, permettendo di ottenere la trasformata inversa di Laplace.
Cap. 6 - pag. 7
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Tabella 1 - Trasformata di Laplace f(t)
F(s)
1
A
t≥0
A s
2
At
t≥0
A s2
3
e-at
1 s+a
4
te-at
1 (s + a) 2 ω
sin ωt
5
2
s + ω2 cos ωt
6
s 2
s + ω2 7
s sinθ + ω cos θ
sin (ωt + θ)
s2 + ω 2 8
s cosθ + ω sinθ
cos (ωt + θ)
s2 + ω 2 9
ω
e-at sin ωt
(s + a) 2 + ω 2 10
(s + a)
e-at cos ωt
(s + a) 2 + ω 2 11
ω
sinh ωt 2
s − ω2 12
cosh ωt
s 2
s − ω2 13 14
∫
df/dt
s F(s) - f(0+)
f ( t ) dt
F(s) f −1(0+ ) + s s
15
f(t-t1)
e-t1s F(s)
16
f1(t) + f2(t)
F1(s) + F2(s)
Cap. 6 - pag. 8
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Si consideri un altro esempio. Il circuito RL rappresentato in figura viene alimentato da una tensione V, quando si chiude l'interruttore. Applicando le leggi di Kirchhoff dopo la chiusura dell'interruttore si ottiene la seguente equazione: Ri + L
di =V dt
(9)
Passando alle trasformate di Laplace di ciascun termine si ottiene: L
di [Ri] + L L dt = L [V]
(10)
R I(s) + sL I(s) - L i(0+) = V / s
(11)
La corrente iniziale i(0+) in un circuito serie RL, in cui la corrente prima della chiusura dell'interruttore era nulla, è nulla anche per t = 0+. Sostituendo i(0+) = 0 nell'equazione (11), si ottiene: I(s) (R + sL) = V / s I(s) =
(12)
V 1 1 V1 = s (R + sL) L s (s + R / L)
(13)
Segue pertanto: L
e
V
[I(s)] = i = R L −1 s − L −1 s + R / L
−1
i =
(
1
V 1 − e −(R / L )t R
1
)
File: franchino - d:\proj\unibg\elett\dispense\CAP06.DOCErrore. Il segnalibro non è definito. Stampato: gg/03/aa 22.28 Ver/Rev: drf,fin,tmp,old/0.2
Cap. 6 - pag. 9
(14) (15)
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rev. 1.0
7 Il trasformatore 7.1 - Generalità: i livelli di tensione La produzione, il trasporto, la distribuzione e l'utilizzo dell'energia elettrica avvengono a diversi livelli di tensione. Livelli di tensione elevati permettono di ottenere la stessa potenza con correnti minori, in quanto: A = V ⋅I
per il sistema monofase
A = 3V ⋅ I
per il sistema trifase
Correnti minori significa perdite minori per effetto Joule e quindi miglior rendimento del sistema: questo è importante soprattutto quando la potenza elettrica deve essere trasportata a distanze elevate e quindi le perdite di trasmissione sono significative. Un livello più elevato di tensione comporta però un maggior costo e un maggior ingombro del materiale isolante. Inoltre un guasto di tipo cto cto, con perforazione del materiale isolante, che si verifichi a livelli di tensione più elevata, è più pericoloso sia per le persone che per i materiali (rischi di incendio). Pertanto, il livello di tensione deve essere proporzionato all'ordine di grandezza della potenza in gioco e alle distanze da percorrere. Per utilizzi di tipo civile il livello di tensione che si ritiene accettabile è, come è ben noto, di 220/380 V (monofase/trifase). Con questo livello di tensione per esempio un carico monofase di 1÷1,5 kW (stufetta elettrica, forno, lavatrice) ha un assorbimento di corrente di 5÷8 A e un carico trifase di 3÷6 kW (macchina operatrice in una bottega artigiana, condizionatore in un esercizio commerciale di medie dimensioni) ha un assorbimento di 5÷10 A. La tensione di 220/380 V è pericolosa per le persone, ma uno spessore isolante di pochissimi millimetri è più che sufficiente a garantire un elevato livello di sicurezza. Un cto cto a tali tensioni innesca un incendio solo se le parti elettriche guaste vanno a contatto con materiali facilmente infiammabili. Questo livello di tensione prende il nome di bassa tensione. La potenza installata in un appartamento di abitazione è solitamente di 3 kW. Il consumo medio di una famiglia è di qualche centinaio di watt, cioè pochissimi kilowattora al giorno (si ricorda che 1 kWh = 1 kW · 1 h = 3600 kJ, il kilowattora è una unità di misura dell'energia). Quando si tratta di alimentare non un singolo appartamento, ma un intero isolato o una porzione di un quartiere con qualche centinaio di famiglie, o un'industria di dimensioni medio-grandi, la potenza in gioco passa ad un ordine delle centinaia di kilowatt o ai megawatt. Le correnti diventano allora dell'ordine delle centinaia di ampere. Conviene allora utilizzare un diverso livello di tensione, detto media tensione; i valori più diffusi sono di 6, 10, 15, 20, 30 kV. Si osserva a questo proposito che dal momento che il macchinario elettrico rotante (generatori e motori) può lavorare al massimo a questi livelli di tensione la produzione di energia elettrica avviene in media tensione. Cap. 7 - pag. 1
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Infine, quando si tratta di alimentare città o di trasportare la potenza prodotta da una grande centrale elettrica, e le potenze in gioco sono dell'ordine delle decine o centinaia di megawatt, o dei gigawatt, si utilizzano livelli di alta o altissima tensione: 130, 150 kV o 220, 380 kV. In altri paesi, con distanze maggiori d i quelle italiane (Siberia, Canada, America Latina) si usano livelli anche più elevati, come 700 kV. La catena può quindi essere vista in questo modo: 1. produzione mediante generatori elettrici, in media tensione 2. immediato innalzamento della tensione a livelli alti o altissimi 3. trasporto dell'energia elettrica in alta o altissima tensione e utilizzo in alta tensione 4. abbassamento a livelli di media tensione alle porte dei centri abitati o delle industrie 5. distribuzione in media tensione nei quartieri urbani o nei reparti dello stabilimento 6. abbassamento a livelli di bassa tensione in prossimità dell'utilizzo 7. utilizzo in bassa tensione. Il dispositivo che permette di innalzare o di abbassare il livello di tensione in regime PAS è il trasformatore elettrico.
7.2 - Il trasformatore monofase La maggior parte dei trasformatori di potenza è trifase; i monofase si utilizzano per piccole potenze (uso domestico); il principio di funzionamento però è lo stesso, ed è molto semplice: due avvolgimenti elettrici sono accoppiati mediante un circuito magnetico in ferro. Il caso più semplice è quello in figura:
In particolare per l'avvolgimento 1, detto anche avvolgimento primario o semplicemente primario, si utilizzerà la convenzione degli utilizzatori e per l'avvolgimento 2, detto anche avvolgimento secondario o semplicemente secondario, la convenzione dei generatori. La scelta del lato da considerare primario e di quello da considerare secondario è puramente arbitraria: la macchina è perfettamente bidirezionale, cioè può portare potenza dal lato 1 al lato 2 o viceversa, senza alcuna difficoltà. Generalmente si indica come primario il lato in cui, in quella particolare condizione di funzionamento, entra potenza (e si comporta quindi come un utilizzatore) e come secondario il lato da cui la potenza esce (e si comporta quindi come generatore). Se un avvolgimento è percorso da corrente in alternata, esso induce tensione sull'altro avvolgimento per effetto induttivo. Si ricorda infatti che la corrente produce campo e induzione magnetici e quindi flusso magnetico, che si concatena anche con l'altro avvolgimento; se la corrente varia nel tempo, il flusso varia con la stessa legge; variazione di flusso nel tempo significa tensione indotta (legge di Faraday-Henry). 7.2.1 - Trasformatore ideale Una trasformazione di questo tipo non comporta nel caso ideale alcuna dissipazione di energia e quindi sostanzialmente la potenza in ingresso e in uscita devono essere uguali, fatto salvo appunto per le dissipazioni. Deve quindi valere che: Cap. 7 - pag. 2
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V1 ⋅ I1 ≅ V2 ⋅ I2 Quindi se vale che: V2 =n V1
I2 1 = I1 n
deve anche valere che:
7.2.2 - Trasformatore reale Si supponga che sia ℜ il valore della riluttanza del circuito magnetico. Siano inoltre N1, N2 le spire dei due avvolgimenti. Vale allora che il flusso che attraversa il circuito magnetico, detto flusso principale è dato da: Φ=
N11 i − N2i2 ℜ
(7.1)
dove sui due avvolgimenti sono state prese convenzioni di verso discordi. Ciascun avvolgimento vedrà quindi un flusso concatenato, che si indica come flusso concatenato, principale pari a: N i − N2i2 Ψ1p = N1 ⋅ Φ = N1 ⋅ 11 ℜ (7.2) N i − N2i 2 Ψ2p = N2 ⋅ Φ = N2 ⋅ 1 1 ℜ Inoltre ciascun avvolgimento produrrà un'ulteriore porzione di flusso che si richiude però non nel circuito ferromagnetico, ma in aria; tali flussi quindi, non avendo un circuito magnetico rigidamente definito, non andranno quindi a concatenarsi mutuamente, ma ciascuno solo con il proprio avvolgimento. Prendono il nome di flussi di dispersione. Ψ1d =
N12
ℜd
Ψ2d =
i1;
N22
ℜd
i2
(7.3)
Per il secondo avvolgimento si è utilizzato il segno negativo, per la convenzione dei generatori, coerentemente con la (7.2). Il rapporto fra un flusso concatenato e la corrente che lo genera è una (auto o mutua) induttanza; si definiscono allora: 2 Ψ1d N1 L1d = = ; i1 ℜd
Lm1 =
Ψ1p i1
=
N12 ℜ
M12 =
;
Ψ1p i2
=
N1N 2 =M ℜ (7.4)
L 2d =
2 Ψ2d N2 = ; −i2 ℜd
Lm2 =
Ψ2p −i2
=
N22 ℜ
;
M21 =
Ψ2p i1
=
Le tensioni che si presentano in ogni avvolgimento sono pertanto:
Cap. 7 - pag. 3
N2N1 =M ℜ
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ν1 = +R1 ⋅ i1 +
(
)
di di di d Ψ1d + Ψ1p = +R1 ⋅ i1 + L1d 1 + L m1 1 − M 2 dt dt dt dt (7.5)
ν 2 = −R 2 ⋅ i2 +
(
)
di di di d Ψ2d + Ψ2p = −R 2 ⋅ i2 − L 2d 2 − L m1 2 − M 1 dt dt dt dt
dove si è tenuto conto anche dell'effetto resistivo sugli avvolgimenti. Da quanto si vede da queste equazioni, e come è comunque intuitivo, la macchina può funzionare solo se il regime è variabile, ed in particolare avrà un funzionamento ottimale in regime PAS. In seguito passeremo alla notazione fasoriale per tutte queste equazioni. Si nota che: M=
N2 N Lm1 = 1 L m2 N1 N2
(7.4.1)
Si definisca allora: i'2 =
N2 i2 N1
(7.6)
la corrente i'2 è una corrente che, fatta circolare nell'avvolgimento 1, produce la stessa forza magnetomotrice della corrente i2 nell'avvolgimento 2; infatti: N N1 ⋅ i'2 = N1 2 i2 = N2 ⋅ i 2 N1 di tale valore di corrente si dice che è la corrente del secondario riportata al primario. Analogamente si può definire la corrente del primario riportata al secondario. Le equazioni (7.5) possono allora essere riscritte come: ν1 = +R1 ⋅ i1 + L1d
(
di1 di N di' di di + L m1 1 − M 1 2 = +R1 ⋅ i1 + L1d 1 + L m1 1 i1 - i'2 dt dt N 2 dt dt dt
ν 2 = −R 2 ⋅ i 2 − L 2d
)
di2 di di di N di' di − L m2 2 + M 1 = −R 2 ⋅ i2 − L 2d 2 − Lm2 1 2 + M 1 dt dt dt dt N2 dt dt
L'ultima parte della seconda equazione: −Lm2
(
N2 N1 di'2 di N di' N di N d + M 1 = − 2 Lm1 1 2 + 2 Lm1 1 = 2 L m1 i1 − i'2 2 N2 dt dt N dt N dt N dt N1 2 1 1
da cui le equazioni infine diventano: ν1 = +R1 ⋅ i1 + L1d
(
di1 di + L m1 1 i1 - i'2 dt dt
) (7.7)
ν 2 = −R 2 ⋅ i2 − L 2d
(
di2 N 2 d + Lm1 i1 - i'2 dt N1 dt Cap. 7 - pag. 4
)
)
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Si definiscono allora le grandezze: e1 = Lm1
d (i − i' ) dt 1 2 (7.8)
e2 =
N2 d Lm1 (i1 − i'2 ) N1 dt
dove si nota che: e 2 N2 = e1 N1
(7.8.1)
Si può allora descrivere meglio la macchina mediante il seguente circuito equivalente:
dove il componente centrale rappresenta un trasformatore ideale: cioè un dispositivo che trasforma le tensioni e le correnti secondo un rapporto esattamente uguale al rapporto spire, in modo ideale: cioè le tensioni trasformate non dipendono dalle correnti e le correnti trasformate non dipendono dalle tensioni (si sarebbe potuto fare un modello analogo ponendo il ramo derivato al secondario anziché al primario, e utilizzando quindi la corrente primaria riportata al secondario, i1' ). Il ramo derivato e la corrente che lo attraversa hanno un significato ben preciso. Si suppongano per ora trascurabili le cdt dovute alle resistenze e alle induttanze di dispersione degli avvolgimenti. In tal modo si può dire che le tensioni al primario e al secondario sono dovute solo all'effetto induttivo del flusso principale. Perché tale flusso esista occorre però una forza magnetomotrice che lo produca. Questa fmm è data da:
(
N fmm = N1 ⋅ i1 − N2 ⋅ i 2 = N1 ⋅ i1 − 2 i 2 = N1 ⋅ i1 − i'2 N1
)
(7.9)
è cioè pari alla somma algebrica delle fmm della corrente al primario e al secondario, e in questo va ricordato che la corrente al secondario, e quindi la sua fmm, sono discordi dalle stesse grandezze al primario. L'effetto è lo stesso che si avrebbe con solo una corrente al ' primario di valore i1 − i2 , che è chiamata corrente di magnetizzazione. In realtà naturalmente primario e secondario sono percorsi dalle rispettive correnti, e non esistono parti circuitali percorse effettivamente dalla corrente di magnetizzazione, che quindi ha solo un valore virtuale, o matematico, o di corrente equivalente. Questa fmm (cioè questa corrente di magnetizzazione) produce quindi il flusso principale:
Cap. 7 - pag. 5
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(
' N1 ⋅ i1 − N2 ⋅ I2 N1 ⋅ i1 − i2 Φ= = ℜ ℜ
)
(7.10)
e poiché il circuito magnetico è in ferro, il valore della riluttanza è molto piccolo e pertanto basta una fmm piccola per avere un flusso anche elevato. Il ramo derivato rende quindi ragione di questa fmm, o di questa corrente di magnetizzazione. Se questa corrente non esiste, o ha un valore nullo, non esiste flusso principale e quindi non possono esistere tensioni indotte. In pratica la corrente magnetizzante è pari a valori dell'ordine dell'1÷2% della corrente nominale (cioè della massima corrente prevista). La variazione nel tempo di questa corrente di magnetizzazione, e quindi del flusso principale, comporta l'insorgere di una tensione indotta per ogni spira: e=
dΦ dt
(7.11)
che moltiplicata per il numero di spire di ciascun avvolgimento fornisce le tensioni già viste nella (7.8): e1 = N1 ⋅ e;
e 2 = N2 ⋅ e
(7.12)
La corrente di magnetizzazione è nella realtà sempre molto modesta in ragione del fatto che il circuito magnetico è in materiale ferromagnetico. Il fatto che basti una corrente magnetizzante piccola comporta una conseguenza molto importante: e cioè che la corrente del primario e la corrente del secondario riportata al primario differiscono per un valore molto piccolo; sono quindi quasi uguali. In questo senso si può dire che il trasformatore è una macchina quasi ideale per quanto riguarda la trasformazione delle correnti, poiché: N1 ⋅ i1 ≅ N2 ⋅ i2 che significa che il rapporto tra le correnti è molto vicino a quello teorico, dato dal rapporto spire; mentre è un po' meno ideale per quanto riguarda il rapporto tra le tensioni, perché le cdt sulle resistenze e soprattutto sulle induttanze di dispersione sono più rilevanti. Generalmente i trasformatori funzionano a tensione imposta. Questo significa che uno dei due lati (il primario o il secondario) sono collegati ad una sorgente di fem, solitamente PAS, di modo che la forma d'onda delle tensioni di ogni avvolgimento, e quindi della tensione spira, è imposta. In condizioni di linearità del mezzo magnetico, la corrente di magnetizzazione è proporzionale al valore del flusso, e quindi è anch'essa PAS. Ma i materiali ferromagnetici presentano il fenomeno della saturazione, pertanto la forma d'onda della corrente di magnetizzazione risulterà distorta rispetto ad una sinusoide regolare, con un valore massimo superiore a quello previsto in condizioni di linearità. Questo però non è un fenomeno preoccupante. Infatti la corrente di magnetizzazione è solo un piccolo valore di differenza tra la corrente del primario e la corrente del secondario riportata al primario, ed è un valore percentualmente molto piccolo rispetto a tali correnti. se la corrente di magnetizzazione è distorta, questo significa che se una delle due correnti è perfettamente regolare, l'altra sarà pari a questa più o meno un piccolo valore che non è perfettamente sinusoidale, ma che per la sua piccolezza non produce distorsioni rilevanti. Infine, va considerato un ultimo fenomeno, che è quello delle perdite nel ferro. Se un materiale ferromagnetico è percorso da flusso magnetico variabile nel tempo, si presentano perdite per isteresi e per correnti parassite. Nel regime PAS tali perdite sono proporzionali Cap. 7 - pag. 6
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al quadrato del valore massimo dell'induzione, e quindi del flusso; induzione e flusso sono a loro volta proporzionali alla tensione per spira generata. Pertanto le perdite nel ferro sono proporzionali al quadrato della tensione dovuta al flusso principale; possono allora essere rappresentate come una resistenza sottoposta alla stessa tensione del ramo di magnetizzazione. Passando alla rappresentazione fasoriale ed introducendo nel circuito equivalente anche la resistenza che simula le perdite nel ferro, ed indicando con Υ 0 l'ammettenza corrisponde al parallelo di tale resistenza e dell'induttanza di magnetizzazione:
(
Υ 0 −1 = Z 0 = R 0 jω L1p
)
(7.13)
si ha il seguente schema circuitale:
al quale corrispondono le seguenti equazioni: V 1 = +(R1 + jX 1) ⋅ I1 + E1
V 2 = E2 − (R 2 + jX 2 ) ⋅ I2
(7.14)
I1 − I2 = (G0 + jB0 ) ⋅ E1 '
E2 =
N2 E1; N1
1
I2 =
N2 I2 N1
(7.15)
Questo circuito può essere trasformato. Si noti che la potenza apparente assorbita dall'impedenza serie sul lato secondario vale: A z2 = Z2 ⋅ I22 = (R 2 + jX 2 ) ⋅ I22 si vuole ora trovare un'impedenza equivalente che, attraversata dalla corrente I2' , comporti la stessa dissipazione di potenza: I2 N2 Z2' ⋅ I'22 = Z 2 ⋅ I22 ⇒ Z2' = Z2 '22 = Z2 12 I2 N2 Allora nel circuito l'impedenza al secondario potrebbe essere eliminata ponendo invece di questa l'impedenza appena calcolata, ma posizionandola come da figura:
Cap. 7 - pag. 7
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in modo che sia percorsa dalla corrente del secondario riportata al primario. Si dimostra che i due circuiti sono equivalenti non solo per quanto riguarda le potenze, ma anche per le tensioni, cioè l'equivalenza è perfetta. L'operazione di portare un'impedenza da un lato all'altro del trasformatore, moltiplicandone il valore per il quadrato del rapporto spire, prende il nome di riporto. In questo caso un'impedenza al secondario è stata riportata al primario. In questo caso si ha un circuito equivalente a T seguito dal trasformatore ideale. Un altro modo di rappresentare il circuito equivalente parte dalla considerazione che la tensione nel punto in cui il ramo derivato è alimentato, non è molto diversa da quella di ingresso al primario o di uscita al secondario riportata al primario: la differenza sta solo nella cdt sulle impedenze serie. Anche se questa differenza può essere dell'ordine di un 100%, considerando che comunque l'assorbimento del ramo derivato è piccolo ci si può permettere un errore su di esso: è quindi lecito spostare il punto di inserzione del ramo derivato dal punto intermedio tra Z1 e Z2' ad un punto a monte di Z1 (ingresso del primario) o a valle di Z1 (appena prima dell'ingresso al trasformatore ideale); si ha in questo modo un circuito equivalente a Γ seguito in cascata dal trasformatore ideale.
In questo modo le due impedenze Z1 e Z2' possono essere messe in serie in un'unica impedenza che prende il nome di Zcc : Zcc = Z1 + Z2' Con lo schema come in quest'ultima configurazione, può risultare più agevole il calcolo del punto di funzionamento. Anche se il ramo derivato è molto importante dal punto di vista concettuale, per il suo significato fisico come sopra visto, l'assorbimento di corrente e di potenza di tale ramo è molto piccolo in confronto alla corrente e alla potenza in transito. Per questo molto spesso tale ramo viene trascurato nei calcoli e negli schemi circuitali. Il trasformatore si riduce a un semplice elemento serie seguito in cascata dal trasformatore ideale. Tutte queste configurazioni sono più o meno adeguate ai diversi tipi di analisi circuitale che si vogliono affrontare. Cap. 7 - pag. 8
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7.2.3 - Studio del funzionamento del trasformatore e prove Utilizzando comunque lo schema a T, è possibile valutare il funzionamento del trasformatore studiando dapprima due situazioni estreme: il funzionamento a vuoto e il funzionamento in cto cto. Infine verrà studiato il funzionamento con un carico generico. a) Prova funzionamento a vuoto In questo caso il trasformatore viene alimentato dal lato primario mediante un generatore di tensione, mentre i morsetti del secondario vengono lasciati aperti. In questo caso si impongono la tensione al primario e la corrente al secondario (al valore 0). Si ha allora: I1 =
V1 V ≅ 1 Z1 + Z0 Z0
V2' = E1 = Z0 ⋅ I1 =
Z0 V1 ≅ V1 Z1 + Z0
l'approssimazione è valida perché l'impedenza del ramo derivato è molto grande. Da un punto di vista più fisico succede questo: la corrente al primario non è compensata da alcuna corrente al secondario; pertanto la corrente al primario è tutta magnetizzante, e quindi ne basta un valore molto piccolo per sostenere la tensione di alimentazione: di fatto il trasformatore si comporta come un reattore, con una reattanza molto elevata. Per questo la corrente di magnetizzazione è detta corrente a vuoto. Poiché la corrente di magnetizzazione è dell'ordine di pochissimi % o frazioni di % della corrente nominale, la corrente a vuoto è 50÷200 volte più piccola della corrente nominale. Con una piccola corrente la cdt sulla resistenza e sulla reattanza di dispersione del primario è quindi molto piccola: la tensione indotta coincide in pratica con la tensione di ingresso, e il trasformatore è quasi un trasformatore ideale per quanto riguarda le tensioni. Nel funzionamento a vuoto la macchina non ha praticamente dissipazioni di potenza sugli avvolgimenti, mentre sono al valore nominale le perdite nel ferro. b) Prova funzionamento in cto cto In questo caso il trasformatore viene alimentato dal lato primario mediante un generatore di tensione, mentre i morsetti del secondario vengono richiusi in cto cto. In questo modo sono imposte la tensione al primario e la tensione al secondario. Il ramo derivato e l'impedenza Z2' sono quindi posti in parallelo tra di loro: I1 =
(
V1
Z1 + Z0 / / Z2'
)
≅
V1 Z1 +
Z2'
=
V1 Zcc
(7.16)
I2' ≅ I1 l'approssimazione è accettabile perché, essendo l'impedenza del ramo derivato molto grande, nel parallelo essa diventa trascurabile. La corrente è limitata quindi solo dalle due impedenze degli avvolgimenti, la cui serie prende proprio per questo il nome di impedenza di cto cto. Poiché questa impedenza provoca, con il passaggio della corrente nominale, una cdt dell'ordine del 4÷20%, la corrente di cto cto a tensione nominale è dell'ordine di 5÷25 volte la corrente nominale. In queste condizioni si hanno fortissimi surriscaldamenti della macchina e rischi di tipo elettromeccanico, perché tra conduttori percorsi da corrente si presentano sempre delle forze di origine elettromagnetica. Il cto cto, come sempre, è Cap. 7 - pag. 9
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pericoloso; dovendo provare una macchina in queste condizioni occorre porre attenzione a non superare una tensione di ingresso pari alla stessa cdt che si presenta sull'impedenza di cto cto percorsa da corrente nominale. Si parla quindi di tensione di cto cto, pari, a seconda delle macchine, al 4÷20% della tensione nominale. 7.3 - Il trasformatore trifase Poiché tutta l'impiantistica di potenza è trifase, è fondamentale conoscere il principio di funzionamento del trasformatore trifase. Questo è fondamentalmente uguale a quello del trasformatore monofase, fatto salvo che ogni fase subisce l'effetto non solo delle proprie correnti primaria e secondaria, ma anche delle correnti delle altre due fasi. Dal punto di vista costruttivo, nel trasformatore trifase si dedica una colonna di ferro a ciascuna fase, ponendo su di essa sia l'avvolgimento primario sia il secondario. Solitamente tali avvolgimenti sono uno avvolto sopra l'altro, separati ovviamente da strati di materiale isolante e anche da intercapedini per lasciar circolare i fluidi di raffreddamento. Le tre colonne vanno poi raccordate tra loro per chiudere i circuiti magnetici. Un trasformatore trifase perfettamente simmetrico potrebbe essere costruito con le colonne raccordate mediante gioghi disposti a stella o a triangolo. In realtà i trasformatori non si costruiscono in questo modo (anche per la difficoltà di raccordare i lamierini di ferro provenienti da gioghi disposti a 120° tra loro), ma facendo riferimento a tale ipotesi semplificativa (circuito magnetico con perfetta simmetria triangolare) si dimostra come si può tornare alla rappresentazione monofase, in quanto è sufficiente conoscere il comportamento di una sola fase per conoscere anche il comportamento delle altre. Si supponga il sistema simmetrico ed equilibrato. Le equazioni di funzionamento diventano allora, indicando con VA,B,C, IA,B,C le grandezze al primario e con Va,b,c, Ia,b,c le grandezze al secondario, e dove le tensioni sono tensioni di fase: ' ' ' V A = R1 ⋅ IA + jω L1d ⋅ IA + jω MAA ⋅ IA − Ia + jω MAB ⋅ IB − Ib + jω MAC ⋅ IC − Ic ' ' ' V B = R1 ⋅ IB + jω L1d ⋅ IB + jω MBA ⋅ IA − Ia + jω MBB ⋅ IB − Ib + jω MBC ⋅ IC − Ic ' ' ' V C = R1 ⋅ IC + jω L1d ⋅ IC + jω MCA ⋅ IA − Ia + jω MCB ⋅ IB − Ib + jω MCC ⋅ IC − Ic
V a = R 2 ⋅ Ia − jω L 2d ⋅ Ia + jω
N2 N1
(7.17)
' ' ' M AA ⋅ IA − Ia + MAB ⋅ IB − Ib + MAC ⋅ IC − Ic
V b = R 2 ⋅ Ib − jω L 2d ⋅ IB2 + jω
N2 N1
' ' ' MBA ⋅ IA − Ia + MBB ⋅ IB − Ib + MBC ⋅ IC − Ic
V C = R 2 ⋅ Ic − jω L 2d ⋅ Ic 2 + jω
N2 N1
' ' ' MCA ⋅ IA − Ia + MCB ⋅ IB − Ib + MCC ⋅ IC − Ic
Osservando il circuito magnetico, si nota che se questo è simmetrico il flusso magnetico generato in una colonna si ripartisce in parti uguali nelle altre due, percorrendole in senso opposto rispetto alla colonna di provenienza. Si può quindi scrivere che: M AA = MBB = MCC = M M AB = MBA = MBC = MCB = MCA = M AC = −M / 2 Cap. 7 - pag. 10
(7.18)
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Inoltre se il sistema delle correnti è equilibrato, vale: 2
IC = α ⋅ IA
2
Ic = α ⋅ Ia
IB = α ⋅ IA Ib = α ⋅ Ia
(7.19)
e queste relazioni possono essere utilizzate nelle (7.17) ottenendo così una formula in cui scompaiono i termini mutui: 2 2 α α ' α α = V A = R1 ⋅ IA + jω L1d ⋅ IA + jωM ⋅ IA 1 − − − Ia 1 − − 2 2 2 2
3 ' 3 = R1 ⋅ IA + jω L1d ⋅ IA + jωM ⋅ IA − Ia = 2 2 ' 3 = R1 ⋅ IA + jω L1d ⋅ IA + jω M ⋅ IA − Ia 2
(7.20)
2 2 N2 α α ' α α M ⋅ IA 1 − V a = R 2 ⋅ Ia − jω L 2d ⋅ Ia + jω − − Ia 1 − − = 2 2 2 2 N1
N 3 ' 3 = R 2 ⋅ Ia − jω L 2d ⋅ Ia + jω 2 M ⋅ IA − Ia = 2 N1 2 = R 2 ⋅ Ia − jω L 2d ⋅ Ia + jω
' 3 N2 M ⋅ IA − Ia 2 N1
(analogamente per le altre fasi). Attraverso una induttanza equivalente risulta amplificata di un fattore 3/2, viene tenuto conto dell'effetto delle correnti delle altre fasi, che così non appaiono più esplicitamente. Si usa così un circuito equivalente monofase per una macchina trifase. In realtà i trasformatori si costruiscono con la seguente forma (3 colonne, ma esistono anche a 5 colonne):
da cui si nota che il circuito magnetico non è perfettamente simmetrico. Questo comporta che: le tre correnti di eccitazione, che in condizioni di simmetria dovrebbero essere equilibrate, qui saranno diverse in modulo e poste tra loro ad angoli diversi da 120°. Questo però non è un fatto grave: ricordando che tali correnti sono solo frazioni minime delle correnti principali, l'unica conseguenza è un leggerissimo disequilibrio tra le tre correnti principali al primario oppure al secondario. Un'importante proprietà dei trasformatori trifasi è la possibilità di creare sfasamenti tra le grandezze al primario e quelle al secondario, secondo multipli di 30°. Si consideri la seguente rappresentazione simbolica, in cui si evidenziano gli avvolgimenti di ciascuna colonna e le loro tensioni: Cap. 7 - pag. 11
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tra primario e secondario vale la relazione: U1 N1 ≅ U2 N2
(7.21)
nell'ipotesi di trascurare le cdt dovute alle resistenze alle induttanze di dispersione. Ogni lato del trasformatore presenta quindi sei morsetti, due per ogni fase. Gli avvolgimenti su ciascun lato possono quindi essere collegati tra loro in due modi diversi: a stella o a triangolo:
Per quanto riguarda i moduli delle tensioni concatenate, vale che: Vi = Ui
se il collegamento è a triangolo (7.22)
Vi = 3 ⋅ Ui
se il collegamento è a stella
Se il primario è a stella, lo si indica con il simbolo Y; se a triangolo con il simbolo D. Per il secondario valgono le lettere minuscole, y e d. Combinando la (7.21) e la (7.22), e considerando che si hanno quattro diverse possibilità, i rapporti effettivi di trasformazione risultano: Yy:
V1 = V2
3 ⋅ U1 3 ⋅ U2
=
3 ⋅ N1 3 ⋅ N2
=
N1 N2
Dy:
V1 = V2
U1 3 ⋅ U2
=
N1 3 ⋅ N2 (7.23)
Yd:
V1 = V2
3 ⋅ U1 = U2
3 ⋅ N1 N2
Dd:
V1 U1 N1 = = V2 U2 N2
Si nota che per i tipi Dy e Yd appare un fattore 3 al numeratore o al denominatore. Per quanto riguarda gli sfasamenti, si considerino i seguenti esempi: a) Yy senza permutazione delle fasi
Cap. 7 - pag. 12
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b) Dy
Si può quindi notare che i collegamenti Yy, ed analogamente i Dd, permettono sfasamenti di: 60°, 120°, ecc., cioè di k·60° mentre i collegamenti Yd o Dy permettono sfasamenti di 30°, 90°, ecc., cioè di 30+k·60°. Quindi in generale è possibile ottenere sfasamenti di: k ⋅ 30° Il valore di k prende il nome di gruppo o, potendo variare da 0 a 12, di indice orario CEI. Questa proprietà che i trasformatori hanno di creare sfasamento tra secondario e primario può essere sfruttata per usi particolari (per esempio per ottenere tensioni in quadratura); occorre però porre molta attenzione nel caso di trasformatori collegati in parallelo. E' molto importante sapere come regolarsi in caso di parallelo di trasformatori. Perché due trasformatori possano essere posti in parallelo occorre rispettare le seguenti condizioni: 1- il rapporto di trasformazione (rapporto spire, eventualmente moltiplicato o diviso per 3 nei casi Dy o Yd, deve essere lo stesso per le due macchine; 2- il gruppo o indice orario deve essere lo stesso; 3- le due macchine devono avere la stessa υcc nel loro rispettivo sistema p.u. (vd. oltre): solo in questo modo infatti le macchine trasformeranno potenza in proporzione alla loro potenza nominale, realizzando così una distribuzione equa della potenza da trasformare, in una condizione in cui ogni macchina è caricata allo stesso modo in proporzione alle sue possibilità. La necessità delle due condizioni 1- e 2- è intuitiva: i primari sono alimentati dalla stessa sorgente di tensione; i secondari dei due trasformatori devono trovarsi, a parte le cdt, nelle stesse condizioni di tensione per poter essere posti in parallelo; quindi i rapporti di trasformazione devono essere gli stessi. La condizione 3- è più comprensibile con qualche passaggio matematico. Si abbiano due macchine, A e B; per esse si hanno tensioni e correnti nominali (si usano le tensioni di fase): Cap. 7 - pag. 13
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(A) (A) (A) V1(NA ) I1N V2N I2N (B) (B) (B) V1(NB) I1N V2N I2N
dove dovrà essere: V1(NA ) = V1(NB) ) (B) V2(A N = V2N
mentre: A) = I1(N
(A) AN
3 ⋅ V1(NA )
(A ) AN
I(2AN) =
) 3 ⋅ V2( A N
(7.24) ) I1(B N =
(B ) AN 3 ⋅ V1(NB )
I(2BN) =
(B ) AN 3 ⋅ V2(BN)
La dimostrazione è molto semplice: a fronte della stessa ddp υ1 − υ 2 , le correnti che passano in ciascuna macchina sono: υ − υ2 i ( A,B) = 1 ( A,B ) Z cc
(7.25)
poiché si vuole che ogni macchina sia caricata in proporzione alla sua potenza nominale, si vuole che la corrente in p.u. di ogni macchina sia la stessa (7.24), quindi (7.25) occorre siano uguali le impedenze di cto cto.
