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Su Cassirer. Lezioni Primo Semestre 2008-09 Giuseppe Saponaro
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Lezione Prima (06.10.2008): Preliminari sul corso
Buona sera a tutti, questo `e il corso di storia della filosofia moderna, io sono Giuseppe Saponaro e questa che comincio `e la prima lezione del primo semestre. Oggi, vista questa presenza cos`ı numerosa di studenti — spero di ottenere da parte vostra anche l’attenzione dovuta, poich´e immagino che molti di voi siano matricole [si procede ad una rapida verifica per alzata di mano] — oggi, dicevo, mi limiter`o ad una semplice esposizione dei miei propositi. Vi dir`o quello che voglio fare, soprattutto come intendo farlo e perch´e lo faccio. Anticiper`o anche qualcosa sui criteri con cui valuter`o il lavoro che avr`o svolto io stesso, ma soprattutto su come valuter`o il lavoro che avremo svolto insieme, dunque anche il vostro lavoro. Essendo voi in maggior parte matricole, persone dunque non avvezze ancora ai corsi universitari, cercher`o anche, in queste mie prime esposizioni, di procedere nel modo pi` u piano ed elementare possibile. Immagino che voi siate qui perch´e avete letto il programma del corso e lo abbiate scelto perch´e siete in qualche modo interessati o almeno incuriositi dall’argomento. Come avrete ormai gi`a capito, in questa Facolt`a di filosofia i corsi non sono n´e rigorosamente propedeutici, n´e obbligatori: ci`o assicura allo studente un’ampia possibilit`a di scelta nella elaborazione del piano di studi. Ovviamente ci sono anche dei vincoli, dei limiti dovuti alla programmazione del Corso di laurea al quale ciascuno di voi si iscrive, sicch´e taluni corsi di insegnamento ed i rispettivi esami saranno magari ritenuti complementari, altri fondamentali, corsi che prima o poi si dovranno frequentare. Per`o si pu`o dire che per tutti i corsi, a parte l’obbligo di frequenza, non sussista un obbligo assoluto di scelta. In ogni modo, se ora voi siete qui, `e perch´e vi avr`a incuriosito, immagino, almeno il titolo e l’argomento di questo corso. La prima cosa che ora io vi voglio chiarire — poich´e, se gi`a non lo `e stato, sar`a certo oggetto di interrogazione da parte vostra, nonch´e di curiosit`a — `e come sia possibile impartire e, prima ancora, pianificare un corso piuttosto avanzato di storia della filosofia, quale `e il presente, destinandolo nondimeno alle cosiddette “matricole”, ovvero a studenti principianti, che si presume non abbiano dimestichezza alcuna con questi oggetti ed argomenti filosofici e, per quanto eccellente possa essere stato il liceo o l’istituto scolastico di provenienza, non dispongano certo di una preparazione sufficiente gi`a al primo anno di studi universitari e magari alla loro prima esperienza in qualit`a di studenti frequentanti. 2
Questo giovane studente si presenta qui per frequentare un corso sulla “Filosofia delle forme simboliche” di Ernst Cassirer, pensatore del Novecento non particolarmente famoso e neppure facilmente accessibile; non gi`a, dunque, un corso elementare, genericamente divulgativo su un illustre sconosciuto, e neppure un corso istituzionale sulla sua vita e sulle sue opere, del tipo: • “Chi `e veramente Tizio?”; • “Cosa ha veramente detto?”; • “Cosa ha pubblicato?”; • “Dove, Quando, Come, Perch´e?”. Queste informazioni “giornalistiche” o, se preferite, questi “dati storiografici” ciascuno di voi sar`a in grado benissimo di procurarsi da solo e non avr`a certo bisogno a tale scopo di frequentare un apposito corso universitario. Esistono al riguardo eccellenti strumenti: enciclopedie filosofiche, lessici, dizionari, manuali, storie della filosofia, repertori bio-bibliografici e altre utili opere di consultazione, facilmente accessibili nelle biblioteche universitarie o anche disponibili nelle librerie in edizione economica. Uno studente di filosofia, lavori egli in casa, in biblioteca o sul computer, deve poter allineare sulla propria scrivania o altrove, tenendoli comunque a portata di mano, accanto ai comuni dizionari linguistici (italiano, latino, greco, francese, tedesco, inglese, ecc.), soprattutto i suddetti strumenti, che egli user`a con una certa frequenza e tratter`a anche con il dovuto rispetto, come farebbe un qualsiasi umile artigiano nei confronti degli attrezzi necessari per il proprio lavoro. Molti altri suggerimenti, aiuti e supporti di vario genere sono oggi reperibili anche attraverso un oculato uso dei mezzi informatici, ivi compresa la cosiddetta “navigazione in rete”. In breve, dovrete attrezzarvi in modo autonomo per queste specifiche esigenze ed anche abituarvi a soddisfarle con aggiornamenti progressivi nel corso di tutta la vostra carriera, non solo della attuale, che vi vede nei panni di “giovani studenti” universitari, bens`ı anche della futura, quando sarete diventati in permanenza “maturi studiosi” di questioni filosofiche. Su questo piano potremmo e dovremmo considerarci tutti degli eterni autodidatti. Solo l’assidua ricerca e la frequentazione quotidiana potranno far sedimentare nella memoria di ciascuno di noi questo tipo di bagaglio informativo, peraltro necessario e nondimeno secondario, semplicemente presupposto nel presente insegnamento. Apparterr`a forse alla specifica, anzi unica competenza del filosofo conoscere meglio di chiunque altro le date esatte della prima e della 3
seconda edizione della Critica della ragione pura di Immanuel Kant, ma non sar`a certo questo tipo di sapere a stabilire il grado della sua maturit`a filosofica. Di conseguenza ciascuno di noi maturer`a nel corso del suo itinerario formativo una propria idea della storia della filosofia, di questa egli privileger`a determinati autori, frequenter`a con maggiore assiduit`a tale o talaltro luogo e indirizzo, seguir`a tale o talaltra corrente di pensiero. La filosofia e la storia della filosofia potrebbero essere raffigurate come un immenso continente, che ciascuno percorre seguendo una particolare direzione, in base ad un determinato sistema di orientamento ed in una maniera assolutamente personale. Alla fine del percorso ciascun viaggiatore avr`a totalizzato una sua visione delle cose, avr`a fatto tesoro della sua esperienza e magari potr`a anche scrivere una propria storia della filosofia. Grazie a questa particolarit`a `e possibile ancora oggi continuare a pubblicare ulteriori storie del pensiero filosofico, essendo queste ultime non soltanto opere che pretendono una certa “novit`a”, ma possono piuttosto avanzare tale pretesa e meritare anche di essere conosciute, diventando pubbliche, proprio perch´e sono il frutto di questi itinerari originali, di queste molteplici visioni soggettive, personali, possibilmente ricche e varie. Queste indagini ci permetteranno di scoprire cose che, magari, chi si accontentasse di ripetere nozioni stantie, verit`a gi`a belle e pronte, non sarebbe forse neppure in grado di cogliere. Se tutti dovessimo appiattirci su un unico dizionario o limitarci a compitare un solo manuale ufficiale, a ripetere e tramandare un’unica verit`a filosofica, allora subentrerebbe nel migliore dei casi anche il “sonno dogmatico”, per usare una caratteristica espressione kantiana, svanirebbe ogni genuina interrogazione filosofica e non avrebbe alcun senso tenere il presente corso sulla filosofia di Cassirer. In conclusione, consultate quanto e come vi pare, servitevi pure liberamente di tutti gli strumenti disponibili, ma non scambiate mai i mezzi con il fine. Certo, strada facendo, si pu`o diventare anche dei buoni “tecnici della ragione” o semplicemente dei “cronisti del pensiero”, ma le abilit`a che qui, nel presente corso, vengono innanzitutto richieste non si limitano a questo tipo di competenze. Dunque, per tornare al punto, sarebbe forse legittimo da parte vostra sollevare qui una prima serie di questioni: ` sensato destinare il presente corso sulla filosofia cassireriana a stu1. E denti del primo anno, ossia a persone che si presume non conoscano quasi nulla dell’argomento, dei suoi presupposti teoretici e soprattutto storici? 2. Prima ancora di affrontare i problemi specifici della filosofia moderna 4
e contemporanea, non sarebbe opportuno seguire un corso generale di storia della filosofia? Prima ancora di affrontare un pensatore come Cassirer, che a suo modo `e un interprete e un continuatore della filosofia critica kantiana, non sarebbe pi` u saggio approfondire la conoscenza di Kant? 3. Ma sarebbe davvero giusto cominciare da Kant? Si potrebbe comprendere Kant, senza prima ripercorrere le tappe della filosofia moderna, dei cui contenuti scientifici e delle cui forme problematiche si nutre la filosofia di Kant? 4. La filosofia moderna a sua volta — come ci hanno insegnato fin dal liceo e come ogni manuale puntualmente ripete — comincia con il cosiddetto Umanesimo, il cui concetto presuppone la rinascita del mondo antico. Come potrei dunque apprezzare questo “rinascere”, senza in qualche modo avere gi`a un’idea ben precisa della “cosa” che rinasce, ovvero, in questo caso, della cultura classica? Come potrei comprendere le varie istanze della “modernit`a storica”, ignorando il termine di confronto a questo correlato, senza dunque una conoscenza concreta del “passato storico”? Non dovrei, innanzitutto, io stesso rinascere come umanista alla stregua degli umanisti, seguirne in qualche modo le orme? Non dovrei anch’io ricominciare con severi studi filologici per poter accedere alla filosofia latina, e prima ancora alla filosofia greca? 5. Ci si potrebbe infine domandare: la stessa filosofia greca, ritenuta “classica” ed “originaria”, verrebbe forse dal nulla? Non nascerebbe forse anch’essa dal conflitto con il pensiero mitico? Si vagheggia spesso di un mondo mitico, inteso come una sorta di brodo primordiale di ogni possibile cultura e storia. Dovremmo dunque anche noi rituffarci in questo brodo, prima ancora di iniziare a filosofare? Di questo passo, `e evidente, si rischia di impelagarsi nei paradossi di un “cominciamento” che non pu`o mai cominciare. Qualcuno potrebbe sostenere che proprio in ci`o si manifesterebbe il pi` u genuino e radicale filosofare, altri sospettare, con un pizzico di modestia, che forse era sbagliato il punto di partenza, anzi ironicamente provocatoria l’impostazione del problema, la serie stessa delle domande. Sospendo qui il mio giudizio, lasciando anche che ciascuno di voi maturi liberamente una sua opinione in proposito. Per il momento vorrei solo considerare che forse in filosofia non c’`e un prima e un dopo solo in senso temporale. Si pu`o facilmente comprendere che, in qualsiasi suo punto e momento ci si collochi, sar`a sempre legittimo riproporre, sia pure in altra forma, 5
la medesima domanda gi`a sollevata sopra a proposito di Cassirer: Potrei io capire Platone, Talete, i primi filosofi, se non avessi gi`a un’idea pur vaga della filosofia? Tra tante testimonianze storiche, tra tante fonti e discorsi attribuibili al pensiero antico, tra artisti, matematici, indagatori della natura, religiosi, mistici, medici, politici, storiografi, come potrei altrimenti stabilire, per es., che Pitagora e Platone sono da ritenersi filosofi, mentre Omero ed Eschilo sarebbero invece poeti? Per poter capire perch´e Tizio `e un filosofo e Caio invece un poeta, dovrei avere a priori, per cos`ı dire, un’idea della poesia e un’idea della filosofia. Per non parlare infine degli strumenti filologici, delle competenze linguistiche, dei problemi connessi alla tradizione delle fonti filosofiche e alla traduzione dei singoli testi. Se non sono padrone della lingua originale, dovr`o certo affidarmi ad una qualche traduzione in altra lingua, il cui risultato sar`a comunque un’interpretazione, anche nel caso di una versione scrupolosa e letterale. Si suol dire che ogni traduzione implica necessariamente un “tradimento”, per taluni anche — nel caso, per es., del binomio Socrate-Platone, gi`a ambiguo in origine — un “allontanamento” dalla voce viva, dalla parola parlante del filosofo, il quale, gi`a di per s´e necessariamente assente, scrive anche in una lingua per noi morta, segno tremendo di una perdita culturale, che da questo punto di vista e per questi aspetti ci dovrebbe apparire definitiva ed irrimediabile. Anche in questo caso riaffiorerebbe, in un senso leggermente diverso e da un altro versante, l’impossibilit`a o, se preferite, il paradosso del cominciamento, poich´e dietro lo scetticismo si cela spesso l’assunto metafisico di un sapere assoluto, magari negato all’uomo in quanto ente finito, ma in s´e e per s´e non necessariamente impossibile. In compenso, come ci insegna Socrate, padre del pensiero filosofico, il primo atto della filosofia consisterebbe, in modo non meno paradossale, nella metodica professione della propria ignoranza. Il sapere di non sapere costituirebbe un tratto caratteristico e distintivo del filosofo, bench´e non necessariamente il suo scopo ultimo. Noi qui ci stiamo occupando ovviamente solo del possibile inizio del filosofare. Se cos`ı non fosse, alla fine di questa modesta lezione potremmo tutti ben ritenerci laureati in filosofia: basterebbe, uscendo dall’aula, riconoscere solennemente di non aver capito nulla di nulla, professando in tal modo la propria ignoranza. In verit`a `e un vezzo del nostro tempo, o forse una semplice moda destinata a lasciare il tempo che trova, l’ostentazione talora anche “militante” della nullit`a e inutilit`a della filosofia, soprattutto da parte dei giovanissimi laureati in questa disciplina. Riconosco in ci`o un supremo atto d’orgoglio di fronte alla penosa prospettiva della disoccupazione intellettuale, non sono tuttavia disposto a rassegnarmi a questo “andazzo”. Mi limito a constatare che le cose purtroppo vanno “anche” cos`ı, ma, per quanto personalmente mi riguarda e nel mio piccolo, mi sforzer`o 6
perch´e le cose non vadano “anche” cos`ı. Torniamo di nuovo al nostro punto iniziale. Che senso ha che io tenga qui un corso su questo autore? Non si tratta, peraltro, di un corso di carattere generale, e neppure di un argomento riducibile a nozioni che sia facile reperire sui manuali di filosofia e sulle le enciclopedie filosofiche, di cui ho gi`a detto prima, bens`ı, come recita l’argomento del corso, esattamente della Filosofia delle forme simboliche (Volume III, Parte III: La funzione significativa e la struttura della conoscenza scientifica).
