Dio è amore

February 16, 2017 | Author: Parrocchia di Capezzano Pianore | Category: N/A
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DIO E’ AMORE Lc. 10, 25-37 (Parabola del Samaritano); Lc. 15, 11-32 (La parabola del padre misericordioso ovvero “Figliol Prodigo”) Gv. 13,3-15 (La lavanda dei piedi) Gesù, con la sua vita e il suo insegnamento ci ha fatto comprendere il vero volto di Dio e, finalmente, dopo tanti secoli il Concilio ci ha invitati ha rivedere se l’ immagine che ne abbiamo corrisponde a quella rivelataci come Padre da Gesù, o è ancora quella del Grande Padrone che esige adorazione, del Giudice cui nulla sfugge. Da sempre, nella storia delle religioni, gli uomini hanno cercato di raggiungere Dio, un Dio lontano e inaccessibile. Con Gesù Dio si fa uomo, prende le sembianze e l’identità di un uomo, profondamente umano, cambiando così il rapporto dell’uomo con la divinità. Se prima l’uomo doveva innalzarsi per raggiungere la divinità, con Gesù è umanizzandosi che si va incontro al divino. L’uomo non si deve più separare dalle altre persone per raggiungere la divinità ma più l’uomo è umano, più scopre il divino che è in lui. E mentre nella religione il raggiungimento di Dio era cosa riservata a pochi eletti, a quelli che si potevano permettere una vita di preghiere, uno stile particolare di santità di innalzamento, con Gesù, invece, la possibilità di incontrare Dio è a disposizione di tutti. Dio si incontra diventando profondamente umani. La Parabola del samaritano, che l’Evangelista Luca ci propone, se ben compresa, cambia non solo il rapporto degli uomini con Dio, ma anche il rapporto degli uomini tra. Rivela un Dio che si rivolge a tutte le creature e nessuna può ritenersi esclusa. Il Dio che disprezza le persone, il Dio che le esclude non è il vero Dio.

PARABOLA DEL SAMARITANO Iniziamo la lettura: “Ed ecco…”, formula che adoperano gli Evangelisti quando vogliono richiamare l’attenzione degli ascoltatori su qualcosa di importante. ”Ed ecco un dottore della Legge…”. Chi è questo dottore della legge? Con un altro termine nei Vangeli vengono presentati come scribi. I “dottori della legge” o gli “scribi” sono laici che dedicano tutta la loro esistenza allo studio della Sacra Scrittura e arrivati all’età di 40 anni ricevono, attraverso l’imposizione delle mani, lo stesso spirito di Mosè. Da quel momento, fanno parte del magistero infallibile dell’istituzione giudaica. La loro parola ha lo stesso valore della parola di Dio. Sono persone che hanno grande importanza nella società, grande prestigio, il loro ruolo è più importante di quello del re e dello stesso sommo sacerdote. Le sentenze degli scribi e dei dottori della Legge hanno lo stesso valore della parola di Dio. “Si presenta a Gesù questo dottore della legge, si alzò per tentarlo…” E qui l’Evangelista ci fa capire in che direzione va l’episodio. Il verbo “tentare” appare in questo Vangelo soltanto due volte: qui e nell’episodio delle tentazioni nel deserto, quando è attribuito al diavolo. Attraverso questa tecnica letteraria, conosciuta a quell’epoca, di abbinare due termini, l’Evangelista ci fa comprendere che colui che doveva far conoscere al popolo la volontà di Dio, in realtà, era un diavolo. Quelli che si presentano come dottori della legge non sono altro che strumento del diavolo, perché essi, con questo sfoggio di conoscenza, non intendono onorare Dio, ma soltanto se stessi. Quindi si alzò per tentarlo. La sua azione è quella subdola, del diavolo: 1

”…Maestro…”. Notate il parlare diplomatico: si rivolge a Gesù ipocritamente chiamandolo Maestro. Maestro significa qualcuno che insegna ad altri che vogliono apprendere. Gesù è il maestro, ma lui non vuole apprendere da Gesù. Lui lo interroga per tentarlo, per controllare se la dottrina di Gesù è in linea con i loro insegnamento. Questi dottori della legge stanno sempre allerta, sono sempre vigilanti, e appena sentono una voce che non è in sintonia con la loro devono subito intervenire. E gli chiede: ”Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Gesù non ha mai parlato della vita eterna, a Gesù non interessa. Il dottore della legge vuole vedere se Gesù crede o meno alla vita eterna e quali sono gli strumenti per ottenerla. Gesù è venuto a modificare radicalmente la vita qui in questa esistenza terrena e, una volta modificata, acquista una qualità tale che diventa indistruttibile e, pertanto, eterna. Gesù spontaneamente non parla mai di vita eterna. Gli unici che si rivolgono a lui chiedendogli della vita eterna sono le persone che stanno molto bene, i ricchi, o i dottori della Legge. Gesù gli rispose: ”Nella Legge cosa è scritto? Che capisci?”. Gesù prende le distanze, dal momento che quello che voleva sapere era scritto nella sua legge, quella che Gesù chiamerà sempre “la vostra legge” e questa è una persona che per tutta la vita non ha fatto altro che studiare la Legge… Per Legge si intendevano i primi cinque libri della Bibbia, ritenuti scritti da Mosè. Ma Gesù non solo dice: ”Che cosa è scritto?”, ma aggiunge: ”Che cosa capisci?”. Non basta conoscere la Scrittura, bisogna anche capirla. Si può conoscere a memoria la Bibbia, la si può studiare giorno e notte, si può predicare e annunciare senza capirla solo chi orienta la propria esistenza al bene degli altri capisce la Scrittura. Se non c’è un orientamento della vita verso il bene degli altri, se il bene degli altri non viene considerato il valore assoluto della propria esistenza, la Bibbia, la Scrittura non si capisce. Per Gesù non c’è un valore più importante del bene dell’altro. Ma quando al bene dell’altro si antepone una verità, una dottrina, prima o poi questa verità e questa dottrina si ritorceranno contro l’uomo e in nome della dottrina si farà soffrire la persona. Per Gesù non c’è verità più importante del bene dell’uomo. Se c’è questo orientamento si capisce la Scrittura, altrimenti no. Infatti Gesù dice: ”Che capisci?” Ed il dottore della legge rispondendo disse: ”Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente”, questo è un brano tratto dal libro del Deuteronomio, e aggiunge un precetto preso dal libro del Levitico, “e il prossimo tuo come te stesso”. Il dottore della Legge risponde presentando il vertice, il massimo della spiritualità ebraica: un amore a Dio totale, assoluto e un amore al prossimo relativo: amerai il prossimo tuo come te stesso. Questo è il massimo della spiritualità ebraica ma non per la Comunità di Gesù, non per i cristiani. Per la comunità di Gesù l’insegnamento dell’amore è espresso nel Vangelo di Giovanni al capitolo 13 con questa espressione: “…vi lascio un comandamento nuovo…” dove il termine adoperato “nuovo” significa migliore: “Amatevi tra di voi come io vi ho amato. Questo è il comandamento, l’unico che esiste all’interno della comunità cristiana. Comunque il “dottore della legge” risponde: “…amerai…il prossimo tuo come te stesso”, di un amore, quindi, relativo, e Gesù gli dice: ”Fai questo e vivrai”. Il dottore della Legge gli aveva chiesto cosa fare per avere la vita eterna, Gesù invece nella sua risposta non tratta della vita eterna. In altre parole, Gesù cerca di fargli capire: ”Non 2