7.4 - Grandezze nominali e sistema per unità Le prestazioni di una qualsiasi macchina elettrica sono limitate dall'integrità dell'isolamento per effetto di: 1. problemi termici 2. problemi di tenuta dielettrica Ogni macchina, dispositivo, sistema elettrico è caratterizzato da valori nominali delle grandezze V, I, f (conseguentemente P, A ecc.) che sono i valori con i quali può lavorare per un tempo teoricamente infinito: - Il significato della V nominale è immediato se si pensa, anche intuitivamente, al livello di isolamento - Il significato della corrente nominale deve essere ricercato pensando alle perdite per effetto Joule che producono surriscaldamento e quindi stress termico dei materiali e primariamente dell'isolante che tra i materiali presenti in un componente elettrico è quello caratterizzato dai limiti di temperatura più restrittivi. Si nota comunque che queste problematiche non sono indipendenti dal tempo di applicazione della tensione e della corrente. Non è impossibile far lavorare una macchina a valori diversi (in particolare superiori) a quelli previsti dalle caratteristiche nominali: Cap. 7 - pag. 14
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1- in generale un valore superiore di una grandezza nominale diminuisce la vita della macchina (al limite fino a farla diventare istantanea); 2- valori superiori, ma intermittenti, possono essere calibrati in modo tale da non ridurre la vita della macchina. Si consideri un trasformatore, sia esso monofase o trifase con rappresentazione monofase. Per esso sono definite le grandezze nominali: V1N
I1N
V2N
I2N
(7.26)
(nel caso di macchina trifase si usano le tensioni di fase e non le concatenate). Vale che: V1 N1 I2 = = I1 V2 N 2
(7.27)
Si definiscono allora le tensioni e correnti in per unità (o per unità o p.u.): υ1 =
V1 V1N
I i1 = 1 I1N
υ2 =
V2 V2N
I i2 = 2 I2N
(7.28)
Il significato di tali grandezze è semplice e chiaro: quando uno di questi valori vale 1, significa che tale grandezza è pari al suo valore nominale. I valori in p.u. forniscono quindi una informazione molto immediata. Sono inoltre dati i parametri dei circuito equivalente a T: Z1
Z0
Z2
dove l'impedenza a vuoto è calcolata per esempio al primario (si potrebbero riportare al secondario con il quadrato del rapporto spire). Si definiscono allora: V Z1N = 1N I1N
Z 2N =
V2N I2N
(7.29)
dette impedenze nominali e quindi le impedenze in p.u. sono: z1 =
Z1 Z1N
z0 =
Z0 Z 0N
z2 =
Z2 Z 2N
(7.30)
Si noti allora che: υ1 =
[
]
V1 1 = z1 ⋅ Z1N ⋅ i1 ⋅ I1N + E1 = z1 ⋅ i1 + e1 V1N V1N (7.31)
υ2 =
[
]
V2 1 = z 2 ⋅ Z 2N ⋅ i2 ⋅ I2N + E2 = z 2 ⋅ i2 + e2 V2N V2N Cap. 7 - pag. 15
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si noti anche che, a partire dalla (7.14) e dalla (7.10): E1 N1 = ; E2 N 2
V1 N1 = ; V2 N2
⇒
e1 = e2
(7.32)
inoltre: e1 = e2 =
E1 Z ⋅I Z ⋅ i ⋅I = 0 0 = 0 0 1N = z0 ⋅ i0 V1N V1N V1N
(7.33)
Si noti anche che: I' 1 N2 I i2' = 2 = I2 = 2 = i2 I1N I1N N1 I2N Le grandezze riportate dal secondario al primario (o viceversa) conservano lo stessa valore in p.u. Le equazioni di funzionamento possono allora essere riscritte come: υ1 = + z1 ⋅ i1 + z0 ⋅ i0 υ 2 = − z 2 ⋅ i2 + z0 ⋅ i i0 = i1 − i2
(7.34)
da cui il circuito equivalente:
in cui non appare più il trasformatore ideale. Il metodo in p.u. permette quindi: - di esprimere i valori delle variabili di stato e dei parametri in modo molto immediato - di esprimere tali valori in modo indipendente dall'essere al primario o al secondario - di eliminare dai circuiti equivalenti i trasformatori ideali. Poiché si trova, dall'esperienza costruttiva dei trasformatori che valori dei parametri in p.u. sono dell'ordine: z 0 = 50 ÷ 200 p. u. z1 + z 2 = 0,04 ÷ 0,25 p. u. ecco che risultano più chiari i discorsi fatti alla fine del paragrafo 7.2: Cap. 7 - pag. 16
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a- nel funzionamento a vuoto, z = z1 + z0 ≅ z0 quindi alimentando a tensione nominale si ottiene la cornette a vuoto: i1(0) = υ1 / z 0 = 1 / z 0 = y 0 ≅ 0,005 ÷ 0,020 p.u. b- nel funzionamento in cto cto: z = z1 + z0 / / z 2 ≅ z1 + z 2 = z$ cc quindi alimentando a tensione ridotta in modo da ottenere la corrente nominale: υ1(cc) = z cc ⋅ i1 = z cc ⋅ 1 = z cc ≅ 0,04 ÷ 0,25 p. u. per questo il valore zcc viene spesso chiamato anche υcc (tensione di cto cto).
7.5 - Autotrasformatori Un autotrasformatore monofase si ottiene da un trasformatore ordinario collegando i due avvolgimenti in serie diretta e fissando i morsetti ad alta tensione agli estremi di tale serie, quelli a bassa tensione ai capi di uno dei due avvolgimenti. Siano N1 e N2 i numeri di spire dei due avvolgimenti: si supponga, per fissare le idee, che i morsetti primari siano quelli ad alta tensione (agli estremi dell'avvolgimento risultante di N1 + N2 spire), che i morsetti secondari siano quelli a bassa tensione (agli estremi dell'avvolgimento di N2 spire). Nell'approssimazione di trasformatore ideale, l'autotrasformatore è completamente individuato dal suo rapporto di trasformazione: n=
N1 + N 2 N2
L'avvolgimento primario è percorso dalla corrente I1 e sottoposto alla tensione U1 - U2: esso è perciò dimensionato per la potenza apparente: S1 = (U1 − U2 )I1 L'avvolgimento secondario è percorso dalla corrente I1 - I2 e sottoposto alla tensione U2: esso è dimensionato per la potenza apparente: S 2 = U2 (I2 − I1) Poiché: n=
U1 I2 = U2 I1
si conclude immediatamente che: Cap. 7 - pag. 17
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S1 = S 2 =
n−1 n−1 U1 I1 = U2 I2 n n
Dunque la potenza di dimensionamento dell'autotrasformatore S (uguale al valore comune di S1 e di S2) differisce dalla potenza trasferita dai morsetti primari a quelli secondari o n −1 potenza passante Sp (uguale al valore comune di U1 I1 e U2 I2) per il fattore , sempre n minore dell'unità. Questa riduzione della potenza di dimensionamento rispetto alla potenza passante costituisce il principale vantaggio dell'autotrasformatore rispetto al trasformatore ordinario, vantaggio che è tanto maggiore quanto più le tensioni primaria e secondaria sono vicine fra loro, cioè quanto più n è prossima all'unità. Di contro, si deve considerare lo svantaggio della continuità metallica fra circuito primario e circuito secondario, che obbliga ad isolare entrambe le linee per la stessa tensione verso terra: questa condizione è peraltro tanto meno gravosa, quanto più il rapporto di trasformazione è prossimo all'unità. Considerazioni del tutto analoghe a quelle precedenti valgono nell'ipotesi che l'autotrasformatore, anziché come abbassatore, funzioni come elevatore. In conclusione, l'autotrasformatore può essere convenientemente usato per interconnettere reti a tensioni poco diverse tra loro.
Gli autotrasformatori trifasi, con nucleo a tre colonne, possono essere collegati a stella o a triangolo. Il collegamento a stella è di gran lunga più usato.
7.6 - Cenni ai problemi termini Nel trasformatore, come in ogni macchina elettrica, si presenta, per effetto Joule negli avvolgimenti e per correnti parassite e isteresi nel ferro, produzione di calore da dissipare. Questo, oltre ad essere svantaggioso ai fini del rendimento, crea problemi di surriscaldamento. Si noti che le perdite negli avvolgimenti sono proporzionali al quadrato della corrente, quindi variano molto con il carico, mentre le perdite nel ferro sono proporzionali al quadrato della tensione e quindi pressoché costanti. A corrente nominale, le prime sono però più rilevanti delle seconde (da 2 a 10 volte maggiori). Per facilitare lo scambio termico, spesso il trasformatore è in un bagno d'olio (che è elettricamente isolante) e il cassone che contiene l'olio e la macchina vera e propria presenta alettature o addirittura ventole di raffreddamento forzato. File: baggio 2 - d:\proj\unibg\elett\dispense\CAP07.DOC Stampato: gg/03/aa 22.29 Ver/Rev: drf,fin,tmp,old/0.27
Cap. 7 - pag. 18
Angelo Baggini - Franco Bua Università degli Studi di Bergamo - Facoltà di ingegneria - Corso di Elettrotecnica Macchine elettriche rotanti: generalità
rev. 1.0
8 Macchine elettriche rotanti: generalità 8.1 - Tensione e forza su un conduttore in moto in un campo magnetico Si consideri il caso di un circuito elettrico come in figura, costituito da un'unica spira rettangolare, in cui il lato di destra è mobile.
La spira è immersa in un campo magnetico, di induzione B, rivolto perpendicolarmente alla stessa. La spira pertanto è attraversata da un flusso magnetico: Φ = B⋅ A = B⋅a⋅ l dove a e l sono le dimensioni della spira; poiché il lato di destra è mobile: t Φ = B ⋅ A ( t ) = B ⋅ l a0 + ∫0 υ( τ)dτ
nella spira si genera pertanto una tensione: e( t ) =
dΦ = B ⋅ l ⋅ υ( t ) dt
Cap. 8 - pag. 1
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e poiché i rami fissi sono completamente passivi, tale tensione si manifesta tutta sul lato in movimento. Pertanto vale che su un conduttore in movimento in un campo magnetico in direzione perpendicolare al campo stesso si genera una tensione: e = B⋅l⋅υ
(8.1)
Questa espressione risulterà molto utile nel seguito del capitolo. Si noti ancora che, se il conduttore è percorso da corrente, tale corrente fluisce in direzione perpendicolare al campo magnetico; per effetto della forza di Lorentz sul conduttore, sia esso in movimento sia esso fermo, agirà una forza: F = B⋅l⋅i
(8.2)
in direzione perpendicolare sia al campo sia al conduttore, e quindi nella direzione dell'eventuale moto, a favore o contro di esso a seconda del verso della corrente.
8.2 - Campo magnetico rotante Si consideri il circuito magnetico in figura, composto da tre spire rettangolari, AA', BB', CC', di uguali dimensioni disposte in modo che gli stessi assi di simmetria dei tre rettangoli siano coincidenti, e che i tre rettangoli siano posti a 120° l'uno dall'altro intorno a tale asse:
Si supponga di alimentare le tre spire con un sistema di correnti trifase equilibrato, in cui si abbia cioè: i A ( t ) = IM ⋅ cos(ωt + ϕ )
iB ( t ) = IM ⋅ cos(ωt + ϕ − 2π / 3)
iC ( t ) = IM ⋅ cos(ωt + ϕ + 2 π / 3)
ponendosi nel centro della sezione e indicando con ux il versore che rappresenta la direzione dell'asse normale alla sezione AA' e con uy la direzione a questa perpendicolare, si nota che ogni spira contribuirà a creare un campo magnetico con componenti su entrambe queste direzioni. Infatti ogni spira creerà un campo magnetico nella direzione del proprio asse normale e indicando con uAn, uBn, uCn i versori che rappresentano le direzioni di tali assi, si ha che:
Cap. 8 - pag. 2
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u An = u x ⋅ cos(0° ) + u y ⋅ sen(0° ) = u x 1 ux + 2 1 uCn = u x ⋅ cos( −120° ) + u y ⋅ sen( −120° ) = − u x − 2
uBn = ux ⋅ cos( +120° ) + u y ⋅ sen( +120° ) = −
3 uy 2 3 uy 2
(8.3)
Pertanto: 1 1 ⋅ BB − ⋅ B C = 2 2 1 1 3 = 1⋅ BM ⋅ cos(ωt + ϕ ) ⋅ BM ⋅ − cos(ωt + ϕ) + sen(ωt + ϕ) + 2 2 2
B x = B Ax + BBx + BCx = 1⋅ B A -
-
1 3 1 3 ⋅ BM ⋅ − cos(ωt + ϕ ) − sen(ωt + ϕ) = ⋅ BM ⋅ cos(ωt + ϕ ) 2 2 2 2
B y = B Ay + BBy + BCy = + =+ -
(8.4)
3 3 ⋅ BB − ⋅ BC = 2 2
1 3 3 ⋅ BM ⋅ − cos(ωt + ϕ ) + sen(ωt + ϕ) + 2 2 2
(8.5)
1 3 3 3 ⋅ BM ⋅ − cos(ωt + ϕ) − sen(ωt + ϕ) = ⋅ BM ⋅ sen(ωt + ϕ ) 2 2 2 2
Si nota allora come il vettore induzione risultante: B( t ) = ux ⋅ B x ( t ) + uy ⋅ B y ( t ) =
(
3 BM ⋅ ux ⋅ cos(ωt + ϕ ) + uy ⋅ sen(ωt + ϕ) 2
)
(8.6)
sia un vettore rotante nello spazio, con velocità angolare ###, e con modulo costante e pari a 3/2 del valore massimo di induzione prodotto da ciascuna fase. Si è così realizzato il campo magnetico rotante, ottenibile solo con il sistema trifase o, più in generale, con un sistema polifase. Si noti che il vettore induzione rotante passa per l'asse normale a ciascuna spira quando la corrente in tale spira passa per il suo valore massimo. Poiché il campo magnetico è rotante, il valore dell'induzione lungo la circonferenza varia da punto a punto e da istante a istante. Si può scrivere una legge del tipo: B t = B t ( t, α ) = BM ⋅ cos(ωt + ϕ − α )
(8.7)
dove ### è la fase iniziale della corrente nella spira AA' mentre ### è la posizione (angolare) di un generico punto lungo il traferro, a partire dall'asse normale alla spira AA' e con verso angolare positivo spostandosi verso l'asse normale a BB'. Infatti: a- se si fissa su un punto della circonferenza, per esempio quello in cui si trova l'asse normale a BB', si avrà per l'induzione al traferro: Cap. 8 - pag. 3
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B t = B t ( t, α = 2π / 3) = Bm ⋅ cos(ωt + ϕ − 2π / 3) che è un'espressione solo del tempo, e dove si nota che il valore massimo viene raggiunto quando: ωt = −ϕ + 2 π / 3 con tale valore la corrente nella fase B vale: iB = IM ⋅ cos( −ϕ + 2π / 3 + ϕ − 2π / 3) = IM quindi si ritrova che l'induzione assume il valore massimo sull'asse normale ad una fase quando in tale fase è massima la corrente; b- se si fissa il tempo in un dato istante, per esempio l'istante in cui la corrente è massima sulla fase C: ωt = −ϕ − 2π / 3 l'induzione al traferro è vista solo come dipendente dalla posizione, secondo l'espressione:
(
)
B t = B t t = −(ϕ + 2 π / 3) / ω, α = BM ⋅ cos( −2π / 3 − α ) in cui si nota che, come deve essere, il valore massimo dell'induzione si trova in corrispondenza di ###=2###/3 che è la posizione dell'asse normale a CC'. Si noti anche che se un osservatore percorresse la circonferenza con velocità angolare ###, in modo che la sua posizione sia: ### = ###t esso percepirebbe un valore di induzione costante, pari a: B t = B t ( t, α ) = BM ⋅ cos(ωt + ϕ − α ) = BM ⋅ cos(ωt + ϕ − αt ) = BM ⋅ cos(ϕ) Si può ripetere lo stesso ragionamento considerando una disposizione di conduttori in ci ogni fase abbia: un gruppo di conduttori di andata (A, B, C) e un gruppo di ritorno (A', B', C') e poi ancora un gruppo di andata (A", B", C") e un gruppo di ritorno (A"', B"', C"'). Quindi la disposizione angolare è tale che le varie fasi sono distanti non 120°, ma 60° e i settori 30° nell'ordine: A/C'/B/A'/C/B'/A"/C"'/B"/A"'C"/B"'. L'andamento dell'induzione è più complicato, ma non di molto: avviene che a tempo bloccato, percorrendo la circonferenza si incontrano i valori massimo e minimo di induzione non una volta sola bensì due: Bt = Bt(t,α) = BM cos(ωt+ϕ-2α) Nel primo caso trattato si indica che il sistema ha due poli, per polo si può intendere il numero di settori per ogni fase, più comunemente 1 paia poli pp=1. In quest'ultimo caso si hanno invece 4 poli e quindi pp = 2. I numero di pp può essere anche molto superiore. In generale: Cap. 8 - pag. 4
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Bt = Bt(t,α) = BM cos(ωt+ϕ-pp·α) Si nota che la velocità angolare del campo rotante è in allora in generale data da: Ωo = ω / pp
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Cap. 8 - pag. 5
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9 Macchina asincrona 9.1 - Generalità e disposizioni costruttive La macchina asincrona è impiegata principalmente come motore (asincrono, o motore a induzione, o motore a campo magnetico rotante). Il motore asincrono è, in assoluto, il motore elettrico più diffuso, per i suoi pregi di semplicità costruttiva, di basso costo, di affidabilità. Per contro, il generatore asincrono è usato solo per centraline automatiche di piccola potenza (fino a poche migliaia di chilowatt). Dal punto di vista meccanico, la macchina asincrona è costituita da due cilindri conassici, dei quali uno è esterno e fisso, e si dice statore, l'altro è interno e capace di rotare introno al proprio asse, e si dice rotore (Figura 9.1).
Figura 9.1 Sia lo statore sia il rotore sono laminati secondo la giacitura perpendicolare all'asse: i lamierini, di ferro al silicio (3÷3,5%), sono isolati con vernici o smalti e, nello statore, sono raggruppati il pacchi fra i quali si aprono i canali di ventilazione; la superficie interna dello statore e quella esterna del rotore sono sagomate in modo da presentare una distribuzione uniforme di cave o canali, separate da denti: loro funzione è quella di alloggiare i conduttori elettrici, connessi fra loro attraverso collegamenti frontali (Figura 9.2).
Cap. 9 - pag. 1
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Figura 9.2 Fra lo statore e il rotore è interposta una sottile corona cilindrica di aria, di spessore variabile fra 0,1 e 1 mm a seconda della potenza, minore o maggiore della macchina: essa è detta traferro. Statore e rotore sono disposti all'interno di un involucro cilindrico di ghisa, detto carcassa: il primo mediante ancoraggi fissi, il secondo mediante supporti a cuscinetto attraverso uno dei quali esce l'albero della macchina; la carcassa è predisposta per essere fissata al basamento mediante bulloni. La macchina asincrona è, nella generalità dei casi, raffreddata artificialmente in aria: questa viene aspirata attraverso aperture praticate sulla parte anteriore della carcassa, è immessa nel traferro da un ventilatore calettato sull'albero e viene restituita all'ambiente attraverso aperture praticate nella parte posteriore della carcassa dopo aver sottratto calore alla macchina attraverso i canali di ventilazione. In taluni casi, specie quando, per ragioni di sicurezza, la macchina debba essere a tenuta ermetica, il raffreddamento è naturale in aria. Dal punto di vista elettrico, la macchina asincrona è costituita da due circuiti elettrici trifasi, disposti l'uno sullo statore, l'altro sul rotore, concatenati con un circuito magnetico, che si sviluppa attraverso lo statore, il rotore e il traferro; di tali circuiti l'uno ha funzione di induttore, l'altro di indotto: di norma l'avvolgimento statorico svolge le funzioni di induttore, quello rotorico di indotto; è tuttavia concettualmente possibile, e in qualche caso speciale usata, la disposizione opposta. L'avvolgimento statorico, collegato a stella o a triangolo, è connesso a una terna di terminali, disposti sulla morsettiera; l'avvolgimento rotorico, può essere immaginato per semplicità costituito come quello statorico e anch'esso collegato a stella o a triangolo (in passato effettivamente era così nella maggioranza dei casi), che termina su un collettore costituito da tre anelli, sui quali strisciano spazzole di carbone, montate su portaspazzole fissi: attraverso questi contatti striscianti si attua la continuità elettrica fra i circuiti rotorici in moto e quelli esterni, fissi, cui il rotore è collegato. Poiché, come si vedrà, i circuiti rotorici del tipo descritto sono spesso collegati ad un reostato di avviamento, che viene escluso durante la marcia normale, la macchina è provvista di un dispositivo di corto circuito, il quale ha lo scopo di chiudere in corto circuito gli anelli e di sollevare le spazzole, riducendone il logorio quando si sia raggiunta la velocità di regime. Tale operazione, un tempo compiuta manualmente, è oggi in genere eseguita da un avviatore automatico, che provvede anche a inserire completamente il reostato a rotore fermo, escludendolo gradualmente durante l'avviamento. Le macchine di questo tipo si dicono con anelli o a rotore avvolto. Nei casi in cui il reostato di avviamento non è necessario, il circuito rotorico è privo di anelli e l'avvolgimento è sostituito da una gabbia, di rame o di alluminio, costituita di barre annegate senza isolamento nel ferro rotorico e poste in corto circuito mediante anelli frontali (Figura 9.3): motori di questo tipo, detti motori a gabbia, in passato costruiti solo per potenze modeste (fino a 3÷4 kW), sono attualmente sempre più diffusi.
Cap. 9 - pag. 2
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Figura 9.3 Motori in corto circuito di potenze anche molto superiori (fino a migliaia di chilowatt) si costruiscono disponendo sul rotore due gabbie conassiche, l'una interna, formata di barre di grossa sezione, l'altra esterna, costituita di barre di sezione alquanto minore (motori a doppia gabbia, figura 9.4).
Figura 9.4 I motori a doppia gabbia tendono oggi ad essere sostituiti, specie per le potenze intermedie, dai motori a cave profonde, nei quali le due gabbie sono sostituite da una gabbia unica, con barre di larghezza crescente verso l'asse del rotore (figura 9.4), oppure da gabbie normali quando il motore è inserito in un azionamento. La macchina asincrona si classifica come una macchina con collettore ad anelli, eccitata in corrente alternata. 9.2 - Principi di funzionamento come motore Si consideri la macchina in condizioni di riposo, con l'avvolgimento rotorico in corto circuito. Si applichi ai morsetti una terna simmetrica di tensioni: poiché le tre fasi, sia statoriche sia rotoriche, sono uguali, queste fanno circolare nell'avvolgimento induttore una terna equilibrata di correnti, il cui effetto, secondo ciò che si è esposto in precedenza, è quello di creare un campo magnetico rotante. Tale campo taglia i conduttori dell'avvolgimento indotto e vi genera un sistema trifase di fem: poiché l'avvolgimento è in corto circuito, esso diviene sede di un sistema trifase di correnti, le quali generano a loro volta un campo magnetico rotante, sincrono con quello generato dall'induttore e, per la legge dell'induzione elettromagnetica, opposto a quello (campo magnetico di reazione d'indotto). Se il rotore è bloccato, le considerazioni precedenti esauriscono la descrizione del funzionamento. Si nota una strettissima analogia con il comportamento di un trasformatore in corto circuito, che sarà utilizzata nel seguito per la costruzione del circuito equivalente. Si supponga ora il rotore libero di ruotare. I conduttori dell'avvolgimento indotto, percorsi, per le ragioni che si è visto, da correnti, sono immersi nel campo magnetico generato dall'induttore e sono pertanto sottoposti a un sistema di forze meccaniche. Queste sono perpendicolari alla corrente e alle linee di induzione magnetica e sono dunque tangenti alla periferia del rotore: ragioni di simmetria mostrano facilmente che il sistema delle forze ha risultante nulla ed equivale pertanto ad una coppia. Cap. 9 - pag. 3
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Il verso di quest'ultima si determina subito, osservando che, per la legge dell'induzione elettromagnetica, i suoi effetti debbono opporsi alla causa che li genera, cioè al moto del campo magnetico induttore rispetto all'indotto. Sotto l'azione della coppia, dunque, il rotore si pone in rotazione nel verso del campo magnetico rotante e accelera progressivamente, fino a raggiungere una velocità alla quale la coppia motrice è equilibrata dalla coppia resistente. La velocità angolare del campo magnetico rotante, o velocità di sincronismo, non può tuttavia essere mai raggiunta: infatti in tali condizioni il campo magnetico rotante è fisso rispetto al rotore e pertanto l'avvolgimento indotto non è sede di fem né di correnti e non può quindi dare luogo a una coppia motrice: poiché, anche in assenza di carico sull'albero, è sempre presente una coppia resistente dovuta agli attriti e alla ventilazione, l'equilibrio stazionario non può sussistere. 9.3 - Circuito equivalente L'esposizione del principio di funzionamento del motore asincrono ha messo in evidenza la stretta analogia che esiste fra il comportamento che esso presenta con rotore bloccato e quello di un trasformatore trifase in corto circuito. Tale analogia può essere estesa ai particolari: è pertanto possibile descrivere il funzionamento del motore asincrono (o, in modo più preciso, quello di ogni sua fase) nelle condizioni anzidette, mediante il circuito equivalente del trasformatore in corto circuito (figura 9.5).
Figura 9.5 L'interpretazione dei diversi parametri che figurano nel circuito equivalente è la seguente: − le resistenze R1 e R '2 sono quelle di una fase statorica e di una fase rotorica ridotta a statore rispettivamente; − le reattanze xd1 e x'd2 tengono conto dei flussi dispersi per fase (dei flussi cioè che concatenano rispettivamente una fase del solo avvolgimento statorico e del solo avvolgimento rotorico); esse si dicono, come nel caso del trasformatore, reattanze di dispersione; − gli apici apposti alle grandezze di rotore denotano che queste sono ridotte a statore, attraverso un trasformatore ideale che tiene conto del rapporto fra i numeri di spire di una fase statorica e di una fase rotorica; − la conduttanza G tiene conto della potenza perduta per fase nel ferro per isteresi rotante e correnti parassite (si osservi,r a questo proposito, che in ogni punto del materiale il vettore induzione magnetica B è costante in modulo e ruota con velocità angolare costante: il materiale è allora soggetto a una particolare forma di isteresi, detta rotante; inoltre una spira fissa tracciata nel materiale concatena un flusso variabile ed è pertanto sede di correnti parassite); − la suscettanza Bm tiene conto del flusso principale per fase (del flusso cioè che concatena una fase dell'avvolgimento statorico ed una di quello rotorico). Cap. 9 - pag. 4
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Figura 9.6 In figura 9.6 è illustrato schematicamente l'andamento del flusso principale e dei flussi dispersi. Si vuole ora estendere il circuito equivalente a descrivere il comportamento del motore asincrono con rotore in moto. La fem generata in una fase del rotore bloccato è espressa, in analogia a quanto avviene per il trasformatore, dall'equazione: E 20 = ωN2 φ
(9.1)
dove N2 è il, numero di spire equivalenti del rotore (che tiene conto, oltre che del numero di spire effettive, del fatto che le fem in esse indotte non sono in fase e pertanto non si sommano aritmeticamente, e di altre caratteristiche costruttive dell'avvolgimento). Tenendo ω conto dell'equazione che esprime la velocità angolare dell'induzione rotante Ω 0 = la pp (9.1) si riscrive nella forma: E 20 = KΩ 0 φ
(9.2)
dove K = pp N2. L'equazione (9.2) stabilisce che la fem indotta in ogni fase rotorica è proporzionale alla velocità del campo magnetico rotante rispetto al rotore e al flusso principale per fase. Ora, se il rotore ruota con velocità Ω, la velocità angolare del campo magnetico rotante rispetto al rotore diventa evidentemente Ω0 - Ω. Di conseguenza la fem per fase rotorica sarà espressa, anziché dalla (9.2), dall'equazione seguente: E 2 = K(Ω 0 − Ω)φ
(9.3)
Dalle equazioni (9.2) e (9.3) si deduce subito la seguente relazione tra la fem a rotore bloccato e la fem a rotore in moto alla velocità Ω: E2 =
Ω0 − Ω E 20 Ω0
La grandezza adimensionale: s=
Ω0 − Ω Ω0
Cap. 9 - pag. 5
(9.4)
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è detta scorrimento relativo o semplicemente scorrimento: essa rappresenta la differenza fra la velocità angolare del campo magnetico rotante e quella del rotore espressa come frazione della prima; spesso, il suo valore è espresso in percentuale. Facendo uso dello scorrimento relativo, la (9.4) si riscrive nella forma: E2 = s E20
(9.5)
Si osservi ora che la pulsazione della fem generata in ogni fase del rotore bloccato è espressa dall'equazione: ω = pp Ω0
(9.6)
La pulsazione rotorica (uguale in questo caso alla pulsazione statorica) è cioè data dal prodotto delle paia poli per la velocità angolare, del campo magnetico rotante rispetto al rotore. Ora, se il rotore ruota alla velocità angolare Ω, la velocità angolare del campo magnetico rotante rispetto al rotore è Ω0 - Ω e di conseguenza la pulsazione rotorica diventa: ω2 = pp (Ω0 - Ω) e quindi: ω2 = s ω
(9.7)
Si scriva ora l'equazione di una fase rotorica: − con rotore bloccato: '
'
E 20 = (R '2 + j X 'd2 ) I2 −
(9.8)
'
'
con rotore in moto alla velocità Ω, la fem E 20 è sostituita dalla E 2 il cui valore efficace è legato a quello della prima dall'equazione (9.5); inoltre alla reattanza X 'd2 = ω L'd 2 si deve sostituire la reattanza ω 2 L'd 2 che per la (9.7) è uguale a s X 'd2 ; in definitiva si ha: '
'
s E 20 = (R '2 + j s X 'd2 ) I2
(9.9)
Tale equazione non può essere interpretata direttamente sul circuito equivalente dato, perché descrive una relazione fra grandezze di pulsazione ω2 anziché di pulsazione ω. E' tuttavia possibile riportarla alla pulsazione statorica semplicemente dividendone ambo i membri per s, perché allora in essa figura la reattanza X 'd2 alla pulsazione ω: R' ' ' E 20 = 2 + j X d' 2 I2 s
(9.10)
L'equazione si interpreta immediatamente sul circuito equivalente che risulta modificato unicamente per il fatto che la resistenza per fase rotorica è divisa per lo scorrimento s.