Vi chiedo ora un piccolo sforzo di immedesimazione. Mettetevi nei miei panni, nei panni di un professore, meglio ancora nei panni di voi stessi, quando un giorno sarete professori — come io stesso mi sono messo nei vostri, allorch´e mi sono dovuto chiedere: Cosa si aspetta uno studente da me? — e cercate di rispondere al seguente interrogativo: Come pu`o un professore di filosofia superare tutte le difficolt`a iniziali, di cui vi ho parlato finora? Come si pu`o sic et simpliciter cominciare ad affrontare questi problemi, gi`a abbastanza complessi e difficili per noi, con altre “persone”, che si presume li ignorino del tutto? Pi` u che alle “persone”, in verit`a, io ora intendo qui rivolgermi alle “menti”, alla “ragione purificata”. Questo nostro sar`a uno scambio tra “puri intelletti”, una volta che saranno stati messi tra parentesi e, per cos`ı dire, tenuti provvisoriamente in sospeso i piani e le faccende personali di ciascuno di noi, le nostre personalit`a, a cominciare dal nostro caro “Io”, il quale, cos`ı inteso, poco o nulla ha a che fare con la filosofia. Noi qui non stiamo confrontando il nostro genio individuale, i nostri particolari gusti, i nostri caratteri, i temperamenti, i sessi, ecc. Al contrario — lo ripeto — io qui intendo indirizzarmi in primo luogo alla mente di ciascuno, la quale, come sostiene Descartes, rappresenta esattamente ci`o che tutti ci accomuna, nel senso che da questo punto di vista siamo tutti equamente dotati. Il semplice fatto che io possa gi`a parlare con voi e che voi possiate non solo ascoltare, ma anche comprendere queste mie parole, significa che abbiamo tutti quanti noi in questo momento messo in moto le nostre facolt`a mentali, le cui funzioni possono essere assolte in forma “pura” e “disinteressata”, nella misura in cui esse non vengano frenate o accelerate, infiammate o congelate da alcun fattore di carattere personale ed ambientale. Lo studente ideale ma anche il docente ideale dovrebbero entrambi esercitarsi in questa paradossale “arte dell’autosospensione”, che insieme umilia e nobilita, ci impone dei limiti e nello stesso tempo ci predispone ad una breve ascesi filosofica. Entrando in quest’aula, ciascuno di noi dovrebbe, per un’oretta almeno, dimenticare tutte le faccende personali, le sue abilit`a, i 7
suoi turbamenti, presentarsi dunque nudo e puro, come una mente disposta ad interloquire con la mente dell’altro, a riconoscersi appunto come mente in e mediante questo confronto. Ci`o dovrebbe valere innanzitutto per me, in quanto docente. Da questo punto di vita, ed in riferimento soprattutto agli obiettivi che io stesso qui perseguo, non dovrei certo ritenermi pi` u esperto o pi` u competente di voi: nell’ambito delle faccende personali che dovrei tenere in sospeso (o mettere momentaneamente tra parentesi) rientrerebbero varie circostanze, per esempio il fatto che io ho il doppio, se non il triplo della vostra et`a, che ho gi`a seguito da studente dei corsi di storia della filosofia, che ho anche una certa esperienza come insegnante. Tutto ci`o potr`a sicuramente pesare, tuttavia non su questo punto dovr`a fare leva il mio insegnamento. Prima ancora di rapportarmi alle vostre menti, io dovr`o soprattutto confrontarmi, durante l’intero corso, con la mente di Cassirer. Non potrei nulla insegnare di questo pensatore, senza prima avere appreso tutto da lui. Si tratta di un compito e di un dialogo infiniti. Non sar`a dunque sufficiente comprendere il suo pensiero, ma occorrer`a nello stesso tempo trovare il giusto “metodo” didattico (ovvero il “mezzo”, il “modo”, la “via”), affinch´e questa mia comprensione possa essere trasmessa ad un’altra mente e da questa efficacemente accolta. Ci`o richiede un lavoro necessariamente comune, una certa convergenza e reciprocit`a di intenti, perch´e, come avrete gi`a capito, qui la “mente”, bench´e “purificata” ed “autosospesa”, non va tuttavia intesa come un recipiente passivo e vuoto (come una “tabula rasa”), bens`ı come una forza rappresentativa sempre attiva, un centro di energia spirituale. Non siamo qui solo per apprendere nuove conoscenze, ma per metterle alla prova nelle nostre reciproche esperienze filosofiche. Si dovrebbe cos`ı attivare un circolo virtuoso anche tra studente e studente, qualora ciascuno fosse davvero disposto a praticare la preliminare sospensione di s´e, appunto in quanto mero “studente”. In questa sede almeno, e per il breve arco di questa lezione, noi dovremmo, per es., smettere di pensarci innanzitutto come individui l’un contro l’altro armati, come avversari in reciproca competizione sul mercato del lavoro. O di badare solo al calcolo dei crediti, al curriculum, al trenta e lode, alla laurea. Si tratta senza dubbio di fattori e di preoccupazioni molto importanti nella carriera di uno studente, ma appunto per questa ragione forse `e bene lasciarli momentaneamente fuori di quest’aula. Qui, certo, noi parleremo di faccende che ci coinvolgono e ci interessano direttamente, ma non per i suddetti aspetti. Esse ci riguardano solo perch´e possono rappresentare un problema per il nostro pensiero. Se ora per esempio mi chiedo: “Cosa `e la verit`a?”, io mi pongo una domanda talmente universale da non apparire minimamente condizionata neppure sul piano storico. Se io la prendo sul serio, in senso filosofico e storico, 8
mi rendo subito conto che a questa domanda hanno tentato di dare risposta i filosofi di tutti i tempi. Magari non avranno formulato la questione esattamente in questi termini, ma il suo senso e l’intenzione sono rimasti identici e valgono dunque anche per me ancora oggi. Mi sto cos`ı ponendo il problema della conoscenza in quanto problema schiettamente filosofico, prima ancora di determinarlo in senso storico-filosofico. Non voglio sapere come sia stata impostata la questione, poniamo, nell’Atene dei secoli V e IV a. C., a Roma nel I e II d. C., oppure ancora in Germania nel Settecento, nel Novecento, ecc. Mi sto invece chiedendo se possa essere sensato e plausibile svincolare il problema del conoscere da ogni ancoraggio temporale, se, cio`e, messe tra parentesi le contingenze storiche, rimanga poi qualcosa della necessit`a della domanda in quanto interrogazione puramente filosofica. Potremmo magari scoprire che, cos`ı formulata, essa `e semplicemente campata in aria e senza senso. Oppure legittimarla, e trovare per`o anche il coraggio di balbettare una prima risposta, facendo leva solo sulle nostre proprie forze. La difficolt`a dell’impresa non ci deve scoraggiare, ma neppure inorgoglire fino al punto di disdegnare l’ausilio altrui. L’autonomia della ragione va di pari passo con la consapevolezza del proprio limite. Proprio questa paradossale dialettica, questa tensione continua tra la potenza e la modestia dello spirito, potrebbe forse ben rappresentare il primo insegnamento della filosofia di Cassirer. Cos`ı, avendo assunto solo per un momento il vostro punto di vista, ho anche potuto individuare una prima buona ragione per frequentare un corso dedicato a questo pensatore. Vi inviterei dunque ancora una volta a tentare l’esperimento inverso: mettetevi voi stessi al mio posto, proprio ora, mentre cerco di illustrare i contenuti e soprattutto le difficolt`a del mio programma. Troverete affisso in bacheca, oppure sulla rete telematica, il programma del corso, con informazioni pi` u dettagliate riguardanti: 1. l’argomento del corso (il suo titolo, a cui gi`a ho accennato); 2. una presentazione generale del corso (una sintetica definizione della Filosofia delle forme simboliche, su cui ritorner`o pi` u tardi); 3. i cosiddetti obiettivi formativi, a loro volta suddivisi in: • (a) obiettivi generali (relativi alla tipologia del corso ed al gruppo disciplinare di appartenenza; ossia cosa si propone il corso, cosa in particolare mi aspetto io stesso da ogni studente, senza con ci`o distinguermi da altri miei colleghi, da altri corsi appartenenti allo stesso gruppo o a gruppi disciplinari magari affini),
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• (b) contenuti specifici (specifici di questo corso; ci saranno magari altri miei colleghi che perseguono gli stessi obiettivi formativi generali, ma raggiungono questi obiettivi non necessariamente attraverso il metodo didattico e i contenuti specifici miei; questi ultimi sono soltanto i miei e ciascuno poi avr`a i suoi); 4. i prerequisiti (anche a ci`o ho gi`a accennato sopra). Cosa sono i prerequisiti? Ci`o che si presume lo studente debba gi`a conoscere e padroneggiare per poter frequentare con profitto il presente insegnamento. Possiamo intanto leggere ed illustrare questo punto, trattandosi di requisiti abbastanza semplici: ` richiesta la preparazione di base garantita dalla scuola seconE daria superiore.
Vi siete presentati come matricole, quindi presumo veniate dalla nostra scuola superiore, dal liceo classico, scientifico o altro liceo [da una rapida verifica per alzata di mano risulta prevalente la provenienza dai licei classico e scientifico]. ` anche consigliata una conoscenza generale della storia della filosofia E ed in particolare della filosofia moderna, dall’Umanesimo a Kant.