domandarti cosa fare per avere la vita eterna, chiediti se questa che tu conduci si può chiamare vita, quindi fai questo e vivrai”. Ma il dottore della legge, non può uscire sconfitto da un dibattito pubblico con Gesù, peraltro già additato dai dotti e farisei come “pazzo… e bestemmiatore”, pertanto, al fine di giustificare se stesso, continua nel suo atteggiamento inquisitorio e chiede a Gesù: ”E chi è il mio prossimo?”. Il prossimo nel mondo ebraico non aveva il concetto che poi acquisterà con il messaggio cristiano. All’epoca di Gesù si dibatteva lungamente su chi fosse il prossimo e si andava da una interpretazione più ristretta quale: “il prossimo è colui che appartiene al mio clan, alla mia famiglia, alla mia tribù” a una più larga che sosteneva: “il prossimo è chiunque abita dentro Israele”; per finire, con quella larghissima che sosteneva: “il prossimo è anche lo straniero che vive dentro i confini di Israele”. Ed ecco questa perla dei Vangeli, la Parabola del Samaritano che Gesù narra per rispondere al dottore della legge. ”Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gerico…”. Gerusalemme si trova a 810 metri sul livello del mare, mentre Gerico, luogo di destinazione di quest’uomo, si trova a 258 metri sotto il livello del mare. Sono appena una trentina di Km, ma con un dislivello di oltre 1.000 metri, attraverso gole in una zona orrida, difficile da percorrere, “…e incappò nei briganti che lo spogliarono”. Era la strada ideale per gli agguati, per le imboscate, Gesù si riferisce a quello che sarà stato uno dei tanti fatti di cronaca abituale: “… lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto.” La morte è certa, a meno che in questa strada solitaria non capiti qualche brava persona. Quando leggiamo i vangeli dobbiamo sempre metterci nelle condizioni di chi legge o ascolta per la prima volta e non sa come va a finire. Dunque c’è questo individuo che è mezzo morto a meno che non passi qualche brava persona. Infatti dice Gesù: “Per caso,…” cioè, proprio provvidenzialmente, un sacerdote scendeva per quella via. Meglio non gli poteva capitare. Questa persona è stata fortunata perché gli è capitata “un sacerdote che non saliva, ma scendeva per quella via”. E’ importante il dettaglio. Gerico era una città abitata da sacerdoti che, periodicamente, secondo il loro turno, salivano a Gerusalemme, stavano una settimana nel tempio al servizio dell’altare. Per fare questo servizio dovevano essere spiritualmente puri. Questo è un sacerdote che ha esercitato per una settimana il servizio divino, è una persona pura, in pieno contatto con Dio, di meglio non poteva capitare, speriamo che si accorga di quel moribondo. Gesù continua il suo racconto e dice: ”E avendolo visto…..” la salvezza è arrivata. Meglio non gli poteva andare. Questo pio sacerdote lo vide , ed ecco la doccia fredda: ”…..passò dall’altra parte”. Cosa è successo? Lo ha visto! E perché è passato dall’altra parte? E’ inspiegabile! E’ un uomo crudele, un uomo duro? Nulla di tutto questo: è solo un sacerdote, cioè un uomo di Dio. E’ stato una settimana a contatto con Dio, è puro per le continue purificazioni, è anche pio per le incessanti preghiere. Perché un uomo così carico di Dio, così puro, di fronte a un bisognoso “passa dall’altra parte? Cosa aveva detto il dottore della Legge nella sua risposta?: “L’amore a Dio è totale e assoluto, l’amore al prossimo è relativo”. Quello che l’evangelista ci sta presentando è un dilemma che da sempre si può trovare nella vita del credente: quando esiste un conflitto tra l’osservanza della legge di Dio e il bene dell’uomo, cosa è che si osserva? 3