Cap. 9 - pag. 6
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Figura 9.7 Il passaggio da grandezze alla pulsazione rotorica ω2, a grandezze alla pulsazione statorica ω, formalmente condensato in una divisione per lo scorrimento, ha un importante contenuto fisico: − l'equazione (9.9) sintetizza le osservazioni sul rotore di uno sperimentatore solidale con esso; − l'equazione (9.10) sintetizza le osservazioni sul rotore di uno sperimentatore solidale con lo statore; − le grandezze di rotore viste dall'osservatore di statore hanno pulsazione: ω 2 + pp Ω = sω + ω
Ω −Ω Ω Ω = 0 ω+ω =ω Ω0 Ω0 Ω0
Il punto di vista del secondo sperimentatore porta a definire una terna di fasi rotoriche fittizie, fisse rispetto allo statore e con gli assi coincidenti con quelli delle fasi statoriche: questo sperimentatore dunque descrive il comportamento del rotore in modo indipendente dalla posizione angolare istantanea che esso presenta rispetto allo statore. Frequentemente, come si comprenderà da quanto segue, il circuito equivalente per fase del motore risulta essere trasformato come riportato nella figura 9.8.
Figura 9.8
9.4 - Determinazione sperimentale dei parametri del circuito equivalente: prove a vuoto a rotore bloccato L'esame del circuito equivalente della macchina asincrona pone in evidenza le seguenti considerazioni:
Cap. 9 - pag. 7
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- nel funzionamento alla velocità di sincronismo (s=0) la resistenza equivalente rotorica diventa infinita: il comportamento della macchina ai morsetti primari è analogo a quello del trasformatore a vuoto; - nel funzionamento a rotore bloccato (s=1) la resistenza equivalente e quella effettiva del rotore coincidono: il comportamento della macchina ai morsetti primari è analogo a quello del trasformatore in corto circuito. Ne segue che la determinazione dei parametri del circuito equivalente potrà farsi, come per il trasformatore, mediante una prova equivalente a vuoto ed una prova equivalente in corto circuito (rotore bloccato). Il procedimento da seguire nella loro esecuzione resta nella sostanza quello descritto a proposito del trasformatore. Occorre peraltro tener conto di alcuni particolari, nei quali il caso in esame è diverso da quello già trattato: - la prova a vuoto non può essere convenientemente effettuata portando la macchina alla velocità di sincronismo: in tali condizioni, infatti, la coppia motrice è nulla e pertanto le coppie resistenti d'attrito e di ventilazione debbono essere equilibrate applicando all'albero una coppia dall'esterno, in altri termini, facendo uso di un motore ausiliario; nella pratica, è sufficiente eseguire la prova facendo funzionare il motore a vuoto (cioè in assenza di coppia resistente sull'albero); si ottengono infatti condizioni di funzionamento così prossime a quelle di sincronismo (scorrimento s = 0,1÷0,3%) da poter trascurare, nei limiti delle approssimazioni usuali, l'errore che si commette nella determinazione dei parametri; si osservi ancora che prova a vuoto, nel motore asincrono, significa prova eseguita non aprendo il circuito rotorico (che anzi è permanentemente in corto circuito), ma facendo funzionare a vuoto (cioè senza carico meccanico) la macchina; - la potenza attiva misurata nella prova a vuoto è somma delle perdite nel ferro per isteresi e correnti parassite, e delle perdite meccaniche per attrito nei cuscinetti lubrificati e per ventilazione: P0 = PpFe + Ppm
(9.11)
poiché le perdite nel ferro dipendono dal quadrato della tensione e quelle meccaniche ne sono indipendenti, è possibile separarle nel modo che è messo in evidenza in figura 9.8: di solito, per rendere più agevole l'estrapolazione della curva alla tensione zero, si riportano le tensioni in scale logaritmiche, in modo da trasformare la parabola in una retta;
Figura 9.9 - la prova in corto circuito si esegue con rotore bloccato: l'espressione corto circuito, in questo contesto, è semplicemente usata per analogia con il trasformatore; - la misura del rapporto di trasformazione non si può fare nella prova a vuoto, dato che l'avvolgimento rotorico è permanentemente in corto circuito; si può fare nella prova in corto circuito, chiudendo gli anelli rotorici su tre amperometri. Nonostante l'identità formale del circuito equivalente della macchina asincrona con quello del trasformatore, le grandezze relative dei diversi parametri sono alquanto diverse nei due casi. Cap. 9 - pag. 8
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La corrente a vuoto, che nel trasformatore varia circa dal 5 al 20 %, nel motore asincrono è compresa fra il 20 e il 40 %; la maggior forza magnetomotrice richiesta, a parità di flusso, è naturalmente dovuta alla presenza del traferro. La tensione di corto circuito, che nel trasformatore varia dal 4 al 25 %, nel motore asincrono varia dal 20 al 30 %: ciò è dovuto alla assai maggiore importanza dei flussi dispersi. Sia la corrente a vuoto che la tensione di corto circuito decrescono al crescere della potenza della macchina. La conoscenza della tensione di corto circuito consente di calcolare la corrente di spunto Ic,: variando la tensione di corto circuito dal 30 al 20 %, la corrente di spunto varia da 3 a 5 volte la corrente nominale. Lo scorrimento, nelle condizioni di funzionamento nominali, varia dal 3÷5 % nei piccoli motori fino ad una frazione di percento nei motori di grande potenza. Gli ordini di grandezza citati della tensione di corto circuito e della corrente a vuoto rendono inaccettabili le approssimazioni usate per la determinazione dei parametri del circuito equivalente del trasformatore, specialmente nel caso di piccole macchine.
9.5 - Caratteristica meccanica L'espressione della potenza meccanica convertita dal motore, si ricava dal circuito equivalente ragionando nel modo seguente. La potenza attiva che lo statore trasmette al rotore è espressa da: R' Pt = 3 2 I'2 s 2
(9.12)
La potenza attiva perduta nel circuito rotorico per effetto Joule è: PPj2 = 3 R '2 I'2 2
(9.13)
Assumendo nulle le perdite nel ferro rotorico, la differenza fra la potenza attiva ceduta dallo statore al rotore e quella ivi perduta per effetto Joule deve essere convertita in potenza meccanica: questa, che si indica con Pm, è somma della potenza meccanica all'albero o potenza meccanica utile Pu e delle perdite meccaniche Ppm e si esprime nella forma seguente: Pm = Pt − PpCu = 3 R '2 2
1 − s '2 I s 2
(9.14)
Ciò interpreta fisicamente la scomposizione del resistore di resistenza
R '2 nella serie di s
1− s (figura 9.9) il primo è sede s delle perdite nel rame rotorico per fase, il secondo assorbe una potenza equivalente alla potenza meccanica convertita per fase. La potenza meccanica convertita è uguale al prodotto della coppia elettromagnetica TM (somma della coppia meccanica all'albero o coppia utile Tu e della coppia resistente di attrito e di ventilazione Tp), per la velocità angolare: due resistori, uno di resistenza R '2 e l'altro di resistenza R '2
Cap. 9 - pag. 9
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Pm = TM Ω
(9.15)
Ma: Ω = Ω 0 (1 − s) Sostituendo e tenendo conto di Ω 0 =
Pm = TM
(9.16)
ω pp ω (1 − s) pp
(9.17)
Uguagliando alla (9.14) e dividendo per 1 - s si ottiene infine: Tm = 3
pp R '2 '2 I ω s 2
(9.18)
che rappresenta la caratteristica meccanica a corrente costante del motore asincrono. Poiché la marcia industriale avviene a tensione costante, anziché a corrente costante, conviene esprimere nella (9.18) la corrente I'2 in termini della tensione U1. Ciò può farsi ricorrendo ancora al circuito equivalente anzi indicato. Per facilitare i calcoli il circuito può essere ridotto mediante Thevenin, ottenendo un equivalente dell'alimentazione e dei rami Z1 e Z0:
Figura 9.10
V eq =
Z0 V; Z1 + Z 0
Z eq = Z1 Z0 =
Z1 ⋅ Z0 Z1 + Z 0
(9.19)
e con buona approssimazione, in considerazione degli ordini di grandezza dei parametri: V eq ≅ V;
Z eq ≅ Z1
Da cui:
Cap. 9 - pag. 10
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I2 =
I22 =
=
V eq
(
R eq + R '2
(
) (
/ s + j X eq + X '2
)
s 2 Veq2
2 sR eq + R '2
2
(
+ s X eq +
)
(9.20)
=
)
2 X '2
s 2 Veq2
(
)
s 2 R e2q + X e2 q + 2X '2 X eq + X 22 + s ⋅ 2 R eqR '2 + R 22'
=
s 2 Veq2 As 2 + Bs + C
e quindi: Cm =
3(pp)R '2 ⋅ sVe 2q
(
)
(9.21)
ω ⋅ As 2 + Bs + C
Tale equazione rappresenta la caratteristica meccanica a tensione costante del motore asincrono: essa fornisce la coppia trasmessa TM che tuttavia può confondersi con la coppia utile Tu, se si trascurano la coppia di attrito e ventilazione. L'equazione (9.21) poteva essere ricavata anche su un circuito in pu, nel qual caso avrebbe assunto la forma (equivalente): 2
sVe q pp ' TM = 3 R 2 Zn In2 2 ω As + Bs + C ove i simboli assumono i significati già dichiarati, ed inoltre: − R '2 è espresso in per unità; − Zn è l'impedenza di riferimento; − −
sVe q2
è espresso in per unità; As 2 + Bs + C In è la corrente di riferimento.
La caratteristica meccanica della macchina asincrona è illustrata nella figura 9.11; il tratto che interessa il funzionamento come motore è quello compreso fra s = 0 e s = 1. In figura 9.12, la stessa caratteristica è ridisegnata assumendo come variabile indipendente, anziché lo scorrimento s, la velocità angolare Ω. Questa caratteristica è di tipo statico, nel senso che è valida in regime permanente; una variazione per esempio della coppia resistente del carico meccanico comporterebbe una variazione di velocità, quindi di scorrimento e quindi dei parametri del circuito equivalente; pertanto tutte le variabili di stato, comprese quelle elettriche, dovrebbero superare un transitorio prima di riassestarsi. In condizioni transitorie il circuito equivalente non è più valido (è valido in regime PAS, ed è inoltre una rappresentazione monofase di un sistema trifase) e quindi non valgono le espressioni della coppia. Deve però essere notato che le variabili elettromagnetiche (le correnti, i flussi magnetici, ecc.) hanno costanti di tempo Cap. 9 - pag. 11
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dell'ordine dei millisecondi, mentre il transitorio meccanico (variazione di velocità) sarebbe molto più lento. Questo significa che le variabili elettriche si adeguano in fretta alle variazioni meccaniche, mentre lo scorrimento si assesta più lentamente. La caratteristica che si ottiene è quindi valida anche in condizioni di lenta variazione delle grandezze meccaniche. La caratteristica meccanica è composta di due tratti, l'uno a scendente, l'altro discendente, che si raccordano per un valore dello scorrimento corrispondente alla coppia massima TMMAX. La conoscenza della caratteristica meccanica del motore e di quella della macchina operatrice da esso azionata consente di determinare, nel piano (Ω, T) il punto di funzionamento del gruppo, definito dall'intersezione delle due caratteristiche: infatti le velocità angolari delle due macchine sono in ogni caso uguali essendo entrambe calettate sullo stesso albero (eventuali gruppi riduttori possono essere conglobati nel motore o nell'operatrice); uguali sono anche, in condizioni di equilibrio, la coppia motrice e la coppia resistente. Il punto di funzionamento nominale, definito dalla velocità angolare nominale Ωn e della coppia nominale Tn si trova sul ramo discendente della caratteristica: la velocità angolare nominale è inferiore a quella di sincronismo di una percentuale pari allo scorrimento nominale; la coppia massima varia ordinariamente da 1,8 a 2,2 volte la coppia nominale, giungendo fino a 2,5÷3 volte quest'ultima nei motori per gru, montacarichi e simili*. Essendo la caratteristica molto ripida, variazioni sensibili di coppia resistente comportano variazioni solo piccole di velocità meccanica. La macchina asincrona quindi si adegua molto bene al carico meccanico. È la macchina ideale per muovere ventole, pompe, seghe circolari, utensili vari, ecc., che richiedano una velocità di rotazione pressoché costante ma che possono presentare coppie resistenti molto variabili. Lo scorrimento nominale può essere calcolato imponendo che la corrente assorbita, con alimentazione a tensione nominale sia pari alla corrente nominale, quindi in per unità: s 2 ⋅ 12 2
A⋅s + B⋅s + C
= 12 ⇒ ( A − 1) ⋅ s2 + B ⋅ s + C = 0
dove si fanno le approssimazioni di avere la corrente di rotore pari a quella di statore e la tensione Veq pari alla V e con A, B e C in pu. In figura 9.13 la caratteristica di coppia motrice Tm (Ω) è sovrapposta a una caratteristica di coppia resistente Tr (Ω): ne risulta determinato il punto di funzionamento (Ωf Tf). Tale punto di funzionamento è stabile.
Figura 9.11
*
Figura 9.12
Figura 9.13
Noto lo scorrimento nominale, tutti i parametri circuitali sono noti e quindi si possono definire oltre alla coppia nominale anche le perdite e il rendimento nominali, la potenza reattiva nominale o, più comunemente il cosϕ nominale. Cap. 9 - pag. 12
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Il punto di lavoro B di figura 9.14 invece è una condizione di funzionamento instabile. Si supponga infatti di avere equilibrio tra coppia motrice e coppia resistente del carico. In caso di una perturbazione, per esempio un aumento della coppia resistente, lo squilibrio comporta che la somma algebrica delle coppie assuma un valore diverso da zero, in questo caso negativo. Quindi la macchina tende a decelerare; la coppia motrice diminuisce ulteriormente, quindi lo squilibrio aumenta, la macchina decelera ancora, e così via fino a fermarsi. La macchina asincrona funziona quindi sempre nel tratto decrescente (a parte l'avviamento, in cui percorre rapidamente l'altro tratto).
Figura 9.14 La situazione di figura 9.15 dà luogo, come si verifica facilmente, a un punto di funzionamento stabile. Essa è tuttavia inammissibile per le ragioni seguenti. La potenza trasferita dallo statore al rotore, per le equazioni può scriversi nella forma: Pt = Tf Ω 0 Confondendo in Tm la coppia trasmessa Tt e quella utile Tu, ciò che equivale a trascurare le coppie dovute alle resistenze passive del motore, si ha che Pt è misurata dall'area del rettangolo ABCD. La potenza meccanica utile è invece espressa, nella stessa approssimazione, da: Pm = Tf Ω f ed è misurata dall'area del rettangolo AFED. La differenza fra le due potenze Pt - Pm misurata dall'area del rettangolo FBCE è dunque dissipata per intero nel rotore. Nelle condizioni di funzionamento supposte essa rappresenta oltre la metà della potenza entrante nel rotore stesso: il riscaldamento che ne consegue è assolutamente incompatibile con la sicurezza della macchina anche per un esercizio di durata brevissima.
Figura 9.15 Volendo calcolare il punto di lavoro è necessario risolvere il sistema fra la caratteristica meccanica e la caratteristica del carico. Solitamente la coppia resistente (caratteristica del carico) è del tipo: Cap. 9 - pag. 13
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2 Cr = α + β' ω m = α + β ⋅ (1 − s) 2
−
iterazione 1:
Data la caratteristica di carico e data la tensione di alimentazione, è possibile trovare il punto di lavoro: 3(pp)R '2 ⋅ sVe 2q
(
2
)
ω 1 ⋅ As + Bs + C
= α + β ⋅ (1 − s) 2
L'equazione è di 4° grado; va risolta per via numerica. Una strada molto semplice è la seguente, che prevede iterazioni successive e in ogni iterazione un valore costante di coppia resistente: −
iterazione 0: s (0 ) = 0
(
C(r0) = α + β ⋅ 1 − s(0) −
2
iterazione 1: 3(pp)R '2 ⋅ s(1) Veq2
(
)
ω1 ⋅ As(21) + Bs(1) + C
(
C(r1) = α + β ⋅ 1 − s(1) −
)
)
=
C (r0)
⇒
As(21)
3(pp)R '2 ⋅ s(1) Veq2 s + C = 0 + B− (0) (1) ω1 ⋅ Cr
2
iterazione 2: ecc.
Ogni iterazione consiste nella soluzione di una equazione algebrica di 2° grado. Si ripete fin quando non si arriva a convergenza, cioè fin quando il valore trovato di scorrimento non subisce più variazioni significative. Attenzione: essendo il risultato un valore molto piccolo (0,005÷0,050) è opportuno utilizzare parecchie cifra decimali (almeno 4 o 5 cifre).
9.6 - Avviamento L'avviamento di un gruppo motore asincrono macchina operatrice non può di norma eseguirsi semplicemente chiudendo l'interruttore disposto fra la macchina e la linea di alimentazione. Tale procedimento, infatti, presenta due inconvenienti:
Cap. 9 - pag. 14
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−
la corrente di spunto è da 3 a 5 volte maggiore della corrente nominale: essa non può essere tollerata, salvo che per le macchine di potenza più modesta (fino a 3÷4 kW), sia per gli sforzi elettrodinamici che determina sugli avvolgimenti, sia per le cadute di tensione che provoca sulle linee, perturbando, ad ogni avviamento, tutti gli utenti che si trovano a funzionare in parallelo; − la coppia di spunto può essere insufficiente a vincere la resistenza iniziale del carico, come è esemplificato in figura 9.14. Per macchine a rotore avvolto si possono superare entrambi gli inconvenienti disponendo in serie al circuito rotorico, attraverso gli anelli, un reostato che viene progressivamente escluso via via che il motore aumenta la propria velocità (figura 9.16).
Figura 9.16 L'effetto reostato è duplice: − al crescere della resistenza diminuisce la corrente assorbita; − al crescere della resistenza del reostato, la caratteristica meccanica si sposta nel verso delle velocità angolari decrescenti: in particolare, il suo massimo si sposta verso sinistra, pur conservando lo stesso valore (figura 9.17), l'esclusione progressiva del reostato fa sì che l'avviamento del gruppo avvenga secondo la spezzata curvilinea a tratto spesso: lo spunto diventa possibile anche se la coppia resistente supera, alle basse velocità, la coppia motrice naturale; inoltre, l'oscillazione di coppia può essere mantenuta entro limiti prefissati.
Figura 9.17 L'avviamento reostatico è alquanto oneroso, per il costo del reostato e dei dispositivi ausiliari che consentono l'avviamento automatico. Si cerca pertanto di evitare l'uso del reostato in tutti quei casi in cui esso non sia assolutamente necessario. I motori di piccola potenza (fino a 3÷4 kW), i quali non debbano vincere, durante l'avviamento, coppie resistenti particolarmente elevate e per i quali si possa tollerare, in tale fase, una corrente pari a 3÷4 volte quella nominale, vengono di norma costruiti con rotore a gabbia. Cap. 9 - pag. 15
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Per potenze maggiori, fino a migliaia di chilowatt, possono essere usati i motori con rotore a doppia gabbia. Il principio di funzionamento di quest'ultima è il seguente. La resistenza della gabbia esterna, formata di conduttori di piccola sezione, è assai più elevata di quella della gabbia interna, costituita di conduttori di sezione maggiore; viceversa la gabbia esterna presenta una reattanza di dispersione più bassa di quella interna, perché il circuito magnetico nel quale si sviluppa il flusso disperso della prima comprende un tratto in aria assai più ampio di quello della seconda. Alle basse velocità, durante la prima fase dell'avviamento, le reattanze di entrambe le gabbie prevalgono fortemente sulle resistenze, essendo la frequenza rotorica di poco inferiore a quella di rete: dunque la corrente circola prevalentemente sulla gabbia di reattanza minore, cioè in quella esterna. Via via che il motore aumenta la propria velocità, la frequenza rotorica decresce e pertanto la ripartizione della corrente fra le due gabbie è via via più regolata dal partitore resistivo; pertanto la corrente sulla gabbia esterna diminuisce ed aumenta quella nella gabbia interna. L'effetto della doppia gabbia è dunque quello di provocare il progressivo passaggio della corrente rotorica da un circuito di alta resistenza ad uno di bassa resistenza. Il motore a doppia gabbia può essere sostituito, in molti casi, al motore a cave profonde. Questo ha un comportamento elettrico sostanzialmente uguale a quello del motore a doppia gabbia: il restringimento della sezione di rame dall'interno verso l'esterno della cava simula la presenza di due gabbie, una interna con barre di grossa sezione, una esterna con barre di sezione minore. I motori a doppia gabbia e a cave profonde delle maggiori potenze vengono spesso avviati con l'artificio della commutazione stella-triangolo. La morsettiera del motore è provvista di sei morsetti: tre di essi (in genere disposti superiormente) vanno collegati alla linea, gli altri tre possono essere collegati in corto circuito fra loro e si ottiene il collegamento delle tre fasi statoriche a stella, oppure ciascuno di essi è collegato al morsetto di linea immediatamente superiore e si ottiene il collegamento a triangolo. L'avviamento stella triangolo consiste nell'avviare il motore con le tre fasi statoriche collegate a stella e nel commutarle a triangolo quando si è raggiunta la velocità di regime. In questo modo si riduce la corrente durante l'avviamento ad un terzo di quella che si avrebbe se il motore fosse avviato con l'avvolgimento statorico collegato a triangolo: uguale riduzione si ha per la coppia.
9.7 - Regolazione di velocità Il motore asincrono, accanto ai pregi di robustezza e basso costo che ne giustificano l'amplissima diffusione, presenta l'inconveniente di non consentire la regolazione della velocità in modo semplice ed economico. Anche prima dell'avvento degli azionamenti elettrici sono stati peraltro studiati diversi artifici che, in modo più o meno complesso, risolvono il problema. Un primo metodo di regolazione della velocità consiste nel dotare lo statore di due avvolgimenti con diverso numero di paia poli: in generale, ci si limita a disporvi un avvolgimento unico il quale, con opportune variazioni delle connessioni, dà luogo a due valori di pp, l'uno doppio dell'altro; questo metodo, detto di variazione dei poli, consente evidentemente di ottenere solo due velocità. Un secondo metodo consiste nel fare uso di un reostato inserito in serie al circuito rotorico, in modo da verificare le caratteristiche di coppia motrice e portare il punto di funzionamento sulla verticale della velocità angolare voluta. Questo metodo è estremamente oneroso per il costo del reostato, che deve essere capace di smaltire una notevole potenza, e per quello dell'energia in esso dissipata. Il metodo reostatico si usa dunque solo in casi speciali. Il metodo che invece si sta diffondendo sempre più, almeno per le piccole e medie potenze, consiste nel variare la frequenza di alimentazione mediante gruppi di conversione con raddrizzatori e invertitori. Cap. 9 - pag. 16
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È invece estremamente semplice ottenere l'inversione del verso di rotazione del motore: basta a questo scopo scambiare le connessioni di due delle fasi di alimentazione.
9.8 - Motori asincroni monofase Il motore asincrono monofase si ottiene concettualmente da quello trifase sopprimendo due della fasi statoriche. Il suo principio di funzionamento è il seguente. Il campo magnetico alternativo generato dall'unica fase si lascia scomporre nella somma di due campi rotanti in versi opposti, alla velocità angolare determinata dalla frequenza di rete e dal numero di paia poli dell'avvolgimento. Ognuno di tali campi determina una caratteristica meccanica uguale a quella del motore trifase: è facile vedere che le due caratteristiche sono simmetriche rispetto all'origine e danno luogo alla curva risultante di figura 9.18. Si osserva subito che la coppia di spunto è nulla, coma del resto si poteva facilmente prevedere sulla base di semplici considerazioni di simmetria. Pertanto la macchina non è capace di autoavviarsi. Si rimedia a questo inconveniente disponendo, in parte delle cave statoriche rimaste libere, un avvolgimento ausiliario con π rad con quello dell'avvolgimento principale. l'asse disposto a formare un angolo di 2pp L'avvolgimento principale ausiliario è posto in serie a un condensatore e alimentato dalla stessa tensione che è applicata all'avvolgimento principale. I due avvolgimenti sono così percorsi da correnti fra loro sfasate e danno luogo a un campo magnetico rotante (di ampiezza non costante) che provoca l'avviamento della macchina. Quando questa ha raggiunto la velocità di regime. l'avvolgimento ausiliario viene escluso da un dispositivo centrifugo, o simili. Nei motori moderni il condensatore viene spesso lasciato inserito durante la marcia e usato a scopo di rifasamento. I motori asincroni monofase hanno, a parità di massa, potenza e rendimento inferiori a quelli trifasi: per questi motivi, e per le accennate difficoltà di avviamento, essi vengono costruiti solo per potenze molto modeste.
Figura 9.18
9.9 - Generatore asincrono La macchina asincrona funziona anche come generatore. Per valori di scorrimento negativi la coppia motrice è negativa. cioè è coppia che si oppone al moto. La macchina assorbe potenza meccanica e la trasforma in energia elettrica. A differenza della macchina sincrona non esiste però un flusso di eccitazione che induca negli avvolgimenti statorici una tensione con frequenza prefissata. Se venisse posta in rotazione da un motore primo, a morsetti aperti o richiusi su un bipolo passivo, la macchina asincrona non erogherebbe alcuna Cap. 9 - pag. 17
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corrente: il rotore sarebbe solo un pezzo di ferro con qualche pezzo di rame che ruota a vuoto. Occorre dall'esterno una sorgente di fem che ecciti i circuiti; solo in questo modo si potranno presentare correnti rotoriche e quindi flussi al traferro, ecc. Così pure occorre una sorgente di tensione in cui la frequenza sia prefissata; solo in questo modo si può instaurare una differenza (asincronismo) tra la velocità di rotazione del flusso al traferro e la velocità di rotazione del rotore. Quindi la macchina asincrona è usata come generatore complementare entro impianti dove la maggior parte della potenza è erogata da macchine sincrone; oppure il funzionamento come generatore è occasionale da parte di macchine che normalmente funzionano come motori (per esempio un ascensore: in salita la macchina è motore, in discesa può essere generatore).
File: franchino - d:\proj\unibg\elett\CAP09.DOC Stampato: 07/03/01 22.39 Ver/Rev: drf,fin,tmp,old/0.6
Cap. 9 - pag. 18
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ver. 1.0
10 Macchina sincrona 10.1 - Generalità e disposizioni costruttive Le macchine sincrone sono macchine elettriche eccitate con corrente continua e dotate di collettore ad anelli. Dal punto di vista funzionale, esse possono essere usate sia come generatori, nel caso si dicono alternatori, sia come motori, e allora si parla di motori sincroni. Gli alternatori costituiscono i generatori di corrente alternata universalmente usati e, col diffondersi di raddrizzatori a stato solido di basso costo ed elevata affidabilità, hanno progressivamente sostituito i tradizionali generatori di corrente continua. Dal punto di vista strutturale, la macchina sincrona è composta da due circuiti elettrici concatenati con un circuito magnetico. Dei circuiti elettrici, uno, alimentato da corrente continua, è destinato a produrre il flusso che circola nel circuito magnetico ed è perciò detto circuito induttore, o di eccitazione o di campo; l'altro, in moto rispetto al primo, è sede delle fem alternate generate dalle variazioni periodiche del flusso che con esso si concatena, e dicesi pertanto circuito indotto o di armatura. Il circuito magnetico è costituito di due parti cilindriche, l'una esterna e fissa, lo statore nel quale è disposto l'avvolgimento indotto, l'altra interna e rotante intorno al proprio asse, il rotore, nel quale è disposto l'avvolgimento induttore. Statore e rotore sono separati da un traferro il cui spessore varia da qualche millimetro a pochi centimetri, al crescere della potenza e quindi delle dimensioni delle macchine. Lo statore ha la stessa struttura e lo stesso tipo di avvolgimento di quello della macchina asincrona. Per evitare correnti di circolazione dovute alla eventuale presenza di terne armoniche nelle fem, l'avvolgimento è di norma collegato a stella. Il rotore è costituito da una ruota di ferro dolce massiccio (ruota polare) nella quale sono fissati ad incastro i poli: su questi è disposto l'avvolgimento induttore, costituito di altrettante bobine in serie, collegate alternativamente in senso inverso in modo che il flusso magnetico uscente da un polo si richiuda attraverso i due adiacenti (figura 10.1). Il rotore del tipo descritto è detto a poli salienti o anisotropo. Nelle macchine veloci, per evitare le difficoltà di equilibramento, il rotore è costituito nella forma di un cilindro circolare, munito di cave, nelle quali sono alloggiati i conduttori dell'avvolgimento induttore: si parla allora di rotore liscio o isotropo (figura 10.2). Il collegamento fra il circuito induttore, solidale con il rotore, e il generatore che provvede alla sua alimentazione (eccitatrice in genere coassiale) è assicurato da un collettore ad anelli sul quale strisciano una o più coppie di spazzole. Esistono tuttavia particolari disposizioni nelle quali è possibile evitare l'uso del collettore (macchine sincrone senza anelli). La macchina sincrona, come ogni altra macchina elettrica, contiene dunque il materiale elettrico (rame), che ne costituisce gli avvolgimenti, il materiale isolante che serve ad isolare Cap. 10 - pag. 1
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i conduttori fra loro e dal ferro circostante, e infine le strutture meccaniche, costituite dal basamento e dalla carcassa, che sopportano lo statore, dai supporti e dall'albero che sopportano il rotore.