Se venite in prevalenza dal classico e dallo scientifico, presumo che vi abbiano insegnato la storia della filosofia sulla base di un qualche manuale generale, anche se qui esplicitamente si delimita e si sottolinea il percorso dall’Umanesimo a Kant. E, ovviamente, si mette un punto fermo. Io do per scontato che voi abbiate queste conoscenze, per`o vorrei aggiungere ancora qualcosa su questo punto, riallacciandomi a quanto vi ho gi`a anticipato prima. Le informazioni manualistiche sono informazioni necessarie, che io posso certo presupporre in ciascuno di voi, ma che non `e detto debbano o possano essere anche acquisite da parte vostra tutte in una volta e definitivamente. Dire che qui il prerequisito `e la conoscenza della storia della filosofia moderna pu`o anche suonare come una sorta di imbroglio, come una truffa che tacitamente passi sottobanco tra di noi, nel senso che, senza mai dichiararlo apertamente, io stesso sospetterei, al pari forse di qualcuno di voi, che nessuno al mondo possa avere una conoscenza “assolutamente adeguata” della storia della filosofia e in particolare di quella moderna, perch´e solo una Mente somma ed infinita conoscerebbe tutto in modo assoluto e perfetto. In verit`a ciascuno conquister`a solo il livello e la qualit`a di conoscenze che avr`a saputo di volta in volta totalizzare con la propria esperienza. Ribadisco in breve quanto ho gi`a detto sopra: non bisogna confondere la formazione con l’informazione, n´e surrogare la lettura diretta delle opere filosofiche con 10
riassunti manualistici o schede enciclopediche. Quanto alle opere di consultazione, vale il criterio della variet`a e del continuo confronto. Sono peraltro a nostra disposizione nelle biblioteche, ed oggi anche per via telematica, innumerevoli strumenti, talvolta anche ottimi ed indispensabili. Io non vi consiglierei manuali particolari, n´e tra quelli destinati ai licei, n´e tra quelli universitari. Io stesso ho pubblicato, pi` u che un manuale in senso tradizionale, un trattato di storia della filosofia moderna, che probabilmente non potrebbe neppure essere inteso come una “storia” in senso canonico, bench´e la sua trattazione si estenda dall’Umanesimo a Kant. Esso non `e concepito come un manuale su cui andare a cercare prevalentemente delle “informazioni”, bens`ı come un luogo nel quale, capitolo dopo capitolo, si impostano dei “problemi filosofici”. Ciascun capitolo ne individua e sviluppa uno in particolare, mostra in quale modo si sia tentato di rispondere a quel problema nel corso dei secoli, ma evidenzia anche come e perch´e questa risposta non sia stata mai ritenuta sufficiente e proprio per ci`o la domanda continui a porsi. Appunto tale insufficienza, grazie al cielo, produce la storia del problema, ossia rende possibile la stessa storia della filosofia. In effetti, come `e facile immaginare, se fosse stata data risposta definitiva alla domanda “Cosa `e la verit`a?”, avremmo con ci`o anche posto fine al senso e al corso della sua storia. E probabilmente anche l’organizzazione del presente insegnamento sulla storia della filosofia moderna avrebbe perduto ogni significato ed ogni valore. Qualcuno potrebbe anche ritenere “la verit`a” in quanto tale null’altro che una chimera filosofica, altri considerarla come un falso problema. D’altro canto, non manca oggi neppure chi presume di avere risposto a questa domanda una volta per tutte (per esempio, un cattolico potr`a accontentarsi della sua fede, o dell’enciclica dell’ultimo papa), ma noi non stiamo parlando “solo” della verit`a religiosa. Stiamo parlando della verit`a in generale, dunque in senso filosofico “anche” della verit`a religiosa. Quando il filosofo d`a ampio respiro filosofico a questa domanda, comprende che essa `e talmente generale, ed insieme talmente complessa, da includere come un piccolo granello, certo legittimo, anche il suo senso religioso (peraltro esso stesso ristretto, nel nostro esempio, al senso deducibile dalla Bibbia, dai Vangeli, dalla parola di Ges` u: “Io sono la verit`a, la via, ecc.”). Ma, se sono un filosofo, io capisco anche che il senso della verit`a religiosa non ha nulla a che fare, per esempio, con la verit`a che il matematico ascrive al teorema di Pitagora, o con quella che lo storico attribuisce al fatto che Giulio Cesare abbia un certo anno attraversato il Rubicone, rovesciato la Repubblica, fondato il Principato, ecc. Che senso ha, sul piano rigorosamente storico, affermare e pretendere che tali eventi siano veri, oppure falsi? O ancora, con quale diritto un critico d’arte o un professore di estetica affermerebbero che c’`e della verit`a nello sguardo 11
della Gioconda? Che non soltanto si pretenderebbe vero, ma anche bello? Saremmo dunque autorizzati a ricercare una “verit`a figurativa” nella pittura di Leonardo, cos`ı come una “verit`a poetica” nella tragedia di Sofocle, nella lirica di Leopardi? Come `e evidente, stiamo qui parlando di piani e sensi della verit`a completamente diversi l’uno dall’altro. Ai quali altri ancora potrebbero essere aggiunti. Potrei, per esempio, esprimere un unico e medesimo pensiero in lingua italiana, tedesca, francese ed inglese: sarebbe legittimo chiedersi quale di queste versioni, comparativamente cos`ı diverse, sia da ritenere la pi` u vera? ` Sarebbe ammissibile un primato linguistico della verit`a? Oppure ancora: E pi` u vero il romanzo o la sua riduzione cinematografica? C’`e della verit`a nella morale? E nella politica? Cosa, infine, mi offrirebbe maggiori garanzie sulla verit`a e stabilit`a di questo “cappello rosso” adagiato qui sulla poltrona? Forse la mia percezione sensoriale? Forse il suo nome? O non piuttosto il suo concetto? In breve, sono tanti i piani, le possibili direzioni dell’indagine filosofica, e cos`ı variegati e sfumati appaiono i possibili sensi del “concetto di verit`a”, che appunto si esige da parte del filosofo una “critica” preliminare, ovvero una “analisi” ed una “distinzione” accurate di tutti i significati possibili della questione. Ora per`o — qui `e il bello ed il fascino della filosofia — il filosofo non si limita a passare in rassegna le “cose” e le pure “possibilit`a”, come io stesso ora sto facendo con l’esempio della verit`a, magari moltiplicandole all’infinito per gioco, per esigenze di metodo o per partito preso. Egli non `e neppure un collezionista. Il filosofo vuole soprattutto sapere se e in quale misura sia possibile anche ordinare ed articolare in un “sistema stabile” tutti i sensi possibili delle cose, i quali formano all’inizio una sorta di guazzabuglio, un caos nella nostra mente. Questa esigenza d’ordine `e in modo particolare avvertita nella nostra civilt`a contemporanea, dove vige la complessit`a e nella quale siamo continuamente bombardati di dati e di informazioni, la cui quantit`a spesso non `e bilanciata da alcuna qualit`a, durata, stabilit`a, permanenza, attendibilit`a. Siamo talmente assuefatti a ci`o, che nulla pi` u ci meraviglia. Ora, questo bombardamento continuo, questo apparente caos in cui noi tutti viviamo, quando e come potranno mai tramutarsi in ordine filosofico? In una condizione essenzialmente problematica, quale `e quella dalla quale noi partiamo, la coscienza filosofica non potr`a nascere e svilupparsi se non, appunto, come “coscienza del problema”. Per rendersene conto, basterebbe riprendere per un attimo l’analisi del “concetto di verit`a” ed approfondire il “senso della problematicit`a” emergente dai dati di partenza. Essi potranno apparirci problematici per il seguente ordine di ragioni: 1. perch´e, come si `e visto, i sensi della verit`a sono molteplici e forse anche 12
troppi; 2. perch´e tutti questi sensi pretendono di esprimere “la” verit`a pur essendo tra di loro diversi e forse anche contraddittori; 3. perch´e ciascuno aspira ad una sorta di superiorit`a rispetto agli altri; 4. perch´e volerli tutti veri e insieme tollerarli come tali implicherebbe una sorta di relativismo, se non di scetticismo. Dunque per amor di verit`a si rischierebbe di annullare ogni senso della verit`a. Il primo compito della critica filosofica sar`a di conseguenza il chiarimento e la dissoluzione di siffatti paradossi. Il secondo compito, come gi`a accennato, sar`a il passaggio dal caos al cosmo, al sistema armonico dei possibili “mondi della verit`a”. Partendo dal dato problematico, dal molteplice caotico di tutti i possibili sensi della verit`a, la mente filosofica non soltanto lo passa in rassegna, ma presume anche di poterlo ordinare in un sistema, di dare senso a tale molteplice in quanto molteplice e di giustificarlo come una totalit`a. Per ottenere tale risultato essa deve individuarne il fondamento logico e metodologico — che potr`a di volta in volta presentarsi come una semplice ipotesi o come un postulato, oppure ancora come una legge, un principio —, in modo che il dato iniziale, in apparenza caotico ed inintelligibile, possa via via tramutarsi in un tutto sensato ed ordinato. Quando il filosofo sar`a riuscito a risalire dalle “primitive conseguenze” (ossia, da ci`o che all’inizio egli stesso aveva dovuto assumere come dati problematici) al loro “principio”, ovvero alla ragione o almeno alle condizioni della loro possibilit`a, dovr`a infine poter far ritorno per via dimostrativa al punto di partenza, che gli apparir`a allora in una luce e in un significato del tutto nuovi. E forse il nostro mondo riprender`a a colmarci ancora di meraviglia e di stupore. In tal senso l’opera del filosofo si spinge oltre il lavoro del “giornalista” o anche del puro “investigatore” della verit`a. Tutti possiamo sapere come stanno le cose, essere informati dei fatti: questo `e peraltro il compito del giornalista, il quale ci informa dell’evento, ma in qualit`a di giornalista non `e tenuto ad esporre anche una sua teoria dell’evento. Spetta invece al filosofo o, se preferite, all’uomo di scienza farsene una ragione. Possibilmente un filosofo deve innanzitutto essere anche un uomo di scienza. Per me i due termini coincidono abbastanza. Ritengo che il lavoro filosofico non possa essere condotto se non in concomitanza con il lavoro scientifico; di conseguenza, l’atteggiamento di chi, per amor della sapienza, si senta innanzitutto in dovere di denigrare le scienze — come non di rado anche accade — rappresenta 13
un esempio da prendere con le pinze, qualcosa di cui sospettare; almeno dal mio punto di vista, che rischia al contrario di apparire fin troppo legato alla tradizione. Platone, si sa, non ammetteva nella sua Accademia allievi privi di cognizioni matematiche. A ci`o potremmo anche aggiungere la conoscenza elementare della logica, una certa padronanza del linguaggio ed un naturale spirito di osservazione. Ebbene, se non `e avvertita da parte del filosofo l’esigenza di ordinare i dati puramente descrittivi in un sistema e di trovare la ragione dei fenomeni, allora la filosofia diventa una faccenda poco seria, rischia di risolversi ed anche di dissolversi in una sorta di “chiacchiera”, e va ad aggiungersi come filosofia al guazzabuglio, se non al mercato delle futilit`a, le quali lasciano di solito il tempo che trovano. Ben altra cosa sarebbe invece la pretesa, o almeno l’intenzione propedeutica — metodica — di “prendere le distanze” da questo caos, in maniera che almeno lo si possa con un colpo d’occhio padroneggiare dall’esterno, nella sua forma, ed in tal modo oggettivarlo, nel senso appunto di renderlo, per cos`ı dire, afferrabile, come oggetto di fronte ad un soggetto, il quale non si limiti a rispecchiarlo o a rispecchiarsi in esso. Un po’ come, secondo l’attestazione della Bibbia, avrebbe fatto il Primo Autore in persona, il quale, creato il mondo in sette giorni, ritenne opportuno in corso d’opera di fermarsi un attimo per contemplarlo da una certa distanza, ossia per giudicare e valutare il proprio operato: “E Dio vide che era cosa buona” [Genesi, 1, 24). Si pu`o dunque sperare — potrebbe essere questo l’ideale di ogni mente filosofica — di ottenere anche noi un risultato simile. Ora, mutatis mutandis, cosa mi aspetto io da voi? Che alla fine di questo semestre o del semestre successivo, chi abbia deciso di mettersi alla prova, mi presenti un lavoro scritto che sia all’altezza degli obiettivi formativi del corso. Con la sua frequenza e soprattutto mediante il suo lavoro finale egli avr`a oggettivato se stesso, avr`a proiettato di fronte a s´e, nelle vesti di filosofo, se stesso. I nostri pensieri, che prima di ogni lavoro e di ogni riflessione ci sembrano rappresentazioni pi` u o meno gratuite, quelle appunto che sempre ciascuno di noi porta con s´e nella propria mente, che ciascuno pensa e ripensa, magari anche sogna, senza un ordine o un metodo ben preciso; questi pensieri e queste idee, appunto, ciascuno di noi non pu`o opportunamente conoscere, se non nella misura in cui sia anche capace di porseli in qualche modo davanti. Ed il modo che qui viene in particolare richiesto `e il lavoro teoretico, l’espressione e la rappresentazione concettuali: nella fattispecie si tratta di scrivere un piccolo saggio filosofico, di leggerlo e di valutarlo. Ciascuno di noi `e non solo l’autore ma anche il primo giudice della propria opera. Sar`a peraltro abbastanza difficile barare con se stessi. Potremmo magari essere eccessivamente severi o, al contrario, eccessivamente indulgenti verso noi stessi. Di solito corriamo questo rischio. Ma per mitigarlo, possiamo sempre sotto14
porre la nostra opera al giudizio di un altro. Abbiamo dunque due tribunali da affrontare. Tuttavia, in prima istanza, deve poter pesare il foro della propria coscienza, il primo giudizio. Ciascuno di voi, avendo oggettivato il suo pensiero in un lavoro scritto, avr`a motivo ed occasione di valutarlo, di giudicarlo innanzitutto da s´e, come suo primo risultato. Ed `e augurabile che in tale sede, prima di esporlo al giudizio di un altro (dell’insegnante, di un collega di studi, di un esperto, ecc.), egli stesso possa trovarlo onestamente “buono”, sulla scorta del Primo Creatore, il quale, essendo stato appunto il solo e l’unico, non ebbe altri termini di confronto. In breve, il vero obiettivo, diciamo anzi, l’ideale educativo `e esattamente questa maturit`a di giudizio. Certo, trattandosi di un “ideale”, non si potr`a neppure pretendere di realizzarlo in pieno. Io stesso, del resto, come insegnante di filosofia, non presumer`o di poter formare dei perfetti filosofi. Anzi, una delle prime cose che scoprirete `e appunto che, cos`ı intesi, i filosofi e la filosofia non possono esistere, essendo entrambi dei puri ideali. Si potrebbe dire, con un bisticcio, che essi sussistono “solo” in quanto ideali, ossia come entit`a irreali ed irrealizzabili. In che senso nondimeno sussisterebbero come ideali? Si potrebbe forse scoprire che anche il pensiero della non esistenza, in quanto pura idea, `e l`ı per assolvere ad una qualche funzione. Grazie a questo ideale irrealizzabile, io potr`o magari avere un “valore” invariabile, un saldo termine di paragone, un criterio o un canone per la mia capacit`a di giudizio, per valutare in che misura io stesso nella realt`a mi sar`o avvicinato o allontanato da tale valore, che in quanto ideale non `e soggetto ad alcuna contingenza, variabilit`a, incostanza. Potr`o cos`ı valutare me stesso, questo mio primo saggio, questa mia tesina reale, solo commisurandola alla tesina ideale. Anche con la migliore delle mie prestazioni io non avr`o realizzato l’ideale, ma proprio questa sua necessaria imperfezione sar`a per me motivo di sprone e di miglioramento. Lo stesso dicasi per la figura del filosofo, del “saggio” per eccellenza. Se questo fosse un corso di filosofia pratica, o di etica filosofica, non pretenderei certo di fare di voi dei “santi” o dei perfetti “stoici”, e neppure semplicemente di rendervi “buoni” dal punto di vista morale. Mi basterebbe viceversa che in ciascuno di voi si risvegliasse almeno l’ideale della saggezza, in misura tale da permettervi di confrontare con esso anche la vostra pi` u intima intenzione morale. E ci`o, in etica, spetta propriamente a ciascun individuo in prima persona. In effetti, come ci fa osservare Kant, il comportamento esterno, apparente, non necessariamente coincide con la vera intenzione dell’agente morale. Per esempio, sarei pi` u propenso a credere che voi siate ora, qui, in questa sede universitaria, non per ragioni schiettamente morali, ma piuttosto per un vostro ben determinato interesse, che non `e neppure lo stesso per tutti. 15
Qualcuno di voi sar`a sinceramente interessato alla filosofia sul piano strettamente teoretico, un altro sar`a forse maggiormente motivato da un interesse pragmatico, sar`a magari spinto dall’ambizione o dall’utile, dalla convenienza, dalla necessit`a, da obblighi contratti in famiglia, in societ`a, o anche dal puro piacere, da una inclinazione caratteriale, in breve da mille altri validissimi motivi, ma non necessariamente dal “puro dovere di andare a lezione”, inteso come un dovere assolutamente incondizionato. Un dovere del genere sarebbe peraltro un classico esempio di ci`o che `e discutibile in filosofia. Riallacciandoci ora al punto specifico dei prerequisiti, io non render`o certo obbligatoria la mia personale introduzione ai problemi della filosofia moderna, anche se `e facile presumere che per la sua impostazione in base a problemi, per lo stile, quella trattazione sia pi` u consona al modo con cui io faccio qui lezione. Da ci`o tuttavia non deriva che voi siete in qualche modo tenuti a leggere e a studiare proprio quel libro. Dunque, per quanto riguarda i suddetti prerequisiti, siete liberi di scegliere qualunque altro manuale e strumento che riteniate idoneo allo scopo. Di seguito si dice: ` infine auspicabile, oltre alla padronanza della lingua italiana, la E conoscenza di almeno una lingua straniera, preferibilmente il tedesco e il francese.