La vita porta a volte a questo conflitto: la legge di Dio che ti dice una cosa, il bene concreto dell’uomo che te ne dice un’altra. Ti trovi di fronte a un dilemma: cosa devo fare? Il dottore della Legge non ha dubbi: tra l’osservanza della Legge di Dio e il bene dell’uomo si sceglie la Legge di Dio. Dio viene sempre prima del bene degli uomini. Il dottore della Legge non ha dubbi, ugualmente il sacerdote. Il sacerdote avendo visto il moribondo passa dall’altra parte perché lui, dovendo scegliere tra i due comandamenti, l’amore a Dio e il bene del prossimo non ha esitazione, il rispetto della Legge di Dio è più importante del bene dell’uomo. Nel libro del Levitico si prescrive che un sacerdote non dovrà rendersi “immondo” per il contatto con un morto o con un ferito. Il sacerdote non è una persona insensibile, non è una persona crudele è una persona religiosa, e la religione quando è disumana è atea e rende le persone atee. Atee significa senza Dio. Nella religione l’uomo si separa dagli altri per innalzarsi e incontrare Dio ma Dio, con Gesù, è sceso per incontrare gli uomini, perciò più la persona sale, più si allontana da Dio, che invece è sceso e si è messo al servizio degli altri. Questo sacerdote non è una persona crudele, è semplicemente una persona religiosa. L’osservanza della legge gli ha impedito di fare del bene agli altri. Questa è la denuncia che sta facendo l’Evangelista. Questo sacerdote compie il male convinto di fare il bene, e non fa il bene per non fare il male. E’ tremendo! “Similmente anche un levita…”. I leviti erano della tribù di Levi, erano gli addetti a tutto quello che riguardava il culto nel tempio, quindi anche il levita doveva stare in condizioni di purezza rituale. ”…trovatosi presso quel luogo lo vide e anche lui passò dall’altra parte”. L’Evangelista è atroce in questa sua denuncia, sta presentando le persone religiose, come più pericolose dei banditi. I banditi feriscono, le persone religiose uccidono! Le persone religiose sono tanto prese dal rispetto della Legge di Dio, che non si accorgono che questa legge causa sofferenza alle persone. La novità che ha portato Gesù è che ogni volta che ci sarà conflitto tra la Legge di Dio e la legge dell’uomo, si deve scegliere sempre il bene dell’uomo, il bene delle persone. La Parabola non è terminata.: ”Un samaritano, essendo in viaggio venne presso di lui”. Il terzo personaggio era il peggio che si potesse immaginare: un samaritano. Se con i primi due c’era speranza di aiuto per quel malcapitato, con il samaritano è proprio la fine! Il samaritano, nel contesto sociale dell’epoca, era il nemico del popolo di Israele, era un eretico, un impuro. La situazione è tremenda… Ed ecco la bravura dell’Evangelista, il colpo d’artista del teologo: ”…e avendolo visto, ebbe compassione”. Questa sola frase è una rivelazione straordinaria nella teologia. Il verbo “avere visto” unito all’ “avere compassione” è una terminologia usata nell’Antico Testamento, esclusivamente, per indicare una funzione di Dio, mentre nel Nuovo Testamento è esclusivamente per Gesù. Gli ebrei distinguono l’avere compassione dall’avere misericordia. L’avere compassione è un’azione divina, con la quale Dio restituisce vita a chi vita non ha. L’avere misericordia è un’azione umana, con la quale si aiuta una persona in difficoltà. Questa espressione “avere compassione” verrà adoperata in questo Vangelo per ben tre volte: in questo episodio; quando Gesù incontra il figlio della vedova di Naim, che viene portato al cimitero e nella Parabola del figliol prodigo. Mai veniva attribuito l’avere compassione ad una azione o sentimento di una persona. L’unica volta che viene attribuito ad una persona è a questo samaritano, che è l’eretico, l’indemoniato, il peccatore, la persona ritenuta la più lontana da Dio, ma è anche l’unica che si comporta come Dio: “…ne ebbe compassione”. 4

L’evangelista sta indicando qualcosa di straordinario, che cambia radicalmente il concetto del credente. Chi è colui che crede? Per la religione il credente è colui che obbedisce a Dio, osservando le sua leggi. Il sacerdote è il credente, perché obbedisce a Dio osservando le sue leggi e il risultato si è visto… Con Gesù il concetto di credente cambia radicalmente. Il credente è colui che assomiglia al Padre, praticando un amore simile al suo. Non c’è più una legge a cui obbedire, ma un amore a cui assomigliare. E’ la legge che divide gli uomini tra osservanti e non osservanti, tra puri ed impuri. L’amore no, l’amore unisce tutti, perché può essere osservato anche da quelle persone che vengono ritenute lontani da Dio. Gesù, in questo episodio, non poteva trovare una persona più lontana da Dio: “un samaritano”. Il samaritano, la persona ritenuta la più disprezzata e la più lontana da Dio è l’unico che si comporta come Dio stesso. Gesù prende le distanze dalla legge, Gesù si muove sempre per il bene dell’uomo e con l’amore del Padre. Allora “il samaritano lo vide ed ebbe compassione”. E qui l’Evangelista presenta quelle che sono le azioni di “un delinquente(il samaritano)” contrapposte a quelle dei sacerdoti e dei leviti: ”Gli si avvicinò, fasciò le sue ferite, vi versò olio e vino e caricatolo sulla propria cavalcatura….” Era un percorso difficile ma il samaritano, senza battere ciglio, cede ad uno sconosciuto la propria cavalcatura! Il bene di questo sconosciuto è più importante del suo! Cedendo la cavalcatura ad un estraneo e conducendolo in una locanda, il samaritano si mette in una posizione di servo. Il servo che va a piedi ed il signore che va sulla cavalcatura. Il samaritano si comporta come Dio, perché Dio è amore che si mette al servizio degli altri, “…e si prese cura di lui. E l’indomani tirati fuori due denari li diede al locandiere e disse: ”. Per due volte in questo Vangelo l’Evangelista ha adoperato l’espressione che passarono oltre, e per due volte contrappone il prendersi cura da parte del samaritano. “…e ciò che spenderai in più al mio ritorno te lo renderò”. E’ un amore completamente gratuito, completamente incondizionato, un amore che non guarda i meriti della persona, ma solo ed esclusivamente i suoi bisogni. Mentre nella religione l’amore di Dio dipende dai meriti della persona, con Gesù l’amore di Dio è attratto non dai meriti ma dai bisogni. I meriti non tutti li possono avere, i bisogni si. Ed ecco la domanda: “Chi di questi tre(sacerdote, levita e samaritano), ti sembra sia stato il prossimo di colui che si era imbattuto nei briganti?”. Gesù rovescia la domanda. All’inizio il dottore della Legge voleva sapere: ”Chi è il mio prossimo?”, chiedendo chi è il mio prossimo il dottore della Legge voleva sapere fino a dove doveva giungere il suo amare. Ma Gesù non dice chi è il prossimo, dice chi è stato il prossimo del “moribondo”.. Il dottore della Legge chiede fin dove deve arrivare l’amore. Gesù gli chiede da dove deve partire l’amore. il dottore della Legge voleva un limite, Gesù gli risponde senza limite. Il prossimo per Gesù non colui che viene amato, ma colui che ama come Dio stesso. ”Vai e anche tu fai lo stesso”. Gesù rimanda questo dottore della Legge e gli dice di farsi prossimo degli altri, cioè orientare la propria vita verso il bene degli altri e far si che l’amore si traduca in servizio agli altri. Con questa Parabola Gesù cambia due concetti importanti: il concetto di prossimo: prossimo non è chi viene amato, ma chi ama.

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E il concetto di credente. Il credente è colui che assomiglia a Dio, praticando un amore simile al Suo, non importa se non crede, non prega, non osserva, ma l’importante è l’atteggiamento che ha nei confronti degli altri. Chiunque agisce amando, chiunque agisce servendo, è il vero credente agli occhi del Signore. Puoi trovare una persona che può essere tanto pia, tanto religiosa, tanto devota, però se non presta mai aiuto alle persone, se non si fa prossimo per il bisognoso, sarà una persona solo a posto con la legge, ma non certo con il Signore, perché Gesù non chiede l’osservanza della legge, ma la somiglianza al suo amore.