Figura 10.1
Figura 10.2
10.2 - Generazione della fem Se si fa circolare una corrente continua nell'avvolgimento induttore di un alternatore, essa genera un campo magnetico di intensità costante, solidale coll'induttore stesso, le linee di flusso del quale hanno l'andamento illustrato in figura 10.1. Sagomando opportunamente le espansioni polari, si può ottenere che la distribuzione spaziale dell'induzione magnetica B lungo il traferro sia sinusoidale. Si ponga ora in rotazione il rotore: ogni conduttore dell'avvolgimento indotto è investito da un'onda di induzione sinusoidale nello spazio la quale muove con velocità costante: il conduttore è perciò sede di una fem sinusoidale nel tempo e = bLV (dove b è il valore istantaneo dell'induzione sul conduttore, L è la sua lunghezza, V è la velocità con la quale il campo magnetico muove rispetto al conduttore). La fem risultante in ciascuna fase è pertanto proporzionale alla velocità angolare del rotore e al flusso uscente da ciascun polo: E 0 = kΩ 0 φ 0
(10.1)
L'avvolgimento indotto per una macchina con pp paia poli è costituito da una successione di 2π bobine che si ripete con periodicità pari a rad: entro ciascuno di questi angoli, le bobine pp 2π delle tre fasi sono disposte in modo simmetrico a formare angoli di rad. 3pp 2π Se il rotore ruota alla velocità Ω0, impiega un tempo pari a per compiere un giro Ω0 2π completo e un tempo pari a per descrivere l'angolo corrispondente a una terna di ppΩ 0 bobine: questo è dunque il periodo delle fem indotte, la cui pulsazione ω è pertanto data dalla equazione: ω = ppΩ 0
Cap. 10 - pag. 2
(10.2)
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Le fem indotte nelle tre fasi, per l'uguaglianza di queste ultime, sono evidentemente fra loro 2π uguali in valore efficace; poiché i loro assi sono disposti a formare angoli di rad, pari a 3pp un terzo dell'angolo corrispondente a un periodo delle fem, ne segue che queste ultime 2π sono sfasate fra loro di rad e pertanto formano una terna trifase simmetrica. 3 Se il circuito indotto è a morsetti aperti, se cioè l'alternatore funziona a vuoto, le fem generate possono essere raccolte come tensioni ai morsetti. 10.3 - Funzionamento a vuoto Si faccia ruotare l'alternatore alla velocità Ω0 e si ecciti l'induttore mediante una corrente continua Ie. Si supponga che tale corrente possa essere regolata mediante un reostato (reostato di eccitazione o di campo) o un partitore di tensione. Si disponga in serie al circuito di eccitazione un amperometro e ai morsetti d'armatura una terna di voltmetri. È così possibile determinare, per ogni valore della corrente di eccitazione, il valore comune alle tre tensioni di armatura a vuoto e costruire pertanto la curva Uv = F(Ie) (fig. 10.3). Tale curva, detta caratteristica a vuoto, ha il consueto andamento della curva normale di magnetizzazione, dato che la tensione a vuoto è proporzionale al flusso induttore e quindi, in ultima analisi, all'induzione magnetica B nel ferro, laddove la corrente di eccitazione determina la fmm agente nel circuito magnetico e quindi, in ultima analisi, la forza magnetica H. Il punto di normale funzionamento si trova subito oltre il ginocchio al fine di attuare un compromesso fra la necessità di sfruttare bene il materiale ferromagnetico (usando valori i più alti possibile dell'induzione magnetica) senza aumentare troppo la corrente di eccitazione (ciò che richiederebbe di usare forti quantità di rame nell'induttore o, in alternativa, di tollerare notevoli perdite di eccitazione).
Figura 10.3
La potenza meccanica Pm necessaria per mantenere in rotazione la macchina può essere rilevata in funzione della tensione a vuoto: si ottiene la curva di fig. 10.4, le cui ordinate sono somma di un termine costante e di un termine che dipende dal quadrato della tensione. Il termine costante, Ppm, rappresenta le perdite meccaniche per attrito nei cuscinetti lubrificati e ventilazione; il termine quadratico rappresenta le perdite nel ferro per isteresi e correnti parassite. Si può dunque scrivere: Pm = Ppm + Pp Fe
(10.3)
La prova a vuoto permette dunque la determinazione separata delle perdite meccaniche e delle perdite nel ferro.
Cap. 10 - pag. 3
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Conviene peraltro osservare che le considerazioni precedenti sono del tutto corrette solo in quanto la macchina venga eccitata da una sorgente, in caso contrario, all'equazione (10.3) devono essere aggiunte le perdite dell'eccitatrice e quelle di eccitazione dell'alternatore.
Figura 10.4
10.4 - Funzionamento a carico. Reazione d'indotto Si supponga ora di chiudere i morsetti di armatura dell'alternatore su un carico equilibrato. Le tre fem simmetriche generate dal moto del campo magnetico induttore nelle fasi dell'indotto causano la circolazione, in queste ultime, di una terna di correnti equilibrate. Tali correnti generano un campo magnetico rotante con velocità angolare uguale a quella del rotore, che è detto campo magnetico di reazione d'indotto. Questo campo magnetico si sovrappone a quello generato dall'induttore e ruota sincrono con esso dando luogo nel traferro ad un campo magnetico risultante. Se la fem E0 e la corrente I sono in fase, il flusso φ 0 generato dall'induttore è in quadratura in anticipo sul flusso φ r dovuto alla reazione d'indotto. Di conseguenza, le linee di flusso della reazione di indotto si dispongono trasversalmente rispetto a quelle del flusso induttore e si richiudono attraverso un solo polo: il flusso di reazione d'indotto è perciò detto, in questo caso, flusso torcente. Se la corrente I è in quadratura in ritardo rispetto alla fem E0 la reazione d'indotto ha carattere smagnetizzante e il flusso da essa generato è perciò detto flusso antagonista. Se la corrente I è in quadratura in anticipo rispetto alla fem E0 la reazione di indotto ha carattere magnetizzante. Se, infine la corrente I forma un angolo qualsiasi con la fem E0 , si provvederà a scomporla in una componente in fase e in una componente in quadratura con quella, determinando le corrispondenti fmm ed i rispettivi flussi mediante le caratteristiche dei circuiti magnetici sedi del flusso torcente e del flusso antagonista. Oltre a questi ultimi, occorre peraltro considerare ancora il flusso disperso, quello cioè, le cui linee si chiudono attorno ai conduttori di indotto senza concatenare l'avvolgimento induttore. Si osservi infine che l'interazione tra le correnti di statore e il campo di rotore suggerisce l'esistenza di una coppia (coppia elettromagnetica) applicata dalla ruota polare di induttore a quella di indotto nel verso del movimento. Ciò corrisponde al fatto che la potenza attiva generata nell'indotto è ottenuta a spese della potenza meccanica ceduta dal motore primo al rotore e da questo trasferita, attraverso l'interazione fra campo magnetico e correnti, allo statore. Nei casi di flusso totalmente smagnetizzante o magnetizzante, la coppia elettromagnetica è chiaramente nulla e ciò è in accordo col fatto che nell'indotto viene generata esclusivamente potenza reattiva. Cap. 10 - pag. 4
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10.5 - Teoria lineare della macchina sincrona isotropa. Circuito equivalente. Diagramma vettoriale di Behn-Eschenburg. Variazione di tensione La teoria della macchina sincrona è resa alquanto complessa dalla saturazione del circuito magnetico e, nel caso della macchina a poli salienti, dalla sua anisotropia. Una comprensione qualitativa dei principali fenomeni che hanno luogo nella macchina si può peraltro raggiungere agevolmente nel caso della macchina a poli lisci, sotto l'ipotesi semplificativa che il circuito magnetico sia lineare. Siano φ 0 il flusso magnetico generato dalla corrente di eccitazione, φ r il flusso magnetico di reazione di indotto e φ il flusso magnetico risultante concatenati con ciascuna fase. Essi vengono riguardati come grandezze complesse in quanto osservate in un riferimento solidale con l'avvolgimento indotto e pertanto dotati di andamento sinusoidale nel tempo. Per quanto detto sopra è: φ = φ0 + φr
(10.4)
La fem generata a vuoto in una fase, E0 , è proporzionale al flusso φ 0 , alla pulsazione ω, ed è in quadratura in ritardo rispetto al flusso: E0 = − jω Na φ 0
(10.5)
essendo Na un numero di spire equivalente della fase attraverso il quale si tiene conto del fattore di proporzionalità. Analogamente, la fem di fase a carico ha l'espressione: E = − jω Na φ
(10.6)
Il flusso magnetico di reazione concatenato con una fase è proporzionale alla fmm di reazione risultante e quindi alla corrente di indotto I : X Na φ r = r I ω
(10.7)
dove la Xr è detta reattanza di reazione. Combinando le equazioni (10.5) (10.6) (10.7) con la (10.4) si ottiene: E0 = E + j X r I
(10.8)
La fem E è a sua volta uguale alla somma della tensione di fase ai morsetti U e delle cadute di tensione resistiva R I, dovuta alla reattanza di dispersione della stessa. Si ha dunque: E = U + (R + j X d ) I
(10.9)
Combinando l'equazione (10.9) con la (10.8) si ottiene: E0 = U + R + j ( X r + X d ) I
[
]
Cap. 10 - pag. 5
(10.10)
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Le equazioni (10.9) e (10.10) si interpretano mediante il circuito equivalente di fig. 10.5 (circuito di Behn-Eschenburg): in quest'ultimo è rappresentata anche l'equazione dei flussi (10.4), tenuto conto delle (10.5), (10.6), (10.7).
Figura 10.5
La reattanza: X = Xr + X d
(10.11)
somma della reattanza di dispersione e di quella che tiene conto della reazione d'indotto è detta reattanza sincrona e l'impedenza Z = R + j X è detta impedenza sincrona. La componente resistiva R di quest'ultima è normalmente trascurabile rispetto a quella reattiva sicché è possibile porre, con ottima approssimazione, Z = j X. Si definisce variazione di tensione dell'alternatore la differenza tra la fem generata a vuoto e la tensione ai morsetti fermo restando il valore della corrente di eccitazione. La variazione di tensione è di norma espressa in percentuale: E −U u% = 100 0 U
(10.12)
Essa varia dal 15 al 30% a pieno carico con cosϕ = 1, dal 10 al 45% a pieno carico con cosϕ = 0,8. Il circuito equivalente di Behn-Eschenburg consente, nei limiti in cui la teoria lineare è accettabile, di calcolare la variazione di tensione. Occorre tuttavia osservare che l'approssimazione che può ottenersi con l'uso della teoria lineare è di norma molto grossolana, si che questa si giustifica quasi esclusivamente in quanto agevola la comprensione qualitativa dei fenomeni: la variazione di tensione calcolata con il metodo sopra esposto può essere affetta da un errore (in eccesso) anche del 25%. È naturalmente possibile evitare gli errori sopra citati tenendo conto della effettiva caratteristica E0 = E0(Ie) e del fatto che la reattanza di reazione Xr è funzione della corrente I. Ma ciò conduce a formulare una teoria non lineare, che viene esposta nei paragrafi seguenti. 10.6 - Teoria non lineare della macchina sincrona isotropa. Circuito equivalente. Diagramma vettoriale di Potier. Variazione di tensione Il problema che si vuole risolvere in questo paragrafo è ancora quello di calcolare la variazione di tensione dell'alternatore, tenendo conto della nonlinearità del circuito magnetico. Cap. 10 - pag. 6
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Nel comportamento a carico, la fem di fase E dovuta al flusso di traferro φ supera la tensione di fase ai morsetti U della caduta resistiva R I e della caduta reattiva (provocata dalla presenza dei flussi dispersi) j X d I. Questo stato di cose è rappresentato nel circuito equivalente di fig. 10.6 a) e nel diagramma vettoriale di fig. 10.6 b).
Figura 10.6 a)
Figura 10.6 b)
In tale circuito i parametri R e Xd sono costanti: la fem E , tuttavia, dipende dalla corrente I in un modo complesso, che tiene conto della nonlinearità del circuito magnetico, e che viene ora determinato. Si osservi la fig. 10.7 nella quale sono riportati, affiancati, il diagramma vettoriale e la caratteristica di eccitazione a vuoto dell'alternatore. La corrente di eccitazione necessaria per mantenere ai morsetti a vuoto la tensione U è chiaramente la corrente Ie1.
Figura 10.7
Si voglia ora mantenere ai morsetti U con la corrente di carico I. Si dovrà intanto vincere le cadute di tensione resistiva e reattiva di dispersione: ciò impone già un aumento della corrente di eccitazione da Ie1 e Ie2 . Occorre poi equilibrare la fmm dovuta alla reazione di indotto. La equazione delle fmm si scrive: Ne Ie2 = Ne Ie + Na I
Cap. 10 - pag. 7
(10.13)
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dove Ne è il numero di spire dell'avvolgimento e Ne Ie2 è la fmm necessaria a generare la fem. E : essa risulta dalla sovrapposizione della fmm Ne Ie generata dall'induttore e dalla fmm Ne I prodotta dalla reazione di indotto. Può ancora scriversi: Ie2 = Ie + α I avendo posto α =
(10.14)
Na . Ne
Nel diagramma vettoriale di fig. 10.7 si riportano la corrente Ie2 , in quadratura in anticipo sulla fem E e la corrente di armatura ridotta all'induttore α I, in fase con la corrente di armatura I : la somma delle due correnti è la corrente di eccitazione Ie . Si è così risolto il problema di determinare la corrente di eccitazione Ie necessaria a mantenere ai morsetti di armatura la tensione U e la corrente I. È ora possibile determinare la variazione di tensione dell'alternatore: basta infatti riportare, in ascissa del diagramma, la corrente di eccitazione Ie , leggere in ordinata la tensione a vuoto E0 e applicare quindi la formula (10.12). Il diagramma di fig. 10.7 è il diagramma di Potier. Esso può essere costruito quando si conoscono i parametri Xd e α (trascurando, come quasi sempre si può fare, la resistenza R). La determinazione di questi parametri si compie agevolmente quando si conosce, oltre alla caratteristica di eccitazione a vuoto, almeno una delle caratteristiche di eccitazione a carico con corrente costante e cosϕ = 0 (in anticipo o in ritardo), ma non verrà affrontato in quanto segue. 10.7 - Funzionamento dell'alternatore in corto circuito Il comportamento dell'alternatore in corto circuito si studia facendo ruotare la macchina alla velocità nominale con i morsetti di armatura chiusi in corto circuito attraverso tre amperometri collegati a stella (che possono essere ridotti ad uno se non interessa verificare l'equilibrio delle corrente). La corrente di eccitazione Ie viene progressivamente aumentata, a partire dal valore zero, fino a che la corrente di armatura I raggiunge, o supera di poco, il valore nominale: la relazione fra le due grandezze risulta essere lineare (caratteristica di corto circuito dell'alternatore). L'uso di bassa corrente di eccitazione e la forte reazione smagnetizzante riducono fortemente il flusso durante la prova in corto circuito: la macchina funziona pertanto lontano dalla saturazione e ciò spiega l'andamento lineare della caratteristica di corto circuito. Il rapporto fra la corrente di eccitazione che genera, a vuoto, la tensione nominale, e quella che fa circolare, in corto circuito, la corrente nominale si dice rapporto di corto circuito. Esso fornisce una valutazione approssimata (esatta nei limiti della teoria lineare) del rapporto fra corrente di corto circuito e corrente nominale, come il lettore può dimostrate da se ricorrendo al circuito equivalente di Behn-Eschenburg. Negli alternatori moderni, il rapporto di corto circuito ha valori dell'ordine di 2÷3. Il rapporto fra la tensione a vuoto e la corrente di corto circuito corrispondenti ad uno stesso valore della corrente di eccitazione è, come si può verificare dal circuito equivalente di Behn-Eschenburg, l'impedenza sincrona, o, trascurando come è sempre lecito fare, la resistenza, la reattanza sincrona dell'alternatore. La potenza meccanica necessaria per mantenere in rotazione la macchina in corto circuito può essere rilevata in funzione della corrente di armatura: essa è somma di un termine costante Ppm, che corrisponde alle perdite meccaniche e di un termine che dipende dal quadrato della corrente Pp Cu, che corrisponde alle perdite nel rame: Cap. 10 - pag. 8
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Pm = Ppm + Pp Cu
(10.15)
Tale assunzione si giustifica sulla base del fatto che nel funzionamento in corto circuito il flusso è basso e pertanto le perdite nel ferro trascurabili. Valgono per le perdite di eccitazione le osservazioni già fatte in relazione alla prova a vuoto. 10.8 - Funzionamento degli alternatori in parallelo Nei moderni impianti di produzione di energia elettrica, le varie centrali che alimentano un'area di consumo sono collegate fra loro attraverso una fitta rete di linee di interconnessione; aree contigue sono a loro volta interconnesse fra loro seppure in modo meno fitto. La rete di interconnessione, ovviamente con livelli di strutturazione diversissimi, ha oggi dimensioni continentali. Pertanto, salvo che in applicazioni speciali e comunque di potenza modesta (servizi di bordo e simili), l'alternatore non è mai chiamato ad alimentare da solo un gruppo di carichi, ma è sempre posto in parallelo ad una rete complessa, costituita dalla totalità degli altri alternatori visti attraverso le loro molteplici interconnessioni. Il collegamento dell'alternatore in parallelo alla rete deve essere effettuato in modo tale che, alla chiusura dell'interruttore, la fem della macchina e la tensione di rete si facciano equilibrio: ciò è necessario per evitare colpi di corrente che possano danneggiare sia la macchina che la rete. Occorre dunque che, immediatamente prima che l'interruttore sia chiuso, siano verificate le due condizioni seguenti: − la velocità angolare è quella di sincronismo; − la fem generata è uguale alla tensione di rete. Si possono realizzare entrambe le condizioni agendo da un lato sul regolatore di velocità del motore primo, dall'altro sulla corrente di eccitazione dell'alternatore. In un sistema di avviamento manuale, si ricorre alla disposizione di fig. 10.8.
Figura 10.8
La regolazione grossolana della velocità si fa osservando il frequenzimetro e quella della corrente di eccitazione osservando il voltmetro disposti ai morsetti dell'alternatore. La regolazione fine si fa osservando le lampade poste in parallelo all'interruttore: queste sono sottoposte a una tensione che risulta dal battimento di quella dell'alternatore con quella di rete; quando le due sono pressoché uguali in valore istantaneo le lampade sono spente e tale condizione dura tanto più a lungo quanto più prossima è la velocità dell'alternatore al sincronismo. Se l'interruttore viene chiuso mentre permane la condizione citata, l'alternatore si trova a funzionare in parallelo alla rete con corrente di armatura nulla: da quel momento la velocità di sincronismo gli è imposta dalla rete stessa, attraverso le coppie sincronizzanti che ve lo riportano appena per qualche causa tenda ad allontanarsene. Nella realtà le manovre sopra descritte sono realizzate con grande rapidità ed affidabilità elevata in modo automatico.
Cap. 10 - pag. 9
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L'analisi del comportamento dell'alternatore posto in parallelo alla rete si effettua facilmente, nell'ipotesi di linearità e isotropia, considerando, di quest'ultima, il generatore equivalente serie (teorema di Thevenin); esso è costituito da un generatore ideale di tensione, che rappresenta, ai morsetti dell'alternatore assegnato, l'effetto delle fem di tutti gli altri alternatori interconnessi con esso, e da un'impedenza, che è l'impedenza di corto circuito della rete a quei morsetti. La fem del generatore equivalente serie si può ritenere costante in valore efficace, frequenza e fase, in quanto imposta da un complesso di alternatori la cui potenza globale è grandissima rispetto a quella di una singola macchina. L'impedenza di corto circuito della rete si può di norma assumere puramente induttiva e si può inglobare nella reattanza sincrona dell'alternatore. Spesso essa può essere del tutto trascurata, in quanto la rete ha una potenza che, rispetto a quella dell'alternatore, è virtualmente infinita. La resistenza interna dell'alternatore può quasi sempre essere trascurata, in questo contesto, rispetto alla reattanza sincrona. Pertanto, l'analisi del comportamento dell'alternatore in parallelo alla rete può essere condotta con l'ausilio del circuito equivalente di fig. 10.9, tracciato nell'ipotesi che la rete abbia potenza infinita: essa vale peraltro del tutto in generale, potendosi in ogni caso, come già si è detto, conglobare la reattanza di corto circuito della rete nella reattanza sincrona dell'alternatore.
Figura 10.9
L'equazione del circuito di fig. 10.9 si scrive: E0 = U + j X I
(10.16)
ovvero, dividendo ambo i membri per j X: E0 U = +I jX jX
(10.17)
E0 U è la corrente di corto circuito dell'alternatore e − è la corrente di corto jX jX circuito della rete chiusa sull'alternatore diseccitato. L'equazione (10.17) è rappresentata graficamente sul piano complesso di fig. 10.10. È importante individuare, in tale piano, il luogo degli estremi del vettore corrente di armatura I a corrente di eccitazione costante. Tale luogo è chiaramente costituito dall'insieme dei punti per i quali E0 è costante ed è pertanto una circonferenza avente come centro il punto E 0 e come raggio 0 (diagramma circolare della macchina sincrona). X nella (10.17)
Cap. 10 - pag. 10
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Figura 10.10
Al variare dell'estremo del vettore I sulla circonferenza, variano le componenti I cosϕ e I senϕ in fase e in quadratura con la tensione U: variano quindi, nello stesso modo, la potenza attiva erogata P e quella reattiva erogata o. La potenza erogata P, supponendo per semplicità la macchina priva di perdite, è uguale alla potenza meccanica assorbita Pm; questa, d'altra parte, è data dal prodotto TΩ0 della coppia per la velocità angolare, che è rigorosamente costante, essendo imposta dalla frequenza di rete: si conclude che la componente I cosϕ della corrente d'armatura in fase con la tensione, o, se si preferisce, la posizione dell'estremo del vettore corrente sulla circonferenza è determinata dalla coppia che il motore primo applica all'albero dell'alternatore. Sulla base di queste osservazioni, è possibile comprendere il principio della regolazione indipendente delle potenze attive e reattive erogate mediante il controllo dell'apertura del distributore della turbina e quello della corrente di eccitazione. Si supponga dapprima che l'alternatore funzioni in parallelo alla rete con E0 = U. Ci si trova U allora sulla circonferenza di centro 0 e raggio , nel punto A: la corrente ai morsetti di X armatura è nulla e nulle sono pure le potenze attiva e reattiva erogate. La potenza meccanica necessaria a mantenere in rotazione l'alternatore, nell'ipotesi assunta di assenza di perdite, è anch'essa nulla. Si aumenti ora la corrente di eccitazione Ie, senza immettere nell'alternatore potenza meccanica attraverso l'albero. L'estremo del vettore corrente d'armatura I passa ora su una E0 circonferenza di centro 0 e di raggio , essendo E0 il valore di fem a vuoto X corrispondente alla corrente di eccitazione Ie. Si supponga che tale circonferenza sia quella disegnata in fig. 10.10. Poiché la potenza meccanica assorbita dall'alternatore è nulla, tale deve essere anche la potenza attiva erogata: pertanto I deve essere in quadratura con la tensione e l'estremo del vettore rappresentativo deve coincidere con il punto B. In queste condizioni, l'alternatore funziona come generatore di potenza reattiva: esso eroga cioè una potenza reattiva positiva, o, ciò che è lo stesso, assorbe una potenza reattiva negativa, comportandosi dunque come un condensatore. Se, a partire dalla condizione di funzionamento nella quale la corrente di armatura erogata è nulla, si riduce la corrente di eccitazione, ancora senza immettere potenza meccanica attraverso l'albero, l'estremo del vettore I si porta in un punto interno al segmento OA, ad Cap. 10 - pag. 11
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es. C. In queste condizioni la macchina eroga potenza reattiva negativa, cioè assorbe potenza reattiva, comportandosi come un induttore. Si ritorni ora all'ipotesi che la corrente di eccitazione sia tale da portare l'estremo del vettore I nel punto B. Si fornisca potenza meccanica all'albero, aprendo il distributore della turbina. Tale potenza deve essere erogata ai morsetti sotto forma di potenza attiva, sicché, essendo U assegnata, risulta determinato il valore della componente attiva della corrente d'armatura I cosϕ. Poiché d'altra parte l'estremo del vettore corrente deve stare sul cerchio di centro 0 E e di raggio 0 , tale vettore è completamente determinato. X Si è così dimostrato che lo scambio di potenza reattiva fra l'alternatore e la rete è determinato dal valore della corrente di eccitazione, mentre lo scambio di potenza attiva dipende dalla coppia applicata all'albero.
File: franchino - d:\proj\unibg\elett\dispense\CAP10.DOC Stampato: gg/03/aa 22.53 Ver/Rev: drf,fin,tmp,old/0.9
Cap. 10 - pag. 12
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ver. 1.0
11 Macchine a corrente continua 11.1 - Generalità e disposizioni costruttive Le macchine a corrente continua sono macchine rotanti, eccitate con corrente continua, e dotate di collettore a lamelle (o commutatore). Dal punto di vista costruttivo, esse sono costituite da uno statore generalmente a poli salienti e da un rotore liscio (fig. 11.1). Lo statore è costituito di ferro dolce massiccio, ad eccezione delle espansioni polari, laminate. Il rotore è formato da un pacco di lamierini, aventi di norma spessore di 0,3 mm, isolati fra loro.
Figura 11.1 Il circuito induttore è disposto sullo statore ed è costituito da tante bobine collegate in serie quanti sono i poli; le connessioni sono attuate in modo tale che le polarità si alternino. La generazione di un flusso di induttore presuppone la circolazione di una corrente continua nel circuito induttore. Questa può essere fornita da una sorgente distinta e si dice allora che la macchina è ad eccitazione indipendente. Più comunemente la corrente di induttore è prodotta dalla tensione di indotto e allora si ha l’eccitazione in derivazione, oppure coincide con la corrente di indotto e allora si ha l’eccitazione in serie. Alternativamente sulle macchine di potenza minore il flusso di induttore può essere fornita da un sistema di magneti permanenti. Il circuito indotto è alloggiato nelle cave del rotore. Esso è costituito da un sistema di conduttori disposti parallelamente all’asse, connessi fra loro mediante collegamenti frontali in modo da formare un circuito chiuso (indotto a tamburo): la fig. 11.2 fornisce un’idea Cap. 11 - pag. 1
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sommaria della struttura di tale avvolgimento nel caso che questo sia fermato da otto conduttori attivi. Ogni conduttore, o gruppo di più conduttori, è collegato elettricamente con una delle lamelle del commutatore. Il commutatore, o collettore a lamelle, è costituito da un insieme di lamelle di rame a forma di cuneo, fissate a un mozzo mediante incastri a code di rondine e isolate fra loro mediante sottili fogli di mica (fig. 11.3)
Figura 11.2
Figura 11.3
Esso provvede a stabilire la continuità metallica fra il circuito indotto, mobile, e i circuiti esterni, fissi, cui esso è collegato, mediante coppie di spazzole disposte sugli assi interpolari. Le macchine a corrente continua di maggiore potenza sono spesso provviste di poli ausiliari: i poli di commutazione, disposti sugli assi interpolari, e i poli di compensazione, ricavati nelle espansioni polari dei poli principali. I primi hanno la funzione di evitare la formazione di archi al collettore durante il funzionamento, i secondi quella di compensare gli effetti della reazione di indotto (vd. oltre). 11.2 - Funzionamento da generatore (dinamo) Se si fa circolare nel circuito induttore della macchina una corrente continua fornita per ipotesi da una sorgente indipendente, questa genera un flusso magnetico φ che attraversa il rotore richiudendosi attraverso i gioghi statorici. Se il rotore è posto in rotazione, i conduttori dell’indotto tagliano le linee di flusso e divengono pertanto sedi di fem indotte, i cui versi facilmente determinabili con l’uso della regola della mano destra. Facendo riferimento, a titolo di esempio, alla fig. 11.4, nella quale è rappresentata una macchina con una sola coppia di poli, si osserva che, in ogni istante, le fem hanno lo stesso verso in tutti i conduttori che sottendono un polo e verso opposto in quelli che sottendono l’altro.
Figura 11.4
Cap. 11 - pag. 2
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L’esame della struttura dell’avvolgimento (fig. 11.5) rivela poi che, in ogni istante, esso è costituito da due vie in parallelo derivate fra i conduttori che si trovano nel piano interpolare: nell’istante in cui il rotore è nella posizione di figura, le due vie sono costituite dai conduttori 1,4,7,2,5 e 1,6,3,8,5 rispettivamente. Lungo ciascuna di esse, agisce una fem risultante dovuta alla somma dei contributi dei singoli conduttori appartenenti alla via: l’uguaglianza delle due fem risultanti, che possono essere raccolte fra i conduttori disposti nel piano interpolare, è garantita dall’uniformità dell’avvolgimento e garantisce a sua volta l’assenza di correnti di circolazione nell’indotto. Questo può essere dunque rappresentato, in ogni istante, dal circuito equivalente di fig. 11.6 dove con Ri si è indicata la resistenza dell’indotto vista da terminali posti nel piano neutro.
Figura 11.5
Figura 11.6 Le considerazioni precedenti valgono in un istante fisso, ancorché arbitrario. Occorre tuttavia osservare che, negli istanti successivi, mutano bensì i conduttori appartenenti a ciascuna delle due vie, ma, per l’uniformità dell’avvolgimento, la fem risultante che si raccoglie fra i conduttori disposti nel piano neutro non cambia. È dunque possibile ottenere dalla macchina una fem costante, mediante una coppia di spazzole disposte nel piano neutro e striscianti sul commutatore a lamelle: in ogni istante, infatti, queste stabiliscono il contatto metallico fra il circuito esterno e i conduttori che, in quell’istante, occupano il piano neutro. Poiché la fem generata in ciascun conduttore è proporzionale all’induzione magnetica sul conduttore stesso e alla velocità con la quale esso taglia le linee di flusso, è intuitivo che la fem risultante dell’indotto è proporzionale al flusso uscente da un polo e alla velocità angolare del rotore: E0 = KΩφ
(11.1)
Cap. 11 - pag. 3
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La (11.1) è detta equazione della fem della macchina a corrente continua. Essa vale inalterata per una macchina con pp paia di poli e con un numero qualsiasi (compreso fra 2 e 2 pp) di vie interne, dato che questi aspetti costruttivi si riflettono esclusivamente nell’espressione del fattore K in termini del numero totale di conduttori dell’avvolgimento. Nel funzionamento a vuoto, la macchina genera una fem espressa dall’equazione (11.1), la quale può essere misurata come tensione fra le spazzole. Tale fem, proporzionale alla velocità angolare del rotore e al flusso magnetico, dipende dalla corrente di eccitazione secondo la curva di fig. 11.7 (caratteristica di eccitazione a vuoto). La potenza assorbita attraverso l’albero nel funzionamento a vuoto è somma delle perdite meccaniche (per attrito e ventilazione), che si misurano a macchina diseccitata, e di perdite nel ferro rotorico, sottoposto ad isteresi rotante e sede di correnti parassite. Le perdite di eccitazione non entrano nel conto essendo fornite a spese della sorgente per ipotesi indipendente.
Figura 11.7 Il funzionamento a carico può essere studiato sperimentalmente mediante la disposizione di fig. 11.8.
Figura 11.8 Fissata la velocità angolare e la corrente di eccitazione, si varia la resistenza del reostato di carico Rc e si leggono sugli strumenti i valori corrispondenti della tensione e della corrente. Si ottiene la caratteristica di fig. 11.9 (caratteristica esterna).
Figura 11.9 Se si interpreta tale caratteristica mediante il circuito equivalente di fig. 11.10, nel quale E0 è la fem a vuoto, si osserva subito che la resistenza R necessaria ad ottenere l’effettiva pendenza della caratteristica è maggiore della resistenza dell’indotto Ri di una quantità proporzionale alla velocità angolare hΩ. Questo fenomeno si spiega nel modo seguente. Le Cap. 11 - pag. 4
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correnti che circolano nell’indotto sotto l’azione delle fem ed equiverse con quelle determinano un campo magnetico (di reazione di indotto), diretto secondo l’asse interpolare, le cui linee di forza si chiudono trasversalmente nel poli induttori (fig. 11.11).