In verit`a, anche l’inglese, o altra lingua utile allo scopo. Forse potrebbe suonare strano il richiamo alla padronanza della lingua italiana, essendo noi in Italia. Purtroppo il sottoscritto da professore di filosofia, quale vorrebbe essere, rischia talvolta di trasformarsi in maestro elementare, vedendosi costretto ad emendare soprattutto le forme della espressione scritta, a correggere ancora l’ortografia, le virgole, la grammatica, la sintassi. Non di rado un elaborato presentato come tesina scritta suona invece come un linguaggio parlato. Ci`o `e forse ammissibile ancora nelle scuola secondaria, ma non all’universit`a. Quanto poi alla padronanza della lingua italiana orale, qui non si deve intendere la “loquacit`a”. Certo, potranno esserci studenti particolarmente chiacchieroni, ma non `e il dono della parlantina ci`o che qui deve prevalere. Quanto si ha da dire, poco o molto che sia, venga possibilmente espresso in una forma “corretta”, rispettosa, per es., delle regole della sintassi italiana, non gi`a di una sintassi arbitraria, escogitata l`ı per l`ı, spacciata magari come una “sintassi creativa”. In breve, non `e un segreto e forse neppure un male che si debbano fronteggiare anche problemi di questo tipo. Come sia poi possibile che uno studente italiano approdi all’universit`a con carenze linguistiche persino in lingua italiana, `e questione assai seria, che per`o esula da questo corso. Essa tocca responsabilit`a che vanno al di l`a delle mie, e forse anche delle vostre. Possiamo limitarci a constatare che il 16
sistema educativo nel suo complesso ci pone di fronte anche a questo tipo di problemi. Ci`o detto, quando essi sussistano, dobbiamo insieme trovare il modo pi` u efficace per risolverli. Per quanto concerne le altre lingue, si tratter`a intanto di rispolverare e di valorizzare le competenze acquisite nella scuola secondaria superiore. Rispetto al mondo delle lingue straniere e al loro studio, avrete ora un approccio ed una motivazione del tutto diversi, soprattutto, direi, pi` u maturi. Infatti queste conoscenze linguistiche saranno ora strettamente correlate ai vostri interessi filosofici, a cominciare dai testi primari (“originali”), sui quali dovrete imparare a lavorare e della cui importanza vi renderete ben presto conto. Io stesso, entro i limiti dei miei obiettivi formativi, vi stimoler`o ad imboccare questa direzione, vi introdurr`o a questo tipo di esperienza. Capiter`a spesso, nel commentare un testo cassireriano tradotto in lingua italiana, che io mi soffermi su tale o talaltra parola, la confronti con l’originale tedesco o con altre possibili traduzioni italiane. Ci`o avverr`a non per un eccesso di pedanteria, ma per esigenze ermeneutiche e, in definitiva, profondamente filosofiche. Ogni pensiero ha la sua lingua, ed ogni lingua un suo pensiero. Nel caso di Cassirer la lingua `e il tedesco. Ci`o comporta forse che tutti noi dovremmo padroneggiare anche questa lingua straniera? Non necessariamente, bench´e lo studente “ideale” non esiterebbe ad includere questo obiettivo formativo tra i suoi compiti ed i suoi doveri. Anche in questo caso, tuttavia, tra il nulla e la perfezione si estende la scala infinita dell’esperienza possibile. Del resto, sarebbe pretendere troppo il volerci dispensare da questa necessaria fatica, senza della quale non sarebbe stata possibile alcuna traduzione e neppure la stessa tradizione filosofica, la quale — si potrebbe sintetizzare in una sola battuta — altro non `e che l’arte di preservare il medesimo nel diverso. Non sempre ci`o `e possibile. I problemi linguistici non riguardano solo gli specialisti del linguaggio e neppure i rapporti tra le lingue moderne. Come vedremo, essi sono centrali ed importanti nel pensiero di Cassirer, ma anche nello stesso Kant, il quale ha dovuto tradurre nel suo tedesco settecentesco dei pensieri o dei concetti che hanno una lunghissima storia, che sono a loro volta stati veicolati dal latino accademico e prima ancora dal greco classico. Lavoro improbo, ma non impossibile. In verit`a, ci`o che in comune hanno le lingue, oltre alla insuperabile diversit`a, che ce le rende cos`ı ostiche, `e la loro forma simbolica, grazie alla quale esse possono sussistere per noi, felicemente e provvidenzialmente, come puro linguaggio. Ne consegue, da questo punto di vista, che la conoscenza adeguata delle principali strutture della propria lingua — nel nostro caso dell’italiano, della sua morfologia, grammatica e sintassi — pu`o diventare la chiave di accesso ad ogni altra lingua. Dal loro costante e continuo confronto 17
— dovremmo fare di tale frequenza il nostro pane quotidiano — emerger`a con chiarezza quale particolare direzione ciascuna lingua abbia dovuto percorrere per applicare la logica alla realt`a, per assicurare alle pure categorie del pensiero una loro concrezione nell’universo della espressione e della rappresentazione linguistica. Da tutto ci`o consegue che l’apprendimento di una lingua straniera non si risolver`a mai in una passiva imitazione o riproduzione di suoni e gesti linguistici, alla maniera del pappagallo e della scimmia, anche se queste abilit`a potranno talvolta rivelarsi utili e necessarie. Si tratter`a piuttosto di comprendere, per esempio, in quali modi il tedesco, il francese, l’inglese, a differenza dell’italiano, abbiano affrontato il problema della rappresentazione delle relazioni spaziali e temporali, tentato di fissare le determinazioni quantitative e qualitative degli oggetti, di consolidare i rapporti “cosa-propriet`a”, “causa-effetto”, ecc.; come ciascuna di quelle lingue interpreti ed esprima i valori modali, i piani del possibile, del reale, del necessario. In breve, l’apprendimento di una lingua straniera, non `e solo questione di lessico (liste infinite di parole e di espressioni da memorizzare in modo passivo o meccanico), bens`ı piuttosto questione di logica applicata all’espressione (anche qui, soluzione attiva e creativa di problemi). Se `e vero che ogni filosofo non potr`a che pensare nella propria lingua, un’attenta ed assidua frequentazione del suo modo di pensare ci consentir`a allora di ricreare con facilit`a, magari di anticipare, di “indovinare” anche il suo modo di parlare e di scrivere. Ultimo punto: Indispensabile `e invece una competenza informatica minima, per un uso del computer e della videoscrittura adeguato agli obiettivi formativi del corso.
Qui si tratta di conoscere i programmi di scrittura (Word o altro), le modalit`a di stampa, l’uso delle tecniche di impaginazione, la formattazione (creazione di paragrafi, allineamento e giustificazione del testo, note a pi`e di pagina, numeri di pagina, corsivi, caratteri speciali, tipi di “font”). In breve, la padronanza richiesta per il rilascio del “Patentino europeo”. Per oggi mi fermo qui. Riprenderemo domani l’illustrazione generale degli obiettivi formativi e dei contenuti del corso. Vi informo, infine, che anche quest’anno, come gi`a ho fatto nel recente passato, intendo registrare tutte le mie lezioni. Queste verranno raccolte in un apposito dischetto e rese pubbliche alla fine di ogni semestre.