LA PARABOLA DEL FIGLIOL PRODIGO Vediamo ora una tra le parabole più belle dei Vangeli: quella del “figliol prodigo”. Quando nel Vangelo di Giovanni uno dei discepoli chiede a Gesù: ”Mostraci il Padre e ci basta”, Gesù gli risponde: ”Filippo, è da tanto tempo che sono qui con te e non hai capito che chi vede me vede il Padre”. ”Dio nessuno lo ha mai visto” solo il Figlio ne è la rivelazione. Prima di accingerci a leggere il Vangelo dobbiamo rivedere l’immagine che abbiamo in testa di Dio, immagine nata dalle tradizioni religiose, dalle devozioni, spesso dalle superstizioni, dalle paure perché ogni immagine che non è verificabile con quanto Gesù ha detto o fatto va eliminata, essendo un’immagine incompleta o sbagliata. Per capire chi è Dio dobbiamo concentrare tutta la nostra attenzione su Gesù: il dramma di noi cristiani è che conosciamo poco Gesù. Una volta che abbiamo conosciuto Gesù cambia radicalmente il nostro rapporto con Dio. In tutte le religioni Dio minaccia i peccatori di castighi, Dio e i peccatori sono agli antipodi. E in tutte le religioni l’uomo colpevole di peccato deve procedere ad un determinato cammino di conversione per ottenere il perdono. Il cammino è questo: l’uomo pecca, si deve pentire, deve denunciare la colpa che ha commesso, deve offrire un sacrificio per riparare la colpa e solo alla fine gli viene concesso il perdono. Gesù e in lui si manifesta la pienezza di Dio, si comporta in una maniera lontana da questo schema, è per questo che Gesù scandalizza le persone che hanno impostato una relazione con Dio, basata sul merito. Loro sanno tutto quello che Dio può fare o non può fare, cosa pensa o non pensa, e soprattutto che l’amore di Dio va meritato con i propri sforzi e non sanno accettano un Gesù che, invece, insegna e dimostra che l’amore di Dio non occorre meritarlo, ma coglierlo, come regalo gratuito, perché il Dio di Gesù non guarda i meriti delle persone, ma i loro bisogni. Secondo la tradizione ebraica, da un peccatore bisognava tenere una distanza di almeno due metri, bisognava evitarli e pregare Dio per la loro li distruzione. Possiamo immaginiate lo scandalo provocato da Gesù quando non solo non evita i peccatori, ma li cerca e li tratta in una maniera completamente nuova. ”Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi…”. Gli scribi sono i dottori della Legge. Il fariseo è un laico che si separa dal resto della gente, attraverso tutto un particolare stile di vita, attraverso preghiere, sacrifici, offerte, è la “crema” spirituale del popolo. I farisei sono quelli che si separano dagli altri per le loro devozioni, e per le loro preghiere. “Vanno dicendo, costui…”. Notate il disprezzo. Evitano di nominare Gesù.

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Proprio queste persone religiose, quelle che per il loro stile di vita, le loro preghiere, la loro santità, sembrava fossero più a contatto con Dio, non solo non riconoscono Dio in Gesù, ma lo disprezzano profondamente. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui riceve i peccatori…” Gesù che accoglie i peccatori, è scandaloso; li accoglie e scandalo degli scandali, “…mangia con loro”. Per comprendere questo allarme da parte delle persone pie, bisogna rifarsi alla cultura ebraica, nella quale il pranzo veniva condiviso, mangiando tutti in unico grande piatto, dove tutti mettevano la mano per prendere il cibo e se uno era impuro la sua impurità si trasmetteva al piatto così tutti quanti contraevano l’impurità. Se uno dei commensali è un peccatore, la sua impurità contagia tutti gli altri. Ecco perché denunciano Gesù che mangia con i peccatori. Anche Gesù è impuro perché è contagiato mangiando con i peccatori. Loro non hanno capito la novità portata da Gesù. Per loro l’uomo peccatore è indegno di avvicinarsi al Signore; questo insegnano. Le persone che vivono nel peccato erano gettate nella più profonda disperazione, perché per loro non c’era speranza. Il peccatore doveva continuamente purificarsi per essere degno di accogliere il Signore. Gesù, in maniera decisa e chiara, nell’insegnamento e nella pratica, dimostra esattamente il contrario: “Accoglimi e accogliendomi, sono io che ti purifico, non sei tu che devi purificarti per accogliere me, ma accoglimi e io ti purifico”. Ma questo è un terremoto. Gesù, con il suo comportamento, incoraggia le persone a compiere un sacrilegio, dal punto di vista della religione, per accogliere il Suo amore. Abbiamo numerosi episodi nel Vangelo, che chiariscono questo. Pensate a quella donna che “… gli si avvicinò alle spalle e gli toccò il lembo del mantello e subito il flusso di sangue si arrestò”(Lc 8, 44). Era prevista la pena di morte per una donna che infetta toccasse una persona sana. Se Gesù fosse stata una persona religiosa, l’avrebbe dovuta rimproverare… Quello che agli occhi della religione è considerato un sacrilegio, agli occhi di Gesù è considerato un gesto di fede. “Coraggio figlia, la tua fede ti ha salvata, và in pace!”(Lc 8,48). Le persone che vivono nel peccato hanno paura di trasgredire la legge religiosa per avvicinarsi al Signore, perché gli è stato insegnato che commettono sacrilegio. Gesù li invita invece a trasgredire. Se hai il coraggio di trasgredire, non una maledizione, ma una benedizione verrà su di te. Quello che agli occhi della religione è un sacrilegio, agli occhi di Gesù è un gesto di fede. Gesù accusato di essere una persona impura, rivolge questa parabola proprio agli scribi e farisei, cioè alle persone spirituali, alle persone religiose, alle persone devote, a loro e a quanti pensano che l’amore di Dio va meritato con i propri sforzi. Una categoria drammatica! Pensate, alla fine della loro esistenza, queste persone, nel momento in cui si incontreranno con il Signore, diranno: ”Io ho sacrificato tutta la mia vita per te”. E il Padre gli dirà: “Oh figlio mio, ma quando mai te l’ho chiesto?” Il messaggio di questa parabola è rivolto proprio a quelle persone che sacrificano la loro vita per cercare di meritare l’amore di Dio. Prima della parabola del “figliol prodigo”, in Luca, ci sono due parabole, quella della “pecora perduta(Lc 15, 4-7)” e quella della “moneta smarrita(Lc 15, 8-10)”, in cui Gesù annuncia la grande gioia di Dio per aver ritrovato di un peccatore e, in questa parabola, Gesù ne dice le motivazioni: “Un uomo aveva due figli. Il minore di loro disse al padre: Ed il padre divise tra loro le sostanze.” Quindi un uomo ha due figli, il più piccolo vuole già la sua parte di eredità. Per il figlio piccolo il padre è già morto e chiede i soldi, il denaro, la sua parte di eredità. Ebbene il padre acconsente e divide il patrimonio. 7