Figura 11.10
Figura 11.11
Si osserva subito che il campo magnetico di reazione di indotto si oppone a quello principale nella metà inferiore del polo nord ed è cospirante con esso nella metà superiore; l’opposto accade nel polo sud. Se il circuito magnetico fosse lineare, il flusso totale uscente da un polo non sarebbe modificato, dato che la riduzione in una metà di esso sarebbe esattamente compensata da un aumento nell’altra metà. Ma, poiché il circuito magnetico lavora in prossimità della saturazione, questo non avviene: l’aumento di flusso in una metà del polo è inferiore alla diminuzione nell’altra metà. Ciò determina una riduzione del flusso al crescere della corrente di armatura e conseguentemente una riduzione, proporzionale alla velocità angolare, della fem indotta secondo la curva discendente tratteggiata di fig. 11.9: ritenendo tale riduzione proporzionale, in prima approssimazione, alla corrente di indotto I, si potrà infine descrivere il complesso delle caratteristiche di fig. 11.9 mediante il circuito equivalente di fig. 11.12. La reazione di indotto può essere compensata disponendo avvolgimenti ausiliari, percorsi dalla corrente di indotto, in cave praticate nelle espansioni dei poli principali. Nel funzionamento a carico, alle perdite meccaniche e quelle nel ferro, si aggiungono le perdite nel rame dell’indotto RiI2: queste si devono ritenere induzione delle perdite nei poli di compensazione e di commutazione.
Fig. 11.12
Cap. 11 - pag. 5
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11.3 - Funzionamento come motore Il funzionamento della macchina a corrente continua eccitata indipendentemente come motore può qualitativamente descriversi come segue. Nel funzionamento con rotore bloccato, la corrente Ia di armatura assorbita sotto una tensione di alimentazione U è limitata soltanto dalla resistenza dell’indotto Ri: Ia =
U Ri
(11.2)
Essa circola nell’indotto, che per semplicità si suppone costituito di due sole vie in parallelo, nei versi indicati in fig. 11.13 a). Nella parte b) della stessa figura si è riprodotto il verso delle correnti nei conduttori attivi, rinunciando, per semplicità di rappresentazione, a mettere in evidenza le connessioni frontali, ma facendo figurare le linee del campo magnetico induttore.
Figura 11.13 Esse investono i conduttori dell’indotto, percorsi da correnti: questi sono pertanto soggetti a forze meccaniche. Poiché il vettore induzione B ha intensità costante in ogni punto del conduttore e direzione perpendicolare a quest’ultimo la forza F che agisce su di esso si esprime nella forma: F=BlI (11.3) dove l è la lunghezza del conduttore. Il verso della forza si ricava tenendo conto, per ogni conduttore, del verso del vettore induzione B e di quello della corrente I. Il sistema delle forze che agiscono sull’intero avvolgimento indotto è illustrato in figura 11.14. Si osserva subito che tale sistema ha risultante nulla e momento risultante diverso da zero: esso equivale pertanto ad una coppia il cui verso, per l’esempio di fig. 11.13, è indicato in fig. 11.14.
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Figura 11.14 Si supponga ora di sbloccare il rotore. Sotto l’azione della coppia esso accelera acquistando velocità angolari via via crescenti, di verso evidentemente concorde con quello della coppia stessa. I conduttori di indotto, in moto rispetto al campo magnetico induttore, ne tagliano le linee di flusso e divengono perciò sedi di fem che possono calcolarsi, per la mutua perpendicolarità dei vettori, come: e=Blv
(11.4)
dove v è la velocità dei conduttori rispetto al campo. I versi di tali fem si trovano facilmente con l’uso della regola della mano destra e sono quelli di fig. 11.14. Si osserva subito che la fem è, in ciascun conduttore, opposta alla corrente e deve quindi essere propriamente considerata come una forza controelettromotrice. Al crescere della velocità angolare del rotore, la fcem risultante in ciascuna delle due vie in cui risulta suddiviso l’avvolgimento cresce proporzionalmente ad essa secondo l’equazione (11.1). Se la tensione di alimentazione resta costante, la caduta di tensione Ri I e quindi la corrente I diminuisce, facendo diminuire la coppia motrice. Si comprende quindi che il motore raggiunga un regime stazionario, quando la coppia motrice e quella resistente si fanno equilibrio: in queste condizioni l’accelerazione è zero e la velocità angolare è costante. Le considerazioni precedenti sono tradotte in forma quantitativa dalla caratteristica elettromeccanica e dalla caratteristica meccanica del motore. La tensione di armatura U, la corrente di armatura I e la fcem E sono legate dall’equazione di Ohm dell’indotto, che, nell’ipotesi di trascurarne la reazione, si scrive: U = E0 + Ri I
(11.5)
La fcem E0 è proporzionale al flusso uscente da un polo φ e alla velocità angolare Ω: E0 = K φ Ω
(11.6)
Sostituendo la (11.6) nella (11.5) e risolvendo rispetto a I si ottiene l’equazione della caratteristica elettromeccanica: U−K φΩ I= (11.7) Ri la quale esprime la relazione fra corrente di armatura e velocità angolare a tensione di armatura e flusso costante. Essa è rappresentata graficamente in fig. 11.15.
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Figura 11.15 I parametri: Ic =
U Ri
Ω0 =
U Kφ
rappresentano rispettivamente la corrente di corto circuito (che si manifesta a rotore bloccato, Ω = 0) e la velocità di fuga (che si manifesta in assenza di coppia resistente, compresa quella dovuta agli attriti e alla ventilazione). L’equazione della coppia elettromagnetica T si stabilisce scrivendo l’uguaglianza della potenza meccanica generata e della potenza elettrica convertita: T Ω= E0 I
(11.8)
Sostituendo nell’equazione (11.8) l’espressione (11.6) della fcem e sopprimendo il fattore comune I, si trae: T=KφI
(11.9)
L’equazione (11.9) stabilisce la proporzionalità della coppia elettromagnetica alla corrente di armatura e al flusso e dicesi equazione della coppia. Sostituendo in essa l’espressione di I fornita dall’equazione (11.7), si ottiene l’espressione della caratteristica meccanica a tensione di armatura e flusso costante: T = Kφ
U − KφΩ Ri
(11.10)
Essa è rappresentata graficamente in fig. 11.16 dove:
T0 =
KφΩ Ri
(11.11)
è la coppia di spunto e Ω0 ha il significato già visto in precedenza.
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Figura 11.16 La trattazione precedente descrive il comportamento della macchina soltanto in prima approssimazione, in quanto trascura l’effetto della reazione d’indotto e quello delle perdite nel ferro rotorico. È possibile tenere conto di entrambe facendo uso del circuito equivalente di fig. 11.17 in esso la fem - hΩI, tiene conto, come già nel circuito equivalente di fig. 11.12 della reazione di indotto, mentre la resistenza Rp tiene conto della potenza perduta per E2 isteresi e correnti parassite nel ferro rotorico, potenza che può esprimersi nella forma . Rp
Figura 11.17 Si noti, per inciso, che di tale perdita si sarebbe potuto tenere conto anche nel circuito equivalente di fig. 11.12, ma vi si è rinunciato, in quanto il generatore funziona di norma a velocità costante e le perdite nel ferro possono essere conglobate in quelle meccaniche senza influenzare il comportamento ai morsetti della macchina. La caratteristica meccanica risulta di conseguenza modificata come indicata in fig. 11.18. L’avviamento del motore a c.c. con eccitazione indipendente non può essere compiuto semplicemente connettendo i morsetti di armatura alla linea di alimentazione: allo spunto, infatti la fcem del motore è nulla e la corrente di indotto, a causa del basso valore della resistenza di quest’ultimo, assume facilmente valori pari a 20:30 volte la corrente nominale.
Figura 11.18 È pertanto necessario aumentare artificialmente la resistenza del circuito indotto mediante l’inserzione di un reostato di avviamento in serie, che viene escluso via via che il motore
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acquista velocità. In presenza del reostato, di resistenza Ra, le equazioni delle caratteristiche elettromeccanica (11.7) e meccanica (11.10) si modificano come segue: I=
U−K φΩ Ri + Ra
T = Kφ
U − KφΩ Ri + Ra
(11.12)
(11.13)
Si comprende facilmente come riducendo progressivamente Ra al crescere di Ω si possa effettuare l’avviamento mantenendo la corrente, e la coppia, entro limiti prefissati. Il diagramma di avviamento è illustrato in fig. 11.19 in relazione ad una particolare caratteristica di coppia resistente. Il gruppo, allo spunto, con reostato completamente inserito, è sottoposto all’azione di una coppia motrice, misurata dall’ordinata del punto A, maggiore della coppia resistente T, di primo distacco: esso pertanto accelera fino a raggiungere la configurazione stazionaria individuata dal punto B, nella quale si ha equilibrio fra coppia motrice e coppia resistente.
Figura 11.19 Disinserendo parzialmente il reostato, si passa alla caratteristica di coppia motrice successiva: poiché, per l’inerzia del gruppo, la velocità non può cambiare istantaneamente, la nuova coppia motrice è quella misurata dall’ordinata del punto B’. In queste condizioni, il gruppo torna ad accelerare fino a raggiungere una nuova configurazione stazionaria in C. Il ragionamento si può ora ripetere fino a che tutte le sezioni del reostato sono state disinserite ed il gruppo ha raggiunto la configurazione di funzionamento di regime nel punto F. Poiché la coppia motrice e la corrente sono fra loro proporzionali, la spezzata a tratto spesso di fig. 11.19 descrive altresì l’andamento di quest’ultima durante l’avviamento: si rileva subito la riduzione che se ne ottiene con l’uso del reostato. Le equazioni (11.12) e (11.13), e la fig. 11.19, mostrano come il resistore di avviamento non modifichi il valore della velocità di fuga ma soltanto quello della coppia di spunto. La manovra di avviamento, un tempo effettuata manualmente seguendo con l’occhio sull’amperometro l’andamento della corrente assorbita, è oggi compiuta da dispositivi automatici. Una delle caratteristiche che rendono il motore a corrente continua particolarmente interessante consiste nella facilità della regolazione di velocità. Questa, nel caso del motore con eccitazione indipendente, può essere effettuata agendo o sul flusso induttore o sulla tensione di armatura. Il primo metodo (controllo di eccitazione) è illustrato in fig. 11.20.
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Figura 11.20 La caratteristica meccanica 1, corrispondente ad un assegnato valore del flusso induttore, è definita dalla coppia di spunto T0' e dalla velocità di fuga Ω '0 . La condizione di equilibrio con la coppia resistente si attua alla velocità angolare Ω‘. Riducendo il flusso induttore, la caratteristica meccanica si modifica in conseguenza della riduzione della coppia di spunto e dell’aumento della velocità di fuga (caratteristica 2). La nuova configurazione di equilibrio si verifica pertanto alla velocità Ω“ > Ω‘. Dunque si aumenta la velocità riducendo il flusso induttore e viceversa. La regolazione del flusso viene effettuata regolando la corrente di eccitazione mediante un reostato (reostato di eccitazione o di campo) disposto in serie all’avvolgimento induttore. Il secondo metodo (controllo di armatura) è illustrato in fig. 11.21. Le caratteristiche meccaniche corrispondenti a diversi valori della tensione di armatura sono fra loro parallele e sono tanto più distanti dall’origine degli assi quanto maggiore è la tensione stessa.
Figura 11.21 È quindi possibile ottenere una gamma continua di velocità facendo crescere la tensione di alimentazione del motore da zero al valore nominale, mantenendo il flusso costante. La regolazione della tensione viene effettuata mediante un ponte con diodi controllati. Questo metodo di regolazione è particolarmente vantaggioso perché risolve ad un tempo il problema dell’avviamento, consentendo di fare a meno del dispositivo reostatico. Si osserva infine che l’eventuale interruzione dell’avvolgimento di eccitazione, provocato da guasto o da errata manovra, durante il funzionamento del motore, è molto pericoloso perché, riducendosi il flusso a quello residuo, la velocità di fuga e quindi quella effettiva aumentano enormemente, con il rischio di rottura della macchina per effetto delle sollecitazioni centrifughe. Si evita l’inconveniente proteggendo il circuito indotto mediante un interruttore automatico di massima corrente. Appena avvenuto il guasto, la velocità del gruppo, per causa dell’inerzia, è ancora uguale a quella che si aveva immediatamente prima. Poiché il flusso cade a valori trascurabili, la corrente nell’indotto è in pratica quella di corto circuito e dunque è notevolmente superiore alla corrente nominale. Pertanto l’interruttore di massima corrente interviene interrompendo l’alimentazione e provocando l’arresto del motore. File: baggio2 - c:\proj\unibg\elett\dispense\CAP11.DOC
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ver. 1.0
12 Linee elettriche, apparecchi di protezione e manovra, rifasamento 12.1 - Generalità: il sistema elettrico L’energia elettrica occupa un posto rilevante nella vita di ogni giorno. Perché essa possa arrivare fino alle abitazioni, alle fabbriche, ai luoghi di lavoro e di incontro occorre però che sia attivata una complessa catena di passaggi. Il primo passaggio è, ovviamente, quello della produzione e generazione. Essa avviene quasi esclusivamente in c.a., alla frequenza di 50 Hz in gran parte del mondo, o di 60 Hz negli Stati Uniti d’America e in pochi altri paesi, prevalentemente del continente americano. La scelta della c.a. anziché di quella continua è dovuta sostanzialmente a tre motivi principali: a) la facilità di conversione a vari livelli di tensione, mediante una macchina semplice e robusta come il trasformatore; b) la maggiore semplicità, affidabilità, robustezza dei generatori sincroni o alternatori rispetto ai generatori in c.c. (questi ultimi comportano, per esempio, il problema della commutazione, della manutenzione delle spazzole, ecc.); c) la possibilità per gli utenti di utilizzare i motori asincroni, macchine molto robuste e affidabili. Il fatto che la produzione avvenga a frequenza costante comporta, nel caso che il motore primo sia una turbina a vapore, che la potenza erogata non possa essere regolata se non entro una gamma molto ristretta di valori. Infatti le turbine a vapore, come pure altri motori termici, erogano, se funzionanti a frequenza costante, un valore di coppia pressoché costante, o comunque con una differenza abbastanza piccola tra il valore massimo e il valore minimo possibili. Ne consegue che anche la potenza può subire solo piccole variazioni per regolazione. Peraltro, le centrali termiche non possono venire spente e riaccese a piacimento, perché i transitori termici di riscaldamento e di raffreddamento delle caldaie sono dell’ordine delle decine di ore o anche dei giorni.
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Il consumo di energia elettrica è invece fortemente variabile nell’arco della giornata: assume valori alquanto ridotti durante la notte, aumenta abbastanza in fretta nelle prime ore della mattina fino a raggiungere un picco massimo verso le ore 10.00, subisce una lieve flessione tra le 12.00 e le 14.00, risale ad un secondo picco verso le 15.00, e poi scende gradualmente e lentamente (nella serata i consumi domestici subentrano a quelli industriali) per arrivare dopo la mezzanotte alla media notturna. Il diagramma che indica il valore del consumo in funzione dell’ora prende il nome di curva di carico giornaliero. Quella ora descritta è relativa ad un giorno lavorativo: ovviamente è diversa nei giorni di sabato e domenica; inoltre la curva di carico presenta notevoli differenze a seconda del periodo dell’anno, sia in relazione ai fattori climatici (per esempio: d’estate l’illuminazione artificiale è meno utilizzata che d’inverno), sia in relazione all’organizzazione lavorativa (per esempio: il mese di agosto presenta bassissimi consumi elettrici perché quasi tutte le fabbriche sono chiuse per ferie). Il fatto che la curva di carico presenti massimi e minimi, con forti variazioni, è un problema per il produttore, se confrontato con il problema accennato poco sopra di limitata regolabilità della potenza erogabile nelle centrali termiche. Se tali centrali venissero dimensionate per sopportare i picchi di carico, che sono dell’ordine del 140-150% (o anche più) della potenza media assorbita nella giornata, ci sarebbe un esubero di potenza nelle ore della giornata lontano dai picchi, con uno spreco quindi del 40-50%. Basti pensare che in Italia il picco di carico è di 26,5 GW, a fronte di un consumo medio di 18 GW (dati invernali): si avrebbe un esubero di oltre 8 GW, corrispondenti a 200 milioni di kilowattora giornalieri. Inoltre eliminare energia significa dissiparla in calore nell’ambiente (atmosfera, fiumi, altri bacini) con conseguenze notevoli di inquinamento termico dell’ambiente stesso, per non parlare dell’inquinamento vero e proprio (CO2, NOx, zolfo, ecc.) aggiuntivo. Si prendono provvedimenti di tipo economico per incentivare il consumo notturno (sconti sull’energia elettrica), ma non è possibile ne sarebbe giusto sconvolgere più di tanto i ritmi naturali dell’attività umana. Il problema viene risolto grazie ad una opportuna gestione delle centrali idrauliche, in quanto queste permettono una elevata regolabilità della potenza. Nelle centrali idrauliche vengono utilizzati tre diversi tipi di turbine, a seconda del salto utile, cioè della differenza di quota tra il livello del bacino di accumulo e il livello dello scarico della turbina (Pelton, Francis, Kaplan). Tutte queste turbine hanno rendimenti elevati (superiori al 90%) in un ampio range di valori; inoltre è possibile la parzializzazione, cioè l’alimentazione parziale chiudendo alcune bocche di alimentazione, ottenendo valori elevati di rendimento in un range dal 15-20% al 100% della potenza nominale; comunque è possibile spegnere o riavviare tali turbine con manovre della durata di poche decine di secondi o di pochi minuti, in quanto non si presentano i lunghi transitori termici delle centrali termoelettriche, ma solo i transitori meccanici di fermata o di partenza dell’acqua nelle condotte o di arresto e di avvio dei generatori sincroni (l’acqua e i rotori presentano una notevole inerzia meccanica). Le centrali idrauliche si presentano pertanto come candidate ideali per far fronte ai picchi, in quanto i bacini idraulici a monte permettono un razionale accumulo dell’energia. Tuttavia, assegnando alle centrali termiche un valore di potenza pari al consumo minimo giornalieri e affidando alle centrali idrauliche il compito di fornire la potenza aggiuntiva necessaria ai picchi, queste non riuscirebbero a fornire tutta l’energia richiesta (almeno nel caso italiano), perché i bacini si svuoterebbero in breve tempo. Pertanto le termiche funzionano ad una potenza superiore al minimo giornaliero; di notte si presenta comunque un esubero che viene però utilizzato per effettuare, nelle centrali idrauliche, il pompaggio, ossia l’operazione di rimandare ai bacini di monte parte dell’acqua che da questi era scesa nei bacini di valle durante i picchi di carico. In questo modo l’esubero di potenza viene almeno in parte recuperato per essere riutilizzato nei momenti di maggior richiesta. L’operazione presenta un rendimento dell’ordine del 65-70% (nel senso che si dissipa comunque un 15-20% nel pompaggio e un 10-15% nel riutilizzo), ma è Cap. 12 - pag. 2
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comunque molto meglio che buttar via tutta l’energia. Per effettuare il pompaggio oltre alle turbine sono montate sugli assi delle macchine anche delle potenti pompe, solitamente di tipo centrifugo; i generatori sincroni si trasformano di notte in motori sincroni; occorre però ricordare che il motore sincrono non è autoavviante, pertanto o esistono dei motori di lancio, oppure si procede in questo modo: 1. vengono aperte le valvole della turbina che si mette così in movimento e con essa la macchina sincrona; 2. dopo poche decine di secondi si raggiunge la frequenza di sincronismo; 3. la macchina sincrona viene collegata alla rete elettrica (operazione di “messa in parallelo”, da svolgersi con attenzione perché occorre che la macchina non solo lavori alla frequenza di rete, ma anche che la sua tensione sia uguale in modulo e fase alla tensione di rete), in modo da funzionare in modo autonomo, senza più bisogno di motori primi; 4. si chiudono le valvole delle turbine, l’acqua nelle condotte si ferma; 5. si aprono le valvole delle pompe, l’acqua nelle condotte inizia a tornare su. I generatori sincroni sono macchine provviste di regolatori di tensione e di potenza. I primi agiscono sull’eccitazione, i secondi sui motori primi (turbine). Occorre notare che, ai fini del trasporto di potenza sulle reti elettriche, una differenza di tensione tra gli estremi di una linea o tra il primario e il secondario di un trasformatore produce i seguenti effetti: a) una differenza nei moduli corrisponde ad un transito di potenza reattiva; b) una differenza nelle fasi corrisponde ad un transito di potenza attiva. Queste affermazioni sono valide sia pure in modo approssimato, nell’ipotesi che il lato tra i due nodi abbia impedenza prevalentemente reattiva induttiva. Da quanto visto si evince che nei sistemi elettrici per l’energia i transiti di reattivo sono strettamente legati ai moduli delle tensioni e i transiti di attivo alle fasi delle tensioni. In particolare, se il motore primo di un alternatore produce un esubero di potenza rispetto a quanta ne assorbe la rete, la macchina avrà un eccesso di coppia e pertanto tenderà ad accelerare. In questo modo la fase della tensione ai morsetti dell’alternatore aumenterà (perché il rotore andrà un po’ più in fretta del sincronismo di rete), provocando un maggior transito di potenza verso la rete. Così potenza meccanica e potenza elettrica torneranno ad essere uguali, ottenendo così una nuova situazione di equilibrio in cui non si presenta più accelerazione angolare e la macchina torna perfettamente in sincronismo (analogamente se ci fosse stato un deficit di potenza meccanica). Subito a valle dell’alternatore si presenta un trasformatore, detto trasformatore di macchina. La funzione di questo trasformatore è duplice: a) elevare la tensione dai 10-20 kV della macchina sincrona a valori di alta tensione per il trasporto a medie e lunghe distanze; b) isolare elettricamente la macchina dal resto della rete: il trasformatore permette il passaggio di potenza e lega in modo abbastanza rigido tensioni e correnti al primario e al secondario, ma al tempo stesso fa anche da “filtro” a fenomeni bruschi come sovratensioni di origine atmosferica (fulmini sulla linea o nelle vicinanze), corto circuito (l’impedenza del trasformatore limita le correnti di corto circuito), ecc.. Inizia da questo punto il sistema di trasmissione. Nella rete italiana di trasmissione si utilizza, come già più volte affermato in precedenza, il sistema trifase; le tensioni utilizzate sono i 220 e i 380 kV (tensioni concatenate). per tali valori si parla di alta tensione, AT. Altri paesi, che presentano la necessità di linee lunghe anche migliaia di kilometri (Cile, Russia) utilizzano tensioni più elevate, fino a 700 kV. La scelta del sistema trifase è dovuta, oltre ai motivi indicati all’inizio del paragrafo (semplicità, funzionalità ed affidabilità delle macchine rotanti trifasi), anche ad un vantaggio nel sistema di trasporto. Il costo di un sistema di trasporto dell’energia elettrica è in larga misura proporzionale al peso del materiale conduttore. Rame e alluminio, che sono i conduttori più usati, hanno un notevole costo unitario (il rame in particolar modo); peso maggiore, inoltre, significa maggior robustezza e quindi maggior costo dei sostegni (pali e tralicci). Il progettista di un sistema di Cap. 12 - pag. 3
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trasmissione o di distribuzione dell’energia elettrica dovrà quindi rendere minimo il valore del costo annuo complessivo, che sarà dato dalla somma della quota annua di ammortamento e/o di interessi sul costo iniziale dell’impianto e della quota dovuta alle perdite per effetto Joule. Una riduzione del costo delle perdite comporta conduttori con una sezione maggiore, e quindi un maggior peso del rame o dell’alluminio, e quindi nel costo iniziale. Il progettista deve trovare il miglior compromesso tra le due esigenze. Una indicazione della maggior convenienza del sistema trifase può essere fornita del confronto con altri sistemi, a parità di potenza trasportata e di tensione di funzionamento: si riprende quanto già riportato. Il sistema di trasmissione dell’energia elettrica in alta tensione è prevalentemente composto di linee aeree. La rete di trasmissione italiana prevede fino a 700 nodi e oltre 1000 lati. Sono presenti in essa anche brevi tratti in cavo, soprattutto per gli attraversamenti marini o lacustri (cavi sottomarini). Per attraversamenti marini in notevole lunghezza si opta solitamente per la trasmissione in cc con un solo filo: il ritorno è via mare, grazie ad appositi elettrodi immersi in prossimità delle stazioni di partenza e di arrivo. In questo modo, con un solo conduttore, il cavo è meno ingombrante e meno costoso da fabbricare (per i cavi i costi non sono solo del materiale conduttore, ma in grande misura anche dei rivestimenti isolanti e protettivi). Come contropartita è necessario costruire due stazioni di conversione AC/DC, alla partenza e all’arrivo della tratta sottomarina. In Italia molto importante è il sistema SACOI (Sardegna-Corsica-Italia), in cui una linea in cavo in cc attraversa il mare Tirreno dalla Toscana alla Corsica (la Corsica è molto più vicina al continente della Sardegna), percorre la Corsica come linea aerea in cc, attraversa il breve braccio di mare tra Corsica e Sardegna come cavo in cc, e finalmente arriva sull’isola italiana permettendone l’interconnessione con il sistema continentale. Al tempo stesso anche la Corsica può esserne alimentata, e la rete italiana fa così da tramite tra quella francese e la sua isola. La Sicilia è invece collegata in trifase al continente. Le stazioni di conversione hanno un funzionamento basato su dispositivi elettronici di potenza. Le linee elettriche di potenza, siano esse in cavo o aeree, convergono in complessi detti stazioni elettriche. In questi complessi si realizza, oltre all’eventuale incontro di più linee differenti, anche la trasformazione della tensione a diversi livelli e lo smistamento della potenza elettrica mediante la partenza di più linee di distribuzione, in media tensione. Molto spesso sono presenti trasformatori AT/MT (alta tensione/media tensione) con possibilità di regolazione a prese: possono cioè variare il numero di spire sul primario o sul secondario in modo da rendere possibile, in qualche misura, una regolazione di tensione. Se per esempio la tensione in AT arriva ad un livello inferiore a quello nominale, basta scegliere una presa di regolazione che preveda un rapporto di trasformazione più elevato tra la media e l’alta tensione. Nelle stazioni, inoltre, vengono posti gli apparecchi di manovra, vale a dire quei dispositivi preposti all’apertura dei collegamenti con le linee stesse, o tra queste e il macchinario elettrico (trasformatori). A tali dispositivi si dedicherà un paragrafo in questo stesso capitolo. Dalle stazioni inizia il sistema di distribuzione, realizzato in media tensione MT. Per MT si intendono tensioni comprese tra 1 e 30 kV. i valori più usati sono 6, 10, 15, 20, 30 kV. Le linee in MT sono quasi tutte in cavo, perché attraversano zone ad alta densità di urbanizzazione (soprattutto nelle città); coprono distanze di pochi kilometri (fino a 10-20 km, oltre le perdite sono troppe rilevanti). Solitamente il sistema di distribuzione è di tipo radiale, cioè dalla stazione si diramano, a raggiera, diverse linee MT che coprono ciascuna una sezione di territorio. A volte si hanno sistemi di distribuzione eserciti ad anello, nei quali dalla stazione escono due sole linee MT che poi si incontrano alle loro estremità, formando così un anello. In questo modo in caso di guasto in un punto del sistema l’alimentazione è garantita dall’altra linea. Il punto di incontro a volte presenta un interruttore di collegamento, che è normalmente aperto e che viene richiuso in caso di guasto come appena descritto. Cap. 12 - pag. 4
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Molto rari invece sono i sistemi di distribuzione magliata, in cui i vari rami MT presentano molteplici collegamenti l’uno con l’altro. In caso di guasto questi sistemi sono molto affidabili in quanto garantiscono quasi sempre la continuità del servizio, essendo sempre disponibile in qualche percorso; ma sono più costosi e difficili da gestire, perché è difficile determinare a priori quale strada scelgano i flussi di potenza: c’è sempre il rischio che qualche tratto di linea sia sovraccaricata. Il sistema MT solitamente non alimenta direttamente i carichi, che sono in bassa tensione, BT, cioè con valori fino a 1000 V (ma solitamente a 380 o, più raramente, a 500 V); esso alimenta invece le cabine, dove un trasformatore MT/BT effettua l’ultima trasformazione. Da qui si dipartono le linee BT che, con percorsi di poche centinaia di metri, arrivano all’utente utilizzatore. Le linee BT si dipartono dalle cabine in pratica sempre in configurazione radiale. Molti utilizzi sono di tipo monofase. Per questi solitamente si fornisce una delle tre fasi e il neutro. Suddividendo i vari utenti monofasi in ugual misura tra le tre fasi disponibili solitamente si ottiene un carico equilibrato. Le stazioni sono generalmente poste ai margini delle città e presentano i dispositivi all’aria aperta: linee aeree in arrivo, sbarre di alta tensione a cui si collegano gli apparecchi di manovra in AT, trasformatori AT/MT, apparecchi di manovra in MT, sbarre di media tensione, linee MT in partenza, solitamente subito interrate. L’unico edificio è la sede degli operatori, dove sono riportati i terminali di partenza di tutti i servocomandi e degli apparecchi di misura. Le cabine sono invece spesso ricavate in piccoli vani entro edifici di privati (sono riconoscibili dalle porte metalliche con i simboli di pericolo elettrico e le avvertenze in caso di incendio) e hanno un volume di pochi metri cubi. 12.2 - Linee elettriche Le linee elettriche, siano esse in cavo o aeree, presentano 4 parametri fondamentali che rappresentano con un dato valore per unità di lunghezza. Questi sono: la resistenza, l’induttanza, la capacità e la conduttanza, di cui generalmente si considerano i valori kilometrici. Resistenza e induttanza sono parametri tipo serie, dovuti rispettivamente all’effetto Joule e all’effetto di auto e mutua induzione elettromagnetico. L’induttanza presenta un effetto mutuo, vale a dire che ognuna delle tre linee del sistema trifase induce tensione sulle altre. Tuttavia, se il sistema presenta una simmetria triangolare (per esempio: i tre fili disposti ai vertici di un triangolo equilatero), i valori delle mutue induttanze sono tutti uguali; se il sistema è alimentato da una terna di correnti equilibrata si può quindi procedere come indicato precedentemente, ottenendo così una unica induttanza di linea. Se la geometria del sistema non è simmetrica, si provvede a renderla tale almeno mediamente, scambiando di posto tra loro i vari conduttori, in maniera che ciascuno si occupi per tratti uguali tutte le tre possibili posizioni. Questo metodo viene detto metodo di trasposizione dei conduttori. La resistenza kilometrica è data da: r=ρ