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Lezione Seconda (07.10.2008): Preliminari sulla Filosofia delle forme simboliche
Ho cercato ieri di presentare i propositi di questo insegnamento. Non `e stato possibile farlo in maniera esauriente in una sola ora. Mi propongo nella lezione odierna di completare questo mio intento di ieri. Mi sono ieri dilungato a sufficienza sui prerequisiti, dunque non ritorner`o su questo punto. Oggi vorrei innanzitutto dire qualcosa sul primo punto del programma, riguardante la “presentazione generale del corso”. Mi soffermer`o dapprima sul contenuto vero e proprio di esso. In seguito vedremo come questo contenuto si svilupper`a: si tratter`a di capire quale forma dare a tale contenuto. Come potete voi stessi constatare, comincio col separare un contenuto da una forma, ma nello stesso tempo non ignoro che questa distinzione `e fissata in modo analitico, a un certo livello di astrazione. In effetti, sul piano strettamente fenomenologico — nell’atto concreto di questo mio discorrere qui con voi —, risulta impossibile parlare di un contenuto senza gi`a dargli una certa forma, cos`ı come altrettanto impossibile parlare di una forma, se questa forma `e completamente vuota. Ci dovr`a sempre essere un contenuto capace di dare corpo a una forma; e, viceversa, una forma capace di dare senso a un contenuto. Gi`a da questa prima distinzione — e da questa mia stessa difficolt`a nell’avviare il discorso — ci accorgiamo che il nostro parlare `e alquanto metaforico, nel senso che esso non si riferisce alla cosa cos`ı come questa effettivamente `e o vorrebbe essere. Su questa questione del rapporto tra materia e forma ci dovremo intrattenere pi` u in l`a. Al momento vi sto facendo notare come subito, fin dalle prime battute di queste mie lezioni, io mi imbatta nel problema di associare alla trasmissione dei contenuti una certa forma. Dunque il mio problema all’inizio di un corso — come il vostro nel progettare una tesina — potrebbe essere cos`ı formulato: Nella presente occasione, quale forma `e preferibile dare al contenuto dei miei pensieri, in modo che la loro esposizione risulti il pi` u possibile opportuna ed efficace? In breve, scelgo la soluzione pi` u semplice: dovr`o accontentarmi, nella presente occasione, di un banale riassunto. Ora, non si pu`o ottenere un riassunto senza disporre di capacit`a sintetiche. Ma, se operare una sintesi `e certamente necessario, ci`o non `e tuttavia sufficiente per ottenere il riassunto. Occorrerebbe infatti poter distinguere dapprima i contenuti principali, gli elementi degni di essere evidenziati e riferiti, dai contenuti secondari, trascurabili o meno importanti ai fini della sintesi. Ma ogni distinzione di questo tipo presuppone l’uso delle funzioni analitiche e della riflessione. L’arte dell’analisi consiste appunto nel distinguere una cosa dall’altra all’interno di un tutto 19
dato e nel giudicare, ai fini del discorso che si vuole presentare, quale possa essere la parte indispensabile e quale la parte trascurabile. Questo `e ci`o che mi accingo a fare io adesso, e questo `e anche ci`o che — presumo — farete voi stessi alla fine del corso, quando, passando in rassegna la totalit`a disorganica delle conoscenze acquisite (i vostri appunti mentali), dovrete definire analiticamente quali sono le pi` u significative ai fini dell’argomento scelto per il vostro lavoro di tesina e quali invece non lo sono. Soltanto sulla base di queste scomposizione analitica interviene poi la ricomposizione sintetica del tutto. Ci`o detto, tuttavia, non vi nascondo che sarebbe altrettanto legittimo asserire il contrario, ossia che non `e possibile analizzare nulla che prima non sia stato in qualche modo gi`a congiunto. Indugio, all’inizio, su queste nozioni elementari, forse anche scontate per molti di voi, per incoraggiarvi ad un ascolto attento e riflessivo. Se preferite, potete anche prendere appunti durante la lezione; e non esitate ad interrompermi con un’alzata di mano, qualora non fosse chiaro ci`o che vado di` bene dilucidare sul nascere i punti oscuri. Se ora mi soffermo cendo. E ancora sul riassunto, sull’arte dell’analisi e della sintesi, `e perch´e una delle pratiche che io potrei sollecitare in questa sede — se sar`a opportuno e possibile, magari pi` u in l`a, quando il corso sar`a stato avviato e saremo tutti pi` u affiatati — consiste appunto nel riassumere brevemente all’inizio di ogni nuova lezione i contenuti essenziali della lezione precedente. In tal modo sar`a possibile rimediare in parte al problema della discontinuit`a nella frequenza ` probabile che delle lezioni. Questo `e un problema mio, ma anche vostro. E gli studenti presenti oggi non siano gli stessi di ieri: fenomeno inevitabile e giustificabile, quando gli orari dei differenti corsi si sovrappongono. Come sar`a allora possibile ricuperare gli assenti, aggiornare i presenti, garantire in partenza almeno la parit`a dell’informazione? Potrei io stesso, certo, iniziare la mia lezione con un breve richiamo delle cose dette in precedenza. Tuttavia sarebbe auspicabile che anche qualcuno di voi, in modo volontario, si assuma di volta in volta l’onere del riassunto. Oltre che un ottimo esercizio personale, sarebbe questo, soprattutto se attuato a rotazione, un servizio che ciascuno rende liberamente agli altri. Faccio dunque appello al vostro senso di responsabilit`a: sappiate che, all’inizio della lezione, potr`a essere qualcuno di voi chiamato a riassumere per tutti — i presenti, gli assenti, i sordi, i distratti, gli smemorati — i contenuti principali della lezione precedente, ovvero a fare per cos`ı dire il punto della situazione. Si tratta, in breve, di acquisire delle buone abitudini con l’esercizio: • rimanere il pi` u possibile attenti durante la lezione; • sviluppare le vostre capacit`a ricettive, le vostre funzioni analitiche e sintetiche anche nel prendere appunti scritti o mentali; 20
• potenziare soprattutto la vostra capacit`a attiva di riassumere in forma concisa e pertinente, dopo un giorno o dopo una settimana, la trattazione precedente. Pur modesta, questa pratica costituisce gi`a di per s´e un esercizio filosofico. Essa vi impegna personalmente e soprattutto vi vincola agli altri, poich´e in tal modo si mette in moto una sorta di circolazione del pensiero, la quale, peraltro, servir`a a tenere viva l’attenzione generale e consentir`a soprattutto a me di misurare anche in senso qualitativo il grado della vostra presenza. Oggi per`o spetta in primo luogo a me il compito, non facile in verit`a, di illustrarvi in poche parole, e tuttavia in maniera efficace e pertinente, in cosa consista la “Filosofia delle forme simboliche” fondata e sviluppata da Ernst Cassirer. A tal fine non potr`o far di meglio che leggere e commentare una breve parafrasi di un testo redatto dallo stesso Cassirer, il quale ha dovuto, anche lui, affrontare e risolvere il medesimo problema del riassunto. Gli `e capitato pi` u volte nel corso della sua lunga esperienza, in veste sia di professore (nelle sedi universitarie), sia di intellettuale mondano, di filosofo riconosciuto ed affermato, che espone al pubblico giudizio le proprie idee (nei suoi libri, in innumerevoli articoli, saggi, conferenze, in Germania, in Europa, in America). Dovendosi spesso rivolgere ad un uditorio che, al pari di voi, non necessariamente `e gi`a al corrente delle sue ricerche in campo filosofico, egli stesso avverte il dovere di riassumerne in poche parole, a chi lo ignori, il contenuto ed il senso essenziali. Compito, come si `e detto, non affatto semplice e facile. Leggiamo dunque direttamente una delle risposte fornite da Cassirer: La Filosofia delle forme simboliche tenta di seguire la strada della “filosofia critica” indicata da Kant. Non vuole partire da una proposizione generale e dogmatica sulla natura dell’essere assoluto, ma essa pone in modo preliminare la questione su cosa significa in generale l’affermazione su un essere, su un “oggetto” della conoscenza, e per quale via e attraverso quali strumenti pu`o essere raggiungibile e accessibile in generale l’oggettivit`a. La superba ontologia deve lasciare un posto, pi` u modesto, ad una semplice analitica dell’intelletto puro e ad una fenomenologia della coscienza linguistica, estetica, teoretica. Di fronte al “fatto delle scienze dello spirito”, allo sviluppo prodigioso delle scienze linguistiche, delle scienze religiose, delle scienze artistiche, la filosofia deve ora assolvere il compito di estendere la sua critica all’intero ambito della “comprensione del mondo” [Weltverstehen], di distinguerne le possibili “modalit`a”, di scoprire le diverse potenze, le fondamentali forze spirituali, che concorrono a renderla possibile.1 1
Cfr. E. Cassirer, Sulla logica del concetto di simbolo (1938), in K. Marc-Wogau
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Riprendiamo ed approfondiamo ora il brano in modo analitico: La Filosofia delle forme simboliche tenta di seguire la strada della “filosofia critica” indicata da Kant.
Fin dalla prima frase abbiamo a che fare con un filosofo che si richiama esplicitamente a Kant. Sarebbe tuttavia opportuno precisare che egli presenta se stesso come un filosofo “kantiano”, o “neokantiano”, pi` u che come un erudito “kantista” (mi si perdoni questo brutto termine). Chiariamo innanzitutto quale potrebbe essere la differenza tra un kantista ed un kantiano. O, se preferite un esempio analogo, tra un marxista e un marxiano. Per amor di coerenza — si sa — il fondatore del marxismo prefer`ı dare testimonianza di s´e sempre nel nome di Karl Marx, piuttosto che in nome del “marxismo”, perch´e chi produce e manifesta la propria identit`a, nella dialettica del mutamento, non necessariamente `e anche un seguace o un imitatore di se stesso. In tal senso, tutto ci`o che `e attribuibile al pensiero dell’autore, rendendone possibile l’individuazione, sarebbe da definire a rigore “marxiano” (= proprio di Karl Marx o della sua autentica dottrina), pi` u che “marxista” (= proprio dei suoi seguaci o degli interpreti del suo pensiero). Lo stesso varr`a anche per Immanuel Kant. Cosa implica dunque essere fedele al pensiero di un Autore? Ci potr`a essere una tradizione scolastica, il cui compito `e la conservazione e perpetuazione delle opere del Maestro, la ripetizione e l’osservanza minuziosa delle cose dette da Lui, con spirito non necessariamente critico: ipse dixit! Ma si pu`o anche essere interpreti degni o anche continuatori del lavoro iniziato dal maestro, appunto perch´e ogni autentica opera della cultura umana, una volta oggettivata e licenziata dall’autore, non `e pi` u propria solo dell’autore, bens`ı propria di tutti, essendo ora a disposizione di tutti. In tal senso l’“opera culturale” diventa un patrimonio universale dell’umanit`a, di cui ciascuno deve poter liberamente disporre entro i limiti ed i fini del mondo della cultura. Di conseguenza tra i seguaci di Kant si potrebbe ben distinguere tra quelli che privilegiano esclusivamente la lettera e quelli che, pur rispettando la lettera, cercano di onorarne innanzitutto lo spirito. Nel caso di Cassirer, noi abbiamo a che fare con un filosofo che indubbiamente si ricollega alla tradizione della filosofia di Kant, ma non indulge troppo agli aspetti strettamente filologici. Egli non sacralizza i testi, n´e si adagia (“addormenta”) dogmaticamente su di essi. Pur rispettando la lettera, mira sempre a interpretarne lo spirito. Cassirer `e innanzitutto editore di Kant, ha curato e pubblicato con altri collaboratori una edizione critica - E. Cassirer, Disputa sul concetto di simbolo. La discussione sulla rivista “Theoria” (1636-1638), a cura di Annanella d’Atri, Edizioni Unicopli, Milano 2001, pp. 157-159.
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di tutte le opere di Kant.2 Ha anche scritto, a suggello di questa edizione monumentale, un grosso volume supplementare intitolato Vita e dottrina di Kant, nel quale, tracciando il percorso unitario dell’uomo e del filosofo, egli mostra quanto sia difficile e controproducente, soprattutto nella figura di Kant, voler trasformare in entit`a metafisiche (“ipostatizzare”) e contrapporre tragicamente l’una all’altra l’esistenza (la “materia”) e il pensiero (la “forma”), l’esperienza individuale della vita e la vita universale dello spirito. Dovete immaginare, appunto, la vita di un uomo che fa del pensiero filosofico lo scopo ed il nutrimento della propria esistenza. Dunque `e difficile anche sul piano semplicemente simbolico separare le due cose, le due dimensioni. Questa monografia di Cassirer mostra come sia possibile vivere la filosofia e filosofare nel centro stesso della esistenza vitale. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che Cassirer `e un interprete che, per poter rispettare il dato letterale della filosofia kantiana, deve in un certo senso anche trascenderlo. Cos`ı il criterio di valutazione per lui non `e tanto ci`o che effettivamente Kant ha detto o `e riuscito a fare — che di solito `e ci`o che noi puntualmente troviamo su tutti i manuali di filosofia e nelle opere divulgative del tipo: Cosa ha veramente detto Tizio, Cosa ha veramente detto Caio, le quali propongono una sintesi di ci`o che si ritiene caratteristico ed emblematico di quel filosofo — quanto invece, potremmo dire, l’intenzione kantiana. Ci`o che Kant ci ha di fatto lasciato in eredit`a `e il massimo commensurabile con il suo progetto complessivo, ossia con il suo programma ed obiettivo filosofici: la fondazione di un metodo trascendentale e anche di un sistema di filosofia trascendentale, al fine di dare lustro e prestigio alla filosofia in quanto tale, ivi compresa, come titola un suo famoso saggio preparatorio, “ogni futura metafisica che potr`a presentarsi come scienza”. Quest’ultimo era senza dubbio uno degli obiettivi di Kant. Rifondare la metafisica significava per lui rivedere il senso che questo termine e questa disciplina avevano assunto nella tradizione filosofica. Il metodo critico da lui introdotto sottopone in via preliminare la stessa ragione metafisica al tribunale della ragione, ovvero alla “critica della ragione pura”, dove la ragione compare nello stesso tempo come imputato e come giudice. Decisivi, in tale procedura, sono il verdetto della ragione e la sua autonomia. Cos`ı, riallacciandoci per un momento alle questioni accennate nella lezione di ieri, sar`a legittimo domandare: Pu`o la ragione pretendere di emettere un giudizio vero? Quando, per esempio, incisa a grandi lettere, persino 2 Cfr. Immanuel Kants Werke, in collaborazione con Hermann Cohen, Artur Buchenau, Otto Buch, Albert G¨ orland, B. Kellermann, Otto Sch¨ond¨orfer, a cura di Ernst Cassirer. Edizione delle opere complete in dieci volumi ed un volume supplementare scritto da Cassirer: Kants Leben und Lehre, Berlin, Bruno Cassirer, 1918, pp. VIII-449 (2◦ ed. 1921).