“…Dopo non molti giorni, il figlio minore, raccolte le sue cose, partì in viaggio verso un paese lontano”. Questa espressione paese lontano indica che il figlio non abbandona soltanto il padre, ma abbandona anche la religione dei padri, va in un mondo di pagani, in un mondo di idolatri abbandonando anche il suo Dio. “Dissipò il suo patrimonio vivendo disordinatamente”. Da questa espressione si capisce che è un ragazzo inconcludente, un incapace. Ha ricevuto tutta la sua parte di eredità e in poco tempo ha dissipato tutto il suo patrimonio. La fretta di avere, si trasforma nella fretta di dissipare tutto quanto. “Quando ebbe sperperato tutto, venne una grande carestia in tutta quella regione ed egli cominciò a trovarsi nell’indigenza. Allora andò a mettersi a servizio di uno degli abitanti di quella regione”. Ha lasciato il padre e trova un padrone. Lui che a casa sua era padrone dei beni, adesso si trova a servizio di un altro, che lo mandò nel suo campo a pascolare i porci. Questo giovane è sceso poco alla volta, in una maniera degradante fino all’ultimo valore della cultura sociale dell’ebreo, pascolare i porci, non tanto per il mestiere, quanto perché, secondo la Bibbia, il maiale è un animale impuro. Ha lasciato il padre, ha lasciato Dio, adesso si trova immerso, fino al collo, nell’impurità. “…Bramava di riempirsi il ventre delle carrube, che mangiavano i porci, perché nessuno gli dava niente”. E’ trattato alla stregua degli animali, ma peggio, perché almeno agli animali veniva dato da mangiare, a lui non veniva dato niente. Allora una volta raggiunto il massimo del degrado, pascolare i porci, una volta che si trova ad avere fame, scrive l’Evangelista: ”Tornato in sé, disse: ”. Il ragazzo incomincia a riflettere, ma pensa sempre al suo tornaconto. Dice qui “sto morendo” , e questo termine morire è ripetuto tre volte per indicare che è una morte totale, una morte completa. ”…I salariati di mio padre abbondano di pane”, il fatto che i servi, i salariati, gli operai abbondino di pane, fa capire che questo padre era generoso, che non trattava i servi come tali. L’Evangelista continua e dice: ”…Allora, mi alzerò e tornerò da mio padre”. Per la comprensione di questa parabola bisogna tener presente che lui ritorna dal padre non perché pentito, non c’è nessun accenno al dolore del padre, lui non dice “…che dolore ho dato a mio padre…”, non ha il rimorso per le sofferenze che ha causato e sta causando al padre, lui ragiona in base alla fame, non gli manca il padre, gli manca il pane, quindi decide di ritornare per interesse. A volte nella catechesi viene presentato questo ragazzo come modello di conversione e di pentimento. Niente di tutto ciò: questo è un ragazzo che agisce sempre per interesse, tutto quello che fa lo fa per interesse, si trova a morire di fame e decide di tornare a casa. Torna a casa non perché pentito, ma perché interessato. “Torno a casa e gli dirò: ”Padre ho peccato contro il cielo…”. Peccare contro il Cielo significava peccare contro Dio e significava essere cancellati dal libro della Vita. ”…e contro di te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi garzoni”, perché secondo l’ordine giuridico dell’epoca, avendo ricevuto la sua parte di eredità non aveva più diritto di essere riammesso nel rango di figlio. Quindi cancellato dal libro di Dio, questo figlio è sicuro di essere stato cancellato anche dalla famiglia, di non avere più diritto di essere considerato come un figlio, perciò chiede di essere assunto come uno degli operai. Pensa: qui in terra straniera faccio il servo e muoio di fame, tanto vale che vado a fare il servo a casa di mio padre, ma almeno mangio, perché gli operai di mio padre hanno pane e in abbondanza. E ora comincia, in maniera progressiva, la rivelazione di chi è Dio. 8

Ricordate, Dio nessuno lo ha mai visto, solo Gesù ne è stato la rivelazione. Ebbene Gesù con questa parabole ci dice chi è Dio e come si comporta nei confronti dell’uomo peccatore. Nella tradizione religiosa Dio sta nel tempio; è l’uomo che deve andare a lui nel tempio, umiliarsi, chiedere perdono, offrire un sacrificio per ottenere il perdono delle sue colpe. Il padre di Gesù si comporta in maniera diversa. L’Evangelista continua: “E alzatosi andò da suo padre. Era ancora lontano quando il padre lo vide e ne ebbe compassione…” Ricordate a proposito del samaritano che vide il malcapitato e ne ebbe compassione? Questa è la terza volta che, in questo Vangelo, compare l’espressione “vide ed ebbe compassione”. “Avere compassione” è una terminologia con la quale si indica un’azione divina, che si restituisce vita a chi vita non ha. Il padre lo vide quando era ancora lontano, ne ebbe compassione e “correndo…”, altro particolare sconcertante. Nel mondo orientale i ritmi della vita non sono uguali ai nostri. Non esiste la fretta, non si corre mai: il correre è considerato un atto di cattiva educazione e nel caso di una persona adulta, come qui del padre, un disonore. L’ansia e il desiderio di restituire l’onore al figlio che si è disonorato è più importante del proprio onore. Dio non fa la divinità offesa, il padre non esita a disonorarsi pur di onorare il figlio. Si intravede in questo episodio anche una similitudine dell’immenso amore di Gesù, figlio di Dio Padre, uguale al Padre, che non esita, per il bene dell’uomo, ad accettare il disonore della morte di croce. Dal momento che il figlio ha deciso di tornare dal padre è il padre, con il cuore colmo di gioia che mettendo da parte usi, costumi, leggi, prende l’iniziativa e gli va incontro. Proviamo a essere ascoltatori che non sanno come va a finire: il padre va incontro a suo figlio disgraziato, che ha perso tutta l’eredità, è diventato guardiano dei porci, gli si getta al collo, e … ” …e lo baciò!”. Il bacio nella Bibbia è espressione del perdono. Quello che sta dicendo Gesù ribalta completamente il mondo religioso: nel mondo religioso l’uomo peccatore doveva chiedere perdono a Dio, offrire dei sacrifici per ottenere il perdono; qui è il padre che si reca incontro al figlio e prima ancora che il figlio posa aprire bocca “gli si gettò al collo e lo baciò”. Lo ha perdonato. Ma non deve chiedere perdono? Non si deve pentire? Non deve offrire un sacrificio, offrire delle garanzie? Il Padre non fa così: il Dio-Padre perdona, prima che il perdono venga richiesto. I Vangeli ci fanno capire che è inutile chiedere perdono a Dio. Dio è amore e concede il suo amore a tutti, indipendentemente dalla loro condotta. Ma se è vero che mai Gesù invita a chiedere perdono a Dio, insistentemente invita gli uomini a chiedere perdono agli altri. Il perdono di Dio diventa efficace, quando si traduce in altrettanto amore verso gli altri. Quel padre gli si getta al collo e lo bacia, perdona il figlio, prima che il figlio apra bocca, prima che pronunci l’atto di dolore che si era preparato. Il figlio non si aspettava questa accoglienza, è sconvolto dal padre che gli va incontro e lo abbraccia. Il figlio, essendo un guardiano di porci, è immondo, il padre avrebbe dovuto dirgli di purificarsi prima di toccarlo perché l’impurità del figlio si trasmette al padre. Ebbene il desiderio del padre di avere il figlio, di fargli capire quanto è grande il suo amore, è più grande della sua purezza. Il padre diventa impuro agli occhi della gente pur di restituire la purezza al figlio. Ma il figlio non si fida e dice: ”Padre ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio…”. 9