1 km A
(12.1)
mentre l’induttanza di servizio è data da (si ricava da una laboriosa analisi degli effetti auto e mutuo induttivi): l = 0,20 ⋅ ln
2D + 0,05 d
mH / km
Cap. 12 - pag. 5
(12.2)
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dove D è la distanza geometrica media tra i conduttori e d è il diametro di ciascun conduttore. Valori tipici per le linee aeree sono dell’ordine di 0,025÷0,100 Ω/km per la resistenza e di 0,15÷0,32 Ω/km per la reattanza. Capacità e conduttanza sono invece parametri di tipo derivato; vale a dire essi si presentano tra le linee e il terreno. Sono dovute: la capacità al fatto che ogni conduttore presenta comunque effetti capacitivi (condensatore cilindrico); la conduttanza ad una piccolissima conduzione attraverso l’aria o l’isolante, dovuta sostanzialmente a fenomeni di tipo ionico (effetto corona). La conduttanza è comunque trascurabilissima nella maggioranza dei casi. Il valore della capacità chilometrica è dato (formula valida in condizioni di simmetria) da: c=
0,024 ln(2D / d)
µF / km
(12.3)
Questi parametri prendono il nome di parametri distribuiti proprio perché sono presenti in ogni tratto, anche infinitesimo, della linea. Una rappresentazione corretta della linea prevederebbe allora un circuito equivalente composto dalla successione di un infinito numero di circuiti elementari, corrispondenti ciascuno ad un tratto infinitesimo di linea, rappresentanti ciascuno una resistenza e una reattanza serie infinitesima e una suscettanza e una conduttanza derivate anch’esse infinitesime: si avrebbero cioè dei rami derivati presenti in ogni tratto infinitesimo di linea. Se la lunghezza totale della linea non è eccessiva, essendo l’ammettenza dei parametri derivati di un valore molto più piccola (in p.u.) dell’induttanza dei parametri serie, si procede concentrando in due soli rami derivati, uno all’inizio e uno alla fine della linea, in parallelo dei rami derivati distribuiti (in ogni ramo concentrato si pone metà del totale). Un circuito siffatto è un poco impreciso rispetto alla realtà, ma l’approssimazione è spesso ottima. Se la linea è molto lunga, è opportuno invece scrivere un sistema di 2 equazioni differenziali che, considerando la sequenza infinita di circuiti infinitesimi, leghino tra loro il valore della corrente e della tensione in ogni punto della linea. In questo modo, integrando il sistema con almeno due condizioni al contorno (per esempio tensione e corrente ad un estremo, oppure le due tensioni ai due estremi, oppure le correnti ai due estremi) è possibile scrivere le equazioni di trasferimento di un quadripolo perfettamente equivalente all’intera linea, e quindi rappresentare tale quadripolo con un circuito equivalente a π (oppure a T) ma con i valori dei parametri tale da renderlo esattamente equivalente. I valori esatti così calcolati non si discostano molto, comunque, dai valori calcolati semplicemente concentrando i parametri distribuiti con una semplice somma. Il sistema di equazioni differenziali, spesso trasformato in un’unica equazione di secondo grado, prende il nome di equazione dei telegrafi. Va notato che per le linee aeree reali, il valore della reattanza è solitamente molto più rilevante di quello della resistenza, mentre il valore della suscettanza capacitiva è molto piccolo, fino ad essere quasi trascurabile. Per le linee in cavo invece reattanza e resistenza presentano valori paragonabili, perché la reattanza è più piccola e la suscettanza capacitiva presenta valori rilevanti. I calcoli sulle linee in cavo sono quindi più complessi perché su di essi non sono lecite molte approssimazioni valide invece per le linee aeree. 12.2.1 - Dimensionamento di una linea MT o BT Solitamente i sistemi MT o BT presentano una configurazione radiale, costituita cioè da linee uscenti tutte da uno stesso nodo e non connesse tra loro, alle quali sono collegati i vari carichi. Per le linee MT i carichi possono essere apparecchi utilizzatori funzionanti effettivamente in MT, oppure cabine di trasformazione MT/BT, dalle quali si diparte quindi un sistema di linee BT. In questo paragrafo verrà trattato il problema del dimensionamento di una generica linea MT o BT. Cap. 12 - pag. 6
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Per prima cosa occorre fornire alcune precisazioni sui carichi. I carichi sono di per sé sensibili alle variazioni di tensione: molti carichi si presentano di fatto come impedenze costanti (per esempio stufe o scaldabagni elettrici, lampade, ecc.). Altri invece come motori asincroni, sono ammissibili a carichi a potenza costante. Per questi ultimi va notato che la potenza meccanica fornita varia di poco con la tensione: questa infatti dipende dal carico meccanico; poiché la velocità di rotazione è pressoché costante con la tensione, anche l’assorbimento di potenza meccanica è costante con essa; l’assorbimento di potenza elettrica attiva è quindi poco sensibile alle variazioni di tensione. Per i carichi a impedenza costante si potrebbe dire che l’assorbimento di potenza è proporzionale al quadrato della tensione. In realtà anche tali carichi vengono spesso modellati come assorbimenti di P e Q costanti, anche perché l’utente richiede comunque un certo livello di calore o di luce, quindi un abbassamento di tensione comporta, statisticamente, l’attivazione di un maggior numero di dispositivi che compensino il calo. Pertanto tutti i carichi vengono modellati come assorbimenti di P e Q costanti. Compito del progettista sarà allora quello di dimensionare la conduttura in modo che: a) la sezione sia sufficiente perché non si presenti sovraccarico di corrente; b) la cdt sia tale che ogni carico sia alimentato ad una tensione accettabile, entro limiti prefissati; c) le perdite non superino una certa percentuale della potenza distribuita, cioè il rendimento complessivo non sia inferiore ad un certo valore anch’esso prefissato. La linea è composta di vari tronchi, ciascuno tra un nodo di carico e il successivo. È chiaro che il primo tronco presenterà il maggior transito di corrente, in quanto la corrente in esso dovrà servire tutti i tronchi successivi; i tronchi successivi saranno via via sempre più scarichi, fino all’ultimo che sarà percorso solo dalla corrente dell’ultimo carico. Potrebbe allora essere conveniente costruire la conduttura con tronchi di sezioni diverse, decrescenti dalla prima all’ultima. Questo di fatto non si fa, preferendo anche per semplicità costruttiva scegliere un’unica sezione per tutti i tronchi, di valore intermedio tra la sezione ottimale per il tronco più carico e quella ottimale per il tronco più scarico, dove quindi il primo tronco potrebbe risultare un poco sottodimensionato, con elevate perdite e cdt, mentre l’ultimo presenta perdite e cdt molto ridotte. Tra l’altro questa scelta comporta che, mentre sono circa gli stessi i valori complessivi di cdt e perdite rispetto ad una conduttura a sezione decrescente, la cdt maggiore si manifesta sui primi tronchi, rendendo così più omogenee le tensioni sui nodi successivi, in quanto sono molto più ridotte le cdt in queste parti della linea. Questo può rendere migliore il servizio. In MT e BT gli effetti capacitivi e conduttivi vengono solitamente trascurati. Benché queste linee siano solitamente in cavo, e quindi con maggior valore della capacità rispetto a quelle aeree, va considerato che le tensioni sono molto minori rispetto all’AT e quindi i valori di corrente drenata verso terra sono decisamente trascurabili. Per quanto riguarda il punto a) degli obiettivi del dimensionamento, va considerato che una linea non ha tanto una portata massima di corrente, quanto un valore massimo di temperatura di funzionamento accettabile, oltre la quale il materiale isolante si danneggia. Questo vuol dire che, a seconda della temperatura esterna, è possibile accettare un certo valore di sovratemperatura dovuto alla dissipazione del calore prodotto per effetto Joule. Ne consegue che un conduttore può sopportare una portata maggiore d’inverno piuttosto che d’estate, in quanto parte da un valore inferiore di temperatura esterna e quindi può permettersi un maggior valore di sovratemperatura. Così pure a pari sovratemperatura il calore dissipato può essere differente a seconda delle condizioni di posa del cavo: per esempio un cavo in un terreno umido e di grana fine può dissipare calore molto meglio di un cavo in un terreno secco e pietroso. I costruttori di cavi forniscono allora solitamente un valore di portata massima indicativo, valido per condizioni ambientali medie, abbastanza sfavorevoli per stare a vantaggio di sicurezza; ma forniscono anche delle tabelle correttive che permettono di modificare tale valore di portata massima in relazione alle condizioni ambientali o di posa. Cap. 12 - pag. 7
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Il progettista partirà pertanto con una tabella, come quelle in allegato, che riporta diversi valori di sezione possibili e per ogni valore di sezione riporta: resistenza e reattanza kilometriche, portata massima indicativa (in certe condizioni) e con una tabella di correzione della portata. Per calcolare le correnti nei tronchi e le cdt, si procede nel modo che viene nel seguito descritto e che prevede l’utilizzo di formule approssimate, ma ingegneristicamente accettabili. Si nota che se un tronco alimenta il carico al suo secondo estremo e poi i carichi dei nodi successivi, trascurando le potenze messe in gioco sugli stessi cavi, vale: A Ti = PTi + jQ Ti dove il pedice T sta per totale: A Ti =
N
∑ Ak
k=i
Alla tensione di fase Ei , allora la corrente assorbita vale: A Ti I i = 3E i
*
(12.4)
quindi la cdt vale. ∆E i = (r + jx ) ⋅ l i ⋅ Ii
dove si sono utilizzati i parametri kilometrici e la lunghezza della linea. Per comodità si può prendere la tensione nel modo con fase nulla; quindi: P − jQ Ti Ii = Ti 3Ei
(12.5)
P - jQ Ti (rPTi + xQ Ti ) + j(− rQ Ti + xPTi ) ∆E i = (r + jx ) ⋅ l i ⋅ Ti = li 3Ei 3E i
(12.6)
Si ha quindi la somma di una componente in fase con la tensione di partenza (la parte reale) e una in quadratura. La tensione che si ottiene, in modulo, è data da: (rPTi + xQ Ti ) + ( −rQTi + xPTi ) l Ei− l = E i + i 3Ei 3Ei 2
2
= (12.7)
2
= Ei
( rPTi + xQ Ti ) + ( −rQTi + xPTi ) l 1 + i 3Ei2 3Ei2
2
Dei due termini sotto radice il primo è molto vicino all’unità, mentre il secondo è molto piccolo. L’effetto del secondo quadrato risulta davvero trascurabile. Quindi vale: Cap. 12 - pag. 8
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(rPTi + xQ Ti ) l Ei− l = E i + i 3Ei
∆Ei ≅
2
(rPTi + xQTi ) l = E + ( rPTi + xQ Ti ) l = Ei 1 + i i i 3Ei 3E i2
(rPTi + xQTi ) 3Ei
li
(12.8)
(12.9)
ed in termini percentuali o relativi:
(rPi + xQi ) l ∆Vi ∆Ei (rPi + xQi ) = ≅ li = i Vi Ei Vi2 3E i2
(12.10)
dove si sono introdotte le tensioni concatenate. Tale formula vale non solo per l’ultimo tronco della linea, ma anche per tutti i precedenti, con l’avvertenza di considerare solo la potenza del carico collegato solo ai nodi più a valle del nodo in esame. Per esempio, con tre nodi (1, 2, 3) più il nodo di partenza (0) (solo di questo è nota la tensione), si potrà scrivere: ∆V3 (rP3 + xQ3 ) ≅ l3 V3 V32
(
(12.8.1)
)
r(P2 + P3 ) + x(Q 2 + Q3 ) ∆V2 ≅ l2 V2 V22
(
(12.8.2)
)
r(P1 + P2 + P3 ) + x(Q1 + Q2 + Q3 ) ∆V1 ≅ l1 V1 V12
(12.8.3)
In queste espressioni si è utilizzato anche una seconda approssimazione: si sono trascurate, nella formula per i tratti 1 e 2, le potenze attive e reattive assorbita dai tronchi 2 e 3. Tali valori avrebbero comunque dato un contributo molto piccolo (se la linea non è eccezionalmente sovraccarica). Non va inoltre dimenticato che queste calcolate non sono tensioni, ma cdt. Dire che una cdt è del 4% o del 4,2% è, in termini relativi alla cdt stessa, una differenza del 5%, quindi sensibile; ma in rapporto alle tensioni effettive è una differenza dello 0,2%, quindi trascurabile. La formula (12.10) o le formule-esempio (12.8) permettono però di conoscere la tensione in un tronco solo se è nota la tensione alla fine di questo tronco, mentre invece è solitamente nota la tensione all’inizio (per esempio si conosce quella del nodo 0 ma non quella del nodo 1). Anche questo problema può essere superato con una ulteriore approssimazione: quella di porre, nel calcolo, la tensione di partenza (nota) e non quella di arrivo (incognita). Eventualmente, una volta trovata la cdt e quindi la tensione nel secondo estremo con tale formula approssimata, il calcolo può essere ripetuto utilizzando stavolta il valore appena trovato, sicuramente più preciso di quello del primo estremo. Si può anche iterare più volte fin quando si nota che il valore trovato non si modifica ulteriormente. Quindi per esempio:
Cap. 12 - pag. 9
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∆V1(0) ≅
(r(P1 + P2 + P3 ) + x(Q1 + Q2 + Q3 )) l V0
1
(12.9.1)
1
(12.9.2)
V1(0) = V0 − ∆V1(0)
∆V1(1) ≅
(r(P1 + P2 + P3 ) + x(Q1 + Q2 + Q3 )) l V1
V1(1) = V0 − ∆V1(1) ecc. fino alla convergenza. Si osserva che il calcolo corretto è: Vi(k + 1) = Vi − 1 − ∆Vi(k ) e non: Vi(k + 1) = Vi(k ) − ∆Vi(k ) Si devono allora percorrere i seguenti passi: 1) utilizzando la formula (12.4), prendendo come tensione la tensione nel nodo di partenza e come partenza la somma della partenza di tutti i carichi, si calcola la corrente nel primo tronco; 2) consultando le tabelle, in base a tale corrente si sceglie il primo conduttore con portata massima corretta superiore alla corrente prevista al punto 1); 3) con la formula (12.10) applicata come da esempi (12.8) e (12.9) si calcolano le cdt nei vari tronchi, fino all’ultimo nodo, e si verifica che in esso non si abbia una tensione inferiore ai limiti previsti. Se la tensione fosse troppo bassa, scegliere un cavo con sezione maggiore e riprendere dall’inizio di questo punto 3); 4) note le tensioni in tutti i nodi, con le formule (12.5) e (12.6) si calcolano le correnti in ogni tronco e quindi le perdite e si verifica il rendimento. Se questo è troppo modesto scegliere un conduttore con sezione maggiore e ripartire dall’inizio del punto 3), o anche di questo punto 4) in quanto aumentando la sezione il punto 3) non dovrebbe peggiorare. Il procedimento può risultare laborioso, soprattutto sul punto 3) se si ritiene opportuno effettuare ripetute iterazioni per una maggiore precisione del risultato. Si può allora procedere nel seguente modo, che prevede due fasi: a) calcolo di progetto b) calcolo di verifica. Nella fase a) si effettuano comunque il punto 1) e 2) come sopra; per il punto 3) si approssima ulteriormente: ∆Vi ≅
(rPTi + xQIi ) l V0
Quindi per l’intera conduttura:
Cap. 12 - pag. 10
i
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VN = V0 −
N
∑
i=1
∆Vi ≅ V0 −
N
∑
(rPTi + xQ Ti ) l V0
i=1
i
= V0 −
N 1 N r ∑ PTi l i + x ∑ Q Ti l i V0 i = 1 i=1
(12.10)
La scelta tra le varie sezioni possibili è molto più rapida, perché i termini di sommatoria sono sempre gli stessi per ogni sezione di tentativo scelta; quindi in questa fase a) il punto 3) è molto più veloce e semplice. Una volta trovata la sezione che permette di avere una cdt accettabile, si passa allora alla fase b) nella quale i punti 3) e 4) vengono svolti in maniera completa, come prima, in modo da verificare che la scelta di progetto è davvero rispondente alle richieste del committente. 12.3 - Rifasamento La potenza reattiva non è una potenza nel senso tradizionale del termine, ed in particolare non è dissipativa. Si potrebbe quindi pensare che essa non sia rilevante. In realtà la presenza di potenza reattiva non è, in generale, un fatto vantaggioso. Si consideri il seguente esempio: sia dato un carico ohmico-induttivo, cioè un bipolo serie RL (per esempio una stufa elettrica), alimentato da un generatore remoto a cui è collegato con una linea elettrica (un conduttore di andata e uno di ritorno). La linea presenterà ovviamente un certo valore resistivo (e anche induttivo), tanto maggiore quanto più essa è lunga: presenterà quindi una dissipazione di potenza per effetto Joule. Si supponga che i parametri del carico e la tensione ai suoi morsetti siano i seguenti: R=8Ω X = ωL = 6 Ω V = 100 V con questi valori si ottiene: I=
100 V = = (8 − j6)A = 10 ⋅ e − jϕ A Z 8 + j6
quindi la potenza vale: A = V ⋅ I * = 100 ⋅ (8 + j6 ) = 800 + j600 P = 800 W Q = 600 var Si noti che per ottenere la stessa potenza attiva, a parità di tensione, basterebbe una corrente: Io = 8 A V ⋅ Io* = 100 ⋅ 8 = 800 purché tale corrente sia perfettamente in fase con la tensione. In questo caso non si avrebbe potenza reattiva; il carico dovrebbe però presentare parametri diversi. Si noti che il valore di tale corrente altro non è se non il valore, nella corrente originale, della componente in fase con la tensione stessa. La componente in quadratura, (-j6A), si rivela ovviamente superflua ai fini della potenza attiva.
Cap. 12 - pag. 11
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Considerando le dissipazioni sulla linea di trasmissione del generatore remoto al carico, utilizzando la resistenza totale della linea (conduttore di andata + conduttore di ritorno), nei due casi si avrebbe. Pd = R L ⋅ I2 = R L ⋅ 100 Pd0 = R L ⋅ I2 = RL ⋅ 64 Come si vede, nel caso di corrente in fase con la tensione le perdite in linea sono decisamente inferiori. Inoltre, se si considera la cdt dal generatore al carico, tanto maggiore sarà la corrente tanto maggiore sarà tale cdt. Quindi, se si desidera avere la stessa tensione di 100 V sul carico, nel primo caso il generatore dovrà erogare una tensione maggiore rispetto al secondo caso, perché maggiore sarà la cdt. Tutto questo evidenzia come la potenza reattiva, pur essendo di per sé non dissipativa, crea una serie di effetti secondari generalmente fastidiosi. Si deve quindi cercare di avere il più possibile la correnti dei carichi in fase con le tensioni. L'azienda elettrocommerciale, per ridurre gli effetti di cui sopra (perdite e cdt sulle linee), impone ai suoi utenti (industrie e attività artigianali) che i carichi abbiano un cos ϕ non inferiore a 0,9. Fissare il valore minimo del fattore di potenza significa fissare il valore massimo del rapporto tra potenza reattiva e potenza attiva. P = + A cos ϕ Q = ± A sen ϕ Q = ± tan ϕ P Nel caso che il valore del fattore di potenza sia inferiore a 0,9, l'utente è tenuto a pagare una penale per ogni kilovarora (simbolo kvar) (analogo del kilowattora) di reattivo consumato in più. Per molti tipi di carichi elettrici (in particolare per i motori elettrici) il valore del fattore di potenza non può essere deciso liberamente dall'utente o dal costruttore del dispositivo: spesso si presentano fenomeni di tipo induttivo non eliminabili, che comportano un elevato consumo di reattivo. Nell'esempio di cui sopra la reattanza induttiva non era voluta: era comunque associata alla resistenza, non eliminabile. Più rari, ma comunque possibili, specie alle frequenze elevate, i casi in cui siano preponderanti gli effetti capacitivi, con un cos ϕ comunque inferiore al limite previsto. In tutti questi casi, in cui il reattivo supera i valori previsti, occorre allora modificare il carico, inserendovi altri elementi circuitali che compensino l'eccesso di assorbimento o di erogazione di reattivo, e cioè portino la corrente ad essere in fase con la tensione, o almeno ad avere una componente in quadratura più ridotta. Questa operazione prende il nome di rifasamento. Nel caso in cui il carico sia prevalentemente induttivo, occorrerà porre, in serie o in parallelo, dei condensatori; nel caso il carico sia prevalentemente capacitivo, occorrerà porre, in serie o in parallelo, degli induttori. Considereremo solo il primo caso, perché è il più comune; per l'altro valgono comunque gli stessi discorsi e le stesse formule duali. Solitamente i condensatori vengono posti in parallelo sui morsetti del carico. È possibile anche porli in serie (come si fa a volte negli Stati Uniti), ma questo può creare altri problemi che saranno più chiari in seguito (vedi risonanza); inoltre in parallelo non modificano la tensione sul carico (se non per il fatto che viene limitata la cdt sulla linea di trasporto), mentre in serie avrebbero un pesante effetto in tal senso. La potenza reattiva assorbita da un bipolo capacitivo in parallelo vale allora: QC = −ωCV 2 Cap. 12 - pag. 12
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(in realtà è una potenza reattiva erogata) e prende il nome di potenza di rifasamento. Se il carico presenta un assorbimento di potenza: A L = PL + jQL si può allora scegliere di arrivare ad un rifasamento completo: QL + QC = 0 QL − ωCV 2 = 0 C=
QL ωV 2
oppure di arrivare ad un dato cos ϕ, che possiamo indicare come cos ϕM (0,9 o altro): QL + QC = tan ϕ ≤ tan ϕ M ⇔ PL
PL PL2 + (QL + QC )
2
= cos ϕ ≥ cos ϕM
da cui: 2 PL2 ≥ cos 2 ϕ M ⋅ PL2 + (QL + QC )
PL2 ⋅ (1− cos 2 ϕ M ) ≥ cos 2 ϕ M ⋅ (QL + QC ) 2
(QL + QC ) ≤ PL2 2
QC ≤ PL
(1 − cos 2 ϕM ) cos 2 ϕM
1 − cos 2 ϕM cos 2 ϕM
− QL ;
C≥
;
QL + QC ≤ PL
1 − cos 2 ϕ M cos 2 ϕM
1 − cos 2 ϕM − QL - ωCV 2 ≤ PL cos 2 ϕM
1 (1 − cos2 ϕM ) QL − PL ωV 2 cos 2 ϕM
I condensatori da usare per il rifasamento hanno, ovviamente, un costo. Si nota che, a parità di potenza di rifasamento, la capacità necessaria diminuisce con il quadrato della tensione di funzionamento. Tuttavia, se a tensione maggiore basta una minore capacità (e quindi sembrerebbe di poter risparmiare), va considerato che i condensatori dovranno essere in grado di sopportare una tensione più grande (e quindi avranno un costo unitario maggiore). In pratica succede che il costo è circa proporzionale alla potenza di rifasamento, quasi indipendentemente dalla tensione. L'impiantista deve quindi valutare quale potenza di rifasamento installare. Se è l'ENEL a provvedere al rifasamento, dovrà confrontare il risparmio delle perdite in linea e il costo dei condensatori, e trovare una potenza di rifasamento economicamente ottimale (che in generale non sarà la condizione di rifasamento totale). Se invece si tratta di un utente, dovrà confrontare il costo delle penali per eccesso di consumo di reattivo e il costo dei condensatori; per esempio, se i picchi di consumo di Cap. 12 - pag. 13
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reattivo si verificano solo raramente e per brevi periodi, potrebbe essere conveniente non rifasare; in altri casi conviene rifasare a cos ϕ anche minori del prescritto 0,9. 12.4 - Apparecchi di protezione e manovra 12.4.1 - Sezionatori I sezionatori hanno il compito di permettere la separazione di una parte di un circuito elettrico dalla rimanente parte dell’impianto. Solitamente vengono azionati sul posto (non presentano cioè servocomandi) e l’apertura dei contatti avviene nell’aria. Ma la caratteristica principale dei sezionatori è quella di presentare in maniera perfettamente visibile i due contatti, in modo da evidenziare con sicurezza se l’apertura è effettiva o meno. Questo per motivi di sicurezza: gli operatori addetti alla manutenzione delle varie parti dell’impianto possono, anzi devono, assicurarsi che la parte di impianto su cui stanno per operare sia effettivamente isolata osservando i sezionatori. Vanno pertanto utilizzate alcune semplici avvertenze nella costruzione dei sezionatori: questi non si devono chiudere da soli per effetto del proprio peso; devono essere sufficientemente lontani (anche in caso di rottura) da parti in tensione non isolate; devono avere tutte le leve, le aste e ogni altra parte preposta alla manovra messe a terra, in modo da vincolarme la tensione al valore nullo, e di dimensioni sufficienti a garantirne la necessaria rigidità meccanica. Solitamente sono costituiti da una o più lame che si infilano “a coltello” in apposite “forchette” metalliche, realizzando con esse il contatto, oppure da aste imperniate su un asse a metà della loro lunghezza e quindi in grado di aprire o chiudere ruotando su tale perno. I sezionatori vanno normalmente azionati a vuoto, cioè in assenza di corrente. L’interruzione della corrente è effettuata da altri dispositivi, vale a dire gli interruttori, costruiti in modo tale da sopportare la manovra sotto carico; il sezionatore serve solo a rendere l’apertura visibile. Si costruiscono anche sezionatori manovrabili sotto carico, utilizzabili quindi anche come interruttori di emergenza. 12.4.2 - Interruttori e contattori L’interruttore è quel dispositivo di manovra in grado di agire per aprire sotto carico. Il problema dell’interruzione della corrente elettrica rivela sempre una certa difficoltà perché ogni circuito presenta un effetto di tipo induttivo e una variazione brusca di corrente in una induttanza comporta l’insorgere di una tensione elevata. Pertanto tra i due contatti che in un apparecchio si allontanano per una manovra di apertura si presenta una sovratensione che può generare l’adescarsi di un arco elettrico tra gli stessi elettrodi, vale a dire la perforazione del dielettrico che si frappone tra i due contatti. In realtà, ogni volta che si comanda l’apertura di un interruttore, fra i due elettrodi si innesca immediatamente l’arco. Questo si comporta come una resistenza non lineare posta in serie sul circuito, e su di esso si presenta una cdt modesta, praticamente trascurabile. L’arco però si spegne al primo passaggio della corrente per lo zero. A questo punto il circuito alimentato non presenta alcun accumulo di energia nella sua induttanza, perché la corrente è nulla; può invece presentare accumulo di energia elettrostatica nei suoi rami capacitivi verso terra (sempre presenti su qualunque linea), a meno che la tensione non fosse anch’essa nulla perché perfettamente in fase con la corrente (carico resistivo). Il ramo sul quale si è manovrato si presenta allora come un cto RLC, in cui la capacità verso terra si richiude sull’induttanza e sulla resistenza della linea e del carico. Iniziano così delle oscillazioni libere e smorzate, a frequenza più elevata di quella di rete (da 100 a 10000 Hz). Il caso peggiore è quello del carico induttivo: lo Cap. 12 - pag. 14
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spegnimento dell’arco avviene quando la tensione è massima. La prima oscillazione libera porta in suo mezzo periodo la tensione ad un valore opposto, mentre sull’altro elettrodo la tensione ha ancora all’incirca il valore massimo, perché varia molto più lentamente. Tra i due elettrodi si presenta allora una ddp pari quasi al doppio del valore massimo della tensione nominale. In queste condizioni, o anche in condizioni meno gravose ma comunque problematiche, la ddp tra i due elettrodi può essere in grado di riadescare l’arco, creando quindi il rischio del perpetuarsi della ripetizione del fenomeno. Gli interruttori devono quindi essere in grado di spegnere gli eventuali archi riadescati. Per fare questo esistono diverse tecniche, a cui corrispondono i diversi tipi di interruttori: a) interruttori ad aria compressa: in essi un energico soffio d’aria compressa agisce sull’arco realizzandone lo spegnimento; b) interruttori in olio: in questo caso l’olio presente nella camera di manovra viene in piccola quantità vaporizzato e decomposto dall’arco stesso, ottenendosi così una piccola bolla di gas (idrogeno) che per la sua elevata pressione istantanea sposta sull’arco altra massa d’olio con il risultato di realizzare lo spegnimento dell’arco. a notare che l’azione è proporzionale all’entità dell’arco da spegnere, perché proprio questi genera la bolla che ne provocherà lo spegnimento; c) interruttori ad esafluoruro di zolfo: l’SF6 è un composto chimico molto stabile, inerte e non tossico, poco costoso. In presenza dell’arco si decompone; il 99% si ricompone subito ma la piccola parte restante interagisce con i metalli degli elettrodi producendo fluoruri metallici isolanti, che spengono l’arco ma non si depositano sui contatti stessi; d) interruttori a soffio magnetico: una bobina magnetica alimentata con la corrente stessa da interrompere, crea un campo di direzione perpendicolare a quello dell’arco, che pertanto per effetto della forza di Lorentz si deforma, allungandosi fino al suo spegnimento. La funzione del getto d’aria compressa è qui sostituita da un’azione elettromagnetica. Da notare che anche qui l’azione è proporzionale all’entità dell’arco da spegnere, perché proprio questi genera la bolla che ne provocherà lo spegnimento; e) interruttori a vuoto: il vuoto spinto è il miglior dielettrico: inoltre in assenza di gas l’arco non può servirsi che dei vapori metallici ionizzati ottenuti in quelle zone dei contatti che per ultime si sono staccate, presentando quindi elevati valori di densità di corrente e quindi surriscaldamento. Tali vapori si deionizzano rapidamente, grazie all’elevata mobilità degli elettroni metallici, quindi l’arco si spegne e non ha modo di ricrearsi. Sono dispositivi molto costosi, perché creare il vuoto richiede una lavorazione complessa e delicata. Un interruttore costruito per assicurare un elevato numero di manovre frequenti è detto contattore. 12.4.3 - Protezioni contro le sovracorrenti Sono dispositivi atti a percepire la presenza di correnti eccessive e a prendere automaticamente i provvedimenti opportuni. Questi devono essere presi prima che le sovracorrenti possano provocare danni sull’impianto per surriscaldamento da effetto Joule. Il dispositivo più semplice è il fusibile: la corrente percorre un breve segmento di linea (pochi mm o cm) di materiale che, in presenza di correnti eccessive, si surriscalda e fonde, aprendo il circuito. Più sofisticati invece i relè, che percepiscono la sovracorrente solitamente per effetto magnetico oppure termico (o i due effetti combinati: relè magnetotermico) e fanno in tal caso scattare il servocomando di un interruttore che apre il cto. I relè possono essere anche costruiti in modo da avere tempi di intervento differenziati in base all’entità della sovracorrente, ritardando l’apertura per sovracorrenti di entità limitata. Questo permette di evitare l’interruzione del servizio nel caso di sovracorrenti limitate e temporanee.
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12.4.4 - Protezioni contro le sovratensioni Le sovratensioni in un impianto possono presentarsi per svariati motivi. Si distinguono: − sovratensioni di origine interna, dovute per esempio alla manovra di interruttori, all’aumento di velocità dei generatori, alla messa a terra accidentale di una fase (con conseguente spostamento del centro stella ed aumento della tensione delle altre fasi rispetto a terra); − sovratensioni di origine esterna, dovute alle scariche atmosferiche (fulmini. I dispositivi usati per proteggersi da tali fenomeni sono: − le funi di guardia, solo per le s.t. di origine esterna: sono ulteriori fili conduttori, messi a terra ad ogni traliccio, in posizione più elevata rispetto ai conduttori di potenza, che fungono da schermo elettrostatico per questi ultimi; − gli scaricatori, dispositivi costituiti fondamentalmente da uno spinterometro: due elettrodi posti ad opportuna distanza, tra i quali si adesca un arco in condizioni di sovratensione; lo spinterometro prevede in serie una resistenza non lineare, che permette il passaggio della corrente associata al fulmine o comunque alla sovratensione ma che assume valori molto elevati quando la corrente torna a valori normali, ottenendone così una ulteriore riduzione e lo spegnimento dell’arco. In presenza di sovratensione lo spinterometro interviene, fa scaricare a terra la linea sovraccarica e poi la resistenza non lineare spegne l’arco e il funzionamento normale viene così ripristinato.