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sui cartelli stradali o sui piloni delle nostre autostrade, campeggia la scritta ` potremmo da filosofi domandare: Questa pretesa cos`ı forte `e anDIO C’E, che fondata? A chi spetta decidere? Kant dimostra che l’unica sede, l’unica istanza competente ed a ci`o legittimata altro non possa essere che la stessa ragione che ha formulato quel giudizio. Ma ad un’unica condizione: sospendere ogni contesa metafisica per avviare un’indagine preliminare sull’uso e sui limiti delle nostre facolt`a. La strada della “filosofia critica” indicata da Kant dovr`a di conseguenza ripercorrere in lungo e in largo l’intera sfera del sapere, prima di ritrovare se stessa. Ora, se il criterio di valutazione di un’opera `e l’intenzione (il programma, il progetto) che l’ha resa possibile, si tratter`a allora di appurare se (e in quale misura) Kant sia riuscito a realizzare ci`o che si prefiggeva. Quale che possa essere la risposta, positiva o negativa, si tratter`a in ogni caso di darne anche una dimostrazione, non solo sul piano storico, ma anche sul piano fenomenologico. In realt`a, come ogni essere umano, anche il filosofo tende a trascendere la propria esistenza, ovvero persegue spesso obiettivi che vanno ben al di l`a delle sue forze. La nostra mente `e tendenzialmente traboccante rispetto alle nostre disposizioni fisico-naturali, alla nostra esistenza spaziotemporale. Apparteniamo tutti, in quanto individui, ad un certo mondo storico, ad una certa epoca, che necessariamente limita e condiziona ogni nostra aspirazione. In quanto filosofo critico, Kant era, pi` u di chiunque altro, ben consapevole dello scarto esistente tra l’ideale e il reale. In verit`a, un filosofo critico si contraddistingue per il fatto che nel corso del suo fare egli si rende abbastanza conto delle ragioni che possono impedire o incoraggiare gli slanci del pensiero, egli sar`a pertanto in grado di frenare i facili entusiasmi, ma anche di superare le difficolt`a. La vita e le opere di Kant attestano ampiamente questo modo di procedere. La Seconda Critica integra ed aggiorna la Prima Critica, la Terza Critica integra e aggiorna la Seconda Critica, la Filosofia della religione integra e aggiorna la Filosofia della storia, l’Antropologia . . . : nel cantiere della filosofia i lavori sono perpetuamente in corso, per definizione l’opera non `e mai definitiva. Da questo punto di vista essere kantiani dopo Kant significa proseguire ed aggiornare il programma di Kant. Sul finire del secolo XVIII la filosofia critica di Kant mira innanzitutto a confrontare la metafisica (la “superba ontologia”) con la scienza esatta. Il suo problema di partenza `e rappresentato dalla crisi generale della filosofia in quanto tale (primo Faktum da giustificare): un tempo la filosofia era la regina di tutti i saperi, mentre oggi — deve amaramente constatare Kant — la vediamo mendicare agli angoli delle strade, vecchia matrona, espulsa dal suo regno, senza arte n´e parte, soprattutto priva di mezzi. Basta guardarsi intorno. Cosa `e rimasto del glorioso edificio della filosofia? Rovine, cumuli 24
di macerie, castelli distrutti. Questa penosa situazione rende la filosofia non pi` u degna del suo stesso nome. A causa di una malintesa concezione della pratica filosofica, la normale dialettica della conoscenza scientifica, che dovrebbe legittimare e garantire la diversit`a delle opinioni e la molteplicit`a dei punti di vista, finisce col degenerare in uno stato permanente di guerra guerreggiata. Primi responsabili di questo generalizzato disastro sono agli occhi di Kant i filosofi stessi. Trincerandosi reciprocamente dietro concezioni dogmatiche (spesso “metafisiche”) della verit`a, le varie scuole filosofiche si delegittimano a vicenda e si sentono anche in diritto di cannoneggiare e distruggere le posizioni dell’avversario. Il sereno confronto delle idee e la civile disputa scivolano progressivamente verso la polemica filosofica. In breve, si potrebbe anche dire — con un caratteristico gioco di parole preso in prestito da Karl Marx — che alle “armi della critica” subentri qui progressivamente la “critica delle armi”, dove l’uso polemico della ragione viene inteso e praticato nel senso primario, prefilosofico del termine (p´olemos = combattimento, guerra = confutare, invalidare le idee dell’avversario, senza esclusione di colpi e con tutti mezzi possibili, al fine di affermare la presunta verit`a della propria posizione). Poich´e per`o, essendo unica, la filosofia non pu`o distruggere parte alcuna della filosofia, senza distruggere anche se stessa, ecco che l’esito di ogni guerra condotta in questi termini altro non potr`a essere che questa desolazione spettrale di ruderi e di rovine. Nei primi capoversi della Prefazione alla prima edizione della Critica della ragione pura (1781), Kant espone con chiarezza ed efficacia i termini del problema, la sua origine e le sue conseguenze: In un genere delle sue conoscenze, la ragione umana ha il particolare destino di venir assediata da questioni, che essa non pu`o respingere, poich´e le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, ma alle quali essa non pu` o neppure dare risposta, poich´e oltrepassano ogni potere della ragione umana. Essa incorre in questo imbarazzo senza sua colpa. Muove da proposizioni fondamentali, il cui uso `e inevitabile nel corso dell’esperienza ed insieme `e da questa sufficientemente convalidato. Con tali proposizioni essa sale sempre pi` u in alto (come in verit`a richiede la sua natura), a condizioni pi` u remote. Ma poich´e si accorge, che a questo modo la sua attivit` a deve rimanere ognora senza compimento, poich´e le questioni non cessano mai di ripresentarsi, essa si vede allora costretta a rifugiarsi in proposizioni fondamentali, che oltrepassano ogni possibile uso di esperienza e nondimeno sembrano tanto superiori ad ogni sospetto, che anche la comune ragione umana si trova d’accordo su di esse. Cos`ı facendo tuttavia essa cade in oscurit`a e contraddizioni, dalle quali a
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dire il vero pu` o inferire, che alla base debbono sussistere da qualche parte errori nascosti; essa non pu`o tuttavia scoprirli, poich´e le proposizioni fondamentali, di cui si serve, non riconoscono pi` u alcuna pietra di paragone nell’esperienza, dal momento che oltrepassano il confine di ogni esperienza. Ebbene, il campo di battaglia di questi contrasti senza fine si chiama metafisica.3
Senza preamboli, Kant entra subito nel vivo dell’argomento principale della Critica. Il genere di conoscenze e di questioni, cui qui si allude, sono quelle tradizionali della cosiddetta “metafisica” (= al di l`a della fisica): • Il mondo ha un inizio nel tempo? • Riguardo allo spazio, il mondo `e racchiuso entro limiti? • Le sostanze composte, nel mondo, constano di parti semplici? ` possibile trovare da qualche parte, nel mondo, qualcosa di non ulte• E riormente scomponibile? • La volont`a umana `e libera? • Nel mondo, tutto accade unicamente secondo le leggi della natura? • Esiste, nel mondo, o fuori del mondo (come sua causa), un ente assolutamente necessario? • Esiste un Dio? • L’anima `e immortale? Posta di fonte alla molteplicit`a, variet`a e talvolta anche alla baraonda delle esperienze, la ragione non pu`o fare a meno di ricercare principˆı generali e di raccoglierli in teorie scientifiche pi` u complesse. Cos`ı, riconducendole ad un fondamento il pi` u possibile unitario, essa spera di introdurre un possibile ordine nelle cose del mondo. Finch´e il principio individuato fa parte dell’esperienza, esso pu`o da questa essere anche convalidato. Tuttavia, non essendoci nell’esperienza nulla che non sia suscettibile di essere condizionato a sua volta da qualche altro elemento dell’esperienza stessa, quest’ultima non potr`a mai offrire alla ragione un principio esplicativo capace di appagare la sua naturale spinta verso principˆı assolutamente ultimi, incondizionati, vale a dire principˆı non pi` u condizionati da altri principˆı. Cos`ı la ragione, 3
I. Kant, Critica della ragione pura, traduzione e note di Giorgio Colli, Adelphi Edizioni, Milano, 1976, p. 7.
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spontaneamente, finisce col cercare, e spesso si illude anche di trovare i suoi principˆı ultimi, di l`a dall’esperienza, trascendendola. La ragione — sottolinea Kant — entra in conflitto con se stessa senza sua colpa. In effetti, se il principio esplicativo dell’esperienza `e posto assolutamente al di l`a della esperienza stessa, `e un controsenso l’appellarsi a quest’ultima al fine di confutarlo o anche di dimostrarlo come vero. Non potendo naturalmente aspettarsi mai n´e smentite, n´e conferme da un eventuale ricorso all’esperienza, su ciascuna delle grandi questioni metafisiche sopra menzionate, la ragione ha allora, non solo la capacit`a, ma anche il pieno diritto di rispondere tanto affermativamente, quanto negativamente. Con argomenti in apparenza inoppugnabili la ragione pu`o ammettere, per esempio, tanto la limitatezza, quanto la illimitatezza dell’universo spaziale. Essa inoltre sembra dover assistere impotente alle dispute senza fine tra i sostenitori degli opposti partiti filosofici, trattandosi essenzialmente di un conflitto interno alla ragione in quanto tale. Di qui il suo senso di impotenza e il suo grave imbarazzo. Di qui anche la crisi della metafisica: Vi fu un tempo, in cui essa era chiamata la regina di tutte le scienze, e se si considerano le intenzioni come fatti, essa meritava certo questo nome onorifico a causa dell’importanza preminente del suo oggetto. Ora la moda dell’epoca `e incline a dimostrarle un totale disprezzo, e la matrona si lamenta, scacciata ed abbandonata, come Ecuba: modo maxima rerum, tot generis natisque potens — nunc trahor exul, inops (Ovid. Metam.).4 Da principio, sotto il governo dei dogmatici, il suo dominio era dispotico. Tuttavia, poich´e la legislazione conservava in s´e la traccia dell’antica barbarie, essa degener`o man mano attraverso guerre intestine sino ad una totale anarchia, e gli scettici, una specie di nomadi, che aborriscono da ogni durevole colonizzazione della terra, scompaginarono di tempo in tempo la consociazione civile. Dato per`o che costoro non erano per fortuna se non pochi, essi non poterono impedire, che quegli altri tentassero ogni volta di ricostituirla di nuovo, per quanto senza un piano su cui fossero concordi. In tempi pi` u recenti, a dire il vero, parve una volta, che tutti questi contrasti dovessero finire mediante una certa fisiologia dell’intelletto umano (per opera del famoso Locke), e che la legittimit`a di quelle pretese dovesse venir giudicata definitivamente; peraltro, sebbene la nascita di quella presunta regina venisse derivata dall’origine plebea dell’esperienza comune, e nonostante che in tal modo la sua presunzione dovesse a buon diritto 4
Fino a poco tempo fa la pi` u grande fra tutte, di natali cos`ı nobili e con tanti figli — adesso vengo trascinata via, esule e impotente.
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diventare sospetta, risult` o tuttavia che essa manteneva ancor sempre le sue pretese, dato che questa genealogia in realt`a le era stata attribuita falsamente. Cos`ı tutto ricadde un’altra volta nell’antiquato, tarlato dogmatismo, e di qui nel discredito, onde si era voluto trar fuori la scienza. Ora, dopo che sono state tentate invano tutte le vie (come si `e persuasi), regnano la svogliatezza ed un totale indifferentismo: il che `e madre del caos e della notte nelle scienze, ma `e insieme l’origine, per lo meno il preludio, di un vicino mutamento radicale e di un rischiaramento delle medesime, se `e vero che esse sono divenute oscure, confuse ed inservibili, per una diligenza male applicata.5
In questo capoverso, viene delineata da Kant, per grandi linee, la vicenda ciclica del pensiero moderno, dalla notte delle scienze al loro “rischiaramento” (illuminismo). Nel campo di battaglia della metafisica, il dispotismo dogmatico (vale a dire, la metafisica razionalistica rappresentata da Descartes, Spinoza, Malebranche, Leibniz e Wolff), a causa delle prolungate dispute interne, produce il doppio effetto della “anarchia” e della ricorrente reazione “scettica”, la quale spiana la strada ai primi tentativi di mediazione da parte degli empiristi (gli studi di Locke sulla natura o “fisiologia” dell’intelletto umano, il quale, respinto ogni innatismo, tenta di ricondurre ogni conoscenza all’esperienza, esterna o interna). Ma i compromessi spiccioli dell’empirismo non fanno che rilanciare le fortune dei dogmatici. E cos`ı il ciclo ricomincia, provocando la diffusa, quanto superficiale reazione antimetafisica tipica dell’ideologia popolare illuministica (“un totale indifferentismo”). Con la crisi della metafisica viene meno anche l’unit`a del sistema del sapere: scienze che per tradizione facevano parte della filosofia (per esempio la logica, la matematica, la fisica, le scienze naturali, per non parlare anche di altre conoscenze connesse all’esercizio delle arti, come la medicina), preso atto dell’arroganza della filosofia, si sono progressivamente staccate da questa e messe in proprio. Si assiste ad un silenzioso esodo dalla filosofia. Nascono e si sviluppano nuovi saperi, tecniche e metodologie che nulla pi` u hanno a che fare con i programmi e con le intenzioni della filosofia. Il risultato, agli occhi di Kant, `e che tali forme di conoscenza hanno saputo conquistare dignit`a, prestigio, si sono costituite come scienze, e come tali vengono universalmente riconosciute. Il campo della filosofia invece, rispetto a questi nuovi e floridi edifici, appare come un deserto di rovine. Kant nella Critica si riferisce innanzitutto agli sviluppi della matematica pura e della matematica applicata alla conoscenza della natura, alla fisica pura e alla fisica applicata — stiamo parlando di quella stagione fortunata che da Galilei conduce fino a Newton. 5
Critica della ragione pura, cit., pp. 8-9.