La frase che il figlio si era preparato diceva ancora: “...allora trattami come uno dei tuoi salariati”. Ma il padre non glielo permette: il padre non permette al figlio di pronunciare la seconda parte del discorso, non gli importa di come si era comportato, gli mostra quanto gli vuole bene. L’Evangelista vuole farci capire che l’incontro dell’uomo peccatore con il Signore non è quello avvilente, che prevede prima la dettagliata denuncia delle proprie mancanze, ma quello sempre esaltante della grandezza dell’amore del padre. Non è il peccatore che deve parlare, è il padre che deve parlare; non è Dio che deve ascoltare il peccatore, ma è il peccatore che deve ascoltare quanto è grande l’amore di Dio, quell’amore che forse prima non ha mai capito. Infatti, la parabola continua: “Ma disse il padre ai suoi servi: ”, ma come? Non sei il figlio, non sei il padrone? Ricordate Gesù ha detto che il padre aveva diviso tra i figli la sua proprietà, e invece lui, il più anziano, non ha un rapporto di figlio con il padre, ma quello di un servo con il signore. La religione ha imposto un rapporto tra dei servi e il signore, basata sull’obbedienza. Gesù è venuto a proporre un rapporto tra dei figli e il padre, basato non sull’obbedienza, ma sulla somiglianza al suo amore. Ma qui c’è un servo, lui obbedisce al padre, non accoglie il suo amore e si lamenta del padre: ”…mai mi hai dato un capretto perché con i miei amici facessi festa”. Lui aspetta la ricompensa per la sua condotta. L’Evangelista sta denunciando che la religione produce delle persone infantili. ”Tu non mi hai dato mai un capretto. Il padre gli risponde: ma questo è tutta roba tua! C’è bisogno che io te lo dia? Io ho diviso i miei beni tra i miei due figli, tra quello che ha fatto lo scellerato e ha sprecato tutto, e con te”. Ma notate, l’eredità è stata divisa tra uno che ha sprecato tutto e l’altro che non la usa. L’obbedienza alla legge, sostenuta dagli scribi e dai farisei, rende le persone immature, infantili e incapaci di autonomia. Hanno sempre bisogno di un padre a cui riferirsi, per sapere cosa devono fare e come lo devono fare, e per attendersi una ricompensa. Questo è proprio delle persone infantili! Gesù non ha bisogno di persone infantili, ha bisogno di persone mature. E continua il figlio: ”Ma quando questo tuo figlio…” avrebbe dovuto dire: ”Quando mio fratello”, non è suo fratello, ma “Quando tuo figlio che ha divorato il tuo patrimonio con le prostitute…” 11

E come lo sa? Mica è stato detto prima. Gesù ha detto che ha dissipato il patrimonio vivendo dissolutamente, ma non è andato nel dettaglio. Questo come lo sa? “Ha dissipato il patrimonio con le prostitute, è tornato, hai ucciso per lui il vitello ingrassato”. E il padre gli dice, adoperando un’espressione carica di tenerezza: ”Figliuolo,…”, letteralmente possiamo tradurre con “bambino mio, tu sei sempre con me e tutte le cose mie sono tue”. Il padre è amareggiato che il figlio non abbia capito questa realtà, che tutto quello che aveva era tutta roba sua, non c’era bisogno che lui gli desse qualcosa. Conoscete il vangelo di Matteo, la parabola chiamata “dei talenti”, capitolo 25, versetti da 14 a 30. C’è un signore che parte per un viaggio, dà una somma spropositata ai suoi funzionari, e quando torna non la vuole indietro, anzi a quello che aveva dato 5 e ha guadagnato altri 5 dice: ”Tieni, prendi parte di quello che ho”, quindi è una persona generosa. Arriva quello a cui ha dato 1 e dice “Io ho avuto paura di te perché sei uno che raccoglie dove non ha seminato, e miete dove non ha arato, allora per paura sono andato a nascondere questo sotto terra”. Non è vero che questo padrone sia duro, non è vero che sia spietato: è un padrone estremamente generoso, che non soltanto, partendo, affida parte del suo patrimonio ai suoi servi, ma quando torna, vedendo che questa somma ha fruttato, non solo non vuole indietro quello che gli ha dato, ma fa partecipare quei servi alla gestione del suo intero patrimonio. E’ una persona generosa ma una falsa immagine di Dio ha paralizzato la vita dell’individuo. “Io avevo paura di te, ecco quello che mi avevi dato, non l’ho fatto fruttare, ma eccolo qui”. La paura di Dio può paralizzare le persone. Questo per inquadrare meglio l’immagine del figlio maggiore, che è quella della persona che per paura di Dio, sottomessa a Dio non realizza la propria esistenza. Continua il padre: ”Occorre ora festeggiare e rallegrarsi, perché questo tuo fratello”, ricordate lui aveva detto tuo figlio, il padre dice tuo fratello, “era morto e ora è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