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13 Convertitori statici 13.1 - Generalità La generazione industriale dell’energia elettrica viene fatta, come è noto, quasi esclusivamente sotto forma di corrente alternata trifase. Esiste però una serie di importanti applicazioni, sia industriali che civili, che richiedono alimentazioni a corrente continua o a frequenza diversa da quella di rete. Si possono citare a titolo di esempio i casi delle applicazioni elettrochimiche, delle linee di trasmissione a c.c. dei forni a induzione, dei sistemi di carica degli accumulatori. Spesso inoltre è richiesta una rapida regolazione dell’ampiezza o della frequenza della tensione applicata al carico. È questo il caso di molti alimentatori regolabili e degli azionamenti a velocità variabile di motori a corrente continua o a corrente alternata. Infine va citato il caso di alcune utilizzazioni privilegiate (sale operatorie, centri di calcolo ecc.), la cui alimentazione deve essere garantita anche in caso di guasto della rete di distribuzione (alimentazioni a continuità assoluta). Tutti i campi applicativi sopra citati sono accomunati dall’esigenza di operare una conversione dell’ampiezza o della frequenza della tensione di rete, e si chiamano convertitori i dispositivi capaci di operare questa conversione. Alcuni dei tipi di conversione di frequenza sopra indicati possono essere effettuati tramite opportuni collegamenti fra motori e generatori. È questa la famiglia dei convertitori rotanti, che hanno avuto ampia diffusione nel passato e che trovano ancora oggi impiego in alcune particolari applicazioni. La soluzione più moderna ai problemi di conversione è data dai convertitori statici, basati sull’impiego di interruttori elettronici allo stato solido (diodi, transistori, tiristori), che derivano il loro nome di statici dal fatto di non includere alcun organo in movimento. In quanto segue tali componenti saranno trattati da un semplice punto di vista funzionale ideale, rimandando a corsi specialistici un maggiore approfondimento. Si consideri semplicemente che esistono componenti che: − permettono idealmente il passaggio della corrente in un solo senso (es. diodi, transistori, SCR, GTO, ecc.) ed altri in entrambi i sensi (es. TRIAC); − non possono essere controllati in apertura e in chiusura (es. diodi), ma conducono o si interdiscono in funzione del segno della tensione applicata ai loro capi (polarizzazione positiva o negativa); − possono essere controllati in chiusura quando la tensione ai capi è comunque convenzionalmente positiva (SCR), ma non in apertura che deve verificarsi in occasione di un annullamento naturale della corrente; Cap. 13 - pag. 1
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− possono essere controllati sia in chiusura che in apertura (transistori e GTO) fato comunque salvo il segno della tensione. La formidabile diffusione dei convertitori statici, in continuo crescendo a partire dagli anni 60, trova spiegazione nella loro economicità, flessibilità d’impiego e affidabilità e negli elevati rendimenti energetici che li caratterizzano. Alla base dello sviluppo di convertitori statici con caratteristiche sempre più avanzate sta l’evoluzione delle tecnologie di produzione dei componenti elettronici di potenza, che ha reso disponibili interruttori elettronici sempre più potenti, veloci ed economici I convertitori statici fanno uso di componenti che vengono utilizzati come interruttori. A questi componenti vengono fatti assumere solo due stati: lo stato di conduzione, corrispondente a un interruttore chiuso e lo stato di interdizione corrispondente a un interruttore aperto. Questi particolari tipi di funzionamento risultano naturali nel caso dei diodi e dei tiristori, che si comportano per propria costituzione come veri interruttori. Diverso è il caso dei transistori, che potrebbero anche essere utilizzati come amplificatori lineari di potenza per modulare la corrente che li attraversa. Tuttavia, se così si facesse, essi risulterebbero allo stesso tempo percorsi da corrente e assoggettati a tensione e quindi diverrebbero sede di perdite. Per aumentare il rendimento delle apparecchiature si preferisce quindi utilizzare anche questi componenti in regime di commutazione, cioè come interruttori, in considerazione del fatto che un interruttore ideale non è mai sede di perdite: infatti quando è aperto non vi fluisce corrente, mentre quando è chiuso risulta nulla la tensione ai suoi capi; in ambo i casi la potenza dissipata, data dal prodotto della tensione per la corrente, è nulla. Nella maggior parte delle applicazioni, come interruttori vengono utilizzati i transistori di potenza, in virtù della loro capacità di chiudersi e aprirsi a seguito dell’applicazione di un opportuno segnale all’elettrodo di controllo. Per applicazioni di potenza particolarmente rilevante vengono invece usati i tiristori. Questi però, non potendo essere aperti tramite un comando all’elettrodo di controllo, richiedono circuiti appositi (circuiti di spegnimento) per annullare la corrente anodica. Dalle considerazioni precedenti discende che i convertitori statici includono sempre la conversione desiderata. Come si vedrà, le forme d’onda di corrente e di tensione che ne risultano sono spesso ricche di componenti armoniche indesiderate, sicché spesso i convertitori impiegano anche induttori o condensatori in funzione di filtri. Nel seguito saranno presentate le principali strutture di convertitori attualmente in uso, e precisamente: − Convertitori corrente continua - corrente continua (c.c.-c.c.) − Convertitori corrente continua - corrente alternata (c.c.-c.a.) − Convertitori corrente alternata - corrente continua (c.a.-c.c.) − Convertitori corrente alternata - corrente alternata (c.a.-c.a.). 13.2 - Convertitori c.c.-c.c. Si chiamano convertitori c.c.-c.c. (talvolta indicati come chopper) i dispositivi atti a effettuare la conversione da una tensione continua d’ingresso a una tensione continua di uscita di valore diverso. Questi convertitori sono utilizzati quali alimentatori a c.c. nei più diversi settori d’impiego: dall’elettronica diffusa, ai calcolatori, dalle applicazioni avioniche e spaziali, agli alimentatori da laboratorio. Trovano inoltre applicazione nei sistemi di trazione elettrica alimentati a c.c (ferrovie, metropolitane, veicoli elettrici di ogni genere) per la regolazione della velocità dei motori. Esistono tre tipi fondamentali di convertitori c.c.-c.c., che differiscono per prestazioni e criteri di progetto. Essi sono i convertitori abbassatori di tensione (buck converter), i convertitori elevatori (boost converter) e i convertitori abbassatori-elevatori (buck-boost converter). Cap. 13 - pag. 2
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In quanto segue verrà analizzato il solo funzionamento del convertitore abbassatore. 13.2.1 - Convertitori c.c.-c.c. abbassatori di tensione Lo schema di principio è riportato in fig. 13.1. In esso si riconoscono l’interruttore S (di tipo elettronico), che si suppone in grado di condurre corrente nel solo verso indicato in figura, il diodo di libera circolazione D e il filtro costituito dall’induttanza L e dalla capacità C. U1 è la tensione, assunta costante, di alimentazione e u2 è la tensione regolabile d’uscita. Il carico è supposto, per semplicità, puramente ohmico ed è costituito dalla resistenza R. Per spiegare il funzionamento del circuito si consideri innanzitutto la situazione iniziale di circuito a riposo, cioè con condensatore C scarico (u2 = 0) e induttanza L non percorsa da corrente (iL = 0).
Figura 13.1 Si applichi ora la tensione di ingresso U1 e si chiusa l’interruttore S. Il diodo D viene a trovarsi polarizzato negativamente dalla tensione U1 e si interdice, mentre ai capi dell’induttore l viene a manifestarsi la tensione: uL = U1 - u2
(13.1)
che è positiva. Sotto l’azione di questa tensione uL la corrente nell’induttore inizia a crescere. Si ha allora che anche la tensione u2 inizia anch’essa a crescere e corrispondentemente comincia a manifestarsi una certa corrente i2 nel carico R. Gli andamenti qualitativi di iL e u2 sono riportati in fig. 13.2 in cui deve per il momento considerarsi il solo intervallo di tempo 0-t1. Il controllo della tensione di uscita del convertitore si attua aprendo e chiudendo in istanti opportuni e a frequenza costante l’interruttore S. Il controllo a frequenza costante dell’interruttore si effettua suddividendo il periodo di funzionamento T (di durata prefissata) in due parti, corrispondenti rispettivamente al tempo Ton di conduzione dell’interruttore e al tempo Toff di interdizione. Ton e Toff possono essere variati, ma debbono comunque soddisfare alla condizione: Ton + Toff = T
(13.2)
Il funzionamento del convertitore discende dunque da una successione di fasi di conduzione di durata Ton e fasi di interdizione di durata Toff. Tornando all’andamento irregolare della corrente iL si osserva che i tratti di crescita di i1 coincidono con gli intervalli di tempo 0-t1, t2-t3.... (tutti di durata Ton) in cui l’interruttore S è chiuso e quindi all’induttore viene applicata una tensione positiva U1-u2; i tratti di diminuzione di iL coincidono invece con gli intervalli t1-t2, t3-t4.... (tutti di durata Toff) in cui l’interruttore S è aperto: si noti che in questi intervalli la corrente iL (che non può variare Cap. 13 - pag. 3
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bruscamente, essendo associata a una certa quantità di energia magnetica accumulata nell’induttore) fluisce attraverso il diodo D che costituisce via di libera circolazione per la corrente medesima (diodo di libera circolazione o di free-wheeling); durante la conduzione del diodo, essendo quest’ultimo assimilabile a un cortocircuito, la tensione ai capi dell’induttore è: u L = - u2
(13.3)
e risulta negativa: sotto l’azione di questa tensione la corrente iL dovrà diminuire, come risulta in figura per gli intervalli t1-t2, t3-t4 ecc.. La fig. 13.2 mostra i primi periodi di avviamento del convertitore, che sono caratterizzati da una crescita lenta, ma continua, della tensione u2 del carico e da una crescita, meno regolare ma altrettanto apprezzabile, della corrente iL.
Figura 13.2 È lecito chiedersi se il convertitore si porti a un funzionamento di regime stabile oppure se la crescita di iL e u2 proceda indefinitamente. La risposta si ricava facilmente osservando che più cresce u2 più energica diventa l’azione di opposizione alla crescita della corrente iL; si noti infatti che in ambo le equazioni che danno l’espressione della tensione uL durante le fasi di chiusura e di apertura dell’interruttore, la tensione u2 del carico appare come termine di contrasto alla crescita della corrente. È allora evidente che la situazione di regime si istituisce quando la crescita della corrente durante la fase di chiusura dell’interruttore è esattamente controbilanciata da una equivalente riduzione durante la fase di apertura: un possibile andamento di regime delle varie grandezze è mostrato in fig. 13.3. Come si può notare, la corrente iL cresce durante Ton, dal valore ILmin al valore ILmax a ILmin. La tensione del carico u2 risulta ben livellata, a causa dell’azione filtrante operata dal condensatore C, e si può dunque assumere che a regime essa sia costante di valore U2. Il convertitore attua dunque l’operazione richiesta, erogando ai suoi morsetti di uscita una tensione continua U2. Resta ora da determinare la relazione intercorrente tra le ampiezze della tensione di ingresso U1 e della tensione di uscita U2. Questa relazione può essere ricavata dalle equazioni (13.1) e (13.3), imponendo l’uguaglianza delle variazioni della corrente iL durante le fasi di chiusura e apertura dell’interruttore S. Cap. 13 - pag. 4
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Figura 13.3 Durante la fase di chiusura S ai capi dell’induttore è applicata la tensione costante uL = U1 - U2, e la corrente iL cresce linearmente, a partire dal valore ILmin, raggiungendo il valore ILmax alla fine dell’intervallo di durata Ton. Per la legge dell’autoinduzione si può quindi scrivere: I −I U1 − U2 = L L max L min Ton
(13.4)
Durante la fase di apertura di S la tensione uL ai capi dell’induttore vale -U2, e dunque la corrente iL diminuisce linearmente, a partire dal valore ILmax, raggiungendo il valore ILmin alla fine dell’intervallo di durata Toff. Si avrà perciò la relazione: I −I U2 = L L max L min Toff
(13.5)
Dall’uguaglianza della variazione di corrente (ILmax - ILmin) nei due intervalli e posto: Ton + Toff = U2 T si ricava la relazione fondamentale del convertitore riduttore, che risulta: T U2 = U1 = on (13.6) T Questa relazione esprime la tensione di uscita del convertitore U2, in funzione della tensione d’ingresso U1, del tempo di chiusura Ton e del periodo di funzionamento T. Cap. 13 - pag. 5
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T Al parametro δ = on viene assegnato il nome di ciclo utile (molto più comunemente viene T usata la dicitura inglese duty-cycle): esso determina univocamente l’ampiezza della tensione di uscita, assegnata che sia la tensione di ingresso del convertitore. 13.3 - Convertitori c.c.-c.a. Si chiamano convertitori c.c.-c.a. o invertitori (inverter) i dispositivi atti a effettuare la conversione da una tensione continua d’ingresso a una tensione alternata di uscita che, nel caso più generale, deve essere regolata sia in ampiezza che in frequenza. Questi convertitori sono utilizzati come alimentatori a c.a. in diversi settori: azionamenti a velocità variabile di motori a c.a. in cui è richiesto di alimentare il motore con tensioni e correnti di frequenza e ampiezza variabili; alimentatori a continuità garantita anche in assenza di rete (gruppi statici di continuità assoluta), per realizzare i quali si utilizzano batterie di accumulatori, da cui l’inverter preleva l’energia necessaria per alimentare il carico quando la rete non è in grado di fornirla; sistemi di alimentazione di forni a media frequenza per il riscaldamento a induzione; stadi di isolamento basati sull’impiego di trasformatori ad alta frequenza (particolarmente in uso nei convertitori c.c.-c.c. qualora sia richiesto l’isolamento tra l’ingresso e l’uscita). 13.3.1 - Funzionamento a onda quadra Tutti gli inverter statici impiegano interruttori (di tipo elettronico) che opportunamente controllati, consentono di applicare al carico la tensione continua di alimentazione con polarità alternamente positiva e negativa, ottenendo così una tensione alternata di uscita. Schema a ponte Per illustrare il principio di funzionamento si consideri lo schema di inverter a ponte (fullbridge inverter) di fig. 13.4.
Figura 13.4 La fig. 13.4 a) mostra lo schema di principio dell’inverter monofase a ponte, realizzato con quattro interruttori ideali. La fig. 13.4 b) riguarda invece una realizzazione a transistori. Si osservi che in antiparallelo al transistore sono disposti dei diodi che, anche qui come nei convertitori c.c.-c.c., hanno la funzione di fornire una via di richiusura alla corrente di carico quando gli interruttori sono aperti. Le forme d’onda di tensione e corrente erogate al carico sono mostrate in fig. 13.5. Quando sono chiusi gli interruttori S1 ed S4 (S2 ed S3 aperti), la tensione u0 del carico coincide con la tensione continua d’ingresso applicata con polarità positiva (+ Ui). Quando invece sono chiusi S2 ed S3 (S1 ed S4 aperti) la tensione del carico vale - Ui. Cap. 13 - pag. 6
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Gli interruttori S1 ed S3 non possono essere chiusi simultaneamente, dato che ciò provocherebbe un cortocircuito del generatore di alimentazione. Lo stesso vale per S2 ed S4. Peraltro vi debbono essere sempre almeno due interruttori chiusi, uno per ogni ramo del ponte, per fornire una via di circolazione alla corrente di carico.
Figura 13.5 Tenendo chiusi per mezzo periodo (intervallo t0-t2) gli interruttori S1 e S4 e per l’altro mezzo periodo (intervallo t2-t4) S2 ed S3 si ottiene una tensione di carico u0 alternata, con la forma d’onda rettangolare indicata in figura. Nell’ipotesi, sempre verificata con buona approssimazione, che il carico sia ohmicoinduttivo, la corrente di carico i0 assume allora il tipico andamento mostrato in figura, costituito da tratti di andamento esponenziale crescente (t0-t2) e tratti di andamento esponenziale decrescente (t2-t4). Se la costante di tempo del carico τ = L/R è sufficientemente minore del periodo di funzionamento T dell’inverter (come accade ad esempio nel caso illustrato in fig. 13.5, il valore massimo I0 raggiunto dalla corrente alternata che fluisce a regime nel carico è dato da: I0 ≈
Ui R
Le stesse forme d’onda e relazioni valgono anche, naturalmente, nel caso dell’inverter a transistori di fig. 13.4 b). Si deve però notare che i transistori, contrariamente agli interruttori ideali di fig. 13.4 a), possono condurre corrente in un solo verso. È quindi necessario connettere, in antiparallelo ai transistori, dei diodi che consentano il passaggio della corrente anche nel verso opposto. In particolare, nel semiperiodo t0-t2, in cui al carico viene applicata una tensione positiva, la coppia T1, T4 può solo condurre nel tratto t1-t2, in cui la corrente è positiva e fluisce nel verso consentito dai transistori. Nel tratto t0-t1, in cui è richiesta una tensione positiva, ma la corrente è negativa, conducono invece i diodi D1, D4. In maniera analoga, nel semiperiodo successivo, i diodi D2, D3 conducono nell’intervallo t2-t3, mentre i transistori T2, T3 conducono in t3-t4. Durante i tratti di conduzione dei transistori la tensione e la corrente di carico sono equiverse: in queste fasi del funzionamento si ha dunque trasferimento di energia dal generatore al carico e corrispondentemente esse si chiamano fasi attive. Durante la conduzione dei diodi la tensione e la corrente di carico sono invece controverse: si ha dunque trasferimento di energia dal carico alla sorgente, e perciò a queste fasi del funzionamento si da il nome di fasi rigenerative (o di recupero). Cap. 13 - pag. 7
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Il funzionamento degli inverter secondo la tecnica illustrata prende nome di funzionamento a onda quadra, a causa della forma d’onda rettangolare di tensione applicata al carico. La regolazione della frequenza si ottiene semplicemente variando la durata degli intervalli di conduzione degli interruttori. È infatti evidente che la tensione u0 applicata al carico ha una frequenza f = 1/T, ove T è il periodo di ripetizione della forma d’onda rettangolare. Questo modo di funzionamento ha due grossi difetti. Assegnata la tensione continua di alimentazione U1, nessuna regolazione è possibile per la tensione fondamentale di uscita U1. Ciò è intollerabile in molte applicazioni che richiedono invece la capacità di controllare la tensione applicata al carico. Il secondo difetto del funzionamento in onda quadra risiede nella quantità di armoniche che sono sovrapposte alla fondamentale. Ciò è intollerabile in tutte le applicazioni in cui il carico deve essere alimentato con forme d’onda approssimativamente sinusoidali, ben diverse da quelle mostrate. Schema a mezzo ponte La fig. 13.6 si riferisce a un inverter a mezzo-ponte (half-bridge inverter): in a) è indicata la configurazione di principio; in b) una realizzazione a transitori. Come si nota, l’alimentazione è suddivisa in due sezioni, ciascuna capace di metà tensione. La parte elettronica dell’inverter è costituita questa volta solo da due interruttori (due transistori e due diodi, nello schema realizzativo). Il carico è quindi allacciato tra il punto comune ai due interruttori e il punto di mezzo allacciato dell’alimentazione.
Figura 13.6 Il funzionamento è molto simile a quello dell’inverter a ponte. Chiudendo l’interruttore S1, con S2 aperto, al carico viene infatti applicata la tensione + Ui/2; mentre chiudendo S2, con S1 aperto, la tensione del carico diviene - Ui/2. Come nell’invertitore a ponte, la simultanea chiusura dei due interruttori in serie non è ammessa, dato che si tradurrebbe in un cortocircuito ai morsetti di alimentazione; neppure la simultanea apertura degli interruttori è permessa, dato che in questo modo la corrente di carico resterebbe senza alcuna via di chiusura (quest’ultima limitazione non sussiste nello schema applicativo, dato che i diodi offrono comunque una via di richiusura alla corrente). Le forme d’onda restano quadre ma di ampiezza dimezzata, essendo ±Ui/2 la tensione disponibile. Questo tipo di inverter utilizza metà degli interruttori necessari per lo schema a ponte, ma è anche capace, a parità di tensione di ingresso (e quindi di tensione di dimensionamento degli interruttori), di metà tensione di uscita. Esso può quindi erogare a pari caratteristiche degli interruttori utilizzati, una potenza metà di quella del ponte. Il campo di applicazione degli invertitori a mezzo-ponte è dunque per potenze più basse degli inverter a ponte. Come si vedrà, l’inverter a mezzo-ponte è inoltre il più utilizzato nelle applicazioni trifasi. Cap. 13 - pag. 8
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13.3.2 - Convertitori trifasi c.c.-c.a. Le configurazioni trifasi degli invertitori più comunemente impiegate sono solo quelle mezzo-ponte. Molto più diffusa nelle applicazioni trifasi è invece la configurazione a mezzo-ponte, il cui schema di principio è mostrato in fig. 13.7 a). Da tale figura si nota che non è richiesto, in generale, un trasformatore di uscita, dato che il carico può essere direttamente allacciato ai tre morsetti A, B, C dell’inverter. Si osserva che se (come normalmente accade) il carico non richiede il collegamento al neutro, il punto di mezzo M dell’alimentazione non viene utilizzato. Esso ha solo il significato di fissare il potenziale di riferimento per le tensioni erogate dall’inverter, ma può di fatto non essere fisicamente accessibile, come mostrato nello schema applicativo di fig. 13.7.
Figura 13.7 Nel caso di funzionamento a onda quadra le tre fasi vengono gestite con sfasamenti relativi di 120° e 240°. le tre tensioni di uscita dall’inverter uA, uB, uC riferite al centro virtuale M dell’alimentazione risultano pertanto come in fig. 13.8 a), b), c). Nel caso di collegamento a stella del carico, supposto ohmico-induttivo (rappresentazione valida anche per motori a induzione oltre che per i più comuni carichi passivi), la tensione del centro-stella O può essere ricavata osservando che per la tensione della prima fase può scriversi: di u1 = u A − u0 = R i1 + L 2 dt
(13.7)
ove con u0 si è indicata la tensione di centro-stella rispetto al punto M. Per le altre due fasi valgono le analoghe relazioni: di u 2 = uB − u 0 = R i2 + L 2 dt
(13.7.1)
di u3 = uC − u 0 = R i3 + L 2 dt
(13.7.2)
Cap. 13 - pag. 9
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Figura 13.8
Sommando le (13.7) e osservando che i1 + i2 + i3 = 0 si ottiene: u + uB + u C u0 = A 3
(13.8)
La forma d’onda della tensione di centro-stella u0 ha dunque l’andamento di fig. 13.8 d): essa risulta rettangolare, di frequenza 3f e ampiezza Ui/6. La tensione u1 applicata alla fase 1 del carico è data da ua - u0 e ha il tipico andamento “a sei gradini”. Cap. 13 - pag. 10
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La corrente i1 di fase assume corrispondentemente la caratteristica forma d’onda “a cresta di gallo”. 13.3.3 - Convertitori c.c.-c.a. - Modulazione di larghezza degli impulsi (PWM) Per effettuare la regolazione della tensione di uscita dell’inverter esistono due possibilità: a) regolare la tensione di ingresso; b) modificare la tecnica di controllo delle aperture e chiusure degli interruttori rispetto a quella ad onda quadra. La prima soluzione, che in taluni casi appare la più semplice da realizzare (come nel caso di invertitori alimentati da stadi di conversione c.a.-c.c. o c.c.-c.c., che possono essere facilmente regolati), cade in difetto se, come spesso avviene, all’ingresso dell’inverter è inserito un grosso condensatore per il filtraggio della tensione continua. In tal caso, infatti, la regolazione della tensione d’ingresso richiede di trasferire grandi quantità di energia dal condensatore di filtro allo stadio di alimentazione dell’inverter o viceversa. Ciò non è un problema se la regolazione può essere effettuata lentamente, ma costituisce un serio vincolo se è richiesta una elevata velocità di variazione della tensione prodotta dall’inverter: infatti elevate variazioni di energia nel condensatore di filtro in tempi molto piccoli richiedono di mettere in gioco grandi potenze, spesso non consentite dagli stadi di alimentazione precedenti. La soluzione a) non è inoltre applicabile se la sorgente di alimentazione continua, (come accade ad esempio nei gruppi statici di continuità alimentati da una batteria di accumulatori) non è regolabile. La disponibilità di interruttori elettronici completamente controllati (cioè comandabili sia in apertura che in chiusura) di potenza adeguata (MosFet, Transistori Bipolari, GTO ecc.) ha favorito lo studio e l’applicazione di tecniche di controllo del tipo b) che attuano la regolazione della tensione di uscita, sia in frequenza che in ampiezza, entro l’inverter. Una prima tecnica di controllo consiste nell’introdurre in ogni semiperiodo dell’onda rettangolare di tensione, una commutazione aggiuntiva, al fine di disporre di un parametro di regolazione della tensione erogata al carico. Questa tecnica, che prende nome di controllo a singolo impulso, è illustrata in fig. 13.9 con riferimento a un invertitore monofase a mezzo-ponte. Durante il semiperiodo t0-t3 in cui, nella condizione di funzionamento a onda quadra, la conduzione competerebbe all’interruttore S1, vengono introdotti due intervalli di tempo, t0-t1 e t2-t3, in cui S1 viene aperto ed S2 chiuso. Simmetricamente, nel semiperiodo t3-t6, in cui la conduzione competerebbe al solo interruttore S2, vengono introdotti gli intervalli t3-t4 e t5-t6 in cui S2 viene aperto e viene posto in conduzione S1. È intuitivo che l’introduzione di questi intervalli (nei quali la tensione istantanea applicata al carico è di segno opposto a quella corrispondente al funzionamento in onda quadra) provoca una riduzione del valore efficace U1 della componente fondamentale della tensione di uscita u0. Si osservi anche che, con la disposizione degli intervalli nel periodo sopra descritta e mostrata in figura, la forma d’onda di u0 mantiene le stesse caratteristiche di simmetria che caratterizzano l’onda rettangolare. Corrispondentemente, anche la forma d’onda della tensione di carico risultante, con questa tecnica di controllo, possiede solo armoniche dispari.
Cap. 13 - pag. 11
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Figura 13.9 La tecnica di controllo a singolo impulso è abbastanza efficace per la regolazione della tensione di uscita, ma, lascia ancora aperto il problema dell’ottenimento di forme d’onda di tensione e corrente d’uscita più accettabilmente sinusoidali. Il concetto sopra utilizzato di introdurre un parametro di controllo per regolare la fondamentale può tuttavia essere esteso anche alle armoniche superiori. Possono allora essere introdotti nuovi parametri di controllo, cioè nuovi intervalli di tempo in cui la tensione erogata dall’inverter viene rovesciata, rispetto alla polarità che si avrebbe nel funzionamento a onda quadra, oppure viene annullata. La forma d’onda della tensione di uscita, un esempio della quale è mostrato in fig. 13.10, risulta allora costituita da una sequenza di impulsi di durata opportuna (definita dagli istanti di commutazione α1, α2,....) che si ripetono periodicamente. Una tecnica di controllo che utilizzi questo principio deve evidentemente essere capace di modulare la durata (o, come spesso si dice, la larghezza) dei vari impulsi costituenti la forma d’onda di tensione in modo da ottenere il valore desiderato della componente fondamentale, riducendo nel contempo il contenuto armonico. Tecniche di questo tipo attuano il cosiddetto controllo di modulazione di larghezza degli impulsi detto anche, più brevemente, controllo PWM (dall’espressione inglese Pulse Width Modulation). Il problema fondamentale del controllo PWM sta evidentemente nella corretta determinazione degli istanti di commutazione degli interruttori. Esistono al riguardo due approcci possibili, quello digitale e quello analogico. 13.4 Convertitori c.a.c.c. Si chiamano convertitori c.a.-c.c. o raddrizzatori i dispositivi atti a effettuare la conversione da una tensione alternata d’ingresso a una tensione continua d’uscita. Se il convertitore consente la regolazione della tensione di uscita esso prende il nome di raddrizzatore controllato; in caso contrario si parla di raddrizzatore non controllato. Questa famiglia di convertitori è senz’altro la più diffusa. I campi di impiego dei raddrizzatori sono infatti numerosissimi: si possono ricordare gli azionamenti a c.c. per uso industriale (laminatoi, trafile, continue per carta, plastiche, tessili; nastri trasportatori; macchine utensili con relativi sistemi di posizionamento; bracci di robot, ecc.) e quelli per trazione (filobus, locomotori per treni e metropolitane, funicolari, funivie, ecc.); i sistemi di alimentazione e controllo dei processi elettrochimici; le stazioni terminali di conversione delle linee di trasmissione a c.c.; le stazioni di alimentazione del sistema ferroviario nazionale; gli stadi di alimentazione a c.c. richiesti in ingresso ai convertitori c.c.-c.c. e agli invertitori.
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Figura 13.10
13.4.1 - Raddrizzatori a ponte Il più semplice raddrizzatore è costituito dallo schema a semplice semionda rappresentato in fig. 13.11. Di particolare interesse applicativo sono i raddrizzatori con configurazione a ponte come in fig. 13.12 (Ponte di Graetz monofase).
Figura 13.11
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Figura 13.12
13.5 - Convertitori c.a.-c.a.- Regolatori c.a. Un’ultima categoria di convertitori statici è rappresentata dai convertitori c.a.-c.a., che sono dispositivi atti a effettuare la conversione da una tensione alternata d’ingresso a una tensione alternata di uscita regolabile in frequenza e in ampiezza. Questi tipi di convertitori vengono impiegati ad esempio nelle alimentazioni di bordo degli aeroplano (per ottenere i 400 Hz in uso nelle applicazioni avioniche a partire dalle frequenze più elevate, e variabili, fornite da un generatore sincrono calettato al motore dell’aereo), nella regolazione di sistemi di illuminazione e riscaldamento, negli azionamenti di macchine a c.a. (particolarmente per regolare la velocità di grandi motori trifasi a bassa frequenza, di motori monofasi alimentati a frequenza di rete), e in numerose applicazioni elettrodomestiche ove è necessario regolare la velocità di piccoli motori universali. A seconda del rapporto tra la frequenza di alimentazione e la frequenza richiesta in uscita si usano strutture di convertitore assai diverse tra loro. In particolare, per ottenere frequenze di alimentazione e la frequenza richiesta in uscita si usano strutture di convertitore assai diverse tra loro. In particolare, per ottenere frequenze di uscita non superiori al 50% della frequenza di ingresso si usano i cicloinvertitori. La massima frequenza di uscita è limitata a causa della lentezza con cui è possibile far variare l’angolo di accensione dei tiristori. Per ottenere frequenze di uscita regolabili a valori più elevati di quelli consentiti dai cicloinvertitori, si possono usare i cicloinvertitori. Questi si ottengono connettendo in cascata un raddrizzatore (eventualmente bidirezionale se è richiesta l’inversione del verso di trasferimento della potenza) e un invertitore, che alimenta il carico alla frequenza richiesta. Oltre ai due tipi di convertitori sopra citati, di grande interesse applicativo sono i regolatori di c.a. la cui struttura è molto semplice. Si tratta di convertitori capaci solo di effettuare una regolazione dell’ampiezza della tensione di uscita, ma non della frequenza. Essi sono perciò massicciamente utilizzati per regolazioni termiche o luminose, nonché per azionamenti di piccoli motori universali o monofasi a induzione. Lo schema di principio di un regolatore di c.a. monofase a tiristori è mostrato in fig. 13.13 a). Come si nota, la struttura del regolatore è semplicissima, dato che impiega soltanto due tiristori T1 e T2 connessi in antiparallelo e inseriti tra alimentazione e carico. Una configurazione ancora più semplice, utilizzabile per potenze fino a qualche kilowatt, è quella di fig. 13.13 b) nella quale i tiristori sono sostituiti da un TRIAC, capace di condurre corrente in ambo i versi, ma dotato di un solo elettrodo di controllo. Il principio di funzionamento del convertitore può facilmente spiegarsi con riferimento al caso di carico puramente resistivo. Si consideri a tal fine la fig. 13.14 nella quale ui è la tensione alternata in ingresso. Cap. 13 - pag. 14
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Figura 13.13
Figura 13.14 Se nello schema di fig. 13.13 a) i tiristori T1 e T2 fossero rispettivamente sostituiti da due diodi D1 e D2, la corrente nel carico resistivo seguirebbe l’andamento della tensione ui: infatti durante le semionde positive di tensione (e di corrente) condurrebbe il diodo D1 e durante le semionde negative il diodo D2, ma comunque vi sarebbe sempre una via disponibile per la circolazione della corrente di carico i. La presenza dei tiristori T1 e T2 consente invece di ritardare l’inizio degli impulsi di corrente rispetto agli istanti di azzeramento della tensione. Si consideri l’intervallo t0-t1 di fig. 13.14. In questo intervallo di tempo la tensione di alimentazione ui è positiva e tenderebbe dunque a far passare una corrispondente corrente positiva nel carico. Se però non viene dato il comando di accensione all’elettrodo di controllo di T1, questo non entra in conduzione e la corrente non può fluire. La tensione di alimentazione viene perciò a cadere tra i morsetti A e B del regolatore, polarizzando positivamente T1 e negativamente T2. Se nell’istante t1 il tiristore T1 viene acceso, esso entra immediatamente in conduzione e la corrente di carico i si porta immediatamente al valore determinato dal rapporto tra ui e la resistenza di carico. Si arriva così fino all’istante t2, dove la tensione ui e la corrente i si annullano, causando lo spegnimento di T1. Spetterebbe ora a T2 condurre la corrente di carico, ma ciò non succede finche, nell’istante t3, non viene emesso il relativo comando di gate. Da t3 a t4 circola quindi l’impulso negativo della corrente di carico. In t4 il tiristore T2 si spegne e il ciclo ricomincia. Cap. 13 - pag. 15
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È chiaro che l’effetto di introdurre un ritardo di accensione τ rispetto all’istante naturale di commutazione dei tiristori è quello di parzializzare le forme d’onda della corrente di carico i e della corrispondente tensione u = Ri, riducendone pertanto il valore efficace. Più elevato è il ritardo τ, più piccola risulta la tensione efficace di carico e della corrispondente corrente. Si ottiene così la desiderata regolazione dell’ampiezza della tensione di uscita u.