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Cosa dovrebbe fare la filosofia in tale situazione? 1. Accettare lo stato di fatto, smettere di pensare come filosofia, rinunciando cos`ı alla propria dignit`a? 2. Assoggettarsi ai nuovi saperi, mutuare da questi (in particolare dalla matematica) le tecniche d’indagine ed il metodo, rinunciando cos`ı alla propria autonomia? Kant scarter`a con decisione entrambe le alternative: le rirerr`a impraticabili, sbagliate e, soprattutto, subalterne, non adeguate alla dignit`a della filosofia. Dov’`e dunque il merito di Kant? Nell’aver saputo ridare vigore e slancio alla filosofia, rifondandone dall’interno il campo, il metodo ed il fine. In breve: nell’avere non solo indicato e percorso, bens`ı aperto per primo, tracciato per la prima volta la strada della “filosofia critica”: Filosofia critica `e quella che non inizia tentando di erigere o di abbattere sistemi, o (come fa il moderatismo) tentando di limitarsi ad appoggiare sui pilastri un tetto senza una casa, al fine di cercarvi un occasionale riparo; `e quella, invece, che inizia a fare la sua conquista (qualunque ne sia l’intento) muovendo dall’analisi del potere della ragione umana, e che non si mette a ragionare a vanvera quando s’ha a che fare con filosofemi che non possono trovare la loro conferma in nessuna esperienza possibile.6
Come viene dal kantiano Cassirer interpretata e valutata questa importante rinascita filosofica? La Filosofia delle forme simboliche [. . . ] non vuole partire da una proposizione generale, di tipo dogmatico, sulla natura dell’essere assoluto, ma essa pone preliminarmente la questione su cosa significa in generale l’affermazione su un essere, su un “oggetto” della conoscenza, e per quale via e attraverso quali strumenti pu`o essere raggiungibile e accessibile in generale l’oggettivit`a. Kant lo ha cos`ı espresso: i fondamenti dell’intelletto sono puri principˆı dell’esposizione delle apparenze: “il superbo nome di ontologia che si arroga il diritto di fornire in generale una conoscenza sintetica a priori delle cose in una dottrina sistematica . . . deve lasciar un posto, pi` u modesto, ad una semplice 7 analitica dell’intelletto puro”. Questa analitica, secondo lo stato della scienza che Kant aveva davanti, e che egli assume come situazione 6
I. Kant, Annuncio dell’imminente conclusione d’un trattato per la pace perpetua in filosofia (1796), in I. Kant, Scritti sul criticismo, a cura di Giuseppe De Flaviis, Editori Laterza, Bari, 1991, p. 280. 7 Critica della ragione pura, cit. p. 320.
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di base, era in prima linea riferita alla scienza esatta, al fatto della matematica, ed alla scienza matematica della natura. Per essa erano valide le prime e fondamentali ricerche della Critica della ragione pura. Questa sfera progressivamente si allarg`o fino a quando, con la Critica della facolt` a di giudizio, vennero ad occupare il centro della trattazione, con il problema della vita, i concetti fondamentali e le premesse della conoscenza biologica.8
Essenziale dal punto di vista di Cassirer `e stata, nell’epoca di Kant, l’applicazione del metodo critico (del “metodo trascendentale”) al duplice fatto 1. della crisi della ontologia; 2. del progresso delle scienze matematiche e fisiche. A tali fatti corrispondono i due problemi filosofici, complementari ed inscindibili, con cui si apre la Critica della ragione pura: 1. Come `e possibile la metafisica in quanto scienza? 2. Come `e possibile la matematica pura? Come `e possibile la scienza naturale pura? La filosofia critica non mette in discussione il fatto (quid facti ), ovvero le pretese di verit`a accampate rispettivamente dalla metafisica da un lato, dalla matematica e dalla scienza naturale dall’altro lato, bens`ı, preso atto del fatto, essa si interroga sulle condizioni logico-trascendentali che lo hanno reso possibile (quid iuris): l’indagine critico-trascendentale vuole stabilire se quelle pretese sono anche fondate e giustificabili sul piano giuridico, ovvero nel foro della ragione pura. Non bisogna tuttavia confondere le condizioni empiriche di un fatto (la sua origine, le cause che lo hanno realmente occasionato nel tempo e nello spazio) con le condizioni trascendentali del medesimo (i principˆı logici che ne determinano la pura possibilit`a, indipendentemente dalla sua realizzazione effettiva). Questa distinzione `e indispensabile per delimitare il terreno ed il livello specifici su cui opera la riflessione critico-trascendentale, la quale non `e riducibile n´e al piano empirico-psicologico, n´e alla dimensione metafisicospeculativa. Prima di chiarire con un semplice esempio questa importante distinzione e questo intreccio di relazioni tra i diversi piani della considerazione filosofica, consentitemi di citare le parole con cui Kant inizia la sua Prefazione ai Prolegomeni : 8
E. Cassirer, Sulla logica del concetto di simbolo, cit., pp. 157-158.
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Questi Prolegomeni non sono fatti ad uso di scolari, ma di futuri maestri; ed anche per questi ultimi non devono servire affatto ad inquadrare l’esposizione di una scienza gi`a esistente, ma proprio a farla trovare. Vi sono dei dotti che hanno come propria filosofia la storia della filosofia (sia antica che moderna); non sono scritti per loro i presenti Prolegomeni. Essi devono attendere che coloro che si studiano di attingere alle fonti stesse della ragione, abbian conclusa l’opera loro; allora toccher` a ad essi di dare al mondo notizia dell’accaduto. [. . . ] Mio proposito `e persuadere tutti coloro che credono valga la pena di occuparsi di metafisica, che `e assolutamente necessario sospendere provvisoriamente il loro lavoro e considerare come non avvenuto tutto ci` o che finora si `e fatto in metafisica, per porre innanzitutto la quistione: “se qualcosa come la metafisica sia, in generale, anche soltanto possibile”.9
Un giornalista della ragione, direbbe Kant, non produce alcun fatto di ragione, si limita ad attendere che l’opera dell’autentico filosofo e del vero uomo di scienza sia compiuta, per annunciarne al mondo il semplice evento: per es., la pubblicazione dei Principia di Newton.10 Uno storico o un biografo cercherebbero le condizioni che hanno reso possibile l’evento culturale in qualche altro fattore concomitante della vita e della formazione dell’autore, ovvero nella serie dei fatti spazio-temporali precedenti, come farebbe l’indagatore della natura, per il quale ogni effetto (E) ha senso solo se correlato alla serie causale (C) che lo ha determinato. Un sociologo della cultura includerebbe nella sfera di indagine anche i fattori ambientali, nazionali, socio-economici, ecc. Uno psicologo farebbe ovviamente valere anche le particolari doti intellettive e il carattere personale del Signor Isaac Newton. Avremmo in questo modo compreso il significato ed il valore strettamente filosofico dei Principia di Newton? Certamente no! Il metodo trascendentale, certo, non disdegna questo tipo di indagini, le quali possono talvolta risultare necessarie ed utili per l’esatta determinazione e definizione dei fatti. Esso tuttavia non pu`o ritenerle anche sufficienti, perch´e quelle indagini si limitano a dedurre empiricamente il quid facti da un altro quid facti. Si tratta, invece, di risalire al quid iuris, ossia a una condizione a priori puramente trascendentale, la quale, in quanto tale, non `e riducibile ad 9
I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potr` a presentarsi come scienza, traduzione di Pantaleo Carabellese, introduzione di Hansmichael Hohenegger, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 3. 10 Cfr. I. Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica, 1687; 17132 . Trad it. di A. Pala, in Opere, vol. I, Torino, Utet, 1978.
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alcuna limitazione empirica, spaziale, temporale o anche meramente causale. In questo senso le leggi della gravitazione universale formulate da Newton non sarebbero leggi “esclusivamente inglesi”, n´e di per s´e sarebbero valide soltanto “a partire dal 1687”! Kant direbbe che ogni “deduzione empirica” deve essere completata e giustificata da una “deduzione trascendentale”. ` dunque chiaro che i fatti di cui ci stiamo occupando possono certaE mente essere storicamente condizionati, ma il loro significato trascende la circostanza contingente che essi siano potuti accadere in Inghilterra, in Germania o in Grecia in un dato tempo. In questo nuovo senso, essi ci appaiono come pure creazioni dello spirito, le quali pretendono di valere per noi sempre, ed in modo necessario ed universale. Pretese cos`ı forti, appunto, prima di spacciarsi come moneta corrente, meriterebbero secondo Kant di essere sottoposte al vaglio preliminare di una deduzione trascendentale ad opera della ragione. Prendiamo, ad esempio, il teorema di Pitagora. Esso `e dalla tradizione attribuito a questo matematico, bench´e gli storici della matematica potrebbero dubitare di questa attribuzione, cos`ı come si `e dubitato dell’attribuzione dei poemi omerici ad Omero, e persino della personale esistenza del poeta. Lo stesso dicasi per gli Elementi di Euclide, per la Sacra Bibbia, e per altre opere monumentali non attribuibili ad un solo individuo e ad una data precisa. Conoscenze analoghe al teorema di Pitagora potrebbero essere rinvenute o attestate presso gli antichi Egizi, i Babilonesi, gli Indiani, magari in formulazioni differenti da quella proposta dai matematici greci. Si potrebbe ora domandare: Il teorema di Pitagora `e una verit`a matematica valida solo per l’epoca di Pitagora o continua a valere per noi ancora oggi? Per un matematico questa domanda sarebbe priva di senso, dunque improponibile. Per il matematico puro non ha rilevanza alcuna la disputa sull’attribuzione delle invenzioni matematiche, n´e quella sulla datazione delle scoperte. Ai fini del significato strettamente matematico di un teorema, conta la forma teoretica interna di quel teorema, ovvero la sua relazione con il sistema dei principˆı razionali che lo rende possibile come oggetto matematico, appartenente dunque con pieno diritto al mondo degli oggetti matematici. La sua verit`a vale sempre e in ogni luogo, proprio perch´e essa `e indipendente da qualsiasi circostanza di tempo e di luogo, dunque anche da ogni altro tipo di contingenza storica. Per es., possiamo essere sicuri che la tremenda crisi economica e finanziaria, di cui in queste settimane leggiamo le cronache ed il puntuale resoconto su tutti i giornali del mondo, non intaccher`a di un millimetro la validit`a del teorema di Pitagora. Non `e necessario essere matematici per ritenerlo immune: `e facile capire che gli oggetti della matematica 32
e gli oggetti dell’economia monetaria, della finanza appartengono a sfere di significato e ad universi simbolici del tutto distinti ed indipendenti l’uno dall’altro. La stessa cosa varr`a per i principˆı matematici applicati alla natura. In quanto fatti della ragione, essi dipendono innanzitutto dalla ragione stessa, la quale, se ha generato il fatto, deve allora poter rendere conto a se stessa dei principˆı fondamentali che lo hanno reso possibile. Questo `e un compito che la ragione pura non pu`o delegare alla ragione empirica. Di conseguenza, per rendere conto dei Principia di Newton o della Philosophia prima sive Ontologia (1729) di Christian Wolff, Kant non si improvvisa giornalista della ragione, bens`ı parte dal presupposto che, chiunque abbia scoperto dei principˆı razionali, non abbia potuto farlo se non per mezzo della ragione. Essendo quest’ultima un bene spirituale di cui godiamo e disponiamo in pari misura tutti — Newton, Kant, voi ed io —, ne possiamo insieme parlare e farne anche uso, indipendentemente dai meriti di Kant e di Newton, le cui opere ci forniscono qui, nel presente corso, solo l’occasione contingente per discuterne. Nelle opere della scienza e della filosofia viene in un certo senso fissato per sempre il significato oggettivo degli oggetti scientifici e filosofici. Leggendo e studiando quelle opere, noi ci muoviamo liberamente nell’ambito del puro pensiero, o — come potremo vedere in seguito — nel sistema dei puri significati. Cos`ı, per Kant, non `e possibile risolvere il problema della metafisica, senza un serrato confronto delle sue pretese con i diritti consolidati della matematica pura e della scienza naturale pura. Solo con il metodo critico la filosofia potr`a assolvere la sua funzione, senza dover rinunciare alla sua dignit`a ed alla sua autonomia. Kant avvia questo originale programma, ma scopre ben presto che la pura dimensione teoretica — che vorrebbe da sola ordinare ed abbracciare in un sistema unitario la logica formale, la matematica, la fisica e la metafisica — non rende di per s´e giustizia alle altre prestazioni della ragione, pur suscettibili di considerazione e di critica: per esempio, il giudizio morale, l’apprezzamento estetico, la credenza religiosa, il puro opinare, il profetare. Al progetto di una metafisica della natura (il sistema di tutti i principˆı puri della ragione derivanti da semplici concetti — con esclusione quindi della scienza matematica, che procede invece per costruzione di concetti — principˆı riguardanti la conoscenza teoretica di tutte le cose, di tutto ci`o che `e, in particolare le leggi della natura fisica e psichica) dovr`a ben presto far seguito una fondazione della metafisica dei costumi (il sistema dei principˆı che determinano a priori, e rendono necessario, il fare e non fare, e riguardanti in particolare 33