LA LAVANDA DEI PIEDI Dio a servizio degli uomini La novità che Gesù ha portato, unica volta nella storia delle religioni e che sarà poi la causa della sua morte, è che Dio è al servizio degli uomini. In tutte le religioni si presenta un Dio che crea gli uomini per essere servito. Gesù ci presenta un Dio che serve gli uomini. Il brano sul quale riflettiamo, è nel vangelo di Giovanni al capitolo 13, quello conosciuto come ‘la lavanda dei piedi’. Siamo alla sera dell’ultima cena e l’evangelista in maniera solenne dice: “Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e da Dio ritornava..”. Dopo questa premessa ci si aspetterebbe qualcosa di solenne, qualcosa di importante, qualcosa di nuovo, qualcosa di sconcertante e quanto avviene è talmente importante che l’evangelista lo rappresenta come al rallentatore moltiplicando i verbi di questa azione. Gesù: “si alzò da tavola, depone il mantello, prende un asciugatoio e se lo cinse attorno alla vita”. E’ qualcosa di inaspettato, Gesù si prepara a lavare i piedi. Mai la lavanda dei piedi veniva fatta durante la cena, eventualmente sempre prima. Scrive l’evangelista: “Poi versò dell’acqua in un catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli ed ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto”. In questi gesti c’è la distruzione del concetto del Dio creato dalle religioni. 12

Gesù, che rappresenta e manifesta la presenza di Dio lo manifesta in una maniera completamente nuova. Gesù si mette a lavare i piedi dei discepoli. Lavare i piedi era compito degli esseri ritenuti inferiori verso i superiori. Era obbligata a lavare i piedi la moglie al marito, il figlio al padre, lo schiavo al padrone, il discepolo al maestro. Ebbene Gesù, che è il maestro, si mette a lavare i piedi ai discepoli. E’ qualcosa di inaudito, è qualcosa di sconcertante, qualcosa che cambierà per sempre il concetto di Dio. La società, a quell’ epoca, era concepita in maniera piramidale. Al di sopra della piramide c’era Dio, al vertice della piramide c’era il sommo sacerdote o il re. All’ultimo strato di questa piramide erano i servi; al di sotto c’erano gli schiavi. Dunque Dio è in alto e la persona che gli è più vicina è chi comanda e ha più persone sotto di lui, come il sommo sacerdote e il re. Gesù rovescia la piramide. Dio non sta in alto, nei vertici del potere di chi comanda. Dio sta in basso in chi serve. E’ un cambiamento completamente radicale. Lavando i piedi ai discepoli lui che è Dio, innalza i suoi. Dio è talmente innamorato degli uomini che li vuol innalzare e dar loro la sua stessa condizione divina. La vera grandezza, quella di Dio, non consiste nel comandare, ma nel servire gli altri. Il progetto di Dio è che ogni uomo diventi Signore. Gesù, il Signore, propone a ognuno di noi, di diventare Signori assomigliando a lui. Dio agisce con gli uomini dal basso per innalzarli al suo stesso livello. Il Signore compie il lavoro da servo perché i servi siano signori. Allora la gente camminava scalza ei piedi erano la parte più sporca e più impura degli uomini. Gesù che è Dio, non attende che gli uomini si siano purificati per farli avvicinare a Lui, ma è lui che li accoglie e li purifica. Ma il gesto di Gesù non è capito e non è accettato da un discepolo che forse è l’unico che ha capito, e non lo condivide. “Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse:” «Signore, tu a me, lavi i piedi?»”. Pietro ha capito. Pietro, in questo vangelo, pensa di essere il capo del gruppo. Lui ha capito che se Gesù, che è il maestro lava i piedi ai discepoli, questo dovrà fare pure a lui. Pietro resiste, non vuole farlo, e dice: «Signore, tu a me, lavi i piedi?». La replica di Gesù è immediata: “Rispose Gesù: «Quello che io faccio tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Non mi laverai mai i piedi»”. Pietro rifiuta. Sa che se accetta di farsi lavare i piedi da Gesù, poi tocca a lui lavare i piedi agli altri. Chi vive in un ambito di potere, non accetta un Dio a servizio degli uomini. Fintanto che noi presentiamo un Dio potente, un Dio che domina, possiamo dominare ed esercitare il potere in suo nome. Se la gente comincia a credere che Dio è al servizio degli uomini, chi si può permetterci di comandare? Gesù non scende a trattative, di fronte al rifiuto di Pietro risponde: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Questa è una condizione che è valida non soltanto per Pietro, ma per tutti i credenti o i seguaci di Gesù. Se non si accetta di farsi lavare i piedi e di conseguenza, a lavare i piedi degli altri, non si ha nulla a che fare con Gesù. L’unica caratteristica, l’unica garanzia che si è in comunione con Gesù, non viene da un rito, da uno stile di vita religioso, spirituale, dalle devozioni, dalle preghiere. L’unica garanzia che una persona è seguace di Gesù, si vede se serve gli altri; è l’unica garanzia, non ce ne sono altre. E’ Gesù stesso che lo dice: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Chi non accetta il servizio di Gesù, non ha nulla a che fare con un Dio a servizio degli uomini. “Allora gli disse Simon Pietro: «Signore, allora non solo i piedi, ma anche le mani e il capo». Cosa vuol dire Pietro? Era vicina la festa della Pasqua e per celebrarla, sempre secondo la 13