File: trippolone - c:\proj\unibg\Elett.mec\dispense\Cap13.doc Salvato: 07/03/01 23.26 Stampato: 07/03/01 23.28 Rev: 0.3
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rev. 1.0
14 Elementi di sicurezza elettrica 14.1 - Sicurezza, rischio e sicurezza accettabile Sia dato un sistema di N oggetti, tali che in caso di guasto possano provocare danno alle persone. Se dopo un tempo t si verifica che un numero n(t) di oggetti non è soggetto a tale guasto, si definisce la sicurezza di uno qualunque di quegli oggetti al tempo t come: S( t) =
n( t) N
La sicurezza è quindi un concetto statistico, o meglio probabilistico, espresso da un numero compreso tra 0 e 1; tale numero esprime la probabilità che, nel tempo stabilito, non si verifichi quell'evento ritenuto pericoloso e indesiderabile. È ovvio che la sicurezza decresce con il tempo t detto tempo di esposizione al rischio. Per rischio si intende invece qualcosa di più complesso, che includa una valutazione del danno che può verificarsi: r( t) = (1 − S( t)) ⋅ kd il fattore (1-S(t)) è pari alla probabilità che il guasto si verifichi, ed è detto anche insicurezza o pericolo naturale. Il valore k è pari alla probabilità che il guasto, se si verifica, provochi danno alle persone (il guasto è potenzialmente dannoso, ma questo non vuol dire che il danno si presenti sempre). Il valore d è l'entità del danno associato: viene espressa in unità di misura differenti a seconda del tipo di danno. Queste unità possono essere puramente economiche, ma più spesso si tratta di vite umane. Per esempio il caso di incidente aereo presenta una probabilità di danno k prossima all'unità e una entità di danno d pari al numero delle vite umane presenti sull'aereo (in compenso la sicurezza è elevatissima). Qualunque attività umana presenta un margine più o meno elevato di insicurezza e quindi di rischio. Anche l'attività più tranquilla non è mai completamente esente da una probabilità di incidente, con conseguenze più o meno gravi. L'incidente è sempre in agguato, per cause disparate. Tra queste si distinguono: - le cause di forza maggiore: cause sconosciute alla scienza e all'esperienza umana, oppure note ma non prevedibili né eliminabili (per esempio i terremoti) Cap. 14 - pag. 1
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- il caso fortuito: la causa è nota e prevedibile, ma il rischio è ritenuto accettabile e quindi lo si affronta; oppure le misure preventive si sono rivelate, senza negligenza di chi le ha prese, difettose o fallimentari - il caso di negligenza, imprudenza, imperizia o, peggio, di dolo. Il caso di negligenza, imperizia, imprudenza, dolo è ovviamente rifiutato a livello etico e perseguito dall'autorità costituita. La causa di forza maggiore è accettata, come inevitabile, dalla società (anche se non deve essere usata strumentalmente pere coprire negligenze, imprudenze, imperizie, ecc.). Il caso fortuito è pure ammesso dalla società; qui entra in gioco la complessa problematica del concetto di sicurezza accettabile (o di rischio accettabile). Pretendere, come fanno alcuni, che il rischio deve essere ridotto a zero, è una asserzione assurda. La conseguenza dell'applicazione di questo concetto comporterebbe, tanto per fare un esempio elementare, che la velocità degli automezzi sulle strade fosse ridotta al di sotto di un valore di assoluta sicurezza (entro il quale l'incidente non è mai mortale). Ammesso che esista una tale velocità di sicurezza (un'automobile il cui conducente sia colto da malore può comunque uccidere un passante, schiacciandolo contro il muro, anche a 5 km/h), essa sarebbe talmente bassa da rendere perfettamente inutile l'uso dell'automobile. Il concetto di rischio accettabile evolve allora con le condizioni sociali, etiche, ed economiche della comunità umana. Un esempio fatto dal prof. ing. G. Pasini può chiarire meglio il concetto: solo 75 anni fa (1a guerra mondiale) era (forse) considerato accettabile il rischio essere uccisi in guerra con probabilità del 10% (600 mila soldati italiani morti su circa 6 milioni), mentre nella guerra del Golfo è stato fatto di tutto per abbattere tale probabilità ad 1 su alcune migliaia: 35 morti su 200 mila soldati (i dati sono approssimati), però da parte occidentale; per gli irakeni il rischio era simile o peggiore di quello della 1a guerra mondiale. Questo mostra come il rischio accettabile dipenda molto dalle condizioni sociali, etiche, economiche. Forse però la guerra non è un buon esempio per parlare di rischio accettabile, perché è difficile farla rientrare nel caso fortuito: è sempre voluta dall'irresponsabilità umana. Può comunque interessare sapere che anche nei paesi più evoluti si verificano mediamente 500 incidenti mortali annui (di varia natura) per ogni milione di abitanti.
14.2 - Effetto della corrente elettrica sul corpo umano Passando dai rischi in generale ai rischi di natura elettrica, per prima cosa è necessario studiare gli effetti della corrente elettrica sul corpo umano. Il corpo umano è composto in gran parte di acqua, molto ricca di ioni. Il corpo umano è quindi un discreto conduttore elettrico. Inoltre, si nota che tutta l'attività biologica è notevolmente accompagnata da attività elettrica, a livelli di tensione dell'ordine di decine di millivolt (potenziali d'azione). La presenza di correnti di origine esterna va pertanto ad alterare la normale attività biologica producendo effetti anche letali. I fenomeni conseguenti al passaggio di corrente elettrica sono sostanzialmente 4: - tetanizzazione - arresto respiratorio - fibrillazione ventricolare - ustioni. La tetanizzazione è la conseguenza dell'azione della corrente elettrica di origine esterna sulle fibre nervose: tale disturbo esterno causa l'invio ai muscoli di stimoli molto più intensi di quelli provenienti dal sistema nervoso centrale, provocando una forte contrazione dei muscoli interessati. In corrente alternata gli stimoli ripetuti hanno l'effetto di sommarsi, fino a produrre una contrazione completa. Tra le altre cose, questo solitamente fa sì che la presa sulla parte in tensione venga ad essere, contro la volontà del malcapitato, molto salda, impedendo quindi il distacco dalla sorgente di corrente. Si definisce corrente di rilascio il Cap. 14 - pag. 2
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massimo valore di corrente per il quale è ancora possibile per la persona, seppure con sforzo, il lasciare la presa. Tale valore dipende dalla frequenza e dalla mole della persona: a 50÷100 Hz un valore medio è di 10 mA per le donne e di 15 mA per gli uomini. In cc invece il sistema nervoso e muscolare si adegua in breve tempo alla nuova situazione, quindi non si hanno contrazioni se non al momento del contatto e a quello del rilascio. Da questo punto di vista la corrente alternata è più pericolosa di quella continua. L'arresto respiratorio è ancora un fenomeno di tetanizzazione. la contrazione dei muscoli addetti alla respirazione provoca il blocco del sistema respiratorio. In questi casi, dopo aver rimosso la causa elettrica, se l'arresto non dura più di 3-4 minuti è possibile salvare la persona mediante l'immediata applicazione della respirazione artificiale (bocca a bocca). La fibrillazione ventricolare (si parla del muscolo cardiaco) è l'attivarsi di una attività cardiaca fatta di contrazioni caotiche, dovuta alla presenza della corrente di origine esterna, portando la pompa del sangue a non compiere più la sua funzione. Il fenomeno è pericolosissimo: porta rapidamente alla morte; la persona può essere salvata solo se la normale attività cardiaca viene ripristinata, prima che sopraggiunga la morte, fornendo al cuore una violenta scarica elettrica, opportunamente dosata, mediante la macchina defibrillatrice. La fibrillazione ventricolare è il fenomeno statisticamente più pericoloso. Tra gli altri parametri da tenere presente, va considerato che il rischio è differente in funzione del percorso della corrente. La corrente nel corpo umano ha sempre un punto di ingresso e uno di uscita. Per esempio, un percorso mano sinistra - piede sinistro è pericoloso di percorso mano destra - piede destro. Le ustioni sono una conseguenza dell'effetto Joule. Solitamente sono localizzate nella zona in cui è avvenuto il contatto, dove lasciano il cosiddetto marchio elettrico, ma possono provocare anche danni interni. Sono causa di morte soprattutto alle alte tensioni, dove i loro effetti sono predominanti rispetto agli altri suddetti. In particolare modo sono pericolose per i danni che possono provocare internamente all'organismo: distruzione di tessuti, rottura di capillari con emorragie interne. Una delle morti più frequenti dopo la folgorazione è per insufficienza renale. Il corpo umano si presenta come un'impedenza capacitiva. La sua resistenza convenzionale è dell'ordine dei 1000 Ω, per esempio tra mano e piede. Esiste quindi una relazione tra tensione applicata e corrente fluente nel corpo, anche se il parametro resistenza o impedenza non è valutabile con grande accuratezza. Solitamente si cerca di quantificare il rischio dovuto alla corrente elettrica costruendo una curva di pericolosità della corrente stessa al variare dell'intensità e del tempo di applicazione. Si è cioè valutato che determinati valori di corrente, applicati per un certo tempo, si rivelano pericolosi perché portano alla fibrillazione ventricolare o anche ad arresto respiratorio o danni di organi interni per ustione. Le seguenti tabelle riportano tali curve per la corrente continua e la corrente alternata. A tali valori di corrente andrebbero poi applicati dei fattori correttivi per tenere conto del percorso della corrente. La corrente elettrica, per provocare danni, ha bisogno però di permanere per un certo tempo sulle cellule del corpo umano, o meglio: è tanto più pericolosa quanto più a lungo permane. Per questo la corrente in alta frequenza è meno pericolosa di quella in bassa frequenza, in quanto in alta frequenza agisce come una sequenza di impulsi molto brevi. Si nota che comunque al di sotto di 30 mA a frequenza industriale si può ritenere al di fuori della zona di pericolo anche per tempi molto lunghi (vedi oltre). Ad alte frequenze la soglia di pericolosità è molto più grande. La parte più sensibile è la lingua, che percepisce anche 45 µA, seguita poi dai polpastrelli che percepiscono 0,5 mA a 50 - 100 Hz e 2 mA in cc.
14.3 - Contatti diretti e indiretti Cap. 14 - pag. 3
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Gli incidenti di origine elettrica sono dovuti a due categorie di eventi: i contatti diretti e i contatti indiretti. Si parla, in entrambi i casi, di contatto del corpo umano con parti in tensione. Il contatto si dice diretto se avviene con una parte dell'impianto normalmente in tensione, che diventa accessibile per una causa accidentale (per esempio: rottura dell'isolamento) oppure che normalmente è accessibile (come i conduttori delle linee aeree) e verso di essa la persona non ha preso le necessarie precauzioni. Il contatto si dice invece indiretto se avviene con una parte dell'impianto che normalmente non deve essere in tensione, ma che lo diventa in seguito ad un guasto dell'isolamento (per esempio, il contatto con la carcassa metallica di un apparecchio elettrico con un guasto interno nell'isolamento). Tale parte che normalmente non deve essere in tensione ma che lo può diventare in seguito a guasto prende il nome di massa. È ovvio che nei confronti dei guasti ci si protegge con le normali avvertenze, perché la persona non ha ragioni per pensare che quella parte si trovi in tensione. Occorre pertanto attivare opportune misure di protezione per difendere da tali tipi di pericolo l'incolumità delle persone. Queste misure di protezione sono molto diversificate: vanno dalla messa a terra delle parti che non devono entrare in tensione, al raddoppio e al rafforzamento dell'isolamento, all'utilizzo di basse tensioni di sicurezza, alla separazione dei circuiti, al collegamento a terra della massa, all'inserzione nell'impianto di apparecchi per l'interruzione automatica dell'alimentazione elettrica in caso di guasto. Alla luce dei diversi sistemi di protezione, gli apparecchi elettrici possono essere classificati in: Apparecchi di classe 0: sono gli apparecchi funzionanti in locali elettricamente isolanti, dove quindi il pericolo è eliminato perché la corrente non ha modo di richiudersi (resistenza di terra del corpo umano infinita). Non richiedono quindi altri interventi protettivi. Apparecchi di classe I: sono quelli dotati di isolamento principale e di massa munita di morsetto per il collegamento a terra; per questi apparecchi inoltre l'impianto in cui sono inseriti deve prevedere opportuni dispositivi per l'interruzione automatica del circuito (si veda in seguito). Apparecchi di classe II: sono quelli muniti di isolamento doppio o rinforzato, che svolge quindi una funzione di protezione passiva. Apparecchi di classe III: sono quelli alimentati da sistemi a bassissima tensione di sicurezza per i quali quindi non si rendono necessari altri accorgimenti protettivi perché la tensione non è a livelli pericolosi. I livelli di tensione ritenuti sicuri sono fino a 50 V in corrente alternata e fino a 120 V in cc.
14.3.1 - Sistemi di protezione basati sul sistema di isolamento Per quanto riguarda le azioni sull'isolamento, si riporta la seguente classificazione dei tipi di isolamento: a-
isolamento funzionale: è quell'isolamento indispensabile a far sì che le varie parti in tensione si trovino in cto cto con parti che devono essere a tensioni diverse, in modo che il dispositivo possa funzionare; non è pertanto pensato ai fini della sicurezza delle persone, ma sono della funzionalità operativa
b-
isolamento principale o fondamentale: è quell'isolamento che serve a garantire la protezione fondamentale delle persone contro la folgorazione; a volte l'isolamento Cap. 14 - pag. 4
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funzionale svolge, almeno in alcune parti, anche in funzione di isolamento principale; altre volte invece l'isolamento principale è qualcosa di diverso e di aggiuntivo; da notare che esso deve presentare anche caratteristiche meccaniche e chimiche per evitare di deteriorarsi al contatto con le persone (per esempio, le vernici e le lacche non sono idonee per l'isolamento principale) c-
isolamento supplementare: è un isolamento aggiuntivo a quello principale e lo si pone quindi per ulteriore sicurezza, intervenendo quando l'isolamento principale fosse danneggiato; l'insieme di isolamento principale e isolamento supplementare prende il nome di doppio isolamento
d-
isolamento rafforzato: prende questo nome l'isolamento principale quando viene appunto rafforzato in moda da avere le stesse caratteristiche di un doppio isolamento.
14.3.2 - Separazione dei circuiti L'apparecchio elettrico è alimentato da un trasformatore che isola tale parte dell'impianto dal resto del sistema elettrico e che nel suo secondario è privo di collegamenti a terra (centro stella o morsetti di ritorno isolati). In questo modo non è possibile il passaggio di corrente perché questa non ha alcuna strada per tornare al generatore, che in questo caso è appunto il secondario del trasformatore di isolamento.
14.3.3 - Sistemi a bassissima tensione di sicurezza In base alla tensione i sistemi elettrici vengono classificati in: sistemi di categoria 0: o a bassissima tensione di sicurezza: minore o uguale a 50 V in ca e 120 V in cc sistemi di categoria I: o in bassa tensione (BT): da 50 a 1000 V in corrente alternata, da 120 a 1500 V in corrente continua sistemi di categoria II: o in media tensione (MT): da 1 kV in corrente alternata fino a 30 kV in entrambi i casi sistemi di categoria III: oltre i 30 kV in corrente alternata o in corrente continua.
14.3.4 - Messa a terra dei sistemi elettrici Nel caso di messa a terra della massa, in caso di guasto all'isolamento la tensione a cui si porta la massa stessa è solitamente molto inferiore a quella che si presenta in caso di massa isolata, in quanto è vincolata appunto al potenziale del terreno, che è per definizione nulla. La tensione a cui si porta la massa non può tuttavia essere perfettamente nulla, anzi a volte assume valori rilevanti. Infatti, in caso di guasto si verifica un passaggio di corrente dall'apparecchio attraverso il collegamento di terra. Tale collegamento ha una sua resistenza, che spesso è trascurabile; non è invece trascurabile la resistenza del dispersore di terra, detta semplicemente resistenza di terra. Infatti il terreno ha una sua resistività, anche abbastanza elevata; la terra è un buon conduttore solo in quanto una corrente che la percorre ha a disposizione una sezione molto grande e quindi può allargarsi a piacimento. In prossimità del punto in cui la corrente entra nel terreno, cioè al dispersore di terra, la Cap. 14 - pag. 5
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corrente è invece fortemente localizzata, quindi con densità di corrente elevata; in tale zona si presenta quindi una cdt non trascurabile. Si associa quindi al dispersore un valore di resistenza. In un successivo paragrafo si tratterà il problema del calcolo di tale resistenza di terra. La tensione della massa messa a terra, detta tensione totale di terra, indicata con UT, risulta comunque inferiore di quella che si avrebbe senza messa a terra. In caso di contatto con tale massa, la persona viene ad essere soggetta ad una tensione ancora inferiore, detta tensione di contatto, indicata con UC. Infatti va considerato il seguente circuito, in cui appare, oltre alla resistenza della persona RC, anche la resistenza di terra RTC che la corrente incontra nello scaricarsi dalla persona al terreno. Un valore elevato di quest'ultima resistenza fa sì che il partitore di tensione riservi al corpo umano solo una frazione molto piccola della tensione totale.
Figura 14.1
Per quanto riguarda i livelli di pericolosità della tensione (si parla di tensione di contatto), va notato che i due valori di 50 V in ca e 120 V in cc possono essere aumentati in misura tanto maggiore quanto più la durata del fenomeno è breve. Esistono a tal fine delle curve che indicano la tensione limite in funzione del tempo, dette curve di sicurezza figure 14.2 e 14.3. In realtà i dati da esse fornite sono in parte imprecisi e incerti, sia perché ogni persona reagisce diversamente alla tensione, sia perché non è possibile effettuare prove sperimentali.
Figura 14.2 - Zone di pericolosità della corrente continua. (1) Di solito, assenza di reazioni, fino alla soglia di percezione. (2) In genere nessun effetto fisiologico pericoloso. (3) Possono verificarsi contrazioni muscolari perturbazioni reversibili nella formazione e trasmissione degli impulsi elettrici cardiaci. (4) Fibrillazione ventricolare probabile. Possono verificarsi anche altri effetti patofisiologici, ad esempio gravi ustioni.
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Figura 14.3 - Zone di pericolosità della corrente elettrica alternata (15÷100 Hz). (1) Di solito, assenza di reazioni, fino alla soglia di percezione (dita della mano). (2) In genere nessun effetto fisiologico pericoloso, fino alla soglia di tetanizzazione. (3) Possono verificarsi effetti patofisiologici , in genere reversibili, che aumentano con l'intensità della corrente e con il tempo, quali: contrazioni muscolari, difficoltà di respirazione, aumento della pressione sanguigna, disturbi nella formazione e trasmissione degli impulsi elettrici cardiaci, compresi la fibrillazione atriale e arresti temporanei del cuore ma senza fibrillazione ventricolare. (4) Probabile fibrillazione ventricolare, arresto del cuore, arresto della respirazione, gravi bruciature.
In particolare se la persona si trova su un appoggio isolante (pavimenti o scarpe di gomma) il valore della tensione di contatto sarà nullo; se invece la persona con una parte del corpo tocca la massa in tensione e con un'altra parte del corpo tocca, per esempio, delle condotte idriche, che si comportano quindi da messa a terra con un valore bassissimo di resistenza di terra, allora la tensione di contatto sarà prossima alla tensione totale di terra. In pratica si devono dimensionare le parti in modo da limitare la tensione di contatto nelle condizioni più sfavorevoli. Le varie masse da mettere a terra nell'ambito di uno stesso impianto possono prevedere una messa a terra diretta, apparecchio per apparecchio, con un dispersore di terra locale, oppure il collegamento a terra mediante conduttori che portino ad uno o più dispersori che servono così tutto l'impianto. Quest'ultima configurazione è la più esatta; si rende quindi necessario realizzare un impianto di terra, costituito dai dispersori e dai conduttori che raggiungono i vari apparecchi. I dispersori di terra sono dei dispositivi che, infissi nel terreno, garantiscono appunto il collegamento elettrico con esso, limitando il più possibile il valore della resistenza di terra. Negli impianti in BT è possibile collegarsi all'impianto di terra mediante il foro centrale delle prese a spina di alimentazione che, se l'impianto è fatto secondo le regole dell'arte, sono appunto collegate ai dispersori. I cavi di terra sono solitamente distinguibili per essere a strisce gialle e verdi. Nel seguito verranno meglio descritte le possibili configurazioni di tale impianto, e in particolare i suoi rapporti col filo di neutro dei sistemi trifase. Il tipo di dispersore più facile da studiare è il dispersore semisferico, costituito appunto da una semisfera di materiale conduttore interrata nel terreno. Si trascura la resistenza del materiale conduttore vero e proprio e si ipotizza che la corrente si disperda nel terreno in modo radiale, avendo quindi una densità uniforme su ogni superficie semisferica avente per centro il centro del dispersore stesso. Vale quindi: J=
I 2πr 2
ur
(14.1)
Il potenziale del terreno può essere considerato nullo solo a distanza infinita, quindi: Cap. 14 - pag. 7
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I I ∞ ∞ ∞ VT = ∫r E ⋅ dr = ∫r ρ J ⋅ dr = ∫r ρ ⋅ dr =ρ 2 0 0 0 2πr0 2πr
(14.2)
dove ro è il raggio del dispersore. Pertanto: VT 1 =ρ I 2πr0
RT =
(14.3)
La resistenza è minore tanto più il dispersore è grande. Si noti che ogni dispersore genera nel terreno un potenziale, presente anche in superficie, decrescente coll'allontanarsi dal dispersore stesso. In questo caso: V = VT = R T ⋅ I
per r ≤ r0 (14.4)
V =ρ
I r = R TI 0 2πr r
per r ≥ r0
si noti che due punti nell'intorno del dispersore sono soggetti ad una ddp: r r I 1 1 I r2 − r1 ⋅ ∆V = R TI ⋅ 0 − 0 = ρ ⋅ − = ρ 2π r1 r2 2 π r1r2 r1 r2
(14.5)
detta tensione di passo. Se la corrente e la resistività del terreno sono elevate, in prossimità del dispersore, una distanza anche limitata tra due punti di contatto può presentare una ddp notevole. A volte succede che animali a 4 zampe (più raramente i bipedi) rimangano uccisi dalla tensione di passo. Nel caso di due dispersori in parallelo la tensione totale è data dalla somma della tensione dovuta alla corrente propria di ciascun dispersore, pari alla metà della corrente totale e del potenziale dovuto all'altro dispersore: VT = ρ
I/ 2 I/ 2 I 1 1 +ρ =ρ + 2πr0 2 πd 4π r0 d
(14.6)
da cui la resistenza di terra: RT = ρ
I 1 1 + 4π r0 d
(14.7)
Se vale che d >> ro allora vale che: RT = ρ
I 4πr0
(14.8)
Altri tipi di dispersori sono quelli a puntale, costituiti da un'asta appuntita infissa in profondità nel terreno. Spesso si usano più puntali collegati tra loro, oppure delle reti interrate come descritto meglio in quanto segue.
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È comunque buona norma avere cura che i dispersori siano infissi in terreni con buone caratteristiche di conducibilità, come per esempio i terreni umidi e sabbiosi, mentre vanno evitati i terreni secchi e composti di pietre o di grana grossa. Una definizione precisa di tutti gli elementi che compongono un'impianto di terra può essere trovata nella Norma CEI 64-12. Per impianto di terra si intende un impianto costituito dai seguenti elementi: - dispersori; - conduttori di terra; - collettori (o nodi) principali di terra; - conduttori di protezione; - conduttori equi potenziali principali e supplementari. I vari elementi che costituiscono l'impianto di terra (dispersore-conduttore di terra-collettore (o nodo) principale di terra-conduttori di protezione-conduttori equipotenziali) svolgono funzioni diverse. Il dispersore è caratterizzato da una sua resistenza, il cui dimensionamento dipende dal tipo di guasto che è chiamato a disperdere a terra. È costituito da elementi metallici posati nel terreno e a contatto con esso. Il conduttore di terra ha la funzione di collegare il dispersore e il collettore (o nodo) principale di terra ed eventualmente i vari dispersori tra loro. La sua continuità deve pertanto essere sempre garantita per assicurare l'efficacia della protezione. Il collettore (o nodo) principale di terra ha la funzione di realizzare il collegamento fra conduttori di terra, conduttori di protezione e conduttori equi potenziali principali. Una interruzione dei collegamenti può rendere inefficace tutto il sistema di protezione: per tale motivo il collettore principale di terra deve essere facilmente controllabile e individuabile nei collegamenti. La funzione dei conduttori di protezione è quella di convogliare la corrente di guasto dalle masse al collettore principale di terra e quindi al dispersore. Una interruzione del conduttore di protezione rende inefficace il sistema di protezione, con la conseguenza di fare permanere in tensione la massa del componente elettrico guasto. La funzione dei conduttori equipotenziali è quella di assicurare la equipotenzialità fra le masse e le masse estranee, intendendo per queste ultime quegli elementi conduttori (es. tubazioni metalliche, ecc.) in grado di introdurre un potenziale pericoloso. Con i collegamenti equipotenziali si evita che in caso di guasto si possano manifestare differenze di potenziale pericolose fra parti metalliche che possono essere toccate contemporaneamente da una persona. Per conduttori equipotenziali principali si intendono quelli che collegano il collettore principale di terra alle principali masse estranee alla base dell'edificio, in particolare alle principali tubazioni metalliche; per conduttori equipotenziali secondari si intendono invece quelli collegati localmente in alcuni ambienti (es. locali bagno). La figura seguente riporta un esempio di collegamenti in un impianto di terra in cui appaiono tutti gli elementi sopracitati.
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Figura 14.4
Sistemi TT, TN, IT I sistemi elettrici vengono classificati a seconda dello stato del neutro e della messa a terra delle masse. Vengono quindi contrassegnati da due lettere, delle quali: - la prima indica lo stato del neutro: T= messo a terra, I= isolato - la seconda indica lo stato delle masse: T= messe a terra, N= collegate al neutro. Si hanno quindi i sistemi TT, TN, IT. Il sistema IT è raramente usato. Il sistema TN è usato in molti paesi europei. Il sistema TT è quello usato in Italia e si occuperà in maggiore dettaglio solo di questo. Il sistema TT È il sistema per legge utilizzato in Italia per i sistemi in BT. Il centro stella, cioè il neutro del sistema trifase, è collegato a terra, con un impianto indipendente. In questo modo in caso di guasto esiste una corrente di circolazione secondo questo percorso: la sorgente di tensione (cioè il secondario del trasformatore), le linee di alimentazione, l'apparecchio, l'isolamento guasto, la massa, la resistenza di terra dell'impianto di messa a terra, la terra stessa, la resistenza di terra del centro stella. Questa corrente circola anche in assenza di contatto indiretto: basta il guasto a chiudere il circuito. Nel caso che una persona venga a contatto con una massa in condizioni di guasto, la situazione può essere rappresentata dal seguente circuito, dove si introduce anche la resistenza RN della messa a terra del neutro. A fianco il circuito equivalente di Thevenin:
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da cui si ottiene: Eeq =
RT E RN + R T
R eq =
R NR T RN + R T
(14.9)
e dove E è la tensione di fase. La resistenza equivalente così trovata è trascurabile rispetto alla resistenza del corpo umano; occorre allora fare in modo che: Eeq =
RT E ≤ UL RN + R T
(14.10)
dove UL è la tensione di sicurezza (50 V). Da questa relazione consegue che è necessario avere: RT ≤
UT RN E − UL
(14.11)
Con un sistema 220/380 e una resistenza di terra del neutro di 1 ohm occorrerebbe avere RT ≤ 0,3 Ω, valore molto piccolo e realizzabile solo con un impianto di terra molto efficiente. Per proteggersi dai contatti indiretti nei sistemi TT occorre allora seguire la strada dell'interruzione automatica dell'alimentazione.
14.3.5 - Interruzione automatica dell'alimentazione Una strada è quella di porre protezioni di massima corrente, che intervengono in presenza di corrente di guasto. con lo scopo di ottenere: R TIg ≤ UL
(14.12)
dove Ig è la corrente di guasto, un opportuno relè magnetotermico. Questo va quindi tarato in base al valore della resistenza di terra. Il magnetotermico ha tempi di intervento diversi a seconda dell'entità della corrente: occorre allora che la caratteristica tempo-corrente di intervento del magnetotermico per il valore della resistenza di terra, dia una curva che si trovi al di sotto della caratteristica di sicurezza tempo-tensione per il corpo umano. Con questo tipo di protezione occorre una resistenza di terra tanto minore quanto maggiore è la potenza dell'impianto, in modo che la corrente di guasto sia pericolosa se di valore elevato, superiore alla corrente nominale dell'impianto, per evitare che il magnetotermico intervenga in condizioni di funzionamento prive di guasto, per esempio a pieno carico, quando l'assorbimento di corrente è elevato. Per esempio un impianto con una corrente nominale di 50 A (potenza nominale, con un sistema trifase a 380 V, di 33 kVA) richiede una resistenza di terra decisamente inferiore ad 1 ohm, per avere un magnetotermico che intervenga oltre i 50 A nominali dell'impianto. Un'altra protezione molto efficace è costituita dal relè differenziale detto anche salvavita. In un impianto monofase questo dispositivo confronta la corrente che entra nell'impianto e quella che esce tornando via neutro; in un sistema trifase confronta la somma delle tre correnti delle fasi con la corrente del neutro. In assenza di guasti le correnti entranti devono essere uguali alle correnti uscenti. Una differenza anche piccola è sintomo che una frazione di corrente ha scelto un'altra strada, vale a dire via terra, per il ritorno; quindi esiste un guasto. La corrente differenziale I∆N nominale può anche essere molto piccola: Cap. 14 - pag. 11
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R TI∆N ≤ UL
(14.13)
Normalmente un differenziale domestico è tarato per intervenire anche a 0,03 A. In questo modo è possibile permettersi valori di resistenza di terra anche molto elevati (in questo caso 1666 ohm); tali valori non sono più legati alla potenza nominale dell'impianto; si realizza inoltre una notevole protezione anche contro i contatti indiretti. Spesso negli impianti vengono posti più salvavita, disposti in modo gerarchico e con tempi di intervento e correnti differenziali nominali diverse: il salvavita posto per esempio su una dorsale principale avrà tempi di intervento e correnti differenziali nominali maggiori di quelli posti più a valle, sui diversi rami dell'impianto. In questo modo in caso di guasto questi intervengono prima, interrompendo solo sui rami interessati, mentre i relè più a monte intervengono nel caso di fallimento di uno di questi relè locali. In questo modo si è realizzato il coordinamento delle protezioni.
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