le leggi che governano la comunit`a degli esseri razionali, intesi come persone, esseri portatori di fini incondizionati e dotati di libert`a). Sar`a dunque possibile distinguere dall’universo dei corpi fisici l’universo etico (il regno dei fini e della libert`a), attestato dal Faktum della ragione pratica, ossia dalla coscienza della legge morale. Se fondato sulla ragione pura pratica, un giudizio morale `e a suo modo saldo ed indiscutibile. Non meno di quanto possa esserlo un giudizio teoretico in campo matematico (per es., 7 + 5 = 12; il teorema di Pitagora) o in campo fisico (le leggi fisiche che regolano la caduta dei gravi). Anche in campo pratico entrano in gioco dei principˆı forti, senza dei quali sarebbe impossibile stabilire un criterio universale per orientare le azioni e le valutazioni morali. Non testimoniare mai il falso! Rispetta i patti! Se la massima del mio comportamento `e conforme alla legge morale, non c’`e da discutere se un’obbligazione sia giusta o ingiusta, buona o cattiva, n´e si tratta di calcolare le probabilit`a di successo o insuccesso di un’azione. La Critica della ragione pratica dimostra che un imperativo morale comanda il fare e il non fare in modo apodittico, senza discutere e senza calcolare — oggi diremmo, senza sondaggi e senza opzioni maggioritarie — e senza neppure cercare conferme nell’esperienza. Non `e lecito in etica ricavare il dover essere dall’essere. Se io — sostiene Kant — dovessi ricavare il mio comportamento dall’esperienza, se dovessi dedurre ci`o che idealmente si dovrebbe fare da ci`o che realmente fa la maggioranza delle persone o anche da ci`o che fanno magari tutti, salvo io, allora ci`o significherebbe la fine dell’etica. Io invece devo trovare un principio che valga di per s´e, indipendentemente dal fatto che altri, maggioranza o minoranza che sia, lo osservi o meno. Io voglio innanzitutto sapere che cosa `e buono e che cosa `e giusto in s´e, e solo in base a ci`o potr`o anche valutare se `e buona o giusta l’azione effettiva. Lo stesso criterio dovr`a valere anche in ambito giuridico. Ora, se vigono principˆı forti nei campi dell’etica e del diritto, ci si potrebbe aspettare di reperirne di analoghi in campo estetico, per ci`o che concerne in particolare i fenomeni del bello e i nostri giudizi di gusto. Per esempio, a me pu`o piacere (o non piacere) un paesaggio naturale, un’opera d’arte o altro; poich´e la cosa piace a me, ritengo che debba piacere nello stesso modo anche a chiunque altro; di ci`o mi sento cos`ı certo e convinto, che non sono disposto neppure a discuterne. In breve, pretendo che un mio sentimento soggettivo debba necessariamente essere anche oggettivo, possa e debba valere per tutti nello stesso modo. Questa mia pretesa estetica `e giustificabile? 34
Sar`a legittimo collocarla sullo stesso piano della pretesa teoretica e della pretesa etica? La risposta di Kant a questi interrogativi si pu`o leggere nelle prime sezioni della Critica della facolt`a di giudizio. Ma non `e tutto qui. Nelle sezioni finali di questa terza Critica, Kant estende l’indagine alla sfera ancor pi` u delicata e complessa dei nostri giudizi teleologici, che riguardano le possibili relazioni finalistiche tra i fenomeni, sia nel mondo naturale sia nel mondo storico ed anche nella vita individuale. Con tali giudizi, cosiddetti “riflettenti”, noi cerchiamo il significato di una cosa nello scopo (t´elos) verso cui essa tenderebbe, indipendentemente dalla nostra soggettiva volont`a. Pretendiamo cos`ı di determinare il fine oggettivo delle cose, pur conoscendole solo come fenomeni empirici. In effetti, dato il fenomeno x, potrebbe sorgere tra gli indagatori della natura un conflitto ermeneutico e metodologico tra chi cerchi la comprensione del fenomeno dato nella relazione causale (C `e causa di x, dove la ragion d’essere di x va cercata nella causa C, che precede nel tempo) e chi viceversa nella relazione finalistica (x tende a F, dove il senso di x va cercato nel fine F, che segue nel tempo). Il nostro stesso comportamento quotidiano non `e necessariamente sempre determinato da cause meccaniche, ma neppure da scopi o fini a noi sconosciuti e del tutto indipendenti dalla nostra volont`a. Se cos`ı fosse, noi saremmo assimilabili a bruti, ad automi, al limite a dei semplici oggetti fisici, come questo intero e intonso cilindro di gesso, che ora vedo in stato di riposo qui sulla lavagna, che ora io lancio verso l’alto, che ora osservo volteggiare in aria prima che vada in frantumi al suolo: prima era intero, ora `e in pezzi, ma non certo per sua decisione, per sua volont`a, n´e per suo fatale destino. Richiederebbe un estremo coraggio filosofico, al limite dell’incoscienza temeraria o all’opposto — se preferite — della pigra vilt`a, il voler valutare il nostro quotidiano comportamento di uomini del mondo, di “esseri-nel-mondo”, alla stregua di questo pezzo di gesso “gettato” in aria e in terra. Eppure non mancano le spinte e le tentazioni che rendono molti aspiranti pensatori abbastanza vulnerabili alle seduzioni esercitate da questo comodo radicalismo filosofico. Basterebbe ispirarsi alle tristi testate dei nostri giornali e telegiornali: • “giovane uccide a colpi di fucile il professore e dieci suoi compagni di scuola”; 35
• “branco di quartiere d`a fuoco a barbone addormentato in una stazione metropolitana”. Editoriale in prima pagina : Irresponsabili! Verdetto del sociologo : Colpa della societ`a, colpa della scuola, colpa della famiglia! Verdetto dello psicoanalista : Colpa dell’ “Es”! Verdetto dello psichiatra : Colpa del cervelletto! Denuncia del capo dell’opposizione politica : Colpa del Governo! Omelia del parroco : Colpa del demonio! Ma — per fortuna, o per sfortuna — per circa il 99,9 percento dei casi, soprattutto quando si parla di vita culturale, noi non siamo giustificabili alla stregua di questo passivo pezzo di gesso, e neppure di una pianta esposta a tutti i venti. In verit`a il grande Pascal, in una celebre metafora, assimila l’uomo al genere della “canna erbacea”, ma lo determina come canna “pensante”, dove la differenza specifica copre appunto quel 99,9 percento. Se si volesse invertire tale percentuale, allora si cancellerebbe in modo definitivo l’idea stessa della responsabilit`a e soprattutto l’idea della libert`a, ovvero l’idea di una causalit`a indipendente dal determinismo naturale, identificabile con la facolt`a di essere e di ritenersi con pieno diritto l’autore — nel bene e nel male — delle proprie azioni. Si cancellerebbe, in altri termini, il fondamento della nostra dignit`a. Perderemmo di conseguenza anche il diritto di lamentarci e di protestare, se venissimo trattati come numeri, come cose inanimate, come bestie, usati solo come strumenti. L’essere libero invece `e un fine in s´e, `e portatore di fini, non soltanto ha degli scopi di tipo etico, ma anche altri scopi. Si dovr`a allora poter procedere ad una critica di questi scopi e dei giudizi ad essi relativi, come aveva preannunciato lo stesso Kant gi`a nell’“Architettonica della ragione pura” e come egli continuer`a a fare anche dopo la terza grande Critica. Vi `e tuttavia ancora un concetto cosmico (conceptus cosmicus), che `e sempre stato posto alla base di questa denominazione [del concetto di filosofia], soprattutto quando, per cos`ı dire, lo si `e personificato e rappresentato come un modello nell’ideale del filosofo. Sotto questo punto di vista, la filosofia `e la scienza della relazione di ogni conoscenza con i fini essenziali della ragione umana (teleologia rationis humanae), ed il filosofo non `e un artista della ragione, bens`ı il legislatore della
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ragione umana. In tale significato, sarebbe vanaglorioso prendere il nome di filosofo, e presumere di avere uguagliato un modello che esiste soltanto nell’idea.11
Non si potr`a certo accusare Kant di vanagloria, proprio perch´e il primo e duraturo risultato della filosofia critica `e la consapevolezza dei limiti della umana ragione. Come si `e visto, sia per Kant sia per Cassirer, la modestia filosofica `e, al contrario della rassegnazione, la virt` u del commisurare in un progresso infinito i risultati ottenuti (reali) al compito da assolvere, al progetto (ideale). Da quest’ultimo punto di vista (“in sensu cosmico”), secondo Kant, l’intero campo della filosofia pu`o ricondursi ai seguenti grandi problemi: 1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa devo fare? 3. Che cosa mi `e lecito sperare? 4. Che cos’`e l’uomo? Alla prima domanda, che richiede da parte del filosofo una indagine preliminare sulle fonti del sapere umano, deve rispondere, secondo Kant, la “metafisica”. Alla seconda, che presuppone, oltre alla libert`a del volere e dell’agire, anche una definizione precisa della sfera in cui un uso utile e sensato di ogni conoscenza sia possibile, risponde la “morale”. Alla terza domanda, la pi` u impellente e insieme la pi` u difficile da risolvere, poich´e implica l’autodelimitazione della ragione, risponde la “religione“. La quarta domanda, infine, cui le prime tre sono in fondo riconducibili, dovrebbe spettare alla “antropologia”, poich´e, come si `e visto, non solo si tratta di questioni che interessano necessariamente ogni uomo, ma ad esse la ragione pu`o rispondere solo come ragione umana finita, nonostante le sue manifeste quanto orgogliose pretese di onnipotenza. Proprio questo responsabile senso del limite, indice simbolico della tensione ineliminabile tra immanenza e trascendenza, caratterizza il filo rosso che lega l’architettonica dei problemi filosofici di Kant al progetto di Cassirer. Dell’intenzione kantiana il filosofo delle forme simboliche si dichiara interprete ma anche continuatore, come testimonia il brano seguente, che si ricollega al nostro problema di partenza e con cui termino la lezione odierna. 11
Critica della ragione pura, cit. p. 811.
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Kant non ha tuttavia conosciuto il “fatto delle scienze dello spirito”, come ci sta oggi davanti agli occhi, n´e poteva ancora presupporlo nella sua forma attuale. Queste si sono per prima costituite nel corso del diciannovesimo secolo, e sono solo lentamente divenute consapevoli delle problematiche filosofiche loro proprie. Su questo punto cerca di intervenire la Filosofia delle forme simboliche. Anche la sua domanda non si indirizza sull’essere assoluto, ma sulla conoscenza dell’essere; la ontologia dogmatica viene anche in questo caso abbandonata ed al suo posto deve subentrare il pi` u modesto compito di una analitica. Ma questa analitica non `e pi` u rivolta solamente sull’“intelletto”, sulle condizioni del sapere puro. Essa vuole abbracciare l’intero circolo della “comprensione del mondo” e scoprire le diverse potenze, le fondamentali forze spirituali, che in esso cooperano. Un tale compito, come mi sembra, `e posto alla filosofia in maniera imperiosa dallo sviluppo che le singole scienze dello spirito, le scienze linguistiche, le scienze religiose, le scienze artistiche hanno avuto dopo Kant. Ma `e chiaro che questo compito non pu`o essere portato a termine in un sol colpo — e che oggi non si tratta di risolvere il problema nella sua interezza, ma piuttosto di trovare la giusta impostazione del problema. La Filosofia delle forme simboliche non pu`o e non vuole essere perci`o affatto un “sistema” filosofico nel tradizionale significato del termine. Ci` o che solamente ha cercato di dare erano i “prolegomeni ad una futura filosofia della cultura”. Non tentava di erigere un edificio compiuto, si proponeva di disegnare uno schizzo. In questo disegno non solo manca al momento lo svolgimento di molte e difficili parti, ma si presentano anche una serie di fondamentali questioni di principio, che ancora cercano una soluzione. Solo da un costante lavoro comune fra la filosofia e le altre scienze dello spirito si pu`o sperare che arrivi questa soluzione.12
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Cfr. E. Cassirer, Sulla logica del concetto di simbolo, cit., pp. 158-159.
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