religione, bisognava procedere a dei riti di purificazione: bisognava purificarsi le mani e il capo. Pietro, che ha capito che deve mettersi al servizio degli altri cerca di cambiare il gesto di Gesù in un rito religioso. Se è un rito religioso, non solo i piedi ma anche le mani e il capo. Gesù non è d’accordo. “Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, è tutto mondo e voi siete mondi, ma non tutti»”. Ciò che mette l’uomo in comunione con Dio, non è la partecipazione a un rito, ma gli effetti che questo rito può avere nel suo comportamento con gli altri. Ecco la conclusione di questo brano. “Quando Gesù ebbe lavato loro i piedi e riprese il mantello, si sdraiò di nuovo e disse loro: «Sapete ciò che io vi ho fatto?»”. Vediamo i gesti. Gesù prima si è alzato, adesso si è seduto. Gesù si è tolto il mantello, adesso lo ha ripreso. Ma c’è un qualcosa che si è dimenticato di fare, e volutamente. Si è messo il grembiule per lavare i piedi ai discepoli, ma non s’è l’è tolto. E’ una indicazione preziosa questa. Gesù non si presenta con paramenti sacri, Gesù non si presenta vestito da sacerdote con paramenti religiosi: l’unica caratteristica che distingue Gesù è il grembiule, non se lo toglie. Non se lo toglie, non per una dimenticanza dell’evangelista, ma perché l’evangelista vuol dire che il distintivo che identifica la presenza di Gesù è il grembiule, il servizio reso per amore. Ciò che ci garantisce di essere in comunione con il Signore non sono i paramenti religiosi, i distintivi religiosi, gli amuleti che si può mettere addosso, ma il grembiule. Chi volontariamente, per amore, nella comunità indossa il grembiule, cioè si mette al servizio degli altri, questo è colui che rappresenta il Signore. Gesù indica con questo brano che la vera dignità dell’uomo non viene diminuita dal servizio, ma al contrario, è il servizio che gliela conferisce. Gesù, servendo i suoi discepoli, non ha perso di dignità, ma ha mostrato la vera dignità, quella di Dio. Mettendo la propria vita a servizio degli altri l’uomo non perde la propria dignità, ma acquista quella vera. Lo Spirito - lo Spirito è la forza dell’amore di Dio - non viene quando gli uomini alzano le mani al cielo per invocarlo, ma quando le abbassano per servire gli altri. E’ quella l’unica garanzia dello Spirito del Signore. E Gesù, al fine di evitare che il gesto da lui compiuto venga frainteso come un gesto di umiltà, un gesto simbolico, afferma: “«Voi mi chiamate il Maestro e il Signore e dite bene perché lo sono. Se dunque io ho lavato a voi i piedi, il Signore e il Maestro, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri»”. Per Gesù, essere il Signore, essere il maestro, non significa collocarsi al disopra degli altri, ma al disotto. Se essi lo riconoscono come il maestro, devono imparare da lui: il maestro è quello che insegna. Se lo riconoscono come Signore, gli devono dare adesione. Riconoscere Gesù come maestro e come Signore, significa imparare da lui “ a lavare i piedi gli uni gli altri”. Questo verbo ‘dovere’ è un verbo che ha la radice della parola debito. Lavare i piedi agli altri, non significa un gesto della propria santità, ma pagare un debito nei confronti dell’altro. L’amore, che si traduce in servizio degli altri, non serve per aumentare la nostra santità ma per estinguere il debito che ognuno ha per l’altro. L’amore verso l’altro non deve essere fatto per acquistare dei meriti personali, ma perché si è coinvolti dall’amore del Signore. E conclude Gesù: “«Vi ho fatto vedere come si fa perché come ho fatto io facciate anche voi»”. Non è un esempio che Gesù dà, ma una capacità. Vi ho fatto vedere come si fa cioè vi ho trasmesso questo amore, vi ho trasmesso questa capacità d’amore perché voi ricevendola, siate capaci di farlo con gli altri. 14

Questo della lavanda dei piedi è un brano molto importante, perché ci fa comprendere chi è Dio. Se Dio è quello con il grembiule, è quello che si mette al servizio della mia vita, veramente la vita cambia. Paolo nella lettera ai Romani dirà: “Ma di cosa vi preoccupate, di cosa state ad angosciarvi? Se Dio è per voi, se Dio stesso si mette al servizio vostro, ma di cosa vi andate a preoccupare?” Non vengono tolte naturalmente le situazioni spiacevoli o gli avvenimenti negativi della propria esistenza, ma viene data una capacità nuova per viverla. L’unico comandamento, e non ne esistono altri, che Gesù lascia ai suoi è: “Vi lascio un comandamento nuovo” - il termine nuovo, significa una qualità che soppianta, sostituisce tutti gli altri – “che vi amiate tra di voi come io vi ho amato”. Gesù ha amato i suoi servendo. “Questo vi ho detto perché la gioia, quella mia, sia in voi e la vostra gioia sia traboccante”. Gli dei pagani avevano il privilegio della immortalità e della felicità. Quando la soglia di felicità degli uomini superava un certo livello intervenivano per eliminarla. Molti cristiani credono che sia lo stesso con Dio. Ma la gioia, quella di Gesù, cioè una gioia divina, è volontà di Dio che sia nostro patrimonio. Gesù dice: “Questo io vi ho detto”. Gesù ci toglie ogni preoccupazione di Dio: il Dio giudice, il Dio che condanna, il Dio che castiga! Queste sono immagini inventate per dominare gli uomini! Dio è innamorato di noi. “Queste cose vi ho detto perché la gioia” - e Gesù sottolinea – “quella mia” - non una gioia normale, quella mia, dell’uomo-Dio – “sia in voi traboccante”. Perché traboccante? Perché deve comunicarsi. La caratteristica del cristiano è la gioia, non il muso lungo. Certi cristiani pensano che se il cristiano non soffre, non sia un vero cristiano. Pensa: «Oggi, cosa posso fare per rallegrare la vita delle persone con le quali vivo, delle persone con le quali entro in contatto?» Questa deve essere l’unica preoccupazione del credente. No, ho osservato questo, ho detto questa preghiera, ho avuto un pensiero puro, impuro, metà, una via di mezzo, ecc... Fate che la gioia sia traboccante. Terminiamo con l’ultimo versetto: “Voi siete miei amici se farete ciò che io vi comando”. Amici di Gesù. Amici dell’uomo-Dio. L’amicizia presuppone un rapporto reciproco, un rapporto di parità, dove l’uno si lega all’altro e ha interesse del bene dell’altro. Questo è il rapporto con Dio. Non servi di Dio, non sudditi di Dio, non schiavi di Dio, ma un rapporto di amicizia. Questo è stato talmente chiaro per le prime comunità cristiane che hanno cambiato l’atteggiamento nei confronti di Dio. E conclude Gesù: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo Signore; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”. Il rapporto che Gesù vuole che noi abbiamo con lui e con il Padre, è un rapporto di amicizia. L’amicizia presuppone l’assenza di timore, presuppone piena confidenza e piena intimità. Questo è il rapporto che Gesù chiede di avere. Ma c’è quella piccola clausola, che è molto chiara: “Se farete ciò che io vi comando”. Il rapporto di amicizia con Gesù è possibile soltanto se uno mette la propria vita al servizio degli altri.

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